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Title: Naja tripudians
Author: Vivanti, Annie
Language: Italian
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                           ANNIE VIVANTI


                          Naja Tripudians


                              ROMANZO



                              FIRENZE
                   R. BEMPORAD & FIGLIO — EDITORI
                              MCMXXI



                   PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA
     per tutti i paesi compresi la Svezia, la Norvegia e l'Olanda.

              _Copyright 1921 by A. Vivanti Chartres_

     1921 — Tip. Carpigiani & Zipoli — Firenze — Via Ricasoli, 63



                              _... The rest is silence._

                                         SHAKESPEARE



_Se qualcuno, leggendo questo libro, ne rimanesse turbato, vorrei
potergli dire: «Non vi commovete. È tutta una fantasia». Ma questo, pur
troppo, non lo posso dire._

_Non io ho ideato questa storia: è la Realtà, terribile Romanziera, che
la concepì e creò._

_Fu lei che mi cantò le chiare note del principio; fu lei che mi dettò
le nere pagine della fine._

_ — La fine? — dirà qualcuno. — Ma questo libro non ha fine! Alla notte
segue l'alba, e all'alba il giorno.... Che accadde poi di Leslie?_

_Io rispondo: La vita non finisce soltanto colla morte._

_La storia di Leslie è finita._


_.... «The rest is silence»._



I.


— Lasciamo fare a Madre Natura, — disse Mr Williams, il medico di
campagna, uscendo dalla camera della sofferente e chiudendo cautamente
l'uscio dietro di sè. E battè sulla spalla del marito, accasciato su una
seggiola nel corridoio col capo tra le mani: — Lasciamo fare a Madre
Natura.

Francis Harding alzò la fronte su cui cadevano scomposti i capelli già
biancheggianti.

— Ma non c'è pericolo?... — e fissò gli occhi rossi dalle veglie e dal
pianto sul suo vecchio amico e collega.

— Niente! Niente pericolo, — disse il dottor Williams allegro e bonario;
— e voi, mio buon Frank, andate a passeggio.

— Quanto durerà ancora? — interrogò il marito.

— Quattro o cinque ore.... o sei, — disse il medico.

Un lungo gemito e un altro e un altro ancora, crescente fino a un urlo
stridulo e straziante, giunse a loro traverso quella porta chiusa. Il
marito trasalì, pallido, battendo i denti, e un sudore gelido gli perlò
sulla fronte. Fece per tornare indietro.

— No, no! — esclamò il dottore, prendendolo per un braccio. — Non
fareste che disturbarla. C'è la buona Jessie che le bada. Fuori,
fuori....

E trasse l'amico, che barcollava come un ubriaco, giù per la breve
scalinata di Rose Cottage e fuori nel giardinetto mesto e sfrondato,
dove le margherite viola e le ultime rose ottobrine sbattute dal vento
si dolevano d'essere venute al mondo in autunno invece che in primavera.

— Via, via! Andate a passeggiare, — ripetè il dottore. — Io vado a fare
tre visite e poi torno qui. Guai a voi, se vi ci ritrovo!

E stringendo affettuosamente la mano dell'amico, il dottor Williams andò
a slegare dallo steccato le redini del vecchio cavallo bianco che
pascolava placidamente l'erba sull'orlo della strada campestre.

— Andrò a vedere la bambina, — sospirò Harding volgendo lo sguardo
appannato nella direzione del villaggio, annidato nel verde a mezzo
miglio di là.

— Bravo, bravo! Dove l'avete?

— L'ho mandata in casa della maestra, — disse Harding; — ha offerto lei
di tenermela durante questi giorni.

— È una buona creatura quella Miss Smith, — osservò il dottore. E colle
redini in mano salì nel baroccino. — Non offro di condurvici perchè vado
nella direzione opposta. E poi, vi farà bene il moto.

Harding fece mestamente cenno d'assenso, e il dottore, sbattendo le
redini sul grasso collo del cavallo, partì, sballottato nel suo
calessino giallo, per la strada di campagna lunga, dritta, spazzata dal
vento autunnale.

Francis Harding scese lentamente per la scorciatoia verso il villaggio
di Wild-Forest, tremando di udire rinnovarsi, prima d'esserne fuori di
portata, quel gemito, quell'urlo che ormai da dodici ore si rinnovava a
intervalli sempre più brevi, e che diveniva sempre più angosciante e
straziante.

— A che cosa serve, — riflettè egli amaramente, scendendo tra i prati
umidi e smeraldini sotto gli alberi rosseggianti e in parte già
sfrondati, — a che cosa serve ch'io sia dottore, se non posso assistere
nell'ora del suo spasimo la creatura a me più cara? Se non posso lenire
le sue sofferenze?

E pensò che se pure, come marito, non poteva assistere nel parto sua
moglie, avrebbe pur potuto starle vicino, farle respirare un po' di
cloroformio nelle crisi del massimo dolore....

Ma poi si disse che il vecchio Williams era geloso delle sue pazienti e
non avrebbe tollerato la menoma intromissione, neppure quella del
marito.

E continuando la sua strada, umiliato, pensava di sè: che razza di
dottore era mai? Che dottore inutile e grottesco! Specialista di
malattie tropicali qui, in un paesello nordico dell'Inghilterra, dove il
sole si vedeva un giorno su dieci! Che ironia saper curare i casi
d'insolazione e di colera asiatico! Essersi specializzato negli studi
dell'elefantiasi e della lebbra, nelle cure dei veleni ofidici di vipere
e di naie!... Ah! meglio se fosse rimasto laggiù nelle Indie, solitario
naufrago della vita sulle torride e desolate coste del Malabar, tra i
soldati e i negri; meglio se non fosse tornato qui nel suo paese nativo,
a sposare la mite e timida creatura, di vent'anni più giovane di lui,
che ora gli metteva al mondo, tra gli spasimi, dei figli — come lui miti
e timidi, come lui inetti alla vita....

Veramente, pensò poi per consolarsi, sua figlia maggiore — l'unica fino
ad oggi — la piccola Myosotis ch'egli andava ora a trovare, non era poi
tanto timida, nè tanto mite.... Al pensiero di Myosotis il dottore
Francis Harding affrettò il passo.

Giunse alla casa della maestra e, battendo piano alla porticina verde,
senza attender risposta girò la maniglia ed entrò.

Subito dalla saletta a pianterreno gli corse incontro la sua bambinetta
seguita con maggior compostezza da Miss Smith.

— Papà!... — e gli saltò tra le braccia. Poi, guardandosi intorno: —
dov'è la mamma?

— Te l'ho già detto io, — interpose in fretta la maestrina, anima
mistico-poetica, ammiccando cogli occhi al dottor Harding; — è andata
nel giardino delle Esperidi a prenderti un fratellino.

— Poteva tralasciare; — disse la piccola Myosotis — potevamo mandare il
giardiniere o qualcun altro a prenderlo. E poi, — soggiunse con un
piccolo broncio, — non c'era bisogno di fratellini; vero, Papà?

Il Papà arricciandosi nervosamente i baffi grigi si strinse nelle spalle
con fare un po' compunto.

— Veramente.... — disse, quasi coll'aria di volersi scusare.

La maestra s'interpose di nuovo: — Bisogna accettare con gratitudine ciò
che il buon Dio manda.

— Ma allora, — ribattè Myosotis coll'ostinazione propria all'infanzia —
se Dio lo mandava non c'era bisogno che la mamma si disturbasse ad
andarlo a prendere.

Suo padre ebbe un pallido sorriso; ma Miss Smith aggrottò le
sopracciglia. — Zitta, — disse. — I bambini non devono parlare che
quando si rivolge loro la parola.

Indi interrogò collo sguardo il dottor Harding.

— Mah!... — fece egli, e trasse un profondo sospiro. — Non ancora.... Il
dottore spera che tra qualche ora....

— Mah! — fece a sua volta Miss Smith.

Ed entrambi fissarono lo sguardo un po' triste, un po' vacuo sulla
bambina; e tacquero.

Finalmente Miss Smith propose il rimedio inglese ad ogni più grave
guaio.

— Prendiamo una tazza di thè!


Frattanto il grasso cavallo bianco del dottor Williams saliva a passo
lento le brevi colline e scendeva a trotto pesante le brevi vallate; e
il dottor Williams fece con cura e coscienziosità le sue tre visite.
Indi il grasso cavallo bianco riprese la via di Rose Cottage; a passo
lento le salite, a trotto pesante le discese; e arrivò al cancelletto
verde sul calar della sera.

Francis Harding passeggiava in su e in giù per il malinconico giardino
crepuscolare; e si stringeva la testa tra le mani.

— Dottore!... dottore!... — singhiozzò, — aiutatela, aiutatela per amor
di Dio.

E il dottore, entrando nella buia anticamera e togliendosi il soprabito,
ripetè bonario:

— Ma che, ma che!... Bisogna lasciar fare a Madre Natura.


Lasciarono fare a Madre Natura — vecchia Levatrice cieca, sorda, pazza e
perfida — e quella condusse alla vita, su un fiotto di sangue, una
fragile creatura novella; e spinse alla Morte, sulla stessa onda
purpurea, l'altra e più preziosa esistenza.

                            . . . . . . .

— Dov'è la mamma?...Dov'è? — gridò Myosotis, entrando inattesa e sola a
Rose Cottage il mattino seguente. La maestra vi si era recata all'alba
mentre la bambina dormiva ancora; ma appena desta, Myosotis, sfuggendo
alla vecchia serva di Miss Smith, era corsa fuori, e su per la collina a
casa sua.

Nel salotto erano radunati silenziosi suo padre, la maestra, il dottore
e la vecchia Jessie; questa recava sulle ginocchia un involto di
flanella bianca.

Myosotis ripetè la sua domanda: — La mamma dov'è?

Nessuno — nè suo padre, nè il dottore, nè la maestra, nè Jessie —
rispose. Forse non lo sapevano. L'unico che poteva saperlo era l'involto
di flanella; e quello non aprì bocca.

— Quando torna?... nessuna risposta. Tutti piangevano sommessi.

— È rimasta in quel giardino?... — chiese la bimba avvicinandosi al
padre che stava chino coi gomiti sulle ginocchia e il viso chiuso nelle
mani.

Il padre scoppiò in singhiozzi poggiando il capo grigio sul fragile
omero della sua bambina. Allora pianse anche lei molto forte e a lungo,
e tutti gli altri dovettero smettere di piangere per consolarla.

Indi Miss Smith la ricondusse via.



II.


Passarono i giorni, e a Myosotis nessuno disse nulla. Per lei, la mamma
s'aggirava ancora nel giardino delle Esperidi, aprendo i calici dei
fiori per vedere quale contenesse il bambino più bello.

Ma una sera, girando solitaria nel giardino di Miss Smith, vide al
cancello il piccolo Joe Sibthorpe che con un fucile di legno faceva
finta di volerla uccidere. Ella lo chiamò e gli confidò che s'annoiava
assai senza la mamma, e fu grande la sua gioia quando Joe esclamò:

— Ma dev'essere tornata. Ho sentito molti strilli in casa tua.

Myosotis partì subito, correndo per la scorciatoia che conduceva al
Cottage; e Joe le trotterellò dietro, alzando il fucile ogni tanto per
prendere di mira le fiere che senza dubbio stavano rintanate dietro le
siepi.

Il cancelletto di Rose Cottage era chiuso, ma i bimbi girarono dietro la
casa e trovarono aperta la porta della cucina. Dabbasso non c'era
nessuno, e i due sgambettarono su per la piccola scala di legno.

Ecco che dalla camera di Myosotis, ch'era la prima sul pianerottolo,
udirono uscire degli strilli acuti e brevi. Myosotis, spinse piano la
porta ed entrò; Joe, col fucile a spall'arm, pronto ad ogni evenienza,
la seguì.

Jessie in un grande grembiule bianco, stava dando il bagno a un
piccolissimo essere umano, che piangeva, dibattendosi nell'acqua come un
rospicciattolo. La donna, appena vide entrare Myosotis, riabbassò gli
occhi, e Myosotis notò che anche lei, come la creaturina nell'acqua,
piangeva; ma senza tanti strilli.

Joe era rimasto di sasso accanto alla porta.

— Misericordia! Che orrore. Com'è rosso! — disse. — E che bocca!...

Myosotis s'accostò, e dopo breve contemplazione chiese a Jessie: — È un
bambino o una bambina?

Jessie non rispose.

Joe corrugò le ciglia con aria saccente.

— Questo, — sentenziò, — non si può dire finchè non sarà vestito!


Quando fu vestito si vide che era una bambina, poichè aveva sulla cuffia
dei nastri rosa, e non quelli celesti già preparati in attesa di un
fratellino.

— Bisognerebbe metterglieli neri, per la povera sua mamma, — disse
cupamente Miss Smith.

Ma Jessie, la fedele domestica, vi si oppose. — Inutile rattristare il
papà e la sorellina, — dichiarò recisa.

E la neonata portò i suoi nastri rosa e fu battezzata coi nomi scelti
dalla mamma pel fratellino e che potevano adattarsi anche a lei: Leslie
Denys Harding.



III.


Le due bimbe crebbero in serena innocenza, candide, mansuete e semplici.

Rose Cottage, la casetta bianca e bassa del dottor Harding era lontana
anche dal villaggio e nessuno si scomodava mai per andarvi a far visita.
Il villaggio di Wild-Forest, sperduto nell'angolo più remoto del
Yorkshire, non offriva nè attrattiva al viaggiatore nè seduzione a
villeggianti; le medesime antiche famiglie campagnuole vi abitavano da
generazioni, ed i tumultuosi eventi di un mondo lontano non giungevano a
scuotere i calmi silenzi di quei patriarcali focolari.

Così la giovinezza delle due fanciulle scorreva fuori del mondo, lontana
dalla vita, come un ruscello argenteo in un paesaggio lunare.

Poichè la scuola era lontana, Miss Smith veniva lei stessa due volte
alla settimana ad impartire loro delle vaghe nozioni d'ogni genere. Di
Storia ella impresse i punti secondo lei più importanti nelle chiare
memorie delle due fanciulle: Re Canuth che aveva voluto fermare le onde
del mare; i due principini assassinati nella Torre di Londra; il
principe Clarence che volle affogarsi in una botte di Malvasia; i nomi
delle sette mogli di Enrico VIII; la predilezione per il colore celeste
dell'attuale regina Mary d'Inghilterra.

I loro studi di Geografia si limitarono ai nomi dei continenti, dei mari
e delle 37 contee d'Inghilterra; tutto il resto, visto le condizioni
incerte e tumultuarie dell'epoca presente, era inutile impararlo, perchè
le cose potevano cambiare ogni giorno.

Impararono i nomi di tutti i fiori nel giardino di Rose Cottage, ed
anche di tutti quelli nei boschi; studiarono a memoria le poesie di Mrs
Hemans, e s'interessarono molto ai piccoli negri dell'Africa Centrale
che hanno la sventura di non portare vestiti e di non leggere la Bibbia.

E così, avendo assolto il suo compito d'educatrice, Miss Smith le
abbracciò, le benedisse, e andò a vivere a Leeds.

Dove sposò un capomastro e fu molto felice.

Alla scuola di Wild-Forest venne Miss Jones, una nuova maestra, una
maestra di Londra, molto risoluta e moderna. Arrivò a Rose Cottage, non
invitata, a fare un breve ma severo esame alle due ragazzine; per
sfortuna non chiese nè di Canuth nè dei piccoli negri; per conseguenza
trovò che le bimbe erano assai ignoranti e insistette presso il dottor
Harding perchè le mandasse a scuola.

E a scuola andarono, ogni giorno, le due biondine, e impararono tutto
ciò che ancora mancava alla loro perfetta educazione. Impararono che il
mondo è rotondo e appartiene agli inglesi; che gli oceani sono vasti e
appartengono agli inglesi; che gli inglesi permettono — generosamente —
ad alcune altre nazioni di vivere nel mondo, e ad alcune altre navi — ma
poche! — di navigare sui mari. Impararono che bisogna odiare i tedeschi,
disprezzare i latini, e aver schifo dei negri. Impararono che il Dio
inglese non riceve che la domenica, mentre il plebeo Dio cattolico (che
del resto non serve che per gli straccioni, i forastieri e gli
Irlandesi) lascia aperte le sue chiese tutti i giorni, ma non bisogna
andarci. Impararono che il sentimento è una cosa volgare; che è ridicolo
commuoversi, che è indecoroso entusiasmarsi; che la frutta si mangia col
coltello e la forchetta, e che le unghie e la coscienza — ma sopratutto
le unghie! — vanno tenute pulite.

Terminata così la loro educazione scolastica, le due fanciullette
lasciarono la scuola e tornarono a casa, da loro padre.

E da lui appresero altre cose ugualmente utili per affrontare
l'esistenza. Appresero quali sono i mezzi che si adoperano a Rio Janeiro
e nell'Isola di Sumatra per neutralizzare il veleno dei serpenti;
impararono a distinguere la Naja Tripudians — la funesta e terribile
cobra egiziana — da altri rettili, quale il Crotalus horridus e il
Cerastes cornutus; impararono a conoscere i sintomi determinati dalla
puntura degli scorpioni di Columbia e quelli dei ragni del Capo di Buona
Speranza; e conobbero la distribuzione geografica, la eziologia e la
patogenesi della lebbra e del beri-beri.

Così, preparate ed agguerrite alla vita, si affacciarono le due bionde
sorelline alla soglia della giovinezza. Con gli occhi limpidi come il
vento guardarono in faccia all'avvenire.



IV.


E la vita le salutò, tutta sorrisi. Le condusse, tenera come una mamma,
gaia come una amica, pei mattinali sentieri dell'adolescenza.

Myosotis bionda, Leslie biondissima, vagavano fantastiche e sognanti in
un mondo d'azzurre irrealità. Credevano ai miracoli e alle visioni, ai
poeti e alle fate, agli angeli e agli umani.

Avevano l'abitudine gentile di parlare colle cose immateriali e
inanimate.

— Buon giorno, primavera! — diceva Myosotis quando, uscendo al mattino,
scorgeva in fiore gli alberi di mandorlo e di pesco.

— Buon giorno, sole, hai dormito bene? — chiedeva Leslie.

E alla luna nuova facevano sempre un inchino e molte raccomandazioni
perchè portasse il bel tempo.

Al primo foraneve in Febbraio, alla prima violetta le bimbe facevano
gran festa; e la prima rosa che si schiudeva nel giardino, la baciavano
come se fosse un'amica tornata dopo lunga assenza.

— Non bisogna parlare colle cose inanimate — ammoniva Miss Jones.

— Inanimate? — chiedeva Leslie un poco stupita. — Siete certa che non
hanno anima le rose?...

Miss Jones non ne era certissima.

E le bambine continuarono a salutarle.

Ingenua quanto loro o più di loro era la vecchia Jessie, già domestica
in casa della loro madre allorchè questa era ancora signorina; ed ora,
divenuta cogli anni bisbetica, brontolona e avara, era pregiata quale
perla di gran prezzo dal dottor Harding, e temuta e adorata dalle due
bambine.

Ma di tutti il più semplice, il più ingenuo, il più ignaro delle cose
della vita era senza dubbio il dottor Harding stesso, nei cui ceruli
occhi non fluttuavano che pallidi ricordi di cose passate, o vaghe
nebulosità di astruse ricerche scientifiche.

La sua giovinezza egli l'aveva trascorsa tutta nei tropici. Medico nella
marina inglese, il destino lo aveva gettato a ventidue anni sulle coste
delle Indie orientali. Ivi, il suo spirito indagatore e pietoso era
stato profondamente impressionato dalle mostruose malattie che
affliggono le razze indigene dei paesi tropicali.

Alto magro taciturno passava come un dio biondo tra le popolazioni nere
di laggiù, passava tra i mali senza nome, tra le piaghe e le pestilenze
d'ogni sorta, curando, beneficando, studiando il modo di alleviare le
febbri, il colera, la dissenteria; esaminando le orribili piaghe del
mycetoma e la rossa escrescenza della framboesia che cresce come un
mostruoso frutto di lampone sul volto e sulle membra delle sue
vittime....

Ma più di tutto il giovane dottore si appassionava allo studio della
lebbra. L'idea di scoprire una cura per quell'atroce flagello gli si era
fissa nel cervello colla tenacità inflessibile d'una mania. Ben
ricordava come per la prima volta gli era entrata nella mente questa
idea.

Da quasi due anni, relegato con pochi marinai sulle coste del Malabar,
occupato quale ufficiale a sorvegliare la condotta degli uomini che
costruivano un canale irriguo, e quale medico a combattere e curare i
casi di febbre tropicale e d'insolazione, egli da qualche tempo si
sentiva assalito da un'inquietudine strana e febbrile. Era questa una
febbre morale quanto fisica. Severamente allevato da suo padre, pastore
evangelico scozzese, egli era di natura e per volontà casto di corpo e
puro di pensieri. Ma ecco che verso sera, nell'ora di pace dopo la
torrida giornata, sdraiato nell'amaca e gustando la fresca brezza del
mare che sollevava la tenda della sua casupola, questa irrequietezza,
questa tensione di nervi lo assaliva invincibile.

Davanti ai suoi occhi socchiusi ondeggiavano allora delle figure
femminili. Talvolta era il ricordo di qualche sua bionda connazionale
lontana; ma più spesso lo ossessionava la visione di qualche bruna
indiana intravveduta lungo il giorno, sulla spiaggia o nella città
vicina. Questi pensieri gli davano un vago senso d'inquietudine e di
desiderio.

E quasi sempre, in quell'ora del tramonto, passava davanti al suo
bungalow, rapida e silenziosa come un'ombra, una donna sconosciuta.

Alta, snella, velata di un manto azzurro che le copriva il capo, le
ombreggiava il volto, e le avviluppava di pieghe armoniose tutto il
corpo sottile, ella passava in quell'ora del crepuscolo, esile figura
piena di poesia e di mistero.

Ella doveva pur essersi accorta di quel solitario europeo che, sdraiato
nell'amaca, fumando, la guardava; poichè nel passare ella rallentava un
poco il passo; indi, quasi con voluta civetteria, volgeva via il capo
fasciato d'azzurro, come per meglio contemplare il mare....

Francis Harding la vide passare così tutte le sere; finalmente, una
sera, la chiamò. Essa fuggì come una gazzella.

L'indomani quando il violento tramonto tropicale spennellava d'arancio e
di viola il cielo, ella ripassò, e, come sempre, pur rallentando il
passo quasi per farsi chiamare, volse il capo verso l'orizzonte non
offrendo agli occhi del giovane che la sottile linea del capo, delle
spalle, e delle esili anche. Ed egli con voce risoluta la richiamò.

Ella si fermò di botto e si volse a lui. Era distante forse venti passi,
ritta sullo sfondo di quel cielo sfolgorante.

L'oriente rifletteva in una diffusa luce perlacea quel purpureo
tramonto.

— Vieni qui, — diss'egli tendendo un braccio verso di lei. — Vieni qui.
Voglio parlarti.

Ella non mosse d'un passo, ma deliberatamente, con gesto lento, solenne,
quasi ieratico allargò le braccia che stringevano intorno alla persona e
al capo il manto azzurro — e levò la faccia verso il cielo.

Orrore!...quel viso era maculato di larghe chiazze bianche....pareva che
sulle guancie, sul naso, sulla fronte avesse nevicato....

Un grido di orrore e di pietà sfuggì alla gola dell'uomo. La donna, a
capo chino, si allontanò rapida e sparì.


Di quell'incidente rimase per sempre a Francis Harding un brivido di
terrore nelle carni. Ma un altro e più terribile ricordo egli doveva
portar via dal suo soggiorno in quei tragici luoghi.

In quelle solitudini, lontano dalla civiltà e da ogni relazione sociale,
egli aveva fatto la conoscenza d'un ingegnere francese arrivato laggiù
per la costruzione d'una ferrovia. Non era certo una persona oltremodo
simpatica, e in altre condizioni ed altri luoghi il timido e riservato
Harding non avrebbe mai stretto amicizia con Jean Vital, egoista
arrogante e amorale. Ma nelle deserte solitudini di quei luoghi, il
sensuale libertino francese e il nordico asceta, affratellati
dall'isolamento e dall'esilio, si confidavano ogni pensiero.

Così avvenne che Harding apprese da Vital, voluttuario impenitente,
ch'egli aveva gettato gli occhi su una donna indigena convivente col
quartier-mastro dei marinai inglesi. Era questa un bel tipo di donna
color rame, dagli occhi languidi ed astuti sotto le palpebre socchiuse.
Johnson, il quartier-mastro inglese che la teneva con sè, era dissoluto
e brutale.

Un giorno il francese venne con aria soddisfatta e spavalda a trovare
l'amico.

— _Ça marche!_ — esclamò ridendo; e gettandosi sulla sgangherata
poltrona a dondolo, vanto e lusso del bungalow di Harding, incrociò le
lunghe gambe nei pantaloni bianchi, trasse di tasca un sigaro e narrò al
silenzioso dottore la sua fortuna.

— Iersera mentre quel bruto di Johnson era assente, sono andato davanti
al loro bungalow e ho fischiato. Lei è uscita sulla porta.... e io
subito, là.... _à la six-quat'-deux!_.... le ho schioccato un bacio
sulla bocca.

— Siete imprudente, — disse Harding. — Se quella lo dice a Johnson!

— Bah! non lo dice, — fece Vital, soffiando verso il soffitto basso e
nero una lunga boccata di fumo. — E poi, mio caro, in guerra e in amore,
la fortuna è per il temerario. — E ridendo dell'aria preoccupata
dell'amico, soggiunse: — E ne vuoi la prova? Stasera un sudicio monello
negro m'ha seguito mentre lasciavo il cantiere. Credevo che volesse un
soldo e gli ho applicato una pedata. Ma lui ha continuato a seguirmi.
Allora ho capito che voleva dirmi qualche cosa.

Qui Vital fece una pausa a effetto; ma poichè Harding non lo
interrogava, proseguì: — E sai che cosa m'ha detto? M'ha detto:
«Stasera, dopo le dieci.... Molto scuro.... Capanna solitaria di là dal
ponte di San Juan. Venite. Senza rumore, senza luce».

Harding parve stupito.

— È possibile? — disse.

— Eh!... — e il francese si arricciò i baffetti bruni. — Mi pare
chiaro!... Cioè, — soggiunse ridendo, — non sarà chiaro, sarà buio. Quel
marmocchio mi ha ripetuto tre volte: «Senza luce. Senza rumore e senza
luce».

E senza rumore e senza luce Jean Vital si recò quella notte alla capanna
solitaria di là dal ponte di San Juan. Lungo la spiaggia i suoi passi
cadevano lievi e silenziosi sulla sabbia; indi volse a destra, traversò
il ponte e lasciò dietro di sè le luci del villaggio e la luminosa
striscia del mare.

E ben altro lasciò dietro di sè in quell'ora Jean Vital che i suoi
focosi venticinque anni conducevano a perdizione.

Seguendo la strada, da qualche anno quasi deserta, vide presto, a destra
della via, ergersi — ombra sull'ombra — la capanna abbandonata.

Stava per emettere un breve fischio allorchè ricordò l'ingiunzione del
ragazzo: «Senza rumore!» E giunto sulla soglia e spinto l'uscio basso e
socchiuso, il buio davanti a lui fu così nero che per istinto cercò in
tasca gli zolfanelli.... Ma ecco che gli tornò alla memoria l'ordine tre
volte ripetuto dal messaggero: «Senza luce».

Si tolse la mano di tasca e la tese brancolando innanzi a sè; indi
sussurrò a bassissima voce il nome della donna:

— «Jamana!...»

Un mormorio inarticolato gli rispose; una mano toccò il suo polso e lo
trasse nella capanna.

Un profumo strano e violento gli tagliò per un istante il respiro. Era
come un odore di muschio e di bergamotto; e sotto a quella duplice e
forte fragranza vagava un altro aroma, dolciastro, languido, quasi
impercettibile....

Ma la stretta al suo polso — egli la sentiva calda e tremante — lo
traeva innanzi e in giù.... il suo piede toccò una stuoia.... e al suo
respiro rapido e ansante rispose, lieve, un sospiro....

                            . . . . . . .

L'alba color grigio-perla illuminava fiocamente l'apertura quadrata
della finestra, quando un leggero rumore lo svegliò. Prima ancora di
ogni altro ricordo, giunse ai suoi sensi assopiti quello strano odore,
dandogli una lieve impressione di stordimento.

Senza aprire gli occhi allungò la mano e toccò accanto a sè una coperta
ruvida, un posto vuoto.... Allora aprì gli occhi e vide disegnata sullo
sfondo grigio del vano della porta, un'ombra. Era un'ombra femminea,
ammantata di scuro, che apriva cautamente l'uscio. Gli parve di non
ravvisarla. La chiamò.

— Jamana!

Ma la donna non si volse. Spalancò la porta e uscì correndo.

Vital balzò in piedi, e così qual'era, senza giacca e senza scarpe, le
fu dietro colla leggerezza rapida d'una pantera. La raggiunse, la ghermì
per le braccia, le strappò dal capo lo scialle nero e la guardò.

Un urlo gli sfuggì dalla bocca spalancata. Gittò le braccia in aria, e
gli occhi parevano schizzargli dalla testa....

E mentre la donna fuggiva, curva nella polvere, egli ululava, ululava
strappandosi i capelli, dilaniandosi le carni, conficcandosi le unghie
nella bocca come se volesse strapparsela dal viso. La bocca!...la bocca
sua che aveva baciato quell'immonda cosa!...quel volto roso e sfigurato
dalla lebbra!


