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Title: Storia d'Inghilterra, vol 1 Author: Macaulay, Thomas Babington Macaulay, Baron Language: Italian As this book started as an ASCII text book there are no pictures available. *** Start of this LibraryBlog Digital Book "Storia d'Inghilterra, vol 1" *** NOTE DEL TRASCRITTORE: —Corretti gli ovvii errori di stampa e di punteggiatura. —Il testo in grassetto è indicato come =testo grassetto=. —L’opera originale non presenta l’indice; ne è stato prodotto ed inserito uno dal trascrittore. Proprietà letteraria. STORIA D’INGHILTERRA di LORD MACAULAY, =TRADOTTA DA PAOLO EMILIANI–GIUDICI.= SECONDA EDIZIONE, RIVEDUTA DAL TRADUTTORE. VOLUME PRIMO. FIRENZE. FELICE LE MONNIER 1859. La universale accoglienza che è stata fatta in Italia a quest’opera ha mosso il traduttore a ristamparla. Egli ha raffrontata diligentemente la versione col testo, ne ha corretti gli errori corsi nella prima edizione, si è studiato di migliorare lo stile in guisa che fedelmente ritragga il modo di scrivere del grande storico inglese, ed osa sperare che i lettori gli terranno conto di queste nuove cure. Crede superfluo il far notare che i primi due volumi, i quali comprendono la storia del regno di Giacomo II e della grande Rivoluzione che lo precipitò dal trono, si possono considerare come opera che sta da sè. Nondimeno egli attende alacremente a tradurre gli altri volumi, cioè il regno di Guglielmo d’Orange; ed aspettando che in questo frattempo Lord Macaulay mandi alla luce il compimento di questo secondo periodo storico, spera poterlo pubblicare senza alcun indugio. _Aprile_ 1859. INDICE CAPITOLO PRIMO Pag. 11 CAPITOLO SECONDO ” 145 CAPITOLO TERZO ” 259 CAPITOLO QUARTO ” 393 CAPITOLO QUINTO ” 479 AL CAV. SEBASTIANO FENZI. _Intitolandoti questo lavoro onde compiacere all’amicizia che sento schietta ed infinita per te, intendo ad un tempo renderti pubblico testimonio di gratitudine a nome di quanti amano la patria nostra, per il bene che volevi arrecarle allorchè ti nacque, il generoso pensiero d’istituire la_ Rivista Britannica. _Intendevi con quel severo giornale a distogliere le menti de’ giovani dalle frivole e leggiere letture, e richiamarle allo studio della letteratura e delle istituzioni del grandissimo fra i popoli moderni; istituzioni e letteratura che per la lunga dimora in Inghilterra, e la conoscenza dello idioma e de’ costumi, ti sono familiari. Quantunque lo inerte paese nostro non rispondesse ai tuoi desiderii, e la_ Rivista, _dopo un anno di vita, fosse costretta a cessare; a te nondimeno rimarrà sempre l’onore d’aver tentato con sacrificii d’ogni ragione una impresa mirabilmente benefica. Se il mio lavoro, almeno in grazia della inclita fama di Macaulay, avrà sorte meno trista, a me sarà dolce che i lettori sopra la prima pagina del libro trovino impresso il degno tuo nome._ _Firenze, Ottobre_ 1852. PAOLO EMILIANI–GIUDICI. STORIA D’INGHILTERRA. CAPITOLO PRIMO. SOMMARIO. I. Introduzione.—II. La Britannia sotto il dominio dei Romani.—III. Sotto il dominio dei Sassoni.—IV. Effetti della conversione degli Anglo–Sassoni al Cristianesimo.—V. Invasioni danesi.—VI. I Normanni.—VII. Effetti della conquista normanna.—VIII. Effetti della separazione dell’Inghilterra e della Normandia.—IX. Mescolamento delle razze.—X. Conquiste degl’Inglesi sul continente.—XI. Guerre delle Rose.—XII. Estinzione del villanaggio.—XIII. Effetti benefici della religione cattolica romana.—XIV. Ragione per cui l’indole dell’antico governo inglese spesso è descritta erroneamente.—XV. Indole delle monarchie limitate del medio evo.—XVI. Prerogative dei primi monarchi inglesi.—XVII. In che modo le prerogative degli antichi re inglesi venissero infrenate.—XVIII. Perchè tali limiti non fossero sempre rigorosamente osservati.—XIX. La resistenza era un freno ordinario alla tirannide nel medio evo.—XX. Carattere peculiare dell’aristocrazia inglese.—XXI. Il governo dei Tudors.—XXII. Perchè le monarchie limitate del medio evo generalmente si trasmutassero in monarchie assolute.—XXIII. Perchè la sola monarchia inglese non patisse cosiffatto trasmutamento.—XXIV. La Riforma e i suoi effetti.—XXV. Origine della chiesa d’Inghilterra.—XXVI. Suo carattere peculiare.—XXVII. Sua relazione con la Corona.—XXVIII. I Puritani.—XXIX. Loro spirito repubblicano.—XXX. Perchè il Parlamento non facesse una opposizione sistematica al governo della regina Elisabetta.—XXXI. Questione dei monopolii.—XXXII. La Scozia e la Irlanda diventano parli d’uno stesso impero insieme con l’Inghilterra.—XXXIII. La importanza della Inghilterra scema dopo lo avvenimento di Giacomo I al trono.—XXXIV. Dottrina del Diritto Divino.—XXXV. La separazione tra la Chiesa e i Puritani diventa maggiore.—XXXVI. Avvenimento al trono e carattere di Carlo I—XXXVII. Tattica dell’Opposizione nella Camera dei Comuni.—XXXVIII. Petizione dei diritti.—XXXIX. La Petizione dei diritti è violata.—XL. Carattere e disegni di Wentworth.—XLI. Carattere di Laud.—XLII. La Camera Stellata, e l’Alta Commissione—– XLIII. L’imposta per la formazione della flotta.—XLIV. Resistenza alla Liturgia in Iscozia.—XLV. Un Parlamento è convocato e disciolto.—XLVI. Il Lungo Parlamento.—XLVII. Prima manifestazione dei due grandi partiti inglesi.—XLVIII. Ribellione degl’Irlandesi.—XLIX. La Rimostranza.—L. L’Accusa dei Cinque Membri.—LI. Partenza di Carlo da Londra.—– LII. Principio della Guerra Civile.—LIII. Vittorie dei realisti.—LIV. Sorgono gl’indipendenti—LV. Oliviero Cromwell—LVI. L’Ordinanza d’abnegazione.—LVII. Vittoria del Parlamento—LVIII. Dominazione e indole dell’esercito.—LIX. Le insurrezioni contro il Governo militare vengono represse.—– LX. Processo contro il Re.—LXI. Il Re è decapitato.—LXII. La Irlanda e la Scozia vengono soggiogate.—LXIII. Espulsione del Lungo Parlamento—LXIV. Il Protettorato d’Oliviero.—LXV. Gli succede Riccardo.—LXVI. Alla caduta di Riccardo risorge il Lungo Parlamento.—LXVII Monk e lo esercito di Scozia muovono verso l’Inghilterra..—LXVIII. Monk si dichiara per un libero Parlamento.—LXIX. Elezione generale del 1660.—LXX. La Restaurazione. I. Imprendo a scrivere la storia della Inghilterra dal tempo in che Giacomo II ascese al trono fino all’età nostra. Racconterò gli errori che in pochi mesi scrissero dalla casa degli Stuardi gentiluomini e clero ad essa fedeli. Disegnerò il procedimento di quella rivoluzione che poso fine al lungo conflitto tra i nostri sovrani e i loro parlamenti, ed avvincolò insieme i diritti del popolo e quelli della dinastia regnante. Dirò come il nuovo ordinamento venisse nel corso di tanti anni torbidi vittoriosamente difeso contro gl’inimici di dentro e di fuori; come sotto esso l’autorità della legge e la sicurezza delle sostanze si reputassero compatibili con una libertà di discussione e d’azione individuale non mai prima sperimentata; come dal bene augurato congiungimento dell’ordine e della libertà sorgesse una prosperità, di cui gli annali delle cose umane non avevano offerto esempio; come la nostra patria da uno stato d’ignominioso vassallaggio rapidamente s’innalzasse al grado d’impero fra i potentati europei; come crescesse a un tempo in opulenza e gloria militare; come, per virtù d’una saggia e ferma buona fede, a poco a poco si stabilisse un credito pubblico, fecondo di maraviglie tali, che agli uomini di Stato delle età trascorso sarebbero sembrate incredibili; come da un commercio immenso nascesse una potenza marittima, paragonata alla quale ogni altra antica o moderna marittima potenza diventa frivola; come la Scozia, dopo anni molti d’inimicizia, si congiungesse finalmente con l’Inghilterra, non soltanto con vincoli legali, ma co’ legami indissolubili d’interesse e d’affetto; come in America le colonie britanniche rapidamente si facessero più potenti e ricche de’ reami di che Cortes e Pizarro avevano accresciuti i dominii di Carlo V; come in Asia alcuni avventurieri inglesi fondassero un impero non meno splendido e più durevole di quello d’Alessandro. Sarà, nondimeno, mio debito ricordare fedelmente accanto ai trionfi i disastri, e i grandi delitti e le follie nazionali, assai più umilianti di qualsivoglia disastro. Vedremo perfino ciò che reputiamo qual nostro bene precipuo, non essere scevro di male. Vedremo il sistema che assicurò efficacemente le nostre libertà contro le usurpazioni del regio potere, aver fatto nascere una nuova generazione d’abusi, che non incontransi nelle monarchie assolute. Vedremo lo augumento della ricchezza e lo estendersi del commercio—a cagione in parte dello sconsiderato immischiarsi, in parte della sconsiderata negligenza,—avere prodotti, fra immensi beni, parecchi mali, di che le società rozze e povere rimangono libere. Vedremo come, in due dominii dipendenti dalla corona, al torto seguisse la giusta retribuzione; come la imprudenza ed ostinatezza rompessero il vincolo che congiungeva le colonie dell’America Settentrionale alla madre patria; come la Irlanda, oppressa dalla signoria di razza sopra razza e di religione sopra religione, rimanesse veramente membro dell’impero britannico, ma membro putrido e storto in guisa da non aggiungere forza al corpo politico, e da essere perpetuo argomento di rimprovero in bocca di quanti temono o invidiano la grandezza dell’Inghilterra. Nondimeno, se pure io male non mi appongo, lo effetto generale di questa narrazione siffattamente ordinata sarà quello di suscitare la speranza ne’ petti degli amatori della patria, e muovere le anime religiose a rendere grazie alla Provvidenza. Perocchè la storia della patria nostra, negli ultimi cento e sessanta anni, è veramente la storia del fisico, morale ed intellettuale progresso. Coloro che paragonano il tempo in cui è loro toccato di vivere con una età d’oro che esiste solo nelle loro fantasie, parlino pure di degenerazione e decadimento; ma niuno che conosca davvero le faccende de secoli andati sarà inchinevole a guardare con occhio lugubre o scoraggiato il presente. Condurrei molto imperfettamente l’opera che ho impreso a comporre se descrivessi soltanto battaglie ed assedi, innalzamenti e cadute di ministeri, intrighi di palazzo, discussioni di parlamento. Sarà quindi mio studio riferire la storia del popolo, non che quella del governo; indicare il progresso delle arti utili e delle belle; descrivere le sètte religiose, e le vicissitudini delle lettere; ritrarre i costumi delle successive generazioni, e non trasvolare negligentemente neppure sulle mutazioni che sono seguite nelle fogge di vestire, di banchettare, e ne’ pubblici sollazzi. Con animo lieto sosterrò il rimprovero di avere, così facendo, attentato alla dignità della storia, qualora mi riesca di esporre agli occhi degli Inglesi del secolo decimonono una vera pittura della vita de’ loro antichi. Gli eventi che mi propongo di narrare formano un solo atto d’un grande e complicato dramma che risale ad età remote, e che sarebbe imperfettissimamente inteso ove lo intreccio degli atti precedenti rimanesse ignoto. Per la qual cosa aprirò la mia narrazione narrando a brevi tratti la storia della nostra patria da’ suoi antichissimi tempi. Passerò di volo sopra molti secoli, ma mi fermerò alquanto sulle vicissitudini della lotta che l’amministrazione di re Giacomo II condusse ad una crisi decisiva.[1] II. Nessuna cosa nelle primitive condizioni in cui trovatasi la Britannia, indicava la grandezza che essa era destinata a conseguire. Gli abitatori, allorquando furono scoperti dai marinari di Tiro, erano di poco superiori ai naturali delle Isole Sandwich. Vennero soggiogati dalle armi romane, ma riceverono solo una debole tinta delle lettere ed arti romane. Delle provincie occidentali che obbedivano all’autorità dei Cesari, la Britannia fu l’ultima che conquistassero, e la prima che perdessero. Non vi si trovano magnifiche ruine di portici e d’aquedotti romani. Nel novero dei maestri della eloquenza e poesia latina non è un solo che sia britanno d’origine. Non è probabile che agl’isolani fosse mai, generalmente parlando, famigliare la lingua de’ loro signori italiani. Dallo Atlantico fino alle rive del Reno, l’idioma latino predominò per molti secoli. Cacciò via il celtico, non fu cacciato dal germanico, ed oggimai costituisce il fondamento delle favelle francese, spagnuola e portoghese. Nell’isola nostra e’ sembra che il parlare latino non giungesse mai a prevalere sul vecchio gallico, e non tenesse fronte all’anglo–sassone. La scarsa e superficiale civiltà che i Britanni avevano derivata dai loro padroni meridionali, venne spenta dalle calamità del secolo quinto. Nei regni continentali nei quali era partito lo impero romano, i barbari conquistatori impararono molto dalle genti conquistate. Nella Britannia la razza conquistata divenne tanto barbara, quanto erano barbari i conquistatori. III. Tutti i condottieri che fondarono le dinastie teutoniche nelle provincie continentali dello impero romano, come Alarico, Teodorico, Clovi, Alboino, erano zelanti cristiani. I seguaci di Ida e Cerdico, all’invece, trasportarono in Britannia tutte le superstizioni dell’Elba. Mentre i principi germanici che regnavano in Parigi, Toledo, Arli e Ravenna, ascoltavano riverenti le istruzioni dei vescovi, adoravano le reliquie de’ martiri, ed attendevano volentieri alle dispute dei teologi, i signori di Wessex e di Mercia seguitavano a compiere i loro barbarici riti nei tempii di Thor e di Odino. I Regni continentali che erano sorti sopra le ruine dello impero occidentale, tenevano qualche comunicazione con quelle provincie d’oriente, dove l’antica cultura, comecchè venisse lentamente consumandosi per i malefici effetti del mal governo, poteva tuttavia maravigliare ed erudire i barbari; dove la corte tuttavia sfoggiava lo splendore di Diocleziano e di Costantino; dove i pubblici edilizi erano sempre adornati dalle sculture di Policleto e dai dipinti d’Apelle; e dove gl’infaticabili pedanti, comunque scemi di gusto, di sentimento e di spirito, potevano leggere e interpretare i capolavori di Sofocle, di Demostene e di Platone. La Britannia non isperimentava i benefici effetti di siffatta comunicazione. I suoi lidi, alle menti de’ popoli culti che stanziavano lungo il Bosforo, erano obbietti d’un orrore misterioso, nel modo medesimo che agli Jonii de’ tempi omerici lo erano lo stretto di Scilla e la città de’ Lestrigoni cannibali. Era nella isola nostra una provincia, come avevano riferito a Procopio, nella quale il suolo era gremito di serpenti, e l’aria era così pestifera da non potersi respirare senza trovarvi la morte. A questa desolata regione una strana genia di pescatori trasportava a mezza notte dalla terra dei Franchi le ombre dei trapassati. La parola dei morti era distintamente udita dal barcaiuolo; facevano col peso loro affondare i navicelli nelle onde, ma le loro forme rimanevano invisibili ad occhio mortale. Tali erano le maraviglie che un egregio storico, coetaneo di Belisario, di Simplicio e di Triboniano, raccontava con tutta gravità nella opulenta e culta Costantinopoli, intorno al paese dove il fondatore di Costantinopoli aveva assunta la porpora imperiale. Intorno alle altre provincie dello impero occidentale abbiamo una serie continuata di notizie: all’incontro, nella sola Britannia una età favolosa divide pienamente due età di vero. Odoacre e Totila, Eurico e Trasimondo, Clovi, Fredegonda e Brunchilde, sono uomini e donne storiche; ma Engisto ed Orsa, Vortigerno e, Rovena, Arturo e Mordredo, sono personaggi mitici, la esistenza dei quali potrebbe mettersi in dubbio, mentre le gesta loro sono da porsi con quelle di Ercole e di Romolo. IV. Finalmente la tenebra sembra squarciarsi, e il paese che sparisce all’occhio col nome di Britannia, riapparisce con quello d’Inghilterra. La conversione degli Anglo–Sassoni al Cristianesimo fu la prima d’una lunga serie di benefiche rivoluzioni. Egli è vero che la Chiesa era stata profondamente corrotta e dalla superstizione e dalla filosofia, contro le quali essa aveva lungo tempo combattuto, e sopra le quali aveva alla perfine trionfato. Era stata agevole pur troppo ad adottare dottrine derivate dalle antiche scuole, e riti dedotti dagli antichi templi. La politica romana e la ignoranza gotica, la credulità greca e l’ascetismo siriaco, avevano cooperato a depravarla. Nondimeno serbava tanto della sublime teologia e della benefica morale dei suoi primordii, da elevare gl’intelletti e purificare i cuori di molti. Parecchie cose medesimamente, le quali in età più tarda vennero con ragione considerate fra le sue più gravi mende, erano nel secolo settimo, e lungo tempo dopo, annoverate fra i suoi meriti principali. Che l’ordine sacerdotale usurpasse l’ufficio de’ magistrati civili, ai dì nostri, sarebbe un gran male. Ma ciò che in un’epoca di governo bene ordinato è un male, potrebbe in un’epoca di rozzo e pessimo governo essere un bene. È meglio che l’umanità venga governata da leggi savie e bene amministrate, e da una pubblica opinione illuminata, anzi che dalle arti pretesche: ma è meglio che gli uomini vengano governati da arti siffatte, più presto che dalla violenza brutale; da un prelato come Dunstano, anzi che da un guerriero come Penda. Una società immersa nella ignoranza e retta dalla sola forza fisica, ha grande ragione a bene sperare che una classe di uomini che eserciti intellettuale e morale influenza, s’innalzi al governo della cosa pubblica. Non è dubbio che gente siffatta faccia abuso del proprio potere: ma il potere mentale, quando anche se ne abusi, è sempre migliore e più nobile di quello che consiste nella semplice forza corporea. Nelle cronache anglo–sassoni s’incontrano taluni tiranni i quali, come pervenivano a grado altissimo di grandezza, erano lacerati da’ rimorsi, aborrivano dai piaceri e dalle dignità che avevano conseguite col prezzo della colpa, abdicavano le loro corone, e studiavansi di scontare i loro delitti con crude penitenze e continue preghiere. Di tali fatti hanno parlato con amare espressioni di spregio parecchi scrittori, i quali mentre facevano pompa di libero pensare, erano veramente di tanto meschino cervello quanto poteva esserlo un monaco de’ tempi barbari, ed avevano costume di misurare gli universi fatti della storia del mondo con le medesime seste con che giudicavano la società parigina del secolo decimottavo. Nulladimeno, un sistema il quale, comunque sformato dalla superstizione, introdusse un vigoroso freno morale nella società per innanzi governata dalla sola forza de’ muscoli e dalla audacia dell’animo; un sistema il quale insegnava al più potente e feroce signore, ch’egli era, al pari dell’infimo dei suoi sudditi, un ente responsabile; è degno d’essere rammentato con maggiore rispetto dai filosofi e dai filantropi. Le stesse osservazioni calzano allo spregio con che, nel secolo andato, era costume di parlare de’ pellegrinaggi, de’ santuari, delle crociate, e delle istituzioni monastiche del medio evo. In tempi ne’ quali gli uomini quasi mai inducevansi a viaggiare, spinti da una curiosità liberale o dal desio di guadagno, era meglio che il rozzo abitatore del Settentrione visitasse la Italia e l’Oriente come pellegrino, più presto che rimanesse a vegetare negli squallidi tuguri e tra le foreste dove era nato. In tempi ne’ quali la vita e l’onore delle donne giacevano esposti a diuturni pericoli per le sfrenate voglie dei tiranni e de’ loro ladroni, era pur meglio che il ricinto di un un altare ispirasse una irragionevole paura, anzi che non vi fosse asilo nessuno inaccessibile alla crudeltà ed alla licenza. In tempi ne’ quali gli uomini di Stato erano inetti a formare vaste combinazioni politiche, era meglio che le nazioni cristiane sorgessero collegate per correre al riacquisto del Santo Sepolcro, anzi che, una dopo l’altra, fossero soggiogate dalla potenza maomettana. Sia qual si voglia il rimprovero che in una età più tarda venisse scagliato equamente su la indolenza e il lusso degli ordini religiosi, egli era un bene, fuor d’ogni dubbio, che in un tempo d’ignoranza e di ferocia vi fossero chiostri e giardini tranquilli, dove le arti della pace potevano quetamente coltivarsi, dove gli spiriti dolci e contemplativi potevano trovare un asilo, dove un umile fraticello poteva occuparsi a trascrivere la _Eneide_ di Virgilio ed un altro a meditare su le opere d’Aristotele, dove colui che aveva l’anima calda della sacra favilla delle arti poteva miniare un martirologio o scolpire un crocifisso, e dove lo intelletto prono alla filosofia naturale poteva fare esperimenti intorno alle proprietà delle piante e de’ minerali. Se simiglianti luoghi di ritiro non fossero stati sparsi qua e là fra le capanne del misero contadiname e i castelli della feroce aristocrazia, la società europea sarebbe stata composta di bestie da soma e di bestie da preda. La Chiesa è stata assai volte dai teologi paragonata all’arca, della quale si legge nel libro della Genesi; ma giammai tale somiglianza fu così perfetta, come nei tempi tristi nei quali ella sola procedeva fra il buio e le tempeste sopra il diluvio, sotto cui tutte le grandi opere della potenza e sapienza degli antichi giacevano prostrate, e portava seco quel lieve germe dal quale nacque poscia una nuova civiltà e più gloriosa. Perfino la supremazia spirituale che il papa arrogavasi, produsse in quelle età buie più bene che male. Per essa le nazioni dell’Europa Occidentale si congiunsero in una grande repubblica. Ciò che i giuochi olimpici o l’oracolo di Pitia erano stati per tutte le città greche da Trebisonda fino a Marsilia, Roma e il suo vescovo furono per tutti i cristiani di comunione latina, dalla Calabria fino alle Ebridi. Così germogliarono e crebbero i sentimenti di più estesa benevolenza. Genti divise da mari e da monti riconobbero un vincolo fraterno e un codice comune di diritto pubblico. Anche in guerra, la crudeltà del vincitore era non rade volte mitigata dal pensiero che esso e i vinti suoi nemici erano membri d’una sola grande federazione. Gli Anglo–Sassoni finalmente vennero ammessi a questa federazione. Si aperse una comunicazione regolare tra le nostre spiagge e quella parte d’Europa nella quale i vestigi della potenza e civiltà antiche erano tuttavia discernibili. Molti egregi monumenti, che sono stati poscia distrutti o trasfigurati, serbavano ancora la loro primigenia magnificenza; e i viaggiatori, cui Livio e Sallustio riuscivano inintelligibili, potevano acquistare dallo spettacolo degli aquedotti e dai templi romani qualche lieve nozione di storia romana. La cupola d’Agrippa, tuttavia luccicante di bronzo; il mausoleo d’Adriano, non ancora spoglio delle sue statue e colonne; l’anfiteatro di Flavio, non ancora degradato a farne una piazza, raccontavano ai pellegrini della Mercia e del Nortumbria la storia di quella gran gente incivilita, che era scomparsa dalla faccia del mondo. Gl’isolani ritornavano ai propri lidi con riverenza profondamente impressa nelle loro menti mezzo stenebrate, e riferivano agli stupefatti abitatori de’ tuguri di Londra e di York, come presso alla tomba di San Pietro una potente generazione d’uomini, adesso spenta, aveva innalzati tali edifici che avrebbero sfidata la furia del tempo fino al dì dell’estremo giudizio. Il sapere teneva dietro ai passi del Cristianesimo. La poesia e la eloquenza del secolo d’Augusto vennero solertemente studiate nei monasteri anglo–sassoni. I nomi di Beda, di Alcuino e di Giovanni, soprannominato Erigena, diventarono giustamente celebri per tutta l’Europa. Tali erano le condizioni del nostro paese allorquando, nel nono secolo, principiò l’ultima grande calata dei Barbari del Settentrione. V. Pel corso di parecchie generazioni, dalla Danimarca e dalla Scandinavia seguitarono a sbucare innumerevoli pirati, famosi per forza, valore, implacabile ferocia, e odio contro il nome cristiano. Non vi fu paese che al pari dell’Inghilterra patisse le devastazioni di cotesti invasori. Le sue coste giacevano presso ai porti donde essi movevano, nè parte alcuna della nostra isola poteva dirsi così discosta dal mare da potersi tenere immune dalle loro aggressioni. Le medesime atrocità che avevano tenuto dietro alla vittoria dei Sassoni sopra i Celti, toccarono poscia ai Sassoni per le mani dei Danesi. La civiltà, che già principiava a sorgere, non ne sostenne il colpo e giacque di nuovo. Grosse colonie di venturieri, movendo dal Baltico, stabilironsi sopra le nostre spiagge orientali, e a poco a poco procedendo verso Occidente, sostenuti dagli aiuti che loro venivano dal mare, ambirono il dominio di tutto il reame. Il conflitto fra le due fiere razze teutoniche durò per sei generazioni, signoreggiandosi alternativamente. Crudeli carnificine seguite da vendette crudeli, provincie devastate, conventi saccheggiati, città distrutte dalle fondamenta, compongono la più gran parte della storia di quegl’infausti giorni. Alla perfine cessò di erompere dal Settentrione quel perpetuo torrente di predoni, e da quel tempo in poi la scambievole avversione delle razze cominciò a scemare. I mutui connubi divennero frequenti. I Danesi impararono la religione dei Sassoni; e in tal guisa estirpossi una delle cagioni del loro odio mortale. Gl’idiomi danese e sassone, entrambi dialetti d’una lingua più estesa, armonizzarono in uno. Ma la distinzione tra i due popoli non era affatto scomparsa allorchè sopraggiunse un evento, che li prostrò, schiavi e degradati entrambi, ai piedi di un terzo popolo. VI. I Normanni erano a quei tempi la gente più insigne di tutta la Cristianità. Per valore e ferocia si erano resi cospicui fra i predatori che la Scandinavia aveva già mandati a devastare la Europa Occidentale. Le loro navi furono per lunga stagione il terrore di ambi i lidi dello Stretto. Spinsero più volte le armi loro nel cuore dello imperio de’ Carlovingi, e rimasero vittoriosi sotto le mura di Maestricht e di Parigi. In fine, uno dei fiacchi eredi di Carlomagno cesse agli stranieri una fertile provincia, irrigata da un bel fiume e contigua al mare, che era il loro prediletto elemento. In quella provincia fondarono uno Stato potente, il quale a poco per volta venne estendendo la propria influenza sopra i principati vicini di Bretagna e di Maine. Senza deporre l’indomito valore che aveva tenuta in perpetua paura ogni terra dall’Elba fino ai Pirenei, i Normanni rapidamente acquistarono tutto; e, più che tutto, il sapere e la cultura che trovarono nelle contrade dove s’erano stanziati; mentre il loro coraggio tutelava il territorio dalle straniere invasioni. Ordinarono internamente lo Stato in modo affatto ignoto da lungo tempo all’impero franco. Abbracciarono il Cristianesimo, e con esso impararono gran parte di di ciò che il clero poteva insegnare. Smesso lo idioma natio, abbracciarono la favella francese, nella quale predominava lo elemento latino, ed innalzarono speditamente il loro nuovo linguaggio ad una dignità ed importanza che non aveva per lo innanzi posseduto. Lo trovarono in condizione di gergo barbarico, e gli dettero norme fisse scrivendolo, e usandolo nelle leggi, nella poesia e nel romanzo. Deposero la brutale intemperanza, cui tutte le altre razze della gran famiglia germanica erano pur troppo inchinevoli. Il lusso squisito del Normanno offre un mirabile contrasto con la rozza ghiottoneria e ubbriachezza de’ Sassoni e Danesi suoi vicini. Amava di far pompa della propria magnificenza non in vaste provvisioni di cibi e di bevande, ma in grandi e stabili edifici, ricche armature, generosi cavalli, eletti falconi, bene ordinati tornei, banchetti delicati più presto che abbondanti, e vini notevoli meglio per isquisito sapore che per forza inebbriante. Quello spirito cavalleresco che ha esercitata così forte influenza sopra la politica, la morale e i costumi di tutte le nazioni europee, trovavasi grandissimo nei Nobili normanni. Questi nobili facevansi notare per la grazia del loro contegno e del loro conversare; per la destrezza nel condurre i negozi, e per la eloquenza naturale, che con estrema solerzia coltivavano. Uno dei loro storici s’inorgoglisce affermando, i Normanni essere oratori fin dalle fasce. Ma la loro precipua celebrità derivava dalle imprese militari. Ogni paese dall’Oceano Atlantico fino al Mare Morto rendeva testimonio de’ prodigi della disciplina e del valor loro. Un solo cavaliere normanno, capo di una mano di guerrieri, cacciò i Celti dal Connaught. Un altro fondò la monarchia delle Due Sicilie, e vide lo imperatore d’Oriente e quello d’Occidente fuggire allo aspetto dell’armi sue. Un terzo, l’Ulisse della prima crociata, venne innalzato da’ suoi fidi commilitoni alla sovranità d’Antiochia; ed un quarto, quel Tancredi che vive eterno nel grande poema del Tasso, era celebre per tutta la Cristianità come il più strenuo e generoso fra i campioni del Santo Sepolcro. La propinquità di un popolo così notevole cominciò ben per tempo a produrre un effetto sullo spirito pubblico dell’Inghilterra. Innanzi la conquista, i principi inglesi andavano a educarsi in Normandia. Mari e terre inglesi venivano conferite ai signori normanni. L’idioma normanno–francese parlavasi familiarmente nel palazzo di Westminster. La corte di Rouen pareva che fosse verso la corte di Eduardo il Confessore ciò che la corte di Versailles, lunghi anni dopo, era verso la corte di Carlo II. VII. La battaglia di Hastings, e le vicende che ne derivarono, non solo posero un duca di Normandia sul trono inglese, ma sottoposero tutta la popolazione dell’Inghilterra alla tirannide della razza normanna. Rade volte, e perfino in Asia, una nazione soggiogò un’altra nazione tanto pienamente, quanto la normanna fece dell’inglese. I capitani degli invasori divisero la contrada tuttaquanta, e se ne distribuirono le parti; e per mezzo di vigorose istituzioni militari, validamente connesse con la istituzione della proprietà, riuscirono ad opprimere i naturali del paese. Un codice penale crudele e crudelmente eseguito, tutelava i privilegi e perfino i diporti de’ tiranni stranieri. Nonostante, la razza soggiogata, quantunque prostrata e calpesta, mandava fieramente il suo fremito. Parecchi uomini audaci, che poscia divennero eroi delle nostre vecchie ballate, rifugiaronsi fra le selve, ed ivi sfidando leggi di copri–fuoco e di foreste, conducevano una guerra predatoria contro gli oppressori. Gli assassinii erano fatti giornalieri. Molti dei Normanni sparivano improvvisamente senza che ne rimanesse vestigio. Trovavansi numerosi cadaveri aventi segni di morte violenta. Fu bandita la morte per mezzo della tortura contro gli assassini, i quali venivano ansiosamente cercati, ma quasi sempre indarno; perocchè la intera nazione cospirava a nasconderli. Finalmente, reputarono necessario imporre una grave multa sopra ogni centuria di abitanti fra’ quali un individuo d’origine francese fosse trovato ucciso: legge che fu seguita da un’altra, che ordinava ogni individuo ucciso doversi reputare francese, qualvolta non potesse provarsi che fosse sassone. Nel corso de’ centocinquanta anni che seguirono la conquista, a parlare dirittamente, non esiste storia inglese. I re francesi d’Inghilterra veramente inalzaronsi tanto, da diventare la meraviglia e il terrore di tutte le nazioni vicine. Conquistarono la Irlanda: riceverono l’omaggio dalla Scozia. Per mezzo del valore, della politica, de’ prosperi e splendidi connubi loro, diventarono più potenti sul continente, di quello che fossero i re di Francia, loro sovrani feudali. L’Asia al pari dell’Europa era abbarbagliata dallo splendore della potenza e gloria loro. I cronisti arabi prendevano ricordo con forzata ammirazione della caduta di Acri, della difesa di Joppe, e della vittoriosa marcia d’Ascalone; e le madri arabe per imporre silenzio ai loro figliuoli, rammentavano loro il nome del Plantageneto dal cuore di leone. Vi fu un tempo che la discendenza di Ugo Capeto parve presso ad estinguersi, nel modo stesso con che eransi estinte le dinastie de’ Merovingi e de’ Carlovingi; e che una sola grande monarchia dovesse estendersi dalle Orcadi fino a’ Pirenei. È così forte il nesso che le menti stabiliscono tra la grandezza d’un sovrano e la grandezza della nazione da lui governata, che quasi tutti gli storici dell’Inghilterra hanno descritto con un sentimento di esultanza il potere e lo splendore de’ suoi padroni stranieri, ed hanno compianta la decadenza di quello splendore e potere come una calamità della patria nostra. La quale cosa, a dir vero, è così assurda, come lo sarebbe se un negro d’Haiti dei nostri tempi considerasse con orgoglio nazionale la grandezza di Luigi XIV, e parlasse di Blenheim e Ramilies con patrio dolore e vergogna. Il conquistatore e i suoi discendenti fino alla quarta generazione non erano uomini inglesi: quasi tutti erano nati in Francia; passavano la maggior parte della vita in Francia; la loro favella era francese; pressochè tutti gli alti uffici da loro dipendenti erano affidati ad individui francesi; ogni acquisto che facevano sul continente li rendeva ognora più stranieri alla popolazione dell’isola nostra. Uno de’ più egregi fra loro, a vero dire, tentò di procacciarsi lo affetto de’ suoi sudditi inglesi, sposando una principessa inglese. Ma molti de’ suoi baroni consideravano quel matrimonio come i cittadini della Virginia considererebbero un matrimonio tra un padrone e una fanciulla schiava. Nella storia quel principe è conosciuto sotto l’onorevole soprannome di Beauclerc; ma nei suoi tempi, i suoi concittadini gli avevano apposto un soprannome sassone a dileggio del suo sposalizio con una donna sassone. Se ai Plantageneti fosse venuto fatto, siccome una volta parve verosimile, di porre tutta la Francia sotto il loro dominio, egli è probabile che la Inghilterra non avrebbe avuta mai una esistenza indipendente. I suoi principi, i signori, i prelati, sarebbero stati uomini diversi di sangue e di lingua dagli artigiani e dagli agricoltori. Le entrate de’ suoi grandi possidenti sarebbero state spese in feste e diporti su le rive della Senna. La nobile favella di Milton e di Burke sarebbe rimasta nella condizione di rustico dialetto, priva di letteratura, di grammatica, d’ortografia fissa, abbandonata all’uso della plebaglia. Nessuno uomo di discendenza inglese si sarebbe innalzato a grado eminente, ove non fosse diventato francese per lingua e costumi. VIII. La Inghilterra va debitrice di avere scansate coteste calamità ad uno avvenimento che gli storici hanno generalmente rappresentato come un disastro. I suoi interessi erano così direttamente opposti agli interessi de’ suoi principi, che erasi ridotta a sperare soltanto negli errori e nelle traversie loro. Lo ingegno e perfino le virtù de’ sei primi re francesi che la signoreggiarono, furono per lei una sciagura. La demenza e i vizi del settimo le furono di salvezza. Se Giovanni avesse ereditato gl’incliti pregi del padre suo, d’Enrico Beauclerc, o del Conquistatore; anzi se avesse egli posseduto il coraggio marziale di Stefano o di Riccardo, e se il re di Francia a quel tempo stesso fosse stato inetto al pari di tutti i successori di Ugo Capeto; la casa de’ Plantageneti avrebbe acquistata in tutta l’Europa una supremazia senza rivali. Se non che, appunto in quell’età, la Francia per la prima volta dopo la morte di Carlomagno era governata da un principe d’animo destro e vigoroso. Dall’altro canto la Inghilterra, la quale, dalla battaglia di Hastings in poi, era stata, generalmente parlando, retta da savi uomini di Stato, e sempre da strenui guerrieri, cadde sotto la dominazione d’un principe frivolo e codardo. Fino da quello istante le sue sorti cominciarono a splendere. Giovanni fu cacciato di Normandia. I nobili normanni si videro astretti ad eleggere fra l’isola e il continente. Chiusi dal mare fra un popolo che avevano fino allora oppresso e spregiato, si vennero inducendo a considerare l’Inghilterra come patria, e gli Inglesi come concittadini. Le due razze, così lungo tempo ostili, si accorsero tosto di aver comuni gl’interessi, comuni i nemici. Entrambe giacevano oppresse sotto la tirannia di un re malvagio. Entrambe ardevano di sdegno vedendo la corte prodigare i suoi favori sopra genti nate nel Poitou o nell’Aquitania. I pronipoti di coloro che avevano pugnato sotto Guglielmo, e i pronipoti di coloro che avevano pugnato sotto Aroldo, cominciarono ad appropinquarsi con vicendevole amistanza; e il primo pegno della loro riconciliazione fu la Grande Carta, che essi guadagnarono coi loro sforzi comuni, e formarono a comune benefizio. IX. Qui principia la storia della nazione inglese. La storia delle vicissitudini precedenti è il racconto de’ torti inflitti e sostenuti dalle varie tribù, le quali, comecchè abitassero sopra il suolo inglese, trattavansi con tale avversione, che non è forse mai esistita fra popoli divisi da fisici confini. Imperciocchè, perfino la scambievole animosità de’ paesi in guerra fra loro, è lieve al paragone dell’animosità delle nazioni le quali, moralmente separate, stanziano commiste in un medesimo luogo. Non è paese in cui l’odio di razza trascorresse tanto oltre quanto in Inghilterra. Non è paese in cui quell’odio si fosse tanto onninamente spento. Non conosciamo con precisione gli stadi diversi del processo con che gli elementi ostili si fusero in una massa omogenea. Ma egli è certo che allorquando Giovanni ascese al trono, la distinzione tra Sassoni e Normanni esisteva evidentissima, e che avanti la fine del regno del suo nipote era quasi scomparsa. Nel tempo di Riccardo I, l’ordinaria imprecazione d’un gentiluomo normanno era: «Ch’io possa diventare un inglese!» e volendo sdegnosamente negare, diceva: «Che mi prendete voi per un inglese?» Cento anni dopo, il discendente di quel gentiluomo andava orgoglioso del nome d’inglese. Le scaturigini de’ più bei fiumi che spargono la fertilità sopra la terra, e portano i navigli gravi di ricchezze al mare, sono da cercarsi fra mezzo alle aride e selvagge montagne inesattamente segnate nelle carte geografiche, e bene di rado esplorate dai viaggiatori. Questa immagine può rendere una idea della storia del nostro paese nel secolo decimoterzo. Per quanto sterile e buio sia quel periodo dei nostri annali, è mestieri cercare in esso l’origine della libertà, prosperità e glorie nostre. E’ fu allora che il gran popolo inglese formossi; che l’indole nazionale principiò a mostrarsi con quelle peculiarità che ha poi sempre serbate; e che i nostri antichi divennero enfaticamente isolani, e isolani non solo per geografica postura, ma per politica, sentimenti e costumi. Allora comparve per la prima volta distintamente quella Costituzione, che ha poi sempre, traverso a tante modificazioni, serbata la sua identità; quella Costituzione, della quale tutti i liberi statuti degli altri popoli altro non sono che copie; e la quale, malgrado talune mende, è degna di essere considerata come la migliore sotto cui una grande società sia mai esistita pel corso di molti secoli. E’ fu allora che la Camera dei Comuni, archetipo di tutte le assemblee rappresentative che oggidì si ragunano nel vecchio mondo e nel nuovo, tenne le sue prime sessioni. E’ fu allora che il diritto comune inalzossi alla dignità di scienza, e rapidamente divenne rivale non indegno della giurisprudenza imperiale. E’ fu allora che il coraggio di quei marinari i quali conducevano le rozze barche dei Cinque Porti, rese primamente la bandiera inglese formidabile su per i mari. E’ fu allora che i più antichi collegi che vivono tuttavia nelle due grandi sedi nazionali del sapere, formaronsi. Formossi allora parimente quella lingua, la quale, benchè meno armoniosa, a dir vero, degli idiomi meridionali, nondimeno, e per vigoria e per ricchezza e per essere atta a significare tutti gli alti concetti del poeta, del filosofo e dell’oratore, cede soltanto alla greca. Allora medesimamente mostrossi la prima alba di quella inclita letteratura, che costituisce la più splendida e durevole delle molte glorie di cui mena vanto l’Inghilterra. Coll’iniziarsi del secolo decimoquarto, la perfetta congiunzione delle razze era pressochè compita; e si rese subito manifesto, a segni non dubbi, che un popolo non inferiore ad alcun altro popolo del mondo erasi formato dalla mistura delle tre razze e della grande famiglia teutonica, fra loro e cogli aborigeni bretoni. Vero è che non vi era quasi nulla di comune tra la Inghilterra alla quale re Giovanni era stato cacciato da Filippo Augusto, e la Inghilterra dalla quale le armi di Eduardo III mossero a conquistare la Francia. X. Seguì un periodo di cento e più anni, nel quale lo scopo precipuo degl’Inglesi fu quello di stabilire con la forza delle armi un grande impero sul continente. Il diritto di Eduardo al retaggio occupato dalla Casa di Valois era tale, da sembrare che dovesse poco muovere gl’interessi de’ suoi sudditi. Ma lo amore delle conquiste di subito scese dal principe al popolo. Cotesta guerra differiva grandemente dalle guerre che i Plantageneti del secolo duodecimo avevano condotte contro i discendenti di Ugo Capeto: poichè la fortuna delle armi di Enrico II e di Riccardo I avrebbe resa la Inghilterra provincia della Francia; mentre lo effetto de’ prosperi successi di Eduardo III e di Enrico V era quello di far della Francia, per alcun tempo, una provincia dell’Inghilterra. Lo spregio con che, nel secolo duodecimo, i conquistatori del continente avevano guardato gl’isolani, era adesso gettato dagli isolani su’ popoli del continente. Ogni popolano, da Kent fino a Northumberland, reputavasi come individuo d’una razza nata alla vittoria e all’impero, e volgeva uno sguardo di scherno alla nazione innanzi alla quale i suoi antenati avevano tremato. Anche que’ cavalieri di Guascogna e Guienna, i quali avevano valorosamente combattuto sotto il Principe Nero, venivano considerati dagl’Inglesi come uomini di classe inferiore, e quindi erano sprezzevolmente esclusi dai comandi lucrosi. Fra tempo non molto i nostri progenitori persero d’occhio il motivo principale della lotta. Principiarono a considerare la corona di Francia come un semplice appannaggio della corona d’Inghilterra; e allorchè, violando la legge ordinaria di successione, concessero lo scettro del reame inglese alla casa di Lancaster, e’ pare che pensassero il diritto di Riccardo II alla corona di Francia essere naturalmente passato a quella casa. Lo zelo e vigore ch’essi mostrarono offre un notevole contrasto col torpore dei Francesi, ai quali l’esito di quella lotta era di assai più grave momento. Le armi inglesi a quei tempi riportarono le più grandi vittorie di cui si faccia ricordo negli annali del medio evo, contro nemici grandemente disuguali. Di certo erano vittorie di cui può con ragione gloriarsi un popolo; perocchè esse debbono ascriversi alla superiorità morale de’ vincitori: superiorità che si mostrò assai più mirabile negl’infimi gradi delle milizie. I cavalieri d’Inghilterra trovarono degni rivali nei cavalieri di Francia. Chandos ebbe un nemico degno di sè nella persona di Du Guesclin. Ma la Francia non aveva fanti che osassero stare a petto degli arcieri ed alabardieri inglesi. Un re francese venne condotto prigioniero in Londra. Un re inglese fu incoronato in Parigi. Il vessillo di San Giorgio sventolò di là da’ Pirenei e dalle Alpi. Sulle sponde meridionali dell’Ebro gl’Inglesi riportarono una grande vittoria, che per un tempo decise delle sorti di Leon e di Castiglia; e le compagnie Inglesi ottennero una formidabile preeminenza fra le bande de’ guerrieri i quali ponevano le loro armi agli stipendi dei principi e delle repubbliche d’Italia. Nè le arti della pace furono neglette da’ nostri padri in quei torbidi tempi. Mentre la Francia pativa le devastazioni della guerra, fino a che trovò nella sua stessa desolazione una miserabile difesa contro gl’invasori, gl’Inglesi coltivavano i loro campi, ornavano le loro città, trafficavano e studiavano tranquilli e senza disturbi. Molti de’ nostri monumenti architettonici appartengono a quell’epoca. Allora sorsero le splendide cappelle di New–College e di San Giorgio, la navata di Winchester e il coro di York, l’aguglia di Salisbury e le torri maestose di Lincoln. Una lingua abbondante e vigorosa, formata dalla mistura dell’idioma normanno–francese col germanico, era parlata egualmente dalla aristocrazia e dal popolo. Nè passò molto tempo che il genio cominciò a servirsene per la manifestazione delle sue stupende creazioni. Mentre le milizie inglesi, lasciandosi addietro le devastate provincie della Francia, entravano trionfanti in Valladolid e spargevano il terrore fino alle porte di Firenze, i poeti inglesi dipingevano con vivi colori tutta la vasta varietà delle costumanze e delle fortune umane; e i pensatori inglesi aspiravano a indagare o ardivano dubitare, là dove i bacchettoni erano stati satisfatti ad ammirare o a credere. L’età stessa che produsse il Principe Nero e Derby, Chandos e Hawkwood, generò parimente Goffredo Chaucer e Giovanni Vicleffo. Con modo sì splendido e imperatorio, il popolo inglese, propriamente detto, prese posto fra le nazioni del mondo. Nondimeno, mentre con diletto contempliamo gl’incliti pregi che adornavano i nostri antichi, non possiamo negare che il fine cui aspiravano era dannato e dalla onestà e dalla saggia politica, e che la sinistra fortuna che li costrinse, dopo una lunga e sanguinosa lotta, a deporre la speranza di stabilire un grande impero continentale, fu un vero bene sotto le sembianze di un disastro. Finalmente i Francesi si rifecero d’animo e di senno; e cominciarono ad opporre una vigorosa resistenza nazionale a’ conquistatori stranieri. E da quel tempo, la destrezza dei capitani inglesi e il coraggio dei soldati loro, fortunatamente per l’umanità, tornarono vani. Dopo molti sforzi disperati, col cordoglio nell’animo, i nostri antenati rinunziarono alla conquista. Da quell’epoca in poi, nessun Governo inglese ha seriamente e fermamente fatto disegno di grandi conquiste sul Continente. Il popolo, egli è vero, seguitò a carezzare con orgoglio la rimembranza di Cressy, di Poitiers e d’Agincourt. Anche molti anni appresso tornava agevole accendergli il sangue ed ottenerne sussidii con la sola promessa di riprendere la impresa di Francia. Ma, avventuratamente, le forze del nostro paese sono state dirette a fini più degni; ed ormai nella storia del genere umano occupa un posto assai più glorioso di quello che terrebbe qualora avesse acquistato, siccome un tempo era parso probabile, per mezzo della spada una supremazia simile a quella che in antico conseguì la repubblica romana. XI. Rinchiuso di nuovo dentro i confini dell’isola, il bellicoso popolo adoperò ne’ civili conflitti le armi che erano già state il terrore dell’Europa. I Baroni avevano per lungo tempo derivati dalle oppresse provincie francesi i mezzi di satisfare al loro prodigo spendere. Quelle sorgenti di pecunia poi disseccaronsi; e rimanendo tuttavia le abitudini d’ostentazione e di lusso generate dalla prosperità, i grandi signori, impotenti ad appagare i loro appetiti depredando i Francesi, si misero a depredarsi vicendevolmente. Il reame, dentro il quale erano rinchiusi, secondo che afferma Comino, che è il più giudizioso osservatore di que’ tempi, non era bastevole a tutti. Due fazioni aristocratiche, capitanate da due rami della famiglia reale, accesero una feroce e lunga lotta per recarsi in mano il governo dello Stato. E poichè l’astio di tali fazioni non nasceva veramente da contesa intorno alla successione, durò lungo tempo dopo che ogni pretesto intorno alla successione era svanito. La parte della Rosa Rossa sopravvisse all’ultimo de’ principi che volevano il trono per diritto di Enrico IV. La parte della Rosa Bianca sopravvisse al matrimonio di Richmond e di Elisabetta. Lasciati senza capo che avesse alcuna onesta apparenza di diritto, i partigiani di Lancaster si collegarono intorno a un ramo di bastardi, e i partigiani di York misero su una successione d’impostori. Caduti sul campo di battaglia o sotto la scure del carnefice molti nobili aspiranti, scomparse per sempre dalla storia molte famiglie illustri, dome dalle sciagure le grandi casate che rimanevano, universalmente convennero a riconoscere ricongiunti nella casa de’ Tudors i diritti di tutti i contendenti Plantageneti. XII. Intanto maturavasi un avvenimento di assai maggiore importanza che non era l’acquisto o la perdita d’una provincia, lo innalzamento o la caduta d’una dinastia. La schiavitù, e i mali che l’accompagnano, andavano speditamente estinguendosi. È cosa degna di nota, come le due più grandi e benefiche rivoluzioni sociali che seguissero in Inghilterra; la rivoluzione, cioè, che nel secolo decimoterzo pose fine alla tirannia di nazione sopra nazione; e quella che, poche generazioni dopo, rapì di mano all’uomo il diritto di possedere l’uomo; chetamente e impercettibilmente si effettuassero. Non destando maraviglia nelle menti degli osservatori contemporanei, esse sono state pochissimo avvertite dagli storici. Non vennero eseguite nè da atti legislativi nè dalla forza fisica. Cagioni puramente morali fecero senza rumore svanire ogni distinzione, dapprima tra Normanni e Sassoni, poscia tra schiavi e padroni. Nessuno potrebbe presumere di determinare il tempo preciso in cui siffatta distinzione cessava. Qualche debole vestigio del vecchio spirito normanno si potrebbe forse ravvisare nel secolo decimoquarto; qualche lieve vestigio dell’istituzione del villanaggio hanno scoperto gli eruditi nell’epoca degli Stuardi: che anzi, tale istituzione fino ai di nostri non è stata abolita con legge particolare. XIII. Sarebbe ingiusto non riconoscere che lo agente precipuo di queste due grandi emancipazioni fosse la religione; e potrebbe forse dubitarsi che una religione più pura sarebbe stata una causa meno efficiente. Lo spirito benevolo della morale cristiana repugna, fuori d’ogni dubbio, alle distinzioni di casta; ma siffatte distinzioni sono segnatamente odiose alla Chiesa di Roma, come quelle che sono incompatibili con altre distinzioni essenziali al suo sistema. Ella veste i suoi sacerdoti d’una dignità misteriosa che li fa reverendi ad ogni laico; e non considera qualsiasi uomo inetto al sacerdozio per ragioni di nazione o di famiglia. Le sue dottrine concernenti il carattere sacerdotale, per quanto si vogliano reputare fallaci, hanno più volte mitigati non pochi dei mali che affliggono la società. Non può riguardarsi come assolutamente nociva quella superstizione, la quale in paesi afflitti dalla tirannia di razza sopra razza crea una aristocrazia affatto indipendente da ogni razza, inverte le relazioni fra l’oppressore e l’oppresso, e costringe il signore ereditario a prostrarsi innanzi al tribunale spirituale dello schiavo ereditario. Ai dì nostri, in alcuni paesi dove esiste la schiavitù de’ negri, il papismo contrasta vantaggiosamente con le altre forme del Cristianesimo. È noto come la repugnanza tra le razze europee e le affricane non è tanto forte a Rio Janeiro, quanto a Washington. Nella nostra patria, questa peculiarità del sistema cattolico–romano produsse nel medio evo molti benefici effetti. Vero è che, poco dopo la battaglia di Hastings, i prelati e gli abati sassoni vennero violentemente deposti, e che avventurieri ecclesiastici venuti dal Continente furono intrusi a centinaia nei più pingui beneficii. Nonostante, anche allora pii teologi di sangue normanno alzavano la voce contro siffatta violazione degli statuti della Chiesa, ricusavano d’accettare le mitre dalle mani del Conquistatore, e gli ripetevano, minacciandogli la dannazione dell’anima, di non dimenticare che i vinti isolani erano suoi fratelli in Cristo. Il primo protettore che gl’Inglesi trovassero fra la casta dominante, fu lo arcivescovo Anselmo. In un tempo in cui il nome inglese era un rimprovero, e tutti i dignitari civili e militari del regno erano esclusivamente concittadini del Conquistatore, il popolo oppresso ricevè con ineffabile diletto la nuova che Niccola Breakspear, uomo della loro nazione, era stato innalzato al trono papale, dall’alto del quale aveva steso il suo piede al bacio degli ambasciatori uscenti dalle più nobili famiglie normanne. Egli era un sentimento nazionale, non che religioso, quello che conduceva le moltitudini all’altare di Becket, il primo inglese che, dopo la Conquista, fosse formidabile ai tiranni stranieri. Un successore di Becket era principale fra coloro che ottennero quella Carta, la quale assicurò a un tempo i privilegi de’ baroni normanni e quelli della borghesia sassone. Quanto grande fosse l’opera con che gli ecclesiastici cattolici poscia parteciparono alla abolizione del villanaggio, lo raccogliamo dalla veneranda testimonianza di sir Tommaso Smith, uno de’ più savi consiglieri protestanti di Elisabetta. Allorquando il possessore di schiavi dal suo letto di morte chiedeva il conforto de’ sacramenti, il sacerdote esortavalo per la salute dell’anima ad emancipare i suoi fratelli redenti dalla morte di Cristo. La Chiesa aveva con tanto buon esito adoperata una macchina sì formidabile, che, innanzi lo scoppio della Riforma, aveva francati quasi tutti gli schiavi del regno, tranne i i suoi propri, i quali, a sua giusta lode, sembra che venissero benevolmente governati. Non vi può esser dubbio che allorquando le due predette grandi rivoluzioni seguirono, i nostri antenati erano di gran lunga il popolo meglio governato in Europa. Per trecento anni il sistema sociale è sempre stato in continua via di progresso. Sotto i primi Plantageneti vi furono padroni così potenti da sfidare l’autorità del sovrano, e contadini degradati fino alla condizione degli armenti, di cui erano guardiani. La condizione del contadino si è venuta a poco a poco elevando; fra l’aristocrazia e il popolo degli operai è sorta una classe media, agricola e commerciale. È probabile che tuttavia vi fosse più ineguaglianza di quella che sia necessaria a promuovere la felicità e la virtù della specie umana; ma nessun uomo era affatto al di sopra della legge, nessun uomo reputavasi onninamente al di sotto della protezione di quella. Che le istituzioni politiche dell’Inghilterra fossero fino da quell’epoca riguardate dagl’Inglesi con orgoglio ed affetto, e dagli uomini più culti delle vicine nazioni con ammirazione ed invidia, è cosa evidentissimamente provata. Ma nel giudicare l’indole di cosiffatte istituzioni, le numerose controversie sono state rapide e disoneste. XIV. La letteratura storica d’Inghilterra, a dir vero, patì gli effetti di una circostanza, la quale ha contribuito non poco alla sua prosperità. Il grande mutamento che nella sua politica si è venuto operando negli ultimi sei secoli, è stato la conseguenza d’uno sviluppo progressivo; non mai del distruggere e del riedificare. La Costituzione presente del nostro paese è verso la Costituzione con la quale reggevasi cinquecento anni fa, ciò che l’albero è verso l’arbusto, ciò che l’uomo è verso il fanciullo. Le sue variazioni sono state grandi; nondimeno, non vi fu mai un momento in cui la parte principale di ciò che esisteva non fosse antica. Una politica formatasi in tal modo è forza che abbondi di anomalie. Ma per i danni che sorgono dalle semplici anomalie, abbiamo ampie compensazioni. Altri Stati possiedono Costituzioni scritte, belle di maggior simmetria; ma a nessuna altra società è finora venuto fatto di armonizzare la rivoluzione con la prescrizione, il progresso con la stabilità, l’energia della giovinezza con la maestà d’un’antichità immemorabile. Non per tanto, cotesto gran bene ha seco parecchi inconvenienti; uno de’ quali sta in questo, che le fonti delle nostre nozioni, in quanto alla nostra antica storia, sono state avvelenate dallo spirito di parte. Non essendovi paese in cui, come in Inghilterra, gli uomini di Stato si siano lasciati tanto trascinare dalla influenza del passato, così non vi è paese in cui gli storici si siano lasciati, come i nostri, condurre dall’influenza del presente. A vero dire, fra queste due cose è naturale connessione. Dove la storia viene considerata semplicemente come una pittura della vita e de’ costumi, come una raccolta di esperimenti da cui si possano trarre massime generali di sapienza civile, lo scrittore non è grandemente soggetto alla tentazione di rappresentare sfigurati i fatti seguiti in un’epoca che non è la sua: ma dove la storia viene considerata come un santuario in cui si custodiscono i titoli dai quali pendono i diritti de’ governi e delle nazioni, gl’incentivi a falsificare i fatti diventano pressochè irresistibili. Uno scrittore francese oggimai non è mosso da nessun potente interesse ad esagerare o a spregiare la potenza de’ re della casa di Valois. I privilegii degli Stati Generali, degli Stati della Bretagna, degli Stati della Borgogna, sono oramai cose di piccola importanza pratica, come lo sarebbe la Costituzione del Sinedrio Giudaico o del Consiglio degli Anfizioni. L’abisso d’una grande rivoluzione divide compiutamente il nuovo dal vecchio sistema. Nessuno abisso simigliante divide in due parti distinte la esistenza della nazione inglese. Le leggi e le consuetudini nostre non sono state mai trascinate dall’impeto d’una generale e irreparabile rovina. Presso noi l’autorità del medio evo è tuttavia autorità valida, e viene tuttavia citata, nelle più gravi occasioni, da’ più eminenti uomini di Stato. Diffatti, allorchè il re Giorgio III cadde in quella infermità che lo rese incapace di esercitare le regie funzioni, e i più insigni giureconsulti ed uomini politici opinavano diversamente intorno al partito da prendersi in cosiffatte circostanze, il Parlamento non volle procedere alla discussione di nessun progetto di reggenza, finchè non fossero stati raccolti e posti in ordine tutti gli esempi reperibili nei nostri annali fino dai primissimi tempi della monarchia. Si elessero Commissioni per frugare negli antichi ricordi del regno. Il primo esempio trovato fu quello del 1217; furono considerati come importantissimi gli esempi del 1326, del 1377 e del 1422; ma il caso che venne giudicato come argomento atto a sciogliere la questione fu quello del 1455. In tal guisa, nella patria nostra, i più solenni interessi de’ partiti si sono appoggiati su’ resultamenti delle investigazioni degli antiquari; e fu conseguenza inevitabile che i nostri antiquari eseguissero le investigazioni loro mossi dallo spirito di parte. E però non è maraviglia che coloro i quali hanno scritto intorno a’ limiti della prerogativa e alla libertà della vecchia politica d’Inghilterra, si siano generalmente mostrati non giudici, ma rabbiosi e poco sinceri avvocati, come quelli che discutevano non di cose speculative, ma di cose che avevano relazione diretta e pratica con le più gravi e calde dispute de’ tempi loro. Dal cominciare della lunga lotta fra il Parlamento e gli Stuardi, fino al tempo in cui le pretese degli Stuardi più non furono formidabili, poche questioni erano più praticamente importanti di quella nella quale trattavasi di stabilire se il governo, così come era stato da quelli amministrato, fosse o no conforme all’antica Costituzione del reame. La questione non potevasi sciogliere soltanto giusta gli esempi tratti da ricordi de’ regni precedenti. Bracton e Fleta, lo Specchietto di giustizia, gli atti del Parlamento, vennero studiosamente frugati, onde trovare pretesti ad attenuare gli eccessi della Camera Stellata da un canto, e dell’Alta Corte di giustizia dall’altro. Per lungo ordine d’anni, ogni storico Whig affaccendossi a provare che l’antico governo inglese era poco meno che repubblicano, ed ogni storico Tory voleva stabilire che esso era poco meno che dispotico. Animati da tali sentimenti, entrambi frugavano dentro i cronisti del medio evo; entrambi trovavano agevolmente ciò che andavano cercando; e tutti ostinavansi a non vedervi altro che le cose di cui correvano in traccia. I difensori degli Stuardi potevano di leggieri addurre esempi di re che avevano oppressi i sudditi; i difensori delle Teste–Rotonde potevano con uguale agevolezza produrre esempi di resistenza, opposta con buon esito, alla corona. I Tories citavano da antiche scritture espressioni servili tanto, quanto quelle che si udivano pronunziare dal pulpito di Mainwaring. I Whigs scoprivano espressioni audaci e severe come quelle che Bradshaw faceva risuonare dal banco de’ giudici. Gli uni adducevano numerosi esempi in cui i re avevano estorti danari da’ popoli senza l’autorità del Parlamento; gli altri citavano casi ne’ quali il Parlamento aveva assunto il potere di punire i re. Coloro che vedevano mezza la verità della questione, avrebbero voluto concludere che i Plantageneti erano stati assoluti come i sultani di Turchia; coloro che ne vedevano l’altra metà, avrebbero voluto concludere che i Plantageneti avevano avuto tanto poco potere, quanto ne avevano i dogi di Venezia: ed ambedue coteste conclusioni aberravano egualmente discoste dal vero. XV. Il vecchio governo inglese apparteneva alla classe delle monarchie limitate, che nel medio evo sorsero nell’Europa Occidentale; e non ostante che l’una dall’altra differissero non poco, avevano tutte una forte somiglianza di famiglia. Che vi sia stata cotal somiglianza, non è cosa strana; perocchè i paesi in cui sorsero quelle monarchie erano già provincia del medesimo impero grande e incivilito, ed erano stati invasi e conquistati da’ medesimi popoli rozzi ed agguerriti. Erano vincolati dalla stessa credenza religiosa, e congiunti in una medesima grande coalizione contro l’Islamismo. Il loro ordinamento politico quindi prese naturalmente la medesima forma, dacchè le loro istituzioni in parte erano derivate da Roma imperiale, in parte da Roma papale, in parte dalla antica Germania. Tutti avevano re, e presso tutti la dignità regia divenne a poco a poco strettamente ereditaria. Tutti avevano nobili, decorati di titoli che in origine indicavano il grado militare. La dignità della cavalleria e le regole del blasone erano comuni a tutti. Tutti avevano stabilimenti ecclesiastici riccamente dotati, corporazioni municipali godenti larghe franchigie, e senati il cui consenso era necessario alla validità di certi atti pubblici. XVI. Di tutte coteste Costituzioni affini, la inglese venne fin d’allora giudicata la migliore. Non è dubbio che le prerogative del sovrano fossero estese. Lo spirito religioso e il cavalleresco concorrevano ad esaltarne la dignità. L’olio sacro era stato sparso sul suo capo; e i cavalieri più nobili e più valorosi non si reputavano degradati inginocchiandoglisi dinanzi. La sua persona era inviolabile; egli solo aveva diritto di convocare gli Stati del Regno e di disciorli; e il suo assenso era indispensabile a tutti i loro atti legislativi. Egli era il capo del potere esecutivo, il solo organo di comunicazione co’ potentati stranieri, il comandante delle milizie di terra e di mare, la sorgente d’onde emanavano la giustizia, la grazia e l’onorificenza. Aveva estesi poteri per regolare il commercio: coniava la moneta, determinava i pesi e le misure, stabiliva i porti e i mercati. Il suo patronato ecclesiastico era immenso; le sue rendite ereditarie, amministrate economicamente, bastavano a sostenere le spese ordinarie del governo. Vastissimi erano i suoi propri possedimenti: egli era anzi signore feudale di tutto il suolo del suo regno, e come tale possedeva numerosi diritti lucrativi e formidabili, per mezzo de’ quali egli poteva domare coloro che gli erano avversi, arricchire e far grandi, senza suo detrimento, coloro che gli erano bene affetti. XVII. Ma il suo potere, quantunque ingente, era limitato da tre grandi principii costituzionali; cotanto antichi, che nessuno poteva indicare il tempo in cui cominciarono ad esistere; e talmente potenti, che il loro naturale sviluppo, continuato per lungo ordine d’anni, ha prodotto le condizioni politiche nelle quali oggimai l’Inghilterra si trova. Primamente, il re non poteva fare legge alcuna senza il consenso del Parlamento. In secondo luogo, non poteva imporre tasse senza il consenso del Parlamento. Da ultimo, egli era tenuto a condurre l’amministrazione esecutiva secondo le leggi del paese, della violazione delle quali dovevano rispondere al popolo i consiglieri e gli agenti del principe. Nessun Tory, purchè fosse sincero, potrebbe negare che cotesti principii avevano, cinquecento anni fa, acquistato autorità di regole fondamentali. Dall’altro canto, nessun Whig, egualmente schietto, potrebbe affermare che essi fossero, fino ad una epoca più tarda, purificati d’ogni ambiguità, o spinti fino a tutte le loro naturali conseguenze. Una Costituzione nata nel medio evo non era, come una Costituzione del decimottavo o decimonono secolo, creata intieramente in un solo atto, e rinchiusa in un solo documento. Egli è soltanto in un’età culta ed incivilita che la politica può istituirsi sopra un sistema. Nelle società rozze il progresso del governo somiglia al progresso del linguaggio e della versificazione. Le società rozze hanno una lingua, e spesso copiosa ed energica; ma non hanno grammatica scientifica, non definizioni di nomi e di verbi, non vocaboli per le declinazioni, pei modi, pei tempi. Le rozze società hanno una versificazione, e spesso vigorosa ed armonica; ma non hanno leggi di ritmo; e il menestrello, i canti del quale, armonizzati dalla sola squisitezza dell’udito, formano il diletto de’ popoli, non saprebbe spiegare di quanti dattili o trochei consti ciascuno de’ suoi versi. Come la eloquenza esiste innanzi la sintassi e il canto innanzi la prosodia, così il governo può esistere in grado d’eccellenza lungo tempo avanti che i limiti de’ poteri legislativo, esecutivo e giudiciario, vengano segnati con precisione. XVIII. E ciò appunto è seguito nel nostro paese. La linea che circoscriveva la regia prerogativa, tuttochè, generalmente parlando, fosse abbastanza chiara, non era stata in ogni parte tirata con accuratezza o precisione. E però, sull’orlo del terreno assegnatole vi era qualche spazio disputabile, dove seguitarono a succedere invasioni e rappresaglie, finchè, dopo anni ed anni di lotta, furono stabiliti segni evidenti e durabili. Sarebbe pregio dell’opera notare in che modo, e fino a qual punto, i nostri antichi sovrani avessero l’abitudine di violare i tre grandi principii che proteggevano le libertà nazionali. Nessuno de’ re d’Inghilterra ha mai preteso arrogarsi tutto il potere legislativo. Il più violento dei Plantageneti non si reputò mai competente a decretare, senza il consentimento del suo Gran Consiglio, che un _giury_ si dovesse comporre di dieci individui invece di dodici, che la dote d’una vedova dovesse essere la quarta parte del patrimonio invece della terza, che lo spergiuro dovesse reputarsi delitto di fellonia, e che la consuetudine di dividere gli averi in parti uguali fra i maschi d’una famiglia dovesse introdursi nella contea di York.[2] Ma il re aveva il potere di perdonare i colpevoli; e vi è un punto in cui il potere di perdonare e quello di far leggi sembrano di leggeri confondersi fra loro. Uno statuto penale viene virtualmente annullato, se le penalità che esso impone sono regolarmente rimesse ogni qualvolta vi è luogo ad applicarle. Il sovrano, senza alcun dubbio, era competente a condonare le punizioni, e in ciò il suo diritto non aveva limiti; e per tal ragione, egli poteva annullare virtualmente uno statuto penale. Sembrerebbe che non vi fossero serie obiezioni a lasciargli fare formalmente ciò che virtualmente poteva fare. In tal guisa, con l’aiuto di giureconsulti sottili e cortigiani, formossi, sul confine dubbio che separa le funzioni legislative dalle esecutive, quella grande anomalia che chiamasi potestà di dispensare. Che il re non potesse imporre tasse senza il consenso del Parlamento, generalmente si ammette essere stata, da tempo immemorabile, legge fondamentale della monarchia inglese. Era uno degli articoli che i Baroni costrinsero il re Giovanni a firmare. Eduardo I tentò di violare quella legge; ma, nonostante che fosse uomo destro, potente e popolare, trovò tale opposizione che gli parve utile di cedere. Promise quindi in termini espressi, a nome di sè e de’ suoi eredi, che nessuno di loro avrebbe mai imposto balzelli di veruna specie senza l’assenso e la libera volontà degli Stati del regno. Il suo potente e vittorioso nipote provossi di infrangere cotesto patto solenne; ma trovò validissima resistenza. Finalmente, i Plantageneti, disperati di riuscirvi, rinunziarono a cotali pretese. Ma, comecchè fossero avvezzi ad infrangere la legge apertamente, studiaronsi, secondo le occasioni, eludendola, di estorcere temporaneamente delle somme straordinarie. Era loro inibito di imporre tasse, ma reclamarono il diritto di chiedere e di tôrre in prestito. E però talvolta chiesero con un linguaggio tale, da non distinguersi dall’espressione di un comando; e tal’altra tolsero in prestito con poco pensiero di rendere. Ma il solo fatto di stimar necessario il mascherare simiglianti esazioni sotto nome di donativi o di prestiti, prova a sufficienza che l’autorità del gran principio costituzionale era universalmente riconosciuta. Il principio che il re d’Inghilterra era tenuto a condurre l’amministrazione secondo la legge, e che qualora egli facesse alcuna cosa contro la legge, i suoi consiglieri ed agenti erano responsabili, fu stabilito ne’ tempi primitivi della Costituzione; come ne sono prova bastevole i severi giudizi pronunziati ed eseguiti contro molti favoriti del principe. Non per tanto, gli è certo che i diritti degli individui vennero spesso violati dai Plantageneti, e che le parti offese spesso furono nella impossibilità di ottenere giustizia. Secondo la legge, la tortura, che è una macchia della romana giurisprudenza, non poteva, in nessun caso, essere inflitta ad un suddito inglese. Nondimeno, nelle turbolenze del secolo decimoquinto, la tortura venne introdotta nella Torre di Londra, e, secondo le occasioni, se ne faceva uso sotto pretesto di necessità politica. Ma sarebbe grave errore inferire da siffatte irregolarità, che i monarchi d’Inghilterra fossero, in teoria o in pratica, assoluti. Noi viviamo in una società altamente incivilita, in cui le nuove sono così rapidamente propagate per mezzo della stampa e degli uffici postali, che ogni qualunque atto notorio d’oppressione commesso in qualunque parte della nostra isola viene, in poche ore, discusso da milioni d’uomini. Se un sovrano inglese facesse oggimai murar vivo dentro una parete un suddito, in aperta violazione dell’_Habeas corpus_, o mettere un cospiratore alla tortura, tal nuova elettrizzerebbe in un attimo l’intiera nazione. Nel medio evo le condizioni della società erano grandemente diverse. Rade volte e con molta difficoltà i torti fatti agli individui pervenivano a cognizione del pubblico. Un uomo poteva illegalmente essere confinato per molti mesi nel castello di Carlisle e di Norwich, senza che nè anche un bisbiglio della cosa arrivasse in Londra. È molto probabile che la tortura fosse stata in uso molti anni innanzi che la gran maggioranza della nazione ne concepisse il minimo sospetto. Nè i nostri antichi erano in nessun modo così gelosi, come siamo noi, dell’importanza di osservare le grandi regole generali. L’esperienza ci ha insegnato che non possiamo senza pericolo patire che passi in silenzio la minima violazione dello Statuto. E perciò ormai universalmente si pensa che un governo il quale senza necessità ecceda i suoi poteri, debba essere colpito di severa censura parlamentare; e che un governo, il quale, spinto da una grande urgenza e da intenzioni pure, ecceda i suoi poteri, debba senza indugio rivolgersi al Parlamento per un atto d’indennità. Ma non era tale il sentire degl’Inglesi de’ secoli decimoquarto e decimoquinto. Essi erano poco disposti a contendere per un principio semplicemente come principio, ed a biasimare una irregolarità che non era reputata atto d’oppressione. Finchè lo spirito generale del governo mantenevasi mite e popolare, erano proni ad accordare qualche latitudine alle azioni del loro sovrano. Se per uno scopo che si reputasse sommamente lodevole, egli faceva uso di un vigore che travarcava i confini segnati dalla legge, essi non solo gli perdonavano, ma lo applaudivano; e mentre godevano sicurezza e prosperità sotto il suo imperio, erano solleciti a credere che chiunque fosse incorso nella sua collera, ne era stato meritevole. Ma siffatta indulgenza aveva anche un limite; nè era savio quel principe che affidavasi sulla tolleranza del popolo inglese. Potevano talvolta concedergli ch’ei trapassasse la linea costituzionale; ma dal canto loro reclamavano il privilegio di trapassarla anch’essi tutte le volte che le sue usurpazioni erano tali da svegliare sospetto negli animi di tutti. Se, non contento di opprimere di quando in quando qualche individuo, osava opprimere le popolazioni, i suoi sudditi subitamente appellavansi alla legge; e riuscendo infruttuoso cotale appello, ricorrevano, senza mettere tempo in mezzo, al Dio delle battaglie. XIX. Potevano, a dir vero, tollerare in un re pochi eccessi; perocchè potevano sempre appigliarsi al partito di opporgli un ostacolo, che tosto conducesse alla ragione il più fiero e superbo dei principi,—l’ostacolo della forza fisica. Torna difficile ad un inglese del secolo decimonono immaginare la facilità e prestezza con che, quattrocento anni fa, tale specie d’ostacolo operasse. Oggigiorno i popoli sono disavvezzi dall’uso delle armi; l’arte della guerra è stata condotta ad una perfezione ignota ai nostri antenati, la conoscenza della quale è circoscritta in una classe peculiare d’individui. Centomila soldati, ben disciplinati e guidati da esperti capitani, bastano a domare parecchi milioni d’artigiani e di contadini. Pochi reggimenti di milizie cittadine servono ad impaurire ed attutire gli spiriti di una vasta metropoli. Frattanto, lo effetto del continuo progresso della ricchezza è stato quello di rendere la insurrezione più temibile di quello che sia la cattiva amministrazione. Immense somme sono state spese in opere che, nel caso di uno scoppio repentino di ribellione, potrebbero tra poche ore reprimerla. La massa della ricchezza mobile cumulata nelle botteghe e ne’ magazzini di Londra, da sè sola sorpassa cinquecento volte quella che tutta l’isola conteneva ne’ giorni dei Plantageneti; e se il governo venisse rovesciato dalla forza materiale, tutta cotesta ricchezza mobile sarebbe esposta all’imminente rischio di spoliazione e di distruzione. Sarebbe anche maggiore il pericolo del credito pubblico, da cui direttamente dipende la sussistenza di migliaia di famiglie, ed a cui inseparabilmente va connesso il credito di tutto il mondo commerciale. Non sarebbe esagerazione affermare, che una settimana di guerra civile in Inghilterra oggidì produrrebbe tali disastri, che i suoi effetti, facendosi sentire da Hoangho fino al Missouri, si riconoscerebbero per il corso d’un secolo. In simili condizioni sociali, è d’uopo considerare la resistenza come un sistema di cura più disperata di qualunque infermità potesse affliggere lo Stato. Nel medio evo, all’incontro, la resistenza era un rimedio ordinario ai mali politici; rimedio che era sempre pronto, e comunque di certo fosse amaro in sul momento, non produceva profonde e durevoli conseguenze sinistre. Se un capopopolo alzava il proprio vessillo per la causa del popolo, in un solo giorno poteva raccogliere una armata irregolare; dacchè di regolari non ve n’era nessuna. Ciascun uomo aveva una certa conoscenza della professione del soldato, ma null’altro più che una leggiera conoscenza. La ricchezza nazionale consisteva principalmente in greggi ed armenti, nelle ricolte dell’anno, e nelle semplici abitazioni dentro le quali s’annidavano le genti. Tutte le masserizie, gli arnesi delle botteghe, le macchine reperibili nel reame, erano di minor valore di quello che sia ciò che qualche parrocchia dei giorni nostri contiene. Le manifatture erano rozze, il credito quasi nullo. La società quindi si riaveva dal colpo, subito appena cessato il conflitto. Le calamità della guerra civile limitavansi alle stragi che seguivano nel campo di battaglia, ed a poche punizioni capitali o confische. In meno d’una settimana dopo, il contadino ripigliava il suo aratro, e il gentiluomo sollazzavasi a mandare in aria il falcone ne’ campi di Towton, o di Bosworth, come se nessun evento straordinario fosse sopraggiunto ad interrompere il corso regolare della vita umana. Oramai sono trascorsi centosessanta anni, dacchè il popolo inglese rovesciò con forza il governo del paese. Ne’ cento e sessanta anni che precessero la unione delle due Rose, regnarono in Inghilterra nove re, sei dei quali vennero cacciati dal trono, cinque vi perderono la corona e la vita. Per la quale cosa, egli è evidente che il paragonare la nostra politica antica alla moderna deve inevitabilmente condurre alle più erronee conclusioni, qualora non si conti per molto l’effetto di quelle restrizioni che la resistenza, o la paura della resistenza, imponeva sempre ai Plantageneti. E poichè i nostri antichi avevano contro la tirannide una importantissima guarentigia che a noi manca, potevano porre in non cale quelle tali guarentigie che noi stimiamo di grandissimo momento. Non potendo noi, senza il pericolo di danni da’ quali rifugge la nostra immaginazione, adoperare la forza fisica come un ostacolo contro il mal governo, è per noi cosa evidentemente saggia essere gelosissimi di tutti i poteri costituzionali raffrenanti il mal governo; spiare scrupolosamente ogni principio d’usurpazione; e non patire mai che nessuna irregolarità, quand’anche fosse d’indole innocua, passi senza essere combattuta, ove non possa allegare a favor suo l’esempio di atti precedenti. Quattrocento anni indietro questa minuta vigilanza poteva non essere necessaria. Una nazione d’intrepidi arcieri e lancieri poteva, con poco periglio delle sue libertà, mostrarsi connivente a qualche atto illegale nella persona di un principe, del quale l’amministrazione fosse generalmente buona, e il trono non difeso nè anche da una compagnia di soldati regolari. Sotto tale sistema, comunque possa sembrare rozzo in paragone di quelle elaborate Costituzioni che sono sorte negli ultimi settant’anni, gl’Inglesi godevano ampia misura di libertà e felicità. Tuttochè sotto il debole regno di Enrico VI lo Stato fosse lacerato prima dalle fazioni e poscia dalla guerra civile; tuttochè Eduardo IV fosse principe d’indole dissoluta e superba; tuttochè Riccardo III venga generalmente rappresentato come mostro di scelleraggine; tuttochè le esazioni di Enrico VII gettassero il paese nella miseria;—egli è certo che gli avi nostri, sotto tali re, erano governati meglio de’ Belgi sotto Filippo soprannominato il Buono, e de’ Francesi sotto quel Luigi che veniva chiamato padre del popolo. Anche mentre le guerre delle Rose infuriavano, e’ pare che il nostro paese sia stato in condizioni migliori che non erano i reami a noi vicini negli anni di pace profonda. Comino era uno dei più illuminati uomini di Stato de’ tempi suoi. Aveva veduto le più ricche ed altamente civili regioni del continente; era vissuto nelle città opulente delle Fiandre, che possono chiamarsi le Manchester e le Liverpool del secolo decimoquinto; avea visitato Firenze, di fresco abbellita dalla magnificenza di Lorenzo de’ Medici, e Venezia non ancora umiliata dalla Lega di Cambray. Questo uomo egregio scrisse deliberatamente, l’Inghilterra essere il paese meglio governato fra tutti quelli di cui egli avesse conoscenza; mostrò enfaticamente la Costituzione inglese come una cosa giusta e santa, la quale mentre proteggeva il popolo, rinvigoriva il braccio del principe che la rispettava. In nessun altro Stato, egli diceva, gli uomini erano tanto efficacemente guarentiti d’ogni torto. Le calamità originate dalle nostre guerre intestine gli sembravano toccare solo i nobili e i combattenti, e non lasciare vestigia simili a quelle che egli era avvezzo ad osservare altrove; non rovine di edifizi, non città spopolate. XX. E’ non fu solo per la efficacia delle predette restrizioni, imposte alla prerogativa regia, che le sorti dell’Inghilterra procedessero più prospere di quelle degli Stati vicini. Una peculiarità di pari importanza, comunque meno avvertita, consisteva nella relazione tra i nobili e il popolo. Vi era una forte aristocrazia ereditaria, ma di tutte le aristocrazie ereditarie era la meno insolente ed esclusiva. Non aveva affatto l’invido carattere d’una casta. Riceveva nel proprio seno individui dell’ordine popolare; mandava individui dell’ordine proprio in seno de’ popolani. Ogni gentiluomo poteva diventar Pari; il figlio più giovane di un Pari non era se non un semplice gentiluomo. I nipoti de’ Pari lasciavano la precedenza a’ cavalieri novellamente creati. La dignità di cavaliere non era inaccessibile a qualunque uomo il quale potesse per la diligenza e i guadagni formarsi uno stato, o farsi ammirare pel suo valore in una battaglia o in un assedio. La figlia di un duca, anche di un duca di sangue reale, non reputavasi degradata maritandosi a un distinto popolano. Difatti, sir Giovanni Howard sposò la figliuola di Tommaso Mowbray duca di Norfolk; sir Riccardo Pole sposò la contessa di Salisbury, figlia di Giorgio, duca di Clarence. Il sangue puro in verità era tenuto in pregio; ma tra il sangue puro e i privilegii della paría non eravi, a grande ventura della patria nostra, necessaria connessione. Le antiche genealogie, non meno che i vecchi blasoni, potevano trovarsi fuori e dentro della camera de’ lordi. Eranvi uomini nuovi che discendevano da cavalieri che portavano i più alti titoli; v’erano uomini senza titoli, che avevano vinte le armi sassoni alla battaglia di Hastings, e scalate le mura di Gerusalemme. Vi erano Bohuns, Mowbrays, De Veres; eranvi parenti della famiglia dei Plantageneti, senza altro titolo che quello di scudiere (_esquire_), e senza altri privilegii che quelli che godeva ogni colono o padrone di bottega. Non v’era, dunque, tra noi limite simile a quello che in taluni paesi divideva l’uomo patrizio dal plebeo. Il popolano non aveva ragione di mormorare d’una dignità alla quale i suoi figli potevano elevarsi. Il signore non era tentato d’insultare una classe alla quale i suoi figli dovevano discendere. Dopo le guerre tra la casa di York e quella di Lancaster, gli anelli della catena che univa i nobili ai popolani, divennero più numerosi che mai. Fino a che punto la distruzione colpisse la vecchia aristocrazia, può dedursi da una sola circostanza. Nel 1451, Enrico VI chiamò al parlamento cinquantatre lordi secolari. I lordi secolari convocati da Enrico VII al parlamento del 1485, furono soltanto ventinove, de’ quali ventinove parecchi erano stati di recente elevati alla paría. Nel corso del secolo susseguente, i pari vennero in gran numero scelti fra mezzo ai gentiluomini. La costituzione della Camera de’ Comuni tendeva grandemente a promuovere la salutare mistura delle classi. Il cavaliere della contea era l’anello intermedio fra il barone e il trafficante. Sul medesimo banco su cui sedevano gli orefici e i droghieri, i quali erano stati mandati al Parlamento dalle città commerciali, sedevano parimente i membri che in qualunque altro paese sarebbero stati chiamati nobili, e lordi ereditarj, che avevano il diritto di tenere corti e portare arme, e potevano far risalire la loro discendenza a molte generazioni anteriori. Parecchi di loro erano figli cadetti e fratelli di grandi lordi; altri potevano perfino gloriarsi d’essere discendenti di sangue regale. Finalmente, il figlio maggiore di un conte di Bedford, insignito, per grazia, del secondo titolo del proprio genitore, si offerse come candidato nella Camera de’ Comuni, e il suo esempio venne seguito da altri. Sedenti in quella Camera, gli eredi de’ grandi del regno naturalmente divennero gelosi dei suoi privilegii, al pari del più umile borghese che sedeva loro accanto. In tal modo la nostra democrazia fu, sino da’ primi tempi della costituzione, la più aristocratica, e la nostra aristocrazia la più democratica del mondo: peculiarità caratteristica che si è mantenuta fino ai dì nostri, e che si è fatta cagione d’importantissime conseguenze morali e politiche. XXI. Il governo di Enrico VII, di suo figlio e de’ suoi nipoti, fu, generalmente considerandolo, più arbitrario di quello de’ Plantageneti. Fino a un certo segno, la ragione di siffatta differenza si potrebbe trovare nel carattere personale di que’ principi; poichè gli uomini egualmente che le donne della casa de’ Tudors furono coraggiosissimi e forti. Esercitarono il potere per lo spazio di centoventi anni, sempre con vigore, spesso con violenza, talvolta con crudeltà. Imitando la dinastia che li aveva preceduti, di quando in quando invasero i diritti degli individui, riscossero tasse sotto nome di prestiti e di donativi, dispensarono le pene inflitte dalle leggi; e quantunque non presumessero mai di promulgare di propria autorità nessun decreto permanente, secondo l’occasione si arrogarono il diritto, quando il Parlamento non era in sessione, di far fronte con editti temporanei a’ temporanei bisogni. Egli era, nondimeno, impossibile ai Tudors di opprimere il popolo al di là di certi limiti; poichè non avevano forza armata, ed erano circondati da un popolo armato. La reggia era guardata da pochi famigliari, che potevano essere agevolmente sconfitti dalla popolazione di una sola contea, o d’un solo quartiere della città di Londra. Cotesti principi alteri erano, dunque, soggetti ad un freno più forte d’ogni qualunque altro potesse essere loro imposto dalle semplici leggi; ad un freno che, a dir vero, non li impediva dal trattare arbitrariamente e perfino barbaramente un individuo, ma che efficacemente guarentiva il paese contro una generale e perpetua oppressione. Potevano impunemente essere tiranni dentro la propria corte, ma era loro necessario sorvegliare con perpetua ansietà il sentire della nazione. Enrico VIII, a modo d’esempio, non trovò ostacolo allorquando gli piacque di mandare Buckingham e Surrey, Anna Bolena e Lady Salisbury, al patibolo. Ma allorquando, senza l’assenso del Parlamento, chiese ai suoi sudditi una contribuzione che equivaleva a un sesto de’ loro averi, gli fu forza ritirare la domanda. Il grido di migliaia e migliaia fu, che essi erano Inglesi e non Francesi, uomini liberi e non schiavi. In Kent i commissari regi fuggirono per salvare la vita; in Suffolk quattro mila uomini presero le armi e mostraronsi. In quella contea i luogotenenti del re invano si sforzarono di formare un esercito. Coloro che non parteciparono alla insurrezione, dichiararono di non volere, in quel litigio, combattere contro i loro fratelli. Enrico, superbo e caparbio com’egli era, si astenne, non senza ragione, d’impegnarsi in un conflitto con lo spirito desto della nazione. Gli stava dinanzi lo sguardo il fato de’ suoi predecessori, che avevano perduta la vita in Berckeley e Pomfret. Non solo soppresse le sue illegali commissioni; non solo concesse un perdono generale a tutti i malcontenti; ma pubblicamente e solennemente fece una apologia, a giustificarsi d’avere infrante le leggi. La sua condotta, in tal occasione, sparge piena luce su tutta la politica della sua dinastia. Il carattere de’ principi di quella casa era violento, il loro spirito altiero; ma essi intendevano l’indole della nazione sulla quale regnavano, e neanche una volta, a simiglianza de’ loro predecessori e di taluni de’ loro successori, condussero l’ostinatezza fino a un punto fatale. La discrezione de’ Tudors era tale, che il loro potere, tuttochè venisse spesse volte avversato, non fu distrutto giammai. Il regno di ciascuno di loro fu disturbato da formidabili malumori; ma il governo riuscì sempre o a calmare gli ammutinati, o a soggiogarli e punirli. Talvolta, per mezzo di concessioni fatte in tempo debito, gli riuscì di schivare le ostilità interne; ma, generalmente parlando, stette fermo, e invocò l’aiuto della nazione. La nazione ubbidì alla chiamata, si affollò attorno al sovrano, e gli prestò man forte ad infrenare la minoranza malcontenta. In tal guisa, dall’epoca d’Enrico III fino a quella d’Elisabetta, l’Inghilterra crebbe e fiorì sotto una politica che conteneva il germe delle nostre istituzioni presenti, e la quale, benchè non fosse molto esattamente definita o molto esattamente osservata, fu nondimeno efficacemente impedita di degenerare in dispotismo, pel rispettoso timore che lo spirito e la forza de’ governati incuteva, ai governanti. Ma tale politica conviene solamente ad uno stadio peculiare nel progresso della società. Le stesse cagioni che producono la divisione del lavoro nelle arti pacifiche, è mestieri che in fine facciano della guerra una scienza ed un traffico a parte. Arriva il tempo in cui l’uso delle armi comincia ad occupare intieramente l’attenzione d’una classe di uomini. Subito dopo, chiaro si mostra che, i contadini e i borghesi, tuttochè valorosi, non valgono a resistere ai vecchi soldati, i quali spendono tutta la loro vita ad apparecchiarsi pel dì della battaglia, diventano, pel lungo uso, impavidi ai perigli delle armi, e si muovono con la precisione di una macchina. S’intende allora che la difesa delle nazioni non può più essere sanamente affidata a guerrieri tratti dall’aratro per una campagna di quaranta giorni. Se uno stato forma un grande esercito regolare, gli stati limitrofi è forza che ne imitino lo esempio, o si sottomettano al giogo straniero. Ma dove esiste un grande esercito regolare, la monarchia limitata, quale era nel medio evo, non può più esistere. Il sovrano si è già emancipato dal freno che restringeva il suo potere; ed inevitabilmente diventa assoluto, qualvolta non sia soggetto a limitazioni forti, che sarebbero superflue in una società in cui tutti sieno soldati secondo l’occasione, e nessuno permanentemente. XXII. Con siffatto pericolo vennero anche i mezzi di evitarlo. Nelle monarchie del medio evo, il potere della spada apparteneva al principe, ma il potere della borsa apparteneva alla nazione; e il progresso dell’incivilimento, come rese la spada del principe sempre più formidabile alla nazione, così rese la borsa della nazione sempre più necessaria al principe. Le sue rendite ereditarie non sarebbero più bastate nè anche per le spese del governo civile. Fu all’atto impossibile che, senza un regolare e vasto sistema di tassazione, egli tenesse in continua efficienza un gran corpo di milizie disciplinate. La politica che le assemblee parlamentari di Europa avrebbero dovuto adottare, era quella di afforzarsi fermamente sul loro diritto costituzionale di concedere o rifiutare le imposte, e risolutamente negare la pecunia per mantenere le armate, finchè non si fossero stabilite ampie garanzie contro il dispotismo. Cotesta saggia politica fu adottata solamente nel nostro paese. Negli stati vicini formaronsi de’ grandi stabilimenti militari, senza creare nuove difese a pro’ della pubblica libertà; e la conseguenza fu questa, che le antiche istituzioni parlamentari si spensero dappertutto. In Francia, dove sempre erano state fiacche, languirono, e finalmente perirono di semplice debolezza. In Ispagna, dove erano state forti quanto in qualunque altro stato d’Europa, combatterono fieramente per la vita e per la morte, ma combatterono troppo tardi. Gli artigiani di Toledo e di Valladolid invano difesero i privilegi delle cortes castigliane contro le legioni de’ veterani di Carlo V. Invano, nella susseguente generazione, i cittadini di Saragozza resistettero a Filippo II, onde difendere la vecchia costituzione d’Aragona. Uno dopo l’altro, i consigli nazionali delle monarchie continentali, consigli che un tempo erano quasi egualmente alteri e potenti che quelli di Westminster, caddero in maggiore impotenza. Se si adunavano, adunavansi unicamente come oggidì si aduna la nostra Convocazione Ecclesiastica, voglio dire per osservanza di alcune forme venerande. XXIII. In Inghilterra gli eventi ebbero un corso ben differente. Innanzi la fine del secolo decimoquinto, i grandi stabilimenti militari erano indispensabili alla dignità, ed anche alla salvezza delle monarchie Francese e Spagnuola. Se alcuna di queste due potenze si fosse disarmata, sarebbe stata subito dopo costretta a sottomettersi alla dittatura dell’altra. Ma l’Inghilterra, protetta dal mare contro la invasione, e rade volte implicata in imprese guerresche sul continente, non aveva peranche il bisogno di mantenere truppe regolari. I secoli decimosesto e decimosettimo la trovarono ancora priva d’un esercito stanziale. Sul principio del decimosettimo, la scienza politica aveva fatti considerevoli progressi. Le sorti delle cortes spagnuole e degli stati generali di Francia avevano dato un solenne ammonimento ai parlamenti nostri, i quali, comprendendo appieno la natura e la gravità del pericolo, adottarono in tempo opportuno un sistema di tattica, che, dopo una lotta continuata per tre generazioni, finalmente ottenne compiuto successo. Quasi ogni scrittore che ha trattato di quella lotta, si è studiato di mostrare che il suo proprio partito era quello che sforzavasi di serbare inalterata l’antica costituzione. Una legge superiore ad ogni umano sindacato, aveva dichiarato che non vi sarebbero stati mai più governi di quella classe peculiare, che ne’ secoli decimoquarto e decimoquinto erano stati comuni a tutta l’Europa. La questione però non era di vedere se la nostra politica subirebbe un mutamento, ma di trovare di che natura dovesse essere siffatto mutamento. L’introduzione di una forza nuova e potente aveva turbato il vecchio equilibrio, ed aveva trasmutato, l’una dopo l’altra, le monarchie limitate in assolute. Ciò che è seguito negli altri Stati sarebbe senza dubbio seguito nel nostro, se la bilancia non fosse stata rimessa in equilibrio dal gran passaggio che fece il potere dalla Corona al Parlamento. I nostri principi erano pressochè giunti ad avere a’ loro comandi quei mezzi di coercizione che non ebbero mai in poter loro i Plantageneti e i Tudors. Sarebbero inevitabilmente diventati despoti, se nel tempo medesimo non fossero stati posti sotto restrizioni, alle quali nessuno de’ Plantageneti o dei Tudors fu mai sottomesso. XXIV. E’ sembra certo però, che se non avesse operato alcun’altra cagione diversa dallo cagioni politiche, il secolo decimosettimo non sarebbe trascorso senza un feroce conflitto tra i nostri principi e i loro parlamenti. Ma bene altre cause assai più potenti cooperavano a produrre il medesimo effetto. Mentre il governo de’ Tudors era nel suo maggior vigore, seguì un fatto che ha modificate le sorti di tutte le nazioni cristiane, ed in modo peculiare quelle della Inghilterra. Nel medio evo, due volte lo spirito dell’Europa erasi innalzato contro il dominio di Roma.[3] La prima insurrezione eruppe dalla Francia Meridionale. La energia d’Innocenzo III, lo zelo degli Ordini, pur allora istituiti, da Francesco e da Domenico, e la ferocia de’ Crociati, che il clero aveva lanciati addosso a un popolo pacifico, distrusse le chiese Albigesi. La seconda Riforma ebbe origine in Inghilterra, e si estese alla Boemia. Il Concilio di Costanza, ponendo freno a parecchi disordini ecclesiastici, che erano di scandalo alla Cristianità, e i principi europei, adoperando senza misericordia il ferro e il fuoco contro gli eretici, poterono fermare e rinculare quel movimento. Nè ciò è da reputarsi un gran male. Le simpatíe di un protestante, egli è vero, saranno naturalmente a favore degli Albigesi e dei Lollardi. Nondimeno, un protestante illuminato e temperante inclinerà forse a dubitare che la vittoria degli Albigesi o dei Lollardi avrebbe, nello insieme, promosso la felicità e la virtù del genere umano. Per quanto corrotta fosse la Chiesa di Roma, abbiamo ragione di credere, che se ella fosse stata rovesciata nel duodecimo o anche nel quattordicesimo secolo, il suo posto sarebbe stato occupato da qualche altro sistema anco più corrotto. A quei tempi, nella maggior parte d’Europa era pochissima istruzione, la quale inoltre era ristretta dentro i limiti del solo clero. Un solo in cinquecento uomini laici sapeva intendere un salmo. I libri erano pochi e costavano molto. L’arte della stampa non era per anche inventata. Esemplari della Bibbia, per beltà e chiarezza inferiori a quelli che oggi possono trovarsi in ogni capanna, vendevansi a prezzi che molti de’ preti non potevano pagare. Era impossibile che i laici studiassero da sè le Scritture. È quindi probabile che appena essi avessero scosso un giogo spirituale, se ne sarebbero recato un altro sul collo, e che il potere già esercitato dal clero e dalla Chiesa di Roma sarebbe passato nelle mani d’insegnatori molto più tristi. Il secolo decimosesto, in paragone degli antecedenti, era un’età di luce. Nonostante, anche in quel secolo stesso un numero considerevole di quelli uomini i quali avevano abbandonata la vecchia religione, si traevano dietro al primo che, ispirando loro fiducia, ponevasi a guida, e li trascinava in errori molto più gravi di quelli cui essi avevano rinunciato. Così a Matthias e Kniperdoling, apostoli di lussuria, di ladroneccio e d’assassinio, venne fatto di padroneggiare per qualche tempo parecchie grandi città. In una età più buia tali falsi profeti avrebbero potuto fondare imperi; e la Cristianità avrebbe potuto essere traviata in una crudele e licenziosa superstizione, più nociva non solo del papato, ma dello stesso islamismo. Circa cento anni dopo il Concilio di Costanza, s’iniziò quel gran fatto che, enfaticamente, chiamarono la Riforma. La pienezza dei tempi era giunta. Il clero non era più oltre il solo e precipuo custode del sapere. La invenzione della stampa aveva armato il braccio degli avversanti la Chiesa d’un’arma di cui difettavano i loro predecessori. Lo studio degli antichi scrittori, il rapido sviluppo delle lingue moderne, l’operosità insolita con che gli intelletti agitavansi in ogni ramo di letteratura, le condizioni politiche dell’Europa, i vizi della Corte Romana, l’esazioni della romana cancelleria, la gelosia con che i laici naturalmente miravano l’opulenza e i privilegi del clero, la gelosia con che gli abitatori d’oltr’Alpe naturalmente guardavano la supremazia dell’Italia; tutte queste cose dettero ai dottori della nuova teologia un vantaggio, ed essi trovarono e intesero perfettamente il modo d’usarne. Coloro i quali sostengono che la influenza della Chiesa di Roma ne’ tempi barbari fosse, parlando generalmente, benefica alla specie umana, potrebbero, senza taccia della minima incoerenza, considerare la Riforma come una inestimabile ventura. Il freno che sostiene e guida il bambino, riuscirebbe d’impedimento all’uomo già fatto. In simil guisa i mezzi medesimi dai quali la mente umana, in uno stadio del suo progresso, riceve sostegno e movimento, potrebbero, in altro stadio, diventare pretti impedimenti. È un punto nella vita dell’uomo come in quella della società, nel quale la sommissione e la fede, tali che in un periodo posteriore si chiamerebbero con ragione credulità e servaggio, sono qualità benefiche. Il fanciullo che, senza avere la tenera mente turbata dal dubbio, ascolti gli ammonimenti de’ suoi maggiori, verosimilmente farà celeri progressi. Ma l’uomo che ricevesse con fanciullesca docilità ogni asserzione ed ogni domma profferito da un altro uomo che non abbia maggiore sapienza, diventerebbe contennendo. Lo stesso accade della società. La fanciullezza delle nazioni europee era trascorsa sotto la tutela del clero. La preponderanza dell’ordine sacerdotale fu per lunga stagione quella stessa preponderanza che naturalmente e convenevolmente appartiene alla superiorità intellettuale. I preti, malgrado i loro difetti, erano la parte più saggia della società. Egli era, dunque, un bene che venissero rispettati ed obbediti. Le usurpazioni che il potere ecclesiastico fece nel campo del potere civile, produssero più felicità che miseria; mentre il potere ecclesiastico era nelle mani della sola classe che aveva studiata la storia, la filosofia e il diritto pubblico; e mentre il potere civile era nelle mani di capi selvaggi, i quali non sapevano leggere le concessioni e gli editti che essi facevano. Ma succedeva un mutamento. Il sapere gradualmente si venne spandendo fra’ laici. In sul principio del secolo decimosesto, molti di loro in ogni studio intellettuale erano pari ai più illuminati dei loro pastori spirituali. D’allora in poi, quella dominazione che nelle età buie era stata, in onta ai molti abusi, una tutela legittima e salutare, divenne una ingiusta e malefica tirannia. Dal tempo in cui i barbari rovesciarono lo impero d’occidente, fino al tempo del risorgimento delle lettere, la influenza della Chiesa di Roma era stata generalmente favorevole al sapere, allo incivilimento e al buon governo. Ma negli ultimi tre secoli, suo scopo precipuo era stato quello di impedire il muoversi della mente umana. Per tutta la Cristianità, qualunque progresso nello scibile, nella libertà, nella opulenza, nelle arti della vita, era seguito repugnante la Chiesa, ed in ogni dove è stato sempre in proporzione inversa del potere di quella. Le più leggiadre e fertili provincia d’Europa, sotto il suo giogo, sono cadute nella miseria, nella servitù politica, nel torpore intellettuale; mentre i paesi protestanti, la sterilità e barbarie dei quali un tempo passavano in proverbio, sono stati trasmutati dall’arte e dalla industria in giardini, e possono gloriarsi d’una lunga schiera di eroi, d’uomini di stato, di filosofi e di poeti. Chiunque, sapendo ciò che per natura sono la Italia e la Scozia, e ciò che erano quattro secoli fa, paragonasse la contrada che circonda Roma con quella che circonda Edimburgo, potrebbe formarsi qualche idea intorno alla tendenza della dominazione papale. Il cadere della Spagna, già prima tra tutte le monarchie, nel più turpe abisso della abiezione, e lo inalzarsi della Olanda, a dispetto di molti naturali impedimenti, ad un grado cui non giunse mai una repubblica così piccola, insegnano la medesima verità. Chiunque in Germania passi da un principato cattolico ad uno protestante, in Isvizzera da un cantone cattolico ad un protestante, ed in Irlanda da una contea cattolica ad una protestante, si accorge di essere trapassato da un più basso ad un più alto grado di civiltà. La medesima legge governa i paesi posti oltre l’Atlantico. I protestanti degli Stati Uniti si sono lasciati molto addietro i cattolici romani del Messico, del Perù e del Brasile. I cattolici romani del Basso Canadà rimangono inerti, laddove in tutto il continente che li circonda ferve l’operosità protestante. I Francesi, senza verun dubbio, hanno mostrato tale energia ed intelligenza, che anche allorquando è stata male diretta, ha loro giustamente procacciato il nome di gran popolo. Ma questa eccezione apparente, qualora si consideri bene, varrà a confermare la regola; poichè in nessun paese che si chiami cattolico romano, la Chiesa cattolica ha, pel corso di non poche generazioni, posseduto autorità così poca come in Francia. Egli è difficile il dire se l’Inghilterra debba più alla religione cattolica romana, che alla riforma. Dell’armonia delle razze e dell’abolizione del villanaggio, va principalmente debitrice alla influenza che il clero nel medio evo esercitava sui laici. Della libertà politica e intellettuale, e di tutti i beni che ne sono derivati, va debitrice alla grande insurrezione de’ laici contro la potestà clericale. La lotta tra la vecchia e la nuova teologia nella patria nostra fu lunga, e talvolta ne parve dubbioso l’esito. V’erano due estremi partiti, apparecchiati ad operare con violenza o a soffrire con indomita volontà. Framezzavasi ad essi, per un tratto considerevole di tempo, un partito medio; il quale mescolava, molto illogicamente ma naturalmente, le cose apprese dalla balia co’ sermoni de’ moderni evangelisti, e mentre attenevasi con affetto alle vecchie osservanze, detestava gli abusi che ad esse andavano strettamente congiunti. Uomini di tale tempra di mente volentieri obbedivano, e quasi con gratitudine, ai cenni di un esperto capo, che gli esentasse dallo incomodo di giudicare da sè, e dominando con la sua ferma e imperiosa voce il frastuono della controversia, insegnasse loro come dovessero adorare e che credere. E però non è strano che i Tudors riuscissero ad esercitare grande influenza sulle faccende ecclesiastiche; nè è strano che esercitassero quasi sempre la loro influenza, coordinandola ai propri interessi. Enrico VIII tentò di costituire una Chiesa anglicana, che differisse dalla Chiesa cattolica romana nel solo principio della supremazia. Il suo tentativo ebbe straordinaria fortuna. La vigoria della sua indole, la situazione singolarmente favorevole in cui egli trovavasi rispetto ai potentati stranieri, le immense ricchezze che la spoliazione delle abbadie avevagli poste nelle mani, e il sostegno di quella classe che tuttavia ondeggiava fra due opinioni, lo posero in condizione di sfidare i due partiti estremi, di bruciare come eretici coloro che seguivano le dottrine di Lutero e d’impiccare come traditori coloro che rimanevano fidi all’autorità del papa. Se la sua vita fosse stata più lunga, avrebbe trovato difficile il mantenere un posto assalito con pari furore da tutti coloro che erano zelanti delle nuove opinioni o delle vecchie. I ministri ai quali furono affidate, a nome del suo figlio fanciullo, le regie prerogative, non poterono provarsi di perseverare in una politica cotanto rischiosa; nè Elisabetta potè arrisicarsi a ritornarvi. Era mestieri eleggere fra il risottomettersi alla Chiesa di Roma, o procacciarsi lo aiuto de’ protestanti. Al governo e ai protestanti, una cosa era comune; l’odio della potenza papale. I riformisti inglesi erano ansiosi di spingersi tanto oltre, quanto i loro fratelli sul Continente. Unanimemente dannarono come anticristiani un gran numero di dommi e di cerimonie, cui Enrico erasi ostinatamente attenuto, e che Elisabetta aveva con ripugnanza abbandonati. Molti sentivano una forte avversione anche a cose indifferenti, le quali già formavano parte della politica e del rituale della mistica Babilonia. Il vescovo Hooper, a cagione d’esempio, il quale morì animosamente a Gloucester per la sua religione, ricusò lungo tempo d’indossare le vesti episcopali. Il vescovo Ridley, martire di maggiore rinomanza, distrusse gli antichi altari della sua diocesi, ed ordinò che la Eucaristia venisse ministrata in mezzo alle chiese sopra mense, che i papisti con irreverenza chiamavano mense da ostriche. Il vescovo Jewel disse che il modo di vestirsi del clero era abito da commedia, manto da stolti, reliquia degli Amoriti, e promise di non perdonare a fatica alcuna onde estirpare assurdità così disonorevoli. L’arcivescovo Grindal esitò lungo tempo ad accettare una mitra, a cagione del disgusto con che riguardava quella ch’egli chiamava burattinata della consecrazione. Il vescovo Parkhurst pregava fervidamente perchè la Chiesa d’Inghilterra si proponesse quella di Zurigo come assoluto modello di una comunità cristiana. Il vescovo Ponet opinava che il vocabolo vescovo fosse da lasciarsi ai papisti, e che gli alti ufficiali della Chiesa purificata si dovessero chiamare soprintendenti. Quantunque volte ci facciamo a considerare che nessuno di cotesti prelati apparteneva alla estrema sezione della parte protestante, non può dubitarsi che se l’opinione generale di quella fosse stata seguita, l’opera della riforma sarebbe stata condotta innanzi senza riguardi in Inghilterra, come essa fu in Iscozia. XXV. Ma, come al governo era mestieri il sostegno de’ protestanti, così ai protestanti faceva d’uopo la protezione del governo. E però entrambi rinunziarono a molte delle loro pretese; si accordarono; e da tale concordia nacque la Chiesa d’Inghilterra. Alle peculiarità di questa grande istituzione, ed alle forti passioni che ha suscitate negli animi degli amici e de’ nemici suoi, debbono attribuirsi molti de’ più solenni eventi che dopo la riforma seguirono nel nostro paese; nè la storia civile dell’Inghilterra potrebbe oggimai intendersi senza studiarla congiuntamente con la storia della sua politica ecclesiastica. L’uomo che si pose a capo onde stabilire i patti dell’alleanza che produsse la Chiesa Anglicana, fu Tommaso Cranmer. Egli rappresentava anche le parti le quali in quel tempo avevano mestieri di vicendevole soccorso. Era teologo e insieme uomo di stato. Nel suo carattere di teologo, era pronto a spingersi nella via d’innovare, al pari di ogni riformatore svizzero o scozzese. Nel suo carattere d’uomo di stato, bramava di conservare l’ordinamento che per tante generazioni aveva mirabilmente giovato gl’intenti dei vescovi di Roma, e che poteva sperarsi gioverebbe adesso egualmente i re d’Inghilterra e i loro ministri. Per indole ed intelligenza era mirabilmente temprato ad operare come mediatore. Onestissimo nelle sue professioni, senza scrupoli ne’ negozi, zelante anche per le cose da poco, audace nello speculare, tardo o accomodato ai tempi nell’agire, nemico placabile e tepido amico, era per ogni ragione qualificato ad ordinare i patti di coalizione fra i nemici spirituali e temporali del papismo. XXVI. Fino ai dì nostri la costituzione, le dottrine e i riti della Chiesa serbano i segni visibili del patto d’onde essa originava. Tiene un punto medio fra la Chiesa di Roma e quella di Ginevra. Le sue confessioni e i suoi discorsi dottrinali, composti dai protestanti, contengono principii di teologia nei quali Calvino e Knox avrebbero appena trovato un solo vocabolo da disapprovare. Le sue preghiere, i suoi rendimenti di grazie, derivati dalle vecchie liturgie, sono quasi tutti tali, che il vescovo Fisher o il cardinal Polo gli avrebbe cordialmente adottati. Un controversista che attribuisse un senso arminiano agli articoli e alle omelie della Chiesa Anglicana, verrebbe dagli uomini sinceri giudicato irragionevole, come un controversista che negasse non esservi nella liturgia di quella la dottrina della rigenerazione battesimale. La Chiesa di Roma ammetteva che lo episcopato era d’istituzione divina, e che certe grazie soprannaturali d’alto ordine erano state trasmesse, per mezzo della imposizione delle mani, pel corso di cinquanta generazioni, da que’ dodici uomini che ricevettero il loro mandato sopra il monte di Galilea, fino ai vescovi che ragunaronsi in Trento. Grande numero di protestanti, per altra parte, consideravano la prelatura come positivamente illegale, ed erano persuasi trovarsi prescritta nelle pagine della Scrittura una forma differentissima di governo ecclesiastico. I fondatori della Chiesa Anglicana presero una via di mezzo. Ritennero lo episcopato, ma non lo dichiararono istituzione essenziale al bene della società cristiana, o alla efficacia de’ sacramenti. Granmer, a vero dire, confessò chiaramente d’esser convinto che nei tempi primitivi non eravi distinzione tra vescovi e preti, e che la imposizione delle mani non era minimamente necessaria. Fra i presbiteriani, lo andamento del culto pubblico è in gran parte lasciato all’arbitrio del ministro. Le loro preghiere, però, non sono esattamente identiche in due diverse assemblee di fedeli nel giorno medesimo, o in due diversi giorni nella medesima assemblea. In una parrocchia sono fervide, eloquenti e piene di significanza; in un’altra saranno forse languide o assurde. I sacerdoti della Chiesa cattolica Romana, dall’altra parte, hanno per molte generazioni cantato le medesime confessioni e preghiere antiche, e le medesime nell’India e nella Lituania, nella Irlanda e nel Perù. Gli uffici divini, facendosi in una lingua morta, riescono intelligibili ai soli dotti; e la maggior parte de’ fedeli ragunati vi assistono più presto da spettatori che da uditori. In ciò parimente la Chiesa d’Inghilterra appigliossi ad una via di mezzo. Copiò le formule di preghiera del rito cattolico romano, ma le tradusse in idioma volgare, e invitò la indotta moltitudine a congiungere la sua voce con quella del ministro. La medesima politica potrebbe osservarsi in ciascuna parte del suo sistema. Ricusando affatto la dottrina della transustanziazione, e dannando come idolatria l’adorazione del pane e del vino sacramentale, volle, con grande disgusto de’ puritani, che i suoi figli ricevessero i ricordi del divino amore, piegando mansueti le loro ginocchia. Smettendo molti ricchi ornamenti che circondavano gli altari dell’antica fede, ritenne tuttavia, con ribrezzo degli spiriti deboli, la veste di candido lino, la quale era simbolo della purità convenevole alla Chiesa, come quella che è la mistica sposa di Cristo. Smettendo mille atti di pantomima che nel culto cattolico romano fanno l’ufficio di parole intelligibili, con grave scandalo di molti rigidi protestanti, segnava del segno della croce il bambino al fonte battesimale. Il cattolico romano mandava le proprie preci ad una schiera di santi, fra’ quali annoveravansi molti uomini di carattere dubbio, e parecchi di carattere odioso. Il puritano ricusava il nome di santo perfino allo apostolo delle genti, e al discepolo amato tanto da Cristo. La Chiesa d’Inghilterra, quantunque non invocasse la intercessione di nessun essere creato, nondimeno predistinse. certi giorni per la commemorazione di alcuni, che avevano fatto e sofferto molto per la fede. Ritenne la confermazione e la ordinazione quali riti edificanti, ma li cancellò dal numero de’ sacramenti. La confessione non fu parte del suo sistema. Non ostante, invitò con gentilezza il moribondo penitente a confessare le proprie colpe ad un teologo, e dette facoltà al ministro di confortare l’anima al gran viaggio, per mezzo d’un’assoluzione, che sembra dettata dallo spirito della vecchia religione. In generale, potrebbe dirsi ch’essa si dirige più all’intelletto, e meno ai sensi ed alla immaginazione, di quello che faccia la Chiesa di Roma; e meno allo intelletto, e più ai sensi ed alla immaginazione, di quello che facciano le Chiese protestanti di Scozia, di Francia e di Svizzera. XXVII. Nessuna cosa, ad ogni modo, distingueva così manifestamente la Chiesa d’Inghilterra dalle altre chiese, come la relazione che passava fra essa e la monarchia. Il re ne era capo. I confini della autorità di lui, come tale, non erano stabiliti, e veramente non sono stati finora segnati con precisione. Le leggi che dichiaravano la sua supremazia nelle cose ecclesiastiche, erano state dettate rozzamente ed in termini generali. Se, con lo scopo di indagare il vero intendimento di siffatte leggi, ci facciamo ad esaminare gli scritti e le vite di coloro che fondarono la Chiesa inglese, si accresce la nostra perplessità. Imperocchè i fondatori della Chiesa anglicana scrissero ed operarono in tempi d’impetuoso fermento intellettuale, e di azione e reazione perenne. Quindi spesso contradicevansi vicendevolmente, e talvolta contradicevano sè stessi. Che il re fosse, sotto Cristo, solo capo della Chiesa, era dottrina da essi unanimemente professata; ma le loro parole avevano vario significato sulle labbra di vari, e sulle medesime labbra in varie circostanze. Ora attribuivano al sovrano un’autorità che avrebbe satisfatto lo stesso Ildebrando; ora la riducevano a quella che s’erano arrogata molti antichi principi inglesi, che avevano sempre aderito alla Chiesa di Roma. Ciò che Enrico e i suoi fedeli consiglieri intendevano nel vocabolo supremazia, era niente meno che l’assoluta e piena potestà delle chiavi. Il re doveva essere papa del suo regno, vicario di Dio, espositore della verità cattolica, veicolo delle grazie sacramentali. Arrogavasi il diritto di decidere dommaticamente ciò che era dottrina ortodossa e ciò che era eresia, di comporre ed imporre professioni di fede, e di dispensare al popolo la istruzione religiosa. Asseriva, ogni giurisdizione spirituale e temporale derivare da lui solo, ed avere egli solo potestà di conferire il carattere episcopale e ritoglierlo. Ordinò che si apponesse il suo sigillo alle commissioni che nominavano i vescovi, le quali commissioni dovevano esercitare l’ufficio loro finchè piacesse al sovrano. Secondo tale sistema, nel modo con che lo espone Cranmer, il re era il capo spirituale e temporale della nazione, e come tale aveva i suoi luogotenenti. In quella guisa che nominava gli ufficiali civili a tenere i suoi sigilli, a raccogliere le sue entrate e a ministrare la giustizia in nome suo, nominava medesimamente teologi di vari gradi a predicare il vangelo e a conferire i sacramenti. Non era necessaria la imposizione delle mani. Il re—era questa la opinione di Cranmer, esposta con chiarissimi vocaboli—poteva, per virtù dell’autorità derivante da Dio, fare un sacerdote; e il prete così creato non aveva mestieri di nessuna altra ordinazione. Da tali opinioni Cranmer si condusse alle loro legittime conseguenze. Credeva che le sue attribuzioni spirituali, siccome le attribuzioni secolari del cancelliere o del tesoriere, cessassero col cessare dell’autorità nel principe che gliele aveva concedute. E però, allorquando Enrico finì di vivere, lo arcivescovo e i suoi suffraganei formarono nuove commissioni, con potestà di stabilire ed esercitare altre funzioni spirituali fino a che fosse piaciuto al nuovo sovrano ordinare altrimenti. A chi obiettava che la potestà di legare e di sciogliere, affatto distinta dalla potestà temporale, era stata data da Nostro Signore a’ suoi apostoli, i teologi di cotesta scuola risposero, che la potestà di legare e di sciogliere era discesa non al solo clero, ma a tutta la famiglia degli uomini cristiani, e doveva essere esercitata dal supremo magistrato, come rappresentante della società. A chi obiettava, san Paolo avere parlato di certi determinati individui che lo Spirito Santo aveva istituiti sorvegliatori e pastori de’ fedeli, risposero che il re Enrico era quel sorvegliatore e quel pastore il quale era stato eletto dallo Spirito Santo, ed al quale applicavansi le parole di san Paolo.[4] Coteste alte pretese furono di scandalo ai protestanti ed ai cattolici; scandalo che accrebbesi grandemente allorchè la supremazia che Maria aveva resa al papa, venne nuovamente da Elisabetta annessa alla corona. Pareva cosa mostruosa che una donna fosse il vescovo supremo di una chiesa, nella quale uno degli apostoli aveva inibito che si udisse perfino la voce della donna. Per lo che, la regina reputò necessario di rinunziare espressamente al carattere sacerdotale assunto già da suo padre; il quale carattere, secondo l’opinione di Cranmer, era stato, per divino comandamento, inseparabilmente congiunto alla potestà regia. Allorquando, regnante lei, la professione della fede anglicana venne modificata, il vocabolo supremazia fu interpretato in modo alquanto diverso da quello onde intendevasi comunemente alla corte di Enrico. Cranmer aveva dichiarato, con parole enfatiche, che Dio aveva immediatamente commesso ai principi cristiani l’intera cura di tutti i loro sudditi in ciò che spettava all’amministrazione della parola divina per la cura delle anime, come in ciò che spettava all’amministrazione delle faccende politiche.[5] L’articolo trentesimosettimo di religione, fatto nel regno di Elisabetta, dichiara con parole egualmente enfatiche, che il ministero della parola divina non appartiene ai principi. La regina, nondimeno, esercitava tuttavia sopra la Chiesa un potere visitatorio, vasto ed indefinito. Il Parlamento le aveva affidato l’ufficio di infrenare e punire l’eresia ed ogni specie di abuso ecclesiastico, e le aveva concesso di delegare la sua autorità ai suoi commissari. I vescovi erano poco più che suoi ministri. Più presto che concedere al magistrato civile l’assoluta potestà di nominare i pastori spirituali, la Chiesa di Roma, nel secolo undecimo, aveva posta tutta l’Europa in fiamme. Più presto che concedere al magistrato civile l’assoluta potestà di nomare i pastori spirituali, i ministri della Chiesa di Scozia, ai tempi nostri, rinunciarono a migliaia le loro prebende. La Chiesa d’Inghilterra non patì cosiffatti scrupoli. I suoi prelati erano nominati dalla sola autorità regia; da lei sola i concilii venivano convocati, regolati, prorogati e disciolti. Privi della regia sanzione, i suoi canoni erano nulli. Uno degli articoli della sua fede prescriveva, che senza lo assenso regio nessun concilio poteva legalmente adunarsi. Da tutte le sue sentenze eravi un ultimo appello al sovrano, anche quando la questione era di definire se una opinione dovesse giudicarsi ereticale, o se l’amministrazione di un sacramento fosse stata valida. Nè la chiesa invidiava ai nostri principi questo esteso potere. Da loro aveva ricevuta la esistenza, era stata nudrita nella infanzia, difesa contro le aggressioni dei papisti e dei puritani, protetta contro i parlamenti che non la guardavano di buon occhio, e vendicata dagli assalti de’ dotti, ai quali le tornava duro rispondere. Così la gratitudine, la speranza, il timore, i comuni affetti e le inimicizie comuni, la collegavano al trono. Tutte le sue tradizioni e tendenze erano monarchiche. La lealtà ovvero devozione verso il sovrano divenne un punto d’onore annesso alla professione clericale, una nota speciale che distingueva i preti anglicani dai calvinisti e dai papisti. Entrambi, calvinisti e papisti, per quanto fosse ampia la distanza che nelle altre cose li teneva disgiunti, guardavano con estrema gelosia tutte le usurpazioni che il potere temporale faceva nel campo dello spirituale. Calvinisti e papisti sostenevano che i sudditi potevano equamente sguainare la spada contro i sovrani empi. In Francia, i calvinisti si opposero a Carlo IX; i papisti ad Enrico IV; papisti e calvinisti ad Enrico III. In Iscozia, i calvinisti fecero prigioniera Maria. A settentrione del Trent i papisti presero le armi contro Elisabetta. La Chiesa d’Inghilterra frattanto condannava calvinisti e papisti, ed altamente vantavasi non esservi debito che ella inculcasse con maggiore solennità e costanza, al pari di quello di sommissione ai principi. XXVIII. L’utile che ricavava la corona da cotesta stretta alleanza con la Chiesa stabilita, era grande; ma non era scevro di danni. Il patto ordinato da Cranmer era stato in prima considerato da un gran numero di protestanti come un disegno inteso a servire due padroni, come un tentativo di congiungere il culto del Signore col culto di Baal. Nei giorni d’Eduardo VI gli scrupoli di questo partito avevano più volte gettate gravi difficoltà nella via del governo. Come Elisabetta ascese al trono, simiglianti difficoltà si accrebbero non poco. La violenza, per legge di natura, genera la violenza. Lo spirito del protestantismo diventò quindi, dopo le crudeltà di Maria, più audace e intollerante che non lo fosse innanzi. Molti che professavano caldamente le nuove opinioni, avevano in quegli infausti giorni cercato asilo nella Svizzera e nella Germania. Erano stati accolti con ospitalità dai loro fratelli nella fede; avevano ascoltati i discorsi dei grandi dottori di Strasburgo, di Zurigo e di Ginevra; e per parecchi anni eransi assuefatti ad un culto più semplice e ad una forma più democratica di governo ecclesiastico, che non ancora s’era veduta in Inghilterra. Costoro ritornarono alle patrie contrade, convinti che la riforma compitasi sotto il re Eduardo, era stata meno indagatrice ed estesa di quello che richiedevano gl’interessi della religione pura. Ma sforzaronsi invano d’ottenere concessioni da Elisabetta. Vero è che il sistema di lei, in ciò che differiva da quello di suo fratello, pareva loro peggiorato. Erano poco inchinevoli a sottomettersi in materia di fede a qual si fosse autorità umana. Di recente, fidenti nel loro modo d’interpretare la Scrittura, erano insorti contro una Chiesa forte per antichità immemorabile e per universale consenso. Avevano adoperati sforzi non comuni d’energia intellettuale a scuotere il giogo di quella splendida ed imperiale superstizione; ed era cosa vana sperare, che, tosto dopo tale emancipazione, si volessero pazientemente sobbarcare ad una nuova tirannia spirituale. Da lungo tempo avvezzi a prostrarsi con la faccia a terra, mentre il sacerdote alzava l’ostia, siccome avanti al cospetto di Dio, avevano imparato a considerare la messa come una cerimonia idolatra. Da lungo tempo avvezzi a considerare il pontefice come successore del principe degli apostoli, come custode delle chiavi del cielo e della terra, avevano imparato a riguardarlo come la belva, l’anticristo, l’uomo del peccato. Non era da sperarsi che s’inducessero a tributare ad una autorità novellamente sorta quella riverenza che avevano negata al Vaticano; che sottoponessero il loro giudicio privato all’autorità d’una chiesa fondata sul giudicio privato soltanto; che avessero timore di dissentire da maestri i quali dissentivano da quella che già era stata la fede universale della cristianità in occidente. È facile immaginare lo sdegno che dovevano provare gli spiriti audaci e indagatori, gloriantisi della libertà novellamente acquistata, come si accorsero che una istituzione giovanissima, la quale aveva sotto gli stessi occhi loro ricevuta forma dalle passioni e dagli interessi d’una corte, cominciava a scimmiottare lo altero contegno di Roma. XXIX. Dacchè non era modo a convincere uomini siffatti, e’ fu stabilito di perseguitarli. Tale persecuzione produsse in essi i suoi naturali effetti. Erano una setta, e diventarono una fazione. All’odio che sentivano contro la Chiesa, aggiunsero l’odio contro la corona. Questi due sentimenti erano commisti, e invelenivansi vicendevolmente. Le opinioni del puritano intorno alla relazione fra principe e suddito, differivano grandemente da quelle che venivano inculcate nelle omilie. I suoi teologi prediletti lo avevano, e col precetto e con lo esempio, incoraggiato ad opporre resistenza ai tiranni ed ai persecutori. I suoi fratelli calvinisti in Francia, in Olanda, in Iscozia, erano in armi contro principi crudeli e idolatri. Le sue nozioni concernenti il governo dello stato assunsero una tinta consentanea alle sue nozioni concernenti il governo della Chiesa. Parecchi dei sarcasmi che il popolo scagliava contro lo episcopato, potevano, senza molta difficoltà, adattarsi al principato; e molti degli argomenti che adoperavansi a provare che il potere spirituale era meglio collocato in un Sinodo, sembravano condurre alla conclusione, che il potere temporale sarebbe meglio collocato in un Parlamento. XXX. Così, come il sacerdote della Chiesa stabilita, per interesse, per principio e per passione, era zelante delle regie prerogative, il puritano per passione, per principio e per interesse, era ostile a quelle. Grande era la potenza de’ settarii malcontenti. Trovavansi in ogni ceto, ma erano più numerosi fra il ceto mercantile delle città, e fra i piccoli possidenti delle campagne. Regnante Elisabetta, cominciarono a mandare il maggior numero de’ deputati alla Camera de’ Comuni. E non è dubbio, che se i nostri antenati fossero stati allora liberi di porre tutta la loro attenzione sopra le questioni interne, il conflitto tra la corona e il Parlamento sarebbe subito scoppiato. Ma non era quella la stagione atta ai domestici dissidi. Veramente, potrebbe dubitarsi se la fermissima colleganza di tutti gli ordini dello stato fosse la cagione di frustrare il pericolo che li minacciava tutti. L’Europa cattolica e la Europa riformata pugnavano per la vita o la morte. La Francia, dilacerata dalle lotte intestine, da qualche tempo non contava più nulla nella Cristianità. Il governo inglese era a capo degl’interessi protestanti; e mentre in casa propria perseguitava i presbiteriani, concedeva valida protezione alle chiese presbiteriane negli stati stranieri. Capo del partito opposto era il più potente principe di quell’epoca, il quale imperava sopra la Spagna, il Portogallo, la Italia, i Paesi Bassi, le Indie orientali ed occidentali; le cui armi più volte si spinsero fino a Parigi, e le cui flotte tenevano in paura le coste di Devonshire e di Sussex. E’ parve per lungo tempo cosa probabile che gl’Inglesi avessero a combattere disperatamente sopra il suolo inglese, a difendere la religione e indipendenza loro. Nè si tennero un istante mai liberi dalla paura di qualche gran tradimento in casa; perocchè in quei giorni era diventato punto di coscienza e d’onore per molti uomini d’indole generosa il sacrificare la patria alla religione. Una serie di congiure di continuo ordite dai cattolici romani contro la vita della regina e la esistenza della nazione, teneva la società in perenne trepidazione. Qualunque si fossero gli errori di Elisabetta, era pur manifesto che le sorti del regno e di tutte le chiese riformate pendevano dalla sicurtà della sua persona e dal prospero successo della sua amministrazione. Era, dunque, precipuo dovere d’ogni cittadino e d’ogni protestante rinvigorirle il braccio: dovere che fu bene osservato. I puritani, anche dal fondo delle prigioni dove essa gli aveva sepolti, pregavano con fervore non finto, perchè la ribellione le cadesse doma ai piedi, e le sue armi fossero vittoriose per mare e per terra. Uno de’ più testardi della testarda setta, appena il carnefice gli aveva mozza una mano a punirlo d’un delitto al quale era stato spinto dal suo stemperato zelo, scuotendo con l’altra mano il cappello, esclamò: «Dio salvi la regina!» Il sentimento che cotesta genia di uomini provavano per lei passò ai loro posteri. I non–conformisti, per quanto rigorosamente li avesse trattati, hanno, come corporazione, sempre venerata la memoria di lei.