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Title: Il libro di Don Chisciotte
Author: Scarfoglio, Edoardo
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Il libro di Don Chisciotte" ***


                           E. SCARFOGLIO


                              IL LIBRO

                                 DI

                           DON CHISCIOTTE


                            1º Migliaio



                                ROMA
                          A. SOMMARUGA E C.
                          _Via Umiltà, 79_
                                1885.



                        PROPRIETÀ LETTERARIA
      Tip. della Camera dei Deputati (Stabilimenti del Fibreno)



                            A LEONE FORTIS

                       IN ARCADIA DOTTOR VERITÀ

                 NON GLI POTENDO FARE MAGGIOR DISPETTO

                             QUESTO LIBRO

                                DEDICO

                                 DONO

                               CONSACRO.



PROLEGOMENI.


Sarà, giorno più giorno meno, un anno, io ritornai a Roma dalla
Calabria, ove avevo bevuto del buon vino di Sambiase e scritto alcuni
miei pensieri intorno agli ultimi nefasti della novellistica italiana
che a moltissima gente, anche non novelleggiante, erano parsi troppo
scismatici. Figuratevi: appena disceso dal treno corsi a vedere i miei
amici del _Capitan Fracassa_, e con maraviglia grandissima li trovai
tutti furibondi contro di me. Celiarono, motteggiarono, mi dettero
ridendo dell'asino, dell'imbecille; i più benevoli mi dissero affetto da
un qualche subitaneo accesso di pazzia; e non mancò chi, chiamatomi a
parte, mi ammonisse fraternamente di guardarmi dai sortilegi del mio
buono e sperticato amico Angelo Sommaruga, il quale mi dimostrava,
dicevano, d'avanti alla baracca bizantina a caprioleggiare per chiamar
gente.

Come io accogliessi quelle celie, quelle canzonature e quegli
ammonimenti de' miei migliori amici, non occorre dire: risi anch'io,
tanto per fare qualcosa; e ritornando a casa la notte pieno di sonno e
di stupore, mi persuasi che in Italia, ora, chi affermi che per scrivere
qualcosa in lingua italiana sia necessario almeno di sapere la lingua
italiana, fa la figura di don Quijote visionario di cavalleria nella
Spagna di Carlo V e di Filippo II. E poichè l'età e un naturale
sconcerto dell'organismo mi traggono ai cimenti d'un _caballero
andante_, mi piacque di fare il don Quijote della novissima letteratura
italiana, senza lasciarmi dissuadere dal primo incontro dei molini a
vento.

E la seconda avventura non fu meno terribile della prima, poichè certe
mie opinioni ereticali intorno al dramma moderno parvero così goffamente
serpentesche al marchese D'Arcais e a tutti gli altri ultimi credenti
nella grandezza del teatro, che invano, per più notti consecutive, io mi
sfiatai a confortare le mie affermazioni pubbliche di molte
dimostrazioni private. Ridevano quei maledetti, e mi chiamavano il
Coccapieller della letteratura italiana; e per sino il mio buon amico
Arnaldo Vassallo, che non ha dubitato di collocare la Mecca in Africa e
di annegare l'amico di Ero nello stretto di Messina, rinfacciandomi di
essere stato bocciato nell'esame di geografia, mi ammoniva che chi non
sa molto sicuramente le divisioni e la nomenclatura del sistema alpino
non può sentenziare di cose drammatiche. Allora io, ritornando
ostinatamente su quel medesimo argomento, pubblicai questo brano di
prosa che parve una spavalderia, e non era se non un proponimento:

«La _Cronaca Bizantina_, tra gli altri titoli grandi all'amore di chi la
scrive e alla gratitudine universale, ha questo: che tutte le cose
pubblicate e tutte le opinioni manifestate in essa trovano nel pubblico
dei lettori una larga cerchia di discussione. I nostri tavolini sono
tutti ingombri di lettere protestanti contro la bestialità delle nostre
novelle e contro la feroce violenza della nostra critica; e ogni volta
che qualcuno di noi esprime con le parole o col fatto i suoi
intendimenti d'arte, gli abbonati e gli amici lo assaltano da tutte le
parti. Buon segno questo, poichè gli abbonati alla scadenza rinnovano
l'associazione, e poichè l'amicizia non è menomata dall'impeto della
critica; e noi, a traverso gli assalti e le proteste, con le parole e
coi fatti seguiteremo a esplicare e a propagare questi nostri
convincimenti, che in Italia il gran cadavere delle arti letterarie non
possa risorgere ove non lo susciti dal sonno della morte lo squillo di
tromba della coltura rinnovata; che il punto di partenza della futura
arte italiana debba essere quello appunto a cui, dopo una lunga
evoluzione, pervenne in Germania il Goethe; che chiunque prenda in mano
la penna per scrivere, sia pure la cronaca d'un giornale, sappia quello
che fa e perchè lo fa, e come prima di lui in Italia e fuori d'Italia
gli altri fecero quello che egli si propone di fare; che il canone
universale, in fine, sia il concetto della _Weltliteratur_, così bene
intuito dal Goethe e così mal predicato dai fratelli Schlegel.

«Per queste nostre opinioni, nate da un esame non breve di molta parte
della letteratura moderna, noi combatteremo con tutta l'ardenza del
nostro spirito, senza riposo e senza quartiere; poichè, in fine, noi
vogliamo una cosa onesta e savia e patriottica insieme: noi vogliamo che
l'arte dell'Italia nuova, monarchica o repubblicana o nihilista ch'essa
sia per essere, si liberi dall'abbietto vassallaggio francese che la
tiene più forte di quanto la servitù della gleba tenesse l'Italia
antica.

«Perchè questa persuasione entrasse nelle menti e guidasse l'opera dei
molti che mostrano attitudine a far cose belle e buone, basterebbe che
costoro sapessero un poco di storia e di letteratura europea; sapessero,
sopra tutto, di storia e di letteratura italiana e francese. Ma poichè
così non è; poichè in Italia chi consiglia una cosa utile è reputato
peggio che pazzo; poichè il titolo d'una raccolta di novelle indiane
move al riso una folla di scrittori che lo apprendono dalla _Cronaca
Bizantina_, è segno che il male è serio e che non basta accennarlo
fuggevolmente. No, accennarlo non basta; ma è necessario ritornarvi
sopra ostinatamente, e dichiarare e dimostrare parte a parte tutti i
sintomi del male. Tanto meglio per noi: il nostro campo di combattimento
si allarga. Non si faranno più delle _corride_ di tori, come pel
passato, ma ce ne andremo pel mondo in traccia di avversari e di mostri.
Forse noi abbiamo nelle vene troppo sangue di _caballero andante_, come
don Quijote, ma certo non abbiamo terrore dei molini a vento. Da oggi
innanzi la _Cronaca Bizantina_ diventa un campo aperto.

«Noi non tenteremo più l'impresa di Roncisvalle, poichè lo squillo del
corno lacera troppo gli orecchi, ma diventiamo i tenitori dello
steccato: tutti i libri che si pubblicheranno, tutte le comedie e tutte
le tragedie che saranno rappresentate, noi le assaliremo singolarmente
ad _armi cortesi_, dacchè le armi di guerra e le mischie in massa si
vogliono proibite, o le leveremo sugli scudi, come la nostra coscienza e
i nostri criteri d'arte ci consiglieranno.

«Poichè noi in fine non ci proponiamo di assaltar la gente ai crocicchi
dei boschi con le coltella tra mano, ma vogliamo in ogni modo
persuaderla di una verità santa e dolce al nostro amor proprio
nazionale: che la letteratura francese moderna, della quale noi ci
compiaciamo, nella quale noi ci specchiamo da venti anni, è una cosa
mediocre artifiziosa e moritura; e che, se noi vogliamo rivedere qualche
ombra d'arte levarsi alta prima della fine dell'arte, dobbiamo stornar
la vista dalle Alpi. Guardate: mentre noi stiamo tutti intenti alla
bella meccanica dell'_Odette_, le forze comiche rampollate
dall'effervescenza caustica della nostra fantasia popolare si disperdono
o tralignano. Guardate: noi andiamo ad ammirare al _Valle_ gli sbalzi di
pantera della signora Duse in mezzo ai dinoccolamenti di cinque o sei
marionette, e sul palco scenico del _Metastasio_ Pulcinella imbastardito
canta un'arietta francese.

«Noi ci mettiamo a una battaglia rude, con poca speranza di vittoria,
suscitandoci contro molti malumori quando più avremmo bisogno di
benevolenza. Ma non importa: purchè quei criteri che ho accennati in
principio prevalgano, lasciamo pure che i vecchi appendicisti teatrali
ridano della nostra inesperienza scenica e del nostro furore di
combattimento. Noi siamo i don Quijote della critica, e ce ne
congratuliamo con noi medesimi; poichè, mentre tutti quanti gli ideali
umani nella Spagna, in Italia, in Francia, in Fiandra, nel Messico
cadevano gelati dal risetto maligno di Carlo V imperadore, si levò don
Quijote a rappresentare l'ultimo palpito di un ideale.

Sarà un'aberrazione, e le _Società per la tutela_ ecc., seguiteranno a
spandere molti quattrini per far tradurre molte comedie francesi: ma che
volete? Noi non ci sappiamo rimovere dalla nostra persuasione, e,
checchè sia per accadere, non scriveremo mai i due brutti versi di Gian
Giorgio Trissino:

    Maledetto sia il giorno e l'ora e 'l quando
    Presi la penna e non cantai d'Orlando.

Le promesse, non le minacce come qualche bell'umore volle dare ad
intendere, furono, questo libro lo dimostra, tenute. Io mi aggirai,
pazzo cercatore di ventura, fra una turba che da prima mi guardava
scompisciandosi dalle risa, poi cominciò a scaraventarmi addosso torsi e
torsi e torsi di cavolo. O bei torsi di cavolo verdi e nodosi onde le
schiene mie giovenili furono consolate! Chi li potrebbe noverare, o
almeno classificare per categorie? I miei più cari amici me ne
lanciarono con tutta la forza dei polsi, reputando in buona fede di fare
opera di misericordia. I lontani dicevano e stampavano ch'io fossi un
ragazzaccio che voleva far del chiasso con la facile infamia della
diffamazione; i conoscenti miei, vedendo con gli occhi propri quanto io
fossi nemico del chiasso vacuo e ozioso e quanto poco esso conferisse
alle mie speranze e alla mia personale ambizione, arguirono ch'io fossi
un mattoide.

E forse costoro hanno ragione; poichè non si può, senza presupporre un
qualche guasto cerebrale, concedere che un uomo, il quale
facilissimamente, col solo permutare in superlativi laudatorii alcuni
peggiorativi della sua prosa, potrebbe diventare il prediletto di tutti
gli scribacchiatori d'Italia e conquistare una bella fama di ragazzo
miracoloso, per uno stolido e monomaniaco feticismo dell'arte si
rassegni ad accumulare sopra il suo capo una così fiorente mèsse di
vituperi e di disdegni e di canzonature. Comunque sia, quando io dalle
sfere serenamente luminose de' miei primi studi discesi in mezzo alla
nebbiuccia sporca della letteratura odierna, e abbandonai Omero e
Goethe, Aristofane e Molière, Orazio e Heine per il signor Rapisardi,
per Salvatore Farina, per Paolo Ferrari, proprio mi ritrovai nella pelle
di don Quijote escito di fra i suoi romanzi d'avventura ai piani della
Mancha. Io, per dichiarazione de' miei giudizi drammatici, ricordavo
Eschilo o Shakespeare o Goethe, e i cronisti teatrali mi ridevano sul
muso; citavo il _Decameron_, e i novellatori spiritosi mi ammonivano che
il Boccaccio è un mito.

Così non mai disegno di legge per un aumento d'imposte fu con tanto
vario e concorde accanimento combattuto e vilipeso, quanto questo libro
man mano che appariva nei giornali. Nessuno mostrò di avvedersi che le
cose dette da me erano gli elementi della più volgare erudizione e le
fondamenta del più comune buon senso; ma gl'ignoranti di qualche ingegno
mi presero per uno strano pedante che pretendesse d'imporre loro un
programma d'insegnamento, e gli eruditucoli cretini mi vollero far
passare per un ciarlatano che tentasse a furia di parole cabalistiche di
conquistarsi fama di erudizione in paese di barbari. Anche non mancò
qualche stupido (l'ultimo è stato un gaglioffo marchigiano sudicio e
zazzeruto come un Fariseo di Heine) che denunziasse me — proprio me! —
come il tamburino d'una fantastica oligarchia letteraria. Ecco che cosa
si guadagna a fare il don Quijote! Vede ora il Dottor Verità che sarebbe
un gusto da cane idrofobo _posare_ per critico antropofago in conspetto
del popolo?

No, caro Dottor Verità. Per quanto io mi diletti meco medesimo di tutti
questi torsi di cavolo che mi piombano da ogni parte, non posso reggere
all'amarezza di vedere il pio Giacinto Stiavelli affannarsi a cercare un
qualche modo di farmi dispiacere, e affastellare, con grave danno del
suo officio d'impiegato governativo, bibliografie sopra bibliografie per
potere avventarmi di straforo qualche torsoletto accidentale col metodo
dei Parti lanciatori di frecce. Non posso, senza scoppiar dalle risa,
vedere due bravi giovinotti, i quali hanno l'abitudine di tagliuzzare in
tanta carne da salciccia tutti quelli che non cantano la gloria dei loro
sterili sudori di copiagione, e questa ciccia così stranamente
tagliuzzata e pesta insaccano in certe loro parentesi tonde come il loro
cervello o quadre come la loro persona, tentare la medesima gherminella
contro di me. E via, o salcicciatori vilissimi! Che diavolo volete voi
tagliuzzare? Non vedete che io non ho sopra le ossa dure tanta carne da
fare una mortadella? Non vedete quanto siete ridicoli? Voi avete la
testa di piombo e i piedi di creta, e tra il piombo e la creta l'invidia
di voler fare anche voi ad ogni modo qualcosellina memorabile ha eroso
un cavo, ove il canchero della vostra imbecillità dorme un sonno fatato,
aspettando invano un qualche risvegliatore. Che Dio perdoni a Giosuè
Carducci di aver chiamato i giovini d'Italia alle biblioteche e agli
archivi! Egli, primo, ne porta le pene, poichè gli tocca di soffrire la
fastidiosa prosopopea di certi sciocconi, i quali credono in buona fede
che basti ricopiare una qualunque cosa inedita per ascendere le più alte
vette della sapienza e dell'intelligenza umana. Tali sono, naturalmente,
i due bravi norcini che mi hanno mosso a questo discorso. Costoro sono
stati, fra tanti altri giovani veramente degni, scelti a insegnare
filologia romanza in due Università italiane, poichè dura tuttavia in
Italia e prospera la tradizione di quel ministro, che non avendo pronta
alle domande d'un garzone farmacista una catedra di storia naturale,
glie ne dette una di sanscrito. È naturale che questi due bravi
giovinotti, vedendosi così singolarmente segnalati fra tanti migliori di
loro, abbiano fatto nel cavo della loro testa plumbea questo
ragionamento: se hanno data a noi una catedra universitaria quando non
potevamo onestamente sperarne una di ginnasio, è certo che noi abbiamo
un qualche straordinario merito che ci fa degni di tanto favore; e
poichè noi nella grande miseria della nostra gioventù non altro abbiamo
fatto se non ricopiare a stampatello e parte anche in corsivo con
inchiostro d'anilina e non senza qualche sproposito i sonetti del
Pecora, è indubitabile che per essere in Italia insegnanti e critici di
filologia romanza una buona dose di pecoraggine sia indispensabile.

Io sono presidente, dunque suono il campanello, diceva il marchese
Colombi; ma questi due sono più colombi del marchese Colombi, e hanno
detto: noi soniamo il campanello, dunque siamo presidenti. E si son
messi a salcicciare.

Se non che io non sono disposto a lasciarmi assassinare nel trabocchetto
d'una parentesi quadra con le armi insidiose di due punti ammirativi; e
denunzio all'Italia che due professori di filologia romanza eletti senza
concorso non hanno neppur letto il compendio di storia letteraria
provenzale del Bartsch, poichè pare loro uno sproposito ammirando dire
che la Francia meridionale, se bene ebbe dei rifacimenti e qualche
nativo virgulto rampollato sotto i passi di Carlo Martello dai campi di
Poitiers, non fu veramente epica; e ignorano pienamente la storia della
liturgia cristiana, poichè, se avessero saputo che il canto liturgico in
Grecia contrappose la ritmica semitica alla metrica classica pagana; se
avessero saputo che in Italia questa forma di opposizione fu più facile
e più manifesta, perochè la liturgia trovasse nei canti popolari latini
degli ausiliari contro la poesia classica e pagana, udendo proporre il
desiderio che si ricercassero da qualcuno più competente di me e di loro
le influenze che nelle nuove forme metriche può avere avuto la ritmica
siriaca ed ebraica, non avrebbero fatto quella mossa di meraviglia
pietosa da villani che, per parer furbi, ridano sul naso di chi parli
loro del telefono.

Ma questi asinelli che vogliono celare la scioccheria loro sotto la
pelle del Pecora non sono nè pur furbi, se bene son villani assai. E
perchè sono stufo dei molini a vento, saluto caramente questo grosso
signor Renier che mi pare un canonico officiante a cui il piccolo signor
Novati agiti d'avanti il turibolo salmodiando in gloria con quella sua
vocetta blesa che sembra impastata di sorbe acerbe e di succo di
barbabietole, e passo oltre, senza badare a tutti quelli che da Milano e
da Potenza, da Roma e da Meina, da Napoli e da Santa Maria di Capua, da
Palermo e da Nocera dei Pagani mi hanno gridato e mi gridano tuttavia la
croce addosso.

Solo, prima di raccogliere le vele, sento il dovere di rendere le più
vive azioni di grazie ai due ultimi miei frombolatori, un maschio e una
femmina. Sì, anche una femmina, poichè io non solo sono stato lacerato
dai cani come Atteone, ma come Orfeo sono stato dilaniato dalle Menadi.
Il maschio è un tal Dario Papa, del quale io non so altro se non che
accompagnò Ferdinando Fontana in America, e che, chi sa perchè, ha
voluto contro ogni norma di buona creanza e di delicatezza cacciare il
naso in una mia question personale, ristampando una lettera provocatoria
del deputato Cavallotti; cosa tanto più strana, dicono quelli che lo
conoscono, quanto più questo Dario è codino e nemico del deputato
Cavallotti. Ma a me, già, ne toccan di tutti i colori. La femmina è la
signora Adele Bergamini, una generosa erede della scuola romana, che
agli illustri italiani di tutte le scuole è stata cortese amica; e a me
aspra dì critiche fierissime! Vedete, o Dottor Verità, che cosa si
guadagna a fare il don Quijote?


E ora basta. Da questo libro appare come io abbia fatto pochissime
questioni personali; e quelle pochissime trattovi a forza. Ora prendo
tutto il fascio delle armi, e lo butto in un cantone; e mi abbandono
senza difesa agli assalti dei cani, e alle rappresaglie. Il soverchio
ardore della mia prosa procede dallo sdegno di vedere tante buone forze
perdute per manco di proposito e per incertezza d'indirizzo: anche io
speravo di scotere con qualche fanfaronesco ma opportuno fragore di
ferri questa generazione italiana che se ne sta, come le rane di Esopo,
in mezzo al pantano della santa ignoranza, dondolandosi nella
contentezza di sè medesima, acclamando ai re travicelli della critica
opportunista e laudativa. Ma questa speranza, pare, era pazza, poichè
tutte quante le rane mi si son levate contro crocidando, e invocando le
vendette di Giove sul mio capo.

O Giove Ottimo Massimo, tu che solo vedi come io sopra questa
moltitudine di batraci abbia ragione; tu che solo intendi ed approvi lo
sconsigliato e scomposto impeto cavalleresco di amore per la dignità e
per la serietà dell'arte che mi ha sospinto a questa strana impresa, io
non voglio che questo crocidamento ti dia oltre fastidio. Io dichiaro a
te, poichè delle rane non mi curo, che non ho mai voluto mangiare nè un
poeta, nè un romanziere, nè un dramaturgo — troppo mi sarebbero ingrati
al gusto e allo stomaco; — che delle mie furie non ho inteso fare un
mestiere, ma un libro. E il libro, eccolo. Scritto saltuariamente, come
l'occasione invitava, e scritto in grandissima parte per uso di
giornali, è tumultuario, è ineguale, è, soprattutto, superficiale: ciò
che solo ha di buono, è l'intenzione. Comunque, io lo lancio arditamente
in mezzo al popolo d'Italia, poichè in questa prosa fervono i più vivi e
più caldi entusiasmi della mia gioventù; e se bene esso pare pessimista
e nihilista, vi arde per entro il fuoco sacro d'un desiderio immenso, il
quale io, a mio rischio e pericolo, ho voluto propagare fra tutta la
presente generazione: che il senso e l'amore dell'arte in Italia
rinascano liberamente e largamente, e che le fonti della coltura
moderna, chiuse dagli argini dell'erudizione gelosa ed egoista,
trabocchino a fecondare tutti gl'intelletti capaci di fertilità.

Il concetto mio, in fondo, è romantico; e poichè dalla storia del
romanticismo ho anche appreso a confortare le parole con gli esempi,
lascio qui le teoriche e le micromachie, e salgo a un cielo più
luminoso. Le rane dormano in pace: io voglio dar loro larga materia di
rappresaglia. E mi dilungo per sempre da questo pantano, onde io mi
auguro sia presto per rampollare una più felice vegetazione, contando
sotto l'arnese le ammaccature come il cavaliere dalla trista figura,
ripetendo meco medesimo questi tre versi di Giovanni Antonio Du Bellay:

    C'est estre fol que d'estre sage
    Selon raison contre l'usage.
    Ceux qui m'entendent m'entendront.

  Roma, 20 novembre, 1883.

                                                              E. S.



I.

LE TERRE BARBARICHE.

  Per le rovine di Ostia e per la patria — La vecchiaia di Victor
  Hugo — Contro il romanzo sperimentale — Le novelle tedesche.


I.

O le rive del Tevere, di là da San Paolo, sino alle bocche di Ostia e di
Fiumicino! Io non ho mai navigato l'Addua cerulo tra i rosei fuochi del
vespero, e non so se altri fiumi d'Italia siano più lieti o più chiari o
più erbosi del Tevere; ma discendendo a questi meravigliosi giorni di
ottobre la corrente tiberina con una compagnia di vogatori e di poeti,
seduto a prua con le spalle rivolte al maggior poeta e la faccia al sole
nascente, ho sognato il mio ultimo sogno autunnale.

Passato sotto il giogo dell'ultimo ponte, il sacro fiume del Tevere si
riallarga usurpando dalle paludi e dai campi un maggior alveo. La sua
opera lustrale è compiuta. Purificata Roma con le acque derivate
dall'Umbria, corre a morire solennemente nel mare; e quella opacità sua
bigia e tranquilla dà l'imagine d'una sonnolenza secolare, non potuta
turbare dai tumulti di guerra che s'addensarono a queste rive. La barca,
sospinta dai vogatori, filava nel mezzo della corrente: i poeti a poppa,
ammirati, contemplavano. Già il tempio di Vesta, vituperato dalla
bestiale irreverenza dei nepoti, era scomparso: per tutto intorno non
altro si vedeva che il cielo e la campagna e il fiume, questi tre
testimoni delle leggende italiche armonizzati insieme, come tre toni
concordi, in una mite larghezza di linee. Io guardai il Tevere inconscio
e il Carducci, il più caldo e più amoroso celebratore dei fiumi italici,
che navigava meco al porto di Ostia. E pensavo quanto vigore di salute e
d'italianità i presenti mingherlini operai del verso e della prosa
potrebbero dedurre da un grande amor fluviale. Al remo! al remo! questa
generazione di rachitici, che si affannano faticosamente come un popolo
di formiche sulla steppa sterile in traccia dei granelli dell'arte. Un
esercizio di galera rafforzerebbe i muscoli di questa gente filacciosa;
e lo spettacolo dell'Aniene traboccante tra i salici nel Tevere,
tumultuario e sonoro e italico come quando l'antico pastore si recò alla
capanna nella cesta di vimini i due gemelli fondatori, e lo spettacolo
del padre fiume abbracciante l'isola sacra innamoratamente, come se
ancora sonasse sotto i passi d'un coro di vergini, richiamerebbero un
senso di pudore per l'incuria presente e il desiderio d'un maggiore
studio alle memorie della patria. Altro che acque di Montecatini, e
bagnature livornesi! Io vorrei vedere questi che cercano materia d'arte
e non ne trovano, questi che tentano invano il palpito della vita nei
polsi della patria arrancare sino alle bocche di Fiumicino e rompere col
petto il Tevere a Ponte Milvio. Cercano la vita mobile della città? E io
ho menato Giovanni Verga dal porto di Ripetta a San Paolo, e l'ho fatto
navigare tra la vecchia Roma papalina ed ebrea, che spande al sole tutti
i suoi cenci fetenti, che versa nel Tevere tutte le emanazioni de' suoi
cessi. Cercano il libero trionfo della natura? E io ho mostrato a
Giuseppe Giacosa il sole calante dietro Monte Mario, che con quei
cipressi dritti in sulla fronte pare un'acropoli fondata per difesa del
sacro fiume. Anche ho guidato una donna sull'Aniene; ma le femmine non
intendono e non sentono nulla. Io mi son fatto navicellaio per amore
dell'arte, e voglio traghettare tutta la letteratura italiana al
Teverone o ad Ostia. Qui venite, o voi che ricercate nei romanzi
francesi la parola dell'arte; e qui apprendete il senso della patria.
Ogni fiume, ogni monte, ogni mare d'Italia vi apprenderà qualche cosa; e
non cercate avventure nelle terre barbariche, prima di avere esplorata
la patria. Voi siete come una nidiata di pulcini irrequieti, che non
avendo ancora nè il becco nè le ali potenti vi avventate fuori dal nido
ai campi lontani. Dove diavolo andate a parare? Intorno a voi è tutta
una mèsse matura, e volate in cerca di granelli non sicuri, in paesi non
fertili? Imparate a beccare, per dio! e non vi buttate giù dall'albero
nativo sprovvedutamente. La conquista del mondo è bella; ma i nostri
padri più savi avventurieri di noi cominciarono dall'assicurarsi il
possesso della patria. Correte ai monti, ai fiumi, alle biblioteche
d'Italia; e se non siete buoni nè di vogare, nè di imparare, nè di amare
la nostra terra e la nostra vita, empite le barche di vostri faticosi
volumi; e annegatevi con essi insieme.

Queste cose io pensavo, guardando; e d'improvviso, a un gomito del
fiume, un branco di cavalle libere beventi con le zampe fisse in sulla
riva e i colli distesi all'acqua, si scoperse alla vista. Il Carducci,
non più tenuto dall'etichetta officiale, era ritornato barbaro e
maremmano e giovine, e, dritto a poppa, con gli occhi lampeggianti di
contentezza accennava esclamando altamente. Poi di nuovo le rive boscose
fuggirono dietro di noi permutando con varietà infinita la scena; ed
ecco, Maccarese ci apparve così fresco, così verde, così bello nel
selvaggio deserto delle sue paludi, e i bufali non mai aggiogati ci
contemplarono con un tanto strano sentimento amichevole, che il tempo
presente pareva fuggisse con le sponde del fiume, e noi navigassimo alle
prische età italiche. E bevendo col vino di Gabriele d'Annunzio al nume
del Tevere, facemmo, senza versi, un'ode barbara; e gittando alla
corrente le bottiglie infrante, mi tornava nella memoria il marchese
Colombi, che ha sudato più settimane per dimostrare ai lettori del
_Pungolo_ come la poesia del Carducci sia poco moderna. Al remo, al remo
anche voi, o gioviale marchese! e che un anno di galera tiberina vi
faccia una volta intendere la modernità, e la barbarie!

Intanto, Ostia si dimostrava da lunge: Ostia solitaria e selvaggia tra
il bosco e la palude, che specchia nel fiume le sue magnifiche rovine,
magnifiche singolarmente perchè non violate dalla vigilanza dei
_pizzardoni_ o d'altra qualunque più indegna custodia officiale. E,
discesi tutti a terra, e andando per quello stupendo stradone
fiancheggiato dagli avanzi dei magazzini antichi, io pensavo in me
medesimo non fosse forse opportuno picchiar forte con le larghe lastre
del basolato sulla cervice dura degli ultimi nepoti latini, per
inculcarvi il rispetto e l'amore degli avi costruttori di quei _docks_ e
di quel teatro, a cui ora mugghiano i bovi mezzo selvaggi e
s'appressano, guardinghi, i polledri male domati. E ritornando a quel
pensiero, mi pare ch'io non avessi torto, e che qualunque più illiberale
e violento modo di propagare fra la gioventù presente l'amore della
madre patria si avesse a celebrare come opera santa. A poco a poco, un
egoismo piccinino e bestiale ci vince, e ci adagiamo volentieri nella
contentezza della nostra miseria presente per odio d'ogni fastidio e
d'ogni fatica, come i contadini di certe regioni italiche s'appagano
d'un nutrimento di patate, pur di poter stare distesi per le piazze a
non far nulla. Per qualche tempo il rinato desiderio dell'indipendenza
nazionale fu agli italiani stimolo potentissimo a ricercare le
tradizioni patrie, e a richiamare e celebrare ogni gloria passata: ora,
fatto l'ultimo sforzo, ci siamo abbandonati come stanchi a una strana
incuranza, a una trista incuriosità della vita anteriore del nostro
popolo. Le correnti dell'attività italiana vanno sensibilmente scemando;
l'indolenza naturale di nuovo ci domina e ci fiacca; la politica,
l'industria, la coltura nazionale, queste grandi forze che sospingono le
genti su per la scala dell'evoluzione progressiva, stagnano.

Noi abbiamo ora un ministro dell'istruzione pubblica fanatico per
l'archeologia, e tutto penetrato da un caldo senso di romanità, e lo
stato delle nostre scuole ci ammonisce tristamente che la gioventù
d'Italia sempre più abborre dallo studio, e che non pure essa esce dalle
scuole ignorante in tutto di lingua e di letteratura greca, ma
pienamente innocente d'ogni peccato di coltura italiana e latina. Or non
è questo un segno, e insieme una causa irreparabile, di rovina? Onde le
generazioni che vengono su dovranno educare e rafforzare quel natural
senso d'amore per la razza propria e per la patria che è in tutti gli
uomini? I ragazzi d'Italia leggendo le tragedie alfieriane dicono che
quella è retorica, e ripetono una qualche conversazione del dottor
Verità contro il dramma storico; se poi sanno il francese, spegnendo il
sigaro ai muri del liceo prima di entrare in classe, dimandano ridendo:
— _Qui nous délivrera des Grecs et des Romains?_ E credono di aver fatto
una bella prodezza, presentando al maestro una traduzione da Tito Livio
copiata in qualche provvida biblioteca.

Le relazioni officiali, sebbene ogni anno si rinnovino i relatori,
concordano nel certificare un peggioramento continuo. Per qualche anno
fu relatore il Villari, e tanto era pessimista l'opinione sua collettiva
intorno allo stato della nostra coltura scolastica, che fu tacciata di
esagerazione. Quest'anno la pena della relazione è toccata al Tabarrini,
uomo, come tutti sanno, indulgente all'ottimismo e confidente
nell'avvenire della coltura patria: ebbene, il giudizio suo è stato
anche più severo di quello del Villari. Anche egli ha dovuto
apertamente, con molto dolore, confessare che la coltura classica nelle
nostre scuole è in un deperimento miserabile, e che la gioventù di
Italia dopo otto anni di studio esce dai licei senza sapere la lingua
italiana.

Onde questo proceda, e come, e perchè, sarebbe troppo lungo, e doloroso,
e forse non utile nè onorevole a dire. La ruina delle nostre scuole si
riallaccia logicamente a una universale ruina dello spirito italiano.
L'ideale dello studio e il diletto del sapere vanno di giorno in giorno
cadendo e disperdendosi sotto il bel sole italico. Le generazioni venute
su dopo il '60 si sono adagiate mollemente al rezzo dell'albero della
libertà; e con le mani al ventre e gli occhi intenti alle belle ghiande
d'oro che stan sospese tra il fogliame, si cullano e si dondolano e si
addormentano in una beatitudine accidiosa. Essi non sanno nulla e non
vogliono saper nulla e di nulla si curano che non sia il conseguimento
immediato di lor piccoli e brutali desidèri: essi non sentono più dentro
l'involucro organico smaniare lo spirito inquieto di levarsi su, su, su,
fuori della volgarità comune. Essi stanno bene giù nel ruscello della
strada, all'ombra di quell'albero conquistato dai padri. L'ombra è bella
e folta, e le ghiande dall'alto lusingano assai. Perchè moversi, perchè
togliersi a quell'annichilamento volontario di sè medesimi tanto dolce,
tanto dolce?

Così tutta l'Italia, in fatto di coltura generale, è in una condizione
veramente infantile: intorno ai quattro o cinque o sei, i quali per la
sicura e larga erudizione e pe'l contributo veramente efficace che
recano allo sviluppo generale del sapere sono più che italiani, ci è una
immensa moltitudine d'ignoranti, alla quale manca, non so dire se la
volontà o il modo d'imparare. Gli spropositi detti nel Congresso
letterario di Roma dell'anno scorso, e detti impunemente, in pubblica e
numerosa assemblea di persone facenti professione di letteratura, furono
tali da fare inorridire; le risposte date da uno che passa pe'l nostro
meno misero scrittore teatrale a chi lo interrogava intorno all'origine
e alla prima storia dei manoscritti miniati meritavano una qualche
severa pena corporale; gli errori incredibili intorno alle materie di
più volgare erudizione, onde sono seminati i discorsi dei più reputati
produttori d'arte, non si possono numerare. Di qualunque argomento si
tratti, chi ha occasione di partecipare ai ritrovi degli scrittori
odierni non può resistere al bisogno di qualche escandescenza violenta.
Mancano le nozioni più elementari e più necessarie, mancano i criteri
più comuni: pare, alle volte, parlando con qualche edificatore di
comedie o di critica o di romanzi, di essere davanti alla statua bruta
pensata dall'abate Condillac per risalire all'origine della percezione
sensitiva. L'esperienza del passato e del presente non immediatamente
sottoposto alla visione dei sensi, non esiste. Con quali mezzi dunque e
con quali speranze ci affanniamo noi fastidiosamente alla ricerca di un
qualche lontano porto di salute, d'una qualche non visibile terra
promessa, ove dai tralci giganteschi pendano i grappoli intatti per la
vendemmia d'una nuova arte italica? Se non sappiamo ciò che è dietro di
noi e intorno a noi, a quali mari vogliamo noi navigare?

Noi abbiamo, e quando dico noi comincio naturalmente da me, noi abbiamo
bisogno, sopratutto e prima di tutto, di manuali. Noi siamo, dicevo, in
una condizione di coltura veramente, e senza alcuna esagerazione,
infantile, e dobbiamo rifarci dal sillabario. Buona parte della
letteratura italiana, non saputa o saputa male, è stata in questi ultimi
anni, per virtù di quei cinque o sei, messa o rimessa in luce; ma a che
queste nobili fatiche possono giovare, quando di tutto quanto il nostro
patrimonio letterario la massa del popolo non sa nulla? Di più, quel
lavoro di escavazione reca in sè medesimo una causa di danno; poichè fa
prevalere questo sciocco criterio, che ogni disotterramento o
ripulimento sia un'insigne opera di critica; e alletta gl'imbecilli,
impotenti non pure a pensare qualcosa col cervello proprio, ma ad
acquistare il senso della selezione critica; a discreditare il metodo
della ricerca scientifica con loro pazze facchinaggini di amanuensi. Per
queste considerazioni, nelle quali ogni persona di buon senso vorrà
pienamente accordarsi meco, io ritorno sicuramente all'affermazione mia,
che, augurandoci il numero dei ricercatori intelligenti e sapienti,
cresca intorno al Carducci, al D'Ancona, all'Ascoli, al Comparetti e a
tutti quegli altri che della escavazione e della ripartizione del nostro
materiale letterario non fanno un ozioso e pomposo e noioso esercizio di
calligrafia per soddisfazione della propria piccina vanità vile, si
cominci una volta a pensare ai bisogni primi delle masse, e si
dichiarino gli elementi della coltura moderna. Poichè nella letteratura
moderna, e non solamente in Italia, si può osservare un fatto
tristissimo: che in arte, come nella scienza, accade da qualche tempo un
frazionarsi del materiale, e un isolarsi degli scrittori ciascuno nel
frammento attribuitosi. Non pure tutte le forme dell'arte si distaccano
le une dalle altre, e si segregano con distanze insuperabili, ma ogni
forma si frantuma in tante particelle minori che anch'esse pretendono di
vivere ciascuna di vita propria indipendenti le une dalle altre. Così
ogni faccetta della vita chiama un osservatore che la indaghi per ogni
molecola più minuta, e che non passi i confini della propria piccola
estensione. Or non sarebbe qui opportunamente ammonitrice la favola di
Menenio Agrippa? Il primo segno del disfacimento è appunto il
disgregarsi delle molecole organiche.

In vece, quando più si risale alle grandi tradizioni dell'intelletto
umano, si trova non pure una universale coerenza di tutta quanta la vita
alla intuizione dell'artista, ma una concordia meravigliosa di tutte
quante le forme dell'arte. Pensate a Dante trascorrente in trionfo dalla
lirica all'epopea, dalla musica alla retorica, dal racconto delle
proprie impressioni d'amore al comento delle proprie canzoni
scientifiche; pensate al Machiavelli tentante con pari fortuna
l'opusculo politico e la comedia, la storia e la novella, il libro
didascalico e la critica; pensate infine ai nostri artisti del
Cinquecento, che in un sol lume d'intelletto abbracciavano tutte quante
le arti plastiche, e qualche volta anche la poesia.

Ma, nel disgregamento dell'arte ci è un'altra ragione di miseria e di
decadimento; e sta nella diminuita necessità di coltura che ne segue.
Quando l'artista si delimita un piccioletto cantuccio di terra, e là
zappa, e là vanga, e là semina senza riguardo delle altre terre che gli
fruttificano intorno, l'opera sua è così ristretta in una angustia di
confini, è così stabilmente determinata e regolata, che diventa quasi un
lavoro meccanico, come di quegli operai che passano la vita a girare la
medesima manovella d'una medesima ruota d'una medesima macchina; e ogni
necessità d'ogni altra esperienza non immediata cessa. Ora, un'arte che
mena fatalmente all'ignoranza più bestiale e al più miserabile
impoverimento dello spirito, può essere seriamente considerata come
fruttifera e sana?

Questo può parere in contradizione con ciò che ho detto in principio; e
tutte le volte che ho saltuariamente propagato questi criterii
elementari, mi hanno mosso due accuse contradittorie: di poco o nessun
rispetto alle tradizioni della patria, e di fanatismo indigeno, anzi
territoriale. E sono ingiuste.

Per intenderci, bisogna premettere: che in questo libro si discorre
della più recente letteratura italiana, la quale è una materia bruta,
fabbricata penosamente da operai deficienti d'ogni preparazione, e quasi
inconsci, poichè di chiaro non hanno se non, dopo le prime prove, il
senso della inutilità di loro sudori: i quali non sapendo la letteratura
della patria, e non potendo in conseguenza rifare per proprio conto
tutta la strada percorsa dall'evoluzione dell'arte, fanno come quei
corridori fiacchi che aspettano a mezza strada i più forti; e, al
sopravvenire di questi, anch'essi si lanciano. E poichè i corridori più
agili negli ultimi tempi non sono stati italiani, gl'italiani presenti
attendono al varco tutti gli stranieri che galoppano via innanzi agli
altri. Questo libro dunque si propone di richiamare la parte più
intelligente e più ignorante d'Italia a raccogliersi in sè medesima per
vedere se, a poter concorrere nella universal lizza dello spirito
europeo, non siano necessarie due cose: di riacquistare il senso e
l'amore della patria, o in tutto cessati o in grandissima parte scemati;
di fare quella preparazione larga e solida che è oramai necessaria, non
pure alle opere scientifiche, ma e alle opere d'arte.

In tutta l'Europa l'abbassamento dello spirito, e quasi una reazione
contro i grandi slanci ch'esso ha fatti per più d'un secolo, sono
evidenti. Il periodo dell'abiezione incomincia. In tale condizione, per
non lasciarsi in tutto sopraffare, è necessario avere una cognizione
sicura e un retto giudizio delle cose. Prepararsi per l'avvenire, e non
appigliarsi disperatamente alle tavole del naufragio presente.

Vediamo dunque; e poichè siamo qui nella prosa borghesemente polita
della città, e non più il Tevere ci trascina barbaricamente alle rovine
ostiensi, lasciamo le imaginazioni, e mettiamoci alle dimostrazioni. E
cominciamo dai due ultimi libri di Victor Hugo, che sono: _I quattro
venti dello spirito_, e _Torquemada_.


II.

    Je vis les quatre vents passer.

— O venti — dissi — credete di aver voi soli una quadriga? Il grande
carro dello spirito umano rotola su quattro assi, e ciascuno di questi
grandi assi, epopea, dramma, ode, giambo, taglia come una spada. Poi:

    Je vis Aldebaran dans les cieux. Je lui dis:

— L'antica poesia, con le sue quattro facce, Orfeo, Omero, Eschilo e
Giovenale, ti è eguale. Quando cade la notte, nell'ora che cantano le
cicale, quando agli uccelli spersi l'alba ride, in tutti i luoghi,
sull'Arno, sull'Avone, sull'Indo, la musa che sa i nostri mali ne fa la
somma. Ne vuoi una prova? Eccoti due volumi, settecento miserabili
pagine, ove i quattro venti dello spirito umano soffiano potentemente, e
quattro candelabri risplendono quanto tutte le costellazioni del cielo.

Ed ecco prima il vento della satira, un soffio di tramontana che divelle
gli alberi e sconvolge la superficie dei mari:

    Tout frissonnant d'amour, d'extases, de splendeurs,
    L'hymne universel chante au fond des profondeurs
    Avec toutes les fleurs et toutes les étoiles;
    Il chante Dieu rêvant sous les flamboyants voiles;
    Il chante; il est superbe, éclatant, triomphant,
    Doux comme un nid d'oiseau dans la main d'un enfant.
    Il enivre l'azur, il éblouit l'espace;
    Il adore et bénit. Tout-à-coup Satan passe,
    L'être immonde qui cherche à tout prostituer,
    Et l'hymne en le voyant se met à le huer.

Quand'io ero ancora un giovinetto pallido, mi disse la musa: — Tu parti?
Quando il Cid partiva, aveva armi di ricambio; e tu, che hai?

— Ho l'odio pe'l male e l'amore pe'l bene; e sono armato meglio d'un
paladino:

    O sainte horreur du mal! devoir funèbre! o haine!

Quando Mosco canta di Enna; quando Orazio segue gaiamente Canidia, e sul
paiolo fumigante fa sternutire Priapo all'acre odore del filtro; quando
Plauto batte Davo e canzona Anfitrione, il cielo azzurro in un cantuccio
brilla radiando; e in fondo scroscia il riso dell'Olimpo. Ma l'azzurro
dispare ovunque passino i vendicatori:

    L'âme alors est sinistre et voit avec angoisse
    Ces occultations redoutables de Dieu.

Si nasce? si muore? che tempo è questo? che luogo è questo?

    Le démon souriant dit: Je suis méconnu.

La satira ora non è più quella d'un tempo, quando alla Sorbona il
piccolo Andrieux, dal viso di rana, mordeva Shakspeare Amleto Macbeth
Lear Otello co' suoi denti falsi rubati al vecchio Boileau. Ora, come ai
tempi di Roma, la satira implacabile deve all'uomo Lume Intelletto Bontà
e Pietà suprema nell'ira. Il suo immenso sforzo, è la vita. Essa vuole
cacciar la morte, bandir la notte, rompere i lacci, dovesse anche rodere
il titano popolare. Eccoci dunque in piena vita: tutte quante le voci
del secolo scoppiano.

E, prime, le voci della soffitta imprecano, mentre da una fessura della
vòlta il cielo azzurro le ascolta serenamente dall'alto. Ecco la
caricatura d'un borghese arricchito, che va a messa recando

    ... sous son bras Jésus doré sur tranche.

— Resti fra noi: io non credo a queste scioccherie! — Egli va a messa

    Fier de sentir qu'il prend dans sa dévotion
    Le peuple en laisse et Dieu sous sa protection.

Ma i fantasmi si accavallano, s'addensano, si urtano. All'ombra d'una
catedrale, ecco degli spettri: preti con unghie di vipistrello, un
vigliacco che per virtù d'adulazioni spera di arrampicarsi in alto. La
letteratura, ch'è tanta parte della vita umana, non è più quella d'una
volta: dalle solitudini d'Arcadia è ritornata fra lo spesseggiare
romoroso del popolo su le piazze assolate:

    Oui, tel est le poète aujourd'hui. Grands, petits,
    Tous dans Pan effaré nous sommes engloutis.

È un momento di sosta. Il poeta, stanco o nauseato, si ferma un momento
a contemplare sè stesso. La satira diventa critica. Poi, di nuovo la
critica è sopraffatta da una eruzione di entusiasmo:

    Notre adoration, notre autel, notre Louvre,
    C'est la vertu qui saigne ou le matin qui s'ouvre;
    Les grands levers auxquels nous ne manquons jamais,
    C'est Vénus des monts noirs blanchissant les sommets;
    C'est le lys fleurissant, chaste, charmant, sévère;
    C'est Jésus se dressant, pâle, sur le Calvaire.

E di nuovo, come un gladiatore acconciato per la lotta che fa
scricchiolar le sue ossa per provarsi e misurare le forze, grida il
poeta:

    Il monte; il est le vers; je ne sais quoi de frêle
    Et d'éternel, qui chante et plane et bat de l'aile.

Poi si slancia di nuovo. Ecco il _Mont-aux-pendus_ sulla costa di
Jersey, contro di cui si rompono i navigli; ecco dei chiaroscuri:

      Du temps de Vénus Aphrodite,
    Parfois seule, écoutant on ne sait quelle voix,
    La déesse errait nue et blanche au fond des bois;
    Elle marchait tranquille, et sa beauté sans voile,
    Ses cheveux faits d'écume et ses yeux faits d'étoiles,
    Etaient dans la forêt comme une vision;
    Cependant, retenant leur respiration,
    Voyant au loin passer cette clarté, les faunes
    S'approchaient; l'œgipan, le satyre aux yeux jaunes,
    Se glissaient en arrière ivres d'un vil désir,
    Et brusquement tendaient le bras pour la saisir,
    Et le bois frissonnait, et la surnaturelle,
    Pâle, se retournait sentant leur main sur elle.

Così la coscienza umana procede luminosa fra il nostro crepuscolo;
quando alla vista dei fauni, subitamente oscurata, dà addietro. E chi
sono i fauni? Sono i preti che ardono i libri pieni di luce, è la forca
che gitta la sua ombra nera sulla fiamma vivace della vita umana, sono
le belle donne che ai balli di Corte inneggiano alla forza e alla
guerra, sono i cannoni, è il vizio, tabe velenosa che rode quella Venere
Afrodite passante ignuda nel fondo delle selve, che si chiama la
coscienza umana:

    Elle passa. Je crois qu'elle m'avait souri.
    C'était une grisette ou bien une houri.
    Je ne sais si l'effet fut morale ou physique,
    Mais son pas en marchant faisait une musique.
    Quoi! ton pavé bruyant et fangueux, ô Paris,
    A de ces visions ineffables! Je pris
    Ses yeux fixés sur moi pour deux étoiles bleues.
    Fraîche et joyeuse enfant! moineaux et hochequeues
    Ont moins de gaîté folle et de vivacité.
    Elle avait une robe en taffetas d'été,
    De petits brodequins couleur de scarabée,
    L'air d'une ombre qui passe avant la nuit tombée,
    Je ne sais quoi de fier qui permettait l'espoir.
    Pendant que je songeais, croyant encore la voir
    Même après qu'elle était enfuie et disparue,
    Et que debout, pensif au milieu de la rue,
    Contemplant, ébloui, cet être gracieux,
    J'avais l'œil dans l'espace et l'âme dans les cieux,
    Une vieille, moitié chatte et moitié harpie,
    Au menton hérissé d'une barbe en charpie,
    Vêtue affreusement d'un sinistre haillon,
    Effroyable, et parlant comme avec un bâillon,
    Me dit tout bas: — Monsieur veut-il de cette fille?

È il ritratto d'una santa, morta d'itterizia in convento; è la visita a
un bagno di forzati; è lo spettacolo d'un cimitero. Le tenebre si fanno
più folte: i fantasmi diventano più terribili e scivolano per le tenebre
come lemuri, schifosamente. Ecco una processione di bonzi, seguita da
una processione di preti, e dietro un arcivescovo nemico della luce. Poi
i fantasmi a poco a poco si allargano, si allungano, si diffondono in
idee astratte: la satira drammatica di Orazio, cede il posto alla satira
predicatrice di Giovenale: i quadretti scompaiono sotto una eruzione di
sermoni. Le idee, non più vestite di forme plastiche, ma libere e
fluide, prorompono cozzando. Prima è la filosofia che dà la scalata al
cielo: il vecchio spirito della notte, coi chiodi che tennero saldo
Cristo in sulla croce, fabbrica all'uomo una catena: esso agghiaccia le
fronti scaldate dall'aurora: — È necessario che una fiamma fosca
rischiari un imperatore: per questo io ho scritto gli _Châtiments_. Io
ho dovuto fare questo libro; ed ecco Parigi agonizza, e un uomo è
fuggito: è un vigliacco: è l'imperatore. Così tutto è finito: la
rivoluzione francese non è che una pazza, a cui Bruxelles dice: vattene.
E io sono odiato. Perchè? Perchè amo i deboli e i vinti. Ma che monta?
Dalle culle mi piovono benedizioni, l'uomo che piange mi sorride tra le
lacrime, il firmamento è azzurro, e ogni dovere è un diritto. Gloria a
Dio. Ma forse voi avete ragione: io sono un imbecille:

    J'ai vu des naufragés qui s'enfonçaient dans l'ombre,
    Sans aide, et j'ai sauté sur le vaisseau qui sombre,
    Aimant mieux leur malheur que votre joie à tous,
    Et périr avec eux que régner avec vous.

E poichè io sono straniero nella vostra città, io che la vita voglio
amara più tosto che abietta, lasciatemi tornare al mio nero Guernesey.
Così noi abbiamo perduto Strassburg, nè più abbiamo Metz, la casta culla
dei vecchi Franchi capelluti: quel cielo azzurro è nostro, quei campi
son terra nostra:

    Nous, nous sommes laissés prendre ces grands pays,
    Nous, France!

Ora il primo miserabile imbecille che ci venga tra' piedi, ci può
gridare:

             — Paix là, vous tous! Gare à qui bouge!
    Mais nos pères auraient mordu dans du fer rouge!

O voi che avete il mondo in mano, buon dì! Rammentatevi che, pur essendo
di marmo, siete di carne:

    Il suffit d'un cheval emporté, d'un gravier
    Dans le flanc, d'une porte entr'ouverte en janvier,
    D'un rétrécissement du canal de l'urètre,
    Pour qu'au lieu d'une fille on voie entrer un prêtre.

Ma il buon Dio invecchia, e si ripete: l'inverno è bianco e vecchio;
l'aurora è bianca e vecchia:

    Tu deviens fatigant, tu deviens pluvieux,
    Mon pauvre éternel! prends la retraite, mon vieux.

Così Dio è sopraffatto da Zoilo, la notte vince il giorno, il Nadir
lotta con lo Zenit. Senonchè lo Zenit, concludendo il libro della
satira, prelude al dramma:

    O Dieu vivant, pardonne au rire immonde et noir,
              Pardonne au rire misérable,
    Toi qu'adore, incliné comme l'arbre du soir,
              Le juste sombre et vénérable.

Il libro termina com'è cominciato: un lembo azzurro di cielo ascolta le
voci della soffitta, il cielo azzurro dall'alto guarda la ribellione dei
bassi fondi: tutto un largo azzurreggiare calmo e sereno abbraccia i
fantasmi torvi e le bestemmie che salgono con orrendo rimescolìo a galla
della vita umana:

    Dieu, vie, abîme, espoir! grand œil mystérieux
                d'où tombe l'homme, cette larme! —

Ed eccoci al libro drammatico, che consta di una comedia in un atto e di
un dramma in due. Cominciamo dalla comedia, _Margarita_.

Questa Margarita, questa gemma, è Nella, figlia del barone di Holburg,
spogliato delle sue terre e del suo grado nella vicenda delle guerre
germaniche. Egli s'è ridotto a vivere in una vecchia _Burg_ diroccata
della Soavia, ove coltiva pochi iugeri di terra mentre la figliuola mena
le vacche al pascolo.

Nello stesso villaggio vive Giorgio, figlio al defunto duca di Soavia,
usurpatogli il trono dallo zio Gallus. Nella e Giorgio hanno vent'anni.
Si amano. Càpita un giorno fra quei boschi il principe Gallus col barone
Gunich; è annoiato, e va in traccia d'una femmina che lo liberi dal
tedio.

Il principe Gallus è di una strana raffinatezza di gusti:

    Avoir ma Pompadour comme un roi très chrétien,
    Je prémédite ça. Mille défauts; pas veuve,
    Et je la cherche au bois pour l'avoir toute neuve.
    — Monseigneur, ce n'est point impossible à trouver.
    — Mais je la veux sauvage.
    —                          Il faudra la rêver,
    En ce cas — c'est un peu de complaisance à mettre —
    Et de ne pas trop prendre votre rêve à la lettre,
    Sauvage presque...............
    — Je viens chercher Vénus toute nue au désert,
    Je tends les bras vers vous, bois, monts, épithalame!
    O nature, un sourire! ô forêts, une femme!
    — O forêts, une vierge!
    —                       Oui, vierge. J'y consens,
    Un démon vierge! un être aux penchants malfaisants,
    Ayant l'aspect du lys que la nature encense!
    Laïs Agnès. Le monstre à l'état d'innocence!

E Gunich gli mostra Nella discorrente con Giorgio. Quei due si
nascondono dietro la _Burg_, e assistono a un duetto d'amore tanto
frescamente e limpidamente primaverile, che il principe comincia a
dubitare delle sue forze. Partito Giorgio, Gallus entra nella _Burg_, e
chiede a Nella una tazza di latte; poi comincia a tentarla, e, parlando,
apre il mantello e scopre il petto tutto lucente di decorazioni. Nella,
semplicemente, solleva una tenda, e mostra al principe il ritratto di un
feld-maresciallo; poi dice:

— Questa è l'effigie del barone di Holburg, mio nonno.

E, insistendo il principe, gli comanda di escire. Sopravvengono,
successivamente, Giorgio e il Padre di Nella, e subito Gallus denunzia
al vecchio barone l'amore della figliuola per Giorgio, e narra la scena
onde è stato testimone; e provocandolo, furibondo, Giorgio, e
spingendolo a palesare il suo nome, esclama:

    — Je suis Gallus, landgrave de Souabe,
    Le frère du feu duc régnant George premier.
    L'aigle à deux têtes prend son vol sur mon cimier.
    L'Allemagne n'a pas de famille plus grande.
    Et, monsieur le baron d'Holburg, je vous demande
    En mariage ici votre fille Nella
    Pour mon neveu le duc George deux, que voilà.

E così la comedia ha lieto fine, avendo la virtù di Nella sopraffatto le
turpi voglie del vecchio cinico libertino.

Nel dramma, che s'intitola _Esca_, di nuovo siamo fra le selve. Gallus,
che ha abdicato in favore del nipote, risale in carrozza, con Gunich,
una via di montagna. Precede, sopra una carretta carica di letame, un
ricco fittaiolo, Harou, che va ad ammonire la sua fidanzata Lison di
tenersi presta alle nozze per mezzodì. Lison, che si sta pettinando alla
finestra della sua capanna, ferisce sì forte il vecchio libertino, che
lo move a scendere dalla carrozza, e a nascondersi nel bosco. Harou
intanto parla con la sua fidanzata, e la vorrebbe abbracciare; ma costei
lo ributta, fastidita dall'odor di letame che il villanzone tramanda.
Partito il fittaiolo, che ha promesso di ritornare a prenderla con la
sua carretta, Lison comincia ad acconciarsi da sposa, e non possedendo
uno specchio, esce mezzo nuda a specchiarsi alla vicina sorgente. Mentre
ella malinconicamente contempla l'imagine della sua povera beltà, Gallus
le sorge alle spalle, le conficca tra i capelli un fermaglio di
brillanti, poi di nuovo dispare. Lison sbalordita e non sapendo che si
pensare, arrossisce di star così nuda in mezzo al bosco; quand'ecco le
si appresenta un nano con un mantello di velluto. Cadendo d'una in
maggior meraviglia, la fanciulla volge a dietro il capo, e subitamente
si vede allato un moro che le allaccia al collo una collana di perle.
Uno strano scompiglio le turba l'intelletto; le pare di esser l'eroina
d'un racconto di fate, e comincia a cantare:

    — Les lutins — dans le thym — les hautbois —
    Dans les bois — les roseaux — dans les eaux — ont des voix...
    Donc faisons — des chansons — et dansons. — L'aube achève —
    Notre rêve — et l'amour — c'est le jour. —

Ed ecco si mostra Gallus vestito di broccato d'oro, con uno scintillìo
vago di croci e di gemme sul petto. Questa volta la resistenza è fiacca,
e il demonio si reca via la sua preda agevolmente in carrozza, quando
già, tratta da un asino, appare in lontananza la carretta di Harou, il
grosso fidanzato, padrone di molti poderi, che viene con due sonatori di
violino a prendersi Lison.

Nel secondo atto, in Parigi, ritroviamo Gallus e Lison transfigurata e
ribattezzata nella marchesa Zabeth. Il dramma si svolge quasi tutto
dietro le quinte. La marchesa è uscita, e Gallus chiacchiera con Gunich.
Costui afferma essere il duca innamorato di Zabeth. Il duca nega
recisamente, con un vivo fuoco d'artifizio di facezie orribilmente
ciniche, fiutando tabacco. E appunto nel cavar dal taschino della
sottoveste la tabacchiera, lascia cadere una carta che Gunich raccoglie.
Sopra la tavola sono dei gioielli e un mazzo di fiori, portati da
qualche incognito ammiratore. Lentamente, fra gli alberi del parco,
fuggono le ultime note d'una mattinata musicale.

— Questi fiori e questi gioielli — dice Gunich — li avete fatti recar
voi. Le mattinate musicali che ogni giorno svegliano gli uccelli del
parco sono ordinate da voi. Questi versi — e gli tende la carta raccolta
— son vostri. Negate?

Il duca non nega: seguita a celiare, ferocemente, finchè ritorna la
marchesa con una numerosa comitiva. Si discorre dei doni offerti a
Zabeth, della musica matutina, dei versi inviatile. Zabeth trova bellini
i versi, belli i fiori, bellissima la musica, meravigliosi i gioielli.
Gallus asserisce che i fiori costano trenta soldi, che i gioielli son
mediocri, i versi sciocchi, la musica ridicola.

— Questo non direste — osserva Zabeth — se il donatore foste voi. Ma
questa sera non andremo a teatro: resterete a cena con me.

Partono gli altri, restano Gallus e Zabeth.

— Voi — dice il duca — chiedetemi tutto che desiderate. La vita delle
belle donne deve essere un tramite infinito di godimenti. Nel vostro
parco mancano delle statue: fatevene dunque scolpire. Una donna senza
milioni non è concepibile. Anche, voi avete necessità di amore; e
cercatevi degli amanti: io non sono geloso.

E per un buon quarto d'ora quel demonio sferra dalla bocca maledetta una
eloquenza infernale, addolcita da una musica fascinosa di alessandrini,
con una sonorità lusinghevole, con un cinismo ammaliante. In fine
Zabeth, non potendo più reggere, erompe:

    Pas d'amour et pas d'espoir! Je souffre,
    J'ai dans le cœur le vide et dans l'âme le gouffre.

E poi di nuovo, seguitando il duca a catechizzarla, grida:

    Oh! sarcler dans l'herbe! oh! glaner dans le blé!
    M'éveiller, m'en aller, sereine et reposée,
    L'âme dans la candeur, les pieds dans la rosée,
    J'avais cela! j'avais la sainte pauvreté!
    Maintenant je vois croître, autour de moi, l'été,
    L'hiver, sans fin, sans cesse, un luxe énorme, étrange,
    Fait de plaisir, de pourpre et d'orgueil, — et de fange!
    Je n'ai plus rien, je râle, et tout me manque enfin!
    Le mépris, c'est le froid, l'estime, c'est la faim.
    Je dois cette indigence à vos tristes manœuvres,
    Monseigneur . . . . . . . . . . . .
    . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    Tenez, duc, et voyez quelle soif est la vôtre!
    Vous êtes prince et vieux, deux choses que je haïs,
    Eh, bien, pourtant, peut-être, hélas! nos vains souhaits
    Gardent au fond de l'ombre une porte fermée,
    Je vous aurais aimé si vous m'aviez aimée.

Il duca non ha tempo di più aprir bocca. Egli tenta di parlare; ma
Zabeth lo interrompe:

— Oramai — ella dice — non v'ha più speranza che nella morte. — E si
reca alla lingua un anello avvelenato che aveva una notte tolto di dito
al duca. E, cadendo, esclama:

    Adieu. Je prends mon vol, triste oiseau des forêts.
    Personne ne m'aima. Je meurs.

E Gallus, buttandosi alle ginocchia della morente, urla:

    — Je t'adorais.

Così termina il libro drammatico. Del lirico è, non che difficile,
impossibile rendere una qualunque imagine. Come si fa a fotografare un
volo precipitoso di falchetti e di aquile? I componimenti raccolti sotto
questo titolo vanno dal '54 al '70; e probabilmente molti che non recano
data sono posteriori. Chi ha seguito l'evoluzione dello spirito di
Victor Hugo dalla prima entrata nella terra dell'esilio sino a questi
ultimi anni può, presso a poco, meglio che non per una infelice
esposizione, argomentare del contenuto e della forma di questa lirica.
Se nel libro satirico non v'ha, come s'è potuto vedere, una stretta
coerenza delle singole parti, nel libro lirico si può dire non sia nesso
di sorta fra le parti. Non è un edificio, è una selvaggia selva d'alberi
d'ogni clima e d'ogni specie: i licheni di Guernesey accanto agli aloè
di Marsiglia e di Nizza, i cactus accanto ai cardi, le quercie
inerpicate dai fichi d'India. È un ondeggiare ampio e sonoro di
fogliame, un soffio impetuoso di mille bocche, tutta quanta l'immensa
orchestra del romanticismo evocata dal sepolcro per l'ultima sonata.
Ecco del preludio:

    Jersey dort dans les flots, ces éternels grandeurs,
    Et dans sa petitesse elle a les deux grandeurs,
    Ile, elle a l'océan; roche, elle est la montagne.

E dalla terra dell'esilio si leva una processione di spettri foschi,
lugubremente. Naufraghi che passano a nuoto, urlando. Navi che si
frangono agli scogli, nelle notti tempestose, con orrendo fragore.
Alberi spogli flagellati dalle brezze del mare, cavalloni che si
riversano sulla riva scoscesa con un galoppo di polledri furibondi:

    A cause du vent d'ouest, tout le long de la plage,
    Dans tous les coins de roche où se groupe un village,
    Sur les vieux toits tremblants des pêcheurs riverains
    Le chaume est retenu par des câbles marins,
    Pendant le long des murs avec des grosses pierres;
    La nourrice au sein nu qui baisse les paupières
    Chante à l'enfant qui tette un chant de matelot;
    Le bateau dès qu'il rentre est tiré hors du flot.

Ma la terra dell'esilio fu ospitale al poeta, e gli sorrise; in
primavera i venti caddero, gli alberi si rinverdirono di fogliame, il
mare placato si distese pianamente sotto la libera corsa delle navi, e
le rocce fiorite sursero bellamente nella luce del sole d'aprile:

    Mais au lieu d'angoisse et de peine
    J'ai le calme et la joie au cœur.
    Le lion s'est mis, dans l'arène,
    A lécher le gladiateur.

Poi di nuovo sopravvengono le tenebre:

    Je songe, un clair rayon luit sur le flot sonore;
    Le phare dit: C'est l'ombre, et souffle son flambeau;
    Je voudrais bien savoir les choses que j'ignore
    Et quelle est la blancheur qu'on voit dans le tombeau.

E ritornano a volo le memorie della patria, tristamente:

    Si je pouvais voir, ô patrie,
    Tes amandiers et tes lilas,
    Et fouler ton herbe fleurie,
                      Hélas!
    Si je pouvais, — mais, ô mon père,
    O ma mère, je ne peux pas, —
    Prendre pour chevet votre pierre,
                      Hélas!
    . . . . . . . . . .
    Oh! vers l'étoile solitaire,
    Comme je leverais les bras!
    Comme je baiserais la terre,
                      Hélas!

Intanto il rombo della tormenta soffoca i rimpianti:

    Oh! comme tout devient terrible sur la mer!

Le passeggiate fra le rupi, col mare in tempesta, col vento scatenato,
allargano la visione: la terra dell'esilio si diffonde all'infinito, e
tutta l'umanità si rimescola sinistramente sui maresi sabbiosi:

    Ces erreurs, nuage durable,
    Obscurcissent la terre, et font
    Que l'âme humaine est misérable,
    En présence du ciel profond.

Il poeta è invecchiato. La mia vita entra nelle ombre della morte, egli
grida. Il ritornello della _chanson d'autrefois_ si perde in lontananza
per le praterie fiorite; tutte le sue fantasie son cupe. Egli vede da
per tutto qualcosa di fatale e di lampeggiante:

    Quand Eschyle au vautour dispute Prométhée,
    Quand Juvénal défend Rome aux tigres jetée,
    Quand Dante ouvre l'enfer aux tyrans qu'il poursuit,
    Ces hommes sont pareils à l'antique euménide;
    Leur face, qu'illumine une lueur livide,
    Semble un masque d'airain qui parle dans la nuit.

Ma pure agli occhi del vate splende in alto una luce. Sentite come egli
chiude il libro lirico con un'apostrofe all'avvenire:

    Oh, que le genre humain monte sur la montagne!
    Terre, souris enfin à l'homme audacieux,
    Et sois l'éden, après avoir été le bagne,
                    O globe emporté dans les cieux.

È chiaro che siamo all'epopea.

La statua di bronzo stava ritta all'ombra, in mezzo al sonno di Parigi.
Calma, la spada al fianco, in dosso l'arnese dei cavalieri feudali, se
ne stava là, dritta, in armatura di battaglia, tenendo le redini nere
nel guanto nero. D'un tratto, il cavaliere girò le redini e il cavallo
la testa. I muscoli di bronzo mostruosi fremettero, la schiena tremò, il
piede sempre levato che lascia crescer l'erba tra le fessure del
pavimento si abbassò, l'altro fisso nell'architrave si alzò; il colosso
chinò la grave fronte; il cavallo si fe' presso all'orlo del
piedestallo; il cavaliere discese dallo zoccolo, e camminò a passi
lenti. In mezzo a una grande piazza dalle arcate di pietra, sotto
l'ondeggiare d'un fitto fogliame, s'intravedeva un fantasma bianco: era
un cavaliero di marmo. Disse Enrico IV a Luigi XIII:

— Vieni a vedere se tuo figlio sia ancora al suo posto.

Il re marmoreo discese dal piedestallo, e le due statue s'avviarono con
un fragore terribile, tra il sonno di Parigi, a un'altra piazza, in
mezzo alla quale sorgeva un altro uomo immobile.

    Cet homme n'était pas un homme, mais un dieu.

Era Luigi XIV. L'uomo di bronzo disse:

                     — Louis, quatorzième du nom,
    Réveille-toi, Louis! et viens avant l'aurore
    Voir si ton petit fils est à sa place encore. —
    Le dieu de bronze au front vaguement étoilé
    Ouvrit sa lèvre sombre et dit: — M'a-t-on parlé?
    Et son regard cherchant à ses pieds, sembla naître.
    — Oui. — Qui donc? — Moi. — Qui es tu? — Ton père, dit l'ancêtre.
    — Quel est ce petit fils que ta voix m'a nommé?
    — Celui que tes sujets appelaient Bien-Aimé.
    — Où donc est-il, l'objet de ces idolatries?
    — Dans une grande place au bout des Tuileries.
    Viens. . . . . . . . . . . . . . . .

Vanno, l'antenato superando i nepoti di tutto il capo. Si lasciano alle
spalle il funesto balcone, ove la _Saint-Barthélemy_, accovacciata,
sogna sinistramente sopra Parigi. La Senna riflettè i tre fantasmi: il
re soldato, il re cesare, il re dio.

Allora i mascheroni della Senna, scalpellati in marmo da Gennaro Pilone,
proruppero in un cupo scroscio di risa; e quello che più forte
sghignazzava, gridò: — o re, la via è selciata e ampio è il terreno:
andate.

    — Allez! le fleuve gronde et le vent se corrouce.
    Allez! allez, les rois! Où vont-ils? qui les pousse,
    N'ayant plus d'intérêt dans ce monde vivant?
    Et qu'est-ce donc qu'ils ont à marcher en avant
    Allez! allez! Où donc les mènes-tu, nuit blême?
    Nuit! ces trois rois en vont chercher un quatrième.

E i tre re camminavano per le vie tenebrose senza udire queste grida
nell'ombra. Gli alberi, come colti da un fremito sepolcrale, torcevano
le braccia sofferenti e i rami morti, mentre lungo le _Tuileries_
procedevano lentamente i due cavalieri neri e il cavaliere bianco.
L'acqua del fiume fuggiva nelle tenebre. Giunti alla meta, invece della
statua del Ben Amato, videro fra due assi nere un triangolo di color
livido, e sotto una rotondità tenebrosa simile alla bocca d'una caverna.
Lontanamente una fuga di nuvoloni disegnava sul fondo del cielo questa
cifra: Novantatrè. Era quella una ghigliottina. Una porpora sanguigna,
filtrando pel pavimento nero, scriveva: Giustizia. Sopra una delle assi
si leggeva: Potere, e sull'altra: Pazzia. I tre cavalieri lessero
tremando. Una testa passò attraverso l'ombra formidabile: anch'essa era
livida. I tre cavalieri fremettero, tastando il pomo delle spade; e,
disse l'antenato di bronzo alla testa mozza:

— Qual'è il tuo delitto, o testa sinistra, più pallida che non quella di
Cristo crocefisso?

— Io sono il nipote di vostro nipote.

— E d'onde vieni?

— Dal trono.

    — Spectre, quelle est là-bas cette machine horrible?
    — C'est la fin — dit la tête au regard sombre et doux.
    — Et qui donc l'a construite?
                               — O mes pères, c'est vous.

Tali i _Quatre vents de l'esprit_. Segue l'ultima tragedia, il
_Torquemada_.

Avete visto mai in un porto di mare una vecchia nave giubilata dopo
lunghi e onorati servigi? La povera vecchia nave se ne sta incatenata
sull'acqua torbida e oleosa del bacino, e leva la chiglia squassando
l'ancora rugginosa: intanto i battelli vivaci e risplendenti nella
vernice nuova le si addensano intorno con un gran tonfo di remi, con una
petulanza giovenile, come nuvoli di mosche sopra una carogna di cavallo.

Voi la guardate dal molo con un senso di pietà profonda, mormorando:

— Povera vecchia nave, non più contro le tue murate invincibili si
leveranno i cavalloni impotenti; nè più ti agiterà i fianchi il palpito
del vapore; nè le tue bandiere si leveranno fremendo fra le tempeste. Ma
il tarlo accanito dell'acqua salata dissolverà le tue membra; ma gli
assalti della risacca ti demoliranno le costole; e ogni marea ti rapirà
una tavola, e ogni tempesta ti strapperà una catena. Ed ecco, un bel
giorno voi non troverete più la nave incatenata al solito posto, e vi
parrà che il mare l'abbia inghiottita; ma un navigante vi accennerà con
la mano un punto nero sul gran piano turchino. È la povera vecchia
carcassa che si è sferrata dalle sue catene e salpa ancora vittoriosa
tra la furia delle burrasche. Il palpito del vapore agita di nuovo i
fianchi possenti; i cavalloni, vinti, si abbattono contro le murate; e
sulla vetta degli alberi le bandiere fremono ai venti. Così Victor Hugo.
Pareva che questa fulminea corvetta corsara fosse stata sfasciata dalle
maree di Guernesey. Gli ultimi poemi — _Le Pape_, _L'Ane_, _Les Quatre
Vents de l'Esprit_ — erano sforzi vani di sferrare dalla sabbia le
àncore rugginose. Noi vedevamo con un senso di pietà profonda ogni
cavallone rapirsi una tavola, e ogni tempesta conquistare una catena. Ed
ecco la corvetta, con un urto improvviso, ha rotto i vincoli, e si è
avventata in mezzo alla burrasca. Tentiamo di seguire la sua corsa
vittoriosa, e leggiamo in fretta il _Torquemada_.

Il vecchio cimitero è diventato un giardino: la terra catalana,
ingrassata dalle carogne dei frati, germina senza misura e senza riposo.
I ciuffi della malva sgorgano fra le croci abbattute, le macchie di
ortica si abbandonano sulle lapidi rotte. Il meriggio primaverile sta
luminoso su quella trista verzura; e il priore, ritto nella cocolla di
lana, con la testa calva, con la barba bianca, guarda il muro di cinta
crollante, e pensa. Pensa che la Chiesa, ròsa dalla ruggine, crolla,
come quel vecchio muro di cinta; pensa alla tristizia dei tempi e al
disfacimento della decrepitezza, che addenta tutte le cose: quand'ecco
alla breccia del muro si affaccia una persona umana. È il re. Il re,
accompagnato dal suo nano Gucho che porta una marionetta in ciascuna
mano, e dal suo Mefistofele, il marchese di Fuentel. Il re, che rompe a
mezzo la meditazione del frate, e lo atterrisce con minacce tremende, e
lo abbatte a' suoi piedi; poi gli domanda se nel convento siano femmine.
È mezzogiorno. Dalla breccia aperta si vede una compagnia di
archibusieri: il nano, accovacciato tra l'erba folta, gioca con le sue
marionette. Il re, alto nella sua bella persona piena di gioventù, con
un rosario alla cintura, con la bocca agitata da un sogghigno di cinismo
amaro, il re sferza il marchese e il priore senza pietà: dalle sue
labbra sottili la voce scorre limpidamente con uno scroscio di sarcasmi
crudi, con un impeto di assalti irresistibili, con una piena di rampogne
amare. Intanto un domenicano alto, magro, grigio, impietrito nella
vecchiaia, cammina cammina silenziosamente pel cimitero, contemplando le
croci disseminate tra l'erba. In un canto, la bocca d'una tomba scoperta
si spalanca al sole, simile ad una immane gola nera.

— Chi è quel frate? — domanda il re.

— È un domenicano, è un pazzo: ha delle visioni affocate: ha sempre
nella mente presenti l'inferno e Satana.

— Chi sono quei due fanciulli là in fondo?

— Rosa d'Ortez, e Sancio di Salinas infante di Burgos: ella ha sedici
anni, egli diciassette. Il cardinale di Ortez li vuol maritare, e li
tiene sepolti in questo chiostro finchè il giorno delle nozze non sia
venuto.

— Ah, il cardinale mi vuol rubare Burgos! Buon prò gli faccia. Si
sposino quei fanciulli: io mi prenderò la Navarra. L'infante è bella!

E il re si perde tra gli alberi, per veder meglio i fanciulli.

Allora il marchese afferra il priore per un braccio, e gli grida negli
orecchi con una voce di minaccia:

— Dimmi la verità. Questo Sancio di Salinas è figlio di Sancia di
Portogallo?

— Sì.

— Donna Sancia non diede al suo marito il re di Burgos un figliuolo
ch'ella ebbe dal paggio Gorvona?

— Sì.

— E questo figliuolo è quel fanciullo perduto laggiù tra il fogliame?

— Sì.

— Dio! — urlò il Mefistofele cacciandosi le dita nei capelli; e
subitamente il paggio Gorvona ripalpitò nel marchese di Fuentel; e una
polla improvvisa di passione scoppiò in quell'anima scellerata; e la
coscienza della paternità vinse il cortigiano. Se ne andarono tutti.
Rosa e Sancio, avvinghiati insieme, con lunghi strilli d'amore, con
lunghe risate squillanti, con una lieta battaglia di baci, invasero il
cimitero. Il vecchio recinto, occupato dall'amore, ringiovanì. I fiori,
calpestati, piegavano le teste odorose: le farfalle fuggivano dinnanzi a
quei cacciatori ridenti. Ma i cacciatori scomparvero di nuovo dietro le
farfalle, e l'ombra bieca del domenicano si rizzò tra le tombe. Nelle
pupille profonde gli splendevano riverberi sanguinosi; la sua faccia di
bronzo fremeva come la crosta d'una terra vulcanica; le sue braccia
secche si levavano al cielo dalle maniche cadenti, con le dita distese e
tremanti come volessero afferrare qualcosa che fuggiva. Una visione
ardente, una visione di fiamma purpurea stava là nell'aria, dinnanzi
alle sue pupille fulminanti, sopra le sue braccia che si stendevano per
poterla afferrare. Ed ecco il vescovo d'Urgel gli sorge dinanzi, e gli
domanda:

— Come ti chiami?

— Torquemada.

Il vescovo lo interroga intorno alle sue dottrine con tutta la
sottigliezza d'un teologo, sforzandosi di avvilupparlo nelle reti della
dialettica, tentando di abbatterlo a colpi di sofismi. Ma il domenicano,
impassibile, invincibile, invulnerabile, sta saldo, e non cede d'un
passo.

— Meglio la morte, che la dannazione: meglio il fuoco terreno, che il
fuoco eterno: io amo d'immenso amore l'umanità, e voglio salvarla
dall'inferno. Per salvarla non c'è che un modo, il rogo. Si accendano
dunque i roghi, e si spicchino al cielo le anime umane di mezzo alla
rabbia del fuoco liberatore. Il fantasma immane del fuoco occupa tutto
quanto quest'uomo con un accanimento così tenace, che tutta la
dialettica, che tutti i sofismi, che tutte le minacce del vescovo
d'Urgel cascano come frecce rintuzzate. Finalmente, quando l'ultima
freccia rimbalza spuntata da quella corazza adamantina, due frati
afferrano il visionario e lo spingono nella tomba spalancata; poi vi
gittano sopra il coperchio, e il cimitero resta deserto.

Ma ritornano i cacciatori di farfalle con lo strepito lieto dell'amore,
e un lamento sotterraneo li ferisce e li ferma atterriti tra l'erba. Non
tardano a pensare che la voce venga dalla tomba chiusa di fresco; e
tosto si affaticano a scoperchiarla; ma le loro forze non bastano a
sollevare il masso pesante. Allora Sancio strappa da un sepolcro una
croce di ferro che gli serve di leva, e il coperchio è alzato, e il
frate riappare alla luce del giorno. Egli è calmo: i suoi turbamenti
sono cessati: la sua via è segnata. Torquemada passa la breccia del muro
di cinta, e s'incammina per la via fatale.