L'aurora lanciava pel cielo nastri di rosa e veli d'oro, allorchè Jean
Vital ritraversò il ponte. Parlava forte da solo; gridava, gesticolando,
scotendo i pugni al cielo.

Andò a battere alla porta del dottor Harding. Questi si alzò da letto
per aprirgli. Sulla soglia vide un essere ch'egli dapprima non
riconobbe.

— Lontano!...Stammi lontano — urlò Vital in frenesia, — sono
contaminato!

E stramazzò ai piedi di Harding, e sangue e schiuma gli uscivano dalla
bocca lacerata....

                            . . . . . . .

Passò un anno. Non accadde nulla. Durante quell'anno parve a Jean Vital
di trattenere il respiro. Non osava guardarsi in uno specchio per paura
di vedere le stimmate orrende del morbo. Non osava guardare in faccia
alla gente per paura di scorgere a un tratto nei loro occhi la
rivelazione spaventosa.

Passarono due anni. Allora, tremando, egli osò per la prima volta
guardarsi in uno specchio. Si trovò magro, con un ciuffo di capelli
bianchi sulle tempia, col viso pallido ma d'un pallore chiaro e sano.
Allora prese a guardarsi continuamente; si portava intorno uno
specchietto e cento volte al giorno se lo toglieva di tasca e si
scrutava; si esaminava gli occhi, la bocca, il naso, le gengive, la
gola.... Nulla.

Passarono quattro anni. Passarono cinque anni. — Nulla. Jean Vital
riprese a lavorare e a vivere. Era rimasto incolume; era sfuggito al
contagio. La sua gioventù, il suo sangue sano avevano trionfato della
mostruosa contaminazione.

Ed era un uomo felice. Il fatto di essere sano, di avere le carni
illese, era per lui una fonte di perenne, estatica esultanza; non era la
passiva, quasi inconscia, soddisfazione dell'uomo che gode di una salute
normale. No; Vital ogni giorno, ogni momento si compiaceva nel
constatare che il suo corpo era incorrotto, il suo sangue mondo, terse
le carni vigorose; e questa constatazione gli pareva quasi una vittoria
sui fati, una conquista personale della sua robusta virilità.

Passarono otto anni. Vital tornò in Francia. Aveva danari. Pensò a
prender moglie. Scelse con prudenza e deliberazione. Scelse la più bella
e saggia fanciulla del suo paese. E quando l'ebbe chiesta e ottenuta, se
ne innamorò perdutamente, pazzamente, sentendo rinascere in sè la
passione scordata o frenata durante i suoi anni di tortura. L'amò con
frenesia di gratitudine e di gioia, quasi rappresentasse per lui la
liberazione definitiva dall'incubo mostruoso. L'adorò con tale trasporto
di riconoscenza e di beatitudine che la fanciulla stessa non lo
comprendeva, e ne aveva quasi paura....

Mancava un mese alle nozze. Era il primo d'Agosto e, dopo la giornata
canicolare, Vital — che dal principio dell'estate s'era sentito un po'
languido e sonnolento — scese con gli amici a fare un bagno nel fiume.
Si svestì sulla sponda, parlando e scherzando; gettò giacca e sottovesti
sull'erba, indi alzò le braccia per trarre da sopra al capo la camiciola
di maglia.... Sostò. Guardò quelle braccia ignude alzate nella gran luce
del sole....

Stette un attimo così, immobile, senza respiro. Indi abbassò le braccia
e le tese davanti a sè nella luce abbagliante di quel sole estivo. Il
terrore lo fulminò.

Sull'avambraccio destro v'era una macchia rossastra, leggermente
saliente. Più su, vicino alla spalla, ve n'era un'altra. Sul braccio
sinistro.... Sì! sopra la piegatura del gomito, una piccola placca rossa
e granulata....

Una nausea profonda gli chiuse la gola. Indi con un ruggito di belva si
abbattè, colla fronte in terra.

                            . . . . . . .

Il dottor Harding ne ebbe notizia per qualche anno ancora.

Vital errava per il mondo portando con sè la sua disperazione. Harding
ne riceveva delle lettere che lo facevano rabbrividire d'orrore e di
pietà.

«Se tu sapessi che cosa vuol dire assistere con mente chiara alla
propria putrefazione!... Non mi lascio vedere dai dottori per paura che
mi mandino alla Lebbroseria, a Hendela.

«Tu, tu che sei medico, studia, trova, inventa!... Per Dio! ci sarà pure
un rimedio! Ancora sono nei primi stadi.... Trova! Cerca! Inventa!».

E un anno dopo:

«Fa presto! fa presto! Aiutami! Faccio già spavento a chi mi vede. Non
ho più sopracciglia; ho dei noduli sulla fronte, sulle narici, sui lobi
delle orecchie. Ho le mani difformi; le dita mi si ricurvano come
artigli....».

E più tardi ancora:

«La cancrena mi ha fatto cadere un dito. Il morbo mi s'infiltra negli
occhi; non ho più palpebre. Fa presto! In nome di Dio!... Cerca! trova!
inventa....».

E il dottor Harding studiò, cercò, inventò. Fece venire le opere di
Bibb, di Koch, di Hutchinson, di Schmal; andò in cerca d'indigeni
lebbrosi e fece su loro degli esperimenti, pericolosi a sè stesso e a
loro; tentò inoculazioni, vaccinazioni, cure di arsenico, di mercurio,
di olio di chaulmoogra.... Visse tra mostri deformi e animaleschi,
studiando tubercoli e ulceri, cancrene e necrosi....

E già da anni la terra, scura e pietosa, aveva ricoperto il volto
spaventoso di Vital, che ancora il suo amico, sulle lontane coste
dell'India, cercava, studiava, inventava, ossessionato dall'idea di
guarirlo, fisso nel pensiero di vincere il più antico, il più atroce
morbo che affligga l'umanità.

                            . . . . . . .

Il dottor Harding aveva oltrepassato di poco la quarantina, allorquando
l'unica sua parente — una sorella di suo padre, vecchia solitaria ed
eccentrica ch'egli appena conosceva — si ammalò e lo chiamò in patria.
Per devozione alla memoria di suo padre, egli, lasciando a malincuore i
suoi studi e l'India, vi andò, e trovò la vecchia donna, colpita da
paralisi, nella sua casetta rustica, «Rose Cottage».

Al capezzale, mite, timida, pietosa, vegliava la bionda figlia del
pastore anglicano di Wild-Forest.

E quando la vecchia ebbe chiuso gli occhi — lasciando ad Harding la sua
esigua sostanza, la casetta e i limitati poderi — Harding tese la mano
alla mansueta e silenziosa infermiera per ringraziarla.

Quella mano era piccola e tiepida e tremante. E Francis Harding la
trattenne nella sua.



V.


Ma traverso gli anni — troppo brevi! — di calma dolcezza con lei, e
nella vedovanza che gli straziò il cuore e lo lasciò, solo in un mondo
che poco conosceva, con due fanciullette sulle braccia, l'idea fissa di
Harding non gli uscì mai dalla mente: trovare un rimedio alla spaventosa
elefantiasi greca, distruggere il bacillo di Hansen, liberare la terra
da quella mostruosa impurità. Studiò tutte le nuove pubblicazioni di
Pasini e di Borthen, di Moreno e di Padilla; si mise in corrispondenza
con Filippo Rho, con Castellani e Chalmers; si creò un piccolo
laboratorio in fondo al giardino dove, con bacilli mandatigli da Londra,
fece degli esperimenti su conigli, topi e porcellini d'India. Intraprese
dei viaggi a Parigi e a Bieberich sul Reno; mantenne delle
corrispondenze agro-dolci coi collaboratori di giornali scientifici e
riviste mediche; e non cessava mai di rammentare le sue passate
esperienze indiane, rimpiangendo amaramente di non poterne sapere i
risultati.

— Avevo trovato!... sono certo che avevo trovato.... — diceva talvolta,
la sera alzando i miti occhi dai suoi fogli e fissandoli sulle teste
bionde delle sue figliuole che, chine al lavoro sotto la luce diffusa
della lampada famigliare, alzavano a lui i soavi occhi celesti. — Mi
basterebbe avere qui otto o dieci lebbrosi....

— E dove li terresti? — chiedeva Myosotis, non senza un poco
d'inquietudine.

— Già — rifletteva il dottore scotendo la testa bianca; — dove li
terrei?



VI.


Lieti volavano i giorni, portando anemoni d'opale e iridi azzurre e
candidi narcisi al giardino di Rose Cottage; allungando i tralci di
edera che stringevano in un verde abbraccio tutto il piano inferiore
della casetta.

Avrebbe dovuto esserci anche un'aiuola di giacinti; ma questi, comperati
allo stato di bulbo dal dottore a Leeds, e da lui e le sue figlie
piantati con più cura che esperienza, non fiorirono perchè erano stati
messi in terra colla testa all'ingiù.

Nel piccolo orto, cura speciale di Jessie, si seminarono colla consueta
regolarità cavoli, spinacci, cicoria e piselli, e colla medesima
regolarità gli otto polli bianchi, cari al cuore del dottore, andarono a
mangiare i semi appena messi in terra, e se ne tornarono all'aia
soddisfatti, facendo cenno di «sì» col capo ad ogni passo.

I quattro grossi conigli bianchi e neri diventarono i genitori di
trentadue piccoli conigli bianchi e neri.

I due cani, Whisky e Soda, per tutto un giorno non ebbero fame, e si fu
molto in pena per la loro salute, finchè non si scoprì che avevano
mangiato dodici dei piccoli conigli. Allora Myosotis e Leslie piansero
molto per i piccoli conigli; e piansero ancor più per Whisky e Soda
durante la punizione inflitta loro dalla inesorabile Jessie col
battipanni.

Il dramma dei conigli fu l'episodio più saliente di quella primavera.

L'evento principale dell'estate fu una visita della signora Russel,
moglie dello Squire del paese; ella arrivò a Rose Cottage un mattino con
sua figlia Nelly ad invitare le due fanciulle ai bagni di mare a
Felixstowe.

— Partiamo lunedì, Nelly ed io, — disse, amichevole e vivace, al dottor
Harding; — le sue due figliole potranno essere pronte per quel giorno?

Il dottor Harding parve assai incerto. Pur ringraziando dell'invito, non
pareva troppo incline ad accettarlo. L'idea di affidare ad altri, anche
per breve tempo, le sue dilette, lo turbava assai.

— Ma sapete pure, — insistè Mrs Russel, un poco impaziente — che questa
è un'usanza entrata ormai in tutte le nostre migliori famiglie. Anche la
mia Nelly fa ogni anno il suo giro di visite in casa dei nostri amici
più intimi. Solo così le nostre ragazze possono imparare a stare al
mondo, a conoscere gente, a non trovarsi timide ed impacciate quando
vanno in società.

Pur riconoscendo la saggezza e i vantaggi di questa abitudine inglese,
il dottore non sembrava troppo disposto a conformarvisi.

Allora la signora Russel, già sulla porta in procinto di partire, tentò
un altro argomento.

— Pensate, dottore, di quanto vantaggio per la loro salute saranno i
bagni di mare....

Il dottore ringraziò, e promise che ci avrebbe pensato.

Jessie che teneva aperta la porta, la richiuse con forza non appena Mrs
Russel e sua figlia ebbero voltato le spalle; indi entrò nel salotto con
ciò che le bimbe chiamavano «la sua faccia di policeman».

— I bagni di mare! — esclamò. — Già. Non mancherebbe altro.

— E perchè no? — fecero in coro Myosotis e Leslie.

— Perchè è pericoloso — dichiarò essa.

— Ma Jessie!... Tutti vanno a fare i bagni!...

— Ci vanno, ci vanno; e per lo più si annegano, — sentenziò Jessie,
lugubre e caparbia. — Vostro padre deciderà come vorrà. Ma se lo
domandate a me, dico che finchè voi non saprete nuotare non dovete
entrare nell'acqua.

— E dove vuoi che impariamo a nuotare? Per istrada? nel prato? — esclamò
Leslie, sarcastica.

Ma la vecchia domestica volse le spalle quadrate e inesorabili, e tornò
in cucina.

Le due fanciulle la seguirono.

— Jessie!... Sei proprio illogica... — ragionarono.

— Sì, sì, illogica — fece quella; — quando avrete la mia età sarete
illogiche anche voi.

Myosotis rise. E rise anche Leslie all'idea di avere giammai l'età di
Jessie.

— Scommetto che Jessie, — osservò Myosotis — non sa neppure il
significato della parola «illogica»!

— Non lo so, nè lo voglio sapere — ribaltò Jessie. — Non ho tempo, io,
di riempirmi la testa di parole nuove.

E staccò dal gancio una casseruola, sbattendola sul tavolo con molto
rumore.

— Lasciamola stare! — fece Leslie, traendo pel braccio la sorella. — Sai
bene.... È come la storia del pianoforte.

La storia del pianoforte! Le ragazze la rammentavano a Jessie ogni volta
che volevano farla stizzire.

— Rose Cottage sarebbe perfetta — aveva detto un giorno Myosotis,
guardandosi intorno nella casetta, che dopo la vigorosa pulizia pasquale
di Jessie era linda e lucida come un bambino a cui si sia lavato con
molto sapone la faccia, — sarebbe perfetta.... se ci fosse un
pianoforte.

Il papà, udendo quell'osservazione, aveva accarezzato la guancia rosea
di Myosotis.

— Te lo comprerò, — disse.

Ma Jessie che stava mettendo tavola, e che, per principio, disapprovava
ogni soverchia indulgenza, intervenne severa:

— E si può sapere che cosa ne farete d'un pianoforte, poichè non lo
sapete suonare?

— Ma quando l'avremo, impareremo — disse Myosotis.

— Niente affatto. Quando avrete imparato a suonarlo, lo potrete avere —
ribattè Jessie, con grande fermezza. — Vostro padre non farà di quelle
spese inutili. — E uscì, borbottando ancora: — Già! Mancherebbe altro.
Un pianoforte, quando nessuno lo sa suonare!...

— Sarà meglio non farla arrabbiare — disse il dottor Harding, a tavola,
guardando i visetti compunti delle due ragazzine. — Non insistiamo per
il pianoforte....

Non insistettero. Ma Myosotis si alzò ogni mattina alle sei, e prima di
scuola scendeva correndo al villaggio. Alle sette e mezzo batteva già
alla porta di Miss Jones, la quale, ancora in sottana con uno scialletto
sulle spalle, la faceva entrare nel suo salottino, toglieva dal
pianoforte un vaso di fiori di cera, le fotografie dei suoi genitori e
quella della famiglia reale, e apriva con solennità l'istrumento.
Myosotis sedeva risolutamente davanti alla tastiera e si poneva a
studiare.

Un pomeriggio, quattro mesi dopo, tornando di corsa a Rose Cottage, ella
andò difilato in cucina, e davanti a Jessie che stava impastando un
Yorkshire pudding, distese ed aprì il primo quaderno del Diabelli.

— Vedi queste cose nere? — disse. — Sono note. Ed io le so suonare.

E poggiato il quaderno all'orlo dell'asse infarinato, suonò sulla tavola
da cucina, alzando molto le dita e cantando la melodia:

— _Ta, tatà tatà tatà, ta, ta...._

Jessie colle mani infarinate sui fianchi, fu assai impressionata.

— Ma guarda un po', ma guarda un po'! — esclamava. E nei suoi occhi
rossi salivano le lagrime di meraviglia e di ammirazione.

— _Ta, tatà tatà tatà tatà, ta, ta_ — continuava Myosotis.

E a Jessie le lagrime traboccarono dagli occhi e caddero giù per le
guancie; e non potè nè nasconderle nè asciugarle perchè aveva le mani
infarinate.

Tre giorni dopo, arrivava da Leeds il pianoforte. E il dottore in
poltrona, e Leslie in piedi, e Jessie rigida in una sedia accanto alla
porta, ascoltarono rapiti la Sonatina del Diabelli per ben otto o dieci
o dodici volte di seguito; mentre in cucina il pollo — immolato per la
grande occasione — bruciava nella casseruola, e Whisky in piedi sulla
tavola, ne divorava i fegatini e il cuore.



VII.


Di ritorno da Felixstowe, Mrs Russel, a cui la timida e dolce ritrosia
delle due fanciulle era assai piaciuta, le invitò a venire ogni sabato a
giocare al tennis colle sue figlie e la figlia del nuovo pastore
anglicano. Le due fanciulle vi andarono, ma essendo molto timide e non
sapendo giocare al tennis non si divertirono troppo, e il sabato
seguente non vi andarono più.

Ma da quella visita riportarono una cosa nuova nella loro vita; un libro
prestato da Nelly Russel: «_Jane Eyre_», di Charlotte Brontë. Non
avevano mai letto un romanzo e fu per loro un avvenimento. In Rose
Cottage non si parlava che delle sofferenze di Jane, della dolcezza di
Helen, della fierezza di Rochester; Myosotis lo leggeva ad alta voce, la
sera, a Leslie che ascoltava colle guancie accese e le mani strette in
grembo, e al papà che ogni tanto sonnecchiava. Ma le ragazze lo
svegliavano per rileggergli i passi più emozionanti, e poi andavano in
cucina a leggerli anche a Jessie.

Ma quella crollava la testa sotto la cuffia bianca inamidata: — A me non
piacciono quelle storie. Meglio leggere la Bibbia: si capisce meno, ma
si sa che fa bene.

La sera che il libro fu terminato, Myosotis riprese rassegnata la
sciarpa che stava ricamando per Leslie; ma Leslie tenne il libro tra le
mani, quasi le dolesse separarsene.

— È strano, — sospirò essa, facendo scorrere tra le dita le nitide
pagine ormai lette, — è strano che nei libri accadono tante cose!...
Invece nella vita non accade mai niente.

— Perchè dici questo? — chiese la sorella maggiore volgendo su lei gli
occhi teneri e inquieti. — Ti annoi, forse?

— Non so se m'annoio — rispose Leslie, pensierosa. — Non so precisamente
che cosa voglia dire «annoiarsi».

— Già, — fece Myosotis, contemplando la diafana, biondissima sorellina.
E seguendo il filo dei suoi pensieri dovette dirsi che, in fondo, non
sapevano nè l'una nè l'altra che cosa volesse dire annoiarsi o
divertirsi, gioire o soffrire.

La vita non aveva finora offerto alle loro labbra che la pura
inconsapevolezza d'ogni cosa, come un fresco e insapore sorso d'acqua
montanina.

— Perchè proprio a questa Jane — continuò Leslie, sfogliando il libro
con nostalgica lentezza — vanno a capitare tante cose? Non è verosimile.
Poteva accaderle niente, come a noi.

Myosotis rise. — Ma è appunto perchè le sono capitate tante cose, che
l'autore ha scritto il romanzo. Di una ragazza a cui non succede niente,
nessuno scrive.

— Già, sarà così — disse Leslie pensierosa. — La nostra vita!... Come è
bianca e vuota! Certo di noi nessuno scriverà.



VIII.


Verso la fine di quell'estate, in cui Myosotis compiva diciannove anni e
Leslie quindici, venne a stare a Wild-Forest, in una villa signorile da
tanti anni chiusa, una signora dal bel nome aristocratico: Lady Randolph
Grey.

Grande, grassa, coi capelli tinti di rosso, la carnagione di un biancore
abbagliante, si vedeva uscire dal cancello della villa, vestita di scuro
con un largo cappello alla Rembrandt sui capelli color rame, e
traversare il paese con calmo e dignitoso incesso.

Non faceva nulla per far parlare di sè. Ma Wild-Forest tuttavia ne
parlava. Commentava il suo contegno serio e composto ogni domenica in
chiesa; e assaporava con piacere i _puddings_ profumati di cannella e
garofano ch'essa mandava a tutte le vecchie povere del villaggio.

Non si sapeva troppo chi fosse. Delle sue tre domestiche, una sola
usciva a far compere nel paese e non parlava con nessuno. Ma, forse per
qualche velata indiscrezione dello chauffeur — poichè Lady Randolph
aveva anche una Rolls-Royce verde scura e uno chauffeur in livrea dello
stesso colore —, si sussurrava che era una dama di alto casato: chi dava
per certo che era sorella di Lord Randolph Churchill, e chi sosteneva
con non minore convinzione che era invece la moglie di Lord Edward Grey.

Il suo primo nome aveva un dolce suono esotico: «Miranda», che i villici
di Wild-Forest rotolavano in bocca come una caramella di gomma.

Il Pastore protestante e lo Squire colle loro signore le avevano subito
fatto visita; ma essa, pur ricevendoli con regale affabilità, non aveva
reso la cortesia se non col lasciare alle loro porte uno stemmato
biglietto di visita.

Viceversa, dopo qualche settimana di solitudine, cominciò a ricevere
molte visite da Londra; e, specialmente al «_week-end_», cioè ogni
Venerdì e Sabato, si udiva per le silenziose vie del villaggio un gran
rantolare e russare e tossire d'automobili.

La domenica andava sempre lei sola in chiesa; i suoi ospiti rimanevano
nella villa delle Acacie. I buoni rustici, avviandosi alla chiesa, li
scorgevano talvolta traverso l'alta siepe d'edera e di bosso: stavano
languidamente sdraiati sotto agli alberi nelle poltrone di vimini,
fumando sigarette (le donne come gli uomini) ed esponendo all'aria (gli
uomini come le donne) le eleganti caviglie calzate di seta variopinta.

Si faceva sottovoce i nomi degli ospiti: quello dai baffi bianchi doveva
esser Mr. Asquith, e le due signorine vestite di rosso erano senza
dubbio le sue figlie. C'era anche il Duca di Norfolk.... in incognito. E
quel biondino snello e pallido, vestito di grigio, si sussurrava a bassa
voce che doveva essere.... Sì, sì! nientemeno che il principe di
Galles!... Traverso le siepi i contadini sostavano, trattenendo con
riverenza il respiro, a mirare quelle caviglie iridescenti a quadretti
rossi e verdi, appartenenti a Sua Altezza.... E quando, in chiesa, il
reverendo Pastore recitava come di precetto la preghiera per la Famiglia
Reale, tutti gli occhi si volgevano a Lady Miranda Randolph Grey, che
inginocchiata piamente nel suo banco, chinava un po' più basso sulle
guantate mani il cappello piumato e la nuca tizianesca, quasi fosse
questa preghiera un favore speciale e personale che la congregazione
chiedesse per lei all'Onnipotente.

Una domenica, uscendo dalla funzione, col capo d'oro soavemente chino
sopra il suo libro di preci, e percorrendo il viale del piccolo cimitero
che circondava la chiesa, ella si imbattè faccia a faccia colle due
figlie del dottor Harding. Quelle levarono a lei i limpidi sguardi; e
quando furono passate ella ebbe l'impressione d'aver sfiorato qualche
cosa di primaverile, di mattinale e d'alato.

— Chi sono quelle due fanciulle giovanissime, biondissime, vestite
d'azzurro, che ho visto or ora? — si degnò essa di chiedere a Mrs Russel
che, ferma sulla strada davanti al cancello del cimitero, aspettava il
passaggio e il saluto della illustre dama.

— Sono le figlie del vecchio dottor Harding, — rispose Mrs Russel,
felice d'essere interpellata; e rapidamente tracciò la breve e semplice
storia delle due fanciulle.

— Ah? non hanno madre? — osservò Lady Randolph Grey, mettendosi il
guanto destro, che, secondo il rito della chiesa episcopale inglese,
aveva tolto per prendere la Sacra Comunione.

— Già, poverine! — disse Mrs Russel — vanno ogni domenica dopo la
funzione a pregare sulla sua tomba. Quanto al loro padre, è una persona
angelicamente buona; ma vive così lontano dal mondo, così fuori della
vita, che quelle sue bambine non hanno amicizie, e si può dire che non
vedono mai nessuno. Tuttavia — soggiunse la buona signora Russel — sono
perfettamente liete e felici.

— Si vede! — disse Lady Randolph Grey. — Hanno l'espressione beata ed
aspettante dei due angelelli ai piedi della Madonna di San Sisto.

— Già, già — assentì Mrs Russel, senza sapere affatto di quali angelelli
nè di che Madonna si trattasse.



IX.


La domenica seguente, terminata la funzione, invece di recarsi
direttamente alla sua automobile che palpitava in attesa sullo stradale,
Lady Randolph Grey, all'uscire di chiesa s'inoltrò nel camposanto, volse
per un ombroso sentiero a destra e sostò davanti a una tomba tutta
ricoperta d'edera, recante, al capo, una gran croce di marmo. Appeso nel
centro della croce un piccolo medaglione di vetro racchiudeva una
fotografia sbiadita. Sul marmo erano incise le parole:

            «_Mary Evangeline Harding, morta a 24 anni._»
             «_Muor giovane colui che al cielo è caro._»


Lady Randolph Grey si guardò intorno: il camposanto era vuoto; faceva
caldo, ed essa aprì il grande ventaglio rosso; ma poi, udendo dei passi
avvicinarsi, cambiò atteggiamento, congiungendo le mani e piegando il
capo in atto di preghiera.

Myosotis e Leslie si avvicinavano per compiere il consueto pio dovere
verso la memoria materna; sostarono stupefatte vedendo davanti alla
tomba della loro madre quella bella figura immobile, a mani giunte, a
capo chino.

Myosotis commossa afferrò e strinse la mano della sorellina. Leslie si
fece rossa, poi bianca, e le lagrime le salirono agli occhi.

Si avvicinarono, intenerite. Allora la straniera, con un gesto quasi
umile davanti al sacro diritto della pietà filiale, si ritrasse per
lasciar posto a loro.

Un istante i suoi occhi incontrarono il bagliore cerulo degli infantili
occhi di Leslie, acquarellati di pianto.... Lentamente, silenziosamente
Lady Randolph Grey si allontanò; indi entrò rapida nella sua Rolls-Royce
che, partendo, fece una serie di abbaiamenti, come una grossolana e
demoniaca risata.

                            . . . . . . .

— Papà! — esclamò Leslie correndo verso il padre, che muoveva al loro
incontro pel sentiero di Rose Cottage. — Pensa che nel cimitero c'era
quella Lady.... sai bene, la parente del Ministro.... e pregava davanti
alla tomba della nostra mamma!

— Forse leggeva solamente l'iscrizione, — disse Myosotis.

— No, — gridò Leslie, — no! l'ho vista io chinarsi a guardare la
fotografia; poi ha sospirato, ha congiunto le mani.... E ho visto che
pregava!... l'ho visto!

Il padre, commosso anch'egli, carezzò il viso accaldato della
figlioletta. — Sarà certamente un'anima superiore, — mormorò.

— È una santa, un angelo! — disse in un singulto Leslie.

Ed entrarono in casa.



X.


Arrivata alla Villa delle Acacie Lady Randolph Grey entrò rapidamente
nel vasto atrio adorno di grandi piante d'azalea e di palme. Sdraiato e
sbadigliante, coi piedi issati sul bracciolo del divano, giaceva colui
che per Wild-Forest era il «principe di Galles».

— Che fai, Totò, _my darling_? — chiese la bella signora. — Come mai sei
qui?

— Gli altri idioti giocano al croquet, — disse Totò in uno sbadiglio.

— E t'hanno lasciato così solo? — Sdegnata Lady Randolph Grey si
avvicinò alle vetrate aperte: — Carla!... Clorinda!... dove siete?

— Ti prego di non chiamare quelle giraffe, disse il «principe di
Galles», — ne sono sazio e saturo, e mi escono da tutti i pori.

— Ma almeno Gerardo poteva restar qui a farti compagnia, — disse la
signora, posandogli sui morbidi capelli biondi una mano guantata.

Egli ritrasse con impazienza il capo. — Non parlarmi di Gerardo. Se non
sapessi ch'è un rimbambito direi che è un degenerato. Quelle donne gli
piacciono! È incredibile!... — E Totò rabbrividì come a un pensiero
immondo.

Lady Randolph sorrise e gli sedette accanto.

— Adorato Totò, sei di cattivo umore?

L'adorato Totò non rispose.

— E Moses? — chiese la signora, volgendosi a guardare un enorme gatto
bianco, che gonfio e torpido sul tappeto, russava come un vecchio
signore troppo pingue. — È contento?

— Sì, sì; è contento, — disse il giovane, imbronciato; — ma se non ero
io, nessuno ci pensava.

E alzandosi e stirando le lunghe membra, traversò la chiara e vasta sala
e si affacciò alla vetrata.

— Cos'è accaduto, Totò, per infastidirti così? — chiese Lady Randolph
seguendolo alla finestra.

— _J'ai le cafard_, — rispose Totò.

— Ma perchè?

— Perchè sono stucco e stufo.

— Non di me, — fece Milady, appoggiandosi con tenerezza al suo braccio.

— Di te, sì, di te! E delle giraffe, e di Gerardo, e di Moses, e di
quanti siete. Mi uscite da tutti i pori.

— Totò! Totò! non dir questo — ansò Lady Randolph e il suo ampio petto
fluttuò come un mare in burrasca. — Sai che mi fai pena parlando così!
Del resto, — soggiunse, — le giraffe, la settimana scorsa, ti erano pur
piaciute.

— E perciò? Devono piacermi per tutta la vita? — sogghignò il giovane
con amara ironia. — Bada che ti preavviso: uno di questi giorni....
«tatà, Totò!» — E fece cenno d'addio colla mano.

— Ma che cosa dici?

— Sì, sì. È finita. Vado al Giappone col mio amico Collins. Vado a
Yokohama, dove le donne non si pettinano che una volta all'anno, non
parlano mai, e dormono vestite.

Indi sciogliendosi impaziente da lei, uscì colle sue lunghe gambe
snelle, nel giardino.