[6] Quindi, per tutto quasi il tempo che ella regnò, i puritani nella Camera de’ Comuni, quantunque s’ammutinassero talvolta, non erano inchinevoli ad ordinarsi in opposizione sistematica contro il governo. Ma allorchè la sconfitta dell’Armada, la vittoriosa resistenza delle Province Unite alla dominazione spagnuola, il consolidamento di Enrico IV sopra il trono di Francia, e la morte di Filippo II ebbero resi sicuri lo Stato e la Chiesa contro ogni pericolo esterno, scoppiò subito nello interno un ostinato conflitto, che durò per parecchie generazioni. XXXI. Nel parlamento del 1601, quella opposizione la quale per quaranta anni erasi sordamente raccolta e afforzata, combattè la sua prima grande battaglia, e riportò la sua prima vittoria. Il campo era bene scelto. La suprema direzione della politica commerciale era stata sempre affidata ai sovrani inglesi. Era loro prerogativa indisputata quella di regolare la moneta, i pesi e le misure, e di stabilire le fiere, i mercati e i porti. La linea che limitava la loro autorità in fatto di commercio, era stata, secondo il costume, descritta confusamente. Essi quindi, secondo il costume, facevano usurpazioni nel terreno che per diritto apparteneva al corpo legislativo. Le usurpazioni furono, secondo il costume, tollerate con pazienza fino a tanto che divennero gravissime. Finalmente, la regina arbitrò di concedere a centinaia patenti di monopolio. Non eravi quasi famiglia in tutto il regno, la quale non sentisse il peso dell’oppressione e delle estorsioni che originavano naturalmente da cosiffatto abuso. Ferro, olio, aceto, carbone, salnitro, piombo, amido, lana filata, pelli, cuoi, vetri, bisognava comperarli a prezzi esorbitanti. La Camera de’ Comuni ragunandosi, si mostrò in collera e determinata ad operare. Invano una minoranza cortigiana biasimò il presidente di tollerare che gli atti della Regina venissero posti in discussione. Il linguaggio de’ malcontenti era alto e minaccioso, e vi faceva eco la voce della intera nazione. Il cocchio del primo ministro della corona venne circondato dal popolaccio sdegnato, il quale malediceva a’ monopolii, e gridava non doversi patire che le regie prerogative violassero le libertà della Inghilterra. E’ parve per un istante temersi che il lungo e glorioso regno di Elisabetta avrebbe una fine vergognosa e sciagurata. Ella, nondimeno, con giudizio e contegno mirabili, evitò la contesa, si pose a capo del partito riformista, riparò agli aggravi, rese grazie ai Comuni con dignitose e commoventi parole per la loro tenera sollecitudine verso il bene pubblico, riguadagnò il cuore del popolo, e lasciò a’ suoi successori un memorabile esempio del come un sovrano debba governarsi nelle pubbliche commozioni qualvolta gli manchino i mezzi di vincerle. XXXII. La grande Regina moriva nel 1603. Quest’anno, per molte ragioni, forma una delle più importanti epoche nella nostra storia. E’ fu allora che la Irlanda e la Scozia divennero parti del medesimo impero insieme con la Inghilterra. Entrambe, Scozia ed Irlanda, a dir vero, erano state soggiogate dai Plantageneti, ma nè l’una nè l’altra erasi sobbarcata con pazienza al giogo. La Scozia aveva con eroico valore rivendicata la propria indipendenza; era stata, fino dal tempo di Roberto Bruce, un regno separato; ed ora veniva congiunta alla parte meridionale dell’isola con un modo che gratificava, anzi che ferire, il suo orgoglio nazionale. La Irlanda, dai tempi d’Enrico II in poi, non aveva potuto espellere gl’invasori stranieri; ma aveva lungamente e strenuamente lottato contro essi. Nel corso de’ secoli decimoquarto e decimoquinto, la potenza inglese in quell’isola era venuta sempre decadendo, e nei giorni di Enrico VII era caduta in fondo. I dominii inglesi di quel principe erano solo le contee di Dublino e di Louth, qualche parte di Meath e di Kildare, e pochi porti di mare lungo la costiera. Un vasto tratto di Leinster non era per anche diviso in contee. Munster, Ulster e Connaught, erano governate da principotti o celti, o degeneri normanni che avevano dimenticata la origine propria, e adottato lo idioma e i costumi celtici. Ma nel secolo decimosesto, la potenza inglese vi aveva fatto grandi progressi. I semi–selvaggi capi che reggevano le contrade non sottoposte, avevano ceduto, l’uno dopo l’altro, ai luogotenenti de’ Tudors. Alla perfine, pochi giorni avanti la morte d’Elisabetta, la conquista, che era stata quattrocento e più anni prima iniziata da Strongbow, fu compita da Mountjoy. Di poco Giacomo I era asceso al trono, allorchè O’Donnell ed O’Neil, ultimi fra quelli che avevano tenuto il grado di principi indipendenti, condotti a Whitehall, gli baciarono la mano. D’allora in poi, i suoi decreti valevano, e i suoi giudici tenevano corti in ogni parte d’Irlanda, e le leggi inglesi prevalsero alle consuetudini con che reggevansi le tribù aborigene. Per estensione, la Scozia e la Irlanda erano pressochè uguali, e, congiunte, pareggiavano quasi l’Inghilterra; ma meno di essa popolate, le rimanevano lungo tratto inferiori per civiltà ed opulenza. La Scozia era stata impedita di raggiungerla dalla natia sterilità del suolo; e la Irlanda, fra mezzo alla luce della Europa risorta, giaceva tuttavia sotto la tenebra del medio evo. La popolazione della Scozia, tranne le tribù celtiche che erano sparse nelle Ebridi e su per le regioni montuose delle contee settentrionali, aveva comune il sangue con la popolazione dell’Inghilterra, e parlava una lingua che non differiva dalla purissima favella inglese più che i dialetti delle contee di Somerset e di Lancaster non differiscono l’uno dall’altro. In Irlanda, all’incontro, la popolazione, salvo la piccola colonia inglese presso la costa, era celtica, e serbava tuttavia l’idioma e i costumi celtici. Per naturale coraggio ed intelligenza, ambedue le nazioni che incorporavansi all’Inghilterra, erano degne di considerazione. Per perseveranza, impero di sè, preveggenza, e per tutti i pregii necessari a bene condurre la vita, gli Scozzesi non sono mai stati vinti da nessun altro popolo. Gl’Irlandesi, dall’altro canto, erano predistinti da quelle qualità che tendono a rendere gli uomini interessanti, più presto che avventurati. Erano razza ardente ed impetuosa, facile a trascorrere alle lacrime o al riso, al furore o allo affetto. Sola tra tutte le nazioni della Europa settentrionale, aveva la irritabilità, la vivacità, il pendio naturale per la mimica e la rettorica; qualità ingenite nei popoli de’ lidi del mediterraneo. Per cultura intellettuale, la Scozia era incontrastabilmente superiore. Tuttochè quel regno fosse il più povero in tutta la cristianità, gareggiava, nonostante, in ogni ramo di scibile con le più fortunate regioni. Gli Scozzesi, de’ quali le abitazioni e i cibi erano meschini al pari di quelli degl’Irlandesi de’ giorni nostri, scrivevano versi latini con maggiore squisitezza che non ne mostra il Vida, e nelle scienze facevano scoperte che avrebbero accresciuta la rinomanza di Galileo. La Irlanda non poteva gloriarsi di un Bucanano o d’un Napier. Il genio, di che i loro abitanti aborigeni erano largamente dotati, mostravasi, come fa tuttavia, nelle ballate; le quali, comunque selvagge e rozze, parvero all’occhio giudizioso di Spenser contenere vene di puro oro poetico. La Scozia, diventando parte della monarchia britannica, serbò tutta la sua dignità. Dopo d’avere per molte generazioni coraggiosamente sostenuto lo scontro delle armi inglesi, veniva adesso congiunta alla sua più forte vicina con patti onorevolissimi. Ella dava un re in vece di riceverlo. Serbava intatte la costituzione e le leggi proprie. I tribunali e i parlamenti rimanevano affatto indipendenti dai tribunali o dai parlamenti che sedevano in Westminster. L’amministrazione della Scozia era affidata a mani scozzesi; perocchè nessuno inglese aveva cagione di emigrare verso settentrione, e contendere alla più astuta e pertinace di tutte le razze quel poco che vi era da raspare nel più povero de’ tesori. Frattanto, gli avventurieri scozzesi calavano giù verso le regioni meridionali, ed ottenevano in tutte le vie della vita una prosperità che eccitava la invidia, comunque, per lo più, altro non fosse che giusto rimerito alla prudenza e alla industria. Nulladimeno, la Scozia non potè in guisa nessuna sottrarsi al destino inevitabile ad ogni stato che si annette ma non s’incorpora con un altro stato ricco di maggiori mezzi. Quantunque fosse regno indipendente di nome, essa venne, per cento e più anni, veramente trattata per molti rispetti come provincia soggetta. L’Irlanda fu governata come terra conquistata con le armi. Le sue rozze istituzioni nazionali erano spente. I coloni inglesi, sottostando alla dittatura della madre patria, senza lo aiuto della quale non potevano esistere, si rifacevano calpestando le popolazioni fra le quali vivevano. Il parlamento che ragunavasi in Dublino, non poteva adottare una legge senza che fosse stata innanzi approvata dal consiglio privato di Londra. L’autorità del corpo legislativo inglese estendevasi sopra la Irlanda. L’amministrazione esecutiva era affidata ad uomini inglesi, che venivano considerati come stranieri, ed anche come nemici, dalla popolazione celtica. Ci rimane a notare la cagione che più d’ogni altra ha rese le sorti dell’Irlanda cotanto diverse da quelle della Scozia. La Scozia era protestante. In nessuna contrada d’Europa il moto popolare contro la Chiesa romana era stato così rapido e violento. I riformatori avevano vinta, deposta dal trono e imprigionata la loro sovrana idolatra. Non vollero nè anche accettare una concordia simile a quella ch’era seguita in Inghilterra. Avevano stabilito la dottrina, la disciplina e il culto di Calvino; e facevano poca distinzione tra il papato e la prelatura, fra la messa e il libro della preghiera comune. Sventuratamente per la Scozia, il principe che essa mandò per governare un’eredità più bella, era stato tanto molestato dalla pertinacia con che i teologi avevano predicato contro lui i privilegi del sinodo e del pulpito, ch’egli detestava la politica ecclesiastica alla quale la nazione era affezionata, odiavala di quanto odio poteva essere capace la sua indole effeminata; ed appena asceso sul trono inglese, cominciò a mostrare intollerantissimo zelo per il governo e il rituale della Chiesa anglicana. Gl’Irlandesi erano il solo popolo nella Europa settentrionale che fosse rimasto fido alla vecchia religione. Lo che è da attribuirsi in parte a ciò, che essi in cultura rimanevano addietro di parecchi secoli ai loro vicini. Ma altre cagioni vi avevano cooperato. La riforma era stata una rivoluzione politica e morale. Non erano solo insorti i laici contro il clero, ma tutte le schiatte della gran razza germanica contro la dominazione straniera. È fatto significantissimo, che nessuna gran massa di popolo la lingua del quale non sia teutonica, s’è giammai volta al protestantismo; e che dove si parla un idioma derivato da quello dell’antica Roma, la religione della Roma moderna fin oggi prevale. Il patriottismo degl’Irlandesi aveva preso un cammino peculiare. Lo scopo de’ loro rancori non era Roma, ma l’Inghilterra; ed avevano ragioni speciali per abborrire quei sovrani inglesi che erano stati capi di quel grande scisma, Enrico VIII ed Elisabetta. Mentre ferveva la lotta che due generazioni di principi Milesii tennero viva contro i Tudors, lo entusiasmo religioso e l’entusiasmo nazionale si confusero inseparabilmente negli animi della razza vinta. La nuova contesa fra protestanti e papisti riaccese la vecchia contesa tra Sassoni e Celti. Gl’Inglesi vincitori, frattanto, trascuravano ogni mezzo legittimo di conversione. Non si davano pensiero di provvedere la vinta nazione d’istitutori capaci di farsi intendere. Non fu fatta una versione della Bibbia in lingua ersa. Il governo fu pago di stabilire una vasta gerarchia di arcivescovi, vescovi e rettori protestanti, i quali non facevano nulla, e per non far nulla erano pagati con le spoglie d’una Chiesa amata e riverita dalla più parte del popolo. Le condizioni della Scozia e della Irlanda erano tali da svegliare il timore nel petto d’un preveggente uomo di stato. Nondimeno, eravi apparenza di tranquillità. Per la prima volta tutte le isole britanniche trovavansi unite pacificamente sotto un solo scettro. E’ sembrerebbe che la importanza dell’Inghilterra fra gli stati Europei avesse dovuto da quell’epoca in poi accrescersi grandemente. Il territorio governato dal nuovo re, era per estensione doppio di quello che ad Elisabetta era toccato in retaggio. Il suo impero era in sè stesso il più compiuto e il più sicuro da ogni possibile aggressione. Ai Plantageneti e ai Tudors era stato mestieri più volte difendersi contro la Scozia, mentre erano implicati nelle guerre continentali. Il lungo conflitto in Irlanda aveva consunti tutti i loro mezzi. Nulladimeno, anche sotto tali svantaggi, que’ sovrani eransi acquistata alta riputazione per tutta la cristianità. Era, dunque, bene ragionevole lo sperare che la Inghilterra, la Scozia e l’Irlanda, congiunte, avrebbero formato uno stato a nessuno secondo fra quei che allora esistevano. XXXIII. Tutte coteste speranze divennero stranamente illusorie. Nel giorno in cui Giacomo I ascese al trono, la patria nostra discese giù dal grado ch’essa fino allora aveva tenuto, e cominciò ad essere considerata come potenza appena di secondo ordine. Per molti anni la gran monarchia inglese, sotto quattro principi successivi della casa degli Stuardi, fu nel sistema europeo membro appena più importante di quello che per innanzi era stato il piccolo regno di Scozia. Il che, nondimeno, deve essere cagione di poca doglianza. Può dirsi di Giacomo I, come di Giovanni, che se la sua amministrazione fosse stata savia e splendida, sarebbe riuscita probabilmente fatale al nostro paese, e che noi dobbiamo più alla sua indole debole e meschina che alla sapienza e al coraggio di assai migliori sovrani. Egli ascese al trono in un momento critico. Avvicinavasi rapido il tempo in cui o il re doveva diventare assoluto, o il parlamento doveva infrenare il potere esecutivo. Se egli fosse stato come Enrico IV, come Maurizio di Nassau o come Gustavo Adolfo, un principe strenuo, politico, operoso; se egli si fosse posto a capo de’ protestanti dell’Europa, se avesse riportate grandi vittorie contro Tilly e Spinola, se avesse adornato Westminster con le spoglie de’ monasteri bavari e delle cattedrali fiamminghe, se egli avesse appeso alle mura di San Paolo i vinti vessilli d’Austria e di Castiglia, s’egli si fosse trovato, dopo memorande gesta, a capo di cinquanta mila soldati valorosi, bene disciplinati e devoti alla sua persona; il Parlamento inglese altro non sarebbe diventato che un nome vano. Avventuratamente, egli non era uomo da sostenere tanta parte. Iniziò la sua amministrazione ponendo fine alla guerra che da anni molti ardeva tra la Spagna e l’Inghilterra; e sino da quel tempo schivò le ostilità con tale cautela, da sostenere pazientemente gl’insulti de’ suoi vicini e i clamori de’ suoi sudditi. Fino all’ultimo anno della sua vita, la influenza del suo figlio, del suo favorito, del suo parlamento e del suo popolo, non valse ad indurlo a menare un debole colpo in difesa della sua famiglia e della sua religione. E’ fu bene per i suoi sudditi, ch’egli in siffatto modo non compiesse i loro desiderii. Lo effetto della sua politica di pace, fu che in un tempo in cui bisogno non v’era di milizie regolari, e mentre la Francia, la Spagna, la Italia, il Belgio e la Germania brulicavano di soldati mercenari, la difesa dell’isola nostra venisse tuttavia affidata alla guardia cittadina. XXXIV. Dacchè il Re non aveva esercito stanziale, e nè anche si provava di formarne, sarebbe stato prudente consiglio lo scansare ogni conflitto col suo popolo. Ma fu tale la sua stoltezza, che mentre trascurava affatto i soli mezzi che lo potessero rendere assoluto, produceva di continuo, nella forma più offensiva, pretese, nessuna delle quali i suoi predecessori avevano mai sognato di produrre. E’ fu in quel tempo che primamente apparvero quelle strane dottrine che Filmer poscia ordinava a sistema, e che divennero la insegna della più violenta classe dei Tory e dell’alto clero. Sostenevano solennemente, che l’Essere Supremo impartiva alla monarchia ereditaria, come opposta ad ogni altra forma di governo, peculiare favore; che la regola di successione in ordine di primogenitura era una istituzione divina, anteriore a Cristo ed anche a Moisè; che nessuna potestà umana, nè anche quella della intera legislatura, nessuna lunga durata di possesso, fosse anco di dieci secoli, poteva privare de’ suoi diritti il principe legittimo; che la sua autorità era necessariamente dispotica; che le leggi le quali in Inghilterra ed altrove limitavano la regia prerogativa, dovevano considerarsi come semplici concessioni fatte liberamente dal sovrano, che ei poteva ad arbitrio ritogliere; e che ogni trattato che facesse il sovrano col suo popolo era una pretta dichiarazione delle sue intenzioni presentì, non un contratto che l’obbligasse a mantenerle. È cosa evidente, che questa teorica, comecchè intesa a rafforzare le fondamenta del governo, le indebolisce affatto. La divina ed immutabile legge della primogenitura, ammetteva ella o escludeva le femmine? In ambedue le ipotesi, era mestieri che i sovrani d’Europa fossero usurpatori, regnanti in onta ai comandamenti del Cielo, e potessero venire giustamente spossessati dagli eredi legittimi. Tali assurde dottrine non erano afforzate dall’autorità del Testamento Vecchio, perocchè in esso leggiamo il popolo eletto avere ricevuto biasimo e pena per aver desiderato un re, e essergli poi stato ingiunto di non obbedire a quel re. Tutta la storia di quello, lungi dal convalidare la idea che la primogenitura fosse d’istituzione divina, parrebbe più presto indicare che i fratelli minori sono sotto la speciale protezione del Cielo. Isacco non era il primogenito d’Abramo, nè Giacobbe lo era d’Isacco, nè Giuda di Giacobbe, nè David di lesse, nè Salomone di David. Vero è che l’ordine d’anzianità tra i figliuoli è rade volte osservato strettamente nei paesi dove costumasi la poligamia. Il sistema di Filmer non poteva nè anche appoggiarsi a que’ luoghi del Nuovo Testamento, ne’ quali il governo è rappresentato come ordinanza di Dio; perocchè il governo sotto il quale vivevano gli scrittori del Nuovo Testamento, non era monarchia ereditaria. Gl’imperatori romani erano magistrati repubblicani, eletti dal senato. Nessuno di loro pretendeva d’imperare per diritto di nascita; e difatti Tiberio, al quale Cristo ordinò doversi pagare il tributo, e Nerone al quale Paolo comandò che obbedissero i Romani, erano, secondo la teorica patriarcale di governo, usurpatori. Nel medio evo, la dottrina del diritto ereditario imprescrittibile sarebbe stata considerata eretica, come quella che era incompatibile con le alte pretese della Chiesa di Roma. Era parimente dottrina sconosciuta ai fondatori della Chiesa anglicana. La omilia intorno alla ribellione premeditata, aveva fortemente e, per vero dire, troppo fortemente inculcata la sottomissione alla autorità costituita; ma non aveva fatta nessuna distinzione tra monarchia elettiva ed ereditaria, o tra monarchia e repubblica. Veramente, la maggior parte dei predecessori di Giacomo avrebbero, per ragioni personali, considerata con avversione la teoria patriarcale di governo. Guglielmo Rufo, Enrico I, Stefano, Giovanni, Enrico IV, Enrico V, Enrico VI, Riccardo III, Enrico VII avevano tutti regnato in onta alla stretta regola di discendenza. Un dubbio gravissimo pesava sopra la legittimità di Maria e d’Elisabetta. Era impossibile che Caterina d’Aragona ed Anna Bolena fossero ambedue legalmente maritate ad Enrico VIII; e la più alta autorità del reame aveva sentenziato che nessuna di esse lo era. I Tudors, lungi dal considerare la legge di successione come istituzione divina ed immutabile, la modificarono spesso. Enrico VIII ottenne dal Parlamento un atto con che acquistava la potestà di disporre della corona per testamento, e difatti testò in pregiudicio della famiglia reale di Scozia. Eduardo VI, senza lo assenso del parlamento, arrogossi una somigliante potestà: di che lo approvarono i più illustri riformisti. Elisabetta, convinta che i propri diritti soggiacevano a gravi obiezioni, e non volendo ammettere nè anche un diritto di riversibilità nella regina degli Scozzesi sua rivale e nemica, indusse il Parlamento a fare una legge, nella quale ordinavasi che chiunque negasse la competenza del sovrano regnante, col consentimento degli Stati del regno, a variare la successione, verrebbe punito di morte come traditore. Ma le condizioni in cui Giacomo trovavasi, erano assai diverse da quelle in cui era stata Elisabetta. Molto inferiore ad essa e per ingegno e per popolarità, considerato dagli Inglesi come straniero, ed escluso dal trono per virtù del testamento di Enrico VIII, il re degli Scozzesi era nondimeno lo erede indubitabile di Guglielmo il Conquistatore e di Egberto. Aveva quindi manifesto interesse ad inculcare la dottrina superstiziosa, che la nascita conferisce diritti superiori alla legge e inalterabili dalla legge. Oltredichè, era dottrina consona alla tempra dello intelletto e all’indole di lui: però trovò tosto molti difensori fra coloro che ambivano il favore del principe, e fece rapidi progressi fra il clero della Chiesa stabilita. Così, nel momento medesimo in cui cominciava a manifestarsi vigoroso nel Parlamento e nel paese lo spirito repubblicano, le pretese del monarca assunsero una forma mostruosa, che avrebbe disgustato il più superbo ed arbitrario de’ principi che lo avevano preceduto sul trono. Giacomo vantavasi sempre della sua perizia in quella ch’egli chiamava arte di regno; e nondimeno, riesce quasi impossibile immaginare una condotta che al pari della sua fosse direttamente opposta a tutte le regole dell’arte di regnare. È stata sempre politica de’ principi savi il travestire gli atti vigorosi con forme popolari. In questa guisa Augusto e Napoleone stabilirono le loro monarchie assolute, mentre il popolo li considerava come semplici cittadini rivestiti di magistrature temporanee. La politica di Giacomo procedeva tutta al rovescio. Provocava la rabbia e la paura del suo Parlamento, dicendogli sempre che i rappresentanti della nazione potevano esercitare i propri privilegi finchè egli volesse, e che non ispettava loro di discutere intorno a ciò ch’egli potesse legalmente fare, come non avevano diritto alcuno di discutere sulla legalità delle azioni di Dio. Nulladimeno, egli piegavasi innanzi al Parlamento, abbandonava i suoi ministri, l’uno dopo l’altro, alla vendetta di quello, e pativa d’essere trascinato ad atti direttamente ripugnanti alle sue più forti tendenze. Così crebbero insieme lo sdegno eccitato dalle sue pretese, e lo scherno provocato dalle sue concessioni. L’affetto che egli portava a indegni favoriti, e la sanzione ch’ei dava alla tirannia e rapacità loro, tenevano perpetuamente vivi i malumori. La codardia, la pedanteria, la fanciullaggine sue, la sgarbatezza della persona e de’ modi suoi, il suo accento provinciale, lo facevano segno al pubblico dileggio. Anco nelle sue virtù e nelle sue doti era alcun che di affatto sconvenevole ad un re. Così, in tutto il corso del suo regno, venne sempre più scemando la riverenza tradizionale che il trono ispirava al popolo. Per duecento anni, tutti i sovrani che avevano governata la Inghilterra, tranne lo sventurato Enrico VI, erano stati uomini d’animo forte, di spirito altero e di contegno principesco. Quasi tutti avevano mostrata non ordinaria destrezza. Però non fu cosa di lieve momento, che nella vigilia della lotta decisiva tra i nostri re e i loro parlamenti, la sovranità si mostrasse balbettante, spargendo lacrime imbelli, e tremando innanzi ad una spada sguainata, e parlando or la favella del buffone, ora quella del pedagogo. XXXV. Frattanto le dissensioni religiose, che fino dai giorni di Eduardo VI avevano affaccendate le fazioni protestanti, erano divenute quanto mai formidabili. Lo intervallo che aveva divisa la prima generazione de’ protestanti da Cranmer e Jewel, era ben corto in paragone di quello che separò la terza generazione dei puritani da Laud ed Hammond. Mentre la rimembranza delle crudeltà di Maria era ancor fresca; mentre la forza del partito cattolico tuttavia ispirava timore; mentre Spagna, serbando ancora la sua preponderanza, aspirava alla dominazione universale; tutte le sètte riformate conoscevano d’avere un interesse comune, ed un comune e mortale nemico. Lo aborrimento vicendevole che sentivano, era lieve in agguaglio di quello che provavano contro Roma. Conformisti e non–conformisti eransi cordialmente congiunti nel fare severissime leggi penali contro i papisti. Ma poichè cinquanta e più anni di indisturbato possesso ebbero resa alla Chiesa stabilita la fiducia in sè; poichè nove decimi della nazione erano divenuti protestanti sinceri; poichè la Inghilterra essendo in pace con tutto il mondo, non eravi più pericolo che il papismo venisse imposto alla nazione dalle armi straniere; ed erano spenti gli ultimi confessori i quali stettero intrepidi innanzi a Bonner; i sentimenti del clero anglicano cangiaronsi. Mitigavasi considerevolmente la loro ostilità contro la dottrina e disciplina cattolica romana, mentre dall’altro canto si accresceva quotidianamente la loro avversione contro i puritani. Le controversie che avevano fin da principio scisso il partito protestante, presero una forma tale, da togliere ogni speranza di riconciliazione; e nuove controversie di assai maggiore importanza si aggiunsero alle vecchie cagioni di dissenso. I fondatori della Chiesa anglicana avevano ritenuto l’episcopato come un ordinamento di politica ecclesiastica antica, venerabile e convenevole; ma non avevano dichiarato che quella dignità nel governo della Chiesa fosse d’istituzione divina. Abbiamo già veduto quanta poca stima Cranmer facesse dell’ufficio di vescovo. Regnante Elisabetta, Jewel, Cooper, Whitgift ed altri incliti dottori, difesero la prelatura come innocua ed utile, come cosa che poteva essere legittimamente istituita dallo Stato, come cosa che, una volta istituita, doveva essere rispettata da ogni cittadino. Ma non negarono mai che una comunità cristiana priva di vescovo, potesse essere una chiesa pura; che anzi credevansi congiunti ai protestanti del continente in una medesima fede. Gl’Inglesi in Inghilterra, a dir vero, erano tenuti a riconoscere l’autorità del vescovo, nel modo medesimo che erano tenuti a riconoscere l’autorità dello sceriffo o d’altro ufficiale pubblico; ma l’obbligo era soltanto locale. Un ecclesiastico inglese, anzi un prelato inglese, se andava in Olanda, conformavasi senza scrupolo alla religione stabilita dell’Olanda. Ne’ paesi stranieri, gli ambasciatori di Elisabetta e di Giacomo assistevano officialmente a quegli stessi riti che Elisabetta e Giacomo avevano proscritti negli Stati brittannici, e con gran cura astenevansi dal decorare le loro cappelle private secondo il costume anglicano, onde non essere di scandalo ai loro traviati fratelli. Sostenevasi perfino che i ministri presbiteriani avevano diritto di sedere e di votare ne’ concilii ecumenici. Quando gli Stati generali delle Provincie Unite convocarono a Dorf un sinodo di dottori non ordinati dai vescovi, un decano ed un vescovo inglesi v’intervennero, parteciparono alle discussioni, e votarono con essi intorno alle più gravi questioni teologiche.[7] Anzi, molti beneficii in Inghilterra erano occupati da ecclesiastici che erano stati ammessi al ministero secondo la cerimonia calvinistica che usavasi nel continente; nè era creduto necessario, o anche legale, che un vescovo in simiglianti casi conferisse una nuova ordinazione. Ma sorgeva già nella Chiesa d’Inghilterra una nuova genia di teologi. Secondo loro, l’ufficio episcopale era essenziale al bene d’una società cristiana, ed alla efficacia delle più solenni ordinanze della religione. A quell’ufficio spettavano certi sacri ed alti privilegi, che non potevano essere conferiti nè ritolti da nessuna potestà umana. Una Chiesa poteva esistere senza la dottrina della Trinità o della Incarnazione, come senza gli ordini apostolici; e la Chiesa di Roma, la quale, fra tutti i suoi traviamenti, aveva serbati gli ordini apostolici, era più presso alla primigenia purità, di quel che lo fossero quelle società riformate che avevano arditamente innalzato un sistema inventato da esse, in opposizione al modello divino. Nei tempi di Eduardo VI e di Elisabetta, i difensori del rituale anglicano eransi contentati di dire che esso poteva usarsi senza peccato, e che quindi niuno, fuorchè un suddito perverso e sconoscente i propri doveri, ricuserebbe di usarlo sempre che gli fosse ordinato dai magistrati. Intanto, quel nascente partito che pretendeva per l’ordinamento politico della Chiesa ad un’origine celeste, cominciò ad attribuire alle sacre cerimonie nuova dignità ed importanza. Concludevano, che se nel culto stabilito vi fosse qualche errore, siffatto errore era la sua estrema semplicità; e che i riformatori, nel calore delle loro dissensioni con Roma, avevano abolite molte antiche cerimonie che si sarebbero utilmente potute serbare. I giorni e i luoghi furono di nuovo osservati con misteriosa venerazione. Talune cerimonie che da lungo tempo erano cadute in disuso, e che comunemente giudicavansi come fantocciate superstiziose, furono richiamate a vita. Le pitture e le sculture che erano rimaste illese dal furore della prima generazione de’ protestanti, divennero obietti di tale venerazione, che a molti sembrava idolatria. Nessuna parte del sistema della vecchia Chiesa era stata tanto detestata dai riformatori, quanto il rispetto e la onoranza che tributavasi al celibato. Sostenevano che la dottrina di Roma intorno a ciò, era stata profeticamente condannata come diabolica dall’apostolo Paolo; e convalidavano la loro asserzione enumerando i delitti e gli scandali che originavano dalla osservanza di quella dottrina. Lutero aveva manifestata nel modo più chiaro la propria opinione sposando una monaca. Taluni de’ vescovi e de’ preti più illustri i quali, regnante Maria, erano stati arsi vivi, avevano lasciato moglie e figliuoli. Ora, nondimeno, principiava a correre la voce, che il vecchio spirito monastico fosse riapparso nella Chiesa anglicana; che nelle alte classi esistesse un pregiudicio contro i preti ammogliati; che anche i laici ohe si chiamavano protestanti, si fossero prefissi di osservare il celibato con promesse equivalenti quasi a voti solenni; anzi, che un ministro della religione stabilita avesse fondato un monastero, dentro il quale una congrega di vergini dedicate a Dio cantava i salmi a mezzanotte.[8] Nè ciò era tutto. Una specie di questioni intorno alle quali i fondatori della Chiesa anglicana e la prima generazione dei puritani differivano poco o nulla, cominciò ad apprestare materia alle più virulente dispute. Le controversie che avevano scissa la setta protestante nella sua infanzia, riferivansi pressochè tutte al governo ecclesiastico ed alle cerimonie. Intorno ai punti di teologia metafisica non era stato serio litigio fra le parti contendenti. Le dottrine sostenute dai capi della gerarchia rispetto al peccato originale, alla fede, alla grazia, alla predestinazione, alla elezione, erano quelle che comunemente si chiamano calvinistiche. Verso la fine del regno d’Elisabetta, lo arcivescovo Whilgift, suo prelato prediletto, compose, d’accordo col vescovo di Londra e con altri teologi, il celebre documento intitolato—gli Articoli di Lambeth. In esso le più notevoli fra le dottrine calvinistiche vengono affermate con tale distinzione, che disgusterebbe molti che, nell’età nostra, vengono reputati calvinisti. Un chierico il quale fu di contrario parere, e parlò duramente di Calvino, fu espulso, in pena della sua presunzione, dalla università di Cambridge, e si sottrasse al castigo soltanto confessando di credere fermamente ne’ dogmi della riprovazione e della perseveranza finale, e dolendosi d’avere offeso, con le sue idee intorno al riformatore francese, gli uomini pii. La scuola teologica della quale Hooker era capo, occupava un posto di mezzo tra la scuola di Cranmer e quella di Laud; e nei tempi moderni Hooker è stato considerato dagli arminiani come loro alleato. Ciò non ostante, Hooker affermò Calvino essere stato superiore per sapienza ad ogni altro teologo che fosse mai stato in Francia; essere stato uomo al quale migliaia andavano debitori della cognizione della verità divina, cognizione che egli doveva alla sola grazia peculiare di Dio. Allorchè nacque in Olanda la controversia arminiana, il Governo e la Chiesa d’Inghilterra prestarono vigoroso sostegno al partito calvinista; ed il Governo inglese non è affatto scevro della macchia che la prigionia di Grozio e lo assassinio giuridico di Barneveldt hanno lasciata su quel partito. Ma anco innanzi la convocazione del sinodo olandese, coloro fra il clero anglicano che erano ostili al governo ecclesiastico ed al culto calvinista, avevano preso a considerare con disgusto la metafisica di Calvino; e siffatto sentimento venne naturalmente a rinvigorirsi per la grossolana ingiustizia, insolenza e crudeltà del partito che prevaleva in Dort. La dottrina arminiana, dottrina meno austeramente logica che non fosse quella de’ più antichi riformatori, ma più consona alle nozioni popolari intorno alla giustizia ed alla benevolenza divina, si estese molto e rapidamente, e giunse alla corte. Quelle opinioni le quali, nel tempo in che Giacomo ascese al trono, nessun ecclesiastico avrebbe osato di emettere senza imminente pericolo di essere privato del sacerdozio, erano ora diventale argomento di merito. Un teologo di quell’età, richiesto da un semplice gentiluomo di campagna cosa tenessero—vale a dire credessero—gli arminiani, rispose, con pari arguzia e verità, che essi tenevano i migliori vescovati e le migliori prebende dell’Inghilterra. Mentre parte del clero anglicano abbandonava il posto che esso in origine aveva occupato, parte della setta de’ puritani scostavansi, in un cammino diametralmente opposto, dai principii e dalle usanze de’ loro padri. La persecuzione che i separatisti avevano sostenuta, era stata severa tanto da irritare, ma non da distruggere. Non erano stati domi o sottomessi, ma resi inselvatichiti e caparbi. Secondo il costume delle sètte oppresse, scambiando i loro sentimenti vendicativi per emozioni religiose, fomentavano ne’ loro cuori, leggendo e meditando, l’inchinevolezza a non iscordare le ingiurie sofferte; e dopo che si furono assuefatti a odiare i loro nemici, immaginarono di odiare solamente gl’inimici di Dio. Certo il Nuovo Testamento, anche interpretato con aperta mala fede, non indulgeva alle passioni malefiche. Ma il Testamento Vecchio conteneva la storia di un popolo eletto da Dio ad essere testimonio della sua unità e ministro della sua vendetta, ed in ispecie comandato a operare tali cose, che se fossero state fatte senza espresso comando divino, si sarebbero reputate atroci delitti. Agli spiriti cupi e feroci non tornava difficile trovare in quella storia molti fatti che potessero agevolmente stiracchiarsi a significati convenevoli ai loro desiderii. I più rigidi puritani, adunque, cominciarono a sentire per il Vecchio Testamento una predilezione, che essi forse non confessavano chiaramente, ma che traluceva in tutti i pensieri e i costumi loro. Tributavano al linguaggio ebraico quel rispetto che ricusavano alla lingua nella quale sono a noi pervenuti i discorsi di Cristo e le epistole di Paolo. Battezzando i loro figliuoli, adoperavano non i nomi de’ santi cristiani, ma quelli de’ patriarchi e de’ guerrieri ebrei. Sfidando le espresse e ripetute dichiarazioni di Lutero e di Calvino, trasmutarono in un sabato giudaico il giorno festivo settimanale, con cui la Chiesa aveva, fino da’ tempi primitivi, commemorata la risurrezione del suo Signore. Nella legge mosaica cercavano i principii della giurisprudenza, e nei libri dei Giudici e dei Re indaga vano le norme del vivere. I pensieri e discorsi loro versavano sopra azioni che certamente non vengono ricordate come esempi da imitarsi. Il profeta che tagliò a pezzi un re prigioniero, il capitano ribelle che dette a bere ai cani il sangue d’una regina, la matrona che, violando la fede data e le leggi dell’ospitalità orientale, confisse il chiodo nel cranio dell’alleato fuggiasco che aveva pur allora mangiato al desco e dormito sotto la tenda di lei, venivano proposti come esempi da imitarsi ai Cristiani che pativano la tirannia dei principi e dei prelati. La morale e i costumi furono sottoposti ad un codice che somigliava quello della sinagoga, quando essa era nelle sue peggiori condizioni. Il vestire, il contegno, il linguaggio, gli studi, i sollazzi di quella rigida setta, furono regolati secondo principii simili a quelli de’ Farisei, i quali orgogliosi delle loro mani lavate e de’ loro grandi filatterii, insultavano il Redentore come violatore del sabato e bevitore di vino. Era peccato lo appendere ghirlande al maggio, il bere alla salute d’un amico, il lanciare in aria uno sparviero, il dar la caccia ad un cervo, il giocare a scacchi, arricciarsi i capelli, portare trine inamidate, suonare la spinetta, leggere il Fairy Queen. Simiglianti precetti, i quali sarebbero sembrati insopportabili allo spirito libero e brioso di Lutero, e spregevoli al tranquillo e filosofico intelletto di Zuinglio, gettarono sopra la vita il peso di una regola più che monastica. La dottrina e la eloquenza in cui i grandi riformatori eransi resi illustri, ed a cui andavano non poco debitori dei loro successi, venivano da questa nuova scuola di protestanti considerate con sospetto, se non con avversione. Parecchi rigoristi avevano scrupolo d’insegnare la grammatica latina, perchè vi s’incontravano i nomi di Marte, di Bacco, di Apollo. Le belle arti vennero quasi proscritte. Il solenne suono dell’organo era superstizioso; ed era dissoluta la musica allegra delle maschere di Ben Johnson. Mezze le più belle pitture d’Inghilterra erano idolatre, e le altre mezze indecenti. Il rigido puritano a colpo d’occhio distinguevasi dagli altri uomini per il mondo di vestirsi e di andare, i capelli cascanti, l’aspra solennità del viso, gli occhi rivolti in su, il tono nasale della parlatura, e sopra tutto per il gergo peculiare. Servivasi sempre delle immagini e dello stile della Bibbia. Ebraismi intrusi a forza nella lingua inglese, e metafore attinte alla lirica audace dei più remoti secoli e paesi, e applicate agli usi comuni della vita in Inghilterra, formavano il carattere particolare di quel gergo, che provocava, non senza cagione, il dileggio e de’ prelatisti e de’ liberali. In tal guisa, lo scisma politico e religioso, nato nel secolo decimosesto, si venne, ne’ primi venti anni del susseguente, sempre estendendo. In Whitehall diventarono di voga certe dottrine tendenti al dispotismo turco; mentre certe altre tendenti al repubblicanismo manifestavansi dalla maggior parte de’ membri nella Camera de’ Comuni. I prelatisti violenti, che erano zelanti della prerogativa, e i violenti puritani, che erano zelanti de’ privilegi del parlamento, s’osteggiavano con animosità più forte di quella che, nella precedente generazione, erasi mostrata fra cattolici e protestanti. Mentre le menti degli uomini trovavansi in cosiffatte condizioni, il paese, dopo una pace di molti anni, alla perfine impegnossi in una guerra che richiedeva grandissimi sforzi. Questa guerra affrettò lo appropinquarsi della gran crisi costituzionale. Era mestieri che il Re avesse numerose forze militari, le quali non potevano ottenersi senza pecunia. Egli non poteva legalmente far danari senza lo assenso del Parlamento. Ne seguiva quindi, o che egli dovesse amministrare il governo secondo il sentire della Camera de’ Comuni, o dovesse correre il rischio di violare le leggi fondamentali del regno in modo, di cui per parecchi secoli non s’era visto esempio. I Plantageneti e i Tudors, egli è vero, avevano provveduto al difetto delle loro entrate per mezzo di un donativo o d’un prestito forzato; ma tali espedienti erano sempre d’indole temporanea. Il far fronte al peso continuo d’una lunga guerra con una tassa regolare, imposta senza il consentimento degli Stati del reame, era tale un passo che lo stesso Enrico VIII non avrebbe osato fare. L’ora decisiva, adunque, sembrava approssimarsi, in cui al Parlamento inglese sarebbe toccata la sorte dei senati del continente, o l’acquisto della preponderanza nel governo dello Stato. XXXVI. Ma in quel mentre il re Giacomo morì. Carlo I ascese al trono. Natura lo aveva dotato di molto migliore intendimento, di volontà più vigorosa, di temperamento più ardente e più fermo, che suo padre non era. Da costui aveva egli ereditati i principii politici, ed era più di lui disposto a metterli in opera. Era al pari del padre uno zelante episcopale; ed era inoltre ciò che il padre non era mai stato, voglio dire zelante arminiano; e quantunque non fosse papista, amava meglio i papisti che i puritani. Sarebbe cosa ingiusta negare a Carlo alcune delle doti convenevoli ad un principe buono e anche grande. Parlava e scriveva, non, come il padre suo, con la esattezza di un professore, ma secondo lo stile di un gentiluomo intelligente e bene educato. Aveva gusto squisito nelle lettere e nelle arti gentili, e modi, comunque privi di grazia, dignitosi: la sua vita domestica era senza menda. La perfidia fu la cagione massima de’ suoi disastri, ed è la macchia precipua che gli deturpa la fama. Veramente, era una incurabile tendenza quella che lo trascinava per le vie torte e tenebrose. E’ sembrerebbe strano che la sua coscienza, la quale in occasioni di lieve momento era bastevolmente sensibile, non gli avesse mai rimproverato cotesto gran vizio. Ma abbiamo ragione di credere ch’egli fosse perfido non solo per indole e per costume, bensì per principio. Pare che avesse imparato dai teologi, da lui singolarmente stimati, non potere tra lui e i suoi sudditi esistere nulla che avesse natura di mutuo contratto; lui non avere potestà, qualvolta lo avesse voluto, di deporre la sua autorità dispotica; ed in ogni promessa che egli facesse, sottointendersi la riserva di romperla in caso di necessità, della quale necessità era egli stesso il solo giudice. XXXVII. Allora ebbe principio quel giuoco rischioso dal quale dipesero le sorti del popolo inglese. La Camera de’ Comuni giuocò ostinatamente; ma con destrezza, calma e perseveranza mirabili. Erano di guida all’assemblea alcuni uomini di Stato, che sapevano portare l’occhio molto più addietro e spingerlo molto più avanti che i rappresentanti della nazione non facevano. Quegli alti intelletti determinaronsi di porre il Re in tali condizioni da dovere condurre il governo dello Stato secondo i desiderii del Parlamento, o indursi a violare i più sacri principii dello Statuto. Però, brontolando sempre nel concedergli scarsi sussidi, lo posero nel bisogno di governare o d’accordo con la Camera de’ Comuni, o sfidando ogni legge. Non mise tempo fra mezzo, ed elesse. Sciolse il suo primo Parlamento di propria autorità, e impose tasse. Convocò un secondo Parlamento, e lo trovò più riottoso del primo. Adottò di nuovo lo espediente di discioglierlo, impose nuove tasse senza la minima apparenza di legalità, e gettò in carcere i capi dell’opposizione. Nel tempo stesso, eccitò universale scontento e timore un nuovo aggravio, che riusciva insopportabilmente penoso al sentire ed ai costumi della nazione inglese, e che a tutti gli uomini previdenti sembrava di sinistro augurio. Le compagnie de’ soldati vennero distribuite fra i cittadini onde provvedere agli alloggi, ed in taluni luoghi la legge marziale fu sostituita all’antica giurisprudenza del regno. XXXVIII. Il Re, convocato un terzo Parlamento, tosto si accorse che la Opposizione erasi fatta più vigorosa e fiera che mai. Divisò quindi di mutar tattica. Invece di opporre inflessibile resistenza alle richieste della Camera de’ Comuni, egli, dopo molti alterchi e molte evasioni, s’indusse ad un patto il quale, ove fosse stato da lui fedelmente mantenuto, avrebbe stornata una lunga serie di gravi sciagure. Il Parlamento concesse larghi sussidii. Il re ratificò, nel modo più solenne, quella legge famosa che è conosciuta sotto il nome di Petizione dei Diritti, e che forma la seconda Magna Carta delle libertà dell’Inghilterra. Nel ratificare cotesta legge, egli obbligossi a non levare danaro senza il consenso di ambedue le Camere, non imprigionare mai nessuno, tranne nelle debite forme della legge, e non sottoporre mai più il popolo alla giurisdizione delle corti marziali. Il giorno in cui, dopo molto indugiare, Carlo dette solennemente la sua regia sanzione a questo grande atto, fu giorno di gioia e di speranza. I membri della Camera de’ Comuni, che circondavano la tribuna di quella de’ Lordi, mandarono alte acclamazioni, appena furono proferite, secondo l’antica formula, le parole con le quali i nostri principi, per tanti secoli, hanno significato il loro assenso ai desiderii degli Stati del regno. A tali acclamazioni fece eco la voce della metropoli e della intera nazione; ma dopo pochi giorni, divenne a tutti manifesto che Carlo non intendeva mantenere il patto giurato. Furono raccolti i sussidii concessi da’ rappresentanti della nazione; ma la promessa, in grazia della quale erano stati ottenuti, fu rotta. Ne seguì una violenta contesa. Il Parlamento venne disciolto, con tutti i segni del regio malumore. Alcuni de’ più cospicui membri furono incarcerati; ed uno di loro, sir Giovanni Eliot, dopo anni di pene, vi perdè la vita. Carlo, nondimeno, non potè rischiarsi d’imporre di propria autorità tasse bastevoli a tirare innanzi la guerra. Affrettossi, dunque, a far pace coi propri vicini, e rivolse la mente tutta alla politica interna. Adesso s’apre un’era nuova. Molti re inglesi avevano, in varie occasioni, commessi atti incostituzionali; ma nessuno aveva mai sistematicamente tentato di rendersi despota, e di annientare il Parlamento. Fu questo lo scopo che Carlo si propose. Dal marzo del 1629 all’aprile del 1640 le Camere non furono convocate. Non v’era mai stato nella nostra storia un intervallo di undici anni tra parlamento e parlamento. Solo una volta eravi stato un intervallo, lungo la metà. Basti tal fatto a confutare coloro che affermano, Carlo avere semplicemente calcate le orme de’ Plantageneti e de’ Tudors. XXXIX. È indubitabile, secondo la testimonianza de’ più validi sostenitori del re, che, durante cotesto periodo del suo regno, i provvedimenti della Petizione dei Diritti furono da lui violati non secondo le occasioni, ma sempre e sistematicamente; che gran parte dell’entrate fu riscossa senza nessuna autorità legale; e che gli individui invisi al governo languirono per anni interi in carcere, senza essere mai stati tradotti innanzi a nessun tribunale. Di tali atti è mestieri che la storia chiami responsabile principalmente il sovrano. Dopo che fu disciolto il terzo parlamento, egli non ebbe altro primo ministro che sè stesso, comecchè parecchi uomini ch’erano temprati a secondarlo ne’ suoi fini, dirigessero diversi dipartimenti dell’amministrazione. XL. Tommaso Wentworth, creato poscia lord Wentworth e poi conte di Strafford, uomo grandemente destro, eloquente, animoso, ma d’indole crudele ed imperiosa, era il consigliere più fido nelle faccende militari e politiche. Era stato uno de’ più illustri membri della opposizione, e sentiva verso coloro dai quali erasi diviso, quella tale malignità, che in tutti i tempi è stata la caratteristica degli apostati. Conosceva mirabilmente i sentimenti, i mezzi e la politica del partito al quale un tempo apparteneva, ed aveva formato un disegno vasto e profondamente meditato, che quasi pervenne a sconcertare la tattica efficace degli uomini di Stato che dirigevano la Camera dei Comuni. A tale disegno, nel suo carteggio confidenziale, egli dava il nome espressivo di completo (_Thorough_). Era suo scopo di fare in Inghilterra tutto—e più che tutto—ciò che Richelieu andava facendo in Francia; di rendere Carlo monarca assoluto quanto ogni altro principe nel continente; di porre gli Stati e la libertà personale dell’intero popolo a disposizione della corona; di privare le corti di giustizia d’ogni autorità indipendente anche nelle ordinarie questioni di diritto civile tra uomo e uomo, e di punire con inesorabile rigore tutti coloro i quali mormorassero contro gli atti del governo, o anco in modo decente e regolare ricorressero a qualunque tribunale per ottenere giustizia contro quegli atti.[9] Tale scopo s’era egli proposto, e scerneva distintamente le sole vie per le quali vi poteva giungere. Vero è che in tutte le sue idee rifulgono chiarezza, coerenza e precisione tali, che s’egli non avesse aspirato ad un fine pernicioso alla patria ed alla umanità, si sarebbe reso meritevole della più alta ammirazione. Ben vide non esservi se non se un solo strumento per mandare ad esecuzione i suoi arditi disegni. Tale strumento era un esercito stanziale. A formare quindi lo esercito rivolse tutta l’operosità della sua mente vigorosa. In Irlanda, dove era vicerè, gli era venuto fatto di stabilire un dispotismo militare, non solo sopra le popolazioni aborigene, ma anche sopra le colonie inglesi, e potè gloriarsi che in quell’isola il Re regnava assoluto quanto potesse esserlo ogni altro principe della terra.[10] XLI. In questo mentre, l’amministrazione ecclesiastica era principalmente diretta da Guglielmo Laud, arcivescovo di Canterbury. Sopra tutti i prelati della Chiesa anglicana, Laud si era dilungato maggiormente dai principii della Riforma e ravvicinato a Roma. La sua teologia scostavasi da quella de’ calvinisti anche più di quello che facesse la teologia degli arminiani d’Olanda. La passione che egli sentiva per le ceremonie, la riverenza per i giorni festivi, le vigilie, i luoghi sacri, il suo mal dissimulato disgusto per il matrimonio degli ecclesiastici, lo ardente e non affatto disinteressato zelo con cui egli manifestava le pretese del clero al rispetto dei laici, lo avrebbero reso obietto d’avversione ai puritani anche se avesse usati mezzi miti e legali per conseguire i suoi fini. Ma aveva corta intelligenza e poco uso di mondo. Era per indole brusco, irritabile, veloce a sentire ciò che considerava come dignità propria, tardo a compatire le altrui sofferenze, e prono allo errore, comune a tutti gli uomini superstiziosi, di prendere i suoi modi burberi e maligni per emozioni di zelo religioso. Lui dirigente, ogni angolo del regno venne sottoposto a diuturna e minuta inquisizione. Ogni piccola congregazione di separatisti fu spiata e dispersa. Gli stessi atti di divozione delle famiglie private non valevano a sottrarsi alla vigilanza de’ suoi esploratori. Tanta era la paura che il suo rigore ispirava, che l’odio mortale contro la Chiesa, il quale covava in cuore di moltissimi, veniva generalmente travestito sotto le apparenze di conformismo. Nella stessa vigilia delle perturbazioni che furono fatali a lui ed al suo ordine, i vescovi di varie grandi diocesi poterono riferirgli come nel cerchio delle loro giurisdizioni non si trovasse nè anche un dissenziente.[11] XLII. I tribunali non prestavano protezione ai sudditi contro la tirannia civile e clericale di quel tempo. I giudici del diritto comune, che occupavano l’ufficio a volontà del re, mostravansi scandalosamente ossequiosi. Nondimeno, comunque ossequiosi, erano strumenti meno pronti ed efficaci del potere arbitrario, di quel che lo fosse un’altra specie di corti, la cui memoria tuttavia, dopo dugento e più anni, è profondamente abborrita dalla nazione. Precipue fra esse per potenza ed infamia erano la Camera Stellata e l’Alta Commissione; politica inquisizione la prima, inquisizione religiosa la seconda; nessuna delle quali era parte della vecchia costituzione dell’Inghilterra. La Camera Stellata era stata rifatta e l’Alta Commissione creata dai Tudors. La potestà di cui erano investite innanzi lo avvenimento di Carlo al trono, era vasta e formidabile; ma piccola, in agguaglio di quanta ne avevano poscia usurpata. Guidate massimamente dallo spirito violento del primate, e libere dal sindacato del Parlamento, facevano mostra di rapacità, violenza e malefica energia, non mai vista in nessuna epoca precedente. Per mezzo di esse, il governo poteva multare, incarcerare, porre alla gogna e mutilare gl’individui senza alcun freno. Un Consiglio segreto residente in York sotto la presidenza di Wentworth, con un semplice atto di prerogativa che violava la legge, fu rivestito di quasi illimitato potere sopra le contee settentrionali. Tutti i predetti tribunali insultavano e sfidavano l’autorità di Westminster Hall, e commettevano quotidianamente eccessi tali, che sono stati condannati dai più eminenti realisti. Scrive Clarendon, non esservi nel regno quasi uomo notevole che non avesse da sè fatto esperimento della durezza e cupidità della Camera Stellata; l’alta Commissione essersi condotta in guisa da non rimanerle in tutto il reame nè anche un amico; e la tirannia del Consiglio di York avere resa la Magna Carta una lettera morta per le contrade giacenti a settentrione del Trent. XLIII. Il governo d’Inghilterra in que’ giorni era dispotico, salvo un solo punto, al pari di quello di Francia. Ma in quel punto era la cosa di maggiore importanza. Non essendovi esercito stanziale, poteva il governo essere sicuro che lo edificio della tirannide non venisse distrutto fino dalle fondamenta in un solo giorno? E se fossero imposte dalla regia autorità nuove tasse per mantenere lo esercito, non era egli probabile che ne seguisse una repentina ed irresistibile esplosione? Qui dunque stava la difficoltà, la quale, più che ogni altra, rendeva Wentworth perplesso. Il lord cancelliere Finch, d’accordo con tutti gli altri giureconsulti ufficiali del governo, propose un espediente, che venne tosto abbracciato. Gli antichi principi d’Inghilterra, come avevano fatto appello agli abitanti delle contee più vicine alla Scozia di armarsi ed ordinarsi a difesa dei confini, così avevano talvolta fatto appello alle contee marittime ad apprestare navigli per la difesa del littorale. Talvolta, invece di navi, avevano accettato danaro. Fu dunque stabilito non solo di richiamare a vita, dopo tanto tempo, ma di estendere siffatta consuetudine. Gli antecedenti principi avevano levato il sopradetto danaro soltanto in tempo di guerra, adesso venne riscosso in tempo di profonda pace. Gli antecedenti principi, anche nelle guerre più perigliose, lo avevano raccolto soltanto nelle contrade lungo il littorale; adesso Carlo lo riscosse nelle contee interne. I principi precedenti lo avevano raccolto soltanto per la difesa de’ patrii lidi; adesso venne riscosso, conforme gli stessi realisti confessano, col disegno non di mantenere una flotta, ma di procurare al re i sussidii che egli poteva a sua discrezione elevare a qualunque somma, e spendere a sua discrezione in qualsivoglia impresa. Tutta la nazione si commosse di paura e di sdegno. Giovanni Hampden, ricco e bennato gentiluomo della contea di Buckingham, tenuto in alta venerazione da’ suoi vicini, ma generalmente poco noto al regno, ebbe animo di spingersi innanzi, di far fronte ai poteri tutti del governo, e di addossarsi le spese e il pericolo di contrastare al Re la nuova prerogativa. Il caso fu discusso avanti i giudici nella Camera dello Scacchiere. E furono talmente vigorosi gli argomenti contro le pretese della Corona, che, per quanto dipendenti e servili fossero quei magistrati, la maggioranza de’ voti contro Hampden fu estremamente piccola. Gl’interpreti della legge avevano dichiarato, la regia autorità aver diritto d’imporre una tassa grande e produttiva. Wentworth fece assennatamente osservare, come fosse impossibile sostenere il loro giudizio, fuorchè con ragioni conducenti direttamente ad una conclusione che essi non avevano osato dedurre. Se era permesso di levare pecunia legalmente senza il consenso del Parlamento per mantenere una flotta, non era facile negare che potevasi legalmente, senza il consenso del Parlamento, levare pecunia per mantenere un esercito. La sentenza de’ giudici accrebbe la irritazione del popolo. Un secolo innanzi, un concitamento meno grave avrebbe fatto scoppiare una insurrezione generale. Ma il malcontento adesso non assumeva, come nelle età trascorse, la forma d’una rivolta. La nazione da lungo tempo progrediva nella civiltà e nella ricchezza. Settanta anni erano scorsi da che i grandi signori delle contrade settentrionali avevano prese le armi contro Elisabetta; e nel corso di que’ settanta anni non eravi stata guerra civile. In tutta la esistenza della nazione inglese non era mai stato un periodo sì lungo senza lotte intestine. Gli uomini eransi assuefatti alle occupazioni della pacifica industria; e per quanto fossero esasperati, esitavano lungamente innanzi di snudare la spada. Fu questo il momento in cui le libertà della patria nostra corsero il più grande pericolo. Gli oppositori del Governo cominciarono a disperare delle sorti della patria; e molti volgevano gli sguardi ai deserti americani, come al solo asilo in cui potessero fruire de’ beni della libertà civile e religiosa. Ivi pochi fermi puritani, i quali per la loro religione non ebbero timore nè dei furori dell’oceano, nè delle durezze della vita rozza, nè delle zanne delle bestie feroci, nè delle scuri d’uomini più feroci, edificarono fra mezzo ad annose foreste quei villaggi, che oggimai sono diventati città grandi ed opulente, ma che, a traverso tutte le variazioni subite, serbano i segni dell’indole de’ loro fondatori. Il governo considerava con avversione queste nascenti colonie, e si provò di fermare violentemente l’onda della emigrazione; ma non potè fare che la popolazione della nuova Inghilterra non venisse da uomini forti di cuore e timorosi di Dio reclutata in ogni angolo della vecchia Inghilterra. Wentworth esultava vedendosi presso a compiere il proprio disegno, per la piena esecuzione del quale sarebbero forse bastati pochi anni. Se il governo avesse serbata stretta economia, se avesse con ogni studio schivata ogni collisione coi potentati stranieri, avrebbe estinti i debiti della Corona, avrebbe ragunata la pecunia bisognevole a mantenere un poderoso esercito, ed avrebbe con esso potuto infrenare il recalcitrante spirito della nazione. XLIV. Frattanto, un atto d’insana bacchettoneria cangiò improvvisamente lo aspetto delle pubbliche faccende. Se il Re fosse stato savio, si sarebbe attenuto ad una politica cauta e blanda verso la Scozia fino a che si fosse reso assoluto signore delle contrade meridionali. Imperocchè fra tutti i suoi regni la Scozia era quello dove una semplice favilla avrebbe potuto produrre un incendio generale. Non poteva temere, egli è vero che sorgesse in Edimburgo una opposizione costituzionale simile a quella ch’egli aveva incontrata in Westminster. Il Parlamento del suo regno settentrionale era un corpo ben differente da quello che portava il medesimo nome in Inghilterra. Era male costituito, poco rispettato, e non aveva mai opposto nessun limite di grave momento ad alcuno de’ predecessori di Carlo. I tre Stati ragunavansi in una sola Camera. I commissari de’ borghi erano considerati come dipendenti dai grandi nobili. Nessun atto poteva proporsi se prima non fosse stato approvato dai Lordi degli Articoli; comitato che in sostanza, benchè non formalmente, veniva nominato dalla Corona. Ma, quantunque il Parlamento scozzese fosse ossequioso, il popolo scozzese era sempre stato singolarmente torbido e irrefrenabile. Aveva scannato Giacomo I nella camera da letto; erasi più volte armato contro Giacomo II; aveva ucciso Giacomo III sul campo di battaglia; con la sua disobbedienza fatto morire di crepacuore Giacomo V; deposta dal trono ed imprigionata Maria; condotto in cattività il figlio di lei: l’indole di quel popolo seguitava, come sempre, ad essere intrattabile. I suoi costumi erano rozzi e marziali. Lungo tutto il confine meridionale, e lungo la linea tra le contrade alte e le basse, infuriava una guerra incessante di ladroneccio. In ogni parte del paese gli abitanti erano assuefatti a vendicare con le mani proprie i torti sofferti. Il sentimento di lealtà, che la nazione aveva in antico mostrato verso la casa regale, erasi intiepidito nell’assenza di due sovrani. Dividevansi la influenza sopra l’opinione pubblica due classi di malcontenti; i signori del suolo e i predicatori: gli uni erano animati dallo stesso spirito che aveva più volte spinti gli antichi Douglass a resistere agli antichi Stuardi; gli altri avevano ereditato le opinioni repubblicane e l’invincibile spirito di Knox. La popolazione si sentiva oltraggiata ne’ sentimenti nazionali e religiosi. Tutte le classi querelavansi che il loro paese, quel paese che con tanta gloria aveva difesa la propria indipendenza contro i più destri e valorosi Plantageneti, fosse, per opera di principi scozzesi, diventato non già di nome, ma in sostanza, provincia dell’Inghilterra. In nessuna parte d’Europa la dottrina e la disciplina calvinistiche avevano messe così profonde radici ne’ cuori del popolo, il quale odiava la Chiesa Romana d’un odio che potrebbe giustamente chiamarsi feroce, e sentiva avversione quasi uguale a quell’odio contro la Chiesa Anglicana, la quale sempre più andava riassumendo le sembianze di quella di Roma. Il Governo aveva da lungo tempo voluto estendere il sistema anglicano sopra l’isola intera, e con tale scopo aveva fatte parecchie modificazioni estremamente disgustevoli ad ogni presbiteriano. Nondimeno, fra tutte le innovazioni, non aveva tentato di farne una sola la quale, saltando direttamente all’occhio del popolo, era la più rischiosa di tutte. Il culto divino veniva tuttavia praticato nel modo accettabile alla nazione. Ciò non ostante, Carlo e Laud infine determinaronsi d’imporre a forza agli Scozzesi la liturgia anglicana; o, a dir meglio, una liturgia che nei punti in cui differiva da quella dell’Inghilterra, differiva in peggio. A codesta misura, presa per ebbrezza di tirannide e per colpevole ignoranza e più colpevole dispregio del pubblico sentire, la nostra patria va debitrice della propria libertà. Il primo esperimento delle cerimonie straniere produsse una sommossa, la quale rapidamente divenne rivoluzione. L’ambizione, il patriottismo, il fanatismo, svegliaronsi e si confusero in un solo torrente. La intera nazione insorse, e corse alle armi. La potenza dell’Inghilterra veramente era, secondo che parve manifesto alcuni anni dopo, bastevole a costringere la Scozia; ma gran parte del popolo inglese partecipava ai sentimenti religiosi degl’insorgenti; e molti Inglesi che non avevano nessuno scrupolo intorno ad antifone e genuflessioni, ad altari ed abiti clericali, vedevano con satisfazione il progredire d’una ribellione che pareva volesse sconcertare i disegni arbitrari della corte, e rendere necessaria la convocazione del Parlamento. XLV. Wentworth non ebbe colpa nella stolta smargiassata che aveva prodotti i riferiti effetti.[12] Essa veramente aveva capovolti e confusi tutti i disegni di lui. Nonostante, l’indole sua non comportava di consigliare il governo a sottomettersi. Tentossi di spegnere la insurrezione adoperando le armi. Ma le forze militari e lo ingegno del re non erano pari alla gravità dell’opera. Imporre nuove tasse sopra la Inghilterra, a dispetto della legge, in quelle circostanze sarebbe stata insania. Altro partito, adunque, non rimaneva cui appigliarsi, se non se quello di ragunare un Parlamento; il quale, difatti, venne convocato nella primavera del 1640. La nazione gioiva sperando di veder risorgere il governo costituzionale, e riaversi de’ mali ch’ella sosteneva. La nuova Camera de’ Comuni fu più temperante e più ossequiosa verso il trono di qualunque altra ch’erasi adunata dalla morte di Elisabetta in poi. La moderazione di questa assemblea è stata altamente lodata dai più cospicui realisti, e pare che avesse cagionato non lieve disturbo e scoraggiamento ai capi dell’opposizione; ma Carlo, per insana politica e poco generosa abitudine, ricusava sempre di appagare i desiderii del suo popolo fino a che tali desiderii non fossero espressi in tono minaccioso. Appena la Camera de’ Comuni mostrossi inchinevole a fare ragione alle oppressioni che da undici anni pesavano sulla nazione, il Re con manifesti segni di malumore sciolse il Parlamento. Dallo scioglimento di questa assemblea di corta durata alla convocazione di quel sempre memorabile consesso conosciuto sotto il nome di Lungo Parlamento, corsero pochi mesi, durante i quali il giogo venne con severità maggiore aggravato sulla nazione, mentre lo spirito di questa svegliavasi più irato che mai a scuotere quel giogo. Il Consiglio privato interrogò alcuni membri della Camera de’ Comuni intorno alla loro condotta parlamentare, e non ne ricevendo risposta nessuna, gli gettò in carcere. Le esazioni della imposta concernente il mantenimento della flotta, furono fatte con più grande rigore. Il lord gonfaloniere e gli sceriffi di Londra vennero minacciati del carcere per la loro moderazione nel riscuoterla. Si fecero conscrizioni forzate. A mantenere le milizie, si smunse pecunia dalle contee. La tortura, che era sempre stata illegale ed era stata di recente dichiarata tale anche dai servili giudici di quella età, venne inflitta per l’ultima volta in Inghilterra nel mese di maggio 1640. Adesso, tutto dipendeva dalle operazioni militari che il Re aveva intraprese contro gli Scozzesi. Fra le sue truppe esisteva pochissimo quel sentimento che divide i soldati di professione dalla massa della nazione, e gli attacca ai loro condottieri. Il suo esercito era composto in massima parte di reclute, che desideravano lo aratro da cui erano state violentemente strappate, e che essendo animate de’ sentimenti religiosi e politici allora prevalenti nel paese, erano più formidabili ai loro capi che all’inimico. Gli Scozzesi, ai quali facevano animo i capi della opposizione inglese e debole resistenza le truppe inglesi, valicarono il Tweed e il Tyne, ed accamparonsi lungo i confini della contea di York. Allora il mormorare de’ malcontenti diventò un frastuono, che impaurì, tranne un solo, i cuori di tutti. Ma Strafford ambiva tuttavia a raggiungere il suo scopo, ed in questi frangenti mostrò indole così crudele e dispotica, che i suoi stessi soldati erano pronti a farlo in pezzi. Rimaneva ancora un ultimo espediente, il quale, secondo che il Re illudevasi, l’avrebbe potuto salvare dalla ignominia di affrontare un’altra Camera de’ Comuni. A quella dei Lordi egli era meno avverso. I vescovi gli erano affezionati; e quantunque i Pari secolari fossero generalmente malcontenti della sua amministrazione, avevano, come classe, cotanto interesse a mantenere l’ordine e la stabilità delle antiche istituzioni, che non era verosimile richiedessero vaste riforme. Contro la non interrotta costumanza di secoli, ei convocò un gran consiglio composto di soli Pari. Ma costoro furono così prudenti da non assumere le funzioni incostituzionali di cui egli voleva rivestirli. Senza pecunia, senza credito, senza autorità nè anche nello stesso suo campo, gli fu forza cedere alla pressura della necessità. Le Camere furono convocate; e le nuove elezioni provarono che, dalla primavera in poi, la sfiducia e l’odio contro il governo eransi spaventevolmente accresciuti. XLVI. Nel novembre del 1640 adunossi quel famoso Parlamento, il quale, malgrado i suoi molti errori e disastri, è degno della riverenza e gratitudine di tutti coloro che in qualsivoglia parte del mondo godono i beni del governo costituzionale. Nel corso dell’anno che seguì, nessuna grave scissura d’opinioni mostrossi in ambedue le Camere. Per lo spazio di quasi dodici anni, l’amministrazione civile ed ecclesiastica era stata cotanto oppressiva ed incostituzionale, che perfino quelle classi le quali generalmente inchinano all’ordine ed alla autorità, erano pronte a promuovere riforme popolari, e tradurre i satelliti della tirannide innanzi alla giustizia. Fu fatta una legge che prescriveva che fra parlamento e parlamento non potesse esservi un intervallo maggiore di tre anni, e che se in tempo debito non venissero spedite ordinanze munite del Gran Sigillo, gli ufficiali potevano senza esse convocare i collegi elettorali per la elezione de’ rappresentanti. La Camera Stellata, l’Alta Commissione, il Consiglio di York furono aboliti. Coloro che, dopo d’avere patito inumane mutilazioni, marcivano in fondo alle prigioni, riacquistarono la libertà. La vendetta della nazione piombò inesorabilmente sopra i principali ministri della corona. Il lord cancelliere, il primate, il lord luogotenente vennero accusati. Finch si salvò fuggendo. Laud fu gettato in fondo alla Torre. Strafford, processato, fu fatto morire per virtù dell’Atto di Morte. Nel giorno stesso in cui passò questa legge, il Re dette il suo assenso ad un’altra legge, per la quale obbligavasi a non aggiornare, prorogare o sciogliere il Parlamento esistente senza averne ottenuto il consenso dagli stessi rappresentanti. Dopo dieci mesi di continuo travaglio, le Camere nel settembre del 1641 si aggiornarono per poco tempo, e il Re visitò la Scozia. Potè con grave difficoltà pacificare quel regno, dopo di avere consentito non solo ad abbandonare i suoi disegni di riforma ecclesiastica, ma anco a firmare, con manifesti segni di repugnanza, un atto dove dichiaravasi lo episcopato essere contrario alla parola di Dio. XLVII. Le vacanze del Parlamento inglese durarono un mese e mezzo. Il giorno in cui le Camere riaprirono le adunanze, forma una delle epoche più memorabili nella nostra storia. Da esso data la vera esistenza, come corpi distinti, de’ due grandi partiti che hanno poi sempre governato con alterna vicenda il paese. In un certo senso, a dir vero, la distinzione, che allora divenne più manifesta, era sempre stata e sarà sempre, come quella che nasce dalle diversità d’indole, d’intendimento e d’interesse, che trovansi in tutte le società, e vi si troveranno finchè la mente umana non cesserà d’essere trascinata per opposti sentieri dalla forza dell’abitudine e da quella della novità. Non solo nella politica, ma nelle lettere, nelle arti, nelle scienze, nella chirurgia e nella meccanica, nella navigazione e nell’agricoltura, anzi nelle stesse matematiche, trovasi distinzione siffatta. In ogni dove è una classe d’uomini che tenacemente si appigliano a ciò che è antico, e quando anche da ragioni incontrastabili sieno convinti che la innovazione sarebbe benefica, vi assentano pavidi e sospettosi. Avvi egualmente un’altra classe di uomini, ardenti a sperare, audaci a speculare, proni a spingere sempre innanzi, corrivi a scoprire imperfezioni in tutto ciò che esiste, spensierati intorno ai perigli ed alle inconvenevolezze che accompagnano le riforme, ed inclinevoli a laudare ogni mutazione come un miglioramento. In entrambe queste generazioni di uomini è qualche cosa degna d’essere commendata; massime in quelli che scostandosi dagli estremi opposti, ravvicinansi così che paiono starsi in un confine comune. La sezione estrema dell’una classe è composta di bacchettoni frenetici; la estrema sezione dell’altra si compone di empirici frivoli e licenziosi. Non è dubbio che ne’ nostri Parlamenti primitivi si potrebbe scoprire una parte di membri vogliosa di conservare, ed un’altra pronta a riformare. Ma mentre le sessioni della legislatura erano brevi, quei tali corpi non assumevano forme permanenti e definite, non ordinavansi sotto capi riconosciuti, non prendevano nomi, segnali o gridi di guerra distinti. Nei primi mesi del Lungo Parlamento, lo sdegno nato da molti anni d’illegittima oppressione fu tale, che la Camera de’ Comuni operò come un solo uomo. Gli abusi, l’un dopo l’altro, disparvero senza conflitto. Se pochi rappresentanti mostraronsi bramosi di conservare la Camera Stellata e l’Alta Commissione, impauriti dall’entusiasmo e dalla superiorità numerica de’ riformisti, contentaronsi di compiangere la caduta di quelle istituzioni, che non potevano apertamente difendersi con la più lieve speranza di buon esito. In un’epoca posteriore, i realisti reputarono cosa utile riportare ad una data più remota la divisione fra essi e i loro avversarii, e attribuire l’atto che raffrenava il Re dal disciogliere o prorogare il Parlamento, l’atto triennale, l’accusa dei ministri e la condanna di Strafford, alla fazione che poscia mosse guerra al Re. Ma fu artificio poco destro. Ciascuna di quelle vigorose misure venne attivamente promossa da coloro che dipoi furono principali fra’ cavalieri. Nessuno de’ repubblicani parlò del lungo, pessimo governo di Carlo con maggior severità di Colepepper. Il discorso più notevole in favore dell’atto triennale fu fatto da Digby. L’accusa del lord cancelliere fu condotta da Falkland. La dimanda che il lord luogotenente fosse tenuto in istretta prigionia, fu fatta alla tribuna della Camera de’ Lordi da Hyde. Nessun segno di disunione si fece scorgere fino a che fu proposta la legge che colpì Strafford. Anche contro cotesta legge, che non poteva essere giustificata se non se dallo estremo bisogno, soli sessanta membri della Camera de’ Comuni votarono. Egli è certo che Hyde non fu con la minoranza, e che Falkland non solo votò con la maggioranza, ma parlò vigorosamente a favore della legge. Anche i pochi che scrupoleggiavano in quanto ad infliggere la pena di morte in virtù d’una legge retrospettiva, riputarono necessario esprimere grandissimo abborrimento per il carattere e l’amministrazione di Strafford. Ma sotto tale concordia apparente ascondevasi un gravissimo scisma; ed allorquando, nell’ottobre del 1641, il Parlamento, dopo breve riposo, riaprì le sue sessioni, due partiti opposti, essenzialmente identici a quelli che sotto nomi diversi lottarono poi sempre, e lottano tuttavia, onde recarsi in mano il governo della cosa pubblica, comparvero l’uno di fronte all’altro. Chiamaronsi poscia Tory e Whig; nè sembra che tali nomi abbiano presto a cadere in disuso. Non sarebbe difficile comporre una satira o un elogio intorno a ciascuna di codeste celebri fazioni; imperocchè niuno che non sia scemo di giudizio e di schiettezza, vorrà sostenere che la fama del suo proprio partito sia scevra di macchia, o quella del partito avverso non possa vantare molti nomi illustri, molte azioni eroiche e molti grandi servigi resi allo stato. Vero è che, quantunque ambidue i partiti abbiano spesso gravemente fallato, la Inghilterra non avrebbe potuto far senza nè dell’uno nè dell’altro. Se nelle istituzioni, nella libertà e nell’ordine che essa gode, i beni che nascono dallo innovare e quelli che derivano dal conservare, sono stati combinati in modo sconosciuto a qualsivoglia popolo, possiamo attribuire questa fortunata specialità ai valorosi conflitti ed alle vicendevoli vittorie delle due rivali federazioni di uomini di stato, zelantissime entrambe, l’una dell’autorità ed antichità, l’altra della libertà e del progresso. Bisogna tenere a mente che la differenza tra le due grandi sezioni de’ politici inglesi è sempre stata più presto di grado, che di principio. V’erano, e da diritta e da sinistra, certi confini, che rarissime volte venivano travarcati. Pochi entusiasti, da una parte, erano pronti a porre tutte le nostre leggi e franchigie ai piedi dei nostri re. Pochi entusiasti, dall’altra, inclinavano a conseguire frammezzo ad infinite perturbazioni civili il loro vagheggiato fantasma di repubblica. Ma la maggior parte di coloro che difendevano la corona, abborriva dal dispotismo; come i più fra coloro che propugnavano i diritti popolari, abborrivano dalla anarchia. Nel corso del secolo decimosettimo, i due partiti due volte sospesero ogni dissenso, e congiunsero le forze loro per una causa comune. La loro prima coalizione restaurò la monarchia ereditaria; la seconda rivendicò la libertà costituzionale. È anche da notarsi, che i due partiti sopradetti non hanno mai formata la intera nazione; anzi entrambi, insieme considerati, non hanno mai fatta la maggioranza di quella. Fra l’uno e l’altro vi è sempre stata una gran massa, che non ha stabilmente aderito a nessuno, che talvolta si è mostrata inerte e neutrale, e tal’altra ha ondeggiato ora verso questo or verso quel lato. Tale massa è più volte in pochi anni passata da uno estremo all’altro, e viceversa. Talora ha cangiato partito soltanto perchè era stanca di sostenere gli stessi uomini, talora perchè s’era impaurita dei propri eccessi, talora perchè, avendo concepite speranze di cose impossibili, erasi disillusa. Ma, semprechè ha piegato con tutto il suo peso verso uno de’ due lati, ha resa impossibile ogni resistenza. Allorchè i partiti rivali mostraronsi con forme distinte, e’ parve che fossero pressochè egualmente ordinati. Dalla parte del Governo stavano moltissimi nobili, ed opulenti e assennati gentiluomini, ai quali nulla mancava, tranne il solo nome, per dirsi nobili. Costoro, insieme coi loro dipendenti, dello aiuto de’ quali potevano disporre, non erano piccola potenza nello Stato. Dalla medesima parte stava il numeroso ceto del clero, entrambe le università, e tutti que’ laici che fortemente aderivano al governo episcopale ed al rituale anglicano. Queste classi rispettabili trovavansi in compagnia di meno decorosi alleati. L’austerità dei Puritani costrinse ad ingrossare la regia fazione tutti coloro che amavano i piaceri, e affettavano galanteria, splendore nel vestire, o gusto nelle arti leggiadre. Erano con costoro que’ tali che campano la vita pascendo gli ozi altrui, cominciando dal pittore e dal poeta comico fino al funambolo e al ciarlatano; perocchè bene conoscevano, che, potendo arricchirsi sotto un dispotismo lussurioso e superbo, sarebbero morti di fame sotto lo austero governo dei rigoristi. Gli stessi interessi movevano tutti i cattolici romani. La regina, principessa francese, professava la loro stessa fede. Sapevasi ch’era grandemente amata e temuta non poco dal marito. Il quale, benchè fosse indubitevolmente protestante per convinzione, non guardava di mal occhio gli aderenti alla vecchia religione, e avrebbe volentieri concessa loro maggior tolleranza di quella che amava accordare ai presbiteriani. Se la opposizione vinceva, egli era probabile che le leggi sanguinarie emanate contro i papisti sotto il regno di Elisabetta, sarebbero state rese più severamente efficaci. I cattolici romani, quindi, vennero indotti da’ più forti motivi a sposare la causa della corte. Generalmente, procedettero cauti in modo da essere tacciati di tiepidezza e codardia; ma è cosa probabile che a così fare fossero persuasi dallo interesse del re, non che dal loro proprio. La forza maggiore dell’opposizione stava nei piccoli liberi possidenti delle campagne, e ne’ mercanti e bottegai delle città. Costoro erano capitanati da parecchi aristocratici di gran nome e potenza, fra’ quali noveravansi i conti di Northumberland, Bedford, Warwick, Stamford ed Essex, e alcuni altri lordi ricchi e rispettati. Nelle medesime file trovavasi la intera classe de’ protestanti non–conformisti, e la maggior parte de’ membri della Chiesa stabilita, sostenitori delle opinioni calviniste, le quali quarant’anni prima erano state generalmente abbracciate da’ prelati e dal clero. Le corporazioni municipali, salvo poche, seguivano il medesimo partito. Nella Camera de’ Comuni l’opposizione prevaleva, ma non decisamente. A nessuno de’ partiti mancavano saldi argomenti a sostenere le provvisioni che voleva adottare. I ragionamenti de’ più illuminati realisti possono riassumersi nel modo seguente: «È vero che vi sono stati grandi abusi; ma vi si è posto rimedio. È vero che i diritti più preziosi sono stati violati; ma sono stati rivendicati e tutelati con nuove guarentigie. Le sessioni degli Stati del regno, in onta ad ogni esempio precedente e allo spirito della Costituzione, vennero sospese per lo spazio di undici anni; ma adesso si è provveduto, che tra parlamento e parlamento non sia un intervallo maggiore di tre anni. La Camera Stellata, l’Alta Commissione, il Consiglio di York, ci opprimevano e spogliavano; ma quelle corti abborrite ormai più non esistono. Il Lord Luogotenente si studiò di stabilire il dispotismo militare; ma egli ha pagato col capo il proprio tradimento. Il Primate corruppe il nostro culto co’ riti papali; ma egli, rinchiuso dentro la torre, aspetta il giudizio de’ suoi pari. Il Lord Cancelliere sanzionò un sistema che poneva gli averi d’ogni Inglese a discrezione della Corona; ma è caduto in disgrazia, è stato rovinato e costretto a cercare rifugio in terra straniera. I ministri della tirannide hanno espiati i loro delitti; le vittime della tirannide hanno ricevuta la ricompensa di quanto hanno sofferto. Stanti così le cose, sarebbe insania perseverare in quella condotta che era giustificabile e necessaria allorquando, dopo un lungo intervallo riapertosi il parlamento, trovammo l’amministrazione altro non essere che un ammasso di abusi. Ed è oggimai tempo di badare a non ispingere la nostra vittoria sul dispotismo tanto oltre, da urtar nell’anarchia. Non abbiamo potuto estirpare le pessime istituzioni che poco fa affliggevano la patria nostra, senza produrre tali scosse da indebolire le fondamenta del Governo. Adesso che siffatte istituzioni sono cadute, dobbiamo affrettarci a rafforzare quello edificio, che non ha guari è stato nostro debito abbattere. Da ora in poi, porremo ogni studio nello esaminare ogni innovazione innanzi d’accettarla, e veglieremo sì che tutte le prerogative di che la legge, per il bene pubblico, ha rivestito il sovrano, siano rigorosamente difese contro ogni aggressione.» Tali erano i sensi di coloro de’ quali l’egregio Falkland può considerarsi come capo. Dall’altra parte, uomini di non minore destrezza e virtù sostenevano con pari vigore, che la sicurezza delle libertà del popolo inglese era più presto apparente che vera, e che i disegni arbitrari della Corte sarebbero ricomparsi appena la Camera de’ Comuni avesse rallentata la propria vigilanza. Era pur vero—ragionavano Pym, Hollis e Hampden—che s’erano promulgate molte buone leggi; ma se quelle fossero bastate a por freno alle voglie del Re, i suoi sudditi avrebbero avuta poca ragione di muovere lamento della sua amministrazione. I recenti statuti certamente non avevano autorità maggiore di quella della Magna Carta e della Petizione dei Diritti. Nondimeno, nè la Magna Carta santificata dalla venerazione di quattro secoli, nè la Petizione de’ Diritti sanzionata dopo matura riflessione e per grave considerazione dallo stesso Carlo, erano riuscite efficaci a proteggere il popolo. Se una volta fosse tolto il freno della paura, e lo spirito dell’opposizione venisse a sonnecchiare, tutte le guarentigie della libertà inglese si risolverebbero in una sola cosa, cioè nella parola reale; ed era stato provato con lunga ed amara esperienza, che la parola del re non meritava punto la pubblica fiducia. XLVIII. I due partiti guardavansi ancora scambievolmente con cauta ostilità, e non avevano ancora ponderato le proprie forze, allorchè giunsero nuove tali che infiammarono le passioni e rinvigorirono le opinioni di entrambi. I grandi capi di Ulster, i quali al tempo in cui Giacomo salì al trono, eransi, dopo lunghissima lotta, sottomessi all’autorità regia, non avevano potuto più lungamente patire la umiliazione della dipendenza. Avevano congiurato contro il Governo inglese, ed erano stati dichiarati rei di tradigione. I loro immensi domini erano stati confiscati dalla Corona; ed erano corse a popolarli torme di emigrati dalla Inghilterra e dalla Scozia. Costoro per civiltà ed intelligenza erano assai superiori ai naturali del paese, e spesso abbusavano di superiorità cosiffatta. I rancori, generati dalla diversità di razza, si accrebbero per la diversità di religione. Sotto il ferreo giogo di Wentworth, non fu udito nè anche un bisbiglio; ma appena cessò quella forte pressura, appena la Scozia dette lo esempio d’una vittoriosa resistenza, mentre la Inghilterra era assorta negl’interni dissidi, la soffocata rabbia degl’Irlandesi eruppe in atti di tremenda violenza. In un attimo, i popoli aborigeni insorsero contro le colonie. Una guerra alla quale l’odio nazionale e religioso dette un carattere di particolare ferocia, desolò Ulster e si estese alle vicine provincie. Il castello di Dublino nè anche reputavasi luogo di sicurezza. Ciascuna posta recava a Londra racconti esagerati di fatti, che, anche scevri d’ogni esagerazione, bastavano a empire l’animo di pietà e d’orrore. Questi sciagurati avvenimenti svegliarono più che mai lo zelo de’ due grandi partiti che sedevano, con vicendevole nimistanza, nella sala di Westminster. I realisti sostenevano esser debito precipuo d’ogni buono inglese e d’ogni buon protestante, in siffatte circostanze, rinvigorire il braccio del sovrano. Alla opposizione pareva che allora più che mai vi fossero fortissime ragioni di invigilarlo e infrenarlo. Il trovarsi la cosa pubblica in pericolo, era senza dubbio buona ragione per conferire maggiori poteri ad un magistrato degno di fiducia; ma era parimente buona ragione per iscemarli o toglierli ad un magistrato che in suo cuore era nemico pubblico. Era stato scopo precipuo del Re il formare un grande esercito; ed ora bisognava formarlo. Si doveva, dunque, temere che ove non si stabilissero nuove guarentigie, le forze raccolte per risottomettere la Irlanda, venissero adoperate contro le libertà della Inghilterra. Nè ciò era tutto. Un orribile sospetto, ingiusto, a dir vero, ma non affatto fuori di natura, era nato in cuore a molti. La Regina era cattolica romana; il Re non era considerato dai Puritani, ch’egli aveva spietatamente perseguitati, come sincero protestante; ed era sì nota a tutti la sua doppiezza, da non esservi specie di tradimento di cui i suoi sudditi, con qualche apparenza di ragione, non lo credessero capace. E però, corse subito sorda una voce che affermava, la ribellione de’ Cattolici Romani di Ulster essere parte d’una vasta opera di tenebre, immaginata e condotta in Whitehall. XLIX. Dopo alcuni giorni di preludio, nel dì ventesimosecondo di novembre 1641, scoppiò il conflitto tra i due grandi partiti, che si sono poi sempre osteggiati ed osteggiansi tuttavia per recarsi in mano il reggimento del paese. La opposizione propose, che la Camera de’ Comuni dovesse presentare al Re una rimostranza, enumerando i falli della amministrazione fino dal tempo in cui egli ascese al trono, e significando la diffidenza con che il popolo riguardava la politica di lui. Quell’assemblea che pochi mesi avanti era stata unanime nel chiedere la riforma degli abusi, si divise in due fiere ed ardenti fazioni, di forza pressochè uguali. Dopo un violento discutere, che durò molte ore, la rimostranza fu adottata con la maggiorità di soli undici voti. L’esito di tale conflitto giovò grandemente il partito conservatore. Non era da dubitarsi che soltanto qualche grave indiscrezione potesse impedirgli di ottenere la preponderanza nella Camera Bassa. La Camera Alta era già tutta di quel partito. Nessuna cosa mancava per assicurargli la vittoria, se non che il Re in tutta la sua condotta mostrasse qualche rispetto per le leggi, ed una scrupolosa buona fede verso i suoi sudditi. I suoi primi provvedimenti promisero bene. E’ sembra che finalmente si fosse indotto a pensare, come era necessario cangiare intieramente il sistema, e si volesse adattare a ciò che non poteva più oltre evitarsi. Dichiarò d’essere determinato a voler governare concordemente con la Camera de’ Comuni, ed a tal fine chiamare ai suoi consigli uomini i quali, per ingegno e carattere, godessero la fiducia della Camera. Nè la scelta fu male fatta. Falkland, Hyde e Colepepper, tutti e tre uomini cospicui per essersi adoperati efficacemente a riformare gli abusi od a punire i malvagi ministri, vennero invitati ad essere fidi consiglieri della Corona, ed ebbero da Carlo la solenne assicurazione, che non avrebbe fatto il minimo passo intorno a ciò che concerneva la Camera Bassa del Parlamento, senza averne chiesto il loro parere. E’ non è dubbio che s’egli avesse mantenuta tale promessa, la reazione, che già progrediva, sarebbe diventata tanto vigorosa, quanto la potevano desiderare i realisti più rispettabili. Già i più irrequieti membri dell’opposizione avevano cominciato a disperare delle sorti del proprio partito, a tremare per la salvezza propria, e parlavano già di vendere i loro beni ed emigrare in America. Se le belle speranze che cominciavano a sorridere al Re, svanirono improvvise, se la sua vita fu amareggiata dall’avversità ed in fine abbreviata dalla violenza, ne chiami in colpa la propria perfidia e il dispregio delle leggi. E’ pare certo ch’egli detestasse ambi i partiti in cui era divisa la Camera de’ Comuni. Nè ciò è strano; perocchè in entrambi l’amore della libertà e l’amore dell’ordine, comunque con diverse proporzioni, erano commisti. I consiglieri che Carlo, stretto dalla necessità, aveva chiamati presso di sè, non erano in nulla graditi al suo cuore. Avevano partecipato a dannare la sua tirannia, a scemargli i poteri ed a punire i suoi satelliti. Adesso erano, per vero dire, apparecchiati a difendere con mezzi rigorosamente legali le legittime prerogative di lui; ma avrebbero rifuggito dall’orribile pensiero di ritornare ai tirannici disegni di Wentworth. Essi, dunque, secondo l’opinione del Re, erano traditori, che differivano solo nel grado della loro sediziosa malignità da Pym e da Hampden. L. E quindi Carlo, pochi giorni dopo d’avere promesso ai capi de’ realisti costituzionali di non muovere mai un solo passo d’importanza senza farneli consapevoli, formò un pensiero, il più serio e tremendo in tutta la sua vita, lo nascose con gran cura, e lo mandò ad esecuzione in un modo tale, che ne furono colpiti di terrore e vergogna. Mandò il Procuratore Generale ad accusare di alto tradimento, innanzi alla tribuna della Camera de’ Lordi, Pym, Hollis, Hampden ed altri membri di quella de’ Comuni. Non satisfatto di questa flagrante violazione della Magna Carta, e della usanza non interrotta di secoli, andò egli stesso in persona, accompagnato da uomini armati, a porre le mani addosso ai capi della opposizione dentro la stessa sala del Parlamento. Il colpo fallì. I membri incriminati erano partiti dalla sala poco tempo avanti che vi entrasse Carlo. Ne seguì subitanea e violenta commozione nel Parlamento, non che nel paese. Lo aspetto più favorevole onde i più parziali difensori del Re si sono studiati di presentare la condotta di lui in questa occasione, consiste nello affermare ch’egli, spinto dai pessimi consigli della consorte e de’ cortigiani, commettesse un atto gravissimo d’indiscrezione. Ma la voce generale lo accusava altamente di colpa assai più grave. Nel momento stesso in che i suoi sudditi, dopo d’essersi lungo tempo tenuti lontani da lui per la sua cattiva amministrazione, ritornavano a lui con sentimenti di fiducia e d’affetto, egli meditò di menare un colpo mortale contro i loro più cari diritti; i privilegi, cioè, del Parlamento, e lo stesso principio di processare l’individuo innanzi ai giurati. Aveva mostrato di considerare l’opposizione ai suoi disegni arbitrari come delitto che doveva espiarsi col sangue. Aveva rotta la fede non solo al suo Gran Consiglio ed al suo popolo, ma ai suoi stessi aderenti. Aveva fatto ciò, che, se stato non fosse un caso impreveduto, avrebbe probabilmente suscitato un sanguinoso conflitto attorno il seggio presidenziale. Coloro i quali predominavano nella Camera Bassa, compresero allora che non solamente la potenza e popolarità, ma i beni e le vite loro, dipendevano dall’esito della lotta in cui trovavansi involti. Lo zelo, che già veniva meno, del partito avverso alla Corte, in uno istante si riaccese. La notte che seguì all’oltraggio tentato, tutta la città di Londra fu in armi. In poche ore, le vie che conducevano alla metropoli erano popolate da torme di borghesi, irrompenti verso Westminster, coi segni della causa parlamentare fitti ai loro cappelli. Nella Camera de’ Comuni la opposizione a un tratto divenne irresistibile, e adottò, con una grandissima maggioranza di voti, provvedimenti di violenza senza esempio precedente. Forti legioni di milizie, che regolarmente davansi la muta, facevano la guardia attorno il palazzo di Westminster. Le porte della reggia erano tuttodì assediate dalla furibonda moltitudine, le cui minacce ed esecrazioni pervenivano fino alla sala d’udienza, e che i gentiluomini della Corte appena potevano impedire che irrompesse negli appartamenti reali. Se Carlo fosse rimasto più a lungo nella sua tempestosa metropoli, è probabile che la Camera de’ Comuni avrebbe trovata una scusa per farlo, sotto forme esteriori di rispetto, prigioniero di stato. LI. Egli si allontanò da Londra, per non ritornarvi mai fino al giorno d’un terribile e miserando giudicio. Iniziaronsi negoziati, che durarono molti mesi. I partiti contendenti scagliavansi vicendevolmente recriminazioni ed accuse: ogni via d’accomodamento era impossibile. La pena che colpisce la perfidia abituale, finalmente colse quel tristo principe. Nulla gli valsero gli sforzi onde egli impegnò la sua regia parola, ed invocò il Cielo a testimonio della sincerità delle sue promesse. Giuramenti e trattati più non bastavano a vincere la diffidenza de’ suoi avversari, i quali pensavano di non avere sicurtà se non quando il Re fosse ridotto ad assoluta impotenza. Chiedevano, quindi, ch’egli rendesse non solo quelle prerogative che aveva usurpate violando le antiche leggi e le sue proprie recenti promesse, ma anco altre prerogative che i re inglesi avevano fruito da tempo immemorabile, e seguitano a fruire anco ai dì nostri. Gli volevano togliere la potestà di nominare i Ministri, di creare i Pari, senza il consenso delle Camere. Soprattutto, volevano privare il Governo della suprema autorità militare, che, fino da tempi cui non giungono umani ricordi, era sempre appartenuta alla dignità regia. Non era da sperarsi che Carlo, finchè gli rimanessero mezzi di resistenza, assentirebbe le predette dimande. Nondimeno sarebbe difficile mostrare che le Camere avrebbero, per la propria salvezza, potuto contentarsi di meno. Veramente ondeggiavano in una tempesta di opposti pensieri. La gran maggioranza della nazione aderiva fermamente alla monarchia ereditaria. Coloro che nutrivano sentimenti repubblicani erano ancora pochi, e non rischiavansi a parlare alto. Era quindi impossibile abolire il principato. Nulladimeno, facevasi a tutti manifesto come il Re non fosse degno di nessuna fiducia. Sarebbe stato assurdo in coloro i quali per proprio esperimento conoscevano ch’egli bramava distruggerli, il contentarsi di presentargli un’altra petizione di diritti, ed ottenere nuove promesse, simiglianti a quelle ch’egli aveva più volte fatte e violate. Nessuna cosa, fuorchè il difetto di un esercito, gli aveva impedito di abbattere l’antica Costituzione del reame. Ed essendo allora necessario formare un grande esercito regolare per riconquistare l’Irlanda, sarebbe stata vera demenza lasciare il Re nella pienezza di quella autorità militare, che i suoi antecessori avevano esercitata. Ogni qualvolta uno Stato si trova nelle condizioni in cui a que’ tempi trovavasi l’Inghilterra, e il regio ufficio è riguardato con amore e venerazione, e l’uomo che occupa quell’ufficio ha l’odio e la sfiducia de’ popoli, la via da tenersi sembra evidente. Conservisi la dignità dell’ufficio; si mandi via la persona che indegnamente lo esercita. Così i nostri antenati operarono nel 1399 e nel 1689. Se nel 1642 vi fosse stato un uomo locato in un posto simile a quello che Enrico di Lancaster occupava allorchè Riccardo II venne deposto dal trono, e che il Principe d’Orange occupava nel tempo della deposizione di Giacomo II, le Camere probabilmente avrebbero cangiata la dinastia, e non avrebbero fatto nessun mutamento formale nella Costituzione. Il nuovo re, chiamato al trono dai loro voti, e dipendente dal loro sostegno, sarebbe stato costretto a condurre il governo dello Stato a seconda delle voglie ed opinioni loro. Ma nel partito parlamentare non v’era principe di sangue reale; e quantunque quel partito avesse nel proprio seno molti uomini d’altissimo grado e molti altri di inclita mente, non eravi nessuno che splendidamente giganteggiasse su tutti, in modo da essere proposto come candidato per la Corona. Dovendoci essere un re, e non essendoci modo a trovarne un altro, era necessario lasciare a Carlo il titolo regio. Altra via, dunque, non rimaneva che questa; separare il titolo dalle regie prerogative. I mutamenti che le Camere proposero da farsi alle nostre istituzioni, tuttochè sembrino esorbitanti, ove vengano, ordinandoli ad articoli di capitolazione, maturamente considerati, equivalgono a un dipresso ai mutamenti prodotti dalla Rivoluzione che avvenne nella generazione susseguente. Egli è vero che, a tempo della Rivoluzione, al sovrano la legge non toglieva la potestà di nominare i suoi Ministri; ma è anche vero che, dopo la Rivoluzione, nessun Ministro si è potuto mantenere sei soli mesi in ufficio a dispetto della Camera de’ Comuni. È vero che il sovrano tuttavia ha la potestà di creare i Pari, e la potestà più importante della spada; ma è anche vero che nello esercizio di tali poteri al sovrano, dalla Rivoluzione in poi, sono sempre stati guida e consiglieri che godono la fiducia de’ Rappresentanti della nazione. Difatti, i capi del partito delle Teste–Rotonde nel 1642, e gli uomini di Stato che, circa cinquanta anni appresso, compirono la Rivoluzione, miravano al medesimo scopo. Il quale era quello di porre fine alla contesa tra la Corona e il Parlamento, rivendicando al Parlamento il sindacato supremo sopra il potere esecutivo. Gli uomini di Stato della Rivoluzione conseguirono cotesto fine cangiando la dinastia. Le Teste–Rotonde del 1642, non potendo cangiare la dinastia, furono costretti a prendere una via diretta onde conseguire lo scopo. Non possiamo, ad ogni modo, maravigliarci che le richieste dell’opposizione, le quali importavano un trapasso pieno e formale al Parlamento dei poteri che sempre erano appartenuti alla Corona, scotessero quel gran partito che ha per principii il rispetto per l’autorità costituita, e la paura delle innovazioni violente. Aveva di recente nutrita la speranza di ottenere con mezzi pacifici il predominio nella Camera de’ Comuni; ma tale speranza era svanita. La doppiezza di Carlo aveva resi irreconciliabili i suoi vecchi nemici, aveva fatti entrare nelle schiere de’ malcontenti moltissimi uomini moderati già pronti ad accostarsi a lui, ed aveva così crudelmente mortificati i suoi migliori amici, che per alcun tempo si erano tirati da parte a rodersi in silenzio di vergogna e dispetto. Adesso, nondimeno, ai realisti costituzionali fu forza di eleggere fra due pericoli; onde reputarono debito loro stringersi intorno a un principe di cui condannavano la condotta e nella cui parola non potevano avere fiducia, più presto che patire che la regia dignità venisse degradata, e l’ordinamento politico del Regno interamente rifatto. Con tali sentimenti, molti uomini che per virtù e ingegno avrebbero onorato qualsivoglia causa, si posero dalla parte del principe. LII. Nell’agosto del 1642, le spade alla perfine sguainaronsi; e quasi in ogni contea del regno, tosto comparvero in armi due fazioni ostili, l’una di fronte all’altra. Non è agevole affermare quale de’ due lottanti partiti fosse il più formidabile. Le Camere comandavano Londra e le contee di Londra, la flotta, la navigazione del Tamigi, e la maggior parte delle grandi città e de’ porti marittimi. Potevano disporre di quasi tutte le provvigioni militari del regno, e potevano imporre dazi e sulle mercanzie importate dall’estero, e sopra alcuni prodotti della industria nazionale. Il Re difettava d’artiglieria e di munizioni. Le tasse ch’egli impose sopra i distretti rurali occupati dalle sue truppe, producevano, come sembra probabile, una somma minore di quella che il Parlamento ricavava dalla sola città di Londra. Sperava, a dir vero, per aiuti pecuniari nella munificenza de’ suoi ricchi aderenti. Molti di costoro ipotecarono le loro terre, impegnarono le loro gioie, e fusero le loro argenterie per soccorrerlo. Ma l’esperienza ha pienamente provato che la volontaria liberalità degl’individui, anche in tempi di grande concitamento, è una scarsa fonte finanziaria, agguagliata alla tassazione severa e metodica che grava ad un tempo sopra i volenti e i non volenti. Carlo, nonostante, aveva un vantaggio, il quale, ove egli ne avesse fatto buon uso, lo avrebbe più che compensato del difetto di provigioni e di pecunia, e che, malgrado la sua poca destrezza a giovarsene, lo rese, per alcuni mesi, superiore nella guerra ai suoi avversari. Le sue truppe dapprima pugnavano assai meglio di quelle del Parlamento. Ambedue gli eserciti, egli è vero, erano quasi interamente composti di uomini che non avevano veduto mai un campo di battaglia. Ad ogni modo, la differenza era molta. Le falangi parlamentari erano ripiene di genti venderecce, che s’erano arruolate per bisogno o per ozio. Il reggimento di Hampden era considerato come uno de’ migliori; eppure Cromwell soleva chiamarlo una marmaglia di paltonieri e di servitori a spasso. L’esercito regio, dall’altro canto, era composto in gran parte di gentiluomini, alteri, ardenti, avvezzi a considerare il disonore come cosa più terribile della morte, assuefatti alla scherma, al maneggio delle armi da fuoco, a cavalcare arditamente, ed alle cacce difficili e pericolose, che bene chiamavansi immagini della guerra. Questi gentiluomini, montati sui loro generosi cavalli, a capo di piccole bande composte de’ fratelli minori, dei domestici, dei cacciatori, de’ boscaiuoli loro, dal primo giorno che entrarono in campo, sapevano sostenere la parte loro in una battaglia. Questi valorosi volontari non arrivarono mai a conseguire la fermezza, la pronta obbedienza, la precisione meccanica dei movimenti, che predistinguono il soldato regolare; ma in sulle prime avevano di fronte nemici indisciplinati quanto loro, e meno operosi, forti ed arditi. Per qualche tempo, quindi, i Cavalieri quasi in ogni scontro rimasero vittoriosi. Le Camere anche non avevano avuta la fortuna di scegliere un buon generale. Il grado e la opulenza rendevano il conte d’Essex uno degli uomini più cospicui del partito parlamentare. Aveva con lode guerreggiato sul Continente, ed allorquando le ostilità scoppiarono, godeva sopra ogni altro nel paese alta riputazione militare. Ma tosto si conobbe che egli era inetto al supremo comando. Aveva poca energia e nessun ingegno inventivo. La tattica metodica ch’egli aveva imparata nella guerra del Palatinato, non lo salvò dalla sciagura di essere soprappreso e sconfitto da un capitano come Rupert, il quale non poteva pretendere ad altra rinomanza che a quella di ardimentoso uomo di parte. Nè i maggiori ufficiali ad Essex sottoposti, erano in condizioni di supplire ai difetti di lui: il che scusa o libera le Camere da ogni biasimo. In un paese nel quale nessuno de’ viventi aveva mai vista una gran guerra, non potevano trovarsi generali di sperimentata perizia e valentia. Era perciò necessario in sulle prime di servirsi d’uomini inesperti: e naturalmente vennero preferiti coloro che erano cospicui per condizione o per le doti di cui avevano fatta mostra in Parlamento. Siffatta scelta appena in un solo esempio fu felice; dacchè nè i magnati nè gli oratori fecero prova di buoni soldati. Il conte di Stamford, ch’era uno de’ principali nobili d’Inghilterra, fu rotto a Stratton dai realisti. Nataniele Fiennes, per sapienza civile a nessuno secondo fra’ suoi contemporanei, si disonorò per la pusillanime resa di Bristol. Veramente, di tutti gli uomini di Stato che allora accettarono alti comandi militari, il solo Hampden, a quanto sembra, portò nel campo la capacità e la vigoria di mente onde era pervenuto a tanta altezza nelle cose politiche. LIII. Nel primo anno della guerra, le armi de’ realisti rimasero apertamente vincitrici nelle contee occidentali e settentrionali del paese. Avevano tolta al Parlamento Bristol, seconda città del Regno. Avevano riportate parecchie vittorie, senza nè anche una perdita ignominiosa o di grave momento. Fra le Teste–Rotonde l’avversità aveva incominciato a produrre dissensioni e malcontento. Ora le congiure, ora i tumulti, tenevano il Parlamento in diuturna trepidazione. Pensarono fosse necessario fortificare Londra contro le milizie del Re, ed impiccare in su gli usci delle proprie case alcuni cittadini turbolenti. Taluni de’ più cospicui Pari, che fino allora erano rimasti in Westminster, fuggirono alla Corte in Oxford; e non v’ha dubbio, che se a quel tempo le operazioni de’ Cavalieri fossero state dirette da una mente forte e sagace, Carlo sarebbe tosto ritornato trionfante a Whitehall. Ma il Re lasciò fuggirsi di mano quel bene augurato momento, che non ritornò mai più. Nell’agosto del 1643 accampò di faccia alla città di Gloucester, la quale venne difesa dagli abitanti e dal presidio con una perseveranza che, in tutto il corso della guerra, non avevano mai mostrata i partigiani del Parlamento. Londra ne sentì emulazione. La milizia cittadina si offerse di correre dove i suoi servigi potessero essere utili. In breve tempo si raccolsero numerose forze militari, che cominciarono a muoversi verso occidente. Gloucester fu liberata dall’assedio. I realisti in ogni angolo del reame rimasero scorati; si rinfrancò lo spirito della parte parlamentare; e i Lordi apostati, i quali di recente da Westminster erano fuggiti ad Oxford, affrettaronsi a ritornare da Oxford a Westminster. LIV. Cominciò allora a manifestarsi nello infermo corpo politico una nuova specie di gravi sintomi. Erano, fin da principio, nella parte parlamentare taluni uomini che volgevano in mente pensieri dai quali i più rifuggivano inorriditi. Questi uomini nelle cose di religione erano indipendenti. Pensavano che ogni congregazione cristiana aveva, sotto Cristo, suprema giurisdizione nelle faccende spirituali; che gli appelli ai sinodi provinciali e nazionali ripugnavano quasi tanto alle Scritture, quanto gli appelli alla corte dell’arcivescovo di Canterbury o al Vaticano; e che il papismo, il prelatismo e il presbiterianismo, erano semplicemente tre diverse forme d’una medesima grande apostasia. In politica essi erano, servendoci della frase di quel tempo, uomini da ramo e da radice; frase che risponde al vocabolo in uso ai giorni nostri, voglio dire radicali. Non paghi di limitare il potere del monarca, bramavano di erigere una repubblica sopra le ruine del vecchio ordinamento politico. Dapprima erano poco notevoli e per numero e per importanza; ma non ancora erano trascorsi due anni di guerra, e formavano, se non la più numerosa, di certo la più potente fazione del paese. Alcuni de’ più vecchi capi parlamentari erano mancati per morte, altri avevano perduta la pubblica fiducia. Pym era stato sepolto con onori principeschi fra le tombe de’ Plantageneti. Hampden era caduto mentre studiavasi, con eroico esempio, d’inanimire i suoi concittadini a far fronte alla feroce cavalleria di Rupert. Bedford era stato infido alla causa nazionale. Northumberland, come era noto a ciascuno, aveva animo tiepido. Essex e i suoi luogotenenti avevano mostrato poco vigore e destrezza nel condurre le faccende della guerra. In cosiffatta condizione di cose, il partito degli Indipendenti, ardente, risoluto ed esperto, cominciò ad innalzare audace la fronte nel campo e nel Parlamento. LV. L’anima di questo partito era Oliviero Cromwell. Educato alle occupazioni pacifiche, a quaranta e più anni d’età, aveva accettata una commissione nell’armata parlamentare. Appena divenne soldato, conobbe coll’acuto occhio del genio ciò che Essex, e gli uomini simili ad Essex, con tutta l’esperienza loro, non sapevano intendere. Vide precisamente dove stava la forza dei realisti, e i soli mezzi con cui tale forza poteva vincersi. S’accorse che era mestieri riordinare l’armata del Parlamento. S’accorse parimente, che v’erano copiosi materiali ed ottimi a tale scopo; materiali meno appariscenti, a dir vero, ma più solidi di quelli onde erano composte le valorose legioni del Re. Era mestieri arrolare reclute che non fossero mercenarie, ma di posizione decente e di carattere grave, animate dal timore di Dio, e zelanti della libertà patria. D’uomini di tal sorta compose il proprio reggimento, e mentre gli assoggettava ad una disciplina più rigida di quale altra si fosse mai veduta innanzi in Inghilterra, porgeva agli animi loro stimoli di potentissima efficacia. Gli eventi del 1644 provarono appieno la superiorità della sua mente. Nelle contrade meridionali, dove Essex comandava, le forze parlamentari subirono una serie di vergognosi disastri; ma nelle settentrionali, la vittoria di Marston Moor fu di pieno compenso a tutte le perdite che s’erano altrove, sostenute. Quella vittoria non recò un colpo più serio ai realisti, di quello che recasse al partito fin allora dominante in Westminster; poichè era cosa notoria, che la giornata sciaguratamente perduta dai Presbiteriani, era stata ricuperata dalla energia di Cromwell, e dalla valorosa fermezza de’ guerrieri che lo seguivano. LVI. Cotesti eventi produssero l’Ordinanza d’abnegazione, e il nuovo modello dell’armata. Con pretesti decorosi, e con ogni testimonianza di rispetto, Essex e la maggior parte di coloro i quali avevano occupato posti eminenti sotto il comando di lui, vennero rimossi, e la direzione della guerra fu posta in mani dalle sue differentissime. Fairfax, soldato intrepido, ma di basso intendimento e di carattere irresoluto, fu fatto generale delle armi; ma lo era di solo nome, poichè il vero capo di quelle era Cromwell. LVII. Cromwell affrettossi ad organizzare tutta l’armata secondo gli stessi principii, giusta i quali aveva organizzato il proprio reggimento. Com’egli ebbe fornita l’opera, l’esito della guerra fu deciso. I Cavalieri dovevano adesso far fronte ad un coraggio pari al loro, ad un entusiasmo più forte di quello onde erano animati, ad una disciplina che loro mancava affatto. Passò tosto in proverbio il detto, che i soldati di Fairfax e di Cromwell erano uomini differentissimi da quelli di Essex. In Naseby seguì il primo scontro tra i realisti e le rifatte schiere del Parlamento. La vittoria delle Teste–Rotonde fu piena e decisiva. Essa fu seguita da altri trionfi succedentisi rapidamente. In pochi mesi l’autorità del Parlamento venne pienamente stabilita in tutto il reame. Carlo si rifugiò presso gli Scozzesi, e, con modo che non fa molto onore al carattere loro, fu consegnato agl’Inglesi. Mentre l’esito della guerra era tuttavia dubbio, le Camere avevano fatto morire il Primate; avevano interdetto, nella sfera della loro autorità, l’uso della liturgia; ed avevano imposto che tutti sottoscrivessero quel famoso documento conosciuto col nome di Lega o Convenzione Solenne. Come la lotta ebbe fine, le innovazioni e le vendette con grandissimo ardore furono spinte agli estremi. La politica ecclesiastica del Regno fu rimodellata. Moltissimi individui dell’alto clero vennero spogliati de’ loro beneficii. Multe, spesso di somme rovinose, vennero inflitte ai realisti, già impoveriti per i larghi sussidi donati al Re. I beni di molti vennero confiscati; molti Cavalieri proscritti trovarono utile comprare, con enormi sacrifizi, la protezione de’ personaggi principali del partito vittorioso. Grandi dominii, appartenenti alla Corona, ai Vescovi ed ai Capitoli, furono confiscati, e o dati in concessione, o venduti all’incanto. In seguito di tali spoliazioni, gran parte del suolo d’Inghilterra fu a un tratto messo in vendita. Poichè il danaro era scarso, il traffico paralizzato, il titolo di proprietà mal sicuro; e poichè la paura che ispiravano gli offerenti che avevano in mano il potere, impediva la libera concorrenza; i prezzi spesso erano prettamente nominali. In tal guisa molte antiche ed onorate famiglie scomparvero, e non se ne seppe più nulla; e molti uomini nuovi mostraronsi sulla scena, con repentino innalzamento. Ma mentre le Camere adopravano la propria autorità in quel modo, essa fuggì rapidamente dalle loro mani. L’avevano ottenuta arrogandosi un potere senza limite o freno. Nell’estate del 1647, circa un anno dopo che l’ultima fortezza dei Cavalieri erasi sottomessa al Parlamento, il Parlamento fu costretto a sottomettersi ai soldati suoi propri. LVIII. Corsero tredici anni, durante i quali l’Inghilterra fu, sotto vari nomi e varie forme, governata dalla spada. Giammai, prima o dopo di quell’epoca, il potere civile della nostra patria non fu soggetto alla dittatura militare. L’armata che si recò in mano il supremo potere dello Stato, era un’armata molto diversa da qualunque altra che se n’è poi veduta nel nostro paese. Oggimai la paga del soldato comune non è tale da svolgere altri individui fuorchè quelli delle classi basse degli operai, dalla loro vocazione. Una barriera quasi insormontabile lo divide dal grado d’ufficiale. La maggior parte di coloro che vi pervengono, lo comprano. Sono così numerose e vaste le dipendenze remote dell’Inghilterra, che chiunque si arruola alla truppa di linea, deve attendersi di passare molti anni della propria vita in esilio, e parecchi anni in climi non favorevoli alla salute ed al vigore della razza europea. L’armata del Lungo Parlamento venne raccolta pel servizio interno. La paga del soldato comune era maggiore del guadagno che l’individuo del popolo poteva sperare dal proprio lavoro; e qualora si fosse distinto per intelligenza e per coraggio, poteva sperare di levarsi a posti eminenti. Le file, quindi, erano composte di uomini, per educazione e posizione, superiori alla moltitudine. Questi uomini, sobrii, morali, diligenti ed assuefatti alla riflessione, erano stati indotti ad abbracciare il mestiere delle armi, non già dagli incitamenti del bisogno, non dal desio di novità o di licenza, non dagli artificii degli ufficiali reclutatori, ma dallo zelo religioso e politico, misto alla brama di acquistarsi onore e spingersi in alto. Essi vantavansi, siccome ne troviamo ricordo nelle loro solenni risoluzioni, di non essere stati costretti alla milizia, nè d’averla abbracciata per desiderio di lucro; di non essere giannizzeri, ma liberi cittadini inglesi, i quali, di loro propria voglia, avevano poste le loro vite in pericolo per la libertà e la religione dell’Inghilterra; perocchè consideravano come loro debito espresso vegliare sul bene della nazione che avevano salvata. In una milizia siffattamente composta, potevano senza pregiudizio della sua utilità, tollerarsi quelle tali licenze, che, concesse a qualunque altra soldatesca, avrebbero sovvertita ogni disciplina. Generalmente parlando, i soldati, i quali si costituissero in circoli politici, eleggessero i loro delegati e prendessero risoluzioni intorno ad alte questioni di Stato, scoterebbero tosto ogni freno, non sarebbero più un’armata, e diverrebbero la massa peggiore e più pericolosa del popolo. Nè sarebbe sicuro, ai tempi nostri, permettere ne’ reggimenti adunanze religiose, nelle quali un caporale versato nella lettura della Bibbia infiammasse la divozione del suo colonnello meno istruito, e desse avvertimenti al suo maggiore recidivo. Ma tali erano la intelligenza, la gravità, la padronanza di sè, nei guerrieri di Cromwell, che nel loro campo una organizzazione religiosa e politica potè esistere senza recar nocumento alla organizzazione militare. Gli uomini stessi i quali facevansi notare come demagoghi e predicatori del campo, godevano bella reputazione di fermezza, di spirito d’ordine, e di pronta obbedienza nelle guardie, negli esercizi e nel campo di battaglia. In guerra, nulla valeva a resistere a questa straordinaria milizia. Il ferreo coraggio, che forma l’indole del popolo inglese, ricevette subitamente, mercè del sistema di Cromwell, regola e stimolo. Altri comandanti hanno mantenuto un ordine egualmente rigoroso; altri comandanti hanno ispirato nei petti dei loro seguaci uno zelo egualmente fervido: ma nel solo campo di Cromwell trovavasi la più rigida disciplina congiunta al più ardente entusiasmo. Le sue truppe correvano alla vittoria con la precisione delle macchine, mentre erano infiammate del più selvaggio fanatismo de’ crociati. Da quando l’armata venne riordinata fino a quando si sbandò, non trovò mai o nelle Isole Britanniche o nel Continente un nemico che potesse sostenerne gl’impeti. In Inghilterra, Scozia, Irlanda, Fiandra, i guerrieri puritani, spesso circuiti da difficoltà, talvolta lottanti contro nemici tre volte più numerosi, non solamente non mancarono di vincere, ma non mancarono mai di distruggere e tagliare in pezzi qualunque esercito si fosse loro presentato. Finalmente, giunsero a considerare il di della battaglia come un giorno di sicuro trionfo, e movevano con fiducia sprezzante contro i più rinomati battaglioni d’Europa. Turenna rimase attonito alla severa esaltazione con cui i suoi alleati inglesi correvano al combattimento, ed espresse la gioia di un vero soldato, allorquando gli fu detto che era costume de’ lancieri di Cromwell d’allegrarsi grandemente quando guardavano in faccia il nemico; e i Cavalieri banditi provarono l’emozione dell’orgoglio nazionale, allorquando videro una brigata de’ loro concittadini, inferiori di numero ai nemici ed abbandonati dagli alleati, porre in rotta la più bella fanteria spagnuola, ed aprirsi il passo in una controscarpa, che era stata pur allora giudicata inespugnabile dai più sperimentati marescialli di Francia. Ma ciò che principalmente distingueva l’armata di Cromwell dalle altre armate, era l’austera moralità e il timore di Dio, che prevalevano in tutte le file. I più zelanti realisti confessano, che in quel campo singolare non s’udiva una bestemmia, non si vedevano ubriachi o giuocatori, e che, per tutto il tempo che durò la dominazione soldatesca, gli averi de’ pacifici cittadini e l’onore delle donne furono reputati sacri. Se si commisero oltraggi, furono oltraggi di specie molto diversa da quelli cui di leggieri si abbandona un’armata vittoriosa. Non vi fu nè anche una fantesca che muovesse lamento delle galanti aggressioni de’ soldati. Una sola dramma d’argento non fu rapita nelle botteghe degli orefici. Ma un sermone pelagiano, o uno sportello sul quale fosse dipinta la Madonna col divino Infante, produceva nelle file dei Puritani tale un eccitamento, che richiedeva gli estremi sforzi degli ufficiali per essere dominato. Una delle principali difficoltà di Cromwell fu quella d’impedire che i suoi lancieri e dragoni si gettassero sopra i pergami de’ sacerdoti, i cui discorsi (per servirmi dell’espressione di que’ tempi) non erano gustosi; e moltissime delle nostre cattedrali serbano tuttavia i segni dell’odio onde quegli spiriti austeri abbonivano ogni vestigio di papismo. LIX. Affrenare il popolo inglese non fu lieve impresa per quell’armata. Non appena fu sentito il peso della tirannide militare, che la nazione, non assuefatta a tanto servaggio, cominciò ad agitarsi ferocemente. Scoppiarono insurrezioni in quelle contee che, mentre ardeva la guerra, avevano mostrata cieca sommissione al Parlamento. A dir vero, lo stesso Parlamento aborriva i suoi vecchi difensori più che i suoi vecchi nemici, e bramava di venire a patti di accomodamento con Carlo a danno dell’armata. Nel tempo medesimo, in Iscozia formossi una coalizione tra i realisti e un grosso corpo di presbiteriani, che detestavano le dottrine degl’indipendenti. Finalmente scoppiò la procella. I popoli si sollevarono in Norfolk, in Suffolk, in Essex, in Kent, in Galles. La flotta nel Tamigi subitamente innalzò i regi colori, si spinse in mare, e minacciava la costa meridionale dell’isola. Grossa mano di armati scozzesi valicò i confini, e giunse fino alla contea di Lancaster. Potrebbe ben sospettarsi che siffatti movimenti venissero riguardati con segreta compiacenza dalla maggior parte dei membri della Camera de’ Lordi, e di quella de’ Comuni. Ma il giogo dell’armata non poteva scuotersi in quella guisa. Mentre Fairfax spegneva le insurrezioni nelle vicinanze della metropoli, Oliviero domava gli insorgenti Gallesi, e riducendo i loro castelli in rovine, moveva contro gli Scozzesi. Le sue truppe erano poche in paragone degl’invasori; ma egli non aveva costume di contare il numero de’ suoi nemici. L’armata scozzese fu onninamente distrutta. Susseguì un cangiamento nel governo della Scozia. Un’amministrazione ostile al Re formossi in Edimburgo; e Cromwell, diventato più che mai l’idolo de’ suoi soldati, ritornò trionfante a Londra. LX. Allora un disegno a cui sul principio della guerra civile nessuno avrebbe osato alludere, e che non era meno incompatibile con la Solenne Convenzione, di quello che fosse con le vecchie leggi d’Inghilterra, cominciò ad assumere una forma distinta. Gli austeri guerrieri che governavano la nazione, avevano per lo spazio di parecchi mesi meditata una tremenda vendetta contro il Re prigioniero. Quando e come originasse tale disegno; se movesse dai comandanti e si diffondesse nelle file, o dalle file si appigliasse ai comandanti; se si debba ascrivere ad una politica che si serviva del fanatismo come di strumento, o al fanatismo che trascinava la politica con irresistibile impulso; sono questioni che fino ai dì nostri non si sono potute sciogliere perfettamente. Se non che, sembra probabile, considerando generalmente le cose, che colui che pareva menare gli altri, fosse forzato a seguirli; e che in questa occasione, come avvenne pochi anni dopo in una occasione simigliante, egli sacrificasse il proprio giudicio e le proprie inclinazioni ai voleri dell’armata. Poichè il potere ch’egli aveva stabilito, era un potere che neanche egli stesso valeva a raffrenare; e onde potesse sempre comandare, era necessario ch’ei talvolta obbedisse. Protestò pubblicamente, che ei non era stato l’iniziatore della cosa, che i primi passi erano stati fatti senza esserne stato reso partecipe, che non potè consigliare il Parlamento a dare il colpo, ma sottopose i propri sentimenti alla forza delle circostanze, che sembravano manifestare gli alti disegni della Provvidenza. Siffatte proteste si sogliono sempre considerare come esempio della ipocrisia di che comunemente ei viene tacciato. Ma anche coloro che lo chiamano ipocrita, non oserebbero di chiamarlo uno stolto. È loro debito mostrare ch’egli voleva conseguire un alto scopo, incitando l’armata a commettere un atto ch’egli non rischiossi mai di ordinare. Parrebbe cosa assurda supporre che egli, il quale da’ suoi nemici degni di rispetto non venne mai rappresentato come follemente crudele ed implacabilmente vendicativo, avesse fatto il passo più importante di tutta la sua vita, mosso solo da spirito malevolo. Era tanto savio da conoscere, quando consentì a versare quel sangue augusto, ch’egli compiva un fatto inespiabile, che sveglierebbe dolore ed orrore non solo negli animi de’ realisti, ma negli animi di nove decimi di coloro i quali avevano parteggiato a favore del Parlamento. Siano quali si vogliano le visioni che turbavano i cervelli degli altri, ei di certo non sognava di repubblica, secondo la forma degli antichi, nè del regno millenario dei Santi. S’egli già aspirava a farsi fondatore d’una nuova dinastia, era chiaro che Carlo I era un rivale meno formidabile di quello che sarebbe stato Carlo II. Nell’istante della morte di Carlo I, ciascuno de’ Cavalieri avrebbe conservata la propria lealtà in tutta la sua purezza a Carlo II. Carlo I era prigioniero; Carlo II sarebbe stato libero. Carlo I era obietto di sospizione e disgusto a gran parte di coloro che tuttavia rabbrividivano al pensiero di ucciderlo; Carlo II avrebbe svegliato tutto l’interesse che accompagna la giovinezza e la innocenza sventurata. È impossibile credere che considerazioni così ovvie ed importanti fuggissero alla mente del più grande uomo politico di quell’età. Vero è che Cromwell, un tempo, intese a farsi mediatore fra il trono ed il Parlamento; o a riordinare lo Stato in isfacelo, per mezzo del potere della spada, sotto la sanzione del nome regio. In siffatto disegno egli perseverò finchè non fu costretto ad abbandonarlo per la insubordinazione dei soldati e per la incurabile doppiezza del Re. Sorse un partito nel campo, che vociferando chiedeva la testa del traditore, il quale trattava con Agag. Si formarono cospirazioni; levaronsi romorose minacce d’accusa. Scoppiò un ammutinamento, a comprimere il quale bastarono appena il vigore e la risolutezza di Cromwell. E quantunque, per mezzo d’una giudiciosa mistura di severità e di dolcezza, gli fosse riuscito di ristabilire l’ordine, s’accorse che sarebbe stato estremamente difficile e pericoloso contendere contro la rabbia de’ guerrieri, i quali consideravano il caduto tiranno qual proprio nemico, e quale nemico del loro Dio. Nel tempo stesso si vide più che mai manifesto come nel Re non fosse da fidarsi. I vizi di Carlo erano cresciuti; e, a dir vero, erano di quella specie di vizi, che le difficoltà e le perplessità generalmente fanno risaltare in tutta la loro luce. L’astuzia è lo scudo naturale de’ deboli. E però un principe il quale è abituato ad ingannare mentre si trova nell’altezza della possanza, non è verosimile che impari ad esser franco in mezzo agl’impacci ed alle sciagure. Carlo era un dissimulatore non solo privo di scrupoli, ma sventurato. Non vi fu mai uomo politico al quale siano state attribuite con innegabile evidenza tante fraudi e tante falsità. Egli pubblicamente riconobbe le Camere di Westminster come Parlamento legittimo, e nel medesimo tempo scrisse nel suo Consiglio un atto privato, in che dichiarava di non riconoscerle. Protestò pubblicamente di non essersi mai rivolto ad armi straniere per domare i suoi popoli, mentre privatamente implorava aiuto dalla Francia, dalla Danimarca o dalla Lorena. Negò pubblicamente di avere impiegati i papisti, e nel medesimo tempo mandava ordini ai suoi generali per impiegare ogni papista che volesse servire. Prestò pubblicamente in Oxford il giuramento, promettendo di non esser mai connivente al papismo; mentre privatamente assicurava la propria moglie, che egli intendeva tollerarlo in Inghilterra; e dette facoltà a lord Glamorgan di promettere che il papismo verrebbe ristabilito in Irlanda. Finalmente, tentò d’uscire d’impaccio a danno del suo ministro. Glamorgan ricevè, tutte scritte di mano del Re, riprensioni che dovevano esser lette da altri, o lodi che dovevano esser vedute da lui solo. Fino a tal segno allora erasi spinta la indole falsa del Re, che i suoi più devoti amici non si poterono frenare dal querelarsi fra loro, con amaro dolore e vergogna della torta politica di lui. I suoi difetti, dicevano essi, davano loro meno molestia de’ suoi intrighi. Dall’istante in cui fu fatto prigioniero, non v’era individuo del partito vittorioso che egli non cercasse avvolgere fra le sue lusinghe e fra le sue macchinazioni; ma non gli toccò peggiore ventura di quella ch’egli ebbe allorquando si studiò di blandire Cromwell, nel tempo stesso che voleva minargli il terreno; e Cromwell era uomo da non lasciarsi vincere nè dalle blandizie nè dalle macchinazioni. LXI. Cromwell doveva risolvere se mai fosse cosa prudente porre a rischio l’affetto che gli portava il suo partito, lo affetto dell’armata, la propria grandezza, anzi la sua propria vita, per un tentativo che probabilmente sarebbe riuscito vano; pel tentativo, cioè, di salvare un principe che non si sarebbe potuto mai vincolare con nessun giuramento. La determinazione fu presa dopo molte lotte e molti sospetti, e forse non senza molte preghiere. Carlo fu abbandonato al proprio destino. I così detti Santi militari, sfidando le antiche leggi del Regno, non che il sentimento quasi universale della nazione, decisero che il Re dovesse espiare col proprio sangue i delitti onde era reo. Egli per qualche tempo aspettassi una morte simile a quella de’ suoi infelici predecessori, Eduardo II e Riccardo II. Ma non v’era pericolo d’un tale tradimento. Coloro i quali lo tenevano fra gli artigli, non erano coltellatori notturni. Ciò ch’essi fecero, lo fecero perchè servisse di spettacolo al cielo ed alla terra, e perchè ne rimanesse eterna ricordanza. Godevano a malincuore dello scandalo che davano. L’essere l’antica Costituzione e l’opinione pubblica dell’Inghilterra direttamente opposte al regicidio, circondava il regicidio di un fascino straordinario agli occhi di un partito intento a produrre una completa rivoluzione politica e sociale. Onde conseguire pienamente il loro scopo, era mestieri che innanzi tutto facessero in pezzi ogni parte della macchina del Governo; ed era una necessità più presto gradevole che penosa agli animi loro. La Camera de’ Comuni votò per un accomodamento col Re. I soldati con la forza si opposero alla maggioranza. I Lordi unanimemente rigettarono la proposta di porre il Re sotto processo; e la loro sala venne immediatamente chiusa. Nessun tribunale legittimo voleva assumersi la responsabilità di giudicare colui dal quale emanava la giustizia. Creossi un tribunale rivoluzionario, il quale dichiarò Carlo essere tiranno, traditore, assassino e nemico pubblico; e la testa gli venne mozza dal busto innanzi a migliaia di spettatori, di faccia alla sala del banchetto, nel suo proprio palazzo. Non molto tempo dopo, chiaramente conobbesi che quei zelanti politici e religiosi, ai quali deve attribuirsi quel fatto, avevano commesso non solo un delitto, ma un fallo. Essi avevano data ad un principe fin allora conosciuto per le sue colpe, occasione di mostrare, in un vasto teatro, innanzi agii occhi di tutte le nazioni e di tutti i secoli, talune doti che irresistibilmente svegliano l’ammirazione e l’amore dell’umanità; cioè l’altero spirito di un prode gentiluomo, e la pazienza e mansuetudine di un cristiano che si sacrifica. Che anzi, avevano in tal modo eseguita la loro vendetta, che quell’uomo stesso la cui vita non era stata se non una serie di violazioni delle libertà dell’Inghilterra, sembrava morire da martire per la causa di quelle medesime libertà. Nessun demagogo produsse mai una impressione negli animi di tutti simile a quella che vi produsse il Re prigioniero, il quale serbando in quegli estremi tutta la sua dignità reale, ed affrontando la morte con indomito coraggio, infiammò i sentimenti del suo popolo oppresso, ricusò fermamente di favellare innanzi ad un tribunale ignoto alla legge, appellossi dalla violenza militare ai principii della Costituzione, chiese con che diritto dalla Camera de’ Comuni erano stati espulsi i suoi più rispettabili membri e la Camera de’ Lordi era stata privata delle sue funzioni legislative, e disse ai suoi uditori che lacrimavano, com’egli non difendesse soltanto la causa propria, ma la loro. La pessima condotta del suo lungo governo, le sue innumerevoli perfidie, furono dimenticate. La memoria di lui venne, nelle menti della maggior parte de’ suoi sudditi, associata a quelle stesse libere istituzioni ch’egli per molti anni erasi sforzato di distruggere; poichè quelle libere istituzioni s’erano spente con lui, e, tra il lugubre silenzio di un popolo spaventato dall’armi, erano state difese dalla sola sua voce. Da quel giorno, cominciò una reazione in favore della Monarchia e dell’esule famiglia reale, la quale venne sempre crescendo, finchè il trono non fu rialzato in tutta la sua antica dignità. Nondimeno, da principio gli uccisori del Re parvero derivare nuova energia da quel sacramento di sangue con cui s’erano scambievolmente vincolati, separandosi per sempre dalla maggioranza de’ loro concittadini. L’Inghilterra venne dichiarata Repubblica. La Camera de’ Comuni, ridotta ad un piccolo numero di membri, fu, di nome soltanto, il supremo potere dello Stato. Di fatto, il governo era tutto nelle mani dell’esercito e del suo capo. Oliviero aveva fatta la sua scelta. Egli aveva conservato l’affetto de’ suoi soldati; ma erasi diviso da pressochè tutte le classi de’ suoi concittadini. Mal si direbbe ch’egli avesse un partito al di là de’ confini del campo e delle fortezze. Quegli elementi di forza i quali, quando scoppiò la guerra civile, parevano osteggiarsi vicendevolmente, si congiunsero contro lui; tutti i Cavalieri, la più parte delle Teste–Rotonde, la Chiesa Anglicana, la Chiesa Presbiteriana, la Chiesa Cattolica Romana, l’Inghilterra, la Scozia, l’Irlanda. Nonostante, era tale il suo genio e la sua fermezza, che egli potè padroneggiare e vincere ogni ostacolo che gli attraversava la via, e rendersi signore della propria patria, più assoluto di qualunque altro de’ Re legittimi, e farla rispettare e temere più di quanto era stata temuta e rispettata in tutto il tempo che ella era rimasta sotto il governo de’ suoi legittimi principi. L’Inghilterra aveva già cessato di lottare. Ma i due altri Regni, i quali erano stati governati dagli Stuardi, si dichiararono ostili alla nuova Repubblica. Il partito degli Indipendenti era egualmente odioso ai Cattolici Romani d’Irlanda, ed ai Presbiteriani di Scozia. Entrambi questi paesi, che poco innanzi erano ribelli a Carlo I, poscia riconobbero l’autorità di Carlo II. LXII. Ma ogni cosa cedeva al vigore ed all’ingegno di Cromwell. In pochi mesi soggiogò l’Irlanda, e la ridusse come non era mai stata nello spazio di cinque secoli di strage ch’erano trascorsi dallo sbarco de’ primi Normanni in poi. Determinossi a porre fine al conflitto delle razze e delle religioni che aveva per tanto tempo turbata quell’isola, facendovi esclusivamente predominare la popolazione inglese e protestante. A tale scopo, allentò il freno al feroce entusiasmo de’ suoi seguaci, dichiarò una guerra simile a quella che Israello aveva dichiarata ai Cananei, domò gl’Idolatri col taglio della spada, di guisa che le grandi città furono lasciate prive d’abitanti; ne cacciò parecchie migliaia sul continente, ne imbarcò molte migliaia per l’America, e riempì quel vuoto mandandovi numerose colonie di genti anglo–sassoni, seguaci delle credenze di Calvino. Strano a dirsi! sotto quel regime di ferro, il paese conquistato cominciò a far mostra d’una certa prosperità esteriore. Distretti che poco innanzi erano selvaggi, come quelli dove i coloni del Connecticut contendevano con gli uomini rossi, in pochi anni vennero trasformati in un certo aspetto simile a quello di Kent e di Norfolk. Si videro da per tutto nuovi edifici e strade e piantagioni. La entrata de’ terreni crebbe tosto; e tosto i proprietari inglesi cominciarono a querelarsi d’incontrare in tutti i mercati i prodotti dell’Irlanda, e a gridare perchè si promulgassero leggi protezioniste. Dall’Irlanda il guerriero vittorioso, che adesso era anche di nome, come lungo tempo lo era stato di fatto, Lord Generale dello esercito della Repubblica, si mosse alla volta di Scozia. Ivi stavasi il giovine Re, il quale aveva acconsentito di professare il culto dei Presbiteriani e firmare la Convenzione; e in ricompensa di tali concessioni, gli austeri Puritani che dominavano in Edimburgo gli avevano permesso di tenere, sotto la vigilanza e direzione loro, una corte solenne ma trista nelle sale di Holyrood da lungo tempo deserte. Questa corte da scherno durò brevemente. In due grandi battaglie Cromwell annientò le forze militari della Scozia. Carlo fuggì per salvare la vita, e con estrema difficoltà si sottrasse al destino del padre suo. Lo antico Regno degli Stuardi venne, per la prima volta, ridotto alla più profonda sommissione. Non rimase vestigio della indipendenza con tanto valore difesa contro i più potenti e destri de’ Plantageneti. Il Parlamento inglese faceva le leggi per la Scozia. I giudici inglesi sedevano nei tribunali della Scozia. Anche quella inflessibile Chiesa, che erasi mantenuta a dispetto di tanti Governi, non osava far sentire un lamento. LXIII. Tanta era stata, almeno in apparenza, l’armonia tra i guerrieri che avevano soggiogato la Irlanda e la Scozia, e gli uomini politici che sedevano in Westminster! ma l’alleanza ch’era stata cementata dal pericolo, fu sciolta dalla vittoria. Il Parlamento dimenticò di dovere la propria esistenza allo esercito. Lo esercito era meno disposto che mai a sottoporsi alla dittatura del Parlamento. Veramente, i pochi membri i quali formarono ciò che poscia venne chiamato la coda o la groppa (_Rump_) della Camera de’ Comuni, non avevano, più che i corpi militari, diritto ad essere stimati i rappresentanti della nazione. La contesa fu tosto condotta ad un esito decisivo. Cromwell empì la Camera d’uomini armati. Ne cacciarono giù dal seggio il presidente, vuotarono la sala, e ne chiusero le porte. La nazione che non amava nessuna delle due parti avverse, ma che, suo malgrado, era costretta a rispettare la capacità e la fermezza del generale, guardò quell’evento con pazienza, se non con compiacenza. Il Re, la Camera de’ Lordi, e quella de’ Comuni, erano stati vinti e distrutti; e sembrava che Cromwell fosse rimasto unico erede di tutti e tre. Nondimeno, v’erano certe limitazioni impostegli tuttavia da quella stessa armata, cui egli andava debitore della sua immensa autorità. Quel corpo singolare di uomini era quasi interamente composto di repubblicani zelanti. Mentre rendevano schiava la patria, ingannavansi credendo di emanciparla. Il libro che essi maggiormente veneravano, forniva loro un esempio che ricorreva spesso sulle loro labbra. Era pur troppo vero che la nazione ingrata e stolta mormorava contro i propri liberatori. Similmente un’altra nazione eletta aveva mormorato contro il capo che la trasse, per duri e perigliosi sentieri, dalla schiavitù alla terra che era irrigata di latte e di miele. Nondimeno, quel gran capitano aveva liberati i fratelli, loro malgrado; nè aveva aborrito di dare terribili esempi di giustizia sopra coloro i quali avversavano la offerta libertà, e lamentavano le vivande, i padroni e le idolatrie dell’Egitto. Lo scopo de’ santocchi guerrieri i quali circondavano Cromwell, era quello di stabilire una libera e pia Repubblica. Per conseguire tale scopo, erano pronti ad appigliarsi, senza veruno scrupolo, a qualunque mezzo, comecchè violento ed illegittimo. E però non era impossibile stabilire col loro aiuto una monarchia assoluta di fatto; ma era probabile che essi avrebbero repentinamente tolto il loro sostegno a un uomo che, anche soggetto a rigorose restrizioni costituzionali, avesse osato assumere il nome e la dignità di Re. I sentimenti di Cromwell erano molto diversi. Egli non era più ciò che era stato; nè sarebbe giusto considerare il cangiamento che avevano subito le sue idee, come il semplice effetto della sua ambizione egoistica. Quando entrò nel Lungo Parlamento, vi portò dal suo ritiro campestre poca conoscenza di libri, nessuna esperienza degli affari di Stato, ed un temperamento esacerbato dalla lunga tirannide del Governo e della gerarchia. Nei tredici anni susseguenti si era in modo non ordinario educato alle cose politiche. Era stato attore principale in una serie di rivoluzioni; era stato per lungo tempo l’anima, o almeno il capo di un partito. Aveva comandato eserciti, riportate vittorie, negoziato trattati, soggiogato, pacificato e riordinato Regni. Sarebbe stata cosa strana, in verità, se le sue nozioni fossero rimaste nella condizione in cui erano quando il suo spirito trovavasi principalmente occupato de’ suoi campi e della sua religione, e quando i grandi avvenimenti che variavano il corso della sua vita, erano una fiera di bestiame o una ragunanza religiosa in Huntingdon. Si accorse che certi disegni d’innovazione, per cui egli un tempo aveva mostrato zelo, buoni o cattivi in sè stessi, erano avversi al sentimento generale del paese; e che, se egli perseverava in tali disegni, non poteva altro aspettarsi che perpetue turbolenze, da domarsi solo con la spada. Egli quindi voleva ristaurare, in tutte le sue parti essenziali, quell’antica Costituzione, che il popolo aveva sempre amata, e che poi amaramente desiderava. La via calcata poscia da Monk, non era per anche aperta a Cromwell. La memoria di un solo terribile giorno divise per sempre il gran regicida dalla famiglia degli Stuardi. Il partito cui egli poteva appigliarsi, era soltanto quello di ascendere al trono d’Inghilterra, e regnare secondo l’antica politica inglese. Se gli fosse riuscito di far ciò, avrebbe potuto sperare che le ferite della lacerata patria si sarebbero presto rimarginate. Gran numero d’uomini onesti e tranquilli si sarebbero stretti intorno al suo seggio. Quei realisti che amavano più le istituzioni che la dinastia, l’ufficio di Re più che Carlo I e Carlo II, avrebbero tosto baciato la mano del re Oliviero. I Pari, che allora rimanevano cupi e solitari nel ritiro de’ loro castelli, e ricusavano di prender parte alla cosa pubblica, convocati al Parlamento dall’editto di un re assiso sul trono, avrebbero lietamente riassunte le loro antiche funzioni. Northumberland e Bedford, Manchester e Pembroke, sarebbero stati orgogliosi di portare la corona e gli sproni, lo scettro e il globo, innanzi al ristauratore dell’aristocrazia. Un sentimento di lealtà avrebbe gradatamente affezionato il popolo alla nuova dinastia; ed alla morte del fondatore di tal dinastia, la dignità regia sarebbe discesa con universale acquiescenza ai suoi posteri. I più destri realisti pensavano che siffatte mire erano savie, e che se a Cromwell fosse stato concesso di seguire il proprio giudicio, l’esule dinastia non sarebbe mai più risalita sul trono d’Inghilterra. Ma il suo disegno era direttamente opposto al sentire della sola classe ch’egli non osava offendere. Il nome di re era odioso ai soldati. Parecchi di loro mal volentieri pativano che l’amministrazione dello Stato fosse nelle mani di un solo. La gran maggioranza, non pertanto, era disposta a sostenere il suo generale, come primo magistrato elettivo della Repubblica, contro tutte le fazioni che potessero per avventura avversare l’autorità di lui; ma non avrebbe consentito ch’egli assumesse il titolo regio, o che quella dignità, ch’era equo compenso del suo merito personale, fosse dichiarata ereditaria nella sua famiglia. Ciò che gli rimaneva a fare, era di dare alla nuova Repubblica una Costituzione, che somigliasse a quella della vecchia monarchia tanto quanto piacesse all’armata. Perchè non si dicesse ch’egli si fosse da sè elevato al nuovo potere, convocò un Consiglio, composto in parte d’individui sul sostegno de’ quali ei poteva riposare, in parte di altri de’ quali poteva di leggieri sfidare l’opposizione. Tale Assemblea, ch’egli chiamò Parlamento, e cui il popolaccio appose il nome di uno de’ suoi più cospicui membri, cioè Parlamento di Barebone, dopo di essersi per breve tempo fatta segno al pubblico scherno, depose nelle mani del generale i poteri ricevuti da lui, e gli lasciò piena libertà di foggiare a suo talento un sistema di governo. LXIV. Il suo disegno, fin da principio, somigliava considerevolmente alla vecchia Costituzione inglese; ma in pochi anni egli credè opportuno spingersi più oltre, e ristaurare quasi ogni parte dell’antico sistema sotto nuovi nomi e nuove forme. Il titolo di re non fu ristabilito, ma le prerogative regie vennero affidate ad un alto protettore. Il sovrano fu chiamato non Sua Maestà, ma Sua Altezza; non fu coronato ed unto nell’Abbadia di Westminster, ma solamente intronizzato, decorato della spada dello Stato, vestito d’un manto purpureo, e gli fu fatto presente d’una ricca Bibbia nella Sala di Westminster. Il suo ufficio non fu dichiarato ereditario, ma gli fu concesso di nominare il suo successore; e nessuno dubitava ch’egli avrebbe nominato il proprio figlio. Una Camera de’ Comuni era parte necessaria del nuovo sistema politico. Nel costituirla, il Protettore fece mostra d’una saviezza e d’uno spirito pubblico, che non furono pienamente apprezzati da’ suoi contemporanei. I vizi del vecchio sistema rappresentativo, comunque non fossero cotanto gravi come in appresso divennero, erano già stati notati dagli uomini di senno. Cromwell riformò quel sistema secondo gli stessi principii a norma de’ quali Pitt, centotrenta anni dopo, tentò di riformarlo, e a norma de’ quali è stato finalmente riformato ai tempi nostri. I piccoli borghi vennero privati della franchigia elettorale, anche molto più di quello che furono nel 1832: e il numero dei deputati delle contee fu grandemente accresciuto. Poche città che non erano rappresentate, avevano acquistata importanza. Di tali città, le più considerevoli erano Manchester, Leeds ed Halifax: a tutte e tre fu concessa la rappresentanza. I rappresentanti della capitale furono aumentati di numero. La franchigia elettiva fu riformata in guisa, che ogni uomo d’una certa considerazione, possidente o non possidente di terre libere, votava nella contea di sua residenza. Pochi scozzesi e pochi coloni inglesi stabiliti in Irlanda, furono chiamati all’Assemblea, che doveva esercitare le funzioni legislative in Westminster per tutto il reame. Creare una Camera de’ Lordi era impresa meno facile. La democrazia non ha mestieri di prescrizione. La monarchia spesso è esistita senza siffatto sostegno. Ma l’ordine patrizio è l’opera del tempo. Oliviero trovò già esistente una nobiltà ricca, rispettata e popolare agli occhi de’ cittadini, quanto lo sia mai stata qualunque altra nobiltà. Se egli, come Re d’Inghilterra, avesse comandato ai Pari di accorrere al Parlamento, secondo le antiche costumanze del Regno, molti di loro avrebbero senza dubbio obbedito allo appello. Ciò non potè egli fare, ed invano offrì ai capi delle più illustri famiglie un posto nel suo nuovo Senato. Essi pensavano non potere accettare la nomina ad un’Assemblea improvvisata, senza rinunciare agli aviti diritti e tradire l’ordine loro. Il Protettore, quindi, si trovò nella necessità di riempire la Camera Alta di uomini nuovi, i quali, nelle ultime vicissitudini, s’erano resi cospicui. Fu questo il meno felice dei suoi disegni, e spiacque a tutti. La moltitudine, che sentiva venerazione ed affetto pei grandi nomi storici del paese, schernì una Camera di Lordi ove sedevano alcuni fortunati birrai e calzolai, alla quale pochi degli antichi Nobili furono invitati, e da cui tutti quei vecchi Nobili che vi furono invitati, volgevano sdegnosi le spalle. Il modo in che furono costituiti i Parlamenti di Cromwell, nondimeno, era cosa di poco momento, poichè egli possedeva i mezzi di condurre l’amministrazione senza il loro sostegno, e a dispetto della loro opposizione. Pare che volesse governare costituzionalmente, e sostituire l’impero delle leggi a quello della spada. Ma si accorse tosto, ch’egli, odiato com’era dai realisti e dai presbiteriani, poteva trovare salvezza soltanto nell’assolutismo. La prima Camera de’ Comuni che il popolo elesse per comando di lui, ne mise in questione l’autorità, e fu disciolta senza avere compito un solo atto. La sua seconda Camera de’ Comuni, tuttochè lo riconoscesse come Protettore, e volentieri lo avrebbe fatto Re, si ostinò a non volere riconoscere i Lordi novellamente creati. Non rimanevagli altro da fare che sciogliere di nuovo il Parlamento. «Dio,» esclamò egli partendo, «sia giudice tra voi e me!» Ciò non ostante, siffatte dissensioni non infiacchirono l’amministrazione del Protettore. Quei soldati che non gli avrebbero concesso di assumere il titolo di Re, lo sostenevano tutte le volte ch’egli tentava atti di potere, vigorosi quanto non ne tentò mai nessun altro re inglese. E però il Governo, quantunque in forma di Repubblica, era un vero dispotismo, temperato soltanto dalla saviezza, dalla sobrietà e dalla magnanimità del despota. Il paese fu partito in distretti militari, i quali vennero posti sotto il comando di Maggiori Generali. Qualunque tentativo d’insurrezione veniva prontamente represso e punito. La paura che ispirava il potere della spada impugnata da una mano così vigorosa, ferma ed esperta, domò lo spirito dei Cavalieri e de’ Livellatori. I leali gentiluomini dichiararono essere tuttavia pronti, come sempre, a rischiare le loro vite per l’antico Governo e l’antica dinastia, qualora vi fosse la più lieve speranza di riuscita; ma porsi alla testa de’ loro servi ed affittuarii e farsi incontro alle picche di legioni vincitrici in cento battaglie ed assedi, sarebbe stato lo stesso che fare lo inutile sacrificio di un sangue onorevole ed innocente. Realisti e repubblicani, non avendo più speranza nell’aperta resistenza, cominciarono a maturare neri disegni di assassinio; ma il Protettore vigilava, ed uscendo dalle mura del suo palazzo, le spade sguainate e le corazze delle sue fide guardie facevangli siepe per ogni lato. S’egli fosse stato un principe crudele, licenzioso e rapace, la nazione avrebbe fatto un estremo sforzo per liberarsi dalla dominazione militare. Ma gli aggravi che pativa il paese, tuttochè eccitassero lo scontento, non erano tali da spingere grandi masse di popolo a porre a repentaglio le vite, le sostanze e la tranquillità delle proprie famiglie. Le tasse, quantunque fossero più gravose che non erano sotto gli Stuardi, non parevano di gran peso quando paragonavansi a quelle degli Stati vicini, e si ragguagliavano ai mezzi dell’Inghilterra. Le proprietà erano sicure. Perfino i Cavalieri, i quali astenevansi di turbare il nuovo Governo, godevano in pace di ciò che era loro rimasto fra il trambusto delle guerre civili. Le leggi erano violate solo ne’ casi che riguardavano la salvezza e il Governo del Protettore. La giustizia tra uomo e uomo era amministrata con esattezza ed onestà non conosciute per lo innanzi. In Inghilterra non v’era stato Governo, dalla Riforma in poi, meno persecutore di quello di Cromwell nelle questioni religiose. Gli sventurati Cattolici Romani, a dir vero, appena venivano considerati come cristiani; ma al clero della caduta Chiesa Anglicana era permesso di praticare il proprio culto, a condizione di astenersi dal predicare intorno a cose politiche. Anche agli Ebrei, ai quali il pubblico culto fino dal secolo decimoterzo era stato inibito, fu permesso, a dispetto della forte opposizione de’ mercanti gelosi e de’ teologi fanatici, di edificare una sinagoga in Londra. La politica estera del Protettore, nel tempo stesso, otteneva l’approvazione di coloro che più lo detestavano. I Cavalieri potevano appena frenarsi dal desiderare che colui che aveva fatto tanto per innalzare la fama del paese, fosse un Re legittimo; e i repubblicani erano costretti a confessare che il tiranno non perdonava ad altri, fuori che a sè stesso di far torto al paese, e che se egli l’aveva spogliato della libertà, lo aveva in ricambio coperto di gloria. Dopo mezzo secolo in cui l’Inghilterra nella politica d’Europa pesava poco più di Venezia o della Sassonia, essa divenne subitamente la Potenza più formidabile del mondo; dettava condizioni di pace alle Provincie Unite, vendicava gl’insulti comuni fatti alla Cristianità da’ pirati di Barberia, vinceva gli Spagnuoli per terra e per mare, s’impossessava d’una delle più considerevoli isole d’America, e conquistava sul littorale fiammingo una fortezza, che consolò l’orgoglio nazionale della perdita di Calais. Ella aveva la supremazia dell’Oceano. Era a capo degl’interessi protestanti. Tutte le Chiese riformate sparse nei Regni cattolici riconoscevano Cromwell come loro tutore. Gli Ugonotti della Linguadoca, i pastori che nelle capanne delle Alpi professavano un protestantismo più antico di quello di Augusta, vivevano sicuri dall’oppressione per il solo terrore di quel gran nome. Lo stesso Papa era costretto a predicare umanità e moderazione ai Principi papisti; poichè una voce che rade volte minacciava invano, aveva dichiarato che se il popolo di Dio venisse tormentato, i cannoni inglesi si sarebbero fatti sentire in Castel Sant’Angelo. A dir vero, non vi era cosa che Cromwell, per utile di sè e della sua famiglia, potesse tanto desiderare quanto una guerra religiosa in Europa. In tal guerra egli sarebbe stato il capitano degli eserciti protestanti. Il cuore dell’Inghilterra sarebbe stato con lui. Le sue vittorie sarebbero state salutate con unanime entusiasmo, non più visto nel paese dopo la disfatta dell’Armada, ed avrebbero cancellata la macchia che uno solo atto, condannato dalla voce generale della nazione, ha lasciata nella sua splendida fama. Sventuratamente, egli non ebbe occasione di far mostra delle sue ammirevoli virtù militari, tranne contro gli abitanti delle Isole Britanniche. Finchè egli visse, il suo potere si mantenne fermo, e fu per i suoi sudditi obietto di avversione mista ad ammirazione e a paura. Pochi, veramente, amavano il suo Governo; ma coloro che più l’odiavano, l’odiavano meno di quel che lo temessero. Se fosse stato un Governo peggiore, sarebbe stato forse abbattuto, malgrado il suo vigore. Se fosse stato un Governo più debole, sarebbe stato certamente distrutto, malgrado tutti i suoi meriti. Ma egli aveva moderazione tanta, da astenersi da quelle oppressioni che rendono gli uomini insani; ed aveva una forza ed energia cui nessuno, fuorchè gli uomini resi insani dall’oppressione, si sarebbero rischiati di aggredire. LXV. Si è detto spesse volte, ma apparentemente con poca ragione, che Oliviero morì a tempo per la sua rinomanza, e che la sua vita, se si fosse prolungata, si sarebbe forse chiusa fra le sciagure e i disastri. Vero è che fino all’ultimo dì egli venne onorato da’ suoi soldati, obbedito da tutta la popolazione delle Isole Britanniche, e temuto da tutti i potentati stranieri; ch’egli fu tumulato in mezzo ai sovrani d’Inghilterra, con pompa funebre tale, quale non s’era mai per lo innanzi veduta in Inghilterra; e che il suo figlio Riccardo gli succedè al potere con tanta quiete, con quanta un Principe di Galles succederebbe ad un Re legittimo. Per cinque mesi l’amministrazione di Riccardo Cromwell procedè con tanta quiete e regolarità, da far credere a tutta la Europa ch’egli fosse fermamente assiso sul seggio dello Stato. Certo, le sue condizioni erano in qualche modo molto migliori di quelle del padre suo. Il giovane Cromwell non aveva nemici. Le sue mani erano nette di sangue civile. Gli stessi Cavalieri concedevano ch’egli era un gentiluomo onesto e d’indole buona. La parte presbiteriana, potente per numero e per ricchezza, aveva sostenuto un litigio mortale col Protettore defunto, ma inchinava a favoreggiare il nuovo. Aveva avuta sempre bramosia di vedere ristaurato l’antico sistema politico del Regno, con alcune più chiare definizioni e guarentigie per le pubbliche libertà; ma aveva molte ragioni di temere la ristaurazione della vecchia Dinastia. Per questa genia di politici Riccardo era l’uomo opportuno. La umanità, la schiettezza, la modestia sue, la mediocrità delle sue doti, e la docilità con che, lasciavasi guidare da uomini più saggi di lui, lo rendevano mirabilmente atto ad essere capo d’una Monarchia limitata. Per qualche tempo parve grandemente probabile ch’egli, dietro la scorta di destri consiglieri, avesse a conseguire ciò cui suo padre aveva invano aspirato. Nel convocarsi un Parlamento, gli ordini furono spediti secondo la vecchia costumanza. I piccoli borghi che erano stati privati della franchigia elettorale, riebbero i perduti privilegi; Manchester, Leeds, ed Halifax cessarono di mandare rappresentanti, e alla contea di York fu concesso di eleggerne due soli. Parrà forse strano ad una generazione la quale è quasi trascorsa alla frenesia nella questione della riforma parlamentare, che quelle grandi contee e città si sottoponessero con pazienza ed anche con compiacenza a siffatto provvedimento; ma, comecchè gli uomini di senno, anche in quella età, potessero discernere i vizi del vecchio sistema rappresentativo, e prevedere che tali vizi produrrebbero in pratica o presto o tardi gravissimi mali, questi mali pratici non ancora sentivansi molto. Il sistema rappresentativo d’Oliviero, dall’altra parte, quantunque fosse derivato da solidi principii, non era popolare. Gli eventi fra i quali originava, e gli effetti che aveva prodotti, preoccupavano gli animi contro esso. Era nato dalla violenza militare, e null’altro aveva prodotto che contese. La intera nazione era stanca del governo della spada, o desiava il governo della legge. E però la ristaurazione anco delle anomalie e degli abusi che consuonavano strettamente con la legge e che erano stati distrutti dalla spada, produssero universale soddisfazione. Fra i Comuni esisteva una forte opposizione, composta in parte di aperti repubblicani, in parte di realisti occulti; ma una grande e ferma maggioranza sembrava favorevole al disegno di richiamare a vita l’antica Costituzione politica sotto una nuova Dinastia. Riccardo venne solennemente riconosciuto come Primo Magistrato. La Camera de’ Comuni non solamente assentì di trattare le pubbliche faccende co’ Lordi d’Oliviero, ma votò una legge che riconosceva in que’ Nobili i quali nelle ultime perturbazioni avevano parteggiato per la libertà pubblica, il diritto a sedere nella Camera Alta senza bisogno di nuova creazione. Tanto bene andavano le cose per gli uomini di Stato che dirigevano la condotta di Riccardo! Quasi tutte le parti del Governo vennero allora ricostituite come stavano in sul principio della guerra civile. Se il Protettore e il Parlamento si fossero lasciati procedere senza ostacoli, mal può dubitarsi che un ordine di cose simile a quello che poscia stabilivasi sotto la Casa di Hannover, sarebbe stato stabilito sotto quella di Cromwell. Ma era nello Stato un potere più che bastevole a lottare con Riccardo e col Parlamento. Riccardo sopra i soldati non aveva altra autorità, se non quella del gran nome che gli era toccato in retaggio. Non gli aveva mai condotti alla vittoria. Non aveva nè anche portate le armi. Tutti i suoi gusti e le sue abitudini erano per la pace. Nè le sue opinioni intorno a cose religiose erano approvate dai santocchi militari. Ch’egli fosse un uomo dabbene, dimostrollo con prove più soddisfacenti che non erano i profondi gemiti e i lunghi sermoni; cioè con l’umiltà e la dolcezza quando stava in cima all’umana grandezza, e con la tranquilla rassegnazione ai torti ed alle sciagure più crudeli: ma non ebbe sempre la prudenza di nascondere il disgusto ch’egli sentiva de’ piagnistei allora comuni in ogni caserma. Gli ufficiali che avevano maggiore influenza fra le truppe stanzianti presso Londra, non gli erano amici. Erano uomini chiari per valore e condotta nel campo di battaglia, ma scemi di saviezza e di coraggio civile; doti che in grado eminentissimo possedeva il loro capo defunto. Taluni di loro erano Indipendenti o Repubblicani onesti, ma fanatici. Questa specie di uomini era rappresentata da Fleetwood. Altri ambivano di giungere al posto d’Oliviero. La sua rapida elevazione, la sua gloria e prosperità, la sua inaugurazione nella reggia, le sue sontuose esequie nell’Abbadia, avevano infiammata la loro immaginazione. Come lui erano di buona nascita, come lui bene educati; non sapevano quindi intendere perchè, al pari di lui, non fossero degni di portare la veste purpurea e la spada dello Stato; e anelavano all’obietto della loro ardente ambizione, non, come lui, con pazienza, vigilanza, sagacia e fermezza, ma con quella irrequietudine e con quel perpetuo ondeggiare che formano il carattere della mediocrità aspirante. Il più cospicuo di questi deboli scimmiottatori del gran Cromwell, era Lambert. LXVI. Nel giorno stesso in cui Riccardo ascese al supremo seggio dello Stato, gli ufficiali si misero a congiurare contro il loro nuovo signore. La buona intelligenza che era fra lui e il suo Parlamento, affrettò la crisi. La paura e l’ira invasero il campo. I sentimenti religiosi e militari dell’esercito trovavansi profondamente irritati. E’ pareva che gl’Indipendenti dovessero essere soggetti ai Presbiteriani, e gli uomini della spada agli uomini della sottana. Formossi una coalizione tra i malcontenti militari e la minoranza repubblicana della Camera de’ Comuni. È da dubitarsi che Riccardo avesse potuto trionfare della predetta coalizione, anche se fosse stato dotato del lucido intendimento e del ferreo coraggio di suo padre. Egli è certo che la semplicità e la mansuetudine sue non erano i requisiti necessari a padroneggiare gli eventi. Cadde senza gloria e senza lotta. Lo esercito si servì di lui come di strumento a disciogliere le Camere, e allora lo mise sprezzantemente da parte. Gli ufficiali si resero grati ai loro alleati repubblicani dichiarando che la espulsione della Coda del Parlamento era illegale, ed invitando l’Assemblea a riprendere le proprie funzioni. Il vecchio presidente e un numero competente di vecchi rappresentanti vennero proclamati, fra mezzo alla mal repressa derisione ed esecrazione del paese, Supremo Potere dello Stato. Nel tempo stesso fu espressamente dichiarato che quinci innanzi non vi sarebbe nè Primo Magistrato nè Camera di Lordi. Ma tale stato di cose non poteva durare. Il giorno in cui risorse il Lungo Parlamento, rivisse del pari il suo vecchio conflitto con lo esercito. Nuovamente dimenticò che esso esisteva a beneplacito dei soldati, e cominciò a trattarli come sudditi. Di nuovo le porte della Camera de’ Comuni furono chiuse dalla violenza militare; ed un Governo Provvisorio, creato dagli ufficiali, assunse il reggimento della cosa pubblica. Frattanto, il senso dei grandi mali presenti, e la forte paura dei mali maggiori che soprastavano, aveva infine fatta nascere un’alleanza tra i Cavalieri e i Presbiteriani. Parecchi presbiteriani, a dir vero, erano disposti a cotale alleanza anche innanzi la morte di Carlo I; ma soltanto dopo la caduta di Riccardo Cromwell, l’intero partito cominciò ad affaccendarsi per ristaurare la Casa Reale. Non poteva più oltre ragionevolmente sperarsi che l’antica Costituzione venisse ristabilita sotto una nuova dinastia. Bisognava, dunque, scegliere o gli Stuardi o l’esercito. La famiglia bandita aveva commessi gravissimi falli; ma gli aveva espiati a caro prezzo, ed aveva fatto un lungo, e—era da sperarsi—salutare tirocinio nella scuola dell’avversità. Era, dunque, probabile che Carlo II facesse senno rivolgendo lo sguardo al fato di Carlo I. Ma, sia che può, i pericoli che minacciavano la patria erano tali, che per evitarli i cittadini potevano ben fare il sacrificio di qualche opinione ed affrontare qualche rischio. Sembrava quasi certo che l’Inghilterra cadrebbe sotto il peso della più odiosa e degradante di tutte le specie di Governo,—sotto un Governo che congiungeva tutti i mali del dispotismo con quelli dell’anarchia. Qualunque altra cosa era da preferirsi al giogo d’una successione di stolti tiranni, inalzantisi al potere come i Dey di Barberia, per mezzo di rivoluzioni militari. Pareva probabile che Lambert sarebbe il primo di tale genia di comandanti; ma dentro un anno Lambert avrebbe potuto essere cacciato da Desborough, e Desborough da Harrison. Ogni qual volta il bastone del comando fosse passato da una mano debole ad un’altra, la nazione sarebbe stata messa a ruba, a fine di offrire alle soldatesche una nuova mancia. Se i Presbiteriani si tenevano ostinatamente lontani dai realisti, lo Stato era rovinato; e nondimeno, era da dubitarsi che potesse essere salvato dagli sforzi congiunti d’entrambi. Imperocchè il timore di quello invincibile esercito colpiva gli animi di tutti gli abitanti dell’isola; e i Cavalieri, avendo imparato da cento disastrosi fatti d’armi come il numero delle milizie potesse poco contro la disciplina, erano molto più atterriti delle Teste–Rotonde. LXVII. Finchè le soldatesche furono d’accordo fra loro, tutte le congiure e le insurrezioni de’ malcontenti tornarono inefficaci. Ma pochi giorni dopo la seconda espulsione della Coda del Parlamento, si sparsero nuove che rinfrancarono i cuori di tutti coloro i quali parteggiavano per la Monarchia o pel vivere libero. Quella forza poderosa che per molti anni aveva operato come un solo uomo, ed erasi per ciò resa invincibile, s’era finalmente scissa in fazioni. Lo esercito di Scozia aveva non poco giovata la Repubblica, e trovavasi in ottimo stato. Non aveva partecipato alle ultime rivoluzioni, e le aveva guardate con isdegno simile a quello che sentirono le legioni romane stanziate lungo il Danubio e l’Eufrate, allorchè giunse ad esse la nuova che le guardie pretoriane avevano messo in in vendita lo Impero. Era cosa da non potersi patire che alcuni reggimenti, solo perchè erano per avventura aqquartierati presso Westminster, osassero di fare e disfare, a loro arbitrio, più volte in sei mesi il Governo. Se era convenevole che lo Stato fosse retto da’ soldati, quei soldati che a settentrione del Tweed avevano sostenuta la potenza inglese, avevano diritto di dare il loro voto quanto quelli che presidiavano la Torre di Londra. Pare che vi fosse meno fanatismo fra le legioni dimoranti nella Scozia, che in ogni altra parlo dello esercito; e Giorgio Monk che le capitanava, era tutto l’opposto d’uno zelante. In sul primo scoppio della guerra civile, aveva pugnato a favore del Re, ed era stato fatto prigioniero dalle Teste–Rotonde; aveva quindi accettata una commissione dal Parlamento, e con poca pretensione alla santocchieria, erasi innalzato per mezzo del suo coraggio e della sua virtù militare all’alto comando. Era stato un utile servitore ad ambi i Protettori; aveva mostrata acquiescenza allorquando gli ufficiali a Westminster balzarono giù dal seggio Riccardo e restaurarono il Lungo Parlamento; e l’avrebbe similmente mostrata nella seconda espulsione del Lungo Parlamento, se il Governo Provvisorio non gli avesse pôrta cagione d’offesa e di timore. Imperocchè era per indole cauto e alquanto tardo; nè era inclinato ad arrisicare modici e certi vantaggi per la probabilità di conseguire anche il più splendido successo. E’ sembra che fosse spinto a procedere ostilmente contro il nuovo Governo della Repubblica, non tanto dalla speranza d’innalzarsi sulle rovine di quello, quanto dal timore che, sottomettendovisi, non sarebbe stato in sicuro. Ma siano quali si vogliano supporre le cagioni, ei dichiarossi campione del Potere Civile oppresso, ricusò di riconoscere l’autorità usurpata del Governo Provvisorio, e a capo di settemila veterani si mosse verso l’Inghilterra. Questo passo fu il cenno d’una generale esplosione. Il popolo in ogni dove ricusò di pagare le tasse. I giovani di bottega della città ragunaronsi a migliaia chiedendo clamorosamente un libero Parlamento. La flotta si spinse su pel Tamigi, e si dichiarò contro la tirannide soldatesca. I soldati, che non erano più sotto lo impero di una mente suprema, si divisero in fazioni. Ciascun reggimento, temendo di rimanere solo esposto alla vendetta dell’oppressa nazione, affrettossi a concludere una pace separata. Lambert, che era frettolosamente corso ad affrontare l’armata di Scozia, abbandonato dalle sue milizie, fu fatto prigioniero. Pel corso di tredici anni il Potere Civile, in ogni conflitto, era stato astretto a cedere al Potere Militare. Adesso il Potere Militare umiliossi innanzi al Potere Civile. La Coda del Parlamento generale, tenuta in odio e dispregio, e che non per tanto era nel paese il solo corpo che avesse apparenza di autorità legale, ritornò di nuovo alla Camera, dalla quale era stata due volte ignominiosamente cacciata. LXVIII. Intanto Monk procedeva verso Londra. Per dove passava, i gentiluomini gli si affollavano attorno scongiurandolo di adoperare la propria potenza a rendere la pace alla nazione, miseramente dilacerata e sconvolta. Il Generale, freddo, taciturno, senza zelo nè per le cose politiche nè per le religiose, manteneva un riserbo impenetrabile. Quali disegni, a que’ tempi, rivolgesse in mente, o se avesse concepito alcun disegno, mal si potrebbe affermare. Era, a quel che pare, suo scopo principalissimo il tenersi, per quanto più lungamente potesse, libero di scegliere tra diverse vie d’azione. Tale certamente è per lo più la politica di uomini che, come lui, pendono più a muovere circospetti, che a spingere troppo lungi lo sguardo. Probabilmente, egli non venne all’ultima determinazione se non parecchi giorni dopo il suo ingresso nella metropoli. La voce dell’intero popolo chiedeva un libero Parlamento; e non era dubbio nessuno, che un Parlamento veramente libero avrebbe subito riposta sul trono l’esule famiglia reale. La Coda del Parlamento e i soldati erano tuttavia ostili alla Casa degli Stuardi. Ma la Coda era universalmente abborrita e spregiata. La potenza dei soldati era ancora formidabile, ma grandemente infiacchita dalla discordia. Non avevano capo supremo; in molte parti del paese erano venuti alle mani fra loro stessi. Il giorno precedente lo arrivo di Monk a Londra, vi fu un combattimento nello Strand fra la cavalleria e la fanteria. Lo esercito unito aveva lungo tempo signoreggiata la nazione divisa; ma ormai la nazione era unita, e lo esercito si trovava diviso. Per breve tempo, la dissimulazione e la irresolutezza di Monk tennero penosamente sospesi tutti i partiti. Infine ei ruppe il silenzio, e disse di volere un libero Parlamento. LXIX. Appena divulgossi siffatta notizia, tutta la nazione fu inebriata di contento. In qualunque luogo ei si mostrasse, era circondato da migliaia di persone che lo acclamavano e benedicevano al suo nome. Le campane di tutta l’Inghilterra suonavano a festa; i rigagnoli versavano birra; e per varie notti il cielo, per cinque miglia attorno Londra, rosseggiò dello splendore d’innumerevoli fuochi di gioia. Quei membri presbiteriani della Camera de’ Comuni, che molti anni innanzi erano stati espulsi dalle soldatesche, ritornarono ai loro seggi, e furono accolti dalle acclamazioni della gran folla che riempiva la sala di Westminster e la corte del Palazzo. I capi degl’Indipendenti non osavano più oltre mostrare il viso nelle strade, ed appena tenevansi sicuri nelle proprie abitazioni. Furono presi temporanei provvedimenti per supplire al Governo; mandaronsi ordini per le elezioni generali; e finalmente, quel memorabile Parlamento che per venti anni aveva sperimentate mille e varie vicissitudini, che aveva vinto il proprio sovrano, che era stato degradato dai suoi sottoposti, che era stato due volte cacciato e ristaurato, decretò solennemente la propria dissoluzione. L’esito delle elezioni fu quale era da aspettarsi dall’indole della nazione. La nuova Camera de’ Comuni fu composta di individui amici, tranne pochissimi, alla reale famiglia. I Presbiteriani formavano la maggioranza. LXX. Allora parve quasi certa la Ristaurazione; ma dubitavasi che fosse pacifica. Il contegno dei soldati era cupo e selvaggio. Odiavano il nome di Re; odiavano quello degli Stuardi; odiavano molto i Presbiteriani, ma più assai i prelati. Vedevano con amara indignazione appropinquarsi la fine del loro lungo dominio, e scorgevano nello avvenire una vita ingloriosa di affanni e di penuria. Della loro trista fortuna chiamavano colpevoli i loro Generali, colpevoli alcuni di debolezza, altri di tradimento. Un’ora sola del loro amato Oliviero avrebbe potuto richiamare la gloria che già era svanita. Traditi, disgiunti, senza un Capo in cui avessero fiducia, erano tuttavia da temersi. E non era cosa da pigliare a gabbo lo affrontare la rabbia e la disperazione di cinquantamila guerrieri, che non avevano mai volte le spalle al nemico. Monk, e coloro che con essolui operavano, accorgevansi quanto pericolosa fossa la crisi. Mentre usavano ogni arte a blandire e dividere i malcontenti soldati, facevano vigorosi apparecchi a sostenere un conflitto. Lo esercito di Scozia aqquartierato in Londra, tenevano in buon umore con doni, lusinghe e promesse. I ricchi cittadini non avevano la minima avversione al soldato, o profondevano con tanta liberalità i loro migliori vini, che talvolta vedevansi i santocchi guerrieri in condizione poco decorosa al loro carattere religioso e militare. Monk rischiossi a sbandare alcuni reggimenti che ricalcitravano. Nel tempo stesso, il Governo Provvisorio, sostenuto da tutti i gentiluomini e dai magistrati, faceva grandissimi sforzi a riordinare la guardia cittadina. In ogni contea i militi cittadini erano pronti a muoversi, e formavano una forza non minore di centomila uomini. In Hyde Park ventimila cittadini bene armati ed equipaggiati, posti a rassegna, mostrarono tale spirito, da giustificare la speranza che all’uopo avrebbero strenuamente combattuto a difendere le botteghe e i focolari loro. La flotta secondava cordialmente la nazione. Era tempo di agitazione e d’ansietà, ma bene anco di speranza. La opinione predominante era che l’Inghilterra verrebbe liberata, ma non senza una sanguinosa e disperata lotta; e che coloro che avevano per tanto tempo governato con la spada, sarebbero spenti con la spada. Avventuratamente, furono allontanati i pericoli d’un conflitto. Vero è che ci fu un momento di estremo pericolo. Lambert, fuggito di prigione, chiamò i suoi compagni alle armi. Il fuoco della guerra civile si riaccese; ma innanzi che si estendesse, fu spento con pronti e vigorosi provvedimenti. Lo sciagurato imitatore di Cromwell fu fatto nuovamente prigioniero; e fallita la impresa, i soldati si perderono d’animo e rassegnaronsi al loro destino. Il nuovo Parlamento, che per essere stato convocato senza regio decreto, viene con maggiore proprietà chiamato Convenzione, si adunò in Westminster. I Lordi ricomparvero nella sala, dalla quale per più di undici anni erano stati espulsi a forza. Ambedue le Camere tosto invitarono il Re a ritornare alla patria. Fu proclamato con pompa non mai prima veduta. Una magnifica flotta dall’Olanda lo trasportò sulla costiera di Kent. Mentre approdava, i colli di Dover erano popolati di migliaia di spettatori, fra’ quali non era neppure uno che non versasse lacrime di gioia. Il suo viaggio fu un continuo trionfo. Tutto lo stradale da Rochester era fiancheggiato di trabacche e di tende, e rendeva immagine d’una interminabile fiera. Migliaia di bandiere sventolavano; tutte le campane suonavano; s’udivano melodie di strumenti musicali; il vino e la birra scorrevano a fiumi alla salute di lui, che, tornando, recava la pace, le leggi e la libertà al paese. Ma fra mezzo alla gioia universale, un solo luogo mostrossi in aspetto buio e minaccioso. Lo esercito fu condotto a Blackeath per dare il ben tornato al sovrano. Il quale sorrideva, s’inchinava, e stendeva graziosamente la mano al bacio de’ Colonnelli e de’ Maggiori. Ma i suoi modi cortesi furono vani. Il contegno de’ soldati era tristo e cupo; ed ove avessero dato libero sfogo a ciò che sentivano, il gioioso spettacolo, al quale avevano con ripugnanza partecipato, avrebbe avuto misero e sanguinoso fine. Ma non era fra loro accordo nessuno. La defezione e la discordia avevano distrutta la vicendevole fiducia, e gli avevano resi increduli ai loro capi. Tutta la guardia cittadina di Londra era in armi; numerose compagnie, capitanate da Nobili e da gentiluomini leali, erano accorse da varie contrade del Regno a salutare il Re. Il gran giorno si chiuse in pace; e l’esule principe, riasceso al trono, posò sano e salvo nella reggia de’ suoi antenati. CAPITOLO SECONDO. SOMMARIO. I. Ingiusto gudicio intorno alla condotta di coloro che restaurarono la Casa degli Stuardi.—II. Abolizione del possesso a titolo di servigio militare— III. Scioglimento dell’esercito.—IV. Si rinnuovano le dissensioni fra le Teste–Rotonde e i Cavalieri.—V. Dissensioni religiose.—VI. Impopolarità de’ Puritani.—VII. Carattere di Carlo II.—VIII. Caratteri del Duca di York e del Conte di Clarendon.—IX. Elezione generale del 1661. —X. Violenza de’ Cavalieri nel nuovo Parlamento.—– XI. Persecuzione de’ Puritani.—XII. Zelo della Chiesa per la monarchia ereditaria.—XIII. Modificazioni ne’ costumi del popolo.—XIV. Corruttela degli uomini politici di quell’età.—XV. Condizioni della Scozia.—XVI. Condizioni della Irlanda.—XVII. Il governo perde la sua popolarità in Inghilterra.—XVIII. Guerra cogli Olandesi.—XIX. Opposizione nella Camera de’ Comuni.—XX. Caduta di Clarendon.—XXI. Stato della politica europea, e preponderanza della Francia.—XXII. Carattere di Luigi XIV.—XXIII. La triplice Alleanza.—XXIV. Il partito patriottico.—XXV. Vincoli tra Carlo II e la Francia—XXVI. Disegni di Luigi intorno all’Inghilterra.—XXVII. Trattato di Dover.—XXVIII. Indole del Gabinetto inglese.—XXIX La Cabala.—XXX. Chiusura dello Scacchiere.—XXXI. Guerra con le Provincia Unite.—XXXII. Guglielmo Principe d’ Orange.—XXXIII. Adunanza del Parlamento.—XXXIV. Dichiarazione d’indulgenza—XXXV È cancellata, e l’Atto di Prova (_Test Act_) è adottato.—XXXVI. Scioglimento della Cabala.— XXXVII. Pace con le Provincie Unite; Amministrazione di Danhy.— XXXVIII. Situazione critica del partito patriottico.—XXXIX. Relazioni fra esso e l’ambasciata francese.—XL. Pace di Nimega; malcontenti furiosi in Inghilterra.—XLI. Caduta di Danhy; la congiura papale. —XLII. Prima elezione generale del 1679.—XLIII. Violenza della nuova Camera de’ Comuni.—XLIV. Sistema di governo fatto da Temple. —XLV. Carattere di Halifax.—XLVI. Carattere di Sunderland. —XLVII. Proroga del Parlamento.—XLVIII. Atto dell’_Habeas Corpus_. —XLIX. Seconda elezione generale del 1679; popolarità di Monmouth. —L. Lorenzo Hyde.—LI. Sidney Godolphin.—LII. Violenza delle fazioni per la legge d’Esclusione.—LIII. Nomi di Whig e Tory.—LIV. Adunanza del Parlamento; la Legge d’Esclusione è approvata dalla Camera dei Comuni.—LV. È rigettata da quella de’ Lordi; Stafford è giustiziato. —LVI. Elezione generale del 1681.—LVII. Parlamento convocato in Oxford e disciolto; Reazione de’ Tory.—LVIII. Persecuzione de’ Whig.—LIX. Confisca dello Statuto della Città; Congiure de’ Whig. —LX. Scoperta di tali congiure; severità del Governo.—LXI. Sequestro degli Statuti.—LXII. Influenza del Duca d’York.—LXIII. Halifax gli si oppone.—LXIV. Il Lord Cancelliere Guildford.—LXV. Politica di Luigi.—LXVI. Stato delle fazioni nella corte di Carlo all’epoca della sua morte. I. La storia dell’Inghilterra nel secolo decimosettimo, è quella del trasmutamento d’una monarchia limitata, secondo la costumanza del medio evo, in una monarchia più consona al progresso d’una società, nella quale non possono le gravezze pubbliche essere più oltre sostenute dai beni della Corona, e la pubblica difesa affidata alle milizie feudali. Abbiamo già veduto come gli uomini politici che predominavano nel Lungo Parlamento del 1642, facessero grandi sforzi a compire il predetto mutamento, trasferendo, direttamente e formalmente, agli Stati del reame il diritto di scegliere i ministri, il comando delle armi, e la soprintendenza del potere esecutivo. Quell’ordinamento era forse il migliore di quanti allora se ne potessero immaginare; ma lo sconcertò interamente l’esito della guerra civile. Le Camere trionfarono di certo, ma dopo una lotta tale, che fece loro stimar necessario di chiamare a vita un potere che esse non seppero infrenare, e che tosto signoreggiò tutte le classi e tutti i partiti. Per qualche tempo, i danni inseparabili dal Governo militare, furono in alcun modo mitigati dalla saviezza e magnanimità del grande uomo che aveva il supremo comando. Ma quando la spada ch’egli impugnava con energia, e con energia sempre guidata dal buon senso, e quasi sempre temperata dalla sua buona indole, passò in mano di capitani che non avevano nè la destrezza nè le virtù di lui, e’ sembrò probabilissimo che l’ordine e la libertà corressero a vergognosa rovina. Tale rovina, per buona ventura, fu scansata. È stato costume, per troppi degli scrittori amici della libertà, rappresentare la Ristaurazione come un avvenimento disastroso, e dannare di stoltezza o viltà la Convenzione che richiamò la reale famiglia, senza ottenere nuove guarentigie contro la mala amministrazione. Coloro che in tal guisa ragionano, non intendono l’indole vera degli eventi che seguirono la caduta di Riccardo Cromwell. La Inghilterra versava in presentissimo pericolo di essere oppressa da tirannelli militari, innalzati e deposti dal capriccio della soldatesca. Liberare il paese dalla dominazione de’ soldati era il fine precipuo d’ogni assennato cittadino; ma finchè i soldati rimasero concordi, i più fiduciosi poco speravano di conseguirlo. Di repente balenò un raggio di speranza. I capitani e le legioni cominciarono ad avversarsi vicendevolmente. Le sorti future della nazione pendevano dall’uso che si sarebbe potuto fare di un ben augurato istante. I nostri antichi usarono bene di quel momento. Dimenticarono i vecchi rancori, smessero i piccoli scrupoli, differirono a più convenevole stagione tutte le dispute intorno alle riforme necessarie alle nostre istituzioni; e si congiunsero tutti, Cavalieri e Teste–Rotonde, Episcopali e Presbiteriani, a rivendicare le antiche leggi della patria dal dispotismo militare. L’equa partizione del potere fra Re, Camera dei Lordi e Camera de’ Comuni, poteva differirsi fino a quando si fosse deciso se l’Inghilterra dovesse essere governata da Re, Lordi e Comuni, o da corazzieri e lancieri. Se gli uomini di stato della Convenzione avessero tenuto condotta diversa, e avessero lungamente discorso intorno ai principii del Governo; se avessero redatta una nuova Costituzione e l’avessero mandata a Carlo, se si fossero aperte conferenze, se ci fosse stato per parecchie settimane un andare e venire di corrieri tra Westminster e i Paesi Bassi recando progetti, risposte di Hyde e proposte di Prynne: la coalizione, dalla quale pendeva la pubblica salvezza, si sarebbe disciolta; i Presbiteriani e i Realisti sarebbero venuti a conflitto; le fazioni militari si sarebbero, come è verosimile, riconciliate; e gli imprudenti amici della libertà, oppressi da un giogo peggiore di quello che poteva essere loro imposto dal pessimo degli Stuardi, avrebbero invocata invano la felice occasione che avevano lasciato fuggire. II. Per la qual cosa, l’antico ordinamento civile, per unanime consenso di ambedue i grandi partiti, venne ristabilito esattamente tale qual era allorchè, diciotto anni avanti, Carlo I fuggì dalla metropoli. Tutti quegli atti del Lungo Parlamento che avevano ricevuto lo assenso regio, furono considerati come validi. Ottennesi dal Re una nuova concessione assai più proficua ai Cavalieri che alle Teste–Rotonde. Il possesso delle terre a titolo di servigio militare, era stato in origine istituito come mezzo di difesa nazionale. Ma con l’andare degli anni, la parte utile di quella istituzione era scomparsa, senza altro lasciare che cerimonie ed aggravi. Un possessore di terre a titolo di servigio militare, dipendente dalla Corona—e a tal titolo il suolo dell’Inghilterra quasi tutto era posseduto,—doveva pagare una gravosa ammenda nell’atto di torre possesso della sua proprietà. Non ne poteva alienare la più piccola parte senza comperarne la licenza. Quando egli moriva, lasciando un erede infante, il sovrano diventava tutore, ed aveva diritto non solo a gran parte delle entrate per tutto il tempo della minorità, ma poteva imporre al pupillo, sotto gravi pene, di unirsi in matrimonio a qualunque persona di convenevole grado. Il principale movente che attirava alla corte un adulatore bisognoso, era la speranza di ottenere, come premio di servilità e d’adulazione, una lettera del Re per una ricca erede. Tali abusi erano caduti con la monarchia; ed ogni gentiluomo possidente di terre nel Regno desiderava che non fossero richiamati a vita. Vennero quindi solennemente aboliti con uno statuto, e non rimase vestigio del vecchio costume di possedere a titolo di militari servigi, salvo que’ servigi d’onore, che tuttavia, nella cerimonia dell’incoronazione, vengono resi alla persona del sovrano da alcuni signori territoriali. III. Ed era ormai tempo di sciogliere lo esercito. Cinquantamila uomini, usi alle armi, furono a un tratto dispersi fra mezzo alla società; e la esperienza sembrava far credere come certo, che siffatto repentino mutamento dovesse essere cagione di gran miseria e di grandi delitti: val quanto dire, che i veterani cacciati di impiego, sarebbero o andati accattando di porta in porta, o spinti dalla fame al saccheggio. Ma ciò, per buona sorte, non avvenne. In pochi mesi, non rimase segno che indicasse come la più formidabile armata del mondo si fosse fusa con la gran massa del popolo. Gli stessi realisti confessavano che in ogni ramo di onesta industria i guerrieri licenziati prosperavano più che ogni altro uomo; che nessuno di loro venne addebitato di furto o di rapina; che non se ne vedeva nè anche uno che andasse limosinando; e che se un fornaio, un muratore, un vetturale, si faceva notare per diligenza e sobrietà, egli era probabilissimamente uno de’ vecchi soldati d’Oliviero. La tirannide militare era caduta; ma negli animi di tutti aveva lasciato profonde e durevoli traccie. Il nome di un esercito stanziale fu per lunga stagione abborrito; ed è degno di nota, che siffatto abborrimento fosse più forte ne’ Cavalieri che nelle Teste–Rotonde. Dovrebbe considerarsi come singolare ventura, che nel tempo in cui la patria nostra, per la prima e l’ultima volta soggiacque al governo della spada, la spada fosse nelle mani, non di principi legittimi, ma di quei ribelli che uccisero il Re ed abbatterono la Chiesa. Se un principe legittimo al pari di Carlo, avesse comandato un esercito prode quanto quello di Cromwell, non vi sarebbe stata più speranza per le libertà dell’Inghilterra. Avventuratamente, quello strumento del quale solo la Monarchia poteva giovarsi per rendersi assoluta, era obietto di orrore e disgusto al partito monarchico, e seguitò lunghi anni ad associarsi nelle menti de’ realisti e de’ prelatisti col regicidio e con le predicazioni nel campo. Un secolo dopo la morte di Cromwell, i Tory continuavano ancora a schiamazzare contro ogni augumento di soldati regolari, e a trombettare le lodi delle milizie nazionali. Anche nel 1786, un Ministro che possedeva grandemente la loro fiducia, non valse a vincere l’avversione che mostrarono alla idea di fortificare le coste; nè guardarono mai di buon occhio l’armata stanziale, finchè la rivoluzione francese non sopraggiunse a suscitare negli animi loro nuova e diversa paura. IV. La coalizione che aveva rimesso il Re sul trono, ebbe fine col pericolo che l’aveva fatta nascere, e due partiti ostili mostraronsi nuovamente in campo, pronti a cozzare. Entrambi, a dir vero, concordavano intorno al bisogno di punire parecchi infelici, che in quel tempo erano il zimbello d’un odio quasi universale. Cromwell non era più; e coloro che erano fuggiti dinanzi a lui, furono paghi del vigliacco diletto di disseppellire, impiccare, squartare e bruciare la spoglia mortale del più gran principe che governasse mai l’Inghilterra. Dettero sfogo alla loro vendetta anche sopra taluni capi di parte repubblicana. Ma come furono sazi del sangue de’ regicidi, presero a dilacerarsi scambievolmente. Le Teste–Rotonde, mentre ammettevano le virtù del Re morto, e dannavano la sentenza profferitagli contro da un tribunale illegittimo, sostenevano che la sua amministrazione era stata, in molte cose, incostituzionale, e che le Camere avevano prese le armi contro lui per cagioni solidamente fondate. Pensavano, la Monarchia non avere nemico peggiore di colui che, adulando, esaltava la regia prerogativa sopra la legge, dannava ogni opposizione fatta alle regie usurpazioni, ed oltraggiava non solo Cromwell e Harrison, ma Pym e Hampdem, col nome di traditori. Se il Re bramava di regnare con prosperità e quiete, gli era necessario affidarsi a coloro i quali, benchè avessero snudata la spada a tutelare i conculcati privilegi del Parlamento, eransi esposti alla rabbia dei soldati onde salvargli il padre, ed erano stati parte principale nel provvedimento di richiamare l’esule famiglia reale. I sentimenti de’ Cavalieri erano assai differenti. Nel corso dei diciotto anni, essi, fra tutte le vicissitudini seguite, erano rimasti fedeli alla Corona. Partecipi delle calamità del loro principe, non dovevano forse partecipare del suo trionfo? Non era da farsi distinzione veruna tra loro e il suddito sleale che aveva combattuto contro il sovrano, che aveva seguito Riccardo Cromwell, e giammai cooperato alla ristaurazione degli Stuardi, finchè fu a tutti manifesto che null’altro avrebbe potuto salvare la nazione dalla tirannia dello esercito? Concedasi pure che siffatto uomo avesse ottenuto per nuovi servigi il regio perdono; dovevano tali servigi, resi presso al tramonto, agguagliarsi agli affanni ed ai patimenti di coloro che avevano sostenuto il carico e il calore di tutto il giorno? Doveva egli accomunarsi con uomini che non avevano bisogno della regia clemenza; con uomini che in tutta la vita loro avevano meritata la gratitudine del Re? E soprattutto, doveva tollerarsi che rimanesse in possesso di ricchezze accumulate sulle ruine degli averi de’ difensori del trono? Non bastava che la sua testa e i suoi averi patrimoniali, cento volte devoluti alla Giustizia, rimanessero salvi; e che egli, col rimanente della nazione, godesse i beni di quel mite Governo, al quale era stato lungo tempo nemico? Era egli mestieri ricompensarlo per i suoi tradimenti, a spese di coloro ch’erano rei solo della fedeltà onde avevano mantenuto il giuramento di obbedienza alla Corona? Quale utile poteva trovare il Re nel satollare i suoi nemici con la preda strappata agli amici suoi? Quale fiducia poteva riporsi in uomini che avevano avversato il loro sovrano, gli avevano mosso guerra contro, lo avevano imprigionato; e che adesso, invece di abbassare il viso rosso di vergogna e di pentimento, difendevano il già fatto, e sembravano credere d’aver data prova di lealtà astenendosi solo dal regicidio? Era vero che avevano, poco fa, dato mano a rialzare il trono; ma non era men vero che manifestavano tuttavia certi principii spinti dai quali, potevano abbatterlo una seconda volta. Senza dubbio, sarebbe stato convenevole che il Re desse segni d’approvazione a taluni convertiti, ch’erano stati grandemente utili; ma la politica, la giustizia, la gratitudine, gl’imponevano di rimeritare de’ più alti favori coloro, i quali dal principio alla fine, e nella prospera e nella trista fortuna, avevano difesa la Casa Reale. Per queste ragioni, i Cavalieri naturalmente dimandavano compensazione di tutti i danni che avevano sostenuti, e preferenza ai favori della Corona. Alcuni spiriti violenti di quel partito, spingendosi anche più oltre, schiamazzavano perchè si facessero lunghe liste di proscrizioni. V. La contesa politica, secondo il consueto, venne esasperata dalla religiosa. Il Re trovò la Chiesa in uno stato ben singolare. Poco tempo innanzi lo scoppio della guerra civile, il padre suo aveva, ripugnante, assentito ad una legge, vigorosamente sostenuta da Falkland, la quale privava i vescovi del diritto di sedere nella Camera de’ Lordi; ma lo episcopato e la liturgia non erano mai stati aboliti con apposita legge. Nulladimeno, il Lungo Parlamento aveva fatte alcune provvisioni, che avevano cagionato un pieno rivolgimento nel governo e culto ecclesiastico. Il nuovo sistema, ne’ suoi principii, era appena meno Erastiano di quello cui era stato sostituito. Le Camere, dirette principalmente dai consigli del dotto Seldeno, volevano fermamente tenere il potere spirituale in istretta subordinazione del temporale. Avevano ricusato dichiarare che alcuna forma di politica ecclesiastica fosse d’origine divina; ed avevano provveduto che si potesse fare appello in ultima istanza da’ tribunali ecclesiastici al Parlamento. Con tale importante riserva, avevano deciso di istituire in Inghilterra una gerarchia affatto simile a quella che ora esiste in Iscozia. L’autorità de’ concilii, con relazione graduale da minore a maggiore, venne sostituita alla autorità de’ vescovi e degli arcivescovi. La liturgia dette luogo al direttorio presbiteriano. Ma erano appena stati fatti i nuovi regolamenti, allorquando gl’Indipendenti conseguirono la preponderanza nello Stato. Non erano disposti a mandare ad esecuzione le ordinanze concernenti i sinodi parrocchiali, provinciali e nazionali; e però tali ordinanze non furono mai pienamente osservate. Il sistema presbiteriano non fu in nessun luogo, fuorchè in Middlesex e nella Contea di Lancaster, solidamente stabilito. Nelle altre cinquanta Contee, quasi ogni parrocchia non ebbe connessione alcuna con le parrocchie vicine. In alcuni distretti i ministri ordinaronsi ad associazioni volontarie, a fine di prestarsi vicendevole soccorso e consiglio; ma non avevano il potere coercitivo. I patroni dei beneficii, non tenuti in freno nè dal vescovo nè dal presbiterio, avrebbero potuto affidare la cura delle anime al prete più scandaloso del mondo, se non avesse loro impedito di così fare lo intervento arbitrario d’Oliviero. Egli stabilì, di propria autorità, un ufficio di commissari, detti saggiatori; la più parte de’ quali erano teologi indipendenti, ma sedevano fra loro pochi ministri presbiteriani e pochi laici. Il certificato dei saggiatori teneva luogo d’istituzione e d’induzione, e senza tale certificato, niuno poteva occupare un beneficio. Fu questo indubitatamente uno degli atti più dispotici che mai facesse qualunque sovrano inglese. Nondimeno, temendosi generalmente che il paese venisse invaso da uomini ignoranti, o ebrei, o reprobi, col nome e con la paga di ministri, alcuni rispettabili personaggi, che per lo più non procedevano amici a Cromwell, confessarono che, in quell’occasione, egli era stato pubblico benefattore. I presentati che avevano ottenuta l’approvazione de’ saggiatori, prendevano possesso delle loro rettorie; coltivavano le terre, raccoglievano le decime, officiavano senza libro e senza cotta, ed amministravano la eucaristia ai fedeli assisi innanzi a lunghe mense. Così l’ordinamento politico della Chiesa nel Regno trovavasi in confusione inestricabile. La forma prescritta dalla vecchia legge del paese, non ancora revocata, era l’episcopale. Quella prescritta dalla ordinanza parlamentare, era la presbiteriana. Ma nè la vecchia legge nè la ordinanza parlamentare praticamente valevano. La Chiesa, nella condizione in cui era a quel tempo, può rappresentarsi in sembianza di un corpo irregolare, composto di pochi presbiterii, e di molte congregazioni indipendenti, che erano tenute soggette ed unite dall’autorità del Governo. Fra tutti coloro che eransi maggiormente adoperati a ricondurre il Re sul trono, molti erano zelanti de’ sinodi e del direttorio, e molti desideravano terminare con una concordia i dissidii religiosi che avevano per tanto tempo agitata l’Inghilterra. Fra i seguaci bacchettoni di Laud e i bacchettoni proseliti di Calvino, non vi poteva essere nè pace nè tregua; ma non pareva cosa impossibile lo indurre ad un accomodamento gli Episcopali moderati della scuola di Usher, e i moderati Presbiteriani di quella di Baxter. Gli uni avrebbero ammesso che un vescovo poteva legalmente essere assistito da un concilio; gli altri non avrebbero negato che ogni assemblea provinciale poteva legalmente avere un preside permanente, il quale portasse il nome di vescovo. Vi sarebbe potuto essere una liturgia modificata in guisa da non escludere la preghiera estemporanea, una cerimonia battesimale in cui il segno della croce potesse a discrezione usarsi od omettersi, un servizio nel quale la comunione venisse ministrata ai fedeli seduti, ove la loro coscienza non consentisse che s’inginocchiassero. Ma la maggior parte de’ Cavalieri non volevano udire a parlare di un siffatto accomodamento. I membri religiosi di cotesto partito aderivano coscienziosamente al sistema della propria Chiesa. Essa era stata cara al Re ucciso; li aveva consolati nella sciagura e nella miseria. Le sue ufficiature così spesso eseguite in silenzio dentro una camera secreta, durante la stagione delle loro traversie, avevano per loro tale incanto, che mal volentieri avrebbero rinunciato a un solo responsorio. Altri fra’ realisti che pretendevano poco a mostrarsi religiosi, amavano la Chiesa episcopale perchè era nemica agl’inimici loro. Pregiavano una preghiera, o una cerimonia, non pel conforto che arrecava all’anima, ma perchè vessava le Teste–Rotonde; ed erano tanto lontani da conseguire la concordia a prezzo di qualche concessione, che opponevansi alle concessioni principalmente perchè tendevano a produrre la concordia. VI. Tali sentimenti, comecchè biasimevoli, erano naturali, e non affatto indegni di scusa. I Puritani ne’ giorni del loro potere, avevano, senza verun dubbio, crudelmente provocato i loro avversari. Avrebbero dovuto imparare, almeno dal malcontento, dalle lotte, dalle stesse vittorie loro, e dalla caduta di quella superba gerarchia da cui erano stati così gravemente oppressi, che in Inghilterra e nel secolo decimosettimo non era in potestà del magistrato civile lo attirare le menti degli uomini al conformismo col suo proprio sistema teologico. Mostraronsi, non pertanto, intolleranti e faccendieri al pari dello stesso Laud. Inibirono, sotto gravissime pene, l’uso del Libro della Preghiera Comune, non solo nelle chiese, ma anche nelle case private. Era delitto per un fanciullo il leggere accanto al letto dell’infermo genitore una di quelle soavi orazioni che avevano, per lo spazio di quaranta generazioni, mitigato i dolori de’ Cristiani. Pene severe vennero minacciate contro coloro che presumessero di biasimare il culto calvinistico. Ecclesiastici di carattere rispettabile non solo furono a migliaia privati de’ loro beneficii, ma rimanevano sovente esposti agli oltraggi della fanatica marmaglia. Le chiese e le sepolture, le leggiadre opere d’arte, le preziose reliquie dell’antichità, vennero brutalmente sfigurate. Il Parlamento ordinò che tutte le pitture della Collezione Reale, che rappresentavano Cristo o la Vergine Maria, si bruciassero. Alle sculture toccò una sorte egualmente trista. Le Ninfe e le Grazie, opera dello scalpello ionio, furono consegnate agli scalpellini puritani perchè le rendessero più decenti. Ai vizi leggieri la fazione predominante dichiarò guerra con zelo poco temperato dall’umanità o dal buon senso. Fecero severe leggi contro le scommesse; decretarono la pena di morte contro l’adulterio. Lo illecito commercio de’ sessi, anche scevro di violenza o di seduzione, o di pubblico scandalo, o di violazione di diritti coniugali, fu dichiarato delitto. I pubblici sollazzi, dalle mascherate che allegravano i palagi de’ grandi, fino alle grottesche rappresentazioni del villaggio, furono rigorosamente riprovati. Una ordinanza prescriveva che tutti gli alberi festivi di maggio dovessero essere quinci innanzi abbattuti. Un’altra inibiva ogni qualunque divertimento teatrale. I teatri dovevano essere distrutti, gli spettatori multati, gli attori legati alla coda d’un cavallo e frustati. Il danzare sulla corda, i giuochi de’ burattini, le corse de’ cavalli, erano guardati di mal occhio. Ma il giuoco dell’orso, a quei tempi amato tanto dalle classi alte e dalle basse, era obietto d’indicibile abbominio a quegli austeri settarii. È da notarsi che la loro avversione a quella specie di sollazzo non aveva nulla di comune col sentimento che a’ dì nostri ha indotta la legislatura ad immischiarsene, con lo scopo di proteggere gli animali contro la matta crudeltà degli uomini. Il puritano odiava il giuoco dell’orso non perchè tormentava la povera bestia, ma perchè recava diletto agli spettatori. A dir vero, egli generalmente studiavasi di godere del doppio diletto di tormentare gli spettatori e l’orso.[13] Forse non v’è circostanza che versi tanta luce sull’indole de’ rigoristi, quanto il modo di condursi rispetto alla solennità del Natale di Cristo. Questa avventurosa festività era stata, fino da tempo immemorabile, stagione di gioia e di affezione domestica; stagione nella quale le famiglie adunavansi, i fanciulli ad esse tornavano dalle scuole, i dissidii finivano, le vie risonavano di canti, ogni casa era adornata di piante sempreverdi, ed ogni mensa abbondava di laute vivande. In quella stagione tutti i cuori, non affatto scevri di dolcezza, allargavansi e s’intenerivano. In quella stagione i poveri erano invitati a godere della sovrabbondanza de’ ricchi, la cui bontà tornava maggiormente gradita a cagione della brevità de’ giorni e della severità del tempo. In quella stagione la distanza che divideva i possidenti dagli affittuari, i padroni dai servi, era meno visibile che ne’ rimanenti giorni dell’anno. Il molto godimento non va mai scompagnato da qualche eccesso: nondimeno, il brio con che celebravansi quei giorni santi non era sconvenevole ad una festività cristiana. Il Lungo Parlamento, nel 1644, ordinò che nel dì ventesimoquinto di decembre venisse osservato un rigoroso digiuno, e che tutti lo passassero umilmente lamentando il gran peccato nazionale, che essi e i loro antenati avevano commesso facendo baccano sotto il ramo di vischio,[14] mangiando la testa del cignale, e bevendo la birra, resa più saporita con mele arrostite. Non vi fu atto pubblico che maggiormente irritasse il popolo. Nel Natale seguente scoppiarono formidabili tumulti in molti luoghi. Resistettero ai ministri della polizia, insultarono i magistrati, aggredirono le case de’ più noti zelanti; ed il servizio proscritto di quella solennità venne apertamente eseguito nelle chiese. Tale era lo spirito de’ Puritani esagerati, tanto Presbiteriani quanto Indipendenti. Veramente, Oliviero era poco inchinevole a farla da persecutore e da faccendiere. Ma Oliviero, come capo di parte, e, per conseguenza, schiavo di parte, non poteva governare affatto secondo le proprie inclinazioni. Anche sotto la sua amministrazione molti magistrali, dentro le loro giurisdizioni, si resero odiosi quanto Sir Hudibras: s’immischiavano in tutti i sollazzi del vicinato, disperdevano le festevoli ragunanze, e ponevano i suonatori alla berlina. Lo zelo de’ soldati era anche più formidabile. In ogni villaggio dove essi si mostrassero, finivano i balli, il suono delle campane, i giuochi.[15] In Londra parecchie volte interruppero le rappresentazioni teatrali, alle quali il Protettore, in grazia della sua indole buona e del suo senno squisito, mostravasi connivente. All’odio e alla paura ispirati da tanta tirannia congiungevasi il pubblico dispregio. Le specialità del puritano, lo sguardo, il modo di vestirsi, il dialetto, gli scrupoli suoi, erano sempre stati, fino dal tempo di Elisabetta, obietto di scherno. Ma tali cose in una fazione che governava un grande Impero, apparivano assai più grottesche, che nelle oscure e perseguitate congregazioni. Il piagnisteo che aveva fatto tanto ridere gli spettatori, quando l’udirono in sulla scena nella _Tribolazione Salutare_ e nell’_Operoso Zelo della Patria_, era anche più ridicolo sulle labbra de’ Generali e de’ Consiglieri di Stato. È da notarsi inoltre, che mentre ardevano le lotte civili, erano nate parecchie sette, le stranezze delle quali superavano ogni cosa che si fosse mai veduta di simile in Inghilterra. Un sartore demente, di nome Ludovico Muggleton, errava di taverna in taverna inebriandosi e minacciando gli eterni tormenti contro coloro che ricusassero di credere, sulla sua testimonianza, che l’Ente Supremo fosse alto sei soli piedi, e che il sole distasse dalla terra di quattro miglia soltanto.[16] Giorgio Fox aveva suscitata una tempesta di derisioni, predicando essere violazione della sincerità cristiana l’indicare una persona singolare col pronome plurale, ed essere omaggio d’idolatria a Giano e a Odino l’usare i vocaboli Gennaio e Mercoledì.[17] La sua dottrina pochi anni appresso venne abbracciata da alcuni uomini insigni, ed acquistò grandemente la pubblica stima. Ma nel tempo della restaurazione, i Quacqueri venivano comunemente considerati come i più spregevoli tra’ fanatici. Dai Puritani erano trattati severamente tra noi, ed erano perseguitati a morte nella Nuova Inghilterra. Nondimeno il popolo, che bada rade volte alle distinzioni sottili, confonde il puritano col quacquero. Ambidue erano scismatici: odiavano lo episcopato e la liturgia; avevano quelle che parevano stravaganti fantasie intorno al vestirsi, allo atteggiarsi, al sollazzarsi. Per quanto notevolmente entrambi distassero in fatto d’opinioni, venivano dall’universale considerati egualmente come scismatici piagnolosi; e tutto ciò ch’era in essi odioso, ridicolo, accresceva lo scherno e l’avversione che la moltitudine sentiva per loro. Avanti le guerre civili, anche coloro che abborrivano dalle opinioni e dai modi del puritano, erano costretti ad ammettere che la sua condotta morale era, generalmente parlando, nelle cose essenziali scevra d’ogni biasimo; ma tale lode poscia non gli fu più oltre concessa, perchè sventuratamente se n’era reso immeritevole. L’ordinario destino delle sètte è quello di ottenere alta fama di santità finchè rimangono oppresse, e di perderla appena divengono potenti: e la ragione ne è chiara. Rade volte avviene che un uomo si aggreghi, mosso da altro motivo che dalla propria coscienza, ad una società proscritta. Tale società quindi si compone, salvo rarissimi casi, di individui sinceri. La più rigida disciplina che si osservi in una congrega religiosa, è un debole strumento di purificazione, ove si paragoni ad un poco di persecuzione pungente che muova dallo esterno. Può credersi con certezza, che pochissime persone, che non fossero mosse da profonde convinzioni religiose, chiedessero il battesimo, mentre Diocleziano perseguitava la Chiesa; o si ascrivessero alle congregazioni protestanti, mentre correvano pericolo di essere arse vive da Bonner. Ma quando una setta si fa potente, quando spiana la via alle ricchezze ed agli onori, gli uomini mondani ed ambiziosi vi si affollano, ne parlano il linguaggio, si conformano strettamente al rituale, scimmieggiano i caratteri speciali di quella, e spesso vincono gli onesti proseliti in tutte le esterne manifestazioni di zelo. Non è discernimento, non vigilanza de’ reggitori ecclesiastici, che valga ad impedire la intrusione di cotali falsi confratelli. Il loglio e il grano è d’uopo che crescano—insieme. Tosto la gente comincia ad avvedersi che gli uomini di Dio non sono migliori degli uomini del mondo; e conclude con qualche giustizia, che, non essendo migliori, devono necessariamente essere molto peggiori. Poco di poi, tutti que’ segni che dapprima venivano considerati come caratteristiche d’un santo, riduconsi ad essere presi per caratteristiche di un furfante. Ciò avvenne dei non–conformisti inglesi. Erano stati oppressi, e la oppressione gli aveva mantenuti puri e senza macchia. Ottennero il predominio nello Stato. Nessuno poteva conseguire dignità o comando senza il loro favore; il quale non poteva acquistarsi se non se scambiando con essi i segni e le parole d’ordine della spirituale confraternita. Una delle prime deliberazioni del Parlamento di Barebone, la più puritana delle nostre assemblee politiche, consisteva in ciò, che nessuno individuo poteva essere ammesso agli uffici pubblici finchè la Camera non si dichiarasse satisfatta della vera religiosità di lui. Quelli che allora consideravansi quali segni della vera religiosità, cioè il tristo colore degli abiti, lo sguardo severo, i capelli lisci, il tono nasale, il discorso imperlato di affettate citazioni, lo abborrimento delle commedie, delle carte e della falconeria, venivano agevolmente contraffatti da uomini increduli ad ogni religione. I puritani sinceri tosto trovaronsi perduti in mezzo ad una moltitudine, non solo di uomini mondani, ma della più riprovevole genia d’uomini mondani. Imperocchè, il più grande libertino che avesse combattuto sotto i regii vessilli, poteva giustamente reputarsi virtuoso in paragone di alcuni tra quelli, i quali parlando de’ conforti della Sacra Scrittura, vivevano esercitando la fraude e la rapacità, immersi in scerete dissolutezze. La nazione, con una fretta di che possiamo affliggerci, ma non maravigliarci, da questi ipocriti toglieva norma a giudicare tutto il partito. La teologia, i modi, la parlatura del puritano, richiamavano in tal guisa alle menti di tutti le immagini de’ vizi più neri e schifosi. Appena la Restaurazione concesse a chiunque la libertà di mostrarsi nemico al partito che per tanto tempo era stato predominante nello Stato, sorse da ogni angolo del Regno un grido generale contro il puritanismo; grido che spesso era accresciuto dalle voci di quegli astuti simulatori, la cattività dei quali aveva fatto abborrire il nome di puritano. Così, i due grandi partiti che dopo una lunga contesa avevano, con momentanea concordia, cooperato a rimettere sul trono la famiglia reale, diventarono, in politica e in religione, acerrimi nemici. La maggior parte della nazione pendeva verso i realisti. I delitti di Strafford e di Laud, gli eccessi della Camera Stellata e dell’Alta Commissione, i grandi servigi che il Lungo Parlamento, nel primo anno della sua esistenza, aveva resi allo Stato, erano svaniti dalla ricordanza degli uomini. La decapitazione di Carlo I, la cupa tirannia della Coda del Parlamento, la violenza dell’esercito, ricordavansi con disgusto; e la moltitudine inchinava a tenere come responsabili della morte del Re, e de’ disastri che ne seguirono, tutti coloro che gli avevano opposta resistenza. La Camera de’ Comuni, essendo stata eletta mentre predominavano i presbiteriani, non rappresentava in modo alcuno il sentimento universale del popolo, e mostravasi dispostissima ad infrenare la intollerante lealtà de’ Cavalieri. Uno de’ membri che si attentò di dichiarare che tutti coloro i quali avevano snudata la spada contro Carlo I erano traditori al pari di coloro che gli avevano mozzato il capo, venne chiamato all’ordine, posto alla sbarra, e rimproverato dal presidente. Era desiderio generale della Camera, senza verun dubbio, di comporre i litigi ecclesiastici in modo soddisfacente ai Puritani moderati. Ma a ciò fare opponevansi la Corte e la nazione. VII. Il Re era, in questo tempo, amato dal popolo quanto non lo era mai stato nessuno de’ suoi predecessori. Le calamità della sua famiglia, la morte eroica del padre, le sue proprie pene ed avventure romanzesche, svegliavano la tenerezza ne’ cuori di tutti. Il suo ritorno aveva liberato il paese da una intollerabile schiavitù. Richiamato dalla voce di ambedue le fazioni avverse, egli era il loro arbitro naturale, ed in certo modo aveva le qualità necessarie a tanto ufficio. La natura gli era stata larga di egregie doti e di felice temperamento. Era stato educato in guisa da bene sviluppare il suo intendimento, ed assuefare il suo spirito allo esercizio d’ogni virtù pubblica e privata. Aveva provate tutte le vicissitudini della fortuna. Giovanissimo, era stato tratto dalla reggia ad una vita d’esilio, di penuria, di pericolo. Pervenuto alle età in cui la mente e il corpo trovatisi nella maggior perfezione, e il primo bollore delle giovanili passioni cessa di sconvolgere l’anima, era stato richiamato dalla sua vita randagia a porsi sul capo la corona degli avi. Aveva dalla amara esperienza imparato come la viltà, la perfidia e la ingratitudine, si sappiano nascondere sotto l’ossequioso contegno della cortigianeria; mentre nel tugurio del povero aveva trovata la vera nobiltà dell’animo. Allorquando offrivano ricchezze a chi lo avesse tradito, minacciavano di morte chiunque gli avesse dato ricovero, gli abitatori delle capanne e i servitori avevano fedelmente mantenuto il secreto, ed a lui, umilmente travestito, avevano baciato la mano con tanta riverenza, quanta gliene avrebbero mostrata se fosse stato assiso sul trono. Era da sperarsi che un giovine uscito da cosiffatta scuola, il quale non difettava nè di destrezza nè di amabilità, si dovesse mostrare Re grande e buono. Carlo uscì da quella scuola adorno di socievoli abitudini, di maniere squisite e cortesi, e di qualche ingegno pel conversare vivace, dedito oltremodo ai piaceri sensuali, amante degli ozi e de’ frivoli sollazzi, incapace di abnegazione e di sforzo, incredulo alla virtù o allo affetto dell’uomo, senza desio di fama, sordo al rimprovero. Secondo lui, ogni uomo era da comprarsi. Ma taluni mercanteggiavano, più che altri, intorno al prezzo; e quando questo mercanteggiare era condotto con ostinazione e destrezza, diventava degno di lode. Gl’inganni onde alcuni uomini astuti mantenevano alto il prezzo della loro valentia, chiamavansi integrità. Gl’inganni onde le donne leggiadre tenevano alto il prezzo della loro beltà, dicevansi modestia. Lo amore di Dio, lo amore della patria, lo amore della famiglia, lo amore degli amici, erano semplici frasi, sinonimi delicati e convenevoli dello amore di sè. Pensando in tal guisa della specie umana, Carlo naturalmente da vasi pochissimo pensiero di ciò che altri pensasse di lui. Onore e vergogna a lui erano quasi ciò che luce e tenebre sono al cieco. Lo hanno molto commendato come sprezzatore dell’adulazione; ma tal pregio, guardato fra le altre qualità dell’indole di lui, non sembra degno di lode. È cosa possibile all’uomo essere al di sotto come al di sopra dell’adulazione. Chi non si fida di nessuno, non ha nè anche fiducia ne’ lusinghieri. Chi non estima la gloria vera, fa poco conto della falsa. Laudasi l’indole di Carlo in ciò che egli, non ostante la pessima opinione che aveva della specie umana, non diventasse misantropo. Poc’altro vedeva negli uomini, tranne la parte odiosa, e nondimeno non gli odiava. Anzi era talmente umano, che spiacevali vedere le sofferenze o udire le querimonie loro. Se non che, questa è una specie d’umanità che, comunque amabile e commendevole in un individuo privato, il cui potere a giovare o a nuocere è rinchiuso in uno stretto cerchio, è stata soventi volte ne’ principi vizio, più presto che virtù. Non pochi fra loro, intesi al bene, hanno abbandonate intere provincie alla rapina ed all’oppressione, mossi solo dal desiderio di vedere, in casa e ai passeggi, visi allegri. Colui che esita a spiacere a pochi che gli stanno d’intorno, pel bene dei molti che non vede giammai, non è fatto per governare una grande società. La facilità di Carlo era tanta, da non trovarsi forse mai in un uomo di sensi a lui simile. Era schiavo, senza essere zimbello, degl’inganni altrui. Donne ed uomini indegni, ai quali sapeva leggere nelle ime latebre del cuore, e i quali egli conosceva privi d’affezione e immeritevoli della sua fiducia, sapevano lusingarlo tanto, da strappargli dalle mani titoli, uffici, terre, secreti di Stato, e grazie. Donò molto, ma nè godè il piacere, nè acquistò la fama di benefico. Spontaneo non donò mai, ma eragli duro rispondere con un rifiuto. Dal che seguiva, che la sua bontà generalmente non iscendesse sopra coloro che più la meritavano, nè anche sopra coloro ai quali portava affetto, ma sopra il più svergognato ed importuno che fosse riuscito ad ottenere udienza. Le cagioni che governarono la condotta politica di Carlo II, differivano assai da quelle onde il predecessore e il successore suoi furono mossi. Non era uomo da lasciarsi imporre dalla teoria patriarcale del Governo e dalla dottrina del diritto divino. Era onninamente scevro d’ambizione. Detestava gli affari, e avrebbe piuttosto abdicato, che sopportare lo incomodo di dirigere veramente l’amministrazione. Tanta avversione aveva alla fatica e tanta ignoranza degli affari, che gli stessi suoi segretari, quando sedeva in consiglio, non potevano frenarsi d’irridere alle sue frivole osservazioni ed alla sua fanciullesca impazienza. Nè gratitudine nè vendetta contribuivano a determinare la sua condotta, perocchè non vi fu mai mente in cui i servigii o le ingiurie lasciassero, come nella sua, deboli e passeggiere impressioni. Desiderava semplicemente essere Re come lo fu poscia Luigi XV di Francia; Re che potesse trarre dal tesoro danari senza fine per appagare i suoi gusti privati; che potesse comprare con ricchezze ed onori persone capaci di aiutarlo a fargli passare il tempo; e che, anche quando lo Stato fosse per la pessima amministrazione caduto in fondo alla vergogna, e spinto sull’orlo del precipizio, potesse escludere ogni tristo pensiero dal ricinto del suo serraglio, e ricusare l’accesso a chiunque potesse disturbare i voluttuosi suoi ozii. Per ciò, e per ciò solo, egli bramava conseguire il potere arbitrario, qualora si fosse potuto conseguire senza rischio o incomodo. Nelle dispute religiose che affaccendavano i suoi sudditi protestanti, la sua coscienza non aveva interesse nessuno; perocchè le sue opinioni oscillavano in uno stato di sospensione satisfatta, fra la incredulità e il papismo. Ma, quantunque la sua coscienza rimanesse neutrale nella contesa tra gli Episcopali e i Presbiteriani, il suo gusto non era tale in nessun modo. I suoi vizi prediletti erano precisamente quelli ai quali i Puritani indulgevano meno. Egli non poteva passare un solo giorno senza il conforto di que’ sollazzi che i Puritani consideravano peccaminosi. Come uomo egregiamente educato, e assai sensibile al ridicolo, le stranezze de’ Puritani lo spingevano ad un riso di dispregio. Aveva, in verità, qualche ragione a non amare quella rigida setta. Nella età in cui le passioni più imperversano, e le leggerezze sono meritevoli di perdono, aveva passati parecchi mesi in Iscozia, Re di nome, ma di fatto prigioniero di Stato nelle mani degli austeri Presbiteriani. Non paghi di volere ch’ei si conformasse al loro culto, e firmasse la loro Convenzione, avevano invigilate tutte le azioni, e sermoneggiato intorno alle giovanili follie di lui. Era stato costretto ad assistere, ripugnante, a preci e sermoni lunghissimi, e poteva reputarsi fortunato allorquando dal pulpito non gli rammentavano le sue proprie fragilità, la tirannide del padre, e la idolatria della madre. Davvero, era stato così sciagurato in quegli anni della sua vita, che la sconfitta dalla quale fu cacciato nuovamente in esilio, poteva più presto considerarsi come liberazione, che come calamità. Sotto la pressura di queste male augurate reminiscenze, Carlo voleva deprimere il partito che aveva fatta resistenza a suo padre. VIII. Giacomo, Duca di York, fratello del Re, si attenne alla medesima via. Benchè libertino, Giacomo era diligente, metodico, e amante dell’autorità e degli affari. Aveva intendimento basso e stretto, ed indole ostinata, aspra e nemica al perdono. Che un principe come lui non potesse vedere di buon occhio le libere istituzioni dell’Inghilterra, e il partito che le difendeva con zelo indefesso, non deve recar maraviglia. Il Duca seguitava a professare la credenza della Chiesa Anglicana; ma aveva già mostrate tendenze tali, da mettere seriamente in pensiero i buoni protestanti. L’uomo che in quel tempo principalmente conduceva il Governo, era Eduardo Hyde, Cancelliere del Regno, e presto creato Conte di Clarendon. La riverenza che giustamente sentiamo per Clarendon come scrittore, non ci debbe rendere ciechi ai falli da lui commessi come uomo di Stato. Alcuni dei quali, nondimeno, vengono spiegati e scusati dalla posizione sciagurata in cui egli trovavasi. Nel primo anno del Lungo Parlamento erasi onorevolmente reso cospicuo fra i senatori che affaticavansi di riparare alle doglianze della nazione. Una delle più odiose cagioni di tali doglianze, cioè il Consiglio di York, era stata rimossa principalmente in grazia degli sforzi di lui. Quando seguì il grande scisma, quando il partito riformista ed il conservatore primamente mostraronsi in ordinanza di battaglia, l’uno contro l’altro; egli, insieme con molti savi e da bene uomini, si congiunse al partito conservatore. D’allora in poi seguì le fortune della Corte, godè tanta fiducia di Carlo I, quanta l’indole riservata, e la tortuosa politica di quel Principe ne concedessero ad alcun Ministro, e quinci divise lo esilio e diresse la condotta politica di Carlo II. Dopo la Ristaurazione, Clarendon divenne primo Ministro. Pochi mesi dopo fu annunziato ch’egli era per affinità strettamente congiunto alla Casa Reale; imperocchè la sua figlia era diventata, per secreto matrimonio, Duchessa di York. I suoi nipoti averebbero forse portata la Corona. Per questo illustre parentado ei fu preposto ai capi della vecchia nobiltà del paese, e un tempo fu creduto onnipotente. Per alcune ragioni egli era bene adatto a tenere quel posto eminente. Niuno sapeva, meglio di lui, comporre scritture di Stato; niuno parlava con più gravità e dignità nel Consiglio e nel Parlamento; niuno conosceva meglio i principii dell’arte di regnare; niuno discerneva con occhio più giudizioso le varietà de’ caratteri degli uomini. È d’uopo aggiungere, che sentiva fortemente i doveri morali e religiosi, rispettava sinceramente le leggi del paese, e mostrava coscienzioso riguardo per l’onore e lo interesse della Corona. Ma il suo animo era acre, arrogante, intollerante d’ogni opposizione. Soprattutto, egli era stato lungo tempo in esilio, e questa sola cagione era bastevole a torgli le qualità necessarie a condurre la direzione suprema degli affari. È quasi impossibile che un uomo politico che sia stato costretto dalle lotte civili a bandirsi dalla propria patria, e passare lungi da quella molti de’ più begli anni della vita, riesca adatto, appena ritornato al suolo natio, a togliere in mano il timone della cosa pubblica. Clarendon non va eccettuato da siffatta regola. Aveva lasciata l’Inghilterra con l’animo infiammato da un feroce conflitto, che era terminato con la caduta del suo partito e la ruina delle sue sostanze. Dal 1646 al 1660 era vissuto oltremare, mirando tutto ciò che avveniva nella sua patria, da una grande distanza, e con un falso strumento. Le nozioni che aveva delle pubbliche faccende, raccoglieva necessariamente dalle relazioni de’ conspiratori, parecchi dei quali erano uomini esasperati dal danno e dalla disperazione. Gli eventi naturalmente gli sembravano bene augurati, non quando accrescevano la prosperità e la gloria della nazione, ma quando tendevano ad avacciare l’ora del suo ritorno. La sua convinzione—convinzione ch’ei non ha nascosta—consisteva in questo: che i suoi concittadini, non avrebbero potuto godere de’ beni della quiete e della libertà, finchè non avessero rimesso su la vecchia dinastia. Finalmente ritornò alla patria, e senza avere speso nè anche una settimana a volgere lo sguardo all’intorno, a mischiarsi nei socievoli commerci, a notare i mutamenti che quattordici anni di vicende avevano prodotto nel carattere e nel sentire della popolazione, fu posto repentinamente a condurre il Governo dello Stato. In cosiffatte condizioni, anche un Ministro eminentemente destro e docile sarebbe probabilmente caduto in gravissimi errori. Ma la destrezza e la docilità non erano da trovarsi fra le doti dell’animo di Clarendon. Agli occhi suoi, l’Inghilterra seguitava ad essere la Inghilterra della sua giovinezza; e guardava in cagnesco ogni teoria ed ogni pratica introdotta mentre egli era in esilio. Quantunque fosse lontano dal meditare il minimo attentato contro l’antico e indubitato potere della Camera de’ Comuni, il vederlo crescere gli recava grande inquietudine. La prerogativa regia, per la quale egli aveva tanto sofferto, e dalla quale era stato alla perfine innalzato alle ricchezze ed agli onori, era sacra agli occhi suoi. Riguardava le Teste–Rotonde con avversione politica e personale. Aveva sempre aderito fortemente alla Chiesa Anglicana, e tutte le volte che si trattava degl’interessi di quella, erasi separato, non senza rammarico, da’ suoi più diletti amici. Il suo zelo per lo Episcopato e pel Libro della Preghiera Comune divenne quindi più ardente che mai, e si congiunse con un odio vendicativo contro i Puritani; odio che gli recò poco onore, e come ad uomo di Stato e come a cristiano. Mentre la Camera de’ Comuni, che aveva richiamata la reale famiglia, era in sessione, e’ tornava impossibile ristabilire il vecchio sistema ecclesiastico. La Corte non solo nascose con grande studio le proprie intenzioni, ma il Re stesso dette, nel modo più solenne, assicuranze tali, che posero in calma gli animi de’ Presbiteriani moderati. Aveva promesso, prima della Restaurazione, di concedere ai sudditi libertà di coscienza. Ripetè poscia tale promessa, aggiungendovi quella di adoperare le più scrupolose cure onde indurre a concordia le sètte avverse. Disse come egli desiderava di vedere la giurisdizione spirituale divisa tra i vescovi e i sinodi; di fare che la liturgia venisse riesaminata da una congrega di teologi, metà de’ quali sarebbe di presbiteriani. Le quistioni concernenti la cotta, la postura nel ricevere la Eucarestia, e il segno della croce nel battesimo, verrebbero risolute in guisa da calmare le coscienze timorate. Come il Re ebbe addormentati gli occhi vigili di coloro ch’ei maggiormente temeva, sciolse il Parlamento. Aveva già dato il suo assenso ad un atto d’amnistia, salvo pochissimi, per tutti coloro i quali nelle lotte civili s’erano resi colpevoli di delitti politici. Aveva parimenti ottenuta dalla Camera de’ Comuni una concessione a vita delle tasse, l’annuo prodotto delle quali era stimato a un milione e duecento mila lire sterline. A vero dire, il prodotto di quelle per alcuni anni passò di poco un milione; ma questa somma, insieme con la entrata ereditaria della Corona, era allora bastevole a pagare le spese del Governo in tempo di pace. Non fu concessa pecunia per mantenere un esercito stanziale. La nazione sentiva disgusto del semplice nome di quello, e il solo rammentarlo avrebbe commossi ed infiammati tutti i partiti. IX. Nel 1661 seguì una elezione generale. Il popolo era frenetico d’entusiasmo verso il sovrano. La metropoli venne incitata a fare apparecchi per la più splendida incoronazione che si fosse mai veduta. Ne risultò un corpo di rappresentanti tale, quale non era mai stato in Inghilterra. Molti de’ candidati eletti erano uomini che avevano pugnato a favore della Corona e della Chiesa, e che avevano l’animo esasperato per le molte ingiurie e i molti insulti delle Teste–Rotonde. Quando i membri adunaronsi, le passioni onde ciascuno di loro era individualmente animato, acquistarono nuova forza per virtù della simpatia. La Camera de’ Comuni per alcuni anni fu più realista del Re stesso, più episcopale degli stessi vescovi. Carlo e Clarendon rimasero quasi atterriti della propria vittoria. Trovaronsi in condizioni non dissimili da quelle in cui Luigi XVIII e il Duca di Richelieu si videro allorquando, nel 1815, adunossi la Camera. Quando anche il Re avesse desiderato di adempiere le promesse date ai Presbiteriani, non lo avrebbe potuto fare. Veramente, gli fu mestieri di adoperare co’ più vigorosi sforzi tutta la sua influenza per impedire che i Cavalieri vittoriosi lacerassero l’atto d’indennità, e si vendicassero, senza misericordia, de’ torti sofferti. X. I Comuni cominciarono dal decretare, che ciascun membro dovesse, sotto pena d’espulsione, prestare il giuramento secondo la forma prescritta dalla antica liturgia, e che l’atto di Convenzione dovesse essere bruciato per mano del boia nel cortile del palagio. Fecero un altro atto, in cui non solo riconoscevano il potere della spada appartenere al solo Re, ma dichiaravano che in nessun caso estremo, qualunque si fosse, le due Camere potevano giustamente resistere con la forza al sovrano. Ne aggiunsero un altro, che prescriveva ad ogni ufficiale di corporazione di giurare che la resistenza alla autorità del Re era sempre illegittima. Pochi cervelli caldi sforzaronsi di proporre una legge che annullasse in una sola volta tutti gli statuti fatti dal Lungo Parlamento, e richiamasse in vita la Camera Stellata e l’Alta Commissione; ma la Reazione, per quanto fosse violenta, non osò andare tanto oltre. Continuò ad esser valida la legge che ogni tre anni vi fosse un Parlamento; ma vennero revocate le clausule restrittive, le quali ordinavano che gli ufficiali, anche senza l’assenso regio, potevano, appena scorso il tempo prescritto, procedere alla elezione. I vescovi furono rimessi sui loro seggi nella Camera Alta. Il vecchio ordinamento politico della Chiesa, e la vecchia liturgia, furono ristabiliti, senza la minima modificazione che tendesse a conciliare i più moderati tra i Presbiteriani. Allora, per la prima volta, l’ordinazione episcopale fu dichiarata requisito essenziale alle dignità ecclesiastiche. Circa duemila ministri della religione, ai quali la coscienza non consentiva di conformarsi alle nuove leggi, furono, in un sol giorno, privati de’ loro beneficii. La parte dominante, esultando, rammentava ai danneggiati, che il Lungo Parlamento, nell’auge del suo potere, aveva cacciato via un maggior numero di teologi realisti. Il rimprovero era ben fondato; ma il Lungo Parlamento aveva, almeno, ai teologi spogliati de’ loro uffici concessa una provvisione bastevole a non lasciarli morire d’inedia; mentre i Cavalieri, con gli animi inveleniti da implacabile rancore, non avevano avuta la giustizia e la umanità di seguire il riferito esempio. XI. Fecero poi alcuni statuti penali contro i non–conformisti; statuti, de’ quali potevano trovare esempi precedenti nella legislazione puritana, ma ai quali il Re non poteva dare il suo assenso senza rompere le promesse pubblicamente fatte, nella crisi più importante della sua vita, a coloro da cui dipendeva il suo destino. I Presbiteriani, colpiti di terrore e forte addolorati, corsero ai piedi del trono, allegando i loro recenti servigi, e la fede sovrana solennemente e ripetutamente data. Il Re ondeggiava. Non poteva rinnegare il suo proprio sigillo e la sua propria firma. Sentiva, pur troppo, d’essere debitore di molto ai chiedenti. Era poco avvezzo a resistere alle sollecitazioni importune. L’indole sua non era quella di un persecutore. Certo aborriva i Puritani; ma in lui lo aborrire era un languido sentimento, poco somiglievole all’odio energico che aveva infiammato il cuore di Laud. Parteggiava, inoltre, per la Religione Cattolica–Romana; e conosceva come fosse impossibile il concedere libertà di culto ai proseliti di quella religione, senza accordarla parimente ai dissenzienti protestanti. Tentò, quindi, debolmente di frenare lo zelo intollerante della Camera de’ Comuni; ma la Camera trovavasi sotto la influenza di profonde convinzioni, e di passioni assai più forti che non erano quelle del Re. Dopo una lieve lotta, egli cedette, ed approvò, facendo mostra d’alacrità, una serie di leggi odiose contro i separatisti. Fu dichiarato delitto lo intervenire in luogo dove si celebrasse il culto dei dissenzienti. Ciascun giudice di pace poteva giudicare senza giurati, e poteva condannare ad essere trasportato oltremare per sette anni chiunque fosse stato per la terza volta dichiarato reo. Con sottile crudeltà, venne provveduto che il reo non fosse trasportato nella Nuova Inghilterra, dove probabilmente avrebbe trovato amici che lo confortassero. Ritornando innanzi che fosse trascorso tutto il tempo del bando, soggiaceva alla pena capitale. Un nuovo ed irragionevolissimo giuramento venne imposto ai teologi che erano stati spogliati de’ loro beneficii per non essersi voluti conformare; e a tutti coloro che ricusavano di prestarlo, fu inibito di appressarsi di cinque miglia ad ogni città che fosse governata da una corporazione, o rappresentata in Parlamento, o dove essi avessero esercitato il sacro ministero. I magistrati che dovevano mandare ad esecuzione cotesti terribili statuti, erano generalmente uomini infiammati dallo spirito di parte, e dalla rimembranza dei danni che avevano sofferti al tempo della Repubblica. Le carceri furono quindi subitamente riempite di dissenzienti, tra i quali erano alcuni che con la virtù e coll’ingegno potevano onorare qualunque società cristiana. XII. La Chiesa d’Inghilterra non si mostrò ingrata alla protezione largitale dal Governo. Fino dal primo giorno della sua esistenza aveva aderito alla Monarchia. Ma ne’ venti anni che seguirono l’epoca della Restaurazione, il suo zelo per l’autorità regia e pel diritto ereditario aveva travarcato ogni confine. Aveva partecipato alle sciagure della Casa degli Stuardi. Era stata ristaurata con essa; ed era con essa vincolata da interessi, amicizie ed inimicizie comuni. Sembrava impossibile che dovesse arrivare il giorno in cui i vincoli che la congiungevano ai figli del suo augusto martire, verrebbero infranti, e la lealtà della quale ella gloriavasi, non sarebbe più oltre un gradito e proficuo dovere. E però magnificava con frasi rimbombanti quella prerogativa che era sempre adoperata a difendere ed ingrandire la Chiesa, e riprovava comodamente la depravità di coloro i quali dalla oppressura, onde essa andava esente, erano stati incitati a ribellare. Il suo tema prediletto era la dottrina della non–resistenza; dottrina ch’essa predicava in modo assoluto, portandola fino a tutte le estreme conseguenze. I suoi discepoli non istancavansi mai di ripetere, che in nessun caso possibile,—nè anche se l’Inghilterra avesse la sciagura di sottostare a un Re come Busiride o Falaride, il quale, calpestando ogni legge, senza verun pretesto di giustizia, condannasse ogni giorno centinaia di vittime innocenti alla tortura e alla morte,—tutti gli Stati del Regno concordanti, sarebbero giustificati a resistere con la forza alla tirannide del principe. Avventuratamente, i principii della natura umana ci assicurano appieno che tali teorie rimarranno sempre teorie. Giunse il dì della prova; e quegli stessi uomini che avevano levata più alto la voce a predicare quella strana dottrina di lealtà, armaronsi, in quasi ogni Contea dell’Inghilterra, contro il trono. Nuovamente in tutto il Regno le sostanze andavano cangiando padroni. Le vendite fatte dalla nazione, non essendo state confermate dal Parlamento, furono dai tribunali considerate come nulle. Il sovrano, i vescovi, i decani, i capitoli, i nobili e i gentiluomini realisti, riebbero i loro beni confiscati, e ne spogliarono perfino i compratori che ne avevano pagato il prezzo. Le perdite sostenute dai Cavalieri mentre predominavano i loro avversari, vennero così in parte riparate; ma solamente in parte. Ogni qualunque azione per ricuperare i frutti arretrati fu esclusa efficacemente dall’Amnistia generale; e i numerosi realisti i quali, onde soddisfare alle multe imposte dal Parlamento e comperare il favore delle potenti Teste–Rotonde, avevano vendute le loro terre per molto meno di quello che valevano, non furono liberati dalle conseguenze legali de’ loro propri atti. XIII. Mentre tali cose avvenivano, era seguito un cangiamento assai più grave nella morale e ne’ costumi del popolo. Le passioni e i gusti che sotto il predominio de’ Puritani erano stati severamente repressi, e se per poco soddisfatti, lo erano stati di soppiatto, appena fu tolto lo impedimento, tornarono a rivivere con irrefrenabile violenza. Gli uomini correvano ai frivoli diporti ed ai piaceri criminosi con quella avidità che nasce dalla lunga astinenza. Poco ostacolo vi poneva la pubblica opinione; avvegnachè le genti, stomacate de’ piagnistei, e sospettose dei pretendenti a comparir santi, e soffrendo tuttavia della recente tirannide di governanti austeri nella vita e potenti nella preghiera, volgessero alcun tempo compiacenti gli sguardi a vizi più gaii e soavi. Minore era anche il freno che vi poneva il Governo. E davvero, non eravi eccesso al quale gli uomini non venissero incoraggiati dalla ostentata dissolutezza del Re, e de’ suoi fidi cortigiani. Pochi consiglieri di Carlo I, che più non erano giovani, serbavano la decorosa gravità che trenta anni innanzi era stata tanto in voga a Whitehall. Tali erano lo stesso Clarendon e gli amici suoi, Tommaso Wriothesley conte di Southampton Lord Tesoriere, e Giacomo Butler Duca di Ormond, il quale dopo di avere tra molte vicende valorosamente propugnata l’autorità del Re in Irlanda, governava quel Regno con l’ufficio di Lord Luogotenente. Ma, nè la memoria de’ servigii di cotesti uomini, nè il potere grande che avevano nello Stato, poterono proteggerli dai sarcasmi che il vizio di moda ama di scagliare contro la virtù fuori d’uso. La lode di gentilezza e vivacità mal poteva conseguirsi senza violare in qualche guisa il decoro. Uomini di grande e pieghevole ingegno affaccendavansi a spandere il contagio. La filosofia morale aveva di recente presa una forma atta a piacere ad una generazione egualmente devota alla monarchia ed al vizio. Tommaso Hobbes, con un linguaggio più preciso e lucido di quello che fosse stato mai adoperato da qualunque altro scrittore metafisico, sosteneva: la volontà del principe essere la regola del diritto e del torto, ed ogni suddito doversi tener pronto a professare, secondo che piacesse al principe, il Papismo, l’Islamismo o il Paganesimo. Migliaia d’uomini, inetti a conoscere ciò che nelle metafisiche speculazioni di lui fosse degno di stima, facilmente dettero il ben venuto ad una teoria, la quale, esaltando la dignità regia, rallentava i doveri morali, e abbassava la religione al grado di pretta faccenda di Stato, L’Hobbismo divenne tosto parte quasi essenziale del carattere d’un perfetto gentiluomo. Ogni specie di amena letteratura s’imbevve profondamente della prevalente licenza. La poesia si arruffianò ad ogni più basso desio. Il dileggio, invece di fare arrossire la colpa e l’errore, scagliò i suoi formidabili strali contro la verità e l’innocenza. La Chiesa dello Stato lottava, a dir vero, contro la prevalente immoralità, ma lottava debolmente e non di tutto cuore. Era necessario al decoro del proprio carattere, ch’ella ammonisse i suoi figli traviati; ma dava le sue ammonizioni con una tal quale negligenza o svogliatezza. La sua attenzione era rivolta altrove. In cima a tutti i suoi pensieri stava quello di esterminare i Puritani, ed insegnare ai suoi discepoli di dare a Cesare ciò che era di Cesare. Era stata spogliata ed oppressa da quello stesso partito che predicava la più austera morale. Aveva riacquistato opulenza ed onori, mercè i libertini. Per quanto poco disposti fossero gli uomini dell’allegria e della moda a conformarsi ai precetti di lei, erano tuttavia pronti a combattere fino all’ultimo sangue per le cattedrali e i palagi, per ogni rigo delle rubriche, per ogni lembo della veste della Chiesa. Se il dissoluto Cavaliere andava gavazzando su per i bordelli e le bische, tenevasi almeno lungi da’ conventicoli. Se non parlava giammai senza profferire oscene parole o bestemmie, ne aveva fatta ammenda con la prontezza onde gettò in prigione Baxter e Howe, rei di avere predicato e pregato. In tal guisa il clero, un tempo, fece guerra allo scisma con tanto accanimento, che aveva poco agio di pensare a far guerra al vizio. Le oscene parole di Etherege e di Wicherley vennero, al cospetto e con la speciale sanzione del capo della Chiesa, pubblicamente recitate da labbra femminili ad orecchie femminili, mentre lo autore del _Viaggio del Pellegrino_ languiva sepolto in carcere per colpa di insegnare lo evangelio ai poveri. Egli è un fatto indubitabile, non che mirabilmente istruttivo, che gli anni in cui la potenza politica della gerarchia anglicana trovavasi nel suo più alto grado, furono precisamente gli anni in cui le virtù pubbliche erano cadute in fondo alla maggiore degradazione. XIV. Non v’era classe o professione che rimanesse libera dal contagio dell’immoralità prevalente; ma gli uomini politici erano forse la parte più corrotta del sociale consorzio, come quelli che erano esposti non solo alla nociva influenza che infermava la nazione, ma a una specie peculiare e più malefica di corruzione. Erano stati educati fra mezzo a spesse e violente rivoluzioni e contro–rivoluzioni. Nel corso di pochi anni avevano veduto l’ordinamento ecclesiastico del loro paese più volte cangiarsi. Avevano veduta la Chiesa Episcopale perseguitare i Puritani, la Chiesa Puritana perseguitare gli Episcopali, e la prima affliggere di nuove persecuzioni la seconda. Avevano veduta la monarchia ereditaria abolita e ristaurata; il Lungo Parlamento avere avuta tre volte la supremazia nello Stato, ed essere stato tre volte disciolto fra gli scherni e le maledizioni di milioni d’uomini; una nuova dinastia rapidamente conseguire l’altezza del potere e della gloria, e quindi in un baleno senza lotta cadere giù dal trono; un nuovo sistema rappresentativo formato, messo alla prova e abbandonato; una nuova Camera di Lordi creata, e dispersa; grandi masse di beni passati dalle mani de’ Cavalieri in quelle delle Teste–Rotonde, e dalle mani di queste nuovamente in quelle dei primi. Fra cotante vicissitudini, nessuno poteva con suo profitto professare la politica, ove non si tenesse parato a mutare ad ogni mutamento di fortuna. Solo tenendosi da parte, l’uomo poteva lungo tempo mantenersi o costante realista, o repubblicano costante. Chiunque, in un’età come quella, aspira a conseguire la grandezza civile, è uopo che deponga ogni pensiero di serbarsi immutabile. Invece di far mostra d’immutabilità fra mezzo alle continue mutazioni, deve star sempre vigilante ad osservare i segni della reazione che si approssima; deve cogliere il preciso momento per abbandonare una causa che sta per cadere. Avendo seguito a tutta oltranza una fazione mentre ella trovavasi preponderante, ei deve sollecitamente disimpacciarsene appena le difficoltà principiano; deve aggredirla, perseguitarla, gettarsi in un nuovo cammino, onde pervenire al potere ed alla prosperità, insieme co’ suoi nuovi consorti. La nuova situazione naturalmente sviluppa in lui fino ad altissimo grado doti e vizi peculiari. Diventa acuto e pronto nell’osservare, e fecondo nel trovare espedienti. Afferra senza sforzo il contegno di ogni setta o partito, a cui gli accade di associarsi. Discerne i segni de’ tempi con tale sagacia, che alla moltitudine sembra miracolosa; sagacia simile a quella con che un vecchio ufficiale di polizia tiene dietro ai più lievi vestigi del delitto, o con che un guerriero di Mohawk siegue la traccia altrui a traverso le foreste. Ma rade volte può trovarsi in un uomo siffattamente educato, integrità, costanza, o alcuna altra delle virtù figlie del vero. Non ha fede in nessun principio, nè zelo per alcuna causa. Ha veduto tante vecchie istituzioni andare in rovina, che non sente nessuna riverenza per la prescrizione. Ha veduto tante istituzioni nuove, dallo quali aspettavansi grandi cose, non produrre se non se disinganno, ch’egli non ha speranza di miglioramento. Irride egualmente e a coloro che vogliono conservare, e a coloro che agognano a riformare. Non vi ha cosa nello Stato ch’egli, senza scrupolo o rossore, non sia capace di difendere o distruggere. La fedeltà alle opinioni ed agli amici gli sembra pretta stupidezza, o falsità di giudizio. Considera la politica non come una scienza che deve mirare a rendere gli uomini felici, ma come un appetitoso giuoco di sorte e di destrezza, nel quale un giuocatore fortunato può vincere una baronia, un ducato e forse un Regno, mentre una mossa imprudente può produrre la perdita della roba e della vita. L’ambizione, che in tempi buoni ed in animi onesti è una mezza virtù, in lui, disgiunta da ogni nobile e filantropico sentimento, diventa una cupidità egoistica, turpe quasi al pari dell’avarizia. Fra quegli uomini politici, i quali, dalla Ristaurazione allo avvenimento della Casa di Hannover, erano a capo dei grandi partiti nello Stato, pochi sono coloro la cui fama non sia macchiata da ciò che nei tempi nostri si chiama grossolana perfidia e corruzione. Non sarebbe quasi esagerato lo affermare, che i più immorali uomini pubblici che a nostra memoria abbiano avuto in mano le pubbliche faccende, paragonati ai politici dell’ultima metà del secolo decimosettimo, ci paiono degni della lode di scrupolosi e disinteressati. XV. Mentre accadevano in Inghilterra coteste mutazioni politiche, religiose e morali, l’autorità regia era stata senza difficoltà ristabilita in ogni parte delle Isole Britanniche. In Iscozia, la restaurazione degli Stuardi era stata salutata con gioia, come quella che restaurava la indipendenza nazionale. Ed era pur vero che il giogo imposto da Cromwell era stato apparentemente scosso, che gli Stati di nuovo s’erano adunati nella loro antica sala in Edimburgo, e che i Senatori del Collegio di Giustizia ministravano di nuovo le leggi scozzesi secondo le antiche forme. Nondimeno, la indipendenza di quel piccolo Regno era necessariamente più nominale che reale; imperciocchè, fino a tanto che il Re aveva l’Inghilterra favorevole, ei non poteva nulla temere dalla disaffezione de’ suoi altri dominii. Adesso trovavasi in condizioni tali, da ritentare ciò che era riuscito fatale al padre suo, senza paventarne la miseranda fine. Carlo I erasi provato ad imporre a forza, di propria autorità, la propria religione agli Scozzesi, nel punto istesso in cui la religione sua e la sua reale autorità non erano popolari in Inghilterra; e non solo non v’era riuscito, ma aveva suscitate turbolenze che gli costarono la Corona e la vita. I tempi ora procedevano mutati; la Inghilterra era zelante della monarchia e della prelatura; e però il disegno, che nella precedente generazione era stato imprudente all’estremo, poteva ritentarsi con poco rischio pel trono. Il Governo determinò di istituire una chiesa episcopale in Iscozia. Il disegno venne riprovato da ogni assennato e rispettabile scozzese. Parecchi uomini di Stato in Iscozia, zelanti della regia prerogativa, avevano ricevuto educazione presbiteriana. Comecchè poco turbati da scrupoli, amavano la religione della loro infanzia; e bene conoscevano quanto profonde avesse le radici ne’ cuori de’ loro concittadini. Protestarono vigorosamente; ma trovando inutili le proteste, non ebbero la virtù necessaria a perseverare in una opposizione che avrebbe offeso il loro signore, ed alcuni di loro piegaronsi alla ribalderia ed alla viltà di perseguitare quella che in coscienza credevano essere la forma più pura del cristianesimo. Il Parlamento scozzese era costituito in guisa da non avere mai fatto seria opposizione a principi assai più deboli di Carlo. L’episcopato, adunque, venne stabilito con una legge. In quanto alla forma del culto, fu lasciata non poca libertà al discernimento del clero. In talune chiese usavasi la liturgia inglese; in altre i ministri sceglievano, fra mezzo a quella liturgia, le preci e i rendimenti di grazie formulati in modo, da offendere meno il sentire del popolo. Ma in generale, la dossologia cantavasi alla fine delle sacre funzioni, e nel ministrare il battesimo recitavano il Credo degli Apostoli. La maggior parte della popolazione scozzese detestava la nuova Chiesa e come superstiziosa e come straniera; e perchè era deturpata dalle corruzioni di Roma, e perchè era segno della predominanza dell’Inghilterra. Nonostante, non vi fu insurrezione generale. Il paese non era più quel ch’era stato ventidue anni innanzi. Guerre disastrose e giogo straniero avevano prostrato lo spirito del popolo. L’aristocrazia, ch’era tenuta in grande onore dalle classi medie e dalla plebaglia, erasi posta a capo del movimento contro Carlo I; ma mostravasi poscia ossequiosa a Carlo II. Ormai nessuno aiuto era a sperarsi da parte de’ Puritani inglesi; perocchè erano un partito debole, proscritto e dalla legge e dalla opinione pubblica. La massa della nazione scozzese, quindi, si sottomise tristamente, e con grandi timori di coscienza attendeva al servizio del clero episcopale, o de’ ministri presbiteriani che avevano acconsentito ad accettare dal Governo una semi–tolleranza, conosciuta sotto il nome d’Indulgenza. Ma eranvi, massime nelle pianure occidentali, molti uomini fieri e ardimentosi, i quali credevano fermamente che l’obbligo di osservare la Convenzione fosse superiore a quello d’obbedire al magistrato. Costoro, in onta alla legge, continuavano a congregarsi onde adorare Dio secondo la loro credenza. Consideravano la Indulgenza, non come una riparazione parziale de’ torti inflitti dai magistrati alla Chiesa, ma come un nuovo torto; il quale, per essere mascherato con l’apparenza d’un beneficio, pareva loro maggiormente odioso. La persecuzione, dicevano essi, può solo uccidere il corpo; ma l’aborrita Indulgenza torna fatale all’anima. Cacciati via dalle città, adunavansi su per i luoghi deserti e le montagne. Aggrediti dal potere civile, respingevano senza scrupolo la forza con la forza. Ad ogni conventicolo presentavansi armati. Spesso trascorrevano ad aperta ribellione. Venivano agevolmente sconfitti, e puniti senza misericordia; ma nè sconfitte nè pene potevano domare lo spirito loro. Inseguiti a guisa di belve, torturati fino ad avere le ossa slocate e dirotte, imprigionati, impiccati a centinaia, ora esposti alla licenza de’ soldati inglesi, ora abbandonati alla mercè dei masnadieri delle montagne, tenevansi sempre sulle difese con un contegno così feroce, che il più ardito e potente oppressore non poteva non impaurire innanzi all’audacia della loro disperazione. XVI. Erano tali, durante il regno di Carlo II, le condizioni della Scozia. Quelle della Irlanda non erano meno triste. In quell’isola esistevano contese, in paragone delle quali le più calde animosità dei politici inglesi erano tiepide. L’inimicizia tra i Cavalieri e le Teste–Rotonde d’Irlanda fu quasi dimenticata quando riarse più feroce il conflitto tra la razza inglese e la celtica. La distanza tra gli Episcopali e i Presbiteriani sembrava svanire in paragone di quella che li separava entrambi dai Papisti. Negli ultimi civili perturbamenti, mezzo il suolo irlandese dalle mani de’ vinti era passato in quelle de’ vincitori. Pochi de’ vecchi o dei nuovi occupanti meritavano il favore della Corona. Gli spogliatori e gli spogliati erano, in massima parte, stati egualmente ribelli. Il Governo divenne tosto perplesso, e stanco de’ reclami e delle scambievoli accuse delle due inferocite fazioni. Quei coloni, ai quali Cromwell aveva distribuito il territorio conquistato, e i discendenti de’ quali chiamavansi tuttavia Cromwelliani, allegavano che gli abitanti aborigeni erano nemici mortali della nazione inglese sotto qualsifosse dinastia, e della religione protestante sotto qualunque forma. Descrivevano ed esageravano le atrocità commesse nella insurrezione di Ulster; incitavano il Re a seguitare risolutamente la politica del Protettore; non avevano vergogna d’affermare come non ci fosse da sperare mai pace in Irlanda, finchè non venisse onninamente estirpata la vecchia razza irlandese. I Cattolici Romani scusavansi come meglio potevano, e lamentavano con tristi parole la severità delle loro pene; che, a dir vero, non erano miti. Scongiuravano Carlo di non confondere lo innocente col colpevole, e gli rammentavano che molti de’ colpevoli avevano espiato i loro falli ritornando alla obbedienza del loro sovrano, e difendendo i diritti di lui contro gli assassini del suo genitore. La Corte, nauseata dallo importunare di due partiti, nessuno de’ quali essa aveva cagione di amare, in fine volle liberarsi d’ogni disturbo dettando un atto di concordia. Quel sistema crudele, ma compito ed energico, che Oliviero erasi proposto onde rendere affatto inglese quell’isola, venne abbandonato. I Cromwelliani furono indotti a rendere un terzo dei loro beni; i quali vennero capricciosamente distribuiti fra quei pretendenti che il Governo volle favorire. Ma moltissimi che protestavano d’essere innocenti di slealtà, e parecchi altri che menavano singolar vanto della lealtà loro, non ottennero nè restituzione nè compensazione, ed empirono la Francia e la Spagna di gridi contro la ingiustizia e la ingratitudine della Casa degli Stuardi. XVII. Intanto il Governo aveva, anche in Inghilterra, perduta la sua popolarità. I realisti avevano cominciato a contendere con la Corte e fra loro stessi; e la parte vinta, calpesta, e, come pareva, annientata, ma che serbava tuttavia un vigoroso principio di vita, alzò nuovamente il capo, e rinnovò la interminabile guerra. Quando anche l’amministrazione avesse proceduto scevra di falli, l’entusiasmo con che il popolo aveva salutato il ritorno del Re e la fine della tirannide militare, non avrebbe potuto durare; avvegnachè sia legge di natura, che a tali repentini eccitamenti tenga dietro la calma. Il modo onde la Corte abusò della propria vittoria, affrettò e rese compiuta cotesta calma. Ogni uomo moderato mal pativa la insolenza, la crudeltà, la perfidia, con che venivano trattati i non–conformisti. Le leggi penali avevano efficacemente purgata la parte oppressa di quegli individui poco sinceri, i vizi de’ quali le scemavano la reputazione; e l’avevano resa di nuovo una società di onesti uomini e pii. Il Puritano vincitore, governante, persecutore, sequestratore, era stato aborrito, tradito, bistrattato, abbandonato da’ temporeggiatori che ne’ giorni prosperi gli avevano giurata fratellanza, cacciato via dal proprio tetto, interdetto sotto pene severe a pregare o ricevere i sacramenti secondo la propria coscienza; e, non ostante, sempre fermo nel proposito di obbedire a Dio meglio che all’uomo, era, in onta a certe spiacevoli rimembranze, obietto di pietà e riverenza a tutte le menti diritte. Cotesti sentimenti divennero più forti allorchè corse la voce che la Corte non intendeva trattare i Papisti col medesimo rigore con che aveva trattati i Presbiteriani. Nacque in cuore di molti il sospetto che il Re e il Duca non fossero protestanti sinceri. Molti, oltre a ciò, che non avevano potuto soffrire l’austerità ed ipocrisia de’ Farisei della Repubblica, cominciarono a sentire maggiore disgusto della impudente corruttela della Corte e de’ Cavalieri, e inclinavano a dubitare che l’austera rigorosità di Laudaddio Barebone non fosse da preferirsi all’oltraggiosa profanazione e licenza dei Buckingham e dei Sedley. Anche quegli uomini immorali che non erano estranei al sentimento e allo spirito pubblico, querelavansi vedendo il Governo trattare le cose più gravi come pretti trastulli, e considerare le cose da nulla come cose gravi. Poteva ad un Re perdonarsi ch’ei si svagasse col vino, col brio, con le donne; ma era intollerabile ch’egli si perdesse oziando e immerso ne’ piaceri, che le più gravi faccende dello Stato fossero trascurate, e che gli ufficiali pubblici morissero di fame, mentre devastavansi le finanze onde arricchire meretrici e parassiti. Gran numero di realisti facevano eco a tali querimonie, ed aggiungevano molte pungenti considerazioni intorno la ingratitudine del Re. Veramente, le intere sue entrate non sarebbero bastate a rimunerarli secondo ch’essi credevano di meritare. Perocchè, ad ogni impoverito gentiluomo che aveva combattuto sotto Rupert o Derby, i propri servigi parevano eminentemente meritorii, e i propri danni eminentemente duri. Ciascuno aveva sperato, sia che si fosse degli altri, ch’ei verrebbe con larghezza ricompensato di tutte le perdite sostenute nelle lotte civili, e che la restaurazione della monarchia avrebbe restaurato i suoi beni dilapidati. Nessuno di questi speranzosi potè frenare lo sdegno, allorquando trovossi così povero sotto il Re, come era stato sotto il Parlamento repubblicano o sotto il Protettore. La negligenza e la stravaganza della Corte svegliò la collera di cotesti leali veterani. Dicevano giustamente, che mezzi i tesori che il Re profondeva a beneficio delle concubine e de’ buffoni, potevano racconsolare i cuori di centinaia de’ vecchi Cavalieri, i quali dopo d’avere abbattuti i boschi e fuse le argenterie loro onde soccorrere il padre suo, adesso erravano intorno in povero arnese, e non sapevano dove rivolgersi per un tozzo di pane. Nel tempo stesso, le rendite improvvisamente ribassarono. La entrata d’ogni possidente di terre scemò di cinque scellini per ogni lira sterlina. In ogni Contea del Regno levossi il grido della miseria agricola; di che, secondo il costume, fu chiamato in colpa il Governo. I gentiluomini, costretti a diminuire le loro spese, vedevano con isdegno il crescente splendore e la profusione di Whitehall, e fermamente credevano che la pecunia la quale doveva servire al sostegno delle loro famiglie, era passata, in modo inesplicabile, ai favoriti del Re. Tutti gli animi, quindi, divennero esacerbati in guisa, che ogni atto pubblico eccitava il malcontento. Carlo aveva sposata Caterina principessa di Portogallo. Tale matrimonio generalmente dispiacque; e le mormorazioni divennero più forti allorchè si conobbe che il Re non aveva speranza di discendenti legittimi. Dunkerque, tolta alla Spagna da Oliviero, fu venduta a Luigi XIV Re di Francia. Ciò riaccese lo sdegno in cuore di tutti gl’Inglesi, i quali cominciavano ad osservare con inquietudine il progresso della potenza francese, e a sentire per la Casa de’ Borboni ciò che gli avi loro avevano sentito per la Casa d’Austria. Domandavano se fosse cosa savia in tempo siffatto aggiungere forza ad una Monarchia troppo formidabile. Dunkerque, inoltre, veniva considerata dal popolo, non solamente come piazza d’armi e chiave de’ Paesi Bassi, ma anche come trofeo del valore inglese. Essa era per i sudditi di Carlo ciò che Calais era stata pei loro antenati, e ciò che la rocca di Gibilterra, difesa con tanto valore, in tempi pieni di disastri e pericoli, contro le flotte e le armate di una potente coalizione, è per noi stessi. La economia sarebbe stata una valida scusa, se l’avesse allegata un Governo economo. Ma sapevano tutti che le spese necessarie a mantenere Dunkerque erano frivole, di fronte alle somme che nella Corte dissipavansi in vizi e follie. E’ pareva cosa da non potersi patire, che un sovrano smisuratamente prodigo in tutto ciò che spettava ai propri piaceri, dovesse mostrarsi avaro in tutto ciò che spettava alla sicurezza ed all’onore dello Stato. Il pubblico malcontento si fece maggiore allorquando si conobbe che, mentre Dunkerque erasi abbandonata sotto pretesto d’economia, la fortezza di Tangeri, la quale era parte della dote della Regina Caterina, fu riparata ed armata con enormi spese. Tangeri non racchiudeva memorie gradite all’orgoglio nazionale; non poteva in nessun modo promuovere gl’interessi della nazione; avvolgeva il paese in una guerra ingloriosa, non proficua e interminabile, con le semiselvagge tribù de’ Mussulmani; ed era posta in un clima grandemente nocivo alla sanità ed al vigore della razza inglese. XVIII. Ma le mormorazioni provocate da cotesti falli erano deboli, in agguaglio de’ clamori che scoppiarono appena il Governo ebbe dichiarata la guerra alle Provincie Unite. La Camera de’ Comuni sollecitamente votò somme di danaro senza esempio nella nostra storia, somme superiori a quelle che erano bastate a mantenere le flotte e le armate di Cromwell nel tempo in cui il suo potere faceva tremare tutto il mondo. Ma fu tanta la stravaganza, la disonestà, la incapacità de’ suoi successori, che siffatta liberalità riuscì peggio che inutile. Gli adulatori di Corte, inetti a contendere contro i grandi uomini che allora comandavano le armi olandesi, contro un uomo di Stato come De Witt, e contro un capitano come De Ruytor, impinguaronsi con subiti guadagni; mentre i marinai ammutinavansi per fame, gli arsenali rimanevano senza guardie, e le navi erano sdrucite e prive di arnesi. In fine, fu risoluto di abbandonare ogni pensiero di guerra offensiva; ma subito fu a tutti manifesto, che anche una guerra difensiva era soma troppo grave per il Governo. La flotta olandese si spinse su pel Tamigi, ed incendiò le navi da guerra che stavano ancorate a Chatham. Si sparse la voce che in quello stesso giorno in cui l’onore inglese rimase umiliato, il Re gozzovigliava con le femmine del suo serraglio, e svagavasi dando la caccia ad una farfalla dentro la sala da cena. Allora e’ fu che tarda giustizia venne resa alla memoria d’Oliviero. In ogni dove magnificavasi il valore, lo ingegno, l’amor patrio di lui. In ogni dove rammentavasi come, lui governante, tutti i potentati stranieri tremassero al nome della Inghilterra; come gli Stati Generali, adesso così altieri, gli si fossero rispettosamente inchinati: ed appena si conobbe ch’ei più non era, la città d’Amsterdam venisse tutta illuminata quasi in segno di liberazione, e i fanciulli corressero attorno i canali gridando con gioia che il Diavolo era morto. Anche i realisti esclamavano che lo Stato non poteva salvarsi, se non chiamando sotto le armi i vecchi soldati della Repubblica. Tosto la metropoli cominciò a provare le miserie dell’assedio. Mancavano i combustibili. Il forte di Tilbury, luogo d’onde Elisabetta aveva scherniti gli oltraggi di Parma e di Spagna, venne insultato dagl’invasori. I cittadini di Londra, per la prima ed ultima volta, udirono il rimbombo de’ cannoni forestieri. Venne proposto in Consiglio di abbandonare la Torre, qualora il nemico si spingesse innanzi. Grosse torme di popolo accalcavano nelle strade gridando che l’Inghilterra era venduta. Le case e i cocchi de’ Ministri furono aggrediti dalla plebaglia; e il Governo temeva di dovere combattere a un tempo la invasione e la insurrezione. Vero è che lo estremo pericolo durò poco. Venne concluso un trattato assai diverso da quelli ai quali Oliviero aveva costume di apporre la firma; e la nazione riebbe la pace, ma il suo contegno fu poco meno minaccioso e tristo di quello che aveva mostrato nei giorni della imposta per mantenere la flotta. I mali umori generati dalla pessima amministrazione, furono accresciuti da calamità che la migliore amministrazione non avrebbe potuto scansare. Mentre inferociva la guerra ignominiosa con la Olanda, Londra patì due disastri gravi che, in tempo si breve, non afflissero mai tanto città nessuna. Una pestilenza, assai più orribile di qualunque altra nello spazio di tre secoli avesse visitata l’isola, mietè in sei mesi centomila e più creature umane; ed appena i carri mortuari avevano cessato di andare attorno, quando un incendio, quale non s’era mai veduto in Europa dopo il bruciamento di Roma sotto Nerone, ridusse in rovine la città tutta quanta, dalla Torre fino al Tempio, e dal fiume sino a Smithfield. XIX. Se, mentre la nazione travagliavasi fra tante sciagure e tante umiliazioni, vi fosse stata una elezione generale, le Teste–Rotonde avrebbero probabilmente riacquistata la preponderanza nello Stato. Ma il Parlamento era tuttavia popolato di Cavalieri, eletti nello entusiasmo della lealtà che aveva seguita la Restaurazione. Nondimeno, tosto fu noto a tutti che nessuna Legislatura Inglese, leale quanto si volesse, si terrebbe paga d’essere ciò che la Legislatura era stata sotto i Tudors. Dalla morte d’Elisabetta fino alla vigilia della guerra civile, i Puritani che predominavano nel corpo rappresentativo, avevano sempre più, destramente adoperando il potere della borsa, usurpato nel campo del Potere Esecutivo. I gentiluomini, i quali, dopo la Restaurazione, sedevano nella Camera Bassa, comecchè abborrissero il nome de’ Puritani, erano lieti di avere raccolti i frutti della politica puritana. Certo, desideravano molto di valersi del potere che esercitavano nello Stato, onde rendere il Re potente e rispettato dentro il Regno e fuori: ma erano determinati a non lasciarsi privare di tale potere. La grande rivoluzione inglese del secolo decimosettimo, val quanto dire il trapasso del supremo sindacato dell’amministrazione esecutiva dalla Corona alla Camera de’ Comuni, procedette, durante la lunga esistenza di quel Parlamento, con rapidità e fermezza. Carlo, impoverito da’ suoi vizi e dalle sue follie, aveva mestieri di danari, e non poteva procacciarsene se non per concessione de’ Comuni; ai quali non poteva impedirsi di porre a prezzo le loro concessioni. Il prezzo che vi posero fu questo, che venisse loro conceduto d’immischiarsi in ciascuna delle prerogative del Re; di forzarlo ad approvare le leggi che a lui spiacessero; licenziare Ministeri; dettare la condotta da tenersi nella politica estera, ed anche dirigere l’amministrazione della guerra. All’ufficio ed alla persona del Re professavansi altamente affettuosi e devoti. Ma ricusavano di obbedire a Clarendon, e gli si scagliarono contro, con furore pari a quello con che i loro predecessori avevano tempestato Strafford. XX. Le virtù e i vizi di quel Ministro cooperarono alla sua ruina. Era il capo apparente dell’amministrazione, e quindi veniva considerato mallevadore anche di quegli atti ai quali fortemente, ma invano, erasi opposto in Consiglio. I Puritani, e tutti coloro che ne sentivano pietà, lo reputavano qual bacchettone implacabile, un secondo Laud, fornito di maggiore intelligenza. Aveva sempre sostenuto che l’Atto d’Indennità dovesse rigorosamente osservarsi; ed in ciò la sua condotta, quantunque fosse per lui singolarmente onorevole, lo rese odioso a tutti quei realisti, i quali bramavano di rifarsi delle perdite sostenute nelle sostanze, citando le Teste–Rotonde a pagare i danni. I Presbiteriani di Scozia gli attribuivano la caduta della loro Chiesa. I Papisti d’Irlanda lo addebitavano della perdita delle loro terre. Come padre della Duchessa di York, aveva cagione a desiderare che la Regina fosse sterile; e però cadde in sospetto di avere proposta al Re una sposa che non poteva dargli prole. La vendita di Dunkerque venne a lui giustamente ascritta. Con meno giustizia gli chiedevano ragione della guerra con la Olanda. La sua indole accensibile, l’arrogante contegno, la impudente avidità di ricchezze, la ostentazione con che le profondeva, la sua pinacoteca piena dei capolavori di Vandyke che un tempo avevano adornate le sale degli impoveriti Cavalieri, il suo palagio che spiegava una lunga e magnifica facciata di contro alla reggia di più umile aspetto, gli provocarono contro molte meritate e non meritate censure. Quando la flotta olandese era nelle acque del Tamigi, la rabbia del popolaccio si scagliò precipuamente contro il Cancelliere. Gli ruppero le finestre, gli devastarono il giardino, e inalzarono una forca dinanzi alla sua casa. Ma in nessun luogo era tanto detestato, quanto nella Camera de’ Comuni. Non vedeva come celeremente si approssimasse il tempo in cui la Camera, seguitando ad esistere, diventerebbe il potere supremo nello Stato; il governarla sarebbe la parte più importante della politica; e senza l’aiuto di uomini che padroneggiassero le orecchie di cotesta Camera, sarebbe impossibile tirare innanzi il Governo. Ei persisteva ostinatamente a considerare il Parlamento come un corpo in nulla diverso da quello che esisteva quaranta anni innanzi, allorchè egli si pose a studiare Diritto nel Tempio. Non intendeva a privare la legislatura de’ poteri ad essa inerenti secondo l’antica Costituzione del Regno; ma il nuovo esplicamento di cosiffatti poteri, quantunque fosse naturale, inevitabile, e da non potersi fermare se non se distruggendoli affatto, spiacevagli e lo metteva in paura. Niuna cosa lo avrebbe indotto ad apporre il gran sigillo a un decreto fatto ad esigere la imposizione per le navi, o votare in Consiglio di chiudere dentro la Torre un membro del Parlamento, reo di avere liberamente favellato in una discussione: ma quando la Camera de’ Comuni cominciò a voler sapere in che modo il denaro votato per la guerra era stato speso, e togliere ad esame la pessima amministrazione della flotta, egli arse di sdegno. Tale esame, secondo lui, era fuori delle attribuzioni della Camera. Ammetteva che essa era una Assemblea lealissima, che aveva resi buoni servigi alla Corona, e che le sue intenzioni erano ottime; ma, tanto in pubblico quanto in privato, ei coglieva ogni destro per manifestare la propria inquietudine nel vedere gentiluomini così affettuosi della Monarchia, invadere sconsigliatamente le prerogative del Monarca. Diceva che, comunque lo spirito loro differisse grandemente da quello de’ membri del Lungo Parlamento, nulladimeno gli imitavano mestando in cose che stavano oltre la sfera degli Stati del reame, ed erano soggette all’autorità sola della Corona. Affermava che il paese non sarebbe mai governato convenevolmente, finchè i rappresentanti delle Contee e de’ borghi non fossero paghi di essere ciò che i loro predecessori erano stati nei tempi di Elisabetta. Respinse sdegnosamente, come indigesti progetti, incompatibili con l’antica politica inglese, tutti que’ disegni che uomini assai più di lui conoscitori de’ sociali bisogni proponevano a fine di mantenere la buona intelligenza tra la Corte e i Comuni. Il suo contegno verso gli oratori giovani che andavano acquistando reputazione ed autorità nella Camera Bassa, era sgraziato: gli riuscì di renderseli, forse senza eccettuarne nè anche un solo, mortali nemici. A vero dire, uno de’ suoi falli più gravi fu lo stemperato dispregio ch’egli affettava per la gioventù; dispregio tanto meno giustificabile, in quanto la esperienza che aveva nella politica inglese non era affatto proporzionata alla età sua. Imperciocchè era vissuto tanti anni lungi dalla patria, ch’ei conosceva la società fra mezzo alla quale trovossi appena ritornato, meno di quanto la conoscessero molti uomini che avrebbero potuto essergli figli. Per tali ragioni, la Camera de’ Comuni non lo poteva patire; mentre per ragioni assai diverse ei non piaceva alla Corte. La sua morale, non che la sua politica, erano quelle della precedente generazione. Anco quando studiava Diritto, vivendo in compagnia di giovani amanti del brio e de’ piaceri, la sua gravità naturale e i suoi principii religiosi lo avevano preservato dal contagio delle dissolutezze in voga: non era, dunque, verosimile che negli anni maturi diventasse libertino. I vizi degli allegri giovani ei guardava con quasi tanta avversione acre e sprezzante, quanta ne sentiva per gli errori teologici de’ settari. Non lasciava mai fuggire il destro di schernire i mimi, i folleggianti e i cortigiani che riempivano la reggia; e gli ammonimenti che dava al Re stesso erano molto pungenti, e—il che anco più spiaceva a Carlo—molto prolissi. Nè anche una voce levossi a difendere un Ministro colpito dall’odio dei falli che provocavano il furore del popolo, e da quello delle virtù che tornavano moleste e importune al sovrano. Southampton non era più. Ormond compì i doveri d’amicizia con energia e fedeltà, ma invano. Il Cancelliere fu avvolto in una grande rovina. Il Re gli tolse i sigilli; la Camera de’ Comuni lo pose in istato d’accusa; la sua vita non rimase sicura; ei fuggì dal paese; un editto lo dannava ad esilio perpetuo; e coloro che lo avevano assalito, minandogli il terreno di sotto ai piedi, si misero a contendere per dividersi le spoglie del caduto. Il sacrificio di Clarendon ammorzò un poco la sete di vendetta che ardeva nel popolo. Nondimeno, l’ira sua, rieccitata dalla profusione e dalla negligenza del Governo, e dalla pessima condotta della ultima guerra, non era per nulla spenta. I consiglieri di Carlo, tenendo dinanzi agli occhi la miseranda sorte del Cancelliere, trepidavano per la propria sicurezza. Avvertirono, quindi, il loro signore a calmare la irritazione che prevaleva nel Parlamento e per tutto il paese, ed a tal fine appigliarsi ad un provvedimento che non ha nulla di simile nella storia degli Stuardi, e che era degno della prudenza e magnanimità d’Oliviero. XXI. Siamo adesso pervenuti ad un punto, in cui la storia della grande rivoluzione inglese principia a complicarsi con la storia della politica straniera. La potenza spagnuola veniva, da molti anni, volgendo in basso. Egli è vero che possedeva tuttavia in Europa il Milanese, le Due Sicilie, il Belgio e la Franca Contea; e che in America i suoi dominii distendevansi da ambi i lati dello equatore, al di là de’ confini della zona torrida. Ma cotesto grande corpo era stato colpito da paralisi, e non solo era incapace di molestare gli altri Stati, ma non valeva, senza l’altrui soccorso, a respingere l’aggressione. La Francia, senza nessun dubbio, era la più grande delle Potenze europee. I suoi mezzi d’allora in poi sono venuti sempre crescendo, ma non così celeremente come quelli dell’Inghilterra. È uopo rammentare, che centottanta anni fa, lo Impero di Russia era affatto fuori del sistema politico d’Europa, al pari dell’Abissinia o del Siam; che la casa di Brandeburgo era appena più potente di quella di Savoia; e che la Repubblica degli Stati–Uniti non esisteva affatto. La potenza francese quindi, benchè tuttora sia considerevole, è relativamente scemata. Il suo territorio ai tempi di Luigi XIV non era esteso come ai dì nostri; ma era grande, unito, fertile, bene adatto all’offesa ed alla difesa, posto sotto un bel clima, e popolato da genti valorose, operose ed industri. Lo Stato era implicitamente retto da una sola mente suprema. I grandi feudi, che, trecento anni avanti, erano in tutto, tranne nel nome solo, principati indipendenti, erano stati annessi alla Corona. Solo pochi vecchi potevano rammentarsi dell’ultima ragunanza degli Stati Generali. La resistenza che gli Ugonotti, i Nobili e i Parlamenti avevano opposta al regio potere, era stata annientata da’ due grandi Cardinali, che per lo spazio di quaranta anni avevano governata la nazione. Il Governo era un pretto dispotismo; ma, almeno verso le classi elevate, dispotismo mite e generoso, e temperato da modi cortesi e da sentimenti cavallereschi. I mezzi de’ quali poteva disporre il Sovrano, erano per quell’età veramente formidabili. La sua rendita, riscossa, a dir vero, per mezzo di tassazioni severe ed ineguali, che pesavano gravemente sopra i coltivatori del suolo, sorpassava d’assai quella d’ogni altro potentato. Il suo esercito, egregiamente disciplinato e comandato dai più grandi Generali che allora vivessero, era già composto di centoventi e più mila uomini. Tanto numero di truppe regolari non s’era mai veduto in Europa, dalla caduta dello Impero Romano in poi. Tra le Potenze marittime, la Francia non era la prima. Ma, comecchè avesse rivali, non era inferiore a nessuna. Era tale la sua forza negli ultimi quaranta anni del secolo decimosettimo, che nessun nemico poteva da sè solo resisterle; e due grandi coalizioni, nelle quali mezza la Cristianità le moveva contro, non ebbero prospero successo. XXII. Le doti personali del Re francese accrescevano il rispetto che veniva ispirato dal potere e dalla importanza del suo reame. Non vi fu mai Sovrano che rappresentasse con più dignità e grazia la maestà d’un grande Stato. Egli era il suo proprio primo Ministro, e, compiva i doveri di quell’arduo ufficio con tale abilità ed industria, che non potevano a ragione aspettarsi in un uomo che fino dalla infanzia aveva portata la Corona, ed era stato circondato da una folla d’adulatori innanzi che fosse in istato di parlare. Aveva mostrato di possedere in grado eminente due pregii inestimabili in un principe: lo ingegno, cioè, di scegliere i suoi servi; e quello di addossare a sè stesso la parte precipua del credito degli atti loro. Nelle relazioni co’ potentati stranieri fu alquanto generoso, ma non mai giusto. Agli alleati infelici, i quali gettavansi ai suoi piedi, e non avevano altra speranza che nella sua commiserazione, largì la propria protezione con disinteresse romantico, che sembrava meglio convenire ad un cavaliere errante, che ad un uomo di Stato. Ma ruppe senza scrupolo o vergogna i vincoli più sacri della fede pubblica, ogni qualvolta essi toccavano il suo interesse, o ciò che egli chiamava sua gloria. La sua perfidia e violenza, nondimeno, eccitavano meno inimicizia di quello che facesse la insolenza con che rammentava di continuo ai vicini la sua grandezza e la piccolezza loro. In quel tempo non era caduto in quell’austera divozione, la quale poscia dette alla sua Corte la sembianza d’un monastero. Era invece licenzioso, benchè non così frivolo ed indolente, come il suo confratello d’Inghilterra. Era sinceramente cattolico romano; e la coscienza e la vanità sue lo spingevano a adoperare la propria possanza onde difendere e propagare la vera fede, secondo lo esempio de’ suoi famosi predecessori, Clodoveo, Carlomagno e San Luigi. I nostri antichi consideravano con grave sospizione la crescente potenza della Francia. Tale sentimento, in sè perfettamente ragionevole, era misto ad altri meno degni di lode. La Francia era nostra vecchia nemica. Contro essa erano state combattute le battaglie più famose di cui facessero ricordo gli annali nostri. Il conquisto della Francia era stato due volte fatto dai Plantageneti. La perdita della Francia era stata lungo tempo rammentata come un grande disastro nazionale. Del titolo di Re di Francia seguitavano ad insignirsi i nostri Sovrani. I gigli di Francia apparivano commisti coi nostri Leoni sull’arme della Casa degli Stuardi. Nel secolo sedicesimo il timore ispirato dalla Spagna aveva sospesa l’animosità alla quale dapprima era stato obietto la Francia. Ma la paura fattaci dalla Spagna era terminata in una sprezzante commiserazione; e la Francia venne nuovamente considerata come nostra nemica nazionale. La vendita di Dunkerque fatta alla Francia, era stata l’atto più impopolare della Monarchia restaurata. L’affetto verso la Francia era uno de’ principali delitti di che la Camera de’ Comuni accusava Clarendon. Perfino nelle inezie mostravasi il pubblico sentire. Quando nelle strade di Westminster seguì un tafferuglio tra i familiari della Legazione Francese e quei della Spagnuola, la plebaglia, comecchè dalla forza fosse impedita d’immischiarvisi, aveva dati manifestissimi segni che provavano come il vecchio abborrimento vivesse tuttavia. La Francia e la Spagna erano allora ravvolte in una gravissima contesa. Uno de’ fini precipui della politica di Luigi, fine al quale egli tenne dietro per tutta la sua vita, era quello di estendere i suoi dominii sino al Reno. A tale scopo aveva mossa guerra alla Spagna, e già proseguiva prosperamente le proprie conquiste. Le Provincia Unite vedevano con timore il progresso delle armi francesi. Quella rinomata Confederazione era pervenuta ad altezza di possanza, prosperità e gloria. Il territorio batavo, contrastato alle onde marine, e difeso contro esse dall’arte dell’uomo, era per estensione poco più del Principato di Galles. Ma tutto quello angusto spazio era una specie di operoso ed affollato alveare, in cui ogni giorno producevansi ricchezze nuove, ed accumulavansi in vaste masse le antiche. Lo aspetto dell’Olanda, la ricca coltivazione, gl’innumerevoli canali, i molini sempre in attività, lo infinito numero di barche, le grandi città sparse a poca distanza l’una dall’altra, i porti affollati di migliaia di navi, i grandi e maestosi edifizi, le ville eleganti, gli appartamenti splendidamente addobbati, le gallerie di pitture, le logge, i campi fioriti di tulipani, producevano nell’animo de’ viaggiatori inglesi di que’ giorni lo effetto che ai nostri produce la vista dell’Inghilterra nella mente di un abitatore della Norvegia o del Canadà. Gli Stati Generali furono costretti ad umiliarsi al cospetto di Cromwell. Ma dopo la Restaurazione, presero la rivincita, guerreggiando prosperamente contro Carlo, e concludendo una pace a patti onorevoli. Per quanto ricca, però, fosse la Repubblica ed altamente rispettata in Europa, non poteva resistere alla potenza di Luigi. Sospettava, non senza cagione, che il Regno Francese si potesse estendere fino ai batavi confini, ed aveva da temere la immediata vicinanza di un monarca così grande, ambizioso e scevro di scrupoli. Eppure, non era cosa facile trovare un espediente che potesse allontanare il pericolo. I soli Olandesi non potevano far traboccare la bilancia contro la Francia. Dalla parte del Reno non erano da aspettarsi aiuti nessuni. Alcuni Principi germanici s’erano fatti parteggiatori di Luigi, e lo stesso Imperatore tenevano impacciato i malcontenti degli Ungheri. La Inghilterra era separata dalle Provincie Unite per la rimembranza de’ danni crudeli di recente inflitti e patiti; e la sua politica, dopo la Restaurazione, era stata cotanto scema di saviezza e di spirito, che era appena possibile lo sperarne un valido aiuto. Ma la sorte di Clarendon, e i crescenti malumori del Parlamento, spinsero i consiglieri di Carlo a adottare repentinamente una politica che maravigliò ed empì di gioia la nazione. XXIII. Sir Guglielmo Temple, agente inglese in Brusselles, uno dei più esperti diplomatici e de’ più dilettevoli scrittori di quell’età, aveva già fatto sapere alla propria Corte, come fosse desiderabile ed insieme agevole trattare cogli Stati Generali, onde far fronte al progresso della Francia. Per un certo tempo le sue suggestioni erano state poste in non cale; ma adesso fu reputato utile seguirle. A lui, dunque, fu commesso di negoziare cogli Stati Generali. Si condusse all’Aja, e tosto s’accordò con Giovanni De Witt, che allora era primo Ministro d’Olanda. La Svezia, per quanto piccoli fossero i suoi mezzi, erasi quaranta anni innanzi, mercè il genio di Gustavo Adolfo, innalzata ad eminente grado fra i potentati europei, e non era per anche discesa alla sua naturale posizione. Nella riferita occasione, essa venne indotta a collegarsi alla Inghilterra ed agli Stati. In tal guisa formossi quella coalizione conosciuta sotto il nome di Triplice Alleanza. Luigi mostrò d’esserne vessato, e di provarne risentimento; ma non reputò atto di sana politica il tirarsi addosso le ostilità d’una tanta confederazione, che aggiungevansi a quelle della Spagna. Assentì quindi ad abbandonare una gran parte del territorio