Questo è il prologo che occupa più di un terzo del dramma. Il quale si
sviluppa con una rapidità semplice, vivace, calda. Il re, che in
sostanza è Ferdinando il Cattolico, innamorato di Rosa, la vuole ad ogni
costo; e quando il vescovo di Urgel viene coi due fanciulli, per
chiedergli il permesso di maritarli, egli comanda che siano rinchiusi
ciascuno in un convento. Intanto Torquemada viaggia alla volta di Roma,
e giunto sulle montagne del Lazio, con le reni rotte dalla fatica, col
cranio calvo martoriato dal sole, con l'ugola arsa dalla sete, si
ricovera nella grotta di un romito semplice, mite, pietoso. Si chiama
Francesco di Paola, e vive macerandosi nella penitenza come gli antichi
solitari nella Tebaide. A poco a poco, il dialogo scoppia; e quei due
uomini, l'uno di fronte all'altro, combattono: l'italiano pieno di
mansuetudine, pieno di pace, pieno del santo egoismo della fede, e lo
spagnuolo tutto invaso dalle fiamme e da un sanguinoso amore
dell'umanità. Nel cozzo più fiero dei due campioni, sopravviene un
paciere, un cacciatore vestito riccamente, con un corno al collo, con
una faccia di gaudente. Egli ha visto i primi colpi di spada, e ride:

— Voi siete due pazzi, dice; e avete torto tutti due. L'uomo non deve
prendersi grattacapi inutili. L'uomo deve godere. Ve lo dico io, che
sono infallibile, perchè sono papa. Io mi chiamavo una volta Alessandro
Borgia; ora mi chiamano Alessandro VI. Mi piace la vita allegra, mi
piacciono le femmine belle, e sono un buon diavolo. Voglio farvi
contenti. Tu, Francesco, resta nella tua grotta con la tua testa di
morto; e tu, Torquemada, ritorna in Ispagna, e brucia tutti gli ebrei:
te li dono tutti.

Eccoci dunque di nuovo in Ispagna, nella reggia di Sevilla, nella più
calda furia dell'inquisizione. In piazza è pronta una grande catasta che
deve ardere cento ebrei: tutti gli altri, nel giorno medesimo del
supplizio, dovranno uscire dagli Stati di Ferdinando. Ma gli ebrei hanno
molta esperienza del cuore dei re, e offrono trenta mila scudi d'oro per
ottenere la grazia del rogo e dell'esilio. Ferdinando ed Isabella, prima
di dare una risposta definitiva, si rinserrano in una stanza, e pregano
con molto fervore dal cielo il lume necessario in un caso di tanto
momento.

— Trentamila scudi d'oro fanno seicentomila piastre, dice il re;
seicentomila piastre fanno venti milioni di zecchini, che, cambiati in
bisanti turcheschi, sono il carico di un galeone; e cambiati in _duros_
d'argento sono il carico di due galeoni. Con questo tesoro potrei
snidare Boabdil da Granata.

— Ebbene, si perdoni — dice la regina; e afferra un foglio di carta per
segnare l'atto di grazia. Ma si spalanca l'uscio della sala, e una
statua di bronzo s'affaccia sulla soglia. È Torquemada.

— In ginocchio — comanda. La regina, tremando, s'affretta ad obbedire;
ma il re tentenna.

— In ginocchio — ripete il frate, e il re, tremando, obbedisce.

— Guardate — ripiglia Torquemada, spalancando la finestra.

In mezzo alla piazza, dalla immane catasta, si è scatenato l'inferno: un
mucchio di persone umane si divincola in mezzo alla rabbia delle fiamme:
ai quattro angoli del rogo le statue immani dei quattro evangelisti
sembrano quattro demoni di brace, pieni dell'urlo dei dannati. I reali
di Sevilla, secondo l'etichetta di corte, andarono a passare a Triana,
in penitenza, il giorno seguente al supplizio; ma prima di partire, il
re, che non aveva dimenticata donna Rosa, ordinò al marchese di Fuentel
di strapparla dal convento ov'era rinserrata, e di condurgliela
nell'_huerto del Rey_, del quale gli affidò una chiave: l'altra fu
rubata da Gucho, il nano, che vedendo essere l'inquisizione più forte
del re, si vendette alla inquisizione. La notte dunque, mentre il re in
compagnia della regina sgranava rosari a Triana per l'anima dei poveri
morti, il marchese di Fuentel, giovandosi d'un ordine scritto di
Ferdinando, potè liberare non solo donna Rosa, ma anche il suo figliuolo
Sancio; e tosto li condusse nell'_huerto del Rey_, poi partì in cerca di
cavalli per condurli oltre i confini del reame. Ed ecco, nella tenebra
fonda si leva Torquemada, e riconosce nei due fanciulli che si
dimenticavano in quella prima ebbrezza del rivedersi i suoi liberatori.
Li riconosce, e fattosi narrare da loro ogni cosa, promette di
proteggerli contro il re. In conspetto di quell'idillio fresco e odoroso
come una mattinata d'aprile, quell'anima arsa dal furore del fuoco si
apriva desiderosamente, e si tuffava nell'umidore della rugiada. Egli
stava là, alto nella tenebra susurrante, a contemplarli, e li ascoltava
con una voluttà strana.

— Noi non potevamo alzare la pietra del sepolcro con le nostre piccole
braccia — diceva Sancio.

— Allora tu sferrasti una croce da un sepolcro, e l'adoperasti per leva.

La faccia del domenicano si fece nera.

— Che hai detto? Tu hai sferrata una croce? Era proprio una croce?

— Sì — rispose il fanciullo semplicemente — non c'era altro ferro che
quella croce, e la divelsi.

— Sacrilegio maggiore! — urlò il frate nel suo pensiero subitamente
intorbidato. — L'inferno li aspetta, implacabile, irremissibile. Dio
mio, che peccato! Come salvarli dal fuoco eterno?

Qui di nuovo, nell'aria nera, egli vide un grande barbaglio di fuoco.
Era la visione, era quella sinistra visione fiammeggiante che gli
riappariva fatalmente sul capo. E all'istante, senza più stare, partì.
Di lì a poco, mentre i due fanciulli, avvinghiati con un abbracciamento
tenace, si abbandonavano nel delirio dell'amore, in cima alla scalinata
dell'orto apparve una bandiera nera con una testa di morto tra quattro
stinchi di morto. E dietro la bandiera, i frati della Santa
Inquisizione, in due lunghe file silenziose.


Ed ora questa esposizione ha bisogno di commenti e di dichiarazioni? Non
basta, nella sua rozza semplicità giornalistica, a mostrar come la mente
del gran vecchio sia disorganizzata? Victor Hugo mi fa ripensare le
_Notti romane_ del Verri. Non è egli lo spirito d'un poeta antico tenuto
a forza fra questa pecoraggine presente da un crudel capriccio della
vita? Che fa egli tra noi? Noi non possiamo più intenderlo: lo scroscio
delle campane di _Notre-Dame_ non più suscita in tutte le genti del
mondo una commozione mista di letizia e di ammirazione e di pianto: non
più l'eco degli _Châtiments_ si propaga fragoroso per tutta l'Europa.
Victor Hugo è un vecchio poeta, cui un tristo incantamento costringe a
restare fra gli uomini in apparenza di vita. Si sforza di richiamare
dall'anima e di riversare nella poesia la potenza antica; ma in verità
egli è morto.

E fin qui, spero, non ci è chi dissenta da me; poichè da alquanti anni
tutti i libri che la senile attività di Victor Hugo gitta ai popoli del
mondo, son considerati come opere postume, e quasi come voci d'oltre
tomba.


III.

Ma, se vi dicessi una cosa non strana e nemmeno inverosimile, certo però
inaspettata dalla più gran parte dei lettori? Se vi dicessi che il
romanzo in Francia accenna a morire, e già gli crollano sotto le gambe
per la stanchezza della vecchiaia? Leggeste l'ultimo romanzo di Zola,
_Au bonheur des dames_, e l'ultimo di Daudet, _L'Évangéliste_?
Discordano nei difetti, ma la conclusione del lettore è una: che il
Daudet e lo Zola siano invecchiati. Questo mancare della gioventù nella
prosa di Emilio Zola trapelava già in _Pot-Bouille_, ove a traverso i
lampi dell'ingegno osservatore appariva la maniera, ove quella
gentilezza e quell'intima forza d'arte che sono in tutte le opere dello
Zola si erano come seccate, e l'intuizione interiore si perdeva nella
esposizione dei segni esteriori. Nel _Bonheur des dames_ la
preponderanza dell'ambiente sulle persone è tale, che l'elemento umano
scompare in una convulsione universale di tutte le cose inanimate, le
quali si scotono e vibrano e strillano come fossero vive. Nel Daudet
invece la vecchiezza è venuta tutta in un colpo: nei _Rois en exil_ si
vedeva qua e là qualche capello bianco e il solco d'una ruga; ma si
sentiva nella prosa la fibra sana e forte, si sentivano i muscoli e i
nervi sani. L'_ Évangéliste _ move nell'animo un senso di pena: par di
vedere, dopo qualche anno, un amico lasciato saldo e diritto, andarsene
tra la gente tutto curvo e tutto canuto, trascinando i piedi sul
selciato, con la testa tremante e la voce fischiante tra le gengive
spopolate di denti. Il nòcciolo dell'_Évangéliste_ è, naturalmente,
piccolo: in una casetta della via Val-de-Grâce abitavano, tra le altre,
due famiglie: due donne danesi, Lina e la signora Essen, e il signor
Lorie-Dufresne, ex sottoprefetto algerino, con due bambini. La protasi
del romanzo è qui: Lina, natura nordica, sana dolce mansueta, a poco a
poco si acconcia al pensiero del matrimonio, si erige un piano di
felicità domestica con Lorie-Dufresne. Ed ecco, accade una cosa strana:
la presidentessa della Società delle dame evangeliche di Parigi se le
mette ai panni, e comincia a insinuarle le massime del misticismo
bestiale onde la Società è infetta. Ella da prima repugna, inorridita,
reagendo; poi cede, rinunziando al suo sogno nuziale, rinunziando alla
vita.

Come vedete, l'argomento è più atto a un dramma della maniera di Dumas o
di Sardou, che a un romanzo sperimentale: e la teatralità, in questo
ultimo libro del Daudet, ogni tanto trionfa, e la chiusa è veramente un
colpo di scena. Di più è superficiale: vorrebbe essere acutamente
analitico, ed è una narrazione, non pure fredda e qua e là inverosimile,
ma assai spesso illogica. Poichè tutto il dramma sta appunto nel
movimento psicologico che la presidentessa delle dame evangeliche
determina in Lina, era là che occorreva fermarsi. Non basta dire accadde
questo, accadde quest'altro; ma come, ma perchè queste cose accaddero?
Ma quali mutamenti e traviamenti soffrì il sistema nervoso di Lina per
passare dalla quiete naturale a quella continua perturbazione
convulsiva? Lo studio, più che altro, doveva essere fisiologico; il
romanziere doveva studiare quel fenomeno nervoso come il prof. Lombroso
studia i suoi pazzi e i suoi delinquenti, non già fermarsi alla
rappresentazione dei segni esteriori. Di più, il caso patologico preso
in esame dal Daudet non è nuovo: due volte, tra gli altri, lo tolse ad
argomento Emilio Zola, nella _Conquête de Plassans_ e nella _Faute de
l'abbé Mouret_, anche lo toccò da vicino nella _Page d'amour_; e sempre
lo studio analitico fu fatto con la cura minuziosa di un medico, non
trascurando nessuno degli elementi esteriori che potevano produrre la
perturbazione interna, rappresentando chiaramente e pienamente tutti i
momenti di questa perturbazione, ricercando la malattia nell'organismo e
nello spirito. Il Daudet non lo ha saputo fare. Poi nell'_Evangelista_
appaiono con più evidenza gli artifizi proprii del Daudet. Si sa, per
esempio, che egli, trovato l'argomento, vi accozza intorno tutte le
osservazioni e tutte le persone formate prima; sicchè spesso quelle
persone stanno come a forza nella tela, e le osservazioni paiono fatte
_in anima vili_. Nell'_Evangelista_ appunto questo artifizio è più
chiaro: tutto il secondo capitolo, così come sta nell'_Evangelista_,
potrebbe stare in un altro qualunque romanzo, poichè è un episodio a
parte, come gli episodi dei romanzi di cavalleria, che erano già, e già
erano stati adoperati prima che il romanziere formasse il piano del
poema.

Del resto, poichè in questo libro ogni tanto la mano del Daudet riappare
trionfale, un romanzo riescito a male non sarebbe una cosa disperata. Se
non che, io faccio una osservazione complessiva: dopo che la morte
scisse la coppia dei Goncourt, uno dei maggiori fattori del romanzo
sperimentale venne quasi a mancare, poichè la _Faustin_ è fiacca; il
Flaubert è morto; Alfonso Daudet ed Emilio Zola dànno segni o di
stanchezza o di vecchiezza, poichè il loro metodo rappresentativo mostra
l'ordito come un soprabito che se ne vada alla consunzione; i discepoli
dello Zola, se bene qualcuno mostri vivacità d'ingegno, non accennano a
continuare troppo gloriosamente le tradizioni del maestro. Non sarebbe
questo un indizio che la Francia, dopo tanta produzione romanzesca, è
stanca e incomincia a sentire le angustie della sterilità? E poichè
anche l'Inghilterra dopo la morte del Dickens e di Giorgio Elliott in
fatto di fecondità narrativa vien manco; e poichè la Germania non ha mai
potuto levarsi nel racconto a grande altezza, e la Russia dopo la morte
del Gogol e del Turghenief pare voglia cedere le bandiere della prosa
narrativa che aveva conquistate, in quale terra d'Europa questa più
complessa e più larga forma dell'arte moderna avrà uno sviluppo nuovo?
Io non lo so dire: direi, però, che un nuovo sviluppo del romanzo non
possa cominciare senza una rivoluzione pacifica o una evoluzione
bellicosa contro ciò che si chiama in Francia pomposamente l'arte
sperimentale.

Emilio Zola ha fondato il suo metodo sopra due grandissimi errori. Anzi
tutto, ha creduto che per giovarsi della scienza moderna a una nuova
maniera d'intuire e di rappresentare la vita, bastasse dimostrare per
via di romanzi un qualche nuovo canone scientifico; e nell'allucinazione
sua è giunto a tale, da parergli che la ricerca del così detto documento
umano fecondasse nel grembo dell'arte una miniera di esperienza
scientifica. Ora non è questo un circolo vizioso? La dimostrazione d'una
tesi scientifica reca qualche novità nel possesso dell'arte, e ne
distende in qualche modo i confini, o non è in tutto simile alle altre
dimostrazioni di altre tesi morali, religiose, patriottiche, e non ha in
sè il peccato dell'opportunità e della temporaneità che hanno tutte le
tesi? Il Niccolini in Italia è stato per cinquant'anni un dio; e ora,
quando si è trattato di erigergli un monumento, ce lo siamo visto
d'improvviso dolorosamente rimpiccolito tra mano. La tesi del Niccolini
era patriottica, e nella rappresentazione o nella lettura delle opere
sue recavano il lettore e lo spettatore una predisposizione
dell'intelletto e dell'animo: ora, cessata la causa e venuta quindi
quella predisposizione a mancare, l'equilibrio tra l'anima dell'opera
d'arte e lo spirito del lettore è rotto, e l'ammirazione per l'artista
scema. La tesi dello Zola non ha alcun merito di amor patrio, e corre
per contrario un gran pericolo di caducità. Essa è fondata, come tutti
sanno, sopra una alquanto controversa teorica darwiniana, sulla teorica
dell'eredità; e la legge ereditaria appunto Emilio Zola ha voluto
dimostrare con suoi romanzi, creando una famiglia di persone umane
obbedienti a questa legge, facendone quasi un nuovo canone d'arte,
poichè essa nel suo microcosmo tiene il luogo del fato antico. Or che
mai sarà per avvenire nel microcosmo zoliano, se le nuove ricerche della
scienza scartino questa legge?

Quello probabilmente, diranno molti, che è accaduto nel gran mondo della
tragedia greca, dopo che gl'iddii greci o emigrarono o perirono. E sta
bene. Se non che, prima ancora di vedere se la prosa narrativa dello
Zola abbia in sè medesima tanta singolare vitalità d'arte quanta ne ha
la poesia tragica greca, nasce un'altra osservazione: il principio della
fatalità nell'arte greca non era una teorica scientifica, nè una
didascalìa; era un sentimento universale e nativo del popolo greco, che
nell'arte si ripercoteva da tutta quanta la vita, che, in una condizione
passiva di riflessione e negativa di canzonatura, perdurò persino nella
prosa lucianea: era il senso vago e pauroso dell'inconoscibile, che si
rifugiava e si determinava in un concetto unico. Per ciò esso, crollato
il mondo ellenico, non solo rivive in altre forme, ma ha tutta una
larghissima vita storica, che conferisce alla tragedia e a tutta l'arte
greca una importanza e una eternità di documenti umani. Ma la
dimostrazione d'una qualunque tesi scientifica, sia essa la legge
dell'eredità, o della gravitazione universale, o qualunque altra, che
valore può avere? Come può non essere momentanea, mutabile e non
necessaria, se è particolare? E come da una particolar legge si può
giungere alla intuizione universale della vita? Sopra la legge
dell'eredità ci è, più larga, più sicura, più efficacemente fattrice di
arte perchè penetrata nella coscienza comune, quella della evoluzione,
che riallaccia in un immenso movimento di vita il mondo naturale, il
mondo umano, il mondo morale; ora a questa lo Zola non ha nè pur
pensato, perchè partendo dal suo concetto dell'arte dimostrativa non
avrebbe potuto giungervi mai. Il concetto suo è non solo artisticamente
falso, ma anche scientificamente caduco, e piccino. Anzi si può dire
francamente che scientifico non sia nè punto nè poco. Infatti, questo
tanto vantato e raccomandato accumulamento di documenti umani, non è una
cosa risibile, e, se si ha a chiamare con la parola propria, per quanto
barbara anche in Francia, una mistificazione? Questi documenti umani mi
hanno sempre fatto pensare alle carte d'Arborea: son documenti falsi.
Quelle furono fabbricate da un frate assai abile nella calligrafia, per
dimostrare che la Sardegna ha su tutta l'Italia un primato linguistico:
questi da un potentissimo artista, per dimostrare la legge dell'eredità.
In sostanza son fabbricati anch'essi, e lo Zola medesimo ci ha detto con
qual metodo. E qui sta il circolo vizioso. Infatti questi documenti
fabbricati con la presupposizione di quella legge, come possono servire
per prova di quella legge medesima? La famiglia dei Rougon-Macquart
edificata meccanicamente col preconcetto ereditario, che contributo può
recare alla scienza, e come può essere la riprova artistica d'una
proposizione scientifica? Anche scientificamente lo Zola è incorso in un
errore grossolano e imperdonabile; poichè, pur pretendendo di fare opera
sperimentale, non ha inteso che la gran novità della scienza moderna,
(novità vecchia, per altro, poichè nel campo della speculazione discende
da Cartesio e in quello della ricerca dal Galilei) sta tutta nel metodo:
la scienza moderna procede induttivamente. L'esperienza non consente
preconcetti o presupposizioni: essa non presuppone altro che i fatti, e
dall'esame dei fatti ascende alla intuizione e alla determinazione della
legge. La scienza moderna segue in tutto il metodo di Socrate, il quale
per persuadere la propria coscienza della sapienza sua, prese ad
esaminare tutti gli uomini ateniesi; e da questa indagine si ridusse
alla persuasione piena. Emilio Zola, invece, è aristotelico.

L'altro grandissimo errore consiste nel criterio ch'egli ha dell'opera
di Balzac. Egli ha considerato Balzac come l'inventore, o almeno come un
rinnovatore del romanzo moderno, senza riguardo allo sviluppo generale
di questa forma dell'arte. Prima di tutto, Balzac, tra la smania
teorizzatrice del romanticismo, non intese di creare un sistema: egli si
appigliò al romanzo, come a un qualunque mezzo d'arte e di sussistenza;
e fra la pompa fantastica e la bella facilità di quel beato tempo entrò
come un intruso, come un coscritto di cervice dura e di molto buon
volere, che s'affatichi ad andare al passo con gli altri coscritti e a
stare in riga e a non lasciarsi nella marcia sopraffare dalla compagnia.
Egli fu un romantico ammiratore di Lamartine e dedicatore di libri a
Victor Hugo; e in tutta l'opera sua ci è una latente aspirazione al
romanticismo sentimentale. Trovò il romanzo già maturo: da una parte, la
forma più largamente e profondamente sperimentale tentata sinora nel
romanzo, che è la forma storica, propagantesi in tutto il mondo per
virtù di Walter Scott, dall'altra il romanzo dell'anima umana cominciato
forse con la _Clarissa Harlowe_ di Richardson, accennato certamente nei
libri romanzeschi di Rousseau, proseguito da Goethe, da Gian Paolo
Richter, dalla Staël, tratto per la Via Sacra sopra la quadriga
trionfale tra le acclamazioni del popolo da Beniamino Constant.

Per credere che il romanzo sperimentale sia un acquisto di Balzac
all'arte moderna, bisogna essere ingenui come il professore Rodolfo
Renier, il quale si meravigliava tempo addietro per le stampe di vederlo
accusato di romanticismo; e citava in prova contraria _Madame Bovary_.
Proprio _Madame Bovary_? E dire che il professore Renier, quando faceva
professione di critica estetica, pubblicò certo suo studio su Cervantes!
Non s'è avveduto il professore Renier che _Madame Bovary_ è rispetto al
romanzo sperimentale ciò che il _Don Quijote_ è rispetto al romanzo di
cavalleria, una caricatura o una critica, ma pur sempre sperimentale
come questo cavalleresco? Ora Flaubert non rappresenta la signora Bovary
come una vittima del romanticismo? E i romanzi letti da quella caballera
andante dell'amore non erano proprio sperimentali, o erano il romanzo di
Lancilotto e il _Pecorone_ di ser Giovanni Fiorentino?

Badate che io adopero con tanta facile leggerezza questo aggettivo di
sperimentale, perchè, nel giudizio mio, applicato al romanzo, esso non
ha virtù alcuna determinativa o dichiarativa; ma è un sonaglietto messo
in cima a un castelletto di carte per chiamar gente intorno a una
teorichetta faticosa. Il romanzo sperimentale dunque, chiamiamolo pure
così, raccoglie nelle ampie braccia del romanticismo Beniamino Constant
e Walter Scott, il Manzoni e la Staël, Balzac e la Sand, lo Zola e Dumas
figlio, i fratelli De Goncourt e Daudet, Richter e Rousseau, Goethe e
Victor Hugo: tra l'uno e l'altro di costoro corrono distanze grandissime
di metodo, d'intelletto, di studi; ma il vincolo comune è appunto in un
più o meno bene inteso e conseguito amore della verità. Qual mai
romanziere darwiniano è stato tanto ferocemente fautore del documento
umano quanto Gian Giacomo, che volle pubblicare tutte le vergogne sue? E
i _Miserabili_ al bel tempo victorughiano non ottennero una più larga
lode di verità umana, che non ne abbia ai nostri dì avuta l'_Assommoir_?
E qual naturalista è stato più serenamente limpidamente sicuramente
sperimentale del Manzoni?

Il professor Renier, che è uno dei più assidui interrogatori e
responsori del _Giornale dei cretini e curiosi_, si meraviglia di vedere
annoverati lo Zola e Flaubert fra i romantici. Altro che romantici, mio
caro e buono e grosso professor Renier! Voi siete professore di
filologia romanza, ma pare che abbiate poca esperienza del romanticismo,
se bene quella sia una filiazione e insieme una fattrice di questo. E
che altro mai fu dunque il romanticismo, se non un rinnovamento e un
allargamento del mondo mitologico? La mitologia gentile cristallizzata
nelle sue forme esteriori, per virtù delle fate romantiche rifiorì
novellamente e frescamente e verdemente giovine in un flusso di poesia
che dall'inno agli dèi della Grecia scorre sino al rinascimento di Elena
e al nascimento di Euforione; di più, tutto un nuovo mondo mitico fu
scoperto a benefizio dell'arte dalla esplorazione scientifica. La
mitologia vedica e tutte quante le mitologie germaniche e le medievali,
commiste bellamente insieme in un coro meraviglioso, danzarono
armonicamente al suono di nuove e rinfrescate forme poetiche: le
leggende storiche e le passioni umane furono stupendamente significate
in forme mitologiche. E accanto al mito geologico delle Madri nacquero
il mito della feudalità espresso nel _Götz von Berlichingen_ e quello
dell'amore infelice incarnato nel _Werther_; il substrato fantastico
dell'arte fu accresciuto e allargato, e i miti dell'anima umana
entrarono in trionfo in quel mondo delle forme estetiche ove Federigo
Schiller vide il tempio dell'arte moderna. E, guardate: appunto Balzac,
il quale senza essere darwiniano fu tra i più potenti intuitori della
vita, in uno de' suoi romanzi si domanda se per avventura le nuove
significazioni della passione non fossero una mitologia non saputa dagli
antichi, rappresentatori di tutti i fatti e di tutti gli aspetti della
natura.

Balzac dunque non scoperse una inconosciuta plaga romanzesca, ma nella
selva già per molta parte abbattuta prese con tutta la forza delle sue
braccia a tagliar alberi. E poichè la forza delle braccia sue era molta,
il taglio fu, quanto non potè più essere mai, grandissimo. Egli recò in
quest'opera le peculiari attitudini del suo ingegno, e la sua potente
originalità; ma nella forma universale del romanzo osservativo si può
dire che non mutasse nulla. Infatti ci è voluto il sospetto buon volere
dello Zola per scoprire nello sciagurato esploratore di miniere una
missione e un'opera innovatrice. Balzac una sola cosa ha fatto: ha
conquistato al romanzo un materiale sino a lui infruttifero. A lui il
senso, diciamo, poetico della vita sfuggiva; anzi, per confessione sua
propria, non sentiva nè pur l'elemento musicale del verso. Era tutto
penetrato e materiato di prosa: era il nume vero della prosa, apata ad
ogni soffio lirico, ad ogni emanazione epica, ad ogni concitamento
drammatico; e in mezzo al romanticismo, che fu tutto un lievito di
poesia, appare come Guerrin Meschino fra la festa in onore di Macometto.
Però, egli, come il Meschino, e come Bertoldo, ebbe il buon senso di
calarsi le brache e di mostrare il sedere alla poesia: e qui sta la sua
gran forza.

Egli infatti, non giungendo a cogliere il vago e l'impalpabile che era
come la nota fondamentale del romanticismo francese, e nel mondo
romantico non potendo afferrare l'immateriale, si buttò con animo
disperato alle cose esteriori, e trovò un campo vergine nell'attività
industriale della vita. La formula della pretesa rivoluzione di Balzac,
eccola: _les affaires!_ Gli affari, proprio. Egli seppe cogliere un
elemento d'arte nel giro delle cambiali, nella diffusione monetaria,
nelle ambizioni suscitate fra la società umana dall'agente metallico; e
pose per cardine della vita moderna lo scudo. Fondò dunque anche egli
una generazione di miti, e fra gli dèi del romanticismo guidò in trionfo
il vitello d'oro. Si può dir questa una rivoluzione? Per me, e per
chiunque ha delle rivoluzioni un concetto sano, questo non è altro nè
più che un contributo. Contributo larghissimo, certo; ma rivoluzione,
non mai. Questo, in quanto al materiale. In quanto alla forma che per
opera di Balzac trovò questa materia, io non so intendere come un uomo
di tanto ingegno, quanto è quello del Zola, possa in buona fede
predicarla come un universal canone d'arte. Ha egli dunque dimenticata
la singolarità dell'intelletto di Balzac? Balzac non aveva il tocco
sicuro e l'imagine netta: il fantasma nella sua mente era come velato da
una nebbiolina maligna, e non poteva essere buttato nella prosa con una
pennellata sola, franca, brutale. Egli doveva procedere alla lucidazione
minuta del suo pensiero nelle parole, lentamente, ordinatamente: alla
sintesi fantastica, che da un contorno confuso elice una figura viva,
non potè giungere mai, e dovette miniar sempre: se avesse trascurata una
linea o un punto, la rappresentazione non sarebbe stata più piena.
Perciò egli procede ordinatamente, e dovendo dar l'imagine d'una cosa
comincia dai comignoli e scende alle fondamenta, e dovendo rappresentare
una passione o raccontare un fatto, procede come se facesse un
ragionamento logico. Egli dunque si vale dei mezzi che sono in suo
potere per giungere allo scopo finale dell'arte: non elegge quella forma
deliberatamente perchè gli sembri l'unica eccellente, o, almeno, la
migliore. Così la sua minuziosa cura dei particolari fu per lui una
necessità, non una elezione: anzi, quando la materia gli consentì un
maggior ozio fantastico, egli se ne giovò volentieri: così nella terza
parte del _Grand'homme de province à Paris_, così nella seconda di
_Béatrix_, così nell'_Interdiction_, così ovunque potè subito cogliere
l'elemento drammatico e raccoglierlo in pochi tratti. Questo medesimo
procedimento di ciascun suo romanzo si riscontra nel complesso
dell'opera sua. Egli forse è l'artista moderno che meno facile abbia
avuto la universale intuizione della vita, poichè procedette
partitamente, costringendo entro limiti determinati ciascuna
contemplazione; e solo a mezzo dell'opera si avvide che le
rappresentazioni sue non davano un'imagine complessa della vita, che fra
l'una e l'altra v'era una soluzione di continuità, e volle rimediare al
difetto congiungendo a forza le une alle altre quelle membra disgregate.
Se non che, nessuna operazione chirurgica può trasfondere una comunione
di sangue e di anima in organismi d'arte diversi; e il gran peccato di
Balzac sta appunto nel nesso meccanico ond'egli volle innestare i suoi
romanzi. Egli, in sostanza, lo abbiamo veduto, non fu più sperimentale
degli altri romantici, poichè non procedè per induzione: egli non risalì
dalla singola esperienza della vita alla intuizione ideale, e non
rappresentò l'uomo direttamente; ma secondo certi suoi peculiari criteri
raccolse e fuse le note particolari intorno a creature umane complesse e
collettive: fece quel che, per la necessità del teatro, dovettero fare i
comici: creò dei tipi. Creò in Cesare Birotteau il tipo dell'uomo colto
dalla febbre ambiziosa dell'ingrandimento, nel padre Grandet l'avaro,
nella marchesa d'Espardes la bella intrigante, come Plauto creò anche
lui il tipo dell'avaro, come lo creò anche Molière, come tutti i comici
crearono dei tipi. Ora questi tipi, isolati, sono di una efficacia
grandissima, poichè ognuno di essi si scinde quasi e si moltiplica nelle
infinite varietà che concorrono alla constituzione di quella categoria
umana; ma quando son tutti insieme raccolti sopra un palcoscenico, ove
la determinazione dell'ambiente proibisce loro ogni sviluppo, la
larghezza dell'opera complessiva scema. Un mondo popolato di tipi è
inconcepibile; se poi li riducete nei confini angusti dell'individuo,
quel mondo diventa un microcosmo. E se leggete la _Comédie humaine_
tutta di seguito, se bene quasi tutte le sfumature della vita moderna vi
siano raccolte, sebbene vi si aggiri per entro una gran gente, la più
chiara sensazione che ne dedurrete sarà di angustia: vi parrà di essere
in un villaggio, ove sono in miniatura rappresentate tutte le varietà
della constituzione umana, ma voi non potete resistere al fastidio di
veder sempre quelle medesime facce. In Balzac accade appunto questo: in
ogni romanzo ci è un tipo, e le altre persone stanno intorno per
necessità scenica e narrativa, come patate intorno a una fetta di manzo:
sicchè ciascuna creatura sua funge a volta a volta da tipo o da patata.

Questo, come ognun vede, è pochissimo sperimentale. E poi, Balzac non ha
alcuna ambizione sperimentale: anzi egli è, direi, dottrinario e
cattedratico. A lui piace straordinariamente di far lezione, e di
disserire; e in un romanzo con un lunghissimo discorso mostra tutte le
magagne del codice di commercio in fatto di protesti cambiari ed espone
un trattato compiuto di arte tipografica e di fabbricazione della carta,
in un altro fa la storia esteriore e commerciale della letteratura
francese dal '20 al '30, in un terzo con singolar competenza fa la
critica della giurisdizione dei tribunali di commercio nei fallimenti; e
si può dire che non ci è romanzo, ov'egli non siasi fermato ad erudire o
a teorizzare. Egli fa la dissertazione economica, come Walter Scott la
dissertazione storica. Egli approfitta della sua molta esperienza e
della sua tanto più sicura e profonda quanto meno rapida e meno larga
intuizione della vita; ma è subbiettivo e deduttivo. D'onde dunque
Emilio Zola ha pescato la sperimentalità e il naturalismo di Balzac? E
d'onde il suo?

Anch'egli si è fatto un sistema meccanico di intuire la vita, più
meccanico assai e più angusto e più subbiettivo che non quello di
Balzac. Come Balzac egli ha la potenza di rappresentare vivamente le
creature della sua fantasia, ma son creature della sua fantasia, e non
creature umane; e poche opere d'arte sono nel loro complesso più false
della sua, poichè una famiglia che tanto rigidamente strettamente
fatalmente obbedisca alla legge dell'eredità, è una fanfaluca che fa
ridere non pure un ricercatore scientifico, ma un qualunque accidentale
lettore dei libri darwiniani. La sua arte poetica, chiamiamola così, è
una sì faticosa convenzione, che ci è voluto tutto lo straordinario
vigore del suo ingegno per cavarne degli effetti mirabili. Lo Zola non è
penetrato di prosa, come Balzac: in lui anzi gli elementi poetici,
fantastici e melodici, prevalgono; e l'anima del romanticismo palpita in
lui più schiettamente. Egli ha scarso e stentato il senso umano; ha, più
profondo e più largo, il senso della natura; in genere, di tutte le cose
esteriori. Così, nei suoi libri, gli uomini non sono il centro della
vita; anzi non sono che strumenti passivi dell'ambiente esterno. Il
concetto della lotta manca, o è inteso in un senso angustissimo, da uomo
ad uomo. Ma l'uomo della Zola non resiste alle altre opposizioni. Ci è
il grasso che si oppone al magro, il plebeo che si lascia sopraffare dal
borghese, il bastardo nervoso che soggiace al figliuol legittimo adiposo
o muscoloso; ma l'abate Mouret dall'odor dell'erba e dei fiori è tratto
senza difesa alla sconfitta, ma Renata dallo spettacolo della grande
vita parigina è tratta quasi inconsciamente al peccato, ma Coupeau dal
buon sole caldo è tratto senza rimedio al vino. Il preconcetto
ereditario destituisce le creature dello Zola d'ogni energia vitale, e
la forma più schietta dell'uomo zoliano è Desiderata, quella povera
sciocca sorella dell'abate Mouret, che vive vegetalmente. L'uomo zoliano
ha suoi bisogni fisiologici, e li vuol conseguire, a qualunque costo,
rubando o prostituendosi; quindi esso si scinde in due omuncoli, uno che
ruba, e un altro che si lascia rubare, uno che si prostituisce, e un
altro che costringe il primo a prostituirsi. Come vedete, non ci
potrebbe essere una intuizione più meschina, più falsa, più artificiosa,
dell'umanità. La vita dunque è tutta nelle masse, nel complesso delle
cose non animate o almeno non intelligenti: sono le piramidi dei
formaggi, sono i mucchi dei cavoli, sono i fasci dei fazzoletti, è
l'aria, è il cielo, che guidano il carro della vita: l'uomo solo resta
passivo. Esso è allo stato in cui lo trovò Gulliver nell'isola dei
cavalli: è trascinato nell'orbita della vita, inconscio e involontario,
pago di poter cogliere qualche bacca rossa che lo tenti di fra la
verzura d'una siepe. Esso non solo è veramente immorale, ma è anche
inutile per l'arte. E in fatti a che serve l'uomo, se il dramma è tutto
nelle cose brute? A che serve l'uomo, se è l'ambiente che palpita
artificialmente, come un pulmone morto per virtù d'una macchina
inalatrice? La stessa disuguaglianza che è tra l'elemento umano e gli
altri elementi naturali, è in questi medesimi elementi fra loro. Nella
lotta per la vita, lo Zola non concede rappresentanza veruna alle
minoranze; nella rappresentazione, come fu già osservato, egli non crede
alla prospettiva. Non vede che la massa eguale, e tutti gli oggetti
colloca sul medesimo piano, senza tener conto delle differenze: i più
grandi e i più piccoli, i più vicini e i più lontani, tutti sono messi a
un medesimo livello e ridotti a una sola dimensione. Così la
rappresentazione sua ha qualcosa di piatto, una inarmonia faticosa e
affaticante, una monotonia fastidiosa. È un cubo, che vorrebbe parere
piramide. È un ronzìo confuso d'insetti che vorrebbero accordare lo
stridore delle elitre a qualche grande sinfonia beethoveniana. E per
animare questa massa pesante, lo Zola ricorre alle più pazze aberrazioni
di stile. Tutte le cose inanimate si movono e fremono e parlano; e si
aggruppano in proposizioni tutte seminate d'incisi, e si volatilizzano
in astrazioni singolari, e si travestono in metafore pazze. Nessun
secentista mai potè essere più smodato e più barocco coloritore dello
Zola. Lo stile dello Zola, nell'espressione delle cose esteriori, ha
qualche rassomiglianza con quello di Victor Hugo. Anche lo Zola, come
Victor Hugo, raccoglie l'anima e la voce delle cose: paragonate il libro
delle cloache parigine dei _Miserabili_ con tanti capitoli del _Ventre
di Parigi_ e di altri romanzi zoliani, rammentate i _Lavoratori del
mare_. Molto lo Zola ha succhiato di qui, e si può dire con certezza che
nella descrizione egli sia il francese più schiettamente victorughiano,
e si può infine asserire che, a malgrado di certe particolari modalità
tecniche derivate dal Balzac, a malgrado dello sforzo di tenersi
rigidamente ossequente al suo preconcetto scientifico, egli discenda
direttamente da Victor Hugo, e da tutto quanto il romanticismo.
Ricordate, nella _Faute de l'abbé Mouret_, il _Paradou_? Un parco
deserto, fruttificante di tutti i frutti e fiorito di tutti i fiori,
selvaggio, abbandonato; qualcosa di immensamente grande e di
immensamente giovine, che tramanda un odore di verginità. E una coppia,
un maschio e una femmina, in istato d'innocenza, trascorrente per
quell'immenso verde liberamente francamente fatalmente all'amore? Non è
questo il Paradiso terrestre, non è questo il primo accoppiamento umano?
E non sentite in quella prosa fremente di voluttà vegetale ripalpitare
la vecchia anima di Chateaubriand passata a traverso il gran cervello di
Victor Hugo? Chateaubriand aveva un preconcetto religioso, Victor Hugo
un preconcetto vago tra patriottico e sociale, lo Zola un preconcetto
scientifico; ma son romantici tutti; poichè il romanticismo fu
singolarmente teorizzatore e infetto di pregiudizi.

E se volete cogliere al varco del romanticismo Emilio Zola, lasciate da
parte i suoi romanzi scientifici, e guardate le sue novelle, che non son
fatte per dimostrazione di nessuna legge darwiniana. I vecchi e i nuovi
_Contes à Ninon_ sono storielline, alcuna fantastica, le più di quella
maniera che fu detta realistica: sono filiazioni della _Vie de Bohême_,
sono piccoli poetizzamenti di piccolissimi fatti umani, ove l'arte è
tutta nella forma, ove l'ossatura è nulla: il _Capitano Burle_ che dà il
titolo alla terza serie di novelle zoliane, è tale da non poterne dire,
senza venir meno al rispetto dovuto a un uomo di tanto ingegno, se non
che è lontana da ogni similitudine di verità; l'ultima serie, che
s'intitola _Naïs Micoulin_, è la migliore di tutte, ma anche in questi
raccontini si sente l'afflato di Mürger.

La prima novella infatti, _Naïs Micoulin_, narra di un signorino che
cominciò una tresca con la figlia del suo mezzadro: costui,
naturalmente, se ne avvide, e una volta per annegare il signorino issò
la vela della barca con la quale avevalo condotto alla pesca, e virò
contro vento. La navicella si capovolse, il giovine si salvò per
miracolo. Naïs intanto, avendo veduto ogni cosa dalla riva, prese a
vegliar sull'amante; e una volta che egli era andato a caccia col
vecchio mezzadro, mentre costui, rimasto indietro, già levava lo
schioppo per tirare sul signorino, Naïs con una spinta sviò il colpo.
Infine, il terribile vecchio perì travolto in una frana scavatagli sotto
i piedi da un gobbo che amava Naïs d'una passione da gobbo.

Ora questa Naïs, questa campagnola così stranamente percossa dalla
vibrazione del senso e così vivamente animata dalla gentilezza d'amore,
così serenamente impudica e così soavemente affettuosa, è appunto una
discendente delle crestaine amabili che fioriscono di tanti schietti
sorrisi le pagine di Enrico Mürger. È proprio così. Lo Zola, nella
novella, senza il suo apparato scenico, senza la teatralità
dell'ambiente, senza il suo mito scientifico, è volgare come nel
_Capitano Burle_ e in _Nantas_, o è fiacco come in quasi tutte le altre
novelle. Riesce a qualche vivace freschezza di sentimento umano e di
colore esteriore, solamente quando riprende quella vena di realismo
ottimista e cortese e poetico, che dalla fantasia di Mürger di Heine di
Gérard de Nerval si diffuse nel romanticismo francese.

Or accade del sistema zoliano pseudo-scientifico quel che accade del
sistema empirico di Daudet, quel che accade di tutti i sistemi:
invecchia. A furia d'insistere in un concetto, la mente quasi vi si
paralizza e vi s'irrigidisce; di più, scemando quella freschezza e
quella particolar potenza dello scrittore che in prima copriva le
magagne del sistema, appare come una ossatura scarnata, misera, tarlata.
E non guardate Zola: guardate invece gli escrementi dei pulcini
dischiusi dalle uova che Zola ha disseminate pel mondo civile. Non
vedete stronzolini miserandi, che si sgretolano e se ne vanno in cenere,
mentre quei pulcini orgogliosetti pigolano tutti quanti un coro di
gloria al romanzo sperimentale?

Il romanzo sperimentale! E Carlo Dickens lo avete dunque dimenticato, o
pigolatori spennacchiati e molesti?


IV.

Un altro fattore barbarico di prosa, sono i romanzi tedeschi. A quale
miseria siamo dunque noi pervenuti, da dover chiedere aiuto alla
Germania, la quale oltre il _Werther_ e qualche racconto filosofico di
Gian Paolo Richter non ha nella storia del romanzo moderno alcun luogo
onorevole? E pure, i novellieri campestri tedeschi, in Italia, ove la
letteratura germanica è ignorata quanto l'italiana, hanno indotta la
consuetudine del regionalismo narrativo. La casa Treves e il signor
Salvatore Farina, appaltatore di romanzi stranieri come il signor
Vittorio Bersezio di comedie francesi, si dànno somma cura di riversare
in Italia tutte le scolature del romanticismo tedesco; e non ci è
novelletta sciapita di Federigo Spielhagen, o scempiaggine di Elisabetta
Marlitt, che non sia tradotta e donata in premio agli associati di
questo o di quel giornale.

Veramente ora l'influenza germanica, per la gran prevalenza zoliana,
scema; ma ci è stato un tempo che Salvatore Farina, Cesare Donati, e non
saprei quali altri, si smammolavano a cucinare in forma narrativa i
pasticcetti di ciliege e gli spezzatini d'oca novella che piacciono
tanto alle borghesucce alemanne. Pareva di vedere la vetrina d'una
bottiglieria, tanto giulebbe e tanto vivaci colori e tanta carta dorata
c'era solo nei titoli. O _Amore bendato_, o _Tesoro di donnina_, o
_Fiamma vagabonda_, o _Fante di picche_, o liquefacimento d'un cervello
non certo, per natura, impotente, ove siete voi? Il popolo italiano vi
ha ingoiati tutti, o tenui romanzi fatti di caramella e di polvere
cipria; e voi siete passati pe' suoi organi digestivi senza potervi
assimilare. Questo porco popolo vi ha ricacati al primo canto di strada.
Giusta penitenza del vostro peccato.

L'influenza tedesca dunque non continua se non indiretta, aizzando il
regionalismo narrativo, e propagando la novella campestre. Vediamo
dunque il racconto rusticano tedesco; e, poichè tutta questa è la più
sicuramente e prestamente moritura prosa che si scriva ora, cominciamo
con una necrologia.


Nel 1841 apparve un'epistola in rima di Ferdinando Freiligrath a un
giovine scrittore wurtemberghese noto per alcuni romanzi filosofici e
per parecchi racconti rusticani che avevano levato un qualche rumore.
Quel giovine, che non aveva ancora trent'anni, si chiamava Bertoldo
Auerbach; e il Freiligrath gli era largo di tante lodi, che tutti gli
occhi della Germania furono subitamente conversi a lui, nè d'allora in
poi se ne rimossero mai. Era naturale: tramontato a poco a poco il
meriggio luminoso della grande letteratura tedesca, parevano imminenti
le più fosche tenebre. Sembrò dunque un miracolo, che sorgesse ancora
uno scrittore, al quale Ferdinando Freiligrath potesse dire con
coscienza: _il tuo è un libro davvero_; e il miracolo parve tanto più
lieto e tanto maggiore, che la Germania, la quale nel dramma osò lottare
con l'Inghilterra, nella lirica con l'Italia, nella critica filosofica e
filologica con tutta l'Europa, non aveva altri romanzi famosi che quelli
di Goethe e di Gian Paolo Richter. Le _Dorfgeschichten_ si levarono
dunque come uno stormo di cicogne pellegrinante dal Danubio al Reno,
salutate da applausi senza fine; poi valicarono il Reno, e viaggiarono
tutta quanta l'Europa e l'America, portando da per tutto il nome di
Bertoldo Auerbach.

Costui era nato trent'anni innanzi a Nordstetten, tra le forre più belle
e più selvagge dello Schwarz-Wald, ed era un ebreo. Studiò
giurisprudenza a Tubinga; poi, convertito da David Strauss alla
filosofia, seguì a Monaco il corso dello Schelling e quello del Daub in
Heidelberg. Imprigionato a Monaco nel 1835, nell'irrompere dei lieviti
rivoluzionari fra gli studenti, escito appena di carcere si accapigliò
col Menzel che combatteva la _Giovine Alemagna_ heiniana. Aveva seguìto
con diligenza i corsi dello Schelling e del Daub nella persuasione di
esser nato con buone attitudini filosofiche; ma come si trovò nella
maturità e nella libertà piena delle forze, quella persuasione cominciò
a mancare, e i primi passi lo spaventarono. In quel dubbio, si pose per
una via falsa: volle predicare col romanzo la filosofia del suo maestro,
volle spremere il succo dello Spinoza, e condirne degli scritti
popolari.

La serie dei romanzi filosofici dell'Auerbach è lunga assai, e darne un
elenco sarebbe cosa troppo vana e noiosa: rassomigliano un poco alle
comedie a tesi; ma non sono insopportabili; anzi parecchi di essi, come
_La Scalza_, _Auf der Höhe_, _Edelweiss_, piacquero anche in Italia e in
Francia, ove l'odio per ogni sistema filosofico è fiero ed universale.
Nuoce ad essi il preconcetto didascalico, e il calore e il colore si
smorzano nella monotonia della dimostrazione. Ma questo i critici
tedeschi non rimproverarono all'Auerbach, perchè in Germania, ove pure
la teorica dell'arte per l'arte ebbe in Heine il maggior suo
predicatore, il romanzo di rado è libero da preconcetti filosofici. I
critici tedeschi gli rimproverarono molte altre cose che noi non gli
rimproveriamo, perchè il tempo farà giustizia da sè e seppellirà i
romanzi filosofici dell'Auerbach, dei quali una ristampa compiuta in
molti volumi deve esser escita o prossima ad escire in luce.

Le prime _Storie del villaggio_ apparvero nell'_Europische Revue_ del
Lewald, alla quale l'Auerbach collaborò assiduamente ne' due anni che
rimase a Frankfurt sul Meno. Passò di là a Bonn e a Magonza, ove
tradusse in tedesco tutte le opere dello Spinoza. Seguitò così sino alla
fine la sua vita pellegrina, senza fermarsi mai a lungo in una città: fu
a Vienna, affatto decaduta dallo splendore antico e non più sogno dei
principianti, a Lipsia che era allora come tuttavia è l'emporio e
l'officina della coltura tedesca, a Dresda, a Berlino, a Breslavia, ove
si ammogliò. Con la moglie fece il viaggio di nozze per le province
meridionali, e più lungamente si fermò in Heidelberg, ove gli
sorridevano molti ricordi della sua vita universitaria. Rimasto vedovo,
ricominciò a pellegrinare, ed entrò in Vienna tra le fiamme della
rivoluzione del '48; poi visse per qualche anno nella solitudine
silenziosa d'un villaggio dell'Harz. Ma, infastidito anche della
solitudine, e rigermogliando in lui il desiderio d'una vita più romorosa
e più laboriosa, si riammogliò a Dresda e andò a fermarsi a Berlino, ove
ottenne un posto d'insegnante nelle scuole della Società operaia. Nella
guerra del 1870-'71 fu addetto al quartier generale del granduca di
Baden, e partecipò all'assedio di Strasburgo; due anni a dietro avea
fatto un viaggio in Olanda in cerca di materiali per uno studio sullo
Spinoza. Ma la reputazione di Auerbach riposa sulle due serie delle
_Dorfgeschichten_, su queste storielle semplici che hanno un odor di
timo e un sapore di birra wurtemberghese.

Dopo tanta orgia idealistica una riazione era desiderabile: dopo
Hoffmann bisognava augurarsi un narratore poco fantastico, un narratore
borghese che dèsse alla Germania delle novelle non fondate in quel regno
dei sogni ove con tanto poco lume profetico disse Heine essere il
dominio del popolo tedesco. Questo narratore fu Auerbach, intorno al
quale sorsero Paul Heise, Sacher-Masoch, Spielhagen.

Noi abbiamo veduto l'Auerbach errante per la Germania senza riposo: egli
non viaggiava solo per una certa irrequietudine innata in lui e per la
smania del vagabondaggio: volle studiare e rappresentare tutta quanta la
vita tedesca, tanto variamente colorita di sfumature digradanti, tanto
popolata di tipi di costumi e di paesaggi dissimili, dai terrapieni che
cingono le casematte di Berlino e dalle maree di Koenigsberg alle
schiene audaci delle Alpi tirolesi e alle risaie di Szegedin, predilette
dalla Theiss. Nelle storielle campestri dell'Auerbach si sente sempre il
compiacimento di ritrovarsi in mezzo a quella vita desiderata, sicchè un
caldo soffio tibulliano spira di pagina in pagina, e finalmente riesce
stanchevole. I suoi tipi maschili e femminili esteriormente sono sempre
veri, ma nella loro vita interiore assai spesso sono falsi: il pievano
Ivo, per citare un esempio, ne' suoi amori con Emmerenza e nella sua
vita di scolaro a Horb e a Heiningen è intuito e rappresentato
stupendamente; ma quando disputa di teoriche spinoziane con un vaccaro,
ma quando in seminario si abbandona alle più strane e più torbide
fantasie ascetiche e metafisiche, allora tutti quanti gli artifizi di
una penna abile non riescono a conferirgli colore di verità. L'Auerbach
ricalcò la vecchia via romantica, e si accontentò delle apparenze della
verità, difetto ch'egli ha comune con gli altri moderni novellieri
tedeschi, specie coll'Heise. L'Auerbach aborre dalla lussuria del colore
e dall'abuso del paesaggio, che nella moderna letteratura germanica,
come in tutte quante le letterature moderne, sono una vera malattia:
nelle _Storie del villaggio_ il colore predominante è il verde, diffuso
con una misura degna del grande maestro Goethe; e il paesaggio non si
affaccia prepotente e petulante a sopraffare la vita delle figure umane,
ma solamente appare accennato e sfumato in lontananza; sicchè queste
storielle hanno un movimento gaio e una vivacità drammatica affatto
nuova; e anche della novella italiana ritraggono quel lievito d'ironia
pullulante e sprizzante naturalmente dall'osservazione acuta degli
uomini e delle cose.

L'Auerbach tentò pure la scena, ma senza fortuna. Caldo ancora delle
impressioni della rivoluzione viennese, scrisse una tragedia: _Andrea
Hofer_, ch'era un tentativo d'introdurre il realismo nel dramma; ma le
tradizioni schilleriane erano troppo fresche e troppo profondamente
radicate perchè quel tentativo potesse riescire a buon fine, e la
tragedia fu condannata. Nemmeno nella commedia, la quale in Germania
pare non possa attecchire, l'Auerbach fu fortunato, e il suo
_Wahrspruch_ cadde fra il silenzio e gli sbadigli d'un uditorio poco
difficile e avvezzo ai pasticci del Kotzebue. Fortunatissimo invece fu
nel _pamphlet_ politico. Il suo _Wiener Tagbuch_, ove molto vivacemente
erano schizzate e colorite le vicende della rivoluzione, fu letto da
tutti i Tedeschi che sapevano leggere; il suo _Wieder Unser_, a
proposito dell'Alsazia riconquistata, stampato a Stoccarda nel '71 fra
il primo tripudio della vittoria, suscitò un entusiasmo immenso; e
specialmente le lettere sull'assedio di Strasburgo parvero miracolose.
Così di un foglio volante pubblicato dall'Auerbach sul primo scoppiar
della guerra si vendettero tre o quattrocentomila esemplari. In questo
foglio, come negli altri scritti politici, l'Auerbach si dimostrò quale
veramente era, un tedesco puro e fanatico, una specie di Atta-Troll
wurtemberghese, ma non un Atta-Troll politico. In arte, come egli stesso
scrisse ad un Italiano, seguiva in tutto il grande maestro Goethe, il
quale sognava una letteratura internazionale. Così, mentre un novelliere
mezzo tedesco mezzo slavo, il Sacher-Masoch, fondava a Lipsia una
rivista panslavista, Bertoldo Auerbach combatteva il panslavismo
risorgente e ribattagliante intorno al corso superiore dell'Oder; mentre
a Monaco Paul Heise, lontano dai rumori del mondo, placidamente
traduceva le poesie del Giusti e del Leopardi, Bertoldo Auerbach, questo
mite e rozzo indigeno della Selva Nera, dagli accampamenti del Granduca
di Baden sparpagliava una prosa piena di fiamme, attizzando nei petti
tedeschi le ire, i desidèri e l'amore della Germania.

Le storielle di Auerbach non solo in Germania ebbero fortuna; ma,
tradotte in molte lingue, piacquero in tutto il mondo, e, cosa strana,
conferirono non poco allo sviluppo eccessivo del paesaggio. Perchè
accadde quel che quelli, i quali dopo di lui scrissero racconti
rusticani, non ebbero dell'elemento umano quella intuizione acuta che
ebbe l'Auerbach; ma più volentieri si fermarono all'elemento esteriore.
Sacher-Masoch, il californiano Bret-Harte, parecchi in Italia, spesso
lottano con lui non senza onore, e qualche volta riescono più forti e
più veri; ma nella freschezza, ma nella moderazione, ma nella sanità
della visione e della forma, l'Auerbach sta sopra tutti: egli è sempre
eguale a sè stesso, placido semplice schietto, col suo risolino ironico
di buon vecchio _Gevaltermann_ e di spinoziano giubilato. Se dalla prosa
sua si levano certi vapori tiepidi e rosati che annebbiano la sincerità
della rappresentazione, bisogna essergli indulgenti: egli visse tra le
ruine del romanticismo, e raccolse nella prosa tedesca l'eredità di
Richter, di Hoffmann, di Chamisso.


Resta, con Paul Heise, Leopoldo di Sacher-Masoch, il quale è un tipo
strano assai. Popolare in Francia quasi quanto il Turghenief, mena in
Germania una vita avventurosa tra la furia delle lotte politiche, delle
polemiche letterarie, degli assalti di spada. L'anno scorso i giornali
tedeschi annunziavano il suo ultimo duello, che ebbe appiglio da un
fatto curioso. Egli dirige a Lipsia una rassegna panslavista, intitolata
_Auf der Höhe, In Alto_, alla quale, con altre scrittrici, coopera la
moglie di un maggiore Herder; ora, essendosi il Sacher-Masoch presa la
libertà di scorciare un articolo troppo prolisso della signora Herder,
il maggiore senza altro lo mandò a sfidare. Come la cosa sia andata a
finire, non so; ma so che il Sacher-Masoch è un temibile spadaccino, e
che quando, uscito degli Archivi viennesi, prima di conseguire la
catedra di storia nell'Università di Gratz, incominciò a fare il privato
docente, aveva già combattuto in trentadue scontri a Praga e a Vienna; e
allora aveva poco più di ventiquattro anni.

I Sacher in origine erano spagnoli: andarono in Germania a battersi
contro la lega smalkaldica, e finirono con acclimatarvisi e trapiantarvi
la sede della famiglia; passarono in Galizia quando già questo lembo di
terra slava, nello smembramento della Polonia, era stato assorbito
dall'Austria. Il padre del romanziere, pur avendo vive simpatie per la
Polonia sacrificata, servì fedelmente il governo imperiale, fu
consigliere aulico e capo della polizia di Lwow, o Lemberg. Così
Leopoldo, nato il 27 gennaio 1835, crebbe in un uffizio di questura, fra
l'irrompere delle rivoluzioni polacche e delle sedizioni contadinesche.
Sua madre era una galiziana, alla quale bolliva nelle vene puro e fresco
il sangue degli Huzuli e delle tribù cosacche della Piccola Russia; egli
dunque al cognome spagnolo paterno di Sacher accoppiò quello slavo di
Masoch, ereditato dalla madre, e per tutta la vita portò stampate nella
memoria le impressioni e le imagini raccolte nell'infanzia: i ceffi dei
briganti incatenati coi cospiratori polacchi, le facce verdi degli ebrei
e i profili audaci delle contadine slave, le leggende del buon tempo
antico e i processi politici, le mormorazioni e le insurrezioni contro
il giogo imperiale.

I suoi primi anni scorsero, s'è detto, tra le fiamme delle guerre civili
in Galizia e in Boemia; egli si affaticò assai e si fortificò con tutti
quanti gli esercizi del corpo, respirò a lungo e largamente l'aria
libera delle campagne, si popolò la memoria di molte favole
contadinesche, e fu anche filodrammatico di _belle speranze_; ma studiò
poco e male, e a vent'anni, senza saper come, si ritrovò dottore in
legge, e impiegato presso gli Archivi di Stato di Vienna. Ottenne di poi
una catedra di storia nell'Università di Gratz, ma fu un cattivo
professore: in compenso rappresentò nel _Conte Donski_ con molta
vivacità drammatica e con molta intensità di colore e di calore le
rivoluzioni polacche divampate intorno alla sua prima e torbida
adolescenza. Questo libro, scritto per consiglio di una vecchia signora,
piacque allo scrittore nella prima foga della composizione, e piacque al
pubblico mentre duravano tuttavia impressi nella memoria universale i
ricordi della ribellione e i fantasmi dei ribelli generosi; ma, dopo
qualche altra prova, il professore si avvide che quei libri, i quali
parimente aborrivano dalle severità della storia e dalla genialità
fantastica del romanzo, non lo avrebbero condotto molto lontano, nè
molto in alto, e mutò strada. E prima ricalcò le orme di Walter Scott,
il quale ancora in Germania ha una corte numerosa di adoratori e di
imitatori; poi tentò la commedia storica, il romanzo sociale, il romanzo
di costumi. Finalmente, indottovi dal Kürnberger, si acconciò ad un uso
comune nelle letterature slave moderne; si rinserrò nei termini della
sua provincia senza più escirne; cessò dalle scorrerie disordinate sul
terreno altrui, e incominciò a scavare e a sconvolgere le viscere delle
steppe galiziane, fertili di ginestre e d'inspirazioni fresche. Egli
cedette al consiglio di Kürnberger senza molte speranze, e
impensatamente si trovò sotto mano una miniera inesauribile, sulla quale
si avventò con quella avidità medesima, con la quale i minatori delle
novelle di Bret-Harte si gittano sui filoni californiani. Sacher-Masoch
abbandonò la sua catedra per andare a combattere, e partecipò alle
guerre del 1866; poi viaggiò a lungo in Italia, in Francia, in Spagna; e
finalmente andò a fermarsi a Lipsia, ove sposò una scrittrice, Aurora di
Rümelin, nota sotto il pseudonimo di Vanda von Dunaief, che lo aiuta
tuttavia validamente a combattere le tendenze invaditrici della
Germania, alla quale egli fu sempre nemico.

Leggendo le novelle galiziane di Sacher-Masoch, subito nella mente del
critico e del lettore che rifletta a quello che legge si affaccia un
dubbio: questi racconti, come tutte le cose galiziane di Sacher-Masoch,
fanno parte della letteratura tedesca, o vanno collocati in una delle
molte provincie della letteratura slava? Vanno paragonati coi racconti
di Auerbach, di Spielhagen, di Heise, o con quelli del Gogol e del
Turghenief? La soluzione del problema non è facile, e forse il
Sacher-Masoch medesimo, interrogato, si troverebbe in imbarazzo. Egli è
nato in una provincia slava soggetta al dominio austriaco; ha nelle vene
sangue latino, sangue tedesco, sangue czeco, sangue polacco; studiò qua
e là, in Galizia, in Boemia, in Austria; fu impiegato del governo
austriaco, e ora fa il giornalista in Germania. I suoi racconti sono, è
vero, di argomento slavo; ma sono scritti in lingua tedesca, ma sono
inzuppati di filosofia tedesca, ma sbocciarono fra il rigoglio
dell'ultimo romanticismo tedesco. Noi, poichè la questione è di
pochissimo momento, la lasceremo insoluta.

La Piccola Russia, che ha una lingua a parte, diversa dalla russa quasi
quanto la czeca, la bulgara, la croata, la serba, fu feconda di
novellieri, dei quali ricorderò solamente il Gogol già citato, Giorgio
Kritka, e due donne, la Cokhanohvskaja e la Vofcek. Il Sacher-Masoch ha
col Gogol parentela più prossima: ambedue scrissero in una lingua
diversa dalla loro, ambedue subirono le istesse influenze occidentali.
Qualche centinaio d'Italiani avrà letto il _Tarass Bulba_ di Gogol, la
storia di quei tre Cosacchi che cavalcano tra gli orrori della guerra,
per le steppe rimbombanti di fucilate, tra l'incendio dei villaggi
crollanti, con una serenità feroce, con una tenacità selvaggia di lupi
affamati; ebbene, nei _Racconti galiziani_ molta parte di quella vita si
ritrova dipinta coi colori del Gogol. Tuttavia non si può dire che il
Sacher-Masoch discenda direttamente dal Gogol. Quello ch'essi hanno di
comune è il punto di partenza onde mossero l'uno verso l'oriente e
l'altro verso l'occidente. La prosa del Gogol rassomiglia alla rapsodia
antica, ed anche quando si assottiglia piegandosi all'analisi più fine,
serba un riflesso epico e le vibrazioni larghe d'una sinfonia. La prosa
di Sacher-Masoch è più borghese: qualche volta ha una lieve intonazione
idillica, più spesso fermenta con un lievito di umorismo amaro; ma non
ha nè gli ampi ondeggiamenti, nè gli scoppi aspri del Gogol.

Più difficile sarebbe determinare con una certa esattezza i punti di
contatto che Sacher-Masoch ha col Turghenief, il quale non è uno
scrittore tutto d'un pezzo, come Emilio Zola, che abbia sempre
ostinatamente battuta la medesima via; ma fece vibrare tutta quanta la
tastiera delle inspirazioni moderne, e dal realismo gaio e cortese delle
_Acque di primavera_ si ridusse a poco a poco alle temerità torbida e
scorbutiche della _Terra vergine_. Tuttavia qualche profilo, abbozzato
fuggevolmente dalle matita lussureggiante del novelliere russo, nei
_Racconti galiziani_ si ritrova meglio accarezzato e colorito. Così, se
la memoria non mi tradisce, la figura del tiranno femminile, che
Sacher-Masoch predilige e rimpasta a sazietà, nelle _Acque di primavera_
si affaccia sfumata stupendamente; così nel _Vatasceco_ mi par di
sentire un'eco dei _Racconti del cacciatore_. Ma come il Turghenief e
come il Gogol, il Sacher-Masoch foggia la sua prosa intorno a un
preconcetto politico. Quelli intesero coi loro scritti a tener vivo in
Russia l'ideale della civiltà moderna; questi nel cuore della Germania
combatte per l'indipendenza degli Slavi meridionali. D'altra parte,
l'educazione tedesca ha non poco conferito a questo novelliere.
Nell'_Haydamak_, la piccola scena di Dzvinka che cede alla piena della
passione per Dobosch e gli stende i piedi perchè le tolga le pantofole,
come una sposa la sera delle nozze, pare schizzata dalla penna
wurtemberghese di Bertoldo Auerbach; così nell'_Aldona_, quella
solennità dell'inverno candido e silenzioso che gravita intorno alla
bella freddolosa appartiene all'Auerbach; come dall'Auerbach sono tolte
a prestito quella fisionomia casalinga, quella bonarietà maliziosa di
_Gevattermann_ antico, che ride placidamente in molti di questi
racconti. Abe Nahum Wasserkrug, quel mite e vigliacco ebreo di
Brzosteck, il quale per liberare l'ultimo superstite de' suoi sette
figliuoli, diventa di botto un eroe, e con un dispaccio in mano, a dosso
d'un cavallaccio moribondo, si precipita in mezzo alle fiamme della
guerra civile, è una macchietta simile a molte altre macchiette che si
trovano disseminate nei racconti del wurtemberghese non gravidi di
teoriche spinoziane. All'Auerbach specialmente il Sacher-Masoch si
accosta nelle rappresentazioni esteriori e nei tipi mascolini;
rassomiglia lontanamente all'Heise nei tipi femminili. Tutti tre hanno
una sottigliezza amabile di osservazione; ma nella prosa dell'Auerbach
quasi sempre fluttua una vaporosità rosea e calda, quella dell'Heise
guizza troppo spesso e si slancia con una elasticità affatto lirica: la
prosa del Sacher-Masoch è più drammatica.

Sacher-Masoch popola con tanta vivacità l'ambiente campagnolo, ch'esso
sembra dileguare nel movimento e nella vita delle figure umane, le quali
però spesso paiono collocate a forza in mezzo all'ossigeno della
campagna troppo sottile e troppo vivo pei loro polmoni.

Questo senso di malessere e di malcontento è evidente sopratutto nelle
donne. Polacche o galiziane, zingare, signore o contadine, esse sono
quasi tutte delle spostate alle quali fermenta nelle vene un lievito di
ribellione. Tale è Elena di Festenburg, nel _Matrimonio di Valeriano
Koscianski_, che insorge contro il positivismo paterno e si fa rapire
dal suo maestro d'italiano; tale è quella calda e lussuriosa Aldona, che
sbadiglia accanto al gran fuoco di Natale, leggendo un romanzo,
divincolandosi selvaticamente contro gli assalti di un uomo che l'adora;
e poi, appena questi è partito sconfitto, si precipita a traverso una
nevicata terribile, a traverso la notte paurosa, a traverso i boschi di
abeti pieganti e crocchianti all'urto della tramontana, dinanzi a un
branco di lupi affamati, flagellando i cavalli rotti dalla fatica, per
raggiungere quell'uomo e abbandonarglisi ai piedi svenuta; tale è la
baronessa Celina Kauwigka, nel _Vatasceko_; tale è Eva Kvirinowa la
strega, che tradisce un cavallaro adorato, per la speranza di ascendere
a un talamo baronale, e poi, caduta quella speranza, arde sè stessa e il
barone tra i vimini della sua capanna; tale è la mugnaia Teodosia, che
ama bestialmente Cirillo il ladro, e ogni notte lo inebria di baci, ma
non vuole sposarlo perchè è uno spiantato, e passa di marito in marito;
tale è Dzvinka, l'ambiziosa amante di Dobosch, ultimo degli _Haydamak_
leggendari.

Queste femmine si aggirano pei racconti galiziani mosse da una
irrequietezza nervosa che conferisce loro un aspetto malaticcio e
strano. Sono modellate abilmente, ma riescono stucchevoli per
l'eccessiva monotonia del colore. In fondo, i tipi non sono che due: la
contadina ambiziosa, ricca, malcontenta, e la signora annoiata, superba,
lussuriosa, con un'eterna sigaretta fra le labbra rosse, con le manine
adunche di sparviere eternamente sprofondate nelle tasche della
_kasabaika_ impellicciata. Gli esemplari maschili sono più numerosi e
più vari, dal polacco scialacquatore e scettico al brigante galiziano
generoso, valoroso, superstizioso; ma tanto gli uomini come le donne
popolano vivamente quella scena mutabile di steppe fiorite, di balze
carpaziane scottate dalle vampe del sole estivo e dai geli invernali, di
villaggi perduti nelle pianure erbose o fra le selve secolari, di
piccole città provinciali piene di turbolenze di mormorazioni e di
pettegolezzi.


Or dopo questo minuto esame, facciamo una domanda collettiva. La rapida
propagazione del romanzo campestre e regionale non pare ai miei lettori
un segno di povertà? Quando non si sa che altro innovare o permutare nel
macchinismo nello spirito nella materia del racconto, si muta la scena.
Così la novella si riaccosta alla narrazione di viaggio. E, pur troppo,
la più gran novità tentata da qualche tempo in Italia, è appunto questa.

È dunque proprio urgente il bisogno di andare a caccia sulle terre
barbariche? La selvaggina non mi par troppo lusinghevole.



II.

PROSE DI ROMANZI.

  Novelle nuove — Le fonti popolari del romanzo e Luigi Capuana — La
  novella obbiettiva di Giovanni Verga e il dialogo indiretto —
  Fantasie dei critici intorno alla Fantasia di Matilde Serao — Gli
  ultimi romanzi italiani — _Colonia felice_ — Storia d'un fiore di
  loto e d'un maestro elementare.


I.

Non si può negare che la novella in Italia ricominci a fiorire: dal
Piemonte, dalla Lombardia, dalla Liguria, dal Veneto, dalla Toscana, e
specialmente dal reame di Napoli e da terra d'Abruzzi e dalle Calabrie e
dalla Sicilia, non che dalla Marca d'Ancona e dalle altre Marche e dalle
Romagne fioccano le novelle, e i novellatori si levano sempre più
numerosi e fecondi. Ben vengano i novellatori e le novelle buone, e così
ritorni il buon tempo antico, quando nelle corti e nelle case del popolo
e nelle campagne italiane si novellava tra lo strepito dell'arme, tra lo
strepito dei telai, tra lo strepito della trebbiatura. Nella novella
allora si cementava il gaio e salubre realismo borghese, e la prosa
rispecchiava nella sua onda chiara, nella sua onda larga, piena di
gorghi profondi e di vortici voluttuosi, i casi della vita. I casi uditi
qua e là, per le piazze o pei campi o per le corti dei signori, in terra
di cristiani o in terra d'infedeli, nei paesi d'Europa o nei paesi
d'oltremare, sgorgavano dalle labbra del Gonella tra lo scoppio delle
arguzie mordenti, poi fluivano e si suggellavano perennemente nella
prosa secca e salata del Sacchetti o nella prosa piena di musica e di
libidine del Boccacci. Fu un movimento che incominciò in Italia, e
dall'Italia andò via via dilagando per l'Europa; fu anzi la sola forma
di arte letteraria onde l'Italia possa vantare, se non la maternità,
certo l'adozione prima dall'Oriente. Tutte le altre forme dell'arte,
l'epica, la lirica, il dramma, il romanzo, vennero dalla Francia, dalla
Linguadoca, dalla Spagna e sino dalla Germania: la novella dall'Italia
passò in Francia, e fece qualche fuggitiva apparizione in Ispagna e in
Germania. Avete letto mai vecchie novelle francesi? Sapete la prosa
della regina di Navarra, di Bonaventura Des Périers, di Agrippa
d'Aubigné, e di tutti quanti i novellatori che fiorirono ed ebbero fama
durante il regno dei quattro ultimi Valois? Allora l'imitazione italiana
era universale; con Caterina de' Medici non solamente le mode di
Toscana, non solamente l'untume della politica fiorentina, ma tutte
quante le fogge e le inclinazioni e le raffinatezze dell'arte italiana
si erano accampate nel parco di Fontainebleau e intorno al Castelletto:
era naturale che anche le novelle di messer Giovanni, mezzo fiorentino e
mezzo parigino, trovassero a Parigi ospiti cortesi e briganti
insaziabili. Il primo esempio lo diede una bella e pia e galante regina:
i briganti di poi non furono sazi mai. A poco a poco la prevalenza
italiana scadde, e l'egemonia dell'arte si attendò in terra di barbari:
il maresciallo d'Ancre fu ucciso con una pistolettata sotto gli occhi di
Caterina de' Medici, e il Malherbe cacciò a forza il Petrarca dai
confini della poesia francese; ma a dispetto del Malherbe la novella
italiana restò abbarbicata alle terre di Sua Maestà Cristianissima, e
non si potè svellere mai; e tutti i novellatori che ebbero fama in
Francia dovettero alimentarsi di quell'antica polpa nutriente: cito, ad
esempio, i due nomi maggiori: il Lafontaine e il Balzac. Il primo rifece
in versi le migliori novelle italiane, l'altro rifece in vecchia prosa i
migliori racconti francesi, che derivavano da fonte italiana. Occorre
citare altri nomi, ed è necessario tirare in ballo Alfredo de Musset?
Lasciamo correre: tanto, se i lettori non son convinti ancora, vuol dire
ch'essi son più duri di quei frati bizantini del monte Athos, i quali,
mentre le mura di Bisanzio crollavano agli assalti dei barbareschi, si
contemplavano la pancia illustrata dal tramonto del sole, e non sapevano
persuadersi che quella fosse luce increata.

Ritorni pure — dicevo dunque con desiderio — questa età dell'oro per la
novella italiana, e i novellatori siano i ben venuti, da qualunque parte
d'Italia essi si levino. Ma non ci lasciamo pigliar la mano
dall'entusiasmo, e non incominciamo troppo presto ad urlare che l'età
dell'oro è ritornata. Facciamo i conti di cassa con assai di calma e
poco di carità fraterna.

Prima di tutto, così in tesi generale, si può dire che noi facciamo
appunto quel che facevano i francesi di Caterina de' Medici: ci
appostiamo con le pistole alla cintura e lo stiletto tra i denti ai
valichi delle Alpi, aspettando al passaggio le balle dei romanzi
francesi. La differenza sta in questo, che allora noi eravamo i
ricattati, ed ora siamo i ricattatori. E sta bene: non io certo mi dorrò
di questa santa rappresaglia; e primo e più forte griderei al sacco, se
il brigantaggio potesse giovare allo sviluppo dell'arte. In arte, come
in tutte quante le cose della vita, è necessario un movimento continuo
d'importazione e di esportazione: se gli ultimi cittadini della
repubblica romana non avessero studiato nei ginnasi greci, l'arte latina
già decadente con la lingua latina non avrebbe preso quel nuovo slancio
miracoloso che la spinse tanto innanzi; e, senza le influenze
provenzali, chissà quanto più avrebbe stentato la nostra letteratura a
liberarsi dalle pastoie dialettali. La circolazione dei criteri e dei
prodotti artistici e il libero scambio del pensiero sono dunque due
necessità della vita umana, come la circolazione monetaria e il libero
scambio delle merci; ma perchè l'equilibrio duri, tutte le parti
interessate debbono accettare e attuare francamente questi due canoni
del commercio moderno. Se una parte si rinserra in sè stessa, e nega di
accettare quel che può venirle dalle altre, l'equilibrio è rotto. Questo
a punto ha fatto la Francia dopo il Trenta: si è rinserrata in un
egoismo letterario superbo, ignorante, intollerante, e non vive che di
sè stessa e per sè stessa, e ha chiuse tutte le vie al commercio
d'importazione. L'equilibrio dunque è rotto, e tra questa e le altre
parti d'Europa non vi può essere circolazione nè scambio di prodotti e
di criteri artistici, perchè la Francia non ne accetta quando non
portino marca di fabbrica nazionale. Sarebbe stato utile provvedere sin
da principio, e bloccare tutti i porti francesi per impedire
l'esportazione; ma questo, o per negligenza o per inesperienza, non si
fece, e tutta quanta l'Europa, eccetto l'Inghilterra e, in parte, la
Germania, fu invasa dall'esportazione francese: noi naturalmente, ne
abbiamo avuto sino al collo, anzi ci siamo adoperati con le mani e coi
piedi perchè l'alluvione fosse più larga e più violenta. Che cosa ne è
seguìto? Permettetemi di farvi un piccolo quadro della nostra
novellistica constituzionale.