A colazione Totò non volle parlare che di Yokohama e Tokio e, al
domestico che gli porgeva i piatti, diceva: — _Sayonara!_ — con affabile
dignità. A dir vero era incerto se quella parola significasse «grazie» o
«buonanotte»; ma poichè nessuno degli altri lo sapeva....

— Mi sento male, — disse Lady Randolph Grey a metà colazione; e depose
sulla tavola il tovagliolo.

Le giraffe e il «Duca di Norfolk» emisero qualche inarticolato suono di
rammarico; il «Principe di Galles» arricciò il fine naso in una
espressione d'incredula noncuranza.

La bionda signora uscì maestosamente dalla sala da pranzo, come una
bella paranza a vele spiegate, e si ritirò nella sua camera. Chiamò Lucy
a chiudere le imposte; si mise a letto e diede ordine che nessuno la
disturbasse.

E sola, nel buio, Lady Randolph Grey pensò.

Pensò che Totò le sfuggiva: Totò, il divino Totò, fine e raffinato e
depravato e complicato; Totò, che tutte le sue amiche le invidiavano e
tutti i suoi amici detestavano; Totò, che le teneva luogo di tutte le
perfide femmine e di tutti i brutali maschi che nel passato ella aveva
conosciuto e amato e odiato.... Totò, il serafico e satanico Totò, le
sfuggiva.

E se Totò le sfuggiva, la vita non valeva più la pena di essere vissuta.
Bisognava ad ogni costo trattenere Totò! Bisognava con qualsiasi mezzo
divertire e distrarre Totò.

Era difficile divertire Totò, che, per essersi già molto divertito non
si divertiva più di niente. Tutto, secondo lui, gli «usciva dai pori».
Le donne, gli uomini, i teatri, i cafè-chantants, l'arte, la musica, la
danza, la cocaina, lo champagne, i vizi strani.... tutto gli «usciva dai
pori». Ogni calice era già stato profferto alle sue labbra arcuate e
sdegnose.

Mio Dio, mio Dio! Bisognava cercare qualche cosa di nuovo per Totò!

E che cosa c'era di nuovo al mondo? Nulla. Nulla, e nessuno.
Assolutamente nessuno. Tutti e tutte avevano già detto tutto a Totò. E
tutti e tutte non avevano che la stessa cosa da dire.

Ah, trovare per il tediato Totò qualche cosa d'inedito, qualche cosa
ch'egli non conoscesse ancora!... Impedire che Totò pensasse ad andare a
Yokohama!

Passò un'altra mezz'ora; indi Lady Randolph sporse dal letto il braccio
morbido e un po' sudato, e suonò il campanello.

Lucy comparve subito.

— Milady ha suonato?

— Voglio il dottore, — disse Milady.

— Se Milady comanda, — disse Lucy, — manderò subito lo chauffeur a
chiamare il dottor Methuen.

— Non voglio il dottor Methuen, — disse Milady. — Voglio quell'altro
dottore. Come si chiama?... Harding.

Lucy si stupì. — Oh; ma è vecchio quello, Milady! Non ha più nessuna
clientela. Pare che non sappia guarire che le morsicature dei serpenti a
sonagli. E poichè, — soggiunse l'ancella con inesorabile logica, — dei
serpenti a sonagli qui non ce n'è, così nessuno lo manda mai a chiamare.

— Lo mando a chiamar io, — rispose Lady Randolph Grey. — Dite a Peter
che vada subito. E tu, vieni a farmi le treccie e a darmi l'accappatoio
celeste.



XI.


E colle treccie auree pendenti sull'accappatoio celeste, sdraiata su un
divano presso la finestra, la trovò il dottor Harding un'ora più tardi
quando Lucy, petulante e sarcastica, lo introdusse nella camera della
sua padrona.

Il dottor Harding, ufficiale-medico delle colonie, professore di
medicina tropicale e dermatologia, tremò al cospetto della sua paziente.
Pareva che l'ammalato fosse lui. Il suo fine viso cereo era più cereo
del solito, i mesti baffi bianchi più spioventi sopra la bocca
sensitiva. Da vent'anni egli non aveva curato più nessuno, eccetto la
vecchia Jessie quando aveva il reumatismo e, talvolta, la famiglia di
qualche contadino troppo povero o troppo avaro per mandare a prendere il
valente e moderno dottor Methuen.

Appena ebbe salutato e, obbedendo al languido gesto dell'ammalata, si fu
seduto presso a lei, disse colla voce che tremava un poco per
l'emozione:

— Certo vi è stato errore. Lei aspettava il dottor Methuen.

— No, — disse Milady, con un sorriso dolcissimo, — aspettavo lei,
professore. Ho molto udito parlare della sua scienza profonda, dei suoi
studi sulle malattie tropicali....

— Ma come.... — balbettò il dottore stupefatto, — ella avrebbe forse....

— No, no, — rise la bella dama, — io non ho nè il colera asiatico nè il
piede di Madura. Ma trovo che anche nei piccoli malanni è da preferirsi
un vero scienziato, un erudito, al medico modernista e ciarlatanesco che
si serve dei suoi malati per fare degli esperimenti più o meno
brillanti....

Il dottor Harding tossì, modestamente, colla mano davanti alla bocca;
indi avvicinò la sua seggiola al divano della paziente. Era
riconfortato; a suo agio; sicuro di sè. Evidentemente si trovava di
fronte a una donna veramente superiore.

— Vediamo, signora, — disse, prendendole delicatamente il polso su cui
ciondolavano molti braccialetti.

Il polso era buono. Un pochino debole forse.... Si trattava unicamente
di una leggera forma di anemia....

Mentre il dottore, cogli occhiali sul fine naso, scriveva la ricetta di
liquore arsenicale del Fowler, ferro e ipofosfiti, Lady Randolph uscì a
parlargli delle sue due figlie.

— Le ho scorte in chiesa l'altro giorno.... deliziose piccine!... Se
osassi, le inviterei a farmi un po' di compagnia....

Il padre parve subito adombrarsi.

— Oh, Milady! non ci pensi. Sono timide e selvatiche, senza conoscenza
di mondo. Non potrebbero che darle noia.

Milady ebbe il buon senso di non insistere.


Ma pochi giorni dopo, insieme allo chèque di una ghinea per la visita
professionale, il dottor Harding ricevette da Lady Randolph Grey un
invito ad assistere colle sue due figlie a un concerto che avrebbe luogo
alle «Acacie» il sabato susseguente. Canterebbero Clara Butt, la
Tetrazzini, Van Heuvel; e la celebre danzatrice, Vera Sheremetzkaja,
eseguirebbe la «Danza primaverile» di Mendelssohn.

In un poscritto Lady Randolph Grey soggiungeva che il Reverendo Brownlie
colla signora Brownlie, ed anche lo Squire, Sir Peter Russel, sarebbero
intervenuti colle loro famiglie.

Clara Butt! La Tetrazzini! Il Van Heuvel!... I primi due erano nomi
quasi di leggenda. E Myosotis e Leslie le avrebbero vedute, vive e vere?
Le udrebbero cantare!... Pareva troppo inverosimile per non essere un
sogno. Clara, dalla portentosa voce di contralto, che da un ventennio
mandava in visibilio l'Inghilterra!... la Tetrazzini, che un giorno — un
indimenticabile giorno, a Leeds — le fanciulle entrando in un negozio di
musica avevano udito gorgheggiare in un grammofono!... E poi Van Heuvel,
il tenore olandese che era una nuova celebrità.

Quanto alla Vera Sheremetzkaja non ne avevano mai udito parlare. Già;
nessuno parlava di danzatrici a Wild-Forest e tanto meno nella casa del
dottor Harding. Ma certo anche quella doveva essere un portento.

Il dottore, colla vecchia Jessie, dibattè a lungo l'arduo problema se
era il caso o no di accettare l'invito; infine conclusero che se ci
andava il reverendo Brownlie e Sir Peter Russel colla sua famiglia, vi
potevano andare anche le bambine.

Indi si venne alla difficile questione delle vesti che indosserebbero
per l'occasione. Dopo molte incertezze Jessie decretò che i loro
vestitini bianchi della comunione, molto allungati, potevano andare.

— E tu, papà, cosa metterai per il concerto? — chiesero le fanciulle
sfiorando cogli sguardi un poco inquieti il vecchio abito color tabacco
del loro padre, che traverso molte stagioni aveva sfidato pioggie, nevi
e bel tempo.

— Io? — fece il dottore, alzando i distratti occhi ceruli da un
fascicolo di Annali di Parasitologia. — Io? Cosa mi metto per il
concerto?... Un po' di cotone nelle orecchie; e basta.



XII.


Vi andarono; le fanciulle, nei loro vestitini bianchi, le biondissime
capigliature divise à la Vergine e fluenti dietro le spalle, parevano
uscite da una vecchia tela di Romney; il papà aveva una lunga ed
antichissima palandrana scovata da Jessie in una cassa nel solaio, e
fortemente olezzante di naftalina.

Le fanciulle entrarono dietro al padre nel salone affollato, si
sentirono le mani prese e strette nelle mani morbide di Lady Randolph
Grey e furono presentate a molte persone, tutte d'apparenza
straordinariamente elegante e dai nomi altisonanti e sonori.

Fecero anche la conoscenza del «Duca di Norfolk», che veramente non era
il duca di Norfolk bensì un altro nobile con un nome un po' meno
conosciuto: Lord Gerard Neversol.

Fu grande lo sbigottimento di Myosotis quando egli, salutandola, alzò la
sua rossa e fredda manina ai suoi baffi e fece l'atto di baciargliela.

Dopo un lungo mormorio di conversazione preliminare, tutti presero posto
davanti a un piccolo palcoscenico adorno di palme. Myosotis e Leslie
sedettero, in fila cogli altri invitati, aspettando trepide
l'apparizione della sublime Clara Butt.

La pianista, una modesta persona, entrò e fece un piccolo inchino;
subito il reverendo Brownlie e il dottor Harding, credendola la diva,
iniziarono una entusiastica e calorosa ovazione, ma poi, accorgendosi
che erano soli ad applaudire, smisero, assai mortificati.

Ma ecco alfine presentarsi Clara Butt, maestosa e magnifica, con un
rotolo di musica tra le mani inguantate, e un pennacchio verde piantato
sulla torreggiante capigliatura. Scoppiò unanime l'applauso, che essa
accolse con benevolenza e ripetute flessioni del pennacchio.

Indi cantò. La portentosa voce di contralto, larga e calma, le sgorgò
dall'ampio petto, in note profonde, vibranti e rimbombanti come quelle
di un organo di cattedrale.... Alle due fanciulle, ascoltandola, parve
di essere in chiesa.

Seguì la Tetrazzini. Tutte le allodole e tutti gli usignoli parevano
essersi dati convegno, trillanti e gorgheggianti, nella sua bianca
gola.... E ascoltandola, rapite, alle due fanciulle parve di essere in
cielo.

Ed ora era il turno del giovane tenore olandese. Myosotis consultò il
programma che teneva tra le mani e lesse i titoli delle romanze che egli
avrebbe cantato. «_Sehnsucht_», s'intitolava la prima.

— _Sehnsucht_? Che cosa vuol dire?

Inutile domandarlo a Leslie; e Myosotis volse gli occhi per la prima
volta al suo vicino di sinistra. Vide che era Lord Gerard Neversol; e a
lui ripetè la domanda: — Sehnsucht, che cosa vuol dire?

— Sehnsucht? — rispose il giovine, fissandola negli occhi, — vuol dire
struggimento. Vuol dire.... desiderio.

— Grazie, — disse Myosotis. E tacque.

— Perchè non prosegue nelle sue domande? — chiese Lord Neversol che non
aveva distolto gli occhi da lei, lasciando errare lentamente i suoi
sguardi dalla pura fronte sotto ai morbidi capelli, alla puerile bocca
socchiusa e alle mani un po' rosse congiunte in grembo. — Perchè non mi
chiede che cosa vuol dire desiderio?

— Ma, — fece Myosotis, sorridendo, — mi pare di saperlo.

— Ah! — ribattè Lord Neversol, guardandola profondamente negli occhi, —
le pare di saperlo.

E continuò a guardarla fisso, senza sorridere.

Myosotis si sentì arrossire senza sapere perchè.

Leslie dal suo posto si sporse un poco avanti. — Che cosa c'è? — chiese
alla sorella, sogguardando il personaggio patrizio.

Questi interpose: — Sa forse anche lei, signorinetta, il significato
della parola «desiderio?».

Ma prima ch'ella potesse rispondere comparve sul palcoscenico il tenore,
e subito le note gli squillarono dal petto, chiarosonanti come oro che
batte sull'argento.

    «_Nur wer die Sehnsucht kennt_
    «_Weiss was ich leide...._»

intonò egli nel timbro d'una tromba chiarina.

E per le due più giovani tra le ascoltatrici non vi furono più desideri,
non vi furono più pensieri. Quelle note colmavano ogni lacuna nella loro
anima, cullandole in un vago, infinito incanto....

E ancora non s'erano riavute da quell'estasi, che già appariva, correndo
— lieve come un petalo di fiore portato dai venti — la danzatrice Vera
Sheremetzkaja.

Era scalza e avvolta in diafani veli. E danzò. Danzò, aerea e
scintillante, come danza un raggio di luna sull'acque....


I primi maestosi accordi di «_God save The King_» terminarono il
trattenimento, e le fanciulle, mute e trasognate, seguirono gli altri
invitati nella grande sala attigua; quivi mangiarono dei rosei gelati,
delle fragole giganti annidate in nubilose colline di crema Chantilly,
dei fondants del Fuller iridescenti tra le violette candite; e per la
prima volta intinsero le loro labbra rosee nello scintillìo dorato dello
champagne.

Tutt'a un tratto Leslie si turbò. Strinse il braccio di Myosotis:

— Viene il principe di Galles! — sussurrò.

E difatti Totò, lento e noncurante, veniva verso di loro. Lord Neversol
lo presentò:

— Il barone Ottavio Tottenham, — disse. Indi si soffermò a udire come
progrediva la conoscenza.

Myosotis lo salutò, chinando la vezzosa testa; ma Leslie stette come
trasognata a guardarlo.

— Oh Dio! — esclamò, con accento di stupore e delusione, — ma allora non
siete il Principe di Galles?

Totò, rimasto per un attimo sorpreso, diede in un'allegra risata.

— Che strana idea! Vi avevano forse detto....

— Ma tutti, tutti lo dicono, — esclamò Leslie, fissandolo quasi con
rimprovero. — E Miss Jones, la maestra, è venuta apposta a insegnarci il
saluto che dovevamo farvi!

Totò fu galante. — Oggi per la prima volta rimpiango di non essere Sua
Altezza Reale, — disse. — Avrei voluto ricevere quel saluto. — E
avvicinandosi un po' più e affondando in quegli occhi infantili lo
sguardo, quello sguardo profondo e languido col quale soleva turbare
fino al deliquio le «giraffe»: — Si può sapere com'era? — domandò.

— Ecco, — spiegò Leslie gravemente, — Miss Jones diceva che voi ci
avreste steso «con lenta regalità» la mano; allora noi dovevamo
prenderla e, con profondissimo inchino, far l'atto di baciarla....
badando però di non baciarla davvero!

— Oh, guarda! — rise Totò. — Che crudele restrizione!

— Non era facile, — disse con un sorriso Leslie, — ma a furia di
provarlo con papà....

Myosotis la interruppe: — Sir Ottavio Tottenham ci crederà molto
sciocchine....

— Ma no, ma tutt'altro, — fece Totò, assai divertito.

— Oh Dio! — esclamò Leslie, mortificata. — E dire che Miss Jones ci ha
tanto raccomandato di non fare le zucche campestri!...


In quel frattempo Lady Randolph Grey, radiosa e regale, cercava per le
sale il dottor Harding; lo trovò rifugiato in un angolo, solitario e
pensoso. Vedendola, egli si alzò e le stette dinanzi, alta figura
distinta e dignitosa nonostante la sua vecchia palandrana.

Alle effusioni di Lady Randolph Grey egli rispose col suo consueto
sorriso calmo e melanconico.

Al primo momento la esuberante espansività di lei gli parve alquanto
esagerata, e ne provò un certo senso di diffidenza. Ma la bella donna —
biondo, aperto fiore di femminilità — lo disarmò col sorriso smagliante.

— Lei forse, illustre Professore — (ah! chi d'altro al mondo lo chiamava
«illustre Professore»?), — non ama troppo la società? La musica forse
non le piace?

— Ma anzi, ma tutt'altro! — protestò il dottor Harding, conscio dei suoi
batuffoli di cotone, e turbato al pensiero che forse si vedevano.

— Oso sperare che le sue due adorabili figliuole si siano divertite, —
disse Milady, volgendo il capo lucente verso il centro della sala, dove
le due fanciulle, strette l'una all'altra e tenendosi per mano — come,
un po' per timidezza e un po' per affetto, ne avevano il vezzo —
ridevano, alzando a tutti il viso di fiore e l'ingenua azzurrità dei
loro occhi felici.

Gli occhi del padre rispecchiarono quel riso; indi subitamente si
velarono. Il suo pensiero corse ad una silenziosa tomba ricoperta
d'edera nel piccolo camposanto deserto....

Disse cortesemente a Lady Randolph:

— Le sono assai grato, Milady, per la gioia che ha dato loro. — Ma poi,
irresistibilmente, dalle sue labbra sfuggì il singhiozzo del cuore: —
Ah! se oggi la loro madre potesse vederle!

Lady Randolph Grey ebbe un sussulto. Per un istante anche il suo
pensiero volò alla tomba nel piccolo cimitero ombroso, e a quel
ritrattino sbiadito appeso alla croce.... «_Mary Evangeline Harding,
morta a 24 anni_»....

Per un istante le parve che da quella tomba si ergesse l'esile ombra di
Mary Evangeline, che colle braccia spettrali circondasse le due
figurette, dai visi di fiore.... Le balenò l'idea di dire a quel vecchio
gentiluomo che le stava dinanzi pallido e commosso:

— Addio! Ritornate a casa vostra. E quelle vostre dilette, portatele
via!... portatele via da me!

Ma i suoi occhi tornarono a quel gruppo nel centro della sala, a quelle
due teste biondissime sotto il raggiare del lustro. C'era anche Totò; e
Totò rideva. Rideva d'un riso giovane e giocondo che ella non ricordava
d'avergli udito mai.

Totò si divertiva. Le due bambine di questo vecchio dottore non ancora
gli uscivano da tutti i pori....

Milady fu così commossa da quel riso — e fors'anche da parecchie coppe
di «_gin-fizz_» e di «_mint-julep_» — che le facili lagrime le fluirono
agli occhi. Ne approffittò subito per alzarli, così traboccanti, al
grave viso del dottore.

— Quando sarò a Londra permetterà che mi vengano a trovare? Conosco
tanta gente.... eppure mi sento talvolta così sola.

Il dottor Harding trasalì e il cuore gli si strinse. Un rifiuto gli salì
subito alle labbra, e cercò per pronunciarlo la forma che potesse recare
meno offesa a quell'anima gentile. Ma alzando gli occhi, vide, fisso in
lui, quello sguardo tremulo nuotante nel pianto.

— Grazie, — diss'egli colla voce dolce e profonda; — sarò felice di
confidarle a lei.


Partiti tutti, artisti ed invitati. Lady Miranda Randolph Grey si stese
sull'ottomana, con un lungo sospiro.

— _Quelle corvèe!_ — esclamò, alzando sopra al capo le belle braccia
seminude. — Totò!... una sigaretta!

Il barone Ottavio Tottenham le buttò in grembo un astuccio dorato.

Gerardo Neversol le sedette accanto e affondò nei cuscini la testa bruna
e ben spazzolata.

— Buona Gaby, vi applaudo. Siete stata «gran dama» fino alla punta delle
vostre rosee unghie verniciate. Ma si può sapere perchè fate di queste
cose? È dunque una mania inveterata che avete voialtre di volere a tutta
forza entrare nella rispettabilità?

Milady accendeva la sua sigaretta e non rispose.

— Questo ricevimento a cui invitate le famiglie di dottori e di
Pastori.... mi sembra una imprudenza.... dirò meglio, una impudenza,
perfettamente inutile.

La signora soffiò verso il soffitto una lunga boccata di fumo.

— Poichè il Pastore è già stato qui — sorrise ironica — voi potete
astenervi dalle prediche, caro Gerardo. E a proposito di Pastori.... che
cosa ne dite di quelle due candide agnellette bionde?

— Poh! — fece Neversol in uno sbadiglio. — Quelle lì.... lasciatele
vivere!

Totò si volse stupito e fissò in volto a Neversol i suoi lunghi occhi
insolenti.

— Che idea! — esclamò. — Lasciarle vivere?.... Perchè?



XIII.


La Villa delle Acacie si chiuse quasi improvvisamente pochi giorni dopo
— era la fine di settembre — e la bella e benefica dama sparì da
Wild-Forest, lasciando dietro a sè una scia di rimpianto in chi l'aveva
conosciuta, e di rancori in chi non l'aveva potuta avvicinare. Si seppe
che era andata in Iscozia per la stagione delle caccie.

Prima di partire aveva chiesto al dottor Harding se le sue figliole, o
almeno una di esse — forse la piccola Leslie? — avrebbe potuto essere
della partita. Ma questa proposta aveva gettato un tale panico nel
tranquillo ambiente di Rose Cottage, che Lady Randolph aveva trovato
prudente non insistere.

Ella si limitò allora a rammentare al dottore la promessa più d'una
volta ripetuta, che, al di lei ritorno a Londra in dicembre, egli le
avrebbe concesso di avere ospiti in casa sua le due care fanciulle.

— Me le confiderà per qualche settimana; meglio ancora per qualche mese,
— aveva detto, col suo scintillante sorriso, la gentildonna, —
Impareranno a conoscere un poco il mondo, la vita.... Passeranno dei
giorni lieti....


Se il pensiero di un'immediata separazione e, più ancora, della partenza
d'una di loro aveva spaventato le due sorelle, altrettanto le deliziò
l'idea della progettata visita a Londra, ancora abbastanza remota per
non essere temibile. C'era tutto il tempo per pensarci, per parlarne,
per preparare l'anima e il vestiario all'importante avvenimento.

Fu quest'ultimo il problema più arduo: poichè, se Myosotis trovava che i
loro abiti dell'anno precedente e la biancheria che possedevano poteva
perfettamente bastare, la vecchia Jessie asseriva sdegnata che ci voleva
tutto un corredo nuovo.

— Guardale se è mai possibile, — esclamava, ciondolando sdegnosamente
davanti ai loro ceruli occhi un po' trasognati, delle informi calze nere
assai rattoppate e degli altri indumenti di forma imprecisata, da cui
pendevano molte fettuccie: — guardate se è possibile andare a stare in
un palazzo come sarà quello, infagottate di simili orrori!

Nessuno osò discutere davanti a quegli oggetti penzolanti come corpi rei
e giustiziati.

— Poi — continuò con severità Jessie, che era in arretrato di vent'anni
sulla moda attuale — avete qui dei copribusti, — e sollevava per la
manica disadorna uno degli indumenti in questione. — A che serve il
copribusto se il busto non l'avete? Bisogna averlo.

Myosotis protestò. Non poteva portare il busto; le faceva male. E quanto
a Leslie, inutile pensarci.

— Già — fece Jessie, con disapprovazione, — grasse non siete. — E
percorse con occhio severo le due esili figurette. — Ma il busto si deve
portare lo stesso. E a Londra, — concluse, — senza un corredo decente,
finchè sono viva io, non andrete.

Myosotis e Leslie furono esterrefatte a tale annuncio; allora fu
chiamato il dottor Harding a dare il suo giudizio.

Egli si trovò assai perplesso davanti alla fila di indumenti femminili
ordinatamente stesi sui due letti in attesa del suo verdetto; e, a vero
dire, le sue osservazioni non servirono affatto a schiarire la
situazione.

— Potreste domandar consiglio a Mrs Russel o alla maestra, — disse egli
infine, dopo essersi schermito alla meglio da un fuoco di fila di
domande sulla maggiore o minore convenienza di portar giacca e sottana
piuttosto che costumi «princesse» e se a passeggio era meglio portare le
scarpe alte coi tacchi bassi o le scarpe basse coi tacchi alti.

— Sì, sì, domanderemo a Miss Jones, — dissero le fanciulle,
riconfortate.

E Miss Jones fu pregata di venire a dare il suo autorevole parere su ciò
che a Londra si poteva e non si poteva portare.

Miss Jones fu da prima un poco acidula e sprezzante, non essendo ella
stata invitata al concerto di Lady Randolph. Ma poscia, più che il
rancore potè il piacere di occuparsi di fronzoli, e Miss Jones
s'interessò, si appassionò, consigliò, ordinò, vietò, e finì col passare
tutte le ore che la scuola le lasciava libere, a Rose Cottage preparando
le due fanciulle, materialmente e spiritualmente, alla loro gita a
Londra.

— Dunque, — sentenziava lei, — appena arriverete.... — Ma, secondo una
sua abitudine s'interrompeva tosto con un nuovo ammonimento. — Farete in
modo di arrivare nel pomeriggio, dopo l'ora del thè, per non aver l'aria
di venir subito a mangiare....

— Ma.... questo dipende dal treno, — osservò Myosotis.

— Non importa il treno. Se arrivate troppo presto a Liverpool-Street,
rimarrete ad aspettare alla stazione, quindi prenderete una carrozza e
giungerete in quella casa a un'ora corretta e conveniente. A proposito —
e Miss Jones aprì un'altra parentesi — badate di pagare lautamente,
anche eccessivamente, il cocchiere, perchè non vi faccia una scena
disaggradevole davanti alla porta. Io conosco i cocchieri di Londra,
e....

Myosotis la ricondusse in carreggiata.

— E allora? Quando saremo arrivate?...

— Entrerete in casa con tranquilla compostezza, vi toglierete i mantelli
nell'anticamera, e poi, nè troppo timide, nè troppo audaci, entrerete
nel salotto, dove....

— E il cappello? — interruppe Myosotis, — lo teniamo in testa? O lo
togliamo anche quello in anticamera?

— E i guanti? — chiese Leslie.

— I guanti si debbono sempre tenere, — sentenziò Miss Jones. — Quanto al
cappello.... Oh, a proposito badate che a colazione si deve sempre avere
il cappello in testa.

— E perchè? — chiese Leslie.

— Perchè è così, — disse con grande sicurezza Miss Jones. — Una mia
amica, Flora Bates, è stata invitata a colazione dalla contessa di
Marlbury, e tutte le signore, compresa la padrona di casa, portavano il
cappello. Anzi, lei fu molto mortificata perchè, visto il cattivo tempo,
s'era messa in testa una vecchia toque di sua zia che....

Myosotis e Leslie si scambiarono un'occhiata di disperazione.

— Ma volete dire che quando si è in casa e che la colazione è
annunciata, si va disopra a mettersi il cappello?

Miss Jones diede una risposta evasiva, basata sulle dolorose esperienze
di Flora Bates.

Myosotis che cominciava a sentire un po' di nervosismo riguardo alla
progettata visita, chiese: — Dobbiamo essere noi le prime a parlare, o
aspettare che ci parlino gli altri?

— E a tavola — interruppe Leslie — si deve mangiare finchè si ha
appetito? o un po' meno?

— È più moderno mangiar molto che poco, — dichiarò Miss Jones. —
Dimostra salute e disinvoltura. Mentre all'epoca della regina
Vittoria....

— Oh, non importa la regina Vittoria, — esclamò con lieve impazienza
Myosotis; — proseguiamo con ciò che vi è di più importante.

Ma più proseguivano e più si trovavano davanti a problemi, di maggiore o
di minore importanza, che nè loro nè Miss Jones erano in grado di
sciogliere. Per esempio: parlando con persone titolate (certo se ne
incontrerebbero molte in quella casa!) si doveva dire «Sì, contessa»
«sì, signora contessa?», o semplicemente: «Sissignore» e
«nossignore»?... E parlando con qualcuno che aveva il titolo di «_Sir_»
si diceva: «Sir Ottavio Tottenham»? «Sir Tottenham»? o «Sir Ottavio»?

Erano problemi senza scioglimento.

Allora Miss Jones ebbe una felice idea.

— Bisognerebbe domandare tutto questo alla Zia Marianna, — disse.

— Chi è la zia Marianna? — chiese, un poco scettica, Myosotis.

— È quella che scrive la rubrica dei consigli mondani nel giornale
settimanale di Leeds: «Il Mondo e il Focolare». Dà consigli su tutto ciò
che riguarda la vita di società. Consiglia sul modo di pettinarsi e di
vestirsi; dice quali cosmetici bisogna usare per la carnagione e i
migliori rimedi per la caduta dei capelli....

— Ma a noi non cadono i capelli, — disse con impazienza Myosotis.

— Insegna come si deve entrare in una sala, — continuò imperterrita Miss
Jones, — e il modo corretto di salutare....

— Va bene, va bene, — esclamò Leslie, per tagliar corto. — Scrivete alla
zia Marianna!

— Ma, a dir vero, — disse Miss Jones un poco esitante, — sarebbe meglio
che le scriveste voi. Io le ho già chiesto tante cose, che alle mie
ultime tre lettere non ha risposto.

Allora le sorelle passarono una serata di delizie componendo la lettera
per la zia Marianna. Le narrarono brevemente e semplicemente il caso
loro e le posarono tre o quattro soltanto delle mille domande che
avrebbero voluto farle. Myosotis firmò la lettera, accluse un
francobollo per la risposta e — dietro suggerimento di Miss Jones — vi
mise anche un vaglia postale di due scellini.

E attesero la risposta.



XIV.


