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Title: La plebe, parte I
Author: Bersezio, Vittorio
Language: Italian
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Libraries)



                             LA PLEBE


                          ROMANZO SOCIALE
                                DI

                         VITTORIO BERSEZIO


                            PARTE PRIMA



                        PROPRIETÀ LETTERARIA

                               TORINO
                   PRESSO C. FAVALE E COMP. EDITORI
                    PIAZZA SOLFERINO, CASA PROPRIA
                                1869.



PREFAZIONE.


Era mio pensiero dapprima scrivere una lunga prefazione, nella quale,
con rinforzi di citazioni e di dottrina raccattata qua e colà,
manifestare al lettore qual significato io creda si debba oggidì
attribuire al vocabolo =Plebe=, e quale l'obbligo, cui verso questa
parte diseredata del genere umano ha la società moderna; dimostrare il
qual obbligo è lo scopo ultimo di questo mio nuovo romanzo.

Ma una posteriore ispirazione, che credo più felice, me ne sconsigliò
affatto. Appunto per annoiar meno i miei buoni lettori io adotto la
forma del racconto, vestendo della vita del dramma i concetti che voglio
esporre, e sarebbe stato un andar contro del tutto alle mie buone
intenzioni, quella noia cui voglio risparmiare ai miei lettori,
dargliela dal bel principio tutta concentrata nelle pagine pesanti di
una prefazione.

Lascio quindi ogni altro indugio ed entro di botto nel mezzo
dell'argomento, dicendovi soltanto l'idea di questo lavoro essermi stata
primamente ispirata dalle parole del nostro gran filosofo Vincenzo
Gioberti, il quale in quell'aureo libro che è il _Rinnovamento_ scriveva
essere fra i debiti e i bisogni più urgenti dell'epoca nostra quello di
elevare la plebe a grado e dignità di popolo.

L'idea di questo mio scritto è certamente troppo superba ragguagliata
alle mie poche forze; ma se queste riusciranno impari all'argomento,
voi, diletti leggitori, mi userete indulgenza pensando alla rettitudine
della intenzione.



PARTE PRIMA.

I Derelitti.



CAPITOLO I.


Era una notte d'inverno, ed una fitta nebbia copriva la città di Torino.
Chi ha visto a quella stagione ed a quell'ora le brutte e infangate
stradicciuole di quella parte dell'oradetta città che chiamano Torino
vecchia; quelle stradicciuole in cui stanno raccolte e come a confino le
miserie più gravi, i cenci più logori e le più scandalose turpitudini;
chi le ha viste quando quella caligine nebbiosa le ingombra e depone
sopra ogni cosa, sul selciato, sulle pareti annerite delle case, sui
panni e in volto a chi passa, una specie di rugiada fredda e fastidiosa
che ti punge con piccolissime goccie gelate negli occhi e ti immolla le
vesti addosso e ti penetra sotto a dar freddo sino alle intime midolle;
chi ha visto a quell'ora quei quartieri sa che cosa sia la cupa
tristezza delle abitazioni dei poveri in mezzo allo squallore della
miseria ed al cattivo tempo della stagione.

Se t'avviene di passare per quei luoghi, tu senti quasi una mano di gelo
posarsi adagio e pesar poi sul tuo cuore. Una nuova melanconia t'occupa
l'anima e i sensi; il respiro medesimo da quell'afa nebbiosa, da
quell'umido freddiccio, da quell'angustia di spazio, ti pare impedito;
una strana malavoglia, incerta, vaga, ma potente, piglia possesso di te;
e tu, guardando i cenciosi che sfilano taciti e lenti a randa al muro,
come ombre nel Tartaro degli antichi; ricevendo nei tuoi occhi il
lucicchiar febbrile di quelli delle povere _traviate_ che in
quegl'immondi casamenti hanno loro stanza e s'aggirano, vere anime in
pena, facendo risaltar la miseria inorpellata de' lor panni di color
gaio nello scuro del nebbiume; vedendo tra le imposte d'un uscio di
bottega socchiuso tremolare un raggio giallognolo della lucerna ad olio,
al cui lume misere creature faticano a compiere il lavoro della giornata
che ha da comprare lo scarso pane alla famiglia, tu, anche tuo malgrado,
se non hai cuore d'avaro o di borsiere, ti sentirai le lagrime entro gli
occhi.

Freddo, fame, strappi, sozzure materiali e morali ti stanno dattorno; un
vecchio che tende la mano, un bimbo che piange, una donna che si vende,
e su tutto la tenebra della notte che col gocciolar della sua nebbia par
proprio che pianga.

E tu pensi alle necessità fatali di questa civiltà che mostra di aver
testa soltanto e non cuore, o se cuore, non a sufficienza la mente da
provvedere a questi danni; e il mistero del problema sociale t'afferra,
e ad un tratto ti travolge dall'intelletto all'anima un mondo tumultuoso
di pensieri e d'affetti avversi e pugnaci, mettendo in lotta gl'istinti
e la ragione, il senno e la pietà, il possibile e il desiderio.

E così appunto, quella sera, per una di codeste strade, se ne stava
dell'animo, camminando, un uomo, il cappello a larga falda tirato sugli
occhi, il viso mezzo nascosto nelle pieghe d'un mantello anzi logoro che
no, il quale non lasciava scorgere che il pallore delle guancie e la
fiamma d'uno sguardo acceso, di persona nè alto nè basso, l'andare nè
spedito nè impedito, curvo il petto, e il passo di chi va senza scopo
che lo chiami o cosa che gli prema.

Invano già alle cantonate più d'un'Aspasia da dozzina gli aveva
ammiccato col sorriso contratto; invano un cencioso, trascinandosi colle
gruccie gli era venuto dietro neniando a domandare il quattrino per
l'amor di Dio, al ripago de' suoi _pater ed ave_; invano una vecchia
sbilenca, aggrinzita, sdentata e sciatta e sporca gli aveva susurrato
infami parole all'orecchio; invano era passato innanzi ad una
bettolaccia sconcia, convegno d'ogni peggio bordaglia, immondezzaio
morale, da, cui veniva in istrada un tramestio di cose e di gente, un
acciottolio di rozze stoviglie, un baccano di turpi canzoni sbraitate e
di più turpi parole, e proverbiarsi, e minaccie, e bestemmiari da gole
roche a voci squarrate; a nulla ei pareva badare, nulla sturbarlo dai
suoi pensieri.

Sul passo d'una porticina scura, sopra la motriglia sozza ed
attaccaticcia che a piastre copriva la pietra dello scalino, a metà
seduto, a metà sdraiato, il capo contro uno degli stipiti umidicci, le
mani nascoste nelle tasche de' calzoni a brandelli, tremante e battendo
i denti pel freddo, pel bisogno, per la debolezza, piagnucolava un
bambino.

Quell'uomo gli passò innanzi, come aveva oltrepassato tutti quegli altri
oggetti, persone e cose, in cui si era abbattuto; ma quando fu in là due
passi, quel piagnucolio giunse a ferirgliene le orecchie; ristette, si
volse, vide un fanciullo, gli fu accosto sollecito.

Il poverino sentì che gli stava appresso qualcuno: cessò
dall'infrignare; alzò gli occhi e la testa, trasse di tasca una manuccia
livida come le sue guancie, colla quale teneva duo mazzi di fiammiferi,
e colla vocina esile e rotta dal batter dei denti, disse in tono di
preghiera e di pianto:

— _Brichett!_ buoni _brichett_! due mazzi al soldo.... Oh! ne pigli,
signore.

L'uomo non rispose al fanciullo, ma gli stette sopra a guardarlo con
occhio fiso, intenerito, compassionoso, amorevole.

Era un marmocchio da sette ad otto anni, sudicio, cencioso, brutto come
la miseria.

— Povero bimbo! Disse quell'uomo a mezza voce parlando a sè stesso.
Povero bimbo!

E questi, stato un poco, rizzatosi della persona a sedere, ripetè
insistendo:

— Buoni _brichett_. La ne compri per carità!

Quell'uomo gli pose sulla testa carezzevolmente una mano, poi gli
chiese:

— Perchè piangi?

— Ho fame: rispose il bambino.

— Chi t'ha insegnato a dar questa risposta? Tu non parli con tale che
non conosca i misteri della miseria. Tuo padre e tua madre ti hanno
comandato di piangere e di rispondere così.

Il bambino guardò il suo interrogatore cogli occhi larghi, larghi, e
ripetè:

— Ho fame. Da questa mattina non ho più mangiato niente. E non avevo
mangiato che una crosta di pane.

— Hai tu padre?

— Signor no.

— Madre?

— Signor no.

— Sono morti?

— Non li ho mai conosciuti.

Quell'uomo parve intenerirsi.

— Un derelitto: mormorò egli parlando di nuovo a se stesso; al pari di
me!... E in questa medesima strada!...

Guardò quel fanciullo con occhio più benevolo e compassionoso di prima.

— Tu non hai nessuno al mondo?

— Ho la nonna che mi aspetta a casa.

— Ah!

L'uomo ritrasse la mano dal capo del bimbo.

— Perchè ti lascia ella andare attorno a questa ora e per questo tempo?

— Me ne manda per guadagnar qualche soldo.

— È tardi, fa freddo, tornatene a casa.

— Non oso.

— Perchè?

— Se non le porto almeno dieci soldi la nonna mi batte...

— E te ne mancano?

— Sei.

— Menami a casa tua. Darò alla nonna i dieci soldi per te.

Il fanciullo non mostrò stupore nessuno, nè gioia, nè riconoscenza:
s'alzò e si pose a camminare a costa dello sconosciuto, ma tutto
ingranchito ed intirizzito com'era, co' piedi irrigiditi e dolorosi per
la gonfiezza, mal potè farlo, onde mossi appena alcuni passi, si fermò e
ruppe in pianto.

Lo sconosciuto fermessi pure e gli domandò:

— Che cosa hai?

Il bambino rispose della solita guisa:

— Ho freddo, ho fame.

— A casa la nonna non ti darà da cena?

Il fanciullo scosse la testa.

— Una crosta di pane se la è di buon umore e non lo è mai.

E seguitava a piangere, e batteva i denti.

Nell'oscurità della via, poco lontano brillava il rosso chiarore che
gettava per l'uscio a vetri la bettolaccia che ho già accennato.

Lo sconosciuto guardò verso quella porta, sopra i cui sucidi cristalli
stavano scritte le classiche parole: BUON VINO E BUON RISTORO e parve
esitare un momento; poi, come se subitamente si decidesse, prese per
mano il bimbo e gli disse:

— Vieni: te ne darò io da cena.

E col fanciullo s'introdusse nell'osteria piena in quel punto di rumore
e di gente.



CAPITOLO II.


La bettola si trovava in una bassa casipola che ora fu distrutta affine
di allargare la strada. Per entrarvi bisognava scendere due scalini.

Lo sconosciuto apri l'uscio a vetri e si trovò in uno stanzone più lungo
che largo, colle pareti affumicate, col pavimento composto d'assi
inchiodati, tutto ronchioso pel fango recatovi ed appiccatovi qua e colà
dai piedi degli avventori, con un'atmosfera grassa, densa, impregnata di
acri odori, in cui il fumo faceva con pieno successo le funzioni che per
la strada adempiva la fitta nebbia di quella sera invernale.

Dal trave del soffitto annerito, insieme con infiniti arazzi di
ragnateli, per una cordicella ripiegata da tirarsi su e giù passando in
mezzo ad una colomba di piombo, pendeva una lampada a tre becchi, di cui
due soli avevano acceso il lucignolo, con certi tubi di vetro
affumicati, e con una vernice rossa che era mezzo staccata dalla latta.

Lunghesso le pareti eran poste, ad uguale distanza l'una dall'altra,
delle tavole oblunghe, e ai lati di esse delle panche di legno lunghe
quanto le tavole medesime; nelle pareti, al di sopra di ciascuno di
codesti deschi, era scritto in nero con cifre alte un palmo un numero
diverso e progressivo.

In fondo allo stanzone, da una parte c'era un banco a mezzo ripieno di
fiaschi e fiaschetti, e dietrovi seduto l'oste, con davanti un libro di
conti dalla copertina sucida e strappata e un calamaio di piombo con un
mozzicone di penna piantato nella bambagia immollata d'inchiostro:
dall'altra parte si apriva una botola, con una cateratta che stava
sempre sollevata ed appoggiata contro il muro, per la qual botola si
scendeva nella cantina sotterranea, dove si custodivano i vini e si
cucinavan le pietanze consumate in quell'orribile stamberga.

Nella parete, alla destra di chi entrava, presso al banco a cui sedeva
l'oste, aprivasi una porta che metteva in un'altra stanza; ma questa era
una stanza riservata, in cui non s'avventurava la comune dei bevitori,
ed entravano soltanto alcune brigatelle di soliti accorrenti che, per la
conoscenza avutane dal bettoliere, e per la vistosità dei guadagni che
gliene recavano eran meritevoli di siffatto privilegio. I misteri di
quella camera erano difesi dallo sguardo dei profani per certe cortine
di stoffa di cotone di color rosso tirate accuratamente ai vetri
dell'uscio. Al momento in cui lo sconosciuto col fanciullo per mano
entrava nella bettola, quest'uscio misterioso si era aperto, per dar
passo alla fante dell'oste, giovane grassotta e belloccia, con aria
sfacciata, la quale portava colà dentro un vassoio e sopravi parecchi
bicchieri e due boccali colmi di vin rosso. Chi si fosse trovato in
quella di prospetto all'uscio avrebbe potuto vedere nella stanza di cui
si tratta un allegro fuoco fiammare in uno di quei caminetti che
pigliano il nome da Franklin, e intorno ad esso seduti cinque o sei
uomini di varia età e di vario aspetto, che dalle vesti però apparivano
appartener tutti alla classe degli operai, tutti, tolto uno, con figure
risentite, e come si suol dire con di quei certi ceffi che non fa
piacere incontrare nel nostro cammino, la sera.

Quasi tutte le tavole dello stanzone erano occupate dalla folla dei
bevitori. Di questi tutti portavano la livrea della miseria, molti
quella della abbiezione. Alcuni giuocavano alle carte, altri alla
_morra_; gridavasi da ogni banda in un disarmonico concerto, nel quale
più disarmoniche suonavano tratto tratto le voci e le risa roche di
luride donnaccie di mala vita.

Lo sconosciuto personaggio, il quale primo ci apparve in questo dramma,
di cui siam dietro a svolgere le scene, entrò colà dentro colla medesima
sicurezza che avrebbe avuto un uomo avvezzo a quei luoghi ed a quelle
cose. Quell'afa impregnata di acri odori e di ingrati vapori,
percotendogli sul viso non parve destare in lui il meno del mondo quella
ripugnanza, da cui non avrebbe potuto difendersi, e cui non avrebbe
saputo al certo dissimulare una persona all'atto nuova a
quell'atmosfera.

Egli guardò intorno per cercare un posto a cui assidersi, e, da parte
loro, il maggior numero dei bevitori, nell'udire il campanello della
porta che suonò all'aprirsi dell'uscio, levarono la testa e si volsero a
guardare chi entrasse.

Lo sconosciuto aveva tirato giù dal viso la falda del mantello, onde si
copriva per la strada, e potevano vedersene i lineamenti alla rossigna
luce della lampada di latta appesa al soffitto.

È una figura originale. In tutta la sua persona, come nei tratti del
viso, un misto di forza e di debolezza, di bontà e di malizia, di
sentimento e di noncuranza. Al primo vederlo mal sapreste dirne al
giusto l'età. Vi è qualche cosa di giovanile nello sguardo, nella
fronte, nella rara lanugine di barba scura che appena gli vela le
guancie: vi è alcun che di vecchio e direi quasi di logoro nella curva
del petto, nel floscio delle carni giallognole, nella mestizia abituale
dell'aspetto infermiccio.

S'ei tiene spianata la spaziosa e pallida fronte su cui pare abbia
impresso un segno il dito di Dio, quella fronte coronata da corti
capelli d'un nero lucido ed azzurrigno, i quali irti e ribelli ad ogni
ravviatura, danno alla sua testa una meravigliosa apparenza di
risoluzione e di forza; se egli, i suoi occhi, che hanno il colore del
mare, e ti appaiono come questo profondi, fa brillare d'un lampo di
letizia o d'affetto; se sulle smunte gote gli corre un istante a
colorarle il sangue, e sulle sottili e scialbe labbra erra un sorriso,
tu nol diresti giunto per anco ai vent'anni; ma se egli, qual è suo
costume, tiene aggrottate le sopracciglia e turbata come da incessante
lotta di pensieri la fronte, dimesso lo sguardo, serrate le labbra,
curva la testa, tu lo crederesti presso ai quaranta, e ti appare per
soprappiù roso da una di quelle interne infermità degli organi vitali
che distruggono lentamente la vita.

Avreste detto che la natura lo aveva creato per essere il più forte e
robusto degli uomini, e che le circostanze e la sciagura lo avevano
ridotto ad essere debole e miseruzzo. Un capo grosso stava sopra un
corpo non a sufficienza cresciuto nè sviluppato, il quale pareva aver
difficoltà a portare un tanto peso; il petto incavato pareva concedere a
stento l'agio di respirare ai polmoni; delle mani grosse, nodose e da
gigante si annodavano a braccia esili, piccole, forse troppo lunghe a
paragone della corporatura, poco meno che da rachitico; una macilenza
malaticcia gli ammenciva, per così dire, tutte le membra e lasciava
apparire più che non convenisse l'ossatura grossa e sformata.

Eppure, a malgrado, e forse anche a cagione di tutto ciò, la sua era una
di quelle figure che ti sorprendono e ad ogni modo non puoi trovare
indifferenti; di certo era tutt'altro che bella, ma pure chiamava
l'attenzione del riguardante e non si sapeva perchè. Quella faccia
stranamente impressa ti destava tutt'insieme una qualche simpatia, quasi
direi un senso di rispetto, eppure una certa diffidenza; per poco tempo
tu guardassi quelle sembianze, le ti si stampavano nella memoria, ed o
ti attraevano o ti ripugnavano, o ti consigliavano a farti amica l'anima
che vestivano od a sfuggirla; o eri disposto ad amarla, o la temevi come
un pericolo.

Quest'uomo volse tutt'intorno uno sguardo sicuro, e visto che un'unica
tavola era disoccupata quasi in capo allo stanzone presso la botola e di
prospetto all'uscio a vetri della stanza vicina, si avviò verso quella,
seguito dal ragazzo.

Era evidente che la venuta di costui non avea fatto una aggradevole
impressione in quelli dei frequentatori della bettola, che al suono del
campanello d'entrata avevano alzato la testa e guardato chi venisse.
Certo non era che i panni dello sconosciuto fossero signorili ed
eleganti; molto anzi ci correva, e si rimanevano all'essere puliti,
colle traccie appariscenti d'un uso lungo e continuato senza
intermittenze, ma erano alla foggia che è propria del ceto dei ricchi, e
da essi agli strappi che portava la maggior parte degli uomini raccolti
là dentro correva una infinita distanza.

— Oh oh! Aveva incominciato uno dei bevitori ammiccando cogli occhi: un
_muscadino_ con tanto di guanti alle mani.

— E che vien egli a fare qui, questo bel coso? Aveva detto un altro.

— Che sì ch'ei si mena dietro il nipotino della _Gattona_: soggiunse un
terzo che conosceva il piccino da cui lo sconosciuto era accompagnato.

— Un milorde che viene a cenare colla frittata alle cipolle di mastro
Pelone.

— Gli è proprio il piccin della _Gattona_ quel marmocchio: disse un
altro. Sta a vedere che sto bastarduzzo ha trovato finalmente suo padre,
che è questo milionario, il quale viene a pagargli il buon arrivo con un
quintino di quel brusco di quest'oste della malora.

E sghignazzavano seguitando coll'occhio beffardamente insolente lo
sconosciuto che s'avanzava senza darsene per inteso, come se quello non
fosse fatto suo.

Per arrivare al desco disoccupato, convenne al nostro personaggio
passare accosto a due uomini che stavano cioncando e discorrendo seduti
alla tavola immediatamente prossima a quella verso cui camminava il
nuovo venuto. Costoro erano due tipi curiosi e degni di fermar
l'attenzione dell'osservatore; e siccome avremo da trovarli attori non
degli ultimi nelle scene del nostro racconto, non è fuor d'opera che ci
fermiamo alquanto ad esaminarli.



CAPITOLO III.


Questi due uomini appartenevano l'uno e l'altro alla classe degli
operai, ed al vederli poteva dirsi che contavano fra i più miseri di
essi. Erano presso a poco della medesima età, fra i quaranta e i
cinquant'anni; ma uno recava nelle sembianze tutti i segni dei patimenti
fisici e morali cui conduce seco la miseria, onde pareva troppo più
invecchiato che l'età non volesse, mentre l'altro, quantunque nei panni
fosse strappato e sordido al pari e più del suo compagno, aveva nelle
guancie rubizze, nella corporatura piena e robusta un certo aspetto di
floridezza e di benessere che contrastava affatto col suo vestire da
accattone.

A dispetto di questa differenza, chi li mirasse aveva da sentire più
fiducia verso il primo che non verso il secondo. Quello, nella sua aria
di sofferenza e di scoraggiamento, e diremo anche di degradazione, aveva
pure alcuna traccia di bontà, e un resto di quel non so che onde si
svela all'apparenza l'anima onesta; mentre il suo compagno nella sua
faccia grassa e colorata portava l'espressione dei più bassi istinti, e
nello sguardo degli occhi piccoli e nascosti sotto folte sopracciglia di
color fulvo, aveva qualche cosa di losco, di falso e di feroce.

In questo momento, di cui stiamo discorrendo, il primo de' due era
seduto contro il muro appoggiandovi le spalle e il capo, mentre il
braccio sinistro gli cascava inerte lungo la persona, e il braccio
destro s'appoggiava alla tavola tenendo in mano un bicchiere quasi pieno
di vino. La testa che gli si dimenava lentamente di qua e di là contro
la parete, lo sguardo incerto e semispento, le labbra allividite nella
faccia pallida, la parola balbuziente indicavano abbastanza com'egli si
trovasse in uno stato di ebbrezza assai inoltrata. Riscaldato di molto
dal vino altresì, ma più padrone di se stesso, appariva il suo compagno,
il quale sedutogli dinanzi, si curvava verso di lui, parlandogli con
molta vivacità, come chi vuol persuadere alcuno di cosa che gli prema.

Sul desco, in mezzo a loro, quattro fiaschi vuoti rendevano chiara
ragione dello stato in cui si trovavano ambedue.

Per giungere alla tavola a cui aveva posta la mira, lo sconosciuto dei
capitoli precedenti doveva passare precisamente dietro quell'uomo dalla
figura malvagia fra lo scanno su cui egli sedeva e il braciere che,
pieno di carboni spenti e di cenere, faceva le mostre di scaldare lo
stanzone; e siccome quel cotale, stando curvo verso il suo compagno a
discorrergli, si teneva seduto in bilico sullo scanno pencolato, da
tenere le due gambe posteriori in aria, avvenne che lo sconosciuto,
passando, urtasse in una di queste gambe. L'uomo si volse bruscamente,
ed al vedere in chi l'aveva scosso gli abiti d'un ceto sociale superiore
al suo, aggrottò le sopracciglia, contrasse la bocca ad un sogghigno di
scherno e mandò una specie di grugnito minaccioso.

— Perdonate: disse gentilmente il nuovo venuto, continuando il suo
cammino e andando a sedersi alla tavola vicina.

— Eh! fate attenzione in vostra malora, cazzatello d'un _muscadino_
delle mie ciabatte: borbottò quell'uomo coi denti stretti, guardando a
stracciasacco lo sconosciuto.

Questi fece come se non avesse udito quelle parole, e quando fu seduto
ed ebbe seduto del pari innanzi a sè il ragazzino raccattato per via,
battè sulla tavola colla palma della mano per chiamare l'attenzione
dell'oste.

— Che razza d'animale è costui? Disse ancora l'uomo dall'aspetto di
scellerato, guardandolo di traverso con infinito sospetto ed avversione.
Non mi piace vedere a svolazzare qui dentro di questi uccelletti dalle
belle piume. Che sì che glie ne levo io il ruzzo, po' po' che mi
tocchi!...

Lo sconosciuto, avvertisse o non avvertisse gli sguardi e le parole di
quell'uomo, teneva gli occhi bassi e mostrava non udir nulla. Il
popolano, stato ancora a guardarlo così un poco, scuoteva poscia le
spalle, come per dire che non era cosa da dovergli importare, e
riprendeva il discorso col suo ubbriaco compagno.

La venuta di quell'incognito in panni quasi signorili non pareva esser
di gusto nemmeno dell'oste, il quale stava dietro il suo banco in fondo
alla stanza.

Una curiosa figura e degna del Callotta era quest'oste, diverso affatto
da tutti gli osti che voi trovate d'ordinario nella realtà entro le
osterie, e nelle finzioni dei romanzi. Mentre per ordinario il
bettoliere è una persona prosperosa, rubizza, grassa, dall'aspetto ilare
e giovialone, questo cotale, che già abbiamo sentito chiamarsi mastro
Pelone, era invece la più secca, allampanata, brutta persona che possano
fare quattro ossa d'uomo ricoperte di pelle d'alluda. Lungo lungo, magro
magro, scarna la faccia in cui dominava un naso mostruosamente
voluminoso, pelato il cranio del colore dell'avorio ingiallito, su cui
una berretta nera a fiocco, unta e bisunta; in mezzo al mostaccio una
squarciatura che serviva di bocca e quando la si apriva pareva quella
d'un forno, gli occhi infossati al di sotto di una arcata sopracciliare
protuberantissima, lo stampo dei sette peccati capitali nei bernoccoli
della testa, certe mani a dita adunche da parer le graffe di un animale
di rapina; braccia e gambe lunghe, dinoccolate, ridotte alla sola
ossatura grossa e deforme; la voce rauca, velata che usciva
faticosamente dal petto, una tosse profonda e cavernosa che di frequente
gli scuoteva i precordi; tal era il taciturno e poco aggraziato e per
nulla simpatico mastro Pelone. L'avreste detto, piuttosto che un
ostiere, un becchino, ed anzi la morte medesima vestitasi sopra il suo
scheletro di panni d'uomo.

Di dietro il suo banco, dov'egli stava meglio che seduto, accoccolato
sopra una seggiola, le nodose ginocchia quasi sotto il mento, avendo
ripiegate le lunghissime gambe, così da tenere le zattere che gli
servivan da piedi appoggiate al piuolo che univa le due gambe anteriori
della seggiola, mastro Pelone aveva veduto entrare lo sconosciuto e in
mezzo a due sbruffi di tosse aveva borbottato fra quei pochi denti che
gli rimanevano nelle pallide gengive:

— Uhm! Una faccia nuova.... Un nuovo agente del signor Commissario, ci
scommetto.... La Polizia mi vuole un bene a me!..... Uhm! Che il fistolo
li colga tutti quanti.

Ed aveva seguitato collo sguardo sospettoso e diffidente il nuovo venuto
nel suo cammino sino al desco a cui aveva preso posto. Quando lo
sconosciuto aveva picchiato sulla tavola, l'oste, non cessando mai di
fissarlo con quel suo sguardo semispento, aveva tirato giù lentamente
una gamba, e poi l'altra, aveva drizzato ancora più lentamente il petto
incurvato, e poi puntando al banco una delle sue manaccie s'era levato
in piedi colla medesima lentezza. Era uno strano spettacolo vedere
quella magra figura sgomitolarsi, per dir così, a poco a poco ed
allungarsi, allungarsi dietro il banco. Quando tutto fu diritto, mastro
Pelone tentennò un pochino, come fa l'albero d'una nave che sta per
mettersi in via, e poi uscì con piede riguardoso, e che non faceva
rumore, di dietro il suo banco, e venne a passi misurati verso la tavola
dove lo avevano chiamato.

Colà puntò sul desco le sue manaccie ossee senza carne, curvò la lunga
persona da far pendere il suo naso enorme sopra la testa dello
sconosciuto, e domandò colla voce rauca e soffocata:

— Che cosa comanda?

— Ci avete del buon brodo caldo? Disse lo sconosciuto.

L'oste accennò di sì col capo, e poi seguitò a dondolare la testa, come
per significare: — Diamine! Si figuri, se nella mia osteria non si ha da
trovar di questa roba!

— Ebbene, riprese lo sconosciuto, portateci una scodella di brodo con
del pane, formaggio ed una mezzina di vino.

Mastro Pelone si tirò su del corpo, e facendo piombare il suo sguardo
offuscato sul viso dello sconosciuto, disse interrogativamente:

— Una sola scodella?

— Sì.

— E il vino, quale? Quel da dodici?

— Quel da dodici.

Allora l'oste si rivolse sui suoi talloni e mandò in giro i suoi occhi
infossati.

— Uhm! Borbottò egli fra sè tossendo; quella pettegola di Maddalena è
ancora di là; quando si caccia nella stanza di quei sciagurati demonii,
che Dio li confonda, la non sa più venirne via, figliuola di una mala
femmina che la è..... Bisogna chiamare quell'imbecille di Meo.

Andò alla botola che metteva nelle stanze di sotto e curvatosi su di
essa, gridò con quanta voce gli rimaneva nella magra cassa dello
stomaco: — Meo! Meo! — sforzo che gli eccitò un accesso non indifferente
di tosse. Nulla rispose, nè alcuno comparve. Pelone sembrò esitare un
momento intorno al da farsi; ma poi gli mancò il coraggio di rinnovare
quella prova infelice, andò all'uscio a vetri della camera vicina, e
picchiò colla nocca delle dita in un certo modo particolare: Quando ebbe
ripetuto due o tre volte questo picchio, l'uscio finalmente si aperse, e
si fece vedere la fante, la quale, tenendo il battente a metà aperto,
sporse in fuori la testa e domandò al padrone con tono d'arroganza e di
impazienza:

— Ebbene? Che cosa c'è?

L'oste parve ringoiare una brutta parola che gli fosse venuta alle
labbra.

— C'è della gente da servire.

— E Meo? Che cosa è buono da far Meo?

— È buono da niente, borbottò fra le gengive Pelone a modo suo, e tu
neppure pettegoluzza da pochi quattrini che ti carezzino le graffe del
demonio.

— Che cosa dite?

— Uhm! Uhm! Dico che l'ho chiamato Meo, e che non ho potuto farmene
sentire.

— Oh bene; ora lo chiamo io.

E venuta alla botola gridò con voce che avrebbe bastato ad un comandante
di reggimento in Piazza d'Armi: — Meo!

— Eh? Rispose di sotto una voce d'uomo assonnata.

— Vien su presto che c'è da fare.

— Vengo.

— Animo, sbrigati, marmotta. E non istar lì giù sempre a dormire,
scimunitaccio, che mi tocca far tutto a me; e tu stai continuamente in
panciolle.

— Uhm! tornò a borbottar l'oste: ci stanno tuttedue, che il diavolo li
porti.

— Vengo, vengo; ripetè la voce di Meo; e dopo un poco si vide comparire
dalla botola le chiome giallastre arruffate, la fronte depressa, la
faccia melensa, le spallaccie quadre, il corpo tozzo d'un giovinastro il
quale, al solo vederlo, si poteva affermare che non si rubava un titolo
immeritato quando si faceva dare dell'imbecille.

Vistolo a venire, Maddalena si affrettò per tornare nella camera da cui
il padrone l'aveva fatta uscire allor allora. Ma le convenne passare
vicino ai due bevitori di cui abbiamo parlato più su, e quello di loro
dalle malvagie sembianze, smesso il discorrere col suo compagno, tese
una mano ed arrestò per le gonnelle la fantesca.

— Eh! Una parola, Maddalenuccia bella.....

Ma la giovane volgendoglisi di mala grazia e facendo a liberar le
sottane dalla mano di lui:

— Lasciatemi stare. Marcaccio, disse con rozzo accento.

— No, per la barba di mastro Impicca: riprese ghignando Marcaccio.
Voglio vederti, voglio parlarti ancor io, o che? Non vieni mai a
mostrare il tuo musino alla nostra tavola, corpo d'un salame! Che i
nostri denari non valgon quelli di que' cacazibetto che son di là?...
Sta qui un momento Cr..... ch'io t'inchiodo con una manata su quella
panca.

— Volete lasciarmi! Gridava fra sdegnata ed atterrita la giovane.
Guardate che c'è di là il _medichino_, ed io lo chiamo.....

Marcaccio allargò la mano e curvò il capo.

— Ah! C'è il _medichino_... Non chiamare nessuno stregherella del
demonio, e vanne alla malora.

Così borbottò egli fra i denti stretti, e Maddalena s'affrettò a sparire
per l'uscio della camera vicina. All'aprirsi di quest'uscio, gli occhi
dello sconosciuto, il quale si trovava al desco postovi di faccia,
poterono scorgere quegli uomini che sappiamo essere radunati in quella
stanza medesima, e fra essi distinsero un giovane alto di statura, ben
fatto di corpo, di bellissime sembianze, in vesti da operaio, ma portate
con certa grazia signorile, come signorili erano nullameno l'aspetto ed
i modi.

Lo sconosciuto parve stupirsi di vedere quel personaggio.

— To', diss'egli fra sè: qui Gian-Luigi!

Intanto il garzone dell'oste venuto su dalla botola, dietro il comando
del padrone, portava sul desco dello sconosciuto il brodo, il vino, il
pane e il formaggio domandati.



CAPITOLO IV.


Il ragazzo raccattato per la strada dallo sconosciuto si mise a mangiare
con una voracità, la quale ben provava il suo lungo digiuno. Lo
sconosciuto lo guardava con una specie di compassione e di
soddisfacimento.

— La fame! diceva egli fra sè. Vi hanno tante creature al mondo che
s'allevano avendo questa trista compagna al fianco, la quale o non li
lascia mai nella vita, o se li abbandona un istante gli è per aspettarli
al varco nel giungere della vecchiaia o nel sopravvenire d'un'infermità!
_Malesnada fames!_ Ah ti conosco, spettro scarno e terribile che spingi
al disonore e al delitto! Ho sentito nelle mie viscere i tuoi morsi di
iena, sciagurata figliuola della miseria!... E chi mi avesse detto
allora che avrei potuto un giorno sfamare un più povero di me!...
Mangia, mangia, misero fanciullo destinato a lottar tutta la vita cogli
stenti nei bassi fondi dell'agglomerazione umana. La sorte ti ha gettato
nel fango della più meschina e più corrotta plebe. Saprai tu, potrai tu
levartene collo sforzo della tua volontà, colla virtù delle tue opere?

Appoggiò i gomiti sulla tavola, reclinò il capo fra le mani, e
stringendosi con queste la fronte vasta e intelligente, stette immerso
ne' suoi pensieri.

Egli era colla mente lontano le mille miglia da quel luogo, da quel
momento, quando alcune delle parole pronunziate al desco vicino, appunto
perchè corrispondevano alla qualità della sua meditazione, penetrarono
sino al suo intelletto, e ne chiamarono l'attenzione. Lo sconosciuto
levò il capo, e stette ad ascoltare con interesse ch'e' non pensò neppur
di nascondere.

Quell'uomo che abbiamo udito chiamarsi Marcaccio, così parlava al suo
compagno:

— Gua', Andrea, la cosa è chiara. I preti dicono che gli è un Dio che ha
fatto la baracca del mondo; per me credo piuttosto che è il diavolo.
Chiunque sia, fece le cose da maligno o da cieco, e piantò per regola la
più solenne ingiustizia... Andrea! Corpo di mille sacramenti! Non hai tu
mai pensato perchè ci hanno da essere dei ricchi a crogiolarsi nell'ozio
e dei poveri che si fanno a correggiuole la pelle?

— Ah sì! Balbettava Andrea quasi compiutamente ubbriaco, dondolando il
capo come se gli fosse troppo grave da reggere. Perchè ci hanno da
essere dei poveri?

— E sopratutto, perchè abbiamo ad esser poveri noi? Tu, io... Io stesso,
per mille e cento Satanassi... Se le ricchezze fossero lì in libertà, a
tiro di mano della gente, a chi piglia piglia, oh che non ti sentiresti
tu di arraffarne la tua buona porzione facendoti strada a cazzotti in
mezzo alla ressa? Vorrei trovarmici allo sbaraglio, sacramento! che sì
che farei stare a mostaccioni tutti costoro che hanno ora la fortuna,
pani in molle che con un dito mi sento di mandarli le gambe in aria.....
E se Dio o il demonio ci ha dato questa forza delle braccia a noi
poveri, perchè abbiamo da non usarla e lasciarci far la legge da una
schiera di minchioni e di birbanti, che sono più deboli, che godono i
dolci ozi mantenuti dai nostri sudori? Noi poveri siamo più forti e
siamo in più. È una cosa assurda che ci lasciamo morir di fame guardando
la tavola ben servita degli altri che sono più deboli e che sono in
meno. Capisci?

E scuoteva per la carniera il suo compagno, il quale sempre più ubbriaco
ripeteva balbettando:

— Capisco!... Sono in meno.

— Che cosa dunque ci manca a noi, eh?

— Ah si! Che ci manca?... Ci manca tutto..... Ho da pagare l'affitto a
messer Nariccia, e non ho denari... Ho da comprar pane e vesti ai miei
bambini che gridan dalla fame e treman dal freddo; e non ho quattrini...
Ho una buona donna di moglie che sta poco bene, che un giorno o l'altro
andrà a creparmi all'ospedale... e non ho un po' di monete da farla
curare... E non c'è lavoro... E non so da che parte voltarmi... E sono
disperato... Ecco!

La commozione lo guadagnava non ostante la sua ebbrezza: due lagrime gli
colarono giù per le guancie: e il suo capo gli dondolava con mossa
veramente dolorosa. Alzò alle labbra la mano che teneva il bicchiere
quasi pieno e lo tracannò d'un fiato.

Marcaccio, tirando di nuovo Andrea per la casacca, riprendeva, come se
non fosse stato interrotto:

— Ci manca d'essere uniti e di aver un po' di coraggio nelle budella, e
di liberarci da certi scrupoli di femminetta che son quelli che ci danno
piedi e mani legati in balìa dei ricchi. Mi capisci?

Andrea accennava col capo di sì, ma il suo sguardo incerto ed offuscato
dinotava che troppo confusa oramai era la sua intelligenza per avere
un'idea chiara ed esatta delle cose che gli venivan dette.

— To'! Se un bel giorno tutti i poveri, tutti quelli che stentan la vita
nel lavoro se la intendessero insieme e gridassero: non vogliamo più
esser poveri, vogliamo spartire con voi, ricchi, quei tanti denari che
avete; vogliamo farla finita di questa ingiustizia che a noi nega la
polenta ed a voi dà le quaglie arrosto; non credi tu che bisognerebbe il
mondo passasse per quella, e non ci varrebbero nè carabinieri, nè
_arcieri_, nè soldati, nè tribunali, nè i mille terremoti del sacramento
a dettarci più la legge? Hai capito?

— Ho capito: ripeteva balbuziente Andrea.

— Ma gli è che siamo degl'imbecilli e dei codardi a lasciarci calpestare
così...... Gli è ciò che dice sempre quel furbacchione che è il
_medichino_. Quello è un capo di vaglia! Egli ha studiato, egli sa come
può sapere qualunque dei ricchi che compra la scienza nei libri
stampati. Queste cose che io capisco col mio buon senso, egli le ragiona
per quinci e per quindi; e ti prova per due e due fan quattro, come,
poichè siam posti qui in questa baraonda, ci abbiamo il diritto di
stare, e siccome per vivere bisogna mangiare, abbiamo diritto di avere
il pane assicurato, ed essendo che questo pane ci viene negato, corpo di
mille diavoli, abbiamo il diritto di pigliarcelo da chi ne ha
troppo..... È chiaro?

— È chiaro: ripetè ancora l'ubbriaco, dondolando sempre la testa a suo
modo.

Marcaccio si fece ancora più presso al suo compagno, si curvò
maggiormente verso di lui, e scuotendolo di nuovo ai panni affine di
farsene ascoltare con più attenzione, continuò abbassando un poco la
voce:

— Di questi ricconi che ne han troppi e lascian morire il povero di fame
ce n'è a fusone, e ne conosciam tutti. Tu ne conosci uno che qualche
volta pure si degna di farti l'ingiuria dell'elemosina.

— Elemosina? balbettò Andrea battendo col fondo del bicchiere sulla
tavola. Sì, è una cosa che fa vergogna... Un uomo come me aver da
domandare l'elemosina!

— Aver da domandare, umiliandoci, quello che ci viene per diritto e per
natura, il pane da vivere!... È una scelleraggine... E ancora, sì che
troviamo facilmente chi ci faccia elemosina!... I ricchi hanno il cuor
duro come i zamponi del cavallo di marmo. Andate a lavorare, ci dicono
con disdegno; è la gran ragione che hanno sempre in bocca: andate a
lavorare.

— Lavorare!... Ripeteva l'altro sempre più ubbriaco. Ma dove trovarne
del lavoro?... Piaceva anche a me una volta il lavorare...

— Eri un babbuino.

— Dall'alba al tramonto, sempre la lima o il martello in mano, e giù
allegramente.

Scosse la testa, in guisa di rimpianto doloroso.

— Ah! bei tempi erano quelli! Il corpo stanco, l'anima tranquilla e il
borsellino guarnito..... Come si dormiva! E con che gusto si mangiava
quel boccone di pane! I bambini non piangevano; la moglie non tossiva E
poi?... E poi il demonio mi ha gettato te fra le gambe.... Tu,
Marcaccio, mi hai insegnato il cammino dell'osteria e disappreso quello
del lavoro... Mi ci sono divezzato... Il principale presso cui lavoravo,
mi ha mandato via come un ubbriacone... Poi un altro idemme... Non ne ho
più trovato di lavoro, non ne trovo più, e sono alla miseria!

Si dirizzò un momento del corpo sulle anche, e un raggio d'intelligenza
balenò fugacemente nel suo sguardo avvinazzato.

— To', la cagione d'ogni mio malanno sei tu.

— Eh via! rispose Marcaccio con accento tra beffardo e minaccioso.
Queste le sono sciocchezze... Bevi!

E gli mescette nel bicchiere.

Quel lampo d'intelligenza ratto svanì in Andrea; il suo corpo s'accasciò
di nuovo contro la parete, e con atto automatico la sua mano gli recò
alle labbra il bicchiere riempitogli da Marcaccio.

— Che? Ripigliava quest'ultimo: tu rimpiangeresti quel tempo in cui ti
frustavi la vita senza riposo, senza mai un momento di piacere? Oh che
siamo animali da tirar la carretta come i muli, sotto la sferza del
bisogno? Io non domando solamente che mi si dia il pane da non crepare,
domando un po' di quei tanti beni che godono i ricchi..... Lavoro!
Lavoro! È l'antifona che ci cantano sempre. Ed essi lavorano forse, i
ricchi? Siamo tutti uomini uguali, lo dice anche il Catechismo, ed a
pugni anzi noi la facciam bere agli altri.... Dunque perchè a loro
tutto, ed a noi niente?.... È tempo che ciò finisca.

— Sì, è tempo che finisca: ripeteva ancora Andrea.

— Ti dicevo d'un riccone che tu conosci, e che di quando in quando ti
umilia con un po' di elemosina. Sai già chi voglio dire: il marchese di
Baldissero.

Lo sconosciuto aveva prestato sino allora vivissima attenzione ai
discorsi de' suoi due vicini, e quando Marcaccio aveva abbassata la
voce, egli, per non perderne pure una parola, s'era sporto della persona
ad appressare l'orecchio al parlatore; ora all'udir pronunziato quel
nome, sembrò accrescersi ancora l'interessamento con cui ascoltava, e
tutto tutto parve intento ad afferrare le parole di Marcaccio.

Codesto vedeva l'oste, il quale, riaccoccolatosi dietro il suo banco,
faceva scorrere di sotto alle prominenti occhiaie il suo sguardo da
gatto per tutta la stanza dell'osteria.

— Uhm! Diceva egli tra sè di mal umore. Se l'ho detto che codestui era
un mercante di fiato... Un novizio però!... Ve' come si sporge, come
allunga il collo e tende gli orecchioni!... Lo si può riconoscere da
lontano le cento miglia... Uhm! Uhm! E quel soro di Marcaccio non ci
abbada... Ha tanto giudizio come un fiasco rotto, ed è ubbriaco come una
doga... Chi sa che razza di discorsi scomunicati mi sta facendo! Uhm!
Non vorrei che compromettesse la mia osteria e me..... Quanto a lui vada
pure a dar calci a rovaio che poco me ne importa; quantunque con esso ci
sia da guadagnare dei bei denari..... Che il diavolo lo scavezzi; ma non
vorrei che tirasse me nella ragna; e chi sa che cosa può dire, ebbro
com'egli è!....... Uhm!....... Bisogna avvertirlo.

E s'alzò da sedere, avviandosi lentamente a suo modo verso il desco
occupato da Marcaccio e da Andrea.

— Ah sì, il signor marchese, diceva intanto quest'ultimo: quello è un
galantuomo... Oh sì un vero galantuomo!

Marcaccio scrollava compassionevolmente le spalle.

— Un galantuomo! Perchè ti dà qualche soldo di quando in quando di
quelli che non sa cosa farne, e ne ha tanti che basterebbero a far
vivere dugento altre famiglie.

— Ne dà a tutti: ripigliava con un certo calore Andrea: ne dà a tutti il
marchese... io non oso molto comparirgli davanti, perchè me, mi
strapazza, e quando strapazza con quella sua voce grave, e con quella
sua faccia severa, e con quella sua bella figura da vecchio, a me, lo
dico senza vergogna, mi fa un certo effetto..... Perchè sento che non ha
torto, quando mi dice che sono un fannullone, un tristo arnese e che ho
messo sulla paglia la mia famiglia..... Sulla paglia? Ne avessimo almeno
di paglia!..... Ma mia moglie, alla mia povera moglie, concede tutto ciò
che domanda; e se ella osasse andarci più sovente.... ma la si
vergogna..... e massime per me che le tocca sempre difendere innanzi al
marchese..... Breve! Quello lì è un ricco di cui non si ha da dir male.

— E tu sei uno sciocco che non sai ciò che ti peschi: proruppe
Marcaccio. To', bevi ed ascoltami.

Tracannato egli medesimo un colmo bicchiere di vino, Marcaccio
ripigliava:

— Quante lire di reddito ha quel galantomone d'un marchese, come tu lo
chiami? Ducento mila di certo, e forse più: non è vero?... Bene. Per
vivere ad un uomo quanto occorre, eh?... Non sapresti dirlo tu,
Andrea?... To', se ti dicessero a te adess'adesso: ti diamo due mila
lire all'anno e non hai più nulla da fare, sacr....! tu faresti di salti
da toccare il cielo col naso. Vivresti per benone tu e la tua famiglia
che siete in sette. Non è così? Or be' a quel marchese facciamola alla
larga e diamogli tante duemila all'anno quante persone di suo sangue ha
in casa. Duemila lire per lui, due mila per quel superbione di suo
figliuolo, un arrogante quello lì che spero non vorrai portare in palma
di mano ancor esso; duemila per la moglie del marchese, anche quella una
schizzinosa che le vien del cencio solamente a guardarci, duemila ancora
per la nipote del marchese, la signorina Virginia...

Lo sconosciuto che stava ascoltando diede in un lieve sussulto all'udir
quest'ultimo dolcissimo nome: Andrea si riscosse ancor egli ed
interruppe:

— Oh quella è una brava creatura del buon Dio... è una bellezza!...
Cisti! Che bellezza!

— Buono! Riprese con rozza impazienza Marcaccio. Questo non ci ha da che
fare. La bellezza di quella immagine dipinta non è fatta per noi
miserabili straccioni; e non me ne importa una pipa rotta... Gli è dei
_lughi_ che io mi do pensiero..... Dunque supponendo che a sto benedetto
marchese rimanessero ottomila lire all'anno da mangiarsi in santa pace,
non ti pare che avrebbe più che il bisognevole? Cospettone! Altro
che!... Da duecento mila lire togline ottomila, restano cento novantadue
mila lirette che a mille franchi ciascuno potrebbero far tranquilli e
beati due centinaia di poveri diavoli, come siam noi, io e tu, per mille
terremoti! Dico bene? Non è chiaro codesto come due e due fan quattro?

Ed Andrea sempre più stupidito dall'ebbrezza balbettava:

— Sicuro, sicuro; gli è chiaro.

— Povera ignoranza! Mormorava fra sè lo sconosciuto.

Intanto l'oste era giunto al desco dei due bevitori ed ammiccando in un
certo modo a Marcaccio, perchè tacesse, s'era seduto sulla panca vicino
ad Andrea.

— E così, compari, aveva incominciato a dire, come la va?

Marcaccio guardò lo interruttore di mal occhio.

— Che cosa vieni a ficcar qui il tuo becco, figliuolo della versiera?
Gli disse con isgarbo. Chi ti ha chiamato?

E l'oste, facendo boccaccie che lo sconosciuto non poteva scorgere e
strabuzzendo sempre gli occhi, per accennare all'uomo che aveva di
dietro:

— Che? Rispose. Ti rincresce ch'io venga a domandarti come stai e scambi
con voi altri quattro chiacchere?

— Un corno! Gridò Marcaccio. Ne abbiamo noi in via di chiacchere che
sono più interessanti delle tue cianciafruscole. Non è vero, Andrea?...

E qui, cambiando ad un tratto di tono, come aveva cambiato di pensiero,
secondo che succede alla mente in preda ai fumi del vino, soggiunse:

— Appunto! Tu Pelone che sei volpe vecchia puoi aiutarmi a far capire
certo ragioni qui a mastro Andrea che è l'uomo più scrupoloso e più pan
bagnato del mondo.

L'ubbriaco si riscosse.

— Io, pan bagnato?... Corpo d'una saetta, Marcaccio, son capace di
mostrarti...

— Mostrarmi le ciambelle. S'io ti dicessi: c'è un bel colpo da fare a
questo marchese, e se tu mi aiuti n'avremo in tasca dei bei
giallognoli...

L'oste si mise a tossir forte, e di sotto alla tavola diede una gran
pestata ad un piede di Marcaccio.

Questi ruppe in una sconcia bestemmia:

— Guarda che fai, oste della malora; mi storpii un piede.

— Al marchese!... Un colpo! Balbettava Andrea. Di bei giallognoli in
tasca!.. E pane pei miei figliuoli...

— Sicuro!... Pane ed anche companatico... purchè tu voglia.

— No, no, non voglio... Al marchese... Mio benefattore!

— Uh! l'imbecille! susurrava Marcaccio fra i denti, guardando di
traverso Andrea.

— Uh! l'imprudente! mormorava Pelone guardando con dispetto insieme e
compassione Marcaccio.

— Bene: riprendeva quest'ultimo. Il tuo marchese lasciamolo Stare; ma
c'è un altro riccone di nostra conoscenza che credo non vorrai
difendere: il sig. Nariccia, il tuo padron di casa.

A quel nome tutto s'annuvolò l'aspetto di Andrea.

— Un birbante! Esclamò egli con uno scoppio di voce.

— Siamo d'accordo: soggiunse Marcaccio. Ed ha i marenghini a palate; ed
io so ben bene dove li ripone. Quei marenghini li ha spremuti dai
poveri. Pigliarglieli è fare opera meritoria.

L'oste, che aveva invano fino allora tentato ogni mezzo indiretto per
far tacere Marcaccio, pensò che era tempo di ricorrere a più efficaci
spedienti.

— Ah ah! Diss'egli con un suo riso forzato. Marcaccio è poi sempre quel
medesimo che vuol ridere... Le sono le sue solite facezie...

— Facezie! Interrompeva Marcaccio guardando minaccioso Pelone entro gli
occhi. Facezie una maledetta!...

Ma l'oste, curvatosi all'orecchio di lui, gli susurrava in fretta in
fretta alcune parole che avevano la virtù di fargli cambiare improvviso
l'espressione della fisionomia e di farlo sussultare sul suo sedile.
Gettò egli ratto lo sguardo sull'uomo che stava col ragazzo al desco li
presso, e siccome lo sconosciuto era lontano le mille miglia dal
supporre i giudizi che si facevano di lui e i pericoli che lo
minacciavano, Marcaccio potè vederlo nell'attitudine che aveva d'un
attento ascoltatore dei discorsi de' suoi vicini.

Marcaccio diede un gran pugno sulla tavola che fece trabalzare bottiglie
e bicchieri, mandò una fiera bestemmia e disse con tono che non
prometteva niente di bene:

— Ora lo aggiusto io!

Si alzò in piedi e si raffermò sulle gambe che gli traballavano un poco,
poi datosi un'aggiustatina a quel brandello di cencio che gli serviva di
cravatta, rimboccate le maniche sfilacciate agli orli della casacca,
mentre fulminava con isguardi pieni di minaccia lo sconosciuto, venne a
piantarsi innanzi a quest'ultimo in atto pieno di provocazione.

L'imprudente ascoltatore del colloquio dei due beoni, non tardò ad
accorgersi delle ostili intenzioni di Marcaccio, e ne apparve molto
contrariato e dirò meglio sgomento. Si trasse egli indietro contro la
parete, e là sembrò quasi rannicchiarsi in se stesso, mentre i suoi
occhi s'abbassavano paurosi a terra e una pallidezza, maggiore di quella
ch'egli aveva quando era entrato in quel luogo, tornava a distendersi
sulle sue guancie che il calore di quell'ambiente aveva d'alquanto
colorite. Con una ratta sbirciata di sottecchi guardò se il piccino
avesse terminato il suo pasto, e certo gli sarebbe stato gradita cosa
che ciò fosse, ed egli potesse svignarsela di subito; ma il ragazzo era
nel migliore della sua cena; un'altra occhiata intorno alla stanza lo
ammonì che in ogni possibil caso, fra tutta la gente che vi era colà,
egli non avrebbe potuto trovare aiuto o difesa.

Marcaccio tese una delle sue mani grosse, nere e villose, stretta a
pugno, verso la faccia dello sconosciuto, e gli disse con tono affatto
rispondente all'insolenza delle parole:

— Orsù, mio bel fusto, qui abbiamo da assestare i conti.

Il giovane così interpellato alzò un momento gli occhi su chi gli
parlava: ma li chinò tosto, appena incontrati quelli ferini di costui,
che lucevano sinistramente in fondo alle occhiaie sotto le spesse e
fulve sopracciglia.

— Che cosa volete? Diss'egli facendo un evidente sforzo per apparire
calmo e sicuro, e colla voce che a dispetto di questo sforzo gli
tremolava un pochino. Io non vi conosco, nè voi mi conoscete, credo.

— Sì, per Dio, che vi conosco: urlò Marcaccio dando un gran colpo sulla
tavola con quel pugno che aveva teso verso il giovane; e la razza di
gente a cui voi appartenete, gua' io son uso a trattarla come fo di
questo gotto.

E preso un bicchiere sul desco, lo scaraventò per terra mandandolo in
mille frantumi.

Tutti coloro che si trovavano nell'osteria, a quello scoppio di voce ed
al rumore, si volsero verso la tavola dove succedeva tal scena, ed
alcuni alzandosi in piedi, altri appressandosi curiosamente, si
apprestarono tutti ad assistere allo spettacolo che prometteva loro un
po' di spasso.

Meo mostrò al di fuor della botola la sua faccia da imbecille in cui
aveva tanto d'occhi spalancati.

Il ragazzo che mangiava, spaventato, aveva lasciato cader sul piatto il
tozzo di pane e il boccon di formaggio in cui mordeva con tanta voglia e
si era riparato contro la muraglia quatto quatto, pronto a scivolar per
di sotto la tavola a fuggire ogni pericolo.

Lo sconosciuto, più pallido ed inquieto che mai, mandava attorno degli
sguardi sgomentati come per cercare una via di scampo.

— Io non vi ho fatto nulla: balbettò egli con voce appena intelligibile.
E se qualche cosa di me ha potuto offendervi.... posso assicurarvi che
la non era mia intenzione affatto affatto.

Le simpatie di tutti gli spettatori di quella scena erano già di natura
per Marcaccio contro il _signore_ che era venuto a ficcarsi in mezzo a
loro, ma la paura manifestata da quest'ultimo era fatta ancora per
accrescergliene l'ostilità, mentre nulla più inferocisce una folla che
la timidità della vittima.

Le parole dello sconosciuto furono accompagnate da un mormorio di
scherno e di minaccia che accrebbe in Marcaccio la prepotenza e
nell'altro lo sgomento.

— Dagli, dagli a quel _muscadino_: disse apertamente qualcuno.

— Fagli ballare il rigodone!

— Giù, giù su quel cappello!

Mastro Pelone credette sua convenienza d'intromettersi.

— Uhm! mormorava egli fra sè: questo sciamannato mi fa una buggera, ma
di quelle... che il fistolo lo colga! Il commissario mi farà chiudere
l'osteria, se non mi manda anche me in gattabuia... Che benedetto
cervellino da galletto che ha questo scimunito!

Venne presso a Marcaccio e ponendogli chetamente sopra un braccio una di
quelle sue mani da scheletro, gli disse con tono dolcereccio e con un
sorriso che pareva la smorfia d'un epilettico:

— Via, via, amico mio, stai buono e non facciamo tafferugli....

Ma l'ubbriaco gli si voltava con brutto viso e dandogli una manata nel
petto lo respingeva ruvidamente da sè, dicendo in mezzo alle più orride
bestemmie:

— Lasciami stare, oste dell'inferno, e va a cacciar il naso nelle
porcherie delle tue cazzeruole.

— Uhm! Esclamava Pelone assalito dalla tosse, cadendo seduto sopra una
panca. La va a finir male.

Marcaccio tese una mano per prendere lo sconosciuto al bavero del
vestito. Il giovane a quell'atto, parve ritrovare un po' d'energia:
saltò in piedi di scatto, e schivando la branca dell'ubbriaco, gridò:

— Lasciatemi Che prepotenza è questa? Che vi ho fatto in fin dei conti?

— Che mi hai fatto? Gridò Marcaccio. Mi hai fatto che sei un codardo di
spia e che le spie non le voglio tollerare, giuraddio!

Un susurro minaccioso corse per tutta la bettola.

— Una spia! Una spia! Dàlli, dàlli.

Lo sconosciuto ebbe un impeto d'indignazione che gli diede coraggio. Un
vivo rossore gli salì alla faccia, la sua fisionomia prese di colpo una
espressione di risolutezza e di forza, il suo sguardo folgorò, le vene
della nobile fronte diventarono turgide, la persona gli si drizzò con un
aspetto di imponente fermezza che non avreste mai più creduto possibile
in lui.

— Alla croce di Dio! Gridò egli con voce vibrante. Io una spia! Oh! Non
ripetete questa infame parola, sciagurato, o vi pianto questo coltello
nel cuore.

Ed afferrato con mano convulsa il coltello che stava sul desco, ne fece
balenare la lama alla luce rossiccia della lampada.

Questo atto ne impose a tutta prima all'adunanza ed a Marcaccio
medesimo. Vi fu come un momento di stupore; e l'ubbriaco,
involontariamente dominato da quella personalità che rivelava la sua
potenza, indietreggiò.

Ma lo sforzo non potè durare a lungo nella indebolita natura di
quell'essere strano; di subito egli divenne più pallido d'un cadavere, e
ricadde seduto spossatamente sulla panca, al momento appunto in cui la
riazione di quel primo effetto di stupore spingeva Marcaccio a maggiore
audacia e prepotenza.

— Minaccie a me! Urlò quest'ultimo. Credi tu mettermi paura?
sacramento!.....

— Ah! Non mi fate del male; esclamò lo sconosciuto tendendo
supplichevolmente le mani verso l'ubbriaco che si precipitava su di lui.

E Marcaccio stava per afferrare il poveretto, e chi sa che cosa ne
sarebbe accaduto, se ad un tratto non si fosse aperto l'uscio a vetri
della stanza vicina, e il giovane dalle maniere eleganti, che abbiam
detto esservi colà dentro, non fosse comparso, gridando con voce
imperiosa:

— Alto là! Che cosa c'è?



CAPITOLO V.


Era davvero un bel giovane. Alto e ben piantato, spalle quadre e petto
robusto, un capo svelto e una faccia con espressione di coraggio
indomabile e di naturale distinzione; uno di quegli sguardi che fanno
abbassare gli altrui; sulle labbra carnose e rosse del color del sangue
un abituale sorriso pieno d'ironia, di scherno e di superbia;
nell'occhio grifagno alcun che di feroce; fra le sopracciglia, nella sua
fronte giovenile, a volta a volta si disegnava il solco profondo d'una
ruga, che dava alla sua bella fisionomia un aspetto di durezza e di
minaccia, che pareva un segno di maledizione stampatogli dalla collera
divina, come la traccia del fulmine di Giove sul capo dei ribelli
Titani.

Chiamato dal rumore, accorreva per solo impulso di curiosità; dietro gli
si aggruppavano le figure triste ed ignobili di coloro che gli erano
compagni nell'altra stanza, vicino a lui veniva la Maddalena.

La comparsa di questo giovane in mezzo a quei miserabili, fu come quella
d'un'autorità senza contrasto riconosciuta. Tutti gli fecero largo
perchè potesse giungere al luogo del tafferuglio, e Marcaccio medesimo
voltosi di scatto alla voce del giovane, s'indietrò alquanto e credette
necessario di spiegargli le ragioni del suo procedere.

— Ecco.... Le dico subito, signor _medichino_.... _Che_ scusi!... Ma gli
è questo furfante qui che è una spia, e volevo io allungargli un momento
le orecchie a modo mio.

La fronte del _medichino_ si corrugò tremendamente, e le sue pupille
mandarono veri sprazzi di fiamma.

— Una spia! Esclamò egli avanzandosi minaccioso verso lo sconosciuto, il
quale pareva sul punto di svenire dallo spavento.... Una spia qui?...
Per la Madonna!

Quando si trovò in faccia a quel giovane pallido, tremante, annichilito,
l'espressione del suo volto cangiò di subito per far luogo, ad una
superba quasi disdegnosa compassione. La ruga in mezzo alle sue
sopracciglia sparì; egli incrociò le braccia al petto, abbozzò colle
labbra un sorriso e disse col tono d'un superiore che parla ad un suo
dipendente:

— Che? Sei tu Maurilio?

Il giovane salutato con questo nome sollevò timidamente gli occhi ancora
smarriti, in volto a chi gli parlava, e rispose con voce tuttavia
tremante:

— Son io, Gian-Luigi.

Questi allora si volse alla frotta dei cenciosi che facevano cerchia
dietro di lui e disse loro con accento di comando:

— Andate a' vostri posti. Quell'animale di Marcaccio ha preso
Sant'Antonio per un tedesco.

— _Che_ scusi: ripeteva l'ubriaco affine di difendersi: l'animale è
stato qui, mastro Pelone... Io non ci pensava neppure... Egli è stato a
venirmi susurrare...

— Sei un fiero cocomero: interruppe l'oste colla sua voce cavernosa; io
non ho fatto che consigliarti la prudenza, e tu...

— Basti! Comandò Gian-Luigi con tono che non ammetteva altra ribattuta.
E tu, soggiunse volgendosi a colui che aveva chiamato Maurilio, poichè
ti trovo, sii il bengiunto. Vieni qui meco un istante, che ho giusto
assai piacere di parlarti.

I bevitori erano tornati al loro desco, rassicurati compiutamente dalla
parola di colui che essi chiamavano il _medichino_, il quale pareva
esercitare su tutti coloro una non contrastata autorità.

All'invito di Gian-Luigi, Maurilio si alzò; era sempre pallido, e le
gambe gli tremavano ancora; ma il suo sguardo aveva già ripreso
quell'espressione di superiorità che davagli l'intelligenza.

— Aspettami qui, diss'egli al ragazzo, il quale era tornato ai suoi
voraci bocconi; e intanto mangia finchè te ne basta l'appetito.

S'avviò, preceduto da Gian-Luigi, verso la stanza vicina, dell'uscio a
vetri. Quando furono per entrarci, il _medichino_ si volse a coloro che
gli erano compagni là dentro e che parevano volervelo di nuovo seguire.

— State qui: disse loro seccamente. Ho da parlare con questo signore.

Tutti si fermarono colla più sommessa obbedienza.

Maddalena insinuò amorosamente il suo braccio su quello di Gian-Luigi e
facendo vezzucci e boccuccia gli domandò:

— Ho da portarvi qualche cosa da bere?

— Non seccarmi, curiosona che sei: disse con impazienza il _medichino_;
ma poichè vide la ragazza lasciar cascare il braccio e chinar la testa
tutta mortificata: — via via, soggiunse ridendo, non mettermi il
broncio, Lenuccia. Tosto che avrò finito di discorrere con quest'amico,
ti chiamerò.

E per placarla di meglio, le passò un braccio attorno alla vita, e le
diede un bacio che le fece sbocciare sulle labbra il più lieto sorriso.

Pochi videro quest'atto, e di questi pochi uno fu il garzone dell'oste.
Meo, il quale stava sempre colla testa fuori della botola a guardare.

Alla vista del bacio dato da Gian-Luigi a Maddalena, la faccia da scemo
di Meo si contrasse violentemente in modo che dinotava sdegno e dolore
profondissimi, ed un sospiro cupo e soffocato gli uscì dal petto, uguale
a quello di chi avesse ricevuto una trafittura nel cuore.

La testa di Meo scomparì giù nella botola; ma chi fosse stato colà
avrebbe sentito il povero diavolo borbottare fra i denti.

— Ah quel Gian-Luigi!... Se potessi mai fargliela pagare!.... Ed anche a
lei!.... Mi costasse un occhio della testa che sarei contento.

I due giovani entrarono nella camera dall'uscio a vetri, e Gian-Luigi
chiuse accuratamente la porta dietro a sè.

Il fuoco fiammeggiava sempre allegramente nel caminetto. Pur tuttavia il
_medichino_ prese una brancata di ramoscelli secchi e due pezzi di legna
e ve li gettò sopra ad accrescere la vampa.

— Siedi, egli disse poi a colui che ora sappiamo chiamarsi Maurilio: ed
egli stesso, presa una seggiola e postala innanzi a quella su cui s'era
messo il compagno, vi si assettò a cavalcioni, appoggiando le braccia
alla spalliera. Mio caro Maurilio! Continuò Gian-Luigi. Con quanto
piacere ti rivedo! Oltre che tu mi ricordi la nostra infanzia, è da
qualche tempo che sto pensando a te, perchè..... sarò schietto.....
perchè da qualche tempo il mio animo, la mia risolutezza hanno bisogno
del tuo cervello, ch'io so valere assai più del mio, e di quanti altri
forse stanno sotto la calotta del cranio degli uomini che vivono oggidì.

Maurilio aveva accavallate le gambe l'una sull'altra ed appoggiando al
ginocchio superiore il gomito destro faceva sorreggere alla mano la sua
grossa testa reclinata, guardando acutamente, di sotto alle dita tese a
paralume, l'interlocutore che gli stava dinanzi.

Alle parole di quest'ultimo che or ora ho riferite, le labbra di
Maurilio si contrassero ad un sottile sorriso in cui c'erano malizia,
ironia, una lieve tinta di scherno; ma non una parola fu da lui
pronunziata.

La fronte di Gian-Luigi si rannuvolò alquanto e comparve leggermente
accennato in mezzo alle sue sopracciglia il solco di quella ruga che ho
detto. Fissò i suoi occhi ardenti in quelli di Maurilio, ma lo sguardo
di quest'esso non si chinò nè sminuì punto di luce e di fermezza.

Stettero così un istante come due lottatori che si osservano a vicenda
per conoscere l'un dell'altro le forze e l'abilità, e sapersi regolare a
seconda.

Il _medichino_ fu il primo a chinare lo sguardo. Trasse di tasca un
elegante astuccio di sigari che contrastava stranamente co' suoi abiti
da plebeo, ed apertolo tese la mano verso il compagno:

— Fumi?

Maurilio scosse la testa in segno negativo senza disserrar le labbra.

Gian-Luigi scelse con cura un sigaro nell'astuccio, ripose questo in
tasca, chinatosi al fuoco prese uno dei ramoscelli fiammanti ed accese
il sigaro che s'aveva posto fra i denti. Ma in questo frattempo e
durante questi atti compiti con garbo che pareva d'uomo avvezzo alle
maniere signorili della più elegante società, si sarebbe potuto notare
in lui una certa preoccupazione, come di chi sia incerto del modo di
affrontare un discorso e vada fra sè studiando il migliore.

Del resto era cosa degna di nota il cambiamento che, appena varcata la
soglia di quella stanza, era avvenuto in que' due e fra quei due
personaggi, che sono i principali della storia, la quale sta per
isvolgersi innanzi a noi.

Nello stanzone precedente, in mezzo a quella folla concitata e
minacciosa, là dove la forza dei muscoli e il coraggio fisico avevano il
predominio, Maurilio appariva inferiore, debole, l'ultimo di tutti, e le
superbe sembianze del robusto Gian-Luigi che colla sua forza e colla sua
ardimentosa risoluzione ne imponeva a tutta la turba colà raccolta,
potevano a ragione assumere quell'espressione che abbiamo notata di
protezione e di compassione altezzosa; ma ora qui, fronte a fronte,
questi due esseri in cui fortemente era impressa una diversa e ben
definita personalità, nel colloquio da Gian-Luigi provocato, qui dove
non più la forza muscolare in un contrasto materiale, ma era in giuoco
il valore intellettivo in una che ambedue gli attori sentivano dover
essere scherma di propositi e di idee, qui le apparenze della
superiorità erano passate dalla parte della vasta e travagliata fronte,
del volto scarno e pallido ma intelligentissimo di Maurilio.

Fu Gian-Luigi a rompere il silenzio, poichè ebbe avviato per bene il suo
sigaro, mandando fuori rapidamente dalle labbra tre o quattro dense
nuvole di fumo.

— Quanti anni sono che non ci siamo più visti?....

— Sei, rispose asciuttamente Maurilio.

— Tò gli è vero. Avevo allora vent'anni, ed ora ne conto presto
ventisette Mah! come il tempo passa!.... Tu ne avevi diciotto allora,
non è vero?

Maurilio fece un segno affermativo col capo, conservando sempre la sua
medesima positura.

— E' mi pareva un secolo che noi eravamo divisi: riprese Gian-Luigi;
eppure ora nel rivederti mi torna ad un tratto come se ieri ancora noi
fossimo insieme.... E tu? Mi hai tu dimenticato, Maurilio?

— No: disse quest'ultimo.

Gian-Luigi avvicinò ancora di più la sua alla seggiola del compagno, e
tendendogli la mano soggiunse:

— Noi abbiamo vissuto nei primi anni come fratelli..... La nostra sorte,
le nostre condizioni sulla terra sono le medesime. Perchè non ci
uniremmo noi nel cammino della vita?

Maurilio pose freddamente la sua grossa mano in quella che gli tendeva
Gian-Luigi (una mano elegante, quasi potrebbe dirsi aristocratica, di
cui si vedeva il suo possessore averne gran cura); ma non tardò a
ritrarnela senza pure avere corrisposto alla stretta di quella del suo
compagno.

— E tua madre? Disse ad un tratto Maurilio piantando più acutamente
ancora il suo sguardo negli occhi del _medichino_.

La domanda parve a quest'ultimo non molto gradita. La faccia di lui si
contrasse alquanto con un'espressione di malavoglia a cui tosto successe
una sdegnosa impazienza, cui però fu sollecito a frenare.

— Mia madre! Rispose egli, chinando gli occhi innanzi a quelli del suo
interlocutore. Chi chiami tu mia madre?.... Sai bene che al par di te io
sono un misero derelitto, cui trovarono soverchio peso i genitori e
condannarono infamemente all'ingiusta infamia della condizione di
trovatello.... Oh gli scellerati! Quante volte li ho già maledetti, e
quante volte ne li maledirò.... e non finirò mai di maledirli fin che io
viva!...

Maurilio sollevò la testa e drizzò la persona con nobile mossa.

— Non maledire nessuno! Esclamo egli con accento pieno d'autorevolezza e
di forza. Che sai tu, che sappiamo noi se abbiamo il diritto di
maledire?

Gian-Luigi si tolse il sigaro che masticava rabbiosamente fra i denti e
lo gettò con impeto fra le fiamme del caminetto. Percosse con una mano
la spalliera della sua seggiola su cui si appoggiava, e proruppe con
vivacità che s'accostava alla violenza:

— Sì l'abbiamo, per Dio! Perchè i nostri genitori ci hanno lanciati nel
mondo con questa macchia di disonore sulla fronte?... Trovatello!...
Avessi tu il maggior ingegno, non potrai nulla, non sarai nulla, non
perverrai a nulla mai, perchè sei un trovatello. Oh che abbiamo noi da
portare così grave il peso e l'espiazione — noi innocenti — della loro
colpa?

— E se fosse della miseria? Interruppe con voce grave Maurilio. Tu sai
pure che cos'è la miseria! Tu l'hai vista faccia a faccia.... Non so ora
come tu stii con essa, e se hai trovato nelle forze della tua
personalità che sempre ho conosciute molte e potenti, il mezzo e la
fortuna di far divorzio completo con quella scarna Dea della plebe; pur
pure la ti fu compagna e scorta nei primi passi della vita... Non
dovresti aver dimenticato a quali crudelissime strette ponga questo
orribil flagello un'anima umana... Ah! io ne ho conosciute di queste
madri nella corta ma avvicendata commedia della mia vita; ne ho
conosciute di queste madri che col coraggio disperato con cui uno si
lacera le proprie viscere, si separano dal sangue del loro sangue, dal
nato dal loro seno, dall'unico amore, dall'unica gioia della loro vita
di stenti, perchè non hanno più un boccone di pane da farne una goccia
di latte pel figliuol loro.... Chi, chi su questa terra avrebbe la
crudeltà di maledirle?

Maurilio parlava lentamente, con voce contenuta e direi quasi rimessa e
sorda; ma in alcuni tratti quella voce velata vibrava in istrana maniera
e si imprimeva d'un certo affetto onde lo ascoltatore difficil era non
rimanesse commosso.

Ma però tale non rimase Gian-Luigi, che colla medesima concitazione di
prima proruppe nuovamente:

— E se non han pane da dar loro, perchè mettono al mondo figliuoli?

— Gian-Luigi! Esclamò con infinito rimprovero Maurilio.

Il _medichino_ rimase alquanto percosso nell'anima dall'accento del suo
compagno; frenò fra i denti una bestemmia e si morse con atto pieno di
contrarietà i neri baffetti che gli ombreggiavano assai leggiadramente
il labbro superiore.

— Ebbene, sia: diss'egli poi. Abbiano, non dirò il perdono, ma men
severa condanna od anche l'oblio coloro cui spinge a questo scellerato
passo la miseria. Ma se tu pensi che tale possa essere il motto
dell'infelice destino a cui ti condannarono quelli che incautamente o
colpevolmente hanno chiamato nel tuo corpo un'anima a dolorare in questa
infame lotta fratricida della vita, io di me non lo penso, io di me
sento che così non è. Il perchè e il come non saprei dirteli; ma sono
sicuro che altra più rea cagione ha fatto imperdonabilmente colpevoli
verso di me coloro che mi hanno data la esistenza.

Si alzò e incrociò le braccia al petto, piantandosi in tutta la venustà
e l'imponenza della sua persona innanzi a Maurilio.

— Guardami! Diss'egli con superba sicurezza, la quale non appariva a chi
lo guardasse che la giusta coscienza di sè medesimo. Ti sembro io il
figliuolo d'un plebeo? Queste forme, queste membra, queste sembianze non
dicono esse che un sangue gentile scorre nelle mie vene? È il grido che
esce spontaneo dalle labbra di tutti, appena mi vedono; è il motto che
fin dalla mia culla mi suonò all'orecchio sulla bocca d'ognuno che mi
incontrasse: — e' pare il figliuolo d'un principe. Vedi tutti quei
miserabili che s'accalcano nella stanza di là, ignobili di forme, di
gusti, di pensieri. Quelli sono i figliuoli della miseria, non io!.... A
contatto con loro, non ebbi mestieri che di volere, e mi si prostrarono
innanzi, che di comandare, e mi obbedirono come servi. Perchè? Perchè mi
sentirono d'una razza a loro superiore E queste aspirazioni, questo
rabbioso anelare verso tutto ciò che è bello, tutto ciò che è splendido,
tutto ciò che è grande? Oh! non è forse l'essere mio che tende a
quell'altezza che gli compete?

Maurilio mirava fisso il suo compagno con isguardo freddo sempre,
osservatore e severo.

— Questo, diss'egli col suo solito accento, è l'agognare dell'anima
umana alla gioia ed al piacere che le sfuggono a mano a mano dinanzi. Tu
hai forse posto più in alto la mira perchè le circostanze ti fecero
capace di apprezzare altri diletti nella vita che quelli non sono, i
quali appariscono alla ignorante fantasia della plebe; ma il sentimento
è quel medesimo che poc'anzi informava le parole di quell'ubbriaco
Marcaccio quando voleva indurre il suo compagno a bandire la guerra ai
ricchi col latrocinio.

Gian-Luigi si riscosse come tocco da un ferro rovente: il solco della
ruga frontale apparve in mezzo alle sue sopracciglia.

— Che di' tu? Che sai tu? Prorupp'egli con fierissimo impeto. Mi
metteresti a mazzo con quei bari e ladroncelli?

— Io non so nulla: rispose Maurilio sostenendo lo sguardo acceso del suo
compagno. E ad ogni modo mi guarderei bene dal porre te al loro livello
ed essi al tuo. Tu nell'oblio del dovere e nel disprezzo della legge
avresti a mille doppi maggiore che non essi la colpa, perchè tu sai, ed
a loro la profonda ignoranza è scusa.

Il _medichino_ parve prossimo a cedere ad uno di quegl'impulsi dello
sdegno che spingono alla violenza; divenne in volto del color del fuoco,
le labbra gli tremarono e gli occhi balenarono d'una luce sinistra; ma
con uno sforzo della sua volontà potentissima si contenne. Mandò
un'esclamazione che pareva una specie di ruggito mozzicato fra i denti,
e levatosi a forza dal luogo dove stava piantato, fece due o tre giri
per la stanza; poi tornò presso il caminetto, trasse fuori un altro
sigaro e lo accese con tutta pacatezza.

Maurilio aveva ripreso il suo atteggiamento abbandonato e come stracco;
tornava a sorreggere colla mano il capo che avreste detto essergli
grave; e seguitava a guardare Gian-Luigi colla stessa attenzione
osservativa; se non che un po' di compassione pareva ora congiungersi al
sentimento scrutatore di prima.

— Io so, io so! Disse Gian-Luigi. Appunto perchè so, grido contro
l'ingiustizia dell'assetto sociale e contro la barbarie di chi mi ha
abbandonato povero e solo in questa empia lotta del mondo dove non vince
che il danaro.

Maurilio tacque un istante, poi replicò, e col medesimo accento di
prima, la domanda che già avea fatta poc'anzi:

— E tua madre?

— Ancora! Esclamò il _medichino_ con una bestemmia. Tu chiami con questo
nome la donna che mi raccolse?

— Sì, perchè questo santo nome la se lo merita. Quella povera donna ti
ebbe ad allattare dall'ospizio, ma ti pose vero amore materno. Ti allevò
come suo, tutta si sacrificò per te, come se tu fossi proprio suo
sangue. Quante volte la non si è tolto essa lo scarso boccon di pane
dalle labbra per darne a te, per soddisfare alcuno dei tuoi infantili
desiderii, e più tardi dei tuoi giovanili capricci! Or bene, che cosa
hai tu fatto di questa povera donna sublime? di questa ignorante ma
generosa creatura cui la Provvidenza, o se ti piace meglio il fato ha
posto sugli ultimissimi gradini della scala sociale e il cuore invece
alloga fra le più elette del genere umano? La tua condotta fieramente ti
accusa.....

— Come! Interruppe impetuosamente Gian-Luigi. Chi ti ha parlato di me?
Chi mi accusa? Che ti fu detto?

Maurilio pose una di quelle sue grosse manaccie sulla spalla del
compagno, e gli disse con accento mesto insieme e grave, come potrebbe
avere per un fratello un fratello maggiore, quasi direi per un figliuolo
un padre.

— Gian-Luigi, io t'ho amato molto, ed alcune volte nella solitudine in
cui vivo, riandando il passato, le poche dolci memorie che ho di esso mi
richiamano te alla mente, quale hai meco vissuto allora; e parmi
sentirti nel medesimo luogo tuttavia entro il mio cuore. Al cominciare
di questo colloquio tu hai fatto appello a cotali ricordi, ed io, a
dispetto della freddezza, dell'assoluta indifferenza che mi ero imposta
di aver sempre omai a tuo riguardo.....

Il _medichino_ sussultò sulla sua seggiola.

— Ma perchè? Dimmi in nome di Dio ciò di cui mi accagioni.....

— Lasciami parlare, e lo saprai: continuò col medesimo accento Maurilio.
A dispetto adunque di cotal risoluzione io nell'udirti parlare della
nostra infanzia, provai nell'animo un intenerimento che mi fece di nuovo
rivedere in te il fratello d'un tempo; quindi, se prima era mio pensiero
non dirti pure una parola di quelle cose che ora ti esprimo, determinai
di botto favellarti a cuore aperto. Tu accennasti a quel tempo, non dirò
felice, ma certo meno angosciato e men tristo — almanco per me,
quantunque di molto, come sai, mi toccasse soffrire. Ma poichè tu li
abbandonasti quei luoghi in cui passarono i nostri anni primi, e li
abbandonasti per l'agonia di godere le abbaglianti delizie mondane che
il villaggio non ti poteva dare, per arraffare alla sorte la tua satolla
di gioie della vita cittadina, le quali da lontano, traverso la nostra
ignoranza, ci apparivano quali al viaggiatore nel deserto la crudele
illusione della Fata Morgana; dacchè li abbandonasti quei luoghi, hai tu
cercato mai di rivederli? Io ne ho sentito tante volte, io ne sento
continuamente il bisogno. Quando ho il petto troppo affannato da questa
pesante atmosfera cittadina, quando ho l'animo troppo amareggiato dallo
spettacolo di queste miserie e di questi dolori; quando ho le mie deboli
membra troppo stanche da questo oscuro lavoro che mi dà scarsamente il
pane, io con più intensità di desiderio anelo alla bellezza di quel
soggiorno villereccio in cui primamente si ricordano d'aver visto la
luce i miei occhi, in cui primamente sentii pensare il mio cervello.
Allora, con più accanito lavoro da una parte e con maggiori privazioni
dall'altra, tento raccozzare il pane di pochi giorni di ozio, e una
volta guadagnato questo per me grandissimo capitale, io mi sento, io
sono ricco, più ricco di messer Nariccia che anche tu conosci e accumula
_marenghi_ sopra _marenghi_ pressurando il povero coll'arte infame
dell'usuraio; io parto con passo animoso dalla città, e corro, corro
verso quella valle, e a seconda che di qua mi allontano, sento più
libero il rifiato, più aitante il corpo affralito, più serena la mente,
troppo spesso e troppo conturbata. Allorchè là son giunto, con che
emozione rivedo quei conscii luoghi! La misera casipola dove vissi vide
pure molte mie lagrime di fanciullo; anzi quasi non altro che lagrime: e
tuttavia non passo mai davanti ad essa senza che il cuore mi palpiti. Mi
soffermo sulla soglia della porta di strada a guardar dentro lo stretto
e sempre sucido cortile, in cui nel fimo razzolan le galline, in cui
presso il truogolo grugnisce e s'impantana nella melma il maiale; vedo
la scura, bassa, angusta, affumicata cucina, e in fondo ad essa il
camino, entro cui nelle lunghe serate d'inverno io, accoccolato nel
cantuccio più rimoto, guardavo a brillare la fiamma che cuoceva la poca
cena e tutto intirizzito dal freddo fissavo quello splendore con
infinita intensità di desiderio; il petto mi si gonfia di sospiri e gli
occhi di lacrime..... E passo! Nessuno più mi conosce colà. Quelli che
mi tormentavano e mi davano quel poco di pane amarissimo che mi teneva
in vita, non ci sono più. Delle faccie sconosciute mi appariscono in
quel quadro. Eppure mi commuovo. Oh! se alcuno mi vi avesse amato come
ti amò la Margherita!.....

Gian-Luigi fece un movimento che Maurilio attribuì all'impazienza.

— Non isdegnarti..... Disse. Io son fatto così: o non dir nulla, o dare
pieno sfogo ai miei sentimenti. Poichè ho cominciato, lasciami dunque
dire a mia posta.



CAPITOLO VI.


Dopo una brevissima pausa, Maurilio riprese:

— Ah! se alcuno mi avesse amato, ah! se alcuno mi amasse colà! Quando
respiro quelle aure, io divento migliore. Anche colà, certo, sono e
miserie e dolori, ma l'umanità vi è men trista e la fatalità meno
crudele che non nei bassi fondi della cittadinanza, dove s'agglomera il
marame della massa sociale; ma colà vi ha pure una specie di egloga in
azione che la natura pietosa manda come una consolazione al diseredato
della gleba. La campagna ha il sole, ha la primavera, ha le feste sane e
moralizzatrici, del lavoro sotto la cappa del cielo, la fienatura, la
messe, la vendemmia.... Avessi potuto essere un coltivatore e maneggiare
l'aratro! Presso la spica e presso il grappolo ad ogni modo si soffre
meno. Qui in questa bolgia di fango, sotto una cappa di nebbia, la
miseria è più crudele, senza pure il temperamento della dolce vista del
paese..... Io mi reco sempre al cimitero. Non ci ho nissuno di mio
sangue che dorma là dentro; si consumano in quella terra le ossa di
coloro che hanno tormentata la mia infanzia. Non un affetto che mi leghi
alle ombre di quei morti. Eppure, io siedo con mesta e dolcissima
tenerezza su quei tumuli e il vento che geme sommesso fra le alte erbe
di quel campo solitario, mi canta in una grave armonia mille cose
inesplicabili che mi scendono al cuore e mi accarezzano l'anima. Poscia
vado alla chiesa parrocchiale, dove la mia voce di fanciullo suonava
sotto la volta del coro nel canto degli inni sacri, dietro la guida
della voce ancora robusta di don Venanzio. L'hai tu dimenticata la testa
canuta e grave di quel buon vecchio, vero sacerdote del Vangelo? Ecco
l'uomo che io ho amato di più nell'infanzia, che mi amò come amava tutti
al mondo, ch'egli comprendeva sotto il nome di prossimo, che mi avrebbe
forse amato anche di più, quasi come un figliuolo, se non avesse visto
la mia ragione, forse il mio orgoglio ribellarsi a quella schiavitù
ch'egli portava da tutto il tempo della sua vita e porta tuttora,
ch'egli trovava dolce e che voleva impormi, la schiavitù della fede.

Gian-Luigi fece un sorriso di superba compassione.

— Quel povero vecchio! Diss'egli. Oh! se me lo ricordo. Fra tutti i
bambini ch'egli pigliava ad istruire per carità, non aveva tardato ai
accorgersi che noi due, tu ed io, avevamo nel cervello qualche cosa di
più che gli altri. Si mise con più cura a svegliare in noi quell'ingegno
che aveva travisto e voleva rivolgere a benefizio della Chiesa, a cui
egli appartiene. Il buon uomo aveva sognato di fare di noi due difensori
della fede; quando vide che quella non era la nostra strada, forse si
pentì d'averci tolti all'ignoranza. Mi ricordo che l'ultima volta in cui
lo vidi, mi disse con doloroso abbattimento: Credevo di guadagnarvi a
Dio; aimè! vi ho guadagnato al Demonio.

— Io ho per lui la maggior gratitudine che possa avere anima d'uomo:
ripigliò a dire Maurilio. Per lui ha incominciato a stenebrarsi la mia
mente. Quando entro, come ti dissi, in quella chiesa, che da bambino mi
pareva così vasta e solenne, ed ora trovo qual è, niente più che
un'umile e piccola chiesuola di campagna, io vado a sedermi nel coro,
sopra uno di quei banchi di legno rozzamente scolpito, dei quali un per
uno ho contati e toccati ed accarezzati tante volte i fiorami nelle ore
del catechismo e delle sacre funzioni, mi serro nelle mani la testa, e
tutto il mio passato mi difila dinanzi, illuminato dal sorriso mesto e
benigno di don Venanzio. E talvolta, alzando il capo, me lo vedo in
faccia lui stesso, sempre colla sua aria serena, colla sua bella aureola
di capelli bianchissimi, col mite e pietoso splendore de' suoi limpidi
occhi azzurri, che nella silenziosa solitudine di quel povero tempio, mi
appare come il buon genio del luogo. Ad ogni volta egli mi viene
incontro con una speranza che gli rallegra il viso:

«— Ah! Siete voi Maurilio? Dic'egli. È la mano di Dio che qui vi ha
scorto? È la grazia che vi ha tocco? Nei luoghi della vostra infanzia
siete venuto a cercare ed avete trovato la fede?

«Io crollo tristamente la testa; egli china con doloroso atto la sua,
lascia cader la mano che mi tendeva, ed esclama: — Siate il benvenuto,
nulla meno nella casa di Dio ed in quella del suo servo. Un giorno
verrà, io spero, in cui l'anima vostra sarà riacquistata a quella
divina, che lega la miseria della creatura alla grandezza del creatore;
e mi conceda Iddio che in quel dì io sia ancora sulla terra e possa
accogliervi nelle mie braccia.

— Eh! Fole! Esclamò Gian-Luigi sprezzosamente. Quel giorno saresti
rimbambito al par di lui: e non è dei caratteri e degli ingegni come i
nostri che si lasciano pigliare a ragne da femminette.

Maurilio aspettò un istante, e poi soggiunse:

— Ad ogni volta don Venanzio mi parla pure di te.

— Sì? Benone! Gli è desso dunque che mi accusa, ci scommetto. Che cosa
ti dice?

— La sera, rispose Maurilio, quando le ombre invadono quella chiesa
deserta, quando non un passo turba più il silenzio sepolcrale di quelle
volte, quando non un bisbiglio di preghiera s'innalza più innanzi
all'altare, una forma di donna che lentamente ed a fatica si strascina,
viene a gettarsi ai piedi della statua della Vergine. Il debole lumicino
che pende dall'arco della nicchia, colla sua fioca luce illumina il
corpo curvo, affranto, miseramente vestito, d'una vecchia inferma. Tutto
bianchi i capelli, tutto rughe la faccia il pallore del bisogno e della
malattia sulle guancie, il rossore delle lagrime negli occhi mezzo
ciechi, gli strappi della miseria intorno alla persona, i segni della
fame nella magrezza dolorosa delle membra che tremano. Se tu fossi colà,
udresti delle preci mormorate con quella passione che dinota il
trasporto dell'anima, tutta tutta intesa in un pensiero, poi sospiri
profondi, poi singulti di pianto che straziano l'anima.

«— Sai tu chi è quella infelice? Mi disse, con voce commossa don
Venanzio, allorchè me l'ebbe mostrata fra le appena rotte tenebre della
chiesa. È una povera derelitta cui Dio ha concesso le più fiere prove di
purgatorio in questa vita terrena. Non ha che cinquant'anni, ma la
sciagura glie ne dà sessanta: fu povera sempre, oggi è poverissima.
Quando era giovane aveva le forze del suo corpo robusto per lottare
colla miseria; ora attempata e malaticcia soffre il freddo, soffre la
fame, soffre l'abbandono di tutti, e vive d'elemosina, e razzola nelle
spazzature i rifiuti degli alimenti altrui. Odi la sua storia.....»

Gian-Luigi si agitò sulla sua seggiola.

— Odila anche tu, soggiunse Maurilio con un accento di autorevolezza che
parve imporne al suo compagno. «Era moglie d'un onesto taglialegna;
campavano allegramente contentandosi di poco, procurandosi il tozzo di
pane inferigno con un lavoro indefesso d'ogni giorno. Ella restò madre.
Era un sopraccarico alla loro povertà; ma essi lo accolsero come una
ventura, come un regalo di Dio. Però il suo figliuolo non visse e le più
amare lagrime sparse la buona donna sul corpicino estinto di quella
creatura che era venuta a farle conoscere le sublimi gioie della
maternità, e poi erasi tostamente da lei dipartita. Alcuno consigliò al
taglialegna di trar profitto della circostanza ed accrescere con qualche
baliatico le loro misere fortune. Ma erano così poveri! Chi avrebbe
consegnato suo figlio agli abitatori di quella capanna che pareva il
soggiorno del bisogno? Non ne trovarono di genitori a cui bastasse la
fama dell'onestà loro. «Dirigetevi all'ospizio dei trovatelli; loro
disse ancora qualcheduno; colà troverete di sicuro uno di quei poveretti
ad allevare.» Così fecero, e riuscirono. La buona donna ritornò alla sua
casipola trionfante, stringendo amorosamente al suo seno il più bel
fanciullo che possa veder occhio d'uomo. Le pareva che il cielo pietoso,
commossosi alle sue lagrime, le avesse restituito suo figlio. Tutto
l'amore che aveva sentito per quell'angioletto morto, lo raccolse sopra
questo nuovo bambino mandatole dal cielo, a cui dava col suo latte la
vita. Sì, ella sentiva di farlo suo ogni giorno più, ella sentiva un
legame indissolubile, come quello del sangue, congiungere le intime sue
fibre alla esistenza della creaturina che viveva, che cresceva, che ogni
dì facevasi più bella per lei. Prima lavoravano indefessamente, i due
poveri villani, solo per guadagnarsi il pane; ora si posero a lavorare
con più accanimento per avere oltre il pane anche un po' di agio da
circondarne la culla del bambino loro mandato dalla sorte.

«Ma un giorno fatale una orrenda disgrazia percosse quella povera
famiglia. Il marito di quella donna sradicando un albero restò sotto al
tronco di esso che precipitò troppo presto. Portarono alla sua casipola
il misero taglialegna fatto cadavere. Non parliamo del dolore
dell'infelice donna; essa era sola oramai al mondo per guadagnare il
pane a sè ed alla creatura che aveva fatta sua; e quanto poco si paga il
lavoro d'una donna nelle campagne! Dopo aver pianto tutte le sue
lagrime, la buona Margherita non si smarrì di coraggio; affrontò
fermamente le maggiori prove del suo nuovo stadio di vita. Il bambino
era svezzato da tempo dal latte e l'ospizio non pagava più il baliatico.

«— Restituitelo alla pia casa: consigliarono i prudenti alla brava
donna. Non ne avete abbastanza per mantenervi voi, e volete stracciarvi
le cuoia a tirar su un figliuolo che in fin dei conti non vi è nulla di
nulla?

«— Non mi è nulla? Esclamava essa quasi con isdegno. E' mi è tutto. Ho
lui solo al mondo. E poichè l'amo tanto ed avrò tenuto cura della sua
infanzia, egli mi amerà anche un poco, e consolerà la mia vecchiaia.

«Alcuno più previdente soggiungeva:

«— Eh! prima che quel bambino sia cresciuto di tanto da potervi rendere
in alcun modo i sacrifizi che fate per lui, voi avete tempo a crepar di
miseria; e ancora chi vi dice che non vi alleviate in seno la serpe d'un
ingrato?...»

A questa parola Gian-Luigi si riscosse, ma non parlò, non interruppe
nemmeno con una voce. Si curvò verso il fuoco, prese le molle e si pose
a battere con esse sui tizzoni che ardevano.

Maurilio continuava:

«— Voi siete ancora di buona età. Margherita, le dicevano inoltre, e
siete conosciuta da tutto il paese per una donna onestissima e la più
tenace e forte al lavoro. Quel mezzaiuolo che vi sposasse farebbe un
buon affare, e ne troverete di sicuro di quelli che vi cercheranno.
Avrete una nuova famiglia e più agiate condizioni di prima; ma per ciò
vi farà danno l'imbarazzo di quel figliuolo che non è vostro.

«La buona Margherita scrollava le spalle,

«— Ed io vi dico, soleva rispondere, che se c'è qualche galantuomo che
mi voglia, avrà da prendermi col mio Giannino, o lasciarmi stare: ecco!
Che io non cerco più altro, e se il far da padre a questo poveretto
spaventa la gente, bene, tirino diritto, che io non ho bisogno di
nessuno e il mio piccino mi basta.

«Coloro che facevano queste osservazioni alla donna ebbero ragione.
Alcuni l'avrebbero sposata volentieri, ed ella stessa fra questi avrebbe
trascelto uno volentieri assai: ma anche questo preferito non volle
sopracaricarsi d'un trovatello, maggiore e non dovuto aggravio alla
famiglia. Margherita non esitò neppure un momento. Sacrificò la sua
propensione, mandò a spasso tutti i pretendenti; si tenne il ragazzo.

«La storia di costui non occorre dirla. Egli parve tale da dover
compensare d'ogni cosa la madre adottiva. Lui bello, lui forte, lui
primo a tutti in tutto. Il parroco prima lo istrusse; poi il vecchio
medico del villaggio, innamorato dell'ingegno e della grazia nativa del
trovatello, il prese con sè, lo fece studiare, lo mandò all'università;
volle preparare in esso il suo successore. Ma questa sorte, che tutti
dicevano fin troppo bella pel giovane senza nome, sembrò a lui meno
degna ed inferiore ai suoi meriti, all'audacia de' suoi desiderii. Il
medico morì ad un tratto prima che il giovane avesse finito i suoi studi
professionali; e d'allora in poi questo giovane mai più non fu visto al
villaggio. Qual vita fu la sua? Che fece? che fa? quali sono i suoi
mezzi di sussistenza e i suoi guadagni? Questo è un mistero che io non
voglio, nè posso penetrare; ma si buccinò che fosse visto in ricchi
panni nelle case dei ricchi, che la sua vita corresse splendida nelle
più splendide sfere della società torinese; ma lo vidi io stesso un
tempo vestito da elegante far l'elemosina d'una raccomandazione alla mia
povertà assoluta. Se egli trovò mezzo col suo onesto lavoro di
riscattarsi dalla miseria, ben sia di lui; ma che dirà ogni uomo di
cuore quando sappia quella povera donna che piange e prega la sera nel
tempio, lasciata sola sulla terra, nella più dolorosa miseria cui non
può vincere più il lavoro, quella povera donna essere la raccoglitrice,
la benefattrice, la madre di questo giovane che ora vive colle apparenze
della ricchezza?»

Gian-Luigi, che era sempre stato curvo sul fuoco a percuotere i tizzi,
si drizzò della persona, gettò via le molle e proruppe con impeto:

— Dove le vedi, tu ora codeste apparenze? Guarda quali panni mi vestono!
E che sai tu altro di me? Non ti dice questo povero abbigliamento che io
forse mi guadagno con istentato lavoro la vita?

— Forse! esclamò Maurilio con una strana espressione nell'accento.

Gian-Luigi volse vivamente il capo verso il suo compagno, e i suoi occhi
neri e brillanti si piantarono in quelli di Maurilio.

— Insomma, diss'egli, che conto debbo io renderti dei fatti miei?

— Nessuno: rispose freddamente Maurilio.

— E se qualcuno, e se tu stesso mi hai visto in mostre signorili, tu hai
detto giusto, erano apparenze, apparenze e non altro. Dovresti ricordare
quel che ti dissi un dì in casa l'usuraio Nariccia. Sotto i panni da
ricco, nelle sale eleganti della società, tu non sai quanta miseria si
possa molto volte nascondere! Tu non sai come chi piglia delicatamente
coi guanti color di burro un pasticcino ed un sorbetto in una festa di
danza possa avere lo stomaco incavato da due giorni di digiuno... Non ti
dico neanche che questo sia il mio caso: soggiunse vivamente; ma pure
che sai tu s'io possa o non possa mandar soccorsi a quella donna? forse
tu pensi che io doveva tutto sacrificare l'avvenire della mia vita, a
tutti rinunziare de' miei desiderii, delle mie aspirazioni, per morire a
lento fuoco nel misero lezzo di quella capanna dov'essa mi aveva
accolto? Lo poteva io? Lo doveva fors'anche? No, no, no. L'acqua può,
deve cessar di scorrere alla china? La fiamma di innalzarsi al cielo? È
un'assurda impossibilità. La mia natura mi chiamava, mi spingeva, mi
voleva ad ogni costo in questo mondo: non potevo resistere, sarei morto,
facendolo. E d'altronde quella donna è forse mio sangue?...

— E qualche cosa di più: proruppe con forza Maurilio; e disgraziato te,
se non lo comprendi.

Gian-Luigi accennava voler rispondere alcun che: ma in quella entrò
precipitosamente la Maddalena, la quale pronunciò sommessamente alcune
parole all'orecchio del giovane. Questi mandò un'imprecazione e si levò
sollecito.

— Addio Maurilio: disse in tutta fretta. Va di là, ti prego... Ma il
nostro colloquio non è finito, e verrò io a cercare di te per parlare
con più agio. Dammi il tuo indirizzo.

Maurilio trasse fuori una cartolina su cui era scritto il suo nome e il
luogo della sua dimora, e glie la diede.

— Sta bene.. Non parlare di me, non dire che qui mi hai veduto, nè
alcuna cosa mai con nessuno al mondo del mio passato, te ne prego.....
Se mi vedrai in altri luoghi sotto ben diverso aspetto, non riconoscermi
neppure, se non son io a parlarti per primo... e non far troppo tristi
giudizi di me. — Ora va.

Maurilio ubbidì. Sul passo dell'uscio a vetri, si imbattè in un uomo a
faccia volpina che entrava.

Era vestito da povero operaio ancor esso, ma aveva alcun che di losco e
di dissimulato nella fisionomia e nello sguardo. Il suo occhio
scrutatore corse ratto per tutta la stanza in cui entrava.

— Che? Diss'egli. Non c'è nessuno. Credevo di trovar qui tutti i posti
occupati.

Lo sguardo di quest'uomo esaminò per bene, ma in guisa coperta, Maurilio
che usciva. Questi sentì una specie di freddo all'incontrare coi suoi
gli occhi che sbirciavan di soppiatto del nuovo venuto. Nel partire
Maurilio si volse indietro a guardare e fu tutto stupito vedendo che
Gian-Luigi era scomparso, senza ch'egli potesse dire da che parte, non
essendoci altro uscio visibile fuor quello per cui era entrato l'uomo
dall'aspetto volpino.

Costui sedette ad un desco, e Maurilio l'udì che diceva alla fante:

— Dite a Meo di grazia di portarmi la mia solita porzione ed a Pelone di
venirmi a parlare; da brava, Maddalenuccia bella.

Maurilio andò a raggiungere il ragazzo a cagione del quale soltanto egli
era entrato in quella bettola.



CAPITOLO VII.


Maddalena era appena uscita da quella stanza per andare ad eseguire i
cenni del nuovo venuto, che colà entrava l'oste con una cert'aria da can
che teme il bastone, che era la più ridevol cosa a vedersi.

— Ah sei qui galantuomo: gli disse l'avventore con ironia e con una
famigliarità insolente. Vieni un po' qui che la discorriamo. C'è sempre
da imparare, conversando con un uomo della tua fatta.

Mastro Pelone s'avvicinava lentamente all'interpellante, col suo passo
riguardoso, sbirciandolo di sottecchi dal fondo delle sue occhiaie
incavate, con molto sospetto e diffidenza.

— Uhm! Uhm! Rispos'egli tossendo, voi credete? La vostra opinione è
molto lusinghiera per me, signor Barnaba, ma....

Era giunto presso al desco e, secondo suo costume, ci puntava le mani
su, curvando il suo lungo corpo verso l'uomo seduto.

Questi levò sul volto dell'oste uno sguardo acuto che penetrava fin
nelle midolle, e disse bruscamente:

— Siedi lì, vecchio peccatore, e parlami come devi parlare. Che cosa c'è
di nuovo? Tu hai di sicuro qualche cosa d'interessante da raccontarmi.

Pelone aveva schivato lo sguardo di Barnaba; sedette e tossendo più
disperatamente che mai, rispose:

— Di nuovo?... Uhm!... C'è proprio niente..... Uhm! Uhm! Che cosa volete
che ci sia?

— Tu non hai dunque proprio nulla da dirmi?

— Proprio nulla.

Barnaba allungò il braccio sopra la tavola ed impugnò colla mano il
polso dell'oste.

— Ebbene, sta attento, che te ne dirò io di nuovo.

— Ah sì?... Mi farete piacere.... È vostro mestiere saper delle novità.

— Stanotte hanno scassinato la porta che mette negli uffizi del signor
Bancone; sono entrati nella stanza della cassa, hanno potuto romper
questa ed hanno portato via venti mila lire.

— Che bel colpo! sclamò Pelone i cui occhi in fondo alla loro cavità
brillarono un momento e tornarono spegnersi di botto.

— Tu non lo sapevi? Domandò Barnaba colla ironia di prima.

— Sì..... oh sì..... L'ho udito a contare..... Tutt'oggi non si è
parlato d'altro che di questo furto a quel ricco banchiere.

— Il commissario, soggiunse Barnaba abbassando ancora la voce, pretende
che tu non l'hai saputo solamente dopo.... ma lo sapevi prima.

— Io? Esclamò Pelone elevando le braccia e gli occhi al cielo. Dio
buono! Si può egli pensare una cosa simile?

— Che tu, continuava Barnaba, conosci gli autori di questo «bel colpo»
come tu lo chiami....

— Io ho detto così... così per dire... ma voglio che il corno del
diavolo mi colga se...

— Che, inoltre, questo «bel colpo» è stato combinato nella tua osteria,
qui stesso, in questa camera, forse a questo medesimo desco a cui siamo
seduti tu ed io.

Mastro Pelone mandò un _oh_ d'indignazione che si convertì in uno
sbruffo di tosse.

— Il signor commissario mi fa torto, diss'egli poi, un gran torto, un
grandissimo torto. A quest'ora dovrebbe già conoscermi, e dopo i servigi
che gli ho resi, e che non domando meglio che di rendergli ancora...

— Gli è appunto perchè ti conosce che la pensa di questo modo sul conto
tuo.

L'oste protestò con un'altra esclamazione e con una pantomima analoga.

— Or ben, vediamo. Ai fatti, signor mio. Sai tu dirmi qualche cosa del
furto di questa notte?

Pelone pose la sua scarna e grossa mano destra sul petto incavato e
rispose con enfasi:

— Parola da Pelone!... Non so nulla.

Barnaba lo guardò un istante con espressione che significava chiaramente
qual poca fiducia avesse nella parola dell'oste; poi fece un sorriso e
riprese scrollando le spalle:

— Bene! Non parliamone più. Guarda soltanto, vecchia gatta maliziosa, di
non lasciarti cogliere lo zampino nel graffiare il lardo. Passiamo ad
altro.... Chi era quel cotale che usciva di qua allorchè io ci entrai?

— Non so affatto, affatto, e voi, messer Barnaba, credo possiate saperlo
più presto e meglio di me. Vi fu un momento che l'ho creduto uno dei
vostri.

— Era egli solo qui dentro?

— Credo bene..... Ah! C'era Maddalena che lo serviva.

Pelone teneva gli occhi a terra per evitare quelli di Barnaba, che non
cessavano di fissarlo con iscrutatrice insistenza.

Barnaba crollò la testa.

— No, diss'egli, Maddalena non c'era. Tu sai che al mio occhio non
isfugge nulla. Entrando nel tuo sucido antro ho visto di là Maddalena,
la quale, appena m'ebbe scorto, si slanciò in questa stanza ratta come
il baleno.

— Quell'avventore l'avrà chiamata: susurrò con voce insinuante Pelone.

— Non vorrei che fosse venuta ad avvertire qualcheduno del mio arrivo.

— E chi mai, buon Dio?.... Che il diavolo mi porti!

— Quella ragazza sarebbe mai per caso istrutta del vero esser mio?

— Oh! Che cosa dite?.... Uhm! Uhm!.... Manco per sogno!

— Meglio per voi mille volte, che non sia; sapete?

— Se lo so!..... Diavolo!.....

— Da alcun tempo mi pare che qui, _questi galantuomini_ mi accolgono con
una diffidenza che non avevan prima.

— Vi assicuro, esclamò vivamente Pelone, che se mai per caso hanno dei
sospetti, io non ci entro per nulla.

— Ma li hanno questi sospetti?

— Non credo.... Anzi no di sicuro.

Barnaba tacque un istante.

— Caro mastro Pelone, riprese egli di poi, fra i frequentatori della tua
osteria c'è un personaggio di cui tu non mi hai ancora parlato mai, e
che, per una combinazione veramente strana, non mi è ancora mai avvenuto
di vedere.

— Ci siamo! Pensò l'oste cercando di prendere il meglio possibile
un'aria da nesci. Qui conviene stare in gamba.

— Chi è che volete dire? Domandò egli. Ce ne vien tanta della gente alla
mia povera osteria, con l'aiuto di Dio.... Che il diavolo mi porti!

— Intendo dire colui che chiamano col soprannome di _medichino_.

Pelone tossì per cinque minuti prima di rispondere.

— Ah sì, disse poi, l'ho udito nominare ancor io.... Forse è venuto
qualche volta egli pure qui dentro, ma non l'ho osservato, o non me
l'hanno additato, o non me lo ricordo.... Del resto, che uomo è egli
costui?... È forse tale che possa interessarvi?... Volete che guardi
d'informarmene?.... Sapete che non ci ha il mio pari in codesto; e se vi
piace, saprò dirvi chi egli è, che cosa fa ed altro ancora....

Barnaba fece un gesto di minaccia verso Pelone col dito indice della
mano destra.

— Oste mio, ho paura che tu faccia male i tuoi conti. Sai che a me non
la si dà così facilmente ad intendere.

— Vi assicuro....

— Che tu tieni il piede in due staffe, gli è un pezzo che lo sappiamo, e
siamo disposti a perdonarti fino ad un certo punto, quando tu ci
compensi del nostro chiuder gli occhi sui tuoi malestri con importanti
effetti d'altra parte; ma se invece tu credi poterti servire delle
attinenze che hai con noi per aiutare i birboni e favorire le opere
loro, alla croce di Dio che sapremo fartene pentire e mettere al passo
anche te.

— Credete, messer Barnaba.... Vi giuro....

— Basta! Pensa ai casi tuoi e fa senno. Persisti intanto a non aver
nulla da dirmi intorno al furto Bancone ed al _medichino_?

— Non posso che ripetervi le stesse parole: nulla affatto.

— Ancora una cosa. Bada che questa è la più importante e intorno a
questa non ti si vorrebbe tollerare neppur l'ombra d'uno scarto.

— Che cosa mai? Domandò Pelone con interesse.

Barnaba si curvò verso il suo interlocutore, abbassò ancora di più la
voce, e disse:

— I nemici della società non sono solamente quelli che attentano alla
proprietà ed alla vita degl'individui; ve ne hanno di più pericolosi e
di più scellerati, e son quelli che cercano sovvertire le basi stesse su
cui si pianta la fabbrica sociale, lo altare ed il trono, la monarchia e
la religione. Sappiamo che in questi brutti tempi la perfida razza di
costoro s'è accresciuta grandemente; sappiamo che essi si agitano e non
si peritano innanzi a nessun eccesso per potere arrivare ai loro empi
fini. L'iniqua setta va diffondendo le sue scellerate dottrine e la sua
influenza per mezzo di società segrete che serpeggiano negli strati
inferiori della società come la gramigna nei campi. Anche nella infima
plebaglia ha gettate ora le sue radici e tenta abbarbicarvisi giovandosi
dell'ignoranza di quella misera gente. Conviene vegliare più che mai e
colpire più ratto e più severamente che sia possibile... Pelone,
rispondete la verità, perchè si tratta proprio della vostra sorte. Nella
vostra osteria avete voi udito che dai componenti della _cocca_ si
tenessero discorsi contro il Re ed il suo Governo, contro la religione e
i suoi ministri? o che qualcheduno forse d'una classe superiore, qualche
apostolo della borghesia s'insinuasse fra di loro a fare di cotali
parlate?

La faccia di Pelone esprimeva la meraviglia e l'orrore che possano
essere maggiori.

— E che? Esclamò egli con profonda indignazione. Voi potete pensare che
io avrei sentito non fosse pure che una mezza parola di cotante
scelleraggini, senza dirvi di subito qual fosse e chi l'avesse detta
perchè ne ottenesse il premio che si meriterebbe?

— Dunque contro S. M. niente?

Pelone si levò di capo il berretto unto e bisunto e in un profondo
inchino fece lucicchiare al lume della lampada il suo cranio pelato,
giallo come l'avorio antico.

— Niente contro la sacra persona di S. M., ve lo giuro.

— E contro le LL. EE. i ministri?

L'oste aveva rimesso la berretta in capo, fece un inchino meno profondo,
senza più levarsela, e rispose:

— Niente.

— Contro la polizia?

L'inchino di Pelone fu rivolto specialmente all'interrogatore.

— Niente affatto.

— Contro i preti? E sopratutto contro i Gesuiti?

— Meno che mai.

— Va bene. Ma state in guardia. Il marcio vi è, ne siamo sicuri, e
conviene vegliare attentamente per apportarci subito il rimedio colà
dove si manifesti.

— Per le corna del diavolo!..... Ferro e fuoco senza tardare..... Oh
state tranquillo che non son io che in queste cose andrei
rimessamente..... Per un povero diavolo che graffia via una borsa o che
dà una coltellata perchè ha un bicchiere di vino nella testa, peuh!
chiuderei qualche volta anche un occhio; ma per chi volesse dir male del
nostro amatissimo sovrano.... uhm! uhm!... per la testa di S. Giovanni
decollato!.... o per chi sparlasse delle autorità o dei buoni padri del
Carmine...... sarei senza misericordia, che il diavolo mi porti!

— Siamo dunque intesi?

— Intesissimi.

— E bada a farti onore.

— Vedrete, messer Barnaba.

— E va bene. Vedremo..... Intanto guarda un po' che cosa fa questo Meo
che non comparisce colla porzione che ho domandato.

— Subito: disse Pelone, levandosi con una vivacità che poteva dimostrare
o la premura che metteva nel servire quell'avventore, oppure la gran
voglia che aveva di terminare quel colloquio; e in due passi delle sue
lunghe gambe fu fuori della stanza.

Eravi in realtà un gran bisogno che mastro Pelone intervenisse perchè
quell'avventore fosse servito, mentrecchè una contesa era nata nella
cucina sotterranea fra Meo e Maddalena, per la quale il giovinastro
stava là piantato col piatto della vivanda in una mano e un fiasco di
vino nell'altra a sopportare le bordate di parole e di improperii che
gli gettava contro lo scilinguagnolo troppo svelto di Maddalena,
eccitando imprudentemente tratto tratto la bile e il fuoco delle ciarle
della ragazza con qualche atto del capo che dimostravano la non vinta ed
invincibile ostinazione della mulaggine del bravo Meo, imbecille ma
testardo sino alla perfezione.

Ecco di che modo era nata la lite.

Maddalena era corsa giù a trasmettere al garzone gli ordini di Barnaba,
e Meo, con aspetto torvo che pareva accrescere ancora la sua
melensaggine, aveva accolto quegli ordini con un brontolio che pareva un
grugnito, ma senza pronunziare una parola, e si era posto con tutta
lentezza ad eseguirli.

— Un po' più lesto, marmotta: aveva detto Maddalena vedendolo muoversi
così di malavoglia.

Meo aveva volto i suoi occhi grigi e a fior di pelle verso la ragazza,
nei quali, se avessero potuto manifestar lo stato della sua anima, ci
sarebbe dovuto essere collera e rimprovero, e che invece non avevano
altra apparenza fuor quella di due pallottole di vetro incassate in una
zucca; aveva sospirato, soffiato, grugnito, ma non aveva risposto. E
tutto sarebbe rimasto lì se la Maddalena, per un eccesso di prudenza,
non avesse commesso un fallo imprudentissimo.

Senza conoscerne bene la ragione, ella sapeva, perchè Gian-Luigi
medesimo glie l'aveva detto, e il padrone pure della bettola le aveva
fatte a questo riguardo le più calde raccomandazioni, ella sapeva essere
cosa sommamente importante che quel cotal messer Barnaba non venisse mai
a scoprire che fra i misteriosi frequentatori della riposta camera eravi
il _medichino_, e tanto meno poi che vedesse costui; quindi, secondo
l'usato, visto appena spuntare la faccia arguta e maliziosa di Barnaba,
ella s'era precipitata ad avvertirne il _medichino_, al quale, come
avete potuto accorgervi, la Maddalena portava il più vivo ed il maggior
interesse del mondo; mentre alcuni di quelli che erano compagni a
Gian-Luigi in quella stanza dall'uscio a vetri, prima che ne uscissero
chiamati dal rumore della contesa fra Maurilio e Marcaccio, fosse caso
od intenzione dietro ricevute istruzioni, arrestavano Barnaba nel
cammino e lo tenevano un istante in novelle, fatto che giovava ad
accrescere i sospetti di questo agente segreto e importante della
polizia.

Ora, dovendo Meo presentarsi innanzi a Barnaba colla vivanda e col vino,
Maddalena temette che quell'imbecille di garzone, benchè
severissimamente proibito ancor egli di far motto alcuno di Gian-Luigi,
dalle accorte domande di Barnaba si lasciasse mettere in mezzo e alcuna
cosa dicesse di quanto non si doveva dir mai.

Il miglior partito a prendersi sarebbe stato quello di incaricarsi essa
stessa di servire il sig. Barnaba; ma codesto non venne neppure in mente
alla Maddalena, come quello che per nulla s'accordava colla sua gran
voglia di fare il meno possibile. Laonde, pur conoscendo l'impero che le
sue attrattive avevano sulla grossa natura di quel giovane soro, e
sicura che una sua parola bastasse a farne quanto ella volesse,
Maddalena, quando già aveva messo il piede sul primo scalino per
risalire nell'osteria, si volse indietro verso Meo e gli disse:

— Bada sopratutto, per qualunque cosa ti possa dire ser Barnaba, a non
lasciarti sfuggir di bocca parola intorno al _medichino_.

Meo divenne rosso più che un tacchino in bizza, e i suoi occhi di
cristallo rotearono come usano quelli delle figure di cera dei gabinetti
meccanici.

— Ah! Il _medichino_, rispos'egli a denti stretti; oh sì il
_medichino_..... Potessi vederlo impiccato quel cicisbeo della malora!

Queste parole avevano dato l'aire alla collera ed alle ciancie della
Maddalena.

Allorchè mastro Pelone sopraggiunse, perchè non trovando nello stanzone
di sopra nè la fante ne il garzone, era disceso nella canova; allorchè
egli sopraggiunse, la ragazza diceva sfavillante d'ira gli occhi:

— Tu non parlerai, o guai a te!

— Parlerò: rispondeva coi denti serrati e colla sua aria e col suo
accento da testardo, il giovane tenendo sempre fra le mani il piatto e
la bottiglia.

— Che cosa è questo? Esclamò Pelone pigliando dal suo sdegno tanta forza
da poter parlare ad alta voce e con accento concitato. Figlioli di male
femmine che state qui a perdere il tempo a bisticciarvi invece di servir
gli avventori!.... Non so chi mi tenga dal misurarvi un calcio dove so
io... che il fistolo v'accoppi.