La novella moderna in Italia è nata intorno al '66, con la casa Treves
che la tenne al battesimo e che non la volle più fare uscire di tutela:
nacque dunque intorno al '66, e fu quella infelice e vituperevole cosa
che poteva essere, dopo la rotta di Custoza e il vituperio di Lissa. Con
l'_Affondatore_ parve che tutte le forze e tutte le speranze della nova
Italia sprofondassero nei gorghi dell'Adriatico: Caterina Percoto
seguitò a raccontare storielle friulane semplici oneste sonnolente,
secondo i desidèri del buon Tommaséo; e Paolo Tedeschi filava novelline
pallide alla maniera germanica, continuando il Dall'Ongaro. La novella
era dunque tuttavia sotto il dominio politico e letterario dell'Austria,
e fu a punto un editore irredento che la fece emigrare a Milano, fu il
Treves. Una delle delizie della mia infanzia, tra i romanzi di Walter
Scott e i molti pellegrinaggi sui tetti, furono certi libriccini con la
copertina color marrone chiaro che il Treves timidamente sparpagliava da
Milano; di questi libriccini, che mi stornarono dai _Fatti d'Enea_ e da
altre migliori letture, non rammento nè i titoli nè gli argomenti;
rammento bensì la copertina color marrone chiaro, e anche mi pare che
fossero raccontini originali e tradotti dal tedesco: si vede che il
Treves aveva ancora qualche fede nella letteratura tedesca. Ma la fede
cadde presto, e il Treves non tardò ad avvedersi che se voleva far
fortuna bisognava gittarsi alla Francia. Fu così che sorse in Milano
quel maledetto laboratorio chimico di romanticismo mezzo manzoniano e
mezzo francese, che assorbì e lambiccò e volatilizzò tutte le forze
letterarie dell'Italia, e che tuttavia tra le macerie si affatica a
questa bestiale opera di assorbimento, di lambiccamento e di
volatilizzamento. Perchè in Milano dal Treves e dagli altri emuli suoi
si incontrarono e si diedero la mano in un connubio mostruoso, non
libero di ribellione e di battaglie, i vecchi avanzi del romanticismo, e
i giovani codini manzoniani, e parecchi spiriti rivoluzionari che in un
altro ambiente, con altra compagnia e con altri studi, avrebbero potuto
fare un'opera utile assai al disgelo dell'Italia letteraria. Questo
parrà un paradosso e leverà i miei buoni amici Primo Levi e Luigi
Perelli a rumore, ma è un fatto incontestabile che intorno al cadavere
del Manzoni Paolo Ferrari e Giuseppe Rovani si accordarono in una
miracolosa comunione di entusiasmo e di spropositi, che il Tarchetti
morì in casa di Salvatore Farina, meschino e rugiadoso e troppo
fortunato manzoniano, che il Praga più di una volta si trovò a bere in
compagnia di Camillo Boito. Nella capitale morale d'Italia
s'incontrarono il Bonghi, il Cantù, il De Amicis, il Bersezio, Cesare
Donati, Leone Fortis, Pompeo Gherardo Molmenti, il Capranica, il
Caccianiga, il Bettòli e altri mercanti di letteratura d'ogni colore, i
quali pigliarono la cosa dal lato pratico e mossero dal criterio di
scrivere libri facilmente e sicuramente vendibili: il criterio appunto
onde muovono gl'impresari dei teatri di _boulevard_ e i direttori dei
giornali a un soldo nella vecchia e buona città di Parigi. Ognuno,
secondo la natura e la misura dell'ingegno suo, si mise a speculare
sulle debolezze sui vizi sulla sensibilità sulla vigliaccheria del
pubblico; e i libri loro si venderono con più o meno di fortuna: così
Edmondo De Amicis, dopo avere per un pezzo portato in processione sopra
un piatto i suoi occhi di bersagliere lacrimanti come due fontane,
cambiò tattica di botto e si gittò a viaggiare, alla moda francese; così
gli altri piantarono il romanzo storico crollante da tutte le parti, e
si gittarono in una cloaca di romanticismo borghese, senza un indirizzo
chiaro, senza discernimento, senza criteri sicuri, andando a tentoni,
correndo da un modello all'altro, punzecchiati spronati flagellati dal
pensiero goloso e invidioso della Francia, ove gli esemplari dei libri
si vendono a migliaia. Dato un tale ambiente d'ignoranza di pecoraggine
e di affarismo, era naturale che tutti i cattivi istinti venissero a
galla gorgogliando, e che la mediocrità si facesse innanzi fra gli
applausi: era naturale che Pompeo Gherardo Molmenti si spiccasse da
Venezia facendo salamelecchi, e sparpagliando raccontini tisici
dissanguati, e sbuffi d'una erudizione bolsa e contrabbandiera sulle
turbe acclamanti. La rocca lombarda pareva un'acropoli inespugnabile, e
Leone Fortis sui merli sonava a raccolta pavoneggiandosi nelle sue
vecchie penne di pappagallo. Delle femmine che gittarono le loro
gonnelle in mezzo a questo vituperio della prosa italiana non voglio
parlare, però che sermoneggiar le femmine sia peggio che lavar la testa
agli asini.

Dico solamente che di quanti parteciparono a questo vituperio, uno solo
mostrò ingegno vero e sano, e fu il Verga, al quale dipoi si levarono ai
fianchi un altro siciliano e una napolitana, Luigi Capuana e Matilde
Serao. Di questi tre il più forte è il Capuana. Il Verga ha più calore
di fantasia e più potenza di colore, la Serao ha più finezza di
sentimento e di nervi femminili; ma il Capuana ha per sè due buone
qualità, che gli dànno il vantaggio sopra tutti i suoi competitori: la
sicurezza dell'osservazione e la coltura. Un segno comune di tutti i
nostri novellatori mascolini e femminini è l'ignoranza. Nessuno di loro,
tranne il Capuana, ha inteso che nel nostro paese, ove la novella e il
romanzo non hanno tradizioni fresche, è necessario uno studio serio
ordinato e largo di tutte le letterature moderne, e della nostra
novellistica antica; tutti, tranne pochissimi, stanno appostati ai
valichi delle Alpi con le pistole alla cintura e lo stiletto fra i denti
aspettando al passo gli ultimi romanzi francesi; tutti sono, chi più chi
meno, nelle condizioni di Leone Fortis, il quale dopo avere per tanti
anni predicato alle turbe il verbo della letteratura francese, credeva
in ultimo nella sua grassa e vacua ingenuità che in Francia s'ignorasse
il sonetto. Credete che esageri? E bene, che cosa ha fatto il Verga
prima dei _Malavoglia_? Quale altra cosa ha fatto se non rimpastare in
quattro o cinque o sei romanzi la _Signora dalle Camelie_? E si accorse
egli che in Francia fosse stato un Onorato di Balzac, che in Francia
fosse un Emilio Zola prima che il plauso della folla gli gittasse sotto
il naso l'_Assommoir_? E la signorina Serao non gitta ella nelle sue
novelle e ne' suoi romanzi, senza misura e senza pietà, come uno
scolaretto che ha fatto troppe e troppo mal digeste letture, il realismo
nervoso del Daudet, e quello plastico e colorito del Flaubert, e quello
sodo e meccanico dello Zola, insieme al romanticismo convalescente di
Dumas figlio e al romanticismo tisico di Ottavio Feuillet? E non è vero
forse che nessuno dei nostri novellatori si è mai fatto una questione di
lingua e di stile; ma ognuno italianizza il proprio dialetto, con non
poche fioriture francesi?

Ora tutto questo non può continuare. Leone Fortis aveva già cantato il
miserere alla lirica italiana; e la lirica in Italia è risorta per opera
di un poeta che si fortificò e si nutrì lungamente e copiosamente di
letteratura latina e di filologia romanza. Io credo che noi avremo dei
romanzi e delle novelle esemplari, quando i nostri novellatori avvenire
saranno come il Boccacci. Non monta che sappiano il latino e il greco
come il Boccacci; ma è necessario che sappiano bene il francese e la
letteratura francese, l'inglese e la letteratura inglese, il tedesco e
la letteratura tedesca, l'italiano e la letteratura italiana.

E se potessero bere alle grandi fonti indiane, non ci perderebbero
nulla, perchè fu dall'altipiano dell'Iran che scaturì _l'Oceano dei
fiumi delle novelle_.


II.

Pare un paradosso strano, e pure è una verità appurata e provata con
molte studiose ricerche, che i popoli latini, e più il popolo d'Italia,
hanno pochissima potenza di creazione fantastica. Tutta la nuova materia
d'arte che fu accumulata dopo il crollo della vita pagana, o venne
dall'Oriente con molta varietà d'importazione, o fu una produzione
indigena della razza sassone e della razza celtica: la razza latina non
concorse al gran cumulo di materiale se non con qualche tradizione
classica e con qualche getto di lirica d'amore. Così, mentre i monaci
pellegrini recavano dalle terre d'Oltremare coi frantumi del Santo
Sepolcro e coi ramoscelli d'olivo dell'orto di Getsemani le fantasie
maturate al sole del Cattai o dei piani del Gange; mentre dai boschi
armoricani e dalle paludi bretone e dalle torbaie della Turingia e della
Pannonia il canto epico sonava accordato sul ritmo gregoriano; mentre
nelle valli pireneiche tra la crescenza odorosa degli oleandri la nova
lirica si metteva a fiorire con un tumulto d'amore melodioso, l'Italia
badava a innestare i rampolli cristiani sul vecchio tronco gentile, e si
trasmutava e si rifondeva cristianamente le sembianze di Virgilio.
Nocquero le tradizioni e le presunzioni patrie, o fu un difetto
dell'intelligenza nostra? Non so. Certo la lingua italiana germogliò
ultima dal carcame fecondatore della romanità; certo il popolo d'Italia
conferì poco o punto al patrimonio epico lirico e drammatico fondato
dagli altri popoli d'Europa. Noi non fummo altro mai che manipolatori
del materiale altrui, e quasi amministratori del patrimonio altrui.
Guardate alla storia della nostra epica, della nostra lirica e della
nostra drammatica, da Sordello Mantovano che poetò in lingua d'oc sino
al signor Parodi e al signor Gualdo che scrivono drammi e romanzi in
lingua francese, e ditemi se fu mai popolo così sterile di fantasia come
il popolo italiano. Nè questa sterilità è solamente negli scrittori o
solamente nel popolo; ma il popolo e gli scrittori si accordano
meravigliosamente in una deficienza strana delle facoltà imaginative.
Pio Rajna mostrò già con documenti e con prove sicure come il più
fantasioso de' nostri poeti, l'Ariosto, nulla o presso che nulla traesse
dall'attività procreatrice della sua mente, ma solo con una sintesi
miracolosa raccozzasse e fondesse una mole immensa di favole di
cavalleria penetrate in Italia coi romanzi francesi, coi poemi inglesi,
con le canzoni di gesta e coi frammenti epici tedeschi: Alessandro
D'Ancona ha provato come il materiale della lirica popolare sia tutto o
presso che tutto d'importazione straniera; e se Domenico Comparetti
avesse seguitato i suoi studi di novellistica comparata, facilmente
avrebbe potuto dimostrare che nella selva folta di novelle popolari che
copre tutta l'Europa non c'è un solo virgulto italiota. Guardate ai
novellieri italiani: la materia ch'essi foggiarono con tanta maestria
d'arte da fare della novella una forma veramente italiana, venne
d'Oriente nelle emanazioni del buddhismo o fu qua e là raccattata per le
terre d'Europa. Quando i novellatori vollero attingere alla larga fonte
del popolo, la trovarono tutta scrosciante e zampillante di acque
forastiere; così accadde che nella prosa narrativa l'elemento indigeno
entrasse in una misura scarsa assai, e l'elemento popolare non tardasse
a cadere in discredito. Così vedendo ora che un novellatore italiano
della scuola sperimentale si è messo con proposito deliberato a formare
novelle popolari con materia tratta tutta dalla sua mente, e con fortuna
grande, io mi sarei aspettato un più largo plauso dagl'Italiani. Se non
che gl'Italiani l'importanza e la difficoltà di certe cose non le
intendono.

Dice il Capuana nella prefazione del suo bel libro di fiabe che, avendo
scritto una delle sue novelle per un caro bimbo che gli chiedeva una
bella fiaba, pensò di costruirne altre a diletto de' suoi nipotini; poi,
leggendole, lo prendeva una gran soggezione di quei cari diavoletti che
gli sedevano a torno, e stavano tutt'occhi e tutt'orecchi ad ascoltare.
Certo, l'autorità fanciullesca in fatto di storie imaginose è grande, ma
non bisogna poi esagerarne il peso, come fa il Nencioni. Io non ho dato
a leggere ai ragazzi il libro del Capuana, ma so che il gusto infantile
è facilmente appagabile. Io pure sono stato un bimbo curioso e
desideroso di fanfaluche strane, come tutti i bimbi di questo mondo, e
avendo avuto poche narratrici, mi erano di un diletto indicibile le
_Mille e una notte_ udite leggere la sera accanto al fuoco. Tutti sanno
come in questo suo rifacimento dall'arabo il signor Galland impegolasse
gli studiosi artifizi orientali di molta pomata francese; e pure la
storia di Aladino, raccontata con una prosa sciatta e spropositata e
pretensiosa insieme faceva fremere di godimento e di paura il mio
spirito bambinesco. Anche una vecchia traduzione in prosa dell'Iliade
popolò la mia mente di fantasie meravigliose e mi scosse forte i nervi
tra il settimo e l'ottavo anno; e pure la narrazione era fatta più
penosa dall'ortografia arcaica. Leggete a un bambino le fanfaluche meno
bambinesche, le favole di Esopo tradotte per uno da Siena, il Novellino,
i fatti di Enea, e lo spirito suo penderà dalle vostre labbra, come
quello di Saul pendeva dagli arpeggiamenti di David.

La cosa dunque va considerata più dall'alto, e a me pare che la prima
questione che il libro del Capuana debba suscitare, sia questa: il gran
materiale narrativo e cantativo che alimenta l'intelligenza di tutti i
popoli d'Europa è esso malleabile e foggiabile alle molteplici forme
dell'arte? Io dico di sì; e chiunque guardi alla storia delle
letterature antiche e delle letterature moderne dovrà accordarsi meco.
Non è forse appurato che la letteratura italiana non fu già fabbricata
toscanamente sui modelli provenzali alla corte sveva di Palermo, ma
venne via via crescendo e avvantaggiandosi, come in tutte le terre
d'Italia i dialetti germogliati dal terriccio latino misto di concime
barbarico si mettevano a fiorire? E non è forse noto all'universale che
l'Ariosto, e poi i poeti che intorno a Lorenzo il magnifico portarono
per Firenze la licenza allegra del carnasciale, attinsero dal popolo
materia nova e più fresca?

Se non che, questi e molti altri che io per brevità dimentico,
rinnovarono e rinfrescarono alle chiare fonti popolari l'epica un po'
appassita nelle mani troppo dotte del Boccacci, e la lirica stroppiata
dai petrarcheggianti; ma nessuno si mise per esercizio d'arte ad imitare
le rozze forme popolaresche. In Italia, no; ma in Germania e in
Inghilterra e in Francia si tentò questo più volte con varia fortuna; e
a me pare che la questione si possa più chiaramente formolare così: le
imitazioni delle forme popolari nella selvatichezza nativa sono
solamente un esercizio atto a dilettare i bambini, o possono essere vere
e proprie fogge dell'arte? Di nuovo, io dico di sì.

Ecco: da qualche tempo l'arte sente il bisogno di tuffarsi alle fonti
della vita; e dal Balzac in poi il romanzo ha deviato dalla sua antica
forma narrativa, piegando allo studio fisiologico e psicologico
dell'uomo. A questa deviazione della prosa narrativa il Balzac conferì
più di tutti studiando i segni esteriori e gli effetti visibili dei
sentimenti interni, la Sand analizzando con una sottigliezza femminile
tutte quante le crespe e gli avvolgimenti dello spirito, gli ultimi
romanzatori naturalisti proseguendo certe leggi della vita appurate
dalla scienza. Tutte queste vie menano, più o meno brevemente, alla
verità; ma ad una verità, direi, relativa: ci è sempre come una piccola
nuvola vaporosa, che offusca l'evidenza della rappresentazione. Nel
Balzac è lo stile troppo martoriato e qua e là gonfio o colorito
soverchiamente o contorto; nella Sand è la tabe sentimentale che
s'appiglia e corrode l'analisi più sottile; nello Zola è il rigore della
tesi scientifica e il calore secentistico dello stile. Manca a tutti
quella serenità plastica e semplice della concezione e dello stile, che
il Flaubert ebbe per un momento in _Madame Bovary_, e che tutta quanta
la letteratura popolare possiede naturalmente.

Qualche anno a dietro, trascrivendo io novelle popolari della campagna
romana, provavo un vero godimento estetico ascoltando dalla bocca d'una
serva, in una prosa semplice limpida, efficace, le fantasie più pazze
mescolate di osservazioni acute o profonde, corrette e regolate da un
criterio sano e giusto della vita. E trascrivendo in fretta o rileggendo
dopo avere trascritto, mi nascevano nella mente dei pensieri e dei
raffronti in folla. Per esempio, ripensavo al _Bertoldo_ e al
_Bertoldino_ di Giulio Cesare Croce; e non sapevo capacitarmi come di là
non avesse preso le mosse qualche opera di prosa, come dai leggendari e
dai frantumi epici si mossero tante opere di poesia: non trovavo, nella
prosa italiana, la rispondenza del _Morgante_ e dei due _Orlandi_. Ora
questo, che nel secolo XV era possibile, ma non più nei secoli che
seguirono, di nuovo è possibile e utile e forse anche necessario oggi.
Avete mai badato alla famigliarità, con la quale il popolo tratta i re e
le regine? E questi re e queste regine delle novelle popolaresche non vi
sembrano essi dei sovrani constituzionali? Rammentate il buon re Alboino
di Giulio Cesare Croce e il buon re Pantagruel di Rabelais? Ebbene,
l'ideale del re costituzionale è quello: come vedete, prima assai
dell'89 il popolo lo aveva pienamente intuìto e rappresentato. Così il
popolo ha pienamente intuìto e rappresentato tutta quella parte della
vita che gli è stata accessibile. E bene, perchè i novellatori
sperimentali non imparano anche dal popolo, ma se ne stanno contenti
alle teoriche darwiniane? Da cinquant'anni in qua le trascrizioni di
racconti popolari pullulano da tutte le parti, e la demopsicologia è
quasi diventata una scienza a sè. E bene, fate che dal dominio della
scienza tutto questo gran materiale passi nel dominio dell'arte.

Scartate tutte le scorie fantastiche: resterà una selva folta di
osservazioni e d'insegnamenti: resterà una miniera vergine di
esperienza. E non isdegnate d'imparare dalla vostra serva, poichè fu una
moltitudine miserabile di servi che, crollata la carcassa romana, fondò
una vita nuova una lingua nuova una metrica nuova, e ritrovò le prime
nuove forme dell'arte.

In quanto alla prova in sè, ho detto che è fortunata, e anche in questo
chiunque ha qualche pratica di novelle popolari si accorderà meco. Il
Capuana non ha rimpastato delle favole già diffuse, ma ne ha costruite
di nuove con gli elementi che entrano in tutti i prodotti della fantasia
popolare: elementi, come ho già accennato e come facilmente pare, non
indigeni, ma d'importazione forestiera. Lasciando dunque da parte
l'elemento fantastico e mitologico, che è ciò che più move lo spirito
bambinesco, e guardando solamente alla manipolazione e alla intuizione
dei criteri e delle forme e dello stile popolari, io dico che queste
fiabe mi paiono una cosa perfetta. Il Capuana ha saputo cogliere
mirabilmente quel sano e giocondo ottimismo, quella tranquilla
aspirazione al benessere, quel placido e sicuro senso della vita che
sono i caratteri più chiari delle produzioni letterarie del popolo. Di
più, egli mostra di essersi assimilato, con la semplicità rustica e
ingenua della narrazione, con la fusione naturale del dialogo e del
racconto, lo stile popolaresco. Non fosse altro, per avere tanto
felicemente pensato e con tanto studio condotto a perfezione questo
libro, merita il Capuana il primo posto fra i novellieri italiani; però
che esso dimostri una cosa, la più importante di tutte in tempi di
povertà universale, ch'egli ha conscienza di quello che fa.

Luigi Capuana è un vecchio giovine, e, se vi piace meglio, un giovine
vecchio; e a chi lo conosca pe'l complesso della sua molta attività di
novellatore e di critico, fa una strana maraviglia lo spettacolo di
quella bella maturità vigorosa improntata nella testa calva e nel poco
pelame bianco. La sua persona inclinante sensibilmente alla pinguedine
parrebbe in punto di precipitare nella vecchiaia adiposa e sonnacchiosa;
ma sotto quell'apparenza senile si sente la forza del sistema muscolare
nel pieno rigoglio dello sviluppo organico, e dagli occhietti grigi
balena la gioventù dello spirito. Luigi Capuana è giunto ora alla
perfezione del suo essere; e vi è giunto col sacrifizio dei capelli e
della barba. È colpa del pelo, morto troppo presto, o del Capuana,
maturato con troppa lentezza? Io non ho mai veduto la sua fede di
nascita, e non credo che lo stato civile sia un utile elemento di
critica. Certo questo singolare scrittore sta ora nel sommo della sua
curva, e le ultime opere del suo intelletto hanno la franchezza robusta
della piena virilità.

Non piccolo segno questo di serietà e di forte tempra artistica in un
paese ove da venti anni in qua i novellatori vanno innanzi con le bende
sugli occhi, deviando e tentennando, senza sapere quel che si vogliano,
nè quel che si facciano, senz'altro pensiero che di una faticosa e vana
produzione di materia grezza. Il Capuana non ha avuto mai
sdrucciolamenti, nè pencolamenti, nè pentimenti; ma un pensiero solo,
anzi un solo caldissimo e purissimo sentimento di religioso amore per
l'arte lo ha tratto sempre più in alto, dalle prime prove, romantiche
tuttavia e mal sicure, dei _Ritratti di donna_ e di _Giacinta_, alle
opere quasi perfette di _C'era una volta_ e di _Homo!_ Il Capuana ha
avuto una maturità lenta e faticosa. A lui non concessero i numi una
materia cerebrale spumante per la fermentazione precoce, ed
effervescente in una bella fumata di vario colore, graziosa e leziosa e
capziosa al contrasto dei raggi solari, nè volle il divo Apolline
assentirgli quel facile prezioso talento di assimilazione, pe'l quale
tanti cervellini mascolini e femminini assorbono tanto materiale
d'importazione francese, e con poca fatica di ruminamento lo rivomitano
mal digerito e sporco ancora dei colori repubblicani. Egli è giunto
all'altezza presente non senza molto sforzo della volontà e una assai
pertinace tensione di tutta la sua attività vitale. Non si è ritrovato
sbalestrato in alto per un capriccio della fortuna o del favor popolare;
ma ci è giunto per proposito deliberato, arrampicandosi. Per questo,
mentre gli altri, che pur non sono rimasti in terra, si guardano intorno
sbigottiti per l'altezza e già colti dalla vertigine, egli sta sicuro e
spazia intorno tranquillamente, poichè sa il terreno, e la via atta, e
quella che ancora resta a fare.

Per le quali cose, il Capuana non può essere giudicato equamente da un
libro solo; ma è necessario seguirlo a traverso tutta la sua attività
critica e risalire tutta la curva della sua ascensione narrativa per
abbracciare l'efficace opera di ammaestramento e di moralizzamento
ch'egli ha fatto e va tuttavia facendo nell'arte del novellare. Egli è
stato dei primi a gittar le grida contro l'empirismo dell'arte
constituzionale; e, venuto di Sicilia rozzo ancora e immaturo, e in
molta parte impreparato e ineducato, si gittò a combattere a mezza spada
con quei brillanti spiriti, che tra l'accasermamento italiano in Firenze
andavano rivendendo a buon mercato le scolature del _Figaro_, che nella
rocca di Milano abbandonata dal Manzoni nelle mani dei Farisei
costruivano teoriche estetiche ed etiche tra le piramidi e l'odor del
formaggio. In una prefazione che il buon Leopoldo Marenco pose innanzi a
certa sua commedia, si domanda al lettore con un tono tra di maraviglia
dispettosa e di compassione stizzosa se conoscano un certo Capuana che
osò dir male di lui, Leopoldo Marenco, grande ciambellano della
pastorelleria comica e del lattime teatrale e conferitore patentato di
speroni d'oro in cartone dipinto a tutti gli _attori giovani_ del felice
regno d'Italia. E si seccavano, a Firenze e a Milano, di questo barbuto
nero che veniva a intorbidare la soave persuasione del rinascimento
spirituale crescente all'ombra del gran caprifico della Constituzione;
poichè temevano una novità nella loro arte da rigattieri peggio di una
riforma dello Statuto, e un pungiglione critico più che tutti gli
assilli repubblicani. Leone Fortis lo guardò come il cane della favola
quando si vide insidiato il mucchio della paglia, e Paolo Ferrari sudò
freddo pe'l tremito e per l'orrore vedendo la prima volta quella barba
siciliana. Tutti così, questi robivecchi provveditori di materiale
scenico e di bambagia gazzettiera! Non hanno nemmeno la virtù della
resistenza; ma si oppongono col peso della loro inerzia, e brontolano,
percossi dalla paura e dallo stupore. Così, quando Paolo Ferrari vide
nelle vetrine dei librai milanesi il libretto di Luigi Lodi consecrato a
lui, si voltò a Leone Fortis con un'aria d'uomo infastidito, dicendo: —
Sarà uno dei soliti adulatori. Ma come ne ebbe letto due pagine, la
faccia gli diventò verde, e le braccia gli cascarono lungo i fianchi, e
il libro cadde per terra.

E pure, in questo tristo ambiente lombardo giunse il Capuana a piantare
una incudine; e battendo e battendo e battendo, e sempre più liberando
sè stesso dalle scorie, fu il primo e più efficace predicatore dei
canoni naturalisti; e certamente giovò assai a fermare sull'orlo del
precipizio il suo compatriota Giovanni Verga, che da principio cedeva
troppo volentieri alle calde furie del suo intelletto. Il Verga
conferisce anch'esso non poco a porre in miglior luce il Capuana; poichè
quel siciliano lombardizzato e incivilito, dopo aver gittato molto
calore della fantasia e molto fremito nervoso ad aliare un alito
afrodisiaco in certa bambagina avviluppata intorno ad esili scheletri
narrativi, dopo aver buttato le ultime scorie romantiche in certi strani
compiacimenti di lascivia idilliaca, pareva che dovesse morire di
spinite mentale; quando, inaspettatamente, ricomparve rinnovato,
riapparve in forma d'un uomo maturo e del più serio fra i nostri artisti
leggeri. E nessuno pensò che forse una buona parte del miracolo si
doveva a quel singolare martellatore di Luigi Capuana, il quale, dopo
aver predicato il vangelo naturalista, aveva dedicato ad Emilio Zola un
romanzo, il primo romanzo sperimentale stampato in Italia dopo il
Manzoni. La grande fortuna dello Zola in Italia procede segnatamente dal
Capuana; il quale, mentre i capelli cadevano e andavano sempre più
brizzolandosi, studiava la letteratura contemporanea in Italia e in
Francia con più di serietà, che non i farfallini fanfulleggianti che
camparono quindici anni sul panciotto rosso di Teofilo Gautier e sulle
bricciche di Alfonso Karr.

Di più egli ebbe una fortunata intuizione; una di quelle intuizioni che
non possono lampeggiare se non in un intelletto veramente materiato
d'arte. Intese tutto il beneficio che potrebbe venire all'arte narrativa
dallo studio del materiale popolaresco; e con tanto amore studiò e si
compenetrò delle forme e dello spirito dell'arte del popolo, che nel
1879, pubblicando le poesie siciliane di Paolo Maura, potè aggiungervene
in fine due che paiono affatto simili alle popolari, che ha potuto
ultimamente pubblicar quelle fiabe, le quali, come dicevo poco fa, a me
paiono una cosa perfetta. E nel suo ultimo volume di novelle, _Homo!_,
l'utilità degli studi di letteratura popolaresca appare ad evidenza. Per
esempio, una delle novelle, _Comparàtico_, che io senza esitare giudico
meravigliosa e tale da stare gloriosamente anche nel _Decameron_ o tra
le più perfette cose di Balzac, è un rifacimento in prosa italiana di
una _storia_ in poesia siciliana che il Capuana scrisse nel '68, e
presentò al Vigo, che, senza punto avvedersi dell'inganno, la stampò
nella sua _Raccolta amplissima di canti popolari siciliani_. Confrontino
i lettori la novella e la storia, e leggano gli altri racconti di questo
volume così maschiamente palpitante di umanità, così vivo, così forte,
così originale; e mi sappiano dire se ho avuto torto io di collocare il
Capuana sopra tutti quanti gli altri romanzatori d'Italia.


III.

E ora, il secondo posto tocca a un altro siciliano, al quale io ho assai
minore stima che non al Capuana, perchè manca a lui quella serietà e
quella larghezza di preparazione che l'altro possiede. Costui è Giovanni
Verga, il quale veramente con gli anni si è venuto rimutando in meglio,
e non è più così sciattamente arruffato com'era in principio; ma tutto
lo studio egli lo pone nella tecnica, sicchè, riprendendo in Italia il
sistema zoliano, non ha saputo indurvi se non qualche novità formale di
poco momento e di maggiore e più fastidioso artifizio. Nel romanzo
veramente non indusse nessuna novità, se non una pesante monotonia poco
zoliana, che fece naufragare i _Malavoglia_ come quella barca carica di
lupini che ne è il substrato. Allora ha voluto fare una cosa non tentata
dallo Zola, se non in qualcuno degli ultimi raccontini: ha voluto fare
la novella sperimentale; e il tentativo gli è riescito felicemente. La
_Vita dei campi_, pubblicata qualche anno addietro, è un libro quale nè
Emilio Zola, nè, con buona pace del signor Vittorio Pica che ha una
sconfinata ammirazione per costoro, gli scolari suoi hanno saputo
scrivere, e confrontando ora le _Novelle rusticane_ coi racconti
pubblicati ultimamente dallo Zola in due volumi intitolati dal _Capitano
Burle_ e da _Naïs Micoulin_, appare chiaramente una cosa: che in Italia
la vita della campagna s'intuisce con un acume sottile e profondo
insieme, e si rappresenta con una vivezza di colore e con una forza di
disegno che nessun novelliere francese del nostro tempo ha.

Guardate in Francia, oltre lo Zola, i novellatori più reputati, di
qualunque categoria o scuola essi siano: hanno un'amabilità graziosa
d'imaginativa, e un facile dominio della forma e una finezza
d'osservazione pariginamente e argutamente maligna; ma in Francia la
novella fatta con intendimento largo non c'è, mentre ci è, o almeno
comincia ad essere, in Italia. Il Verga ha rinchiuso la materia delle
sue novelle entro una breve cerchia di campagna siciliana; e si è messo
a rappresentare la vita agricola quale veramente è, senza preoccupazioni
sentimentali o subbiettive, con una serie di quadretti e di schizzi.
Egli non si è lasciato prender la mano dall'ambiente, come è accaduto a
qualche altro novellatore campagnolo; ma ha saputo sempre temperare la
prepotenza del paesaggio e vincere il fascino della natura esteriore con
lo scoppio del sentimento umano. Le sue novelle son dissimili l'una
dall'altra: ora predomina il racconto, come in _Pane Nero_, ora la
rappresentazione, come in _Libertà_, ora l'analisi, come in _Malaria_;
ma sempre è la vita umana che geme che freme che ride, non già i canneti
nè i castagneti nè i littorali. La materia è nuova, poichè dalla
georgica virgiliana in poi uno studio obbiettivo di questa parte della
famiglia umana, che provvede al nutrimento di tutti, in Italia non è
stato fatto mai. È stato bensì fatto in Inghilterra in Germania in
Russia, e le novelle del Verga stanno degnamente tra i racconti agricoli
del Goldsmith dell'Auerbach del Turghenief.

Solamente in una cosa pecca il Verga, ed il peccato è grave: nella
forma. Egli non pecca di sciatteria, o di lambiccatura: ma si affatica a
farsi uno stile proprio semplice e colorito e vivo insieme. Però lo
sforzo è così grande e così chiaro, che questo stile diventa come un
lungo singhiozzo senza riposo che fa pena; e la semplicità e la vivezza
e il colorito si pèrdono in una contorsione faticosa e fastidiosa. La
prosa deve avere il suo periodo come la poesia, ma la prosa del Verga
non ha periodo: essa pare tutta una gran tirata monoritma, rotta qua e
là da versi tronchi e da paure inaspettate.

Di più il Verga ha inciampato nel grande ostacolo che si frappone fra le
gambe di tutti i naturalisti: il dialogo. Il romanzo sperimentale, si
sa, è tutto un macchinismo di effetti prospettici che concorrono a dare
una similitudine più o meno fallace della verità. Ora nel racconto
l'artifizio è facilmente mascherabile, poichè è il raccontatore che
scrive e che con le sue proprie parole vuol suscitare nei lettori i
fantasmi. Ma quando, per maggior colore di verità, il narratore fa
parlare i fantasmi, la difficoltà cresce a dismisura.

Questa del dialogo, diceva una romanzatrice che lo fa di solito
pessimamente, la signorina Serao, è una questione insolubile: se
vogliamo tenerci alla verità e scrivere come gl'italiani delle varie
parti d'Italia parlano, violiamo le leggi grammaticali della lingua
comune; se ci teniamo nel debito ossequio della grammatica, ci
discostiamo da ogni apparenza di verità, e l'efficacia della
rappresentazione ne soffre. E aveva pienamente ragione: infatti leggendo
una novella di materia bretone di Emilio Zola, ove lo scrittore ad ogni
passo avverte: — il tale disse in _patois_ la tal cosa, — vien voglia di
ridere. O che razza di naturalismo è mai cotesto, in cui per
raffigurarsi il parlare d'una persona bisogna tradursene i discorsi dal
francese comune in dialetto di Bretagna? Lo stesso, se non peggio,
accade in Italia, ove l'autocrazia del dialetto toscano va sempre più
perdendo d'autorità e di vigore; e la signorina Serao medesima ce ne dà
una prova, ella che con una così felice costanza trasporta nell'italiano
academico della sua prosa tutte le innumerevoli improprietà del volgare
napolitano; ella che giorni addietro cominciò una novella, pubblicata
con gran pompa dalla _Domenica letteraria_, con un singolarissimo
sproposito. La novella cominciava con una scampanellata, e quando fu
aperto l'uscio, domandò alla serva una signora romana che aveva sonato:

— _Ci sta Caterina?_

Domanda che mostra ad evidenza a quali fatali errori meni
l'italianizzamento di questo o quel dialetto. Tutte le persone che la
signorina Serao introduce a dialogare nella sua prosa, di qualunque
parte d'Italia siano, parlano un napolitano illustre curiosissimo.
Ancora un altro esempio. Con questo sistema, chi volesse dar la parola
in un romanzo a qualche indigeno della provincia di Chieti, si
troverebbe a fronte d'uno strano impaccio. Nei dialetti chietini l'uso e
il valore degli ausiliari verbali è in ragione inversa dall'uso e dal
valor comune: _io ho fatto_ in volgar chietino si traduce _so' fatte_:
bisognerebbe dunque far spropositare questo sciagurato così: _io sono
fatto la tal cosa_.

Anche il Verga ha cercato una soluzione empirica di questo problema, e
la soluzione sua, se non è tanto antigrammaticale quanto quella della
signorina Serao, è per contrario più artifiziosa e faticosa, e causa non
ultima del poco favore che immeritamente trovano i suoi racconti. Egli
cerca, con effetti prospettici, di dare non già il dialogo, ma una
rappresentazione del dialogo; quindi ogni tanto fra il racconto suo
scatta una esclamazione, un proverbio, una qualunque frase o una parola
della persona che egli finge in atto di parlare; di più, fa uno strano
abuso del dialogo indiretto, per modo che le sue novelle ci offrono
questo risibile spettacolo: il dialogo è raccontato, il racconto invece
è parlato. Sicchè, per troppo sforzo di verità, si riesce a un
meccanismo che alla prima novella, per la novità, piace; alla seconda,
discoprendosi, comincia a infastidire; e infine diventa insopportabile.

Per cercare una soluzione possibile e razionale di questa questione, la
quale è d'importanza capitale perchè raccoglie in sè anche le sorti
della comedia, bisogna pensare a una cosa, sfuggita, non so come, a
tutti quelli che, nell'esperienza dell'arte o teorizzando, vi hanno
meditato intorno: in Italia non si parla la lingua italiana, ma si parla
il dialetto. Tranne i Toscani, tutti gl'Italiani quando si trovano a
discorrere con persone che non siano del loro paese, traducono dal
proprio dialetto, e il più delle volte traducono male. Ho notato
ultimamente questo fatto nella propria persona di Giovanni Verga. Noi
parlammo un giorno lungamente insieme, e io notavo lo stento e
l'imperfezione del suo italiano, com'egli, certamente, si scandolezzava
della sconcezza del mio. Poi andammo a mangiare delle sardelle sopra una
tartana messinese ancorata nel porto di Ripa Grande; e subito il Verga
cominciò a parlar siciliano coi marinari con una così facile speditezza,
che io dissi in me medesimo:

— Diavolo! E perchè costui non fa parlar siciliano i Siciliani delle sue
novelle?


IV.

Intorno alla _Fantasia_ di Matilde Serao i critici hanno imaginato una
straordinaria moltitudine di belle fantasie. Da qualche tempo la critica
italiana, sforzata ad affacciarsi tutte le domeniche ai balconcini dei
giornali ebdomadari, e a stare tutto dì in esposizione come il
Santissimo, era di malo umore. Pareva infreddata, poichè si udivano qua
e là come gli scoppi e gli spurghi del catarro di Enrico Nencioni,
poichè si propagavano certi rumori come di chi si soffi il naso con
troppa violenza. I giovanastri distruggitori d'imagini cominciavano a
sentir la noia dell'iconoclastia, gli altri brontolavano contro
gl'iconoclasti. Un universal tono di lamentazione e di pianto coloriva
tutti i fogli letterari d'un color cinereo chiazzato di lacrime; e
sembrava giunto il momento di dire:

— La smettiamo questa comedia?

Pareva che il buon senso e il buon gusto del popolo italiano, rifluendo
spontaneamente per un miracolo d'atavismo, dovessero una buona volta,
con provvido atto di coraggio, empire i pitali critici di tutta quanta
la presente diarrea letteraria, e gittare tutto questo sudiciume alle
cloache del Tevere. Aimè, vana speranza! Il miracolo atavistico non
seguì, e il popolo non si mosse: per contrario la critica, guarita del
catarro ai primi caldi estivi, ritrovò nei suoi vecchi polmoni la voce
dell'entusiasmo; e per rifarsi della lunga musoneria, e per riaversi dal
malumore, e per folleggiare, e per bamboleggiare, e per civetteggiare,
si tolse in mezzo una femmina, e la levò in alto sulle braccia distese,
cullandola sballottandola trabalzandola in processione, con un maledetto
chiasso d'acclamazione, come d'una frotta di ragazzi dopo troppe ore di
clausura e di tortura scolastica.

Che il diavolo vi porti, o critici italiani che volete ad ogni costo
fare i pretoriani, ed eleggere per acclamazione l'imperadore! Voi fate
peggio dei montoni di Panurge. Voi siete come un passo di quaglie, che,
dopo valicato il mare, si butta a una radura. Le bestioline stanno qua e
là acquattate tra le ginestre tra le felci tra le stoppie,
dispersamente, affaticate dal lungo volare; ed ecco il re delle quaglie,
più grosso e di più lunghe zampe e con un ciuffetto sopra la testa,
prende a scorrer le file, contando le pellegrine; poi di subito comincia
a cantare. E da ogni parte, dalle ristoppie e dalle felci, dalle
ginestre e dai cespugli di erica tutte le altre quaglie prendono a
cantare in coro: — Qua, qua, qua. È la gioia del riposo, o il dolore
d'un nuovo viaggio, o la paura dei cacciatori? Il re delle quaglie dà la
nota: tutte le altre cantano con esso lui: — Qua, qua, qua. E corrono
cercando il cibo tra i solchi della terra, o si spiccano tutte quante a
volo.

Fra i critici italiani ora non v'è re, nè regolatore, nè intonatore; ma,
come alle primitive età dei popoli o in tempo di rivoluzione, il governo
è tumultuario, e la bacchetta di direttor dell'orchestra cade in mano
del primo usurpante. Questa volta è stato Luigi Lodi. Luigi Lodi è
venuto da Bologna a Roma con l'anima tutta nera di rimorsi e tutta
tremolante di contrizione. Dopo avere per molti anni combattuto ai
fianchi di Lorenzo Stecchetti, era singolarmente nauseato dei
combattimenti. Aveva voluto intorno al dottor Guerrini raccogliere una
falange di poliorceti critici e poetici, e la falange gli si permutò
d'avanti in una ragazzaglia di mirmidoni. Aveva, con tutto l'impeto
della gioventù e con molto aiuto di buoni argomenti, voluto schiacciare
Paolo Ferrari, e dalle ceneri di quel commendatore sparpagliate ai venti
non rinasceva alcun virgulto promettente. Allora la critica la
letteratura la guerra gli vennero in uggia; e poichè l'Italia non voleva
se non quella cacarella in santa pace, aiutata e vellicata, come da
clisteri di decotto malvaceo, dai _soffietti_, concluse seco medesimo:

— Sia dunque il soffietto. E prese a soffiare più forte di tutti. E il
primo libro che gli capitò fra mano, fu la _Fantasia_. Cominciò dunque a
fantasticare inni di gloria a questa _Fantasia_, proclamandola il più
efficace e più largo e più fortunato tentativo romanzesco fatto sinora
in Italia, levandola sopra i migliori romanzi di Daudet. Figuratevi:
tutte le quaglie acquattate nelle bassure dei giornali d'Italia, come
per accordo premeditato, cominciarono a cantare osanna; e l'onda
dell'entusiasmo ammirativo, raccolta dai fogli minori in uno zampillo
colossale, scaturì dal ventre della _Nuova Antologia_ per opera di
Enrico Nencioni in un inno mezzo fra bacchico e trionfale, che alla
prima lettura mi parve la gran pisciata della giumenta di Gargantua in
piazza di _Notre-Dame_.

Sembrò allora rifiorita l'alba d'uno di quei beati giorni che il popolo
italiano, ubriacato dalla bellezza del tempo sereno e dalla dolcezza del
sole, espande l'essere suo in una quasi pazzia gloriosa, e farnetica
gioiosamente contemplandosi e adorandosi e celebrandosi con immenso
rapimento d'amore. Tutti i critici, ragunati in coro, proclamarono nella
_Fantasia_ l'unico romanzo italiano veramente vitale, e il popolo battè
le mani. Nessuno pensò che una consimile proclamazione fu fatta
all'apparire dell'_Eva_, poi de' _Malavoglia_ del Verga, della
_Giacinta_ del Capuana, di _Malombra_ del Fogazzaro, di _Mater dolorosa_
del Rovetta; che il nostro romanzo, di acclamazione in acclamazione, se
ne va trionfalmente a finire in un cesso. Questo pensò ben qualcuno, che
qui non è il caso di nominare; ma gli amici lo ammonirono che non
bisogna dir male delle femmine, e poi a colui non garba il mestiere di
guastafeste. Lasciò dunque cantar l'inno di gloria. Ma ora che
l'entusiasmo si è raffreddato, e che questo romanzo è entrato nel
dominio storico, se ne può dir male? Se lo ha scritto una femmina, tanto
peggio per lei. È forse negato ai posteri un giudizio onesto intorno ai
romanzi della signorina di Scudéry? Perchè dunque le femmine, vive,
godranno d'un privilegio che ad esse, morte, non è concesso?

E comincio con un esordio che può parer singolare. L'anno scorso la
signorina Serao era stranamente decaduta nell'opinione della gente.
Cessato il rumore del suo primo romanzo, che se non fu maggiore certo fu
eguale al chiasso suscitato intorno al secondo, la sua reputazione andò
precipitando di articolo in articolo. I lettori del _Capitan Fracassa_
odoravano la prosa sua sotto ogni pseudonimo, e se ne infastidivano: la
natural gelosia sessuale irrompeva contro questa femmina che voleva ad
ogni modo invadere le più sicure e più dilette conquiste mascoline, e
l'esagerazione del biasimo fu allora quasi eguale alla presente
dell'ammirazione.

Or un amico suo, che l'ha proseguita sempre d'una calda benevolenza, che
ha del suo ingegno più che femmineo grandissima stima, e nativamente
radicato nell'animo il senso di equità, e che, avendo letto la
_Fantasia_ mentre si stampava in appendice della _Rassegna_, vedeva
quanto quella universal reprobazione fosse ingiusta e irragionevole,
andava da per tutto dichiarandone i meriti; e mi ricordo che molti,
lodatori di poi di questo romanzo oltre ogni confine di serietà, lo
canzonavano allora e gli davano del matto, come gli darebbero del matto
ora se si attentasse di dirne i difetti. Del resto, di questi gratuiti
definitori di matti non altrimenti è possibile liberarsi, se non
infischiandosi pienamente dei manicomi, della cavalleria e delle
femmine; e appellandosi contro di loro, come all'arbitro più sicuro, a
Matilde Serao, alla quale, subito dopo letto il suo romanzo, disse quel
suo amico a voce quasi le cose medesime che io pubblico oggi per le
stampe; ed ella ne fu contenta.

E la prima cosa che le disse, credo, fu questa, che la _Fantasia_, a
differenza del _Cuore infermo_, ha una ossatura solida e logicamente si
regge bene; ma nella fattura è così rozza, così arruffata, da non
potersi considerare come opera d'arte. E veramente, nella signorina
Serao, la quale di solito pare non abbia conscienza dell'arte, ma tira
via ad ammucchiar prosa e prosa e prosa, seguendo l'impulso del momento
o le reminiscenze dell'ultima lettura, tumultuariamente, è questo un
progresso grandissimo; del quale andò colui lodandola in conspetto del
popolo, ammonendo quelli che la vituperavano onestamente alla lontana
ch'ella accennava in fine a una serietà di propositi e a qualche men
vile intendimento. Aimè, i critici di poi lo hanno, al solito, fatto
pentire di quella gratuita e imprudente propaganda benevola! Pare dunque
proprio al Nencioni che la coerenza, chiamiamola così, di questo romanzo
sia straordinaria, non pure nell'opera peculiare della signorina Serao,
ma nella storia complessiva dell'arte narratoria? E via! La coerenza, la
solidità del contenuto di questo romanzo procedono da un fatto
semplicissimo: questo non è un romanzo, è una novella molto esigua,
allungata e distesa infinitamente. È un duetto, insomma, parlato qualche
volta davanti ad altra gente, ma di cui si può dire non sian collocutori
se non quei due. Tutta l'altra gente è inutile, impaccia anzi e
impedisce il dramma con la sua presenza spassionata e fastidiosa. Tutta
l'altra gente giova alla scena e giova a crescer la mole del romanzo:
non altro. Quella Caterina e quell'Alberto, così sciocchi, così
scoloriti, così seccanti, sono incomodi; e neppur tanto, da recare un
qualche intoppo allo sviluppo del dramma. Ogni tanto si movono, parlano,
chiamano l'attenzione del lettore; e quando il lettore si volge con
l'animo ad essi, li vede in ascolto del duetto, lei taciturna goffa
impacciata, lui noioso petulante piagnucolante, l'uno e l'altra tanto
stupidi, da non intender nulla di ciò che loro accade da torno. E quando
il dramma, onde non si sono avveduti, scoppia, non sapendo che altro
fare e come escir dalla scena, muoiono. Certo, le anime loro son volate
al limbo del romanzo moderno, ove nel bacio del Signore riposano quelle
innumerabili moltitudini di creature romanzesche che mai non fur vive.
Riposino in pace. Il dramma dunque è di una povertà francescana, e tutta
la lotta si restringe a un duello: usanza barbarica, come ognun vede, e,
più specialmente, gallica. In quasi ogni calata dei Galli sul territorio
latino, s'avanzava un barbaro tracotante e cianciatore, e proponeva di
riporre le sorti della guerra in un combattimento di due. Del resto,
anche greca; poichè l'Iliade comincia col duello di Menelao e di Paride,
e termina con quello di Ettore e del Pelide. Però queste battaglie duali
ad Omero parvero troppo povera materia epica, e non fece egli così
miseramente terminar la guerra di Troia; ma il primo combattimento fu
seguìto da una serie infinita di pugne, ove si mescolarono battagliando
gli uomini e gli dèi, e al secondo non successe se non la tregua pei
funerali di Ettore e per gli apparecchi dell'assedio. La signorina Serao
si è per contrario accontentata del duello, e poichè non siamo sul campo
dell'epopea, ma in quello del romanzo, la battaglia non è d'armi, bensì
di affetti; e poichè il romanticismo ha, a poco a poco, soppresso tutti
gli affetti umani a benefizio dell'amore, a cui si è appresso per virtù
di Balzac aggiunta l'_auri sacra fames_, siamo ad una lotta d'amore. Il
substrato dunque è questo: una creatura umana che induce l'altra
all'amore. Roba, mi pare, un po' vecchia; ma non importa: vediamo se la
signorina Serao abbia saputo in qualche modo rinnovare questo vecchiume.

Prima di tutto, ha fatto i combattenti dispari di forze. Il maschio è
felicemente constituito in tutto, nell'organismo nell'intelletto
nell'animo, persino nelle sostanze. È un uomo forte bello sano buono
agiato, che potrebbe offrire quasi il tipo della sua razza. La femmina
invece è un mostro: malaticcia bisbetica infinta fantastica, tutta
nervi, e nervi sempre in convulsione per gli accessi dell'isterismo,
cattiva. Non ha altra arma se non quella pallida e brutta bellezza delle
persone malate, onde il romanticismo cominciò a trarre argomento di
pietà, e finì col trovarvene d'amore. E, naturalmente, poichè i precetti
del romanticismo questo comandano, dei due combattenti non è già il più
forte che vince, ma il più fiacco. Dico naturalmente, perchè, anche
questo si sa, il preconcetto di riforma umanitaria che il romanticismo
succhiò dalle dottrine di Gian Giacomo Rousseau indusse nell'arte questo
assurdo pregiudizio, che essa dovesse, con le armi sue, combattere la
legge naturale della selezione, in vigor della quale gli esseri più
imperfettamente organizzati e armati alla lotta per la vita, soccombono:
pregiudizio, diremo, istintivo, però che quella legge non fosse ancora,
non pur formulata, ma intuìta; poichè il romanticismo non fu se non un
intravedimento confuso incerto istintivo di tutte le nuove conquiste
della scienza. E veramente non si può dar molta colpa a Giorgio Sand se,
in un tempo che le miracolose intuizioni di Lamark passavano inosservate
e non ancora il Lyell aveva abbattuto la dottrina dei cataclismi
geologici di Cuvier, ebbe intorno alla selezione naturale e alla mutua
relazione dei sessi un'opinione tanto incerta e tanto assurda, da
attribuire alla femmina la scelta del maschio, da propugnare per mezzo
del romanzo una mostruosa poliandria, che avrebbe infallibilmente menato
alla estinzione della specie umana. Ma nell'anno 1883, dieci mesi dopo
la morte di Carlo Darwin, quando una falsa interpretazione delle leggi
dell'amore è segno non più di fantasia malsana, sì d'ignoranza, una
persona, qualunque sia il suo sesso, che pretenda di scrivere un romanzo
sperimentale e lo fondi su quell'assurdo errore, mostra di non avere
nessuna attitudine e nessuna preparazione per intuire la vita. E poi,
mostra di avere inconsciamente, forse indirettamente a traverso il
tramite di Dumas figlio e di Feuillet, succhiato il sangue della Sand.
Dico inconsciamente, perchè appunto la signorina Serao ha ereditato dal
romanticismo quel terribile peccato della inconsapevolezza e
dell'arruffìo che ebbe il suo momento giovenilmente bello nel periodo
dei _Masnadieri_ e del _Werther_, poi, invecchiando, diventò una
cancrena dell'arte e il più sicuro segno di debolezza. Nella intuizione
e nella rappresentazione della vita ella procede a guisa d'un
sonnambulo, a cui i fantasmi si risvegliano nello spirito
spontaneamente. Sono letture frettolose e tumultuarie, senza criterio
determinato e quasi senza scopo, che la movono: tutte le sue
osservazioni sono di seconda mano, e per la più parte false; tutte le
sue contemplazioni della vita sono derivate da altri, e quasi sempre
paradossali. Da Giorgio Sand e da' suoi successori ha tratto quel
concetto inestetico immorale e scientificamente errato della donna; da
Emilio Zola ha usurpato il preconcetto ereditario, poichè le due femmine
de' suoi due romanzi deducono tutta la loro essenza drammatica dalla
fatalità di quella legge cui son sottoposte; dal Daudet ha imitato
quella composizione frammentaria del racconto, che conferisce
un'apparenza di varietà alla materia per sè stessa monotona. Infatti la
prima parte, la vita di collegio, ha poco o nulla da fare col resto,
come la vita napolitana non si collega a quella della campagna se non
pe'l filo ideale e invisibile della lotta che, cominciata là, dovrà qui
scoppiare: l'esposizione di Centurano poi, che è affatto superflua, che
non giova se non a crescer la mole del libro e a dar agio a quei due di
trovarsi insieme, è una interpolazione; di più essa è imitata da una
consimile esposizione narrata da Flaubert in _Madame Bovary_, come le
scene del collegio sono un'amplificazione d'un capitolo d'un romanzo di
Vittorio Cherbuliez e, diciamo, un infemminimento della prima parte d'un
vecchio romanzo di Dumas figlio. Così, nella determinazione della lotta
fra quei due si sente l'influenza della rigidezza e dei pregiudizi
sistematici dello Zola, pe'l quale l'umanità si scinde in due individui,
anzi in due temperamenti cozzanti. Ma è inutile proseguire, però che
quanto sinora si è detto basti a mostrare che se alcuno avesse la
pazienza di far l'analisi chimica dei romanzi della signorina Serao,
troverebbe un miscuglio strano di reminiscenze amalgamate insieme nella
papparella d'una prosa qua ciangottante con la più petulante
sguaiataggine del dialetto della borghesia napolitana, là incipriata
d'una polverina francese, altrove lambiccata e stiracchiata e maculata
di strane chiazze di colore.

E ancora: fossero almeno quelle due persone che fanno tutto il substrato
della _Fantasia_ veramente e vivamente e pienamente umane! Ma due più
sconce creature io non le ho vedute mai in nessun romanzo. Del maschio
non è rappresentata che la parte organica: è un uomo forte, sano,
grande, che tira di scherma, che mangia molto, che fabbrica vino. E poi?
È qui tutto? Che cosa quest'uomo ha nel cervello, e che cosa ha
nell'anima? E oltre alle funzioni organiche della locomozione della
nutrizione della riproduzione, costui non ha altro elemento e attività
di vita? Povero diavolo! E come allora può egli entrare per tanta parte
nel dramma? Ove quella donna lo ferisce? Nell'intelletto no, poichè ha
la scatola cerebrale affatto vuota; nell'anima neppure, poichè è un
bruto domestico: dunque nei sensi. Ma in prima quella donna non è tale
da suscitare un qualunque concitamento sensuale; e poi, se il movente
fosse stato tutto libidinoso, il dramma avrebbe dovuto avere un altro
sviluppo, avrebbe dovuto cominciare dal soddisfacimento della passione
afrodisiaca, non terminare con esso, poichè, segnatamente nelle nature
sane, il senso non può aver forza se non momentanea e finchè lo stimolo
è immediato: invece quei due, dormendo l'uno accanto all'altra, andando
insieme pei boschetti solitari, si desiderano chiacchierando e
baciandosi, e non mai quello stupido le alza le gonnelle. Dunque? Dunque
il gran fattore dell'amore è il _deus ex machina_ del romanzo moderno, è
l'ambiente. Eccolo, il gran generoso che accoglie nelle sue immense
braccia tutte le assurdità più balorde, e conferisce loro una sembianza
e un pretesto di verità. Esso ha accolto anche quei due, dei quali l'uno
era nato per far l'agricoltore, e l'altra la comediante quando il
pubblico si fosse stancato delle smorfie della signora Duse, e che in
grazia dell'ambiente fanno una fine così miserabile e così insensata.
Spalancate le nari, e fiutate: non sentite dall'esposizione agricola di
Centurano fluire un odor misto di formaggi e di fiori? Sono i fiori
della _Faute de l'abbé Mouret_ e i formaggi del _Ventre de Paris_ che
accordano nella miscela delle loro emanazioni i temperamenti discordanti
di quei due, e trasformano in un eroe da dramma francese un buon
borghese napolitano che non avrebbe speso cinquecento lire per dormire
una notte con una ballerina. È il padre eterno, Emilio Zola, che viene a
trar d'imbarazzo questa romanzatrice di pochi espedienti.

Quanto alla femmina, essa è uno strano mostro. In principio parrebbe, da
quel suo misticismo e da altri segni esteriori, isterica; poi
l'isterismo svanisce, ed ella ci appare ammalata d'una malattia
indefinibile, mista di nevrosi, di clorosi, e di chi sa mai quante altre
maledizioni. Che malattia sia quella, nessun medico saprebbe dire. Posso
bensì dirlo io, sebbene non abbia mai studiato medicina; e posso dirlo
senza tema di errare, fondando la diagnosi mia sopra uno dei migliori
articoli di giornale che Matilde Serao abbia scritto. Questa malattia si
chiama tabe romantica, e si va transmutando traverso le fasi del
romanticismo. Ai tempi della Staël si chiamava lo _spleen_, era
d'importazione inglese, era la più fastidiosa seccaggine che abbia mai
travagliato il romanzo: era una minor forma del dolore universale, e
prediligeva le passeggiate solitarie al chiaro della luna e i racconti
epistolari. Più tardi, lo _spleen_ scomparve soffocato dalle
convulsioni, le quali si adattavano stranamente alla vivacità e al
movimento delle comedie di Scribe, ed erano per ogni forma d'arte
feconde di espedienti. Poi ci fu un piccolo accesso di tisi, ma dopo la
_Dame aux camélias_ la tubercolosi fu sbandita dal romanzo e dalla
comedia, poichè è una malattia troppo terribile e troppo
scientificamente determinata. Ora ne abbiamo due, la clorosi e la
nevrosi, che si avvicendano e si accoppiano. E a proposito di queste due
malattie non è chi non sappia che esse, giunte nel dominio scientifico,
non sian più dramatizzabili, perchè una clorotica o una nevrotica che
abbia bisogno delle cure del medico non è più atta all'esercizio, non
che dell'amore, di quasi tutta la vita; e quando per conseguenza esse ci
si dimostrano nella vita e nell'arte, in tutta la pallida pompa del loro
malore, agenti di corruzione estetica e morale, si infingono: sono donne
macilente e scarnate dalla tenia, che cercano nella malattia in voga
un'arme di amore; sono femmine impudiche, che ne traggono argomento e
scusa a loro disordini. Così, in tutto il romanticismo, queste false
infermità si son riverberate dall'arte nella vita, e dalla vita son
rifluite nell'arte.

E ci è, in conforto di questa osservazione, una sicurissima prova di
fatto. Flaubert, l'unico romanziere romantico che non abbia poetizzato
le malattie romantiche, che scrivesse anzi il suo miglior romanzo per
mostrare come dai libri quelle malattie si propaghino alla vita, fu
figlio d'un medico che studiò con grandissimo amore tutte le malattie
nervose, e fu egli stesso nevrotico. O romanzatori e poeti comici della
nevrosi, avete voi mai aperto un libro di medicina, e sapete voi che sia
questa nevrosi? Ecco come Maxime Du Camp, il costante amico di Flaubert,
ne racconta la malattia: «Quando io giunsi a Rouen, il padre Flaubert
era accasciato da un'oppressione morale, onde gli si vedevano le tracce
sul volto. Era un misto di umiliazione, di disperazione e quasi di
rassegnazione a fronte d'una maggior forza ch'egli non poteva vincere.
La sua scienza era vana, e il suo amor paterno soffriva per l'impotenza
dell'arte. La malattia sacra, la grande nevrosi, quella che Boerhaave ha
chiamato il terremoto umano, aveva colpito Gustavo. Il povero gigante
sopportava questa sventura con qualche filosofia. Si sforzava al sorriso
e alla celia per chetar l'inquietudine de' suoi; ma quando dimenticava
la pietosa comedia, lasciava ricadere il capo e non ci voleva molto a
capire da quali pensieri fosse tormentato. Nulla mai aveva fatto
preveder questo. Alla sua infanzia linfatica eran succedute
un'adolescenza e una giovinezza sanissima; era d'un vigore e d'una
corporatura che nulla avean potuto dar a temere. Il male fu fulmineo.
Nel mese di ottobre 1843 egli si trovava a Pont-Audemer; suo fratello
Achille andò a riprenderlo. Partirono una sera insieme in un
_cabriolet_, e Gustavo appunto guidava. La notte era scura; nei dintorni
di Bourg-Achard, mentre un carretto passava co' suoi cavalli fragorosi
di sonagliere a sinistra del _cabriolet_ e si scopriva da lontano a
destra il lume d'un'osteria solitaria, Gustavo fu colpito, e cadde. Il
fratello lo salassò immediatamente. Altri assalti nervosi seguirono; ne
ebbe quattro nella quindicina seguente. Il padre Flaubert era fuori di
sè, e però ch'egli fosse della scuola di Broussais, non vedeva rimedio
oltre il salasso, accrescendo così un'eccitazione nervosa che dava a
temere assai. Un giorno ch'egli salassò Gustavo e il sangue non
spicciava dalla vena del braccio, gli fece versar nella mano dell'acqua
tiepida: nello scompiglio non s'avvidero che l'acqua era quasi bollente,
e gli produssero una ustione di secondo grado. Eccesso di pletora,
troppa forza, troppo vigore, disse il padre Flaubert, e proibì
all'ammalato i liquori, il vino, il caffè, i cibi succulenti e il
tabacco. Lo rimpinzavano di valeriana e d'altre diavolerie.

«Egli ingoiava le droghe con rassegnazione, mangiava vivande sciapite,
non fumava più, beveva decotto di foglie d'arancio, e diceva con un
sorriso mite: — Il vino di Sauterne è alquanto più buono. — Aveva preso
dalla biblioteca paterna tutti i libri che trattavano di malattie
nervose e li aveva letti; dopo questa lettura, mi disse in un momento
d'espansione: — Sono perduto. — »

Dopo di che, non io augurerò alle romanzatrici sperimentali la malattia
di Flaubert, — troppo sarei feroce; — auguro bensì loro di imitare
Flaubert nella lettura ch'ei fece dei libri medici, prima di gettare
nell'ospizio dei trovatelli dell'arte delle creature miserabili come
quella infelicissima Lucia Altimare.

Questa Lucia è una discendente di Corinna, è una sorella delle femmine
di Dumas figlio. È ammalata non si sa di che, è bisbetica, è fantastica,
è la solita donna elettrica e fatale, che ci ha rotto fatalmente le
tasche. Alcuni critici fantasiosi hanno voluto vedere in essa una satira
delle sue sorelle. O critici fantasiosi, e dove dunque avete voi
l'intelletto, se non nei piedi? Quella è la solita rana galvanizzata che
si contorce nelle comedie di Dumas, che si dimena sotto i panni della
signora Duse, che fa un balletto osceno in quasi tutti i romanzi
moderni. Dov'è la satira, o che razza di satira è mai questa?

E ora non voglio altro dire, se non che questo romanzo non si può
onestamente considerare come opera d'arte. L'opera d'arte comincia di
là, ove giunge l'ultima perfezione di tutti gli scritti della signorina
Serao: dal rifacimento grossolano. E poichè questa mia asserzione non è
accettabile se non è bene intesa, ricorriamo a un esempio. Il poema di
cavalleria nella sua più perfetta forma non è nato per generazione
spontanea, ma risulta da una lunga evoluzione che si può così in grosso
dividere in tre periodi: primo periodo di gestazione, quando il
materiale epico si raccolse e fu poetato fuori d'Italia; secondo periodo
di elaborazione, quando questo materiale medesimo, passato in Italia, si
dissolvè nell'acido della fantasia popolare e fu italianamente
rimanipolato; terzo periodo di perfezione, quando questi rifacimenti
pervenuti ai nostri grandi poeti furono rianimati dal caldo ed eterno
soffio dell'arte.

Il romanzo moderno in mano della signorina Serao è nel secondo periodo,
poichè appunto ella non altro ci ha dato sinora, se non rifacimenti
empirici e tumultuari di materiale francese. In lei nulla di proprio,
anzi nulla di stabile; ma un ondeggiamento continuo dei criteri e della
forma. Dei criteri si è già detto a bastanza: in quanto alla forma, si
può dire che essa sia come una materia inorganica, come una minestra
fatta di tutti gli avanzi, di un banchetto copioso, nella quale certi
stracci stranamente tinti nuotano in una broda incolore, nella quale
certi pimenti troppo forti tentano invano di saporire la scipitaggine
dell'insieme. La sua lingua poverissima vi si dissolve sotto le mani per
la inesattezza, per la inopportunità, per la miscela dei vocaboli
dialettali italiani francesi. E poi nel tessuto de' suoi libri manca
ogni principio di politura. Nella _Fantasia_ che abbia una certa
finitezza d'arte non ci è che la prima parte, e qualche scena qua e là:
per esempio quella del primo bacio. Tutta l'esposizione agricola non è,
o non pare, che una relazion d'un cronista; tutta la vita di quella
Lucia prima del matrimonio è malamente accennata in una lettera; tutto
il resto, fa rabbia.

E ora, se qualcuno credesse ch'io con queste mie osservazioni
contraddica la propaganda di benevolenza che in favore di questo romanzo
andò facendo quell'amico di lei e mio, s'ingannerebbe. Io sèguito a
reputarlo una bellissima cosa, anzi una cosa miracolosa in ragione delle
cattive speranze che questa donna dava di sè; poichè, per imperfetto,
per arruffato che sia, in confronto delle altre sue cose è stupendo. Ma
quando noi, facendo astrazione dal sesso e dalle consuetudini dello
scrittore, giudichiamo il libro secondo le leggi universali dell'arte,
allora è un altro paio di maniche.

E dire che i critici hanno voluto mettere questo romanzo sopra i
migliori romanzi francesi, i quali, se non altro, hanno il merito
grandissimo dell'autonomia. Oh, i critici! che il diavolo se li porti.


V.

Facciamo ora un pasticcio. Prendiamo alcuni novellatori vari di sesso,
di intendimenti e di ingegno; e mescoliamoli.

E cominciamo da un commendatore.


Io sono uno dei più antichi lettori del Barrili. Ho letto l'_Olmo e
l'Edera_ molti anni addietro, in un giornale illustrato di Milano, in
collegio. Poi, nel collegio medesimo, comprai una volta le _Confessioni
di fra Gualberto_, e furono causa di scandali e di penitenze non poche;
poi lessi, via via, _Val d'olivi_, _Capitan Dodero_ e un altro romanzo,
del quale non rammento più il titolo; ma rammento benissimo tutta quanta
la tela, e ci era tra le altre cose un diavolo, di cui ritrovai il nome
più tardi nella logica aristotelica, ed era Aporema, il sillogismo della
contradizione: parlava mezzo in prosa e mezzo in rima. Più tardi, ho
seguìto il Barrili da _Semiramide_ all'_Undecimo comandamento_, e
sebbene da queste letture non sia escito tutto ardente di entusiasmo,
pure non ho mai ritrovato in quei libri tracce galliche o pappagalliche,
come negli altri. Così, nemmeno negli ultimi due romanzi, pubblicati ad
un tempo in Milano e in Roma, queste tracce appaiono.

In questi due libri ci è tutto quanto il Barrili, ci è tutto quanto il
romantico aperto e schietto, sebbene lievemente corretto dalla pratica
della vita borghese; il romantico che, incapace o aborrente dalla
intuizione immediata della vita, ripara tra le penombre della storia o
tra la nebbia rosata del sentimento. Di più ci è il Barrili dei tempi
migliori, il Barrili di dieci e di venti anni addietro. Non più quel
pervertimento delle facoltà fantastiche che lo trasse alle stranezze del
_Merlo Bianco_, non più quella posa academica e catedratica che lo
condusse alla monotonia fastidiosa del _Biancospino_. Nell'_Anello di
Salomone_ si ritrova quel caldo e simpatico soffio di fantasia storica
che alita per le pagine di _Semiramide_ e di _Tizio Caio Sempronio_.
Nella _Sirena_ son rifiorite tutte quelle gentilezze, tutte quelle
eleganze, tutte quelle finezze del sentimento che fanno di _Val d'olivi_
un piccolo capolavoro romantico.

L'_Anello di Salomone_, come appare dal titolo, volge tutto intorno al
regno e agli amori del re sapiente, ed è il romanzo del Barrili che si
legge più volentieri dopo _Come un sogno_, sebbene la materia sia per
grandissima parte nota, sebbene la favola non sia nè molto artifiziosa
nè molto ingegnosa, sebbene tutta quella gente che si move per le pagine
del racconto sia circonfusa da un velo di nebbia poetica. Questo romanzo
non è propriamente un racconto storico, nel significato romantico della
parola: rassomiglia più tosto ai racconti egiziani di Giorgio Ebers.
Tuttavia in una cosa ne differisce: l'Ebers è, più che altro, un
archeologo e un filologo, che approfitta delle felici disposizioni della
sua fantasia per diffondere tra il popolo gli usi e la vita dell'antico
Egitto: il Barrili invece è un organismo incompiuto di novelliere e di
poeta, che non contento e dispettoso della vita reale, si butta,
coll'aiuto dell'archeologia e della filologia, in piena leggenda
biblica, tra l'opera gloriosa dell'edifizio del Tempio, tra i caldi
amori di Salomone per Abisag Sunamite. Però, io preferisco i romanzi di
Ebers, poichè le facoltà imaginative servono assai meglio questo
archeologo, che l'archeologia e la filologia e l'esegesi biblica non
servano il nostro romanziere. Nell'_Anello di Salomone_, il Delitzsch o
il Justi o il Vigouroux o qualunque altro esegeta moderno molte cose
troverebbe a ridire: per esempio, se il Barrili, invece del testo
comune, avesse preso un moderno testo critico della poesia biblica, il
_Cantico dei cantici_, quale veramente è, spoglio di ogni affezione
afrodisiaca, gli avrebbe senza dubbio consigliato un tipo salomonico più
vicino all'umanità e all'animalità. Ma se ci impantaniamo in questa
discussione, e in altre dispute esegetiche, non ne caveremo più i piedi:
lasciamo dunque in pace l'esegesi, l'archeologia, la filologia; e
passiamo oltre senza osservare che il re Salomone del Barrili, quando
non è mosso dall'attività d'amore, rassomiglia un poco al re Carlone dei
poemi di cavalleria e al re Alboino di _Bertoldo_, seduto eternamente
sopra un trono d'oro che non deve essergli molto soffice, sempre
sguainante al sole il cencio dell'autorità e della dignità regia, ma
buon diavolaccio in fondo, amico delle belle donne e della buona tavola.
Del resto non è una cosa strana, nè il Barrili è il primo che abbia
scritto un romanzo intorno alla vita di Salomone. Salomone, come ha
colpito ora la fantasia del Barrili, colpì la mente del popolo nel medio
evo, e in quel singolare arruffìo di tutte le nozioni umane restò
stampato nella memoria universale, e con Virgilio, con Boezio, con
alcuni imperatori romani, con alcuni capitani e filosofi greci visse
d'una vita nuova ed entrò come fattore principalissimo nella mitologia
medievale. La sua vita, i suoi giudizi, la sua sapienza, i suoi amori
diventarono materia fantastica e poetica, e informarono molta arte di
prosa e di poesia: vi è tutto un poema tedesco intitolato _Salaman und
Markolf_; e da questo, e da altri che intorno a questo e dopo di questo
furono composti e si propagarono da per tutto, nacque la favola di
_Bertoldo_, si fermò il tipo di re Alboino, e forse anche quello di re
Carlone ne ebbe a sopportare l'influenza.

Ma lasciamo questa materia, perchè il romanzo del Barrili non va
considerato con criteri mitologici, o storici, o filologici; il romanzo
del Barrili va preso qual è, come una fortunata intuizione fantastica
del tipo e della vita ebraica nel tempo dello splendore più grande, come
una calda e viva imaginazione orientale, ove si sentono qua e là
scaturire con un'abbondanza singolare i fiotti della poesia biblica e
balenare i lampi del dramma. È un romanzo che cinquant'anni a dietro
avrebbe fatto la fortuna d'uno scrittore; ora, poichè i tempi sono
mutati e l'orbita del racconto non è più quella di una volta, esso ha il
difetto di tutte le cose nate troppo tardi.


E ora, una femmina. —


La marchesa Colombi non ha la maschilità nervosa di Emma, nè la foga
della Serao; è la più tranquilla e la più casalinga di quante donne
scrissero e scrivono in prosa. Di solito nella donna la professione
dello scrivere turba l'equilibrio della vita; nella marchesa Colombi,
no. Per lei l'arte deve essere come un lavoro di ricamo, un passatempo,
o uno sfogo di certi tenui ribollimenti dello spirito; poichè in fondo
alla sua prosa appare sempre la madre di famiglia amica dell'ordine,
amica dell'economia, amica del buon pranzo e del buon fuoco nel
caminetto. M'inganno, marchesa, o le cose stanno proprio così come io
dico? Una volta in Italia si fece un gran vocìo d'ammirazione intorno a
un racconto della marchesa che voleva parere socialista e naturalista, e
che s'intitolava _In risaia_; ma non valeva più degli altri, e la cosa
migliore di quel libro era l'intenzione. Dopo, passato quel
fortunatissimo quarto d'ora, ella si mise a fabbricar racconti per gli
editori di provincia e prosa pei giornali di provincia. La marchesa
Colombi rassomiglia in piccolo a Giulio Claretie, il più fecondo
costruttore di prosa che sia ora in Francia; anche la marchesa, come il
Claretie, per qualunque giornale glie ne chiegga, ha sempre in pronto
della _copie_: non dice di no a nessuno, non si esaurisce mai, non cade
mai tanto giù da non farsi leggere volentieri. Io credo che se ella
vivesse cento anni, come io le auguro, tra romanzi e articoli di
giornale metterebbe insieme la materia di cinquecento volumi; e
sarebbero tutti per valore eguali, nè tanto belli da strappar le grida
dell'ammirazione, nè tanto brutti da meritarsi troppo acerbe censure dai
critici gunaicofagi. Sarebbero tutti come quegli uomini i quali vestono
_correttamente_, ossia non hanno addosso nulla che dia nell'occhio, nè
una cravatta troppo vistosa, nè una macchia d'olio sulla falda del
vestito. Anche il _Tramonto d'un ideale_ è un libro del quale non si può
dir male, quantunque neppure se ne possa dir bene: è una storiella
semplice, ove la marchesa ha voluto accostarsi alle temerità
sperimentali non senza rammentarsi delle sane e prudenti consuetudini
degli ultimi manzoniani; ha voluto ogni tanto toccare in fretta i
fianchi gladiatorii dello Zola, senza però dimenticare che Salvatore
Farina le tien gli occhi addosso. Così, essendosi forse proposto in
principio di fare uno studio serio e analitico della vita campestre, ha
finito col rimpastare una delle solite storielle che paiono un paesaggio
della Brianza dipinto sopra un piatto di porcellana. Però, le ragazze
potranno leggerlo, nelle vacanze, senza danno; e forse anche lo
leggeranno volentieri, perchè, come tutti gli altri della marchesa, è
_correct_.

Non tanto, bensì, che qualche sbrendolo rosso non appaia qua e là e che
qua e là lo stile non sia macchiato d'olio. Ecco, per esempio, alcune
macchie delle prime pagine: «E si finiva _a_ stappare una bottiglia»
(pag. 5); «quel nodino (della cravatta) ballonzolava allegramente, come
se fosse una parte di lui, vivamente interessata alla sua ilarità» (pag.
6); «_vestitura_, per vestito, due volte» (pag. 6 e 40); «la vedovanza
sarebbe un valore» (pag. 7); «le serve continuavano a mutarsi» (pag.
11); «_cucinature_» (pag. 16); «e sfibbiando il vestito _che mise a
nudo_ il suo petto» (pag. 19); «ed andò a coricarsi col suo male» (pag.
20); «ferito nel suo cuore di padre _al riconoscere_ che Giovanni pareva
mortificato» (pag. 40); «dopo averla veduta lei muoversi» (pag. 49);
«una bella collaretta, bianca increspata» (pag. 51). Ma tutte queste
macchioline sono inezie, in confronto di questa. Sentite che cosa pensi
la marchesa del Manzoni e del _purismo_:

«Avviò colla sua vicina un discorso sulla letteratura; ed essendo
_classico, purista_ e _puritano_, sparlò dei novatori, e fece un lungo
elogio dei _Promessi Sposi_.»

Il Manzoni classico, il Manzoni autore dell'_Adelchi_? Il Manzoni
purista, il Manzoni che scrisse i _Promessi Sposi_? Il Manzoni puritano,
il Manzoni degl'_Inni sacri_ e della _Morale cattolica_? Ah! questi poi
sono... Come si potrebbe dire, per serbarsi cortesi con una marchesa?


Ultimo, un orso. Udite:


«Darò qualche esempio, che dimostri, come le parentesi aggravano il
matrimonio, in quel modo, appunto, che rendon pesante lo stile. Fra
mille, ch'io ne so, scelgo le avventure di due sorelle Napolitane:
l'Almerinda e la Berenice Scielzo. Nel MDCCCLXV, la seconda era moglie,
da poco più di due anni. La prima, invece, si avvicinava alla trentina;
aveva, da un pezzo, per marito, il commendatore don Liborio Ruglia,
consigliere di cassazione; e, da diciotto mesi, per amante, il cavalier
Maurizio della Morte, capitano di cavalleria nel Regio Esercito.»

Così Vittorio Imbriani attacca la sua novella _Dio ne scampi dagli
Orsenigo_, pubblicata in questi ultimi giorni, della quale io amerei
meglio tacere, per non mi dare della zappa sui piedi. In fatti, in
questo libro io ho predicato con tutte le forze de' miei polmoni e ho
inveito e ho bestemmiato contro le consuetudini empiriche e contro
l'ignoranza dei nostri raccontatori; ho gridato forte più volte, sino
alla piena sazietà dei lettori, che la novella nostra ha bisogno di
rientrare nel campo della coltura letteraria scientifica e storica
disertato dopo il Manzoni e il Guerrazzi; che i romanzieri moderni
debbono specchiarsi nei novellatori antichi e attingere alle fonti
boccaccesche molta pura e fresca linfa italiana per lavarsi dalla melma
francese; che, fino a che i nostri scrittori di prosa narrativa non
escano dalla cerchia angusta e soffocante dello stile zoliano e non
imparino la lingua italiana, vedranno tutte le opere del loro intelletto
morire miseramente per le scrofole e per la tigna.

Ora dovrei io intonare il canto della vittoria e portare in trionfo
sopra lo scudo questa novella di Vittorio Imbriani, la quale non
contraddice a nessuno de' miei criteri novellistici; ma veramente è una
cosa originale ove il sapore e il colore italiano si sentono dalle prime
parole, ove ad ogni momento si sente l'artista conscio di sè e padrone
di sè, si sente, in nome di Dio, l'uomo che si propone uno scopo, e per
virtù dell'ingegno lo consegue. Tuttavia, come dicevo sopra, questo
racconto mi dà la zappa sui piedi, poichè, con tutti i suoi meriti
grandi, è un cattivo racconto, e non tanto leggendolo si perde la fede
nelle facoltà narratorie di Vittorio Imbriani, quanto nel metodo
narrativo che a me pare il migliore. Io dunque, leggendo, da prima
dubitavo di aver preso un granchio grossolano rimproverando tanta brava
gente d'una santa ignoranza; poi, pianamente, ho veduto che il granchio
lo ha preso Vittorio Imbriani.

Egli, infatti, sta fuori del movimento narrativo odierno, e questo suo
racconto è più una opera subbiettiva scritta a sfogo d'un desiderio
egoistico di diletto, che un romanzo moderno, nel significato usurpato
da questo vocabolo dopo Balzac; e non è nemmeno una novella scritta
solamente per distrazione o per passatempo della gente. È, nè più nè
meno, come quasi tutte le cose di Vittorio Imbriani, una storiella
scritta per dispetto. Di chi, non saprei dire; forse appunto della
sciatteria universale, forse anche del malumore che contro di lui cova
in molti luoghi. Certo il dispetto traspare ad ogni pagina,
dall'affettazione d'uno stile mezzo popolare mezzo cortigiano, d'una
lingua tra di ciompo moderno e di scrittore cinquecentista, d'una
ortografia così faticosa che move al singhiozzo; traspare dalla mancanza
quasi assoluta e voluta, e voluta mostrare, del dramma; appare, più
chiaramente, da quel continuo infischiarsene del pubblico e del
racconto, dal principio alla conclusione, che è questa: «Della sorella
dell'Almerinda, Berenice, e di quel che le avvenne, osservandissimi
lettori e lettrici, narrerò — un'altra volta, con comodo,
quandochessia.»