«Signorina Myosotis,

«Arrivando non vi toglierete niente in anticamera. Vi sarà indicata la
vostra camera da letto ed ivi farete la vostra toilette con tutta calma.

(_Memento_: In società non bisogna mai aver fretta).

«A pranzo porterete sempre il _decolleté_. Vostra sorella, se non ha che
quindici anni, vestirà di bianco, accollato.

«Le signore sono sempre le prime a salutare un uomo; ciò che permette
loro di non salutarlo se non ne hanno voglia.

«Il cappello non lo metterete al lunch, quando siete in casa, a meno che
portiate la parrucca; ciò che dal tenore della vostra lettera non appare
probabile.

                                                  La zia Marianna».

«P. S. — Se avete gli occhi celesti, come arguisco dal vostro nome,
portate di preferenza il _bleu Nattier_, o ancora meglio il _bleu
Saxe_».

                                  *
                                 * *

Myosotis rispose a volta di corriere per ringraziare la gentile
consigliera; e soggiunse:

«Ho potuto sapere che cos'è il bleu Saxe. È precisamente il colore degli
occhi di Leslie. Forse anche dei miei....».

Indi, come casualmente, introdusse nella lettera qualche altra
interrogazione.

                                  *
                                 * *

La zia Marianna attese cinque giorni e poi rispose a tutte le domande.

                                  *
                                 * *

E Myosotis le riscrisse:

«Poichè siete tanto buona, potreste forse suggerirmi anche qualche
argomento di conversazione? So che in società si parla di teatri, di
libri e della gente che si conosce; ma noi non conosciamo nessuno, non
siamo mai state a teatro e non abbiamo letto che tre libri: «Jane Eyre»;
le poesie di Mrs Hemans, e «Le Vipere dell'India e il loro Veleno».

«Miss Jones, la nostra maestra, dice che nessuno di questi argomenti è
adatto alla conversazione mondana, e temo che in società ci troveranno
molto sciocche e noiose. Pazienza Leslie, che è tanto bella che basta
guardarla per essere felici! E poi non ha che quindici anni.... Ma io,
che ne ho quasi diciannove!...

«Siamo tutt'e due così timide e silenziose che Miss Jones ci chiama
«zucche villereccie»; d'altra parte una volta che per ubbidire a lei, a
un thè dal Pastore, abbiamo voluto fare un poco le vivaci, papà ci ha
detto che parevamo delle farfalle di legno.

«Secondo voi, zia Marianna, è meglio essere zucche villereccie o
farfalle di legno?».

                                  *
                                 * *

La zia Marianna rispose:

«Le persone che vi invitano avranno qualche ragione per invitarvi o non
vi inviterebbero. Forse la vostra ignoranza è piacevole. O forse siete
bella quanto Leslie? Potete dirlo alla vostra

                                              vecchia zia Marianna».

«(Per la carnagione usate cipria Rachel e crema Freya)».

                                  *
                                 * *

«O cara zia Marianna! Dunque siete «vecchia»?... Non lo credevo.

«È strano, sapendovi vecchia, mi pare di amarvi di più. Ed ho anche più
fiducia in ciò che mi dite. Se sapeste quanto mi piace scrivervi e
ricevere le vostre lettere! Non abbiamo nessuno che ci scriva; e la
sera, quando mio padre sonnecchia sulle sue riviste di medicina
tropicale, e Leslie china la testa, bionda come il miele, sul suo
lavoro, io vi scrivo e sono felice.

«Bella io? come Leslie? Ma nessuno al mondo è bello come Leslie.
Talvolta a guardarla la trovo così bella, così bella, che a me viene da
piangere senza sapere perchè.

«E poi, è così soave!... E ancora così bambina che, la sera, non si
addormenta se io non le seggo vicino e le tengo la mano. E vuole sapere
che anche papà è nella stanza vicina.

«Capirete, è venuta al mondo quando la mamma è morta; e noi le diamo
tutti i vizi....

«Ma se comincio a parlarvi di lei, non smetto più.

«La cipria Rachel non la posso adoperare; ho la pelle tanto chiara che
quella polveretta gialla non mi sta affatto bene. L'altro giorno quando
l'ho provata, tutti hanno riso: e abbiamo finito col metterla a papà e
alla nostra vecchia cuoca Jessie.

«Quanto alla crema Freya, per disgrazia l'ha trovata il nostro cane,
Soda. E l'ha mangiata. (Se ne è anche pentito.... in salotto....
mezz'ora dopo)....

                                                  Vostra Myosotis».

«P. S. — Oh Dio! In tutte queste lettere ho sempre dimenticato di
accludere i francobolli.

«E voi mi avete scritto lo stesso! Quanto siete buona!...

«Sarei molto felice di avere una vostra fotografia».

                                  *
                                 * *

«Grazie, grazie! Che cara fotografia! Siete proprio come io vi pensavo.
Che bei capelli bianchi, che bella fronte aperta, e che cari dolci
occhi!... Vi guardo, e vi amo molto.

«Mi pare strano, guardandovi, che voi vi occupiate dei vestiti e delle
maniere di gente che non conoscete, e di creme e di cosmetici. Mi
sembrate lontana e al disopra di tutte quelle cose un po' vane.

«Se un giorno papà dovrà andare a Leeds andrò con lui e vi verrò a
trovare. Me lo permettete, zia Marianna? Entrerò nel vostro piccolo
ufficio che mi descrivete così buio e triste colla finestra che guarda
sulla muraglia alta e nera, e col rumore costante della rotativa che vi
assorda e stordisce....

«Metterò, per venirvi a trovare, tutto ciò che mi avete consigliato voi:
la veste grigio-argento, e la sciarpa «bleu Nattier».

«E con voi non sarò nè «zucca villereccia» nè «farfalla di legno»; ma
così quale sono — la vostra Myosotis, che senza conoscervi vi ama.

«Se permettete vi mando un bacio».

                                  *
                                 * *

«Grazie, zia Marianna, del bacio che mi rendete.

«Capisco perfettamente ciò che voi mi dite riguardo alla necessità di
guadagnarvi la vita; e non è un male che lo facciate dando i migliori
consigli che potete, e aiutando tante povere piccole anime frivole che
vi chiedono consiglio.

«A me certo avete fatto un gran bene. Mi pare di potervi dire e chiedere
tutto. E la visita a Londra, che mi faceva tanta paura, adesso me ne fa
assai meno.

«Vorrei seguire in tutto i vostri consigli, ma non posso pettinarmi come
dite voi, a sbuffi e a polpette; ho i capelli troppo lunghi. Faccio due
grosse treccie, e quando esco o quando viene qualcuno me li avvolgo
intorno alla testa. No; non me li arriccio col ferro; si arricciano da
sè. Quando li sciolgo, mi ondeggiano tutt'intorno come incandescenti,
perchè sono quasi rossi. Non come quelli di Leslie che hanno un
colore.... un colore che non vi so descrivere!... come raggi di sole e
di luna misti insieme. È bionda, Leslie, come il sole quando filtra
traverso un bosco d'abeti; è bionda come le primule, bionda d'un biondo
tenue che manda chiarore....

«Per oggi vi lascio. Papà mi chiama per aiutarlo nel suo laboratorio. Mi
fanno tanta tristezza i suoi poveri porcellini d'India!... Ma se
salveranno la vita a quei poveri indigeni laggiù, nei terribili tropici,
non bisogna rammaricarsene. Papà dice che è forse una di queste bestiole
che porterà la luce e salverà migliaia di vite umane.

«Se penso a ciò, quasi quasi avrei il coraggio anch'io di farmi
inchiodare su quel terribile asse dove ho veduto spasimare tante piccole
creature....».

                                  *
                                 * *

«Cara zia Marianna,

«Leslie ha un po' di febbre; e noi siamo inquieti e angosciati.

«Ho passato tutta la giornata seduta accanto al suo letto nella penombra
della camera silenziosa, guardando quella testolina bionda sul
guanciale; finchè papà mi ha ordinato di andar fuori un poco.

«Per obbedirgli sono uscita nel pallido sole autunnale.

«Come è triste il mondo quando si esce dalla camera d'un malato! Come
tutto sembra inutile e desolato e desolante!

«L'aria era dolce e tiepida quasi fosse di Aprile.... ma io provavo un
senso di spavento e di solitudine, come se il buon Dio fosse lontano, e
il cielo vuoto.

«Come mai, come mai quando tutti quelli che amiamo stanno bene, non
siamo più felici? molto più felici?...»

                                  *
                                 * *

«Non posso scrivervi oggi.

«Oh, zia Marianna, pregate per noi!»

                                  *
                                 * *

«No; non sta meglio ancora. Ha la febbre sempre alta.

«Papà sembra pazzo; è invecchiato di dieci anni. Pregate, pregate, zia
Marianna!... Andate in una chiesa in cui non siete mai stata (vi sarà
pure a Leeds una chiesa che non conoscete?) ed entrando, pregate subito
per Leslie.

«Dicono che la prima preghiera che si fa in una chiesa in cui si entra
per la prima volta, è sempre esaudita.

«Vi bacio le mani, le mani congiunte nella preghiera per la piccola
Leslie....»

                                  *
                                 * *

«Grazie! grazie! grazie!... Leslie sta meglio.

«Chissà, chissà che non siate stata voi, zia Marianna, che colle vostre
preghiere avete salvato la vita a Leslie?... E anche a papà — perchè se
le accadeva qualche cosa, egli certo moriva! E anche a me, poichè senza
di loro due io non vorrei nè potrei esistere.

«Sapete che cos'è Leslie per noi? È tutta la nostra vita. Noi tre
esistiamo — papà, Jessie ed io — per la piccola Leslie soltanto. Quando
parliamo di lei non diciamo neppure il suo nome. Diciamo: «Dov'è?...
Cosa fa?...» È sottinteso che si parla sempre di lei.

«Ella cresce e fiorisce così pura, così radiosa e traslucente, così
lattea e luminosa, da parer quasi evanescente.... E noi pensiamo: Non è
possibile che sia nostra, proprio nostra, una creatura così eterea, così
vaporosa!... E non si osa mai dirle il bene che le si vuole. Non so
perchè.... come per una specie di timidezza.

«D'altronde, come dirglielo? Come andare da lei a dirle: — Leslie! Io ti
amo tanto che vorrei morire per te? — Che impressione le farebbe?
Rimarrebbe spaurita, sbigottita.... non comprenderebbe....

«Già, queste cose non si dicono mai alla gente colla quale si vive. Una
specie di pudore vi trattiene, vi disperde sulle labbra le parole troppo
dolci, le espressioni troppo appassionate.... E così si vive insieme, e
l'uno non sa che cosa l'altro abbia nel cuore.

«La piccola Leslie non saprà mai che noi tre — noi tre così diversi: il
papà, la vecchia Jessie ed io — l'abbiamo amata con questo indicibile,
questo struggente e doloroso amore.

«Io penso che un giorno, quando saremo più vecchie, troverò il coraggio
di dirglielo; ma so che mai, mai, troverò le parole che glielo potranno
esprimere, che le potranno far comprendere quest'atmosfera di tremante,
trepida adorazione che ha circondato la sua puerizia.

«.... Zia Marianna, essa è qui, accanto a me, mentre vi scrivo queste
cose. È sdraiata nella poltroncina a dondolo, cogli occhi chiusi; è
ancora debole dalla recente malattia; sulle sue guancie pallide come un
petalo d'eglantina le sue ciglie lunghe e bionde mettono una lieve ombra
semilunare, e una delle sue mani — così piccoletta e infantile! — pende
dal bracciolo, a pochi centimetri da me.

«Che voglia ho io di chinare la faccia e di baciargliela, quella piccola
mano inerte! Potrei farlo; ne ho il diritto; è la mia sorellina.... che
ci sarebbe di strano? Ma non oso; no; sono timida davanti a quel visetto
soave, a quei chiusi occhi.... E il bacio ch'è già suo, non glielo dò.

«Dove vanno, zia Marianna, i baci non dati? I baci creati nel pensiero,
fioriti sulle labbra e non giunti al loro destino?...

«Dove vanno, zia Marianna, i baci non dati?»

                                  *
                                 * *

«Ma come? Voi partite? Quanto me ne addoloro.

«E credete che in quella fredda e nordica Edimburgo starete meglio di
qui? La Scozia è lontana; e ci piove ancora più spesso che a Leeds.

«E alla vostra età un viaggio così lungo non vi fa paura? Chi vi
accompagna? Chi ha cura di voi? E il vostro giornale come farà senza la
vostra rubrica così interessante?

«Io mi sentirò sola e sperduta, sapendovi lontana. Mi era dolce sapervi
a Leeds, non tanto lontana da noi; pensarvi, coi vostri bei capelli
bianchi divisi sulla fronte calma, seduta nel vostro piccolo ufficio
nero e malinconico, a scrivere di profumi, di fronzoli e di frivolezze
che, in fondo, io credo siano lontane da voi e dal vostro pensiero....

«È strano che abbiate permesso a me, piccola sconosciuta, di diventare
la vostra amica.

«Zia Marianna, cara zia Marianna, mi addolora la vostra partenza.»



XV.


Negli ultimi giorni di novembre arrivò l'invito da Londra. Era scritto
su carta molto grande, color viola pallido, e fortemente profumata.
Anche la calligrafia era assai grande, perpendicolare, con molti
ghirigori e svolazzi.

Lady Randolph Grey invitava formalmente le signorine Harding a passare a
Londra qualche settimana in casa sua. Erano attese per i primi giorni di
dicembre; vi sarebbe qualcuno alla stazione di Liverpool-Street a
riceverle. Mandava i suoi più distinti saluti all'esimio scienziato,
professor Harding, e si protestava la loro affettuosa e sincera amica.
Miranda Randolph Grey.

Seguiva un P. S. — «Sarà mia ospite in quei giorni anche la dama d'onore
della Regina d'Olanda. Senza dubbio le signorine Harding saranno liete
di fare la conoscenza di quella illustre gentildonna e delle sue due
graziosissime figlie».

La dama d'onore della Regina d'Olanda! L'agitazione a Rose Cottage
crebbe fino al parossismo. Anche il dottor Harding ne fu blandamente
commosso. Il dolore amarissimo di separarsi anche per breve tempo dalle
sue figliole fu un poco lenito dal pensiero delle conoscenze illustri
che le sue piccole dilette farebbero nella casa patrizia della bella
dama, la cui affabilità non gli era mai uscita dalla memoria.

La dama d'onore della Regina di Olanda!... Myosotis corse colla lettera
da Miss Jones.

Miss Jones ne fu assai impressionata.

— In tal caso, — dichiarò, — vi dovrete far fare dei vestiti nuovi da
Miss Knox.

— Già, già! — esclamarono le fanciulle.

— Ed è impossibile che arriviate a Londra coi vostri cappelli
dell'inverno scorso.

— Impossibile! — fecero in coro le due.

— Bisognerà comperare qualche cosa di moderno ed elegante. Una piccola
_toque_ da viaggio con bordo di pelliccia per Myosotis; un cappellino
con ghirlanda di rose per Leslie.

Le fanciulle furono perfettamente d'accordo; ma dove trovare quelle
eleganti creazioni? I copricapi esposti nella vetrina dell'unica modista
di Wild-Forest non erano soverchiamente pittoreschi.

Non c'era che un partito da prendere: andare a Leeds, dove secondo Miss
Jones i negozi potevano stare a pari con quelli di Londra.

Dopo molte discussioni e riflessioni e indecisioni fu stabilito che
Myosotis andrebbe a Leeds il lunedì seguente; e Miss Jones, da buona
amica, consentì ad accompagnarla.

Passarono l'indomani, che era domenica, a fare delle lunghe liste di ciò
che dovevano comperare, e il lunedì mattina prestissimo partirono....
dimenticando a casa le liste.

Durante tutto il viaggio Miss Jones si alambiccò il cervello per
rifarle, guardando dal finestrino con occhi distratti e la punta della
matita in bocca; mentre Myosotis fantasticava intorno a un suo progetto
da tanti giorni silenziosamente vagheggiato: — una visita alla zia
Marianna!

Arrivate a Leeds fecero le loro compere, dimenticando sempre qualche
cosa; ciò che — con grande mortificazione di Myosotis — le obbligava a
ritornare due o tre volte nello stesso negozio per comperare altri
oggetti o cercare involti e pacchi scordati sulle sedie e sul banco.

— È strano, — disse Miss Jones, ferma sotto un portone, contando per la
decima volta i pacchi, — prima ce ne mancavano tre; adesso ne abbiamo
due di troppo.

Dopo molti calcoli e riflessioni e un gran tastare e pigiare e riaprire
di pacchi, si trovò che difatti, dal banco del «_World's Emporium_» ne
avevano portati via due che probabilmente appartenevano ad una signora
che stava facendo delle compere accanto a loro.

Bisognò tornare indietro ancora una volta a quel negozio e riportarli
con molte scuse e spiegazioni.

Esauste e snervate entrarono per far colazione in un democratico e
affollato ristorante chiamato «A. B. C.», dove delle imperiose
damigelle, con pettinature piramidali sormontate da piccolissime cuffie
inamidate, passavano avanti e indietro con piatti e vassoi. Sedettero in
un angolo, ma le signorine continuarono a passare, davanti al loro
tavolo senza degnarsi di guardarle nè di ascoltare i loro timidi
appelli. Dopo circa mezz'ora una di esse, che pareva la regina di Saba,
si fermò al loro tavolo, porse un elaborato _menù_ e attese con
sprezzante inarcar di sopracciglia e impaziente battito della punta d'un
piede, la loro ordinazione. Questo le confuse a tal punto che finirono
coll'ordinare in gran fretta dei cibi che detestavano; e Miss Jones rese
vieppiù cupo ed affliggente il pasto con dettagliate e lugubri
previsioni riguardanti il suo stomaco e la sua digestione.

Finito il lunch Miss Jones si accinse a raccogliere gli involti.

— Sarà ora di andare alla stazione, — disse. Ma Myosotis la trattenne. —
No; lascieremo qui in consegna i pacchi. Abbiamo ancora una cosa da
fare.

— Che cosa? — fece Miss Jones, ancora acidetta, ma alquanto placata da
due tazze di thè e vari _plumcakes_.

— Adesso andiamo a fare una visita.

— Una visita? — esclamò Miss Jones. — Ma non conosciamo anima viva a
Leeds!

— Si, sì, ne conosciamo una, — rise Myosotis, deliziosa sotto alla nuova
«toque» con una ghirlandetta dei suoi fiori omonimi intorno al bordo, e
con una cravatta «bleu Nattier» legata a fiocco sotto il largo colletto
aperto. — Adesso andiamo a trovare.... la zia Marianna!

Miss Jones fece molte proteste ed obbiezioni. — Non le siamo state
presentate.... non si può andare senza un permesso speciale in una
redazione di giornale....

Ma Myosotis non si lasciò stornare dal suo proposito.

— È assolutamente indispensabile che io le domandi in che modo si deve
salutare la dama d'onore di una regina. Vi saranno pure delle regole
d'etichetta speciale!

Questo argomento convinse anche Miss Jones; e dopo aver consegnato, con
raccomandazioni e mancia, i pacchi alla Regina di Saba, si informarono
dell'indirizzo degli uffici del «Mondo e Focolare». Indi s'avviarono per
le affollate vie di Leeds verso un alto e nero fabbricato torreggiante
in fondo alla High Street.

— Non sappiamo neanche il vero nome di questa «zia Marianna», — brontolò
Miss Jones. — E poi, andando così a domandar consiglio, certo bisognerà
pagarla!

— Non credo, — fece Myosotis con un sorriso, pensando alla
corrispondenza intima e tenera, scambiata tra lei e la buona amica
sconosciuta.

Passando davanti ad un negozio di fiori Myosotis volle entrarvi; e ne
uscì portando in mano un gran mazzo fragrante di delicate rose thee.

— Certo le farà piacere, — disse, volgendo a Miss Jones sopra le rose la
dolce faccia ridente. — Forse, poverina, poichè è vecchia, nessuno pensa
a regalarle dei fiori.

— Come fai a sapere che è vecchia? — chiese Miss Jones, con asprezza.

Ma Myosotis non rispose.

Arrivarono davanti al portone del giornale e, un pochino timide,
entrarono nel cortile dove un autocarro stazionava, carico di enormi
rotoli di carta. La macchina rotativa della stamperia faceva udire il
suo rullo continuo ed assordante.

Spinsero una porta di vetro ed entrarono in un atrio. Miss Jones,
affacciandosi a un finestrino dietro al quale lavoravano molte
signorine, chiese:

— Si potrebbe parlare colla zia Marianna?

La signorina più vicina al finestrino rispose senza alzare gli occhi: —
Redazione. Primo piano.

Salirono le scale oscure e strette e si trovarono davanti a un'altra
porta di vetro: «Direzione e Redazione».

Seduto nell'anticamera un ragazzo con un berretto in testa portante la
scritta: «Mondo e Focolare», stava leggendo un giornale illustrato e
fumando un mozzicone di sigaretta. Anche lui, come la signorina, non
alzò la testa al loro entrare.

Miss Jones ripetè la sua domanda:

— Si potrebbe parlare colla zia Marianna?

Soltanto allora il ragazzo — il tipico «_messenger-boy_» inglese — alzò
la faccia pallida, sporca, e impertinente, e squadrò le visitatrici.

— Cosa volete? — chiese lui, senza togliersi di testa il berretto nè di
bocca il mozzicone. — Non si lascia passar nessuno senza sapere che cosa
vogliono.

Myosotis e Miss Jones si scambiarono uno sguardo. Impossibile dire a
questo antipatico ragazzo: — Vogliamo sapere il modo corretto di
salutare la dama d'onore della regina di Olanda.

Il ragazzo stette un poco a guardarle, poi guardò le rose in mano a
Myosotis; indi, facendo a questa una smorfia che somigliava a una
strizzatina d'occhio, disse:

— Potete scrivere qui i vostri nomi.... — E spinse verso di loro un
foglietto di carta bianca non troppo pulita.

— Metterò io il mio nome, — disse la fanciulla. E china sul tavolo
scrisse sul foglietto: — Myosotis. —

Indi, porgendolo al ragazzo, soggiunse:

— Dite alla signora che non la tratterremo che pochi istanti.

Stavolta non c'era da sbagliarsi; il ragazzo, con aria di burla, chiuse
un occhio, poi gonfiò le guancie come se volesse scoppiare dalle risa.

— Lo dirò.... alla signora! — disse. E se ne andò sventolando il
foglietto.

Rimase assente qualche minuto. Poi riapparve.

— Passate pure, — disse, e ancora facendo le viste di torcersi in
silenziosa ilarità, riprese il suo posto e il suo giornale.

— Odiosa persona, — mormorò Miss Jones avviandosi per l'oscuro
corridoio.

— Porta 7, — le gridò dietro il ragazzo.

Alla porta 7 Miss Jones bussò con molta decisione e risolutezza, poi
entrò senza aspettare risposta.

Myosotis, timida, colle sue rose in mano, s'era fermata un poco
indietro; ma d'un tratto pensò:

— La zia Marianna crederà che Miss Jones sia io! — Allora si avanzò
rapida. Ed anche lei entrò dietro alla maestra.

Si trovò in un piccolo ufficio buio, colla finestra che dava su un muro
annerito dal fumo e dagli anni. Ed ivi, davanti a una grande tavola
ingombra di carte, sedeva un uomo.

Era un uomo sulla quarantina, largo di spalle, con una gran barba bruna.
Egli teneva in mano il foglietto scritto da Myosotis, e contemplava Miss
Jones con evidente stupefazione. Quella, traverso i suoi occhiali, lo
contemplava con non minore sorpresa.

Dopo un momento di incertezza Miss Jones ripetè per la terza volta la
sua domanda:

— Posso parlare colla zia Marianna?

Ora gli occhi di lui avevano oltrepassato Miss Jones, e si fermarono
sulla figuretta nel vano della porta col suo mazzo di rose in mano. Un
riso gli balenò negli occhi, e, alzandosi lentamente dal suo posto,
disse:

— La zia Marianna sono io.



XVI.


Un silenzio esterreffatto seguì questa dichiarazione. Gli occhi di
Myosotis, fissi su quel viso barbuto, si allargavano smisuratamente....
Egli vide quelle iridi balenare azzurrissime, poi con un rapido battere
delle palpebre, velarsi subitamente di lagrime.

Erano lagrime di bruciante umiliazione. In un lampo tornarono alla mente
di Myosotis le lettere ch'ella aveva scritto a quest'uomo, lettere
puerili in cui gli aveva svelata tutta se stessa, in cui aveva descritto
le sue intime sensazioni, in cui aveva persino descritto il colore dei
suoi occhi e dei suoi capelli.... Tutti, tutti i suoi pensieri aveva
detto a questo sconosciuto, credendo, di parlare ad un'amica, a una
dolce donna dagli occhi profondi, dalla fronte serena sotto i capelli
bianchi....

Un immenso rancore, quasi un senso d'odio, la invase; e colui che la
guardava vide un pallore latteo salire lentamente a sbiancarle il viso
delicato. E vedendola così pallida, colle sue rose in mano, un
improvviso rimorso gli strinse il cuore.

Frattanto Miss Jones aveva ritrovato la favella.

— Ma come, — esclamava stupita, — è lei la persona che firma «zia
Marianna?» Ma è possibile!... E come fa lei, un uomo, a intendersi di
fronzoli e di fiocchi, di regole d'etichetta e di cosmetici?

Egli cessò di guardare Myosotis e si volse con cortesia verso Miss
Jones. — Voglia accomodarsi, signora. — E additava una poltrona accanto
al suo scrittoio; indi andò a prendere dal vano della finestra una
seggiola e l'offerse a Myosotis. — La prego.... segga.

La fanciulla obbedì, come in sogno.

E come in sogno contemplò quell'uomo, alto, largo di spalle, dai folti,
capelli ricciuti e un po' grigi, la fronte alta e sbarrata dalle
sopracciglia dritte e nere come una spennellata d'inchiostro della
china; e sotto a quelle nerissime sopracciglia due occhi chiari,
infossati, taglienti....

Myosotis non udì nulla di ciò che Miss Jones gli diceva; la udì che
rideva d'un riso un po' stridulo e affettato; finalmente vide che si
alzava, che quell'uomo si alzava anch'egli; allora come un'automa ella
pure si alzò. L'uomo le si avvicinò e chinando il capo dalla sua grande
altezza le parlò.

— Lei deve perdonarmi — disse. — È da vent'anni che faccio la «zia
Marianna», e, al principio, rispondendo alle sue lettere non pensavo
affatto all'inganno. Poi le sue lettere mi piacquero tanto che.... non
volevo che cessassero. Mi comprende? Mi perdona?

Ella non potè alzare gli occhi nè rispondere. Finalmente trovò un filo
di voce per dire sommesso, con amaro rimprovero:

— Quella fotografia!...

Egli si avvicinò d'un passo. — È la fotografia di mia madre, — disse.

Un suono, una vibrazione nella sua voce, toccò qualche cosa nel cuore
della fanciulla. Con subitaneo impulso ella tese verso lui la mano che
teneva le rose.

— Allora... _è quella_ la mia amica! Porti le rose a lei.

Egli accettò il mazzo fragrante, senza rispondere, senza neppur
ringraziare.

Miss Jones era già sulla porta e Myosotis la raggiunse.

Le due donne si ritrovarono nell'oscuro corridoio. Passarono davanti al
ragazzo che leggeva e che non si mosse.

— Mio Dio! — esclamò Miss Jones appena furono in istrada, — che cosa
fantastica! La zia Marianna, un uomo!... Chi mai l'avrebbe pensato!
Probabilmente — soggiunse, — sarà molto povero, e non avrà trovato altro
da fare.

— Già, — fece Myosotis ad occhi bassi.

E non disse altro.

D'improvviso Miss Jones si fermò.

— Giusto cielo! — esclamò, — abbiamo dimenticato di chiedergli come si
deve salutare la dama d'onore della regina d'Olanda!



XVII.


«Signorina Myosotis,

«Lei deve perdonarmi. Non pensavo di vederla mai. Già, tra pochi giorni
dovevo partire per la Scozia.... e, come ha detto lei, la Scozia è
lontana....

«Le sue lettere, fin dalla prima, erano così deliziose! Non potevo non
rispondere. E dopo, non ho più trovato il coraggio di disilluderla, nè
di allontanare da me il suo affetto così dolce e fidente. E perchè avrei
dovuto farlo?

«Non fu che ieri, vedendola impallidire, vedendo i suoi occhi riempirsi
di lagrime, che ho capito di aver avuto torto, e mi sono pentito e
vergognato come di una mala azione.

«Le ho detto che da vent'anni — cioè, dacchè dovetti lasciare
l'accademia di pittura a Parigi per la morte di mio padre — lavoro per
questo giornale. Vi compio le mansioni più svariate: sono il critico
letterario e teatrale; sono il critico d'arte; e — dal giorno lontano in
cui la prima ed autentica zia Marianna scappò col proto e con la cassa
della redazione — sono la zia Marianna. Molte volte sono anche «Un
fedele lettore», «Un abbonato che protesta», o «Un cittadino sdegnato»,
spinto a queste svariate attività dal buono ma tirannico direttore del
giornale.

«Egli oggi assai si rammarica di veder partire nella mia persona quasi
l'intero personale della sua redazione. Anche a me dispiace; ma faccio
un passo avanti nel giornalismo: divento redattore-capo della Gazzetta
d'Edimburgo.

«Mia madre, che è nativa di quella città, è felice di tornarvi.

«Ecco, signorina Myosotis, tutta la mia semplice biografia.

«Ed ora, se osassi, le chiederei un grande favore. — Oserò, tremando.