Maddalena che mostrava chiaro non esser per nulla intimorita alle
parolaccie del padrone, si volse vivacemente a quest'esso e gli disse in
tutta fretta:

— Questo martuffo di Meo vuol dire al signor Barnaba che il _medichino_
era qui adess'adesso.

Pelone divenne pallido, se pur poteva dirsi che la sua pelle d'alluda
impallidisse. Stette un momento senza parlare, quasi glie ne mancasse il
fiato, poi con voce soffocata ma tremenda, disse al garzone:

— Disgraziato! Se una sola parola ti sfugge, hai finito di vivere.

Alle parole del padrone, Meo rimase il più sgomento uomo del mondo.
Stava là piantato sulle sue gambaccie, cogli occhi sbarrati, colla bocca
larga, e guardava mastro Pelone con un'attonitaggine spaventata che fece
rompere la Maddalena in uno scoppio di risa.

Il bettoliere, rimessosi alquanto della emozione che lo aveva fatto
uscire in quella minaccia, disse al garzone colla sua voce più affranta
e più cavernosa di prima:

— Or va, sollecita, servi messer Barnaba, e bada di tenere la lingua a
segno.

Meo balbettò qualche parola inintelligibile, roteò gli occhi ancora
smarriti, fissando ora Pelone ora Maddalena, e salì la scala coi piatti
e col fiasco in mano, seguito dalle risate beffarde della giovane.

— Sei qui finalmente, lumacone d'un addormentato? Disse Barnaba vedendo
comparirsi dinanzi il povero Meo ancora tutto sconvolto. Eh! ci vuol
egli un secolo a portar questa poca roba?

Il garzone non rispose e mise innanzi all'avventore. Ma questi s'accorse
che nell'apparecchiargli in tavola, le mani di Meo tremavano, e
guardatolo in faccia, gli vide i segni del turbamento, da cui non s'era
ancora compiutamente riavuto.

— Che cos'hai. Meo, che la tua faccia par quella d'un mascherone da
fontana?

Meo crollò la testa, soffiò forte, e rispose in fretta a parole
mozzicate:

— Nulla, non ho nulla.

E fece per andarsene tosto: ma Barnaba lo trattenne.

— Sta qui meco un momento, che diavolo!... Tu hai dei dispiaceri, povero
tambellone, non è vero? Te lo leggo chiaro su quella luna piena che ti
serve da faccia.

Meo sospirò a suo modo, ma non disse verbo.

— Vuoi che te lo dica il tuo segreto? Tu sei innamorato morto.

Il babbuino si torse della persona con mossa di vergognoso, divenne
rosso in volto e fece nello stesso tempo il più scemo sorriso.

— Quella birbona di Maddalena, eh?

— Ah sì! Quella birbona! Non potè a meno di ripetere Meo con un grosso
sospiro.

— La è una civettuola che si lascia amoreggiare dal terzo e dal quarto.

— Ah si! Tornò ad esclamare Meo con un altro sospiro.

— Ed inoltre fra tutti i suoi galanti ce ne avrà qualcheduno di
preferito.

Altro sospirone ed altra esclamazione affermativa di Meo.

— E questo preferito non sei tu?

— Non son io: ripetè dolentemente il garzone chinando la testa, con un
sospiro più desolato degli altri.

— Ma sai tu almeno questo fortunato mortale chi sia?

Il giovane alzò vivamente la testa, ed un lampo balenò nei suoi occhi da
stupido.

— Oh! se lo so: diss'egli serrando i pugni.

Barnaba si sporse di più verso il garzone e soggiunse sotto voce:

— Si dice che sia un cotale che viene qui soltanto di soppiatto: un bel
giovane che fa il signore....

Meo digrignava i denti e seguitava a far girare le pallottole di vetro
dei suoi occhi, come fanno quelle certe figure dipinte su alcuni dei
pendoli a contrappesi.

Il poliziotto s'accostò ancora maggiormente al giovane, e continuò con
voce più sommessa ancora ma con accento autorevolmente affermativo,
fissando bene in volto l'imbecille:

— E questo tale è conosciuto qui col nomignolo di _medichino_.

A questa parola il povero Meo tutto si riscosse e si trasse indietro
vivamente spaventato, come alla vista improvvisa d'una voragine che gli
si aprisse sotto i piedi.

— Non so nulla: esclamò egli; non ho detto nulla; non mi fate dir nulla.

Barnaba lo prese ad un braccio e lo tirò presso di sè.

— Ah, ah! Disse. Ho posto il dito sulla piaga io. Vien qui, tambellone;
e non ti pentirai d'aver parlato meco; ne avrai anzi sotto ogni riguardo
vantaggio. Quel tal _medichino_, adunque...

Ma in quella l'uscio a vetri s'aprì, e comparvero, prima il naso enorme,
poi la faccia cadaverica di mastro Pelone.

— Eh! marmotta: disse questi parlando a Meo. Si ha bisogno di te, e tu
pianti le radici dappertutto dove ti fermi.

Barnaba lasciò andare tostamente il braccio di Meo, il quale s'affrettò
a partire. Il poliziotto mirava con una certa intentività acuta e
maliziosa il bettoliere ed il garzone.

— Comandate qualche cosa? Chiese Pelone a Barnaba, avanzandosi verso il
suo desco.

— No, non mi occorre più nulla: rispose Barnaba. Va pure alle tue
faccende anche tu, che io mangerò tranquillamente questa roba
senz'altro.

L'oste che pareva desiderar mediocremente soltanto di rimanere un'altra
volta solo coll'agente della polizia, uscì sulle peste di Meo, e Barnaba
rimase solo.

Allora questi si alzò, e con passo leggerissimo corse all'uscio a vetri
a chiarirsi se di là ci fosse chi potesse vedere entro la stanza: tirò
bene le tendoline ai cristalli, e poi si diede ad esaminare minutamente
le pareti della camera, intorno alle quali correva ad altezza d'uomo una
impiallacciatura di legno volgare di pioppo mal verniciato.

Guardò, toccò, battè riguardosamente qua e colà colla nocca delle dita,
e ad un punto si fermò più lungamente che altrove. Gli parve poi udire
l'appressarsi di qualcheduno, e più lesto ed agile che un gatto, fu al
suo posto dove riprese a mangiare così tranquillo come se non si fosse
mai mosso.

— Va bene: diceva egli intanto fra sè. I miei sospetti s'afforzano e
spero diventeranno certezze. Andrò a far strabiliare il commissario... E
ad ogni modo quell'imbecille di Meo sarà uno stromento che saputo
maneggiare finirà per aprirci il segreto di ogni cosa.



CAPITOLO VIII.


Maurilio, uscito dalla stanza a vetri dopo il colloquio con Gian-Luigi,
venne sollecito al desco a cui aveva lasciato il ragazzo trovato per la
strada. Questi, dopo aver ben mangiato e ben bevuto, aveva appoggiate le
sue piccole braccia sulla tavola, messovi su la sua piccola testa, e
s'era saporitamente addormentato, a dispetto di tutto il baccano che
veniva facendosi intorno a lui entro al denso aere di quella stanza,
baccano che non era punto sminuito, ma piuttosto era venuto
aumentandosi.

Maurilio stette un istante a contemplare quel ragazzo. Ei dormiva così
tranquillamente, con tale una sembianza di benessere, che il giovane
ebbe un momento d'esitazione prima di svegliarlo per condurlo via. Ma
poi si decise a riscuoterlo, e già tendeva una mano per mettergliela
sulla spalla, quando una nuova scena sopravvenne che ne lo fece sostare,
tutta a sè chiamando la di lui attenzione.

Andrea e Marcaccio erano ancora a quel medesimo posto, in quella
medesima attitudine, tornati ai medesimi discorsi, se non che l'ebrietà
in ambidue era maggiore.

Marcaccio faceva allusione a quel furto vistoso di cui udimmo un cenno
sulle labbra di Barnaba, commesso a danno del signor Bancone, uno dei
principali banchieri della città; e con argomento che un maestro di
logica avrebbe chiamato _ad hominem_, diceva al suo compagno che se fra
quei capi di vaglia i quali avevano _fatto il colpo_ si fossero per
fortuna trovati ancor essi, avrebbero ora le tasche piene di denaro, e
potrebbero bere tutta la canova di mastro Pelone; alle quali parole
Andrea, che il lume della ragione omai ce l'aveva perduto tutto,
rispondeva; sempre più balbuziente, con dei _sicuro_ frammisti a voci
inarticolate ed accompagnati da pugni sulla tavola.

Quegli altri dalle triste fisionomie, usciti fuor della camera vicina
con Gian-Luigi, si erano sparsi qua e colà per la bettolaccia, alcuni
rimanendo a gruppi fra di loro, altri ad uno, a due andandosi a
frammischiare alle brigatelle che già erano formate intorno ai deschi, e
susurrando a bassa voce nell'orecchio di qualcuno, con certe arie
misteriose che ti davan sembianza di gente che comunicasse qualche
parola d'ordine o qualche segreta istruzione.

In quella una donna miserissimamente vestita aprì l'uscio d'ingresso e
stette sulla soglia peritandosi d'entrare, quasi timorosa, lanciando
tutto intorno nell'aer crasso della bettola uno sguardo inquietamente
ricercatore.

Alcuni, cui dava fastidio l'aria fresca che s'introduceva per la porta
semiaperta, volsero a quella parte il capo e gridarono di mala grazia:

— Ehi là! Chiudete quell'uscio, che vi colga un accidente! Volete darci
una scarmana che ci mandi a far terra per le pignatte?

Uno di loro riconobbe la donna chi fosse.

— Ah ah! siete voi, Paolina?.... La solita storia eh?..... Venite a
cercare vostro marito, ci scommetto..... Entrate, Paolina, che diavolo!
Entrate e chiudete quel battente in vostra buon'ora... Vostro marito è
laggiù.

Paolina entrò del tutto e lasciò richiudersi dietro sè la porta. Era una
donna di età ancora giovane, ma dai patimenti affatto stremata. Il viso
color della cera, le labbra con livido pallore, livide le occhiaie
infossate, gli occhi ardenti dalla febbre. Aveva intorno alle membra
macilente una misera ciopperella di panno di cotone in più luoghi e con
istoffe d'altri colori rappezzata; copriva il capo con un fazzoletto
sbiadito, logoro, sfilacciato, ora tutto inumidito dal nevischio che il
tempo freddoloso pareva stacciare traverso la nebbia nelle strade, e di
sotto a questo fazzoletto le uscivano scarmigliate alcune ciocche di
capelli nerissimi, fra cui cominciavano immaturamente ad essere
frequenti i fili d'argento. Il dorso e il petto avea ricoperti da un
pezzo qualunque di stoffa che le serviva da scialle.

Non la miseria soltanto, ma la malattia ed il dolore erano stampati sul
viso di quella povera creatura che pareva reggersi e camminare con
istento.

Ella ringraziò colui che le aveva parlato ed aguzzò gli occhi
continuando a cercare per entro la densa atmosfera di quello stanzone.

— Dov'è egli, Andrea?

— Laggiù, vi dico: rispose ancora quel tale: in fondo, a sinistra.....
To', guardatelo là con Marcaccio.

Paolina fece un atto come di sdegno, il quale venisse a sopraggiungersi
all'abbattimento ed al dolore che già la possedevano; e i suoi occhi
vivamente balenarono fissandosi sulla testa di Marcaccio, la quale stava
curva verso quella di Andrea, parlando a costui come sappiamo che
faceva.

La donna, a quella vista, parve acquistare vigore e smettere affatto la
timidezza e la peritanza; camminò risolutamente verso il desco a cui
erano seduti i due uomini che abbiamo nominati, ed accostandosi al
marito, gli pose, senza pur dir una parola, la mano sopra la spalla.

Andrea si riscosse in sussulto e levò il capo che gli cadeva abbandonato
sul petto, mostrando la sua faccia imbestialita dall'ebbrezza.

Al vedere un'ombra comparire e stare presso di loro, anche Marcaccio
alzò gli occhi verso di essa, e visto chi fosse, corrugò minacciosamente
la fronte.

— Ah Paolina! Diss'egli con tono burbero ed impertinente. Ne siamo forse
di nuovo alle solite. Che cosa venite qui a fare? A romper le tasche a
vostro marito come sempre?

La donna fece guizzare verso Marcaccio un rapido ma ardentissimo
sguardo, in cui c'era tutto il rancore e tutto l'abborrimento che può
avere un'anima onesta verso il mal genio della sua famiglia e l'autore
di tutti i suoi mali; ma non rispose pure una sillaba.

— Andrea: diss'ella al marito con voce soffocata, affannosa, ma pur
tuttavia dolcissima, e con accento di amorevole rampogna: Andrea, vieni
a casa.

L'ubbriaco guardava la moglie coll'occhio stupidamente rimbambolito.

— A casa? Ripetè egli: sì a casa... Adesso ci vado appena che abbia
finito di bere..... Ma prima bisogna finire di bere... Ehi! oste del
contagio, porta qui una di barbèra.

— Andrea, bisogna venirci subito a casa: disse la moglie con una certa
autorità che a tutta prima fece impressione sull'ubbriaco.

Egli accennò volersi alzare, come per obbedire a quel cenno: ma il suo
corpo non era in caso di far ciò con tanta agevolezza, e Marcaccio
dandogli uno spintone, mentr'e' stava a mezza strada, lo fece ricadere
seduto com'era prima.

— Sei tu matto? Disse beffardamente Marcaccio. Da quando in qua le donne
hanno da comandare agli uomini come noi? che vuoi tu lasciarti metter le
dande e menar a lascia?

Andrea fissò il suo sguardo avvinazzato in quello del compagno, e ripetè
con una grossa bestemmia:

— Menar a lascia?... No giuraddio!

Alla donna un po' di sangue salito al viso arrossò un istante i pomelli
delle ceree guancie; ma non degnò Marcaccio neppure d'uno sguardo.

— Sentite, Paolina, le diceva intanto quest'esso; se volete, sedete lì
un momento, e vi daremo una volta da bere...

Paolina non potendo più frenarsi, gli si volse incollerita e colle
labbra tremanti ed accento pieno di sprezzo lo interruppe:

— Con voi non parlo.

La figura di Marcaccio divenne terribile per feroce e scellerata
espressione: ma poi tosto egli diede in una grassa risata.

— Oh oh! sentite che tono, la signora marchesa! Con noi non si degna!...
Allora date retta ad un mio consiglio, Paolina, e sarà il vostro meglio.
Alzate i tacchi, e non seccateci più la gloria.

Paolina tornò rivolgersi al marito, senza dare a Marcaccio altra
risposta.

— Vieni, diss'ella nuovamente con supplichevole accento. È tardi. Sai
che gli è fin dal primo imbrunire che ti attendiamo... Sono i tuoi
figliuoli che ti attendono... Tu dovevi venirci a portare i denari della
cena... E non sei venuto; e mentre tu stavi qui a sbevazzare, mentre ci
sei, i tuoi figliuoli hanno fame...

Andrea si passò la mano sulla fronte che incominciava a diventar calva,
e stette così un poco, come per raccogliere le sue sparse e confuse
idee.

— I miei figliuoli hanno fame: ripetè egli poi con accento doloroso,
come se quelle tremende parole avessero avuto potenza di farlo rientrare
in sè.

Marcaccio si mise a canterellare sull'aria d'una sconcia canzone de'
trivii.

— La la le ralà! Ci siamo colla solita storia... Hanno fame? Vadano a
letto. Chi dorme mangia, dice il proverbio... E ci lascino tranquilli.

Queste ciniche parole, però, non parvero andare compiutamente a' versi
ad Andrea, per quanto ebbro egli fosse.

— I miei figli! Balbettò esso. I miei poveri figli!

— Sì, i tuoi figli: riprese Marcaccio. Ecco lì il bel gusto di caricarsi
d'una famiglia. Si ha una frotta di marmocchi che vi strillano alle
orecchie e una donna che vi tien dietro e vi sta addosso come una
mignatta..... Che cosa hai tu da fare pei tuoi figli? Hai tu denaro in
tasca da recar loro?

Andrea scosse dolorosamente la testa.

— Non ne hai: continuava Marcaccio. Ti ho trovato che ti aggiravi come
una mosca senza capo, per la città, disperato e senza saper che cosa
fare di te, pronto a dar la pelle per un quattrino in aria..... Non
avevi trovato lavoro da nessuna parte, non avevi la croce d'un maledetto
centesimo, e la pelle del ventre ti toccava l'osso della schiena. Che
cosa ti ho detto io eh? Andrea sono un amico o non sono un amico, corpo
di cento boja!..... Vieni qui all'osteria di Pelone che una frittata
alle cipolle ed un fiasco di vino, ce ne ho sempre da offrirteli a tua
disposizione. Si chiama parlar bene codesto o no, per le carezze di
mastro Impicca? Sei venuto, abbiamo fatto ballare de' bei boccali; puoi
tu lamentarti di qualche cosa? Saresti stato più allegro andando a casa
ad udire strillare i bambini e borbottare la moglie? Bella musica! Le
rampogne d'una donna con accompagnamento di guaìti fanciulleschi. Sì,
sì, va ora con lei. Gli è quel bell'accoglimento che ti prepara a casa.
Mi par già di sentirla. «Bel modo di regolarti! E che hai tu fatto qui?
E che hai tu fatto là?» Il fastidio dei rimproveri e l'umiliazione di
dover render conto dei fatti tuoi alla moglie.

Andrea fece un atto vivace di ripugnanza.

— No: esclamò egli, non voglio rimproveri, non li vo' tollerare
giurabacco!........ Un uomo non lo deve!

— Bene. Disse la donna frenando con tutte le forze che le restavano la
collera onde sentiva l'anima commossa verso Marcaccio. Sta certo. Non te
ne farò neppur uno di rimproveri, ma vieni a casa.

— Sì, proruppe beffardamente Marcaccio, vacci, bamboccio, e vedrai che
valore hanno le promesse delle donne.

Paolina non ci resse più.

— Tacete, Marcaccio: gridò volgendoglisi sdegnosamente. Non vi basta
ancora tutto il male che ci avete già fatto? Voi siete il diavolo
tentatore del mio pover'uomo.

— E voi non sapete quello che vi dite. Se questo buon uomo passa ancora
qualche momento d'allegria, lo deve a me; e se ascoltasse i miei
suggerimenti vivrebbe un poco meglio di quanto ora gli tocca.

— I vostri suggerimenti? Santa Vergine Maria! So di che genere sono; e
se mai Andrea li seguisse tutti e davvero avrebbe cessato di essere un
onest'uomo.

— Ohei! Che modo di parlare è codesto? Gridò Marcaccio battendo un forte
pugno sulla tavola. Sapete voi che queste parole non le soffrirei da
nessun uomo al mondo, fosse il più forte di tutti? E pensate voi voglia
lasciarmele sputare in faccia da una miseruzza di donnicciuola come voi?

Il suo aspetto di scellerato era tale veramente da incuter timore, ma la
donna è un essere che quando è posseduto da una giusta indignazione ha
un coraggio cui null'altro uguaglia.

— Credete voi d'impormene, Marcaccio? Riprese Paolina. I brutti musi non
mi fanno paura. E poichè vi trovo e mi ci avete incitata, vi dirò una
buona volta il fatto vostro. Siete voi che avete recato il disordine e
la miseria nella nostra famiglia. Siete voi che avete tolto a me ed a'
miei figli l'animo di Andrea. Sia maledetto il momento in cui avete
posto il piede in casa nostra, e siate maledetto voi stesso!.... Ma per
l'anima mia, vi dico che nella mia povera soffitta, là dove sono i miei
bambini, non vi lascierò entrar più o che mi caschi piuttosto la testa.

Marcaccio mandò una violenta imprecazione, poi afferrato il braccio di
Andrea lo scosse rozzamente.

— Odi tu le belle cose che dice tua moglie? Va là che sai fartene
proprio rispettare! Gli è lei che manda via di casa chi le pare e piace;
e se tu vuoi avere un amico hai da domandarle licenza, e devi fare ciò
ch'ella vuole, e levarti i calzoni e darglieli addirittura a lei.

L'ubbriaco pareva dagli occhi infiammati del compagno attingere la
collera ancor egli.

— Levarmi i calzoni, diceva lo sciagurato non più conscio menomamente di
sè: darglieli a lei!... No giuraddio!

— Gli è che sei un bamboccio, gli gridava Marcaccio sotto il muso, che
ti sei lasciato mettere i piedi sul collo e ti lasci menare pel naso.

— No, no, mille volte no, sacramento! Urlava l'ubbriaco.

— Non dar retta a questo tristo: supplicava Paolina con tutta
amorevolezza. Vieni a casa meco, te ne prego.

— Non seccarmi la gloria! Faccio quel che mi pare e piace.

— Bravo! Esclamò Marcaccio.

— Non voglio andare a casa, e non ci vado... e non ci vo!

E come per paura che lo venissero a strappar di là, si attaccò con tutte
due le mani al desco.

— Bravissimo! Tornò ad esclamare Marcaccio. E dille che i tuoi amici sei
in caso da sapertegli scegliere da te stesso e che in casa tua sei
padrone tu.

— Sì, sono padrone io...

— E che le donne non hanno da alzare il becco.......

— Non hanno da alzare il becco... Diceva Andrea come un eco.

— Altrimenti.....

E il tristo arnese faceva un cenno troppo chiaro di minaccia.

— Altrimenti... Ripeteva ancor esso l'ubbriaco, dominato per l'affatto
dalla volontà del compagno.

— Che? Prorompeva la donna vieppiù indignata. Minacci tua moglie tu? Sei
tu ancora il mio Andrea? Oh che cosa mai hanno fatto di te!...........
Andrea, ti scongiuro, vieni a casa.... Vieni a vedere i tuoi figli.....

E voleva cingerlo colle braccia; ma egli rigettandola:

— Lasciami ti dico; vacci tu a casa e non seccarmi dell'altro.

— No, non ti lascio: insisteva essa tornando a volerlo abbracciare;
voglio che tu venga meco.....

— Ah! Quanto sei babbeo a lasciarti _piantar di queste grane_: diceva
Marcaccio. Se foss'io, a quest'ora l'avrei già ridotta alla ragione.

— Va via: urlò l'ubbriaco serrando i pugni.

— Non vado: rispose animosamente Paolina. Sono venuta a prenderti per
condurti presso i tuoi figli; non esco se tu non vieni meco.

E siccome ella era sul punto di gettargli le braccia intorno al collo,
il disgraziato la respingeva allungando innanzi a sè il braccio col
pugno serrato, il quale colpiva violentemente a mezzo il petto la povera
donna.

Paolina gettava un grido e cadeva alla rovescia mentre una schiuma
sanguigna le veniva alle labbra.

— Bene! Ben fatto! Così la si mette a posto: diceva quello scellerato di
Marcaccio, mentre Maurilio in un salto era presso la donna e sollevatala
la adagiava sopra una panca vicina su cui quelli che v'eran seduti
s'affrettavano a farle posto.

Visto cader così sua moglie, un profondo e subito rimutamento si fece in
Andrea. Parve per un istante da lui dileguata ogni ebbrezza. Sorse di
scatto e fu presso alla misera donna, turbato, commosso, pentito.

— Paolina! Diss'egli con accento pieno d'affetto, di rincrescimento,
quasi di pianto, Paolina!

E parve volesse dire mille cose, ma che, l'intelligenza non
soccorrendogli, non sapesse in altro modo esprimerle che ripetendo il
nome di lei:

— Paolina! Paolina!

Maurilio intanto interrogava con molto interesse la donna.

— Vi sentite male? Se prendeste qualche sorso di brodo caldo? O meglio
se veniste alla più vicina farmacia a farvi dare un cordiale?

Paolina si asciugava colle mani medesime, in mancanza di pezzuola, la
schiuma sanguigna che le era venuta alle labbra, si sforzava ad
abbozzare un sorriso, e rispondeva colla voce affannosa:

— Non è nulla.... Grazie.... Non è nulla.... Da un pezzo di tempo sono
così debole, che il dito d'un ragazzo mi getterebbe in terra..... Soffro
sempre tanto qui....

E si premeva il petto con tutte due le mani.

— Paolina! Diceva ancora Andrea venutole presso, volendo prenderle la
destra.

— Lasciatela stare: proruppe vivacemente Maurilio indignato. Non avete
vergogna? Trattar così una donna, ed una donna ammalata!

Andrea curvò il capo tutto mortificato. Ma Paolina, dando al marito
quella mano che egli cercava, disse benignamente:

— Oh il mio Andrea è buono. Non è lui che ne abbia colpa. È il vino che
ha in corpo ed i consigli di certa gente... Va, te, ti perdono,
Andrea... So che mi vuoi ancora bene.

E l'uomo commosso:

— Sì che te ne voglio di bene.... tutto il mio bene....

Ed esaltandosi, come in ogni cosa agli ebbri suole avvenire, si cacciò
le mani negli arruffati capelli e stracciandoseli a ciocche, piangendo
ed esclamando soggiunse:

— Ma sono uno scellerato, un miserabile che merito le mazzate... sì, sì
le merito... Mia moglie! I miei figli! Uh! uh! uh!... Sono io che li ho
messi sulla paglia... Ah dovrei andarmi ad affogare, che sarebbe meglio
per tutti.

Paolina, già un po' riavutasi, gettògli le braccia al collo con
ispavento e con infinito amore.

— No, non dirle queste brutte cose. Andrea, ti prego..... Calmati, via,
non piangere... Io ti perdono........ I tuoi figli ti perdonano......
Purchè tu lo voglia, la nostra sorte può cambiare e ridiventar quella di
prima. Tu sarai di nuovo un buon operaio com'eri un tempo e guadagnerai
come allora, io guarirò; e torneremo a vivere quei giorni felici che
abbiamo già vissuto.

— Sono uno scellerato! Ripeteva colla sua ostinazione da ebbro il povero
Andrea.

— Sei sempre il mio uomo, sei sempre il padre de' miei figli. Vieni
presso di loro... E' t'aspettano. E' piangono per non vederti.

— Piangono!... Piango anch'io che sono un miserabile...

Marcaccio non s'era mosso di posto, e guardava ed ascoltava tutto
codesto con un sorriso di scherno e crollando le spalle.

— E quello è un uomo? Diceva egli così da poter esser udito da Andrea.
Che pan bagnato!

— Io! pan bagnato? Esclamava l'ubbriaco cambiando espressione, e
volgendosi a Marcaccio. Pan bagnato un corno!...

— Non dargli retta! Supplicava Paolina, tirando Andrea per i panni
affine di volgerlo dalla sua parte.

Maurilio le venne in soccorso; si mise innanzi ad Andrea, fra lui e
Marcaccio, e ponendo in testa allo ubbriaco il berretto che gli era
caduto in terra e il giovane aveva raccolto, disse alla donna:

— Avviatevi, e traetelo con voi, senza lasciarlo più parlare con
quest'altro.

Poi, dirigendosi ad Andrea, con quel tono autorevole che egli sapeva
assumere e che abbiamo visto produrre effetto persino su Gian-Luigi
avvezzo a comandare, soggiunse:

— Andate a casa vostra, e ringraziate il cielo che vi ha dato una tal
donna.

L'ubbriaco balbettò, parve un istante voler ribellarsi all'autorità con
cui quello sconosciuto si arrogava di parlargli, ma incontrato lo
sguardo potente di lui, dovette chinare il suo a terra. La moglie lo
tirò seco facendogli carezze e dicendogli dolci parole; ed Andrea finì
per cedere ed uscire di là borbottando ma con riluttanza leggiera e
facilmente superabile.

Marcaccio guardava di traverso il giovane che si era intromesso in aiuto
di Paolina.

— Tant'è: diceva egli fra sè; questo cotale mi va a sangue come un
bicchiere di vin cercone. Poichè il _medichino_ lo conosce non sarà una
spia.... Ma gli è qualche cosa da non dirsela coi _nostri noi_.... Per
questa volta, in grazia al _medichino_, la passi liscia; ma se ancora
gli avverrà di trovarmisi fra le gambe, il suo muso s'accorgerà com'è
fatto il pugno di Marcaccio...... Quanto ad Andrea, e' non mi scappa
più. Può tardare di qualche giorno, ma ci cascherà. Abbiamo bisogno di
lui, e sarà nostro.



CAPITOLO IX.


Maurilio intanto aveva svegliato il bambino.

— Su, piccino, andiamo a casa tua adesso.

Il ragazzo s'era fregato gli occhi, s'era stirato le piccole membra ed
aveva risposto sbadigliando:

— Andiamo pure.

Venendo fuori dell'osteria, il piccino indicò la direzione del cammino
da farsi verso la parte più sporca e più brutta di quel bruttissimo e
sporchissimo quartiere.

Giunsero, dopo un po' di strada, ad una porta ad arco, ma bassa e
schiacciata, sotto la quale un lampioncino ad olio, di cui poteva dirsi
col poeta, che pareva spento, tramandava attraverso ai vetri affumicati,
tanto di luce tremolante e rossigna da poter scorgere che in quei muri,
su quello spazzo l'umidità e le sozzure ci stavano trionfalmente in
permanenza. Passarono un cortiluccio che di poco si discostava da una
fogna; giunsero ad una scala stretta, non illuminata, a corte branche, a
scalini alti.

— Se tu non mi dài mano: disse Maurilio al suo piccolo compagno, io non
verrò a capo di andar su per queste tenebre senza rompermi il naso.

Il bambino pose la sua manuccia destra in quella sinistra del giovane, e
questi scorrendo ancora coll'altra mano che gli restava libera lungo la
parete trasudante un umor freddo e viscoso, scalpitando ad ogni posar di
piede sempre nuove immondezze, pervennero ambedue alla fine della scala,
sotto alla travata del tetto, in un corridoio basso, angusto, soffocato,
tenebroso, che dava adito alle soffitte.

Fatti pochi passi per questo corridoio, il piccino si fermò innanzi ad
un uscio serrato per di dentro, dalle fessure del quale trapelava un
filo di luce del lume acceso all'interno, e vi picchiò col suo piccolo
pugno.

— Chi va là? Chiamò di dentro a quell'uscio una voce aspra, rauca,
stizzosa, che mal avreste saputo giudicare se era d'uomo o di donna.

— Son io: rispose il bambino. Allora s'udì un moversi di persona a
rilento, uno strascico di pianelle e un brontolio di parole
inintelligibili venir verso l'uscio.

— Sei proprio tu, _Gognino_? Domandò ancora la medesima voce.

— Sì, nonna.

L'uscio s'aprì e comparve fra i battenti una vecchia vestita a bardosso
d'un subisso di panni che non avevan forma nè colore, la quale, senza
badar più in là, per primo saluto allungò la mano, ghermì il
polpastrello dell'orecchio al bimbo, e si pose a tirare.

Il tristanzuolo si diede a strillare come se lo pelassero.

— Biricchino! Gridava la nonna frattanto. È l'ora di tornarne questa
qui? Le nove sono già ribattute alla campana della città.

Maurilio fece un passo innanzi; la vecchia lo udì, si volse, lo vide e
lasciò il fanciullo che andò a finire il suo lamento e il suo pianto
presso al misero focolare, dove s'accoccolò quasi sopra le braci mezzo
spente.

La vecchia e Maurilio si guardarono l'un l'altra, come avviene fra due
che si trovano a fronte e non si sono mai visti.

Di quella poteva dirsi col Boccaccio «una vecchia che pareva pur santa
Verdiana che dà beccare alle serpi,» tanto la era strema, vizza, sporca,
brutta e scontrosa. L'occhio avea rimesso e maligno, la bocca asciutta,
tirata e sottile, il naso adunco, il mento aguzzo e volgente all'insù
con sopravi radi ma lunghi peli di barba grigia: un aspetto di tristo e
d'abbietto, di maltalento temperato dall'impotenza.

Maurilio provò un senso di profonda ripugnanza, quasi di malessere
innanzi a quella figura. E' non si scoprì la faccia e stette lì, com'era
per istrada, col cappello fin sugli occhi e il mantello fin sopra la
bocca.

— Chi è Lei? Domandò la vecchia colla sua voce squarrata. Gli è di me
che cerca? Che cosa vuole?

L'uomo si appoggiò ad un desco zoppo che stava contro al muro presso
l'entrata, e rispose:

— Son venuto a portarvi dieci soldi, perchè non vogliate battere quel
vostro bimbo là.

La vecchia volse un suo sguardo invelenito sul fanciullo, il quale
s'interrompeva dal piangere di quando in quando, per soffiare a pieni
polmoni sulle braci, a cui cercava scaldare le sue mani intirizzite e
gonfie dai geloni.

— Che cosa gli ha contato quel bugiardello di Gognino? Che sì che gli
mostro io!

E la minaccia si sarebbe certamente risolta in fatti, se la vecchia non
avesse visto lo sconosciuto porre nel taschino del panciotto il pollice
e l'indice della sua mano sinistra; allora ella, interrompendosi tosto
nel discorso, tese la destra e stette ad aspettare.

Maurilio trasse fuori un pizzico di monete, le fece scorrere sulla palma
della mano, e siccome, oltre poche di rame da cinque centesimi, non ce
ne aveva che di argento, ne prese una da un franco e la porse alla
vecchia, la quale fu lesta a farla ingoiare da un tascone della sua
gonnella, dove, sonando cupamente, diede segno di essersi andata ad
affratellare con il buon numero di soldacci grossi di rame. Poi ella
sogguardò così di sbieco il donatore e con un cotale accento di timore,
di peritanza, di rincrescimento, impossibile ad esprimersi, gli domandò:

— Ho da tornarle indietro il soprappiù?

Un sorriso ed un moto di spalle fatti dall'uomo, ella s'affrettò ad
interpretare per una negativa, diede un colpetto colla mano alla sua
saccoccia, come per chiuderla, e riprese con tono più umano e dolciato:

— Che Dio la benedica, signor mio, per questa carità.

Si volse verso il piccino che seguitava ad infrignare:

— Vuoi smetterla, Gognino, o che io vengo a levarti il ruzzo collo
staffile?

Maurilio volle parlare, ma la vecchia non gliene lasciò tempo, e
riprendendo a discorrergli come prima, soggiungeva:

— Per Lei, vorrò dire la terza parte del rosario, a favore dell'anima
dei suoi morti.

La faccia di Maurilio si contrasse leggermente, ma ella nol vide.

— E sentirò domattina la messa alla Madonna del Carmine. Io sono sempre
lì sulla porta della chiesa che vendo abitini, rosarii e candelette. Se
mai avesse bisogno di me per alcuna cosa, la mi ci troverebbe. E se
vuole, domani accenderò le candelette per lei all'altare delle
indulgenze.

— No: interruppe Maurilio. Ciò ch'io vorrei si è che non batteste più
quel povero bimbo.

— Ah! rispose la vecchia. Lei crede ch'io gli faccia del male a quel
piccino. Si sbaglia, sa! Io non fo che per suo bene. È dura cosa alla
mia età allevarsi su un figliuolo di quella fatta. Io sono tutt'altro
che cattiva. Ne potrebbe domandare a chiunque, e se le si dirà che la
_Gattona_ è una senza cuore, voglio sprofondare. (Da un buon pezzo di
tempo mi chiamano la Gattona; ma il mio vero nome è Modestina....
Modestina Luponi.... Ma, sa bene, tra noi povera gente si comincia,
tanto per ridere, ad affibbiare ad uno un sopranome, lo si ripete una
volta ed altra, e buona sera, gli è come se gliel'avesse dato il prete
coll'acqua santa.) Dunque le dico che quel ghiottoncello là, di certe
ore, tirerebbe le botte di mano ad un san Giobbe. Sono una povera
vecchia io che il lavoro non può più darmi nessun guadagno. Vivo della
carità della gente io, e deve sapere anche Lei, se la carità della gente
la è tanto larga. Oh stia là, che a me quel biricchino gli è un grave
peso a portare!

— Siete sua nonna, voi?

— Signor sì. Ma vorrei ben essere piuttosto.... Dio mi perdoni, che
quasi ne direi qualcuna di grossa. È il figlio d'una mia figliuola, la
quale dopo avermi dato i mille dispiaceri e perduto a me il rispetto, a
sè l'onore, morì tra la miseria, lasciandomi sulle braccia quel coso. La
ne aveva fatte di ogni razza quella disgraziata ed era proprio caduta al
più basso.

— E voi, sua madre, come non avete potuto avviarla al bene?

— Eh sì! Che cosa vuole ch'io facessi? Bisognava ben lavorare per
vivere.... Un tempo, me la ricavavo bene.... Sono stata in casa di
signori.... e di certi signori.... Basta.... Venne un dì che la mia
ragazza dovette andare in giornata da una parte ed io dall'altra. Sa
come succedono queste cose. Cominciò per innamorarsi d'uno che la
piantò. Poi diede retta alle offerte d'un ricco che la fece scialare per
bene durante un po' di tempo. Quindi da questo a quello, che vuol ch'io
le dica? Patatrach nella miseria e nell'abbiezione.... E fu allora, noti
che provvidenza maligna! che le nacque codesto marmocchio della malora.
Io avrei creduto che lo gittasse all'ospizio. Niente affatto. Quella
creatura, che era stata senza cuore per sua madre e per tutti, volle
tenersi il figliuolo, e per esso sostenne ogni sacrifizio ed ogni
privazione.

— Ciò prova che vi era del buono in lei.

— E codesto la fece morire tisica all'ospedale a vent'ott'anni. Sono
intorno a nove anni fa; me ne ricordo sempre; la mi fece chiamare al suo
letto dove rantolava che faceva spavento, e mi disse con quel poco di
voce che le restava e serrandomi la mano colle sue che bruciavano come
carboni accesi: — Mamma, tu mi hai da promettere di non abbandonare mio
figlio e di allevarlo su un onesto uomo. Che cosa vuole ch'io facessi?
Promisi tutto quello ch'ella volle.

— Ed avete fatto bene.

— Oh! me ne ho dovuto pentire più d'una volta, glie lo dico io.... Avrei
fatto meglio a dar retta al consiglio di alcune amiche, che era di
piantarlo là e lasciar pensare a lui quella provvidenza che l'ha fatto
nascere.

Maurilio sentì un profondo ribrezzo, ma stimò inutile il mostrarlo, e
dopo un momento domandò:

— E suo padre?

— Chi? Il padre di quel bastardo? Chi l'ha mai visto o saputo chi fosse?
Se l'avessi conosciuto, glie ne avrei portato bravamente e dettogli: —
Mantenetevi voi la vostra carne ed il vostro peccato, ch'io, che cosa ci
ho da entrare io?

— Però voi da questo piccino tirate alcun profitto.

— Santa Madonna della Consolata! A che cosa può giovare di buono un
bardassotto di quella guisa? Gli vo comperando qualche dozzina di mazzi
di fiammiferi, perchè li rivenda e venga così raspando qualche
solduccio: chè adesso che si vuol far tutto in nuovo, hanno proibito
anche l'elemosina.... pena il Ricovero. S'e' volesse avere testa a
partito, potrebbe pure guadagnarmi qualche cosuccia di questo modo; ma
sì, egli è più vizioso di quanto si voglia credere, e non è ancora fuor
di casa che con altri sbarazzini di sua risma, ei non sa far altro che
giuocare alle biglie, o alla trottola, alle castelline e sciupare il
tempo e i denari, e va apparando non altro che difettacci.

— Questo è vero. E voi non mantenete così la promessa fatta al letto di
morte di vostra figlia; di allevarlo un onest'uomo.

— Oh sante piaghe! Che cosa ho da farne? Ei non vuol saperne di nulla
delle cose da bene. Padre Bonaventura, un buon reverendo dei Padri
Gesuiti lì del Carmine, mi aveva detto di mandarglielo in sacristia a
far qualche piccolo servizio che gli avrebbero mostrato a servir la
messa, e dato qualche elemosina di tanto in tanto, ed inculcatogli
quanto meno il santo timor di Dio...... Eh sì! _Gognino_.... (lo
chiamano Gognino, ma il suo vero nome è Luca).... Gognino è sempre
scappato come il diavolo dall'acquasantino.

— Perchè non lo acconciate con qualcuna di quelle scuole infantili che
ora si sono fondate?

— Scuole? Tutte baie!... Padre Bonaventura dice che non vi si tiran su
che dei miscredenti..... E poi chi mi compenserebbe i dieci soldi che me
ne fo portare?

— Ah!

Maurilio parve riflettere un poco. Diede una nuova e più minuta
sguardata intorno a sè, si inoltrò nella soffitta ed esaminò meglio il
ragazzo, il quale, tutto rannicchiato al focolare, aveva cessato di
piangere, e teneva fisso sulla nonna e sullo sconosciuto gli occhioni
larghi ed attenti. Poscia Maurilio si volse di nuovo alla vecchia e le
disse:

— A quel bambino, di leggere e scrivere, voi non glie ne avete neppur
parlato?

— Madonna santissima! E perchè mai? E che vuole ch'ei ne faccia? A che
cosa giovano elleno queste cose per noi, povera gente, per quel
disgraziato che gli toccherà sbrandellarsi la pelle se vorrà mangiar
pane?

Maurilio non credette opportuno entrare in discussione colla vecchia
sull'utilità del saper leggere e scrivere. Si rivolse al bambino e gli
disse:

— Vieni un po' qui tu.

Gognino lo guardò con occhio ancora più largo, ma non si mosse.

— Hai sentito. Luca? Gridò la Gattona. Vien qui dal signore. E così,
tristerello, vuoi obbedire o no? Subito, ti dico; chè se vado io a
pigliarti.....

Fece un passo. Gognino tosto fu dritto e s'accostò adagio, mostrando nel
muovere delle spalle e nel frusciarsi i panni addosso tutta la sua
malavoglia.

— Luca, domandogli Maurilio, sai tu che cosa sia leggere e scrivere?

Gli occhi del fanciullo diedero un leggiero lampo d'intelligenza.

— Sì: rispose. Vedo bene che quando appiccan qualche cartello alle
cantonate tutti ci si fermano.

— E di saperlo ne avresti voglia?

— Sicuro. L'altro giorno che hanno menato a morire quel bel giovane, e
che io sono andato a vedere, e che tutto il mondo correva, che dicevano
avesse ammazzato il suo padrone.... Ebbene avrei voluto poter leggere
anch'io la sentenza su pei muri, come faceva l'altra gente.

Maurilio mandò un sospiro e scosse dolorosamente la testa.

— E voi, diss'egli alla vecchia, lasciate questo ragazzo andare a
siffatti spettacoli?

— Bisogna bene. Così vedendo il castigo, imparano a non fare il male.

— Oh miseria dell'ignoranza! Mormorò il giovane; poi, come per una
risoluzione subitamente presa, disse alla vecchia:

— Sentite. Voi quando aveste da questo ragazzo i vostri dieci soldi al
giorno, nulla dovrebbe importarvi ch'egli se ne andasse attorno per le
strade ad imparare i vizi, e il padre di essi, l'ozio, oppure da
qualcheduno che gli desse un po' d'educazione. Non è vero?

— Certo. Ma se non vende fiammiferi o se non cerca l'elemosina, come
razzolar dieci soldi? La mi par cosa impossibile.

— No: è fatta. Io gli darò dieci soldi al giorno e voi mi condurrete a
casa ogni giorno, per lasciarmelo quanto tempo mi piacerà, il vostro
Luca.

La Gattona guardò bene entro gli occhi l'uomo che le faceva una simile
proposta.

— Scusi: biascicò ella: ma che cosa vuol fame lei di Gognino?

— Mostrargli a leggere e scrivere.

— Dassenno?

— Che cosa pensereste ch'io ne facessi?

— Ah! non saprei, ma di questi giorni se ne vedono tante!... Lei è
dunque un maestro?

— Un maestro che vuol pagarvi invece d'essere pagato.

— To' gli è vero! L'è una bella opera che vuol fare!

— Bella no; mi ci voglio provare.

— Ed io avrò dieci soldi al giorno?

— Senza fallo..... finchè non mi stanchi o non abbia altrimenti da
cessare, perchè non prendo già un impegno per un dato tempo. Finchè
dura, dura. Quando il vostro piccino non vi porterà più a casa i dieci
soldi, potrete rifarne quel che vi piacerà. Siamo intesi?

— Ah! dieci soldi sono tanto pochini. Gognino cresce ogni giorno più....
Fra poco sarebbe in grado di fruttarmi assai di vantaggio. Mettiamo
venti soldi.

— No. Sono povero ancor io. Questo lo posso fare, non di più. Se vi
accontentate, bene; altrimenti sia per non detto.

— Via, come vuole.....

— Comincieremo da domani.

— A suo senno.

— Sapete leggere voi?

— Signor sì..... Come le ho già detto non fui sempre la misera donna che
Lei vede in adesso. Quand'ero giovane.... Eh! Ho vissuto bene un poco
ancor io.... Ma poi delle disgrazie.... Un vero romanzo se glie l'avessi
da contare..... L'ingratitudine di certa gente.... Basta! Non gli accade
ora di far parola di codesto.... So leggere come un notaio.

Maurilio trasse di tasca una cartolina compagna a quella che aveva data
poc'anzi a Gian-Luigi.

— Prendete, disse porgendola alla vecchia, questo è il mio indirizzo.
Domattina alle nove vi ci aspetterò col vostro nipote.

E fatta una carezza al ragazzo si mosse per uscire. La Gattona, presa la
lucerna, gli tenne dietro a rischiarargli l'andito e la scala, e quando
lo sconosciuto fu per ispiccarsene, ella lo ritenne.

— Ah signore, gli disse, d'una cosa la voglio avvertire. Se mai per
caso..... poichè vedo che Lei è tanto generosa..... se le avvenisse di
voler fare qualche maggior carità a Gognino..... in più di quei dieci
soldi......; ebbene, la prego a non dar niente a lui. È malizioso come
il fistolo, sa, e sarebbe capace di tenersi i denari e sciuparli al
giuoco, non dicendomene neppur motto. Sarebbe meglio che li dèsse a me
direttamente.

— Va bene, va bene; rispose Maurilio, e partendo di buon passo lasciò lì
la vecchia, a piè della scala.

La Gattona, risalita alla sua soffitta, pose la lucerna in sul desco, e
curiosamente si fece a leggere le parole scritte sulla polizzina datale
dallo sconosciuto. Esse erano le seguenti: MAURILIO NULLA, _scrivano
pubblico, via porta num. 7, piano quarto_.

— Maurilio! Esclamò la vecchia sovraccolta. Oh! Che cosa mi ricorda
questo nome! Sono più di venti anni che non l'ho più udito; che non
trovai più nessuno che lo portasse....... E costui potrebbe egli avere
alcuna attinenza con quell'altro là?.....

Scosse le spalle, come si fa quando ci viene un'idea assurda pel capo.

— Eh via! Gli è impossibile.

Allora domandò conto a Gognino di quanti denari avesse raccattato
durante la giornata; e poichè vide che in luogo di dieci non le aveva
portato a casa che quattro soldi, si diede a batterlo secondo l'usato,
precisamente come se l'intervento di Maurilio non avesse avuto luogo.



CAPITOLO X.


Maurilio s'allontanava da quella casa col capo più basso e coll'animo
più triste di prima. Andava lentamente traverso la nebbia fattasi più
folta, come uomo a cui la volontà non dirige il cammino, ma si lascia
trasportare a caso dalle sue gambe. L'umido spruzzolìo di prima s'era
convertito in buona e bella neve che calava giù lenta, lenta, fra la
nebbia, a larghi fiocchi, e già vestiva d'un bianco strato il terreno su
cui ammortiva il suon de' passi ai rari cittadini che per quella
melanconica sera si affrettavano a rientrare nelle case loro.

Ad un tratto il nostro giovane si riscosse. Era uscito dal povero
quartiere della miseria e dell'abbiezione, e trovavasi in una strada
larga, fiancheggiata da superbe abitazioni del ceto signorile. Innanzi a
lui, un palazzo dei più suntuosi gettava nelle tenebre della notte dagli
alti suoi finestroni delle ondate di luce che faceva brillare al
passaggio i candidi fiocchi della neve. L'alto e imponente portone da
via, per cui s'entrava in un atrio elegante di severa architettura, era
spalancato, e nell'atrio medesimo stava una magnifica carrozza chiusa, a
cui attaccati due stupendi cavalli di prezzo che scalpitavano e
scuotevan la testa impazienti. Certo questa carrozza attendeva i padroni
di quel palazzo che stavan per uscire: e così pensò tosto Maurilio, il
quale nel cocchiere vestito di terraiuolo impellicciato, seduto con
altezzosa imponenza sull'alto sedile colle redini in una mano e la
frusta nell'altra, in una classica mossa che qualunque cocchiere inglese
gli avrebbe invidiato, riconobbe tosto la livrea della nobile famiglia a
cui quel palazzo apparteneva.

Maurilio s'era lasciato condurre passivamente dalle sue gambe, e queste
lo avevan portato là dove tanto spesso volava il suo pensiero.

In faccia a quel portone, il giovane sostò, si volse a quel bagliore che
pioveva dalle ampie finestre, guardandovi fiso con occhio e con
sembiante pieni di mille espressioni, profferse parole cui nessuno,
anche udendole, avrebbe pur potuto capire.

Parve esitare un istante, poi con evidente sforzo si staccò dal posto in
cui stava piantato e fece alcuni passi per allontanarsi; ma tosto si
arrestò di nuovo; una lotta si combatteva nel suo animo; tornò vivamente
indietro, e senza che alcun lo vedesse, guizzò sotto l'atrio e corse ad
appiattarsi dietro ad un gruppo di colonne. Là si appoggiò al freddo
marmo d'una di queste colonne e si premette con ambe le mani il cuore
che gli batteva così violentemente da minacciar di scoppiare.

Non attese lungamente. La grande invetrata che metteva al marmoreo
scalone venne aperta da un domestico in gran livrea a capo nudo; due
donne con fiori ne' capegli, avvolte in ricchi mantelli alla foggia
beduina di cascemir bianco con ricami in oro ed un uomo imbaccuccato nel
tabarro ed avvolto il collo sino alla faccia da una finissima fascia di
lana si diressero verso la carrozza, di cui corse ad aprire lo sportello
un altro domestico in soprabito lungo, a grossi bottoni d'argento
stemmati e col cappello coperto di tela incerata in mano.

Quelle due donne erano passate rapidamente, ma il nostro giovane le avea
viste, le avea saettate di suoi sguardi accesi come una fiamma,
ansimante il petto, battenti i polsi della testa, tremanti tutte le
fibre, le avea seguite collo sguardo intento.

O per dir meglio non aveva visto, ammirato, vagheggiato che una di esse:
— la più giovane. Era bella come un'apparizione nel sogno d'un poeta
d'Oriente. Alta della persona, dignitoso e graziosissimo il portamento,
mite e pur nobilmente superbo l'aspetto; un muover di collo che
ricordava l'avvenenza del cigno, una eleganza nativa, non ricercata, non
appresa, piena d'incanto; tutta la grazia aristocratica nel piglio,
senza l'offensività dell'orgoglio. A vederla passare soltanto, ogni
cuore si sentiva trascinato dietro lei con un omaggio d'ammirazione.
Chiunque avrebbe affermato senz'altro esser ella nata per andar prima in
tutto, per vedere tutto il mondo a que' suoi piccoli, ben arcati,
sottilissimi piedi. Un diadema di regina non avrebbe disdetto alla sua
fronte leggiadramente superba. I suoi capelli di color biondo un po'
fulvo, le facevano intorno al capo di sì fina struttura un'aureola
d'oro, come alla più bella vergine staccata da uno de' più bei quadri
del Luvini. Lo sguardo limpido, sereno, profondo balenava in occhi cui
meglio non avrebbe saputo disegnare il pennello di Murillo, del color
del mare. Il sorriso era grave in una ed infantile. Tutta la malìa della
gioventù accompagnata dalla più splendida bellezza, vi si trovava
insieme colla riflessività d'un'anima che sente, che ha già visto il
dolore, d'un cervello che pensa e d'un cuore che si commove. La sua
mano, da sola, chi non vedesse altro di lei, l'avrebbe fatta conoscere
per generata di purissimo sangue aristocratico. Era una mano esile,
lunghetta, a dita affusolate, ad unghie color di rosa elegantemente
convesse, bianche come l'alabastro ed appena se mostranti traverso la
pelle finissima l'azzurigno della rete venosa; una mano che uno scultore
avrebbe adorata.

L'altra donna era di età inoltrata e sul suo volto, che incominciava ad
esser troppo corso dalle rughe, non si leggeva che orgoglio, arroganza e
disprezzo d'altrui.

La giovane entrò prima nella carrozza, poi l'attempata, ultimo l'uomo.
Il domestico richiuse la portiera, si mise in testa il cappello, salì in
cassetta vicino al cocchiere, e la carrozza si mosse.

Già era uscita dal portone, già il domestico in livrea era risalito
negli appartamenti: già il portiere, venuto fuori a salutare con un
grande inchino il passaggio della carrozza, richiudeva il portone per
non lasciar aperto che l'usciolo a sportello, e Maurilio era ancora là,
appoggiato alla colonna, immobile, ma palpitante, gli occhi rapiti come
da una celeste visione.

Ad un tratto si scosse. Aveva bisogno di vederla ancora. Si slanciò fuor
del portone ratto come un baleno, passando presso il portiere
spaventato; vide allo svolto della via sparire i fanali della carrozza
che andava al piccol trotto de' suoi cavalli; corse come vola una saetta
in quella direzione; raggiunse il cocchio, s'aggrappò al predellino di
dietro, su cui stanno in piedi i servitori, vi si arrampicò, vi si
raggomitolò, vi stette sentendosi mancare il fiato, la lena e le forze.

Intanto pensava nel suo cervello cui veniva a martellare il sangue
concitato.

— Ella è là!..... Là presso a me..... Divisa da una sottile parete.
Appoggia forse a questo punto la sua bella persona... Se potessi vederla
nell'abbandono del suo atteggio!

La carrozza correva senza rumore sul tappeto già alto della neve caduta.
Quando la si arrestò Maurilio parve ridestarsi e guardò intorno dove si
trovasse. Era in piazza S. Carlo e la carrozza era venuta ad accodarsi
l'ultima di una schiera di cocchi che facevan la fila per entrare uno ad
uno nel portone d'un palazzo in mezzo a quel lato della piazza che
guarda l'occidente. Questo palazzo dalle sue finestre del primo piano
mandava torrenti di luce che correvano via lontano per la piazza a
illuminare i fiocchi cadenti della neve, a ripercotersi sul cimiero di
bronzo imbianchito ancor esso della statua equestre d'Emanuele
Filiberto, a riflettersi come un lampo sanguigno in mezzo a tutto
quell'albore sulla baionetta che brillava a capo del fucile stretto fra
le braccia dalla sentinella del monumento intirizzita.

Eravi gran ballo nelle sale della Società dell'_Accademia Filarmonica_;
uno di quei balli, come al giorno d'oggi non ne vediamo più, in cui il
fior di farina della borghesia, stacciato traverso il cribro de' più
permalosi pregiudizi, accoglieva la disdegnosa aristocrazia, la quale
era stimolata alla degnazione di arrendersi all'invito dall'esempio
della Corte, che onorava la festa di sua presenza.

Maurilio si ricordò in quel punto di aver udito parola di tal festa da
un suo amico, ricco, elegante e socio di quella congrega. Come fosse
amico d'un ricco, egli povero, senza nome e senza stato, lo sapremo in
appresso. Discese dalla predella su cui s'era aggomitolato, e si gettò
sotto il portico del palazzo coll'intenzione di introdursi fin sotto
l'atrio, fin nel vestibolo per aver la dolcezza di vedere ancora una
volta la incantatrice visione di poc'anzi apparirgli, val quanto dire
quella stupenda e superba bellezza di donna uscir di carrozza e
passargli dinanzi.

Ma l'impresa era più difficile di quanto ei si pensasse, e fu un momento
in cui per sua disperazione gli apparve impossibile. Sotto il portico,
ai due lati del portone, sul passaggio delle carrozze, che lentamente
sfilavano ad una ad una per lasciar giù nell'atrio le persone che
contenevano ed uscir poi da un altro portone di facciata, traversando il
cortile stato ricoperto con invetrate e ridotto a giardino; sotto il
portico, dico, s'erano formate due fitte siepi di curiosi che stavano
cogli occhi intenti a mirare nello scuriccio dell'interno de' cocchi le
ombre di color bianco o rosato delle acconciature femminili.

Il nostro giovane protagonista ben riuscì, non senza difficoltà, a
spingersi in prima riga di questa calca là dove facevano barriera a
contenerla indietro il cappello a becchi dei carabinieri, e la mazza dei
veterani, che si chiamavano _ordinanze del Comando di piazza_, i quali,
allora, servivano da guardie di polizia. Ma ciò non gli bastava: era
sotto il portone, era nell'atrio, era su per le scale ch'e' voleva
penetrare. Pensava che occorreva affrettarsi. Quantunque la fila delle
carrozze fosse assai lunga e procedesse lentamente, se Maurilio non si
sbrigava, poteva arrivare la volta di entrare a quel cocchio su cui
aveva rivolti tutti i suoi pensieri, prima ch'egli fosse là dove
desiderava allogarsi. Un nuovo ardimento entrò in lui. Si spinse
temerariamente innanzi e varcò la sacra soglia del portone conteso ai
profani. Ma colà si trovò innanzi la imponente corporatura d'un
gigantesco portiere con tanto di cappello a becchi gallonato, con tanto
di gallone sul soprabitone a spada, con tanto di budriere largo un palmo
traverso il petto, e con una gran mazza a pome di argento nella mano
vestita di guanto bianco di cotone.

Questo alto personaggio fiancheggiato da due _ordinanze_, guardò con
cipiglio disdegnoso ed impaziente l'audace dai panni logori colla neve
sulle spalle e sul cappello, che osava avventurarsi in quelle aure
olimpiche riserbate ai Dei e Semidei.

— Non si passa: disse il signor portiere con brusco accento, mettendosi
innanzi all'intruso.

Dietro le grosse spalle quadre del portinaio, balenarono agli occhi di
Maurilio le piastre di metallo colla croce in mezzo dei _sciacò_ delle
due _ordinanze_ pronte a mettere in esecuzione il bando formolato dalla
voce solenne dell'autorità della porta. E' si perdette un istante di
spirito; balbettò confuse parole e sentì un rossore accusatore salirgli
alla faccia.

— Andiamo, andiamo: riprese il portinaio, bisogna sgomberare. A momenti
arriva la Corte...

Un'idea per fortuna era venuta a Maurilio che si torturava il cervello
per trovarla. Si ricordò di quel suo amico che ho detto poco anzi, e
pensò invocarne la protezione del nome.

— Cerco dell'avvocato Benda....... È ben qui l'avv. Benda?

— Sicuro che c'è; rispose il gigante che faceva da cerbero; ma questo
non è il luogo nè l'ora di cercarlo.

Maurilio fece come il naufrago, che aggrappatosi a qualche cosa onde
spera salute, non vuole spiccarsene più; giunse le sue grosse manaccie
in atto di supplicazione ed insistette:

— Bisogna assolutamente ch'io gli parli.......... Si tratta di cosa
gravissima e che preme..... Mi contenterò d'aspettarlo sotto l'atrio o
su per le scale... Di grazia lo facciano chiamare... Darò il mio nome...
Vedranno che verrà tosto... Ripeto che è cosa importantissima.

L'accento, la figura, la mossa del giovane erano così turbati che il
portinaio credette realmente a qualche cosa di serio. Pensò inoltre alle
larghe mancie che soleva distribuire l'avvocato Benda, onde valeva la
pena di far cosa che potesse contentarlo. Il cerbero si fece più umano;
curvò le spalle ed abbassò d'un tono l'altezzosa impertinenza
dell'accento.

— Se è così... possiamo provare.... ma il difficile sta nel trovare
l'avvocato nella confusione di gente che c'è lassù...... Gli è quasi
come cercare un ago in un fastello di fieno..... Ma pur via......

Si rivolse dignitosamente ad una delle _ordinanze_.

— Fate il piacere, disse, accompagnate questo giovane lì nel vestibolo
in fondo alla scala e dite ad uno dei domestici il fatto suo.

L'_ordinanza_ fece un cenno affermativo col capo ed eseguito un
_dietro-front_, disse a Maurilio con tono di comando militare:

— Venite!

A Maurilio il cuore saltava in petto dalla gioia. Aveva sperato bensì
che lo avrebbero lasciato introdursi da solo, allora avrebb'egli ben
cercato dove appiattarsi da veder comodamente ciò che tanto desiderava:
ed invece doveva seguire i passi del soldato e proseguire nella menzogna
a cui aveva domandato soccorso: ma almeno egli era, per dirla in istil
militare, nella piazza, e ciò gli bastava.

Il veterano condusse il giovine fin sulla soglia del vestibolo dello
scalone, dove un servitore della Società in gran livrea stava appostato.
Già in quel vestibolo tutto era luce e profumi. Ricchi arazzi pendevano
alle pareti con ghirlande di fiori, un morbido tappeto copriva il marmo
del pavimento, ai due lati si schieravano enormi vasi ed eleganti, da
cui gettavano il soave effluvio de' loro fiori, cedri, aranci ed
oleandri; mille fiammelle alimentate dal gaz e dalla cera brillavano a
gara nel tepore di quell'ambiente. Come aveva detto il portinaio, si
stava aspettando da un momento all'altro l'arrivo della Corte. Sotto
l'atrio, facendo ala fino al vestibolo, erano schierate in due file le
guardie del palazzo reale; a cominciar dal vestibolo, su per tutto lo
scalone, ad ogni due passi, da una parte e dall'altra, sorgeva il
cappello piumato e scintillavano a quel tanto bagliore gli spallini e le
tracolle d'argento d'una guardia del Corpo. La deputazione dei soci
dell'_Accademia_ destinata a ricevere le LL. MM. e le LL. AA. RR. già
era venuta giù fino al ripiano frammezzo alle due branche dello scalone,
e mostrava in gruppo le sue cravatte bianche e i suoi vestiti a coda.

Voi comprendete quindi quanto fosse mai inopportuna la venuta e la
domanda del nostro povero Maurilio. Quando il buon veterano ebbe
spiegato l'una e l'altra al domestico, questi volse sul meschino
mantello del giovane lo stesso sguardo di disprezzo che già s'era
meritato dal portinaio, e rispose crollando le spalle per impazienza e
sorridendo con superba compassione.

— Eh! siete matto, brav'uomo! Si ha ben altro da pensare adesso! E poi
chi potrebbe mai trovare lassù fra tanta confusione l'avvocato Benda?

Per azzardo un altro domestico che passava udì queste parole, e si
fermò.

— L'avvocato Benda? Diss'egli. E' si può trovar subito, chi lo vuole.
Egli è qui sul ripiano che fa parte della deputazione per ricevere il
Re.

Allora Maurilio si trovò costretto a ripetere la sua menzogna, che
urgeva parlasse a quel signore.

— Mi dica il suo nome: soggiunse quel secondo domestico che pareva più
umano: e glie ne dirò all'avvocato.

Così fece Maurilio, e il domestico s'affrettò su per lo scalone. Due
minuti non erano ancor passati che ecco venir correndo un bel giovane in
elegante ed inappuntabile acconciatura da ballo, il quale esclamò con
accento veramente cordiale:

— Che? Sei tu che mi cerchi, Maurilio? Vieni, vieni e dimmi che cosa è
capitato.

A questo intervento, la soglia del vestibolo, che fino allora gli era
stata contesa dal domestico e dall'_ordinanza_ rimasta lì pronta a
pigliar pel braccio l'intruso e ricondurlo fuori, quando ne fosse il
caso; quella preziosa soglia fu permessa a Maurilio e il piede di costui
potè, benchè tutto sporco di fango, calpestare il ricco tappeto del
vestibolo come facevano gli scarpini di vernicato del suo compagno.

Francesco Benda, come ho già detto, era un bel giovane, ma ciò che è
meglio, simpatico per chiunque lo vedesse, e inoltre (il che è assai di
più ancora) buono, generoso, amorevole, pieno di carità e d'affetto.
Apparteneva alla ricca borghesia, ma non ne aveva gli stupidi orgogli,
l'arida ignoranza e i gusti meschini. Suo padre, operoso industriale,
aveva coll'intelligenza e col lavoro accresciuto un vistoso patrimonio
già lasciatogli da' suoi parenti, e seguitava ad accrescerlo
coll'esercizio di parecchie miniere di ferro che attivamente coltivava e
con una grandiosa fabbrica d'ogni fatta utensili di questo metallo.

L'unico figliuolo maschio di questo fabbricante aveva fin da principio
manifestato poca inclinazione per le cose dell'industria. L'orgoglio del
padre suscitatosi alquanto coll'aumentar delle ricchezze, quello della
madre maggiormente soddisfatto ed incitato insieme dalle belle sembianze
e dalle simpatiche maniere del figliuolo, le tendenze di quest'esso,
avevano congiurato per far decidere dalla famiglia che Francesco non
continuerebbe nel _mestiere_ del padre, ma farebbe il _signore_; val
quanto dire l'uomo ozioso, il consumatore improduttivo che la sciala sul
capitale raccolto dal lavoro accumulato da' suoi antecessori. Siccome
per la borghesia torinese, massime a quei tempi, la laurea d'avvocato
era una mezza nobiltà che tirava su chi la possedesse dal ceto
mercantile creduto da meno; padre e madre Benda decisero che il loro
figliuolo vestirebbe la toga dottorale; e il buon Francesco accrebbe di
uno il numero degli avvocati senza cause che pagano con cinque anni
sciupati all'Università la sciocca superbia di portare quel titolo.

Ma il giovane Francesco ebbe due fortune: la prima un'indole eccellente,
non iscompagnata da una buona intelligenza, e quindi una propensione per
tutto ciò che è bello e sopratutto per le divine cose dell'arte, fra le
parti della quale egli prescelse e coltivò non senza successo la più
delicata di tutte, la musica; la seconda fortuna fu di abbattersi in una
schiera di amici che erano d'animo eletto e di non volgare ingegno. Fra
costoro contava Maurilio; e come questi due giovani, così divisi dalle
condizioni sociali, si fossero incontrati, raccozzati ed amati, vi
racconterò fra poco.

Al momento in cui, quella sera di festa, appena udito il nome dell'amico
che cercava di lui, Francesco Benda s'affrettava a recargli innanzi la
sua aggraziata persona, la faccia serena, la fronte leggiadra coronata
di bei capelli castagni riccioluti, lo sguardo degli occhi azzurro,
limpido come quello d'una ragazza innocente, egli contava intorno a
venticinque anni. Era conosciuto ed ammesso in tutte le più eleganti
società; se fosse stato un fatuo, avrebbe potuto contare molte di quelle
che i Francesi chiamano _buone fortune_. Le signore più alla moda
cantavano con espressione le sentimentali di lui romanze, e quando egli
sedeva al pianoforte, anche le più schive e severe si accostavano a lui
e non disdegnavano fissare i loro occhi lucenti sulla bella testa del
giovane e si commovevano alle dolcissime melodie che egli sapeva
suscitare dai tasti. Le adulazioni degli amici interessati che
mangiavano le sue cene, fumavano i suoi sigari, cavalcavano i suoi
cavalli, usavano sotto titolo d'imprestito da non restituirsi mai, della
sua borsa, non lo guastavano, perchè egli alle adulazioni non credeva e
le abborriva; e la compagnia di quei tali amici che ho detto più su, cui
egli si procacciava il più spesso che gli fosse dato, creavagli intorno,
direi quasi, un ambiente sano a premunirlo.

Egli adunque era corso sollecito alla chiamata di Maurilio; l'aveva
intromesso nel vestibolo, e prendendo all'amico le mani grosse e volgari
colle sue accuratamente inguantate di bianco, aveva soggiunto:

— Parla, parla. Spero che non sia accaduto nulla di disaggradevole nè a
te, nè ai nostri amici; ma ad ogni modo, qualunque cosa sia, dimmela, e
tutto ciò ch'io dovrò fare, sta certo che lo farò.

Maurilio teneva gli occhi bassi ed esitava a parlare. Una nuova
menzogna, e detta a quel buono e leale amico, troppo ripugnava alla sua
anima franca; e dire la verità si vergognava più che non si può
esprimere.

Francesco interpretò quell'esitazione nel peggior senso.

— Dio! Esclamò egli tutto sgomentato. Tu mi spaventi. È dunque alcuna
cosa di grave?

Abbassò la voce ed accostò ancora le labbra all'orecchio dell'amico.

— Forse, soggiunse con una voce che non era più che un soffio leggiero,
forse siamo scoperti?....

Maurilio sollevò in volto a Benda il suo sguardo espressivo.

— No: rispose. Ciò che qui mi trasse, non è nulla che possa inquietare
nessuno. Ebbi immenso bisogno di penetrar sin qui, ho immenso bisogno di
fermarmici un istante..... Ho pensato ricorrere alla protezione del tuo
nome.

Benda stupito stava per fare alcuna interrogazione, quando un movimento
generale interruppe il colloquio dei due amici.

Un domestico passò correndo e gettò queste parole: — È qui la Corte.
Sotto l'atrio suonò con voce vibrata il cenno del _guardiavoi_ dato dal
comandante delle _Guardie del Palazzo_: le _Guardie del Corpo_ nel
vestibolo e su per lo scalone si misero nella postura del soldato in
rango e portarono a _bracc'-arm_ le loro lucenti carabine: la
Commissione dei soci incaricata del ricevimento scese la branca ultima
dalla scala e s'avviò verso l'atrio.

Prima di riunirsi a questa schiera, Francesco Benda disse
affrettatamente a Maurilio:

— Mettiti lì, dietro quel vaso, ed aspettami. Appena accompagnata la
Corte negli appartamenti, torno giù, e riparleremo.

Maurilio non desiderava di meglio: sparì dietro un grosso vaso
d'oleandro, mentre preceduto dal susurro della folla curiosa dal di
fuori, entrava sotto l'atrio il battistrada a cavallo, coperto il
mantello rosso di neve.

— _Presentat-arm!_ Comandò la medesima voce.

Si udì il rumore secco e vibrato del movimento dell'arma eseguito dalle
guardie colla precisione di vecchi soldati, e sei carrozze della Corte,
l'una dietro l'altra, entrarono in mezzo ad un profondo silenzio del
popolo che si accalcava fuori del portone e che i Carabinieri e i
Veterani tenevano indietro non sempre con buona grazia.

Quello non era ancora il tempo in cui ogni comparsa in pubblico del
sovrano desse pretesto ad un'ovazione popolare.

Gli augusti personaggi scesero di carrozza e brevemente complimentati
dall'apposita deputazione, si avviarono verso le scale. Veniva primo re
Carlo Alberto, con alla destra la regina ed alla sinistra, d'un passo
indietro, il presidente della Società che lo accompagnava; poscia il
duca di Savoia Vittorio Emanuele colla duchessa, al cui lato dall'altra
parte camminava il duca di Genova; dietro, dame ed ufficiali d'ordinanza
ed aiutanti di campo e cortigiani.

Le brillanti uniformi degli uomini, i diamanti ed i vivaci colori delle
acconciature femminili lucicchiavano alle mille fiamme di quella
luminaria, come un'accolta di fuochi. Tutto quello che ha di più
maestoso e di più splendido la società civile, radunato in quel gruppo
di grandezze e di suntuosità, passava innanzi agli occhi abbagliati di
Maurilio, di quel povero giovane senza nome e senza famiglia, nato e
vissuto nella povertà e nel lezzo della più umile plebe, che veniva pur
ora dagli sconci quartieri ove s'agita la più sprezzata ciurmaglia ed
aveva a' suoi piedi appiccato il fango dei trivii più sozzi. Un mordente
pensiero gli spuntò nel cervello, e un gran quesito, quello della sorte
umana, lo morse improvviso nell'animo.

— Quelli son tutto, ed io nulla!... Perchè?

Sentì nel petto un'angoscia che gli parve la stretta d'un'invidia
potente.

— Oh! se potessi aver mio uno di quei nomi, una di quelle grandezze!

Pensava a quella giovane beltà cinta di ricchezza e d'orgoglio che nella
fila dei cocchi attendeva la sua volta per venire a montar quello
scalone e introdursi in quell'Eden di gioie mondane a lui serrato dalla
tirannia delle convenzioni sociali.

— E v'è un uomo al mondo, continuava egli nel suo pensiero, il quale con
atto di sua volontà potrebbe farmi grande e potente; e quest'uomo è
quello che ora mi passa dinanzi; è quello che chiamano col nome di re.

Colle mani Maurilio aprì un piccol varco tra le frondi della pianta
dietro cui si riparava, e spinse alquanto innanzi la faccia per vedere
il re ch'egli conosceva soltanto dai ritratti che abbondavano presso
tutti i mercanti di stampe.

La figura di Carlo Alberto era tale, che, non fosse pure stata quella
d'un re, avrebbe in ogni dove attirata l'attenzione e meritato
dall'osservatore un posto singolare ed una preminenza sulle altre. Sul
suo sembiante stava l'impronta della sua natura generosa, ma in alcuni
lati incerta, sostenuta in parte da una fede potente, travagliata in
altra da un dubbio crudele — dubbio degli uomini e di sè stesso. La
vastità della fronte informava di quella dell'intelligenza; le rughe
precoci delle tempia, la canizie anticipata delle chiome svelavano
segreti, forse da nessuno mai compresi dolori; il pallore quasi
cadaverico delle guancie emaciate, lo sguardo spento de' suoi occhi
affondati stavan segno di profondi travagli, in notti vegliate ai
tormentosi studi, in cui un pensiero ribelle affannava un'anima, forse
non vigorosa abbastanza, un generoso concetto lottava contro una volontà
non adeguata di forza, una seducente ambizione ed un coraggio
individuale, accresciuto da una tradizione di razza, contrastavano colle
esigenze d'un prudente riserbo, alcune volte timido per necessità fatale
e dolorosa.

Su questi tratti del politico e del re, gettava un velo, che ne
accresceva l'incertezza, una specie di misticismo ascetico; sopra le
sembianze del cavaliere scorgevi una traccia del rinunciamento, del
sacrificio passivo dell'anacoreta; avresti detto che quelle tormentose
veglie, onde rimaneva affranta la combattuta carne, cominciate nel
faticoso problema delle cose terrene, finivano in rapimenti estatici
nell'incomprensibile delle cose divine. Al postutto una grandiosa
figura, una delle più complesse e delle più degne di studio che abbia la
storia moderna.

Maurilio sentì una strana attrazione verso quella imponente figura di sì
misteriosa espressione. Non era lo splendore della potenza che lo
colpisse, non era la corona regale ch'egli vedesse su quella pallida
fronte; era come la malìa d'un ignoto, che pur si sente racchiudere la
grandezza d'un pensiero fecondo, era la traccia del travaglio doloroso
di un'anima superiore, travaglio che pareva sin d'allora il preavviso
che quella fronte avrebbe portata una corona ancora più preziosa: la
corona di spine del martirio.

Il giovane plebeo non potè tenersi dallo spingersi alquanto innanzi a
mirare di meglio quell'alta, scialba, severa, solenne persona di re
incanutito, brillante il petto di tutte le cavalleresche insegne,
circondato di tutte le mostre della potenza. Carlo Alberto ebb'egli
attirata la sua attenzione dal lieve rumore del fruscio delle foglie, fu
egli avvertito da un influsso magnetico dello sguardo penetrante di
Maurilio? Il fatto è che il sovrano volse il capo a quella parte, e
visto, in mezzo ai fiori dell'oleandro, due occhi, ardenti come carboni
accesi, fissi su di lui, diede in un sussulto lievissimo, e il suo
occhio semispento si affissò a sua volta in quegli occhi e balenò d'un
istantaneo bagliore in cui si sarebbe potuto dire ci fosse dubbio,
sospetto, un'ombra di fugace apprensione tostamente repressa. Ma non una
linea de' suoi tratti si mutò, non un muscolo della sua faccia
menomamente si mosse. Lo sconosciuto non aveva chinato le sue pupille
nell'incontrare lo sguardo di quelle del re; ma in quegli occhi profondi
non c'era pure un accenno di ostilità, piuttosto vi era un desiderio,
una specie di aspirazione, un voto, quasi una speranza[1].

  [1] Introdurre la figura di re Carlo Alberto nelle scene del mio
  racconto, è ella una imperdonabile temerità? Spero di no. Nello
  svolgersi di questa storia, insieme colle varie classi sociali,
  ho pensato introdurre anche la monarchia in presenza del
  problema della plebe. E il monarcato non poteva meglio
  rappresentarsi che nella nobile, maestosa figura di Carlo
  Alberto. L'arguto lettore, a quest'ora, si sarà accorto che nei
  personaggi introdotti a sostenere una parte in questo dramma, si
  incarnano varii tipi, e in quello di Maurilio stanno raccolte ed
  espresse in gran parte le qualità, i bisogni, i sentimenti della
  plebe che conoscesse i suoi mali, e travedesse i rimedi di essi,
  ed avesse acquistato il sapere di formolarli ed esprimerli. Se
  questa plebe si troverà in contatto colla monarchia, non è ella
  la cosa la più naturale del mondo; e quando nessuna delle parti
  ne resti calunniata o le sue condizioni falsamente espresse,
  qual legge di convenienza o di verità potrà dirsi offesa?

Carlo Alberto continuò il suo cammino, e l'occhio suo, senza pur
muoversi, corse via dal viso squallido e tormentato del giovine plebeo
all'imponente corporatura della Guardia del Corpo vicina, che presentava
l'arma, immobile e dura come un pezzo di marmo.

Era l'epoca in cui credevasi Carlo Alberto aver detto, e certo avrebbe
potuto dirlo con tutta verità, trovarsi egli fra il pugnale dei
Carbonari ed il cioccolato dei Gesuiti. Damocle coronato, l'antico
cospiratore del ventuno camminava sopra un terreno malfido, frammezzo a
due abissi, senza una mano a cui sicuramente appoggiarsi, sotto le
cortigianerie dei grandi e sotto il muto riserbo dei popoli sentendo
romoreggiare cupamente odii infiniti, ed implacabili sospetti, ed
infinite minaccie; camminava fra un sì ed un no che nel capo gli
tenzonavano incessantemente, verso un'ignota meta, di cui non iscorgeva
egli stesso la qualità e la sorte. Che meraviglia se alcuna volta
esitasse nel passo? Che meraviglia se all'aspetto d'ogni cosa ignota,
s'attendesse ad un avverso colpo del fato? Se al semplice fatto d'un
luccicar di due occhi accesi tra i fiori di una festa, nascesse nel suo
cervello l'idea d'un pericolo?

Il Re passò lentamente, e dietro di esso la frotta ordinata e smagliante
della Corte. S'udì in alto, per la vastità degli appartamenti suonare la
marcia reale e perdersi il plauso di battimani, con cui i beati del
censo, invitati a quella festa, salutavano l'arrivo di quei sommi
rappresentanti dell'autorità sociale. Le _Guardie del Corpo_ si
formarono in isquadra e salirono lo scalone dopo il corteggio reale; e
le carrozze degli arrivanti ripresero il loro sfilare sotto l'atrio,
interrotto dall'arrivo degli equipaggi di Corte.

Maurilio non abbandonò il suo ripostiglio. L'impressione prodotta in lui
dalla vista del regio corteo era già scancellata pel ridestarsi più vivo
del sentimento e del desiderio che lo avevano tratto colà. Allungato il
collo di dietro la pianta che lo nascondeva, egli guardava ansiosamente
le eleganti femminee forme che non cessavano dallo sfilargli dinanzi. La
carrozza su cui egli aveva tutto concentrato il suo pensiero tardava a
sopraggiungere. L'orchestra del ballo gettava giù per le ampie volte
dello scalone le sue armonie febbrilmente concitate. Quella musica e gli
acri profumi di quei fiori che lo circondavano, salivano al cervello del
nostro povero giovane come il principio d'un'ebbrezza fatale, come lo
sventurato solletico d'una tentazione indefinita.

Era sua intenzione di non abbandonare il suo ripostiglio, ma secondo la
fatta promessa, Francesco Benda, tosto che il potè, venne
affrettatamente a raggiungerlo.

— Eccomi a te, diss'egli a Maurilio, fattolo venire a mezzo il
vestibolo. Che cos'è che mi dicevi? Che avevi mestieri di venir qui?
Perchè? In che cosa posso giovarti? Vuoi forse parlarmi più agiatamente
e in segreto? Posso condurti in una riposta cameretta qui sopra,
segregata dalla festa.....

— No, no: s'affrettò ad esclamare Maurilio.

L'imbarazzo di proseguire nella risposta gli fu accresciuto dalla
profonda emozione che di botto s'impadronì di lui. Dalla carrozza ferma
in quell'istante sotto l'atrio era uscita e veniva verso i due giovani
la persona che Maurilio stava con tanto desiderio aspettando.

Francesco Benda non fu in caso di scorgere il turbamento del suo
compagno, perchè ancora egli era in preda ad uno per nulla minore. Mandò
una esclamazione, e senza più badare all'amico, tutto preso com'era da
un nuovo potentissimo sentimento, si spinse innanzi ad incontrare e
salutare le due donne e l'uomo che le accompagnava.

L'attempata ed il cavaliere accolsero il giovane avvocato con molto
altiero sussiego e risposero al suo saluto con modo di superba
superiorità: ma la giovane gli diresse un gentile sorriso che ben valeva
a scancellare ogni sinistra impressione per le maniere degli altri.

Benda si mise allato alla vecchia patrizia e venne accompagnando le due
donne verso lo scalone. Il cavaliere s'era fermato un istante per dare
qualche ordine al domestico dal lungo soprabito che seguiva col cappello
in mano. La giovane all'altro lato della signora attempata passò proprio
accosto a Maurilio fermo al posto in cui si trovava, come se vi avesse
piantato le radici, incapace di fare il menomo atto, di dire la menoma
parola, quasi di trarre il rifiato.

Ella passò colla stessa indifferenza con cui sarebbe passata presso ad
una statua o ad uno spigolo della parete, e le vesti leggiere ed
eleganti che avvolgevano come d'una nube candidissima la gran dama,
sfiorarono frusciando i rozzi, umili panni del povero trovatello. Questi
sentì un brivido scuotergli le intime fibre ed un subito gelo figgergli
il sangue nelle vene, arrestargli il battito del cuore; una nebbia gli
passò innanzi agli occhi e temette un istante cadere. Chi l'avesse
guardato in quel punto, avrebbe esclamato: — Gran Dio! Quell'uomo sta
per morire.

— Signora marchesa: diceva alla vecchia Francesco Benda, con voce un po'
commossa, guardando la giovane: mi permette ch'io le offra il mio
braccio?

— Grazie, signor Benda: rispondeva con altiera gentilezza la marchesa,
stringendo vieppiù alla persona il suo braccio, come per rifuggire dal
contatto di quello che le veniva offerto. Virginia, soggiunse ella
poscia, volgendosi alla giovane, vedi un po' se i miei fiori in capo non
sono andati fuor di posto?

— No, zia: rispose la ragazza con una voce soave che all'orecchia
dell'estatico Maurilio suonò come la più dolce delle armonie.

In quella, il cavaliere che accompagnava quelle dame, finito di dare i
suoi ordini al servitore, si affrettava a raggiungerle; e Maurilio
trovandosi sul suo passaggio per la via più corta a recarsi allato alla
bella giovane, egli senza il menomo riguardo lo ributtò con un urtone
come si fa con un inciampo qualunque che vi capita tra i piedi.

Maurilio barcollò e di presente ebbe il sangue acceso da una subita ira
che gli salì insieme con la vergogna alla testa. Si dirizzò della curva
persona, e saettò uno sguardo pien di minaccia sopra il suo
oltraggiatore, il quale, senza pur volgersi, senza badargli dell'altro,
continuava il suo cammino, venendo a fianco della ragazza cui abbiamo
udita chiamare Virginia, alla quale e' parlava lezioso e sorridente.

Il nostro povero giovane ebbe un istante in pensiero di arrestare
quell'elegante insolente e farsi dar ragione del tratto. Mosse un passo
verso di lui; ma si contenne tosto. Che avrebb'egli detto? _Ella_ si
sarebbe volta a guardare chi fosse quest'importuno interrompitore; ella
che era passata senza pur vederlo, ella che non sospettava nemmanco
l'esistenza di lui che in essa aveva posta l'adorazione dell'anima sua.
Ella avrebbe ascoltato le parole che egli avrebbe dette. Come osar
parlare sotto il suo sguardo? E non sarebbe egli comparso troppo da meno
in tutto, appetto a quei due eleganti e forbiti vagheggini che lei
accompagnavano?

La piccola brigatella era già sullo scalone, e quindi tolta al suo
sguardo, ed egli rimaneva ancora immobile a quel posto. Un domestico,
che passò e lo guardò curiosamente, lo fece ricordare del dove si
trovasse. Prima che l'altro venisse, come mostrò intenzione, a
domandargli che facesse colà, Maurilio si sferrò di luogo e corse sotto
l'atrio per partire.

S'imbattè quasi da urtarsi in un elegante giovinotto, sceso allor allora
da un bel legnetto ad un cavallo. Maurilio strabiliò credendo
riconoscere in lui quel suo antico compagno d'infanzia che aveva
lasciato, non era forse nemmanco un'ora, vestito di poveri panni, nella
lurida bettola di mastro Pelone.

— Gian-Luigi! Esclamò egli a mezza voce.

Quell'altro portò rapidamente al naso l'indice della mano destra come
per intimargli silenzio, e proseguì verso lo scalone con tutta
indifferenza, come se non avesse udito quelle parole, come se la faccia
di colui che aveva incontrato gli fosse affatto sconosciuta.

— È dunque vero che Gian-Luigi vive da signore; pensò Maurilio. Che
mistero è mai questo?

Quando era già per uscire del portone, un uomo gli passò dinanzi e si
volse a guardarlo ben bene nel volto, ed a Maurilio parve aver già visto
altra volta quella figura. Ed aveva ragione; l'aveva vista poc'anzi
nell'osteria di Pelone altresì, perchè quell'uomo non era altri che quel
tal messer Barnaba che spaventava sì forte l'onesto bettoliere.

Per ragione del suo ufficio, l'agente della polizia s'era trovato colà
alla venuta della Corte, aveva visto la sollecitudine affannosa di
Maurilio per intromettersi nel palazzo, i ratti colloquii coll'avv.
Benda, e finalmente l'incontro coll'elegante giovanotto venuto da
ultimo. Era suo mestiere l'osservar tutto, il tener conto di tutto e il
trarre deduzioni da tutto. Troppo lontano per udire le parole mormorate
da Maurilio nel trovarsi a fronte l'antico compagno d'infanzia, s'era
pur tuttavia accorto della sorpresa che il primo aveva provata in
quell'incontro.

— To', to'; aveva egli esclamato fra sè. Questo giovane deve conoscere
qualche cosa del dottor Quercia il cui modo di esistenza è ancora un
problema per me. Chi sa che costui non mi possa servire d'aiuto per
iscioglierlo, questo problema? Ma per ciò bisogna ch'io conosca prima di
tutto chi è costui.

E passatogli prima dinanzi per vederlo meglio e stamparsene i lineamenti
nella infallibile memoria, lo lasciò poscia andare per la sua via, e lo
venne con santa pazienza seguitando dalla lungi traverso la nebbia e la
neve che calava giù più densa e a larghi fiocchi che mai.

E noi faremo lo stesso, riserbandoci di venir più tardi a dare
un'occhiata in questa splendida festa, dove ci aspettano alcune scene
non indifferenti allo svolgimento del nostro dramma.



CAPITOLO XI.


Maurilio giunse sino alla metà della piazza di San Carlo, e poi si
fermò. Il suo sguardo acceso corse alle alte finestre del palazzo da cui
pioveva tanta luce nella tenebria della notte. Pareva che volesse
penetrarvi per entro, e con esso il suo spirito. Un'intensa aspirazione
di desiderio vedevasi dipinta sul volto di lui, la quale tenevalo colà
immobile coi piedi affondati nell'umido strato della neve, sotto i densi
fiocchi che gli cadevano sulle spalle.

Ad un punto, con un evidente sforzo ch'egli fece, tolse gli occhi da
quel bagliore in cui s'affissava, e li reclinò su se stesso. Un profondo
sospiro dapprima gli uscì dal petto, poi un amarissimo ghigno gli stirò
le pallide labbra, e quindi ruppe in una secca risata che avrebbe fatto
pena l'udire.

— Come potrei io comparire in mezzo a tanto splendore, allato a tanta
bellezza ed a tanta eleganza?

Si tolse dal luogo in cui pareva inchiodato e camminò con passo
frettoloso come se rattamente volesse partire di là; ma il suo andare
venne ben tosto rallentandosi; non era giunto per anco all'estremità
della piazza, che diede volta, e venne lento lento, di nuovo, verso il
palazzo dell'_Accademia_.

Sostò di colpo mandando un'esclamazione, e gettato indietro il cappello,
percotendosi la fronte, come si fa quando ci sovraccoglie il lampo d'una
idea:

— Ah! Diss'egli: come fu commosso Benda al vederla!

Il pensiero che si conteneva dietro queste parole parve profondamente
turbarlo. I suoi lineamenti si scomposero in modo da far pietà, e
giungendo convulsamente le mani, egli esclamò con un accento d'angoscia
infinita:

— Gran Dio! Francesco l'ama!

Stette un momento come annientato sotto il peso di quella rivelazione
che si affacciava alla sua mente con tutta l'evidenza della verità. Al
campanile della vicina chiesa di San Carlo cominciarono a suonare a
lenti rintocchi le ore. Maurilio alzò a poco a poco il capo che gli era
caduto sul petto e stette ascoltando, mentre le sue labbra, quasi
meccanicamente, contavano l'un dopo l'altro i colpi della campana.

— Dieci ore! Diss'egli quando l'orologio ebbe finito di suonare; e colà
mi aspettano. Suvvia! Andiamo.

Questa volta camminò di passo veramente risoluto verso la via di S.
Teresa; da questa s'intromise poi nella strada che era scritta sulle
cartoline ch'egli avea dato a Gian-Luigi ed alla Gattona, e giunto alla
porta numero sette vi entrò.

Messer Barnaba, non ostante tutti gli andirivieni di Maurilio, con una
pazienza che è una delle prime qualità del mestiere, non aveva cessato
mai di tener d'occhio il giovane, ed ora era venuto seguitandolo dalla
lungi sino alla casa in cui questi si era intromesso.

— Sta egli qui o viene soltanto a trovarci qualcheduno? si era domandato
il poliziotto. Vediamo.

Era entrato ancor egli sotto il portone, e traverso un finestrino sopra
del quale stava scritto: PARLATE AL PORTINAIO, aveva visto al fioco lume
d'una lucerna una donna nella loggetta del portiere, la quale faceva
andare i ferri in certe sue calze.

— Una portinaia! Aveva egli detto fra sè. Buono! Gli è il fatto mio.

E picchiando discretamente nell'uscio che vide allato al finestrino,
domandò con una voce insinuante, tutto gentilezza:

— Si può?

— Avanti: rispose la portinaia alzando il naso dalla sua calza.

E Barnaba sgusciò dentro tutto umile e in sembianza peritoso. Verremo
poi ad udire che discorsi avess'egli colla portinaia; per ora vi piaccia
seguitare Maurilio che più triste in volto di quella notte nevosa va su
per le scale sino al quarto ed ultimo ripiano.

Colà c'erano due usci. A quello in prospetto della scala era attaccata
con quattro bullette una polizza, su cui stava scritto in mezzo a
girigori a colori: ANTONIO VANARDI _pittore_; l'uscio a sinistra di
quello era socchiuso ed una riga di luce ne usciva ad allungarsi per lo
spazzo di quadrelli, facendo impallidire al confronto l'umile lanternino
appeso sopra la scala, il quale misurava una scarsa luce a chi la
salisse fin colassù.

Maurilio sospinse quest'ultimo uscio ed entrò.

Una stanza piuttosto grande: sulle pareti tappezzeria da poco prezzo a
fiorami bianchi su fondo bigio scuro; appiccatevi su ai quattro lati,
due per parte, delle litografie incorniciate di legno nero, che
rappresentavano il trasporto delle ceneri di Napoleone; un camino e
sopra la pietra di sporto un busto di Dante in gesso, ed al di qua ed al
di là due altre figurine di gesso, l'una Gianni che ride, l'altra Gianni
che piange; presso al camino, appese al muro a chiodi e funicelle, una
dozzina di pipe d'ogni dimensione, forma, materia e colore, e inoltre
più saccoccie da tener tabacco; un paravento separava un angolo della
stanza nascondendo dietro sè i misteri d'un letto; in tondo presso alla
finestra, da una parte una scrivania, dall'altra una scancia con suvvi
pochi libri, tutti in disordine; vicino a questa scancia un uscio
metteva in altre stanze. Nel mezzo della camera una gran tavola e
sopravi una lampada con coprilume. Nel camino ardeva un vivissimo fuoco,
il quale più che non facesse la lampada mandava un brillante chiarore
per tutta la stanza. Seduti presso la tavola stavano tre giovani, i
quali all'entrar di Maurilio si volsero vivamente e lo salutarono con
molta cordialità.

Questi tre giovani erano gli amici di Francesco Benda e di Maurilio. A
quest'ultimo da due anni tenevano luogo di famiglia ed erano come
fratelli.

Il meno giovane, che era presso a compire i sei lustri, aveva nome
Romualdo. Viveva modestamente d'un piccolo patrimonio lasciatogli dal
padre, ch'egli con alcune follie di gioventù aveva alquanto sminuito, ma
che bastava pur tuttavia ai gusti rimessi che aveva acquistati colla
disillusione nelle cose della vita. Aiutava uno degli amici (il quale
stava appunto in quel momento seduto alla sua destra), in qualche lavoro
letterario, onde questi cercava alcuno stentato guadagno.

Quest'amico, per nome Giovanni Selva, era un bello, robusto ed aitante
giovane, bruno di carnagione, d'occhi, di capelli, alto di persona, di
atletiche membra, di franco, gaio e simpatico aspetto. Come Romualdo e
come Francesco Benda, che abbiamo lasciato al ballo dell'_Accademia
Filarmonica_, era avvocato, e tutti tre s'erano conosciuti e fatti amici
intrinseci all'Università, benchè Romualdo fosse di alcuni anni più
attempato e quindi più innanzi negli studi.

Giovanni Selva apparteneva ad un'agiata famiglia borghese, ma se n'era e
viveva separato per dissensioni profonde colla madre, vecchia bigotta
tutta in mano d'un intrigante di confessore, la quale per far guadagnare
al figliuolo la vita del paradiso si era impuntata a fargli
intollerabile quella della terra.

Messo fuor di casa dall'influenza d'un cattivo prete e d'un tristo
fratello, senza sovvenzione alcuna, Giovanni s'era trovato nel caso di
dovere trar profitto dal suo lavoro personale. Avea dapprima voluto
provare il mestiere dell'avvocato: ma dalle tasche polverose degli atti
di lite non aveva tardato ad allontanarlo la faccia arcigna della noia.
Allora s'era abbandonato all'aggradevole, ma poco fruttuosa occupazione
della poesia e delle lettere.

— Che vuoi tu? (Quando s'incontrarono, disse a Romualdo, Giovanni con
quel suo piglio scherzoso e vivace che era una delle sue maggiori
attrattive.) Mia madre ed io non c'intendevamo. Era un concerto di
strumenti discordi; ho pensato meglio di romperlo per amore
dell'armonia... domestica. Ho lasciato le soglie materne consolate dalla
santità di mio fratello teologo, e mi sono ridotto sul monte Aventino.
Tu sei solo ed io pure. Andiamo insieme. Uniamoci contro il nemico
comune, che sono le difficoltà della vita, troviamoci insieme la nostra
strada; andremo per essa a braccia intrecciate, lavorando di compagnia,
da buoni fratelli, al conquisto dell'avvenire.

Un terzo dei loro amici, ed era appunto quello che stava con essi quella
tal sera di cui vi narro, aveva preso moglie, teneva in affitto un
quartiere, di cui poteva cedere la maggior parte ai due compagni, e
deliberarono vivere tutti insieme che sarebbe un gusto ed una economia.
Questo terzo amico si chiamava Antonio Vanardi e faceva il pittore.
Ancor egli era un profugo della famiglia. Possedeva uno zio ricco e
droghiere nel quale si era tutta concentrata l'autorità domestica verso
di lui. Lo zio aveva pensato dapprima, per ambizione, fare di Antonio un
avvocato come tanti altri; e mandandolo a quest'uopo all'Università gli
aveva dato occasione di stringere amicizia con Romualdo, con Giovanni
Selva e con Francesco Benda; ma il buon Antonio, per quanta buona
volontà ci mettesse, non era riuscito mai di farsi entrare in capo un
bricciolo di _Diritto romano_; onde battuto tre volte di seguito alla
prova degli esami, avea dovuto rinunziare alla toga dottorale con gran
dispetto e disappunto del bravo zio droghiere.

Non potendo farne un Cicerone, il buon zio sperò almeno che Antonio
diventerebbe un valente venditore di droghe e _robe vive_. Niente
affatto: quel pazzerello s'era cacciato in testa di voler essere artista
e di fare il pittore. Il nipote era testardo e lo zio più testardo
ancora. Il primo fu scacciato di casa; ed egli corse allegramente a
riparare in una soffitta colla tavolozza e coi pennelli. Forse la
collera dello zio non avrebbe tardato a placarsi, se quel benedetto
figliuolo non l'avesse rinfocolata con un'altra ed a senno dello zio
assai peggiore pazzia: quella di sposare una povera fanciulla, che non
aveva un soldo di dote e lavorava colle sue sante dita per vivere. Il
droghiere, al colmo dello sdegno, aveva giurato che non avrebbe più
perdonato ad Antonio, che non l'avrebbe più voluto veder mai, e finora
aveva mantenuto il suo giuramento.

Francesco Benda, come ho già detto, non ostante il suo modo signorile di
vita, non aveva scemato d'un punto l'amicizia che lo congiungeva a
questi tre compagni, e veniva di spesso a visitarli.

Così vivevano essi, la moglie di Vanardi, che si chiamava Rosa, una
buona creatura tutto ciarla e tutto cuore, facendo da donna di casa per
tutti; quando un mattino Romualdo, entrato di buon'ora nella stanza di
Selva, che non avea visto tornare la sera innanzi, lo trovò seduto al
capezzale del proprio letto, sostenendo amorosamente colle mani la testa
abbandonata d'un giacente a volto sparuto, il cui sonno l'irrequietudine
soltanto distingueva dall'apparenza della morte.

Romualdo stupito fu per muovere un'interrogazione, e Giovanni fattogli
cenno tacesse, depose con attenzione sovra i cuscini il capo ardente
dell'addormentato e disse sotto voce:

— Lo riconosci?

Romualdo rispose col capo di no.

— Egli è quel giovane che venne due giorni sono a domandarci lavoro, e
che noi mandammo a quella terra.

Quindi, tratto l'amico nell'altra stanza per potere più liberamente
discorrere, soggiunse:

«— Un poveretto che ho salvo dal suicidio. Ieri sera mi sono fermato un
po' più tardi in casa la Adelina; e ciò ha fruttato a me una buona
azione, a costui la vita. Egli era là sul ponte di Po, che fissava lo
sfilar dell'acqua sotto gli archi con quell'occhio che l'affamato un
tozzo di pane. Lo vidi tra l'ombre spiccarsi per un salto, non poterlo,
ricadere a terra. Accorsi: era svenuto. Lo riconobbi tosto e sentii
quasi un rimorso del non averlo potuto soccorrere quando se ne venne qui
elemosinando pudicamente lavoro. Che cosa fare? Tutte le botteghe erano
chiuse, e non passava un'anima per colà. Me lo presi in braccio e venni
più affrettatamente che potei verso la più vicina spezieria, deliberato
a fracassare anche la porta per entrarci. Egli tornò in sè. Volle essere
deposto in terra e camminare. Ma nol poteva, ed io dovetti sorreggerlo.
Mi disse, quasi in delirio, che non aveva famiglia, non tetto, non pane,
non più coraggio: lo lasciassi morire. — Ed abbandonato sarebbe morto
senza fallo. La farmacia non mi venne aperta per quanto chiasso facessi;
ma si apri il fondaco d'un liquorista, ed io gli feci bere un
bicchierino di rhum. Questo gli diede forza, ma gli salì con impeto al
cervello. Uscimmo, ed io lo accompagnava sostenendolo, e non sapevo
dove. Ei si mise a parlare. Furono strani discorsi i suoi, in cui c'era
un po' di tutto: scienza e poesia, erudizione e mattane fantastiche,
ingegno e pazzia, un farnetico d'infermo, un vaneggiamento della febbre,
un racconto straordinario di Hoffmann. Ma in quella confusione di cose
balenava a vivissimi sprazzi il genio. Stupito, commosso, talvolta
rapito d'entusiasmo io non credeva a me stesso. Oh! come ha parlato
questo demonio!..... E poi ha uno sguardo in que' suoi occhi verzigni
che incanta; una testa che non è d'essere volgare; una fronte tanto
vasta da posarvisi comodamente tutto un mondo di pensieri.

«Ho di subito determinato associarlo al nostro destino, e gli ho
proposto di esserci fratello. Tacque un istante, tremò di tutte le
membra e poi disse con accento da scendere nell'anima:

«— Dio v'ascolti!

«Venne meco e qui il suo male sovraccogliendolo di nuovo, dovetti io
stesso spogliarlo e metterlo a letto. Tutta la notte delirò con parole
tronche, inintelligibili. Ora corro per un medico, lo faccio guarire, e
lo avremo nuova recluta nella nostra piccola schiera. Egli mi ha detto
ad un punto mostrandomi questo suo piccolo involto:

— Qui, è tutto ciò ch'io posseggo; ma qui (e si toccava la fronte), qui
sta la mia ricchezza.

«Lo ha detto con tale accento di convinzione e di verità che non ne ho
riso, te lo giuro. Se non avesse una così bella testa direi che gli è un
avventuriere; se non m'avesse incantato colle sue parole, avrei sentito
compassione della sua miseria, ma non l'avrei amato così ad un tratto.
Lì dentro c'è una grand'anima. Quando l'udrai, l'amerai anche tu.»

In quel piccolo involto che il povero giovane aveva seco non si
contenevano che pochi libri: Dante — Orazio — Virgilio — Macchiavelli —
La Scienza nuova del Vico — il Trattato di economia politica di G. B.
Say, — ed un manoscritto tutto spiegazzato ed a strappi, su cui stava
scritto a grossi caratteri: — FARRAGINE.

Romualdo diede la sua approvazione a Selva con una stretta di mano;
gliela diede eziandio Vanardi; e stettero aspettando con ansia lo
svegliarsi del nuovo venuto.

Ed ecco che dalla stanza di Selva un grido richiama la loro attenzione.
Ci corrono e trovano lo sconosciuto che, levatosi a sedere sul letto,
getta le magre gambe fuori delle coltri per torsi di là, infuocato nelle
guancie, gli occhi orribilmente fuor del punto, le mani agitantisi in
moto convulso.

Giovanni fu in un salto allato al giovane e lo trattenne. Il delirante
gli si abbrancò alle braccia e glie le serrò da fargliene sembrare le
sue mani tanaglie di ferro. Le carni gli scottavano.

— Che avete? che volete fare? Gli domandò Selva; e l'altro, fissandogli
negli occhi i suoi tutti smarriti, con voce affannosa, a balzi e
vibrata, gli disse:

— Trista cosa è la vita! Un'empia lotta, che vince eterna la sventura.
Ai primi passi tu se' di questa via d'affanni, e ti par che sorrida
all'uom la terra felicemente, e duol supremo estimi il mister della
morte. Oh folle! oh folle! Io spesso, il credi, ad invidiar mi trassi la
sepolcral de' morti ignota pace; e i dolor della creta maledissi, che
s'assuperba nel chiamarsi viva.

— Misericordia! Esclamò Romualdo, giungendo le mani, e' parla in una
specie di versi. È matto!

— L'ho detto io che era un fratello: disse Giovanni. È poeta.

Poi, facendolo ricoricare a forza, disse al delirante:

— State quieto; e se avete bisogno di qualche cosa, ditecelo.

— Pace! Ripigliava l'altro. Pace! Pensi tu che l'abbiano da godere i
morti?... Se tutto di noi va in cenere, bene! Un buffo di vento che
spegne una candela, e buona sera. Se lo spirito non muore, come avrà
pace? Come, perchè spogliatosi di questi ceppi di carne, sarà egli
giunto di botto alla fine dei suoi travagli?..... Il rimedio sarebbe
troppo facile..... Non sai? Io qui dentro ci ho un tumulto che è peggio
d'ogni battaglia... Ci bollono tante cose! Tante facoltà che lottano,
tanti pensieri che si cozzano, tante immensità che non furono mai dette,
perchè non si possono dire. E tutto questo avrà da finire senza
conclusione colla poca vita della mia materia?... Guardate! se ne
dovrebbe piangere lagrime di sangue. L'anima continuerà a vivere e
tramenarsi di dolore in dolore, di dubbio in dubbio, di morte in morte,
_donec longa dies, perfecto temporis orbe, concretam exemit labem,
purumque reliquit ætherium sensum atque aurei simplicis ignem_. Lo ha
detto con indovinamento di poeta e con sentimento di cristiano il pagano
Virgilio.

I tre amici che tenevano il delirante alle braccia si guardarono
spaventati da quel latino.

— Io ho qui intorno al fronte un cerchio di ferro arroventato che m'arde
e mi costringe in questa poca sfera lo spirito immortale..... Oh! se
potessi allargare il mio cranio!... Se non fosse di questo cerchio, il
mio spirito ha penne tali da pervolare tutto l'infinito degli spazi, di
mondo in mondo, di sole in sole, di plaga in plaga di questo gran
circolo della creazione che ha il centro dapertutto e la circonferenza
in nessun luogo... sino ad andar posare il capo sulle ginocchia di Dio!
Questo cerchio fatale che mi stringe la fronte, lo sapete? gli è il
Zodiaco. I suoi segni mi danzano intorno un trescone d'inferno..... Li
sento che mi cantano: — «Tu se' schiavo qui, tu se' condannato alla
nostra carcere..... va là, va là che hai da gingillarti per un pezzo in
una burlesca contraddanza fra il cancro e lo scorpione!» Pazienza! Fate
fiammare la vaporiera. Io corro il mio regno su d'una via ferrata fatta
sull'etere cosmico. Voglio visitare la Vergine che è l'innocenza, e la
Libbra che è la giustizia; ma la seconda fu trovata coi pesi falsi, e la
prima s'è acconciata a stare in via de' Pelliciai... Il mio regno! È
quello del pensiero; quello dove si gettano i germi del vero, nasce il
sofisma e si raccoglie la confusione... Inchinatemi. Io sono l'ingegno
dell'umanità dagherotipato sulla lastra d'un uomo. Datemi la penna. Essa
è il mio scettro; in mia mano avrà ad essere una spada d'Alessandro da
troncare l'eterno nodo gordiano dell'astruso problema che è la società
all'uomo, che è l'uomo a se stesso.

Selva affissandosi nella faccia contratta del vaneggiante, disse:

— Poverino! Qui c'è uno squilibrio delle forze intellettuali colle
fisiche.

— In altri termini, soggiunse Romualdo, gli è pazzo per davvero.

— Non tardiamo a domandare un medico: disse Vanardi; e la sua
osservazione fu trovata la più giusta.

Il medico, venuto sollecitamente, pronunziò:

— È una _famosa_ febbre cerebrale, e bisogna in fretta in fretta
salassare alla brava.

Rosa, la moglie del pittore, da quella buona donna che era, si piantò al
capezzale del malato, e gli fece un'assistenza da suora di carità.
Francesco Benda, senza pur dire una parola agli amici, provvide del suo
ad ogni spesa. Il giovane fu salvo per allora; ma il medico, dando
siffatta assicurazione a Giovanni Selva che ne lo interrogava con molto
interesse, come quegli che aveva posta una subitamente profonda
affezione nello sconosciuto; il medico soggiungeva:

— È salvo per ora; ma il germe del male non è distrutto. Quello è un
organismo che porta seco un elemento potente di sua distruzione, il
quale alla prima circostanza opportuna può scoppiare di nuovo ed
accopparlo. Deve aver sofferto troppo.

Maurilio (poichè desso era il giovane raccolto da Selva), salvato di
quella guisa dalla morte per opera di Giovanni prima, di tutti gli altri
di poi, circondato d'ogni amorosa cura, entrò in quell'amichevole
consorzio, ne divenne anzi parte essenziale, ne fu amato come si ama una
buon'opera nostra, ed amò come glie ne faceva obbligo la riconoscenza
che era il solo ripago ch'egli per allora di tanto bene fattogli potesse
dare.

Quand'egli fu guarito del tutto, con una semplicità di nobile orgoglio,
disse agli amici:

— Ora aiutatemi a trovar lavoro.

Selva gli propose di collaborare con lui nelle sue opere letterarie;
Maurilio sorrise un po' amaramente.

— Io vorrei, diss'egli, un lavoro che fruttasse il pane; e la nostra
letteratura del giorno d'oggi non è tale.

Aveva una bella calligrafia. Si fece scrivano. Ebbe la fortuna di
conoscere un causidico che gli diede atti di lite da copiare. La sua
sollecitudine nel lavoro e la nitidezza della sua scrittura valsero a
fargliene avere di molto di questa bisogna; e fra il copiare e il tener
le ragioni di qualche mercatante, dandoci dentro al lavoro giorno e
notte, era giunto a guadagnarsi dalle ottanta alle cento lire al mese.

Risanato, Maurilio non era mai più venuto in propositi che somigliassero
a quei suoi farnetichi del primo giorno; ed ogni qualvolta Selva aveva
voluto metterlo in siffatti discorsi, egli o s'era allontanato, od aveva
pregato lo lasciasse tranquillo.

Parlava di rado; talvolta calava a sorridere e barzellettare; era buono,
affettuoso, gentile il più spesso; ma a tratti, senza un visibile
perchè, si faceva aspro, triste e scontroso. Allora la sua taciturnità
s'accresceva, come pure la scarna pallidezza delle sue guancie, stava in
sè, solo il più che potesse, presso che l'intiera notte vegliava
passeggiando, quasi non mangiava, e si dava per disperato all'opera
manuale del copiare. Sulle prime gli amici avevano cercato svagarlo e
rompergli quegl'insulti splenetici di indefinita, profonda melanconia,
ma poi, visto che gli era peggio, lo compativano, tolleravano, e
vedendolo soffrire, soffrivano ancor essi.

Quando l'avevan visto, oppresso da troppo lavoro, starne le tante ore
col petto incurvato al tavolino, in danno della sua salute, ne l'avevan
voluto dissuadere, ma invano: gli avevano offerto con insistenza il loro
aiuto, ed invano eziandio.

— Lasciatemi fare: diceva egli. Ne ho bisogno. La mano si affatica, ma
la testa riposa. Se fossi stato robusto da tanto, avrei preso volentieri
in mano la stiva dell'aratro, e sarei stato più utile al mondo.

Selva lo rimproverava alcune volte di che, con tanto ingegno quanto era
il suo, nulla facesse, nulla imprendesse, nulla tentasse da recar fama
al suo nome e giovamento al mondo.

All'udir menzione della fama lo strano giovane sorrideva
compassionevolmente e recitava i versi di Dante: «Non è il mondan rumore
altro che un fiato, ecc.»

— Che cosa cale a me della fama? Il mio nome è _nulla_, voglio essere
tale. Non è un nome degno di risuonare nei secoli. Giovamento al mondo?
quello sì lo vorrei. Ma se niente opero gli è perchè niente mi si
presenta ch'io possa fare utilmente. Intanto penso.

Ma da qualche tempo l'occasione pareva venuta di poter fare alcuna cosa.
Un'opera lentamente preparata era sul punto di vivamente intraprendersi
con infinito ardore e colle più lusinghiere speranze. Gli amici tutti di
Maurilio si erano ad essa consecrati col più vivo trasporto dell'anima;
ed ancor esso vi si era accinto, ma con un certo maggior riserbo che non
era freddezza ma quasi una preoccupazione di quesito diverso e forse
anco superiore.

Quale fosse quest'opera lo vedremo tosto.

Entriamo intanto nella stanza che ho detto, la quale era appunto quella
abitata da Maurilio, e vediamo insieme i quattro amici raccolti.



CAPITOLO XII.


Maurilio rispose appena al saluto degli amici, gettò a casaccio sopra un
attaccapanni il suo mantello fradicio e il suo cappello coperto di neve,
e s'accostò al fuoco di cui guardava la fiamma vivace con una specie di
desìo e d'amore. Senza profferir parola staccò dalla parete una pipa, la
caricò di tabacco, l'accese con un ramoscello di legna ardente che tolse
dal fuoco, sedette presso presso al camino, pose i suoi piedi bagnati
nella calda cenere ed appoggiando i gomiti alle ginocchia, la faccia
alle mani, stette lì, avvolgendosi nelle nubi di fumo della sua pipa,
fissando lo sguardo nelle capricciose oscillazioni della fiamma
crepitante.

Romualdo, Selva e Vanardi parevano ancor'essi sopra pensiero. Una certa
aspettazione inquieta si dipingeva nelle loro franche ed aperte
sembianze. Non parlavano, non lavoravano, non leggevano. La loro
allegria naturale scorgevasi esser trattenuta e doma da qualche
preoccupazione più che grave.

Dopo un poco Giovanni Selva si alzò e venne presso al camino ad
accendere ancor egli il suo sigaro che gli si era spento in bocca.

Si chinò verso il fuoco per raccattar colle molle un pezzetto di brace
accesa, e guardò di sottecchi la faccia scura di Maurilio, che si
arrostiva immobile al calore di quella vampa.

— Tu non hai visto Mario Tiburzio? Domandò egli a mezza voce.

Il nome pronunziato da Selva, parve un talismano che rompesse un
incanto. Maurilio si scosse, gli altri due giovani si levarono e vennero
ancor essi vicino al fuoco.

— No: rispose Maurilio, togliendosi alla sua meditazione e volgendosi ai
compagni. Credevo anzi di trovarlo già con voi.

— È veramente in ritardo: disse Romualdo: e ciò non è punto nelle sue
abitudini, quindi non è molto rassicurante. Tanto più che per questa
sera ci aveva annunziato delle comunicazioni e delle novelle
importantissime.

— L'altro dì infatti: aggiunse con mal celata trepidazione Vanardi, che
era il più timoroso fra i quattro: egli ci disse che parevagli d'essere
sorvegliato. Purchè non gli sia capitato malanno? Potrebbero averlo
scoperto, preso, e allora.....

— Via, via: interruppe Selva: non isgomentiamoci così facilmente. Nella
strada in cui siamo entrati conviene avere fermezza, risoluzione e
coraggio, e da una parte esser pronti al peggior male, dall'altra
confidare nel bene.

— Tu hai ragione: rispose Vanardi; ma però non sei padre. Io sento
sempre negli orecchi i pianti de' miei due bimbi che mi cantano
l'antifona, che se il governo mi manda a villeggiare a Fenestrelle, essi
non avranno di meglio che crepare di fame.

— Fenestrelle! Esclamò Giovanni ridendo, ma forse non con tutta
sincerità. Tu ci credi? Quella è la befana con cui il nostro
paternissimo regime fa paura a quel fanciullone del popolo. Va là che
non avremo la fortuna d'esser fatti martiri a sì buon mercato. La nostra
polizia non capisce nulla: l'insolente assolutismo che ci opprime, è,
senza saperlo, il colosso dai piedi di creta. Crede esser forte e posa
sopra una base che un buffo di vento può sovvertire. Quando venga il
giorno che stiamo preparando, l'uragano popolare levatosi al santo grido
di libertà, spazzerà via la tirannia nostrana e le baionette straniere
che la sorreggono e le danno da sole la forza.

Maurilio volse la sua faccia intelligente, in cui era una lieve
espressione d'ironia, verso Giovanni Selva, e gli disse:

— Queste sono belle frasi, da poeta, qual tu sei, ma non tolgono che
Antonio abbia ragione. Le frasi rettoriche hanno inebriata molte volte
la gioventù ed anche le masse popolari; ma non hanno mai salvato una
rivoluzione. Non chiudiamo gli occhi ai pericoli dissimulandoci le
difficoltà, secondo me, quasi insormontabili dell'impresa. I governi che
ci opprimono sono più forti di quanto il nostro desiderio vorrebbe
persuaderci e le nostre declamazioni tentano provare. Sono forti in
primo luogo, perchè sono; ed ogni ordinamento che esiste, si afforza per
le migliaia di interessi cui soddisfa, che sono come altrettante radici
che getta ad abbarbicarsi nella massa sociale. Sono forti perchè
effettuano un'idea che sta profonda e potente — sia merito o demerito —
nel volgo: l'idea monarchica. Sono forti, perchè, come dicesti tu
Giovanni, stanno a rincalzo dietro di loro le baionette straniere, che
non sono mica da aversi in non cale. Contro tutte queste forze noi non
ne abbiamo altra che quella d'un'idea, la quale certo è potentissima, ma
sull'anima soltanto di coloro che possono comprenderla. Ora il popolo
italiano è egli maturo per ciò? E badate che a portar giudizio su
codesta quistione non dovete soltanto gettare il vostro sguardo su voi e
sui pari vostri, ma li dovete abbassare nei ranghi inferiori, dove una
massa di gente ancora affatto cieca di mente costituisce la maggioranza,
lavora e non pensa. Questa maggioranza sia inerte, peggio ci sia
avversa, e noi patrioti a fronte dei governi saremo mille volte più
deboli. Queste cose ve le dissi fino da principio e le ripetei a
Vanardi, perchè badasse ai casi suoi. Io, tu Romualdo e tu Giovanni
siamo soli, e non portiamo con noi la sorte di altre esistenze; libero a
noi, anzi doveroso l'avventurarsi in questi tentativi che hanno pure un
merito ed un benefizio: quello di mantener viva l'idea e di legare
traverso le età per una tradizione di sacrifizi la catena dei cultori
d'un santo principio che un dì, certo, avrà pur da trionfare; e poi è
opportuno, è buono che in una società si trovino alcuni generosi che si
consacrino alla follia dell'eroismo. Ciò serve di sale a difendere alcun
poco il corpo d'una nazione caduta dalla corruzione che l'invade. Amo ed
ammiro Mario Tiburzio, perchè è il tipo di codesti generosi; e lo seguo
senza riluttanza ancorchè non fiducioso dei suoi mezzi. Il patibolo con
lui, mi parrebbe davvero l'aureola del martirio. Ma Antonio non può
regalarsi questa gloria, senza offendere altri suoi doveri. La famiglia
per lui deve stare innanzi alla patria; e non deve posporre il bene
certo di quella ad un bene incertissimo di questa. Tu, Antonio, non hai
miglior partito da prendere che abbandonarci in questa via scabrosa, che
probabilmente trae soltanto al precipizio, e ritrarti sotto la tenda
della tua felicità domestica.

Vanardi si fece rosso in volto come una ciliegia.

— Tu mi consigli una viltà: proruppe egli con impeto; ed io non sono
capace di commetterne. Ho dato il nome e tutto me stesso con voi
all'impresa, e non me ne toglierò per Dio! qualunque cosa abbia ad
avvenire, che colla vostra sconfitta o colla vostra vittoria.