Ora questo peccato di esagerazione, e di affettazione, non è nuovo in
Vittorio Imbriani; e tutti sanno a quali stranezze lo abbia tratto la
sua irragionevole manìa di opposizione. Irragionevole, intendiamoci,
nella misura e nel modo dell'esplosione, perchè il motivo è quasi sempre
giusto. Le facoltà mentali di Vittorio Imbriani non sono bene
equilibrate, e non si affaticano tutte insieme con una attività concorde
e costante a uno scopo unico; ma son come una scolaresca in vacanza, che
va galoppando pei cortili del ginnasio senza governo, e si gitta or qua
or là, con altissime grida, e con la violenza d'uno stuolo di cani alla
caccia. E proprio l'intelletto dell'Imbriani non è mai giunto a
maturità, ed ha tutte le ardenze incomposte e tutti gl'impeti
inconsiderati e tutte le esuberanze della gioventù: col crescere degli
anni, col crescere della coltura, è rimasto sempre il medesimo, senza
potere o volere ascendere mai a quella serena e sublime sfera della
sofrosune della moderazione, ove lo spirito umano si libera da tutte le
affezioni e da tutte le intemperanze. Egli fa come i giovinetti che
sentono il primo afflato del dio, e tentano sè stessi; e prima si
gittano a corpo perduto nella poesia, poichè oltre di questa non veggono
il porto della salute; poi, in un momento, la piantano in asso, e si
abbandonano con le braccia aperte alle tempeste del dramma; onde fuggono
sfiduciati o nauseati, per provare altra via; e finalmente si
ritraggono, dopo molto consumo di fuoco, al luogo primo onde mossero,
per vedere dall'alto, diradate le nebbie delle illusioni prime, che cosa
sia da fare.

L'Imbriani ha voluto fare della critica d'erudizione, e ci si è messo
con una frenesìa ardente e con un maraviglioso impeto di pazienza
ricercatrice, e si è perduto in quisquilie di poco momento; ha voluto
fare della lirica, e si è buttato alle braccia di Polinnia con tanta
foga di passione, che è miracolo se non l'ha strozzata col suo inno al
canape; ha voluto novellare, ed è giunto a tali eccessi di contradizione
al gusto e alle abitudini moderne, che la lettura del suo racconto, ove
l'ingegno per l'ardore soverchio pare sfavilli ad ogni pagina, è appena
sopportabile.


VI.

Ci è due motori di ascensione su da la volgarità comune: o il sentimento
universale che sospinge all'alto il più forte, o il sentimento proprio,
una solitaria necessità di astrazione, che trae l'uomo fuori della
folla. Nel primo caso, quasi sempre, si hanno gli onori del trionfo; nel
secondo, assai spesso, si è puniti d'infamia. E così nel primo come nel
secondo caso non a torto, sebbene e l'uno e l'altro siano due
esplicazioni dell'attività umana; poichè gli uomini nello sviluppo e
nella perfezione della vita vogliono avere tutti quanti la parte loro,
vogliono tutti spiegare una concordia di energie motrici; e repugnano
per istinto dagli sforzi singolari, non coerenti e spesso anche non
utili al desiderio comune. Ecco perchè il popolo ha deificato Gesù
nazareno, e dopo un anno ha dimenticato David Lazzaretti.

Così in tutti i campi ove la lotta della vita affatica le creature
umane: così anche nei campi dell'arte, ove la battaglia è più evidente,
poichè si combatte sopra un palco in conspetto di tutti; ove il giudizio
è immediato, poichè gli spettatori stanno intenti allo spettacolo. Per
questo, Gian Giorgio Trissino, uno degli italiani che più sono stati
tormentati da smanie innovatrici, vedendo tutta l'opera della sua vita
miseramente morire soffocata nel trionfo del romanzo di cavalleria,
maledisse a sè medesimo e a quelle smanie sue. Ma forse nella sconfitta
del Trissino entrò anche per gran parte una certa stopposità e
pesantezza d'ingegno: cerchiamo dunque un esempio più vicino a noi, e
più persuasivo.

Carlo Dossi.

È difficile che alcuno del poco numero delle persone che leggono in
Italia non abbia udito rammentare con grandissime lodi o con un
permaloso e dispettoso arricciamento del naso questo nome; ma più
difficile ancora è che abbia letto qualche scritto di Carlo Dossi; e
pure il Dossi da quasi dieci anni scrive e scrive, e le cose sue sono
stampate e ristampate sino ad oggi, e sempre i fogli, letterari o no, ne
dànno notizia al pubblico. Or come accade che tutta l'opera di questo
novelliere resti pertinacemente estranea al rimescolamento evolutivo, e,
confessiamolo volentieri, progressivo dello spirito italiano? E, sopra
tutto, questa tenace astrazione che il popolo italiano fa dall'opera del
novellatore, è ingiusta? Sono due questioni che meritano una qualche
considerazione accurata, non tanto pe'l fatto particolare, quanto per la
categoria di fatti onde son parte. L'organismo della vita spirituale di
un popolo, quando l'arte non è più una libera e necessaria emanazione
del suo genio ma una produzione artificiale per diletto estetico o per
mezzo di educazione, rassomiglia assai a un gran congegno meccanico; e
se non si dirugginiscono e non si ungono tutte le ruote, molta parte
dell'energia e del lavoro si disperdono vanamente. Vediamo dunque di
ungere qualche ruota, poichè il caso di Carlo Dossi non è tanto
singolare quanto si può credere a bella prima; ma da molti anni in qua
ci è in Italia un grandissimo sperpero di forze, però che il senso
dell'opportunità sia per molta parte smarrito.

Innanzi tutto dichiariamo francamente che a Carlo Dossi non mancano nè
l'ingegno, nè la coltura, nè le altre facoltà dello spirito che
concorrono a constituire un grande scrittore. Pochi, come lui, hanno
l'intuizione profonda, sicura, larga, della vita; pochi, come lui, sono
abili a battere sull'incudine questo metallo della lingua italiana che,
non saprei se per manco o per eccesso di duttilità, pare da qualche
tempo così poco malleabile. Pochissimi, come lui, sanno guidare le
facoltà naturali della mente e correggere la formazione e la espressione
dei fantasmi, secondo l'architettura dell'arte. Quale cosa dunque gli
manca, e quale straordinario ostacolo si leva tra lui e il popolo?
Perchè tra questo artista, che pure ha tanta forza, e la gente, che pure
ha bisogno di accentrarsi come per aiuto intorno a qualche forte, non si
apre quella corrente di comunione simpatica che è la più salda leva del
lavoro meccanico dello spirito? E, sopra tutto, la colpa è del pubblico,
o dell'artista?

A me pare che la colpa sia di Carlo Dossi.

Egli fa parte d'una categoria di uomini e di scrittori, che io direi la
categoria dell'umiltà selvatica. Non è un selvaggio violento come Byron,
come Shelley, come il Carducci: è timido, è vergognoso quasi della sua
selvatichezza; e non gli basta l'animo di levarsi in mezzo alla gente,
audacemente, e di chiamare tutta la gente a battaglia. No: egli ha paura
quasi di farsi vedere tra la folla; ha paura che quelle sue novità
insolite suscitino il riso della moltitudine; ha anche quello spavento
inconscio e innato, che è naturale appunto a certi selvaggi di animo
mite e ai bambini. Chi sa? Forse il romore lo atterrisce, forse la vista
del pubblico lo sgomenta, forse il pensiero della battaglia gli è
insopportabile. E se ne sta in disparte, sempre più inselvatichendo,
sempre più chiudendosi nel suo guscio, sempre più levando, tra la sua
persona e l'opera sua e il pubblico, ostacoli. Non è vero che egli
scriva una lingua fantastica, come qualcuno ha gratuitamente asserito:
la prosa del Dossi, da qualche idiotismo lombardo e qualche latinismo in
fuori, è delle più pure che si siano scritte in Italia dopo il
Guerrazzi, e il suo stile, per efficacia nervosa e muscolosa, può
competere appunto con lo stile del Guerrazzi; nè l'ortografia sua, che
fa paura a tanta gente, è una cosa strana, poichè non è il primo lui che
abbia scritto l'italiano accentuando le sdrucciole; nè il contenuto de'
suoi racconti è pazzo, come molti credono, poichè il Dossi, l'ho già
detto, è un acuto e profondo intuitore. No: non sono queste bazzecole
che proibiscono a Carlo Dossi le porte di quel tempio della fama che
sono spalancate a tanti minori di lui. La causa sta tutta in quella sua
naturale e indomabile timidezza selvatica.

La prima cosa ch'egli pubblicò credo fosse quella _Colonia felice_, che
è pur sempre rimasta la miglior sua cosa. È, come l'autore confessa dal
frontespizio appunto del suo libro, una utopia lirica. Una utopia alla
Rousseau, che è in contraddizione aperta coi resultamenti e coi
postulati ultimi della scienza.

L'utopia appare nel primo principio, ove un principe filantropico e
filosofico, un Marco Aurelio platonizzato e imbevuto delle dottrine
enciclopediche, manda una trentina di deportati d'ambo i sessi a vivere
in libertà assoluta in un'isola deserta. Il primo atto di questa nuova
vita è la guerra: per la partizione della proprietà, e per la
supremazia. Un uomo forte e un uomo furbo si contendono il comando; e,
ognuno co' suoi seguaci, si battono. Prevale la volpe, e il leone con
quelli che gli restano fedeli si rifugia nel bosco. Ivi, da una sua
baldracca, gli nasce una figlia; e quindi, il primo bisogno umano, la
casa e la famiglia, lo sospinge per desiderio di pace verso il nemico.
Lo trova oppresso da discordie intestine; e desideroso di tregua. Si
accordano dunque, e si constituisce una comunità retta dal leone e dalla
volpe, aggruppata in famiglia, corretta da un embrione di codice penale.
Così, col crescere delle famiglie, la necessità del lavoro e la
consuetudine del lavoro sviluppano a grado a grado i sentimenti e le
consuetudini e gl'istinti umani, e vanno con un progresso evidente
cancellando le macchie da quelle conscienze. Così, dopo la famiglia, la
religione; finalmente, la patria.

Questa è la matassa della _Colonia felice_, non nuova, come ognun vede,
poichè se ne ritrovano gli elementi in moltissime opere d'arte di ogni
altezza e di ogni specie, dalla _Tempesta_ di Shakspeare al _Robinson
Crusoè_ di Daniele de Foe; ma tale in ogni modo da promettere in chi
sapeva sgomitolarla a vent'anni un fortissimo romanziere all'Italia.
Certo, i difetti son molti e gravi: e, prima di tutto, la tesi romantica
e derivata nella sua essenza morale dalle dottrine di Rousseau è
contradetta, come osserva l'autore ristampandola per la quarta volta,
dalle più sicure ricerche della psichiatria; poi, essa è tutta penetrata
e ulcerata di romanticismo, e quei deportati che vi si movono per entro,
se bene modellati con tratti sovente scultorii, hanno tutti quanti del
sangue di Emilio e di Eloisa nelle vene; e negli atti, e nelle parole, e
persino nei nomi sono fuori d'ogni apparenza di verità. Ancora: la
lingua, l'ho detto, a malgrado di certi meneghinismi e certi latinismi e
certe stramberie subbiettive, è, contro ogni consuetudine lombarda,
schiettamente italiana; e lo stile spesso d'un'efficacia grandissima,
per lo spoglio di tutte le frasche inutili. Ma è la lingua quella, ma è
quello lo stile più confacente al racconto? Ma il latinismo nella prosa
narrativa non è un elemento repugnante peggio della sgrammaticatura; e
quella concisione tra tacitiana e spartana come si piega essa alle
necessità della novella, che nacque tra gli avvolgimenti voluttuosi e
l'ampio drappeggiamento della prosa boccaccesca? Poteva esser questo,
come l'autore confessa nella _diffida_ preliminare, un eccesso
giovanile; ma furono appunto questi eccessi e questi errori, che fecero
considerare la _Colonia felice_, non come un risultamento positivo di
molte buone forze intellettive, ma solamente come una certa promessa.

Or come fu tenuta la promessa?

Ecco. Nel Dossi, subito dopo quella prima prova, la salvatichezza
naturale prevalse. E non si lanciò egli arditamente in mezzo ai nemici
che in Milano segnatamente non gli mancarono, sforzandosi d'imporre
certi suoi criteri e la superiorità della sua mente, concedendo qualcosa
per guadagnar molto. Egli si rinserrò nel suo timido egoismo e
nell'amicizia di pochissimi entusiasti; e invece di erompere all'aperto,
ove le forze dell'intelletto si maturano e si sviluppano, si ritrasse in
sè medesimo, o per paura, o per dispetto. A lui mancò dunque quella
violenta evoluzione fuori del proprio io, che dopo le prime prove
sospinge l'artista sulla via della maturità piena. Dopo aver filato con
molta maestria il suo bozzolo, non potè o non volle forarlo, e vi restò
dentro prigione. La sua mente si cristallizzò in certi piccoli criteri,
in certe utopie scolastiche, che diventavano monomanie. La questione
dell'accento, questione bizantina nella quale, dal Trissino in poi,
molti italiani dettero vanamente del capo, e alla quale Carlo Cattaneo
non potè addurre altro pretesto se non la comodità degli stranieri,
diventò per lui una legge inflessibile; certe strutture o dure o
artificiose del periodo e la libidine dell'imagine per causa di brevità
propagataglisi dagli scrittori della latinità decadente, crebbero in
malattie constituzionali e incurabili. Finalmente, il romanticismo gli
restò abbarbicato nella midolla. Così le opere sue, dopo quella _Colonia
felice_, non vanno considerate se non come sfogo d'un intelletto
fortissimo, se non come appagamento d'un desiderio egoistico e solitario
di arte. Non ci è, se non forse in embrione nella _Desinenza in a_,
quella larghezza di concepimento con cui fu pensata la _Colonia felice_;
non ci è una sola via di comunione con lo spirito e col sentimento del
popolo. Sono esercitazioni di composizione e di stile che a qualche
lettore di gusto squisito e non pauroso di quel fuoco d'artifizio
d'accenti possono qualche volta parere anche meravigliose, ma che il
popolo a ragione respinge da sè tenacemente, non ostante le molte
edizioni che di questi libri seguitano a fare.

E infatti: nello sviluppo complessivo di tutte le forme dell'arte
narrativa, quale posto spetta ai racconti di Carlo Dossi? Sono, per gran
parte, cose romantiche, ma non proseguono nessuna delle varie ultime
evoluzioni della novella romantica: più tosto si ricongiungono a quel
periodo del romanticismo che io chiamerei proto-romantico, al
romanticismo di Rousseau, senza la larghezza filosofica del ginevrino, e
a quello del Richter, senza la profondità umoristica del figlio del
Pastore-organista di Wonsiedel, con qualche incrostazione di
romanticismo socialista.

È naturale quindi, ed è giusto, che intorno al Dossi sia sempre eretta
una barriera che lo separa dal pubblico. Il pubblico del secolo
decimonono ha una grande necessità di romanzi, e una grande predilezione
al romanzo, e una grande massa di materia romanzabile. Questo buon
pubblico, che si è regalato l'immenso capriccio del romanticismo e ha
voluto veder risuscitato per la virtù magica dell'arte il medio evo e si
è ubriacato del liquore anodino della sentimentalità effervescente pe'l
pimento della fantasia, è stato in fine preso da una voglia brutale.
Esso vuol vedere ora sè stesso riflesso con tutti i palpiti e tutti i
movimenti della vita come in un grande specchio. Questo matto pubblico
si è appassionato per l'anatomia; e volentieri si distende sul marmo,
perchè il romanziere incida, poi cacci le mani nella spaccatura, e apra;
e mostri le viscere, e mostri la tessitura dei muscoli, e scopra i
nervi; e faccia vedere a tutta la gente l'artifizio della macchina
umana, come un bamboletto che squarti un fantoccio di cartapesta. E il
romanziere non può starsene in disparte, e costruire faticosamente
piccole teoriche d'arte e di stile. Egli deve aggirarsi per entro alla
folla, e compenetrarsi del sentimento che la move, e accumulare da essa
il materiale.

Se no, si rassegni alla mala fortuna. Nè la pena è ingiusta; e io
stesso, che ho una grandissima ammirazione per l'ingegno e per la
coltura di Carlo Dossi, che lo propongo come esempio di serietà di
propositi e di fanatico amore per l'arte ai molti faccendieri della
moderna novellistica italiana, io stesso, se si proponesse per lui
l'ostracismo dalla presente attività del romanzo, voterei per
l'ostracismo.

Gli è che i romiti e gli stiliti e tutti, in genere, i mistici solitari,
fanno un sacrifizio sterile così nella religione come nell'arte.


VII.

L'ottavo capitolo del _Karma Çataca_, un poema indiano poco letto dai
romanzatori occidentali, è intitolato _Padma_, il loto; poichè il
protagonista è appunto un loto. Comincia così:

«Era a Cràvastî, sotto il regno di Prasenajit. Un giorno egli venne per
vedere Bhagavat e, dopo un'offerta di parasoli di polveri di profumi e
di fiori, s'assise di rimpetto a lui per udire la legge.

«In questo tempo un loto nacque fuori stagione nello stagno dei loti di
un campo coltivato da un giardiniere, il quale fece questo pensiero: —
Un giorno il re Prasenajit ha, per tre volte, offerto al Çramana Gautama
dei parasoli delle polveri dei profumi dei fiori, per onoranza; io gli
debbo offrire questo loto. —

«Fatta questa riflessione, prese il loto e si avviò a Cràvastî. In
questa un fedele di Nârâyana era intento a fare offerte a tutti gli
esseri soprannaturali. Vide venire quest'uomo portante un loto così
bello, nato fuori stagione, e gli disse:

— Ehi! cedimi questo loto: lo voglio offrire al buon Nârâyana: te ne do
cinquecento _kârsâpanas_.

«Nello stesso tempo passava il maestro di casa Anâthapindada che andava
con una compagnia di cinquecento servi a veder Bhagavat. Il maestro di
casa udì il romore delle parole di quell'uomo, che gli fecero fare
questo pensiero: — Ecco un uomo che segue un falso insegnamento, e offre
un sì gran prezzo per un dono a Nârâyana! Perchè non offrirei io un
prezzo abbastanza cospicuo da comperare (il loto) e farne un dono a
Bhagavat? — Disse dunque al giardiniere:

— Ti do mille _kârsâpanas_: dammi il loto.

«Queste parole aizzarono l'amor proprio del fedele di Nârâyana, che
promise di darne duemila; e, così, questi due uomini giunsero a
profferire, rincarando, la somma di centomila _kârsâpanas_. Allora disse
fra sè il giardiniere:

— Un maestro di casa come Anâthapindada è giunto, in causa d'un sol
uomo, a centomila _kârsâpanas_: questo Bixu Gautama dev'essere un gran
personaggio di certo. Perchè non andrò ad offrire io stesso (il loto) a
Bhagavat?

«Fatte queste riflessioni, il giardiniere disse al maestro di casa
Anâthapindada:

— Maestro di casa, io non so che farmi di tante ricchezze; vado io
stesso a far la offerta a questo Bhagavat. —

«E, preso il loto, andò a Jetavana.

«Il giardiniere scorse di lontano il felice Buddha ornato di trentadue
segni, ecc....; questo spettacolo gli suscitò una letizia violenta.
Pieno di gaudio, andò al luogo ov'era Bhagavat, adorò col capo i piedi
di Bhagavat, e gittò (il loto) sopra di lui in segno di offerta. Per la
potenza di Bhagavat questo loto si transmutò in ruota di carro che
camminava quando Bhagavat camminava, si fermava quando Bhagavat si
fermava.

«Alla vista di questo miracolo anche più s'allegrò, in causa di
Bhagavat; e fece un voto per la Bodhi perfetta e intiera, sopra la quale
non è nulla:

— Oh! disse — Per questa radice di virtù possa io diventare in questo
mondo cieco, senza guida e senza maestro, un Tathâgata, Arhat, un
perfetto e intiero Buddha, dotato di scienza e di guida, conoscente il
mondo, buon cocchiere, dottore degli Dei e degli uomini, un felice
Buddha. —

«Bhagavat rispose al giardiniere:

— Amico, sta bene, sta bene! Nell'avvenire tu sarai in mezzo al mondo
cieco, senza guida e senza maestro, un Tathâgata, Arhat, ecc..., il
felice Buddha Padmottama. —

«Tale fu la sua dichiarazione.»

Così, tradotto con più di fedeltà che di eleganza, il testo indiano. Ora
domando io: perchè non è concesso ai paria del nostro insegnamento quel
che si concedeva ai paria dell'India antica? Perchè non possono anche
quelli, come potevano questi, presentarsi candidati alla Bodhi perfetta
e intiera d'un posto in ginnasio? Perchè non possono questi miseri
insegnanti, quando per miracolo un loto, o un lampo di intelligenza,
nasce nello stagno della loro mente, offrirlo al felice Buddha che
governa l'instruzione pubblica? Il giardiniere del poema indiano potè
resistere alle tentazioni, e conquistarsi col suo loto la felicità della
Bodhi. Ma quando in Italia un maestro elementare ha la sventura di non
essere pienamente e placidamente un asino e un cretino, e scrive un
libro, chi gli consente di offerirlo a Bhagavat? Chi gli concede di
accostarsi al ministro? I maestri di casa e i fedeli di Nârâyana stanno
appostati in folla nella piazza della Minerva, e proibiscono l'ingresso
al Ministero. Per questo da Cerignola un maestro elementare mi stende
con ambe le mani un suo libro di novelle, supplicando di leggerlo,
invocando aiuto per ascendere alla sublime sfera della Bodhi ginnasiale.
Or che gli posso fare io? Io non sono nè il maestro di casa
Anâthapindada, nè il fedele di Nârâyana; e sono io stesso tanto lontano
dalla Bodhi, quanto il maestro di Cerignola. Una cosa sola io posso
fare: sfogliare il loto di questo giardiniere dell'infanzia in conspetto
del mondo, e citare dinanzi al giudizio degli uomini i numi della
Minerva, che si scolpino dall'accusa di non voler prendere in esame e in
considerazione i libri dei maestri elementari.

Il maestro di Cerignola si chiama Michele Siniscalchi, e i suoi
raccontini portano il titolo complessivo di _Tentativi_; e — dice
l'autore e veramente è così — non per falsa modestia. Sono in fatti
proprio dei tentativi, dai quali appare chiaramente una grandissima
attitudine a novellare, congiunta con molta vivacità e facilità
d'ingegno, con una sicura cognizione della lingua italiana, con una
acuta intuizione della vita campestre. La vita cittadina il povero
maestro di Cerignola non la può sapere: egli l'ha vista da lontano e
fuggevolmente facendo il soldato, e più con la fantasia che con gli
occhi: così la descrizione d'una cantante nel suo camerino ch'egli
timidamente tenta è senza dubbio una di quelle fantasticherie che
popolano lo spirito di alcuni soldati meno bestiali in certe ore di
riposo, quando nello sciogliersi del corpo dalla stanchezza nascono o
rinascono i desidèri. E tutte, in genere, le storielle cittadine del
signor Siniscalchi sono così: hanno l'aria di quelle frottole che gli
studenti raccontano dopo l'esame nella farmacia del villaggio nativo.
Però non tutte. Una a pagina 47, intitolata _Monte Calvario_, è un
piccolo capolavoro di verità semplice ed evidente: è un'inezia, un
ricordo d'una mezz'ora di vita militare, a Messina, di rimpetto al
carcere femminile, e non si può leggere senza pena. Ma i tentativi più
felici sono i bozzetti pugliesi. Il maestro di Cerignola partecipa anche
lui al gran movimento campagnolo che si va manifestando nella nostra
produzione novellistica; e, per la felicità di certe pitture, per
l'efficacia di certe osservazioni, per la vitalità di certe pagine, io
non esito a collocarlo tra i capi della _Land-league_ italiana.
Giudicate:

«In quella comparve il padrone, un giovane di trent'anni, grosso, obeso,
panciuto, di un'apparenza ignobile e ributtante, col viso imberbe, rosso
e butterato. Gaetano, appena lo vide, divenne livido in volto e mandò
scintille dagli occhi.

— Canaglia — gridò il signorotto bestemmiando — non fate altro che
dormire, che vi pigli un accidente! E questo marmocchio cos'ha che
strilla in tal modo? Non avete da mangiare e siete sempre ammorbati di
piscialetti, siete sempre dietro alle vostre donnacce. Portatele a noi
le vostre donne...

«A queste parole, Gaetano, che già si frenava a stento, strinse
nervosamente la falce, e fece l'atto di slanciarsi contro di lui; ma il
compagno che capì la sua intenzione gli afferrò il polso in una stretta
di ferro, susurrandogli:

« — Non è tempo ora!

«Il padrone intanto si allontanava tranquillamente, dimenando le anche
da bue, senza pensare che c'era mancato un pelo perchè la sua testa
rotolasse per terra.»

E ditemi se molti dei novellieri italiani che vanno per la maggiore non
avrebbero da imparare da questo maestro elementare. Il quale partecipa
anche a molti vizi comuni. Egli non si è potuto liberare in tutto dalle
reminiscenza dell'Arcadia; e per lui, come per parecchi altri
raccontatori di vita rurale, ancora l'ecloga di Titiro fluisce tra gli
ondeggiamenti dei salici, ancora i pastorelli del Sannazaro ballano
vestiti di velluto chermisino tenendosi per mano in tondo e cantando una
cantilena polita, ancora l'abatino sotto le vesti di pastore arcadico
aspetta con una fistola di cartone dorato alla fontana dell'acqua marcia
la nipote di Monsignore acconciata da ciociaretta, con un vincastro
piccolino in mano, e gli occhiettini di malachite ridenti malignamente
di lascivia agreste e verginale.

Anch'egli crede al sentimento o al senso dell'amore nei contadini, e ne
fa una delle molle della sua arte narrativa. Anch'egli, come tutti gli
altri, ha preso questo abbaglio. Ma no, ma no, ma no: nella popolazione
agricola il bisogno d'amore non è nè allo stato di sentimento e nè pure
a quello di sensualità: nelle campagne il grande ardore solare, e
l'immane peso del lavoro, e il perpetuo assillo della fame spengono o
attutiscono il senso dell'amore: nelle campagne l'amore ha due forme
sole, due stimoli soli, due soli scopi finali, l'istinto sessuale
dell'accoppiamento e la necessità della generazione per aiuto al lavoro.
Ma poichè questo peccato è comune, perchè rimproverarlo al signor
Siniscalchi?

Perchè non dire piuttosto gli altri suoi meriti? Dei quali potrei fare
una litania lunga, se avessi anch'io l'anima inzuccherata d'ottimismo
come Enrico Nencioni, il quale in un suo recente articolo levava sulle
più alte cime della gloria il De Amicis, e lo collocava più su del
Manzoni, accanto al Tommasèo, per la proprietà della lingua, senza
pensare che molti altri italiani, come il maestro elementare
Siniscalchi, scrivono non meno propriamente del De Amicis, senza per
questo avere uno stile tutto a piccole proposizioni allineate in fila
come una compagnia di bersaglieri, o come salcicce in un budello. Ma io
sono pessimista; e non andrò ricercando nei tentativi del signor
Siniscalchi gli appigli alla lode. Questi raccontini sono d'altra parte
troppo brevi, troppo frammentarii, troppo esigui per poterli considerare
altrimenti che come indizi sicuri di una felicissima propensione
all'arte del novellare; e non già una propensione iniziale e tuttavia
rozza o incerta, ma già matura e già pronta, e già capace di molto
maggiori frutti. Si vede in essi l'uomo che è impacciato e avvilito e
spaventato dalla sua condizione di maestro elementare, che non osa di
avventurare il suo forte ingegno a più alte prove, perchè non sa ancora
egli stesso, nè sanno gli altri, se a un maestro elementare sia lecito
di scrivere e di stampar novelle.

Non ridano i lettori, poichè pur troppo la condizione dei maestri
elementari in Italia è tale, da far rabbrividire chiunque abbia viscere
umane. Sono uomini o sono bruti? Chi sa? Ne ho conosciuto uno in
Abruzzo, ai confini dello Stato romano, che da tre anni non aveva avuto
un soldo dal comune, e campava d'elemosina, dormendo in un canile,
mangiando patate, insegnando l'abbicì e gli elementi dell'abaco a un
branco di piccole bestie selvagge, mezzo cani e mezzo porci, che gli
lanciavano i torsi di cavolo e gli rinfacciavano quelle poche patate. Ci
è una mia bella e buona amica che va in visibilio d'ammirazione dinanzi
a don Chisciotte, e pensa con un vivo entusiasmo d'amore a quel povero
erede dell'ultimo anelito medievale, cavalcante senza pietà e senza
speranza tra il crescere della platealità moderna. E via, o mia bella
amica! E i maestri elementari, que' primi e più utili seminatori della
scienza, costretti tra la più bestiale classe umana, più abietti, più
affamati, più disperati dei contadini?

Io non sono una creatura sentimentale, tutt'altro; e ho letto con un
acuto senso di piacere le invettive che un novelliere pornografico e
infame nella posterità, Restif de la Bretonne, scagliò contro il
sentimentalismo rivoluzionario e romantico di Diderot per le caste
indiane. Io credo con Restif che le caste siano necessarie
all'equilibrio umano, che nella lotta per la vita ci abbiano a essere i
vincitori e gli sconfitti, i forti e i deboli, che una parte
dell'umanità debba soffrire a benefizio dell'altra, che i contadini
siano nel loro diritto sovrapponendosi con la forza del numero e della
maggiore agiatezza a questo primo embrione dell'umanità civile che è il
maestro elementare. Io credo che questa depressione d'una classe umana
giovi a fermentare il lievito dell'attività e inasprisca le necessità
del combattimento. Ma, in nome della giustizia, non siamo vigliacchi!
non uniamoci tutti quanti contro una classe sola. E quando un maestro
elementare ha le forze necessarie alla battaglia, lasciamolo combattere.

Perchè si nega a questi poveretti il modo di ascendere all'insegnamento
secondario? Perchè, quando uno di essi ha più ingegno e più coltura
degli altri, non si prendono in esame i suoi libri? Perchè non si mette
il maestro elementare Siniscalchi a fronte d'uno dei tanti insegnanti
ginnasiali, o in tutto inetti o pietosamente mediocri? Egli lo
sconfiggerebbe.

Forse perchè i regolamenti e le norme ministeriali non accordano
misericordia ai libri di novelle? Anche questa è bella. In tutte le
parti del mondo, i romanzieri e i novellatori godono un favore e un
culto singolare. In Inghilterra e in Francia è tanto il favore popolare,
che essi non hanno bisogno di battere alle porte del Governo; in
Germania li fanno professori di storia o di letteratura; in Ispagna li
fanno ambasciadori o rettori di Università o ministri. E in Italia il
Governo non riconosce i diritti della novella e del romanzo nei dominii
dell'arte; e quando alcuno presenti un'opera di prosa narrativa a
documento de' suoi studi e del suo ingegno, un qualunque pecorone
burocratico lo respinge con una benevolenza pietosa, e con le parole del
cardinale d'Este a Lodovico Ariosto! O che bestialità di criterio è mai
questa? O qual differenza ci è tra una e un'altra opera d'arte; e perchè
un miserabile fascicolo di madrigali deve avere più valore d'un libro di
buoni racconti?

Non so. Il fatto è questo; e, con mio grandissimo dispetto, non posso
altrimenti protestare contro un tanto stolido governativo disprezzo per
l'arte narrativa, che dando, in questo mio esame dell'ultima letteratura
italiana, il primo posto al romanzo.



III.

BELLE MUSE E BRUTTI MUSI.

  L'ultima barbarie e l'epica carducciana — Contro Gabriel
  D'Annunzio e contro i critici verecondi e inverecondi —
  Melodrammatici vecchi e nuovi — Un rimatore novissimo.


I.

La seconda serie delle odi barbare rassomiglia assai poco alla prima.
Con quelle il Carducci, che era andato di esperienza in esperienza
ricercando sè stesso in tutte le forme della metrica neolatina, dalla
lauda spirituale e dalla canzone politica o d'amore alla canzonetta
francese del XVI secolo e al giambo di Augusto Barbier, sempre più
avvicinandosi a quella perfetta fusione dello spirito moderno col latino
e con l'italico dei più felici e più liberi tempi italici, che è la
ragione intima e il fondamento di tutta la sua poesia, aveva infine
trovata la formola più precisa, e il più perfetto accordo fra la materia
e la veste esteriore: una veste di meravigliosi colori e di stupenda
eleganza, nella quale la sua lirica giunta alla maturità piena della
gioventù si mosse come una bellissima donna che per la conscienza della
beltà propria e dell'acconciatura elegante va sicuramente all'amore. Con
le nuove odi barbare il Carducci ha fatto un passo, direi, laterale; e
dopo un ultimo grande impeto lirico nell'ode a Garibaldi, in quella per
Eugenio Napoleone, e in qualche altra, si è abbandonato all'elegia.
L'ultima barbarie carducciana, alla quale si deve l'immensa popolarità
onde ora gode, con molto onore del buon gusto italiano, il maggior
nostro poeta, è schiettamente elegiaca. Predomina il distico, che nelle
prime odi invece ebbe una parte modesta assai; e anche nelle altre forme
metriche un mite afflato elegiaco prevale:

    Qual da la madre battuto pargolo
    od in proterva rissa mal domito
    stanco s'addorme con le pugna
    serrate e i cigli rannuvolati,

    tal nel mio petto l'amore, o candida
    Lalage, dorme: non sogna o invidia,
    s'al roseo maggio erran giocondi
    gli altri felici pargoli al sole.

Pare che tutto il mondo fantastico che per questa poesia si aggira sia
nato nello spirito del Carducci da qualche contemplazione malinconica,
da uno di quegli spettacoli della natura che in un momento di languore o
di fastidio vi suscitano nell'animo un ineffabile e indomabile senso di
tenerezza. E ci è due circostanze di fatto, che possono avere in qualche
modo conferito alla formazione di questa singolare e insigne poesia.
Mentre faceva e pubblicava nel _Fanfulla_ domenicale queste odi, scoppiò
la polemica tibulliana; e in uno degli assalti disse il Carducci che la
tibullica di Rocco De Zerbi gli era venuta tra mano mentre compiva un
pellegrinaggio votivo alle classiche terre di Baia e di Cuma, rileggendo
le elegie romane di Goethe. E chi bene osservi, in queste odi troverà
che l'ultimo e miglior Goethe e Tibullo vi sono entrati come fattori
indiretti, e che l'orizzonte cumano lumeggiato da qualche caldo e
solenne tramonto vi campeggia e vi sovrasta.

L'elegia carducciana ha una grande varietà d'intonazione. Tavolta la
lieta serenità oraziana vi si diffonde blandamente, come per un riflusso
di giovinezza:

    O sole, o Bromio, date che integri,
    non senza amore, non senza cetera
    scendiamo a le placide ombre
    là dov'è Orazio, — l'amico ed io.

Tal'altra un'amarezza caustica le conferisce un colorito heiniano:

    Io levai gli occhi al sole — O lume superbo del mondo,
    tu su la vita guardi com'ebro ciclope da l'alto! —
    Gracchiarono i pavoni schernendomi tra i melograni,
    e un vipistrello sperso passommi stridendo sul capo.

E ci è infine il malinconico ottimismo tibulliano, come nei distici per
la certosa di Bologna e per Sirmione, e lo scoppio d'una tetraggine
fantastica e biliosa:

    Calvi, aggrondati, ricurvi, sì come becchini alla fossa,
      stan radi alberi intorno a la sucida riva.
    Stendonsi livide l'acque in linea lunga che trema
      sotto squallido cielo per la lugubre macchia.
    Bevon le nubi dal mare con pendule trombe, ed il sole
      piove sprazzi di riso torbido sopra i poggi.
    I poggi sembran capi di tignosi nell'ospitale,
      l'un fastidisce l'altro da' finitimi letti.

E questi distici dànno anche la nota comune e più evidente delle elegie
carducciane: il paesaggio. Già nella prima barbarie la tendenza al
paesaggio appariva: ogni tanto, nel turbine di una strofe alcaica o
jambica o saffica si scopriva un lembo di mare turchino con quattro vele
rosse, o una rada con un naviglio ammainante, o un vespero maremmano, o
una scena fluviale tra i veli del crepuscolo. Nell'ode alle fonti del
Clitumno anzi, il paesaggio storico alla maniera del Macaulay è una
delle più splendide cose del Carducci. Ma nella barbarie ultima il
substrato si può dire che sia tutto di paesaggio. Le antiche
predilezioni carducciane per la natura libera ritornano, un po'
intorbidate e intristite per gli anni trascorsi. L'idillio maremmano
rifluisce naturalmente, ma non è più la grande epopea della
coltivazione, che trova qui una nuova fioritura di canti, e non più
Maria si leva di fra la mésse matura, nè più il pio bove che sembra un
monumento mugghia guardando dal mite occhio i campi arati. Il Carducci è
ridiventato selvaggio, e più gli piacciono le terre incolte. Segno anche
questo di una cosa che io vorrei dire con molta cautela e con molta
titubanza, non perchè non ne sia pienamente persuaso, ma perchè alla
gente che ha criteri di storia letteraria o troppo meschini o falsi può
fare un brutto senso: segno di romanticismo.

E qui, per non esser frainteso, una piccola dichiarazione, che gioverà
anche all'intelligenza di molte altre parti di questo libro. Il
romanticismo è una parola elastica, a cui l'odio onde il Carducci l'ha
proseguita ha non poco conferito d'infamia. Basta ora dire di un libro o
di uno scrittore, che sia romantico, per condannarlo alla gogna. Di più,
ognuno interpreta questo maledetto vocabolo secondo il capriccio suo.
Che cos'è il romanticismo? Gli amici dicono che sia l'arte per
divinazione, la poesia emanante dalle budella, l'afflato più o men soave
del ventricolo: i nemici pretendono che sia la nebbia, il fariseismo, la
campanella squillante nella _Waldkapelle_. Or finchè non si ascenda
sopra questi luoghi comuni che servirono già per armi di polemica, e
sono adesso come il catino del barbiere sul cocuzzolo di Don Quijote, e
non si abbracci in una larghissima percezione tutta la storia letteraria
europea dall'Enciclopedia francese ai nostri giorni, non si potrà mai
avere un criterio onesto del romanticismo. L'imagine vera del
romanticismo ce la dà appunto l'Enciclopedia, poichè esso non fu se non
la ricerca di nuova materia e di nuove forme dell'arte. Quello stesso
impeto innovatore che invase la scienza si apprese all'arte: da una
parte la scienza ricercava, dall'altra l'arte elaborava i risultamenti
della ricerca. Così noi vediamo l'esplorazione filologica e storica
aiutare rinnovare rinsanguare la letteratura moderna; e dedurre da
questo suo officio una efficacia e un'importanza immensa. Ogni altra
determinazione del romanticismo è assurda e impossibile, poichè non si
può altrimenti intendere il Goethe procedente dal _Faust_
all'_Ifigenia_, creatore del mito di Werther e rinnovatore di quello di
Elena. Il romanticismo dunque procede con la scienza moderna, e non si
arresterà se non quando questa avrà percorsa tutta l'orbita sua, e sarà
abbattuta o rinnovata alla sua volta da una nuova rivoluzione dello
spirito umano intorno a sè stesso e intorno alla vita universale delle
cose. In principio esso fu, più che altro, intuitore; e procedè
intravedendo. Ora che la scienza ha fatto in tutti i campi conquiste
sicure, procederà con più bella e più vivace franchezza. Dopo la
ricostruzione che la filologia ha fatto e séguita a fare di tutto il
materiale antico, non sarà più possibile o lecito un errore drammatico
come quello commesso da Victor Hugo, nè più la falsa interpretazione
della poesia popolare che ha condotto tanti poeti romantici a tanti
errori; quando i libri di Darwin saranno entrati nella conscienza
comune, e l'arte moverà da verità acquisite e incontestate, e non da una
divinatoria intuizione della unità delle specie, come in Goethe, il
romanticismo avrà infine un substrato e un fondamento solido, e
procederà con la seria sicurezza che offre la scienza a nuove e più
meravigliose avventure. Noi siamo in pieno mondo romantico: i tumulti
antiromantici non altro intento nè altro effetto hanno avuto, se non di
correggere le aberrazioni del romanticismo; e tutta l'opera del Carducci
è senza alcun dubbio il più nobile e più felice sforzo tentato
nell'ultima metà del secolo in Europa per ricondurre il romanticismo,
traviato e pervertito dai guastamestieri, alle sue più sane e più
gloriose tradizioni. La poesia carducciana è stupendamente significata
nell'ode per le terme di Caracalla da quel complesso delle rovine, della
visitatrice inglese del ciociaro febbroso, e del vapore, come la poesia
di Goethe è rappresentata nel risvegliarsi di Faust in su le rive
dell'Egeo tra una folla di fauni e di ninfe del gentilesimo. In Goethe è
il medio evo che gitta le braccia al collo del paganesimo, è il dottore
scolastico e lambiccatore di filtri che sposa Elena moglie di Menelao:
nel Carducci è Lidia che affaccia allo sportello del vagone il pallido
volto, è il presente che si fonde col passato. In fine, — strano caso di
analogia, — il primo accenno del romanticismo tedesco è nelle odi romane
di Klopstock; e quelle odi son barbare, anzi da esse appunto procede la
barbarie germanica.

Il Carducci ha fatto con piena conscienza la sua campagna d'arte; e dopo
essersi per poco fermato, per maggior segno di contradizione e per
orizzontarsi, nel territorio delle forme classiche cristallizzate, si è
slanciato in pieno romanticismo giovandosi di quei maggiori aiuti che
gli studii filologici suoi proprii gli offerivano. Così, dai _Juvenilia_
è giunto all'ultima barbarie, ove di romantico ci è perfino quella
tendenza al fantastico, quell'aspirazione all'inconoscibile, quella
smania di valicare i confini dello spazio e del tempo. Egli rinnova
l'inno vedico all'aurora come Schiller rinnovò quello agli dèi della
Grecia, e passando pel Chiarone gli s'imprime nella memoria e nel verso
un paesaggio che potrebbe servire per le tregende del Brocken o per la
caccia selvaggia. E quel cascherino del marchese Colombi accusa il
Carducci di essere un poeta antico. Ma se egli è l'unico che in Italia
abbia inteso lo spirito dell'arte moderna, e saputo animarne tutta la
sua meravigliosa opera poetica!


E fin qui, niente di male. Ora poi mi tocca di entrare in un argomento
che anche al Carducci pare una pazzia. Si tratta di una certa
interpretazione ch'io ho data degli ultimi sonetti carducciani: _Ça
ira_.

L'annunzio di questi sonetti variamente mosse l'animo e la curiosità
della non poca gente che intende oramai la poesia del Carducci, e se ne
compiace. Anch'io, lo confesso volentieri, sapendo dei sonetti e
dell'argomento, non potetti frenare un certo movimento di stupore.

Infatti, dopo le _Nuove odi barbare_, non sapevo quale altra via potesse
tentare il Carducci. La sua parte di poeta civile, lo disse egli stesso,
col riacquisto di Roma con l'avvenimento della Sinistra al potere con le
ultime riforme elettorali, era naturalmente finita; dopo, nella molle
apatìa del governo progressista, la sua attività poetica s'era fermata a
quella tranquilla e ideale contemplazione della natura e dell'amore
nella vita e nella storia, onde nacquero le prime e le seconde odi
barbare. Con le quali la sua parabola poetica pareva compiuta, dacchè
egli aveva ricongiunto nel cemento tenace dell'ode classica i suoi
sentimenti di uomo moderno col desiderio dell'antichità pagana; e non
era facile prevedere dove si sarebbe vòlto. Avrebbe egli preso le mosse
dall'_Idillio maremmano_, come già dalle _Primavere elleniche_ procedè
al gran trionfo della barbarie? Ahimè! — Il male è che s'invecchia —
diceva la primavera scorsa il Carducci agli amici che gli stavano
intorno.

Col mutare del tempo non solo il capo incanutisce; ma nella macchina
umana molte ruote si ossidano, e non più dai centri nervosi scattano
violente le esuberanze della vita, e non più le polle del sentimento
scaturiscono vive dalle fonti. Chi può ridare al Carducci l'impeto
selvatico della giovinezza? Chi può ridargli quel desiderio aspro della
Maremma? I figli di Maria non più pendono poppanti dalla mammella, ma
vanno a scuola e s'apparecchiano all'esame di licenza ginnasiale. E se
ancora i butteri guidano i polledri a bere nei vesperi ardenti, non più
le facoltà affettive del poeta si lanciano ad essi con gli scatti delle
strofe indomite. Non più. Il Carducci è oramai nonno, è membro del
Consiglio Superiore di pubblica istruzione, è troppo infastidito dalle
commissioni d'esame: la vita cittadina lo ha in molta parte mutato, e la
_Cronaca Bizantina_ lo ha in molta parte assorbito. Si levino pure le
villane fiorenti tra le cime del grano: il Carducci ha già salutato
Iperione precipitante, bevendo con Lidia sotto la pergola; e poi, il
Carducci deve apparecchiarsi per le sue lezioni di storia letteraria.

Dunque, proprio la parabola mi pareva pienamente descritta; e poichè
egli si mostra non saprei se stanco o sazio della barbarie, il momento
del riposo sembrava venuto per lui. E già qualcuno credeva ch'egli fosse
per ritrarsi in disparte e in riposo, lungi dall'affannoso ronzìo della
folla, quando furono annunziati questi sonetti settembrizzatori. Che mai
potevano essere? Un ritorno agli antichi impeti repubblicani, onde
scaturì _Versaglia_? Questa, in genere, fu l'opinione della gente; e,
dopo la prefazione ai _Giambi ed epodi_, pareva un ritorno strano. In
vece si tratta d'altro; e proprio il Carducci si è messo per una via
nuova, poichè in questi sonetti il suo spirito si applica alla
contemplazione storica, e la sua vena lirica batte alle porte
dell'epopea.

Riparlare qui della rivoluzione di settembre, dopo il Thiers, dopo il
Michelet, dopo il Carlyle, sarebbe una pazzia. Più tosto, per
l'intelligenza piena del nuovo poema carducciano, è bene richiamare la
memoria del lettore all'ultimo storico della Rivoluzione: al Carlyle.
Questi non ebbe nè la sapienza politica di Thiers, nè il grande
splendore poetico e fantastico di Michelet. Anche raccontando fatti
della storia francese, si lasciò guidare dalle consuetudini della sua
educazione germanica, e dal suo senso pratico d'isolano britannico. Non
tanto si curò di fare uno studio politico, non tanto considerò la
Rivoluzione come materiale epico, quanto gli parve meglio e più
opportuno tenersi alla verità dei fatti, e alla semplicità; e fece
quasi, direbbesi, un racconto sperimentale. Così la sua storia è
un'opera obbiettiva, onde gli elementi e i movimenti epici si levano
naturalmente, non per virtù dello scrittore, ma per virtù dei fatti
appurati e narrati semplicemente; e per un poeta che voglia trarre
inspirazione da quella gloriosa irruzione della vitalità umana, è la
fonte migliore. E dal Carlyle appunto ha tolto il Carducci
l'inspirazione di questi sonetti, i quali nel breve ambito di
centosessantotto endecasillabi rappresentano, non già in una unità
complessa, ma così a tratti e a scatti pittorici spezzati, la grande
epopea di settembre.

La materia era alta, e difficilissima a maneggiare. Se ne rammentano i
lettori? I Prussiani tenevano mezza la Francia, e cioncavano entro
Verdun; Longwy era caduta, e il rombo della cannonata di Valmy giungeva
alle mura di Parigi, aizzando il tumulto, scatenando i macellatori:
l'Abbadia era piena di condannati a morte, le mura delle Tuileries erano
nere ancora e fumanti e crollanti per l'assalto e per l'incendio, e il
popolo di Parigi affamato ardeva d'una sanguigna febbre di omicidio;
l'Assemblea intanto, tra le tempeste della discussione, deliberava; e
all'esercito si mandavano aiuti, e per la salute interna si provvedeva,
e Dumouriez il traditore era chiamato dal campo dinanzi al giudizio
della patria; gli _assegnati_ si spacciavano a peso di carta.

Questa la materia, la quale è tanta e tanto alta, che anche il poema
epico stenterebbe a comprenderla tutta. E d'altra parte l'organismo
dell'epopea pare incompatibile con le presenti condizioni della vita e
dello spirito; e prima che un poema possa ancora essere scritto e
largamente letto, sarà necessaria una lunga educazione epica. Del resto,
tale è l'evoluzione naturale dell'epopea. Nella natura umana una
necessità epica, un desiderio di narrazione è innato; ma prima che
questo bisogno possa essere appagato, occorre una lenta e graduale
preparazione, un eccitamento successivo delle facoltà epiche sino alla
necessità. Di più, il poema non può escire maturo e grande e armato da
un cervello umano, ma deve via via venire crescendo col crescere dei
bisogni epici. L'epopea moderna dunque, quando abbia trovata la vera via
dell'ascensione progressiva, crescerà a poco a poco dal frammento e dal
canto singolare sino all'organismo multiplo del poema; è tutta questione
di tempo, e di trovare la via buona.

E mi pare che il Carducci l'abbia trovata. Egli con questa sua prima
prova, incerta ancora per molte parti, pone questo che sarà il cardine
dell'epopea avvenire: pone, come punto di partenza dell'epopea, non già
l'elemento fantastico e favoloso, ma la verità storica. In fatti, non
più lo spirito umano si diletta del meraviglioso. La scienza si va
miracolosamente propagando, e rinnova la conscienza estetica e la
conscienza morale degli uomini. Non più l'oziosa fantasticaggine della
mente intorno ai fenomeni: ora l'attività interiore, applicata
all'indagine delle cause e all'esame dei fatti, ha seccato quella fonte
di godimenti; e anche il bisogno del meraviglioso, nella universale
evoluzione dello spirito umano, si è andato lentamente mutando nel
bisogno della verità.

Dicono che il romanzo storico sia uno sviluppo del romanzo cavalleresco:
non è vero, il romanzo storico è la prima forma narrativa, nella quale
il punto di partenza è la verità storica. Esso dunque potrà essere
precursore, e in parte origine dell'epica storica, come il romanzo
d'avventura fu in gran parte origine dell'epica cavalleresca. I sonetti
del Carducci vanno appunto giudicati con questo criterio. E proprio
dalla verità storica essi ritraggono l'efficacia maggiore, e i migliori
effetti pittorici e drammatici insieme. Il più bello è intorno
all'annunzio della resa di Longwy; parlano i fuggitivi:

    L'un dopo l'altro i messi di sventura
    Piovon come dal ciel. Longwy cadea,
    E i fuggitivi da la resa oscura
    S'affollan polverosi all'Assemblea.

    — Eravamo dispersi in su le mura:
    A pena ogni due pezzi un uom s'avea:
    Lavergne disparì ne la paura:
    L'armi fallian. Che più far si potea?

    Morir — risponde l'Assemblea seduta.

Questa non è fantasia poetica: è la verità minuta, secondo la ritrovò e
la narrò il Carlyle. Ancora; son due ritratti:

    In conspetto a Danton pallido enorme
    Furie di donne sfilano cacciando
    Gli scalzi figli sol di rabbia armati.

    Marat vede nell'aria oscura torme
    D'uomini con pugnali erti passando,
    E piove sangue donde son passati.

Non è il Carducci che li dipinge così per una subitanea visione della
sua potenza imaginativa; è la verità storica che gli dà il fantasma.

Non vorrei ora che qualcuno credesse, per ciò che io ho detto, che in
sostanza tutto questo nuovo metodo epico consista nel versificare un
libro di storia: — troppo questo tornerebbe a grado del deputato
Cavallotti. — La questione sta tutta nel punto di partenza; quando la
base è la verità storica, quando il poeta corregge il fantasma per modo
ch'esso risponda alla verità, basta; il resto non muta, e il
procedimento e il meccanismo epico rimangono quali furono sempre. E che
la verità non rimpicciolisca l'effetto, anzi ne sia il fattore massimo,
gli esempi addotti lo dimostrano; e chi pensi che nei nostri
meravigliosi romanzatori di cavalleria la fortuna non tanto procede
dalla ricchezza fantastica quanto dal senso umano che trapela dai pori
delle corazze d'acciaio dei cavalieri, non ha bisogno di altre
dimostrazioni.

Il Carducci ha colto con un miracoloso intuito i tratti epici della
rivoluzione di settembre e li ha rappresentati con una evidenza e con
una potenza alla quale egli forse non era giunto ancora. Il sonetto
nelle sue mani ha acquistato una capacità pittorica straordinaria,
poichè i fantasmi sono nettamente chiusi nella cornice dei quattordici
versi, e oltre la cornice il lettore deve cercarne con la sua facoltà
imaginativa e con la sua erudizione storica i legami. Sicchè ogni
sonetto si riallaccia necessariamente all'altro; e nel complesso essi
dànno, con pochi schizzi rapidi e sicuri, l'immagine vivente e tutto
quanto il movimento del gran dramma.

Così, noi ci troviamo dinanzi a due fatti degni di molta considerazione.
Primo, la rivoluzion francese tolta a materia d'arte ai nostri giorni;
secondo, un primo passo epico del Carducci. La rivoluzione francese, il
vero materiale epico del nostro tempo, ha spaventato sinora tutti quelli
che osarono di tentarla. Victor Hugo volle assaltarla con tutta la
potenza del suo ingegno più che umano, con tutta l'audacia delle sue
consuetudini romantiche, e fu respinto dalla grande epopea
rivoluzionaria alla piccola tragedia reazionaria della Vandea e al
dramma borghese di Waterloo. Il Goethe, che negli epigrammi pubblicati
tra gli _Xenien_ dell'almanacco schilleriano, poi introdotti nel _Walbur
gissnachttraum_ del primo Faust, aveva stuzzicato con pungiglioni di
vespa il gran colosso, quando volle abbracciarlo con una stretta d'amore
fu ributtato anch'egli, e dovette accontentarsi di qualche episodio
dell'emigrazione. È vero che quell'episodio fu materia degli stupendi
esametri dell'_Arminio e Dorotea_; ma la rivoluzione non cedè agli
assalti. Non so; la rivoluzione francese è una materia repugnante
dall'arte. Forse essa, nella sua terribilità storica, sta troppo
chiaramente e vivamente stampata nello spirito universale, perchè ci sia
necessità e modo di ravvivarne i fantasmi con l'arte; oppure essa per
natura è barocca e teatrale, e rifugge da tutte le rappresentazioni che
non siano la festa dell'Ente Supremo, o gl'immani fantocci di David, o i
pasticci tragici d'argomento repubblicano di Gabriel Legouvé: rifuggì
persino alla larga vena ciceroniana di Michelet.

Pure al Carducci qualche cosa ha concesso; ed è singolare che sia stato
un italiano il primo epico della rivoluzione, come italiani furono i più
grandi epici del ciclo carolingio. Sarebbe forse una fatalità storica;
oppure il materiale epico ha bisogno di essere elaborato lungi dai
luoghi ove si formò? Chi sa? Certo la materia dell'_Iliade_ e
dell'_Odissea_, dell'_Eneide_, della _Gerusalemme_ e dei poemi di
cavalleria, per tre quarti si svolse fuori della Grecia e dell'Italia.
Tuttavia le concessioni non sono state grandi. «Impossibile mettere in
versi quella storia, se non a brevi tratti,» dice il Carducci. E perchè
impossibile? se si potè mettere in versi quella delle crociate, e la
leggenda cavalleresca? E perchè è possibile metterla in versi a brevi
tratti? Sono questioni oziose, a prima vista; eppure molto bene potrebbe
venirne dal ventilarne. Si dice che l'epopea sia morta, e chi guardi al
fatto deve confessare ch'essa è almeno petrificata dalla catalessia. Ora
come e perchè questa grandissima forma dell'arte è caduta? Non sarebbe
tutta una questione di metodo? Io per me dico di sì; e quando veggo la
_Légende des siècles, Hermann und Dorothea_, i romanzi poetici di
Hamerling, i poemi cavallereschi di Swinburne e di Tennyson, la _Canzone
di Legnano_, quando veggo sopra tutto le tendenze descrittive narrative
drammatiche della lirica moderna, sempre più mi persuado che un largo
movimento epico si vada inconsciamente propagando, e che l'epopea
storica vada lentamente maturandosi nella coscienza umana. Certo, non
sarà più l'_epos_ antico, e l'elemento leggendario non potrà più
entrarvi come fattore primo: il fattore sarà un altro, forse la verità
storica, forse un altro, ma l'epopea nasce, ma l'attività poetica piega
sensibilmente a quella via, e la lirica uscendo dalle strette del
subbiettivismo prende naturalmente forma epica. Esempio ultimo e più
patente, questi sonetti carducciani.

I quali non sono ancora epopea, come sarà forse la _Canzone di Legnano_;
ma non son più lirica. Forse il Carducci non aveva nessuna
premeditazione epica, se no, non avrebbe scelta la forma del sonetto; e
questa inspirazione gli è nata forse inconsciamente, leggendo la storia
del Carlyle. Ma il fatto sta che egli è escito dalla cerchia magica
della lirica, che egli senza avvedersene quasi è entrato in un momento
nel campo sereno della poesia obbiettiva, che la verità storica si è
subitamente impossessata del suo spirito; e i sonetti sono scaturiti,
l'uno dopo l'altro, investendo e vestendo d'una viva luce i fantasmi che
si levano più alti da quel grande scompiglio. Questa certo non è ancora
epopea; ma è già il racconto o la rappresentazione epica; ma è già il
frammento epico animato da una singolare forza di coesione. Fate un
piccolo movimento mentale: triplicate il numero dei sonetti, inseritene
fantasticamente altri ventiquattro che rannodino l'uno all'altro con la
narrazione quei dodici, in modo che i fantasmi non stiano più così
staccati e solitari; e voi avrete il racconto epico moderno, il quale
può via via risalire sino alla bancarotta di Law o alla morte di Luigi
XIV e allargarsi fino al ritorno dalla spedizione d'Egitto.

Questo il Carducci non ha fatto, perchè non voleva fare epopea, perchè
gli pareva impossibile fare una epopea della storia della rivoluzione
francese. Ma certamente egli ha congiunto un sonetto all'altro con un
nesso ideale, tanto più che si appella a esempi dei secoli XIII e XIV,
quando il sonetto fu anche _strofe_. Non si tratta dunque propriamente
di epopea; questi sonetti sono forse l'ultimo stadio della lirica
carducciana.


Così, in due riprese, dichiarando e determinando meglio il mio concetto
la seconda volta, annunziai io quella nuova fioritura poetica spuntata
improvvisamente nello spirito del Carducci ai primi soli di maggio. Ed
ecco, la gente prese a fantasticare, e ci furono degli sciocchi e degli
uomini di sano giudizio che tolsero argomento da quelle parole mie a
dissertazioni e a dispute intorno all'epopea, intorno al Carducci,
intorno a me: qualcuno nella _Gazzetta Italiana_ mi die' dell'asino,
però ch'io non avessi ricordato il sonetto famosamente infame:

    Sudate, o fuochi, a preparar metalli;

per contrario un signor M. T. dimostrò con molto garbo l'assurdità delle
mie fantasie epiche, e dalle mie parole giudicando che il Carducci con
quei dodici sonetti si fosse proprio proposto di fare una piccola iliade
della rivoluzion francese, diede addosso al Carducci. Il quale è stato
così costretto, rispondendo ai critici del _Ça ira_, di bastonare non
pur me che ho gridato al lupo, ma il signor M. T. che è corso alle mie
grida. Sicchè io, che secondo l'opinione del signor M. T. sono una
_lancia-spezzata_ del Carducci, gli ho fatto più danno che non un
nemico.

E poichè tutte le mie speranze per l'epopea storica riposavano nel
Carducci, e il Carducci non pur nega di volerne fare mai, ma ne dimostra
con molti argomenti la non possibilità, accidenti all'epica storica! Io
vi rinunzio senza dolore, anzi, stampo qui le mie fanfaluche per
penitenza mia e per ammonimento agli altri critici fantasiosi. Se non
che, io allora non intendo più la ragione e la materia e la forma della
_Canzone di Legnano_, della quale pubblicando un canto il Carducci in
una nota rivendicò al poeta il diritto di percorrere non pur tutto lo
spazio della terra, ma tutto l'ambito della storia: affermò, ciò è, il
principio cardinale e più liberale del romanticismo, di tor materia
d'arte ovunque se ne trovi. Or la canzone di Legnano non è _epos_, non è
poesia narrativa di materia storica? e non ricorda anche col titolo il
canto guerriero o politico che fu preludio e coefficiente dell'epopea
romanza?

Di più non mi pare che l'epopea sia in tutto morta: il poema-novella,
per esempio, se fu falso e lirico e subbiettivo in Byron, se fu
sensualmente effeminato in Tommaso Moore, se per colpa di molti
romantici d'ogni paese, da Bürger al De Musset, da Walter Scott al
Grossi abortì, per virtù di Wolfango Goethe ritrovò la larghezza e la
serenità omerica nell'_Arminio e Dorotea_; e vive ancora, rinvigorito e
nobilitato dagli anni, nella poesia inglese, ove, se di nuovo si è
macchiato degli antichi peccati romantici in mano di Longfellow e di
Tennyson, è apparso meravigliosamente illustrato d'un novissimo lume di
verità umana nei poemi di Browning. L'epopea intesa nel significato
etimologico di poesia raccontata non mi par peritura, poichè il bisogno
della narrazione è nativo e perenne nello spirito umano, poichè essa ha
una così straordinaria pieghevolezza di forma e tanta capacità di
materia e tanta potenza di transmutamenti, quanta non ebbe mai nessun
mostro della mitologia greca e delle mitologie medievali. Chi potrebbe
determinare la universal legge della formazione epica? Essa sfugge a
ogni delimitazione di confini, e se in Grecia l'ombra di Omero cantore
dilegua d'avanti alla persona di Erodoto scrittore, l'epopea persiana
per contrario nasce scritta con Firdusi quando già la Persia aveva avuto
tutto un periodo di civiltà e di poesia lirica e drammatica; e in tutte
le letterature semitiche l'ultima genita fu la poesia gnomica.

Così intesa l'epopea, e così certamente l'intendo io, non so vedere
perchè dei rifacimenti epici non siano possibili. La contemplazione
ideale della storia umana, che ha partorito al romanticismo la tragedia
di Schiller due secoli dopo Shakspeare, non può essere argomento di
qualunque forma di poesia? Tutta quanta la poesia, da un pezzo in qua,
non è più nè cantata nè recitata: a Pindaro, che intona l'ode cantata e
ballata in conspetto del vincitore trionfale e tuttavia insozzato dalla
polvere e dal sudor della corsa, è succeduto il grande poeta moderno che
fa tutto un corso di studi e tutta una larga preparazione per disposare
lo spirito della patria antica con quello della patria moderna sul
talamo dell'ode barbara infiorato di rose. Le condizioni dei popoli
mutano, e mutano le fogge della poesia, e in luogo dell'aedo cantante
per inspirazione e quasi per afflato divino subentra Socrate che prima
di morire, per vedere se il fato non lo abbia sortito alla poesia,
mentre la teoria indugia a tornare da Delfo, scrive un preludio ad
Apollo ed una favola esopica; ma la poesia permane, e quando più par
morta, ecco rinasce dalle ceneri: dopo la cronaca poetica di Ennio, che
pareva dovesse vietare per sempre al popolo latino ogni aspirazione
epica, ecco l'Eneide scritta, anzi a giudizio del poeta non ancora a
bastanza elaborata quanto era il desiderio e il proponimento. Che poemi
intorno a Garibaldi e a Napoleone, come dice Domenico Milelli, siansi
bensì fatti, ma con poca fortuna, non monta: moltissima lirica in morte
di Vittorio Emmanuele e in morte e in vita di Garibaldi si è scritta in
Italia e fuori d'Italia, e se si avesse a giudicare da questi epinicii e
da questi epicedii, bisognerebbe dire che la lirica è morta di
ossessione per gli urli e per lo sbraitare freneticamente sgrammaticato
del deputato Cavallotti. Invece, per la morte di Eugenio Napoleone e per
le geste di Garibaldi il Carducci ha saputo trovare le più fresche, le
più violente, le più gloriose emanazioni del suo spirito poetico. Perchè
dunque non potrebbe, egli che col _Ça Ira_ ha dato la rappresentazione
epica, che con la _Canzone di Legnano_ è entrato nel campo vero
dell'epopea, egli che dalla ideale intuizione della storia ha saputo
dedurre così mirabili effetti, tentare con fortuna sicura ciò che a lui
e al Milelli pare una impossibile cosa?

Certo l'epopea elaborata dal popolo, ripresa e segnata col suggello
immortale dell'arte dagli scrittori, non è più possibile oggi; ma questa
legge di formazione dell'epopea non è forse la universal legge genetica
dell'arte? E quando l'orbita fatale dell'arte d'un popolo è stata tutta
percorsa, e comincia il periodo dei rifacimenti e dei rimanipolamenti
individuali, l'epopea non si trova, come tutte quante le altre forme
dell'arte, in uno stato di catalessia, onde non può trarla
momentaneamente che la virtù peculiare di un intelletto? Tutta quanta
l'arte moderna, lo ha detto il Carducci, non è per lo scrittore che un
mezzo egoistico di diletto estetico, e pel popolo un passatempo e un
lusso non necessario. Così stando le cose, e poichè la lirica
subbiettiva dovrà necessariamente scadere quando gli uomini si siano
infastiditi di pur versificare la gioia o la noia della vita, non dovrà
l'arte della poesia cercar nuovo alimento in una obbiettività, onde la
forma epica sarà la più logica e la più opportuna? Poemi su Garibaldi
non se ne potranno forse fare, per ora; si potrà bensì fare una
rappresentazione epica della battaglia di Legnano o della rivoluzione
francese, senza che i tentativi anteriori falliti possano contraddire
questa speranza. I tentativi falliti non contano: dopo il Trissino, che
naufragò nel gran mare dell'epopea con l'_Italia liberata dai Goti_ e si
pentì amaramente di non avere invece tentato il romanzo di cavalleria,
venne Torquato Tasso, che dal poema romanzesco era distolto per
l'esempio del padre e per l'esperienza sua propria, e guidò la nave al
porto della salute.

Epopea dunque nazionale e primitiva non più, perchè non ci è nè la
materia nè la gioventù nè la necessità popolare; ma l'esercizio epico,
come l'esercizio lirico, come l'esercizio della prosa narrativa, perchè
no? Tutto ciò è alessandrino, d'accordo; ma e qual cosa mai è tutta
l'arte moderna, se non un alessandrinismo più o meno ingegnoso e
sapiente? E non abbiamo noi fondata, e non scriviamo noi la _Cronaca
Bizantina?_


II.

Ed ora per la prima, ma non per l'unica volta in questo libro, mi tocca
di dir male d'un giovine a cui mi lega la più grata e affettuosa
consuetudine, che io ho sempre proseguito d'un affetto più che fraterno,
al quale non ho risparmiato mai le ammonizioni e le prediche e i
vituperii quando mi pareva che deviasse dalla grande strada apertagli
dal destino, anche a rischio di essere accusato dal dottor Verità e da
altri più bugiardi di lui d'un turpissimo peccato: d'invidia. Parlo di
Gabriele D'Annunzio.

Gabriele, fanno ora due anni, giunse a Roma dall'Abruzzo con la bella e
fresca ricchezza dei suoi vent'anni, e con molta opulenza di poesia e di
prosa poetica. E subito mi venne a vedere. Ero, me ne rammento
benissimo, sdraiato sopra una panca negli uffici del _Capitan Fracassa_,
e sbadigliavo tra le ciance di molta gente; e alla prima vista di quel
piccolino con la testa ricciuta e gli occhi dolcemente femminili, che mi
nominò e nominò sè con un'inflessione di voce anch'essa muliebre, mi
scossi e balzai su stranamente colpito. E l'effetto fu, in tutti quelli
che lo videro, eguale. Lo conducemmo nel salotto, e tutta la gente gli
si raccolse d'intorno. Non mai scrittore comico trionfante, in quel
luogo ove l'ammirazione e la curiosità d'ogni cosa nuova scoppiano con
sì facile violenza, s'ebbe un accoglimento tanto festoso. Mi par di
vedere ancora Gennaro Minervini, quell'ultimo erede dello spirito
napolitano, stargli d'avanti a guardarlo con gli occhi spalancati senza
parlare; e Cesare Pascarella, con lo scialle raggruppato intorno al
collo, frenare a stento la smania di accarezzarlo. E dovunque, poi, lo
condussi, era la medesima cosa: persino la faccia incresciosa di Angelo
Sommaruga al primo aspetto di quel fanciullo fu rasserenata da un
sorriso. Aspettato con impazienza curiosa, dopo il giudizio
singolarmente benevolo che della sua poesia infantile diè il Chiarini,
con lo spettacolo della sua estrema giovinezza, con la irradiazione di
simpatia che la sua sembianza e le sue parole e i suoi atti di fanciulla
mandavano, conquistò nel primo istante questa cittadella romana che a
tanta gente pare inespugnabile, e che apre invece tanto facilmente le
porte. Gabriele ci parve subito una incarnazione dell'ideale romantico
del poeta: adolescente gentile bello, nulla gli mancava per
rappresentarci alla fantasia il fanciullo sublime salutato da
Chateaubriand in Victor Hugo. E col crescere della consuetudine, la
concorrenza dell'affetto e dell'ammirazione crebbe. Nell'inverno e nella
primavera del '82, Gabriele fu per tutti noi argomento d'una
predilezione e quasi d'un culto non credibile. Egli era così mite e così
affabile e così modesto, e con tanta grazia sopportava il peso della sua
gloria nascente, che tutti accorrevano a lui per una spontanea attrazion
d'amicizia, come a un gentile miracolo che nella volgarità della vita
letteraria non troppo spesso occorre. A ogni persona che novamente lo
vedeva, era un'esclamazione di meraviglia. Ricordo l'esclamazione del
Carducci, quando glie lo presentarono: anche ricordo il barone De
Renzis, che molte cose ha veduto nella sua vita, con le mani in tasca e
con la gamba destra tesa un po' innanzi, starlo a udire la prima volta
scotendo lievemente il capo, quasi non credesse a' suoi occhi. Per me
poi quel primo anno d'amicizia fu il maggior diletto di tutta la mia
faticosa e turbolenta vita di seccatore del prossimo letterario. Io
ritrovavo in Gabriele ingentilite le mie passioni di buttero platonico,
e quella tendenza di espansione all'aperto, di riavvicinamento alla
santa e selvaggia natura, che mi trasse nei primi anni della gioventù a
scrivere e a stampare bruttissimi versi. In lui era tanto spontaneo il
senso della barbarie e tanto curiosamente commisto a una nativa
gentilezza di donna, che lo avreste detto una di quelle querce educate
al tempo del barocchismo e potate in guisa da dar la sembianza d'una
qualche cosa poco selvatica, educata questa per altro e potata da un
meraviglioso artefice che avesse saputo dal taglio far nascere come un
nuovo albero vivo e bellissimo. Noi andavamo assai spesso a passeggiare
insieme, e in quel lungo andare a piedi o in carrozza, e nei colloqui, e
nella comunione di tutti i pensieri cementavamo il concorde immenso
amore dell'arte. O Gabriele, te ne rammenti? Io ricordo con un senso di
tenerezza ineffabile un pellegrinaggio che noi facemmo su la via Appia.
Era una mite mattinata di febbraio, e le siepi di bianco spino e di rose
canine tuttavia rugiadose pareva che buttassero tutte insieme le gemme
novelle alle prime carezze del sole: per l'aria le cornacchie viaggianti
dalle terme di Caracalla alla tomba di Cecilia Metella si riversavano
con un giubilante clamore di festa. Come la gioventù ci si espandeva
lietamente e liberamente dal petto, mentre noi correvamo d'avanti alle
terme tirando al vento colpi di rivoltella, e con che ilare impeto di
fame assalimmo la frittata della colazione! La frittata era cattiva, ma
tra la pergola il sole cortese di febbraio trapelava con molto sorriso,
e d'avanti una scena meravigliosa di pianura e di colli sovrastata
dall'Aventino ci accendeva nell'animo le fiamme dell'entusiasmo. Noi
recitammo a vicenda l'ode carducciana per le terme di Caracalla, e io
mangiando di quella frittata benedetta pur ti guardavo; e ti spiavo nei
miti occhi fanciulleschi le ragioni e l'origine del _Canto novo_. Chi mi
avrebbe detto allora, o Gabriele, ch'io dovevo essere accusato
d'invidiarti?

Anche d'un'altra colazione mi sovviene, in casa mia, un giorno che nè
egli nè io avevamo tanti denari da poter mangiare in una trattoria. Noi
mettemmo in comune il peculio imponderabile, e comperammo della ricotta
e del pane; e in quella concordia della nostra miseria ridevamo come due
matti. Poi, come la primavera avanzava, io mi trassi dietro Gabriele in
una mia poco felice escursione in Sardegna. Erano le calende di maggio,
e il tempo per la dolcezza lusingava all'aperto. Il poeta piccolino
volle accompagnare Cesare Pascarella e me alla stazione della ferrovia,
e il desiderio di rivedere il mare lo indusse a venire sino a
Civitavecchia. Era il pomeriggio, e il sole tuttavia alto batteva sopra
il grande spazio del mare con una sì gloriosa pompa di porpora e d'oro,
che noi restammo tutti tre dritti in sul molo con le mani protese per
difesa degli occhi, con gli occhi spalancati, e il petto anelante per la
delizia della brezza salata, immobili, estatici. La lusinga per il
piccolino poeta della salsedine era potente troppo: venne anch'egli in
Sardegna. Ed ahi! con che spasimi e con che vomiti scontò egli quel
soddisfacimento della passione. Scorrendo poscia quella sventurata e
generosa isola, Cesare Pascarella ed io fummo testimoni e parte d'un
inaspettato spettacolo, poichè il nome del giovinetto barbaro aveva già
valicato il mare, e ovunque noi scendemmo fu un coro di ammirazione e di
acclamazione. Io veggo qui d'avanti a me la faccia di Gabriele
sfavillante di contentezza a un banchetto che l'amicizia di molti
cortesi e intelligenti giovini cagliaritani ci diede. Felice Uda,
veterano del giornalismo, con un bicchiere colmo di vino d'Oliena in
mano, guardando quel ragazzo teneramente, diceva un brindisi: e il
piccolino ascoltando le sue lodi a cui tutta la mensa si accordava come
con un coro comune, raggiava dagli occhi e dall'atteggiamento di tutta
la persona la sacra gioia della conscienza del proprio ingegno. Allora
questo bambino, che si teneva tra la capelliera arruffata una mano, mi
parve veramente bello.

Poi una mattina, a Nuoro, ci svegliò il fattorino della posta che recava
le prime copie del _Canto novo_. Io lo lessi tutto quanto in letto, se
bene lo sapevo già a memoria; e non so dire con quanto impeto di
entusiasmo abbracciai l'amico, levandomi. Quel giorno si andò con una
compagnia numerosa a fare una passeggiata a cavallo, e galoppando in
prova con Gabriele su pei sentieri della montagna, e poi da la cima del
monte contemplando la scena stupenda che ci si spiegava alla vista
intorno e all'in giù, il mio spirito si abbandonava giubilando a uno dei
più puri e più vivi diletti che lo abbiano mai consolato: la
contemplazione della santa natura a fianco d'un amico o d'un'amica, che
la intuisca e l'adori con intelletto d'arte. O quella escursione per la
Sardegna, dalle steppe di Terranova alle fatate grotte di Alghero, ove
qualche ninfa delle onde marine si è costruito un nido per l'amore! I
colombi selvaggi si buttavano a stormi fuori dalle grotte, quando noi ci
appressammo con la barca; e quando un'altra barca dallo scalo di
Terranova ci portò alla nave del ritorno, i gabbiani volavano sopra di
noi nell'aria serena, quasi salutando il loro poeta. Chi avrebbe potuto
pensare allora, o Gabriele, che quella nave ci valicava alla tua rovina
poetica?