«Parto tra otto giorni. Vorrei prima di partire vederla ancora una
volta; e vorrei che mi fosse concesso di scorgere per un solo istante la
sorellina, la piccola Leslie, dai capelli biondi «come i raggi del sole
e della luna misti insieme».... Vorrei portar via con me l'immagine sua
accanto a quella di Myosotis....

«Non è la zia Marianna che lo chiede; è il critico d'arte — il pittore
mancato — che vorrebbe portarvi via entrambe nella sua memoria come vi
ha vedute nei suoi sogni: bionde come il miele, bionde come le primule,
aureolate della vostra bianca giovinezza!...

«Il treno che mi porta verso la gelida Scozia passa dalla stazione di
Westham — non lontano da Wild-Forest. Se scendessi, fra un treno e
l'altro, potrei traversare le brughiere e giungere a Rose Cottage verso
il mezzogiorno.

«Me lo permettete?

«Vedrò Leslie; saluterò vostro padre; dirò buon giorno alla vecchia
Jessie.... (Come li conosco tutti traverso le vostre lettere!...)

«E dirò addio — addio per sempre! — a Myosotis».

                                                  «Laurence Wilmer».



XVIII.


Gli andarono incontro, le due sorelle, scendendo per la collina; le
pallide luci autunnali avvolgevano il mondo di vaporosa bellezza.

Laurence Wilmer saliva dalla valle immersa nelle nebbie e nel grigiore;
le due fanciulle scendevano a capo scoperto, tenendosi per mano, e
sorridendogli da lungi. Intorno alle loro teste il sole del meriggio
metteva una sfumatura di luce, un pulviscolo d'oro....


Egli le ricordò sempre così.



XIX.


Il dottor Harding fece assai buona accoglienza a Laurence Wilmer, e
anche la temibile Jessie, messa al corrente di tutto, lo salutò con
molti sorrisi.

Il dottore non volle che si parlasse di lasciarlo ripartire quella sera
stessa, e gli fu preparata una cameretta gaia e imbiancata alla calce,
da cui, per fargli posto, Jessie portò via molte provvigioni di mele, di
pere e di cipolle.

La colazione fu assai allegra. La zia Marianna, come le fanciulle
continuarono a chiamare il loro ospite, aveva molte cose divertenti da
narrare riguardo alle sue molteplici attività giornalistiche. Parlò
brevemente della sua giovinezza, dei suoi sogni d'arte troncati dalla
morte di suo padre — tragica ed improvvisa morte che lasciava senza
risorse la madre delicata e sofferente. Parlò delle sue speranze per
l'avvenire.... quell'avvenire di cui, ormai, poteva dirsi sicuro....

Dati questi brevi ragguagli biografici, la zia Marianna non parlò più di
sè, ma riuscì a far parlare tutti: la timida Myosotis, il riservato
dottore, e Leslie, ridente e ritrosa. Anche la bisbetica Jessie,
portando il caffè, si attardò a prender parte alla conversazione
generale.

Dopo colazione le fanciulle lo condussero sull'aia a far conoscenza
delle otto galline — gonfie e immobili pel freddo — e dei tre conigli
bianchi e neri scampati alla truculenza di Whisky e di Soda e alla
ferocia culinaria di Jessie....

Quindi gli venne presentato anche un piccolo maiale, convalescente
dall'influenza, sdraiato sotto un mucchio di paglia dorata.

— È stato molto male, poverino, — sospirò Leslie colla sua dolce voce di
colombella; — bisognava vederlo! Era tutto rosso per la febbre!...
allora papà ha ordinato che gli si facessero due tagli nella coda, per
cavargli il sangue.

— Sventurato! — disse Wilmer scotendo il capo con gravità.

— Sì, era terribile, — disse Leslie. — Figuratevi che i tagli glieli ha
fatti Jessie, colle forbici. E lui gridava tanto che faceva star male
tutti. Allora papà ha pregato Myosotis di suonare il pianoforte, perchè
non si udissero quegli strilli.

La zia Marianna rise. — E che cosa ha suonato, signorina? — chiese,
rivolto a Myosotis.

— L'inno reale, — disse Myosotis, tutta arrossente; e rise anche lei.

— Con molto pedale! — soggiunse Leslie.

Allora tutti risero; e il convalescente grugnì, rallegrato da quel
piacevole suono.

In quell'istante passò accanto all'orecchio di Wilmer un insetto,
volando con sonoro ronzio.

— Oh, guarda! un «fioralato!» — esclamò Leslie.

— Che cos'è? — domandò Wilmer.

— Ma, veramente, — spiegò Myosotis, — il loro nome giusto non lo
sappiamo. Sono delle strane bestiole, che quando sono ferme sembrano dei
fiorellini verdi. Perciò le chiamiamo così.

— Pensate, — disse Leslie, congiungendo infantilmente le mani in atto di
pietà, — che non possono fare che un volo, uno solo! in tutta la loro
vita! Appena hanno volato, muoiono.

— Già. — soggiunse Myosotis, volgendo a Wilmer gli sguardi luminosi: —
le abbiamo tanto osservate: stanno dei giorni e dei giorni ferme, o
quasi ferme, su un sasso o sul muro, come se pensassero: «Adesso....
dove volerò?», E si muovono appena, adagio, adagio, come piccoli bruchi
senz'ali. Poi, d'improvviso si decidono e spiccano un gran volo!... E
appena si posano, sono morte.

— Strano destino, — osservò Wilmer.

— Voi, — chiese Leslie, col suo dolce sorriso di bambina, — al loro
posto che cosa fareste? Volereste? O stareste fermo per non morire?

Wilmer riflettè un istante.

— Credo che volerei subito, — dichiarò.

— Anche noi! — dissero insieme le due chiare voci giulive....

Oh, dolci, miti discorsi! A Wilmer pareva di tuffare lo spirito in una
fresca fonte d'acqua montanina....

Il dottor Harding, da tanti anni esule volontario da ogni consorzio
sociale, udendo quelle voci allegre uscì e si accompagnò a loro.

Un po' più tardi le fanciulle rientrarono in casa, chiamate dalla severa
Jessie per qualche faccenduola domestica; ma i due uomini rimasero
insieme a discorrere su molti e svariati argomenti.

Il dottore condusse Wilmer nel suo laboratorio e, lieto di avere un
ascoltatore intelligente, gli espose ampiamente le sue teorie sulla
profilassi e la cura della lebbra. L'enciclopedico giornalista che aveva
una conoscenza superficiale anche degli argomenti prediletti dallo
scienziato, s'interessò vivamente agli studi e alle esperienze di lui.

Con anche maggiore curiosità ascoltò le drammatiche narrazioni che il
dottor Harding gli fece riguardo ai temibili serpenti velenosi dei
tropici.

— Guardi — diceva il vecchio scienziato, curvo sopra una grande boccia
di spirito che una enorme cobra riempiva dei suoi sinuosi avvolgimenti:
— è questa la più formidabile e la più funesta delle colubridi; questa,
la subdola e silente apportatrice di morte, dal bel nome femmineo:
«_Naja Tripudians!_». Guardi che meravigliosa grazia sinuosa, che forma
simmetrica, pura nelle sue curve come la voluta di un violino.... «_Naja
Tripudians...._» — E la voce del dottore si attardò quasi con voluttà
sulle sillabe che, nei ricordi, lo riportavano alla sua giovinezza nelle
Indie, allorquando, invocato e adorato dagli indigeni come un dio, aveva
creduto alla sua missione, aveva sognato di poter alleviare tante
sofferenze, aveva sperato di liberare l'umanità da un mostruoso
flagello....

— Ah! è questa la famosa Naja egiziana! — esclamò Wilmer chinandosi per
meglio osservarla.

— Si, Naja Tripudians, — ripetè il dottore, — quel nome getta il panico
nelle popolazioni dei tropici. Ricordo il caso di un negro ch'era stato
morsicato da un rettile perfettamente innocuo, ma che, udendo
pronunciare da un mio marinaio quel nome, morì quasi istantaneamente di
terrore.

Wilmer Laurence, chino accanto al dottore, contemplava il sinistro
rettile.

— Il primo effetto del veleno, — continuò Harding, — è uno strano senso
di ubbriachezza; la vittima inciampa e traballa come se fosse ebbra. Poi
ammutolisce, per paralisi della lingua e della laringe.... Finalmente
cessa il respiro. E lo sventurato è morto. È morto; ma il suo cuore,
strano a dirsi, batte ancora....

E il dottore prese allora a parlare degli studi e delle ricerche che da
trent'anni gli riempivano spiritualmente l'esistenza; e quand'ebbe
finito di parlare dei veleni ofidici, tornò ad enumerare i suoi
esperimenti sui lebbrosi del Malabar.

D'un tratto si accorse che il suo interlocutore, pensieroso, non gli
rispondeva.

— Forse l'annoio con queste disquisizioni, — fece il dottore con un
piccolo sospiro. — È naturale che lei non si interessi soverchiamente a
questi argomenti.

E si accinse a rimettere a posto ogni cosa per lasciare il laboratorio.

— No — protestò Wilmer, — non è questo. Non è questo che pensavo....

Il dottore chiuse a chiave la porta del laboratorio e si avviò, a fianco
del suo ospite, per il viale del giardino, verso la casa. Davanti a loro
Whisky e Soda si rincorrevano traverso le sfiorite aiuole stellate
soltanto qua e là da margherite invernali, da asteri viola e pallidi
crisantemi.

— Che cosa pensava? — chiese finalmente il dottore sostando a guardare i
rami brulli e melanconici contro il grigiore del cielo.

— Pensavo, — disse Wilmer volgendo sul volto fine e stanco dello
scienziato i suoi occhi vividi, — pensavo che mentre noi cerchiamo i
rimedi alla lebbra e ai veleni di vipere in terre lontane, qui, nel
nostro paese, qui, nelle nostre città, infierisce un morbo psichico,
dilaga una infezione morale che contamina e corrompe tutto ciò che ci
sta intorno. Pensavo, mentre lei parlava della Naja egiziana, alle
vipere umane che amano mordere nelle carni pure, avvelenare le anime
innocenti! Pensavo alle «naie» sociali delle nostre grandi città, di cui
è tripudio il contaminare e corrompere ciò che ancora di candido, di
sano e di sacro è nel mondo....

Il dottore si era fermato in mezzo al viale e contemplava il compagno
cogli occhi ceruli un poco appannati; i suoi capelli bianchi e fini
ondeggiavano, mossi dal freddo vento autunnale.

— Noi, — continuò Wilmer, — noi viviamo oggi in mezzo a questa lebbra
morale e non ne temiamo il contagio; noi, ad ogni passo, sfioriamo un
rettile umano che sprizza il tossico e la morte, e non lo distruggiamo,
non gli schiacciamo la testa col piede. No. Passiamo oltre, cercando
rimedio a tutti gli altri mali: alle infermità fisiche, alla miseria,
alle rivoluzioni sociali, ad ogni guaio fisico e materiale.... Ma alla
contaminazione dello spirito, alla cancrena dell'anima che in
quest'epoca nefanda ci invade — chi porrà rimedio?... Questo io pensavo,
dottore.

Si erano fermati in fondo al viale; il vento dell'est, freddo e
rabbioso, faceva turbinare ai loro piedi le foglie morte dei roveri e
degli ontani.

Il vecchio dottore ebbe un brivido.

— È triste ciò che voi dite, — mormorò.

Poi, rivolto verso il ponente (e giù, lontano, in fondo alla valle la
nebbia si stendeva come una coltre sudicia sulle lontane città):

— Fa freddo, — disse. — Entriamo.


L'indomani all'alba Laurence Wilmer partì. Come egli stesso aveva messo
per condizione, nessuno — eccetto la vecchia Jessie, che sempre si
alzava all'alba — scese per salutarlo. Quando uscì dall'aia, pronto alla
partenza, vide che le finestre della casetta erano ancora tutte chiuse.

Whisky e Soda sbucarono da sotto un gran mucchio di fieno, stirandosi,
cogli occhi rossi, gli vennero incontro, scodinzolando, e lo
accompagnarono per un tratto di strada, giù per la ripida discesa. Indi
sparirono nella brughiera.

Ai suoi piedi il mondo dormiva, avviluppato nella nebbia.

Giunto all'ultima svolta, Wilmer si fermò e si volse indietro a guardare
Rose Cottage, addossato alla collina. Il cancello era aperto sul
giardino autunnale, coi suoi rosai spogli, i cespugli nudi, gli asteri e
i crisantemi.

E Wilmer pensò che in primavera vi sarebbero le rose....

Sorrise a quel pensiero.

Indi si volse e riprese la strada ripida che scendeva nella vallata.



XX.


Era la vigilia della partenza per Londra.

La stanza raccolta e famigliare era illuminata dalla blanda luce della
lampada e dagli sprazzi vividi del fuoco che ardeva nel caminetto.

Sul tavolo giacevano, negletti, i libri del dottore; i lavori delle
fanciulle erano già piegati e riposti in un cassetto per rimanervi fino
al giorno del loro ritorno.

Myosotis moveva silenziosa per la stanza aiutando Jessie a preparare il
thè; ma Leslie sedeva languida e oziosa accanto al padre e poggiava la
testolina lucente al braccio di lui, guardando muta nelle fiamme.

Pensava all'indomani; alle giornate di svago, alle serate di
divertimento che l'attendevano nella lieta e immensa capitale; pensava
anche al babbo, che sarebbe rimasto qui, solo, per tante lunghe giornate
e tante malinconiche sere.... A quel pensiero strinse più forte al
braccio paterno la guancia accaldata.

Il babbo non si mosse. Allora Leslie volse il viso e premette sulla
manica della vecchia giacca color tabacco un bacio.

— Pensa, papà, — disse piano, — che per Natale saremo di nuovo qui.

— Sì, sì, — confermò Myosotis avvicinandosi anch'essa e cingendo col
braccio il collo di suo padre; — per Natale saremo qui. — E si chinò a
baciargli i capelli troppo presto imbiancati. — Staremo a Londra tutt'al
più quindici giorni.

Il chiarore della lampada illuminava quella testa argentea tra le due
testoline dorate; e la vecchia Jessie, nell'ombra, col vassoio da thè
tra le mani, le guardò e sentì nel suo rigido petto fondersi di
tenerezza il cuore.

— Sicuro! staremo tutt'al più quindici giorni, — fece eco Leslie.

— Sono anche troppi, — brontolò d'improvviso Jessie dal fondo della
stanza. E con una nota spezzata nella voce, soggiunse: — La vostra
mamma, se fosse qui, non vi lascerebbe andare.

A quella frase tutti e tre trasalirono e volsero alla vecchia i loro
visi sbigottiti.

— Perchè dici questo? — chiese il dottor Harding con voce turbata. Il
nome della morta era sacro, nè si pronunciava mai che nelle più rare e
gravi occasioni.

— E perchè lo dici solo adesso? — soggiunse Myosotis in tono di
rimprovero. — Sai bene che non faremmo mai una cosa che la mamma non
avrebbe voluto.

— Non so.... mi è venuto in mente così, — mormorò la donna. — Mi pareva
di vederla qui....

E tutt'a un tratto Jessie si mise a piangere.

Subito le furono tutt'e tre d'attorno, carezzandola e confortandola; ma
ci volle del tempo prima che cessassero i suoi singhiozzi. Finalmente la
vecchia si asciugò gli occhi col suo grembiale azzurro, e uscì.

Gli altri si strinsero più vicini l'uno all'altro accanto al fuoco,
senza parlare.



XXI.


L'indomani la casa fu tutta in trambusto di buon'ora; il dottore, colle
fanciulle e Miss Jones, salirono nel calesse ordinato la sera precedente
all'alberghetto di Wild-Forest, e Jessie andò a cassetta col vetturino e
la cappelliera e la valigia.

Faceva ciò che d'inverno in Inghilterra si chiama «bel tempo»; cioè, non
diluviava e non soffiava una bufera; c'era semplicemente una nebbiolina
grigia e umida diffusa su tutto, e in un punto del cielo si scorgeva un
piccolo cerchio scialbamente rossastro, che, con molto ottimismo e
fantasia, si poteva anche chiamare il sole.

Rabbrividendo un poco, la piccola Leslie, sullo scanno mobile accanto a
suo padre, gli si strinse vicino e gli prese e tenne stretta la mano. Di
fronte a loro sedevano Miss Jones e Myosotis; questa taceva, pallidina,
cogli occhi rossi. Ma Miss Jones si diffondeva in un verboso soliloquio
che nessuno ascoltava. Rievocava i suoi ricordi di Londra; alternando
alla narrazione delle sue passate esperienze molte considerazioni di
ordine generale e raccomandazioni svariate alle due fanciulle.

— Meno male che avete fatto fare da Miss Knox quei due vestiti di
mussola rigata.... Badate di non metterli che la sera; e non mai sotto
ai mantelli quando uscite di casa!.... A proposito — s'interruppe d'un
tratto — non so precisamente in quale quartiere di Londra sia la casa di
Lady Randolph Grey: non mi avete mai fatto vedere la sua lettera. Starà
certamente nel West End; è vero?... In Park Lane, o Pont Street, dove
abita tutta l'alta aristocrazia londinese.... potrebbe anche stare nel
South Kensington, che è divenuto estremamente _fashionable_, dacchè la
duchessa di Marlborough....

A questo punto Miss Jones si accorse che nessuno l'ascoltava. Ma non per
questo si scoraggiò. Diede una scrollatina al braccio della silenziosa
Myosotis:

— Sulla sua lettera che indirizzo c'era?

— Sulla lettera di chi? — chiese Myosotis, trasognata.

— Ma sulla lettera di Lady Randolph Grey!

— Non so.... Argyle Square — rispose la fanciulla.

— Argyle Square.... Dev'essere vicino a Bond-Street, se non erro — fece
Miss Jones, sopra pensiero. — È nel centro della città; non è proprio
nel West End. Mi pare strano.... Tuttavia, potrebbe essere l'indirizzo
di un Club aristocratico; ce n'è molti nei dintorni di Bond-Street e di
Duke Street....

Ma siccome nessuno la seguiva in queste sue considerazioni, nè pareva
soverchiamente interessarsene, finì col tacere anche Miss Jones; e la
lunga discesa alla piccola città di Westham fu fatta quasi in silenzio.

Arrivarono alla stazione appena a tempo; il treno era già annunciato.
Lasciando Jessie e Miss Jones a guardia delle valigie, il dottore prese
a braccetto una di qua, una di là, le sue due figliole e camminarono in
su e in giù per la piattaforma.

Non si parlarono. Pareva non avessero nulla a dirsi nel momento di
questa loro prima separazione.

— .... E non mi prendete freddo, — disse il padre alla fine, come se
tutti gli altri suoi pensieri li avesse già detti ad alta voce.

Entrambe le tepide e fragili braccia strinsero il suo braccio, ed ambo
le giovanili voci dissero:

— Stai tranquillo!

Ma ecco arrivare il treno; e ritornarono correndo presso Miss Jones e
Jessie che già da un pezzo, brandendo valigia e cappelliera, li
chiamavano con gesti agitati.

Allora, con un rapido bacio alle due donne e un lungo bacio al padre, le
due sorelle salirono nel vagone; indi si affacciarono subito al
finestrino.

— Mi raccomando, — ansò Miss Jones, levando verso di loro il viso magro
e nervoso, — in società non siate nè timide nè stupidelle; spero, in
qualità di vostra maestra, che non mi farete sfigurare!

Jessie si avvicinò cogli occhi rossi.

— Mangiate tutto ciò che vi ho messo nel cestino, — disse, tendendo la
mano ossuta, che le fanciulle strinsero sporgendosi dal finestrino. E
soggiunse con voce un po' tremante: — E dite ogni sera le vostre
preghiere.

Il padre non disse nulla. Teneva fissi gli occhi su loro; e quando il
treno si mise in moto anch'esse lo guardarono fisso e a lungo... finchè
non lo videro più.

Poi sedettero al loro posto e per un pezzo non parlarono.

Ma a poco a poco, come il treno si affrettava pulsando e palpitando,
anche nei loro giovani cuori tornò, con affrettato palpito, la gioia.



XXII.


Il treno rallentava per entrare nella stazione di Liverpool-Street e le
due fanciulle si sporsero dal finestrino.

— Ecco lo chauffeur! — esclamò Leslie.

— Dove? dove?

— Là, accanto a quella signora.... quella coi capelli grigi.... vestita
di nero.

— Si, sì, — disse Myosotis un po' nervosa. — Chi sarà quella signora?

— Ha l'aria molto aristocratica, — disse Leslie; — che sia la dama
d'onore....

— Può darsi, — disse Myosotis. Indi soggiunse: — Ma non credo che quella
verrebbe alla stazione.

Il treno si fermò; le fanciulle presero le loro valigie e scesero.

Lo chauffeur si avvicinò, salutò, e risalì in treno per prendere la
cappelliera.

— Sono sole? — chiese poi, guardandosi in giro.

— Si, sì; sole, — disse Myosotis.

— Ah, — fece l'uomo, — credevo che forse le accompagnava il signor
padre....

S'avviò rapido, portando valigie e cappelliera, verso la signora dai
capelli grigi che s'era fermata in fondo alla piattaforma.

Myosotis e Leslie lo seguirono, correndo un poco.

Giunte presso alla sconosciuta le due fanciulle la guardarono con timido
sorriso, in attesa del suo saluto.

Ma lo chauffeur le parlava.

— Sono sole, — disse.

— Ah! sono sole? — La signora sfiorò le sorelle collo sguardo. — Allora
io me ne posso andare.

— Si, sì, — disse lo chauffeur, avviandosi verso l'uscita.

Anche la signora si mosse, camminando accanto a lui. Si volse un istante
e di nuovo sfiorò collo sguardo le due ragazze senza far atto di
salutarle. Poi, rivolta allo chauffeur, disse:

— Che Gaby non si metta nei pasticci!...

Lo chauffeur si strinse nelle spalle.

— Mah! Peggio per lei, — osservò.

E piantando in asso l'aristocratica signora dai capelli grigi, si avviò
in fretta verso la grande automobile verde che, guardata da un
commissionario, stazionava all'uscita sotto la tettoia.

Trotterellando dietro a lui le fanciulle non parlavano più. Myosotis si
domandava perchè mai quella signora quando aveva saputo ch'erano sole,
se ne era andata. Le pareva una ragione di più perch'ella restasse con
loro e le accompagnasse. Vagamente si domandò anche chi poteva essere
«Gaby», e in che sorta di pasticci stava per mettersi....

Ma lo chauffeur aveva caricato valigie e cappelliera sulla Rolls-Royce,
ed ora teneva aperta la portiera perchè le due giovinette salissero.
Entrarono nella sontuosa vettura e sedettero, sprofondando nei morbidi
cuscini.

Lo chauffeur chiuse Io sportello, salì al suo posto, e via!...

.... Via, verso il turbinante cuore di Londra traverso le strade nere e
affollate della City; via, lungo i neri meandri del Tamigi, e su pel
sordido Cheapside e il formicolante Fleet Street e il brulicante Strand;
via, oltre la grandiosa Trafalgar Square, e giù per l'interminabile
Oxford Street e su per Regent Street e Langham Place... e fuori, verso i
quartieri più aperti e lussuosi del West End. Via, costeggiando un parco
immenso, e poi di nuovo il fiume, e poi un altro parco, via!...

Rombando e strombazzando, tossendo e abbaiando, l'automobile verde
correva rapidissima, lasciandosi dietro una strada dopo l'altra, una
piazza dopo l'altra.

Ora si susseguivano interminabili, uno identico all'altro, dei piazzali
quadrati, ognuno con un giardino nel centro, e intorno le facciate delle
case alte e solenni. Nel crepuscolo invernale — fosco e fuligginoso
crepuscolo londinese — tutto si confondeva, grigio su grigio, ombra su
ombra; le case, le strade, il cielo.... Tutto era plumbeo e livido.
Pareva di correre senza posa e senza meta entro un mostruoso cinereo
labirinto.

Le fanciulle dapprima si erano scambiate qualche parola, commentando la
velocità della corsa, la folla di gente affaccendata, l'altezza dei
grandi ponti lanciati sopra le nere acque del Tamigi.... e poi le
innumerevoli e interminabili strade e piazze che tutte si assomigliavano
e si confondevano, livide sotto la livida cappa del cielo; tutte
identiche l'una all'altra, a tal punto che si aveva l'impressione di
ritrovarsi continuamente là dove si era già stati....

Ma ora tacevano, guardando fuori, sbalordite, senza pensiero. Non si
preoccupavano più nè dell'arrivo, nè dell'accoglienza che farebbe loro
Lady Randolph. Non si preoccupavano più di nulla, non pensavano più a
nulla, cullate e intontite dal celere movimento dell'automobile che le
trasportava, atomi inerti in questa immensa metropoli, verso la meta
sconosciuta.

Finalmente — e ormai tutt'intorno a loro si era chiusa, come una
muraglia torbida, l'oscurità — l'automobile si fermò.

Myosotis, che aveva chiuso gli occhi, si drizzò di soprassalto.

— Ci siamo!

— Che gioia! — esclamò Leslie, ravviandosi i capelli.



XXIII.


Entrarono, un po' stanche, un po' pallide, un po' freddolose, in una
immensa e sontuosa anticamera decorata di arazzi e tappeti orientali; in
un antico gigantesco caminetto ardeva il fuoco; e in un angolo una
grande pendola antica ritmava lento e forte il passare del tempo. Le due
fanciulle si strinsero un po' più vicine l'una all'altra, sentendosi
piccole e sperdute.

Il servitore che aveva aperto la porta prese i bagagli dallo chauffeur,
richiuse a chiave e chiavistello la porta, indi sparì colle valigie
entro un vasto e lungo corridoio.

Sullo scalone apparve una cameriera in veste nera e cuffia bianca. Le
ragazze furono contente di vedere ch'era vecchia e aveva l'aria mite.

— Se le signorine vogliono salire prima di entrare al salone...? — disse
con voce piana; e le attese, ferma sull'ultimo gradino del sontuoso
scalone, tra due putti di marmo che reggevano dei maestosi candelabri
accesi. Le fanciulle traversarono timide la vasta stanza e salirono
dietro la cameriera; i loro passi affondavano senza rumore nel folto
tappeto rosso.

Giunte al primo piano udirono dietro una grande porta socchiusa il suono
di parecchie voci; erano voci gravi, mascoline.... Ma già la cameriera
le precedeva verso il secondo piano, ed esse la seguirono silenziose.

— Ecco la sua stanza, — diss'ella a Myosotis, aprendo una porta e
scostando, per lasciar entrare le fanciulle, una pesante portiera di
velluto cremisi.

Le giovinette si guardarono intorno stupefatte nella luminosa camera
rossa; sul tappeto vermiglio erano gettate delle grandi pelli d'orso;
nel caminetto un gran fuoco illuminava vividamente la tappezzeria color
rubino, l'immenso letto a baldacchino e le larghe e profonde poltrone e
gli enormi cuscini di raso scarlatto buttati per terra davanti al
focolare.

— Ma è una reggia! — mormorò Myosotis, meravigliata e intimidita.

La cameriera aveva traversato la camera, ed ora, facendo scorrere sugli
anelli un'altra pesante portiera rossa, aprì una porta che comunicava
colla camera vicina.

— E questa è la stanza della ragazzina, — disse, guardando Leslie.

Leslie, sorridendo a quell'appellativo, seguì la donna verso la camera
attigua, ma giunta sul limitare si arrestò con un'esclamazione di
meraviglia.

— Myosotis! guarda!

Allora anche Myosotis si affacciò alla soglia e si fermò stupita.

— Mio Dio! — disse Leslie inoltrandosi con passo trepido, — pare di
entrare nel cuore di una rosa!

Difatti la camera era tutta a tinte digradanti dal rosa pallidissimo al
rosa profondo. Dalla tappezzeria carnicina, quasi bianca, i mobili di
broccato e il morbido tappeto andavano via via facendosi di tinta più
vivida e incarnatina, fino al centro della stanza dove troneggiava
regale il letto colle seriche coltri di un rosa vividissimo. Era la
stanza di una principessa. Intorno, dei larghi specchi ne riflettevano e
moltiplicavano all'infinito il rosato splendore. L'aria era tiepida e
profumata di _white-rose_.

Le due sorelle non trovarono parole; e come la cameriera si era
allontanata un momento — la udivano nella sala da bagno accanto, che
faceva correre l'acqua — si abbracciarono in un trasporto di gioia e di
commozione.

Ma già la donna tornava, e Myosotis, esitante, la interpellò.

— Non dovremmo subito andare a salutare Lady Randolph?

— No, — rispose la cameriera, — Milady ha detto che è meglio, poichè ci
sono visite a pranzo, che loro si vestano prima di scendere.

Myosotis si turbò un poco. — Molte visite? — chiese timorosa.

— Cinque, — rispose laconica la donna, andando verso un grande armadio a
specchio.

Myosotis e Leslie si guardarono. Che effetto farebbero in questo
ambiente i loro vestitini di mussola rigata fatti da Miss Knox?

— E le nostre valigie?... — chiese Myosotis guardandosi intorno.

— Non occorreranno, — rispose la donna.

Aveva aperto un armadio ed ora ne toglieva — oh meraviglia! — due vesti,
una veste di velo celeste per Myosotis, una veste di mussolina bianca
per Leslie; e nel fondo dell'armadio si scorgevano allineate molte
scarpette di raso di tutti i colori, e su uno scaffale nell'armadio vi
erano ammonticchiate delle calze di seta variopinta, e su un altro
scaffale della biancheria iridescente e diafana come se fosse fatta di
nuvole e di schiuma.