Maurilio tornò a volgersi verso il fuoco ed affondò di nuovo lo sguardo
nelle fiamme.

— Non esageriamo in nulla: disse con molta serietà Romualdo. La cosa non
è sicuramente da pigliarsi a gabbo; ma non è poi così disperata che non
ci resti altro davanti dalla probabilità in fuori d'un inutile
sacrificio. Le condizioni d'Italia voi le sapete al pari di me, e le
relazioni che abbiamo, specialmente pei carteggi di Tiburzio, la
dipingono davvero nello stato d'una mina in cui già sono rammentate le
polveri, e per cui basta una sola scintilla a far succedere lo scoppio.
La scintilla sarà il primo moto popolare che avvenga, sia egli qui in
Piemonte, sia in Lombardia, sia nelle Romagne, sia pur anche a Napoli.
Gli elementi da ciò sono dappertutto. Quando sieno tutte a dovere
ordinate le fila, quando accuratamente organata la impresa, un cenno e
basta.

Maurilio, senza abbandonare la sua positura, scosse la testa, cui
tornava a sorreggere colle sue mani e disse a mezza voce:

— Sì, se fosse possibile far muovere i popoli come le compagnie d'un
reggimento al comando del colonnello nella manovra di piazza d'Armi. Ma
i popoli sono guidati da altre norme e da ben altre leggi, e trama di
congiure, per quanto astutamente combinata, non varrà mai a ridurli a
questa certezza d'esecuzione, su cui i cospiratori fanno i loro calcoli.

Giovanni Selva interruppe con vivace uscita, che molto aveva dello
sdegno:

— Ma tu sei il demone del dubbio.

Maurilio levò lentamente la testa e fissò Giovanni collo sguardo sicuro
dei suoi occhi verzigni, intelligenti e profondi.

— Sono lo spirito d'esame: disse egli; poi si levò in piedi e si tirò su
della persona in una mossa superba che parve ingrandirne la statura. Con
voi credo poter parlare il linguaggio della verità: soggiunse. Siete voi
così dappoco, che non altrimenti possiate perseverare in un'impresa, se
non vedendone l'esito sicuro e scartati tutti i pericoli? Cogli altri
che stimo da meno di voi, ho io tenuto mai un simile linguaggio? Venga
il giorno della lotta, e vedrete questo demone del dubbio combattere
come il genio della disperazione.

Selva si precipitò verso di lui e gli afferrò una mano che strinse con
forza ed effusione.

— Perdonami! Diss'egli con accento che partiva veramente dal cuore.

Maurilio fece un mesto e pallido sorriso di indefinita espressione e si
lasciò ricadere seduto.

In quella s'udì pel silenzio della notte l'orologio d'un campanile
batter le ore.

— Undici ore! Esclamò Vanardi, poichè le ebbe contate. E Tiburzio non è
ancora qui? Pur troppo ho paura.....

— No, no: disse vivamente Romualdo. Io lo conosco per bene. Mario alla
sua foga ed alla sua audacia congiunge pur tuttavia una suprema
prudenza. Fin da giovanetto si trovò a dover lottare colla polizia di
Roma, poi, esule in Francia, con quella sospettosissima di Luigi
Filippo. E' ne conosce tutti i mezzi e le arti, e sa a quelle di esse
contrapporne delle altre che le sventano. Poichè è qui in Piemonte, son
certo che niun sospetto ancora egli ha destato d'essere un emigrato
politico ed un agente delle patriotiche società segrete. Qualche cosa lo
avrà trattenuto, ma siccome ci ha promesso di venire, verrà senza fallo.

Romualdo non aveva ancor finito di pronunziare queste parole, che si udì
il passo fermo e franco d'un uomo sul pianerottolo.

— Eccolo qui di sicuro: soggiunse Romualdo.

L'uscio d'entrata s'aprì e comparve un uomo alto di statura, avviluppato
in un ampio mantello.

I quattro amici gli mossero all'incontro, salutandolo per nome.

— Mario!

— Zitto! Disse il nuovo venuto, e chiudendo accuratamente l'uscio dietro
di sè, si curvò a mettere l'orecchio alla toppa ad ascoltare qualche
rumore che succedesse di fuori.

— Che cosa c'è? Domandò sommessamente Vanardi turbato alquanto.

— Siamo spiati: rispose Mario: ed un agente della polizia, ci scommetto,
stava aspettando la mia venuta nel camerino della portinaia.

Vanardi, a quelle parole, impallidì, come se già vedesse sorgere alle
sue spalle i tremendi cappelli a becco dei Carabinieri Reali.

— O mio Dio! Esclamò egli, giungendo le mani.

Mario stette un poco origliando, curvo così, alla porta, mentre gli
amici rimanevano in sospeso, trattenendo il fiato; poi si drizzò, e
gettando via il mantello ed il cappello, disse con un cotal sorriso di
audacia superba:

— Oh! s'e' sono destri, io non sono punto nè uno scemo, nè un inesperto.
Li conosco dalla lungi questi segugi, ed ho acquistato colla pratica una
specie di istinto, che mi avvisa della loro presenza e delle arti loro.
Sono tanti anni che lotto contro di essi!

— Ma che vedeste? Che fu? Domandò sollecitamente, non senza affanno il
buon Vanardi.

— Nulla. Un bracco della polizia che mi diede la caccia. E' mi ha
seguito sin quassù con passo ammorzato; un passo di spia; lo riconosco.
Ora egli sa che sono entrato qui dentro e vorrà informarsi di voi, se
pure già non è in giorno dei fatti di tutti. Bisogna stare all'erta, ed
opporre alla mina una contromina. Ci provvederemo.

— Come avvenne? Richiese Romualdo. Come ti accorgesti di codestui?

— Venivo correndo, perchè l'ora è già tarda, e temevo di trovar chiusa
la porta da via. Ma appena messo il piede sulla soglia, il mio sguardo,
avvezzo a scrutar tutto per bene, si cacciò nella loggia della
portinaia, dove vide un uomo, non dei casigliani; vestito da operaio, ma
colla faccia d'un esploratore. Quel grugno lì l'ho già veduto altre
volte con altri panni, e non esitai neppure un istante a giudicar quel
che fosse. Rallentai di subito il passo e mi spinsi avanti come uomo che
fa una cosa ordinaria venendo ad un solito ritrovo. Fissai con tutta
sicurezza i miei occhi nel camerino e sul viso di quell'uomo, e passando
la testa pel finestruolo, salutai molto amichevolmente la portinaia,
«Buona sera, mamma Ghita, il vostro Bastiano sta bene?» — «Grazie per
servirla:» mi rispose la portinaia, mentre l'uomo, tuttochè facendo a
nasconderlo, mi sviscerava con acuti sguardi di sottecchi. «— È un po'
tardi questa sera, soggiunsi io, e avevo paura aveste già serrato il
portone, perchè voi siete la più diligente delle portinaie di questo
mondo.» — «Oh come? È tardi? Esclamò essa: che ora la è?» — «Presto le
undici: guardate là il vostro oriuolo a cassa che ve lo dice.» — «Eh sì
che gli è vero. Diss'ella. Tò, soggiunse volgendosi a quell'uomo, voi
m'avete trattenuta così bene in novelle che il tempo mi è sfumato via
senz'avvedermene.» Ora noi conosciamo tutti la Ghita e sappiamo quindi
che cosa ciò voglia dire. Quello sconosciuto l'ha fatta destramente
chiaccherare, e la brava donna che ci ha il suo ripesco ha blaterato giù
per parecchie ore, dicendo quello che è e quello che non è di tutti
quanti quel sornione abbia voluto. — «Ho fatto più tardi del solito
ancor io, questa sera (presi a dire), perchè mi fecero fermare sul palco
scenico finchè fosse finita tutta l'opera; le altre sere, appena giù il
telone dopo il primo atto, dove soltanto ci ho parte, me la svigno, ma
stassera il primo baritono era mezzo infreddato ed aveva paura di non
poter cantare sino alla fine. Siccome io gli faccio da _supplemento_,
dovetti star lì pronto ad indossare il suo mantello e calzare i suoi
stivaloni a tromba. Per fortuna, o bene male, fra _scrocchi_ e
stonature, e' si trascinò sino al fine. A proposito di teatro, Ghita, vi
darò poi per domenica le polizze d'entrata per voi e pel vostro
Bastiano.» La portinaia si profuse in ringraziamenti, ed io li accolsi
con tutta la superbia d'un cattivo cantante che si crede un artista. Poi
diedi e ricevetti la buona notte, e me ne venni su adagio adagio,
canterellando una cabaletta. A quest'ora adunque il poliziotto sa che io
mi chiamo Medoro Bigonci, che canto da baritono e faccio la stagione di
carnevale al teatro Regio come seconda parte, che ho presa in affitto
una cameretta ammobigliata dal pittore Vanardi, e che rientro
regolarmente e quietamente a casa tutte le sere verso le dieci. Ci
crederà o non ci crederà? Qui sta il punto: ed è necessario che per noi
si faccia tutto a far parere codesta la assoluta verità. Perciò questa
notte la passerò tutta qui con voi senza andarmene più all'altro mio
quartiere. Non occorre che vi disturbiate a farmi posto in letto. Io
sono avvezzo a di queste nottate, e starò benissimo allungato su tre o
quattro seggiole vicino al fuoco. Del resto ho molto da scrivere, e la
maggior parte del tempo la impiegherò nel carteggio.

Gli amici vollero fare qualche cortese opposizione per indurlo a
prendere un più agiato riposo; ma il sedicente Medoro Bigonci li
interruppe.

— Lasciamola lì: diss'egli bruscamente, con un certo accenno imperioso
che pure non cessava di essere simpatico. Abbiamo ben altre più
rilevanti cose onde discorrere. Sediamo ed ascoltatemi.

Sedettero intorno al fuoco su cui Maurilio non cessava di gettar della
legna. Mario Tiburzio stava in mezzo, e le teste de' suoi quattro
compagni erano chine e tese verso di lui con sollecitudine
d'aspettativa. Mario si passò una mano sulla fronte la quale, benchè
egli fosse giovane, tuttavia cominciava a gittare i capelli e quindi ad
apparire più grande e direi più angolosa nella sua forte ossatura da
tipo d'antico romano; si raccolse un istante, e poi con voce bassa e
contenuta cominciò a parlare.

Mario Tiburzio aveva a quel tempo ventisei anni incirca; ma le emozioni,
i pericoli e i disagi di una vita da profugo vissuta sin quasi
dall'adolescenza, la contenzione dello spirito e dell'anima in un gran
proposito che tutte ne assorbiva le facoltà, davano al suo sembiante
l'aspetto d'una età assai più inoltrata. La sua era una nobile figura
tutto risoluzione e fortezza. I bei lineamenti del tipo romano erano in
lui illuminati, per così dire, da una fiamma interiore, che era una
convinzione, che era un culto ad un principio, che era una fede.
Figliuolo d'un patriota repubblicano morto nelle carceri pontificie,
egli ne aveva ereditato l'amore all'Italia ed alla libertà, e l'odio ai
dominatori del nostro paese, contro cui sentiva inoltre ribollire in
cuore un tremendo desiderio di vendetta, non solo pei mali e per la
vergogna alla patria inflitti, ma per la dolorosa morte del padre, per i
dolori alla santa donna, che a lui era madre, cagionati, per le sventure
alla sua famiglia prodotte.

A quel tempo qual via aprivasi all'ardente gioventù italiana onde
giovare ai troppi danni della patria; onde cercare di abbattere la
soverchiante tirannia? Quella soltanto delle congiure, abbracciando le
frementi ma vaghe teoriche di Giuseppe Mazzini. Il carattere cupo,
dissimulatore e temerario nella sua finzione del congiurato è
nell'indole degl'Italiani, massime di quelli del centro della penisola.
Abbiamo tutti un po' della politica alla Macchiavelli in fondo
dell'animo; ed oppressi ed oppressori giuocavano allora di
macchiavellismo in congiure sempre rinnovantisi e sempre sventate dalle
migliaia di Arghi delle tante polizie che avvolgevano come nelle maglie
di una rete l'intiera Italia.

Mario apparteneva da molti anni alle società segrete che tentavano come
talpe pazienti, scavare nella massa popolare, pian piano, sotto terra,
un abisso ai piedi dei troni esistenti. La sua intelligenza, la forza
del suo carattere e della sua volontà, il coraggio e l'ardenza del
patriottismo insuperabili lo avevano fatto salire tra i primi dei capi e
guidatori di quell'opera sotterranea. Stando egli in Francia, tutte le
fila delle ordite trame facevano capo ad un comitato superiore stabilito
a Parigi, di cui Tiburzio era parte. Egli consigliava, ammaestrava,
ammoniva, andava preparando quanto meglio potesse per uno scoppio che si
augurava e sognava poter essere sollecito e fortunato. Era in relazione
coi repubblicani francesi, che intendevano da canto loro a quel segreto
lavorìo, il quale doveva ad un tratto rivelarsi coll'immensa sorpresa di
tutta Europa nella ibrida repubblica del 1848. Gli uni speravano poter
essere d'aiuto agli altri e riceverne.

Ad un punto — per una di quelle solite illusioni cui vanno soggetti i
profughi — parve al comitato parigino che le cose in Italia già fossero
od almeno di molto s'avvicinassero ad essere mature per l'audacia dei
fatti. Conveniva, e fu deciso di comune accordo, che uno dei componenti
quella suprema direzione esecutiva, scendesse nella penisola, esaminasse
lo stato delle cose, infiammasse gli animi degli adepti, ne accrescesse
a tutto potere il numero, procurasse armi e danaro con ogni possibil
mezzo, si mettesse a capo delle squadre ordinate in segreto, gettasse il
grido della rivoluzione e cominciasse la sacra lotta.

La missione era delle più difficili e rischiose. Mario Tiburzio con
superbia sublime la rivendicò per sè; e niuno volle ed osò
contrastargliela. Venne in Italia sotto nome e professione simulati;
come aveva bella voce e sapeva di musica, si diede per cantante,
acconcio mestiere per correre le varie città, e coll'aiuto di
qualcheduno dei congiurati che poteva in siffatte cose, ottenne di
essere _scritturato_, come si dice, a quel teatro che egli volle.

Il paese più importante per l'umore bellicoso e pel carattere fermo de'
suoi abitanti; quello che la congiura credeva più necessario guadagnare
alla rivoluzione era il Piemonte. Insorta la Lombardia contro lo
straniero, insorto il paese subalpino contro la monarchia più forte
d'Italia, anzi la sola che fosse forte di per sè; tutto il resto della
penisola era in balìa del movimento.

Mario Tiburzio venne in Piemonte. Aveva conosciuto a Parigi Romualdo, in
un viaggio che questi aveva fatto colà, ed anzi avevagli reso un
importante servizio d'amico, in occasione d'un duello che ho raccontato
altrove[2]; aveva sempre continuato a carteggiare con Romualdo, il quale
non aveva fatto la menoma difficoltà ad intingere nella congiura. Giunto
a Torino, il cospiratore romano, per mezzo di Romualdo, era entrato in
relazione con tutti gli amici di quest'esso, e per la generosità della
loro indole, per la vivacità del loro amor patrio, per le doti d'ingegno
e di cuore che li contraddistinguevano, Mario li aveva fatti suoi
confidenti e principali aiutatori nella terribile impresa.

  [2] Vedi _Novelliere Contemporaneo_.

Ora erasi al punto di dover prendere gravi ed estreme decisioni; e nel
convegno di quella sera della quale vi sto narrando, Mario Tiburzio
aveva annunziato dovere comunicare agli amici le più importanti novelle.

Ascoltiamolo adunque, ora ch'egli, abbassando la sua voce grave ed
armoniosa, si fa a discorrere.



CAPITOLO XIII.


— Vi dissi che questa sera avrei comunicate gravi e serie novelle: così
cominciò Mario Tiburzio; e quanto sto per manifestarvi è infatti più
importante che forse non crediate, che io stesso non avrei pensato.

Trasse di tasca alcune lettere e mettendole spiegate sopra il suo
ginocchio destro, vi pose su la mano.

— Qui, riprese egli, stanno le relazioni dei comitati parziali delle
città delle Romagne, di alcuni di quelle del Napolitano, di Toscana e
della Lombardia. Dappertutto la rivoluzione è pronta. Non si aspetta che
un cenno da noi e si domanda che questo non tardi. Abbiamo noi da
chiamarli alle armi?

Tacquero tutti sovraccolti, colla fronte corrugata, colle guancie
pallide, cogli occhi fissi a terra, con un po' d'affanno nel respiro che
dinotava il violento palpito del cuore. Il momento era solenne. Quei
giovani si credevano — ed era in parte — avere in pugno la sorte della
patria loro. Certo dal loro accordo in una decisione dipendevano
centinaia di vite, e nuovi travagli e nuovi martirii.

Giovanni Selva, il più impetuoso di tutti, fece primo una mossa che
accennava esser egli per parlare.

Mario alzò la destra e gli accennò attendesse.

— Un momento: pronunziò egli con accento più grave ancora e più solenne.
La risposta che ciascuno di voi deve fare a questa domanda ha da essere
l'effetto d'una matura riflessione e data con piena ed assoluta
cognizione delle cose. Queste lettere mi pervennero oggi nelle prime ore
del pomeriggio, ed io rinchiusomi nella camera dove mi nascondo, ho
meditato su esse una mezza giornata che mi parve la più angosciosa che
abbia vissuto mai e che pure mi passò come un lampo. Quando venne l'ora
di andare a teatro, io aveva tuttavia un confuso tumulto nella testa, un
ronzio negli orecchi per il rifluire del sangue nel cervello, degli
abbagliamenti negli occhi. La febbre mi travagliava. Uscii tenendo sotto
panni qui sul mio petto queste carte fatali, e il loro contatto mi
pareva abbruciarmi. Corsi fuor di città a farmi flagellare la fronte
dalla fredda aria notturna. Quello che s'avvicendò di pensieri nel mio
capo non potrei esprimerlo a gran pezza. Quando entrai nel teatro ero
calmo, la mia risposta era formolata. Non vi dirò per ora qual sia.
Udite prima la lettura di questi rapporti, e poi meditateci sopra anche
voi.

Lesse quei documenti ad uno ad uno con voce lenta e posata. In tutti
dicevasi essenzialmente: essere stanchi della oramai incomportabile
tirannia; rifornite di grandissimo numero di ascritti essersi
dappertutto le file dei congiurati; il popolo impaziente anelare alla
lotta contro i suoi oppressori; aversi raccolto di celato buona somma di
denaro, cui ardenti patrioti erano disposti a venir man mano
rinforzando; aversi delle armi nascoste e sapersi ancora onde
provvedersene: coll'aiuto di certi agenti inglesi che facevano di questi
traffichi; essere gran tempo d'una risoluta eroica decisione. Veniva per
ultimo un disegno di rivolta del comitato parigino, per cui stabilivasi
che ad un tempo nelle Romagne e in Piemonte avesse da seguire lo
scoppio, al quale avrebbero tenuto dietro senza ritardo le insurrezioni
di Lombardia, di Sicilia e del Napolitano. A Mario ed agli amici suoi il
procurare e provvedere pel rivolgimento nelle terre subalpine. Si
assegnava un corto periodo di tempo per gli ultimi preparativi, e i
giorni di gazzarra della fine di carnovale erano posti come quelli in
cui si sarebbe dovuto scendere in piazza. Italia e libertà il grido; via
lo straniero l'impresa; repubblicano, colla formola di Mazzini, il
vessillo.

Poichè Mario ebbe finito di leggere, nessuno ancora degli amici parlò.
Tutti avevano lasciato spegnere in bocca lo zigaro o la pipa, loro
compagni inseparabili.

Mario ripose in seno quelle carte pericolose e riprese a dire:

— Qui non è tutto. Siccome conviene che voi sappiate ogni cosa, mi resta
da narrarvi d'un importante abboccamento che ho avuto testè. Voi sapete
come da poco tempo sia sorta nel nostro paese una nuova schiera di
amatori di libertà e di progresso, la quale, rompendo colle tradizioni
del nostro popolo che sono tutte repubblicane e rivoluzionarie, pretende
e sogna di effettuare l'impossibile vicenda d'un movimento pacifico di
riforma, per cui l'Italia dalla monarchia, o meglio dalle monarchie che
la opprimono, venga a ricevere aiuto precipuo a costituirsi in nazione
ed acquistare la indipendenza dallo straniero. Questa scuola è anzi nata
qui in Piemonte, e ne sono fondatori e precipui campioni i vostri
Gioberti, Balbo e d'Azeglio. Essi chiamano utopia la nostra di sperare
nella forza dell'ira popolare, nella potenza della rivoluzione, nel
santo principio della libertà repubblicana; e noi chiamiamo utopia la
loro di confidare in un miracoloso liberalismo di re che soltanto vivono
per la tirannia, in un desiderio d'indipendenza di principi i quali
dallo straniero soltanto hanno sostenuti i loro troni. Fra queste due
schiere, come vedete, corre un abisso; e tuttedue si guardano con
diffidenza a vicenda. Mi era già venuto parecchie volte il pensiero che
opera buona sarebbe il tentare se possibil cosa non fosse l'indurre fra
queste due parti un accordo per cui, in servizio di quella libertà e di
quel bene della patria che tutti in fondo vogliamo, si traesse profitto
delle forze che in verità stanno presso dell'una e presso dell'altra.

«Siffatto pensiero, ch'io non avevo mai trovato modo, occasione ed
incoraggiamento a porre in atto, ha or ora intrapreso di effettuare uno
dei principali della parte che si chiama e dev'essere chiamata moderata,
uno dei vostri, un di quelli che ho nominato adesso, Massimo d'Azeglio.

«Questo nobile liberale, questo soldato artista, questo scrittore
patriota, viaggia per l'Italia, quasi messo del suo partito, apostolo
della nuova dottrina della rivoluzione pacifica di complicità fra popolo
e principi, sconsiglia ogni violento proposito, incuora alla tolleranza,
alla calma, ad una rassegnata aspettazione, facendo sperare chi sa quali
venturosi successi da un subito convertimento dei nostri reggitori
all'amore della nazionalità. Ora, come sapete, ei trovasi in Piemonte, e
fa nella società torinese la sua opera di propaganda moderata.

«Avevo più volte pensato di recarmigli innanzi. L'ho conosciuto quando
visse in Roma come semplice e non ricco artista, ed io era giovanetto.
Nell'infelice ultima rivoltura, a cui presi sì sfortunata parte, udii
ch'egli avevala condannata: ma le nobili parole ch'egli stampò a far
conoscere il vero all'Europa non mi lasciarono scemar d'un punto quella
reverenza e quell'affetto che sin da prima ho concepiti per esso. Pur mi
peritavo di venirgli innanzi, solamente per appurar meglio lo screzio
profondo che divide le sue dalle nostre idee; e come non confidavo
abbastanza nella mia forza di persuasione, per istaccar lui dalle sue
opinioni, sentivo altresì che le mie mi erano eziandio così radicate
nell'animo, che niuna parola, per quanto autorevole, me ne avrebbe
potuto smuovere. Inutile quindi, e forse doloroso soltanto l'accontarsi
con esso lui.

«Ma ciò che non io, si decise a far egli. Mercè i suoi rapporti con
tutti quelli della parte liberale italiana, d'Azeglio seppe della mia
venuta e del mio star qui in Torino, ed apprese ancora o indovinò
l'opera mia. Volle ad ogni modo vedermi e favellar meco; e per
un'interposta persona mi fece questa medesima sera domandare un luogo ed
un'ora per un colloquio, e presto, che trattavasi di cose urgenti.
Risposi che sarei andato da lui anche subito; mi si prese in parola, e
quand'ebbi finito il mio poco di parte nell'opera, sgusciai via,
raggiunsi in piazza l'uomo che mi aspettava, e fui condotto in presenza
di Massimo d'Azeglio.

«Sono uscito da quell'abboccamento per correr qui da voi; e la cagione
del mio ritardo fu questa. Importanti cose si dissero nel nostro
colloquio, ed è mestieri che voi pure le intendiate.»

Qui Mario fece una pausa. I suoi compagni, sempre più presi
dall'interesse, gli si accostarono ancora di vantaggio, pendendo proprio
dalle sue labbra; ed egli così incominciò a parlare:

— Massimo d'Azeglio ha nella sua persona tutto quanto può sedurre ed
ispirare rispetto insieme e simpatia: la gentilezza d'un cavaliere,
l'abbandono d'un artista, la cortese domestichezza del tratto, la grazia
dell'ingegno, e sopra tutto ciò lo splendore della fama sì giustamente
acquistata al suo nome. Parla con una modesta sicurezza e con un'agevole
semplicità che sono ben lungi dall'eloquenza, ma che più di questa vi si
insinuano nell'anima, vi convincono e vi trascinano. Sul suo volto
nobile ed aperto, nel suo sguardo limpido e schietto, nel suo sorriso
arguto e tuttavia pieno, direi, di tolleranza, appaiono la sincerità
delle sue convinzioni, la integrità della sua anima e la cavalleresca
lealtà del suo carattere. Alto di persona e non ancora cinquantenne, sta
curvo ed ha un aspetto stracco, come se le fatiche della vita sostenute
lo avessero affranto; i capelli brizzolati, le rughe che si affollano
sul suo viso dimagrato gli danno un'apparenza di età più inoltrata e non
gli lasciano di giovane che lo sguardo ed il sorriso. Questa medesima
aria di sofferenza e di affralimento accresce in lui quel fascino di
simpatia che ho detto, ch'egli manda intorno a sè, su chiunque
l'accosti. Tanto più che facilmente si scorge, cotale stracchezza non
esser che delle membra, ma dentro esse perdurare vivaci, forti, ardenti
l'animo e lo spirito, pronti, ove il bisogno ne occorra, a dare, colla
forza indomata del volere, attività e robustezza anche al corpo.

«Vi dico tutto ciò, perchè vediate se io non era disposto meglio che
altro a subire l'influsso della parola, delle ragioni, della giusta
autorità di quell'uomo benemerito d'Italia.

«Al mio entrare si alzò dalla poltroncina su cui sedeva, presso ad una
tavola, leggendo al chiarore d'una lampada, i cui raggi erano riflessi
sul libro da un coprilume bianco al di sotto, verde al di fuori; depose
il volume che teneva in mano sulla tavola colla parte in cui era aperto
volta all'ingiù, e fece alcuni passi verso di me e la persona che mi
introduceva. Appena udito da quest'ultima il mio nome, si accostò più
rapidamente, tendendomi le sue due mani.

«— Tiburzio! Diss'egli con molto affetto. Con quanto piacere vi rivedo!
Voi mi ricordate la mia diletta Roma, e il bel tempo che, giovane, ho
vissuto in essa; voi mi recate innanzi il maschio volto d'un coraggioso
patriota, d'uno che può dirsi per sangue e per animo discendente dai
Romani dei due Gracchi.

«(Vi ripeto, quale egli le disse, le sue parole, che una per una, come
potete immaginare, mi si stamparono nella mente e nel cuore).

«Per le mani, che io aveva poste nelle sue tesemi così cordialmente, mi
trasse presso la tavola, e levando il coprilume dalla lampada, fece che
i raggi di essa si spandessero per la cameretta e percuotessero in pieno
nei volti di ambedue che stavamo là l'uno a fronte dell'altro.

«— Così, diss'egli scherzosamente, che possiamo leggerci nella
soprascritta.

«I suoi occhi si affisarono ne' miei ed i miei si affondarono ne' suoi.
Parve che le nostre anime si incontrassero; e credo poter dire che niuno
rimase scontento di questo mutuo, tacito esame.

«— Ah! Diss'egli con un sospiro insieme ed un sorriso: l'ultima volta
che ci siam visti, voi eravate appena giovinetto ed io già uomo; ora voi
siete un uomo ed io sono vecchio.

«La persona che mi aveva introdotto era testo sparita; ci trovavamo
affatto soli.

«D'Azeglio tirò avanti una poltroncina, rimpetto a quella in cui egli
sedeva poc'anzi, e fe' cenno mi vi assettassi.

«— Sedete e discorriamo: mi disse.

«Sedette egli stesso, ed appoggiando il gomito destro alla tavola
sostenne il capo colla mano alla fronte, mentre mi seguitava a guardare
con insistenza che non aveva nulla di offensivo o sgradito, ma invece di
amorevole, onde non me ne sentivo menomamente turbato.

«Io dissi alcune parole ad esprimere la mia soddisfazione e la mia
superbia nel trovarmi a quel colloquio con esso lui. Egli m'interruppe
con quel suo aggraziato e malizioso sorriso.

«— Caro Tiburzio, non siamo qui per farci dei complimenti, che nella
vostra bocca sento sinceri, ma che non fanno all'uopo. Io non vo' usare
con voi ciò che suol chiamarsi della diplomazia. Lo faccio con nessuno —
o con pochissimi, soggiunse sorridendo — e la gran ragione si è che non
ci ho proprio gamba. Con voi poi meno che meno vorrei tentare codesto,
perchè vi stimo di troppo, e inoltre la sarebbe cosa inutile ed anzi
dannosa agli effetti che mi sono proposto d'ottenere. Gli uomini di
ordinario hanno due verità come due coscienze; una verità vera ed una
coscienza giusta a cui fanno contrapposto una verità affatturata e una
coscienza che chiamerò legale. Nei nostri rapporti noi ci atterremo alle
prime due, perchè tale è nostra natura, e vi dirò schietto che tale è
eziandio il mio interesse. Dunque a noi, senza altro preambolo.

«E qui, ponendomi famigliarmente una mano sopra il ginocchio, mi disse
che se io conosceva alcuna cosa de' fatti suoi, anch'egli non era del
tutto al buio intorno ai miei, che sapeva la parte da me presa negli
ultimi infausti rivolgimenti, la mia dimora in Parigi e in che cosa
l'avessi occupata, la mia venuta in Italia, e l'opera a cui intendevo
sotto il mio finto mestiere d'artista da teatro.

«— Quest'opera, diss'egli allora con molto calore, quest'opera non può
riuscire, più che non abbiano riuscito gli ultimi tentativi di Romagna,
credetene l'esperienza d'un uomo a cui pur troppo la maturanza dell'età
non lascia abbandonarsi alle lusinghe della fantasia, d'un uomo che ha
viaggiato palmo a palmo questa Italia che si tratta di sommovere, che ne
conosce della popolazione gli elementi, le condizioni, gli umori, i
difetti. Voi, col trasporto del vostro desiderio e del vostro
patriottismo, vi create un popolo italiano immaginario che non esiste, e
quindi allorchè lo chiamate alla lotta, esso vi manca e non sapete
rendervene ragione. Fra noi v'è una massa stragrande di plebe, la quale
non si cura di patria, nè d'indipendenza, nè di libertà, perchè non sa
nulla, non comprende nulla, non avverte nessun suo interesse ad un
cambiamento politico qualunque.

A questo punto Maurilio, che era sempre stato immobile ad ascoltare, coi
gomiti appoggiati alle ginocchia e il volto sostenuto alle mani serrate
a pugno, si volse di scatto ed esclamò vivamente.

— Gli è vero! Codesta osservazione tenetela a mente: ci tornerò sopra.

Mario continuava:

— E non solo — così diceva ancora D'Azeglio, e come vedete, io vi ripeto
con tutta imparzialità le sue obbiezioni — non solo fallirà tristamente
il vostro tentativo, ma sarà infaustissimo, oltre che a voi prime
vittime della vostra generosa imprudenza, oltre che a migliaia d'altri
martiri inutili, all'Italia medesima, a quella santa causa a cui volete
appunto giovare, a cui vi disponete a sacrificare la vostra vita, ed
alla quale invece arrecherete irreparabil danno, rimandandone il trionfo
a chi sa qual più tarda età.

«Secondo lui i tempi vengono sì maturandosi e facendosi propizi ad un
miglior destino per l'Italia, ma ciò, mediante altri mezzi da quelli
della violenza, coi quali non può e non deve combattere il diritto.
Invece che colle congiure e colle rivolte, diss'egli, noi liberali
dovremmo combattere colla esposizione aperta, moderata, legale dei
nostri diritti. Il tempo delle opere fatte nelle tenebre è finito,
afferma D'Azeglio, bisogna congiurare pel bene della patria, pel bene
morale, per qualunque siasi progresso alla chiara luce del sole. A suo
avviso hanno giovato di più all'Italia i libri di Gioberti e di Balbo
(per modestia non disse i suoi) che tutte le cospirazioni e le rivolture
avvenute dal vent'uno in qua. L'esposizione pubblica dei voti, dei
diritti del popolo forma la pubblica opinione, la cui forza nel nostro
secolo è somma, e va ancora ogni giorno crescendo. Nè meno coraggiosa è
l'opera di chi all'aperto proclama la verità che quella di chi affronta
la morte o l'esilio, celatamente lavorando per questa verità medesima.
Che un profondo e radicale rimutamento si venga facendo in Italia, cieco
è chi non veda; ma questo moto affatto nuovo ha da regolarsi con nuovi
mezzi, abbandonati i vieti e dannosi delle congiure. I liberali hanno
poca forza contro i proprii principi e contro lo straniero riuniti. Non
sarebb'egli abile politica ed immenso guadagno dividere questi due
elementi di nostra oppressione ed avere compagni, complici, direi, nella
crociata contro gli stranieri i nostri principi medesimi? Le nostre
forze non ne sarebbero esse centuplicate?

«Qui io l'interruppi, dicendo ciò che vi dicevo poc'anzi: il confidar
ne' principi essere un'utopia più arditamente folle che la nostra di
confidare nei popoli.

«D'Azeglio riprese con calore: — No, Mario, non è assolutamente vero ciò
che dite. Anzi tutto, i principi sono italiani ancor essi oramai.

«Io scossi la testa.

«— Sono nati in Italia, ma hanno il cuore a Vienna od il sangue
spagnuolo.

«— Non tutti, non tutti: riprese egli tornando a mettermi la mano sul
ginocchio. Vi è una dinastia che da otto secoli — donde sia venuta non
importa — da otto secoli ha le sue radici in Italia, e da più di quattro
ebbe per obbiettivo della sua politica l'aspirazione di costituire
l'Italia: chiamatela pure ambizione, un'enorme ambizione, ma grande e
nobilissima. Questa dinastia ha una qualità caratteristica, attinta al
popolo su cui domina da tanto tempo, benevisa quasi sempre, abborrita nè
anche disamata mai: la tenacità dei propositi, e la prudenza, non
disgiunta dall'audacia a tempo opportuno, negli atti. Nello scorrere di
tanto tempo, fra tante sostenute vicende, in mezzo a così profondi
rivolgimenti, ella non ha rinunziato mai al suo scopo finale; si è
fermata, s'è raccolta, ha taciuto, ha dissimulato fors'anche, ma tosto
che il potè, sempre riprese la via verso quella meta, a cui la chiamano
la sua ambizione, il destino, lo svolgimento necessario delle sue
premesse politiche. Voi mi direte che non c'è da fidarsi nell'amor
patrio e nel liberalismo dei principi; ed io pel momento ve lo voglio
anche concedere; ma per casa Savoia, o far l'Italia, od essere soggetta
allo straniero, o collo svolgersi del tempo vedersi fors'anche
schiacciata fra due contendenti e cancellata dalla lista dei regnanti, è
una necessità fatale che le incombe inesorabilmente. Ne volete una
prova? De-Maistre, il gran profeta della reazione, non vedeva altra
sicurezza per la Monarchia Sabauda restaurata, in faccia all'Austria,
che nella formazione in suo vantaggio di un regno solo dell'alta Italia.
E codesto come volete che non lo capisca re Carlo Alberto, in cui gli
umori liberali del vent'uno non possono essere affatto spenti, in cui
l'umiliazione inflittagli dall'Austria per la bocca insolente del
generale Bubna, e il minacciato trono, e l'imposta suggezione devono
aver destato potente — tanto più potente, quanto più contenuto — il
desiderio della vendetta?

«Io sorsi con impeto non potendo frenarmi.

«— Ah! non parlatemi di questo principe: esclamai. Le sue velleità
liberali del ventuno, troppo ha egli ripagate col suo accorrere al campo
austriaco, col Trocadero, colle fucilazioni e colle forche di
Alessandria. Qual fede volete che si nutra pel re che si è stretto in
legame di sangue colla casa austriaca, il cui governo perseguita
accanitamente il pensiero e protegge i Gesuiti?

«D'Azeglio tacque un istante guardandomi commosso, ma senza il menomo
segno di risentimento; poi mi disse con più amorevolezza ancora:

«— Sedete di nuovo, Mario Tiburzio, ed abbiate ancora la pazienza
d'ascoltarmi un poco.

«Feci a suo senno, ed egli ripigliò a parlare. Mi disse che la condotta
di Carlo Alberto era una necessità per conservarsi prima il diritto alla
corona, quest'essa poi. Ma nell'animo di quel re taciturno, chi può
leggere sicuramente e dire i pensieri e i propositi che vi si agitano?
Un giorno — egli ne va persuaso — dovremmo benedire quegli atti che ora
malediciamo, perchè, avendo dato lo scettro del Piemonte a questo re
calunniato, lo avranno posto in grado di compire il riscatto d'Italia.

«— No, no: io proruppi. Codesto non crederò mai. Se cotali generosi
propositi si covano sotto quella fronte coronata, perchè, una volta
stretto in mano lo scettro, non s'è egli gittato francamente col popolo
e non ha fatto suo programma di regno la stupenda lettera che gli
indirizzava Giuseppe Mazzini?

«— Perchè, caro mio, rispose d'Azeglio, altro è far disegni di politica
e di governo a scrittoio colle briglie abbandonate alla fantasia audace
e poetica, altro è trovarsi all'atto pratico, nel cimento delle
contingenze e potendo apprezzare la fattibilità delle cose. Io non
voglio dire che Carlo Alberto, venuto al trono, non avesse potuto
adottare un regime un po' più liberale; ma i pericoli per lui,
sospettato dalla reazione interna e dall'influenza estera, circondato di
stromenti avversi e malfidi che non poteva cambiare senza sovvertire
tutto il regno, i pericoli erano molti e gravi e da atterrire facilmente
qualunque animo più fermo. Gittarsi francamente col popolo, voi dite? Ma
qual popolo? La gran massa ignorante è più facile stromento al
sanfedismo che non altro. L'aristocrazia e la maggior parte
dell'esercito erano per la reazione. La borghesia, poco illuminata ancor
essa, non dava che un lieve contingente di gioventù alle schiere
rivoluzionarie. Dov'era questo popolo che avrebbe potuto sostenerlo?
Formiamolo noi, suscitiamolo noi, questo popolo, col lavoro palese,
aperto, calmo e coraggiosamente tranquillo d'una propaganda nazionale; e
quando Carlo Alberto sarà sicuro di avere in esso una leva contro lo
straniero, rivelerà quei segreti propositi che cova nel suo animo
generoso.

«Io l'interruppi dicendo che la proposta propaganda era impossibile; la
censura dei governi l'avrebbe contesa alla stampa, la polizia sospettosa
e prepotente, e più che altrove in Piemonte, l'avrebbe impedita alla
parola.

«— Tutto si cambia, tutto si va cambiando a questi giorni: ribattè
egli. Se vi dicessi che, fatta colla voluta prudenza, quest'opera
aggradirebbe al re medesimo? Se vi dicessi che qualche patriota, — qui
esitò un momento, e poi soggiunse: — che io stesso parlando con esso
lui, trovai sulle sue labbra le espressioni d'amore all'Italia, di
desiderio, d'indipendenza che potremmo pronunziare noi stessi, io, voi
Tiburzio, rivoluzionario ad ogni costo[3]? Se vi dicessi che per sua
impresa segreta Carlo Alberto ha scritto: ATTENDO LA MIA STELLA; e che
questa stella è il momento in cui potrà snudare la spada per la santa
causa d'Italia? Che io stesso ho letto — letto con questi miei occhi,
Mario — una lettera del re ad un suo confidente, in cui esso dice a
chiare parole che il più bel giorno di sua vita sarà quello in cui potrà
salire a cavallo in compagnia de' suoi figli, mettersi a capo al suo
esercito, e farsi lo Sciamìl dell'Italia?[4]»

  [3] Vedi nel volume 2º dei _Miei Ricordi_ di Massimo d'Azeglio
  la narrazione dell'abboccamento avvenuto fra lui e Carlo
  Alberto.

  [4] Questa lettera fu scritta al conte di C.... nell'autunno del
  1845.

A queste parole l'impetuoso Giovanni Selva proruppe:

— Oh! se ciò fosse mai vero? Ma tutto il Piemonte sorgerebbe con
entusiasmo dietro il suo principe, e si rovescierebbe addosso ai
Tedeschi. Ed io, io stesso griderei: viva il re!

— Ed io? Corpo di bacco! Esclamò Vanardi il quale, all'idea di poter
essere liberale e patriota d'accordo col governo, sentiva l'animo
rassicurarsi non poco.

— Certo che sì! Soggiunse ancor egli Romualdo. Questa sarebbe pure la
miglior ventura per l'Italia.

Maurilio solo si tacque e non si mosse nemmanco, sempre tenendo il mento
appoggiato alle mani, l'occhio fisso nel crepitar della fiamma.

Tiburzio fece pausa un istante, come per dar tempo allo sfogo di quel
subito nuovo sentimento nei compagni; poi girando attorno su di essi lo
sguardo freddo ed acuto dei suoi occhi neri disse con ispiccato accento:

— Udite la risposta che io gliene diedi, e se vi parrà che in essa meco
non possiate convenire, accusatemi pure d'aver errato respingendo
assolutamente ogni accordo col partito monarchico, ogni fiducia nel
liberalismo principesco. Signore, io gli dissi, quando un uomo ha nel
suo passato i fatti del ventuno — chiamateli pure, con termine il più
mite possibile, un abbandono soltanto; — quando quindici e più anni di
regno assoluto e tirannico in cui si è governato coi poliziotti, col
predominio della sciabola, del nobilume e dei gesuiti, a beneplacito
dello straniero, hanno dato la misura dell'amore d'un principe verso il
suo popolo, non è mercè alcune belle parole buttate là in una
conversazione privata, scritte forse per arte politica in una lettera
che non avrà mai carattere ufficiale di realtà, che quest'uomo e questo
re possa far credere alla sincerità de' suoi sentimenti liberali,
all'ardore del suo patriotismo. A nome di tutti i patrioti italiani che
hanno travagliato e si travagliano per la libertà del loro paese, a nome
di tutto il popolo che ha sofferto e che soffre, io sento il diritto di
chiedere a questo come ad ogni altro principe d'Italia qualche maggiore
e più effettiva guarentigia che questa non sia, per porre fidanza in
esso lui.

«D'Azeglio mi prese per la mano e mi disse vivamente:

«— Ma se questo re vedeste scendere in campo e cimentare la corona e la
vita per la nostra patria, non gli credereste? Non lo seguitereste voi?

«— Sì, risposi, allora sì: ma allora soltanto.

«— Ebbene aspettate: soggiunse egli, e questo bel momento verrà.

«Volle persuadermi ad ammorzar la congiura ch'egli sa ordita e presso
allo scoppio; mi disse che l'esplosione della medesima non avrebbe
ottenuto che di ricacciare indietro dalla strada del partito nazionale
Carlo Alberto e gli altri principi che verso di essa si avviano: che
saremmo immancabilmente oppressi: che era somma virtù anche quella di
saper aspettare.

«— Ma l'Italia, io risposi, ha già di troppo aspettato, e i mali suoi
sono intollerabili. Aspettare è molte volte una virtù, ma sovente ancora
codardia. Noi siamo giunti al punto da meritarci quest'ultima nota in
faccia alla vergognosa tirannia che ci opprime, di fronte alle altre
nazioni che hanno il diritto di disprezzare la nostra ignavia, e la
disprezzano. Noi cadremo? Spero di no perchè la giustizia è dalla nostra
parte, e non sempre essa soccomberà; perchè il popolo abbiam prova
essersi desto finalmente, e volontà di popolo ha la forza della
Provvidenza. Ma fosse pur anche, non pentiti cadremmo ed oso dire non
inutili, perchè ogni martirio radica la fede e la religione d'un'idea;
il cristianesimo si fondò colle successive persecuzioni sanguinose che
furono altrettante sconfitte materiali, ma altrettante morali vittorie;
e l'amor della patria e della libertà è una vera religione ancor esso.
Non inutili cadremmo, perchè in una gente schiava è opportuno, è
necessario, è sacrosanto debito dei forti che di quando in quando il
sacrifizio di alcuni generosi dia esempio di animo maschio ed innalzi il
livello de' caratteri cui la schiavitù e le codardie della servilità
accasciano e corrompono. Si versi pure il nostro sangue di vinti: esso
concorrerà a fecondare con quello dei martiri che ci precedettero, il
sacro germe della libertà. Per noi, per me, la sorte è tratta, e bisogna
che il destino si compia.»

Mario Tiburzio a queste parole sorse in piedi, levò risolutamente la sua
bella testa e scosse le chiome con nobil mossa onde si accrebbe ancora
l'aspetto di forza e di coraggio che improntava la sua fisionomia, tese
la mano verso Romualdo, Selva e Vanardi, che s'erano alzati ancor essi,
e soggiunse con accento di cui impossibile dire l'efficacia ed il
fascino:

— E la risposta fatta all'Azeglio vi dica la mia decisione suprema.
Fuori i ferri e via le guaine Viva Italia e libertà! E combattiamo per
esse fino all'ultima stilla di sangue.

— Viva Italia! Gridò Selva scosso, trascinato dall'influsso magnetico,
direi quasi, di Mario Tiburzio. La vostra decisione è la mia.

— Ed anche la mia; soggiunse Romualdo, affascinato egli pure.

— E la mia; mormorò Vanardi, che impallidì maggiormente.

— Ed anche quella di Benda, ne rispondo io: riprese Giovanni.

Maurilio solo si tacque, rimanendo al suo posto, a quel modo, senza dare
il menomo segno di che pensasse o volesse.

Tiburzio gli si accostò e gli pose lievemente una mano sulla spalla.

— E voi, domandò, che avviso è il vostro?

Maurilio alzò il capo dalle mani e gli occhi in volto al richiedente;
poi rispose con tranquilla indifferenza:

— Avete detto tutti di sì; tanto vale che lo dica ancor io. Ad ogni
modo, sapete che io sarò sempre con voi; ma se, per via di discorrere,
mi voleste lasciar dire quattro parole, io vorrei snocciolarvi alcune
mie osservazioni.

— Parlate: disse Mario.

— Parla, parla: esclamarono gli altri.

Il nostro protagonista levò via i piedi dal fuoco e battè con essi sullo
scalino del focolare per scuoterne la cenere, si volse sulla seggiola
verso i compagni, e con tono lento e quasi indeciso, come se si
peritasse o non avesse ben chiaro innanzi ciò che avesse da dire,
incominciò a parlare con voce esitante e sommessa. Ma poi nel progredire
del discorso venne via via rinfrancandosi, e le parole più fluidamente e
più ordinatamente gli uscirono dalle labbra, e la voce eziandio si
raffermò e crebbe di forza e d'efficacia nell'accento.

— Sì..... certo.... Mario Tiburzio ha ragione.... Credere così di piano
all'amore dei re assoluti per la libertà è..... direi quasi..... almeno
almeno poca prudenza..... Ma pure questa misteriosa figura di Carlo
Alberto ha qualche cosa in sè di.... di speciale..... che accenna ad
un'eccezione..... Non voglio già dire con ciò..... Io non vi parlo che
di mie impressioni, e so bene che valore queste possono avere..... A me
è avvenuto poc'anzi, per la prima volta, di trovarmi innanzi al re, a
due passi..... alla distanza a cui ora sono da te, Selva.... e di
guardarlo fisso negli occhi..... così..... come guardo te..... Fu uno
sguardo e non più; fu un minuto, un attimo, un nulla, eppure vidi,
sentii pensai, conobbi, quasi oserei dire, di quell'enimma coronato
d'uomo assai cose.

Selva lo interruppe domandandogli dove e come gli fosse avvenuto questo
incontro col re, il quale, nelle condizioni del giovane plebeo, pareva
anzi che straordinario, impossibile.

Maurilio raccontò impacciatamente essersi introdotto, e tacendone il
vero motivo disse per curiosità, nell'atrio dell'_Accademia
filarmonica_, e ciò che colà eragli accaduto; poscia riprese tornando al
suo discorso:

— Io credo alla teoria di Lavater, la quale se non ha tutte le rigorose
deduzioni della scienza, ha i meravigliosi indovinamenti d'una
ispirazione e d'un istinto. L'anima parla, anche malgrado la volontà,
colle sembianze della faccia, coll'espressione dello sguardo, colle
forme del corpo onde s'è vestita; e l'arte dell'uomo nel mondo è appunto
di soffocare quel linguaggio, o dissimularlo, o fargli dire il contrario
della verità. Ma non tutti, non sempre, riescono a questo violentamento
della propria natura. Un sussulto, un atto, uno sguardo, rivelano ad un
punto all'osservatore il nascosto essere dell'anima, ed in un minuto
contraddicono alla finzione già perfino fatta abitudine di anni e di
anni. Ho incontrato col mio lo sguardo di re Carlo Alberto; io, uno zero
sulla terra, ho tenuti fissi i miei occhi in quelli del rappresentante
della maggior potenza terrena; ed ho tanto orgoglio da credere che,
meglio forse di tanti altri, per la ventura di averlo colto in uno di
quei momenti in cui anche al più in sull'avviso cade la maschera, io ho
letto nella sua anima. Stimo aver io travisto un istante i pensieri ed i
propositi che si agitano nell'intimo essere di quel re taciturno.

«Massimo d'Azeglio ha ragione. Quell'uomo non è il tiranno che noi
liberali accusiamo, non è il traditore che maledicono nelle loro
conventicole i carbonari: è uno schiavo esso stesso morso dalle
strettoie delle circostanze, che copre colla pallidezza ascetica del suo
volto e colla clamide di re le sue interne riluttanze e le ribellioni
soffocate della sua natura. Non è un Tiberio, quale Tommaseo lo
battezzò; è piuttosto una specie di Bruto primo incoronato.

«Quell'uomo soffre e pensa. Il pensiero ed il dolore nei re li fanno più
acconci a comprendere ed amare i popoli. Quel principe ha una fede e
un'ambizione. Vuole che il suo nome non passi inosservato fra la schiera
dei regnanti di cui recita la litania lo scolaretto che ha mandato a
memoria il trattatello di storia patria, ma che obliano le povere plebi
memori soltanto di chi ha fatto loro molto bene o molto male; e crede
che colla preghiera potrà ottenere da Dio le fortunate vicende onde
conseguire il suo scopo. Quali mezzi trascegliere non sa, e forse non
giunge sinora a vederne alcuno ad arrivo di sua mano. Esita ed oscilla
forse innanzi a due grandissimi còmpiti: far la nazione e risuscitar
l'Italia; o farsi il riformatore del suo popolo e lasciare al re venturo
un paese più ricco, una popolazione più omogenea, una società meglio
ordinata. Forse gli mancano la forza e l'intelligenza sia per l'uno che
per l'altro di questi sommi propositi; e la turba di cortigiani, di
mediocrità ignoranti e prosuntuose, di uomini del passato che si
assiepano intorno al suo trono, non gli lascia scorgere nè la
possibilità nè i modi per affrontare l'una o l'altra, o tuttedue codeste
imprese. Vuole e disvuole; ora si rincora, ora si stanca e s'accascia;
tenta tenersi preparato per questo e per quello; rinuncia ad ogni cosa;
riprende lo sperare e l'agire; ma tace e tutto rinserra nel profondo
dell'animo.

«Quell'indole incerta si lascia in balìa degli avvenimenti: forse egli
non si deciderà mai e morrà senz'aver fatto nulla, dopo aver vagheggiato
tutto, mantenendosi in quella timidità d'atti malgrado la temeraria
audacia dei pensieri, se la forza delle circostanze o l'influenza d'una
potente volontà non vengono ad esercitare un impulso su di lui.
Bisognerebbe quest'impulso produrlo e farsi collaboratori, a sua stessa
insaputa, dei suoi segreti, non anco ben precisi intendimenti.

«Il più agevol modo sarebbe quello d'una potente personalità, d'una
grande intelligenza che lo accostasse, gli leggesse per entro, prestasse
alle sue aspirazioni, forse ancora troppo vaghe, la precisione ed il
vigore di concetti politici, lo persuadesse della possibile attuabilità
di essi, lo dominasse coll'influsso della verità e coll'autorevolezza
del genio. Ma dove trovarla questa eminente intelligenza speciale? Io
non la so per ora vedere in Italia. Gioberti è un altissimo e vastissimo
intelletto; nella sua un po' confusa filosofia si hanno degli sprazzi
luminosissimi di vero; il suo _Primato_ è un'esercitazione rettorica in
cui rivive la potenza dei grandi scrittori italiani del cinquecento, in
cui la vena immaginosa e ridondante dello stile va fino al paradosso, ma
in cui non si mostra per nulla il politico pratico ed effettivo. Questa
qualità ha di meglio Cesare Balbo, ma è troppo rimesso e senza le
audacie prudenti di nuovi principii. Massimo d'Azeglio stesso è un buon
scrittore, un egregio patriota, ma non discerno ancora in lui quelle
qualità, che mi sembrano opportune, di operosità intellettiva
infaticabile, di prontezza e continuità fecondissima di spedienti, di
tenacità e d'unità di pensiero, pure colla varietà infinita delle
capacità e dei modi, a seconda delle circostanze, degli uomini, dei
casi, il quale, sempre presente a se stesso, tutto volge a benefizio,
tutto intende all'ottenimento del suo fine; e su tutto codesto
quell'influsso inesplicabile, quel fascino di superiorità che si fa
riconoscere da chicchessia, e che anche i malvolenti obbliga a
sottostare al predominio del genio. Forse — e voglio sperarlo per la
nostra patria[5] — quest'uomo esiste nella massa dei nostri
concittadini: ma chi sa additarlo? E donde potrebbe il re trarselo ai
suoi fianchi consigliatore, ispiratore e ministro?

  [5] Maurilio aveva ragione. Quest'uomo esisteva già nelle file
  della nazione: ed era lo allora ignoto — anzi, peggio che
  ignoto, malvisto — Camillo Cavour. Se questi fosse stato
  ministro di Carlo Alberto a quei tempi, chi sa quante cose a
  benefizio del Piemonte prima, dell'Italia poi non si sarebbero
  allora compiute!

«Se non l'influsso d'un uomo, rimane allora che il concorso delle
circostanze sia quello che mostri la via, che dia la spinta per essa
all'animo esitante del nostro re. Possiamo noi crearle queste
circostanze? Massimo d'Azeglio, secondo me, ha ragione: noi lo possiamo.
E quando dico noi, intendo dire non soltanto i congiurati in nome della
libertà, carbonari od altri, non solamente i Piemontesi e Liguri, non
solo gli appartenenti alla classe mezzana che sono abbastanza istrutti
da apprezzare che cosa sia nazionalità e libertà e da capire che non
possedono nè l'una nè l'altra; ma intendo tutti quanti sono italiani da
un estremo all'altro della penisola.

«Io sono d'accordo col semplice, ma vero e grandioso concetto di Massimo
d'Azeglio: congiura universale, pubblica, aperta, in favore del bene e
del progresso. Agire sopra un uomo solo che ha il potere, sarebbe più
semplice e più speditivo; ma ce ne mancano i mezzi: agire sopra tutta la
massa della nazione è più lungo, ma più sicuramente efficace ancora.
Quest'opera ammette, include e comprende un'infinita varietà di mezzi,
che tutti poi si raccolgono in una sola parola — una santa parola, amici
miei: — EDUCAZIONE POPOLARE. Chiunque diminuirà non sia pure che d'un
centellino l'ignoranza della nostra plebe, avrà lavorato pel bene, per
la libertà e per l'emancipazione d'Italia, più certo che non noi coi
generosi giuramenti delle nostre segrete congreghe.

Mario Tiburzio accennò parlare; Maurilio fece segno non l'interrompesse,
e continuando con più calore, soggiunse:

— Certo l'opera è più umile, ma è di tanto più fruttuosa di bene, poichè
possiamo essere certi, quand'anche il propostoci fine da noi non si
ottenga, che infiniti vantaggi resteranno nel popolo. Val cento mila
volte più una scuola aperta nell'ultimo dei villaggi, che una
insurrezione anche vittoriosa. Noi prepareremo un popolo conoscitore de'
suoi diritti e scientemente desioso di libertà. Con un popolo tale sarà
patriota anche il principe; e se per la lentezza dei progressi Carlo
Alberto morrà senza aver potuto sguainar la spada contro l'Austria,
legherà a suo figlio la vendetta del suo nome ed il debito della santa
guerra.

«Nella nostra insurrezione credete voi d'avere il popolo dalla nostra
parte? La parola popolo ha mille sensi; e noi siamo troppo usi ad
intendere per essa quelli soltanto che partecipano dei nostri sentimenti
e delle nostre opinioni. Io voglio significare l'universalità di quanti
sono cittadini, fra cui il maggior numero non si merita ancora che il
titolo di plebe. Questa plebe non l'abbiamo con noi; ben disse Massimo
d'Azeglio. I nostri interessi patriotici e liberali si agitano al di
fuori della sfera di quella misera gente e non la toccano. Ben altra è
la quistione che incombe con tirannica pressura su quei diseredati: la
questione del pane, la sicurezza della esistenza delle loro famiglie.

«Questa massa di popolazione ha in sè una forza latente di cui è
inconscia essa stessa; e da tal forza soltanto noi potremo aver i mezzi
da vincere le monarchie e lo straniero e l'attuale ordinamento politico;
ma allorquando soltanto questa massa si gettasse volonterosa,
confidente, spinta da un evidente suo vantaggio con noi. Invece che
vantaggio possiamo noi arrecarle? Che cosa prometterle che poi siamo in
grado di mantenere? La libertà? Ma se ella è in tali condizioni di mente
da non capire che cosa sia. L'indipendenza della nazione? Sa ella forse
che cosa sia una nazione? Domandate al villano piemontese, al _cafone_
napolitano s'egli sia italiano. L'unità della patria? Ma per lui la
patria è il campanile del villaggio, è la fangosa strada della sua
officina. Come volete ch'egli abbia un amore platonico per quelle
sublimi idee che ci commovono, noi che abbiamo studiato? La plebe vi
domanderà, prima di scendere ad urtarsi contro il trono cui la
tradizione se non altro le ha mostrato a rispettare: — Avrò meno miseria
e men lavoro? — Se voi le rispondete affermativamente, mentite; ed ove
questa menzogna la persuada, ne sarete puniti di poi tremendamente. Ma
il vero è che nè anche se voi le affermaste questo suo riscatto dalla
miseria, la plebe onesta non vi crederebbe, e non avreste con voi che la
bordaglia ribelle ad ogni autorità, mantenuta nel dovere soltanto dal
rigore delle leggi, la quale non vedrebbe in un rivolgimento che la
guerra ai ricchi, e non farebbe altro che danneggiare e disonorare la
vostra causa.

«La plebe dunque non l'avremo con noi, non bisogna nemmanco pensarci; e
senza di essa noi siamo debolissimi nemici alle forze della
monarchia....

— Avremo anche la plebe: interruppe Mario. Le cose che voi mi dite,
Maurilio, credete voi che io non le abbia pensate? Ho cercato d'aver
alleata — e dirò anzi complice — anche quella parte di popolo. In essa
pure serpeggia il malcontento, ed il suo malessere presta favorevole
occasione alla nostra propaganda. Quando si sta male, torna un vantaggio
ogni cambiamento. Vi ha un uomo qui che si afferma — e me ne diede prove
incontrastabili — avere sopra la plebe di questa città direttamente o
indirettamente autorità grandissima ed impero sicuro. Con quest'uomo mi
son posto in istretti rapporti. Sotto certe condizioni egli ci promette
il suo appoggio.

— Chi è quest'uomo? Domandò vivamente Maurilio, a cui traverso la mente
balenò un sospetto.

— È un essere misterioso che pur vivendo in mezzo alla più elegante
società ha strette attinenze coi più bassi fondi della plebe. Nei
salotti lo chiamano il dottore Luigi Quercia, nelle taverne dei più
miseri cenciosi è conosciuto col nomignolo di _Medichino_.

— Lui! Esclamò Maurilio. Gian-Luigi?

— Voi lo conoscete?

— Lo conosco.

Maurilio curvò il capo e stette in silenzio, con atteggio di abbandono,
come subitamente oppresso da una prepotente invasione di varii e
tumultuosi innumeri pensieri.

Tiburzio continuava:

— Nella plebe, specialmente fra certe classi di operai, si intromisero e
serpeggiano e già vastamente si dilatarono alcune segrete associazioni
simili a queste nostre che hanno per iscopo la indipendenza della patria
e la libertà del genere umano. Le associazioni plebee hanno un fine più
speciale ai loro interessi: quello di abolir la miseria, di assicurare a
tutti che vivono su questa terra i mezzi della loro sussistenza, di por
fine agli stenti ed alle privazioni dolorose di tanta parte
dell'umanità. Per giungere a codesto, una cosa hanno certa i guidatori
di quelle società segrete: che bisogna intanto distruggere il presente
regime politico, il quale grava con tutto il suo peso sulle classi
povere e ne rende immutabili le sciagurate condizioni. Noi abbiamo
quindi questa forza della plebe che incomincia a sobbollire nell'imo del
corpo sociale e prepara la sua esplosione. Perchè non ci serviremmo di
essa? Come ci siamo accordati tutti quanti siamo amanti di libertà in
Italia per unire tutte le nostre forze in una medesimezza d'azione,
perchè non ci uniremmo altresì con quella parte di popolo, che
giustamente, disse Maurilio, ci può accrescere di tanto le posse contro
la monarchia? Ho pensato che questo era non solo un diritto, ma un
dovere che avevamo. La plebe recherà a noi la forza del suo numero e
delle sue braccia: noi daremo ad essa nel nuovo assetto politico ciò che
vuole giustizia, migliori condizioni economiche e sociali. Mi sono
accontato con quest'uomo che vi ho detto, — uno strano personaggio in
vero, e di una potenza straordinaria d'animo e di parola — e se non è
tuttavia conchiuso fra noi l'accordo, siamo prossimi, e confido che non
mancheremo di stringerlo.

— Quest'uomo vi ha fatte delle condizioni, avete detto.

— Sì.

— Possiamo saper quali?

— Di due sorta. Alcune personali: accoglierlo lui fra i capi
dell'impresa; ottenuto prospero successo, a lui uno dei primi posti nel
nuovo ordinamento politico. Certo è un'audace ambizione che parla: ma
egli richiede codesto qual guarentigia che saranno mantenuti i patti e
procurati gl'interessi della classe ch'ei rappresenta. Non gli si può
contraddire del tutto. Alcune altre condizioni sono politiche e sociali:
che si darà il diritto di suffragio a tutta la plebe; che si faranno
leggi regolatrici del lavoro e del compenso da darvisi, intese a
migliorare lo stato degli operai in faccia al capitale; che lo Stato
guarentirà sulle imposte prese dai patrimonii dei ricchi la sussistenza
dei poveretti che non hanno pane nè mezzi da guadagnarsene; che dei beni
di manomorta, e d'una parte di quelli posseduti ora dai ricchi, i quali
si vedrebbero togliere tutto ciò che oltrepassa un certo limite
d'agiatezza, di tutti questi beni si farebbe un cumulo, una proprietà
comune, sociale con cui si provvederebbe ai varii bisogni della povera
gente...

— Queste condizioni sono gravi, sono gravissime: disse Romualdo. Le sono
prese ad imprestito ai socialisti della vicina Francia, i quali vogliono
niente meno che la distruzione della società attuale.

— E sono misere utopie, proruppe Maurilio, che non hanno germe di buon
frutto, che possono raggirare pur troppo le menti inesperte della plebe,
ma che se mai poste in atto non farebbero capo che alla miseria ed alla
rovina universale. Le condizioni economiche e sociali del popolo non si
migliorano col violento rimedio delle rivolture. Suscitate questa misera
gente che s'accalca nei bassi fondi sociali, scatenatela contro i
ricchi; non avrete che un uragano, il quale dopo esser passato non vi
lascierà che desolazione e rovine. La plebe avrà vendicato tutti i suoi
stenti passati, non avrà nulla creato per impedire i futuri; anzi se li
avrà accresciuti. Tutti gli accennati, e tutti quelli che pone innanzi
il socialismo francese, sono mezzi fallaci, che mancano di possibilità
effettiva, che urtano nei canoni assoluti, e non impunemente violabili,
della scienza economica. La quistione sociale pende senza dubbio e
inesorabile, sul secolo XIX; ma non è da sciogliersi colla spada
d'Alessandro guidata dai sofismi dei comunisti. È il progresso lento e
graduato delle istituzioni, è la diffusione dei lumi, è l'aumento
cercato e ben diretto della prosperità pubblica, è l'applicazione giusta
ed onesta delle buone teorie che regolano la produzione e la
distribuzione delle ricchezze; è lo sviluppo del sentimento cristiano
della fraternità, del sentimento civile della solidarietà umana, i quali
devono ottenere il riscatto delle plebi. Guai, se gettiamo quest'ardente
quistione sui serragli dell'insurrezione nelle strade, guai, se facciamo
appello alla cieca forza! Sapete che cosa ci risponderà? Le più
colpevoli cupidigie, le più inique passioni. Quell'uomo che con voi,
Mario, intraprese gli accordi, sapete che cosa rappresenta, che cos'è? È
l'invidia di chi non ha verso di chi ha: è la feroce smania di
vendicarsi di non essere stato nulla: è l'agonia di imporsi
prepotentemente ad una società che vi ha disprezzato, o peggio
schiacciato col suo peso passando, come si fa d'un vil verme della
terra; è la tirannia del volgo che anela a distruggere quella delle alte
classi, per mettersi in sua vece e sfruttare a sua volta il mondo a suo
profitto. Fra le due tirannie è meno perniciosa ancora l'esistente.

In questo momento s'udì un fischio particolare suonar nella strada.

— Silenzio! Disse Giovanni Selva; il nostro sibilo....

— A quest'ora! Esclamò Vanardi inquieto. È presto l'una dopo mezzanotte.

— Gli è Benda sicuramente: riprese Giovanni, e corso alla finestra, ne
aprì le invetrate. Un vento freddo si cacciò nella camera, fece
oscillare benchè difesa dal tubo di vetro la fiamma della lampada, e
cacciò un brivido nelle ossa di Maurilio, che tutto si accoccolò presso
il camino.

Selva si curvò fuori della finestra. La nebbia era più folta che mai, e
nevicava sempre. Un alto silenzio regnava per la notte, le cui tenebre
erano rotte appena da qualche raro lampione municipale nella strada, il
quale pareva una macchia rossigna nel denso della nebbia.

— Chi va là? Domandò Giovanni.

— Io: rispose la voce un po' alterata di Francesco Benda. Gettami giù la
chiave del portone da via che è chiuso. Verrò su: ho bisogno di
parlarvi.

— Subito: disse Giovanni ritraendosi dalla finestra per andare a
prendere la chiave appesa ad un chiodo insieme colle pipe presso al
camino.

— Gli è proprio Benda: diceva intanto Selva agli amici. Quel bravo
ragazzo non ha voluto affatto mancare al convegno, sapendo che non si
trattava di giuggiole. Giunge a proposito, per dire il suo parere ancor
egli.

Selva gettò la chiave in istrada, avviluppatala in una pezzuola bianca;
cinque minuti dopo Francesco Benda entrava nella stanza dove stavano
raccolti gli amici.



CAPITOLO XIV.


Maurilio, appena udito della venuta di Benda, si era stranamente
cambiato. Il suo volto si era fatto scuro, le sue guancie pallide, il
suo sguardo che brillava vivo per intelligenza s'era spento. Accosciato
sopra lo scalino del focolare, egli pareva fuggito via col pensiero di
quel luogo e di quel momento le mille miglia lontano. Un'altra
preoccupazione sembrava averlo assalito; tutto un altro ordine d'idee
avergli presa la mente. Serrava quasi convulsamente le pallide labbra,
contraeva i muscoli delle mascelle, come sotto la pressione d'un intimo
affanno; e tratto tratto alcune lievi e fugacissime fiamme di rossore
gli passavano sul volto e sulla fronte.

Quando Francesco Benda entrò, Maurilio non gli gettò che un ratto
sguardo, il quale nulla vide se non che l'acconciatura elegante da ballo
in cui il giovane appariva, gettato via il suo pastrano impellicciato.
Forse a Maurilio parve che intorno a sè il nuovo arrivato recasse
alquanto di quell'ambiente profumato di festa e d'eleganza donde veniva.
Forse nel chiudere degli occhi come egli fece, apparve a Maurilio la
splendida visione del luogo che Francesco aveva pur allora abbandonato,
e in quel luogo pieno di luce, di profumi e d'armonia, la più splendida
visione di una forma superba di divina bellezza. Chi avesse potuto
cogliere le parole che la subita emozione fece mormorare a Maurilio fra
le labbra serrate, avrebbe udito quest'esse:

— Egli viene di là dov'essa era! E' l'ha vista sino adesso! Egli osa
parlarle; egli lo può.... Egli è ricco, egli è bello!.... Ed io
invece?.... Io?..

Ma se Maurilio avesse un po' più attentamente esaminato il volto
dell'amico, avrebbe visto che uno straordinario e profondo abbattimento
era avvenuto nelle sembianze di Francesco, sì liete e benigne
allorquando egli avevagli parlato sullo scalone dell'_Accademia
Filarmonica_.

L'incarnato delle guancie era sparito, le sopracciglia erano corrugate,
i lineamenti contratti, lo sguardo acceso, ma di una fiamma che pareva
furore; perfino quell'aria di bontà, che dissi affatto naturale alle
belle sembianze del giovane, aveva dato luogo ad un'espressione di
sdegno profondo. Si vedeva ch'egli era in preda ad un'emozione
gravissima cui si sforzava di padroneggiare e dissimulare, ma che tutto
lo possedeva.

Strinse con vivacità febbrile le mani degli amici, da quella di Maurilio
in fuori, il quale non mosse, come gli altri, all'incontro di lui, e
prima che alcuno avesse campo ad interrogarlo, disse con voce di cui
invano tentava frenare la concitazione:

— Sono qua ancor io.... Tardi non è vero?.... Ma che volete? Certe
schiavitù di usi sociali..... E poi ben sapete che qualunque cosa
decidiate io sarò sempre con voi. L'avevo detto a Selva..... Però ad un
punto la vergogna ed il rimorso mi colsero.... Ebbi bisogno di
partecipare alle vostre risoluzioni.... ebbi bisogno di vedervi... di
venirvi a stringere la mano... di ritemprarmi ai forti propositi col
vostro contatto.... Là donde vengo, in quella affatturata congrega che è
il mondo elegante, si respira un'aura corruttrice che vi snerva a vi
accascia... Per esso ho troppo sinora trascurato voi e la grand'opera
vostra e i miei doveri di cittadino. Perdonatemi. Eccomi ora tutto a
voi. Che cosa fu deciso? Siamo noi finalmente alle opere? Di parole ne
abbiamo già dette troppe. È tempo di fatti, mi sembra. Orsù ditemi che
mi tocchi di fare; assegnatemi qualunque còmpito, vedrete se io vi
mancherò.

Parlava a balzi, vibrato, come uomo in cui il sangue batte in sussulto
nelle vene e il cuore palpita violento.

Giovanni Selva in poche parole lo informò di quanto in tutta la serata
si fosse detto, e di quanto stavasi pur allora discutendo.

— Mario Tiburzio ha ragione: esclamò Francesco Benda con violenza.
Questa schiavitù è troppo vergognosa oramai a sopportare. Qualunque cosa
si faccia, ma si scuota il giogo. Vengano in aiuto, non che le masse
della plebe, ma le legioni dell'inferno, che saranno le bene accolte.
Abbasso questo regime di privilegi; abbasso questa nobiltà superba che
ne oltraggia; abbasso questa prepotenza di militari e di cortigiani, di
carabinieri e di parassiti del popolo che ne umiliano, e, vivendo di
noi, si credono dappiù di noi e si arrogano il diritto di calpestarci.
Io do il mio suffragio a Mario Tiburzio. Finiamola pur una volta.

Maurilio si alzò dal suo posto e venne pian piano verso Francesco,
guardandolo attentamente. Vide l'emozione profonda e nuova dell'amico, e
ne suppose la causa. Quando fu rimpetto a Benda, gli mise una mano sulla
spalla e gli disse con accento pieno d'amorevole interesse:

— A te è capitato pur mo' qualche scontrosa faccenda. Tu hai avuto ad
urtarti con questa oltracotanza, cui sì vivamente proclami ora
intollerabile.....

— Ebben sì: proruppe Francesco. A me accadde il peggio oltraggio e la
più scellerata prepotenza onde possa esser fatto segno un uomo
onorevole....

Si fece rosso in volto come bragia, gli occhi suoi balenarono
d'un'ardentissima fiamma e le vene della fronte gli divennero turgide.

— Udite, udite tutti, e rispondetemi se simile infame affronto si possa
lavare altro che col sangue... Un impertinente di nobile... non ha
guari.., adess'adesso.... in presenza d'un migliaio di persone... di
signore e di cavalieri... mi ha percosso qui, su questa guancia col suo
guanto...

Le lagrime gl'inumidirono gli occhi, si coprì colle mani la faccia,
mandò un gemito e si lasciò cadere sulla seggiola vicina in preda al suo
fierissimo turbamento.

I suoi amici, da Mario e da Maurilio in fuori, gettarono un grido di
stupore e d'indignazione.

— Chi è questo scellerato? Domandò Giovanni Selva.

— Come avvenne codesto? Disse Romualdo.

— Perchè? A qual occasione? Interrogò Vanardi.

Benda ricacciò indietro quelle lagrime di sdegno che s'arrabbiava di
sentir colare, premette sulle occhiaie e sulle guancie le sue mani
contratte, levò il viso più fortemente sdegnoso di prima e disse con
voce tremante dall'ira la più profonda:

— Chi è? Non conoscete voi tutti il brillante marchesino di Baldissero?
Quell'impertinente che si vanta di trattare cavalli, cani e uomini del
popolo nella stessa maniera, collo scudiscio?.... Il mondo, e' si vuol
fatto tutto per questa razza di gente. Noi abbiamo da essere i loro
servi, i loro giuocatoli; Carabinieri e polizia son lì per mantenerci in
questa bella parte... Hanno il sangue azzurro loro!... A loro tutto è
permesso. Noi non abbiamo che da curvarci e lasciarci percuotere....
Giuraddio!.... È tempo che ciò finisca!.... Quel giovinastro incominciò
per oltraggiarmi fieramente con parole e col contegno. Non chiedetemene
i particolari. Gli risposi — e non potevo a meno — che era un incivile.
Si volse verso me, non in furore, ma colla calma d'un uomo che castiga
il suo botolo che gli ha disobbedito, e col guanto che teneva nella mano
snudata, mi colpì sul viso. L'atto era per me così inaspettato che non
potei nemmanco ripararmi il colpo...

Il povero Francesco dirugginò i denti e si battè coi pugni chiusi la
fronte.

— Sì, continuò egli con voce ansimante, sì fui percosso sul viso là, in
quella tanta luce, innanzi a quei tanti sguardi. Oh che cosa avreste
fatto voi altri se una tanta vergogna vi fosse stata inflitta? Io mi
sentii girare la testa; una nebbia scura mi venne innanzi agli occhi,
con un scintillio tramezzo d'infuocate faville; negli orecchi avevo un
ronzio che mi pareva composto di mille sogghigni di scherno; non vidi
più distintamente per un istante innanzi a me che quella faccia
impertinente che ghignava colle labbra tirate. Lo afferrai pel collo. Un
grido di voci femminili si alzò intorno a me. Fra queste voci ne
distinsi una che ha su me un assoluto impero. Ciò mi tolse la forza e mi
fece rientrare in me. Che avvenisse allora, non so bene. S'intromise
della gente; pronunziai e ricevetti in iscambio delle parole di disfida;
mi ricordo aver visto il conte Sanluca che conduceva seco il marchesino
da una parte, mentre il dott. Quercia trascinava me dall'altra. Non
sentivo più in me che una gran confusione. Mi pareva di sentire su me lo
sguardo sprezzoso di certi occhi superbi, e non osavo più levare i miei.
Quercia mi condusse in un salottino appartato.

«— E adesso che cosa volete fare? Mi domandò.

«— Voglio ampia soddisfazione: risposi. Appena sia giorno voglio
battermi con quell'indegno. Oh! lo ammazzerò.

«Quercia mi propose di farmi da secondo e di combinare le cose relative
ad un serio e sollecito duello. Lo ringraziai di tutto cuore. Volevo
partire di colà, dove lo spazzo mi pareva m'abbruciasse i piedi. Il
dottore me ne sconsigliò.

«— Perchè cedere così il campo? diss'egli. Sarebbe quasi un confessare
il vostro torto e la vostra sconfitta. Il marchesino non partirà, egli,
ma scorrerà a mostrare per le sale il trionfo della sua impertinenza.
Rinfrancate anche voi il vostro aspetto, prendete l'aria più calma e più
sicura che possiate e venite di nuovo in mezzo a quella turba a sfidare
audacemente colla vostra presenza le mormorazioni e gli scherni. Li
farete tacere, ed è tanto di guadagnato. Se alcuno v'interroga
sull'accaduto, preparatevi un buon motto da rispondere, in cui si
contenga un epigramma pel signor marchese, e quando v'incontrate con
esso, fissatelo fermamente in viso, sforzandovi a frenare la collera,
senza essere troppo provocante, ma guardandovi bene dal chinar gli occhi
innanzi ai suoi.

«Compresi che Quercia aveva ragione. Mi feci calmo per quanto potei, e
tornai nelle sale affollate. Innanzi a me sentivo interrompersi i
discorsi o finire in bisbiglio al mio passaggio; alcuni timorosi mi
sfuggirono; altri si mostravano molto stupiti della mia audacia. Vi fu
chi mi consigliò a partirmene di tutta fretta.

«— Non sapete che il vostro è un caso serio? Mi si disse. Avete portato
la mano sopra un dignitario di Corte in un luogo dove c'è di presenza S.
M., e che quindi è diventato come il Palazzo Reale: oh! non v'è da
scherzare.

«Che cosa importava a me della presenza di S. M.! Era il marchese che
primo era trasceso ad eccessi. Io non aveva fatto che difendermi. Fossi
anche stato davvero nel palazzo del re, anche nella sua camera medesima
sotto i suoi occhi, se un prepotente mi avesse oltraggiato di quella
guisa, avrei avuto ogni diritto di propulsare l'offesa e nessuno, per
Dio, avrebbe potuto frenarmi.

«Alcuni pochi mi vennero a stringere la mano. Nella gran sala vidi da
lungi il mio avversario: era col suo amico Sanluca e collo zio di
quest'ultimo il conte Barranchi, il comandante generale dei Carabinieri
e capo della polizia. Parlavano animatamente: certo del fatto
intravvenuto. Baldissero rideva con fatua insolenza; Sanluca narrava con
calore cose che parevano destare una forte sorpresa e una maggiore
indegnazione nel Generale dei Carabinieri. Al vedermi il marchesino fece
un brusco movimento tosto represso, e il suo riso si ghiacciò sulle
labbra. Sanluca, accortosi del cambiamento dell'amico, ne seguì la
direzione dello sguardo e trovò me a capo della sala, che guardavo,
lascio a voi pensare come. Disse alcune parole all'orecchio dello zio,
accennando cogli occhi al luogo dove io era. Il conte Barranchi volse
verso di me la sua faccia scura da poliziotto; vidi nel suo sguardo una
minaccia; mi piantai fermo coi piedi dove mi trovavo, e mi promisi che
non mi sarei mosso di là, finchè quei cotali fossero stati a guardarmi.

«Il Generale disse qualche paroletta a Sanluca, il quale si affrettò ad
allontanarsi. Non cessavo di tener gli occhi fissi sul conte e sul
marchese; quest'ultimo ostentava di non far la menoma attenzione a me:
lo zio di Sanluca mi fulminava colle sue più tremende occhiate. Poco
stante vidi il nipote tornar presso allo zio insieme con un ufficiale
dei Carabinieri in gran montura. Il conte Barranchi disse a quest'ultimo
poche ed asciutte parole che parevano un comando, accennando a me con un
moto della testa. L'ufficiale volse gli occhi nella mia direzione, fece
un inchino come per dire che aveva compreso ed avrebbe obbedito, e si
allontanò. Bene avevo capito che si trattava di me, ma che cosa mi si
volesse, non sapevo indovinare. Due minuti dopo l'ufficiale dei
carabinieri essendosi fatto strada in mezzo alla gente, giungeva presso
di me.

«— È lei l'avvocato Benda? Mi domandava col piglio altezzoso di un
superiore che parla ad un subalterno.

«— Per servirla: gli risposi nel tono medesimo.

«L'ufficiale corrugò la fronte e prese un accento ancora più insolente.

«— Ho bisogno di parlarle. Venga meco.

«Io lo guardai dall'alto al basso.

«— Se ha qualche cosa da dirmi, risposi, può parlare qui stesso.

«— Signor no, questo non è luogo da simili discorsi. Orsù meno parole.
Si compiaccia seguirmi.

«Questo dialogo, benchè fatto a voce bassa, aveva attirato l'attenzione
dei circostanti, che si affollavano a far cerchio intorno a noi. Feci un
lieve cenno di testa ad accennare che acconsentivo, e lo seguii fuori
del gran salone.

«— Ora, mi dica senz'altro quel che mi vale la fortuna di questo
colloquio: dissi, quando giunto in una delle sale vicine, piantandomi
fermo a metà. E l'ufficiale, con quel medesimo piglio con cui s'arresta
un malfattore, mi rispose seccamente:

«— D'ordine del signor Generale, conte Barranchi, le intimo di uscire
dalla festa, e di presentarsi domani mattina dal commissario Tofi ad
udire gli ammonimenti che le convengono.

«— Signore, risposi, di questa società che dà la festa e riceve lei
come invitato, io sono parte. Posso dunque dire di essere a casa mia, e
non ammetto in nessuno il diritto di scacciarmene.

«— Che diritto, o non diritto? Prorupp'egli. L'ordine è di farla
partire e lei partirà.

«— No signore.

«— Badi bene a quello che fa!

«— Ho già bell'e badato.

«— Vuole dunque che io riferisca questa risposta a S. E.?

«— La riferisca a cui le pare e piace.

«— Va bene.

«Fece un giro sui talloni, e sparì. Pochi minuti dopo mi raggiunse più
brusco e più inurbano di prima.

«— S. E. il Generale vuol parlarle egli stesso. È qui in questo
gabinetto che l'aspetta.

«Mi condusse nel medesimo salottino dove Quercia mi aveva condotto
poc'anzi.

«Il conte Barranchi stava piantato, duro come un piuolo, il mento
fieramente appoggiato sul suo goletto duro, impettito nella sua
corpulenta statura da granatiere, lo sguardo pieno di minaccia, la bocca
atteggiata a severità sotto i suoi ispidi baffi, la mano sinistra posata
sull'elsa del suo sciabolone, tutto sbarbagliante sotto i lumi nella sua
gran montura da generale.

«Mi guardò con piglio di tanto superbo disprezzo che me ne sentii
friggere il sangue; e poi, dirigendomi la parola con oltraggiosa
imponenza, e dandomi del voi, come avrebbe fatto ad un suo carabiniere
preso in fallo di disciplina, mi disse in tono d'interrogatorio fiscale:

«— Ah ah! Siete voi il _nominato_ Francesco Benda?

«Io sentiva l'ira venirmi crescendo sempre più entro l'animo. Quel volto
poco intelligente ma impertinentissimo di poliziotto cortigiano, quel
tono, quel darmi del voi, mi aumentavano il furore che appena potevo
oramai contenere. Lo guardai in faccia come pochi osano guardare quel
prepotente che dispone a suo scellerato arbitrio della libertà dei
cittadini, audacissime parole mi vennero alle labbra, fui per dargliene
del voi, come egli faceva meco, mi contenni a stento, e risposi
asciutto:

«— Son io.

«Il mio contegno parve dapprima maravigliarlo altamente, poi indignarlo
vieppiù.

«— Cospetto! Esclamò egli, battendo colla mano in sull'elsa. Voi tenete
la cresta molto alta, signorino, ma ve la faremo abbassare. Oh oh! se ve
la faremo abbassare.

«L'ufficiale che lì mi aveva condotto, accennava partire. Il Generale
gli si volse bruscamente e con tono di comando militare, gli disse:

«— Lei stia qui, pronta ai miei ordini.

«Poi tornò parlare a me con accento d'interrogazione:

«— Avvocato, se non isbaglio?

«— Sì.

«— Ebbene sappiate che se all'Università S. M. vi ha lasciato insegnare
a far l'avvocato, non è perchè cerchiate dei cavilli e delle ragioni da
discutere gli ordini che vi si dànno in servizio di S. M. medesima.

«Io volli parlare, ma egli non mi lasciò aprir bocca.

«— Non vogliamo tanti ragionamenti e tanti ragionatori, avete capito?
Vogliamo gente che ubbidisca, e basta. L'avvocato andate a farlo in
tribunale, se qualche disgraziato vi confida il patrocinio della sua
causa: ma quando un ufficiale dell'Arma d'ORDINE MIO, vi intima una
cosa, corpo di bacco, vogliamo nissuna osservazione e pronta ubbidienza.
Avete capito? Gli è proprio che viviamo in certi tempi, mio Dio! in cui
questa gente da nulla mette su delle arie, e se la lasciassero fare!...
Voi già vi conosciamo, signor avvocato, ve lo dico io, vi conosciamo ed
abbiamo l'occhio aperto su voi.... Siete un liberale, voi, leggete i
fogli, voi, vi fate venire dei libri, voi.... Buffone che siete!...

«— Signore! Esclamai io che non ne potevo più, affrontando arditamente
il suo sguardo.

«Egli battè di nuovo e più forte, sull'elsa della sciabola.

«— Corpo del diavolo! Gridò. Che cos'è questo tono? Che cosa è questo
guardarmi in faccia? Abbassate quegli occhi. State come si deve innanzi
ad un superiore.

«— Ella non è mio superiore.

«— No? Proruppe con vivissima indignazione. Sentitelo! E' pretenderebbe
forse d'essermi uguale? Che cosa siete voi? Figliuolo d'un ferraio, se
non isbaglio. E perchè, coi pochi denari che vostro padre ha guadagnato
bassamente trafficando, ei vi ha fatto studiare all'Università, vi
credete qualche cosa.... Tutti così questi borghesi, e se non ci
mettessimo riparo, la società sarebbe posta a soqquadro.... Avreste
fatto meglio a continuare il mestiere paterno, signor avvocato, ed
apprendere invece ad essere più rispettoso verso i poteri sociali e
verso l'autorità. Signor tenente, soggiunse, volgendosi all'ufficiale,
ella ha avuto torto quando questo bel signorino le rispose in quel modo,
a non farlo prendere da due dei nostri uomini e condurre al Palazzo
Madama. Colà sogliono sfumare i fumi e gli orgogli di questi signori
liberali. E sarà ciò che farò per Dio! avete capito? E gli è quello che
vi tocca, e niente più, sapete?... Noi abbiamo voluto essere generosi
verso di voi, e voi ci rispondete in questa guisa? Bene! Vi farò
tradurre in prigione, come avrei dovuto subito, e passerete sotto il
vostro bravo processo innanzi all'Uditorato di Corte[6]. Voi siete reo
di lesa maestà: voi avete osato trascorrere a vie di fatto sopra un
ufficiale di Corte, figliuolo d'un ministro di Stato; perchè il
marchesino di Baldissero è ufficiale di Corte, sapete, e suo padre, il
signor marchese, è ministro di Stato; e codesto l'avete osato mentre qui
trovavasi Sua Sacra Real Maestà!....

  [6] Fra i tanti tribunali privilegiati che vi erano a quel
  tempo, contava l'Uditorato di Corte, il quale giudicava delle
  offese fatte alla Maestà Reale, e di ogni delitto commesso in
  palazzi reali o in luoghi dove fosse anche temporariamente
  qualche persona della famiglia regnante.

«— Ma io fui prima e fieramente insultato da quell'uomo....

«— Non m'interrompete! Gridò con voce tonante il Generale. Quell'uomo!!
Chi osate chiamare così, voi? Il marchesino? Che nuova impertinenza è
questa? Ardite dirvi insultato?

«Volli dir come; ed egli:

«— Zitto! So tutto. Vorreste mettervi a paragone col figliuolo di S. E.
il marchese, voi figliuolo d'un ferraio? Zitto! vi dico, e abbasso
quegli occhi, vi dico! Ringraziate la mia clemenza, se non vi ho fatto
subito arrestare; ringraziatela, se anche adesso vi lascio andare a casa
vostra invece di mandarvi a dormire sul tavolato nel Palazzo Madama.
Andate, domani vi presenterete dal commissario Tofi, il quale vi dirà le
ulteriori determinazioni che saranno prese a vostro riguardo.... Ancora
una parola. Ho udito che avete avuto la temerità di parlare di sfida e
di duello col marchesino. Badate bene a non fare la menoma sciocchezza
di questo genere. Dimenticate e fatevi dimenticare; è il meglio ch'io
possa consigliarvi.... Andate.

«— Vado, signore; diss'io allora: ma gli è soltanto, perchè cedo alla
forza. Quanto ai partiti che mi rimangono a scegliere, consulterò l'onor
mio e null'altro.

«Mi volsi sui talloni e partii, udendo il Generale che mi borbottava
dietro delle minaccie, fra cui compresi le parole: — Lo metteremo alla
ragione. L'ufficiale mi accompagnò sino alla stanza dove son deposti i
mantelli. Colà mi lasciò con un superbo saluto, e mentre io me ne usciva
passò come per azzardo sul pianerottolo il dottor Quercia, il quale mi
disse in fretta in fretta all'orecchio:

«— È tutto combinato. Domattina alle sette sarò a casa vostra. Abbiate
con voi un altro amico. Vi batterete alla pistola.

«E guizzò via come un lampo.

«Corsi qui da voi. Ho bisogno di vendetta. Ma la mia vendetta personale
non basta. È tutto un sistema infame che ci opprime e cui bisogna
rovesciare ad ogni costo. Sia dunque benedetta la rivolta, e facciam
presto a toglierci questa vergogna e questo peso di dosso.»

— È giusto: disse Maurilio. Bisogna volercene liberare da questa
oppressione e da questa vergogna; ma bisogna pure calcolare i mezzi che
si hanno e prevedere i possibili effetti di essi. Il tuo patriotismo,
Francesco, il tuo amor di libertà, subitamente ancora concitati da un
gravissimo oltraggio personale, ti fanno or ardente per le audacie
estreme e per gli estremi rimedi al pari, se non più, di Mario Tiburzio,
il quale ogni passione della sua giovinezza ha concentrata in questa
passione sublime dell'amor di patria....

Francesco Benda fece un moto.

— Non ti dico ciò come un rimprovero: s'affrettò Maurilio a soggiungere.
È quasi sempre così, deve essere così che a spingerci all'azione, a quel
supremo passo in cui dal campo del desiderio, del pensiero, si va alla
palestra del fatto abbia da concorrere una ragione personale, che
assalendo direttamente la nostra individualità, sgombra ogni ritegno che
questa suole pur sempre arrecare. Guglielmo Tell non amava egli la sua
terra e la sua libertà? Ma per deciderlo alla rivolta occorse che il
tiranno lo insultasse nella sua dignità d'uomo ed empiamente lo
trafiggesse nelle sue viscere di padre. Favola o storia, quella è la
verità della natura umana. Tu dunque, come ognuno di questi nostri
amici, sei pronto alla disperata lotta ed alle prove estreme. E sia! Ma
prevediamo un poco quale sarà quel futuro che noi riusciremo a
provocare. Hai tu pensato, in caso di sconfitta, ciò che sarà di te e
della tua famiglia? Noi, ribelli, ci può colpire anche la morte;
sicuramente la carcere lunga e dolorosa o l'ugualmente doloroso esilio.
Io fui sempre solo al mondo, Romualdo non ha più nessuno de' suoi, Mario
Tiburzio e Giovanni Selva hanno ormai, per diversa ragione ma con
identico effetto, spezzato ogni vincolo colla famiglia, e possono
riputarsi soli ancor essi; ma tu, Francesco, ma tu, Antonio, avete un
legame sacro che vi stringe a degli esseri carissimi, cui trascinerete
con voi nella vostra rovina. Vinceremo, voi dite, e Mario, acquistato il
concorso della forza cieca e irresistibile della plebe, è pronto ad
affermare certo il successo. Ma anche di questa vittoria sono terribili
gli effetti. Quella plebe suscitata adescandone i materiali istinti, che
in una parola si traducono in sete di rapina, quella plebe manderà a
soqquadro l'assetto sociale. Immaginatevi quanti eccessi, quanti danni,
quante ruine! Anche in codesto noi non siam tutti in pari condizione.
Che ci ho io da perdere, io che non possiedo nulla? Ma tu, Francesco,
hai pensato che il baratro cui stai per aprire ingoierà molto
agevolmente, e voglio anzi dire sicuramente, le ricchezze di tuo padre,
le fortune della tua famiglia? Quelle vaste officine che tuo padre ora
governa con mente retta e con mano ferma, saranno peggio che deserte,
saranno devastate e distrutte; quegl'immensi capitali cui nella tua
famiglia radunarono i lavori costanti e tenaci di più generazioni
d'uomini attivi ed intelligenti, quei capitali ora investiti in
edificii, in macchine, in magazzini di merci, in prodotti ed in
istrumenti di nuova produzione, quei capitali che ora, mercè il lavoro,
fruttano pane a tanta gente, saranno dispersi; per tuo padre è assai
probabilmente la rovina, per la tua famiglia la miseria fors'anco....

Francesco Benda, in preda ad una viva agitazione, si coprì con una mano
gli occhi e interruppe con febbrile commozione:

— Oh taci! taci!

Tiburzio, che aveva ascoltato colla fronte corrugata le parole di
Maurilio, disse a sua volta con amaro accento:

— Questa è sapienza di troppo prudenti propositi. È legge fatale nella
creazione che nissun bene cospicuo si ottenga senza passare tramezzo ad
una severa prova di mali. Troppo facile appunto sarebbe l'eroismo, se il
fine sublime che uom si propone potesse raggiungersi senza suo danno,
senza suo schianto di cuore. Bisogna, assolutamente bisogna che anche un
popolo, per arrivare un progresso, lo sconti colle lagrime e col sangue.
Quando la meta è santa, è dovere camminare animosamente verso di essa,
non curando se per arrivarci occorra lacerarsi fra i triboli e seminar
qualche rovina. Chi pensa a questa soltanto e s'arresta pel timore di
essa, non ha cuore di patriota.

Maurilio divenne rosso sino sulla fronte e i suoi occhi balenarono d'una
vivissima fiamma. Avreste detto che vivaci parole stavano per prorompere
dalle sue labbra; invece, per una di quelle sue solite e subitanee
riazioni, impallidì nuovamente di botto, si tacque e tornò a sedersi
presso il camino, dove stette un po' accasciato, il petto curvo, gli
occhi semispenti fissi di nuovo nell'agitarsi della fiamma.

Ebbe luogo un istante di silenzio, in cui tutti sei quei giovani
stettero immobili, lo sguardo rivolto a terra, dominati da una
preoccupazione suprema.

Fu Maurilio a riprender primo il discorso, ma colla voce più fievole,
più sorda e sommossa che mai.

— L'uomo forte (disse egli senza cambiare punto di postura), affrontando
il pericolo, deve rendersi conto di tutta l'estensione di esso. L'eroe è
quello che colla coscienza dei danni che gli sovrastano, s'accinge pur
tuttavia all'impresa, il debole chiude gli occhi, non vuol vedere i
pericoli, e poi quando vi si trova avvolto, si pente, si smarrisce
d'animo e vien meno a se stesso. Ho pensato miglior avviso richiamare le
vostre menti alla realtà dei rischi che ci aspettano. Ciò non vi
trattiene? Tanto meglio. Ed io — già ve lo dissi — sono con voi. Fate
arrivare il giorno della battaglia, e vedrete se io, semplice soldato,
non combatterò con tutta voglia e con tutto ardore.

Si strinsero tutti sei intorno al fuoco quegli imprudenti ma generosi
giovani, e gravi decisioni furono prese; quali fossero vedremo in
appresso.

Quindi si parlò eziandio del caso particolare di Francesco. Il duello
col marchesino di Baldissero bisognava assolutamente che avesse luogo.
Uno dei padrini era il sedicente dott. Quercia; l'altro fu deciso che
sarebbe stato Giovanni Selva.

Francesco Benda, coi più affettuosi saluti e strette di mano degli
amici, accompagnato dagli augurii di tutti, se ne partì per andare a
casa, a porre in sesto alcune sue carte, a scrivere un addio alla sua
famiglia; a prepararsi per lo scontro. Selva sarebbe andato da lui
all'ora posta dal dott. Quercia.

Antonio Vanardi si ritrasse nelle sue stanze, dove fece piano più che
potè a coricarsi per non isvegliare la moglie, la quale lo avrebbe
tempestato di mille domande. Ma ciò non gli valse gran fatto, perchè
quando fu a letto ed ebbe spento il lume, la profonda agitazione che
aveva addosso per le cose avvenute nella sera, e specialmente per le
decisioni prese, non gli lasciava non solo chiuder occhio, ma nemmanco
quietar la persona; onde, e gira e rigira fra le coltri, e sospira e
sbuffa, la Rosina fu presto svegliata, ed accortasi dello stato in cui
si trovava suo marito dopo aver vegliato così tardi, cominciò
quell'interrogatorio insistente e fastidioso, frammischiato di collere,
di preghiere, di lagrime, di supposizioni, cui il buon Antonio temeva
cotanto.

Certo il marito si difese bene in questa lotta contro la curiosità e
diciamo pur anche l'affettuoso interesse della moglie, e non una parola
gli scappò dalle labbra che potesse mettere in sulla strada della verità
la Rosina, poco destra d'altronde nello indovinare e specialmente in
questo genere di cose che costituivano un mondo affatto chiuso alla
mente della brava donna; ma una cosa rimase per certa nell'animo della
moglie, ed è che da qualche tempo fra suo marito e gli amici di lui si
maneggiavano dei misteriosi raggiri, che in quella notte si era tenuta
una di quelle conventicole, cui ella aveva già notato altre volte, e che
le cose trattatesi dovevano essere state più gravi del solito, se suo
marito le era tornato dappresso così tardi, così irrequieto, e d'un
umore cotanto alterato che, mentre ella d'ordinario poteva ben vantarlo
come un vero agnello, ora alle interrogazioni di lei si era posto a
rispondere come un basilisco. Ma quali erano questi raggiri? Questo gli
è che le cuoceva sapere. Ora non vi ha nulla di più pericoloso che una
donna ciarliera, la quale sa che vicino a lei esiste un segreto, ed ha
la matta voglia di apprendere questo segreto qual sia.

Mentre Antonio bisticciava colla moglie, Romualdo andava a letto dietro
il paravento, Mario si metteva al tavolino a scrivere appunto per la
grande impresa; Selva e Maurilio si ritiravano nella stanza vicina, dove
avevano ambidue il loro letto l'uno accosto all'altro.

Non avevano sonno neppure. Erano dominati ambidue da una irrequieta
tristezza di pensieri. Maurilio sedette presso al suo letticciuolo, ci
pose su il braccio ed appoggiò a questo la testa che gli ardeva.
L'avreste detto assopito al vederne gli occhi chiusi e l'immobilità
della persona; ma il contrarsi tratto tratto de' suoi lineamenti
manifestava che una dolorosa meditazione possedeva quell'anima. Ad un
punto, di sotto alle palpebre abbassate comparvero due goccioline,
s'ingrossarono fra i cigli, parvero direi quasi, esitare, poi, come
staccatesene a malincuore, lentamente colarono due lagrime giù per le
guancie. Quando le sentì sulle labbra, Maurilio si riscosse; sorse di
scatto, le asciugò con rabbia, e si pose a passeggiare concitato per la
stanza.

Giovanni, che s'era gettato sul letto vestito come si trovava, per
essere pronto a recarsi fra poche ore presso Francesco; Giovanni gli
disse affettuosamente.

— Vieni a riposare, Maurilio.

Questi al suono amichevole di quella voce si fermò e si volse ratto là
donde era partita. La sua fisionomia era commossa con espressione
affatto nuova, quale nessuno in esso non aveva visto mai. Accorse al
letto di Giovanni e gli prese vivamente la mano.

— Tu non mi disprezzi, non è vero Giovanni? Tu non credi che io sia un
vile?

Selva sorse a sedere sul letto e rispose con caloroso affetto:

— Mai no. Che pensieri sono questi?

Maurilio si strinse con tuttedue le mani la vasta fronte e con voce
soffocata e quasi affannosa proruppe impetuosamente:

— Giovanni, questo è un momento strano nella mia vita, un momento che
forse non si rinnoverà più..... Io che sempre fui chiuso in me stesso,
ho bisogno di espandermi.... Soffro ed ho bisogno di parlare. Tu sei
quello che più m'ami... che io più amo.... A te debbo la vita, a te
debbo d'essere stato chiamato fratello da labbro umano.... vuoi tu
accogliere la piena del mio cuore che trabocca? Nessuno mi conosce,
nessuno mi conoscerà forse mai! Vuoi tu leggermi nell'anima?

— Parla, parla: disse Giovanni con calore, abbracciando Maurilio.

Questi sedette sulla sponda del letto dell'amico, e le mani intrecciate
con quelle di Giovanni, così di subito prese a parlare.



CAPITOLO XV.


«Quello, che ora è finito, è giorno solenne per me: _dies nigra notanda
lapillo_: il giorno in cui ricorre quello dal quale incomincia, se così
mi lasci dire, l'epoca storica della mia vita. Ventiquattro anni or
sono, nella prima mattina di un tal giorno di questo mese, io, bambino
di poche lune, fui trovato in mezzo al fango del selciato in una delle
più luride vie di questa città.

«Era un giorno precisamente come quello che or ora è caduto nel baratro
del passato, scuro, tristo, nebbioso, pieno di freddo e di neve. Me lo
ha detto mille volte quel crudele che ebbe, trovandomi a vagire, la
funesta pietà di raccogliermi.

«Non ho nome, non ho famiglia, non sono figliuolo di nessuno. Un fatal
giorno, certo non desiderato, forse paventato, oggetto fin da prima del
nascimento di rammarico e di odio, me ne venni al mondo per incontrarvi
od una subita morte o l'abbandono. La mia nascita forse fu un peccato,
forse un delitto, o venne accrescimento di miseria a miserissimi;
vollero togliersi via dagli occhi con me un rimorso od una vergogna, o
semplicemente una bocca di più da alimentare.

«Fui abbandonato! Là nelle immondizie d'una immonda strada, alla ventura
d'essere schiacciato da un carrettiere incauto, o lasciato morire da
insensibili passeggieri, o da qualche pietoso raccolto.

«Fui abbandonato! Forse di me nulla sapevan che fare! A me nessun
affetto legava l'anima di qualcheduno! Per me la natura non parlava al
cuore di nessuno!

«Non ebbi forse una madre?... Madre! Questo nome che fin dai primissimi
anni mi suona così dolce nell'anima..... Questo nome che quando, ancora
nell'infanzia, udivo pronunciato da' miei compagni mi venivano, e non
sapevo perchè, le lagrime agli occhi!.... Oh forse la povera donna morì
sopra parto e mi lasciò solo: o forse fu collo schianto dell'anima che
dovette cedere alla mano di ferro della necessità che mi staccava dal
suo fianco..... Ah! l'avrei amata cotanto mia madre!.....

«Questa sera mi piacque aggirarmi colà, per quella scura e sconcia
strada in cui vagii neonato in quella cupa notte d'inverno, e scorsi il
miserabile quartiere con lento passo, il cuor palpitante, la mente
commossa, come se uno di que' sassi del selciato, una di quelle
scalcinate ed annerite pareti, una delle anguste, umidiccie porticine,
l'aria stessa che respiravo, mi dovesse ad un tratto miracolosamente
rivelare il mistero, forse infame, della mia origine.

«Quante volte non ho io già fatto quel doloroso pellegrinaggio, e sempre
con quanto spasimo dell'anima segreto, soffocato, dolorosissimo!

«Questa sera, la sorte, là su quella motriglia che a me fu culla, mi
pose innanzi un bambino che piangeva. A quel suono di pianto in tal
luogo, tutta la mia penosa esistenza, accompagnata di disprezzo e di
vergogna, mi sorse innanzi spiccatamente ad un tratto. Se fosse stato un
lattante quel bimbo, l'avrei preso fra le mie braccia, l'avrei recato
meco, avrei voluto essergli padre, avessi dovuto vendere, per nutrirlo,
il sangue delle mie vene. Rivissi in pochi minuti la sintesi intiera di
tutti gli anni che ho travagliosamente trascorsi; ripiansi, per così
dire, tutte le mie lagrime, imperocchè nella corta mia vita passata non
ci sia nemmanco il ricordo d'un sorriso di gioia.

«Oh! perchè fui raccolto se non mi si voleva dar che tormenti? E può Dio
ascrivermi a peccato se io desiderai come fortuna d'essere morto
nell'abbandono, se più volte ho maledetto meco stesso chi seco mi prese
e il momento in cui mi rinvenne?

«Era uno di quei venditori di latte che vengono il mattino per
tempissimo a recare questa derrata ai fondachi di rivendita nella città.
Correndo col suo carro, su cui saltavan le bigoncie, al trotto del suo
cavallo, passò nella strada dov'io era, e il cavallo nell'istante di
schiacciare quel corpicino colla sua zampa ferrata, atterrito forse dal
vedersi innanzi ad un tratto quell'involto biancolastro, fece uno scarto
che diede un fiero sobbalzo all'uomo seduto sul carro.

«— Che cos'è codesto? Disse Menico il quale travide in quello scuriccio
nebbioso qualche cosa per terra. E venuto giù, si chinò e prese tra mano
quel viluppo.

«Visto che gli era un bambino mezzo intirizzito che non aveva nemmen più
la forza di piangere, rimase lì un istante perplesso, non sapendo a qual
partito appigliarsi. Poi, siccome in fondo quell'uomo non era cattivo, e
quando non era ebbro aveva a sufficienza cuore e ragionevolezza, gli
parve troppa crudeltà il lasciar lì quella creaturina e tirar dritto per
la sua strada. Risalì sul suo carro tenendosi fra le braccia il bambino,
e lasciò che il cavallo riprendesse l'andare, mentre egli si diceva: —
Il diavolo mi porti se so che cosa fare di questo marmocchio.

«Siccome il bimbo pareva lì lì per basire senz'altro, Menico intanto
cominciò per porre sulle labbra di esso una bottiglietta che aveva
allato di latte munto di fresco al momento prima di partirsi di casa e
ancora caldo. Glie ne fece colare in bocca a poco a poco alcune goccie,
cui il bambino affamato assorbì avidamente e che di subito alquanto lo
ristaurarono.

«Menico si recò qua e colà a fare gli affari suoi, e sempre teneva sul
carro quel bambino cui aveva adagiato sovra un po' di fieno che ci aveva
per ventura, e sul quale, per tenerlo caldo, aveva gettato la pesante
coperta di lana del cavallo.

«Ad ognuno dei lattivendoli con cui parlava, Menico diceva il caso
intravvenutogli e domandava se di quel piccino se ne volessero
incaricare. Ognuno lo motteggiava e crollando le spalle lo mandava con
Dio.

«— Ma che cosa ho io da fare di questo coso? seguitava a chiedere a sè
stesso Menico sempre più imbarazzato.

«— Menatelo alla Maternità: gli disse qualcuno di coloro a cui egli
recava la provvista del latte.

«— Dovreste recarlo al palazzo di città: diceva un altro: ma a
quest'ora è troppo presto e troverete tutto chiuso.

«— Mettetelo sulla porta d'una chiesa: gli consigliò per ultimo un
cotale. Lì sarà sotto la protezione di Dio, e potete esser tranquillo
che capiterà bene.

«Menico adottò questo consiglio, e quando ebbe terminato tutte le sue
faccende, siccome nella sua strada aveva da passare innanzi alla chiesa
di San *****, determinò di porre sulla soglia di questa il trovato
bambino.

«Non era ancora diradata la tenebra della notte dall'alba, che in quella
nevosa giornata d'inverno tardava a venire. Un semispento lampione
gettava una luce fievole e giallastra sulla neve che si rammentava sopra
gli scalini di San *****, Menico, giunto all'altezza della chiesa fermò
il cavallo, saltò giù del carro e prese su questo l'involto in cui era
il bimbo, allo scrollar del veicolo addormentatosi. La strada era
silenziosa come un sepolcro; nulla si muoveva, nel sonno generale di
tutta la città. Menico si disse non senza soddisfazione che gli era
affatto solo. Ma quando fu per salire gli scalini della chiesa, ecco
dalla soglia di quest'essa staccarsi un'ombra nera, la quale si avanzò
con sollecitudine verso il villano, ed una voce d'uomo pacata, benigna,
soave, dirgli:

«— Giusto voi che aspettavo, Menico.

«Questi, per la sorpresa, poco mancò non lasciasse cadere in terra il
bambino; ma, riavutosi tosto, riconobbe in chi gli parlava il parroco
del suo paese.

«— Lei, Don Venanzio! Esclamò il paesano.

«— Sono venuto ieri a Torino per alcune mie bisogne: disse il prete; ma
stamattina conviene che io torni al villaggio; e siccome il far tutta
quella strada a piedi comincia a stancarmi di troppo, sono venuto ad
aspettarvi qui, dove so che passate sempre, per pregarvi se volete
usarmi la carità di prendermi con voi sul vostro carro e condurmi sino a
casa.

«— Oh si figuri! Disse Menico imbarazzatissimo col suo fagotto in mano.

«Don Venanzio lo vide e domandò che cosa avesse costì, e il villano, non
potendo altrimenti, contò tutto; come avesse trovato quel bimbo e come
volesse lanciarlo in quel luogo.

«Il parroco scosse la testa.

«— No: diss'egli con quella voce così insinuante e persuasiva, di cui
dovevo ancor io sentire cotanto l'influsso di poi: no, ciò non istà
bene, Menico. Iddio vi ha posto innanzi una buona azione da fare e un
gran merito da acquistarvi, e non dovete rigettare ingratamente l'uno e
l'altra. Voi non avete giusto figliuoli; ed ecco che la Provvidenza ve
ne manda perchè possiate godere di tutte le gioie della famiglia ed aver
quindi un sostegno nella vostra vecchiaia.....

«Insomma seppe parlare tanto bene che Menico, il quale pure non era di
cuor tenero, si lasciò convincere essere suo dovere ed anzi suo
vantaggio il tenere presso di sè quel rinvenuto bambino.

«— Quanto a me son già bello e persuaso: finì egli per dire al buon
sacerdote; ma gli è mia moglie che sarà un affar serio a fargliela
entrare. Lei sa che razza di animale essa è.....

«— Vostra moglie, spero che si lascierà muovere ancor essa dalla voce
della pietà che è quella di Dio. Se non glie la fa sentire il suo cuore,
proverò fargliela suonare io all'orecchio; e la Provvidenza mi dia la
grazia, come spero, di convincerla. E se poi ella non vorrà a niun
conto, ebbene allora sarò io che prenderò meco il bambino.

«— Oh! se la si assume lei, sig. Prevosto, di parlare a mia moglie,
disse Menico il quale non osava rifiutare, ma in realtà avrebbe voluto
farlo, allora acconsento di venire innanzi a quella benedetta donna con
questo bel regalo.

«— Dunque andiamo: conchiuse Don Venanzio; e fate correre più che
possa, senza soffrirne, il vostro cavallo, perchè questa povera
creaturina prenda il men di freddo possibile.

«Salirono sul carro, e il buon sacerdote tolse me in grembo e mi tenne
caldo, chiuso nel suo ferraiolo. Menico frustò il cavallo e lo cacciò al
trotto serrato. Un'ora dopo, che tanto ci voleva di tempo a fare il
cammino alla corsa del cavallo, giungevasi al villaggio di X., e il
carro s'arrestava innanzi ad una porta ad arco in un muro di cinta, la
quale metteva in uno sporco cortiletto entro cui la casupola abitata da
Menico e dalla moglie.

«Il parroco discese ed entrò egli prima nel cortile, poi nella stanza a
pian terreno che serviva alla coppia di cucina, di tinello, di camera da
letto, di tutto. Io non seppi mai bene quel che avvenisse e si dicesse
fra quelle tre persone. Ebbi ad apprendere di poi, perchè la Giovanna
medesima, la moglie di Menico, me lo gettò migliaia di volte in sulla
faccia, ch'ella aveva ricisamente e per assai tempo rifiutato il nuovo
carico e resistito a tutte le belle parole e ragioni che le veniva
dicendo il buon curato: e se cedette finalmente, fu certo per la
promessa di qualche soccorso e di qualche vantaggio, che, quantunque la
non ne avesse bisogno, Don Venanzio ebbe fatta a quella donna taccagna
ed avida di denaro.

«Ah! non avesse ella ceduto! La mia infanzia sarebbe certo stata più
lieta, e forse migliore e più felice tutta la mia esistenza.

«Don Venanzio mi lasciò nelle mani loro con mille raccomandazioni a mio
riguardo, e promettendo che avrebbe sempre vegliato su di me; come di
fatti non mancò di fare; ma che poteva egli mai?

«Un giorno, quando già grandicello, un giorno in cui avevo sofferto più
che l'usato — e quanto soffrii sempre, te lo dirò — osai movere
rimprovero a Don Venanzio di avermi fatto entrare in quella famiglia, la
quale al mio bisogno d'affetto non doveva corrispondere che coll'odio,
col disprezzo, coi più crudeli trattamenti.

«— Perchè non mi lasciaste abbandonare sul passo d'una chiesa, dissi al
buon prete, come aveva intenzione di fare l'uomo che mi raccolse?
Qualcun altro più veramente pietoso mi avrebbe forse preso seco di poi;
o sarei stato recato all'ospizio dei trovatelli, e sarebbe stato meglio
per me; e fossi anche morto di freddo, sarebbe stato meglio ancora.

«— Non ribellarti ai decreti della Provvidenza: mi rispose il curato
con quella sua semplicità grave e quell'affettuosità mezzo di padre,
mezzo di maestro in cui sentesi quasi un'ispirazione superiore e la fede
d'una coscienziosa persuasione. Io non fui che lo stromento della
Provvidenza divina. Menico e sua moglie erano soli, e l'avarizia e
l'egoismo li facevano piegare verso il male e la durezza di cuore;
sperai — e che ciò avvenisse pregai internamente, sallo Iddio — sperai
che un nuovo affetto, quello paterno, che nuovi dolcissimi doveri e
nuove gioie famigliari, cui la natura aveva loro rifiutato, avrebbero
esercitato un benigno influsso su quelle anime per avviarle verso il
bene. Così non fu pur troppo; e tu ne hai da soffrire. Non mi pento
tuttavia di quanto feci; e non ti so dare altro miglior consiglio nè
altro maggior conforto, fuor quello di dirti: rassegnati a quelle prove
che Iddio ti manda, e benedici quella mano che ti percuote, se per essa
può aquistare pregio maggiore e merito innanzi a chi la creò quell'anima
immortale che in te alberghi.

«Ma ch'io ti narri le cose per ordine.

«Quando Menico mi raccolse, le mie piccole membra erano avviluppate in
misere fascie senza puntiscritto nessuno. Su di me una lettera su carta
grossolana, scritta da mano inesperta, ed un ricco rosario d'agata, a
cui legato per un filo un bottone stemmato d'argento da livrea di
domestico di nobil casa.

«Li conservo preziosamente questi oggetti: e molte, molte volte li
guardo, li riguardo a lungo a lungo, leggo e rileggo quelle poche righe
di scritto, li interrogo con affanno, come se mi potessero parlare e
dirmi donde vengo, chi sono, chi furono i miei. Essi rappresentano per
me il mistero del mio nascimento, che una folle speranza mi sta
lusingando ancora nell'animo io possa scoprire un giorno. Essi furono i
segreti confidenti delle mie pene d'infanzia, lo sono tuttavia degli
attuali tormenti della mia giovinezza.

«Se li possiedo ancora ne vo debitore a Don Venanzio. Menico me li aveva
tolti, e l'unico pensiero che gli avesse potuto suggerire l'avara
moglie, in proposito, era quello di vendere il rosario ed il bottone, e
beccarsene i denari. Per fortuna il curato indovinò il brutto loro
disegno, e tanto bene e con tanta forza seppe parlare, che indusse
Menico a consegnare quel sacro deposito nelle mani di lui, il quale
avrebbe rimesso quegli oggetti a me, a cui spettavano, quando
grandicello così da poterne capire l'importanza e custodirli colla
voluta devozione.

«Ah! mi ricordo sempre il giorno in cui Don Venanzio mi fece entrare
nella sua cameretta alla _canonica_, ed eravamo soli egli ed io, per
consegnarmi quelle per me vere sacrosante reliquie. Avevo allora otto
anni, ed avevo fatto in quel dì medesimo la mia prima comunione.
Fisicamente ero indietro assai, debole, piccolo, miseruzzo come Dio tel
dica; perchè d'ogni fatta stenti ne avevo sofferti; ma intellettualmente
ero innanzi a tutti i miei coetanei non solo, ma a quelli ancora che mi
sopravanzavano di più anni in età; onde il buon parroco che mi aveva
preso ad istruire e ad amare — fu il solo che mi amasse! — aveva voluto
che celebrassi quell'anno medesimo la mia prima Pasqua, e venissi
insieme in possesso delle uniche cose che io di mio possedessi al mondo.
Era di festa, una domenica, ed una bella giornata primaverile rallegrava
la natura. La cameretta imbiancata di calce del curato, modesta e
pulita, povera e gaia, era tutto profumata dei fiori delle siepi di
biancospino che gli avevan recati le ragazze del villaggio. Una
vivacissima striscia di sole correva sull'ammattonato e si rifletteva in
tinte rosee su tutti gli oggetti circostanti; un'arietta fra tepida e
fresca entrava per la finestra aperta, faceva gonfiare le tende di
semplice cotone e passava come una carezza sui fiori e sulle guancie del
sacerdote e di me.

«Mi era avvenuto parecchie volte di entrare in quella camera o per
domandare il parroco, o per cercare, mandatovi da lui, uno di quei pochi
libri che schieravano a costa l'un dell'altro la loro legatura di pelle
nera, sulla piccola scancìa di legno d'abete che si drizzava allato alla
finestra, sopra una tavola nuda di tappeto; e ad ogni volta che io aveva
messo il piede là dentro, non sapevo perchè, mi ero sempre sentito
occupare da una soggezione reverenziale, come non m'ispirava neppure la
venerabile figura del buon prete già tutto incanutito. La nudità di
quelle pareti mi tornava solenne più che qualunque suntuosità
d'apparato: la gran croce nera al di sopra del piccolo letticciuolo di
abete, sulla quale un Cristo d'avorio tendeva le sue braccia magre e
stecchite m'incuteva un'ombra di terrore. L'espressione di dolore che
c'era sul volto di quel Cristo, invece di intenerirmi, facevami quasi
paura; parevami che quell'appeso dovesse al mio avvicinarsi staccare uno
di quei suoi bracci inchiodati e respingermi da quella stanza.