Sì, fu proprio alla rovina di Gabriele che noi navigammo sospinti dalla
furia del vapore. Poichè, un mese di poi, il piccolino ritornò alla
patria, onde nell'ultimo autunno venne di nuovo a noi stranamente
mutato. Nell'estate, chi sa per qual tristo fatto o per quale fenomeno
psicologico, era avvenuto in lui un rivolgimento: la fanciulla
inconsciamente timida e selvatica si era transmutata in una civetta che
sulla timidezza e sulla selvaticheria calcolava. Gabriele, che da Roma
era partito ingenuo modesto gentile, ritornò a Roma furbo vanesio
sdolcinato. Una improvvida necessità di assaporare immediatamente tutte
le tristi e sterili gioie della popolarità gli si annidò come un
canchero nell'organismo e nello spirito. Addio, passeggiate amichevoli
al tenero sole romano che erano un mutuo ammaestramento e un
incitamento! Addio, serene e pure contemplazioni della natura, e larghi
bagni di ossigeno tanto salutari al corpo e allo spirito! Gabriele si
abbandonò alla folla, a quella vil folla dalla quale il suo nativo
istinto d'artista fatalmente lo segrega. E prima si ragunò d'intorno una
volgare compagnia adulatrice di ragazzacci e d'impiegati; poi, come
l'inverno aprì le porte delle grandi case romane, cedette alle lusinghe
delle dame. Io non dimenticherò mai lo stupore che mi ferì vedendo la
prima volta Gabriele addobbato e azzimato e profumato per una festa.
L'anno innanzi non mai lo avevamo potuto indurre a vestirsi altrimenti
che d'una giacchetta scura e d'una cravatta di raso bianco: spesso,
anzi, dimenticava anche la cravatta. Ma quella sera che si pranzava
abruzzesemente con una compagnia di abruzzesi in casa di Ciccillo
Michetti, vedendolo così lindo e così studiosamente preoccupato della
lindezza sua, mi parve brutto. Mangiando, si guardava i polsini con uno
strano entusiasmo d'amore, e dell'avergli io fatto cadere qualche
briccica di pane sull'abito nero s'ebbe a male come d'un'offesa. —
Diavolo! diss'io, non ricordo se a lui proprio o a me, Gabriele si è
dunque imbecillito? — Ma quella prima ferita dell'amicizia fu piccola,
in confronto di quelle che seguirono. Gabriele si buttò storditamente a
quella nuova e stupida vita, assaporando con una voluttà malsana il
diletto della lode bugiarda e dell'adulazione sfacciata. Le dame che
forse non avevano letto, certo non avevano inteso, i suoi versi, in
conspetto di quel piccolino selvaggio rincivilito, di quel cagnolino con
un nastrino di seta al collo, furono prese da una morbosa e romantica
ammirazione. Per sei mesi Gabriele passò da una festa di ballo ad un
pranzo aristocratico, da una passeggiata a cavallo a una cena in
compagnia di qualche cretino blasonato e impomatato, senza aprir mai un
libro, senza fermar mai l'intelletto a un pensiero serio. L'arte, che
prima era per lui quasi un fattore della vita, divenne un gioco
bambinesco per diletto di quelle povere dame, che volevano dei sonetti
negli _albums_ e sopra i ventagli così come sulle mensole vogliono della
chincaglieria giapponese. In questo ambiente, a questo fine, con questi
mezzi furono scritti i pochi e poveri versi raccolti di poi col titolo
d'_Intermezzo di rime_. Versi poveri stentati e sciocchi, ai quali
nessun'altra penitenza sarebbe stata più opportuna e più debita del
silenzio. Se non che, il Chiarini in un accesso d'ira generosa passò
ogni confine di moderazione, e denunziò alla questura Gabriele come un
poeta porcellone e inverecondo. Non mancava che questo! Luigi Lodi, il
quale con grandissimo stento era stato alcuni anni senza dimostrare al
popolo d'Italia coi soliti esempi degli elegiaci latini del Boccaccio e
dei poeti del Rinascimento che non ci è poesia bella e viva, la quale
non sia oscena, afferrò subito l'occasion pei capelli. Luigi Lodi è uno
strano uomo: non ha ancora trent'anni, e già campa di memorie, come un
vecchio. Da che scrive nel _Capitan Fracassa_, i suoi migliori articoli
sono di ricordi; da che coopera alla compilazione della _Domenica
letteraria_, i più vivaci e briosi scatti della sua prosa son
rifacimenti di cose fatte in gioventù: prima alcune notizie intorno alla
vita e alle consuetudini degli scrittori bolognesi, poi la polemica
contro la verecondia. Poichè in sostanza intorno all'_Intermezzo di
rime_ si è fatto lo stesso chiasso vacuo e ozioso che già si fece
intorno a Lorenzo Stecchetti: gli assalitori furono, invece del signor
Rizzi e del signor Alberti, Giuseppe Chiarini, il Dottor Verità e due
Enrici, il Panzacchi e il Nencioni: il difensore, al solito, fu Luigi
Lodi. Occorre qui riferire gli argomenti di attacco e di parata?
L'Italia per un mese è stata troppo piena di queste chiacchiere; e da un
secolo in qua esse sono state troppe volte ripetute. L'argomento
capitale dell'offesa era questo: che l'arte, avendo una missione
educatrice, non può passare i confini della decenza; l'argomento della
difesa era per contrario che confini in arte non ce n'è. I litiganti
stavano dunque a fronte come due ciechi che abbiano in mano un pezzo di
stoffa, e si accapiglino gridando l'uno: — Questa stoffa è bianca; — e
l'altro: — Questa stoffa è nera, — senza speranza di potersi accordare.
Il Chiarini, il quale, se bene apertamente non difese, certo accolse con
favore il tentativo di Lorenzo Stecchetti, e scrivendo delle prime prove
poetiche di Swinburne celebrò con grandissime lodi l'immoralità di quel
grandissimo poeta, transmutato subitamente in un puritano intransigente,
vituperò con orribili vituperii l'immoralità di Gabriele. Il più
coerente fu il Dottor Verità, che potè ripetere le sue solite
scioccherie in lode dell'arte sacrestana.

Il Chiarini non intese che a proposito di quei versi la questione non
era da porre nella moralità, poichè se all'artista si nega l'autorità e
il potere di trasformare o di sviluppare secondo gl'intendimenti suoi la
morale umana, come l'arte potrà avere una seria efficacia etica? Egli
ebbe un barlume di ragione quando disse che uno dei segni
dell'imbecillità è di mostrare le parti pudende; ma fu un barlume
fuggitivo soffocato dal riflusso della retorica. Anche il Panzacchi
intravide il punto giusto della questione, quando invece dell'oscenità
parlò della lascivia; però anch'egli non ebbe che un intravedimento e
non dichiarò francamente e lucidamente il suo pensiero. Mi sia dunque
lecito, ora che la disputa è terminata, di dir l'ultima parola.

La questione della moralità in arte è delicata assai: può essere non
pure illiberale ma in tutto academica ed oziosa, quando per moralità non
s'intenda se non la convenzione e l'abitudine esteriore della vita; ed è
invece d'una importanza capitale quando alla morale si dia il vero e
proprio e pieno significato di obbedienza alle leggi eterne della vita.
Ora il fatto dell'amore, che è tanta parte dell'arte così com'è tanta
parte della vita, è stato dagli uomini ricoperto d'uno strano mistero.
Prevale tuttavia il concetto cristiano che l'accoppiamento sia un
peccato; e più prevale l'assioma gesuitico che il peccato sia bensì da
commettere il più spesso possibile, ma il più celatamente possibile. La
difesa della nudità e della verecondia è dunque una mala difesa, poichè
il danno che alla moralità umana reca la consuetudine di tenere celate
le funzioni dell'amore non è calcolabile. Quasi tutti i genitori umani
lasciano che i loro figli si erudiscano dai compagni o dalle compagne
più sapienti di loro; e non ci è chi non sappia per esperienza il gran
male di questa erudizione contrabbandiera e dell'essere il fatto
dell'amore tenuto in una nebbia romantica di misterio peccaminoso. Ci è
nei _Contes drôlatiques_ di Balzac una storiella di due che giunsero
alla prima notte delle nozze e si abbracciarono nel letto senza sapere
che altro restasse loro da fare; ma la seconda notte la sposa andò per
erudizione da un vecchio che le svelò con l'esperienza l'arcano, e lo
sposo da una vecchia che similmente assaporò la primizia: di poi vissero
ambedue contenti di avere acquistata a sì buon prezzo la scienza. Ciò
ch'è nella vita, è nell'arte. Con quali argomenti si vorrebbe escludere
dall'àmbito dell'arte la rappresentazione piena e integra dell'amore?
Con criteri morali no, per le ragioni che abbiamo fuggevolmente
accennate; con argomenti storici meno che mai, perchè da Omero che con
tanto serena magnificenza narra l'accoppiamento di Paride con Elena dopo
il duello, sino al Carducci che con tanto casta potenza descrive la
lotta d'amore d'un'Evia con l'_amator silvano_ sulla cima del nevoso
Edone, non ci sarebbe un poeta non condannabile; e la Bibbia dovrebbe
essere arsa. La misura della moralità dell'arte non sta dunque nella
maggiore o minor pienezza della rappresentazione amorosa: sta in vece
tutta nella maggiore o minor limpidezza del flusso erotico che vi scorre
per entro.

L'amore ha, come tutta quanta la vita, la sua legge eterna; ed è la
riproduzione. Il diletto dell'amore dunque procede dall'equilibrio
organico e spirituale che segue al soddisfacimento della necessità della
riproduzione; e poichè alla legge della riproduzione è connessa quella
della scelta della femmina, il diletto è, direi, complesso. Finchè
dunque l'esercizio dell'amore non tende che a quel fine supremo, il
godimento è sano, e l'arte che lo rappresenta è santa. Se non che, il
pervertimento della natura umana giunge sino ad intorbidare questa
purissima gioia. L'amore, allontanandosi dalla finalità sua fatale, e
trovando in sè medesimo la sua ragione di essere, diventa inutile,
malsano, fonte di diletto fittizio, fattore di arte miserabile e
corruttrice. Confrontate, per un esempio, il _Canto novo_ con
l'_Intermezzo di rime_: là troverete palpitante e alitante di pagina in
pagina una bella e viva e fresca smania generatrice; qui troverete gli
allettamenti i vellicamenti i puttaneggiamenti onde un collegiale
vizioso, insinuata la mano sotto le gonnelle d'una educanda desiderosa
mentre tutta l'altra compagnia è intenta a giocare alla tombola, le
aizza e le rinfocola la prurigine del peccato. L'accoppiamento sano non
può essere afrodisiaco: è semplice casto solenne come tutte le più utili
e più naturali esplicazioni della vita: la libidine è degli eunuchi,
degli ammalati e della gente che, per non obbedire al destino finale
dell'amore, cerca sfoghi non consentiti dalla natura. Infatti,
nell'_Intermezzo di rime_ l'accoppiamento non pure non è mai descritto;
ma è tanto poco accennato, che quasi non appar necessario. O Gabriele, a
questo dunque dovevi tu giungere?

Se non che, pare ora che Gabriele si risvegli dal suo sogno lussurioso,
e che i fantasmi lascivi che gli sono stati materia e causa d'una sì
miserabile e malsana poesia, dileguino dal suo spirito. Così egli si
riscotesse da vero! Io intanto qui voglio ristampare per augurio
l'ultimo suo sonetto, pregando gli dèi della Grecia che rasserenino il
sangue e lo spirito dell'amico, e gli mandino molte solenni visioni
omeriche. Ecco il sonetto:

    Ora così tra le colonne parie
    de'l mio sogno di lusso e di piacere
    le purissime forme statuarie
    chiudo io per sempre. O sacre primavere

    de l'arte antica, o grandi e solitarie
    selve di carmi ove raggianti a schiere
    passan li eroi, ne l'arida barbarie
    de l'evo or chiedo splendami a'l pensiere

    la vostra luce! — Troppo in un malsano
    artifizio di suoni io perseguii
    a lungo de l'amor le larve infide.

    Ora un lucido senso alto ed umano
    me invade, poi che novamente udii
    cozzar ne'l verso l'armi de'l Pelide.

Egli mi scriveva giorni a dietro:

«Non mi sento ora nel possesso pieno di tutte le mie forze fisiche e
intellettuali. Sono indebolito dall'amore e dai piaceri dell'amore e
dalla consuetudine della vita orizzontale. Non ho più quella bella
sanità gioconda d'una volta: gli occhi mi dànno spesso fastidio, e il
fastidio m'impedisce di occuparmi e mi mette nei nervi l'irrequietezza
irosa dei piccoli mali. Sai che vorrei? Vorrei qui della gran neve e del
gran freddo che mi sforzasse all'esercizio e alle lunghe passeggiate e
alle larghe respirazioni dell'aria salutare. Oh, se venisse la neve
dalla Majella o da Montecorno! Verrà; la invocherò con tanta passione di
amante, che verrà.»

E io dal letto, onde scrivo, mi associo con Gabriele nell'invocazione, e
gli prego dai venti dell'Appennino abruzzese una stupenda nevicata.


III.

In genere i costruttori di melodrammi per musica, come i volgarizzatori
di romanzi francesi, mi fanno ribrezzo: pure mi piace che nello
scomparire di tutti i segni esteriori dei vari mestieri letterari, che
nel confondersi di tutti i tipi d'uomini di lettere in una categoria
confusa e camaleontica che va dallo scrittore-professore allo
scrittore-giornalista, uno almeno si distacchi dalla volgarità comune. E
questo è il _librettista_; tutti gli altri sono scomparsi.

Dove sono andate a finire tutte quelle classi di letterati, dilettanti o
mestieranti, che pur giovavano, se non altro, alla vendita dei libri?
Dov'è l'abate, _professore di belle lettere_, autore di un trattato
intorno all'arte dello scrivere? Dov'è il canonico, autore d'un mese di
Maria in versi sciolti e d'una versione in terza rima del Salterio? E
l'academico tronfio d'una cicalata sul miglior modo di tostare il caffè,
recitata in concistoro? E il parassita rimatore, che in due giorni
derivava dalla facile vena un sonetto per monsignore arcivescovo e una
canzone petrarchesca per le nozze della duchessina e un madrigale pel
ventaglio della principessa e una inscrizione per la tomba del
pizzicagnolo, strappando la vita a morso a morso, a furia di
endecasillabi? E i dilettanti di piccola erudizione, e i questionatori
grammaticali, e gli armenti di Arcadia, dove dunque sono andati a
finire? La stampa periodica, politica o letteraria, quotidiana o
domenicale o bimensile o mensile, li ha tutti assorbiti. Chi
riconoscerebbe in Ferdinando Martini il presidente dell'Accademia dei
Tribolati; e chi nel Rigutini uno dei tanti che intorno al Perticari al
padre Cesari a Basilio Puoti strillavano o predicavano teoriche
linguistiche, e davano al minuto lezioni di purismo? Nessuno, certo;
poichè anche le ultime pastorelle arcadiche stampano versi nei giornali
clericali, o, al più, compilano diari danteschi.

Anche il comediante, quell'ultimo e più genuino legatario dell'antica
reputazione e dell'antica fisonomia italiana, ha tralignato; e nessuno
oserebbe asserire che il commendatore Pietriboni rassomigli allo zingaro
di cent'anni fa, ruffiano paltoniere poeta e attor comico insieme, il
quale la mattina imbastiva un dramma e lo rappresentava la sera tra
l'immenso plauso della moltitudine, pur tenendo nell'opinione della
gente un luogo medio tra la meretrice e il ladro. Tuttavia, dicevo, mi
piace che il _librettista_ resista ancora; e sebbene esso non è proprio
constituito e rinserrato in una categoria singolare con statuti propri,
ma lo incontriamo da per tutto nel tramenìo faticoso della vita moderna,
pure porta segnate in fronte certe note specifiche che lo distaccano e
lo distinguono da tutta l'altra folla dei succhiatori d'inchiostro.


Il _librettista_ è un tipo vario ed elastico: ce n'è che restano nel
puro aere sereno dell'opera seria, ce n'è che discendono sino
all'abiezione dell'_operetta_: quasi tutti congiungono alla difficile
capacità del _libretto_ quella più volgare della romanza per camera. Sta
fra l'accordatore di pianoforti e il sonatore di violino nelle scuole di
ballo, un po' più sublime di questo, un po' più umile di quello; ma di
ambedue queste professioni ritrae una certa esteriore e non necessaria
intuizione musicale e l'abitudine di industriarsi e di aiutarsi con
qualche altro mestiere. Così non di rado il _librettista_ è anche
redattore di critica bibliografica o artistica o musicale, o è impiegato
del Debito Pubblico; e ce n'è anche tra i barbieri e tra gli uffiziali
della milizia territoriale: degli scolari poi di giurisprudenza si sa
che uno almeno ogni cinque è autore, _in pectore_ o in fatto, d'una
comedia o d'un libretto d'opera.

Di rado il _librettista_ procede dal comediante; per lo più sbuccia
dalla scorza d'un poeta giovinetto, dopo il primo fiasco; e,
naturalmente, più volentieri sbuccia dalla scorza d'un giovinetto poeta
romantico. Dico naturalmente, perchè il romanticismo è il miglior
ausiliare dell'opera musicale, la quale mal si acconcia alla semplicità
del sentimento umano e al piccolo spettacolo della vita; ma vuol
prorompere con le furie della passione, e vuole puntellarsi a uno
spettacolo che prenda tutti quanti i sensi dell'uditorio e li converga a
forza verso un oggetto unico. Infatti, — non so se altri mai vi abbia
posto mente, ma certo è così, — guardate alla storia della nostra scena
musicale, dai primi melodrammi metastasiani a Riccardo Wagner, dalla
_Didone_ ai _Nibelüngen_: che ascensione trionfale del romanticismo a
traverso la musica dai primi flussi naturali della melodia alle più
dotte e più studiose combinazioni dell'algebra armonica! Parlo del
materiale musicato, non della musica, la quale io, con molta paura di
dire uno sproposito, direi che abbia tenuto un cammino inverso.

I librettisti dunque vivono in pieno mondo romantico; e, ligi ai
comandamenti della legge romantica, viaggiano. Viaggiano da un capo
all'altro dell'orbe, da un momento all'altro del tempo, a traverso lo
spazio, a traverso i secoli, con la fantasia badiamo, come il capriccio
della mente o il capriccio della moda li guida. Non rifuggono dal mondo
romano, travisato romanticamente; ma più amano il medio evo, e più
volentieri fuggono agli aranceti del reame di Castiglia e alle selve di
banani e ai canneti di bambù che coprono il suolo dell'India. Onde
questa predilezione, e perchè? Forse che nel melodramma musicale questa
prevalenza dell'antichità medievale procede da una prima scossa contro
gli dèi della Grecia, come accadde nella poesia romantica? Oibò: se così
fosse, il libretto d'opera, come la lirica tedesca, dopo la furia della
ribellione, sarebbe a poco a poco ritornato, rinnovato e ringiovanito, a
cantare un più forte e più passionato inno agli dèi della Grecia, i
quali in più parti gli gioverebbero, poichè la tragedia greca era in
sostanza un grandioso libretto d'opera. Invece il melodramma va sempre
più sprofondando negli abissi medievali; e dalla ingenua bestialità del
_Trovatore_ è precipitato nelle nebbie tedescamente folte e fantastiche
del _Mefistofele_, e dopo aver respirato una boccata di aria pura nel
_Lohengrin_, si è gittato via per la campagna popolata di spettri,
dietro la _caccia selvaggia_, dietro la cavalcata delle Valchirie, nei
_Nibelüngen_ e nel _Parsifal_. Or io non voglio parlare nè del Boito, il
quale ha nell'arte poetica quella stessa serietà d'intendimenti e anche
di coltura che ha nell'arte musicale, il quale è ritornato agli dèi
della Grecia col libretto d'_Ero e Leandro_, che a me pare una delle più
felici e più squisite fioriture liriche di questo ventennio; nè del
Wagner, il quale con immenso amore e con immensa fortuna volle e seppe
infondere un nuovo soffio di vita nelle antiche epopee della patria. Io
dico della turba infinita, la quale in tutte le parti del mondo taglia
melodrammi musicali dalla stoffa medievale, non perchè i fantasmi del
medio evo sorgano dal fondo della conscienza artistica rinnovata con lo
studio della storia e del materiale romanzesco; ma perchè dà campo a una
inesauribile fabbrica di trovadori, ma perchè è tutto pieno di _risorse_
preziose, dal torneo alla corte d'amore, dalla gara dei giullari pel
conquisto della violetta all'assalto del castello, dal combattimento in
campo chiuso al colloquio sentimentale al lume della luna, ella
sporgente il bel corpo di fata dal verone della finestra ogivale, egli
là giù perduto nella notte: la luce elettrica intanto scatta bianca di
mezzo le quinte e va a ferire in viso la castellana; giù nell'orchestra
un pizzicamento di violoncello finge il crocidare dei ranocchi nel fosso
del castello. E poi, la _messa in iscena_ di un melodramma medievale è
la più facile cosa del mondo. In ogni magazzino teatrale ci è sempre un
certo fondo di scenarii con torrazzi feudali e notti stellate, e
_interni_ gotici con finestroni binati e coloriti e ampie cappe di
camino; in quanto ai panni, l'impresario va da un rigattiere, e chiede
del medio evo, senza parsimonia; e, si sa, di corazze di latta e di elmi
di cartone con pennacchi rossi, e di farsetti di velluto color nocciòla,
e di calze di seta le botteghe dei rigattieri non difettano; e nemmeno
mancano di stiletti e di spadoni: non ci è, forse, una bella veste
bianca per la castellana, ma a questa la prima donna provvede da sè. E
poi un'altra cosa, più importante forse, ribadisce il trionfo del medio
evo nel melodramma musicale: il gusto del pubblico. È inutile: questo
benedetto pubblico è come un lattante ostinato alla mammella, e non
vuole svezzarsi dal medio evo. E per questa parte i librettisti hanno
ragione: poichè la gente paga per volere udir cantare un tenore vestito
da Marco Visconti e una prima donna vestita da Maria Tudor, e perchè
scontentarla? Poniamo una zimarra di lana bianca in dosso e una borsetta
di pelle gialla a lato alla Signora delle camelie, e non se ne parli
più. In quanto alla manìa indiana ed egiziana scoppiata ultimamente,
parrebbe anch'essa una emanazione della prima grande rivoluzione
romantica, la quale anche nel mondo primitivo ariano cercò nuove fonti
d'inspirazione; parrebbe, se non fosse ridicolo pensare che i
costruttori di libretti d'opera si preoccupino d'altro che d'ammucchiare
le masse corali sotto la specie d'una folla indiana, che di edificare un
viale di sfingi sulle rive del Nilo per cornice d'un duetto romantico,
che di giovarsi del tempio buddhistico per comodo d'un finale a piena
orchestra. Leggete l'_Africana_, e vedete se dall'atto terzo in giù vi
riesce di capire in qual paese vi troviate; leggete l'_Aida_ e il _Re di
Lahore_, e se avete qualche esperienza di cose indiane ed egiziane fate
a meno, se potete, di ripetere i primi due versi dell'_Inferno_. Nè io
me ne maraviglio, da che la musica ha soffocato sotto le sue ampie ali
l'elemento poetico, da che, segnatamente nell'arte scenica, prevalgono
in modo vituperevole l'empirismo e il macchinismo; mi maraviglio anzi
che in mezzo a tanta abiezione vi siano dei maestri quali Arrigo Boito e
Riccardo Wagner, i quali con molta serietà hanno tentato di rilevare il
melodramma musicale a una dignità quale forse non ebbe mai. Anzi mi
pareva strano, leggendo due libri pubblicati ultimamente, che nel 1834
un librettista scrivesse versi come questi:

    Non ti diero invano
    Alto senno le Muse ed alma forte,
    Ed a te bolle italo sangue in petto;
    Invan non fosti eletto
    Quaggiù custode delle cozie porte,
    Nè invan, cinta di torri e d'armi piena,
    Il dorso inchina a te l'onda tirrena.

Il librettista scrittore di questi versi fu Felice Romani, e la canzone
esorta discretamente la maestà di Carlo Alberto a tener vivo il pensiero
del riconquisto d'Italia. Discretamente per due ragioni, l'una politica
e la seconda d'arte: prima perchè Felice Romani viveva e scriveva in
corte dei Re di Sardegna, ed il rammentare solo i bisogni e le speranze
d'Italia era già una gran cosa; secondo, egli per una singolare
consuetudine del suo temperamento poetico non sapeva escire, anche nel
concitamento lirico, da una certa serena e sicura moderazione degli
affetti. Per questo, non per tepidità patriottica, il Romani fu meno
veemente e meno caldo del Leopardi. Non fu tepidità patriottica, poichè
non trascurò occasione di far sonare la voce della patria impaziente
agli orecchi dei principi savojardi; e celebrando con grandi lodi il
senno di Vittorio Emanuele I, lo ammonì arditamente

    Iddio ti diede
    Tanta in Italia sede
    Perchè tu fossi, come forte, pio;

e cantando con una canzone petrarchesca Carlo Alberto legislatore, non
dimenticò di dire:

    E ancor tu l'ami quest'Italia e vedi
    Risorger forse nel fatal domani
    L'astro oscurato della sua grandezza.

Solamente nel '42, posando ai piedi di una coppia nuziale, in nome di
_Torino esultante_, un carme ricalcato sui _Sepolcri_, non disposò la
nota patriottica ai modulamenti della melodia cortigianesca. Lo sposo
era il duca di Savoia Vittorio Emanuele, e la sposa un'arciduchessa
austriaca: gli parve forse che dalle nozze felici dovesse nascere la
libertà d'Italia; certo egli non pensava che sette anni più tardi
avrebbe dovuto chiudere un sonetto con queste due tristi terzine:

      Te incolpa, o Italia, te che cieca e stolta
    Fra vane ambizioni e rei consigli
    Fosti pronta ai garriti, all'opre ignava.

      Tal che inerme ed oppressa un'altra volta
    I tuoi ferri strascina e grida ai figli:
    Genia divisa eternamente è schiava.

Un pensiero, sopra gli altri, gli stava inchiodato nella mente: voleva
che Genova, unita al Piemonte, movesse la guerra per la salute della
patria; sempre, rivolgendosi alla città o al re di Sardegna, propugna
questo suo pensiero, e vuole ad ogni modo che i nepoti degli Amadei e i
nepoti dei Doria siano i liberatori della patria. Era un'utopia come
un'altra, poichè nè i nepoti dei Doria nè quelli degli Amadei avrebbero
potuto affrancare l'Italia, se essa finalmente non si levava, e non
rompeva il ferro delle catene. Ad ogni modo questa lirica patriottica in
Piemonte dal '30 al '59 è degna di studio. Tanto più curiosa a studiare,
per la singolarità del poeta. L'impresa di Novara, dopo quella del
Trocadero; l'impresa di Novara, sollecitata e auspicata in rima da uno
scrittore di libretti d'opera, s'intende più chiaramente. E poi questa
dinastia savoiarda è come circonfusa di un'aureola romantica: tenutasi
per tanti secoli salda nel dominio del suo feudo alpino come una
famiglia di licheni abbarbicata a una rupe, si mostra, a cavallo, al bel
sole d'Italia armata in guerra a capo del popolo che si leva dal sonno
nel nome della patria e della libertà; e quando tutte le genti italiche,
nel tripudio della vittoria, pareva che dovessero andare ad appendere
corone al tempio di Giove Liberatore, ecco un cavaliere medievale,
simile ad Umberto Biancamano, con la visiera levata e la faccia nera pel
fumo del combattimento, scese da le Alpi; e tutto il popolo lo gridò re:
così la moltitudine dei Franchi acclamò Clodoveo. Poi questa stirpe
invecchiata, povera di sangue, fiacca di muscoli e di nervi, si adagiò
in mezzo al popolo d'Italia, come i _re fannulloni_ in mezzo al popolo
di Francia, e regge tuttavia per virtù della bellezza d'una donna. Non
ci è in tutto questo qualcosa di melodrammatico, e non doveva essere
appunto un _librettista_ il poeta di questa dinastia? Solamente è strano
che celebratore d'una romantica generazione di re sia stato un
_librettista_ classico.

Le inclinazioni e le predilezioni classiche nel Romani appaiono più
chiaramente forse dalla lirica che dai melodrammi, ove molte cose
dovette il poeta concedere alle necessità della musica e alla volontà
dei musicatori. È classico in tutto, nel contenuto e nella forma; anzi
nella forma fu così strettamente ligio persino alla nomenclatura
classica della lirica, che, ristampando certi suoi versi intorno
all'_Amante esule_ che canta alla luna come i cani randagi e i poeti
sentimentali, vi pospose la seguente nota: «Questa elegia fu già
stampata, ora sotto il nome di Ode, ora sotto quello di Romanza, i quali
nomi sono rigettati dall'autore per le sue idee particolari intorno
all'indole di siffatte poesie.» Tuttavia qua e là, nelle canzonette
erotiche o elegiache, nell'inno sacro manzoniano per la _Resurrezione_ e
nella trilogìa intitolata da Folchetto di Marsiglia, qualche germe
romantico tenta di gittar le radici; ma il terreno non è propizio,
poichè lo studio del Foscolo e, più sensibile forse, del Monti, lo ha
fatto sterile ad ogni seminagione romantica. Il Monti, il gran mago che
affascinò da prima anche il Manzoni, in sul principio di questo secolo
abbracciò con la grande potenza musicale tutte le facoltà poetiche
dell'Italia; e ci voleva una forza non comune a liberarsene: ci volle,
appunto, la forza del Manzoni e del Leopardi. I minori soggiacquero, e
non poterono escire dalla cerchia segnata dal mago. Tra questi, il
Romani. Del resto era naturale. Si esciva dalla preponderanza arcadica e
dai sonetti del Minzoni: gli orecchi erano stanchi di quella rimerìa
vuota e strepitosa come un rullìo di tamburi, e le bocche erano sazie di
giuncate; la gente prendeva a seccarsi dell'avvocato Zappi e a sparlare
della moglie. In Italia si cominciava a studiare il latino per altro che
per intendere gli statuti di Arcadia, e come una inconsciente necessità
di un bagno nelle pure linfe classiche nasceva tra la gente; ma il
Parini fuori di Milano era poco e male inteso, e il Foscolo ancora
troppo giovine. Venne il Monti, l'abate Monti con quella sua larga vena
sgorgante liberamente come l'eloquenza ciceroniana, e rievocò tutta
l'antichità classica, non già con le cabalette metastasiane, ma con un
violento flusso melodico e armonico in una, che pare il corso di un
fiume, e insieme lo scoppio di una facondia copiosa. Molti furono
ammaliati dalla novità del mondo evocato; ma i più cedettero al fascino
musicale. Leggete, per un esempio dichiarativo e persuasivo, questa
stanza d'una canzone petrarchesca del Romani pel busto del Monti:

    Cogli occhi al ciel rivolti,
    Al ciel che lo pascea di tanto lume,
    Stassi il poeta in estasi rapito,
    Qual se la voce ascolti
    Del genio ispirator, del suo gran Nume
    Chiamato in terra e da nessun sentito.
    Spazia lo sguardo ardito
    Per entro a campi che non han misura,
    Regni di fantasia noti a lui solo;
    E qual disciolta a volo
    Fiamma si leva al ciel per sua natura,
    S'erge lo spirto a region divina
    Ove s'interna, ove sè stesso affina.

Nel Monti dunque più volentieri si specchiò il Romani, non tanto, per
altro, che molto non ritraesse anche dal Foscolo. Di più, il caprifico
d'Arcadia gli aveva lasciato qualche barbilla confitta bene addentro nel
midollo cerebrale. Le anacreontiche e le romanze sono tutte, quale più
quale meno, fiori bianchi del bosco Parrasio:

    Esci, o sospir, dal core,
      Vola al mio bene, e dille,
      Che sei sospir d'amore,
      Ma non le dir di chi.

Ecco, mi pare, una strofetta degna dell'avvocato Zappi; e qui pure è da
ricercare il nodo che unisce la poesia lirica alla poesia melodrammatica
di Felice Romani. Il melodramma moderno infatti ha origine boschereccia:
è nato dal grembo d'Arcadia; nè occorre uno studio molto profondo della
poesia metastasiana a persuadersene. Nacque arcadico, e morrà forse
romantico, poichè il romanticismo gli ha subito aperto le braccia e va
lentamente soffocandolo. Nel Romani, l'ho detto, il romanticismo poco o
nulla fe' presa: più tosto prevalsero le reminiscenze arcadiche, le
quali nella lirica si rifugiarono in una determinata forma di
componimento, ma nel melodramma proruppero più prepotenti, ovunque le
lusinghe melodiche le tentavano, troppo mal temperate dalla
premeditazione classica dei _recitativi_, e da qualche involontaria
irruzione romantica.

In genere, si può dire che il Romani è classico nella lirica obbiettiva,
e arcadico nella lirica subbiettiva; ma obbiettivo o subbiettivo che
sia, classico o romantico o arcadico, una cosa è certa: che in lui le
naturali facoltà liriche sono guidate e corrette da un infinito amore
della misura e della forma. Non mai egli trascende oltre i confini del
sentimento umano, e la passione in lui, anche nel momento del maggiore
impeto lirico, è regolata con quella moderazione, nella quale sta
l'eccellenza dell'arte. Certo, gli mancò il soffio potente che dà le
penne maestre alle cose poetiche e le sospinge in alto; ma questo libro
di lirica, ove appaiono più chiaramente gli studi e le inclinazioni sue,
sarà molto utile a chi voglia studiare la genesi del melodramma moderno.

Poichè nella poesia del Romani, anche nella canzone petrarchesca, anche
nell'ode saffica fatta un po' liberamente, la presenza del melodramma si
sente nel movimento drammatico dell'affetto e nell'onda melodica; così
come ne' suoi melodrammi le consuetudini liriche si affacciano tra le
esigenze della scena e il capriccio della musica. E il librettista
appare anche nelle _novelle_, le quali il Romani non volle imitare dal
francese, ma trasse da vecchi romanzi di cavalleria: l'intenzione era
buona, o almeno a me pare buona, poichè si accorda in parte con certi
miei criteri novellistici; ma il cancro della _situazione_, e le ulceri
della declamazione, e le fistole della cabaletta e del duetto gli
rodevano da troppo tempo la carne; e le sue novelle sono melodrammi in
prosa narrativa.

Tuttavia queste preoccupazioni d'arte in un librettista sono molto
significanti; e mostrano, se non altro, una cosa: che il Romani non solo
alla lirica, ma e alla novella e al libretto d'opera giudicava
necessaria una qualche preparazione; e certo egli prima di scrivere la
_Norma_ lesse i commentari della guerra gallica.


IV.

Nelle presenti condizioni dello spirito italiano, un uomo che goda di
qualche favore letterario e si presenti al pubblico con un libro di
lirica, o deve avere smarrito affatto il senso comune, o è provveduto
d'un coraggio leonino e d'una fiducia strana nelle proprie forze
poetiche. La lirica infatti dopo un ultimo lampo di luce si va
rapidamente ringolfando nelle tenebre. Non ci strappiamo i capelli per
disperazione, nè ci cospargiamo di cenere il capo: questa ruina è
fatale, non per noi solamente, ma per tutta l'Europa. L'Inghilterra
resiste ancora, per un singolare fenomeno della sua natura tenace, e dal
Byron ai nostri giorni ha tutta una gloriosa tradizione poetica non
interrotta mai; la Francia (lasciamo in pace Victor Hugo), prima ha
levato sugli scudi il Coppée e gli altri poveri parnassiani lodatori in
rima delle _cocottes_ e delle passeggiate in _omnibus_, poi è caduta
ammirando alle ginocchia del signor Rollinat; e ciò è il vituperio
ultimo della poesia francese. E gli altri popoli del concerto europeo?
Non ne parliamo neppure, poichè da quel poco che io ne posso sapere
debbo concludere che la miseria è universale. So che in Germania hanno
levato alle stelle come miracoli i romanzi poetici dell'Hamerling e le
novellette in rima di Paolo Heise e hanno ristampato più di cinquanta
volte quella retoricata indegna pure di uno dei poeti svevi flagellati
dallo Heine, ch'è il _Trombettiere di Säckingen_ dello Scheffel; so che
più d'un critico tedesco molto reputato ha rimproverato alla Germania la
sua abiezione lirica; so che la Spagna moderna ha celebrato come un dio
quell'Espronceda, che ebbe bensì qualche lampo di poesia, ma la
confusione della sua mente e la nessuna cura dell'arte e la scarsa
preparazione metrica e grammaticale l'offuscarono in tutto. Vogliamo
andare in traccia di qualche filone lirico di là dal Danubio e di là dal
Volga? Non ne vale la pena. La Rômania incorona di molti lauri Vâsili
Alexandri, perchè la sua storia letteraria si può dire cominci con lui:
così nelle enciclopedie di poesia latina si ristampano anche i frammenti
poetici di Cicerone, e il mio amico Guido Mazzoni traducendoli li fa più
belli che non siano nell'originale. In quanto alla poesia russa, io non
me ne intendo; ma non ho mai letto nè udito dire che una polla di lirica
nichilista sia scaturita di mezzo agli scoppi della dinamite. Lasciamo
dunque che il concerto europeo discuta la questione danubiana, e
congratuliamoci con noi medesimi. Sì, noi abbiamo ragione di esser
superbi; e possiamo levar la fronte alta in conspetto dei poeti inglesi:
noi nella storia universale della lirica abbiamo fatto un miracolo.

Poichè, riaversi dall'urto della reazione cattolica proceduta dal
Manzoni, riaversi dall'infiacchimento della reazione romantica proceduta
dal Prati e dall'Aleardi, rialzarsi, dopo gli inni sacri dopo la lirica
patriottica dopo la lirica da salotto, con una freschezza e una forza
strana d'ideali classici nel contenuto e nella forma, rifare, in senso
inverso, tutta quanta la rivoluzione poetica del Goethe dopo le più
pazze aberrazioni del romanticismo — è stato un miracolo poco credibile.
Dopo gl'inni sacri, dopo le lettere a Maria, che cosa potevamo
aspettarci e augurarci noi? Qualche Rollinat da strapazzo spinto in
piazza non già da Sarah Bernhardt, poichè non siamo in repubblica, ma da
Leone XIII o dalla figliola dilettante di letteratura di qualche
ministro del Re d'Italia. Abbiamo invece avuto un riverbero di luce
foscoliana; abbiamo invece avuto finalmente un poeta lirico che ha
saputo intuire, che ha saputo rappresentare la vita moderna senza
discostarsi mai dagli ideali classici che son cementati nel midollo
delle nostre ossa; possiamo invece andare con l'Inghilterra dinanzi a
tutti gli altri popoli d'Europa, e vogliamo lamentarci, e vogliamo
cospargere i nostri capi di cenere? Oibò. Portate fiori e corone di
lauro, e sia il canto funebre della nostra lirica come l'epigramma di
Simonide pei caduti alle Termopili, o come l'inno funebre del _Rigveda_.
Non in tutto però come l'inno del _Rigveda_, poichè guai a colui che
volesse ricondurre a nozze la vedova, senza avere i fianchi abbastanza
forti per fecondarla. E questo appunto io mi domandavo, leggendo le lodi
dei giornali a un libro di versi del signor Luigi Gualdo: — Il signor
Gualdo ha egli forze sufficienti a tanta fecondazione? — No. Letto il
libro, ho subito veduto che il signor Gualdo si è messo
sconsigliatamente a una impresa pazza. È come se don Chisciotte avesse
tentato col soccorso di Sancho la giornata di Roncisvalle. Egli ha
voluto serrare nelle braccia debilucce di damerino una femmina troppo
forte troppo repugnante troppo avvezza ad abbracciamenti leonini; ed
ella sdegnata o nauseata gli è insorta contro serrandolo con le dita
alla gola, e soffocandolo sotto i guanciali del letto. La vedova aveva
bisogno d'altri mariti ben più potenti, e questo nuovo poeta
preconizzato e levato alle stelle dai giornali è un piccolo dicitore in
rima, del quale nessuno si occuperebbe, se non avesse scritto dei buoni
romanzi in lingua francese. Avesse scritto anche i versi in francese!
Allora lo avremmo paragonato a un rimatore di corte del secolo XIII,
dispregiatore della lingua volgare; e lo avremmo messo insieme col
signor Rollinat.

La leggerezza maggiore del signor Gualdo sta in questo: ora che la
lirica cessa per un mancare dei motivi poetici, mettersi a fabbricar
lirica senza un lungo lavoro di meditazione e di preparazione, senza
avere accumulato nella mente una qualche quantità di materiale nuovo
poetabile, è come montare in un treno di strada ferrata senza avere i
quattrini per pagare il biglietto, è come affidarsi al mare senza sapere
gli elementi del nuoto. Di che consiste il contenuto poetico del signor
Gualdo? Vediamo.

Il signor Gualdo deve sopra tutto aver posto molto studio nei
parnassiani francesi, poichè le due forme poetiche predominanti nel suo
libro sono le due forme predilette dai parnassiani, e quelle che
d'ordinario accennano al crollo della lirica: la narrazione e la
chiacchierata in rima, che sta fra la _moralisatio_ medievale e la
_tirada_ del dramma spagnolo e il _recitativo_ del melodramma. Di più,
ci è qualche _ritratto_ e qualche _paesaggio_, in ultimo: altro segno di
sfacimento lirico, che appare specialmente di questi tempi in Germania.
Le forme esteriori dunque rivelano subito la debolezza del signor
Gualdo, poichè quando l'impeto lirico si va attenuando nei vezzi del
raccontino, poichè quando la foga della passione si squaglia e si
diffonde nella cascaggine della chiacchiera rimata, la lirica si
sfascia. Domandatene a Pindaro, che cantava le lodi dei cocchieri
vincitori, e non altro; domandatene a Saffo, che esprimeva la passione
per una donna amata, e niente di più; domandatene a Victor Hugo, al
Leopardi, al Carducci. Diavolo, o se vi mancano i nervi, se vi manca il
fuoco sacro, se vi mancano i concitamenti dell'animo, e perchè farsi
scorticare come Marsia? E perchè rifare in italiano le storielline
miserabili e i ciangottamenti leziosi del Coppée e di Sully-Prudhon?
Fate dei madrigali, per Dio, e scriveteli sui ventagli delle signore; ma
non ci date lo spettacolo di accoppiamenti contro natura, costringendo
la lirica nel letto della poesia narrativa, nascondendo le chiacchiere
da salotto sotto le gonnelle d'una rimerìa fastidiosa.

Ma altri peccati ben più gravi ha il signor Gualdo sulla conscienza. Il
suo libro è intitolato _Nostalgie_, e il titolo è singolarmente lirico e
subbiettivo. Ebbene, credereste voi che egli, per quanto ci si
affatichi, non riesce mai ad essere subbiettivo, non riesce mai a far
palpitare il suo _io_ in mezzo a tutti quei contorcimenti di strofe?
Credereste voi che di nostalgico in questo libro di versi non ci è
proprio nulla, nulla, nulla? Già, si capisce dalla forma: quando il
poeta lirico ha bisogno di ricorrere alla novelletta o alla poesia che
io chiamerei _discorsiva_, quando non sa far sprizzare nessuna scintilla
nè dalla contemplazione dei fatti della vita, nè dalla contemplazione
degli spettacoli della natura, vuol dire che in fondo all'anima sua non
c'è niente, nemmeno un lampo d'amore, che è l'elemento lirico più
comune; vuol dire che nell'intelletto suo non ci è niente, se non
qualche reminiscenza dei parnassiani francesi, del Leopardi,
dell'Aleardi, di Emilio Praga, dei peggiori romantici tedeschi. E
allora, siamo sempre là, perchè mettersi a costruire della lirica con
molta fatica?

Già: la fatica e lo sforzo nel libro del signor Gualdo, che io
volentieri direi un rimario, appaiono per più segni. E prima, è evidente
lo stento nella ricerca dell'argomento. Al signor Gualdo manca persino
quella volgare facilità del Coppée di transformare ogni fatto della
cronaca quotidiana in un raccontino poetico, e ogni scipitaggine
pettegola in un monologo rimato; manca l'intuizione della vita moderna.
Per tenersi entro l'àmbito della modernità scrive una _Storia di mare_,
che può esser di tutti i tempi e di nessun tempo, poichè narra di due
che s'innamorano nuotando in mare, e poi la passione fa loro mancare le
forze, e si annegano; poi scrive qualche altra storiella, ove il senso
della modernità, anzi il senso della vita manca assolutamente; e
finalmente piomba a capofitto nel grande espediente romantico: va a
rimuginare tra i ferravecchi del passato. Grande espediente davvero, e
gran fattore di poesia epica e di poesia lirica e di poesia drammatica e
di ogni più alto soffio poetico, quando i rimuginatori sono il Goethe lo
Schiller il Carducci; quando sono dei veri poeti, e insieme degli
eruditi, quando sanno la storia, e dalla storia sanno far scoppiare la
scintilla dell'inspirazione, e hanno riguardo alle forme popolari della
poesia narrativa. Ma il signor Gualdo che non intuisce e non sa
rappresentare la vita moderna, in mezzo alla quale vive, come potrà far
rivivere agli occhi del lettore un medio evo studiato nelle commediole
del Giacosa, una Grecia imparata nel compendio storico del signor
Berrini, un Egitto intraveduto, non già nei romanzi di Giorgio Ebers,
che sarebbe troppo, ma negli scenari dell'_Aida_ e un poco anche nel
libretto? Leggete la _Separazione_, un raccontino medievale con la
solita castellana che aspetta il marito e il solito paggio sospiroso
d'amore; leggete i sonetti intitolati dagli _Amori_, ove si discorre
dell'amor greco e dell'amor medievale e dell'amor secentista e dell'amor
moderno con una freddezza, con un obbiettivismo, con una incompetenza
storica e amatoria che fa torto al signor Gualdo, il quale, dicono, è
uomo di buone fortune. Tale è il contenuto di questo libro: contenuto
quaresimale e che ci richiama alla presente miseria poetica degli altri
popoli d'Europa, e ad una vecchia miseria nostra, della quale
cominciavamo a dimenticarci. Ma ho detto che per più segni appare lo
stento. Ritorniamo dunque alla forma. Il signor Gualdo non ha nemmeno la
facilità della forma esteriore, la sveltezza scorrevole del verso, la
fluidità frolla della strofe. Per lui comporre parecchi versi in una
strofe deve essere una fatica ingrata, se s'ha a giudicare dal fastidio
che ne risente chi legge. Eccovi in prova delle terzine:

    Mi parve ancor che qui ove tutto passa,
    Ove il dolore sol di nostro è certo,
    E ogni voglia ne attira odiosa e bassa,

    Ove tutti si va per cammin erto
    E faticoso ad una ignota mèta,
    Non sapendo il perchè d'aver sofferto,

    Ove lo spirto mio non si disseta
    E ribellar sentiamo prigioniera
    L'alma rinchiusa nella fragil creta,

    Temibile non è per l'uom la sera,
    Che alfin dirà ciò che a ciascuno è ignoto,
    E affermerà se la speranza è vera

    O se il destino d'ogni senso è vuoto.

Non sente il lettore lo stento del rimatore per aggiogare un qualunque
concetto a quelle terzine strascicantisi con una pena pietosa sulla
strada maestra del senso comune tutta piena di polvere, tutta consparsa
dai ciottoli pericolosi delle rime? Di più il signor Gualdo non si tiene
alle forme metriche della lirica, vecchie o nuove; ma tranne qualche
sonetto, tranne queste terzine, che sono un metro non già lirico ma
epico o elegìaco, egli foggia la strofe a fantasia; e questo è un altro
segno d'incertezza e di stento. Non mai egli si avventura a tentare il
marmo pario dell'ode alcaica; non mai si affida ai ripiegamenti larghi e
pericolosi della canzone; non mai si abbandona all'impeto d'una strofe
settenaria, come fece tante volte con tanta fortuna il Prati. Oibò. Egli
si adagia nel comodo seggiolone imbottito di borra della quartina; o
foggia delle strofe strane, ove gli endecasillabi rimano due a due;
oppure caccia timidamente il cuneo d'un settenario nel gran ceppo d'una
lunga stanza endecasillaba. E più in là non va, perchè le forze non
bastano. Mi pare dunque di poter conchiudere che al signor Gualdo le
forze troppo fanno difetto, perchè il suo esperimento lirico gli si
possa perdonare. Disse una volta Giulio Salvadori che l'ultima lirica
italiana è come un tirso nudo che i poeti, carducciani o no, rivestono
di fronde. Il signor Gualdo stenta anche a trovare le fronde. I motivi
della sua lirica sono presi o dalla presente lirica francese, o dal
romanticismo tedesco e italiano di trent'anni a dietro. Egli non ha
saputo nemmeno mettersi a paro delle ultime tradizioni liriche italiane,
e nemmeno sta saldo e sicuro in una determinata forma; ma oscilla
incerto tra il romanticismo antico e il romanticismo moderno. Così nella
poesia intitolata _Una voce_, la prima parte, nella quale parla la
fanciulla morta dalla tomba, è una derivazione schietta del romanticismo
tedesco; mentre la seconda parte, nella quale il rimatore dice che il
discorso della sepolta fu un sogno, e fa risplendere il sole e spuntare
i fiori dalla terra ingrassata dai morti, è un motivo tolto dal Praga.
Anche la sua forma grammaticale e la sua forma metrica sono incerte;
poichè ora egli si abbandona a una famigliarità di locuzione poetica che
tocca i confini della sciatteria, e ora invece s'affatica e suda, per
mantenersi all'altezza di un certo stile aulico che rammenta i còmpiti
degli scolari ginnasiali. Di più nel suo libro c'è parecchi versi
sbagliati o duri. Eccone qualcuno:

    Dell'ideal col vero _unione_ estrema (pag. 200);
    Dall'albero pendea una vela lacera (pag. 122);
    Smarrito è omai il vessillo che fluttua (ib.);
    Ed il cozzar dei _destrier_ bardati (pag. 184);
    _Region_ che attira le instancabili ale, ecc.

Io dunque mi domando di nuovo: perchè il signor Gualdo si è attentato a
mettere insieme con gran fatica un cattivo libro di rime italiane,
invece di scrivere un altro romanzo? La cosa è strana, poichè noi ora
abbiamo un gran bisogno di romanzi, e pochissimo bisogno di lirica. E
finchè la Francia continua a precipitare di Rollinat in Rollinat,
possiamo viver contenti di quel che abbiamo, e condannare alla
deportazione in terra francese tutti i cattivi rimatori che si ostinano
a cicalare con molto sudore loro, e molto fastidio nostro.



IV.

PALCO SCENICO

  In vituperio dei barbagianni — Il capolavoro del teatro moderno —
  I medici del dramma.


I.

La _Società per l'acquisto e tutela delle opere drammatiche_ ha dato
commissione al signor Pietro Calvi di un dramma intitolato _Bianca
Capello_. La cecità umana è grande, lo sapevo; e il pervertimento del
buon gusto e del buon senso in Italia è giunto a tale, che la nozione
del bello e del brutto, del buono e del cattivo, diventa una cosa ogni
dì più disperata. Tuttavia io non credeva che il naufragio del senso
comune fosse tanto irreparabile. Questa associazione sòrta d'improvviso
in mezzo alla crescente attività della nostra Roma monarchica e
constituzionale, questa associazione che nata appena apparve viva e
forte, dava buone speranze di sè. Erano clericali, ma le preoccupazioni
politiche cedevano dinanzi all'amore dell'arte drammatica; erano ricchi
e spendevano liberalmente. I primi tentativi furono felici: l'area
desiderata per l'edifizio del teatro fu concessa; i migliori attori
d'Italia volentieri disertarono le irrequiete compagnie di ventura per
prender soldo in questo esercito stanziale; i critici più rabbiosi, come
per miracolo, o applaudirono o, almeno, assentirono. Io stava a vedere e
silenziosamente applaudiva anch'io, maravigliandomi forte che in Italia
si facesse in fine una cosa per bene. Ed ecco, veggo che a
quest'associazione nata con auspizi così felici manca una piccola cosa:
una persona di buon gusto che guidi con qualche intelligenza la scelta
dei lavori drammatici. Se il signor Calvi fosse un giovine in tutto
ignoto e avesse presentato all'associazione una _Bianca Capello_
qualunque, l'associazione avrebbe fatto opera onesta accogliendola e
pagandola; ma questo signor Calvi ci è già apparso nei calori d'una
estate alla ribalta del _Costanzi_ tra le carnosità della signora Ruta e
le carnosità di Ponzio Pilato. Faceva molto caldo quelle sere al
_Costanzi_, e Maria Magdalena e Ponzio Pilato e il cavaliere Alamanno
Morelli davano al pubblico plaudente uno spettacolo miserando della
nostra abiezione drammatica. Faceva molto caldo quelle sere al
_Costanzi_, eppure io mi sentivo filtrar dai pori della pelle un sudor
freddo; e ogni volta che il signor Calvi piccinino e mingherlino si
prostrava alla ribalta dinanzi al pubblico, un senso di raccapriccio e
di pietà e di paura mi prendeva in mezzo a tutto quel fuoco della
illuminazione e della respirazione e dell'ammirazione.

E ripensavo al buon tempo goldoniano, quando la comedia sboccò
d'improvviso in piazza di San Marco dalla riva degli Schiavoni con un
bel coro intorno di risate umane; e ripensavo al buon tempo della
comedia dell'arte, quando i nostri comici se ne andavano pel mondo
recitando e fabbricando comedie a braccia; e alla età dell'oro del Lasca
e del Bibbiena e del Machiavelli e di messer Lodovico Ariosto; e alle
rappresentazioni sacre che empivano le chiese di diavoli e di fiamme
sulfuree; e alle processioni di flagellanti che passavano per le vie
cantando laudi spirituali. E invocavo la congregazione dei flagellanti
di Gubbio che venisse là nel teatro _Costanzi_ cantando laudi, e
cacciasse dal tempio a staffilate quel mercante di mitologia biblica che
faceva parlare Ponzio Pilato come un cavalier medievale della fabbrica
Giacosa, e Maria Magdalena come una carcassa femminile piena del fumo di
stoppa di Vittoriano Sardou e del vapore di acido nitrico di Alessandro
Dumas.

Non ci vorrebbe meno di una compagnia di flagellanti bene armata di
staffili e di verghe per spazzar via questa pietosa ignominia dal nostro
palcoscenico; ma forse anche basterebbe una legge del parlamento che
ordinasse i teatri interdetti per dieci anni almeno, finchè i nostri
fabbricanti di cose drammatiche non abbiano bene confitta nella mente
questa persuasione, che a scrivere un dramma occorra un po' più
d'ingegno e un po' più di coltura che a cucire un paio di scarpe. Ma
quale delle nostre comedie in prosa e dei nostri drammi in versi mostra
che questa persuasione sia entrata nell'animo dei nostri dramaturghi?
Dalla _Speronella_ del primo Marenco — pur tanto migliore del secondo —
sino al _Conte Rosso_, io li ho non già uditi recitare sulla scena, ma
letti quasi tutti, pazientemente; e ancora le mascelle mi dolgono dagli
sbadigli. E questa persuasione, che a far qual cosa di vivo e di
durevole nell'arte occorra, oltre alla forza dell'ingegno, una larga
nutrizione dei pensieri e delle forme e delle cose altrui, è tanto
lontana dall'animo non pur degli scrittori ma dei lettori e degli
spettatori, che quando alcuno si attenta a dirlo pubblicamente con
qualche calore, quelli s'indispettiscono come d'una scempiaggine
fastidiosa e questi scoppiano a ridere come d'una scempiaggine allegra.

Eppure la ragione prima e vera della nostra miseria letteraria sta
appunto nella miseria della nostra coltura. Interrogate qualcuno dei
nostri scrittori di teatro intorno alla storia del teatro italiano;
domandate loro quale intento si propongano, oltre quello di solleticare
la digestione dei droghieri fortunati e dei cavalieri della Corona
d'Italia, se e perchè e in quale maniera e in quale misura l'opera loro
si riallacci al complesso del nostro possedimento dramatico. Domandate,
domandate al commendatore Paolo Ferrari per quale odissea di accidenti
calamitosi e vergognosi la comedia italiana, che, uscita troppo
avviluppata di panni romani dalle mani dell'Ariosto era balzata viva e
verde e inghirlandata di fiori della Val di Chiana dalle mani del
Machiavelli, sia precipitata sopra un letto di Procuste tra il marchese
Colombi e Alberto Pregalli, dei quali il primo le ride con certe goffe
contorsioni della faccia di fauno ripulito e l'altro le empie gli
orecchi con le sue tirate ventose di predicatore spostato; ma nè l'uno
nè l'altro ha tanto vigore di nervi e tanto ardore nel sangue da
prenderla pei fianchi e soggiogarla.

Ovvero domandate al commendatore Giuseppe Giacosa la storia del teatro
tedesco. Certo egli non la sa, perchè se la sapesse non avrebbe tratto
fuori dal suo cervello d'avvocato un medio evo mezzo da melodramma e
mezzo da litografie per le scatolette di fiammiferi. Certo nessuno di
quelli che in Italia scrivono cose dramatiche sa che il teatro tedesco è
sorto per opera di un cattivo scrittore di drammi e di comedie, che
studiò assai Aristotele e un poco anche la letteratura scenica inglese.
Il Manzoni, che lo sapeva, scrisse due tragedie che non hanno rallegrato
nessun droghiere, ma di cui i nostri discendenti potranno accettare
l'eredità senza il benefizio dell'inventario. Ma vorranno essi accettare
i martelliani del Giacosa, e gli endecasillabi del Marenco, e la prosa
del Ferrari, del Montecorboli, del Castelvecchio, del Castelnuovo, del
Chiaves, dell'Interdonato e di tutta la infinita turba che insulta la
comedia e il dramma e il buon senso e la grammatica italiana? Non credo;
e già i fatti si accordano col mio pensiero. Il Giacometti, che pure non
fu in tutto un volgare costruttore di materiale rappresentabile, è morto
da un anno, e già l'opera sua è sepolta con lui. Tommaso Gherardi del
Testa, che pure più degli altri ebbe vivacità di scena e di lingua
toscana, è morto da due anni, e invano gli amici suoi si adoperano a
tenerne viva la memoria. Il fatto è triste, ma è evidente: tutte le cose
drammatiche che appaiono sul palcoscenico da venti anni in qua, sono
polvere e in polvere ritorneranno. Quando io vidi rappresentare al
_Valle_ il _Conte Rosso_ di Giuseppe Giacosa, mi turai forte il naso con
le dita, perchè sentivo nell'aria un gran fetore di putrefazione.

Chi dia un'occhiata complessiva alla massa della nostra produzione
drammatica dal '60 in poi, dovrà subito stornarne lo sguardo con un
sentimento misto di paura e di orrore, tanto è il guazzabuglio delle
forme e degli intendimenti e delle inclinazioni. Qualunque sforzo di
unificazione è vano: pare che, chetate le preoccupazioni politiche del
'60, trasportata a Firenze la capitale d'Italia, si aprissero le porte
di un ospedale di pazzi, e una gran turba di imbecilli e di furiosi e di
allucinati se ne sparpagliasse per tutto il novissimo reame. Da tutte le
parti sorsero dramaturghi: la più parte venne su dalla classe degli
avvocati, molti anche ne sbocciarono fra mezzo il pecorame dei
filodramatici, e non ne mancarono tra gli studenti di ostetricia, tra
gl'impiegati al Debito pubblico, tra i maestri elementari e tra i
sottotenenti di fanteria. Era come una frenesia furibonda che colpì un
quarto almeno dell'Italia nuova. L'Italia era fatta, si doveva fare il
teatro italiano. Da principio il fuoco maggiore di questa grande
irradiazione di luce dramatica fu Firenze, ove, come dice il Costetti,
«c'era di autori, tra giornalisti-autori e attori-autori, un visibilio:
da Alessandro Salvini, noto per i suoi drammi scritti in una notte sul
tavolone dell'osteria, al cav. Gaetano Gattinelli autore di ponderosi
drammi storici, e ad Achille Montignani reo del _Vizio di Educazione_; e
da Giovanni Sabbatini babbo degli _Spazzacamini di Aosta_, a Ferdinando
Martini ond'erano ancor freschi gli allori di _Fede_ e dei _Nuovi
ricchi_.» C'erano anche Luigi Gualtieri, il Bellotti-Bon, il Coletti, il
Costetti medesimo. Più tardi, rivendicata Roma all'Italia, la frenesia
non che cedere crebbe; ma accaddero due fatti strani: l'empirismo e il
macchinismo, che sino al '70 erano stati norma quasi universale della
molta produzione dramatica, accennarono a scemare, e quell'ombra di
accentramento che s'era fatta in Firenze intorno al _Cocomero_
ribattezzato nel nome del Niccolini non si potè rifare intorno al
_Valle_; ma cominciò uno sminuzzamento e uno sparpagliamento dell'arte
scenica intorno a tanti piccoli centri quante sono le città d'Italia;
sminuzzamento che a molti parve una ruina e a molti una cosa utile, e a
me non pare nè un bene nè un male, perchè io credo che le ragioni della
nostra abiezione dramatica si debbano cercare più in alto, e, dove si
debbano cercare, l'ho detto.

Dopo il '70, dunque, prevalse un più alto concetto dell'arte scenica: i
macchinismi antichi, le antiche tiritere di moralità imbottite di
paroloni grandi e variate di colpi di scena e di cannonate secondo i
precetti di Vittore Ducange, o le antiche tirate storiche rosse ancora
di riverberi alfieriani, gli antichi pasticci malamente imbastiti alla
maniera di Scribe, caddero: l'orizzonte si rasserenava. Ferdinando
Martini, il quale già con le sue comedie aveva mostrato, se non una via
nuova, certo nuovi e migliori modelli, diede co' suoi proverbi derivati
dal De Musset forse il primo esempio di una cosa dramatica fatta con
intendimento d'arte; Paolo Ferrari, che s'era venuto via via rinnovando
e migliorando e liberando dalle vecchie scorie filodramatiche, spiegava
le ali a un volo più alto; altri minori spuntavano o si maturavano al
calore della nuova scuola dramatica francese: ogni nuova comedia nervosa
di Dumas, ogni nuovo dramma ventoso di Sardou, generavano qualche nuovo
acolito del palcoscenico. I molti centri dramatici si facevano la
concorrenza: a Milano il Ferrari e i ferraristi; a Napoli una stella
nuova subitamente sòrta all'orizzonte e subitamente accennante a
declinare, Achille Torelli; a Torino un'altra stella improvvisa, anzi un
fungo di settembre cresciuto e accarezzato e levato su gli scudi troppo
presto, Giuseppe Giacosa; a Roma, maggiore di tutti e unico veramente
grande, Pietro Cossa. Il Martini, come subito aveva veduto di non esser
nato per la comedia e pel dramma, così intese che i suoi scherzi in
versi potevano bensì far la delizia di un salotto e piacere anche a una
platea, ma non mai essere opera seria e durevole, e disertò dal
palcoscenico: restarono, eminenti su la turba infinita, il Ferrari, il
Giacosa, il Cossa.

Paolo Ferrari si è gittato da ultimo alla comedia a _tesi_ e, dicono i
molti suoi ammiratori, tiene il campo coi maggiori comici francesi del
nostro tempo: Dumas, Sardou, Augier. Questa opinione dei troppi
ammiratori di Paolo Ferrari ha urtato i nervi di molti che non adorano
soverchiamente il dramaturgo modenese, e Luigi Lodi scrisse un libretto
caldo e vivace per dimostrare che il Ferrari è lontano dai tre francesi,
quanto una bertuccia da un uomo. In questa questione io non voglio
entrare; io dico solamente che ciò che avvelena senza speranza di salute
l'opera dramatica di Paolo Ferrari è appunto questa sua derivazione dal
francese. Tracce dell'Augier nel Ferrari è inutile cercarne: si trovano
bensì, e profonde e larghe, tracce del Dumas e del Sardou, si trova qua
e là sparpagliata la retorica romantica del Dumas e la retorica
declamatoria e la festività superficiale del Sardou. Di proprio
veramente il Ferrari nelle sue comedie non ha messo nulla: ci ha messo
delle persone impagliate come quelle del Sardou e delle persone
putrefatte come quelle del Dumas, ma nemmeno una persona viva ci è in
mezzo a quella moltitudine: gli ammiratori sdegnati mi spingeranno
addosso il marchese Colombi, ma il marchese Colombi non è un uomo, è un
fantoccio di Norimberga che fa delle contorsioni, come Rabagas. Queste
persone, è vero, vanno e vengono e s'intrecciano e s'accapigliano e
s'accoppiano con abbastanza di disinvoltura; ma parlano con una
goffaggine così bestiale un italiano così pretensioso nella sua
spropositata semplicità, che a leggerlo non si resiste.

Il Giacosa poi, dopo avere anch'egli fatto movere sopra un teatrino di
marionette alcuni fantocci di Norimberga vestiti da cavalieri antiqui,
ha voluto tentare in grande l'impresa; e — lo ha mostrato il Carducci —
senza aver letto mai una canzone di gesta nè una canzone trobadorica e
senza sapere di storia e di costumanze medievali e di usi cavallereschi
se non quanto ne sanno i parrucchieri e le bambinaie, ha voluto fare nè
più nè meno che il dramma medievale. E cent'anni dopo che il _Goetz von
Berlichingen_ e la prima parte del _Faust_ erano apparsi come un
corollario dramatico della _Divina Comedia_, il signor Giuseppe Giacosa,
che sarebbe forse diventato col tempo un buon avvocato, ci ha voluto
anche dare lo spettacolo pietoso di un'Arcadia medievale savoiarda; ha
voluto versare nelle piccole forme de' suoi pupazzetti tutta la mannite
del romanticismo aleardiano e tutti gli sbuffi delle sue affezioni
monarchiche.

Resta Pietro Cossa, l'unico nome che si pronunzi con qualche rispetto,
l'unico nome che accenni a resistere alla morte. Quando una buona
ventata avrà spazzato via tutto il mondo di cartone fabbricato dal
Ferrari e tutto il mondo di pasta frolla fabbricato dal Giacosa, due
figure dramatiche se ne andranno belle e vive e palpitanti tra la ruina
dei nostri ignobili teatri: Messalina e Nerone. Di tutta la moltitudine
che appena si può numerare, solamente il Cossa ebbe veramente intelletto
dramatico; e oltre all'intelletto una coltura non comune delle cose
latine e delle cose italiane. Egli potè proporsi un intento e in gran
parte raggiungerlo, perchè sapeva d'onde pigliava le mosse e dove voleva
arrivare. Egli non andò brancicando da Alessandro Dumas a Vittoriano
Sardou come il signor Ferrari, e non s'attentò ad entrare nel mondo
romano senza nemmeno sapere il latino, come fa il signor Castelvecchio e
come farebbe il signor Giacosa se non si fosse invece buttato in pieno
medioevo. Egli infine — oh miracolo inaudito! — dando alla forma del
dramma qualche varietà, a queste innovazioni sue cercò una ragione e una
scusa nell'arte; e si prese una cura infinita di foggiarsi una forma di
endecasillabo adattata al dialogo. Ma quale dei nostri comediografi,
oltre il Martini, ha voluto o saputo fare in prosa un dialogo
sopportabile?

Se non che, dell'abiezione nostra io mi conforto nella miseria
universale. Pare che il dramma in Europa sia finito col Goethe e con lo
Schiller, con questi due che raccogliendo l'eredità del Lessing seppero
celebrare i mistici sponsali di Faust con Elena e fondere insieme il
succo di betulla della poesia di Shakespeare col succo di lauro della
poesia di Sofocle. Dopo il _Goetz_, dopo il _Guglielmo Tell_, dopo il
_Wallenstein_ il dramma è finito: ha ripalpitato debolmente negli
alessandrini dell'_Hernani_, nei cori delle tragedie manzoniane, negli
endecasillabi della _Messalina_; ma sono i palpiti dell'agonia. Si
rinserri il gran cadavere in un'urna d'oro, con molti unguenti preziosi;
e intorno all'urna ogni popolo d'Europa inchiodi, come barbagianni su le
porte delle stalle, i suoi ciarlatani del palcoscenico. La Francia
inchioderà Alessandro Dumas e Vittoriano Sardou, noi inchioderemo il
Ferrari e il Giacosa, gli altri popoli inchioderanno altri: poichè non
c'è paese d'Europa ove non siano barbagianni.

E poichè la vigliaccheria italiana, non pure in politica ma in arte, è
tale, che non si può senza suscitare un senso misto di ribrezzo e di
terrore accusare un francese di barbagianneria, prendiamo una delle
migliori comedie francesi ed esaminiamola, vincendo la nausea che la
lettura di tali sconcezze desta in ogni animo non volgare.


II.

Il _Demi-monde_, rappresentato la prima volta al teatro del Ginnasio
dramatico la sera del 20 marzo 1855 e rimesso sulla scena del Teatro
francese nell'ottobre del 1874, è forse la comedia moderna che ha il
fondo più ampio e maggiore larghezza d'intendimenti.

Questo _Demi-monde_, dice il Dumas (pag. 100 e seg.) «est de création
moderne. Autrefois, l'adultère comme nous le comprenons n'existait pas.
Les moeurs étaient beaucoup plus faciles, et il y avait, pour définir la
chose que représente aujourd'hui le mot adultère, un autre mot beaucoup
plus trivial, dont Molière s'est servi souvent et qui ridiculisait plus
le mari qu'il ne condamnait la femme; mais, depuis que les maris, armés
du Code, ont eu le droit d'écarter du sein de la famille la femme qui
oubliait les engagements pris, il s'est opéré dans les moeurs conjugales
une modification qui a créé un monde nouveau; car toutes ces femmes
compromises, répudiées, que devenaient-elles?... La première qui s'est
vue mettre à la porte a été cacher sa honte et pleurer sa faute dans la
retraite la plus sombre qu'elle a pu trouver; mais la seconde? La
seconde s'est mise à la recherche de la première, et, quand elles ont
été deux, elles ont appelé un malheur ce qui était une faute, une erreur
ce qui était un crime, et elles ont commencé à se consoler et à
s'excuser l'une l'autre; quand elles ont été trois, elles se sont
invitées à dîner; quand elles ont été quatre, elles ont fait une
contredanse. Alors, autour de ces femmes sont venues peu à peu se
grouper: les jeunes filles qui ont débuté dans la vie par une faute; les
fausses veuves; les femmes qui portent le nom de l'homme avec qui elles
vivent; quelques-uns de ces vrais ménages qui ont fait leur
surnumérariat dans une liaison de plusieurs années; enfin toutes les
femmes qui veulent faire croire qu'elles ont été quelque chose, et ne
veulent pas paraître ce qu'elles sont. A l'heure qu'il est, ce monde
irrégulier fonctionne régulièrement, et cette société bâtarde est
charmante pour les jeunes gens. L'amour y est plus facile qu'en haut et
moins cher qu'en bas.»

Certo, sarebbe difficile esprimere con una più arguta evidenza questa
faccia della vita francese; si tratta ora di vedere se il Dumas abbia
saputo con pari efficacia rappresentarla nel dramma: si tratta, infine,
di determinare se il Dumas abbia potenza di creazione dramatica così
come ha abilità e amabilità grande di chiacchierone. Tre quarti della
nostra generazione dicono di sì, io dico di no: vediamo.

Il _demi-monde_ rappresentato nella comedia del Dumas è constituito da
quattro femmine: la sedicente baronessa Susanna d'Ange, che senza aver
mai avuto marito passa per vedova; Valentina di Santis, che vive
distaccata dal marito; la viscontessa di Vernières, che caduta in ruina
s'arrovella e suda sangue per fermare intorno a sè un'ombra dello
splendore antico; Marcella, nipote della viscontessa, a cui l'aria
viziosa, fattale intorno dalla zia, incomincia a guastare il sangue
buono. Però, il dramma palpita solo nel petto di Susanna: le altre
femmine son trascinate lì solamente per fare intendere o per dare ad
intendere al pubblico degli spettatori e dei lettori che le persone le
quali si movono sul palcoscenico rappresentano tutta una classe della
novissima generazione parigina. Ecco, per me, il primo errore: errore
gravissimo, procedente da una falsa interpretazione del concetto e del
fine del dramma.

Aristofane, Plauto, Shakespeare e Molière quando furono dinanzi a
questa, che certo è una delle più gravi difficoltà della scena; quando
si trovarono a dovere sviluppare e presentare nella breve orbita di un
dramma la passione o le passioni di molta parte del genere umano,
adoperarono degli artifizi più o meno imitabili, ma che tutti riescirono
all'atto: Aristofane ricorse ai cori, Plauto e Molière risalirono
all'universale e raccolsero in tipi singolari e immutabili la varietà e
la mobilità delle note particolari, Shakespeare popolò il dramma d'una
moltitudine di persone e di un fiotto larghissimo di passione. I comici
francesi moderni, e, sopra tutti, il Dumas, non volendo ricorrere agli
artifizi dei cori e dei tipi e non avendo la potenza di fecondità e di
rapidità creatrice che ebbe Guglielmo Shakespeare, si sono appresi a una
mezza misura, nella quale sta l'errore massimo: hanno inteso, come lo
intese Socrate, che l'efficacia della persuasione e della
rappresentazione procede non già per via sillogistica, discendendo
dall'universale al particolare, dall'archetipo all'individuo singolare,
ma per via induttiva, risalendo dall'esame dei casi o delle persone
singole alla verità e al tipo universale; ma non hanno saputo trovare
l'applicazione dramatica di questa formula logica. Nel _Demi-monde_ lo
sforzo appare più chiaramente, perchè questo dramma ha una comprensione
bene determinata e una molto esatta definizione di confini. Si trattava
di rappresentare nella cerchia di cinque atti quella classe di persone
così bene espressa dal Dumas. Aristofane avrebbe fatto risonar la
comedia di molti cori maschili e femminili e bestiali, Plauto e il
Molière avrebbero creato il tipo della _demi-mondaine_, lo Shakespeare
avrebbe ammucchiato la scena di persone, come Michelangelo ammucchiava
di figure la tela. Che cosa ha fatto il Dumas? Non ha creato il _tipo_,
perchè il _tipo_ è un artifizio vecchio da cui l'arte moderna rifugge, e
non a torto: si è affaticato invece a costruire una macchina femminile
che in mezzo al _demi-monde_ sarebbe una _demi-mondaine_, e isolata è
una femmina come ce n'è in tutti i _mondi_ parigini. Era dunque
indispensabile costruire anche il _demi-monde_, o almeno un pezzetto di
_demi-monde_. Eccovi dunque Valentina, eccovi la viscontessa, eccovi
Marcella; ma queste tre femmine non bastano, ma ce ne vorrebbero delle
altre, ma ci vorrebbero anche gli uomini che vivono in questo _mondo_ e
se ne compiacciono; ma quelle tre femmine sono un appiccicaticcio,
perchè non servono che a sviare e a impacciare e a rallentare il dramma.
Il quale si trova ristretto tra Susanna e due uomini, Oliviero de Jalin
— uno di quei tipi ideali di gentiluomini moderni più difficili assai a
ritrovare nella vita che i gentiluomini antichi del primo Dumas, — e
Raimondo de Nanjac, uno dei soliti capitani degli zuavi algerini, che
nelle comedie e nei romanzi francesi appaiono tutti ardenti di
sentimenti semplici e generosi, mentre nei telegrammi dell'agenzia
Stefani e nelle relazioni dei nostri consoli tunisini si dimostrano
invece conformi in tutto ai sergenti d'arme di Carlo d'Anjou. Così
leggendo o ascoltando in teatro la comedia del Dumas, le tre femmine
supplementari naturalmente si distaccano e si disperdono fuori di un
ambiente passionato che non è fatto pei loro polmoni: restano i due
uomini e Susanna, due macchine di legno e una persona femminile che non
riesce a rappresentare tutta una categoria femminile, perchè nè
raccoglie in sè tutti i caratteri della specie, nè è riverberata dalla
passione e dalla vita delle altre persone simili a lei.

Ancora. Avendo il Dumas alle mani un materiale comico così ricco e
opportuno, d'onde si è messo a studiarlo e a rappresentarlo?

«.... Sous cette surface chatoyante, dorée par la jeunesse, la beauté,
la fortune, sous ce monde de dentelles, de rires, de fêtes, d'amour,
rampent des drames sinistres et se préparent de sombres expiations, des
scandales, des ruines, des familles déshonorées, des procès, des enfants
séparés de leurs mères, et qui sont forcés de les oublier de bonne heure
pour ne pas les maudire plus tard. Puis la jeunesse s'en va, les
courtisans s'éloignent; alors arrivent du fond du passé, pour s'emparer
de l'avenir, les regrets, les remords, l'abandon, la solitude. Parmi ces
femmes, les unes s'attachent à un homme qui a eu la sottise de les
prendre au sérieux, et elles brisent sa vie comme elles ont brisé la
leur; d'autres disparaissent sans qu'on veuille savoir ce qu'elles sont
devenues. Celles-ci se cramponnent à ce monde comme la vicomtesse de
Vernières, et y meurent entre le désir de remonter et la crainte de
descendre; celles-là, soit qu'elles se repentent sincèrement, soit
qu'elles aient peur au désert qui se fait autour d'elles, implorent, au
nom des intérêts de famille, au nom de leurs enfants, le pardon de leur
mari. Des amis communs interviennent; on met en avant quelques bonnes
raisons. La femme est vieille, elle ne fera plus parler d'elle; on
replâtre tant bien que mal ce mariage en ruine, on rebadigeonne la
façade, on va vivre un an ou deux dans une terre; puis on revient, le
monde ferme les yeux et laisse rentrer de temps en temps, par une petite
porte, celles qui étaient sorties publiquement par la grande.» (Pag. 101
e seg.)

In questa breve filza di osservazioni acute sono chiaramente accennate
le due vie che poteva prendere il dramma. La via diritta, la via maestra
battuta dal sole, ma polverosa, ma aspra di sassi e di ostacoli d'ogni
maniera, era la seconda: prendere la _demi-mondaine_ che per
l'intervento degli amici si riconcilia col marito e col mondo, fare
scaturire la passione da questo combattimento tra la vita vecchia che
ancora la perseguita e la vita nuova che stenta ad accoglierla, creare
tutta una moltitudine di persone mosse da una varietà di sentimenti
umani; rappresentare in somma chiaramente e crudamente lo spostamento
che nell'equilibrio della vita moderna mettono questi matrimoni crollati
e rimpastati alla meglio, queste società di femmine che a forza di
debiti riescono a pagare il petrolio e i gelati delle loro serate,
queste vedove che non ebbero mai marito e s'affannano a cercarne uno.
Questa via avrebbe scelto il Molière, e chi può dire dove sarebbe
giunto? Ma il Dumas ha scelto l'altra: il Dumas ha scelto il sentierolo
angusto ed erboso, assiepato di sambuchi, profumato dai fiori scarlatti
del sentimento. Egli non ha rimpastato un matrimonio crollato, nè ha
messo sul palcoscenico degli uomini e delle femmine comuni: egli aveva
bisogno d'una _demi-mondaine_ straordinaria, di una donna nervosa e
appassionata, caduta per una sventura, tormentata da una smania furiosa
di risalire, che sta aggrappata al parapetto ruinoso di un pozzo, e più
le pietre le cedono sotto, più conficca le unghie nel calcinaccio per
sostenersi. Così, in questo palpito convulso del sentimento, tutto
quanto il concetto comico si affievolisce e sfuma; e il pubblico, senza
più pensare al _demi-monde_, è vinto da questo temperamento elettrico
che fa sobbalzare i fantocci di bambagia ammucchiatigli intorno. È
vinto, e batte le mani; ma credete che sia la visione chiara e larga del
_demi-monde_ evocata sulla scena che lo conquista? oibò, sono gli occhi
fulminanti di Rosa Chéri o il fremito della voce e della bocca della
Croizette. Nessun _mondo_ appare sulla scena: sulla scena ci è la solita
femmina di Alessandro Dumas che ha affascinato una generazione e ne
affascinerà forse anche un'altra, poi cadrà inerte e insensibile; poichè
non è una donna, è un frammento di materia organica squassato da una
pila di Bunsen.

Dopo di che, io non rimetterò in campo la vecchia ed oziosa questione,
se la forma dramatica prevalente oggi sia compatibile coi criteri
universali ed eterni dell'arte. Non la rimetterò in campo, perchè mi
pare che dall'esame del _Demi-monde_ risultino evidenti ed innegabili
questi due fatti: che il Dumas non ha saputo rappresentare quella classe
di persone che si proponeva di rappresentare; che non ha saputo cogliere
la nota vera ed efficace di quella parte di vita che si proponeva di
rifare sul palcoscenico.

Questi due vizi originali, che, scomparsi dal romanzo col Balzac, durano
tuttavia nella produzione dramatica del popolo francese, sono una
velenosa eredità del romanticismo e procedono da una falsa
interpretazione del concetto della vita e del concetto del dramma. La
vita è un fiotto largo placido ed eguale, turbato appena da pochi
piccoli ribollimenti di schiuma: il dramma è una rappresentazione larga,
complessa e serena della vita: chi empie il dramma di ribollimenti e di
folgori fa rotta falsa. I nostri amici di Francia fanno rotta falsa,
tanto è vero che Dumas in un suo preambolo a una traduzione francese del
_Faust_ mostra di non aver inteso il concetto dramatico del Goethe.
Dobbiamo farla anche noi, perchè la piroetta di Sarah Bernhardt
nell'agonia di Margherita Gauthier suscita una tempesta di applausi?

Ma anche la _Canace_ di Sperone Speroni suscitava nell'uditorio una
passione immensa di orrore e di battimani!