occupato dall’armi sue. L’Europa riebbe la pace, e il Governo Inglese, che poco innanzi era universalmente spregiato, venne per pochi mesi considerato dalle Potenze straniere con rispetto quasi uguale a quello che il Protettore aveva ad esse ispirato. Dentro lo Stato, la Triplice Alleanza era oltremodo popolare, come quella che ad un tempo satisfaceva l’animosità nazionale, e il nazionale orgoglio. Poneva un confine alle usurpazioni d’un potente ed ambizioso vicino. Avvincolava in istretta unione i principali Stati protestanti. Le Teste–Rotonde e i Cavalieri ne gioivano egualmente: ma la gioia degli uni era maggiore di quella degl’altri; imperciocchè la Inghilterra erasi intimamente collegata con un paese di governo repubblicano e di religione presbiteriana, contro un paese retto da un principe arbitrario, ed affezionato alla Chiesa Cattolico–Romana. La Camera de’ Comuni plaudì clamorosamente al trattato; ed alcuni mormoratori non cortigiani lo chiamarono l’unico atto lodevole che il Re avesse mai fatto, dopo la ristaurazione del trono. XXIV. Il Re, nulladimeno, davasi poco pensiero dell’approvazione del Parlamento o del popolo. Considerava la Triplice Alleanza solo come un espediente temporaneo a calmare il malcontento, che accennava di farsi grave. La indipendenza, la sicurtà, la dignità della nazione alla quale ei presedeva, erano nulla agli occhi suoi. Aveva cominciato a trovare incomode le limitazioni costituzionali. Erasi già formata nel Parlamento una forte colleganza, conosciuta sotto il nome di partito patriottico. Comprendeva tutti gli uomini pubblici che inchinavano alla repubblica e al puritanismo, e molti altri i quali, quantunque aderenti alla Chiesa stabilita e alla Monarchia ereditaria, erano stati tratti alla opposizione dalla paura del papismo, dalla paura della Francia, e dal disgusto che sentivano della stravaganza, dissolutezza e perfidia della Corte. La potenza di cotesta legione di uomini politici andava ognora crescendo. Ciascun anno, alcuni di que’ rappresentanti che erano stati rieletti durante lo entusiasmo di lealtà del 1661, tiravansi da parte, e i seggi vacanti venivano generalmente occupati da individui meno docili. Carlo non estimavasi vero Re, finchè un’Assemblea di sudditi poteva chiamarlo al rendimento de’ conti, innanzi che egli avesse pagati i suoi debiti, ed insistere onde conoscere quale delle sue amanti o de’ suoi cortigiani si fosse appropriata la pecunia destinata ad equipaggiare la flotta. Comecchè egli non fosse molto studioso della propria reputazione, sentiva molestia degli insulti che talora gli lanciavano nelle discussioni della Camera de’ Comuni; ed una volta tentò d’infrenare, con mezzi vergognosi, la libertà della parola. Sir Giovanni Coventry, gentiluomo di provincia, aveva in una discussione schernite le dissolutezze della Corte. In qualunque de’ regni antecedenti, sarebbe stato, probabilmente chiamato avanti al Consiglio Privato, e imprigionato dentro la Torre. Adesso il Governo procedè in modo diverso. Una banda di sicari fu di soppiatto mandata a tagliare il naso al colpevole. Cotesta schifosa vendetta, invece di domare lo spirito della opposizione, eccitò tale procella, che il Re fu astretto a sobbarcarsi alla crudele umiliazione di approvare uno Statuto di morte infamante che colpiva i ministri della sua vendetta, e che gli tolse dalle mani il potere di perdonarli. Ma, per quanto fosse impaziente del freno costituzionale, in che guisa poteva egli emanciparsene? Poteva rendersi dispotico soltanto con lo aiuto di un grande esercito stanziale, e siffatto esercito non esisteva. Con le sue rendite poteva, a dir vero, mantenere un certo numero di milizie regolari; ma esse, comunque fossero tante da eccitare gelosia e sospetto nella Camera de’ Comuni e nel paese, bastavano appena a proteggere Whitehall e la Torre contro una insurrezione della plebe di Londra. E v’era ragione di temere simiglianti insurrezioni, poichè sapevasi pur troppo, che nella città e ne’ suburbii esistevano non meno di ventimila de’ vecchi soldati d’Oliviero. XXV. Poichè il Re ebbe stabilito di emanciparsi dal sindacato del Parlamento, e poichè a tanta impresa non poteva sperare aiuti dentro lo Stato, reputò necessario procacciarseli fuori. La potenza e ricchezza della Francia erano bastevoli all’ardua prova di stabilire la monarchia assoluta in Inghilterra. Cosiffatto alleato doveva indubitabilmente aspettarsi segni di gratitudine per un tanto servigio. Era, però, mestieri che Carlo scendesse al grado di un grande vassallo, e facesse guerra o pace ad arbitrio del Governo che lo proteggeva. Le sue relazioni con Luigi sarebbero state strettamente simili a quelle in che il Rajah di Nagpore e il Re di Oude oggidì stanno verso il Governo Inglese. Cotesti principi hanno debito di aiutare la Compagnia delle Indie Orientali in ogni ostilità difensiva ed offensiva, e di non avere altre relazioni diplomatiche che quelle le quali vengono sanzionate dalla predetta Compagnia. Questa, in compenso, li assicura contro ogni insurrezione. Fino a che essi fedelmente adempiono agli obblighi loro verso il potere sovrano, hanno licenza di disporre di grosse rendite, empire i loro palagi di belle donne, abbrutirsi in compagnia de’ loro dissoluti cortigiani, ed opprimere impunemente qualunque de’ sudditi diventi segno all’ira loro. Simigliante vita sarebbe insoffribile ad un uomo di spirito altero e di potente intendimento. Ma a Carlo, uomo sensuale, pigro, inetto ad ogni forte opera di mente, e privo d’ogni sentimento di amor patrio e di dignità personale, quel prospetto di degradata esistenza non era niente spiacevole. Parrà cosa straordinaria che il Duca di York cooperasse al disegno di degradare la Corona, che probabilmente un giorno egli avrebbe portata: imperocchè la indole sua era altera ed imperiosa; e veramente, seguitò fino all’ultimo a mostrare, secondo che si presentava il destro, con risentimenti e lotte, come mal tollerasse il giogo francese. Ma la superstizione gli aveva deturpata l’anima tanto, quanto la indolenza e il vizio avevano corrotta quella del suo fratello. Giacomo era già cattolico romano. La bacchettoneria era diventata il sentimento predominante della sua mente angusta e inflessibile, ed erasi cotanto confusa con lo amore di governare, che le due passioni mal potevano l’una dall’altra distinguersi. E’ pareva molto improbabile che egli, senza aiuto straniero potesse ottenere il predominio o anche la tolleranza della sua propria fede; ed era siffattamente temprato, da non vedere nulla di umiliante in qualunque atto che valesse a giovare gl’interessi della vera Chiesa. Si iniziarono negoziati, che durarono parecchi mesi. Lo agente precipuo tra la Corte inglese e la francese fu la bella, graziosa ed accorta Enrichetta duchessa d’ Orleans, sorella di Carlo, cognata di Luigi, e caramente diletta ad entrambi. Il Re d’Inghilterra si profferse a dichiararsi cattolico romano, sciogliere la Triplice Alleanza, e collegarsi con la Francia contro la Olanda, ove la Francia gli apprestasse gli aiuti pecuniari e militari di che egli avesse mestieri per rendersi indipendente dal suo Parlamento. Luigi, in sulle prime, simulò di ricevere freddamente tali proposte, e infine accettolle col contegno di chi accordi un grande favore; ma veramente, la via per cui s’era messo era tale, ch’egli ci poteva sempre guadagnare, e non perdere. XXVI. Pare certo ch’egli non avesse mai avuto serio pensiero di stabilire il dispotismo e il papismo in Inghilterra con la forza delle armi. Doveva accorgersi che tanta impresa sarebbe stata ardua e rischiosa; che per anni molti avrebbe tenute occupate tutte le energie della Francia; e che sarebbe stata affatto incompatibile con altre e più praticabili idee d’ingrandimento, molto care al suo cuore. Avrebbe volentieri acquistato il merito e la gloria di rendere, a patti ragionevoli, un grande servigio alla sua propria Chiesa: ma era poco inchinevole a imitare i suoi antenati, i quali, ne’ secoli duodecimo e tredicesimo, avevano condotto il fiore della cavalleria francese a morire nella Siria e nello Egitto; e bene conosceva che una crociata contro il protestantismo in Inghilterra, non sarebbe stata meno pericolosa delle spedizioni in cui erano perite le milizie di Luigi VII e di Luigi IX. Non aveva cagione a desiderare che gli Stuardi fossero principi assoluti. Non considerava la Costituzione inglese con sentimento simile a quello che in tempi posteriori spinse i Principi a muovere guerra alle libere istituzioni de’ popoli vicini. Ai dì nostri, un gran partito zelante del Governo popolare, conta proseliti in ogni paese incivilito. Ogni vittoria ch’esso in qualunque luogo riporti, non manca di svegliare un generale commovimento. Non è quindi a maravigliare che i Governi, minacciati da un pericolo comune, concordino ad assicurarsi vicendevolmente. Ma nel secolo decimosettimo tale periglio non esisteva. Tra il pubblico sentire dell’Inghilterra e il pubblico sentire della Francia, era un abisso. Le nostre istituzioni e fazioni erano tanto poco intese in Parigi, quanto in Costantinopoli. È da dubitarsi se nè anche uno dei quaranta membri dell’Accademia Francese avesse nella propria biblioteca un solo libro inglese, e conoscesse solo di nome Shakspeare, Johnson o Spenser. Pochi Ugonotti, eredi dello spirito de’ proprii antenati, potevano forse consentire con le Teste–Rotonde, loro confratelli nella fede; ma gli Ugonotti più non erano formidabili. I Francesi, come corpo, affettuosi alla Chiesa di Roma, ed orgogliosi della grandezza del Re loro e della propria lealtà, guardavano le nostre lotte contro il papismo e il potere arbitrario, non solo senza ammirazione o simpatia, ma con forte disapprovazione e disgusto. Sarebbe, adunque, grave errore attribuire la condotta di Luigi a timori simili in tutto a quelli che, nell’età nostra, indussero la Santa Alleanza ad immischiarsi nelle faccende interne di Napoli e di Spagna. Ciò non ostante, le proposte fatte dalla Corte di Whitehall giunsero a Luigi gradite singolarmente. Meditava già i giganteschi disegni, che tennero poscia per quaranta anni in perpetuo commovimento tutta l’Europa. Voleva umiliare le Provincie Unite, ed incorporare ai propri dominii il Belgio, la Franca Contea e la Lorena. Nè ciò era tutto. Essendo il Re di Spagna un fanciullo malaticcio, era verosimile morisse senza prole. La sorella maggiore di costui era Regina di Francia. Era quasi certo arrivasse il giorno—e poteva arrivare presto—in cui la casa de’ Borboni avesse a produrre i suoi diritti a quel vasto Impero, sul quale il sole non tramontava giammai. La congiunzione di due grandi monarchie sotto una sola Corona, sarebbe senza alcun dubbio stata avversata da una coalizione continentale; per resistere alla quale il solo braccio della Francia bastava. Ma l’Inghilterra poteva far traboccare la bilancia. Dalla parte da che l’Inghilterra si sarebbe messa in tale occasione, dipendevano i destini del mondo; ed era a tutti manifesto, che il Parlamento e la nazione inglese aderivano fortemente alla politica che aveva dettata la Triplice Alleanza. Nulla, quindi, poteva essere tanto grato a Luigi, quanto il sapere che i principi della casa degli Stuardi avevano mestieri del suo aiuto, ed erano vogliosi di acquistarlo a prezzo di illimitata sottomissione. Deliberato di giovarsi del destro, formò per uso proprio un sistema d’azione, dal quale non si scostò mai, finchè sopraggiunse la rivoluzione del 1688 a sconcertargli ogni politico disegno. Si confessò desideroso di compiacere alla Corte inglese; promise grandi aiuti. Di quando in quando ne largì tanti, quanti servissero a tenere viva la speranza, e quanti ne potesse senza rischio o inconvenevolezza offerire. In tal guisa, con una spesa molto minore di quella ch’egli sostenne a erigere e decorare Versailles e Marli, gli riuscì di rendere la Inghilterra, per circa venti anni, parte quasi così frivola del sistema politico europeo, come lo è, a’ giorni nostri la Repubblica di San Marino. Era suo scopo non già distruggere la nostra Costituzione, ma tenere i vari elementi onde era composta, in perenne conflitto, e rendere irreconciliabilmente nemici coloro che avevano il potere della borsa, e coloro che avevano il potere della spada. A tal fine, comperava ed irritava a vicenda ambe le parti; pensionava, nel tempo stesso, i Ministri della Corona e i capi della opposizione; incoraggiava la Corte ad opporsi alle usurpazioni sediziose del Parlamento; e faceva spargere nel Parlamento susurri intorno ai disegni arbitrali della Corte. Uno degli espedienti ai quali appigliossi col proposito di predominare nei Consigli inglesi, è peculiarmente degno d’essere rammentato. Carlo, quantunque fosse incapace di sentire amore nel senso più alto del vocabolo, era schiavo d’ogni donna che con la beltà della persona eccitasse le voglie, e coi modi e con le ciarle allegrasse gli ozi di lui. Davvero, verrebbe meritamente deriso quel marito che soffrisse da una moglie d’alto lignaggio e d’intemerata virtù mezze le inscienze che il Re d’Inghilterra tollerava dalle sue concubine; le quali, mentre a lui solo andavano debitrici d’ogni cosa, carezzavano, quasi innanzi agli occhi suoi, i suoi cortigiani. Aveva pazientemente sopportato le sfrontate ire di Barbara Palmer, e la impertinente vivacità di Eleonora Gwynn. Luigi pensò che il più utile ambasciatore che egli potesse mandare a Londra, sarebbe stata una bella, licenziosa ed intrigante donna francese. La eletta fu Luisa, dama della casa di Querouaille, che i nostri rozzi antenati chiamavano Madama Carwell. Costei trionfò tosto di tutte le sue rivali, fu creata Duchessa di Portsmouth, colmata di ricchezze, ed ottenne un impero che finì con la vita di Carlo. XXVII. I patti più importanti dell’alleanza tra le due Corone, vennero formulati in un trattato secreto, che fu stipulato in Dover nel maggio del 1670, dieci anni dopo il giorno in cui Carlo era approdato a quel luogo medesimo fra le acclamazioni e le lacrime di gioia del troppo fidente popolo. Per virtù di tale trattato, Carlo obbligavasi a professare pubblicamente la religione cattolica romana; a congiungere le proprie armi con quelle di Luigi, onde distruggere il potere delle Provincie Unite; e adoperare le intere forze dell’Inghilterra, per terra e per mare, a sostegno de’ diritti della Casa de’ Borboni alla vasta Monarchia Spagnuola. Luigi, da parte sua, impegnavasi a pagare grossi sussidi; e prometteva che, qualora scoppiasse in Inghilterra una insurrezione, avrebbe mandata a proprie spese un’armata, onde sostenere il suo alleato. Cotesto patto fu fatto con tristi auspicii. Sei settimane dopo d’essere stato munito delle firme e de’ sigilli, la bella principessa, la cui influenza sopra il fratello e il cognato era stata così perniciosa alla propria patria, non era più. La sua morte fece nascere orribili sospetti, che per poco parvero volessero rompere l’amistà novellamente formata fra la Casa degli Stuardi e quella de’ Borboni; ma poco tempo dopo, i due confederati si dettero vicendevolmente nuove assicuranze di amichevoli intendimenti. Il Duca di York, così tardo d’ingegno da non sentire il pericolo, o così fanatico da non curarsene, era impaziente di veder mandato subito ad esecuzione lo articolo concernente la religione cattolica romana: ma Luigi ebbe la saviezza di prevedere che, se ciò fosse seguito, sarebbe in Inghilterra scoppiata tale esplosione, da frustrare probabilmente quelle parli del disegno le quali gli stavano più a cuore. Fu però stabilito che Carlo seguitasse a chiamarsi protestante, e a ricevere nelle grandi solennità la Comunione secondo il rituale della Chiesa Anglicana. Il suo fratello, più scrupoloso di lui, più non comparve nella Cappella Reale. Verso questo tempo mori la Duchessa di York, figlia del bandito Conte di Clarendon. Era stata per alcuni anni di soppiatto cattolica romana. Lasciò due figlie, Maria ed Anna, entrambe dipoi regine della Gran–Brettagna. Vennero educate protestanti per espresso comando del Re, il quale conosceva che sarebbe stato inutile a lui di confessarsi membro della Chiesa d’Inghilterra, se le due fanciulle che pareva dovessero succederli al trono, fossero, per licenza di lui, cresciute nel grembo della Chiesa di Roma. I principali servi della Corona in questo tempo erano uomini, i nomi de’ quali hanno meritamente acquistata non invidiabile celebrità. È d’uopo, nondimeno, studiarsi di non aggravare la memoria loro con la infamia che di diritto spetta al loro signore. Del trattato di Dover il Re stesso è principalmente responsabile. Egli tenne intorno a quello conferenze cogli agenti francesi; scrisse di propria mano molte lettere a quello spettanti; e’ fu colui che suggerì i più disonorevoli articoli che vi si contengono; e studiosamente ne nascose alcuni alla più parte de’ Ministri del suo Gabinetto, o, come veniva popolarmente chiamato, della sua Cabala. XXVIII. Poche cose nella nostra storia sono più curiose dell’origine e del progresso del potere che oggimai possiede il Gabinetto. Fino da tempi assai remoti, i Re d’Inghilterra sono stati assistiti da un Consiglio privato, al quale la legge assegnava non pochi importanti ufficii e doveri. Per alcuni secoli, questo Consiglio deliberò intorno ai più gravi e gelosi affari di Stato. Ma gradatamente venne cangiando d’indole. Diventò troppo numeroso per la speditezza delle faccende, o per serbare il segreto. Il grado di Consigliere privato era spesso conferito come onorificenza a uomini, ai quali il Governo non confidava nulla, e nè anche richiedeva la opinione. Il sovrano nelle più solenni occasioni rivolgevasi ad un ristretto numero di principali Ministri, onde averne consiglio. I vantaggi e svantaggi di siffatto modo di operare erano stati additati da Bacone, col suo consueto giudicio e sagacia; ma e’ non fu se non dopo la Restaurazione, che il Consiglio intimo cominciò ad attirare a sè l’attenzione universale. Per molti anni, i politici all’antica seguitarono a considerare il Gabinetto come un ufficio incostituzionale e pericoloso. Nulladimeno, divenne sempre più importante; ed alla perfine, si recò in mano quasi tutto il potere esecutivo, e venne poi ad essere estimato come parte essenziale del nostro ordinamento politico. Eppure, strano a dirsi! continua tuttora ad essere affatto sconosciuto alla legge. I nomi de’ nobili e de’ gentiluomini che lo compongono, non vengono mai officialmente annunciati al pubblico. Non si prende ricordo delle sue adunanze e deliberazioni; e la sua esistenza non è stata mai riconosciuta da nessun atto del Parlamento. XXIX. Per alcuni anni, il vocabolo Cabala venne comunemente usato come sinonimo di Gabinetto. Ma accadde per una fortuita coincidenza, che nel 1671 il Gabinetto fosse composto di cinque individui, nei nomi de’ quali le lettere iniziali formavano il vocabolo Cabala (_Cabal_): Clifford, Arlington, Buckingham, Ashley e Lauderdale. Questi Ministri furono, quindi, per enfasi chiamati la Cabala; e tosto resero quel nome così infame, che poscia non è stato mai usato se non in significato di riprovazione. Sir Tommaso Clifford era Commissario del Tesoro, e s’era reso grandemente notevole nella Camera de’ Comuni. Era il più rispettabile fra’ membri della Cabala, come quello che in una indole fiera ed imperiosa aveva un forte, quantunque miseramente pervertito, sentimento del dovere e dell’onore. Enrico Bennet, Lord Arlington, Segretario di Stato, aveva, fino dall’epoca in cui pervenne all’età d’uomo, passata la vita quasi sempre nel continente; ed aveva imparato quell’indifferentismo cosmopolitico verso le Costituzioni e le Religioni, che spesso si osserva negli individui che hanno spesi gli anni in una vagabonda diplomazia. Se vi era forma di Governo che a lui piacesse, ell’era quella di Francia. Se v’era Chiesa ch’egli preferisse, ella era quella di Roma. Aveva qualche ingegno nel conversare, ed anche nel trattare gli affari ordinari del suo ufficio. Nel corso d’una vita spesa a viaggiare e a far negoziati, aveva imparata l’arte di accomodare il linguaggio e il portamento all’indole della società fra mezzo alla quale ei si trovava. Con la vivacità, ne’ recessi della reggia, svagava il principe; con la gravità, nelle discussioni e nelle conferenze, imponeva riverenza al pubblico; e gli era riuscito di tirare a sè, in parte rendendo servigi, in parte dando speranze, un numero considerevole di partigiani. Buckingham, Ashley e Lauderdale, erano uomini de’ quali la immoralità, ch’era infezione epidemica ne’ politici di quei tempi, mostravasi ne’ suoi più maligni sembianti, ma variamente modificata da grandi varietà di tempra e d’intendimento. Buckingham, uomo sazio di piaceri, erasi dato all’ambizione quasi per passatempo. Come si era provato a svagarsi con lo studio dell’architettura e della musica, con lo scrivere farse e cercare la pietra filosofale; così ora si provava a svagarsi con un negoziato secreto, e con una guerra cogli Olandesi. Era già stato, più presto per volubilità e vaghezza di cose nuove, che per alcun profondo proposito, infido ad ogni partito. Un tempo erasi messo nelle file de’ Cavalieri. In un altro, erano corsi mandati d’arresto contro di lui, incolpato di mantenere corrispondenza proditoria colle reliquie del partito repubblicano nella città. Era nuovamente diventato cortigiano, e voleva acquistare il favore del Re con servigi, dai quali i più illustri di coloro che avevano pugnato e sofferto per la Casa Reale, avrebbero rifuggito compresi d’ orrore. Ashley, più testardo, e dotato di assai più feroce e solida ambizione, era stato parimente versatile. La versatilità di Ashley nasceva, però, non da leggerezza, ma da deliberato egoismo. Aveva serviti e traditi vari Governi; ma aveva adattati i suoi tradimenti così bene ai tempi, che, fra mezzo a tutte le rivoluzioni, s’era sempre venuto innalzando. La moltitudine, compresa d’ammirazione per una prosperità, la quale, mentre ogni altra cosa perpetuamente mutavasi, era rimasta immutabile, attribuiva a lui una prescienza pressochè miracolosa, ed assomigliavalo a quello ebreo uomo di Stato, che, come è scritto, veniva consultato dal popolo come l’oracolo di Dio. Lauderdale, chiassoso e triviale nella gioia e nella collera, era forse, sotto l’apparenza di una presuntuosa franchezza, l’uomo più disonesto della Cabala. Erasi reso cospicuo fra gl’insorgenti scozzesi del 1638, ed era zelante della Convenzione. Lo accusavano d’essere stato complice di coloro che avevano venduto Carlo I al Parlamento Inglese, ed era perciò dai Cavalieri reputato traditore, peggiore, s’era pur possibile, di quelli che avevano seduto nell’Alta Corte di Giustizia. Spesso parlava con ìstemperato scherzo dei giorni in cui egli era stato santocchio e ribelle. Ed ora la Corte se ne giovava come di precipuo strumento per imporre a forza il culto episcopale ai concittadini di lui; e in cosiffatto proposito, non abborrì dallo adoperare inesorabilmente la spada, il capestro e lo stivaletto.[18] Nondimeno, chi conoscevalo, sapeva bene che trenta anni di vicende non avevano prodotto il minimo cangiamento ne’ suoi veri sentimenti; che tuttavia egli odiava la memoria di Carlo I, e seguitava a preferire ad ogni altra forma di Governo ecclesiastico quella de’ Presbiteriani. Per quanto Buckingham, Ashley e Lauderdale, fossero scevri di scrupoli, non fu reputato prudente il farli partecipi dello intendimento che il Re aveva di dichiararsi cattolico romano. Fu loro mostrato un falso trattato, dove era omesso lo articolo concernente la religione. Al trattato genuino vennero apposti i soli nomi e sigilli di Clifford e d’Arlington. Ambidue questi uomini di Stato erano parziali della vecchia Chiesa: parzialità che, dopo non molto tempo, l’animoso e veemente Clifford confessò; mentre Arlington, più freddo e più codardo, la tenne nascosta, finchè lo avvicinarsi della morte, riempiendogli l’animo di terrore, lo indusse ad essere sincero. Gli altri tre Ministri, nondimeno, non erano uomini da essere tenuti agevolmente nel buio, ed è probabile che sospettassero più di quello che distintamente venne loro rivelato. Vero è che parteciparono alla confidenza di tutti gl’impegni politici contratti con la Francia, e non ebbero vergogna di ricevere da Luigi grosse gratificazioni. Primo obietto di Carlo era quello di ottenere dai Comuni danaro, onde giovarsene a mandare ad esecuzione quel secreto trattato. La Cabala, che imperava in un tempo in cui il nostro Governo era in istato di transizione, aveva in sè due specie diverse di vizii, pertinenti a due diverse età ed a due sistemi diversi. Come que’ cinque pessimi consiglieri erano fra gli ultimi uomini di Stato inglesi che seriamente pensassero a distruggere il Parlamento, così erano i primi uomini di Stato inglesi che si provassero grandemente a corromperlo. Troviamo nella loro politica gli ultimi vestigi del disegno di Strafford, e ad un tempo i vestigi primi della corruzione metodica che venne poscia praticata da Walpole. Non pertanto, si accorsero tosto, che quantunque la Camera de’ Comuni fosse principalmente composta di Cavalieri, e quantunque gl’impieghi e l’oro della Francia venissero largamente dispensati ai rappresentanti non eravi la minima probabilità che le parti meno odiose della trama ordita in Dover fossero sostenute dalla maggioranza. Era necessario adoperare la frode. Il Re, quindi, fece mostra di grande zelo a favore dei principii della Triplice Alleanza, e pretese che, a fine di infrenare l’ambizione della Francia, fosse necessario accrescere la flotta. I Comuni caddero nella rete, e votarono una somma di ottocentomila lire sterline. Il Parlamento venne subito prorogato, e la Corte, in tal modo emancipata da ogni sindacato, procedè a porre in opera il suo vasto disegno. XXX. Le strettezze finanziere erano assai gravi. Una guerra con la Olanda sarebbe costata somme enormi. La rendita ordinaria era appena sufficiente a sostenere il Governo in tempo di pace. Le ottocentomila lire sterline che erano state poco fa con inganno estorte ai Comuni, non sarebbero bastate alle spese militari e navali d’un solo anno di ostilità. Dopo il tremendo esempio dato dal Lungo Parlamento, nè anche la Cabala arrischiossi a consigliare i balzelli detti Benevolenze e Danaro per mantenere la flotta. In tale perplessità, Ashley e Clifford proposero un mezzo iniquo di violare la fede pubblica. Gli orefici di Londra erano allora non solo trafficanti di metalli preziosi, ma anche banchieri, ed avevano costume di prestare grandi somme di pecunia al Governo. A compensazione di coteste prestazioni, ricevevano assegnamenti sulla rendita; e riscosse le tasse, venivano loro pagati il capitale e gl’interessi. Circa un milione e trecentomila lire sterline erano state in siffatto modo affidate all’onore dello Stato; quando ecco corse, inatteso e repentino, lo annunzio che non essendo convenevole rendere i capitali, era d’uopo che i creditori si contentassero di ricevere gl’interessi. Non poterono, in conseguenza di siffatta misura, far fronte agli impegni contratti. La Borsa si mise sossopra: parecchie case mercantili fallirono; e lo spavento e la miseria si sparsero per tutta la società. Frattanto il Governo procedeva a passi rapidi verso il dispotismo. Succedevansi proclami che non avevano la sanzione del Parlamento, o imponevano ciò che il solo Parlamento poteva legalmente imporre. Di tali editti, il più importante fu quello che si chiama Dichiarazione d’Indulgenza, per virtù del quale le leggi penali contro i Cattolici Romani vennero abrogate; e perchè non apparisse chiaro il vero scopo di quell’atto, le leggi contro i Protestanti non–conformisti furono parimente sospese. XXXI. Pochi giorni dopo promulgata la Dichiarazione d’Indulgenza, fu proclamata la guerra contro le Provincie Unite. In mare gli Olandesi sostennero la lotta con onore; ma per terra furono in sulle prime oppressi da una forza irresistibile. Una grossa armata francese varcò il Reno. Le fortezze, una dopo l’altra, aprirono le porte. Tre delle sette provincie della Federazione furono occupate dagl’invasori. I fuochi degli accampamenti nemici vedevansi dalle cime del Palagio del Municipio d’Amsterdam. La Repubblica, in tal modo ferocemente assalita di fuori, era nel medesimo tempo lacerata dalle intestine discordie. Il Governo era nelle mani di una stretta oligarchia di potenti borghesi. Eranvi numerosi Consigli Municipali autonomi, ciascuno dei quali esercitava, dentro la propria sfera, molti diritti di sovranità. Cotesti Consigli mandavano delegati agli Stati Provinciali, e questi inviavano delegati agli Stati Generali. Un capo magistrato ereditario non era parte essenziale di tale sistema politico. Nonostante, una famiglia, singolarmente feconda di grandi uomini, aveva a poco a poco acquistata autorità vasta e pressochè indefinita. Guglielmo, primo di tal nome, Principe d’Orange Nassau, e Statoldero di Olanda, aveva capitanata la memorabile insurrezione contro la Spagna. Maurizio suo figlio era stato Capitano Generale e primo Ministro degli Stati; aveva, per mezzo delle maravigliose sue doti e degli eminenti servigi resi alla Repubblica, e di alcuni atti crudeli e proditorii, conseguito potere quasi di Re, e lo aveva in gran parte trasmesso in retaggio alla propria famiglia. La influenza degli Statolderi era obietto di estrema gelosia alla oligarchia municipale. Ma l’armata e la gran massa di cittadini esclusi da ogni partecipazione al Governo, guardavano i Borgomastri e i Deputati con astio simile a quello con che le legioni e il popolo comune di Roma guardavano il Senato, ed erano partigiani della Casa d’Orange come le legioni e il popolo comune di Roma parteggiavano per quella di Cesare. Lo Statoldero comandava le forze della Repubblica, disponeva di tutti i gradi militari, possedeva in gran parte il patronato degli uffici civili, ed era circondato da pompa pressochè regia. Il Principe Guglielmo II aveva fortemente avversato il partito oligarchico. Finì di vivere nel 1650, fra mezzo alle lotte civili. Non lasciò figliuoli: gli aderenti alla sua Casa rimasero per alcun tempo privi di capo; e i poteri ch’egli aveva esercitati, furono divisi fra i Consigli Municipali, gli Stati Provinciali e gli Stati Generali. Ma, pochi giorni dopo la morte di Guglielmo, la sua vedova Maria, figlia di Carlo I Re della Gran Brettagna, partorì un figlio destinato ad innalzare la gloria e l’autorità della Casa di Nassau al più alto grado, a salvare dalla schiavitù le Provincie Unite, a domare la potenza della Francia, e a stabilire la Costituzione inglese sopra fondamenti solidi e duraturi. XXXII. Questo Principe, ch’ebbe nome Guglielmo Enrico, fin dal suo nascere fu cagione di gravi timori al partito che allora governava in Olanda, e di sincero affetto ai vecchi amici della sua famiglia. Era altamente riverito come possessore di uno splendido patrimonio, come capo di una delle più illustri Case d’Europa, come Principe Sovrano dello Impero Germanico, come Principe del sangue reale d’Inghilterra, e soprattutto come discendente de’ fondatori della batava libertà. Ma l’alto ufficio che già veniva considerato siccome ereditario nella sua famiglia, rimase sospeso; ed era intendimento della parte aristocratica, che non avesse ad esserci mai più un altro Statoldero. Al difetto del primo Magistrato supplì, in gran parte, il Gran Pensionario della Provincia d’Olanda, Giovanni De Witt, che per ingegno, fermezza ed integrità, erasi innalzato ad autorità senza rivali ne’ Consigli della oligarchia municipale. La invasione francese produsse un intero cangiamento. Il popolo, afflitto ed atterrito, arse di rabbia contro il Governo. Nella sua frenesia, aggredì i più valorosi Capitani e i più esperti uomini di Stato della travagliata Repubblica. De Ruyter venne insultato dalla marmaglia. De Witt fu fatto in pezzi innanzi la porta del palazzo degli Stati Generali nell’Aja. Il Principe d’Orange (che non aveva partecipato allo assassinio, ma che in questa, come in altra sciagurata occasione vent’anni dopo, largì ai delitti commessi a suo vantaggio tale indulgenza che ha lasciata una macchia sopra la sua gloria) diventò, senza competitori, capo del Governo. Comunque giovane, il suo ardente ed indomabile spirito, benchè mascherato di maniere fredde e severe, risuscitò subitamente il coraggio de’ suoi spaventati concittadini. Invano suo zio e il Re di Francia, provaronsi con isplendide offerte di sedurlo ad abbandonare la causa della Repubblica. Favellò agli Stati Generali con altieri ed animosi sensi. Rischiossi perfino a suggerire un provvedimento che ha sembianza d’antico eroismo; e che, ove lo avessero posto in effetto, sarebbe stato il subietto più nobile per l’epico canto, che si possa trovare nel vasto campo della storia moderna. Disse ai Deputati, che quand’anche il suolo natio, e le meraviglie di che la umana industria lo aveva coperto, fossero sepolti sotto l’Oceano, tutto non era perduto. Gli Olandesi avrebbero potuto sopravvivere all’Olanda. La libertà e la religione vera, da’ tiranni e dagli ipocriti cacciate dall’Europa, avrebbero trovato asilo nelle più remote isole dell’Asia. I legni esistenti nei porti della Repubblica, sarebbero bastati a trasportare duecentomila emigranti allo Arcipelago Indiano. Quivi la Repubblica Olandese avrebbe cominciata una nuova e più gloriosa vita, ed eretto sotto la costellazione meridionale della Croce, fra le canne di zucchero e i nocimoscadi, la Borsa d’un’altra più ricca Amsterdam, e le scuole d’un’altra Leida più dotta. Lo spirito nazionale svegliossi tutto e risorse. I patti offerti dagli Alleati vennero con fermezza respinti. Aprirono gli argini. Tutto il paese prese la sembianza di un vastissimo lago, di mezzo al quale le città, con le loro muraglie e i loro campanili, innalzavansi a guisa d’isole. Gl’invasori furono costretti a salvare la vita con una precipitosa ritirata. Luigi, il quale, benchè talvolta reputasse necessario mostrarsi a capo del suo esercito, grandemente preferiva al campo la reggia, era già ritornato a bearsi delle lusinghe de’ poeti e de’ sorrisi delle dame ne’ viali novellamente piantati di Versailles. La fortuna affrettavasi a cangiare d’aspetto. L’esito della guerra marittima era stato dubbio: in terra, le Provincie Unite avevano ottenuto un indugio, il quale, benchè breve, era d’infinita importanza. Intimorite dai vasti disegni di Luigi, ambedue le famiglie della Casa d’Austria corsero alle armi. La Spagna e la Olanda, divise dalla rimembranza di antichi torti ed umiliazioni, riconciliaronsi allo avvicinarsi del comune pericolo. Da ogni contrada di Germania muovevano armati verso il Reno. Il Governo Inglese aveva già consunta tutta la pecunia che aveva raccolta saccheggiando i pubblici creditori. Non poteva sperarsi un imprestito dalla Città. Il tentare d’imporre tasse di sola autorità regia, avrebbe tosto prodotta una ribellione; e Luigi, che ormai doveva far fronte a mezza l’Europa, non era in condizione di apprestare i mezzi con che costringere il popolo dell’Inghilterra. Era forza convocare il Parlamento. XXXIII. E però, nella primavera del 1673, la Camera de’ Comuni si radunò, dopo un riposo di circa due anni. Clifford, già diventato Pari e Lord Tesoriere, ed Ashley, diventato Conte di Shaftesbury e Lord Cancelliere, erano coloro sopra i quali il Re riposava per condurre destramente la bisogna in Parlamento. Il partito patriottico si scagliò tosto contro la politica della Cabala. L’aggressione fu fatta non a modo di tempesta, ma con colpi lenti e misurati. I Comuni, in sulle prime, dettero speranza di sostenere la politica straniera del Re; ma insistevano ch’egli pagasse quel sostegno coll’abbandono di tutto il suo sistema di politica interna. XXXIV. Loro primo scopo era quello d’ottenere la revoca della Dichiarazione d’Indulgenza. Di tutte le misure impopolari adottate dal Governo, la più impopolare fu la promulgazione di quell’atto. Un atto così liberale, compito in modo così dispotico, aveva urtati i sentimenti più opposti. Tutti gl’inimici della libertà religiosa, e gli amici tutti della libertà civile, si trovarono nelle medesime file; e gli uni e gli altri sommavano a diciannove ventesimi della nazione. Lo zelante ecclesiastico schiamazzava contro il favore mostrato al papisti e al puritano. Il puritano, quantunque potesse allegrarsi vedendo sospese le persecuzioni onde era stato oppresso, sentiva poca gratitudine per una tolleranza ch’egli doveva dividere con l’anticristo. E tutti gl’Inglesi che pregiavano la libertà e la legge, vedevano con inquietudine la enorme usurpazione che la regia prerogativa aveva commessa nel campo del potere legislativo. Bisogna sinceramente ammettere, che la questione costituzionale non fosse allora affatto scevra d’oscurità. I nostri antichi Re avevano, senza verun dubbio, preteso ed esercitato il diritto di sospendere l’azione delle leggi penali. I tribunali avevano riconosciuto cotesto diritto. I Parlamenti lo avevano tollerato senza avversarlo. Che un certo simile diritto fosse inerente alla Corona, pochi anche del partito patriottico osavano negare al cospetto dell’autorità e de’ fatti precedenti. Nondimeno, era chiaro che se questa prerogativa fosse stata illimitata, il Governo Inglese male si sarebbe potuto distinguere da un pretto dispotismo. Che ci fosse un limite, lo ammettevano pienamente il Re e i suoi Ministri. La questione era di sapere se la Dichiarazione d’Indulgenza stesse o no dentro siffatto limite; e a nessuna delle parti riuscì di descrivere una linea incontestabile. Alcuni oppositori del Governo dolevansi che la Dichiarazione sospendeva non meno di quaranta Statuti. Ma perchè non quaranta, nel modo medesimo che uno? Vi fu un oratore che manifestò come propria opinione, che il Re poteva costituzionalmente dispensare dalle leggi cattive, non mai dalle buone. Non è mestieri dimostrare l’assurdità di tale distinzione. La dottrina che sembra essere stata generalmente accettata nella Camera de’ Comuni, consisteva in ciò, che il potere di dispensare limitavasi alle sole faccende secolari, e non si estendeva alle leggi fatte per la sicurtà della religione dello Stato. Nondimeno, poichè il Re era capo supremo della Chiesa, e’ pareva che avendo egli il potere di dispensare, siffatto potere potesse anche applicarsi a cose concernenti la Chiesa. Allorchè, dall’altra parte, i cortigiani studiaronsi d’indicare i confini di tale prerogativa, non ci riuscirono meglio de’ loro oppositori.[19] Vero è che la facoltà di dispensare era una grande anomalia nella politica. In teoria, era estremamente incompatibile co’ principii del Governo misto; ma era cresciuta in tempi ne’ quali i popoli si dànno poco pensiero delle teorie. In pratica, non se n’era molto abusato: era stata quindi tollerata, ed aveva a poco per volta acquistata una specie di prescrizione. Finalmente, ne fu fatto uso, dopo lo spazio di molti anni, in una età colta, ed in una solenne occasione, con eccesso fin allora inusitato, e per uno scopo avuto in universale abborrimento. Venne subito sottoposta a severo scrutinio. Nessuno, a dir vero, ardì in sulle prime chiamarla onninamente incostituzionale: ma tutti cominciarono ad accorgersi che divergeva manifestamente dallo spirito della Costituzione, e che ove si fosse lasciata priva di freno, avrebbe tramutato il Governo Inglese, di monarchia limitata qual’era, in monarchia assoluta. XXXV. Sotto lo eccitamento di cotali sospetti, la Camera de’ Comuni negò al Re il diritto di dispensare, non già rispetto a tutti gli Statuti penali, ma agli Statuti penali nelle cose ecclesiastiche; e gli fece chiaramente intendere, che qualora ei non avesse rinunziato a quel diritto, ella non avrebbe concesso danari per la guerra con l’Olanda. Per un momento egli mostrossi inchinevole ad affidare ogni cosa alla sorte: ma Luigi lo consigliò fortemente a piegare il capo alla necessità, ed aspettare tempi migliori, in cui le armi francesi, allora occupate in arduo conflitto sul continente, potessero essere giovevoli a reprimere il malcontento in Inghilterra. Dentro la stessa Cabala cominciarono ad apparire segni di discordia e di tradimento. Shaftesbury, con la sua sagacia proverbiale, conobbe che avvicinavasi una violenta reazione, e che ogni cosa tendeva verso una crisi simigliante a quella del 1640. Pose ogni studio perchè cotesta crisi non lo trovasse nelle condizioni di Strafford. Adunque, con un improvviso voltafaccia, mostrossi nella Camera de’ Lordi, e riconobbe che la Dichiarazione era illegale. Il Re, così abbandonato dal suo alleato e dal suo Cancelliere, cedè, cassò la Dichiarazione, e promise solennemente che non se ne sarebbe per lo avvenire fatto nessun caso. Nè anche questa concessione bastò. I Comuni, non satisfatti di avere astretto il loro Sovrano ad annullare la Indulgenza, estorsero a lui ripugnante l’approvazione d’una celebre legge, che continuò ad esser valida fino al regno di Giorgio IV. Questa legge, chiamata Atto di Prova (_Test Act_), ordinava che chiunque occupava un ufficio civile o militare, fosse tenuto a prestare il giuramento di supremazia, firmare una dichiarazione contro la transustanziazione, e ricevere pubblicamente la comunione secondo i riti della Chiesa d’Inghilterra. Nel preambolo v’erano parole ostili soltanto ai papisti; ma le clausule erano quasi sfavorevoli alla classe più rigida de’ Puritani, quanto ai papisti. I Puritani, nondimeno, atterriti, vedendo la Corte pendere verso il papismo, ed incoraggiati da taluni ecclesiastici a sperare che, appena disarmati i cattolici romani, la tolleranza verrebbe estesa anche ai non–conformisti, fecero poca opposizione; nè il Re, che aveva bisogno estremo di pecunia, rischiossi a ricusare il suo assenso. La legge passò; e il Duca di York, per conseguenza, fu costretto a deporre l’eminente ufficio di Lord Grande Ammiraglio. XXXVI. Fin qui i Comuni non s’erano dichiarati avversi alla guerra cogli Olandesi. Ma, poscia che il Re, in compenso della pecunia cautamente concessa, abbandonò intieramente il suo sistema di politica interna, coloro scagliaronsi impetuosamente contro la sua politica estera. Chiesero che allontanasse dal suo Consiglio Buckingham e Lauderdale, ed elessero una Commissione per considerare se fosse giusto porre Arlington in istato di accusa. Poco tempo dopo, la Cabala non era più. Clifford, che solo de’ cinque era meritevole del nome di uomo onesto, ricusò di riconoscere la nuova legge, depose il suo bastone bianco, e ritirossi in villa. Arlington lasciò l’ufficio di Segretario di Stato, per passare ad un impiego tranquillo e dignitoso nella Casa reale. Shaftesbury e Buckingham sì rappaciarono con la opposizione, e mostraronsi a capo della procellosa democrazia della città. Lauderdale, tuttavia, seguitò ad essere Ministro per gli affari della Scozia, ne’ quali il Parlamento Inglese non poteva immischiarsi. Dopo ciò, i Comuni incalzarono il Re a far pace con la Olanda; ed espressamente dichiararono, che più non avrebbero conceduto danaro per la guerra, se non se nel caso che il nemico ostinatamente ricusasse di accettare patti ragionevoli. Carlo stimò necessario differire a stagione più convenevole il pensiero di eseguire il trattato di Dover, e blandire la nazione, facendo mostra di ritornare alla politica della Triplice Alleanza. Temple, il quale, finchè predominò la Cabala, visse ritirato fra mezzo ai suoi libri ed ai suoi fiori, venne chiamato dal suo eremo. Per mezzo di lui si concluse una pace separata con le Provincie Unite; ed egli divenne nuovamente ambasciatore all’Aja, dove la sua presenza veniva considerata quale pegno della sincerità della Corte britannica. XXXVII. La precipua direzione degli affari venne allora affidata a Sir Tommaso Osborn, baronetto della Contea di York, il quale nella Camera de’ Comuni aveva dato prova d’ingegno adatto alle faccende e alla discussione. Osborn fu fatto Lord Tesoriere, e poco dopo creato Conte di Danby. Non era uomo il cui carattere, esaminato giusta gli alti principii della morale, potesse sembrare degno di approvazione. Era cupido di ricchezze e d’onori, corrotto e corruttore. La Cabala gli aveva trasmessa l’arte di comprare i rappresentanti; arte tuttavia rozza, che accennava poco a quella singolare perfezione cui fu condotta nel secolo appresso. Ei perfezionò grandemente l’opera de’ primi inventori. Costoro avevano solamente comprati gli oratori; ma ciascun uomo che avesse un voto poteva vendersi a Danby. Nonostante ciò, il nuovo Ministro non è da confondersi coi negoziatori di Dover. Egli non era privo del sentimento d’ inglese e di protestante, e nel promuovere i proprii interessi, non dimenticava affatto quelli della propria patria e religione. Era, a dir vero, desideroso di esaltare la prerogativa; ma i mezzi di che a ciò fare voleva giovarsi, erano assai diversi da quelli adoperati da Arlington e da Clifford. Il pensiero di stabilire il potere arbitrario col soccorso delle armi forestiere, e riducendo il Regno alla condizione di principato dipendente, non entrò mai nel suo cervello. Era suo intendimento affezionare alla Monarchia quelle classi di uomini le quali le erano state ferme alleate mentre ardevano le lotte della precedente generazione, e che se n’erano disgustate a cagione de’ recenti delitti ed errori della Corte. Con lo aiuto dei vecchi interessi de’ Cavalieri, cioè con lo aiuto de’ Nobili, dei gentiluomini delle campagne, del Clero, delle Università, pensava egli che Carlo avrebbe potuto essere sovrano, se non assoluto, almeno potente al pari di Elisabetta. Mosso da cotali pensieri, Danby intese ad assicurare al partito de’ Cavalieri lo esclusivo possesso di tutto il potere politico, tanto esecutivo quanto legislativo. Nell’anno 1675, adunque, fu proposta ai Lordi una legge, nella quale veniva ordinato che niuno potesse occupare un ufficio qualunque, o aver seggio nelle due Camere del Parlamento, senza aver prima dichiarato con giuramento di considerare come criminosa la resistenza fatta in qualunque caso al potere regio, e di non contribuire giammai ad alterare il Governo della Chiesa o dello Stato. Per parecchie settimane, le discussioni, le scissure, le proteste, cui fu cagione la predetta proposta, tennero in grande commovimento il paese. La opposizione nella Camera de’ Comuni, capitanata da due membri della Cabala che volevano far pace con la nazione, cioè da Buckingham e Shaftesbury, fu oltremodo veemente e pertinace, ed infine riusci vittoriosa. La proposta non fu respinta, ma ritardata, mutilata, e finalmente messa da parte. Tanto arbitrario ed esclusivo era il disegno di politica interna concepito da Danby! Le sue opinioni intorno alla politica esterna erano per lui maggiormente onorevoli, come quelle che procedevano direttamente opposte agl’intendimenti della Cabala, e differivano poco dalle idee del partito patriottico. Lamentava amaramente l’abiezione in cui la Inghilterra era caduta, e dichiarava, con più energia che gentilezza, essere lo ardentissimo de’ suoi desiderii quello di condurre a suono di bastonate i Francesi al debito rispetto verso di essa. Mascherava così poco i propri pensieri, che in un gran banchetto, al quale sedevano i più illustri dignitari dello Stato e della Chiesa, riempì il bicchiere, bevendo con poco decoro a confusione di coloro che erano contrari ad una guerra con la Francia. Davvero, avrebbe volentieri veduto la propria patria congiungersi con le Potenze che allora erano collegate contro Luigi; ed a tal fine, era propenso a porre Temple, autore della Triplice Alleanza, a capo del Ministero degli Affari Esteri. Ma il potere del primo Ministro era limitato. Nelle sue lettere più confidenziali querelavasi che l’acciecamento del suo signore impedisse l’Inghilterra di prendere il posto che spettavale fra le nazioni europee. Carlo era insaziabilmente cupido dell’oro francese; non aveva in nulla abbandonata la speranza di potere in futuro, con lo aiuto delle armi di Francia, stabilire la monarchia assoluta; e per ambedue queste ragioni desiderava di mantenere buona intelligenza con la Corte di Versailles. Così il Sovrano pendeva verso un sistema di politica esterna, e il Ministro verso altro sistema diametralmente opposto. Nè l’uno nè l’altro, in verità, era d’indole tale da seguire un fine con immutabile costanza. Ciascuno di loro, secondo l’occasione, cedeva alla importunità dell’altro; e le discordi tendenze e le mutue concessioni loro davano alla intera amministrazione un carattere stranamente capriccioso. Carlo talvolta, per leggerezza ed indolenza, soffriva che Danby prendesse misure, delle quali Luigi risentivasi come d’ingiurie mortali. Danby, più presto che lasciare il suo splendido posto, talvolta piegavasi a certe compiacenze, che gli erano di acerbo dolore e vergogna. Il Re fu indotto a consentire al matrimonio di Maria, figlia primogenita ed erede presuntiva del Duca di York, con Guglielmo d’Orange, nemico irreconciliabile della Francia, e campione ereditario della Riforma. Anzi, il valoroso Conte di Ossory, figlio di Ormondo, fu mandato ad aiutare gli Olandesi con alcune milizie britanniche, le quali nel giorno più sanguinoso della guerra rivendicarono alla nazione la rinomanza d’indomito coraggio. Il Tesoriere, dall’altra parte, fu astretto non solo a mostrarsi connivente ad alcune transazioni pecuniarie scandalosissime, tra il proprio signore e la Corte di Versailles, ma a fare, malvolentieri e con poca grazia, la parte d’ agente. XXXVIII. Intanto, il partito patriottico da due forti sentimenti fu tratto a due direzioni opposte. I capi popolari, quantunque avessero paura della grandezza di Luigi, il quale non solo faceva fronte alla forza dell’Alleanza continentale, ma acquistava terreno, temevano nondimeno di affidare nelle mani del proprio Re i mezzi di domare la Francia, auspicando che tali mezzi venissero adoperati a distruggere le libertà della Inghilterra. Il conflitto di questi due timori, ambidue legittimi, dava alla politica della opposizione apparenza strana e volubile, al pari di quella della Corte. I Comuni gridarono guerra contro la Francia, finchè il Re, incitato da Danby a compiacere al desiderio loro, parve disposto a cedere, e si mise a far leve di soldati. Ma appena i Comuni videro cominciati i reclutamenti, la paura che avevano di Luigi dette luogo ad altra paura più prossima. Cominciarono a temere che le nuove leve venissero adoperate in una impresa alla quale Carlo aveva maggiore interesse che a quella di difendere le Fiandre. Ricusarono, quindi, la chiesta pecunia, e gridavano al disarmo, schiamazzando come poco innanzi avevano fatto allorchè chiedevano lo armamento. E’ pare che gli storici che hanno severamente biasimata cotesta incoerenza, non badassero bastevolmente alla impacciata condizione di quei sudditi che hanno ragione di credere come il loro principe congiuri con un potentato straniero ed ostile a danno delle libertà loro. Ricusargli i mezzi militari, è il medesimo che lasciare lo Stato senza difesa. Nonostante, dandoglieli, gli si porrebbero forse in mano le armi contro lo Stato. In tali circostanze, l’ondeggiare fra questi pensieri non va considerato come argomento di disonestà, e nè anche di debolezza. XXXIX. Tali gelosie venivano studiosamente fomentate dal Re di Francia. Aveva tenuto a bada la Inghilterra con la promessa di sostenere il trono contro il Parlamento. Adesso, paventando che i patriottici consigli di Danby avessero a prevalere nel Gabinetto, cominciò ad infiammare il Parlamento contro il trono. A Luigi e al partito patriottico una sola cosa era comune; vale a dire un profondo diffidare di Carlo. Se quel partito fosse stato sicuro che il Re intendeva guerreggiare contro la Francia, sarebbe stato prontissimo a sostenerlo. Se Luigi fosse stato sicuro che le nuove leve fossero destinate a muovere guerra solo alla Costituzione dell’Inghilterra, non si sarebbe provato d’impedirle. Ma la instabilità e perfidia di Carlo erano tali, che il Governo Francese e la opposizione inglese, discordi in ogni altra cosa, concordavano nel non credere alle sue proteste, e volevano egualmente tenerlo povero e senza esercito. Si apersero comunicazioni tra Barillon ambasciatore di Luigi, e que’ politici inglesi che avevano sempre sentito e tuttavia sinceramente sentivano grandissima avversione alla preponderanza francese. Guglielmo Lord Russell, figlio del Conte di Bedford, che era l’uomo più onesto del partito patriottico, non abborrì di tramare con un Ministro straniero, onde tenere nell’imbarazzo il proprio Sovrano. In ciò consisteva tutta la colpa di Russell. I suoi principii e le sue ricchezze lo rendevano inaccessibile ad ogni tentazione d’indole sordida; ma v’è molta ragione a credere, che parecchi de’ suoi colleghi fossero meno scrupolosi di lui. Sarebbe cosa ingiusta addebitarli della ribalderia di avere ricevuto la mancia per recare detrimento alla patria: all’incontro, intendevano giovarla; ma è impossibile negare che fossero abietti e poco delicati, allorchè, per servirla, si lasciavano pagare da un principe, forestiero. Fra coloro che non possono andare assoluti da siffatto disonorevole addebito, era un uomo che viene comunemente considerato come la personificazione dello spirito pubblico, e che, nonostante alcuni difetti morali e intellettuali, è meritamente degno d’esser chiamato eroe, filosofo ed amatore della patria. È impossibile vedere senza cordoglio un tanto nome nella lista degli uomini pensionati dalla Francia. Nulladimeno, ci reca qualche conforto il considerare, come ai tempi nostri un uomo pubblico che non respingesse sdegnosamente da sè una tentazione simile a quella che vinse la virtù e l’orgoglio di Algernon Sidney, verrebbe giudicato privo affatto d’ ogni sentimento di dovere e di vergogna. XL. La conseguenza di queste trame fu che, quantunque l’Inghilterra, secondo le occasioni assumesse un contegno minaccioso, rimasero inefficaci finchè la guerra continentale, durata sette anni, si chiuse nel 1678 col trattato di Nimega. Le Provincie Unite, che nel 1672 parevano ridotte sull’orlo dell’estrema rovina, ottennero patti onorevoli e vantaggiosi. L’essere scampate da questo arduo pericolo venne comunemente attribuito al senno ed al coraggio del giovane Statoldero, la fama del quale era grande in tutta la Europa, e massime fra gl’Inglesi, che lo consideravano come uno de’ loro principi, e gioivano nel vederlo consorte della loro Regina futura. La Francia ritenne molte città importanti dei Paesi Bassi e la grande provincia della Franca Contea. Quasi tutta la perdita gravò sopra la cadente Monarchia Spagnuola. Pochi mesi dopo terminate le ostilità nel continente, seguì una gran crisi nella politica inglese. Ad essa ogni cosa tendeva da diciotto anni. Tutta la popolarità, comunque grande, onde il Re aveva iniziato il suo regno, era consunta. Allo entusiasmo di lealtà era succeduta profonda disaffezione. L’opinione pubblica aveva già riandato lo spazio frapposto tra il 1640 e il 1660, e trovossi nuovamente nelle condizioni in cui era allorchè si adunò il Lungo Parlamento. Il malcontento allora predominante nasceva da molte cagioni; una delle quali era l’orgoglio nazionale oltraggiato. Quella generazione d’uomini aveva veduta la Inghilterra in pochi anni alleata della Francia a patti uguali, vincitrice della Olanda e della Spagna, signora del mare, terrore di Roma, e capo degl’interessi protestanti. I suoi mezzi non erano punto scemati; e si sarebbe potuto sperare che ella sarebbe stata almeno tanto altamente considerata in Europa sotto un Re legittimo, quanto lo era stata sotto un usurpatore, il quale doveva rivolgere tutta la propria energia e vigilanza ad infrenare un popolo riottoso. Nondimeno ella, a cagione della imbecillità e bassezza de’ suoi reggitori, era caduta in così basso stato, che ogni principato germanico o italiano che avesse potuto mettere in campo cinquemila uomini, era membro di maggiore importanza nella repubblica delle nazioni. Al sentimento della umiliazione nazionale andava congiunto il timore per la libertà civile. Voci, a dir vero, indistinte, ma forse più inquietanti a cagione della loro confusione, addebitavano la Corte di trama a danno de’ diritti costituzionali degl’Inglesi. Bisbigliatasi perfino, che siffatta trama doveva recarsi ad effetto con lo intervento d’armi forestiere. Il solo pensiero di cotesto intervento faceva ribollire il sangue nelle vene a tutti, anco ai Cavalieri. Taluni, che avevano sempre professata la dottrina della non–resistenza in tutto il senso più lato del vocabolo, s’udivano mormorare, dicendo avere essa certi confini. Se le armi forestiere fossero state chiamate a costringere la nazione, essi non avrebbero potuto promettere di tenersi pazienti. Ma nè l’orgoglio nazionale, nè l’ansietà per le libertà pubbliche, influivano tanto sul sentire del popolo, quanto l’odio della religione cattolica romana. Quell’odio era diventato una delle passioni dominanti dell’universale, ed era così forte negli uomini ignoranti e profani, come in quelli che erano protestanti per convinzione. Le crudeltà del regno di Maria, crudeltà che anche raccontate con la maggior moderazione e fedeltà destano ribrezzo, e che allora non erano nè fedelmente nè moderatamente narrate nei martirologii popolari; le congiure contro Elisabetta, e sopra tutte quella delle Polveri, avevano lasciato negli animi del volgo un profondo ed amaro senso, che era tenuto vivo per mezzo di commemorazioni, preghiere, fuochi e processioni annuali. È mestieri aggiungere, che quelle classi che andavano peculiarmente predistinte come affezionate al trono, cioè il Clero e i gentiluomini possidenti di terre, avevano ragioni particolari per avversare la Chiesa di Roma. Il Clero tremava per i suoi beneficii; i gentiluomini per le abbadie e le grosse decime loro. Mentre era ancor fresca la memoria del regno de’ santocchi, l’odio del papismo aveva in qualche modo ceduto il posto all’odio del puritanismo; ma ne’ diciotto anni che erano trascorsi dopo la Restaurazione, l’odio del puritanismo era venuto scemando, e quello del papismo crescendo. I patti del trattato di Dover conoscevansi distintamente da pochissimi; ma ne era corsa attorno qualche voce. Opinavasi universalmente, essere vicina l’ora in cui un gran colpo verrebbe portato alla religione protestante. Molti sospettavano che il Re pendesse a favore di Roma. Sapevasi da tutti, il suo fratello ed erede presuntivo essere un bacchettone cattolico. La prima Duchessa di York era morta cattolica romana. Giacomo, spregiando le rimostranze della Camera de’ Comuni, aveva allora sposata la Principessa Maria di Modena, cattolica romana anch’essa. Se fossero nati figli da questo matrimonio, eravi ragione di temere che verrebbero educati alla religione di Roma, e che sederebbe sul trono inglese una lunga successione di principi ostili alla fede stabilita. La Costituzione era stata, poco innanzi, violata a fine di proteggere i Cattolici Romani dalle leggi penali. Lo alleato, dal quale la politica inglese era stata per molti anni diretta, era un Principe non solamente cattolico romano, ma persecutore delle Chiese riformate. Non è strano, adunque, che in cosiffatte circostanze il popolo paventasse sospettando il ritorno de’ tempi di colei ch’esso chiamava Maria la Bevisangue. In tal guisa, la nazione trovavasi in tali condizioni, che la più lieve favilla poteva produrre un incendio. Frattanto, appiccossi il fuoco, in due luoghi ad un tempo, ad un immenso cumulo di materie combustibili, ed in un attimo tutto fu in fiamme. XLI. La Corte Francese, che sapeva come Danby le fosse nemico mortale, riusci a rovinarlo, facendolo passare per suo amico. Luigi, per mezzo di Ralph Montague, uomo perfido e svergognato, che era stato in Francia Ministro d’Inghilterra, depose innanzi la Camera de’ Comuni prove che attestavano, il Tesoriere essere stato implicato in una richiesta che la Corte di Whitehall aveva fatta a quella di Versailles per ottenere una somma di danari. Tale scoperta produsse il suo naturale effetto. Il Tesoriere rimase esposto alla vendetta del Parlamento a cagione non delle sue colpe, ma de’ meriti suoi; non per essere stato complice in un negoziato criminoso, ma per esserlo stato assai mal volentieri e di mala grazia. Se non che, i suoi contemporanei ignoravano le circostanze che nel giudizio della posterità hanno grandemente attenuato il fallo di lui. Secondo loro, egli era il mezzano che aveva venduta l’Inghilterra alla Francia. La sua grandezza parve manifestamente giunta al suo fine, ed era dubbio se gli riuscisse di sottrarsi alla pena capitale. Eppure, il concitamento prodotto da tale scoperta fu lieve, ove si paragoni alla pubblica commozione che nacque allorquando corse la voce, essere stata scoperta una vasta congiura papale. Un certo Tito Oates, prete della Chiesa d’Inghilterra, erasi, per condotta disordinata e per dottrine eterodosse, attirata sul capo la censura de’ suoi superiori spirituali; era stato costretto a lasciare il suo beneficio, ed aveva poi sempre menata vita infame e vagabonda. Aveva già professata la religione cattolica romana, e passato qualche tempo nei collegii inglesi dell’Ordine de’ Gesuiti sul continente, e in cotesti seminarii udito molto parlare intorno ai mezzi migliori di ricondurre l’Inghilterra al grembo della vera Chiesa. Da siffatti discorsi aveva raccolta materia a costruire un orribile romanzo, somiglievole più presto ad un sogno d’infermo, che a qualunque altra cosa del mondo esistente. Il Papa, diceva egli, aveva affidato il Governo dell’Inghilterra ai Gesuiti. I Gesuiti avevano, per via di commissioni munite del sigillo della loro società, nominato preti, nobili e gentiluomini cattolici, a tutti i più alti ufficii della Chiesa e dello Stato. I Papisti avevano una volta bruciata Londra. Eransi provati ad incendiarla di nuovo. A que’ tempi ordivano una trama per appiccare fuoco a tutti i legni esistenti nel Tamigi. Dovevano, ad un segno convenuto, insorgere e far macello di tutti i protestanti. Un’armata francese doveva nel momento istesso sbarcare in Irlanda. Tutti i principali uomini di Stato e gli ecclesiastici d’Inghilterra dovevano essere assassinati. Tre o quattro progetti eransi formati per assassinare il Re. Dovevano pugnalarlo, dargli il veleno nel medicamento, tirargli con lo archibugio carico a palle d’argento. L’opinione pubblica era in tale eccitamento, che siffatte fandonie ottennero tosto credenza nelle menti del volgo; e due fatti poco dopo seguiti, indussero non pochi uomini di senno a sospettare, che la novella, quantunque manifestamente sformata ed esagerata, avesse qualche fondamento di vero. Eduardo Coleman, molto operoso, ma non onesto intrigante cattolico romano, era fra le persone accusate. Inquisirono le sue carte, e si accorsero che ne aveva distrutta gran parte. Ma le poche che furono prese, contenevano certe parole, che sembravano, alle menti fortemente preoccupate, confermare la testimonianza d’Oates. Queste parole, per vero dire, ove s’interpretino con ischiettezza, paiono esprimere poco più che certe speranze, che la postura delle cose, le predilezioni di Carlo, le più forti predilezioni di Giacomo, e le relazioni esistenti tra la Corte Francese e la Inglese, potevano naturalmente eccitare nel cuore di un cattolico romano, strettamente vincolato agli interessi della propria Chiesa. Ma il paese allora non inchinava a interpretare schiettamente le lettere de’ papisti; e si concluse, con qualche apparenza di ragione, che se alcuni scritti ai quali s’era poco badato, come quelli che non avevano nessuna importanza, erano pieni di cose talmente sospette, qualche gran mistero d’iniquità doveva contenersi in que’ documenti che erano stati con gran cura dati alle fiamme. Pochi giorni dopo si seppe che Sir Edmondsbury Godfrey, insigne Giudice di Pace che aveva raccolte le deposizioni di Oates contro Coleman, era scomparso. Fattane ricerca, ne trovarono il cadavere in un campo presso Londra. Chiaro appariva ch’era morto di morte violenta. Era parimente chiaro che non era stato assassinato dai ladri. La sua miseranda fine è rimasta sinora un secreto. Taluni credono che si uccidesse da sè; altri che ei cadesse vittima d’inimicizia privata. La opinione più improbabile è, che fosse assassinato dal partito ostile alla Corte, onde meglio colorire la novella della congiura. La opinione più probabile sembra essere, che qualche furente cattolico romano, spinto alla frenesia dalle menzogne di Oates e dagli insulti della plebe, non facendo nessuna distinzione tra l’accusatore spergiuro e l’innocente magistrato, si fosse voluto vendicare in un modo, di cui la storia delle sètte perseguitate fornisce troppo numerosi esempi. Se così andò la faccenda, lo assassino dovette poscia maledire alla sua propria malvagità e follia. La metropoli e tutta la nazione insanirono d’odio e di paura. Le leggi penali, che avevano cominciato a perdere alcun che della loro acerbità, divennero nuovamente più rigorose. In ogni dove i giudici erano affaccendati a perquisire case e impossessarsi di carte. Tutte le prigioni rigurgitavano di papisti. Londra rendeva immagine d’una città in istato d’assedio. La guardia cittadina rimaneva in armi tutta la notte. Facevansi apparecchi a barricare le grandi strade. Pattuglie correvano su e giù per le vie. Whitehall fu circondato di cannoni. Nessun cittadino reputavasi sicuro senza portare sotto la veste un’arme carica di piombo, per far saltare le cervella agli assassini papali. Il cadavere del magistrato ucciso, fu esposto per parecchi giorni allo sguardo del popolo affollantesi; e venne finalmente sepolto con istrane e terribili cerimonie, che erano indizio più presto di sete di vendetta, che di dolore o di speranza religiosa. Le Camere insistevano perchè le volte sopra le quali i rappresentanti sedevano, venissero custodite da uomini armati, onde guardarsi da una seconda Congiura delle Polveri. Tutti i loro atti avevano lo stesso scopo. Dal regno di Elisabetta in poi, il giuramento di supremazia era stato richiesto ai membri della Camera de’ Comuni. Alcuni Cattolici Romani, nondimeno, si erano studiati d’interpretare quel giuramento in guisa, da poterlo prestare senza scrupolo di coscienza. Adesso ne fu rifatta la formula; e i Lordi Cattolici Romani furono, per la prima volta, esclusi da’ loro seggi in Parlamento. Vennero adottati vigorosi provvedimenti contro la Regina. I Comuni gettarono in carcere uno dei Segretari di Stato, per avere contrassegnate commissioni dirette a gentiluomini che non erano buoni protestanti. Accusarono d’alto tradimento il Lord Tesoriere. Anzi dimenticarono a tal segno la dottrina da loro apertamente professata mentre era ancora fresca la memoria della guerra civile, che tentarono perfino di privare il Re del comando della guardia cittadina. A tale esasperazione, diciotto anni di pessimo governo avevano condotto il più leale Parlamento che si fosse mai adunato in Inghilterra! Parrà forse strano a taluni, come in tanto estremo il Re si esponesse al risico di appellarsi al popolo, perocchè il popolo era in maggiore eccitamento che non erano i Rappresentanti. La Camera Bassa, malcontenta come era, conteneva un numero maggiore di Cavalieri, di quanti ne potessero verosimilmente essere rieletti di nuovo. Ma pensavasi che lo scioglimento ponesse fine all’accusa contro il Lord Tesoriere; accusa che, probabilmente, avrebbe tratti alla luce del giorno tutti i colpevoli misteri della alleanza francese, e cagionate gravi molestie personali ed impacci non pochi a Carlo. E però, nel gennaio del 1679, il Parlamento, che era esistito sempre dall’anno 1661, venne disciolto; e si spedirono i decreti per una elezione generale. XLII. Per varie settimane, la contesa in tutto il Regno fu feroce ed ostinata oltre ogni credere. Si profusero somme di danari, di cui non v’era esempio precedente. Si adoperarono nuovi mezzi di riuscita. Fu notato dagli scrittori di que’ tempi come cosa straordinaria, che si affittassero cavalli a gran prezzo per trasportare gli elettori al luogo d’elezione. L’uso di sminuzzare le possessioni libere onde moltiplicare i voti, ha principio da questa memorabile lotta. I predicatori dissenzienti, che stavano da lungo tempo nascosti in tranquilli recessi fuggendo la persecuzione, uscirono fuori, e correvano di villaggio in villaggio, onde riaccendere lo zelo del disperso popolo di Dio. La procella mugghiava minacciosa contro il Governo. Moltissimi de’ nuovi Rappresentanti vennero a Westminster in contegno poco diverso da quello dei loro predecessori, che avevano imprigionato Strafford e Laud dentro la Torre. Frattanto, le Corti di Giustizia, le quali fra mezzo alle commozioni politiche avrebbero dovuto essere luoghi sicuri di rifugio agli innocenti di qualsivoglia partito, erano deturpate da più selvagge passioni e più vile corruttela, che non fossero le assemblee degli elettori. La storiella d’Oates, comunque fosse stata bastevole a conturbare tutto il reame, non poteva bastare, fino a che non fosse confermata da nuova testimonianza, a distruggere il più dappoco tra coloro ch’egli aveva accusati. Imperciocchè, nella legge d’Inghilterra, due testimoni erano necessari a stabilire la colpa di tradimento. Ma il successo del primo impostore produsse le sue naturali conseguenze. In poche settimane, dalla penuria ed oscurità in cui giaceva, erasi inalzato ad opulenza e a potere tali, che egli era il terrore del principe e dei nobili; a quella tale rinomanza, che per gli animi bassi e ribaldi ha tutta la magia della gloria. Non rimase lungo tempo senza coadiutori e rivali. Uno sciagurato, di nome Carstairs, il quale aveva campata la vita in Iscozia intervenendo ai conventicoli e facendo poscia la spia a’ predicatori, aprì la via. Bedloe, ribaldo conosciutissimo, gli tenne dietro; e tosto da tutti i bordelli, le case da giuoco e le case d’uscieri di Londra, sbucarono falsi testimoni a deporre contro la vita de’ Cattolici Romani. Uno si presentò raccontando la novella di un’armata di trenta mila uomini, i quali, travestiti da pellegrini, dovevano ragunarsi a Corunna, e quivi imbarcarsi per il paese di Galles. Un altro diceva, essergli stata promessa la canonizzazione e cinquecento sterline per assassinare il Re. Un terzo erasi introdotto in una taverna a Covent Garden, ed aveva udito un gran banchiere cattolico romano far sacramento, in mezzo a tutti gli astanti e i garzoni, di uccidere il tiranno eretico. Oates, per non essere vinto dai suoi imitatori, alla sua prima narrazione aggiunse un ampio supplemento. Ebbe la portentosa impudenza di affermare, fra le altre cose, d’ essersi una volta nascosto dietro un uscio socchiuso, ed avere udito la Regina che affermava di avere assentito allo assassinio del proprio consorte. Il volgo credeva, e gli alti magistrati facevano mostra di credere, simiglianti fandonie. I giudici principali del Regno erano corrotti, crudeli e vigliacchi. I capi del partito patriottico fomentavano il pubblico inganno. I più rispettabili di essi, in verità, erano talmente caduti in inganno, da credere vera la maggior parte delle prove della congiura. Uomini come Shaftesbury e Buckingham, senza alcun dubbio, si accorgevano che tutto era una pretta invenzione; ma giovava pur troppo i loro disegni, e alle loro aride coscienze la morte di un innocente non dava inquietudine maggiore di quella della morte d’una pernice. I giurati partecipavano ai sentimenti allora comuni a tutta la nazione, e venivano incoraggiati dal seggio a compiacere senza riserbo a cosiffatti sentimenti. La plebe applaudì Oates e i suoi consorti, fischiò e battè i testimoni che comparvero a difesa degli accusati, e mandò gridi di gioia appena fu profferita la sentenza che li dichiarava colpevoli. Invano que’ miseri invocavano la onestà della loro vita passata; imperocchè nella mente di tutti stava fitto il pensiero, che quanto più coscienzioso fosse un papista, tanto era più verosimile che ei congiurasse contro un Governo protestante. Invano risolutamente affermarono la propria innocenza fino al momento stesso della morte; imperciocchè era opinione generale, che un buon papista considerava qualsivoglia menzogna che fosse utile alla sua Chiesa, non solo scusabile, ma meritoria. XLIII. Mentre il sangue innocente spargevasi sotto le forme della giustizia, adunossi il nuovo Parlamento; e fu tale il violento procedere del partito predominante, che anche gli uomini che avevano passata la giovinezza in mezzo alle rivoluzioni, uomini che rammentavano la condanna di Strafford, lo attentato contro i cinque Rappresentanti, l’abolizione della Camera de’ Lordi, la decapitazione del Re, rimasero atterriti allo aspetto delle pubbliche cose. L’accusa contro Danby fu ripresa. Costui invocò il perdono del Principe. Ma i Comuni trattarono la risposta con disprezzo, ed insistettero perchè si seguitasse il processo. Nondimeno, Danby non era lo scopo precipuo delle loro persecuzioni. Erano convinti che l’unico modo efficace di assicurare la libertà e la religione dell’Inghilterra, era quello d’escludere dal trono il Duca di York. Il Re viveva in grande perplessità. Aveva insistito perchè suo fratello, la vista del quale accendeva la rabbia del popolaccio, si ritirasse per alcun tempo a Brusselles: ma non sembra che tale concessione producesse favorevole effetto. Il partito delle Teste–Rotonde divenne allora preponderante. Ad esso accostaronsi milioni di cittadini, i quali, al tempo della Restaurazione, pendevano verso la regia prerogativa. De’ vecchi Cavalieri molti partecipavano alla prevalente paura del papismo; e molti, amaramente sentendo la ingratitudine del Principe a pro’ del quale avevano fatti cotanti sacrifici, prendevansi poca cura della miseria di lui, come egli aveva poco curata la loro. Anche il Clero Anglicano, mortificato ed impaurito dell’apostasia del Duca di York, sosteneva tanto la opposizione, da congiungere cordialmente la propria voce al grido universale contro i Cattolici Romani. XLIV. Il Re, in cosiffatti estremi, erasi rivolto a Sir Guglielmo Temple. Di tutti gl’impiegati di quell’età, Temple era quello che aveva serbata migliore reputazione. La Triplice Alleanza era stata opera di lui. Egli aveva ricusato di partecipare alla politica della Cabala, ed era rigorosamente vissuto da privato finchè quella ebbe in mano il governo della cosa pubblica. Chiamato da Danby, aveva abbandonato il proprio ritiro, negoziata la pace fra l’Inghilterra e l’Olanda, ed era stato precipuo strumento a concludere il matrimonio di Maria col cugino Principe d’Orange. Così a lui riportavasi il merito di tutte le poche cose lodevoli che erano state fatte dal Governo dopo la Restaurazione. De’ numerosi falli e delitti commessi negli ultimi diciotto anni, nessuno ne veniva a lui attribuito. La sua vita privata, quantunque non fosse austera, era decorosa; i suoi modi erano popolari; e non era uomo da lasciarsi corrompere da titoli o da ricchezze. Nonostante, qualche cosa mancava al carattere di coteste spettabile uomo di Stato. L’amor suo per la patria era tiepido. Era, pur troppo, studioso de’ suoi agi e della dignità sua, e rifuggiva con pusillanime timore da ogni responsabilità. E davvero, le abitudini della sua vita non lo rendevano adattato ad immischiarsi seriamente ne’ conflitti delle nostre fazioni intestine. Era pervenuto al cinquantesimo degli anni suoi senza aver seduto nel Parlamento Inglese; e la sua esperienza officiale, ei l’aveva quasi tutta acquistata nelle Corti forestiere. Giustamente aveva fama d’essere uno de’ più insigni diplomatici dell’Europa; ma lo ingegno e le doti d’un diplomatico differiscono molto da ciò che richiedesi in un uomo politico per condurre la Camera de’ Comuni in tempi torbidi. Il disegno ch’egli propose, era argomento di non poca abilità. Comecchè non fosse profondo filosofo, aveva, più che molti uomini pratici del mondo, meditato intorno ai principii generali del Governo; ed aveva fecondato il proprio intendimento studiando la storia e viaggiando ne’ paesi stranieri. E’ pare che discernesse più chiaramente che molti de’ suoi coetanei, la cagione delle difficoltà che stringevano il Governo. L’indole dell’ordinamento politico in Inghilterra veniva a poco a poco mutandosi. Il Parlamento lentamente, ma costantemente, acquistava terreno sulla prerogativa. La linea tra il potere legislativo e lo esecutivo era in teoria più che mai descritta distintamente, ma in pratica diveniva ogni giorno più debole. Era teoria della Costituzione, che il Re avesse potestà di nominare i propri Ministri. Ma la Camera de’ Comuni aveva cacciati successivamente dalla direzione degli affari Clarendon, la Cabala e Danby. Era teoria della Costituzione, che il solo Re avesse potestà di fare guerra e pace. Ma la Camera de’ Comuni lo aveva costretto a pacificarsi con l’Olanda, e lo aveva pressochè forzato a muover guerra alla Francia. Era teoria della Costituzione, che il Re fosse il solo giudice de’ casi in cui convenisse graziare i colpevoli. Nondimeno, egli aveva tanta paura della Camera de’ Comuni, che, allora non poteva rischiarsi di salvare dalla forca uomini ch’ei ben sapeva essere vittime innocenti di uno spergiuro. E’ parrebbe che Temple volesse assicurare al Corpo Legislativo gl’indubitati poteri costituzionali, e nel tempo stesso impedirgli, per quanto fosse possibile, di fare altre usurpazioni nel campo del Potere Esecutivo. A tale fine, pensò di porre fra il Sovrano ed il Parlamento un corpo che potesse frustrare la scossa della loro collisione. Eravi un Corpo antico, altamente onorevole e riconosciuto dalla legge, il quale, egli pensava, potevasi riformare in guisa, da servire al predetto scopo. Pensò di dare al Consiglio Privato un nuovo carattere ed un ufficio nuovo nel Governo. Fissò a trenta il numero de’ Consiglieri; quindici dei quali dovevano essere i principali ministri dello Stato, della legge e della religione; gli altri quindici, nobili e gentiluomini privi di impiego, ma opulenti e di grande reputazione. Non vi doveva essere Gabinetto intimo. A tutti i trenta Consiglieri doveva confidarsi ogni secreto di Stato, e dovevano tutti essere chiamati ad ogni adunanza del Consiglio; e il Re doveva dichiarare, che in ogni occasione si sarebbe lasciato guidare da loro. Sembra che Temple credesse di assicurare, per mezzo di tale ordinamento, la nazione contro la tirannia della Corona, e a un’ora la Corona contro le usurpazioni del Parlamento. Da una parte, era molto improbabile che i progetti, tali quali erano stati formati dalla Cabala, si fossero potuti soltanto proporre per essere discussi in un’ Assemblea composta di trenta uomini eminenti, quindici dei quali non avevano nessun vincolo d’interesse con la Corte. Dall’altra parte, era da sperarsi che i Comuni, paghi della guarentigia che contro gli abusi del Governo offriva un cosiffatto Consiglio Privato, si sarebbero, più che per lo innanzi non avevano fatto, mantenuti dentro gli stretti confini delle funzioni legislative, e più non avrebbero riputato necessario d’immischiarsi in ogni cosa spettante al Potere Esecutivo. Cotesto disegno, quantunque per molti rispetti non fosse indegno di colui che lo aveva immaginato, era vizioso nel suo principio. Il nuovo Consiglio era mezzo Gabinetto e mezzo Parlamento; e, simile ad ogni altra invenzione, sia meccanica, sia politica, intesa a due fini affatto diversi, non era buono a conseguirne nessuno. Era così ampio e diviso, da non potere essere un buon corpo amministrativo. Era così strettamente connesso con la Corona, da non riuscire un efficace potere raffrenante. Conteneva bastevoli elementi popolari onde rendersi un cattivo Consiglio di Stato, inadatto a serbare il segreto, a comporre i negoziati malagevoli, e ad amministrare le cose della guerra. Nulladimeno, quegli elementi popolari non erano punto bastevoli ad assicurare la nazione contro gli abusi del Governo. Questo disegno, adunque, quand’anco fosse stato sinceramente posto in esperimento, non avrebbe potuto sortire esito felice; e non ne fu fatto sincero sperimento. Il Re era instabile e perfido; il Parlamento era infiammato ed irragionevole; e i materiali onde era composto il nuovo Consiglio, benchè fossero forse i migliori che potesse apprestare quell’età, erano anco cattivi. L’iniziarsi del nuovo sistema fu, non pertanto, salutato con gioia universale; imperocchè il popolo inchinava a reputare miglioramento ogni qualunque mutazione. Gli tornarono anche gradite parecchie nomine. Shaftesbury, ormai bene accetto alla plebe, fu fatto Lord Presidente. Russell ed altri insigni uomini del partito patriottico furono chiamati al Consiglio. Ma dopo pochi giorni, imbrogliossi ogni cosa. Le inconvenevolezze di avere un Gabinetto così numeroso furono tali, che lo stesso Temple assentì a variare una delle regole fondamentali da lui proposte, e a diventare egli stesso parte di un piccolo nucleo che dirigeva veramente ogni cosa. A lui furono accompagnati tre altri Ministri, cioè Arturo Capel Conte di Essex, Giorgio Savite Visconte di Halifax, e Roberto Spencer Conte di Sunderland. Del Conte d’Essex, che era Primo Commissario del Tesoro, basti il dire ch’era uomo fornito di doti solide, sebbene non appariscenti, e di carattere grave e melanconico; che aderiva al partito patriottico, e in quel tempo onestamente desiderava di riconciliare, in modo proficuo allo Stato, quel partito col trono. XLV. Fra gli uomini di Stato di quell’età, Halifax primeggiava per ingegno. Aveva intelletto fecondo, sottile e capace; eloquenza forbita, lucida e animata, la quale, accompagnata dal tono argentino della voce, empiva di diletto la Camera de’ Lordi. Il suo conversare soprabbondava di pensiero, di fantasia, di brio. I suoi scritti politici sono degni di studio per pregio letterario; onde meritamente ei si annovera fra i Classici Inglesi. Alla importanza ch’ei derivava da doti sì grandi e variate, congiungeva la influenza che nasce dal grado e dalla ricchezza. E nondimeno, in politica egli ebbe successo meno prospero di molti altri a lui inferiori. A vero dire, quelle peculiarità intellettuali che rendono pregevoli i suoi scritti, gli furono d’impedimento nelle lotte della vita attiva. Perocchè egli vide sempre gli avvenimenti non nello aspetto in cui comunemente si mostrano ad un uomo che ne è parte, ma quali, dopo lo spazio di molti anni, appariscono allo storico filosofo. Con tale tempra di mente, non poteva a lungo seguitare ad agire cordialmente con nessuna società di uomini. Tutti i pregiudizi, tutte le esagerazioni di ambedue i grandi partiti dello Stato, lo muovevano a scherno. Spregiava le arti vili e gl’irragionevoli clamori dei demagoghi. Spregiava anche più le dottrine del diritto divino e della obbedienza passiva. Metteva egualmente in canzone la bacchettoneria dell’ecclesiastico anglicano e quella del puritano. Non poteva intendere come alcuno avversasse le festività de’ Santi, e certi abiti clericali; e come, soltanto per avversarli, l’uomo potesse perseguitare il suo simile. In quanto all’indole, egli era ciò che ai dì nostri si chiama Conservatore. In teoria era repubblicano. Anche allorchè il timore dell’anarchia, e lo sdegno ch’ei sentiva degl’inganni del volgo, lo indussero per qualche tempo a congiungersi ai difensori del potere arbitrario, il suo intelletto era sempre con Locke e con Milton. Veramente, i suoi scherni contro la Monarchia ereditaria talvolta erano tali da sonar meglio sulle labbra di un membro del Circolo della Testa di Vitello (_Calf’s Head Club_),[20] che su quelle di un Consigliere privato degli Stuardi. In religione, era tanto lungi da dirsi uno zelante, che i poco caritatevoli lo chiamavano ateo: ma egli respinse con veemenza siffatta accusa; e in verità, quantunque alcuna volta porgesse argomento di scandalo col modo onde faceva uso del raro vigore del suo ragionare e de’ suoi dileggi sopra subbietti gravi, ei sembra essere stato suscettibile di sentimenti religiosi. Egli era il capo di quegli uomini politici che dai due grandi partiti venivano sprezzantemente chiamati Barcamenanti (_Trimmers_). Invece di avere a sdegno questo soprannome, egli lo assunse come un titolo d’onore, e rivendicò vivamente la dignità del vocabolo. Ogni cosa buona, egli diceva, si tiene, si barcamena fra due estremi. La zona temperata si tiene fra il clima dove gli uomini sono abbronzati, e quello dove essi sono agghiacciati. La Chiesa Anglicana si tiene fra la insania degli Anabattisti e la letargia dei Papisti. La Costituzione Inglese si tiene fra il dispotismo turco, e l’anarchia polacca. La virtù non è altro che un giusto temperamento fra certe tendenze, ciascuna delle quali, condotta all’eccesso, diventa vizio. Anzi, la perfezione dello stesso Ente Supremo consiste nell’esatto equilibrio degli attributi, nessuno dei quali potrebbe preponderare senza turbare l’ordine morale e fisico del mondo.[21] Così Halifax barcamenavasi per principio. Si barcamenava parimente a cagione della indole, della mente e del proprio cuore. Aveva intendimento acuto, scettico, inesauribilmente fecondo di distinzioni ed obiezioni; gusto insigne, sentimento squisito del burlesco, indole placida e indulgente, ma fastidiosa, e in nessun modo inchinevole o alla malignità o alla ammirazione entusiastica. Un uomo tale non poteva essere lungamente l’amico immutabile di qualsivoglia partito politico. Nondimeno, non è mestieri accomunarlo alla turba volgare de’ rinnegati. Imperciocchè, quantunque, al pari di costoro, egli passasse ora a questa, ora a quella parte, il suo trapasso avveniva in direzione opposta alla loro. Ei non aveva nulla di comune con quelli che volano da estremo ad estremo, e sentono per il partito da essi abbandonato una animosità più forte di quella dei nemici costanti. Il suo posto era in mezzo alle divisioni ostili della Comunità, ed ei non ispingevasi oltre i confini dell’una o dell’altra. Il partito al quale egli apparteneva, era sempre quello che in quel momento piacevagli meno, perchè lo mirava più da presso. E però, egli era sempre severo verso i suoi colleghi violenti, e sempre in amichevoli relazioni coi suoi oppositori moderati. Ciascuna fazione, nel giorno del proprio insolente e vendicativo trionfo, incorreva nella censura di lui; ma vinta e perseguitata, trovava in lui un protettore. A perenne onor suo, è uopo rammentare ch’egli tentò di salvare quelle vittime, la sciagurata sorte delle quali ha lasciata turpissima macchia sul nome de’ Whig e dei Tory. Erasi reso singolarmente notevole nell’opposizione, ed aveva perciò incorso talmente l’ira del Re, da non essere stato ammesso al Consiglio dei Trenta senza difficoltà e lunga contesa. Nulladimeno, appena gli fu dato porre piede nella Corte, la malia de’ suoi modi e del suo conversare gli acquistarono insigne favore. Erasi seriamente impaurito alla violenza del pubblico malcontento; e pensava che la libertà per allora fosse in sicuro, ma l’ordine e l’autorità legittima corressero pericolo. Ond’egli, secondo era suo costume, si congiunse alla parte debole. Forse la sua conversione non fu affatto scevra d’interesse; perocchè gli studi e la meditazione, benchè lo avessero emancipato da molti pregiudizi volgari, lo avevano lasciato schiavo ai volgari desiderii. Non difettava d’oro; e non v’è prova che attesti esserselo procacciato con mezzi i quali, anche in quella età, i severi censori consideravano come disonoranti: ma il grado e il potere erano a lui irresistibili tentazioni. Protestava di considerare i titoli e i grandi uffici come allettamenti che possono sedurre i soli stolti, di odiare le faccende, la pompa, le apparenze, e di desiderare caramente sottrarsi al rumore ed agli splendori di Whitehall, onde rifuggirsi ai boschi tranquilli che circondavano il suo antico castello in Rufford; ma la sua condotta discordava non poco dalle sue proteste. Vero è che voleva a sè riverenti i cortigiani e insieme i filosofi, ed essere ammirato per avere conseguite alte dignità, e per saperle ad un tempo spregiare. XLVI. Sunderland era Segretario di Stato. In lui era maravigliosamente incarnata la immoralità politica di quell’età. Natura lo aveva dotato d’acuto intelletto, d’indole irrequieta o malefica, di cuore freddo, di spirito abietto. La sua mente era stata educata in guisa, che tutti i suoi vizi vi fecondavano con rigogliosa maturità. Entrato nella vita pubblica, aveva passati vari anni in impieghi diplomatici appo le Corti straniere, e per qualche tempo era stato Ministro in Francia. Ogni Stato ha le sue tentazioni peculiari. Non è ingiusto lo affermare che i diplomatici, come classe, si sono sempre fatti notare per destrezza, per l’arte con cui acquistano la fiducia di coloro coi quali debbono trattare, e per l’agevolezza d’afferrare il tono di qualsiasi società alla quale vengano ammessi, più presto che per entusiasmo generoso e per austera rettitudine: e le relazioni tra Carlo e Luigi erano tali, che nessun gentiluomo inglese avrebbe potuto lungo tempo dimorare in Francia come ambasciatore, e serbare dramma di sentimento onorevole e patriottico. Sunderland, dalla scuola dove era stato educato, uscì astuto, pieghevole, scevro di vergogna e d’ogni qualunque pregiudizio, e destituto d’ogni principio. Per relazioni ereditarie, egli era Cavaliere; ma non aveva nulla di comune col partito de’ Cavalieri. Costoro erano zelanti della Monarchia, e professavano la dottrina contraria ad ogni resistenza; ma avevano cuori robusti e veramente inglesi, che non avrebbero mai tollerato un reggimento dispotico. Egli, per l’opposto, aveva una languida vaghezza speculativa per le istituzioni repubblicane; vaghezza che non gl’impediva in nulla d’essere prontissimo a diventare in pratica il più servile strumento del potere arbitrario. A sembianza di molti altri lusingatori e negoziatori compiti, era più dotto nell’arte di conoscere i caratteri e giovarsi della debolezza degli uomini, che nell’arte di discernere il sentire delle grandi masse, e prevedere lo avvicinarsi delle grandi rivoluzioni. Era destro negli intrighi; e riusciva difficile, anche agli uomini sottili ed esperti che fossero stati preavvertiti della perfidia di lui, il resistere al fascino de’ suoi modi, e non credere alle sue proteste d’affetto. Ma era così intento ad osservare e corteggiare gl’individui, che dimenticava di studiare l’indole della nazione: però cadde in gravissimi inganni, rispetto ai più solenni eventi del suo tempo. Ogni importante movimento o scoppio dell’opinione pubblica gli giunse di sorpresa; e il mondo, non sapendo intendere che un uomo come lui, fosse cotanto cieco da non vedere ciò che chiaramente vedevano i politicanti delle botteghe da caffè, talvolta attribuiva a profondo disegno quei che, a dir vero, non erano se non pretti abbagli. Soltanto ne’ privati colloqui, le sue doti eminenti principalmente esplicavansi. Ne’ recessi della reggia, o in un assai piccolo cerchio, egli esercitava grande influenza. Ma nel Consiglio era taciturno; e nella Camera de’ Lordi non apriva mai le labbra. XLVII. I quattro Consiglieri confidenti della Corona si accorsero tosto, la loro situazione essere impacciata e fatta segno alla invidia. Gli altri membri del Consiglio mormoravano di tale predilezione contraria a quanto il Re aveva promesso; e taluni di loro, capitanati da Shaftesbury, si dettero di nuovo a fare vigorosa opposizione in Parlamento. L’agitazione, che gli ultimi mutamenti avevano sospesa, divenne rapidamente quanto mai violentissima. Invano Carlo offrì ai Comuni qualunque guarentigia avessero potuto immaginare a pro’ della religione protestante, purchè solo non toccassero l’ordine della successione. Non vollero udire a parlare di patti: volevano la Legge d’Esclusione, e null’altro che la Legge d’Esclusione. Il Re, quindi, poche settimane dopo d’avere pubblicamente promesso di non muovere passo senza consultare il suo nuovo Consiglio, recossi alla Camera de’ Lordi senza farne parola in Consiglio, e prorogò il Parlamento. Il giorno di tale proroga, cioè il ventesimosesto del maggio 1679, forma una grande era nella nostra storia: perocchè in quel dì l’Atto dell’_Habeas Corpus_ ebbe la regia approvazione. Dal tempo della Magna Carta in poi, la legge concernente la libertà personale degl’Inglesi è stata, in sostanza, quasi come è oggi; ma era inefficace, per difetto di un sistema energico di procedura. XLVIII. Ciò che bisognava, non era un nuovo diritto, ma un rimedio pronto ed indagatore: rimedio al quale fu provveduto con l’Atto dell’_Habeas Corpus_. Il Re avrebbe volentieri ricusato lo assenso a siffatta provvisione; ma era sul punto di fare appello dal Parlamento al popolo in quanto alla questione della successione; e non poteva rischiarsi, in un momento così critico, di rigettare una legge, estremamente popolare. Nel medesimo giorno, la stampa in Inghilterra divenne libera per breve tempo. Anticamente, gli stampatori erano stati soggetti al rigido sindacato della Camera Stellata. Il Lungo Parlamento l’aveva abolito; ma, ad onta de’ filosofici ed eloquenti rimproveri di Milton, aveva istituita e conservata la censura. Subito dopo la Restaurazione, era stata fatta una legge che inibiva la stampa di libri non muniti di licenza; ed erasi provveduto che siffatta legge rimanesse in vigore sino al chiudersi della prima sessione del prossimo Parlamento. Quel termine era arrivato, e il Re nel tempo stesso che licenziava le Camere, emancipò la stampa. XLIX. Poco dopo la proroga, seguì lo scioglimento e la elezione generale. Grande era lo zelo e la forza dell’opposizione. Gridavasi più che mai a favore della Legge d’Esclusione: al quale grido ne mescolavano un altro che infiammò il sangue della moltitudine, e che svegliò dolore e paura ne’ petti de’ prudenti amici della libertà. Non solo vennero assaliti i diritti del Duca di York che era papista conosciuto, ma quelli delle sue due figlie, le quali erano sincere e calde protestanti. Affermavano come cosa certa, che il maggior figlio naturale del Re era nato di matrimonio, ed era quindi erede legittimo della Corona. Carlo, mentre era pellegrino sul continente, aveva amoreggiato all’Aja con Lucia Walters, bellissima fanciulla del paese di Galles, ma di poco intendimento e di costumi corrotti. Diventata amante di lui, gli partorì un figlio. Un innamorato sospettoso ne avrebbe concepito qualche dubbio; perocchè la donna aveva parecchi vagheggiatori, e credevasi che non fosse crudele a tutti. Carlo, nondimeno, prestò fede alla parola di lei, e mise addosso al piccolo Giacomo Crofts—era questo il nome allora imposto al fanciullo—un amore sì sviscerato, da sembrare impossibile in un uomo d’indole fredda e spensierata qual era Carlo. Tosto dopo la Restaurazione, il bene amato giovane, il quale aveva imparati in Francia gli esercizi in quel tempo reputati necessari ad un gentiluomo compito, comparve in Whitehall. Gli fu dato alloggio in palazzo, gli furono dati parecchi paggi, e parecchi privilegi fino allora goduti soltanto dai Principi di sangue reale. Mentre era ancora ne’ suoi teneri anni, gli fu data in moglie Anna Scott, erede della nobile casa di Buccleuch. Assunse il nome, e prese possesso de’ vasti dominii di lei. La ricchezza ch’egli acquistò con tale parentado estimavasi comunemente a non meno di diecimila sterline annue. Fu colmato di titoli e di favori più sostanziali de’ semplici titoli. Fu fatto Duca di Monmouth in Inghilterra, Duca di Buccleuch in Iscozia, Cavaliere della Giarrettiera, Maestro de’ Cavalli, Comandante della prima truppa delle Guardie del Corpo, Primo Giudice di Eyre al mezzodì del Trent, e Cancelliere della Università di Cambridge. Nè al popolo pareva egli immeritevole della sua altissima fortuna. Aveva aspetto assai leggiadro ed affabile, carattere dolce, modi gentili e cortesi. Quantunque fosse un libertino, acquistò lo affetto de’ Puritani. Quantunque si sapesse da tutti ch’egli era stato partecipe del secreto della vergognosa aggressione contro Sir Giovanni Coventry, il partito patriottico pose facilmente tutto in dimenticanza. Perfino gli austeri moralisti confessavano, che in una Corte come quella, non poteva aspettarsi rigorosa fedeltà conjugale da un uomo, che mentre era fanciullo, era stato sposato ad una bambina. Anche i patriotti volentieri scusavano un caparbio giovinetto, che aveva voluto punire con immoderata vendetta un insulto fatto al proprio genitore. La macchia di cotesti amori e risse notturne venne presto cancellata da fatti onorevoli. Allorquando Carlo e Luigi accomunarono le forze loro contro la Olanda, Monmouth comandava le milizie ausiliari inglesi spedite sul continente, e fece prova di valoroso soldato e d’ufficiale non privo di senno. Ritornato in patria, divenne l’uomo più popolare del Regno. Nulla gli mancava fuori che la Corona, alla quale non pareva ch’ei non potesse in alcun modo arrivare. La distinzione che con assai poco giudizio era stata fatta tra lui e i più grandi Nobili, aveva prodotti pessimi effetti. Da fanciullo, era stato invitato a tenere il cappello in capo nella sala del trono, mentre Howards e Seymours gli stavano accanto col capo scoperto. Alla morte di principi stranieri, aveva indossata, in segno di lutto, la veste purpurea: segno che nessun altro suddito, tranne il Duca di York e il Principe Rupert, avevano licenza di portare. Era naturale che simiglianti cose lo inducessero a considerarsi come Principe legittimo della famiglia degli Stuardi. Carlo, anche nella età matura, giaceva immerso ne’ piaceri, e curavasi poco della propria dignità. Appena reputavano incredibile che a venti anni avesse segretamente sposata con tutte le forme una donna, che avendolo ammaliato con la propria beltà, non gli s’era voluta dare ad altri patti. Mentre Monmouth era ancora fanciullo, e mentre il Duca di York era creduto ancora protestante, era corsa voce per tutto il paese, ed anche in certi crocchi che avrebbero dovuto averne certa notizia, che il Re aveva fatta sua moglie Lucia Walters, e che, qualora qualcuno ne avesse diritto, il figlio di lei sarebbe Principe di Galles. Si chiacchierò molto intorno ad una certa cassetta nera, la quale, secondo la credenza popolare, conteneva il contratto maritale. Questa frivola storiella divenne importantissima appena Monmouth fu ritornato dai Paesi Bassi con alta riputazione di valore e condotta, ed appena si seppe che il Duca di York era membro d’una Chiesa detestata dalla maggior parte della nazione. A favore di essa non eravi la minima prova; contro essa vi era la solenne dichiarazione del Re, fatta innanzi il suo Consiglio, e per suo comandamento comunicata al popolo. Ma la moltitudine, sempre vaga d’avventure romanzesche, inghiottì agevolmente la storiella de’ segreti sponsali e della cassetta nera. Alcuni capi della opposizione operarono in questo fatto come avevano già operato rispetto alla più odiosa favola di Oates, e sostennero una novella che avrebbero dovuto spregiare. Lo interesse che il popolo poneva in colui che veniva reputato il campione della vera fede, e lo erede legittimo del trono inglese, venne tenuto desto con ogni artificio. Quando Monmouth giunse in Londra verso mezzanotte, i magistrati comandarono alle scolte che proclamassero il lieto evento per tutte le vie della città: le genti saltarono giù da’ loro letti: si accesero fuochi di gioia; le finestre s’illuminarono; s’apersero le chiese, e tutte le campane suonarono a festa. Quando viaggiava, era in ogni parte ricevuto con pompa non minore, e con assai maggiore entusiasmo di quello con cui erano stati accolti i Re procedenti in mezzo al reame. Veniva di casa in casa scortato da lunghe cavalcate di gentiluomini e borghesi armati. Dalle città uscivano le intere popolazioni a riceverlo. Gli elettori si affollavano d’intorno a profferirgli i loro voti. Egli spinse tanto alto le sue pretese, che non solo mise nell’arme di sua famiglia i leoni d’Inghilterra e i gigli di Francia senza il bastone sinistro, sotto il quale, secondo le leggi del blasone, vengono posti in segno della sua nascita illegittima; ma rischiossi di toccare gli ammalati della malattia regia. Nel tempo stesso, adoperava le arti tutte che valgono a conciliare lo amore della moltitudine. Teneva al fonte battesimale i figliuoli de’ contadini, mescolavasi ai loro rustici sollazzi, lottava, giuocava al bastone a due punte, e vinceva provandosi nelle corse pedestri, egli calzato di stivali contro altri calzati di scarpe. È curiosissima circostanza, che in due delle più grandi occasioni della nostra storia, i capi del partito protestante cadessero nel medesimo errore, e con esso ponessero a grave pericolo la propria patria e religione. Alla morte di Eduardo VI, opposero Lady Giovanna senza alcuna apparenza di diritto di nascita, non solo a Maria loro nemica, ma ad Elisabetta, ch’era la vera speranza dell’Inghilterra e della Riforma. Però i più rispettabili protestanti, con Elisabetta a loro capo, furono costretti a fare causa comune coi papisti. Nello stesso modo, centotrent’anni dopo, parte dell’opposizione ponendo Monmouth come pretendente alla Corona, aggredivano il diritto non solo di Giacomo, che era da essi giustamente considerato quale implacabile nemico della fede e delle libertà loro; ma anche del Principe e della Principessa d’Orange, i quali venivano singolarmente segnati a dito, e per la situazione e per le qualità personali loro, come difensori di tutti i liberi governi e di tutte le Chiese riformate. In pochi anni, la insania di siffatto procedere divenne manifesta. Ma allora gran parte del potere dell’opposizione consisteva nella popolarità di Monmouth. Le elezioni riuscirono avverse alla Corte; il giorno stabilito per l’adunanza delle Camere appressavasi: era, dunque, mestieri che il Re scegliesse la condotta da tenere. Coloro che lo consigliavano, scoprirono i primi lievi segni d’un mutamento nel pubblico sentire, e sperarono che, soltanto differendo a miglior tempo il conflitto, Carlo otterrebbe sicura vittoria. Egli, quindi, senza nè anche chiedere l’opinione del Consiglio de’ Trenta, decise di prorogare il nuovo Parlamento innanzi che cominciasse i suoi lavori. Intanto, al Duca di York, che era ritornato da Brusselles, fu fatto comandamento di ritirarsi in Iscozia, e fu messo a capo dell’amministrazione di quel Regno. Il sistema di Governo fatto da Temple venne manifestamente abbandonato, e subito posto in dimenticanza. Il Consiglio Privato tornò ad essere ciò che, era già stato. Shaftesbury e i suoi fautori politici rinunziarono ai loro seggi in Consiglio. Lo stesso Temple, siccome aveva costume di fare ne’ tempi torbidi, si ritirò nella quiete del suo giardino e nella sua biblioteca. Essex lasciò il Tesoro, e volle correre le sorti dell’opposizione. Ma Halifax, infastidito e temente la violenza de’ suoi vecchi colleghi, e Sunderland, che non abbandonava mai il posto finchè poteva starci, rimasero a’ servigi del Re. A cagione delle rinunzie che seguirono in questa occasione, la via che conduceva alla grandezza fu lasciata aperta ad una nuova torma di aspiranti. Due uomini di Stato, i quali poscia conseguirono la maggiore altezza cui possa giungere un suddito inglese, cominciarono a richiamare a sè gli occhi di tutti. Avevano nome Lorenzo Hyde e Sidney Godolphin. L. Lorenzo Hyde era secondo figlio del Cancelliere Clarendon, e fratello della prima Duchessa di York. Aveva doti eccellenti, rese migliori dalla esperienza parlamentare e diplomatica; ma le infermità della sua tempra scemavano molto la forza naturale di quelle doti. Per quanto fosse assuefatto a’ negoziati diplomatici e agli usi di Corte, non imparò mai l’arte di governare o nascondere le proprie emozioni. Nella prosperità era insolente e vanaglorioso: appena riceveva un colpo dall’avversa fortuna, sapeva così poco dissimulare il cordoglio, che i suoi nemici maggiormente trionfavano: piccolissime provocazioni bastavano ad accendergli l’ira nel cuore; e mentre era incollerito, diceva amarissime cose, che, appena calmato, dimenticava, ma che gli altri tenevano lungamente scolpite nella memoria. Per isvegliatezza e acutezza di mente, ei sarebbe diventato un profondo uomo d’ affari, ove non fosse stato troppo fiducioso di sè ed impaziente. I suoi scritti provano ch’egli aveva molti de’ requisiti che formano un oratore; ma la irritabilità gli impediva di rendersi giustizia nelle discussioni: avvegnachè nulla fosse tanto facile quanto lo incitarlo all’ira; ed appena in preda alle passioni, diventava il zimbello di oppositori molto meno capaci di lui. Dissimile da’ moltissimi politici di quel tempo, egli era uomo di parte, coerente a sè stesso, burbero, astioso; era un Cavaliere della vecchia scuola, un ardente campione della Corona e della Chiesa, e odiava i Repubblicani e i non–conformisti. Aveva, quindi, moltissimi proseliti. Il clero, in ispecie, lo considerava come l’uomo suo proprio, ed accordava alle debolezze di lui una indulgenza, che, a dir vero, gli faceva mestieri; imperciocchè abbandonavasi al bere, e ogni qualvolta trascorreva alla collera—e ciò accadeva assai spesso,—bestemmiava come un vetturino. Egli succede ad Essex nell’ufficio di Tesoriere. È d’uopo notare, che il posto di Primo Lord del Tesoro non aveva allora la importanza e dignità che ha nei tempi nostri. Ogni qualvolta eravi un Lord Tesoriere, egli era generalmente anche Primo Ministro; ma quando il bianco bastone era affidato ad una commissione, il capo commissario non aveva il grado di Segretario di Stato. Solo ai tempi di Walpole, il Primo Lord del Tesoro venne considerato come capo del potere esecutivo. LI. Godolphin era stato educato fra i paggi di Whitehall, e fino da’ suoi teneri anni aveva acquistata tutta la flessibilità e la padronanza di sè, proprie d’un cortigiano. Era amante del lavoro, di mente lucida, e profondamente versato nelle minuzie della finanza. Ogni Governo, quindi, lo sperimentò utile servitore; e non era nulla nelle opinioni o nel carattere di lui, che gli impedisse di servire a qualsifosse Governo. «Sidney Godolphin,» diceva Carlo, «non è mai fra mezzo alla via, e mai fuori di via.» Questa pungente osservazione spiega mirabilmente la straordinaria riuscita di Godolphin nel mondo. In diversi tempi, operò in compagnia di ambedue i grandi partiti politici; ma non partecipò mai alle passioni di nessuno di quelli. Come gli uomini d’indole cauta e di prospera ventura, inchinava fortemente a sostener le cose esistenti. Aborriva dalle rivoluzioni, e per la ragione medesima dalle contro–rivoluzioni. Aveva contegno notevolmente grave e riserbato, ma gusti bassi e frivoli; e spendeva tutto il tempo che gli rimaneva libero dalle pubbliche faccende, nelle corse, nel giuoco delle carte, e ne’ combattimenti de’ galli. Adesso sedeva, sotto Rochester, nell’ufficio del Tesoro, dove si rese notevole per assiduità ed intelligenza. Innanzi che il nuovo Parlamento si fosse lasciato radunare per il disbrigo degli affari, scorse un anno intiero; anno pieno di eventi, che nella lingua e ne’ costumi nostri ha lasciato incancellabili vestigi. Mai prima d’allora le controversie politiche avevano proceduto con pari libertà; mai prima d’allora i circoli politici erano esistiti con organizzazione tanto elaborata, o con tanto formidabile influenza. La sola questione dell’Esclusione occupava le menti di tutti. Tutta la stampa e i pergami del reame presero parte al conflitto. Da un lato, sostenevasi che la Costituzione e la Religione dello Stato non sarebbero mai sicure sotto un re papista; dall’altro lato, che il diritto di Giacomo alla Corona derivava da Dio, e non poteva essere annullato nè anche dal consenso dell’intero corpo legislativo. LII. Ogni contea, ogni città, ogni famiglia, era in grande agitazione. Le cortesie e le ospitalità de’ vicini rimanevano interrotte. I più cari vincoli d’amicizia e di sangue erano indeboliti o rotti. Perfino gli scolari erano divisi in parti; e il Duca di York e il Conte di Shaftesbury avevano partigiani zelanti in Westminster ed Eaton. I teatri risuonavano de’ clamori delle avverse fazioni. La Papessa Giovanna fu messa sulle scene dai fervidi protestanti. I poeti pensionati empivano i prologhi e gli epiloghi di elogi al Re e al Duca. I malcontenti assediavano il trono con petizioni, chiedendo la subita convocazione del Parlamento. I realisti mandavano indirizzi, significando lo estremo aborrimento contro tutti coloro che presumessero imporre al sovrano. I cittadini di Londra raccoglievansi a diecine di migliaia, onde bruciare il papa in effigie. Il Governo appostò coorti di cavalleria a Temple Bar, e collocò le artiglierie attorno Whitehall. In quell’anno, la nostra lingua si arricchì di due parole, _mob_ e _sham_;[22] notevoli ricordi d’una stagione di tumulti e d’impostura.[23] LIII. Gli avversari della Corte erano chiamati Birminghams, Petizionisti, Esclusionisti. I partigiani del Re dicevansi Anti–Birminghams, Aborrenti, Tantivies. Siffatti vocaboli presto caddero in disuso: ma in quel tempo furono primamente uditi due soprannomi, i quali, comecchè in origine si proferissero ad insulto, vennero poco dopo assunti con orgoglio, sono tuttavia d’uso giornaliero, si sono estesi con la razza inglese, e dureranno quanto la inglese letteratura. È circostanza curiosa come uno di cotesti soprannomi fosse d’origine scozzese, ed irlandese l’altro. In Iscozia, come in Irlanda, il cattivo Governo aveva fatto nascere bande di uomini disperati, la ferocia dei quali era accresciuta dallo entusiasmo religioso. In Iscozia, parecchi dei Convenzionisti perseguitati, resi frenetici dall’oppressione, avevano poco innanzi assassinato il Primate, prese le armi contro il Governo, riportato qualche vantaggio contro le forze regie; e non erano stati domati fino a che Monmouth, a capo di alcune milizie d’Inghilterra, gli aveva rotti a Bothwell Bridge. Questi zelanti erano numerosissimi fra i rustici delle pianure occidentali, e volgarmente venivano chiamati _Whig_. Così il nome di _Whig_, dato ai presbiteriani zelanti di Scozia, venne applicato a quei politici inglesi che mostravansi disposti ad avversare la Corte, ed a trattare con indulgenza i protestanti non–conformisti. Nel tempo stesso, le maremme dell’Irlanda apprestavano rifugio ai papisti banditi; simili molto a coloro che poscia si dissero _Whiteboys_. Cotesti uomini allora chiamavansi _Tory_. Il nome di _Tory_ venne perciò apposto a quegli Inglesi che ricusavano di cooperare ad escludere dal trono un Principe cattolico romano. La rabbia delle fazioni ostili sarebbe stata abbastanza violenta, quand’anco si fosse lasciata operare da sè. Ma fu studiosamente esasperata dal comune nemico. Luigi seguitava a comperare e lusingare in un tempo la Corte e la opposizione. Esortava Carlo a tener fermo; esortava Giacomo ad accendere la guerra civile nella Scozia: esortava i Whig a non desistere, ed a riposare con fiducia sopra la protezione della Francia. Fra mezzo a tanta agitazione, un occhio giudizioso si sarebbe potuto accorgere come la pubblica opinione venisse a poco a poco cangiando. La persecuzione de’ Cattolici romani continuava; ma le convinzioni non erano più in uso. Una nuova genia di falsi testimoni, tra’ quali il più notevole era un ribaldo chiamato Dangerfield, infestava i tribunali. Ma le storielle di costoro, benchè fossero meglio congegnate di quella d’Oates, erano meno credute. I giurati più non erano corrivi a prestar fede, come lo erano stati durante il timore panico che aveva tenuto dietro allo assassinio di Godfrey; e i giudici, i quali, mentre la frenesia popolare era giunta al massimo grado erano stati ossequiosissimi strumenti di quella, arrischiavansi adesso a palesare in parte le proprie opinioni. LIV. Finalmente, nell’ottobre del 1680, adunossi il Parlamento. I Whig avevano una così grande maggioranza nella Camera dei Comuni, che la Legge d’Esclusione passò senza difficoltà. Il Re appena sapeva quali fossero i membri del suo Gabinetto, de’ quali potesse far conto. Hyde era rimasto fedele alle sue opinioni di Tory, ed aveva fermamente sostenuta la causa della monarchia ereditaria. Ma Godolphin, desideroso di tranquillità, e credendo di non poterla ottenere se non se per mezzo della concessione, desiderava che la legge passasse. Sunderland, sempre perfido e poco veggente, inetto a scernere i segni della reazione che s’appressava, ed ansioso di riconciliarsi al partito che a lui pareva invincibile, deliberò di votare contro la Corte. La Duchessa di Portsmouth supplicava il suo reale amante a non correre diritto alla propria rovina. Se v’era cosa intorno alla quale egli avesse scrupolo di coscienza e d’onore, ella era la questione della successione: ma per alcuni giorni e’ parve volesse cedere. Ondeggiava, e chiedeva quale somma di danari i Comuni gli darebbero se egli cedesse; e permise che si aprissero negoziati coi principali Whig. Ma la profonda vicendevole diffidenza, che era venuta sempre crescendo, ed era stata con grande studio alimentata dalle arti della Francia, rese impossibile ogni trattato. Nessuna delle parti voleva affidarsi all’altra. LV. La intera nazione, con ansia indicibile, teneva l’occhio fisso alla Camera de’ Lordi. La congrega de’ Pari era numerosa. Il Re stesso era lì presente. Le discussioni furono lunghe, ardenti, e di quando in quando furiose. Parecchi recarono la mano all’elsa della propria spada, in modo da richiamare alla memoria la immagine de’ procellosi Parlamenti di Enrico III e di Riccardo II. A Shaftesbury e ad Essex si congiunse il perfido Sunderland. Ma il genio di Halifax vinse ogni opposizione. Abbandonato da’ principali fra’ suoi colleghi, ed avversato da una falange di insigni antagonisti, difese la causa del Duca di York con parecchie orazioni, le quali, molti anni dipoi erano rammentate come capolavori di ragionamento, di brio e d’eloquenza. Rade volte avviene che l’arte oratoria cangi i voti: eppure, il testimonio de’ contemporanei non lascia dubbio nessuno che, in cotesta occasione, i voti cangiaronsi mercè l’arte oratoria di Halifax. I Vescovi, fedeli alle proprie dottrine, sostennero il principio del diritto ereditario, e la legge venne rigettata a gran maggioranza di voti.[24] La parte che preponderava nella Camera de’ Comuni, amaramente umiliata da cotesta sconfitta, trovò qualche compenso spargendo il sangue de’ Cattolici romani. Guglielmo Howard, visconte Stafford, uno degli infelici già accusati come complici della congiura, fu condotto al tribunale de’ suoi pari; e sullo attestato di Oates e di due altri falsi testimoni, Dugdale e Turberville, fu giudicato colpevole di alto tradimento, e dannato a morire. Ma le circostanze del suo processo e della sua morte avrebbero dovuto essere d’utile ammonimento ai capi de’ Whig. Una grande e rispettabile minoranza nella Camera de’ Lordi lo dichiarò non reo. La moltitudine, che pochi mesi innanzi aveva ricevute le estreme confessioni delle vittime di Oates con esecrazione e scherno, ora diceva a voce alta che Stafford moriva assassinato. Quando egli col suo ultimo respiro protestò della propria innocenza, gli astanti gridavano: «Dio vi benedica, Milord! Noi vi crediamo, Milord.» Un osservatore giudicioso avrebbe potuto agevolmente predire, che il sangue che allora versavasi, tra breve tempo verrebbe espiato dal sangue. LVI. Il Re deliberò di provare un’ altra volta lo espediente di sciogliere il Parlamento. Ne convocò un altro, che doveva radunarsi in Oxford nel marzo 1681. Dai giorni de’ Plantageneti in poi, le Camere avevano sempre tenute le loro sessioni in Westminster, tranne ne’ tempi in cui la peste infuriava nella metropoli; ma una congiuntura così straordinaria sembrava richiedere straordinarie cautele. Se il Parlamento si fosse ragunato nel luogo consueto, la Camera de’ Comuni si sarebbe potuta dichiarare in permanenza, ed avrebbe invocato l’aiuto de’ magistrati e de’ cittadini di Londra. Le milizie civiche avrebbero potuto sorgere a difendere Shaftesbury, come quaranta anni avanti erano sorte a difendere Pym e Hampden. Le guardie avrebbero potuto essere vinte, la reggia forzata, il Re prigioniero nelle mani de’ suoi sudditi ribelli. Tale pericolo non era da temersi in Oxford. La università era devota alla Corona; e i gentiluomini delle vicinanze erano generalmente Tory. Quivi, dunque, la opposizione, più che il Re, aveva ragione di temere la violenza. Le elezioni furono subietto di ardenti contrasti. I Whig tuttavia formavano la maggioranza nella Camera de’ Comuni; ma era manifesto che lo spirito Tory veniva celeremente sorgendo in tutto il paese. E’ parrebbe che il sagace e versatile Shaftesbury avesse dovuto prevedere il cangiarsi de’ tempi, ed assentire ai patti offerti dalla Corte; ma sembra che avesse posta in dimenticanza la sua antica strategia. Invece di provvedere in guisa, che, nel peggiore evento, egli avesse sicura la propria ritirata, prese tale una posizione, che gli era forza o vincere o perire. Forse il suo cervello, comunque fortissimo, era stato travolto dalla popolarità, dal successo e dallo eccitamento del conflitto. Forse aveva dato di sprone al proprio partito tanto, da non poterlo più dominare, ed era veramente trascinato da coloro che egli sembrava condurre. LVII. Giunse il gran giorno. L’adunanza d’Oxford somigliava più presto ad una Dieta polacca, che a un Parlamento inglese. I rappresentanti Whig apparvero scortati da gran numero de’ loro affittuari e servitori, in armi e montati a cavallo, i quali scambiavano sguardi di diffidenza con le guardie regie. La più lieve provocazione, in cosiffatte circostanze, avrebbe prodotta la guerra civile; ma nessuna delle due parti si attentò di dare il primo colpo. Il Re di nuovo offerse di consentire ogni cosa, fuorchè la Legge d’Esclusione. I Comuni erano deliberati di non accettare null’altro che la Legge d’Esclusione. Dopo pochi giorni, il Parlamento fu nuovamente disciolto. Il Re aveva trionfato. La Reazione, che era incominciata alcuni mesi innanzi che s’adunassero le Camere in Oxford, si accrebbe rapidamente. La nazione, a dir vero, rimaneva sempre ostile al papismo: ma quando i cittadini richiamarono ad esame tutta la storia della congiura, si accorsero come il loro zelo protestante gli avesse fatti trascorrere alla demenza e al delitto, e appena potevano credere d’essere stati spinti da alcune novelle da balia a gridare al sangue de’ loro concittadini e fratelli cristiani. E davvero, i più leali non potevano negare che l’amministrazione di Carlo fosse spesse volte stata degna di biasimo. Ma coloro che non conoscevano pienamente come noi le relazioni di lui con la Francia, e che aborrivano dalle violenze dei Whig, enumeravano le ampie concessioni da lui fatte negli ultimi anni al Parlamento, e le concessioni anche più ampie che avea dichiarato di voler fare. Aveva assentito alle leggi che escludevano i Cattolici Romani dalla Camera de’ Lordi, dal Consiglio Privato, ed agli uffici civili e militari. Aveva approvato l’Atto dell’_Habeas Corpus_. Se non s’erano per anche fatti provvedimenti contro i pericoli ai quali la Costituzione e la Chiesa potevano essere esposte sotto un Sovrano cattolico romano, la colpa non era di Carlo, che aveva invitato il Parlamento a proporre le opportune guarentigie, ma di quei Whig i quali avevano ricusato di aderire a qualunque provvisione da sostituirsi alla Legge d’Esclusione. Una sola cosa aveva il Re negata al suo popolo. Aveva ricusato di annullare il diritto ereditario del fratello. E non v’erano buone ragioni a credere che tale rifiuto nascesse da sentimenti lodevoli? Di quale motivo d’egoismo poteva la stessa fazione addebitare l’animo del Re? La Legge d’Esclusione non iscemava le prerogative nè le entrate del Principe regnante. Veramente, approvandola, avrebbe potuto facilmente ottenere un ampio accrescimento alle sue proprie rendite. E che poteva ciò importare a colui che regnasse dopo? Inoltre, se Carlo aveva predilezioni personali, tutti sapevano ch’egli prediligeva il Duca di Monmouth sopra il Duca di York. E però, il modo più naturale di spiegare la condotta del Re sembrava essere che, comunque ei fosse d’indole spensierata e di bassa morale, aveva, in quel!’ occasione, operato secondo gl’impulsi del dovere e dell’onore. E se era così, poteva la nazione costringerlo a fare ciò ch’egli reputava criminoso e disonorevole? Violentargli, anche con mezzi strettamente costituzionali, la coscienza, ai realisti zelanti sembrava atto poco generoso ed indebito. Ma i mezzi strettamente costituzionali non erano i soli ai quali i Whig volevano appigliarsi. Vedevansi già segni tali, che facevano presagire lo avvicinarsi di grandi perturbazioni. Uomini che nel tempo della guerra civile e della Repubblica avevano acquistata odiosa rinomanza, erano usciti fuori dalla oscurità, in cui, dopo la Restaurazione, giacevano nascosti onde sottrarsi all’odio universale; mostravano i loro visi fidenti ed affaccendati in ogni dove, e sembravano anticipare un secondo regno de’ Santocchi. Un altro Naseby, un’altra Alta Corte di Giustizia, un altro usurpatore sul trono, i Lordi nuovamente espulsi a forza da’ loro seggi, le Università di nuovo purgate, la Chiesa nuovamente saccheggiata e perseguitata, i Puritani di nuovo dominanti: a tali conseguenze sembrava tendere la politica disperata della opposizione. Animata da cotesti sentimenti, la maggioranza delle alte classi e delle medie affrettassi a porsi dalla parte del trono. La situazione del Re in questo tempo rendeva immagine di quella del padre suo, dopo che era stata votata la Rimostranza. Ma alla Reazione del 1641 non s’era lasciata correre intera la sua via. Carlo I, nel momento stesso in cui il suo popolo, lungo tempo da lui allontanato, ritornava a lui disposto alla conciliazione, aveva, violando perfidamente le leggi fondamentali del reame, perduto per sempre la fiducia di quello. Se Carlo II si fosse gettato nella medesima via, se avesse imprigionati in modo irregolare i capi dei Whig, e gli avesse accusati d’alto tradimento innanzi ad un tribunale privo di giurisdizione legale sopra loro, è molto probabile che questi avrebbero speditamente riacquistato il predominio che avevano già perduto. Avventuratamente per lui, in cotesta crisi, venne indotto ad attenersi ad una politica che, rispetto ai suoi fini, era singolarmente giudiziosa. Deliberò di conformarsi alla legge, ma usare nel tempo stesso energicamente ed inesorabilmente la legge contro i suoi avversari. Non era tenuto a convocare il Parlamento avanti che fossero scorsi tre anni. Non aveva grande penuria di danaro. Il prodotto delle tasse, che gli era stato concesso a vita, eccedeva l’estimo. Era in pace con tutto il mondo. Poteva scemare le proprie spese rinunziando al costoso ed inutile stabilimento di Tangeri; e poteva sperare sussidii pecuniari dalla Francia. Gli rimanevano, quindi, tempo e mezzi molti onde aggredire sistematicamente l’opposizione sotto le forme della Costituzione. I giudici erano amovibili ad arbitrio di lui; i giurati erano nominati dagli Sceriffi; e in quasi tutte le Contee dell’Inghilterra gli Sceriffi erano nominati dal Re. Testimoni, della specie di quelli che avevano deposto contro la vita de’ Papisti, erano pronti a deporre contro quella de’ Whig. LVIII. La prima vittima fu College, violento e clamoroso demagogo, di vili natali e di bassa educazione. Faceva il mestiere di falegname, e divenne celebre come inventore del correggiato protestante.[25] Era stato in Oxford mentre eravi ragunato il Parlamento, e lo avevano accusato di avere ordito una insurrezione ed aggressione contro le guardie del Re. Contro di lui testificarono Dugdale e Turberville; gli stessi infami uomini i quali, pochi mesi innanzi, erano stati falsi testimoni contro Stafford. Non era probabile che alcuno Esclusionista trovasse favore al cospetto de’ giurati di provincia. College fu dichiarato reo. La folla che riempiva la sala del tribunale in Oxford, ricevè l’annunzio della condanna con gridi di gioia; gridi tanto barbari, quanto quelli che egli e i suoi amici avevano costume di mandare quando gl’innocenti papisti venivano dannati alla forca. La sua morte fu l’inizio di un nuovo macello giuridico, non meno atroce di quello al quale egli stesso aveva partecipato. Il Governo, reso audace da questa prima vittoria, intese a colpire, un nemico di specie differentissima. Deliberò di processare Shaftesbury. Si raccolsero prove, con che speravasi convincerlo di tradimento. Ma i fatti ch’era d’uopo provare, vennero prodotti come avvenuti in Londra. Gli Sceriffi di Londra, eletti dai cittadini, erano Whig zelanti. Costoro nominarono giurati Whig; i quali rigettarono l’accusa. LIX. Questa sconfitta, invece di scoraggiare i Consiglieri del Re, suggerì loro un disegno nuovo ed ardito. Poichè lo Statuto Municipale della capitale era d’inciampo, era necessario annullarlo. Pretesero quindi che la città di Londra avesse, a cagione di alcune irregolarità, perduti i suoi privilegi municipali; e fu intentato un processo contro il Municipio nella Corte del Banco del Re. Nel tempo stesso, quelle leggi che, subito dopo la Restaurazione, eransi promulgate contro i non–conformisti, e che eransi lasciate inattive mentre preponderavano i Whig, vennero rigorosissimamente attuate per tutto il Regno. Nonostante, lo spirito de’ Whig non era domo. Quantunque fossero in tristi condizioni, formavano tuttavia un partito numeroso e potente; e come si mostravano forti nelle grandi città, e massimamente nella metropoli, facevano rumore e sembianza più di quanto ne comportava la loro forza positiva. Inanimiti dalla rimembranza dei passati trionfi, e dal sentimento della oppressione presente, esageravano e la forza e i danni propri. Non erano in istato di giudicare se le cose fossero giunte a quegli estremi che soli possono giustificare l’uso d’un rimedio così violento, come è la resistenza ad un Governo stabilito. Per quanti sospetti potessero essi aver concepiti, non potevano provare che il loro Sovrano aveva concluso un trattato con la Francia contro la religione e le libertà dell’Inghilterra. Le apparenze non erano bastevoli a giustificare il ricorso alla spada. Se la Legge d’Esclusione era stata rigettata, ciò avevano fatto i Lordi nello esercizio di un diritto antico quanto la Costituzione. Se il Re aveva sciolto il Parlamento di Oxford, aveva così operato per virtù di una prerogativa che non era stata mai messa in dubbio. Se la Corte, dopo il riferito scioglimento, era trascorsa ad atti duri, tali atti erano strettamente conformi alla lettera della legge, ed alla recente pratica degli stessi malcontenti. Se il Re aveva perseguitati i suoi avversari, gli aveva perseguitati secondo le forme debite innanzi ai debiti tribunali. Le prove che ora producevansi a pro della Corona, erano almeno meritevoli di fede quanto quelle per virtù delle quali il più nobile sangue inglese era stato, poco innanzi, versato dalla opposizione. Il modo onde un Whig accusato ora doveva aspettarsi d’essere trattato da giudici, avvocati, sceriffi, giurati e spettatori, non era peggiore di quello che i Whig avevano reputato abbastanza buono per un accusato papista. Se erasi proceduto contro i privilegi della città di Londra, ciò era seguito non per violenza militare, o per virtù di alcun contrastabile esercizio della prerogativa, ma secondo la pratica regolare di Westminster Hall. La regia autorità non aveva imposto nessuna tassa. Nessuna legge era sospesa. L’Atto dell’_Habeas Corpus_ era rispettato. Perfino l’Atto di Prova era in vigore. La opposizione, dunque, non poteva addebitare al Re quella specie di mal governo che solo potrebbe giustificare la insurrezione. E quando anche il suo mal governo fosse stato più visibile di quello che appariva, la insurrezione sarebbe anche stata criminosa, come quella che era quasi sicura di esito non prospero. La situazione dei Whig nel 1682 differiva grandemente da quella delle Teste–Rotonde quaranta anni prima. Coloro che avevano prese le armi contro Carlo I, avevano operato sotto l’autorità di un Parlamento, il quale, legalmente adunato, non poteva, senza il proprio consenso, essere legalmente sciolto. Gli oppositori di Carlo II erano uomini privati. Quasi tutti i mezzi militari e navali erano nelle mani di coloro che resisterono a Carlo I. Tutti i mezzi militari e navali erano nelle mani di Carlo II. La Camera de’ Comuni era stata sostenuta almeno da mezza la nazione contro Carlo I. Ma coloro che inchinavano a guerreggiare contro Carlo II, erano certamente in minoranza. E però, non poteva ragionevolmente dubitarsi, che qualora essi tentassero una insurrezione, fallirebbero. E anche meno poteva dubitarsi che il mal esito della impresa rendesse più duri i mali di cui menavano lamento. La vera politica de’ Whig era quella di sobbarcarsi pazienti all’avversità che era conseguenza naturale e giusto castigo de’ loro errori; di aspettare pazientemente fino al tempo in cui il pubblico sentire si sarebbe, con inevitabile vicenda, cangiato; di osservare la legge, e di giovarsi della protezione, imperfetta sì, ma non affatto futile, che la legge apprestava alla innocenza. Sventuratamente, presero una via molto diversa. I capi del partito, scevri di scrupoli e caldi di cervello, formavano e discutevano disegni di resistenza, ed erano ascoltati se non con approvazione, almeno con segni d’acquiescenza, da uomini molto migliori di loro. Proposero di insorgere ad un tempo in Londra, in Cheshire, in Bristol e in Newcastle. Aprirono comunicazioni coi malcontenti presbiteriani di Scozia, i quali pativano una tirannia, quale l’Inghilterra, in tempi pessimi, non aveva mai patita. Mentre i principali della opposizione in tal guisa architettavano la ribellione aperta, ma erano tuttavia da scrupoli o da paura ritenuti dal fare alcun passo decisivo, parecchi dei loro complici ordivano una trama di specie differentissima. A questi spiriti feroci, non infrenati da principio alcuno, o resi insani dal fanatismo, e’ pareva che agguatare ed assassinare il Re e il fratello fosse la via più breve e sicura di vendicare la religione protestante e le libertà della Inghilterra. Indicarono il tempo e il luogo; e spesso discutevano, se pure non gli avevano definitivamente ordinati, intorno ai particolari del macello. Questo disegno era noto a pochi, e nascosto con gran cura a Russell, spirito probo ed umano; e a Monmouth, il quale, quantunque non fosse uomo di delicata coscienza, avrebbe aborrito dal parricidio. In tal modo, v’erano due congiure, una dentro l’altra. Lo scopo della grande congiura Whig, era quello di chiamare la nazione alle armi contro il Governo. La congiura minore, comunemente detta la congiura di _Rye house_, della quale soli pochi disperati uomini erano partecipi, aveva lo scopo di assassinare il Re e il suo erede presuntivo. LX. Ambedue vennero tosto scoperte. Alcuni traditori codardi affrettaronsi a porsi in salvo divulgando tutto, e, più che tutto, ciò che era seguito nelle deliberazioni del partito. Non è luogo a dubitare, che pochi di coloro che meditavano di fare resistenza al Governo, volgessero in mente il pensiero dell’assassinio; ma poichè le due cospirazioni erano strettamente connesse, non tornò difficile al Governo confonderle in una. La giusta indignazione suscitata dalla congiura di _Rye house_, fu rivolta per alcun tempo a tutti i Whig. Il Re ormai poteva liberamente vendicarsi di tanti anni di freno e di umiliazione. Shaftesbury, a dir vero, aveva schivato il destino di che per la sua multiforme perfidia era bene meritevole. Essendosi accorto che il suo partito correva a rovina, ed invano studiato di pacificarsi agli augusti principi, era fuggito in Olanda; dove morì sotto la generosa protezione d’un Governo da lui crudelmente oltraggiato. Monmouth si gettò ai piedi del padre, ed ottenne perdono; ma tornato presto ad offenderlo, reputò prudente andare in volontario esilio. Essex si uccise nella Torre. Russell, che pare non essere stato reo di alto tradimento, e Sidney, della cui reità non si poterono produrre prove legali, furono decapitati contro legge e giustizia. Russell morì con la fermezza d’animo d’un cristiano; Sidney con quella d’uno stoico. Parecchi altri politici faccendieri d’inferiore condizione furono dannati alle galere. Molti abbandonarono la patria. Istituironsi numerosi processi per delitti di tradigione, calunnia e congiura. I giurati Tory profferivano senza difficoltà sentenze di reità, e i giudici cortigiani infliggevano pene rigorose. A questi processi criminali aggiungevansi i civili, quasi ugualmente formidabili. Intentaronsi accuse contro individui che avevano diffamato il Duca di York; e gli accusatori chiedevano, e i giudici senza difficoltà concedevano ammende equivalenti ad una condanna di prigionia perpetua. La Corte del Banco del Re decise, che le franchigie della città di Londra erano devolute alla Corona. LXI. Inebriato da questa grande vittoria, il Governo procedè ad aggredire gli Statuti di altri Municipi governati da ufficiali Whig, e che avevano costume di eleggere rappresentanti Whig al Parlamento. I borghi, l’uno dopo l’altro, furono costretti a rendere i propri privilegi; e vennero concessi nuovi Statuti, che in ogni parte resero predominanti i Tory. Tali procedimenti, comunque degni di biasimo, serbavano l’apparenza della legalità. Furono anco accompagnati da un atto inteso a calmare il timore che molti sudditi leali sentivano dello avvenimento al trono d’un sovrano papista. Lady Anna, figlia minore del Duca di York del primo letto, fu data in sposa a Giorgio principe della Casa ortodossa di Danimarca. I gentiluomini Tory e il clero potevano adesso fermamente sperare che la Chiesa d’Inghilterra si trovasse efficacemente assicurata, senza essere stato minimamente violato l’ordine della successione. Il Re e lo erede del trono erano a un di presso di eguale età. Ambidue avvicinavansi agli anni in cui la vita declina. La salute del Re era buona. Era quindi probabile, che Giacomo, se mai ascendesse al trono, regnerebbe poco tempo. Dietro il suo regno, scorgevasi il lieto spettacolo d’una lunga serie di Sovrani Protestanti. La libertà della stampa era di poco o di nessun utile alla parte vinta; perocchè l’indole dei giudici e dei giurati era tale, che nessuno scrittore, ove dal Governo fosse accusato di calunnia, aveva probabilità di andare assoluto. Però la paura della pena faceva tutto lo effetto che avrebbe potuto produrre la censura. Frattanto, i pulpiti risuonavano di arringhe contro il peccato di ribellione. Gli scritti in cui Filmer sosteneva che il dispotismo ereditario era la forma di Governo ordinata da Dio, e che la monarchia limitata era assurdità perniciosa, erano pur allora usciti alla luce, ed avevano ottenuto il favore di molti individui del partito Tory. La università di Oxford, nel giorno stesso in cui Russell fu tratto a morte, adottò con un atto solenne quelle strane dottrine, ed ordinò che le opere politiche di Buchanan, di Milton e di Baxter, fossero pubblicamente bruciate nella corte delle Scuole. Così imbaldanzito, il Re finalmente rischiossi a varcare i confini che per alcuni anni aveva rispettati, e a violare la lettera della legge. La legge voleva, che non più di tre anni dovessero trascorrere dalla dissoluzione di un Parlamento alla convocazione di un altro. Ma scorsi tre anni dopo disciolto il Parlamento di Oxford, non si videro decreti per la nuova elezione. Questo violare la Costituzione era più biasimevole, in quanto il Re aveva poca cagione a temere d’una nuova Camera di Comuni. Le Contee, generalmente, parteggiavano per lui; e molti borghi ne’ quali i Whig poco innanzi avevano predominato, erano stati talmente ricostituiti, che, certo, non avrebbero eletti se non rappresentanti cortigiani. LXII. Poco dopo, la legge venne nuovamente violata onde compiacere al Duca di York. Cotesto principe era, in parte per la sua religione, e in parte per la severità ed asprezza dell’indole sua, cotanto impopolare, che erasi stimato necessario di asconderlo agli occhi di tutti nel tempo che discutevasi in Parlamento la Legge d’Esclusione: altrimenti, il suo mostrarsi in pubblico avrebbe giovato il partito che lottava a privarlo del diritto ereditario. Era perciò stato mandato a governare la Scozia, dove il fiero e vecchio tiranno Lauderdale era sull’orlo del sepolcro. E perfino Lauderdale allora fu vinto in ferocia. L’amministrazione di Giacomo acquistò infame rinomanza per leggi odiose, per barbari castighi e per giudicii d’iniquità, ai quali anche in quel tempo non era nulla di simile. Il Consiglio Privato di Scozia aveva potestà di porre alla tortura i prigionieri di Stato. Ma appena comparivano gli stivali, la loro vista eccitava tanto terrore, che anche i cortigiani più servili e duri di cuore uscivano frettolosi dalla sala. Il seggio talvolta rimaneva deserto; ed infine, fu reputato necessario ordinare che in simiglianti occasioni i Consiglieri rimanessero al loro posto. Notavasi che il Duca di York pareva dilettarsi di uno spettacolo, al quale parecchi de’ peggiori uomini che allora vivessero non potevano assistere senza commiserazione ed orrore. Egli non solo andava al Consiglio ogni qualvolta doveva infliggersi la tortura, ma attendeva all’agonia dei martoriati con quella specie d’interesse e di compiacenza, con che gli uomini contemplano uno sperimento scientifico. Così governò in Edimburgo, finchè l’esito del conflitto tra la Corte e i Whig non fu più dubbio. Allora ritornò in Inghilterra; ma rimase, per virtù dell’Atto di Prova, escluso tuttavia da ogni pubblico ufficio; nè il Re stimò sano consiglio in prima violare uno Statuto, che la maggior parte de’ sudditi a lui più fidi consideravano come una delle principali guarentigie de’ diritti civili e della religione loro. Quando, nondimeno, parve manifesto, dopo molti esperimenti, che la nazione aveva la pazienza di sopportare ogni cosa che il Governo avesse coraggio di fare, Carlo provossi a porre da parte la legge, a favore del proprio fratello. Il Duca riebbe il suo seggio in Consiglio, e riassunse il governo delle faccende navali. LXIII. Queste infrazioni della Costituzione eccitarono veramente qualche mormorio fra i Tory moderati, mentre non erano unanimemente approvate neanche dai Ministri del Re. In ispecie Halifax—adesso fatto Marchese e Lord Guardasigilli—fino dal giorno nel quale i Tory, mercè di lui, erano divenuti predominanti, aveva cominciato a farsi Whig. Appena rigettata la Legge d’Esclusione, insistette perchè la Camera de’ Lordi provvedesse contro il pericolo, a cui, nel prossimo regno, le libertà e la religione della patria potevano rimanere esposte. Vedeva ora con timore la violenza di quella Reazione, che in non poca parte era opera sua. Non si studiò di nascondere l’onta ch’egli sentiva delle servili dottrine della università d’Oxford. Detestava l’Alleanza Francese: disapprovava il lungo indugio a convocare il Parlamento: dolevasi della severità con che la parte vinta era trattata. Egli che, mentre predominavano i Whig, erasi rischiato a dichiarare Stafford non reo, rischiossi, mentre essi erano vinti e derelitti, ad intercedere a pro’ di Russell. In uno degli ultimi Consigli tenuti da Carlo, segui una notabilissima scena. Lo Statuto di Massachusetts era stato confiscato. Sorse questione sul modo in che verrebbe per lo avvenire governata quella colonia. Opinavano quasi tutti i consiglieri, che l’intero potere legislativo ed esecutivo dovesse rimanere nella mani del principe. Halifax opinò diversamente, e ragionò con gran vigoria d’argomenti contro la monarchia assoluta, e a favore del governo rappresentativo. Era inutile, diceva egli, il pensare che una popolazione, uscita dalla razza inglese, ed animata da sentimenti inglesi, volesse lungamente tollerare di rimaner priva d’istituzioni inglesi. A che gioverebbe, egli esclamava, vivere in un paese dove la libertà e gli averi fossero soggetti allo arbitrio di un despota? Il Duca di York infiammossi di collera a siffatte parole, e mostrò al fratello il pericolo di mantenere in ufficio un uomo che sembrava infetto delle pessime idee di Marvell e di Sidney. Taluni moderni scrittori hanno biasimato Halifax per essere rimasto nel Ministero, mentre disapprovava il modo cui gli affari interni ed esterni erano condotti. Ma tale biasimo è ingiusto. Ed è da notarsi che la parola Ministero, nel senso in che oggi si usa, era allora sconosciuta.