«Quel giorno invece, che ci entrai tenuto per mano da Don Venanzio, la
mia impressione fu tutt'altra. Lo splendido sole che la invadeva le dava
una giocondità inesprimibile. Colla mia nella mano del prete mi sentivo
sicuro, come se il genio di quel luogo mi dovesse accogliere con benigna
compiacenza. Volsi lo sguardo alla gran croce nera, e mi parve che anche
la bella faccia del Cristo di avorio, illuminata dal riflesso di quel
sole che batteva sullo spazzo, avesse acquistato più dolcezza nel suo
patimento, e di dietro alla sua suprema rassegnazione al dolore,
m'incoraggiasse ad avanzarmi con un benigno sorriso.

«Il parroco mi aveva detto che mi avrebbe parlato di cose assai gravi, a
cui dovevo porre tutta la mia attenzione e che avrei dovuto rammentare
per tutta la vita; onde, quando egli si fu assettato sul suo seggiolone
impagliato a bracciuoli di legno non imbottiti, e fu in atto di parlare,
io, aspettando ciò che fosse per dirmi, avevo il cuore che batteva forte
nel petto.

«Che io fossi figliuolo di nessuno già lo sapevo pur troppo. Me ne
avevan chiarito gl'improperii della Giovanna, accompagnati dalle
percosse nelle sue frequentissime collere, nate per ogni più futile
motivo e sfogate tutte addosso me; me lo veniva rammentando con
dispregiosa insistenza il nome di bastardo gettatomi in volto come una
maledizione da tutti i ragazzi miei compagni d'età che, in codesto già
uomini, si compiacevano del mio soffrire e della mia vergogna.

«— Tuo padre e tua madre: mi disse Don Venanzio: non condannarli. Chi
sa qual tremenda necessità, forse, fu quella che li costrinse a tanta
colpa, a tanta sciagura! Tu dèi credere che non la volontà loro, ma un
inesorabil destino fu quello che te da essi disgiunse: dèi compatirli,
invece che accusarli, perdonarli ad ogni modo.

«Quelle miti parole con tanta soavità pronunziate da quel sacerdote di
volto sì benigno, forse per l'ora del tempo, per la solennità del giorno
in cui l'animo novello, appena aperto alla vita, mi sentivo inondato di
sì intima gioia quasi sovraterrena e di un benessere non ancora provato
mai; quelle miti parole mi si stamparono profondamente nel cuore, e
furono la norma invariabile, alla quale, con qualche eccezione per
taluni parossismi di dolore, ebbi informato i miei sentimenti ed i miei
pensieri verso gl'ignoti autori dei miei giorni. No, non li accusai — o
raramente soltanto, e me ne pentii subito, e chiesi perdono io stesso
dell'accusa a quel Dio, a cui mi fu sollievo un tempo rivolgere con fede
la mia preghiera. Non li accuso nemmanco adesso; e per quanto grave mi
torni e conosca la infelicità del destino, a cui mi hanno, per qualsiasi
cagione, condannato, li perdonai e li perdono.

«Poichè il parroco mi ebbe contato per bene tutto quello ch'egli sapeva
di me, cioè come e dove Menico mi avesse trovato, soggiunse che
stimavami oramai degno d'aver io stesso con me il deposito dell'unica
ricchezza che mi appartenesse al mondo, ed aperto il cassettino della
tavola, ne trasse un involto in cui erano la lettera, il bottone ed il
rosario che ti ho detto.»

Qui Maurilio s'interruppe. Levossi dalla sponda del letto di Giovanni su
cui sedeva ed andò ad uno stipo, ove teneva le poche sue robe, dal quale
prese un picciolo viluppo di carta ingiallita dal tempo.

«Eccoli qui questi miei preziosi oggetti:» soggiunse egli di poi,
tornando a sedere sul letto di Selva, dove recò ed apri la carta
ripiegata.

Il rosario d'agata aveva ancora pel medesimo filo appeso il grosso
bottone d'argento, il cui luciore era offuscato da un sottile strato
rugginoso stesovi dagli anni. La carta della lettera cominciava a
tagliarsi nelle ripiegature, ma le parole scrittevi su, benchè
l'inchiostro ne fosse sbiadito, si potevano tuttavia legger benissimo.

Maurilio la porse spiegata a Giovanni e gli disse:

— Leggila.

Non vi erano che le poche parole seguenti, scritte con una calligrafia
ed ortografia degna della cuoca la meno istrutta del mondo.

«_Abiate conpazione per costa povera masnà, che è già batesata, che è
ciamata MAURILIO, che è il nome di suo padre._»

Il rosario era d'agata, come dissi, e le anella per cui un grano si
univa all'altro, e la medaglina appesavi in fondo, su cui l'immagine
della Madonna era impressa, parevano d'oro. Poteva dirsi un ricco
oggetto. Il bottone d'argento era un grosso bottone di livrea. Lo stemma
che vi era scolpito sopra in rilievo era diviso orizzontalmente in due
parti; nella superiore vi era un mezzo leone (per dirla in linguaggio
araldico) rampante in campo azzurro, nell'inferiore tre stelle disposte
a triangolo in campo d'oro; sormontato il tutto da cimiero con corona
comitale, ed intorno una lista ripiegata, in cui scritta in carattere
gotico una leggenda.

Come Giovanni Selva voltava e rivoltava il bottone al lume della lucerna
per dicifrare il motto di quella leggenda, Maurilio gli disse:

— Quelle parole sono: _voluntas ardua vincit_. un bel motto, ma quante
volte smentito dai fatti! Però io l'ho accettato come quello del mio
destino, come un ammonimento, datomi, d'entro l'ignoto, dietro cui si
nascondono, forse di là della tomba, dai miei genitori.

«Quando il curato mi ebbe posto in mano quegli oggetti, ancor io li
guardai curiosamente, e compitai lettera per lettera le parole della
carta, e mi sforzai ad interpretare questi gotici segni per me allora
inintelligibili. Mi ricordo sempre che il mio animo si trovava in uno
stato strano e così nuovo che nulla saprebbe esprimerlo. In certi
momenti, a vedere, a toccare questi oggetti mi sentivo un'intima
potentissima tenerezza nascermi in cuore e venirmi su, per così dire, e
tutto possedermi, e riempirmi gli occhi di pianto: poi ad un tratto una
subita freddezza subentrare in me; e guardavo queste robe con occhio
asciutto e quasi indifferente, ed ascoltavo le parole del sacerdote come
se di tutt'altri si trattasse che di me, e mi accorgevo che la mia mente
si distraeva per correre dietro ad altri pensieri, ai più puerili, ad
una farfalla che veniva ad aleggiare fuori della finestra, ad un'ape che
veniva a ronzare sui fiori, ad una nuvoletta che traverso le tende
bianche vedevo vogare sul fondo del cielo azzurro, a nulla di nulla.

«Tutto questo ti dico, perchè tu valga a conoscere meglio lo strano
impasto ond'è formato il mio essere.

«I detti che mi rimasero impressi eziandio, furono quelli che mi rispose
Don Venanzio, quando io lo interrogai che cosa volessero significare
quelle cifre che invano mi sforzavo di leggere.

«— Sono parole latine che dicono, l'uomo savio, l'uomo dabbene superare
ogni difficoltà, vincere ogni prova colla forza e colla rettitudine
della volontà. L'uomo è in questo senso il fabbro del suo destino; che
cioè si può costituire da se medesimo l'ambiente della sua coscienza.
Bisogna volere, e rettamente e fortemente volere, e volere il bene; e
poi, qualunque sieno le circostanze dei casi, l'uomo o le dominerà, o
godrà almeno il supremo vantaggio della tranquillità che proviene dal
merito di aver compiti i proprii doveri.

«Molte e molte altre, e tutte sante cose mi disse allora quell'egregio
sacerdote su quella vita in cui da quel giorno, diceva egli,
incominciavo ad entrare conscio di me e però imputabile dei miei atti; e
quando, dopo circa un'ora, mi congedò baciandomi paternamente in fronte
ed accarezzandomi colla mano le chiome, come benedicendomi, io mi partii
da esso col cuore rigonfio e giocondo insieme, con mille confuse idee
nella testa, e senza pur sapere formolare un pensiero. Mi stringevo al
cuore le cose rimessemi dal parroco, e ripetevo meco stesso camminando
frettolosamente le ultime parole pronunciate da Don Venanzio e che mi
suonavano nell'animo come una dolce musica, la cui melodia ci piace
revocare nella memoria.

«— Sono figliuolo di nessuno, ma sono figliuolo di Dio!»

«Non me ne tornai subito a casa. Avevo bisogno d'esser solo. Mi recai
fuori del villaggio, presso a un torrentello sulle cui sponde
inchinavano i loro rami delle acacie in quel tempo già illeggiadrite da
quello splendido verde primaverile che è sì dolce alla vista, già
coronate di bianche ciocche di fiori. Mi sedetti là su quella riva
deserta e stetti lungo tempo così assorto, come se la più profonda
meditazione mi occupasse. Non pensavo a nulla. Guardavo l'acqua che mi
correva a' piedi e sembrava giuocare tra i grossi sassi che ne
occupavano il letto. Di quando in quando, traevo dal seno, dove li avevo
riposti, questi oggetti e li contemplavo attentamente, compitando ad una
ad una le lettere di queste due righe di scritto e piacendomi delle
forme strane di queste cifre gotiche cui non capivo per nulla. Poscia di
colpo mi mettevo a pensare della comunione che per la prima volta avevo
fatta. Il buon parroco m'aveva detto che, fatta bene la Pasqua, la mia
anima sarebbe diventata così pura come quella d'un angelo. Questa pasqua
l'avevo celebrata. In questo momento adunque mi trovavo nello stato
uguale a quello degli angeli. Pensavo al paradiso dove avevo udito dire
si stava così felici in mezzo a tutte le cose belle che vi possano
essere. Perchè non avrei potuto andare tosto tosto, in quel momento
medesimo, insieme con quegli angeli così beati lassù nell'azzurro del
cielo, senza freddo, senza fame, senza battiture, senza dolori fisici
come quelli che a me la mia cagionevole salute e i mali trattamenti
degli uomini mi procuravano con tanta intensità e frequenza? Oh! se il
buon Gesù mi pigliasse seco in compagnia degli altri angeli: pensavo. Mi
sentivo risuonare confusamente ma soavemente all'orecchio le armonie
dell'organo che avevo udito nella chiesa, e le parole del buon curato
dettemi di poi, delle quali non ricordavo più bene il senso preciso, ma
erami rimasto come un'eco aggradevole; sentivo ancora il profumo
dell'incenso cui avevo visto nella mattina innalzarsi alla volta del
tempio in densi avvolgimenti di fumo biancolastro di cui indorava gli
orli il sole, che invadeva co' suoi raggi, dalle alte finestre, la
Chiesa.

«Non so perchè quelle ore di meditazione infantile mi rimasero di guisa
impresse nella mente che di spesso le mi tornano innanzi così fresche di
ricordo che mi par quasi di vivere in esse. Quando torno a rileggere
quelle righe, a ricontemplare questi oggetti, raro è che io non mi
riveda pure là in quel riposto luogo del torrente, sotto alle acacie
fiorite, fruscianti colle frondi sotto il venticello della primavera.»

Maurilio tacque un istante, curvò il capo sul petto, come assorto
appunto in quella interna visione del tempo trascorso che le sue parole
eran tali da evocare.

Fece scorrere tra le sue dita i grani del rosario e volse e rivolse al
raggio della lucerna il bottone d'argento.

— Questo rosario era forse la salvaguardia cui credeva affidarmi la
religione di mia madre........ Certo ad essa appartenne questo simbolo
d'una fede poco illuminata..... Mia madre adunque era forse ricca?......
E questo bottone di livrea?...... Forse appartenne a mio padre.... Gli è
forse il segno della sua vil condizione di servo... Oh! se tu sapessi
come e quante volte mi sono affannato in matte induzioni ed in
congetture impossibili!..... E se mia madre era ricca, perchè fui
abbandonato?..... Si vergognava forse di me, del mio nascimento, di
avermi avuto figlio chi sa di qual padre!...... Oppure questo rosario
loro non apparteneva, l'avevan tolto chi sa dove, chi sa da chi; non
l'avevan posto tra le mie fasce che per compensare in alcun modo col
valore di esso le prime cure di chi mi avrebbe raccolto.... Appena fui
più grandicello, questo mistero della mia nascita mi tormentò con
angustia incessante. Quante volte nella solitudine della campagna, dove
conducevo al pascolo le giovenche di Menico, io obliai tutto il mondo
per affondarmi in questi pensieri! Una velleità ambiziosa mi sentivo
spuntare nell'animo, che mi pareva indizio di meno ignobil sangue. Stavo
delle ore e delle ore, in me raccolto, collo sguardo della mente, per
così dire, fisso in me stesso nel mio interno a scrutarmi con una
minutezza inesorabile d'analisi per giudicare da me stesso quali istinti
avesse posto nella mia natura il sangue paterno. Talora mi pareva che le
generose aspirazioni e l'intelligenza, che superbamente riconoscevo in
me superiore a quelle ond'ero circondato, fossero prova di non abbietto
lignaggio; un'altra volta poi sentivo alcun che di basso ne' miei
istinti, un'acquiescenza, direi quasi vigliacca a quella condizione in
cui mi aveva precipitato il destino onde m'arrabbiavo dolorosamente meco
stesso, e che conchiudevo esser sicuro indizio della volgarità della mia
origine.

— No, codesto non può essere: disse Giovanni Selva. Il tuo solo
desiderio di appartenere per sangue alle classi superiori, mi pare
argomento da far credere che non eri nato per essere un povero
mandriano. Del resto, poco importa chi e quali e che cosa fossero i
genitori tuoi. Noi camminiamo verso un tempo, e ci siamo oramai giunti,
in cui all'uomo non si domanderà più da cui sia generato, quali i meriti
ed i titoli de' suoi padri, ma sibbene che cosa valga e quali meriti
sieno i suoi. E questa dev'essere di noi liberali l'opinione immutevole.

— Verso questo tempo camminiamo, è vero. Ci siam presso... forse!...
come tu dici... Ma non ci siamo ancora giunti. Ah! dei lunghi anni
passeranno ancora, sta certo, prima che nella società non sia più una
nota di vergogna la parola bastardo!

— Poichè tanto desiderio — e giustamente — ti possedeva e possiede di
conoscere qualche cosa intorno a' tuoi genitori, od almeno intorno a
coloro che ti posero addosso quegli oggetti abbandonandoti, non avresti
potuto cercar modo di scoprire di qual famiglia sia questo stemma?

— Bene ci pensai... Anzi fu Don Venanzio medesimo che ci pensò, e volle
incaricarsi egli stesso delle ricerche. Un giorno si fece consegnare da
me e rosario e bottone, e venne a Torino con essi.

— Ebbene?

— Tornò dicendomi che quell'arma gentilizia apparteneva ad una famiglia
affatto estinta, il cui ultimo rampollo era morto nelle guerre
dell'impero. Più tardi volli cercare anch'io, e meno felice ancora di
Don Venanzio, non potei raccapezzare da nessuna parte la menoma cosa.
D'altronde, ancorchè scoprissi tuttavia esistente siffatta famiglia, che
induzione si potrebbe trarre riguardo ad essa da un oggetto così poco
significante, come un bottone di livrea? No, no, non bisogna ch'io pensi
a nulla di codesto; lo so bene; ma che cosa vuoi? Un intimo senso, una
pazzia forse mi spinge, non dico a sperare, ma a fantasticarci sopra in
una assurda aspettazione di impossibili avvenimenti...... Ma lasciamo
ciò per ora, e ascolta il racconto della mia povera vita.

— Ti ricordi tu, Giovanni, così proseguì Maurilio dopo un istante; ti
ricordi il primo momento che la tua intelligenza si destò alla vita? Io
me ne ricordo. Fu sotto l'impulso del dolore, in un'ora di patimenti.
Prima di quel punto la notte era stata sempre in me; l'anima mia non
s'era scossa dal torpore. Certamente avevo sofferto di già, avevo di già
pianto di molte lagrime, ma non ne avevo coscienza. Ad un tratto... ti
dico che me ne ricordo, come se si trattasse d'un avvenimento accaduto
da poco tempo soltanto..... una specie di luce si fece nel mio spirito,
ebbi conoscenza dell'esser mio, della mia personalità, e mi diedi conto
nel mio cervello della mia esistenza e delle cose che mi circondavano.

«Mi ci vedo ancora, là, dove e come mi trovavo a quel punto. Avevo da
quattro a cinque anni. Era d'inverno come adesso, ma una bella giornata,
benchè freddissima. Il fango del lurido cortile era tutto ghiacciato e
faceva un pavimento irto di punte e rugoso come la vecchia corteccia
d'una grossa quercia. Le galline razzolavano in un po' di fimo. Un sole
giallastro indorava la paglia annerita del tetto della casa. Io era
seduto sopra lo scalino della porta che metteva nella stalla, e l'uscio
richiuso separavami dal benigno calore di essa. Ero vestito di una
misera ciopperella di stoffa di cotone, il cui colore doveva essere
stato rosso, ma che allora, per l'uso, per l'immondezza raccattata su
nell'arrabattarmi comechessia entro il brago di quel cortiluccio che
poteva dirsi tutto un truogolo, aveva una tinta bruna, ributtante come
l'impiastratura nericcia di sporco che mi copriva la pelle delle mani e
del viso, e queste e quello vergini di ogni lavatura. Tenevo i piedi
nudi entro vecchi zoccoli di legno della Giovanna, che avrei perso ad
ogni passo che avessi voluto fare. Tutte le membra mi erano intirizzite.
Avevo fame — quella fame che dovevo provar tante volte! — soffrivo molto
e piangevo con quanta voce e con quante lagrime mi restavano in corpo.

«Quella era una delle punizioni usate, e mi toccava ogni qualvolta la
mia presenza diventasse un po' più uggiosa del solito alla Giovanna. La
mi batteva, poi mi cacciava di fuor della stalla a macerare battendo i
denti dal freddo, poi, il più delle volte per intromissione del marito,
meno di lei crudele, si decideva a ripararmi di nuovo entro la casa, ma
non senza prima avermi ribattuto.

«I miei pianti finirono per seccare la malvagia donna. Aprì l'uscio e mi
gridò con quella voce che sola essa mi faceva tremare:

«— Vuoi finirla, bastardo del demonio?

«Mi rammento — tanto da quel punto in poi i miei sovveniri cominciarono
ad essere, e furono sempre spiccati e precisi! — mi rammento che da
quell'uscio semiaperto, da cui veniva la voce minacciosa della Giovanna,
passava pure una ondata d'aria tepente, la quale venne quasi ad
avvolgermi come una carezza. L'una e l'altra cosa fecero che io mi
tacessi; ma attratto da quel dolce tepore, onde abbisognavo cotanto, io
mi trascinai verso l'apertura per isgusciar dentro fra lo stipite
dell'uscio e le gambe della donna. Ma questa duramente mi respinse con
un calcio che mi mandò a rotolare nel cortile.

«— Sta in là, scimiotto! Diss'ella. Chi ti ha dato licenza di
rientrare?

«E chiuse l'uscio inesorabilmente. Io rimasi là dov'ero caduto; non
piangevo più, ma un singhiozzo mi usciva di quando in quando dal petto.

— Che scellerata megera! Esclamò Selva indignato.

— Passò allora un uomo, riprese Maurilio, e vistomi a quel modo, e
uditomi, entrò sollecito e si curvò con interesse su di me a chiedermi
che avessi, perchè fossi lì. Era Don Venanzio. Io non seppi, non potei
rispondere altro colla voce interrotta che quelle crude parole cui mi
rispose stassera un povero ragazzo: — Ho freddo, ho fame!

«Don Venanzio non ebbe schifo della mia lurida sporcizia; mi prese tra
le sue braccia, e tenendomi in grembo andò all'uscio e picchiò forte. La
Giovanna, domandato e udito chi fosse, venne ad aprire, e il parroco
entrò recandomi seco. Con autorità ed amorevolezza insieme fece alla
donna quei rimproveri che aveva già dovuto far prima e che ebbe da fare
ancora mille volte di poi sul modo onde ero trattato, e per sua opera
ebbi allora rifocillamento di pane e di calore.

«Non ti dirò tutto quanto m'intravvenisse di simile, che sarebbe una
troppo lunga e monotona filza di maltrattamenti d'ogni genere. Stenti,
improperi e percosse ne avevo senza interruzione, con raddoppiamento
d'intensità, di quando in quando, che alla Giovanna la luna era più di
traverso del solito, e che a Menico l'ebbrezza giornaliera aveva un
grado maggiore. Mi ricordo, fra le altre cose, che più tardi mi facevano
dormire sopra un impalcato d'una tettoia senza riparo ai lati, e per
letto un po' di strame sminuzzato e sporco più che uom possa immaginare.
Colà passavo la notte state ed inverno senza copertura sempre,
avvolgendomi per riscaldarmi in quel tritume che poteva quasi dirsi
letame. Per salire colassù non volevano nemmanco scomodarsi a pormi
all'uopo una scala a piuoli; e siccome io non aveva forza bastante da
mettermela a posto, mi industriavo ad arrampicarmi, aiutandomi dei
crepacci e di alcuni vuoti che c'erano nel pilastro onde il tetto era
sostenuto. Infermiccio e deboluccio com'ero, sovente non me ne sentivo
da tanto, e restavo sotto quell'impalcato spargendo lagrime impotenti,
anelando a quella lurida paglia a cui non potevo arrivare, come ad un
piccolo paradiso. Una volta mi mancarono a mezzo dell'ascesa le forze,
caddi e mi ruppi gravemente il capo. Menico udì per mia fortuna il colpo
ed il grido, venne fuori, mi raccolse, e d'allora in poi mi fece
partecipare del giaciglio che aveva sotto il carro il cane di guardia.

«Se io non sono morto, convien dire che un fortissimo organismo mi
avesse dato la natura...

— Ma Don Venanzio, interruppe a questo punto Giovanni Selva, come
tollerava egli codesto? Piuttosto avrebbe dovuto toglierti a quei
manigoldi ed allogarti altrove, anco prenderti seco.

— Don Venanzio, rispose Maurilio, non poteva veder tutto, e non seppe
mai, come non sa neppure adesso ancora, la verità per intiero. Bene era
già sufficiente ciò ch'egli vedeva perchè il buon sacerdote se ne
commovesse, fieramente ammonisse Menico e la moglie, e li minacciasse
eziandio di togliermi alle loro mani. Ma questa minaccia avrebbe egli
avuto assai difficoltà poi a tradurre in atto; poichè quale altra fra le
povere famiglie di quel povero casale avrebbe voluto accollarsi quel
peso? E rendermi ad un ospizio di trovatelli, Don Venanzio non pensava
fosse un vantaggio per me. E pigliarmi seco, la sua povertà, che pur
trovava modo ancora di soccorrere altrui sottraendo al necessario per
esso, la sua povertà di umil prete di campagna non glie lo consentiva.
D'altronde sperava egli sempre che un po' d'affetto i due villani
avrebbero posto in me, il quale, crescendo, cominciavo a diventar loro
utile, e lo sarei stato sempre più; non avevano figliuoli, non congiunti
prossimi, nulla era più naturale che a me lasciassero poi quelle
sostanze che il parroco sapeva aver essi raccolte e venire aumentando
ogni anno; e ciò, pensava egli, sarebbe stata la mia fortuna.

«Menico e Giovanna poi, appunto perchè col crescere degli anni io mi
veniva facendo utilissimo, perchè avevano in me un servitore oramai
necessario alla loro età più inoltrata e un servitore che pagavano
soltanto con un tozzo misurato di pane; Menico e Giovanna, dico,
simulavano per bene innanzi al curato, e sapevano all'occorrenza
allontanare da lui l'idea di togliermi alla loro casa. Sì, lamentandosi
della spesa maggiore che loro costava il mio mantenimento, arrivavano
ancora a strappare dal buon prete alcun regaluccio di denari e di robe
destinato a me, ma di cui non arrivavo mai a vedere neppur l'ombra.

«Quando la mia intelligenza fu abbastanza sviluppata da poter
comprendere la crudeltà della rampogna continuamente gettatami in faccia
dalla Giovanna: che io era un intruso in quella famiglia, che non
appartenevo a nessuno, che rubavo, per così dire, quello scarso pane che
mangiavo, una profonda umiliazione fu la mia. Mi sentii l'ultima delle
creature viventi; qualche cosa di più basso che quegli animali, per cui,
traendone profitto e costando loro denari, Menico e sua moglie avevano
più cura e maggiori sembianze d'affetto che non per me, di più vile del
cane, il quale almanco veniva lodato e mantenuto senza troppo
rincrescimento perchè teneva lontani i ladri, custode vigile e fedele.

«Perciò allorquando potei dirmi che alcun servizio rendevo pur io a
quella piccola associazione e compensavo così il datomi alimento, mi
parve di essermi alcun poco rilevato ai miei occhi medesimi.

«Facevo in casa il servo di tutti — uomini e bestie; faticavo come un
animale da soma. La sera cascavo dal sonno e dalla stanchezza; ero così
sfinito certe volte che mi pareva dovesse mancarmi la vita. Mi lasciavo
cadere spossato là dove mi trovavo. Ma gli improperi e lo staffile della
Giovanna venivano a restituirmi ben presto il coraggio d'un nuovo
sforzo.

«Conducevo alla pastura le vacche della stalla, e quello era il tempo
più felice della mia giornata.

«I pascoli comunali, dove menavo e custodivo le vacche di Menico, erano
sopra un'arida costa della collina, su cui una misera erba mezzo
assecchita copriva appena il terreno ronchioso, pieno di sassi e di
sterpi. Ma lì presso correva susurrando un'acqua a cui andavano a bere
ghiottamente le bestie; sorgevano sulla sponda del ruscello alcuni
ontani dal verde lussureggiante, all'ombra dei quali m'era dolce
ripararmi dai troppo caldi raggi del sole; intorno intorno si aveva il
sempre magnifico spettacolo della natura.

«Come imparai ad amarla questa gran madre di tutto e di tutti, io che
non ne aveva di madre, io che non poteva amare nessuno, perchè non ero
amato da nessuno!

«Nella solitudine di quel luogo nacquero nel mio capo i primi pensieri
intorno alla vita, intorno all'esser delle cose, sorsero nella mia anima
le prime aspirazioni verso gli affetti onde abbisognava il mio cuore e
cui indovinava l'istinto.

«Era la sera e la mattina che io doveva recarmi colà. Com'è bello sempre
il sole nella campagna! Ma nel suo sorgere e nel suo tramonto quanto
ancora è più stupendo! Quanto l'amavo questo benedetto sole che mi
scaldava le membra, che mi regalava tanto sublime spettacolo di luce e
di bellezza! Avrei potuto esclamare come Giuliano l'apostata: «Io sono
adoratore del resole!.... Fin dalla mia infanzia fui posseduto
straordinariamente dal desiderio di godere dei raggi suoi[7]. «Non c'è
paesista per quanto abbia studiato dal vero che abbia esaminate e si sia
impresse nella mente tutte le fasi di quelle ineffabili scene, che sono
l'aurora e l'occaso, come ho fatto io. Il mattino, dritto sopra la più
alta di quelle bozze del terreno, stavo immobile, volto all'oriente,
desioso, palpitante, ad aspettare, dopo il mite splendore dell'alba, il
primo irrompere della freccia d'oro d'un raggio di sole. Innanzi a me si
apriva come un anfiteatro di colline, imboschite, scure ancora delle
ombre della notte, addormentate tuttavia, mentre nella zona superiore,
quasi precursori dell'astro che stava per sopraggiungere, correvano
l'aria fresca mattutina e certe tinte color di perla nell'azzurro cielo
in cui impallidivano le stelle.

  [7] _In regem Solem ad Sallustium_, Julian. Op.

«Quando il sole gettava i fasci irrompenti delle sue fiamme divine, e
sorgeva imponente e soverchio alla pupilla di questa misera creatura che
è l'uomo, io mandava un grido selvaggio di gioia, come facevano gli
augelli ridesti; partecipavo direttamente a quell'omaggio della natura
al suo re.

«Vivevo intimamente nella vita della natura; confondevo la mia povera
persona in quel tutto onde ero avvolto. Al suo tramonto io seguitava il
sole con occhio amoroso, pieno di rimpianto. Le nubi che velavano il suo
splendore mi riempivano di tristezza. Nelle belle giornate serene
sentivo entro l'anima una muta, segreta contentezza che non avrei saputo
spiegare e che mi faceva bene pur tanto.

«Avrei voluto vivere così sempre. Mi sdraiavo all'ombra di quegli ontani
e guardavo, guardavo. L'orizzonte non era molto vasto, gli oggetti che
mi si presentavano erano pur sempre i medesimi; eppure non mi stancavo
mai di guardare. Quante idee nascevano allora in me! E dove le attingevo
io, che non sapevo niente, che non avevo visto niente, che non
comunicavo con persona viva, fuorchè colle stupide bestie affidate alla
mia custodia?

«Vi ha chi, rinnovellando il pensiero pitagorico, dice oggidì che gli
spiriti prima di proseguire la loro misteriosa carriera nell'infinito,
debbano incarnarsi più volte su questa terra entro le nostre miserabili
spoglie d'uomo; che la memoria delle precedenti esistenze rimane sì
obliterata in noi, ma che pure in taluni qualche vago accenno, che pare
un presentimento, un istinto, una divinazione, permane, fugace richiamo
d'un passato, forse di secoli e di secoli. Io sono presso a creder
codesto. Non t'è avvenuto mai di trovarti innanzi a certi affetti, a
certe sensazioni, a certe circostanze, eziandio che dovrebbero esserti
novelli, come innanzi a cose già occorse e già sentite? A me accadde, ed
accadde le mille volte. Ma questo momento, io mi domando, l'ho io già
vissuto, lo vivo realmente adesso?

«Le idee che sorsero nella mia mente in quella solitudine, fanciullo io
ancora, nulla di quanto mi avvicinava poteva darmele, e se io non le ho
portate meco nascendo, residuo d'una vita anteriore, non saprei dove le
abbia potute acquistare. Quello che travagliava me, misero, ignorante,
disprezzato bùttero della campagna, era niente meno che il problema
della nostra esistenza — il problema della vita — il problema della
creazione.

«Perchè esistevo io? Perchè esisteva tutto quel mondo che mi attorniava?
Avevo udito a nominar Dio. Che cosa era questo Dio? Egli aveva fatto
tutto quello che esiste — ma pel suo bene o pel nostro? Se pel suo, come
mai aveva egli da aver bene mercè il dolore delle creature? Imperocchè
l'idea del dolore fosse la più spiccata e precisa che io avessi dai
primi anni miei. Se pel nostro bene, come mai la creazione volgevasi a
tale che ne risultava il male? Tutto questo non si combinava coll'idea
che avrei voluto farmi di Dio. E s'egli aveva creato ed era
onnipossente, avrebbe potuto bene non creare affatto, o distrurre
l'opera sua? Non creare! Se non avesse creato ci sarebbe dunque stato il
nulla!....

«Mi ricordo che quando questa tremenda idea invase il mio cervello, io
credetti impazzire. Il nulla! Niente che esistesse. Dio solo nella sua
solitudine infinita!... Ma un Dio inerte e che non facesse nulla si può
egli concepire?... Dunque nè anche Dio!.... Nulla! Nulla!.... Sentivo la
mia testa scoppiare sotto questo assurdo inconcepibile, e che volevo
sforzarmi a concepire.

«La creazione, m'insegnava il catechismo che andavo alla domenica a
sentire spiegato in chiesa, era appunto l'atto con cui Dio aveva formato
il mondo dal nulla, dunque prima ch'egli creasse, questo nulla dominava
lo spazio ed il tempo...

«Mi serravo violentemente colle mani le tempia, come per concentrarvi le
idee e le forze del cervello che mi pareano disperdersi. Poi guardavo
innanzi a me sbalordito. Vedevo le vacche qua e colà sparse, nella beata
calma della loro stupidaggine. Una sdraiata ruminava cogli occhi
semichiusi; un'altra mordeva la poca erba del suolo infecondo; una
terza, andata a bere, sollevava il muso da cui gocciava l'acqua e
guardava fissamente innanzi a sè. Pensavano a di queste cose nelle tante
ore inoperose, quelle bestie così placidamente rassegnate alla loro
sorte? E se non le pensavano, non erano esse più felici di me? E perchè
tali pensieri dovevo averli io, e non li avevano nè Menico, nè Giovanna?
Era questo un mio torto, od un mio merito, od una mia sciagura? Non
sapevo nè anche questo, ma pure non avrei osato svelarli ad anima viva.

Qui Maurilio tacque un istante e parve esitare; poi fece quel suo strano
sorriso, scosse il capo; e riprese:

— Ned ora tuttavia, nemmeno con te, oso tutto disvelare degli intimi
pensieri del mio spirito, degli intimi fenomeni che ha nel suo segreto
l'anima mia...

— Perchè? Domandò con calore Giovanni Selva; tu dèi pure avere fiducia
nella mia amicizia.

Maurilio stette un minuto a capo chino, poi, come riscuotendosi, disse
risolutamente:

— Avrò il coraggio di dirti tutto, perchè molte volte ho bisogno d'aiuto
nelle mie interne battaglie, e il tuo affetto e la risolutezza del tuo
carattere potranno darmene... Ti dirò tutto, dovessi tu pure stimarmi un
allucinato o ridere della vanità delle mie illusioni.

Selva lo interruppe vivamente.

— Ridere non mai!... E per crederti così agevolmente allucinato, conosco
troppo già la tempra del tuo ingegno e la forza dell'anima tua.

— Giovanni, disse Maurilio volgendo verso l'amico il viso diventato più
pallido e gli occhi di una strana luce illuminati: Giovanni, credi tu
alle apparizioni? Credi tu al mondo degli spiriti? Credi tu che fra
questi vivi della vita d'un giorno e i vivi della vita eterna possa
esservi comunicazione diretta?... Io credo!... A me parlano gli spiriti
dei morti; io sento nell'anima il susurro de' loro ispiratimi pensieri,
alcune rare volte io ne vedo nelle ombre della sera disegnarsi, lievi
come il fumo di poco incenso, le loro incerte sembianze... Non
interrompermi, non parlarmi, non dirmi che vaneggio... Odimi sino al
fine.

«Non avevo più di sette anni. Ero al solito pascolo. Una sera
orridamente bella per lo strano spettacolo del cielo. All'occidente un
ammasso di nubi di temporale, nero come il fondo dell'abisso, squarciate
di quando in quando da un lampo sanguigno. All'estremità di queste nubi,
pei raggi rifratti del sole già tramontato, un orlo vivo color di
fiamma. Più in su dell'orizzonte un altro accavallamento di nubi bianche
come la neve che correvano, avresti detto spaventate, avvolgendosi su se
stesse sotto il soffio dell'aquilone. Per la campagna una luce incerta,
biancolastra, freddiccia che dava delle tinte livide a tutti gli
oggetti. Un gran silenzio in tutta la natura, cui rompevano tratto
tratto il rombare del tuono lontano e l'ululato del vento che faceva
piegare con gemiti gli alberi, che sollevava altissimi nembi di polvere
e li cacciava in disordine innanzi a sè, e passava. Le vacche di quando
in quando levavano il muso verso il cielo e muggivano dolorosamente.

«Io non sentiva paura; quell'imponente spettacolo piaceva anzi di molto
agli occhi miei; ma pure avevo una certa ansietà nell'animo e un palpito
nel cuore, di cui non sapevo dirmi il perchè. Sdraiato sotto gli ontani,
guardavo i lampi nel cielo e stavo lì come aspettando qualche cosa che
dovesse intravvenire.

«Ad un punto il vento cessò del tutto e il tuono si tacque. L'orlo di
fiamma delle nubi all'occaso si spense, quelle altre nubi bianchissime
che correvano pel cielo si fermarono, si oscurarono e diventarono color
di piombo; parve cessasse dal respirare la natura intiera. Il mio cuore
palpitava più forte. Udii al di sopra del mio capo le frondi degli
ontani scuotersi leggermente, e mi stupii che il vento tacesse
dappertutto e là soltanto agitasse i rami. Una voce — era essa bene una
voce? — certo non umana, la suonava in modo così dolce e così nuovo che
io non aveva udito nè udii mai rumore terreno che le si potesse
paragonare. La sentii non cogli orecchi, ma coll'anima. Non avrei saputo
dire se parlasse fuori di me o dentro me stesso; ma era una voce d'altra
persona che non io, perocchè mi stupì forte e mi fece rivolgere a cercar
chi fosse che parlava. Una voce mi disse: — Bambino! Povero bambino!

«Guardai tutt'intorno; non vidi nessuno. Mi alzai non atterrito, ma
commosso. Gli ontani tornarono ad agitarsi; ed allora vidi — oh certo
vidi — una figura, un'ombra bianca, diafana, leggiera, che pareva di
donna, le cui sembianze non potevo discernere con precisione, ma che
avrei detto mi guardasse benignamente affettuosa.

«Non ebbi timore di sorta. — Chi siete? Le domandai.

«Invece di rispondere alla mia richiesta l'ombra mi disse con quella sua
voce di cui non posso spiegare la natura, nè l'incanto:

«— Iddio ti ha dato un'intelligenza, e tu devi coltivarla. Un'anima
eletta verrà pietosamente a cercarti nelle tenebre della tua ignoranza.
Studia. I tuoi patimenti non ti facciano tristo. Soffri, perdona e
credi!

«E si dileguò alla mia vista.

«La notte era discesa quasi del tutto, le vacche muggivan più forte, il
tuono e il vento romoreggiavano più intensamente; qualche gocciolone di
piova cominciava a cadere con impeto qua e colà. Io mi sentiva tutto
commosso e quasi lieto nell'animo. Avviai le bestie verso casa e ci
arrivammo correndo che la piova incominciava a crosciare con iscatenato
furore.

«Fui crudelmente percosso e condannato a star senza cena, perchè avevo
tardato a rientrare. Coi panni tutti bagnati addosso fui mandato sul mio
giaciglio. M'addormentai placidamente, senza pure una lagrima. Sentivo
ancora dentro di me, come una musica, il suono delle parole della
visione.»

— Questa visione, disse Giovanni, altro non era che la tua coscienza. In
te latente era fin d'allora il sentimento del tuo valore intellettuale,
e per un fenomeno psicologico siffatto sentimento nell'estrinsecarsi
prendeva quasi persona di essere estraneo, affine di incitarti
all'opera.

Maurilio crollò con impazienza le spalle.

— Lascia stare, ti prego, le tue spiegazioni del razionalismo terreno a
corta vista. Ascolta tutto in prima, e poi vedrai se quelle spiegazioni
possono bastare.

«Il domattina corsi a quel solito luogo con una specie d'ansia desiosa.
Speravo di rivedere quella forma indistinta, di riudire quella voce
soave. Il fatto nè mi pareva meraviglioso, nè cercavo di darmene
spiegazione alcuna. Non l'avrei detto a persona al mondo; già non avevo
nessuno a cui favellarne, perchè a Menico ed a Giovanna non rivolgevo
mai la parola che quando la necessità lo volesse; ma fossi pure stato
uso a tutto svelare a qualcheduno, quel fatto avrei avuto caro di
tenerlo segreto, per me solo, e un'istintiva ripugnanza avrei sentito a
parlarne.

«Il temporale era passato e splendeva in una bella mattina il più
allegro sole del mondo. Mi sedetti sotto gli ontani, là, a quel medesimo
posto, e stetti aspettando. Inutilmente!.... Cioè no, inutilmente. La
visione mi aveva annunziato che un'anima eletta sarebbe venuta a
cercarmi nelle tenebre della mia ignoranza; e quest'anima venne.

«Nell'attesa che la desiata visione si manifestasse al mio spirito, io
m'era siffattamente assorto fuori del mondo reale, che non vedevo e non
sentivo più nulla. Ad un punto fra i miei occhi e lo splendore del sole
nella pianura, cui fissavo inconsciamente, venne a frapporsi un corpo
opaco, una persona vestita di nero. Levai lo sguardo, e mi trovai
dinanzi le sembianze paternamente affettuose e il sorriso bonario di Don
Venanzio.

«— Che fai tu? Mi disse. Dormi?

«— No, diss'io, penso.

«— Oh oh! Pensare, soggiunse egli ridendo, con quella testolina, alla
tua età!.... Ma intanto non badi ai fatti tuoi; e vedi un po' che una
delle tue vacche è fuori del pascolo, ha invaso il campo di Giammaria e
sta mangiando a piene ganascie il suo trifoglio. Così cominci per
lasciar far danno a quel pover uomo: e poi la bestia pasciuta di
trifoglio gonfierà e potrà anche morire; e per Menico la sarà brutta, e
la vedranno brutta anche le tue spalle.

«Mi scossi in sussulto «come persona che per forza è desta» e corsi a
parar via la vacca dal campo di trifoglio.

«Quando tornai presso al parroco, questi mi pose amorevolmente una mano
sul capo; e guardandomi non senza affettuoso interesse, mi disse:

«— Come sei concio! Tu non ti lavi mai, ci scommetto. Non sai che la
pulizia è l'eleganza del povero?

«Io mi sentii arrossire e chinai la testa senza rispondere.

«— La Giovanna, continuava egli, non ti ha mostrato a tenerti pulito?

«— No.

«— Ebbene, ciò non ostante avresti dovuto impararlo da te stesso.

«Io arrossii ancora di più, e chinai più basso ancora la testa. Don
Venanzio stette un poco a guardarmi così in silenzio, e il suo sguardo
mi rendeva impacciato bensì, ma non mi faceva pena, tanto ci sentivo in
esso di pietà e di affetto.

«— Oh Signor benedetto! Esclamò egli di poi come parlando a se stesso;
è egli possibile che delle creature umane tirino su un'altra creatura a
questo modo senza pulirne in niuna guisa nè il corpo nè lo spirito?

«E volgendo allora di nuovo a me la parola, chiese:

«— Tu non sai nemmeno che cosa sia leggere e scrivere, non è vero?

«— Sì, lo so: risposi levando gli occhi in volto al buon parroco. Vedo
bene Menico che fa certi segni su certo suo libretto per tenere le
ragioni di quanto vende e di quanto gli si paga, e alla domenica a messa
vedo bene Lei che legge nel grosso libro in sull'altare, e al catechismo
il vicecurato che legge la dottrina per ispiegarcela.

«— E ne avresti voglia tu di saper fare l'una cosa e l'altra?

«Veramente fino a quel punto, io non ci aveva ancora pensato mai: ma
bastò che Don Venanzio me ne dicesse, perchè di subito io me ne sentissi
invasare da un grandissimo desiderio.

«— Oh tanto, tanto..., risposi con calore.

«Il parroco mi fece una carezza alla mascella a dispetto dello sporco
che m'impiastrava la faccia, e mi disse:

«— Va bene. Io faccio scuola a tutti i ragazzi che mi vogliono mandare,
e la farò anche a te. Dirò a Menico che vi ti lasci venire, e siccome la
scuola è gratuita, non dubito punto ch'egli acconsenta.

«E così fu di fatto. Benchè la Giovanna brontolasse assai, che quella,
secondo lei, sciocca superfluità della scuola mi toglieva da farle in
casa quei pochi servigi a cui ero buono, e quindi che le mangiavo più
che mai il pane a ufo e a tradimento, pure non si osò contraddire Don
Venanzio, e tutti i giorni, in quello spazio di tempo che le bestie non
istavano alla pastura, io con immensa voglia, insieme con una frotta di
altri ragazzi del villaggio, prendevo dal buon parroco due ore di
lezione.

«Ben presto fui primo tra i primi, e a seconda che imparavo con ardore,
una smania indicibile di sapere s'impadroniva di me. Don Venanzio
meravigliato de' miei progressi, e, come diceva egli, della precocità
della mia intelligenza, mi pose affetto forse maggiore che non ad altri;
e un anno appena era trascorso dal dì ch'egli mi aveva mostrato a
discernere le lettere, quando egli mi ammetteva già alla prima comunione
e, come ti ho raccontato poc'anzi, mi rendeva istrutto di quanto era a
sua cognizione circa la mia origine.

«Un altro fra i ragazzi meco istruiti corrispondeva coi più lusinghieri
successi all'insegnamento del parroco, ed era perciò ancor egli
distintamente apprezzato da Don Venanzio.

«Per una strana combinazione della sorte, questo tale trovai, dopo lungo
intervallo che eravamo divisi, questa sera medesima; e ciò valse ancora
non poco a far più vivo in me il ricordo di quegli anni infantili.

«Eravamo ambidue superiori a tutti i nostri compagni per l'intelligenza;
egli era tale altresì per la forza e l'avvenenza del corpo. Avevamo la
sorte comune; ancor egli è un trovatello al pari di me; oltre ciò molte
idee compagne, molte aspirazioni medesime ci assembravano. Fu quello il
mio primo amico che avessi; l'unico finchè non ebbi trovato voi altri.

«Il suo nome è Gian-Luigi. Una buona donna lo tolse dall'ospizio per
balìrlo, e lo ebbe come suo. Ancor egli ha un segno che può essergli
stato messo per riconoscerlo di poi da chi lo abbandonò nella ruota
degli esposti; ma un segno vago al pari del mio: una lettera stracciata
longitudinalmente per metà di cui non si scorge data nè firma, e non si
può capir nulla. Un altro segno di ricognizione a lui diede poi la
natura in una macchia che par proprio un fiore di viola mammola sopra
una spalla.

«La natura volle esser prodiga con lui d'ogni dono: bellezza, forza,
intelligenza, coraggio; ma la sua anima irrequieta ed ambiziosa è
dominata da un superbo egoismo che è capace di tutto. Un ardore di
sapere ci possedeva entrambi, e ci animavamo l'un l'altro, e ci
aiutavamo a vicenda, egli coi meravigliosi indovinamenti della sua ratta
percezione e del suo intuito potente, io colle deduzioni forse più
profonde della mia riflessione. In breve il buon parroco non ebbe più
nulla ad insegnarci, perchè aveva trasmesso in noi tutta quella scienza
ch'egli possedeva. Ah perchè quel sant'uomo non ci potè trasmetter del
paro la calma sua acquiescenza nella sublime umiltà della fede? Quel
poco che avevamo bevuto alla coppa del sapere era ben lungi dal bastare
a dissetarci. Il nostro spirito audace andava al di là di quella cerchia
che ci pareva troppo stretta e in cui si trovava pure a suo agio l'anima
modesta del sacerdote. Avevamo divorato, poi letto di nuovo e riletto
tutti i pochi libri posseduti da Don Venanzio. Per questi libri in modo
incompleto e leggero pur anche, ma tuttavia in modo efficacissimo per le
nostre anime giovanilmente vaghe e ansiosamente curiose, ci parlava il
mondo coi suoi gran problemi filosofici, morali, sociali e politici.
Sull'arido tema datoci da quei libri innocenti lavorava con ardore la
nostra fantasia intemperante. Figurati che uno dei libri che più mi
agitassero fu il _Discorso sulla storia universale_ di Bossuet.
L'umanità allora mi apparve primamente come una grande individualità
esplicantesi traverso ai secoli per incarnare un disegno, un tipo, per
effettuare un ideale. Afferrai il concetto della filosofia della storia,
senza pur saperne il nome nè conoscerne nemmanco che altri l'avesse
fondata, esplicata, tentato determinarla in leggi generali. Fui a me
medesimo il mio Vico, mi credetti inventore e ci lavorai intorno con la
superba passione dell'inventore. Creai il mio sistema, e con fatale
orgoglio non conchiusi in favore d'una paterna provvidenza. La necessità
generantesi delle cose e l'ingranaggio della dipendenza ineluttabile di
cause e d'effetti, di premesse e di conseguenze mi parvero spiegazione
sufficiente. Preso per guida e per esemplare il Bossuet, riuscii ad
opposte conclusioni.

«Il verme che rode la moderna umanità intellettuale, lo scettico
criticismo ci possedeva entrambi, me e Gian-Luigi. Eravamo proprio
figliuoli di quella generazione, che avendo visto rovinar tutto, avendo
tentato infinite cose e riuscito a nulla, non poteva più aver fede in
cosa nessuna. Gian-Luigi, senza mai aver letto Voltaire, aveva il
sarcasmo potente di questo demolitore; quando più tardi mi vennero tra
mano le brillanti prose di quell'arguto polemista francese che il secolo
scorso scambiò per un filosofo, stupii nel trovarvi le scherzose empietà
del mio compagno d'infanzia.

«Don Venanzio s'accorse degli effetti dell'opera sua e molto se ne
dolse. Forse si pentì d'averci tolti all'ignoranza, nella quale
probabilmente avrebbe continuata la nostra fede. Volle argomentare,
vincere la nostra incredulità colla potenza della sua teologia: ma le
vivaci uscite di Gian-Luigi lo confondevano, le serrate deduzioni dei
miei ragionamenti lo imbarazzavano. Atterrito esclamava che per bocca
nostra parlava il demonio. Povero prete! Così buono e ci amava cotanto!
E l'abbiamo fatto soffrire!....

«Però se io non aveva più la cieca fede del cattolico insegnatami dal
curato, non ero neppure andato all'assoluta negazione, a cui aveva fatto
capo Gian-Luigi, il quale, di alcuni anni più innanzi nella vita di me,
aveva nelle sue concitate passioni di giovane ribollenti nella sua anima
audacissima un incitamento alle maggiori temerità della coscienza. Oltre
ciò quell'educazione che il parroco aveva incominciata di lui, era stata
compita da un altro, ammirato pure dei tanti e luminosi talenti di quel
giovanetto. Quest'altro era il medico del villaggio e, come tutti i
medici d'un tempo, aveva per dottrina il più puro e franco materialismo.
Gian-Luigi era troppo acconcio a far suoi quel sistema e quelle
opinioni. Accusava me, timido ed inconseguente, perchè non sapevo
spastoiarmi dagli assurdi pregiudizi, secondo lui, dello spiritualismo.

«Se avesse saputo poi che io nutriva entro me peggio di codesto, una
credenza che tutti i dotti battezzano per superstizione; la credenza
alle apparizioni degli spiriti umani spogliati della carne!....

«Ti confesso la mia viltà. Non ebbi mai l'ardire di pur fargliene cenno.
Avrei temuto un suo scherno su questo proposito come una crudele
trafittura nel più delicato dell'anima. Ci credevo, — e ci credo — e
quella credenza era ed è una consolazione segreta ed un segreto conforto
d'indefinita speranza. Questa credenza nel domma superbo
dell'immortalità dell'anima, della permanenza della personalità umana,
della perfezione dello spirito, mi riattaccava alla credenza di Dio.

— Ma dopo quella prima visione, disse Giovanni Selva a questo punto, ne
avesti tu delle altre?

Maurilio fece un cenno affermativo col capo e con accento sommesso e
commosso rispose:

— Sì, ma più vaghe ed incerte ancora della prima; tali però da non
lasciare in me il menomo dubbio. Sempre quella medesima forma donnesca
in atto pietoso. La voce soave non l'udii più, o qualche rara volta, un
monosillabo, un'esclamazione soltanto. Mi appariva — e da qualche tempo
tornò ad apparirmi — nel crepuscolo vespertino ad ogni volta. Io vedeva
nell'aria un mesto sorriso; e mi si cancellava dinanzi. Le tendevo le
braccia, la invocavo col grido dell'anima: era sparita. Quando avevo
sofferto di più, quando Giovanna e Menico mi avevano peggio maltrattato,
ella soleva consolarmi del suo fugace passare innanzi ai miei occhi.
L'aspettavo. Certe volte ero contento d'aver patito assai lungo la
giornata, perchè speravo che la sera avrei visto il mio buono spirito. E
non sempre veniva, ed era allora in me un'amarissima delusione, nuovo
più forte dolore. Mi sentivo allora tanto solo nell'universo! Poichè Don
Venanzio mi aveva narrato dell'esser mio, avevo dato un nome a quella
ombra, e non avevo pure un dubbio che quel nome non fosse suo. La
chiamavo mia madre.

«Il mondo soprasensibile mi parlava così all'anima, ed il mondo reale,
crescendo negli anni, mi parlava con agognante curiosità alla mente.
Cominciò a travagliare il mio spirito intorno al problema della mia
nascita. Volli cercare la ragione per cui de' genitori erano costretti a
condannare i nati dal sangue loro a quell'insulto che mi gettavano in
faccia gli uomini spietatamente colla parola bastardo; e questa ragione,
in mezzo ai miei studi incompleti, mal digesti, fatti alla ventura, mi
apparve circondata dagli spinosi avvolgimenti della quistione sociale.
Il problema della ricchezza e della povertà mi affannò allora ancor esso
con una dolorosa confusione del mio spirito. Il buon Don Venanzio non
era a gran pezza capace di dire una parola che mi fosse in quello
scombuiamento un richiamo, una guida; egli non aveva che una spiegazione
sola, un unico principio a cui tutto subordinava come effetto a causa:
la volontà di Dio. Questa spiegazione più non bastava al mio scetticismo
crescente. Mi ribellavo a veder chiudere in quell'angiporto i miei
audaci perchè. Il concetto dell'armonia universale mi sfuggiva, e
facendo, come avviene, centro all'universo della mia povera
individualità e tutto ad essa recando, conchiudevo suprema ragione delle
cose terrene essere l'ingiustizia. L'umanità, quindi, credevo affatto
fuor di strada; la rivoluzione sociale essere una necessità assoluta,
chi non volesse la civiltà caduta in vecchiaia, fatta impotente,
cristallizzata, per dir così, in forme inefficaci, colpite di morte, e
però da spegnersi come le civiltà dell'antico Oriente.

«Non abbracciavo tutte le parti dell'immenso quesito. Non apprezzavo e
non conoscevo la virtù immensa, e sola effettiva, e sola creatrice, del
graduato e lento moto di riforma, in una parola, del progresso, a cui la
terra medesima e tutto l'universo deve l'attuale suo stato e dovrà
gl'immegliamenti avvenire. Circonchiuso in istretti limiti segnati, me
inconscio, dal mio interesse personale, esageravo colla foga esuberante
della prima giovinezza.

«Più di me esagerava Gian-Luigi, anche in codesto. Il suo pensiero aveva
ancora più temerità e meno logica del mio. Dal medico, il quale con
tanto amore l'avea preso a proteggere, egli era ogni anno mandato a
Torino per gli studi. Il bravo uomo — senza prole — sognava vedere
Gian-Luigi addottorato in medicina, succedergli nella clientela del
villaggio, ed a lui vecchio prestare negli ultimi anni le amorose
assistenze d'un figliuolo.

«Ma quanto una simile sorte era lungi dal bastare all'irrequieta
ambizione del giovane! Fin dapprima questi non anelava che ad una cosa:
potersi allontanare di tanto da quel villaggio che nessuno udisse mai
più nulla di lui, fuorchè — com'egli si lusingava ottenere — la sua
fragorosa celebrità; e non tornarci mai più, fuorchè circondato da una
brillante aureola di gloria.

«— Vorrei, mi diceva più volte nei nostri confidenti colloqui, vorrei
che strabiliassero tutti che un uomo simile sia venuto fuori dal guscio
di quel bastardo che essi disprezzavan cotanto.

«Questo disprezzo era eziandio per lui un tormento uguale se pur non
maggiore a quello che io ne provava; quantunque verso di lui siffatto
sentimento si manifestasse assai meno che non verso di me, perchè egli
era forte, robusto, arditissimo, di sembiante meravigliosamente bello,
possedeva una certa autorevole imponenza di persona che faceva effetto
su tutti, ed inoltre gli era di salvaguardia la protezione del medico,
uomo nel villaggio assai considerevole e stimato.

«Molte volte Gian-Luigi protesse la mia debolezza contro gl'insulti dei
compagni, e talora — cosa che mi parve un'audacia incredibile — perfino
contro i maltrattamenti di Menico e di Giovanna che io temeva, massime
quest'ultima, più di ogni cosa al mondo. La comunanza dei pensieri e dei
sentimenti e la riconoscenza che io dovetti mettere in lui per queste
ragioni, fecero che io amassi allora Gian-Luigi più di tutti, più ancora
del buon Don Venanzio, il quale era pure il solo in cui avessi trovato
il tesoro d'un affetto che aveva del paterno. Credevo esser amato ancor
io dal mio compagno, ma quanto m'illudevo! Egli ha in codesto uno dei
privilegii consentiti alla sublimità del genio: non ama che sè, non
pensa che a sè.

«Dappoi che gli era solito venir a passare in Torino, per cagione degli
studi, la maggior parte dell'anno, il soggiorno del villaggio era
diventato a Gian-Luigi intollerabile. Fastidiva tutto. Nei primi giorni
dopo il suo arrivo, si piaceva alquanto a restar meco, per dirmi tutto
quello che aveva provato, tutto quello che aveva visto, pensato,
sentito, tutte le sue speranze, tutti i suoi pazzi progetti che detti da
lui parevano i più facili del mondo a compirsi, tutti i suoi sogni
impossibili, che passando per la sua bocca, nella foga eloquente del suo
discorso, pigliavano l'aspetto di cosa naturalissima. Ero io il solo in
quel paese che potesse capirlo, partecipare a quei suoi sentimenti,
completarli quasi coll'appassionato concorso. Io faceva sempre la mia
solita vita, se non che lavoravo assai più, pensavo ancora maggiormente,
e rubavo le ore al mio sonno, di cui avevo pur tanto bisogno, per
leggere e studiare di soppiatto. Gian-Luigi veniva a cercarmi là al
pascolo; e che festa per me il vederlo! Ad ogni volta però egli mi si
presentava così cambiato in signore che io rimaneva tutto interdetto e
non osavo più abbracciarlo. Egli mi recava innanzi gli abiti, le
maniere, il profumo, quasi direi, della vita signorile di città; e ti
lascio pensare qual effetto tutto ciò dovesse produrre in me. Maggior
effetto mi producevano ancora le sue parole. Esse mi svelavano alla
fantasia desiosa il mondo novello vagamente immaginato, l'Eden sociale
da cui eravamo esclusi noi due, ma di cui egli s'era già pur tuttavia
avanzato sino sulla soglia a mirarvi per entro ed in cui giurava di
voler entrare.

«Le sue parole mi destavano un tumulto indescrivibile, e me lo destavano
del pari i libri che egli mi recava. Furono i primi romanzi che vennero
a dar forma più precisa a quella moltitudine di esseri immaginarii che
riempivano le scene svariate e confuse delle mie fantasticaggini. Come
divoravo quei volumi! Li recavo meco dappertutto e leggevo, leggevo,
leggevo, finchè mi bastasse la vista.

«Trascorsi alcuni giorni, quando egli mi avea detto tutto, anche la mia
compagnia tornava sazievole a Gian-Luigi. Non solamente non mi cercava
più, ma se io andava in traccia di lui, mi sfuggiva. Siccome l'amavo,
ciò mi faceva soffrire. Con colpa ben maggiore, egli sfuggiva altresì la
brava donna che l'ha allevato, e che aveva ed ha tuttavia in lui un
affetto più che materno. A chi gliene muovesse rimprovero, egli
rispondeva sdegnoso: non esser egli come tutti gli altri, e le sue
azioni quindi da non misurarsi alla regola comune; non aver egli legami
di sangue con nessuno sulla terra, epperò averlo sciolto il fato da ogni
e qualunque obbligo verso chicchessia. Come nessuno, egli non amava
nulla di colà, e quei luoghi che erano sì cari — e lo sono ancora — a
me, che pure in essi ho sofferto cotanto, quei luoghi non dicevano
niente all'anima sua; ed il suo più lieto momento era quello in cui li
dovea abbandonare per tornarsene col pretesto degli studi a Torino.

«Se il medico, il quale lo manteneva all'Università, fosse vissuto, io
non so che cosa sarebbe capitato di Gian-Luigi. Forse avrebbe finito per
acconciarsi alle voglie del suo protettore ed al destino che questi gli
preparava; ma prima che il giovane terminasse il suo corso di medicina,
il dottore, assalito da una violenta malattia, in pochi dì soccombette.

«Unico suo desiderio, sul letto di morte, fu di vedere ancora Gian-Luigi
che allora trovavasi a Torino. Mandato a chiamare in fretta in fretta,
il giovane venne ad assistere all'agonia del suo benefattore. A quello
che ne udii, fu uno spettacolo fatto per addolorare un credente, ma non
per ammollire l'anima di un incredulo. Il medico materialista, malgrado
tutti i tentativi di Don Venanzio, morì nell'interezza delle sue
opinioni antireligiose. Gian-Luigi assistette al desolante spettacolo di
un'anima che lotta fisicamente contro la morte e giace vinta da questa
senza recare seco pure un barlume di speranza. La vita conchiusa tutta
in questo breve periodo di tempo, per un'anima nata dal nulla e che
torna nel nulla, gli apparve sempre più una lotta in cui bisognava
sopravanzare, un giuoco in cui bisognava vincere. Si confermò nella sua
credenza: la soddisfazione dei proprii istinti, l'appagamento dei
desiderii, essere legittima e suprema regola di vita.

«Il buon parroco non rifiutò le preghiere della Chiesa a quell'incredulo
impenitente che ne avea rifiutato i sacramenti.

«— Preghiamo sempre, egli soleva dire in ogni occasione. La preghiera
non può dirsi inutile mai, e dirla proibita mi par quasi un'eresia.
D'altronde chi può porre un limite alla misericordia di Dio?

«Gian-Luigi accompagnò sino al cimitero la bara del suo benefattore.
Credevo di vederlo piangere. Invece l'occhio suo era asciutto e quasi
più vivace del solito; aveva le guancie un po' pallide. Stette muto, e
non fece il menomo atto che svelasse il suo dolore. Quando la bara fu
coperta di terra, egli si volse indietro tranquillo, senza pronunziare
una parola e se ne partì lentamente.

«Il cane del povero medico morto aveva seguito ancor egli il funebre
corteo, ed ora, sdraiatosi sul cumulo di terra smossa sotto cui giaceva
il cadavere del suo padrone, guaiva dolorosamente.

«Io mi affrettai dietro Gian-Luigi, e lo raggiunsi che camminava col
medesimo passo lento, a capo chino.

«— Povero dottore! Io cominciai per dire a Gian-Luigi. Come presto egli
ti fu tolto! Ti compiango, e sento il tuo danno e il tuo dolore, come se
fossero miei.

«Egli non mi rispose tosto, ma continuò a camminare di quella guisa,
quasi che non prestasse la menoma attenzione alla mia presenza nè alle
mie parole.

«Dopo un poco mi disse:

«— Sì, povero dottore! Che vita fu la sua? Aveva studiato assai, sapeva
molto e la sua esistenza rimase rinserrata in questa misera tomba di
vivi che è il villaggio! A che cosa gli valse avere ingegno? Passò come
un'ombra nel mondo, come passano tutti gli stupidi che riempiono di loro
inutil persona quelle brutte casipole laggiù per soffrir di stenti,
d'ogni privazione, procreare altri stupidi ed altri infelici al pari di
loro e venire poi colla loro putredine ad ingrassare le alte erbe del
cimitero che abbiamo or ora lasciato. Forse quell'uomo si meritava di
meglio.

«Tacque un istante, e poi crollando le spalle con un certo suo atto
pieno di orgoglio, soggiunse:

«— Oppur no; ebbe la sorte che seppe o che volle acquistarsi.
D'altronde oramai la sua vita era conchiusa. Ne aveva egli tratto tutto
quello che poteva o sapeva. Per lui tutto era finito. La decrepitezza è
un prolungato tormento; è stato avventurato che la sorte volle
risparmiarglielo.

«Le fredde parole di Gian-Luigi mi facevano pena, e non sapevo pure come
ripigliarnelo, e non osavo, perchè allora ancor io sottostava a
quell'ascendente che la ricca di lui natura esercita sopra chi lo
accosti. Ma conoscevo allora per la prima volta con precisione quanto il
mio amico mancasse di cuore, e sentivo il mio invaso come da un gelo, e
ne provavo entro di me irritazione e dolore.

«Proseguimmo per alcuni passi, senza parlare e l'uno e l'altro.

«Nella campagna, silenziosa a quel momento, suonavano lamentosissimi gli
ululati del povero cane che piangeva sulla fossa del suo padrone.

«Non potei trattenermi dal dire a Gian-Luigi con manifesta allusione
alle sue parole ed alle sue condizioni:

«— Povera bestia! Odi come quel cane si lagna sconsolatamente. Egli
sente d'aver perduto il suo benefattore, egli piange la sua mancanza.

«Gian-Luigi m'interruppe vivamente:

«— Il suo è dunque un egoismo. Incapace di procurarsi la vita da sè,
rimpiange il pane perduto con quell'essere sepolto.

«— Ah no: diss'io: in quel dolore c'è anche l'affetto.....

«— Un affetto, ribattè egli seccamente, regolato dall'istinto e non
guidato dalla ragione.

«Io mi tacqui. Cominciai da quel momento ad esser chiaro della vera
natura di Gian-Luigi, e una profonda amarezza mi scese nell'anima.

«Camminammo in silenzio fino all'entrata del villaggio; colà si separò
da me con un brusco saluto, e volto a destra s'avviò di buon passo verso
la campagna.

«Stetti alcuni giorni senza vederlo. Finalmente me lo vidi comparire
innanzi mentre ero al pascolo, sotto i miei favoriti ontani. Aveva
l'aspetto più serio dell'usato e risoluto come d'uomo che ha deciso
oramai sulla sua sorte.

«Mi tese una mano e mi disse col simpatico accento della sua bella voce
vibrata ed armoniosa:

«— Addio, Maurilio, io parto; abbandono questo villaggio — per sempre —
e le più dolci memorie che io ne porti meco son quelle che ti
riguardano, e se a questi luoghi ed a questi tempi trascorsi tornerà il
mio pensiero, sarà per te soltanto, per trovarvi le traccie dei momenti
che abbiamo insieme passato.

«Mi parve commosso, se pure non fingeva, se pure non era la mia
commozione che mi faceva scorgere per errore la sua. Io mi sentii
stringere il cuore e la gola. Lo guardai con occhi meravigliati,
sgomenti, che di subito si riempirono di lagrime.

«— Tu parti! Potei dire soltanto. Per sempre?..... Gran Dio! Non ci
vedremo dunque più?

«Egli sorrise compassionevolmente.

«— Qui, no certo, disse; od almeno è difficile molto; ma ciò non
significa che non abbiamo ad incontrarci mai più. Verrai tu pure a
Torino, e là mi ci troverai tale e quale ora sono.

«Qual probabilità v'era allora per me, di venire a Torino? Nessuna. Mi
credevo condannato a vivere in quel villaggio tutta la mia vita, per
allontanarmene forse soltanto alcune volte ad accompagnare Menico nelle
sue gite alla città, così mattiniere che potevano dirsi notturne. Come
avrei potuto vedere ancora Gian-Luigi? Ritenni per sicuro che quello era
fra noi l'ultimo addio. Colla partenza di lui, mi parve da me si
dipartissero tutte le belle giovanili speranze, tutto quel mondo di
sogni e d'idee in cui mi piacevo cotanto far correre la mente; mi parve
rimanessi allora affatto solo sulla terra e venissi chiuso
inesorabilmente in quella esistenza di miseria, di abbiezione, di
ignoranza che aveva per cornice il fetido tugurio di Menico. Un impeto
irrefrenabile di dolore mi invase di presente; sciolsi con brusco atto
la mia mano dalle sue, e coprendomi la faccia scoppiai in pianto.

«Gian-Luigi tacque per un poco. Quando, già vergognoso di quello sfogo
infantile, rivolsi gli occhi verso di lui, lo vidi che mi guardava con
una certa compassionosa meraviglia che quasi mi produsse l'effetto d'uno
scherno, e sorpresi in lui quel suo disdegnoso crollar di spalle che ti
ho detto. Codesto mi rasciugò repentinamente le lagrime entro gli occhi.
Mi sentii freddo ad un tratto ancor io, e benchè avessi tuttavia il cuor
grosso, le mie sembianze poterono acconciarsi all'indifferenza.

«Egli sedette presso di me e mi raccontò come e perchè partisse. Il
medico aveva scritto nel suo testamento che gli eredi fossero obbligati
ad una annuale provvigione verso Gian-Luigi, fino a quattro anni dopo
che egli avesse preso la laurea in medicina; aveva lasciato inoltre al
suo protetto, per legato, tutti i suoi libri e stromenti della scienza
che voleva il giovane finisse di apprendere. L'obbligazione loro imposta
pareva un gravame intollerabile agli eredi, che se ne lamentavano come
di una matta ingiustizia. Gian-Luigi, sdegnoso di codesto, impaziente di
dover dipendere da quei tali, propose loro per transazione: gli
pagassero di subito una data somma, egli li esonererebbe da ogni obbligo
nell'avvenire, gli lasciassero prendere i libri e strumenti del legato,
ed egli con essi si allontanerebbe che non avrebbero mai più avuto il
menomo fastidio per fatto suo. La proposta fu volentierissimo accettata.

«— Ed ora, conchiudeva Gian-Luigi, io parto e vado ad affrontare
l'ignoto. Con quella somma avrò bene di che vivere un anno! In dodici
mesi quante cose possono succedere! Quante ne può compire una volontà
tenace!... Che farò io? Non lo so ancora. Forse continuerò a studiare la
medicina, forse no... come vedrò le circostanze, come sentirò l'interna
ispirazione dettarmi. Ma ho diciannove anni soltanto! Ho qualche cosa
entro questa fronte, e in questo petto. Voglio che gli uomini abbiano a
conoscermi ed inchinarmi, per Dio! L'umanità mi ha rigettato fin dalla
nascita... Me le imporrò colla forza di questo ingegno, colla potenza di
questo volere cui nulla può piegare.

«Si drizzò in piedi, brillante lo sguardo, animato nel volto, tumide
d'orgoglio le labbra; e voltosi dalla parte in cui al fondo al fondo,
nel vaporoso aere della campagna, si vedevano vagamente indicate le
ondulazioni della collina di Torino, tese la mano verso colà e pronunciò
con indicibile accento di energia, di agognamento, di avida bramosìa:

«— A noi due, o mondo della ricchezza; mondo dei piaceri, della
bellezza, dello sfarzo, dell'ambizione, della potenza, preparati ad
aprirmi il varco. Lo voglio. Ci riuscirò. Voglio la mia parte de' tuoi
tesori — e la mia parte ha da essere quella del leone. _Nominor leo!_

«Gian-Luigi partì. La brava e povera donna che gli aveva fatto da madre,
ne pianse lacrime di sangue. Egli le diede l'ultimo addio, incommosso,
fissando coll'occhio ardente quel punto lontano verso cui si dirigevano
i suoi passi; promise con accento di leggerezza, quasi d'impazienza le
avrebbe scritto, le avrebbe fatto sapere sue notizie, non l'avrebbe in
niun modo dimenticata, ma ben si vedeva che le erano parole a cui non
avrebbero tenuto dietro gli effetti.

«Fece pessima impressione in paese, ed anche in me il fatto che il
giovane, della somma ricevuta dagli eredi del medico, neppure la menoma
parte non offerisse a sollievo di quella donna ormai vecchia, che lo
aveva allevato, la quale, rimasta vedova, era caduta in una vera
miseria.

«Essa, la buona Margherita, non domandava nulla, non si lamentava di
nulla, non vedeva nulla che fosse menomamente da rimproverarsi nel suo
diletto Gian-Luigi; ella aveva tanta fiducia in lui, che credeva alle
sue fredde parole ed alle sue leggiere promesse. Accompagnammo il
giovane ella ed io soli un tratto sino al crocicchio in cui la via
comunale attraversava quella reale di X... per a Torino, dove la
Diligenza doveva prenderlo e portarselo seco alla capitale.

«Gian-Luigi aspettava con impaziente inquietudine questa Diligenza.
Quando essa sopraggiunse, ci salutò in fretta, strinse appena a me la
mano e staccatosi dalle braccia della Margherita, che si era gettata
perdutamente al suo collo, si arrampicò alla svelta sull'imperiale della
carrozza, e questa riprese la sua corsa pesante, avvolgendosi in dense
nuvole di polvere.

«La donna ed io stemmo là piantati a seguitar collo sguardo la
Diligenza; e quel crudele che con essa da noi si allontanava, mai non fu
che si volgesse pure una volta a darci un ultimo sguardo, a fare un
ultimo cenno di saluto.

«Seguitammo cogli occhi quel polveroso carrozzone, finchè lo potemmo
scorgere. Che cosa pensava, che soffriva essa la povera Margherita?
Confesso che io la dimenticai un istante, assorto nel mio particolar
sentimento, che a quel punto era una segreta invidia per quel felice il
quale andava a gettarsi nel vortice del mondo, vagheggiato ed abbellito
dalla nostra fantasia. Io pure mi sentiva nell'animo una certa ambizione
che mi pareva nobilissima — e forse era. Io pure orgogliosamente mi
dicevo, e mi dico, che sotto le ossa del cranio la natura mi ha posto
una forza da sopravanzare nel mondo, la forza del pensiero, una
ricchezza di fosforo cerebrale da accendersi, consumarsi, ma gettar luce
e brillare!.....

«Quando la Diligenza fu affatto fuor dell'arrivo dei nostri sguardi,
richiamò la mia attenzione verso la misera donna uno scoppio di
singhiozzi che ruppero dal suo petto. Finchè essa aveva visto
Gian-Luigi, finchè ancora aveva potuto vedere quel legno che seco lo
portava, il dolore della infelice si era contenuto, quasi la si era
fatta una pietosa illusione che la tremenda verità non fosse. Ma ora
tutto era sparito ai suoi occhi: ogni coraggio ed ogni forza
l'abbandonavano ad un tratto. Le lagrime che prima le colavano
silenziosamente giù delle guancie arrugate irruppero con violenza
irrefrenabile dai suoi occhi.

«— Me misera! Esclamò essa coll'accento straziante della disperazione.
Sola! sola! rimango sola!... E lo vedrò io ancora sulla terra?

«Si lasciò cadere sopra la sponda della stradicciuola che mena al
villaggio, e là, seduta, reclinò il capo sulle ginocchia, piangendo
amaramente.

«Io volli consolarla. Che la capitale non era in capo al mondo, le
dissi: che Gian-Luigi sarebbe tornato a vederla, che trattandosi della
ventura di lui, ella doveva rassegnarsi a non averlo più seco di
continuo.

«Ma essa, cui il dolore in quel punto faceva giustamente prevedere il
futuro, mi rispose crollando il capo:

«— No, no, Gian-Luigi non tornerà più a vedermi. Egli mi dimenticherà
del tutto..... forse mi ha già dimenticata fin d'adesso..... Non lo avrò
a chiudermi gli occhi quando morrò; e chi sa se potrò ancora vederlo più
sulla terra!

«Si tirò sugli occhi il fazzoletto di cotone onde si copriva il capo e
mi pregò la lasciassi stare colà; aver ella bisogno di essere sola, la
mia vista in quel momento esserle di pena. Mi allontanai e venni solo al
villaggio, stranamente commosso nell'animo. Invidiavo il mio compagno
d'essere partito per quella terra dei sogni, verso cui sì acceso pure si
volgeva il mio segreto desio; lo invidiavo ancora di più per essere egli
amato di quella guisa, come lo amava Margherita. Se io fossi stato amato
così oh certo non sarei partito, mi dicevo; ma aimè! nessuno mi
amava!...

«L'idea di fuggire dal villaggio, di correr sulle traccie di Gian-Luigi,
di affrontare ancor io l'incognita del destino mi venne allora
subitamente e per la prima volta; e bene spesso doveva tornarmi e sempre
più imperiosa, di poi. Ma come porla in esecuzione? Quali mezzi avevo? E
poi, se non l'affetto, il timore mi legava a quelli che mi avevano
allevato, ai quali divenuti vecchi ero oramai necessario. Non avevo
tanto coraggio da abbandonarli: mi pareva che la mano adunca della
Giovanna e lo staffile di Menico mi avrebbero sopraggiunto dapertutto.

«Passai un anno più tormentoso e più arrabbiato degli altri. Anche la
mia benigna visione pareva mi avesse abbandonato. In capo ad un anno fui
libero di me, ma in virtù d'una tremenda catastrofe.»



CAPITOLO XVII.


Maurilio sospese un istante la sua narrazione, esitò visibilmente, le
sue guancie pallide e smunte s'infuocarono ad un tratto di cupo rossore;
prese fra le sue le mani di Giovanni, e stringendogliele con forza,
curvandosi su di lui, riprese a dire con isforzo ed a voce sommessa:

— Poichè ti dico tutto in quest'ora di espansione dell'anima mia, ti
dirò pure cosa che ho con infinita cura nascosta a tutti quelli che
potei, ed a voi miei amici più studiosamente ancora che ad altri, e cui
potete accusarmi l'avervi nascosta. Ma tu, che mi ami più di tutti, tu
avrai compassione della mia vergogna, e perdonerai alla mia debolezza.

— Parla, parla: disse Giovanni con molto affetto, corrispondendo alla
stretta convulsa delle mani di Maurilio.

— Odimi adunque, esclamò questi, levando il capo ed agitandolo, come per
iscuoterne un peso che lo gravasse; e così continuò il suo racconto:

«Ti ho già detto e ripetuto che Menico e Giovanna erano le due creature
più avare di questo mondo. A me misuravano con tanta parsimonia il pane
che avevo continua compagna la fame; a se stessi rifiutavano ogni cosa
che passasse il necessario, ed anco questo riducevano ai più stretti
limiti che sia possibile immaginare; sola eccezione faceva Menico per
sè, quando si abbandonava all'ebbrezza. Una mattina di autunno Menico ne
tornava dalla città secondo l'usato, che codesto non aveva mai voluto
smettere di far egli stesso, per nulla fidandosi di me, quando sull'orlo
della strada trovò un bel mucchietto di funghi che parevano mangerecci
ed i più belli che fossero mai. Pareva che alcuno li avesse raccolti e
poscia abbandonati colà. Al vecchio avaro a cui piacevan di molto, parve
una buona ventura l'impadronirsene e farsene una corpacciata senza costo
di spesa. Li prese, e recatili seco a casa, la Giovanna li fece cuocere,
e se li mangiarono tutti con una ghiotta esultanza che nulla più. A me,
non occorre pur dirlo, non diedero nè offerirono neppure un briciolo di
tanta leccornia.

«Venuta la sera, se ne andarono a dormire che erano i più soddisfatti
che fossero sotto la cappa del cielo. Io mi arrampicai a mia volta sopra
il tavolato nella tettoia, che era definitivamente diventato mio
abituro, e sulla paglia degna del canile che ci avevo colà non tardai ad
addormentarmi. Avevo allora diciassette anni, lavoravo tutto il giorno
più forse che non permettessero le mie forze, onde non è a dire se il
mio sonno fosse profondo, duro e tenace.

«Quella notte certo alcun rumore dovette succedere nella stanza ove
dormivano i due vecchi; forse chiamarono aiuto: Menico si levò e venne
fino in sulla soglia per cercarne, e là di sicuro mi avrà chiamato colla
voce già arrangolata dalla morte: ma io non udii nulla.

«Mi svegliai al mattino e mi stupirono forte due cose: che il sole
battesse già sopra il fumaiuolo del tetto della casa, il che indicava
esser l'ora più tarda di quella in cui ero solito a levarmi, e che
Menico, come tutti gli altri giorni, non m'avesse fatto saltar giù al
primo romper dell'alba. Il cane di guardia mandava tratto tratto un
lamentoso ululato. Discesi in tutta fretta e quando fui nel cortile un
miserando spettacolo mi si offerse. Menico giaceva bocconi sulla soglia
della casa, il corpo mezzo fuori e mezzo dentro, immobile, le mani
contratte, livide, irrigidite; e il cane sdraiatosi presso alzava di
quando in quando il capo insù e guaiva dolorosamente come avevo udito
fare quello del medico sulla fossa del suo padrone.

«Accorsi di slancio verso il giacente, chiamandolo per nome. Non sapevo
che cosa dirmi di codesto, non avevo neppur travista tuttavia la
tremenda verità, ma le gambe mi tremavano. Mi chinai su di lui, sempre
chiamandolo e stupito non rispondesse, ne toccai le carni, erano fredde
d'un gelo che mi fece correre per le vene un brivido ripulsivo di
ribrezzo, feci a sollevarlo e lo trovai pesante come una massa di
piombo. Un alto spavento si impadronì di me; gettai un grido e lo
lasciai ricadere; il mio sguardo sgomento corse nell'interno della
stanzaccia; la Giovanna giaceva traverso il letto, livida ed immobile
ancor essa, riversa, le braccia ed il capo abbandonati, con certi occhi
spenti, immoti, ma spalancati che parevano fissarmi con minacciosa
insistenza. Gettai un altro grido, e fuggii di là tremante, smarrito,
dissennato, le chiome ritte per orrore sul capo. Mi fermarono
domandandomi che fosse, avvisati dal mio aspetto medesimo che alcuna
grave cosa era avvenuta. Io non sapeva che rispondere, non potevo che
dire: — Menico e Giovanna.... là.... là.... andate a vedere.

«Si accorse, in pochi minuti tutto il villaggio era colà, e sapeva che i
due vecchi erano morti repentinamente d'una inesplicabil morte. Ora
ciascuno voleva spiegarsela questa morte. Il caso aveva voluto che due
giorni prima Menico e Giovanna mi maltrattassero più ancora dell'usato;
ed io, che pensavo sempre più a fuggirmi di là, mi ero lasciato scappar
di bocca in presenza di qualcheduno le parole, che non sempre le cose
sarebbero andate di quella guisa e che avrei ben saputo un giorno o
l'altro sottrarmi a quella vita da galeotto. L'occhio morto della
Giovanna che mi aveva odiato e che io certo non amava, mi faceva paura;
non osavo entrare in quella stanza, e per quanto mi facessero e
dicessero, non lo volli mai; la mia agitazione, il mio turbamento in
faccia a quella morte inaspettata erano indicibili. L'idea mi era
venuta, che alcune volte, nei momenti di mio maggior dolore, io aveva
pur pensato alla mia liberazione per questo modo fatale e quasi con
desiderio; ora innanzi a questo fatto tremendo quel pensiero mi pareva
un delitto ed io doveva aver di certo sul volto l'impronta del rimorso.
Cominciai ad accorgermi che mi si guardava con sospetto, che le donne
susurravano piano fra di loro, accennando verso di me, che se ne
allontanavano con ribrezzo. Non capivo ancora; ma me ne sentivo
inquieto. Venne la giustizia. Esaminò, interrogò anche me — che risposi
il più impacciatamente e confusamente che fosse possibile. Il giudice
poco accorto e poco istrutto del suo dovere eziandio, non fece procedere
ad autopsia dei cadaveri nè ad altro; diede ordine i morti si
seppellissero, ed iniziò contro di me processo per omicidio.

«Tutto mi accusava: le parole che avevo detto, il mio contegno, lo
sgomento che provai all'udire la taccia appostami, l'antipatia stessa
che ispiravano altrui la mia condizione disprezzata, la mia indole
scontrosa, il mio umore superbo e vago di solitudine che mi faceva
fuggir tutti e rispondere con asprezza all'oltraggio. Tutti mi
credettero reo, da Don Venanzio in fuori, al quale protestai della mia
innocenza, ma non seppi dar ragione del fatto.

«La casa e le sostanze di Menico e di Giovanna cadevano in mano a certi
loro congiunti, i quali erano troppo lieti di succedere e di potersi
sbarazzare di me senza aggravio nessuno; e quindi erano i più furibondi
nell'accusarmi.

«Io fui arrestato, ammanettato e condotto in carcere a Torino. Quando
n'ero uscito, infante, era d'inverno, e mi recava sobbalzando il carro
d'un lattaio; ora, dopo diciasette anni, rientravo in questa città, di
sera, in una fosca giornata di autunno, sopra il carro d'un conduttore
di ghiaia su cui mi si era fatto salire, perchè l'emozione e la vergogna
mi avevan tolta ogni forza da poter camminare, scortato da due
carabinieri.

«Ero così abbattuto dell'animo che non sapevo guari come e se vivessi.
Quasi non avevo più coscienza di me; direi che non sentivo più
nell'interno l'anima mia. Solo un gran sentimento di vergogna mi
dominava. Nessuno mi conosceva in questa città a cui mi accostavo;
nessuno sapeva pur che esistessi fra quella gente in mezzo a cui
passavo; e parevami che sopra ogni parete di quelle case, sopra ogni
volto di quelle persone leggessi la mia condanna, il mio disprezzo.

«La notte era già scura quando giungemmo. I lampioni accesi mi parevano
macchie sanguigne nella tenebra notturna; sentivo un'aria soffocata come
sotto una volta bassa ed angusta; il rumore delle strade mi suonava
doloroso nel cervello, provai ciò che descrive Dante aver provato
nell'affacciarsi alla «valle dolorosa.» Il carro si fermò in una viuzza
stretta e scura; fui fatto discendere, mi si fece passare per una porta,
poi per diversi anditi e salire diverse scale; dinanzi e di dietro a me
mi veniva accompagnando il rumore fastidioso di chiavi agitate, di
serrature che si aprivano e si richiudevano ad ogni volta, di catenacci
che si toglievano e rimettevano con fracasso, di porte pesanti che
cigolavano sui loro cardini, schiudendo il passo, e battevano con cupo
rumore risserrandosi.

«Io andava guidato da un gruppo di persone che non sapevo quali, e
neppur quante fossero. Pensandoci poi mi venne ricordato che mi avevan
fatto fermare in una stanzuccia, innanzi ad un tavolino a cui sedeva un
uomo, che mi fu chiesto il mio nome cui non seppi nemmeno balbettare,
che i carabinieri avendo risposto per me, quando pronunziarono la parola
trovatello, quest'uomo seduto mi saettò in volto uno sguardo incisivo,
ironico, insultante, e pronunziò un'esclamazione che pareva dire: — Me
lo aspettavo; ecco un abitatore predestinato di questi luoghi; che
finalmente fui spinto in uno stanzone appena se illuminato da una
lucernetta appiccata in alto alla parete di faccia all'uscio e una voce
mi disse: — Guardate d'aggiustarvi lì dentro: per questa notte starete
senza pagliericcio che non abbiamo tempo da procurarvelo, ma alla bella
meglio, o qua o colà, fate di dormire.

«E la porta pesante si chiuse alle mie spalle con un lugubre suono.

«Io rimasi là dove m'avevano spinto, immobile, coi piedi piantati su
quel quadrello dove si trovavano. La lucernetta fumosa, con un lucignolo
che era un carbone, rischiarava a stento il locale. Vedevo delle forme
che non sapevo ben discernere a tutta prima, stese in linea ordinata
appiè delle due pareti laterali. Un'afa gravosa, piena di acri vapori e
di cattivi odori, qual può esser quella d'un luogo chiuso in cui gli
aliti impuri di troppa gente raccoltavi, mi serrava alla gola e mi
rendeva difficile e penoso il rifiato, a me che ero avvezzo alle pure
aure dell'aperta campagna. Un romore di voci rauche discorrenti con
accompagnatura di violente bestemmie sorgeva di qua e di là, e
frammischiatovi il russare profondo di qualche addormentato.

«Alcuni dei prigionieri all'udire aperto l'uscio s'erano levati a sedere
sullo strammazzo su cui giacevano ed avevano guardato curiosamente chi
fosse il nuovo compagno loro dato a quel punto.

«Ben mi era apparso che parole di scherno e di schifosa fratellanza,
oltraggiosi saluti di buona venuta mi accogliessero, ma la mia mente
confusa e smarrita non comprendeva bene. I più, squadratomi un poco,
s'eran tornati a risdraiare, non curandosi altrimenti dei fatti miei;
alcuni seguitavano a guardarmi con curiosa insistenza, ed io vedeva i
loro occhi accesi o grifagni a me rivolti splendere nello scuriccio di
quello stanzone d'una luce sinistra e maligna.

«Dopo alquanto tempo che io era colà, dato giù alquanto il tumulto che
aveva luogo nella mia testa, potei udire questo dialogo:

«— Gli è un poverino d'un piluccaborse per sicuro, quel cazzatello
intormentito: diceva una voce grossa e rauca non molto da me lontana.

«— Non ho mai visto quel muso lì, io che conosco dal primo all'ultimo
tutti quelli che lavorano a Torino, soggiungeva un'altra voce esile e
sottile che pareva di donna, eccetto che tratto tratto usciva in qualche
nota da basso profondo. Di certo quel ragazzo non ha mai posto piede
nella bettola di Pelone.

«— È vestito come un paesano del contado.

«— Sta a vedere che gli è un ladro di campagna.

«— Mi ha tutta l'aria d'un rimminchionito.

«— Bisognerà farlo cantare... A me, a me che gli vo torre il filo della
camicia.

«Così disse quel della voce esile e dirizzando poscia il capo verso di
me, fe' con esso un cenno di richiamo:

«— Ohei, martuffino, figliuolo d'una versiera, dà un po' retta qui.

«Io lo guardai: gli occhi piccoli, irrequieti, malignamente vivaci di
colui che mi parlava — un omicciattolo mingherlino, collo stampo di
tutti i vizi sulla faccia degradata e i bernoccoli di tutte le più
brutte passioni sul cranio raso di capelli — quegli occhi mi fecero
rabbrividire. Chinai lo sguardo innanzi al lume sinistro di quegli
occhietti e mi sentii tutto invaso da una penosa suggezione, da un
profondo timore, da un insuperabile ribrezzo.

«— Sei tu muto o scemo, caro il mio bamboccio da forca? Riprese quel
cotale. Vieni un po' qua che facciamo conoscenza, poichè siamo
alloggiati alla medesima osteria.

«Io nè mi mossi, nè feci motto.

«Egli allora si levò a sedere.

«— Oh oh! esclamò: gli è un sordo e muto, nato e sputato: ma sta a
vedere, Stracciaferro, che io fo il miracolo di guarirlo in un momento.

«L'omaccione della voce grossa e rauca si pose supino sul suo stramazzo,
colle mani intrecciate sorreggendosi di dietro la testa, e disse ridendo
sguaiatamente.

«— Vediamo un po' i tuoi miracoli, Graffigna.

«Quest'ultimo tornò a sdraiarsi, poscia strisciando come una serpe sul
pavimento ed allungandosi in modo straordinario delle membra, mi sparò
in uno stinco a tutta forza un calcio col suo piede armato d'un pesante
zoccolo di legno, munito di chiodi di ferro.

«Il dolore che ne provai fu più forte d'ogni altro sentimento, più forte
del mio orgoglio e della mia volontà. Diedi un grido, le gambe mi
mancarono sotto, e caddi per terra là dove mi trovavo. Credetti per
sicuro avere lo stinco spezzato. Le lagrime mi vennero agli occhi e non
potei avere più tanta forza in quel momento da ricacciarle indietro o da
nasconderle.

«L'omaccione sghignazzava a gola spalancata, come della più piacevole
facezia che avesse visto mai; l'acuto mio grido aveva svegliato qualche
dormente, il quale brontolava del sonno interrotto e mi mandava ai cento
mila diavoli: Graffigna esclamava in tono trionfante colla sua voce in
falsetto.

«— Ve', se l'ho saputo toccar nel debole!

«Quello scellerato, trascinandosi sempre per terra a guisa di rettile,
mi si venne accostando. Sentivo una paura ed un abborrimento da non
dire. Avrei dato non so che cosa per potermene allontanare. Provai ad
alzarmi, e il dolore non me lo consentì.

«— Là là: diss'egli: non muoverti, non agitarti, sta buono,
bell'amorino da galera. Questo non è altro che un piccolo ammonimento,
che quando Graffigna ci parla bisogna rispondere. L'hai capito eh?

«Mi pose una mano sull'avambraccio; e quel contatto mi fece fremere.

«— Non toccatemi...... lasciatemi stare: gridai con vero terrore
tirandomi in là più che potessi.

«Ed egli trattenendomi:

«— Sta buono che non ti voglio mica mangiare; se tu fossi un pezzo di
prosciutto... meno male!

«Mi cacciò impudentemente le mani addosso e mi palpò con isfacciato
cinismo.

«— Sei magro come un'acciuga. Che cosa faremo di te qui dentro? Sei
buono nè da questo nè da quello.

«Dirti il ribrezzo che provavo è impossibile, eppure stavo là
passivamente sotto lo schifoso toccare di quelle luride mani, incapace
com'ero diventato assolutamente di muovermi.

«— I birri, t'avranno frugato ben bene, continuava Graffigna, e non
t'avranno lasciato neppure la croce d'un centesimo, non è vero? vediamo
un po'. (E mi frugava con una destrezza insuperabile). Se lo dicevo!
Asciutto come un fiasco che è passato per le mani di Stracciaferro. E
tu, povero coso, non avrai saputo mettere in salvo tanto da pagarci la
buona venuta... E qui dentro, in un modo o nell'altro bisogna pagarla; e
se non hai denaro la pagherai colle opere... Questo te lo dico io.

«Ed egli mi diceva il vero pur troppo. Io divenni il servo di tutti que'
tristi e ad ogni più umiliante cosa, ad ogni loro capriccio mi
obbligarono con sevizie di tutta fatta, piacendosi di quando in quando a
tormentarmi per iniquo diletto da occupar loro la noia.

«Non ti dirò tutto quello che mi avvenisse in quella bolgia d'inferno.
Ti basti sapere che d'ogni fatta orrori io ne udii narrati e d'ogni
sorta sconcezze ne vidi; io cui la vita della campagna in mezzo alla
natura aveva almeno conservato sino allora incorrotto nella mia pudica
ignoranza.

«Credi pure: una delle prime riforme che occorrano nel nostro
ordinamento civile si è quest'essa delle carceri. L'imprigionamento
preventivo, in massima, può essere talvolta una solenne ingiustizia che
punisca crudelissimamente un innocente, com'era il mio caso; in fatto
poi, applicato com'esso è appo noi, è una scuola infame di corruzione e
di delitti per chi o è puro tuttavia, dopo un primo fallo altresì
potrebbe ancora esser facilmente ridotto alla buona strada.

«Pensa al mio caso ed alle mie condizioni, e non potrai a meno che
rabbrividire. Giovane appena di diciasette anni, mentre non avevo ancora
nemmanco in me l'idea del delitto, e l'uomo colpito dalle leggi mi
appariva come un mostro quasi fuori della natura, ero gettato in mezzo
ad una frotta di scellerati che dei loro delitti si compiacevano e
menavano vanto, ed avevano dai compagni misurata la stima appunto dalla
audacia e dalla grandezza della colpa commessa.

«A ritenere dal male giova moltissimo, forse più che ogni altra cosa, il
pensiero ch'esso sia ripugnante alla nostra natura, che il delitto non
sia il retaggio che di certi esseri predestinati da noi ben differenti,
che fra noi ed i colpevoli corra una gran distanza difficilissima a
superarsi. Più state lontani dallo spettacolo e dalla conoscenza del
male, e più sarà in voi radicata questa salutare idea. Non crederete
possibile il far male, perchè non avrete l'abitudine di pensarci e
conserverete per esso tutto l'orrore che vi hanno inspirato od avete da
voi medesimi concepito. Ma prendete un povero diavolo cui la giovinezza
faccia più impressionabile alle cose circostanti e cacciatelo in quella
trista atmosfera di scelleratezze; dapprima il suo orrore sarà cresciuto
a dismisura, e soffrirà moralmente, come parola umana non può esprimere;
poscia, del pari che il corpo ai patimenti ed alle intemperie fisiche,
la sua anima s'incallirà, per così dire, a poco a poco a quello
sciagurato ambiente del male; la mostruosità del delitto, che gli pareva
impossibile ad allignare nel suo animo, finirà per apparirgli la cosa
più naturale del mondo e se ne sentirà entro se stesso i germi; se
quell'infelice condizione perduri, giungerà a credere portato della
natura umana il delitto, stoltezza o pregiudizio l'onestà e la virtù.

«Codesto press'a poco provai io stesso, e se non caddi fino a
quest'ultimo grado, lo debbo ed al buon don Venanzio, che tutto
s'adoperò per ottenere la mia liberazione, e più ancora all'intervento
pietoso del mio buono spirito protettore.

«I due principali in quella congrega di scellerati erano i due che ho
già nominati: Graffigna e Stracciaferro. Erano essi che più mi
tormentavano e più mi tenevano seco. M'inspiravano odio e paura: il
primo peggio che il secondo, quantunque Stracciaferro fosse il più
violento e in apparenza anche il più feroce. Ma non so quale ignoto
sentimento, che anche oggidì non so come spiegare, mi faceva desioso di
conoscere, di esaminare quella rozza, selvaggia, barbara natura.

«Un vincolo fortissimo di antica complicità nei delitti si vedeva che
legava questi due uomini in un'infame amicizia; ma essi lo
dissimulavano. Graffigna, che era quello dei due il quale aveva la
parola sciolta, raccontava ai compagni, che ammiravano, i fasti
sciagurati della loro vita; e mentre l'uditorio applaudiva,
Stracciaferro, giacendo quasi sempre disteso nella sua lenta mole, si
contentava di sorridere con una specie di orgoglio bestiale.

«Fra tutti quei delitti ce n'era uno che Stracciaferro non voleva udire
ricordato. Graffigna aveva fatto cenno di esso una volta, e il suo
complice, divenuto pallido come un cencio, esclamò con ira insieme e
quasi spavento.

«— No, no, non quello, non quello.

«Bastava codesto perchè grande fosse appunto in tutti la curiosità di
saperlo, e ti confesso che ancor io partecipava di questa malsana
curiosità.

«Eravamo in principio di novembre, il giorno tristissimo dei morti. Da
qualche giorno Stracciaferro era tristo, cupo, taciturno; Graffigna
sorrideva e crollava le spalle guardandolo con molta compassione. Quando
s'interrogava Stracciaferro che cosa avesse, egli non rispondeva che
mediante un grugnito con cui voleva dire: lasciatemi tranquillo; quando
se ne chiedeva a Graffigna, egli diceva sottovoce, perchè il suo
complice non udisse: — Siamo ne' suoi giorni neri; parecchi anni sono a
questi dì ci capitò quel certo affare ch'ei non vuol mai gli si ricordi,
e il pover uomo ha la debolezza di sentire qualche cosa a rosicchiarlo
nello stomaco.

«La notte dei morti, io che dormiva non lontano da lui, udii
Stracciaferro gemere, lamentarsi nel sonno, lo vidi agitarsi e ad un
punto levarsi di scatto a sedere sul giaciglio come desto improvviso,
esclamando:

«— Ah! la Gegia! la Gegia!

«Tutto taceva, eccetto il profondo russare di alcuni addormentati; il
lumicino appiccato alla parete mandava una fioca luce nell'androne; a
quello incerto chiarore mi parve scorgere livide per paura le guancie di
quell'omaccione ed irte sulla sua testa le chiome. Stette egli un poco
così, quasi smemorato, guardando attorno con occhi sbarrati, poi si
passò la mano sulla fronte due o tre volte, come per cancellarne un
tenace pensiero, e gettando un profondo sospiro tornò a sdraiarsi.

«Il domattina Stracciaferro era pallido ed aveva ancora contratti i
lineamenti. Quasi non disse verbo di tutto il giorno. Mi guardai bene
dal lasciarmi sfuggire un sol motto che potesse fargli supporre aver io
visto il suo turbamento notturno.

«Graffigna cercò motteggiarlo; ma, senza neppur disserrare le labbra,
Stracciaferro lo guardò di tal guisa che quell'altro non ebbe più ardire
di aggiunger parola. Verso sera alcuni dei prigionieri avendo cominciato
a cantare, secondo il solito, una delle luride loro canzonaccie,
Stracciaferro con voce tonante impose loro silenzio, e tutti si
tacquero, tanto era il predominio che gli avevano dato la sua
superiorità di forza muscolare e di colpe.

«— Non c'è che un modo per addomesticare quest'orso: disse Graffigna
ristrettosi cogli altri prigionieri a consiglio; ed è di ubbriacarlo
d'acquavite. Il carceriere P....., se noi gli lasciamo scorrere qualche
_bianchetto_, ci fornirà una famosa _toppetta di branda_, e con ciò noi
otterremo l'intento.

«Così fu fatto. Quando si ebbe l'acquarzente, dapprima Stracciaferro
rifiutò di bere; poi cedendo ad un tratto alle sollecitazioni di
Graffigna, con un moto brusco e quasi rapace afferrò la fiaschetta e
recatala alle labbra, ne tracannò giù come se fosse acqua di fonte. Di
botto i suoi occhi brillarono, un cupo rossore salì ai pomelli delle sue
guancie, e il petto largo e potente gli si sollevò in un respiro ampio e
profondo.

«— Neh, che così la va meglio? Gli disse, con tono insinuante
Graffigna.

«— Sì, la va meglio. Questo è il farmaco per ogni melanconia.

«E rimettendosi il fiasco alla bocca non lo trasse giù più finchè non
l'ebbe vuotato del tutto. Allora guardò intorno roteando gli occhi, con
aspetto tra scemo e tra stupito; poi ruppe in una gran risata,
scaraventò contro la parete di prospetto la bottiglia vuota che ne andò
in mille frantumi, e cadde indietro lungo e disteso sullo strammazzo
dov'era seduto, come fulminato.

«Alcuni s'appressarono quasi per soccorrerlo.

«— Lasciatelo, lasciatelo: disse Graffigna. E' fa sempre così; ora sta
un poco a covarsi quel boccone di sbornia, e poi salterà su collo
scilinguagnolo sciolto che lo udrete a contare vita e miracoli.

«Avvenne in questo modo appunto. Stracciaferro tornò a sedere sul suo
pagliericcio. Aveva la faccia di un rosso cupo, color di mattone, gli
occhi infiammati, le labbra turgide, allividite; pareva un infermo di
trasporto cerebrale nel delirio della febbre. Tese la mano a Graffigna,
e questi avendogli data la sua, glie la strinse con tal forza che il
mingherlino fece una smorfia orribile e gettò un grido ed una bestemmia.

«— Alla croce di Dio, pendaglio da forca, tu mi stroppii.

«— Grazie, Graffigna: diceva Stracciaferro con una concitazione
straordinaria: grazie! Sì questo mi fa bene.... forse mi uccide, ma che
importa?... Questo mi guarisce dalla mia sciocca debolezza.

«Guardò intorno entro il viso dei suoi ascoltatori, un per uno, come per
vedere se alcuno volesse contraddirlo.

«— Sì, sciocca debolezza: ripetè insistendo. Sono un uomo, e un fiero
uomo in tutto, me ne vanto; ma in una cosa sola sono un bambino, sono
una femminetta. Lo credereste? In questi giorni ho qui dentro qualche
cosa che mi rode, che mi leva ogni forza, che non mi lascia dormire.....
Ha da dirsi rimorso?.... Chiamatelo come volete.... È un maledetto
tormento, ve lo assicuro.... Sono già diciasette anni che a questa
stagione soffro di codesto male. Che cosa non darei perchè non venisse
mai il mese di novembre, e sopratutto il giorno dei morti! Ne ho fatte
d'ogni colore, parecchi ho visto morire sotto i miei colpi. Nè il sangue
mi spaventa, nè il rantolo dell'agonia d'un uomo. Se penso a questo od a
quello che ho mandato all'altro mondo, non mi fa nè caldo, nè freddo,
non perdo l'appetito e la notte non dormo meno saporitamente per ciò; e
invece quando il pensiero mi viene d'una donna, d'una debole donna,
giovane e povera, ecco che gli è come se la vedessi — proprio lei —
sorgere, e starmi dinanzi, e tendere verso di me le sue bianche braccia
convulse a strapparmi dalle mani suo figlio, e vedo, come allora, le
chiome scarmigliate, il nudo seno e gli occhi furenti...... Chi ha visto
mai una madre che difenda suo figlio? Una leonessa non può essere più
fiera.... L'ho sognata questa notte. Mi si avventava incontro come
allora con morsi e graffiature; mi vomitava improperii e maledizioni;
invano la respingevo; mi si attaccava con unghie di ferro, e il tempo
stringeva; avevo promesso, avevo già preso parte del denaro, aspettavo
di averne il resto; Graffigna mi sollecitava; Graffigna mi aveva fatto
bere come stassera; io gridava alla donna: lasciami andare o succederà
qualche precipizio; ella più ostinata che mai gridava: rendimi mio
figlio, gridava accorruomo. Era notte; mi ricordo che le sue grida acute
risuonavano pel silenzio di quella città in cui ero straniero come i
rintocchi d'una campana a stormo. La gente l'avrebbe udita di sicuro.
Sarebbero accorsi; a momenti potevano esser lì. Come salvarmi? Non ero
pratico di Milano..... poichè gli è colà che eravamo.... fa presto, mi
diceva Graffigna, il quale mi tolse il bambino di mano; fa presto.....
Ma come? Pari ad un serpente la Gegia mi si avvinghiava intorno.... In
che modo avvenne che mi trovassi in mano un coltello? Fu il demonio che
me lo cacciò fra le dita, o fosti tu, Graffigna.... Bisognava
fuggire.... Quel seno bianco era lì davanti a me. Gli piantai dentro la
lama; il sangue mi zampillò caldo nel viso, lo vidi colar rosso rosso su
quelle carni; la Gegia agitò le braccia, rantolò pur ripetendo ancora
quelle parole che mi rimasero stampate come un marchio di fuoco nel
cervello: rendimi mio figlio; e cadde! Graffigna mi afferrò, mi trasse
con sè; fuggimmo portando via la preda — quell'infelice bambino....
Ebbene questa notte l'ho sognata tal quale. Boccheggiante nel suo
sangue, quella misera donna venne ancora a ripetermi: rendimi mio
figlio!

«Curvò il capo e si tacque. Graffigna prese egli a dire, con quella sua
voce in falsetto che mi parve allora più acre e stonata che mai:

«— Fu la cosa più necessaria del mondo, e non si poteva fare
altrimenti. Un cotale — gli è un signore di qui, e potrei anche dirne il
nome, se non fossi un uomo prudente — un cotale adunque, con cui avevo
per altri precedenti affari piuttosto strette relazioni, mi dice un bel
giorno, sono appunto diciasette anni: «— Mio caro Graffigna, ho bisogno
che tu mi procuri un bambino maschio che abbia circa due anni di età, di
cui padre e madre non si dieno più pensiero e non cerchino di saper più
nulla mai; ho bisogno che nessuno al mondo sappia mai che io t'abbia
data questa commissione e che tu l'hai eseguita. Se tu fai a modo avrai
due mila lire.» Cospettone! Capirete anche voi che due mila lire non
sono una manata di giuggiole. State tranquillo, messer Na... (Qui
Graffigna s'interruppe e non disse intiero il nome). State tranquillo,
insomma, gli dissi (così ripigliò) che la cosa è bella e fatta. Sapevo
che Stracciaferro era in relazione con una tale che aveva dato alla luce
un bambino, e pensai tosto che quello era il fatto nostro. Cercai subito
di lui e gli contai la faccenda. Questo bravo uomo dapprima aveva degli
scrupoli; ma poi all'udire delle due migliaia di lire cominciò a piegar
l'orecchio. C'erano però due difficoltà. Quella donna s'era traslocata a
Milano per seguitarvi una signora al cui servizio la si trovava, e
quantunque non fosse più in quella casa, aveva però continuato a far
dimora colà. Inoltre il bambino di lei non aveva che pochi mesi e non
era ancora slattato. Ma io sono fatto per isciogliere le difficoltà. La
prima era anzi un vantaggio. Avrei persuaso il nostro mandante come
fosse molto meglio per la segretezza della cosa andare a prendere il
fantoccio lontano, e che occorreva soltanto per la spesa maggiore un
aumento della somma di compenso: quanto all'età, qualche mese più,
qualche mese meno, pensavo di potergliela accoccare lo stesso a chi ci
dava la commissione. E infatti quel signore fu lieto molto della mia
proposta di prendere il bambino in una città lontana, e crebbe sino alle
tre migliaia di lire, cotanto gl'interessava la cosa. Partimmo e andammo
dritto da quella donna, sperando che spiegandole la cosa, ella si
sarebbe acconciata volontieri per un cinquecento franchi a lasciarci il
marmocchio, che non erale altro che un peso. Sì, va a far capire la
ragione ad una testa matta di donna che si incoccia a dir no! Nè
preghiere, nè minaccie ci valsero. Avevamo già intascato un migliaio di
lire, e non è gente del nostro calibro che manca alla parola. Dissi
allora a Stracciaferro di arraffare il naccherino e filare. Fu allora
che successe il casa del diavolo. Il bambino fu portato via, e la donna
andò all'inferno.....

«— Taci: urlò Stracciaferro: non parlar male di lei..... Povera Gegia!
Povero bambino!.... Oh! che ne sarà stato di lui?

«— Peuh! Questo non era più affar nostro. Consegnato il marmocchio e
presi i danari, che ne importava del resto?

«— A te! riprendeva Stracciaferro; ma io!... quello era mio figlio!

«Non puoi credere l'impressione che quel racconto fece su di me. Erano
diciasette anni che quel delitto era successo. Quel bambino aveva dunque
press'a poco la mia età; e mi domandavo, come faceva il feroce mio
compagno di carcere, che cosa mai poteva essere avvenuto di lui, che
vita, che sorte fossero le sue. Figliolo d'un tal padre! Non era ella
una disgrazia peggiore che quella di non aver padre nessuno? Ma almeno
egli non sapeva questa sua disavventura, e l'uomo che aveva fattolo
rubare alle carezze della madre gli aveva forse creata una esistenza
onorata e tranquilla. Pensavo a quella povera madre, e pareva anche a me
udire le ultime parole arrangolate, pronunziate dalla morente: _rendimi
mio figlio!_

«E di botto mi veniva alla mente il pensiero di quell'aerea forma che mi
appariva di quando in quando, e ch'io m'era avvezzo a chiamar mia madre.
Ella pure forse era stata da me disgiunta; e come? e chi sa con quanto
dolore?

«Quegli che più di proposito aveva assunto l'impresa di volgermi
decisivamente al male, era Graffigna. Si piaceva ad istillarmi ogni
sorta di infami insegnamenti: come si concepiscono, si meditano, si
preparano, si compiono i delitti. Era maestro in quest'arte sciagurata.
Niuno meglio di lui sapeva far nascere le occasioni da un lato e fare
sparir gl'indizi del fatto dall'altro. Aveva ridotto la cosa ad un
giuoco di combinazioni che presentava la sua attrattiva come ogni lotta
in cui l'attività e l'acutezza della mente s'impiegano più che le forze
del corpo.

«A me poi, col serrato argomentare d'una logica inesorabile, voleva
persuadere che ad ogni costo io doveva essere e sarei stato uno dei
loro. Secondo lui, tutti gli uomini nascevano colle medesime
disposizioni press'a poco; a gettarli di di qua o di là di quella linea
ideale che separa nel mondo quelli che si chiamano galantuomini da
quelli che si chiamano furfanti e che sono perseguitati dal codice
penale, non è altro che il particolare presentarsi delle circostanze; in
una sola parola, il caso. Per me questo giudice supremo aveva già
pronunziato irrevocabilmente, ed avevo da appartenere di necessità alla
schiera dei birbanti. Fossi non fossi reo di quel primo delitto, non
montava nulla. Avevo assaggiato del carcere, e questo bastava per
imprimermi il carattere indelebile d'individuo pericoloso alla società e
condannato al bando dai cosidetti onesti. Uscito di là non avrei trovato
più nè una mano che mi si tendesse, nè un pezzo di pane in compenso del
mio lavoro; la sedicente virtù mi avrebbe chiuso la porta in faccia e
lasciatomi dappertutto sul selciato a morir di fame, avrei dovuto
riparare ad ogni modo nelle file dei reietti, e tanto valeva che di
subito m'imbrancassi con loro. Ero povero, solo al mondo e colla nota di
bastardo. La sorte mi aveva gettato in mezzo al genere umano
precisamente apposta per accrescere d'una recluta l'esercito dei ribelli
alla tirannia sociale: quello era il mio destino; uomo nessuno si può
sottrarre al suo destino, ed io, avessi fatto qualunque cosa, avrei
dovuto pur sempre soggiacere ai decreti di esso.

«Le parole di quell'uomo mi confondevano la mente; sentivo con terrore
in me l'impotenza di rispondere alle sue ragioni, di respingere
l'influsso che m'invadeva del suo dire. Delle volte mi nasceva la
tentazione di esclamare: ebben sì, sarò dei vostri; e tenuissimo era
l'ostacolo di ripugnanza interiore che tuttavia me ne tratteneva. Spesso
mi sentivo agitato come da una battaglia che si combattesse nell'animo
mio: poi ad un tratto ero lasso e fastidito, e parevami che, presa una
volta la decisione di essere ciò che erano tutti coloro che mi
attorniavano, sarei stato più tranquillo. Anche la ingiustizia del
trattamento che soffrivo, io innocente, mi destava talora dei veri
parossismi di sdegno. Provavo un odio accanito contro chi mi aveva
procurato codesto immeritato supplizio; e Graffigna mi apprendeva che
questo cotale era tutta la società, era l'ordinamento delle cose fatto
apposta per rassicurare tutti quelli che possedevano e che si chiamavano
onesti, ed opprimere coloro che non avevano nulla e che i primi avevano
battezzato per mariuoli.

«Te lo confesso schiettamente: stavo per cedere. Mi sentivo male. Il
passare così ad un tratto dalla vita aperta dei campi all'aria impura di
quel luogo chiuso dove si respirava in tanti: la passione stessa della
mia anima combattuta, la rabbia, il dolore, la vergogna avevano scosso
la mia salute già cagionevole fin dall'infanzia. Da più giorni mi
ricorreva periodicamente una febbre che ad ogni volta si faceva più
forte. Non dicevo nulla ma mi sentivo consumare la vita. Non potevo
mangiar più neppure un boccone; avevo una sete inestinguibile e non
avrei fatto che bere. I miei compagni che mangiavano la mia porzione si
guardavan bene dal dirmi ammalato ai custodi: io nè voleva, nè osava
parlare; nè pure ci pensavo. Quando l'accesso mi prendeva, avevo delle
trafitture qui nel capo che mi pareva mi piantassero delle sottili lame
arroventate traverso l'osso del cranio ed alle tempia a penetrarmi entro
il cervello. Delle cose che mi attorniavano e di me stesso e del mio
stato, avevo e non avevo coscienza. Le impressioni perduravano, ma non
erano più esatte. I rumori e la vista degli oggetti a volta a volta mi
tornavano velati, come lontani, come traverso ad una nebbia, oppure mi
rispiccavano più vivi, più forti, destandomi una sensibilità quasi
dolorosa. Perdevo in certi momenti la idea del tempo; tutto mi si
confondeva in un tratto il mio passato a farmisi presente, e vivere in
un attimo una serie d'anni; poscia quella confusione svaniva a lasciar
sorgere più netta l'idea dello stato in cui mi trovavo; ed allora mi
sentivo veramente a soffrire.

«In uno di questi accessi tutti i discorsi tenutimi da Graffigna mi
sfilarono innanzi come incarnati in certe figure di persone che mi
sembrava mi sorridessero, mi ammiccassero, mi chiamassero a sè passando.
Ciascuno aveva la sua fisionomia propria, e mi guardavano molto
onestamente, con aria d'interesse e con faccia d'amici. Li salutavo
quasi con affezione, e siccome essi parevano invitarmi ad andar con essi
loro, io mi drizzai sul mio giaciglio, pronto a seguirli e recarmi dal
demonio tentatore a dirgli: sono cosa vostra.

«Ma ecco, di colpo, appena levatomi a sedere, tutta quella fantasmagoria
sparire. D'improvviso io mi sentii libero il capo e chiara la mente;
parvemi che un fresco alito mi ventasse sulla fronte a calmare il
tumulto del mio sangue: provai un senso subitaneo di sollievo e di
benessere; sentii che riprendevo per l'affatto il possesso della mia
volontà e della mia intelligenza; mi trovai — te lo assicuro — nello
stato medesimo di lucidità in cui sono al presente.

«Anche allora era sull'imbrunire. Il lume non era ancora stato acceso ed
un'oscurità quasi piena ottenebrava il camerone. Innanzi a me, dritta ai
piedi del mio pagliericcio, diffondendo intorno a sè una specie di
debolissimo chiarore, stava quella forma incorporea di donna, stava lo
spirito che da qualche tempo già non mi era più apparso. Benchè sempre
incerte ne vedessi le sembianze, parvemi tuttavia che in esse fossevi
una espressione di mestizia e di rimprovero. Io tesi le mani verso di
lei e mandai una esclamazione. Ella si chinò allora verso di me;
sembrommi che qualche parola pronunziasse, ch'io pure non potei
afferrare; si volse alla parte dov'erano nell'ombra Graffigna e
Stracciaferro e scosse la testa e fece un atto imperiosamente negativo
colle mani, come per dirmi a loro non m'accostassi; poi si pose la
destra sul petto, quasi volendo indicarmi, son io che te lo comando, io
che te ne prego, e disparve.

«Parvemi che il buio della stanza si facesse maggiore. Fui per chiedere
ai miei vicini se nulla avessero visto; ma poi questa mi parve quasi una
profanazione e mi tacqui. Mi lasciai ricadere sul mio giaciglio, tutto
riconfortato dell'anima. Questa benefica apparizione aveva fugate quelle
perniciose della febbre: i sofismi di Graffigna erano vinti dalla sola
presenza manifestatasi del mio buono spirito. Stetti più cheto, con una
nuova tranquillità quale non avevo più da tempo gustata, e poco stante
mi addormentai.

«Il domani ecco aprirsi la porta del camerone, ed il custode chiamarmi
per nome.

«— Venite fuori, che c'è gente che vuol parlarvi.

«Appena potevo reggermi in piedi. Mi trascinai a stento dietro il
carceriere fino in una stanza a piano terreno.

«Colà Don Venanzio commosso mi tendeva le braccia e sclamava colle
lagrime agli occhi:

«— Maurilio, tu sei libero.

«Gettai un grido di gioia e l'emozione fu tanta che per la debolezza non
potendovi reggere, caddi svenuto nelle braccia del buon sacerdote.

«Don Venanzio non mi aveva dimenticato. Persuaso che io era vittima d'un
errore, non aveva avuto pace più finchè non l'avesse visto riparato. A
Torino egli conosceva una famiglia potente..... (Qui Maurilio esitò un
momentino.) La famiglia Baldissero.

— Quella a cui appartiene il tracotante che insultò Benda? Domandò
Selva.

— Quella stessa: rispose Maurilio. Al marchese, capo di questa famiglia,
ricorse Don Venanzio, ed ottenne che sollecitamente si mandasse a
procedere all'esame dei cadaveri di Menico e di Giovanna, che se ne
scoprisse la cagion vera della morte, e che si dichiarasse non esser
luogo a procedimento contro di me. Il buon prete aveva voluto recarsi
egli stesso di persona a darmi la notizia della mia liberazione ed
accompagnarmi fuor della carcere.