Ed ora quelli che mi rinfacciano il _Demi-monde_ sono essi contenti? E
pare a loro che io avessi qualche ragione di asserire che dopo il Goethe
il dramma sia finito in Europa? Finito, intendiamoci, finchè non
prevalga un concetto più sano. E il concetto che dovrebbe prevalere è
appunto il contrario di quello che ora domina. Il criterio universale
dell'arte nuova dovrebbe essere l'aforismo aristotelico accettato e
attuato dal Goethe, che l'eccellenza nell'arte si raggiunga solo con la
liberazione degli affetti. Guardate: dal _Werther_ all'_Hermann und
Dorothea_, dal _Goetz von Berlichingen_ all'_Ifigenia_, che parabola di
liberazione e di ascensione!

Qui noi ci dovremmo specchiare; poichè presto o tardi, quando un
concetto più sano e più alto dell'arte dramatica prevalga, il teatro
moderno francese resterà tagliato fuori dalla via maestra procedente da
Eschilo e da Aristofane all'infinito. Ma chi può resistere alle
tentazioni di una _retoricata_ e di una _tesi_, o ai contorcimenti
furiosi e libidinosi di Sarah Bernhardt?


III.

Se non che, è accaduta una cosa buffa. La rovina del teatro, rovina
materiale procedente dal lungo sfacelo morale, è diventata così
manifesta, che il Ministro della istruzione pubblica del regno d'Italia
ha chiamato a consulto intorno al letto dell'infermo scrittori e critici
dramatici d'ogni parte d'Italia, ma più delle parti settentrionali.
Cattivi medici, per dio, che sino a ieri non s'avvidero del male e
cantavano l'inno della salute — non quello di Gioacchino Du Bellay, per
altro — sulla carogna tutta fracida per la cangrena! Cattivi medici, che
sino a ieri si compiacquero del puzzo del moribondo, e affondarono le
dita nelle sue piaghe! Ora il Ministro li ha chiamati a Roma per
provvedere. E via. Volete che il signor Giacosa salvi il dramma dalla
morte? Ma non sono stati gli sciroppi martelliani del signor Giacosa una
fra le molte cause del male? Volete che il signor Leone Fortis consigli
un rimedio? È strano; perchè il signor Leone Fortis ha portato per dieci
anni sopra gli scudi della sua critica sfarfalleggiante Paolo Ferrari in
trionfo: or come potrebbe consigliare un empiastro per le piaghe che il
contatto di Paolo Ferrari ha aperte nei tessuti del dramma? Volete che
il buon Yorick figlio di Yorick ordini un metodo di cura ricostituente?
Ma non lo seccate, quel burlone di Yorick! Egli ha la barzelletta pronta
e l'umore ilare e una grande provvista di piacevoli facezie nella
memoria; e se ne infischia del ministro, delle commissioni e del teatro
italiano. Egli è monarchico e avvocato, e lascia la medicina ai
repubblicani come il dottor Bertani e il dottor Falleroni.

Lasciateli in pace tutti, questi cerusici improvvisati. Che volete che
facciano? Non hanno nemmeno una patente di flebotomia; e portano seco
tutto il bagaglio del loro campanilismo, tutta la merce avariata della
loro esperienza scenica, tutto il frascume della loro coltura dramatica.
Hanno scritto molti martelliani e molte cronache teatrali e hanno udito
recitare molte comediole italiane e francesi: hanno già peccato a
bastanza: debbono proprio diventare pendagli di forca? È troppo, perchè
sono brava gente in fondo e per dieci anni hanno levato sopra le cime
dell'entusiasmo la gloria del teatro italiano risorto; e per dieci anni
con le trombe alla bocca e col mazzuolo della gran cassa in mano hanno
chiamato il popolo all'ammirazione. Deve proprio questa buona gente
rimediare alle colpe sue? Deve confessare in conspetto della moltitudine
che quel rimbombo di gran cassa e quello strepito di trombe hanno
inacerbito il male? Deve il signor Giacosa consigliare un antidoto
contro il dolciume dissolvente del medio evo martelliano?

È una pretensione pazza. E poi, a che serve? Questo povero dramma non ha
più una goccia di sangue nelle vene; e non ci è virtù medica che possa
salvarlo. Emilio Zola consigliò cordiali darwiniani e bistecche
scientifiche e clisteri sperimentali; e volle in sostanza dar ad
intendere che ci è un talismano capace di salvare il moribondo, un
talismano perduto nelle più profonde viscere del palcoscenico e non
ritrovato ancora da niuno esploratore dramatico, la _verità_; e gli
parve che, se si popolasse la scena di alberi e di case vere, il dramma
rinascerebbe più forte che mai. Vanitas vanitatum! Il teatro è per sè
stesso una finzione, o una convenzione, come osservò benissimo il
Goncourt, e se ne vola alle altezze dell'Olimpo con la leggenda, coi
miti, con tutte le creazioni fantastiche della mente umana. Chi è che
pretende di trattenerlo? Forse il signor Giacosa, che ho visto effigiato
giorni a dietro sulla coperta d'un libriccino, reggendo i fili d'un
teatrino di marionette? Chi è che deve curarlo? Forse Leone Fortis? Ma
non ha egli accompagnato al cimitero la salma del Bellotti-Bon? E non
gli pareva di accompagnare il cadavere del dramma?

Accennare ai peccati maggiori e ai più profondi mali del teatro moderno
non serve; e poi l'ho già fatto: ho già detto che la causa della nostra
abiezione dramatica, come di tutta la bella nostra miseria letteraria,
sta nel fatto innegabile, che tutti quanti scriviamo siamo un branco di
asini. L'arte scenica secondo le consuetudini moderne è, più che altro,
un mestiere. Sudicio mestiere, che serve a speculare sul cattivo gusto,
sull'ignoranza, sulla pazienza del pubblico, come una volta si speculava
sulla dabbenaggine e sulla paura dell'inferno. E non sono io che lo
dico; è Sardou in persona, il padre eterno del dramma moderno, del quale
Augier è il figliuolo e Dumas lo spirito santo. È il dramma medesimo che
lo grida al popolo, stendendo le braccia dall'alto del palco scenico,
invocando un qualche messia che discacci i mercatanti dal tempio. Or
dove troverà esso questo messia, se il marchese Colombi non glie ne
intagli uno dalla carta del _Pungolo della domenica_? Il Marchese
Colombi è famoso per le messiadi, ed è ben capace di sforbiciarne uno
per settimana; e i buoni milanesi attendano pazientemente, e si
consolino dell'esposizione fallita nell'aspettazione di questo cristo
dramatico. Esso si adergerà forse dai tetti della Galleria alle nuvole,
e toccherà col capo le sfere armoniose, e spiegherà sul capo della gente
un largo _Pungolo_ istoriato di pupazzetti e di critica; e urlerà con
una gran voce fatidica:

— «In principio era il caos; e tutte le cose dramatiche roteavano
disperse pel gran mare del nulla;

Ed ecco dal fondo del caos balzò un dramma; ed era di Leone Fortis; e il
nome suo era _Cuore ed arte_; e le genti ascoltando lodavano il nome di
Leone Fortis;

Ed ecco nacquero di poi nel paese di Francia altre cose; e tutte erano
drammi; e il numero ne era senza fine; e furono tripartite in tre tribù;

E la tribù prima si disse di Sardou; e venne dal ventre del Signore,
senza genitori mascolini o femminini; e lo spirito del Signore si posò
in lui; e benedisse alla sua discendenza, che fu numerosa come le arene
del mare;

E la seconda tribù si disse di Dumas; e venne dalla mente del Signore,
senza genitori mascolini o femminini; e lo spirito del Signore si posò
in lui; e benedisse alla sua discendenza, che fu numerosa come le stelle
del cielo;

E la terza tribù si disse di Augier; e venne dai polmoni del Signore,
senza genitori mascolini o femminini; e lo spirito del Signore si posò
in lui; e benedisse alla sua discendenza, che fu numerosa come le pulci
della terra;

Ed ecco i maschi della tribù di Fortis videro le femmine della tribù di
Sardou;

E della tribù di Dumas;

E della tribù di Augier;

E fornicarono insieme in conspetto del Signore.

Allora il Signore Iddio disse: Siano questi accoppiamenti fecondi;

E nasca una gran generazione sopra la terra; e tutti abbiano in faccia i
segni del peccato; e cantino le lodi del Signore; e scrivano comedie
insino che non venga il messia sopra la terra;

E sarà questo messia concepito senza peccato d'amore; e nascerà in una
stalla del paese di Milano detta _Teatro della compagnia stabile _; e i
re magi Fortis, Giacosa e Yorick verranno ad offrirgli oro incenso e
mirra; e il profeta Colombi ne annunzierà la venuta agli uomini della
terra.»

Tale, pur troppo, è la storia dramatica che i critici insegnano alle
turbe, che gli scrittori comici tengono per conto di vangelo. Come
volete che l'ammalato guarisca? L'empirismo il ciarlatanismo il
campanilismo hanno trovato in tutte le arti, e più in quella del
palcoscenico, un letto comodo e ampio ove si sdraiano ruttando gli
sbuffi della loro ignoranza. Che ci vuol fare il Ministro della
istruzione pubblica? Non ci è stabilimenti di bagni marini, nè ospedali,
nè compagnie stabili, nè teatri nazionali che possano giovare alla
salute del dramma. Specialmente quando Milano, per dispetto di Roma,
manda Leone Fortis a chiedere al Governo una compagnia stabile per uso e
consumo suo.

Ho nominato Luigi Bellotti-Bon, la cui morte veramente dramatica deve
avere conferito non poco alla determinazione del Ministro di chiamar
gente in aiuto del teatro morente. Ma e la catastrofe della compagnia
Moro-Lin, che pare proprio il finale d'una bella comedia, dove la
lascio? Povero Moro-Lin! Si mosse da Venezia con una compagnia giovine,
bene constituita, bene educata, e viaggiò l'Italia diffondendo come un
riverbero di luce goldoniana. Pareva che le ultime speranze del nostro
teatro comico riposassero in lui; pareva che Giacinto Gallina fosse
l'ultimo erede della nostra scarsa sostanza comica. E veramente l'ultimo
sano concetto dell'arte dramatica indugiava a perdersi nel gran
naufragio di tutti i criteri artistici per virtù di quei veneziani. Il
dramma in lingua italiana nelle mani dei ciabattini era andato via via
precipitando alla pantomima alla coreografia al funambolismo,
infronzolato e gonfiato dalle tendenze predicatorie. Il teatro
dialettale si sfasciava miseramente da tutte le parti, da che
_Piripicchio_ di su le tavole del teatro _Quirino_ recitava dei
_vaudevilles_ travestiti in vernacolo napolitano, da che il Ferravilla e
gli altri comici più popolari imprimevano all'arte comica un movimento
reazionario e antigoldoniano, soffocando la comedia a benefizio del tipo
comico. E in mezzo alla marea montante del cattivo gusto che si compiace
di tutte le più sconce e più miserabili operette, che stacca i cavalli
dalla carrozza di _Sciosciammocca_ per trascinarla in trionfo, la
compagnia Moro-Lin pareva una tavola di salvamento. E vedendola passare
acclamata di teatro in teatro, una speranza rinasceva, non forse la
comedia dialettale veneziana fosse per ripigliare l'antica via
trionfale. Ed ecco: la compagnia, per difetto di mezzi, si scioglie; e
il povero Moro-Lin dichiara nei giornali che l'arte scenica in Italia è
disperata, e ch'egli pianta il teatro e si butta a un mestiere manuale.
Il provvedimento quindi del Ministro può essere indizio di un grande
amore alle nostre sorti dramatiche; ma a che vale il coraggio contro la
morte? A che valgono le buone intenzioni ministeriali contro la morte?
Il meglio forse sarebbe di ordinare a spese dello Stato i funerali del
dramma. In quanto agli scrittori e agli attori comici, si potrebbe fare
per essi quello che Rabelais sognava per i poeti: una specie di ospizio,
ove vivessero lontano dalla gente, di cui a furia di pasticci mal fatti
e mal cotti hanno pervertito il gusto. Nelle domeniche poi e nelle altre
feste comandate si potrebbe recitare, per sollazzo loro e per penitenza
dei molti peccati, il _Cuore ed arte_ di Leone Fortis.

Io, intanto, faccio una confessione: non ho animo d'andare innanzi. La
questione del teatro è tanto oscenamente buffa e tanto pietosamente
disperata, che non si può a lungo fermarvisi intorno senza molta offesa
della carità patria. — Volevo scrivere una pubblica lettera
all'onorevole Ferdinando Martini, che dicono, se bene io non lo credo,
tutto affannato dietro a più di una comedia, per dissuaderlo da questa
pazzia; ma lasciamo correre, e auguriamoci che queste comedie abbiano la
sorte delle molte altre cose che l'onorevole Martini comincia. Anche
dicono sia prossima ad esser recitata una comediola villereccia di
Giovanni Verga. Ritorniamo dunque alla favola pastorale e alle
rappresentazioni de' Rozzi? Tanto meglio. Faccia il popolo d'Italia
quell'accoglienza che vuole all'Arcadia sperimentale e alla comedia a
dialogo indiretto: io voglio, per una volta al meno, fare il Ponzio
Pilato; — non, per altro, quello del signor Calvi.



V.

MOLINI A VENTO

  Un giornalista morto — La critica dei quadri e delle statue — Il
  marchese Colombi, la marchesa Colombi e i poeti contemporanei — Le
  fanfaluche del dottor Verità — Un pazzo glorioso — Il giornale dei
  cretini e curiosi.


I.

Da che ai poeti non si dan più laure nè lauri nè, meno che mai,
pensioni, la letteratura è diventata un esercizio faticoso quotidiano
forzato; e il cervello umano deve giorno per giorno segregare quel tanto
di poesia o di prosa che occorre a tradurre bene o male e più o meno
onestamente la vita. Di qui nasce quella forma giornalistica che va a
poco a poco prendendo tutto il lavoro dello spirito umano; di qui anche
procede la cresciuta libertà e la dignità che da qualche secolo il
pensiero stampato ha saputo conquistarsi. Da quando i riformatori e i
rinnovatori dello spirito pubblico non mangiano più alle mense del re di
Prussia e non sono più cavallari di casa d'Este, la letteratura è come
un giovine escito di tutela. Resterebbe tuttavia a vedere se per gli
scrittori non fosse meglio servir casa d'Este come cavallari, anzi che,
in professione di giornalisti, tutto il popolo più vizioso e più
tirannicamente prepotente. I cavallari di casa d'Este, mi pare, erano in
uno stato di soggezione relativamente men duro che non sia il nostro;
poichè avevan bensì l'obbligo di celebrare le glorie della casa, ma
erano compensati da due grandissime libertà: libertà nei criteri
dell'arte, e nella misura e nel modo del lavoro. Dovevano bensì badare
alle faccende della Garfagnana, però potevano scrivere un poema di
cavalleria in quanti anni volessero. Ma questo lavoro a dozzina che si
fa ora, senza certezza del domani, senza speranza di altre ricompense
oltre il salario pattuito, accomuna gli operai della letteratura con le
meretrici vagabonde, le quali se una notte non riescono ad invescare un
qualche bisognoso d'amore, il dì seguente non mangiano. E poi la
libertà, non dico della politica, ma dell'arte, è distrutta. Siamo,
anche in arte, sotto l'imperio delle maggioranza; e la maggioranza vile
che non sa nulla, che non intende nulla, che non desidera se non cose
sciocche e volgari, vuole anch'essa i suoi istrioni, i suoi
glorificatori, i solleticatori de' suoi istinti o cattivi o malsani o
imbecilli; e se non è contenta degli istrioni, non li paga. Ecco perchè
io dico che il mestiere del cavallaro è più bello e più nobile. E poichè
in noi medesimi non possiamo facilmente riconoscere le magagne,
guardiamo prima in un giornalista di cinquanta anni addietro: in Felice
Romani.

È un tipo perfetto di scrittore moderno: scrittore, badiamo, di
grandissimo ingegno, a cui nulla mancava per correre gloriosamente
questa o quella delle grandi vie dell'arte; e che, per la necessità
della vita e della letteratura, dovette smarrirsi in un affannoso e vano
viavai, e rifare i passi già fatti per poi ricominciare da capo, e così
sempre, come il bisogno lo urgeva, come l'occasione di lavorare lo
invitava. Lo abbiamo veduto scrittore di libretti d'opera, poeta lirico,
novelliere. Eccolo infine critico letterario. Quando saranno pubblicati
i suoi esercizi di letteratura politica e di critica musicale, avremo
tutta quanta l'opera d'un giornalista, a volta a volta poeta lirico o
dramatico, cronista teatrale o critico, estensore di notizie politiche e
novellatore. Anche l'abate Parini fu un gazzettiere; ma allora la
compilazione delle gazzette era più semplice e meno letteraria che ora
non sia. E poi, il male forse già cominciava. Ora vediamo la critica di
questo melodramatico.

Certo non si può dire che Felice Romani avesse grandi attitudini
critiche. I suoi articoli sono d'una leggerezza, d'una, direi,
inconsistenza strana. A leggerli, non dispiacciono, poichè sono scritti
con una forma onestamente e italianamente piana, poichè sono sempre
penetrati di buon senso, poichè sono intessuti con molto garbo; ma se
voi ne spremete via tutti i fronzoli delle frasi piacenti e delle
notizie più o meno utili, non vi resta in mano che il biasimo o la lode,
l'affermazione o la negazione. E veramente, se _crisis_ significa ancora
giudizio, e se il giudizio nasce quando di una cosa qualche cosa si
afferma o si nega, parrebbe che tutta la critica dovesse consistere di
un verdetto di o non colpabilità. Se non che, sin dalla prima origine,
essa ha usurpato un ben più alto e maggiore officio; e prima dichiarando
e producendo le ragioni del giudizio, poi risalendo dai fatti singolari
alle categorie generali, essa non si accontenta più dell'umile mestiere
di giudice, ma è diventata legislatrice. Ora il Romani non si attenta
mai di dettare o di dichiarare e interpretare secondo l'intendimento suo
le leggi universali e immutabili dell'arte, ma esercita appunto il
mestiere di giudice non senza timidezza e titubanza.

Nella lode e nel biasimo egli non è schietto e reciso mai, ma
condannando concede sempre le circostanze attenuanti, e nella lode pare
sempre pauroso di aver passato i confini della giustizia. Gli manca
dunque la prima e più necessaria attitudine critica, che è la sicurezza
nel giudicare, procedente non già da una stolta e risibile credulità nel
proprio criterio infallibile, ma dalla chiara, sicura e rapidissima
visione dei fatti. Il critico, come il condottiero d'eserciti offeritore
di battaglie, deve avere una chiaroveggenza naturale che gli dimostri
subitamente, senza dubbio e senza ombra, le cose con le ragioni e le
connessioni loro; e, come l'offeritore di battaglie, deve procedere
sicuramente, senza ripiegare e senza esitare. Quando ciò manchi, quando
l'intuizione non sia immediata e necessaria, e difetti, in conseguenza,
non dico l'ardire, ma la franchezza e la pienezza del giudizio, il
critico non offra battaglie.

Di più, questa facoltà nativa non basta, quando non sia accompagnata da
altre che si acquistano dall'esperienza e dallo studio. Il critico deve
esercitare l'attività sua indagatrice e giudicatrice non pure sulle cose
immediatamente sottoposte al suo esame, ma su tutte quelle che possono
in qualunque modo avere una ideale convenienza con esse. Egli deve avere
già matura nella mente una larga preparazione, e, direi quasi, un
substrato critico. Non può, senza che il giudizio suo sia affatto
empirico, mutabile e subbiettivo, esaminare i fatti per sè stessi,
singolarmente. Fra tutte le cose della vita la relazion prima e
universale è la legge di associazione: le cose per sè stesse non hanno
valore, ma lo acquistano dalla coesistenza: così un colore solo non
sarebbe nè il bianco, nè il rosso, nè il verde, nè il giallo, ma sarebbe
il colore, e se la sensazione umana non fosse multipla, non sarebbe il
colore, ma la sensazione. Così nel mondo dello spirito, ove i fantasmi
dall'associazione acquistano vita, ove dall'associazione i giudizi sono
coordinati a constituire la conscienza umana. Ciò al Romani manca. Egli
parte dal criterio sciocchissimo che la critica si debba fare senza
preconcetti, e i suoi giudizi sono tutti fondati sulla sensazione
estetica. Di più, si mette in una condizione di neutralità che vorrebbe
esser segno di forza, ed è di debolezza. Quando in arte cozzano
intendimenti opposti, ci è di quelli che prendono con molto calore a
parteggiare, altri invece se ne stanno in disparte e dichiarano che in
arte le rivoluzioni sono un danno o una cosa vana, e accettano tutto, e
fondono in sè medesimi quelle dissensioni. Questo fatto, quasi sempre, è
indizio di non aver bene inteso quella divergenza d'intendimenti, o di
non aver la forza di combattere per questi o per quelli. Può bensì
esservi neutralità in arte; ma deve essere una neutralità, direi,
armata. Quegli che si tien lontano dalla zuffa, deve avere
degl'intendimenti suoi propri, diversi da quelli che s'urtano in
battaglia, e aspettare che il combattimento cessi, e che le due parti
nella prima stanchezza si fermino a riposare, per metterli in campo e
farli sicuramente prevalere. Ora il Romani, che si trovò fra la lotta
del romanticismo e del classicismo, non sa a qual partito appigliarsi:
di qui, la memoria e lo studio del Monti e l'educazione arcadica lo
traggono all'Olimpo pagano; di là, le tentazioni dell'audace scuola
boreale lo sviano alle steppe del romanticismo. Ed egli, cadendo da una
canzone petrarchesca a un duetto della Norma, sbigottito dal fragore
della fucilata e accecato dal fumo, non vedendo bene di che si tratti e
per chi si combatta, va gridando: pace, pace, pace! Nella sua critica si
trovano gli ondeggiamenti che abbiamo già osservati nella sua varia
poesia. A lui pare il meglio che le due parti si accordino e rechino in
comune il patrimonio. Parla dunque dei combattimenti del romanticismo
come di guerre civili: li deplora, e loda così i vincitori come i vinti.
Insomma, per non errare, non dà torto a nessuno.

E pure, a malgrado di tutti questi difetti, a malgrado dell'inettitudine
critica del Romani, io augurerei all'Italia che tutti quelli che fanno
quotidianamente o domenicalmente esercizio di critica avessero quel buon
senso e quel buon gusto nativo onde gli articoli del Romani sono
penetrati; avessero, sopra tutto, quella coltura non profonda, per
verità, ma larga e complessa, ch'egli ebbe. Egli non intese che cosa si
nascondesse sotto quel fumo di polvere romantica che lo accecava; ma
allora questo non era facile. Occorreva avere quella chiaroveggenza
intuitiva e quel substrato critico che a lui mancava. Ma ora che il
romanticismo è un fatto avvenuto, perdurante ancora, è vero, ma, nelle
sue origini e nelle prime gesta, di dominio storico, è lecito scriverne
senza averlo bene inteso? Ebbene, udite come lo dichiari Vittorio
Bersezio, un giornalista di molto nome, presentando al pubblico d'Italia
l'opera giornalistica di Felice Romani: «In Germania, donde, col
carattere di lotta nazionale, prese le mosse il rivolgimento
antinapoleonico, antimperialista, antifrancese, la letteratura così
detta classica, prima insinuata e messa in voga dall'influenza
straniera, poi importata e quasi imposta dalla conquista, rappresentava
agli occhi del popolo la soggezione, la vergogna e il danno della
patria. Vi si aggiunse ancora l'elemento della diversità di razza: le
forme, le immagini, le idee che avevano sorriso alle menti serene degli
antichi Greci e dei Latini del secolo aureo, non potevano affarsi
all'ingegno più vago di complessità e di indeterminatezza, al gusto
delle astruserie nebbiose, propri della schiatta germanica; tanto più
che quella letteratura classica non veniva loro innanzi che in una
pallida, meschina, secca imitazione, da dirsi piuttosto parodia, quale
era la letteratura imperialista francese. La civiltà latina datava
dall'antichità, e da questa attingeva modelli, ispirazioni ed argomenti
alla sua letteratura; quella germanica dal medio evo, e in questo si
propose a sua volta di andare a cercare la sostanza e la forma del suo
nuovo pensiero. E così fu creato il romanticismo.»

O Rousseau, tu che pure vanti nella generazione del romanticismo qualche
diritto di paternità, lo hai tu udito dalla tomba questo scovritore
della _poesia imperialista_ francese? Ma che poesia imperialista, ma che
reazione antimperialista, ma che astruserie nebbiose! Povero Klopstok,
povero Lessing, povero Goethe! Il signor Bersezio, con una ginnastica
cronologica che farebbe fiaccare il collo al _clown_ più esperimentato,
fa di tutti costoro gli avversari di Gabriele Legouvé, delle femmine che
scrivevano romanzi, e dei maschi che scrivevano drammi romantici ai
tempi del primo impero!

Ma se vi scandalizzaste di così poco ai tempi che corrono, fareste
ridere i polli: lo sproposito, non accidentale e solitario ma
collettivo, ma segno manifesto d'una piena ignoranza di tutta la materia
onde si vuol disserire o disputare o chiacchierare, è, nella critica
spicciola che si fa ora in Italia, un peccato di poco momento; anzi non
è quasi peccato. Poichè i giornali, segnatamente i letterari, non si
possono empire di sole novelle, nè di soli versi, la critica è diventata
uno degli esercizi più largamente diffusi, più facili, più grati e più
proficui. E chi avrà la pazienza di seguirmi vedrà che il Bersezio, il
quale del resto non fa professione di giudicatore di poesia o di prosa,
in confronto di altri può passare per un critico sapiente.


II.

Aprendosi in Roma solennemente al popolo d'Italia una esposizione
d'arte, era naturale che la critica dormente subito si risvegliasse per
giudicare e per augurare. E già da tempo i giornali, ove le maggiori
forze letterarie d'Italia si consumano per l'esercizio quotidiano e pel
quotidiano attrito con la folla, bandivano e vantavano il nome dei
critici: il _Fanfulla_ quello di G. D'Annunzio; la _Rassegna_ e il
_Pungolo_ milanese quello di F. Fontana; l'_Opinione_ quello del barone
De Renzis; l'_Illustrazione italiana_ quello di L. Bellinzoni, scrittore
del _Popolo Romano_; la _Stampa_ quello di R. Giovagnoli; altri
giornali, altri nomi. E appena in conspetto dei reali d'Italia la mostra
artistica fu aperta al pubblico, ecco la sinfonia critica si mosse e i
giudizi e gli augúri si levarono a volo, non tanto ordinati in fila per
altro, quanto gli uccelli di Romolo. Sicchè la buona gente che ha
l'odorato un po' grosso deve aver pensato che nel nostro bel paese la
critica d'arte sia in tutto fiore, e che da ogni gleba di terra italica
allo splendor caldo raggiato da ogni nuova esposizione nasca un critico
armato in arcione, come dai denti del serpente seminati nascevano i
guerrieri con le spade in mano. Dolce lusinga, che persuade i nostri
fabbricanti di candele steariche a lasciar l'arte in braccio dei critici
per badare solamente alle candele. Ma io, che non faccio il critico
d'arte, nè il fabbricante di candele steariche, non posso liberarmi dal
fastidio di un pensiero che mi va ronzando come un tafano nella testa:
ciò che si va scrivendo da molti anni in Italia in occasione d'ogni
nuova esposizione, è proprio critica d'arte o è stearica fusa in candele
con molto grasso d'asino e molto scoppiettìo di lucignoli umidi?

Poi, come accade nei pomeriggi d'estate che le persone dopo il pranzo si
gittano mezzo vestite sui letti, e prima una zanzara si leva con un
sibilo sottile e gira intorno alla faccia tentando la carne scoperta,
poi altre vengono da tutte le parti e intrecciano per l'aria un ronzìo
quasi di piccole seghe che seghino i nervi dell'udito, così con quelli
altri pensieri mi vengono a infastidire. Si è mai fatta in Italia vera
critica d'arte? Per l'arte moderna, non mi pare. In fatto di cose
moderne, accade un fatto brutto: poichè queste ricadono nell'àmbito
della cronaca quotidiana, e poichè la cronaca quotidiana si raccoglie
nei giornali da persone che, per l'insufficienza degli studi e per la
preoccupazione assidua del presente, non hanno nessun pensiero del
passato e non sanno o non vogliono guardare all'avvenire, i fatti del
giorno appaiono come staccati da tutti i fatti simili che furono e che
potranno essere appresso. Che cosa è mai un paesaggio del Gignous? È un
paesaggio del Gignous. Che cosa è un romanzo del Verga? È un romanzo del
Verga. Ma come, ma perchè, ma con quale vicenda di gloria e di vergogna
il paesaggio e il romanzo si vennero via via sviluppando in Italia e
fuori d'Italia sino al Gignous e al Verga? E nella storia generale del
paesaggio e del romanzo quale è il posto che tocca a questi due, e quali
sono le loro parentele artistiche, e quali furono i loro ascendenti, e
quali presumibilmente saranno i loro discendenti? Questo la critica
gazzettiera non dice; ma con più o meno di verità descrive il quadro e
racconta il romanzo, con più o meno di buon gusto e di esperienza
estetica ne dà un giudizio frettoloso; poi vi fa sapere che il pittore
ama i gatti e i biscottini di Novara e le donnine dagli occhi verdi, che
il romanziere parla poco e veste bene e conquista più femmine che il Cid
campeador non espugnasse castella; e la critica è fatta. Ora, se scopo e
ragione della critica non è appunto questa classificazione delle opere
d'arte nel tempo e, diciamo, nello spazio, a che serve questa benedetta
critica, che è in fondo una cosa seccante assai, della quale il popolo
italiano proprio non vuol sapere? Forse a dar notizia delle nuove
filiazioni dell'arte? Ma allora i cataloghi delle librerie e i cataloghi
delle esposizioni sarebbero il meglio.

Di più, ci è un altro guaio serio: di quelli che descrivendo raccontando
e giudicando, dànno notizia al pubblico delle novità dell'arte,
pochissimi hanno quella esperienza tecnica che pure nella critica è
necessaria. Certo, una qualche facoltà estetica tutti l'abbiamo, e
proprio deve avere ammalati i nervi dell'udito chi non sente subito il
verso zoppicante, e proprio deve avere ammalati i nervi dell'occhio chi
non vede subito la bruttezza d'un dipinto. Ma per intendere e mostrare
agli altri ciò che il verso ha in più o in meno è o non è necessaria
qualche nozione di metrica? Dunque come si fa l'analisi estetica d'un
dipinto senza sapere almeno gli elementi del disegno? Ora, raccogliete
in massa tutti quelli che nei giornali scrivono d'arte, ed esaminateli;
e se di questi due soli sopra dieci sanno gli elementi del disegno,
ghigliottinatemi in piazza Navona dinanzi alla fontanaccia del Bernini
con le mani legate dietro la schiena e la testa incappucciata di nero.
Ma non ci è bisogno di raccozzarli tutti quanti insieme in un luogo
chiuso per far quest'esame: basta, come io ho fatto, raccogliere tutti i
giornali ove si discorre dell'ultima Esposizione, e leggere. Ahimè,
quanto scoppiettìo di lucignoli e quanto grasso d'asino squagliato nella
prosa!

Morto il Selvatico, in Italia che abbia una competenza sicura in fatto
d'arte non ci è che Camillo Boito e, per la pittura, il Massarani; ma
anche al Massarani e al Boito molte cose mancano, che pur sarebbero
necessarie: manca quella sottigliezza di amatore intelligente che molti,
per esempio il Gautier, ebbero ed hanno in Francia; e manca il sistema.
Ora, poichè la critica è appunto un'opera di ordinamento e di
comparazione delle varie produzioni dell'arte, la prima necessità è
appunto il sistema; è appunto un complesso organico di criteri
inflessibili che guidino quest'opera ordinatrice per modo, che tutto il
lavoro d'un intelletto giudicatore sia come una massa omogenea. Anche
nel Massarani e nel Boito questo manca: essi non si fanno trarre
solamente dalla sensazione estetica o, come si dice bruttamente,
dall'_impressione_, ma dei criteri certi li hanno, non però coordinati
armonicamente in un accordo unico, disseminati e come isolati nella
mente, e a volta a volta concordi o discordanti. Di più, la consuetudine
degli incarichi officiali ha corretto questi criteri per modo che la
critica del Boito e del Massarani ha sempre una certa sembianza più di
rapporto al Governo che di giudizio d'una mente libera e imperiosa. Ma
questi due dell'Esposizione romana non hanno scritto; hanno scritto
bensì molti, dei quali io tengo raccolte dinanzi a me le scritture in un
fascio di giornali, e leggendole mi sentivo dentro molti impeti di pietà
e di riso, tanto la miseria è grande.

Volete che vi parli del signor Bellinzoni? A che serve? Egli è
altrettanto noto nel campo della critica pittorica e scultorica, quanto
il suo collega Canori in quello della critica musicale. Basterà citare
una definizione dell'arte, con la quale egli cominciò un articolo sulla
_Battaglia di San Martino_ del Cammarano: «_La missione ideale dell'arte
è di ricordare, di tramandare ai posteri i grandi fatti che onorano
l'umanità._» E allora il _Cesare_ di Ettore Ximenes non è un'opera
d'arte, e nemmeno è un'opera d'arte il _Voto_ di F. P. Michetti, poichè
nè l'assassinio del dittatore nè quel costume barbarico fanno onore
all'umanità. Ma lasciamo stare il signor Bellinzoni: a lui forse giova
di porre come cardini della sua critica criteri così allegri; se no il
_Popolo Romano_ e l'_Illustrazione Italiana_ non pubblicherebbero i suoi
articoli; e piuttosto occupiamoci del nostro amico G. D'Annunzio, nel
quale le signore di Roma salutarono un nuovo e meraviglioso critico
d'arte.

Il nostro amico D'Annunzio si è buttato alla critica di botto, come i
fantasmi che scorrono la sua lirica si buttano nel mare. Guardate: di
quella mirabile tavolozza che abbagliò tutta l'Italia, non gli resta se
non qualche vescichetta di verdemare e qualche pezzettino di inchiostro
chinese, e la sua prosa, come della trobadoria sicula dice il Carducci,
pare il balbettare infantile della decrepitezza. Peccato! Ma il caso non
è disperato, perchè Gabriele è così giovine e ha tanto ingegno, che
riescirà, ritemprato da nuovi studi, a tentare nuove forme dell'arte.
Intanto io, che scrivo queste cose di lui col dispetto doloroso d'uno
che vegga traviare un fratello e non giunga a fargli intendere la voce
della ragione, leggendo i suoi _Ricordi francavillesi_ ripensavo al
padre Bartoli che scrisse una storia della Compagnia di Gesù con una
prosa così folta d'immagini e così calda, che quella di Gabriele in
confronto è una cosa scialba; e mi persuadevo che la dismisura in prosa,
come in poesia, è il maggior segno di povertà. Questa povertà, pur
troppo, il D'Annunzio la mostra chiaramente nella critica, ove pare un
uomo sprofondato fino al petto in un pantano, che si sforzi vanamente
con le braccia e con le gambe di liberarsi dalla melma; e più
s'affatica, e più affonda. Dopo aver rimescolato con una rabbia
frenetica tutte le vecchie vescichette di colore in un articolo di
ricordi francavillesi, ove forse voleva mostrare l'ambiente nel quale
l'ingegno del Michetti si maturò, cominciò nel _Fanfulla_ quotidiano e
domenicale una serie di articoli, ove invano tentò di coprire col
frascame e coi capricci della fantasia la miseria dell'analisi e la
insufficienza della coltura artistica e la incertezza dei criteri; ove
l'abitudine del colore ogni tanto, per necessità, riappare; ove non ci è
altra cosa che descrizione, descrizione, descrizione come nelle poesie
liriche, come nelle novelle. Ora, nella critica d'arte, la descrizione è
forse l'ultima cosa; se ciò non fosse, anch'io farei della critica
d'arte; e quando in dodici colonne di giornale non si è riescito a
cogliere e a mostrare l'aspetto generale di una esposizione, le varie
inclinazioni d'arte che vi appaiono, le connessioni di queste prove con
le prove anteriori; quando non si classificano ordinatamente tutte le
forze che concorrono a questa mostra, e non si confronta questo momento
dell'arte moderna con gli altri momenti dell'arte moderna; quando non si
sa risalire dall'ultima manifestazione via via su per la storia generale
dell'arte, allora le descrizioni fatte di strofe stemperate nel
verdemare, ove le incertezze tecniche si nascondono nei viluppi della
frase, ove l'ignoranza si ripara con le graziette leziose del
raccontino, possono piacere alle signore, ma fanno pena a chi per
rispetto della critica e dell'arte non vuol fare critica d'arte.

Una sola volta il D'Annunzio ha avuto qualche barlume critico, ed è
stato a proposito del quadro del Michetti; ma anche questa volta, dio,
quanta miseria! Egli che ha visto il quadro nascere sulla tela; egli che
ha udito le prime osservazioni fatte dai primi che lo videro, non ha
inteso che, volendo scriverne, la questione prima e più importante da
porre era questa: perchè il Michetti non lo ha finito? Non per difetto
di tempo solamente, perchè la tela è così grossa che la fattura non
avrebbe mai potuto essere tanto perfetta quanto è negli studi. Ci è
dunque una ragione d'arte in questo sacrifizio che il pittore ha fatto
della forma esteriore al concetto; una ragione che forse il Michetti
sente istintivamente, e che il critico, per l'esame dei fatti consimili,
per la contemplazione delle leggi universali dell'arte, dovrebbe
esprimere. Forse in pittura fatti consimili mancano; ma non mancano
forse nella scoltura, e certo nelle arti letterarie ce n'è ad
esuberanza. Per esempio, un critico di qualche acume in conspetto del
quadro del Michetti non avrebbe dovuto rammentarsi di Shakespeare? A me
pare di vedere in quel quadro, nell'ammucchiamento della folla come di
masse corali, un movimento shakespeariano; e poi la temerità della scena
selvaggia, e certe audacie lineari, come la curva della donna che
allontana da sè il penitente deviato, e certi subitanei scatti lirici in
mezzo alla universale intonazione epica, come il bambino biondo dagli
occhi azzurri e quella unica ammantata di nero che par fiorita dalla
mente di Dante prima dell'esilio, e la piena del sentimento che trabocca
oltre la cornice, e quel signorile disprezzo della fattura e del piccolo
che ha persuaso a lasciare in abbozzo un tanto quadro un pittore che ha
saputo far quegli studi, non trovano un riscontro se non in Shakespeare.
Raccontare come il quadro sia nato è poco, specialmente quando accanto
al quadro sono esposti, visibili a tutti, gli studi; descrivere il
quadro è una vana velleità bambinesca, segnatamente quando esso è
dipinto dal Michetti; dire che la rivoluzione pittorica nello spirito
del Michetti è nata dallo spettacolo di quella scena barbarica in una
chiesa di Migliànico, è una volgarità. Come? Lo spettacolo d'un fatto
umano abbastanza comune induce un artista come il Michetti, il quale
aveva già corsa gloriosamente tutta una lunga via, a pigliarne
d'improvviso un'altra tutt'affatto opposta, a gittare la sua tavolozza
antica e gloriosa alle maree dell'Adriatico per una tavolozza nuova, a
mutar tutto, materia, criteri d'arte, inclinazioni, e tutto in un
momento? Non mi par serio. Molte cose hanno dovuto concorrere a questo
mutamento; e molto il Michetti ha dovuto pensare studiare osservare
cercare, prima di trovare il motivo ch'egli ha espresso così
stupendamente. Questi pensieri, questi studi, queste osservazioni,
queste ricerche un critico serio doveva dire; e il D'Annunzio avrebbe
potuto farlo meglio d'ogni altro.

Ma un'altra cosa c'era da fare, e più importante, forse, di tutte.
Oramai non ci è nessuno che non riconosca nel Michetti uno dei maggiori
pittori moderni; tanto questo è vero, che i critici in genere dicono
egli non rassomigli a nessuno, nè antico nè moderno. E questo sta bene.
Ma nella storia dell'arte al Michetti tocca un posto. Ora non dovrebbe
essere officio precipuo della critica definire questo posto? Il giudizio
intorno a un artista non è pieno e sicuro senza una determinazione certa
della sua opera; e la critica intorno al Michetti non sarà mai una cosa
seria, se non si dà un'occhiata alla pittura antica e all'altra pittura
moderna dell'Italia e delle altre parti d'Europa.

Se no, le osservazioni isolate non avranno che un valore subiettivo, non
saranno che il risultato delle sensazioni estetiche più o meno corrette
da una maggiore o minore esperienza tecnica. E questa esperienza tecnica
manca al mio amico D'Annunzio e a quasi tutti quelli che scrissero della
ultima Esposizione. Manca a Ferdinando Fontana, il quale racconta una
brutta storiella, poi in fine dice: «questo il pittore N. ha
stupendamente rappresentato nel suo quadro;» e la critica è fatta e
servita calda al pubblico. Manca al mio Ettore Gentili, il quale nel
_Bersagliere_ dice delle cose pazze, con una grande prosopopea di
critico consumato nel mestiere: dice, per esempio, che nel quadro del
Cammarano appare un gran _talento di rapportista_, mentre tutti quelli
che s'intendono di pittura pretendono il contrario; dice poi questo:
«Ora tu vedi non più il quadro di Michetti, ma il tuo. Durante questo
passaggio dalla repulsione alla convivenza, amico lettore, l'evidenza di
certe parti ti diede la possibilità di completarle imaginando le altre;
i tuoi ricordi, la fantasia, il sentimento ti aiutarono a vedere il vero
attraverso il falso, a sceverare ciò che in questo quadro vi è di visto
e reso da ciò che è soltanto imaginato e voluto: la sostanza dalla
facitura; sei giunto dalla convenzione alla realtà; così come Michetti è
giunto dalla realtà alla convenzione.»

Ora, per quanto io mi sforzi ad adottare questo sistema mentale di lenti
convesse e biconvesse, non giungo dalla realtà a questa convenzione, che
il mio amico Gentili sia un critico d'arte più forte di me. Infatti,
lasciando da parte la bizzarria e la freschezza della _dicitura_, mi
pare che il mio amico Gentili abbia preso, o voglia lasciar prendere
agli altri, lucciole per lanterne. Nel quadro di Michetti la
_convenzione_ o il _falso_ o il diavolo che si porti il mio amico
Gentili? Ma se tutti quelli che hanno nervi dinanzi a quel quadro se li
sentono tremare nel corpo, per l'orrore dello spettacolo! E poi, il
Gentili non ha badato a una cosa: alla dualità del sentimento che
scoppia in quel quadro. Guardate la folla: è placida, è inconscia come
un bestiame nella stalla, contempla, dice le preghiere latine che non
intende; guardate quelli che compiono il sacrifizio o che lo hanno già
compiuto: sono squassati dalla ferocia della fede. Quando mai il mio
amico Gentili ha trovato in un quadro il sentimento umano colto più
veramente ed efficacemente? Nè anche il signor Cesare Olati, che fa la
critica nella _Lega della Democrazia_, ha inteso questo dualismo, e
pochi altri, parmi, lo hanno inteso: eppure io credo che l'eccellenza di
questa opera d'arte stia, in molta parte, là.

Ma lasciamo i critici, nessuno dei quali, per esempio, ha pensato
dinanzi al quadro del Michetti a tutta quanta la nostra lirica
religiosa, che, con le compagnie dei flagellanti, si diffuse in due
secoli per l'Italia, radicandosi in ogni sacrestia, rinascendo in ogni
confraternita con polloni nuovi. Un critico di qualche serietà, prima di
scrivere, avrebbe riletto molte laudi spirituali; poichè mi pare officio
necessario della critica ricercare e dichiarare come certi fatti della
vita siano espressi nelle varie forme dell'arte, nello sviluppo del
tempo. Ora il fatto espresso dal Michetti rientra appunto fra le
pratiche buddhistiche entrate nell'esercizio della fede cristiana; e
poichè, nei primi secoli della nostra vita letteraria, da quelle
pratiche prese le mosse tutto un grande impeto lirico, sarebbe utile
rileggere Jacopone da Todi dinanzi al quadro del Michetti.

Ma lasciamo correre. In Italia, già, le cose si fanno tutte così. La
critica letteraria non è altro di meglio o di più che un bollettino
bibliografico; la critica d'arte è una conversazione estetica più o meno
noiosa, da quella del d'Annunzio che chiacchiera con una signora, a
quella del deputato Giovagnoli che predica ad un sindaco. Poichè
l'empirismo affoga l'Italia, signori e signore, facciamo una cosa:
chiudiamo bottega di critica, e andiamocene in piazza a rizzare i
carrettoni con le boccette degli _elixir_. Tanto, siamo una folla di
cavadenti.

E dacchè siamo qui a dimostrare in conspetto dell'Italia i cavadenti
della critica, eccovi il peggiore di tutti: un criticastro verde come un
ramarro per l'esuberanza della bile, e macchiato in faccia dai segni
d'una singolare malattia di fegato.


III.

«Dal tronco d'Isai nascerà un germoglio, e dalla sua radice un ramo; e
sarà in lui lo spirito del Signore, etc.»

Cito solamente la prima strofe, perchè le altre parlano quasi solamente
di bestie che non possono esser di molto interesse pel lettore, quando
si parla del marchese Colombi. E cito questa strofe d'un carme profetico
d'Isaia per la venuta del Messia, perchè rassomiglia stranamente a certa
prosa del signor Eugenio Torelli-Viollier, ch'io chiamo il marchese
Colombi perchè è marito dell'amabile novellatrice nota col nome di
_marchesa Colombi_. Veramente la prosa del signor marchese è lontana
della poesia biblica, quasi quanto la prosa della marchesa è lontana
dalla perfezione; ma a questo argomento ritorneremo in sèguito. Prima,
c'è qualche cosa d'altro a dire. Il marchese Colombi è andato seminando
per le glebe infeconde del _Pungolo della domenica_ una sua cicalata
spropositata, e noiosetta, e pesantuccia, e sminuzzata in molti
paragrafetti, come i commentari _De bello gallico_, intorno al Carducci
e ai poeti contemporanei. Veramente tutto il discorso si aggira intorno
al Carducci, e gli altri poeti contemporanei non si sa quali siano,
poichè il marchese Colombi ne nomina uno ogni tanto, come per gittare un
tartufo sopra un pasticcio di fegato d'oca. Ma lasciamo andare; se no,
dieci pagine almeno di questo libro si dovrebbero empire di tartufi di
pasticci e di fegato d'oca; però che il marchese Colombi sia sempre quel
bestione faceto che tutti sanno; e così parlando dal palcoscenico, come
scrivendo nei giornali, egli è la sola creatura veramente comica del
nostro teatro contemporaneo.

Chi volesse classificare il marchese Colombi, si troverebbe imbarazzato.
Infatti, una qualunque classe, o famiglia, o genìa critica per lui è
difficile trovare, poichè egli non è nè della stirpe del _chierichino_,
nè di quella del _professore_, che il Carducci celebrò con un umorismo
tanto sanguinosamente italiano. Dove dunque collocheremo il marchese
Colombi, che da qualche tempo è stato colpito dalla pazzia melanconica
di far della critica? Ecco, mi pare che il posto suo veramente sia tra i
mariti delle _grandi attrici_. Li conoscete? Stanno al botteghino, e
sopraintendono con una prosopopea maravigliosa alla vendita dei
biglietti; e, quando l'occasione, per non escire dalla bella
imaginazione ariostesca, porga i capelli, li afferrano, e dicono corna
delle altre _grandi attrici_ e anche dei grandi attori, se bene non
facciano concorrenza alle mogli loro.

Quale titolo ha il signor marchese Colombi per poter parlare di poesia?
Forse la licenza liceale? Forse la licenza ginnasiale? Io per me, sino a
prova contraria, nego; e nego che un critico possa presentarsi al
giudizio della gente con minori titoli di un aspirante al posto di
vice-segretario nel Ministero di agricoltura e commercio. Forse un
romanzo intitolato da _Ettore Caraffa_? Ma lasciamo stare i romanzi,
poichè di questa debolezza giovanile del marchese Colombi forse in
Italia mi rammento io solo, e io non voglio recar dolori alla gente
quando posso farne di meno. E poichè tutta la gente ha dimenticato in
Italia che il signor marchese Colombi, quando era un filisteo della casa
Sonzogno, ha fatto di tutto, anche, _meminisse horret_, dei romanzi
storici, perchè dovrei rinnovarne io la memoria? Io non sono maligno e
vendicativo come il marchese Colombi; e certi delitti giovanili li
lascio nascondere dalla ruggine del tempo. A che serve? ripeto:
l'Italia, per brutte che siano le nuove commedie italiane, è pur sempre
la patria dei comici. Solamente non andateli a cercare nel commendatore
Pietriboni o nel signor Emanuel: i comici veri sono questi burloni che
scrivono di critica poetica senza saper nemmeno gli elementi della
metrica. Non è vero, marchese Colombi? Le academie si fanno o non si
fanno; e così pure le commedie, in nome di Dio!

Questo nuovo marchese dice cose che farebbero rabbrividire il marchese
vecchio; dice, per esempio: «_I nostri versi, grazie a tutte quelle
licenze, quelle forme convenzionali, di cui ho trattato negli articoli
precedenti, sono facilissimi a fare, e tutti ne fanno_.» Costui è matto.
Come: la nostra metrica è _facilissima_? Ma che cosa vuol dir questo? E
qual'è la metrica _difficile_, e quali sono i versi difficili? Sinora,
la facilità e difficoltà del poetare sono state cose subiettive, e
procedevano dalla maggiore o minore attitudine poetica del poetante. Ed
ecco, il marchese Colombi le scopre nel metro, o, come dice lui, nel
_verso_. Salute, o marchese, e che Dominedio vi conservi la vena comica!
Ma non basta, perchè se questa non fosse una scioccheria insensata,
sarebbe un grandissimo sproposito. Ha mai letto il marchese Colombi un
libretto di Dante intitolato _De vulgari eloquio_? Ci è una parte che
tratta appunto della metrica nostra, con una competenza maggiore assai
di quella dimostrata dal signor marchese negli _articoli precedenti_; e
ci vuole molta pazienza e anche un po' d'ingegno per raccapezzarsi in
mezzo a quella difficilissima architettura e a tutti quegli artifizi
della poetica volgare. E il marchese Colombi ci viene a dire che i
_versi italiani sono facilissimi_. Ma forse egli non intende il latino,
e non ha potuto leggere il _De vulgari eloquio_. E allora poteva ben
leggere il libro del Böhmer sulla poetica dantesca. Ma forse egli non
intende nemmeno il tedesco. E allora, in nome del diavolo, sapesse
almeno l'esposizione che fece il D'Ovidio del libro del Böhmer! Dove
dunque ha egli studiato la metrica prima di scrivere di metrica? Egli
dice che i _versi italiani sono facili_; e forse in fondo non ha torto;
tutto in questo mondo può esser facile, anche la prosa quando si scrive
come la scrive il marchese Colombi, anche la critica quando si fa alla
maniera del marchese Colombi.

Dice poi il teorizzatore: «_Gli uomini più grandi, quelli che sembrano
quasi divini, hanno la loro parte terrestre. Ognuno ha in sè un demonio
che lo schiaffeggia, ognuno sente in sè — come ha cantato Arrigo Boito —
un demonio in contrasto con un angelo. Povero colui il quale si
meraviglia che Leopardi, negli ultimi anni della sua vita, fu avaro e
maligno, e che Musset fu cinico. Quando scrissero i loro versi, parlava
in loro l'angelo, ed a noi basta sapere, per chiamarli poeti, che in
quel momento erano quali la poesia, la loro poesia li mostra._»

Questa teorica, ho detto, è mezzo platonica e mezzo romantica. Dice
infatti Socrate nell'apologia platonica, che egli ha dentro di sè un
demonio inspiratore, onde move ogni atto dell'animo suo. Solamente il
demonio socratico è meno villano del demonio colombesco, e non
schiaffeggia nessuno. Di più, mentre il demonio del marchese è la parte
terrestre del poeta, quello socratico ne è per contrario la parte
divina; e nell'apologia medesima dice Socrate, che avendolo l'oracolo di
Delfo designato pel più sapiente degli uomini, egli volle avere una
riprova della verità dell'oracolo; e prese a paragonar sè stesso con
tutti quelli che godevano reputazione di sapienza. E cominciò dai poeti.
Ora, dice Socrate, subito vidi ch'io ero più sapiente di loro, poichè
quelli non fanno con conscienza quello che fanno, ma per impulso
naturale e come farneticanti a guisa degli indovini.

E una cosa poi manca nella teorica socratica, che si ritrova invece in
quella del marchese Colombi: l'angelo. Quest'angelo è d'importazione
moderna, e basta guardare a' suoi grandi occhi turchini e alle penne
azzurre delle ali, e al lembo di camicia che gli esce dall'apertura dei
calzoni, per riconoscere in lui i segni del romanticismo. Sì:
quest'angelo del marchese Colombi è di quel grande stormo di pennuti
angelici, a cui diede il volo il romanticismo, e che empirono il cielo
d'un grande starnazzamento di ali. A poco a poco essi fuggirono di là
dalle nuvole, cacciati dal fumo e dal puzzo d'olio e di carbon fossile
onde l'industria moderna va appestando la terra; e solamente qualcuno ne
restò indietro, non per amore delle figlie degli uomini: qualche povero
angelo spennato a cui mancò la forza pel gran viaggio. Ora il marchese
Colombi ne ha preso uno, e lo ha cacciato nello stomaco del poeta,
insieme con un tristo demonio schiaffeggiatore.

Così popolato l'_interno_ del poeta, è chiaro che la poesia, nella mente
del marchese Colombi, sia un che di fantastico o di sovrumano o di
ineffabile; e veramente egli ne parla con certi suoi aforismi che paiono
responsi della Sibilla: «_Non c'è poesia se non c'è originalità, perchè
non c'è originalità se non c'è sincerità._» Non vi pare di sentire:
_Ibis. redibis. non. morieris. in bello?_ E pure, per chi sappia in
qualche modo interpretare i sogni e gli oracoli, l'aforismo del marchese
Colombi è chiaro o, almeno, è _originale_. In fatti, per giungere ad
enunciarlo con una faccia tosta tanto ammirabile, è necessario, per lo
meno, non sapere di che consista, come nacque, onde derivò tutta quanta
la poesia latina; e, confessiamolo, gli uomini che a questi chiari di
luna si mettono a definire la poesia senza sapere nemmeno un'ode
d'Orazio, anche in Italia son pochi. Il marchese Colombi vuole che la
poesia sia, quanto al contenuto, _sincera_; e afferma che se si potesse
provare che Silvia e Nerina non vissero mai, il Leopardi diventerebbe di
punto in bianco, un retore e un rimatore. Or non avevo ragione io di
dire: quest'uomo è un pazzo?

Pazzo o mattoide, come più vi piace, e rassomigliante assai a quei
poveri mentecatti, dei quali il cervello è come preso nella morsa d'una
fissazione che sconvolge tutto il naturale movimento del loro spirito.
Il marchese Colombi vuol dimostrare che il Carducci non è un poeta
moderno; e questa fissazione gli turba per modo le funzioni della mente,
che lo costringe a fabbricare tutta una teorica poetica nell'anno di
grazia 1883, dopo duemil'anni e più di poesia tra greca, latina e
neolatina. Or che ci volete fare? Ci è più d'un pazzo che si crede
Dominedio e vuol creare il mondo: il marchese Colombi vuol definire
adesso la poesia. Lasciamolo stare: queste infermità si curano col
riposo. Solamente, si proibisca al marchese Colombi di nominar Dante.
_Vade retro, Satana!_ Indietro, marchese: non contaminate il sacro nome
di Dante, e non cercate di gabellare per sue le vostre fantasticherie
sulla sincerità poetica e sull'originalità. Dante ha ben detto quale sia
il suo sistema poetico: Dante dice molto chiaramente che il fattore
primo e la caratteristica della poesia nuova, dopo Guitton d'Arezzo, è
l'_imagine_; e molto chiaramente dice che gli esemplari debbono essere
Virgilio e Stazio, e gli altri poeti latini. Ma perchè discorrere di
queste cose al marchese Colombi? Se non ha letto nemmeno Dante, che gli
posso fare io? Se egli cita _Io mi son un che quando_, e non sa nemmeno
che Dante ha scritto il _Convito_, che gli posso fare io? Il meglio sarà
di lasciarlo teorizzare: il riposo gli farà bene. E veniamo alla
profezia.

La quale, come ho detto in principio, rassomiglia stranamente
all'undecimo carme d'Isaia; solamente non è scritta in quattro strofe di
sei settenari con gli accenti tutti nelle sedi pari, come nel testo
biblico, ma è stampata in mezza colonna di prosa, come nella vulgata:
questa volta dunque il materiale poetico passando dall'Oriente in
Occidente non ci ha guadagnato, e si è aggravato di certe incrostazioni
mezzo tra polemiche e dimostrative, che ne guastano la bella e bestiale
semplicità. Dice infatti il marchese Colombi che la poesia non è morta e
che il poeta dell'avvenire verrà; e sarà un uomo interamente moderno, e
nella sua poesia metterà tutta la vita moderna, senza sdegnarne le
funzioni più umili, i fenomeni più apparentemente insignificanti. Questo
poeta avrà natali umili, e apparirà nelle colonne d'un giornale, fra il
bue dell'articolo di fondo e l'asinello della cronaca cittadina. Saprà
parlare ai grandi ed ai piccoli, la sua poesia sarà carne della carne e
sangue del sangue del suo tempo. Questo poeta verrà certamente; è ora
forse sui banchi del liceo, è forse un _piccolo_ di stamperia, è un
artigianello frequentatore delle scuole serali: è necessario ed
inevitabile: verrà: preparate le vie del Signore.

E fin qui, niente di male. Secondo la teoria del marchese e secondo
quella di Socrate, i poeti e gl'indovini e i pazzi molte parti hanno in
comune, e la profezia del marchese può forse far ridere chi non ha letto
tutta la sua lunga tiritera; ma io ho riso tanto in mezzo a tutto quel
fascio di ingenuità primitive e di spropositi incredibili, che il carme
profetico mi pare quasi bello e spiritoso. Ma il guaio serio è che il
marchese non si è accontentato di predire; ha voluto anche motivare la
predizione, e ha accusato non solo il Carducci, ma anche me, di aver
condannato a morte la poesia.

Ma proprio quest'uomo è pazzo? Il Carducci ha detto una volta, e il
marchese cita le sue parole, che «la poesia oggigiorno non è più nè un
elemento di civiltà per la nazione, nè un bisogno estetico della
società, nè istrumento di rivoluzione o mezzo di rinnovamento; ella,
salvo qualche volta o più volte il dramma e il romanzo, è tutta
individuale.» Oggigiorno, dice il Carducci, e lo dice in uno di quei
momenti di stizza o di pietà, dai quali chiunque abbia qualche rispetto
dell'arte non può esimersi vedendo la sciocchezza l'ignoranza la
ciarlataneria predicare alle turbe con una maravigliosa sfacciataggine
di su le colonne d'una gazzetta. Oggigiorno, dice dunque il Carducci; e
non domani. Chi può dire quello che sarà domani? Può essere che le cose
precipitino a ruina, e può anche essere che vadano un poco meglio, se le
teoriche poetiche del marchese non prevalgano, e se i critici prima di
teorizzare leggano almen Dante. Il Carducci non si sente invasato dallo
spirito profetico, e lascia al marchese Colombi le profezie. E anch'io
lascio al marchese le profezie, e non ho mai condannato a morte la
poesia. Ma quanto a me il marchese Colombi è d'una severità spaventosa.
Egli mi avventa passando, in una specie d'inciso, una botta non saprei
se di punta o di taglio, e dopo avere contro ogni buona regola
grammaticale scritto il mio cognome con l'iniziale minuscola, afferma
categoricamente che la mia critica è guidata da questo ragionamento: «Io
non sono poeta, dunque la poesia ha fatto il suo tempo; non sono
romanziere, dunque il romanzo è una forma esaurita dell'arte.»

Dove diavolo il marchese è andato a pescare codeste fanfaluche? O bella!
E se, per fargli dispetto, mi saltasse il ticchio di scrivere un
romanzo, o un canzoniere, o una epopea, o un poema eroicomico? Vorrebbe
forse impedirmelo il signor marchese? O che vi sarebbe di strano, quando
persino lui ha pubblicato qualche cosa, non so più bene che cosa? Io
dunque non riescivo ad intuire la causa di questa botta falsa; e proprio
concludevo nel mio pensiero che il marchese Colombi sia oramai
rimbambito, quando mi è ritornata nella memoria una cosa: mi son
rammentato che una volta ho detto male di un romanzo della marchesa
Colombi. Il marchese Colombi è marito della marchesa: dunque sarebbe
questo un atto di cavalleria coniugale? Dunque il marchese Colombi
rientrerebbe nella categoria critica che io ho paragonata a quella dei
mariti delle grandi attrici? E viva allora il marchese Colombi! Già, il
marchese Colombi, nato in una commedia, non può fallire alla sua natura
comica; e così quando scriveva articoli di mode con un nome femminile,
come ora vendendo al suo amico Fortis bugie e buffonerie, è un che di
mezzo tra il padre nobile e il _pantalone_. Diamine! Le accademie si
fanno o non si fanno.

Se non che, sono state queste le ultime bugie e le ultime buffonerie che
il povero marchese ha vendute a buon prezzo al suo amico Leone. — Però
che quando già si apprestasse alla pugna, contro i poeti contemporanei e
contro di me che non sono stato mai un poeta contemporaneo, se bene, se
la profezia del marchese non sia fallace, ho molta speranza di esserlo
una volta o l'altra, quando, letta moltissima prosa del mio amico
Arnaldo Vassallo e digeritala, una nuova materia e una nuova forma
poetica sorgeranno nell'anima mia, — qualcuno gli ammaccò un occhio con
uno scapaccione.

Ben fatto, per Dio! I poeti contemporanei sono stati ben vendicati,
dovrei gridare se fossi quel posatore d'antropofagia che dice il dottor
Verità. Ma io sono meno feroce assai di quanto alcuno creda, e della
sventura toccata al signor Torelli mi duole sinceramente come d'una mia
propria: anzi molto di buon animo avrei sopportato dieci scariche del
suo tristo umore, se questo avesse potuto salvarlo dalla bestiale
violenza di quel dentista che l'ha aggredito. Però il _Pungolo della
domenica_ può bensì perdere il Torelli, ma il vizio di spropositare non
mai; ed ecco papa Leone Fortis, il Telamonio, sorgere al posto
dell'Oileo abbattuto da un pugno.

Pare impossibile! Dominedio li fa, e il _Pungolo_ li accoppia!


IV.

Leone Fortis venuto a Roma per guarire da tutti i suoi mali il teatro
italiano, se ne ritornò a Milano ammalato egli stesso d'una tremenda
malattia, che i medici meneghini non seppero se chiamare abruzzofagia o
abruzzofobia. Ritornò a Milano, e si mise a urlare sotto gli squallidi
colonnati del _Pungolo_ domenicale che l'Abruzzo ha invaso Roma, e che
la colonia abruzzese accampata in Roma ha aperto in piazza Colonna una
beccheria di lupi e di femmine nude e d'altre simiglianti porcherie. —
Se voi li vedeste — dice il pio Leone alla platonica compagna de' suoi
colloquii, tenendosi amabilmente, a volta a volta, ora il piè sinistro
nella mano destra ed ora il piè destro nella mano sinistra; — se voi li
vedeste questi giovinetti barbareschi e selvatici che vendono carne di
Yella e fegato di Lalla e squartano ogni mattina un autore illustre per
mangiarne la coratella! Sono piccolini e magrolini e graziosini e dolci
come _fondants_; e non puzzano di bestie macellate. Ma sono tutti
stillanti e odoranti di acque nanfe e di cedronella e di opoponax; e
fingono di essere così selvaggi, l'uno per serbarsi il favor delle dame
e l'altro per desiderio di acquistarselo o per dispetto di non poterselo
acquistare. Essi hanno trovato una _posa_ nuova, in poesia e in critica,
ed è la _posa_ della _bestialità_, della _butterità_, della _ferocia_,
la quale corrisponde a puntino alla _posa_ cascante, pastorelleggiante,
bonboneggiante dell'Arcadia antica. Essi non s'accorgono che la loro
critica e la loro lirica sono in contrasto assoluto con la loro
costruzione fisica.

Tale, su per giù, il ragionamento capzioso che il _dottor Verità_ fece
nel _Pungolo_, per dimostrare che Gabriele D'Annunzio ed io ci
affatichiamo ad ingrossar la voce, e facciamo della poesia e della
critica spacconesca pe'l desiderio di parere quel che non siamo, una
coppia di selvaggi in giro per le fiere di campagna, mostranti
all'ammirazione della gente la faccia tinta col nerofumo, e una finta
capelliera lanuta, e certi denti posticci acuminati; e guardantici ogni
tanto in cagnesco con molte smorfie per far ridere la gente.

Ora il dottor Verità, quando siede a confabulare con quel piede in mano,
è un retore non dispregevole; e girando il discorso con una bella
abilità di chiacchierone, e cucendo insieme molti aforismi e molti
epifonemi e molti sofismi con qualche opportuno sproposito, e, ove
occorra, con una o due piccole bugie, tesse una teorichetta critica
argutella e chiacchierina, da deporre sul tavolino da lavoro della
signora che ha la pazienza di ascoltarlo da tanto tempo. Ve ne
ricordate? Era il tempo delle _Odi barbare_, e il dottor Verità, per
creare una ostilità al Carducci, prese a catechizzare quella buona
signora. Fece un giro largo, parlò della poesia latina, dei
tentativi barbarici del Seicento, della _Sehnsucht_, della
_Weltschmerzesdichtung_, della necessità melodica in Italia, del
sentimento italiano, delle tradizioni italiane, di Dante, di Leonardo da
Vinci, di Giovanni Prati, di Paolo Ferrari, dei trovadori e del Porta. E
tante ne disse, e tanto diluì in un fiume di parole argomenti e
argomentazioni e sfarfalloni, che la compiacente signora, guardandolo
con un'aria tra di stanchezza e di compassione e di ammirazione, stava
per cedere. Se non che, il dottore Verità volle avere troppo pieno il
trionfo; e per abbattere nella sua colloquitrice le ultime repugnanze
della ragione, ricorse a un mezzuccio volgare e pericoloso, onde i
teorizzatori dovrebbero sempre rifuggir con orrore. Persuaso egli
stesso, forse, volle confortar la teorica con un esempio; e disse: — Per
esempio, cara signora, se qualcuno volesse acclimatare il sonetto nella
poesia francese, darebbe un sicuro segno di pazzia; poichè la natura
francese e la lingua francese e le tradizioni francesi repugnano dal
sonetto, come....

Per mala ventura, la signora aveva sul tavolino da lavoro un libriccino
poetico di Teodoro Vibert, intitolato _Dizaine de Sonnets_; e subito
guardò il dottore con un'aria di angoscia interrogativa.

— Dottore, e Coppèe, del quale voi mi avete parlato tante volte? E
Victor Hugo, e Lamartine, e Baudelaire, e Musset, e tutti quanti i poeti
francesi sino a Ronsard non hanno scritto milioni di sonetti,
endecasillabi ed alessandrini?

Il dottore restò sbalordito, e non disse più verbo. Peccato! Aveva
costruita una così carina teorichetta barbarica, tutta di cera vergine,
con due capocchiette azzurre di spillo nel luogo degli occhiettini, con
una ghirlandetta di carta dorata sulla fronte, con due ramettini di
palma nelle manine piccoline!


Questa volta, dubitando di qualche sdrucciolone simile a quello, si è
attenuto a un metodo assai più semplice e meno pericoloso: ha lasciato
da parte gli esempi, le citazioni, e tutti gli altri ferravecchi della
critica letteraria; e si è tenuto alla fisiologia. Bravo, per dio! Il
dottor Verità, quel vecchio brontolone nemico di tutte le novità audaci,
diventa anche egli sperimentale. È un bel trionfo pel naturalismo. Se
non che, non bisogna affidarsi alla fisiologia con animo troppo
leggiero. La critica fisiologica può essere un buon metodo di analisi,
quando il critico abbia del _soggetto_ una nozione sicura, lo abbia
potuto studiare nel suo sistema organico, nelle funzioni esteriori della
vita, nelle irruzioni private della vita interiore: allora, comparando e
fondendo questi elementi di ricerca con quella parte della propria
attività spirituale che il _soggetto_ abbandona al pubblico, la
definizione o il giudizio o la classificazione possono avere un valore
positivo. Ma il dottor Verità non ha mai ascoltato le pulsazioni del mio
sangue, nè mi ha mai sentito il polso, nè ha tentato le mie
articolazioni, e non mi ha mai veduto tirare di scherma, o nuotare, o
pugillare, o ballare. Anzi, che io sappia, non mi ha nè pur veduto mai.
Or su quali dati scientifici poggia la sua dimostrazione di critica
fisiologica? Di più, io non ho mai avuto l'onore di parlare col dottor
Verità; nè egli, che io sappia, è stato mai testimone delle mie
consuetudini. Con che fondamento scientifico dunque egli fa la diagnosi
del mio io etico, e mi dichiara la miglior pasta di ragazzo che abbia
mangiato mai pasticcini sopra la faccia della terra? Io sono molto
contento della buona opinione che il dottor Verità porta delle mie
facoltà morali; ma in nome della scienza e della critica positiva,
protesto. Il dottor Verità mi ha rilasciato un documento di mitezza e di
bontà, senza nessuna prova sperimentale; e questo, per la dignità della
critica e per la serietà della scienza, non è comportabile.

Non è comportabile che nella critica positiva, fisiologica e storica,
s'introducano la leggerezza di cuore e la lestezza di mano che hanno
discreditato per sempre la critica estetica. Sei anni sono, il dottor
Verità voleva abbattere il tentativo barbarico del Carducci con
l'esempio della poesia francese, della quale era affatto digiuno; e ora,
il vecchio incorreggibile, perchè il D'Annunzio non ha un'ampia
ventraglia cascante, egli, che lo avrà veduto due volte e avrà scambiato
con lui venti parole, vuole abbatterlo con argomentazioni fisiologiche?
È curiosa. Gli nega una gran parte di quella potenza amatoria che il
D'Annunzio espande nella sua lirica; e asserisce che da una delle Yelle
gli è stato detto che il D'Annunzio è un millantatore. Or quale è questa
Yella che fa al dottor Verità delle confidenze tanto curiose? Fuori il
nome, per dio, o il ritratto almeno! Noi vogliamo affiggerla a tutti i
canti delle vie l'effigie di questa Yella che va a confessare al dottor
Verità i suoi peccati di maggio! Ma io dubito forte che questa Yella il
dottor Verità l'abbia veduta come ha veduta la mia testa, che dice
spettinata. Spettinata la mia testa? Io protesto di nuovo, o Dottore: la
mia testa è rasa sino alla pelle come quella d'un coscritto.

Se non che io forse ho torto di ritornar sopra questi pettegolezzi che
il dottor Verità move intorno a noi, e che in fondo sono una specie di
_réclame_ all'americana; e farei meglio a lasciar correre. Ma il dottor
Verità asserisce che il D'Annunzio e io scriviamo _posando_ e _montando_
e _gonfiando_ noi stessi; e qui è necessario fermarsi un momento. Prima
di tutto: che cosa intende il dottore per _posa_? Intende certe norme
giudicatrici nella critica e nell'arte, dalle quali gli accusati non si
discostano, a rischio di sembrare, fra i tanti che vanno innanzi ad
occhi chiusi, delle bestie strane? E allora gli accusati, lo dichiarano
volentieri, _posano_ e sono contenti di _posare_.

Il dottor Verità, come il suo collega il marchese Colombi, crede l'arte
una libera emanazione dell'intestino retto o dell'utero, a seconda del
sesso. Egli non pensa che da molto tempo in qua l'arte non è se non
l'espressione imaginosa di certi criterii scientifici, o la
rappresentazione evidente di una teorica filosofica. La persona
dell'artista, se pure si tratti di arte subbiettiva, non ci entra se non
come elemento secondario. Che cosa pensa il dottor Verità del Goethe, il
quale, dopo avere scritto a vent'anni i _Dolori del giovane Werther_,
visse settant'anni ancora, serenamente, e morì nel bacio del signore,
tra il compianto delle dame di Weimar? E se il Leopardi fosse stato un
bell'uomo forte e sano, lo avrebbe la sua constituzione fisica o lo
avrebbero le conversazioni del dottor Verità distolto dalla filosofia di
Schopenhauer?

Così, come ci entra l'organismo fisico del D'Annunzio nell'organismo
della sua poesia? Questa poesia la sa veramente il dottor Verità, o la
sa per le chiacchiere di qualche Yella immaginaria? Questa poesia non è
se non l'irruzione violenta, e qua e là scomposta, di un sanissimo e
giustissimo e potentissimo senso della natura e della vita. Questa
poesia è una emanazione diretta delle teoriche darwiniane, che insegnano
a considerare l'uomo nella natura come un qualunque essere animale, e
non come un microcosmo concentrico di tutti quanti i raggi e di tutte
quante le attività della vita. Ha letto il dottor Verità il _Canto
Novo_? Quando mai il senso umano irruppe con tanta libertà di
espansione, con tanta spontaneità di movimento, con tanto esuberante
splendore di forma? Era veramente un _canto novo_, poichè per entro vi
palpitava l'animalità senziente e intelligente, che è la caratteristica
dell'umanità darwiniana. Come ci entrava in questo la persona del poeta,
il quale a Lalla, subbiettivamente, prometteva le nozze; e come ci
entrava anche Lalla? Nel _Canto novo_ ci erano un maschio e una femmina,
che si chiamavano Gabriele e Lalla, e avrebbero potuto chiamarsi anche
altrimenti ed essere organicamente constituiti in altro modo senza che
la sostanza della poesia ne fosse mutata; ci erano un maschio e una
femmina, ed esprimevano in magnifiche strofe alcaiche ed in sonetti
meravigliosi il diletto della vita e dell'amore sul gran letto della
natura. La pittura del Michetti non è anch'essa tale? Or chi va a
ricercare se il Michetti sia gracile o robusto? E chi lo accusa di
posare, se, avendo un animo dolcissimo, ha esposto in Roma un quadro che
alle persone troppo rassomiglianti nell'organismo nervoso al dottor
Verità fa rizzare i capelli sul cranio? Se la dialogatrice del dottor
Verità pensa che la persona e l'opera dell'artista debbano avere una
identica constituzione organica, di chi la colpa, se non del dottor
Verità che le empie la testa di queste fanfaluche?

Lo stesso sia detto per la critica mia, la quale al dottor Verità, che
non mi ha veduto mai, pare troppo dissonante dalle proporzioni del mio
corpo e dalle mie facoltà etiche. Secondo il dottor Verità, un critico
che non si levi ogni mattina col santo e deliberato proposito di
inginocchiarsi davanti a qualche autore illustre con una gran furia di
genuflessioni e con molto fumo d'incenso, facendo salamelecchi come un
pappagallo sulla gruccia, dev'essere una specie d'antropofago, con una
barba lunga sino all'ombelico, con due braccia da Sansone schiacciatore
di Filistei, con un palmo di pelo sul cuore; se no, _posa_. E io che, a
quanto asserisce il dottor Verità, sono un mingherlino tisico e dolce
come il buon pane, non ho diritto di trattar male la gente.

Belle argomentazioni da dire a Cicerone, quando inveiva contro Verre, o
a Demostene, quando, per potere irrompere con più libera violenza contro
Filippo il Macedone, correva lungo la riva del fiume con la bocca piena
di sassolini per correggere il difetto della parola! Di più queste
parole, in bocca d'uno che da molti anni campa di critica, sono una
confessione pericolosa. Dunque il dottor Verità crede nella critica
subbiettiva, procedente da un impeto della passione? Tanto peggio per
lui, e per quelli che hanno creduto nella critica sua. Io no. Io porto
della critica una ben più alta e severa opinione: essa è per me una cosa
sacra, più sacra dell'arte; e quando abbandono il mio spirito
all'analisi d'un libro o d'uno scrittore, o d'un complesso di libri e di
scrittori, io mi libero pienamente del mio individuo senziente, e non
resta se non l'individuo pensante, con la scorta di quella poca coltura
che bene o male può guidare e illuminare il mio giudizio. Di che ferocia
mi va parlando il dottor Verità? Io non torcerei un capello a nessuno; e
se mangio assai spesso degli autori illustri e di fama stagionata, come
dice elegantemente il dottor Verità, gli è che ho adottato un metodo
critico un po' diverso da quello che per molto tempo la diffusione
giornalistica ha fatto prevalere in Italia. Il giornale dovendo vivere
un giorno, e soddisfare la necessità immediata di notizie, anche nella
critica campa alla giornata; e dando conto di questa o quella opera
d'arte che più stuzzica la curiosità del momento, non si cura o non
vuole o non può ricercare il nesso che la presente opera può avere con
le altre di altri tempi e di altri paesi. Questo metodo, che nella
cronaca gazzettiera è, per necessità, comportabile, diventa affatto
irragionevole e pericoloso quando si allarga al giudizio di tutta la
moderna produzione letteraria. Poichè la perfezione nelle opere della
mente umana non è assoluta, non è una determinata altezza alla quale
occorra di giungere, ma è relativa, è, più che altro, una specie di
scala, il primo officio della critica dev'essere di misurare le altezze.
È necessario dunque aborrire dal metodo empirico di Gustavo Planche, è
necessario non fermarsi al caso particolare e giudicare un'opera
singolare per sè sola, con la norma del senso estetico o, come più
spesso accade, con la norma dell'opportunità. La critica letteraria,
come la critica d'arte, è, più che altro, un'opera di classificazione e
di confronto. Ora, confrontando i frutti della nostra attività presente
con quelli che ci furono lasciati in eredità, giudicando una singola
opera d'arte non in sè, ma nello sviluppo complessivo di quella forma
dell'arte, accade che la dolce nebbia di ottimismo tanto cara agli
scribacchiatori italiani si disperda per l'aria. Ecco perchè io sono
feroce. Questo, in quanto alla sostanza. In quanto alla forma, che è
quella che più urta i nervi del prossimo, è un'altra faccenda. In
Italia, e in moltissima parte d'Europa, certe consuetudini d'ipocrisia
son rimaste tenacemente abbarbicate. L'usanza di segarsi la gola con
tutte le regole della politezza e del galateo ha invasa tutta quanta la
vita; dopo che Racine dovette radere la barba ai suoi eroi greci e
vestirli di velluto per non far paura alle dame adunate nel salone di
madama di Maintenon, il gesuitismo è diventata la norma di tutta quanta
la vita: nell'arte, per i molti sforzi e a malgrado delle molte
opposizioni, questa incrostazione lojolesca va scomparendo: or perchè
dovrebbe restare nella critica? Che volete? Quando io debbo dire a uno
scrittore, magari illustre, magari _stagionato_, che è un asino, non
trovo nessuna parola più efficacemente pittorica nella sua brevità
trisillaba e proparossìtona del vocabolo che serve a distinguere quella
mite bestia da tutti quanti gli altri esseri animali.