[26] La cosa stessa non esisteva, perocchè essa appartiene ad una età in cui il governo parlamentare è pienamente stabilito. Ai dì nostri, i principali servitori della Corona formano un solo corpo. S’intende ch’essi siano in termini di amichevole fiducia fra loro, e concordino intorno ai principii massimi che debbono dirigere il potere esecutivo. Se sorge fra loro una lieve differenza d’opinione, agevolmente patteggiano; ma, ove uno di loro diverga dagli altri sopra un punto vitale, è suo debito rinunciare all’ufficio. Finchè egli lo ritiene, è considerato come responsabile anche degli atti che si è studiato d’impedire. Nel secolo decimosettimo, i capi de’ vari dipartimenti dell’amministrazione non erano siffattamente vincolati. Ciascuno di loro doveva rendere conto degli atti propri, dell’uso ch’ei faceva del suo sigillo ufficiale, de’ documenti cui apponeva la propria firma, de’ consigli che dava al Re. Nessun uomo di Stato era tenuto responsabile di ciò ch’egli non aveva fatto, nè indotto altri a fare. S’egli aveva cura di non essere partecipe di ciò che era ingiusto, e se, consultato, commendava soltanto ciò ch’era giusto, andava scevro di biasimo. Sarebbe stato considerato come un suo strano scrupolo lo abbandonare il posto, ove il suo signore non seguisse il consiglio di lui in cose che non fossero strettamente pertinenti al suo dipartimento: lasciare, per modo d’esempio, lo Ammiragliato, perchè le finanze trovavansi disordinate; o il Tesoro, perchè le relazioni del Regno con le Potenze straniere erano in condizioni poco soddisfacenti. Non era, perciò, cosa affatto insolita il vedere negli alti uffici in un tempo medesimo uomini che apertamente differissero, l’uno dall’altro, in opinione, come Pultenay differiva da Walpole, o Fox da Pitt. LXIV. I consigli moderati e costituzionali di Halifax furono timidamente e debolmente secondati da Francesco North, Lord Guildford, che di recente era stato fatto Guardasigilli. Il carattere di Guildford è stato disegnato ampiamente da suo fratello Ruggiero North, intollerantissimo Tory, e scrittore molto affettato e pedante; ma vigile osservatore di tutte quelle minuzie che gettano luce sulle inclinazioni degli uomini. È da notarsi che il biografo, quantunque sottostasse alla influenza della più forte parzialità fraterna, e comunque desiderasse pennelleggiare un lusinghiero ritratto, non potè ritrarre il Lord Guardasigilli altramente che come il più ignobile degli uomini. Nondimeno, Guildford aveva lucido intelletto, grande arte, buon corredo di lettere e di scienze, e moltissima dottrina legale. I suoi difetti erano l’egoismo, la codardia e la bassezza. Non era insensibile alla magia della beltà femminile, nè aborriva dallo eccesso nel vino. E nulladimeno, nè vino nè beltà poterono mai spingere il cauto e frugale libertino, anche negli anni suoi giovanili, ad un solo slancio di generosità indiscreta. Benchè fosse di nobile lignaggio, elevossi nella propria professione tributando omaggi ignominiosi a tutti coloro che avevano influenza nelle Corti. Divenne Capo Giudice dei Piati Comuni, e come tale fu parte ne’ più iniqui assassinii giuridici di cui si serbi ricordo nella storia nostra. Egli aveva senno bastevole a discernere fino da principio che Oates e Bedloe erano impostori: ma il Parlamento e il paese erano grandemente eccitati; il Governo aveva ceduto alla pressura; e North non era uomo da porre a repentaglio, per amore della giustizia e dell’umanità, un buon posto. Per la qual cosa, mentre in secreto scriveva una confutazione del romanzo della Congiura papale, dichiarava in pubblico la storiella essere vera e chiara come la luce del sole; e non vergognò d’imporre dal seggio della giustizia agli sventurati Cattolici Romani, i quali gli stavano dinanzi incolpati di delitti capitali. Finalmente, era pervenuto a conseguire il più alto ufficio nelle Leggi. Ma un legale, che dopo di essere stato per molti anni tutto dedito allo esercizio della propria professione, si volga alla politica per la prima volta in età avanzata, rade volte riesce insigne uomo di Stato; e Guildford non fa eccezione a questa regola generale. Sentiva tanto la propria dappocaggine, che non intervenne mai alle adunanze de’ colleghi intorno agli affari esteri. Anche nelle questioni concernenti la sua professione, le opinioni sue erano di meno peso in Consiglio, che quelle di chiunque abbia mai tenuto il Gran Sigillo. Nondimeno, quella tal quale influenza ch’egli esercitava, adoperò, fin dove osava di farlo, a favore delle leggi. Il principale avversario di Halifax era Lorenzo Hyde, che era stato, poco innanzi, creato Conte di Rochester. Tra tutti i Tory, Rochester era il più intollerante e contrario ad ogni accordo. I membri moderati del suo partito dolevansi che tutti gli uffici del Tesoro, mentre egli ne era Primo Commissario, venissero concessi agli zelanti, i cui soli diritti ad essere promossi consistevano nel bere a confusione de’ Whig, e nell’accendere fuochi di gioia e bruciarvi la Legge d’Esclusione. Il Duca di York, satisfatto di uno spirito che tanto gli somigliava, sosteneva con passione ed ostinazione il proprio cognato. I tentativi che i Ministri rivali facevano a vincersi e supplantarsi scambievolmente, tenevano perennemente agitata la Corte. Halifax instava presso il Re perchè convocasse il Parlamento, a concedere una generale amnistia, a privare il Duca di York d’ogni partecipazione al Governo, a richiamare Monmouth dallo esilio, a romperla con Luigi, ed a stringere l’unione con la Olanda, giusta i principii della Triplice Alleanza. Il Duca di York, dall’altro canto, temeva lo adunarsi del Parlamento, abborriva i vinti Whig con tenace rancore, sperava tuttavia che il disegno formato quattordici anni innanzi in Dover potesse mandarsi ad esecuzione, mostrava ogni giorno al proprio fratello la inconvenevolezza di patire che un uomo il quale in cuore era repubblicano tenesse il Gran Sigillo, e proponeva calorosamente Rochester come adattato al grande ufficio di Lord Tesoriere. Mentre le due fazioni si travagliavano, Godolphin, cauto, tacito, laborioso, tenevasi neutrale fra quelle. Sunderland, con la sua solita irrequieta perfidia, intrigava contro ambedue. Era stato cacciato d’ufficio per avere votato in favore della Legge d’Esclusione, ma era stato ribenedetto mercè i buoni uffici della Duchessa di Portsmouth e lo strisciarsi attorno al Duca di York, ed era di nuovo Segretario di Stato. LXV. Nè Luigi rimaneva spensierato o inoperoso. Ogni cosa allora correva prospera ai suoi disegni. Non aveva nulla a temere dallo Impero Germanico, che allora pugnava contro i Turchi sul Danubio. La Olanda, priva dell’altrui sostegno, non poteva rischiarsi ad avversarlo. Era, quindi, libero di appagare la propria sfrenata ambizione ed insolenza. S’impossessò di Dixmude e di Courtray: mitragliò Lussemburgo: volle che la Repubblica di Genova si prostrasse umiliata ai suoi piedi. La potenza francese in quel tempo era giunta al grado più alto al quale mai, o prima o poi, si elevasse ne’ dieci secoli che dividono il regno di Carlomagno da quello di Napoleone. Non era facile il dire dove si sarebbe fermato, se gli fosse riuscito di tenere la sola Inghilterra in istato di vassallaggio. Il primo scopo della Corte di Versailles, quindi, era quello d’impedire la convocazione del Parlamento, e la concordia dei partiti inglesi. A ciò fare, fu larghissima di doni, di promesse, di minacce. Carlo talvolta era sedotto dalla speranza d’un sussidio, e tal’altra spaventato da chi gli ripeteva, che, convocando le Camere, gli articoli secreti del trattato di Dover verrebbero divulgati. Parecchi Consiglieri vennero comprati; e tentossi anche, ma indarno, di comprare Halifax. Trovatolo incorruttibile, la Legazione Francese adoperò ogni arte ed influenza a farlo sloggiare dall’ufficio; ma il suo spirito squisito e le sue rare doti lo avevano reso così caro al proprio signore, che il disegno della Francia andò in fallo.[27] Halifax non era pago di starsi in sulle difese. Accusò apertamente Rochester di malversazione. Si fece una inchiesta. Si conobbe che quarantamila lire sterline s’erano perdute per pessima amministrazione del Primo Lord del Tesoro. A cagione di siffatta scoperta, non solo gli fu forza abbandonare la speranza ch’egli aveva di conseguire il bastone bianco, ma gli fu tolta la direzione delle finanze, e venne trasferito al posto, maggiormente onorifico ma meno lucroso, di Lord Presidente. «Io ho veduto uomini cacciati a calci giù per le scale,» disse Halifax, «ma Milord Rochester è il primo individuo che io abbia veduto salire su a calci.» Godolphin, adesso fatto Pari, divenne Primo Commissario del Tesoro. LXVI. Nondimeno, la contesa seguitava. L’esito dipendeva dal volere di Carlo; e Carlo non poteva venire ad una deliberazione. Nel suo perpetuo ondeggiare, prometteva ogni cosa ad ognuno. Starebbe fido alla Francia: la romperebbe con essa: non convocherebbe mai un altro Parlamento: darebbe ordini che si spedissero senza indugio i decreti per la convocazione del Parlamento. Assicurava il Duca di York, che Halifax sarebbe cacciato via; ed Halifax, che il Duca di York verrebbe mandato in Iscozia. In pubblico affettava ira implacabile contro Monmouth, ed in privato mandava a Monmouth assicurazioni d’inalterabile affetto. Quanto tempo avrebbe durato questa esitazione, ove il Re avesse seguitato a vivere, e a che partito si sarebbe egli attenuto, può solamente congetturarsi. Nel 1685, mentre le parti avverse attendevano ansiose la regia deliberazione, egli morì, e si aperse una nuova scena. In pochi mesi, gli eccessi del Governo cancellarono dalle menti del pubblico la memoria degli eccessi della opposizione. La Reazione violenta che aveva prostrata la parte Whig, fu seguita da una Reazione anche più violenta in senso opposto; e certi segni, da non essere presi in abbaglio, mostravano che il gran conflitto fra la prerogativa della Corona e i privilegi del Parlamento, era per terminare. CAPITOLO TERZO. SOMMARIO. I. Grande mutamento nelle condizioni dell’Inghilterra dal 1685 in poi.—II. Popolazione dell’Inghilterra nel 1685.—III. L’aumento della popolazione è maggiore nelle contrade settentrionali, che nelle meridionali.—IV. Rendita nel 1685.—V. Sistema militare.—VI. La Flotta.—VII. L’Artiglieria.—VIII. Spese non effettive.—IX. Spese del governo civile.—X. Grossi guadagni dei cortigiani e de’ Ministri.—XI. Condizioni dell’agricoltura.—XII. Ricchezze minerali del paese.—XIII. Aumento della rendita; i Gentiluomini delle provincie.—XIV. Il Clero.—XV. I piccoli possidenti di terre.—XVI. Ingrandimento delle città; Bristol.—XVII. Norwich.—XVIII. Altre città di provincia.—XIX. Manchester.—XX. Leads.—XXI. Sheffield.—XXII. Birmingham.—XXIII. Liverpool.—XXIV. I bagni di Cheltenham, Brighton, Buxton.—XXV. Tunbridge Well.—XXVI. Bath.—XXVII. Londra.—XXVIII. La città.—XXIX. Il quartiere di moda nella capitale.—XXX. Polizia di Londra.—XXXI. Illuminazione di Londra.—XXXII. I Frati bianchi.—XXXIII. La Corte.—XXXIV. Le botteghe da Caffè.—XXXV. Difficoltà di viaggiare.—XXXVI Cattiva condizione delle strade.—XXXVII. Carrozze da viaggio.—XXXVIII. Ladroni.—XXXIX. Locande.—XL. L’Ufficio Postale.—XLI. Gazzette.—XLII. Lettere.—XLIII. L’Osservatore—XLIV. Scarsità di libri ne’ luoghi di provincia.—XLV Educazione delle donne.—XLVI. Cultura letteraria de’ Gentiluomini.—XLVII. Influenza della letteratura francese.—XLVIII. Immoralità dell’amena letteratura d’Inghilterra.—XLIX. Condizioni delle scienze in Inghilterra.—L. Condizioni delle arti belle—LI. Condizioni del popolo basso; paga de’ contadini.—LII. Paga de’ manifattori.—LIII. Fatica de’ fanciulli nelle manifatture.—LIV. Paghe degli artigiani di varie classi.—LV. Numero de’ poveri.—– LVI. Beneficii per il popolo basso derivati dalla civiltà.—LVII. Inganno che conduce gli uomini a esagerare la felicità delle generazioni precedenti. I. Intendo descrivere in questo Capitolo le condizioni dell’Inghilterra nel tempo in cui la Corona da Carlo II passò al suo fratello. Tale descrizione, fatta sopra magri e dispersi materiali, deve necessariamente essere imperfetta. Nondimeno, varrà forse a correggere talune false nozioni, le quali renderebbero il racconto che segue, inintelligibile o poco istruttivo. Se vogliamo studiare con frutto la storia de’ nostri antichi, è mestieri guardarci dall’inganno che i ben noti nomi delle famiglie, de’ luoghi e degli uffici, naturalmente producono, e non dimenticar mai che il paese del quale leggiamo la storia, è assai diverso da quello nel quale ora viviamo. In ogni scienza sperimentale è tendenza verso la perfezione. In ogni essere umano è desiderio di megliorare le condizioni proprie. Questi due principii spesso sono stati bastevoli, anche controbilanciati da grandi calamità pubbliche e da pessime istituzioni, a spingere rapidamente innanzi lo incivilimento. Non vi ha sciagura ordinaria, non ordinario mal governo, che tanto possano rendere misera una nazione, quanto il costante progredire delle scienze fisiche, e lo sforzo costante che fa ogni uomo a rendersi migliore, contribuiscono a fare prospero un popolo. È stato spesso notato che le spese prodighe, le tasse gravose, le assurde restrizioni commerciali, i tribunali corrotti, le disastrose guerre, le sedizioni, le persecuzioni, gl’incendi, le inondazioni, non hanno potuto distruggere le sostanze così presto, come gli sforzi dei cittadini privati hanno potuto crearle. Potrebbe agevolmente provarsi, che nella nostra patria la ricchezza nazionale, negli ultimi sei secoli, è venuta quasi senza interruzione crescendo; che era maggiore sotto i Tudors, che sotto i Plantageneti; maggiore sotto gli Stuardi, che sotto i Tudors; che, nonostanti le battaglie, gli assedi e le confische, ella era maggiore nel giorno della Restaurazione, che in quello in cui adunossi il Lungo Parlamento; che, malgrado la pessima amministrazione, la stravaganza, il pubblico fallimento, le due guerre costose e sciagurate, la pestilenza e lo incendio, era anche maggiore nel giorno della morte di Carlo II, che in quello della sua Restaurazione. Cotesto progresso, continuando per molti anni, divenne finalmente, verso la metà del secolo decimottavo, portentosamente rapido, e nel decimonono ha acquistata incredibile velocità. A cagione, in parte, della nostra posizione geografica, in parte delle nostre morali condizioni, noi, nel corso di parecchie generazioni, siamo rimasti esenti dai danni che altrove hanno impacciato gli sforzi e distrutto i frutti della industria. Mentre ogni paese del continente, da Mosca fino a Lisbona, è stato il teatro di guerre sanguinose e devastatrici, non si è veduto in Inghilterra vessillo nemico, se non in sembianza di trofeo. Mentre ci abbiamo veduto fremere d’intorno il fuoco delle rivoluzioni, il nostro Governo non è stato nè anche una sola volta abbattuto dalla violenza. Per cento anni non è stato mai nell’isola nostra nessun tumulto di gravità tanta, che si possa chiamare insurrezione. La legge non è stata mai calpestata nè dal furore popolare, nè dalla regia tirannide. Il credito pubblico è stato considerato come sacro. L’amministrazione della giustizia è stata pura. Anche in tempi che dagl’Inglesi potrebbero rettamente chiamarsi tristi, abbiamo fruito ciò che quasi ogni altra nazione del mondo avrebbe reputato ampia misura di libertà civile e religiosa. Ciascuno ha avuta intera fiducia che lo Stato lo avrebbe protetto nel possesso di ciò che ha guadagnato con la propria diligenza, o accumulato con la parsimonia. Sotto la benefica influenza della pace e della libertà, le scienze hanno fiorito, e sono state applicate agli usi pratici in modo per innanzi sconosciuto. Onde avvenne che nella patria nostra seguisse un cangiamento tale, che nella storia del vecchio mondo non si trovi nulla che gli si possa agguagliare. Se la Inghilterra del 1685 potesse, per alcuna virtù magica, mostrarsi agli occhi nostri, non sapremmo fra cento riconoscere un tratto di paese, nè un edifizio fra mille. Il gentiluomo della provincia non riconoscerebbe i propri campi. L’abitante della città non riconoscerebbe la propria strada. Ogni cosa ha mutato aspetto, tranne le grandi sembianze della natura, e poche massicce e durevoli opere dell’arte umana. Potremmo scoprire Snowdon e Windermare, Ceddar Cliffs e Beachy Head; qua e là qualche monastero normanno o castello che vide le guerre delle Rose. Ma, salvo queste poche eccezioni, ogni cosa ci sembrerebbe strana. Molte mila miglia quadrate, che adesso sono campi ricchi di grano, e prati traversati da verdeggianti siepi e popolati di villaggi e di amene ville, ci apparirebbero impervii deserti, o paduli abitati dalle anitre. Vedremmo tugurii di legno coperti di frasche sparsi qua e là, dove adesso miriamo città manifatturiere, e porti di mare la cui fama giunge sino ai più remoti confini del mondo. La stessa metropoli ci parrebbe poco più vasta del suo presente suburbio lungo la riva meridionale del Tamigi. Nè meno strani ci sembrerebbero lo aspetto e i costumi del popolo, la mobilia e gli equipaggi, l’interno delle botteghe e delle abitazioni. E’ pare che tale mutamento nelle condizioni d’una nazione sia degno di essere descritto dallo storico, almeno quanto qualunque mutamento di dinastia o di ministero. II. Uno dei fini principali dello scrittore che intenda a farsi una esatta idea della condizione d’una comunità in un dato tempo, deve essere quello d’indagare di quanti individui essa allora era composta. Sventuratamente, non può con esattezza stabilirsi quanta fosse la popolazione dell’Inghilterra nel 1685; perocchè nessuno dei grandi Stati allora aveva adottata la saggia costumanza di enumerare periodicamente il popolo. Gli scrittori non potevano se non congetturare da sè stessi; e poichè facevano ciò senza esaminare i fatti e sotto il dominio di forti passioni e pregiudizi, i loro computi spesso riuscivano assurdi. Anco gl’intelligenti cittadini di Londra, ordinariamente, affermavano la città loro contenere parecchi milioni d’anime. Molti hanno con molta sicurezza asserito, che nei trentacinque anni trascorsi dallo avvenimento di Carlo I al trono fino alla Restaurazione, la popolazione della città era cresciuta di due milioni.[28] E mentre erano ancor fresche le devastazioni della peste e del fuoco, era costume asserire che la città contava tuttavia un milione e mezzo d’abitatori.[29] Alcuni altri, stomacati da siffatte esagerazioni, trascorsero agli estremi opposti. Così Isacco Vossio, uomo indubitatamente dotto, sosteneva con franchezza che Inghilterra, Scozia, Irlanda, prese insieme, non v’erano se non se due milioni di creature umane.[30] Ciò non ostante, non ci mancano affatto i mezzi di correggere i gravi falli, in cui taluni cervelli per vanità nazionale, ed altri per vaghezza di paradosso, cadevano. Esistono tre computi, che sembrano meritevoli di attenzione speciale. Non dipendono in nulla l’uno dall’altro; procedono sopra principii diversi; e nondimeno, poca è la differenza de’ risultamenti che dànno. Uno di cotesti computi fu fatto nell’anno 1696 da Gregorio King, araldo di Lancaster, aritmetico politico grandemente sottile e giudizioso. A fondamento de’ suoi calcoli, tolse il numero delle case indicato dagli ufficiali che fecero l’ultima esazione della imposta sui focolari. La conclusione alla quale egli venne, fu che la popolazione dell’Inghilterra era di circa cinque milioni e mezzo d’anime.[31] Verso quel medesimo tempo, il Re Guglielmo III volle conoscere la forza comparativa delle varie sètte religiose, in che la comunità era divisa. Istituita una inchiesta, gli furono da tutte le diocesi del Regno trasmesse le necessarie relazioni. Secondo le quali, il numero de’ suoi sudditi inglesi doveva essere circa cinque milioni e duecento mila.[32] Da ultimo, ai dì nostri, Finlaison, esperto computista, sottopose gli antichi registri parrocchiali a tutti gli esperimenti che potè somministrargli il moderno progresso della scienza statistica. Egli opinò, che verso il chiudersi del secolo decimosettimo, la popolazione dell’Inghilterra fosse poco meno di cinque milioni e duecentomila anime.[33] Di questi tre computi, formati da diversi individui, senza che l’uno s’accordasse con l’altro, sopra materiali di specie diversa, il più alto, che è quello di King, non eccede d’un dodicesimo il più basso che è quello di Finlaison. Possiamo, quindi, con franchezza asserire, che mentre Giacomo II regnava, l’Inghilterra conteneva tra cinque milioni e cinque milioni e mezzo d’abitatori. Secondo il maggior computo, essa aveva un terzo della popolazione de’ tempi nostri, e meno del triplo della popolazione che adesso è raccolta nella sua gigantesca metropoli. III. L’augumento del popolo è stato grande in ogni parte del Regno, ma generalmente maggiore nelle Contee settentrionali, che nelle meridionali. Veramente, gran parte del paese oltre il Trent, fino al secolo decimottavo era in istato di barbarie. Cagioni fisiche e morali avevano cooperato perchè lo incivilimento non si spandesse per quella regione. Il cielo era inclemente, il suolo in condizioni tali, da richiedere arte somma ed industria nella coltivazione; e poca poteva essere l’arte e la industria in una contrada che spesso era teatro di guerra, e che, anche quando vi regnava una pace di solo nome, veniva perennemente devastata dalle bande di ladroni scozzesi. Avanti e lungo tempo dopo il congiungimento delle due Corone britanniche, eravi tanta differenza tra Middlesex e Northumberland, quanta oggi ve n’è tra il Massachusetts e gli stabilimenti di quelle genti nomadi, le quali nelle rimote contrade occidentali del Mississipi, amministrano rozzamente la giustizia con la carabina e il pugnale. Nel regno di Carlo II, i vestigii lasciati da lunghi anni di strage e di saccheggio vedevansi ancora chiaramente per molte miglia al mezzogiorno del Tweed, nello aspetto della contrada e nei costumi del popolo. Eravi ancora una genia di predoni, che dedicavasi all’arte di saccheggiare le case e rapire interi branchi di gregge. Poco dopo la Restaurazione, il Governo reputò necessario promulgare leggi severissime, a impedire simiglianti delitti. Ai Magistrati di Northumberland e di Cumberland fu data potestà di levare bande d’uomini armati per la difesa della proprietà e dell’ordine; e onde provvedere alle spese di cosiffatte leve, imposero una tassa locale.[34] Fu ordinato che le parrocchie tenessero de’ cani addestrati a fine di dar la caccia ai ladroni. Non pochi vecchi che vivevano ancora a mezzo del secolo decimottavo, potevano bene rammentarsi del tempo in cui quei cani feroci erano d’uso comune.[35] Eppure, anche con tali aiuti, spesso era impossibile rintracciare i nascondigli di quei malfattori fra i luoghi alpestri e paludosi. Imperocchè la geografia di quella selvaggia contrada conoscevasi imperfettamente. Anco dopo che Giorgio III ascese al trono, il sentiero su per le rocce da Borrowdale a Ravenglas era tuttavia un secreto studiosamente custodito dagli abitatori delle valli, taluni de’ quali s’erano probabilmente in gioventù loro sottratti per que’ sentieri alle ricerche della giustizia.[36] Le abitazioni de’ gentiluomini e le grandi case coloniche erano fortificate. I buoi nella notte venivano custoditi sotto gli spaldi della residenza, che chiamavasi col nome di _Peel_. Coloro che vi abitavano, dormivano con le armi allato. Grosse pietre ed acqua bollente erano sempre pronte a schiacciare e scottare il ladrone che si fosse rischiato ad assalire il piccolo presidio. Nissuno ardiva viaggiare per quel paese, senza aver fatto testamento. I giudici, nel loro viaggio periodico, con tutta la torma degli avvocati, procuratori, scrivani e servitori, cavalcavano da Newcastle a Carlisle armati, e scortati da una forte guardia sotto il comando degli Sceriffi. Era mestieri recare seco le necessarie provvisioni; perocchè la contrada era un deserto, dove era d’ogni cosa difetto. Il luogo nel quale la cavalcata fermavasi a desinare, sotto una quercia immensa, non è peranche caduto in oblio. La irregolare rigidità con che amministravasi la giustizia, faceva ribrezzo all’animo di coloro che erano vissuti in più tranquilli distretti. I Giurati, spinti dall’odio e dal sentimento del comune pericolo, dichiaravano rei convinti gli aggressori delle case e i rapitori degli armenti, con la fretta con cui giudica una Corte marziale in occasione di tumulti, e a centinaia gli mandavano alla forca.[37] A memoria di alcuni che hanno veduta la presente generazione, il cacciatore il quale procedeva fino alle scaturigini del Tyne, trovava gli scopeti attorno Keeldar Castle popolati d’una razza di uomini selvaggi quasi al pari degli Indiani della California; e sentiva, maravigliando, le donne, mezzo ignude, cantare rozze e fiere melodie, mentre gli uomini con le daghe in pugno danzavano una danza guerresca.[38] Lentamente e con difficoltà la pace venne stabilita lungo i confini. La seguirono l’industria e le arti del vivere civile. Intanto scoprivasi che le regioni a settentrione del Trento, possedevano nelle loro miniere di carbone una sorgente di ricchezza assai più preziosa delle miniere aurifere del Perù. Conobbesi che nel vicinato di cotesti strati carboniferi, quasi ogni specie di manifattura si poteva esercitare con grande utile. Le genti presero ad affluire di continuo a que’ luoghi. Raccogliesi dai computi del 1841, che l’antica provincia arcivescovile di York conteneva due settimi della popolazione d’Inghilterra. Ai tempi della Rivoluzione, credevasi che quella provincia contenesse solo un settimo della popolazione.[39] Nella Contea di Lancaster il numero degli abitatori sembra essere cresciuto nove volte di più; mentre in Norfolk, Suffolk e nella Contea di Northampton, appena trovasi raddoppiato.[40] IV. Intorno alle tasse possiamo favellare con maggior precisione e sicurezza, che intorno alla popolazione. La rendita dell’Inghilterra, alla morte di Carlo II, era piccola in paragone de’ mezzi che essa allora possedeva, o delle somme di pecunia che levavano i Governi degli Stati al nostro propinqui. Dopo l’epoca della Restaurazione, era venuta quasi sempre crescendo; e nondimeno, era poco più di tre quarti della rendita delle Provincie Unite, ed appena un quinto di quella di Francia. Il più importante capo di entrata era quel balzello detto _excise_, il quale nell’ultimo anno del regno di Carlo produsse cinquecento ottantacinquemila lire sterline, nette di spese. Il prodotto netto delle dogane ascese, nell’anno stesso a cinquecentotrentamila lire sterline. Questi carichi non pesavano molto gravemente sulla nazione. La tassa sui camini o focolari, quantunque fosse meno produttiva, destò maggiori mormorazioni. Il malcontento che nasce dalle imposte dirette, sta, a dir vero, quasi sempre fuori di proporzione alla quantità di danaro che riportano allo Scacchiere; e la tassa sui camini era, anco fra le imposte dirette, particolarmente odiosa: imperocchè non poteva levarsi se non se per mezzo di visite domiciliari; alle quali visite gl’Inglesi hanno sempre avuto tale abborrimento, che il popolo degli altri paesi se ne potrebbe formare solo una debole idea. I padroni di case poveri, spesso non potevano pagare la imposta sui loro focolari. Ogni qualvolta ciò avveniva, gli esattori sequestravano senza misericordia la mobilia: poichè la tassa era data in appalto; e un appaltatore di tasse, fra tutti i creditori, secondo porge il proverbio, è il più rapace. Gli esattori venivano apertamente accusati di condursi, nello esercizio del loro abborrito mestiere, con durezza e insolenza. Dicevasi, che appena essi mostravansi sulla soglia d’un tugurio, i fanciulli cominciavano a piangere, e le vecchie correvano a nascondere i loro arnesi da cucina. Anzi, l’unico letto d’una povera famiglia soventi volte veniva portato via, e venduto. Il prodotto annuo netto di cotesta tassa era di duecentomila lire sterline.[41] Se alle tre grandi sorgenti d’entrata da noi rammentate, aggiungiamo quella delle regie possessioni, allora più estese di quello che siano ai dì nostri, i primi frutti e le decime, che non erano per anche state rese alla Chiesa, i Ducati di Cornwall e di Lancaster, le confische e le multe; la intera rendita annua della Corona potrebbe estimarsi sicuramente a un milione e quattrocentomila lire sterline. Di cotesta rendita, parte era ereditaria; il rimanente, a Carlo era stato concesso a vita; ed egli era libero di spenderla tutta, in qualunque modo gli fosse piaciuto. Tutto ciò ch’egli poteva risparmiare dalla spesa de’ pubblici dipartimenti, andava alla sua borsa privata. Intorno all’uffizio postale ragioneremo più innanzi. Gli utili di quello stabilimento erano stati dal Parlamento concessi al Duca di York. La entrata del Re era, o avrebbe dovuto essere, sopraccarica del pagamento di circa ottantamila sterline l’anno, ch’era l’interesse de’ danari dalla Cabala fraudolentemente ritenuti nello Scacchiere. Mentre Danby era capo dell’ufficio delle finanze, i creditori avevano ricevuti i loro dividendi, quantunque senza la esatta puntualità che ne’ moderni tempi si costuma; ma coloro che gli erano succeduti al Tesoro, erano stati meno destri o meno solleciti a mantenere la fede pubblica. Dopo la vittoria che la Corte riportò sopra i Whig, nè anche un soldo era stato pagato, nè fatta giustizia ai creditori, finchè una nuova dinastia non istabilì un sistema nuovo. Si erra grandemente immaginando che il sistema di provvedere ai bisogni dello Stato per mezzo di un prestito, fosse recato nell’isola nostra da Guglielmo III. Da tempo immemorabile, ogni Governo Inglese aveva avuto costume di contrarre debiti. Ciò che venne introdotto dalla Rivoluzione, fu la usanza di pagarli onestamente.[42] V. Saccheggiando i pubblici creditori, era possibile accumulare una entrata di un milione e quattrocento mila lire sterline; ed aggiungendovi di quando in quando qualche sussidio della Francia, sostenere le spese necessarie del Governo, e lo scialacquo della Corte: imperciocchè quel peso che gravava sulle finanze de’ grandi Stati continentali, in Inghilterra sentivasi appena. In Francia, in Germania, ne’ Paesi Bassi, eserciti numerosi, quali Enrico IV e Filippo II non avevano mai mantenuti in tempo di guerra, tenevansi fra mezzo alla pace. In ogni parte si erigevano bastioni e forti, edificandoli con principii ignoti a Parma o a Spinola. Le artiglierie e le munizioni accumulavansi in tanta quantità, che lo stesso Richelieu, il quale dalle precedenti generazioni era stato considerato come operatore di prodigi, avrebbe chiamata favolosa. Niuno poteva viaggiare per molte miglia in quelle contrade, senza udire i tamburi d’un reggimento in marcia, o senza essere fermato dalle sentinelle de’ ponti levatoi d’una fortezza. Nella nostra isola, all’incontro, era possibile vivere e viaggiare lungamente, senza che nessun suono o vista di cose marziali rammentasse che la difesa dello Stato era divenuta una scienza ed una professione. La maggior parte degli Inglesi che avevano meno di venticinque anni, non avevano probabilmente veduta mai nessuna compagnia di soldati regolari. Delle città le quali nella guerra civile avevano valorosamente respinto le armate ostili, nè anche una era capace di sostenere un assedio. Le porte rimanevano aperte di notte e di giorno: i fossi erano senz’acqua: gli spaldi delle mura si erano lasciati andare in rovina, o erano racconci in modo, che il popolo vi potesse con diletto passeggiare nelle notti estive. Molte delle vecchie abitazioni de’ Baroni erano state fracassate dai cannoni di Fairfax e di Cromwell, ed erano mucchi di rovine coperte di edera. Quelle che restavano in piedi, avevano perduto il loro aspetto marziale, ed erano diventate palazzi rurali dell’aristocrazia. I fossati erano mutati in vivai di carpii e di lucci. I terrapieni erano coperti di olezzanti arbusti, a traverso de’ quali aprivansi viottoli, che conducevano su a tempietti ornati di specchi e di pitture.[43] Sui promontori delle coste, e su per molti colli del paese interno, vedevansi tuttavia posti alti, sormontati di barili, che un tempo erano ripieni di pece: in tempi di pericolo vigilavano attorno ad essi le sentinelle; e in poche ore, appena scoperta una flotta spagnuola nel canale, o appena veduto che un migliaio di predoni scozzesi aveva passato il fiume Tweed, i fuochi d’accenno splendevano per un tratto di cinquanta miglia, e tutte le Contee correvano alle armi. Ma erano trascorsi molti anni da che que’ fuochi non si accendevano più; ed oramai venivano considerati più presto come curiose reliquie de’ vecchi costumi, che come parte d’una macchina necessaria alla salvezza dello Stato.[44] La sola armata riconosciuta dalla legge, era la guardia cittadina. Era stata riordinata per virtù di due leggi, passate in Parlamento poco dopo la Restaurazione. Chiunque possedeva cinquecento lire sterline annue in terreni, o seimila lire sterline d’utili personali, era tenuto ad apprestare, equipaggiato e pagato a proprio carico, un uomo a cavallo. Chiunque possedeva cinquanta lire sterline annue in terreni, o seicento d’utili personali, era similmente tenuto ad apprestare un lanciere o moschettiere. I possidenti minori furono ordinati in una specie di società, a significare la quale la nostra lingua non ha vocabolo proprio, ma che un Ateniese avrebbe chiamata _Synteleia_; e ciascuna di coteste società doveva fornire, secondo i propri mezzi, un soldato a cavallo, o un pedone. Il numero della cavalleria e fanteria in tal guisa raccolto, stimavasi comunemente ascendere a cento trenta mila uomini.[45] Per virtù dell’antica Costituzione del reame, e del recente e solenne riconoscimento di ambedue le Camere, il Re era il solo Capitano Generale di queste grandi forze. I Lordi Luogotenenti e i deputati loro comandavano a lui sottoposti, e ordinavano le raccolte per gli esercizi o le ispezioni. La durata di siffatti ragunamenti, nondimeno, non poteva eccedere quattordici giorni in un anno. I Giudici di Pace avevano potestà d’infliggere pene per infrazioni di disciplina. La Corona non contribuiva nulla alla spesa ordinaria; ma quando la milizia cittadina veniva chiamata alle armi contro l’inimico, al suo mantenimento provvedeva il Governo a carico della entrata generale dello Stato, e la sottoponeva al massimo rigore della legge marziale. Eranvi di quelli che non guardavano di buon occhio la milizia cittadina. Uomini che avevano molto viaggiato nel continente, ammirato la rigorosa precisione con che ogni sentinella movevasi e parlava nelle cittadelle edificate da Vauban, veduto gli eserciti possenti che affluivano per tutte le strade della Germania a respingere gli Ottomanni dalle porte di Vienna, ed erano stati abbagliati dalla pomposa magnificenza delle guardie palatine di Luigi, irridevano al modo con cui i contadini delle Contee di Devon e di York marciavano, giravansi, e portavano gli archibugi e le picche. Gl’inimici delle libertà e della religione dell’Inghilterra, guardavano con abborrimento una forza che non potevasi, senza estremo periglio, adoperare contro quelle libertà e quella religione, e non lasciavano fuggire veruna occasione senza porre in dileggio le rustiche soldatesche.[46] I saggi amatori della patria, quando raffrontavano queste rozze leve coi battaglioni che, in tempo di guerra, tra poche ore potevano condursi alle coste di Kent o di Sussex, erano costretti a concedere, che, per quanto pericolo vi fosse nel mantenere uno esercito stanziale, sarebbe stato anche più pericoloso provvedimento lo affidare l’onore e la indipendenza del paese all’esito d’una lotta tra i campagnoli capitanati dai Giudici di Pace, e i vecchi guerrieri condotti dai Marescialli di Francia. Cotali opinioni in Parlamento non potevano manifestarsi se non con grande riserbo, perocchè la milizia cittadina era una istituzione eminentemente popolare. Ogni qualunque osservazione intorno ad essa eccitava lo sdegno di ambi i grandi partiti dello Stato, ed in ispecie di quello che mostravasi zelantissimo della Monarchia e della Chiesa Anglicana. Le legioni delle Contee erano comandate quasi esclusivamente da nobili e gentiluomini Tory; i quali andavano alteri del loro grado militare, e tenevano come fatto a sè stessi ogni insulto contro la istituzione alla quale appartenevano. Sapevano bene pur troppo, che tutto ciò che dicevasi contro la guardia cittadina era detto in favore d’un esercito stanziale, il cui nome era da loro abborrito. Un simigliante esercito aveva signoreggiata l’Inghilterra, e sotto esso il Re era stato assassinato, la nobiltà degradata, i gentiluomini spogliati delle loro terre, la Chiesa perseguitata. Non v’era signore rurale che non avesse da raccontare una storia di danni e d’insulti a lui inflitti, o al padre suo, dai soldati parlamentari. Un vecchio Cavaliere aveva veduto mezza la sua campestre residenza distrutta. Gli olmi ereditarii d’un altro erano stati abbattuti. Un terzo non poteva mai porre il piede dentro la chiesa della propria parrocchia, senza che i suoi scudi sfigurati, i capi mozzi delle statue de’ suoi antichi, gli rammentassero come i soldati d’Oliviero avessero di quel sacro luogo fatto stalla ai propri cavalli. E però, quegli stessi realisti che erano pronti a combattere per il Re loro, erano gli ultimi ai quali egli potesse chiedere i mezzi di assoldare milizie regolari. Carlo, nonostante, pochi mesi dopo la sua Restaurazione, aveva cominciato a formare una piccola armata stanziale. Pensava che, senza una protezione migliore di quella della civica milizia e delle guardie reali, la sua persona o il suo palazzo appena sarebbero in sicuro, nella propinquità d’una città vasta, piena di guerrieri, che erano stati pur allora sbandati. Egli, quindi, spensierato e prodigo come era, studiossi di risparmiare dai suoi piaceri una somma bastevole a mantenere un corpo di guardie. Con lo accrescersi del traffico e della ricchezza pubblica, le sue rendite crescevano; e in tal guisa potè, a dispetto del mormorare de’ Comuni, ingrossare a poco a poco le sue milizie regolari. Un’addizione considerevole fu ad esse fatta innanzi la fine del suo regno. Il costoso, inutile e pestilenziale stabilimento di Tangeri, venne abbandonato ai Barbari che vi abitavano all’intorno; e il presidio, composto di un reggimento di cavalleria e due di fanteria, fu richiamato in Inghilterra. La piccola armata così formata da Carlo, fu il germe di quel grande e rinomato esercito, che, in questo secolo, ha marciato trionfalmente a Madrid e Parigi, a Canton e Candahar. Le guardie del corpo, che adesso formano due reggimenti, erano allora partite in tre corpi, ciascuno dei quali constava di duecento carabinieri, esclusi gli ufficiali. Questo corpo, cui era affidata la sicurezza del Re e della real famiglia, aveva un carattere speciale. Anche i semplici soldati erano insigniti del grado di gentiluomini della Guardia. Molti di loro erano di buone famiglie, ed avevano servito nelle guerre civili. La loro paga era maggiore di quella che si dà al più prediletto reggimento de’ tempi nostri; ed in quella età veniva riputata provvisione rispettabile per un figlio cadetto di scudiero di provincia. I loro bei cavalli, le ricche valdrappe, le corazze, le vesti ornate di nastri, di velluto e di frange d’oro, facevano bello spettacolo nel Parco di San Giacomo. Una piccola coorte di dragoni granatieri, che erano di più bassa classe ed avevano paga minore, era annessa a ciascun corpo. Un’altra legione di cavalleria, predistinta da vesti e manti azzurri, e tuttavia chiamata gli Azzurrini (_the Blues_), stava generalmente acquartierata nelle vicinanze della capitale. Propinquo ad essa rimaneva anche il corpo che oggi porta il nome di primo reggimento dei dragoni, ma che allora era il solo reggimento de’ dragoni che fosse in Inghilterra. Era stato composto della cavalleria che era ritornata da Tangeri. Un solo corpo di dragoni, che non faceva parte di nessun reggimento, stanziava presso Berwick, a fine di mantenere la pace fra i predoni del confine. A quest’uso peculiare pensavasi allora che il dragone fosse singolarmente adattato. Ne’ tempi posteriori è divenuto un semplice soldato di cavalleria: ma nel secolo decimosettimo, venne accuratamente descritto da Montecuccoli, come un pedone che servivasi del cavallo per giungere con maggiore speditezza a un luogo designato dal servizio militare. La fanteria reale constava di due reggimenti, i quali chiamavansi allora, come adesso, il primo reggimento delle guardie a piedi, e le guardie _Coldstream_. Generalmente, prestavano servizio presso Whitehall, e il Palazzo di San Giacomo. Poichè allora non v’erano caserme, e poichè, per virtù della Petizione de’ Diritti, i soldati non potevano essere acquartierati nelle case private, essi riempivano tutte le birrerie di Westminster e di Strand. V’erano altri cinque reggimenti di pedoni. Uno dei quali, detto il reggimento dell’Ammiraglio, era specialmente destinato a prestare servizio sulle navi. Gli altri quattro chiamavansi, tuttavia, i primi quattro reggimenti di linea. Due di essi rappresentavano due brigate, che avevano lungo tempo mantenuta nel Continente la rinomanza del valore inglese. Il primo, ovvero reggimento reale, aveva, sotto il grande Gustavo, sostenuta una parte cospicua nella liberazione della Germania. Il terzo reggimento, che distinguevasi per le mostreggiature di colore carneo, da cui trasse il ben noto nome di Buffs,[47] aveva, sotto Maurizio di Nassau, combattuto con non minore valentia per la liberazione delle Fiandre. Entrambe coteste magnifiche legioni, alla perfine, dopo molte vicende, erano state da Carlo II richiamate dal servizio forestiero, ed aggregate alla milizia inglese. I reggimenti che adesso si dicono secondo e quarto di linea, nel 1685 erano pur allora ritornati da Tangeri, recando seco i costumi crudeli e licenziosi che avevano contratti dalla loro lunga consuetudine coi Mori. Poche compagnie di fanteria che non erano state ordinate a reggimenti, erano di presidio a Tilbury Fort, a Portsmouth o a Plymouth, e in alcuni altri posti importanti su o presso la costa. Dopo i primi anni del secolo decimosettimo, era seguito un grande mutamento nelle armi della fanteria. Alla lancia o picca s’era gradatamente venuto sostituendo l’archibugio; e alla fine del regno di Carlo II, la maggior parte de’ suoi pedoni erano moschettieri. Nondimeno, continuavano ad essere mescolati coi lancieri. Ciascuna classe di truppa nemica, veniva, secondo le occasioni, ammaestrata nell’uso dell’arme che peculiarmente apparteneva all’altra classe. Ogni pedone aveva a fianco una spada per servirsene combattendo petto a petto. Il dragone era armato come un moschettiere; portava un’arme che nel corso di molti anni erasi venuta adottando, allora dagl’Inglesi chiamata daga (_dagger_), ma che fino dal tempo della nostra Rivoluzione, è stata fra noi conosciuta col vocabolo francese di baionetta. E’ pare che la baionetta non fosse dapprima uno strumento così formidabile come poscia è diventata; poichè, essendo conficcata alla bocca della canna dell’archibugio, il soldato che avesse voluto far fuoco, perdeva molto tempo a levarla, e riporvela, volendosene servire alla carica. L’esercito regolare che mantenevasi in Inghilterra al principio del 1685, comprendeva, inclusi i soldati d’ogni arme, circa settemila pedoni e millesettecento cavalli e dragoni. La spesa a mantenerlo, ascendeva a circa duecento novantamila sterline l’anno; meno del decimo della somma che costava in tempo di pace la milizia francese. La paga giornaliera di un milite privato nelle Guardie del Corpo era cinque scellini, negli Azzurri due scellini e sei soldi, nei Dragoni diciotto soldi, nelle Guardie a piedi dieci soldi, e nella Linea otto. La disciplina era debole; e, per vero dire, non poteva essere altrimenti. Il Diritto comune dell’Inghilterra non riconosceva corti marziali, e in tempo di pace non faceva distinzione tra un soldato e qualunque altro suddito; nè il Governo poteva allora rischiarsi a chiedere una legge d’ammutinamento (_Mutiny Bill_) al Parlamento anche il più realista. Un soldato, dunque, battendo il proprio colonnello, incorreva soltanto nelle pene per assalto o percossa; e ricusando di obbedire agli ordini superiori, o coll’addormentarsi nel tempo che faceva la guardia, o col lasciare le proprie insegne, non incorreva nessuna pena legale. Non è dubbio che sotto il regno di Carlo II s’inflissero punizioni militari; ma con molta parsimonia, e in modo da non attirare l’attenzione pubblica, o produrre un appello alle Corti di Westminster Hall. Non era verosimile che un esercito come questo rendesse schiavi cinque milioni d’Inglesi. E davvero, difficilmente sarebbe stato bastevole ad opprimere una insurrezione in Londra, se la milizia della città si fosse unita agl’insorti. Nè il Re poteva sperare, nel caso che il popolo insorgesse in Inghilterra, di ottenere aiuto dai suoi altri dominii. Imperocchè, quantunque la Scozia e l’Irlanda mantenessero milizie proprie, queste forze erano appena sufficienti ad infrenare i malcontenti puritani dell’un Regno, e i papisti malcontenti dell’altro. Il Governo, non ostante, aveva altri mezzi militari importantissimi, dei quali va fatta menzione. V’erano al soldo delle Provincie Unite sei belli reggimenti, capitanati primamente dal valoroso Ossory; tre de’ quali erano stati raccolti in Inghilterra, e tre in Iscozia. Il Re inglese erasi riserbata la potestà di richiamarli a sè, qualvolta ne avesse mestieri contro un nemico esterno od interno. Infrattanto, venivano mantenuti senza nessun carico di spesa per lui, ed assuefatti ad una eccellente disciplina, alla quale egli non si sarebbe rischiato di sottoporli.[48] VI. Se la gelosia del Parlamento e della Nazione impediva al Re di mantenere un esercito stanziale formidabile, egli non aveva simile impedimento a rendere l’Inghilterra prima fra le Potenze marittime. I Whig e i Tory erano pronti a plaudire ad ogni provvedimento che tendesse ad accrescere quella forza, la quale, mentre era la migliore protezione dell’Isola contro i nemici stranieri, tornava impotente contro la libertà cittadina. Le più grandi gesta di cui gli uomini d’allora serbassero memoria, operate dai soldati inglesi, erano avvenute nelle guerre contro i principi inglesi. Le vittorie de’ nostri marinai erano state riportato sopra nemici stranieri, ed avevano allontanato lo sterminio e la rapina dal nostro suolo. Almeno mezza la nazione rammentava con ribrezzo la battaglia di Naseby, e con orgoglio frammisto a molti spiacevoli sentimenti la battagli di Dunbar: ma la sconfitta dell’Armada, e gli scontri di Blake con gli Olandesi e gli Spagnuoli, ricorrevano alla memoria di tutti i partiti con infinita esultanza. Dalla Restaurazione in poi, i Comuni, anche quando avevano mostrato scontento e parsimonia, erano stati sempre docili fino alla prodigalità, in ciò che concerne gl’interessi della flotta. Era stato loro dimostro, mentre il Governo era nelle mani di Danby, che molti dei vascelli della flotta reale erano vecchi e inadatti al mare; e quantunque in quel tempo la Camera fosse ripugnante a dare, concesse un sussidio di circa seicentomila lire sterline per la costruzione di trenta nuovi legni da guerra. Ma la liberalità della nazione rendevasi infruttuosa pei vizii del Governo. La lista delle navi del Re, egli è vero, faceva bella mostra. Ve n’erano nove di prima classe, quattordici di seconda, trentanove di terza, e molti altri legni più piccoli. Quelli di prima classe, veramente, erano minori de’ legni di terza classe de’ nostri tempi; e quei di terza classe adesso non verrebbero considerati come fregate molto vaste. Se, nulladimeno, questa forza marittima fosse stata effettiva, in que’ giorni il più gran potentato l’avrebbe considerata come formidabile. Ma esisteva solo in iscritto. Quando terminò il regno di Carlo, la sua flotta era guasta e caduta in basso tanto, che sarebbe quasi incredibile, senza l’unanime testimonianza di tali la cui autorità non ammette dubbio. Pepys, l’uomo più esperto dell’Ammiragliato inglese, compose nel 1684 una memoria intorno alle condizioni del suo dipartimento, per informarne Carlo. Pochi mesi appresso, Bonrepaux, l’uomo più esperto dell’Ammiragliato francese, avendo visitata l’Inghilterra con lo scopo speciale di chiarirsi della forza marittima di quella, presentò a Luigi il frutto delle sue indagini. Le due relazioni dànno un medesimo risultato. Bonrepaux dichiarò d’avere trovata ogni cosa in disordine ed in misere condizioni; disse che la superiorità della marina francese era riconosciuta con vergogna ed invidia in Whitehall, e che lo stato delle navi e degli arsenali nostri era per sè una bastevole guarentigia della nostra impossibilità ad immischiarci nelle contese europee.[49] Pepys esponeva al proprio signore, come l’amministrazione navale fosse un prodigio di prodigalità, di corruzione, d’ignoranza e di vigliaccheria; come non fosse da fidarsi a nessuno estimo, non potesse farsi nessun contratto, non vi fosse freno nessuno. I vascelli che il Governo, grazie alla liberalità del Parlamento, aveva potuto costruire, e che non erano mai usciti fuori del porto, erano stati costruiti di legno così cattivo, che erano meno adatti a viaggiare, che non fossero le vecchie carcasse le quali trent’anni innanzi avevano sostenuto le mitraglie degli Olandesi e degli Spagnuoli. Alcuni de’ nuovi legni da guerra, certamente, erano così marci, che se non venivano riattati, sarebbero calati a fondo nelle darsene. I marinai erano pagati con sì poca precisione, che chiamavansi avventurati di poter trovare qualche usuraio che comperasse i loro biglietti col quaranta per cento di sconto. I comandanti che non avessero amici potenti in Corte, erano anche peggio trattati. Taluni ufficiali, creditori di grosse somme arretrate, dopo di avere indarno importunato per molti anni il Governo, erano morti per mancanza d’un tozzo di pane. La maggior parte delle navi che stavano in mare, erano comandate da uomini non educati a quell’ufficio. Vero è che questo non era abuso introdotto dal Governo di Carlo. Nessuno Stato antico o moderno aveva, innanzi a quel tempo, separato affatto il servizio navale dal militare. Nelle grandi nazioni incivilite del mondo antico, Cimone e Lisandro, Pompeo ed Agrippa, avevano combattuto battaglie di terra e di mare. Nè lo impulso che la nautica ricevette sul finire del secolo decimoquinto, aveva prodotto nessun miglioramento nella divisione delle fatiche. A Flodden, l’ala diritta dell’armata vittoriosa era diretta dall’Ammiraglio d’Inghilterra. A Jarnac e Moncontour, le coorti degli Ugonotti erano capitanate dallo Ammiraglio di Francia. Nè Don Giovanni d’Austria, vincitore di Lepanto, nè Lord Howard di Effingham, al quale era affidata la marina inglese allorquando gl’invasori spagnuoli appressaronsi ai nostri lidi, erano stati educati al mare. Raleigh, altamente celebrato come comandante navale, aveva per molti anni servito come soldato in Francia, nelle Fiandre e in Irlanda. Blake erasi reso cospicuo per la sua esperta e valorosa difesa di una città interna, innanzi che umiliasse l’orgoglio olandese e castigliano nell’Oceano. Dopo la Restaurazione, era stato seguito il medesimo sistema. Grosse flotte erano state affidate a Rupert ed a Monk: a Rupert, che aveva rinomanza di fervido e ardimentoso ufficiale di cavalleria; e a Monk, il quale semprechè voleva che il vascello mutasse cammino, faceva ridere la ciurma gridando: «Girate a sinistra!» Ma verso questo tempo, gli uomini saggi cominciarono ad accorgersi, che il rapido perfezionamento dell’arte della guerra e dell’arte nautica rendeva necessario partire l’una dall’altra le due professioni, che fino allora erano state confuse insieme. O il comando d’un reggimento o quello d’una nave, adesso erano sufficienti ad occupare la mente d’un solo uomo. Nel 1672, il Governo Francese deliberò d’educare parecchi giovani, fino dalla loro tenera età unicamente al servizio della marina. Ma il Governo Inglese, invece di seguire cotesto laudevole esempio, non solo continuò ad affidare il comando navale ad uomini non esperti del mare, ma li sceglieva tali, che anche in imprese di terra erano inetti a commissioni di qualche importanza. Ogni giovinetto di nobile lignaggio, ogni dissoluto cortigiano, a pro’ del quale una delle amanti del Re avesse voluto dire una parola, poteva sperare il comando di un vascello di linea; e con esso, l’onore della patria e la vita di centinaia d’uomini valorosi rimanevano affidati alla sua cura. Nulla importava che ei non avesse mai in vita sua navigato fuorchè nelle acque del Tamigi, che non potesse star fermo al soffio del vento, che non conoscesse la differenza tra la latitudine e la longitudine. L’educazione speciale all’arte non era creduta necessaria; o, al più, egli era mandato a fare una breve gita sopra una nave da guerra, dove non era sottoposto a veruna disciplina, veniva trattato rispettosamente, e consumava il tempo in trastulli e follie. Se nel tempo che gli avanzava dal festeggiare, dal bere e dal giocare, riuscivagli d’imparare il significato di poche frasi tecniche, e i nomi de’ punti del compasso, acquistava i requisiti necessari a comandare un vascello a tre ponti. Questa non è descrizione di fantasia. Nel 1666, Giovanni Scheffleld, Conte di Mulgrave, giovinetto di diciassette anni, entrò come volontario nel servizio di mare contro gli Olandesi. Passò sei settimane sur una nave, trastullandosi, quanto più poteva, in compagnia di alcuni giovani libertini di razza nobile, e poscia fece ritorno in Inghilterra per assumere il comando di un corpo di cavalleria. Dopo ciò, non andò mai al mare fino all’anno 1672; in cui di nuovo si aggiunse alla flotta, e quasi subito fu fatto capitano d’un vascello di ottantaquattro cannoni, estimato il più bello di tutta la nostra marina. Allora egli aveva ventitrè anni, e in tutto il corso della vita sua non era stato nè anche tre mesi sul mare. Appena ritornato, fu fatto colonnello d’un reggimento di fanteria. È questo un saggio del modo con cui i comandi navali della maggiore importanza concedevansi; ed è saggio non tanto riprovevole, imperocchè Mulgrave, benchè difettasse d’ esperienza, non difettava punto d’animo e di doti. Nel medesimo modo venivano promossi altri, i quali, non che non essere buoni ufficiali, erano intellettualmente e moralmente incapaci di mai divenir tali, e la cui sola raccomandazione stava in ciò, che erano stati rovinati dalle follie e dai vizi. La cosa precipua che attraeva cotesti uomini al servigio, era il profitto di trasportare di porto in porto verghe d’argento, o altre preziose mercanzie; perciocchè sì l’Atlantico e sì il Mediterraneo a quel tempo infestavano i pirati di Barberia, talmente che i mercanti non volevano i loro preziosi carichi alla custodia d’altri affidare, che a quella di una nave da guerra. Un capitano, in simile guisa, talvolta guadagnava in un breve viaggio parecchie migliaia di lire sterline; e per condurre cotesto lucroso traffico, troppo spesso trascurava gl’interessi della propria patria e l’onore del proprio vessillo, vilmente sottomettevasi alle Potenze straniere, disobbediva agli ordini più diretti de’ superiori suoi, rimaneva in porto quando gli comandavano di correre dietro ad un corsaro di Salè, o andava a portare argento in Livorno, quando le istruzioni ricevute richiedevano che si riducesse in Lisbona. E tutto ciò egli faceva impunemente. Lo interesse medesimo che lo aveva locato in un posto al quale era disadatto, ve lo manteneva. Non v’era ammiraglio, che, sfidato da codesti corrotti e sfrenati prediletti di palazzo, osasse appena bisbigliare di corte marziale. Se qualche ufficiale mostrava maggior sentimento del proprio dovere che non facessero i suoi colleghi, accorgevasi tosto d’avere perduti i guadagni, senza essersi acquistato onore. Un capitano che, per avere rigorosamente obbedito agli ordini dello Ammiragliato, perdè un trasporto di mercanzie dal quale avrebbe ricavato quattromila sterline, si sentì dalle stesse labbra di Carlo chiamare, con ignobile leggerezza, grandissimo stolto per le cure che si prendeva. La disciplina della marineria procedeva tutta ad un modo. Come il capitano cortigiano spregiava lo ammiragliato, così egli era spregiato dalla sua ciurma. Non poteva nascondere d’essere nell’arte sua inferiore a ciascuno de’ marinai sul bordo. Ed era vano lo sperare che i vecchi marinai, avvezzi agli uragani de’ tropici e ai ghiacci del cerchio artico, rendessero pronta e riverente obbedienza a un capo, il quale de’ venti e delle onde non conosceva più di quello che avrebbe potuto imparare sopra un dorato navicello tra Whitehall Stairs e Hampton Court. Affidare a cosiffatto novizio la direzione di un vascello, era cosa evidentemente impossibile. L’ufficio di dirigere la navigazione fu, quindi, tolto al capitano e dato al primo piloto; ma questa partizione d’autorità produceva innumerevoli inconvenienti. La linea di demarcazione non era, e forse non poteva essere descritta con precisione. Ne seguiva quindi un perenne litigare. Il capitano, tanto più fiducioso di sè quanto maggiore era la ignoranza sua, trattava il piloto con dispregio. Il primo piloto, ben consapevole del pericolo di spiacere al più potente, spessissimo dopo una lotta cedeva; ed era fortuna se da ciò non ne conseguitasse la perdita del legno e della ciurma. Generalmente, i meno perversi dei capitani aristocratici erano quelli che abbandonavano affatto ad altri la direzione dei vascelli, e badavano solo a far danari e profonderli. Il modo con cui costoro vivevano, era cotanto ostentato e voluttuoso, che, per quanto fossero cupidi di guadagni, rade volte arricchivansi. Vestivansi come in un giorno di gala in Versailles, mangiavano su piatti d’oro e d’argento, bevevano i vini più squisiti, e mantenevano serragli sul bordo; mentre la fame e lo scorbuto infuriavano fra la ciurma, e mentre ogni giorno cadaveri erano gettati giù dalle cannoniere. Era tale il carattere ordinario di coloro che allora chiamavansi capitani gentiluomini. Mescolati con essi trovavansi, avventuratamente per la patria nostra, comandanti navali di diversa specie; uomini che avevano passata la vita sulle acque, e che avevano lavorato, e dagli infimi uffici del cassero erano pervenuti ai gradi ed alle onorificenze. Uno de’ più eminenti fra questi ufficiali, fu Sir Cristoforo Mings, il quale cominciò a servire come ragazzo da camerino, cadde valorosamente combattendo contra gli Olandesi, e fu dalla sua ciurma, che lo piangeva e giurava di vendicarlo, trasportato alla sepoltura. Da lui discese, per via singolarissima, una linea di strenui ed esperti uomini di mare. Il ragazzo del suo camerino fu Sir Giovanni Narborough, e il ragazzo del camerino di Sir Giovanni Narborough fu Sir Cloudesley Shovel. Al vigoroso buon senso naturale, e all’indomito coraggio di questa classe d’uomini, l’Inghilterra serba un debito che non dimenticherà mai. Cotesti animi fermi, malgrado la mala amministrazione e i falli degli ammiragli cortigiani, furono quelli che protessero le nostre coste, e mantennero rispettata la nostra bandiera per molti anni di turbolenze e di pericoli. Ma a un cittadino cotesti veri marinai parevano una razza d’uomini mezzo selvaggi. Tutto il loro sapere limitavasi alle cose della professione loro, ed era più pratico che scientifico. Fuori del loro elemento, erano semplici a guisa di fanciulli. Ruvido era il loro portamento; nella loro stessa buona indole era rozzezza; e la loro favella, qualvolta usciva dal frasario nautico, comunemente abbondava di giuramenti e di maledizioni. Tali erano i capi, nella cui rozza scuola formaronsi quei robusti guerrieri i quali a Smollet, nella età susseguente, servirono da modelli per ritrarre il Luogotenente Bowling e il Comodoro Trunnion. Ma non sembra che al servizio degli Stuardi vi fosse nè anche un ufficiale di marina quale, secondo le idee de’ nostri tempi, dovrebbe essere: vale a dire, un uomo versato nella teorica e nella pratica della propria arte, indurito ai pericoli della pugna e della tempesta, e, nondimeno, adorno di cultura intellettuale e di modi gentili. V’erano gentiluomini, ed eranvi marinai nella flotta di Carlo II; ma questi non erano gentiluomini, e quelli non erano marinai. La marina inglese di quel tempo, secondo i più esatti computi che sono fino a noi pervenuti, si sarebbe potuta mantenere in attività con trecento ottanta mila lire sterline annue. Quattrocento mila sterline l’anno era la somma che spendevasi: ma, come abbiamo veduto, si spendeva male. Il costo della marina francese era pressochè lo stesso, e considerevolmente maggiore quello della olandese.[50] VII. La spesa dell’artiglieria in Inghilterra nel secolo decimosettimo, paragonata agli altri carichi militari e marittimi, era molto minore di quello che sia nell’età nostra. Nella maggior parte dei presidii v’erano parecchi cannonieri, e qua e là, in qualche posto d’importanza, un ingegnere. Ma non eravi reggimento d’artiglieria; non brigate di zappatori o di minatori; non collegio, in cui i giovani soldati potessero imparare la parte scientifica dell’arte della guerra. La difficoltà di muovere i pezzi da campagna era estrema. Allorquando, pochi anni dopo, Guglielmo marciò da Devonshire a Londra, l’apparecchio che trasportava seco, quantunque fosse simile a quello che da lungo tempo si era sempre usato nel continente, e tale che oggi verrebbe considerato in Woolwich rozzo e impaccioso, svegliò nei nostri antenati una maraviglia somigliante a quella che negli Indiani dell’America produssero gli archibugi dei Castigliani. La provvista di polvere che tenevasi nei forti e negli arsenali inglesi, veniva con orgoglio rammentata dagli scrittori patriottici come cosa da incutere spavento alle nazioni vicine. Ascendeva a mille e quattrocento o cinquecento barili; quasi un dodicesimo della quantità che oggimai si reputa necessario di tenere sempre accumulata. La spesa, sotto titolo di artiglieria, era a un di presso poco più di sessanta mila lire sterline annue.[51] VIII. Tutta la spesa effettiva dell’armata, della marina, e dell’artiglieria, ascendeva a circa settecento cinquanta mila lire sterline. La spesa non effettiva, che adesso è parte gravosa de’ pubblici carichi, mal si direbbe che esistesse. Un piccolissimo numero d’ufficiali marittimi, che non erano impiegati nel pubblico servizio, avevano mezza paga. Nessun luogotenente era nella lista, e nessun capitano che non avesse comandato un vascello di prima o di seconda classe. E siccome lo Stato allora possedeva soli diciassette vascelli di prima e di seconda classe che fossero stati in attività, e siccome gran numero degli individui che avevano comandato quei legni, occupavano buoni impieghi sul littorale, la spesa sotto cotesto titolo doveva essere veramente lieve.[52] In ciascuna armata, la mezza paga davasi come una concessione speciale e temporanea a un piccolo numero d’ ufficiali che appartenevano a due reggimenti che avevano peculiare situazione.[53] Lo spedale di Greenwich non era fondato; quello di Chelsea stavasi edificando: ma alla spesa di tale istituzione provvedevasi, in parte, con una deduzione dalla paga delle truppe; in parte, per mezzo di soscrizioni private. Il re promise di contribuire per venti mila sterline alle spese di fabbrica, e per cinquemila l’anno al mantenimento degl’invalidi.[54] Non era parte del sistema che vi fossero esterni. La intera spesa non effettiva, militare e navale, appena poteva sorpassare dieci mila sterline annue. Oggi supera dieci mila lire il giorno. IX. Alle spese del governo civile, la Corona contribuiva solo in piccola parte. Il maggior numero de’ funzionari, l’ufficio de’ quali era quello d’ amministrare la giustizia e serbare l’ordine, o prestavano gratuitamente i loro servigi al pubblico, o erano rimunerati in modo da non cagionare nessun vuoto nella rendita dello Stato. Gli sceriffi, i gonfalonieri, gli aldermanni delle città, i gentiluomini di provincia che erano commissarii di pace, i capi de’ borghi, i ricevitori e i piccoli constabili, al Re non costavano nulla. Le corti superiori di giustizia, principalmente, mantenevansi con le tasse giudiciali. Le nostre relazioni con le Corti straniere erano condotte con estrema economia. Il solo agente diplomatico che avesse titolo d’ambasciatore, era quello di Costantinopoli, e veniva in parte mantenuto dalla Compagnia della Turchia. Anche alla Corte di Versailles l’Inghilterra teneva soltanto un inviato; e non ne aveva di nessuna specie presso le Corti di Spagna, di Svezia e di Danimarca. La intiera spesa, sotto questo titolo, nell’ultimo anno del regno di Carlo II, non poteva sorpassare di molto le ventimila lire sterline.[55] X. Questa frugalità non era punto degna di lode. Carlo, secondo suo costume, era avaro e prodigo a sproposito. Gl’impiegati morivano di fame, affinchè i cortigiani ingrassassero. Le spese della marina, dell’artiglieria, delle pensioni assegnate ai vecchi ufficiali bisognosi, delle legazioni alle Corti straniere, debbono sembrare lievi agli uomini della presente generazione. Ma i favoriti del sovrano, i suoi ministri e le loro creature, satollavansi della pubblica pecunia. Le paghe e pensioni loro, agguagliate alle entrate dei nobili, dei gentiluomini, degli esercenti professioni o commerci in quel tempo, sembreranno enormi. La rendita annua dei più grossi possidenti del Regno, in allora di poco eccedeva le ventimila lire sterline. Il Duca di Ormond non aveva se non ventiduemila sterline l’anno.[56] Il Duca di Buckingham, prima che con le sue stravaganze rovinasse il proprio patrimonio, aveva diciannovemila sterline annue.[57] Giorgio Monk, Duca di Albemarle, il quale era stato per i suoi insigni servigi rimunerato con immense concessioni di terre pertinenti alla Corona, ed era famoso per cupidigia e parsimonia, lasciò quindicimila lire sterline l’anno in beni fondi, e sessantamila lire in danari, che probabilmente rendevano il sette per cento.[58] Questi tre duchi erano reputati i più ricchi sudditi inglesi. Lo arcivescovo di Canterbury appena poteva avere cinquemila sterline annue.[59] La rendita media di un Pari secolare estimavasi, da uomini i meglio informati, a circa tremila sterline; quella d’un baronetto, a novecento; quella di un membro della Camera de’ Comuni, a meno di ottocento l’anno.[60] Mille lire sterline annue reputavansi una grossa rendita per un avvocato. Duemila l’anno appena potevano guadagnarsi nella Corte del Banco del Re, tranne dai legali della Corona.[61] È quindi manifesto che un ufficiale era ben pagato, quando riceveva un quarto o un quinto di ciò che oggi sarebbe un giusto stipendio. Di fatto, nondimeno, gli stipendi degli alti impiegati erano grossi come sono oggi, e non di rado maggiori. Il Lord Tesoriere, a modo d’esempio, aveva ottomila sterline l’anno; e qualvolta il Tesoro era in commissione, ciascuno dei Lordi più giovani aveva mille e seicento sterline annue. Il pagatore delle milizie aveva un tanto per lira sterlina—il che ascendeva ad una somma di cinquemila sterline l’anno—di tutto il danaro che passava per le sue mani. L’ufficiale, detto _Groom of the Stole_, aveva cinquemila sterline annue; ciascuno dei Commissari delle Dogane mille e duecento; i regi ciamberlani mille.[62] Nonostante, la paga ordinaria era la parte minore dei guadagni di un impiegato di quel tempo. Cominciando dai nobili che tenevano il bastone bianco e il gran sigillo, fino al più basso doganiere o stazzatore, ciò che oggi si chiamerebbe enorme corruzione praticavasi senza maschera e senza rimprovero. Di titoli, uffici, commissioni, grazie, facevano apertamente mercato i grandi dignitarii del reame; ed ogni scrivano, in ogni dipartimento, imitava, come meglio potesse, quel pessimo esempio. Nel secolo decorso, nessun primo ministro, comunque potente, era divenuto ricco per ragione d’ufficio; e parecchi ministri distrussero il proprio patrimonio per sostenere il loro alto grado. Nel secolo decimosettimo, un uomo di Stato, quando era a capo degli affari, poteva agevolmente e senza scandalo accumulare in tempo non lungo una ricchezza ampiamente bastevole al mantenimento di un duca. Egli è probabile che la rendita del primo ministro, finchè teneva in mano il potere, eccedesse quella di qualsivoglia altro suddito. Il posto di Lord Luogotenente d’Irlanda, supponevasi fruttasse quaranta mila sterline l’anno.[63] I guadagni del Cancelliere Clarendon, di Arlington, di Lauderdale e di Danby, furono enormi. Il palazzo sontuoso al quale la plebe di Londra appiccò il soprannome di Casa di Dunkerque, i magnifici padiglioni, le pescaie, le foreste popolate di cervi, i giardini d’aranci di Euston, il lusso più che italiano di Ham, con le sue statue, fontane, uccelliere, erano argomenti che additavano quale fosse la via più breve per arrivare ad una sterminata opulenza. Ciò spiega la violenza senza scrupoli, con che gli uomini di Stato di que’ giorni lottavano per conseguire gli uffici; la tenacità con cui, malgrado le molestie, le umiliazioni e i pericoli, vi si appigliavano; e le compiacenze scandalose alle quali abbassavansi per conservarli. Perfino nell’età nostra, comunque formidabile sia la potenza della pubblica opinione, e in alto posta la laude d’integrità, vi sarebbe risico grande di un infausto cangiamento nel carattere dei nostri uomini pubblici, se l’ufficio di Primo Lord del Tesoro o di Segretario di Stato fruttasse cento mila lire sterline l’anno. È insigne ventura per la patria nostra, che gli emolumenti de’ più alti funzionarii non solo non siano cresciuti in paragone del generale accrescimento della nostra opulenza, ma siano positivamente scemati. XI. È cosa strana, e a prima vista parrebbe spaventevole, che la somma levata in Inghilterra per mezzo delle tasse, siasi, in un periodo di tempo che non eccede il corso di due lunghe vite, aumentata di trenta volte. Ma coloro che si sgomentano dello accrescimento delle pubbliche gravezze, potrebbero forse rassicurarsi ove considerassero quello de’ mezzi pubblici. Nel 1685, il valore de’ prodotti del suolo eccedeva il valore di tutti gli altri prodotti della industria umana: nonostante, l’agricoltura era in quelle condizioni che ai dì nostri la farebbero chiamare rozza ed imperfetta. Gli aritmetici politici di quell’età supponevano che la terra arabile, e quella adatta al pascolo, occupassero poco più della metà di tutta la estensione del paese.[64] Credevano che il rimanente fosse tutto paludi, foreste e rocce. Cotesti computi vengono fortemente confermati dagli Itinerarii e dalle Carte geografiche del secolo diciassettesimo. Da tali libri e Carte raccogliesi, senza alcun dubbio, che molte strade, le quali adesso traversano un numero infinito di pometi, di campi da fieno e da fave, allora passavano traverso a scopeti, macchie e pantani.[65] Nei paesaggi inglesi disegnati in que’ tempi per il Granduca Cosimo, appena si vede una siepe d’alberi; e numerosi tratti di terra, ora rigogliosi per coltivazione, appariscono ignudi come il Piano di Salisbury.[66] In Enfield, donde è quasi visibile il fumo della capitale, eravi una regione di venticinque miglia di circuito, che conteneva solo tre case, e quasi nessun campo chiuso. Ivi i cervi, liberi come in una foresta d’America, erravano a migliaia.[67] È da notarsi che i grossi animali selvaggi erano allora molto più numerosi che adesso. Gli ultimi cignali che mantenevansi per le cacce del Re, e lasciavansi devastare la terra coltivata, erano stati uccisi dagli esasperati villani, mentre infuriava la licenza della guerra civile. L’ultimo lupo che vagasse per la nostra isola, era stato ammazzato in Iscozia, poco tempo innanzi la fine del regno di Carlo II. Ma molte specie, adesso estinte o rare, di quadrupedi e di volatili, erano allora comuni. La volpe, la cui vita in molte Contee è tenuta sacra quasi quanto quella d’una creatura umana, era considerata come bestia nociva. Oliviero Saint John disse al Lungo Parlamento, che Strafford dovevasi considerare non come un cervo o una lepre, da trattarsi con un certo riguardo, ma come una volpe, che doveva afferrarsi con ogni mezzo, e schiacciarlesi la testa senza pietà. Questo esempio non sarebbe piacevole, ove fosse applicato ai gentiluomini di provincia de’ nostri tempi: ma in quei di Saint John vi erano non rade volte grandi stragi di volpi, alle quali i contadini correvano in folla con tutti i cani che potessero raccogliere, usavano trappole e reti, non davano quartiere; e l’uccidere una volpe gravida consideravasi come azione meritevole della gratitudine del vicinato. I daini rossi erano allora tanto comuni nelle Contee di Gloucester e di Hamp, come oggi lo sono in Grampian Hills. La Regina Anna, viaggiando a Portsmouth, ne vide un branco non minore di cinquecento. Il toro selvatico con la sua bianca criniera, errava tuttavia in poche foreste delle contrade meridionali. Il tasso faceva il suo buio e tortuoso foro in ogni collina folta di fratte e d’arbusti. I gatti selvaggi udivansi di notte mugolare presso le case de’ guarda–caccia di Wittlebury e di Needwood. La martora dal fulvo petto, era ancora inseguita in Cranbourne Chase per la sua pelle, estimata inferiore soltanto a quella del zibellino. Le aquile di padule, che dalla punta d’un’ala a quella dell’altra avevano una lunghezza di nove e più piedi, davano la caccia ai pesci lungo la costa di Norfolk. Per tutti i piani, dal Canale Britannico fino alla Contea di York, grosse ottarde erravano a branchi di cinquanta o sessanta, e spesso i cacciatori lanciavano dietro essi i cani levrieri. Le maremme delle Contee di Cambridge e di Lincoln rimanevano per alcuni mesi dell’anno coperte da immense torme di gru. Il progresso dell’agricoltura ha estirpate parecchie di queste razze d’animali. Di altre, gl’individui sono talmente divenuti rari, che gli uomini si affollano a mirarne qualcuno, come farebbero d’una tigre del Bengal o d’un orso delle contrade polari.[68] Il progresso di questo grande mutamento non può altrove meglio rintracciarsi, che nel Libro degli Statuti. Il numero degli atti di chiusure, o partizioni di terre non coltivate, fatti dopo lo avvenimento di Giorgio II al trono, sorpassa quattro mila. Lo spazio ripartito per virtù di questi atti, eccede, calcolando moderatamente, dieci mila miglia quadrate. Quante miglia quadrate di terra che per innanzi non era coltivata, sono state, nel medesimo periodo, cinte di siepi e lavorate dai proprietari, senza ricorrere agli atti della legislatura, può solamente conghietturarsi. Ma pare molto probabile che una quarta parte dell’Inghilterra, in poco più di cento anni, di deserto, quale era, sia stata trasformata in giardino. Anche in que’ luoghi dell’isola che alla fine del regno di Carlo II erano i meglio coltivati, il modo di lavorare la terra, quantunque si perfezionasse molto dopo la guerra civile, non era, quale oggidì si chiamerebbe giudizioso. Finora l’autorità pubblica non ha fatto nessun passo efficace per indagare qual sia veramente il prodotto del suolo inglese. È quindi mestieri che lo storico segua, non senza sospetto, quegli scrittori di statistica che godono sopra gli altri fama di fedeli e diligenti. Oggimai si crede che un ricolto medio di grano, segala, orzo, avena e fave, ecceda di molto trenta milioni di sacca.[69] Il ricolto del grano verrebbe reputato cattivo, se non fosse maggiore di dodici milioni di sacca. Secondo i calcoli fatti nel 1696 da Gregorio King, l’intera quantità di grano, segala, orzo, avena e fave, che allora produceva annualmente il Regno, era qualche cosa meno di dieci milioni di sacca. Egli stimava il grano, che allora coltivavasi nei terreni più forti, e consumavasi soltanto dagli uomini agiati, non fosse meno di due milioni di sacca. Carlo Davenant, politico sottile e bene informato, quantunque affatto privo di principii morali ed astioso, differiva da King rispetto ad alcuni punti del calcolo, ma riusciva alle stesse conclusioni generali.[70] Lo avvicendare delle seminagioni, era imperfettamente conosciuto. Sapevasi, a dir vero, che alcuni vegetabili, di recente introdotti nella nostra isola, in ispecie la rapa, apprestavano buon nutrimento in tempo di verno alle pecore e ai buoi; ma non era anche uso di nutrire in quel modo gli animali. Non era, dunque, facile serbarli vivi nella stagione in cui l’erba scarseggia. Uccidevansi e salavansi in gran numero appena incominciato il freddo; e per parecchi mesi, nè anche i gentiluomini gustavano quasi mai cibo animale fresco, tranne caccia e pesci di fiume, che, per conseguenza, nelle provvisioni domestiche erano cose più importanti che non sono ne’ tempi presenti. Raccogliesi dal Libro di Famiglia di Northumberland, come nel regno di Enrico VII, anche i gentiluomini addetti ai servigi di un gran conte, non mangiassero mai carne fresca, tranne per breve intervallo di tempo, da mezza state al dì di San Michele. Ma nel corso di due secoli era seguito un miglioramento; e, regnante Carlo II, non prima della fine di novembre le famiglie facevano le loro provvisioni di carne salata, che allora chiamavasi bove di San Martino.[71] Le pecore e i buoi di quel tempo erano piccoli in paragone di quelli che adesso si vedono ne’ nostri mercati.[72] I nostri cavalli indigeni, quantunque adatti ai servigi, erano tenuti in poca stima e vendevansi a basso prezzo. Coloro che hanno meglio estimata la ricchezza nazionale, credono che, su per giù, non valessero più di cinquanta scellini ciascuno. Le razze forestiere venivano grandemente preferite. I giannetti spagnuoli erano considerati come i migliori cavalli di battaglia, ed importati fra noi per usi di lusso e di guerra. I cocchi dell’aristocrazia venivano tirati da cavalle fiamminghe, le quali, conforme credevasi, trattavano con grazia particolare, e reggevano, meglio che le altre bestie cresciute nell’isola nostra, alla fatica di trascinare un pesante equipaggio sopra i ruvidi selciati di Londra. Nè i moderni cavalli da carrozza, nè quelli da corsa conoscevansi a que’ tempi. Assai dopo, i progenitori de’ giganteschi quadrupedi che tutti gli stranieri annoverano fra le principali maraviglie di Londra, furono importati dalle maremme di Walcheren, e i progenitori di Childers e di Eclipse dalle sabbie dell’Arabia. Ciò non ostante, già esisteva fra i nostri nobili e gentiluomini la passione delle corse. La importanza di migliorare le nostre razze col mescolamento di nuovo sangue, era fortemente sentita; ed a tale scopo, si fece venire nel nostro paese un numero considerevole di barberi. Due uomini altamente reputati in siffatte materie, voglio dire il Duca di Newcastle e Sir Giovanni Fenwick, affermarono che il più spregevole cavallo di Tangeri avrebbe prodotta una razza assai più bella, di quel che si fosse potuto sperare dal migliore stallone delle nostre razze natie. Non avrebbero agevolmente creduto che giungerebbe un tempo in cui i principi e i nobili degli Stati vicini dovessero ricercare i cavalli d’Inghilterra, come gl’Inglesi avevano ricercati quelli di Barberia.[73] XII. Lo accrescimento de’ prodotti vegetabili ed animali, benchè fosse grande, sembra piccolo in paragone di quello della nostra ricchezza minerale. Nel 1685, lo stagno di Cornwall, che due mila e più anni innanzi aveva attirate le navi di Tiro oltre le Colonne di Ercole, era tuttavia uno de’ più valevoli prodotti sotterranei dell’isola. La quantità che annualmente se ne estraeva dalla terra, ascendeva, alcuni anni dopo, a mille e seicento tonnellate; probabilmente circa il terzo di quanto oggidì se n’estrae.[74] Ma le vene di rame, che trovansi nella medesima regione, erano, a tempo di Carlo II, onninamente neglette, nè alcun possidente di terra ne teneva conto nell’estimo de’ suoi poderi. Cornwall e Galles ora rendono circa quindicimila tonnellate di rame l’anno, che valgono pressochè un milione e mezzo di lire sterline; cioè quanto dire circa il doppio del prodotto annuo di tutte le miniere inglesi, di qualunque specie si fossero, nel secolo diciassettesimo.[75] Il primo strato di sale minerale era stato scoperto, non molto tempo dopo la Restaurazione, in Cheshire; ma non pare che in quell’età vi si lavorasse. Il sale che estraevasi dalle fosse marine, non era molto stimato. Le caldaie in cui manifatturavasi, esalavano un puzzo sulfureo; e lasciatosi affatto svaporare, la sostanza che ne rimaneva, era appena adatta ad usarsi nei cibi. I medici ascrivevano a cotesto malsano condimento le infermità scorbutiche e polmonari, allora comuni fra gl’Inglesi. Di rado, quindi, ne facevano uso le classi alte e le medie; ed il buon sale veniva trasportato regolarmente, e in quantità considerevole, dalla Francia in Inghilterra. Oggimai, le nostre sorgenti e miniere non solo bastano ai nostri immensi bisogni, ma mandano annualmente ai paesi stranieri più di settecento milioni di libbre di eccellente sale.[76] D’assai maggiore importanza è stato il miglioramento de’ nostri lavori di ferro. Tali lavori esistevano da lungo tempo nell’isola nostra, ma non avevano prosperato, e non erano guardati di buon occhio dal Governo e dal pubblico. Non costumavasi allora di adoperare il carbone fossile per fondere i minerali; e la rapida consumazione delle legna recava timore agli uomini politici. Regnante Elisabetta, vi erano stati lamenti, vedendosi intere foreste cadere sotto la scure per nutrimento delle fornaci; ed il Parlamento aveva inibito ai manifattori di bruciare legna. Le manifatture quindi languirono. Verso la fine del regno di Carlo II, gran parte del ferro che adoperavasi nel paese, vi era importato di fuori, e tutta la quantità che se ne faceva tra noi, sembra che non eccedesse dieci mila tonnellate. Ai dì nostri il traffico si reputa in pessima condizione se il prodotto annuo è minore di un milione di tonnellate.[77] Rimane a ricordare un minerale forse più importante del ferro stesso. Il carbon fossile, comecchè pochissimo usato in ogni specie di manifattura, era già il combustibile ordinario in alcuni distretti che avevano la ventura di possederne grandi strati, e nella metropoli, alla quale poteva essere agevolmente trasportato per mare. E’ sembra ragionevole il credere, che almeno mezza la quantità che allora se n’estraeva, consumavasi in Londra. Il consumo di Londra agli scrittori di quell’età sembrava enorme, e spesso ne facevano ricordo come prova della grandezza della città capitale. Non isperavano quasi d’essere creduti, quando affermavano che duecento ottanta mila caldroni,[78] ovvero circa trecento cinquanta mila tonnellate, nell’ultimo anno del regno di Carlo II, furono trasportati al Tamigi. Adesso, la metropoli ne consuma a un di presso tre milioni e mezzo l’anno; e l’intero prodotto annuo, non può, computando moderatamente, estimarsi a meno di trenta milioni di tonnellate.[79] XIII. Mentre cosiffatti grandi mutamenti progredivano, la rendita della terra, come era da aspettarsi, veniva sempre crescendo. In alcuni distretti si è moltiplicata fino al decuplo: in altri si è solo raddoppiata: facendo un computo generale, potrebbe affermarsi che si è quadruplicata. Gran parte della rendita era divisa fra i gentiluomini di provincia, che formavano una classe di persone, delle quali la posizione e il carattere giova moltissimo chiaramente intendere; poichè la influenza e le passioni loro, in diverse occasioni di grave momento, decisero delle sorti della nazione. Andremmo errati se c’immaginassimo gli scudieri del secolo decimosettimo come uomini esattamente somiglievoli ai loro discendenti; cioè i membri della Contea, e i presidenti delle sessioni di quartiere, che ben conosciamo. Il moderno gentiluomo di provincia, generalmente, viene educato alle liberali discipline; da una scuola cospicua passa ad un cospicuo collegio, ed ha tutti i mezzi di diventare un uomo dotto. Per lo più, ha fatto qualche viaggio in paesi stranieri; ha passato una parte considerevole della sua vita nella metropoli; e reca con sè in provincia i delicati costumi di quella. Forse non è specie d’abitazione piacevole quanto la casa rurale del gentiluomo inglese. Nei parchi e nei giardini, la natura, abbellita e non deturpata dall’arte, si mostra nella sua forma più seducente. Negli edifizi, il buon senso e l’ottimo gusto si dànno la mano a produrre una felice armonia di comodi e di grazia. Le pitture, i musicali strumenti, la biblioteca, verrebbero in ogni altro paese considerati come prova che testifichi, il padrone essere uomo eminentemente culto e compíto. Un gentiluomo di provincia, all’epoca della Rivoluzione, aveva di entrata circa la quarta parte di quella che le sue terre rendono adesso ai suoi posteri. Paragonato ai quali, egli era dunque un uomo povero, generalmente costretto a risiedere, salvo qualche interruzione di tempo, nelle sue terre. Viaggiare sul continente, tener casa in Londra, o anche visitarla spesso, erano piaceri che soli potevano gustare i grandi proprietari. Potrebbe sicuramente affermarsi, che degli scudieri, i cui nomi erano allora nelle Commissioni di Pace e Luogotenenza, nè anche uno fra venti andava alla città una volta in cinque anni, o aveva mai in vita sua viaggiato fino a Parigi. Molti proprietari di signorie erano stati educati in modo poco diverso da quello de’ loro servitori. Lo erede di una terra, spesso passava la fanciullezza e gioventù sua nella residenza della famiglia sotto maestri non migliori de’ mozzi di stalla e dei guarda–caccia, ed appena imparava tanto da apporre la propria firma ad un mandato di deposito. Se andava a scuola o in collegio, generalmente tornava, prima di compiere il suo ventesimo anno, alla vecchia sala di famiglia; dove, qualvolta la natura non gli fosse stata prodiga di insigni doti, tosto fra i piaceri e le faccende della campagna, dimenticava gli studi accademici. La precipua fra le sue occupazioni serie era la cura de’ propri beni. Esaminava mostre di grano, governava maiali, e ne’ dì di mercato patteggiava, col boccale dinanzi, con mercanti di bestie e venditori di luppoli. I suoi migliori piaceri consistevano comunemente nei diporti campestri, e nei non delicati diletti sensuali. Il suo linguaggio e la sua pronunzia erano tali, quali oggi troveremmo sulle labbra de’ più ignoranti contadini. I giuramenti, gli scherzi grossolani, i vocaboli scurrili erano da lui profferiti coll’accento specifico del dialetto della sua provincia. Era facile distinguere alle prime parole, s’egli venisse dalla Contea di Sommerset, o da quella di York. Davasi poco pensiero di ornare la propria abitazione; e qualvolta tentava farlo, quasi sempre la rendeva più deforme. La mondiglia della corte della fattoria giaceva accumulata sotto le finestre della sua stanza da letto, e i cavoli e l’uva spina crescevano da presso all’uscio della sua sala. Sopra la sua tavola vedevasi una rozza abbondanza, e gli ospiti vi erano cordialmente trattati. Ma, poichè il costume di bere eccessivamente era comune nella classe alla quale egli apparteneva, e poichè i suoi averi non gli concedevano d’inebriare ogni dì con vini di Bordeaux o delle Canarie le numerose brigate, la bevanda ordinaria era birra fortissima. La quantità che se ne consumava in quei giorni era veramente enorme. Imperciocchè la birra per le classi medie e le basse era in quel tempo non solo ciò che è per noi la birra, ma ciò che sono il vino, il thè e i liquori spiritosi. Solo nelle grandi case e nelle grandi occasioni i beveraggi stranieri ornavano i banchetti. Le donne della famiglia, le quali comunemente badavano a cucinare il pranzo, appena divorate le vivande, sparivano, lasciando gli uomini al bicchiere ed alla pipa. Questi ruvidi sollazzi del dopo desinare, spesso prolungavansi finchè i commensali cadevano sonnolenti presso la mensa. Rade volte avveniva che il gentiluomo di provincia vedesse il gran mondo; e ciò che ei ne vedeva, tendeva più presto a confondere, che a rischiarargli lo intendimento. Le sue opinioni intorno alla religione, al Governo, agli Stati stranieri e ai tempi trapassati, derivando non dallo studio, dall’osservare e dal conversare con gente illuminata, ma dalle tradizioni correnti nel suo vicinato, erano le opinioni d’un fanciullo. Nondimeno, appigliavasi ad esse con la ostinazione che generalmente si osserva negli ignoranti avvezzi a pascersi d’adulazione. I suoi rancori erano molti ed acri. Odiava i Francesi e gl’Italiani, gli Scozzesi e gl’Irlandesi, i Papisti e i Presbiteriani, gl’Indipendenti e i Battisti, i Quacqueri e gli Ebrei. Per la città e gli abitatori di Londra sentiva avversione tale, che più d’una volta produsse gravissime conseguenze politiche. La moglie e le figliuole, per gusti e cognizioni, erano inferiori ad una cameriera o guardaroba de’ giorni nostri. Cucivano e filavano, facevano il vino d’uva spina, curavano i fiorranci, e facevano la crosta da servire al pasticcio di selvaggina. Da questa descrizione potrebbe dedursi, che lo scudiero inglese del decimosettimo secolo non differisse grandemente da un mugnaio o da un birraio del decimonono. Sono, nondimeno, da notarsi alcune parti importanti del suo carattere, le quali modificheranno molto cotesta opinione. Illetterato come egli era e privo di modi gentili, era tuttavia per molti riguardi un gentiluomo. Era parte d’una altera e potente aristocrazia, ed aveva molte delle buone e delle pessime qualità che appartengono agli aristocratici. Il suo orgoglio di famiglia era maggiore di quello d’un Talbot o d’un Howard. Conosceva le genealogie e i blasoni di tutti i suoi vicini, e poteva ridire quale di loro avesse assunto segni gentilizi senza alcun diritto, e quale avesse la sciagura di essere il pronipote di aldermanni. Era magistrato, e come tale amministrava gratuitamente ai suoi vicini una rozza giustizia patriarcale, che, malgrado gl’innumerevoli sbagli e gli atti tirannici che di quando in quando ei commetteva, era tuttavia meglio che non esservene affatto. Era ufficiale delle milizie civiche; e la sua dignità militare, quantunque potesse muovere a riso i valorosi che avevano militato nella guerra delle Fiandre, rendeva venerabile il suo carattere agli occhi propri ed a quelli del suo vicinato. Nè, certamente, la sua professione di soldato poteva essere obietto di giusto scherno. In ogni Contea erano gentiluomini d’età matura, che avevano veduta una disciplina la quale era tutt’altro che trastullo da ragazzi. Questi era stato fatto cavaliere da Carlo I dopo la battaglia di Edgehill. Quell’altro portava ancora la cicatrice della ferita che aveva ricevuta in Naseby. Un terzo aveva difesa la sua vecchia abitazione, finchè Fairfax ne aveva sfondata la porta con una bomba. La presenza di questi vecchi Cavalieri, con le loro vecchie spade e casse di pistola, e con le loro vecchie novelle di Goring e Lunsford, davano alle riviste de’ militi un aspetto guerresco, che non avrebbero altrimenti avuto. Anche quei gentiluomini di provincia che erano sì giovani da non aver potuto pugnare coi corazzieri del Parlamento, erano stati, fino dalla infanzia loro, circuiti dei segni di fresca guerra, e nutriti di storielle intorno alle gesta militari dei loro padri e zii. Così il carattere dello scudiere inglese del secolo decimosettimo, era composto di due elementi, che non siamo avvezzi a vedere insieme congiunti. La ignoranza e ruvidità sue, i suoi gusti bassi, le sue frasi triviali, verrebbero, ai tempi nostri, considerati come indizi d’una natura e educazione al tutto plebee. Nulladimeno, egli era essenzialmente patrizio, ed aveva, in larga misura, le virtù e i vizi propri degli uomini, per diritto di nascita, posti in alto, ed avvezzi a comandare, ad essere rispettati, e a rispettare sè stessi. Non è agevole per una generazione assuefatta a trovare sentimenti cavallereschi solo in compagnia degli studi liberali e dei modi gentili, lo immaginare un uomo con il contegno, il frasario e lo accento di un vetturino, e nondimeno puntiglioso in materia di genealogia e di precedenza, e pronto a rischiare la propria vita piuttosto che vedere una macchia sopra l’onore della propria casa. Non pertanto, solo col congiungere cose che di rado o non mai abbiamo da noi sperimentato, possiamo formarci una giusta idea di quella rustica aristocrazia, la quale costituiva la forza precipua dello esercito di Carlo I, e lungamente sostenne, con istrana fedeltà, gl’interessi dei discendenti di lui. Il gentiluomo di provincia, rozzo, ineducato, non uscito mai fuori della sua patria, era comunemente Tory; ma comecchè devotamente aderisse alla Monarchia, non amava i cortigiani e i ministri. Pensava, non senza ragione, che Whitehall rigurgitasse dei più corrotti uomini del mondo; che le grandi somme di danaro che la Camera de’ Comuni aveva concesse alla Corona dopo la Restaurazione, in parte erano state rubate da astuti politici, in parte profuse in buffoni e bagasce forestiere. Il suo robusto cuore d’Inglese fremeva di sdegno pensando che il governo della propria patria dovesse essere sottoposto alla dittatura della Francia. Essendo egli stesso vecchio Cavaliere o figlio di un vecchio Cavaliere, meditava, amareggiato nell’animo, sopra la ingratitudine con cui gli Stuardi avevano rimeritati i loro migliori amici. Coloro che lo udivano mormorare per lo spregio ond’egli era trattato, e per lo scialacquo con che le ricchezze profondevansi sopra i bastardi di Norma Gwynn e di Madama Carwell, lo avrebbero supposto paratissimo a ribellare. Ma tutto cotesto cattivo umore durava solo finchè il trono non trovavasi davvero in pericolo. Appunto quando coloro che il sovrano aveva colmati di ricchezze e di onori gli si scostavano dal fianco, i gentiluomini di provincia, così franchi e tumultuosi in tempi di prosperità, gli si affollavano devoti d’intorno. Così, dopo d’avere per venti anni brontolato del malgoverno di Carlo II, vedendolo agli estremi, corsero a lui per liberarlo, allorquando i suoi stessi Segretari di Stato e Lordi del Tesoro lo avevano abbandonato, e fecero sì ch’egli potesse trionfare pienamente della opposizione: nè è da dubitarsi che avrebbero mostrata ugual fedeltà a Giacomo fratello del Re, se Giacomo, anche nell’ultimo istante, si fosse astenuto dal calpestare i loro più forti sentimenti. Imperocchè eravi una istituzione soltanto ch’essi pregiavano assai più della Monarchia ereditaria, cioè la Chiesa d’Inghilterra. Lo amore che le portavano, non era veramente effetto di studio o di meditazione. Pochi tra loro avrebbero potuto addurre ragioni tratte dalla Scrittura o dalla Storia Ecclesiastica, per aderire alle dottrine, al rituale, all’ordinamento della loro Chiesa; nè erano, come classe, rigorosi osservatori di quel codice di morale, comune a tutte le sètte cristiane. Se non che, la esperienza di molti secoli insegna, come gli uomini siano pronti a combattere a morte e perseguitare senza misericordia i loro fratelli, onde difendere una religione della quale non intendono le dottrine, e violano costantemente i precetti.[80] XIV. Il clero rurale era anche Tory più virulento de’ gentiluomini delle campagne, e formava una classe appena meno di quelli importante. È nondimeno da notarsi, che il prete, come individuo, paragonato al gentiluomo individuo, allora veniva considerato inferiore per grado, di quello che sia ai nostri tempi. La Chiesa sostenevasi principalmente con le decime; i proventi delle quali erano, verso la rendita, in molto minore proporzione che non sono oggi. King estimava la intera rendita del clero parrocchiale e collegiale soltanto a quattrocento ottanta mila lire sterline l’anno; Davenant a cinquecento quarantaquattro mila. Adesso avanza di sette volte la maggiore di queste due somme. La rendita media de’ terreni, secondo qualsivoglia estimo, non ha avuto un augumento proporzionato a quello. E però era mestieri che i rettori e i curati, in paragone de’ cavalieri e scudieri loro vicini, fossero più poveri sette volte più di quello che sono nel decimonono secolo. Il posto degli ecclesiastici nella società, è stato pienamente cangiato dalla Riforma. Innanzi quell’epoca, essi formavano la maggioranza nella Camera dei Lordi, uguagliavano e talvolta sorpassavano per ricchezza e splendore i più grandi baroni secolari, e, generalmente, occupavano i più alti uffici civili. Il Lord Tesoriere spesso era un Vescovo. Il Lord Cancelliere quasi sempre era tale. Il Lord Guardasigilli, e il Maestro de’ Rotoli ovvero degli Atti, d’ordinario erano uomini di chiesa. Gli ecclesiastici trattavano i più importanti affari diplomatici. E veramente, tutti i numerosi rami dell’amministrazione che i Nobili rozzi e guerrieri erano disadatti a condurre, consideravansi come pertinenti in ispecial modo ai teologi. Coloro, quindi, che abborrivano dalla vita militare, o nel tempo stesso ambivano d’inalzarsi nello Stato, ordinariamente ricevevano la tonsura. Fra essi v’erano i figli delle famiglie più illustri, e prossimi parenti della Casa Reale; gli Scroop e i Neville, i Bourchier, gli Stafford e i Pole. Alle case religiose appartenevano le rendite di vastissime possessioni, e tutta la gran parte delle decime che oggi è nelle mani dei laici. Fino alla metà del regno di Enrico VIII, perciò, nessuno stato nella vita offriva agli uomini d’indole cupida ed ambiziosa uno aspetto così seducente come il presbiterato. Sopraggiunse poscia una violenta rivoluzione. L’abolizione de’ monasteri privò a un tratto la Chiesa di gran parte della sua opulenza, e del suo predominio nella Camera Alta del Parlamento. Un Abate di Glastonbury o un Abate di Reading, più non si vedevano assisi fra mezzo ai Pari, o padroni di rendite uguali a quelle d’un ricco Conte. Il principesco splendore di Guglielmo di Wykeham, e di Guglielmo di Waynflete, era sparito. Il rosso cappello cardinalizio, la croce bianca del legato apostolico, non erano più. Il clero avea anco perduta la influenza che è naturale rimunerazione della superiorità nella cultura intellettuale. Un tempo, se un uomo sapeva leggere, dicevasi ch’egli aveva preso gli ordini ecclesiastici. Ma in una età che aveva uomini come Guglielmo Cecil e Niccola Bacone, Ruggiero Ascham e Tommaso Smith, Gualtiero Mildmay e Francesco Walsingham, non v’era ragione per chiamare dalle diocesi loro i prelati onde negoziare trattati, soprintendere alle finanze, o amministrare la giustizia. Il carattere spirituale non solamente cessò d’essere una qualificazione per occupare gli alti uffici civili, ma cominciò ad essere considerato come argomento d’inettitudine. Per la qual cosa, quei motivi mondani che per innanzi avevano indotto cotanti egregi, ambiziosi e ben nati giovani ad indossare l’abito ecclesiastico, cessarono di agire. A quei tempi, nè anche una fra duecento parrocchie apprestava emolumenti tali, da potersi considerare come mantenimento d’un individuo di buona famiglia. Vi erano premi nella Chiesa, ma erano pochi; e anche i maggiori erano bassi, in paragone della gloria di che un tempo andavano circondati i principi della gerarchia. La condizione di Parker e Grindal sembrava quella di un mendicante a coloro che rammentavansi della pompa imperiale di Wolsley; dei suoi palazzi, che erano diventati abitazioni predilette del principe, cioè Whitehall e Hampton Court; delle tre ricche mense che giornalmente erano apparecchiate nel suo refettorio; delle quarantaquattro sontuose pianete della sua cappella; dei suoi staffieri coperti di splendide livree, e delle sue guardie del corpo armate di scuri dorate. Così l’ufficio sacerdotale perdè ogni attrattiva agli occhi delle alte classi. Nel secolo che seguì l’ascensione di Elisabetta al trono, quasi nessun uomo di nobile lignaggio entrò negli ordini sacri. Alla fine del regno di Carlo II, due figli di Pari erano vescovi; quattro o cinque figli di Pari erano preti, e tenevano dignità proficue: ma queste rare eccezioni non toglievano il rimprovero che facevasi al ceto ecclesiastico. Il clero veniva considerato, nel suo insieme, come classe plebea. E veramente, uno tra dieci ecclesiastici, che erano preti serventi manuali, faceva la figura di gentiluomo. Moltissimi di coloro che non avevano beneficii, o gli avevano sì piccoli da non apprestare i comodi della vita, vivevano nelle case dei laici. Era da lungo tempo manifesto, che tale costumanza tendeva a degradare il carattere sacerdotale. Laud erasi sforzato a porvi rimedio; e Carlo I aveva ripetutamente emanati ordini positivi, perchè nessuno, tranne gli uomini di alto grado, presumesse di tenere cappellani domestici.[81] Ma tali ordini erano caduti in disuso. A vero dire, mentre dominavano i Puritani, molti de’ reietti ministri della Chiesa Anglicana poterono ottenere pane e ricovero solo impiegandosi nelle famiglie de’ gentiluomini realisti; e le abitudini formatesi in que’ torbidi tempi, seguitarono lungamente dopo il ristabilimento della Monarchia e dell’Episcopato. Nelle case degli uomini di sentimenti liberali e di culto intelletto, il cappellano era, senza alcun dubbio, trattato con urbanità e cortesia. La conversazione, i servigi letterari, i consigli spirituali di lui, erano considerati come ampia ricompensa per l’alimento, lo alloggio e lo stipendio che riceveva. Ma non così generalmente operavano i gentiluomini di provincia. Il rozzo ed ignorante scudiero il quale reputava convenire alla dignità sua che un ecclesiastico alla sua mensa, vestito degli abiti sacerdotali, recitasse il rendimento di grazie, trovava il mezzo di conciliare la dignità con la economia. Un giovine Levita—era questa la frase che usavasi—si sarebbe potuto avere per il cibo, una stanzaccia e dieci lire sterline l’anno; e non solamente avrebbe potuto compiere le funzioni sacerdotali, essere un pazientissimo uditore, e sempre pronto a giuocare nel buon tempo alle bocce, e nel piovoso alla morella; ma avrebbe anche potuto far risparmiare la spesa di un giardiniere, o d’un mozzo di stalla. Ora il reverendo legava gli albicocchi, ed ora strigliava i cavalli. Rivedeva i conti del maniscalco; correva dieci miglia a recare un’ambasciata o un fagotto. Gli era concesso di desinare in compagnia della famiglia; ma doveva contentarsi del pasto più umile. Poteva riempirsi il ventre di bove salato e carote: ma appena comparse in tavola le torte e i manicaretti di panna, alzavasi, e tenevasi da parte finchè venisse chiamato a recitare il rendimento di grazie per il desinare, al quale in gran parte ei non aveva partecipato.[82] Forse, dopo alcuni anni di servizio, gli veniva concesso un beneficio da bastargli per vivere; ma spesso gli era mestieri comprarlo con una specie di simonia, che apprestò agl’irrisori inesausta materia di scherzo per tre o quattro generazioni. Alla concessione della cura era connesso l’obbligo di prender moglie. La moglie, comunemente, era stata al servizio del patrono; ed era fortuna se essa non veniva sospettata di godere i favori di lui. Certo, la natura dei matrimoni che gli ecclesiastici di quella età avevano costume di fare, è il più sicuro indizio del posto che l’ordine sacerdotale occupava nel sistema sociale. Un uomo di Oxford, che scriveva pochi mesi dopo la morte di Carlo II, querelavasi amaramente, non solo perchè il procuratore e il farmacista di provincia trattavano con dispregio lo ecclesiastico di provincia, ma perchè una delle lezioni inculcate con più studio alle fanciulle di famiglie onorevoli, era di non corrispondere ad un amante vincolato dagli ordini sacri; e che, ove qualche donzella avesse posto in oblio tale precetto, rimaneva quasi egualmente disonorata, che se si fosse resa colpevole d’illeciti amori.[83] Clarendon, che certamente non odiava la Chiesa, rammenta, come segno della confusione delle classi prodotta dalla grande ribellione, che alcune damigelle di famiglie nobili si erano sposate ad ecclesiastici.[84] Una fantesca era generalmente considerata come la più convenevole compagna di un parroco. La Regina Elisabetta, come Capo della Chiesa, aveva data una certa sanzione formale a cotesto pregiudizio, emanando ordini speciali affinchè nessun chierico presumesse di sposare una fantesca senza il consenso del padrone o della padrona.[85] Per parecchie generazioni, quindi, la relazione tra i preti e le serve fu subietto d’infiniti scherzi; nè sarebbe facile trovare nelle commedie del secolo decimo settimo un solo esempio di un ecclesiastico che giungesse a sposare una donna di condizione superiore a quella d’una cuoca.[86] Anche al tempo di Giorgio II, il più acuto di tutti gli osservatori della vita e dei costumi umani, ecclesiastico anch’egli, notò che nelle grandi famiglie il cappellano era il rifugio d’una cameriera, la quale, macchiato l’onore, avesse perduta ogni speranza di sedurre il maestro di casa.[87] Generalmente, lo ecclesiastico che lasciava l’ufficio di cappellano per avere un beneficio ed una moglie, trovavasi uscito d’una molestia per entrare in un’altra. Non una in cinquanta prebende, poneva il sacerdote in condizione di sostenere coi debiti comodi la propria famiglia. Come i figliuoli crescevano di numero e d’età, la economia di lui facevasi più misera. L’unica sottana che lo copriva era piena di buchi, nel tempo stesso che il tetto del presbiterio andava in ruina. Spesso il suo solo mezzo di procacciarsi il pane quotidiano, era quello di sudare lavorando il podere della parrocchia, nutrendo maiali e vendendo concio; nè sempre i suoi estremi sforzi valevano a impedire che gli esecutori della giustizia gli portassero via il libro delle Concordanze della Scrittura e il calamaio. Era per lui giorno di letizia quello in cui veniva ammesso alla cucina di qualche grande famiglia, dove i servi gli donavano vivande fredde e birra. Educava i propri figliuoli come quelli del vicino contadiname; i maschi traevansi dietro all’aratro, e le femmine andavano a servire fuori di casa. Gli riusciva impossibile studiare; perocchè il prezzo del suo beneficio sarebbe stato appena bastevole allo acquisto d’una buona biblioteca teologica; e si sarebbe potuto estimare oltremodo avventurato, se ne’ suoi scaffali avesse avuti dieci o dodici malandati volumi. In cosiffatte domestiche strettezze, il più vivo e robusto intelletto si sarebbe logorato. Certamente, a quei tempi nella Chiesa Anglicana non v’era difetto di ministri insigni per abilità e dottrina. Ma è da osservarsi che ei non trovavansi fra mezzo alla popolazione rurale. Erano, altresì, insieme raccolti in pochi luoghi dove abbondavano i mezzi d’istruirsi, e dove le occasioni alle vigorose esercitazioni intellettuali erano frequenti.[88] Quivi potevano trovarsi gli ecclesiastici forniti di egregie doti, di eloquenza, di vasto sapere nelle lettere, nelle scienze e negli usi della vita, onde attirare a sè l’attenzione delle congregazioni frivole e mondane, guidare le deliberazioni dei senati, e rendere la religione rispettabile anche nella Corte più dissoluta. Taluni affaticavansi a scandagliare gli abissi della metafisica teologica; altri erano profondamente versati nella critica degli studi biblici; e altri gettavano luce sopra i luoghi più oscuri della storia ecclesiastica. Questi mostravansi maestri consumati nella logica; quelli coltivavano la rettorica con tale assiduità e prospero successo, che i loro discorsi si pregiano meritamente come esempi di bello stile. Cotesti uomini eminenti trovavansi, senza quasi nessuna eccezione, nelle Università e nelle grandi Cattedrali, o nella Metropoli. Barrow era di poco morto in Cambridge; Pearson gli era succeduto al seggio episcopale. Cudworth ed Enrico More vi stavano tuttavia. South e Pococke, Jane e Aldrich erano in Oxford. Prideaux stava presso Norwich, e Whitby presso Salisbury. Ma principalmente il clero di Londra, del quale parlavasi sempre come d’una classe particolare, era quello che manteneva alla propria professione la fama di dottrina e d’eloquenza. I principali pergami della metropoli erano occupati, verso quel tempo, da una schiera d’uomini insigni, fra mezzo ai quali sceglievansi in gran parte i prelati che governavano la chiesa. Sherlock predicava nel Tempio, Tillotson a Lincoln’s Inn, Wake e Geremia Collier in Gray’s Inn, Burnet nel Rolls, Stillingfleet nella Cattedrale di San Paolo, Patrick in San Paolo a Covent Garden, Fowler in San Gilles a Cripplegate, Sharp in San Gilles–in–the–Fields, Tenison in San Martino, Sprat in Santa Margherita, Beveridge in San Pietro a Cornhill. Di questi dodici oratori, tutti notabilissimi nella storia ecclesiastica, dieci diventarono vescovi, e quattro arcivescovi. Frattanto, quasi le sole opere teologiche importanti che uscissero da un presbiterio rurale, furono quelle di Giorgio Bull, che poscia fu vescovo di San David; e Bull non le avrebbe mai potute scrivere se non avesse ereditato una terra, con la vendita della quale potè raccogliere una biblioteca, quale nessun altro ecclesiastico di provincia possedeva.[89] Così il clero anglicano era partito in due sezioni, le quali per istruzione, costumi e condizioni sociali, grandemente fra loro differivano. L’una, educata per le città e le corti, comprendeva uomini forniti di dottrina antica e moderna; uomini adatti a combattere Hobbes o Bossuet con tutte le armi della controversia; uomini che ne’ sermoni sapevano esporre la maestà e bellezza del cristianesimo con tale giustezza di pensiero e vigoria di parola, che l’indolente Carlo destavasi per ascoltare, e il fastidioso Buckingham dimenticavasi di schernire; uomini che per destrezza, cortesia e conoscenza di mondo, erano reputati degni di governare le coscienze de’ ricchi e dei nobili; uomini coi quali Halifax amava discutere intorno agli interessi degli Stati, e dei quali Dryden non arrossiva di confessare che gli erano stati maestri nell’arte di scrivere.[90] L’altra sezione era destinata a servigi più rozzi ed umili. Era dispersa per tutta la provincia, e composta d’individui nè più ricchi nè molto più culti dei piccoli coloni e dei servitori. Nulladimeno, in cotesti ecclesiastici rurali, i quali traevano una scarsa sussistenza dalle loro decime sul grano e sui maiali, e non avevano la minima probabilità di pervenire agli alti onori della propria professione, lo spirito della professione era più forte. Fra mezzo a quei teologi che erano l’orgoglio dell’università e il diletto della capitale, e che erano giunti o potevano ragionevolmente sperare di giungere a conseguire opulenza e grado signorile, un partito rispettabile per numero e più rispettabile per carattere, pendeva verso i principii del governo costituzionale; viveva in relazioni amichevoli coi Presbiteriani, con gl’Indipendenti e i Battisti; avrebbe con gioia veduto concedere piena tolleranza a tutte le sètte protestanti, e consentito a modificare la liturgia, a fine di conciliare i non–conformisti onesti e sinceri. Ma da tanta libertà di pensiero abborriva il parroco di campagna. In verità, egli andava altero della sua cenciosa sottana, più che i suoi superiori delle loro bianche tele e de’ cappucci scarlatti. La convinzione di essere assai piccolo nelle condizioni mondane, in guisa da non potersi elevare al di sopra degli abitanti del villaggio a’ quali predicava, gli dava una idea oltremodo grande della dignità del ministero sacerdotale, sola cagione della riverenza in cui era tenuto. Essendo vissuto lontano dal mondo, ed avendo avuta poca occasione di correggere le proprie opinioni leggendo o conversando, serbava e insegnava le dottrine dell’indestruttibile diritto ereditario, della obbedienza passiva, e della non resistenza in tutta la nuda assurdità loro. Avendo lungamente combattuto contro i dissenzienti del vicinato, spesso gli odiava a cagione de’ torti ch’egli aveva loro fatti, e non trovava altro fallo nelle odiate leggi, dette _Five Mile Act_ e _Conventicle Act_,[91] se non in ciò che non erano bastevolmente severe. Sopra il solo partito Tory, esercitava tutta la influenza—ed era grandissima—che ei derivava dal proprio ministero. Sarebbe grave errore lo immaginare che il potere del clero fosse minore di quello che sia ai dì nostri, perchè il rettore di provincia non veniva considerato come gentiluomo, perchè non gli era dato aspirare alla mano delle signore della famiglia del possidente, perchè non veniva invitato alle sale dei grandi, ma lasciavasi bere e fumare la pipa coi servitori e coi credenzieri. La influenza d’una classe non è in modo alcuno proporzionata alla stima in che i membri di quella sono tenuti come individui. Un cardinale è personaggio più elevato che non è un frate mendicante; ma sarebbe grave errore supporre che il collegio de’ cardinali abbia influito sul pubblico sentire dell’Europa più che l’ordine di San Francesco. In Irlanda, oggimai, la posizione sociale di un Pari è più eminente di quella d’un prete cattolico: nondimeno, in Munster e Connaught, poche sono le Contee dove una lega di preti in una elezione non trionferebbe contra una lega di Pari. Nel secolo decimo settimo, il pulpito era, per gran parte della popolazione, ciò che adesso è la stampa periodica. Quasi nessuno dei villani che andavano alla chiesa parrocchiale, vedeva mai una gazzetta o un libretto politico. Per quanto poco istruito potesse essere il loro pastore, pure aveva maggiore istruzione di loro: aveva ogni settimana occasione di arringare innanzi ad essi, senza che nessuno alzasse la voce a rispondere. In ogni grave circostanza, da molte migliaia di pulpiti ad un sol tempo, risuonavano invettive contro i Whig, ed esortazioni ad obbedire all’unto del Signore; e lo effetto ne era veramente formidabile. Di tutte le cagioni, le quali, dopo sciolto il Parlamento di Oxford, produssero la violenta reazione contro gli Esclusionisti, la più possente sembra essere stata la eloquenza del clero di provincia. XV. Il potere che i gentiluomini e il clero di provincia esercitavano nei distretti rurali, veniva alquanto controbilanciato dal potere dei piccoli possidenti, genia dotata d’animo schietto e robusto. I piccoli possidenti, che coltivavano i propri campi con le mani proprie, e fruivano d’una modesta competenza senza pretese di blasoni o ambizione di sedere in una corte di giustizia, formavano, allora più che adesso, una parte assai più importante della nazione. Se possiamo fidarci de’ migliori scrittori di statistica di que’ tempi, circa cento sessanta mila proprietari, i quali insieme con le loro famiglie dovevano sommare a più d’un settimo della intiera popolazione, traevano la sussistenza dalle loro piccole possessioni libere. La entrata media di cotesti possidenti, composta di rendita, d’utili e di salari, estimavasi ad una somma fra sessanta e settanta lire sterline l’anno. Calcolavasi che il numero degli individui che zappavano da sè le proprie terre, era maggiore del numero di coloro i quali prendevano in affitto i terreni altrui.[92] Gran parte dei piccoli possidenti, fino dal tempo della Riforma, aveva aderito al Puritanismo; aveva nelle guerre civili parteggiato a favore del Parlamento; dopo la Ristaurazione, persistito ad ascoltare i predicatori Presbiteriani e Indipendenti; nelle elezioni sostenuto valorosamente gli Esclusionisti; ed anche dopo scoperta la congiura di Rye House e proscritti i capi de’ Whig, aveva seguitato a considerare il papismo e il potere arbitrario con animo inesorabilmente ostile. XVI. Per quanto grande sia stato il cangiamento nella vita rurale d’Inghilterra dopo la Rivoluzione, quello delle città è anche più meraviglioso. Ai dì nostri, una sesta parte della nazione è affollata in città provinciali, di trenta e più mila abitanti. Nel regno di Carlo II, non era nel reame città provinciale che contenesse trentamila anime; e solo quattro ne contavano dieci mila. Dopo la metropoli, ma ad un’immensa distanza, venivano Bristol, che a quei dì era il principale porto; e Norwich, che allora consideravansi come la precipua città manifatturiera dell’Inghilterra. Ambedue sono state poi vinte da altre città rivali più giovani: nulladimeno, entrambe hanno fatto considerevoli progressi. La popolazione di Bristol si è quadruplicata; quella di Norwich si è accresciuta più del doppio. Pepys, il quale visitò Bristol otto anni dopo la Ristaurazione, rimase attonito allo splendore della città. Ma il suo termine di paragone non era alto; poichè egli registrò come una maraviglia il fatto, che in Bristol un uomo poteva guardare all’intorno e non vedere altro che case. E’ sembra che in nessun altro luogo che egli conoscesse, tranne in Londra, gli edificii fossero fuori dai boschi e da’ campi. Per quanto Bristol potesse sembrare vasta, non occupava se non piccola parte del suolo sopra il quale adesso sorge. Poche chiese di squisita bellezza elevavansi fra mezzo a un laberinto di anguste vie, sorgenti sopra volte non molto solide. Se un cocchio o una carretta entrava in que’ viali, correva pericolo di rimanere fitta fra le case, o di rompersi nelle cantine; e però la roba veniva trasportata per la città sopra barroccini tirati da cani; e i più ricchi abitanti facevano mostra della propria opulenza non nel farsi trascinare assisi in cocchi dorati, ma nel passeggiare per le vie con un corteo di servi coperti di splendide livree, e nella profusione delle mense. La pompa dei battesimi e de’ funerali vinceva di molto ciò che di simile si potesse vedere in ogni altra parte dell’isola. La città era in grandissima rinomanza d’ospitalità, in ispecie per le colazioni che i raffinatori di zucchero offrivano a coloro che recavansi a visitarli. Il desinare apparecchiavasi nella fornace, e veniva accompagnato da una ricca bevanda composta del miglior vino di Spagna, conosciuta in tutto il Regno col nome di latte di Bristol. Cosiffatto lusso sostenevano per mezzo di un proficuo commercio con le piantagioni dell’America Settentrionale e le Indie Occidentali. Era sì forte la passione pei traffici con le colonie, che appena eravi in Bristol un solo piccolo bottegaio che non avesse parte sul carico di qualche nave la quale si recasse alla Virginia o alle Antille. Questo genere di commercio, a dir vero, talvolta non era onorevole. Nelle transatlantiche provincie della Corona, v’erano grandi richieste di lavoratori; alle quali richieste provvedevasi, in parte, con un sistema di reclutare e rapire individui nei principali porti dell’Inghilterra: sistema che in nessun altro luogo era così attivo ed esteso come in Bristol. Anche i primi magistrati di quella città, non vergognavano di arricchirsi con un tanto odioso commercio. Dalle liste dell’imposta sui fuochi, si deduce che nell’anno 1685, il numero delle case fosse cinque mila trecento. Non possiamo supporre che il numero degli individui d’una casa fosse maggiore di quelli d’una famiglia della città di Londra; e le migliori autorità sopra questo subietto c’insegnano che in Londra erano cinquantacinque persone per ogni dieci case. È mestieri, quindi, che la popolazione di Bristol fosse di ventinovemila anime.[93] XVII. Norwich era capitale d’una grande e fertile provincia, residenza d’un vescovo e d’un capitolo, e sede principale della principale manifattura del Regno. Alcuni uomini insigni per dottrina vi avevano di recente abitato; e in tutto il reame non v’era luogo, tranne la metropoli e le università, che attirasse maggiormente i curiosi. La biblioteca, il museo, l’uccelliera e il giardino botanico di sir Tommaso Browne, venivano stimati dai colleghi della Società Reale come cose ben meritevoli d’un lungo pellegrinaggio. Norwich aveva anche una Corte in miniatura. Nel mezzo della città sorgeva un vetusto palazzo dei Duchi di Norfolk, che reputavasi la più vasta casa cittadina del Regno, fuori di Londra. In cotesta magione, cui erano annessi locali per la pallacorda, un pallottolaio, ed un ampio prato che si distendeva lungo le rive del Wansum, la nobile famiglia di Howard faceva lunga dimora, e teneva una corte somiglievole a quella d’un principotto. Agli ospiti davasi da bere in vasi di oro puro. Le stesse molle e le palette erano d’argento; le pareti adorne di pitture d’artisti italiani; i gabinetti pieni d’una eletta collezione di gemme comperate da quel Conte d’Arundel, i marmi del quale oggidì si ritrovano fra gli ornamenti di Oxford. Ivi, nell’anno 1671, Carlo con tutta la sua Corte venne sontuosamente ricevuto. Ivi ogni veniente era bene accolto dal Natale alla Epifania. La birra correva a fiumi per la moltitudine. Tre cocchi, uno de’ quali era costato cinquecento lire sterline e conteneva quattordici persone, erano ogni pomeriggio mandati attorno per la città, onde condurre le dame alle feste; e ai balli spesso seguiva un magnifico banchetto. Quando il Duca di Norfolk andava a Norwich, veniva salutato come un re che tornasse alla sua capitale. Le campane del duomo e di San Pietro Mancroft suonavano; tuonavano le artiglierie del castello; e il gonfaloniere e gli aldermanni presentavano al loro illustre concittadino indirizzi a complirlo. Nell’anno 1693, enumeratasi la popolazione di Norwich, trovossi ascendere a ventotto o ventinove mila anime.[94] Assai al di sotto di Norwich, ma considerevoli per dignità ed importanza, stavano alcune altre antiche capitali di Contee. In quell’età, rade volte seguiva che un gentiluomo di provincia andasse con tutta la propria famiglia a Londra. Sua metropoli era la città della Contea. Ei talvolta vi abitava parecchi mesi dell’anno. In ogni modo, vi si recava chiamato dalle faccende o dai piaceri, dalle sessioni trimestrali, dalle elezioni, dalle riviste della guardia civica, dalle feste, dalle corse. Ivi erano le sale dove i giudici, vestiti di scarlatto, e preceduti dai giavellotti e trombetti, aprivano due volte l’anno la Commissione del Re. Ivi erano i mercati, dove esponevansi in vendita il grano, il bestiame, la lana e i luppoli del paese circostante. Ivi erano le grandi fiere, alle quali accorrevano i mercatanti da Londra, e dove il trafficante rurale faceva le annue provviste di zucchero, di carta, di coltelli, di mussolini. Ivi erano le botteghe, nelle quali le migliori famiglie de’ luoghi circonvicini comperavano le droghe e gli ornamenti di moda. Taluni di cotesti luoghi erano illustri per le interessanti storiche reminiscenze, per le cattedrali ornate di tutta l’arte e magnificenza del medio evo, pei palagi abitati da una lunga serie di prelati, pei ricinti circondati dalle venerabili case de’ decani e de’ canonici, e pei castelli che nei tempi andati avevano respinti i Nevilles o i De Veres, e nei quali rimanevano impressi i più recenti vestigi della vendetta di Rupert o di Cromwell. XVIII. Cospicue, fra le più notevoli città, erano York, capitale del norte; e Exeter, capitale dell’occidente. Nessuna di esse contava più di dieci mila abitanti. Worcester, chiamata la regina della terra del sidro, ne aveva circa otto mila; e forse altrettante Nottingham. Gloucester, rinomata per la ostinata difesa cotanto fatale a Carlo I, ne aveva certamente da quattro in cinque mila; Derby appena quattro mila. Shrewsbury era capo–luogo d’un esteso e fertile distretto. In essa tenevasi la corte delle frontiere di Galles. Nel linguaggio dei gentiluomini stanzianti in un circuito di molte miglia attorno il Wrekin, andare a Shrewsbury significava recarsi alla città. I begli spiriti e le belle donne provinciali imitavano, come meglio sapevano, le mode di Saint James Park, ne’ loro passeggi lungo il Savern. Gli abitanti sommavano a circa sette mila.[95] La popolazione di ciascuno di questi luoghi, dalla Rivoluzione in poi, si è accresciuta più del doppio; in taluni più di sette volte. Le strade sono state pressochè interamente rifatte. Le lastre sono state sostituite alla paglia, e i mattoni al legname. I pavimenti e le lampade, lo sfoggio di ricchezza nelle principali botteghe, e la squisita nettezza delle abitazioni de’ gentiluomini, sarebbero sembrate cose miracolose agli uomini del secolo decimosettimo. Nondimeno, la relativa importanza delle vecchie capitali delle Contee non è affatto ciò che essa era. Città più moderne, città che di rado o giammai si trovano rammentate nella nostra storia antica, e che non avevano rappresentanti nei nostri più antichi Parlamenti, a memoria d’uomini che vivono ancora, si sono innalzate ad una grandezza, che la presente generazione guarda con ammirazione ed orgoglio; comunque non senza ansietà e rispettoso terrore. XIX. Le più eminenti di coteste città erano, nel secolo decimosettimo, sedi rispettabili d’industria. Che anzi, il rapido progresso e la vasta opulenza loro venivano allora descritti in un linguaggio che parrebbe scherzevole a chi abbia veduta la loro grandezza presente. Una delle più popolate e prospere era Manchester. Il Protettore aveva voluto che mandasse un rappresentante al Parlamento; e gli scrittori del tempo di Carlo II la ricordano come luogo di operosità e di opulenza. Il cotone, per lo spazio di mezzo secolo, già vi si trasportava da Cipro e da Smirne; ma la manifattura era nella sua infanzia. Whitney non aveva peranche insegnato come la materia rozza potesse fornirsi in abbondanza quasi favolosa. Arkwright non aveva peranche insegnato come potesse lavorarsi con una speditezza e precisione che sembra magica. L’intera importazione annua, nella fine del diciassettesimo secolo, non ascendeva a due milioni di libbre; quantità che oggimai appena servirebbe alle richieste di quarantotto ore. Quel maraviglioso emporio, che per popolazione e ricchezza sorpassa di molto capitali rinomate, come Berlino, Madrid e Lisbona, allora altro non era che una vile e male edificata città di mercato, popolata di meno di sei mila abitanti. Non aveva allora neppure un solo torchio, e adesso mantiene cento stabilimenti da stampare. Allora non aveva nemmeno un cocchio, e adesso mantiene venti carrozzai.[96] XX. Leeds era già sede principale de’ lanificii della Contea di York; ma i più vecchi cittadini si rammentavano tuttavia del tempo in cui fu fabbricata la prima casa di mattoni, allora e lungamente dopo chiamata la casa rossa. Vantavansi altamente della crescente ricchezza, e delle immense vendite de’ panni che si facevano all’aria aperta sul ponte. Centinaia, anzi migliaia di lire sterline sborsavansi in un solo giorno operoso di mercato. La crescente importanza di Leeds aveva a sè richiamato gli sguardi dei successivi governi. Carlo I aveva concessi privilegi municipali alla città. Oliviero l’aveva invitata a mandare un rappresentante alla Camera de’ Comuni. Ma dalle liste della imposta sui fuochi, sembra certo che tutta la popolazione del borgo, esteso distretto che contiene molti villaggi, regnante Carlo II, non eccedeva settemila anime. Nel 1841 ne conteneva cento cinquanta e più mila.[97] XXI. A una giornata di cammino verso mezzodì di Leeds, lungo un selvaggio e pantanoso terreno, giaceva un’antica fattoria, adesso rigogliosamente coltivata, allora sterile ed aperta, e conosciuta sotto il nome di Hallamshire. Era abbondante di ferro; e fino da lunghissimi anni, i rozzi coltelli che ivi si tacevano, vendevansi per tutto il Regno. Li aveva ricordati Goffredo Chaucer nelle sue Novelle di Canterbury. Ma sembra che la manifattura avesse fatti pochi progressi nei tre secoli che seguirono quello del poeta. Tale lentezza potrebbe forse spiegarsi considerando come ivi il traffico, per quasi tutto quello spazio di tempo, fosse soggetto ai capricciosi regolamenti imposti dal signore del luogo e dalla sua corte. Le più delicate specie di coltelleria o facevansi nella capitale, o erano importate dal continente. E’ fu sotto il regno di Giorgio I, che i chirurghi inglesi cessarono di far venire dalla Francia quei finissimi ferri che sono necessari agli usi dell’arte loro. La maggior parte delle fucine di Hallamshire erano raccolte in una città di mercato, che era sorta presso al castello del proprietario; e nel regno di Giacomo I era un luogo singolarmente misero, popolato di circa due mila abitatori, la terza parte dei quali erano accattoni mezzo nudi ed affamati. Pare certo, secondo i registri parrocchiali, che la popolazione, verso la fine del regno di Carlo II, non arrivasse a quattro mila anime. Gli effetti di un lavoro niente favorevole alla salute ed al vigore della macchina umana, risaltavano tosto agli occhi d’ogni viaggiatore. Moltissimi fra quella gente mostravano storte le membra. È dessa quella città di Sheffield, che oggidì, co’ suoi dintorni, contiene cento venti mila anime, e che manda i suoi ammirevoli coltelli, rasoi e lancette agli estremi confini del mondo.[98] XXII. Birmingham non era riputata abbastanza importante da mandare un membro al Parlamento d’Oliviero. Nulladimeno, i manifattori di Birmingham, erano già una razza d’uomini operosi e proficui. Gloriavansi dicendo che le loro chincaglierie erano in grande estimazione, non già, come adesso, a Pechino ed a Lima, a Bokhara e a Timbuctoo, ma anche in Londra e perfino in Irlanda. Avevano acquistata una meno onorevole rinomanza come coniatori di moneta falsa. Alludendo ai loro soldi spurii, il partito Tory aveva appiccato ai demagoghi, che per ipocrisia mostravansi zelanti contro il papismo, il soprannome di Birminghams. Eppure, nel 1685, quella popolazione, che ora è poco meno di duecento mila, non arrivava a quattro mila. I bottoni di Birmingham cominciavano pur allora ad essere conosciuti; delle armi di Birmingham nessuno aveva peranche udito il nome; e il luogo d’onde, due generazioni appresso, le magnifiche edizioni di Baskerville uscirono per rendere attoniti tutti i bibliofili d’Europa, non contenevano una sola bottega dove si potesse comperare una bibbia o un almanacco. Nei giorni di mercato un libraio, che aveva nome Michele Johnson, padre del grande Samuele Johnson, ci andava da Lichfield e vi apriva una botteghetta per poche ore; la qual cosa per lungo tempo fu trovata bastare alle richieste di coloro che amassero di leggere.[99] XXIII. Queste quattro sedi principali delle nostre grandi manifatture sono meritevoli di speciale ricordanza. Sarebbe noioso enumerare tutti i popolosi ed opulenti alveari d’industria, che cento cinquanta anni fa erano villaggi privi d’una parrocchia, o triste maremme abitate solo dagli uccelli e dalle belve. Il mutamento non è stato meno notevole in quegli sbocchi, dai quali i prodotti de’ mestieri e delle fornaci inglesi si diffondono per tulio l’universo. Ai dì nostri, Liverpool contiene circa trecento mila abitatori. Le imbarcagioni registrate nel suo porto ascendono a quattro o cinquecento mila tonnellate. Nel suo ufficio di dogana si è più volte pagata in un anno una somma tre volte maggiore della intera entrata della Corona d’Inghilterra nel 1685. Il danaro che incassa il suo ufficio postale, sorpassa la somma che la posta di tutto il Regno rendeva al Duca di York. Gli infiniti docchi o bacini, gli scali, i magazzini suoi, si annoverano fra le maraviglie del mondo; e nondimeno, appena sembrano bastare al gigantesco traffico del Mersey; e già una città rivale sorge rapidamente sul lido opposto. Nel tempo di Carlo II, Liverpool veniva descritta come una città risorgente, che aveva pur allora fatti grandi progressi, e. manteneva proficue comunicazioni con la Irlanda e le colonie dove manifatturavasi lo zucchero. Le dogane in sessanta anni eransi accresciute d’otto volte, e rendevano quindici mila lire sterline l’anno; somma allora riputata immensa. Ma la popolazione appena doveva passare le quattro migliaia: le imbarcagioni facevano circa mille e quattrocento tonnellate, meno del tonnellaggio di un solo legno indiano di prima classe del tempo presente: e il numero de’ marinai appartenenti al porto, non può estimarsi a più di duecento.[100] XXIV. Tale è stato il progresso di quelle città dove si crea ed ammassa la ricchezza. Nè meno rapido è stato il progredire di quelle di specie differentissima; città dove la ricchezza, creata ed ammassata dovecchessia, si spende per la salute e i piaceri. Alcune delle più insigni fra coteste città sono sorte dopo il tempo degli Stuardi. Cheltenham adesso, tranne la sola Londra, è città assai più vasta di qualunque altra del Regno nel secolo decimo settimo. Ma in quel secolo, e nel principio del susseguente, essa veniva rammentata dagli storici municipali come una semplice parrocchia rurale, giacente a piè di Cotswold Hills, ed avente un suolo atto alla coltivazione e al pascolo. In que’ luoghi, ora coperti di cotante vaghissime strade ed amene ville, cresceva il grano, e pascolavano gli armenti.[101] Brighton veniva rappresentata come un luogo che un tempo era stato proficuo, e che quando era nel più alto grado di prosperità, conteneva più di due mila abitanti, ma che volgeva a decadenza. Il mare a poco a poco invadeva gli edifici, che finalmente quasi al tutto scomparvero. Novanta anni addietro, le rovine di una vecchia fortezza vedevansi giacenti fra mezzo la ghiaia e le alghe marine; e gli uomini canuti potevano additare i vestigi delle fondamenta dove una strada di cento e più tuguri era stata inghiottita dalle onde. Sì misero, dopo tanta calamità, diventò quel luogo, che appena venne reputato degno di avere un vicariato. Pochi poveri pescatori, nondimeno, seguitarono ad asciugare le loro reti su quelle rocce, sopra le quali adesso una città, due volte più grande e popolata della Bristol degli Stuardi, presenta per lungo tratto il suo gaio e fantastico prospetto alla marina.[102] XXV. Nulladimeno, l’Inghilterra nel secolo diciassettesimo non era priva di bagni. I gentiluomini della Contea di Derby e delle altre Contee vicine recavansi a Buxton, dove stavano affollati dentro bassi tuguri di legno, e mangiavano focacce d’avena, e carni che erano in grave sospetto d’esser di cane.