«Ma la infermità che mi aveva assalito mi obbligò a passare dalla
prigione all'ospedale. Don Venanzio quando mi ebbe visto per sua cura
allogato in un letto dell'ospizio X...., raccomandatomi con ogni premura
alle suore di carità che pietosamente servivano i malati, se ne partì di
nuovo pel suo villaggio, facendomi la promessa, che in realtà mantenne,
di venirmi a vedere di sovente.

«Parecchi giorni rimasi senza cognizione; quando risensai mi sentivo una
gran fiacchezza addosso, precisamente come allorchè incominciò la
guarigione da quell'altra uguale malattia che sostenni qui dopo che tu
mi avesti raccolto e dato ricetto. Ero in un lungo camerone a pareti
tutte bianche; due file di letti nella direzione della lunghezza si
schieravano in faccia l'una all'altra. Tutti questi letti erano
similissimi, incortinati intorno d'una stoffa di cotone a righe bianche
e bleu, con una coperta uguale: a capoletto di ciascuno di essi era
appesa una lastra con suvvi la polizza che diceva il numero del letto,
l'età, le condizioni, la malattia di chi vi giaceva. Non avvezzo sino
allora che allo strame del soppalco di Menico ed al pagliericcio del
carcere, io trovava quel materasso su cui ero allora disteso il più
soffice del mondo; quella di sentirmi posare sulle membra un lenzuolo
pulito mi pareva la dolcezza maggiore che avessi provato mai.

«Mentre stavo così meco assorto a gustare quel soddisfacimento tutto
materiale, e non avevo pensiero fatto, ecco dal letto che m'era più
vicino alla mia destra uscire un gemito dolorosissimo fatto per
istraziare il cuore anche al più insensibile uomo del mondo.

«— Oimè! Oimè! Diceva una voce d'uomo faticosamente: oh quanto soffro!

«Volevo rivolgermi a guardare questo infelice che si lamentava, e la
debolezza non mi consentiva moto nessuno. Il respiro affannoso del
soffrente, interrotto tratto tratto da un'esclamazione di profondo
dolore, da un lagno di spasimo incomportabile, mi faceva una pena da non
potersi dire.

«— Da bere! Si mise poscia a domandare con quel po' di voce che gli
rimaneva, onde appena era se poteva farsi udire fino da me: da bere!...
un po' d'acqua, una goccia d'acqua per carità.

«Nessuno degl'inservienti poteva udirlo: io guardava intorno e non
vedevo anima viva che fosse in caso da accorrere; le due lunghe file di
letti soltanto, dai quali od uscivano gemiti o un silenzio di tomba.
Facendo uno sforzo con tutto quel pochissimo vigore che mi restava,
giunsi a volgere il capo verso quel povero tormentato, e lo vidi. Era un
uomo sul mezzo della vita, con una folta ispida barba sul volto
cresciutagli durante la malattia, le guancie incavate, giallo di colore,
i pomelli sporgenti, le occhiaie infossate e al fondo le pupille accese
d'un luciore di febbre.

«— Da bere, da bere: seguitava a dire il misero colla manchevol voce,
ma con una specie d'irritazione nell'accento: da bere, un po' d'acqua
per amor di Dio!... E non ci sarà un cane che mi dia una goccia... e mi
lascieranno crepare senza pur darmi una stilla d'acqua!...

«Come avrei voluto potere saltar giù e andargliene a ministrare! Ma mi
sentivo inchiodato nel letto del pari e forse più ancora che quegli non
fosse; e ad un tratto mi assalì il pensiero che se ancor io avessi avuto
quel tormento della sete non avrei potuto levarmelo, e nessuno sarebbe
venuto neppure in mio soccorso. Bastò questo pensiero perchè tosto mi
paresse davvero già esserne assalito ancor io. Volli chiamare e mi mancò
la voce: mi parve che un'altra voce mi pronunziasse entro la testa: «—
qui ci lascieranno crepare senza darci neanche una stilla d'acqua.»

«Intanto guardavo sempre quell'uomo, ed egli guardava me. Quegli occhi
lucenti cupamente in mezzo a quel viso giallo di cadavere mi facevano
paura: e non potevo distogliere da essi i miei quasi affascinati.

«Egli si lamentava sempre. Ad un punto cessò di fissar me per volgere il
suo sguardo al tavolino verso il tazzone di terra in cui c'era la
pozione da bersi. L'intensità del desiderio che c'era in quello sguardo,
l'agonìa di arrivare a quella bibita, il tormento di non poterlo, erano
indescrivibili. Vidi agitarsi lievemente la coltre sopra il petto di
quell'infelice, e poi una mano scarna uscirne fuori a rilento,
protendersi verso quell'agognata tazza, allungarsi, allungarsi, mentre
quello sguardo brillava sempre più e più di desiderio. Già la mano era
per arrivarvi; il corpo s'era stentatamente voltato ancor esso ad
assecondare quel movimento; io seguiva con infinito interesse
quell'atto, parevami che a vedere quel dolorante afferrare la tazza e
potersi saziare la sete, ne avrei provato grandissimo sollievo ancor
io... Ma quando già era per toccare la sospirata meta, quella povera
mano di botto ricadde; un sospiro o meglio un gemito sfuggì da quel
petto affranto; il capo del giacente rimase più abbandonato sul
guanciale, gli occhi si chiusero ed un'immobilità di morte gli tenne
tutte le membra. Lo credetti estinto. Quella faccia cadaverica esprimeva
nella contrazione de' suoi lineamenti una rabbia profonda: la mano
giaceva sulla sponda del letto, pendente all'infuori; era una rozza mano
di un rozzo uomo della plebe; ma ora la pelle villosa e bruna si piegava
sulle ossa rugosamente, in modo che ogni falange, ogni tendine, ogni
vena ne spiccava al di sotto con brusco risalto. Pensai che quella mano
un tempo era di certo forte da sollevare ogni peso, ed ora non poteva
nemmanco prendere una tazza d'acqua; così era quel povero uomo ridotto
dalla malattia!

«Dopo un tempo che mi parve abbastanza lungo, il mio vicino risensò e si
rifece da capo a lamentarsi, ma più fiocamente, e a domandar da bere, ma
con appena intelligibili parole.

«E così durò lo spasimo di quell'infelice, senza che niuno venisse in
suo soccorso, finchè il momento non giunse della visita medica.

«Io, che non avevo mai visto ospedale, nè uditone parlare, quasi mi
spaventai quando vidi quella frotta d'uomini vestiti di nero,
accompagnati da una monaca, che s'avanzavano pell'androne, si fermavano
a tutti i letti, ora un po' più, ora un po' meno, ma non oltre i dieci
minuti mai, borbottavano alcune parole fra di loro e passavano.

«Era il medico capo con dietro a sè gli allievi del corso. Prima
d'arrivare al mio dovevano incontrare il letto di quel mio vicino di
destra, e li vidi, come altrove, fermarvisi. Il professore, che
camminava primo, s'inoltrò fino all'altezza della testa del giacente;
gli allievi si aggrupparono a' pie del letto, e senza riguardi, con
brusca strappata, tirarono via le cortine per poter veder bene tutti la
faccia del malato. Notai che alcuni fra essi chiaccheravano fra di loro,
parevano di tutt'altro occupati che dello spettacolo che avevano innanzi
agli occhi, e ridevano come se di nulla fosse. Uno di essi, che era il
più prestante della persona, il più elegante di abiti e tale per ogni
verso da richiamare specialmente l'attenzione di chicchessia, attrasse i
miei occhi, che, appena vistolo, non seppero staccarsene più. Ei mi
pareva tutto tutto il mio compagno d'infanzia Gian-Luigi.

«Intanto il dottore aveva preso il polso del malato e gli aveva
domandato come si sentisse.

«— Da bere! Aveva susurrato il miserello per tutta risposta.

«— Ah sì, avete sete: rispose il medico: una sete ardentissima non è
vero? È naturale, me la aspettavo.

«E rivoltosi alla monaca che l'accompagnava:

«— È stato tranquillo?

«— Tranquillissimo: rispose con tutta assevezione la suora.

«— Uhm! Fece il dottore crollando il capo, in modo che pareva dinotare
poca credenza in quella affermazione; poi, senz'altro preambolo, prese
le coltri che coprivano il malato e le trasse giù fino a mezzo il letto:
scoprì della camicia lo stomaco del giacente, vi pose su la mano
sinistra piatta e si diede a battere su questa colle dita della destra
fatte a gruppo; poi si curvò a mettere l'orecchio su quello stomaco e
stette ad ascoltare. Drizzatosi rivolse la parola ai giovani che lo
accompagnavano pronunziando barbari motti che io non capiva. Il petto
rimasto denudato di quell'infelice era macilento come quello d'uno
scheletro che fosse stato coperto da una pelosa epidermide; ancor esso
era di color cereo, e nello stentato respiro sibilante del malato si
alzava ed abbassava con una fatica che facevano pena a mirare. Quando il
dottore ebbe finito di parlare, alcuni dei giovani vennero a lor volta a
percuotere di quel modo sul petto del malato e porvi su il loro
orecchio. L'infermo guardava tutta quella gente e i loro atti con occhio
incerto, inquieto, ansioso, interrogatore. A me ispirava un senso di
disgusto, quasi direi di ripugnanza e di ribrezzo il vedere tutti questi
ignoti affollarsi indifferenti intorno al letto del soffrente,
esaminarlo, guardarlo, palparlo come un oggetto di curiosità peggio. Mi
dicevo che a momenti sarebbero stati del pari intorno a me e mi
avrebbero fatto quel medesimo; e ciò mi faceva una pena che non ti
saprei spiegare, tale che se avessi avuta la forza sarei saltato giù dal
letto e me ne sarei fuggito.

«Quando il dottor capo si mosse per partirsi, uno del seguito, che
teneva in una mano una specie di registro e nell'altra una penna, si
avanzò domandando se si aveva da scrivere qualche ordinazione pel
malato. Il medico crollò le spalle con un atto che significava
chiaramente: è tutto inutile. Io mi sentii ghiacciare nel vedere
quell'atto: pensati quell'infelice che stava appunto fissando il dottore
coll'ansia interrogativa di chi aspetta la sua sentenza! Una specie di
singhiozzo ruppe dal petto affannoso dell'infermo, e fra due sibili del
suo faticoso rifiato egli disse:

«— Per me dunque la è finita?

«— Peuh! Esclamò senz'altro il medico dondolando il capo ed avviandosi.

«Un nuovo gemito uscì dal petto affranto di quel misero; e mentre tutti
da lui si partivano egli ripeteva con quel po' di voce che gli restava:

«— Almeno... da bere..... da bere..... che muoio di sete.

«Ma nessuno — da me infuori — badava alle sue parole. La comitiva col
dottore a capo veniva al mio letto; io mi sentiva il cuore a palpitare,
quasi di paura.

«Avvenne intorno a me, precisamente come era avvenuto intorno al mio
vicino. Gli allievi si aggrupparono ai piedi; il dottore, la monaca ed
alcuni pochi vennero a lato.

«— Oh oh! Eccolo tornato in sè questo giovanetto: disse il dottore
appena mi ebbe visto; e voltosi alla monaca: gli è molto, domandò, che
si trova di nuovo in cognizione?

«— Credo di no: rispose la suora; perchè passando non è guari di qua
l'ho udito vaneggiare come il solito e dire le più strane cose del
mondo.

«— Bene! disse il medico: l'accesso è vinto, ma per precauzione ci
vuole un'altra dose di chinino. — Si ripeta la ricetta del solfato:
soggiunse parlando a colui che teneva il registro, il quale scrisse in
fretta in fretta due parole; poi, dirigendosi di nuovo alla monaca, il
dottore continuava: dieta assoluta, acqua semplice da bere, il farmaco a
cucchiai ogni due ore, da lasciarsi lì tosto, appena v'accorgiate che
ripigli un po' di febbre. — Andiamo.

«Io non aveva detto neppure una parola: quella malavoglia, quella
confusione per vedermi attorniato da tanta gente che mi guardavano non
era cessata; ma la mia attenzione era principalmente rivolta su quello
dei giovani che seguivano il dottore, il quale mi era sembrato essere
Gian-Luigi.

«E' s'era venuto a postare a pie' del mio letto, precisamente come aveva
fatto al letto del mio vicino, se non che a me accordava ancora meno
attenzione di quella che avesse data a quell'altro. Quando l'ebbi
davanti a quel modo, ogni dubbio in me scomparve: gli era proprio desso,
più bello e più superbo che mai, tutto letizia, prosperità e brio.
Parlava animatamente con un suo compagno, e pareva che l'argomento dei
loro discorsi fosse le mille miglia lontano da quell'infelice luogo di
miserie e di dolori ove si trovavano, poichè sorridevano spesso, e
talvolta rompevano anche in piene risate, cui frenavano però tosto, se
il dottor capo volgesse verso loro lo sguardo.

«Quando il medico, dopo quelle poche parole, si mosse per recarsi ad un
altro letto, Gian-Luigi s'avviò ancor egli senza nè anche volgere uno
sguardo alla mia volta. Non che non riconoscermi, io credo che non mi
ebbe nemmanco veduto.

«Io, facendomi forza, chiamai la monaca che per fortuna s'era indugiata
un poco affine di aggiustare le cortine del letto state scostate dagli
allievi.

«— Che cosa volete? Diss'ella venendomi allato e curvandosi su di me.

«— Quel povero uomo da un'ora domanda da bere; abbiate la carità di
dargliene.

«Il mio vicino pareva aver rinunciato alla sua inefficace richiesta;
taceva e guardava. Certo non potè intendere le parole che io pronunziai
con tanta voce appena da farmi udire dalla suora, ma le indovinò di
sicuro, e ne fu certo, quando vide la monaca accostarglisi e porgergli
finalmente alle labbra quel tanto agognato tazzone.

«Il misero bevve avidamente; poi, quando la monaca ebbe raggiunta la
schiera de' medici egli mi rivolse uno sguardo pieno di gratitudine e mi
disse la parola _grazie_ con un accento di tanto affetto, che io ne fui
tutto commosso ed anche adesso, ricordandolo, me ne sento intenerito.

«Pover'uomo! Quella doveva essere una delle ultime sue soddisfazioni.

«A me l'accesso non tornò più: ma che notte penosa e lunga fu quella che
succedette! Non potei chiuder occhio. Nel vasto e lungo camerone radi
lumicini, posti qua e là, spargevano una fioca e debole luce, per la
quale ricrescevano cupamente le ombre gettate dai letti. Ai miei occhi,
in causa della mia debolezza, quelle ombre arrampicantisi sulle pareti
come mostruosi ragni, stendentisi sul pavimento come giganteschi animali
sdraiati, pigliavano mille forme stranissime e paurose. Ora mi parevano
atteggiarsi a faccie orribili che mi facessero smorfie minacciose,
contorcersi in corpi convulsi o spasimanti per dolore o raccoglientisi
per un feroce assalto; ora mi parevano braccia immense terminate da mani
adunche di rapina che si tendessero verso me ad afferrarmi; e, come
rifiato di questo mostro indefinibile, inconcepibile, le respirazioni
affannose dei malati e il rantolo di questo, la tosse convulsa di
quello, i gemiti di tanti. Tutte queste voci di dolore facevano un
accordo penosissimo che mi turbava profondo nell'anima; alcune volte
però, per caso, capitava che tutti questi lamenti, questi suoni
tacessero un istante, ed allora si aveva un silenzio — un silenzio di
tomba — un silenzio che era più tremendo ancora, nel suo breve
passaggio, del rumorìo interrotto. Mi pareva che fosse sorvolato
l'angiolo della morte e colla sua ala potente avesse percosso ad un
tratto tutte quelle esistenze, mi pareva di essere io solo vivente in
mezzo ad una schiera di morti.

«Il mio vicino di destra era tra quelli che avevano più frequente il
lamento; si capiva che il male veniva rapidamente compiendo la sua opera
di distruzione, ed io ricordava l'atto del medico che annunziava
prossima la fine di quell'infelice e mi domandava se quelli non erano i
rantoli dell'agonia, se quei gemiti penosissimi, ma sempre più deboli,
non erano gli ultimi, se l'alba del mattino avrebbe ancora trovata
accesa la fioca oscillante fiammella di quella vita.

«Io non aveva mai visto a morir nessuno. Menico e Giovanna li avevo
trovati morti, ma non avevo assistito al tremendo momento della morte.
L'idea di questo istante mi riempiva di terrore. Al pensare che un uomo
lì presso stava per trar l'ultimo fiato, per diventare insensibile
cadavere, io sentiva un alto spavento possedermi tutto. La idea del poi
— di quel terribile ignoto che ci spalanca la tomba — il pensiero del
nulla — i quesiti in cui s'era già cotanto affannata fin quasi
dall'infanzia l'anima mia irrequieta, mi venivano ad assalire più vivaci
e pressanti che mai, e in quel momento, per la debolezza del mio
cervello, riuscivano ad una dolorosissima confusione, ad un più
tormentoso ancora avvicendarsi di dubbi, ad uno sforzo impotente e
penoso di padroneggiare e guidare i miei pensieri disordinati e strani.

«L'alba tanto desiderata e sì lenta ai miei voti, venne pur finalmente.
Una maggior quietudine era in tutti i malati; avevano rimesso
d'intensità i rantoli, i lamenti e le tossi; il mio vicino aveva meno
ansimante il respiro. Ma che ora triste era quella pur tuttavia! I lumi
accesi gettavano ancora debolmente intorno a loro un cerchio di raggi
giallastri, oscillanti; i primi chiarori che penetravano per le alte
finestre erano d'un grigio livido e mettevano sugli spigoli degli
oggetti certi riflessi di tinte fredde, stonate affatto cogli ultimi
sprazzi mandati dai lumi che venivan spegnendosi. Un'indicibile
melanconia risultava da quell'aspetto di cose, dalla dubbiosità di
quell'ora, che non era più notte e non era ancora giorno. Mi sentivo
venire a folate alle nari più acre che mai il tanfo di tutte quelle
esalazioni malsane, di tutti quei respiri viziati; parevami, in
paragone, più tollerabile ancora l'atmosfera della carcere in cui avevo
sofferto pur tanto. Pensavo con amaro repetio alle belle aurore della
campagna, ove ero vissuto sino allora, a quelle pure brezze mattutine, a
quel mio diletto gruppo d'ontani vicino al rigagnolo corrente. Quando
avrei potuto far ritorno ad essi? E che cosa avrei dovuto andarci a far
tuttavia, ora che Menico e Giovanna non eran più? Parevami che gli
avvenimenti succeduti mi precludessero affatto la strada del ritorno a
quel diletto paese, che la mano del destino, la quale me ne aveva
violentemente tratto via ad un punto, fosse là tesa innanzi a me ad
impedirmene il passo.

«Quei giorni che avevo vissuti non sarebbero tornati più mai; e quali
altri avrei potuto e dovuto vivere io, povero trovatello, solo sulla
terra? Me se m'avesse raggiunto la falce della morte, che male
sarebb'egli stato? Per me, no certo nessuno; e per gli altri? Meno
ancora, poichè la mia vita a persona al mondo non era utile, nè potevo
pur dire diletta. E tuttavia un'intima ripugnanza si levava in me al
pensier della morte, ed ogni fibra dell'esser mio anelava alla vita!

«Il mio vicino aveva cessato quasi del tutto il suo rammaricarsi.
Credevo che dormisse, ma, essendomi rivolto verso di lui, lo vidi cogli
occhi aperti, levati in su e pieni di lagrime. Sentii più viva la
profonda compassione ch'egli m'ispirava, e parvemi che alcuna mia parola
avrebbe fatto un po' di bene a quel misero. Il mio miglioramento era
tale che m'era tornato in corpo un po' di voce da farmi sentire dal
letto del vicino distante appena se di due passi.

«— La va meglio stamattina: gli dissi.

«Stette un istante senza rispondermi. Parve raccogliere tanto di fiato
da poter parlare, e frattanto ringoiare quelle lagrime che gli velavan
la vista; poi mi disse a sua volta con voce cavernosa e stentata:

«— Il meglio della morte..... Purchè potessi durar tanto che mia moglie
e i miei figli venissero!... Oggi per fortuna è giorno di visita... Ma
morire senza averli intorno... senza più vederli!... Oh esser povero! Oh
morire all'ospedale!.....

«Fu interrotto di subito da un singulto, e come se troppo si fosso
stancato nello sforzo di pronunziare tali parole, l'affanno lo riprese
più forte di prima. Chiuse gli occhi, ned io osai più, nè ebbi voglia
altrimenti di disturbarlo.

«Ma le disperate parole del morente mi suonavano nel capo come una fiera
minaccia, come la pronunzia d'una tremenda condanna:

«Oh esser povero!... Oh morire all'ospedale!...

«A seconda che il giorno cresceva, crescevano pure nel mio vicino
l'agitazione e il rantolar del respiro. I suoi occhi irrequieti non
facevano che guardar fiso verso quella parte per cui s'inoltrava chi
venisse dal di fuori; stanco li chiudeva di quando in quando, ma al
primo rumor d'alcuno che si movesse li apriva sollecito con immensa
ansietà di desiderio a mirar chi venisse, e poichè mai non erano quelli
che con tanto spasimo stava aspettando, mandava un più desolato sospiro
e tornava ad abbassar le palpebre con rassegnata disperazione.

«Quando la monaca di servizio gli si accostò per vedere s'egli alcuna
cosa desiderasse, l'infelice con quel po' di voce che glie ne rimaneva
onde appena nell'affanno del rantolo poteva formar le parole, domandolle
che ora fosse, e poichè la suora gli ebbe risposto che appena le otto,
egli non disse più verbo, non aprì gli occhi, ma quel sospiro desolato
gli uscì ancora più doloroso dal petto, e giù dalle guancie gli calarono
silenziosamente quelle lagrime che il giorno innanzi io gli aveva già
visto brillar nella pupilla. Il disgraziato aveva perduto ogni speranza
di vedere ancora i suoi.

«Poco stante venne la visita medica del mattino. Gli stessi individui,
lo stesso modo di procedere. Mancava però Gian-Luigi, pel quale quella
era forse ora troppo mattutina.

«Quando furono al letto del mio vicino di destra, il dottore non istette
nè a interrogare, nè a toccar polso nè altro. Il giacente aveva gli
occhi chiusi ed ansimava penosamente.

«— Siamo alla fine: disse il medico senza riguardo di sorta; e parlando
poscia alla monaca: chiamate pure il prete, soggiunse, che questo buon
uomo è già entrato in agonia.

«Il corpo del moribondo si scosse in un lieve sussulto, e gli occhi gli
si spalancarono vitrei, quasi opachi, ma pieni di spavento; guardò di
qua e di là esterrefatto, agitò le labbra, ma nessuna voce ne uscì, e
mentre i medici si allontanavano, un singhiozzo d'infinito dolore fisico
e morale prorompeva da quel petto affranto, già oppresso dall'affanno
della morte.

«La visita medica era finita in tutto il camerone, quando sopraggiunse
il prete fatto venir dalla monaca per confortare gli ultimi momenti del
moribondo. Io guardava con una curiosità mista d'ansia, di pena e di
terrore. Il prete s'accostò freddamente al letto del moribondo, come
uomo avvezzo a questa sorta di cose, nel quale perciò la sensibilità
rimane smussata. La faccia grossa e volgare diceva inoltre che in lui
quella sensibilità non doveva mai essere stata nè molta, nè viva; aveva
un libro sotto il braccio ed una stola in mano; camminava adagio
volgendo gli occhi di qua e di là, ed annasando lentamente una presa di
tabacco. Giunto presso il letto, guardò il giacente che teneva gli occhi
chiusi e rantolava in modo sempre più penoso, e domandò alla monaca:

«— È egli ancora in cognizione?

«— Mah! chi lo sa?

«Il prete si curvò sul letto del morente.

«— Ehi, brav'uomo, diss'egli con voce più alta, come per destare un che
dormisse, mi udite voi? capite voi quello che dico?

«L'infermo non fece segno alcuno che indicasse aver egli inteso.

«— Questo povero diavolo è più di là che di qua: disse il prete; ma ad
ogni buon conto qualche parola d'esortazione non può far male.

«E con voce trascinante, con quel tono convenzionale di bigotta che
prega, si diede a pronunziare le seguenti frasi all'orecchio del
giacente:

«— Pensate al vostro Salvatore che morì sulla croce per voi, pensate
all'agonia ch'egli soffrì su quella croce.

«Qui s'interruppe per dire colla sua voce naturale alla monaca:

«— A proposito, dove ci avete un crocifisso?

«La monaca prese un crocifisso di legno su tavolino dove lo aveva
posato, e lo porse al prete.

«— Eccolo qua.

«Il prete lo prese e lo pose sul petto del moribondo, poi ripigliò colla
voce dolcereccia, nasale che ho detto poc'anzi:

«— Gli è qui che vi assiste il vostro Salvatore; mettete nelle sue mani
l'anima vostra, e con profondo atto di contrizione domandategli perdono
di tutti i vostri peccati.... Voi state per comparirgli dinanzi....

«Il moribondo fece un sussulto e il suo rantolo cessò.

«— È passato: disse la monaca.

«— Non ancora: rispose il sacerdote; ma siamo proprio agli estremi.

«Prese colle due mani la stola, ne baciò con atto puramente meccanico —
atto di abitudine — la croce che si trova a metà di essa e passandosela
sopra la testa se la pose in ispalla; poi aprì il libro che aveva recato
seco e si mise a borbottare le preghiere pei moribondi.

«La monaca s'inginocchiò a piè del letto e veniva rispondendo _amen_ di
tanto in tanto e finalmente quelle stupende parole della liturgia: _et
lux perpetua luceat ei!_

«Quando ebbe finito, il prete chiuse il libro, si levò la stola, che
ripiegò intorno al volume e mise così avvolta sulla sponda del letto. Il
giacente era immobile affatto; gli occhi gli si erano aperti, ma le
pupille erano appannate, fisse, senza sguardo; la bocca erasi contratta
e le labbra aperte ed immote pendevano da un lato.

«— Datemi un cerino, suora Genoveffa: disse il prete.

«La monaca trasse di tasca un cerino aggomitolato e lo diede al prete,
il quale levatosi di tasca un fiammifero lo sfregò per terra e con esso
infuocatosi accese il cerino. La fiammella fu posta innanzi alle labbra
ed al naso del giacente, e non si ebbe la menoma oscillazione che
potesse indicare il più lieve alito di fiato.

«Era proprio spirato.

«Il prete spense il cerino e lo restituì alla monaca; questa abbassò le
palpebre sugli occhi del morto, e tutti due si apprestavano a partire,
quand'ecco precipitarsi nel camerone e correre verso il letto
dell'infelice estintosi allor allora, una donna che poteva dirsi il
ritratto della miseria, trascinandosi dietro quattro bambini di varia
grandezza, ma di cui il maggiore non passava certo i dieci anni.

«— Il mi' uomo! Gridò essa disperatamente.

«— È spirato adesso adesso: disse freddamente il prete.

«La donna si fermò su due piedi e mandò un'esclamazione così dolorosa
che me ne vennero le lagrime agli occhi ad udirla; poi si contorse le
braccia con parossismo quasi furibondo di dolore, e levando al soffitto
gli occhi convulsi, pronunciò fra i più penosi singhiozzi:

«— Dio! Dio mio!

«La monaca più pietosa le venne allato e mettendole dolcemente una mano
sul braccio:

«— Coraggio e calma, le disse.

«Ma la sventurata, rigettandola quasi con ira:

«— Calma! calma? Il mio pover'uomo, il mio pover'uomo, il mio unico
sostegno.... la morte me lo ha tolto.... Ah! Dio non è giusto.

«— Oh! oh! Esclamò con tono di rimprovero il prete: guardatevi bene dal
bestemmiare, buona donna. Bisogna curvare il capo rassegnati innanzi a
Quel di lassù, e quando ci manda una prova, benedirne la mano che ci
percuote. Dunque non c'è nulla da farci e bisogna aver pazienza.

«Così dicendo, il prete fece ad allontanare la povera donna dal letto
del morto; ma essa, rigettandolo con più forza ancora e con più furore
di quello che non avesse fatto alla monaca, si pose a gridare:

«— Mi lasci passare, voglio vederlo il mi' uomo.... voglio vederlo per
Dio!... Nessuno mi potrà impedire di abbracciarlo l'ultima volta.

«E con abbandono disperato si gettò sopra il cadavere ancora caldo di
suo marito.

«— Oh perchè non ti ho potuto tener meco, mio pover'uomo? Diceva essa
in mezzo ai più strazianti singhiozzi: perchè ti hanno voluto trasportar
qui lontano da tutti i tuoi, qui dove ti hanno ammazzato?... Sì ti hanno
ammazzato coi loro salassi, colle loro droghe.... noi povera gente sì
che glie ne importa a loro che crepiamo.... tanti di meno a mangiar
pane.... io t'avrei guarito, io che avevo da conservarti ai miei
figli.... Ed ora che ne sarà di questi tuoi miserelli di figliuoli?....
Chi ne darà loro da mangiare?.... O almeno saresti morto in mezzo a noi,
circondato da noi... e non qui, solo, senza uno de' tuoi allato...

«La sua voce suonava forte e straziante pel camerone: i bambini, che non
capivano molto, ma che vedevano la loro madre così disperatamente
desolata, si aggrappavano alle di lei vesti, la tiravano e strillavano
piangendo; era pei malati una troppo dolorosa commozione; gl'inservienti
e le monache accorsero in frotta al rumore. Presero in mezzo la donna e
i bambini, li ragionarono, li rampognarono, li confortarono, e tanto
fecero che la donna, diventata taciturna con grosse lagrime che le
colavano giù dalle guancie, si rassegnò a lasciarsi condur via. Ma
quando ebbe fatto appena pochi passi allontanandosi dal letto, tutta di
colpo si riscosse; si sciolse dalle monache ond'era attorniata, e
sclamando: — Ah! ch'io lo veda ancora una volta, tornò precipitarsi sul
morto corpo del marito il cui volto coprì di nuovo dei baci suoi. Quindi
se ne tolse da se stessa in apparenza più calma; si premette le mani
nere ed incallite sugli occhi e pronunziò con tale accento di dolore che
io non potrò obliare giammai, queste parole:

«— Non lo vedrò più.... più mai!... Oh almeno l'avessi visto a morire!

«E coi suoi figli aggruppati intorno si allontanò quindi mesta, curva,
barcollante, come spinta ed oppressa insieme dalla mano della sventura.

«Povera donna! Io era voltato col viso dalla parte del morto e avevo
innanzi gli occhi la faccia di quel cadavere. Non potevo staccarne lo
sguardo quantunque mi facesse una pena quasi paurosa a mirarlo. La morte
aveva passato su quei lineamenti contratti dal dolore pur dianzi, la sua
mano appianatrice: una gran calma sembrava spirare da quel volto
ingiallito, ma insieme una gran mestizia eziandio, una mestizia però
rassegnata e mite. Il misero aveva cessato di soffrire, ma quanta
angoscia non doveva essere stata la sua quando l'occhio smarrito,
sbarratosi negli ultimi fremiti dell'agonia, cercava invano intorno a sè
le care sembianze dei suoi! Ma qual dolore per l'infelice donna
superstite, che non aveva potuto consolarne gli estremi momenti, che non
aveva potuto far impartire l'ultima benedizione a' suoi figli così
presto orfani di padre!

«Oh! pensavo, anche la morte è dunque più trista pel povero?...

«Ed allora un'immensa amarezza m'invase, uno scoraggiamento, quasi uno
sgomento profondo dell'anima. Quel letto che al mio primo risensare mi
era parso così agiato, ora mi tornava irto di spine, l'atmosfera satura
di miasmi di quell'ospedale mi riusciva di botto gravissima a respirare,
quasi intollerabile, quel cadavere innanzi agli occhi mi faceva paura.

«Fu sollecita, è vero, la monaca che lo aveva assistito nell'agonia, a
tornare indietro, appena la donna fu uscita dal camerone, e tirò
tutt'intorno le cortine del letto in guisa che la vista del morto venne
tolta ad ogni sguardo; ma io sapeva che dietro quelle tende bianche e
bleu c'era un cadavere, e coll'occhio della mente lo vedevo pur sempre,
con quella sua bocca spalancata e storta, con quell'aspetto di mesta
rassegnazione e di abbandonata quiete.

«Più tardi vennero due uomini con una barella, questa deposero ai pie'
del letto, poscia entrarono sotto le tende e per parecchi minuti si
agitarono uno da una parte dal letto e l'altro dall'altra, imprimendo
alle cortine distese una nuova forma, nuovi sgonfi ad ogni loro mossa;
quando ebbero finito, trassero ai lati le cortine e il cadavere apparve
sul letto, tutto avvolto nel sudario; lo presero a braccia, lo recarono
nella barella coperta, e via, lasciando il letto disordinato.

«— Ora lo portano al gabinetto anatomico e domani sarà tagliuzzato per
lezione degli studenti: mi disse l'altro mio vicino di sinistra con una
specie di sogghigno e con una voce stridula che mi fece ghiacciare il
sangue e correre un fremito per tutti i nervi.

«Neanche dopo morto, il povero, crepato all'ospedale, non è tranquillo.

«Nella giornata furono portati via il materasso e il pagliericcio di
quel letto, ma due giorni dopo tutto era rimesso a posto, e un altro
infermo dolorava a quel medesimo luogo.

«Quando ebbi visto giungere, sostenuto a braccio da un infermiere, un
altro povero diavolo coi segni della miseria ancor esso negli abiti e
nelle sembianze e venir condotto a quel letto ed esser fatto in esso
coricare, un nuovo assalto d'amarezza mi prese. Pensai con ispavento che
in quel letto eziandio dove avevan posto me, poco tempo prima, il giorno
innanzi fors'anco, poteva esser morto un altro infelice, ed io era
venuto a prenderne il posto, come questo nuovo sopraggiunto si sdraiava
lì dove era spirato il suo predecessore.

«Per allora questi pensieri non facevano capo a nulla di preciso, ma più
tardi, quando anche più maturata la mia mente, tornandovi su ne' miei
fantasticari, si conchiusero in alcune opinioni che forse sono
paradossastiche, ma che a me pare contengano la verità — se non quella
dell'oggi — quella che condurrà seco il progresso di domani.

«La carità sociale ha già fatto molto creando quegli ospizi in cui si
raccolgono a curare gratuitamente i poveri caduti infermi; ha fatto
moltissimo, se si paragona codesto a quel tempo di barbarie, in cui si
lasciavano morire nei loro miserissimi tuguri senza od appena con
qualche stentato e inefficace soccorso. Gli è certo sotto l'ispirazione
d'un progresso che la società si disse: «quegl'infelici di proletari che
mancano di tutto alle case loro, come vi potranno ricevere assistenza
appena discreta nelle loro malattie? Raccogliamoli tutti insieme in
luoghi appositi, dove con minori mezzi appunto, per la forza
maravigliosa dell'associazione, potrà ciascuno dei ricoverati avere
tutto o quasi tutto quello che loro può occorrere.»

«Ma non si era tenuto conto a tutta prima di questo fatto, che se la
mancanza di mezzi materiali è cosa essenzialmente sventurata pur troppo
nella cura dei malati, di uguale forse o di poco minore importanza è
altresì il difetto dell'amorevolezza nell'assistenza, di quella soave
temperie che crea intorno l'animo del sofferente il vedersi circondato
da un vero interesse e da un caldo affetto. Ciò fu ben sentito più tardi
da quell'anima celeste che fu S. Vincenzo di Paola, il quale istituì
l'ammirabile ordine monastico delle _Suore di Carità_; ma per quanto
queste sieno pietose e zelanti e superiori ad ogni elogio (come niuno
può negare che sieno in generale), è tuttavia pur sempre ben diversa
cosa l'interessamento d'una persona estranea, la quale ancora, se
dall'abitudine acquista una certa pratica del servizio degl'infermi, ha
insieme da quest'abitudine medesima, o smussata d'alquanto la
sensibilità o quanto meno di certo non pari e non capace di rivaleggiare
con quella dei congiunti dell'infermo — madre, moglie, figliuola,
sorella.

«A codesto si ha da aggiungere tutto il resto di malessere e di
inconvenienti che risultano dall'agglomerazione nello stesso luogo,
nella stessa stanza di più malati, dei quali il soffrire dell'uno va ad
aumentare e rincrudire il soffrire dell'altro, e il servizio di questo è
un incomodo, un turbamento, un danno anche parecchie volte, alle
condizioni di quello.

«I pregiudizi del popolo, anche i più falsi e perniciosi, hanno quasi
sempre un fondamento in alcuna realtà che viene pur troppo esagerata:
consulta tutta la povera gente in proposito, e fra quei miseri, che pure
non hanno modo alcuno da questo in fuori di aver soccorso, troverai
pochi, per non dire nessuno, che non senta una viva ripugnanza a farsi
ricoverare negli ospedali. Senza ragionarvi sopra, senza avere
fors'anche un'idea precisa della causa di questa ripugnanza, ciascuno di
essi sente che molto lascia a desiderare in quel modo di soccorsi la
carità pubblica; ed accrescendo colla mobile e impressionabile fantasia
i mali di quel sistema, per lo più non si acconsente a recarsi allo
spedale che quando la necessità lo comanda loro in guisa assoluta, e per
molti già con soverchio ritardo pur troppo.

«Io credo che un nuovo progresso sarà quello in cui il malato non venga
più tolto dalla sua famiglia, ma nel seno di questa al medesimo vengano
apprestati tutti quei soccorsi e d'assistenza, per mezzo delle stesse
_Suore di Carità_ per esempio, e di medici e di farmaci, per goder dei
quali ora lo si costringe a recarsi negli appositi ospizi, e che in
questi non saranno ricoverati altri più che quelli i quali o non hanno
famiglia di sorta, od anche avendola consentono volonterosi a
staccarsene per riparare all'ospedale.

«Codesta quistione sta legata con quell'altra non irrilevante essa pure
degli alloggi della povera gente; ma se io entrassi a parlare di ciò la
tirerei troppo in lungo. Forse verrà tempo in cui avrò da parlartene di
proposito.... Ora perdonami la digressione e ritorno al mio racconto.

«Ero pressochè guarito, quando fra le molte Don Venanzio venne a vedermi
una volta. Mi disse che si preoccupava del mio avvenire, che era tempo
oramai di pensarci e mi domandò se avessi qualche idea, qualche progetto
in proposito. Gli confessai che non avevo su codesto nè anche un
principio di decisione: che bene mi era balenato il pensiero e il
desiderio di tornarmene alla dimora ed alla vita del villaggio, ma che
non avevo tardato ad accorgermi ciò essere impossibile; che cosa sarei
andato ancora a far colà peggio disprezzato di prima, e forse in
sospetto ancora dei più? Alquanto mi allettava pure il soggiorno nella
popolosa città, dove avrei trovato forse di meglio impiego alla mia
attività. Se io fossi stato padrone del mio destino, forse non sarei
venuto in questo viavai agitato e pericoloso, comecchè il segreto
desiderio mi vi spingesse, ma poichè era il caso che mi ci aveva a forza
trascinato, pensavo rimanerci. In che modo e con quali opere non sapevo
ancora, ma speravo trovare occasione e compenso a lavorare, come ne
avevo volontà.

«Don Venanzio, prima di rispondermi, stette un poco a pensarci su;
poscia mi disse che non avevo affatto il torto, e che una parte di
quelle cose che gli avevo espresse, aveva pensato ancor egli. Suo primo
proposito, a mio riguardo, era stato quello, appena vistomi dotato d'una
certa intelligenza, di allevarmi al sacerdozio; vestito della rispettata
cotta pretesca, mi avrebb'egli ottenuto d'esser maestro al suo
villaggio, diventato anche mio. La mia qualità di trovatello sarebbe
così stata riscattata agli occhi dei contadini dalla dignità dell'abito
sacerdotale, e i padri di famiglia non avrebbero avuto scrupolo nè
ripugnanza più ad affidarmi i loro figliuoli da educare, cosa che forse
e senza forse sarebbe accaduta conservando io le vesti da secolare. A
vedermi insignito degli ordini sacri, aveva egli rinunciato già da un
poco, e non senza pena, me lo confessava, quando ebbe visto in me cedere
sventuratamente, coll'aumentar dell'istruzione, la fede. Ora nè a vestir
io la cotta talare, nè a farmi maestro del villaggio, nè pel momento a
tornar neppure in quest'ultimo non era da pensarsi più. Dopo quanto era
intravvenuto, quella popolazione rurale mi avrebbe peggio riguardato di
prima, e mettermi ad educare la prole di essa era impossibile impresa
anzi tutto, e tale ancora di poi, cui egli nemmanco non avrebbe più
voluto affidarmi, perocchè fosse sua ferma persuasione, il maestro
dell'infanzia dovere agli allievi, coi primi rudimenti del sapere,
istillare quella preziosa e doverosa cosa che io non aveva più, il
tesoro delle credenze religiose ortodosse; creder egli quindi necessario
cercassi qualche modo di ricavarmela a Torino stessa dove mi trovavo. Io
abbisognava d'un impiego dove avessi potuto guadagnar subito, imperocchè
non avessi modo alcuno di sparagni nè d'altro da sostentarmi, e la cosa
era difficile assai a trovare, perchè, sapendo pur io molte cose in
paragone del mio stato, in sostanza poi, che cosa per allora ero buono a
fare? Ma egli aveva conoscenza con certe famiglie ricche e potenti, fra
cui principale quella all'intromissione del cui capo io andava debitore
della mia liberazione dal carcere; avrebbe parlato a questo ed a
quest'altro ed avrebbe senza fallo trovato ad allogarmi o qua o colà per
fare qualche servizio che mi potesse convenire e che mi guadagnasse
onestamente il pane.

«Lo ringraziai con effusione, e ci lasciammo con questo fermato
proposito. Si trattava insomma di entrare a far da servo in qualche
famiglia signorile. La cosa a tutta prima mi tornò la meglio conveniente
che mi si parasse dinanzi. Non ero io servitore poc'anzi di Menico e di
Giovanna? Ma essi mi avevano preso fanciullo, mi avevano allevato, ero
come cosa loro; entrare non conosciuto in una famiglia ignota per
sottostare alle volontà di chi sa chi, più ci pensavo e vieppiù mi
appariva di poi cosa diversa. Mi ricordai ad un tratto del bottone di
livrea che tenevo sempre meco del pari che il rosario, come cosa
preziosissima. Questi oggetti mi erano stati tolti all'entrare nel
carcere, ma me n'era stata fatta la restituzione all'uscire di colà, ed
ora all'ospedale, appena tornato in me, li avevo ridomandati e li tenevo
sotto il guanciale ove posavo la testa. Trassi fuori quel bottone e lo
stetti contemplando per un poco. Era forse un indizio della condizione a
cui apparteneva mio padre. Ancor egli probabilmente aveva servito; nulla
era più naturale che il figliuolo altresì mangiasse di quel pane.
Eppure, a seconda che mi ingolfavo in questi pensieri, mi nasceva in
cuore e si faceva sempre più viva una ripugnanza contro siffatta
condizione, la quale mi pareva un umiliarsi, cui finivo per apprezzare
come una vergogna alla mia personalità. Guardando quel bottone vedevo il
soprabito a cui doveva essere attaccato, e vedevo me vestito del
medesimo ai cenni d'un padrone capriccioso. A codesto doveva far capo
quella intelligenza che sentivo in me? Nient'altro di meglio dovevano
conseguire il tumulto de' miei pensieri, le mie audaci aspirazioni,
quello che avevo imparato e la capacità, onde avevo coscienza, di
imparare assai più?

«Ad un tratto una subita idea mi assalse. Qui a Torino era Gian-Luigi;
perchè non sarei ricorso a lui? La memoria dell'infanzia passata
insieme, la promessa ch'egli stesso mi aveva fatta di ciò, lo avrebbero
sicuro spinto a darsi alcuna briga per me. Non avevo bisogno di cercar
molto affine di rintracciarlo, perchè in quell'ospedale ov'egli veniva —
quantunque frequenti fossero le mancanze — avrebbero saputo dirmi di
certo dove lo avrei potuto rinvenire. Mi parve quella la più felice
ispirazione che fosse, e me ne sentii tutto lieto e quasi sollevato
dell'animo.

«Ed ecco, quasi che la fortuna mi volesse in codesto assecondar proprio
del tutto, ecco che io non aveva nemmanco finito di pensare ciò, quando
vidi spuntare nel camerone la brigata degli studenti di medicina per la
solita visita, col professore in capo, e nella schiera, aitante e sempre
più per distinzione sopra ogni altro notevole, Gian-Luigi medesimo.

«Quando i visitatori furono al mio letto, siccome ero già in piena
convalescenza, non si fermarono neppure; passandomi innanzi il medico
volse verso me la testa e mi domandò:

«— La va sempre bene, giovinotto?

«E siccome io risposi di sì, continuò il suo cammino senz'altro.

«Gian-Luigi passava ancor egli, senza badare a me più questa che le
altre volte. Io radunai tutto il mio coraggio, e lo chiamai per nome ad
alta voce, ma un pochino tremante. Egli si riscosse, mi guardò fiso e mi
riconobbe: parve un po' conturbato, o per dir meglio contrariato; esitò
un istante e credetti fosse per tirar diritto cogli altri senza darmi
punto retta; siccome assolutamente mi premeva il parlargli, benchè
sentissi più tremante ancora farsi la mia voce, imperocchè il cuore mi
battesse concitato, mi apprestavo a ripeter l'appello, quand'egli, come
accortosi di quella mia intenzione, sembrò ravvisarsi e venne a me
sollecitamente.

«— Sei tu? mi disse affrettato senza lasciarmi aprir bocca. Ed io non
t'ho mai visto, o per dir meglio non riconosciuto? In fede mia non mi
sarei mai più aspettato di trovarti qui.

«Nella sua premura, nell'accento delle sue parole non sentii caldezza
nessuna d'affetto od interesse di sorta; ma piuttosto la fretta di
sbrigarsi da colloquio che non molto gli andasse a grado, l'impazienza
di trarsi fuori da cosa che lo contrariasse.

«Gli dissi del gran bisogno che avevo di parlargli.

«— Va bene: mi rispose interrompendomi; ma adesso no; adesso non posso.
Bisogna ch'io segua la visita. Continuo i miei studi da medico, ed è
perciò che tu mi vedi qui. Tornerò per udirti e parlarti in ora più
opportuna, quando lo potremo con più comodo. A rivederci.

«Non mi strinse neanche la mano e mi lasciò per raggiungere in fretta i
compagni.

«Quel suo contegno mi diede una tristezza che potrei chiamare un dolore.
Ricordai la freddezza dell'addio nella sua partenza, e mi dissi che
questo accoglimento nel rivedermi era peggio ancora scevro d'ogni
affezione. Entro il suo cuore io dunque non ci aveva proprio più posto,
e non sapevo capirne il perchè. Ero troppo inavvezzo ancora per
indovinare che in presenza de' suoi attuali compagni, egli — il mio
compagno d'infanzia, un trovatello al pari di me — si vergognasse di
conoscere un cencioso villanello malato all'ospedale.

«Egli però mantenne la sua parola e quel giorno stesso venne a vedermi
da solo. Il suo contegno fu tutt'altro da quello della mattina. Mi serrò
con effusione tuttedue le mani, mi prese fra le sue braccia e mi strinse
al suo seno, baciandomi e ribaciandomi; sedette presso il mio letto, e
tenendo fra le sue mani la mia destra ascoltò con viva attenzione il
racconto dei fatti miei.

«Innanzi a quei suoi modi gentilmente affettuosi tutta quell'amarezza
che era nata in me contro di lui pel trattamento usatomi quel mattino
medesimo si dileguò ratto come la prima neve sottile ai raggi caldi d'un
bel sole. Mi sentii l'animo riconfortato; e la irresistibile seduzione
che quel giovane esercita sopra ognuno quando voglia, riprese tutto il
suo impero su me.

«Egli mostrò caldamente interessarsi ai miei casi cui compatì, si mostrò
spiacente assai di ciò sopratutto che io fossi stato in prigione, e
vivamente disse e ripetè insistendo che anzi ogni cosa io aveva da
mettere tutte le mie cure nel nascondere ad ognuno e sempre questa
circostanza. Le sue parole a tal proposito mi ricordarono quelle di
Graffigna.

«— Il carcere, vedi, così mi diss'egli, nella nostra stupida società
che vive di pregiudizi e di pecorili usanze, imprime a chi lo subisce
una specie di marchio indelebile che lo addita al sospetto ed alla
disistima di tutti — specialmente degli sciocchi che sono l'immenso
maggior numero — e ciò qualunque sia la causa, fosse pure un errore, per
cui questo carcere fu subìto. Codesto di certo non accade con me. Prima
di tutto io ti conosco per bene; e poi sono superiore al volgo d'ogni
fatta — anche a quello che calza guanti e va in carrozza, il quale in
molte cose è più crassamente volgo dell'altro. Ma faremo bene in modo
che niuno abbia mai da saperne un'acca. Per presentarsi nel mondo
bisogna avere un nome ed una famiglia ed un passato che si possa
raccontare francamente a tutti. Nè tu, nè io non abbiamo nulla di
codesto; ebbene faremo per te ciò che ho già fatto per mio uso; ti
fabbricheremo un passato, una famiglia ed un nome. Dimmi frattanto se tu
hai qualche progetto sul tuo avvenire.

«Gli contai ciò che s'era detto e deciso fra Don Venanzio e me, e gli
confessai la mia ripugnanza ad acconciarmi come servo. Gian-Luigi crollò
il capo e levò le spalle.

«— Quel Don Venanzio è il miglior prete del mondo, diss'egli, ma il più
disadatto ad immischiarsi in queste cose. Eppoi ti ho detto che
bisognava fabbricarsi un passato acconcio, ed il vecchio parroco è la
realtà vivente del passato che occorre nascondere. M'incarico io del tuo
avvenire; ho già in vista quello che fa per te; manda a spasso il
parroco e lasciami fare.

«Mi affidai tutto in esso, e promisi avrei fatto a suo modo. Quindi lo
richiesi di lui, della sua vita e delle sue condizioni.

«Egli mi rispose con una leggerezza spensierata e piena di allegro brio:

«— Io? Sono niente ancora, ma tendo le fila per diventare..... che
cosa? Non so bene, ma pur tale che conti..... Vivo tuttavia sulla somma
pagatami dagli eredi del mio protettore. Il giuoco, in cui la fortuna mi
seconda, accresce i miei proventi ed allunga la vita a quel capitale che
faccio correre al gran trotto a tiro a quattro sullo stradone delle
spese e del lusso, lasciandone un lembo ad ogni segnacolo della via. È
una vita turbinosa che inebria. Prima che quel capitale sia finito,
qualche cosa avrò trovato. Seguito gli studii di medicina _pro forma_; e
poi perchè la fisiologia, oltre all'essere curiosissima scienza, mi può
diventar utile; ma intanto studio più profondamente il mondo e la
società, questo gran libro in cui tutto è scritto e in pochi sanno
leggere, questo malato cui la cancrena travaglia e il medico da saperlo
curare non è ancora nato. Tu studierai meco; e ci aiuteremo a vicenda.
La tua potenza d'osservazione e la mia nativa acutezza di scetticismo
diffidente sono fatte apposta. Comincieremo per mettere a nudo questo
mondo mascherato e imbellettato; lo sviscereremo come fa l'oste che
aggiusta un pollo per farlo arrostire; poi lo domineremo. L'anatomia
d'un cadavere è cosa interessantissima: è tale a mille doppi quella d'un
organismo vivo, quella d'una personalità immensa quale si è la società
umana. Siamo dunque intesi. Di quest'oggi stesso mi occuperò de' fatti
tuoi, e non tarderò molto a venirtene a dire i buoni risultamenti.
Addio.

«Si partì così, lasciandomi nel cuore un poco di quella vivacità, di
quelle speranze, di quell'ambizione fors'anco che davano al suo
carattere ed ai suoi modi animazione cotanta; e con ansia stetti
aspettando il suo ritorno.

«Non tardò infatti gran tempo. Il domani stesso, non essendosi lasciato
vedere alla visita, venne da me all'ora stessa in cui avevamo avuto il
colloquio che t'ho detto, e mi apparve tutto raggiante.

«— È cosa fatta, mi diss'egli senza indugio, sedendosi presso il mio
letto. Tu sei bello ed allogato. Lo stipendio non è dei più grassi:
sessanta lire al mese, alloggio, tavola, bucato..... e qualche incerto
guadagno che vedrai venire fuori e di cui imparerai ad approfittarti.
Non è uno stipendio da ministro, ma per cominciare!..... I grassi
stipendii verranno poi. Hai tu mai sentito a nominare il sig.
Nariccia?... No? — È giusto. Laggiù nel villaggio nessuno lo conosce. Ma
qui in Torino è cosa diversa. Ei tiene mezza la città nei suoi artigli —
artigli è il vero termine — e tutta la gente lo conosce e nutre per lui
un'osservanza!.... l'osservanza che si merita un Rotschild acconciato
alle proporzioni del nostro paese! Questo personaggio, in apparenza
umile, vestito come un vecchio usciere, maneggia i milioni come tu non
hai potuto ancora fare coi centesimi. Ha denari da tutte parti. La banca
Bancone lavora a suo conto; tutti gl'impresari di lavori pubblici vanno
avanti co' suoi capitali; è il segreto padrone di tutti i pubblicani
delle gabelle. Ti ricordi del bastone di Bruto? Una verga d'oro in una
corteccia di ramo di sambuco. Questo è un milionario nei panni d'un
usuraio. Ma un usuraio che sa fare ammodo; di quanti pela, nessuno ha
gettato ancora mai un grido che lo compromettesse. Io l'ho conosciuto
per azzardo, e ne ho coltivata la conoscenza per progetto. Ho acquistato
presso di lui una domestichezza cui non accorda a chicchessia. C'è molto
da imparare praticandolo, e mi sono fatto promessa solenne che avrei
imparato tutto e per bene. Ha bisogno d'un cotale che gli scriva le sue
lettere senza errori di grammatica e con buona ortografia, e che gli
rediga con sintassi i discorsi che ha da pronunziare nelle congregazioni
religiose e di carità di cui è membro zelantissimo e nelle società
commerciali in cui abbindola pulitamente soci ed azionisti. Aveva
offerto a me questo impiego: ma io sono già troppo innanzi negli occhi
del mondo per accettarlo. Tu cominci appena, ed è questo il miglior
principio e più vantaggioso economicamente che ti si possa presentare.
Mi sono fatto dar parola che avrebbe accolto il mio raccomandato.
Inventeremo una storiella apposita che ti intrometta colla più naturale
verosimiglianza. Ponendo il piede sulla soglia di quella casa, tu
entrerai nella strada che mena alla ricchezza. Mi dirai un bel giorno
che mi devi la tua fortuna. Guarisci adunque sollecitamente perchè io
possa presentarti a messer Nariccia. Le cose più presto si fanno e
meglio è per ogni verso.

«La proposizione di Gian-Luigi, a dire schiettamente il vero, non mi
lasciava del tutto soddisfatto; c'era anzi qualche segreta cosa che me
ne allontanava; ma la foga delle parole e la sicurezza di Gian-Luigi mi
stordivano quasi, e non mi permettevano il coraggio di pur manifestare
quella specie di mia malavoglia. Accettai e ringraziai. Se non altro
avevo un pane assicurato ed avevo i piedi fitti in questa folla agitata
della capitale che mi attirava e spaventava nello stesso tempo.

«Gian-Luigi mi aveva lasciato da pochi minuti, quando mi si presentò
sollecita la faccia ilare e improntata di tanta benevolenza di Don
Venanzio.

«— Il Signore ci ha aiutati: cominciò senz'altro il buon prete, tutto
giulivo: ti ho trovato il miglior posto che si potesse desiderare. Ho
parlato di te al marchese di Baldissero medesimo, e quel generoso ha
consentito a prenderti seco egli stesso e provarti per sapere quale
ufficio ti possa competere e debba quindi assegnarti. Gli ho detto tutto
di te; non hai perciò nulla da nascondergli, nulla da dissimulare; come
nulla del pari verrà più a farti ricordare le traversie passate. Il
marchese sa che il labbro di questo vecchio servo di Dio non si è
macchiato mai d'una menzogna, ed affermandogli io la tua innocenza, egli
crede ad essa come ad una verità di cui avesse la prova: per la medesima
ragione crede al tuo ingegno ed alla tua istruzione. Volentieri egli si
presta per salvare dalla miseria e da ogni pericolo di male una creatura
di Dio, i cui mezzi non comuni furono forse dalla Provvidenza concessi
ad ottenere un gran bene. Se vi è uomo che possa coll'esempio,
coll'autorità, cogli ammaestramenti indirizzare un'anima umana sulla
buona strada, ispirarle i più sani principii e le più maschie e
cristiane virtù; se v'è uomo che meriti rispetto, quello è il marchese.
Tu, ne son certo, benedirai la benignità della Provvidenza, e me che fui
di essa stromento, per averne ottenuto un tanto favore.

«Io rimasi imbarazzatissimo e non seppi di botto che cosa dire. Se il
parroco fosse venuto a propormi d'entrar precisamente da domestico,
avrei avuto il coraggio di manifestargli senza esitazione la mia
ripugnanza e il mio rifiuto; ma ora le parole di lui mi adombravano una
condizione ben diversa da quella che io aveva supposta, e in tal caso,
posto in bilancia la fiducia che si meritava la prudenza affettuosa del
buon vecchio e quella che l'avventatezza egoistica di Gian-Luigi, le
qualità di gentiluomo presso cui voleva allogarmi Don Venanzio e quelle
del trafficatore di denaro, al quale aveva promesso l'opera mia il
giovane mio amico, non c'era da esitare un momentino nella scelta, anche
per la mia inesperienza d'allora. Oltre ciò al marchese di Baldissero
non doveva io già una certa riconoscenza per essere egli stato l'autore
della mia sollecita liberazione? Quindi se alcun valore era in me, non
mi toccava forse l'obbligo di questo impiegare in servizio di lui
piuttosto che d'altri? Di più, senza che io me ne sapessi spiegare la
cagione menomamente, il nome solo di quella famiglia — di Baldissero —
fin dalla prima volta che io l'aveva udito, forse perchè il capo di essa
m'era apparso come un genio tutelare che mi avesse protetto, m'aveva
ispirato un certo non so che d'indefinito che era simpatia, che era
reverenza, un misto confuso di sentimenti il cui effetto era di farmi
sembrare che a quella famiglia io non fossi affatto affatto estraneo,
che alcun legame segreto mi vi avvincesse, non so come; onde alle parole
di Don Venanzio fortissimo di colpo mi si era destato il desiderio di
entrare in essa.

«Era forse già un presentimento d'un venturo legame che doveva stringere
il mio cuore.... Ah! più tardi mi domandai con profondo fremito di tutte
le fibre, che cosa sarebbe avvenuto di me se io allora fossi stato
intromesso in quella casa; e più vivo e doloroso ebbi il rammarico che
ciò non fosse avvenuto, e d'altra parte per contro quasi benedissi
l'error mio, perocchè più acuto sarebbe stato il tremendo dolore che mi
aspettava, che mi ha raggiunto, che mi travaglia quest'anima combattuta.

«Ma tu non puoi ancora comprendere queste parole, che presto verrò a
spiegarti, quantunque contengano il mio più caro e più tremendo segreto:
— ma non ho io deciso di svelarti tutto? — tutto l'esser mio?

«Avrei dunque voluto a quelle parole di D. Venanzio poter rispondere con
una sollecita accettazione; ma come, se avevo impegnata la mia parola
con Gian-Luigi?

«Il parroco s'accorse della mia esitazione e del mio imbarazzo, e volle
saperne la ragione. Tentennai alquanto; mi passò perfino nella mente il
pensiero di tacer tutto a D. Venanzio, e di accettare subitamente come
se nulla fossevi stato con Gian-Luigi. Però alla verità non sapevo
ancora, e non lo so nemmanco adesso, fallire; avevo poi per quel vecchio
sacerdote troppa reverenza perchè mi potesse durare a lungo il pensiero
di ingannarlo, di pur dissimulargli alcun che. Alla seconda volta
ch'egli inquieto e sollecito mi fece richiesta di che cosa avessi, gli
dissi tutto.

«Se ne mostrò molto contrariato, mi rampognò amorosamente perchè, avendo
egli promesso torsi briga de' fatti miei ed essendomi io affidato in
lui, avessi poi, senz'aspettare una sua risposta, disposto delle cose
mie; era quasi un mancar di parola verso di esso, era un mancar di
fiducia in lui, cose che in me lo affliggevano e l'una e l'altra.

«Proposi vivamente di non tener conto nessuno della promessa data a
Gian-Luigi; ed egli me ne ripigliò con severe parole. Avrei fatto
maggiore ancora il mio fallo; creder egli di certo che la condizione da
lui procacciatami sarebbe stata migliore sotto ogni riguardo, ma ora mio
obbligo esser quello di mantenere la data parola; imparassi da ciò ad
andar cauto a prendere impegni, ma allorquando ne avessi assunti, mi
facessi una legge ad adempirli.

«Mi lasciò con queste parole non offeso, chè troppo buono è il suo cuore
per offendersi mai, ma disgustato; ed io da mia parte, nell'animo sentii
una malavoglia, una scontentezza che era come il presentimento delle
poco liete cose che mi aspettavano.

«Ciò però non tolse che una settimana dopo, guarito, ma debolissimo
ancora, io non fossi insediato nel mio ufficio in casa di messer
Nariccia.

«Messer Nariccia aveva allora intorno a cinquant'anni. Un ometto piccolo
e grassotto a collo torto, a mani rozze e grossolane, a piedi enormi,
con ventre proeminente e voce fessa che mi ricordava quella del ladro
Graffigna. La faccia piena, la carnagione di color terreo, un'aria
sommessa e da buonuomo, un sorriso improntato sulle labbra, troppo
costante per essere sincero; i capelli grigi gli venivano giù bassi
sulla fronte piccola; gli occhi piccini e birci guizzavano via, per dir
così, innanzi allo sguardo degli altri, come timidi vergognosi. Portava
un po' di barba d'un biondiccio slavato alle gote, la quale sembrava
ancora lanugine; la cravatta bianca, pantaloni, panciotto e soprabito
scuri di panno sempre logoro; orologio d'argento con grossa catena
d'acciaio, scarponi da montagna, cappello a larga tesa da quacchero, e,
suo fido compagno, un grosso bastone.

«Mi accolse con quel suo sorriso che mi parve ghiacciato; mi fece un
discorso impacciato in cui le parole si affoltavano senza troppo senso e
senza nessun ordine, mentre uno dei suoi occhi guardava la punta delle
sue scarpe e l'altro il luciore degli stivalini di vernicato di
Gian-Luigi. Trovò la maniera di ficcare in tutti i periodi la Madonna, i
Santi, le piaghe di Gesù, il timor di Dio e il gesuita padre Bonaventura
del Carmine, suo confessore.

— Buono! Interruppe Giovanni Selva. Gli è anche il confessore di mia
madre; e conosco che pollo è.

«— Mi disse in sostanza, continuò Maurilio, che, giovane com'ero, col
lavoro e coll'ingegno, avrei potuto arrivare ai favori della fortuna se
avessi saputo guadagnarmi colla religione gli aiuti del Cielo. Prendessi
ad esempio lui; venticinque anni prima egli era venuto a Torino dalle
sue montagne di V... più povero e più solo di quello che fossi in
allora, sapendo appena appena leggere e scrivere e già presso ai 25
anni. Ma egli aveva coraggio, buona voglia di lavorare e il santo timor
di Dio. Egli entrò come servitore — vero servitore, a spazzar camere e
lavar anche i piatti di cucina, e non se ne vergognava, perchè Iddio gli
aveva fatta la grazia di non lasciargli perdere mai la umiltà, — entrò
dunque come servitore nel collegio-convitto tenuto dai PP. Gesuiti al
Carmine, dove tutte le principali famiglie torinesi della nobiltà e
della borghesia facevano educare i loro figliuoli. Era appunto allora il
1815, quando colla ristaurazione in Piemonte dell'antico Principato
Sabaudo, tornavano a regnare, secondo ch'egli diceva, i buoni principii
e la vera religione; ed egli diede prove serie, costanti e solenni ai
suoi superiori di essere il meglio pensante e il più zeloso e fedel
servo della buona causa, onde si cominciò a distinguerlo e ben volergli,
e poichè la Madonna dei sette dolori e quella della Consolata e S. Luigi
Gonzaga di cui era specialmente devoto, lo aiutavano per loro bontà
celeste, più che non fossero i poveri meriti suoi, ebbe campo di avere
al suo zelo sì buona riuscita che quei santi uomini dei PP. Gesuiti lo
elevarono a poco a poco di grado e di uffici, e giunse ad essere il
dispensiere del collegio.

«Sempre aiutandolo Iddio, secondo la sua espressione, e la più severa
economia, era già riuscito a mettersi in disparte un piccolo nucleo di
capitale cui si guardava bene dal lasciare inoperoso, ma faceva senza
riposo lavorare come lavorava instancabilmente egli stesso. I superiori
del collegio, incantati delle sue virtù e della sua abilità, ne
parlavano tanto bene che il marchese di Baldissero, avendo avuto bisogno
d'un intendente, non volle saperne d'altri che di lui, e benchè assai
gli rincrescesse abbandonare i buoni Padri del Carmine, tuttavia dietro
le istanti sollecitazioni del marchese, animato a cedere anche dai
Reverendi i quali contavano fra i primi loro protettori e amici il
marchese medesimo, egli finì per acconsentire.

«Questo marchese di Baldissero non era mica l'attuale padre del
marchesino, ma quello che Nariccia chiamava il vecchio marchese, padre
al capo presente della famiglia ed avolo di quel tracotante insultatore
di Benda. Ah quello era un uomo! esclamava pieno di compunzione e di
ammirazione il sig. Nariccia. Il marchese attuale, soggiungeva egli, è
certo un degno signore pieno di mille meriti; oh non era egli che ne
volesse dire il menomo male; era ben pensante ancor egli, certo, ma il
padre suo!... Che fermezza! che rigore! che testa e che mano d'acciaio
contro i liberali! Che zelo per la buona causa, la religione, la
monarchia legittima, i privilegi della nobiltà! Era un piacerone, per
uomini della stampa di cui Nariccia si vantava di essere, lo aver da
fare con lui.

«Egli era entrato al servizio del marchese nel 1821, quando, dopo il
ridicolo tentativo dei Costituzionali, diceva il buon messer Nariccia,
quel capo duro di Carlo Felice era venuto a metterli alla ragione. Il
figliuolo — l'attuale marchese — aveva in quell'occasione dato qualche
dispiacere al vecchio gentiluomo. Trentenne allora, il padre del
marchesino erasi intromesso in quella schiera che si radunava intorno al
principe di Carignano, nobili con velleità liberali, e benchè non fosse
stato veramente compromesso nella rivoluzione, il partito dei puri lo
guardava con occhio sospettoso. Il padre lo aveva fatto partire per un
viaggio, e quindi lo aveva fatto nominare addetto all'ambasciata in
Ispagna, così che durante quasi tutto il tempo in cui Nariccia fu al
servizio della famiglia, egli era stato assente dal paese.

«Quando poi il vecchio marchese, nel 1825, morì e fu capo della famiglia
l'attuale, Nariccia già da un anno era uscito di quella casa. Iddio
aveva continuato, diceva egli, a favorirlo, e con quel poco di ben di
Dio che aveva potuto raggranellare coi suoi risparmi, s'era posto più
definitivamente in certi traffichi che già aveva intrapresi, e colla
benedizione del Cielo, colla protezione della Beata Vergine e dei Santi
a cui lo legava una particolare divozione, i suoi affari avevano
prosperato. Dunque accogliessi buona speranza anche pel mio avvenire, se
avevo la ferma intenzione di seguitare il suo esempio e di adottare le
sue umili virtù da buon cristiano. Egli, da canto suo, avrebbe fatto di
tutto per tenermi nella buona via del Signore e rendermi degno dei
favori del Cielo.

«— _Amen!_ Disse a questo punto Gian-Luigi, il quale aveva già
sbadigliato più volte durante quel lungo ed indigesto e scomposto
discorso.

«Io mi sentiva invadere l'anima da un freddo morale, che era uguale e
fors'anche conseguenza a quello fisico onde avevo tutte oramai
ingranchite le membra, per lo star fermo in piedi in quel freddo salotto
dove il sig. Nariccia ne aveva accolti. La casa in cui egli abitava ed
abita tuttavia, di sua proprietà, è posta in via **, una delle più
anguste di Torino. Tutto era grigio colà dentro; il color delle pareti,
la vernice delle intelaiature delle porte, il pavimento, il soffitto, il
colore del legno e della stoffa dei mobili, le cortine delle finestre
sopraccariche di polvere, la poca luce che si stacciava traverso ai
vetri sporchi in quella nuvolosa giornata d'inverno. Non c'era pure una
favilla di fuoco, e il camino ornato d'un marmo grigio, con un po' di
cenere rammucchiata nel focolare pareva, invece di calore, com'è suo
ufficio, mandare anzi nella camera un freddo maggiore. Con quella
freddolosità che ci entrava nel corpo per tutti i pori veniva compagna
una mestizia, quasi un abbattimento che ti ammortava ogni vigore
dell'anima. Ascoltai tutta la lunga diceria del mio nuovo padrone a capo
basso; e sentivo una stanchezza, una malavoglia, quasi un'antipatia per
quest'uomo, una impressione sgradevole insomma, che era forse
accresciuta in me dalla debolezza in cui mi trovavo ancora per la
recente malattia.

«Gian-Luigi, che era impaziente di finirla, fece osservare a Nariccia
che io aveva bisogno di due cose: di riposarmi, perchè ero ancora in
convalescenza, di venir vestito un po' convenientemente, perchè portavo
tuttavia gli abiti rozzi e laceri che avevo nel villaggio.

«Nariccia mi guardò alla sfuggita con un occhio, mentre coll'altro
pareva sbirciare Gian-Luigi, e poi mi disse:

«— Vi condurrò nella vostra camera. Vi permetto anche di andare a
letto, se ne avete bisogno... D'ordinario io mi alzo alla mattina alle
cinque — anche d'inverno — e occorrerà che siate in piedi a quell'ora
anche voi, ma pei primi giorni potrete stare in letto a crogiolarvi
anche sino alle sei... Quanto agli abiti, cercherò fra i miei vecchi
panni se qualche cosa potrà adattarvisi, e ve lo manderò dalla Dorotea.
Venite.

«Gian-Luigi si partì, ed io seguii messer Nariccia nella camera che mi
aveva assegnata.

«Era un camerino stretto ed alto, posto verso il cortile, non illuminato
che da un finestruolo così elevato da non poterci arrivare senza una
scala, più nudo, più grigio, più uggioso del salotto che avevamo
lasciato. In un angolo stavano per terra due grandi casse di quelle che
si usano pel trasporto delle mercatanzie e sopravi gettato un
pagliericcio che mi aveva da servire per letto; al disopra di esso
tendeva le braccia, appesa al muro, una gran croce di legno nero; li
presso, da una parte, un vecchio baule di cui la pelle, liberatasi dalle
bullette, si rivolgeva contorta allo insù con volute che avresti detto
rabbiose, dall'altra parte un tavolino che aveva perduto la vernice ed
aveva acquistato una ricca crosta di polvere accumulata, zoppo e
reggentesi a stento contro la parete; compieva il novero di quelle
masserizie una seggiola che perdeva l'impagliatura del suo piano ed
aveva perduto affatto la traversa della sua spalliera.

«Non era a me, avvezzo al fenile di Menico ed uscito allor allora di
prigione e dell'ospedale, che la povertà di quella stanza e di quelle
robe potesse parer soverchia o produrre soltanto alcun effetto; ma pure,
entrando colà dentro, io sentii rinnovarsi e più forte quella specie di
freddo onde avevo provato l'impressione sensibilissima al primo porre il
piede in quella casa. Parvemi che una voce interna mi dicesse che la
vita che avrei dovuto passare colà dentro sarebbe stata la più ingrata
del mondo; feci girare intorno l'occhio quasi atterrito, come per
cercare un mezzo di fuggire, e poichè l'uscio spesso e grossolano di
abete si serrò con fracasso dietro di noi, e il mio sguardo non corse
più che sulle pareti nude e scuramente grigiastre, mi sembrò d'essere
entrato in una nuova carcere.

«— Suvvia, mettetevi a letto, mi disse il mio nuovo padrone,
riposatevi, dormite, e domani stesso comincierete le vostre funzioni.

«Si avviò per uscire, ma quando fu alla porta si fermò per soggiungere:

«— Forse avete bisogno di qualche cosa; or ora che venga Dorotea da
voi, le direte ciò che v'occorre. Qui già non si mangia mai fuori pasto,
ma per voi che siete ancora convalescente, credo bene che vi sarà un po'
di brodo. Intanto dite le vostre orazioni e se aggiungerete un pater e
una ave alla mia intenzione, mi farete piacere. Io da mia parte non vi
dimenticherò nelle mie.

«Strinse le mani come uomo che prega, storse il collo e borbottò fra le
labbra con aria compunta come chi dice una giaculatoria, quindi uscì. Io
stetti un poco li piantato al luogo in cui mi trovavo, senza quasi
sapermi render conto esattamente delle mie condizioni, di quello che
succedeva e di me stesso. Una nuova vita incominciava per me, ciò era
certo. Il passato cadeva irrevocabilmente nel baratro delle cose
distrutte per sempre e che non tornano più. Questo passato ben era stato
abbastanza infelice perchè io non avessi a rimpiangerlo: eppure sentivo
un'esitazione, quasi una paura nell'affacciarmi all'oscurità di quel
futuro che stava per incominciare.

«Mi riscossi sentendo invadermi sempre più le membra da quel freddo
fisico a cui andava compagno un freddo morale che mi veniva avvolgendo
l'anima. Tutto intirizzito mi affrettai a pormi a letto, il quale trovai
ben diverso, quanto a comodità ed agiatezza, da quello che avevo
all'ospedale. Ero inoltre non coperto abbastanza e per quanto
rammontassi addosso a me quei pochi panni mezzo laceri che avevo allor
allora svestito, sentivo tuttavia crescermi lo intirizzimento che mi
faceva battere i denti come a chi è assalito dalla terzana.

«Poco stante entrò una vecchia trascinando le pianelle entro cui teneva
i piedi, burbera d'aspetto, grossa e robusta della persona, con qualche
cosa di virile nelle sembianze, che mi fece il più scontroso effetto del
mondo. Come certe volte si è mai ingiusti nell'apprezzamento fatto
dietro la prima impressione! Per quella creatura brutta e grossolana, io
provai di botto una viva ripugnanza che mi fece sembrare di vedermi
davanti risuscitata la Giovanna, più niquitosa che mai. Ella portava
sopra il suo braccio in un fascio alcune vestimenta, destinatemi da
messer Nariccia.

«— Ebbene, giovinotto, mi diss'ella coll'accento con cui si parla colle
persone che si vogliono strapazzare, di che cosa avete bisogno? Orsù
parlate.

«Io levai timidamente lo sguardo verso quella megera e il suo viso scuro
colle sopracciglia aggrottate mi fece una vera paura. Mi parve che se
domandassi alcuna cosa a quella donna, avrei incorso chi sa qual
pericolo: risposi tremando e di freddo e di suggezione:

«— Non ho bisogno di nulla, non voglio nulla.

«La vecchia Dorotea mi guardò con aria più feroce di prima.

«— Che storie sono queste? Come, non avete bisogno di nulla? Avete
mangiato? Non vedete che avete l'aria d'un pulcino colla pipita? E se
_monsù_ mi ha detto di venirvi a domandare se volete qualche cosa,
bisogna prendere qualche cosa. È già un fatto straordinario che monsù
offra una goccia d'acqua; andate là, che se fate delle cerimonie siete
uno stolido.

«La verità era che io mi sentiva proprio un gran bisogno di ristoro; ma
pure non osavo muovere la menoma domanda. Tacqui non osando pur levare
più lo sguardo sulla faccia per me terribile di quella vecchia
colossale.

«Dorotea stette un poco, gettò sopra il baule le vesti che aveva recate,
poi crollò le spalle con impazienza soggiungendo colla sua voce più
aspra ed ingrata:

«— E tal sia di voi! E così non avrò da pigliarmi altri incomodi, che
se credete ch'io vi avessi da servire anche voi, la sbagliereste di
grosso. Ne ho già di soverchio a servire _monsù_, che non c'era nessun
bisogno che venisse a ficcarsi in casa un terzo che sarà buon da niente
e che mi accrescerà lavoro, alla mia età!..... Eccovi intanto i panni
che _monsù_ vi manda. Li vestirete domani. Oh ci starete proprio bene
dentro, come un bastone in un sacco.

«Mi pareva sempre più di riaver dinanzi viva e tal quale la moglie di
Menico; onde la mia ripugnanza e il mio disagio crescevano sempre più.

«Ad un punto Dorotea s'accorse che battevo i denti.

«— Avete freddo? Mi domandò.

«— Sì, un poco: risposi con voce mozzicata, appena da potersi udire.

«Mi cacciò bruscamente le mani sotto le coltri a soppesarle.

«— Parevami pure che queste coperte dovessero bastare.

«Toccò le mie guancie e le braccia e le mani.

«— Questo babbuino è freddo come una manciata di neve. E' non ha niente
affatto sangue nelle vene. Bel coso che _monsù_ s'è andato a caricare!
Egli ci basirà qui come un pippione da imbeccare tolto troppo presto dal
nido.

«Stette un momentino in silenzio, poi mi disse ruvidamente, colla guisa
che altri avrebbe fatta una minaccia o scaraventata in faccia
un'ingiuria:

«— E vostra madre? Dove l'avete vostra madre?

«Queste parole mi scesero profondo nell'anima come una punta di lama che
mi ferisse. A quell'essere sconosciuto che era stato mia madre pensavo
cotanto e sentivo verso di essa tante e sì forti aspirazioni! Il
rammentarmi ad un tratto in quelle condizioni che non avevo, nè mai
avevo avuto intorno a me una madre, mi fece sentire più doloroso, più
disperante il mio isolamento, così che, senza potermi in nessun modo
frenare, ruppi in un subito pianto.

«Dorotea stette un poco a guardarmi come stupita, poi mi disse collo
stesso accento, senza che la sua voce avesse pure il menomo cenno di
pietà:

«— Che? vostra madre è morta?

«Mi rasciugai le lagrime, soffocai a forza i singhiozzi, e risposi con
più ferma voce che potei:

«— Non la ho mai conosciuta.

«E poi, come sentivo l'emozione vincermi nuovamente, nascosi la faccia
sotto le coltri e mi premetti coi pugni chiusi gli occhi che a forza
volevano piangere. Dopo un poco, non avendo udito più alcun rumore,
alzai la testa, e non vidi più nessuno. Dorotea, forse infastidita di
quelle mie lagrime, avevami lasciato lì, senza tentar pure una parola di
consolazione. Provai quasi un sentimento di sollievo a trovarmi solo; ma
il bisogno di ristoro si faceva sempre più forte, aumentava quel freddo
che m'intirizziva e cominciava a darmi un vero tormento. Eppure
domandare non osavo; avevo rifiutato un minuto prima ciò che mi si era
offerto; ed ancora, se avessi pur domandato, non ero sicuro che alcuno
sarebbe venuto al mio appello.

«Il bisogno divenuto incomportabile era lì lì per farmi superare la mia
timidità e spingermi ad un tentativo di chiamar per aiuto, quando udii
nello andito che conduceva al mio stambugio lo strascico delle pianelle
di Dorotea, e tosto dopo vidi l'uscio aprirsi e quella vecchia con
faccia da megera comparirmi dinanzi più burbera e stizzosa che mai,
tenendo sopra un braccio una coperta e in una mano una scodella fumante.

«Non disse una parola ned io parlai. Io guardava quella benedetta
scodella coll'occhio intentamente desioso d'un affamato. Dorotea
s'avanzò, pose la scodella sul tavolino, e poi di mala grazia mi gettò
addosso la coperta, cui non si diede punto cura di aggiustarmi intorno,
ma lasciò spiegazzata come volle stare; poi ripigliata in mano la
scodella me la pose innanzi a farmi venire alle nari l'odore
riconfortante di un sugoso brodo di carne.

«Presi avidamente la ciotola con ambe le mani che mi tremavano.

«— Grazie! Mormorai osando levare lo sguardo su quella terribile faccia
di donna.

«Ella nè rispose, nè parve tocca in alcun modo dal sentimento di
riconoscenza che pur c'era nell'accento della mia voce. Mi volse le
spalle ed uscì col suo passo lento e pesante, trascinando quelle sue
ciabatte come aveva fatto venendo.

«Quella scodella di buon brodo mi riconfortò tutto; mi ravviluppai
poscia per bene colla coperta stata aggiunta alle mie coltri e tornando
nelle mie membra per ciò un benefico calore, io sentii un certo
benessere invadermi il quale mi condusse senza ritardo un
tranquillissimo sonno.

«E in quello stato incerto di dormiveglia che precede l'addormentarsi mi
apparve annebbiato, ma non più spaventoso il sembiante di Dorotea che
ora mi pareva confondersi con quello della Giovanna, ed ora mi pareva
pigliare una tinta di benignità, facendomi oscillare fra la prima,
istintiva ripugnanza che quella donna mi aveva ispirata, e quel certo
sentimento di gratitudine che quel suo ultimo tratto mi aveva lasciato
nell'animo.

«Il domattina dormivo ancora della grossa, quando una mano venne a
scuotermi per una spalla ed una voce sottile e strillante mi gridò:

«— Ehi là giovinetto! Svegliatevi su! Altro che le sei, sono le sette.

«Mi destai in sussulto. A tutta prima non ebbi coscienza di dove mi
trovassi. La mia stanza era tuttavia oscura ed appena se dall'alto
finestrino discendeva un incerto albore in essa. Mi fregai gli occhi,
guardai intorno, pensai in un attimo al fenile di Menico, alla prigione,
all'ospedale, vidi che non ero in nessuno di questi luoghi, mi ricordai
ad un tratto di ciò che era avvenuto il giorno prima, sorsi a sedere sul
letto e riconobbi nell'uomo che mi aveva svegliato il signor Nariccia.

«— Orsù è più che il tempo di levarsi, soggiunse messer Nariccia. Avete
dormito oltre il bisogno, Tognino.

— Tognino! Esclamò a questo punto Selva, stupito d'udir così chiamato
Maurilio. Avevi tu cambiato di nome?

«— Era stato Nariccia medesimo, rispose Maurilio, a volere che così mi
chiamassi. Appunto, mi sono dimenticato di narrartelo. Gian-Luigi aveva
inventata una storiella sui fatti miei che si prese incarico egli stesso
di narrare a Nariccia per farmene accettare. Io era figliuolo di certi
negozianti che, avendo visto andare a male i loro affari, n'eran morti
di crepacuore, lasciandomi orfano in tenerissima età alle cure d'uno zio
prete, il quale mi aveva preso con sè, allevato ed istrutto in quel modo
di cui non avrei tardato a dargli prova. Che adesso, morto essendo, e
poverissimo ancor egli, lo zio, m'ero trovato affatto solo al mondo e
nella massima miseria, ch'egli, Gian-Luigi, statomi compagno di scuola,
s'interessava vivamente a me e perciò gli premeva vedermi allogato così
bene ecc. ecc.

«Nariccia aveva egli creduto a codesto? Io non so; il fatto è ch'egli
non se ne diede altra briga e forse, perchè io gli servissi all'uopo,
niente gli importava donde venissi e che cosa fossi: soltanto, al dire
di Gian-Luigi, poichè io a quel colloquio tra di loro non fui presente,
soltanto gli dispiacque assai il mio nome di battesimo, e qualunque ne
fosse la ragione, che io mal saprei indovinare, Gian-Luigi mi disse come
all'udire ch'io mi chiamava Maurilio, Nariccia avesse dato in un
trasalto, avesse corrugato la fronte e sclamato con una emozione che
invano avea cercato dissimulare:

«— Si chiama Maurilio?... Che razza di nome!... Ma ci sono dei Maurilii
qui in Piemonte? Non ho mai sentito nessuno del nostro paese che fosse
battezzato così.... Di che paese è egli mai?

«— Di Pinerolo, rispose francamente Gian-Luigi che non si lasciava
punto imbarazzare da nulla al mondo.

«Questa risposta parve acquetarlo.

«— È un nome che non mi piace: riprese egli poi. Un nome che appena è
se ha l'apparenza di esser cristiano. Non è un santo che abbiamo scritto
nel calendario della nostra diocesi. Ditegli che si chiamerà Antonio. È
il mio santo protettore; e sarà bene anche per lui l'essere sotto la sua
protezione.

«Io dunque doveva rassegnarmi a diventar Tognino per quanto tempo sarei
rimasto in casa di messer Nariccia, e benchè mi rincrescesse non poco
abbandonare il mio nome cui posso credere postomi da mia madre medesima,
Gian-Luigi facilmente mi persuase che sarei stato pazzo a rinunciare a
quel posto per sì futile ragione, protestando ch'egli in caso simile si
sarebbe acconciato a lasciarsi chiamare anche Bernardone.

«Per continuare adunque, Nariccia, quella prima mattina mi svegliò come
io ti ho detto, e fattomi levare e vestire in fretta di que' suoi panni,
che secondo l'espressione di Dorotea mi stavano proprio come un sacco ad
un bastone, mi condusse poscia in un suo studiòlo che era mille volte
ancora più triste del melanconico salotto in cui mi aveva accolto il
giorno prima, e del tetro stambugio che mi era dato per istanza da
dormire.

«Figurati una camera più lunga che larga, illuminata da una sola
finestra, la quale, munita d'una grossa inferriata, poi d'una fitta
graticola di ferro lasciava passare a stento la luce traverso i vetri
sporchi tanto da esser ridotti poco meno che opachi. Pareva che quella
benedetta luce si avesse in odio nella casa di messer Nariccia e le si
misurasse a stento il passaggio e si premunisse contro di lei l'accesso
come contro un nemico. Verso la finestra in questo freddo studiòlo senza
camino, nè stufa, eravi una scrivania con sopravi una piccola scancia
divisa in caselle da riporvi delle carte. La scrivania era del tutto
adattata al resto della casa; vecchia, sverniciata, polverosa, il panno
verde tirato sul piano dove scrivere frusto con larghe macchie d'olio e
d'inchiostro, scollato da una parte, ed a chiamarlo verde ancora era un
adularlo, tanto n'era misto di mille tinte sporche il colore. In faccia,
presso l'altra parete, un semplice tavolino. Verso la parte più scura un
cancello di sbarre di ferro con una fitta grata separava dal resto un
angolo della stanza: in questo cancello s'aprivano un usciòlo per
entrarvi ed uno sportello come quello che si trova presso i
cambiamonete, per cui dare e ricevere il denaro, sportello che si
chiudeva con una specie di cateratta che scorreva fra due scanalature da
sottinsù e viceversa. Perchè non si vedesse entro questo cancello per i
fori della grata, dietro di questa era tirata tutt'intorno una cortina
di tela verde. Nessuno penetrava mai in quel sacrario, ma quando lo
sportello ora aperto, chi vi gettasse dentro un'occhiata poteva sorgere
nell'angolo una voluminosa e pesante cassa-forte di ferro, irta di
grosse capocchie di chiodi piantati nelle lastre.

«Dietro la scrivania era un seggiolone frusto, di cuoio spellato, a
spalliera altissima; sopra questa spalliera pendeva appeso al muro un
almanacco, e lì vicino appiccata alla parete per quattro bullette una
tavola di riduzione delle antiche misure, pesi e monete del Piemonte in
monete, pesi e misure decimali. In prospetto a quel seggiolone e quindi
al disopra del tavolino stava attaccato per un chiodo al muro
un'incisione grossolana, grossolanamente colorita della Santa Vergine,
inquadrata in una cornice di legno inverniciato a color naturale. Nel
mezzo della stanza un braciere di ferro a tre piedi conteneva molta
cenere ed un poco di carboncina mezzo spenta.

«Nariccia mi menò innanzi al tavolino sotto il quadro della Vergine e mi
disse:

«— Questo è il luogo in cui lavorerete, in cui lavoreremo insieme,
poichè io starò là (e mi additava la scrivania); e coll'aiuto del
Signore e della Madonna della Consolata, spero che sarà benedetto il
nostro lavoro.

«In quella fredda, oscura stanza, seduto a quel tavolino, passai poco
meno di un anno, quasi incatenato, scrivendo lettere, facendo conti,
compilando discorsi per conto del mio padrone, del quale non tardai
molto a conoscere ed a prendere in disprezzo profondo l'industria
scellerata. Quell'uomo, sotto la sua volgare ipocrisia religiosa, non ha
altro sentimento, altro affetto, altra guida alle sue azioni che l'amor
del guadagno, che la smania di far denaro. Colla sua impostura cerca di
gettar polvere negli occhi alla gente, colla sua prudenza s'industria di
fare il peggio male possibile che gli frutti, senza dar di cozzo nel
Codice penale. Nello scrivere molte delle sue lettere, delle sue
memorie, di cui egli mi dava una traccia confusa perchè le mettessi in
netto, essendo che nè lingua, nè grammatica, nè sintassi egli non sapeva
affatto che si fossero; nello scrivere certe di quelle infamie, la mia
mano fremeva con ripugnanza e l'onestà che era in me si ribellava con
disdegno. Più volte fui lì lì per andar a gettar in volto all'ipocrita
quelle carte che conchiudevano la rovina di un onest'uomo, che stavano
per recar la disperazione in una povera famiglia; ma me ne trattenevano
la soggezione che quell'uomo mi aveva saputo ispirare, il non saper di
poi come avrei potuto guadagnarmi un tozzo di pane quando egli mi avesse
scacciato, e poi ancora un allettamento potente che avevo trovato in
quella dimora.....

— Ah ah! Interruppe Giovanni Selva, sorridendo, una sottana ci
scommetto.

Maurilio arrossò sino sulla fronte e rispose vivamente:

«— No. Di donne colà non c'erano altre che la vecchia Dorotea. Io poi
non aveva che diciasette anni, e ti assicuro che mai ancora il mio
pensiero si era a quest'argomento rivolto. Per una stranezza della mia
natura, in me s'era desto prima lo spirito che il cuore, e mentre quello
s'affannava precocemente in quelle peste ch'io t'ho detto, questo ancora
taceva per l'affatto. Era appunto un vivo allettamento pel mio spirito
quello di cui ti voglio parlare, ed era il seguente.

«Ti ho detto che per giaciglio avevo un pagliericcio gettato sopra certe
grandi casse in quello scuro stanzino che mi era stato assegnato. Un
giorno, rifacendomi il letto, mi venne la curiosità di sapere che cosa
fossevi colà dentro. Il coperchio inchiodato tutt'intorno, si sollevava
un po' da una parte, dove mancava uno dei chiodi. Tirai con tutte le mie
forze insù per allargare quell'apertura, e ci riuscii tanto da poterci
ficcare la mano. Rimasi tutto sorpreso di quel che ci rinvenni, ch'io
difatti non avrei mai immaginato di trovarci. Erano libri. Il primo
volume ch'io ne trassi era un volume dell'Enciclopedia francese del
secolo scorso. Figurati il mio disappunto! A sentire sotto la mia mano
un libro, io che da tanto tempo non avevo più potuto averne neppur uno,
il mio cuore aveva palpitato come all'incontro d'un amico da troppo
lungo non più visto; l'avevo preso con una desiosa sollecitudine, quasi
tremando, e i miei occhi s'erano spuntati, per così dire, contro pagine
scritte in una lingua che ben conoscevo essere la francese, ma non
sapevo leggere nè capire.

«Fui preso da una specie di furore che mi diede la forza di strappar via
tutto quel coperchio, e mi posi a frugare in quella cassa con una
ardenza quasi febbrile. Erano quasi tutti francesi i libri che vi si
contenevano. Libri di storia, di economia politica, di filosofia. Una
sola opera trovai in italiano e su quella mi gettai sto per dire
rabbiosamente. Erano i primi volumi, usciti non era guari, della prima
edizione della Storia Universale di Cesare Cantù.

«Questo titolo mi ricordò quel libro che primo aveva dischiuso la mia
mente a più vasti e profondi pensieri e fattomi concepire l'idea
dell'umanità come un complesso armonico e solidario svolgentesi nella
storia traverso i secoli; il _discorso_ del Bossuet, che Don Venanzio
m'aveva dato da leggere tradotto, e senz'altro indugio cominciai la
lettura del primo volume a quella fioca luce che in quell'ora mattutina
pioveva stentatamente dall'alto finestruolo della mia stanza.

«Non potei continuare a lungo questa lettura che messer Nariccia venne a
disturbarmene. Ero in ritardo a recarmi allo studiòlo, ed egli se ne
veniva a vedere che cosa mi fosse capitato. Per fortuna io ne udii il
passo nell'andito che conduceva alla mia stanza, e m'affrettai a gettare
il libro e saltar fuori, così ch'egli non potè cogliermi intento alla
lettura. Temevo che se ciò fosse avvenuto, Nariccia mi avrebbe proibito
di toccare quei libri, e forse toltili dalla mia stanza; ed io pensava e
sperava che avrei avuto in quelle casse un bel tesoro di ore di sollievo
e di diletto da godere.

«Lasciai tutto in disordine per uscir presto: la cassa scoperchiata, i
libri sparsi sul pavimento, pagliericcio, lenzuola e coperte gettate a
casaccio; ma ero certo che Dorotea non ficcava mai il piede nella mia
camera per ripulire, riordinare od altro, e se non era impossibile che
ci andasse Nariccia, il quale soleva spesso visitare ogni parte della
casa scrupolosamente, pure speravo di poter tornare a rimettere ogni
cosa in sesto prima ch'egli ci venisse.

«— Che cos'è ciò? Mi domandò severamente messer Nariccia guardandomi
con l'occhio destro incollerito, mentre il sinistro fulminava l'oscurità
del corridoio in cui ci trovavamo. Cominciate già a fare il negligente?
Questo non mi piace e non lo tollero. Siete in ritardo stamattina quasi
di mezz'ora.

«Non tentai neppure di scusarmi, come non facevo mai, e perchè non è
nella mia indole il raumiliarmi ne il difendermi innanzi ai rimbrotti, e
perchè Nariccia — come ben presto ebbi scoperto — sotto la sua falsa
arrendevolezza, affettatamente dolcereccia, è uomo a volere assoluto e
di carattere imperioso che non ammette contrasti ai suoi desiderii, nè
osservazioni alle sue parole.

«Lo seguii nello studiòlo, e lavorai tutto il giorno, come se di nulla
fosse; ma la mia mente era sempre e tutta là, in mezzo a que' libri.
Appena potei, corsi nella mia stanza e riposi i volumi entro la cassa e
vi rifeci su il letto, lasciando però fuori, nascosto sotto le lenzuola,
quel primo volume del Cantù che avevo già incominciato.

«Ma un gran desìo mi pungeva: quello di poter leggere in que' libri
francesi che erano lettera chiusa per me. Mi pareva che avrei dato non
so che cosa per poter possedere un libro di grammatica francese da
imparar quella lingua.

«Come fare a comprarmela? Nariccia non mi aveva ancora dato neppure un
soldo dello stipendio promessomi; inoltre io non usciva quasi mai: prima
perchè il mio padrone non me lo consentiva che raramente alla festa
soltanto per andare alle funzioni di chiesa, e poi perchè, vestito
sempre degli abiti frusti di messer Nariccia, facevo la più ridicola e
brutta figura di questo mondo, e tutti i biricchini delle strade,
vedendomi, mi correvan dietro facendomi le beffe.

«A levarmi d'impiccio venne giusto in quel torno di tempo il mio buon
Don Venanzio. Lui pregai di provvedermi di quel libro onde avevo
desiderio, ed a lui dissi averne anche bisogno per ragione del mio
impiego, e quell'eccellente sacerdote, senza pure la menoma obbiezione,
s'acconciò a fare la mia volontà. Al parroco, la faccia e i modi del mio
nuovo padrone, benchè questi torcesse il collo e invocasse Dio e i Santi
più che mai, non erano andati molto a sangue, e da parte sua messer
Nariccia se aveva in sua presenza fatto mille esagerate dimostrazioni di
riverenza a Don Venanzio, costui partito mi aveva detto bruscamente:

«— Chi è quel prete? In che modo vi appartiene? Che cosa è di voi?

«Io fui lì per ismentire tutta la storiella inventata da Gian-Luigi,
dicendo la verità; ma me ne trattenni a tempo, e risposi, esser quello
un amico di quel mio zio che mi aveva allevato, avermi visto bambino e
perciò postomi un certo affetto paterno; però siccome a mentire non
avevo l'abitudine e forte mi ripugnava, come anche oggidì mi ripugna,
divenni rosso sino alla radice dei capelli e non potei pronunciare
quelle parole che balbettando impacciatamente.

«Nariccia mi guardò ben fiso coll'uno e poi coll'altro di que' suoi
occhi birci, e poi disse colla sua voce più acuta:

«In somma, non vi è nulla di nulla, e non saprei perchè avesse da venire
a ficcare il naso in casa mia.

«Per fortuna Don Venanzio, tra che le sue gite a Torino si facevan
sempre più rade per gli anni crescenti, tra perchè l'istintivo suo
sentimento di profonda onestà lo respingeva dal cercare la presenza di
messer Nariccia, più non venne a vedermi in tutto quel tempo che rimasi
ancora nella casa di quest'ultimo.

«Io intanto ero in possesso della mia grammatica francese, e la studiavo
con ardore. Il tempo che mi rimaneva per ciò era poco in verità, perchè
appena alzato, e m'alzavo sempre prima che fosse giorno, mi toccava
andar nello studiolo a lavorar pel padrone, in quella fredda, triste
atmosfera, al melanconico chiaror d'una lampada mezzo moribonda; e colà
seduto a quel tavolino stavo la giornata intiera con pochissimo riposo
per l'ora dei pasti soverchiamente parchi e troppo scarsamente misurati.
Ma quel libro portavo meco sempre, e quando Nariccia non era là,
affrettatomi più che potevo a finire il lavoro affidatomi, studiavo la
mia grammatica con tanta intensità di volere che il tempo pei
risultamenti poteva contarci pel doppio. Ma ciò non mi bastava ancora.
Volevo leggere eziandio i volumi del Cantù, volevo giungere il più
presto possibile a poter divorare quegli altri che tanto mi facevan
gola. Non c'era altro mezzo fuor quello di rubar delle ore al mio sonno
e trar profitto della notte, in cui almeno ero libero dello sguardo
inquisitore di Nariccia e di Dorotea. Ma qui c'era un altro guaio:
bisognava procacciarsi del lume, e come giungere a tanto?

«Per andare a coricarmi non mi si dava mai altro che un piccolo
moccolino di candela e guai ancora se il mattino seguente Dorotea avesse
trovato che il consumo n'era stato soverchio! Pensai di raccomandarmi
alla fante e di ottenere da lei un tanto favore; ma sempre quando fui
sul punto di aprirmene con esso lei, il coraggio mi venne meno, e poscia
la prudenza medesima me ne trattenne. Dorotea avrebbe voluto sapere che
cosa ne avrei fatto, non l'avrebbe taciuto al padrone a cui le toccava
pure di rendere strettissimo conto di tutto. Che scusa avrei allegato?
Il mio segreto sarebbe stato scoperto e toltomi in conseguenza
quell'unico sollievo che avessi. Denari da comprarmi ciò che mi
occorreva non possedevo a niun modo. Un giorno, entrato per qualche
bisogna nella cucina, vidi la serva, che giustamente approntava i lumi
per la sera, aprire un certo cassettino riposto in un armadio
ordinariamente chiuso a chiave e in tal momento aperto, e da quel
cassettino trar fuori una candela. Gettai là dentro uno sguardo, dirò
così di ardente cupidigia; quel cassettino era quasi pieno di candele.
La vista di tutti i tesori del mondo non avrebbe esercitato una sì
irresistibile tentazione sull'animo mio quale mi destò la vista di quei
bastoncini di sego. Sentii come una fiamma invadermi tutto; delle stille
di sudore mi spuntarono sulla fronte. La sorte voleva proprio farmi
sostenere per intiero e in tutta la sua forza la prova tentatrice. La
voce di Nariccia chiamò in quel punto Dorotea, e con quella insistenza e
con quell'accento che esigevano di prontamente obbedire.

«La serva se ne partì lasciando aperto l'armadio, lasciando aperto il
cassetto e me innanzi a quelle candele, per prender le quali non avevo
che da allungare la mano. Ciò che provai in un attimo allora, mi
occorrerebbe non so quanto tempo a spiegartelo, tanti e sì diversi e sì
complessi sentimenti contenne un solo minuto secondo. Per prima cosa mi
precipitai sulla cassetta per afferrare una di quelle desiate candele, e
tosto poi mi rigettai indietro vivamente, come se respinto con forza da
una invisibil mano. Una voce mi aveva gridato nell'anima: «Disgraziato!
questo è rubare!» Volli fuggire quel luogo, e non potei. Si fecero
riudire le pianelle trascinanti di Dorotea che ritornava; l'occasione —
se io tardava ancora un minuto — era persa, e chi sa se sarebbe tornata
più! Mi trovai di nuovo presso presso alla cassetta senza pure essermi
accorto d'avere fatto il passo, e la mia mano abbrancò una candela. Il
passo di Dorotea era lì, proprio sulla soglia dell'uscio. Nascosi la
candela sotto a' miei panni e corsi via senza dir parola, senz'alzar lo
sguardo; corsi a riparare nella mia stanza, dove nascosi in fretta entro
il pagliericcio il conquistato oggetto del mio desiderio.

«Ma appena ebbi ciò fatto, io fui assalito da paura, da rimorso, da
vergogna de' fatti miei. Se Dorotea se ne fosse accorta! E come non
accorgersene? La mia stessa fuga non mi accusava ella? Cielo! Quello che
io aveva commesso era un latrocinio. Ero dunque degno compagno di que'
tali con cui avevo divisa la carcere? Le parole di Graffigna mi
tornarono alla mente. Egli aveva dunque avuto ragione nell'affermarmi
predestinato al delitto, nell'assicurarmi che sarei caduto
necessariamente in esso? Mi venne in pensiero di andarmi ad accusar
tosto io stesso da Dorotea e restituire senza ritardo il mal tolto
oggetto.

«Nariccia mi chiamò in quella per nome, ed io allibii; tremai tutto;
prima un brivido mi assalse, poi una vampa di calore; mi credetti
scoperto. Ripetendosi la chiamata, andai con passo vacillante dov'era il
padrone, certo d'udire la mia condanna. Nulla era scoperto, Nariccia non
mi chiamava che per darmi nuovo lavoro.

«La notte seguente, quando tutto fu quieto, saltai giù del mio
giaciglio, accesi la candela e quasi tutte quelle silenziose ore
impiegai nello studio e nella lettura. Ma la candela non istette gran
tempo ad essere consumata, e oramai che il primo passo era fatto, oramai
che il bisogno di quelle nottate era divenuto ancora più imperioso in
me, gli scrupoli cedevano affatto innanzi al mio desiderio, che come
tutte le passioni, ricorreva al sofisma per legittimare il suo
soddisfacimento.

«Nariccia, mi dicevo, aveva promesso pagarmi uno stipendio, e di esso in
parecchi mesi che già lavoravo da lui non avevo ancora visto neppure un
centesimo. Non era che una piccolissima parte di ciò ch'egli mi doveva,
ch'io veniva prendendomi sotto forma di candele, e quando il padrone mi
avesse totalmente pagato del fatto mio, allora avrei trovato il modo di
restituirgli quello che avevo preso per anticipazione. E così con mille
industrie ed accortezze, di cui prima mi sarei creduto affatto incapace,
io giunsi a provvedermi continuatamente di lume per la notte.

«Ma intanto, lavorando tutto il giorno, vegliando a studio la notte, non
uscendo quasi mai, dormendo troppo poco, nutrito troppo male, pensati
come se ne dovesse avvantaggiare la mia salute! Io diventava allampanato
che era una compassione il vedermi, cotanto che ne fu tocca quella
rozza, grossolana e burbera Dorotea.

«Costei aveva una certa influenza su messer Nariccia: era anzi l'unica
persona ch'io mi accorgessi mai che avesse alcun potere su quell'uomo
che non sentiva nulla, che non si preoccupava di nulla che non fosse
l'oro e l'amor del guadagno. La sua ipocrisia medesima, la smania che
sembrava avere di conseguire stima ed osservanza presso il pubblico non
erano altro per lui che un mezzo maggiore con cui, ingannando la gente,
aumentarsi gli spedienti e le probabilità degl'illeciti profitti. Ebbene
a quest'uomo, quella vecchia donnaccia, sempre aspra ed incollerita,
pareva incutere quasi direi una certa paura, e fosse abitudine presa da
lungo tempo (erano di begli anni che que' due stavano insieme), fosse
una dipendenza stabilita per qualche segreta ragione, il fatto è che
Nariccia, per tutto quello che non toccava i suoi traffichi impuri e
scellerati, in certa proporzione sottostava alle volontà della Dorotea.

«Or bene, questa donna che in fatto fin dal primo giorno, come ti ho
narrato, non era stata senza pietà a mio riguardo, una bella volta
manifestò più spiccatamente la sua compassione per me.

«Messer Nariccia era il più incontentabile uomo del mondo. Per quanto
uno si industriasse a far con zelo il dover suo, non solamente egli non
trovava mai una parola di lode per esso, ma non desisteva pur mai, ciò
nulla meno, dal brontolare e rampognarlo. Con me gli era un rimprovero
continuo, e il quale aumentava di intensità in due occasioni: quando
veniva alcuno in istudio, e non si trattava d'affari segreti che io non
dovessi ascoltare, perchè in tal caso ero sempre mandato in altra
stanza, e quando ci sedevamo al desco per mangiare quello scarso cibo
che ci era ammanito. Nel primo caso egli pigliava qualunque pretesto per
entrare a dire della gran pazienza che io gli faceva esercitare, della
croce che per causa mia gli toccava portare, della grandissima carità
che egli usava a mio riguardo tenendo seco un buon da nulla ed un
ingrato; e torceva il collo più che mai, e giungeva le mani, e diceva le
più infervorate giaculatorie del mondo. Nel secondo caso, cioè a tavola,
egli mi rivolgeva per punta, come dice Dante, quella lama che già di
taglio mi tornava troppo acre, e siccome s'era accorto, io credo, che
per la commozione ond'era preso non potevo più mandar giù che pochi
bocconi, sono persuaso che lo faceva apposta, avarissimo secondo che
egli è, a cominciare quei discorsi appena ci trovavamo seduti a tavola.

«E se avesse almeno prorotto in una sfuriata, e poi smesso, pazienza!
Per quanto frequenti fossero quelle sfuriate ci sarebbe sempre stato
frammezzo un po' di tempo di riposo; ma no, il suo era un continuo
tatamellare colle più untuose sembianze e colle esclamazioni della più
afflitta anima del mondo. Non era un temporale che passa e cessa, e
lascia venire il sole a rasciugare; era una piova continua che immolla
senza riparo e senza interruzione.

«Una volta adunque ch'egli aveva incominciato all'ora del pranzo la sua
solita tiritera contro di me, ed io, rimasto lì col groppo nella gola,
non potevo più mandar giù il boccone, Dorotea interrompendo colla sua
voce grossa quella esile e sottile del padrone, disse in quel tono di
collera che le era abituale:

«— Eh! lasci un po' stare tranquillo un momento questo povero
scempiatello, che la vede bene non ha più tanto fegato da tirar nemmanco
il fiato. Certo che la non lo ingrassa, che lo manda pasciuto di
rimbrotti e di trafitture.

«Nariccia alzò verso la serva il suo volto flosciamente paffuto, ed una
fiamma di sdegno lampeggiò ne' suoi occhi balusanti.

«— Che temerità è questa vostra, Dorotea? Diss'egli. Voi abusate
stranamente, mi pare, della bontà con cui tollero le vostre
impertinenze.

«Dorotea mise le mani in sui fianchi nell'attitudine battagliera d'una
treccona che si appresta a mandare ed a ricevere una bordata di ingiurie
nella lotta con una sua compagna.

«— Abuso? Gridò essa con voce più sonora che mai. Le mie impertinenze?
Ella tollera?... Un corno! Oh! non mi guardi pure di cattiv'occhio che a
me la sa che non mi fa paura... Nè lei ned altri musi più brutti del
suo. E le mie buone verità glie le ho sempre dette e voglio continuare a
dirgliele.... Ah! Ed a me di questo cazzatello me ne importa tanto
quanto delle prime scarpette che ho frustato, va benissimo; ed ella
poteva far benissimo senza d'una nuova bocca da alimentare, e se avesse
dato retta a me non si sarebbe caricato d'un impiastrino che non so a
qual cosa le possa servire. Ma poichè le è piaciuto far di sua testa e
condursi in casa questo tristanzuolo, io le dico che bisogna almanco
trattarlo come un cristianello e non farlo morire a pizzichi ed a piccol
fuoco.

«La fiamma di sdegno balenò più intensa e più viva negli occhietti di
messer Nariccia, ed io credetti vicino il momento in cui fra quei due
avvenisse un aspro battibecco; invece di botto quel lampo nel padrone
passò, gli occhi suoi ed anche il volto si chinarono verso terra, le
mani si congiunsero e le labbra mormorarono col solito tuono di
giaculatoria:

«— Sant'Antonio, mio protettore, datemi voi pazienza, e che io possa
sopportar tutto di buon animo, in espiazione de' miei peccati.

«— Sì, bravo, continuava più fiera la fante, intanto la espiazione de'
suoi peccati la fa sostenere agli altri.

«E rivolgendosi a me, con aspetto ed accento così grazioso come un cane
che voglia mordere:

«— E voi, povero martuffino che siete, non lasciate sgomentarvi così e
fatevi un po' più di animo. Mangiate, sostentatevi, mettete un po' di
carne addosso; non vedete che non avete altro che un po' di pelle tirata
su quattro ossa mal giunte insieme?.... To', prendete, nutritevi, e non
date retta più alle malignità di questo pilastro d'acquasantino.

«Nel dir così aveva afferrato il piatto di mezzo al desco e mi aveva
fatto cadere nel tondo che avevo dinanzi una enorme porzione della
pietanza.

«Nariccia si drizzò in piedi, levò gli occhi al soffitto, torse il
collo, mandò un sospiro e poi a schiena curva, con quei suoi passi
riguardosi che non facevan rumore, uscì dalla stanza senza più aggiunger
nemmanco una parola.

«— Oh oh! Sì ch'io so tenergli il bacino alla barba: esclamò con tono
di trionfo Dorotea colle mani nuovamente in su' fianchi guardando dietro
al padrone che partiva.

«Anch'io mi levai di tavola e mi disposi ad uscire.

«— Ebbene, che cosa fate? Mi disse Dorotea. Suvvia mangiate quella
roba.

«Io aveva sempre più stretto il groppo nella gola.

«— Grazie: risposi: non posso, non mi sento.

«La donna mi guardò con espressione tra di collera e di disprezzo.

«— Andate là che siete proprio un povero baggiano voi!

«Questa era la sola persona che mi manifestasse alcun interesse, e
questo il modo in cui me lo dimostrava.

«Messer Nariccia aveva sofferto in tal occasione una vera sconfitta, ma
i danni di questa toccò sopportarli tutti a me, il quale se prima non
poteva vantarmi d'avere l'affetto del padrone, di poi dovetti accorgermi
che ero divenuto oggetto speciale della sua antipatia. Nell'ora dei
pasti, ei non mi diceva più nulla; ostentava anzi di non badar più
menomamente a me e faceva proprio come se io non esistessi, ma come se
ne ricattava durante le lunghe ore che mi toccava passare con lui in
quel tristissimo studio!

«Per mia fortuna mi rimaneva il compenso dei miei diletti studi, delle
mie care letture la notte.

«Ti ho già detto come la grande soggezione che avevo per Nariccia, fosse
ancora superata in ampiezza dalla grandissima disistima che avevo dovuto
acquistare di lui.

«Diffatti non passò molto tempo che io dai lavori che venivo facendo e
dai colloquii che udivo di coloro che venivano nel suo studio, avevo
dovuto esser chiaro di tutta la scelleraggine che quell'uomo nascondeva
sotto la sua schifosa ipocrisia. Ciò che peggio mi sdegnava era lo
spietato rigore ch'egli, padrone di casa, usava verso i poveretti che
avevano tolto da lui in affitto e non potevano pagare la pigione. Mentre
ostentava di far parte di non so quante congregazioni di carità, egli
toglieva a povere famiglie le ultime loro masserizie, mettendole sul
lastrico, affine di esser pagato di ogni aver suo; e tutto ciò sempre
invocando al suo solito Dio, la Madonna e tutti i Santi del calendario.

«Quelli poi che ricorrevano a lui per imprestito di denaro non potevano
trovare altrove un peggiore usuraio. Fra questi vidi anche venire
Gian-Luigi, e fu l'unica volta che lo vedessi dappoi che egli mi aveva
allogato in quella casa. Nariccia trovavasi assente in quel momento, ma
per tornare fra poco, e Gian-Luigi volle aspettarlo, stando meco in
istudio a discorrere.

«Mi disse: che la somma avuta come legato del suo protettore era tutta
consumata; che, avendo impreso a vivere con una certa eleganza non
poteva nè voleva smetter più; che la professione della medicina avrebbe
ancora tardato troppo assai a rendergli qualche cosa e i guadagni di
essa non sarebbero pure stati mai tali da bastargli all'uopo; ch'egli
perciò aveva rinunciato al proposito di farsi medico non sentendosi
acconcio per istentar la vita ad arrampicar sulle soffitte a visitare
degl'infelici che crepano di miseria, come deve fare ogni medico
principiante, oppure per andarsi a seppellire in qualche paesucolo
remoto, felice di avere uno scarso tozzo di pane in quello che si suol
chiamare una _condotta_, non potendo aspirare a un po' di agiatezza e un
po' di fama, anche avendo e mostrando molto talento, se non quando i
capelli fossero brizzolati e la bella età tutta trascorsa. Egli aveva
però, soggiunse, trovato il modo di pure strappare a questa nefasta
matrigna che è per noi la società, i mezzi onde soddisfare ai suoi
desiderii imperiosi. Il mondo era secondo lui un paese nemico da
conquistare, e vi occorrevano forza, ingegno e tenacità di propositi.
Egli possedeva tutto questo, e avrei dovuto vedere come sarebbe
riuscito. Ma frattanto, durante il tempo della lotta, egli veniva a
cercare munizioni di guerra anche all'usura di messer Nariccia e di
altri suoi pari.

«Poichè il mio padrone tardava, discorremmo a lungo su tali argomenti:
Gian-Luigi trascurava un poco le ragioni e le necessità d'ordine morale;
nel suo materialismo scettico ed egoistico, egli veniva abituandosi a
non discernere altro più che il suo vantaggio, inteso a modo suo.
Dimenticava, anzi non curava appositamente, e quasi direi disdegnava
tutti gli argomenti d'una filosofia superiore al sensismo epicureo, che
in ogni fatta di quistioni pone per base e per norma il solo
soddisfacimento dell'individuo. In me i libri avevano istillato qualche
insegnamento superiore; gli amorosi ammonimenti della religione di Don
Venanzio avevano lasciato tuttavia un tipo più elevato, un ideale più
sublime della vita e del compito dell'uomo anche nell'ordine sociale
come nel morale e nell'intellettivo. Abbracciavo col pensiero vedute e
concetti più generali, e il motto del nostro destino mi pareva più
grandioso che non quello cui affermava la smania di godimenti personali
onde era travagliato Gian-Luigi.

«Fu quella la prima volta che io, contro il fascino seducente della
persona e della parola ornata ed attraente del mio compagno d'infanzia,
ebbi la fermezza di proclamare i miei diversi principii. Gian-Luigi se
ne stupì. Volle ribattere, e il calore della disputa unita colla
convinzione dovette darmi alcuna maggiore efficacia di discorso, di
quella ond'egli mi credesse capace, perchè tutto attonito esclamò ad un
punto:

«— Dove hai tu appreso cotante cose? Onde il tuo ingegno ha egli
attinto tanta forza e tanto sviluppo? Se queste tue qualità tu
impiegassi al conseguimento d'uno scopo preciso e definito, alla croce
di Dio, che tu riusciresti senza fallo nell'intento.

«Nariccia sopraggiunse, ed entrato con Gian-Luigi dietro il cancello,
discorsero abbastanza lungamente a voce bassa, senza ch'io potessi
capire pure una parola, ma in tal modo che sembrommi l'usuraio opporre
molte difficoltà alle domande del giovane, e finire per arrendersi poi
sotto condizioni che udii Gian-Luigi in un momento in cui alzò la voce,
chiamare enormi.

«Partendo, il mio compagno d'infanzia mi disse che sarebbe tornato a
vedermi e che avremmo ripreso il nostro discorso, ma non lo vidi più in
quella casa per quel poco tempo durante cui ancora ci rimasi.

«Chi ci veniva sovente era quel gesuita che Nariccia diceva suo
confessore, padre Bonaventura....

— Quello è uno scellerato di frate, interruppe Giovanni Selva. In quante
famiglie egli ha cacciato la dissensione e seminato l'odio! La mia è una
di quelle. Quante eredità ha _captate_! Quante intelligenze ha castrate
per farne ciechi stromenti alle voglie ed alle ambizioni del suo ordine!
Un povero giovane che caschi in quelle mani, ne viene impastato,
maneggiato, plasmato al modello di quel menno San Luigi che i gesuiti
han creato per ideale della gioventù educata da loro. Ho visto ciò che
hanno fatto di mio fratello. Un automa a cui essi tirano i fili. Non ci
hanno lasciato nemmanco più il posto per un po' di cuore.

— Quando veniva costui, così riprese la sua narrazione Maurilio, io era
inevitabilmente mandato fuor della camera, e lunghe lunghe ore passavano
prima che il gesuita partisse, ed io fossi richiamato al mio tavolino.
Approfittavo di questo tempo, che avrei voluto si rinnovasse anche più
spesso, per correre ai miei libri nella mia stanza.

— Ma come mai messer Nariccia, il quale non mi pare molto amante di
libri e d'istruzione, aveva egli in suo potere quelle tali casse?

Così domandò Selva; e Maurilio rispose:

— Avevo pensato ancor io a codesto e mi ero immaginato che ciò fosse in
dipendenza di qualcheduno di quei suoi prestiti da usuraio cui lo vedevo
fare tutti i giorni agli infelici che gliene capitavano tra mano. E mi
ero diffatti bene apposto come un giorno mi venne chiarito.

«Vidi entrare un uomo di età matura, vestito di poveri panni, ma
pulitissimo, con aspetto di onestà e di dignità modesta insieme, che lo
rendeva affatto rispettabile.

«Dal colloquio che ebbe con Nariccia appresi chi fosse e quali rapporti
avesse con codestui.