— Ma come?... Ma per noi! — esclamò Myosotis, stupefatta.

— Sì, sì; per loro, — disse la vecchia.

Leslie, quasi incredula davanti a tante meraviglie, congiunse le mani in
un piccolo singulto di gioia.

— Oh! se papà potesse vederci, come sarebbe felice!

E di nuovo abbracciò la sorella; e avrebbe abbracciato anche la
cameriera se avesse osato.

Questa, all'ingenuo grido della fanciulla, si era voltata
improvvisamente a guardarla; ed ora i suoi occhi piccoli e vividi —
occhi timidi come quelli d'un cane e furbi come quelli di una volpe —
andavano dall'una all'altra delle due figurette ridenti, che fino a quel
momento non aveva degnato d'uno sguardo.

Myosotis notò quell'occhiata e, interpretandola a suo modo, arrossì e
volle scusarsi.

— Noi viviamo in campagna, — disse; — la mia sorellina non ha mai visto
tante belle cose. Veramente, — soggiunse, spinta dalla sincerità, — non
ne ho mai viste neanch'io.

— Ah? — fece la donna; e la nota secca e sprezzante che prima aveva
intimidito le fanciulle, non era più nella sua voce. — Vengono dalla
campagna, loro? Credevo che vivessero qui in Londra.

— Mai più! — disse Myosotis ridendo, tuttavia un poco lusingata da
quella supposizione. — Non ci siamo mai vedute fino ad oggi. È la prima
volta che lasciamo casa nostra, — soggiunse. — Allora capirà.... tutte
queste belle cose ci fanno quasi paura!

La vecchia non rispose. Crollò le spalle e si volse per uscire. Myosotis
si meravigliò un poco di quell'atto; ma già, tutto qui era inaspettato e
strano.

Sulla soglia la donna si fermò.

— Se hanno bisogno di qualche cosa, suonino. — Poi, ricordandosi di
un'ordine ricevuto, soggiunse (e di nuovo la sua voce parve alle
fanciulle aspra e ostile):

— Ha detto la signora che lei, signorina, si pettini come al solito; e
che la piccola qui, lasci i capelli sciolti.

E uscì.

Le due sorelle si guardarono sbigottite; poi risero, a lungo e
allegramente.

— Ci si prescrive la pettinatura! — disse Leslie; — par d'essere in
collegio.

— Par d'essere in un sogno, — disse Myosotis. Indi rapidamente si
svestirono.

Andarono nella sala da bagno e videro la vasca già piena d'acqua,
tiepida, opalina e profumata. Una dopo l'altra vi tuffarono i loro
giovani corpi dalle membra sottili, ridendo e chiacchierando.

— Se Miss Jones ci vedesse!... Se la buona Jessie vedesse questa
stanza!... E papà!... Come sarebbe contento che ci trattano così, come
delle principesse reali!

La parola «principessa» le fece pensare alla dama d'onore, e questo
temperò alquanto la loro allegrezza.

Misero delle calze di seta bianca che parevano ragnatele, della
biancheria così fine che pareva di non averne; poi si pettinarono
secondo gli ordini ricevuti. E finalmente fu il momento squisito di
indossare quelle vesti fantastiche, meravigliose.

Leslie ebbe presto fatto d'infilare la sua vesticciuola di mussola
bianca, vaporosa, cortissima, con una cintura di raso bianco à la Russe,
a metà della gonna.

— Mio Dio, — esclamò ella specchiandosi, — sembro una bambina!

— Già! — disse Myosotis, contemplando perplessa la figuretta
deliziosamente infantile che le si parava dinanzi: — Devono averti
creduta più giovane di quello che sei. — E soggiunse: — Sembri vestita
per la prima comunione.

— Ma guarda! m'arriva appena ai ginocchi, — disse Leslie inarcando le
bionde sopracciglia. — Per fortuna le calze e le scarpe sono perfette!

E fece un piccolo passo di danza, per gaiezza di cuore.

— Meno male che ha le maniche lunghe, — osservò Myosotis, — e quel
collettino di pizzo. Insomma ti sta divinamente! — E abbracciò la
sorellina. — Sai che così, tutta bianca, con quei capelli sciolti....
sembri «Fiorin di Neve» dei racconti delle fate!

Allora Leslie, confortata, rise e si rallegrò.

Ma quando si trattò di vestire Myosotis la cosa si fece più grave. La
veste di velo celeste era così stranamente fatta, che non teneva che su
una spalla; al posto della manica sinistra non vi era che una spallina
di nastro affrancata con un mazzetto di rose. L'altro lato della veste
scendeva, senza manica, lasciando scoperto il collo e l'omero e parte
del petto. Poi mancava la sottana. Almeno così parve alle fanciulle; il
drappeggio era così trasparente, che certo ci doveva essere anche una
sottoveste....

La cercarono nell'armadio. Non c'era.

Allora si decisero a suonare il campanello.

Per un po' nessuno venne. Risuonarono. Allora sulla soglia apparve Lady
Randolph Grey.

Era vestita di un abito verde smeraldo tutto coperto di pagliette
d'argento, stretto come una guaina.

— Bene arrivate, bene arrivate, — disse sorridendo e squadrandole con
occhi di falco. — Deliziose, deliziose!... — esclamò. Indi traendo a sè
l'arrossente Leslie; — Questa pare uscita da un educandato di suore; da
un asilo infantile! — E la baciò e le carezzò colla bianchissima mano i
lunghi capelli dorati.

— Mi sembra.... temo.... di sembrare proprio una bambina, — disse Leslie
un pò turbata.

— Difatti, difatti! — rise la bella dama. — E bada, se chiedono la tua
età dirai che hai dodici anni.

Leslie sgranò gli occhi e si volse sbigottita a interrogare collo
sguardo Myosotis.

— La ringraziamo tanto per queste bellissime vesti, — cominciò quella. —
Ma potrebbe.... — soggiunse timidamente, — farmi portare la sottoveste e
le maniche?

— Che maniche? Che sottoveste? — chiese Milady.

— Ma per quest'abito.... — spiegò Myosotis, ritta davanti alla sua
ospite e stendendo le braccia esili e ignude; i ceruli drappeggiamenti
velavano appena l'ingenuo corpo giovanile.

— La manica? La sottoveste? per questa toilette di Doucet? — Milady
scoppiò in una risata. — E perchè non l'impermeabile e le soprascarpe?
Ma, mia cara, siete divina così! Vedrete che cosa ne diranno i miei
invitati.

— La dama d'onore della regina d'Olanda? — chiese trepida Myosotis.

Lady Randolph dette in un'altra risatina perlata. — Ma che! Quella era
una storiella a tutto benefizio di vostro padre!

— Come! — esclamò Myosotis, smarrita, — Non è venuta quella signora?...
E le sue due figlie?...

— Niente signora, niente figlie! — disse Milady, sempre ridendo colla
testa all'indietro; e il collo ignudo le si gonfiava morbido e bianco
come quello d'una colomba.

Myosotis si sentì mancare un poco il respiro.

— Del resto, troverete delle conoscenze — continuò Lady Randolph. — C'è
Gerardo Neversol. C'è Totò.... ve lo ricordate Totò?... Si rallegrano
tanto di vedervi. E poi, — soggiunse traendo a sè Leslie, — c'è un
vecchio diplomatico che ama molto le buone e belle bambine come te; e
c'è un americano, un pò sordo, ma milionario.... Insomma, un pranzo di
gala. Andiamo, andiamo, fate presto!

Myosotis e Leslie si guardarono ancora, smarrite e trasognate. La voce
di Milady si fece un pò più aspra.

— Fra dieci minuti suonerà il gong per il pranzo. — Prese per mano
Leslie. — Tu, piccola, vieni con me. — E la trasse seco, esitante e
ritrosa. Indi rivolta a Myosotis: — Vi aspettiamo nel salone al primo
piano, — disse.

— Vieni, vieni presto! Non lasciarmi sola, — sussurrò Leslie,
separandosi a malincuore dalla sorella.

— Andiamo, — ripetè Milady, con una nota metallica nella voce.

E Leslie la seguì.



XXIV.


Rimasta sola Myosotis si guardò intorno smarrita. Che cosa fare? Era
impossibile, impossibile scendere così. Per quanto ne dicesse Lady
Randolph, era impossibile! Se avesse avuto uno scialletto, una
sciarpa.... avrebbe potuto coprire quella spalla nuda, il petto, il
collo. Forse la cameriera gliene avrebbe portata una?... Ma restava
ancora la gonna, la terribile gonna, diafana, trasparente che lasciava
travedere ogni linea, ogni curva.... Impossibile! impossibile!

Myosotis si sentì alternatamente avvampare e gelare al pensiero di
scendere in quella guisa; suonò il campanello per chiedere che le
portassero le sue valigie.

Nessuno rispose. Nessuno venne.

E i minuti passavano; tra poco suonerebbe il gong.

Seguendo un impulso fanciullesco, un'abitudine presa fin da bambina nei
momenti d'incertezza o d'ansia, Myosotis cadde a ginocchi. Nella sua
impudica veste di tulle cerula, s'inginocchiò accanto al letto e chinò
il viso tra le mani. Iddio l'avrebbe aiutata, Iddio l'avrebbe
consigliata.

E pregò. Pregò: — Buon Dio, aiutatemi!... Ditemi voi come devo vestirmi
per scendere in quel salone. Aiutatemi buon Dio!... Consigliatemi.
Ispiratemi!

Rimase immobile, aspettando il consiglio, l'ispirazione.

Non venne.

Una porta da basso si aprì e si richiuse, lasciando sfuggire il rumore
di voci e di risate maschili.

Lenta, triste, Myosotis si alzò d'in ginocchio, lo sguardo turbato fisso
davanti a sè.

Ed eccolo il consiglio! Ecco l'aiuto, ecco l'ispirazione! Là, davanti a
lei, sul letto, come l'aveva gettato spogliandosi, stava il suo abito da
viaggio, il disprezzato abito bleu-marin, un pò polveroso, un pò usato,
un pò logoro; ma chiuso e intero e opaco e decente.

In un attimo Myosotis era sgusciata dai veli ceruli, s'era tolta le
calze e le scarpette bianche, aveva rimesso le sue calze di filo nero,
le sue scarpe da passeggio raccomodate. E il gong non aveva ancora
suonato, ch'ella era già vestita e pronta a scendere.

Tuttavia, esitava sul limitare; ondate alterne di caldo e di freddo la
facevano sudare e tremare.... Certo era doloroso presentarsi in quella
guisa al pranzo di gala di Lady Randolph; certo sarebbe penoso aprire la
porta di quel salone e rivelarsi così mal vestita agli occhi sdegnati di
Lady Randolph, allo sguardo stupito dei suoi invitati. Ma mille volte
peggio sarebbe stato scendere in quei ceruli veli trasparenti,
presentarsi seminuda al cospetto di quegli uomini....

E Myosotis con un piccolo singhiozzo, girò la maniglia e scese.



XXV.


Gli occhi che si volsero a lei parvero, certo, stupefatti; e in quelli
di Lady Randolph brillò non solo la sorpresa ma la più schietta
disapprovazione.

Senonchè Myosotis scordò quasi subito sè stessa e l'impressione che
poteva fare ai convitati di Lady Randolph, quando il suo sguardo
attonito cadde su Leslie.

La bimba — invero ella pareva appena sulla soglia dell'adolescenza —
sedeva in un grande scanno, rosea e ridente, con un calice pieno di un
liquore dorato nella piccola mano. Intorno a lei, seduti o appoggiati
all'alto schienale della sua sedia, stavano quattro o cinque uomini;
uno, alla sua destra, Myosotis lo riconobbe subito: era il «Principe di
Galles» — era Totò.

Teneva anche lui un calice nella mano, e si chinava ridendo verso la
fanciulletta, narrandole qualche cosa.

Quando entrò Myosotis vi fu un attimo di silenzio; poi tutti i presenti
ripresero a conversare, e nell'angolo intorno a Leslie ricominciarono i
frizzi e le risate.

Non vi fu presentazione di sorta. Myosotis rimase, un pò impacciata,
accanto alla porta finchè Leslie la chiamò.

— Vieni qui, vieni qui, Mymì!

Così la chiamavano talvolta a casa, e Myosotis nuovamente si stupì della
disinvoltura della sorellina fra tanta gente sconosciuta. Traversando la
sala per andare accanto a lei, passò davanti a Lady Randolph,
semisdraiata su un divano d'angolo, e la guardò, trepida, quasi
implorandone il perdono.

Ma Milady non fece atto di vederla. Parlava con un uomo bruno e grasso;
parlavano francese, e Myosotis, pur indovinando che si trattava di lei,
non comprese ciò che dicevano.

— Assaggia, Myosotis, questa bevanda americana. Si chiama «Manhattan
cocktail,» ed è un filtro che fa vedere il mondo tutto color di rosa con
un occhio, e tutto color di cielo coll'altro!... Difatti, — e Leslie
chiuse con aria birichina un occhio, fissando coll'altro l'abito bleu
scuro e il volto rannuvolato della sorella, — guardandoti così.... io ti
vedo tutta color del cielo.... quando vuol far temporale!

Tutti risero, come se Leslie avesse detto qualche cosa di assai
spiritoso, ma Myosotis non riuscì neppure a sorridere. Si sentiva la
gola arida, le labbra secche; si diceva che a questi estranei, avvezzi
alle donne brillanti della migliore società, Leslie doveva parere una
bambina stolta e sfrontata, e lei stessa, nel suo brutto abito da
viaggio, una «zucca villereccia,» goffa e intontita. Il suo pensiero
corse alle raccomandazioni di Miss Jones.... a casa sua.... al babbo,
solitario davanti al fuoco nella grande stanza vuota.... alla vecchia
Jessie che diceva le sue preghiere ad alta voce in cucina.... E a tali
ricordi le salirono cocenti le lagrime agli occhi.

Dal fondo della sala le mosse incontro Lord Gerard Neversol, ed ella
provò un senso di sollievo vedendo quel viso conosciuto. Non che egli le
fosse soverchiamente simpatico; tutt'altro; ma almeno non era nè un
perfetto estraneo come gli altri, nè odioso come Totò, nè ostile come
ormai sentiva essere Lady Randolph.

Neversol le disse qualche frase insignificante ch'ella quasi non udì ma
che le diede il tempo di calmarsi, e subito risuonò l'appello insistente
e sonoro del gong. Allora tutti si alzarono e discesero alla sala da
pranzo.

Era una vasta sala severa e sontuosa. La tavola scintillava di cristalli
e di vasellame dorato. Nel centro un ammasso di gardenie diffondeva
nella stanza un profumo che stordiva.

Anche a tavola Myosotis si trovò accanto a Neversol; all'altro suo lato
sedette l'uomo bruno e grasso che aveva parlato francese con Lady
Randolph. Egli, appoggiato indietro nella sua seggiola, la guardò molto
fissamente e a lungo. Ella rispose timida allo sguardo di lui,
aspettando che le rivolgesse la parola; ma quegli, dopo qualche istante,
volse via il capo e si dedicò risolutamente al suo pranzo. Nè durante
tutto il pasto le parlò.

Leslie era in fondo alla tavola fra Totò e il «diplomatico» — un
personaggio magro, sulla cinquantina, tutto grigio: i baffi grigi, gli
occhi grigi, la pelle grigia; pareva impastato di cenere e d'acqua
sporca. — La piccola ciarlava e rideva colla massima disinvoltura.
Beveva anche, a piccoli sorsi, con delle smorfiette puerili e graziose,
dello champagne, insistendo però che Totò vi mescesse molt'acqua.

Il quinto convitato, un uomo dai capelli rossi di una bruttezza
ripugnante, parlava con Lady Randolph, bella e arridente a capo tavola.
Talvolta dicevano delle cose che certamente dovevano essere molto
spiritose, perchè tutti davano in grandi risate; ma a Myosotis sfuggiva
il senso dello scherzo.

— Stasera verrà Dafne Howard, — disse Milady sorseggiando una miscela di
gin e curaçao, poichè lo champagne non le piaceva.

— Dafne Howard! — esclamò l'uomo rosso. — E dove l'avete pescato?

— All'Alhambra, — disse Milady. — Totò ed io siamo andati a vedere
«Messalinette» e l'abbiamo riconosciuto subito. Vero, Totò?

Totò non rispose.

— Che parte faceva? — chiese Neversol.

— Ma è questo il bello, — rise Milady — che, appunto, Messalinette era
lui!... Figuratevi che sul programma si fa chiamare «Mademoiselle Lisa
Douceur!»

Gli uomini risero.

— Bel tipo, Dafne Howard! — disse il diplomatico. — Ha poi lasciato la
sua ballerina russa?

Totò alzò il capo.

— Da un pezzo, — disse, secco secco.

— Stasera, ad ogni modo, viene qui col colonello Weisz, — osservò Lady
Randolph, sogguardando con un sorriso Totò.

Questi si strinse nelle spalle.

— Se credete che me ne importi!... Mi usciva da tutti i pori, quel
mostro, — disse.

Nel silenzio che seguì si udì la soave vocina di Leslie.

— Verrà qui un mostro stasera? — chiese essa con curiosità al suo grigio
e macilento vicino.

Quello rise. — Ma no, anzi; è una persona assai decorativa, Dafne.

— Dafne?... — disse la fanciulla; — è un signore o una signora?

— È un lusus naturae, — esclamò l'uomo dai capelli rossi, sporgendosi
avanti a guardare Leslie, — prezioso per chi ama le anormalità.

Di nuovo tutti risero. Ma Leslie e Myosotis si scambiarono un'occhiata
perplessa. Evidentemente Miss Jones non aveva insegnato loro tutto ciò
che era utile sapere in società.

— _N'appuyons pas_, — intervenne Lady Randolph, crollando le belle
spalle nude. — Tanto, qui non abbiamo che dei piccoli volatili del
Campidoglio.... o di Strasburgo, che sia.

— Io adoro il _pâté de foie-gras_; — disse Neversol; e di nuovo tutti
risero.

E siccome la guardavano, rise anche Myosotis per darsi un contegno.
Tuttavia le parve che la conversazione fosse assai incoerente.

Il pranzo si protrasse a lungo.

Leslie, colle guancie accese, rideva sempre di più a tutto ciò che le
raccontavano Totò e il diplomatico; aveva un'aria strana, esaltata....
Myosotis la guardava attonita, e non badava nè a Neversol che le diceva
molte cose incomprensibili, nè all'uomo grasso che le stava dall'altro
lato.

Questi nè parlava nè la guardava, e Myosotis si disse che certo doveva
trovarla noiosa e antipatica; e se ne rammaricava, perchè trovava
ch'egli aveva una buona faccia di papà indulgente.

Strano a dirsi, per errore, egli continuava a mettere il suo piede su
quello di lei.

Ella, confusa, temendo di offenderlo, diceva: «_pardon!_» e ritirava con
cura il piede da sotto al suo.

Quando questo accadde per la quarta volta, egli si volse e la tornò a
fissare come l'aveva fissata al principio del pranzo. Myosotis si sentì
diventar molto rossa sotto quello sguardo — già, l'aveva sempre avuto
quel vizio di arrossire per nulla! — e come lui continuava a guardarla,
ella continuò ad arrossire finchè ebbe gli occhi soffusi di lagrime.

In quel punto tutti gli altri discutevano forte coll'uomo rosso e
nessuno badava a ciò che l'uomo grasso poteva trovare da dire a quella
ragazza noiosa e mal vestita. Egli si appoggiò indietro nella sua sedia,
mise le mani in tasca e disse:

— Si può sapere perchè siete qui?

Myosotis, alzando a lui il dolce sguardo azzurrino, rispose:

— Lady Randolph ha avuto la bontà di invitarci....

Egli aggrottò le ciglia. — E voi, perchè avete accettato l'invito?

Myosotis sorpresa da quella domanda non seppe che cosa rispondere.

— Si può sapere, — riprese lui, e la sua voce era rude e severa, —
perchè avete portato qui quella bambina?

Myosotis lo guardò sempre più stupita.

— Ma.... non so.... — balbettò confusa. Le pareva che quell'uomo grasso,
dall'aria buona e paterna, avesse assunto d'un tratto l'atteggiamento di
un inquisitore; sotto le ciglia aggrottate egli la saettava con sguardo
sdegnato. E siccome sembrava aspettare ch'ella parlasse ancora, la
fanciulla soggiunse: — Siamo venute qui per fare delle conoscenze....
per incontrare....

— Per incontrare _chi_? — La voce era così aspra, l'espressione del viso
così feroce, che Myosotis tremò.

— Per incontrare.... la dama d'onore della regina d'Olanda, — disse
quasi senza voce la fanciulla.

— Cosa?... Cosa?... La dama d'onore.... cosa? — Il volto dell'uomo
grasso si era fatto paonazzo.

— Della regina d'Olanda — ripetè Myosotis, — e le sue figlie. Dovevamo
incontrarle qui. Perciò papà ci ha lasciate venire.

D'improvviso l'uomo grasso scoppiò in una immensa risata, una risata
così potente che faceva sobbalzare tutta la sua grossa persona, e diede
col pugno un colpo sulla tavola che scosse tutti i piatti e fece tinnire
le posate d'oro.

— Che cosa c'è.... Cosa c'è di così buffo? — chiesero gli altri.

Lady Randolph Grey si volse con un sorriso di compiacimento.

— Eccellenza, avete dunque fatto conoscenza colla vostra piccola vicina?
E la trovate divertente?

L'Eccellenza non rispose; continuava a ridere, colla grossa bocca aperta
e il grosso corpo scosso dall'ilarità: ma strano a dirsi quel riso a
Myosotis non pareva allegro; pareva terribile, pareva furente, pareva
minaccioso....

La conversazione riprese, e l'uomo grasso non parlò più a Myosotis.
Accese un sigaro e fumò in silenzio, guardando la tovaglia, come
soprapensiero. E ogni tanto Myosotis lo vedeva lanciare verso Lady
Randolph uno sguardo strano, fosco, quasi vendicativo. Quando furono
portati il caffè e i liquori, egli si alzò e andò nella sala vicina — di
cui il servitore aveva aperto i battenti — e Lady Randolph lo seguì
quasi subito, lasciando intatta sulla tavola la sua tazza di caffè.

Dopo alcuni momenti ella ritornò, sola; era pallida, colle labbra molto
rosse come se le avesse morse a sangue.

— E Sua Eccellenza? — chiese Totò.

— Se n'è andato, — disse Lady Randolph, riprendendo il suo posto.

— Che gioia! — esclamò Neversol. E gli altri risero.

Lady Randolph non volse mai lo sguardo verso Myosotis, e questa ebbe
l'impressione — certamente assurda — di essere odiata da quella donna.

La conversazione per un poco languì, ma dopo qualche tempo Lady Randolph
parve tornata di buon umore.

Dietro un suo cenno tutti si alzarono e andarono nella sala vicina. Era
una grande sala rettangolare, di cui le quattro pareti erano circondate
da divani profondi e morbidi su cui si ammontichiavano dei grossi
cuscini di raso multicolore. Nei caminetti alle due estremità della sala
ardevano due fuochi immensi che illuminavano di baleni irrequieti e
improvvisi la stanza. I lumi erano bassi e velati, taluni di viola,
taluni di una tinta glauco-azzurra, ciò che, unito ai bagliori
oscillanti delle fiamme, dava una stranissima colorazione, ora perlacea,
ora cadaverica, ai volti.

Myosotis potè finalmente riavvicinarsi a Leslie, e cingendole col
braccio l'esile vita, sedette accanto a lei sul profondo e morbido
divano.

Totò si era messo al pianoforte e mollemente, con maestria trascurata,
suonava delle danze sincopate, conturbevoli e suggestive. Gli altri
uomini erano intorno a Lady Randolph e le parlavano a bassa voce.

E Myosotis reclinata sui cuscini accanto a Leslie, sentendone così da
vicino il calmo e dolce respiro, e sulla sua mano, come un morbido
manto, i lunghi capelli sciolti di lei, si disse che era lieta d'essere
venuta. Pensò che il lusso era piacevole, che la musica di Totò era
dolce a udirsi, e che la vita era buona a vivere....

Con lieto impulso si chinò a baciare la guancia di Leslie.

Quella si volse a lei e sorrise.



XXVI.


In quel momento si udirono di fuori dei lamenti e degli urli. Parevano
le strida di un bambino che si sgozzasse.

Le fanciulle trasalirono; ma Lady Randolph rise, e Totò non cessò di
suonare.

— È Moses, — disse Lady Randolph. — Neversol, aprite la porta.

Il giovane, con un'alzatina di spalle, obbedì, e un grosso gatto bianco
balzò nella stanza; gridando e miaulando si lanciò di qua e di là, ora
saltando sui divani e conficcandovi le unghie, ora gettandosi a terra e
strisciando appiattito sul tappeto. Pareva in preda a delle torture
infernali.

— Eh già! è tardi, povero bello! — disse Lady Randolph — ti avevamo
dimenticato! — E, rivolta alla vecchia domestica, che in quel momento
entrava portando un piccolo astuccio, glielo prese di mano, l'aprì, e ne
tolse qualche cosa di lucido e brillante.

— Cos'è? — chiese Myosotis a Neversol, che aveva traversato la sala e
s'avvicinava a loro, — cos'ha quella povera bestia da gridare così?

— È morfinomane — disse Neversol crollando le spalle con gesto di
disgusto.

— Come? — esclamò Myosotis.

— Cosa vuol dire? — chiese Leslie, sbarrando gli occhi.

— Vuol dire, — disse il giovane gettando un cuscino ai loro piedi e
lasciandovisi cadere, — vuol dire che noi, depravati, per non goder soli
e non soffrir soli, amiamo dare i nostri vizi agli altri.... a _tutti_
gli altri! È questa — soggiunse con una piccola risata amara — una
caratteristica speciale di tutti gli auto-avvelenatori. Però dico
francamente, per conto mio, le bestie.... le lascerei stare.

Alzò gli occhi per guardare le due bionde fanciulle che lo ascoltavano
sbigottite, attonite, come s'egli parlasse un linguaggio a loro
sconosciuto.

Frattanto Totò aveva smesso di suonare, e, a un cenno di Lady Randolph,
le si era avvicinato.

— Tienilo fermo, — disse quella; e il giovane afferrò il gatto e,
appressatolo a Lady Randolph, lo tenne stretto per le quattro gambe.

Dal loro posto sul divano le ragazze non videro ciò che Lady Randolph
faceva alla bestia, che urlava torcendosi nella stretta di Totò. Ma un
senso d'orrore, di nausea indefinibile, di terrore profondo le invase.

— Ma cosa fanno?... Cosa fanno? — gridò Leslie impallidita.

— Si divertono, — rise Neversol; — gli fanno una puntura di morfina.

— Ma perchè?... perchè? — ansò Myosotis presa da un brivido
d'indescrivibile orrore.

Il giovane crollò di nuovo le spalle.

— Ve l'ho detto. Perchè amano veder godere. E perchè amano veder
soffrire. La vedrete or ora quella bestia sotto l'influenza del
narcotico.

Totò aveva lasciato ricadere il gatto e Lady Randolph, raddrizzandosi,
disse con una morbida voce gutturale:

— Ecco.... ecco.... povero Moses! — E riconsegnò l'astuccio alla vecchia
domestica.

Stette anche quella a guardare per qualche istante il gatto, poi,
crollando la testa, se ne andò.

La bestia aveva cessato di urlare, e ferma in mezzo alla sala si
guardava intorno con occhi fosforescenti, il pelo irto, ritta la coda
smisuratamente gonfia. Girò la testa con aria inquieta di qua e di là,
come aspettando.... indi un lungo tremito le passò pel corpo; il suo
manto di pelo bianco si rizzò.... poi si riappianò subitamente, liscio e
lucido. L'animale fece qualche passo incerto, indi, lento e maestoso
andò ad accoccolarsi accanto al fuoco.

Tutti gli invitati di Lady Randolph, seduti o sdraiati in diverse
posture sul divano quadrangolare, contemplavano con occhi un pò vacui le
mosse della bestia; e gli sguardi di Myosotis e di Leslie vagarono
smarriti dall'uno all'altro di quei visi che l'ebbrezza e la
depravazione velavano di voluttuoso inebetimento.

Ora il gatto, grosso, gonfio, acquattato sulle zampe davanti al fuoco,
era evidentemente pervaso da un senso di beatifico benessere, di intenso
e ineffabile godimento. Tutto il suo corpo vibrava emettendo un rombo
sonoro, un cupo e profondo rullo. Myosotis lo contemplava inorridita, nè
sapeva spiegarsi perchè quella manifestazione di godimento le ripugnasse
ancor più, le incutesse ancor più avversione che non gli spasimi e gli
urli di poc'anzi.

Leslie fissava anch'essa con pupille dilatate l'animale, e il suo viso
era bianco come un lino.

— Lo vedrete più tardi, — disse Neversol, — quando cesserà l'effetto
della morfina e comincerà quello dell'apomorfina.

A Myosotis pareva più che mai di sentir parlare un linguaggio
sconosciuto. — Che cos'è l'apomorfina? — chiese.

— È il veleno creato nel corpo dalla morfina; dà delle sofferenze
atroci. E l'unico contravveleno dell'apomorfina è appunto.... la morfina
stessa! Vedete il tragico circolo? La catena senza fine? il serpente che
si morde la coda?...

Myosotis non capiva niente; ma a quest'ultime parole il suo volto si
illuminò.

— Noi, a casa, c'intendiamo molto di serpenti, — disse, rincorata di
trovarsi su un terreno conosciuto. — Mio padre ci ha insegnato a
conoscere tutti i diversi rettili, e gli antidoti per il loro morso.

Neversol alzò il capo e diede in una risata.