Il torto forse sta nel prendersi dei grattacapi inutili, poichè già,
come dice il dottor Verità, la critica non fa male a nessuno. Ma poichè
non ci è in Italia chi voglia prenderseli, io mi voglio buttare nella
voragine. Perchè dunque vorrebbe il dottor Verità che io fossi un
antropofago? Io vorrei che tutti i mangiati da me prosperassero e
ingrassassero come il dottor Verità, e avessero una buona volta degli
intendimenti artistici o critici. E non è vero, come dice il dottor
Verità, che io non giuri se non nel nome del Carducci. Naturalmente,
siccome nel nostro ventennio noi non troviamo se non il Carducci da
poter comparare con gli artisti della prima metà di questo e dei secoli
antecedenti; siccome noi dal Carducci abbiamo appreso, tra tante altre
cose, la religione dell'arte e l'odio dell'ignoranza e del
ciarlatanismo, abbiamo per lui, più che il rispetto, il culto che nasce
spontaneamente in conspetto dei benefattori. Ma ciò non ci vieta di
misurare gli altri ciascuno secondo l'altezza sua, e ove per troppo
impeto si sia errata o passata la misura, di rettificare.

Ma lasciamo andare. A che serve seccare la gente con certi pettegolezzi
subbiettivi? Io ho cominciato il mio mestiere di cronista bibliografico
dicendo d'un cattivo libro ch'era solamente buono per _torchecul_; e
quella parola nella quale io, antico ed entusiasta lettore di Rabelais,
non sospettavo tanto pepe, mi scatenò contro una tempesta. Ora mi ci
sono abituato, e tiro via portando le pene della mia _ferocia_. Così,
pel dispetto che mi faceva Gabriele D'Annunzio dichiarante agli amici
che gittava in braccio alle femmine tutto il suo mondo poetico, io
stampai dei sonetti di rimprovero e di ammonimento e di richiamo al
passato: dissi in versi quel che tutti gli amici del D'Annunzio dicevano
in prosa. Ma il torto fu di stampare quei versi. Io lo sapevo che ne
avrei portato la pena; tuttavia li volli pubblicare a dispetto
dell'opinione della gente. Ed ecco, il dottor Verità, seduto a fronte
della paziente compagna de' suoi colloqui, tenendosi a volta a volta il
piè destro nella mano sinistra o il piede sinistro nella mano destra, si
arma de' miei versi a danno del D'Annunzio. Pazienza!


V.

Ora forse il dottor Verità potrebbe ammonirmi che non tocca a me
rinfacciare ad Ottone di Banzole la sua poca reverenza e la sua molta
virulenza critica; poichè io non credo che nella critica le dolcezze
siano raccomandabili: nel giudizio mio i colpi debbono essere o bòtte
dritte con la spada bene aguzzata, o fendenti con la sciabola bene
affilata. E le nuove invenzioni della scherma mi paiono un segno di
debolezza. Io amo la scherma antica, senza finte, senza cavazioni, senza
parate: unica difesa, l'arnese fatato; unica offesa, il braccio
vigoroso. Io odio gli zuccherini della critica pastorelleggiante, che
condanna la grammatica in nome del galateo, che assesta una coltellata
nell'atto d'una reverenza, che ha sempre paura di troppo aver fatto
male, e dopo il biasimo ha sempre pronto, per compenso, un salamelecco,
come le madri che mostrano una caramella ai poppanti per indurli a farsi
nettare il naso. Per me è una grandissima gioia svillaneggiar
l'avversario prima di piombargli sopra, come nei poemi omerici, come nei
romanzi di cavalleria. Però, non senza una condizione. La villania e
l'insulto e la provocazione non debbono scoppiare dalle labbra di un
fiacco nell'atto della dedizione; ed avventare in faccia al nemico
un'ingiuria nell'atto di consegnargli la spada, può essere una
vigliaccheria ed è quasi sempre una pazzia. Ora il signor Ottone di
Banzole, del quale mi piace d'intrattenermi più per giustificazion mia,
che per merito o per peccato suo, proprio nel punto di buttar via la
spada inutile, ha con una grandissima intemperanza provocato tutte le
generazioni letterarie dell'Italia dal '50 in giù. Uditelo: «Entrando in
questa guerra letteraria, promisi sempre a me stesso di non morirvi:
concepii un disegno, e lo attuai. Vinto ad ogni battaglia ed insultato
come tutti i vinti, non scesi mai, nè scenderò mai alla scempiaggine
della replica, alla bassezza del lamento: i vinti hanno torto. Altri
sarà più fortunato, perchè più forte; pochi più sinceri ed intrepidi.
Poichè ogni pompa dell'arte mi era contesa per la miseria dell'ingegno,
ebbi l'orgoglio della nudità del mio pensiero.» Come questa nudità abbia
potuto giovare al signor di Banzole nella gran disgrazia della quale si
confessa, non so, e non mi preme di sapere. Ma ciò che non gli si può
perdonare è che, con tutta quella miseria della quale si accusa,
nell'abiezione della sconfitta, egli voglia trascinare nella sua ruina
tutti quelli che dopo il '50 hanno osato di scrivere in Italia. Non
toccava a lui, vinto, dir ciò. In bocca sua questa, che per qualche
parte potrebbe essere una verità, diventa una puerilità pazza. E
rimproverandogliela, io mi sento preso da un senso di pietà, come
davanti a un ammalato di mente; nè trovo parole aspre.

Questa sua pazzia il signor Ottone di Banzole ha espresso in un libro
intitolato _Quartetto_; e sono quattro stromenti, un violino una viola
un violoncello e un contrabasso, i quali prima di prendere a sonare
ciascuno la sonata sua si accordano in un _diapason_ preliminare, che
sembra un articolo di critica letteraria scritto dal deputato Medoro
Savini. Qui la pazzia, accumulata lentamente nelle quattro sonate,
scoppia con una intensità frenetica che veramente fa pena; qui la
malattia trapela ad evidenza dalle cose dette e dalla forma con che son
dette. Il signor di Banzole nelle cinquanta paginette di questa sua, non
saprei se orazione accademica o prelezione scolastica o conferenza
pedagogica o irruzione maniaca, fa un pasticcio meraviglioso; e senza un
criterio purchessia, senza una norma o un pretesto o una qualunque
giustificazione della sua conscienza, fondandosi unicamente sui fatti o
male o poco o punto osservati, non proponendosi se non di mostrare il
fatto, senza ricercarne nè le cause, nè gli effetti, strozza con le sue
mani tutta quanta la produzione letteraria italiana della seconda metà
del secolo; e tutti questi pollastri così strangolati cucina in
fricassea nel brodetto d'una specie di filosofia fatta a modo suo
d'idealismo hegeliano non bene inteso e di buddhismo schopenhaueriano
mal digerito.

Riferire i giudizi critici del signor di Banzole sarebbe farsi complice
della sua pazzia. Egli consacra tre pagine a infamare la memoria di
Pietro Cossa, e lo chiama un nano ingigantito dal cattivo gusto del
pubblico e della cronaca teatrale, un povero diavolo di macchinista
scenico a cui venne fatto una volta di vestire decentemente da romana
antica una pettegola parigina, e si credette di avere scoperto il mondo
romano; che seppe una volta dipingere con coloracci forti una scena, e
si credette di aver costruito tutto un teatro. Questa è una curiosa
maniera di scrivere. Quali sono i criteri drammatici del signor di
Banzole? Quali i modelli, secondo lui, più imitabili? Il teatro francese
moderno non gli va: in Italia, non gli piace nemmeno il Goldoni, pare.
Poi cita a modello le tragedie del Foscolo e del Manzoni. Come si fa a
raccapezzarsi in tanto guazzabuglio? E come ha fatto a raccapezzarsi il
signor di Banzole?

Così, ove tratta del Carducci, a mala pena si intende ciò che egli
voglia dire. Adopera un frasario così romanticamente nuvoloso, così
incomprensibile e inafferrabile e impalpabile per l'impasto di
reminiscenze bibliche e victorughiane, che è una cosa meravigliosa a
leggere. Pare di udire le campane della chiesa di _Nôtre-Dame_
scampananti a morto. «Nullameno ignorato ed incompreso per molti anni,
invece di capitanare il nuovo movimento, parve ne continuasse un altro;
mentre i giovani volontari della letteratura, che avevano forse lasciate
allora le bandiere del (_sic!_) Garibaldi, ne cercavano un altro
egualmente splendido, ma altrettanto facile. Invece il nuovo duce, che,
varcate le Alpi scrutava in quel momento per la Germania preludendo alle
teoriche e ai trionfi di Moltke, affermava la necessità di una profonda
dottrina per ogni ordine di milizie, e di una grande tradizione per una
grande arte.» Che diavolo significa questo? È un giudizio subbiettivo? È
un fatto storico? A me paiono parole senza senso. Più giù, riparlando
del Carducci, rimprovera questi e il D'Ancona di fossilizzarsi nelle
ricerche della critica storica, dimenticando che il Carducci ha
pubblicato, se non altro, tre volumi di _Confessioni e battaglie_,
dimenticando che il moderno metodo critico è appunto tale, e tale
essendo ha rinnovato tutte le forme e tutta la materia dell'arte; non
pensando che poche righe più sotto avrebbe lodato il Bartoli di ciò che
rimprovera nel Carducci e nel D'Ancona.

E sèguita, con un tafferuglio strano di nomi cozzanti e discordanti, di
teoriche e di tendenze e d'inclinazioni diverse, di dati storici messi a
forza insieme nello stesso periodo a pretesto di una stramberia,
mescolando senza discernimento classicismo e romanticismo, naturalismo e
idealismo, lodando in una pagina quelli che vitupera nella pagina
successiva, facendo infine una grandissima frittata di tutti gli
scrittori e di tutti gli scritti che, nella foga di tirar via, gli sono
venuti in memoria; e questa frittata friggendo nell'olio stantìo di
un'articolessa di politica estera sullo sviluppo del panslavismo in
Europa, sullo sviluppo del _nikilismo_ (è scritto proprio così) in
Russia.

E dire che costui è un bravo giovine che fa onestamente e avvedutamente
traffico di suini! La cosa è tanto strana, che non si può intendere
senza premettere nel cervello del signor di Banzole una grave
alienazione. Il signor di Banzole ha la memoria ammucchiata di letture
frettolose e smozzicate, di teoriche male intese e mal digerite, di
fantasmi malamente e fiaccamente formati: di più, l'instrumento della
lingua non gli sta troppo sicuramente nelle mani. Come dunque gli è
saltato il ticchio di mettersi a sonare una sinfonia così tumultuaria? A
che serve far della critica, quando non si vuol giungere a uno scopo,
magari falso, magari incerto, magari cattivo? Ora, da tutta la
filastrocca del signor di Banzole una conclusione unica si può dedurre:
che egli, giunto alla persuasione dolorosa della sconfitta, abbia, per
una puerile allucinazione mentale, sperato di trascinar seco nel
precipizio cinquant'anni di vita letteraria. Infatti, in ultimo, la sua
prosa pare come sonante e trionfante d'una certa frenesia gioiosa ed
orgogliosa, d'una certa pazzìa gloriosa. E attraverso le nebbie
sentimentali delle sue fantasticaggini romantiche, mi par di vederlo,
con le chiome rase da una qualche sconosciuta Dalila, crollare con le
forti braccia di mercante di porci le colonne del tempio dell'arte,
urlando con la gran voce d'un maniaco, che si creda d'essere il
Padreterno:

— Pera Sanson, con tutti i Filistei.


VI.

Si pubblica in Padova un _Giornale degli eruditi e curiosi_, che alcuni
eruditi amici miei chiamano pittorescamente _dei cretini e curiosi_; e
in verità, da che l'arte della stampa ha aperto tanta facilità di sfogo
alla sciocchezza umana, non mai una imbecillità più puerile è stata
perpetrata da più persone in conspetto del popolo. Questo giornale, che
vorrebbe offrire un contributo alla piccola erudizione, è fatto in modo
da rammentare quel giochetto di domande e risposte, onde ancora si
dilettano le ragazze borghesi, e che fra i giuochi innocenti è il più
stupido. Le domande che in questo foglio si propongono sono così
insipide, così oziose, così assurde, e le risposte così piccinamente
boriose, così gonfie di solennità e di degnazione, da farvi schiattar
per le risa. Una volta, in un accesso di dubbio disperato, uno domandò
se si avesse a scrivere dinanzi o dinnanzi; e un altro, con una feroce
aria di gravità sdegnata, rispose che veramente, poichè questa parola
risulta da due elementi, _d'_ e _innanzi_, bisognerebbe scriverla con
doppia enne, ma poichè io la scrivo con una enne sola, bisogna
rassegnarsi; e qui una sfuriata contro due miei peccati, la prolissità e
la monomania sentenziatrice. E dire che io, per non far torto a nessuno
e per risolvere pienamente la questione, scrivo con una o con due enne
spensieratamente, senza lasciarmi turbare il sonno da una consonante
nasale. Un terzo domandò quale fosse il più bel libro di Edmondo De
Amicis; e un quarto gli rispose con molta prosopopea. Un quinto infine
domandò chi fosse Marco Balossardi e un sesto rispose: _Olindo_
Stecchetti, il D'Annunzio e il Carducci; e costui firmò il quesito suo
così: _Asellus Maximus_. Il Carducci, in un momento di lieto umore,
rispose: «Asellus sarà maximus; ma io non sono Marco Balossardi.» Anche
ci è di quelli che ricorrono a questa fonte di erudizione per sapere chi
sia Chiquita, chi Gandolin, chi Matamoros; e i misteri della presente
Arcadia giornalistica sono uno ad uno svelati da gl'infallibili eruditi
che cooperano a questo giornale.

Se non che, poichè per fortuna della patria questa forma del cretinismo
non è largamente diffusa in Italia, il giornale morrebbe per manco di
alimento, se non avesse un sostentatore inesauribile. E costui è —
occorre dirlo? — il professore Rodolfo Renier. Il professore Rodolfo
Renier è l'Apolline delfico del _Giornale dei cretini e curiosi_: è lui
che dà i responsi, dritto sul tripode della sua maestà catedratica,
illuminando con la immensa luce della sua erudizione l'Italia. Egli ha
ricopiato le liriche di Fazio degli Uberti e certi sonetti del Pecora, e
ha fondato il _Giornale storico della letteratura italiana_ per cantar
le glorie di Fazio degli Uberti, del Pecora, e del professore Rodolfo
Renier; di più per assicurarsi una clientela fra la bassa erudizione,
soddisfa con grave sperpero di intelletto e di studi la curiosità di
tutti quelli che desiderano di sapere chi sia Chiquita.

Il professore Rodolfo Renier è un singolarissimo tipo di erudito. Dopo
aver fatto in Firenze, in società col professore Arturo Linaker, della
critica estetica che faceva sbellicar dalle risa sin le pietre di
Mercato Vecchio, vedendo come veramente lo studio della storia
letteraria avesse fatto qualche progresso anche in Italia e come la
critica sperimentale cominciasse a prevalere, nel primo entusiasmo di
questa strana e grande scoperta si buttò anch'egli alla ricerca del
materiale con un impeto indomabile; ed essendo proposto nella scuola tra
altre esercitazioni critiche uno studio intorno alla lirica di Fazio
degli Uberti, questo Rodolfo si buttò addosso a quell'imitatore di Dante
con una furia pazza, e gli consacrò tutta la vita. Se lo aveste veduto
quando andava in giro per l'Italia a ricopiar manoscritti! Pareva che da
quella copiagione sua tutta la critica moderna dovesse andare a
soqquadro, e che la rivelazione di Fazio degli Uberti dovesse
sconvolgere tutti i criteri che sin qui hanno retto l'edifizio della
nostra storia letteraria. Io lo vidi una volta nella biblioteca
corsiniana, e l'ilarità che nell'anima mia suscitò la sua conversazione
mentre tornavamo via da Trastevere per ponte Sisto affollato di serve,
mi è durata di poi per molto tempo. Venivamo via in quattro o in cinque
coi nostri scartafacci di transcrizione in mano, ed era l'ultimo
autunno, e il vespero carezzevole spandendo sui lavori del Tevere un
lume d'un color di viola pareva che ci rimproverasse blandamente le
nostre vili fatiche. E il signor Renier parlava del suo Fazio con un
tanto intenerimento di voce e un così risibile calor di passione, che
d'allora in poi mi ha fatto avere in orrore tutti quanti gl'imitatori di
Dante. Pareva che questo suo Fazio fosse il maggior poeta del mondo. E
questo Fazio di poi ci ha seccato per un pezzo. Poichè dalla passione
che dal solo copiarne il canzoniere si suscitava nel signor Renier,
tutti si aspettavano o ch'egli avesse scoperto in quella legnosa lirica
una qualche sconosciuta virtù, o che almeno di là si spiccasse a qualche
non pensabile slancio critico. E dovunque si andava, nel piccolo
formicaio dell'erudizione italiana, era una persecuzione:

— Sai, — mi diceva il mio amico Zenatti, terminata di leggere una
lettera — è Fazio Renier che mi scrive: mi parla degl'imitatori di
Dante.

— Sai — mi diceva il mio amico Morpurgo, giunto appena da Firenze — ho
visto Rodolfo degli Uberti.

— E che fa?

— Copia le liriche di Fazio.

Si usciva di scuola col Monaci, e domandava:

— E il signor Renier ha terminato il suo Fazio?

Si apriva il _Preludio_, e si trovava o una qualunque pappolata del
signor Rodolfo, ove Fazio era ricordato amorosamente, o una notizia di
cronaca ove la edizione critica delle liriche di Rodolfo Renier a cura
di Fazio degli Uberti era minacciata da un momento all'altro. Poi
cominciò un'altra storia. Questo mattacchione del signor Rodolfo (com'è
arciducale questo imitatore di Dante!), per fare un po' di propaganda al
suo metodo critico, pubblicò uno o due opuscoli di cose inedite per
occasione di nozze. Non l'avesse mai fatto! Tutti gli eruditi che
stavano in aspettazione, rimasero con un palmo di naso. Quella era
dunque la novità? Novità veramente era, poichè cosa più scempia non fu
pensata mai: si trattava di sopprimere nella edizione dei testi antichi
l'intelligenza e la personalità del critico, per rimettersi in tutto al
manoscritto: si trattava di sostituire alla critica del testo la copia
pura e semplice, rimettendosi per ogni dubbio ortografico metrico o
grammaticale all'autorità di un amanuense ignoto e, probabilmente,
ignorante. Questo fu il topolino che dopo una quasi quinquennale
gestazione partorì la testa vuota del signor Renier; e intorno a questo
topolino combattè Giulio Salvadori con troppo più possenti armi che non
fossero necessarie ad accoppare un novatore tanto rodolfo. Dopo, venne
il famoso canzoniere; e, dio, che spettacolo allegro! Quando esso fu
pubblicato, già tutte le persone di buon senso erano persuase che questo
Renier fosse uno sciocco o un mistificatore, e l'accoglienza a quel
volume che non aggiunse nulla a quanto dell'Uberti già si sapeva, fu
poco lieta. L'effetto fu questo, che da una parte si vide come in Italia
ci sia della gente, la quale, per non aver tanto ingegno da esercitare
un qualunque onorato mestiere, si butta all'erudizione senza sapere nè
la grammatica italiana nè la metrica; dall'altra il signor Renier,
deluso nelle sue folli speranze, si sforzò di riparare in qualche modo
al disastro lodandosi largamente da sè medesimo e facendosi lodare da
qualche più intimo amico. E se lo spettacolo, per la strana prosopopea
con la quale il signor Renier vorrebbe imporre questa sua sgrammaticata
erudizione e per l'insigne officio cui il ministro dell'istruzione
pubblica lo ha eletto, non è ridicolo, io voglio consumar nel pianto la
mia restante vita.

Di qualunque cosa scriva il signor Renier, fa smascellar dalle risa; e
più volte in questo libro io ho dovuto occuparmi di suoi sfarfalloni
grossi come la gran botte di Norimberga. Sebbene egli disserisca di
qualunque materia con una solennità comica e lacrimevole insieme, la
povertà del suo cervello è strana. Figuratevi: si è consacrato tutto a
un argomento così misero, qual'è quello degl'imitatori di Dante, e
l'ingenuità de' suoi spropositi ogni volta che parli di cose dantesche
non è credibile. Eccone una, per esempio. Il professor Bartoli in un
momento di allucinazione critica ha voluto dimostrare che la Beatrice di
Dante non sia se non una _beatrice_, un qualificativo astratto e
generico materiato con una specie di mito femmineo. Non ci è stato in
Italia uno che abbia accettato questa fantasticheria del Bartoli: era
dunque naturale che il professor Renier subito ne fosse colpito, e ogni
volta ch'egli deve parlare dell'amica di Dante, scrive senz'altro
_beatrice_, come se quell'arzigogolo fosse entrato o potesse entrar mai
nella persuasione della gente seria. Ed eccone un altro, più bello e più
schiettamente odorante d'olezzo d'asino.

Nella smania di fare e di rifare ogni giorno il mondo dell'erudizione,
onde il signor Rodolfo è posseduto, ha scoperto in una delle più remote
provincie germaniche un povero diavolo d'un tedesco, un tal Bertoldo
Wiese, e lo ha aizzato nel suo giornale, che spudoratamente s'intitola
dalla letteratura italiana, contro il Carducci. Questo povero minchione
d'un tedesco si è d'improvviso trovato nella pelle d'un cane randagio
lanciato in un cortile contro un orso a qualche festa popolare
germanica; e le sue capriole e i suoi salti e i suoi abbaiamenti sono
stati tali da fornir per un mese argomento di riso a un capitolo di
canonici. Figuratevi: l'imbecillità e la goffaggine di questo cagnotto
furono così madornali, ch'esso andava a torno pel cortile divincolando
la coda, abbaiando con una strana iattanza, e ora addentando una scopa
appoggiata al muro, ora buttandosi fieramente sopra un qualche cencio
abbandonato in terra, senza poter mai toccar l'orso.

Il professore Rodolfo, con un berrettaccio di pelo d'asino sulla zucca,
affacciava la testa di su 'l muro del cortile, e incitava
patriotticamente quel vile cagnottolaccio tedesco contro il nostro
grande e nobile orso italiano. La gente in su le prime, non avendo bene
inteso il giuoco, guardava; ma poi di subito se ne andò stomacata,
poichè le vigliaccherie e le ribalderie hanno ancora la virtù di muovere
a schifo gli animi umani. Restò uno, più attaccabrighe degli altri, e
cacciò via a pedate la bestia aizzata e la bestia aizzatrice. Costui, se
piace al professor Rodolfo Renier, sono io. Or ecco, fuori d'ogni velame
di metafora, la storia del cagnotto tedesco e delle pedate.

Il Carducci pubblicò nel 1871 a Pisa, pei tipi dei Nistri, una preziosa
raccolta di _Cantilene e ballate, strambotti e madrigali dei secoli XIII
e XIV_, tratte di su 'l codice magl. stroz. VII, 1040; e quella
pubblicazione fu sempre meritamente tenuta dagli italiani e dagli
stranieri come una magistrale opera di critica per la grandissima
diligenza dell'edizione e per la capitale importanza della materia. Or
dopo dodici anni questo tedesco ci viene a dire che, avendo confrontata
l'edizione carducciana col manoscritto, ha scoperto una infinità di
errori e di omissioni; e pretende di correggere il Carducci.

Pretende di correggere il Carducci, questo Bertoldo, e sa d'italiano
quasi quanto ne sa il professor Renier! E per chi si prenda il gusto di
scorrere quelle sue emendazioni, è una festa di risate graziose. Egli,
naturalmente, non sa nè la grammatica nè la metrica italiana; e,
costretto dalla necessità ad adottare il metodo critico del professor
Renier, si rimette in tutto all'amanuense che transcrisse il codice, e
rimprovera con una fierezza di lanzichenecco il Carducci, di non aver
stampato degli endecasillabi di dodici, tredici o quattordici sillabe, e
di non aver lasciato nella edizione sua tutti gli spropositi ortografici
e grammaticali, onde il copista infiorò la sua copia. Di più, questo
povero diavolone d'un tedesco non sa leggere i manoscritti italiani:
l'esse, per esempio, è per lui un rompicapo chinese, e ora lo scambia
con un elle, e ora invece l'elle gli pare un esse. In fine, egli si
rizza su dal confessionale con una canna in mano, come uno di quei preti
che in San Pietro paiono intenti a pescare all'amo e invece dan
l'assoluzione abbassando la canna sul capo di tutti i peccatori che
vengono a deporre il pesciolino d'un peccatuzzo veniale a' loro piedi;
ma non dà l'assoluzione: anzi squassa in alto e palleggia ferocemente
quella canna, e pare un cherusco escito dalla melma della palude con la
canna da respirare in mano. In fatti, si tratta d'un peccato mortale: il
Carducci, secondo il nostro Bertoldo, ha omesso nella sua edizione
alcune importantissime poesie inedite di Dante, del Cavalcanti e di
altri; e, per riparare a tanta incuria, le pubblica lui.

Per gli altri e pel Cavalcanti, il nostro Bertoldo non stia in pena:
hanno già avuto più volte l'infamia o l'onor della stampa. Il caso grave
è intorno a Dante, del quale ecco gli endecasillabi omessi, chi sa
perchè, dal Carducci:

    Indi spiro sanzessermi p_ro_ferta
    dante lavolglia discerno melglio
    chotu qualu_nque_ cosa te piu certa
    P_er_chio la veggio neluerace spelglio
    chefa dise' parelglio laltre chose
    _et_ nulla face luj dise parelglio
    Tu vuolgli vdir qua_n_te chedio mi_n_puose
    nelexcelso giardino dove costei
    acosi lunga scala ti dipuose
    E quanto fudilecto agliocchi miej
    ela p_ro_pia ragion delgra_n_ disdengno
    clydiomo chu sai _et_ che fei
    Orfigluol mio nouel gustar dellegno
    fu p_er_le lacagio_n_e dita_n_to exilio
    ma solame_n_te il trapassar del se_n_gno
    Quindj onde mosse tuo do_n_na vergilio
    quattro milia trece_n_to _et_ due volumj
    disol desideraj q_u_esto concilio
    Et uudi luy tornar atutti ilumj (_sic_)
    dela sua strada noue cie_n_to trenta
    fiate me_n_tre chio i_n_ terra sumj.

Or come il Carducci ha potuto commettere la grave negligenza di
tralasciare questi versi? È strano. Veramente da prima, leggendo dei
versi come questi:

    dante lavolglia discerno melglio,
    fu perle lacagione ditanto exilio,
    et uudi luy tornar atutti ilumi,
    fiate mentre chio in terra sumj,

non che endecasillabi di Dante, mi parvero muggiti d'un rinoceronte; poi
mi venne un lontano ricordo, come di cosa altra volta imparata a memoria
e recitata in iscuola; e subitamente mi sovvenni che quei versi inediti
di Dante dovevano essere editi in un libro, stampato bensì in pochissimi
esemplari fuori di commercio, ma che pure un erudito di buona volontà,
con qualche sforzo può riescire a procurarsi. Corsi infatti a prendere
questo libro, che è intitolato, — _Dante Alighieri, La Divina commedia
con note tratte dai migliori commenti per cura di E. Camerini, 6ª
edizione stereotipa, Milano, Sonzogno, 1877_, — e a pagine 401-2,
(_Paradiso_, XXV) lessi:

    Indi spirò: Senz'essermi profferta         103
      Da te, la voglia tua, discerno meglio
      Che tu qualunque cosa t'è più certa,

    Perch'io la veggio nel verace speglio      106
      Che fa di sè pareglie l'altre cose,
      E nulla face lui di sè pareglio.

    Tu vuoi saper quant'è che Dio mi pose      109
      Nell'eccelso giardino, ove costei
      A così lunga scala ti dispose,

    E quanto fu diletto agli occhi miei,       112
      E la propria cagion del gran disdegno,
      E l'idioma ch'usai e ch'io fei.

    Or, figliuol mio, non il gustar del legno  115
      Fu per sè la cagion di tanto esilio,
      Ma solamente il trapassar del segno.

    Quindi, onde mosse tua donna Virgilio,     118
      Quattromila trecento e duo volumi
      Di sol desiderai questo concilio;

    E vidi lui tornar a tutti i lumi           121
      Della sua strada novecento trenta
      Fiate, mentre ch'io in terra fu' mi.

Sì, o signori: non ispalancate la bocca e non levate gli occhi al cielo
in atto di meraviglia. Non è il caso di meravigliarsi di cosa alcuna,
quando si ha da fare con certa gente. Quel povero minchione d'un
discendente d'Arminio vuol venire a fare il dottore in casa nostra, e
rimprovera al Carducci di non aver pubblicato, come cosa inedita, alcuni
endecasillabi che poi sono delle terzine del _Paradiso_: pazienza. È un
vecchio vizio tedesco quello di cacciare il naso nelle cose italiane, e
quel povero Bertoldo è degno di pietà, poichè ha trovato un Cacasenno
che gli ha spalancato le porte d'Italia.

Ma colui che meriterebbe da vero una pubblica flagellazione _a
posteriori_, in piazza Navona, in conspetto di tutto il popolo ragunato
con le trombe e con le cassette di latta per la festa della Befana, è
appunto quello stolido Cacasenno, quel disgraziato professore di
filologia romanza, che ha dedicata tutta la vita agl'imitatori di Dante,
e non ha nè pur letta la Divina Comedia. Ma che cosa, oltre le liriche
di Fazio degli Uberti, ha mai letto il professor Renier? Non mai un
trattato di geografia di certo, poichè nell'ultimo fascicolo del suo
_Giornale storico della letteratura italiana_ egli pone Dublino in
Iscozia. O _Giornale storico della letteratura italiana, merdosior
omnibus latrinis_! Si son messi in tre a farlo, e tanto allegri sono i
loro spropositi, e con sì comica solennità li affidano alle mani della
tipografia, che io vorrei chiamare questi tre il Bertoldo, il Bertoldino
e il Cacasenno della erudizione italiana. Se non che, manca ad essi quel
grosso buon senso che la leggenda popolare attribuisce a' suoi eroi.
Fanno per altro ridere, e il cavalier Marco Balossardi e Corrado Ricci
hanno riso in rima alle loro spalle. I versi del cavalier Balossardi
saranno in breve pubblicati, e rideranno anche i lettori: io voglio qui
citare il sonetto di Corrado Ricci, che è tuttavia inedito:

      Per un'ulcera dura nel prepuzio
    M'hanno applicato al ventre un ossocrozio
    Onde ho passato sette giorni in ozio
    A legger certo libro del Manuzio.
      C'è dentro una ricetta di Stercuzio
    Notissima al Traversi, al Graf, al Grozio:
    Sei oncie di Novati in sei di lozio,
    Undici di Renier in tre di Luzio.
      Sapendo sulla fede del Leibnizio.
    Che quelle droghe (che non pagan dazio)
    Come purgante sono un benefizio,
      Ne presi insin che non senti'mi sazio,
    E dopo tre o quattr'ore di supplizio,
    Ho cacato le liriche di Fazio.

Tale è il professor Rodolfo Renier, e tale pur troppo è qualche altro,
che senza essere tanto pienamente inetto a ogni opera intellettuale,
crede anch'egli che la critica nessun'altro più degno officio possa
usurpare, oltre un cieco e spesso vano ragunamento di materiale.

L'esplorazione scientifica, per virtù del Carducci del D'Ancona del
Comparetti dell'Ascoli, e di altri più giovani usciti dalle loro scuole,
dava in principio frutti bellissimi; e a poco a poco, mettendo in luce
del nostro materiale letterario o non mai o malamente studiato, dava un
nuovo impulso all'esame di tutto quanto il nostro patrimonio d'arte e
conferiva alla critica una serietà e una solidità non mai conseguite in
Italia; e sopra tutto propagando il metodo sperimentale educava la
gioventù a un esercizio dell'intelletto non più vagabondo e capriccioso,
ma positivo ordinato profondo. E veramente il primo effetto di questa
propaganda non poteva essere migliore, poichè i primi giovani che
uscirono da queste scuole, per esempio il Rajna e il D'Ovidio, furono
tali da potersene onorare qualunque popolo più dotto e più scientifico
del nostro. In sèguito molti altri giovani con non minore fortuna
batterono la medesima via; ma per grandissima sciagura qualche mercante
s'è cacciato con suo ciarlatanesco apparato di richiami e di romori nel
tempio. Dico mercante per modo di dire e per un maledetto amor di
metafora, ma avrei dovuto dire, per non deviare dalla verità, imbecille.
Costoro... ma poichè non son molti, per buona fortuna, e poichè le loro
note caratteristiche si raccolgono, come in un tipo unico, nel professor
Renier, parliamo in numero singolare, e cerchiamo di definire il pedante
giovine.

Costui dunque, il pedante giovine dico, ha la scatola del cranio vuota
in tutto di materia cerebrale; ha per converso non saprei dire se nel
midollo spinale o nelle palme delle mani o in qualche altra parte della
persona, un prurito una fregola una smania ferocissima di apparire fra
gli eruditi eruditissimo, e fra i nuovi ricercatori più ricercatore e
più nuovo di tutti. E ricerca, e dovunque trovi o un conto di lavandaia,
o una lettera di un maggiordomo, o una qualche ghirlandetta di sonetti
d'un qualche Stiavelli dell'antichità non polluta mai dal rude amplesso
della stampa, copia; ma prima gitta tra gli amici la voce. E da per
tutto, ove sono ingenui che si siano lasciati cogliere da quell'apparato
di cerretanismo, la voce corre: Il Renier.... perdono, volevo dire il
pedante giovine. Il pedante giovine ha scoperto un importantissimo conto
d'una lavandaia del secolo XIV. Sapete? Il giovine pedante ha fatto una
scoperta preziosa: ha ritrovato una lettera di un maggiordomo di un
camerlengo apostolico del secolo XVI. Hai veduto? Il pedante giovine fa
un'edizione critica dei sonetti d'uno Stiavelli del XV secolo. E il
giornale amico annunzia dignitosamente: «L'egregio dottor pedante
giovine, professore di storia comparata delle lingue e letterature
neolatine nella R. Università di Torino, ha fatto una serie di scoperte
d'una importanza capitale per lo studio delle nostre fonti letterarie:
un conto di lavandaia del secolo XIV, che sconvolge tutti i criteri sin
qui vigenti intorno alla coltura generale di quel tempo; una lettera di
un maggiordomo d'un camerlengo apostolico del secolo XVI, che apre nuovi
orizzonti allo studio della calligrafia vaticana dopo che le guardie
palatine furono vestite dell'uniforme pensata da Michelangiolo; una
ghirlandetta di sonetti d'uno Stiavelli del secolo XV, che gitterà una
nuova luce nelle tenebre del petrarchismo.

«Con quest'ultima l'illustre dottor Rodolfo comincia una larghissima
esplorazione intorno agl'imitatori del Petrarca. Crediamo di sapere che
egli consacrerà molti anni della sua vita a transcrivere e pubblicare
tutta la lirica petrarcheggiante, dal canzoniere di Giusto de' Conti da
Valmontone sino alla più tarda e più ignota petrarcheria. Opera
colossale che servirà di risposta a tutti quei farfallini che, con una
leggerezza senza esempio, osarono rimproverare alcuni insignificanti
spropositi di grammatica, di metrica e di buon senso a un erudito di
tanto peso».

E così il Pedante prosegue la sua via, con molte risa delle persone
sensate, allucinando gl'ignoranti o gl'ingenui. E quando alcuno ardisca
di movergli qualche osservazione, pietosamente, tanto per fargli, con
buone maniere, intraveder l'abisso della sua imbecillità, allora
s'infuria, e prende ad abbaiare, e prende a seccare il prossimo con una
petulanza fastidiosa, che v'induce la voglia di acchetarlo con un
calcio. A costui manca la prima e più necessaria facoltà critica:
l'intelligenza. Egli non capisce nulla, non sa nulla, non sa far nulla:
sgrammaticato e destituito di ogni senso melodico, egli transcrive
spropositando come un copista del XIV secolo; gli manca per altro la
perizia calligrafica che gli amanuensi antichi ebbero. Egli non intende
nemmeno quanta distanza corra tra le sue vili fatiche e l'opera dei veri
e utili ricercatori. Nessuno è più inflessibilmente positivo nella
pubblicazione dei testi antichi del professore Ernesto Monaci, il quale
dalla edizione diplomatica è passato addirittura alla fotografia dei
manoscritti; ma il professor Monaci ha una larghissima e profonda
erudizione di tutta quanta la storia letteraria dei popoli neolatini e
un acume critico sicuro, e ogni pubblicazione sua colma una lacuna e
risolve dei dubbi: così col canzoniere portoghese, così col chigiano,
così sempre. Ma questo signor Renier, quest'oracolo delfico del
_Giornale dei cretini e curiosi_, il quale copia tanto per copiare e per
scrivere il suo nome arciducale sopra una edizione d'un testo antico, il
quale non sa nemmeno, copiando, obbedire alle leggi metriche e
grammaticali, e dopo aver copiato, quando dalla copia appare ad evidenza
l'inettitudine sua a qualunque esercizio d'intelligenza, vuol empire
l'Italia del suo malumore, e della sua boria, e della sua sciocchezza
puerile, questo signor Renier meriterebbe un _pensum_ enorme: poichè non
è egli se non uno scolaraccio ambizioso e di cervello tardo, che vuole a
forza imporsi sull'altra scolaresca con sue appariscenti reverenze al
maestro, e con un copioso imbrattamento di carta. Meriterebbe gli si
dessero a ricopiare tutti i codici della Riccardiana dieci volte; e
dopo, lo si condannasse ad appiccar di sua mano il fuoco a tutta quella
carta imbrattata. E sì che su questa scolaresca siede maestro,
ammonimento e terrore a tutti gli imbecilli facinorosi, Giosuè Carducci,
il quale alla sua gloria poetica congiunge l'altra, più grata forse a
lui, di essere stato dei primi rinnovatori, certo il più efficace
propagatore della critica positiva in Italia. Giosuè Carducci non è un
vile amanuense, se bene pochi siano più di lui operosi ed assidui
esploratori di biblioteche; ma nella indagine critica reca tutta la
lucidità della sua mente e tutto il larghissimo contributo della sua
dottrina, e non si racchiude in un circolo vizioso, ma trascorre in
trionfo tutto un immenso campo, e dalla più antica letteratura italiana
o latina passa alla polemica con gli scribacchiatori del giorno; e dopo
aver pubblicato quel libro di _cantilene e ballate etc._ (o Bertoldo,
salute!) che è più importante di tutta quanta l'epica e tutta quanta la
lirica di tutti quanti gl'imitatori di Dante e del Petrarca, stampa tre
volumi di _Confessioni e battaglie_ e ne apparecchia uno sui trobadori
della corte di Monferato. E poichè mi son seccato del signor Renier e
degl'imitatori di Dante, e certo anche i lettori ne debbono essere
infastiditi, passiamo, per compenso, alle _Confessioni e battaglie_, con
le quali il Carducci ha scosso da sè quella incrostazione leggendaria
che si era formata intorno alla sua persona.

Quale sia il processo chimico della leggenda, si sa. Appena un uomo, per
meriti o per demeriti grandi presso il prossimo suo conquista in patria
e fuori una larga popolarità, ecco intorno a lui comincia uno strano
concorso di animalacci e di animaletti. Vengono le vipere, e schizzano
sul suo nome il veleno dalle gengive; vengono i cani arrabbiati, e vi
schizzano la bava dell'idrofobia; vengono le lumache, e vi strisciano
sopra intonacandolo d'una patina argentea. Così quel nome scompare sotto
una multipla vernice, come gl'insetti in un pezzo d'ambra; e i presenti
e i posteri guardano la vita di quell'uomo a traverso quegli strati
cristallini, che ne ingrandiscono un qualche aspetto, e un altro ne
impiccoliscono, altri infine nascondono affatto. Quando il nome di
Giosuè Carducci passò i confini di Romagna e di Toscana, lo
accompagnarono strani romori. Dicevasi che fosse un uomo sanguigno
nervoso turbolento bilioso nella critica, sanguinario nella satira; e
per di più un professore fra socialista e repubblicano, smodatamente
amico della diva bottiglia. Queste cose che io, con altri compagni miei,
udii nel '76 da un professore di ginnasio il quale aveva imparato il
tedesco dallo Zendrini ed è un uomo di molto ingegno e di moltissima
dottrina, si dicevano per tutta l'Italia, ove nella fantasia della
gioventù la leggenda carducciana era sorta, tutta tinta d'un bel rosso
di sangue, fra quelle dei re di Roma. Con le _Poesie_ il Carducci non
s'era fatto molti nemici: la prevalenza del romanticismo nell'Italia non
faceva badar molto a quel classico maremmano balzato su da una
biblioteca con una muscolatura salda e con una erudizione rara. S'erano
uditi degli urli per l'inno a Satana, s'era udita più d'una predica
velenosa di qualche don Margotto, ma niente altro di grave. Il fragore e
le battaglie e la popolarità del Carducci cominciarono veramente con le
_Nuove Poesie_; e cominciò allora la leggenda, contro la quale il
Carducci si è dibattuto con tutto l'impeto del suo ingegno, con tutta la
violenza della sua natura. E i dibattimenti e i combattimenti li abbiamo
ora tutti insieme in questi tre volumi.

Nelle _confessioni_ il Carducci narra parecchi periodi della sua vita di
ragazzo indocile e rivoluzionario fra i vesperi caldi della Maremma
toscana, fra i cavallari che menavano i polledri a bere, fra gli stormi
di falchetti e di aquile che si spiccavano a volo verso il levante; la
sua vita di scolare negli scolopi e poi nelle biblioteche fiorentine ove
raccolse una così ricca messe di erudizione; la sua vita d'insegnante e
di poeta a san Miniato e in Bologna, che fu e tuttavia è per lui una
seconda patria. Queste confessioni, sparpagliate quà e là in varii
capitoli, hanno questo d'importante pei lettori moderni e pei critici
avvenire, che con una grandissima evidenza mostrano l'evoluzione delle
facoltà poetiche del Carducci in relazione con la sua vita e co' suoi
studii: evoluzione progressiva e meravigliosa dai _Juvenilia_ scritti in
Toscana fra il dominio assoluto del romanticismo, e le _Odi barbare_
balzate all'amico sole di Romagna dal petto del poeta vittorioso. E
poichè la vittoria non si potè conseguire senza un aspro e lungo
combattere, le _battaglie_ sono forse di maggior momento. Il Carducci,
si sa, è un uomo forte di complessione, forte nella poesia, forte nella
polemica: egli dunque, che pure ha tanti e tanto sicuri amici, non
lascia in pace i nemici se non li ha gittati con la faccia a terra.
Alcuni dicono ch'egli ecceda nella violenza. E sarà, forse. Egli non ama
la polemica fatta tra due salamelecchi, con molti sorrisi d'incoramento
agli avversarii: «_A tali parole non mancheranno di batter le mani certi
amici miei, i quali, per amor della dignità delle lettere, amano
foggiarsi dello scrittore un cotal modello accademico, che dovrebbe
moversi per entro una raggiera di stucco indorato e passeggiare alto da
terra sulle nuvole fatte a batuffoli di bambagia, salvo a lasciar la sua
posa di nume melodrammatico per bisbigliar basso in un crocchio — Il
tale o il tal altro è un birbante — e stendere nel medesimo tempo la
mano inguantata al su lodato birbante se entri nella stanza. Certamente
non dobbiamo rinnovare gli esempi del Castelvetro e del Caro: ma la pace
a tutti i costi è politica da vigliacchi._» Tale è, in fatto di civiltà
polemica, l'opinione del Carducci; e se essa può non troppo piacere agli
avversari, deve necessariamente tornare a grado dei lettori
indifferenti, pel calore e per la vita che ne viene alla prosa; e poi
l'ira del Carducci è santa, poichè non è se non la stizza d'un uomo che
con tutto l'animo stia intento a un'opera di grave momento, e i tafani
gli ronzino intorno pungendolo per la faccia.

I suoi sforzi di rinnovare il contenuto e la forma della poesia e della
prosa critica egli li fece con piena conscienza della serietà de' suoi
intendimenti, della maturità delle sue forze, con una preparazione di
studii e di esperienze quale, credo, nessun poeta moderno ebbe dopo il
Goethe: quelli che lo attaccarono furono manzoniani di seconda mano, o
cronisti a cui altra materia difettava, o critici lunghi e mingherlini
con mustacchi irsuti e la testa piena di fanfaluche. Costoro lo
assalirono con leggerezza strana, senza pensare alla gravità
dell'impresa, reputando che i poeti classici fossero una specie di
bestie da soma, sulla schiena delle quali il primo imbecille venuto
potesse picchiare con pieno e libero arbitrio. Doveva il Carducci,
secondo il precetto evangelico, starsene in pace invocando ancora altre
bastonate? Egli è pagano, e i pagani certi scherzi non li sopportavano.
Si levò dunque anche lui, con le pugna in alto, e per ogni buffetto
restituì dieci cazzotti. I suoi avversari furono scavalcati, tutti gli
assalti scoperti o abilmente occultati furono respinti, e le violenze
sue, non meno dei suoi versi, giovarono a sospingere la gioventù
d'Italia alle conquiste della coltura moderna.

Del resto, predecessori in bastonagione, tra i classici e tra i
romantici, non gli mancano. Il Goethe, il Dio, che veramente passeggiava
in trionfo fra una raggiera di stucco indorato sulle nuvole dell'Olimpo
di Weimar, non risparmiò la punta e il taglio de' suoi epigrammi al
povero Anacarsi Klootz, che non li meritava; e l'abate Monti menò senza
misericordia su la schiena del De Cureil. E non ebbe torto. Poi il
Carducci non è una bestia feroce, e allo Zendrini morto perdonò cose che
allo Zendrini vivo non aveva potuto perdonare.

Sino a qualche anno a dietro la prosa del Carducci era stata poco letta:
gl'italiani, come i francesi, son tanto avversi alla critica, che i
magistrali studi carducciani non hanno avuto subito quella popolarità,
che, per vantaggio e per onore del nostro paese, avrebbero dovuto avere;
poichè nessuno come lui, se non forse il Sainte-Beuve, accoppia a una
potenza meravigliosa d'intuizione, a una preparazione larghissima, a un
metodo veramente sperimentale, la vivezza del movimento drammatico e il
calore e il colore dell'entusiasmo. Le _Confessioni e battaglie_ hanno
fatto il miracolo, e mentre in Francia dei più virulenti e più
strombazzati libri critici di Zola, per confessione dell'editore, non si
vendono tre mila copie, questi volumi carducciani si ristampano a
migliaia di esemplari, e le domande del pubblico sempre più crescono.



VI.

LA REPUBBLICA LETTERARIA.

  Il signor Parlagreco e il deputato Cavallotti — La genesi della
  gloria cavallottèa — L'evoluzione drammatica del deputato
  Cavallotti nello spazio e nel tempo — Le passeggiate liriche e i
  salti mortali metrici e grammaticali del deputato Cavallotti — La
  critica, le prefazioni, le note, la polemica e le cartoline
  postali del deputato Cavallotti — Contro la democrazia.


I.

Un feroce uomo, il signor Parlagreco, scrive nell'_Arcadia_, giornale
boscareccio fondato in Napoli per combattere o per abbattere la baracca
bisantina: «Non voglio richiamare gli sproloqui dello Scarfoglio contro
Felice Cavallotti; sono morti prima di nascere, e il popolo italiano, o
repubblicano, o moderato, o codino, va sempre entusiasta _per_
applaudire il _Cantico dei cantici_, la _Sposa di Menecle_, e aspetta
con ansia il _Povero Piero_, il _Nicarete_, la _Lea_, ecc.» Non io certo
vorrò ricercare se la sintassi e l'ortografia di questo bollente signore
abbiano le carte in regola per viaggiare attraverso le terre della
repubblica letteraria: di questo egli darà conto agli dèi grammaticali.
E nè meno io mi curerò di appurare se il signor Parlagreco abbia il
diritto e il dovere di parlare in nome del popolo d'Italia. Veramente,
poichè il popolo italiano non parla greco, non parrebbe; ma forse questo
signore è della famiglia dei greci cavallottici procedenti
dall'_Alcibiade_, e allora s'intende ch'egli reputi in piena fede di
parlare italiano. Ma ciò non mi preme: veggano il signor Parlagreco e il
deputato Cavallotti di regolare i loro conti glottologici col popolo
italiano; io non ci entro. Solamente a una cosa non mi so rassegnare, ad
essere accusato d'avanti alla nazione italica d'un peccato che non ho
ancora commesso. Quali sono gli _sproloqui_ contro il deputato
Cavallotti che il signor Parlagreco non vuol _richiamare_? Io sono
tuttavia innocente, e con piena purità di coscienza mi accingo ora a
peccare. Col deputato Cavallotti io ho spezzato il panettone
dell'amicizia e bevuto il Chianti della fraternità repubblicana una sera
che nel palazzetto Sciarra l'associazione dei diritti dell'uomo
celebrava il suo trasmutamento di sede; di poi niun altro contatto o
contrasto ho avuto con lui, se non quello significato dai documenti che
ristampo dalla _Cronaca Bizantina_ del 1º settembre 1883. Eccoli:

«Pregati dal nostro amico E. Scarfoglio, riproduciamo qui sotto, dal
_Fascio della Democrazia_, due lettere che lo riguardano, e in pari
tempo una sua risposta, che il _Fascio_, non si sa perchè, si è ricusato
di inserire.

Appagando il desiderio del nostro amico Scarfoglio, crediamo non inutile
avvertire che la _Bizantina_ intende rimanere assolutamente estranea a
questa polemica.

                                                  _La Direzione._»

«Un infelice qualunque, affetto da grafomanìa, certo Scarfoglio,
affligge i lettori della _Domenica Letteraria_ con una brodosa e
sgrammaticata tiritera, per raccontar loro la storia decennale del
giornalismo di Roma dal 1870-1880. L'argomento sarebbe, in sè, non privo
d'interesse e meriterebbe, certo, di meglio che un Tucidide così male in
gambe. Al qual Tucidide io sono tanto mortificato di non essere nelle
buone grazie, ma non so che farci e non posso disperarmene: anzi son
molto contento che egli trovi i miei versi _sbagliati_, perchè così
almeno tornano, e che la mia _Luna di miele_ non piaccia a lui, perchè
così almeno piace a me e ai pubblici, che val meglio. Per contentar lui,
l'avrei dovuta scrivere probabilmente com'egli scrive i suoi articoli: e
allora — poveretto me! — i pubblici invece di applaudirmela m'avrebbero
tirato le panche sulla scena, e invece di smaltirne quattro edizioni in
pochi dì, me l'avrebbero lasciata a disposizione dei topi in magazzino,
come una pappolata di uno Scarfoglio qualsiasi.

Ma se gli autorevoli giudizi estetici di un critico così illustre mi
fanno buon sangue, mi sorprende invece che Ferdinando Martini, il quale
ad essere gentiluomo ci tiene e m'ha assistito in questione d'onore —
che Luigi Lodi il quale di questioni simili anche lui ne ha avute meco —
lascino stampare in _un giornale loro_ — al mio indirizzo — allusioni a
questioni d'onore — d'un buon gusto e d'una delicatezza da offendere le
più elementari regole della creanza cavalleresca.

E sì gli amici Martini e Lodi, i quali mi conoscono di vista, dovrebbero
sapere, non foss'altro in linea di fatto, che la mia _fronte_ sinora non
è segnata da nessuno: il resto della mia pelle non dico, ma nessuno me
l'ha mai chiesta per farne pelle di tamburo. E si avrebbero _(sic)_
anche potuto risparmiare l'incomodo di esibire ai loro lettori in trofeo
la suddetta mia _fronte segnata_ (sic) _dalla sciabola di Arbib_.

Non foss'altro per non mettere in ridicolo il signor Arbib, sorpreso di
vedersi tramutato in eroe marchiatore di democratici, e per non lasciar
mettere in imbarazzo con una frase ineducata i padrini di quel duello,
colleghi miei e dell'onorevole Martini. I quali avrebbero potuto
spiegare a lui più in disteso ciò che venne a mia domanda sommariamente
inserito nel _verbale_ stesso di quella vertenza; cioè come e qualmente
il signor Arbib, rompendo sempre indietro sin che fu stretto e investito
a mezza sciabola da me, mi venne, allora, quasi letteralmente, levato di
mano dai padrini, mentre io mi trovavo a vari passi _più in là del posto
ov'egli era_ al principiare dello scontro. Pantomima che il _verbale_
con eufemismi morbidi ma chiari così narra: «L'onorevole Cavallotti
_avanzandosi e così essendosi trovati_ gli avversari _a mezza sciabola_,
i padrini ordinarono la cessazione dello scontro _per presunta ferita
dell'onorevole Arbib_.» Pantomima che poi l'onorevole Pullè, del signor
Arbib padrino, e regolatore del duello, traduceva in moneta spicciola,
quando, alle vive lagnanze del sottoscritto perchè si fosse arrestato in
quel momento lo scontro, rispondeva _testualmente_ di _averlo fatto per
riguardi di umanità, perchè vedeva il signor Arbib perduto_. — E i
padrini colleghi assentivano.

Fu per questo motivo che non ritenendo esaurita una partita passata in
tal modo, rifiutai di stringere, dopo lo scontro, la mano
dell'avversario, verso il quale, del resto, nessun astio mi muove. E mi
duole che la goffaggine ineducata di un ragazzo ignaro del galateo di
queste questioni m'abbia — e proprio in un giornale di F. Martini e L.
Lodi — costretto a ritornare su quello spiacevole incidente, e ad uscir
dal silenzio che per ragioni di cortesia — verso di me non usata — mi
ero imposto fin qui.

  Milano, 20 agosto.

                                                FELICE CAVALLOTTI.»

  _Preg. sig. e Collega,_

«Ho letto la dichiarazione che il signor Felice Cavallotti, deputato al
Parlamento, ha pubblicato nel numero 16 del suo reputato giornale. Ella,
signor Direttore, intenderà di leggeri le ragioni per le quali a me non
si addice di intavolare una discussione su ciò che il signor Cavallotti
narra; ma confido che nella sua imparzialità e rettitudine non troverà
indiscreto che io la preghi di pubblicare nel suo giornale l'acclusa
copia del verbale dello scontro ch'io ebbi coll'on. deputato Cavallotti.
La prego di gradire i sensi della mia maggior osservanza.

  Roma, 13 febbraio 1884

                                                       _Dev.mo_

                                                    EDOARDO ARBIB.»

PROCESSO VERBALE.

«In seguito ad un articolo del signor Edoardo Arbib nel giornale _La
Libertà_ del 12 febbraio corrente contro alcuni deputati di estrema
sinistra intervenuti al Comizio dei Comizi, il signor Felice Cavallotti
avendo ieri, 12 febbraio, rivolte al signor Edoardo Arbib parole
ingiuriose, questi gliene domandò soddisfazione per mezzo degli
onorevoli deputati Leopoldo Pullè e G. B. Tenani.

Il signor Felice Cavallotti nominò suoi rappresentanti nella vertenza
gli onorevoli deputati Benedetto Capponi Giuli e Alessandro Fortis.

Convenuti insieme i rappresentanti delle due parti, stabilirono che i
signori Cavallotti ed Arbib si sarebbero battuti in duello alla sciabola
senza riserva di colpi, coi bracciali di sala d'armi e fino a che uno
dei due duellanti fosse, per dichiarazione medica, nella impossibilità
di proseguire.

Lo scontro ha avuto luogo quest'oggi alle ore 4½ pom. in una villa fuori
Porta del Popolo.

Al primo assalto, investendo il signor Felice Cavallotti e trovandosi
gli avversari quasi a corpo a corpo o come dicesi più che a mezza,
sciabola, fu ordinato dai padrini delle due parti l'_alt_, anche per
presunta ferita del signor Arbib.

Al secondo assalto, il signor Felice Cavallotti essendo rimasto ferito
alla regione temporo-frontale destra (ferita lacero-contusa) ed avendo i
medici presenti dichiarato essere impossibile continuare il duello in
causa del sangue che, sgorgando in copia dalla ferita, avrebbe
certamente offuscata la vista, lo scontro ebbe termine, osservate
scrupolosamente da ambo le parti tutte le leggi della cavalleria.

  (_firmati_) G. B. TENANI. B. CAPPONI.

                L. PULLÈ.   A. FORTIS.»

  _Onorevole signor Direttore_,

Nel _Fascio della Democrazia_ del 23 agosto pervenutomi oggi, leggo un
articolo dell'onorevole deputato Cavallotti, che mi richiama alla mente
il cardinale Richelieu. Il cardinale di Richelieu, si sa, fu un grande
uomo di Stato; e fu anche uno scellerato costruttore di tragedie. E,
come spesso accade, tutta la vanità sua si posava su quelle tragedie.
Così l'onorevole deputato Cavallotti. Egli, che pure ha tanti meriti
patriottici e tanto zelo d'irrequietudine politica, offusca la sua bella
gloria di deputato radicale con ogni sorta di peccati in versi e in
prosa; e, che è il peggio, qua la sensibilità del suo amor proprio è più
delicata. Guai a toccargli la piaga della vanità letteraria! Si drizza
tutto armato di punte e digrignando i denti.

Or io nel mio paragrafo di _cronaca bizantina_ sul giornalismo,
pubblicato dalla _Domenica Letteraria_ del 19 agosto, posi il dito su
quella piaga; e sapevo che l'onorevole Cavallotti mi avrebbe mostrato i
denti. Per ciò le insolenze ch'egli mi regala nel sullodato articolo
sono minori assai della mia aspettazione; poichè due cose, un biasimo e
una lode, hanno una virtù singolare di muovere all'ira l'onorevole
Cavallotti: e sono di far versi sbagliati, e di scrivere bellissimi
epigrammi latini.

Tuttavia quelle insolenze sono più che sufficienti ad indurre un uomo
anche meno focoso di me a una questione personale. Ma io, prima di
cedere al desiderio grandissimo di fare un assalto di sciabola con
l'onorevole di Piacenza, faccio una riflessione. L'onorevole Cavallotti
ha la singolare abitudine di ridurre al silenzio i suoi critici per
forza d'armi. Ora io non voglio che l'onorevole Cavallotti se la cavi
così a buon mercato. Da qualche anno io vado scrivendo nei giornali
certe mie considerazioni intorno alla vita letteraria dell'Italia
costituzionale; e queste mie considerazioni saltuarie si collegano e si
raccolgono organicamente in un libro, che è quasi finito. Ne manca una
parte, la letteratura democratica così per gl'intendimenti sociali o
politici come per il catoniano disdegno d'ogni politezza d'arte e di
grammatica; e di questa letteratura il portabandiera è appunto
l'onorevole Cavallotti.

Ora debbo io, per l'impazienza giovenile di una questione d'onore col
Tirteo dell'Italia di Umberto I, privare me stesso del diletto di questo
studio, e diminuire il mio libro di un centinaio di pagine curiose e
necessarie all'armonia dell'insieme? Se ciò che si differisce si
togliesse via per sempre, non esiterei un istante a gittare al diavolo
tutto quanto il libro. Ma ci è un proverbio latino — l'onorevole
Cavallotti ne può far tesoro per un prossimo epigramma — che ci
ammonisce del contrario. Io dunque aspetterò di avere scritto intorno
all'onorevole Cavallotti tutto ciò che ho nella mente; e poi mi metterò
a disposizione dell'onorevole medesimo con la duplice grandissima gioia
di avere scaricata la mia coscienza critica da un peso non lieve, e di
trovarmi a fronte d'un cattivo scrittore con altra cosa in mano che non
una penna.

Giudichino i lettori della saviezza e dell'opportunità di questa mia
determinazione. Prima di tutto, io conquisterò così ai critici più
timidi il diritto di dir male dell'onorevole Cavallotti; in secondo
luogo, darò all'onorevole Cavallotti il modo di vendicarsi con una
sciabolata _collettiva_ delle più aspre censure onde siano stati mai
proseguiti i suoi scritti, e di mostrare ancora una volta alla faccia
del mondo che la sua mano è più atta alla sciabola che non alla penna.

L'onorevole Cavallotti poi coglie pretesto dallo aver detto io che
Edoardo Arbib lo ferì sulla fronte, anzi che nella faccia, per rinnovare
una sua vecchia questione col medesimo signor Arbib; ma io in ciò non
voglio entrare. L'onorevole Cavallotti ha in qualche parte del suo volto
una cicatrice, della quale l'opinione pubblica dà il merito o la colpa
al signor Arbib. Se il signor Arbib è innocente, il colpevole sarà un
altro: per me, che volevo fare solo un'osservazione estetica, è
tutt'uno.

In fine, l'onorevole Cavallotti si richiama a Ferdinando Martini e a
Luigi Lodi, ch'egli crede direttori della _Domenica Letteraria_ e
responsabili di quanto vi si stampa; ma egli deve sapere che, avendo
l'onorevole Martini declinata ogni responsabilità della redazione di
quel giornale, e non avendola assunta nè Luigi Lodi nè altri, i soli
responsabili sono gli autori degli scritti pubblicati e firmati.

Così stando le cose, io dichiaro formalmente che di tutte le ulteriori
pappolate che l'onorevole Cavallotti potrà scrivere in proposito non
terrò conto, se non come di documenti critici per la polemica spadaccina
dell'onorevole summentovato; finchè non abbia potuto esaminare con piena
serenità di animo e di giudizio tutto il materiale di prosa e di poesia
che questo deputato amico delle docce e degli epigrammi latini ha messo
insieme pei sorci dell'Italia futura.

Con sincera stima, ecc.

  Catanzaro, 25 agosto 1883.

                                              EDOARDO SCARFOGLIO.

E ora, naturalmente, io non aggiungerò commenti; nè andrò a ricercare
chi, tra il deputato Cavallotti che comincia a incanutire, e me, che non
ho ancor trovato nella mia capelliera il primo pelo bianco, abbia dato
in questa burrascosa questione più sicuro segno di calma, di serietà, di
dignità; chi, tra il deputato Cavallotti, che asserisce con tanta
jattanza il contrario di ciò che è sancito dal processo verbale del
duello, e me, che ricordai spensieratamente una ferita non dubitata
incresciosa a un così frequente duellatore, siasi mostrato _più
goffamente ineducato e più ignaro del galateo delle questioni d'onore_.
I documenti sono chiaramente dimostrativi. Solo, io ho voluto
determinare nettamente la posizione mia a fronte del nemico, perchè non
mi s'abbia a prendere per qualche povero diavolo d'un Renzo Tramaglino
sopraffatto da un don Rodriguccio della letteratura e della democrazia.
Il deputato Cavallotti ha voluto atterrirmi con suoi strillacci e con
suoi braveggiamenti. Diavolo! e non sapevate, o terribile nemico della
prosodia italiana, che don Quijote si diletta mirabilmente delle
avventure pericolose? Voi vi appellate ai _pubblici_ che applaudono le
vostre comedie e vi chiamano al proscenio prima che sull'atto primo
s'alzi la tela, come una ballerina di cospicui polpacci prediletta dalla
moltitudine? E in conspetto di questi _pubblici_ io vi voglio
svergognare, o sciagurato verseggiatore che recate attorno in vituperio
pei palchi scenici del felice regno d'Italia il fantasma della
democrazia italiana. Voi siete più vanitoso d'una femminella? E io vi
voglio ferire nella vanità. E a proposito della vostra vanità poetica e
delle femmine, rammentate, onorevole strimpellatore di troppe chitarre,
una vostra avventura genovese? Eravate andato a Genova per la recita di
non so quale vostra comedia, e dovevate partire la sera. Nel pomeriggio
vi condusse un amico da una bella donna, a cui e voi e l'amico faceste a
gara la corte. La bella vi richiese di recitarle dei vostri versi
recenti; e, alla domanda lusingatrice, voi, subitamente acceso di una
grande tenerezza di voi medesimo e dimenticata la donna bella e l'amore,
correste a scavezzacollo all'albergo a tòrre il manoscritto de' vostri
versi. L'amico, rimasto solo ad assalire, raddoppiò l'impeto, e, se la
cronaca galante non mente, giunse a dar la scalata; sì che quando voi
sopraggiungeste col manoscritto, erano ancora e l'uno e l'altra caldi e
purpurei per la battaglia. Ben vi stette allora, e ben vi stia ogni
volta che una mano audace vi sfrondi il frascame del vostro matto
orgoglio poetico.

Su dunque, onorevole Pirgopolinice: in guardia!


II.

Ed ora è tempo, sembrami, che cominciamo a parlar d'arte. Però
l'onorevole Cavallotti e l'arte son due termini tanto contradittorii,
che non giungo a metterli insieme; poichè, se l'arte è la tecnica del
pensiero umano, non aspettatevi la perfezione da un manovale.
L'onorevole Cavallotti è nè più nè meno di un manovale, cui niuna più
alta e degna cura travaglia, che una furia smaniosa di recar pietre e
mattoni e calce all'edifizio barocco della sua vanità poetica. A torto o
a ragione — molti credono a ragione, noi mostreremo che a torto — egli
si è nutrita per vent'anni nell'animo la persuasione d'avere una
singolare energia lirica e drammatica; e su questa base di buona fede ha
eretto una sua baracchella fatta di furberia e d'imprevidenza, di
spacconeria e di bambineria miste d'un tantino di ciarlataneria. La
baracchella è sorretta da una travatura di logica e assodata col cemento
d'una certa esperienza delle cose. Il deputato Cavallotti, prima ancora
che la riforma della legge elettorale ne sancisse l'importanza, intese
che la rappresentanza delle minoranze è una cosa seria; e poichè dopo il
'60 in Italia non ci era minor minoranza della democrazia, si mise con
le mani e coi piedi a voler diventare il poeta della democrazia
italiana. Conferiva al proposito la singolarità della sua natura tra di
pazzarellone e di retore, che lo trae a sgrammaticare con lieta
spavalderia, e a sofisticare intorno a quisquilie oziose con dottoresca
pedanteria. Conferiva anche l'indole della democrazia italiana, la quale
non altro essendo che una vera e misera academia ha bisogno d'un suo
poetaccio da lanciar contro il nemico come un ronzinante da corse di
villaggio: un poetaccio qualunque sciancato e pieno di guidaleschi che
sbatacchi le campane della lirica in tono con gli sbatacchiatori del
campanone oratorio e dei campanelli elettrici del giornalismo. Così la
poesia del deputato Cavallotti è opportunista, come fu opportunista la
politica del deputato Gambetta. Accade questo: che gli avversari, per
poter vituperare la politica cavallottèa, ne lodano la poesia, e gli
amici acclamano in coro alla poesia e alla politica insieme. Niuno
scrittore dunque in Italia fu proseguito di più concorde favore, e più
gloriosamente levato in sugli scudi. Aggiungasi: il Cavallotti è, alla
sua maniera, un pocolin don Chisciotte. Dilettasi stranamente di levar
la voce in tono di minaccia, e volentieri sfodera la durlindana. Ei fa
guardia alla porta della baracca della sua vanità, e guai allo
sconsigliato che s'attenti di valicarne la soglia! Il traditor di Tirteo
non soffre la critica, se bene ha rotto santamente i co...rbezzoli ai
veristi ed a' barbari. E bisogna vedere con che feroce passione e con
che miracolo di pazienza raccolga egli da' più oscuri fogliettucoli di
provincia le sentenze diverse intorno all'opera sua, e le ristampi
allineate a due a due sì che ciascuna dia all'altra un calcio, per
potere da quella discordia concludere alla sua eccellenza lirica e
drammatica. E quando la penna non basti, s'apprende a più ferrei
argomenti.

Combattè una volta tre giorni consecutivi in Bologna contro tre diversi
avversari, per essere state le sue poesie escluse dal patrimonio di non
so qual biblioteca popolare o circolante; e assai altre volte con
dimostrazioni di sciabola ridusse i contraddittori all'ammirazione. Di
più, questo bellicoso fantaccino della sgrammaticatura attende con
meravigliosa sollecitudine all'edifizio della sua popolarità: ben
miserabile dev'essere quel borgo ove, recitandosi qualche sua comedia,
egli non vada a confortare e ad accertare con la esibizione della sua
persona il trionfo, apparecchiatogli dagli amici politici del luogo come
una festa della democrazia. Ed è prodigo di sè con tanta facilità di
espansione comunistica, e con sì bella grazia d'orso repubblicano, ch'è
di molta letizia a vedere. Non già che sia nel discorso affabile e di
modi e di gesti e di voce gratamente gentile, che anzi poco parla, e
quel poco con scatti e troncamenti e riprese di suono simili ad urli
canini e con gran furia di mani e di sguardi; ma si compiace egli
d'incanagliarsi e di apparire più democratico di tutti i più
democratici. Predilige le trattorie umili e la compagnia dei
repubblicani di modesto ingegno, e va con un cappello piombante
sull'occhio sinistro e con la persona atteggiata a un tal qual
burbanzoso disdegno dell'aristocrazia delle forme esteriori. Nè ci è un
più frequente banchettatore: nel suo nome e col suo intervento la
democrazia italiana divora innumerabili costolette di manzo e vuota un
infinito numero di fiaschi di Chianti. Alle frutta, naturalmente,
scattano i brindisi in onore della repubblica e del poeta. Qual è in
Italia il rimatore infelice che non abbia bevuto in versi
all'alcibiadeo? Io ricordo, fra tutti, l'inno allo assenzio che Giacinto
Stiavelli recitò alle frutta d'un pranzo cavallottesco. Così l'onorevole
Cavallotti coltiva la sua fama con passione d'orticoltore diligente, e
corre l'Italia da capo a fondo, qua piantando il cavolo d'una discorsa
politica, là inaffiando le barbabietole d'una comedia, urlando,
battendosi, pranzando. E tutto gli giova: nel _Povero Piero_, speranza
del buon Parlagreco, si applaude l'interrogazione pei fatti di
Baronissi, nel _Cantico de' cantici_ si saluta la riforma elettorale, e
la _Sposa di Menecle_ si rileva dalla morte dopo le elezioni generali
per protesta contro il Depretis. La democrazia italiana trae da' drammi
cavallottei argomento e pretesto di gridare in gloria o di urlar per la
rabbia, e sopra il fermento delle piccole passioni repubblicane innalza
la bicocca dell'arte ciabattina.


III.

Rammentate l'aneddoto di Ercole al bivio? Lo avrete certo tradotto dieci
volte in latino dagli esercizi dello Schultz. Ercole dunque una notte
dormiva; e dormendo, gli apparvero due strade, una erta sassosa
polverosa, l'altra piana dolce assiepata; e d'avanti a ognuna si teneva
una donna. Presero queste a parlare, ciascuna invitando con quanti più
allettamenti poteva. Erano la Virtù e la Voluttà, e la prima accennava
in cima all'erta il tempio della Gloria alberato di lauri, e l'altra con
gli occhi dolci mostrava la via piana conducente all'amore. Ercole molto
stette in dubbio, pesando nell'animo le promesse; in fine si drizzò dal
sonno, e s'avviò all'erta. Il deputato Cavallotti non è Ercole, certo; e
pure, parandoglisi innanzi la via del dramma storico imbottita di borra
e quella scoscesa della lirica, in un selvaggio impeto d'ambizione
cesarea ha voluto percorrerle tutte due; e, un piede in quella e l'altro
in questa, ha fatto dieci passi; poi, crescendo l'angolo del bivio, s'è
dovuto fermare. Ed è rimasto a cavalcioni de' due muriccioli divisorii,
dimenandosi forsennatamente come uno spauracchio d'uccelli, e gittando i
sassi della lirica negli orti del dramma.

Non mette certo il conto di giudicare come cose serie gli atti e le voci
d'un energumeno; ma poichè a quelle mosse e a quegli strilli molta gente
s'è voltata a guardare, e la democrazia negli urli di quel matto si
glorifica e si sublima, e qualche signor Parlagreco contamina
l'innocenza della sua giovinezza con peccati mortali d'ammirazione,
facciamo per una volta il medico de' pazzi; e cominciamo dalla malattia
drammatica, che è la più grave.

Il deputato Cavallotti ha avuto, e tuttavia ha, una evoluzione
drammatica simile in certo modo a quella del Goethe: dal medio evo è
giunto alla Grecia antica; poi, con uno slancio shakspeariano, onde il
Goethe non fu capace, s'è dalla storia delle guerre messeniche e del
secolo di Pericle ributtato indietro, tuffando audacemente le gambe
lunghe nel fossatello della vita moderna. Quale rivolgimento estetico e
quali ragioni d'arte hanno determinato questa marcia di Leonida del
dramma cavallottèo attraverso il tempo e lo spazio, dalla sonorità
ventosa de' suoi endecasillabi medievali alla volgarità pettegola della
sua prosa greca e alla sciatteria pesante de' suoi martelliani moderni?
Quale concetto il deputato Cavallotti ha del dramma? Quali sono i suoi
criteri drammatici? Ma non gli facciamo tante domande insieme e a
bruciapelo: il fremente Achille della democrazia italiana ci
risponderebbe delle insolenze. Ricerchiamo invece ne' suoi drammi e
nelle sue prefazioni le risposte.

Entrando nel medio evo — prego mi si creda in parola che io, seguendo il
costume dei librettisti e dei poeti drammatici, chiamo medio evo non
pure il tempo delle corazze ma e quello dei tocchi piumati e dei
farsetti di seta — il Cavallottino giovinetto portava scritta in fronte
la sentenza drammatica di Victor Hugo: «_Il faut se garder de chercher
de l'histoire pure dans le drame, fût-il historique. Il écrit des
légendes et non des fastes. Il est chronique et non chronologique_.»
Così nell'anno di grazia 1871, regnanti già e imperanti sopra le cose
drammatiche Dumas, Sardou, Augier, un repubblicano, ossia un
propugnatore necessario del progresso in politica e in arte, bandiva
dalle scene autunnali del teatro Re di Milano la formula drammatica del
_Cromwell_. Non c'è che dire: i democratici in Italia camminano a grandi
passi verso le speranze dell'avvenire.

Il Cavallotti dunque nacque, al mondo del teatro, vittorughiano: dramma
storico, ma storico solo e tanto da dar l'effetto ottico sufficiente a
coonestare la selezione della poesia contro la prosa; ciò è, dramma
intimo con scenario storico. Ora si noti, in onta del dramma storico in
genere e del Cavallotti in particolar modo: il dramma storico fu
concepito nel primo abbracciamento di Efraimo Gotofredo Lessing col
romanticismo dalla contemplazione complessiva e comparativa della
tragedia greca e del dramma di Shakspeare. La tragedia greca fu la forma
che una determinata parte del mondo fantastico ellenico trovò
naturalmente passando dal campo della leggenda fluttuante in quello
stabile dell'arte; il dramma di Shakspeare fu l'espressione più viva,
più nobile, più complessa che la rappresentazione dell'uomo interiore
trovò passando dal dominio della speculazione a quello dell'arte. Il
dramma romantico tedesco ritrasse dell'uno e dell'altra, e nel medio
evo, ricercando le fonti drammatiche della vita germanica, animò le
rigide fattezze della leggenda d'una calda immortalità di passione
umana: così esso dall'_Emilia Gallotti_, ove si sente la durezza della
composizione meccanica, andò ascendendo sino al _Guglielmo Tell_, ch'è
la più fresca espressione della sua gioventù, e al _Götz von
Berlichingen_, ch'è la più rozza espansione della sua forza. Dopo,
divenne retorico e academico nè più nè meno della tragedia classica in
mano di Racine; poichè i romantici francesi, dimentichi o inconsci delle
cause storiche e critiche onde nacque il dramma tedesco, e
considerandolo, non già come una forma accidentale transitoria empirica,
ma come una universale rivoluzione scenica e una perenne formula d'arte,
se l'adattarono al proprio genio e a' bisogni propri; e nell'àmbito del
dramma tedesco inscrissero il cerchio del dramma francese. Così
l'accoppiamento del grottesco col serio, la fusione del drammetto
satirico con la grande tragedia passionata secondo l'esempio
shakspeariano, potè sembrare qualche grandissima innovazione, e non era
in fondo nella generale evoluzione del dramma che un accidente di poco
momento; così la base storica parve necessaria alla espressione
drammatica dell'anima umana, e non è. Ecco in qual modo certe modalità
occasionali del romanticismo tedesco s'irrigidirono nel dogmatismo
francese; e, deviando dalla loro ragione storica, conferirono alla
constituzione d'un'academia drammatica, la quale per peccato
d'_Hernani_, di _Ruy Blas_, dei _Burgraves_ e del _Cromwell_, si popolò
di addetti e popolò il mondo scenico di vittime. Una delle quali, e non
delle meno infelici, fu il deputato Cavallotti.

Costui, senza pur pensare che in Italia, meglio assai che in Francia, la
rivoluzione drammatica tedesca era stata intesa e ritentata dal Manzoni,
si lasciò attrarre dagli allettamenti vittorughiani, e dal '71 al '72
scrisse tre drammi _intimi_ incorniciati di storia patria e straniera, i
_Pezzenti_, il _Guido_, l'_Agnese_. Così posta la questione, le
disquisizioni oziose che si sogliono e più solevansi in addietro fare
intorno alla maggiore o minore opportunità del dramma storico mi paion
superflue. Io quindi nè moverò rimprovero al Cavallotti d'aver
scombussolata la storia di mezza l'umanità, nè andrò a ricercare se ne'
suoi drammi la verità storica sia poco o molto violata, nè entrerò ne'
suoi accapigliamenti e scapigliamenti co' critici per quanto nel dramma
abbia ad entrare di materia storica e quanto di elemento umano. Io tengo
solo a porre una premessa di fatto, contro la quale nessuno può fare
opposizione, poichè il Cavallotti l'ammette spontaneamente: il traditore
di Tirteo ha nell'anno 1871 spiegato le vele sul mar burrascoso del
teatro drizzando la bussola al faro vittorughiano. Ora, data questa
premessa, la conseguenza necessaria è: che il traditor di Tirteo, quando
prese a sgambettare sul palcoscenico, non aveva nessun sano criterio
drammatico, non sapeva, in somma, quale fosse l'essenza, quale la storia
del dramma. Il dramma gli apparve come una rappresentazione scenica di
affetti umani con apparato storico, per maggior agio di prospettiva
poetica: ne ebbe, in fine, un concetto academico, bisantino, empirico.
Non era nato pel dramma. A me rammenta un academico della tragedia e
dell'epopea con cui ho qualche famigliarità, se bene è seccante di
molto, il Trissino: tra la _Sofonisba_ e i _Pezzenti_ scelgo cento volte
la _Sofonisba_, se non altro per la purezza della lingua e la classica
solennità dello stile.