[103] Tunbridge Wells, distante una giornata di cammino dalla metropoli, e sita in una delle più ricche e incivilite parti del Regno, offriva maggiori attrattive. Adesso vi si vede una città, che cento sessanta anni addietro sarebbe stata considerata per popolazione come la quarta o quinta fra le città dell’Inghilterra. La splendidezza delle botteghe e il lusso delle abitazioni private vincono d’assai tutto ciò che l’Inghilterra avrebbe allora potuto mostrare. Allorquando la Corte, tosto dopo la Restaurazione, visitò Tunbridge Wells, ivi non era città nessuna; ma, a un miglio dalla sorgente, parecchie rustiche capanne, alquanto più nette delle capanne ordinarie di que’ tempi, erano sparse in que’ luoghi deserti. Alcuni di questi tuguri erano movibili, e venivano trasportati sopra le slitte da un luogo all’altro della comune. Quivi le persone agiate, stanche del rumore e del fumo di Londra, talvolta recavansi nei mesi estivi per respirare la fresca aura, e gustare un poco di vita campestre. Nella stagione de’ bagni tenevasi ogni giorno una specie di fiera presso la fontana. Le mogli e le figliuole dei borghesi di Kent vi accorrevano dai circostanti villaggi, recando latte, ciliege, spighe e quaglie. Comprare, scherzare con esse, lodare i cappelli di paglia e le strette calzature loro, era un consolante sollazzo agli sfaccendati, stanchi del sussiego delle attrici e delle dame di corte. Modiste, venditori di giocattoli e gioiellieri, vi andavano da Londra, e formavano un Bazaar sotto gli alberi. In una trabacca, l’uomo politico trovava il suo caffè e la Gazzetta di Londra; dentro un’altra, i giuocatori profondevano monete alla bassetta; e nelle belle serate, i violini erano lì pronti ad accompagnare coloro che ballavano la moresca su per l’erba molle del prato. Nel 1685, fra coloro che frequentavano Tunbridge Wells erasi aperta una colletta a fine di edificare una chiesa, che, per la insistenza dei Tory, in quel tempo predominanti dappertutto, fu dedicata a San Carlo Martire. XXVI. Ma primo tra tutti i luoghi di bagni, senza avere rivale alcuno, era Bath. Le acque di quella città erano rinomate fino dai tempi romani. Essa, per molti secoli, era stata sedia vescovile. Gl’infermi vi accorrevano da ogni parte del Regno. Talvolta il re vi teneva corte. Nonostante, Bath allora altro non era che un laberinto di quattro o cinquecento case, ammassate dentro una vecchia muraglia, nelle vicinanze dell’Avon. Esistono tuttora parecchie pitture di case, che in quel tempo consideravansi come bellissime, e somigliano grandemente alle più luride botteghe di cenciaioli, ed alle bettole di Ratcliffe Highway. Vero è che anche in allora i viaggiatori muovevano lamento della strettezza e del sudiciume delle strade. Quella leggiadra città, che incanta anche l’occhio avvezzo a bearsi de’ capolavori di Bramante e di Palladio, resa classica dal genio di Anstey e di Smollett, di Francesca Burney e di Giovanna Austen, non aveva cominciato ad esistere. La stessa Milsom Stret era una campagna aperta molto lungi dalle mura; e lo spazio ora coperto dal Crescent e dal Circus, era intersecato da siepi. I poveri infermi, ai quali erano state prescritte le acque, giacevano sopra la paglia in un luogo, che, per servirmi delle parole d’un medico di quei tempi, aveva sembianza di nascondiglio, più presto che d’alloggio. Rispetto agli agi ed al lusso che potevano trovare nello interno delle case di Bath le persone cospicue che ci andavano per riacquistare la salute o trovarvi divertimento, abbiamo notizie più abbondevoli e minute di quante se ne possano generalmente sperare intorno a cotali subietti. Uno scrittore, che sessanta anni dopo la Rivoluzione pubblicò un’opera sopra quella città, ha con accuratezza descritti i cangiamenti a sua ricordanza ivi seguiti. Egli ci assicura, come ne’ suoi anni giovanili, i gentiluomini che visitavano le acque, dormissero in certe camere appena simili allo soffitte dove ai suoi giorni stavano i servitori. I pavimenti delle sale da pranzo erano privi di tappeti, e coperti d’una tinta bruna, composta di sego e di birra, per nascondere il sudiciume. Nè anche un tavolato era dipinto. Non un focolare o camino era di marmo. Una lastra di pietra comune, e certe molle di ferro che potevano costare tre o quattro scellini, erano stimate bastevoli per ogni camino. I migliori appartamenti avevano tende di ruvida stoffa di lana, e seggiole col fondo coperto di giunco. Quei lettori che s’interessano al progresso dello incivilimento e delle arti utili, sapranno grado all’umile topografo che ci ha tramandati cotesti fatti, e desidereranno forse che storici più solenni avessero talvolta messe da parte poche pagine piene di evoluzioni militari e d’intrighi politici, per dipingerci le sale e le stanze da letto de’ nostri antenati.[104] XXVII. La posizione di Londra, in ordine alle altre città dello Stato, era ai tempi di Carlo II assai più considerevole che non è ai nostri. Imperocchè, adesso la sua popolazione è poco più di sei volte di quella di Manchester o di Liverpool; e, regnante Carlo, era più di diciassette volte della popolazione di Bristol o di Norwich. È da dubitarsi se si possa additare un altro esempio di un gran Regno, in cui la prima città fosse diciassette volte più grande della seconda. Abbiamo ragione di credere, che Londra nel 1685, fosse stata fino da mezzo secolo la più popolata metropoli d’Europa. Gli abitanti, che oggidì sono almeno un milione e novecento mila, erano allora, probabilmente, poco meno di mezzo milione.[105] Londra, nel mondo, aveva soltanto una rivale rispetto al commercio; rivale ora da lungo tempo vinta: voglio dire la potente e ricca Amsterdam. Gli scrittori inglesi menavano vanto della foresta di alberi che copriva il fiume dal Ponte alla Torre, e delle portentose somme di danaro che entravano nell’ufficio della Dogana in Thame’s Street. Non è dubbio che il traffico della metropoli a quei di era, verso quello di tutto il paese, in maggior proporzione che non è adesso: eppure, agli occhi nostri, gli onesti vanti de’ nostri antenati sembrano quasi scherzevoli. Pare che la capacità delle navi, da essi reputata incredibilmente grande, non eccedesse settanta mila tonnellate. A dir vero, ciò era in quel tempo più che il terzo di tutto il tonnellaggio del Regno; ma adesso è meno di un quarto del tonnellaggio di Newcastle, ed equivale pressochè a quello de’ soli piroscafi del Tamigi. Le dogane di Londra rendevano, nel 1685, circa trecento trenta mila sterline l’anno. Ai giorni nostri, la somma de’ Dazii netta che si ricava nel medesimo ufficio, avanza i dieci milioni di sterline.[106] Chiunque si faccia ad esaminare le carte topografiche di Londra, pubblicate verso la fine del regno di Carlo II, vedrà come a que’ tempi altro non esistesse che il nucleo della presente metropoli. La città non si perdeva, come adesso, a gradi impercettibili nella campagna. Non viali di ville ombreggiati da file di lilla e d’avarnielli estendevansi, dal gran centro della ricchezza e della civiltà, quasi sino ai confini di Middlessex, e ben addentro nel cuore di Kent e di Surrey. Ad oriente, nessuna parte dell’immensa linea de’ magazzini, e de’ laghi artificiali, che ora si distende dalla Torre a Blackwall, era per anche stata ideata. Ad occidente, nè anco uno di quei solidi e vasti edifizi, dove abitano i nobili e i potenti, esisteva; e Chelsea, che oggimai è popolato da quaranta e più mila umane creature, era un tranquillo villaggio rurale di circa mille abitatori.[107] A tramontana pascolavano gli armenti; e i cacciatori armati de’ loro archibugi erravano co’ cani sul luogo dove sorge il borgo di Marylebone, e sopra la maggior parte dello spazio ora coperto dai borghi di Finsbury e di Tower Hamlets. Islington era quasi un deserto; e i poeti dilettavansi di porre in contrasto la quiete che ivi regnava col frastuono della immensa Londra.[108] A mezzodì, alla capitale adesso si aggiunge il suburbio per mezzo di vari ponti, non meno magnifici e solidi delle più belle opere de’ Cesari. Nel 1685, una sola fila di archi irregolari, sopraccarichi da mucchi di case povere e cadenti, e piene, in modo degno degl’ignudi barbari di Dahomy, di centinaia di teste putrefatte, erano d’impaccio alla navigazione del fiume. XXVIII. La parte più importante della metropoli, era quella che propriamente chiamavasi la Città. Nel tempo della Restaurazione, era stata in grandissima parte costrutta di legname e di gesso: i pochi mattoni di cui si faceva uso, erano cotti male: le trabacche dove ponevansi in vendita le mercanzie, proiettavano su per le strade, ed erano coperte dai piani superiori. Pochi vestigi di cotesta architettura possono anche oggi vedersi in quei distretti che non furono preda del grande incendio. Il quale, in pochi giorni, aveva coperto uno spazio poco minore d’un miglio quadrato, con le rovine di ottantanove chiese e di tredicimila case. Ma la città era nuovamente risorta con celerità tale, che ne avevano maravigliato i paesi vicini. Sciaguratamente, le antiche linee delle strade erano state per lo più mantenute: le quali linee, in origine descritte allorquando anche le principesse viaggiavano a cavallo, erano spesso così anguste, da non concedere che i carriaggi agevolmente passassero l’uno allato dell’altro, ed erano perciò improprie perchè vi abitasse la gente ricca, in un tempo in cui un cocchio a sei cavalli era un lusso in voga. Lo stile de’ nuovi edifici, nulladimeno, era assai superiore a quello dell’arsa città. I materiali di che comunemente avevano fatto uso, erano mattoni assai migliori di quelli che in prima s’adoperavano. Sopra i luoghi dove un dì sorgevano le antiche parrocchie, s’erano innalzale nuove cupole, torri, ed aguglie improntate dal carattere del fecondo genio di Wren. In ogni dove, tranne in un solo luogo, i segni della immane devastazione erano spariti. Ma vedevansi tuttavia schiere d’operai, ponti e masse di pietre, là dove il più magnifico de’ tempii protestanti sorgeva, lento sopra le rovine della vecchia cattedrale di San Paolo.[109] Dopo quel tempo, lo aspetto della Città è intieramente cangiato. Adesso i banchieri, i mercanti e i padroni di botteghe vi si recano sei giorni della settimana per attendere ai loro negozi; ma abitano negli altri quartieri della metropoli, o nelle residenze suburbane, circondate da giardini d’arbusti e di fiori. Cotesta rivoluzione ne’ costumi de’ cittadini, ha prodotto un rivolgimento politico di non lieve importanza. I più ricchi uomini, dediti al traffico, non portano più alla Città quello affetto che ciascuno naturalmente prova per la propria casa. La Città non isveglia più nelle menti loro le idee delle affezioni e delle gioie domestiche. Il focolare, la famigliuola, il desco socievole, il quieto letto, non sono più ivi. Lombard Street e Threadneedle Street sono semplici luoghi dove gli uomini lavorano ed accumulano. Essi vanno altrove a sollazzarsi ed a spendere i guadagni. La domenica, o la sera, a faccende finite, parecchi cortili o viali, dove poche ore innanzi era un ire e venire di visi affaccendati, sono silenziosi come i sentieri d’una foresta. I capi degli interessi mercantili più non sono cittadini. Schivano, e pressochè sprezzano le onorificenze e i doveri municipali, e gli abbandonano ad uomini, i quali, quantunque utili, e di rispetto degnissimi, rade volte appartengono alle grandissime case commerciali, i cui nomi corrono famosi per tutto il mondo. Nel secolo diciassettesimo, i mercanti risedevano nella Città. Le case degli antichi borghesi che esistono tuttora, sono state trasformate in computisterie e magazzini; ma si conosce anche oggi, come non fossero meno magnifiche delle abitazioni dove allora stanziavano i nobili. Esse talvolta sorgono dentro bui e riposti cortili, e vi si va per poco convenevoli aditi; ma sono ampie di mole, e solide d’aspetto. Gl’ingressi sono adorni di pilastri e baldacchini, riccamente intagliati. Le scale e i ballatoi non difettano di magnificenza. I pavimenti sono talvolta di legno intarsiato, secondo l’uso di Francia. Il palazzo di Sir Roberto Clayton, nel Ghetto vecchio, conteneva una bella sala da pranzo, intavolata di legno di cedro, e ornata con affreschi che rappresentavano le battaglie de’ numi e dei giganti.[110] Sir Dudley North spese quattro mila lire sterline—somma che in quei tempi sarebbe stata considerevolissima per un duca—ne’ ricchi addobbi de’ suoi saloni in Basinghall Street.[111] In simiglianti abitazioni, sotto gli Stuardi, i più grandi banchieri vivevano splendidamente ospitali. Alle case proprie gli legavano i fortissimi vincoli dello interesse e dell’affetto. Ivi avevano passati i dì della loro giovinezza, formate le loro amicizie, corteggiate le proprie spose, veduti crescere i figli, sotterrate le ossa dei parenti, aspettando di trovarvi anch’essi la pace del sepolcro. Quel forte amore del natio loco che è peculiare agli uomini delle società congregate in angusto spazio, in simili circostanze sviluppavasi vigorosamente. Londra, per il Londrino, era ciò che Atene per l’Ateniese dell’età di Pericle, ciò che Firenze pel Fiorentino del secolo decimoquinto. Il cittadino andava altero della grandezza della propria città, gelosissimo del diritto all’altrui riverenza, ambizioso degli uffici, e zelante delle franchigie di quella. Sul finire del regno di Carlo II, l’orgoglio de’ cittadini di Londra era inasprito da una crudele mortificazione. Lo antico statuto era stato abolito, e il magistrato rifatto. Tutti gli uffici civili erano in mano de’ Tory; e i Whig, comecchè per numero e per opulenza fossero superiori ai loro avversari, trovavansi esclusi da ogni dignità locale. Nulladimeno, lo esterno splendore del governo municipale non era punto scemato; chè anzi, il mutamento lo aveva accresciuto. Imperocchè, sotto l’amministrazione di certi Puritani che avevano poco innanzi governato, la vecchia fama di briosa che la Città godeva, era volta in basso; ma sotto i nuovi magistrati, i quali appartenevano ad un partito più festevole, e alle mense dei quali vedevansi spesso ospiti distinti per titoli o gradi dimoranti molto oltre Temple Bar, il Guildhall e le sale delle grandi compagnie erano ravvivate da molti sontuosi banchetti. Duranti i quali, cantavansi odi dai poeti del municipio, composto in lode del Re, del Duca e del Gonfaloniere. Bevevano molto, e tripudiavano clamorosamente. Un osservatore Tory, che s’era sovente trovato fra mezzo a coteste gozzoviglie, ha notato come il costume di accogliere con gioiose grida i brindisi fatti all’altrui salute, cominciasse da quel lieto tempo.[112] Il magnifico vivere del primo magistrato civico era quasi quello di un re. Il cocchio dorato, che la folla adesso ammira ciascun anno, in allora non v’era. Nelle grandi occasioni egli mostravasi a cavallo, seguito da una lunga cavalcata, che per magnificenza era inferiore soltanto al corteo che dalla Torre a Westminster accompagnava il sovrano nel dì della incoronazione. Il Lord Gonfaloniere non lasciavasi mai vedere in pubblico senza la sua veste, il cappuccio di velluto nero, la catena d’oro, il gioiello, ed una gran torma di battistrada e di guardie.[113] Nè il mondo vedeva cosa alcuna degna di riso nella pompa ond’egli era di continuo circuito; perocchè reputavala convenevole allo ufficio, che, come comandante le forze e rappresentante la dignità di Londra, aveva diritto di occupare nello Stato. La città, essendo allora non solo senza uguale in tutto il reame, ma senza seconda, aveva per lo spazio di quarantacinque anni esercitata influenza sì grande sopra le cose politiche della Inghilterra, come ai giorni nostri Parigi la esercita sopra quelle della Francia. Per istruzione, Londra superava grandemente qualunque altra parte del Regno. Un Governo sostenuto dalla città di Londra, poteva in un sol dì ottenere tali mezzi pecuniarii, che ci sarebbero bisognati de’ mesi per raccoglierli da tutto il rimanente dell’isola. Nè i mezzi militari della metropoli erano da tenersi in dispregio. Il potere che i Lordi Luogotenenti esercitavano negli altri luoghi del Regno, era in Londra affidato ad una commissione di eminenti cittadini; sotto gli ordini della quale stavano dodici reggimenti di fanteria e due di cavalleria. Un’armata di giovani di mercatanti e di sarti, avente a capitani i consiglieri comunali, e a colonnelli gli Aldermanni, non avrebbe certo potuto sostenere l’impeto delle truppe regolari: ma pochissime erano allora nel Regno le regolari milizie. Una città, quindi, la quale, un’ora dopo lo avviso, poteva metter su venti mila uomini, forniti di coraggio naturale, provveduti di armi non cattive e non affatto ignari della militar disciplina, non poteva non essere un alleato importante e un formidabile nemico. Rammentava ciascuno come Hampden e Pym fossero dalla milizia civica di Londra stati protetti contro una sleale tirannide; come nella gran crisi della guerra civile i militi cittadini di Londra fossero andati a levare l’assedio dalla città di Gloucester; come nel movimento contro i tiranni militari, che seguì alla caduta di Riccardo Cromwell, la cittadina milizia di Londra avesse avuta importantissima parte. E davvero, non sarebbe troppo il dire, che se Carlo I non avesse avuta ostile la città, non sarebbe mai stato vinto, e che senza lo aiuto di quella Carlo II non sarebbe riasceso sopra il trono degli avi suoi. Queste considerazioni servano a dimostrare in che guisa, malgrado quelle attrattive che per tanti anni avevano a poco a poco chiamata l’aristocrazia verso la parte occidentale, pochi uomini d’alto grado seguitassero fino ad un’epoca non molto lontana ad abitare nelle vicinanze della Borsa e del Guildhall. Shaftesbury e Buckingham, mentre facevano al Governo una opposizione aspra e senza scrupoli, pensarono che in nessun altro luogo avrebbero potuto condurre così bene e senza pericolo i loro intrighi, come sotto la protezione de’ magistrati e della milizia della Città. E però Shaftesbury abitava in Aldersgate Street una casa che si può oggi facilmente riconoscere, ai pilastri e cordoni, opera leggiadra d’Inigo.[114] Buckingham aveva ordinato che la sua abitazione presso Charing Cross, un tempo dimora degli arcivescovi di York, fosse demolita; e mentre ivi sorgevano le strade e i viali che portano tuttavia il nome di lui, elesse di abitare in Dowgate.[115] XXIX. Nondimeno, queste erano rare eccezioni. Quasi tutte le nobili famiglie d’Inghilterra avevano da lungo tempo emigrato fuori le mura. Il distretto in cui rimaneva la maggior parte delle loro case cittadine, giace fra la città e que’ luoghi che ora vengono considerati come cospicui. Pochi grandi uomini seguitarono a starsi ne’ loro palagi ereditari fra lo Strand e il fiume. I solidi edifici tra il mezzodì e l’occidente di Lincoln’s Inn Fields, la piazza di Covent Garden, Southampton Square, che oggi si chiama Bloomsbury Square, e King’s Square in Soho Fields, che ora ha nome Soho Square, erano fra i luoghi più prediletti. I principi stranieri venivano condotti a visitare Bloomsbury Square come una delle maraviglie della Inghilterra.[116] Soho Square, che era stato pure allora edificato, era pei nostri antichi argomento d’un orgoglio, al quale i posteri loro non vorranno partecipare. Lo avevano chiamato Monmouth Square finchè durò prospera la fortuna del Duca di Monmouth; e nel lato meridionale torreggiava il palazzo di lui. Il prospetto, comecchè senza grazia, era alto e riccamente ornato. Sulle pareti degli appartamenti principali vedevansi sculture di frutti, fogliami e blasoni, ed erano tappezzati di serici drappi a ricamo.[117] Ogni vestigio di tanta magnificenza da lungo tempo è scomparso, e in un quartiere un dì cotanto aristocratico, non si trova nessuna casa aristocratica. Poco più in là, a tramontana da Holborn, e lungo i campi da pascolo e da grano, sorgevano due rinomati palazzi, a ciascuno dei quali era annesso un vasto giardino. L’uno, in allora detto Southampton House, e di poi Bedford House, fu distrutto circa cinquanta anni sono per far luogo ad una nuova città, la quale adesso con le sue piazze, strade, e chiese occupa un vasto spazio, già famoso nel secolo decimosettimo per le pesche e le beccaccine. L’altro, chiamato Montague House, e celebre per gli affreschi e gli addobbi onde era adorno, pochi mesi dopo la morte di Carlo II fu bruciato fino alle fondamenta, e vi fu posto in sua vece un assai più magnifico edificio, detto anch’esso Montague House; il quale essendo stato da lungo tempo il sacrario di vari e preziosi tesori d’arte, di scienza e di letteratura, quali non trovavansi per innanzi raccolti sotto un solo tetto, ha da pochi anni dato luogo ad un edificio anche più magnifico.[118] Più presso alla Corte, in un luogo chiamato Saint James Fields, era stato di recente edificato Saint James’s Square e Jermyn Street. La chiesa di San Giacomo era stata allora aperta per comodo degli abitanti di questo nuovo quartiere.[119] Golden Square, dove nella susseguente generazione abitavano Lordi e Ministri di Stato, non era per anche incominciato. A dir vero, le sole abitazioni che si potessero vedere a tramontana di Piccadilly, erano tre o quattro solinghe e quasi rurali dimore, la più celebre delle quali era il sontuoso edificio eretto da Clarendon, e soprannominato Casa di Dunkerque. Dopo la caduta del suo fondatore, era stato comperato dal Duca d’Albemarle. Il palazzo Clarendon ed Albemarle Street serbano tuttavia la memoria del sito. Colui che in allora girovagava per quella che oggidì è la parte più celebre e gaia di Regent Street, trovavasi in una solitudine, e talvolta si reputava fortunato di potere tirare con l’archibugio a qualche beccaccia.[120] A settentrione, la strada di Oxford era fiancheggiata da siepi. A cinque o seicento braccia verso mezzodì, sorgevano le mura de’ giardini di poche grandi case, che consideravansi affatto fuori la città. Ad occidente eravi un prato famoso per una sorgente d’acqua, la quale, lungo tempo dopo, dette il nome a Conduit Street. Ad oriente eravi un campo, che nessun cittadino di Londra a que’ tempi poteva traversare senza ribrezzo. Ivi, come in luogo deserto da ogni uomo, venti anni innanzi, allorquando la peste fece cotanta strage, era stata scavata una vasta fossa, dove i carri mortuari, di notte tempo, trasportavano cadaveri a centinaia. Il popolo credeva che la terra fosse così infetta sotto la sua superficie, da non potersi sommovore senza presentissimo pericolo per la vita degli uomini. Ivi non furono gettate alcune fondamenta, se non dopo che trascorsero due generazioni senza peste, e dopo che il luogo degli spettri era stato da lungo tempo circondato da edifizi.[121] Cadremmo in grave errore ove supponessimo che alcuna delle vie e delle piazze allora avesse il medesimo aspetto in che oggi si vede. La maggior parte delle case, dopo quel tempo, sono state al tutto o quasi al tutto riedificate. Se le parti più cospicue della metropoli potessero mostrarsi agli occhi nostri nella forma che allora avevano, rimarremmo disgustati della loro squallida apparenza, ed attoscati dall’atmosfera malsana che le circondava. In Covent Garden, presso alle case de’ grandi, giaceva un sudicio e romoroso mercato. Le fruttaiuole gridavano, i carrettieri azzuffavansi, torsi di cavoli e putride mele vedevansi a mucchi accanto alle porte delle case della contessa di Berkshire e del vescovo di Durham.[122] Il centro di Lincoln’s Inn Fields era uno spazio aperto, dove ogni sera ragunavasi la marmaglia, a pochi passi di Cardigan House e di Winchester House, ad ascoltare le cicalate de’ saltimbanchi, a vedere ballar gli orsi, e lanciare i cani addosso ai buoi. Vedevansi qua e colà sparse le lordure. Vi si esercitavano i cavalli. Gli accattoni erano così chiassosi ed importuni, come nelle peggio governate città del continente. Mendicante di Lincoln’s Inn era espressione proverbiale. Tutta la confraternita conosceva le armi e le livree d’ogni signore caritatevole del vicinato, e appena compariva il tiro a sei di sua signoria, saltellando o strascinandosi, gli si affollavano d’intorno. Cotesti disordini durarono, malgrado molti accidenti e alcuni procedimenti legali, fino a quando, nel regno di Giorgio II, Sir Giuseppe Jekyll maestro de’ Rotoli, ovvero degli Atti, fu stramazzato a terra e pressochè morto in mezzo alla piazza. Allora vi si fecero delle palizzate e un piacevole giardino.[123] Saint James’s Square era il ricettacolo di tutta la mondiglia e delle ceneri, de’ gatti e cani morti di Westminster. Ora un giuocatore di batacchio vi poneva la campana. Ora un impudente si piantava lì a costruire una casipola per la spazzatura, sotto le finestre dell’aurate sale in cui i magnati del Regno, i Norfolk, gli Ormond, i Kent e i Pembroke davano banchetti e feste da ballo. E’ non fu se non dopo che siffatti inconvenienti erano durati per una generazione, e dopo che s’era molto scritto contro essi, che gli abitanti ricorsero al Parlamento, onde ottenere licenza di porvi steccati e piantarvi alberi.[124] Se tali erano le condizioni dei quartieri dove abitavano i più cospicui cittadini, possiamo facilmente credere che la gran massa della popolazione patisse ciò che oggidì verrebbe reputato intollerabile aggravio. I selciati erano detestabili; ogni straniero gridava: vergogna! I condotti e le fogne erano sì cattivi, che ne’ tempi piovosi i rigagnoli diventavano torrenti. Vari poeti giocosi hanno rammentata la furia con che cotesti neri fiumicelli precipitavano giù da Snow Hill e Ludgate Hill, trasportando a Fleet Ditch copioso tributo di lordure animali e vegetabili dai banchi de’ macellaj e dei fruttaioli: fluido pestifero che veniva sparso a diritta e a sinistra da’ cocchi e dalle carrette. E però, chiunque andava a piedi, badava in ogni modo a tenersi, più che potesse, lontano dalla parte carrozzabile della strada. I timidi e pacifici cedevano il muro agli audaci ed atletici, che lo rasentavano. Se avveniva che due bravazzoni s’incontrassero, si davano vicendevolmente i cappelli nel muso, e l’uno spingeva l’altro finchè il più debole era sbalzato verso il canale. Se questi era buono solo alle spacconate, se ne andava a capo chino, mormorando che sarebbe venuto il tempo di rifarsi; se era pugnace, l’incontro probabilmente terminava con un duello dietro Montague House.[125] Le case non erano numerate. E davvero, poca sarebbe stata la utilità d’apporvi i numeri, poichè dei cocchieri, portantini, facchini e ragazzi di Londra, piccolissima parte sapeva leggere. Era mestieri servirsi di segni che dai più ignoranti fossero intesi. E però sulle botteghe stavano insegne, che davano alle strade uno aspetto gaio e grottesco. La via da Charing Cross a Whitechapel era una continuazione di teste di saracini, di querce reali, d’orsi azzurri, d’agnelli d’oro, i quali scomparvero allorquando non furono più necessari alla intelligenza del volgo. Venuta la sera, la difficoltà e il pericolo di andare attorno per la città di Londra diventavano veramente gravi. Aprivansi le finestre, e i vasi si votavano poco badando a chi vi passasse sotto. Le cadute, le ammaccature, le fratture d’ossa erano cose ordinarie. Imperocchè, fino all’ultimo anno del regno di Carlo II, la maggior parte delle vie rimanevano in un profondo buio. I ladri esercitavano impunemente il proprio mestiere; e nondimeno, non erano così terribili ai pacifici cittadini, come lo era un’altra genia di ribaldi. Era prediletto sollazzo de’ dissoluti giovani gentiluomini quello di girovagare di notte per la città, rompere finestre, capovolgere sedili, battere le persone tranquille, e carezzare grossolanamente le donne leggiadre. Parecchie dinastie di cotesti tirannelli, dopo la Restaurazione, regnavano nelle strade. I così detti _Muns_ e i _Tityre Tus_ avevano fatto posto agli _Hectors_, e a questi avevano di recente succeduto gli _Scourers_. Più tardi sorsero i Nicker, gli _Hawcubite_ e i _Mohawk_, più terribili di tutti.[126] XXX. I mezzi per mantenere la pace erano estremamente frivoli. Eravi una legge fatta dal Consiglio Municipale, che prescriveva come cento e più sentinelle stessero in continua vigilanza per tutta la città, dal tramonto allo spuntare del sole; ma rimaneva negletta. Pochi di coloro ai quali toccava di far la guardia, lasciavano la propria casa; e que’ pochi, generalmente, gradivano meglio stare ad ubbriacarsi dentro le taverne, che girare per le vie. XXXI. È d’uopo notare come, nell’ultimo anno del regno di Carlo II, nella polizia di Londra seguisse un gran mutamento, il quale forse non meno de’ rivolgimenti di maggior fama contribuì ad accrescere la felicità del popolo. Un ingegnoso progettista, che aveva nome Eduardo Heming, ottenne lettere patenti con cui gli si concedeva per dieci anni il diritto esclusivo d’illuminare Londra. Costui intraprese, per una modica retribuzione, di porre una lanterna per ogni dieci porte, nelle sere prive di luna, dal dì di San Michele fino alla festa della Madonna, e dalle ore sei fino alle dodici. Coloro che oggimai veggono la metropoli per tutto l’anno, dalla sera fino all’alba, chiarificata da uno splendore, in paragone del quale le illuminazioni per la Hogue e Blenheim sarebbero sembrate pallide, sorrideranno forse in pensare alle lanterne di Heming, le quali mandavano un fioco lume innanzi una casa in ogni dieci, per piccola parte di una notte in ogni tre. Ma non così pensavano i suoi contemporanei. Il suo disegno suscitò plausi entusiastici, e furiose opposizioni. Gli amatori del progresso lo esaltavano come il grandissimo dei benefattori della città sua, chiedendo che erano mai i trovati d’Archimede in agguaglio della impresa dell’uomo il quale aveva trasformate le ombre della notte in luce di meriggio! In onta a tali eloquenti elogi, la causa dell’oscurità non rimase priva di difensori. In quell’età v’erano insani che avversavano la introduzione di quella che chiamavasi nuova luce con tanta virulenza, con quanta gl’insani de’ tempi nostri hanno avversato lo innesto del vaiuolo e le strade ferrate, e gl’insani d’una età anteriore si erano opposti alla introduzione dell’aratro e della scrittura alfabetica. Molti anni dopo le lettere patenti concesse a Heming, v’erano vasti distretti in cui non vedevasi nè anche una lanterna.[127] XXXII. Possiamo agevolmente immaginare in che condizioni, a quel tempo, fossero i quartieri di Londra popolati dalla feccia della società. Uno fra essi aveva acquistata scandalosa rinomanza. Sul confine tra la Città ed il Tempio, era stato fondato, nel secolo decimoterzo, un convento di frati Carmelitani, che portavano bianchi cappucci. Il ricinto di quel convento, avanti la Restaurazione, aveva servito d’asilo ai facinorosi, e serbava tuttavia il privilegio di proteggere dall’arresto i debitori. Gl’insolventi quindi occupavano ogni casa dalle cantine fino alle soffitte. Di costoro, moltissimi erano ribaldi e libertini; e nell’asilo tenevano loro dietro donne più che essi di malvagia vita. La potestà civile non aveva modo di mantenere l’ordine in un distretto che brulicava di cosiffatti abitatori; e in tal guisa Whitefriars divenne il luogo prediletto di coloro che volevano emanciparsi dal freno delle leggi. E comecchè le immunità legalmente pertinenti al luogo riguardassero soltanto i casi di debiti, vi trovavano ricovero anche essi i truffatori, i testimoni spergiuri, i falsari, i ladroni. Per lo che, fra mezzo a così disperata marmaglia, nessuno officiale di pace si teneva sicuro della vita. Al grido di «Riscossa!» sgherri armati di spade e magli, sfacciate streghe impugnando manichi di granata e spiedi, sbucavano a centinaia, e fortunato colui che percosso, strappato, annaffiato, avesse potuto salvarsi a Fleet Street. Nè anche un ordine del Capo Giudice d’Inghilterra poteva mandarsi ad esecuzione senza lo aiuto d’una compagnia di moschettieri. Cotali avanzi della barbarie di secoli più bui, trovavansi a pochi passi dalle stanze dove Somers meditava sulla storia e sulle leggi, dalla chiesa dove predicava Tillotson, dalla bottega da caffè dove Dryden profferiva giudicii sopra poemi e drammi, e dalla sala dove la Società Reale esaminava il sistema astronomico di Newton.[128] XXXIII. Ciascuna delle due città che formavano la capitale dell’Inghilterra, aveva il proprio centro d’attrazione. Nella metropoli del commercio, il punto di convergenza era la Borsa; nella metropoli dell’alta cittadinanza, era il Palazzo. Ma il Palazzo non serbò la propria influenza così lungamente come la Borsa. La Rivoluzione cangiò affatto le relazioni tra la Corte e le alte classi della società. A po’ per volta, divenne manifesto che il Re, come individuo, aveva ben poco da donare; che le corone ducali e le giarrettiere, i vescovati e le ambascerie, gl’impieghi di lordi del tesoro e di cassiere dello scacchiere, anzi fino gli uffici della scuderia e della camera reale, venivano dispensati non da lui, ma dai suoi consiglieri. Ogni ambizioso e cupido uomo vedeva che avrebbe meglio provveduto all’utile proprio, giungendo a predominare in un borgo parlamentare nella Contea di Cornwal, e rendendo servigi al Ministero in qualche momento difficile, anzichè diventare il compagno e anche il prediletto del principe. E quindi, non nelle anticamere di Giorgio I e di Giorgio II, ma in quelle di Walpole e di Pelham affollavansi quotidianamente i cortigiani. È parimente da notarsi, che la medesima rivoluzione che rese impossibile ai nostri Re l’arbitrio di disporre degl’impieghi dello Stato col solo scopo di compiacere alle proprie inclinazioni, ci diede parecchi Re dalla educazione e dalle abitudini resi inetti a mostrarsi ospiti affabili e generosi. Erano nati e cresciuti sul continente. Venuti nell’isola nostra, non vi si trovavano mai come in casa propria. Se parlavano la nostra lingua, la parlavano senza eleganza e con difficoltà. Non giunsero mai ad intendere l’indole nostra nazionale, e nè anche provaronsi di acquistare i nostri costumi. La parte più importante de’ loro doveri essi adempivano meglio di qualunque de’ principi loro antecessori; poichè governavano rigorosamente secondo la legge: ma non potevano essere i primi gentiluomini del reame, i capi della società culta. Se pure lasciavansi mai andare alla affabilità, ciò seguiva fra mezzo ad una ristretta conversazione, dove non vedevasi quasi neppure un Inglese; e non riputavansi tanto felici, se non se quando potevano passare una state nella terra dove erano nati. V’erano, a dir vero, i giorni determinati in cui essi ricevevano i nobili e i gentiluomini inglesi; ma siffatto ricevimento altro non era che mera formalità, la quale alla perfine divenne cerimonia solenne quanto quella di un funerale. Non era tale la Corte di Carlo II. Whitehall, mentre egli vi faceva dimora, era il centro degl’intrighi politici e del brio elegante. Mezzi i faccendieri e mezzi i bellimbusti della metropoli accorrevano alle sue sale. Chiunque fosse riuscito a rendersi gradito al principe, o a guadagnare la protezione della concubina, poteva bene sperare d’innalzarsi nel mondo, senza aver reso alcun servigio al Governo, senza essere, nè anche di vista, conosciuto da nessuno de’ Ministri di Stato. Uno de’ cortigiani otteneva il comando d’una fregata; l’altro quello d’una compagnia di soldati; un terzo la grazia per un colpevole ricco; un quarto la cessione d’una terra della Corona a buoni patti. Se il Re mostrava di gradire che un legale senza clientela fosse fatto giudice, o un baronetto libertino fosse creato Pari, i più gravi consiglieri, dopo un breve mormorare, piegavano il capo.[129] L’interesse, quindi, attirava alle porte della reggia una folla di postulanti; e le porte rimanevano sempre spalancate. Il Re teneva casa aperta ogni giorno, e per tutta la giornata, alle classi alte della città di Londra, tranne agli esagerati del partito Whig. Non v’era gentiluomo che trovasse difficile lo accesso alla presenza del sovrano. La levata dal letto (_levee_) rispondeva esattamente al significato del vocabolo. Parecchi gentiluomini andavano ogni mattina a corteggiare il loro signore, a chiacchierare con esso mentre gli ponevano la parrucca o gli annodavano la cravatta, e ad accompagnarlo nella sua passeggiata mattinale nel parco. Chiunque fosse stato debitamente presentato, poteva, senza invito speciale, recarsi a vederlo pranzare, cenare, ballare e sollazzarsi ai giochi di sorte; e poteva avere il diletto di udirgli riferire storielle, ch’egli sapeva assai bene raccontare, intorno alla sua fuga da Worcester, e alla miseria che egli aveva patita, mentre trovavasi prigioniero di Stato nelle mani dei piagnolosi e intriganti predicatori di Scozia. Coloro che gli stavano d’intorno, e che la Maestà Sua sovente riconosceva, gli si facevano presso, perchè dirigesse loro la parola. Ciò era argomento d’un’arte di regnare assai più proficua di quella che il padre e l’avo di lui avevano praticata. Non era facile al più austero repubblicano della scuola di Marvel resistere alla malia di tanto buon umore ed affabilità; e molti vecchi Cavalieri, nel cuore de’ quali la rimembranza di molti non rimeritati sacrifici si era per venti anni invelenita, tenevansi in un sol momento ricompensati delle ferite e delle spoliazioni, quando il loro sovrano, salutandoli cortesemente col capo, diceva loro: «Dio vi tenga nella sua santa guardia, mio vecchio amico!» Whitehall naturalmente divenne il principale scaricatoio di tutte le nuove. Vociferandosi ivi che qualche cosa d’importante fosse seguíta o per seguire, le genti vi accorrevano, come a fonte precipua, frettolose per informarsene. Le gallerie avevano l’aspetto della sala d’un circolo odierno in tempi d’agitazione. Rigurgitavano di persone chiedenti se la valigia olandese fosse arrivata, quali nuove avesse recate il corriere dalla Francia, se Giovanni Sobiesky avesse sconfitti i Turchi, se il Doge di Genova fosse veramente in Parigi. E queste erano cose, intorno alle quali poteva con tutta sicurtà parlarsi ad alta voce. Ma v’erano subietti intorno ai quali si domandava e rispondeva bisbigliando. Aveva Halifax avuto vantaggio sopra Rochester? Vi sarebbe egli un Parlamento? Il Duca di York sarebbe egli andato davvero in Iscozia? Il Duca di Monmouth era positivamente stato richiamato dall’Aja? Ciascuno studiavasi di leggere in viso ai Ministri, mentre traversavano la folla per entrare o uscire dalle stanze del Re. Augurii d’ogni specie facevansi, a seconda del tono con che la Maestà Sua parlava al Lord Presidente, o del riso con che Sua Maestà onorava una frase scherzevole detta dal Lord del Sigillo Privato; e in poche ore, le speranze e i timori nati da tali leggierissimi indizi, si spandevano per tutte le botteghe da caffè, da San Giacomo fino alla Torre.[130] XXXIV. La bottega da caffè va anch’essa rapidamente rammentata, come quella che in quei tempi poteva non impropriamente considerarsi istituzione politica importantissima. Il Parlamento era chiuso da parecchi anni. Il Consiglio Municipale della città aveva cessato di parlare, esprimendo il pubblico sentire. Le ragunanze, le arringhe, le deliberazioni pubbliche, e tutti gli altri mezzi che oggidì servono a produrre l’agitazione, non erano per anche in uso. Nulla esisteva che somigliasse le moderne gazzette. In tali circostanze, le botteghe da caffè erano gli organi precipui, per mezzo de’ quali manifestavasi la pubblica opinione della metropoli. La prima di tali botteghe era stata aperta a tempo della repubblica da un mercatante della Turchia, il quale fra i Maomettani aveva preso l’uso della loro prediletta bevanda. La comodità di potere avere convegni in ogni parte della città, e passare le serate socievolmente a poco costo, era così grande, che la moda con rapidità si diffuse. Ciascun uomo delle classi alte o delle medie andava giornalmente al suo caffè per raccogliere nuove e discutervi sopra. Ciascun caffè aveva uno o più oratori, alla cui eloquenza la folla, compresa d’ammirazione, prestava ascolto, e i quali tosto divennero ciò che i giornalisti sono stati chiamati ai nostri tempi; vale a dire il quarto Stato del Regno. La Corte aveva da lungo tempo con inquietudine veduto crescere questo nuovo potere nello Stato. Sotto l’amministrazione di Danby, s’era fatto un tentativo di chiudere le botteghe da caffè. Ma gli uomini di tutti i partiti desideravano cotesti consueti luoghi di ritrovo, talmente che ne nacquero clamori universali. Il Governo non rischiossi, avversando un sentimento cotanto forte e generale, a rinvigorire un ordine la cui legalità poteva porsi in questione. Da quel tempo erano scorsi dieci anni, duranti i quali il numero dei caffè era sempre venuto crescendo. Gli stranieri notavano che la bottega da caffè era quella che distingueva Londra dalle altre città; che la bottega da caffè era la casa del Londrino; e che coloro i quali avessero voluto trovare un gentiluomo, comunemente dimandavano, non dove egli abitava in Fleet Street o in Chancery Lane, ma se egli frequentava il _Grecian_ e il _Rainbow_. Da cotesti luoghi non veniva escluso nessuno che ponesse sul banco la sua moneta. Nulladimeno, ogni grado e professione, ogni opinione politica e religiosa, aveva il proprio quartiere generale. Vi erano botteghe presso Saint James’s Park, nelle quali ragunavansi i zerbinetti con le teste e le spalle coperte da parrucche nere o di lino, non meno ampie di quelle che adesso portano il Cancelliere e il Presidente della Camera de’ Comuni. La parrucca era venuta da Parigi, insieme con gli altri belli ornamenti da gentiluomo; cioè la veste ricamata, i guanti ornati di frangie e la nappa che sosteneva le brache. Nel conversare usavasi quel dialetto, il quale, lungo tempo dopo che era sparito dalle labbra della gente educata, continuò, su quelle di Lord Foppington, a muovere a riso gli spettatori in teatro.[131] L’atmosfera era simile a quella della bottega d’un profumiere. Il tabacco, se non mandava squisitissimo odore, era tenuto in abominio. Se qualche villano, ignaro delle usanze della bottega, chiedeva una pipa, gli scherni della intera assemblea, e le risposte brevi de’ ragazzi, tosto lo persuadevano come gli tornasse meglio andarsene altrove. Nè gli toccava a fare lungo cammino. Imperocchè, generalmente, nelle botteghe da caffè il fumo del tabacco vedevasi come ne’ corpi di guardia; e gli stranieri alcuna volta manifestavano la loro sorpresa, vedendo come tanta gente lasciasse i propri focolari per starsi ravvolta fra il puzzo e la nebbia perpetua. In nessun luogo fumavasi più di quel che si facesse nel caffè Will. Questa celebre bottega, posta tra Covent Garden e Bow Street, era dedicata agli studi leggiadri. Quivi ragionavasi intorno a cose poetiche, e alle unità così dette aristoteliche del dramma. Ivi era un partito a favore di Perrault e de’ moderni, e un altro che difendeva Boileau e gli antichi. In un gruppo si discuteva se il _Paradiso Perduto_ avrebbe dovuto essere scritto in versi rimati. Ad un altro, un invido poetastro dimostrava che la _Venezia Salvata_ di Otway avrebbe dovuto essere cacciata a fischi dalla scena. Non v’era tetto sotto il quale fosse maggior varietà di figure. Conti ornati di stelle e di giarrettiere, ecclesiastici in collaretto e sottana, petulanti legali, giovinetti di università inesperti, traduttori e fattori d’indici in lacero arnese. Ciascuno sforzavasi di penetrare nel gruppo che s’affollava intorno a Giovanni Dryden. Nell’inverno, la sedia dove egli adagiatasi, era nel canto più caldo presso al cammino; nella state era posta sul balcone. Fargli un inchino, udire la sua opinione intorno all’ultima tragedia di Ratine, o al trattato di Bossu sopra la poesia epica, reputavasi un insigne favore. Una presa della sua tabacchiera era onore bastevole a dar la volta al cervello d’un giovine entusiasta. Vi erano botteghe da caffè dove potevano consultarsi i medici più rinomati. Il dottore Giovanni Radcliffe, il quale nel 1685 aveva la più numerosa clientela di Londra, dalla sua casa posta in Bow Street, luogo a que’ tempi in voga nella capitale, andava giornalmente, nell’ora in cui era più popolata la Borsa, al caffè di Garraway, dove sedeva innanzi ad una tavola distinta, circondato da chirurgi e da farmacisti. Vi erano botteghe da caffè puritane, dove non udivasi una bestemmia, e dove gli uomini dai lisci capelli discutevano parlando col naso intorno agli eletti e ai reprobi: caffè per gli ebrei, dove i cambia–monete dagli occhi neri, di Venezia o d’Amsterdam, salutavansi vicendevolmente; e caffè papisti, dove, secondo che i buoni protestanti credevano, i Gesuiti[132] con le tazze in mano facevano disegni d’un altro grande incendio, e di fondere palle d’argento per uccidere il Re.[133] Il modo d’accomunarsi siffattamente non contribuì poco a formare il carattere del cittadino di Londra in que’ giorni. Veramente, egli era un essere ben diverso dall’Inglese abitante della campagna. Allora non esisteva la relazione che adesso si vede fra le due classi. Solo gli uomini assai ricchi avevano il costume di passare mezzo l’anno in città e mezzo in villa. Pochi scudieri andavano alla metropoli tre volte in tutta la loro vita. Nè i cittadini agiati avevano ancora il costume di respirare la fresca aria de’ campi e dei boschi per parecchi giorni della stagione estiva. Un vero Londrino,[134] mostrandosi in qualche villaggio, veniva guardato con maraviglia, quasi si fosse intruso fra mezzo un Kraal di Ottentoti. Dall’altro canto, quando un signore delle Contee di Lincoln o di Shrop appariva in Fleet Street, di leggieri distinguevasi fra la popolazione della città, come un Turco o un Lascaro. Il vestire, lo andare, l’accento, il modo onde egli guardava ammirando le botteghe, inciampava ne’ rigagnoli, s’imbatteva ne’ facchini, e rimaneva sotto le grondaie, lo additavano come ottima preda ai truffatori ed ai beffardi. I bravazzoni lo spingevano fin nel canale, i cocchieri lo inzaccheravano dal capo ai piedi. I ladroncelli esploravano con piena sicurtà le vaste tasche del suo abito da cavalcare, mentre egli ammirava estatico lo splendido corteo del Lord Gonfaloniere. Gli scrocconi, ancora indolenziti dalle staffilate ricevute per ordine della Giustizia dietro la coda d’un cavallo, si presentavano a lui, e gli parevano i più onesti e cortesi gentiluomini ch’egli avesse mai veduti. Donne col viso impiastrato, rifiuto di Lewkner Lane e di Whetstone Park, gli si spacciavano per contesse e dame di Corte. Se domandava della via che conduceva a San Giacomo, lo dirigevano a Mile End. Se entrava in una bottega, subito veniva giudicato come un facile compratore di tutte quelle cose che non si sarebbero potute vendere ad altri, di ricami di seconda mano, d’anelli di rame, e d’oriuoli che non segnavano le ore. Se entrava in qualche bottega da caffè di moda, diventava lo zimbello degl’insolenti bellimbusti, e de’ gravi legali. Pieno di vergogna e di rabbia, faceva tosto ritorno alle proprie terre, dove negli omaggi de’ suoi affittaioli e nel consorzio de’ suoi compagni, trovava conforto alle vessazioni ed umiliazioni sofferte. Ivi si sentiva ridivenuto grande uomo, e non vedeva nulla al di sopra di sè, tranne quando nel tribunale sedevasi al banco accanto al giudice, o quando alla rivista della milizia cittadina salutava il Lord Luogotenente. XXXV. La cagione precipua che rendeva così imperfetta la fusione de’ diversi elementi sociali, era la estrema difficoltà che i nostri antenati incontravano di andare da un luogo ad un altro. Fra tutte le invenzioni, tranne le lettere alfabetiche e l’arte della stampa, quelle che abbreviano le distanze hanno principalmente cooperato ad incivilire il genere umano. Ogni miglioramento dei mezzi di locomozione, giova all’umanità moralmente e intellettualmente, non che materialmente; e non solo agevola lo scambio de’ vari prodotti della natura e dell’arte, ma tende a distruggere le nazionali e provinciali antipatie, ed avvincolare in una tutte le classi della umana famiglia. Nel secolo diciassettesimo, gli abitanti di Londra erano, per ogni negozio pratico, più discosti da Edimburgo, di quello che oggi siano da Vienna. I sudditi di Carlo II non erano, egli è vero, affatto ignari di quel principio, il quale ai tempi nostri ha prodotto un rivolgimento senza esempio nelle cose umane, il quale ha fatto sì che le navi sfidino il vento e le onde marine, e i battaglioni, accompagnati da bagagli ed artiglierie, traversino i Regni con un passo eguale a quello del più veloce corsiero. Il Marchese di Worcester aveva pur allora osservata la potenza dell’umido rarefatto dal calore. Dopo molti esperimenti, gli era riuscito di costruire una rozza macchina a vapore, ch’egli chiamò macchina d’acqua bollente, e giudicò essere maraviglioso e vigorosissimo strumento di propulsione.[135] Ma il Marchese era sospettato di pazzia, e conosciuto come papista. E però le sue invenzioni non furono bene accolte. La sua macchina a vapore potè forse essere stata subietto di conversazione in una adunanza della Società Reale, ma non fu applicata ad alcuno uso pratico. Non v’erano guide lungo le strade, salvo poche fatte di legname, dalle miniere di carbone del Northumberland fino alle sponde del Tyne.[136] Nelle contrade interiori, piccolissime erano le comunicazioni fluviali. Pochi tentativi erano stati fatti a rendere più profonde ed arginare le correnti naturali, ma con poco buon esito. Non si era nè anche progettato un canale navigabile. Gl’Inglesi di que’ tempi avevano costume di favellare con maraviglia mista alla disperazione intorno all’immenso fosso, per mezzo del quale Luigi XIV aveva congiunto l’Atlantico col Mediterraneo. Erano ben lungi dal pensare che la patria loro, nel corso di poche generazioni, sarebbe stata intersecata, a spese di intraprenditori privati, da fiumi artificiali, equivalenti per lunghezza ad una estensione quattro volte maggiore del Tamigi, del Savern e del Trent insieme congiunti. XXXVI. Egli era per le strade maestre che gli uomini e le robe passavano da luogo a luogo; e sembra che tali strade fossero in peggiori condizioni di quello che si sarebbe potuto aspettare dal grado di civiltà ed opulenza cui era in allora pervenuta la nazione. Nelle migliori linee di comunicazione, i solchi delle ruote erano profondi, le discese precipitose, e la via spesso tale da potersi al buio poco distinguere dallo scopeto e dal pantano onde era fiancheggiata da ambe le parti. L’antiquario Ralph Thoresby corse pericolo di smarrire il cammino sulla strada del nord tra Barnby Moor e Tuxford, come lo aveva smarrito tra Doncaster e York.[137] Pepys, che viaggiava con la moglie nella propria carrozza, perdè il cammino tra Newbury e Reading. Seguitando il medesimo viaggio, si smarrì presso Salisbury; e corse rischio di passare tutta la notte a cielo scoperto.[138] Solo nella buona stagione la strada era praticabile da veicoli a ruote. Spesso la mota vedevasi accumulata a diritta ed a mancina, altro non rimanendo che un angusto tratto di terreno solido sul pantano.[139] In quel tempo frequenti erano gl’impedimenti e le risse, e il sentiero sovente rimaneva impedito dai vetturini, nessuno dei quali voleva andare innanzi. Seguiva quasi giornalmente, che le carrozze rimanessero impigliate nel fango finchè potessero, in qualche fattoria vicina, trovarsi de’ buoi a tirarnele fuori. Ma nel tempo cattivo, al viaggiatore toccava d’imbattersi in difficoltà anche più gravi. Thoresby, che aveva costume di recarsi da Leeds alla capitale, nel suo Diario ha fatto ricordo di tanti perigli e disastri, da non essere esagerati in un viaggio al Mare Gelato o al Deserto di Sahara. Una volta egli seppe che il paese tra Ware e Londra era tutto innondato, che i passeggieri erano stati costretti a nuotare onde scampare la vita, e che un rivenditore era morto tentando di traversare la via. Per tali nuove Thoresby lasciò da parte la strada, e fu condotto traverso a certi prati, dove gli fu mestieri cavalcare nell’acqua che gli arrivava alla sella.[140] In un altro viaggio, mancò poco ch’egli non venisse trasportato dall’impeto delle onde traripate del Trent. Poi fu ritenuto quattro giorni a Stamford per la condizione delle strade, ed in fine rischiossi a ripigliare il cammino, perchè gli fu dato accompagnarsi a quattordici rappresentanti della Camera de’ Comuni, i quali recavansi in corpo al Parlamento, con numeroso stuolo di guide e di servi.[141] Nello stradale della Contea di Derby, i viaggiatori stavano sempre in pericolo di rompersi il collo, e spesso erano costretti a smontare e condurre le loro cavalcature.[142] La grande strada traverso al paese di Galles a Holyhead, era in condizioni tali, che, nel 1685, un vicerè che andava in Irlanda, consumò cinque ore di tempo a percorrere quattordici miglia, da Saint Asaph fino a Conway. Tra Conway e Beaumaris gli fu forza di camminare a piedi per lungo tratto di strada, mentre la sua moglie veniva portata in lettiga. Il suo cocchio lo seguiva trasportato con gran difficoltà da molte braccia. Generalmente, i carriaggi arrivavano in pezzi a Conway, ed erano trasportati sopra le vigorose spalle de’ contadini gallesi a Menai Straits.[143] In alcuni luoghi di Kent e di Sussex, nessun animale, fuorchè i più forti cavalli, poteva valicare su per la mota, nella quale affondava ad ogni passo. I mercati spesso rimanevano inaccessibili per parecchi mesi. Vuolsi che i frutti della terra si lasciassero talvolta imputridire in un luogo, mentre in un altro, poche miglia discosto, i prodotti locali non bastavano al bisogno. I carri a ruote in cotesto distretto, comunemente, erano trascinati da buoi.[144] Allorquando il principe Giorgio di Danimarca visitò in tempo di pioggia il magnifico castello di Petworth, spese sei ore a far nove miglia di cammino; e fu mestieri che un branco di robusti villani fiancheggiasse da ambi i lati il cocchio onde puntellarlo. Parecchi de’ carriaggi che lo seguivano, furono capovolti e danneggiati. Si conserva una lettera di uno de’ gentiluomini che lo accompagnavano, nella quale lo sventurato cortigiano si duole, come per quattordici ore non gli fosse stato concesso di smontare, tranne quando la sua carrozza venisse capovolta, o rimanesse fitta nel fango.[145] Una delle cagioni precipue della pessimità delle strade, pare che stesse nel difetto di provvisioni legislative. Ciascuna parrocchia era tenuta a riattare le strade maggiori che la traversavano. I contadini erano costretti a lavorarvi gratuitamente per sei giorni dell’anno. Se ciò non bastava, adoperavansi lavoranti a pago, e provvedevasi alla spesa con contribuzioni imposte a tutti i parrocchiani. È cosa manifestamente ingiusta che una via, la quale congiunga due grandi città esercenti in larga misura uno scambievole e proficuo traffico, venga mantenuta a spese della popolazione sparsa fra esse; e tale ingiustizia rendevasi più visibile nel caso della gran via del Nord, che traversando poverissimi e poco popolati distretti, congiungeva distretti assai popolati e ricchissimi. A vero dire, le parrocchie della Contea di Huntingdom non potevano riattare una strada consunta dal continuo traffico tra il West Riding della Contea di York e Londra. Tosto dopo la Restaurazione, questa gravezza richiamò a sè l’attenzione del Parlamento; e passò una legge,—una delle tante concernenti simile subietto,—che imponeva un lieve pedaggio sui viaggiatori e sulle robe, a fine di tenere in buona condizione alcune parti di questa importante strada.[146] Tale innovazione, nondimeno, eccitò molti clamori; e le altre grandi vie che conducevano alla capitale, rimasero lungo tempo dopo sotto il vecchio sistema. In fine seguì un cangiamento, ma non senza gravi difficoltà. Imperocchè le tasse ingiuste ed assurde alle quali gli uomini sono assuefatti, spesso si sopportano assai meglio che le imposte più ragionevoli novellamente decretate. E’ non fu se non dopo che molte sbarre di pedaggio furono violentemente abbattute, e le milizie in molti distretti costrette ad intervenire contro il popolo, e non poco sangue fu sparso, che potè introdursi un buon sistema.[147] A lenti passi la ragione vinse il pregiudizio; ed oggimai l’isola nostra per ogni verso è traversata da circa trenta mila miglia di strade regie. Per le migliori strade, nel tempo di Carlo II, le cose pesanti generalmente erano da luogo a luogo traportate sopra vagoni da viaggio. Sui pagliericci di cotesti veicoli adagiavasi una folla di viandanti, che non avessero mezzi di andare in carrozza o a cavallo, e ai quali la infermità o il peso de’ loro bagagli impedisse di camminare a piedi. Enorme era la spesa. per trasportare in tal modo le robe pesanti. Da Londra a Birmingham, pagavasi sette lire sterline per ogni tonnellata:[148] lo che equivaleva a quindici soldi la tonnellata per miglio; più del terzo di quel che poscia costava il trasporto per le strade regie, e quindici volte più di quello che oggi si spende per le vie ferrate. Il costo del trasporto per molti generi d’uso comune, equivaleva ad una tassa proibitiva. In ispecie il carbone non vedevasi altrove che nei distretti ai quali poteva essere trasportato per mare; e diffatti, comunemente chiamavasi nel mezzodì dell’Inghilterra, carbone di mare. Nelle strade minori, e generalmente per le contrade settentrionali di York e per le occidentali di Exeter, il trasporto eseguivasi da lunghi traini di cavalli da basto. Questi vigorosi e pazienti animali, la cui razza oggidì è estinta, erano condotti da una genia d’uomini, che parrebbero molto somiglievoli ai mulattieri di Spagna. Un viandante d’umile condizione spesso trovava conveniente eseguire un viaggio, montato sul basto d’un cavallo tra due ceste o fagotti, sotto la cura di cotali robuste guide. Lieve era la spesa di siffatto modo d’andare: ma la caravana muovevasi con la lentezza de’ pedoni; e in tempo di verno, il freddo sovente riusciva insoffribile.[149] I ricchi per lo più viaggiavano nelle loro carrozze, tirate almeno da quattro cavalli. Il faceto poeta Cotton si provò di andare da Londra al Peak con un solo paio; ma giunto a Saint Albans, trovando il viaggio insopportabilmente noioso, cangiò pensiero.[150] Un cocchio a sei cavalli non si vede più al tempo nostro, tranne come apparato di lusso. E però il vedere di frequente rammentare nei vecchi libri quella specie d’equipaggi, ci potrebbe indurre in errore, attribuendo a magnificenza ciò che veramente era lo effetto d’una spiacevole necessità. La gente, nel tempo di Carlo II, viaggiava con sei cavalli, perchè con meno, il cocchio correva pericolo di rimanere fitto nella mota. Nè anche sei cavalli servivano sempre. Vambrugh, nella generazione susseguente, descrisse con molto spirito il modo con che un gentiluomo di provincia, eletto per la prima volta deputato al Parlamento, recavasi a Londra. In tale congiuntura, tutti gli sforzi di sei bestie, due delle quali erano state tolte all’aratro, non potevano salvare il cocchio di famiglia dal rimanere fitto nei pantani. XXXVII. Le pubbliche vetture erano state pur allora molto migliorate. Negli anni che susseguirono alla Restaurazione, una diligenza metteva due giorni ad andare da Londra ad Oxford. I passeggieri dormivano a Beaconsfield. Finalmente, nella primavera del 1669, fu tentata una grande e ardimentosa innovazione. Venne annunziato, come un veicolo, che fu chiamato il Cocchio Volante, eseguirebbe l’intero viaggio dal nascere al tramonto del sole. Cotesta ardita impresa venne esaminata e sanzionata dai capi della Università, e sembra che svegliasse la medesima specie d’interesse che fa nascere ai di nostri l’apertura d’una nuova strada ferrata. Il vice–cancelliere, con un avviso affisso in tutti i luoghi pubblici, prescrisse l’ora e il punto della partenza. L’esito fu assai prospero. Alle ore sei della mattina, la vettura si mosse dall’antica facciata del Collegio d’Ognissanti; ed alle sette della sera, gli avventurosi gentiluomini, che primi eransi esposti al pericolo, giunsero sani e salvi alla loro locanda in Londra.[151] La università di Cambridge si mosse ad emulare la sorella; e subito fu messa su una diligenza, la quale in una giornata da quivi trasportava i passeggieri alla capitale. Alla fine del regno di Carlo II, simiglianti velociferi andavano tre volte la settimana da Londra alle città principali. Ma non sembra che alcuna carrozza, o alcun vagone da viaggio a tramontana andasse oltre York, e ad occidente oltre Exeter. L’ordinario spazio che un velocifero percorreva in un giorno, era di circa cinquanta miglia in estate; ma in inverno, essendo i giorni cattivi e le notti lunghe, ne faceva poco più di trenta. La vettura di Chester, e quella di York e di Exeter, generalmente giungevano a Londra in quattro giorni nella bella stagione, ma nel Natale non prima del sesto giorno. I passeggieri, ch’erano sei di numero, stavano assisi dentro la carrozza; imperocchè erano così spessi gli accidenti, che sarebbe stato estremamente pericoloso lo starsi in cima al legno. La spesa ordinaria in estate era di circa due soldi e mezzo per miglio, e un poco più in tempo di verno.[152] Questo modo di viaggiare, che dagli odierni Inglesi verrebbe giudicato insoffribilmente lento, sembrava agli antenati nostri maravigliosamente e non senza paura rapido. In una opera pubblicata pochi mesi avanti la morte di Carlo II, i velociferi vengono esaltati come superiori ad ogni qualunque simigliante veicolo conosciuto nel mondo. La rapidità loro è subietto di singolar lode, e posta vittoriosamente in contrasto col lento andare delle vetture postali del continente. Ma a simiglianti lodi mescolavansi voci di lamento e d’invettiva. Gl’interessi di numerose classi d’uomini avevano patito danno per la istituzione di coteste nuove vetture; e, come sempre, molti per semplice, stupidità o ostinatezza inchinavano a gridare contro la innovazione, solo perchè era tale. Allegavasi con veemenza che cotesto modo di trasporto sarebbe tornato fatale alle nostre razze di cavalli e alla nobile arte del maneggio; che il Tamigi, il quale da lungo tempo aveva nutriti tanti marinai, non sarebbe stato il precipuo luogo di passaggio da Londra su a Windsor, e giù a Gravesend; che i sellai e gli speronai sarebbero rimasti rovinati a centinaia; che innumerevoli locande, nelle quali solevano fermarsi i viaggiatori a cavallo, sarebbero state abbandonate e non avrebbero più pagata pigione; che i nuovi carriaggi erano troppo caldi d’estate, e troppo freddi di verno; che i passeggieri venivano gravemente infastiditi dai malati e dai piangenti bambini; che il cocchio talvolta perveniva sì tardi alla locanda, che era impossibile trovare da cena, e talvolta partiva così presto, da non potere trovar da colazione. Per tali ragioni, esortavano seriamente a non permettere a nessuna vettura pubblica di avere più di quattro cavalli, di partire più d’una volta la settimana, e di fare più di trenta miglia per giorno. Speravano che ove si fosse adottato siffatto regolamento, tutti, salvo gl’infermi e gli zoppi, avrebbero ripreso l’antico modo di viaggiare. Varie compagnie della città di Londra, varie città provinciali, e i giudici di varie Contee presentavano petizioni che contenevano le sopradette idee. Coteste cose ci muovono a riso. E non è impossibile che i nostri posteri, leggendo la storia della opposizione mossa dalla cupidità e dal pregiudicio ai miglioramenti del secolo decimo nono, sorridano anch’essi di noi.[153] Malgrado la riconosciuta utilità de’ velociferi, gli uomini sani e vigorosi, e non impediti da molto bagaglio, seguitavano tuttavia il costume di fare a cavallo i viaggi lunghi. Se il viaggiatore voleva andare speditamente a qualche luogo, prendeva i cavalli di posta. Cavalli freschi e nuove guide potevano trovarsi a convenevoli distanze lungo tutte le grandi linee delle strade. La spesa era di tre soldi il miglio per ciascun cavallo, e quattro per la guida. In tal modo, essendo buono il cammino, egli era possibile di viaggiare per un tempo considerevole così rapidamente, come con qualunque altra specie di trasporto che si conoscesse in Inghilterra fino a che ai veicoli venne applicato il vapore. Non eranvi per anche carrozze da posta; nè coloro che viaggiavano nelle loro proprie, trovavano ordinariamente da mutare i cavalli. Il Re, nondimeno, e i grandi ufficiali dello Stato, potevano farlo. Così Carlo usualmente andava in un sol giorno da Whitehall a Newmarket; lo che faceva una distanza di circa cinquanta cinque miglia in un paese piano: viaggio che da’ suoi sudditi veniva riputato celerissimo. Evelyn compì la medesima gita in compagnia del Lord Tesoriere Clifford. Il cocchio veniva tirato da sei cavalli, che furono cambiati a Bishop Stortford, e poi a Chesterford. Essi giunsero a Newmarket di notte. Siffatto modo d’andare sembra venisse considerato come un lusso convenevole ai soli principi e ai ministri.[154] XXXVIII. Ma qualunque si fosse il modo di viaggiare, i viandanti, a meno che fossero numerosi e bene armati, correvano non lieve periglio d’essere fermati e saccheggiati. Il ladrone a cavallo, essere che al dì d’oggi conosciamo solo da’ libri, trovavasi in ogni strada maestra. Gli spazii di terreno deserto, che erano lungo i grandi stradali presso Londra, venivano infestati da questa specie di saccheggiatori. Hounslow Heath, nella grande strada di ponente, e Finchley Common in quella di tramontana, erano forse i più rinomati di tali luoghi. La scolaresca di Cambridge tremava appressandosi, anche di pieno giorno, a Epping Forest; i marinai che pur allora erano stati pagati a Chatham, spesso erano costretti a consegnare le loro borse presso Gadshill, luogo celebrato, circa cento anni avanti, dal grandissimo dei poeti, come scena delle ruberie di Poins e Falstaff. E’ sembra che l’autorità pubblica spesso non trovasse modo da condursi rispetto a codesti predoni. Ora leggevasi nella gazzetta l’annunzio, che parecchi individui fortemente sospettati d’essere ladroni, ma contro i quali non v’erano bastevoli prove, verrebbero pubblicamente esposti in abito da cavalcare a Newgate; verrebbero anche messi in mostra i loro cavalli: per ciò, tutti i gentiluomini ch’erano stati derubati, venivano invitati a vedere questa singolarissima esposizione. Ora offerivasi pubblicamente la grazia ad un ladro, ove avesse voluto restituire alcuni diamanti d’immenso valore, da lui rapiti, allorchè aveva fermata la valigia postale di Harwich. Breve tempo dopo, comparve un altro proclama, onde avvertire i locandieri, che l’occhio del Governo vegliava sopra essi. La loro criminosa connivenza, dicevasi in quell’avviso, agevolava ai banditi il modo d’infestare impunemente le strade. Che tali sospetti non fossero privi di fondamento, si argomenta dalle parole che sul letto di morte dissero alcuni ladroni pentiti di quel tempo, dalle quali e’ pare ch’essi ricevessero dai locandieri servigi somiglievoli molto a quelli che il Bonifacio di Farquhar rendeva a Gibett.[155] Perchè un ladrone potesse prosperamente, e anche con sicurtà, esercitare il proprio mestiere, era necessario ch’egli fosse un destro cavalcatore, e che l’aspetto e i modi suoi fossero tali da convenire al padrone d’un bel cavallo. Egli quindi teneva una posizione aristocratica nella comunità de’ ladri, mostravasi alle botteghe da caffè e alle case da giuoco più in voga, e scommetteva alle corse coi gentiluomini.[156] E veramente, talvolta apparteneva a qualche buona famiglia ed era bene educato. E però annettevasi, e forse ancora s’annette, un interesse romanzesco ai nomi di questa classe di predoni. Il volgo con facilità prestava fede alle storielle della ferocia ed ardimento, degli atti di generosità e di buon indole, degli amori, degli scampi miracolosi; degli sforzi disperati, del maschio contegno loro innanzi ai tribunali e sul patibolo. Diffatti, raccontavasi di Guglielmo Nevison, il gran ladrone della Contea di York, com’egli imponesse un tributo d’una quarta parte ai conduttori di bestiame delle contrade settentrionali, mentre non solamente non recava loro alcun male, ma gli proteggeva contro gli altri ladri; come egli chiedesse con cortesissimi modi le borse; come desse profusamente ai poveri ciò che aveva tolto ai ricchi; come gli fosse una volta perdonata la vita dalla clemenza del Re, e come ripigliasse di nuovo l’antico mestiere, e alla perfine morisse nel 1685 in York sulla forca.[157] Similmente narravasi, come Claudio Duval, paggio francese del Duca di Richmond, gettatosi sul gran cammino, si facesse capo d’una formidabile banda, ed avesse l’onore di essere nominato primo in un proclama regio contro que’ rinomati facinorosi; come a capo della sua masnada egli fermasse il cocchio d’una dama, nel quale trovò un bottino di quattrocento lire sterline; come ne prendesse sole cento, e lasciasse alla bella signora il rimanente, a patto ch’ella ballasse un poco con lui sul prato; come, con la sua vivace galanteria, rapisse i cuori di tutte le donne; come, per la destrezza con che maneggiava la spada e la pistola, diventasse il terrore degli uomini; come finalmente, nel 1670, venisse preso mentre giaceva avvinazzato; come le dame d’alto grado andassero a visitarlo in carcere, e con le lagrime intercedessero per salvargli la vita; come il Re fosse disposto a perdonargli, se non era l’intervento del giudice Morton, terrore de’ ladroni, il quale minacciò di rinunciare all’ufficio ove non si fosse rigorosamente eseguita la legge; e come, dopo la decapitazione, il suo cadavere fosse esposto con tutta la pompa di blasoni, ceri e parati bruni, e piagnoni, finchè il medesimo crudo giudice che aveva impedito il Re di far grazia, mandò ufficiali a disturbare l’esequie.[158] A questi aneddoti senza dubbio sono mescolate molte favole, ma non perciò sono indegni di ricordanza; imperocchè egli è fatto autentico ed importante, che simili racconti, veri o falsi, venivano ascoltati con ardore e buona fede dai nostri antenati. XXXIX. Tutti i diversi pericoli onde era circuito il viaggiatore, venivano grandemente accresciuti dalle tenebre. Era, quindi, comunemente sollecito di avere per tutta la notte un asilo, che non era difficile ottenere. Le locande d’Inghilterra, fino da tempi antichissimi, hanno goduto rinomanza. Il nostro primo grande poeta ha descritto i comodi che esse nel secolo decimoquarto offrivano ai pellegrini. Ventinove persone, coi loro cavalli, trovarono ricovero nelle spaziose camere e stalle del Tabard in Southwark. I cibi erano de’ migliori che si potessero trovare, e i vini tali da indurre la brigata a beverne copiosamente. Duecento anni dopo, regnante Elisabetta, Guglielmo Harrison descrisse vivamente l’abbondanza e i comodi de’ grandi alberghi. Il continente d’Europa, egli diceva, non ha nulla di simile a quelli. Ve n’erano alcuni, in cui due o trecento persone con le cavalcature loro, potevano essere alloggiate e nutrite senza veruna difficoltà. I letti, le tappezzerie, e soprattutto l’abbondanza di netta e squisita biancheria, erano subietto di meraviglia. Spesso sopra le mense vedevansi argenterie di gran prezzo: anzi, v’erano arnesi che costavano trenta o quaranta sterline. Nel secolo decimosettimo, in Inghilterra era gran copia di buone locande d’ogni specie. Il viandante talvolta in un piccolo villaggio smontava ad un albergo simile a quello descritto da Walton, dove il pavimento di mattoni era bene spazzato, le pareti ornate di canzoni, le lenzuola mandavano odore d’acqua di lavanda, e dove un buon fuoco, un bicchiere di squisita birra e un piatto di trote pescate del vicino ruscello, potevano aversi con poca spesa. Negli alberghi maggiori trovavansi letti con parati di seta, eccellente cucina, e vino di Bordeaux uguale al migliore che si bevesse in Londra.[159] Soggiungevasi anche, che i locandieri non fossero simili agli altri del loro mestiere. Nel continente, il proprietario era il tiranno di coloro che varcavano la soglia del suo albergo. In Inghilterra era un servitore. Giammai un Inglese trovavasi come in casa sua altrove, più che nella sua locanda. Anco gli uomini ricchi che in casa propria avrebbero potuto godere d’ogni lusso, spesso avevano il costume di passare le sere nella sala di qualche vicina casa da divertimento. E’ pare che pensassero, la libertà e i comodi non potersi così bene godere altrove. Tale costumanza continuò per molte generazioni ad essere una peculiarità nazionale. Lo allegro e libero stare nelle locande, diede per lungo tempo materia ai nostri scrittori di drammi e di novelle. Iohnson affermò che la seggiola d’una taverna era il trono della felicità umana; e Shenstone gentilmente lamentò, come nessun tetto privato, per quanto amichevole, desse quanto quello d’una locanda al passeggiero con tanta cordialità il benvenuto. Molti comodi che nel secolo diciassettesimo erano sconosciuti in Hampton Court e in Whitehall, posson trovarsi ne’ nostri moderni alberghi. Nondimeno, nell’insieme, egli è certo che il miglioramento delle case di pubblico divertimento non è in nessun modo andato di pari passo col miglioramento delle nostre strade, e de’ mezzi di trasporto. Nè ciò deve sembrare strano: poichè è cosa manifesta che, supponendo uguali tutte le altre circostanze, le locande saranno migliori là dove i mezzi di locomozione son pessimi. Più celere è il modo di viaggiare, meno importante diviene al viaggiatore la esistenza di numerosi e piacevoli luoghi di riposo. Cento sessanta anni fa, un uomo che da una Contea rimota si fosse recato alla metropoli, generalmente aveva mestieri di desinare dodici o quindici volte, e riposare cinque o sei notti durante il viaggio. Se era ricco, aspettavasi che nei pranzi e negli alloggi fosse proprietà ed anche lusso. Oggimai la luce d’un sol giorno di verno ci basta per volare da York o da Exeter fino a Londra. Il viaggiatore perciò rade volte interrompe il proprio viaggio per mero bisogno di riposo o di cibo: quindi è che molti buoni alberghi trovinsi in estremo decadimento. In breve tempo non ve ne sarà più nè anche uno, tranne ne’ luoghi dove è verosimile che gli stranieri siano astretti a fermarsi per cagione di faccende o di piacere. XL. Il modo onde le lettere erano trasmesse da un luogo distante ad un altro, parrebbe oggidì degno di scherno: nulladimeno, esso era tale da muovere l’ammirazione e la invidia delle più culte nazioni dell’antichità, o de’ contemporanei di Raleigh e di Cecil. Uno stabilimento rozzo ed imperfetto di poste pel trasporto delle lettere, era stato messo su da Carlo I, e distrutto dalla guerra civile. Sotto la Repubblica quel disegno venne ripreso. Dopo la Restaurazione, i proventi dell’ufficio postale, sottratte le spese, furono assegnati al Duca di York. Nella maggior parte delle strade, le valigie partivano ed arrivavano ciascun giorno alternativamente. In Cornwall, nei paduli della Contea di Lincoln, e fra i colli e i laghi di Cumberland, le lettere ricevevansi una volta la settimana. Nel tempo che il Re viaggiava, dalla capitale spedivasi giornalmente un corriere al luogo dove la Corte intendeva fermarsi. Eranvi parimente quotidiane comunicazioni tra Londra e Downs; e il medesimo privilegio talvolta estendevasi a Tunbridge Wells e a Bath, nella stagione in cui que’ luoghi erano popolati di signori. I bagagli venivano trasportati sui cavalli, che camminando di notte e di giorno, facevano cinque miglia l’ora.[160] La entrata di tale stabilimento non ricavavasi soltanto dal trasporto delle lettere. L’ufficio postale aveva diritto di apprestare i cavalli da posta; e considerando la sollecitudine con che era condotto cotesto monopolio, possiamo concludere che fosse proficuo.[161] Se però un viaggiatore avesse atteso mezz’ora senza che gli venissero apprestati i cavalli, poteva procurarseli dove e come meglio gli fosse piaciuto. Agevolare la corrispondenza tra una parte e l’altra della città di Londra, non era in origine lo scopo dell’ufficio postale. Ma nel regno di Carlo II, un cittadino intraprendente, di nome Guglielmo Dockwrey, istituì con grande spesa una posta d’un soldo, la quale trasportava lettere e fagotti sei o otto volte per giorno nelle strade popolate e piene di faccende presso la Borsa, e quattro volte per giorno fuori la città. Cotesto miglioramento, secondo il costume, fu vigorosamente avversato. I facchini dolevansi del detrimento che ne pativano, e stracciavano i cartelli che ne davano annunzio al pubblico. Il commovimento cagionato dalla morte di Godfrey, e dalla scoperta delle scritture di Coleman, in allora era sommo. E però levossi alto il grido, che la posta d’un soldo fosse un disegno de’ papisti. Affermavasi che il gran Dottore Oates aveva sospetto come i Gesuiti vi fossero mescolati, e come bastasse esaminare i fagotti per trovarvi i vestigi del tradimento.[162] Nonostante, sì grande e manifesta era la utilità della impresa, che ogni opposizione tornò priva d’effetto. Appena fu chiaro che era lucrosa, il Duca di York ne mosse querele come d’un’infrazione del suo monopolio, e i tribunali sentenziarono in suo favore.[163] La entrata dell’ufficio postale, fin da principio, venne sempre aumentando. L’anno in cui seguì la Restaurazione, un Comitato della Camera de’ Comuni, dopo rigorosa indagine, ne aveva estimato il ricavato netto a circa venti mila lire sterline. Alla fine del regno di Carlo II, la entrata netta sommava a poco meno di cinquanta mila sterline; somma che in allora fu considerata stupenda. La entrata lorda ascendeva a circa settanta mila sterline. La spesa per la spedizione d’una sola lettera era due soldi per ogni ottanta miglia, e tre soldi per una distanza maggiore; ma aumentava in proporzione del peso del piego.[164] Ai dì nostri, una lettera semplice si spedisce per un soldo ai confini della Scozia e della Irlanda; e il monopolio de’ cavalli da posta non esiste più da lungo tempo. Nondimeno, l’entrata lorda ascende annualmente a più d’un milione e ottocento mila lire sterline, e la netta a settecento e più mila. Non si potrebbe, quindi, dubitare che il numero delle lettere le quali oggidì si spediscono per posta, è settanta volte maggiore di quello che se ne spediva nel tempo in cui Giacomo II ascese al trono. XLI. Nessuna parte del carico che le vecchie valigie trasportavano, era più importante delle lettere contenenti notizie. Nel 1685 non esisteva nè poteva esistere alcuna cosa di simile al giornale quotidiano di Londra de’ nostri giorni; non essendovi nè il danaro nè l’arte a ciò fare bisognevoli. Mancava, inoltre, la libertà; mancanza fatale quanto quella del danaro e dell’arte. Vero è che in quel tempo la stampa non era soggetta ad una generale censura. La legge di licenza, che era stata fatta poco dopo la Restaurazione, era spirata nel 1679. A chiunque era concesso di stampare, a proprio rischio, una storia, un sermone o un poema, senza approvazione di alcun pubblico ufficiale; ma i giudici concordemente opinavano che siffatta libertà non si estendesse alle Gazzette, e che, per virtù del diritto comune dell’Inghilterra, nessuno senza regia licenza avesse potestà di pubblicare notizie politiche.[165] Finchè il partito Whig fu formidabile, il Governo reputò utile di quando in quando chiudere gli occhi alla violazione di cotesta regola. Mentre ferveva la gran lotta della Legge d’Esclusione, molti giornali lasciaronsi stampare; cioè le _Notizie Protestanti_, _Notizie correnti_, _Notizie domestiche_, _le Nuove Vere_, _il Mercurio di Londra_.[166] Nessuno di questi giornali pubblicavasi più di due volte la settimana; nessuno aveva formato maggiore d’un piccolo foglio. La materia che in ciascuno di essi contenevasi nello spazio d’un anno, non era maggiore di quella che spesso si trova in due soli numeri del _Times_. Dopo la sconfitta de’ Whig, il Re non si vide più astretto ad essere indulgente nell’usare quella che, secondo la sentenza de’ giudici, era sua prerogativa. Verso la fine del suo regno, nessun giornale poteva stamparsi senza la regia licenza; la quale era stata esclusivamente accordata alla Gazzetta di Londra. Questa vedeva la luce il lunedì e il giovedì d’ogni settimana, e generalmente conteneva un proclama reale, due o tre indirizzi di Tory, l’annunzio di due o tre promozioni, la relazione d’una scaramuccia tra le truppe imperiali e i Giannizzeri lungo il Danubio, la descrizione d’un ladrone, l’annunzio d’un gran combattimento di galli fra due persone d’onore, e la notizia d’un premio da darsi a chi avesse trovato un cane smarrito. Tutte queste cose contenevansi in due pagine di modico formato. Le comunicazioni concernenti soggetti di gravissimo momento, facevansi in istile secco e di mera forma. Alcuna volta, trovandosi il Governo inchinevole a satisfare la curiosità pubblica rispetto a qualche importante negozio, facevasi un supplemento a stampa distinta, che conteneva più minuti particolari di quelli che si trovassero nella Gazzetta: ma nè questa, nè il supplemento stampato per ordine del Governo, rivelavano se non le cose che la Corte avesse trovato convenevole pubblicare. Le discussioni parlamentari, i processi di Stato di maggiore importanza, de’ quali faccia ricordo la nostra storia, erano passati sotto profondo silenzio.[167] Nella metropoli, le botteghe da caffè in qualche modo tenevano luogo di giornali. Ivi i cittadini affollavansi come gli antichi Ateniesi al mercato, per sapere che cosa ci fosse di nuovo. Ivi potevasi sapere con quanta brutalità fosse stato trattato un Whig il giorno precedente in Westminster Hall; quali orribili racconti facessero le lettere d’Edimburgo intorno alle torture inflitte ai Convenzionisti; quali enormi inganni avesse fatto l’ammiragliato alla Corona nello approvvigionare la flotta; e quali gravi accuse il Lord del Sigillo Privato avesse intentate contro la Tesoreria per la imposta sui fuochi. XLII. Ma coloro che vivevano assai discosti dal gran teatro delle contese politiche, potevano soltanto per mezzo delle lettere aver notizia di ciò che ivi accadeva. Formare tali lettere era diventato un mestiere in Londra, come è ai dì nostri fra i naturali dell’India. Lo scrittore di nuove girovagava di Caffè in Caffè, raccogliendo le dicerie; penetrava in Old Bailey a udirvi le discussioni, tutte le volte che c’era un processo interessante; anzi otteneva forse accesso alla galleria di Whitehall, e riferiva il contegno del Re e del duca. In tal guisa raccoglieva notizie per le epistole settimanali, destinate a istruire qualche città di Contea, o qualche banco di magistrali rurali. Erano queste le fonti da cui gli abitatori delle più grosse città di provincia, e i gentiluomini e il clero, imparavano quasi tutto ciò che sapessero della storia de’ tempi loro. È d’uopo supporre che in Cambridge vi fossero altrettante persone curiose di sapere ciò che accadeva nel mondo, quante ve n’erano in ogni altro luogo del Regno, fuori di Londra. Nulladimeno, in Cambridge, per gran parte del regno di Carlo II, i Dottori di legge e i Maestri delle Arti non avevano altro mezzo regolare di sapere le nuove, tranne la Gazzetta di Londra. Infine giovaronsi de’ servigi d’uno de’ raccoglitori di notizie nella metropoli. E fu giorno memorabile quello in cui comparve sulla tavola della sola bottega da caffè che fosse in Cambridge, la prima lettera di notizie giunta da Londra.[168] Nella residenza de’ ricchi uomini di provincia, la lettera delle notizie era attesa con impazienza. Dopo arrivata, in una settimana passava per le mani di venti famiglie. Forniva agli scudieri del vicinato materia di chiacchiere per le ferie d’Ottobre, ed era ai rettori subietto di virulenti sermoni contro i Whig o i papisti. Molti di cotesti curiosi giornali potrebbero certo trovarsi, diligentemente frugando negli archivi delle vecchie famiglie. Alcuni se ne trovano nelle nostre biblioteche pubbliche; ed una serie, che forma la parte non meno pregevole de’ tesori letterarii raccolti da Sir Giacomo Mackintosh, verrà a suo luogo citata nel corso di questa opera.[169] Non è d’uopo rammentare come in allora non ci fossero giornali di provincia. Difatti, tranne nella metropoli e nelle due università, forse non v’era un solo tipografo in tutto il reame. E’ sembra che la sola stamperia la quale esistesse in Inghilterra nelle contrade settentrionali oltre il Trent, fosse in York.[170] XLIII. Non era solo per mezzo della Gazzetta di Londra che il Governo imprendesse ad apprestare al popolo istruzione delle cose politiche. Quel giornale conteneva secchi articoli di notizie senza commenti. Un altro, pubblicato sotto il patronato della Corte, conteneva commenti senza notizie. Chiamavasi l’_Osservatore_, e lo compilava un vecchio articolista Tory, di nome Ruggiero Lestrange. Costui non difettava di speditezza e di sottile ingegno; e la sua locuzione, comecchè fosse grossolana e sfigurata da un gergo basso e verboso, che allora nel domestico focolare[171] e nella taverna estimavasi spiritoso, non era privo di acume e vigore. Ma l’indole sua, feroce ed ignobile a un tempo, mostravasi in ogni tratto che gli uscisse dalla penna. Allorquando comparvero i primi numeri dell’_Osservatore_, l’acrimonia dello scrittore non era affatto indegna di scusa; imperocchè, essendo potenti i Whig, gli toccava lottare contro numerosi avversarii, la cui violenza scevra di scrupoli sembrava giustificare le rappresaglie. Ma nel 1685 ogni opposizione era stata vinta. Uno spirito generoso avrebbe abborrito dall’insultare un partito che non poteva rispondere, e dall’aggravare la miseria de’ prigioni, degli esuli e delle famiglie spogliate; ma alla malignità di Lestrange non era sacro nè il sepolcro nè il tetto della famiglia. Nell’ultimo mese del regno di Carlo II, Guglielmo Jenkyn, vecchio e illustre pastore dissenziente, il quale aveva patita crudele persecuzione, non per altro delitto che per quello di adorare Dio secondo l’usanza comunemente seguita in tutta l’Europa protestante, morì per le sevizie e le privazioni sofferte in Newgate. Lo scoppio della simpatia popolare non potè frenarsi. Il suo cadavere fu accompagnato alla tomba da un corteo di cento cinquanta carrozze. La tristezza era dipinta anche in volto ai cortigiani. Perfino lo spensierato Carlo mostrò segni di dolore. Il solo Lestrange sciorinò un cicaleccio di feroce esultanza, schernì la debolezza dei Barcamenanti,[172] che mostravano commiserazione; scrisse che il blasfemo, vecchio impostore, aveva ricevuta la meritata pena; e fece voto di guerreggiare non solo fino a morte, ma dopo morte contro tutti i Santi e martiri ridicoli.[173] Tale era lo spirito del giornale che in que’ tempi era l’oracolo del partito Tory, ed in ispecie del clero delle parrocchie. XLIV. Tanta letteratura, quanta poteva trasportarsi nella valigia postale, formava allora gran parte del nutrimento intellettuale per i teologi e i giudici di provincia. La difficoltà e la spesa di trasmettere di luogo in luogo grossi fagotti erano così grandi, che un’opera voluminosa metteva più tempo ad andare da Paternoster Row alle Contee di Devon o di Lancaster, che oggidì non impiega ad arrivare a Kentucky. Quanto pochi libri, anche i più necessarii agli studi teologici, possedesse un parroco rurale, è stato già notato. Le case de’ gentiluomini non ne erano meglio provvedute. Pochi cavalieri della Contea avevano biblioteche che si potessero agguagliare a quelle che ora comunemente si trovano nel salotto d’un servitore, o nella retrostanza del padrone d’una piccola bottega. Uno scudiere veniva riputato dai suoi vicini per un gran dotto, se l’Hudibras, o la Cronaca di Barber, o gli Scherzi di Tarlton, o i Sette Campioni della Cristianità, trovavansi nella sua sala fra mezzo alle canne da pescare, agli arnesi da caccia. In allora, nè anche nella capitale esistevano biblioteche circolanti; ma nella capitale, quegli studenti che non potevano molto spendere, avevano un compenso. Le botteghe de’ grandi librai presso il Cimitero di San Paolo, erano quotidianamente e per tutta la giornata affollate di lettori; e ad ogni avventore conosciuto, spesso era concesso di portarsi a casa qualche volume. In provincia non esisteva siffatta comodità; e ciascuno era costretto a comprare i libri che avesse voluto leggere.[174] XLV. La provvisione letteraria della madre e delle figlie del possidente di provincia, generalmente consisteva nel libro delle preghiere e in quello de’ conti. E a dir vero, perdevano poco a vivere nel ritiro campestre; poichè anche nelle classi più alte, e in quelle condizioni che apprestavano le maggiori agevolezze alla cultura dello intelletto, le donne inglesi di quell’età erano peggio educate di quello che siano state in qualunque altro tempo dopo il risorgimento delle lettere. In un’epoca anteriore studiavano i capolavori degli antichi. Al dì d’oggi rade volte si dànno seriamente allo studio delle lingue morte; ma conoscono familiarmente la lingua di Pascal e di Molière, quella di Dante e di Tasso, quella di Goethe e di Schiller; nè vi è stile più puro o più grazioso di quello con che le donne bene educate parlino e scrivano. Ma negli ultimi anni del diciassettesimo secolo, la cultura della mente nelle donne era quasi affatto negletta. Se una donzella aveva la più lieve tintura letteraria, veniva stimata un prodigio. Le donne d’alto lignaggio, di squisita educazione e fornite di spirito naturale, non sapevano scrivere, un rigo nella loro lingua materna senza solecismi ed errori d’ortografia, quali oggi si vergognerebbe di commettere una fanciulla cresciuta negli asili di carità.[175] La ragione di ciò potrebbe agevolmente trovarsi. Una licenza stravagante, effetto naturale della stravagante austerità, era venuta in voga; e la licenza aveva prodotto il suo naturale effetto, vale a dire la degradazione morale e intellettuale delle donne. Nacque il costume di rendere rozzi ed impudenti omaggi alla beltà della persona; ma l’ammirazione e il desio che esse ispiravano, di rado era accompagnato dal rispetto, dall’affezione, o da qualsivoglia altro sentimento cavalleresco. Que’ pregi che le rendono atte ad essere compagne, consigliere e fide amiche, ripugnavano, anzichè piacere, ai libertini di Whitehall. In quella Corte, una dama che si fosse vestita in modo da non ascondere la bianchezza del petto, che avesse lanciato sguardi espressivi, danzato con voluttà, risposto con impertinenza, che non avesse sentita vergogna a far baccano coi ciamberlani e coi capitani delle guardie, a cantare con maligna espressione versi maligni, o accomodare i vestiti d’un paggio per qualche scherzo, aveva maggior probabilità di trovare ammiratori e seguaci, d’essere più onorata nel regio favore, di ottenere un ricco e nobile marito, che non avrebbero avuta Giovanna Grey o Lucia Hutchinson. In tal guisa, la misura delle qualità della donna era necessariamente, bassa; ed era più pericoloso lo starsi sopra che sotto siffatta misura. La ignoranza o la frivolezza estrema venivano in una dama estimate meno inconvenevoli d’una lieve tintura di pedanteria. Delle troppo celebri donne i cui volti si ammirano adesso nelle pareti di Hampton Court, poche avevano costume di leggere altro di serio fuorchè gli acrostici, le satire, e le traduzioni della Clelia e del Ciro il Grande. XLVI. E’ sembra che la erudizione letteraria anche de’ gentiluomini di quel tempo, fosse meno solida e profonda di quella che avanti o dopo quella età possedessero. Lo studio delle lettere greche, per lo meno, non fioriva tra noi ai tempi di Carlo II, come aveva fiorito innanzi la guerra civile, o come fiorì dopo la Rivoluzione. Non è dubbio che vi fossero uomini dotti, ai quali era famigliare tutta la greca letteratura da Omero sino a Fozio; ma trovavansi quasi esclusivamente fra il clero delle università, ed anche quivi erano pochi e non pienamente apprezzati. In Cambridge non si riputava punto necessario che un teologo fosse in condizione di leggere il vangelo nella lingua originale.[176] Nè la faccenda procedeva altrimenti in Oxford. Allorquando, regnante Guglielmo III, Christ Church alzossi unanime a difendere l’autenticità delle Lettere di Falaride, quel gran collegio, in allora considerato come sede principale della filosofia in tutto il Regno, non potè far mostra del corredo di greco che adesso possiedono non pochi giovani in ogni grande scuola pubblica. Potrebbe di leggeri supporsi che una lingua morta, trascurata nelle università, non venisse molto studiata dagli uomini del mondo. In una età posteriore, la poesia e la eloquenza della Grecia formarono il diletto di Pitt e di Fox, di Windham e di Grenville. Ma negli ultimi anni del secolo decimosettimo, non era in Inghilterra un solo eminente uomo di Stato, che potesse gustare una pagina di Sofocle o di Platone. I cultori del latino erano in maggior numero. La lingua di Roma, a vero dire, non aveva onninamente perduto il carattere imperiale, e continuava tuttavia in molte parti d’Europa ad essere quasi indispensabile ai viaggiatori, o agl’inviati a negoziar trattati politici. Parlarla bene, quindi, era un pregio assai più comune che non è ai tempi nostri; e nè Oxford nè Cambridge difettavano di poeti, i quali nelle grandi occasioni, potessero deporre ai piedi del trono felici imitazioni dei versi con cui Virgilio ed Ovidio avevano celebrata la grandezza d’Augusto. XLVII. Non ostante, anche la lingua latina cedeva il posto ad una rivale più giovane. La Francia godeva in quel tempo quasi ogni specie di predominio. La sua gloria militare era pervenuta alla maggiore altezza; perocchè le armi francesi avevano vinte quelle di molti altri popoli insieme collegati. Essa aveva dettato trattati, soggiogate grandi città e provincie, costretto l’orgoglio castigliano a cederle la precedenza, imposto ai principi italiani di prostrarsi ai suoi piedi. L’autorità sua era suprema in ogni ramo di vivere civile, dal duello fino al minuetto. Essa insegnava in che modo dovesse esser fatto il vestito, quanto lunga la parrucca, se i tacchi avessero ad essere alti o bassi, o se largo o stretto il nastro del cappello d’un gentiluomo. In letteratura dettava legge al mondo: la fama de’ suoi grandi scrittori riempiva l’Europa. Nessun altro paese poteva gloriarsi d’un poeta tragico pari a Racine, d’un poeta comico pari a Molière, d’un favolista gajo come la Fontaine, d’un oratore che avesse il magistero di Bossuet. La gloria letteraria d’Italia e di Spagna era tramontata; quella di Germania non era ancor sorta. Per la qual cosa, il genio degl’incliti uomini che adornavano Parigi, splendeva d’una luce che era resa maggiore dal contrasto. E veramente, la Francia in quel tempo esercitava tale un predominio sopra l’umanità, cui nè anche i Romani pervennero mai. Imperciocchè, mentre Roma era regina del mondo, nelle arti e nelle lettere era l’umile discepola della Grecia. La Francia aveva sopra le circostanti nazioni ad un’ora la supremazia che Roma ebbe sopra la Grecia, e quella che la Grecia ebbe sopra Roma. La lingua francese andava facendosi l’idioma universale, l’idioma delle classi culte e della diplomazia. In parecchie Corti, i principi e i nobili lo parlavano con maggior cura e grazia, che non parlassero la propria lingua. Nella nostra isola, questa servilità era minore di quel che fosse nel Continente. L’essere imitatori non annoveravasi nè fra le buone nè fra le cattive qualità nostre. Nulladimeno, anche in Inghilterra si rendeva omaggio, con poca destrezza, a dir vero, e di mala voglia, alla supremazia letteraria de’ nostri vicini. L’armoniosa favella toscana, cotanto famigliare ai gentiluomini ed alle dame della Corte d’Elisabetta, cadde in dispregio. Se un gentiluomo citava Orazio o Terenzio, veniva considerato nelle culte brigate come un pedante vanitoso. Ma imperlare di frasi francesi il discorso, era il migliore argomento che potesse offrirsi del proprio merito.[177] Nuove regole di critica, nuovi modelli di stile vennero in voga. L’affettata ingenuità che aveva deformati i versi di Donne, ed era stata una menda in quelli di Cowley, scomparve dalla nostra poesia. La prosa divenne meno maestosa, tessuta con minore artificio, e meno armonica che non era quella de’ precedenti tempi; ma più lucida, più facile e meglio adatta alla controversia ed alla narrazione. In tali mutamenti è impossibile non riconoscere la influenza de’ precetti e degli esempii francesi. I grandi maestri della lingua nostra, ne’ loro più dignitosi componimenti, affettavano d’usare vocaboli francesi, là dove era agevole trovarne inglesi egualmente significativi ed armoniosi;[178] e dalla Francia venne fra noi la tragedia in versi rimati: pianta esotica, che nel nostro suolo languì e tostamente si spense. XLVIII. Sarebbe stata buona ventura se i nostri scrittori avessero imitato il decoro, che, tranne pochi esempi, serbavano sempre i loro grandi contemporanei francesi: imperocchè la immoralità delle produzioni drammatiche, satiriche e liriche, e delle novelle di quell’età fra noi, ha impressa una profonda macchia nella nostra nazionale rinomanza. È facile cercare il vero nella sua stessa sorgente. I begli spiriti e i Puritani non erano mai stati amici; non era simpatia nessuna fra coteste due classi, come quelle che guardavano l’intero sistema della vita umana da punti di veduta differenti e sotto differente luce. Ciò che per gli uni era serio, per gli altri era obietto di scherzo. I piaceri di questi erano tormenti di quelli. Ai gravi rigoristi, perfino gl’innocenti trastulli dell’infanzia sembravano criminosi. Ai caratteri leggeri e gai, la solennità de’ fratelli zelanti forniva copiosa materia di riso. Dalla Riforma fino alla guerra civile, quasi ogni scrittore dotato di senso squisito per il bernesco, erasi talvolta giovato dell’occasione per ischernire i santocchi dai capelli lisci, parlanti col naso e piagnolosi, i quali battezzavano i loro figliuoli secondo il libro di Neemia, gemevano nell’amarezza del loro spirito alla vista di _Jack in the Green_, e reputavano cosa empia mangiare la zuppa di prugne nel giorno di Natale. Finalmente, giunse il tempo in cui gli schernitori cominciarono a mostrarsi alla lor volta malinconici. I rigidi e male accorti zelanti, dopo d’essere stati obietto di riso per due generazioni, corsero alle armi, vinsero, recaronsi in mano il governo, e con un sorriso austero sulle labbra calpestarono la caterva degli irrisori. Le ferite inflitte dalla malignità gaja e petulante, furono contraccambiate con la cupa ed implacabile malignità, particolare ai bacchettoni, che chiamano virtù il proprio rancore. I teatri vennero chiusi, i comici fustigati, la stampa posta sotto la tutela di austeri censori, le muse bandite da Oxford e Cambridge, loro luoghi prediletti. Cowley, Crashaw, Cleveland furono cacciati de’ loro uffici. Il giovane aspirante ai gradi universitarii non fu più obbligato a sapere scrivere epistole e pastorali ad imitazione di Ovidio e di Virgilio, ma veniva rigorosamente interrogato da un sinodo di Supralapsarii[179] intorno al giorno e all’ora in cui egli sperimentò il nascimento alla nuova vita. Tale sistema era molto proficuo agl’ipocriti. Sotto umile manto ed austere sembianze, s’era tenuta per vari anni nascosta la intensa brama di licenza e di vendetta; brama che alla perfine potè sfogarsi. La Restaurazione emancipò migliaia di animi da un giogo diventato intollerabile. Il vecchio conflitto si riaccese, ma con nuovo odio e furore: adesso non era più lotta da scherno, ma combattimento a morte. Le Teste–Rotonde, da quelli che erano stati da loro perseguitati, non potevano aspettarsi sorte migliore di quella che un crudele custode di schiavi possa aspettarsi dagli schiavi insorti, i quali tuttavia portano i segni del collare e dello staffile. La pugna tra lo spirito e il puritanismo, tosto diventò guerra tra lo spirito e la moralità. L’ostilità, suscitata da una caricatura grottesca della virtù, non risparmiava la virtù stessa. Le cose che l’uomo appartenente alla classe delle Teste–Rotonde aveva trattate con riverenza, venivano fatte segno allo insulto, e favoreggiate le già proscritte. E perchè quegli era stato scrupoloso rispetto alle inezie, ogni scrupolo era posto in derisione: perchè quegli aveva coperti i propri falli con la maschera della bacchettoneria, ciascuno studiavasi di mostrare con cinica impudenza i propri vizi più scandalosi agli occhi del pubblico: perchè quegli aveva punito lo amore illecito con barbara severità, la purità delle vergini e la fedeltà delle spose erano considerate come cose da scherno. A quel gergo da santocchi, che era il suo _Shibboleth_,[180] opponevasi un altro gergo non meno assurdo e molto più odioso. E siccome egli non apriva mai le labbra se non per profferire frasi scritturali, la nuova genia de’ begli spiriti ed egregi gentiluomini non aprivano le loro senza vomitare oscenità tali, che oggi farebbero vergognare un facchino, e senza invocare l’Eterno a maledirli, sprofondarli, confonderli, sperderli e dannarli. Non è, dunque, cosa strana che la nostra amena letteratura, quando risorse al risorgere della nostra vecchia politica ecclesiastica e civile, fosse profondamente immorale. Pochi uomini eminenti, che appartenevano ad una età anteriore e migliore, serbaronsi esenti dall’universale contagio. I versi di Waller spiravano tuttavia i sentimenti che avevano animata una generazione più cavalleresca. Cowley, predistinto come uomo leale e letterato, alzava animosamente la voce contro la immoralità che deturpava le lettere e la lealtà. Un poeta di più potente ingegno meditava, indisturbato dall’osceno tumulto che circondavalo, un canto così sublime e santo, che non sarebbe stato sconvenevole sulle labbra di quelle Virtù eteree, ch’egli contemplava con quell’occhio interno che non può essere spento da calamità alcuna, gettanti sul pavimento di diaspro le loro corone d’amaranto e d’oro. Il vigoroso e fecondo genio di Butler, se non potè al tutto tenersi libero dalla infezione predominante, contrasse il male in forma più mite. Ma cotesti erano uomini, gl’intelletti de’ quali erano stati educati in un mondo già passato; e dopo non molto tempo avevano ceduto il luogo a una generazione di più giovani ingegni; della quale, da Dryden fino a Durfey, era nota caratteristica una licenza cruda, impudente, vanitosa, e ad un tempo priva d’umanità e d’eleganza. La influenza di tali scrittori era, senza verun dubbio, nociva: nonostante, lo sarebbe stata meno se essi fossero stati meno corrotti. Il veleno che amministravano era sì forte, che dopo non lungo tempo venne come stomachevole aborrito. Nessuno di loro intendeva l’arte pericolosa di congiungere le immagini di piaceri illegittimi con tutto ciò che v’ha di caro e di nobile; nessuno di loro accorgevasi che un certo decoro è essenziale alla voluttà stessa, che la veste è più seducente della nudità, e che la immaginazione può essere più potentemente mossa da delicate deduzioni, le quali la spingano ad operare, che dalle grossolane descrizioni che la rendano passiva. Lo spirito della reazione antipuritana informa quasi tutta l’amena letteratura del regno di Carlo II. Ma la quintessenza di quello spirito è da trovarsi nel dramma comico. I teatri, già chiusi mentre i fanatici faccendieri dominavano, furono ripopolati di spettatori, ai quali offerivano nuove e più potenti attrattive. Le decorazioni sceniche e i vestiarii, che adesso si reputerebbero triviali ed assurdi, ma che sarebbero stati stimati incredibilmente magnifici da coloro che ne’ primi anni del secolo decimosettimo sedevano sopra le sudice panche del teatro Hope, o sotto il tetto impagliato del _Rose_, abbagliavano gli occhi della moltitudine. Il fascino del bel sesso accresceva quello dell’arte; e il giovane spettatore mirava con emozioni ignote ai coetanei di Shakespeare e di Johnson, amabilissime donne rappresentare le parti di tenere e gaie eroine. Dal dì in cui i teatri furono riaperti, diventarono scuole di vizi: e il male andavasi propagando da sè. La immoralità delle rappresentazioni tosto fece allontanare le genti morigerate; mentre le frivole e dissolute che vi rimasero, chiedevano ogni anno stimoli sempre più forti. Così gli artisti corrompevano gli spettatori, e gli spettatori gli artisti; finchè le turpitudini del dramma divennero tali, da rendere attonito chiunque non si accorga che la estrema rilassatezza è lo effetto naturale della restrizione estrema, e che ad una età d’ipocrisia, secondo la ordinaria vicenda delle cose umane, tiene dietro una età d’impudenza. Nulla esprime tanto l’indole de’ tempi, quanto la cura che si dànno i poeti a porre sulle labbra delle donne i loro versi più licenziosi. I componimenti dove più regnava la licenza, erano gli epiloghi, i quali venivano quasi sempre recitati dalle più favorite attrici; e nulla al depravato uditorio piaceva come il vedere una bella fanciulla, che supponevasi non avere per anche perduto il fiore della innocenza, recitare versi grossolanamente indecenti.[181] Il nostro teatro in que’ tempi andava debitore di molti intrecci e caratteri alla Spagna, alla Francia e ai vecchi scrittori inglesi: ma qualunque soggetto i nostri drammaturgi toccassero, lo deturpavano. Nelle loro imitazioni, le case de’ robusti ed animosi gentiluomini castigliani immaginate da Calderon, diventavano porcili di vizio, la Viola di Shakespeare una mezzana, il Misantropo di Molière un rapitore di donne, e l’Agnese del medesimo un’adultera. Ogni cosa, per quanto fosse pura o eroica, diveniva corrotta ed ignobile, passando in quegl’ignobili e corrotti cervelli. Tali erano le condizioni del dramma, il quale, tra le produzioni della amena letteratura, era quella da cui il poeta aveva maggiore probabilità di guadagnare da vivere. La vendita dei libri era così poca, che un ingegno di grandissima fama poteva sperare una scarsa ricompensa dalla proprietà letteraria della miglior produzione. Non vi può esser esempio più convincente, della sorte delle Favole di Dryden, che furono l’ultima delle sue opere. Questo volume vide la luce allorquando egli veniva universalmente stimato come il maggiore de’ poeti inglesi viventi. Contiene circa dodici mila versi. La verseggiatura è maravigliosa; pieni di vita i racconti e le descrizioni. Fino ai nostri giorni, Palamone ed Arcita, Cimone ed Ifigenia, Teodoro ed Onoria formano il diletto de’ critici e degli scolari. La raccolta contiene anche il Festino d’Alessandro, che è la più bella ode della nostra lingua. Perchè cedesse la proprietà letteraria, Dryden ricevè duecento cinquanta lire sterline; somma minore di quella con che ai dì nostri talvolta sono stati pagati due soli articoli da giornale.[182] Nè sembra che ciò fosse un cattivo negozio; imperocchè assai lenta fu la vendita del libro, sì che non fu necessario farne una seconda edizione, se non dieci anni dopo che il poeta giaceva dentro il sepolcro. Scrivendo per la scena, era possibile avere maggiori guadagni con molto minore fatica. A Southern, un solo dramma fruttò settecento lire sterline.[183] Otway, dalla mendicità alzossi ad agiatezza temporanea, per il prospero successo del suo Don Carlos.[184] Shadwell guadagnò cento trenta sterline in una sola rappresentazione dello Scudiero d’Alsazia.[185] Per la qual cosa, chiunque aveva mestieri di procacciarsi da vivere col lavoro dell’ingegno, scriveva drammi, quand’anche la natura non gli avesse data attitudine all’arte. Tale fu il caso di Dryden. Come poeta satirico rivaleggia con Giovenale. Nella poesia didascalica, scrivendo con cura e meditazione, avrebbe forse contesa la palma a Lucrezio. Tra i poeti lirici, ove non voglia reputarsi il più sublime, è il più brillante ed animato. Ma la natura, che gli era stata di molte altre insigni doti larghissima, gli aveva negato lo ingegno drammatico. Nondimeno, egli consumò tutta l’energia de’ suoi anni migliori a scrivere drammi. Aveva sì retto giudizio da accorgersi che difettava della facoltà di dipingere i caratteri per mezzo del dialogo. Ei fece ogni sforzo per nascondere tale difetto, ora con inattesi e piacevoli incidenti, ora con la vigorosa declamazione, talvolta coll’armonia del numero, tal’altra con la licenza bene in accordo col gusto d’una profana e licenziosa platea. Ma non ottenne mai buon successo teatrale, simile a quello onde erano rimeritati i lavori di alcuni scrittori per ingegno a lui di gran lunga inferiori. Stimavasi fortunato qualora un dramma gli fruttava cento ghinee; scarsa rimunerazione, e nulladimeno manifestamente maggiore di quella che avrebbe potuto conseguire impiegando in altro genere di scrivere eguale fatica.[186] La ricompensa che gl’ingegni di quell’età potevano ottenere dal pubblico, era tanto lieve, che trovavansi nella necessità di accrescere le loro entrate levando, dirò così, contribuzioni sopra i grandi. Ciascun signore ricco e di buon cuore veniva con tanta ostinazione e con tante abiette lusinghe importunato dagli scrittori mendichi, che ai tempi nostri parrebbe incredibile. Colui al quale venisse dedicata un’opera, era in debito di ricompensare lo scrittore con una borsa piena d’oro. La somma che fruttava la dedica d’un libro spesso era assai maggiore di quella che ne avrebbe data lo editore per il diritto di stampa. Per la qual cosa, i libri spesso pubblicavansi solo col fine di farne una dedica. Questo traffico di laudi produceva lo effetto che era da aspettarsene. L’adulazione spinta talvolta allo sproposito, tal’altra all’empietà, non stimavasi che infamasse il poeta. La indipendenza, la veracità, il rispetto di sè, non erano cose che da lui esigesse il mondo. A dir vero, per moralità egli era qualche cosa tra il lenone e il mendicante. Agli altri vizi che invilivano il carattere del letterato, si aggiunse, verso la fine del regno di Carlo II, la più feroce intemperanza dello spirito di parte. I begli ingegni, come classe, erano stati spinti dal loro vecchio odio del puritanismo verso il partito della Corte, ed avevano trovato utili alleati. Dryden, in specie, aveva resi buoni servigi al Governo. Il suo Assalonne ed Achitofel, grandissima tra le satire de’ tempi moderni, aveva stupefatta la città; con velocità senza esempio s’era aperta la via fino ai distretti rurali; e dovunque erasi mostrata, aveva dato molestia agli esclusionisti e accresciuto il coraggio de’ Tory. Ma fra mezzo all’alta ammirazione che naturalmente c’ispira la squisitezza della dizione e del verso, non dobbiamo dimenticare la gran distinzione del bene e del male. Lo spirito del quale Dryden e parecchi de’ suoi consorti in quel tempo erano animati, deve meritamente chiamarsi diabolico. I giudici e gli sceriffi servili di quegl’infausti giorni, non potevano spargere il sangue con la speditezza inculcata clamorosamente dai poeti. Un richiedere nuove vittime, un odioso scherzare sugl’impiccamenti, acri motteggi intorno a coloro i quali, fidi al Re nell’ora del pericolo, lo consigliavano poscia di mostrarsi compassionevole e generoso co’ suoi vinti nemici; e perchè nulla mancasse alla colpa e alla vergogna, cotesti infami scritti venivano recitati dalle donne, le quali, ammaestrate da lungo tempo a bandire ogni modestia, erano ora ammaestrate a bandire ogni compassione.[187] XLIX. È cosa degna di nota, come, mentre l’amena letteratura in Inghilterra in tal modo era di nocumento e d’infamia alla nazione, il genio inglese nelle scienze compisse una rivoluzione che, sino alla fine de’ secoli, verrà posta tra le opere più grandi dell’umano intelletto. Bacone aveva posta la buona sementa in un terreno tardo e in una stagione non opportuna. Non ne aveva sperato così presto il ricolto, e nel suo supremo testamento aveva solennemente legata la sua fama alla età susseguente. Pel corso d’una intera generazione, la sua filosofia, fra mezzo ai tumulti, alle guerre, alle proscrizioni, si era lentamente venuta maturando in poche menti ben formate. Mentre le fazioni lottavano per predominare nello Stato, un drappello di uomini saggi, con benevolo sdegno, erasi scostato dal conflitto, consacrandosi alla egregia impresa di slargare il dominio dell’uomo sopra la materia. Appena tornata la pubblica quiete, a quei maestri fu agevole trovare attenti uditori; imperocchè la disciplina per la quale la nazione era passata, aveva talmente contemperata la mente del popolo da potere ricevere le dottrine del Verulamio. Le perturbazioni civili avevano incitate le facoltà della gente educata, ed avevano ingenerata una irrequieta attività e una curiosità insaziabile, quale ne’ tempi anteriori non s’era mai veduta fra noi. Nulladimeno, lo effetto di quelle perturbazioni fu, che i disegni di riforma religiosa e politica venissero generalmente considerati con sospetto e dispregio. Per lo spazio di venti anni, l’occupazione precipua delle menti savie ed operose era stata quella di foggiare costituzioni con primi magistrati, senza primi magistrati, con senati ereditarii, con senati tirati a sorte, con senati annui, con senati perpetui. In simili disegni di governo non omettevasi nulla. Tutti i particolari, tutte le nomenclature, tutto il ceremoniale del governo immaginario vi erano pienamente notati; Polemarchi, Filarchi, Tribù, Galassie, Lord Arconte, e Lord Stratigoto: quali urne per raccogliere i voti dovessero essere verdi, e quali rosse: quali palle dovessero essere d’oro, e quali d’argento: quali magistrati dovessero portare cappelli, e quali berretti appuntati di velluto nero: in che modo dovesse portarsi la mazza, e quando dovessero gli araldi scoprirsi la testa. Queste e simiglianti altre inezie venivano con gravità esaminate ed ordinate da uomini di non comune intelligenza e dottrina.[188] Ma la stagione di cotali visioni era finita; e se qualche fervido repubblicano seguitava tuttavia a trastullarsene, il timore del pubblico scherno e d’un processo criminale, generalmente, lo induceva a sottrarre agli sguardi altrui le proprie fantasticherie. Ora, ella era cosa impopolare e pericolosa mormorare una sola parola contro le leggi fondamentali della Monarchia; ma gli uomini audaci ed ingegnosi potevano compensarsi trattando con isdegno quelle che poco innanzi erano considerate leggi fondamentali di natura. Il torrente ch’era stato condannato a scorrere per il suo antico alveo, si gettò furiosamente in un altro. Lo spirito rivoluzionario, cessando d’agire nella politica, cominciò ad esercitarsi con insolito vigore ed ardire in ogni ramo di scienze fisiche. L’anno 1660, l’èra del ristabilimento della vecchia costituzione, è anche l’èra da cui data lo innalzarsi della nuova filosofia. In quell’anno cominciò ad esistere la Società Reale, destinata ad essere agente principale in una lunga serie di gloriose e salutari riforme.[189] In pochi mesi, la scienza sperimentale divenne grandemente in voga. La trasfusione del sangue, la ponderazione dell’aria, la fissazione del mercurio, nelle menti del pubblico occuparono quel luogo che già vi tenevano le controversie della Rota. I sogni delle forme perfette di governo, cessero ai sogni delle ale con cui gli uomini dovevano volare dalla Torre all’Abbadia, e delle navi a doppia carena, che non dovevano mai affondare nella più furiosa procella. Gli uomini d’ogni classe vennero trascinati dalle idee predominanti. Cavalieri e Teste–Rotonde, Ecclesiastici e Puritani, per questa volta, collegaronsi. Teologi, giuristi, uomini di Stato, nobili, principi, magnificavano i trionfi della filosofia di Bacone. I poeti, gareggiando d’entusiasmo, cantavano lo avvicinarsi dell’età d’oro. Cowley, con versi pregni di pensiero e splendidi di brio, spingeva la eletta sementa a prender possesso della terra promessa irrigata di latte e di miele; di quella terra che il grande liberatore e legislatore aveva veduta come dalla cima di Pisgah, senza che gli fosse stato concesso d’ entrarvi.[190] Dryden, con più zelo che scienza, congiunse la sua voce al grido universale, e predisse cose che nè egli nè altri intendeva. Vaticinò che la Società Reale ci avrebbe tra breve condotti ai confini del mondo, dove ci avrebbe dilettati con un più bello spettacolo della luna.[191] Due esperti ed aspiranti prelati, Ward Vescovo di Salisbury e Wilkins Vescovo di Chester, predistinguevansi fra i capi del movimento; la storia del quale fu eloquentemente scritta da un più giovane teologo, che veniva splendidamente innalzandosi nella propria professione: voglio dire da Tommaso Sprat, poi fatto Vescovo di Rochester. Il giudice Hale e il Lord Cancelliere Guildford toglievano qualche ora alle faccende delle loro corti per iscrivere intorno all’idrostatica. E veramente, per cura di Guildford furono costruiti i primi barometri che fossero posti in vendita a Londra.[192] La chimica per un certo tempo divideva col vino e con l’amore, col teatro e col giuoco, con gl’intrighi del cortigiano e gl’intrighi del demagogo, l’attenzione del volubile Buckingham. Rupert è in voce di avere inventata la incisione così detta a mezza tinta; e porta il suo nome quella curiosa bolla di vetro che per lungo tempo ha formato il trastullo de’ bambini, e la disperazione de’ filosofi. Lo stesso Carlo aveva un laboratorio in Whitehall, e mostravasi in esso più attento ed operoso di quel che fosse in Consiglio. Era quasi necessario al carattere d’un compito gentiluomo il saper dire qualche cosa intorno alla macchina pneumatica e ai telescopi; ed anche le leggiadre dame, di quando in quando, credevano convenevole mostrare gusto per la scienza, recavansi in carrozza verso le sei a visitare le curiosità di Gresham, e mandavano gridi di gioia vedendo che la calamità veramente attraesse un ago, e che un microscopio facesse davvero apparire una mosca grande quanto un uccello.[193] In questo, al pari d’ogni altro moto della mente umana, era senza dubbio alcuna cosa che avrebbe mosso a riso. È legge universale che qualsivoglia fatica o dottrina viene in voga, perda in parte quel pregio in che era tenuta mentre stavasi nelle mani di pochi uomini gravi, ed era amata per sè stessa. Egli è vero che le stoltezze di taluni, i quali senza vera attitudine per la scienza mostravansene appassionati, fornivano materia di spregio e sollazzo a pochi satirici maligni, appartenenti alla precedente generazione, i quali non inchinavano a disimparare ciò che in gioventù avevano imparato.[194] Ma non è meno vero che la grande opera d’interpretare la natura, venne eseguita dagli Inglesi d’allora come non era avanti mai stata in nessuna età e nazione. Lo spirito di Francesco Bacone era vasto, e maravigliosamente contemperato d’audacia e di sobrietà. Gli uomini erano fortemente persuasi che tutto il mondo fosse pieno di secreti di grave momento alla felicità umana, e che dal Supremo Fattore fosse stata affidata all’uomo la chiave, che, bene adoperata, avrebbe schiusa la via per giungere a quelli. Regnava in quel tempo la convinzione, che nelle scienze fisiche fosse impossibile pervenire alla cognizione delle leggi generali, tranne osservando accuratamente i fatti. Stabilmente fermi in tali grandi verità, i professori della nuova filosofia si dettero all’opera; e in meno di venticinque anni, avevano dato ampi risultamenti delle proprie lucubrazioni. Nuovi vegetabili furono coltivati, nuovi strumenti agricoli adoperati, e nuovi modi di concimare i terreni.[195] Evelyn, con formale sanzione della Società Reale, aveva dati avvertimenti ai suoi concittadini intorno alle piantagioni. Temple, nelle sue ore d’ozio, aveva fatti nuovi esperimenti nell’orticoltura, e provato che molti frutti delicati, indigeni in climi migliori, si sarebbero potuti, coll’aiuto dell’arte, ottenere anche nel suolo inglese. La medicina, che in Francia seguitava a rimanere in abietta schiavitù, ed apprestava a Molière inesauribile materia di giusto scherno, era divenuta in Inghilterra scienza sperimentale e progressiva, ed ogni giorno, sfidando Ippocrate e Galeno, faceva sempre più un nuovo passo. L’attenzione dei pensatori per la prima volta si diresse all’importante subietto della polizia sanitaria. La rinomata pestilenza del 1665 gl’indusse a considerare seriamente i difetti dei fabbricati, delle fogne, e della ventilazione della metropoli. Il grande incendio del 1666 offerse il destro di eseguire miglioramenti vastissimi. La faccenda fu diligentemente esaminata dalla Società Reale; ai consigli della quale è d’uopo attribuire in gran parte le mutazioni, che, quantunque non fossero tali da rispondere ai bisogni della pubblica utilità, resero la nuova Londra differentissima dall’antica, e forse impedirono per sempre lo infuriare della peste nel nostro paese.[196] In quel medesimo tempo, uno de’ fondatori della predetta società, Sir Guglielmo Petty, creò la scienza dell’aritmetica politica; umile ma indispensabile ancella della politica filosofia. Nessuna parte del regno della natura rimase inesplorata. A quegli anni appartengono le scoperte chimiche di Boyle, e le prime ricerche botaniche di Sloane. E’ fu allora che Ray fece una nuova classificazione degli uccelli e de’ pesci, Woodward rivolse la propria attenzione ai fossili ed alle conchiglie. I fantasmi dell’errore che ne’ secoli tenebrosi avevano ingombrato la terra, l’uno dietro l’altro, disparvero dinanzi alla nuova luce. L’astrologia e l’alchimia diventarono obietto di trastullo. Poco dopo, non v’era contea in cui qualche collegio di giudici non ridesse sprezzantemente sempre che una vecchia strega veniva tratta al tribunale, accusata di aver cavalcato sul manico della granata, o avere prodotta la pestilenza nell’armento. Ma in quei nobili e assai ardui rami della scienza, ne’ quali la induzione e la dimostrazione matematica cooperano alla scoperta del vero, il genio inglese a que’ tempi riportò i più memorandi trionfi. Giovanni Wallis elevò sopra nuove fondamenta lo intero sistema della statica. Edmondo Halley investigò le proprietà dell’atmosfera, il flusso e riflusso del mare, le leggi del magnetismo, e il corso delle comete; nè dal culto della scienza lo distolsero travagli, pericoli ed esilio. Mentre egli, sopra le rocce di Santa Elena, faceva la carta delle costellazioni dello emisfero meridionale, il nostro nazionale osservatorio sorgeva in Greenwich; e Giovanni Flamsteed, che fu il primo astronomo regio, cominciava quella lunga serie d’osservazioni, che non è ricordata mai senza rispetto e gratitudine in qualsiasi parte del mondo. Ma la gloria di cotesti uomini, comunque eminenti, è oscurata dallo immenso splendore d’un nome immortale. Nella mente d’Isacco Newton trovavansi congiunte, come non lo erano mai state in mente d’uomo, due specie di potenza intellettiva che hanno poco di comune tra loro, e che non si trovano spesso insieme con pari vigore, ma nondimeno sono egualmente necessarie ne’ rami più sublimi delle scienze fisiche. Vi saranno forse stati intelletti pari al suo ben formati a coltivare le matematiche pure, o le scienze puramente sperimentali; ma in nessun altro intelletto la facoltà dimostrativa e la induttiva coesistettero in simile suprema eccellenza e perfetta armonia. Forse in una età in cui fossero in voga gli Scotisti e i Tomisti, anche la sua mente sarebbe corsa a rovina, siccome avvenne a molte altre menti solo inferiori a quella di lui. Avventuratamente, lo spirito del tempo in cui gli toccò di vivere, pose nel diritto cammino il suo ingegno, il quale con ingente forza reagì sopra lo spirito del tempo. Nel 1685 la sua fama, comecchè splendida, era in sull’alba; ma il suo genio era pervenuto al meriggio. La sua grande opera, quell’opera che produsse un rivolgimento nelle provincie più importanti della filosofia naturale, era compiuta, ma non ancora pubblicata, e stava per essere sottoposta allo esame della Società Reale. L. Non è facile trovare il perchè la nazione, la quale nelle scienze era proceduta tanto innanzi alle nazioni vicine, nelle arti belle stesse loro tanto addietro. Nondimanco, tale fu il fatto. Egli è vero che in architettura, arte che è mezza scienza, arte in cui solo può inalzarsi un profondo geometra, arte che non ha altra norma di gusto tranne quella che direttamente o indirettamente dipende dall’utilità, arte le cui creazioni derivano, almeno in parte, la maestà loro dalla semplice massa, il paese nostro poteva gloriarsi d’un uomo veramente grande: voglio dire di Cristoforo Wren; al quale lo incendio onde Londra era stata ridotta a un mucchio di rovine, aveva pôrta occasione fino allora senza esempio nella storia moderna, di spiegare l’ali dello ingegno. Come quasi tutti i suoi contemporanei, egli non poteva emulare e forse sentire il vero pregio dell’austera bellezza del portico greco, e della buia sublimità dell’arcata gotica: ma niuno, nato al di qua delle alpi, ha imitata così felicemente la magnificenza de’ bei tempii della Italia. Perfino il superbo Luigi non ha lasciata alla posterità opera alcuna che possa agguagliarsi alla chiesa di San Paolo. Ma alla fine del regno di Carlo II, non v’era un solo pittore o scultore inglese di cui oggidì si ricordi il nome. Tale sterilità ha un certo che di mistero; perocchè i dipintori e gli scultori non erano punto tenuti in dispregio o male rimunerati. La loro posizione sociale era, per lo meno, alta come ai dì nostri. I loro guadagni, in proporzione dell’opulenza del paese, e del modo onde venivano rimunerati gli altri lavori intellettuali, erano anche maggiori di quel che siano ai tempi presenti. La generosa protezione che accordavasi agli artisti, gli attirava a schiere ai nostri lidi. Lely, che ci ha conservati i bei ricci, le labbra tumide e i languidi occhi delle fragili beltà celebrate da Hamilton, era nativo di Westfalia. Era morto nel 1680, dopo una lunga e splendida vita, dopo d’avere ricevuto il titolo di cavaliere, ed ammassato con l’arte sua un buon patrimonio. La sua bella collezione di disegni e di pitture, dopo la sua morte, fu esposta, col permesso del Re, nella sala da pranzo in Whitehall, e venduta all’asta per la quasi incredibile somma di ventisei mila lire sterline: somma che sta in maggior proporzione al patrimonio de’ ricchi uomini di quel tempo, di quello che sarebbero cento mila sterline a’ mezzi de’ ricchi del nostro.[197] A Lely successe il suo concittadino Goffredo Kneller, il quale fu fatto prima cavaliere e poi baronetto; e dopo d’essere splendidamente vissuto, e aver perduta molta pecunia in mal fortunate speculazioni, potè tuttavia lasciare alla propria famiglia un gran patrimonio. I due Vandeveldes, olandesi, erano stati persuasi dalla liberalità inglese a stabilirsi fra noi, dove avevano dipinto i più bei quadri di marina del mondo. Simone Varelst, altro artefice olandese, dipinse leggiadri girasoli e tulipani, a prezzi fino allora non conosciuti. Il napolitano Verrio, effigiava sulle volte e per le scale Gorgoni, Muse, Ninfe, Satiri, Virtù, Vizii, Numi che libano il nettare, e Trionfi di principi. L’entrata ch’egli accumulò col frutto delle sue opere, lo pose in condizione tale, che la sua mensa era delle più sontuose. Per le sole pitture da lui eseguite a Windsor, ebbe sette mila lire sterline; somma che in allora era bastevole a satisfare i moderati desiderii d’un gentiluomo, ed eccedeva di molto quella che Dryden in quarant’anni di lavori letterarii ottenne da’ librai.[198] Luigi Laguerre, principale aiuto e successore di Verrio, venne dalla Francia. I due più celebri scultori di que’ tempi erano anche stranieri. Cibber, i cui patetici emblemi del Furore e della Malinconia adornano Bedlam, era danese. Gibbons, alla graziosa fantasia e al tocco delicato del quale molti de’ nostri palazzi, collegi e chiese, devono i loro più leggiadri lavori d’ornato, era olandese. Anche i disegni delle monete erano eseguiti da incisori francesi. A dir vero, fino al regno di Giorgio II, la patria nostra non potè gloriarsi d’un grande pittore; e Giorgio III era già sul trono, innanzi ch’essa potesse andare altera d’alcuno egregio scultore. Siamo al punto in cui termina la descrizione che siamo venuti facendo della Inghilterra, mentre era governata da Carlo II. Nulladimeno, ci rimane a toccare d’una cosa di grave momento. Non abbiamo finora fatto parola della gran massa del popolo; di coloro, cioè, che intendevano allo aratro, curavano i buoi, sudavano sopra i telai di Norwich, e squadravano le pietre di Portland per il tempio di San Paolo. Nè possiamo lungamente favellarne. La classe più numerosa è precisamente quella intorno alla quale ci rimangono scarsissime notizie. In que’ tempi, i filantropi non consideravano come debito sacro, nè i demagoghi come lucroso traffico, l’occuparsi delle sciagure dell’operaio. La istoria era sì affaccendata con le corti e coi campi di battaglia, da non serbare una sola pagina al tugurio del contadino, o alla botteguccia del manuale. La stampa adesso in un sol giorno, discute e declama intorno alle condizioni dell’operaio con più abbondanza di quanto ne fu pubblicato ne’ ventotto anni che corsero dalla Restaurazione alla Rivoluzione. Ma errerebbe grandemente chi dallo accrescersi de’ reclami, inferisse essersi accresciuta la miseria. LI. Il gran criterio della condizione del popolo basso, sta nel salario ond’è rimeritato il lavoro; e poichè quattro quinti del popolo, nel diciassettesimo secolo, erano addetti all’agricoltura, importa sopra tutto indagare qual fosse la paga dell’operaio nella industria agricola. Intorno a ciò abbiamo i mezzi di giungere a conclusioni bastevolmente esatte pel nostro proposito. Sir Guglielmo Petty, la cui semplice asserzione è di gran peso, c’insegna che non erano punto cattive le condizioni d’un lavorante qualora per una giornata di lavoro ricevesse quattro soldi col cibo, e otto senza. Quattro scellini la settimana, quindi, erano, secondo il calcolo di Petty, una buona paga per la gente agricola.[199] Che siffatto calcolo non fosse discosto dal vero, abbiamo prove in gran copia. Verso il principio del 1685, i Giudici della Contea di Warwick, nello esercizio d’una potestà affidata loro da un decreto d’Elisabetta, stabilirono, nelle loro sessioni trimestrali, un regolamento di paghe per la Contea, e notificarono che ciascun padrone che pagasse, e ciascuno operaio che ricevesse più della somma decretata, sarebbero puniti. Il salario dell’operaio agricolo ordinario da Marzo a Settembre, era precisamente lo stesso notato da Petty; val quanto dire, quattro scellini per settimana, senza cibo. Da Settembre a Marzo era di tre scellini e sei soldi.[200] Ma in quel secolo, siccome nel nostro, i guadagni del contadino differivano assai nelle differenti parti del Regno. Il salario nella Contea di Warwick rispondeva probabilmente alla media proporzionale, e nelle Contee verso il confine della Scozia era minore; ma v’erano distretti più favoriti. Nel medesimo anno 1685, un gentiluomo di Devonshire, di nome Riccardo Dunning, pubblicò un opuscolo, nel quale descrisse la condizione de’ poveri di quella Contea. Ch’egli intendesse bene la materia, non è possibile dubitare; imperocchè, pochi mesi dopo, l’opuscolo venne ristampato, e dai magistrati ragunati in Exeter nelle sessioni trimestrali fortemente raccomandato all’attenzione di tutti gli ufficiali delle parrocchie. Secondo lui, il salario del contadino della predetta Contea, era, senza il cibo, circa cinque scellini per settimana.[201] Anche migliore era la condizione del lavorante nelle vicinanze di Bury Saint Edmond. I magistrati di Suffolk adunaronsi quivi, nella primavera del 1682, per fissare la rata del salario; e deliberarono che, quando all’operaio non fosse dato da mangiare, riceverebbe cinque scellini per settimana in tempo di verno, e sei d’estate.[202] Nel 1661, i giudici in Chelmsford avevano stabilito che il salario dell’operaio d’Essex, senza cibo, fosse di sei scellini in inverno, e di sette in estate. E questa pare che fosse la paga maggiore con che si retribuisse nel Regno il lavoro degli agricoltori, nel periodo di tempo che corse dalla Restaurazione alla Rivoluzione: ed è da notarsi, che nell’anno in cui fu fatta cotesta provvisione, le cose necessarie alla vita erano oltremodo care. Il grano costava settanta scellini il sacco; prezzo che anche oggi verrebbe considerato quasi da tempi di carestia.[203] Questi fatti perfettamente concordano con un altro che sembra meritevole d’essere considerato. Ella è cosa evidente che in un paese dove niuno può essere costretto a farsi soldato, le file dell’armata non potrebbero riempirsi, se il Governo desse paga molto minore del salario che riceve un operaio rurale. Oggidì la paga d’un soldato comune, in un reggimento di linea, è di sette scellini e sette soldi per settimana. Tale stipendio, congiunto con la speranza d’una pensione, non attira in numero sufficente i giovani inglesi; ed è necessario di supplire al difetto arrolando le più povere genti di Munster e di Connaught. La paga di un soldato comune di fanteria, nel 1685, era di quattro scellini e otto soldi per settimana; e nondimeno, è certo che il Governo in quell’anno non incontrò difficoltà nessuna a raccogliere, poco tempo dopo l’annunzio, molte migliaia di reclute inglesi. La paga d’un soldato comune di fanteria nell’esercito della Repubblica era stata sette scellini per settimana; vale a dire, pari a quella d’un caporale sotto Carlo II:[204] e sette scellini per settimana s’erano trovati bastevoli a riempire le file d’uomini manifestamente superiori alla generalità del popolo. E però, nello insieme, e’ pare ragionevole conchiudere, che nel regno di Carlo II, la paga ordinaria del contadino non eccedesse quattro scellini per settimana; ma che in talune parti del reame fosse di cinque scellini, di sei scellini, e nei mesi estivi anche di sette scellini. Ai giorni nostri, un distretto dove un lavorante guadagni sette scellini per settimana, si reputa in condizioni tristissime. La media proporzionale è assai maggiore; e nelle Contee prospere, la paga settimanale degli agricoltori ascende a dodici, quattordici, ed anche sedici scellini. LII. La rimunerazione degli operai impiegati nelle manifatture, è stata sempre maggiore di quella de’ lavoratori della terra. Nell’anno 1680, un membro della Camera de’ Comuni notò come le grosse paghe che si davano in Inghilterra, rendessero impossibile la concorrenza de’ nostri tessuti coi prodotti de’ telai indiani. Un mestierante inglese, invece di tormentarsi al pari d’un uomo di Bengal per una moneta di rame, voleva uno scellino per giorno.[205] Esiste un’altra testimonianza che prova, uno scellino per giorno essere stata la paga la quale un manifattore inglese allora si credesse in diritto di chiedere: ma spesso era costretto di lavorare a minor prezzo. La plebe di quell’età non aveva costume di radunarsi per discutere, udire arringhe, o far petizioni al Parlamento. Non v’era giornale che perorasse la causa di quella. Manifestava in rozze rime l’amore, l’odio, l’esultanza, la sciagura. Gran parte della sua storia può solo impararsi nelle ballate. Una delle più notabili poesie popolari che nel tempo di Carlo II cantavasi per le vie di Norwich e di Leeds, può tuttavia leggersi nel suo originale. È il grido veemente ed acre del lavoro contro il capitale. Descrive il vecchio buon tempo, allorquando ogni artigiano impiegato nell’opera della lana viveva al pari d’un fattore. Ma quel tempo era passato; e un povero uomo rompendosi per un intero giorno le braccia al telaio, poteva guadagnare solo sei soldi; e muovendo lamento di non poter vivere con sì misera paga, gli veniva risposto ch’era libero di prenderla o lasciarla. Per una così magra ricompensa, i produttori della ricchezza erano costretti ad affannarsi, alzandosi presto e coricandosi tardi; mentre il padrone, mangiando, bevendo ed oziando, arricchivasi con le fatiche loro. Uno scellino per giorno—dice il poeta—sarebbe la paga del tessitore, se gli fosse resa giustizia.[206] Ci è dato quindi concludere, che negli anni che precessero la Rivoluzione, un lavorante impiegato nelle grandi manifatture d’Inghilterra, si reputasse bene pagato guadagnando sei scellini per settimana. LIII. Potrebbe in questo luogo notarsi, che il costume di porre i fanciulli a lavorare innanzi tempo (costume che lo Stato, legittimo protettore di coloro che non possono proteggersi da sè, ha con saggezza ed umanità ai tempi nostri inibito), prevaleva tanto nel diciassettesimo secolo, che, paragonato alla estensione del sistema delle manifatture, parrebbe incredibile. In Norwich, sede principale del traffico de’ lanificii, una creaturina di sei anni stimavasi atta a lavorare. Vari scrittori di quel tempo, fra’ quali alcuni che avevano fama di eminentemente benevoli, ricordano esultando come in quella sola città i fanciulli e le fanciulle di tenerissima età creassero una ricchezza che sorpassava di dodicimila lire sterline l’anno quella che era necessaria alla loro sussistenza.[207] Quanta più cura poniamo ad esaminare la storia del passato, tanta più ragione troveremo di discordare da coloro che pensano, l’età nostra avere prodotti nuovi mali sociali. Vero è che i mali sono di vecchia data. Ciò che è nuovo, è la intelligenza che gli discerne e la umanità che vi pone rimedio. LIV. Passando da’ tessitori di panno a una specie diversa d’artigiani, le nostre ricerche ci condurranno a conclusioni pressochè simili. Per varie generazioni, i Commissarii dello Spedale di Greenwich hanno tenuto il registro delle paghe date a diverse classi di operai impiegati a riattare quell’edificio. Da questo pregevole documento raccogliesi, che nel corso di cento venti anni, il salario giornaliero de’ muratori si è elevato da mezzo scudo a quattro e soldi dieci, quello del maestro da mezzo scudo a cinque e soldi tre, quello del legnaiuolo da mezzo scudo a cinque e soldi cinque, e quello del piombaio da tre scellini a cinque e soldi sei. Per lo che, e’ sembra chiaro che la mercede del lavoro, estimata in danaro, nel 1685, non era più della metà di quel che è adesso; e poche erano le cose importanti per un lavorante, il prezzo delle quali, nel 1685, non fosse più della metà di quello che è adesso. La birra, senza dubbio, era a minor prezzo allora che oggi. La carne era anche a più buon prezzo; ma tuttavia costava tanto, che centinaia di migliaia di famiglie appena ne conoscevano il sapore.