— Vediamo un pò!... e se io vi dessi un morso.... qui, — e stendendo la
mano le toccò lievemente la guancia, — di quale antidoto vi servireste?

Myosotis si ritrasse vivamente. Ma cosa aveva questa gente? Cosa
dicevano? Cosa facevano? Erano tutti pazzi?... I suoi grandi occhi
smarriti si riempirono subitamente di lagrime.

In quel momento la domestica aprì la porta e un giovane entrò.

— Oh, Dafne! — esclamò Lady Randolph, tutta sorrisi; e anche gli altri
mossero incontro al nuovo arrivato; tutti, eccetto Totò, il quale era
tornato al pianoforte, e non cessò dal modulare accordi e arpeggi in
minore, con languida bravura.

Ma, si chiese Myosotis, era proprio un uomo, il giovane alto e snello,
che salutava tutti colla bianca mano tesa e la vermiglia bocca
atteggiata al sorriso?... O era una donna vestita da uomo? O un uomo
tinto come una donna?

Molto alto e snello — press'a poco della stessa statura di Totò — egli
si avanzava con quell'enimmatico sorriso sulle labbra scarlatte nel viso
pallidissimo; era violentemente profumato; i capelli folti, lucidi,
nerissimi, divisi da una parte, lasciavano da un lato scoperta la fronte
bianca, dall'altro gli cadevano inanellati e lucenti sul sopracciglio.

Neri, grandi e tinti erano gli occhi, occhi lunghi e languidi ch'egli
teneva quasi sempre abbassati; ma quando d'un tratto alzava le palpebre
l'effetto dello sguardo era impressionante.

— E Weisz? Dov'è rimasto? — Chiese Milady.

— Verrà più tardi, — disse il giovane, guardandosi intorno e sfiorando
appena collo sguardo le due figurette sedute in fondo alla sala.

— Più tardi? — esclamò Milady, in tono di rammarico.

— Sì, sì. Molto più tardi, — disse il giovane.

Traversò a lunghi passi la sala andando verso il pianoforte dove sedeva
Totò. A lui pose una mano — una mano lattea ed ingemmata — sulla spalla;
poi, come Totò continuava imperturbato a suonare l'aria di «Mélisande»,
il nuovo arrivato aprì la rossa bocca e cantò: cantò, con una voce di
soprano delicata e vibrante, prendendo gli acuti con una strana e dolce
morbidezza.

Sì, sì; certo era una donna! pensò Myosotis meravigliata. Ma non appena
se l'era detto, che, finita la frase musicale, l'artista pronunciò in
una profonda e sonora voce baritonale:

— E così, _Amberlocks_, trovate che canto bene?

Totò, «dai riccioli d'ambra», non rispose e chiuse il pianoforte.

Gli occhi tinti di bistro di Dafne Howard vagarono in giro alla sala e
si fermarono dapprima su Leslie e poi su Myosotis.

— Quanta gioveniscenza! — esclamò, tornando alla sua strana voce
affettata di falsetto, e volgendosi a Lady Randolph. — Dove le avete
pescate? — Senza attender risposta continuò: — Bene, bene. Stasera Weisz
conduce qui.... — e disse sottovoce una parola (un nome, o un titolo?)
che le fanciulle non afferrarono.

A quell'annuncio Lady Randolph si turbò assai.

— Cosa dite! — esclamò agitata. — viene qui? Lui stesso?... Stasera! Ne
siete certo?

— Sì, sì, — fece Dafne, — e riparte all'alba per Parigi. Lo farete
condurre a Hounslow a prendere l'Airco.

— Ma Weisz poteva preavvisarmi! — esclamò Lady Randolph. Indi attraversò
la sala e si avvicinò a Myosotis. — Aspettiamo degli ospiti augusti, —
disse; — il vostro abbigliamento, — e sfiorò collo sguardo sdegnoso
l'abito di Myosotis, — è assai stonato. Vi prego di andarvi a cambiare.

Myosotis si era alzata in piedi all'avvicinarsi di Lady Randolph ed ora
le stava dinanzi tremante e incerta.

Le venne in soccorso Neversol.

— Per ora la lascerete qui, — disse con voce recisa. — A me piace così.
Pare una governante d'Interlaken che avevo da ragazzino per insegnarmi
la ginnastica e il tedesco, e che m'insegnò il significato delle parole
_schwärmerei_, _träumerei_, _eselei_.... M'insegnò anche il delizioso
proverbio del suo paese:

    «_Jedes Thierchen
    Hat sein Plaisirchen_»

che in lingua meno barbara vorrebbe dire: «Ogni animaletto ha il suo
diletto.»

Lady Randolph aggrottò le ciglia. — Essa non può rimanere vestita in
quella guisa.

— Si andrà a far bella più tardi, — dichiarò Neversol. — Tanto, il
personaggio non verrà prima di mezzanotte. Vero, Dafne?

— No, no, — disse Dafne. — E a me, Myra, farete intanto preparare il
ciandù.

— Il ciandù! Volete dunque dormire?

Gli altri protestarono. Il diplomatico grigio scosse il capo.

— Male, male, Dafne!

E l'uomo dai capelli rossi esclamò: — Ma no, ma no! Restate con noi
stasera! State sveglio, Dafne! State sveglio.

Dafne aprì la bocca tinta di cinabro, e in registro di soprano sopracuto
gorgheggiò:

    «_Dormiam!.... Di gioia la vita è avara
    E sol ne' sogni felicità!_»

                            . . . . . . .


— Myra, — ripetè rivolto a Lady Randolph, — fatemi preparare il ciandù.



XXVII.


Immobili, attonite come due bambole, le due fanciulle sedevano sul
divano assistendo ad uno spettacolo che non comprendevano, udendo delle
parole che non intendevano.

Ma era questo il mondo? Era questa la vita?... E allora Wild-Forest? Che
cos'era? Era lo stesso mondo? Popolato della stessa gente?... Nelle
sbigottite iridi cerule fluttuavano i dubbi, la stupefazione.

Alla loro destra, traverso i battenti aperti della stanza attigua,
scorgevano, disteso su un mucchio di cuscini, l'ambiguo Dafne Howard,
senza colletto, la gola bianca scoperta come una donna scollacciata.

La vecchia cameriera si affaccendava intorno a lui, intenta, grave, come
la sacerdotessa di qualche misterioso rito. In terra, accanto alla forma
supina, era accesa una lampadetta ad olio; ed ora la donna china sopra
il lumicino, faceva riscaldare qualche cosa sulla punta di un lungo e
sottile istrumento di metallo. Ogni tanto toccava leggermente la
sostanza scaldata.... D'un tratto la tolse dallo specillo, la fece
girare e rigirare rapidamente entro le dita per formare una piccola
pillola.

Ora avvicinava al giovane la lampadetta, e gli poneva tra le labbra il
bocchino di una lunga pipa.

Allora Dafne Howard aspirò, lentamente, lungamente, cogli occhi
socchiusi....

Gli sguardi attoniti di Myosotis incontrarono quelli di Neversol, che
sdraiato sui cuscini in terra davanti a lei, la guardava.

— Perchè fuma in quel modo? — chiese. Una profonda inspiegabile nausea
le saliva alla gola, un senso di repulsione, di orrore fisico profondo e
indefinibile.

— Fuma dell'oppio, — spiegò Neversol. — Adesso dormirà. E sognerà.

— Dell'oppio? Perchè? È ammalato?

— Siamo tutti ammalati, piccola Myosotis, tutti ammalati, — disse
Neversol, fissandole in viso gli occhi torbidi e profondi. — Ammalati
della vita; ammalati di dolore, ammalati di piacere. Acquattate dentro
di noi ci stanno delle belve che rugghiano e ululano, e ci rodono i
visceri, ci dilaniano i nervi, ci succhiano le vene. E bisogna farle
tacere e dormire.

— Che cosa dite? Di che belve parlate? — mormorò Myosotis.

— Le conoscerete, le conoscerete un giorno le belve della bramosia,
della smania, della passione, della disperazione. Le conoscerete un
giorno anche voi, o celeste-occhiuta Myosotis!...

A questo punto, Myosotis udì accanto a lei una risata di Leslie. Totò,
che aveva attraversato la sala ed era venuto a gettarsi sul divano
accanto alla fanciulletta, senza dubbio le raccontava qualche cosa di
divertente che la faceva ridere del suo riso infantile e trillante; e a
quel dolce suono Myosotis si riconfortò un poco.

Ma Neversol le parlava.

— Piccola Myosotis, la felicità umana è limitata, mentre i nostri
desideri sono infiniti. Le possibilità di godimento sono fuori d'ogni
proporzione colla nostra sete di piacere. Allora gli intellettuali, i
raffinati, hanno voluto cercare fuori della vita, fuori della realtà, il
filtro che plachi l'ardore d'inestinguibili desideri.... E l'hanno
trovato nel bianco succo del papavero....

Tacque un istante, indi riprese:

— Il fumatore d'oppio, il morfinomane, il mangiatore di coca e di
haschish tiene nelle mani la coppa di tutte le ebbrezze, tiene nelle
mani la chiave del chiuso cancello che limita la gioia agli umani. Egli,
quando vuole, s'avvia rapsodico e sonnambulesco per le mistiche lande
del sogno, per paesaggi sterminati e favolosi.... fuori del tempo e
dello spazio. Egli ha spezzato ogni ceppo. Il vero non lo trattiene; la
realtà non lo intralcia; tutto a lui è possibile: la frenesia di
fantastici amori, il parossismo di non sognate estasi.... Egli è rimosso
da ogni miseria umana, liberato da ogni vincolo umano. Egli ha vinto Dio
e la natura!...

Dal fondo della sala l'uomo dai capelli rossi si era alzato e veniva
verso di loro con un calice di liquore iridescente in mano. Myosotis lo
guardò con un senso di pietoso disgusto.

Era veramente assai brutto; aveva le orecchie sporgenti, e traverso i
capelli radi e rossi si disegnava tutta la forma del cranio; sotto i
baffi rossi una larga bocca dalle labbra tumide s'apriva nel riso come
una caverna.

Porse il bicchiere a Myosotis.

— A voi, biondina; bevete un sorso del mio calice e conoscerete i miei
pensieri.

— Grazie.... — balbettò Myosotis, — ma davvero.... non ho sete....

L'uomo diede in una grossa risata aprendo l'antro oscuro della sua
bocca.

— Non ha sete! Oh guarda guarda!... non ha sete! Ma io sì che ho sete! —
esclamò, chinandosi vivamente verso di lei.

Neversol, senza alzarsi, allungò di scatto il pugno chiuso e lo colpì in
pieno stomaco.

— _Réservé!_ — osservò laconicamente.

L'altro aveva indietreggiato rovesciando parte della bevanda opalina sul
tappeto.

— _All right_, — disse con una smorfia. Indi lanciò uno sguardo anche su
Leslie, verso la quale si chinava Totò col braccio allungato dietro di
lei sullo schienale del divano.

— All right, — ripetè; e tornò al suo posto in fondo alla sala accanto a
Lady Randolph.

Questa aveva preso in grembo il gatto e con un dito ne sollevava la
palpebre e ne esaminava le pupille.

— Ecco! — disse d'improvviso.

E come il gatto subitamente faceva l'atto di saltarle alla faccia, ella
lo gettò per terra spingendolo lontano da sè.

Ora la bestia sotto l'influenza dell'ipnotico era in preda ad
allucinazioni: fissava un punto della sala cogli occhi fosforescenti e
il pelo irto; indi di scatto si lanciava addosso a una imaginaria preda.
Rincorreva, balzando in qua e in là, una turba di topi invisibili; poi
d'improvviso sostava immobile, impietrito!... D'un tratto, come se
qualcuno lo afferrasse per la coda, si volgeva frenetico d'ira,
scoprendo i denti in un ghigno selvaggio; roteava su sè stesso come una
trottola.... poi irrigidito, teso, silenzioso, fissando un angolo colle
saettanti pupille verdi, si avanzava lento, subdolo, strisciando sulla
pancia, come una pantera che insegua nella jungla un nemico.

Lady Randolph sdraiata all'indietro tra i cuscini, con un braccio nudo
poggiato sulla spalla dell'uomo rosso, seguiva ogni mossa della bestia
impazzita con grandi scrosci di risa.

D'un tratto il terrore — come un'altra belva demente — balzò addosso a
Myosotis e le conficcò le roventi zanne nel cuore. Era un terrore pazzo,
cieco, frenetico, quale ella non aveva provato nè sognato mai; era come
un lupo in furore che le mordesse e le squarciasse i nervi.

E accanto a lei trillò nuovamente la risata argentina di Leslie, di
Leslie che si divertiva, di Leslie che non aveva paura.

Allora Myosotis ebbe il senso che tutto sprofondasse in lei e attorno a
lei; le parve che la terra s'inabissasse sotto ai suoi piedi e ch'ella
piombasse nel vuoto, affondasse nelle tenebre di un baratro beante e
senza fondo....

Totò si era alzato e si era avvicinato a Lady Randolph. Ora le parlava a
voce sommessa ed ella rispondeva non senza concitazione.

Frattanto Neversol, senza alzarsi, spinse il suo cuscino più vicino a
Myosotis.

— Vi ricordate ciò che dice Amleto a Ofelia?... «_T'is a fair thought to
lie between a maid's legs_».

E sdraiandosi all'indietro le appoggiò il capo in grembo.

Myosotis sussultò e volle alzarsi.

— Vi prego, vi prego, — balbettò in un singhiozzo, tentando di
sospingere dalle sue ginocchia quel capo bruno; ma Neversol, stendendo
le braccia, afferrò le due mani della fanciulla e se le strinse contro
alle tempia.

— «È un dolce pensiero,» ripetè, — «giacere tra le ginocchia di una
fanciulla».

Leslie si era voltata e il sorriso le si agghiacciò sulle labbra.

— Cosa fate a mia sorella! — esclamò. — Perchè la tenete così?

E con ambo le piccole mani e colle unghie tentò liberare dalla stretta
di Neversol le mani di Myosotis.

Neversol rise e abbandonò la stretta; poi diede una tiratina di capelli
a Leslie.

— Se tu farai come il gatto, — disse, mostrandole la mano graffiata
dalle unghie aguzze di lei, — ti daremo lo stesso rimedio che a lui.

Poi, rivolto a Myosotis: — Vi ho fatto male? — chiese, prendendole una
mano e guardando il cerchio rosso che la sua stretta aveva lasciato sul
delicato polso. — Povera manina!

E alzandola alle sue labbra, la baciò.

Myosotis piangeva e non rispose.

Neversol si chinò verso di lei:

— Siete stanca, — disse. — Non vorrete già stare ad aspettare l'arrivo
del.... personaggio? Non è vero? Ebbene, andate a dire a Milady che vi
volete cambiare la veste; e poi salite nella vostra camera.

— Sì! sì! — esclamò Myosotis guardandolo con occhi lagrimosi. — Vieni,
Leslie....

E le due fanciulle si alzarono.

Ma ecco che dal fondo della sala Totò tornava verso di loro. Era pallido
e barcollava un poco. Teneva in mano una scatoletta d'oro piena di una
fine polvere bianca. Ne aveva preso tra le dita un pizzico e lo fiutava.

Si fermò davanti a loro porgendo la scatola d'oro aperta. — Fiutate un
pizzico di questa polvere, — disse ridendo e guardando l'una e l'altra
delle due sorelle con gli occhi velati e socchiusi.

— Che cos'è? — chiese Leslie con aria un poco spaurita.

— È ambrosia! — disse Totò, — è la nivea polve della coca che dischiude
le porte del paradiso.

— No! no! non la toccate, — disse Neversol respingendo il braccio di
Totò. — E voi, — rivolto a Myosotis, — andate a dire a Lady Randolph che
salite in camera vostra. Suvvia!

Myosotis, mansueta e tremante, traversò la grande sala, scansando
terrorizzata il gatto che faceva ancora balzi e capriole, e si avvicinò
a Milady.

L'istinto della sincerità non le permise di mentire. — Signora, — disse
timidamente — mia sorella ed io siamo stanche dal viaggio. Se
permettete, ci vorremmo ritirare....

— Ma che, ma che! — interruppe Lady Randolph colla sua voce metallica. —
Non se ne parla. Sapete pure che aspettiamo delle visite illustri.
Andate piuttosto a vestirvi come si conviene.

Myosotis chinò il capo.

— Andrò.... — disse, con un sospiro.

Milady la fissò in viso aggrottando severamente le ciglia; indi, senza
più badarle, si volse a parlare coll'uomo rosso. Myosotis rimase lì,
ritta, incerta un momento.... poi si volse, umiliata, e si allontanò.

— Vieni, Leslie, — disse, passando accanto alla sorellina; e quella
subito si alzò per seguirla.

Ma Totò s'interpose. — Ah, no! disse posando una mano ferma sul braccio
della ragazzina. — Questa sta qui.

Myosotis guardò incerta da Leslie a Totò, da Totò a Neversol; il quale
disse:

— Salite, salite, — e nella sua voce vi era una acuta nota d'impazienza.
— La piccina vi raggiungerà tra qualche istante.

— Già, — fece Totò.

Quel monosillabo suonò ambiguo all'orecchio di Myosotis. Guardò
perplessa la sorellina, e questa con lo sguardo le fece comprendere che
l'avrebbe subito seguita.

Lenta, trasognata, Myosotis lasciò la sala.



XXVIII.


Traversò la stanza da pranzo, fiocamente illuminata, e si trovò nella
vasta sala d'entrata, illuminata anch'essa da varie luci velate di
rosso. Tutto era silenzioso; un lungo corridoio sbadigliava nero davanti
a lei, conducendo forse alle camere di servizio, ma nessuna voce, nessun
passo si udiva; nulla se non il lento e ritmico battito della grande
pendola nell'angolo accanto all'ingresso. Mentre Myosotis, incerta, si
guardava intorno, la grande pendola suonò con rintocchi profondi di
cattedrale, le undici.

Con un senso di smarrimento indicibile Myosotis si avviò verso la
scalinata, passando tra i putti di marmo biancheggianti nella penombra,
reggenti le loro lampade ormai spente.

Giunta al primo piano passò davanti al salone dove gli ospiti di Lady
Randolph si erano radunati prima del pranzo; era buia e vuota; e bui e
vuoti erano i corridoi che a destra e a sinistra si allungavano come
braccia nere tese verso l'oscurità. Col fiato breve, col cuore in
tumulto, Myosotis salì al piano superiore e spinse la porta della sua
camera da letto. Questa era vivamente rischiarata; tutte le lampade
color d'ambra erano accese e un gran fuoco ardeva nel caminetto,
illuminando vivamente i turgidi cuscini di raso gettati sulla pelle
d'orso davanti al focolare.

E Myosotis, ferma sulla soglia davanti a tutto quel chiarore, davanti a
tutto quello sfarzo aspettante.... ebbe un nuovo sussulto d'infinita
paura. Ebbe più paura che nei corridoi tetri, che nelle stanze buie e
misteriose....

Paura!... Paura — di che cosa?

D'un tratto, portentosa e trasecolante, come un velo strappato da mano
violenta, ella ebbe la rivelazione fulminea della propria ignoranza.
Come un cieco-nato a cui una folgore istantanea dia la percezione della
sua cecità, così un lampo di chiaroveggenza squarciò improvviso la
tenebra in cui lo spirito della fanciulla era sommerso.

Fino a quest'istante ella aveva ignorato che ignorasse qualcosa:
innocente di essere innocente, ignara della sua inconsapevolezza. Ma
ecco che d'un tratto ella percepì di essere chiusa nel suo candore come
in una prigione, avvolta dalla sua ingenuità come da una fitta nube, in
cui disperatamente il suo spirito si dibatteva. L'istinto — folgore
illuminatrice — aveva squarciato la sua notte, per rivelarle.... che
cosa?

L'oscurità!

Colle mani strette alle tempia cercava di ragionare.

Aveva paura. Ma di che cosa?... L'oscura prescienza di un orrore ignoto
le pareva più terribile di ogni altro terrore.

Aveva paura. Paura di questa gente. Ma perchè?

Non erano forse persone come tutte le altre? Persone ricche, persone
vestite bene, persone affabili e sorridenti? Non erano già dei ladri che
s'incontrano di notte per la strada, non già dei criminali feroci, o dei
malati il cui contatto è letale.... Di che cosa, di che cosa dunque
aveva essa questa paura insensata, frenetica?

Con tonante voce, l'Istinto, l'oscura guida, le rispose:

— _Fuggi!_

Fuggire! Sì, sì! fuggire! Prendere Leslie, chiuderla nelle sue braccia,
trascinarla via!... Via? Dove? di notte, in questa immensa terribile
città sconosciuta? Non importa! Via! via! nel buio, nella notte,
nell'ignoto, ma via di qui.

Dabbasso qualcuno si era rimesso al pianoforte e suonava una gioconda
barcarola di Schumann. Quella musica calmò per un attimo l'agitazione di
Myosotis.

— Mio Dio! — pensò essa, — non è possibile che questa gente ci voglia
trattenere contro la nostra volontà!... voglia obbligarci a restare per
forza....

Pur mentre lo pensava cominciava a dubitarne.... e il terrore la riprese
più forte.

— _Fuggite! fuggite_, — urlava il cieco Istinto, — _ponetevi in salvo!
Gettatevi entrambe dall'alto di quel ponte sopra le nere acque del
Tamigi...._ Questo è ancora salvarvi!

Ma come fuggire? Myosotis sentì che bisognava chiamar gente, invocare un
aiuto dal di fuori.

Traversò precipitosa la stanza e andò a una delle grandi finestre
davanti a cui pendevano, risplendenti e arabescate, le tende di
broccato. Le scostò. E subito Myosotis si sentì riconfortata.

Pensò: Adesso passerà gente; io chiamerò e quelli si fermeranno. — «Cosa
c'è?» — Venite, venite!... Salvateci! — «Salvarvi? Da chi? Da che cosa?»

E come avrebb'ella risposto?

Non importa. Bisognava aprire e chiamar gente.

Ma ecco che, scostata la tenda, si avvide che la finestra era saldamente
chiusa da un'imposta, un'imposta quale Myosotis non ne aveva mai vedute;
tutta d'un pezzo e interamente ricoperta da una spesso strato di feltro.
Ella non vedeva nè come era chiusa, nè dove ne era il serrame. Cercò di
scuotere l'imposta.... vi battè col pugno con quanta forza aveva, ma la
sua mano cadeva senza alcun suono sulla spessa superficie felpata.

Myosotis si sentì mancare. Ma dunque.... erano veramente prigioniere,
lei e Leslie! Ma dunque in questa camera, anche se avessero gridato e
strepitato, nessuno dal di fuori le avrebbe udite? Nessuno sarebbe
venuto in loro soccorso?

Fremendo, gemendo, mordendosi i pugni Myosotis corse all'altra finestra:
era chiusa nello stesso modo. Allora si slanciò nella camera attigua —
la camera color di rosa, la camera di Leslie....

E anche qui, dietro le tende di raso bianco a fiorami rosa, vi era la
grande imposta ricoperta di feltro ed ermeticamente chiusa.

Allora Myosotis alzò le mani al cielo.... e si sentì morire.

Udì un passo, lieve, smorzato dal tappeto. Si volse e vide sulla soglia
la cameriera, la vecchia cameriera dagli occhi di cane e di volpe....

Calma, corretta, composta, col suo grembiule bianco ricamato e la
cuffietta candida sui capelli inargentati, chiese con voce ossequiosa:

— Posso aiutarla a vestire, signorina?

Myosotis non rispose. La guardò; le fissò in viso i suoi occhi
terrorizzati; e la donna rispose a quello sguardo collo sguardo
tranquillo di serva ben disciplinata.

Myosotis si guardò intorno, indi si avvicinò alla donna, si chinò verso
di lei col volto terreo, colle labbra bianche, e sussurrò:

— Ho paura!

La donna non si mosse e non rispose.

— Ho paura! — ripetè Myosotis senza respiro.

Allora anche la donna si guardò intorno cauta, e, visto ch'erano sole,
tentennò il capo.

— Poverina! — disse. — Lo capisco.



XXIX.


_Lo capiva!..._ Quella donna lo capiva!...

A Myosotis parve di non avere che in quell'istante conosciuto il
terrore. In fondo al suo cuore aveva sperato che quella non la
comprendesse; si aspettava che dicesse:

«Paura? Ma di che cosa?».

Ma la donna.... _aveva capito_.

Allora con un grido sommesso Myosotis le afferrò le mani, le vesti,
aggrappandosi a lei convulsa. Ma subito la serva si divincolò dalla sua
stretta, e indietreggiando verso l'uscio, coll'indice sulle labbra, fece
cenno a Myosotis di tacere; indi sparì, rapida come un'ombra, dietro le
tende che drappeggiavano la porta d'uscita sul corridoio.

Perchè, perchè era fuggita così?

Myosotis si volse e sulla soglia della camera rossa vide Neversol che la
guardava.

Lungamente egli contemplò quella figuretta atterrita, come un serpente
fissa l'occhio ipnotizzante sull'uccelletto che sarà sua preda. Indi con
un sorriso si avanzò, tendendole ambo le mani.

Ma in quell'istante un grido, un grido stridente, acutissimo risuonò per
la casa.

Era la voce di Leslie. Il cuore di Myosotis si fermò.

Con un balzo fu fuori della stanza e nel corridoio e giù per la scala.
Ma più di lei fu rapido Neversol; la raggiunse sul pianerottolo e con
una ferrea stretta sul braccio la fermò.

— Lasciate stare.... — diss'egli, ansando un poco, — lasciate stare!...
Ormai.... è inutile!

Myosotis lo fissò sbalordita, con gli occhi sbarrati, colla bocca
aperta.... non poteva parlare....

— Andiamo! tornate su, — disse lui, spingendola davanti a sè e
forzandola a risalire qualche gradino.

Myosotis parve ubbidire, indi con uno strappo subitaneo che sembrava
doverle rompere il braccio, si svincolò da lui e balzò giù per la
scalinata. Come una freccia traversò l'anticamera, la sala da pranzo, e
spalancò l'uscio del salone. Vide subito Leslie, seduta sul divano
accanto a Lady Randolph.

Era appoggiata indietro tra i cuscini e aveva gli occhi socchiusi. La
piccola bocca rosea era semiaperta, e il suo viso non esprimeva nè
terrore nè angoscia. Myosotis vide che intorno alle narici e sulle
labbra aveva qualche traccia di polvere bianca.

Perchè aveva gridato? E che cosa le avevano fatto per calmarla così?
Myosotis rimase un istante immobile accanto all'uscio; poi s'avviò
trepida verso la sorella fissando in quel viso di bambina assonnata i
suoi sguardi esterrefatti.

Dormiva, Leslie? Dormiva?...

No. Tra le palpebre semiabbassate, le pallide iridi celesti guardavano
Myosotis; la guardavano, senza luce, senza espressione.

Misericordioso Iddio! che cosa avevano fatto a Leslie?

Myosotis la chiamò per nome; ma quelle iridi pallide, quelle pupille
velate non ebbero un tremito.

Fu Lady Randolph che rispose. Sollevandosi dai cuscini disse con voce
aspra a Myosotis: — Lasciatela stare. È stanca. — E col suo braccio nudo
e profumato cinse il collo della fanciulletta. A Myosotis parve di
vedere la sorellina chiusa nelle spire di una mostruosa serpe bianca.

Si guardò intorno, frenetica; sentiva d'impazzire. Incontrò lo sguardo
dell'uomo grigio, seduto sul divano dall'altro lato di Leslie; vide Totò
al pianoforte colla testa rovesciata all'indietro che suonava come un
sonnambulo, con un vago sorriso sulle labbra; e, chino sopra di lui,
l'uomo dai capelli rossi che canticchiava.

E laggiù, fermo sulla porta, stava Neversol.

Allora nacque in lei l'astuzia, l'astuzia femminile.

Fissando lo sguardo su Neversol, tornò rapida e tremante a lui e gli
toccò la mano con una lieve carezza della sua piccola mano diaccia.

— Chiamate Lady Randolph! — sussurrò. — Allontanatela da mia sorella....
ch'io possa parlarle....

Neversol le affondò negli occhi le sue cupe pupille.

— E poi?... Sarete buona?...

Myosotis rispose a quello sguardo col vergine sguardo celeste.

— E poi.... sarò buona, — disse.

Neversol traversò a lunghi passi la sala e senza indugio prese pel
braccio Lady Randolph.

— Venite via. Ho da parlarvi, — disse.

Milady lo guardò, stupita, quasi non comprendendo, ed egli ripetè in
tono perentorio la sua richiesta.

Lady Randolph, sciogliendosi da Leslie — che rimase immobile nel suo
atteggiamento di torpore tra i cuscini — si alzò e seguì il giovane
nella sala da pranzo.

Allora Myosotis corse ad afferrare le mani inerti della sorella; e le
sentì molli e sudate.

— Leslie!... Leslie!

A sua meraviglia, subito la fanciulletta si raddrizzò come desta da un
sogno.

— Cos'hai? cos'hai?... dormivi? — ansò Myosotis. — Rispondimi! Parla!

Leslie si rizzò, tutta lunga e flessuosa, con una strana mossa di
leggerezza ed elasticità; e si guardò intorno con gli occhi brillanti.
Poi d'un tratto fissò in volto la sorella:

— Andiamo via — disse.

Lo disse con voce così piana e strana che Myosotis credette di aver mal
compreso.

— Andiamo via, — ripetè Leslie sempre con quell'aria fra l'allucinato e
il sonnambulesco.

In quel momento Totò e l'uomo rosso, dal pianoforte si volsero a
guardarle.