«Egli era un libraio, il quale, volgendo a male i suoi affari, era stato
costretto a ricorrere a quell'arpia affino di averne danari in
imprestito. A poco per volta il debito del povero libraio si era
cresciuto talmente, che non potendo bastar più a pagare nonchè il
capitale, ma gli interessi enormi che erano pattuiti per Nariccia,
questi avealo minacciato di fargli vendere ogni cosa sua per giustizia e
il povero libraio pregando e strapregando aveva ottenuto un po' di
respiro col patto di dare in pegno al creditore tutto quel meglio che
aveva della mercanzia del suo fondaco. Si era egli obbligato a pagare in
certe rate a dati tempi il suo debito a Nariccia, il quale credendosi
che mai più il debitore sarebbe a ciò riuscito aveva già intanto in sua
mano il più prezioso di quanto avesse mai potuto prendere al suo
debitore, e ne sarebbe stato padrone senza intromissione di tribunali o
d'altro e senza ulteriori spese di sorta.

«Il buon libraio aveva ristretto il suo negozio ad un modesto
_baraccone_ sotto i portici, e vivendo con ogni fatta di privazioni egli
e la sua famiglia, coll'aiuto, com'egli diceva, di qualche caritatevole
persona, era giunto a tale da poter mettere insieme i denari occorrenti
per la prima rata, e si era affrettato a venirli portare. Pregava
intanto Nariccia a volergli restituire se non tutti quei libri che
avevagli dato in pegno, almanco una parte; ciò, soggiungeva, sarebbegli
stato di gran vantaggio, perchè avrebbe potuto così dare nuovamente
maggiore sviluppo al suo commercio che ora pareva volersi ravviare, e
così porsi in grado eziandio di più sicuramente adempire a tempo agli
obblighi assunti verso il creditore.

«Ma per quanto egli dicesse e pregasse e scongiurasse, Nariccia fu
incrollabile. Il pegno doveva stare presso di lui fino a totale
estinzione del debito; egli non voleva privarsi dell'unica guarentigia
che avesse, e quindi non avrebbe consentito a nulla di codesto, finchè
non avesse ricevuto sino all'ultimo centesimo il pagamento dell'aver
suo.

«Durante questa discussione il mio animo era combattuto da diversi
sentimenti. La pietà mi faceva desiderare che Nariccia cedesse alle
domande del libraio; ma l'idea che sarei privato dei miei libri diletti
mi era pur dolorosissima. Senza quell'unico conforto qual vita sarebbe
stata la mia in quella casa? Mi dicevo fra me che certo, ove ciò
avvenisse, non avrei resistito più e sarei partitomi di là. Ma per andar
dove? Per far che?

«Frattanto l'idea che il libraio avrebbe potuto pagar quanto prima tutto
il suo debito e riavere i suoi libri, mi pungeva continuamente e mi dava
nuovo ardore a studiare. Non dormivo più che un'ora appena per notte, la
mia salute se ne stremava sempre più, e le candele consumavano in
fretta, così che la sottrazione ch'io ne faceva doveva pur finalmente
apparire alla Dorotea. Ben lo pensavo alcuna volta, e un gran spavento
mi occupava, ma come fare altrimenti?

«In questo frattempo ecco un giorno avvenire tal cosa che tutto mi
conturbò più che non ti possa dire.

«Ero, secondo il solito, nello studiolo con Nariccia. Entra un uomo
piccolo, mal in arnese, sottile, con faccia di faina, il quale
interpella con una strana domestichezza il mio padrone:

«— Eh buon giorno, messer Nariccia. Come va? Mi riconoscete ancora? Gli
amici non si debbono dimenticar mai.

«Quella voce non mi era ignota. Alzo gli occhi e figurati come io mi
rimanessi nel vedermi innanzi il naso affilato di Graffigna, il mio
compagno di carcere!

«La presenza di codestui non parve andar molto a sangue neppure a messer
Nariccia. La bassa di lui fronte s'intorbidò, gli occhi rotarono
inquieti intorno, come a cercar uno scampo.

«— Chi siete voi? Che volete? Diss'egli, volendo assumere un aspetto
imponente ed altezzoso.

«Graffigna s'inchinava umilmente, ma ad un tratto drizzando la persona,
mettendo il suo muso volpino sotto il naso di Nariccia e piantandogli in
faccia gli occhi, rispose con una certa sicurezza che toccava
l'impertinenza:

«— Chi sono? Possibile che abbiate perduto siffattamente la memoria,
messer Antonio, o che io mi sia tanto cambiato da non riconoscere più in
me un antico amico?

«A questa parola Nariccia diede in un soprassalto, e uno de' suoi occhi
fece scivolare uno sguardo verso di me, che tutto stupito di codesto
stavo a guardare a bocca larga colla penna in mano.

«— Sono Graffigna, continuava quell'altro con accento e con sorriso
ironici, e se volete che aiuti un poco la vostra memoria...

«— No, no: interruppe affrettatamente Nariccia, dando alla sua
fisionomia l'ipocrita mansuetudine che soleva portarvi stampata su per
maschera. Non vi avevo di subito ravvisato. È tanto tempo che non vi ho
visto!...

«— Ma! Esclamò Graffigna con un dolentissimo sospiro. Non è la mia
volontà che m'abbia tenuto lontano da voi sì a lungo. Sono le
circostanze; è quel maledetto destino che non cessa di perseguitarmi,
sapete. La calunnia si accanisce dietro di me e la persecuzione non si
stanca mai contro questo povero diavolo. Ultimamente ancora, figuratevi
che venni accusato....

«Nariccia lo interruppe di nuovo con sollecita premura:

«— Aspettate, venite qui, sedete, discorreremo più a bell'agio delle
cose vostre.

«Poi si rivolse a me e mi disse con insolita dolcezza:

«— Andate da Dorotea, Tognino; può essere ch'ell'abbia bisogno di
venire aiutata in qualche cosa. E vi riposerete anche un poco dal
lavorare al tavolino.

«Uscii molto volentieri, perchè, oltre il resto, la presenza di
Graffigna mi era supremamente impacciosa; invece di recarmi in cucina da
Dorotea, fui nella mia cameretta intorno ai miei libri.

«Graffigna mi aveva egli riconosciuto? Avrei detto di no, avrei detto
ch'egli non mi avesse neppur scorto, o quanto meno dato non mi avesse
alcuna attenzione, se nel momento appunto in cui uscivo dalla stanza non
mi avesse scoccato ratto e di sottecchi uno sguardo in cui c'era come un
saluto, come una segreta intelligenza, come un segno di convenzione.

«Per un poco non potei attendere alla mia diletta lettura a cagione
dell'ansietà in cui ero posto dal timore che Graffigna dicesse al mio
padrone chi fossi e dove mi avesse conosciuto; poi, secondo il solito,
lo studio prese tutta l'anima mia, e non badai più e non pensai più ad
altro.

«Quando cessai, già stanco dallo studiare, mi stupii che tanto tempo di
libertà mi fosse stato lasciato, senza venirmi ad interrompere, ed uscii
dal mio stanzino assai peritoso. Nariccia era andato fuor di casa ned
era ancora tornato. Dorotea impaziente ed inquieta, brontolava che il
pranzo pel troppo ritardo andava a male.

«Il padrone rientrò con faccia evidentemente preoccupata, non mangiò
nulla, non aprì bocca neppure per rispondere alle interrogazioni di
Dorotea, e fu sollecito a ritrarsi nella sua camera.

«Due giorni dopo ricorreva la domenica. Nella mattina io aveva un'ora di
libertà per andare a messa, e ne profittavo sempre per recarmi fuori
porta a respirare un po' d'aria libera.

«Quel giorno appena fui sotto i viali di porta Susa, udii dietro me il
passo d'un uomo che pareva affrettarsi sulle mie peste; mi rivolsi a
guardare, e vidi con isgradita sorpresa Graffigna, il quale mi fece
segno lo attendessi e camminava ratto per raggiungermi. Lo avrei evitato
molto volentieri; mi venne in mente di correr via per isfuggirlo; ma in
un attimo egli mi fu accosto e mi prese famigliarmente pel braccio.

«— Buon giorno, caro figliuolo, mi disse. Ho tanto piacere di vedervi;
il diavolo mi porti, che sono stato più di un'ora stamattina alla porta
della casa di Nariccia, aspettando che ne usciste. Non vi ho voluto
fermare per le strade e per non darvi suggezione, e per prudenza; ma
quando vi ho visto venir fuori di città, ho detto: bene! Giusto quello
che ci vuole. Qui si può discorrere senza che vi sia un orecchio di
troppo ad ascoltare.

«Prese a camminarmi accosto, avviandoci giù per lo stradale di Rivoli.

«— Misericordia! Come siete gramo, mio povero Maurilio; riprese egli a
dire. Pare che viviate di lucertole e di brodo di malva. Quel caro
messer Nariccia, birbone matricolato, brav'uomo d'un avaro degno della
galera, che leverebbe la pelle ad una pulce, vi fa patir della fame, ci
scommetto. Eh! lo conosco da un pezzo io. Sono sicuro che questa mattina
non avete ancora fatto colazione. Lo si vede chiaro su quella vostra
bella faccia verde da minchione intisichito. Buono! Graffigna è un
amico, sapete! C'è in questi dintorni una spelonca di bettolaccia che è
la migliore del mondo, in cui uno scellerato di taverniere, mio buon
amico, avvelena la gente nel modo più squisito del mondo. Venite meco
che ci mangieremo una fetta di eccellente salame e due peperoni
coll'olio che vi dico io!...

«Me ne scusai a gran pena. Quando vide che non poteva trarmi dov'egli
voleva, Graffigna disse:

«— Ebbene, pazienza, discorreremo all'aria aperta. Si tratta del vostro
interesse. Io sento, in fede di galantuomo, che il boia mi strozzi, una
viva sollecitudine de' fatti vostri. Che bella vita è quella che vi
tocca con quell'animale d'un usuraio, mio buon amico, ladro, impostore
che vorrei vedere affogato nella pece bollente! Vi fa lavorare da
un'alba all'altra quel cane e vi mantien magro come siete, e vi veste di
questa bella guisa da farvi suonar le tabelle dietro, e sono più di
certo che non vi lascia veder mai la croce d'una mezza _muta_. Ditemi un
po' se la sbaglio.

«Non potei a meno di consentire che tutto codesto era vero.

«Graffigna strinse il pugno e lo levò con atto di minaccia verso il
cielo.

«— Uh! appenderlo per la gola e poi dargli da bere. Gli è proprio un
ingrataccio scellerato quel caro uomo che merita non so che cosa. E a me
sapete che cosa ha fatto, a me che sono suo amico da vent'anni, a me
che, non fo per dire, ma gli ho resi dei bei servigi, e sono stato causa
ch'ei guadagnasse delle rotonde sommette di denaro? A me che, come
sapete anche voi, ho avuto delle disgrazie, a me che esco di carcere
pulito e liscio come un soldo frusto, egli ha il coraggio di rispondere
che non può dare nè far nulla a mio vantaggio, e poichè io mi credo in
diritto di ricordargliene alcune delle cagioni per cui mi dovrebbe
essere riconoscente, sto birbone va dal commissario Tofi e mi denunzia
come un individuo pericoloso che gli ha fatto delle minacce e che merita
di essere sorvegliato da quella p.... invenzione che è la polizia. A me
Graffigna se ne fanno di queste! Buono! Me la sono appiccata qui
all'orecchia e tosto o tardi glie la farò pagare. Se fosse tosto mi
piacerebbe tanto di meglio, ma se avessi ad aspettare ei non ci
perderebbe nulla per questo, che vorrei dargliene il capitale
coll'usura, usuraio che egli è appunto! Or dunque voi, giovinotto,
potreste servirmi appuntino nei miei disegni, e fareste con un colpo un
fatto e due servizi, perchè contentereste me ed aggiustereste nello
stesso tempo i fatti vostri di guisa che non avreste mai più freddo ai
piedi e vi impipereste di quanti sono al mondo.

«— Io? Che cosa c'entro io? Domandai, non comprendendo affatto le
intenzioni di Graffigna.

«— Voi, sicuro. Egli rispose. Prima di tutto, mio caro ragazzo, se non
siete proprio quel babbuino di cui avete l'aria, dovete rendervi conto
della condizione in cui vi trovate. Nariccia vi tiene a rosicchiar le
croste del suo pane, perchè non sa che siete stato in prigione. Lo
sappia stassera, e domani voi siete messo bravamente sul lastrico con un
caritatevole calcio dove m'intendo io. Vi converrebbe imbrogliar
qualchedun altro perchè vi prendesse seco, per vedervene mandato via con
quel medesimo garbo il primo momento ch'egli apprendesse il vostro
passato. Ad un miseruzzo che si presenta colla vostra figura, coi vostri
panni per guadagnarsi un tozzo di pane, tutti domandano donde viene, che
ha fatto, che cos'è, e via dicendo. Ad un messere che comparisca vestito
da milorde, colla borsa piena d'oro, nessuno cerca altro più per
inchinarlo, riverirlo e stimarlo il più rispettabile uomo del mondo.
Perchè dunque vorreste ostinarvi a far la brutta figura e crepar di
miseria, mentre non avreste che ad allungar la mano e procacciarvi la
più agiata esistenza?

«Io feci un movimento di stupore, e fors'anco di curiosità. Egli mi
strinse forte il braccio e continuò, abbassando la voce, ma con molta
forza nell'accento:

«— Sì, carissimo amico, stupido come un orciuolo, che il fistolo vi
colga. Niente altro che allungar la mano. Ma non sapete voi che dietro
quel cancello di ferro, in quella cassa-forte, in presenza della quale
voi poverino, tòcco d'imbecille che Dio vi benedica, vi state sciupando
gli occhi e la vita per guadagnarvi tanto da non morire di fame, colà vi
stanno rammontati a centinaia di migliaia i marenghini? Or bene, è la
cosa più semplice del mondo. Io vi do quattro pezzetti di cera: voi, un
bel momento che vi trovate solo in quell'antro, applicate discretamente
questi pezzi di cera alle serrature dell'uscio del cancello di ferro....
non dico alla cassa-forte, perchè avrei alcuni bravi amici, fior di
gente, che verrebbero ad aiutarmi e senza tanti discorsi, per guadagnar
tempo, se la porterebbero via in ispalla come un cuscino di piume! Poi
date a me le impronte, ed io in pochi giorni ho le mie brave chiavi, per
cui entro, e faccio, e dispongo, e porto a cambiar aria il tesoro di
Nariccia...

«Io feci a liberarmi dalla mano di quel scellerato che mi teneva ancora
pel braccio, e volli allontanarmi da lui.

«— Oh non c'è da aver pure un'ombra di paura: egli soggiunse
interpretando in un altro senso il mio movimento di disgusto e d'orrore.
Graffigna è prudente: sa disporre le cose, e non lascia nessuno de' suoi
amici nelle peste. Voi, mio bell'angioletto da f..., dopo che ci avreste
aiutati nell'opera, verreste con noi, piglieremmo tutti il volo che
nessuno dei segugi della polizia, per quanto di naso fino, potrebbe
averne pure il minimo sentore; avreste la vostra buona porzione da
vivere da signore in altro paese, e chi s'è visto si è visto.

«Io lo respinsi da me con disdegno.

«— Sciagurato, esclamai, per chi mi prendete? Ringraziate che qui non
c'è anima viva; se fossimo in città, griderei al ladro per farvi
arrestare.

«— Oh oh! Diss'egli con ironia. Che virtù delle mie ciabatte, caro il
mio santino d'un maccherone! Ne ho sentito dei panegirici di santi
meravigliosi, ma un tanto esempio di virtù non ci fu ancora mai! Bravo!
Pensate che il vostro rifiuto vi può far mettere alla porta da Nariccia
senza che abbiate più altro mezzo di sussistenza.

«— Come?

«— Una lettera anonima che dicesse a Nariccia: badate che quel vostro
miseruzzo di segretario è un galantuomo di ladroncello uscito dalle
carceri....

«— E voi scriverete questa lettera?

«— Se rifiutate di assecondarmi, certo che sì.

«Stetti un momento in silenzio, non perchè fossi dubbioso o perplesso,
ma perchè la tristizia di quell'uomo mi gettava in una dolorosa
attonitaggine.

«— Fate pure quello che credete contro di me: gli dissi poscia
fermandomi sui due piedi; ma qualunque minaccia anche più terribile di
questa, non m'indurrà mai a fallire all'onestà.

«Egli accennò voler parlare, ma io non gli lasciai pronunziare parola.

«— Ora basta. Esclamai con forza. Vi ho già dato retta di troppo; di
troppo già ho tollerato la vostra compagnia. Lasciatemi, lo voglio, ve
l'impongo!

«L'aspetto e l'accento dovettero avere in me una certa nuova
autorevolezza onde quello sciagurato fu come sovraccolto. Mi guardò un
poco ma fu costretto a chinare innanzi ai miei quei suoi piccoli occhi
affondati; esitò un istante, e poi si decise ad allontanarsi.

«— Come volete: diss'egli: eccelso stupido che siete, caro figliuolo
che la peste vi affoghi! Il colpo si farà lo stesso e voi avrete il gran
merito di non avere neppure un da due denari. Così la vostra eroica
virtù sarà contenta... Ma andate pur là che un giorno o l'altro la fame
e il bisogno di ogni cosa vi faranno cascare, e invece di aver per primo
un bel colpo, come quello che vi propongo io, mercè cui sareste colla
pignatta provveduta per tanto tempo, sarete costretto a qualche
miserabile ladroncelleria che vi manderà a marcire in prigione in causa
di un tozzo di pane. Fate a vostro modo: vi lascio e non vi dico più
nulla: ma vi pentirete, ne sono certo, e vi rincrescerà all'anima di
avermi oggi risposto a questo modo.

«Dopo tali parole si allontanò a passo lento, e fermandosi tratto
tratto, quasi nell'attesa ch'io lo richiamassi.

«Io guardava dietro lui con animo turbatissimo, le sue parole mi avevano
richiamato alla mente che già pur troppo ero cascato là dov'egli diceva,
e quello delle candele era un vero furto da me commesso.

«Tornando a casa ero agitato e perplesso. Graffigna mi aveva detto che,
non ostante il mio rifiuto d'entrar complice, quel delitto si sarebbe
compito la stessa cosa. Era certo il mio dovere farne avvisato il mio
padrone. Parevami che se il fatto avvenisse e ch'io non avessi posto in
sulle guardie Nariccia, anche su me avesse da ricadere parte della
colpa. Ma come governarmi affine di renderne avvertito il padrone?
Dirglielo io stesso non avrei osato mai; e come spiegargli il modo onde
ero venuto in cognizione di codesto? Ad un tratto mi ricordai la
minaccia di Graffigna, di svelare il mio passato a Nariccia per mezzo
d'una lettera anonima.

«— Ecco il mezzo! Esclamai tra me stesso, e camminai di buon passo
verso casa per mettere in esecuzione quel disegno, ed affrettandomi a
scrivere la lettera falsando più che mi fosse possibile la mia
scrittura, non fui tranquillo finchè ebbi visto ingoiata quella carta
dalla buca della posta.

«Quella stessa sera Dorotea mi apparve assai sopra pensiero. Si sarebbe
detto che alcuna cosa stava sulle sue labbra per venir fuori, e ch'ella
tuttavia si studiava di trattenere. Due o tre volte colsi il suo sguardo
fisso su di me con una certa acutezza osservativa che mi faceva
intimamente tremare. Sentivo come una incognita minaccia incombermi
sopra. Ero inquieto di tutto e ad ogni momento il cuore mi balzava con
palpito quasi doloroso.

«La sera non potei addormentarmi che a stento; mi svegliai all'ora
solita della notte, ed acceso il lume, secondo l'usato, mi posi allo
studio. Non era gran tempo che io mi trovava tutto assorto in esso,
quando mi sembrò udire uno strascico di pianelle nel corridoio. Sorsi di
scatto, coll'idea di spegnere il lume, nascondere il libro e gettarmi
sul pagliericcio: non era più tempo, l'uscio s'aprì e comparve la grossa
faccia di Dorotea più burbera e più brutta del solito.

«A quella vista io stetti come annientato. La donna guardò me, guardò il
lume acceso, e i suoi occhi mandarono lampi e faville; poi con uno
scoppio di quella sua terribil voce da omaccione:

«— Ah! Sei dunque tu, gridò, lo scellerato di ladro che mi ruba le
candele! Da un po' di tempo mi pareva e non mi pareva che le
consumassero troppo più che non per l'addietro; ma stamattina poi mi
sono convinta che le mi sfumavano proprio dalla cassetta, e quantunque
non ci sia altri che te in questa casa, tristanzuolo, non volevo credere
che tu fossi capace di tal birbonata. Non ho voluto dir nulla ancora al
padrone...

«Io la interruppi pregandola, scongiurandola a tacere la cosa. La paura
mi aveva ridonata un po' di energia, cui dapprima tutta mi aveva tolta
la vergogna. Le dissi il perchè di quel mio fallo, le affermai essere
mio intendimento pagare tutte le prese candele, coi primi denari che
avrei esatti dal padrone pel dovutomi stipendio; non volesse perdermi,
non volesse precipitarmi per l'affatto, svelando la cosa a Nariccia che
io prevedeva, che sapeva inesorabile.

«Non so se Dorotea si sarebbe acconciata ad accondiscendere alle mie
preghiere; ma la cosa fu ridotta ad ogni modo impossibile, perchè
Nariccia medesimo, il quale non dormiva che il sonno leggiero degli
avari, sveglio dagli scoppi di voce della donna, accorreva sollecito a
vedere che cosa fosse.

«Ti lascio immaginare il suo furore nell'apprendere la verità. Mi
investì colle più atroci ingiurie. Le galere, che? il capestro erano
poca pena al mio delitto. Egli non voleva tenere neppure un'ora, nemmeno
un momento di più sotto il suo tetto un simil birbante: partissi in
sull'atto e senz'altro; ma poi tosto si ravvisava e decideva serbarmi a
peggior sorte. Gli era ai R. carabinieri che mi si doveva consegnare,
affinchè pagassi del mio delitto il meritato fio.

«Se colla Dorotea avevo pregato, innanzi alla collera di Nariccia ero
stato fermo, immobile e silenzioso; e quella mia calma pareva aizzarlo
ancora di vantaggio. Ma quando udii minacciatami di nuovo la carcere,
innanzi allo spavento di ritornare in quella bolgia infernale, la mia
fierezza cedette.

«— Oh no, per carità! Esclamai, congiungendo le mani con ineffabile
supplicazione.

«Ma Nariccia non era uomo a intenerirsi così per poco; ond'egli riprese
le sue minaccie ed i suoi oltraggi, finchè Dorotea, quasi impazientita,
lo interruppe col suo brusco parlare:

«— Per ora lasciamola un po' lì, e torniamo a dormire. Domani mattina
discorreremo.

«Nariccia seguì la serva borbottando, ma non prima che avesse frugato in
ogni dove nella mia stanzuccia per vedere se qualche cosa avessi di
nascosto, e non senza portarmi via quella malaugurata candela. Uscendo
chiuse a doppia mandata colla chiave la serratura dell'uscio, affinchè
non me ne potessi fuggire.

«Il domani le determinazioni di messer Nariccia erano ancora più severe
a mio riguardo. Egli aveva ricevute due lettere anonime; quella con cui
Graffigna manteneva la sua parola e gli svelava l'esser mio; e quella
che io gli aveva scritta per farlo avvisato del pericolo di latrocinio
tramato a suo danno. L'usuraio si persuase tostamente che colui del
quale gli si denunziavano le cattive intenzioni verso di lui, senza
scriverne il nome, non poteva esser altri che io stesso già uscito di
prigione, già côlto in flagrante di una ruberia. Gettò, come si suol
dire, fuoco e fiamme; e la sua volontà di pormi in mano alla giustizia
parve più irrevocabile che mai.

«Fui allora ad un pelo d'essere perduto. Alla vecchia Dorotea dovetti la
mia salvezza, e glie ne consacrai perciò una riconoscenza eterna. Ella
in quel frangente tolse dall'abisso in cui tutto congiurava
precipitarla, un'anima umana, e per quanto quella donna sia stata
cattiva, di quella buona opera, spero che glie ne sarà tenuto conto.
Come conviene andare a rilento nel condannare i colpevoli! Soltanto chi
non è stato nelle occasioni della tentazione, chi non ebbe nemica alla
sua onestà la fortuna, colui soltanto può avere un disdegnoso disprezzo
per l'infelice che soccombette. Quei che conosce la vita, quegli che
ebbe da lottare colle difficoltà del destino, se impara a stimar tanto
più l'uomo che si è serbato incolume, impara eziandio a sentir meno
orrore e più compassione per chi ha fallito. Dove io fossi stato allora
incarcerato per la seconda volta con un vero reato, come i giudici non
avrebbero mancato di sentenziare che era il mio; quando parecchi mesi
ancora avessi dovuto passare in quella orrida e scellerata compagnia che
si trova in prigione, quale ne sarei venuto fuori?

«Dorotea ebbe pietà di me. Per sua intercessione Nariccia si contentò di
mettermi alla porta riprendendomi financo i suoi logori panni e tornando
a farmi vestire quei villerecci che pareva aver conservato in previsione
d'una simile circostanza; ed io mi trovai sul lastrico della strada,
senza un soldo, senza un tozzo di pane, senza sapere che far di me, nè
dove rivolgere i passi.



CAPITOLO XXI.


«Ero in una confusione ed in una perplessità da non dirsi. Mi domandavo
come avrei potuto guadagnarmi la vita, e non trovavo risposta. Una gran
vergogna de' fatti miei mi possedeva tutto. Guardavo con occhio smarrito
i brutti cenci che mi servivano da vesti, e mi dicevo che erano quelli
dei più vili pezzenti. Tale doveva essere adunque la mia sorte? Sentivo
tante cose nel mio cervello, mi pareva avere entro il capo una tanta
ricchezza d'idee, e non mi avevano da servire a nulla, e non avrei
saputo spremerne nemmanco il mezzo onde guadagnarmi per un giorno
l'esistenza?

«Camminai dritto innanzi a me colla testa confusa, sbalordita, senza
direzione, ma con una smania ardentissima di allontanarmi, di fuggire da
tutto e da tutti. Quasi un anno ti ho detto aver passato in casa di
Nariccia: si era quindi nuovamente nella brutta stagione, e il freddo
vento mi flagellava le guancie, m'intirizziva le membra da que' cenci
mal coperte. Io correva e per iscaldarmi e per togliermi il più presto
possibile a quei luoghi. Ero debole ed ero digiuno, ma la disperazione
mi dava forza, e la passione dell'animo non mi lasciava sentire il
bisogno. Che strada io abbia allora tenuta, non seppi mai; ma cadevano
gli ultimi raggi del giorno ed io mi trovava presso alle prime case del
villaggio dove ero stato allevato.

«A quella vista mi riscossi come destandomi improvviso da un sogno. Mi
passai la mano sulla fronte, e mi parve esser rinato al tempo della mia
infanzia dolorosa sì, ma cui pur tuttavia invidiava il mio presente;
quando la carcere, l'ospedale, l'antro d'un usuraio non mi avevano
ancora rivelate tante brutte e incancrenite piaghe del corpo sociale.
L'animo mio fu sollevato e con più sciolto passo m'avviai per penetrar
nel paese. Ma di colpo mi arrestai, come se una mano di ghiaccio mi si
fosse posata sul cuore a trattenermi. Dove avrei rivolto i miei passi?
Il povero tugurio di Menico non era più mia casa. Neppure l'ospitalità
del fenile non mi vi sarebbe stata concessa più. E Don Venanzio? Egli sì
che mi avrebbe accolto, egli aperto le braccia. Come una dolce visione
mi passò innanzi alla mente l'aspetto della pulita cameretta dalle
bianche pareti col crocifisso d'avorio tendente le braccia sulla croce
nera; mi parve sentire il tepido ambiente di quella stanza aliarmi come
una carezza sul volto. Mi pungeva la fame. Là avrei trovato ricetto, là
ristoro, là sollecitudine amorosa. Ma che cosa avrei detto a quel buon
prete? Qual ragione addotta della mia venuta, dell'avere abbandonato la
casa di Nariccia? Mentire non sapevo e non volevo a niun conto: e dire
la verità era troppa vergogna, non me ne sentivo affatto affatto il
coraggio.

«No, no, non volli comparire colla fronte del reo innanzi a quell'uomo
che è la virtù cristiana incarnata; ma per quanto deciso io fossi a non
lasciarmene scorgere, un vivo impulso, un grandissimo bisogno io sentiva
di veder lui — il buon sacerdote — di vederne almanco la casa, i luoghi
ad esso diletti, de' quali egli è come l'anima avvivatrice che li
santifica.

«Era caduta compiutamente la notte. In quella mesta sera d'inverno, muto
e deserto era il villaggio; si sarebbe detto disabitato, se qualche riga
di luce non fosse filtrata da qualche finestra socchiusa, se qualche
cane entro i serrati cortili non avesse qua e là tristamente abbaiato.
M'appressai cautamente alla casa parrocchiale, ed il cuore mi batteva, e
gli occhi mi si inumidivano. La finestra del tinello a pian terreno non
aveva chiuse che le invetrate, e per queste lo sguardo poteva penetrare
entro la stanza. Mi alzai in punta dei piedi aggrappandomi alle sbarre
dell'inferriata che difendeva esternamente la finestra e cacciai
nell'interno lo sguardo cupido e desioso.

«Don Venanzio era appunto là, al posto in cui soleva, dove l'avevo visto
tante volte, con quella medesima capigliatura tutto bianca, con quel
medesimo volto tutto bontà, con quella medesima mossa, leggendo nel
medesimo breviario. Sulla tavola, a cui il parroco appoggiava il suo
gomito, era steso il medesimo tappeto di lana intessuta con cotone a
fogliami ed a fiori; tutti i mobili erano tali e quali li avevo visti
fin dalla mia infanzia e sempre a quel medesimo posto; ai piedi del
parroco stava sdraiato _Moretto_ il vecchio can volpino, compagno quasi
indivisibile al suo padrone. Tutto era come prima colà, nulla era
mutato; e in me invece, quanto cambiamento, quante rovine! Non avevo
ancora diciott'anni, ed il destino pareva avermi in una resa impossibile
l'esistenza del passato e chiusomi innanzi la porta d'ogni speranza per
l'avvenire. Un gran desiderio mi prese di quella quiete, di quella pace
esteriore che era compagna e simbolo di quella della coscienza; e sentii
una cocente amarezza nel dirmi che forse io l'aveva perduta per sempre.
Profondo rammarico fu il mio, pensando che a tale esistenza aveva voluto
prepararmi e condurmi l'amoroso mio educatore, e che io l'aveva
rifiutata e che da me l'avevano respinta irrevocabilmente le audacie del
mio spirito. A quell'ora sarei stato lì ancor io, compagno nella vita e
nell'opera a quel sant'uomo, forse sollievo, forse anco ne' suoi vecchi
anni consolazione invocata. Ed invece?....

«Oh se avessi creduto a quel Dio, cui adorava Don Venanzio, ed in quella
forma colla quale il buon parroco credeva! Per me al contrario, sempre
più muto pur troppo era diventato il cielo; e la lettura degli
enciclopedisti aveva spinto il mio dubbio verso lo scetticismo. A mala
pena credevo ancora a quelle apparizioni che mi avevano servito come
d'irrefragabile riprova d'una vita dell'anima superstite a quella del
corpo; e siccome da assai tempo sembrava il mio buono spirito avermi
ancor esso abbandonato, mi prendevo a dire le vedute di quel soave
fantasma, nient'altro che illusioni del mio cervello.

«Mentre stavo ancora tutto intento a mirare per entro quella stanza, od
un lieve rumore che io facessi muovendomi, o fosse il meraviglioso
istinto proprio della sua razza che facesse avvertire al cane la
presenza di qualcheduno, _Moretto_ alzò il muso verso la finestra, e
vistomi forse, mandò alcuni abbaiamenti di lieto saluto, e venne a
quella volta tutto festante. Lasciai le sbarre dell'inferriata e ratto
mi nascosi nell'ombra. Udii la simpatica voce di Don Venanzio che
diceva:

«— C'è qualcheduno, _Moretto_? Chi è là?

«Mi allontanai con infinita amarezza. In tutto il mondo era là soltanto
che vi esisteva un affetto per me, e non osavo presentarmi, e dovevo
strapparmene ed andar lontano.

«Quella notte dormii dentro una di quelle capanne che si fanno sotto i
pagliai. La mattina era l'alba appena che io già camminava sulla strada
che mi riconduceva a Torino. La vista del mio villaggio, la vista
sopratutto della casa di Don Venanzio mi aveva fatto del bene. Una nuova
risolutezza era entrata in me. Ero persuaso affatto e per sempre che non
avevo nessuno al mondo a cui chiedere aiuto, che dovevo tutto fare,
tutto procacciarmi da me, colle mie sole forze, e volevo provare
arditamente a cimentarmi colla vita.

«Il sole era levatosi da poco sull'orizzonte, ed io non aveva proprio
più forze da andare avanti. Il giorno precedente non avevo preso altro
alimento che quello d'un po' d'acqua bevuta ai rigagnoli della campagna,
rompendo la crosta superiore del ghiaccio: ed ora lo stimolo della fame
erasi fatto intollerabile.

«Girai lo sguardo intorno, e vidi non molto lontano dalla strada un
casolare sul cui tetto fumava direi quasi allegramente il comignolo del
camino, mi diressi con coraggio a quella volta. I villani stavano giusto
per sedere al desco su cui esalavano un odoroso vapore le scodelle
schierate pel pasto mattutino, mentre la massaia con in mano l'asta
d'una gran padella stava curva sopra una vivace fiamma di fascine a
friggere un'enorme frittata.

«Il mio aspetto miserissimo e le mie vesti dissero senza bisogno d'altro
il motivo che mi spingeva, e destarono la diffidenza degli uomini e la
compassione delle donne. È raro, anzi quasi direi non succeder mai, che
una famiglia di nostri villici ad un povero sopraggiunto all'ora del
pasto, rifiuti una scodella di minestra. Gli uomini non vollero negarmi
questa carità, ma non vedevano di buon occhio che mi assidessi al
focolare domestico; le donne più pietose mi fecero posto sorridendo
presso al fuoco fiammante, al cui calore sentivo in realtà immenso
bisogno di riconfortare il mio povero corpo intirizzito.

«Prima di accettare dalle mani del capo di casa la scodella ammanitami,
dissi ad alta voce:

«— Vi ringrazio della vostra carità, brava gente; ma io vi prego che
non sia a titolo d'elemosina che mi concediate quel cibo onde pure tanto
abbisogno; penso che ciascuno deve guadagnarsi coll'opera il suo
sostentamento, e vi domando come un favore che mi diate poscia alcun
lavoro, per cui io possa almeno in parte compensarvi di quanto fate per
me.

«Mostrarono tutti una qualche sorpresa; gli uomini sorrisero, le donne
mi guardarono con una certa benigna ironia, quasi volessero dire e
queste e quelli che di poco o nulla era capace un miseruzzo della mia
fatta.

«— Bene, bene; disse bonariamente il capo casa: cominciate per mangiare
e poi vedremo a che cosa siete buono.

«Servii quel giorno ai più umili lavori della stalla, in cui c'era da
rigovernare il letame, e ci posi tanta buona volontà che ognuno ebbe a
rimanere di me soddisfatto. Ma il domani potei rendere a quella buona
famiglia un servizio ben più importante e ad essa ben più gradito. La
madre veniva sollecitando uno de' figliuoli a scrivere una lettera al
primogenito della famiglia, il quale da due anni era soldato e di cui da
più mesi non avevano ricevuto notizia, e vivevano perciò inquieti. Il
figliuolo se ne schermiva, perchè, quantunque fosse il solo che sapesse
scrivere, e' lo sapeva tanto poco che gli tornava uno stento ed una
fatica a cui egli preferiva qualunque più aspro travaglio materiale.
Udito codesto, mi proffersi a scriver io la lettera come la buona donna
desiderava, e tutti ne furono sì contenti che per poco non parve io
avessi compito a loro vantaggio un miracolo.

«Povera gente! Vivono e muoiono nella più crassa ignoranza; come non
sarebbero essi vittime di superstizioni e pregiudizii che ne deturpano
anche le più generose e favorite nature?

«Per quella famiglia c'erano due esseri che raccoglievano tutto l'odio
di cui era capace, odio che essa pur dissimulava sotto le sembianze del
più umile rispetto. Questi due esseri erano: uno il padrone della terra
ch'eglino coltivavano, ed il quale senza spargere su di essa la menoma
goccia di sudore, toglieva dei frutti della medesima la miglior parte,
l'altro il Governo, cui non conoscevano altrimenti che per l'alto prezzo
del sale cui dovevano pagare, per le contravvenzioni loro accagionate e
dovute pagare per violazione alle leggi della caccia, e finalmente per
quello che giudicavano il peggior eccesso della tirannia: lo aver loro
tolto quel figliuolo, il cui lavoro era più utile, per trascinarlo
lontano chi sa a qual vita, chi sa con quali effetti per quell'infelice
temporali e spirituali, del corpo e dell'anima!

«Questo della coscrizione, è veramente il più duro e terribile tributo
che la società abbia inventato a danno delle famiglie e dell'individuo —
e in definitiva anche a danno di se medesima.

«La famiglia si alleva con mille stenti, con mille cure un figliuolo, e
quando questo comincia ad essere in grado di compensare col frutto del
suo lavoro i sacrifizi che ha costato ai suoi, di corrispondere
degnamente col suo all'affetto dei genitori, di restituire alla
vecchiaia del padre e della madre quei beneficii di amorosi riguardi con
cui padre e madre allevarono la sua infanzia, allora appunto intravviene
il Governo che afferra questo figliuolo, lo strappa alle braccia,
all'affetto, ai bisogni della famiglia, nulla si cura delle tendenze,
degli studi precedenti, della vocazione del medesimo, ed impiccatolo in
un cravattino duro, insaccatolo in un _cappotto_, lo caccia sotto la
ferrea prepotenza d'un istruttore militare burbero, grossolano, il più
spesso manesco, ad imparare le delizie dell'_un-doi_.

«Questo povero diavolo, sceverato sino allora dagli urti e dalle malizie
del mondo per la soave cerchia della famiglia, stretto coll'amore tenace
dei campagnuoli alla sua terra, ai suoi campi, attaccato alla sua
officina, ai suoi studi, deve ad un tratto rinunciare a tutte le sue
abitudini, guastare il suo avvenire, interrompendo la sua carriera,
trovasi a contatto con una turba di compagni cui la vita soldatesca ha
già svezzati da ogni domestica delicatezza, in cui sono rappresentati
tutti i vizi sociali che fermentano e prosperano nelle agglomerazioni, a
cui pare qualità di buon armigero ostentare un certo cinismo nella
corruzion dei costumi, nell'assenza di gentilezza. Trasportato in paese
lontano dal suo, obbligato a faticoso esercizio d'un mestiere faticoso,
minutamente pesante, composto di atti di cui non vede l'utilità,
oppresso da una disciplina che offende la sua libera personalità,
costretto ad una vita innaturale, a cui tutto il più spesso in lui
ripugna, l'infelice giovane soffre finchè o soccombe, ed il caso non è
raro pur troppo[8], o vi si assuefa, avendo perciò obliterate alcune e
delle più preziose qualità del suo animo; così bene che l'esercito
avendo preso al villaggio un giovane onesto, morigerato, laborioso, buon
figliuolo, che sarebbe buon marito e buon padre, gli rende poi molte
volte un uomo vizioso, giuocatore, libertino, scaldapanche d'osteria,
inavvezzo al lavoro, prepotente, rissoso, desolazione della famiglia e
spargitore di funeste cattive abitudini fra la gioventù[9].

  [8] Una statistica francese ha calcolato che fra i coscritti
  mandati all'esercito, nel primo anno la mortalità è più del
  doppio di quel che dovrebb'essere; negli anni successivi questa
  mortalità diminuisce, finchè dopo quattro anni è ridotta allo
  stato normale. I superstiti si sono _acclimatati_.

  [9] Non sono molti giorni passati che io stesso ne vidi coi miei
  occhi un esempio. Una povera vedova campagnuola ha due figliuoli
  maschi ed una femmina; tutti tre allevati con somma cura dalla
  brava donna e rinomati un tempo per i migliori che fossero nel
  villaggio. Uno dei figliuoli andò soldato e fece i suoi cinque
  anni. Quando tornò, nessuno l'avrebbe più riconosciuto per quel
  desso, essendosi dato al vizio dell'ubriachezza, al
  libertinaggio, ed avendo perso quella religione che alle
  passioni del popolo è il maggior freno. Fu la disperazione
  dell'intiera famiglia. Ultimamente fu richiamato sotto le armi
  per la nuova guerra contro l'Austria. Cominciò per ispillare
  dalla madre, dal fratello, ed anche dalla sorella — e non senza
  minaccie e cattivi trattamenti — tutto il denaro che avevano e
  che poterono procurarsi, vendendo questa o quella di loro robe;
  e non era ancora partito a raggiungere il Corpo, che tutto già
  aveva consumato in bagordi. Giunto all'esercito, non iscrisse
  mai che per domandar denari, e la povera gente a farsi in
  quattro per procacciarsene e mandargliene. Alla battaglia del 24
  giugno cadde ferito, fu recato in un ospedale di Brescia, e
  figuratevi se la povera famiglia non ebbe a tagliarsi le vene
  per nuovi sussidi. Breve! Gli fu amputata una gamba e rinviato a
  casa con congedo assoluto. Ci giunse appunto di questi giorni. I
  suoi lo aspettavano con affetto trepidante. Egli arrivò ubriaco
  marcio, e non era passata un'ora ch'egli aveva battuta la
  sorella, minacciato il fratello e perso il rispetto alla madre.

«Ed ecco quindi come anche la società ne riesce ad avere un danno più
grave di quel che paia. Avrebbe potuto contare un buon operaio, un
onesto agricoltore, un lavorante, insomma, che avrebbe concorso alla
produzione della ricchezza comune; invece ne ha fatto per tanto tempo un
consumatore improduttivo, e ne' più de' casi si è preparato un membro
cancrenoso che diffonde il guasto intorno a sè.

«Quando il bisogno urgente della patria lo vuole, allora va benissimo
che si passi sopra ad ogni altra considerazione, e tutti quelli che
valgono accorrano a recare il braccio ed il sangue in difesa della
sicurezza comune, ma in tempi ordinarii, quel sistematico sottrarre una
parte della gioventù agli utili lavori, che è la coscrizione annuale, mi
pare la più ingiusta barbarie che abbia saputo inventare la nostra
vantata ma troppo manchevole civiltà. Più progrediti di noi
l'Inghilterra e gli Stati Uniti d'America che non conoscono questo
tremendo tributo, cui introdusse l'ambiziosa sete di dominio di
Napoleone, e cui condannò pur tuttavia egli stesso negli ozi di S.
Elena.

«Ma lasciamo codesto. Quasi una settimana io restai in casa di quei
buoni campagnuoli, e quando mi partii, e' mi fecero mille sollecitazioni
perchè rimanessi con loro, che un boccon di pane non mi sarebbe mancato
più mai. Il mio destino mi traeva qui. Quando ci arrivai una delle prime
persone in cui m'imbattei fu Graffigna.

«— Lo stupido animale che siete! Egli mi disse venendomi incontro con
un'aria quasi minacciosa. Non solamente rifiutate la fortuna per voi, ma
impedite che altri la colga. Voi avete avvertito Nariccia, e quel caro
amico che il diavolo attanagli, ha fatto cambiare tutte le serrature. È
una cattiva azione la vostra.

«— Sì, risposi sogghignando con disprezzo, come fu buona la vostra di
farmi scacciare di là.

«Egli si strinse nelle spalle.

«— Vi rincresce forse aver abbandonato quel dabbene scellerato d'un
avaro che vi faceva vivere di stenti? Ho agito pel vostro vantaggio.
Sicuro! Voi, contento di quel poco pane, vi sareste anneghittito come un
minchione che siete, caro martuffino dell'amor mio, e non sareste mai
più stato buono da nulla. Invece ora il bisogno vi aguzzerà l'ingegno e
vi farà capire la morale del mondo. Sarete quanto prima dei nostri, ve
lo predico io.

«— Mai! Dissi con tutta la forza del mio accento.

«Graffigna scrollò le spalle.

«— Peuh! Avete dei redditi da vivere? Vi è capitata qualche eredità dal
mondo della luna?

«— Lavorerò.

«Egli ruppe in una risata secca e stridente:

«— Lavorare! Esclamò. Che cosa? Che mestiere è il vostro? E la forza
dove la prenderete? Se non ci avete altra rivalsa, mi aspetto a vedervi
morir di fame. Gira, gira, tirerete la vita coi denti, afferrerete il
diavolo per la coda e finirete per essere dei nostri, ve lo dico io.

«— Ed io vi dico che voi non vi conosco, che non ho nulla da che fare
con voi, e vi prego quindi a non parlarmi più, a non venirmi oltre fra i
piedi.

«E con queste parole io lo lasciai.

«Girai tutti i fondachi di parecchie strade, ad ognuno dicendo che
cercavo lavoro; non mi si chiedeva neppure che cosa fossi capace di
fare, ma mi si rigettava, il più spesso di mala grazia. Stanco e
scoraggiato, non sapevo più oramai a qual santo votarmi, quando in una
di quelle strade che percorrevo vidi arrivare con gran fracasso un
grosso carrozzone carico di viaggiatori e di bagagli. Una frotta di
facchini si precipitava intorno a coloro che ne discendevano per
offerirsi a portarne i rispettivi bagagli. Pensai che questo era intanto
un modo di guadagnarmi qualche cosa; ma come aprirmi la strada in mezzo
a quegli omaccioni che facevan ressa per contendersi la preda? E ci
fossi anche arrivato, avrei potuto caricarmi di un pesante fardello
com'erano i bauli e le casse che vedevo i facchini trasportare sulle
loro spalle?

«Stavo guardando mestamente sfilarmi dinanzi e i viaggiatori che
s'affrettavano verso le loro case e i facchini che li seguivano col loro
carico, quando mi passò accosto uno di questi arrivati, la cui
fisionomia o non mi era nuova, o mi era simpatica di tanto da ispirarmi
fiducia più che non altri. Egli recava in sua mano un piccolo sacco da
viaggio, ed a parecchi che gli avevano chiesto se volesse farlo portare
da loro, aveva risposto con impazienza di no. Ebbi tanto ardire da fare
un passo verso di lui, ed additandogli il sacco dirgli in tono pieno di
supplicazione che me lo desse a portare; ma in quella il rossore mi
saliva sino sulla fronte. Fosse il mio accento, il rossore, o l'aspetto,
il fatto è che quel signore si fermò ad osservarmi.

«— Tu non sei di Torino? Mi diss'egli.

«— Signor no.

«— E ci sei venuto colla famiglia?

«— Non ho famiglia.

«— Come? Nessuno?

«— Sono affatto solo.

«Senza dir altro quel brav'uomo mi pose il sacco nelle mani.

«— Seguimi.

«Mi condusse in una delle principali strade ed entrò in una bottega da
libraio che appariva aggiustata ed aperta di fresco. A quel punto
riconobbi chi egli fosse, e dove l'avessi già visto. L'avevo veduto in
casa di Nariccia, ed era quel libraio che aveva dato in pegno le casse
di libri. Anzi queste benedette casse erano là ancor esse in mezzo a
quella bottega, come se recatevi da poco tempo. Quell'eccellente uomo di
libraio, come appresi di poi, aveva di nuovo avuta prospera la sorte, e
dal _baraccone_ era passato ad una bottega considerevole, al di sopra
della quale, negli ammezzati, aveva preso l'alloggio per la sua
famiglia. Pagato tutto il suo debito a Nariccia, ne aveva ottenuta la
restituzione del pegno; e quel giorno egli tornava da un piccol viaggio
che aveva dovuto imprendere in una delle primarie città di provincia per
cagione del suo commercio.

«Appena entrato egli nella bottega, un giovinetto, che stava dietro il
banco, s'alzò con impeto e venne a gettarsi nelle braccia di lui,
dicendo:

«— Buon giorno, babbo. Hai tu fatto buon viaggio?

«Il libraio lo abbracciò e baciò con molta tenerezza, e poi gli domandò
della madre e dei fratelli. Il giovanetto rispose che erano sopra
nell'alloggio, e allora tutti due sollecitamente s'avviarono verso la
scala che dalla retrobottega conduceva al piano superiore. Ma mentre il
figliuolo, correndo, saliva ad annunziare tutto festoso che era giunto
il padre, questi s'arrestava ricordandosi di me, e, prendendomi il sacco
di mano, accennava volermi dare qualche moneta in pagamento; ma poi,
come cambiando avviso, ripose di nuovo in tasca la borsa che ne aveva
tratta, e mi disse:

«— Aspetta qui un momento. Vado ad abbracciare i miei figli e mia
moglie e poi verrò a discorrerla teco.

«Fui lasciato solo in quella bottega dove da tutte parti non vedevo che
libri. Essi esercitavano su me una specie di fascino. Avrei voluto ad un
tratto poterli esaminar tutti. Un ladro introdotto nella bottega d'un
gioielliere piena di ori e diamanti, e lasciatovi solo, non ha più vive
tentazioni di quella che io sentiva a quel punto. Quel sapere a cui
anelava con tanto ardore l'anima mia, mi appariva là raccolto e fatto
concreto in quei libri schierati nelle scancìe onde tutte le pareti
erano coperte, rammontati in quelle casse aperte nel mezzo della stanza.

«Mi accostai a queste ultime. Al di sopra di una era appunto un volume
che stavo leggendo e non avevo ancor finito quando venni scacciato da
Nariccia. Lo presi in mano, quasi per atto meccanico, involontario; e
pochi istanti dopo io era assorto nella lettura, avendo obliato tutto il
resto del mondo.

«Fui interrotto ad un punto da una mano che si posò sopra la mia spalla.
Mi riscossi, alzai la testa, mi vidi innanzi la faccia tutto stupita del
libraio, e lasciai cadere il libro, coprendomi di rossore sino alla
fronte.

«— Che stai tu facendo costì con quel libro in mano, e così assorto che
non senti nemmanco la gente venirti addosso?

«— Mi scusi: diss'io balbuziando; leggevo e...

«— Tu leggevi? Mi stupisce già che tu sappia leggere, mi stupisce di
poi che tu legga di questi libri. Quello è il trattato di economia
politica di Say. Ora sai tu pure che bestia sia l'economia politica?

«Cedetti ad un impulso d'orgoglio e colla mia risposta gli feci
conoscere che lo sapevo e che non ero digiuno di qualche idea intorno a
quella disciplina, di cui, alla nostra Università, ancora oggidì non si
trova neanche registrato il nome[10].

  [10] La prima cattedra di economia politica fu istituita
  all'Università di Torino nella primavera del 1847, e fu chiamato
  a professarvi lo Scialoja. Parve quella allora una gran
  concessione liberale.

«Il libraio allargava tanto d'occhi.

«— Ma chi sei tu dunque? E come in quest'arnese? Qual mistero nascondi
tu sotto quei miserabili cenci?

«Io esitai. Il primo mio avviso fu di dire a quel brav'uomo tutta la
verità. In me il subitaneo impulso è sempre il migliore; gli è colla
riflessione e col ragionamento che imparo a credere più conveniente la
simulazione o i miseri consigli della diffidenza. L'offendere la verità
è un peccato che quasi sempre si volge in danno di quel medesimo che lo
commette. Anche dal lato dell'interesse, la sincerità è un buon partito
da adottarsi: io ne ho fatto in tal occasione l'esperienza a mie spese.
Se avessi detto le cose come erano realmente a quell'eccellente uomo,
egli di certo avrebbe avutomi compassione ciò nullameno, e io non mi
sarei messo nel brutto caso di perdere un giorno la sua simpatia e la
sua stima; come avvenne pur troppo. Ma l'esitazione condusse tosto in me
il timore e la vergogna. Non osai confessare le ragioni che dal mio
villaggio mi condussero a Torino, quelle che dalla casa di Nariccia mi
trassero sul selciato delle vie. Temei che se il libraio sapesse il
vero, mai più non mi avrebbe accordato alcun interesse, come parevami da
tanti indizi più che disposto a fare. Mi venne alla mente in quel punto
la favola immaginata sul mio conto da Gian-Luigi per introdurmi da
Nariccia, e la dissi macchinalmente, quasi ripugnante la mia volontà,
condannandomi meco stesso di ciò pur nel parlare.

«La mia oscitanza e il mio imbarazzo apparvero certamente a quel bravo
sig. Defasi (chè così chiamavasi) la timidità naturale e la pena
impacciosa di un giovanetto che si trova con tali condizioni infelici
nel mondo; epperò, compassionatomi assai e confortatomi a sperar bene
nell'avvenire e nell'aiuto della Provvidenza, mi domandò che cosa
volessi fare e quali progetti più mi arridessero. Risposi che ero fermo
nella volontà di guadagnarmi la vita con qualunque sorta di lavoro anche
il più umile, purchè onesto; ed egli, lodatomi assai di queste buone
intenzioni, mi disse che tornassi poscia il domani da lui che avrebbe
pensato ad alcun modo di darmi intanto qualche occupazione, e datomi,
del piccolo servigio che gli avevo reso, un largo compenso che potesse
bastare ad ogni mio bisogno per quella giornata, mi congedò con
affettuose parole.

«Il primo mio pensiero, uscendo dalla bottega del sig. Defasi, fu quello
di rifocillare il mio povero corpo affamato. Entrare in un'osteria un
po' ammodo, con quei panni addosso, non osavo; più fiate passai e
ripassai innanzi alle lucenti invetrate su cui stava scritto in
caratteri d'oro restaurant, e la eleganza di quelle sale, che a me
pareva allora la più sontuosa del mondo, mi toglieva ogni coraggio di
pure approssimarmi a quelle tavole di marmo, a cui vedevo, traverso i
cristalli, seduti signori riccamente vestiti.

«Mi ricordai ad un punto che non molto lontano dalla casa di Nariccia,
nelle strette vie della parte più antica della città, eravi una bettola,
della quale le apparenze, gli accorrenti e tutto erano in quelle più
umili condizioni che alle mie si convenissero; e mi diressi allora con
passo deciso a quella volta. Quella brutta e sporca bettolaccia — sporca
moralmente e fisicamente — rividi stassera dopo assai tempo. Là dentro
condussi a sfamarsi, come sei anni sono c'ero entrato io, quel povero
bambino che ti ho detto aver trovato colà, in quelle luride viuzze, sul
fango del lordo selciato. Al momento di porre di nuovo il piede in quel
covo, uno strano superstizioso timore mi assalse. Fra quel tempo di cui
ora ti narro e questo in cui vivo circondato dalla vostra amicizia mi
pare sia avvenuta fortunatamente una soluzione di continuità. La tua
carità, salvandomi dal suicidio, la vostra carità di tutti, facendomi
intorno quasi un ambiente di famiglia, hanno scavato sto per dire un
abisso tra quelle prime prove della vita e queste che attualmente mi
toccano. Entrando in quella povera e sconcia osteria, mi sembrò per un
momento ch'io movessi incontro a quel destino che oso sperare mi abbia
abbandonato e mi esponessi al pericolo ch'esso mi riafferrasse. Dovetti
superare una istintiva ripugnanza, quasi ammonimento di minacciante
sventura.

«Quella bettolaccia, che ora ritrovai tal quale, era frequentata dalla
peggiore ciurmaglia in cui si reclutano i ribelli all'ordine sociale,
ladri ed assassini. I miei cenci non erano in disaccordo colla povertà
del luogo e colla qualità degli avventori. Alla miseria ed all'ambiente
di essa ero ausato quant'altri mai, perchè mi trovassi colà come a mio
posto. Per pochi soldi ebbero ristoro i miei bisogni. Per più tempo di
seguito presi poscia colà i miei pasti, finchè un giorno mi si fece
innanzi in quella fetida, fumosa atmosfera, la faccia maliziosa e
malvagia di Graffigna. Egli riprese da capo le solite insinuazioni
sarcastiche e le tentazioni. Risposi seccamente che avevo trovato onesto
lavoro ed onesto guadagno; abbandonai issofatto quel lurido antro, e da
quel giorno non ci entrai più.

«L'onesto lavoro e l'onesto guadagno l'avevo trovato per davvero in casa
del signor Defasi. La fortuna questa volta mi aveva sorriso, e dalla
casa di Nariccia conducendomi a quella del libraio aveva cambiato la mia
vita in tal guisa, che gli era come avermi fatto passare dai rigori i
più crudi d'un triste inverno alla mite e soave temperie d'una fiorente
primavera.

«Tornato dal sig. Defasi, com'egli mi aveva detto di fare, il giorno
dopo quel nostro incontro, io n'era stato accolto con ancora maggiore
umanità. In breve egli aveva assestato fra noi le cose a mio sommo
vantaggio. La buona piega presa dal suo avviato commercio gli consentiva
di avere un commesso, e mi proponeva di esser quello. Ragionevole era lo
stipendio; e per mettermi in grado di provvedere alle mie prime
necessità, ebbi una conveniente anticipazione di alcune mesate del
medesimo. Egli non poteva prendermi seco ad abitare. Dovetti adunque
cercarmi un alloggio, che trovai in quelle vicinanze in un'allegra
soffitta, contro i vetri della quale veniva sollecitamente a percuotere
coi suoi raggi dorati il sol nascente. Là vivevo solo, ma non sentivo la
solitudine, imperocchè quasi tutte le ore del giorno passassi nel
fondaco, e in quelle poche della sera e della mattina avessi meco la
compagnia de' più alti spiriti che furono nell'umanità, i quali, i
portati della loro immaginazione, della scienza, fecero concreti nelle
pagine di libri immortali....

«Ah! che felice tempo fu quello ch'io passai nella bottega del libraio e
nella mia povera soffitta! La mia intelligenza si aprì allora a tutti i
più severi ammaestramenti, e con quell'ardore che possiede la mia natura
si gettò sopra tutte le parti del sapere e in ognuna fece bottino,
confusamente, incompiuto, disordinato, ma con tanto trasporto
dell'anima!... Oh! le sere ch'io passava studiando al lume della
lucernetta, sere beate, in cui pareva che nel mio pensiero si
ripercotesse tutto il pensiero dell'umanità, che innanzi alla mia mente
venissero a schierarsi tutte le idee che sono e furono e saranno
patrimonio dell'intelligenza di questa audace stirpe d'Adamo! Oh le
mattinate che io stavo meditando in faccia al sole sorgente nella sua
aureola dorata, con sotto i piedi le miserie della città sonnecchiante,
sopra il capo l'infinito! Chi me le rende quelle ore? Chi può dirne la
soavità e la bellezza?

«Coll'erudizione qua e là afferrata, senza metodo e senza logica
distribuzione accatastata nel mio cervello, sobbolliva pure, non
soffocata, ma forse anco fatta più viva, una potente fiamma di poesia;
quella fiamma che avevo sentito desta fin dai primi giorni, innanzi ai
meravigliosi spettacoli della natura; quella fiamma che non aspettava se
non la forza meravigliosa d'un affetto divino per diventar luce
raggiante ed illuminare i misteri del mio cuore, i segreti della vita,
le tenebre dell'universo....

«O poesia! Come t'amai e come t'amo, figliuola divina, che sei il sole
morale nell'universo infinito delle intelligenze! E quanto ti debbo di
gioie tremende, di superbi conati onde l'anima s'innalza, di voluttà
supreme nella vita mentale! Ben disse un poeta che tu sei un elisire, di
cui basta una goccia nel sangue d'un uomo a dargli più devozione alla
patria, più amore alla sua donna, maggior grandezza all'esistenza.
Coloro che entro le vene ne hanno due goccie, sono i forti nella sfera
politica, regnano nell'eloquenza, e dettano le ammirevoli pagine della
miglior prosa; ma quegli in cui questo elisire è il liquore stesso della
vita, quegli è il re del pensiero nel primo dei linguaggi.

«Poesia ed amore!... Due termini della grandezza dell'anima umana!...»

Qui Maurilio s'interruppe; nascose un istante il volto fra le palme, e
quando lo rialzò mostrò all'amico i tratti sconvolti e le guancie
pallide più che non fossero prima.

— Ed ora, diss'egli, ho da svelarti il mio più caro e più importante
segreto.... Ma debbo io svelartelo?

Giovanni gli prese una mano e gli disse con molto affetto.

— L'ho indovinato, il tuo segreto. Tu ami! Maurilio fu riscosso da un
subito tremito, quasi convulso.

— Sì: rispose curvando il capo.

— Parla, dimmi tutto.....

— No..... non ancora..... Sono stanco, ho bisogno di rifletterci, lascia
che io raccolga ancora le mie idee..... La notte è passata..... Questa
sera ripiglierò il mio racconto, e ti dirò ogni cosa.

Un orologio suonò in quella con lenti rintocchi le sette ore.

Giovanni balzò con impeto giù del letto.

— Già le sette! E Francesco mi attende! Per fortuna ho buone gambe e,
quantunque la sua casa sia così lontana, in due minuti sono da lui.

Corse fuori di casa. Mario era partito. Maurilio, rimasto solo nella
stanza, appoggiò la testa alla sponda del letto e chiuse gli occhi, come
dormisse. Ed era un sogno diffatti quello che si svolgeva nel suo
eccitato cervello, ma un sogno da sveglio.



CAPITOLO XXII.


Noi ci siamo riservato il diritto (se vi ricorda) di introdurci nella
sontuosa festa da ballo che aveva luogo nelle sale dell'_Accademia
Filarmonica_, quella notte appunto in cui Mario Tiburzio raccoglieva i
fili della congiura per affrettarne lo scoppio in rivoluzione, in cui
Maurilio raccontava a Giovanni Selva una gran parte dei casi della sua
vita.

Se non vi dispiace, venite, ascendiamo anche noi l'illuminato scalone,
entriamo nell'ampia, vastissima sala che sta prima nell'appartamento
signorile che occupa quella eletta società in cui concorre la parte più
ricca della borghesia torinese.

Le sfarzose sale fanno risplendere le infinite loro dorature alle
fiammelle di migliaia di doppieri. Dalla tribuna dell'orchestra nel gran
salone, piovono onde d'armonia suscitate da quanti meglio valenti
artisti conta la città. In faccia all'orchestra, sopra un palco tutto
coperto di tappeti di velluto con frangie d'oro, sorge il trono per le
LL. MM., ed ai lati i seggi dorati per le persone della Real Famiglia e
della Real Corte, dalla presenza delle quali, dietro supplicazione dei
soci, la festa dell'_Accademia_ viene onorata. Nel salone e nelle sale
circostanti si accalca una folla elegante, fra gli abiti neri della
quale spiccano brillantemente le decorazioni che ingemmano gli stomachi
impettiti degli uomini d'importanza, i ricami indorati e inargentati
degli abiti di Corte, gli spallini, i bottoni e le armi delle divise
militari, e i diamanti e gli ori e le splendide acconciature delle dame.

Nello slargo che in mezzo al gran salone si è fatto fra la siepe fitta
dei riguardanti si avvolgono in ispire concitatamente le coppie dei
danzatori, cui, come sferza che flagella la trottola, sospinge ed incita
il ritmo balzante della musica da ballo; mentre nelle sale vicine si
allunga e si contorce come un serpente in riposo la coda di quelle
coppie che lasciano ansimando affannosamente la danza e il salone da una
porta, per rientrare, dopo il lento progredire traverso il cammino
segnato da cordoni di seta, da un'altra porta e precipitarsi con nuova
foga in quella voragine, in quel turbine della danza.

Nelle sale più lontane la folla meno densa consente ai gruppi
degl'invitati di assettarsi sopra i soffici sedili e godere quel gran
diletto del mondo che è il mormorare, in conversazione cui accompagna il
suono travelato della musica. Colà esercita il suo impero sovrano la
critica malignamente urbana, armata di malvagie insinuazioni e di più
malvagie apologie; le donne passano colà al crivello le assettature di
tutte le altre donne, fanno il conto addosso alle trine, alle sete, a
quelle nebbie che sono le stoffe d'un abito di danza, ai gioielli, alle
grazie, alla bellezza, allo spirito delle loro rivali. Ogni donna che
mette il piede in una simil festa è rivale a tutte ed ha per rivale ogni
altra che vi si trova. Colà si susurrano all'orecchio con sorrisi che
dicon troppo le spiegazioni del lusso misterioso della tale e della tal
altra; fiorisce l'aneddoto calunnioso su quelle labbra color di corallo,
si lacerano con motti arguti le rinomanze di donne, da bellimbusti e da
vecchi celibi che la pretendono allo spirito e che si fanno un giuoco
dell'onore delle famiglie. S'incrociano, si emulano, corrono il palio,
per vincere la più ingegnosamente crudele, quelle maledette ciarle che
con tanta leggerezza assassinano la fama altrui.

Più in là, in una sala meglio appartata, stanno i tavolieri da giuoco.
In paragone allo splendore delle altre stanze questa la troverete
oscura. Sopra il tappeto verde d'ogni tavolino riflettono la luce delle
candele accesevi i coprilumi bianchi all'interno, verdi al di fuori.
Intorno a quei tavolieri siedono giovani e vecchi con quell'uniformità
di vestire che forma, direi quasi, la livrea della gente elegante; e
nascondono sotto un'urbanità ostentata ed un'indifferenza d'accatto la
gioia di guadagnare e il dispetto di perdere. Fra quanti sono giuocatori
in quella sala piacemi additarvene uno, la cui figura, in verità non è
tale da confondersi colla massa delle fisionomie volgari.

È un uomo di età inoltrata, sulle cui sembianze un osservatore
riconoscerebbe tosto che i vizi e gli abusi della vita e dei piaceri
materiali andarono a gara cogli anni a togliere ogni fiore di
giovinezza, ogni soavità d'espressione, ogni mostra di affettuoso
sentimento. La sua fronte è calva, del colore dell'avorio antico,
l'occhio grifagno, il naso adunco; un sogghigno permanente, pieno di
scherno e d'ironia piega le pallide, sottili labbra tirate. Ha voce
fioca e bassa, parola maligna, arguta, crudamente epigrammatica. Un
egoismo che non si dissimula, un'aridità di cuore apertamente confessata
con un cinismo, che per l'audacia e l'ingegnosità della forma ne impone
altrui. Udendo parlare il scetticismo di quell'uomo, un'anima debole,
tutto sbalordita, si prende a dubitare di ogni cosa ancor essa, e si
domanda se non è una gran giunteria la virtù, se la filosofia della vita
e la legge ultima dei rapporti sociali, non sono quell'egoismo di vizio
avviluppato in forme eleganti, che colla vernice dell'urbanità la più
squisita ride di tutto e non si dà un pensiero serio di nulla. Veste con
eleganza inappuntabile secondo le leggi della moda e del gusto, senza
smancerie da giovinotto che stonerebbero colla sua età, col suo stomaco
curvo e colla calvizie della sua fronte. La beltà che gli è rimasta è
quella d'una mano fina, ben fatta, per dirla in una parola,
aristocratica, e come si usa dire e credere, _vero indizio di razza_.

Giuoca con ardore coperto da quella continua attenzione agli atti ed
alle parole che ha un uomo in guardia contro le sue impressioni.

L'indifferenza abituale e beffarda della sua fisionomia, direste ora un
po' simulata nell'atto con cui prende ed esaminar le carte da giuoco,
dal valore delle quali dipende la sorte di quelle somme vistose in oro
ed in argento che stanno in monete accumulate innanzi a ciascuno dei
giuocatori. Dal suo occhio grigio e vivacissimo, l'unica parte del suo
viso che conservi alcuna apparenza di gioventù, quasi direi di vitalità,
partono a tratti a tratti lampi accesi, veri getti di fiamme, cui tosto
s'abbassano a spegnere ed a velare le palpebre. Il mucchio di denari
ch'egli tiene sul tappeto verde là al suo destro lato, è maggiore di
quelli che stanno presso gli altri giuocatori. La sua mano affilata e
bianca giuocherella sbadatamente colle monete; e soltanto alcuna
rarissima volta si potrebbe notare in quella mano alcun movimento più
secco, più convulso, come determinato da un sussulto, da un
raggrinzamento di nervi. Un osservatore potrebbe, dopo sottile
investigazione, conchiuderne che in quell'essere fatto apatico ad ogni
cosa, una sola può tuttavia farne vibrare una fibra, che in quell'animo
spento ad ogni passione, una ancora vi rimane e si suscita, ed è quella
del giuoco. Quando perde, vede con volto inalterato passare i cumuli
d'oro dalla sua alla parte dell'avversario; quando guadagna gli è con
una superba freddezza che le sue dita sottili tirano le vinte monete
verso il mucchio che gli sta davanti: ma gli è nel prendere le carte che
la sua mano ha quelle certe lievissime contrazioni, gli è quando
l'avversario le batte che il suo occhio, affissandosi su di lui, mandano
quelle cotali faville.

Per sua ordinaria abitudine, ogni qual volta parla con qualcheduno, egli
serra le ciglia ed usa guardare il suo interlocutore «come vecchio
sartor fa nella cruna,» se non che a questo suo stringer degli occhi
egli sa dare le più varie e diverse espressioni; ora di una specie di
bonarietà fiduciosa, ora di una ironia profonda, ora, ed è il più
frequente, d'un orgoglio che tocca l'impertinenza. Adesso ch'egli
giuoca, codesto sogguardare è più intenso, direi quasi, e più maligno
che mai. Da quelle sue ciglia socchiuse pare che scocchino vere puntine
sottili d'acciaio a ferire gli occhi entro cui si piantano.

Questo personaggio si chiama Amedeo Filiberto Langosco conte di
Staffarda; ed a quanti aveste a quel tempo chiesto di lui in Torino,
tutti vi avrebbero risposto che era il più perfetto e il miglior
gentiluomo che vi fosse.

Nato quando appunto era incominciata la rivoluzione francese che doveva
abbattere i privilegi di casta, egli apparteneva ad una delle più
antiche famiglie della più privilegiata aristocrazia piemontese. La sua
stirpe feudale aveva conservato di primogenitura in primogenitura la
maggior parte delle vaste tenute che erano state concesse in beneficio
ai suoi antenati nella divisione delle terre fatta colla legge del più
forte dai nordici invasori, a cui appartenevano. L'asse patrimoniale era
stato accresciuto dalle graziose concessioni dei sovrani, alla causa dei
quali essi erano stati dei primi a disposare la loro, dai vistosi
stipendi goduti, dalle commende acquistate pei servigi resi allo Stato,
per le arti cortigianesche presso il principe.

Il padre di Amedeo Filiberto possedeva due o tre villaggi e tre o
quattro cariche di Corte. Il palazzo dei conti di Staffarda, fabbricato
nuovo in uno dei quartieri nuovi della città rinnovellata dopo la pace
d'Utrecht, con disegno del celebre Juvara, sta uno dei pochi monumenti
di vera arte architettonica del secolo scorso che esistano in Torino. La
grandiosa sontuosità di esso — forse troppo solenne — non è superata da
nessun'altra, per quanto signorile, fra le abitazioni dei privati. Alla
magnificenza delle forme esteriori corrisponde intieramente lo sfarzo
degl'interni ornamenti ed addobbi, dipinti, intagli in legno, dorature,
arazzi e tappeti; ma anche tutto questo ha un'aria solenne, a cui
aggiungendosi ora la vetustà, ne riesce un'apparenza melanconiosa più
che non si potrebbe dire. Sotto le ampie volte di quelle sale fatte
scuriccie dalle pesanti cortine, innanzi a quelle preziose antiche
tappezzerie d'alto liccio a gran personaggi ed a grandi fiorami, in
cospetto a quelle forme di mobili che appartengono ad un secolo spento,
uno si trova rimpiccinito, quasi perduto, come fuor di luogo, e gli pare
che la sua personalità, le foggie del suo vestire, le idee che sono
nella sua testa stonino affatto con quell'ambiente che là si trova.

Un inesplicabile fastidio, un'uggiosa tristezza direste che emanino da
quelle pareti, che regnino sovrani in quel cortile quadrato colle
finestre a cartocci di genere _rococò_, sotto gli alti archi di quelle
gallerie, come in volto ai ritratti polverosi degli antenati, che si
schierano a costa l'un dell'altro, contando la storia di dieci secoli
nelle date scritte sulle cornici dalla doratura annerita dei loro
quadri.

Gli era in questa temperie che Amedeo Filiberto aveva passata la più
triste e noiosa infanzia che possa toccare a creatura umana.

Suo padre, ciambellano di Corte, non pensava che ai suoi cavalli, alle
sue partite di caccia, ai suoi uffici di cortigiano, alle sue belle, che
con iscandalo manteneva spendiosamente; la madre era tutta presa dalla
galanteria, che dalla Francia di Luigi XV aveva passate le Alpi ed aveva
finito per piantarsi dominatrice anche intorno l'onesta Corte di Savoia;
per l'uno e per l'altra l'ultimo soggetto della loro preoccupazione era
il figliuolo che il più spesso riuscivano ad obliare, come appunto era
lor desiderio.

Amedeo cresceva abbandonato alle cure d'un prete zotico ed ignorante,
che lo annoiava di latino mettendo tutta la sua cura a insegnargli
niente, egli che con la sua prosopopea non sapeva di niente. Sotto la
cotta del prete c'era il villano rifatto che era gonfio di orgoglio coi
suoi pari sopra cui credeva essersi innalzato, ed umile piaggiatore
verso i titolati che gli davano il pane; un che di mezzo fra il
domestico e il parassita, impertinenza da questa, servilità da quella
parte, la crassa ignoranza su tutto.

Il padre e la madre, il bambino sapeva appena che esistessero. Se non li
avesse visti una volta alla settimana, il mattino della domenica,
avrebbe potuto avere di loro la stessa idea confusa che gli davano di
Dio i barocchi insegnamenti del precettore. Quel momento in cui veniva
introdotto alla presenza dei genitori, era per Amedeo un momento solenne
che gli destava nessuna impressione di gioia, nessun movimento
d'affetto, si invece un sentimento di soggezione, quasi di paura.

Gli era nel gran salone dell'appartamento da ricevere dove stavano il
conte e la contessa; questa ordinariamente seduta sopra il seggiolone,
dura stecchita nel suo busto, pettinata ed incipriata in grande
acconciatura, con uno specchio in mano a guardarsi il bell'effetto
seducente dei finti nèi sparsi con arte sulla sua faccia imbellettata,
il marito dritto per solito presso la finestra fischiando fra i denti
un'aria di caccia che accompagnava col tamburinar delle dita sui vetri.

Il bambino veniva introdotto, tenuto, quasi tirato per mano dal prete.
Ci entrava con una segreta riluttanza che non osava manifestarsi, ma che
gli faceva sembrare sempre più fastidioso e più grave quel momento. Se
lo avessero lasciato fare e' sarebbe scappato le mille miglia lontano.

— Siete qui Amedeo? Diceva con sussiego la madre, staccando per un
momento lo sguardo dallo specchietto affine di volgerlo sul figliuolo.
Dio! com'egli cresce giorno per giorno questo disgraziato!

Tendeva con atto solenne e di protezione le dita della sua mano
sovraccariche di anelli verso il piccino, il quale deponeva un timido
bacio su quelle falangi che uscivano fuori del mezzo guanto.

— È egli buono il vostro allievo, Don Tabusso? Domandava la contessa col
tono indifferente di chi chiede ad alcuno le novelle del suo cagnuolo,
alzando un momento i suoi occhi brillanti in faccia al prete che si
profondava in una riverenza.

— Buonissimo.

Il padre lasciava la sua finestra e s'accostava a passo lento.

— Che cosa gli fate studiare al contino? Diceva svogliatamente. Il
Mandosio?... Non rompetegli di troppo la testa. Capite bene ch'egli di
tutte le vostre bazzecole non ne avrà da far nulla mai.

Poneva la sua mano sul capo del figliuolo e soggiungeva:

— Ti piacerebbe più imparare la scherma e andare a cavallo, non è vero?
Sta buono che fra pochi anni ti metterò il _fioretto_ in mano, ti
comprerò un cavallino e ti darò per aio un cavallerizzo.

La madre gli pizzicava la guancia destra, facendogli alcune ammonizioni
a mezzo labbro; il padre _piroettava_ sui suoi talloni da agile
ballerino di minuetto ch'egli era, e il bambino veniva — sempre per mano
del prete — ricondotto al fastidio grave e continuo della sua
solitudine.

Quantunque a lui la Provvidenza avesse dato ricchezza e una famiglia,
ben potevasi tuttavia ascrivere alla infelice schiera dei derelitti, in
quanto che, scevrato d'ogni affetto, vivesse solo, senza compagni, in
mezzo alla poco nobile compagnia d'un corrotto e oziante servitorame.

Il destino gli avesse almeno conceduto dei fratelli! Ma no: solo a
quell'ostico studio, solo al sollazzo, solo in quel vasto palagio pieno
di ombra e di silenzio.

Ad interrompere quella uggiosa monotonia venne il terremoto, un compiuto
cataclisma — la rivoluzione francese, che come la lava d'un vulcano in
eruzione si sparse per tutta Europa.

La contessa che aveva fatto strette relazioni con alcuni emigrati
francesi nel tempo ch'essi erano rimasti alla Corte di Torino, fuggì con
loro in Germania; il conte, uomo coraggioso, si pose alla testa d'una di
quelle bande che uccidevano i francesi sbandati e i _giacobini_ isolati
per amore del re legittimo e della religione cattolica; e la durò finchè
un giorno, sorpreso in una forra egli ed i suoi uomini da un drappello
di truppa repubblicana, piuttosto che arrendersi, lasciò che una palla
gli spaccasse la testa. I beni della famiglia furono sequestrati;
dall'alto della facciata del palazzo fu atterrato lo stemma dei conti di
Staffarda; in quelle belle sale venne a crogiuolarsi la democrazia d'un
commissario francese qualunque.

E Amedeo Filiberto?

Preso da un parente lontano, che viveva in provincia, passò da una
solitudine ad un'altra, da una uggia ad una peggiore. Quando fu in caso
di portar le armi, e' si partì ed andò a sostenere il grado di
sottotenente nei reggimenti stranieri di cui allora si serviva
l'esercito inglese. Visse qua e colà la vita scioperata dei campi e
delle guarnigioni, senza amare, senz'essere amato, senza provare
menomamente il bisogno d'un affetto. A forza d'essere privo d'ogni
amore, il suo cuore ne aveva perduto ogni bisogno, come ogni stimolo.
Una specie di atrofia l'aveva inaridito. Le forze della giovinezza che
cercano e trovano solamente sfogo nella passione, sviate da tutto ciò
che è sentimento, si volsero precipitose e prepotenti a tutto quanto è
vizio. L'ardore della voluttà, le ansie del giuoco, gli eccitamenti
dell'ebbrezza la più volgare tennero luogo in lui dei diletti soavi e
dei trasporti dell'amore. A 26 anni, nel 1814, succeduta la
ristaurazione, e' gettò via l'uniforme rossa e tornò in patria, logoro,
disgustato, bacato nell'anima ed affralito di corpo. Si trovò in faccia
con uno spettro imbellettato, un vero _revenant_ del secolo spento, sua
madre, cogli stessi sentimenti, cogli stessi nèi finti sulle guancie,
cogli stessi modi, colle stesse abitudini, ma colle rughe in più sulla
faccia e con diciasette anni di vantaggio sulle spalle. Si guardarono
stupiti come una spiegazione ridicola d'un enimma di cui si fu lungo
tempo curiosi. Nel petto loro non sentirono battere l'un per l'altro a
vicenda, nemmanco un'apparenza di cuore. La madre si sgomentò di
trovarsi innanzi un figliuolo così vecchio: il conte ebbe difficoltà a
reprimere un sorriso nel vedere gli atti e l'aspetto di quella poppatola
vecchia, imbellettata e mascherata da giovane. Fra di loro nessuna
corrente di simpatia, nessun legame di fiducia, nessuna comunanza di
sentimenti. Vissero come estranei, vedendosi raramente, quantunque
abitatori del medesimo palazzo, finchè la contessa andò ad abitare il
monumento sepolcrale della famiglia nella chiesa dell'antico feudo,
restituito dalla ristaurata monarchia, monumento cui la fittizia pietà
del figliuolo ornò di due statue e di una epigrafe latina di più in
onore della memoria materna.

Amedeo Filiberto era proprio solo nel mondo. Non aveva amici, perchè il
suo carattere non era simpatico a nessuno. Anche in amicizia è vera la
profonda massima scritta in una sua novella dal Boccaccio: se vuoi
essere amato, ama. E chi amava egli il giovane profondamente blasé, se
non appena se stesso? Ebbe compagnia di parassiti, di mezzani, di
cozzoni, di cortigiani, di complici nelle orgie; non ebbe nè amante, nè
amico. Al matrimonio ci pensò — ma per giudicarlo una catena e un giogo
che non avrebbe mai voluto portare.

Il giuoco e i soverchi dispendi gli avrebbero consumato il patrimonio,
se il re non glie lo avesse salvato con un _biglietto regio_, per cui
s'imponeva ai creditori di non molestarlo oltre, e di contentarsi di
essere pagati a centellini del capitale, perdendo gl'interessi[11].

  [11] Queste cose, che ora sembrano incredibili, succedevano
  allora nel nostro paese. Quando un nobile era troppo
  perseguitato dai suoi creditori, il sovrano lo traeva dalle
  peste in siffatta guisa, ma bisognava che egli fosse proprio
  nobile di tutti i quarti. Così rispettavasi a quel tempo la
  giustizia civile!

Sei anni prima del giorno in cui lo vediamo introdotto nel nostro
racconto, egli aveva fatto strabiliare tutta la elegante società
torinese, e massimamente coloro che lo conoscevano più davvicino,
annunziando il suo matrimonio con una delle più belle ragazze della
città, madamigella Candida, figliuola del ricco barone La Cappa.

Il conte di Staffarda aveva 52 anni e ne mostrava 60; la sua sposa ne
aveva 18 e compariva di 16. Egli era pieno di debiti, ed ella recava un
mezzo milione di dote allo stringer del contratto, forse più di due
milioni d'eredità alla morte del padre.

La spiegazione di questo mistero era la seguente:

Anatolio La Cappa era un nobile di fresca data che avrebbe sacrificato
la metà della sua ricchezza (la quale eragli pure la cosa la più cara
del mondo) affine di poter vantare senza menzogna di compilatori
d'alberi genealogici un lungo ordine d'avi illustri con sangue azzurro
di centinaia di generazioni. Egli aveva bensì una galleria di ritratti
di antenati, ma suo padre — primo a portare il titolo di barone (ed era
stato barone dell'impero) — li aveva comperati belli e fatti e polverosi
da un rigattiere. La fantasia di un araldista aveva inventato per
ciascuno di essi un nome, una qualità, una carica ed una data. L'avolo
dell'attuale barone era stato commerciante, e la tradizione di ciò — il
che scottava tremendamente al padre di Candida — non si era ancor
affatto perduta in Torino. Il padre aveva incominciato ad innalzarsi col
favore appunto delle ricchezze ammassate dal commercio dell'antenato. Il
figliuolo del bottegaio era entrato nella magistratura, divenuto
presidente o che so io, ed insignito del titolo di barone, cui
ristaurata la Casa di Savoia, ottenne per gran ventura di avere
riconfermato al suo nome. Il figliuolo era entrato nell'amministrazione,
si era spinto su, parte per merito, parte per protezioni, che sapeva
accortissimamente procurarsi e sfruttare, alle prime cariche dello
Stato, si era coperto il petto di croci d'ogni ordine cavalleresco,
aveva acquistata un'autorità, un'influenza delle prime ed aveva inoltre
avuto il talento di saper accrescere ancora il patrimonio raccolto
dall'avo, già aumentato dal padre.

La fortuna, in ciò solo avversa, gli aveva negato un figliuolo maschio.
La sua Candida avrebbe adunato in sè tutte le glorie e tutti i denari
dei La Cappa. Il padre, ambiziosissimo per sè e per lei, voleva ad ogni
modo imbrancarla con una delle più antiche e delle più illustri prosapie
della nobiltà torinese.

Il conte Langosco s'incontrò col barone e con sua figlia, un autunno,
alla villa d'un comune conoscente. La fresca gioventù di Candida,
rincalzata da una pura ingenuità di modi, di sembiante, di parole,
accese un ultimo ardore stantio nel sangue corrotto del vecchio
libertino.

A trent'anni, quando aveva l'audacia e la spensieratezza di Don
Giovanni, avrebbe tentato sedurla. A cinquanta, con qualche reumatismo
nelle ossa, fiacco della persona e poco acconcio ormai alle scalate dei
balconi ed alle frasi incendiarie, sentì una certa tal quale lusinga del
suo egoismo nel pensare ad una brava donnina che facesse da curatrice
amorosa alle sue infermità, e che rallegrasse l'ora dell'addormentarsi
ed il momento dello svegliarsi la mattina con un visino color di rosa,
assai più gradevole a vedersi, che non la faccia senza garbo di un
domestico.

Alla prima idea che gli balenò allora alla mente del matrimonio, il
conte rise di se stesso a gola spalancata, e si promise di chiudere la
porta del suo cervello ad ogni simile pensiero biscornuto, diceva egli
con un sogghigno, che osasse ancora presentarglisi innanzi. Ma il giorno
dopo, il barone La Cappa fu leggermente indisposto, ed il conte, come
gli altri ospiti della villa, si recò a visitarlo nella sua stanza. Colà
vide Candida nell'esercizio di uno dei più preziosi e cari uffici che la
natura abbia affidato alle donne, quello di suora di carità; — e ancora
la pietà naturale in essa addoppiata dall'affetto di figlia; — e le
ironie del suo scetticismo si trovarono spuntate innanzi all'idea del
matrimonio, che profittò di quell'occasione per ricomparire più ardita
di prima. Candida, seduta presso il letto di suo padre con un lavoro in
mano, gli parve mandare in quella stanza, traverso la sua modestia, una
luce benigna e riconfortevole. Pensò alle lunghe ore ch'egli passava
nella sua solitudine, quando il male lo inchiodava sopra il suo letto
nelle ombre pesanti della sua alcova cortinata; e non ostante tutte le
promesse che s'era fatto non iscacciò con mal garbo la bandita idea, ma
anzi se ne compiacque. Ad un tratto sentì nascere in sè un sentimento
che fino allora non s'era ancora mai manifestato: la voglia di
continuare la nobile antica razza a cui aveva l'onore di appartenere.
Gli parve un suo debito supremo codesto, grave colpa il non adempierlo.
Che? Nessuno ci sarebbe stato, che, lui morto, com'egli aveva fatto per
la madre, aggiungesse nella cripta del sepolcro famigliare un monumento
ed un'epigrafe a ricordarlo? Nessuno più a portare negli alti gradi
dell'esercito, o nelle ambasciate, o nelle sale della Corte colla chiave
d'oro sulle reni, il fastoso, illustre nome di Langosco di Staffarda?
Come non aveva egli pensato mai fino allora col dovuto orrore a tanta
jattura della vera nobiltà e del paese? Finchè si era in tempo — e si
era egli veramente ancora in tempo? in quel momento il conte osava
sperarlo — finchè si era in tempo doveva affrettarsi ad antivenire un
tal pericolo.

Siffatti pensamenti occuparono la mente del conte fino all'inverno,
quando, raccolta di nuovo nella capitale tutta la società aristocratica,
egli tornò avere l'occasione di trovarsi in presenza dei belli occhioni
neri e delle lussureggianti chiome corvine di madamigella Candida.

Allora, per maggior stimolo ad affrettare quella decisione che pur
tuttavia stentava a costituirsi e fermarsi, avvenne che i debiti dessero
maggior fastidio al conte scialacquatore, e nella sua distretta, gli
apparissero quali salvatori i denari della dote di Candida che facevano
come un'aureola d'oro intorno alla bellezza della giovinetta. Si
determinò ad un tratto al passaggio di questo rubicone matrimoniale. Che
la sua domanda potesse venire respinta, egli non lo sognò neppure. Aveva
troppa coscienza del vantaggio che gli dava il suo antico casato, troppo
riteneva per impareggiabile l'onore di portare il suo nome, sapeva
troppo la smania del barone di affratellarsi colla nobiltà _vera_, per
dubitare un momentino che la sua proposta non venisse accolta col
meritato entusiasmo. Quanto al consentimento di Candida ed a quello che
potesse avvenire nel cuore di lei, egli non se ne preoccupò menomamente.
Apparteneva ad una società in cui i matrimonii sogliono intendersi e
conchiudersi dietro dati tutto diversi da quelli delle reciproche
simpatie e della comunione dei sentimenti.

Fece dunque la sua domanda, e il fatto diede ragione alle sue superbe
previsioni. Il barone aveva fino allora invano tentato il terreno di qua
e di là, per trovare un vero discendente dei paladini delle crociate, al
quale piacesse guadagnare con un semplice sì la mano, la gioventù, la
venustà ed i milioni di madamigella Candida. Ben è vero che questa non
aveva che diciott'anni, ma il barone era premuroso di godere della gioia
di vedere la figliuola innalzata a quell'altezza a cui la voleva
spingere nell'olimpo degli Dei terreni, di vederla cinta di quello
splendore, del quale ben contava seco medesimo che un riflesso avrebbe
riverberato su di lui.

Il conte di Staffarda non era più giovane — ma la sua stirpe era tanto
antica!; non aveva fama di morigerato — ma nella distinzione delle
maniere non aveva chi lo superasse; aveva una infinità di debiti — ma il
suo palazzo, il castello e le terre del suo feudo erano inalienabili,
vincolate in un maggiorasco, e Candida aveva una fortuna che si
acconciava proprio a dovere colla grandezza e collo splendore del nome.

La possibilità d'una opposizione da parte della sua figliuola, non fu
nemmanco ammessa dal buon genitore. Ed invero la giovanetta non pensò
menomamente a ribellarsi alla volontà paterna. Era stata allevata con
questa idea; la felicità del matrimonio le era stata indicata nella
purità nobiliare d'un blasone. Si era insinuato in lei la convinzione
che il genere umano era diviso in ischiatte, una sovrapposta all'altra,
e che la superiore soltanto meritava il suo riguardo; tutti gli uomini
delle caste inferiori erano poco più che animali soggetti, bene o male
addomesticati.

— Avrai diritto di sedere a Corte, le disse il padre trionfante, e
potrai essere, sarai fatta di sicuro dama della regina.

Questo le parve un gran che. Certo avrebbe preferito che tutti questi
vantaggi le venissero innanzi rappresentati da un giovane e leggiadro
cavaliere; ma dove e quando mai si può ottenere tutto ciò che si
desidera? Il suo cuore non aveva ancora parlato; l'educazione fornitale
e il modo di vita adottato erano tali da impedirgli anzi che parlasse,
contento di far tranquillamente il suo dovere d'organo essenziale alla
vita. Non ebbe nessun trasporto di gioia, non travide colla fantasia
nessuna regione dorata nell'avvenire fra nubi di rose con amori
sorridenti; ma senza la menoma riluttanza si dispose a pronunziare quel
monosillabo fatale da cui tutta l'esistenza, tutto il suo destino
dovevano dipendere, senza più redenzione.

Quel giorno in cui essa andò innanzi all'altare, ad inginocchiarsi sul
cuscino di velluto rosso gallonato d'oro per mettere la sua fresca
manina nella destra asciutta del conte, potevasi scorgere una nube di
mestizia onde, a dispetto di tutto, era circonfusa la bella di lei
figura.

Quanto a bellezza, nessun indiscreto avrebbe potuto desiderare di più in
una creatura di ossa e di carne. Un pallore che si sarebbe potuto
chiamar pensoso, rendeva più brillanti i neri occhi della giovane, colla
cui pura e bianchissima fronte si accordavano a meraviglia i bianchi
fiori d'arancio della sua corona e del mazzolino appuntato al suo petto.

Ho detto pensoso il pallore della sposa in quell'istante, perchè
diffatti la mente di lei era occupata da mille confusi pensamenti, da
dubbi e paure, da un'incerta temenza e peritanza che parevale un
presentimento. Era come se, affacciandosi alla soglia di un'abitazione
ignota, sentisse ad un tratto una voce gridarle nell'anima: — prima di
avventurarti là dentro, guarda quello che fai!

Ma ogni considerazione era inutile oramai, ogni esitanza non era più che
una follia, quasi una colpa. Affrontò bravamente l'ignoto di quel
destino che le si presentava, e se il suo cuore batteva forte nel
pronunziare quell'irrevocabile _SI'_, la sua voce fu ferma tuttavia.

Uscì della chiesa con passo sicuro ed il viso tranquillo nella sua
pallidezza, la mano nella mano del conte.

I suoi 18 anni erano legati coll'indissolubile nodo del sacramento alla
prematura e corrotta vecchiaia di quel libertino elegante, scettico ed
egoista.

Candida non aveva, come dissi, la menoma lusinga d'una illusione: ma
quanto stette essa prima di accorgersi che s'era chiuso definitivamente
ogni accesso ad una legittima felicità? Fin dal primo entrare nel fosco
palazzo degli Staffarda, cui il conte in omaggio alle tradizioni
famigliari da lui rispettatissime aveva voluto lasciare tal quale nella
sua antica eleganza solenne; la giovane sposa aveva sentito abbattersele
addosso come una fredda cappa, aveva provato una sensazione quasi uguale
a quella di chi venendo dalle calde carezze d'un bel sole d'estate entri
d'improvviso nel freddo ambiente di una stanza umida e scura. Quelle
gran sale in cui regnava eterno il crepuscolo sgomentarono la giovinezza
della ricca figliuola del barone, avvezza al suo salottino di ragazza
color celeste ed al fresco nido della sua camera da letto color di rosa.
Dagli angoli scuri di quegli immensi saloni pareva che il fastidio in
agguato si slanciasse addosso a lei ad assaltarla. E qual difesa poteva
ella fare? La compagnia del marito, dapprima le ispirò una gran
soggezione, poi una indifferenza che piegava più verso la noia che
altro; da ultimo, quando ebbe conosciuto per bene tutto l'arido
scetticismo di quell'anima affatto spoglia d'ogni simpatica qualità,
piuttosto rabbia e disgusto.

Durante il primo anno, la novità del genere di vita, le fastosità del
mondo, la gran bisogna della _toilette_ distolsero alquanto dalla reale
miseria del suo stato la giovine donna; ma poscia un bel giorno ella ad
un tratto intravvide che tutte le feste e le gioie della società erano
una vana scorza sotto cui non c'era sostanza. Il vero diletto, la
felicità della vita erano dunque in altre cose. Dove? Nella famiglia,
per lei, no. Fuori della famiglia? Come? In che cosa?

Frattanto l'influsso deleterio degli esempi osservati in società, quello
delle ciarle e delle mormorazioni che con un velo trasparente, onde
maggiore ancora ricresce la realtà, pongono in mostra tutte le magagne
dei costumi, esercitavano la loro opera corruttrice sulla giovane ed
inesperta anima di quella donna, abbandonata ai suoi istinti. Il conte,
come non poteva essere un marito ammodo, poteva tanto meno farle da
consigliere, ufficio paterno d'uomo che ispira fiducia e rispetto. Il
padre di Candida non parlava che di cortigianerie e di decorazioni.
Candida, rientrando dalle adunanze, in cui aveva visto la sua bellezza
eccitatrice d'ammirazione e di desiderii in tutti gli sguardi degli
uomini — e per l'anima disoccupata d'una donna non c'è seduzione più
perniciosa di questa — Candida si trovava sola col vuoto della sua vita
e del suo cuore, col fastidio delle sue monotone giornate, mentre le
susurravano ancora nell'orecchio, come il ricordo d'una musica soave, le
frasi appassionatamente galanti di cui le si era fatto omaggio; e dietro
le nubi di quell'incenso travedeva splendere affascinatore il sorriso
dell'amorosa voluttà.

Di questa e di quella fra le più riverite e le principali dame della
città si raccontavano gli amori, e le vicende e le mutazioni degli
amori: nè mai era che una nota di biasimo suonasse per esse a tali
racconti, sì invece si disegnava sul labbro del narratore e degli
ascoltanti un sorriso quando si pronunziava il nome del marito, e
Candida, senza punto condannarsene, senza nè anco accorgersene, già
usava ella stessa partecipare a quel sorriso.

Quanti onesti non ha egli perduto questa considerazione: — se gli altri
fanno così, e perchè non lo farei ancor io?

La giovane contessa Langosco era pervenuta d'altronde a quello stadio
della vita in cui e cuore e sensi hanno raggiunto il pieno sviluppo ed
imperiosamente domandano. Nel matrimonio nè questi nè quello per lei non
trovavano risposta.

Il conte, qualunque fossero stati i suoi proponimenti nello stringere
quel maritaggio, non aveva tardato a ricascare nelle primitive sue
abitudini, e mentre lasciava alla contessa tutta quella libertà che nel
secolo scorso lasciavano alle mogli i nobili mariti indifferenti, egli
abusava di quella che si riservava piena ed assoluta per sè. I due
coniugi vivevano affatto indipendenti l'uno dall'altro; appena era se si
vedevano alle ore del pranzo, molte volte ancora il conte facendo
annunziare alla contessa che non sarebbe venuto; e la medesima carrozza
non li accoglieva insieme mai, se non quando le esigenze sociali
comandavano che la moglie fosse accompagnata dal marito. D'uscire
insieme a piedi non fu mai nemmanco quistione.

La giovane contessa viveva così infelice ed innocente, quand'ecco uno
sciagurato amore invadere la, sua anima, e ridurla colpevole, e non
certo felice davvero, ma darle almeno certe gioie febbrili, certe
tremende emozioni, certi appassionati trasporti, che se non altro
l'avevano tolta a quel marasmo in cui s'intorpidiva, che se non altro
erano la vita.

La sua natura fino allora era rimasta coperta — era un mistero anche per
lei. Di colpo, al contatto della passione, si rivelò in uno scoppio
potente innanzi a cui ogni forza di resistenza sarebbe stata un
nonnulla. Un'ardenza irrefrenabile la possedeva. Aveva nelle vene del
sangue di Saffo. Amare, essere amata e morire: le parve tutto un
invidiabile destino. Ed amò.

Aveva ella almeno scelto meritamente l'oggetto dell'amor suo?



CAPITOLO XXIII.


Quel dì in cui aveva luogo il festoso ballo dell'Accademia erano già
passati quattro anni dal momento in cui si era presentato la prima volta
allo sguardo della contessa l'uomo fatale che sì funesto influsso doveva
esercitare su tutta la vita della sconsigliata donna.

Era essa in campagna, sola, suo marito preferendo di rimanere in città
alle sue abitudini del circolo, del giuoco, della compagnia delle ninfe
del corpo di ballo.

Si annoiava maledettamente la povera contessa nella monotonia delle sue
giornate senza vicende di sorta. Alcune delle sue amiche erano state a
farle visita, e ripartite, lasciandole un po' di quel profumo storditore
della vita cittadina, di quel fermento nell'anima, che depongono la
mormorazione, la braca, come soglion dire i fiorentini, le ciarle
maliziose della cronaca più o meno scandalosa; aveva ella appreso così
che la marchesa tale aveva un nuovo amante, che la baronessa tal'altra
era sempre fedele a quel suo ufficialetto di cavalleria, che il
brillante contino *** si degnava far girare la testa d'una bellezza
borghese, moglie ad un bravo commerciante della città, che per i begli
occhi della presidentessa *** s'erano scambiati due colpi di sciabola un
capitano delle guardie e un addetto d'ambasciata.

Rimasta con non altra compagnia che quella del suo specchio, il quale
facevale i più adulativi complimenti sulla floridezza de' suoi venti
anni, la noia spalancava in lei le porte della fantasia all'invasione
delle più temerarie immagini; sentiva, come dice Alfredo di Musset,
delle frasi di romanzo salirle al cervello. Guardava con profondo
dispetto la calma della campagna, in cui il sole splendeva beatamente
sopra una immutevole medesimezza di cose. Sentiva nascere in cuore
un'uggia inesplicabile, ma viva contro i recessi ombrosi del suo parco,
che non avevano per lei mistero nessuno, contro le amenità di quel
soggiorno, che non dicevano nulla al suo cuore ed alla sua mente, nè una
memoria del passato, nè una speranza dell'avvenire. Pensava di colpo far
riempire le sue valigie e precipitare a Torino al trotto serrato dei
suoi bei cavalli del Mechlenburgo. Perchè in quella sua solitudine il
caso pietoso non avrebbe mandatole alcun avvenimento che rompesse quella
desolante monotonia? Il più straordinario sarebbe stato il meglio
venuto. Sognava da sveglia le più matte ed impossibili avventure
cavalleresche. S'ingolfava nella lettura dei più strani romanzi che
allora la moda voleva impinzati di fatti che non succederanno mai. Poi
questa lettura la stancava, le faceva tanto di capo, le dava una specie
di stordimento in cui la sua immaginazione quasi offuscata faceva
scorrere con vertiginosa ridda tutte le vicende di quelle favole,
aggrovigliandone i fili, complicandone gl'incidenti, riuscendo ad una
faticosa confusione. Allora gettava il libro incollerita, serrava gli
occhi, e faceva di per sè il suo romanzo, e lo vedeva incarnarsele
dinanzi, come sopra le tavole d'un palco scenico, sotto le sue palpebre
richiuse. Anche codesto finiva per irritarla. Sorgeva di scatto, faceva
attaccare i cavalli alla carrozza frettolosamente, impazientandosi
d'ogni indugio, come se la più importante cosa le premesse. Gettatasi
sulle ricche treccie una cappellina qualsiasi, la prima che le
capitasse, volava giù delle scale, si slanciava nella carrozza e
comandava al cocchiere:

— Corri.

— Dove, signora contessa?

— Dove vuoi. Purchè tu vada lontano e presto!

L'aria che percoteva il suo viso parevale darle sollievo. Il moto che ne
cullava la persona, il rumor delle ruote entro le orecchie, il sibilo
del vento non le lasciavano più agio a formarsi ai suoi pugnaci e
turbativi pensieri. L'intimo tumulto del suo spirito si calmava a poco a
poco. Chi la vedeva in tali occasioni avrebbe detto per sicuro che un
gran dolore occupava quell'anima, che una grande sciagura s'era
precipitata su quella esistenza. Le ciglia aggrottate, le labbra
pallide, serrate, lo sguardo profondo degli occhi neri fisso dinanzi a
sè parevano indizio d'una preoccupazione dolorosissima. Se qualcheduno
le avesse domandato in quella:

— Per amor di Dio, a che cosa pensate, contessa?

Ella avrebbe dato in uno scossone come persona sorpresa d'improvviso, ed
avrebbe risposto in tutta buona fede:

— Niente!

Quando l'effetto di quella corsa concitata sul suo animo era ottenuto,
Candida si passava la sua bianca manina sulla fronte e gridava al
cocchiere:

— A casa!

E giuntavi risaliva nelle sue stanze per riprendere con più accanita
perduranza la lettura dei nuovi romanzi francesi.

Quante volte, in quelle sue gite senza ragione e senza scopo, non prese
ella a fantasticare che i suoi cavalli togliesser la mano, che la
conducessero ad imminente pericolo di vita, che un eroe da novella
saltasse fuori a salvarla con estremo suo rischio, cadendo vittima del
suo bel tratto, gravemente ferito fors'anco! Cogli occhi della mente
essa lo vedeva, questo incognito generosissimo e valorosissimo. Non era
nessuno fra quanti giovani aitanti, leggiadri, aveva essa veduto fare
sfoggio d'eleganza nelle sale della società più forbita, ma aveva un po'
di tutti coloro; aveva specialmente quel non so che onde gli occhi della
donna son presi, onde la sua fantasia è dominata. Pareva alla contessa
che quest'individuo doveva esistere, che a un dato momento doveva
comparire nella vita di lei, lo domandava alla fortuna, s'impazientava
che tardasse.

I cavalli troppo ben guidati non ruppero mai il freno; il caso non si
compiaceva mai di lasciar cadere il seme d'un'avventura in quel troppo
ben disposto terreno.

Candida guardava sdegnata il bel sereno di quel cielo monotono sotto la
cui volta non ispuntava nessun avvenimento, nessun pretesto di passione.

Un giorno la si era proprio decisa a partire per Torino. Gli ordini
erano già dati; essa, col pretesto di vestirsi da viaggio, aveva fatta
una _toilette_ del miglior gusto che sia possibile immaginare, elegante
insieme e modesta, di colori, di taglio, di stoffe i più atti a farne
valere le forme bellissime e tutta la grazia della persona, e tutta
l'efficacia delle sue attrattive. Avreste detto che la si era preparata
per ricevere incognito il _Prince charmant de ses rêves_.

Quando fu pronta del tutto, si compiacque, secondo il solito, fermarsi
innanzi allo specchio. Fece a se medesima un sorriso, per cui un poeta
avrebbe detto la stanza tutta riuscirne illuminata. Un istante la
compiacenza di se medesima diede alla sua fisionomia l'espressione della
contentezza. Ma poi tosto scrollò le spalle e la solita nube di noia
discese sulle sue sembianze.

— A che pro? Mormorò essa; e colla solita sua irrequieta impazienza
corse al balcone a vedere se già era in ordine la carrozza.

Il garzone di scuderia teneva i cavalli per mano, ma il cocchiere invece
di attaccarli, guardava in su nel cielo con aria dubitosa.

— Fate presto: gli gridò la contessa che calzava affrettatamente i suoi
guanti.

— Credo che sia più prudente l'aspettare: disse il cocchiere.

— Perchè?

— Guardi lassù, signora contessa.

E il cocchiere additava il cielo.

Candida volse gli occhi in alto, e il bel sereno che i giorni scorsi
l'aveva irritata cotanto vide sparito dietro grossi nuvoloni scuri e
minacciosi che s'avanzavano rapidamente. In quel punto stesso un lampo
abbagliante correva in essi e fragoroso rimbombava il tuono ad
annunciare prossimo lo scoppiar del temporale.

Se non altro era quella una variazione, e Candida non ne fu scontenta.

— Fate rientrare i cavalli, e riparate nella rimessa la carrozza.
Partirò dopo il temporale.

I servi ubbidirono mentre larghe gocciolone di piova cominciavano a
cadere qua e colà con un rumor secco.

La contessa, vestita com'era, trasse una poltrona presso al balcone
aperto, vi si gettò sopra abbandonatamente, e seguitando con elegante
trascuranza a calzare i suoi guanti, stette a contemplare lo spettacolo
del temporale che ad un tratto era furibondamente scoppiato.

Il terreno su cui guardava il balcone dov'era la contessa, terreno
battuto che serviva da cortile, era chiuso dalla parte che si trovava in
prospetto al palazzo, da una folta siepe alta un metro, al di là della
quale si stendevano le praterie della vasta tenuta patrimoniale dei
conti di Staffarda.

La pioggia veniva giù impetuosamente scrosciando, mista a un po' di
grandine, e in un momento ebbe allagato tutto il cortile. Non più un
essere vivo vedevasi per la campagna, la quale per le fitte righe della
piova appariva all'occhio della contessa, come traverso un velo. Il
fresco vento del temporale battendo sulle guancie di Candida parevano
rinfrescarle il sangue. I lampi che tratto tratto squarciavano le nubi,
rompendo la tenebria che aveva invasa la terra illuminavano uno strano
sorriso sulle labbra di quella giovane donna. A che pensava ella? Non
l'avrebbe saputo dire. Guardava lo stupendo spettacolo dell'uragano con
molto più interesse di quanto avesse guardato mai splendida
rappresentazione sulle massime scene della città. Sentiva mosso da più
concitazione il rifiato, sentiva sotto un apparente languore rifluire
più potente nelle vene la vita, il sangue le scorreva con rapidità quasi
febbrile, pulsando alle tempia. L'elettricità ond'era satura l'atmosfera
le scuoteva i nervi con vivo sussulto che non le tornava sgradito. Si
sentiva ad un punto il cuore più palpitante, come se fosse per avvenirle
qualche gran fatto. Danae solitaria pareva aspettarsi che nella pioggia
di fuoco d'un lampo scendesse a lei e le si rivelasse il Dio dello
sconosciuto.

Nel maggior strepitare del temporale, ecco presentarsi al suo sguardo la
vista d'un uomo che al di là della siepe, sotto i torrenti d'acqua che
piovevano dal cielo, correva precipitosamente verso il castello. Dietro
quel velo della pioggia fittissima, a quella dubbia luce che rimaneva,
ella non potè scorgerne che in di grosso le forme, ma dalla leggerezza
con cui correva, appariva esser giovane, e da una certa grazia di
movenze, si mostrava aitante di persona. Giunse alla siepe, correndo,
spiccò un salto che avrebbe fatto onore al più abile ginnastico, e si
trovò in mezzo al cortile. Colà vide la contessa al verone che per
curiosità si era sporta alquanto a guardare, salutò gentilmente,
scoprendo una ricca capigliatura inanellata ed una fronte giovanile
sotto cui splendevano due sguardi accesi, e diviato si gettò sotto
l'atrio.

La contessa al saluto di quel giovane si trasse vivamente indietro. Quel
tanto che aveva visto di lui le aveva fatto conoscere ch'era un bel
giovane e non vestito da contadino. Ecco invero un avvenimento
straordinario nella monotonia di quella vita. Chi era mai codestui? Come
e per qual caso in quelle regioni deserte, dove ella non aveva mai visto
ombra d'uomo fuori dei villani delle sue fattorie? Una gran curiosità la
colse. Lo stato nervoso in cui la si trovava era acconcio precisamente a
dar maggiore vigoria e quasi direi importanza a questo che, se non
altro, era un sentimento che rivelava la vita. Si levò da sedere con
mossa irrequieta, e si avviò per andare a suonare il campanello con cui
si chiamavano i servi.

Ma prima che ella giungesse al cordone che pendeva allato al camino, una
mano discreta grattò all'uscio.

— Entrate: disse la contessa fermandosi e voltandosi a quella parte
colle sopracciglia leggermente aggrottate.

Il battente s'aprì e comparve la cameriera tenendo in mano un piccolo
vassoio d'argento.

L'occhio di Candida vide tosto in mezzo a quel piattello il bianco
quadrato d'una polizzina di visita e avvisò tosto che la era quella
dello straniero: ma, senza saperne essa stessa la ragione, credette bene
dissimulare.

— Che cos'è?

— Un signore, sorpreso dal temporale in questi dintorni, rispose la
cameriera, si riparò nel castello e prega la signora contessa a volergli
permettere di aspettare qui che la pioggia abbia cessato. Perchè la
signora contessa sappia a chi farebbe l'onore di accordargli questa
momentanea ospitalità, le manda la sua carta.

— Va bene: disse Candida con isvogliata indifferenza che non era punto
sincera, e presa la cartolina, con superba noncuranza vi gettò uno
sguardo fugace.

In mezzo alla polizza eravi impressa una corona che pareva comitale, e
sotto stava scritto:

  LUIGI QUERCIA DOTTORE.

Il labbro della contessa fece una lieve smorfia che significava:

— Non conosco costui e non mi cale di conoscerlo.

Gettò essa con mossa affatto superba quel biglietto in un'elegante
paniera di porcellana di Sèvres con ornamenti di bronzo dorato, la quale
stava per questo ufficio sopra il ricco tappeto della tavola, e disse
alla cameriera:

— Stia pur quanto vuole. Offritegli tutto ciò di cui possa aver bisogno.

E fece un cenno di congedo, per cui la fante si affrettò a partire.

Quando fu sola, Candida si riaccostò lentamente al balcone. Il temporale
imperversava più che mai, ed aveva l'apparenza di durare tutto il
giorno.

— Per quest'oggi è inutile pensare a recarsi in Torino: disse a se
stessa la giovane donna. Il cattivo tempo non cesserà più fino a questa
sera, ci scommetto. E questo cotale dovrà star qui tutta la giornata?
Certo non lo caccierò mica dal castello. Ma che ci farà egli tutte
quelle ore che saranno eterne?

Sorrise lievemente.

— Poverino! Lo compatisco. E' gusterà una dose di quel bel divertimento
che io ho ciascun giorno a tutto pasto... Giusto! Egli è dottore. Se
avesse nella sua scienza medica qualche farmaco per guarire dalla noia.
Bah! Questi farmaci non è da un medico che bisogna andarli a cercare,
sibbene da un uomo di spirito. Veramente l'esser medico non esclude
l'aver dello spirito. E da quel poco che ho visto di costui, egli
dev'essere così poco medico che quasi nulla, perchè mi pare un
giovinetto forse appena appena uscito dall'Università. Se la sua
compagnia fosse dilettevole!...

Scrollò le spalle, come fa chi vede presentarglisi alla mente una idea
assurda.

— Io di certo non vedrò questo signore per poterne giudicare. Un
medico!... Peuh!

Tornò presso la tavola e riprese in mano la polizza di visita di quel
cotale.

— Oh oh! esclamò. Qui c'è una corona da conte... almeno mi pare... È
dunque un nobile?... Un nobile che fa il medico! È egli possibile?.....
Forse qualche _cadetto_..... qualche rampollo di famiglia rovinata.....
Ma come non aver scelto la carriera militare? E' mi pare giusto che quel
giovane starebbe a meraviglia colla montura di cavalleria d'artiglieria
addosso.

Le parve rivederlo in quel punto, come lo aveva visto poc'anzi nell'atto
di saltare con tanta agilità la siepe del cortile.

Un'idea matta, balzana, ma piacevole alla sua immaginazione, l'assalse.
Le sembianze di quel giovane potevano corrispondere benissimo a quelle
dell'essere ideale che da tempo era l'eroe delle sue strane
fantasticherie. Non aveva potuto veder bene quella faccia risoluta e
leggiadra, ma pur le pareva che non avrebbe potuto disdire all'eroe de'
suoi sogni. Si diede a ridere di sè stessa, ma nemmanco quelle risa non
erano sincere. La preoccupazione curiosa si era impadronita fortemente
della sua anima.

— Luigi Quercia! Ripeteva fra sè la contessa tenendo l'occhio fisso nei
caratteri stampati su quel pezzetto di cartoncino. È un nome affatto
ignoto per me. Non ho mai sentito a nominare un simil casato nella
nobiltà torinese. In questo paese non esiste famiglia di tal nome.
Ch'egli sia un qualche medicuzzo venuto da poco a stabilirsi nel vicino
villaggio. Se io interrogassi codestui? Che male ci sarebbe? Ci
occuperei se non altro un dieci minuti di tempo.

Si avvicinò vivamente al cordone del campanello, ma si fermò poi tosto.

— Può darsi che io mi trovi a fronte uno zotico campagnuolo..... Ebbene
allora servirà per farmi ridere. Ah! in una solitudine come la mia, non
bisogna guardarla tanto pel sottile nelle distrazioni che ci si
presentano.

E diede una tirata al campanello.

Aveva appena suonato che si era pentita, non avrebbe voluto averlo
fatto. Studiò di chiedere qualcun'altra cosa alla cameriera che si
sarebbe presentata. Quando udì il solito grattar dell'uscio si gettò a
sedere abbandonatamente sul sofà e prese l'aria più indifferente che
seppe.

— La signora contessa ha suonato? Domandò la cameriera, entrando.

— Sì..... Per oggi non si parte..... Riponete la mia roba.

— Signora sì.

Quando la cameriera fu presso all'uscio:

— E quel signore, disse la contessa sbadatamente giocherellando con un
fiocco d'un cuscino, è egli ancora al castello?

— Sì signora. La vede bene: fa un tempaccio da non metter fuori un cane.

— E che fa egli?

— Guarda la piova a cadere e canterella fra i denti.... Ha domandato se
non avrebbe potuto presentare i suoi omaggi e fare i suoi ringraziamenti
alla padrona.

— Ah sì? E che aspetto ha egli?

— È un bellissimo giovane.

— Non vi domando questo: disse con voce severa la contessa, come se la
giovane avesse pronunziato una sconvenienza. Vi domando se le sue
maniere sono d'uomo ammodo.

— Per l'affatto. E' mi pare un perfetto gentiluomo.

— Qualcheduno dei famigli lo conosce?

— Signora no.

— E dei contadini?

— Neppure.

— Non è dunque abitante di questi dintorni?

— No signora; ma il cacciatore della signora contessa dice averlo già
visto altra volta gironzare per queste parti. Una sera poi incontrò un
elegante _cabriolé_ che trottava sulla strada per a Torino, e in esso
giurerebbe che c'era questo signore.

— Un _cabriolé_ elegante?

— Sì signora con un cavallo di gran prezzo.

— È dunque un signore?

— Certo! L'aria lo dice a prima vista, e poichè è venuto a ripararsi qui
al castello ha già dato tre o quattro scudi di mancia.

— Come? Esclamò la contessa dirizzandosi della persona con aria
corrucciata.

— Sì signora: uno al domestico che gli ha fatto una fiammata, per
asciugarlo, nel camino della sala della caccia; un altro al guattero che
gli ha portato una scodella di brodo; un altro al lacchè il quale gli
prestò una vesta da camera del signor conte perchè si potesse toglier di
dosso il soprabito immollato... Oh! si vede subito che gli è una persona
come si deve.

— Ne parli con troppo entusiasmo... Ha dato uno scudo anche a te? La
cameriera diventò rossa e fece a schermirsi dal rispondere.

— Non dir bugia; anche tu hai preso la mancia?

— Poichè la signora contessa vuole saperlo... Il signor Dottore lo seppe
fare con tanta grazia, che il rifiutarlo mi parve una inutile scortesia.

— Signor Dottore! Come sai tu ch'egli sia dottore?

— Il valletto mi ha data la carta di visita da portare alla signora
contessa...

— E tu l'hai letta?

— Senza volerlo.... I miei occhi ci son caduti sopra.....

— Va benissimo. Mi piacerebbe soltanto sapere con qual pretesto quel
signor dottore potè darti lo scudo.

— Mi pregò di fargli compagnia; mi disse che a star solo s'annoiava, che
la mia compagnia gli era amenissima.

— Davvero! E a te la sua?

— Oh! Egli è il più gentile fra quanti signori io abbia visto, e sa dire
di certe cose!... Di tutti quei giovani conti e cavalieri che fanno
visita alla signora contessa non ce n'è uno che passando non si fermi
alcun po' meco a barzellettare; ma le assicuro in verità che nessuno di
essi può stare a petto di questo dottore.

La contessa prese un'aria sempre più severa:

— Mi dispiace che i miei famigli accettino così delle mancie dal primo
venuto; e tanto più mi dispiace di voi che siete più specialmente
addetta alla mia persona. Ne parlerò al maggiordomo perchè ci metta
ordine, e ciò non accada mai più. Andate.

La cameriera si avviò a capo basso, ma quando fu per metter piede fuori
della stanza, lanciò un'ultima domanda, come il Parto ritirandosi
lanciava un'ultima frecciata.

— Se il dottore domanda ancora di presentarsi alla signora contessa, che
cosa abbiamo da rispondere?

— Che non ricevo: disse asciuttamente la contessa, ma poi tosto
correggendosi: cioè..... alla campagna si può vedere senza tratto di
conseguenza certe persone che non si riceverebbero in Torino... anche
senza che sieno presentate. Se domanda ancora d'essere introdotto presso
di me, mi verrete ad avvertire e lo riceverò.

La fante partì. La contessa stette aspettando con certa impazienza.
Trascorse circa mezz'ora, che parve lunga assai alla curiosità di
Candida; prese uno dei suoi volumi di romanzo in mano e ne lesse una
pagina: si accorse che non capiva, che gli occhi avevano seguitato a
scorrere materialmente di parola in parola, ma che lo spirito era
altrove.