[208] Il costo del frumento ha variato pochissimo. Il prezzo medio del sacco, negli ultimi dodici anni del regno di Carlo II, era di cinquanta scellini. Il pane, quindi, simile a quello che ora si dà agli ospiti della casa di lavoro, di rado vedevasi allora anche sur desco di un piccolo possidente o d’un padrone di bottega. La maggior parte della nazione cibavasi di segala, d’orzo e di avena. I prodotti de’ paesi del tropico, delle miniere, delle macchine, erano positivamente più cari che oggi non sono. Fra le cose che il lavorante, nel 1685, pagava più care di quel che i posteri suoi le paghino nel 1848, erano lo zucchero, il sale, il carbone, le candele, il sapone, le scarpe, le calze, e generalmente le cose pertinenti al vestiario e gli arnesi da letto. Potrebbe aggiungersi che gli abiti e le coltri di que’ tempi, non solo erano più costosi, ma meno servibili di quelli che usano ai giorni nostri. LV. È mestieri ricordare come que’ lavoranti, che bastavano a mantenere col proprio salario sè e le famiglie loro, non fossero le persone più bisognose del popolo. Al di sotto di loro stava una numerosa classe che non poteva sussistere senza qualche soccorso della parrocchia. Non può esservi migliore argomento a provare le condizioni in cui trovasi la plebe, della proporzione in cui essa sta verso la società intera. Oggimai gli uomini, le donne, i bambini che ricevono sussidii, da quel che pare dalle liste officiali, sono nelle cattive annate la decima parte degli abitanti d’Inghilterra, e nelle buone la tredicesima. Gregorio King li estimava ne’ suoi tempi a più d’una quinta parte; e tale computo, che, con tutta la venerazione per l’autorità sua, potremmo chiamare esagerato, fu reputato da Davenant essere singolarmente giudizioso. Per avventura, non ci mancano affatto i mezzi di giudicare da noi. La tassa pei poveri era indubitabilmente quella della quale i nostri antenati sentissero maggiore gravezza. Sotto Carlo II, veniva stimata a circa sette cento mila sterline l’anno; vale a dire molto più che il prodotto della così detta excise o delle dogane, e poco meno di mezza la intera rendita della Corona. La tassa pei poveri andò rapidamente crescendo, e sembra che fosse in breve tempo pervenuta ad una somma tra otto e nove cento mila sterline l’anno; val quanto dire, ad un sesto di ciò che è adesso. La popolazione in allora era meno d’un terzo di quello che è ai giorni nostri. Il minimo de’ salari che allora si davano, calcolato in danaro, era la metà di quel che oggi si paga; e quindi mal possiamo supporre che il sussidio largito ad un povero fosse più della metà di quello che è adesso. E’ pare perciò si possa dedurre, che la proporzione delle persone che in que’ tempi ricevevano sussidii dalle parrocchie, fosse maggiore di quello che sia nei nostri. È bene in somiglianti quistioni parlare con diffidenza; ma certamente non è stato finora provato che il pauperismo fosse negli ultimi venticinque anni del secolo diciassettesimo un minor carico o un male sociale meno serio di quello che sia nel tempo presente.[209] Da un lato, è mestieri ammettere che il progresso della civiltà ha scemati i comodi fisici d’una parte delle classi più povere. È stato già notato come, avanti la Rivoluzione, molte migliaia di miglia quadrate di terra, adesso chiusa e coltivata, erano pantani, foreste e scopeti. Di cotesti terreni selvaggi molta parte, per virtù della legge, era comune; e molta di quelli che non erano comuni per legge, valeva sì poco, che i proprietari la lasciavano essere comune di fatto. Ivi i fuggiaschi e i trasgressori si tollerava che stessero in modo affatto ignoto al dì d’oggi. Il contadino che vi abitava, poteva di quando in quando, con poca e nessuna spesa, aggiungere qualche cosa al suo scarso alimento, e provvedersi di combustibili per l’inverno. Teneva un branco d’oche là dove adesso sorgono giardini e pometi. Tendeva reti alle galline selvatiche sul padule, che dappoi è stato seccato, e partito in campi da grano e da rape. Tagliava frasche là dove ora vedonsi prati verdeggianti di trifoglio, e rinomati per il burro e il cacio. Il progresso dell’agricoltura e lo accrescimento della popolazione necessariamente lo privarono di cotesti privilegi. Ma di fronte a siffatti mali è da porsi una lunga serie di beni. LVI. De’ beni che la civiltà e la filosofia conducono seco, gran parte è comune a tutte le classi; ed ove si perdessero, verrebbero deplorati sì dall’operaio come dal magnate. Il contadino che adesso in un’ora può giungere col suo baroccio al mercato, cento sessanta anni addietro vi consumava un giorno intero. La strada che ora appresta all’artigiano, per tutta la notte, un passeggio sicuro, conveniente ed illuminato, cento sessanta anni fa, era così buia dopo il tramonto del sole, da non lasciargli discernere la propria mano; così male lastricata, da porlo in continuo rischio di rompersi il collo; e così mal sorvegliata, da metterlo in imminente pericolo d’essere stramazzato giù, e spogliato del suo poco guadagno. Ogni muratore che cada giù da un ponte, ogni spazzaturaio che in una strada traversa sia calpestato da una carrozza, adesso può farsi medicare le ferite e rimettere al loro posto le rotte membra, con un’arte che cento sessanta anni addietro un Lord come Ormond, ed un negoziante principesco come Clayton, con tutte le loro ricchezze, non avrebbero potuto ottenere. La scienza ha sradicate alcune terribili malattie; altre ne ha bandite la polizia. La vita dell’uomo è diventata più lunga in tutto il Regno, e in ispecie nelle città. L’anno 1685 non è notato come pieno di malattie; e nondimeno, in quell’anno morì uno in ogni ventitrè abitanti della metropoli;[210] mentre nel nostro tempo ne muore uno in ogni quaranta. La differenza di salubrità tra Londra del secolo decimonono e quella del diciassettesimo, è molto maggiore della differenza tra Londra in tempi ordinari, e Londra in tempi di _cholera_. È anche più importante il beneficio che tutte le classi sociali, e segnatamente le basse, hanno ricavato dalla mitigatrice influenza della civiltà sull’indole nazionale. Il fondamento di tale indole, a dir vero, è stato il medesimo per molte generazioni, nel senso in cui il fondamento dell’indole d’un individuo si considera come lo stesso quando egli è rozzo e spensierato scolare, e quando diventa uomo culto e compito. Reca diletto pensare che il pubblico sentire in Inghilterra si è raddolcito così come la intelligenza è venuta maturando, e che nel corso de’ tempi siamo diventati un popolo non solo più saggio, ma più gentile. Quasi non v’è pagina di storia o d’amena letteratura del secolo decimosettimo, che non provi in qualche modo i nostri antenati essere stati meno umani de’ loro posteri. La disciplina delle botteghe, delle scuole, delle famiglie private, quantunque non fosse più efficace di quel che sia ai giorni presenti, era infinitamente più dura. I padroni nati e educati bene avevano costume di battere i loro servi. I pedagoghi altra via non conoscevano d’insegnare, che quella di sferzare i loro scolari. I mariti di decente posizione sociale non arrossivano di bastonare le loro mogli. Le fazioni procedevano talmente implacabili, da non potersi immaginare. I Whig mormorarono perchè Stafford era morto senza vedersi bruciare gl’intestini sul viso. I Tory ingiuriarono ed insultarono Russell, mentre dalla Torre era condotto al patibolo in Lincoln’s Inn Fields.[211] Egualmente cruda mostravasi la plebe contro i disgraziati delle classi più basse. Se un colpevole era posto alla berlina, poteva chiamarsi fortunato, ove gli venisse fatto d’uscir vivo dalla pioggia de’ sassi che gli lanciavano contro.[212] Se veniva legato alla coda di un cavallo, la folla lo premeva d’attorno, pregando il carnefice a volerlo flagellar bene e farlo urlare.[213] I gentiluomini facevano gite di sollazzo a Bridewell ne’ giorni di tribunale, a fine di vedere fustigare le povere battitrici di canapa.[214] Un uomo trascinato a morte per aver ricusato di chiedere scusa, una donna arsa viva per aver coniato moneta, svegliavano minore commiserazione di quella che ora si prova al veder tormentare un cavallo o un bue. Certi combattimenti, in paragone de’ quali un’accanita lotta a pugni si reputerebbe un mite spettacolo, erano fra gli squisiti diletti di gran parte de’ cittadini. La gente affollavasi a mirare i gladiatori farsi in brani con armi micidiali, ed appena vedeva schizzare un dito o un occhio ad alcuno de’ combattenti, mandava gridi di gioia. Le prigioni erano bolgie infernali sopra la terra, vivai d’ogni delitto e d’ogni infermità. Nei tribunali, gli scarni e pallidi delinquenti portavano seco dalle loro celle un’atmosfera di puzzo pestilenziale, che talvolta li vendicava del seggio, degli avvocati e de’ giurati. E a tanta miseria la società guardava con profonda indifferenza. In nessun luogo era da trovarsi quella sensitiva e irrequieta compassione che ai tempi nostri potentemente protegge fino il ragazzo della fattoria, la vedova indiana, lo schiavo negro; che penetra nelle provvisioni di ogni nave carica d’emigranti; che raccapriccia ad ogni staffilata che piombi sulle spalle d’un soldato briaco; che non patirebbe che il ladro alle galere fosse nutrito male o sopraccarico di lavoro, e che più volte si è studiata di salvare la vita anche allo assassino. Egli è vero che la compassione, al pari d’ogni altro sentimento, dovrebbe essere governata dalla ragione, e che per difetto di ciò, ha prodotto effetti talvolta ridicoli e tal’altra deplorabili. Ma più ci facciamo a meditare sulla storia del passato, e più abbiamo argomento di rallegrarci di vivere in una età di commiserazione, che aborre dalla crudeltà, e con ripugnanza, e solo spinta dal senso del dovere, infligge la pena anche meritata. E davvero, ad ogni classe cotesto grande mutamento morale ha recata immensa utilità; ma la classe che ci ha più guadagnato, è la più povera, dipendente e priva di difesa. LVII. Lo effetto generale de’ fatti che ho esposti ai lettori, sembra non dovere ammettere dubbio veruno. Pure, non ostante la evidenza di quelli, molti immaginano tuttavia che la Inghilterra degli Stuardi fosse un paese più piacevole che quella de’ tempi nostri. A prima vista, parrebbe strano che la società, mentre è venuta di continuo e con ispeditezza avanzando nella via del progresso, dovesse con amaro desio volger gli occhi al passato. Ma coteste due tendenze, per quanto appariscano incompatibili, possono agevolmente risolversi nel medesimo principio. Entrambe nascono dalla impazienza di trovarci nelle condizioni in cui siamo. Tale impazienza, mentre ci incita a sorpassare le generazioni precedenti, ci rende inchinevoli a porre più in alto la felicità loro. In certo senso, ella è irragionevolezza e ingratitudine in noi l’essere perpetuamente scontenti d’una condizione di cose che perpetuamente va facendosi migliore. Ma, per vero dire, questo medesimo scontento è quello che ci spinge verso il meglio. Se fossimo appieno satisfatti del presente, cesseremmo di speculare, d’affaticarci e di conservare, coll’occhio vôlto verso il futuro. Ed è quindi naturale che noi, non contenti delle cose presenti, apprezziamo soverchiamente le passate. In verità, siamo nel medesimo inganno che abbaglia la mente del viandante nell’arabo deserto. Sotto i piedi della caravana il suolo è arido e nudo; ma sì avanti che dietro si presenta la immagine delle fresche acque. I pellegrini affrettano il passo avanti, e non trovano altro che sabbia dove, un’ora prima, avevano veduto un lago. Volgono gli occhi addietro, e vedono un lago dove un’ora prima procedevano affannosi traverso alla sabbia. E’ sembra che una simigliante illusione tormenti le nazioni per ogni stadio del lungo progresso che compiono, dalla povertà e barbarie, alla civiltà ed opulenza. Ma se ci facciamo a cercare tenacemente quella meta nel passato, la vediamo recedere fino nelle favolose regioni dell’antichità. Regna adesso la voga di porre la età d’oro della Inghilterra in tempi nei quali i nobili erano privi di que’ comodi il cui difetto parrebbe insopportabile ad un servitore; nei quali i fattori, e i padroni di botteghe mangiavano a colazione pagnotte tali, che basterebbe il solo vederle per far nascere una ribellione fra i mendicanti nella casa di lavoro; ne’ quali gli uomini, viventi nell’aria più pura della campagna, morivano più presto di quello che oggidì non accade ne’ chiassuoli più pestilenziali delle nostre città, ed essi morivano più presto ne’ chiassuoli delle nostre città che ora nelle coste della Guiana. Anche a noi toccherà d’esser vinti nel progresso, ed essere invidiati. Potrebbe ben darsi che nel secolo ventesimo, il contadino della Contea di Dorset, si reputasse miseramente pagato con quindici scellini per settimana; che il legnaiuolo di Greenwich guadagnasse dieci scellini per giorno; che i lavoranti si avvezzassero così poco a desinare senza carni, come adesso sono assuefatti a cibarsi di pane di segala; che la polizia sanitaria e i trovati medici allungassero di alcuni anni la vita ordinaria dell’uomo; che a gran copia di comodi e di cose di lusso, che adesso sono sconosciuti, o accessibili a pochi, potesse giungere ogni diligente ed economo operaio. E non ostante, potrebbe allora sorgere la moda d’asserire, che lo augumento della ricchezza e il progresso della scienza siano stati utili ai pochi a danno dei molti, e di parlare del regno della Regina Vittoria come del tempo in cui l’isola nostra era la briosa Inghilterra, allorquando tutte le classi erano vincolate da un sentimento fraterno, e il ricco non ghignava sul viso del povero, e il povero non invidiava le splendidezze del ricco. CAPITOLO QUARTO. SOMMARIO. I. Morte di Carlo II.—II. Sospetti di veleno.—III. Discorso di Giacomo II dinanzi il Consiglio Privato.—IV. Giacomo proclamato Re.—V. Condizioni del Governo.—VI. Nuovi Ordinamenti.—VII. Sir Giorgio Jeffreys.—VIII. Esazione della rendita senza un Atto del Parlamento.—IX. Convocazione del Parlamento—X. Trattative tra Giacomo e il Re di Francia.—XI. Churchill è mandato ambasciatore in Francia; sua storia.—XII. Sentimenti de’ governi continentali verso l’Inghilterra.—XIII. Politica della Corte di Roma.—XIV. Lotta nella mente di Giacomo; ondeggiamenti della sua politica.—XV. I riti cattolici romani si celebrano pubblicamente in Palazzo.—XVI. Incoronazione di Giacomo.—XVII. Entusiasmo degl’indirizzi de’ Tory.—XVIII. Elezioni.—XIX. Processo contro Oates.—XX. Contro Dangerfield—XXI. Contro Baxter.—XXII. Ragunanza del Parlamento di Scozia.—XXIII. Sentimenti di Giacomo verso i Puritani.—XXIV. Crudeltà contro i Convenzionali Scozzesi.—XXV. Sentimenti di Giacomo verso i Quacqueri.—XXVI. Guglielmo Penn.—XXVII. Favore peculiare mostrato ai Cattolici Romani e ai Quacqueri.—XXVIII. Ragunanza del Parlamento Inglese; Trevor eletto Presidente.—XXIX. Carattere di Seymour.—XXX. Discorso del Re innanzi al Parlamento.—XXXI. Discussione nella Camera de’ Comuni; Discorso di Seymour.—XXXII. Votazione della rendita.—XXXIII. Procedimenti della Camera de’ Comuni rispetto alla religione.—XXXIV. Votazione di tasse addizionali; Sir Dudley North.—XXXV. Procedimenti della Camera de’ Lordi.—XXXVI. Legge per annullare la sentenza d’infamia contro Stafford. I. La morte di re Carlo II giunse di sorpresa alla nazione. La sua tempra era naturalmente vigorosa, e non sembrava d’avere sofferto per istemperatezze. Era stato sempre studioso della propria salute anche ne’ sensuali diletti; e le sue abitudini erano tali, da promettergli lunga la vita e robusta la vecchiaia. Indolente come egli era in tutte le cose che richiedessero tensione di mente, mostravasi attivo e perseverante negli esercizi del corpo. In gioventù aveva acquistata rinomanza nel giuoco della pallacorda;[215] e declinanti gli anni, aveva seguitato ad essere un camminatore instancabile. Il suo passo ordinario era tale, che coloro i quali erano ammessi all’onore della sua compagnia, trovavano difficile uguagliarlo. Alzavasi presto da letto, e generalmente passava tre o quattro ore del giorno all’aria aperta. Innanzi che il Parco di San Giacomo fosse asciutto della rugiada, Carlo vedevasi errare fra gli alberi, giuocare coi suoi bracchi, e gettare grano alle anitre; le quali cose lo rendevano caro al popolo basso, che ama sempre di vedere i grandi rallentare dal loro consueto sussiego.[216] Finalmente, in sul finire del 1684, un leggiero accesso che credevasi di gotta, lo impedì dal suo consueto girovagare. Si pose quindi a passare le mattinate nel suo laboratorio, dove sollazzavasi facendo esperimenti intorno alle proprietà del mercurio. Parve che la sua tempra soffrisse dallo starsi confinato in casa. Non aveva cagione apparente d’inquietudine. Il Regno era tranquillo; lui non istringeva bisogno di pecunia; egli era assai più potente di quello che fosse mai stato; il partito che lo aveva per tanto tempo avversato, era vinto: ma il lieto umore onde egli erasi sostenuto contro l’avversa fortuna, era sparito nei dì della prospera. La minima inezia adesso bastava ad opprimere quello spirito elastico, che aveva resistito alla sconfitta, allo esilio ed alla penuria. La irritazione dell’animo spesso in lui si mostrava in tali sguardi e parole, che non si sarebbero aspettati da un uomo così predistinto per allegro umore e squisita educazione. Nulladimeno, nessuno pensava che la salute di lui fosse gravemente danneggiata.[217] Il suo palagio rade volte aveva presentato un aspetto più gaio e scandaloso, di quello che offriva nella sera della domenica del dì primo febbraio 1685.[218] Taluni uomini gravi che v’erano andati, secondo il costume di quella età, a complire il loro sovrano, aspettandosi che in un tanto giorno la sua Corte serbasse un decente contegno, rimasero attoniti e compresi d’orrore. La gran galleria di Whitehall, ammirevole reliquia della magnificenza de’ Tudor, era affollata di libertini e di giuocatori. Il Re sedeva lì ciarlando e trastullandosi con tre donne, la cui beltà formava il vanto, e i cui vizi la infamia di tre nazioni. Eravi Barbara Palmer Duchessa di Cleveland, la quale, non più giovane, serbava tuttavia i vestigi di quella suprema e voluttuosa amabilità, che venti anni innanzi aveva vinti tutti i cuori. Eravi parimente la Duchessa di Portsmouth, i cui dolci e fanciulleschi sembianti erano animati dalla vivacità propria delle Francesi. Ortensia Mancini, Duchessa di Mazzarino e nipote del gran Cardinale, compiva il gruppo. Costei, dalla nativa Italia, era passata alla Corte dove il suo zio imperava da sovrano. Il potere di lui e le proprie attrattive, le avevano richiamato d’intorno una folla d’illustri vagheggiatori. Lo stesso Carlo, mentre era esule, ne aveva indarno chiesta la mano. Non v’era dono di natura o di fortuna che paresse mancarle. Aveva splendente il viso della beltà de’ climi meridionali, pronto lo intendimento, graziosi i modi, alto il grado, copiose le ricchezze; doni insigni che le sue irrefrenate passioni avevano reso funesti. Aveva provata insopportabile la sciagura d’un male augurato matrimonio, era fuggita dal tetto maritale, aveva abbandonata la sua vasta opulenza, e dopo d’avere con le proprie avventure reso attonita Roma e il Piemonte, era venuta a starsi in Inghilterra. La sua casa era il ritrovo prediletto de’ belli spiriti e degli amatori de’ piaceri, i quali per vaghezza de’ suoi sorrisi e de’ suoi pranzi tolleravano i frequenti accessi d’insolenza e di cattivo umore, in cui ella spesso trascorreva. Rochester e Godolphin talora in compagnia di lei obliavano le cure dello Stato. Barillon e Saint–Evremond trovavano nelle sue sale conforto alla lunga lontananza da Parigi. La dottrina di Vossio, lo spirito di Waller, non cessavano mai d’adularla e divertirla. Ma la sua mente inferma richiedeva stimoli più forti, e li cercava amoreggiando, giuocando alla bassetta, e inebriandosi di _scubac_.[219] Mentre Carlo sollazzavasi con le sue tre sultane, il paggio francese d’Ortensia—bel fanciullo che con gli armonici suoni della voce dilettava Whitehall, ed era regalato di ricche vesti e di palafreni e di ghinee—gorgheggiava versi d’amore.[220] Un drappello di venti cortigiani sedeva giuocando a carte attorno un’ampia tavola, sopra la quale l’oro vedevasi a mucchi.[221] Anche allora il Re disse di non sentirsi bene. A cena non ebbe appetito; non ebbe posa la notte: ma nel dì susseguente levossi, come era suo costume, a buon’ora. Le avverse fazioni del suo Consiglio avevano per varii giorni con ansietà aspettato quel mattino. La lotta tra Halifax e Rochester sembrava avvicinarsi ad una crisi decisiva. Halifax, non pago d’avere cacciato il proprio rivale dal Tesoro, aveva impreso a mostrarlo reo di tale disonestà o trascuratezza nel governo della finanza, da farlo punire con la destituzione dai pubblici uffici. Bisbigliavasi anche che il Lord Presidente verrebbe incarcerato nella Torre. Il Re aveva promesso d’investigare il vero; il dì secondo di febbraio era il giorno stabilito per tale investigazione; e parecchi ufficiali della rendita avevano ricevuto comandamento di presentarsi coi loro libri in quel giorno.[222] Ma la fortuna era lì pronta per volgere la sua ruota. Carlo era appena sorto da letto, quando i suoi servi s’accorsero che balbettava, e connetteva poco. Alcuni gentiluomini s’erano recati alla reggia per vedere, secondo il costume, il loro sovrano farsi la barba e vestirsi. Egli sforzossi di conversare con loro nel suo solito modo scherzevole; ma rimasero timorosi ed attoniti al vederlo sì squallido. Di repente divenne nero nel viso; gli si travolsero gli occhi; mandò un urlo, traballò e cadde nelle braccia di Tommaso Lord Bruce, figlio del Conte di Ailesbury. Un medico, che aveva cura delle storte e de’ crogiuoli del Re, per caso si trovò presente; ma non avendo lancetta, gli aperse con un temperino la vena. Il sangue uscì libero, ma Carlo rimase privo di sensi. Lo adagiarono sul letto, dove la Duchessa di Portsmouth per breve ora stette china sopra lui con la familiarità d’una moglie. Ma lo spavento si era sparso per tutte le stanze. La Regina e la Duchessa di York corsero frettolose alla camera. Alla concubina prediletta fu forza ritrarsi al proprio quartiere; il quale dal suo regio amante era stato tre volte disfatto e rifatto, per appagare i capricci di lei. Gli arnesi del camino erano d’argento massiccio. Varii bei dipinti, che propriamente appartenevano alla Regina, erano stati trasferiti alle stanze della concubina. Le tavole erano ripiene di argenterie riccamente lavorate. Nelle nicchie vedevansi scrigni, capolavori dell’arte giapponese. Sulle cortine, uscite pur allora da’ telai di Parigi, erano dipinti con colori, di cui nessuna tappezzeria inglese poteva sostenere il paragone, uccelli adorni di magnifiche penne, paesi, cacce, la terrazza principesca di Saint–Germain, le statue e le fontane di Versailles.[223] Fra mezzo a tanta splendidezza, compra con la colpa e la vergogna, la infelice donna si abbandonò ad una agonia di dolore, il quale, per renderle giustizia, non era al tutto egoistico. Allora le porte di Whitehall, che d’ordinario stavano aperte a tutti gli accorrenti, furono chiuse; sebbene fosse tuttavia dato lo ingresso a coloro i cui visi erano cogniti. Le anticamere e le gallerie tosto furono affollate di gente; ed anche la camera dello infermo era piena di Pari, di Consiglieri Privati e di Ministri stranieri. Tutti i più rinomati medici di Londra furono chiamati a Palazzo. E potevano tanto i rancori politici, che la presenza di alcuni medici Whig fu considerata come cosa straordinaria.[224] Un cattolico romano, altamente famoso per la perizia dell’arte sua, voglio dire il Dottore Tommaso Short, assisteva il Re. Si conservano tuttavia parecchie ricette. Una di esse è firmata da quattordici dottori. Allo infermo fu cavato sangue in gran copia; alla sua testa fu applicato un ferro caldo. Gl’introdussero a forza in bocca certo sale volatile disgustoso, estratto da teschi umani. Il Re risensò; ma rimase in presentissimo pericolo di vita. La Regina per qualche tempo lo assistè di continuo. Il Duca di York non si scostò mai dal letto del fratello. Il Primate ed altri quattro vescovi, trovandosi allora in Londra, rimanevano a Whitehall tutto il giorno, e ad uno per volta vigilavano tutta notte nella camera del Re. La nuova della sua infermità riempì la metropoli di dolore e di sgomento; imperocchè Carlo, per la sua indole tranquilla e i suoi modi affabili, erasi acquistato lo affetto della maggior parte della nazione; e coloro che più non l’amavano, preferivano la sua leggerezza alla severa e grave bacchettoneria del fratello. Nella mattina del giovedì 5 di febbraio, la Gazzetta di Londra annunzio che Sua Maestà procedeva di bene in meglio, sì che i medici lo credevano fuori di pericolo. Le campane di tutte le chiese suonarono a festa; e si facevano per le vie apparecchi di fuochi artificiali. Ma verso sera si seppe il Re essere ricaduto, e i medici avere perduta ogni speranza di salvarlo. Il pubblico ne rimase grandemente contristato; ma non v’era indizio di tumulto. Il Duca di York, il quale erasi assunto il carico di dare ordini, si assicurò che nella Città era perfetta quiete, e ch’egli, appena spirato il fratello, poteva senza difficoltà essere proclamato Re. Carlo soffriva estremamente, e diceva di sentirsi bruciare dentro come da un fuoco. Nondimeno sostenne i proprii tormenti con una fortezza che non pareva compatibile con la sua molle e lussuriosa natura. Lo spettacolo della sciagura di lui commosse tanto la moglie, che svenne, e così priva di sensi fu portata alle sue stanze. I prelati che lo assistevano lo avevano fin da principio esortato ad apparecchiarsi al gran viaggio. Adesso stimaronsi in debito di favellargli con più calde parole. Guglielmo Sancroft Arcivescovo di Canterbury, uomo onesto e pio, quantunque di piccola mente, gli disse liberamente: «È tempo di parlar chiaro, perocchè voi siete, o signore, sul punto di comparire avanti ad un Giudice che non ha rispetto di persone.» Il Re non rispose nè anche una parola. Tommaso Ken, vescovo di Bath e di Wells, allora volle provarsi di persuaderlo. Era uomo fornito di egregie doti e di dottrina, di pronta sensibilità e di virtù intemerata. Le sue opere elaborate sono da lungo tempo cadute nell’oblio: ma i suoi inni mattutini e vespertini sono tuttora ripetuti quotidianamente da migliaia di famiglie. Comecchè, al pari della più parte degli uomini della sua classe, fosse zelante della monarchia, non era punto adulatore. Innanzi che fosse fatto vescovo, aveva mantenuto l’onore della sua professione, ricusando, allorquando la Corte stava a Winchester, ad Eleonora Gwynn l’alloggio nella casa ch’egli occupava come prebendario.[225] Il Re aveva buon senso bastevole a rispettare uno spirito così fermo, e tra tutti i prelati lo prediligeva. Nulladimeno, il buon vescovo indarno usava tutta la propria eloquenza. La sua solenne e patetica esortazione a tal segno commosse gli astanti, che alcuni di loro lo crederono invaso del medesimo spirito che nel tempo antico per le labbra di Natan e d’Elia aveva chiamati i principi peccatori a pentimento. Carlo nulladimeno non ne fu commosso. Vero è che non fece obiezione allorchè fu letto l’uffizio per la Visitazione degli infermi. In risposta alle premurose domande dei teologi, disse d’esser dolente del male fatto; e lasciò darsi l’assoluzione secondo le forme della Chiesa Anglicana: ma quando fu stretto a confessare com’ei morisse nella comunione di quella Chiesa, parve di non prestare ascolto a ciò che gli veniva detto; e nulla potè indurlo a prendere la Eucaristia dalle mani de’ Vescovi. Gli fu posta dinanzi una tavola con sopra il vino e il pane, ma indarno. Ora diceva non esservi mestieri di cotanta fretta, ed ora affermava sentirsi troppo debole. Molti attribuivano cosiffatta apatia a dispregio delle cose divine, e molti altri alla stupidezza che spesso precede la morte. Ma in Palazzo v’erano poche persone che sapevano meglio il vero. Carlo non era mai stato un sincero credente nella Chiesa stabilita. La sua mente aveva lungamente ondeggiato tra l’Hobbismo e il Papismo. Quando sentivasi pieno di salute e libero di spirito, era beffardo. Nei pochi istanti di serietà era cattolico romano. Il Duca di York lo sapeva bene, ma era al tutto occupato della cura de’ propri interessi. Aveva ordinato che si chiudessero le porte della reggia, ed appostate legioni di Guardie in varie parti della Città. Aveva parimente fatto apporre dalla tremula mano del moribondo Re la firma ad un atto, per virtù del quale taluni dazi, concessi solo fino alla morte del sovrano, gli venivano dati per tre anni. Cotali cose occupavano tanto la mente di Giacomo, che quantunque nelle ordinarie occasioni egli fosse indiscretamente e irragionevolmente sollecito di far proseliti alla propria Chiesa, non considerò mai che il fratello stava in pericolo di morire senza sacramenti. Questa trascuratezza era più straordinaria, perchè la Duchessa di York, nel dì in cui Carlo fu preso dal male, aveva, a richiesta della Regina, suggerito esser convenevole porgergli i conforti spirituali. Di tali conforti il Re andò debitore in sugli estremi all’opera d’una donna assai diversa dalla sua pia moglie, e dalla cognata. Una vita di frivolezza e di vizio non aveva spento in cuore alla Duchessa di Portsmouth ogni sentimento di religione, o tutta la tenerezza che forma la gloria del sesso leggiadro. Lo Ambasciatore Francese Barillon, recatosi a palazzo per sapere le nuove del Re, andò a visitarla, e la trovò immersa in un disperato dolore. Ella lo condusse in una secreta stanza, ed aprendogli tutti i secreti del cuore: «Io ho a palesarvi» gli disse «una cosa gravissima, e tale che se si sapesse, ce n’anderebbe della mia vita. Il Re è vero cattolico, ma morirà senza riconciliarsi con la Chiesa. La sua stanza è piena di ecclesiastici protestanti, nè io posso entrarvi senza scandalo. Il Duca non pensa ad altro che a sè. Parlategli; rammentategli che si tratta della salute d’un’anima. Egli è adesso il signore; egli può far sgomberare la stanza. Correte immantinente, o sarà troppo tardi.» Barillon corse al letto del moribondo, trasse il Duca da parte e gli fece il messaggio della concubina. Giacomo si sentì pungere dalla propria coscienza, si scosse come da sonno, e disse che nulla gli avrebbe impedito d’adempiere il sacro dovere ch’era stato tanto ritardato. Formarono diversi disegni, senza abbracciarne veruno, finchè il Duca comandò alla folla che si scostasse, si fece presso al letto, e piegando la persona bisbigliò qualche cosa che non giunse all’orecchio di nessuno degli spettatori, i quali pensavano che fosse alcuna domanda intorno a faccende di Stato. Carlo rispose con voce udita da tutti: «Sì, sì, con tutto il mio cuore.» Niuno degli astanti, tranne lo ambasciatore francese, indovinò che il Re con quelle parole esprimeva il desiderio di essere ammesso al grembo della chiesa di Roma. «Debbo condurre un sacerdote?» disse il Duca. «Sì, fratello» rispose lo infermo; «per amore di Dio, fatelo, e non perdete tempo. Ma no, ciò vi cagionerà disturbi.»—– «Mi costi anche la vita,» soggiunse il Duca «farò venire un sacerdote.» Nondimeno, trovare un sacerdote a tale scopo e in un attimo, non era cosa facile. Imperciocchè, secondo la legge che in allora vigeva, colui che avesse annesso un proselite al grembo della Chiesa cattolica romana, era reo di delitto capitale. Il Conte di Castel Melhor, nobile portoghese, il quale, cacciato per politici disturbi dalla propria patria, era stato ospitalmente accolto alla Corte d’Inghilterra, si tolse la cura di trovare un confessore. Corse ai suoi concittadini che facevano parte della casa della Regina; ma non trovò alcuno de’ cappellani che sapesse tanto d’inglese o di francese da confessare il Re. Il Duca e Barillon erano sul punto di mandare dal Ministro Veneto per un sacerdote, allorquando seppero che trovavasi a caso in Whitehall un monaco benedettino, chiamato Giovanni Huddleston. Costui, a gran risico della propria vita, aveva salvata quella del Re dopo la battaglia di Worcester, e per tale cagione dopo la Restaurazione era stato sempre considerato come persona privilegiata. Nei più virulenti proclami contro i preti papisti, allorchè i falsi testimoni avevano reso furibondo il popolo, Huddleston era stato nominatamente eccettuato.[226] Egli consentì tosto a porre la propria vita, una seconda volta, in pericolo a pro del suo principe; ma rimaneva, nonostante, una difficoltà. L’onesto monaco era così digiuno di lettere, da non sapere ciò che avesse a dire in una occasione di tanta importanza. Ad ogni modo, per mezzo di Castel Melhor ebbe qualche avvertimento da un ecclesiastico portoghese, e tosto fu guidato per le scale secrete da Chiffinch, fidatissimo servo, il quale, se è da prestarsi fede alle satire di quel tempo, aveva spesso introdotto per il medesimo ingresso persone di altra specie. Il Duca allora, a nome del Re, fece comandamento a tutti, salvo a Luigi Duras Conte di Feversham, e a Giovanni Granville Conte di Bath, d’uscire. Ambedue questi Lordi professavano la religione protestante; ma Giacomo pensava di potersi fidare di loro. Feversham, francese di nobile stirpe, e nipote del gran Turenna, teneva un alto grado nello esercito inglese, ed era ciamberlano della Regina. Bath occupava l’ufficio detto _Groom of the Stole_. Ai comandamenti del Duca ubbidirono tutti, e perfino i medici si ritrassero. Dalla porta di dietro, che allora fu aperta, entrò il Padre Huddleston. Un tabarro gli copriva gli abiti sacri, e una ondeggiante parrucca la tonsura del capo. «Signore,» disse il Duca «questo dabbene uomo una volta vi salvò la vita, e adesso viene per salvarvi l’anima.» Carlo con fioca voce rispose: «Sia il ben venuto.» Huddleston fece la parte sua meglio che non s’aspettasse. S’inginocchiò accanto al letto, ascoltò la confessione, impartì l’assoluzione, ed amministrò l’olio santo. Chiese al Re se desiderasse ricevere il pane eucaristico. «Certamente,» rispose Carlo «se non ne sono indegno.» Fu recata l’ostia santa. Carlo debolmente sforzossi di sollevarsi e mettersi inginocchioni. Il sacerdote lo esortò a starsi disteso, assicurandolo che Dio avrebbe accettata la umiliazione dell’anima, e non ricerca quella del corpo. Al Re fu così difficile inghiottire l’ostia, che fu mestieri aprire la porta per chiedere un bicchier d’acqua. Terminato il rito, il monaco pose un crocifisso in sugli occhi del penitente, ed esortandolo di volgere i suoi estremi pensieri alle pene del Redentore, si partì. La ceremonia era durata circa tre quarti d’ora; nel qual tempo i cortigiani che riempivano l’anticamera, s’erano vicendevolmente comunicati i loro sospetti con bisbigli ed occhiate espressive. La porta in fine fu spalancata, e la folla di nuovo invase la stanza del moribondo. La sera era molto inoltrata. Il Re pareva assai sollevato a cagione di ciò che era ivi seguito. Gli furono condotti innanzi al letto i suoi figli naturali, i Duchi di Crafton, di Southampton e di Northumberland, nati dalla Duchessa di Cleveland; il Duca di Saint–Albans nato da Eleonora Gwynn, e il Duca di Richmond dalla Duchessa di Portsmouth. Carlo gli benedisse, ma in ispecie parlò tenere parole a Richmond. Un solo che avrebbe dovuto essere in quel luogo, mancava. Il maggiore e più caramente diletto de’ suoi figliuoli errava in esilio; e il padre nè anche una volta ne profferì il nome. Nel corso della notte, Carlo raccomandò caldamente la Duchessa di Portsmouth e il figlio di lei a Giacomo, dicendogli affettuosamente: «Non lasciate morire di fame la povera Norina.» La Regina mandò per mezzo di Halifax scusandosi di starsi lontana, poichè era in tale perturbamento da non potere riprendere il suo posto accanto al letto; e lo pregava di perdonarle qualunque offesa gli avesse fatto senza saperlo. «Essa mi chiede perdono, povera donna!» esclamò Carlo «ed io con tutto il mio cuore la supplico di perdonarmi.» La luce mattutina cominciava a penetrare per le finestre di Whitehall; e Carlo volle che gli assistenti alzassero le tende, perchè potesse per l’ultima volta contemplare il giorno. Notò ch’era tempo di caricare un oriuolo che era allato al suo letto. Di tali lievi circostanze si serbò lungamente la memoria, perocchè provavano senza alcun dubbio, che quando egli dichiarò d’essere cattolico romano, trovavasi in pieno possesso di tutte le sue facoltà intellettuali. Chiese a coloro che gli erano rimasti dintorno per tutta la notte, lo scusassero dell’incomodo onde era stato loro cagione, dicendo che senza sua colpa aveva tanto indugiato a morire; ma sperava volessero compatirlo. Fu questo l’ultimo raggio di quella squisita urbanità che spesso valse a calmare lo sdegno di una nazione giustamente irritata. Tosto dopo l’alba del dì, il moribondo perdè la parola. Innanzi le ore dieci era privo di sensi. Il popolo correva in folla alle chiese in sull’ora del servizio mattutino. Quando fu letta la preghiera per la salute del Re, alti gemiti e singhiozzi mostravano quanta amarezza stringesse il cuore di ciascuno. Il venerdì a mezzo il giorno, il 6 di febbraio, Carlo tranquillamente rese l’anima a Dio.[227] II. In quel tempo, il basso popolo in tutta l’Europa, e in nessuno altro luogo più che in Inghilterra, aveva costumanza di attribuire la morte de’ principi, e segnatamente quando il principe era popolare e la morte inattesa, a qualche assassinio di specie scelleratissima. Difatti, Giacomo I era stato accusato d’avere propinato il veleno al Principe Enrico; Carlo I a Giacomo I; e quando sotto la Repubblica la Principessa Elisabetta morì in Carisbrook, fu detto chiaramente che Cromwell scendesse alla stolta e codarda malvagità di mescolare droghe nocive nel cibo d’una fanciulletta, cui egli non aveva motivo immaginabile di recar nocumento.[228] Pochi anni dopo, il rapido disfarsi del cadavere di Cromwell venne da molti ascritto a una mortifera pozione amministratagli nel medicamento. La morte di Carlo II non poteva mancare di far nascere simiglianti voci. L’orecchio del pubblico era stato ripetutamente pervertito da storielle di congiure papali contro la vita di lui. E però la mente di molti era forte predisposta a sospettare; e furono non poche le sciagurate circostanze che agli animi così disposti potevano far credere alla esistenza di un delitto. I quattordici dottori che avevano consultato sul caso del Re, si contraddissero vicendevolmente, e ciascuno sè stesso. Taluni pensavano che fosse un accesso epilettico, e che si dovesse lasciar sonnecchiare il paziente senza interromperlo. La maggior parte lo disse apoplettico, e per alcune ore lo tormentò a guisa d’un Indiano posto al palo. Infine, fu deliberato di chiamar febbre la sua infermità, e di ministrargli del cortice. Uno de’ medici, nondimeno, protestò assicurando la Regina che i suoi confratelli ammazzerebbero il Re. Null’altro da cosiffatti dottori era da aspettarsi, che dissensione ed ondeggiamento. Ed era naturale che molti del volgo, dalla perplessità de’ grandi maestri dell’arte di guarire, concludessero che la malattia aveva qualche straordinaria cagione. Possiamo credere che un orribile sospetto turbasse la mente di Short, il quale, comecchè esperto nella propria professione, a quanto pare, era un uomo nervoso e fantastico; e forse le sue idee erano confuse per paura delle odiose accuse a cui egli, come cattolico romano, era peculiarmente esposto. Non è mestieri, dunque, far le meraviglie se la plebe ripetesse e credesse innumerevoli storielle. La lingua di Sua Maestà erasi gonfiata tanto, da agguagliare quella d’un bue. Un ammasso di polvere deleteria gli era stata trovata nel cervello. Sul petto aveva delle macchie azzurre, e delle nere per le spalle. Qualche cosa era stata messa dentro la sua tabacchiera, qualche altra nel brodo, o nel piatto d’uova con l’ambragrigia, che ei prediligeva tanto. La Duchessa di Portsmouth gli aveva dato il veleno in una tazza di cioccolata; la Regina in un vaso di pere candite. Tali novelle deve la storia raccontare, poichè valgono a darci idea della intelligenza e virtù degli uomini che erano corrivi a crederle. Che nessuna voce della medesima sorta abbia mai, ne’ tempi presenti, trovata fede tra noi, anche quando individui da’ quali pendevano grandi interessi, sono morti d’impreveduti accessi di malattia, deve attribuirsi in parte al progresso della scienza medica e della chimica; ma parte anco—possiamo sperarlo—ai progressi che la nazione ha fatti nel buon senso, nella giustizia e nella umanità.[229] III. Finita ogni cosa, Giacomo dalla stanza mortuaria si ritirò al suo gabinetto, dove per un quarto d’ora rimase solo. Frattanto i Consiglieri Privati, che si trovavano in Palazzo, adunaronsi. Il nuovo re, uscito fuori, prese posto a capo d’una tavola; e secondo l’usanza, iniziò il suo governo con un discorso al Consiglio. Significò il dolore che sentiva per la perdita del fratello, e promise di imitare la mitezza che aveva predistinto il passato governo. Sapeva bene, disse egli, d’essere stato accusato come amante del potere assoluto. Ma quella non era la sola menzogna che si fosse detta contro lui. Era deliberato di mantenere il governo stabilito sì della Chiesa come dello Stato. Conosceva appieno come la Chiesa Anglicana fosse eminentemente leale; e però si sarebbe sempre studiato di sostenerla e difenderla. Conosceva parimente come le leggi dell’Inghilterra fossero sufficienti a farlo principe grande quanto potesse mai desiderare. Non avrebbe rinunziato ai propri diritti, ma avrebbe rispettati gli altrui. Aveva per innanzi posta a repentaglio la propria vita per la difesa della patria; ed ora avrebbe, più di chiunque altro, fatto ogni sforzo per sostenere le giuste libertà di quella. Tale discorso, non era, come avviene ne’ tempi moderni in simiglianti occasioni, studiosamente apparecchiato da’ consiglieri del sovrano. Era la espressione estemporanea de’ sentimenti del nuovo Re in un’ora di grande concitamento. I membri del Consiglio proruppero in gridi di gioia e di gratitudine. Rochester Lord Presidente, in nome de’ suoi confratelli, espresse la speranza che la generosa dichiarazione della Maestà Sua si rendesse pubblica. Il Procuratore Generale, Heneage Finch, si offerse a far gli uffici di scrivano. Era zelante partigiano della Chiesa, e come tale, naturalmente desiderava che dovesse rimanere qualche durevole ricordo delle graziose promesse ch’erano state, poco fa, profferite. «Tali promesse» disse egli «hanno fatto sopra me una impressione cotanto profonda, che posso ripeterle parola per parola.» Le pose quindi in iscritto. Giacomo le lesse, approvolle, e ordinò che venissero pubblicate. In altri tempi, poi, disse d’aver fatto quel passo senza la debita considerazione; le sue non premeditate espressioni rispetto alla Chiesa Anglicana, essere state troppo forti; e Finch, con destrezza che in quell’ora non fu notata, averle rese anche più forti.[230] IV. Il Re era stanco per le lunghe vigilie e per molte violente emozioni; quindi si ritrasse onde riposare. I Consiglieri Privati, avendolo rispettosamente accompagnato fino alla stanza da letto, ritornarono ai seggi loro, ad emanare ordini per la ceremonia della proclamazione. Le guardie erano sotto le armi; gli araldi comparvero co’ loro magnifici abiti; e la solennità fu compita senza veruno impedimento. Botti di vino furono poste nelle vie, e i passanti venivano invitati a bere alla salute del nuovo sovrano. Ma benchè il popolo in quella occasione acclamasse, non mostrava sembiante gioioso. Le lagrime furono viste sugli occhi di molti; e fu notato che non vi fu nè anche una fantesca in Londra, che non si fosse studiata d’avere qualche frammento di velo bruno in onoranza di re Carlo.[231] Il funerale provocò numerose critiche, come quello che si sarebbe reputato appena convenevole ad un nobile e ricco suddito. I Tory sordamente biasimavano la parsimonia del nuovo Re; i Whig lo schernivano come privo di naturale affetto; e i fieri Convenzionisti di Scozia esultavano, dicendo essere stata compita la maledizione in antico scagliata contro i principi malvagi; il defunto tiranno essere stato sepolto con funerali degni d’un somiero.[232] Nonostante, Giacomo iniziò il suo governo con non poca satisfazione del pubblico. Il discorso ch’egli fece in Consiglio, comparve stampato, e produsse impressione a lui favorevolissima. Era questo allora il principe che una fazione aveva già cacciato in esilio, ed erasi provata di privare del diritto alla Corona, perchè lo teneva nemico mortale della religione e delle leggi d’Inghilterra. Egli aveva trionfato; oramai stava sul trono; e il primo de’ suoi atti fu quello di dichiararsi difensore della Chiesa, e rispettatore de’ diritti del popolo. Il giudicio che tutti i partiti avevano fatto dell’indole di lui, aggiungeva peso ad ogni parola che gli uscisse dal labbro. I Whig lo chiamavano superbo, implacabile, ostinato, spregiatore dell’opinione pubblica. I Tory, esaltando le sue virtù principesche, dolevansi spesso ch’egli ponesse in non cale quelle arti onde si acquista la popolarità. La stessa satira non lo aveva mai dipinto come uomo che fosse vago del pubblico favore professando ciò che non sentiva, e promettendo ciò che ei non aveva intendimento di mantenere. Nella domenica che seguì alla sua ascensione al trono, molti predicatori da’ pergami citavano il suo discorso. «Adesso abbiamo a sostegno della Chiesa nostra» sclamava un oratore realista «la parola d’un Re, e d’un Re che non mancò mai alla propria parola.» Questa espressiva sentenza tosto propagossi per tutto il paese, e divenne la parola d’ordine di tutto il partito Tory.[233] V. I grandi uffici dello Stato per la morte del Re erano rimasti vacanti, e fu d’uopo che Giacomo deliberasse da chi dovessero essere occupati. Pochi de’ membri del Gabinetto passato avevano ragione di aspettarsi il favore di lui. Sunderland, che era Segretario di Stato, e Godolphin primo Lord del Tesoro, avevano sostenuta la Legge d’Esclusione. Halifax, custode del sigillo privato, aveva avversata quella legge con impareggiabile potenza di argomenti e di parole; ma era nemico mortale della tirannide e del papismo. Vedeva con terrore il progresso delle armi francesi nel continente, e la influenza dell’oro francese nei consigli dell’Inghilterra. Se si fosse seguito il suo parere, le leggi sarebbero state rigorosamente osservate; la clemenza impartita ai vinti Whig; il Parlamento convocato in tempo debito; fatto qualche tentativo per riconciliare le nostre domestiche fazioni; e i principii della Triplice Alleanza avrebbero nuovamente diretta la nostra politica estera. Egli era, quindi, incorso nell’acre odio di Giacomo. Il Lord Cancelliere Guildford, appena poteva dirsi d’appartenere ad alcuno dei partiti in che la Corte era scissa. Non potevasi in nessuna guisa chiamare amico alla libertà; e nondimeno egli aveva tale riverenza per la lettera della legge, da non essere utile strumento di tirannide. Per la qual cosa, i Tory lo mostravano a dito come un Barcamenante, e Giacomo lo aborriva e insieme spregiava. Ormond, che era Lord maggiordomo e vicerè d’Irlanda, in quel tempo stanziava in Dublino. I diritti ch’egli aveva alla gratitudine del Re, erano superiori a quelli d’ogni altro suddito. Aveva strenuamente pugnato per Carlo I, era stato compagno d’esilio di Carlo II; e dopo la Restaurazione, a dispetto di molte provocazioni, aveva serbata senza macchia la propria lealtà. Comecchè, predominante la Cabala, fosse caduto in disgrazia, non era mai trascorso ad alcuna faziosa opposizione, e nei giorni della Congiura Papale e della Legge d’Esclusione, era stato primo tra i sostenitori del trono. Adesso era vecchio, e di recente era stato visitato dalla più cruda sciagura. Aveva accompagnato al sepolcro un figlio, il valoroso Ossory, che avrebbe dovuto chiudere gli occhi del genitore. I grandi servigi, l’età veneranda e le sventure domestiche rendevano Ormond obietto di universale interesse alla nazione. I Cavalieri lo consideravano, e per diritto d’anzianità e per diritto di merito, loro capo; e i Whig sapevano ch’egli, per quanto fosse stato ognora fedele alla causa della monarchia, non era amico nè della tirannide nè del papismo. Ma, comunque godesse tanto la pubblica stima, poco era il favore che poteva aspettarsi dal nuovo signore. Giacomo, mentre anche egli era nella condizione di suddito, aveva sollecitato il proprio fratello a cangiare onninamente l’amministrazione dell’Irlanda. Carlo aveva assentito, deliberando che tra pochi mesi Rochester verrebbe nominato Lord Luogotenente.[234] VI. Rochester era l’unico membro del Gabinetto che godesse altamente il favore del nuovo Re. Comunemente credevasi ch’egli verrebbe tosto messo a capo del governo, e che tutti gli altri Ministri sarebbero cangiati. Tale espettazione era bene fondata, ma solamente in parte. Rochester fu fatto Lord Tesoriere, e così diventò primo Ministro. Non fu nominato nè Lord Grande Ammiraglio, nè Banco dell’Ammiragliato. Il nuovo Re, che dilettavasi delle minuzie delle faccende navali, e sarebbe riuscito un esperto scrivano nell’arsenale di Chatham, deliberò di amministrare da sè il ministero di marina. Sotto lui, il maneggio di quell’importante dipartimento fu affidato a Samuele Pepys, del quale la biblioteca e il diario hanno tramandata la memoria fino ai nostri tempi. Nessuno de’ servitori del defunto sovrano venne pubblicamente posto in disgrazia. Sunderland fece prova di tali artificii e destrezza, mise di mezzo tanti intercessori, e sapeva cotanti secreti, che gli si lasciò il Gran Sigillo. Dell’ossequiosità, industria, espertezza e taciturnità di Godolphin, mal poteva farsi senza. Non v’essendo più mestieri di lui al Tesoro, fu fatto Ciambellano della Regina. Con questi tre Lordi il Re consigliavasi in tutte le più importanti questioni. In quanto ad Ormond, Halifax e Guildford, ei pensò non di cacciarli via, ma soltanto umiliarli e dar loro molestia. Ad Halifax fu detto di rendere il Sigillo Privato, ed accettare la presidenza del Consiglio. Ei si sottopose con estrema ripugnanza; imperocchè, quantunque il Presidente del Consiglio avesse sempre avuta la precedenza sul Lord del Sigillo Privato, questo ufficio in quella età era più importante di quello di Presidente. Rochester non s’era dimenticato dello scherzo che gli era stato fatto pochi mesi avanti, allorquando fu levato dal Tesoro; e alla sua volta provò il piacere di cacciare a calci in alto il proprio rivale. Il Sigillo Privato fu dato ad Enrico Conte di Clarendon, fratello maggiore di Rochester. A Barillon, Giacomo manifestò com’ei detestasse Halifax. «Lo conosco pur troppo, e so di non potermene mai fidare. Ei non porrà le piani nelle faccende dello Stato. Il posto che gli ho dato, servirà appunto a mostrare al mondo la sua poca influenza.» Ma reputò convenevole di parlare ad Halifax con linguaggio ben differente. «Tutto il passato è messo in oblio,» disse il Re «tranne il servigio che voi mi rendeste nel dibattimento sopra la Legge d’Esclusione.» Queste parole sono state di sovente citate, onde provare che Giacomo non era così vendicativo siccome è stato chiamato dai suoi nemici. E’ pare anzi che provino che egli in nessun modo fosse meritevole della lode di sincerità datagli da’ suoi amici.[235] Ad Ormond fu fatto gentilmente sapere che più non erano necessarii i suoi servigi in Irlanda, e venne invitato a Whitehall per adempire l’ufficio di Maggiordomo. Egli si sottopose, ma non fece sembiante di nascondere che ne era rimasto profondamente offeso. La vigilia della sua partenza, diede un magnifico banchetto in Kilmainham Hospital, edifizio pur allora terminato, agli ufficiali del presidio di Dublino. Finito il pranzo, ei sorse, riempì di vino un bicchiere fino all’orlo, e levandolo in alto, chiese se ne fosse caduta una sola gocciola. «No, gentiluomini; dicano ciò che pur vogliono i cortigiani, io non ho per anche perduto il senno; la mia mano non trema ancora, e la mia mano non è più ferma del mio cuore. Alla salute del re Giacomo!» Fu questo l’ultimo addio di Ormond alla Irlanda. Egli lasciò il governo nelle mani dei Lordi Giudici, e ritornò a Londra, dove fu accolto con inusitati segni di pubblica riverenza. Molti grandi personaggi gli andarono incontro per via. Una lunga fila di cocchi lo accompagnò fino a Saint–James–Square, dove era il suo palazzo; e la piazza era piena di numerosa gente che lo salutava con alte acclamazioni.[236] VII. Il Gran Sigillo fu lasciato a Guildford; ma nel tempo stesso gli venne fatto un gran torto. Fu deliberato di chiamare, per assisterlo nell’amministrazione, un altro legale di maggiore vigore e audacia. Lo eletto fu Sir Giorgo Jeffreys, Capo Giudice della Corte del Banco del Re. La pravità di quest’uomo è passata in proverbio. Ambidue i grandi partiti inglesi hanno vituperato con virulenza il nome di lui; perocchè i Whig lo consideravano come il loro più barbaro nemico, e i Tory stimavano convenevole gettargli addosso la infamia di tutti i delitti che deturparono il loro trionfo. Uno esame schietto e diligente mostrerebbe che alcune orrende novelle che si sono intorno a lui raccontate, sono false o esagerate. Nulladimeno, lo storico spassionato non varrebbe a scemare se non di poco la ingente massa d’infamia che si aggrava sopra la memoria di quel giudice ribaldo. Era uomo di mente pronta e vigorosa, ma d’indole inchinevole alla insolenza e all’iracondia. Appena uscito di fanciullezza, aveva esercitata la professione in Old Bailey, tribunale dove gli avvocati hanno sempre usata licenza di parole ignota in quello di Westminster Hall. Quivi per molti anni occupossi precipuamente negli esami e riesami de’ più incorreggibili scellerati della grande metropoli. I giornalieri conflitti con le prostitute e co’ ladri, svegliarono ed esercitarono tanto le facoltà sue, che egli diventò il bravazzone più consumato che si fosse mai conosciuto nella sua professione. Ogni umanità verso i sentimenti altrui, ogni rispetto di sè stesso, ogni senso di decenza furono cancellati dall’animo suo. Acquistò immensa perizia nella rettorica con la quale il volgo esprime l’odio e lo spregio. La profusione delle imprecazioni e oscene parole ond’era composto il suo vocabolario, potevano appena trovare agguaglio fra la marmaglia de’ mercati. Il contegno e la voce di lui dovettero sempre essere stati sgradevoli. Ma questi pregi naturali—poichè sembra ch’ei tali gli reputasse—aveva a tal grado d’eccellenza condotti, che pochi erano coloro i quali, ne’ suoi eccessi di rabbia, potevano tranquillamente vederlo o ascoltarlo. La impudenza e la ferocia gli sedevano sul ciglio. Il lampo degli occhi suoi ammaliava la infelice vittima sopra la quale ei li figgeva. Nondimeno, e il ciglio e lo sguardo erano meno terribili della sconcia forma della sua bocca. Il suo rabido urlo, siccome affermò un tale che l’aveva spesso udito, sembrava il tuono del giorno del giudizio finale. Queste qualità ei portò seco, ancor giovine d’anni, dalla sbarra degli avvocati al banco de’ giudici. Salì presto, diventò Avvocato di Comune, e poi Cancelliere di Londra. Come giudice nelle sessioni della Città, mostrò le tendenze medesime che poi, asceso più in alto, gli acquistarono immortalità non invidiabile. Si sarebbe già potuto in lui notare il vizio più odioso di cui sia capace l’umana natura; cioè il godere dell’infelicità altrui, soltanto perchè è infelicità. Vedevasi una esultanza infernale nel modo onde profferiva le condanne dei rei. Il loro pianto, le loro preghiere sembravano solleticarlo voluttuosamente; ed egli amava di spaventarli, distendendosi con lussureggiante amplificazione sopra tutti i particolari di ciò che loro toccava di soffrire. Diffatti, quand’egli aveva occasione di ordinare che una malfortunata avventuriera venisse pubblicamente fustigata, «Carnefice,» gridava «t’incarico di usare attenzione particolare a cotesta signora! Flagellala sodo, flagellala a sangue! Siamo al dì di Natale, tempo freddo perchè Madama si spogli. Vedi di scaldarle bene le spalle.»[237] Non fu meno faceto allorchè profferì la sentenza contro il povero Lodovico Muggleton, quell’ebbro sarto che si credeva profeta. «Villano sfacciato!» urlò Jeffreys «tu avrai un gastigo dolce, dolce, dolce!» Una parte di questo dolce castigo fu la gogna, in cui lo sciagurato fanatico rimase pressochè morto dalle sassate.[238] Verso questo tempo, il cuore di Jeffreys era diventato duro come i tiranni lo cercano nell’uomo che loro bisogni per mandare ad esecuzione le loro peggiori voglie. Egli aveva fino allora sperato nel Municipio di Londra per salire in alto. E però si era dichiarato Testa–Rotonda, e mostrava più gran giubbilo sempre che gli accadeva di dire ai preti papisti che verrebbero tagliati a pezzi, e che vedrebbero ardere i propri intestini, di quel che mostrava quando profferiva sentenze ordinarie di morte. Ma, appena conseguì tutto ciò che la Città poteva dare, affrettossi a vendere alla Corte il suo viso di bronzo e la sua lingua venefica. Chiffinch, il quale era avvezzo a far da mezzano in più specie di contratti infami, gli prestò aiuto. Egli aveva orditi molti amorosi e politici intrighi; ma certo non. rendè mai ai suoi signori un servigio più scandaloso di quello di presentare Jeffreys a Whitehall. Il rinnegato trovò tosto un protettore nell’indurito e vendicativo Giacomo; ma fu sempre trattato con disprezzo e disgusto da Carlo, il quale, non ostante i suoi gravi difetti, non fu mai nè crudele nè insolente. «Cotesto uomo» diceva il Re «non ha nè dottrina nè buon senso nè modi, ed ha più impudenza di dieci sgualdrine.»[239] Nonostante, era d’uopo di tal ministero che non si sarebbe potuto affidare a persona che fosse riverente delle leggi o sensibile alla vergogna; e così Jeffreys, nella età in cui un avvocato si reputa avventuroso se venga adoperato a condurre una causa importante, fu fatto Capo Giudice del Banco del Re. I suoi nemici non potevano negare ch’egli possedesse talune delle doti che formano un gran giudice. Il suo sapere giuridico, a dir vero, era quello che egli aveva potuto acquistare non esercitandosi in cause importanti. Ma aveva una di quelle menti felicemente costituite, le quali traverso al labirinto della sofisticheria, e fra mezzo ad una selva di fatti di poco momento, vanno diritte al vero punto. Nulladimeno, rade volte egli aveva pieno uso delle sue facoltà intellettuali. Anco nelle cause civili, l’indole sua violenta e dispotica gl’infermava perpetuamente il giudicio. A chi entrava nella sala del suo tribunale, pareva d’entrare nella caverna di una belva che non può essere domata da nessuno, e che s’inferocisce di leggieri per le carezze come per le aggressioni. Spesso avventava ai querelanti ed agli accusati, agli avvocati e ai procuratori, ai testimoni e ai giurati un torrente di matte ingiurie, miste di maledizioni e bestemmie. Se lo sguardo e il tono della voce ispiravano terrore quando egli era semplice avvocato ed ingegnavasi di acquistare clientela, adesso ch’era capo del più formidabile tribunale del Regno, pochi erano coloro i quali non tremassero al suo cospetto. Anche quando egli era sobrio, la sua violenza non era poco spaventevole. Ma, generalmente, la sua ragione era ottenebrata, e le sue malvage passioni irritate dall’ebrietà. D’ordinario passava le serate immerso nella dissolutezza. Chi lo avesse veduto col fiasco dinanzi, lo avrebbe giudicato uomo grossolano, balordo, di bassa classe e amante de’ triviali sollazzi, ma socievole e di buon umore. In tali occasioni vedevasi circondato da buffoni, scelti, per la più parte, fra i più vili mozzorecchi che esercitavano il mestiere al suo tribunale. Costoro sbeffeggiavansi e vituperavansi a vicenda per divertirlo. Egli s’associava al loro osceno cicaleccio, e come gli si scaldava il cervello, li abbracciava e baciava in una estasi di tenerezza ebbra. Ma quantunque in sulle prime il vino sembrasse ammollirgli il cuore, gli effetti che poche ore dopo in lui produceva erano assai differenti. Spesso egli recavasi al seggio della giustizia, dopo d’avere fatto lunga pezza attendere la Corte, e nondimeno senza avere dormito tanto da svinazzarsi, con le guance infocate, e gli occhi stralunati come quelli d’un maniaco. Trovandosi in siffatto stato coloro che gli erano stati compagni nella gozzoviglia della notte precedente, se erano savi, sottraevansi al suo sguardo; perciocchè la rimembranza della familiarità alla quale gli aveva ammessi, infiammava la malignità di lui; ed avrebbe sicuramente afferrata la minima occasione per coprirli d’imprecazioni e d’invettive. Fra le sue molte odiose specialità, non era meno odioso il piacere che egli prendevasi a guardare in cagnesco e mortificare pubblicamente coloro che, negli accessi della sua tenerezza da briaco, aveva incoraggiati a fidarsi del suo favore. I servigi che il Governo aveva sperato ch’ei gli dovesse rendere, furono compiti non solo senza tergiversazione, ma con sollecitudine e prospero successo. La sua prima impresa fu l’assassinio giuridico d’Algernon Sidney. Ciò che seguì poi, fu perfettamente conforme a tale principio. I Tory rispettabili lamentavano la infamia che la barbarie ed impudenza di un uomo tanto altamente locato, recava alla amministrazione della giustizia. Ma gli eccessi che empivano d’orrore gli animi de’ Tory, agli occhi di Giacomo erano argomenti di stima. Jeffreys quindi, dopo la morte di Carlo, ottenne un seggio nel Gabinetto e fu creato Pari. Quest’ultimo onore fu insigne prova della regia approvazione; avvegnachè fino dal secolo decimoterzo, in cui fu ricostituito il sistema giudiciale del Regno, nessun Capo Giudice avesse seduto come Pari in Parlamento.[240] Guildford si trovò alleggerito di tutte le sue funzioni politiche, e confinato nel suo solo ufficio di giudice così detto d’Equità. In Consiglio Jeffreys trattavalo con aperta scortesia. La facoltà di concedere ogni impiego pertinente al ramo legale, era nelle sole mani del Capo Giudice; e gli avvocati sapevano bene che il modo più sicuro di rendersi propizio il Capo Giudice, era quello di mancare di rispetto al Lord Cancelliere. VIII. Non erano trascorse molte ore da che Giacomo era Re, allorquando nacque contesa tra i due Capi della Legge. I proventi delle dogane erano stati concessi a Carlo, solo sua vita durante, e quindi non potevano essere legalmente riscossi dal nuovo sovrano. Era mestieri di alcune settimane per fare le elezioni della Camera de’ Comuni. Se infrattanto i dazi fossero rimasti sospesi, la rendita ne avrebbe avuto detrimento; il corso regolare del traffico sarebbe stato interrotto; il consumatore non ne avrebbe ritratto utile veruno; e ci avrebbero guadagnato solamente quegli avventurati speculatori, i cui carichi per avventura arrivassero durante lo intervallo di tempo tra la morte di Carlo e l’adunarsi del Parlamento. Il Tesoro era assediato dai mercatanti, i magazzini de’ quali erano ripieni di merci di cui avevano pagato il dazio; e grandemente temevano di vedere altri negozianti vendere le loro mercanzie a minor prezzo, e d’essere così ruinati. Gli spiriti imparziali è d’uopo che ammettano come cotesto fosse uno de’ casi in cui un Governo si possa giustificare, deviando dal sentiero rigorosamente costituzionale. Ma qualvolta è necessario deviare da cosiffatto sentiero, la deviazione non dovrebbe essere maggiore di quella che la necessità richiede. Guildford bene intese ciò, e consigliò in modo da recargli onore. Propose di riscuotere i dazi, ma di tenerli nello Scacchiere, separati dall’altra pecunia, fino a che si fosse adunato il Parlamento. In tal guisa il Re, violando la lettera della legge, avrebbe mostrato ch’ei desiderava conformarsi allo spirito di quella. Jeffreys porse un consiglio assai diverso. Suggerì di emanare un editto, che dichiarasse essere volontà e desiderio di Sua Maestà continuarsi a pagare le dogane. Tale consiglio concordava appieno con l’indole del Re. La giudiciosa proposta del Lord Cancelliere fu messa da parte come degna d’un Whig, o—e ciò era anche peggio—di un Barcamenante. Comparve un decreto, secondo la forma suggerita dal Capo Giudice. Taluni s’aspettavano uno scoppio violento di pubblico sdegno; ma rimasero ingannati. Lo spirito della opposizione non s’era ancora riacceso, e la Corte poteva con sicurtà avventurarsi a fare passi tali che, cinque anni innanzi, avrebbero prodotto una ribellione. Nella Città di Londra, poco fa così turbolenta, non fu udito nè anche un mormorio.[241] IX. Il proclama che annunziava la riscossione delle dogane, dava medesimamente lo annunzio che tra breve tempo si sarebbe ragunato il Parlamento. Giacomo, non senza molti tristi presentimenti s’induceva a convocar gli Stati del Regno. A dir vero, il momento era assai propizio per una elezione generale. Giammai, dal dì che la Casa degli Stuardi cominciò a regnare, i Corpi costituenti erano stati cotanto favorevolmente disposti verso la Corte. Ma la mente del nuovo Sovrano era compresa d’una paura, che anche dopo tanti anni non può rammentarsi senza sdegno e rossore. Egli temeva che, convocando il suo Parlamento, sarebbe incorso nel dispiacere del Re di Francia. X. Al Re di Francia importava poco quale de’ due partiti inglesi trionfasse nelle elezioni; imperocchè tutti i Parlamenti ch’eransi radunati dopo la Ristaurazione, in qualunque modo fossero disposti rispetto alla politica interna, erano stati gelosi del crescente potere della Casa de’ Borboni. Intorno a ciò poco differivano i Whig dai bruschi gentiluomini di provincia, i quali costituivano la forza precipua del partito Tory. Luigi, quindi, non era stato avaro nè di corruzione nè di minacce a fine d’impedire che Carlo convocasse le Camere; e Giacomo, che fin da principio era stato partecipe del segreto onde procedeva la politica estera del fratello, ora essendo Re, era divenuto mercenario e vassallo della Francia. Rochester, Godolphin e Sunderland, che formavano il Gabinetto intimo, sapevano pur troppo che il loro defunto signore era assuefatto a ricevere danari dalla Corte di Versailles. Giacomo li richiese di consiglio in quanto alla utilità di convocare la Legislatura. Essi riconobbero la grande importanza di tenersi Luigi bene edificato; ma pareva loro che la convocazione del Parlamento non fosse questione di scelta. Per quanto paziente sembrasse la nazione, tale pazienza aveva i suoi limiti. Il principio che il Re non potesse legittimamente prendere la pecunia del suddito senza il consenso della Camera de’ Comuni, aveva profonde radici nella mente del popolo; e comecchè, in un bisogno estraordinario, anche i Whig avrebbero volentieri pagato, per poche settimane, dazi non imposti con apposita legge, egli era certo che gli stessi Tory si sarebbero opposti qualora tali tasse irregolari si fossero mantenute più lungo tempo delle circostanze speciali che sole le giustificavano. Era, dunque, mestieri che le Camere si adunassero; e così essendo, giovava convocarle il più presto possibile. Anche il breve indugio, necessario a richiederne il parere della Corte di Versailles, poteva produrre danni irreparabili. Il malcontento e il sospetto si sarebbero rapidamente sparsi fra il popolo. Halifax avrebbe mosso lamento, dicendo che si violavano i principii fondamentali della Costituzione. Il Lord Cancelliere, da quel codardamente pedante e speciale avvocato ch’egli era, avrebbe fatto lo stesso. Ciò che poteva farsi di buona grazia, sarebbe in fine stato fatto di mala grazia. Que’ ministri medesimi, ai quali Sua Maestà studiavasi di far perdere la pubblica stima, avrebbero acquistata popolarità a danno di quella. Il mal umore della nazione avrebbe gravemente influito sull’esito delle elezioni. Tali argomenti non ammettevano risposta. Per la quale cosa, il Re annunziò al paese, essere sua intenzione di convocare il Parlamento. Ma sentiva la tormentosa ansietà di purgarsi della colpa d’avere agito indebitamente e con poco rispetto verso la Francia. Trasse Barillon in una secreta stanza, e si scusò di avere osato fare un passo di così grave momento, senza averne ottenuta l’approvazione da Luigi. «Assicurate il vostro signore» disse Giacomo «della gratitudine e dello affetto che sento per lui. Conosco bene di non potere far nulla senza la sua protezione. Conosco parimente in quali impacci cadde il mio fratello per non avere fermamente aderito alla Francia. Provvederò con ogni studio perchè le Camere non s’immischino negli affari esteri. Se scoprirò ne’ membri la minima tendenza a far male, li manderò a badare alle loro faccende. Fate intendere ciò al mio buon fratello. Spero ch’egli non s’impermalisca se ho agito senza consultarlo. Egli ha diritto d’essere consultato; ed è mio desiderio consigliarmi con lui in ogni cosa. Ma nel caso presente l’indugio, anche d’una settimana, avrebbe potuto recare serie conseguenze.» Queste vergognose scuse, il dì seguente, furono ripetute da Rochester. Barillon le ricevè con cortesia. Rochester, reso più audace, chiese danari. «Saranno ben collocati» diss’egli. «Il vostro signore non potrebbe meglio impiegare le sue entrate. Fategli intendere come importante egli sia che il Re d’Inghilterra dipenda, non dal proprio popolo, ma dalla sola amicizia della Francia.»[242] Barillon fu sollecito a comunicare a Luigi il desiderio del Governo inglese; ma Luigi lo aveva prevenuto. La prima cosa ch’egli fece, saputa la morte di Carlo, fu di raccogliere cambiali sopra l’Inghilterra fino alla somma di cinquecentomila lire, equivalenti a trentasettemila cinquecento sterline. Non era agevole a que’ tempi, dopo un giorno d’annunzio, procurarsi simili cambiali in Parigi. In poche ore, nondimeno, lo acquisto fu fatto, e un corriere spedito a Londra.[243] Appena Barillon ricevè le cambiali, volò a Whitehall a recare la fausta nuova. Giacomo non arrossì di spargere, o simulare di spargere, lacrime di gioia e di gratitudine. «Nessun altro che il Re vostro» disse «è capace di così belle e nobili azioni. Io non gli sarò mai grato tanto che basti. Assicuratelo che lo affetto che gli porto, durerà quanto la mia vita.» Rochester, Sunderland e Godolphin corsero, l’uno dopo l’altro, ad abbracciare lo ambasciatore, susurrandogli all’orecchio ch’egli aveva dato nuova vita al loro signore.[244] Ma, quantunque a Giacomo e ai suoi tre consiglieri piacesse la prontezza di Luigi, non rimasero punto satisfatti della somma della pecunia donata. Nulladimeno, perchè temevano d’offenderlo mostrandosi importunamente mendichi, non fecero se non accennare i desideri loro. Dichiararono, non avere intendimento di mercanteggiare con un tanto generoso benefattore quale era il Re di Francia, e fidarsi onninamente alla sua munificenza. Nel tempo stesso, provaronsi d’ingraziarselo con un gran sacrificio dell’onor nazionale. Sapevasi bene che uno de’ fini precipui della sua politica, era quello di aggiungere ai propri dominii le provincie del Belgio. L’Inghilterra era vincolata da un trattato, già concluso con la Spagna nel tempo in che Danby era Lord Tesoriere, con lo scopo di avversare ogni tentativo che la Francia avesse potuto fare a insignorirsi di quelle provincie. I tre Ministri fecero sapere a Barillon, come il loro signore considerasse non obbligatorio cotale trattato. Era stato fatto, dicevano essi, da Carlo, il quale avrebbe potuto forse tenersene vincolato; ma il suo fratello non si reputava obbligato ad osservarlo. Il Cristianissimo, quindi, poteva oramai, senza temere opposizione da parte della Inghilterra, procedere ad incorporare al proprio Impero il Brabante e l’Hainault.[245] XI. Nel tempo stesso, fu deliberato di spedire un’ambasceria straordinaria, per assicurare Luigi dello affetto e della gratitudine che gli portava Giacomo. A tale missione fu prescelto un uomo che non occupava per anche un posto molto eminente, ma la cui rinomanza, stranamente mista d’infamia e di gloria, empì in tempi posteriori tutto il mondo incivilito. Tosto dopo la Restaurazione, in que’ gioiosi e corrotti tempi celebrati dalla vivace penna di Hamilton, Giacomo, giovane ed ardente amatore di sensuali diletti, erasi invaghito di Arabella Churchill, una dello dame di Corte della sua prima moglie. La giovinetta non era bella; ma Giacomo, non avendo gusto delicato, se ne fece una concubina. Era figlia d’un povero Cavaliere, assiduo in Whitehall, e resosi ridicolo publicando un volume in foglio, scritto con istile pesante ed affettato—da lungo tempo caduto in oblio—in lode della monarchia e dei monarchi. Grandissimi erano i bisogni dei Churchill, ardente la lealtà loro, e il sentimento che provarono, come seppero la seduzione d’Arabella, sembra che fosse una sorpresa di gioia, pensando che una fanciulla di sì poca beltà avesse sortito una tanta onorificenza. Ella fu grandemente utile ai propri parenti; ma niuno di costoro fu fortunato al pari del suo maggior fratello Giovanni, bel giovane, il quale era vessillifero nelle Guardie a piedi. Elevossi rapidamente nella Corte e nello esercito, e presto si rese notevole come uomo di moda e dedito ai piaceri. Aveva dignitosa la persona, bello il viso, seducente la parola, ma con tanto contegno, che i più impertinenti zerbini non ardivano trattarlo con la minima libertà: l’indole sua era tale, che egli nelle più moleste e provocanti occasioni non perdeva mai la signoria di sè stesso. Era stato sì pessimamente educato, da non sapere compitare i vocaboli più comuni della propria lingua; ma lo acuto e vigoroso intendimento largamente suppliva al difetto della dottrina che s’impara ne’ libri. Non era loquace; ma sempre che gli era forza di parlare in pubblico, la sua naturale eloquenza muoveva ad invidia i più esperti oratori. Aveva animo singolarmente freddo e imperturbabile. Per molti anni di ansietà e di periglio, egli non perdè mai, nè anche per un istante, il perfetto uso del suo ammirevole giudicio. Nel ventesimoterzo degli anni suoi, fu mandato col suo reggimento a congiungersi con le armi francesi, che allora procedevano contro la Olanda. La sua serena intrepidezza lo faceva predistinguere fra le migliaia di valorosi soldati. La sua perizia nell’arte militare imponeva rispetto ai vecchi ufficiali. Venne pubblicamente ringraziato al cospetto dell’esercito, ed ebbe molti segni di stima e fiducia da Turenna, che allora era nella maggiore altezza della sua gloria. Sventuratamente, le splendide doti di Giovanni Churchill erano congiunte con altre della specie più sordida. Ben per tempo cominciarono a mostrarsi in lui alcune tendenze che sono singolarmente sgradevoli. Era cupido di guadagno ne’ suoi stessi vizi, e imponeva contribuzioni alle dame arricchite delle spoglie di amanti più liberali. Per breve tempo ei fu l’obietto della violenta ma volubile tenerezza della Duchessa di Cleveland. Una volta fu sorpreso dal Re in compagnia di lei, e gli fu forza saltar giù dalla finestra. La dama rimunerò tale rischiosa prova di galanteria con un dono di cinquemila lire sterline. Il prudente giovine eroe comprò subito con quel danaro una rendita annua di cinquecento sterline, assicurata sopra terreni.[246] Già i suoi scrigni contenevano gran copia di pecunia, che cinquanta anni dopo, allorchè era Duca e Principe dello Impero, e il più ricco suddito d’Europa, rimaneva intatta.[247] Finita la guerra, egli ebbe un ufficio nella famiglia del Duca di York; accompagnò il suo protettore ai Paesi Bassi e a Edimburgo, ed in ricompensa de’ suoi servigi fu creato Pari di Scozia, ed ebbe il comando del solo reggimento di dragoni che fosse nelle milizie inglesi.[248] La sua moglie ottenne un posto nella famiglia d ella principessa di Danimarca, figlia minore di Giacomo. Lord Churchill, adunque, fu spedito ambasciatore straordinario a Versailles. Gli fu ingiunto di significare la fervida gratitudine che sentiva il Governo inglese per la pecunia così generosamente data. In origine s’era pensato che nel tempo stesso dovesse chiedere a Luigi una somma maggiore; ma meglio considerando la cosa, compresero che la poco delicata cupidigia avrebbe stomacato il benefattore, che erasi spontaneamente mostrato cotanto liberale. A Churchill, quindi, fu fatto comandamento di porgere grazie per ciò ch’era passato, e non far motto intorno al da venire.[249] Ma Giacomo e i Ministri suoi, anche mentre protestavano come non intendessero d’essere importuni, studiavansi di accennare, con modi molto intelligibili, ciò che desideravano e speravano. Lo ambasciatore francese era per loro un destro, zelante e forse non disinteressato intercessore. Luigi oppose talune difficoltà, probabilmente col fine di accrescere il pregio de’ propri doni. Nondimeno, in poche settimane, Barillon ricevè da Versailles un milione e cinquecento lire, oltre i denari già mandati. Tal somma, che equivaleva a cento dodici mila sterline, egli ebbe istruzione di ripartire cautamente. Ebbe potestà di dare al Governo inglese trenta mila lire sterline da impiegarsi a corrompere i membri della nuova Camera de’ Comuni. Il rimanente doveva egli tenere con sè per servirsene in qualche caso straordinario, come sarebbe uno scioglimento delle Camere, o una insurrezione.[250] La turpezza di cotesti negoziati è universalmente riconosciuta; ma la loro vera natura sembra essere soventi volte fraintesa: perocchè, quantunque dopo pubblicato il carteggio di Barillon, la politica estera de’ due ultimi Re della Casa Stuarda non abbia mai trovato fra noi chi osasse difenderla, vi è tuttavia un partito che s’affatica a scusare la loro politica interna. Eppure, egli è certo che tra l’una e l’altra era necessaria e indissolubile connessione. Se essi per pochi mesi avessero tenuto alto l’onore del loro paese presso gli esteri, sarebbero stati costretti a cangiare intieramente il sistema d’amministrazione interna. È cosa assurda, quindi, lodarli d’avere ricusato di governare concordemente col Parlamento, e biasimarli per essersi sottoposti alla dittatura di Luigi; poichè essi non avevano se non una sola via da scegliere; dipendere, cioè, o da Luigi o dal Parlamento. Giacomo—volendo rendergli giustizia—avrebbe con gioia voluto trovare una via di mezzo; ma non ve n’era alcuna. Si rese schiavo della Francia; ma sarebbe erroneo rappresentarlo come schiavo contento. Egli aveva alterigia tanto da sdegnarsi con sè medesimo per essersi sottomesso a così duro vassallaggio, e da essere impaziente di svincolarsene: la quale disposizione era studiosamente incoraggiata dagli agenti di molte Potenze straniere. XII. La sua successione al trono aveva svegliato speranze e timori in ogni Corte del continente; e i primordii del suo governo venivano invigilati dagli stranieri con interesse non meno profondo di quello che sentivano i sudditi di lui. Un solo Governo desiderava che le turbolenze le quali per tre generazioni avevano sconvolta l’Inghilterra, durassero eterne. Tutti gli altri, repubblicani o monarchici, protestanti o cattolici romani, volevano vederle felicemente terminate. L’indole della lunga contesa tra gli Stuardi e i Parlamenti loro, era imperfettissimamente intesa da’ politici stranieri; ma nessun uomo di Stato poteva non conoscere lo effetto da quella contesa prodotto sull’equilibrio politico d’Europa. In circostanze ordinarie, le simpatie delle Corti di Vienna e di Madrid sarebbero state, senza dubbio, per un principe che lottava contro i sudditi, e segnatamente per un principe cattolico romano, persecutore di sudditi eretici: ma tutte coteste simpatie erano in allora vinte da un più forte sentimento. Il timore e l’odio ispirato dalla grandezza, ingiustizia ed arroganza del Re francese, erano al colmo. I suoi vicini dubitavano se fosse più pericoloso essere in guerra o in pace con lui; perciocchè in pace ei seguitava a saccheggiarli e oltraggiarli; in guerra essi avevano provato invano la sorte delle armi contro lui. In tanta perplessità, tenevano ansiosamente gli occhi vôlti all’Inghilterra. Agirebbe ella giusta i principii della Triplice Alleanza, o giusta quelli del Trattato di Dover? Da ciò dipendevano le sorti di tutti i suoi vicini. Aiutati dall’Inghilterra, gli altri Stati potevano opporre a Luigi nuova resistenza; ma non poteva da quella sperarsi nessun aiuto finchè non vi regnasse la concordia. Innanzi che cominciasse il conflitto tra il trono e il Parlamento, era stata una potenza di primo ordine; il dì in cui il conflitto ebbe fine, essa ridivenne potenza di primo ordine: ma mentre l’esito della contesa era dubbio, rimase condannata alla inazione e al vassallaggio. Era stata grande sotto i Plantageneti e i Tudor; divenne nuovamente grande sotto i principi che regnarono dopo la Rivoluzione: ma sotto i Re della Casa Stuarda, fu come se non esistesse nella carta geografica dell’Europa. Aveva perduto una specie d’energia senza acquistarne un’altra. Quella specie di forza onde essa nel secolo decimoquarto aveva potuto umiliare Francia e Spagna, aveva cessato di esistere. Quella specie di forza che nel decimottavo secolo umiliò nuovamente Francia e Spagna, non era ancora posta in azione. Il Governo non era più una monarchia limitata, secondo la forma politica delle età di mezzo; non era divenuto una monarchia limitata secondo la forma dei moderni tempi: co’ vizi di due diversi sistemi non aveva il vigore di nessuno. Gli elementi della nostra politica, invece di armonizzare, avversavansi vicendevolmente e s’annientavano. Tutto era transizione, conflitto e disordine. Il fine precipuo del sovrano era quello di abbattere i privilegi della Legislatura; quello della Legislatura era di usurpare le prerogative del sovrano. Il Re era sollecito d’accettare aiuti stranieri che lo liberassero dalla sciagura d’essere dipendente da un fazioso Parlamento. Il Parlamento negava al Re i mezzi di sostenere l’onor nazionale, temendo con molta ragione che verrebbero adoperati a stabilire il dispotismo nel paese. Lo effetto di tali gelosie fu che la patria nostra, con tutti i suoi grandi mezzi, fosse di sì poco peso nella Cristianità, come lo era il Ducato di Savoia o quello di Lorena, e certamente di assai minor peso che non era la piccola provincia d’Olanda. XIII. La Francia aveva grande interesse a prolungare questo stato di cose:[251] tutti gli altri potentati lo avevano a condurlo a fine. Era desiderio generale dell’Europa, che Giacomo governasse a seconda della legge e della pubblica opinione. Dallo stesso Escuriale vennero lettere esprimenti la speranza che il nuovo Re fosse in buona armonia col Parlamento e col popolo.[252] Perfino dal Vaticano giunsero avvertimenti contro lo smoderato zelo per la fede cattolica romana. Benedetto Odescalchi, che teneva il seggio papale col nome d’Innocenzo XI, sentì, come sovrano temporale, tutto il timore onde gli altri principi invigilavano il progresso della potenza francese. Aveva anche particolari cagioni d’inquietudine. Fu fortuna per la religione protestante, che nel momento in cui l’ultimo Re cattolico romano salì sul trono dell’Inghilterra, la Chiesa cattolica romana fosse lacerata da dissensioni e minacciata da un nuovo scisma. Un conflitto simile a quello che arse nel secolo undecimo tra gl’imperatori e i sommi pontefici, era sorto tra Luigi ed Innocenzo. Luigi, zelante fino alla bacchettoneria per le dottrine della Chiesa di Roma, ma tenace della sua regia autorità, accusava il Papa di usurpare i diritti secolari della Corona francese, ed era alla sua volta accusato dal Papa di usurpare il potere spirituale delle Chiavi. Il Re, superbo come egli era, incontrò uno spirito anche più risoluto del suo. Innocenzo, nelle relazioni private, era il più mansueto e gentile degli uomini; ma qualvolta parlava officialmente dalla cattedra di San Pietro, favellava col tono di Gregorio VII e di Sisto V. La lotta si fece grave. Gli agenti del Re furono scomunicati; gli aderenti del Papa banditi. Il Re creò vescovi i difensori della sua autorità. Il Papa rifiutò di approvarli. Quelli si posero al possesso de’ palazzi e delle rendite vescovili; ma erano incompetenti ad esercitare gli episcopali uffici. Innanzi che la contesa avesse fine, in Francia erano trenta prelati che non avevano potestà di conferire gli ordini o la cresima.[253] Se qualunque altro principe, tranne Luigi, fosse stato in quei tempi involto in simigliante contesa col Vaticano, tutti i Governi protestanti si sarebbero messi dalla parte di lui. Ma tanta era la paura e il dispetto che l’ambizione e insolenza del Re francese ispiravano, che chiunque avesse avuto il coraggio di vigorosamente avversarlo, era sicuro della universale simpatia. Anche i luterani e i calvinisti, che avevano sempre detestato il Papa, non potevano frenarsi dal desiderargli esito prospero contro un tiranno che ambiva alla monarchia universale. E’ fu così che, nel secolo nostro, molti i quali consideravano Pio VII come l’anticristo, gioivano nel vedere l’anticristo far fronte al gigantesco potere di Napoleone. Il risentimento che Innocenzo provava verso la Francia, lo dispose a guardare con occhio mite e liberale gli affari dell’Inghilterra. Il ritorno del popolo inglese alla greggia di cui egli era pastore, gli avrebbe senza dubbio racconsolata l’anima. Ma egli era bastevolmente savio da non credere che una nazione cotanto ardita e tenace potesse ricondursi al grembo della Chiesa di Roma col violento e incostituzionale esercizio dell’autorità regia. Non era difficile prevedere che qualora Giacomo con mezzi illegali e popolari si fosse studiato di promuovere gl’interessi della propria religione, la prova sarebbe fallita; l’odio che gl’isolani eretici sentivano per la vera fede, sarebbe diventato più forte e più feroce che mai; e nelle menti di tutti sarebbe nata una indissolubile colleganza tra il protestantismo e la libertà civile, tra il papismo e il potere arbitrario. Frattanto, il Re sarebbe divenuto obietto d’avversione e sospetto al suo popolo. L’Inghilterra sarebbe stata, come sotto Giacomo I, Carlo I e Carlo II, una potenza di terzo ordine; e la Francia avrebbe dominato irrefrenata oltre le Alpi e il Reno. Dall’altro canto, era probabile che Giacomo, operando con prudenza e moderazione, osservando strettamente le leggi, e sforzandosi di acquistare la fiducia del suo Parlamento, avrebbe potuto ottenere per coloro che professavano la sua religione, non poco alleggiamento. Dapprima si sarebbe venuto alla abolizione degli statuti penali; tosto dopo a quella delle incapacità civili. Infrattanto, il Re e la nazione inglese congiunti, si sarebbero potuti porre a capo della coalizzazione europea, avrebbero opposto un argine insormontabile alla cupidità di Luigi. Innocenzo fu reso più fermo nel proprio giudicio dal parere de’ principali inglesi che erano alla sua Corte. Fra essi, il più illustre era Filippo Howard, discendente dalle famiglie più nobili della Gran Brettagna; da un lato nipote del Conte d’Arundel, dall’altro del Duca di Lennox. Filippo era già da lungo tempo membro del sacro collegio; veniva comunemente chiamato il Cardinale d’Inghilterra; ed era precipuo consigliere della Santa Sede per le faccende concernenti la sua patria. Era stato cacciato in esilio dai clamori dei bacchettoni protestanti, ed uno de’ suoi, lo sventurato Stafford, era caduto vittima della loro rabbia. Nè i propri danni nè quelli di casa sua gli avevano acceso tanto il cervello, da renderlo un imprudente consigliere. Ogni lettera, quindi, che dal Vaticano arrivasse a Whitehall, raccomandava pazienza, moderazione, e rispetto ai pregiudizii del popolo Inglese.[254] XIV. Grande era il conflitto che ardeva nella mente di Giacomo. Saremmo verso lui ingiusti, ove supponessimo che la condizione di vassallo gli tornasse gradita. Egli amava l’autorità e gli affari; aveva alto concetto della dignità propria; anzi non era affatto privo di un sentimento che aveva qualche affinità con l’amore di patria. Gli si straziava l’anima pensando che il Regno da lui governato, fosse di minor conto nel mondo, che non erano altri Stati i quali avevano minori vantaggi naturali; e prestava facile ascolto ai Ministri stranieri, sempre che lo incitavano a manifestare la dignità del suo grado, porsi a capo di una grande confederazione, farsi protettore delle oltraggiate nazioni, e domare l’orgoglio di quella Potenza che teneva in timore il continente. Tali esortazioni gli facevano battere il cuore con emozioni incognite al suo spensierato ed effeminato fratello. Ma tali emozioni tosto cedevano a più forte sentimento. Una politica estera vigorosa, necessariamente presupponeva politica interna conciliatrice. Era impossibile far fronte alla possanza francese, e a un tempo calpestare le libertà della Inghilterra. Il Potere Esecutivo non avrebbe potuto imprendere nulla di grande senza lo assenso della Camera de’ Comuni, nè ottenerne lo aiuto senza agire a seconda delle opinioni di quella. In tal guisa, Giacomo accorgevasi di non potere conseguire insieme le due cose ch’ei più desiderava. Il secondo de’ suoi desiderii era quello d’essere temuto e rispettato dai Governi stranieri; ma il primo era di essere signore assoluto nel proprio Regno. Fra gli oggetti incompatibili cui il suo cuore aspirava, egli per qualche tempo procede piegando ora di qua ora di là. Il conflitto dell’animo diede ai suoi atti pubblici una strana sembianza d’irresolutezza e di falsità. Difatti, coloro i quali senza il filo d’Arianna tentavano d’esplorare il laberinto della sua politica, non sapevano intendere come lo stesso uomo nella settimana stessa potesse mostrarsi così superbo e così vile. Anco Luigi rendevano perplesso gli andamenti d’un alleato il quale, in poche ore, passava dall’omaggio alla disfida, e dalla disfida all’omaggio. Nondimeno, ora che ci è appieno manifesta la condotta di Giacomo, sembra che cotesta incoerenza possa agevolmente spiegarsi. Allorquando egli si assise sopra il trono, era in dubbio se il Regno si sarebbe tranquillamente sottoposto all’autorità sua. Gli Esclusionisti, poco fa così potenti, avrebbero potuto, correndo all’armi, insorgergli contro. Egli avrebbe potuto avere grande bisogno dell’oro e delle milizie della Francia: fu quindi per alquanti giorni pago di far la parte di piaggiatore e di mendicante. Si scusò umilmente d’avere osato convocare il suo Parlamento senza licenza del Governo francese; e lo pregò vivamente di concedergli un sussidio. Sparse lacrime di gioia sopra le cambiali francesi; mandò a Versailles una speciale ambasceria per significare la gratitudine, lo affetto, la sommissione ch’egli aveva per Luigi. Ma appena partita l’ambasceria, variò di sentimenti. Era stato da per tutto proclamato Re senza il minimo tumulto, senza il più lieve grido sedizioso. Da ogni parte dell’isola gli giungevano nuove ad assicurarlo che i suoi sudditi erano tranquilli ed obbedienti. Riprese animo, e sentì come la relazione disonorante da lui contratta con un potentato straniero, gli fosse intollerabile. Divenne altero, puntiglioso, vanitoso, rissoso. Parlava così altamente intorno alla dignità della propria Corona e all’equilibrio politico, che tutta la sua Corte aspettavasi ad un pieno rivolgimento nella politica estera del Governo inglese. Comandò a Churchill di mandargli una relazione minuta del ceremoniale di Versailles, affinchè gli onori onde ivi era stata accolta la legazione inglese, venissero debitamente contraccambiati, ma non più che contraccambiati, al rappresentante della Francia a Whitehall. La nuova di questo mutamento fu accolta con gioia a Madrid, a Vienna e all’Aja.[255] Il Re Luigi, in sulle prime, ne rise, dicendo: «Il mio buono alleato parla alto; ma egli ama tanto i miei zecchini, quanto li amava il suo fratello.» Nonostante, il variato contegno di Giacomo e, le speranze che ne avevano concepite i due rami di Casa d’Austria, cominciarono a richiamare più seria attenzione. Esiste tuttora una notevolissima lettera, nella quale il Re francese mostra sospetto d’essere stato ingannato, credendo che lo stesso danaro da lui mandato a Westminster, verrebbe adoperato a’ suoi danni.[256] Verso questo tempo, la Inghilterra s’era riavuta dalla tristezza ed ansietà cagionatale dalla morte del buon Carlo. I Tory fecero grandi proteste d’affetto verso il nuovo signore. La paura teneva domo il rancore dei Whig. Quella vasta massa di gente che non sono stabilmente Whig nè Tory, ma che pendono a vicenda ora verso gli uni ora verso gli altri, stava dalla parte de’ Tory. La reazione che aveva tenuto dietro alla dissoluzione del Parlamento d’Oxford, non aveva consunta la propria forza. XV. Il Re non indugiò punto a porre alla prova la lealtà de’ suoi amici protestanti. Mentre egli era suddito, soleva ascoltare la messa a uscio chiuso, in un piccolo oratorio, accomodato a uso della consorte. Adesso comandò che le porte si spalancassero, affinchè tutti coloro che andavano a complirlo, potessero vedere il servizio divino. Alla elevazione dell’ostia, seguì una strana confusione nell’anticamera. I cattolici romani prostraronsi in ginocchio; i protestanti uscirono frettolosamente fuori. Tosto un nuovo pulpito fu eretto in palazzo, d’onde, nella quaresima, sacerdoti papisti predicavano, con grave sconcerto de’ zelanti fedeli della Chiesa Anglicana.[257] Alla predetta innovazione seguì altra più grave. Giunta la settimana di Passione, il Re deliberò di assistere alla messa con la pompa medesima di che usavano circuirsi i suoi predecessori, andando ai tempii della religione anglicana. Palesò il suo intendimento ai tre Ministri del Gabinetto intimo, e ingiunse loro di accompagnarlo. Sunderland, pel quale tutte le religioni valevano lo stesso, fu pronto ad assentire. Godolphin, come Ciamberlano della Regina, era già assuefatto a darle mano quando essa recavasi all’oratorio, e non ebbe scrupolo d’inchinarsi officialmente nel tempio di Rimmon. Ma Rochester ne rimase gravemente conturbato. La influenza ch’egli esercitava sul paese, originava principalmente dal concetto, in che il clero e i gentiluomini Tory lo tenevano, di amico sincero e zelante della Chiesa. La sua ortodossia era considerata come piena espiazione di falli che altrimenti lo avrebbero reso il più impopolare uomo del Regno, avvegnachè avesse indole oltremodo arrogante e violenta, e modi quasi brutali.[258] Ei temeva che, arrendendosi alle voglie del principe, avrebbe perduta in gran parte la stima del proprio partito. Infine, non senza qualche contrasto, ottenne licenza di passare fuori di città i giorni santi. Tutti gli altri dignitari civili ebbero comandamento di trovarsi al proprio posto nella domenica della Pasqua. Così, dopo un intervallo di cento ventisette anni, i riti della Chiesa di Roma furono celebrati in Westminster con regia magnificenza. Le guardie reali erano schierate. I cavalieri della Giarrettiera portavano i loro collari. Il Duca di Somerset, secondo per grado fra i nobili secolari del reame, portava la spada dello Stato. Un gran codazzo di grandi Lordi accompagnò il Re al suo seggio. Ma fu notato che Ormond e Halifax rimasero nell’anticamera. Pochi anni innanzi, essi avevano valorosamente propugnata la causa di Giacomo contro alcuni di coloro che ora mostravansi ossequiosissimi. Ormond non aveva partecipato alla strage de’ cattolici romani. Halifax aveva animosamente votato per la non colpabilità di Stafford. E mentre i voltafaccia, che avevano preteso raccapricciar al solo pensiero di un Re papista, e senza misericordia versato il sangue innocente di un Pari papista, adesso spingevansi l’un l’altro per farsi più da presso a un altare papista, l’illustre Barcamenante si sarebbe giustamente potuto inorgoglire di quello impopolare saprannome.[259] XVI. Una settimana dopo cotesta cerimonia, Giacomo fece un sacrificio de’ suoi pregiudizi religiosi, assai maggiore di qualunque altro fin allora egli avesse richiesto da’ suoi sudditi protestanti. Si fece incoronare il giorno vigesimoterzo d’aprile, in che ricorre la festività del Santo patrono del Regno. Tutto Westminster fu splendidamente adornato. La presenza della Regina e delle mogli de’ Pari dava alla solennità uno incanto che era mancato alla magnifica inaugurazione del Re defunto. Nondimeno coloro che ricordavansi di quella cerimonia, affermarono che l’incoronazione di Giacomo fu meschina. L’antica usanza richiedeva che avanti la incoronazione il sovrano con tutti i suoi araldi, giudici, Consiglieri, Lordi e gran dignitari, cavalcasse solennemente dalla Torre a Westminster. L’ultima e più magnifica di tali cavalcate fu quella che traversò la metropoli, allorquando i sentimenti eccitati dalla Restaurazione erano ancor vivi. Lungo il cammino innalzavansi archi trionfali. Tutto Cornhill, Cheapside, Saint Paul’s Church Yard, Fleet Street, e lo Strand erano fiancheggiati da file di palchi. La città intera in tal modo poteva contemplare il principato nella sua forma più splendida e solenne. Giacomo ordinò che si calcolasse la spesa di simigliante processione, e fu riferito che ascenderebbe a circa la metà più della somma da esso proposta per coprire di ciondoli la sua sposa. Deliberò, quindi, d’essere prodigo dove aveva mestieri d’esser parco, e spilorcio dove avrebbe dovuto essere generoso. Più di cento mila lire sterline furono spese negli abiti della Regina; e la processione fu posta da parte. La insania di questo partito si conosce a prima vista: imperciocchè, se la pompa è utile in politica, lo è quando si adopera come mezzo di abbagliare la fantasia della moltitudine. E veramente, è grandissima assurdità escludere la plebe da uno spettacolo, il cui scopo principale è quello di produrre una impressione nell’animo della plebe. Giacomo avrebbe fatto mostra d’una più giudiziosa munificenza, e d’una parsimonia più giudiziosa, se avesse traversata Londra da levante a ponente con la solita pompa, e ordinato che gli abiti della propria moglie fossero stati meno sopraccarichi di perle e di diamanti. Nulladimeno i suoi successori per lungo tempo seguirono lo esempio di lui; e in uno spettacolo al quale venivano ammesse solo tre o quattro mila persone, si profondevano somme che, bene impiegate, avrebbero pôrto squisitissimo diletto ad una gran parte della nazione. In fine, venne in parte richiamato a vita lo antico costume. Il dì della incoronazione della regina Vittoria vi fu una processione, nella quale si sarebbero potuti notare molti mancamenti, ma che fu ammirata con interesse e diletto da mezzo milione di sudditi; e senza dubbio veruno, apprestò più piacere ed eccitò maggiore entusiasmo, della costosa solennità che facevasi fra mezzo a uno eletto numero di persone dentro l’Abbadia. Giacomo aveva fatto comandamento a Sancroft di abbreviare il rituale. La ragione che venne pubblicamente addotta, fu che il giorno era sì corto, da non potersi compiere tutto ciò ch’era da farsi. Ma chiunque si faccia ad esaminare i cangiamenti fattivi, si accorgerà che il vero fine fu quello di scartare talune cose le quali altamente offendevano i sentimenti religiosi d’un cattolico romano zelante. L’ufficio della comunione non fu letto. Fu omessa la cerimonia di presentare in dono al sovrano una Bibbia riccamente rilegata, e di esortarlo a pregiare sopra tutti i tesori della terra un volume ch’egli, secondo gl’insegnamenti ricevuti, reputava adulterato con false dottrine. Nulladimeno, ciò che rimaneva dopo tali omissioni, avrebbe potuto far nascere scrupoli nella mente di un uomo, il quale sinceramente avesse creduto che la Chiesa Anglicana era una società ereticale, nel cui seno non poteva acquistarsi la eterna salvezza. Il re fece una oblazione all’altare. Ripetè i responsi alle litanie cantate dai vescovi. Ricevè da que’ falsi profeti la unzione, simbolo della divina assistenza, e s’inginocchiò simulando devozione, mentre essi invocavano lo Spirito Santo, al quale erano, secondo egli credeva, maligni ed implacabili nemici. Tali sono le incoerenze della umana natura, che cotesto uomo, il quale per un fanatico zelo verso la propria religione perdè tre Regni, amò commettere un atto ch’era poco meno d’una apostasia, più presto che rinunziare al fanciullesco diletto della simbolica fantocciata della incoronazione.[260] Francesco Turner, vescovo d’Ely, predicò agli astanti. Era uno di quegli scrittori che seguitavano ad affettare lo stile antiquato dell’arcivescovo Williams e del vescovo Andrews. Il sermone era tessuto di quei concetti strani, che sessanta anni innanzi avrebbero potuto destare ammirazione, ma allora movevano a scherno una generazione d’uditori assuefatta alla pure eloquenza di Sprat, di South e di Tillotson. Salomone era Re Giacomo; Adonia, Monmouth; Joab era uno de’ congiurati di Rye House; Shimei, un libellista Whig; Abiathar, un onesto ma traviato Cavaliere. Una frase del libro delle croniche fu stiracchiata a significare che il Re era superiore al Parlamento; un’altra fu adatta a provare ch’egli solo avrebbe dovuto comandare le milizie cittadine. Verso la fine del discorso, l’oratore timidamente alluse alla nuova e impacciata condizione in cui la Chiesa trovavasi di faccia al sovrano, e rammentò agli uditori come lo imperatore Costanzo Cloro, benchè non fosse cristiano, avesse tenuto in onoranza i cristiani fedeli alla propria religione, e avesse spregiati coloro che cercavano guadagnarsi, apostatando, il favore di lui. Il servizio religioso nella Abbadia, fu seguito da un banchetto solenne nella Sala; il banchetto da magnifici fuochi artificiali, e i fuochi da molte cattive poesie.[261] XVII. Fu questo il momento in cui lo entusiasmo del partito Tory pervenne alla sua maggiore altezza. Dal dì in che Giacomo fu asceso sul trono, s’erano sempre avvicendati indirizzi, in cui quel partito esprimeva profonda venerazione per la persona e la dignità del monarca, e acre abborrimento per i vinti Whig. I magistrati di Middlesex rendevano grazie a Dio per avere dispersi i disegni di que’ regicidi ed Esclusionisti, i quali, non paghi d’avere assassinato un monarca santo, tentavano di distruggere le fondamenta della monarchia. La città di Gloucester esecrò i ribaldi sitibondi di sangue, che avevano tentato di privare la Maestà Sua del diritto ereditario. I borghesi di Wigan assicurarono il sovrano, che lo avrebbero difeso contro tutti gli Achitophel cospiratori, e i ribelli Assalonni. I gran giurati di Suffolk dissero sperare, che il Parlamento avrebbe proscritti gli Esclusionisti. Molti Consigli municipali giurarono di non rieleggere mai più alla Camera de’ Comuni chiunque avesse votato a favore della legge che voleva privare Giacomo del diritto di successione. Perfino la metropoli mostrò profondo ossequio. I legali e i commercianti fra loro gareggiavano di servilità. I collegi dei Tribunali, e quelli di Cancelleria, mandarono fervide professioni di sommissione e d’affetto. Tutte le grandi società commerciali, la Compagnia delle Indie Orientali, la Compagnia Affricana, la Compagnia di Turchia, la Compagnia di Moscovia, la Compagnia di Hudson Bay, i Mercanti di Maryland, i Mercanti della Giammaica, i Mercanti Avventurieri, dichiararono che accettavano ben volentieri lo editto regio, il quale ingiungeva loro di continuare a pagare i diritti doganali. Bristol, seconda città dell’isola, fece eco al voto di Londra. Ma in nessuno altro luogo lo spirito di lealtà fu più fervido di quel che fosse nelle due università. Oxford dichiarò che non si sarebbe mai dilungata da quei principii religiosi che la obbligavano a prestare obbedienza al Re senza limiti o restrizioni. Cambridge, con severissime parole, dannò la violenza e il tradimento di que’ torbidi spiriti che s’erano malignamente studiati di trarre la corrente della successione fuori del suo proprio alveo.[262] XVIII. Simiglianti indirizzi, per uno spazio considerevole di tempo, riempirono ciascun numero della Gazzetta di Londra. Ma non erano i soli indirizzi i mezzi onde i Tory mostravano il proprio zelo. Pubblicati i decreti per le elezioni parlamentari, il paese fu in grande concitamento. Non v’era mai stata elezione generale che, come questa, fosse accompagnata da circostanze cotanto favorevoli alla Corte. Centinaia di migliaia che la Congiura papale aveva cacciato dentro il partito Whig, furono ricacciati al partito Tory dalla congiura di Rye House. Nelle Contee, il Governo poteva esser sicuro d’una immensa maggioranza di gentiluomini possidenti trecento e più lire sterline l’anno, e di tutti gli ecclesiastici fino a uno. Quei borghi che un tempo erano cittadelle di Whig, erano di fresco stati con sentenza legale privati de’ loro Statuti, o avevano prevenuta la sentenza, spontaneamente rinunziandovi. Erano poi stati ricostituiti in modo da rieleggere senza dubbio rappresentanti devoti alla Corona. Dove non era da fidarsi dei cittadini, la franchigia elettorale era stata affidata agli scudieri delle vicinanze. In alcuni dei più piccoli municipii occidentali, i collegi elettorali erano in gran parte composti di Capitani e di Luogotenenti delle Guardie. I seggi elettorali avevano dovecchessia interesse per la Corte. In ciascuna Contea il Lord Luogotenente e i suoi deputati formavano un potente, operoso e vigilante comitato, col fine di carezzare e intimidire i liberi possidenti. Le popolazioni erano ammonite da migliaia di pulpiti a non votare a favore di nessun candidato Whig, perocchè ne dovevano render conto a Colui che aveva ordinato che vi fossero i potentati, e aveva detto la ribellione essere peccato non meno grave della stregoneria. Di tutti cotesti elementi il partito predominante non solo usò quanto potè, ma abusò in modo così svergognato, che gli uomini gravi e saggi, i quali si erano mantenuti fedeli alla monarchia mentre era in pericolo, e non portavano nessun affetto ai repubblicani e agli scismatici, tiraronsi da parte, e da siffatti primordii previdero lo appressarsi di tempi tristissimi.[263] Nondimeno i Whig, comecchè patissero la giusta pena de’ propri errori, e fossero sconfitti, scoraggiati, disordinati, non vollero cedere senza sforzi. Erano tuttavia numerosi nelle classi dei trafficanti e degli artigiani delle città, e in quelle de’ piccoli possidenti e de’ contadini sparsi per le campagne. In taluni distretti, come, a cagione d’esempio, nelle Contee di Dorset e di Somerset, formavano la gran maggioranza della popolazione. Nulla potevano nei borghi ricostituiti; ma in ogni Contea dove avevano probabilità di prospero successo, lottarono disperatamente. Nella Contea di Bedford, che all’ultimo Parlamento era stata rappresentata dallo sfortunato Russell, essi rimasero vincitori nella prova ad alzata di mani, ma perdenti in quella dello squittinio.[264] In Essex ottennero mille trecento voti contro mille ottocento.[265] Nella elezione della Contea di Northampton, il popolo procedè così violentemente ostile al candidato della Corte, che fu necessario appostare nella piazza di mercato della città della Contea una coorte di soldati, ai quali fu dato ordine di caricare a palla gli archibugi.[266] La storia della contesa per la elezione della Contea di Buckingham, è anche più degna di considerazione. Il candidato Whig, che aveva nome Tommaso Wharton, figlio primogenito di Filippo Lord Wharton, era uomo predistinto e per destrezza e per audacia, e destinato a rappresentare una parte cospicua, benchè non sempre commendevole, nella politica di vari sovrani. Nella Camera de’ Comuni era stato uno de’ membri, i quali avevano portata la Legge d’Esclusione alla barra di quella de’ Lordi. La Corte, adunque, era intesa ad usare ogni mezzo buono o cattivo per escluderlo dal Parlamento. Il Lord Capo Giudice Jeffreys recossi in persona nella Contea di Buckingham, a fine di sostenere un gentiluomo chiamato Hacket, che apparteneva al partito Tory. Immaginarono uno strattagemma, che essi pensavano dovesse produrre buono effetto. Fu annunziato che la elezione si farebbe in Ailesbury; e Wharton, la cui perizia in tutte le astuzie di condurre una elezione era senza rivali, ordinò tutto, credendo vera la cosa; allorquando, con improvviso annunzio, lo sceriffo fece sapere che lo squittinio seguirebbe in Newport Pagnell. Wharton e i suoi partigiani vi si recarono frettolosamente, e trovarono che Hacket, il quale sapeva il secreto, aveva già preso per conto suo tutte le locande e gli alberghi. I liberi possidenti Whig furono costretti a legare i propri cavalli alle siepi, e dormire a cielo scoperto sui prati che circondavano la città. E’ non fu senza difficoltà grandissima che si potè provvedere improvvisamente al vitto di tanto numero d’uomini e d’animali; quantunque Wharton, che non curava affatto spesa alcuna quando gli si accendevano in cuore l’ambizione e lo spirito di parte, sborsasse in un solo giorno mille cinquecento lire sterline, somma immensa per que’ tempi. Nonostante, sembra che tanta ingiustizia avesse ridato coraggio ai possidenti di Bucks, animosi figli degli elettori di Giovanni Hampden. Wharton non solo sortì vittorioso della prova, ma potè ottenere la elezione d’un altro uomo d’opinioni moderate, e sconfiggere il candidato del Capo Giudice.[267] Nella contea di Chester la lotta durò sei giorni. I Whig ebbero circa mille settecento voti, i Tory circa due mila. Il popolo minuto parteggiò con veemenza a favore de’ Whig, e gridando: «Abbasso i Vescovi!» insultò il clero per le vie di Chester, stramazzò a terra un gentiluomo Tory, ruppe le finestre e bastonò i commissari di polizia. Fu chiamata la milizia cittadina a chetare il tumulto, e fu fatta rimanere in armi, onde proteggere il trionfo de’ vincitori. Appena finito lo squittinio, cinque grossi cannoni dal castello annunziarono al paese circostante la vittoria della Chiesa e della Corona. Le campane sonarono a festa. Gli eletti furono condotti solennemente alla croce della città,[268] accompagnati da una banda musicale e da un lungo codazzo di cavallieri e scudieri. La processione andava cantando: «Letizia al gran Cesare!» ode cortigiana, la quale era stata, poco innanzi, scritta da Durfey, e quantunque, al pari di tutti gli scritti di lui, fosse estremamente spregevole, in quel tempo era quasi tanto popolare, quanto pochi anni dopo lo fu Lillibullero.[269] Attorno la croce stavano schierate le civiche milizie; fu acceso un fuoco di gioia; la Legge d’Esclusione venne bruciata; e si bevve con fragorose acclamazioni alla salute di Re Giacomo. Il dì seguente era domenica. La milizia schierossi in fila lungo le vie conducenti al duomo. I due rappresentanti della Contea furono condotti con gran pompa al coro dai magistrati della città; ascoltarono la predica del Decano, che probabilmente ragionò del debito d’obbedienza passiva; e poi furono festeggiati dal Gonfaloniere.[270] In Northumberland, il trionfo di Sir Giovanni Fenwik, cortigiano che acquistò poscia trista rinomanza, fu accompagnato da circostanze che destarono interesse in Londra, e che non furono stimate indegne d’essere rammentate, nei dispacci de’ Ministri stranieri. Newcastle fu illuminato con gran mucchi di carbone acceso. I campanili mandarono suoni di esultanza. Un esemplare della Legge d’Esclusione, ed una cassetta nera simigliante a quella che, secondo la favola popolare, conteneva il contratto di nozze tra Carlo II e Lucia Walters, vennero pubblicamente date alle fiamme con alte acclamazioni.[271] L’esito generale delle elezioni sorpassò le più ardenti speranze della Corte. Giacomo vide con gioia, come non gli fosse necessario di spendere un soldo a comperare i voti. Disse che, tranne circa quaranta membri, la Camera de’ Comuni era quale doveva essere ove egli l’avesse nominata da sè.[272] Oltrechè, stava in poter suo, secondo che allora consentivano le leggi, tenerla sino alla fine del suo regno. Essendo sicuro d’essere sostenuto dal Parlamento, poteva oramai appagare la libidine di vendetta. Aveva indole implacabile; e mentre era ancor suddito, aveva patito ingiurie e indegnità tali, che avrebbero mosso anche un animo placabile a fiero e durevole risentimento. Una setta d’uomini, in ispecie, aveva, con inusitata e indicibile crudeltà e vigliaccheria, aggredito l’onore e la vita di lui; voglio dire i testimoni della congiura. L’odio ch’ei loro portava, parrebbe degno di scusa; poichè fino ai dì nostri il solo profferirne il nome muove a schifo ed orrore gli uomini di tutte le sètte e di tutti i partiti. XIX. Alcuni di cotesti sciagurati erano in luogo dove non poteva giungere il braccio della umana giustizia. Bedloe era morto da ribaldo, senza dare il minimo segno di rimorso e di vergogna.[273] Dugdale gli era andato dietro, reso insano, secondo che dicevasi, dalle furie della pessima coscienza, con acute strida scongiurando coloro che stavano attorno al suo letto, d’allontanare lo spettro di Lord Stafford.[274] Carstairs anch’esso era morto. La sua fine fu tutta orrore e disperazione; e sul punto di mandare l’ultimo flato, aveva detto ai suoi assistenti di gittarlo a guisa d’un cane in un fosso, non essendo degno di riposare in un cimitero cristiano.[275] Ma Oates e Dangerfield erano in potere dello austero principe da essi oltraggiato. Giacomo, breve tempo avanti che ascendesse sul trono, aveva intentato un processo civile contro Oates per diffamazione; e i giurati lo avevano condannato a pagare la enorme multa di cento mila lire sterline.[276] Lo accusato, non potendo pagare, era stato preso, e viveva in carcere senza speranza d’uscire. Gli Alti Giurati di Middlesex, poche settimane avanti la morte di Carlo, avevano ammessi contro lui due atti d’accusa come colpevole di spergiuro. Appena finite le elezioni, si cominciò il processo. Tra le classi alte e le medie, ad Oates non rimaneva nè anche un amico. Tutti i Whig intelligenti erano convinti, che quando anche il suo racconto fosse in alcun modo fondato sul fatto, egli vi aveva edificato sopra un romanzo. Un numero considerevole di fanatici, nondimeno, lo considerava tuttavia come pubblico benefattore. Costoro bene sapevano che qualora ei fosse convinto di reità, la sua sentenza sarebbe severissima; e però infaticabilmente studiavansi a procacciargli la fuga. Quantunque fino allora fosse rinchiuso per debiti, venne posto in ferri dalle autorità della prigione del Banco del Re; ed anche ciò non era bastevole a tenerlo in sicura custodia. Al mastino che stava dinanzi all’uscio del suo carcere, fu dato il veleno; e nella medesima notte che precedè il suo processo, una scala di fune fu introdotta nella sua cella. Il giorno ch’ei fu condotto alla barra, Westminster Hall era affollata di spettatori, fra’ quali vedevansi molti cattolici romani, ansiosi di contemplare la miseria e la umiliazione del loro persecutore.[277] Pochi anni prima, il suo collo corto, le sue gambe ineguali come quelle d’un tasso, la sua fronte bassa a guisa di quella d’un babbuino, le sue guance chiazzate di sangue, la mostruosa lunghezza del suo mento, erano famigliari a quanti frequentavano le corti di giustizia. Era in que’ giorni diventato l’idolo della nazione: dovunque ei si mostrasse, ciascuno gli faceva di cappello. La vita e gli averi de’ magnati del reame erano stati in sua balìa. Ma adesso i tempi erano cangiati; e molti di coloro che per lo innanzi lo avevano considerato liberatore della patria, rabbrividivano alla vista di quegli osceni sembianti, sopra i quali pareva che il dito di Dio avesse scritto: scellerato![278] E’ fu provato, senza possibilità di dubbio, che questo uomo aveva, con false testimonianze, premeditatamente assassinate varie persone innocenti. Egli invocò invano i più eminenti membri del Parlamento, dai quali era stato ricompensato ed esaltato, perchè testificassero a favor suo. Parecchi di coloro ch’egli aveva chiamati al tribunale, assentaronsi. Nessuno disse la minima cosa che tendesse a scolparlo. Uno di loro, cioè a dire il Conte di Huntingdon, lo rimproverò aspramente d’avere ingannate le Camere, e gettata sopra esse la colpa d’aver versato il sangue innocente. I giudici guardavano fieri, ed avvilirono lo accusato con crudeltà tale, che anche nei casi più atroci mal conviene al carattere di ministro della giustizia. Eppure ei non mostrò segno di timore o vergogna, e con la insolenza della disperazione affrontò la tempesta delle invettive che scoppiava contro lui dalla barra, dal seggio e dal banco de’ testimoni. Fu dichiarato convinto sopra ambedue gli atti d’accusa. Quantunque, moralmente considerata, la sua colpa fosse assassinio della più grave specie, nondimeno agli occhi della legge era semplice delitto. Il tribunale, nondimeno, voleva che la pena da darglisi fosse più severa di quella de’ felloni o traditori, e non solo farlo morire, ma farlo morire tra orribili tormenti. Fu condannato ad essere spogliato degli abiti clericali, posto alla gogna in Palace Yard, e condotto attorno Westminster Hall con un cartello fittogli sulla testa, nel quale fosse scritta la sua infamia; e posto nuovamente alla gogna di faccia alla Borsa Reale, fustigato da Aldgate a Newgate, e dopo un intervallo di due giorni fustigato un’altra volta da Newgate a Tyburn. Se, contro ogni probabilità, egli fosse sopravvissuto a questa orribile pena, doveva rimanere in carcere per tutta la vita, donde doveva essere tratto cinque volte l’anno, e messo alla gogna in diversi luoghi della metropoli.[279] La cruda sentenza venne crudamente eseguita. Oates, il giorno in cui fu posto alla gogna in Palace Yard, sostenne una pioggia di sassate, e corse pericolo di essere fatto in brani.[280] Ma nella città, i suoi partigiani si raccolsero, suscitarono un tumulto, e rovesciarono la gogna.[281] Ciò non ostante, non riuscì loro di liberarlo. Fu creduto che per sottrarsi all’orrendo destino che lo aspettava, tentasse d’avvelenarsi: però il cibo e la bevanda furono sottoposti a rigoroso esame. Il dì seguente, fu tratto fuori di carcere per subire la prima fustigazione. A buon’ora, innumerevole turba di popolo riempiva tutte le vie, da Aldgate sino a Old Bailey. Il carnefice menava la frusta con tanto insolita severità, da mostrare che avesse ricevuto speciali ammonimenti. Il sangue correva a rivi. Per qualche tempo il colpevole fece mostra d’una strana costanza; ma in fine, sì ostinata fortezza gli venne meno. Urlava in modo spaventevole; perdè i sensi più volte: ma non perciò restava il flagello. Come fu sciolto, e’ parve d’avere sopportato quanto la forma umana può sopportare senza dissolversi. Giacomo venne supplicato a risparmiargli la seconda fustigazione. Ei rispose in brevi e chiare parole: «Dovrà subire la pena finchè gli rimarrà fiato in corpo.» Tentossi di ottenere la intercessione della Regina; ma essa sdegnosamente ricusò di dire una sola parola a pro di un tanto scellerato. Dopo un intervallo di sole quarantotto ore, Oates fu nuovamente tratto di carcere. Non aveva forza da tenersi in piedi, e fu d’uopo trascinarlo sopra una treggia a Tyburn. Pareva affatto insensibile; e i Tory riferivano ch’egli si fosse stordito bevendo liquori spiritosi. Un tale, che nel secondo giorno contò il numero delle frustate, affermò che fossero mille settecento. Al tristo uomo rimase la vita, ma in guisa che gl’ignoranti e i bacchettoni fra’ suoi ammiratori reputarono la sua guarigione un miracolo, e l’adducevano come argomento della innocenza di lui. Le porte del carcere gli si richiusero sopra. Per molti mesi stette incatenato nel più oscuro buco di Newgate. Fu detto che ivi si abbandonasse alla malinconia, e per giorni interi sedendo con le mani incrociate, e col cappello fitto in sugli occhi, mandasse cupi gemiti. E’ non fu nella sola Inghilterra che questi avvenimenti svegliarono grande interesse. Milioni di cattolici romani, i quali non sapevano nulla delle nostre istituzioni e fazioni, avevano udito come nella nostra isola avesse infuriato una barbarissima persecuzione contro i credenti nella vera fede, come molti uomini pii avessero patito il martirio, e Tito Oates fosse stato il principale assassino. E però grande fu la gioia ne’ lontani paesi appena si seppe che la mano della giustizia divina lo aveva raggiunto. Per tutta l’Europa correvano certe incisioni, dove egli era rappresentato alla gogna e in atto di subire la flagellazione; e gli epigrammisti, in molte lingue, scherzarono sul titolo di dottore ch’egli pretendeva d’avere ottenuto nella Università di Salamanca, e notavano che non potendo farlo arrossire in fronte, era giusto che lo facessero arrossire su per la schiena.[282] Per quanto orribili fossero i tormenti di Oates, non potevano agguagliarsi a’ suoi misfatti. Un’antica legge dell’Inghilterra, che s’era lasciata cadere in disuso, trattava come assassino il falso testimone, che spergiurando fosse stato cagione di morte ad alcuno.[283] Ciò era savio ed equo, imperocchè un simigliante testimonio, davvero è il peggiore degli assassini. Alla colpa di spargere il sangue innocente, egli aggiunge quella di violare il più solenne contratto che possa esistere tra uomo e uomo, e di rendere le istituzioni—alle quali è da desiderarsi che il pubblico porti rispetto e fiducia—strumento di terribili danni, e obietto di generale diffidenza. Il dolore cagionato da un assassinio ordinario non è da paragonarsi al dolore cagionato dallo assassinio, di cui le corti di giustizia diventano agenti. La semplice estinzione della vita è piccolissima parte di ciò che rende orribile il patibolo. La prolungata mortale agonia del condannato, la vergogna e la miseria de’ suoi congiunti, la macchia d’infamia che discende fino alla terza o quarta generazione, sono cose più spaventevoli della morte stessa. Generalmente, potrebbe di sicuro affermarsi che il padre di una numerosa famiglia si lascerebbe più presto privare di tutti i propri figliuoli, morti per disgrazia o per malattia, che perdere un solo di loro per le mani del carnefice. L’assassinio cagionato da falsa testimonianza è, dunque, la specie più grave degli assassinii; ed Oates era reo di molti simiglianti assassinii. Nondimeno, non può giustificarsi la pena che gli venne inflitta. Nel dannarlo ad essere spogliato dell’abito ecclesiastico e incarcerato a vita, sembra che i giudici avessero ecceduto il loro potere legale. Certo erano competenti a infliggere la fustigazione, nè la legge assegnava termine al numero delle frustate: ma lo spirito della legge manifestamente voleva che nessun delitto venisse punito con severità maggiore di quella con cui si puniscono le più atroci fellonie. Il peggiore de’ felloni poteva essere condannato alla forca. I giudici, secondo che credevano, dannarono Oates ad essere flagellato a morte. Dire che la legge fosse difettosa, non è scusa sufficiente: imperocchè le leggi difettive dovrebbero essere riformate dal Corpo legislativo, non mai stiracchiate dai tribunali, e, quel che è peggio, stiracchiate a fine di dare la tortura e la morte. Che Oates fosse uomo malvagio, non è scusa sufficiente: imperocchè il colpevole è quasi sempre il primo a patire le severità che poscia si considerano come precedenti per opprimere l’innocente. Tale era il caso d’Oates. Il flagellare senza misericordia divenne tosto la punizione ordinaria de’ falli politici di non molta gravità. Individui accusati di avere imprudentemente profferite parole ostili al Governo, vennero condannati a tormenti così crudeli, che essi, con non simulata serietà, chiedevano d’essere processati come rei di delitti capitali, e mandati alle forche. Avventuratamente, a’ progressi di tanto male posero argine la Rivoluzione, e la Legge de’ Diritti, con quello articolo che condanna ogni punizione crudele e inusitata. XX. La ribalderia di Dangerfield non aveva, al pari di quella d’Oates, cagionata la morte di molte vittime innocenti; perocchè Dangerfield non si diede al mestiere di testimonio se non quando la congiura era andata in fumo, e i giurati s’erano fatti increduli.[284] Gli fu intentato il processo, non come reo di spergiuro, ma per diffamazione. Mentre ferveva il commovimento cagionato dalla Legge d’Esclusione, egli aveva stampata una narrazione che conteneva alcuni falsi e odiosi addebiti contro Carlo e Giacomo. Per tale pubblicazione, egli, dopo cinque anni, fu improvvisamente preso, condotto innanti al Consiglio Privato, accusato, processato, convinto, e dannato alla fustigazione da Aldgate a Newgate, e da Newgate a Tyburn. Lo sciagurato, durante il processo, tenne sfrontato contegno; ma appena udì profferire la sentenza, si abbandonò allo strazio della disperazione; si dette per ispacciato, e scelse un testo biblico per il suo funebre sermone. Il suo presentimento era giusto. A dir vero, non fu flagellato con tanta severità con quanta lo era stato Oates; ma non aveva la forza ferrea della mente e del corpo d’Oates. Dopo la esecuzione della sentenza, Dangerfield fu posto in una carrozza d’affitto per ritornare al proprio carcere. Passato il canto di Hatton Garden, un gentiluomo Tory di Gray’s Inn, di nome Francis, fermò la vettura e gridò con brutale ironia: «E bene, amico, vi hanno scaldata la schiena stamane?» Il prigione grondante sangue, infuriato a quell’insulto, gli rispose con una maledizione. Francis gli avventò tosto al viso una mazzata, che lo ferì in un occhio. Dangerfield fu portato morente a Newgate. Questo codardo oltraggio mosse a sdegno gli astanti, i quali posero le mani addosso a Francis, sì che stettero per farlo in brani. Alla vista del corpo di Dangerfield, orribilmente lacerato dalle fustigazioni, molti inchinavano a credere che la sua morte fosse stata massimamente, se non al tutto, cagionata dalle frustate ricevute. Il Governo e il Capo Giudice stimarono convenevole darne tutta la colpa a Francis, il quale, comecchè sembri al più d’essere stato reo d’omicidio aggravante, fu processato e mandato al patibolo come assassino. Le sue estreme parole sono uno de’ più curiosi monumenti di que’ tempi. Quel feroce spirito che lo aveva condotto in sulle forche, gli durò fino all’ultimo istante della vita. Mescolò vanti di lealtà e ingiurie contro i Whig con giaculatorie, nelle quali raccomandava l’anima propria alla misericordia divina. S’era sparsa la voce che la sua moglie amoreggiasse con Dangerfield, uomo di grande bellezza e famoso per avventure galanti, e che il marito mosso dalla gelosia gli avesse avventato il colpo fatale. Il morente marito, con serietà, mezzo ridicola e mezzo patetica, rivendicò l’onore della consorte, dicendo ch’ella era una donna virtuosa, che era nata da parenti leali, ed ove fosse stata propensa a violare la fede coniugale, avrebbe almeno scelto per drudo un Tory o un Anglicano.[285] XXI. Verso il medesimo tempo, un accusato che aveva pochissima somiglianza con Oates o Dangerfleld, comparve avanti la Corte del Banco del Re. Non v’era illustre capo–parte che fosse mai passato traverso a molti anni di dissensioni civili e religiose con maggiore innocenza di Riccardo Baxter. Apparteneva alla classe più mite e temperata della setta puritana. Allorquando scoppiò la guerra civile, egli era giovane. Credeva che le Camere avessero ragione, e non ebbe scrupolo di esercitare l’ufficio di cappellano in un reggimento dello esercito parlamentare: ma il suo lucido ed alquanto scettico intendimento, non che il suo forte senso di giustizia, lo tennero lontano da ogni eccesso. Fece ogni sforzo per frenare la violenza fanatica della soldatesca. Vituperò i procedimenti dell’Alta Corte di Giustizia. A tempo della Repubblica ebbe ardimento di manifestare in molte occasioni, e una volta anche al cospetto di Cromwell, amore e riverenza alle antiche istituzioni della patria. Mentre la famiglia reale era in esilio, Baxter passò la vita per lo più in Kidderminster, esercitando assiduamente i doveri di parroco. Di gran cuore contribuì alla Ristaurazione, e sinceramente desiderava d’indurre a concordia gli Episcopali e i Presbiteriani. Perocchè con liberalità, per que’ tempi rarissima, considerava le questioni di politica ecclesiastica di poco conto in paragone de’ grandi principii del Cristianesimo; ed anco quando la prelatura era esosa alla potestà dominatrice, non congiunse mai la propria voce al grido contro i vescovi. Baxter fallì nella impresa di conciliare le avverse fazioni. Accomunò le proprie sorti a quelle de’ suoi amici proscritti, ricusò la mitra di Hereford, rinunziò alla parrocchia di Kidderminster, dedicandosi quasi interamente agli studi. I suoi scritti teologici, comecchè fossero sì moderati da non piacere ai bacchettoni d’ogni partito, acquistarono immensa riputazione. Gli zelanti ecclesiastici lo chiamavano Testa–Rotonda; e molti Non–Conformisti lo accusavano di Erastianismo e d’Arminianismo. Ma la integrità del cuore, la purità della vita, il vigore della intelligenza, la vastità della dottrina erano in lui riconosciute dagli uomini migliori e più savi d’ogni setta. Le sue opinioni politiche, malgrado l’oppressione da lui e da’ suoi confratelli sofferta, erano moderate. Procedeva amico a quel piccolo partito che era in odio ai Whig ed ai Tory, dicendo di non potere indursi a maledire i Barcamenanti, qualvolta rammentava Colui che aveva benedetti i facitori della pace.[286] In un Commentario al Testamento Nuovo, aveva alquanto amaramente lamentata la persecuzione che i Dissenzienti pativano. Che gli uomini i quali per non usare il Libro delle Preghiere, erano stati cacciati dalle loro case, privati degli averi e sepolti nelle carceri, osassero mormorarne, tenevasi allora per grave delitto contro lo Stato e la Chiesa. Ruggiero Lestrange, campione del Governo e oracolo del Clero, levò il grido di guerra nell’_Osservatore_. Fu intentato un processo. Baxter chiese gli si concedesse qualche tempo ad apparecchiare la propria difesa. Nel giorno stesso in cui Oates era posto alla berlina in Palace Yard, lo illustre capo de’ Puritani, oppresso dagli anni e dalle infermità, andò a Westminster Hall per fare tale richiesta. Jeffreys con gran tempesta di rabbia gridò: «Nè anche un minuto per salvare la sua vita. Io so bene condurmi coi santi egualmente che coi peccatori. In un lato della berlina adesso sta Oates; e se Baxter fosse nell’altro, i due più grandi ribaldi del Regno starebbero insieme.» Quando si aperse il processo in Guildhall, una folla di coloro che amavano e riverivano Baxter, riempiva la corte. Stava accanto all’accusato il Dottore Guglielmo Bates, uno de’ più cospicui fra i teologi Non–Conformisti. Pollexfen e Wallop, rinomatissimi avvocati Whig, lo difendevano. Pollexfen aveva appena principiato a favellare avanti ai Giurati, allorquando il Capo Giudice proruppe in queste oscene parole: «Pollexfen, io vi conosco bene; e vi terrò a mente. Voi siete il protettore della fazione. Costui è un vecchio ribaldo, un birbone scismatico, un ipocrita tristo. Odia la Liturgia, e non vorrebbe altro usare che lunghissimi piagnistei senza libro.» E quindi sua Signoria levò in alto gli occhi, giunse le mani, e cominciò a cantare col naso, imitando a suo credere il modo di pregare di Baxter: «Signore, noi siamo il tuo popolo, il tuo popolo peculiare, il tuo diletto popolo.» Pollexfen gentilmente rammentò alla corte come la Maestà del Re defunto avesse reputato Baxter degno d’un vescovato. «E che ambiva, dunque, il vecchio bestione» esclamò Jeffreys «che non lo accettò?» Qui il suo furore giunse quasi alla insania. Chiamò Baxter un cane, e giurò che sarebbe stata semplice giustizia il flagellare un tanto ribaldo per le vie della città. Wallop s’interpose, ma non ebbe miglior ventura del suo collega. «Voi v’immischiate in tutte coteste sudicie cause, o signor Wallop,» disse il giudice. «I gentiluomini togati dovrebbero aver vergogna d’aiutare così faziosi ribaldi.» Lo avvocato si provò di nuovo a farsi ascoltare, ma indarno. «Se non farete il debito vostro,» gridò Jeffreys «ve lo insegnerò bene io.» Wallop si pose a sedere; e Baxter tentò di dire qualche parola da sè. Ma il Capo Giudice gli dette sulla voce con un torrente d’ingiurie e d’invettive, mescolate con citazioni di Hudibras. «Mio Signore,» disse il vecchio «sono stato molto biasimato dai Dissenzienti per avere rispettosamente favellato de’ vescovi.»—«Baxter a favore dei vescovi!» urlò il Giudice «questa davvero è una cosa buffa! Lo so bene io ciò che voi intendete per vescovi; furfanti come voi, vescovi di Kidderminster, faziosi e piagnolosi presbiteriani!» Baxter provossi nuovamente a parlare, e Jeffreys ad urlare di nuovo: «Riccardo, Riccardo, o che tu pensi che ti lasceremo attoscar la corte? Riccardo, tu sei un vecchio furfante. Tu hai scritti tanti libri da riempirne un baroccio, e ciascuno de’ tuoi libri è pieno, come un uovo, di pensieri sediziosi. Grazie al cielo, ti terrò io gli occhi addosso. Veggo che molti della tua confraternita aspettano di vedere quale sarà la sorte del loro valoroso Don Chisciotte. Ed eccolo lì» seguitò fissando il feroce sguardo sopra Bates, «ecco lì un Dottore del partito che ti sta presso; ma, per grazia di Dio onnipotente, vi schiaccerò tutti quanti.» Baxter stette cheto. Ma uno de’ più giovani avvocati della difesa fece un ultimo sforzo, e imprese a mostrare come le parole incriminate non comportassero il costrutto dato ad esse dall’Accusa. A tale scopo si pose a leggerne il contesto. In un istante fu interrotto dagli urli di Jeffreys. «Voi non trasformerete la corte in un conventicolo.» E qui udendo alcuni gemiti che partivano da coloro che circondavano Baxter, Jeffreys esclamò; «piagnolosi bestioni!» I testimoni della difesa, fra’ quali erano diversi chierici della Chiesa Stabilita, stavano lì ad aspettare. Ma il Capo Giudice non volle ascoltarli. «Crede ella la Signoria vostra,» disse Baxter «che vi siano Giurati che vogliano dichiarare reo convinto un uomo con un processo come questo?»—«Ve ne assicuro, Signor Baxter» rispose Jeffreys «non ve ne date pensiero.» Jeffreys aveva ragione. Gli sceriffi erano strumenti del Governo. I Giurati, scelti dagli sceriffi fra i più feroci zelanti del partito Tory, si ritrassero per un momento a deliberare, e dichiararono Baxter colpevole. «Mio signore,» disse egli partendosi dalla corte «un tempo eravi un Capo Giudice che mi avrebbe molto diversamente trattato.» Ed alludeva al suo dotto e virtuoso amico Sir Matteo Hale. «Non vi è uomo onesto in Inghilterra,» rispose Jeffreys «che non ti tenga per furfante.»[287] La condanna per que’ tempi fu mite. Ciò che seguisse fra’ giudici mentre deliberarono, non può con certezza sapersi. Credettero i Non–Conformisti, ed è grandemente probabile, che il Capo Giudice fosse vinto da’ suoi tre confratelli. Dicesi ch’egli proponesse che Baxter patisse la fustigazione legato a coda di cavallo, e trascinato per le vie di Londra. La maggioranza stimò che un teologo illustre, al quale venticinque anni innanzi era stata profferta una mitra, e che adesso contava anni settanta d’età, sarebbe stato bastevolmente punito della colpa di poche parole pungenti con una multa e la prigione.[288] XXII. Il modo onde Baxter fu trattato da un giudice che era membro del Gabinetto, e il prediletto del sovrano, mostrava, in modo da non indurre in errore, i sentimenti che in quel tempo il Governo nutriva verso i Protestanti Non–Conformisti. Ma tali sentimenti erano già stati manifestati da più forti e terribili segni. Il Parlamento di Scozia erasi ragunato, Giacomo ne aveva appositamente affrettate le sessioni, e posposte quelle delle Camere Inglesi, sperando che lo esempio d’Edimburgo avrebbe prodotto un buono effetto in Westminster; dacchè il corpo legislativo del suo Regno Settentrionale era ossequioso al pari di quegli Stati Provinciali che Luigi XIV lasciava trastullare con alcune delle loro antiche funzioni in Bretagna e in Borgogna. Nessuno che non fosse episcopale poteva aver seggio nel Parlamento Scozzese, e nè anche essere elettore; e in Iscozia, un episcopale era sempre Tory. Da un’assemblea siffattamente costituita, poca era la opposizione da temersi alle voglie del Re: oltrechè quell’assemblea non poteva adottare legge che non fosse innanzi approvata da un comitato di cortigiani. Tutto ciò che chiese il Governo, venne di leggieri consentito. Rispetto alle finanze, a dir vero, la liberalità degli Stati Scozzesi era di poco momento. Dettero, non per tanto, ciò che comportavano i loro pochi mezzi. Concessero, a perpetuità, alla Corona i dazi già concessi al Re defunto, e che in allora erano stati estimati a quaranta mila sterline l’anno. Assegnarono parimente a Giacomo, sua vita durante, una rendita annua di duecento sedici mila lire scozzesi; somma equivalente a diciotto mila lire sterline. La intera somma che poterono concedere, fu di sessanta mila lire sterline l’anno; poco più di quello che versavasi ogni quindici giorni nello Scacchiere Inglese.