— Biondine, biondine! Cosa complottate — gridò l'uomo rosso. E rise.

E subito rise anche Leslie, d'un riso strano, d'un riso di bambina e di
baccante.

Myosotis impietrita di stupore la guardò, ma ella non cessò di ridere
anche quando i due uomini ebbero ripreso a far musica.

— Ma Leslie! Leslie!.... Non hai gridato? — ansò Myosotis. — T'ho pur
sentito gridare?... Perchè?

— Perchè?...

Leslie aggrottò le ciglia cercando di raccogliere i suoi pensieri.

— Aspetta.... sì. Ho gridato, — balbettò, tremula e incoerente. — Volevo
seguirti, ma lui.... — additando Totò — non ha voluto. Mi ha chiuso la
bocca con una mano, e coll'altra.... mi ha fatto fiutare di quella
polvere.... non so, mi ha chiuso la bocca.... soffocavo.... ho
respirato.... e la polvere m'è entrata nelle narici.... Allora ho
gridato....

Sempre collo sguardo vacuo e scintillante, Leslie si toccava la faccia,
la fronte, la bocca.

— È strano.... ho qui un senso strano.... Non sento più niente.... come
fosse tutto tramortito... — Fece qualche passo avanti, dei passi lunghi
e lievi: — E poi, quando cammino.... non so.... mi pare di camminare
sull'ovatta.... già! mi pare di camminare su tante morbide nuvole
d'ovatta....

E rise di nuovo, con quel riso stravagante che a Myosotis gelava il
sangue nelle vene.

— Leslie! Leslie! — singhiozzò quella; e le lagrime le sgorgarono dagli
occhi.

Leslie si scosse. La vista di quel pianto parve ricondurla in sè.
Improvvisamente si piegò verso Myosotis.

— Chiama aiuto! — disse con voce ansante, — chiama aiuto. Fa presto!

— No! Ti porto via con me, — esclamò Myosotis, disperata, tentando di
trarla verso l'uscio.

— È inutile! è inutile.... Non mi lasciano uscire di qui! — sussurrò
Leslie, febbrile e rapida. — Se a te riesce di uscire, va! Chiama aiuto!

Myosotis ristette un attimo a guardarla, indi si slanciò verso la porta
della sala da pranzo; ma si trattenne a tempo ricordandosi che ivi si
trovavano Neversol e Lady Randolph. Rapida e silenziosa tornò indietro e
corse verso l'altra stanza, la stanza quasi buia dove stava sdraiato
Dafne Howard.

Sulla soglia si volse ancora un attimo a riguardare Leslie. La
fanciulletta pareva dormire, riversa nelle sue chiome sciolte che
l'ammantavano di luce fino ai ginocchi.

Aveva gli occhi chiusi. E sorrideva.



XXX.


In un balzo Myosotis traversò quella stanza crepuscolare che l'oppio
riempiva di un vapore denso e dolciastro, e, scansando la lunga figura
supina, aprì l'uscio e si trovò in un corridoio che dava nella sala
d'ingresso.

E là, nell'anticamera, seduta accanto al focolare, calma, corretta e
composta, stava la vecchia cameriera, pronta ad aprire la porta agli
illustri ospiti attesi.

Myosotis non pronunciò sillaba; cogli occhi stralunati, colle braccia
tese come ad invocare da lei il silenzio, le passò dinanzi e strisciò,
silenziosa come un'ombra, verso la porta d'ingresso. Con frenesia cercò
la serratura....

La donna non si mosse; il suo sguardo acuto seguiva le movenze di quella
figuretta brancolante intorno al chiavistello, poi i suoi occhi vagavano
verso l'uscio socchiuso della sala da pranzo donde giungevano, in un
sommesso mormorio, le voci di Lady Randolph e di Neversol.

Myosotis in preda a un terrore folle sentì che non poteva aprire la
porta.

Allora ritraversò l'anticamera e cadde a ginocchi davanti a quella
donna. Senza pronunciare una parola — per paura che la udissero! — la
implorò, la scongiurò, afferrandole le mani, premendosele al cuore, agli
occhi, alle labbra.... muta invocò Iddio e i Santi a commuoverla, a
toccarle l'anima....

Ed ecco che alfine, rigida, sonnambulesca, quasi mossa da una forza
superiore al suo volere, quella donna si alzò.

Andò alla porta. Colle mani esperte e silenziose premette, sospinse,
girò....

La porta era aperta!



XXXI.


Fuori, fuori.... libera, nel buio, nella nebbia.... Fuori a cercare
aiuto e salvezza per Leslie!

Come una freccia, come un razzo, Myosotis si lanciò per le vie deserte e
silenziose, tremando di essere inseguita, credendo ad ogni istante di
sentirsi afferrata, fermata, trascinata indietro....

Giù per una via, su per un'altra, ansando, tremando, barcollando, coi
denti che le battevano, col sangue che le rombava nelle orecchie....
via!.... via, a cercare soccorso, soccorso per Leslie.

Ma una strada dopo l'altra era buia e deserta, una piazza come l'altra
era nebulosa e silente in quel quartiere remoto ed eccentrico di Londra.
Grigio su grigio, ombra su ombra, tutto svaniva e si dissolveva in un
fosco e opaco lividore.

Allora Myosotis gridò, chiamò, strillò. Il suo terrore la rendeva afona:
la nebbia avviluppava e smorzava la sua voce come una coltre di flanella
umida e densa.

Come talvolta in sogno aveva voluto gridare senza poter emettere un
suono, così ora non erano più che gemiti e rantoli, fievoli e fiochi,
che le uscivano dalla gola.... E nessuno l'udiva, nessuno rispondeva.
Una frenesia di terrore la assalì.

Eppure questa era una città, questi muri intorno a lei, chiusi e bui,
erano case, case piene di gente....

Si volse e cercò una porta — la prima che trovò, e vi battè con deboli
pugni, e poi coi piedi, e ancora coi pugni....

— Aiuto! aiuto! aiuto!

Un passo, lento, cadenzato e pesante; lo sprazzo abbagliante di una
lampadina elettrica: era un _policeman_.

Myosotis si appoggiò al muro per non cadere in deliquio.

— Cosa c'è? Cosa fate? — fece lui in tono burbero, illuminando dalla
testa ai piedi la figura scarmigliata.

— Venite! venite.... — balbettò lei, — per amor di Dio.... — e gli si
aggrappò alla manica. — Venite!

— Dove? — chiese il policeman con grave imperturbabilità.

— Di qui!... di qui!... — E visto la impossibilità di trascinarselo
seco, lo precedette, correndo, per la strada donde era venuta.

— Che cosa accade? — chiese lui, camminando lento, ma con passi così
lunghi che teneva dietro a lei che correva.

— Mia sorella.... mio Dio!... mia sorella....

— Morta? — chiese il policeman.

— No.... no! — gridò Myosotis, ansimando e singhiozzando; — è chiusa in
una casa.... non so.... non so cosa le facciano.... Non ha che quindici
anni....

— Ho capito, — fece laconico il policeman.

Volsero l'angolo e si trovarono in un'altra piazza con un giardino nel
centro.

Myosotis si fermò titubante. — Di qua!... No! no.... di qua!

E volse correndo a destra.

Il policeman la seguì col suo passo lento e lungo. Il suo occhio
percorreva le facciate buie delle case che guardavano colle spente
finestre la piazza.

— Granville Square, — disse. — È qui?

— No!... No!... — gridò Myosotis, — deve essere giù di là.... — E si
lanciò a sinistra. — Ecco.... sì, sì! Sono passata di qui.... mi
ricordo!

Giunta all'angolo si guardò intorno smarrita. — Ho sbagliato, — ansò; —
dovevo voltare a destra!...

— Ma in che strada è? — chiese il policeman, fermandosi.

— Non vi fermate, non vi fermate! — pianse Myosotis. — Non so in che
strada sia.... ma la troverò.... la troverò!

Giù per un altro svolto; ed ecco un'altra piazza, un altro giardino, un
altro quadrato di case oscure e silenziose.

— Gledhow Place, — enunciò il policeman.

Ma non era qui; no! Era ancora più in là, molto più in là....

Il policeman la seguì di qua e di là, da una strada all'altra, da una
piazza all'altra, tutte identiche, tutte deserte, tutte acquattate nella
nebbia, oscure e silenziose.

E di nuovo l'uomo si fermò.

Intorno a loro si chiudeva più fosca, più densa, più tenebrosa la nebbia
sulla enorme città silenziosa.

— Conoscete il nome della gente che sta in quella casa?

— Sì! sì! È una signora.... Lady Randolph Grey.

L'uomo ripetè titolo e nome, e sogghignò, incredulo.

— È bionda.... alta.... ha un automobile verde scuro....

Il policeman scosse le spalle. — Ma insomma, come ci siete andate in
quella casa? Non avete l'indirizzo scritto?

Sì, sì! Myosotis l'aveva.... cioè, non l'aveva.... ma se lo ricordava.
Argyle Square, numero 32.

— Ma quello è nel centro della City, — disse il policeman. — A dieci
chilometri di qui.

E si tolse di tasca una piccola guida e la sfogliò alla luce della sua
lanterna.

— Argyle Square.... Argyle Square.... numero 32. Eccolo. — Poi alzò gli
occhi e guardò Myosotis. — È un ufficio postale.

— Mio Dio! Mio Dio! Mio Dio!... — gridò Myosotis. — Facciamo presto!
facciamo presto!.... Bisogna trovare quella casa! trovare quella
casa!...

Più nera, più fosca, più profonda scese la nebbia sull'enorme città,
nefanda e misteriosa.

E avanti ancora, di piazza in piazza, di strada in strada.... poi in un
posto di polizia.... e poi, con altri policemen, di piazza in piazza, di
strada in strada....

                            . . . . . . .


Albeggiava.


Quella casa non fu ritrovata.


                                 FINE



OPERE DI ANNIE VIVANTI

  NAJA TRIPUDIANS (Romanzo)                     L. 6,50
  LIRICA                                         » 6, —
  I DIVORATORI (Romanzo)                         » 6, —
  CIRCE                                          » 5, —
  L'INVASORE (Dramma in tre atti)                » 4,50
  VAE VICTIS! (Romanzo)                          » 5,50
  “ZINGARESCA”                                   » 5, —
  LE BOCCHE INUTILI (Dramma in tre atti)         » 4,50



GIUDIZI DELLA STAMPA SU “=NAJA TRIPUDIANS=”


=Corriere della Sera= (_Ettore Janni_).

  Ed ecco ora il romanzo che avvince e fa rabbrividire, l'opera
  d'arte che spicca il volo dalla realtà ed è fantasia, _Naja
  Tripudians_ di ANNIE VIVANTI. L'idillico e il tragico vi fanno un
  violento contrasto.... ma l'idillio è come una maschera lieve che
  cade e scopre il volto dell'orrore.

  La catastrofe è presentata con una potenza a cui non si resiste.
  Singolare nella sua sobrietà formidabile è la chiusa.

  Un romanzo che non si confonde con gli altri: la voce che canta
  più alta e più sicura sulle mediocri orchestre e sui cori
  sguaiati.


=Il Secolo= (_Paolo De Giovanni_).

  .... Un fiume di delicata poesia.


=Giornale d'Italia= (_Diego Angeli_).

  .... E in queste parole è tutta la morale e tutta la spiegazione
  del bello e crudele romanzo che ANNIE VIVANTI pubblica in questi
  giorni pei tipi del Bemporad di Firenze. Bello e crudele e sotto
  un certo punto di vista altamente morale nella sua immoralità....
  Quest'ultimo capitolo ha la durata di poche ore,... capitolo
  terribile, dove la descrizione di quella società equivoca è
  descritta con grande sapienza e dove tutti i vizi —
  dall'omosessualità alla cocainomania, dall'ubriachezza dei liquori
  forti allo stupore dell'oppio, dalle sottili dissertazioni sul
  godimento e sul desiderio, alla rivelazione brutale della voluttà
  — sono trattati con mano maestra.

  .... E Annie Vivanti è un'artista e il suo romanzo è tanto più
  pericoloso in quanto che è più bello.


=Idea Nazionale= (_Umberto Fracchia_).

  _Naja Tripudians_ si legge con foga. Ecco stabilita la superiorità
  di questo romanzo femminile su tanti romanzi maschili che sono
  terribilmente noiosi....


=Il Marzocco= (_Luigi Tonelli_).

  .... Qui abbiamo una scrittrice nel vero senso della parola, che
  concepisce con potenza d'intelletto, e s'esprime con una sicurezza
  ed efficacia mirabili. In _Naja Tripudians_ riconosciamo l'autrice
  sorprendente de _I divoratori_, fosca di _Circe_, violenta e
  smagliante di _Vae Victis_: la creatrice d'immagini sfolgoranti,
  la coniatrice di frasi sintetiche e potenti, la calcolatrice
  sapiente d'effetti irresistibili.

  È impossibile resistere al fascino di questa scrittrice
  interessante che quando pare abbandoni, ti riprende di colpo, e
  t'inchioda allo scrittoio, finchè hai letto l'ultima pagina....
  che ti lascia scosso e turbato fin nell'intimo dell'anima.


=Il Tempo= (_Nicola Moscardelli_).

  Qui tutto è logico, naturale, musicale: il racconto precipita
  verso la conclusione fatale, così, come quella notte precipitava
  verso l'alba. Con quale modestia di mezzi è descritta l'aria in
  cui vive la mondana!

  Come leggermente si insinuano nell'anima delle due colombe i
  profumi e gli stordimenti emanati da quel mondo nuovo....
  accennando appena un particolare, come una piccola fiammella che
  s'apre e chiude improvvisa, come se una musica sonnolenta
  impregnasse di sè tutta l'aria, scivolando, le immagini si
  precisano, emergono, si realizzano.

  L'impressione che dà il libro è profonda e profondamente morale: è
  l'orrore del male, la nausea per il vizio, il ribrezzo per la
  impurità scandalosa delle città cosidette morali.


=Nuova Antologia=.

  Tutto il romanzo è un potente contrasto tra l'innocenza più pura e
  la depravazione più abbietta. A pagine fresche come un riso di
  puerizia, seguono pagine torbide di una drammaticità che turba e
  commuove.


=L'Italia che scrive= (_Fernando Palazzi_).

  Qui veramente Annie Vivanti s'è abbandonata a sè stessa, ha
  svelato sè stessa. Forse non s'è neppure accorta di fare
  dell'arte, perchè in fondo non ha fatto altro che confidarci
  l'anima sua. Io non conosco Annie Vivanti, se non da un verso del
  Carducci.... ma noi conosciamo adesso la vera fisionomia
  dell'anima sua, che è bionda, romantica, timida, ingenua,
  sentimentale, fanciulla.

  Si è discusso se _Naja Tripudians_ sia o no il capolavoro di Annie
  Vivanti. Io capisco benissimo come altri possa preferire i
  _Divoratori_ o _Vae Victis_, romanzi assai più forti. Io
  preferisco _Naja Tripudians_, specialmente per la dolcezza.


=Tutto= (_Cesare Sobrero_).

  Ecco un nuovo libro casto ed orribile ad un tempo.... Casto poichè
  la scrittrice riproduce le impudicizie col ferro rovente di una
  nausea profonda, di una desolazione accorata. Orribile, poichè la
  degenerazione psichica, e non psichica soltanto, vi è riprodotta
  colla precisione di altrettanti casi clinici.... Ricercando i
  gradi di parentela che possono esistere fra _Naja Tripudians_ e le
  opere di altri artisti, viene fatto di pensare che Annie Vivanti
  abbia invocato, compiendo la sua nobile fatica, due grandi ombre:
  Victor Hugo ed Octave Mirbeau. Victorughiana è la concezione del
  libro per il senso profondo dei contrasti, per la tragicità del
  contenuto umano. La seconda parte del volume, cioè le pagine
  vigorosamente realistiche ricordano invece le acri, inesorabili
  pitture di Mirbeau.

  .... Raramente in un libro, evocazione fu più dolorosa, pittura
  più straziante, lettura più struggente di questa orribile
  profanazione impunita.


=I libri del giorno.=

  .... Qui veramente la forza del libro sta nella poesia della
  forma, nella efficace evocazione degli ambienti, nella leggera e
  quasi trasparente musicalità dei periodi. Il libro incomincia con
  capitoli di una delicatezza e di una grazia squisitamente
  femminili.... qualche cosa che fa pensare alla freschissima
  «Primavera» del Grieg.

  .... Ma a un punto la tinta rosea del romanzo viene interrotta
  improvvisamente da qualcosa di oscuro e misterioso.... Le pagine
  si fanno inquiete; a quel profumo di innocenza che aveva fin qui
  accompagnato il racconto si mescola uno strano e tentante odor di
  peccato.

  .... Corre per tutte le frasi come un misterioso brivido, un
  serpeggiare di febbre.

  Aprire il romanzo e leggerlo è come entrare in una serra dove tra
  i più semplici e delicati mughetti, alcuni strani fiori effondono
  un loro acuto e perverso profumo. Non si ha il tempo e forse
  nemmeno il coraggio di avvicinarli, tanto quel profumo ci prende,
  ci stordisce, ci travolge. Esciremo dalla serra, opporremo gli
  occhi e la fronte ai rudi baci del vento, ma il ricordo di quei
  terribili fiori resterà a lungo entro di noi, come di un sogno
  bello e perverso....


=Il Giorno= (_Carlo de Flaviis_).

  Pagine belle e tristissime; due piccoli mondi; scolpito, il primo,
  con una perfezione d'arte impeccabile, descritto il secondo, con
  una verità a volte piena di impudica baldanza a volte piena di
  titubante sgomento.


=La Chiosa.=

  Tutta Annie Vivanti è qui: con le sue mani cariche di poesia
  ch'ella profonde in così bizzarro modo: qua, là, dovunque un
  dettaglio svegli la sua vibratilità, soffermi la sua commozione,
  desti la sua sensibilità.

  Non ci soffermeremo a evocare le bellissime tra le molte belle
  pagine del romanzo. Al pari di tutti i libri della Vivanti esso
  afferra alle prime pagine e non lascia più.

  L'interesse che suscita vi è graduato così che dall'incantesimo di
  una dolcezza piana e serena si passa a poco a poco per tutti gli
  stadi dell'ansia e della trepidazione fino a raggiungere
  l'angoscia piena d'orrore che strugge l'anima alla fine del
  racconto e del libro. Si esce da questa lettura sotto il peso di
  un incubo.

  Poesia! questo è il segreto di Annie Vivanti. Il segreto della sua
  malìa e della sua arte; dei suoi occhi ancora pieni di stellante
  azzurro e dei suoi libri sempre saturi di freschezza; della sua
  giovinezza sempre intatta e delle sue pagine sempre avvincenti.


=La Donna= (_Nicola Moscardelli_).

  Il libro si chiude con un senso di soffocazione.

  Sebbene sia composto con un'arte squisita, nulla rivela in esso
  l'artefizio, nel quale era così facile cadere.... Non c'è nulla da
  aggiungere, e nulla da togliere.


  =Don Marzio.=

  Squisitezze psicologiche, gioielli d'osservazione, un profumo di
  grazia inarrivabile...


=Gazzetta di Messina= (_G. Gigans_).

  Colei che seppe costruire coll'aiuto del suo potentissimo genio
  un'affascinante vicenda — _I divoratori_ —; colei che seppe nel
  poema vibrante di verità accomunare la fede al dolore — _Vae
  Victis_ — .... ci regala quest'opera semplice e possente.

  La Vivanti quando vuole appassionare il lettore, sceglie un
  argomento semplicissimo, un argomento di vita vera.

  Questa la sua arte. La semplice verità.


=La Scuola= (_Antonio de Filippis_).

  Il poeta è vate. Gli basta uno sguardo, ed egli intravede il
  futuro. — Carducci, da profeta, intravide il genio di Annie
  Vivanti e disse: «_canta!_».

  .... Annie dimostrò il suo vero temperamento di artista col
  romanzo. Nel romanzo appare grande, perchè originale, strana,
  ardita, ma sempre vera. Tutta la vita di Annie è una battaglia
  contro la ipocrisia.... E con _Naja Tripudians_ ella compie una
  lotta ancor più potente.

  Storia triste che risalta sulla tavolozza di un Rembrandt!


=Il Pungolo= (_Giuseppe Scaglione_).

  La poetessa squisita di «Lirica» la narratrice intensamente
  drammatica dei casi pietosi e terribili di Maria Tarnowska,
  l'autrice di «Zingaresca» di «Vae Victis» di «Bocche Inutili» ha
  creato ancora un'opera di grande bellezza artistica e di
  appassionata, travolgente poesia. Sopratutto da questo ultimo
  libro bisogna veramente riconoscere ad Annie Vivanti, una grande
  forza di pensiero e di forma; di pensiero ricco, elevato,
  profondo, di stile deciso, rapido, serrato, in alcuni momenti
  quasi convulso.

  Ella non soffre infingimenti e contraffazioni del pensiero e della
  forma. Ribellandosi a falsare la propria natura impetuosa e
  serena, e la natura delle cose e degli uomini, porta nei suoi
  libri una veemenza ed un pathos, una sincerità di vita che
  incatena l'attenzione del lettore di pagina in pagina e di libro
  in libro, con un continuo crescendo.

  I suoi libri sono morali, non di una morale stentata, arcigna e
  cattedratica, ma libera e spontanea.

  Con quale signorilità e sicurezza d'intuito, con quale potenza di
  analisi e semplicità di espressione è narrato questo documento
  umano così tragico e così patetico!...


=Il Pungolo= (_Rodolfo Guido de Marsico_).

  .... Questa la vicenda di «Naja Tripudians». Vicenda terribile che
  martoria lo spirito, che esaspera, che accende una ribellione, che
  ci fa bestemmiare la vita!

  E più terribile è il romanzo perchè scritto da una artista. Annie
  Vivanti ha adoperato i colori più delicati, le sfumature più
  evanescenti, perchè più fosca noi sentissimo la tragedia che
  quella luce distruggerà.


=Don Quichotte= (_Parigi_).

  .... Madame Vivanti y confirme une fois de plus son grand talent.
  Ces derniers chapitres constituent un morceau de haute littérature
  horrifique.


GIUDIZI DELLA STAMPA INGLESE SU “=I DIVORATORI=”


=Herald.=

  Qui ci troviamo davanti a quella rara cosa — un'opera di genio.


=Telegraph.=

  Questo meraviglioso libro è un'opera di bellezza creata da chi
  possiede il più grande dono dello scrittore — lo stile.


=Daily Mail.=

  Questo romanzo, scritto da un poeta, ha tutta la ossessionante
  potenza della poesia.


=The Times.=

  Con questo libro _Annie Vivanti_ ha compiuto un'opera
  stupefacente. Scegliendo un tema finora non mai trattato da un
  romanziere essa ci ha dato un libro del più strano ed avvincente
  fascino.


=Truth.=

  È un'opera di genio questa di _Annie Vivanti_. In essa vi è una
  forza ed un pathos, una veracità di vita e di natura, che ci
  tengono incatenati dalla prima all'ultima pagina.


=Fortnightly Review= (_Georges Brandès_).

  La vera forza di questo libro sta nello stile, ora morbido e
  delicatamente allusivo, ora fluente e fantastico. Annie Vivanti è
  maestra nell'arte di evocare un ambiente, dandone la speciale
  atmosfera ed illuminazione. Nel humour è scintillante come una
  Rosalinda Shakespeariana.

  Quest'opera per quanto scritta in prosa, deve essere giudicata
  come poesia. Difatti essa ci fa l'impressione, non di un lungo, ma
  di un grande poema....


GIUDIZI DELLA STAMPA SU “=VAE VICTIS!=”


=Il Popolo d'Italia.=

  È sopratutto, un magnifico romanzo; è un'opera di arte d'alto
  valore e della più schietta ispirazione; è uno studio di
  psicologia pieno di profondo e delicato acume; questo in primo
  luogo; poi è anche, fortunatamente, un fiero grido di battaglia e
  un'opera buona, generosa e santa.

                            . . . . . . .

  Ha la felicità e sicurezza d'intuito e la potenza d'analisi che
  Annie Vivanti rivelò primamente in quei Divoratori ch'ebbero così
  alta e vasta fama nella letteratura internazionale. Ha lo stesso
  procedere rapido, passionale, travolgente.


=Giornale del Mattino.=

  Poema dolorante e poema di fede insieme, attraverso ad una virtù
  di narrazione vibrante come un sonito di guerra. La nostra
  letteratura, oggi, si è arricchita d'un nuovo potente documento
  umano.


GIUDIZI DELLA STAMPA INGLESE


=“Observer”.=

  Questo è il più tragico e memorabile dei romanzi.


=Sir Conan Doyle= (_il creatore di Sherlock Holmes_).

  Un libro veramente terribile e veramente potente.

  Non ho mai letto nulla che mi abbia fatto realizzare con tale
  forza ciò che la guerra significhi per il paese invaso.


=North Mail.=

  _Annie Vivanti Chartres_, mediante la grande e perfetta sua arte,
  ci presenta l'agonia del Belgio in una narrazione da allegarsi ad
  altri raccapriccianti documenti di guerra.

  È un libro di cui la lettura s'impone, come dovere e come
  necessità. È un libro che porterà lontano negli spazii
  dell'avvenire, l'eco del più nefando crimine che il mondo abbia
  conosciuto.


=Land and Water.=

  «_Vae Victis_» è un libro da esporsi in ogni luogo dove un
  pacifista osa alzare la sua voce.


=Morning Post.=

  Se questa potente e magnifica opera potesse essere largamente
  disseminata sarebbe un possente mezzo per rinforzare la nazione
  nel suo intento di proseguire la guerra fino a che la lotta contro
  la «Peste Grigia» non si chiuda col trionfo dell'umanità.


=Sidney Walton= nel _Courier_.

  Quando la superba forza della Prussia morderà la polve come
  Niniveh e Tyro, quando sulle tombe dei suoi maledetti imperatori
  giocheranno i fanciulli di un'altra generazione, questo libro di
  _Annie Vivanti Chartres_ rimarrà quale sacro memoriale
  dell'innocente Belgio e parlerà ancora con terribili accenti
  all'umanità.


GIUDIZI DELLA STAMPA SU “=CIRCE=”


=Corriere della Sera.=

  _Annie Vivanti_ ha composto un'opera di spasimante umanità e di
  bellezza.... Col suo nobile ingegno e col suo istinto poetico, ha
  dato delle memorie di Maria Tarnowska una interpretazione che ha
  una sua poesia intrinseca.... un romanzo che appassiona di
  capitolo in capitolo, intensamente, che è tutto profumato, nel suo
  tetro groviglio, di passaggi candidi e luminosi....


=Pall Mall Gazette.=

  Documento umano di meraviglioso e soggiogante interesse.

  Una combinazione di poesia e di verità sul modello dato da
  Goethe.... Narrazione di maestria vivida e potente.


=Mail.=

  Raramente accade di trovarsi dinanzi ad un documento umano di così
  tragico e patetico interesse.


=Times.=

  _Annie Vivanti Chartres_ ci ha dato un documento umano di
  straordinario fascino, uno studio dell'aberrazione del
  temperamento femminile e della psicologia del crimine che ci
  lascia turbati e atterriti.


=Le Journal= (_Ernest La Jeunesse_).

  .... Le hasard d'une conversation a jeté Annie Vivanti, romancier
  frémissant, poète profond, sur le nom de la prisonnière, sur
  l'acte, sur le secret de cette histoire. Un ami lui apporte un
  manuscrit de la condamnée, un cahier de classe haché d'une
  écriture régulière, élégante, indifferente, un carnet de bal — de
  quelle sarabande! — sur papier rugueux. Elle se passionne et son
  génie divinatoire, fraternel dans la peine, évocateur, transfigure
  ces pages mornes et qui n'ont que la scéau du malheur. Elle
  obtient de voir — avec quelles difficultés! — la reclusionnaire
  dans sa maison de force.

  Quelle révélation! Elle discerne, dévoile, retrouve une petite
  fille, une éternelle enfant vagabonde dans ses pensées et dans ses
  voyages, étonnée de se marier de n'être pas aimée de sa beauté
  étonnée de devenir femme, de devenir mère, étonnée de sa beauté
  qu'elle ne découvre, qu'on ne découvre que tard. Et tout se
  précipite dans ses étonnements. C'est avec stupeur qu'elle apprend
  de lui le désir et le dégoût, qu'elle se donne, au plus beau
  lancier du monde, quelle le voit mourir dans ses bras, longuement,
  tué par l'époux soudainement jaloux — pourquoi? C'est une surprise
  pour elle de trouver au chevet d'une amie d'enfance qui l'a
  appelée pour mourir celui qu'elle doit faire mourir, le mari de
  l'agonisante Emilie Kamarowska....

  Mais je ne veux pas déflorer l'oeuvre inoubliable d'_Annie
  Vivanti_. C'est un lucide et incessant tourbillon d'action, de
  rêve, d'incoscient, de fatalité. C'est harmonieux et terrible,
  c'est la vérité et c'est l'art.

  Les paradis artificiels chantés par Thomas de Quincey et Charles
  Baudelaire flottent autour de plus lourdes ivresses et apportent
  leur relief inconsistant à des paysages d'âme dignes de
  Dostoïewski. Le mélodrame se purifie en élégie, sans perdre rien
  de son intensité, de sa fureur, de sa furie. La plus rare, la plus
  universelle émotion fait palpiter ces pages de fièvre, cette
  reconstitution idéale et forcenée.... Et sur cette beauté éparse
  et condensée, au dessus du sang apaisé et la fange bue par le
  soleil, les grandes ailes de la pitié apportent tout le ciel et
  tout le rêve....



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





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