Si disse che erano gli scoppi di tuono sempre frequenti, a disturbarla.
Nella sua testa si insinuavano le idee più bizzarre. Quel giovane che
gettava via gli scudi con tanta larghezza era egli un medico secondo la
comune? Mai più! Certo era un ricco che aveva voluto ornarsi di un
inutile diploma. Era stato visto altre volte in quei dintorni. Che ci
veniva egli a fare? Sarebb'ella stata un'assurdità il supporre che
venisse per una donna? Quale? In quei dintorni ella non sapeva vi
esistesse altra donna — eccetto che una di bizzarri costumi e di dubbia
riputazione, che dicevasi un'antica artista da ippodromo. E perchè
Candida sentiva ella ripugnanza cotanto a pensare che quello sconosciuto
giovane venisse nel paese per quella donna? Che cosa gliene doveva
importare? Aveva ella già visto altre volte il sedicente dottore? Si
affaticava a consultare i suoi più segreti sovveniri per cercare se in
qualche cantuccio della memoria non avesse trovato allogata quella
virilmente leggiadra figura. Intanto guardava l'indice dell'orologio.

— Egli ha rinunciato a presentarmisi. Tanto meglio. Teme certo di non
ottenere presso me il successo che gli valsero presso la cameriera
alcune volgari frasi di complimento. Diffatti, che cosa avrebbe da
dirmi, ed io da dire a lui? Il nostro sarebbe un colloquio di mutoli....
E piove sempre della più bella!... Eccomi condannata tutto il giorno a
stare rinchiusa... Che noia!

Mancava forse un'ora al momento di andare a pranzo, quando la cameriera
tornò nel salotto della signora contessa. Il dottor Quercia supplicava
d'essere ricevuto.

— Venga: disse la contessa, e forse senza neppur badarci, prese
un'attitudine sul suo sofà la più seducente ed avvenevole che si possa
immaginare, e con una ratta occhiata consultò lo specchio
sull'espressione della sua fisionomia. Lo specchio le rimandò la vista
d'un volto giovanile, su cui una fiera tinta d'orgoglio aristocratico,
ma bellissimo sotto ogni riguardo.

Luigi Quercia entrò coll'agevolezza rispettosa ed elegante di maniere,
che può mostrare il più forbito gentiluomo e il più avvezzo alle usanze
sociali.

I miei lettori conoscono già le esteriori apparenze di questo
personaggio. L'hanno visto nella taverna di Pelone, vestito di abiti da
popolano, conservare pur tuttavia sotto di essi una certa nativa
distinzione ed un'elegante leggiadria che lo rivelava a primo aspetto
superiore a quei suoi compagni ond'era circondato, e sui quali egli
aveva un'incontrastata supremazia ed esercitava un impero che non
trovava ribelli.

Ora, agli occhi della contessa, rivestito del suo soprabito rasciutto,
e' si presentava nei panni alla moda del damerino cui mostrava saper
portare come la vera divisa della propria condizione.

Aveva a quel tempo ventitre anni, e la sua florida giovinezza gli
brillava in viso in una splendida avvenenza. I suoi occhi vivacissimi
gettavano lampi; la bella sua fronte lisciamente rispianata, non aveva
il solco di quella ruga fra le sopracciglia che abbiam visto dare a
tutta la sua fisionomia un'espressione di ferocia; le sue labbra rosse
di sì voluttuosa avvenenza sorridevano graziosamente; il suo contegno
aveva la sicurezza non immodesta d'un uomo che conosce il suo merito.

Innanzi a quell'aspetto, l'orgoglio della contessa riconobbe un suo
pari; e il cuore della donna sentì un principio d'interesse che potrebbe
anche dirsi simpatia.

Candida staccò dalla spalliera del sofà la persona e chinò leggermente
la testa per rispondere al riverente saluto che le faceva il visitatore.

— Il signor dottor Quercia? Disse la contessa guardandolo un momentino
colle palpebre semichiuse, come farebbe chi avesse vista corta.

— Quel desso: rispose il compagno d'infanzia di Maurilio.

La contessa colla sua manina accuratamente inguantata gli accennò una
poltroncina che si trovava a pochi passi dal sofà e gli disse, con
accento che era più gentile di quello usato nel fargli la prima domanda:

— S'accomodi.

Gian-Luigi sedette, e un momentino stettero le due giovani e leggiadre
creature guardandosi con tutta quella curiosità che la buona creanza
poteva loro permettere. Quel primo esaminarsi aveva in sè quasi una
diffidenza, si sarebbe potuto dire un'ombra di sospetto. Pareva che il
caso avendoli posti a contatto, un segreto istinto ammonisse ambedue che
le loro esistenze sarebbero state fatalmente intrecciate l'una
nell'altra, e che quindi, prima di cominciare ogni relazione, volessero
scrutarsi a vicenda. Il loro contegno avrebbe potuto paragonarsi a
quello di due schermitori che innanzi d'incrociare il ferro si osservano
l'un l'altro per indovinare l'abilità e il modo di tirare
dell'avversario.

L'uomo avvisò che a lui toccava di rompere quel silenzio, il quale
benchè non avesse durato che un mezzo minuto, era tuttavia già troppo
lungo.

— Devo chieder perdono alla signora contessa, diss'egli, se di
complicità col tempo mi sono permesso d'entrare nel suo castello, come
un bersagliere all'assalto.

La contessa ricordò il modo con cui quel giovane si era introdotto nel
cortile e non potè a meno di sorridere.

Un sorriso ottenuto da una donna in un colloquio, è una barriera che si
abbatte fra lei e l'interlocutore.

— Ella fece veramente da bersagliere, diss'ella. Vedendola saltare con
tanta agilità, non mi sarei mai più immaginato che mi arrivava in casa
un seguace d'Esculapio..... Poichè ella fa bene il mestiere di medico?

Gian-Luigi s'inchinò con tutta gentilezza.

— Direi per servirla, rispose, se invece non fossi costretto ad
augurarle che ella non debba mai aver bisogno di questa razza di gente.
Quanto a me poi sono medico è vero, ma ci ho una circostanza attenuante,
ed è che non esercito quella nobile professione che ho studiato.

Queste ultime parole egli le disse senz'affettazione, ma non senza
pesare alcun poco su di esse per farle notare, nella stessa maniera che,
se le avesse scritte, avrebbe tirato sotto di esse un frego.

Candida si morse le labbra; un momento fu per cedere ad un po'
d'irritazione che gliene nacque e rispondere aspramente; ma poi tosto
capì che era suo il torto, e che quell'espressione che ella aveva usato
conteneva una gratuita impertinenza, di cui l'aveva fatta avvertita il
giovine dottore nella guisa la più urbana.

— Veramente, soggiuns'ella con garbo, lei è troppo giovane per un
medico.

— Ah! è questo un difetto di cui pur troppo mi correggo tutti i giorni.

— Ella è pratica di queste vicinanze?

— No signora. Il trovarmici è un azzardo. La mia è una piccola
odissea... che può avere anche la sua Calipso.

La contessa fece un atto di scontento. Egli si affrettò a soggiungere:

— Venuto per trovare un amico, ho perso la strada e la tramontana sotto
il crosciar del temporale. Un lampo mi ha illuminata la fronte severa di
questo castello, ed io lo salutai come un rifugio.

— Se pure non è uno sbaglio, alcuno crede averla già vista altre volte
in questi dintorni.

La fronte di Gian-Luigi s'annebbiò fugacemente, e i suoi sguardi, acuti
come lame di spada, si piantarono negli occhi della contessa. Stette un
momento così guardandola senza rispondere. Candida provò una suggezione
nuova, strana, indefinita. A tutta prima le nacque volontà di riagire
contro l'audacia di quello sguardo, ma poi sentì, come da una potenza a
cui non valesse a resistere, avvilupparsi l'anima e dominare lo spirito.
Rimase confusa, non isdegnata nè offesa; le parve che quelle sue parole
fossero state una grande indiscrezione.

Gian-Luigi da canto suo pensava:

— Perchè mi dice ella codesto? Fu ella stessa a vedermi? Saprebb'ella
mai dove mi reco? È impossibile..... Per Dio quanto è bella! In quegli
occhi c'è un ardore che domanda solamente un soffio per essere
suscitato. È ricca a milioni. Non sarebbe forse la mia buona ventura che
mi ha gettato qui? Se ne approfittassi?....

Tutto ciò passò in un lampo. Il giovane aveva già preso la sua
determinazione, allorchè dopo un minuto secondo riprese a parlare.

— È vero, diss'egli. Non è la prima volta che mi aggiro in queste parti.
Ma credevo che la mia presenza non avesse potuto essere notata da
nessuno, ed era tale la mia intenzione. Venivo di soppiatto e partivo la
notte, contento d'aver visto da lontano in mezzo alle masse degli alberi
il comignolo d'un tetto.

— Quello dell'amico che mi disse poc'anzi: disse con un leggiadro
sorriso la contessa.

— Quello che alberga la luce a cui mi chiama intorno un impulso
superiore alla mia volontà....

— Come la luce delle candele chiama le farfalle a bruciarsi le ali:
soggiunse Candida ridendo.

— E sia pure bruciarsi! Le farfalle sono felici. Ardere e consumarsi
nell'oggetto del proprio desiderio, è la felicità maggiore che si possa
sperare.

— Ah! le farfalle sono l'emblema della incostanza.

— Ma della passione che si sacrifica, altresì.

Gli sguardi del giovane davano alle parole significazione ancora
maggiore e più chiara.

Candida si sgomentò di quel _marivaudage_, che spingeva il discorso
sopra una china assai sdrucciolevole. Prese la sua aria più severa e con
tutto quell'orgoglio che permetteva la gentilezza, interruppe:

— Ma queste hanno tutta la sembianza di confidenze; e il poco tempo da
che ci conosciamo, se pure possiam dire di conoscerci, non autorizza nè
lei a farmene nè me ad ascoltarle.

— Il poco tempo che ci conosciamo! Esclamò con fuoco il sedicente
dottore. E chi le assicura che noi non ci conosciamo invece da secoli?
Chi sa che in una vita precedente noi non siamo stati intimissimi? Su
questa terra s'incontrano persone che dopo anni in cui le frequentate vi
sono ignote come prima; altre invece che al primo accontarsi vi
penetrano nell'anima e vi lasciano penetrare nella loro. Io credo alla
favola di Platone. Ogni anima umana, prima d'incarnarsi, ha rapporto
strettissimo con parecchie anime omogenee. Di queste, nella vita
terrena, alcune saranno suoi amici, una sarà l'oggetto dell'amor suo.
Quando si trovano, sentono un misterioso legame che le attira l'una
verso dell'altra e le avvince. Riconoscono, senza saperlo, il vincolo
preesistente e la legge della predestinazione. Non si sono mai visti, ma
non sono estranei. Non sanno le vicende l'un dell'altro, ma già si
conoscono e si amano. Così mi avvenne quando vidi la prima volta
quell'essere divino di cui le feci cenno poc'anzi. Sentii che la mia
vita era sua, che il mio destino era tutto nelle bianche mani di quella
splendida bellezza.

Il cuore di Candida palpitava. Perchè? Non lo sapeva dire; e non sapeva
neppure se ciò le piacesse o rincrescesse. Avrebbe voluto imporre
silenzio a quel giovane, e non osava: e parevale un affettato soverchio
riserbo. Voleva parlare e temeva che la sua voce svelasse il suo
turbamento che non riusciva a dominare.

Fece uno sforzo per prendere un'aria scherzosa e indifferente.

— Signor dottore, mi pare che la sua sia una buona e bella malattia di
cui dovrebbe pensare a guarirsi.

— Mai più! Disse con sempre maggior fuoco Gian-Luigi. Perchè lo vuol
ella chiamare un male? È un tormento sì, ma questo tormento mi è caro.

— E quell'essere divino, com'ella dice, trovasi in questa contrada?

Non aveva ancora pronunziato queste parole che già Candida n'era pentita
ed avrebbe voluto ad ogni costo non averle dette; ma il giovane
temerario non era tardo a coglier la palla al balzo.

— Trovasi qui, diss'egli con impareggiabile soavità d'accento; sola,
nell'uggia di un vecchio castello, illuminando della sua beltà queste
antiche sale, come il sole illumina le vecchie piante del parco.

— Signore... Disse Candida impacciata, sentendo venirle alla fronte un
rossore che avrebbe fatto qualunque cosa per iscacciare.

Ma egli continuando con più ardore:

— Dal primo istante che l'ho veduta io rimasi tutto suo. Fu un
abbagliamento dello spirito, fu una rivelazione del cuore. Non avevo
ancora amato. Amai da quel punto.

Candida si levò in piedi.

— Che discorsi sono questi? La prego, signor dottore, a volersi
ritirare.

Gian-Luigi invece d'ubbidire, con maggiore ancora l'ardimento le si
accostò, pose un ginocchio in terra e prese una mano alla contessa, che
nel suo turbamento non ebbe la forza nè pure il pensiero di ritirargli.

— Oh! mi lasci parlare: disse il giovane supplicando. Fra un'ora io sarò
partito; e s'ella il comanda, mai più non mi presenterò innanzi agli
occhi suoi. Non avrà difficoltà nessuna ad obbliare le mie parole — le
parole d'un infelice, a cui ella avrà usato pietà, la pietà
d'ascoltarlo. È così poca cosa codesta! E che danno ne avrà ella mai?
Questo momento l'ho desiderato tanto, ed ora che Iddio me lo concede,
non voglia ella levarmene il bene!

Candida si appoggiò tremante alla spalliera di una seggiola che si trovò
vicina; il giovane con appassionato accento, sempre in quella positura,
continuò il suo discorso.

— Ella me non vide pur mai. Se la mia temerità, se il caso benigno non
m'avessero pôrto quest'occasione a venirle innanzi, ella avrebbe
ignorato pur sempre perfino la mia esistenza: ma io da lungo tempo,
nascosto, perduto nella folla, seguo con incessante adorazione lo
splendore della sua bellezza nel mondo, come il povero pastore segue la
stella del mattino nel suo corso del cielo. Se il pastore volge le
braccia alla stella e le manifesta i suoi aneliti, la sua adorazione, la
stella non s'offende, e continua a brillar mite e benigna, consolandolo
de' suoi raggi pietosi. Perchè sarebbe ella più crudele con me? Io non
domando di più. Un amore ardente come il mio, nel mondo, non è facil
cosa, glie lo giuro; e nella sua ardenza esso è il più modesto e
rassegnato. Che fastidio deve recare a lei che io l'ami? E forse non
sarà senza alcuna dolcezza neppure per lei il pensiero che un uomo è là,
celato, umile, noncurato, il quale l'adora ed è pronto a dare tutto il
suo sangue per lei. Venga un giorno in cui ella abbia bisogno della vita
d'un uomo; la non avrà che una parola da dire, che un cenno da fare, e
quest'uomo accorrerà lietamente, pronto al sacrifizio.

Il temporale pareva raddoppiare di furore. Le nubi erano così dense e
basse che oscurato ne rimaneva il giorno. I lampi frequenti saettavano
su tutti gli oggetti una luce livida, fugace, che dava strani aspetti
alle cose. I nervi fremevano per l'elettricità ond'era satura
l'atmosfera. Candida, sempre appoggiata alla spalliera della seggiola,
aveva un tumulto nell'anima che non le lasciava facoltà d'avviso. Le più
fiere risoluzioni s'avvicendavano rattamente nell'animo suo colle più
cedevoli tentazioni: voleva suonare il campanello, fare scacciar dalla
sua presenza quel temerario; poi tosto si compiaceva stranamente di
abbandonarsi alla dolcezza che le insinuavano nel cuore quelle parole
più soavi d'una musica, quelle parole che aveva udito nelle sue
fantasticaggini mormorare da un essere immaginario e che ora le
suonavano con irresistibile malìa d'accento dalla bocca d'un giovane
onde ogni donna avrebbe tenuto a pregio l'essere amata. Volse ella uno
sguardo a quello spirito tentatore; nello scuriccio di quel momento la
fronte bianca di Gian-Luigi spiccava come un'aureola, i suoi occhi
brillavano come due diamanti che riflettano la luce di mille fiamme.
Egli era supremamente bello. Il sogno delle sue ore di solitudine s'era
dunque incarnato; ed essa viveva in realtà in quell'ambiente di passione
vagheggiato cotanto! Non le sembrava vero e pur si diceva con palpito
concitato di gioia che era così. Tutto l'ardore del suo sangue si
destava nelle sue vene e vivaci fiamme le salivano al volto nel suo
turbamento più leggiadro ancora. L'orgoglio del suo titolo ispiratole
dall'educazione, la virtù e la dignità di donna lottavano debolmente
contro l'invadere della passione — di quella passione ond'ella con
fatale imprudenza aveva rammentati in sè gli elementi e che ora ad un
tratto divampavano. Il capo le tenzonava: i battiti del cuore erano
frequenti e convulsi, come se timore e speranza, la gioia e l'affanno,
tutti i più vivi sentimenti umani l'assalissero in una.

Il seduttore vide quello sguardo e seppe tutta interpretarne la
significanza.

— Oh! t'amo: susurrò egli con voce che pareva un sospiro ed era dolce
come la flebil nota notturna dell'usignuolo.

E premette le sue labbra ardenti sulla mano che ella, obliosa,
conturbata com'era, non aveva pensato a togliere dalle sue.

A quel bacio — a quel caldo bacio che conteneva tutte le aspirazioni di
voluttà d'un uomo desioso — a quel primo bacio appassionato di cui
sentisse l'ardenza la sua epidermide, Candida fu scossa da un brivido, e
come una vampa le corse per le vene e pei nervi. In quella un baleno più
vivace illuminò del suo biancolastro chiarore la stanza, e il volto di
quel giovane i cui sguardi gettavano fiamme negli occhi di lei, e la sua
pallida figura, che Candida vide nello specchio drizzarsi come uno
spettro. Gettò ella un gridolino soffocato e vacillò sotto l'èmpito
delle varie emozioni. Gian-Luigi fu ratto a sorgere e l'accolse nelle
sue braccia.

Si svincolò essa; si allontanò d'alcuni passi; ma non c'era sdegno nel
suo aspetto, nè entro i suoi sguardi. Ell'era tutto tremante. L'audacia,
la risoluzione, la forza di quel giovane avevano fatto in lei troppa
impressione. Gian-Luigi venuto nel momento il più opportuno che si
potesse per la seduzione di quella donna abbandonata e infastidita, si
giovò di tutto l'interno lavorìo che aveva già fatto in essa la
immaginazione malaticcia e sregolata; raccolse il frutto delle letture
malsane, degli esempi perniciosi, del tumulto insoddisfatto dei sensi
ond'era turbata la giovinezza di Candida. Le tante seducenti attrattive
onde natura aveva fornito il compagno di Maurilio furono agli occhi
della contessa ancora addoppiate dalla propria immaginativa che gli
aveva preparato il terreno, che lo circondava di tutte le qualità del
vagheggiato eroe.

Gian-Luigi — alla contessa conosciuto soltanto col nome di Luigi — tornò
altre volte pur troppo in quel castello, mentre la giovine donna lo
stava aspettando col cuor palpitante. L'Eden amoroso dietro cui ella
aveva nella sua solitudine anelato cotanto, fu aperto all'incauta donna
dalla mano di quel temerario che le appariva fornito d'ogni bellezza,
d'ogni valore, di quella inesprimibile malia di forza e di affetto, onde
l'uomo domina l'indole, l'anima e il cuore della donna.

Essa lo amò con tutta la potenza dell'anima sua, la quale dell'amore,
sin dapprima, s'era fatto un bisogno, un idolo, un dovere, e non
aspettava altro più che la venuta di quell'essere che di tanto tesoro
sapesse impadronirsi. Luigi era venuto come un trionfatore e l'aveva di
botto conquisa: era sua; le sembrava che avrebbe dovuto essere così ad
ogni modo, che con ciò ella non faceva che acconciarsi agli obblighi del
suo destino. Il suo orgoglio era tutto una umiltà in cospetto
dell'amante. Quella superba figura da regina che nel mondo tutti
accusavano di soverchia alterigia, nel solo a sola col suo diletto si
cambiava nella devota natura di una schiava innamorata, pronta ad ogni
cenno del suo possessore. Quella bellezza da tanti ammirata e
desiderata, cui tutti avevano creduta inaccessibile: quella bellezza si
concedeva con lieto e voglioso abbandono agli ardori d'uomo che
compariva ricco e ben educato in società, ma cui pure nessuno sapeva chi
fosse.

Il _medichino_ a sua volta era stato sovraccolto dalla beltà di Candida;
trovandosi con essa, quella prima volta, aveva ceduto alla subita
ispirazione, allo ardore della gioventù, ed aveva mentito un amore che
non esisteva ancora; poscia la sua tanta ventura, per quanto superbo
egli fosse di sè, gli aveva prodotto una specie d'ebbrezza che diede ai
suoi rapporti con lei tutte le sembianze d'un vero amore infuocato. La
giovane donna ebbe dalla sua adultera passione momenti di trasporto
ineffabili, gioie pur nella colpa sovrumane, delirii di paradiso.

Ah! infelice, con quante lagrime doveva ella scontare quegli istanti
fugaci di un bene colpevole!

L'amore la dominava senza sua possibil difesa. Tutto il resto del mondo
aveva essa obliato, o, per dir meglio, tutto concentrato in codesto.
Luigi colla sua bellezza, colla sua ardenza, colla temerità della sua
passione, rispondeva all'ideale che la sviata fantasia della contessa
s'era formato d'un amante, rispondeva ai bisogni della sua indole, alla
stranezza medesima dei sogni onde aveva cullato la sua noia precedente
ed occupata la vacuità del suo spirito e del suo cuore.

Candida non aveva più cercato di saper nulla del suo amante. Si
contentava di quel poco che egli avevale detto de' fatti suoi, — ed era
invero sì poco! Le bastava conoscerlo quale a lei si presentava.
Nell'espansione de' trasporti onde le inebriava l'anima, in quel fuoco
di voluttà che le gettava nelle vene, la innamorata donna vedeva ogni
ragione di essergli soggetta, di darglisi tutta, d'esser cosa di lui.
Chi fosse, che contasse nel mondo, quali le sue attinenze, che cosa
importava a lei?

Frequenti erano i segreti loro convegni. Il conte passava la maggior
parte del suo tempo in città; per lettera ella avvisava Luigi quando
potesse venire, ed egli accorreva. La cameriera di necessità erasi
dovuta far complice, e la padrona ne comprava il silenzio con regali e
con meno dignitosa compiacenza. Che palpiti di cuore, che sussulti di
nervi, che orgasmi dell'anima eran quelli onde la contessa era
travagliata nelle ore lente e fugaci che precedevano il momento in cui
il suo amante l'avrebbe stretta fra le braccia! La notte, appoggiata al
verone, sporta all'infuori la sua bella persona, stava, l'occhio teso
per penetrar quelle tenebre e vedere da più lontano l'ombra del suo
diletto. Tratto tratto si staccava di là e correva nell'elegante
_boudoir_ illuminato, dove si guardava nello specchio con occhio
diffidente della sua bellezza; ed ora aggiungeva un fiore alle chiome,
ora una collana al niveo collo, ora un gioiello al seno, e si domandava
palpitante: — Sono io abbastanza bella per lui? Gli piaccio come voglio?

Il cristallo che le rifletteva lo splendore di sì giovanile beltà, la
rassicurava; si salutava con un sorriso pieno di fiducia e di malìa e
correva di nuovo al verone. Erano ore tormentose insieme e piene d'un
acre diletto.

Nessun'ombra era venuta ancora ad oscurare quella luce elisiaca di
amore, nessuna nube ancora era passata su quel sereno in cui nuotava
l'anima sua. Candida si sentiva e nel suo cuore con infinita gioia si
proclamava felice. Non un sospetto la amareggiava, non l'accenno neppure
d'un rimorso. Amava ed era amata: tutto il mondo era lì.

La prima spina che le si fece sentire fra quei fiori inebbrianti fu
quella della gelosia. La non ci aveva neppur pensato ancora mai. Luigi
era così ardentemente amoroso! Non poteva in niun modo entrarle in mente
pur l'idea che potesse volgere un istante d'attenzione non che un
desiderio ad altra donna. Una sera, aspettandolo secondo l'usato al suo
castello, e vistolo a comparire sotto i raggi della luna filtrati fra le
frondi delle piante, Candida si ritrasse dal verone ove era stata tanto
tempo aguzzando gli sguardi, e suo primo impulso fu correre giù delle
scale all'incontro dell'amante, per introdurlo essa stessa dalla segreta
porticina che soleva schiudergli il passo, per gettargli due minuti
prima le braccia al collo e sentire la voluttà per lei immensa di essere
stretta al seno di lui; ma un sentimento di dignità, ultimo sforzo del
suo orgoglio aristocratico soggiogato, pur la trattenne. Incaricata di
aprire chetamente la porticina a Luigi era la cameriera. La contessa
stette sulla soglia della prima stanza del suo appartamento aspettando
che il suo diletto, fatta di corsa la scaletta riposta, comparisse tosto
a prenderla, come soleva, fra le sue braccia in un amplesso pieno di
forza e di passione: e il suo cuore di donna innamorata le balzava nel
petto. Ma parecchi minuti erano trascorsi, e Luigi non veniva. Che
poteva far egli colaggiù? Un ratto sospetto corse come un lampo
nell'anima della donna; un sospetto affatto incerto e indefinito, ma che
pur valse a tutta conturbarla. Come sotto l'impulso d'un sentimento
irrefrenabile, aprì essa l'uscio e si slanciò fuori sul ripiano a
guardare giù della scala. In fondo a questa Luigi sorridente ciarlava
colla cameriera, la quale moineggiava con civetteria imitata in mal modo
dalle grazie e dagli attucci della padrona. La fante aveva in mano un
lume che rischiarava la scena, e la troppo chiara espressione del viso
di lui, e la simulata renitenza della giovane, traverso alla vita della
quale Luigi aveva passato il suo braccio. Candida in un attimo vide
tutto, e l'amplesso, e il riso rivelatore, e il bacio che egli osò
mettere sulle guancie fresche e rotonde della fanticella. Tutto il
sangue della contessa si rimescolò; un subito bollore le infiammò le
vene e si precipitò al cervello quasi offuscandole e la vista e la
intelligenza. Per primo impeto volle correre abbasso a schiaffeggiar
quella pettegola a scacciar di casa sua quello sciagurato sì vilmente
offenditore di lei e dell'amor suo; ma si trattenne. Ritirossi sollecita
nella sua camera col sangue che le pulsava dolorosamente nelle tempia. I
più fieri propositi passarono con turbinosa rapidità nella sua mente
eccitata. Mai più vederlo, piantargli un pugnale nel cuore, gettargli
sulla faccia il disprezzo degno di tanta viltà, farlo scacciare come un
ladrone dai domestici: mille pazzie in mezzo ad un fremito di furore.

Non aveva ella ancora preso determinazione di sorta, quando l'uscio
s'aprì chetamente, e Luigi le venne in istanza con sulla faccia quel
medesimo sorriso che aveva poc'anzi abbracciando la cameriera.

E' s'inoltrò colle braccia aperte per darle il solito amplesso. Candida
indietrò come inorridita. Un vivo rossore la colorò sino alla fronte,
poi tosto diede luogo ad una pallidezza di cadavere. In mezzo a quel
pallore i suoi occhi neri lucevano come due carboni accesi. Volle
parlare, ma le labbra le tremavano e non valse a pronunziar parola.

— Che è ciò? Disse Luigi arrestandosi stupito. Che cos'hai?

La contessa voleva tacere la ragione del suo sdegno. L'umiliazione che
l'uomo da essa amato le recasse sulla bocca le labbra calde ancora del
bacio della sua cameriera le pareva troppo e troppo vergognosa per
esprimerla, per lasciare pur supporre ch'essa la sentisse. In quel
tumulto in cui si trovava la sua mente, s'era detto, vedendo entrare
l'amante, di umiliarlo a sua volta col suo disprezzo, di troncare
violentemente con esso quel nodo di amore che pure fino a quel punto le
era stato così dolce, di bandirlo dalla sua presenza per sempre, senza
pur dirgliene una ragione. Sentisse, egli che la sapeva, la sua colpa,
ella non si abbasserebbe ad accuse nè a rimbrotti.

Ma la misera donna amava con tutta la forza dell'animo suo, e se codesto
fiero modo sia possibile a donna che ami, lo lascio dire a voi, mie
gentili lettrici.

Luigi domandò spiegazioni pressantemente, colla voce che pareva tremante
di dolore, colla eloquenza della passione, colla malìa che ha su cuore
di donna la voce dell'uomo amato. Alla resistenza di lei, all'asciutta
fierezza delle risposte, all'orgoglio onde essa respingeva le sue
supplicazioni, i suoi atti di amore, Luigi si disperò, parlò di morire,
passò a sua volta ai rimbrotti.

L'orgoglio della debol donna non era più che una mostra. Ella cedette,
disse tutto, e dalla maggior fierezza passando al più umile
abbattimento, pianse. Che disse, che fece Luigi? Difficile il ripeterlo.
Ben lo sanno gli amanti che si trovarono in tale situazione. Parlò con
enfasi, giurò e spergiurò, la strinse fra le sue braccia con ardore
irrefrenato, bevve le sue lagrime, la coprì di baci, la stordì con
parole e con atti di amore; breve, all'alba si partì lasciandola
persuasa che quella non era stata che una facezia, che il meglio era di
farne caso nessuno e di non parlarne più.

Ma la spina era penetrata nel cuore di Candida, e l'arte del seduttore
non l'aveva potuta estrarnela affatto, sibbene glie l'aveva infranta
nella ferita e lasciatavi la punta, seme perenne di sospetti e di
diffidenze, che avrebbe germinato.

Colla cameriera la contessa non disse nulla; e fuori di un maggiore
riserbo e di una più esigente severità verso la fante, nessun
cambiamento avvenne nella condotta della padrona. Fra i due amanti
neppure non fu più mai parola di ciò, nè Luigi prestò più mai pretesto a
somiglianti sospetti.

Ma un mese circa dopo questo avvenimento, per parte dell'amante accadde
ciò che ancora mai non era accaduto; cioè ch'egli mancasse al convegno.

Fu una notte crudele per la contessa. Sino quasi all'alba stette essa al
verone, inquieta, palpitante, ad aguzzar lo sguardo nella tenebra
inutilmente. Come suole, mille paure, mille sospetti, mille crucciosi
fantasimi l'assalsero. Che cosa poteva averlo trattenuto? Una disgrazia
od un tradimento: l'uno e l'altra orribili al suo cuore di donna
innamorata. In certi momenti faceva a calmare lo spasimo della sua
anima, la febbre della diffidenza che la occupava. Esponeva la fronte
alla brezza della notte per farsene rinfrescare il sangue; si sforzava a
sorridere come per compassione della sua follia, cui chiamava il senno a
vincere e domare. Voleva pensare che alcuna bisogna lo aveva trattenuto;
ma qual bisogna mai, mentr'egli le aveva più volte dichiarato che
l'unica sua occupazione era un tempo il darsi spasso ed ora s'era fatto
l'amore per lei? Che non avesse ricevuto l'invito di venire?
Impossibile! Il mezzo ond'ella si serviva per farglielo pervenire era
sicurissimo. Che cosa adunque poteva averlo impedito, se non qualche
ragione fatale per essa?

Era la logica istintiva ed assurda dell'amore, la quale raramente
sbaglia.

Quando già spuntava l'aurora all'orizzonte, Candida si ritrasse dal
verone affranta come dopo una notte di febbre, confusa la testa, pieno
di amarezza il cuore. Si gettò sul suo letto, il seno gonfio di pianto,
senza pur avere lo sfogo delle lagrime; il corpo stanco chiedeva il
riposo del sonno, ma un mulinìo turbinoso d'idee, d'immagini, di
propositi nella testa, non la lasciava dormire. Si assopì pur finalmente
in un sonno leggero, affannato dai più tristi e maledetti sogni. Sorse
tardi, colle traccie in volto che parevano d'un sopportato malore.

Nel pomeriggio, sentendosi bisogno di prender aria fece attaccare i
cavalli, e corse, come soleva un tempo, in una passeggiata senza meta.
L'azzardo, la sua maligna stella la condusse in luogo dove la carrozza
in cui essa s'abbandonava ai suoi turbativi pensieri, incontrò un'altra
carrozza occupata da un'altra donna, la cui figura, l'abbigliamento e il
contegno erano tali affatto da chiamare l'attenzione di chicchessia.

Qual istinto segreto è quello che alberga nell'essere sensitivo della
donna e lo avvisa dei pericoli che lo minacciano per quanto coperti essi
sieno, dei nemici nascosti che gli si presentano nel cammino? Candida,
all'aspetto di quella donna sentì una scossa interiore, come un urto
nell'anima. Si tirò su della persona e incrociò lo sguardo con quello
della sconosciuta, la quale a sua volta lasciò lo sguaiato abbandono in
cui stava sdraiata per esaminare con attenzione quasi insolente la
contessa che passava. Fu un ratto istante, poco più d'un baleno in cui
le due carrozze si passarono a fianco, al trotto serrato dei cavalli; ma
in quel fugace momento le due donne ebbero campo pur tuttavia, con quel
meraviglioso loro sguardo complessivo, di vedersi in una a vicenda le
sembianze, i modi, le vesti, i difetti della bellezza e del gusto.
Candida dovette giudicare senz'altro che quella giovane — poichè la era
giovane — non apparteneva nè alla sua classe nè ad alcun'altra di donne
oneste. Era sfarzosamente vestita di stoffe abbaglianti, ma come tale
che più si compiace di attrarre addosso a sè l'occhio dei riguardanti
che non di contentarlo con acconcia armonia di colori ed avvenenza di
complesso. Sulla faccia non brutta, ma più provocante che bella, eravi
troppo belletto, troppa sensualità e troppa impudenza. Il più strano di
quel volto erano certi occhi verdi del color del mare, acuti, ora freddi
come una lama d'acciaio, ora ardenti come la voluttà, ora feroci come
quelli d'una tigre. Piantandosi in faccia a qualcheduno parevano
dilatarsi e sprizzar fuori un fascio di raggi acuminati, per così dire,
che vi stillavano nel sangue a seconda o il gelo del sospetto, d'una
soggezione indefinita, quasi d'una paura, oppure nell'uomo il fuoco dei
desiderii sensuali. C'era in quello sguardo alcun che dell'animale
selvatico non affatto addomesticato, in cui la prisca selvaggia natura
ricomparisce a tratti sotto la spalmata vernice della coltura.

Quella donna sentì forse ancor essa che nella vita di Candida doveva
intrecciarsi la sua e l'una sull'altra esercitare un fatale influsso a
vicenda, funesto troppo per la nobil dama? Il vero è ch'ella saettò
sulla contessa uno di quei suoi sguardi felini di cui Candida non potè
sostenere l'incontro, ne fu tutta conturbata in quell'atto, e dopo
appena oltrepassata la carrozza ne provò lo sdegno maggiore come di
ricevuto oltraggio.

Si piegò ella verso il cocchiere e gli domandò con indifferenza non
affatto sincera:

— Conoscete voi chi sia quella donna?

Il cocchiere fece un certo atto colle spalle e sorrise in certo modo che
dicevano di molto.

— Peuh! Diss'egli. La signora contessa ne avrà udito a parlare. È quella
tale che fin dalla primavera ha preso in affitto la _Villa-lunga_, a
poche miglia qui distante.

— Ah! Fece la contessa che in vero aveva sentito alcuna cosa di
quell'avventuriera. È una ballerina, credo....

— Mah! Se ne dicono tante sul suo conto! Il più certo pare che fosse una
di quelle che saltano sui cavalli. La chiamano ancora _La Leggera_.
Dicono che qualche considerevole personaggio l'ha tolta dal dorso dei
cavalli per metterla in un elegante appartamento con mobili, servitù,
carrozza all'avvenante. Anzi si bisbiglia che i protettori sieno più
d'uno. Quel che è certo, si è che nella _Villa-lunga_ c'è baldoria tutti
i giorni: conviti, festini, balli, giuoco tutta la notte..... e peggio,
che non si finisce mai; e vi accorre gran gente d'ogni fatta; e si
spendono allegramente dei gran denari.

Candida — e non sapeva il perchè — ascoltava con molto interesse le
parole del suo cocchiere. Ad un punto s'accorse di questo suo eccesso di
curiosità non troppo degna, e vergognatasene, arrossì leggermente.

— Non vi ho domandato la storia di madamigella _Leggera_: diss'ella con
accento più severo di quello che il bisogno non fosse, e si ricacciò in
fondo la carrozza, tornando a darsi in preda ai suoi confusi e
disordinati pensieri.

Chi le avesse detto che quelle volte in cui Luigi era stato veduto in
quei dintorni, prima ancora che essa lo conoscesse, egli o veniva dalla
_Villa-lunga_ o vi si recava a passar la notte in quelle baldorie della
_Leggiera_! Chi le avesse detto che quel giorno stesso in cui il
temporale lo fece riparare al castello di lei, Luigi era diretto a
quella volta!

Due giorni dopo quell'incontro, la cameriera, fosse per interesse che
sentisse verso la padrona, fosse per malignità femminile, trovò modo di
far capire alla contessa che Luigi la sera innanzi era stato visto in
que' luoghi e la mattina medesima era stato incontrato sulla strada per
a Torino. Ora al castello egli non s'era lasciato vedere. Candida sentì
quella certa spina infitta nel cuore dar sangue dolorosamente.

E perchè il suo pensiero corse allora a quella donna che aveva
incontrata per via?

Il conte era allora al castello; Candida non poteva chiamare Luigi a sè
perchè venisse a scolparsi; gli scrisse quattro pagine di rimbrotti e di
accuse, invitandolo a difendersi per lettera ancor egli. Luigi rispose
laconicamente affettuoso. Essa aveva fatto riguardo alla mancanza di
quella notte mille supposizioni ed accolto mille sospetti; ma, diceva
egli, aveva dimenticato la cosa la più semplice ad immaginarsi, che era
la vera: esser egli, cioè, quel giorno stato preso da un malore che non
gli aveva concesso la gita. Esser vero, soggiungeva, che una notte aveva
egli passato nei dintorni del castello, ma ciò aver egli fatto per
conseguir modo di poter meglio accostarsi a lei, di fare che più liberi
e più frequenti potessero essere in avvenire i loro convegni. Le avrebbe
spiegato a voce il mistero.

Difatti pochi giorni di poi questa spiegazione avvenne. Il conte si
allontanava di quando in quando, ma non facendone prima avvertito
nessuno, Candida non poteva mandare il solito invito a Luigi. Era
avvenuto così che il marito passasse eziandio la notte fuor del
castello, senza che la moglie pur lo sapesse, credendo ch'egli tornasse
ad ora tarda e, secondo l'usato, senza prendersi la briga d'andarla a
disturbare per darle un saluto, rientrasse chetamente nel suo quartiere.

Dove si recasse il conte in quelle gite, Candida non si curava per nulla
saperlo; ma pure, da alcune vaghe parole udite dai servi, aveva finito
per indovinare che egli era alla _Villa-lunga_, dove il vecchio
libertino passava le molte ore di sua assenza. Cotesta scoperta aveva
fatto nell'animo della contessa una strana sensazione ch'ella medesima
non sapeva spiegare. Da una parte le pareva questa come una nuova scusa
al suo fallire alla fede coniugale, e insieme una nuova ragione di
maggior libertà per essa, dall'altra sentiva una specie di ripugnanza e
di sgomento al sapere che quella donna, di cui essa in quel solo vederla
di sfuggita aveva portato sì avverso giudizio; che quella donna, dico,
avesse attinenza con due uomini che maggiormente le appartenevano, il
marito e l'amante; poichè Candida non dubitava punto che anche Luigi
fosse stato là quella notte.

Una sera adunque che il conte, allontanatosi dal castello, mancava da
più ore, Luigi comparve inaspettato agli occhi di Candida, la quale sola
nella sua camera ruminando i suoi tristi pensieri, sentiva sotto
l'influsso dei sospetti cambiarsi in profonda amarezza le primitive
dolcezze dell'amor suo.

Al vedersi innanzi improvviso l'amante, essa gettò un grido di sorpresa
e sorse come spaventata.

— Non ti sgomentare: disse col suo sorriso più amoroso Luigi; sono io...
Io che anelavo al momento di venire a dissipare tutto quell'ammasso di
brutti ed ingiusti pensieri che la tua lettera mi ha rivelato aver tu
rammontato nella tua testolina riguardo a me.

La contessa guardò intorno con aria ancora smarrita.

— Mio marito è al castello; disse sommessamente. Potrebbe averti visto a
venire, potrebbe vederti partendo. E' non entra mai di solito nel mio
appartamento, ma pure...

— Rassicurati: rispose Luigi, prendendole una mano. Egli è là donde io
vengo; l'ho lasciato a mezzo d'una partita di giuoco troppo interessante
perchè egli l'abbandoni di tutta la notte. Mi sono affrettato a perdere
tutto il denaro che avevo presso di me; poscia ho finto ritirarmi
imbronciato colla fortuna ed irmene a fare svanire il cattiv'umore
all'aria aperta. Avevo già ordinato mi si tenesse insellato il mio
cavallo. In un salto ci fui sopra, e in un tempo di galoppo eccomi qua.
Un'ora d'amore con te, anima mia, e poi ritorno colà che niuno avrà
potuto pur notare la mia assenza.

Volle abbracciarla, ma essa freddamente si fece in là ed anzi levò da
quella di lui, la mano che egli le aveva presa.

— Colà? Diss'ella con ironia sotto cui c'era sdegno e dolore. Dov'è egli
questo colà?

Luigi accennò a rispondere, ma Candida non glie ne lasciò, prorompendo
con impeto:

— Tacete! Non voglio nemmanco udirlo dalla vostra bocca. So tutto. Voi
pure v'imbrancate all'impuro corteo di _quella donna_.

Queste parole furono pronunziate con tanto disprezzo che il rossore ne
salì alla faccia di Luigi. I suoi occhi s'infiammarono un istante
tremendamente, e sulla fronte si disegnò quella certa ruga che i lettori
già conoscono, ma fu un baleno, e cambiata rapidamente quell'espressione
collerica, quasi feroce, in un sorriso, egli disse con accento pacato ed
amorevole:

— Via, via, non esageriamo, Candida mia. Ecchè? Potresti tu avere il
torto di credermi capace di fallire a ciò che debbo a te ed a me stesso?
Non conservare quell'aria sdegnosa, mio dolce amore; non mirarmi oltre
con quell'occhio irritato in cui mi è sì dolce, invece, veder la fiamma
della passione. Guarda che con una sola parola io posso abbattere tutti
i tuoi sospetti, e tu ti pentirai d'averli avuti..... Ebbene sì, senza
imbrancarmi a quell'impuro corteo, come tu dici, io mi sono recato
alcune volte alla _Villa-lunga_. Ma sai tu perchè?.... La vera e la sola
cagione ne sei tu.

— Io? Esclamò la contessa stupita.

— Tu stessa; ripigliò Luigi ancora più amoroso nel suo accento e nel suo
sorriso. T'ho scritto che ciò avevo fatto per potermi avvicinare di più
a te. Perchè non mi hai creduto?

— Ma come?

— Sapevo che colà avrei trovato il conte; volevo che fra lui e me si
stringesse tale attinenza che mi schiudesse liberamente la porta di casa
tua. Ho io avuto torto? Impiegai tutta l'arte di cui sono capace affine
di entrare nelle grazie di tuo marito. Egli mi ha già offerto di
presentarmi a te ed invitato al suo castello. Ho accettato senza
mostrare troppa premura per allontanare sempre meglio ogni sospetto. Un
giorno o l'altro egli mi guiderà per mano a te dinanzi.

Candida rimaneva perplessa e non rispondeva. In codesto sentiva essa
alcun che ond'era urtata la delicatezza della sua anima. Avrebbe
preferito che il marito e l'amante mai non si fossero trovati a fronte
nel suo salotto, che quest'ultimo mai non avesse dovuto lusingare con
compiacenti parole il primo, e stringergli la mano come amico. Le pareva
che ne sarebbe stato abbassato il loro amore. Vedersi soltanto nel
mistero — che niuno della società cui essa apparteneva, lo sapesse — le
pareva preferibile, più dignitoso, più confacente al suo sentire.

Luigi s'accorse di codeste impressioni che le sue parole facevano
nell'animo di lei, e quindi si affrettò a soggiungere:

— Pensa che se ciò non avvenisse quando tu sii ritornata in città le
occasioni di vederci sarebbero troppo rade e troppo pericolose per la
tua pace e pel tuo buon nome.

La contessa crollò leggermente le spalle, come per significare che
appetto all'amore ella considerava come cosa da poco tutto il resto del
mondo.

— Ed a questo; continuò con più calore Luigi; io debbo tenerci più
ancora che non tu stessa, e ci tengo.

Chi non sa com'è l'animo di donna innamorata? Quelle cose che a lei meno
paiono acconcie diventano tali per essa, appena l'eloquente parola
dell'amante ne la voglia persuadere. Con quanta facilità s'accolgono nel
cuore di lei i sospetti, con altrettanta si dileguano alle proteste
dell'uomo amato. Poco ci volle che Candida restò persuasa come d'ogni
fallo era innocente Luigi e com'egli s'era adoperato pel meglio di
tuttedue.

Diffatti qualche giorno dopo la contessa ebbe un rimescolo in tutto il
sangue nell'udire sulle labbra del marito il nome del dottor Quercia.

Si era di tardo autunno ormai, e il conte soleva invitare alcuni
conoscenti a partite di caccia nelle sue tenute. La vigilia di una di
siffatte partite, il conte disse alla moglie in fin di tavola, dopo
pranzo, come cosa di poco rilievo che allora soltanto gli fosse venuta
alla mente:

— Ah! Domani mi prenderò la libertà di presentarti un nuovo ospite. Un
giovanotto che ha abbastanza buone maniere per far dimenticare che non
ha titoli; un certo dottor Quercia, medico senza clienti, e credo senza
medicina.

Candida si volse dall'altra parte con un pretesto qualunque per
nascondere il suo subito turbamento. Il conte non aggiunse altro: nè
dove lo avesse conosciuto, nè come; la contessa non domandò nulla, e non
se ne parlò più.

Luigi aveva saputo realmente andare ai versi del vecchio conte, e
ricevuto il primo invito, seppe far di guisa da diventare in breve
famigliarissimo di casa.

Tornati a Torino il conte e la contessa, questa domestichezza non solo
si continuò ma si accrebbe.

Il mondo susurrò, poi parlò senza ritegno, prima indovinò, poi seppe. Le
migliori amiche della contessa compassionarono perfidamente la povera
donna che si perdeva in una tresca indegna con un uomo che non si sapeva
chi fosse.

Gli ultimi a sapere queste cose sono sempre i mariti: ma il conte di
Staffarda non era uomo da non vedere e da non capire. Cominciò per non
dar più la mano a Luigi quando lo incontrava in qualche luogo o quando
entrava nel suo salotto; si diede ad accoglierlo con un altezzoso
sussiego che era quasi un'insolenza. Luigi usava tutti i mezzi che può
un uomo di spirito per mostrare che non faceva attenzione a questo
contegno del conte ma frattanto aspettava un'occasione affine di
provocare una spiegazione che volgesse secondo quello ch'egli desiderava
ed aveva in previsione immaginato. Il conte eziandio da parte sua
cercava un'occasione per dire alla moglie il fatto suo, senza scene,
senza scandali, con tutta la forbitezza e la disdegnosa indifferenza
d'un vecchio libertino di marito allevato nelle tradizioni dell'elegante
corruttela del secolo scorso.

Queste occasioni aspettate vennero per ambidue, e prima pel conte.



CAPITOLO XXIV.


Già s'era fatto tardi. Luigi erasi indugiato più forse che non solesse
nel riposto stanzino della contessa. Nell'alto silenzio della notte, i
sontuosi arazzi del gabinetto di Candida entro il superbo palazzo dei
conti di Staffarda avevano udito suonare voci di rampogna e di sdegno
(imperocchè l'amore fra quei due già ne fosse venuto allo stadio dei
rimbrotti, delle accuse da parte di lei, delle impazienze e peggio da
quella di lui; e vi narrerò di poi le fasi di questo periodo ed i torti
e le colpe e — dirò fin d'ora la parola — l'infamia dell'indegno
amatore), poscia voci più miti di perdono e di supplicazione sulle
labbra della misera donna e per ultimo di tenerezza e di passione più
concitata quanto più era stata lungamente repressa da altri sentimenti.

Ad un tratto si grattò alla porta. I due amanti sussultarono. Era cosa
tanto nuova che in quei loro colloqui venissero disturbati! Tacquero un
momento stando in sospeso ad ascoltare se il segno si ripetesse. In
quella udirono l'orologio del campanile vicino suonar lentamente la
mezzanotte. L'ultimo tocco aveva appena finito di battere che all'uscio
fu dato un picchio abbastanza vibrato. Candida sorse di slancio, si
racconciò in fretta i panni un po' disordinati, ed invece di domandare
chi fosse si precipitò verso la porta e l'aprì con mano che tremava un
pochino.

Sì trovò in faccia la cameriera:

— Che cosa c'è? Domandò la contessa con qualche corruccio.

E la fante sollecita:

— Il signor conte fa domandare alla contessa se vuole riceverlo.

Candida si volse pallida ed agitata verso il suo amante.

— Mio marito! Diss'ella frettolosamente. Egli non viene mai qui a
quest'ora..... Parti!

Gli occhi di Gian-Luigi balenarono cupamente e nella fronte si incavò
quella sua ruga caratteristica.

— Ah! il conte: diss'egli incrociando le braccia al petto; ben venga il
signor conte. Vorrebbe egli per azzardo far da marito di tragedia?

Candida gli fu accosto in un baleno e con atto pieno d'avvenenza e
d'amorevolezza gli gettò le braccia al collo.

— Parti, te ne prego: diss'ella.

La cameriera s'inoltrò d'un passo nel gabinetto, ed abbassando la voce,
soggiunse:

— Il signor conte è qui nell'altra stanza, e il signor dottore non può a
meno d'incontrarlo.

La contessa impallidì vieppiù.

— Va nella mia camera: diss'ella affrettatamente a Luigi. Il conte non
avrà gran cosa da dirmi e saprò sbarazzarmene tosto.

Gian-Luigi fece un sogghigno pieno di superbia e d'ironia.

— Fuggire! Diss'egli. Nascondermi! Nè l'un nè l'altro. Venga avanti il
signor conte, e se ha cose da dire a Lei che io non possa ascoltare,
allora mi ritirerò tranquillamente per la uscita comune.

— È mezzanotte: disse timidamente la contessa.

— Gli è che abbiamo saputo trovar abbastanza soggetti interessanti di
conversazione da far passare il tempo senza badarci. Questo fa onore al
nostro spirito, contessa.

Candida esitò un momentino, parve voler ancora dire alcuna cosa; ma ad
un tratto prese la sua decisione, e voltasi alla cameriera le disse con
accento affatto sicuro e tranquillo:

— Introducete il conte.

Poi si gettò a sedere abbandonatamente sulla sua poltroncina vicino al
fuoco, al quale volgendo le spalle stava dritto Luigi colla più agiata
disinvoltura di questo mondo.

Io non vi dirò che il cuore di Candida non battesse un po' più concitato
nell'udire sul pavimento dell'altra stanza il passo del conte che si
avvicinava; ma il suo aspetto era tranquillo, e quando l'uscio si aprì,
ella volse verso chi entrava un viso forse un po' pallido, ma per
l'affatto sicuro nella sua indifferenza.

Il conte s'inoltrò con un sorriso poco naturale, ma garbatissimo, sulle
sue labbra tirate. La sua fronte calva pareva più gialliccia
dell'ordinario riflettendo la luce delle due lampade che ardevano sul
camino. Nell'occhio grifagno c'era molto più del solito di quell'ironia
scettica e maligna che formava la base del suo carattere. Gli sguardi
del conte e di Gian-Luigi s'incrociarono; erano gli sguardi di due
uomini che non hanno timore. Stettero un attimo così fissi l'un
nell'altro, come due lame in un assalto prima che uno dei duellanti si
decida a trarre una botta. Prolungato per un minuto quello sguardo si
faceva una sfida, una minaccia, un insulto: era uno di quelli sguardi,
dopo i quali bastano poche parole per condurre due uomini sul terreno a
cimentare in un duello la vita.

Gian-Luigi, a niun patto, avrebbe voluto esser egli il primo a chinare
gli occhi. Sentiva entro il petto un orgoglio immenso dare rincalzo al
suo coraggio per non cedere neppure un minuzzolo alla superba guardatura
del conte. Il cranio pelato di quell'uomo che tutti conoscevano
abilissimo nell'arte di uccidere il suo simile ed il cachinno insolente
ed altezzoso di quella mordace ironia, solevano imporne a tutta la
gente; il trovatello Gian-Luigi, il figliuolo di nessuno, il compagno
d'infanzia di Maurilio, allevato nella più umile e nella più misera
delle condizioni, non ne provò la menoma soggezione. Amedeo Filiberto di
Staffarda che per lungo uso di mondo e trattare d'uomini, s'intendeva a
giudicare, dalla fisionomia e dal contegno di qualcheduno, della
fermezza e del valore del suo animo; il conte conchiuse fra sè che quel
giovane non era tale da poter essere nè dominato, nè soverchiato.

In questo modo passarono due minuti secondi di grave silenzio,
lunghissimi per la contessa, la quale con ansia stava mirando a sua
volta quella tacita lotta di sguardi di quei due uomini innanzi a lei.

Fu il conte che primo sviò gli occhi da quelli dell'avversario e ruppe
il silenzio.

— Ah! gli è Lei, dottore: diss'egli colla sua gentilezza aristocratica,
in cui nella compiuta forbitezza appariva pur sempre una tinta di
superiorità. Perdoni a' miei occhi miopi, se non l'ho tosto
riconosciuto.

Gian-Luigi fece un lieve inchino senza rispondere.

Candida tirò più libero il fiato. Le parole del conte ed il modo con cui
le aveva dette non erano già d'un uomo che si acconci a cedere per
paura, ma di tale che crede miglior convenienza lo evitare uno scandalo.

— Come mai, conte, a quest'ora? Domandò la donna con un'apparenza
scherzosa, in cui pure si sarebbe potuto sentir tuttavia la traccia
delle sue inquietudini.

— Che? Rispose il conte. È egli per ventura così tardi?

Guardò l'orologio che faceva muovere il suo pendolo sulla mensola del
camino, e per vederci l'ora avanzò la testa fin da essere presso presso
a quella di Gian-Luigi, il quale non si mosse, come se i suoi piedi
avessero piantate le radici sulla lastra di piombo che innanzi al
focolare difendeva il tappeto del pavimento dalle faville che potessero
mandare gli scoppi della legna.

— To'...... È passata mezzanotte: soggiunse il conte. Credevo fosse di
meno. Vuol dire che il tempo mi è volato via rapidamente questa sera,
come fors'anco per voi, contessa.

Candida arrossì un pochino.

— Sì davvero: diss'ella pigliando un parafuoco per ripararsi la faccia,
più che dal calore dei tizzi che ardevano nel focolare, dalla luce delle
lampade che pioveva dallo sporto del camino. Il dottor Quercia ha avuto
la bontà di sacrificarmi la sera per tenermi compagnia.

Il conte si volse di nuovo verso Gian-Luigi e gli fece un saluto del
capo che pareva quasi un ringraziamento, ed in cui l'ironia era di guisa
dissimulata e così fine che un uomo accorto non poteva a meno di
sentirla, ma uno mediocremente educato non avrebbe potuto in nessun modo
rilevarla.

Gian-Luigi corrispose con un altro saluto uguale; ma entro sè rodevasi
maladettamente di quella situazione in cui si trovava, che sentiva
ridicola e la più impacciosa che mai. Avrebbe dato non so che perchè la
maliziosa gentilezza del conte si voltasse in un buono scoppio di
collera.

Amedeo Filiberto disse allora alla moglie, con quel suo satirico
sorriso:

— È un sacrifizio che la galanteria del signor dottore avrà trovato
leggiero.

Prese la mano di Candida e gliela baciò mentre essa lo guardava tutto
stupita.

— È un sacrifizio: soggiuns'egli, col tono d'un Don Giovanni dei tempi
di Luigi XV di Francia: che sarei disposto a fare ancor io molto
volentieri, se pensassi che potesse tornarvi ugualmente gradito.

Candida levò dalla mano del marito la sua che egli teneva ancora, si
tirò indietro colla poltrona, come per allontanarsi, e non rispose.

— Duolmi se io sono venuto disturbatore del vostro colloquio: riprese il
conte colla medesima bonarietà maliziosa: ma che volete, contessa cara?
Ho gran desiderio, e dirò anzi gran bisogno di aver con voi uno di quei
confidenti ed affettuosi colloquii che sono una delle maggiori gioie del
matrimonio, e — _ma foi!_ — non ho voluto ritardarmi questo regalo,
perchè se sono del parere di quell'antico non so chi, il quale soleva
rimandare gli affari al giorno di poi, credo invece che le dolci
soddisfazioni conviene procurarsele tosto, senza ritardo, appena si può.

Ciò detto, diresse il suo sguardo grifagno su Gian-Luigi, che stava
sempre al medesimo posto. Quello sguardo diceva apertamente:

— Conviene che mi cediate il luogo. È questo, se non altro, il mio
diritto di marito, e intendo di valermene.

Gian-Luigi comprese. Ben sapeva che gli toccava ritirarsi, e fin dal
primo momento che il conte era entrato, egli andava pensando come far
ciò senza mostra alcuna di debolezza. Ora esitò tuttavia un momentino.
Gli passò per la mente di rispondere un'impertinenza che obbligasse il
conte ad uscire da quel garbo artifizioso che gli faceva, per così dire,
una corazza adamantina; oppure di fare il sordo affine di spingere il
marito di Candida a più aperto parlare che desse a lui pretesto di
venirne a lotta dichiarata. Capì che avrebbe avuto assai torto sì a far
questo che a far quello. Inoltre la irritata suscettività del suo amor
proprio non fu tanto cieca da non lasciargli ricordare che il suo
interesse gli sconsigliava fortemente una palese e scandalosa rottura
col conte. Si staccò egli dal camino e andò lentamente a prendere il suo
cappello, che aveva deposto sopra un _guéridon_.

Il conte si pose tosto a quel medesimo luogo che il giovane aveva
abbandonato, come se anco materialmente volesse significare ch'egli
intendeva rivendicato il suo posto di marito sulle invasioni
dell'amante.

Gian-Luigi venne colla stessa andatura lenta fin presso alla signora, e
tendendole una mano con famigliarità da amico, le disse:

— Buona notte, signora contessa.

— Buona notte: s'affrettò a rispondere Candida, stringendo forte la mano
di lui, come per segreta intelligenza, come per ringraziarlo di cedere a
quel modo, timorosa ch'ella era stata alquanto non volesse il giovane
ribellarsi al pulito congedo intimatogli dal conte. Quando ci rivedremo?
Domani è mia sera di palchetto al Regio; spero che non la mancherà di
venirmi a far visita.

— Me ne farò un dovere: rispose Gian-Luigi. S'inchinò poscia leggermente
verso il conte, il quale abbassò il capo con mossa molto superba. Il
giovane uscì meno contento di sè di quanto avrebbe voluto, sentendo che
in quello scontro ad armi cortesi egli aveva avuto il dissotto, e
mulinando come avrebbe potuto conseguire una rivincita quale convenisse
non solo all'amor proprio, ma al suo interesse ed ai suoi disegni.

Il conte e la contessa rimasero soli; ella sempre seduta giuocherellando
col parafuoco di cui servivasi a riparare il suo volto dagli sguardi del
marito, egli dritto dinanzi al camino, dove poco anzi stava l'amante.

Per un poco non parlarono nè l'uno nè l'altra.

— _Charmant garçon_ quel dottorino: disse poi il marito mettendo le mani
dietro le reni come per riscaldarsele alla vampa.

Candida non rispose.

— A proposito! Di che cosa è egli dottore? Di leggi, no. Di medicina o
di chirurgia, o di tuttedue?

Aspettò un momento la risposta della moglie, che non venne.

— Voi non sapreste dirmelo, contessa? Soggiunse egli facendo piombare il
suo sguardo addosso alla donna che pareva assorta nella contemplazione
delle figure chinesi trapunte sulla seta del parafuoco.

Candida crollò le spalle.

— Non andate già sognando, io spero, che discorriamo di medicina e di
chirurgia. Che cosa volete dunque ch'io sappia? So che gli è un giovane
molto a garbo... e mi basta.

Alla contessa era venuto di botto tutto il suo coraggio. Fino a che i
due uomini erano stati a fronte, ella aveva dovuto fare uno sforzo per
vincere la inquietudine che la occupava; ora ch'ella sola trovavasi in
faccia a quel marito, di cui nulla avea potuto in essa ispirare nè
rispetto nè simpatia, nè alcun sentimento di affezione o di gratitudine,
ora la si sentiva forte e di subito s'era trovata pronta ad accettare la
lotta su qualunque terreno la volesse il conte impegnare.

Questi riprese con accento più ironico che mai.

— Sicuro! Molto a garbo! È quel che dicevo io: _charmant garçon_. Sa
trattare quasi come s'ei fosse qualcheduno, e parlandogli uno può anche
obliare che non si sa chi sia.

Candida arrossì fino alla radice de' capelli.

— Vi sono dei nobili, diss'ella con accento irritato, i quali hanno i
più numerosi quarti scritti nelle pergamene, e non sanno la creanza, e
non hanno lo spirito di questo giovane che, come voi dite, nessuno sa
chi sia.

Il conte s'inchinò con ironica galanteria verso la moglie.

— Avete ragione: diss'egli. A certuni non basta l'esser nati di nobil
sangue per aver nobili modi, come del pari, ai più non basta l'aver
acquistato dei titoli per aver preso addirittura con essi la vera
nobiltà.

Candida sentì l'aspra botta tirata contro suo padre e si morse le
labbra.

— Ad ogni modo: diss'ella vivacemente di ripicco; quando uno ha del
merito personale, per piacermi nella sua compagnia, io non istò a
domandargli il suo albero genealogico.

Amedeo Filiberto tornò ad inchinarsi come prima.

— E voi fate molto bene. Ma il mondo è più curioso e più esigente di
voi, e quando vede un cotale mettersi innanzi sulla scena del mondo vuol
sapere d'ordinario d'onde venga, che cosa faccia, di dove tragga i mezzi
delle spese che non va risparmiando. E allorchè si viene a scoprire —
imperocchè badate bene contessa che tosto o tardi quel benedetto mondo
riesce a scoprir tutto, e se trova troppa difficoltà a scoprire il vero,
inventa, che è peggio, ed inventando anche, molte volte indovina; —
allorchè si viene a scoprire che il brillante giovane di cui si comincia
ad occupare l'attenzione del pubblico non ha famiglia di sorta, è
capitato non si sa di dove, come un fungo sorto improvviso di terra, non
ha capitali nè tenute da dargli la rendita che spende, giuoca come un
disperato...

— Anche voi giuocate, signor conte: interruppe con vibrato accento la
moglie.

Il conte si tirò su della persona colla più superba mossa del mondo.

— Vi prego di non offendermi con siffatti confronti. Io dietro la mia
passione del giuoco posso mettere il patrimonio degli Staffarda...

— E quello di vostra moglie: disse Candida vivamente scoccandogli
un'occhiata più maliziosa ancora della interruzione.

Fu la volta del conte di mordersi le labbra. Stette un poco, e poi
riprese a dire senza rilevare la frecciata:

— Quando, dicevo, un giovane senza mezzi di fortuna la sciala da ricco,
vivendo in una intimità poco onorevole con una donna cui per rispetto
alle vostre orecchie non voglio qui qualificare.....

La contessa sussultò come riscossa da una violenta offesa. Si drizzò
della persona che teneva abbandonata sul seggiolone, ed esclamò
vivacemente:

— Non è vero, non è vero; questa è un'infame calunnia.

Il conte con una impertinente placidità le fe' cenno colla mano di
calmarsi, e poi disse con accento tranquillamente sardonico:

— _Pour Dieu!_ contessa, voi prendete fuoco più d'un zolfino. Ora io vi
prego di due cose: prima di ascoltarmi con un po' di pazienza e non
interrompermi, se volete che più presto io ne venga a capo; secondo di
ritener bene che un conte Langosco non si fa mai eco d'una infame
calunnia, per ripetere la vostra non troppo misurata espressione.

Candida si lasciò ricadere contro lo schienale della poltrona, come
rassegnata ad udire le parole del marito.

— Or dunque, continuò questi, avevo l'onore di dirvi che il mondo
curioso, pettegolo, mormoratore, maledico, anche calunniatore so volete,
vedendo di queste cose e sentendole e ripetendole, si fa troppo
agevolmente il concetto che quel cotale in siffatte condizioni si
guadagni le sue rendite colla _protezione_ della donna perduta, che
piuma i merli ricchi in favore dell'amico povero...

Candida non disse nulla, ma il parafuoco aveva dei movimenti convulsi
nelle sue mani, e il suo piedino batteva con febbrile agitazione sui
fiori del ricco tappeto.

Il marito si curvò verso di lei con una cortesia ed un'amenità che le
tornavano più irritanti di qualunque altra cosa.

— Ritenete bene, contessa, che io qui ora non affermo nè contesto nulla
di nulla. Ripeto quello che dice il mondo e non altro.

La contessa non si contenne oltre.

— Il mondo, interruppe ella con voce che invano voleva render calma: il
mondo dice altresì che fra quei merli di cui lamentavate poc'anzi la
sorte d'esser piumati da quella donna, si trova eziandio il conte Amedeo
Filiberto.

Ed egli a rispondere con cinica tranquillità:

— Voi spostate la quistione, cara contessa. È possibile che il mondo,
dicendo ciò che voi avete ripetuto adesso, non dica nemmanco una bugia.
Ma siete troppo intelligente per non capire come in questa commedia la
parte onorevole sia di chi lascia le proprie spoglie, non di chi vive
delle altrui.....

— Io non so vederci nulla d'onorevole per nessuno: disse seccamente la
giovine donna.

Il marito s'inchinò di nuovo a suo modo.

— _Soit!_... Ma, se vi piace, non divaghiamo oltre, per non prolungare
fino al mattino questo colloquio che è per me un favore, ma che dubito
possa essere per voi di molto divertimento. Quando adunque il mondo vede
un giovane come quello di cui abbiamo detto, usare con troppa frequenza
intorno ad una dama che è uno dei più begli ornamenti d'una sfera
sociale a cui egli non appartiene, il mondo incomincia a domandarsi che
razza di attinenze possa aver luogo fra quei due, poi biasima
l'imprudenza della donna che si mette a repentaglio di voci maligne per
causa di una relazione che non è degna di lei, poi ride del marito che
la permette.

Candida era divenuta color del fuoco, ma lo sdegno e l'amore davano
forza e coraggio al suo animo. Ebbe l'ardimento di guardar bene in
faccia suo marito e gli disse con voce ferma e vibrata:

— Voi volete dire che mi sono compromessa?

— Il cielo me ne guardi! Per chi mi prendete voi, madama? La moglie del
conte di Staffarda non può essere compromessa mai! Sapete bene che vi
copre il mio blasone — e la mia spada.

Fu la volta di Candida d'inchinarsi leggermente.

— Ma, continuava il conte, non voglio, _palsambleu!_ che si rida di me.
Vi ricordate, contessa, il colloquio che avemmo insieme in quel
fortunato giorno che voi consentiste ad essere mia moglie? Io vi dissi:
libertà intera per tuttedue, ma guardiamoci dalle ignobili catastrofi
del mondo borghese, rispettiamo il nostro nome a vicenda...

La contessa proruppe con impeto sotto l'impressione del traboccante
sdegno:

— E l'avete voi rispettato, signor conte? Vi rispondano le vostre
ballerine, le vostre mantenute, le vostre orgie notturne, in cui gettate
non solo le vostre, ma anche le mie sostanze — quelle sostanze per cui
unicamente mi avete fatto regalo del vostro nome.

— Ah contessa: esclamò egli colla solita calma: voi uscite di misura.
Questi _emportemens_ non sono da voi. Badate che correte rischio di
cadere in una discussione da bottegaio...

Ma la donna sempre sotto l'impulso di quella concitazione:

— Eh! che cosa m'importa la roba mia? Quel che mi cale è la mia libertà.
Non sono io più padrona di accogliere chi mi pare e piace? Vorreste voi
far delle esclusioni nel mio salotto e impormi la presenza o l'assenza
di questi o di quelli?

Il conte levò in alto una delle sue belle mani affilate in atto di
protesta.

— Dio mi guardi! Diss'egli.

— Ed io vi dico, seguitava la contessa, che ciò non vorrei tollerare a
niun patto... A niun patto, capite?

S'alzò in piedi quasi di balzo, e piantandosi in faccia al marito in
atto pieno di risoluzione, soggiunse:

— Oh volete che vi parli affatto schietto? Quella libertà che mi avete
promessa mi è più cara di quelle fortune che vi ho recate in dote;
queste vi lascio manomettere senza opposizione, ma la prima non lo
permetterò mai. Alla conoscenza, alla relazione, all'amicizia di quel
giovane ci tengo più che a tutto il resto, e non sono disposta a
rinunciarvi nè per farvi piacere, nè dietro vostro ordine. A me non
salta neppure in mente d'imporre a voi di simili sacrifizi; lasciatemi
quindi fare anche me a modo mio. In ogni caso, ve lo dichiaro
apertamente, sono disposta a spingere le cose a qualunque estremo —
anche ad una separazione.

— _Tudieu!_ contessa, esclamò il marito colla sua cinica freddezza, come
vi scaldate! Queste cose potreste dirle senza incollerirvi come una
_bourgeoise_. E poi che smania è la vostra di ficcarvi sempre in mezzo
la quistione del danaro? _Fi donc!_ Non è degno di voi codesto..... Una
separazione fra di noi! Mai più affediddio! Sapete qual è l'intesa delle
mie parole? Quella di trovar modo insieme noi due, da buoni amici, di
evitare ogni scandalo. Io sono venuto qui, l'anima piena di pacifiche
intenzioni per darvi qualche buon consiglio in proposito. Pensatevi se
vorrei mandare la cosa ad un punto in cui lo scandalo avverrebbe il
massimo possibile ed irrimediabile. No, no, signora contessa. Voi siete
sotto la protezione del nome di Langosco, e non voglio che la perdiate,
non voglio che mi priviate del vantaggio che ora posseggo di dare un
bravo colpo di spada al primo cialtrone che osasse pronunciare una
parola men che misurata sul vostro conto... Ma voi, benedette donnine,
non avete mai la prudenza più necessaria: prudenza nello scegliere bene,
prudenza nel regolarvi.

La contessa fece un atto come se volesse interrompere; ma egli non le
lasciò dire.

— Capisco, soggiunse: quanto alla scelta non c'è più da parlarne; è
troppo tardi. Lasciamola lì. Ma quanto al modo di fare, ah contessa,
permettete ch'io vi dica che vi siete mostrata d'una ingenuità affatto
puerile. Quel cotale accoglietelo quanto vi piace a _huis clos_, ma non
trascinatevelo dietro a farne mostra nel mondo, _que diable!_

— Che cosa ne vorreste conchiudere? Domandò Candida guardando sempre
risolutamente in faccia il marito.

— Voglio conchiuderne che allora provvederete di meglio a voi medesima
ed alla mia dignità, quando farete che il signor dottore — _si docteur
il y a_ — conversi con voi così sovente come vi piace, in segreto, ma il
mondo non vi vegga mai più insieme, e ch'e' non si trovi mai sul mio
passaggio, nè nel vostro salotto, nè altrove.

La contessa tacque alquanto sotto l'evidente effetto d'un po' di
mortificazione.

— Signore, diss'ella poi, dopo un poco: le spiegazioni della mia
condotta...

Il marito l'interruppe con quel suo atto della destra, di cui pareva
compiacersi perchè metteva in mostra tutta la bellezza della sua mano.

— Ah! non ne voglio avere nessuna. Che cosa mi credete? Un marito da
moderno dramma francese? Salvate le apparenze, io non vi domando altro.
Avrei potuto prima darvi quel consiglio che ho accennato poc'anzi: ma
ora.....

Si curvò nelle spalle ed allargò tuttedue le braccia come per dire: è
fatta e pazienza!

— _Enfin_, continuò egli, possano le cose volgere il meglio possibile a
seconda del vostro capriccio, senza che mi mettiate nella necessità di
farvi vedova di me — o di lui.

Candida si sentì l'anima offesa assai più da quel cinismo che non
sarebbe stata dai più crudeli rimbrotti. Una profonda amarezza l'invase.
Guardò alla sfuggita il sogghigno di quell'uomo corrotto a cui la Chiesa
e la legge avevano unito tutta la sua vita, e le parve non che
attenuata, ma quasi legittimata la sua colpa.

Ella tornò a sedere con una scioltezza quale avrebbe potuto avere in un
colloquio indifferente colla persona che meno le ispirasse soggezione;
ed aggiustandosi le sottane, disse al marito con accento di leggerezza
in cui non avrebbe avuto torto chi avesse creduto scorgervi una tinta di
disprezzo:

— E gli è per dirmi tutte queste belle cose da sermone che voi siete
venuto in un'ora così insolita ad invadere il mio _boudoir_?

— No: rispose il conte: precisamente non è per questo. L'occasione ha
mosse le mie parole. Certo non è ch'io non creda quell'argomento
abbastanza di rilievo per dar ragione alla mia insolita comparsa; ma il
vero è che io veniva per un'altra bisogna di cui mi occorre parlarvi.

— Ah ah! Esclamò la contessa guardando fisso il marito, mentre questi
pareva tutto intento a scacciare colla punta affilata delle sue dita
dalla rivoltura ricamata del panciotto nero qualche grano di polvere che
non c'era. Che cos'è questa bisogna?... Ma volete voi star lì dritto
come un piuolo tutta notte? Sedetevi una volta.

Il conte tirò presso al fuoco una poltroncina e vi si gettò su
abbandonatamente.

— Come volete, contessa. Già, gli è una cosa spiegata in due parole.
Sedendomi temevo di ispirarvi la paura d'una lunga conferenza;
rassicuratevi, non è per tutta la notte che avrò l'onore di trattenervi,
ma durante cinque soli minuti. Ecco di che si tratta. Il nostro
intendente è il più onesto degl'intendenti. Quando si caccia in capo di
rendermi i suoi conti mi annoia per un'ora con cifre interminabili alle
quali io non capisco nulla. Questo benedett'uomo mi è venuto testè a far
tanto di capo per certe faccende che io non so spiegarvi e che son
certo, ancorchè ve le spiegassi, voi non sapreste capire. Non siamo di
quel legno di cui si fanno i computisti, noi. _Bref!_ conchiuse, dopo
avermi fatto sbadigliare senza pietà, che occorre un certo atto per aver
certi capitali a pagare certe partite, sotto il qual atto è necessaria,
non che la mia, anche la vostra firma. Quell'originale mi proponeva di
venire egli stesso da voi a dimostrarvi la qualità dell'affare e la
necessità del medesimo. Vi ho voluto risparmiare tanto fastidio. _Allons
donc!_ gli dissi: queste son cose in cui non si ha da intromettere
nessuno fra il conte e la contessa. Ed ecco il perchè io son qua. Ho
domandato all'intendente: — Senza tante chiacchere, voi mi affermate in
parola di galantuomo che codesto è necessario e che gl'interessi della
contessa non ne sono menomamente lesi? — Egli me l'affermò. — Bene, io
soggiunsi allora, quando sulla fede della vostra parola avrò ancora io
affermato il medesimo alla contessa, ella mi crederà del pari, e sarà un
affar finito. E _voilà!_

Tacque e si diede a lisciarsi e ripulirsi le unghie con un piccolo
ferruccio che trasse dal taschino del panciotto. La contessa rimase un
istante senza rispondere. Era evidente che la sottoscrizione di quella
carta da parte sua equivaleva ad un qualche sacrificio di sue sostanze
per trovare nuovo modo di procurar denari alla prodigalità del conte.
Ella ebbe un momento il pensiero di non far così ad occhi chiusi; di
mettere in campo la sua ignoranza degli affari per proporre al marito
spiegasse la cosa al barone La Cappa, e dire ch'essa allora soltanto
avrebbe firmato, quando il padre vi consentisse. Ma non osò. Ebbe paura
prima del sogghigno con cui il conte le avrebbe fatto capire che quello
era un diportarsi, come diceva egli, da _bourgeois_: poi rapidamente
avvisò come quella domanda inchiudeva quasi un tacito patto che il conte
veniva proponendole: di accordarle maggiore ancora quella libertà
ch'essa invocava dietro il compenso della sua firma. Come ardire di
rifiutarsi a quella domanda dopo ciò che era avvenuto e che s'era detto
poc'anzi fra loro due?

Dopo due minuti di silenzio Candida disse bruscamente:

— E voi avete lì quella carta?

Il conte s'inchinò in segno affermativo.

— Date qui. Prese il foglio che il marito le porse ed andò ad un piccolo
tavoliere elegantemente intarsiato, su cui c'erano un bellissimo
_buvard_ ed un calamaio lucente d'oro.

— Dove ho da firmare? Domandò essa, senza gettare neppure un'occhiata su
quanto era scritto in quella carta.

— Lì al fondo: rispose il conte alzandosi egli pure e venendo presso a
lei. Così va bene.

Candida gli restituì il foglio aperto, colla sua firma; il marito lo
prese e lo accostò al fuoco per farvi asciugare l'inchiostro.

— Or dunque, diss'egli, non mi resta più che tornare a domandarvi
perdono dell'avervi recato sì inopportuno disturbo.

Ripiegò il foglio e se lo mise in tasca, poscia prese la mano di Candida
e glie la baciò con fredda galanteria.

— Buona notte, contessa: e ricordatevi sempre che in ogni qualunque caso
vi occorra il consiglio o l'aiuto d'un amico, io sarò sempre tutto per
voi.

Girò sui suoi talloni e se ne partì, senza che Candida, la quale gli
aveva abbandonato la sua mano affatto passivamente, pensasse pure a
rispondergli, nè dirgli una parola.

Quando fu sola, la contessa si lasciò ricadere su quella poltrona su cui
era seduta prima. Aveva l'anima confusa e turbata, ed insieme un vuoto
tremendo in essa. Non si sentiva appoggiata da nessuna parte, non
sentiva appo nessuno il caldo d'un vero affetto. Fra quell'amante e quel
marito si trovava in mezzo a due egoismi che la sfruttavano. Una
profonda melanconia l'assalse; si conosceva isolata nella vita, delusa
in ogni sua aspettazione.

Il conte rientrò nel suo appartamento, lieto di avere dalla firma di sua
moglie nuovo mezzo a fare rovinosi imprestiti, che a lui troppo oramai
oberato, e colla inalienabilità del suo patrimonio, non si volevano più
accordare da nessun usuraio.

Il domani Gian-Luigi riceveva il seguente bigliettino scritto dalla
contessa in francese:

«Non venite stassera al teatro Regio. Ho il dolor di capo, ci vado di
cattivo umore; sono persuasa che la mia acconciatura mi starà male. Vi
vedrò al solito luogo, all'ora solita, domani».

Il _medichino_ spiegazzò quella cartolina profumata fra le mani e lasciò
sfuggire una espressione di contrarietà che andava sino alla collera.
Candida aveva ceduto alla volontà del conte che le aveva imposto questo
sfratto del giovane borghese dal palchetto frequentato dal fiore il più
sopraffino dell'aristocrazia? Questo sfratto era egli il precursore d'un
altro più grave ancora dal superbo palazzo degli Staffarda? La contessa
si era ella indotta a rinunciare pubblicamente all'attinenza d'un amico
non titolato per non compromettere l'orgoglio nobiliare della schiatta,
contenta di abbandonarsi pienamente in segreto nelle braccia d'un amante
plebeo? Se ciò era, la cosa non conveniva niente affatto al nostro eroe.
Egli, per certi suoi calcoli, ci teneva non solo ad essere, ma a
comparire l'amante di una delle prime dame della città; ad aver libera
entrata nelle sale aristocratiche d'una famiglia fra le più illustri ed
antiche e godervi d'un trattamento di pari a pari — o poco meno — con
tutti i superbi blasonati che premevano coi piedi i tappeti di quelle
sale. Ciò avrebbe messo suggezione alla curiosità ed alle ipotesi della
gente; avrebbe dato a lui ed alle sue cose una onorabilità indiscutibile
e posto in iscacco persino quell'Argo cieco molte volte in gran parte
de' suoi occhi, ma pur tuttavia sempre più curioso d'ogni curiosità
femminile, voglio dire la polizia.

Ma s'egli si lasciava allontanare così di piano, e chiudere l'uscio
della sala in faccia da quella stessa mano che gli apriva l'usciolo
segreto del _boudoir_, questo suo intento era irremissibilmente perduto.
Inoltre non voleva Gian-Luigi che il conte potesse pur pensare ch'egli
si fosse tenuto lontano per paura o suggezione di lui. Gli veniva in
mente il sogghigno che avrebbe fatto il marito della contessa quando non
avesse visto a comparire di tutta sera quel giovane ch'egli il giorno
prima aveva già fatto partire dallo stanzino della moglie, e Gian-Luigi
sentiva il suo sangue, più orgoglioso d'ogni altro mai, rimescolarglisi
addosso. Egli aveva concepito l'audace disegno d'imporsi anche al conte,
e mentre già parevagli per lo addietro essere bene progredito per quella
via, ecco che ad un tratto e' se ne sarebbe lasciato sopraffare.

Si vestì con aggraziata eleganza e nel pomeriggio si recò al palazzo
Langosco un po' prima dell'ora in cui la contessa soleva aprire il suo
salotto alle visite. Il domestico a cui si presentò gli disse che la
contessa, poco bene di salute, quel giorno non avrebbe accolto nessuno.
Gian-Luigi non si mostrò nè stupito, nè offeso il meno del mondo. Chiese
vedere la cameriera della contessa per sapere più esatte le notizia
della preziosa salute della padrona. La fante — che era sempre quella
medesima — fu chiamata, ed essa e il _medichino_ si raccolsero a parlar
sotto voce nella strombatura d'una finestra.

— Dimmi il vero, cominciò Gian-Luigi, l'ordine di non ricevere, riguarda
me soltanto.

— No: rispose la cameriera, la quale colla famigliarità del suo contegno
ben mostrava come fosse in intima attinenza col giovane: riguarda tutti.

— Quest'ordine è stato il conte a darlo, oppure la contessa?

— La contessa. Il conte non s'immischia mai in quanto fa o non fa sua
moglie.

— E il motivo di quest'ordine?

— Non so. Veramente la contessa sta poco bene. È ancora in letto, e di
tutto il giorno non ha preso che un _consumato_.

— Sai tu s'ella vada al teatro questa sera?

— Credo che non lo sappia ancora nemmanco ella stessa. La sarta le ha
portato l'abito e la modista gli ornamenti della pettinatura. S'è fatto
mettere innanzi ogni cosa e la sta guardandoli, senza aver detto ancora
nulla di ciò che voglia fare.

— Bisogna che tu la spinga per quanto più potrai ad andarci. E se ci
riesci mi farai piacere. Domattina poi, quando ella ci sia stata,
conviene che tu venga da me a dirmi con qual umore essa è tornata a
casa, che ha detto, che ha fatto, se alcuna cosa è successo fra lei e
suo marito.

La cameriera guardò con occhio sfavillante Gian-Luigi e disse con
maliziosa modestia:

— Avrò da andare a casa sua, soltanto se la contessa sarà stata a
teatro?

Il giovane sorrise.

— Ah biricchina! Vienci ad ogni modo. E siccome può essere che più per
tempo io abbia qualche occupazione, fa di venirci verso le dieci che io
procurerò d'esser libero affatto per poterti dare un'udienza come ti
piace.

E in ciò dire fece scivolare uno scudo nella mano grassetta della
giovane, la quale sorrise tutto lieta e della mancia e più ancora delle
parole del bel _medichino_.

Questi uscì, si recò al _tiro di pistola_, dove si esercitò per un'ora,
fu al caffè Fiorio dove mostrò al bigliardo una valentìa maggiore ancora
del solito, andò a pranzo da Trombetta, e fece meravigliare i commensali
della _tavola da pasto_ della vivacità e dell'allegria del suo umore e
del suo ingegno; poscia, fumato un sigaro d'Avana passeggiando
lentamente fra la calca dei portici, andò a casa a vestirsi coll'abito
nero, ed entrò verso le nove co' suoi guanti paglierini freschi freschi
alle mani nel caldo ambiente della platea del Teatro Regio.

Un timore aveva egli nell'animo: quello che Candida non fosse andata al
teatro. Ma questo timore fu dileguato di subito. Gettò egli tosto
un'occhiata al palco di second'ordine che apparteneva alla contessa, e
la vide abbagliante di bellezza e di gioie, in tutta la pompa d'una
sfarzosissima acconciatura.

Candida vide tosto ancor essa, appena giunto, il suo amante nella
platea. Gli occhi di lei si volgevano spesso alla porta d'entrata; ella
avea scritto a Luigi di non venire, e pur non sapeva se in quel momento
le fosse più caro ch'egli obbedisse a quel cenno o meno. La
disobbedienza non sarebb'ella stata un segno del vivo desiderio di
vederla, e quindi un segno d'amore? Forse, dov'egli non si fosse
mostrato, questo sentimento sarebbe stato quello che avrebbe finito di
predominare nell'animo della contessa, la quale avrebbe preso il facile
rassegnarsi di lui per prova d'una quasi indifferenza; eppure al momento
in cui i suoi occhi furono come per influsso magnetico chiamati alla
platea dalla presenza di lui, Candida provò una viva contrarietà. I suoi
lineamenti si atteggiarono rapidamente ad una espressione di dispetto e
gli occhi lanciarono una fiamma di rimprovero al sopraggiunto per
volgersi quindi altrove, mentre nell'aspetto e nelle parole essa si
metteva ad ostentare un'allegria che non aveva prima, e degnava di
sorrisi e risatine, che non meritavano punto, i discorsi dei visitatori
del suo palco.

Gian-Luigi non apparve niente affatto mortificato di questa poco
lusinghiera accoglienza; fece un suo superbo sorriso, e ripulito ben
bene da ogni appannatura i cristalli del suo elegante cannocchiale che
aveva preso, salendo la scala, dal custode che li tiene in guardia a
comodo degli abbonati, si diede con attenzione ad esaminare la sala.

Il teatro era affollato da uno di quei pubblici eleganti che ora ci si
vedono raramente, ma che allora, sotto il regno di Carlo Alberto, era il
pubblico solito agli spettacoli di quella massima scena torinese. I due
primi ordini di loggie erano riservati solamente all'aristocrazia, la
quale mandava in gran pompa le sue dame cariche di titoli, di quarti e
di diamanti; al terzo ordine cominciava a potersi insinuare la
borghesia, quella più ricca e che avesse uno zampino nelle cariche dello
Stato, magistratura o ministeri; nel quarto e quinto potevano
introdursi, non senza stento il commercio e l'industria, cedendo il
passo però all'ozio ed alla nullità ammantati sotto il comodo titolo
d'avvocato, comprato con una facile laurea. Occhi belli e brutti, gioie
ed ori, colori smaglianti e spalle nude, fiori artificiali e guancie
imbellettate brillavano da tutte parti. Le regine della moda e della
bellezza attiravano su di sè maggiormente l'attenzione, e gli abiti neri
e le spalline lucenti della platea se le additavano a vicenda dicendo il
nome. Alle bellezze nobiliari dei primi ordini faceva però quella sera
concorrenza assai potente una strana bellezza che sfoggiava uno sfarzo
impertinente in una mossa piena d'audacia nelle alte sfere del quarto
ordine, e molti erano i cannocchiali che si appuntavano sino a quel
rimoto cielo a contemplare quell'astro non ordinario di tali plaghe, che
ci si mostrava come una stravagante cometa.

Era una donna giovane, sola, con apparenza tutt'altro che di modestia.
Aveva una massa enorme di capelli d'un biondo che tirava sul rosso i
quali facevano intorno al suo volto non brutto, ma più provocante che
bello, un'aureola d'oro; aveva certi occhi di colore indefinibile, che
ora ti parevano azzurri e limpidi come un cielo sereno, ora d'uno scuro
verzigno come un mare commosso. Aveva forme voluttuose che si vedeva
compiacersi ella di mettere in mostra con procace atteggio. Le labbra
carnose, rosse del color di sangue che spiccia fresco dalla vena,
spiravano una voluttà che quasi direi feroce e potevano essere indizio
ad un osservatore per giudicar male degli istinti di quella creatura. Si
vedeva insomma che essa apparteneva a quella razza di donne-vampiri,
che, senza ispirar mai un vero amore, pur tuttavia s'impadroniscono del
senso, dell'anima, del cervello di quanti uomini sono troppo deboli e
troppo incauti per non romper tosto la prima maglia della rete gettata
su di loro, e fisicamente e moralmente li depauperano, li spogliano,
come d'ogni avere, così d'ogni generoso affetto, d'ogni virtù; Dalile
che fanno un debole e vile d'ogni più vigoroso Sansone.

Il contegno di questa donna era tutto una provocazione ai sensi e dirò
anzi ai vizi degli uomini, una sfida all'onestà delle donne, in una
calma che si sarebbe potuta dire cinismo; una calma da paragonarsi a
quella d'una tigre in riposo, pronta a balzare al primo svegliarsi d'un
istinto di sangue. Sotto alla pioggia di luce del lampadario che gettava
i raggi delle sue fiammelle su quelle forme da etaira greca, le carni
sode, leggermente abbrunate della sirena avevano dei riflessi, che quasi
direi metallici, pieni d'incanto inesplicabile. Vestita d'un color di
fiamma viva, ella spiccava sulla doratura monotona di tutto il teatro,
come una nota acuta in un canto grave e solenne. Era, per dir così, una
piacevole disarmonia. L'acconciatura di lei appariva come il portato
d'un'arte selvaggia, istintiva, ma tanto più efficace; ed aveva intanto
il merito rarissimo di uscir fuori dello stampo comune. Possibile che
non piacesse, ma impossibile che su di lei non si fermasse l'attenzione
di chicchessia.

Il _medichino_ che seguendo la direzione dei cannocchiali della platea
scoprì ancor egli la bizzarra, brillante figura di quella donna, la
quale sporgeva fuori del parapetto il suo busto audacemente
scollacciato, fece un moto di contentezza e schiuse le labbra ad un
sorriso. Aveva riconosciuto la _Leggera_.

Ella vide pure Gian-Luigi in platea; i loro due cannocchiali
s'incontrarono e si scambiarono un saluto da intimi amici ed un segno
d'intelligenza. La _Leggera_ fece un cenno che invitava a salire da lei
il _medichino_, e questi rispose con un leggero atto di acconsentimento.

Ora la contessa, quantunque guardasse in apparenza in tutt'altra parte,
per uno di quei meravigliosi sguardi delle donne che vedono ciò appunto
a cui non volgono gli occhi, la contessa si accorse di questo scambio di
segni e ne sentì una penosa puntura al cuore. I suoi sospetti intorno
alle relazioni fra Luigi e quella donna non erano punto svaniti; ed ecco
quei semplici cenni, ad un tratto confermarglieli ed afforzarglieli. Un
dubbio crudele subitamente l'assalse; non era per lei che Luigi era
venuto al teatro; era per quella donna ch'essa sentiva fatale al suo
destino. Vide tosto dopo Luigi partirsi dalla platea, e pochi minuti di
poi la _Leggera_ rivolgersi all'interno del suo palchetto, dare un
saluto e una stretta di mano a qualcuno, e rimanere colle spalle voltate
al pubblico per confabulare vivamente con chi era entrato e stava
indietro nella loggia affine di non esser visto. Candida non dubitò
punto che Luigi trovavasi colà. Senza comprenderne il perchè i
visitatori della contessa s'accorsero che l'umore di lei diventava più
bizzarro e più forzata la sua falsa allegria.

— Che? Tu qui! Disse Gian-Luigi, entrando nel palchetto della _Leggera_.
E non s'avvisa nemmanco la gente, di guisa che se un azzardo non mi
avesse menato in teatro io non ne avrei saputo nulla!

La _Leggera_ guardò il giovane bene in faccia con que' suoi occhi color
di mare.

— Ebbene? E con ciò?

— Con ciò voglio dire che se avessi avuto bisogno di vederti non avrei
saputo dove prenderti.

— Il bisogno di vedermi, tu ce l'hai quando io ho da esserti utile a
qualche cosa.

Il _medichino_ prese la mano inguantata della donna e la strinse, mentre
i suoi occhi mandavano sulle giovanili, seducenti attrattive di lei
l'omaggio di accesi desiderii.

— Oibò! oibò! Diss'egli in tono di galanteria. Possibile che mi giudichi
così male! Ho bisogno di vederti quando mi occorre ricrearmi l'animo
nell'amor tuo.

La _Leggera_ scosse l'abbondante sua fulva capelliera.

— Ah! ti conosco, bel mobile: soggiunse. Amore tu per una donna? Eh via!
Cerchi in noi povere creature uno spasso od uno stromento, a seconda, ma
del resto....

Con una crollatina di spalle espresse, meglio che non avrebbe fatto
colle parole, la fine della sua frase.

— Ah Zoe! Tu fai le parti alla rovescia e attribuisci a me colle donne
ciò che tu usi fare degli uomini.

I loro occhi s'incontrarono, e sorrisero in quella ambedue come
riconoscendosi e confessandosi pari.

— Lasciamola lì: rispose Zoe, aggiustandosi al seno proeminente l'orlo
della veste scollacciata. Forse gli è appunto perchè sei tale che mi
piaci.... Imperocchè, brutto mostro che sei, tu mi piaci.

Gian-Luigi s'inchinò con quel suo sorriso ironico, superbo e pur
leggiadro.

— Ho lasciato detto a casa, continuò la donna, che se tu ci venivi, ti
avvisassero che io era qui.

Il _medichino_ fece un cenno col capo come per indicare che ciò era bene
e ne andava soddisfatto; poi domandò, quasi passando ad altro ordine di
idee:

— Da chi ti sei fatto offrire questo palchetto?

— Da San Luca.

— L'hai nelle branche?

Zoe scosse leggermente le spalle con atto che diceva: — Ne farei quel
che voglio.

— Benissimo. È ricco, vanaglorioso, superbo ed imbecille. È fatto
apposta....

— Per che cosa? Domandò come risentita la _Leggera_.

— Per quello che ne vuoi far tu: rispose freddamente Gian-Luigi.

Ella fece il suo solito moto di spalle e guardò in platea.

— Quell'animale piumato, te lo raccomando anzi specialmente. Non lo
posso soffrire. Osa aver certe arie con me che meritano una lezione; e
siccome avrei bisogno di mettere un centimetro di lama od una mezz'oncia
di piombo nel corpo di qualcheduno, sono lì esitante nella scelta del
mio piastrone o del mio bersaglio fra il conte di San Luca e il
marchesino di Baldissero meno vuoto di cervello, e superbo del pari.

La _Leggera_ si volse vivamente verso il suo compagno.

— No, il marchesino. È un bel giocattolo; una scatola magica
inesauribile di confetti....

— Vuoi dire di _marenghi_?

— Perchè guastarla?

— Tu mi decidi... Veramente avrei quasi preferito il marchesino, perchè
ne avrei ottenuto una maggiore importanza del fatto. Dopo uno scontro
avvenuto il più cavallerescamente possibile, in cui avrei dimostrato
chiaro come quel lampadario che ho risparmiata la vita di quel nobile
discendente di sì illustre stirpe; dopo uno scontro simile il marchesino
sarebbe diventato mio amico e la sua famiglia mia protettrice obbligata;
ma bah! anche San Luca appartiene a quell'aristocrazia che sta tutta
unita come una congrega od una consorteria, e nella famiglia Baldissero
d'altronde troverò altro modo meno tragico di introdurmi in buona vista.
Per non guastarti un giuocattolo a cui ci tieni, mi appiglierò a quella
testa vuota di San Luca.

— Vuoi fargli molto male? Domandò la donna coll'indifferenza con cui
avrebbe domandato: piove o fa bel tempo?

— Anzi poco: rispose Gian-Luigi giocherellando col suo cannocchiale.
Ecco il programma. Una ferita ad un braccio, due giorni di febbre,
quindici di malattia; un _déjeuner_ da Trombetta ed amiconi per la vita.

— Sai tu perchè ho voluto venire a teatro questa sera? Disse Zoe ad un
tratto, come saltando in altro discorso.

— Veramente tu non sei di quelle che non abbiano un fine riposto in
tutte le azioni loro, anche le più indifferenti. Se mi ci mettessi ad
osservare e studiare, forse potrei giungere a scoprire da me questa
ragione: ma per ora non ho tempo ed ho altro onde occuparmi. Se vuoi
ch'io sappia questa ragione, dimmela; e se non vuoi, avanzati la pena di
dirmi una bugia.

— Sono venuta per vedere la tua contessa.

— Ah!

— Non l'avevo ancora vista che di sfuggita in campagna, e ci tengo a
conoscere com'è fatta una donna onesta che cammina sulle nostre traccie
e ci ruba gli amanti. È una bellissima figura. Tu devi farle piangere
lagrime molto amare. Mi desterebbe compassione se non mi muovesse
dispetto. Ah! quante stupide pur troppo ci sono che guastano il mestiere
di donna!... Se non isbaglio, San Luca le faceva la corte.

— Glie la fa ancora.

— Gli è forse per codesto che vuoi bucargli la pelle?

— Se ti dicevo che avrei avuto più caro aver da fare con Baldissero!

— Ma anche questi bazzica molto intorno alla Langosco.

Gian-Luigi alzò le spalle con espressione di suprema indifferenza.

— La ragione te l'ho già fatta capire... A proposito, San Luca è già
stato qui a vederti?

— Non ancora.

— E il conte di Staffarda?

— Nemmeno.

— Benissimo. Converrà che tu faccia in modo da trarli senza fallo a casa
tua dopo il teatro.

— Li inviterò a cena. Ho già tutto disposto, e il tavoliere del Faraone
sarà là ad aspettarli.

— Brava!

— Necessariamente anche tu vuoi essere invitato?

— Sì, ci tengo a questo favore.

— Hai bisogno di guadagnare?

— Voglio anzi perdere.... E desidero trovarmi insieme a quei due.

— Vuoi fare una scena in casa mia?

— Non isgomentarti. Sarà una scena di commedia. Se non mi riesce di
trarre San Luca a pie' del muro altrove, convien bene che lo cimenti a
casa tua.

Si sentì in quella una mano che si posava sulla maniglia della serratura
all'uscio del palchetto.

— Viene qualcheduno: disse affrettatamente Gian-Luigi. Siamo dunque
intesi. Io conto su te.

L'uscio si aprì e comparve il cranio pelato del conte Langosco di
Staffarda.

Gian-Luigi si alzò, strinse la mano a Zoe, e scambiato un lieve saluto
del capo col conte, uscì dalla loggia. Quando fu nel corridoio, trasse
di tasca un taccuino, ne strappò un foglietto e col toccalapis vi
scrisse le seguenti parole, in francese ancor esse:

«Non venite domani al convegno, non ci sarò. Se avete vergogna o
fastidio di me, non io son quello che voglia impormi o farvi arrossire.
Tenetevi la vostra boria e rinunciate all'amore. Io mi sento uguale a
qualunque dei più superbi fra i vostri visitatori, e mi sento degno di
voi. Se non lo credete non avrò la debolezza di volervene persuadere, e
mi allontanerò per sempre.»

Ripiegò questo pezzetto di carta e lo pose nel taschino del panciotto.
Poi discese rapidamente le scale, prese il suo pastrano al guardarobe,
uscì di teatro e corse sollecito sino alla bottega del confettiere Bass.
Vi comprò un'elegante scatola da dolci, e mentre la si riempiva, col
pretesto di assaggiarne uno, fece cascare molto destramente in fondo ad
essa la cartolina ripiegata che aveva presa fra le dita. Pagò senza
ribatter parola le trenta lire che il confettiere gli domandò per
prezzo, e presa la scatola tornò a corsa in teatro.

Pochi minuti dopo entrava nel palchetto di second'ordine, dove tutte due
le panche erano occupate dai visitatori che si stringevano intorno alla
contessa di Staffarda.

All'entrare del giovane che nella società elegante era conosciuto sotto
il nome di dottor Quercia, nessuno di quanti si trovavano in quel
palchetto fece il menomo cenno di saluto, e sogguardato appena chi
fosse, non prestarono meglio attenzione a lui di quel che facevano al
domestico quando veniva a porgere il cannocchiale incrostato di
madreperla alla padrona.

Gian-Luigi non fu niente del tutto impacciato per questa accoglienza.
Guardò bene l'un dopo l'altro in volto i presenti, fra cui notò non
senza soddisfazione che c'erano eziandio il marchesino di Baldissero e
il conte San Luca, quindi insinuandosi fra le gambe dei seduti tanto da
poter porgere la mano a Candida, disse ad alta voce con accento
rispettoso ma sicuro e con qualche tinta di amichevole domestichezza:

— Contessa, la saluto.

Candida fin dal primo momento che aveva visto Luigi entrare in teatro
andava domandandosi s'egli si presenterebbe nella sua loggia. Il
desiderio di pur vederla poteva averlo spinto a venire e il timore di
scontentarla avrebbe potuto tenerlo dal recarsi a farle visita. Glie ne
sarebbe stata riconoscente se così avesse fatto. Ma quando poi s'accorse
che il dottore era andato nel palco della _Leggera_, ella si disse con
irritazione concentrata che di certo egli non avrebbe più avuto
l'audacia di introdursi nel palchetto di lei, che se mai avesse tanta
temerità, non si potrebbe a meno che accoglierlo come un impudente
importuno a cui si fa capire quello non esser luogo per lui.

Col meraviglioso istinto di donna innamorata, ella aveva tosto sentito
all'aprirsi dell'uscio che chi entrava era egli; e una fiamma le era
salita al volto, per dissimulare la quale la povera donna non aveva
trovato di meglio che mettersi rapidamente il cannocchiale agli occhi e
guardare con tutta attenzione un punto qualunque in platea, dove la non
ci vedea nulla. Ella pensava intanto ad un tratto: non rispondere al
saluto del giovane, mostrare di non accorgersi della sua presenza,
oppure dirgli alcuna di quelle parole con uno di quei certi toni che
servono a dare formale congedo al più audace uomo di questo mondo. Il
suo cuore le palpitava penosamente e le tempia le battevano con
frequenza tormentosa.

Luigi era lì, ad un passo dal suo cuor palpitante, chinato verso di lei;
la voce di lui le aveva suonato all'orecchio, le stava dinanzi il guanto
paglierino della mano ch'egli le aveva porto; ed ella non sapeva ancora,
o meglio non sapeva più che cosa avesse da fare. Meccanicamente abbassò
il cannocchiale dagli occhi, volse un quarto della faccia verso
Gian-Luigi e senza punto guardarlo rispose con un'altezzosa freddezza:

— Buon giorno, dottore.

Poi si chinò verso il cavaliere che aveva seduto innanzi a sè a dirgli
con molto interesse una cosa di nessuna importanza.

L'accoglimento fattogli non era tale da metter molto a suo agio il
_medichino_; ma egli pur tuttavia, non apparve punto punto sconcertato.
Al primo istante la sua fronte ratto si solcò di quella ruga che noi già
conosciamo, ma poi tosto, per lo sforzo della sua potente volontà, si
rispianò più placidamente che mai, e la sua fisionomia continuò ad
essere la più serena e graziosa che si possa vedere.

— Contessa: soggiuns'egli col più soave accento della sua bella voce:
ecco qui alcuni confetti di Bass che desiderano far conoscenza col
corallo delle sue labbra[12].

  [12] L'uso di recare in dono dolci e confetti alle signore che
  si vanno a visitare in palco al teatro Regio vive ancora oggidì
  — ma di vita stentata; — nei tempi addietro era assai più
  generale e seguitato.

Candida prese con mano disdegnosa la scatola che Luigi le porgeva e la
lasciò cadere nella tasca che c'era nell'interno del parapetto.

— Grazie! Diss'ella asciuttamente.

Luigi si ritrasse in fondo alla loggia.

Siccome non c'era più luogo a sedersi, l'uso voleva che quello dei
visitatori il quale da maggior tempo trovavasi nel palchetto partisse
per lasciar posto, ma nessuno si mosse, e Luigi dovette restare in piedi
presso all'uscio, senza che alcuno gli rivolgesse la parola.

Sotto la placida espressione della sua figura, Gian-Luigi era come il
leone _quærens quem devoret_, scorrendo cogli occhi le varie faccie dei
presenti, affine di trovare sopra una di esse il pretesto per isfogare
il suo interno dispetto e far pagare a qualcheduno l'inflittagli
umiliazione, insistendo sopratutto nel fissare il conte San Luca, il
quale, meno ancora degli altri, pareva darsi per inteso della presenza
di lui.

Finalmente colui che sedeva in prospetto della contessa strinse la mano
alla signora, si alzò e partissi. Un altro, ed era il turno di San Luca,
passò a sedere sopra il seggio presso al parapetto rimasto vuoto;
ciascuno si avanzò d'un grado verso la contessa, e Luigi potè sedersi
sopra l'ultimo sgabello presso l'uscio. Si continuò a non rivolgergli la
parola, e quando egli volle intromettersi nei discorsi che si tenevano,
le cose ch'egli disse furono lasciate cadere come se non fossero state
udite da alcuno. Il _medichino_ sentiva aver bisogno di molta prudenza e
dissimulava; ma frattanto cercava di far nascere qualche occasione di
conflitto con San Luca, e in modo che a costui restasse tutto il torto.

Era il tempo del ballo e si applaudiva con frenesia la prima ballerina.
Il conte San Luca batteva ancor esso le mani con entusiasmo cui non
frenava neppure la presenza della contessa.

— Cara, carina, _charmante_! Esclamava egli colla sua voce mezzo blesa,
biascicando gli erre. Ma guardi, contessa, quanta grazia, che
precisione, che _aplomb_! E come va a tempo! Le dico che è una
_tempista_ di prim'ordine.

E per mostrare che la ballerina andava a tempo di musica, egli colla
mano segnava fuor di misura la battuta sul velluto del parapetto.

— Già non ci sono che le francesi per ballare così bene. Si vede subito
a primo colpo d'occhio che quella silfide lì è francese.

Gian-Luigi si sporse per far arrivare la sua voce sino al contino San
Luca.

— Scusi, conte, gli disse, ma il suo colpo d'occhio ha torto. Quella
furba d'una ballerina, sapendo come la scuola francese possa pretendere
maggior valore nella nostra smania di non istimare che le cose
forestiere, ha preso nome e linguaggio francese, ma è nata bravamente in
un villaggio di Lombardia, allieva della scuola di Milano e recatasi poi
a perfezionarsi nell'arte e nei costumi fra le corifee della Senna.

San Luca si volse in fretta a vedere chi fosse a contraddirlo, ma
trattandosi del dottore pensò superfluo e non conveniente il pur
rispondergli. Tornò a dirizzare la parola alla contessa.

— È una ragazza piena di spirito, sa contessa... Di quello spirito
eziandio che si trova solamente nelle donne parigine...

— Ah davvero? Esclamò con ironia la contessa.

— _Pardon!_ Voglio dire nelle donne di quel genere lì... Quello spirito
leggiero e _mousseux_ come il loro vino di Sciampagna.

— Ho l'onore di ripeterle, signor conte, disse a voce più alta
Gian-Luigi, ch'ella si sbaglia. Quella ragazza lì non è punto francese;
lo so di sicuro. E s'ella desidera, io son pronto a fare qualunque
scommessa più le piaccia a questo proposito.

San Luca continuò come se nessuno avesse parlato.

— Il barone di San Silvestro fa ogni sorta di follie per quella
furbacchiona lì. Dicono che le ha offerto una rendita di due mila lire
il mese se la voleva abbandonare le scene e dedicarsi interamente a far
felice l'amore cinquantenne di lui. Ella ha risposto che preferiva
continuare a volare in punta di piedi sulle tavole del palco scenico e
mangiarne quattro di mila lire al mese ai suoi molteplici adoratori.

Gian-Luigi lasciò che il conte pigliasse fiato; e poi con voce calma,
tranquilla ma ferma ed elevata da superare il bisbiglio delle
conversazioni di tutto il teatro e i suoni dell'orchestra, disse:

— Ella forse non ha badato, signor conte, che le ho diretto la parola e
che sono ancora in credito d'una risposta?

Il contino, così direttamente interpellato, rivolse un superbo cipiglio
verso chi gli parlava.

— Che? Pronunziò egli a mezze labbra. Ella dice? Siamo così lontani, che
le sue parole non arrivano fino a me.

L'intenzione di questa frase era notata con evidente affettazione nella
pronuncia.

Gian-Luigi rispose colla maggior calma e colla maggiore urbanità:

— La pregherò allora di farmi conoscere qual sia la distanza alla quale
sono accessibili le sue orecchie.

— Signore!... Esclamò il contino che divenne rosso come un galletto.

Candida fu sollecita ad intromettersi.

— Conte San Luca, diss'ella, mi saprebbe dire chi è quella signora
vestita in azzurro, là, quasi di faccia, al terz'ordine?

San-Luca rispose alla contessa e non disse più altra parola al dottor
Quercia: questi da parte sua non disserrò più le labbra.

Poco dopo, entrato un altro visitatore, fu la volta di San-Luca a
dipartirsi. Passando innanzi a Gian-Luigi per dar luogo a colui che
entrava e faceva ad inoltrarsi per salutar la signora, il contino
dovette accostarsi al _medichino_ e per disavventura gli pestò un piede.
Gian-Luigi alzò la faccia verso San-Luca come aspettandone una parola di
scusa, e poichè questa non veniva, egli disse forte colla medesima
calma:

— Le faccio osservare, signor conte, che quella cosa cui Ella ha
calpestato con sì poca destrezza è il mio piede.

San-Luca non se ne diede per inteso il meno del mondo ed uscì. Luigi
soggiunse allora a voce alta che tutti potessero udir bene:

— Ho sempre creduto sinora che chi facesse come ha fatto adesso il conte
di San-Luca e non si scusasse commettesse atto da villano.

Il contino certo udì queste parole, perchè l'uscio si riaprì di nuovo a
metà, come s'egli volesse rientrare; ma poi, cambiato avviso, continuò
il suo cammino.

Luigi non parlò più. Aspettò con santa pazienza che il suo turno venisse
di andarsi a sedere in prospetto alla contessa, e quando esso fu
arrivato invece di passare sul seggio che gli competeva, porse la mano
alla signora e ne tolse commiato.

Candida gli diede la punta delle sue dita.

— Ah! esclamò egli, come ricordandosi subitamente di qualche cosa. Debbo
ancora dare una risposta a quanto ella mi fece l'onore di domandarmi
ieri.

E chinatosi verso di lei, le disse sollecito sotto voce:

— Nella scatola c'è un biglietto; bisogna assolutamente che lo leggiate.

Poscia abbandonò il palchetto così calmo, sicuro e indifferente in
apparenza come quando era entrato.

Al fondo delle scale dei palchi, in quel piccolo atrio che mette in
platea, il _medichino_ trovò il conte San-Luca che discorreva vivamente
col marito di Candida; e s'avanzò verso di loro colla maggiore agiatezza
del mondo.

San-Luca si tirò su della persona con mossa piena di superba minaccia, e
guardando disdegnosamente Gian-Luigi, gli disse:

— Giusto lei che si aspettava. Ella ha bisogno d'imparare come si tratta
con i pari miei ed io avrò la compiacenza di mostrarglielo. Il mio
amico, il conte di Staffarda, ha ben voluto farmi il favore
d'incaricarsi di dirgliene il modo.

Gian-Luigi s'inchinò con aria leggermente ironica.

— Ne godo, rispos'egli. Così imparerò quella giusta distanza a cui ho
fatto allusione poc'anzi nella loggia della contessa.

Il contino represse un atto di dispetto, strinse la mano a Langosco,
fece un cenno di saluto col capo al suo avversario e partì.

Il _medichino_ ed il marito di Candida rimasero fronte a fronte, e si
guardarono per un poco ambedue negli occhi. Il conte si ricordava del
contegno tenuto la sera innanzi da quel giovane e non dubitava del suo
coraggio; Luigi che diffatti non temeva nulla, divisava d'essere modesto
e temperato pur tuttavia, per guadagnarsi i suffragi dello stesso
padrino del suo avversario.

Cominciò a parlare il giovane:

— Duolmi, assai che il conte di San-Luca mi abbia prevenuto in due
maniere; prima inviando a chieder da me quelle spiegazioni che io era in
diritto e nella precisa intenzione di chiedere a lui; secondo
incaricando di ciò colui appunto, al quale io aveva in animo di
rivolgermi per domandare consiglio e il suo potente sostegno.

— Me? disse il conte tutto stupito, mettendosi una mano sul petto. Era
suo proposito di richiedermi di farle da padrino?

Gian-Luigi s'inchinò.

— Non la avrei pregata subito d'essermi padrino, perchè codesto suppone
già il duello come necessario, ed io mi sarei lusingato che
coll'intervento della S. V. il contino di San-Luca avrebbe inteso
ragione, ed uno scontro si sarebbe potuto evitare.

— Oh oh! Esclamò il conte. Avrebbe forse più caro d'evitarlo?

— Signor sì: rispose fermamente Luigi pur con evidentissima audacia
nello sguardo: perchè se molto è l'onore per me nel cimentarmi col
signor conte, credo poi che la cosa in fondo non valga la spesa di
mettere a repentaglio la vita di due uomini, di cui uno d'illustre
prosapia e l'altro non voglioso affè di tirar giù così presto il telone
sulla commedia della sua vita.

— Di modo che: disse lentamente il conte di Staffarda, serrando le
ciglia per gettare uno sguardo acuto ed incisivo sul giovane che gli
stava dinanzi; di modo che lei rifiuterebbe uno scontro...

— Non dico questo: interruppe vivamente Gian-Luigi. Dico che se a me,
come si doveva, fosse stata lasciata l'iniziativa in questo affare —
imperocchè io sono l'offeso dai diportamenti del signor conte — io avrei
mandato non a recare un cartello di sfida, ma a domandare a chi mancò di
creanza verso di me le opportune spiegazioni...

— Il conte di San-Luca non dà spiegazioni di fatta alcuna: disse
asciuttamente Langosco.

— Ha torto; ribattè pacato il _medichino_. Perchè quando si oltraggia
qualcheduno senza ragione, si deve dichiarare che la cosa è successa
involontariamente, o si confessa che si è un prepotente...

— La prego di risparmiarmi i suoi apprezzamenti. Noi siamo qui ora per
altra bisogna. Accetta ella una disfida?

— Non la rifiuto e non l'accetto. Dico che c'è campo da trattare.

— Noi non trattiamo. Se non vuole una disfida, è ella disposta a fare le
sue scuse al conte di San-Luca?

Un vivo rossore corse al volto del _medichino_; pure si contenne calmo e
diede lentamente la risposta.

— Farei queste scuse, quando fossi persuaso che il torto è dalla mia
parte; ma siccome invece è chiaro che tutto il torto è da parte di colui
ch'ella rappresenta, non posso far io una cosa che a lui in verità
toccherebbe di fare. Permetta, signor conte, che io le parli colla
franchezza cui mi pare che la non breve consuetudine facciano lecita al
suo compagno di caccia e di sollazzi: un duello io non lo desidero,
perchè ho l'onore di assicurarle che in un duello io sarei vincitore, e
l'aver ferito o peggio, il conte di San-Luca è un troppo pericoloso
onore per me. Quindi io sarò disposto a finir la contesa pacificamente
affatto.... ma ad una condizione: che non mi si domandi nulla che altri
non farebbe, che ella stessa, signor conte, non vorrebbe fare...

— Eh! io non farei nemmanco tante chiacchere: disse con impazienza il
conte Amedeo.

Gian-Luigi prese subitamente un aspetto più superbo e più fiero di
quello del suo interlocutore.

— Non facciamone più. I padrini del conte di San-Luca sono Ella e?....

— Il marchesino di Baldissero.

— Va benissimo. Li metterò tosto in rapporto coi miei...... To' per
farla più presto, potranno trovarsi tutti quanti dopo lo spettacolo in
casa la _Leggera_. In due parole tutto sarà combinato per domattina e a
noi medesimi comunicati i presi accordi. Sta bene così?

— Sta bene: rispose il conte.

Si salutarono gravemente e si separarono, questo ultimo per salire nel
palchetto di sua moglie, il _medichino_ per entrare in platea. Qui,
trovati due ufficiali suoi conoscenti, li informò di tutto, ottenne che
gli servissero da secondi, diede loro per mandato di scegliere la
pistola, poichè a lui come a sfidato si apparteneva la scelta dell'arma,
e finito il teatro li condusse con sè nella suntuosa abitazione della
_Leggera_, che faceva risplendere alla luce di centinaia di lumi la
sfarzosa farragine dei suoi arredi di prezzo e dei suoi mobili di lusso.



CAPITOLO XXV.


Anche la _Leggera_ era una povera creatura appartenente alla classe dei
derelitti. Ella aveva bensì avuta la buona sorte di nascere da legittime
nozze, nell'infima plebe, dove si stenta il pane ed è più travagliata la
vita. Le memorie che le ne erano rimaste di quella sua prima infanzia
erano debolissime, offuscate e cancellate dalle tante e sì strane
vicende che le erano intravvenute di poi. Solamente si ricordava di aver
avuto freddo l'inverno, caldo la state in una soffittaccia vuota di
masserizie, fame tutto l'anno, e troppo sovente l'accompagnatura di
battiture senza ragione.

Un bel giorno ella si ricordava essersi ferma sur una piazza a mirare
una schiera di saltimbanchi che faceva degli esercizi i quali a lei
parevano i più meravigliosi del mondo. C'erano due ragazze, presso a
poco della sua età, che con un sorriso fisso sulle labbra sottili
contorcevano le loro piccole membra in mosse le più forzate e violente.
Gli occhi della piccola Martuccia — allora la non si chiamava ancora nè
Zoe nè la _Leggera_ — erano attratti come per una malìa dai lustrini che
lucicchiavano nelle sottane corte e sporche di quelle sue coetanee, dai
ricami dorati nei loro corpettini frusti e sgualciti che agli occhi
della bambina abituati allo spettacolo della peggiore miseria parevano
poco meno che una sontuosità ed una ricchezza.