I drammi del Cavallotti dunque non sono opere d'arte, sono
raffazzonature sceniche, intorno a cui non altra critica è possibile,
che empirica: la critica del marchese d'Arcais e di tutti, in genere, i
cronisti teatrali: se le _situazioni_ siano con tanta felicità
combinate, da scotere il pubblico sonnecchiante e moverlo all'applauso;
se i _caratteri_ sian costruiti con sufficiente somiglianza del vero, sì
da non parer proprio precipitati dalle nuvole; se i versi abbiano la
sonorità voluta per toccar forte qualunque più duro timpano; se il
meccanismo, in fine, sia ben congegnato. Da queste questioni che, sole,
può la critica fare intorno al medio evo drammatico del Tirteo d'Italia,
appare un fatto singolare: che il dramma cavallottèo, come tutti i
drammi seguìti alle tragedie manzoniane, non è in fondo che una comedia
dell'arte in versi, e scritta. Non ha la vivacità briosa, nè l'agile
vita e la festevolezza che l'improvvisamento conferiva alla comedia
dell'arte; ne ha per altro il difetto d'ogni intendimento morale e
d'ogni ragione d'arte, poichè come quella non trascende i confini della
scena, e oltre il momentaneo diletto degli spettatori non ha scopo.
Vediamo dunque se la drammatica cavallottèa abbia in sè qualche
argomento di diletto, e onde lo deduca.

Il Cavallotti accampa a sua difesa contro i critici urlanti alla verità
storica violata l'assioma vittorughiano, che l'elemento storico nel
dramma non debba entrare se non per bellezza scenografica e per produrre
l'effetto prospettico necessario alla poesia; di più il Cavallotti
medesimo, giudicando il dramma in prosa troppo maggiore delle forze d'un
principiante, qual egli era nel '71, dichiara d'averlo scritto in versi
per non restar senza il soccorso della Musa, statagli sempre, secondo
una sua inconcepibile illusione, fedelmente amica. Lasciamo dunque da
parte la questione, che sarebbe fuor di luogo discorrendo d'un saggio di
coreografia teatrale, se il dramma sia necessariamente una forma poetica
d'arte o se possa, senza deviare dalla sua natura, vestir l'umili penne
della prosa, e accettiamo le dichiarazioni del deputato Cavallotti.
Concediamogli tutto, senza far notare a lui e agli ammiratori e
agl'indifferenti che il suo leggero animo in una cosa di tanto momento è
un segno della sua assoluta inettitudine drammatica e della sua mancanza
d'ogni criterio d'arte. Solo, ci sia lecito movere una domanda: la forma
poetica onde furon vestiti questi drammi è almeno sopportabile? Risponda
il Cavallotti. Apro a caso il volume I delle _Opere_, e trascrivo dai
_Pezzenti_ (Atto secondo, scena terza, pag. 99):

                                ..... ed altro
    Nome non ho, nè aver voglio. E tu, prode,
    Che me chiami codardo, or, perchè, cinto
    Qui d'armi, innanzi ad un codardo tremi?
    Solo, io così, ti fo paura? oh, guarda
    Se la paura è qui. Ma di codesti
    Pezzenti i cenci, oh, non di tanto spregio
    Copriste il dì, che a San Quintin, di sangue
    Tinti, al re vostro composero il manto!
    Perchè ingrassati da le spoglie nostre
    In voi tanta superbia! E a morte infame
    Me consacrar tu speri? Ah, questo solo,
    Questo sol tu non puoi! dal dì che il sangue
    De' nostri eroi vi rosseggiò, la gloria
    Stette sui palchi e li converse in are.
    Altri brandi ha la Frisia: ed altri il mio
    Sangue sorger farà: di piombo o scure
    Si versi, oh, non temer, fecondi ovunque
    Son gli amori del sangue e della gleba!
    Ma impallidir lassù non mi vedrai
    Come a me innanzi impallidir t'ho visto!

Bel finale d'atto, eh? Tronfio, sonoro, rotondeggiante. Pare la predica
contegnosamente solenne d'uno zio canonico a un nipote scapestrato. Vi
figurate l'attore giovine con questa predica in bocca? Le braccia
incrociate sul petto con mossa sdegnosa, le gambe tese e il capo
fieramente inarcato sul collo, predica.

Anche mi ricorda qualche escandescenza di Buovo d'Antona contro il
Maganzese in una tragedia di burattini. Versoni pesanti e boriosi,
imbottiti di borra e gonfi di vento, che potrebbero parer degni del
Frugoni se avessero la fluidità frugoniana; ma il rimbombante arcade non
commise mai peccati melodici simili a questo:

    Nome non ho, nè aver voglio. E tu prode.

Anche Innocenzo Frugoni non fu mai tanto colpevole contro la sintassi
della lingua italiana, quanto è il Cavallotti in questi venti versi. Non
certo egli avrebbe scritto:

    Perchè ingrassati da le spoglie nostre
    In voi tanta superbia.

E nè pure:

                          di piombo o scure
    Si versi, oh, non temer, fecondi ovunque
    Son gli amori del sangue e della gleba!

Seguitiamo a pescare:

                                    ... Vigliacco,
    Vanne col marchio dovuto a' tuoi pari!...
    Si rea dunque son io, perchè qui tutti
    Mi calpestino ormai?! Cancella il tempo
    Giuramenti di sposo, amor, costanza,
    Fede: ogni affetto uman copre d'oblio:
    E di un'ora il fallir non basterebbe
    A cancellarlo di una vita il pianto?!
    Oh, ma il mio sposo rivedrò... Vo' aprirgli
    Tutto l'animo mio... Qual di noi due
    Più colpevole? Il solo egli è che dritto
    Di gettarmi non ha la colpa in viso...
    Che non ha dritto di niegar perdono...
    Pregarlo voglio...

                    Ahi misera! ma questa
    Vampa d'amor che nessun pianto spegne,
    Che implacabile m'arde e mi persegue,
    Come cacciarla dal cuor mio?! Rodolfo!
    Rodolfo mio!

Ecco: il momento drammatico è diverso dal primo; ma la pedanteria
declamatoria, e la boria, e la fragorosità vacua son pari così nella
scena dell'ira generosa come in quella della disperazione amorosa. Carlo
Innocenzo Frugoni, il buon arcade, ne sarebbe contento: scommetto per
altro tutte le _Opere_ del deputato Cavallotti contro una copia sola del
_Bertoldino_, ch'egli non sarebbe stato nè contento nè capace d'uno
sproposito di grammatica grosso come questo:

    E di un'ora _il fallir_ non basterebbe
    A _cancellarlo_ di una vita il pianto;

e che, non pur lui, ma tutti quanti i becchi di Arcadia raccolti in coro
urlerebbero di spasimo a una trasposizione bestiale come questa:

                      Il solo egli è che _dritto_
    Di gettarmi _non ha_ la colpa in viso...

Ma tutti quanti gli Arcadi del mondo, con a capo il Frugoni, il Zappi,
il Lemene e quanti altri illustri in rimeria espressero dal piffero,
dalla fistola, dalla zampogna la quintessenza dell'imbecillità umana,
andrebbero in brodo di giuggiole al vaghissimo spettacolo di tanta pompa
d'interpunzione interrogativa ammirativa e sospensiva, che dà con molta
evidenza la sembianza della vivacità drammatica e della duttilità
metrica onde quella tirata avrebbe potuto esser consolata. Bastano
questi esempi, o ancora ne volete? Io non ne reco altri: ai già
persuasi, bastano; i cocciuti nell'incredulità paghino con alquante lire
le spese della cocciutaggine loro, e aprano il volume comperato, senza
pure sfogliarlo, a caso, così come Robinson Crusoè apriva la Bibbia. Non
ci è tenacità d'ammirazione che regga a questa prova.

Intanto, noi possiamo concludere con piena e serena coscienza della
verità, che troppo l'onorevole Cavallotti fece a fidanza con l'amicizia
della Musa. Povera Musa cavallottèa! Ell'era una ciana, avvezza a
trascinar le ciabatte sopra una strada faticosa accidentata da' triboli
della sgrammaticatura e dai ciottoli della mala prosodia. Ell'era zoppa,
poveraccia!, e sempre con affanno doloroso avea posato in terra i piedi,
onde l'uno era troppo breve e l'altro troppo lungo. Che soccorso poteva
dare a un deputato teatrale in imbarazzo? Il soccorso di Pisa? Neppur
quello. Soccorso di spropositi, e di retorica. Infatti dalla veste
poetica ritrae il dramma medievale cavallottesco un peso academico e una
sciatteria piazzaiola, una fredda burbanza predicatoria e una trivialità
ciarlatanesca. Per chi proponevasi il dramma della passione e la
tragedia dell'anima umana non era prudente mettersi alla gran prova con
un tal bagaglio di cenci. Ad ogni modo, ricerchiamo tra' cenci gli
afflati della passione.

E, in parola d'onore, mettendomi a questa ricerca, mi par d'essere
Diogene girante con la lanterna in mano alla scoperta dell'uomo. Io
veggo salire da tutta questa ciurmaglia di versacci una sciaurata nebbia
che mi fascia di tenebre la vista; stringo le mani, e prendo un vapor
vischioso che subito sfugge. È questa la passione cavallottèa? In
verità, questo mestier di Diogene mi va male a sangue. Ad ogni modo
rassegnamoci, e per non restare con le mosche in mano procediamo con
rigor logico. Qualcosa troveremo, se Aristotele ci aiuti. Ed ecco, ho
trovato due cose, in fondo all'immondezzaio del dramma cavallottèo: due
cose informi che si movono in quella vacuità infronzolata di ciarpe, le
quali potrebbero essere due bacherozzoli, o anche due passioni. Poniamo
che siano passioni, e definiamole: le chiamerò amor sessuale, e amor di
patria. Quello ha più luogo nell'_Agnese_, questa ne' _Pezzenti_, se
bene nel primo e nell'ultimo dramma del cavallottèo ciclo medievale
s'avvicendino e s'abbraccino fraternamente. Nei _Pezzenti_ dunque
prevale l'amor di patria: è il dramma dei Gueux lottanti
brigantescamente e generosamente contro la prepotenza spagnola nei Paesi
Bassi. Sono i _Masnadieri_ di Schiller nobilitati dalla volgarità d'una
tesi patriottica, un fenomeno d'acclimazione simile a quello del
_Werther_ nella prosa del Foscolo. Ma te fortunato, o Werther! Tu,
mutando paese e mutando prosa, poco perdesti, poichè feceti il Foscolo
amare e morire al gran sole d'Italia con tanta nobiltà di passione e
tanta bellezza d'arte, che non avesti a rimpiangere le nebbie della
patria. I poveri _Masnadieri_ furono troppo atrocemente puniti de' loro
misfatti, e scontarono nelle latomie della poesia cavallottèa il peccato
dell'emigrazione. Mancava l'aria in quel chiuso tenebroso, e i briganti
schilleriani, perduta la freschezza della loro gioventù romantica, si
trasmutarono in un branco di pupazzi meccanici, e presero a declamare
faticosamente uno stupido gergo misto di durezze alfieriane mal
digerite, di pomposità niccoliniana male rispampanata, di stramberie
vittorughiane male intese, di svenevolezze arcadiche e di ampollosità
catedratica. Poveri _Masnadieri_! Si travestirono con un giustacuore
verde e una fascia scarlatta, e passeggiarono furiosamente sul
palcoscenico, quarantotteggiando con una buffa posa di filodrammatici
educati ai tragedioni del Giacometti e ai drammissimi di Teobaldo
Ciconi. Il loro peccato giovenile fu grave, poichè sbucarono essi
tumultuariamente con impeto di furia e d'assalto dalla fantasia di
Federigo e s'appiattarono nella gran selva del romanticismo a insidiar
la vita e le sostanze altrui; ma non meritavano di finire nelle feroci
mani cavallottesche. I democratici, quando ci si mettono con caldo
animo, smarriscono ogni senso d'umanità. Poi, non dovevano essi passare
sotto la gogna d'un romanzaccio di Fernandez y Gonzales. E, qui, non
voglio io rinnovare l'accusa mossa al Cavallotti da Eugenio
Torelli-Viollier, e portata davanti al tribunale. Sono anzi d'accordo
coi giudici che assolsero il deputato Cavallotti dall'imputazione di
plagio; ma ciò non mi vieterà di dire che da quel processo il traditor
di Tirteo uscì laureato d'infamia davanti alla divinità dell'arte. Un
artista di qualche pudore si sarebbe lasciato ghigliottinare in piazza,
checchè potesse seguirne alle sorti della democrazia, anzi che
confessare di aver tolto inspirazione dai romanzi d'un appendicista di
quel conio. E qui non mi mangi il deputato Cavallotti, nè mi citi in sua
difesa l'esempio di Shakspeare: tra il Bandello e Gonzales corre, su per
giù, la distanza medesima che tra Shakspeare e il deputato Cavallotti.

Tutti i grandi maestri dell'arte presero il materiale ovunque lo
trovarono; e poichè anzi la formazione dell'arte non è individuale, ma
rassomiglia in qualche modo alla genesi dei polipai, che nascono dalle
secrezioni complessive di miliardi e miliardi d'infusorii, il maggior
segno di forza sta nella facoltà di animare e rimpastare a nuove fogge
di vita le primitive elaborazioni tuttavia rozze e in istato, direi,
inorganico. Se non che, questo assorgere dell'arte dalla materia bruta
non accade senza una legge; ed è la legge dell'evoluzione. La materia
dell'arte si va a grado a grado organizzando e sviluppando da forme
inferiori a forme più perfette, e salda anello ad anello di quella gran
catena della bellezza che tanto conferisce a tenere avvinti gli uomini
alla vita, ed è un elemento di tanta importanza nella evoluzione
progressiva della specie umana. Ciò accade naturalmente, come il fatto
della fruttificazione dall'albero. La fantasia popolare gitta i semi, e
i semi germogliano; poi spuntano le prime gemme, e comincia lo sviluppo
delle foglie; e la vita della pianta, circolando piena e libera per
tutte le fibre, si espande con una viva emanazione d'amore, e fiorisce.
Ed ecco, l'albero gentilmente piumato di verde e di roseo attinge dal
sole l'energia e la letizia dell'essere, e levandosi vagamente superbo
sopra i minori virgulti, passa in trionfo dalla giovinezza del fiore
alla maturità del frutto. Così la vita si svolge con graduale ascensione
dalle più umili alle più perfette forme; e la povera leggenda, seminata
tra i colloquii notturni d'un campo di pastori orientali, leva le cime
orgogliose nel dramma di Shakspeare, nel poema dell'Ariosto, nella
novella del Boccacci, in tutti i più gloriosi documenti della grandezza
umana. Ma le frutta fracide, che cadono dall'albero, non concorrono alla
general vita della pianta: esse restano abbandonate in terra, sin che
qualche porco non se ne nutra. I romanzi di Fernandez y Gonzales, e de'
pari suoi, son frutta fracide, son come le materie eterogenee ed immonde
che nel bollore del vino salgono a galla con la schiuma. Nati
dall'imputridire di una parte dell'organismo dell'arte, non possono
rientrare nella metempsicosi della vita dell'arte se non in forma di
concime: son buoni solo pei porci. Di più, se il dramma del Cavallotti
trasse dal romanzo di Gonzales l'inspirazione esteriore e occasionale,
esso derivò dai _Masnadieri_ di Schiller la sua essenza vitale. È dunque
anche una profanazione. E se bene da un democratico della sotto-specie
cavallottèa bisogna aspettarsi qualunque eccesso, questo Schiller non
meritava. Povero Federigo! se ti vedesse Tecla così imbrodolato con la
zozza d'un romanzaccio da portinai per le immonde mani d'un deputato
sgrammaticante.

Dunque, colorito drammatico schilleriano nella concezione romantica del
brigantaggio bello e generoso, materia tolta da un romanzone
d'appendice, resta di vera e piena proprietà cavallottesca la tesi
patriottica: ciò è, il deputato Cavallotti ha messo di suo ne'
_Pezzenti_ una passione d'amore soverchiante ogni altra opposizione
d'affetto, e ricongiugnente nella morte due divisi dalla rivolta
nazionale contro l'invasione straniera. Tutto ciò, si noti, nel '71,
quando una tal tesi, dalla _Giulietta e Romeo_ all'_Imelda Lambertazzi_
di don Baldassarre Odescalchi, era stata fritta e rifritta in almeno
cinquecento tragedie, e dalle sublimi altezze del dramma scendendo
all'umiltà della prosa, era stata, da Walter Scott in giù, trascinata
nelle bassure di tutti i romanzi storici dei due mondi. Di più, la tesi
patriottica può solamente essere assolta dalla santità dello scopo a cui
tende, e accettata in pochi determinati momenti della vita nazionale
d'un popolo, quando l'arte restringendo i suoi confini appresta
anch'essa armi alla guerra e diventa agente di rivoluzione: la
rivoluzione compiuta, l'arte rivoluzionaria deve morire, se non si
acconcia ad essere academica. L'amor patrio dei drammi cavallottei è
dunque academico e retorico; e que' disgraziati _Pezzenti_ meriterebbero
una larga limosina di calci nel sedere, tanto son seccanti.

Quanto all'amor sessuale drammatizzato cavallottescamente, fa ridere i
polli. Dove mai il deputato Cavallotti ha imparato a far l'amore, e dove
a rappresentarlo scenicamente? Il dramma dell'amore cavallottino è
l'_Agnese_, il cui nòcciolo, si sa, è questo: Agnese Gonzaga, nauseata
del marito che la tratta male, si fa cogliere a chiacchierare con
Rodolfo Scandiano da una sua donna, la quale riporta ogni cosa. Di qui
la catastrofe. Ora, delle due una: o l'amore di questi due fu coerente
alla evoluzione fatale dell'amore dal desiderio all'atto, e allora il
dramma è stupido; o si fermò a quella chiacchierata, e allora è inutile.
A ogni modo, ci troviamo davanti a una _Parisina_ rifatta bestialmente
da un deputato progressista, a cui mancò l'animo di far amare due dietro
le quinte a quel modo che i cani s'amano e Diogene avrebbe voluto amare
in piazza. O forse il Gonzaga cercava un qualunque pretesto per levarsi
la mogliera da torno, e bastò quel colloquio innocente? Allora il dramma
non esiste più, perchè in questa coreografia cavallottesca la politica
entra indirettamente, e solo per corollario e per cornice dell'amore.
Resta per tanto questo substrato drammatico: un desiderio vago,
impalpabile, incerto, che trova unico nutrimento e unico sfogo in
quattro chiacchiere sconclusionate. Per tanto poco ammazzar due persone?
E ammazzare anche tutti gl'infelici che, per uno stupido scrupolo
d'onestà critica, vorranno leggere quella mastodontèa congerie di
versacci? Questi repubblicani sono proprio bestiali.

Quei poveri diavoli si adorano dunque alla lontana, e passeggiano a
vicenda sul palcoscenico, offrendo agli spettatori un perfetto esempio
del cretinismo amoroso cui giunse nell'ultimo suo rimbambimento il
romanticismo europeo. Ella — infelicissima! — soffre la pena ineffabile
e incredibile onde son sopraffatte le grandi anime romantiche alle prime
percosse d'amore: vorrebbe, e non può; potrebbe, e non vuole; e gira e
rigira, salamandra della retorica idealistica, nel fuoco fantastico
della propria passione, sbracciandosi a declamare, svociandosi a
predicare, e offendendo qua e là, nella sua nobile ignoranza di gran
dama e nella inconsapevolezza dell'affetto trasmodante, la metrica e la
grammatica. Egli — poveraccio! — fa all'amore come può, e come deve un
eroe romantico. A lui non son concessi i facili e volgari diletti
dell'accoppiamento: egli deve, per non macchiare la nobiltà del suo
sangue romantico, moversi sulla scena con la faccia atteggiata a una
fatale angoscia e con le braccia incrociate sul petto, poi ogni tanto
scrociar queste braccia, e con la mano sinistra afferrare l'elsa della
spada, con la destra prendersi la fronte piegante pe'l peso d'un dolor
disperato. E deve ogni tanto dire qualcosa, tanto per non parer muto.
Ecco l'amore cavallottesco. Ma aspettate, scordavo il meglio: scordavo i
versi. Gli amanti del deputato Cavallotti rimano tutti. Ecco pertanto le
strofe, con le quali Vincenzo o Antonio (nel dramma si trasmuta con
bella metamorfosi aleardiana in un Rodolfo) Scandiano conquistò il cuore
della bella Agnese. È una _mesta serventese_, dice lo Scandiano, il
quale, se bene si piacque di far brutti versi, non sapeva che il
serventese fu di genere mascolino, che non fu mai mesto, che non fu mai
nè canzoncina amorosa nè arcadicheria piagnolosa, ma sempre canto
politico o satirico, e che nel 1390, dopo Dante il Petrarca e il
Boccacci, non se ne scriveva più nè in Italia nè in Linguadoca nè in
Papuasia. Comunque, ecco _la serventese_ scandianesca, che reca per
titolo: _La canzone dell'orfano_:

    Via pei cieli più profondi,
    Via pe 'l limpido zaffiro,
    Oltre il sole ed oltre i mondi,
    Spinge il guardo l'orfanel:

    — «Che mai cerchi dello empiro
    Fra le danze ed il sorriso?
    Che mai cerchi così fiso
    Tra le nuvole del ciel?

    — «Oh, la madre mia nell'ultimo
    De' suoi dì, con guardo anelo,
    Fiso anch'ella cercò il cielo,
    Poi, baciandomi, spirò!

    «Cerco in ciel qual sia la nuvola
    Che portò l'anima bella:
    Cerco in ciel qual sia la nuvola
    Che nel grembo la ospitò.

    «Di là certo dove il volo
    Il suo spirto raccogliea,
    L'orfanel che lasciò solo
    Quaggiù in terra ella vedrà.

        «E alla squallida vallea
    Dove ei piange abbandonato,
    Per ritorre il figlio amato
    Forse un dì ritornerà.

    «Son carezze e baci e fiori,
    Son sorrisi su la terra:
    Ma la valle dei dolori
    Sol per l'orfano quest'è:

    «Fior, carezze, amplessi e baci
    Chiede indarno a un muto avello;
    Torna, o madre, all'orfanello
    E riprendilo con te! — »

O Pietro Paolo Parzanese, o Francesco Martuscelli, o voi tutti rimatori
per gli asili d'infanzia, quando mai foste voi colpevoli d'una
scempiaggine così lietamente cretina? E voi rimaste per gli asili
infantili, non per dare al dramma il soccorso della Musa. Povera Musa,
linfatica vivandiera nell'orfanotrofio dell'amore cavallottino!

Ma coll'andare del tempo, potè il Cavallotti liberarsi dalla Musa, e
avventurarsi più franco e più forte nella perigliosa selva del dramma in
prosa. O coraggio inaudito! Ma non stiamo a scherzare con le cose serie;
e se il deputato Cavallotti, in questa sua esitanza a passare dalla
poesia alla prosa drammatica, ci rassomiglia un poco Giuseppe
Prud'homme, che male c'è? Gli ci son voluti alquanti anni e tre
drammaccioni elefantini per giungere a tanto: ammiriamo la sua costanza
nei propositi, molto più ch'essa lo ha condotto niente meno che
all'_Alcibiade_. Qui, un'altra evoluzione è accaduta nel concetto
cavallottesco del dramma storico. Il deputato Cavallotti, scostandosi
alcun poco dai canoni vittorughiani, mosso dall'esempio di Pietro Cossa,
ha cominciato a credere che il dramma debba essere una ricostruzione
storica. Addio dunque, o quarantotteggiamenti faticosi e amoretti
leziosi! Il deputato Cavallotti si butta a capofitto nell'archeologia.
Se non che, manca a lui quella fresca potenza fantastica che concesse a
Pietro Cossa di riconcepire gli eroi e le eroine dell'imperio romano
come creature moderne, e non ci è sforzo umano che possa rimediare a
quel difetto. Così il Cavallotti alcibiadeggiante offre alla vista un
singolare spettacolo. Pare ch'egli siasi messo tra le gambe un sacco di
tela d'Olona; poi abbia preso un gran fascio di libri, i quali sia
andato furiosamente scartabellando. Ecco tutti gli storici greci da
Erodoto a Senofonte ateniese e a Plutarco, ecco anche dei compendi di
storia greca e dei dizionari storici e delle enciclopedie archeologiche,
ecco poeti e prosatori greci, Pindaro e Luciano, Saffo e Platone,
Aristofane e Isocrate, Omero e Demostene, Eschilo e Anacreonte. E
scartabellando, arruffa e arraffa, come un ladro notturno nella furia
del ladroneccio, notizie e citazioni, brani di prosa e brani di poesia,
date e aneddoti; e ogni cosa gitta nel sacco. Poi questo sacco di tela
Olona ben gonfio ponesi sulle spalle, e va gridando per le vie teatrali
d'Italia:

— Chi vuole dell'_Alcibiade_? Ce n'è in sei quadri per la
rappresentazione, e in dieci con prefazione e note per la lettura. Chi
vuole dell'_Alcibiade_?

E posa il sacco in terra per mostrare la mercanzia; e nel posarlo, odesi
un rumore. È suono di cocci d'anfore greche, e di pignatte lombarde.
Sono anfore o sono pignatte? È una pignatta mostruosa, dai fianchi
sconciamente obesi come quelli d'una femmina gravida, e vorrebbe
atteggiarsi alla snellezza graziosa di un'anfora. Parrebbe che vi
fermentasse dentro qualche generoso vino dell'arcipelago eolico, e vi
bollono le patate della più sciatta volgarità meneghina in una broda di
prolissità cicalona e di pedanteria presuntuosa. Oh quanto sono
_pezzenti_ questi Greci cavallotteschi! S'aggirano come pazzi a traverso
i mutamenti di scena a vista d'un dramma infinito come la bontà divina,
e portano indosso certi abiti cenciosi rappezzati pittorescamente:
Socrate ha una tunica fatta di brani di dialoghi platonici, e Alcibiade
ha due pagine di Tucidide cucite sopra le natiche. Pare un ospizio di
mendicità.

Poi, io odio questi falsi Greci per una mia ragione subbiettiva: da essi
procede il mio primo debito. Ero in collegio, e tra le altre strane
malattie della crescenza una sopra tutte mi travagliava ostinatamente:
la mania non pur di comperare io, ma d'indurre i miei compagni a
comperar libri. Una volta dunque, non so come nè perchè, scelsi dal
catalogo dell'editore Barbini l'_Alcibiade_, e poichè pareva che esso
costasse pochi soldi, giunsi dopo molti stenti ad indurre altri cinque a
quell'acquisto: venne il pacco, e con gran meraviglia mi parve troppo
più grosso del dovere. Lo apersi con qualche vago presentimento d'una
sciagura, e trovai sei volumoni pesanti come sei macine di mulino: in
tutto sessanta atti, sei prefazioni, ventimila note, e trentasei lire da
pagare al libraio. Nessuno degli acquisitori, a quell'inaspettato
aumento di prezzo, volle il libro; e i sei volumi mi restarono sullo
stomaco adolescente come sei macine di molino. D'allora, ho preso in
odio la Grecia.

Eppure, la Grecia del Cavallotti è tanto greca quanto io sono calmucco,
e rassomiglia con un sì strano miracolo al suo medio evo, che ad ogni
momento pare Alcibiade debba levar la faccia sentimentale alla luna per
cantare qualche _mesta serventese_. Del resto, se non canta una
_serventese mesta_, recita certe ballate o ballatette o cantilene
prato-aleardiane e manzo-berchetiane che vi fanno, con reverenza alla
Grecia, cader le brache per lo sconforto. Poi questo Alcibiade ha una
sua maniera d'amore tra di fringuello impaniato e d'Ercole circense.
Ogni tanto rammentasi di dover essere un uomo elegante, un effeminato
amabile e galante, e atteggia la faccia a una malinconia soavemente
romantica; poi lo riprende lo spacconismo, e allora fa il braccio di
ferro e ingrossa la voce come fosse in un comizio democratico, per
chiamar gli sguardi delle belle e del pubblico alla formosità della sua
persona. Infine, questo sciagurato diventa pienamente cretino; e mentre
i Traci gl'incendiano la capanna, ei canta a gara, con la patetica
signora dalle camelie che s'è tratta dietro, un duetto sì dolcemente
stupido, che al solo ricordarlo io sento l'anima mia tuffarsi in un
quieto pelago d'imbecillità. Tale è l'Alcibiade cavallottesco, un
Alcibiade così grottesco e così goffo e così noioso, che tutti i
ragazzacci delle scuole d'Italia dovrebbero corrergli dietro urlando; un
coso mostruoso, che pare un san Clemente fatto a mosaico da qualche
lapidario bisantino. Povero Alcibiade! Egli si move sulla scena con
pretensione di greca grazia, e davanti a' suoi passi tutte le pagine
scartabellate per metterlo insieme si levano come tante bianche lingue
sibilanti. Povero Alcibiade, costruito di aneddoti e di citazioni! O
minestrone di carote e di patate e di bietola, tu sei troppo
democraticamente indigesto al mio stomaco aristocratico: io non potrei
oltre ingollar di te, senza crepare.

Addio dunque, o Grecia cavallottesca, ove nè la garbata arguzia ateniese
nè il muscoloso vigor laconico nè il generoso fanatismo tebano
allignano. O Grecia di beoti romantici e di arcadi predicatori, o Grecia
in dieci quadri e cinquecento pagine, pedantesca e buffonesca, vattene
al diavolo.

E qui di nuovo mi raccomando al deputato Cavallotti che non mi mangi:
non è stato lui il primo a mandare al diavolo la sua Grecia di
cartapesta? E ha fatto bene, poichè veramente non occorreva incomodar
Tucidide e rompere i santi sacramenti allo scoliaste di Platone per
evocar dalla notte dell'impotenza fantastica cavallottèa degli Alcibiadi
rimpastati dalla vecchia creta di Armando Duval, dei Messeni rifatti con
le briciole dei _Masnadieri_ di Schiller e dei _Gueux_ di Fernandez y
Gonzales, delle spose di Menecle modellate col gesso misto di polvere
cipria della _Traviata_. A che serviva questo faticoso rimpastamento? I
Greci cavallottèi aborrivano per natura dai costumi da' sentimenti dalle
consuetudini feroci e gentili de' tempi classici: eran de' Grecucci
nutriti di mollica di pane e repugnanti con molta nausea dal midollo
leonino. Che ci facevano in Grecia? Essi non eran Greci: erano lombrici
nati dal putridume del dramma romantico, e strisciavano sulla polvere
del palcoscenico levando ogni tanto il capo e dimenando l'anterior parte
del corpo con malinconia sentimentale. Il meglio ch'essi sapevan fare
era di recitar ballate e ballatette d'amore alla maniera del Prati del
Berchet dell'Aleardi. Poveri bachi educati al calduccio malaticcio
degl'inni manzoniani, con che cuore andavate al bosco del dramma
storico?

Anche, il deputato Cavallotti ritraendosi dalla notte de' tempi pagani
all'età moderna, ha infine trovato una soluzione democratica e savia
d'un gran problema di forma drammatica. Non più la sonorità ventosa e
pedantesca dell'endecasillabo sciolto, non più il peso indigesto e
somaresco d'un prosone da cucina allietato goffamente di romanze
romantiche e di prologhi alessandrini; il dramma di costumi moderni gli
ha offerto un gancio, a cui ogni deputato oscillante tra la poesia e la
prosa può apprendersi con sicurezza piena: il martelliano. Eccolo, il
gran salvatore: bolso come un cavallaccio da carretta, floscio e capace
come la matrice d'una vecchia meretrice, comodo e paziente di qualunque
più sconcia ingiuria alla dignità dell'arte, qual mai più utile
ausiliario potrebbe augurarsi uno scrittor comico materiato di
volgarità? Il deputato Cavallotti, che ha infine ritrovato sè medesimo,
se l'è cacciato tra le gambe come i ragazzi fanno delle scope; e via di
corsa caracollando di palcoscenico in palcoscenico. Volete delle
comediole brevi che vi rallegrino lo spirito gravato dallo stracotto di
manzo? Eccovi un chierichino e un'educanda che traducono alla peggio il
cantico dei cantici e si sposano; ed eccoveli esibiti in una raggiera di
martelliani idropici che si vomitano l'un l'altro addosso, e l'un
sull'altro s'ammucchiano russando, come una compagnia d'ubriachi che
vadano in fila, e, caduto il primo, gli altri successivamente inciampino
nell'ostacolo. Volete un drammetto lacrimevole, che vi solletichi
piagnucolosamente le corde dell'aberrazione sentimentale? Eccovi una
lirica del Leopardi comicizzata pietosamente. Volete proverbi
drammatici? Volete de' _Poveri Pieri_, o dolce Parlagreco? Ma parlate
italiano, in nome del buon Dio, e chiedete: il deputato Cavallotti non
vi farà sospirare alle stelle. Egli ha fatto come chi instituisce
fornace di mattoni o di fiaschi. La fornace è sempre all'ordine, poichè
gran copia di torba martelliana dì e notte alimenta il fuoco: basta
prender cocci di drammacci vecchi e di romanzi smessi e di liriche
intristite, pestare e inacquar di lagrime o di giulebbe, poi alla meglio
rimpastare e gittar nel forno. Ecco drammi quadri, pesanti, piatti come
mattoni, ecco comediole vezzose, leziose, graziose come fiaschi vuoti.
Rompetevi i mattoni sulla testa o rompetevi i fiaschi sulle natiche,
come più vi piace, e siate contenti, che il diavolo v'abbia in gloria!
Che altro desiderate? Volete anche lo _Spartaco_, aspettato con tanto
palpito dal deputato Bovio? E via, con queste anticaglie! Non distraete
l'onorevole Pirgopolinice dal forno. Egli fa il fornaio con tanta
grazia, con tanto gusto, con tanta fortuna, che veramente sarebbe un
gran peccato. E poi il forno, dicono, gli rende bene. Non ci è deputato
nè scrittor comico nè scrittore di libri in Italia, che faccia migliori
affari di questo mattonaio. Perchè rompergli la testa, ora che la sua
evoluzione drammatica è compiuta, che i suoi ideali drammatici son
conseguiti? E lasciatelo alla dolcezza dei fiaschi, o ferocissimo
Parlagreco.


IV.

Ora è necessario che il deputato Cavallotti faccia atto di santa
pazienza, e non arruffi le penne nè fulmini ira dagli occhi per la
gelosia, se io vado a frugar sotto i panni della sua vergine Musa.
Vergine, intendiamoci, e Musa per un fatale accecamento d'amore del
deputato Cavallotti, poichè in realtà ella non è, lo abbiamo detto, che
una ciana. Ma non levate le mani al cielo per lo stupore: non per nulla
pensarono i Greci il bamboletto Amore bendato. Egli va volando per gli
orti, pei verzieri e pei prati, con quella benda sugli occhi: e come la
primavera con larghezza imparziale anima e vivifica tutta l'universa
natura, fioriscono odorando negli orti, nei verzieri, nei prati le belle
piante e le brutte, le malefiche e le benigne, l'erbe d'alimento e
quelle velenose; e tutte con le lusinghe della gioventù rinnovata
allettano il dolce volatore. Ora il pargoletto andando ciecamente in
quel tripudio della stagione più grata, e sentendo misti insieme tanti
richiami d'odore, fermasi qua e là per diletto; e qualche volta s'annida
nel grembo morbido d'una rosa, ma qualche volta si posa in cima a un bel
fiore di cardo. Ed ecco, un fiero raglio d'asino geloso viene a trarlo
dall'errore e a precipitarlo nel terrore.

Questo incolse al deputato Cavallotti quando con lieto impeto giovenile
buttossi ciecamente a volo nei pascoli fioriti della poesia. Fiorivano i
pascoli con letizia d'emanazioni soavi alla dolce tenerezza del sole, ed
ogni pianta sbocciava all'afflato d'amore: le rose della lirica
carducciana, meravigliose di colore e d'odore e potenti di spine,
sopraffacevano per la bellezza i mughetti aleardiani e i giacinti senili
del Prati; e ancora gli antichi fiori dell'ultima poesia italiana
olezzavano acutamente, poichè dal vario canto del Foscolo, del Leopardi,
del Manzoni del Parini emanava una fragranza mista di bacche d'alloro,
di crisantemi, d'incenso, di giaggiòlo educato con sapienza d'ortolano
amoroso. Il Cavallotti, non ancor deputato, svolazzò con impeto sopra
tanto vario fiorire; e finalmente posossi. Dove? Posossi con leggerezza
d'animo, non sapendo ben dove; e quello era un cardo, a cui gli asini
traevano con desiderio, lietamente ragliando. La sua vergine Musa gli
apparve commista alla folla di un qualche comizio democratico, e tra per
la ressa della moltitudine, e la cecità della passione, e l'impeto
dell'età tenera, gli piacque meravigliosamente. Così non si avvide egli
ch'ella era una ciana. E fo io ora opera pietosa, svelando all'amante i
peccati della donna amata? Non credo: per altro, l'onorevole Cavallotti
ha abbastanza di spirito cavalleresco nella fantasia e di fegato in
corpo e di buona fede nell'animo, da sostener con le armi la bellezza e
l'innocenza dell'amica; e io debbo, per ammaestramento agl'ingenui che
potrebbero cader nelle panie di quella meretrice, alzarle le gonne. E, a
non andar troppo per le lunghe, lascerò le dimostrazioni e mi
accontenterò delle citazioni.

Ho già detto che la Musa cavallottèa è zoppa, e posa con molta fatica in
terra i piedi, de' quali l'uno è troppo lungo e l'altro troppo corto. Or
ecco pochi esempi, tratti da qualche volume delle _Opere_. Una delle
difficoltà gravi, nelle quali dànno del petto i poetastri impotenti non
pure all'arte, ma e al meccanismo della poesia, è la questione dei
dittonghi: questione che ogni Italiano, non dico sufficientemente
nutrito di prosodia, ma appena appena favorito dalla natura di qualche
senso melodico, risolve senza difficoltà. L'onorevole Cavallotti tra le
vocali pare invece uno che siasi buttato in mare, senza saper nuotare,
con molte zucche alla cintura, e che, non pensando che le zucche ad ogni
modo debban salvarlo dall'annegare, si dimeni affannosamente tuffando ad
ogni momento per lo sforzo il capo sott'acqua, e bevendo con indicibile
terrore dalla grande onda del mare. Naturalmente, quando s'incontrano
due vocali in una parola, esse o si pronunziano in un tempo solo o in
due: non diciamo quando si debban pronunziare in un sol tempo e quando
in due, perchè i democratici non sono sottomessi all'autorità delle
leggi: solo affermiamo che questa duplice relazione ritmica debba essere
regolata da una legge. Or vedete a qual capriccioso tumulto metrico
abbia il poco rispetto alle leggi tratto il deputato Cavallotti.

Nelle _Poesie_ (pag. 135) trovo questo dodecasillabo:

    Del lungo _viaggio_ fu lungo il soffrir,

ove _viaggio_ è una parola trisillaba. Invece a pag. 274 delle medesime
_Poesie_ trovo questo decasillabo:

    _Viaggiatrice_ dell'aria discendi!,

ove _viaggiatrice_ è di quattro sillabe. Perchè il viaggio,
trasformandosi in viaggiatrice, s'accorcia d'una sillaba? Misteri della
prosodia cavallottèa! Se non che, io credo di avere scoperto il segreto
in due versi dei _Pezzenti_ (pagine 129 e 131):

    Verso _Almaèr_ si spinse. A lui spedito, ecc.
    Quante miglia ad _Almàer_? Trenta e la via, ecc.

In questi due versi occorre la parola Almaer, la quale prima, accentuata
sulla seconda vocale del dittongo, è trisillaba, poi, accentuata sulla
prima, diventa bisillaba: l'onorevole Cavallotti dunque crede che il
dittongo, quando rechi l'accento nella prima vocale, sia monosillabo,
quando invece nella seconda, bisillabo. Accettiamo questa bizzarria
prosodiaca, che non ha fondamento nè ragione se non nel cervello
cavallottèo, e vediamo almeno se questo pazzarellone d'un deputato sia
coerente seco medesimo. Ahimè, ecco una contradizione! In due versi
delle _Poesie_ (pag. 237, 275) troviamo la medesima parola, con varia
misura. I versi sono:

    D'uno straccio _trionfal_, ecc.
    Viva Italia! ed il suon _trïonfale_, ecc.

Perchè nel primo verso la parola _trionfale_ è quadrisillaba per natura,
e nel secondo per diventar tale ha bisogno della dieresi? In quale dei
due il deputato Cavallotti ha peccato contro la prosodia? Egli sdegna di
rispondere. E taccia pure, se la solennità del canonicato democratico
gli consiglia il silenzio. Intanto io fo notare a chiunque sa quante
sillabe occorrano per mettere insieme de' versi, che questa incoerenza
cavallottèa in materia di dittonghi è cagione che un quarto almeno dei
suoi versi non torni; e chi avesse vaghezza di falciare in questo prato,
metterebbe insieme un tal fascio di spropositi metrici, che dieci asini
almeno ne avrebbero a bastanza per dieci mesi. Sentite la dolcezza di
questa musica?

    Lo _stranïer_ tremò. (_Poesie_, pag. 148);
    Della battaglia nell'_infuriar_! (_Tirteo_, pag. 65).

Quest'ultimo verso, secondo le regole cavallottèe, dovrebbe essere un
endecasillabo; e invece è messo in fine d'una elegia di Tirteo come un
decasillabo. Così nel verso

    I fiamminghi hanno infranta e _vittoriosa_ (_Pezzenti_, p. 105)

la parola _vittoriosa_ dovrebbe, sempre secondo le regole cavallottèe,
essere pentasillaba: invece, è costretta ad essere di quattro sillabe.
Per compenso, questa volta in omaggio alle proprie norme prosodiache,
l'Alcibiadeo nel verso

    _Lieto_ il ciel m'appare — e più non sei (_Pezzenti_, p. 147)

fa la parola _lieto_ di tre sillabe, come liuto. Proseguire nell'esame,
e raccoglier tutti gli spropositi metrici che questa maledizione del
dittongo fa commettere al deputato Cavallotti, sarebbe fatica più
improba delle dodici d'Ercole raccolte insieme. Avete mai veduta una
pioggia di rane? Voi ve ne andate quando con più impeto arde il solleone
per una via polverosa, e d'improvviso il cielo s'empie di nuvole, e tra
le nuvole udite un rombo di tuoni che da tutto l'orizzonte si va
condensando sul vostro capo: ecco, tra tuono e tuono rompe un lampo, poi
subito piove. Vien l'acqua a gocce che nel cadere s'aggruppano e
crescono, e sulla polvere si vede come una caduta di palle.
D'improvviso, per miracolo, ogni palla rimbalza in forma d'una
raganella, che prende a balzare crocidando: e per tutta quanta la via,
mentre le palle d'acqua si fondono in rivi, è un immenso balzellamento e
un crocidare a festa. Cadono le raganelle dal cielo, o la polvere
fecondata scoppia con una subitanea generazione di batraci? Io vi so
dire che i dittonghi cavallottei, piombando come palle morte sul
polverone della sua poesia, ne rimbalzano in forma di rane; e le rane
crocidano lietamente ai calori estivi spropositi e spropositi e
spropositi.

Ciò accade al deputato Cavallotti, quando gli occorre d'incontrare due
vocaboli nella medesima parola. Udite ora che gli avvenga quando
l'incontro è tra l'una e l'altra parola. Allora dal confine di ciascuna
parola le due vocali si guatano biecamente come due cagnacci posti a
guardia di due campi finitimi, e latrano; spesso anche le vocali di
guardia son più di due, e allora sulla complessiva musica del verso si
leva l'abbaiare d'un intero canile.

Ecco qualche piccolo esempio:

    _A o_gni cippo funereo; _a o_gni deserta fossa, ecc.
                                      (_Poesie_, pag. 143.)
    Subir d_ee i_l suo castigo. _Ella alla_ fede, ecc.
                                    (_Pezzenti_, pag. 141.)

Ma non sempre, come in questi due versi, come in un infinito numero
d'altri, i cani urlano in coro: ce n'è alcuni, ne' quali i guardiani
astiosi stanno ciascuno al confine del proprio verso, e ringhiano
nemicamente, senza potersi accordare. Così, mentre nell'ottonario

    La tua donna e i t_uoi a_ltari (_Poesie_, pag. 68)

il quadrittongo _uoia_ fa due sillabe, nell'endecasillabo

    No, no, non gli credete! Ella v_i a_ma (_Pezzenti_, 106)

il dittongo _ia_ è del pari bisillabo, e nella pronunzia induce una
pausa che fa rassomigliar quel suono al canto d'amore d'una mite bestia
amica dei cardi: Hi... a, Hi... a, Hi... a.

Del resto, chi volesse ricercare ne' versi del deputato Cavallotti le
onomatopee animalesche, troverebbe degli effetti armonici d'una
singolarità meravigliosa, poichè qua udrebbe belar tutto un ovile, e là
chiocciar tutto un pollaio: anche udrebbe sinfonie di grugniti e
gioconde orchestre di ragli. Se non che, io mi son seccato delle vocali,
e mi prende invece una dolce vaghezza delle consonanti. Aimè, anche qui
la Musa cavallottèa zoppica sciaguratamente. Badate: cito dai _Pezzenti_
(pag. 134):

    _Giona_ — Dettate, pure, reverenza...
                                  Dunque?
    _Tobia_ — Più forte... Oh, ma di là non senti!...

È chiaro che dovrebbero esser questi due endecasillabi: è chiaro anche
che la somma di due endecasillabi dà ventidue sillabe.

Contate ora, e vedete: son venti sillabe. Il deputato Cavallotti fa
dunque dei miracoli? Oibò: la democrazia aborre dalla taumaturgia: si
diletta per contrario assai del funambulismo. Qui il deputato Cavallotti
ha fatto una capriola, anzi ne ha fatte due, poichè quel perfido
interrogativo bisillabo, _dunque?_, fa due offici: termina il primo, e
comincia il secondo verso. Vale dunque per quattro sillabe, e
rassomiglia ad Arlecchino servo di due padroni. In compenso, l'onorevole
alcibiadèo fa qualche volta degli endecasillabi di dodici sillabe.
Eccone uno:

    I pensieri miei ti pose... Allor che in cielo...
                             (_Pezzenti_, pag. 74).

Ma più spesso pecca per economia. Ecco due endecasillabi dei _Pezzenti_,
che chieggono invano l'elemosina d'una sillaba:

    Eran d'ossa e carne viva... Oh padre (pag. 144);
    Del fior de' miei dì. Coraggio adunque (pag. 76).

E finiamola con la metrica; poichè lo zoppicare della Musa cavallottèa
parmi ad esuberanza mostrato. Ma le magagne di quella sciagurata non son
tutte prosodiache: ella ha sulla coscienza anche de' peccati
grammaticali. Inorridite:

    Mentre qui siam seicento che _hanno_ appena
    Le scarpe indosso... (_Pezzenti_, pag. 136).

In questi due versi ci è due osservazioni da fare, delle quali la prima
fa piangere e la seconda fa ridere. La prima è un'ingiuria alla
grammatica, non pure italiana, ma di qualunque umano linguaggio: Noi
siamo seicento che _hanno_; la seconda è un'ingiuria al senso comune:
noi hanno appena le scarpe _indosso_.

Tanto valeva allora buttar via anche quelle, poichè come avrebbero
potuto le scarpe giovare al dosso? Poi vi sono le città che si ripetono
_l'una coll'altra_ il grido (_Poesie_, pag. 145); anche c'è:

    Ma d'ieri la rivincita, _voi_, prode,
    Chiedere ben vi sta... (_Pezzenti_, pag. 87);

inoltre un _empiè_ (_Poesie_, pag. 12), e non so quanti _apparì_. Di
più, il deputato Cavallotti non ha ombra di rispetto per l'esse impura.
È vero ch'essa è impura, ma è pur sempre un'esse! Ecco:

    Or son essi d'Italia _i_ Scipioni (_Poesie_, pag. 165);
    Bisogno _il_ strinse a far de la mia spada
                                    (_Pezzenti_, pag. 122).

In fine, il deputato Cavallotti nell'elisione è feroce. Udite scoppi di
bombarde:

    Le insegne giacquero delle _legion_;
    Stettero i teschi dei _centurion_. (_Poesie_, pag. 187).
                              ..... Quei vostri
    Occhi han tanta facondia e _ragion_ tanto
    Migliori delle nostre... (_Pezzenti_, pag. 97.)

Or che ci attenderemmo noi da una pettegola che pecca contro le più
elementari norme del galateo metrico e grammaticale? Ella è sboccata e
cenciosa, è sciatta e sgraziata nel parlare e nel gesto. L'improprietà
del suo linguaggio e la goffaggine del suo stile muovono al riso.
Crollate il capo in atto di contradizione, o dolce Parlagreco? Ebbene,
ascoltate:

    Egli negò procombere fra l'armi e il cozzo orrendo
    (_Poesie_, pag. 140).

Ascoltate ancora:

    E sbatte imposte, (_il vento_) arbusti schianta, e arene
    E _frane_ e fronde sibilando aggira (_Poesie_, pag. 156).

Che cosa dice il signor Parlagreco di questo vento che aggira non pur le
arene e le fronde, ma e le _frane_? E che cosa dice dello _stormir del
vento_ che trovasi a pag. 166 delle _Poesie_? E vuole egli del barocco?
Apra, a sua scelta, un qualunque volume del maestro, e legga. Io per me
rinunzio ad enumerare gli errori d'una puttanella che pecca cento volte
il giorno.

Mi bastava mostrare che puttanella è: anche bastavami porre in chiaro
questo fatto, che il deputato Cavallotti, non che l'attitudine organica
alla lirica, ma non ha nè meno quel povero substrato metrico e
grammaticale, che è pur necessario a voler mettere insieme de' versi.
Egli si trova nelle medesime condizioni di Giacinto Stiavelli, il quale,
da che io lo conosco, è travagliato da un dubbio feroce: se _poeta_ sia
una parola bisillaba o trisillaba.

— Diavolo! se la fai bisillaba, si pronunzia _peta_ — gli diss'io una
volta. Ed egli a me:

— Il Cavallotti la fa sempre bisillaba.

Che potevo opporre allora, e che posso ora? Nulla. Il Cavallotti ha
diritto di fare ciò che gli piace: chi oserebbe togliere o limitare la
libertà dello sproposito a un democratico? Solamente domando: non vi
parrebbe ridicolo ch'io mi fermassi più a lungo intorno a una poesia, a
cui mancano persino l'innocenza grammaticale e il pudor prosodiaco? Che
vi aspettate da lei? Ella ha fornicato con mezzo mondo, e ha per una
notte dormito nel letto d'ogni poeta moderno. Grandi o piccini, nostrali
o forestieri, belli o brutti, a tutti ha aperto le gambe, sì che per
troppa varietà di fecondazione è rimasta sterile. Ella ha tutti i vizi
delle sue pari: è cicalona, è fanfarona, è stupida, è enfatica. Nel
parlare gestisce smodatamente, ed è una cosa bella vedere tanta
impudicizia repubblicana mista con tanta prosopopea di dignità. Mi dà
l'immagine della moglie di Masaniello vestita da regina. Di più, come
molte sue pari, tende, per inclinazione di sciocchezza o per _posa_,
all'amor platonico, all'ideale, alle tenerezze ineffabili dell'infinito,
a tutte quelle dolci cose impalpabili e imponderabili che non esistono
se non nella fantasia della gente viziosa. Il deputato Cavallotti, il
fantaccino della lirica antigrammaticale, il pazzarellone, il
tumultuario, l'anarchico, quegli che a cavalcioni d'un dodecasillabo
sfiancato o d'un ottonario zoppo va caracollando giocondamente pei
giardini della retorica, ogni tanto è preso da ciò che un romantico
vecchio direbbe nostalgia del cielo. Lascia gli eroi delle Cinque
giornate e i martiri bosniaci, Rattazzi e Garibaldi e Giulio Uberti, e
tutti gl'infelicissimi ch'egli travolse in un vortice di strofacce al
suono del suo trombone scordato; e vola. O nuvole che vi spandete con
morbidezza di veli sulla serena faccia del sole, fermatevi e mirate; il
deputato Cavallotti, repubblicanamente rosso nel volto, col cappello
piombante sull'occhio sinistro e le mani in tasca, passa a volo, e va a
visitare gli angioli del Signore. O angioli buoni e biondi, fatevi alle
soglie del paradiso ad accogliere il visitatore: è un'aquila o un
gallinaccio che viene a voi? In verità mi pare un gallinaccio, che abbia
tolto a prestito le ali da qualche palomba romantica. Ma non lo dite a
nessuno, o angioli santi, se non volete che la democrazia italiana
m'immoli alla diva Sgrammaticatura.

Anche, la musa cavallottèa si diletta delle passeggiate. È una
vagabonda, che corre a perdifiato a traverso i compendi di storia. Ella
trascina Leonida a traverso il compendio storico che constituisce la
miglior parte del _Giannetto_, e per giungere al monumento delle Cinque
giornate attraversa più storia che non ne occorrerebbe a un candidato
all'esame di licenza liceale. Così, la poesia del Cavallotti, oltre al
suo intendimento civile, ha anche una ragione didascalica: non pure
squassa tutti i ferravecchi rugginosi della vecchia lirica patriottica
con fragore fanfaronesco, ma si compiace stranamente di narrare e
d'ammaestrare. A vederla cavalcare sul quadrupede della strofe
cavallottesca, che ha del rossinante e del ciuco, dà l'imagine di don
Chisciotte e di Sancio fusi insieme per qualche strano fatto d'alchimia
antropologica.


V.

Da Sancio Panza non ha il deputato Cavallotti ereditato il grossolano
buon senso bertoldesco; ne ha però dedotta la manìa sentenziatrice, le
consuetudini contradittrici, la prosopopea predicatoria. Tutte le opere
del Tirteo nostrale son gravate d'una immensa congerie di prefazioni, di
controprefazioni, di note, di citazioni, di richiami, di polemiche:
paiono le finanze del regno d'Italia ai tempi del ministro Sella.
L'_Alcibiade_, nell'edizione per la lettura, è come un dromedario carico
di troppo peso, che restando inginocchiato in terra neghi di portarlo.
Oltre la filastrocca a Yorick figlio di Yorick per dimostrargli che
l'Alcibiade cavallottèo, se bene pare romantico e sentimentale e
dolcemente imbecille, è in fondo veramente e pienamente greco, poichè fa
tutte le cose che i biografi, gli storici, gli scrittori greci d'ogni
tempo e d'ogni natura dicono egli abbia fatto; ci è d'avanti e dietro e
fra mezzo, in corpo dieci, in corpo nove, in corpo otto, in corsivo, in
gotico, in rotondo, un tal semenzaio d'erudizione, da far crepare
d'invidia un'enciclopedia. Alcibiade va a Sparta? Ed eccovi tutte le
notizie che si sanno intorno alla storia, alle leggi alle consuetudini
spartane. Alcibiade ripara in Tracia? Ed eccovi della Tracia sino agli
occhi. E a proposito della Tracia, tornami nella memoria un caso che mi
avvenne in liceo. Era professore di greco un dolce prete, che evea viso
e mitezza più tosto femminea che sacerdotale: si chiamava, e si chiama,
Biagio Lanzellotti, e non mai mi sono io abbattuto in un più diligente
correttore di compiti e in un uomo d'indole più delicata e più gentile.
Era però, ed è ancora, credo, alquanto minuzioso e amico delle
piccolezze scolastiche. Una delle cose cui più teneva erano le note
didascaliche, e la piccola erudizione; sì che nelle feste davaci a fare
degli _studietti_ tra filologici e storici, con piena libertà
d'argomento. Or quando io fui sopraffatto da quelle quattro copie
dell'_Alcibiade_, onde ho già parlato, dovendo un giorno fare uno di
quegli _studietti_ e mancandomene il tempo o la voglia, pensai di
cavallotteggiare; e copiai con molta placidezza d'animo tutto ciò che il
deputato Cavallotti dice dei Traci. Il buon prete lesse tutto lo
sproloquio, e lodò la mia diligenza: però ad altri, che avevan fatto a
meno del concorso d'Alcibiade, diede nella classificazione un maggior
punto. Questo piccolo incidente scolastico mi fece per tempo valutar
rettamente l'erudizione cavallottèa, la quale suscita per la sua mole un
vero spavento d'ammirazione nell'animo dei lettori innocenti. Essa non è
che uno spoglio d'enciclopedie e di dizionari storici, che farebbe onore
di pazienza a uno scolaro sgobbone. Accusato di violata verità storica,
per avere retoricamente attribuito ai superstiti della catastrofe
dell'ambizione arduinica un senso di italianità che prima di Dante e
della lega lombarda era, per lo meno, singolare, si difende gittando
addosso ad Eugenio Torelli-Viollier tutta una biblioteca storica. Povero
marchese Colombi! Egli non è molto forte in erudizione di storia e
d'ogni altra parte del sapere umano, e quella scarica di citazioni che
dalla catapulta del deputato Cavallotti gli piombò contro, dovè
stenderlo tramortito al suolo. Quel mattacchione d'un democratico prese
il Provana, un dotto uomo che partecipò con Cesare Balbo il santo errore
di ricercare nella storia d'Italia le fonti del patriottismo italiano; e
dopo aver citato il Provana, prese a citar per disteso tutti i passi
delle cronache e i brani delle storie citati brevemente, con la semplice
indicazione dell'autore, dell'opera e della pagina, dal Provana; così
riescì a mettere insieme, con molta fatica calligrafica, un cinquanta
pagine di erudizione, schierando di fronte a quel povero diavolaccio
mingherlino del marchese Colombi almeno cinquanta storici, annalisti,
cronisti, dal Cronista sassone a Cesare Balbo. A che giovava tutta
quella spampanata spacconesca? Mah! Il deputato Cavallotti rassomiglia
un poco ai mercantelli ambulanti, i quali girano per le fiere; e dove la
fiera è più popolosa e tumultuosa, fermansi con la gerla al collo e si
ragunano intorno i contadini. E cominciano a spiegare e ad agitare in
alto alla vista di tutti i fazzoletti ad uno ad uno, e a mostrare uno ad
uno i pacchi di fettuccia, le minuterie, le cianfrusaglie di ogni
maniera onde son carichi; e finchè ogni cosa non abbiano spiegata o
mostrata, non son contenti e non tacciono. Se non che, il deputato
Cavallotti pecca ogni tanto di qualche omissione. Perchè, per esempio,
nel caso del marchese Colombi ha dimenticato il _Giannetto_? Ma son
peccati veniali.

Poi questo Pirgopolinice è d'una burbanza singolare. A sentirlo, pare il
nume tutelare della pedanteria grammaticale, delle minuzzaglie
prosodiache, delle cianciafruscole ortografiche. Ha un fare tra
soldatesco e canonicale, e tratta gli altri critici come una ragazzaglia
di coscritti a cui egli debba comandar la manovra. Teorizza per
inspirazione divina, con un'affettazione di semplicità bonacciona che vi
fa scoppiare dalle risa. Par sempre che dica: — Vedete, ragazzi; voi
siete de' bravi ragazzi, e col tempo diventerete grandi poeti e grandi
critici come me; ma per ora peccate in questo e peccate in quest'altro,
non sapete la grammatica nè la metrica. Venite qua, chè v'insegnerò io
l'una e l'altra. Ed egli, veramente, è in grado di farlo. In fatti,
nella prefazione alle _Anticaglie_ ci è una parte che più specialmente
tratta di metrica, anzi di metrica barbara; e il più significante
appunto ch'egli fa al sistema del Carducci, è questo: che la barbarie
carducciana non è una novità, poichè quei falsi versi classici non sono
che accoppiamenti di versi, diciamo, romantici. Veramente era inutile
darsi tanta pena per questa grande scoperta, da che il Carducci avvertì
chiaramente di avere armonizzato la sua barbarie di suoni e di versi
italiani: anche era inutile, poichè, essendo quel barbarume un'insalata
di versi italiani, non doveva un deputato martelliano gridare allo
scandalo. Ma lasciamo correre, giacchè ci è un'altra cosa da notare. Si
sa che per contrapposizione al Carducci, il quale osò di far poesia
italiana con metri greci, il Cavallotti tradusse della poesia greca con
metri italiani: ora avete voi notati quali furono i metri prediletti dal
deputato Cavallotti nella sua traduzione delle elegie di Tirteo? Il
dodecasillabo fatto di due senari, e il decasillabo di due quinari
accoppiati! Ma allora son barbari anche questi? Per barbari, dormite in
pace, son barbari assai. Anche, nella critica è notevole l'acume del
deputato Cavallotti: egli ha una facoltà divinatoria che non gli
fallisce mai, e i suoi vaticini son più sicuri dei responsi dell'oracolo
delfico. Non è vero, o Giacinto Stiavelli? In te scoprì il deputato
Cavallotti non so se il seme o il rampollo d'un gran poeta; e ti
preconizzò un avvenire di gloria e di fortuna poetica. E tu dovesti
chiedere al Debito pubblico una consolazione della poesia traditrice!
Così, da che il deputato Cavallotti vide nel medio evo di Leopoldo
Marenco una chiara luce drammatica, quell'infelicissimo dovè fuggire a
scavezzacollo dal palcoscenico, se non volle che il pubblico gli
rivomitasse addosso tutta quella pappardella di versi sciolti saponacei.
Che il traditor di Tirteo sia anche un pochettin iettatore?
Affrettiamoci, per carità, a toccarci le note specifiche del sesso
mascolino; e lasciamolo in pace.

Non prima, per altro, di avere brevissimamente toccata un'altra parte, e
la più integrante forse, della letteratura cavallottèa: le cartoline
postali. Il deputato Cavallotti ha per la posta in genere e per la
cartolina postale in ispecie un culto veramente fanatico. Il deputato La
Porta, che da anni ed anni sospira con infantile ingenuità d'animo al
Ministero delle poste e de' telegrafi, e in questa speranza conforta la
sua fede nell'onorevole Depretis, non può augurarsi un più largo e più
sicuro contribuente. Con la cartolina postale il Cavallotti zappa l'orto
della sua popolarità, e non ci è democratico in Italia che non ne abbia
una incollata al muro come una sacra reliquia, e non ci è giornale a cui
non ne pervenga qualche dozzina per trimestre. Appena il deputato
Cavallotti ha detto o scritto o fatto qualcosa, un discorso, un
proverbio martelliano, un telegramma contro il Ministero, una poesia,
subito si mette all'opera; e scrive un centinaio di cartoline...

Ma lasciamolo scrivere, poichè finalmente mi son seccato di perdere il
tempo con questo mattacchione. In lui la democrazia italiana si letifica
e si glorifica: lui leva sugli scudi quasi ad insegna della sua vacuità
sonora e della sua prosopopea academica. Se lo tengano pur caro, e
scolpiscano per motto dell'arma repubblicana un ircocervo cavallottèo.

Contenti loro, contenti tutti.


VI.

Chiunque prenda ad osservare le relazioni della nostra misera
letteratura con la nostra vile politica deve necessariamente notare
questo fatto: che i moderati in politica sono in arte disordinati e
plebei, e per contrario l'aristocrazia dell'arte è prediletta da quelli
che politicamente fan professione democratica. Non avete mai pensato a
questo, dottor Verità, versando la broda bottegaia della vostra prosa
critica sulla poesia oligarchica del Carducci? Io son venuto a questa
conclusione per un lungo esame induttivo, di cui la più sicura prova sta
nella questione della lingua: questione per ora sopita, ma che non
tarderà a svegliarsi con più caldo furore. E in questa disputa i fautori
della lingua unitaria, dal Manzoni al Bonghi, furon tutti codini, mentre
dal Guerrazzi al Carducci e ad Alberto Mario i repubblicani inclinarono
sempre al regionalismo della forma. E basta, mi pare, poichè ciascuno
può secondo il desiderio moltiplicare gli esempi. Io voglio invece
recare una eccezione di questa general regola nel nome e negli scritti
di Felice Cavallotti, repubblicano intransigente nei comizi popolari,
monarchico con restrizione mentale in Parlamento; poichè in costui la
fede politica e i criteri d'arte, le consuetudini di agitatore e la
forma dei versi e della prosa si armonizzano in una comune inarmonia di
sciattataggine e di volgarità democratica. Anzi io direi che, se qualche
documento di sè può offerire la presente democrazia italiana, questo son
le opere compiute che il deputato Cavallotti va man mano pubblicando e
distribuendo ai molti associati, che vengono per tal modo ad essere
quasi gli azionisti della gloria cavallottèa.

Infatti la democrazia in Italia ci si addimostra nelle ragunate
tumultuarie e rissose di Romagna e nelle pesanti tornate
dell'associazione dei diritti dell'uomo, nei giornalettini repubblicani,
socialisti, nichilisti di provincia e nel _Fascio della democrazia_, in
Parlamento e in piazza, nelle scorribande fragorose degli studenti e
nelle dimostrazioni pompose di tutto il popolo democratico, ci si
addimostra, dico, come un miscuglio d'academico e di lazzaronesco.
Anch'io ho avuto, qualche anno addietro, una fede politica, e
naturalmente sono stato repubblicano: repubblicano platonico, per
verità, poichè non ho mai sparso una goccia di sangue o d'inchiostro pro
o contra nessuna forma di governo: ma insomma repubblicano ero d'avanti
al testimonio della mia coscienza, e dal Comizio dei comizi alla
processione per la morte di Garibaldi ho seguìto con attenta e
silenziosa osservazione tutto lo sviluppo e studiato l'organismo della
democrazia italiana. E ciò che mi fece venire in uggia la repubblica, fu
appunto la processione per la morte del Generale. Cominciò a seccarmi il
mio amico Dionisio Martinati, che la mattina del 3 giugno con un
drappelletto di studenti, tutti coi bastoni in mano, batteva il Corso
obbligando quanti non l'avevano ancor fatto a chiuder bottega. Io voleva
mangiarlo vivo quando poi venne al caffè a gloriarsi dell'impresa.
Diavolo! c'è proprio necessità assoluta d'incitare con argomento di
bastoni i mercanti romani alla vacanza? Ogni sera alle nove e le feste
dopo mezzodì essi chiudono inesorabilmente le porte dei negozi: se poi
la democrazia si mette a invitare i tedeschi a bere, non sarà più
possibile a un repubblicano pulito di comprarsi un paio di guanti.

Poi cominciò una pioggia o una peste d'avvisetti, d'avvisoni,
d'avvisacci: dalle più profonde tenebre dell'ignoto varie forme
democratiche uscivano, come formiche dalle buche del formicaio, con una
chiamata a una ragunanza, stampata sopra fogliettucci o fogliettoni,
d'avanti. O quanta democrazia! Non mai avrei creduto che fosse tanta,
poichè le mura di Roma non bastavano a tutta quella spampanata d'avvisi.
Se non che, non tardai ad avvedermi che gli avvisi non fanno la
democrazia, e che la democrazia italiana un sol miracolo ha ottenuto dal
suo dio (gli ultimi ad aver qualche dio sono i democratici,) ed è una
varia democratomorfosi, una proteiformità smisurata, che le concede di
trasmutarsi e di rimpastarsi con vicenda infinita. Infatti il cittadino
Antonio Fratti, studente perpetuo di giurisprudenza e oratore officiale
della oligarchia mazziniana (la chiamo oligarchia perchè i mazziniani
non superano la ventina), mi apparve in quei giorni di lutto cinque o
sei volte, con quella sua faccia grassottella d'olandese giovine, con
quelle mani guantate di nero: lo trovavo da per tutto, e da per tutto
udivo quella sua eloquenza di piombo raffreddato che mi dava la
sensazione d'un'acquerugiola fitta e seccante sulla nuca. Avete mai
visto un veltro alla caccia? Io no; ma non me lo posso raffigurare se
non scattante per l'erta e alla piana come un dardo scoccato, e voltante
qua e là e battente la pista con tanto precipizio di fuga, da parer
presente ad ogni istante in ogni luogo come fosse esso solo una muta di
cani. Tale è, sebbene non credo abbia parentela col Veltro di Dante, la
democrazia in Italia; poichè ogni democratico fa parte d'ogni sodalizio
democratico, e pone il suo nome sotto cinquanta manifesti diversi, e
appare in cinquanta luoghi diversi nella medesima sera. Così rammento il
bello e fulvo Napoleone Parboni, che in quei giorni andava per ogni dove
portando la barba rossa e il vocione sonoro, e arringava la democrazia
con quella sua romanesca bonarietà di padre di famiglia e di compagnone
giocondo. Venne l'onorevole Bovio da Napoli, col torace pieno di parole
vuote di senso; ed Edoardo Pantano, l'Eleonora Duse della democrazia
italiana, gli si moveva ai fianchi nevroticamente: il deputato
Cavallotti, seduto sopra un tavolino, pensava qualche luna di miele.
Ahimè, quanto vento di retorica, e quanta academia, e quanta imbecillità
in quei rimescolamenti della democrazia officiale! Si discusse tutta una
sera se si avesse, o no, a rispettare l'estremo desiderio del Generale;
e quando, dopo le dispute, tolta la bandiera, si mosse al Campidoglio
per dimostrazione di dolore e di affetto, pochissimi vennero: io ricordo
vivamente il gran senso di vergogna che mi percosse quando entrammo in
meno di dugento nella grande aula del Consiglio, ove i padri coscritti
sedevano a deliberare. E Giovanni Bovio ventriloquo, e il Parboni, e il
Pantano, e il deputato Cavallotti? Era quasi mezzanotte, e tutti i
canonici della democrazia, poichè non potevano esser veduti e nessuno
dava segno di volerli ascoltare, s'erano dispersi. Per un momento mi
parve che vi fosse il cittadino Fratti, perchè mi passò sotto il naso un
odore di viole di Parma; ma le recava all'occhiello Arnaldo Vassallo,
che attraversò la folla per andare ad occupare il suo posto di
giornalista.

Così, a grado a grado, tutti i preparativi della processione mi venivano
abbattendo nell'animo l'ideale democratico: una persona sola e un sol
fatto mi colpirono allora e mi accesero d'entusiasmo, Guglielmo Oberdank
e l'assalto che gli studenti dettero alla stamperia del _Cassandrino_.
Guglielmo si levò improvvisamente fra il tumulto d'un'assemblea
universitaria tutto ardente negli occhi e nella faccia, e nominò Trieste
con tanta santità di furiosa passione, che nessuno osò di contradire; ma
un concorde grido di tutta quanta la scolaresca plaudente salutò le
terre italiche non ancora rivendicate all'Italia, e ribadì forse
nell'animo del giovine eroe la fede e l'amor del martirio: sette mesi
dopo, il corpo di Guglielmo penzolava ai venti della patria da una forca
tedesca. Al _Cassandrino_ si mosse tutti ordinati e silenziosi come a
una crociata della dignità umana. Nessuno diede ordini o fece proposte,
nè fuvvi discussione o deliberazione di alcuna sorta; ma non appena uno
sorse sopra una tavola, a leggere le ingiurie bestiali che quel
fogliettaccio papalino scagliava contro il corpo ancor caldo del
Generale, subito per tacita unanime determinazione movemmo tutti quanti
all'assalto.

In piazza di Pietra trovammo carabinieri e guardie di polizia; ma
vedendoci andare con tanta serietà d'intendimenti e con sì poco fragore,
nessuno pensò la natura dell'impresa. E come fummo a piazza Poli, ci
lanciammo con l'impeto d'una canèa furibonda entro i cortili e alle
porte della stamperia. O dio, che gioiosa rabbia di distruzione e che
indomabile violenza di vendetta! Io veggo ancora Guglielmo Oberdank
afferrare le cassette piene di caratteri e sbalzarle lietamente per
l'aria, e Umberto Dal Medico mezzo sepolto sotto una pioggia di piombo
frugar tuttavia con le mani cercando qualcosa da fracassare. Quello fu
il bel giorno, e per dieci ore io sentii nella carcere del mio corpo la
mia gioventù palpitare di un caldo entusiasmo repubblicano; poi, sino
alla processione, il calore andò con graduale celerità scemando. Il
giorno della processione me ne andai in piazza del Popolo prima dell'ora
stabilita. Era un puro e luminoso pomeriggio d'estate, e il chiarore
ardente del sole veniva dall'alto così chiaro e così ardente e così
grande, che pe'l caldo e per la luce i già ragunati penavano. Tra questi
io mi aggirai, ascoltando i discorsi e guardando. Il vecchio e il
giovine Petroni, addossati all'obelisco di Sesostri, davano retta al
gran Parboni tutto glorioso nell'aureo splendor della barba; e il
professore Orazio Pennesi, con l'abito nero fiorito d'una gran coccarda,
o d'una medaglia, o d'una decorazione, o del diavolo, moveva intorno la
tuba lucente e la faccia fatalmente wertheriana per farsi amar dalle
donne. Per un momento la figura pantagruelica del buon Filipperi, giunto
di Trastevere con tutti i garzoni della sua osteria, mi suscitò nei
nervi un senso di gaiezza simpatica; ma vedendo in quel punto venir dal
Corso il deputato Bovio col bovietto Pantano a destra e Ulisse Bacci a
sinistra, tutti in gran solennità come tre canonici in pompa magna
salienti all'altare per la messa cantata, e da Ripetta sboccare un
manipolo di mazziniani con le labbra ferme e gli occhi bassi e le mani
incrociate sul petto in atto di religioso tremore, come neofiti che
andassero alla consecrazione, mi riprese una nausea dispettosa di tutta
quella ciarlataneria, di tutta quella goffaggine, di tutta quella
academia dimostrate sfacciatamente in piazza al conspetto del sole
splendente. E me ne andai per via del Babbuino come un cane arrabbiato,
tanti e tanto maligni erano i pensieri che mi staffilavano il cervello.
Questa è dunque la democrazia? Un'accozzaglia di beceri, di imbecilli,
di ambiziosi volgari che cercano ogni occasione di mettersi in vista, di
chiacchierare, di spampanare al conspetto della gente una coccarda o una
decorazione repubblicana; che gittano il vomito della loro retorica e i
fiori bianchi della loro stupida fede di bonzi mazziniani sui più sacri
nomi e sulle più floride speranze d'Italia; che insteriliscono con
l'effusione del loro sudore senile tutte le energie giovenili delle
generazioni sorgenti ora dalla gran matrice della patria. Questa è
dunque la democrazia? Accidenti alla democrazia! come direbbe il buon
Filipperi; e me ne andai a dormire, per non vedere il deputato
Cavallotti e il gran Parboni farsi trascinare in trionfo pe'l Corso
sopra un carro col busto di Garibaldi. Conferii per altro indirettamente
anch'io alla coreografia di quella pagliacciata democratica, poichè
prestai un paio di calzoni neri a un reduce dalle patrie battaglie.

Così la mia fede democratica crollò dalle fondamenta in quel sonno
antipatriottico, che mi fu rotto da una bella donna: di poi ho io assai
volte ripensato a quella processione, a quel sonno, a quella donna,
sempre più discostandomi dalla democrazia, e rintanando la mia coscienza
politica in un mio nichilismo selvaggio, ove non giunge nè la vacua
sonorità del deputato Bovio nè la stridula petulanza del deputato
Cavallotti nè la jattanza povera dei bovini e dei cavallottini che hanno
intorno al _Fascio_ costituita una specie di burocrazia repubblicana
pomposa e noiosa più della burocrazia officiale. O pura anima di Alberto
Mario, semplice e schietta, e vibrante a ogni afflato di libertà come
un'arpa eolia al passare del vento, sei tu volata al tuo olimpo pagano?
Che gli dèi del gentilesimo ti tuffino nelle acque di Lete, sì che tu
non possa vedere questo manipolo di mosconi che sciamano sul carcame
repubblicano con un ronzìo misto di retorica, di spropositi, di bugie.
Per Alberto Mario fu la repubblica un bel sogno classico e gentile, che
la poesia greca e la sapienza romana e il senso estetico del
Rinascimento gli tingevano d'un ideal colore di porpora e di zaffiro.
Pei mosconi? È argomento di chiacchiere o materia di pompa. Il deputato
Bovio sèguita ad arruffar parole, e predica una sua stramba scienza
democratica che comincia da Giordano Bruno e termina al Campanella,
senza pur toccare Cartesio, senza pur intravedere Spencer; Edoardo
Pantano sèguita a sbrodolar la sua prosa presuntuosa e sciocca, e va
contro i muletti della stampa monarchica a bisdosso d'un asino sciancato
e academico; il deputato Cavallotti, in nome della democrazia, sèguita a
violar le leggi della prosodia e quelle della grammatica, e alla recita
delle sue comedie il pubblico si leva acclamando al suffragio universale
e chiamando al proscenio l'attrice più cara e l'autore, per salutare con
un applauso unico l'istrionismo dell'arte e quello della libertà. Ben
facesti a morire, o Alberto Mario, chè altrimenti ti toccava vedere una
strana gioventù crescente alla grama ombra del tristo alberetto
repubblicano. Non fu Ettore Vollo, uno studente mazziniano, che
furibondo d'esser considerato come un minor colpevole dei fatti di
piazza Sciarra, si fece arrestare quasi a forza; poi, rilasciato in
libertà provvisoria, quando lo richiamarono pe'l processo volle
attraversar piazza Colonna di pieno giorno tra due questurini, e dietro
un fattorino pubblico che gli portava la valigia? Fu proprio lui, e
anche fu lui che durante il processo si dimenò come un sorcio in
trappola per conseguire il martirio d'un mese di carcere! Aimè, i
giudici implacabili non glie lo concessero; e con una sentenza
assolutoria falciarono tutte le erbette ambiziose germinanti nei prati
dell'Arcadia del sacrifizio. Povero Vollo, così giovine e già tanto
cavallottesco!



INDICE


  DEDICA                                              _Pag._    5

  PROLEGOMENI                                           »       9

  I. LE TERRE BARBARICHE. — Per le rovine
  di Ostia e per la patria — La vecchiaia
  di Victor Hugo — Contro il
  romanzo sperimentale — Le novelle
  tedesche                                              »      27

  II. PROSE DI ROMANZI. — Novelle nuove — Le
  fonti popolari del romanzo e Luigi
  Capuana — La novella obbiettiva di
  Giovanni Verga e il dialogo indiretto — Fantasie
  dei critici intorno alla
  _Fantasia_ di Matilde Serao — Gli ultimi
  romanzi italiani — _Colonia felice_ — Storia
  d'un fiore di loto e d'un maestro
  elementare                                            »     103

  III. BELLE MUSE E BRUTTI MUSI. — L'ultima
  barbarie e l'epica carducciana — Contro
  Gabriel D'Annunzio e contro i
  critici verecondi e inverecondi — Melodrammatici
  vecchi e nuovi — Un rimatore
  novissimo                                             »     175

  IV. PALCO SCENICO. — In vituperio dei
  barbagianni — Il capolavoro del teatro
  moderno — I medici del dramma                         »     233

  V. MOLINI A VENTO. — Un giornalista morto — La
  critica dei quadri e delle statue — Il
  marchese Colombi, la marchesa
  Colombi e i poeti contemporanei — Le
  fanfaluche del dottor Verità — Un
  pazzo glorioso — Il giornale dei cretini
  e curiosi                                             »     261

  VI. LA REPUBBLICA LETTERARIA. — Il signor
  Parlagreco e il deputato Cavallotti — La
  genesi della gloria Cavallottèa — L'evoluzione
  drammatica del deputato
  Cavallotti nello spazio e nel
  tempo — Le passeggiate liriche e i
  salti mortali metrici e grammaticali
  del deputato Cavallotti — La critica,
  le prefazioni, le note, la polemica e
  le cartoline postali del deputato Cavallotti —
  Contro la democrazia                                  »     329



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le
grafie alternative (frenesia/frenesìa, Shakespeare/Shakspeare e simili),
correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.





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