Il capo di quella schiera di saltimbanchi, un uomo grande, grosso,
straordinariamente membruto nelle braccia e nelle coscie, con un collo
da toro ed una voce eternamente rauca, una matassa arruffata di capelli
lanosi sulla grossa testa dalla fronte bassa, la faccia sempre sporca e
la barba sempre da radere; il capo adocchiò questa bambina pallida, ma
di avvenente aspetto e di sì ben costrutta corporatura che un ginnastico
ne sarebbe stato molto soddisfatto ed un artista ammirato, la quale con
tanto d'occhi stava intenta allo spettacolo offerto pubblicamente ai
fannulloni della piazza. L'istruire dei bambini e sopratutto delle
bambine all'arte dei salti mortali e delle contorsioni impossibili era,
come si suol dire, la specialità di quell'uomo; il quale accortamente
aveva notato come la vista degli esercizi di quelle povere creaturine,
massime se femmine, eccitando assai meglio la compassione degli
spettatori, procurasse una più abbondante raccolta di soldi.

Ora la sua compagnia infantile erasi ridotta a due soltanto; e ciò non
gli bastava. Ancora, una delle due rimastegli minacciava intisichire ed
andare a raggiungere quanto prima nel mondo di là le sue compagne, che
il saltimbanco aveva seminato qua e colà pei varii cimiteri delle città
traverso cui si era trascinata la sua nomade vita. Da qualche tempo
cercava una preda, e l'aspetto della piccina strappata e macilenta, che
vedemmo poc'anzi, fatta donna, in palco al teatro, che troveremo or ora
nel suo splendido quartiere, l'attenzione profonda prestata da essa ai
giuochi che le si venivano facendo dinanzi, gli parvero indizi quella
essere fatta apposta pel suo bisogno.

Un vecchio organetto scordato, posto sopra un cavalletto di legno zoppo,
accompagnava colle sue disarmoniche armonie irritanti gli esercizi di
forza e di destrezza che le due bambine venivano facendo sopra il logoro
tappeto steso sul suolo a mezzo il circolo degli spettatori.
Quest'organetto laceratore di ogni orecchio, anche del più mal
costrutto, era suonato da un giovinotto magro magro, le cui guancie
infossate erano coperte da un centimetro di belletto e che vestiva da
pagliaccio. Il poverino con una fame da sedicenne non mai saziata, fatta
azzittire mercè i mali trattamenti del principale, aveva l'incarico di
tener allegri gli spettatori mediante certe facezie che aveva imparato a
memoria a suon di bastonate e mediante le smorfie che doveva fare quando
il capo gli tirava le orecchie o gli assestava un calcio nel sedere in
presenza del rispettabile pubblico rappresentato da una frotta di
facchini e di furfantelli, e dell'inclita guarnigione presente per mezzo
di qualche sfaccendato coscritto. Queste tirate d'orecchio e questi
calci dovevano essere figurativi, e il buon pubblico, che li prendeva
per tali, si sganasciava allegramente alle boccaccie spiritate che
faceva il meschinello di pagliaccio, ricevendoli; ma in realtà avveniva
che troppo spesso erano di maledetto senno, sì che il giovinetto tutto
indolenzito ne portava i contrassegni per un pezzo, senza che ciò
andasse pure in diminuzione di quella provvista di cazzotti e di
picchiature che il bravo principale aveva per abitudine di distribuirgli
a domicilio.

Accanto allo strimpellante organetto, una donna di corporatura enorme,
con lineamenti da uomo e colorito permanente da ubriaco sulle guancie
paffute, con certe braccia da parer coscie di un alcide, batteva a
contrattempo dei colpi tremendi sopra una gran cassa sostenuta ancor
essa da un cavalletto di legno. Era essa vestita eziandio colla sottana
corta di color rosso e giallo, tempestata di lustrini, e mostrava certe
gambe che a paragonarle a quelle dell'elefante era far torto a queste
ultime.

Il saltimbanco si accostò a questa donnaccia, ed accennando la piccola
Martuccia, le disse sottovoce:

— Eh? mi pare che quel bocconcino lì sia l'affar nostro.

La donna fece rotare i suoi occhi senza luce verso la piccina, e rispose
con un cenno affermativo. Martuccia sentì su di sè lo sguardo di
quell'uomo e di quella donna, e benchè ne provasse una specie di
malessere, non ebbe tuttavia la risoluzione e neppure l'idea di
allontanarsi da quel luogo.

Gli esercizi erano finiti, il cerchio degli spettatori erasi dileguato,
e Martuccia era ancora lì con occhi spalancati a fissare quelle due
bambine, alle quali la femmina enorme aveva distribuito un pezzo di pane
ed un pomo per ciascuna, e che se lo mangiavano avidamente, accoccolate
sopra il tappeto ripiegato e portato presso l'organetto. Il pagliaccio,
forse in punizione di qualche commesso malestro, non aveva ricevuto nè
pomo nè pane, e sedutosi per terra dall'altra parte dell'organo, stava
colle gomita appoggiate alle ginocchia e la faccia nascosta fra le mani.

Lo sguardo che Martuccia fissava sul pane e sul pomo delle due piccole
saltatrici, era tutta una rivelazione. La donnaccia pensò subito trarne
profitto. Si accostò alla piccina con in mano un pomo e sulle labbra un
sorriso che voleva esser grazioso e riusciva ad orribile.

— Bella piccolina: diss'ella alla bimba. To', vorresti tu questo bel
pomo?

Il primo movimento della piccina fu di paura. Si trasse in là vivamente
e guardò esterrefatta quella faccia grossa di color pavonazzo, da cui
usciva fuori una voce inqualificabile nella gamma delle voci umane.

Ma quel pomo che la megera faceva girare fra il suo pollice e l'indice
grossi come bacchette da tamburo, innanzi agli occhi di lei, esercitava
pure un fascino potente sulle viscere digiune di quella meschina. Stese
ratto la mano ed afferrò il pomo: ma la donna non lo lasciò mica andare;
preso invece nella sua la manuccia della bambina e tirandola verso
l'organetto dove sedevano le altre bambine, le disse il più melatamente
che seppe:

— Sì, cara, gli è tuo questo pomo, ed anche un altro se vuoi, e un pezzo
di pane eziandio, se te ne dice la coscienza, ma vieni a mangiarlo qui
in compagnia di queste due brave ragazzine....

E la trasse diffatti dove voleva.

Un pomo perdette il genere umano, secondo la Genesi: un pomo perdette
per sempre la miserella, che avrebbe potuto diventare la moglie onesta
di un lavoratore, madre di onesti operai.

— Oh! oh! che bella piccina! Disse colla sua voce rauca il saltimbanco
facendo una carezza alla guancia di Martuccia. Questa sì che è una bella
piccina davvero!

La vanità e la civetteria sono proprio istintive in una buona quantità
del sesso femminile, e Martuccia le aveva dalla natura nel suo carattere
maggiori che in altrui; quelle parole produssero in lei un
soddisfacimento tanto più vivo in quanto che era la prima volta che le
udiva. La si sentì rinfrancata, e con tutta scioltezza prese posto sul
tappeto rotolato e si diede a mangiare il pomo e il pane con avidità
pari a quella delle due piccole saltatrici.

La donnaccia e il saltimbanco, interrogando destramente la piccina,
ebbero in breve saputo tutto ciò che la riguardava: la povertà della
famiglia e il poco amore che i genitori le dimostravano.

— Di' un po', uscì fuori l'uomo ad un punto, pigliando nella sua grossa
mano il mento delicato di Martuccia, non ti piacerebbe egli venire con
noi, veder tanti paesi, portare una vestina tutta oro ed argento, aver
giocattoli e regali a macca, sentirti a lodare da tutti e gridar brava
dal pubblico e buscar tanti soldi che stando in tua casa non ne vedresti
mai pure la centesima parte?

Alla bambina quelle parole del saltimbanco parvero aprire dinanzi un
avvenire tutto color di rosa; pensò che non avrebbe avute più le
battiture del padre ubbriaco e della madre di cattivo umore per aver
dovuto impegnare l'ultimo suo straccio onde averne del pane, che
sarebbero finite le lunghe ore di noia in cui le toccava star seduta in
un cantuccio di quella trista e scura soffittaccia ornata di ragnateli,
che almanco avrebbe avuto l'aria aperta, il cielo, il sole, e visto cose
nuove; i suoi occhi brillarono ed ella disse con gioia:

— Oh sì che mi piacerebbe.

— E va benissimo. Allora mi condurrai dal tuo babbo, ed io gli domanderò
se vuole lasciarti venire con me.

Così fu fatto. La proposizione veniva a quegli sciagurati genitori in un
momento appunto in cui peggio li percuoteva la miseria. Per onor loro
devo dire che lottarono un poco, e la madre principalmente fu dapprima
assai restia: ma il saltimbanco insistette accrescendo sino a cinquanta
lire la somma che aveva offerto dapprima; gl'infelici, per cui questo
era poco meno che un tesoro insperato, cedettero, e chi volesse non
essere menomamente ingiusto nel condannarli, come si meritano, dovrebbe
pur tener conto dei tristi e perniciosi effetti che a forza produce
sull'anima umana il continuo, irrimediato tormento della miseria.

Martuccia seguì i saltimbanchi assai lieta; e da principio la sua vita
le parve, paragonata a quella sino allora vissuta, un piccolo paradiso.
L'avevano spogliata delle sue vestine strappate e sporche e del suo nome
trovato poco adatto alle nuove sorti a cui era chiamata. Le avevano
messo intorno i panni che aveva vestiti una delle sue precessore morta,
nessuno si ricordava più dove, e il nome portato dall'ultima che aveva
disertato la compagnia per la fossa. Questo nome era Zoe. Il bravo
saltimbanco aveva un repertorio di nomi da affibbiare così alle sue
allieve in luogo dei prosaici che ordinariamente esse portavano, e
questi nomi faceva passare dall'una all'altra, quando la prima occupante
veniva a mancargli. Pei primi giorni adunque tutto andò bene. A Zoe non
si dava altro da fare che certi movimenti di braccia e di gambe per
iscioglierne le membra; movimenti che non avevano nulla di faticoso e
tanto meno di doloroso. Il saltimbanco usava palparla nelle spalle e
nelle reni, press'a poco della guisa con cui una cuoca in mercato palpa
un pollastro che vuol comprare, e diceva poscia tutto soddisfatto:

— Benissimo costrutta! La diventerà un soggetto, ma di quei
_fiamminghi_!

Le si dava da mangiare quanto occorreva, passava la giornata sulle
piazze, sollazzata dall'aspetto di tante cose e di tanta gente, dormiva
benissimo la notte sopra uno strammazzo di paglia con accanto le sue due
compagne; ed era tutto fiera quando, essendo andata alla colletta presso
gli spettatori, tornava dal saltimbanco col piattello pieno di soldi,
per cui quell'omaccione gli diceva una parola di elogio e gli faceva una
carezza. La donna tentava far dolce la sua vociaccia ogni qual volta
parlava colla piccola Zoe, e questa incominciava a darsi un po'
d'importanza e credersi dappiù paragonando il modo con cui essa era
favorita a quello onde erano trattati i suoi compagni.

Bene avrebbe potuto farla avvertita di quanto la aspettava l'esempio di
ciò che accadeva a questi ultimi. Le percosse che prendevano le piccine,
quelle più fiere ancora che toccavano al pagliaccio la movevano bensì a
compassione dapprima, ma poi — la umana natura è così fatta! — la ci si
era abituata e siccome non a lei toccavano in fin dei conti, le pareva
ch'ella avrebbe dovuto esserne esente per sempre.

Le cose cambiarono, quando a capo un mese, la compagnia abbandonò
Torino. Fosse timore che in questa città la piccina trovasse i suoi
genitori e si lamentasse se maltrattata e da ciò potesse nascerne
qualche richiamo all'autorità, qualche intromissione di quella noiosa
d'una polizia, fino a che si fu nella capitale del Piemonte, la pelle di
Zoe fu rispettata; ma fuori!... In breve tempo ella ebbe la sua parte
cogli arretrati. L'uomo era crudele, ma la donna era feroce. In loro la
natura era barbara e rozza, ma la educazione non aveva fatto nulla per
migliorarli ed ingentilirli, e la loro sorte, gli esempi, l'ambiente in
cui erano vissuti erano invece fatti apposta per inasprire il carattere,
incrudire il cuore e svolgere i più fieri e cattivi istinti. Delle
colpe, delle scelleraggini, delle infamie di quei derelitti, quanta
imputabilità non è da darsi al mezzo sociale in cui vivono! Quell'uomo
era nato in quella melma, s'era allevato fra gli stenti e i vizi di quei
bassi fondi sociali, maltrattato, angustiato, senza conoscere, senza
provare pur mai nessun effetto di istruzione, di dolci affetti, di bene
morale. La donna era di pari condizione, fatta peggiore, perchè la
natura femminea, come nel bene, così eccede pur anco nel male. Quindi
ella si compiaceva non solo a tormentare essa stessa direttamente le
povere vittime cascatele sotto le unghie, ma ad istigare ancora contro
di esse la collera e la brutalità del marito.

Il peggio trattato era il povero pagliaccio. Che nome aveva egli? Chi
era? Donde veniva, o meglio a cui era stato tolto? I saltimbanchi stessi
parevano averlo dimenticato, egli non ne sapeva nulla. Da tanti anni,
che gli parevano secoli, egli cresceva in mezzo alle percosse di quei
due crudeli. Non era altro più che pagliaccio, un essere fatto apposta
su cui sfogare coi cazzotti, coi pugni e coi calci il cattiv'umore di
chi gli dava uno scarso tozzo di pane. Egli soffriva e taceva. Raro è
che parlasse. Si piaceva a rincantucciarsi e star solo, coi gomiti sulle
ginocchia e la faccia nelle mani a meditare. Che meditava egli mai?

Una fra le due compagne di Zoe era più miseruzza dell'altra. Tossiva
spesso, si lamentava di dolori allo stomaco, raramente poteva cibarsi
con appetito, dormiva poco, troppo sovente tremava e sudava dalla
febbre. I saltimbanchi uomo e donna, la rimbrottavano acerbamente,
dicevano che quella era pigrizia, che gli eran vizi e malavoglia di fare
il dover suo, e accadde più d'una volta che anche la picchiassero per
obbligarla a star bene e scendere in piazza a fare i soliti esercizi. La
poverina si travagliava miseramente nelle sue capriole e negli sforzi
delle sue mosse ginnastiche, tenendo sempre fisso sulle labbra
quell'imposto sorriso costretto e contratto, che era dolorosissimo a
vedersi, chi per poco esaminasse la infelice, e poi cadeva ansimante per
terra presso l'organetto, serrandosi colle mani convulse lo stomaco in
cui soffrivano, i suoi polmoni, i più cocenti dolori. Pagliaccio
lasciava scendere uno sguardo pieno di compassione sopra quella
sofferente, ma lo sviava tosto da lei e con più violenta prestezza si
dava a girare il manico di quel scellerato strumento disarmonico e
stonato. Era la sola manifestazione di sentimento che potesse esser
colta negli atti, nella fisionomia di quel giovanetto, che del resto si
mostrava d'una indifferenza stupida e non mai smentita; manifestazione
codesta ch'egli metteva assai cura a non lasciare scorgere nè da quel
crudele nè da quella megera che erano i suoi padroni.

Un giorno finalmente la piccola inferma non potè a niun modo levarsi più
dallo stramazzo in cui aveva dolorato tutta la notte. Il saltimbanco
capì che la era spacciata come le altre mancategli della medesima guisa.
La chiuse nel granaio tutto sola, e condusse in piazza il resto della
compagnia. Quando tornarono la sera, la poverina era morta.

— Che peccato! Disse il saltimbanco poichè si fu accertato che la era
freddo cadavere. Se avesse vissuto questa qui sarebbe diventata un
_fiero soggetto_.

Fu l'orazione funebre di quella creatura sventurata, che non aveva
conosciuto vivendo le carezze materne, che era morta abbandonata senza
il conforto d'una mano amorevole, d'una parola pietosa.

Poscia il saltimbanco e la donna se ne uscirono di là per recarsi
all'osteria secondo il solito, lasciando chiusi entro il granaio, col
cadavere della piccola morta, Zoe, l'altra compagna superstite e
Pagliaccio.

Era la prima volta che la Martuccia si trovava in faccia allo spettacolo
della morte, e quel viso immobile color di cera, la bocca semiaperta e
tirata, quegli occhi spenti entro le occhiaie infossate, di cui niuno
aveva avuto la pietosa cura di abbassare le palpebre, le incutevano una
tremenda paura. Guardava, guardava quella faccia di cadavere, e le era
dolorosissimo il guardarla, e non poteva pur tuttavia staccarne gli
occhi.

Fu il povero Pagliaccio quegli che abbassò le palpebre della piccola
morta. S'inginocchiò presso di lei, le rese quel pietoso ufficio, poi si
volse all'altra ragazzina che piangeva, forse più ancora di spavento che
di dolore.

— Perchè piangere? Le disse con una voce straordinariamente grave per
uno appena entrato nell'adolescenza. Essa è più felice di noi; ha finito
di soffrire; e certo dov'essa è andata si sta meglio che non qui sotto
la sferza del principale...... Una volta che, scappando di casa, ho
potuto entrare in chiesa un momento, ho udito un prete a predicare, il
quale diceva che chi muore senza aver fatto del male va in paradiso dove
c'è un eterno benessere. Questa poveretta non ha mai fatto male a
nessuno e dev'essere andata colassù. Sapete ciò che abbiamo da
desiderare anche noi? Si è di far presto ad andarla raggiungere; poichè
tanto e tanto questa ha da essere la nostra sorte.

Detto ciò Pagliaccio si accoccolò, come soleva, coi gomiti sulle
ginocchia e la faccia nelle mani e stette immobile presso il piccolo
cadavere. Le sue parole avevano ispirato nell'animo di Zoe una
indicibile mestizia. Anche di poi, nel più brillante apogeo della sua
sciagurata carriera, ella non aveva dimenticata quella notte e diceva
non poterla dimenticar mai. Ella erasi stretta in un cantuccio lontano
il più possibile dalla morta, insieme colla sua superstite compagna, e
stette colà fino al mattino impedita dallo spavento di dormire di sonno
fermo, sonnecchiando di tanto in tanto, solo per avere in quel sopore
più tremende le immagini di inesprimibili confuse visioni. Ancora nel
buio più fitto delle ore notturne, ella credeva vedersi innanzi quella
faccia patita di color cerco, quegli occhi spenti a guardarla, quelle
labbra livide a dirle con voce cupa le parole pronunciate da Pagliaccio:

— Anche questa ha da essere la tua sorte.

Il domani stesso, come sempre faceva in simili casi, il saltimbanco
partì dalla città in cui si trovava e con viaggio più lungo del solito,
mise una maggior distanza che non solesse fra la sua nuova residenza e
quella che aveva abbandonata.

— Orsù, aveva egli detto a Zoe quel domani medesimo, ora tocca a te a
tener il posto di quell'altra, e bisogna sgranchirsi un po' meglio.

Queste parole furono il vero annunzio d'un accrescimento di lavori e di
fatiche accompagnato necessariamente da una recrudescenza di battiture.

Ma Zoe era temprata con nervi d'acciaio, e in quella lotta
dell'organismo per acconciarsi a siffatte condizioni d'esistenza, la
parte fisica si era afforzata di guisa da vincere, soffocando quasi del
tutto la parte morale, che in tali circostanze è quella che procura i
maggiori tormenti alle anime oneste.

A dodici anni la era una delle acrobatiche e delle ginnastiche più brave
che si potessero vedere, e il suo sviluppo fisico era tale da presentare
una precoce adolescenza, ch'ella stessa, prematuramente corrotta nel suo
pensiero, si compiaceva a rendere tentatrice ai vizi dei libertini. Le
nozioni del bene dove avrebbe ella potuto attingerle? Del pudore e
dell'onestà femminile dove averne gli esempi? Il vizio e la corruzione
fin dalla sua infanzia le erano stati compagni, come cosa naturale, come
l'ambiente necessario in cui vivere. S'era ausata ad udire, vedere e
ridere di tutte le morali sconcezze che riguardano i rapporti dei due
sessi, come se questa fosse una parte del suo mestiere, una condizione
del suo essere. I suoi principali erano pronti a venderne la bellezza al
primo che loro offrisse patti convenienti; e non glie lo nascondevano:
il saltimbanco intanto sentiva di quando in quando delle velleità di
appropriarsi esso stesso quel boccone che avrebbe fatto gola al più
frusto libertino del mondo.

È doloroso aver da rivangare questa melma sociale, e noi passeremo solo
di sfuggita sopra tali orrori. Zoe s'accorse delle intenzioni del suo
principale, e non se ne indignò, non sapendo neppure che c'era caso da
indignarsene. Per un preannunzio di quel carattere che doveva essere il
suo, di quella infame sorte a cui era predestinata, essa non pensò altro
che tentar di ricavare il miglior profitto possibile dalle intenzioni
del saltimbanco. Fino d'allora la cortigiana si rivelava in tutta la sua
essenza. Chi indovinò eziandio i tristi propositi del saltimbanco, e ne
soffri immensamente, fu il povero Pagliaccio. Gli anni erano passati
anche per lui, ma pure non avevano recato alcun cambiamento alle sue
meschine sembianze. Era sempre il mingherlino macilento, le cui gambe
sottili e le braccia grosse come canapuli ballavano nelle vestimenta
troppo larghe, senza un pelo di barba sulla faccia, sempre colla sua
aria melensa, tra mesta e timorosa e meditativa.

Eppure la sbocciante bellezza di Zoe aveva prodotto un grande effetto
anche nell'anima di quell'infelice. Non le parlava quasi mai, eccetto
per dirle ciò che era strettamente necessario, ma la seguiva cogli occhi
continuamente, e quando nessuno poteva scorgerlo, il suo sguardo
addormentato balenava d'una subita fiamma; talvolta, suonando
l'organetto, mentr'ella faceva i suoi esercizii, egli dall'ammirazione
rimaneva lì a bocca larga, colla mano per aria, e Zoe doveva gridargli
colla sua voce chiara e vibrata, all'udir la quale egli si riscuoteva
tutto:

— Animo Pagliaccio! Su la musica!

Ed egli, con nuovo ardore, quasi arrabbiato, si dava a girare il manico
dell'organetto.

Anche per ragione d'interesse, Zoe era diventata carissima al
saltimbanco. La bravura di lei e le grazie della sua persona,
guadagnavano le simpatie di tutto il pubblico, e quando essa andava in
giro col piattello, l'introito era sempre vistoso.

Il saltimbanco, incoraggiato da questi successi ad essere ambizioso,
determinò lasciare il suolo libero ed il cielo scoperto delle piazze per
provvedersi di un baraccone di tele tirate su listelle e piuoli; e volle
quindi eziandio aumentare le attrattive dello spettacolo offerto agli
avventori. Un bel dì, quando già la piccola compagnia dava le sue
rappresentazioni nella baracca, il saltimbanco istrusse Pagliaccio ad
essergli compare in un nuovo giuoco, che egli voleva eseguire, e mercè
le strapazzate e le battiture, in poche lezioni ridusse il povero
figliuolo a fare appuntino quello che egli voleva. Il giuoco era questo;
il saltimbanco avrebbe fatto caricare da uno degli spettatori una
pistola, mettendovi dentro una vera palla di piombo, ma Pagliaccio nel
riprenderla dalle mani di colui che l'aveva carica, doveva destramente
sostituire a quell'arma un'altra perfettamente identica solamente
caricata a polvere; allora il saltimbanco avrebbe invitato chiunque
volesse dell'assemblea a far fuoco su di lui alla distanza di due passi:
naturalmente Pagliaccio avrebbe dato a questo cotale la pistola senza
palla, e quando egli avesse sparato, il saltimbanco avrebbe mostrato al
pubblico nella sua mano una palla che si terrebbe all'uopo fra le dita e
che fingerebbe aver colta a volo.

Enormi cartelloni annunziarono questo giuoco sotto il titolo: L'UOMO CHE
NON PUÒ ESSERE UCCISO. STRAORDINARIA INVENZIONE MAI PIÙ VISTA, ecc.,
ecc. La curiosità degli abitanti di quella piccola città di provincia,
in cui la compagnia si trovava, fu solleticata di modo che un numeroso
pubblico accorse. A tutta prima nessuno volle sparar la pistola; ma poi,
dietro le sollecitazioni del saltimbanco, un antico militare di più
coraggio acconsentì a far fuoco. Il saltimbanco illeso mostrò al
pubblico entusiasmato la palla che aveva tra mano e che tutti credettero
fosse quella cui avevan visto mettere nella canna della pistola. Tutta
la città volle vedere siffatta meraviglia; e tra questo giuoco e le
grazie di Zoe, la cassa del saltimbanco ebbe allora una fortuna non mai
conosciuta dapprima.

E questa fu la causa della perdita del saltimbanco. I buoni guadagni lo
resero più frequente nell'ubbriacarsi, e quando era ubbriaco egli
diventava una belva feroce. Zoe aveva saputo temporeggiare e schermirsi
sin allora; ma una sera lo scellerato uomo, non solamente le parole più,
ma usò la violenza. Pagliaccio era in un cantuccio raccolto in sè al
solito, dimenticato come sempre. Che cosa passò mai per l'anima di
quell'infelice? E' saltò su come spinto da una molla e venne a piantarsi
innanzi al saltimbanco a parare la vittima di lui, difensore fremente ed
inefficace. L'ubbriaco, con uno sdegno pieno di stupore, gli diede
parecchie ceffate e credette averne ragione: ma no: il disennato
resistette, osò ribellarsi, ardì cimentare le sue deboli forze contro le
erculee membra di quel sansone. Il trattamento che ne ebbe il temerario,
fu tale che Zoe gettossi disperatamente in mezzo domandando pietà. Il
saltimbanco gettò il giovane mezzo morto in un angolo: senza che quel
disgraziato avesse pur disserrato le labbra per chiedere misericordia,
per fare un lamento. Buttato là come uno straccio, egli teneva i denti
stretti e i pugni contratti, pallido come un morto, sanguinoso pei colpi
ricevuti, ma nello sguardo il fuoco d'un odio implacabile, feroce.

Il saltimbanco tornò senza più contrasto alla sua infame violenza.....

La giornata di poi si dovette far riposo perchè Pagliaccio non poteva a
niun modo prender parte alla rappresentazione: ma due giorni dopo,
all'annunzio d'una nuova ripetizione del giuoco dell'uomo invulnerabile,
una gran quantità di spettatori s'accalcava nel baraccone, e Pagliaccio
colle lividure del suo viso ricoperte dalla farina e dal belletto
rallegrava il pubblico delle usate facezie.

Venne il momento di eseguire il tiro della pistola contro il
saltimbanco. Questi, secondo il solito, diede a caricare l'arma ad uno
degli spettatori, il quale mise in essa la sua brava palla; fece
ritirare la pistola, com'era usato, da Pagliaccio, e poi domandò qualche
coraggioso fra gli astanti che gliela sparasse verso il petto alla
distanza di due passi. Come tutte le volte ebbe luogo una esitazione nel
pubblico, e nessuno volle dapprima prestarsi a tale ufficio; ma il
saltimbanco insistendo replicatamente e vivamente, uno acconsentì
finalmente a questa prova. Prese da Pagliaccio la pistola, — ma nessuno
osservò che in quel punto la mano di Pagliaccio tremava, — e impostatisi
come occorreva, egli lo spettatore e il saltimbanco, il primo abbassò
l'arma all'altezza del petto di quest'ultimo e fece fuoco. Il
saltimbanco gettò un grido, la sua faccia si contrasse e di colpo
precipitò lungo e disteso per terra. La palla gli aveva attraversato il
cuore. Una voce sola d'orrore s'alzò da tutto il pubblico, alcune donne
svennero, successe un tumulto indescrivibile. Zoe guardava tutto stupita
di dietro la tenda ove si riparavano per vestirsi, quando Pagliaccio le
fu accosto come caduto dal cielo.

— Ho vendicato me, te e le infelici che quell'infame ha assassinato.
Diss'egli con voce sorda. Vuoi tu venir meco? Io per te affronterò ogni
cosa.

La fanciulla si tirò indietro spaventata.

— No, no: diss'ella.

Pagliaccio la prese violentemente tra le braccia, la serrò con passione
convulsa al suo seno, le stampò sulle labbra un bacio che ardeva, poi
lasciatala libera, quasi respingendola da sè; fuggi dalla parte
posteriore del baraccone. Zoe mai più non lo vide, nè mai più intese
novella di lui.

Alla morte del saltimbanco, nella piccola compagnia ridotta alla donna
ed alle due giovinette, successe la maggiore miseria che avessero ancora
provato mai. I guadagni che si facevano ora, sulle pubbliche piazze dove
erano tornate a dare spettacolo, dopo vendute le cose migliori; que'
guadagni erano sì pochi che appena se ne avevano il pane da sostentarsi.
L'umore della donna non avea ragione di abbonirsi e i mali trattamenti
fioccavano sulle povere fanciulle rimaste alla discrezione della sua
anima crudele e scellerata.

Zoe meditava sottrarsi ad ogni modo a quella vita d'inferno, quando la
fortuna volle aiutarla, porgendogliene il mezzo. Il direttore d'una
compagnia di cavallerizzi, vistala un giorno a fare i suoi esercizi
sulla piazza, comprese che quella avrebbe facilmente potuto diventare
una eccellente artista per la sua compagnia e fu dalla donnaccia, cui
credeva madre della giovinetta, a domandargliela. La megera, che aveva
soltanto più quelle due povere creature onde guadagnarsi il pane,
rifiutò con male parole; ma Zoe, quando seppe che la compagnia equestre
stava per partire da quella città, scappò di casa, e recatasi al
direttore della medesima, gli disse:

— Son qua. Pigliatemi se volete e vi seguirò sino in capo al mondo.

Due anni dopo Zoe, battezzata col nomignolo di _Leggera_, faceva
l'ammirazione di tutti i frequentatori di questa razza di spettacoli, e
vedeva ai suoi piedi gli omaggi e le offerte più o meno spropositate
d'un nugolo di libertini giovani e vecchi. Scaltrita come vi ho detto
ch'ella era, la ragazza seppe scegliere assai bene i suoi adoratori. Le
sue acconciature, che erano di quelle chiamate dai Francesi
_tapageuses_, costavano un occhio della testa e abbagliavano tutte le
donne oneste in tutte le città dove recavasi a dare rappresentazioni la
Compagnia. Avrebbe potuto cento volte abbandonare il dorso nudo del
cavallo e le sottanine di garza per darsi di proposito alla rovina di
qualche Creso; ma non si affrettava nella scelta, perchè le piaceva il
lusinghiero tumulto del circo plaudente, la inebbriava il grossolano
incenso dei battimani e delle grida d'entusiasmo della plebaglia stivata
ad ammirarla nell'ultima galleria, le mordeva per così dire con diletto
l'anima la lotta incessante col pericolo sempre affrontato e vinto.
Nessuno era più temerario nel suo ardimento di lei, che le chiome
rossigne abbandonate al vento passava innanzi ai guardi del pubblico
sbalordito, al galoppo furibondo del suo cavallo, come una meteora,
sicura, sorridente, colle sue forme di corpo da statua greca e la sua
faccia e il suo atteggio da cortigiana e da baccante. Essa sapeva che,
se non i cuori, i desiderii di tutti quegli uomini che la saettavano
cogli occhi accesi, la seguitavano in quella corsa sfrenata, e se ne
compiaceva con maligno disprezzo del sesso forte in fondo alla sua
indole così prematuramente corrotta. Quando aveva fatto fremere tutte
quelle centinaia di spettatori pei rischi a cui si esponeva con superba
indifferenza, quando chiamata nell'arena sei o sette volte alle ovazioni
del pubblico in entusiasmo, ella veniva a ringraziare con un sorriso che
si sarebbe potuto dire quello d'una Messalina stanca ma non sazia, ella
ai suoi compagni a mezza bocca soleva dire, mostrando il pubblico con
una occhiata piena di disprezzo: — Massa d'imbecilli! — Ma l'unica cosa
che le facesse battere un pochino il cuore erano tuttavia gli applausi
di quegl'imbecilli.

Gian-Luigi, che appariva fra i giovani più eleganti della città, andava
a prendere lezioni d'equitazione dal direttore di quella compagnia, e in
tal modo aveva stretto conoscenza con tutti gli artisti ed assisteva
alle prove dei loro spettacoli. Colla _Leggera_, egli, fosse calcolo, o
indifferenza, aveva tenuto quel solo contegno che poteva servirgli per
farsene notare: parlatole freddamente due o tre volte, non prestava a
lei un'attenzione di maggior importanza che a qualunque altra. Questo
modo di trattare in un giovane che era così potentemente leggiadro, che
appariva ricco, che aveva dato assai prove di non esser timido, tornò
per Zoe un mistero cui ebbe curiosità di penetrare. Poi la sua vanità fu
punta da questa freddezza che pareva disdegno. Cominciò a lanciare verso
di lui alcuni di quegli strali che tiene la civetteria nel suo turcasso,
a cui Gian-Luigi oppose una corazza adamantina di noncuranza. Il vero è
che si studiavano ambedue a vicenda, e l'uno voleva coglier l'altro
nella rete.

Un giorno Gian-Luigi era presente alle prove e Zoe, forse desiderosa di
eccitare in lui la meraviglia, volle tentare l'addestramento d'un
cavallo indomato, cui temevano di cavalcare i più forti ed audaci degli
uomini della compagnia. Era una magnifica bestia piena di fuoco, colle
gambe asciutte, il collo arcato, la groppa incavata. Strepitava,
scalpitava, s'inalberava, tenuto a mano pel morso dal mozzo di stalla.
Zoe in un salto leggiero gli fu sopra e raccolse nel suo pugno piccolo
ma nervoso le briglie, e la lotta fra il quadrupede e l'amazzone
cominciò di botto. Ogni fatta scambietti, e corvette, e salti, e svolti,
e sparar di groppa fece l'animale imbizzarrito, fremente, bianco di
spuma la bocca, rosse come di fuoco le froge; ella stette salda,
tranquilla, col suo sorriso quasi disdegnoso. Sì, Gian-Luigi l'ammirava:
e chi non l'avrebbe ammirata? Tanta forza unita a tanta grazia, tanto
coraggio in tanta leggiadria! Ad un tratto il cavallo, stanco,
indispettito di quella pugna in cui la debolezza aiutata
dall'intelligenza e dall'arte prepoteva sopra la sua forza, volle
finirla ad ogni modo anche con suo danno. Prese la corsa e si precipitò
verso uno dei pilastri che sostenevano le gallerie dell'anfiteatro, per
isbattervi contro la sua nemica e se stesso. Fu un grido solo di
spavento dalla bocca di tutti gli spettatori che miravano con vivissimo
interesse quella contesa e che videro impossibile all'amazzone il
frenare la bestia furibonda. Gli uomini si slanciarono tutti a quella
parte, ma col timore pur troppo di non raccogliere più che un corpo
sfracellato. Fra tutti giunse primo Gian-Luigi che in un salto fu ad
abbrancare alla vita la fanciulla, la trasse violentemente di sella e
potè recarsela via fra le braccia nell'istante appunto in cui il cavallo
precipitava contro il pilastro.

Zoe era diventata pallida, il suo cuore le parve cessar di battere un
istante, gli occhi le si appannarono e si chiusero. Ma non fu che un
fugacissimo minuto. Tosto tosto si trovò pienamente padrona di sè e
provò una specie di dolcezza che le riusciva affatto nuova, nel sentirsi
appoggiata e sostenuta al petto potente di quel bel giovane, la cui
faccia così splendidamente bella era tanto vicina alla sua che l'alito
delle loro bocche si confondeva.

— Ah! Lei mi ha salva la vita: diss'ella al _medichino_, a voce bassa,
come se si vergognasse di confessare la sua obbligazione, quasi che una
sua sconfitta.

Poscia si sciolse dalle braccia di lui; si fermò sopra i suoi piedini,
si riscosse come fa chi vuol torsi dalle spalle un peso che lo
infastidisca, guardò fissamente in faccia i suoi compagni che le si
serravano intorno ancora spaventati, e disse loro col suo sorriso
impertinente:

— Ebbene? Gli è nulla..... E quel povero cavallo, che male si è fatto?

Nemmanco il cavallo non s'era fatto gran male. Ei si levò ancora
sbalordito, fremente in tutte le membra. Zoe gli passò sul collo la sua
mano piccola ed asciutta.

— Che matto cattivo! Vorresti accopparmi anche a costo di rovinarti
te..... E sarebbe peccato, perchè sei una troppo bella bestia..... Ma
sta che fra noi la non è finita, e un altro giorno ti vorrò dir io
un'ultima parola.

Stette seguendo attentamente collo sguardo l'animale che veniva
ricondotto a lento passo nella scuderia, e parve che questo soltanto la
occupasse. Poi ad un tratto si rivolse a Gian-Luigi e guardandolo
fissamente entro gli occhi gli disse con una certa bruschezza:

— La vorrebbe farmi anche il favore di accompagnarmi a casa?

Il _medichino_ si inchinò senza pronunziar parola.

Giunti nella sontuosa dimora della saltatrice, Gian-Luigi stette dieci
minuti in compagnia di lei con tutto il riserbo che avrebbe potuto avere
per una verginella, mentr'essa lo guardava sempre fiso con curiosa
insistenza che poteva anche sembrare contrarietà. Il giovane si alzò,
strinse la mano leggermente alla donna che stava sdraiata sopra la sua
poltrona, e prese commiato dicendo:

— Avrete bisogno di riposo e vi lascio.

La _Leggera_ non rispose a tutta prima, abbandonò freddamente la sua
mano a quella fredda stretta, e con un solo cenno di capo rispose al
saluto del giovane. Ma quando questi fu sulla soglia dell'uscio, mossa
da un subito avviso, ella sorse di scatto, e fu in un salto innanzi a
lui a contendergli il passo.

— Che strano uomo siete voi? Diss'ella piantando in faccia a Gian-Luigi
i suoi occhi smaglianti, color del mare. Voi non cercate alcuna
ricompensa al servigio che mi avete reso?

Il _medichino_ fece un misterioso sorriso.

— Che ricompensa potrei domandare? Temerei essere indiscreto, o che a me
stesso avesse a costar troppo caro quella che desidererei ottenere.

Zoe lo prese per mano e lo ricondusse a seder presso di sè sopra un
sofà.

— Perchè non mi avete fatto mai la corte, voi? Diss'ella sfacciatamente,
prendendo una delle sue mosse le più seduttive e procaci.

Il _medichino_ rispose brutalmente:

— Perchè non sono abbastanza ricco per comprarvi, e mi accorsi tosto che
voi non avete nè cuore, nè sensi da potere essere sedotta dall'amore.

La _Leggera_ fece un miracolo, arrossì.

— Voi avete ben trista opinione di me..... E s'io ci tenessi a provarvi
che avete torto?

— Non domando di meglio.

Alcuni mesi dopo questi due, da amanti — se si può dar loro tal nome per
la relazione che avevano insieme — erano diventati confidenti e direi
quasi complici nella prosecuzione d'uno scopo comune, che era una guerra
nascosta, ma accanita e implacabile contro i favoriti dell'attuale
assetto sociale. Si erano intesi compiutamente, le loro anime, i loro
odii, le loro invidie, i rancori, le avidità s'erano affatto
compenetrati e camminavano di conserva assecondandosi.

Zoe, dietro le splendidissime offerte d'un alto personaggio che teneva
un posto dei primi nella gerarchia dei potenti della terra, aveva finito
per abbandonare la sua carriera artistica, a ciò consigliata eziandio da
Gian-Luigi; e nella sua dimora, la più sontuosa che si potesse
immaginare, accoglieva tutta la gioventù mascolina elegante che avesse
denari da gettare nelle matte spese, negli sfarzosi regali, nelle
sciocche futilità del lusso il più sfrenato e nel giuoco, a cui sorgeva
non mai abbandonato l'altare nelle sale della _mantenuta_.

In queste sale entriamo dunque sulle orme di Gian-Luigi, il quale dopo
il teatro vi si recò insieme con quei due che aveva scelto a suoi
padrini pel duello intimatogli dal conte San-Luca.



CAPITOLO XXVI.


Le sale della _Leggera_ erano piene di luce e di uomini fedeli di tutto
punto ai dettami del figurino. Ad un tavoliere di _Faraone_ sedeva per
tenerci banco Gian-Luigi. A mezzo d'un _taglio_, i due ufficiali ch'egli
aveva condotto seco, i quali s'erano accontati in un salotto vicino col
marchesino di Baldissero e col conte Langosco, vennero a dirgli in
un'orecchia:

— Tutto è inteso.

— Va bene: disse con tutta indifferenza il _medichino_. Dopo il giuoco i
ragguagli.

E continuò con tutta scioltezza e col più allegro umore del mondo a trar
giù le carte, le quali, come se obbedissero alla volontà da lui
manifestata in teatro alla Zoe, quella sera gli erano avverse
inesorabilmente e lo facevano perdere a rotta di collo.

Ma nello stesso tempo che il giovane appariva in una vena di tanta
disgrazia, mai non s'era mostrato tuttavia in tanta vivacità ed allegria
di spirito; di guisa che i giuocatori che si stringevano al tavoliere da
lui tenuto, tra per la contentezza del guadagnare, tra per la felicità e
il brio dei motti che schioppettivano sulle labbra del _medichino_,
avvicendavano le parole del giuoco colle più franche risate in una
conversazione animatissima e burlona.

Il conte di Staffarda era venuto ancor egli ad aggiungersi a quel
cerchio e guadagnava ancor egli, anzi guadagnava più ancora degli altri,
quantunque avvezzo ordinariamente a perdere di molto: le carte sotto le
mani di Gian-Luigi parevano metterci una certa galante insistenza a
farlo vincere. Anche il conte rideva delle uscite e dei motti del
_medichino_, e, fra se, ammirava più che gli altri quella libertà dello
spirito, quell'agiata noncuranza, egli che sapeva il giuocatore alla
vigilia d'un giuochetto non affatto scevro di pericoli.

Dopo un'ora Gian-Luigi depose le carte e si alzò senza pure una moneta
più innanzi a sè nè in tasca.

— Basta: diss'egli. Lascio altrui il vantaggio del _banco_.

Aveva pagato tutte le vincite a contanti, eccetto il conte Langosco al
quale rimaneva ancora debitore d'una cinquantina di _marenghi_ su
parola.

— Signor conte: gli disse, passandogli vicino nell'allontanarsi dal
tavoliere: le rincrescerebbe venir meco per cinque minuti di là?

Il marito di Candida nulla rispose, ma si alzò e si mostrò pronto a
seguire il giovane, il quale, entrando innanzi, andò sino ad una
galleria che guardava verso il cortile, nella quale, chiusa a cristalli,
erano tenuti come in una stufa arbusti e fiori vagamente disposti.
Lampade frammesse alle frondi e pendenti dalla volta entro cestellini
vestiti di piante erratiche fiorite, illuminavano vagamente quel luogo
in cui appena era se giungeva il mormorio delle voci di tanta gente
raccolta nei due salotti.

Gian-Luigi incominciò senz'altro:

— Il debito che ho verso di lei, sono in obbligo di pagarglielo
domattina....

Il conte fece un atto, come per dire: — Di che cosa mi venite a
discorrere ora?

— E lo farò senza fallo io stesso, se il conte San-Luca me ne lascia la
possibilità: ma siccome è tra le cose possibili — quantunque però io non
la creda probabile — che il signor conte mi mandi all'altro mondo con
due dita di lama o una pillola di piombo in corpo, perchè io non so
ancora se ci batteremo alla spada o alla pistola....

— Alla pistola: disse il conte Langosco.

— Va benissimo. Siccome, dico, in tal caso non potrei adempire io stesso
a quel mio dovere, non voglio per ultimo saluto lasciar lei
defraudandola di ciò che le spetta.

— Eh via! Di queste cose non occorre parlare: disse superbamente il
conte di Staffarda, accennando volersi partir di là per metter fine a
quel colloquio.

— Signor sì, che gli occorre: soggiunse con voce ferma il _medichino_,
senza punto muoversi.

Trasse di tasca un portafogli ed appoggiando ad una mensola carica di
vasi di fiori un fogliolino di carta vi scrisse su poche parole, in cui
si dichiarava debitore al conte della somma testè perduta al giuoco,
quindi porgendo al marito di Candida quella carta ripiegata, riprese a
dire:

— Se io soccombo, si troverà fra le mie carte un testamento. L'esecutore
testamentario, che in esso ho nominato, è un buon sacerdote, un parroco
di campagna: a lui abbia la compiacenza, signor conte, di recare questo
foglio, ed egli, che conosce la mia scrittura, si affretterà a
soddisfare per me il mio debito.

Il conte s'inchinò in segno d'acquiescenza e di ringraziamento. Egli non
poteva a meno che riconoscere la delicatezza del tratto ed encomiarla
fra sè, come aveva sin'allora ammirate la libertà e la vivacità di
spirito di quel giovane, vero indizio di un coraggio reale, non
millantatore, nè artefatto.

— Del resto, continuò Gian-Luigi, non occorrerà nulla di tutto ciò e
sarò io a portarle domattina, prima di mezzogiorno, la somma dovuta a
casa sua.

— Cospetto! Disse sorridendo il conte. Lei è molto sicuro del fatto suo.

— Sicurissimo. Il conte San-Luca mi sbaglierà, ed io lo ferirò dove mi
parrà e piacerà.

— San-Luca tira bene.

Gian-Luigi crollò le spalle e fece un sogghigno.

— Al tiro del Valentino, con una pistola _à double détente_ può darsi;
ma in aperta campagna, in faccia ad un uomo che lo guardi entro gli
occhi, così....

E fulminò addosso al conte uno sguardo così imponente ed imperioso che
anche quest'esso lo sentì come una minaccia atta a turbare l'animo d'un
uomo anche non pauroso.

— Le dico io, continuava il _medichino_, che non avrà più tutta quella
fermezza della mano che si richiede per mandare all'altro mondo una
creatura a lui simile e — mi permetta quest'orgoglio — uguale.

— E Lei? Disse Langosco. Crede che non farà alcun effetto anche a Lei il
trovarsi dinanzi per bersaglio un uomo?

— No, signor conte. Anzi tutto io sono convinto d'aver la ragione dalla
mia, e che il signor di San-Luca fu meco villano e screanzato. Ho quindi
per me lo sdegno dell'orgoglio offeso e la coscienza del mio buon
diritto. Inoltre, avessi anche torto, le confesso che non credo sia nato
ancora l'uomo che possa incutermi un timore od una soggezione.

Gian-Luigi diceva codesto con tanta semplicità e con una sicurezza così
spoglia di jattanza che il conte avvertì quella essere la pura e
semplice verità.

— Quanto poi alla sicurezza del mio polso....

Adocchiò sopra il tavolino che era in mezzo alla galleria una di quelle
piccole pistole a solo cappellozzo, che si dicono di salon, colla quale
la _Leggera_ si divertiva a tenersi la mano e l'occhio esercitati al
tiro, e fu a prenderla.

— To', continuò Gian-Luigi, ecco che posso dargliene tosto una prova.

Caricò la pistola d'uno di quei cappellozzi colla pallina di piombo,
ond'era piena una scatoletta che trovavasi su quel medesimo tavolino,
poscia fattosi ad un capo della galleria guardò verso l'estremità
opposta qual oggetto potesse prendere per punto di mira.

— Guardi: riprese additando colla pistola un gruppo di fiori in fondo
alla galleria; guardi quella ciocca di azalee; la vorrebbe farmi il
favore d'indicarmi quale di quei fiori ho da abbattere col mio colpo?

Il conte, miope com'esso era, pose a cavalcioni sul naso il suo
occhialetto a molla e guardò attentamente quel ramoscello fiorito.

— Questo qui: diss'egli poi additando uno di quei fiori che pendeva
frammezzo a due fogliuzze.

— Bene!

Gian-Luigi chinò la pistola, e parve non aver nemmanco il tempo di
mirare, si tosto sparò.

Il conte s'accostò frettolosamente al cespuglio. Il fiore da lui
additato era sparito, senza che nè l'una nè l'altra delle due frondi in
mezzo a cui si trovava fosse menomamente scalfitta.

— Bel colpo! Diss'egli approvando anche con un cenno del capo. Bel colpo
davvero!

Il _medichino_ gettò là quell'arma da giocattolo e si riavvicinò al
conte.

— Credo poter dare per sicuro di colpire nove volte su dieci.

— Cospetto! Esclamò il conte guardando coll'occhialetto la faccia
tranquilla di Gian-Luigi. Ed a quel povero San-Luca, gli vorrà Ella fare
molto di male?

Gian-Luigi mosse le labbra ad una smorfia quasi disdegnosa:

— Peuh! diss'egli, il meno possibile. Lo colpirò nell'avambraccio. Io
non avrei voluto fargliene affatto di male; ed è perciò che dapprima fui
così rimesso con Lei che Ella signor conte me ne avrà stimato fin troppo
pacifico. Ma poichè, dal contegno che Ella ha tenuto con me, ho dovuto
accorgermi che il signor San-Luca aveva le fiere intenzioni d'un
gradasso ho deciso di lasciargliene un ricordo che lo ammonisca per
l'avvenire ad essere meno insolente prima e meno tenace di poi nella sua
prepotenza....

In questa un'ondata di voci allegre ed un rumore di stoviglie e posate
giunse sino alla galleria dove stavano i due nostri interlocutori.

Il _medichino_ s'interruppe:

— Ve' che gli altri sono già a cena; andiamoci anche noi senza altro
indugio.

Passò il suo braccio sotto quello del conte con una certa famigliarità
da compagnone, che in quel punto non fu trovata sconveniente
dall'orgoglioso aristocratico, non disposto a tollerarla da chicchessia,
e s'avviarono di conserva verso la stanza da mangiare.

Il programma che Gian-Luigi s'era prefisso fu eseguito appuntino in ogni
sua parte. Il domattina il povero San-Luca riceveva una palla nel
braccio, che lo condannava a venti giorni di malattia; il _medichino_
diventava più famigliare di prima con i due padrini del suo avversario,
il conte Langosco e il marchesino di Baldissero; un mese più tardi si
faceva una specie di festino di riconciliazione cui pagava il conte
San-Luca, il quale così la pagò in tutte le maniere. Nessuno più dei
nobili frequentatori del salotto e del palchetto della contessa, ebbe la
menoma velleità di mostrar disprezzo o fare pure una sembianza
d'oltraggio al dottore Luigi Quercia.

E Candida? Quella sera medesima in cui aveva luogo la contesa fra
San-Luca e il suo amante, ella si struggeva dal desiderio di ritrarsi
presto a casa, affine di leggere quel biglietto che Gian-Luigi le aveva
detto essere nella scatola di dolci. Lo spettacolo, la compagnia e la
conversazione dei visitatori, il rumore ed il caldo della sala, tutto la
impazientava maledettamente. Avrebbe voluto andarsene tosto: ma non
l'osava. Dopo ciò ch'era intravvenuto nel suo palchetto, che cosa
avrebbe detto il _mondo_ del suo sollecito ritirarsi? Quel complesso di
persone indifferenti e maligne, all'autorità delle cui sentenze tutti
vanno soggetti, agli strali delle cui ciarle tutti sono bersaglio, quel
mostro indefinibile di mille lingue che chiamasi il _mondo_, che tutto
vuol sapere, che tutto vuole indovinare, che si piace sciorinare ad
oggetto di maldicenza i più riposti segreti; che all'uopo anche li
inventa per generosamente regalare a questi ed a quelli le morali
magagne ond'egli si diletta; il _mondo_ avrebbe fatto le più maliziose
induzioni; ed essa che aveva il coraggio di fronteggiare i giusti
richiami e i legittimi rimproveri che potrebbe farle il marito, come ne
avrebbe affrontata anche la collera, se il conte fosse stato uomo da
dare in escandescenze, ella si arrestava intimorita ed esitava innanzi
al susurrio delle ciarle mondane.

Finalmente, come a Dio piacque, giunse l'ora in cui ella poteva levarsi
dal suo palchetto senza fare stupire i cannocchiali degli abbuonati e
destare le non caritatevoli induzioni delle signore. Rispose con nervosa
rapidità alle strette di mano, ai saluti, ai sorrisi dei suoi
corteggiatori; avvolta nel suo mantelletto impellicciato, fece di volo
quel po' di scale, si precipitò nella carrozza di cui un lacchè le
teneva aperto lo sportello sotto l'atrio, e rincantucciatasi in un
angolo, trovò che i cavalli camminavano troppo lentamente, quantunque
col loro trotto serrato in meno di cinque minuti la conducessero sotto
l'ampio portone del palazzo di Staffarda.

Salì correndo sino al piano superiore, s'affrettò a recarsi nel suo
camerino da acconciarsi. Pose sopra la sua _toilette_ la scatola di
dolci che s'era portata seco, e gettò uno sguardo nello specchio, dove
le apparve la sua figura commossa colle sopracciglia corrugate. Gettò
via il mantelluzzo che teneva ancora sulle spalle e si portò ambo le
mani a quella bella fronte che le ardeva e doleva.

La sua cameriera le si avvicinò in quella, e Candida levando il capo ne
vide l'immagine riflessa entro lo specchio. Si rivolse di scatto e disse
con accento corrucciato:

— Che volete? Che fate costì?

— Sono qui per ispogliarla...

— No.... non voglio nessuno... Lasciatemi... farò da me... voglio esser
sola.

La cameriera uscì di stanza, ma ch'ella si astenesse dall'ascoltare alla
porta non oserei affermarlo, imperocchè la ci tenesse molto a soddisfare
i desiderii manifestatile da Gian-Luigi.

Candida, quando la cameriera fu uscita, s'affrettò ad afferrare la
scatola de' confetti e la rovesciò sopra il marmo della _toilette_, poi
con mano agitata frugò fra i dolci fin che trovò ed ebbe preso il
biglietto di Gian-Luigi. Lo aprì sollecita e lo lesse palpitando alla
luce delle candele che la fante aveva accese innanzi allo specchio. Il
primo sentimento in lei fu di sdegno.

— Gli è così che osa parlare a me? Alla contessa di Staffarda? Così
potrebbe adoperare con quella sua vile creatura tolta dal trivio, ma con
me? O Dio! Che ho mai fatto amando quell'uomo! Mi dice, come una
minaccia da spaventarmi, che si allontanerà per sempre da me... E
s'allontani!..... Sarà finita una volta! Avrò cessato di soffrire.... e
di arrossire per lui.... Si allontani....

Ma questa parola — non ostante lo stato d'eccitazione in cui la si
trovava — la seconda volta che essa la pronunciò le parve pungerla come
una spina al cuore. Lasciò cadere sul piano della _toilette_ la
letterina che teneva ancora fra le dita e si diede a passeggiare
concitatamente per lo stanzino tutto specchi e intagli di legno dorato.
La sua immagine riflessa alle due pareti dagli specchi, a quella poca
luce delle candele, apparivale come due spettri che l'accompagnassero
nelle sue mosse agitate. Si stracciò i guanti che aveva ancora alle mani
e li gettò per terra; si tolse rabbiosamente di capo i fiori che
l'adornavano e li buttò via. Si sentiva addosso come un malessere
materiale di cui le pareva avrebbe dovuto trovar modo a liberarsi. Andò
a sedersi alla _toilette_, appoggiò il bel braccio denudato al freddo
marmo di essa e guardò lungamente nello specchio la sua faccia pallida e
conturbata, la bella forma del suo busto scollacciato, l'eleganza delle
sue vesti da festa che stranamente contrastavano col rodimento che aveva
entro sè, colla commozione dolorosa delle sue sembianze.

— S'egli almeno mi amasse! Esclamò ella: ma no: sento ne' suoi modi,
anche ne' suoi detti più caldi che manca l'amore. Oh essere pareggiata a
quelle ignobili donne!..... Ah! se m'amasse davvero, come tutto il resto
gli perdonerei!...

Riprese in mano la lettera e la lesse di nuovo. Un subito rimutamento si
fece in essa.

— Egli ha ragione, proruppe. Non ho io ascoltato più la mia boria che
l'amore? Non ho ceduto al timore del _mondo_?... Egli si afferma degno
di me... Oh! se potesse persuadermene....

Il domani a mattina la contessa, vestita modestamente di scuro con una
fitta veletta sulla faccia, recavasi sollecita in un'umile casa posta in
una viuzza remota della parte più antica della città, e per una scaletta
deserta saliva ad un primo piano dove intromettevasi per un uscio
socchiuso, cui serrava sollecitamente dietro di sè.

In quella camera, ove così di celato recavasi la contessa di Staffarda,
stava ad attenderla Gian-Luigi, istrutto già quella stessa mattina dalla
cameriera dell'agitazione e delle emozioni che, la sera innanzi, il suo
biglietto aveva prodotte nella misera donna.

Il _medichino_ era trascuratamente sdraiato sopra una poltrona presso il
fuoco che ardeva nel camino. Al vedere entrare la contessa si alzò, ma
non le mosse incontro, non le tese la mano, non fece atto alcuno di
gioia, non le diede altrimenti la benvenuta che inchinandosi con un
cerimonioso saluto, mentre il suo occhio la squadrava freddamente con
una fierezza accusatrice.

Candida, quella notte, che aveva dolorosamente vegliato, quella mattina
nel decidersi a venire colà, lungo la strada, che in fretta percorse
combattuta l'anima fra la speranza ch'egli pur venisse al convegno e fra
il timore che secondo quanto aveva scritto non ci si recasse; Candida
aveva pensato mille modi, e tutti diversi, di contegno da tenersi con
esso lui; ora un orgoglioso disdegno, ora una benignità da superiore,
ora una indifferenza da umiliarlo, ora una dignità di generoso condono;
ma quello che tenne in realtà fu il contegno a cui non aveva pensato e
che era il più naturale: fu quello d'un'amante appassionata che teme,
l'uomo da essa amato, voglia rompere il nodo che li stringe.

Da parte dell'uomo fu l'orgoglio, la superiorità, la freddezza: ella,
appena entrata, appena visto l'aspetto severamente contegnoso di lui,
dimenticato ogni altro suo proponimento, erasi gettata al collo del suo
diletto e diceva in preda al suo commovimento, più forte della volontà
d'ogni preconcetto disegno:

— Tu sei pur venuto, Luigi, e siine benedetto... Se qui non ti avessi
trovato, sarei corsa a casa tua... Avrei insistito in ogni modo fin che
avessi potuto giungere presso di te... E se tu mi avessi inesorabilmente
respinta... Dio mi perdoni!... Non so qual peggior pazzia non avrei
fatta!

— E il mondo? Disse Gian-Luigi con un crudele sogghigno.

Candida scosse il capo ed arrossì come persona cui si rinfaccia un suo
fallo.

— Il mondo? Riprese ella, quasi con isdegno. Che mi importa di esso mai?
È il tuo amore che voglio.

Passò di nuovo il braccio intorno al collo di Luigi e soggiunse con
appassionato abbandono:

— Vuoi tu ch'io lo lasci — e per sempre — questo mondo maledetto? Vuoi
tu ch'io sia tutta per te e solo per te?

Gian-Luigi si tolse d'intorno al collo quel braccio leggiadro che lo
cingeva:

— No: diss'egli: chè forse codesto avresti da rimpiangere un giorno.

Le prese le mani e glie le strinse forte sul suo petto, guardandola con
quella potenza, ond'erano dotati i suoi occhi neri, di far penetrare in
altrui la sua volontà.

— Voglio che tu non mi sacrifichi a questo mondo, che in presenza di
esso non ti vergogni di me, che non faccia comunella coi miei nemici per
umiliarmi della supposta inferiorità della mia condizione.

Candida fece un atto come per protestare; ma egli, stringendole con più
forza le mani, non lasciò che parlasse.

— Io mi sento dappiù di tutti quei burleschi gentiluomini della tua
società che non hanno oramai nulla del cavaliere fuor che i titoli e la
superbia. Voglio che tu non solo riconosca in te stessa che così è: ma
che non nasconda, come una colpa, l'averlo riconosciuto; voglio che i
tuoi modi non dieno ansa all'impertinenza di quei scimiotti a trattarmi
come io non tollererò mai che nessuno mi tratti, da inferiore, perchè io
mi sento inferiore a nessuno.

— Ma io.....

— Tu ieri sera fosti complice di quell'imbecille di San-Luca, la cui
oltraggiosa superbia ho dovuto punire questa mattina con un colpo di
pistola.

La contessa fu presa da un subito sgomento retrospettivo.

— Che? Esclamò essa. Tu ti sei battuto!... O cielo! Esporti così al
pericolo... E non hai pensato a me? Oh che cosa sarebbe avvenuto di me
se alcuna disgrazia t'avesse colto!

— Ho pensato al mio onore: disse asciuttamente Luigi: ho pensato al mio
giusto risentimento. Ora il contino espia la sua sciocca insolenza con
una ferita nel braccio...

— E se io ho alcuna colpa, tu me la fai espiare più crudamente ancora
col tormento che mi dànno le tue parole, il tuo contegno.... Se tu
sapessi che brutta notte ho passata in seguito alla tua lettera!... Ma
tu non vuoi aver nissun riguardo, non vuoi comprender nulla delle mie
condizioni!... Che vuoi tu, che pretendi tu da me? Che io confessi
pubblicamente aver per te mancato ai miei doveri, ai miei giuramenti,
alla dignità del mio nome?... Oh va, che tu sei ingrato verso una donna
che ha tutto sacrificato per te.

Luigi la interruppe con brusca violenza:

— Sacrificato, sacrificato!..... Tu pronunzi una parola che è un
sanguinoso ed ingiusto rimprovero... Tu credi che da parte tua sia tutto
il merito d'esser discesa fino a quest'umile individuo... Ma da parte
mia credi tu che nulla siasi dovuto, che nulla debbasi fare oltre ciò
che mi conviene, oltre ciò che io possa coi mezzi miei, per vivere nella
tua sfera, per seguirti con passo pari in questa costosa esistenza?

La contessa fece un moto di stupore e parve voler parlare. Ma egli non
glie ne diede il tempo. Lasciò le mani di lei che teneva ancora fra le
sue, e dirizzandosi della persona con mossa piena di orgoglio,
soggiunse:

— Io sono il figliuolo delle mie opere; non ho da un patrimonio
inalienabile, trasmessomi dalle prepotenze de' miei maggiori, guarentito
l'ozio e il soddisfacimento dei miei vizi e della mia vanità... Chi può
indovinare i sacrifizi che mi costa questo lusso, il quale mi è
condizione indispensabile per accostare la contessa Langosco?

Candida sentì una specie di gelo insinuarsele nel sangue. In quale
quistione bassamente economica andava ad impigliarsi la discussione!

— Che vuoi tu dire con ciò? Spiegati..... Tu non sei ricco, tu hai fatto
dei debiti?

— Io ho tutta una falange di difficoltà contro cui lottare. Fra me e te
io vedo sorgere ad ogni istante mille ostacoli di varia natura, e tutti
li voglio vincere e li vinco; nè di questo contrasto continuo e doloroso
mi lamento o mi stanco..... Ma tu, perchè mi faresti più scabra la via,
meno sicuro il coraggio concorrendo a ferirmi nell'intimo del mio amor
proprio?

Candida ebbe un movimento dell'anima, quale avrebbe avuto ogni altra
donna innamorata. Immaginò che il suo amante sostenesse crudeli
privazioni per poter mantenersi in quella vita dispendiosa della società
elegante dov'ella lo aveva trascinato. Un rincrescimento accompagnato da
un generoso impulso di venire in di lui soccorso, la fece prorompere
nelle seguenti parole:

— Ma io sono ricca!... Ma io posso venirti in aiuto. Tu forse hai
sofferto!... Oh perchè non mi hai tu detto nulla mai?

Gian-Luigi fece un atto d'orgoglio offeso:

— Io domandare?... Io!! E lo penseresti forse? Ed ella per rimediare a
quel nuovo colpo che pareva aver portato all'anima di lui, con infinito
amore, quasi supplichevole:

— Ma non sono io tua? E tu non sei mio? Quello adunque che mi
appartiene, a te appartiene...

Il _medichino_ sembrò commoversi alquanto. La guardò con occhio ch'ella
trovò intenerito ed amoroso, le disse coll'accento più seduttivo della
sua bellissima voce:

— Che tu sii benedetta per queste parole... In esse ho sentito il vero
amore. Sì, tu sei mia ed io son tutto di te fino alla morte... Ma ciò
nulla meno io non posso nulla accettare delle tue offerte. L'onore,
quale lo fabbricano gli uomini, mi vieta di dare a te e di riceverne
questo, che tra amici è uno dei migliori contrassegni di fiducia e di
affetto. A me in ogni cosa si conviene lottar solo, lottare finchè le
forze, la mente, l'audacia mi accompagnino, e quando l'accumularsi delle
avverse circostanze impedisca ogni mezzo di scampo, non resta che
sentire il freddo contatto d'una canna di pistola alla tempia, un lampo
di dolore, e poi precipitare nel mistero della morte...

— O cielo! Che di' tu?... Ah no, per amor di Dio!... Oh vorresti tu
troncar ad un colpo due vite?... A me non pensi, crudele!... A me che
tutto ho posto in te, nell'amor tuo?... Oh che non farei io per renderti
dolce e cara la vita? Come? Il mio amore non potrebbe nulla, niente
affatto per recarti pure un sollievo?... Senti, Luigi, te lo dico dal
fondo dell'anima mia, e tu devi riconoscere nel mio l'accento della
verità..... — Io son pronta a tutto per te. Vuoi tu che fuggiamo insieme
per vivere ignorati e modesti in qualche solitudine lontana?

Luigi scosse mestamente la testa.

— Vuoi tu che chiuda l'uscio del mio salotto a tutti, che non compaia in
nessun luogo più, che rinserri la mia vita qui in questa camera dei
nostri ritrovi?

— No, no; ti ho già detto che forse te ne pentiresti un giorno di poi.

— Oh no, te lo giuro... purchè tu mi ami!

— Tua natura e tuo destino sono di brillare in mezzo agli sfarzi sociali
fra cui sei nata. Perchè ti imporrei io il sacrifizio di sceverarti da
essi? Continua nella tua carriera di luce: io ti seguirò finchè mi
basteranno le forze.

Per quella volta siffatto colloquio non ebbe altra conclusione; ma la
contessa si partì di colà con una spina nel cuore. Luigi per causa di
lei trovavasi costretto a penosi imbarazzi finanziari, ed ella voleva ad
ogni modo venire in suo soccorso. A questo intento cercò di avere a sè
l'uomo che serviva il _medichino_: una strana faccia che a primo aspetto
ti pareva da melenso, a chi lo esaminasse per bene compariva da
mariuolo. Questa figura avreste potuto vedere nella bettola di Pelone,
entro quella camera riservata dalle tendoline rosse ai cristalli
dell'uscio, far parte di quella specie di sinedrio, in mezzo al quale ci
è apparso la prima volta il compagno d'infanzia di Maurilio; ed allora
non lo avreste visto verso Gian-Luigi nelle relazioni di domestico a
padrone, ma di pari a pari, con alcuna deferenza però come a capo, a cui
il proprio consentimento ha accordata una certa autorità.

Questo pseudo-servitore, certo d'accordo col giovane, dopo finto mille
tergiversazioni e mille ritrosie, si lasciò strappare dalla contessa il
segreto cui aveva una gran volontà di svelarle: che cioè Luigi era
perseguitato per alcune cambiali in iscadenza da certi creditori, i
quali poi facevano tutti capo ad un famoso usuraio, primo di tutti gli
usurai, quel falso sant'uomo di messer Nariccia.

La contessa non rimase guari a prendere la sua decisione, volle vedere
essa stessa questa tremenda arpia che, a detta di quel domestico, aveva
in pugno la sorte e la libertà del suo Luigi; e siccome la non voleva
che un simile personaggio entrasse nel palazzo Langosco, un dì, vestita
di scuro eziandio e colla veletta fitta in sugli occhi, come quando
recavasi agli amorosi convegni, ella fu a visitare l'ipocrita usuraio,
la cui abitazione già conosciamo pel racconto di Maurilio.

La gita della contessa al covo di Nariccia non si rimase pur troppo ad
una sola. Di quando in quando la fronte annuvolata di Luigi, la parola
sarcastica, alcune maledizioni alla sua sorte, ammonivano la povera
Candida che qualche nuova difficoltà finanziaria sbarrava il cammino al
suo amante: ed una volta appresa la strada della casa dell'usuraio, non
c'era più ragione per tenersi dall'accorrere a cercare colà il rimedio
al male e la salvezza pei pericoli che minacciavano il suo diletto.

Le sostanze della figliuola del barone La Cappa consumavano intanto come
un mucchio di neve al sole, assalite dall'una parte dall'amante,
dall'altra dal marito, il quale non aveva bisogno di alcun diretto
intervento della moglie per ispiccare e fondere al crogiuolo del giuoco,
i buoni pezzi di quella fortuna, stante la procura generale ch'egli
aveva ottenuta da lei nel modo che abbiam visto.

Ah! se il padre di Candida avesse mai saputo una cosa simile! Ma in ciò
andavano pienamente d'accordo marito e moglie, che ogni cautela era da
loro adoperata per nascondere la verità al barone, il quale viveva
felice nell'orgoglio di esser padre d'una contessa il cui blasone era
stato in Oriente al seguito del Conte Verde.

Fra il conte e il dottor Quercia le cose andavano di pieno accordo e il
più quietamente che mai. Amedeo Filiberto aveva in realtà posto una
certa affezione — l'affezione che può dare l'anima aridissima d'un
vecchio libertino, tipo di perfetto egoista — in quel giovane che
all'occasione era comparso così coraggioso, che mostrava in tutto che
facesse tanta destrezza, che in compagnia era sempre così allegro, che
si vantaggiava d'una distinzione naturale di maniere da parere poco
diverso da un gentiluomo allevato sotto l'ali di una primogenitura, che
aveva la squisita abilità di perder quasi sempre quando giuocasse contro
il marito della contessa Candida.

E da questa buona e domestica attinenza col conte di Staffarda, il
_medichino_ tirava per intero quel vantaggio appunto che aveva avuto in
mira, di fare cioè rispettare entro certi limiti dalla curiosità e dalle
investigazioni della Polizia il mistero della sua vita. Quest'argo dai
cento occhi, al quale è pure così facile accecarne cento e uno, aveva
bensì rivolta la sua attenzione a due personaggi che in due sfere
affatto diverse e così lontana l'una dall'altra, le si presentavano col
velo d'una specie di enimma; e questi due personaggi erano il
_medichino_ della bettola di Pelone e l'elegante dottor Quercia del
salotto della contessa Langosco. Del primo non avevansi che in nube
alcune confuse nozioni che potevano lasciare in dubbio perfino sulla
realtà dell'esistenza di quell'individuo, il quale appariva quasi un
mito nella sua qualità di centro, ispiratore e direttore di ogni fatto
di quella sorda guerra di delitti che muovono all'ordinamento sociale,
alla proprietà ed alla sicurezza dei cittadini la miseria, il vizio e
l'ignoranza della canaglia. Per quanto accortamente e con lusinghiere
promesse si fossero interrogati tutti i soldati di quell'esercito di
reietti che cascassero nelle mani della forza pubblica, intorno a
quell'essere misterioso, da nessuno mai erasi potuto ottenere una
risposta che mettesse sulle sue traccie; per quanto accurate indagini si
fossero fatte, per quanta abilità ed audacia di spie ed esploratori si
fosse adoperata, non si era potuto far capo a scoperta nessuna, e
quell'individuo rimaneva pur sempre nelle nebbie d'un mistero
impenetrabile, tanto che lo stesso commissario Tofi, espertissimo
poliziotto, non credeva alla esistenza di lui. Ma ben credeva ad essa il
più fine e destro segugio che avesse allora la polizia torinese, quel
Barnaba che abbiam visto nella taverna di Pelone.

Del dottor Quercia conoscevasi l'elegante quartieretto che abitava in
una delle strade principali della città, conoscevasi il modo dispendioso
di vita, sapevasi la sua abitudine e la sua fortuna forse soverchia al
giuoco, dal quale credevasi attingesse i mezzi di quella splendida
esistenza; ma quando la curiosità della Polizia aveva voluto penetrare
più in là nei fatti di lui, erasi trovata impacciata dalla qualità delle
attinenze che il giovane aveva nella classe più elevata e che allora era
onnipotente nella società torinese.

Gl'impiegati di Polizia erano poveri plebei che troppo temevano dover
perdere l'impiego quando eccitassero lo sdegno di un nobile protettore
di qualcheduno. La vessazione di quella Polizia, che non rispettava
quasi nulla di ciò che avrebbe dovuto essere rispettato, si arrestava
innanzi al timore di poter disgustare il marchese tale o il ciambellano
tal altro. Come osar commettere un atto arbitrario in danno d'uno che
viveva intimamente col conte di Staffarda, col marchesino di Baldissero,
col contino di San Luca ed altri parecchi di simil razza? E senza un
atto arbitrario si era già belli e certi, dalla sorveglianza che per
alquanto tempo si era esercitata su di lui, che non si sarebbe potuto
giungere a scoprir nulla sul conto del sedicente dottore, tanto erano in
sembianza regolari e tranquilli gli atti della sua apparente vita
abituale.

Ben si era tentato insinuare nella testa dura del conte Barranchi,
generale dei Carabinieri, e quindi a quel tempo capo supremo della
Polizia, alcuni sospetti riguardo a quel cotale, per eccitarlo a coprire
della sua potente risponsabilità alcuni dei soliti atti illegali da
farsi verso di lui. Ma il conte Barranchi per coprire una carica di sì
delicata natura non aveva altre qualità che la superbia e la prepotenza.
Alle prime parole fattegliene, aveva detto a suo modo, coll'accento di
un comando militare:

— Arrestatelo!

E poi all'osservazione che glie ne venne espressa, che quel giovane era
famigliarissimo dei tali e tali:

— No, cospetto; s'era affrettato a gridare: lasciatelo in pace...
Aspettate!

Quindi tenutosi per cinque minuti nella mano il suo mento quadrato in
attitudine di profonda meditazione, aveva soggiunto:

— Ne parlerò io col conte di Staffarda. Non prendete nessuna
deliberazione ed aspettate i miei ordini.

Il conte Langosco, quando il generale avevagli manifestato i sospetti
dei suoi agenti intorno al dottor Quercia si pose a ridere di tutto
cuore.

— Che cosa vi salta per la testa? Aveva risposto. Credete voi che io
voglia ammettere nella mia famigliarità un truffatore o un congiurato o
un qualche cosa di peggio? Quel bravo giovane è una persona ammodo, a
cui sarei dolentissimo se arrecaste il menomo fastidio.

— Basta, basta! Aveva risposto il famoso conte Barranchi, altrettanto
arrendevole verso i potenti, quant'era duro ed intrattabile coi deboli.
Poichè voi, conte, me ne parlate in questa guisa, non ho più nulla da
dire.

A tutti gli agenti fu dato ordine di non molestare menomamente in nessun
modo diretto, nè indiretto il dottor Luigi Quercia.

Non ostante codesto uno di quegli agenti non si era tuttavia affatto
persuaso che sotto la esistenza del pseudo-dottore non ci fosse un
mistero, e che questo mistero non interessasse la Polizia; e questo
agente era quel tal Barnaba, il quale esercitava il suo mestiere con una
vera passione, di quella guisa che un valente artista professa la sua
arte. Egli per un istinto della sua natura di poliziotto, per una
inspirazione del suo ingegno attivissimo ed eminente in quest'ordine
d'idee, era presso che sicuro nel suo intimo come l'elegante dottore e
l'incognito _medichino_ fossero una persona sola. Certo non faceva egli
nulla che potesse motivare rimostranze e richiami del dottore, e quindi
suscitare la collera del conte Barranchi; ma non cessava di tenerlo
d'occhio; e per quanto le apparenze della vita e della condotta del
signor Quercia fossero innocenti, per quanto impossibile fosse il
cogliere in fallo quell'individuo, Barnaba non si stancava di vegliare e
dubitare. S'era persuaso anzi che fra sè e quel cotale intravveniva
quasi una tacita lotta, Quercia per sottrarsi alle ricerche di lui e
renderle frustranee, egli per penetrare in quel segreto che si ostinava
a supporre nella vita del sedicente dottore.

Laonde quando, la sera del ballo dell'Accademia Filarmonica, Barnaba
ebbe notato Maurilio, alla vista del dottore, fare un atto di sorpresa,
da cui il poliziotto argomentò che fra quei due correva alcuna
attinenza, pensò egli subitamente che in quel giovane, ancora
sconosciuto, incontrato dapprima nella bettola di Pelone e poi sotto
l'atrio del palazzo in cui aveva luogo la festa da ballo; che in quel
giovane, dico, la sorte gli aveva forse presentato un bandolo per
penetrare nel fino allora chiuso mistero della vita e del passato del
signor Quercia.

Quindi lo aveva ormeggiato; e, come ho narrato, s'era Barnaba intromesso
nella loggia della portinaia in quella casa ove abitava Maurilio coi
suoi amici. Ma prima di riferir qui il colloquio che intravvenne fra il
poliziotto e la portinaia, occorre ancora che ci soffermiamo nelle
splendide sale in cui aveva luogo la festa da ballo.



CAPITOLO XXVII.


Quella sera, al ballo dell'Accademia filarmonica, il conte Langosco,
dopo avere per un po' di tempo tenuta in iscacco la fortuna del giuoco,
n'era affatto vinto e perdeva a rotta di collo. Quel mucchio di monete
che al cominciare del capitolo XXII gli abbiam visto allato sul tappeto
verde del tavolino, era sparito affatto e da alcuni minuti il conte
giuocava su parola. La sua faccia non era mutata per nulla; soltanto un
po' più pallide forse si sarebbero potute dire le sue guancie, un po'
più accesi gli sguardi, più ironico il sogghigno; ma l'urbanità elegante
del tratto, era, se fosse stato possibile, ancora maggiore del solito.

La contessa sua moglie, appoggiata al braccio ora di questo ora di quel
cavaliere, era già venuta due volte fino presso ai giuocatori con una
aria che avreste detta inquieta, come di chi cerca e non trova, aspetta
e non vede arrivare. Ella cercava, ella attendeva il suo amante, il
quale tardava di troppo dopo la promessa fattale di venir sollecitamente
alla festa.

Amedeo Filiberto, ad ogni volta aveva salutato con amichevol cenno la
moglie e rivoltole alcune indifferenti parole in francese:

— Avete voi ballato? Siete già stanca di ballare? Vi occorre qualche
cosa? Fa caldo, non è vero?

Ed altrettali simiglianti.

La terza volta che Candida, accompagnata dal conte San Luca, ricomparve
presso al tavolino dove suo marito aveva perduto tutto il denaro
recatosi allato e stava perdendo con implacabile persecuzione della
sorte, Amedeo Filiberto le disse con isquisita galanteria:

— Ah sì, venite un po' qua, contessa, a recarmi fortuna. La vostra
benigna influenza sopravanzerà, ne son certo, questo maledetto _guignon_
che mi sta addosso.

Candida s'accostò con un cotal suo sorriso d'accatto che mostrava come
la sua mente fosse a tutt'altri pensieri rivolta e venne ad appoggiare
il nudo suo braccio bellissimo, bianco e ben tornito alla spalliera
della seggiola del conte. Colà il suo sguardo seguitava a scorrere per
tutta la sala ad ogni tavoliere, come se ad uno di essi dovessero pur
finalmente apparirle quelle sembianze che finora aveva in tutta la festa
cercato inutilmente.

Langosco prese sbadatamente le carte che gli venivano distribuite in
quella, ed il valore delle quali decideva di qualche centinaio di lire;
le guardò con un'apparente indifferenza e le ripose coperte sul tappeto
della tavola. Nella sua mano si sarebbe potuto notare quel certo tremito
nervoso che ho detto.

Mentre il banchiere distribuiva le carte agli altri puntatori e le
prendeva per sè (giuocavasi al nove), Amedeo Filiberto si volse al conte
di San-Luca per domandargli con tono affatto naturale di voce:

— Non avete voi veduto il dottor Quercia?

— No: rispose San-Luca.

Candida piegò gli occhi verso il marito senza nessuna esitazione, senza
nessun impaccio e disse:

— Non è ancora venuto. Credevo anzi trovarlo qui, perchè è più facile lo
attiri il giuoco che non la danza....

— Ah voi calunniate la sua galanteria e il suo buon gusto: interruppe
scherzosamente il conte. Il diletto del giuoco, sta bene per noi
attempati, ma per un giovinotto la musica, la danza, la compagnia e la
conversazione delle belle signore...

— Otto! Gridò il banchiere abbattendo le sue carte che facevano il
numero detto.

Il conte Langosco gettò nel mucchio colle altre le sue carte dicendo
freddamente:

— Ho perso; e se la consente raddoppio la posta.

Il banchiere fece un segno affermativo del capo.

— Cara contessa: riprese Langosco sorridendo con quella sua espressione
che pareva sempre una ironia; la fortuna non vuole lasciarsi commovere
nemmanco dalla vostra presenza, o piuttosto dove siete voi stima
superfluo il venire ancor essa.

— Vuol dire che mi mandate via?

— No. Tutt'altro! non vorrei rubarvi di troppo al piacere di ballare ed
all'ammirazione altrui.

— Ah! ecco il dottore! Esclamò ad un tratto Candida, la quale non potè
tanto dissimulare che un lieve rossore non le corresse alle pallide
guancie.

— Ah sì? Fece il conte alzando il viso e guardando al di sopra dei
coprilumi colle ciglia serrate a suo modo.

Gian-Luigi si avanzava il cappello a schiaccia sotto l'ascella,
guardando attentamente di qua e di là. Pareva, e forse era una finta,
che non avesse visto nè il conte nè la contessa, ed il suo passo
dirigevasi ad altra parte, quando il marito di Candida lo interpellò:

— Eh dottore, arrivate pur finalmente.

Quercia venne sollecito al tavolino dov'era il conte: salutò e strinse
la mano a Candida, a Langosco ed a San-Luca.

— Arrivo tardi, non è vero?

— Oh sì: disse Candida lanciandogli un'occhiata di rimprovero.

— Sì proprio: soggiunse il marito con un accento che avrebbe potuto
sembrare bonarietà a chi non conoscesse l'indole di quell'uomo.

— Spero tuttavia d'essere ancora a tempo per danzare una polka colla
signora contessa, e per giuocare una partita con lei, conte.

— Sicuro; disse vivacemente Langosco. L'aspettavo appunto per codesto.

— Vorrebbe Ella mettere il giuoco innanzi alla nostra polka? Domandò la
contessa, i cui occhi neri seguitavano a saettare rimproveri all'amante.

— Certo che no; e quando siasi ch'Ella voglia favorirmi...

— Subito: ecco appunto l'orchestra che incomincia a suonare.

Luigi offrì il braccio alla contessa, la quale vi pose sopra la sua
piccola mano inguantata.

Amedeo Filiberto alzò il capo e scoccando verso di loro uno di quei suoi
sguardi pieni di malizia, disse a Quercia mentre si allontanava colla
contessa:

— La non si dimentichi nelle delizie della sala da ballo la promessa
della nostra partita.

— Fra venti minuti sarò a mantenere la promessa: rispose Gian-Luigi, ed
uscì con Candida avviandosi al gran salone.

— Perchè sei venuto così tardi? Domandò senz'altro la contessa appena
allontanati di là, con molta passione. Dove sei tu stato? Mi avevi
promesso di venir presto.

— Non l'ho potuto per certi affari che mi capitarono: rispose Gian-Luigi
con una tranquillità che lasciava scorgere una certa impazienza ed un
fastidio per queste domande.

— Che affari? Tu non hai altri affari che i tuoi sollazzi.

— Ah contessa! Disse Luigi guardandola ironicamente. Voi siete troppo
curiosa.

Candida arrossì, e stringendo forte il braccio a cui si appoggiava disse
all'orecchio del suo compagno:

— Lo sai che sono gelosa, lo sai che soffro immensamente pensandoti con
altre.... Dimmi il vero. Tu sei stato da quella donna?

Quercia scrollò lievemente le spalle. Intanto erano giunti nella sala in
cui passava col bisbiglio delle conversazioni a mezza voce e col fruscio
delle vesti delle signore, il serpente della _queue_.

— Vuole che prendiamo posto nella _queue_? Disse Luigi alla contessa.

Questa lo trasse bruscamente indietro e lo guidò in un'altra stanza,
dov'era meno frequente la folla.

— Che, tu pensi ch'io voglia ballare? Diss'ella con accento di rampogna,
in cui c'era anche dolore. Sediamoci qui in quest'angolo, dove potremo
parlare più liberamente e discorriamo.

— Come la vuole: disse Gian-Luigi inchinandosi con fredda pulitezza.

In quel salotto non c'erano che pochi gruppi d'invitati. Sedute nella
cantonata opposta a quella dove si recò la contessa Langosco, erano due
donne, l'una attempata e l'altra giovanissima, che noi, tenendo dietro a
Maurilio, abbiamo già visto uscire dal loro palazzo in carrozza e salire
le scale dell'Accademia, voglio dire la marchesa di Baldissero madre del
marchesino, e la nipote di lei, madamigella Virginia di Casatorsa, una
delle più splendide bellezze in quei giorni della città di Torino.

Passando loro dinanzi la contessa di Staffarda aveva fatto un saluto, al
quale la giovane aveva risposto con tutta grazia e gentilezza, la
vecchia invece con un sussiego molto altezzoso e con un certo sguardo
trascinato, per così dire, dalla contessa al compagno ch'ella aveva, nel
quale sguardo eravi un complesso di cose — accusa e condanna.

Intorno alla marchesa ed alla bella nipote stavano alcuni giovinotti,
fra cui il giovane che abbiamo già conosciuto sotto il nome di Francesco
Benda.

Candida sedette e fe' cenno a Luigi le sedesse dappresso. Questi obbedì.

— Rispondimi: prese a dir tosto con accento concitato e volto acceso la
contessa: e rispondimi il vero: tu sei stato da quella donna?

— Che donna? Domandò Quercia giocherellando sbadatamente colla catena e
coi pendagli che gli luccicavano sul nero panciotto ricamato; ed intanto
tenendo il suo sguardo fisso sul gruppo di persone che si trovava
dall'altra parte della sala, in mezzo al qual gruppo splendeva, per così
dire, la perfetta beltà della contessina Virginia.

— E mi domandi quale? Sai bene a cui alludo. A quella zingara, a quella
perduta.....

— Non vi scaldate cotanto, contessa: disse tutto pacato Gian-Luigi. È
bene teniate a mente che qui non siamo soli e che il vostro sembiante
concitato può far nascere sospetto sul tenore del nostro dialogo e
curiosità in altrui di udirlo, e che la indignazione con cui parlate dà
alla vostra voce tanta forza da poter soddisfare quella curiosità più
che non convenga.

Candida si morse le labbra, tacque un momento innanzi all'aspetto
sorridente di Luigi, il quale parlavale colla guisa con cui si dicono i
complimenti e si sussurrano le galanterie alle signore; poi riprese
abbassando la voce:

— Ma rispondetemi almeno.

— Cara contessa, voi mi avete fatta una di quelle domande che una donna
non dovrebbe muover mai. Perchè mettere l'uomo che vi ama nella dolorosa
condizione o di mentire, o di darvi un dispiacere?...

— Ah dunque voi siete stato colà? Proruppe la contessa i cui occhi
lampeggiarono.

— No, questa volta non ci fui, ma avrei potuto benissimo esserci andato,
come mi avvenne per l'addietro e mi avverrà ancora per l'avvenire.....

Candida si gettò verso lo schienale del sofà dove sedeva, allontanandosi
così da lui che le parlava chino verso di essa.

— Ah Luigi! Diss'ella con voce turbata da non lieve emozione, voi siete
crudele.

— No, sono sincero. Del pari che vi dico di avere un certo interesse a
continuare quell'attinenza, vi affermo che al presente non c'è nulla fra
me e quella donna, che possa rassomigliare ad un rapporto amoroso.

— Al presente? Esclamò Candida con amarezza.

— E non vi basta? Del passato che cosa vi deve importare?

— Sì, m'importa. Vorrei poterlo distruggere tanto bene che non ve ne
rimanesse pur la memoria. E poi chi mi guarentisce intorno l'avvenire?

— Eh! che queste rifritture io non le faccio più.

La contessa si ridrizzò della persona con un sobbalzo.

— Ah! voi confessate finalmente!...

— Confesso, confesso: disse Luigi impaziente.

— Non mi negaste finora di aver amato quella donna? Non mi diceste pur
anco di averla voluta accostare soltanto per aver occasione di legarvi
con mio marito?

— E così è...

— Menzogna! Voi avete mentito...

— Candida!

— Lo so di sicuro. Mi sono informata. E chi mi assicura che non
mentirete nell'avvenire, che non mentiate anche adesso?

— Mia cara, torno a pregarvi a moderare la vostra voce e l'espressione
della vostra fisionomia. Per quella dozzina di paia d'occhi che son qui,
pensate che gli è tutta Torino che ci guarda.

— Luigi: riprese dopo un poco la contessa con accento quasi
supplichevole. Tu mi dicesti più volte di amarmi.

— Sì, e te lo dico anche adesso.

— Ebbene, dammene una prova, che per me varrà più d'ogni qualunque
dichiarazione e protesta.

— Che prova? domandò Quercia, tornando nella sua aria sbadata.

— Non andar più da quella donna...

— Eh via! Queste le son bambinate.

L'accento di Candida divenne affatto supplichevole.

— Contentami in codesto, diss'ella, mettendo la sua mano su quella di
lui, te ne scongiuro.

Egli tolse via la sua destra e rispose con tono in cui cominciava ad
apparire l'impazienza:

— Ti ho detto che avevo un certo interesse a continuare le mie gite in
quella casa.

— Che interesse?

— Questo non te lo posso dire.

— Luigi, ti prego dal fondo dell'anima, dammi questa prova d'amore.

— Non posso.

— Io sono gelosa, lo sai, tremendamente gelosa di tutto e di tutte.
Vorrei poter occupare io sola intiera la tua vita e la tua anima e il
cuore. Sono gelosa anche del passato. Perchè sei tu venuto a destarmi
quest'amore, se non volevi corrispondergli alla pari? Quando tu
manifestasti alcun desiderio, non mi sono io affrettata ad
acconciarmivi? Non ti domanderò nulla mai più; ma ora consenti a questo
mio desiderio.

La fisionomia di Quercia era degna di nota in quel punto, chi avesse
saputo esattamente osservarne la duplice espressione. Mentre le
sembianze del viso erano atteggiate a quella graziosità un po' leziosa
con cui si ascoltano dai vagheggini le parole di una bella signora, lo
sguardo ch'egli faceva piombare sulla sua interlocutrice, era freddo,
duro, quasi minaccioso.

— Via via, che cos'è questa insistenza? Se ti affermo che non hai nulla
da temere in codesto, non ti basta?

— No. E come puoi tu esitare per sì poca cosa? Non ti ho io dato
l'esempio di cedere a tutti i tuoi desiderii?... Innanzi a quale
sacrifizio ho io indietrato?

— Ah! ci siamo colla famosa parola dei sacrifici; che vuoi tu
rinfacciarmi con essa?

La fronte di Luigi era solcata da quella tal ruga che conosciamo, e il
suo occhio erasi fatto ancora più minaccioso.

— Nulla, nulla: s'affrettò a dire la povera donna quasi sgomentata. Non
ti rinfaccio che una cosa sola... il poco amore che tu hai per me. Se tu
mi amassi com'io t'amo, come forse meriterei, non esiteresti a fare a
mio senno in quella poca cosa che ti domando.

— E lo farei se ne fosse il bisogno o ne valesse soltanto la pena; ma
qui non accade nè l'una cosa nè l'altra.

Erano ancora in questi discorsi, quando il conte Amedeo Filiberto
comparve sulla soglia aguzzando secondo soleva il suo sguardo per vedere
entro la stanza. Vide dapprima la marchesa di Baldissero con intorno la
schiera dei corteggiatori di sua nipote, e si diresse verso quella
parte.

— Eh buon giorno, marchesa: diss'egli stringendole la mano. Voi state
bene? Ne godo infinitamente. Madamigella Virginia, ricevete gli omaggi
della mia servitù... Sapete marchesa che sono in via d'una spedizione da
argonauto?

— Alla ricerca d'un vello d'oro?

— Alla ricerca di mia moglie.

— Ah!

La marchesa si morse le labbra per frenarvi l'epigramma che stava per
iscoccarne.

— Non l'avete per caso veduta, marchesa?

— Sì: disse la marchesa mettendo agli occhi il suo occhialino a doppia
lente per guardare intorno. Siete più fortunato che non vi meritiate.
Eccola appunto là.

Amedeo Filiberto si volse: pose anch'egli nell'occhio il suo disco
rotondo di vetro, che gli serviva da occhialino e guardò.

— Sicuro. La è là. Vi ringrazio, marchesa.

E andò senz'altro presso Candida e Quercia.

— Ah siete qui voi altri? Avevo bel cercarvi nel salone delle danze.

Luigi si alzò in piedi:

— Stia, stia comodo: soggiunse il conte. Siete stanca di ballare,
contessa?

— Sì: rispose asciuttamente Candida.

— Allora non avrete difficoltà di cedermi per un poco il vostro
ballerino.

— Volete lasciarmi qui sola?

— Ecco la marchesa di Baldissero con un cerchio di cavalieri. Vi
lasciamo in buona compagnia.

Candida si alzò ancor essa. Aveva una nube di tristezza e di contrarietà
sulla fronte, parve voler soggiungere alcune parole, ma poi non disse
nulla: gettò uno sguardo di indefinita espressione verso Gian-Luigi di
cui il conte pigliava famigliarmente il braccio per trarlo seco e
s'accostò lentamente alla marchesa di Baldissero.

— Caro Quercia, disse il conte, io non ho mai avuto la disgrazia che mi
perseguitasse tanto quanto stassera. Ho perduto con una pertinacia
impossibile. Ho bisogno d'una rivincita.

— E la viene da me per farsela dare: disse Gian-Luigi mezzo ironico,
mezzo scherzoso.

— Vengo a domandarle aiuto e consiglio.

— Aiuto? In che modo?...... Vuol forse domandarmi in imprestito?...

Il conte non lasciò che finisse. Tolse via da quello del dottore il
braccio che vi appoggiava su e disse con un vivo sentimento d'alterigia
vestito però della massima cortesia:

— Oibò! Per cotesto so bene a cui rivolgermi. Il consiglio è questo.
Devo io ancora ostinarmi ad affrontare questa _diablesse_ d'una fortuna?
Se sì, Lei che ha d'ordinario sì prosperi successi al giuoco....

— Fuorchè contro di Lei, che mi guadagna sempre: interruppe Gian-Luigi,
guardando il conte con una cert'aria scrutativa e piena d'una finezza
indescrivibile.

Il conte fece un cenno grazioso d'assentimento, e continuò:

— Vorrebbe Ella ammettermi socio nel suo giuoco, accettando come messa
di fondi la mia parola? Ecco l'aiuto. _Ma foi_ le ho detto tutto.

— Molto volentieri: rispose Luigi. Vado a far banca durante un'oretta e
non più. I guadagni saranno a metà.

— Vado ad assisterla.

— No: disse vivamente il giovane. Preferisco esser solo a tagliare. Che
vuole? È una superstizione da giuocatore. Se qualcheduno, anche un socio
del mio giuoco, mi sta presso o tocca le carte, queste mi tolgono ogni
loro favore.

— Starò colà come spettatore soltanto.

— Anzi, faccia a mio senno, punti contro di me. Se la perde ne sarà
compensato nella divisione dei guadagni; se vince... tanto meglio per
Lei.

Entrarono nella stanza dove si giuocava. Gian-Luigi scelse un tavolino,
a cui il banchiere aveva le spalle al muro, così che nessuno poteva
venirgli dietro, e recandosi colà, disse al signore il quale stava
tagliando:

— Signore, avrei desiderio di succederle nella banca. Ha Ella intenzione
di continuare ancora, o si acconcerebbe a rimettere il posto?

Il banchiere alzò il capo per guardare chi gli parlava a questo modo.

— Ah! gli è Lei, dottore. Se perdessi sarei pronto a lasciarle la mia
seggiola per farle piacere: ma siccome sono in guadagno debbo a questi
signori la loro rivincita.

— Non si dia pensiero di ciò. La darò io a suo luogo a chiunque voglia
farmi l'onore di giuocare contro di me.

— Non ne dubito: disse alquanto seccamente il banchiere; ma ci tengo a
far da me quel che mi tocca.

— Allora non c'è che un mezzo per aggiustarla: disse con un cortesissimo
sorriso il dottore Quercia.

— Quale?

— Giuoco tutta la posta del banco e lo faccio saltare.

— Ah sì? E se invece la perdesse?

— Ripeterei il giuoco finchè mi riesca. Vuol Ella?

Il banchiere esitò un momentino: e poi la paura si dicesse aver egli
indietrato per poco coraggio innanzi a questa sfida, lo fece
acconsentire.

— Sia pure: diss'egli prendendo due nuovi mazzi di carte e rompendone
l'involto.

Gli spettatori che attorniavano quel tavolino, interessati a quella
specie di duello, fecero posto a Gian-Luigi, il quale venne a piantarsi
in faccia al banchiere e non sedette neppure, ma puntandosi con una mano
al tappeto verde, chinò alquanto la sua bella ed aitante persona e disse
con tanta semplicità:

— Ecco due mila lire in oro e otto mila in biglietti di banca
francese[13]. Li vuole accettare?

  [13] Allora non eravi ancora la Banca Sarda.

Il banchiere fè cenno di sì colla testa, sbirciando i rotoli di marenghi
e i pacchetti di polizze di banca che il suo avversario schierava
innanzi a sè.

— Non so neppure, diss'egli, se il fondo della banca giunga a tal somma.

— Non importa; rispose con indifferenza Gian-Luigi. Se perdo, conteremo
dopo; se guadagno io prendo senza contare.

Intanto il banchiere batteva le carte, e le sue mani tremavano un
pochino, quantunque la sua faccia tenesse un buonissimo contegno.
Quercia teneva fisso sul banchiere e sulle carte ch'egli maneggiava uno
sguardo intento, vivo, imperioso, che pareva doverne imporre
all'azzardo, cui non era possibile sostenere senza un certo disagio.

Dopo due minuti passati nel più alto silenzio, il banchiere pose innanzi
al puntatore le carte perchè tagliasse.

Luigi fece attendere un momentino, perchè aveva ancora da levarsi il
guanto paglierino che calzava la sua mano poco meno aristocratica che
quella del conte Langosco. Poi la destra di Quercia, al cui annulare
brillava uno splendidissimo diamante in una verga d'oro, si abbassò sui
due mazzi di carte battuti e raccolti insieme, e ci stette alquanto,
quasi come fa la mano d'un magnetizzatore che voglia far penetrare in un
oggetto il misterioso fluido; quindi come per subita ispirazione prese
il mazzo, lo battè alquanto egli stesso affrettatamente con tutta l'arte
d'una mano esercitatissima e lo ripose sulla tavola. Il banchiere tornò
a mescolare a sua volta le carte egli stesso: poi le ripose innanzi
all'avversario: Luigi vi battè sopra con un colpo secco della mano e
disse:

— Dia.

— Vuole che ne _brucii_?[14].

  [14] Si dice _bruciar carte_ il levarne dal mazzo una certa
  quantità che si gettano in mezzo a scarto e non si
  distribuiscono ai giuocatori.

Luigi fece un cenno negativo col capo.

Il banchiere esitò un momentino, come riflettendo a ciò che più gli
convenisse, poi, tenendo il mazzo colla mano sinistra, prese colla
destra un'alzata di carte e la gettò sul tappeto.

Poi gli occhi suoi interrogarono quelli dell'avversario, il quale rimase
impassibile. Allora il banchiere diede le due carte al puntatore e ne
prese due per sè. I giuocatori presero ambidue le loro carte raccolte
nel concavo della mano in guisa che nessuno le potesse vedere e
recatesele all'altezza dei loro occhi guardarono la prima e poi fecero
scorrere la seconda lentamente oltre la compagna, per iscoprirne a poco
a poco il numero dei punti, che è quello che chiamasi _filar la carta_.
Nè l'uno nè l'altro manifestò la menoma impressione che questo esame
avesse in loro prodotto. Quercia il primo posò sul tappeto le sue carte
ricoperte e si diede a guardare con quel suo occhio penetrativo la
faccia del banchiere. Questo eziandio depose le carte distribuitesi e
prese in mano il mazzo. Stettero così mezzo minuto ad osservarsi.

— Son disposto a passare: disse poscia il banchiere.

— Io no: rispose freddamente Gian-Luigi; e rovesciando le sue carte
scoprì un otto da fiori e un asse da quadri.

Il banchiere frenò un movimento di rabbia che gli fece sgualcire il
mazzo che teneva in mano; sforzò le sue labbra ad un sorriso e si alzò
tosto.

— A lei dunque, signor Quercia, il campo e le spoglie.

Gian-Luigi andò ratto a sedersi su quella seggiola che lo sconfitto
aveva abbandonata.

— Signori: diss'egli togliendo dal taschino l'orologio colla catenella e
i pendagli d'oro, e mettendolo innanzi a sè. Premetto che sia che io
perda, sia che guadagni, non terrò la banca più d'un'ora giusta da
contarsi cominciata in questo momento. Non rifiuto nessuna posta, ma
pregherei a non volerne fare di minori d'un napoleone d'oro; quanto più
grosse sieno, tanto meglio mi converranno. Il fondo di banca è di circa
venti mila lire.

Prese in mano i mazzi abbandonati dal suo precessore e ne raddrizzò le
carte state alquanto sgualcite: in quest'operazione pochissime carte gli
scivolarono di mano e caddero in terra. Egli si chinò in fretta a
raccoglierle.

— Io preferisco di molto tagliare con mazzi di carte non adoperati
affatto, e benchè questi non sieno stati battuti che una volta sola, se
loro signori lo desiderano, faremo portare degli altri mazzi, chè qui di
intatti non ce n'è più.

— Quei lì possono servire benissimo: disse uno che per la passione del
giuoco mal tollerava ogni indugio.

— Eh! se piace loro, piacerà anche a me: disse sollecitamente
Gian-Luigi; e il giuoco incominciò.

La banca ebbe una fortuna costante. Pochi vinsero fra i puntatori; fra
questi pochi il conte di Staffarda.

Trascorsa l'ora assegnata Gian-Luigi depose le carte, ricordò la
promessa che aveva fatto, raccolse le vistose somme che aveva dinanzi a
sè e lasciò intorno al tavolino i merli che gli era riuscito di
bellamente spennare.

Il conte Langosco gli tenne dietro quasi subito.

— La serata è stata buona: gli disse Gian-Luigi che lo attendeva, e lo
condusse seco nel vano d'un finestrone. Ecco dodici mila lire che le
spettano come sua parte.

Amedeo Filiberto si trasse in là e non porse la mano a ricevere i rotoli
di monete d'oro che l'altro gli porgeva.

— Un momento: diss'egli. Abbiamo da levarne quel tanto che ho guadagnato
puntando.

— Eh via! Si ha manco da discorrere di queste cose. Abbiamo fatto metà
dei guadagni, eccole la metà.

— Bene! Disse il conte con qualche malavoglia. Come la vuole. Ma se le
tornasse più comodo, invece di darmi tutta la somma in numerario, mi dia
pure di quelle polizze di banco.....

— No: interruppe il giovane, il cui occhio si piantò entro quelli del
conte con istrana acutezza scrutatrice: dei biglietti ne ho bisogno io
per certe mie faccende.

Il conte prese i denari che Gian-Luigi gli offriva, e poi si partì da
quest'esso per andar tosto a pagare alcuna di quelle perdite che aveva
fatto su parola. Ma la sua fronte era alquanto annuvolata, e quei denari
pareva che gli pesassero oltre il dovere nelle tasche. Aveva egli
vergogna di aver acquistato in quel modo un capitale relativamente
vistoso? di avere stretto quella società? C'era un po' di codesto, ma
c'era anche in fondo in fondo un'ombra indefinita di sospetto, che per
la prima volta gli si era affacciata, che la fortuna dell'elegante
dottorino era stata troppa e troppo costante.... un sospetto a cui non
sapeva trovare fondamento di ragione, che si condannava esso stesso di
avere, che se fosse mai stato manifestato da altrui, egli avrebbe
vivamente combattuto, ma pure non poteva discacciare dall'animo.

Quei denari gli facevano veramente pena. Quando li ebbe dati a quelli di
cui n'era debitore, si trovò più libero, ma non più soddisfatto. Mai
denari vinti al giuoco gli avevano prodotto un simile effetto. Deliberò
quando Quercia giuocasse di non prender parte mai più al giuoco nè
contro a lui, nè dalla sua parte, ma di esaminarlo attentamente.

La superba marchesa di Baldissero fece appena un piccol saluto alla
contessa Candida che venne a sedersele dappresso, e continuò la sua
conversazione che aveva avviata con due vecchi militari pieno il petto
di insegne cavalleresche, e piena l'anima di boria aristocratica, mentre
vicino a lei la nipote era il centro d'un piccolo gruppo di cavalieri,
fra i quali il solo Benda non era titolato.

La conversazione della marchesa pareva intesa a bella posta per ferire
la moglie del conte di Staffarda. La si aggirava intorno alla
sconvenienza di certe relazioni, che obliando il loro decoro, alcuni
titolati consentivano a stringere nel mondo con gente da meno. La
marchesa parlava a voce un po' più alta di quello che forse sarebbe
stato strettamente necessario: e le sue parole avevano la fortuna di
colpire due delle persone presenti: la contessa Candida e il borghese
Francesco Benda.

— Sì, barone, diceva la marchesa continuando nel suo discorso: la
massima dei nostri antichi è pur sempre quella che si deve seguire, chi
vuole vivere dignitosamente e secondo le esigenze del suo stato:
conviene stare ognuno coi pari suoi. Io, per me, _j'enrage_, quando vedo
alcuno dei nostri farsi famigliare con tali che dovrebbero stare nelle
nostre anticamere o poco più: o peggio poi quando vedo qualche dama così
_oublieuse_ del suo sangue da lasciarsi avvicinare e corteggiare da
qualche figliuolo di non so chi, o notaio, o mercante, o va dicendo.....

Candida sentì a suo dispetto una vampa di rossore salirle alla fronte;
gettò sulla vecchia marchesa dalla faccia di pergamena uno sguardo che
l'avrebbe voluta incenerire, e si diede ad annasare il mazzo di fiori
che teneva in mano.

Le parole della marchesa di Baldissero erano arrivate anche alle
orecchie di quei giovani che attorniavano madamigella Virginia, e
profondamente avevano commosso uno di essi, il nostro amico Benda,
ricco, ornato d'ogni maggior vantaggio dell'educazione, colle più
eleganti e signorili apparenze, ma figliuolo d'un fabbricante. In quella
società aristocratica, nella quale a forza di tentare e insistere era
pur riuscito, se non a mettere stabile piede, a potervi fare delle
incursioni, aveva pur sempre sentito presso tutti verso di lui, quel
certo tono e quel fare che colla massima urbanità sa nulla meno
chiaramente esprimere a colui col quale si usa: — Badate che io sono il
tale de' tali e voi siete un nulla! — E molte volte aveva provato un
ribollimento interno, che se non era tale da farlo inalberare
violentemente contro quei modi, lo spingeva almanco a tutta forza ad
abbandonare quell'ambiente e ritrarsene per sempre. Ma una catena troppo
salda era quella che lo riconduceva, ancorchè riluttante, ad ogni volta:
l'amore immenso, violento, al di sopra d'ogni possibil freno della
ragione, una vera passione che gli aveva ispirata la impareggiabile
bellezza di madamigella Virginia.

La sera di cui discorriamo, quella offensiva superbia aristocratica era
già stata trovata maggiore ancora del solito dal povero Benda, il quale,
malgrado la contraria risoluzione che prendeva ad ogni momento, non
poteva trattenersi dal capitare presso la giovane aristocratica ed
aggirarvisi sempre dintorno, proprio come intorno all'ardente fiammella
fa la mal cauta farfalla.

Le parole della marchesa suonarono alle sue orecchie come un congedo sì
evidente, che suo primo pensiero fu di allontanarsi senz'altro —
beninteso per non ricomparir mai più, diceva egli fra se stesso. Ma non
osò farlo di botto: quelle parole dette in un discorso particolare a cui
egli non pigliava parte, dovevano passare come non udite da lui; e poi,
fosse caso, o benigno proposito della nobil fanciulla dall'animo
generoso, in quella la signorina gli rivolse la parola, e non glie ne
parve un'illusione una maggiore gentilezza, quasi potrebbe dirsi
dolcezza ch'ella aveva nell'accento e nello sguardo. Rimase; ma col
cuore ulcerato e desiderando fra sè che uno di quei giovani sprezzanti
gli desse una buona occasione di prendere la sua rivalsa.

Fra questi giovani nobili, il più acconcio a questo uopo era il cugino
di Virginia, il marchesino di Baldissero. E con lui diffatti, come già
sappiamo, avvenne la scena che interrottamente narrò ai suoi amici Benda
medesimo.

I suoni d'un'aria di danza giunsero sino a quella più riposta camera ad
avvisare i personaggi del nostro dramma, che si cominciava a ballare una
polka.

Benda porse la destra inguantata alla giovane e le disse con un inchino:

— Ecco la polka che Ella mi ha fatto l'onore di favorirmi.

Virginia rispose con un sorriso, e sorse in piedi.

Il marchesino di Baldissero, fece un passo innanzi, come per mettersi
frammezzo a sua cugina ed al cavaliere che le tendeva la mano.

— _Pardon!_ Diss'egli con accento che nella sua apparente cortesia
conteneva un'indicibile sprezzatura verso il Benda. Il signor avvocato
avrà la compiacenza di aspettare un'altra polka perchè questa ha da
esser mia.

Francesco volse verso il nobile uno sguardo che mostrava non domandar
egli di meglio che trovare in quell'incidente l'occasione d'un
conflitto.

— Questa compiacenza: diss'egli con tono in cui mal si celava il
risentimento: questa compiacenza sarebbe veramente troppa, e non mi
sento la forza di averla.

— _Qu'est-ce à dire?_ Domandò il marchesino levando il capo e inarcando
le ciglia.

La ragazza s'intromise colla sua dolce voce così melodiosa e col suo
sorriso così soave:

— Veramente questa polka la ho promessa all'avvocato Benda.

— Ah benissimo! Esclamò Baldissero con impertinente indifferenza. Ciò
non toglie che io non domandi di ballarne teco una parte.

La ragazza si volse verso il giovane borghese con un legger cenno del
capo, come per dire che in lui stava l'accordare o il rifiutare codesto.

Benda ebbe un istante la tentazione di negare asciuttamente ciò che il
marchesino domandava: ma mentre esitava nella risposta, il nobile si
affrettò a prendere il suo silenzio come un consenso.

— Siamo dunque d'accordo. Dopo il primo giro, l'avvocato mi farà il
favore di cedermi il tuo braccio.

Il borghese non seppe trovare altra risposta fuori quella di chinar
lievemente la testa. I giovani si avviarono tutti alla sala da ballo,
eccetto la contessa Langosco che si disse stanca e non volle accettar la
mano che le offriva un cavaliere. La marchesa si volse e le disse sotto
voce col suo accento mordente ed incisivo:

— Come? Ella preferisce star qui con me a tutti i trionfi della gioventù
e della bellezza che le spettano?

— Preferisco gli ammaestramenti dell'esperienza che potrei attingere
dalla sua conversazione s'Ella me la favorisce.

La marchesa la guardò d'alto in basso con aria sovranamente orgogliosa e
fece frusciare il ventaglio aprendolo e chiudendolo colla mossa elegante
con cui usava civettare leggiadramente venti anni prima.

— Ah sì! Ecco un sentimento che le fa onore. E difatti potrei dargliene
parecchi di questi ammaestramenti di cui mi pare la contessa Langosco
abbisogni.

— Nè v'ha chi sia meglio in caso di darli della marchesa di Baldissero.

— Senta, cara contessa. Non facciamo guerricciuola a ripicchi, che fra
noi non è il caso. Io provo un grande interesse per lei. La famiglia
Langosco e quella di Baldissero sono congiunte in parentela. Ogni
giovane donna d'altronde della nostra classe m'interessa..... e quando
vedo alcuna commettere delle imprudenze, vorrei poterla amichevolmente
ritrarre dal mal passo.

Candida si turbò, ma interruppe con accento offeso:

— Come crede Ella potere a me volgere ed applicare simili parole?

— Come? E non crede Lei che sia un'imprudenza il manifestare apertamente
l'impazienza e il cattivo umore d'una protratta aspettazione. E poi,
cessata quest'attesa, lasciare così facile il varco a interpretazioni
che si dovrebbe fare in ogni modo da escluderle circa certe attinenze?

Candida fece un moto. La vecchia marchesa le pose con gesto famigliare
l'estremità del suo ventaglio sopra il braccio.

— Permetta. Io non le parlo come una madre, nè come un confessore. Le
parlo da amica... una vecchia amica che non è molto severa... _Allez_. E
_mon Dieu!_ non è il male che si fa quello che merita maggior condanna,
ma quello che apparisce... Non dico già che vi sia il male, ma è molto
peggio che si mostri senza esservi, di ciò che sia quando esista e si
nasconda; _comprenez-vous?_ E poi, se una donna può disporsi ad
affrontare con coraggio certe permalosità sociali, alcune _pruderies du
monde_, conviene ancora che la cagione per cui la si espone a questo
modo sia tale da meritarlo.....

Candida era per rispondere alcuna parola quando Virginia entrò
frettolosamente, pallida e commossa, esclamando:

— Ah zia! Usciamo, torniamo a casa, ne la prego.

La marchesa si alzò non senza qualche sgomento.

— _Bon Dieu!_ Diss'ella. Che cosa è dunque capitato, _ma petite?_

Ed ecco quello che era avvenuto.

Benda e la signorina Virginia avevano appena finito il primo loro giro
di danza, quando il marchesino di Baldissero si presentava a farsi
cedere il braccio della sua nobile cugina, secondo l'ottenuta promessa.

Il giovane borghese, benchè assai a malincuore, si affrettò a lasciare
il luogo all'insolente blasonato; e mentre la nuova coppia s'avviava a
prender posto nella schiera dei danzatori, Benda udì il marchesino dire
a sua cugina:

— Fai molto male tu ad accordare delle danze a chiunque venga a
domandartene....

Ma non potè intendere la risposta che diede la signorina a bassa voce,
allontanandosi.

Quelle parole erano fatte per offendere profondamente un uomo che
sentisse la sua dignità, che avesse sangue giovanile nelle vene;
figuratevi poi un innamorato che le oda dette a suo scorno in presenza
della donna che ama! Francesco aveva capito che il ripigliarla subito
per quei detti non era prudente nè conveniente; ma se aveva dovuto usare
forza non poca per contenersi, erasi tuttavia proposto di averne ragione
dal signor marchese col primo pretesto che gli si presentasse.

Era stato inteso fra i due giovani che il nobile avrebbe restituito la
dama al primo di lei compagno, colà stesso dove egli l'aveva presa; onde
Francesco stette piantato a quel luogo ad aspettare. Ma ebbe invano
aspettato un poco che a lui parve assai, e nessuno venne. Guardò nel
salone e vide il marchesino continuare a ballare colla cugina, anche
dopo il giro che solamente gli era stato concesso. Benda si disse che
quella era una indiscrezione che meritava i più vivi richiami. Ma vi fu
peggio, perchè ad un punto, mentre la coppia si riposava, le si accostò
un ufficialetto di cavalleria, e confabulato un poco, il povero borghese
vide che il braccio della nobile danzatrice passava su quello
dell'ufficiale, e che con costui la signorina si slanciava nel vortice
del ballo senza che il meno del mondo si pensasse più a lui, il quale
pel concessogli favore credeva di aver diritto a ballare tutta quella
polka colla segretamente adorata ragazza.

Sapete che gl'innamorati hanno innanzi agli occhi certe lenti che
ingrossano a dismisura o svisano le apparenze degli oggetti. All'amore
qui si aggiunse l'amor proprio ferito. Parve a Francesco che quello
fosse il peggior tratto che gli si potesse usare, e che bisognasse, per
non averne avvilimento e disdoro, una buona e sollecita vendetta. Se
quella non era un'irrepugnabile ragione per ammazzarsi in duello,
Francesco non sapeva più vedercene altre. Stette covando, per così dire,
la coppia che ballava sotto i suoi occhi, a dispetto de' suoi dritti,
con isguardo pieno di collera e di minaccia. Pensava sfidare e il
marchese e l'ufficiale e mandarli addirittura tuttedue all'altro mondo.
Egli, che pure aveva la più mite natura, immaginava senza orrore qualche
tremenda opera di sangue.

Quella polka, che parve eterna al nostro giovane amico, ebbe pur termine
finalmente! Le ultime note dei violini tremolavano ancora per la volta
della vasta sala, quando Francesco si venne a piantare presso alla porta
da cui, per tornare presso alla vecchia marchesa, dovevano passare il
marchesino e madamigella Virginia. Il suo aspetto era fieramente
corrucciato; il solo suo sguardo era una provocazione. Il marchesino che
lo vide, pose l'occhialino sul naso e rispose a quella minacciosa del
giovane con una sua guardatura impertinente e beffarda.

Francesco Benda fece un passo verso la giovane, e inchinandosi con quasi
umile urbanità, le disse:

— La ringrazio, madamigella, di questa polka ch'Ella mi volle favorire,
quantunque l'indiscrezione altrui mi abbia impedito di godere, come
avrei dovuto, di tal favore.

Virginia volle pronunziare alcuna parola, ma il cugino non glie ne
lasciò il tempo.

— Di quale indiscrezione, e di chi intende Ella parlare? Domandò egli
con fiero cipiglio.

Benda lo guardò bene entro gli occhi e rispose con accento provocativo:

— Della sua.

— Signor avvocato: disse il marchese con beffardo disprezzo
nell'accento, uno dei primi doveri del suo mestiere è quello di parlar
convenientemente; ora Ella deve imparare che ad un pari mio non si parla
in quel modo nè con quelle parole.

— Signor marchese: disse Benda di ripicco senza lasciar tempo in mezzo;
uno dei primi doveri d'ogni uomo di garbo è di trattar bene; ed Ella
usando ora meco in quel modo avrà forse trattato da nobile, ma certo non
ha trattato civilmente....

Virginia allora fece ad intromettersi.

— Signori! Diss'ella colla sua soave voce tremante.

Ma il marchesino, con gentile violenza la trasse indietro, e come
Francesco Benda stesso aveva narrato, freddamente aveva percosso col suo
guanto la guancia del borghese.

Sappiamo che cosa n'era succeduto. Virginia s'era affrettata a riparare
presso la zia; il marchesino e l'avvocato disgiunti dagli accorsi
avevano scambiata una sfida.

Francesco era venuto presso i suoi amici e poi recatosi a casa sua: dove
Giovanni Selva, interrotto il racconto di Maurilio, erasi recato ancor
egli in sul giunger dell'alba per accompagnarlo qual testimonio nel
duello.

Prima di seguitarlo noi pure sul terreno, conviene che facciamo più
ampia conoscenza con quella buona, onesta ed operosa famiglia borghese a
cui il giovane apparteneva.


Fine della 1ª Parte.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le
grafie alternative (San Luca/San-Luca, desio/desìo e simili),
correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Mancano nell'originale le intestazioni dei capitoli XVI, XVIII, XIX e
XX.





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