[289] Avendo poca pecunia da dare, gli Stati supplirono al difetto con proteste di lealtà e barbari ordinamenti. Il Re, in una lettera, che venne loro letta nel dì in cui si aprì la sessione, li richiedeva con virulente parole di fare nuove leggi penali contro gli ostinati presbiteriani, e si mostrava dolente che le faccende dello Stato gl’impedissero di proporle egli stesso in persona dal trono. I suoi comandamenti furono obbediti. Passò senza ostacolo uno statuto formato da’ Ministri della Corona, il quale anche fra gli statuti di quello sventurato paese e di quel tempo sventuratissimo, è predistinto per atrocità. Fu decretato, con poche ma enfatiche parole, che chiunque avesse osato predicare in un conventicolo in casa, o intervenire come predicatore o come uditore ad un conventicolo all’aria aperta, sarebbe stato punito con la morte e la confisca de’ beni.[290] XXIII. Questa legge, approvata ad istanza del Re da un’assemblea schiava delle voglie di lui, è degna di particolare considerazione: imperciocchè dagli scrittori ignoranti Giacomo è stato giudicato come principe lesto di cervello e poco giudizioso nella scelta dei mezzi, ma intento ad uno de’ fini più nobili cui possa tendere un Sovrano; a quello, cioè, di stabilire la piena libertà religiosa. Nè può negarsi che alcune parti della sua vita, ove si sceverino dallo insieme e superficialmente si considerino, sembrano far credere tale il suo carattere. Mentre egli era suddito, aveva per molti anni patita la persecuzione, la quale aveva in lui prodotti gli effetti consueti. La sua mente, torpida e angusta come ella era, aveva profittato di quella severa disciplina. Allorchè fu escluso dalla Corte, dallo Ammiragliato e dal Consiglio, e stette in pericolo di rimanere escluso anco dal trono, solo perchè non sapeva frenarsi dal credere nella transustanziazione e nella autorità della Sede Romana, progredì così rapidamente nelle dottrine della tolleranza, da lasciarsi addietro Milton e Locke. Qual cosa, diceva di sovente, può essere più ingiusta che il punire le speculazioni dello intelletto con pene che dovrebbero infliggersi ai soli atti? Quale più impolitica che il rifiutare i servigi de’ buoni soldati, marinai, giureconsulti, diplomatici, finanzieri, solo perchè professano dottrine erronee intorno al numero de’ sacramenti o alla pluripresenza de’ Santi? Aveva imparato a mente i luoghi comuni che tutte le sètte ripetono con tanta facondia semprechè patiscono oppressione, e dimenticano con tanta facilità semprechè possono rendere il contraccambio. E veramente, ei recitava così bene la sua lezione, che coloro ai quali fosse accaduto di udirlo favellare intorno a quella materia, gli davano più credito di buon senso e di eloquenza, ch’ei veramente non meritasse. Con la manifestazione de’ suoi principii, egli illudeva molti spiriti accesi di carità del prossimo, e forse sè stesso. Ma il suo zelo pei diritti della coscienza finì al finire del predominio del partito Whig. Come la fortuna cangiò, come egli più non ebbe timore delle persecuzioni altrui, come ebbe in mano la potestà di perseguitare gli altri, le vere inclinazioni dell’indole sua cominciarono a mostrarsi. Abborriva i Puritani con odio multiforme, con odio religioso, politico, ereditario e personale. Gli considerava come nemici di Dio, nemici della autorità legittima nella Chiesa e nello Stato, nemici della bisava, dell’avo, del padre, della madre, del fratello, e suoi propri. Egli, che si era così altamente doluto delle leggi contro i papisti, adesso affermò di non sapere immaginare in che modo altri potesse avere la impudenza di proporre la revoca delle leggi contro i Puritani.[291] Egli, il cui têma prediletto era stato la ingiustizia di imporre agli ufficiali civili giuramenti religiosi, stabilì in Iscozia, mentre vi governava da vicerè, il più severo atto di prova religiosa che fosse mai conosciuta nel Regno.[292] Egli, che aveva mostrata giusta indignazione allorquando i sacerdoti della sua fede venivano appesi alle forche e squartati, spassavasi a udire le strida de’ Convenzionisti, e a vederli contorcersi mentre sentivansi dirompere le gambe nello stivaletto.[293] Così, divenuto Re, chiese subito ed ottenne dagli ossequiosi Stati di Scozia, come il più sicuro pegno della lealtà loro, la legge più sanguinaria che sia stata mai fatta nell’isola nostra contro i Protestanti Non–Conformisti. XXIV. Con questa legge pienamente concordava lo spirito di tutta l’amministrazione del Governo. La feroce persecuzione che infuriò mentre egli era vicerè in Iscozia, si fece più ardente che mai il giorno che ei divenne sovrano. Quelle Contee in cui i Convenzionisti erano in maggior numero, furono abbandonate alla licenza della soldatesca. A’ soldati era mescolata una milizia cittadina, composta de’ più violenti e dissoluti tra coloro che si chiamavano Episcopali. Predistinguevansi fra le bande che opprimevano e devastavano quei malarrivati distretti, i dragoni capitanati da Giovanni Graham di Claverhouse. Corse la voce che questi uomini malvagi erano soliti, ne’ loro baccani, giuocare ai tormenti dello inferno, e chiamarsi vicendevolmente coi nomi de’ demoni e delle anime dannate.[294] Il capo di questo inferno sulla terra, soldato insigne per coraggio e perizia nell’arte militare, ma rapace e profano, d’indole violenta e di cuor duro, ha lasciato un nome, che, in qualunque luogo del globo stanzi la razza scozzese, è ricordato con odio peculiare e fortissimo. Riepilogare in brevi pagine tutti i delitti con che costui e i suoi pari spinsero alla frenesia il contadiname delle pianure occidentali, sarebbe opera interminabile. Servano pochi esempi, che trarrò tutti dalla storia di soli quindici giorni; quegli stessi quindici giorni in cui il Parlamento Scozzese, alle premurose richieste di Giacomo, fece una nuova legge di non mai udita severità contro i Dissenzienti. Giovanni Brown, povero vetturino della Contea di Lanark, era, a cagione della sua esimia pietà, comunemente chiamato il vetturino cristiano. Molti anni dopo, allorchè la Scozia giunse a godere pace, prosperità e libertà religiosa, i vecchi che serbavano ricordo de’ giorni della sciagura, lo descrivevano come uomo versato nelle cose divine, di vita intemerata, e d’indole così pacifica, che i tiranni non poterono trovare in lui altra colpa, che d’essersi allontanato dal culto pubblico degli Episcopali. Il dì primo di maggio, egli stava a segar fratte, allorchè fu preso dai dragoni di Claverhouse, esaminato all’infretta, convinto di non–conformismo, e dannato a morire. Dicesi che anche fra i soldati non trovossi chi volesse fare da carnefice; imperocchè la moglie del povero uomo era lì presente, aveva per mano un fanciulletto, ed era agevole accorgersi che tra breve avrebbe dato nascimento ad un’altra creatura; ed anche quegli uomini di cuore duro e feroce, che si soprannominavano Belzebù ed Apollione, sentivano raccapriccio della scelleratezza di ucciderle in faccia il marito. Questi, infrattanto, levando alto lo spirito per la prossima sua partita verso l’eternità, mandava alte e fervide preci come uomo ispirato, allorchè Claverhouse invaso di furore lo stese a terra morto con un’archibugiata. Fu riferito da testimoni degni di fede, che la vedova nella sua dolorosa disperazione gridasse: «Ebbene, o signore, ebbene! verrà il giorno da renderne conto;» e che lo assassino rispondesse: «Agli uomini posso rispondere di ciò che ho fatto; in quanto a Dio, so io il modo di farlo star cheto.» Nonostante, corse voce che anche sull’arida coscienza e sull’adamantino cuore di lui, i detti della morente vittima facessero tale un’impressione, che non fu mai cancellata.[295] Il dì quinto di maggio, due artigiani, detti Pietro Gillies e Giovanni Bryce, furono processati nella Contea di Ayr da un tribunale militare, composto di quindici soldati. Esiste tuttora l’Atto d’Accusa. I prigioni erano incolpati, non di alcun fatto di ribellione, ma di tenere le medesime perniciose dottrine che avevano spinto altrui a ribellare, e di non avere agito giusta quelle dottrine solo perchè era mancata loro l’occasione. Il processo fu brevissimo: in poche ore i due colpevoli furono convinti, impiccati e gettati in un fosso sotto le forche.[296] Il giorno undecimo di maggio fu segnalato da più d’un grande delitto. Taluni rigorosi calvinisti, dalla dottrina della riprovazione avevano dedotta la conseguenza, che pregare per chi fosse predestinato a dannarsi, era atto di ribellione agli eterni decreti dell’Ente Supremo. Tre poveri lavoranti, profondamente imbevuti di cotali principii, furono presi da un ufficiale nelle vicinanze di Glasgow. Fu loro chiesto se volessero pregare pel Re Giacomo VII. Assentirono di farlo, a condizione ch’egli fosse uno degli eletti. Una fila di moschettieri fu fatta schierare. I due prigioni inginocchiaronsi; vennero loro bendati gli occhi; e un’ora dopo d’essere stati presi, il sangue loro era leccato dai cani.[297] Mentre tali cose seguivano in Clydesdale, un atto non meno orribile commettevasi in Eskdale. Uno de’ Convenzionisti proscritti, vinto dalla infermità, aveva trovato ricovero nella casa d’una vedova rispettabile, e quivi era morto. Il cadavere fu scoperto dal signore di Westerhall, tirannello, che al tempo della Convenzione aveva mostrato stemperatissimo zelo a pro della Chiesa presbiteriana, e dopo la Restaurazione comprato con l’apostasia il favore del Governo, e sentiva pel partito da lui abbandonato l’odio implacabile d’un apostata. Costui atterrò la casa della povera donna, se ne prese la roba, e lasciando lei coi figlioletti ad errare su per la campagna, trascinò il suo figlio Andrea, ancora fanciullo, dinanzi a Claverhouse, il quale a caso passava per quelle contrade. Claverhouse era a quei tempi stranamente mite. Alcuni credevano ch’egli, dopo la morte del vetturino cristiano successa dieci giorni prima, non fosse affatto in sè. Ma Westerhall, volendo porgere argomento della propria lealtà, giunse ad estorcere da lui la licenza. Caricati gli archibusi, al giovanetto fu ingiunto di tirarsi il berretto in su gli occhi. Ei rifiutò e stette imperterrito, tenendo in mano la Bibbia in faccia agli assassini. «Vi posso guardare in viso,» disse egli, «io non ho fatto nulla di cui debba arrossire. Ma in che modo guarderete voi in quel giorno nel quale sarete giudicati secondo ciò che è scritto in questo libro?» Cadde morto, e fu sotterrato nel pantano.[298] Nel dì medesimo, due donne, di nome Margherita Maclachlan e Margherita Wilson, vedova d’età matura l’una, giovinetta di anni diciotto l’altra, morirono per la loro religione nella Contea di Wigton. Fu loro offerta la vita a patto che consentissero ad abiurare la dottrina dei ribelli Convenzionisti, e d’assistere al culto episcopale. E ricusando, furono condannate ad essere annegate. Vennero condotte ad un luogo che il Solway inonda due volte al giorno, e legate a due pali fitti nella sabbia tra il segno più basso e il più alto del flusso e riflusso dell’acque. La vedova fu posta più davvicino alle onde che s’avanzavano, con la speranza che la sua suprema agonia atterrendo la giovine, l’avrebbe indotta a cedere. Lo spettacolo fu spaventevole. Ma il coraggio della sopravvivente fu sostenuto da un entusiasmo grandissimo, al pari di qualunque altro di cui faccia ricordo il martirologio. Vedeva il mare farsi sempre più da presso, ma non dette segno di paura. Pregò, e cantò versetti di salmi, finchè la sua voce si estinse nelle acque. Dopo che ebbe sentita l’amarezza della morte, con crudele misericordia, fu slegata e resa alla vita. Risensata, gli amici e i vicini impietositi la supplicavano a cedere. «Cara Margherita, di’ solamente: Dio salvi il Re!» La povera fanciulla, ognor ferma nella sua severa credenza, con voce affannosa mormorò: «Dio lo salvi, se tale è la sua volontà!» I suoi amici affollaronsi dattorno all’impazientito ufficiale: «Ella l’ha detto; davvero, signore, ella lo ha detto.»—«Farà ella l’abiura?» chiese l’ufficiale. «Giammai,» ella esclamò. «Io sono di Cristo, lasciatemi morire.» E le acque per l’ultima volta le si chiusero sopra.[299] In tal guisa la Scozia era governata da quel principe che gl’ignoranti hanno rappresentato come amico alla libertà religiosa, che ebbe la sventura d’essere troppo savio e buono per il tempo in cui gli toccò di vivere. Che anzi, ei pensava che quelle stesse leggi le quali gli concedevano di governare a quel modo, fossero assai miti. Mentre i suoi ufficiali commettevano i raccontati assassinii, egli istigava il Parlamento scozzese a fare una nuova legge, in paragone della quale tutte le precedenti potrebbero chiamarsi temperatissime. In Inghilterra l’autorità di lui, benchè grande, era infrenata da antiche e venerande leggi, che nè anche i Tory avrebbero con pazienza veduto rompere. Quivi ei non poteva tradurre i Dissenzienti dinanzi ai tribunali militari, o gioire in Consiglio della voluttà di vederli svenire sotto la tortura dello stivaletto. Quivi non poteva annegare le fanciulle ricusanti di fare l’abiura, o fucilare i poveri campagnuoli che avessero dubitato lui essere uno degli eletti. Eppure, anco in Inghilterra, continuò a perseguitare, per quanto il suo potere si estendeva, i Puritani; finchè gli eventi che verranno da noi raccontati, lo indussero a concepire la idea di unire i Puritani e i Papisti in colleganza, onde umiliare e spogliare la Chiesa Anglicana. XXV. Anche in que’ primi anni del suo regno, ei portava singolare affetto ad una setta di protestanti Dissenzienti, chiamata la Società degli Amici. La sua parzialità per questa singolare confraternita non può attribuirsi a sentimento religioso, perocchè fra i credenti nella divina missione di Cristo, i Cattolici Romani e i Quacqueri sono quelli fra’ quali è maggiore distanza. Parrebbe un paradosso affermare che questa medesima discrepanza costituisse un vincolo tra gli uni e gli altri: eppure tale era il caso. Imperciocchè essi deviavano in direzione cotanto opposta da ciò che dalla maggior parte della nazione era reputato vero, che perfino gli spiriti più liberi li consideravano entrambi come egualmente discosti dai confini della più larga tolleranza. Così le due sètte estreme, appunto perchè erano tali, avevano un interesse comune, diverso da quello delle sètte intermedie. I Quacqueri erano anche innocenti d’ogni offesa contro Giacomo e la sua casa. Non erano esistiti in forma di comunità, se non quando la guerra tra il padre di lui e il Lungo Parlamento era presso a finire. Erano stati crudelmente perseguitati da alcuni de’ governi rivoluzionarii. Dopo la Restaurazione, malgrado molte vessazioni, eransi mansuetamente sottomessi alla autorità regia; come quelli che, quantunque ragionando sopra premesse che i teologi anglicani consideravano eterodosse, s’erano ridotti al pari di essi alla conclusione, che nessuno eccesso di tirannia dalla parte del principe può giustificare la resistenza dalla parte del suddito. Nessun libello contro il Governo era stato mai attribuito ad un Quacquero.[300] Niuno di loro era stato implicato mai in qualche congiura contro il Governo. La loro società non aveva fatto eco ai clamori per la Legge d’Esclusione, ed aveva solennemente riprovata la Congiura di Rye House come disegno infernale e opera del demonio.[301] E veramente, gli Amici allora presero poca parte nelle civili contese; perciocchè non trovavansi, come adesso, congregati nelle grandi città, ma generalmente erano addetti all’agricoltura; occupazione, dalla quale a poco a poco sono stati distolti per le vessazioni derivate loro dallo strano scrupolo di pagare la decima. Vivevano, quindi, molto lontani dalla lotta politica. Evitavano parimente, per principio, anco nel domestico ritiro, ogni discorso politico; avvegnachè il ragionare di siffatte cose, secondo l’opinione loro, non fosse favorevole alla spiritualità della mente, e tendesse a disturbare l’austera compostezza del loro contegno. Nelle annuali ragunanze di quei tempi, i confratelli venivano ripetutamente ammoniti a non discorrere intorno a faccende di Stato.[302] Persone che oggi sono in vita, rammentano come que’ vecchi venerandi che serbavano i costumi dell’antecedente generazione, riprovassero per sistema tali discorsi mondani.[303] Era, dunque, naturale che Giacomo facesse gran distinzione tra questa gente innocua, e quelle fiere e irrequiete sètte che consideravano qual dovere di Cristiano il resistere alla tirannide; che in Germania, in Francia e in Olanda avevano mossa guerra ai principi legittimi, e che pel corso di quattro generazioni avevano nutrita singolare nimistà contro la Casa degli Stuardi. Accadde, inoltre, di potere grandemente alleggiare i Cattolici Romani e i Quacqueri, senza mitigare le sciagure dei Puritani. Una legge, allora in vigore, puniva severamente chiunque ricusasse di prestare il giuramento di supremazia quante volte venisse richiesto. Questa legge non toccava i Presbiteriani, gl’Indipendenti o i Battisti, imperocchè tutti erano pronti a chiamare Dio in testimonio onde provare com’essi avessero rinunziato ad ogni relazione spirituale coi prelati e co’ potentati forestieri. Ma il Cattolico Romano non voleva giurare che il Papa non avesse giurisdizione in Inghilterra, nè il Quacquero prestare giuramento di nessuna specie. Dall’altra parte, nè l’uno nè l’altro era colpito dal così detto Five Mile Act; legge che tra tutte quelle le quali contenevansi nel Libro degli Statuti, era forse la più molesta ai Puritani Non–Conformisti.[304] XXVI. I Quacqueri avevano in Corte uno zelante e potente avvocato. Benchè, come classe, poco s’immischiassero nelle cose del mondo, e schivassero le politiche, quale occupazione nociva ai loro interessi spirituali; uno di loro, molto dagli altri predistinto per grado ed opulenza, viveva fra le alte classi, ed aveva sempre aperta la via all’orecchio del Re. Costui era il celebre Guglielmo Penn. Il padre suo aveva avuto alto comando nella flotta, era stato commissario dell’ammiragliato, aveva seduto nel Parlamento, era stato fatto cavaliere, e gli era stata data la speranza d’una paría. Il figlio era stato educato liberalmente, e destinato alla professione delle armi: se non che, mentre era ancora giovane, aveva danneggiato il proprio avvenire e disgustati gli amici, collegandosi a quella che a que’ tempi comunemente consideravasi come masnada di stolti eretici. Era stato talvolta chiuso nella prigione della Torre, tal’altra a Newgate. Era stato processato in Old Bailey, per avere predicato in onta alla legge. Nondimeno, dopo qualche tempo erasi riconciliato con la propria famiglia, e gli era riuscito ottenere protezione così potente, che mentre tutte le carceri dell’Inghilterra erano ripiene de’ suoi confratelli, a lui fu per molti anni permesso di professare senza molestia la propria credenza. Verso la fine del regno di Carlo, per saldo di un vecchio debito che aveva con lui la Corona, ottenne la concessione nell’America Settentrionale, d’un’immensa contrada allora popolata soltanto di cacciatori Indiani, e invitò i suoi amici perseguitati a stabilirvisi. Allorchè Giacomo salì sul trono, la colonia di Penn era tuttavia nella infanzia. Tra Giacomo e Penn da lungo tempo era stata dimestichezza. Il Quacquero, quindi, divenne cortigiano, e quasi prediletto. Ciascun giorno dalla galleria era chiamato alle segrete stanze del principe, e talvolta aveva lunghe udienze, intanto che i Pari del Regno stavano ad aspettare nelle anticamere. Corse voce ch’egli avesse più potenza effettiva di giovare e di nuocere, di quanta ne avessero molti nobili che occupavano alti uffici. Tosto fu circuito da adulatori e da supplicanti. La sua casa in Kensington talvolta, verso l’ora in cui si levava da letto, era affollata da più di dugento chiedenti. Nondimeno, caro gli costava tale apparenza di prosperità. Anche gli uomini della sua setta lo trattavano con freddezza, e lo ricompensavano de’ servigi loro resi, parlandone male. Lo accusavano altamente d’essere papista, anzi gesuita. Taluni affermavano ch’egli fosse stato educato in Saint–Omer, ed altri che avesse ricevuti gli ordini sacri in Roma. Tali calunnie, a dir vero, potevano trovare credenza solo nella insensata moltitudine; ma a queste calunnie mescolavansi accuse assai meglio fondate.[305] Il dire intera la verità intorno a Penn, è impresa che richiede qualche coraggio; perocchè egli è più presto un personaggio mistico che storico. Nazioni rivali e sètte avverse fra loro, sono state concordi a canonizzarlo. La Inghilterra va orgogliosa del nome di lui. Una grande Repubblica oltre l’Atlantico, gli porta una riverenza simile a quella che gli Ateniesi sentivano per Teseo e i Romani per Quirino. La spettabile società di cui egli era membro, l’onora come un apostolo. Gli uomini pii d’altre credenze, generalmente, lo considerano come splendido esempio di virtù cristiana. Frattanto, ammiratori di differentissima specie ne hanno celebrate le lodi. I filosofi francesi del secolo decimottavo gli perdonavano quelle ch’essi chiamavano superstiziose fantasticherie, in grazia dello spregio in cui teneva i preti, e della benevolenza cosmopolita, che egli imparzialmente mostrava agli uomini di tutte le razze e di tutte le religioni. In tal modo il nome di lui, per tutto il mondo incivilito, è divenuto sinonimo di probità e di filantropia. Nè egli è al tutto immeritevole di questa grande riputazione. Fuori d’ogni dubbio, era uomo d’insigni virtù. Aveva un forte sentimento de’ doveri religiosi, ed un fervido desiderio di promuovere la felicità del genere umano. In uno o due punti d’alta importanza, egli aveva idee più esatte di quelle che erano, nel suo tempo, comuni anche fra gli uomini di mente elevata; e come signore e legislatore d’una provincia, la quale, essendo quasi priva d’abitatori allorquando egli ne ebbe il possesso, gli apriva un campo vergine da farvi morali esperimenti, ebbe la rara e buona ventura di potere porre in pratica le proprie teorie senza patti di nessuna sorta, e nondimeno senza scossa per le istituzioni esistenti. E’ sarà sempre onorevolmente ricordato come fondatore d’una colonia, la quale nelle sue relazioni con genti selvagge non abusò della forza che nasce dallo incivilimento, e come legislatore il quale, in un tempo di persecuzione, fece della libertà religiosa la pietra angolare della politica. Ma la vita e gli scritti suoi porgono abbondevoli prove che testificano come egli non fosse uomo di vigoroso giudicio. Non aveva l’arte di leggere addentro nell’indole altrui. La fiducia ch’ei poneva in genti meno di lui virtuose, lo trasse in gravi errori ed infortunii. Lo entusiasmo per un gran principio, sovente lo spingeva a violarne altri ch’egli avrebbe dovuto tener sacri. Nè la sua rettitudine stette salda alle tentazioni alle quali ei rimaneva esposto in quella società splendida e culta, ma profondamente corrotta, con cui alla Corte di Re Giacomo egli usava. Tutta la Corte era in perpetuo fermento d’intrighi di galanteria e d’intrighi d’ambizione. Continuo era il traffico degli onori, degli uffici e delle grazie. Era perciò naturale che un uomo il quale ogni giorno vedevasi in palazzo, e, siccome era a tutti noto, aveva libero accesso alla regia maestà, venisse frequentemente importunato ad usare la propria influenza per fini che una rigorosa morale debbe condannare. La integrità di Penn era rimasta incrollabile contro gli assalti della maldicenza e della persecuzione. Ma poscia, aggredito dai sorrisi del Re, dalle blandizie delle donne, dalla insinuante eloquenza e dalle delicate lusinghe de’ vecchi diplomatici e cortigiani, la sua fermezza cominciò a cedere. Titoli e frasi, già da lui spesso riprovati, gli uscivano, secondo le occasioni, dalle labbra e dalla penna. Non sarebbe nessun male ove egli non fosse stato reo di altro che d’essersi lasciato andare ai complimenti mondani. Sventuratamente, non può nascondersi come egli fosse parte precipua in certi fatti, condannati non solo dal rigido codice della Società cui egli apparteneva, ma dal senso universale di tutti gli uomini onesti. Protestò, poi, solennemente che le sue mani erano pure d’ogni illecito guadagno, e che non aveva ricevuta gratificazione nessuna da coloro i quali erano stati da lui giovati, quantunque gli sarebbe stato facile, mentre aveva influenza in Corte, mettere insieme centoventimila lire sterline.[306] Tale asserzione è degna di piena fede. Ma la mancia si può offrire alla vanità come si offre alla cupidigia; ed è impossibile negare che Penn, blandito, si lasciò condurre a fatti ingiustificabili, de’ quali altri raccolse gli utili. XXVII. L’uso ch’ei primamente fece del proprio credito, fu altamente commendevole. Espose con vigorosa eloquenza i patimenti dei Quacqueri al nuovo Re, il quale con gioia vide come fosse possibile concedere il perdono a cotesti tranquilli settarii e ai Cattolici Romani, senza mostrare simile favore alle altre sètte parimente perseguitate. Fu fatta una lista de’ prigioni che erano sotto processo come rei di non avere voluto prestare giuramento, o andare alla chiesa, e il certificato della cui lealtà era stato presentato al Governo. Costoro furono assoluti, ordinandosi ad un tempo di non intentare simiglianti processi, finchè non fosse resa manifesta la volontà del Re. In tal guisa circa millecinquecento Quacqueri, ed anche un maggior numero di Cattolici Romani riebbero la libertà loro.[307] Era già arrivato il tempo in cui doveva adunarsi il Parlamento inglese. I membri della nuova Camera de’ Comuni giunti alla metropoli, erano così numerosi, da dubitarsi molto se la sala loro, così come era, li potesse contener tutti. Spesero i giorni che immediatamente precessero l’apertura della sessione, a ragionare tra loro e con gli agenti del Governo intorno alle pubbliche faccende. Una gran ragunanza del partito realista fu tenuta a Fountain Tavern nello Strand; e Ruggiero Lestrange, che di recente dal Re era stato fatto cavaliere ed eletto al Parlamento dalla città di Winchester, fu parte principale nelle loro consulte.[308] Conobbesi tosto, che molti della Camera dei Comuni avevano idee che non concordavano interamente con quelle della Corte. I Tory gentiluomini di provincia, senza escluderne quasi nessuno, volevano mantenere l’Atto di Prova e l’_Habeas Corpus_; e taluni di loro parlavano di votare la rendita solo per un certo numero d’anni. Ma erano prontissimi a far leggi severe contro i Whig, e avrebbero volentieri veduto tutti i propugnatori della Legge d’Esclusione dichiarati incapaci d’occupare gli uffici. Il Re, dall’altro canto, desiderava ottenere dal Parlamento una rendita a vita, l’ammissione dei Cattolici Romani agl’impieghi, e la revoca dell’_Habeas Corpus_. Queste tre cose gli stavano a cuore; e non era per nulla disposto ad accettare come compenso una legge penale contro gli Esclusionisti. Tale, legge, invece gli sarebbe stata assai sgradevole; imperciocchè una classe di Esclusionisti godeva i suoi favori; quella classe, io dico, di cui Sunderland era rappresentante, che erasi collegata coi Whig nei dì della congiura, solo perchè i Whig predominavano, e che aveva mutata faccia al cangiare della fortuna. Giacomo giustamente considerava cotesti rinnegati come i più utili strumenti di cui potesse giovarsi. Dai Cavalieri, uomini di fervido cuore, che gli erano stali fidi nell’avversità, non avrebbe potuto aspettarsi nella prosperità una cieca obbedienza. Coloro i quali spinti, non dallo zelo per la libertà e la religione, ma solamente da egoistica cupidigia e paura, avevano cooperato ad opprimerlo quando trovavasi debole, erano pur troppo gli uomini che, spinti da simile paura e cupidigia, lo avrebbero aiutato, adesso ch’era forte, ad opprimere il suo popolo.[309] Quantunque ei fosse vendicativo, non lo era senza ragione. Non può ricordarsi un solo esempio in cui egli mostrasse generosa commiserazione a coloro che lo avevano avversato onestamente e per il bene pubblico. Ma di frequente risparmiava e promoveva coloro che per qualche vile motivo s’erano indotti ad offenderlo: imperocchè quella abiettezza che li manifestava come opportuni strumenti di tirannide, era agli occhi suoi cosa di tanto pregio, che la perdonava anche quando veniva adoperata a suo danno. I desiderii del Re furono manifestati per diverse vie ai membri Tory della Camera Bassa. Fu agevole persuadere la maggior parte di loro a deporre ogni pensiero di una legge penale contro gli Esclusionisti, ed a consentire di concedere alla Maestà Sua la rendita a vita. Ma rispetto all’Atto di Prova e all’Habeas Corpus, gli emissarii del Governo non poterono ottenere assicurazioni soddisfacenti.[310] XXVIII. Il dì diciannovesimo di Maggio fu aperta la sessione. I seggi della Camera de’ Comuni presentavano un singolare spettacolo. Il grande partito che negli ultimi tre Parlamenti aveva predominato, era adesso diventato una misera minoranza, essendo poco più della quindicesima parte di tutti i rappresentanti. Dei cinquecento tredici Cavalieri e borghesi, solo cento trenta cinque nei precedenti tempi avevano seduto in quel luogo. È cosa evidente che una congrega d’uomini nuovi ed inesperti, doveva essere, in alcuni importantissimi requisiti, al disotto di quel che generalmente sono le nostre assemblee legislative.[311] L’ufficio di dirigere la Camera fu affidato da Giacomo a due Pari del Regno di Scozia. Uno di essi, Carlo Middleton, conte di Middleton, dopo d’avere occupato in Edimburgo uffici cospicui, era stato ammesso, poco avanti la morte di Carlo, al Consiglio Privato, e nominato uno de’ Segretarii di Stato. A lui fu aggiunto Riccardo Graham, visconte Preston, che per lungo tempo aveva tenuto il posto d’inviato a Versailles. La prima faccenda di cui si occupassero i Comuni, fu quella d’eleggere un Presidente. Era stato lungamente discusso nel Gabinetto chi dovesse essere l’uomo da scegliersi. Guildford aveva raccomandato Sir Tommaso Meres, il quale, come lui, apparteneva alla classe de’ Barcamenanti. Jeffreys, che non lasciava fuggire occasione alcuna per molestare il Lord Cancelliere, sosteneva la candidatura di Sir Giovanni Trevor. Costui, che era cresciuto facendo mezzo il beccaliti e mezzo il giocatore, aveva portato nella vita politica sentimenti e principii degni d’ambedue i suoi mestieri; era divenuto parassito del Capo Giudice, e in ogni caso avrebbe potuto imitare, non senza riuscita, lo stile vituperevole del suo protettore. Il prediletto di Jeffreys, come era da aspettarsi, venne preferito da Giacomo; e proposto da Middleton, fu eletto senza opposizione.[312] XXIX. Fin qui le cose procedettero senza intoppo. Ma un avversario di non comune prodezza, vigilava aspettando l’ora di mostrarsi. Era questi Eduardo Seymour, del Castello di Berry Pomeroy, rappresentante della città d’Exeter. La sua nascita lo agguagliava ai più nobili sudditi d’Europa. Egli era il legittimo discendente maschio di quel Duca di Somerset, che era stato cognato ad Enrico VIII, e Protettore del Regno d’Inghilterra. Secondo l’antico diploma di creazione del ducato di Somerset, il figlio maggiore del Protettore era stato posposto al più giovane, dal quale discendevano i Buchi di Somerset. Dal primogenito discendeva la famiglia stabilita a Berry Pomeroy. Le ricchezze di Seymour erano grandi, e vasta la sua influenza nelle contrade occidentali dell’Inghilterra. Nè la sua sola importanza era quella che gli derivava dal sangue e dall’opulenza. Era uno de’ più destri favellatori e degli uomini di affari nel Regno: aveva per molti anni seduto nella Camera de’ Comuni, ne aveva studiato le regole e gli usi, e ne intendeva perfettamente l’indole. Nel regno decorso era stato eletto Presidente, con circostanze che resero peculiarmente onorevole quell’ufficio. Pel corso di molte generazioni, nessuno che non fosse giureconsulto era stato chiamato al seggio presidenziale; ed egli fu il primo gentiluomo di provincia, il quale, in grazia dell’abilità e doti sue, ruppe quella antica costumanza. Aveva poscia occupati alti uffici politici, ed era stato membro del Gabinetto. Ma il suo altero e non pieghevole carattere spiacque tanto, che gli fu forza ritrarsi. Era Tory e partigiano della Chiesa Anglicana; aveva intrepidamente avversata la Legge d’Esclusione; era stato perseguito dai Whig mentre le sorti loro volgevano prospere: poteva quindi con sicurtà rischiarsi a favellare con tale un linguaggio, che qualunque altro uomo sospettato di sentimenti repubblicani, usandolo, sarebbe stato gettato dentro la Torre. Era stato lungo tempo capo di una forte colleganza parlamentare, che chiamavasi l’Alleanza Occidentale, e comprendeva molti gentiluomini delle Contee di Devon, Somerset e Cornwall.[313] In tutte le Camere de’ Comuni, un membro che abbia eloquenza, sapere e pratica degli affari, e insieme ricchezze ed illustre nascimento, è d’uopo che venga altamente predistinto. Ma in una Camera dalla quale erano esclusi molti degli oratori e de’ periti eminenti del secolo, e che era popolata di genti che non avevano mai udita una discussione, la influenza d’un tanto uomo era singolarmente formidabile. Veramente, a Seymour mancava il peso del carattere morale, come colui che era licenzioso, profano, corrotto, e così superbo da sdegnare ogni cortesia, e tuttavia non tanto da aborrire dagli illeciti guadagni. Ma era uno alleato così utile, e un nemico così malefico, che spesso veniva corteggiato anco da coloro che maggiormente lo detestavano.[314] Adesso ei trovavasi di cattivo umore contro il Governo. Il riordinamento de’ borghi occidentali aveva indebolita la influenza di lui in vari luoghi. Il suo orgoglio aveva sofferto all’esaltamento di Trevor al seggio presidenziale; e ben tosto ei colse il destro di vendicarsene. XXX. Il dì ventesimosecondo di maggio, fu ordinato ai Comuni di recarsi alla barra de’ Lordi, dove il Re dal trono profferì un discorso innanzi ambedue le Camere. Dichiarò d’essere fermo a mantenere il governo stabilito nella Chiesa e nello Stato. Ma scemò lo effetto di questa dichiarazione con istrani ammonimenti ai Comuni. Disse di temere che essi fossero per avventura disposti a concedergli danari alla spicciolata di quando in quando, con la speranza di così forzarlo a convocarli spesso. Ma gli avvertiva che egli non era uomo da essere raggirato, e che ove essi desiderassero ragunarsi di frequente, dovevano con lui condursi bene. Ed essendo manifestissima cosa che il governo non poteva tirare avanti senza pecunia, sotto coteste espressioni chiaramente sottintendevasi, che qualora essi non avessero voluto dargliene quanta ei ne desiderava, se la sarebbe presa da sè. Strano a dirsi! una simigliante allocuzione fu accolta con fragorosi applausi dai gentiluomini Tory che stavano alla barra. Cotali acclamazioni erano allora d’uso. Adesso, da molti anni in qua, i Parlamenti hanno adottato il grave e decoroso costume d’ascoltare con rispettoso silenzio tutte l’espressioni, accettabili o non accettabili, che vengono profferite dal trono.[315] Era allora usanza che, dopo avere il Re con brevi parole significato le ragioni di convocare il Parlamento, il Ministro che teneva il Gran Sigillo, spiegasse con più larghezza alle Camere la condizione delle pubbliche cose. Guildford, ad imitazione de’ suoi predecessori Clarendon, Bridgeman, Shaftesbury e Nottingham, aveva apparecchiato una elaborata orazione; ma, con suo grave dolore, trovò non esservi mestieri de’ suoi servigi.[316] XXXI. Appena i Comuni furono ritornati nella propria sala, venne proposto che si formassero in comitato a fine di stabilire la rendita da darsi al Re. Allora alzossi Seymour. Qual fosse l’attitudine di lui, che era capo di gentiluomini dissoluti e di spiriti alteri, con la testa coperta di ricci artificiali che gli cadevano profusamente giù attorno alle spalle, e con una espressione mista di voluttà o di sdegno negli occhi e sulle labbra, possiamo argomentarlo dal suo ritratto, che conservasi ancora. Lo altero Cavaliere disse: non desiderare che il Parlamento negasse alla Corona i mezzi di condurre il governo. Ma era quello un vero Parlamento? Non si vedevano forse sui banchi molti, i quali, siccome era noto a tutti, non avevano diritto di sedervi, molti la cui elezione era macchiata di corruzione, molti che erano stati imposti con modi minacciosi agli elettori ripugnanti, e molti eletti da corpi municipali che non avevano esistenza legale? Non erano stati i collegi elettorali riordinati in onta a statuti regi e d’immemorabile prescrizione? Gli ufficiali che avevano raccolto il risultamento della votazione, non erano stati in ogni dove ciechi agenti della Corte? Vedendo che il principio supremo della rappresentanza era stato così sistematicamente violato, non sapeva con qual nome chiamare una caterva di gentiluomini ch’egli si vedeva dintorno con l’onorando nome di Camera de’ Comuni. Eppure, non v’era mai stato momento in cui tanto importasse al bene pubblico che il carattere del Parlamento fosse irreprensibile. Grandi pericoli pendevano sopra la costituzione ecclesiastica e civile del Regno. Era cosa notissima a tutti, e quindi non bisognevole d’esser provata, che l’Atto di Prova, difesa della religione, e l’_Habeas Corpus_, difesa della libertà, erano fatti segno alla distruzione. «Innanzi di procedere a fare l’ufficio di legislatori sopra questioni di sì grave momento, sinceriamoci almeno se siamo veramente un corpo legislativo. Il primo degli atti nostri sia quello d’inquisire intorno al modo onde sono state condotte le elezioni, e di porre ogni studio che la inchiesta proceda imparzialmente. Imperocchè, ove la nazione trovasse non potersi ottenere riparo con mezzi pacifici, potremmo forse tra breve tempo subire la giustizia che ricusiamo di rendere.» Concluse proponendo che, innanzi di concedere alcuna somma di denaro alla Corona, la Camera esaminasse le petizioni contro le elezioni, e che a nessuno de’ membri non aventi diritto a sedere in quel luogo, si concedesse di votare. Non fu udito un solo applauso. Nessun membro osò secondare la proposta. E davvero Seymour aveva dette cose che niuno altro avrebbe impunemente potuto dire. La proposta fu messa da parte, e nè anche registrata ne’ processi verbali; ma aveva prodotto potentissimo effetto. Barillon scrisse al proprio signore, che molti i quali non avevano osato applaudire quell’insigne discorso, lo avevano in cuor loro approvato; che se ne parlava per tutte le conversazioni di Londra; e che la impressione da esso fatta nel pubblico, sembrava dover essere durevole.[317] XXXII. I Comuni, senza indugio formatisi in comitato, votarono concedendo al Re la intera rendita della quale aveva fruito il suo fratello.[318] XXXIII. E’ pare che gli zelanti amici della Chiesa, i quali formavano la maggioranza della Camera, pensassero che la prontezza onde avevano obbedito alle voglie del Re nella quistione della rendita, desse loro ragione a sperare, da parte di lui, qualche concessione. Dicevano che, avendo essi fatto molto a beneficio di lui, era ormai tempo ch’egli facesse qualche cosa a beneficio della nazione. La Camera, dunque, si formò in comitato di religione, onde esaminare i mezzi migliori a provvedere alla sicurtà della Chiesa stabilita. In quel comitato due deliberazioni furono unanimemente adottate. La prima esprimeva fervido affetto per la Chiesa Anglicana. La seconda supplicava il Re perchè mandasse ad esecuzione le leggi penali contro coloro che non aderivano a quella Chiesa.[319] I Whig avrebbero, senza dubbio, voluto vedere che ai protestanti dissenzienti fosse conceduta tolleranza, e solo i cattolici romani fossero perseguitati. Ma erano pochi e scuorati. Tenevansi, quindi, per quanto potevano, fuori di vista; evitavano il nome del proprio partito; astenevansi di significare ad un ostile uditorio le loro opinioni particolari, e fermamente sostenevano ogni proposta tendente a turbare la concordia che fino allora esisteva tra il Parlamento e la Corte. Appena i procedimenti del Comitato di Religione furono conosciuti in Whitehall, il Re andò in gran furore. Nè possiamo giustamente biasimarlo per essersi risentito della condotta de’ Tory. Se essi erano disposti a volere che il codice penale venisse eseguito con rigore, avrebbero apertamente dovuto sostenere la Legge d’Esclusione. Dacchè porre un papista sul trono, ed insistere poi ch’egli perseguitasse a morte i seguaci di quella fede, nella quale soltanto, secondo i suoi principii, poteva trovarsi la eterna salute, era assurdo. Mitigando con un reggimento temperato la severità delle sanguinose leggi d’Elisabetta, il Re non violava nessun principio costituzionale: solo esercitava un potere ch’era sempre stato inerente alla Corona. Anzi, solamente faceva ciò che poscia fu fatto da parecchi sovrani zelanti delle dottrine della Riforma; cioè da Guglielmo, da Anna, e dai principi della Casa di Brunswick. Se avesse patito che i preti cattolici romani, ai quali poteva senza violazione della legge salvare la vita, fossero impiccati, strascinati e squartati, per aver praticato quello ch’ei considerava come loro debito precipuo, si sarebbe attirato addosso l’odio e lo spregio anche di coloro, ai pregiudizi de’ quali egli aveva fatta così vergognosa concessione; e se si fosse contentato di concedere ai membri della sua propria Chiesa una tolleranza pratica, facendo largo uso della sua indubitata prerogativa di far grazia, i posteri lo avrebbero unanimemente applaudito. I Comuni, probabilmente, considerata bene la cosa, conobbero di avere operato in modo assurdo. Rimasero anco conturbati sentendo come il Re, cui essi tributavano superstiziosa riverenza, fosse grandemente sdegnato. Furono quindi solleciti ad espiare l’offesa. Nella Camera, con unanime voto, disfecero la deliberazione unanimemente fatta in Comitato, e adottarono la proposta di rimettersi con intera fiducia alla graziosa promessa che la Maestà Sua aveva loro data di proteggere quella religione che loro era cara più della stessa vita.[320] XXXIV. Tre giorni dopo, il Re fece sapere alla Camera, avere suo fratello lasciati certi debiti, e le provvigioni della flotta e dell’artiglieria essere pressochè esauste. Fu subitamente determinato d’imporre nuove tasse. La persona a cui venne affidata la cura di trovarne le vie e i mezzi, fu Sir Dudley North, fratello minore del Lord Cancelliere. Dudley North era uno de’ più abili uomini del suo tempo. Fino dagli anni suoi primi, era stato mandato in Levante, dove erasi lungo tempo occupato di faccende mercantili. Molti, in cosiffatta occupazione avrebbero lasciate irrugginire le facoltà del proprio intelletto; perocchè in Costantinopoli e Smirne v’erano pochi libri e pochi uomini intelligenti. Ma il giovane mercante aveva sortita una di quelle vigorose intelligenze che non dipendono da esterni sussidii. Nella sua solitudine, meditava profondamente sopra la filosofia del traffico, e speculò a poco a poco una teoria compiuta ed ammirevole, che in sostanza era quella che fu esposta un secolo dopo da Adamo Smith. Dopo molti anni di esilio, Dudley North ritornò in Inghilterra signore d’un gran patrimonio, e si pose a trafficare nella Città di Londra come mercante della Turchia. Il suo nome, per il profondo sapere pratico e speculativo nelle cose commerciali, giunse speditamente a notizia degli uomini di Stato. Il Governo trovò in lui un savio consigliere, e insieme uno schiavo senza scrupoli; come quello che aveva rare doti intellettuali, ma principii dissoluti e cuor duro. Mentre infuriava la reazione de’ Tory, egli aveva consentito ad accettare l’ufficio di Sceriffo ad espresso fine di cooperare alle vendette della Corte. I suoi giurati non mancavano mai di profferire condanne; e in un giorno di giudiciale macello, carri carichi di gambe e braccia dei Whig squartati, furono, con grande ribrezzo della sua moglie, trascinati avanti la sua bella casa in Bisinghall Street, perch’egli ordinasse ciò che fosse da farsene. De’ suoi servigi era stato rimeritato con le insegne di cavaliere, con quelle d’aldermanno, e con l’ufficio di Commissario delle Dogane. Era stato mandato al Parlamento dagli elettori di Banbury; e comecchè fosse uomo nuovo, egli fu colui sopra il quale il Lord Tesoriere riposava principalmente per governare le faccende della finanza nella Camera Bassa.[321] Ancorchè i Comuni fossero unanimi nel deliberare la concessione d’altra pecunia alla Corona, non erano punto concordi intorno al donde dovesse cavarsi. Fu tostamente risoluto, che parte della somma richiesta si raccogliesse per mezzo d’una imposta addizionale, a termine d’anni otto, sopra il vino e l’aceto: ma al Governo ciò non bastava. Furono messi in campo vari assurdi disegni. Molti gentiluomini provinciali inchinavano a imporre una tassa gravosa sopra tutti gli edifici nuovi della metropoli. Speravano che simigliante tassa avrebbe impedito lo accrescersi d’una città, per la quale da lungo tempo sentiva gelosia ed avversione l’aristocrazia rurale. Il progetto di Dudley North era d’imporre, per un termine di otto anni, nuovi dazi sullo zucchero e sul tabacco. Ne sorsero grandi clamori. I trafficanti di generi coloniali, i droghieri, i raffinatori dello zucchero, i tabaccai, fecero petizioni alla Camera, ed assediarono gli uffici pubblici. Il popolo di Bristol, che aveva grande interesse nel traffico con la Virginia e la Giammaica, spedì una deputazione che fu ascoltata alla Camera de’ Comuni. Rochester tentennò alquanto; ma North, con lo spirito pronto e la perfetta conoscenza delle faccende commerciali, prevalse, sì nel Tesoro come nel Parlamento, contro ogni opposizione. I vecchi membri rimasero attoniti vedendo un uomo che appena da quindici giorni sedeva nella Camera, e che aveva passata la più parte della vita in paesi stranieri, assumere, con fiducia di sè, ed abilmente condurre, tutte le funzioni di Cancelliere dello Scacchiere.[322] La sua proposta fu adottata; e così la Corona venne in possesso d’una entrata netta di circa un milione e novecento mila lire sterline, cavate dalla sola Inghilterra. Tale somma era più che bastevole a mantenere il Governo in tempo di pace.[323] XXXV. I Lordi, infrattanto, avevano discusse varie importanti questioni. Fra i Pari, la parte Tory era stata sempre forte. Comprendeva l’intero banco de’ Vescovi; e negli ultimi quattro anni, corsi dopo l’ultimo scioglimento, era stata maggiormente afforzata con la creazione di alcuni nuovi Pari. Di costoro i più cospicui erano il Lord Tesoriere Rochester, il Lord Cancelliere Guildford, il Lord Capo Giudice Jeffreys, Lord Godolphin e Lord Churchill, il quale dopo il suo ritorno da Versailles, era stato fatto barone del Regno d’Inghilterra. I Pari tosto si posero ad esaminare il caso di quattro loro colleghi, i quali erano stati, sotto il regno di Carlo, posti in istato d’accusa; ma non essendosene mai fatto il processo, dopo una lunga prigionia, erano stati ammessi dalla Corte del Banco del Re a dar cauzione. Tre di cotesti nobili che rimanevano sotto malleveria, erano cattolici romani; il quarto era il Conte di Danby, protestante di gran conto e influenza. Da che era caduto dal potere, e dai Comuni stato accusato di tradimento, quattro Parlamenti erano stati disciolti; ma ei non era stato nè assoluto nè condannato. Nel 1679, i Lordi, rispetto alla situazione di lui, avevano discussa la questione, se un atto d’accusa a cagione d’uno scioglimento si dovesse considerare come terminato o non terminato. Avevano risoluto, dopo lunga discussione ed esame de’ precedenti, che l’atto d’accusa dovesse tenersi come pendente. Questa deliberazione adesso venne da loro abrogata. Pochi Nobili Whig protestarono contro tale partito, ma non ottennero nulla. I Comuni in silenzio sobbarcaronsi alla decisione della Camera Alta. Danby riprese il suo seggio fra mezzo ai Pari, e divenne un membro operoso e potente della fazione Tory.[324] La questione costituzionale, intorno a cui, nel breve spazio di sei anni, i Tory avevano a quel modo profferite due affatto contrarie sentenze, si stette a dormire per più d’un secolo, e finalmente fu ridestata dallo scioglimento delle Camere che avvenne durante il lungo processo di Warren Hastings. Era allora necessario determinare se la regola stabilita nel 1679, o la opposta del 1685, fosse da reputarsi come legge del Regno. La questione fu lungamente discussa in ambe le Camere; e nella discussione venne adoperata tutta l’abilità legale e parlamentare che fosse in un secolo singolarmente fecondo d’uomini esperti nelle scienze giuridiche e negli usi del Parlamento. I giureconsulti non erano inegualmente divisi. Thurlow, Kenyon, Scott ed Erskine, sostenevano che lo scioglimento avesse posto fine all’atto d’accusa. La opposta dottrina fu manifestata da Mansfield, Camden, Loughborough e Grant. Ma quegli uomini di Stato, i quali fondavano i loro argomenti non sopra antecedenti o analogie pratiche, ma sopra profondi e larghi principii costituzionali, poco differivano nelle opinioni loro. Pitt e Grenville, al pari di Burk e Fox, sostennero che l’accusa rimaneva tuttavia pendente. Ambedue le Camere, a gran maggioranza, posero da parte la decisione del 1685, e pronunciarono che quella del 1679 era conforme alla legge del Parlamento. XXXVI. Tra tutti i delitti nazionali, commessi mentre il popolo era invaso dalla paura eccitata dalle fandonie d’Oates, il più celebre era stato lo assassinio giudiciale di Stafford. La condanna di quello infelice gentiluomo veniva adesso da ogni uomo imparziale considerata come ingiusta. I testimoni precipui dell’accusa erano stati convinti rei di parecchi spergiuri. In tali circostanze, era debito del Corpo Legislativo di rendere giustizia alla memoria d’una vittima innocente, e di cancellare una macchia immeritata da un nome lungo tempo illustre negli Annali d’Inghilterra. La Camera Alta, in onta al mormorare di pochi Pari, i quali non volevano ammettere d’avere sparso un sangue innocente, passò una legge intesa a cassare il decreto di morte infamante contro Stafford. Nei Comuni, la legge fu letta due volte, senza ricorrere allo scrutinio di divisione; e ordinarono che venisse istituito un comitato. Ma nel dì stabilito per tale faccenda, giunsero nuove, che nelle contrade occidentali dell’Inghilterra era scoppiata una formidabile ribellione. Fu per ciò necessario posporre parecchi importanti affari. L’ammenda dovuta alla memoria di Stafford, fu, come supponevasi, per breve tempo differita. Ma il pessimo governo di Giacomo, in pochi mesi, fece cangiare la pubblica opinione. Pel corso di varie generazioni, i Cattolici Romani non furono in istato di poter chiedere riparazione delle ingiustizie sofferte, e reputavansi fortunati se era loro concesso di vivere senza molestia nella oscurità e nel silenzio. Alla perfine, regnante Giorgio IV, vale a dire cento quaranta e più anni dopo che il sangue di Stafford era stato sparso in Tower Hill, la tarda espiazione fu compita. Una legge, che annullò la sentenza di morte infamante, e restituì alla danneggiata famiglia le antiche dignità, fu dai ministri del Re presentata al Parlamento, e, lietamente accolta da tutti gli uomini pubblici di ogni partito, passò senza un solo voto contrario.[325] Adesso è mestieri che io racconti la origine e il progresso di quella ribellione, che improvvisamente interruppe le deliberazioni delle Camere. CAPITOLO QUINTO. SOMMARIO. I. I Whig fuorusciti nel Continente.—II. Loro corrispondenti in Inghilterra.—III. Carattere dei principali fuorusciti; Ayloffe.—IV. Wade; Goodenough.—V. Rumbold.—VI. Lord Grey.—VII. Monmouth.—VIII. Ferguson.—IX. Fuorusciti scozzesi; il Conte d’Argyle.—X. Sir Patrizio Hume.—XI. Sir Giovanni Cochrane; Fletcher di Saltoun.—XII. Condotta irragionevole de’ fuorusciti scozzesi.—XIII. Apparecchi per un tentativo contro l’Inghilterra e la Scozia.—XIV. Giovanni Locke.—XV. Apparecchi fatti dal Governo a difendere la Scozia.—XVI. Colloquio di Giacomo con gli ambasciatori olandesi; sforzi inefficaci del Principe d’Orange e degli Stati Generali per impedire Argyle d’imbarcarsi.—XVII. Argyle si parte dall’Olanda.—XVIII. Sbarca in Iscozia.—XIX. Contende coi suoi seguaci.—XX. Disposizione del popolo scozzese.—XXI. Le forze d’Argyle vengono disperse, ed egli è fatto prigioniero.—XXII È decapitato.—XXIII. Decapitazione di Rumbold.—XXIV. Morte di Ayloffe.—XXV. Devastazione della contea d’Argyle; sforzi inefficaci a impedire che Monmouth partisse dall’Olanda.—XXVI. Suo arrivo a Lyme.—XXVII. Suo Proclama.—XXVIII. Sua popolarità nelle contrade occidentali dell’Inghilterra.—XXIX. Scontro tra i ribelli e le milizie civiche in Bridport.—XXX. Scontro tra i ribelli e le milizie civiche in Axminster.—XXXI. Le nuove della ribellione giungono a Londra.—XXXII. Lealtà del Parlamento.—XXXIII. Accoglienza fatta a Monmouth in Taunton—XXXIV. Egli prende il titolo di Re.—XXXV. Accoglienza fattagli in Bridgewater.—XXXVI. Apparecchi del Governo per opporglisi.—XXXVII. Disegno di Monmouth rispetto a Bristol.—XXXVIII. Lo abbandona.—XXXIX. Scaramuccia seguita in Philip’s Norton.—XL. Monmouth è scuorato.—XLI. Ritorna a Bridgewater.—XLII. L’esercito regio pone il campo presso Sedgemoor.—XLIII Battaglia di Sedgemoor.—XLIV. I ribelli vengono inseguiti.—XLV. Esecuzioni militari; fuga di Monmouth.—XLVI. È preso.—XLVII. Scrive una lettera al Re.—XLVIII. E condotto a Londra.—XLIX. Suo incontro col Re—L. Sua decapitazione.—LI. La memoria di lui è cara al popolo basso.—LII. Crudeltà de’ soldati nelle contrade occidentali; Kirke.—LIII Jeffreys si reca nelle contrade occidentali.—LIV. Processo di Alice Lisle.—LV. Il tribunale di sangue.—LVI. Abramo Holmes.—LVII. Cristoforo Battiscombe.—LVIII. Gli Hewling.—LIX. Punizione di Tutchin.—LX. I ribelli sono deportati.—LXI. Confische ed estorsioni.—LXII. Rapacità della Regina e delle sue dame.—LXIII. Caso di Grey.—LXIV. Casi di Cochrane, di Storey, di Wade, di Goodenogh e di Ferguson.—LXV. Jeffreys è creato Lord Cancelliere. Processo ed esecuzione giudiciale di Cornish.—LXVI. Processi ed esecuzioni di Fernley e d’Elisabetta Gaunt.—LXVII. Processo ed esecuzione di Bateman.—LXVIII. Crudele persecuzione contro i Protestanti Dissenzienti. I. Verso la fine del regno di Carlo II, alcuni Whig che erano stati profondamente implicati nella congiura cotanto fatale al loro partito, e sapevano come fossero fatti segno all’ira implacabile del Governo, avevano cercato asilo nei Paesi Bassi. Cotesti fuorusciti erano generalmente uomini d’indole ardente e di debole giudizio. Stavano anche sotto la influenza di quella illusione che sembra appartenere segnatamente alla condizione di esule. Un uomo politico, cacciato in bando da una fazione avversa, comunemente guarda traverso ad un falso strumento la società ch’egli ha lasciata. I desiderii, le speranze, i rancori suoi gli fanno apparire ogni cosa scolorata e scontorta. Ei pensa che ogni lieve malcontento debba produrre una rivoluzione. Ogni baruffa gli sembra una ribellione. Non intende come la patria non lo pianga nel modo medesimo ch’egli la piange. Immagina che tutti i suoi vecchi colleghi, i quali godono tuttavia i domestici comodi e le agiatezze loro, siano tormentati dai medesimi sentimenti che gli rendono grave la vita. Come la espatriazione diventa più lunga, i suoi vaneggiamenti si accrescono. Il correre del tempo, che tempera lo ardore degli amici da lui lasciati indietro, gli accresce la fiamma nel cuore. Ciascun giorno che passa gli rende maggiore la impazienza ch’ei sente di rivedere la terra natia, e ciascun giorno la sua terra natia lo rimembra e lo compiange meno. Tale illusione diventa quasi una insania, ogni qual volta molti esuli che soffrono per la medesima causa, si trovano insieme in terra straniera. La precipua delle loro faccende è quella di ragionare intorno a ciò che essi erano un tempo, e a ciò che potrebbero essere in futuro; di incitarsi a vicenda contro il comune nemico; di pascersi con frenetiche speranze di vittoria e di vendetta. Così essi diventano maturi per certe intraprese, che a prima vista verrebbero giudicate disperate da chiunque non sia stato dalla passione privato del senso di calcolare le probabilità di prospero successo. II. In tali condizioni erano molti de’ fuorusciti che s’erano insieme ridotti nel continente. Il carteggio che tenevano coll’Inghilterra, era per la più parte tale, da eccitare gli animi loro, e da farli farneticare. Le idee che avevano rispetto alla disposizione dell’opinione pubblica, venivano loro precipuamente dai peggiori uomini del partito Whig; uomini che erano cospiratori e libellisti per mestiere, perseguiti dagli ufficiali della giustizia, forzati ad andar svicolando travestiti per i chiassuoli della città, e talvolta a starsi nascosti per intere settimane nelle soffitte o nelle cantine. Gli uomini di Stato che erano stati l’ornamento del partito patriottico, che avevano poscia governati i Consigli della Convenzione, avrebbero porto ammonimenti assai diversi da quelli, che davano uomini come Giovanni Wildman ed Enrico Danvers. Wildman aveva servito quaranta anni innanzi nell’esercito parlamentare; ma s’era meglio fatto notare come agitatore che come soldato, ed aveva ben presto abbandonato il mestiere delle armi per un altro più adatto all’indole sua. L’odio ch’egli sentiva per la monarchia, lo aveva implicato in una lunga serie di congiure, prima contro il Protettore e poi contro gli Stuardi. Ma al fanatismo congiungeva grandissima sollecitudine per la propria sicurezza. Aveva l’arte maravigliosa di rasentare l’abisso del tradimento, senza precipitarvisi. Niuno intendeva meglio il modo d’incitare altrui alle disperate intraprese con parole, le quali, ripetute dinanzi ai giurati, potessero parere innocenti, o, alla peggio, ambigue. Tanta era la sua astuzia, che quantunque ei perpetuamente congiurasse, e fosse conosciuto ch’ei stesse congiurando; e quantunque un governo vendicativo gli avesse lungamente tenuto gli occhi addosso; ei schivò ogni pericolo, e morì nel proprio letto, dopo d’avere veduto, pel corso di due generazioni, i suoi compiici finire sulle forche.[326] Danvers era un uomo della medesima genia, caldo di cervello e vile di cuore, sempre spinto dallo entusiasmo sull’orlo del pericolo, e sempre dalla codardia fermato su quell’orlo. Esercitava non poca influenza sopra sopra una parte de’ Battisti, aveva scritto molto in difesa delle loro peculiari opinioni; e studiandosi di palliare i delitti di Mattia e di Giovanni di Leida, erasi attirata sul capo la severa censura dei più rispettabili Puritani. Forse, s’egli avesse avuto un po’ di coragggio, avrebbe calcate le orme degli sciagurati ch’ei difendeva. In quel tempo, viveva nascosto per sottrarsi alla caccia che gli davano gli ufficiali della giustizia; imperciocchè il Governo, avendolo scoperto autore d’uno scritto pieno di gravissime calunnie, aveva dato ordini per arrestarlo.[327] III. È facile immaginare quale specie di notizie e di consigli, uomini come questi che abbiamo descritti, potessero mandare ai fuorusciti nelle Fiandre. Pochi esempi serviranno a darci idea del carattere di quei fuorusciti. Uno de’ più cospicui fra loro, era Giovanni Ayloffe, legale, congiunto d’affinità con gli Hyde, e per mezzo loro con Giacomo. Ayloffe si era ben per tempo reso notevole per un capriccioso insulto fatto al Governo. Allorquando la prevalenza della corte di Versailles aveva destata universale inquietudine, egli erasi rischiato a porre nel seggio presidenziale della Camera de’ Comuni una scarpa di legno, che presso gl’Inglesi era simbolo della tirannia francese. Erasi poscia implicato nella congiura de’ Whig; ma non abbiamo ragione di credere ch’egli fosse partecipe del disegno di assassinare i due reali fratelli. Era uomo fornito di doti e di coraggio; ma il suo carattere morale non era commendevole. I teologi puritani bisbigliavano ch’egli fosse uno spensierato Gallione,[328] o qualche cosa di peggio; e che qualunque si fosse lo zelo ch’ei professava per la libertà civile, i Santocchi avrebbero fatto bene ad evitare ogni relazione con lui.[329] IV. Nataniele Wade, era, al pari d’Ayloffe, legale. Aveva abitato lungo tempo in Bristol, e nel circostante paese erasi acquistata rinomanza di repubblicano. Un tempo aveva concepito il disegno di emigrare a New Jersey, dove sperava trovare istituzioni, meglio che quelle d’Inghilterra, accomodate alle sue voglie. La sua operosità nel condurre le elezioni lo aveva reso noto ad alcuni nobili Whig, i quali se n’erano giovati nello esercizio della sua professione, e lo avevano in fine ammesso ai loro più secreti consigli. S’era molto immischiato nel piano della insurrezione, togliendosi l’incarico di sommuovere e capitanare il popolo della propria città. Era stato anche nel segreto delle più odiose congiure contro la vita di Carlo e di Giacomo. Ma dichiarò sempre, che quantunque fosse a parte del secreto, lo aveva abborrito, tentando perfino di dissuadere i suoi colleghi dal mandare ad esecuzione il loro disegno. E’ sembra che Wade, come uomo educato alle occupazioni civili, possedesse in modo non ordinario quella specie di destrezza e di vigore che fanno un buon soldato. Per isventura, i suoi principii e il suo coraggio dettero prova di non essere di forza bastevole a sostenerlo, quando, finito il conflitto, egli nel fondo d’un carcere non aveva altra scelta che la morte o la infamia.[330] Un altro de’ fuorusciti aveva nome Riccardo Goodenough, che primamente era stato Sotto–Sceriffo di Londra. In lui il suo partito aveva lungo tempo confidato per disonesti servigi, e in ispecie per la scelta de’ giurati che ne’ processi politici non patissero scrupoli. Erasi molto intromesso nelle parti più nere ed atroci della congiura de’ Whig, che erano state con sommo studio nascoste agli uomini più rispettabili di quel partito. Nè, ad attenuargli la colpa, è possibile allegare che ei fosse traviato dallo zelo del bene pubblico; poichè si vedrà in progresso, come, dopo d’avere coi propri delitti infamata una nobile causa, la tradì, onde sottrarsi alla ben meritata pena.[331] V. Uomo di differentissimo carattere era Riccardo Rumbold. Era stato commissario nello stesso reggimento di Cromwell; era stato posto a guardia del palco dinanzi alla Sala del Banchetto, nel dì della decapitazione del Re; aveva combattuto a Dunbar e a Worcester, e sempre mostrato in altissimo grado le qualità che predistinguevano l’invincibile esercito nel quale egli serviva; vero coraggio, ardente entusiasmo sì nelle cose politiche che nelle religiose, e insieme tutta la padronanza di so, che caratterizza gli uomini che la buona disciplina de’ campi educò a comandare e obbedire. Allorquando le truppe repubblicane furono disciolte, Rumbold divenne birrajo, ed esercitava il proprio traffico presso Hoddeston, in quel fabbricato da cui la congiura di Rye House deriva il nome. Era stato proposto, comecchè non affatto deliberato, ne’ colloqui de’ più avventati e scoscienziati malcontenti, di appostare in Rye House uomini armati, onde aggredire le guardie che dovevano scortare Carlo e Giacomo da Newmarket a Londra. In tali colloqui, Rumbold aveva sostenuta una parte, dalla quale egli avrebbe rifuggito con orrore, se il suo chiaro intendimento non fosse stato ottenebrato, e il suo robusto cuore corrotto dallo spirito di parte.[332] VI. Assai superiore per posizione a tutti cotesti esuli de’ quali abbiamo finora favellato, era Ford Grey, Lord Grey di Wark. Era stato Esclusionista zelante, aveva cooperato al disegno d’una insurrezione, ed era stato rinchiuso nella Torre; ma gli era venuto fatto, ubbriacando i suoi custodi, di fuggire nel continente. Aveva egregie qualità di mente e modi piacevoli; ma la sua vita era stata macchiata da un delitto di famiglia. La sua moglie apparteneva alla nobile casa di Berkeley. Lady Enrichetta Berkeley, sorella di lei, aveva con Lord Grey la familiarità propria d’un fratello e d’una sorella. Ne nacque una fatale relazione. Lo spirito elevato e le vigorose passioni di Lady Enrichetta ruppero ogni freno di virtù e decoro. La fuga scandalosa de’ due amanti palesò a tutto il reame la vergogna di due illustri famiglie. A Grey e ad alcuni altri, che gli erano stati mezzani in amore, fu intentato un processo come rei di congiura. Nella Corte del Banco del Re seguì una scena che non ha pari nella storia d’Inghilterra. Il seduttore, con intrepido aspetto, comparve accompagnato dalla sua druda. Nè anche in quell’estremo caso, i grandi Lordi Whig si scostarono dal fianco di lui. Coloro ch’erano stati da lui offesi, gli stavano di contro, ed appena lo videro, trascorsero ad eccessi di rabbia. Il vecchio Conte di Berkeley coprì di rimproveri e maledizioni la sciagurata Enrichetta. La Contessa fece il suo deposto, interrotta da frequenti singhiozzi, ed infine si svenne. I giurati profferirono la sentenza di reità. Alzatisi i giudici, Lord Berkeley invocò lo aiuto di tutti i suoi amici per impossessarsi della propria figliuola. I partigiani di Grey le si strinsero attorno. Da ambe le parti snudaronsi i ferri; successe una zuffa in Westminster Hall; e non senza molta difficoltà, ai giudici e agli uscieri riuscì di partire i combattenti. Nei tempi nostri un simile processo tornerebbe fatale ad un uomo pubblico; ma in quel secolo, la idea della moralità fra’ grandi era sì bassa, e lo spirito diparte così violento, che Grey seguitò ad esercitare considerevole influenza, ancorchè i Puritani, che erano una classe assai forte del partito Whig, lo trattassero con alquanta freddezza.[333] Una parte del carattere, o per meglio dire, della fortuna di Grey, è degna d’essere notata. Ammettevasi che dovunque, tranne in campo di battaglia, egli mostrasse grandissimo coraggio. Più d’una volta, in circostanze impacciose, dove ne andava la vita e la libertà sua, il contegno dignitoso, e la perfetta signoria ch’egli mostrò delle proprie facoltà, gli erano argomento di lode anche presso coloro che non gli portavano nè amore nè stima. Ma come soldato, egli incorse, meno forse per proprio difetto che per mala ventura, il degradante addebito di codardia. VII. In ciò egli differiva grandemente dal Duca di Monmouth, suo amico. Monmouth, ardente e intrepido in campo di battaglia, mostravasi altrove effeminato ed irresoluto. Lo illustre nascimento, il coraggio, e le frivole grazie ond’egli era adorno, lo avevano locato in un posto, pel quale egli era assolutamente inadatto. Dopo d’avere veduta la rovina d’un partito, del quale egli era capo di nome, erasi ritirato in Olanda. Il principe e la principessa d’Orange, dopo ciò, non lo consideravano più come rivale. Gli facevano ospitale accoglienza, sperando che col trattarlo cortesemente si sarebbero acquistato un diritto alla gratitudine del padre di lui. Sapevano come lo affetto paterno non fosse estinto, come lettere e sussidii pecuniarii continuassero tuttavia a venire da Whitehall al ritiro di Monmouth, e come Carlo guardasse in cagnesco coloro che studiavansi di corteggiarlo sparlando dell’esule figliuolo. Al Duca era stata data speranza, che dopo breve tempo, non porgendo cagione di dispiacere, sarebbe stato richiamato alla patria, e rimesso in tutti i suoi alti onori e comandi. Infiammato da tali espettazioni, era stato, per così dire, l’anima dell’Aja per tutto lo inverno precedente. In una serie di feste da ballo nelle magnifiche sale del Palazzo d’Orange, che da ogni lato risplende coi più vivi colori di Jordaens e di Hondthorst, egli era stato la più cospicua figura.[334] Aveva fatta conoscere alle dame d’Olanda la _country–dance_ inglese; le quali, in ricambio, gli avevano insegnato a patinare sopra i canali. La principessa lo aveva accompagnato nelle sue spedizioni sul ghiaccio; e la figura che ella vi faceva equilibrata sopra una gamba, e coperta di sottane più corte di quelle usate generalmente dalle dame che tengono rigoroso decoro, era stata cagione di meraviglia e diletto ai ministri stranieri. L’austera gravità che serbavasi sempre nella corte dello Statoldero, sembrava essere sparita di faccia alla influenza del giovane inglese, che ammaliava chiunque. Anche il grave e pensieroso Guglielmo, come il suo ospite appariva nelle sue stanze, si abbandonava al buon umore.[335] Monmouth, frattanto, studiosamente evitava ciò che avrebbe potuto offendere coloro dai quali sperava protezione. Vedeva poco i Whig in generale, e punto quegli uomini violenti ch’erano stati implicati nella parte peggiore della congiura Whig. E però i suoi antichi colleghi altamente lo accusavano di volubilità e d’ingratitudine.[336] VIII. Ma nessuno degli esuli lo accusava con più veemenza ed acrimonia, di quel che facesse Roberto Ferguson, il Giuda della celebre satira di Dryden. Ferguson era oriundo Scozzese, ma aveva lungamente abitato in Inghilterra. A tempo della Restaurazione aveva occupato un beneficio in Kent. Era stato educato al Presbiterianismo; ma cacciato via dai Presbiteriani, era divenuto Indipendente. Era stato maestro in un’accademia eretta dai Dissenzienti in Islington, come rivale della scuola di Westminster e di Charter House; ed aveva predicato innanzi a numerose congreghe in Moorfields. Aveva parimente pubblicato alcuni trattati teologici, che oggimai dormono nei polverosi scaffali di qualche vecchia biblioteca: benchè avesse sempre sulle labbra testi delle Scritture, coloro che ebbero con lui faccende pecuniarie, presto si accorsero ch’egli era un pretto scroccone. Finalmente, posta da canto la teologia, si dette a trafficare di politica. Apparteneva a quella classe di gente, che fanno l’ufficio di rendere ai partiti esasperati que’ servigi, dai quali gli onesti rifuggono per disgusto, e i prudenti per paura; voglio dire alla classe de’ fanatici bricconi. Violento, maligno, spregiatore del vero, insensibile alla vergogna, insaziabile di rinomanza, godente negl’intrighi, nei tumulti, ne’ danni per voluttà di far male, si affaccendò per molti anni nelle più luride sorgenti delle fazioni. Passava la vita fra i calunniatori e i falsi testimoni. Gli era stata affidata una cassa segreta, con la quale pagava certi agenti sì vili, da non essere riconosciuti dagli onesti del partito; ed era direttore d’una tipografia clandestina, che giornalmente pubblicava fogli anonimi. Gloriavasi di avere trovato il modo di sparger satire attorno la terrazza di Windsor, e perfino di porle sotto il guanciale del Re. Così traeva la vita fra mille astuzie, assumeva mille nomi, e ad un tempo aveva quattro diverse abitazioni in diversi quartieri di Londra. S’era profondamente ravvolto nella congiura di Rye House; e v’è ragione di credere ch’egli fosse il primo autore di que’ sanguinarii disegni che screditarono cotanto il partito Whig. Scoperta la congiura, e scoraggiati i congiurati, disse loro addio con un sorriso, aggiungendo ch’essi erano novizi, ch’egli era assuefatto a combattere, a celarsi, a trasfigurirsi, e che non avrebbe mai cessato di congiurare fino allo estremo momento di sua vita. Fuggì al Continente; ma pare che anche quivi non si tenesse sicuro. I ministri inglesi alle corti straniere avevano ordine d’invigilarlo. Il Governo francese offerse una rimunerazione di cinquecento zecchini a chiunque lo avesse arrestato. Nè gli era agevole sottrarsi agli sguardi altrui; perocchè il largo accento scozzese, la lunga e magra persona, le guance infossate, il lampo degli occhi pungenti ai quali faceva ombra la parrucca, le guance chiazzate di sangue, le spalle sformatamente ricurve, e il portamento distinto da quello degli altri per un andare impacciato affatto suo, lo rendevano segno agli altrui sguardi in qualsivoglia luogo si fosse mostrato. Ma quantunque ei fosse, come sembra, perseguito con animosità particolare, corse voce che ciò fosse una finzione, e che gli ufficiali della giustizia avessero ordini di chiudere gli occhi. Ch’egli fosse un acre malcontento, non potrebbe dubitarsi. Ma v’è forte ragione di credere che avesse provveduto alla propria sicurtà facendosi in Whitehall passare per ispia de’ Whig, e informando tanto il Governo quanto bastava a mantenere il suo credito. Questa ipotesi spiega in modo semplice ciò che a’ suoi colleghi sembrava in lui straordinaria noncuranza e audacia. Trovandosi fuor di pericolo, egli sempre consigliava i mezzi più pericolosi e violenti, e irrideva con somma soddisfazione la pusillanimità di coloro i quali, non essendosi muniti delle infami cautele sopra cui egli riposava, inchinavano a riflettere due volte innanzi che ponessero a repentaglio la propria vita, e le cose più care della vita stessa.[337] Appena giunto ai Paesi Bassi, cominciò a immaginare nuovi disegni contro il Governo Inglese, e trovò fra i suoi compagni d’esilio uomini pronti ad ascoltare i suoi perfidi consigli. Monmouth, nondimeno, si tenne ostinatamente da parte; e senza lo aiuto della immensa popolarità di Monmouth, era impossibile tentare cosa alcuna. Nulladimeno, tale era la impazienza e temerità degli esuli, che provaronsi a trovare un altro capo. Mandarono una imbasciata a quel solitario ritiro sulle sponde del lago Leman, dove Edmondo Ludlow, un dì predistinto fra i capi dell’armata parlamentare e fra’ membri dell’Alta Corte di Giustizia, viveva da molti anni nascosto alla vendetta degli Stuardi risaliti sul trono. L’austero vecchio regicida, nondimeno, rifiutò di abbandonare il proprio eremo, dicendo la sua opera essere finita: se l’Inghilterra poteva ancora salvarsi, ciò spettare ad uomini più giovani di lui.[338] L’inattesa morte di Carlo cangiò onninamente lo aspetto delle cose. Ogni speranza che i Whig proscritti avevano vagheggiata di ritornare pacificamente alla terra natia, si spense con la vita di un principe spensierato e d’indole buona, e con l’ascensione al trono d’un principe ostinato in ogni cosa, e in ispecie nella vendetta. Ferguson trovossi nel suo proprio elemento. Privo d’ingegno e come scrittore e come uomo di stato, possedeva in altissimo grado le qualità non invidiabili di tentatore; ed ora, con la malefica operosità d’uno spirito perverso, correva da fuoruscito a fuoruscito, sussurrava negli orecchi di ciascuno, e suscitava in ogni cuore odio feroce e stemperati desiderii. Non disperò più di poter sedurre Monmouth. Le condizioni di quello sventurato giovane erano affatto cangiate. Mentre egli stavasi a danzare e patinare all’Aja, aspettando tutti i dì essere richiamato a Londra, rimase oppresso dal cordoglio alla nuova della morte del padre, e della assunzione dello zio al trono. La notte che seguì all’arrivo dell’infausta notizia, coloro che alloggiavano accanto a lui, poterono distintamente udirne i singhiozzi e le laceranti strida. Il dì dopo abbandonò l’Aja, promettendo sull’onor suo al Principe e alla Principessa d’Orange di non tentar nulla contro il Governo inglese, e ricevendo da loro pecunia per provvedere ai più urgenti bisogni.[339] Il prospetto del futuro che stava dinanzi agli occhi a Monmouth, non era splendido. Non aveva probabilità d’essere richiamato dal bando. Nel continente ei non poteva più vivere fra la magnificenza e le feste d’una corte. I suoi cugini nell’Aja parevano seguitare a trattarlo con vera cortesia; ma non potevano apertamente ciò fare senza grave risico di produrre una rottura tra l’Inghilterra e l’Olanda. Guglielmo gli dette un amichevole e savio consiglio. Alla guerra che ardeva in Ungheria fra lo imperatore e i Turchi erano rivolti gli occhi di tutta l’Europa, con interesse quasi simile a quello che cinquecento anni innanzi avevano destato le Crociate. Molti valorosi gentiluomini, sì protestanti che cattolici, combattevano da volontarii nella causa comune della Cristianità. Il principe consigliò Monmouth ad accorrere al campo imperiale, assicurandolo che, così facendo, non gli sarebbero mancati i mezzi di fare una comparsa degna d’un gentiluomo inglese.[340] Era questo un egregio consiglio, ma il Duca non seppe deliberarsi a seguirlo. Si ritrasse a Brusselles, accompagnato da Enrichetta Wentworth, Baronessa Wentworth di Newcastle; donzella d’alto lignaggio e di grandi ricchezze, la quale, amandolo passionatamente, aveva per lui sacrificato l’onore di fanciulla e la speranza d’uno illustre connubio, lo aveva seguito nell’esilio, ed era da lui considerata come sposa in faccia a Dio. La soave compagnia della donna diletta gli sanò tosto le piaghe dell’anima. Gli parve d’avere trovata la felicità nel ritiro e nella quiete, e d’avere dimenticato che egli era già stato ornamento d’una splendida corte, capo d’un gran partito, comandante d’eserciti ed aspirante ad un trono. Ma altri non lo lasciò tranquillo. Ferguson adoperò tutte le arti della tentazione. Grey, che non sapeva dove rivolgersi a trovare uno scudo, ed era pronto ad ogni intrapresa, comunque disperata, prestò il suo aiuto. Non vi fu arte di cui non si giovassero per istrappare Monmouth dal proprio ritiro. Ai primi inviti che gli pervennero dagli antichi colleghi, diede risposte punto favorevoli. Disse che le difficoltà d’uno sbarco in Inghilterra erano insuperabili; protestò d’essere stanco della vita pubblica, e chiese che gli lasciassero godere la sua felicità novellamente trovata. Ma era poco assuefatto a resistere ai destri ed urgenti incitatori. Dicesi, inoltre, che ad abbandonare il suo ritiro fosse indotto dalla stessa potente cagione che glielo rendeva beato. Lady Wentworth desiderava di vederlo Re, e gli offeriva le sue rendite, le sue gioie e il suo credito. Monmouth non era convinto; ma non ebbe fermezza bastevole a resistere a tali sollecitazioni.[341] IX. Gli esuli inglesi lo accolsero con gioia, ed unanimemente lo riconobbero loro capo. Ma v’era un’altra classe di fuorusciti che non inchinavano a riconoscere la supremazia di lui. Un pessimo governo, quale non era mai stato nella parte meridionale dell’isola nostra, aveva cacciati dalla Scozia al continente molti fuggiaschi, la cui intemperanza di zelo nelle cose pubbliche e nelle religiose era estrema quanto la oppressione che avevano sofferta. Costoro non volevano seguire un condottiero inglese. Anche travagliati dalla povertà e dall’esilio, serbavano il loro puntiglioso orgoglio nazionale, e non avrebbero consentito che la patria loro venisse, in essi, degradata alla condizione di provincia. Avevano un capitano fra loro, cioè Arcibaldo, nono Conte di Argyle, il quale come capo della grande tribù di Campbell, era noto ai popoli delle montagne sotto l’orgoglioso nome di Mac Callum More. Il Marchese di Argyle suo padre era stato capo de’ Convenzionisti scozzesi, aveva grandemente cooperato alla rovina di Carlo I; e i realisti non reputavano ch’egli avesse debitamente espiata la offesa, per aver dato il vano titolo di Re a Carlo II, ed averlo tenuto in un palazzo a guisa di prigioniero di Stato. Ritornata la famiglia reale, il Marchese fu messo a morte. Il suo marchesato rimase estinto; ma al figlio suo fu concesso di ereditare l’antica Contea, ed era tuttavia annoverato fra i maggiori nobili della Scozia. La condotta tenuta dal Conte negli ultimi venti anni che seguirono la Restaurazione, era stata, secondo che egli stesso poi disse, criminosamente moderata. In talune occasioni aveva avversato il Governo che affliggeva la sua patria, ma con freddezza e cautela. Per la sua tolleranza nelle cose ecclesiastiche, aveva porto argomento di scandalo ai Presbiteriani; ed era stato così lontano dal mostrarsi inchinevole alla resistenza, che, allorquando i Convenzionisti erano stati sì crudelmente perseguiti da insorgere, egli aveva condotto in campo una numerosa torma di suoi dipendenti, ad aiutare il Governo. Tale era stato il suo contegno politico, finchè il Duca di York venne in Edimburgo rivestito di tutta l’autorità regia. Il dispotico vicerè si accorse tosto di non potere sperare pieno sostegno dal Conte d’Argyle. E dacchè il più potente capo del Regno non era da guadagnarsi al Governo, fu reputato necessario distruggerlo. Per ragioni così frivole, che anche i più fanatici partigiani e i più cavillosi ne sentirono rossore, fu tratto dinanzi ai tribunali, processato come reo di tradimento, convinto, e dannato a morire. I fautori degli Stuardi poscia asserirono che il Governo non aveva mai avuto intendimento di mandare ad esecuzione quella sentenza, e che solo scopo di tale Processo era stato di spaventare il Conte, onde ei s’inducesse a cedere la sua vasta giurisdizione nelle montagne. O che Giacomo avesse inteso di commettere un assassinio, siccome i suoi nemici sospettarono; o solamente, secondo che i suoi amici affermarono, di commettere una estorsione minacciando di commettere un assassinio; adesso non può con certezza asserirsi. «Io non so nulla delle leggi scozzesi» diceva Halifax a Re Carlo; «questo solo io so, che noi non dovremmo impiccare un cane per le cagioni onde Lord Argyle è stato condannato.»[342] Argyle fuggì travestito in Inghilterra, donde passò in Frisia. In quella quieta provincia il padre suo aveva comprata una piccola terra, come luogo di rifugio per la famiglia nelle civili perturbazioni. Dicevasi fra gli Scozzesi che tale compra era stata fatta dopo che un indovino celtico aveva predetto che Mac Callum More un giorno verrebbe cacciato dall’antica casa di sua famiglia in Inverary.[343] Ma è probabile che il Marchese, preveggente nelle faccende politiche, fosse stato a ciò persuaso forse più dagli indizi de’ tempi, che dalle visioni di qualsivoglia profeta. In Frisia, il Conte Arcibaldo visse in tanta quiete, che non sapevasi dove egli avesse trovato ricovero. Dal suo ritiro aveva mantenuto carteggio coi suoi amici rimasti nella Gran Brettagna, aveva partecipato alla congiura de’ Whig, e combinato coi capi di quella un disegno d’invasione in Iscozia.[344] Scoperta la congiura di Rye House, quel disegno era stato messo da parte; ma dopo la morte di Carlo, divenne di nuovo l’oggetto de’ pensieri del Conte. Dimorando sul continente, egli aveva molto più che negli anni trascorsi della propria vita, profondamente meditato sopra le questioni religiose. In un certo modo, lo effetto di tali meditazioni era stato pernicioso alla mente di lui. La sua parzialità per la forma sinodale del governo ecclesiastico adesso era giunta fino alla bacchettoneria. Qualvolta ripensava a quanto lungo tempo ei si era conformato al culto stabilito, sentivasi opprimere dalla vergogna e dal rimorso, e si mostrava in mille guise dispostissimo ad espiare la propria defezione con la violenza e la intolleranza. Nondimeno, tra breve tempo, ebbe occasione di provare che il timore e lo amore di una più alta Possanza gli avevano dato il vigore bisognevole a sostenere i conflitti più formidabili, fra’ quali possa trovarsi la umana natura. Ai suoi compagni d’infortunio il suo aiuto era di massimo momento. Comecchè ei fosse proscritto e fuggiasco, era tuttavia, in certo senso, il più potente suddito de’ dominii britannici. Per ricchezze, anche prima ch’ei fosse stato condannato a morte infamante, era forse inferiore non solo ai grandi Nobili d’Inghilterra, ma ai più opulenti scudieri di Kent e di Norfolk. Ma la sua autorità patriarcale, autorità che non può acquistarsi per ricchezze nè perdersi per condanna infamante, lo rendeva, come capo d’insorti, veramente formidabile. Nessun Lord delle contrade meridionali dell’Isola poteva esser sicuro che, avventurandosi a resistere al Governo, i suoi guarda–caccia e cacciatori lo seguirebbero. Un Conte Bedford, un Duca di Devonshire, non poteva promettere di condurre seco dieci uomini in campo. Mac Callum More, senza un soldo e spoglio della sua Contea, avrebbe potuto in ogni istante suscitare una grave guerra civile. Non aveva se non a mostrarsi sulla costa di Lorn, perchè tra pochi giorni gli si raccogliesse un esercito dintorno. Le forze che in tempi prosperi ei poteva condurre in campo, ascendevano a cinque mila combattenti, intesi ad obbedirlo, avvezzi all’uso della targa e dello spadone, non tementi di venire alle mani con le truppe regolari anche in aperta pianura, e forse superiori a quelle per certe qualità necessarie a difendere i passi di aspre montagne, coperti di nebbia e tagliati da rapidi torrenti. Ciò che tali forze, bene dirette, fossero capaci di fare, anco contro vecchi soldati ed esperti capitani, si vide pochi anni poi a Killiecrankie. X. Ma per quanto fosse grande il diritto d’Argyle alla fiducia degli esuli scozzesi, era fra loro una fazione che non gli procedeva amichevole, e desiderava giovarsi del nome e dell’influenza di lui, senza affidargli nessun potere effettivo. Capo di questa fazione era un gentiluomo delle pianure, il quale era stato implicato nella congiura Whig, e con difficoltà erasi sottratto alla vendetta della Corte; cioè Sir Patrizio Hume di Polwarth, nella Contea di Berwick. Si è molto dubitato della integrità di lui, ma senza sufficiente ragione. Nulladimeno, è d’uopo ammettere ch’egli tanto nocque alla propria causa con la perversità, quanto avrebbe potuto fare con la tradigione. Era incapace egualmente d’esser capo, o seguace; concettoso di sè, sofistico, di storto cervello, interminabile ciarliero, tardo ad andare incontro all’inimico, ed attivo solo contro i propri colleghi. XI. Con Hume era in intima relazione un altro esule scozzese di gran conto, il quale aveva molti dei medesimi difetti, quantunque non nello stesso grado; voglio dire Sir Giovanni Cochrane, secondo figlio del Conte di Dundonald. Uomo di assai più elevato carattere era Andrea Fletcher di Saltown, insigne per dottrina e facondia, insigne anche per coraggio, disinteresse e spirito patriottico; ma d’irritabile e intrattabile indole. Al pari di molti de’ suoi più illustri contemporanei, Milton, a cagione d’esempio, Harrington, Marvel e Sidney, per il pessimo governo di varii successivi principi, Fletcher aveva concepito una forte ripugnanza alla monarchia ereditaria. Eppure non amava la democrazia. Era capo d’un’antica famiglia normanna, ed orgoglioso della propria stirpe; bel parlatore, forbito scrittore, e vanitoso della sua superiorità intellettuale. E come gentiluomo e come dotto, guardava con disdegno la plebe; ed era tanto poco inchinevole a porre nelle mani di quella il potere politico, da crederla perfino inetta a fruire della libertà personale. Ella è curiosissima circostanza, come questo uomo, il più onesto, intrepido e irremovibile repubblicano de’ tempi suoi, dovesse essere stato l’autore di un sistema, in cui gran parte delle classi operaie di Scozia venivano ridotte in ischiavitù. Davvero, ei vivamente somigliava a quei senatori romani, i quali mentre odiavano il nome di Re, difendevano con inflessibile orgoglio i privilegi dell’ordine loro contro le usurpazioni della moltitudine, e governavano gli schiavi e le schiave loro per mezzo del ceppo e del flagello. XII. Amsterdam fu il luogo dove ragunaronsi i fuorusciti scozzesi ed inglesi. Argyle ci andò dalla Frisia, Monmouth dal Brabante. Tosto si conobbe, gli esuli quasi nulla avere di comune, tranne l’odio contro Giacomo, e la impazienza di rimpatriare. Gli Scozzesi sentivano gelosia degl’Inglesi, e questi di quelli. Le alte pretese di Monmouth offendevano Argyle, il quale, altero dell’antica nobiltà e d’essere legittimamente disceso da sangue regio, non amava punto rendere omaggio a colui ch’era frutto d’un amore vagabondo ed ignobile. Ma fra tutte le dissensioni che turbavano la piccola banda de’ fuorusciti, la più seria fu quella che sorse tra Argyle e parte de’ suoi seguaci. Alcuni degli esuli scozzesi, in un lungo corso d’opposizione alla tirannide, avevano acquistata tanta infermità d’intendimento e di tempra, da render loro insopportabile il freno più giusto e necessario. Sapevano di non potere tentar nulla senza Argyle. Avrebbero dovuto conoscere, che non volendo correre diritto alla propria rovina, era mestieri o che ponessero piena fiducia nel loro capo, o che deponessero ogni pensiero d’impresa militare. La esperienza ha pienamente provato che, in guerra, ogni operazione, dalle altissime alle infime, dovrebbe essere diretta da una mente sola, e che ogni agente subordinato dovrebbe obbedire implicitamente, valorosamente e con dimostrazione di contento, agli ordini ch’egli disapprova, o le cui ragioni ei non conosce. Le assemblee rappresentative, le pubbliche discussioni, e tutti gli altri impedimenti, onde ne’ civili negozi i governanti sono infrenati perchè non abusino del potere che hanno tra mani, in un campo di battaglia sono cose fuori di luogo. Machiavelli dirittamente attribuiva molti dei disastri di Venezia e di Firenze alla gelosia che spingeva quelle repubbliche a immischiarsi in ogni atto de’ loro capitani.[345] La usanza che era in Olanda di mandare negli eserciti deputati, senza il cui consentimento non potesse farsi nulla d’importante, fu quasi egualmente perniciosa. Senza dubbio, non è punto certo che un capitano, al quale nell’ora del pericolo sia stato affidato un potere dittatorio, lo deponga pacificamente nell’ora del trionfo; e questa è una delle tante considerazioni che dovrebbe fare esitare gli uomini innanzi che si determinassero a rivendicare con la spada la libertà pubblica. Ma ove deliberino tentare le sorti della guerra, essendo savii, porranno nelle mani del loro capo quella piena autorità, senza la quale non può bene condursi la guerra. Può darsi, che dandogli tale autorità, egli diventi un Cromwell o un Napoleone; ma è quasi certo che, negandogliela, la intrapresa loro finisca come quella di Argyle. Alcuni dei fuorusciti scozzesi, infiammati d’entusiasmo repubblicano, ed affatto privi dell’arte necessaria a condurre i grandi negozi, adoperarono tutta la industria e lo ingegno loro non a ragunare mezzi per l’aggressione che erano per fare contro un formidabile nemico, ma a trovar modi onde infrenare il potere del loro capo, ed assicurarsi contro la sua ambizione. La contenta stupidità onde insistevano a riordinare un’armata come se avessero a riordinare una repubblica, sarebbe incredibile, se non l’avesse ricordata con franchezza e anche con vanto uno di loro.[346] XIII. Alla perfine, composte tutte le differenze, fu deliberato di fare un tentativo sulle coste occidentali della Scozia, che sarebbe tostamente seguito da una discesa in Inghilterra. Argyle doveva esercitare il comando, di solo nome, in Iscozia; ma ei venne sottoposto al freno d’un Comitato, che riserbava a sè tutte le parti più importanti dell’amministrazione militare. Questo Comitato aveva potestà d’indicare il luogo dove dovesse approdare la spedizione, nominare gli ufficiali, soprintendere alla leva delle milizie, aver cura delle provigioni e della munizione. Ciò che rimaneva al Generale, era il dirigere le evoluzioni dell’armata nel campo; e fu forzato a promettere che anche in campo, tranne nel caso d’una sorpresa, non avrebbe nulla fatto senza lo assenso di un Consiglio di Guerra. Monmouth doveva comandare in Inghilterra. La sua anima debole, secondo il consueto, erasi informata dal sentire di coloro che lo circondavano. Le ambiziose speranze, le quali parevano estinte, gli si riaccesero rapidamente in cuore. Rimembrava lo affetto con che lo avevano sempre accolto i popoli delle città e delle campagne, e s’aspettava di vederli insorgere a centinaia di migliaia per dargli il benvenuto. Rimembrava il buon volere onde i soldati lo avevano ognora obbedito, e lusingavasi di vederseli venire intorno a reggimenti interi. Avvicendavansi di continuo i messaggi incoraggianti che gli erano mandati da Londra. Lo assicuravano che la violenza e la ingiustizia con che s’erano fatte le elezioni, avevano reso frenetica la nazione; che la prudenza de’ principali Whig con difficoltà era pervenuta a impedire uno scoppio sanguinoso d’ira popolare nel dì della incoronazione; e che tutti i grandi Lordi i quali avevano sostenuta la Legge d’Esclusione, erano impazienti di raccogliersi intorno a lui. Wildman, che amava di inculcare il tradimento con parabole, mandò a lui dicendo che il Conte di Richmond, appunto duecento anni avanti, era sbarcato in Inghilterra con una mano d’uomini, e pochi giorni appresso era stato incoronato, nel campo di Bosworth, col diadema strappato dalla fronte di Riccardo. Danvers si tolse il carico di fare insorgere la Città. Il duca fu tratto a credere che, appena innalzato il proprio vessillo, le Contee di Bedford e di Buckingham, Hampshire e Chester, sarebbero corse alle armi.[347] Gli si accese, quindi, nell’animo il desio di una intrapresa, dalla quale poche settimane innanzi erasi mostrato aborrente. I suoi concittadini non gl’imposero restrizioni assurde, come quelle che avevano con tanto studio trovate i fuorusciti scozzesi. La sola cosa che da lui richiesero, fu la promessa di non assumere il nome di Re, se prima le sue pretese non fossero sottoposte al giudicio di un libero Parlamento. Fu deliberato che due Inglesi, Ayloffe e Rumbold, avrebbero accompagnato Argyle in Iscozia, e che Fletcher sarebbe andato con Monmouth in Inghilterra. Fletcher, fino da principio, erasi sinistramente augurato dell’impresa; ma il suo spirito cavalleresco non gli concedeva di schivare un rischio, al quale gli amici suoi parevano impazienti di esporsi. Allorquando Grey ridisse, approvando, ciò che Wildman aveva detto intorno a Richmond e a Riccardo, il dotto e riflessivo Scozzese notò giustamente, come il secolo decimoquinto assai differisse dal decimosettimo. Richmond era sicuro dello aiuto de’ baroni, ciascuno de’ quali poteva condurre in campo un’armata di possidenti feudali; e Riccardo non aveva nè anche un reggimento di soldati regolari.[348] Gli esuli poterono, in parte coi propri mezzi, in parte con le contribuzioni che avevano raccolto dai loro benevoli in Olanda, raccogliere una somma di pecunia bastevole alle due spedizioni. Poco ottennero da Londra, donde aspettavansi sei mila lire sterline; ma invece di danaro, Wildman mandò scuse: il che avrebbe dovuto aprire gli occhi a tutti coloro i quali non erano ostinatamente ciechi. Il duca supplì al difetto impegnando le proprie gioie e quelle di Lady Wentworth. Comprarono armi, munizioni e provigioni, ed equipaggiarono varie navi che erano in Amsterdam.[349] XIV. È da notarsi che il più illustre e gravemente danneggiato degli esuli inglesi, si tenne molto lontano da cotesti temerarii consigli. Giovanni Locke odiava da filosofo la tirannia e la persecuzione; ma in grazia dello intendimento e dell’indole sua, serbossi immune dalle violenze di parte. Aveva avuta grande domestichezza con Shaftesbury, e per ciò era caduto in disgrazia della Corte. Nondimeno, la sua prudenza era stata sì grande, che poco avrebbe giovato il trascinarlo anche dinanzi ai tribunali parziali e corrotti di quel tempo. Se non che potevano nuocergli in una sola cosa. Essendo egli studente di Christ College nella Università di Oxford, pensarono di cacciarlo da quel celebre collegio, lui che era il più grande uomo del quale il collegio si fosse potuto gloriare! Ma ciò non era facile. Locke in Oxford erasi astenuto d’esprimere qualsiasi opinione intorno alla politica allora vigente. Venne circuito di spie. Dottori in divinità e Maestri d’Arti non vergognarono di fare il più vile di tutti i mestieri; quello, cioè, d’invigilare le labbra d’un collega, onde riferirne le parole e rovinarlo. La conversazione nella sala veniva appositamente rivolta a subietti delicati; voglio dire alla Legge di Esclusione, e al carattere del Conte di Shaftesbury: ma invano. Locke, senza lasciarsi trasportare da’ moti dell’animo, e senza dissimulare, mantenne sì fermo silenzio e contegno, che gli strumenti del Governo, stizziti, confessarono di non aver mai veduto un uomo che al pari di lui sapesse così bene signoreggiare la propria lingua e le proprie passioni. Vedendo che il tradimento non giovava a nulla, fecero uso del potere arbitrario. Dopo d’avere indarno tentato di prendere Locke in fallo, il Governo determinò di punirlo innocente. Da Whitehall giunsero in Oxford ordini di cacciarlo via; ordini che il Decano de’ Canonici si affrettò a mandare ad esecuzione. Locke viaggiava nel continente per riacquistare la salute, allorchè gli giunse la nuova che era stato privato di tetto e di pane senza processo, e senza nè anche un avviso. La ingiustizia colla quale era stato trattato, lo avrebbe reso degno di scusa s’egli si fosse appigliato a mezzi violenti per ottenere un riparo. Ma non era uomo da lasciarsi acciecare da un risentimento personale: non si augurava alcun bene de’ disegni di coloro che s’erano ragunati in Amsterdam; e chetamente si ritrasse in Utrecht, dove, mentre i suoi compagni di sventura apparecchiavano la propria distruzione, egli attendeva a scrivere la sua celebre Lettera sopra la Tolleranza.[350] XV. Al Governo inglese pervenne, senza dubbio, la nuova che qualche cosa macchinavasi dai fuorusciti. Pare che in prima non sospettasse d’una invasione in Inghilterra, ma temeva che Argyle sarebbe tra breve comparso in armi fra mezzo agli uomini della sua tribù. E però fu pubblicato un proclama, con cui si ordinava di porre la Scozia in istato di difesa. Fu fatto comandamento che le milizie civiche si tenessero apparecchiate. Tutte le tribù ostili al nome di Campbell, si posero in moto. Giovanni Murray, Marchese d’Athol, fu fatto Luogotenente della Contea d’Argyle, ed a capo di una gran torma de’ suoi seguaci, occupò il castello d’Inverary. Parecchi individui sospetti vennero messi in carcere. Altri furono astretti a dare ostaggi. Mandarono vascelli da guerra ad incrociare presso l’isola di Bute; e parte dell’esercito d’Irlanda fu fatto marciare verso la costa di Ulster.[351] XVI. Intanto che in Iscozia facevansi tali apparecchi, Giacomo chiamò a sè Arnaldo Van Citters, che stava in Inghilterra come ambasciatore delle Provincie Unite; ed Everardo Van Dykvelt, il quale, dopo la morte di Carlo, era stato inviato dagli Stati Generali con missione speciale di condoglianza e congratulazione. Il Re disse d’avere ricevuto da fonti incontrastabili nuova dei disegni che macchinavano contro il suo trono i suoi sudditi fuorusciti in Olanda. Alcuni di loro erano gente da forche, cui null’altro che una singolare provvidenza di Dio aveva impedito di commettere un esecrando assassinio; e stava fra loro il signore del luogo scelto ad eseguirvi il macello. «Tra tutti i viventi» soggiunse il Re «Argyle ha i maggiori mezzi di nuocermi; e tra tutti i luoghi, la Olanda è quello d’onde può partire un colpo contro me.» Citters e Dykvelt assicurarono la Maestà Sua, che ciò ch’ella aveva detto, sarebbe stato sollecitamente comunicato al Governo da essi rappresentato, e speravano fermamente che verrebbe fatto ogni sforzo a satisfare il desiderio di quella.[352] Gli ambasciatori, esprimendo tale speranza, dirittamente parlavano. Il Principe d’Orange e gli Stati Generali erano a quel tempo molto desiderosi che della ospitalità olandese non si facesse abuso rispetto a cose delle quali il Governo inglese avesse potuto muovere giusta doglianza. Giacomo aveva poco innanzi dette parole che facevano sperare come ei non si sarebbe pazientemente sottoposto al predominio della Francia. Pareva probabile che avrebbe assentito a formare un’alleanza con le Provincie Unite e la Casa d’Austria. Era, quindi, nell’Aja estrema sollecitudine di evitare tutto ciò che lo avesse potuto offendere. Lo interesse personale di Guglielmo era anche in questa occasione identico a quello del suo suocero. Ma il caso era uno di quelli che richiedono rapidità e vigoria d’azione; e la natura delle istituzioni batave rendeva ciò impossibile. La Unione d’Utrecht, rozzamente formatasi fra mezzo al trambusto d’una rivoluzione a fine di ovviare agli estremi bisogni della cosa pubblica, non era stata deliberatamente riesaminata e resa più perfetta in tempi tranquilli. Ciascuna delle sette repubbliche avvincolate da quella Unione, serbavano quasi tutti i diritti di sovranità, e li difendevano gelosamente contro il Governo centrale. E come le Autorità federali non avevano i mezzi di farsi prontamente obbedire dalle provinciali, così queste non gli avevano per ottenere pronta obbedienza dalle municipali. La sola Olanda comprendeva diciotto città, ciascuna delle quali era per molti rispetti uno stato indipendente, e geloso che altri s’immischiasse nelle sue faccende. Se i reggitori di una tale città ricevevano dall’Aja un ordine che fosse loro spiacevole, o non se ne davano punto pensiero, o languidamente e tardi lo eseguivano. In alcuni Consigli municipali, a dir vero, la influenza del Principe d’Orange era onnipotente. Ma per isventura, il luogo dove gli esuli inglesi eransi raccolti, e i loro navigli stavano equipaggiati, era la ricca e popolosa Amsterdam, i cui magistrati erano capi della fazione avversa al governo federale ed alla Casa di Nassau. L’amministrazione marittima delle Provincie Unite era condotta da cinque diversi uffici d’Ammiragliato; uno de’ quali, residente in Amsterdam, in parte era nominato dalle Autorità della città, e sembra che fosse animato dallo spirito di quelle. Tutte le cure del Governo federale adoperate a porre ad effetto ciò che Giacomo desiderava, andarono a vuoto per i sutterfugi de’ reggitori d’Amsterdam, e per gli errori del Colonnello Bevil Skelton, che pur allora era arrivato in Olanda come inviato del Governo inglese. Skelton aveva abitato in Olanda al tempo delle civili perturbazioni della Inghilterra, e quindi veniva reputato adatto a quell’ufficio;[353] ma veramente, egli non era buono nè per quella nè per qual si fosse altra situazione diplomatica. Taluni espertissimi giudici degli umani caratteri affermarono ch’egli era il più leggiero, volubile, passionato, presuntuoso e ciarliere degli uomini.[354] Non fece diligenti indagini intorno a ciò che i refugiati facevano, finchè tre navi equipaggiate per la spedizione di Scozia si posero in salvo fuori del Zuyder Zee, finchè le armi, le munizioni e le vettovaglie furono sul bordo, e i fuorusciti s’imbarcarono. Allora, invece di rivolgersi, siccome avrebbe dovuto fare, agli Stati Generali, che ragunavansi accanto alla sua casa, spedì un messo ai magistrati d’Amsterdam, richiedendoli di fermare le navi sospette. I magistrati d’Amsterdam risposero, che lo ingresso nel Zuyder Zee era fuori della loro giurisdizione, e lo rimandarono al Governo federale. Vedevasi chiaramente che ciò era una pretta scusa, e che se gli Stati d’Amsterdam avessero davvero voluto impedire la partenza di Argyle, non avrebbero messa in mezzo difficoltà veruna. Skelton, quindi, si rivolse agli Stati Generali, i quali mostraronsi dispostissimi a fare quanto egli chiedeva; e perchè il caso era urgente, misero da banda la usanza che ordinariamente osservavano nella espedizione degli affari. Nel dì medesimo ch’egli fece loro la sua dimanda, fu spedito allo Ammiragliato d’Amsterdam un ordine esattamente conforme a quanto egli aveva richiesto. Ma tale ordine, a cagione di certe erronee informazioni da lui ricevute, non descriveva precisamente la situazione delle navi. Dicevasi che fossero nel Texel, ma erano nel Vlie. Lo Ammiragliato d’Amsterdam si giovò di cotesto errore per non far nulla; e innanzi che lo sbaglio venisse chiarito, le tre navi ormai veleggiavano.[355] XVII. Le ultime ore che Argyle passò sulle coste d’Olanda, furono ore di grande ansietà. Gli stava da presso un vascello da guerra olandese, che in un istante, scaricando le batterie, avrebbe potuto far finire la sua spedizione. Attorno alla sua piccola flotta vagava una barca, sopra la quale si stavano co’ cannocchiali in mano parecchi individui, ch’egli credeva spie. Ma nulla fu tentato d’efficace a fermarlo, e nel pomeriggio del dì secondo di maggio prese il largo, con un vento favorevole. Il viaggio fu prospero. Il dì 6 erano in vista alle Orcadi. Argyle, sconsigliatamente, gettò l’áncora a Kirkwall, e concesse a due de’ suoi che scendessero a terra. Il vescovo gli fece prendere. Gli esuli tennero sopra a questa sciagura una lunga e animata discussione; imperocchè, dal principio sino al fine della spedizione, comunque fredda e irresoluta fosse stata la loro condotta, nel discutere non mostrarono mai difetto di calore e di perseveranza. Alcuni opinavano di aggredire Kirkwall; altri di procedere senza indugio verso la contea di Argyle. Finalmente, al Conte venne fatto di porre le mani addosso ad alcuni gentiluomini che abitavano presso la costa dell’isola, e propose al vescovo uno scambio di prigionieri. Il vescovo non rispose; e la flotta, dopo d’avere perduti tre giorni, rimise alla vela. XVIII. Questo indugio corse pieno di pericoli. Si seppe immantinente in Edimburgo, che la squadra de’ ribelli aveva toccato le Orcadi. Furono subito poste in movimento le truppe. Allorquando il Conte arrivò alla sua provincia, trovò fatti gli apparecchi a respingerlo. In Dunstaffnage mandò a terra Carlo, suo secondo figlio, perchè chiamasse alle armi i Campbell. Ma Carlo tornò con triste nuove. I pastori e i pescatori erano pronti a raccogliersi sotto il vessillo di Mac Callum More; ma de’ capi delle tribù, alcuni erano in carcere, altri fuggiaschi. Que’ gentiluomini che erano rimasti nelle loro case, o erano bene affetti al Governo, o temevano di muoversi; e, ricusarono infino di vedere il figlio del loro capo. Da Dunstaffnage la piccola flotta processe a Campbelltown, presso la riva meridionale della penisola di Kintyre. Quivi il Conte pubblicò un proclama, scritto in Olanda, sotto la direzione del Comitato, da Giacomo Stewart, avvocato scozzese, il quale pochi mesi dopo adoperò la sua penna a scopo ben differente. In quella scrittura erano esposte, con vigoria di parole che talvolta trascorrevano alla scurrilità, molte doglianze vere, e molte immaginarie. Vi si accennava come Carlo fosse morto di veleno. Dichiaravasi che fine precipuo della spedizione era di sopprimere onninamente non solo il Papismo, ma la Prelatura, che veniva chiamata la radice e il germoglio più tristo del Papismo; e tutti gli onesti Scozzesi venivano esortati ad operare valorosamente per la causa della loro patria e del loro Dio. Per quanto Argyle fosse zelante di quella ch’egli considerava come religione pura, non ebbe scrupolo di praticare un rito mezzo papale e mezzo pagano. La croce di tasso misteriosa, pria accesa, e poi spenta nel sangue di una capra, fu mandata a convocare tutti i Campbell dagli anni sedici ai sessanta. L’istmo di Tarbet fu stabilito come luogo di convegno. La rassegna, ancorchè fosse piccola in paragone di quel che sarebbe stata se il coraggio e il vigore delle tribù non fossero stati oppressi, fu nondimeno formidabile. Tutte le forze raccolte ascendevano a mille ottocento uomini. Argyle partì i suoi montanari in tre reggimenti, e si pose a nominare gli ufficiali. XIX. Le dispute, già cominciate in Olanda, non erano mai cessate per tutto il corso della spedizione; ma a Tarbet si fecero più violente che mai. Il Comitato voleva immischiarsi anche nell’autorità patriarcale che il Conte esercitava sopra i Campbell, e non voleva concedergli di stabilire a suo arbitrio i gradi militari de’ suoi consorti. Mentre cotesti litigiosi faccendieri studiavansi di spogliarlo del potere ch’egli aveva sopra le montagne, mandavano e ricevevano lettere, senza mai mostrarle a colui che aveva nome di Generale, dagli uomini delle pianure. Hume e i suoi colleghi s’erano riserbata la soprintendenza delle provigioni, e conducevano questa parte importantissima dell’amministrazione della guerra con una profusione che male si sarebbe potuta distinguere dalla disonestà; lasciavano guastar l’armi, consumare le vettovaglie, e vivevano gozzovigliando, là dove avrebbero dovuto a tutti i loro sottoposti porgere esempio di temperanza. La grande questione era di determinare se la sede della guerra dovesse essere nelle montagne o nelle pianure. La prima cosa che il Conte voleva conseguire, era di stabilire la propria autorità negli aviti dominii, cacciare gl’invasori che dalla Contea di Perth s’erano gettati su quella di Argyle, e insignorirsi dell’antica residenza della propria famiglia in Inverary. Allora avrebbe potuto sperare di avere quattro o cinquemila spade sotto il suo comando. Con tali forze avrebbe potuto difendere quelle selvagge contrade contro il potere dello intero Regno di Scozia, e assicurarsi un ottimo punto ad offendere l’inimico. Pare che questo partito fosse il più savio fra quanti gliene rimanessero. Rumbold, ch’era stato educato in una insigne scuola militare, e come Inglese poteva tenersi per arbitro imparziale fra le fazioni scozzesi, fece ogni sforzo per rinvigorire il braccio del Conte. Ma Hume e Cochrane erano estremamente intrattabili. La gelosia che sentivano d’Argyle era, in verità, più forte del desiderio che avevano perchè la impresa avesse prospero successo. S’accorsero come egli tra i suoi monti e laghi, e a capo di un’armata massimamente composta delle sue proprie tribù, avrebbe potuto vincere ogni opposizione ed esercitare piena autorità di Generale. Andavano sussurrando, che i soli ai quali la buona causa stesse a cuore, erano gli uomini delle pianure, e che i Campbell erano corsi alle armi nè per la libertà nè per la Chiesa di Dio, ma solo per Mac Callum More. Cochrane dichiarò che, se fosse dipeso da lui, sarebbe andato alla Contea d’Ayr, senza avere altro in mano che un forcone. Argyle, dopo una lunga resistenza, assentì, contro il proprio giudicio, a dividere la sua piccola armata; e si rimase con Rumbold nelle montagne. Cochrane e Hume capitanavano le forze che s’imbarcarono per invadere le pianure. Cochrane mirava alla Contea di Ayr; ma la costa di Ayr era guardata dalle fregate inglesi, e agli avventurieri fu forza risalire la corrente del Clyde fino a Greenock, allora piccolo villaggio di pescatori, che consisteva in una sola fila di tugurii di legno, e adesso è ricco e florido porto, i cui proventi doganali ascendono a una somma cinque volte maggiore della intera rendita che gli Stuardi ricavavano dal Regno di Scozia. Parte della milizia civica era appostata in Greenock; ma Cochrane, che pativa difetto di provigioni, deliberò d’approdare. Hume si oppose. Cochrane fece comandamento ad un ufficiale, chiamato Elphinstone, che immantinente conducesse in una barca venti uomini sulla spiaggia. Ma lo spirito litigioso de’ capi erasi propagato in tutte le file. Elphinstone rispose, ch’egli non era tenuto ad obbedire se non ai comandi ragionevoli; che considerava quell’ordine come irragionevole; in somma, che non voleva andarci. Il Maggiore Fullarton, prode uomo, stimato da tutti, ma peculiarmente diletto ad Argyle, assunse l’incarico di andare a terra con soli dodici uomini; e così fece, malgrado il fuoco che veniva dalla costa. Ne seguì una lieve zuffa. La milizia civica indietreggiò. Cochrane entrò in Greenock e fece provigioni di vettovaglie, ma non trovò le genti disposte ad insorgere. XX. Difatti, l’opinione pubblica in Iscozia non era quale gli esuli, traviati dallo acciecamento comune agli esuli in tutti i tempi, avevano supposto che fosse. Il Governo certamente era meritevole d’odio, e tenuto in abbonimento; ma i malcontenti, scissi in partiti, erano l’uno all’altro così avversi quasi come ai governanti, nè alcuno di tali partiti inchinava a congiungersi con gl’invasori. Molti credevano che la insurrezione non avesse probabilità di prospero successo; lo spirito di molti altri era prostrato per lunga e crudele oppressione. Bravi, a vero dire, una classe d’entusiasti, poco avvezzi a calcolare le probabilità, e dalla oppressione non domati, ma resi frenetici. Costoro vedevano poca differenza tra Argyle e Giacomo. L’ira loro era giunta a tal segno, che quello che a chiunque altro sarebbe sembrato bollente zelo, pareva loro tepidezza Laodicea. La vita trascorsa del Conte era macchiata di ciò ch’essi consideravano come vilissima apostasia. Quegli stessi montanari da lui adesso condotti ad estirpare la prelatura, pochi anni prima erano stati da lui medesimo chiamati a sostenerla. E siffatti schiavi, che nulla sapevano e nulla curavansi della religione, pronti a combattere per il Governo sinodale, per lo Episcopato, per il Papismo, secondo che a Mac Callum More fosse piaciuto comandar loro, potevano eglino essere buoni alleati del popolo di Dio? Il proclama, per quanto indecente e intollerante fosse nella forma, agli occhi di cotesti fanatici era componimento codardo e mondano. Una riforma qual Argyle intendeva stabilire, e quale fu poi stabilita da altro più potente e fortunato liberatore, sembrava loro che non valesse un conflitto. Essi avevano mestieri non solo della libertà di coscienza per sè stessi, ma d’assoluto dominio sopra la coscienza altrui; non solo della dottrina, della politica, e del culto de’ Presbiteriani, ma della Convenzione in tutto il suo estremo rigore. Nulla poteva contentarli se non questo, che ogni fine per cui esiste la società civile venisse sacrificato al predominio d’un sistema teologico. Chiunque credeva che nessuna forma di Governo ecclesiastico valesse il violare la carità cristiana, e raccomandava armonia e tolleranza, secondo la frase loro, tentennava tra Jehovah e Baal. Chiunque condannava quegli atti, come lo assassinio del Cardinale Beatoun e dell’Arcivescovo Sharpe, cadeva nel medesimo peccato per cui Saul era stato detto indegno d’essere re d’Israele. Tutte le usanze che fra gli uomini inciviliti e cristiani mitigano gli orrori della guerra, erano abominazioni al cospetto del Signore. Non doveva darsi nè accettare quartiere. Un Indiano furibondo che meni coltellate a destra e a sinistra, un cane arrabbiato inseguito dalla folla, erano gli esempj da imitarsi dai guerrieri che combattevano per la propria difesa. A tutte le ragioni che dirigono la condotta degli uomini di Stato e dei capitani, le menti di quegli zelanti erano al tutto inaccessibili. Se un uomo si fosse rischiato ad addurle, era argomento bastevole per escluderlo dal numero de’ fedeli. Se non v’era la benedizione del Cielo, di poca efficacia sarebbero state le arti degli astuti politici, e de’ vecchi capitani, le armi venute dall’Olanda, i reggimenti de’ non rigenerati Celti discesi dalle montagne di Lorn. Se, dall’altro canto, il tempo del Signore era giunto, egli poteva, come in antico, ordinare che le cose stolte del mondo confondessero le savie, e poteva salvare con pochi egualmente che con molti. Gli spadoni d’Athol e le baionette di Claverhouse sarebbero state impotenti a resistere ad armi frivole come la fionda di David o la secchia di Gedeone.[356] Cochrane avendo veduto essere impossibile fare insorgere le popolazioni a mezzodì del Clyde, andò a congiungersi con Argyle, che era nell’isola di Bute. Il Conte di nuovo propose di fare un tentativo sopra Inverary, e di nuovo incontrò pertinacissima opposizione. Gli abitanti delle marine si posero dalla parte di Hume e di Cochrane. I montanari obbedirono ciecamente ai comandi del loro capo. V’era ragione di temere che i due partiti venissero a conflitto; e il timore d’un tanto disastro indusse il Comitato a fare qualche concessione. Il castello di Ealan Chiering, posto sulle bocche di Loch Riddan, fu scelto come capo luogo d’armi. Quivi sbarcarono le provigioni militari. La squadra ancorò presso alle mura in un luogo, dove rimaneva protetta da rocce e secche tali, che pensavasi nessuna fregata le potesse passare. Vi fecero nuovi ripari; eressero una batteria di piccoli cannoni presi dalle navi. Il comando del forte fu sconsigliatamente affidato ad Elphinstone, il quale aveva per prova fatto conoscere d’essere più disposto a disputare coi comandanti, che a combattere con l’inimico. Adesso per poche ore si fece mostra di qualche energia. Rumbold prese il castello di Ardkinglass. Il Conte scaramucciò vittoriosamente con le truppe d’Athol, e stava per procedere verso Inverary, quando le gravissime nuove giunte dalle navi, e i litigi nel Comitato, lo forzarono a tornare addietro. Le fregate regie s’erano spinte più presso ad Ealan Chiering di quel che si credeva possibile. I gentiluomini delle pianure ricusarono positivamente di avanzarsi oltre verso le montagne. Argyle corse frettolosamente ad Ealan Chiering. Ivi propose di aggredire le fregate. Vero è che le sue navi erano poco atte a sostenere simigliante incontro; ma sarebbero state soccorse da una flottiglia di trenta grosse barche da pescare, ciascuna delle quali era bene equipaggiata di montanari armati. Il Comitato, nondimeno, ricusò di porgere ascolto a tale proposta, e ne rese impossibile la esecuzione facendo nascere un tumulto fra’ marinaj. Quindi, tutto fu confusione e scoraggimento. Le provvigioni erano state così male amministrate dal Comitato, che mancavano le vettovaglie alle truppe. I montanari perciò disertavano a centinaia; e il Conte, col cuore lacerato dalla propria sciagura, cesse alla urgenza di coloro che pertinacemente seguitavano ad insistere ch’egli marciasse verso le pianure. La piccola armata, adunque, si affrettò a giungere alla sponda di Loch Long, traversò sulle barche quel passo, ed approdò alla Contea di Dumbarton. Ivi, il dì seguente, pervenne la nuova che le fregate avevano forzato il passo, che tutte le navi del Conte erano state prese, e che Elphinstone era fuggito da Ealan Chiering, lasciando il castello e le munizioni al nemico. Ciò che rimaneva a fare, era d’invadere, malgrado ogni svantaggio, le pianure. Argyle deliberò di spingersi arditamente fino a Glasgow. Ma appena ebbe ciò detto, coloro stessi, i quali fino a quel momento lo avevano istigato a piombare celeremente sulle pianure, spaventati, disputavano, protestavano; e quando videro che nè ragionamenti nè rimostranze giovavano, fecero disegno d’insignorirsi delle barche e fuggire, lasciando il loro Generale e gli uomini suoi a vincere o perire senza soccorso. Tale disegno andò fallito; e i vigliacchi che lo avevano concepito, furono costretti a dividere co’ più valorosi i rischi della estrema prova dell’armi. Mentre gl’insorgenti procedevano fra mezzo al paese che giace tra Loch Long e Loch Lomond, furono continuamente infestati dalle milizie civiche. Seguirono alcune scaramucce, in cui il Conte ebbe prospera la ventura; ma le bande da lui respinte, nello indietreggiare, sparsero la nuova del suo avvicinarsi, e tosto dopo ch’egli ebbe varcato il fiume Leven, trovò un forte corpo di truppe regolari ed irregolari apparecchiato a fargli fronte. Egli opinava doversi dare battaglia. Ayloffe assentiva. Ma Hume dichiarò, che provocare il nemico sarebbe stata demenza. Vide un reggimento in uniforme scarlatto. Pensò che altri ve ne fossero dietro. Aggredire tante forze sarebbe stato un correre a morire. Il miglior partito da prendere, era quello di tenersi cheti fino a notte, ed allora ritirarsi. Ne seguì un aspro alterco, che Rumbold, ponendosi di mezzo, a stento riuscì a sedare. Era la sera. Le armate nemiche accampavano a poca distanza l’una dall’altra. Il Conte provossi a proporre un’aggressione notturna, e di nuovo le sue parole andarono a vuoto. XXI. Dacchè erasi deliberato di non combattere, altro non rimaneva a fare che prendere il partito proposto da Hume. Era probabile che, levando il campo secretamente, e procedendo tutta la notte traverso scopeti e pantani, il Conte si sarebbe vantaggiato di molte miglia sull’inimico, e sarebbe potuto giungere senza altri ostacoli a Glasgow. Lasciarono accesi i fuochi del campo e si posero a marciare. E qui i disastri cominciarono ad avvicendarsi. Le guide, perduta la traccia traverso agli scopeti, condussero l’armata nei marosi. Non fu possibile serbare l’ordine militare fra soldati indisciplinati e scoraggiati, sotto un cielo tenebroso e in un terreno traditore e ineguale. La paura in mille guise si sparse nelle disordinate file. Ciascuna ombra, ciascun rumore pareva indicare lo avvicinarsi del nemico. Alcuni ufficiali contribuirono a spargere il terrore che avevano debito di calmare. L’armata aveva preso sembiante d’una caterva di plebe, e cominciò a disperdersi. Gl’insorti fuggivano a torme sotto il velo della notte. Rumbold, e alcuni altri uomini valorosi, i quali nessun pericolo avrebbe atterriti, smarrirono il cammino, e non poterono ricongiungersi col corpo principale dell’armata. Allo spuntare del giorno, soli cinquecento fuggiaschi si raccolsero in Kilpatrick, stanchi e scuorati. Ogni pensiero di continuare la guerra era cessato; ed era chiaro che i capi della spedizione avrebbero incontrate non poche difficoltà a salvare la vita. Si dettero a fuggire per varie direzioni. Hume giunse salvo sul continente. Cochrane fu preso e mandato a Londra. Argyle sperava di trovare un asilo sicuro sotto il tetto d’uno de’ suoi antichi servi che abitava presso Kilpatrick. Ma gli fallì la speranza; e gli fu forza di varcare il Clyde. Prese le vesti di contadino, dicendo d’essere la guida del Maggiore Fullarton, la cui coraggiosa fedeltà stette salda contro ogni pericolo. I due amici viaggiarono insieme per la Contea di Renfrew fino a Inchinnan. Ivi il Black Cart e il White Cart—due fiumi che ora scorrono traverso a prospere città, e muovono le ruote di molte fattorie, ma allora compivano il loro corso tranquillo fra mezzo a pascoli e scopeti—si congiungono insieme innanzi di gettarsi nel Clyde. L’unico guado per cui i viandanti potessero passare, era guardato da una mano di milizia civica. Vennero fatte loro alcune dimande. Fullarton provossi di far cadere il sospetto sopra sè solo, perchè al compagno non si badasse. Ma gl’interrogatori suspicavano che la guida non fosse il rozzo villano che pareva. Gli posero le mani addosso. Argyle si spinse d’un salto nelle acque, ma immantinente fu preso. Lottò per breve tempo contro cinque aggressori; ma non avendo altre armi, tranne le sue pistole da tasca, le quali, inoltre, erano sì bagnate, a cagione d’essersi immerso nell’acqua, che non vollero prendere fuoco, fu gettato a terra da un colpo di spadone, e messo in custodia. Confessò d’essere il Conte d’Argyle, forse sperando che il suo gran nome avrebbe mossi a riverenza e pietà coloro dai quali era stato preso. E davvero, ne furono molto commossi, come quelli che erano semplici Scozzesi d’umile condizione; e benchè fossero corsi alle armi a pro della Corona, probabilmente preferivano l’ordinamento e il culto della Chiesa Calvinistica, ed erano assuefatti a riverire il loro prigione come capo d’una casa illustre e campione della Fede Protestante. Ma quantunque fossero manifestamente commossi, tanto che alcuni ne piangevano, non vollero perdere una pingue rimunerazione, ed incorrere nella vendetta d’un Governo implacabile. Condussero, quindi, il prigione a Renfrew. L’uomo che fu parte principale nella presura del Conte, chiamavasi Riddell. Per questa ragione, tutta la stirpe de’ Riddell, per più d’un secolo, fu tenuta in abborrimento dalla gran tribù di Campbell. I nostri vecchi si ricordano ancora che quando un Riddell andava ad una fiera nella Contea d’Argyle, era costretto ad assumere un falso nome. Ora comincia la parte più splendida della vita d’Argyle. Fin qui la sciagurata impresa non gli aveva arrecato se non rimprovero e scherno. Il più grande de’ suoi errori fu di non avere risolutamente ricusato d’accettare il nome senza il potere di Generale. Se si fosse tenuto tranquillo nel suo ritiro di Frisia, in pochi anni sarebbe stato richiamato onorevolmente alla patria, e sarebbe stato annoverato fra i principali ornamenti e sostegni della Monarchia costituzionale. Se avesse condotta la espedizione a seconda del proprio giudicio, e menato con seco nessuni altri seguaci che quelli i quali erano implicitamente apparecchiati ad obbedire a tutti gli ordini suoi, è possibile ch’egli avesse compito qualche cosa di grande; avvegnachè sembri non avere avuto difetto di coraggio, d’operosità, d’espertezza, ma solamente d’autorità. Avrebbe dovuto conoscere che tra tutti i difetti, questo è il più fatale. Non pochi eserciti hanno vinto sotto capitani privi di doti eminenti. Ma quale esercito comandato da un circolo che sempre discuta, ha mai evitato il disonore e la sconfitta? La grave calamità che era accaduta ad Argyle, fece sì ch’egli potesse mostrare con prove evidenti quale specie d’uomo ei si fosse. Dal giorno in cui abbandonò la Frisia, fino a quello in che i suoi seguaci si dispersero a Kilpatrick, egli non aveva mai operato liberamente. Aveva portata la responsabilità d’una lunga serie di azioni, che in cuor suo disapprovava. Finalmente, era libero d’agire a suo modo. La cattività gli aveva ridata la nobile libertà di governare sè stesso in tutte le parole ed azioni sue, secondo il senso ch’egli aveva del diritto e della convenienza. Da quell’istante, diventò come ispirato di nuova virtù e saviezza. Il suo intelletto parve rinvigorirsi e concentrarsi, il suo carattere morale elevarsi, e ad un tempo addolcirsi. La insolenza de’ vincitori non tralasciò nulla che potesse porre alla prova la tempra d’un uomo altero della sua antica nobiltà e del suo dominio patriarcale. Il prigione fu trascinato in trionfo per le vie d’Edimburgo. Andò a piedi e col capo scoperto per tutta quella strada maestra, che, ombreggiata da anneriti e giganteschi edifici di pietra, da Holyrood conduce al Castello. Lo precedeva il carnefice, portando il ferale strumento che doveva recidergli la testa. Il partito vittorioso non aveva dimenticato come, trentacinque anni innanzi, il padre d’Argyle avesse capitanata la fazione che pose a morte Montrose. Prima di quell’avvenimento, la casa di Graham e quella di Campbell non si portavano scambievole affetto; e poscia, erano sempre state in mortale conflitto. Posero cura che il prigione passasse per la medesima porta e per le vie medesime per le quali Montrose era stato trascinato al medesimo patibolo.[357] Come il Conte pervenne al Castello, gli furono posti i ceppi ai piedi, e gli fu detto che soli pochi giorni gli rimanevano a vivere. Era stato deliberato di non fargli processo per il nuovo delitto, ma porlo a morte per virtù della sentenza profferitagli contro vari anni prima; sentenza cotanto sciaguratamente ingiusta, che i legisti più servili e senza cuore che fossero in quel tempo, non ne potevano parlare senza sentirne vergogna. Ma nè la ignominiosa processione di High Street, nè il vicino spettacolo della morte, valsero a perturbare la gentile e maestosa pazienza d’Argyle. La sua forza d’animo ebbe a sottostare a più dura prova. Gli fu posta avanti gli occhi una lista di domande per ordine del Consiglio Privato. Rispose solo a quelle alle quali poteva rispondere senza porre a pericolo nessuno de’ suoi amici, e ricusò di dire più oltre. Gli fu detto, che ove non s’inducesse a rispondere appieno, sarebbe stato messo alla tortura. Giacomo, che di certo dolevasi di non potere gustare la voluttà di vedere con gli occhi propri Argyle posto allo stivaletto, spedì ad Edimburgo positivi comandamenti di non tralasciare cosa alcuna che potesse strappare dalle labbra del traditore confessioni contro gl’implicati nel tradimento. Ma ogni minaccia fu vana. Con i tormenti e la morte innanzi lo sguardo, Mac Callum More pensò assai meno a sè stesso, che a’ poveri uomini suoi. «Sono stato oggi occupato» scrisse egli dal carcere «a trattare per loro, e non senza qualche speranza. Ma questa sera sono giunti ordini che mi dannano a morire lunedì o martedì; e debbo essere posto alla tortura, ove io non risponda con giuramento alle domande. Nonostante, spero che Dio mi sosterrà.» La tortura non gli fu inflitta. Forse la magnanimità della vittima aveva commossi i vincitori ad insolita commiserazione. Notò egli stesso, come essi in prima lo avessero aspramente trattato, e poi tosto cominciassero ad usargli cortesia e rispetto. Dio, diceva egli, aveva mansuefatti i loro cuori. Vero è che a liberarsi dalle estreme crudeltà de’ suoi nemici, non tradì nessuno degli amici suoi. L’ultimo dì della sua vita scrisse queste parole: «Non ho nominato nessuno per recargli danno. Ringrazio Dio che mi ha mirabilmente sostenuto.» Compose il proprio epitaffio, che è una breve poesia, pregna di pensiero e di spirito, di stile semplice e vigoroso, e non ispregevole per la versificazione. In esso lamentava che, quantunque i suoi nemici gli avessero ripetutamente decretata la morte, i suoi amici gli erano stati anche più crudeli. Il commento di tali espressioni è da trovarsi in una lettera ch’egli diresse ad una signora in Olanda. Ella lo aveva provveduto d’una grossa somma di danari per la spedizione, e perciò ei la reputava come avente diritto a conoscere appieno le cagioni onde la impresa era andata in fallo. Lavò la fama de’ suoi colleghi della macchia di tradimento; ma descrisse la insania, la ignoranza, la faziosa perversità loro, con parole che la loro propria testimonianza provò poi essere ben meritate. Dubitò poscia di avere fatto uso d’un linguaggio troppo severo per un cristiano presso a morire, ed in un foglio separato, pregò i suoi amici a cancellare ciò ch’egli aveva detto di quegli uomini. «Soltanto è d’uopo ch’io confessi» aggiunse egli, con tono mansueto «che essi erano irrefrenabili.» La più parte delle sue ore estreme ei passò con molta divozione orando, o conversando affettuosamente con alcuni de’ suoi. Non mostrò pentirsi della sua ultima impresa, ma deplorò con somma emozione d’essersi in prima mostrato compiacente nelle cose religiose alla volontà del Governo. Disse che Iddio lo puniva meritamente. Chi per tanto tempo era stato colpevole di codardia e dissimulazione, era indegno d’essere lo strumento di salvazione per lo Stato e la Chiesa. Nondimeno, spesso ripeteva, la causa per la quale egli aveva combattuto, essere la causa di Dio, e dovere sicuramente trionfare. «Non intendo d’esser profeta. Ma ho in cuore un forte presentimento, che il dì della liberazione è presso a spuntare.» Non è cosa strana che molti zelanti Presbiteriani avessero impressi nella propria mente i detti di lui, e gli avessero poi attribuiti a ispirazione divina. La fede e la speranza religiosa, congiunte al coraggio ed alla tranquillità naturale della mente, avevano con tanta efficacia ricomposto il suo spirito nel dì in cui egli doveva morire, che desinò con appetito, fu gaio nel conversare, e, finito il pranzo, si distese, secondo aveva costume, onde con un breve ristoro di sonno il corpo e la mente si trovassero in pieno vigore nel momento ch’egli doveva salire sul palco. In quel mentre, uno de’ Lordi del Consiglio, che, stato probabilmente educato Presbiteriano, s’era dallo interesse lasciato sedurre a congiungersi con gli oppressori di quella Chiesa di cui egli era stato parte, andò al Castello recando un messaggio da parte de’ suoi confratelli, chiese del Conte, e gli fu risposto che il Conte dormiva. Il Consigliere Privato pensò che ciò fosse un sutterfugio per negargli l’accesso, ed insistè di volere entrare. La porta del carcere gli fu spalancata; e vide Argyle carico di ferri, disteso sul letto, dormendo il placido sonno dell’infanzia. Il rinnegato si sentì rimordere la coscienza; volse le spalle, e coll’animo turbato, uscendo precipitosamente dal Castello, andò a ricoverarsi nella casa di una sua parente che abitava lì presso. Ivi si gettò sur un letto, e cadde in un’angoscia di rimorso e di rossore. La donna, spaventata agli sguardi e ai gemiti di lui, credè che gli fosse sopraggiunto un accidente, e lo pregava di bere una tazza di vino dolce di Spagna. «No, no,» disse egli «ciò non mi farà bene.» Lo pregò che le dicesse qual cosa gli dava tanto disturbo. «Sono stato» rispose egli «nel carcere di Argyle, e l’ho veduto, non ostante che fra un’ora l’anima sua debba andare all’eternità, dormire, quanto uomo possa fare, dolcemente; mentre io ...» Il Conte, levatosi di letto, erasi apparecchiato a sostenere gli estremi dolori della vita. Prima, fu condotto per High Street nel Palazzo del Consiglio, nel quale doveva rimanere quel poco che mancava all’ora della esecuzione della giustizia. In quell’intervallo di tempo, chiese penna e calamaio e scrisse a sua moglie. «Cuor mio! Dio è immutabile. Egli mi è stato sempre largo di bontà e di grazia; e non v’è luogo che me ne privi. Perdona a tutti i falli miei; e consolati in lui, nel quale soltanto è da trovarsi ogni consolazione. Il Signore sia teco, e ti benedica e ti conforti, o mia cara. Addio.» XXII. Era giunto il momento di partire dal Palagio del Consiglio. I sacerdoti che assistevano il prigioniero, non erano della sua medesima religione; ma li ascoltò cortesemente, e gli esortò a premunire il gregge loro affidato contro quelle dottrine che tutte le Chiese protestanti concordemente condannavano. Salì sul palco, dove la vecchia rozza guigliottina di Scozia, chiamata la Damigella (_the Maiden_), lo aspettava; e rivolse al popolo un discorso, tessuto del frasario speciale della sua setta, ma imbevuto dello spirito d’una pietà tranquilla. Disse come egli perdonasse i suoi nemici, dai quali sperava d’essere perdonato. Una sola acre espressione gli usci dal labbro. Uno de’ sacerdoti episcopali che lo assistevano, si fece in sull’orlo del palco, e gridò: «Milord muore Protestante.»—«Sì!» disse il Conte, spingendosi avanti, «sì! e non solo Protestante, ma acerrimo odiatore del papismo e della prelatura e d’ogni superstizione.» Allora abbracciò i suoi amici, pose nelle loro mani alcuni ricordi perchè li recassero alla consorte e ai figli suoi, s’inginocchiò, chinò la testa sul ceppo, orò brevemente, e fece segno al carnefice. Il suo mozzo capo fu affisso alla cima del Tolbooth, dove quello di Montrose s’era dianzi disfatto.[358] XXIII. La testa di Rumbold, uomo schietto e valoroso, comecchè non iscevro di biasimo, vedevasi già sul West Port d’Edimburgo. Circondato da colleghi faziosi e codardi, finchè durò la espedizione, erasi condotto da soldato educato alla scuola del Gran Protettore, aveva in Consiglio sostenuta valorosamente l’autorità d’Argyle, ed in campo s’era reso ammirevole per la sua tranquilla intrepidezza. Dopo la dispersione dell’armata, fu aggredito da una mano di milizia civica. Si difese disperatamente, e si sarebbe aperta una via fra mezzo ai nemici, se questi non gli avessero azzoppato il cavallo. Mortalmente ferito, fu menato in Edimburgo. Era desiderio del Governo che ei fosse giustiziato in Inghilterra. Ma era così presso a morire, che se non veniva appeso alle forche in Iscozia, non si sarebbe potuto impiccare affatto; e i vincitori non sapevano rinunciare al piacere d’impiccarlo. Non era da aspettarsi che avrebbero mostrato misericordia ad uno il quale era considerato come capo della congiura di Rye House, ed era possessore dello edifizio da cui quella aveva derivato il nome; ma la insolenza onde trattarono quell’uomo moribondo, parrebbe ai nostri tempi più miti quasi incredibile. Uno del Consiglio Privato di Scozia lo chiamò maledetto scellerato. «Io sono in pace con Dio» rispose Rumbold con calma; «come dunque posso io essere maledetto?» In fretta fu processato, convinto, e condannato ad essere tra poche ore appeso alle forche, e squartato, presso la croce della città in High Street. Quantunque non potesse tenersi sulle proprie gambe senza che venisse sorretto da due uomini, si mantenne forte fino allo estremo momento, e sotto il patibolo alzò la sua debole voce contro il papismo e la tirannide con tanta veemenza, che gli officiali comandarono si desse ne’ tamburi perchè il popolo non l’udisse. Diceva d’essere stato amico della Monarchia temperata. Ma non aveva voluto mai credere che la Provvidenza avesse mandato nel mondo pochi uomini in isprone e stivale, pronti a cavalcare, e milioni pronti a lasciarsi imbrigliare e cavalcare. «Voglio» esclamò egli «benedire e magnificare il santo nome di Dio, che mi ha ridotto a questo punto non per male alcuno che io abbia fatto, ma per avere propugnata la sua causa in tempi infausti. Se ogni capello del mio capo fosse un uomo, li porrei a rischio tutti per questa contesa.» E mentre era processato, e innanzi di essere giustiziato, parlò dell’assassinio con lo abborrimento convenevole a buon cristiano e valoroso soldato. Protestò, sulla fede di moribondo, di non avere mai avuto pensiero di commettere tanta scelleratezza. Ma confessò francamente d’avere, conversando coi suoi compagni di congiura, nominato la propria casa come luogo dove Carlo e Giacomo si sarebbero potuti assalire con prospero successo; e molto essersi ragionato sopra ciò, sebbene nulla si fosse concluso. Potrebbe a prima vista sembrare che cosiffatta confessione fosse incompatibile colla dichiarazione da lui fatta, di aver sempre abborrito dallo assassinio. Ma pare che egli ragionasse secondo una distinzione che aveva tratti in inganno molti de’ suoi contemporanei. Per nulla al mondo si sarebbe mai indotto a porre il veleno nel cibo de’ due Principi, od a trafiggergli con un pugnale nel sonno. Ma piombare inaspettatamente sopra la torma delle Guardie del Corpo che circuivano il cocchio reale, scambiare colpi di spada e correre la sorte di uccidere o essere ucciso, era, secondo lui, una operazione militare legittima. Le imboscate e le sorprese annoveravansi fra gli ordinari accidenti della guerra. Ciascun vecchio soldato, fosse Cavaliere o Testa–Rotonda, si era trovato in simiglianti imprese. Se il Re fosse caduto morto in una scaramuccia, sarebbe caduto per legittima battaglia, e non per assassinio. Precisamente de’ medesimi argomenti si giovarono, dopo la Rivoluzione, Giacomo stesso e i suoi più fidi seguaci, per giustificare un iniquo attentato contro la vita di Guglielmo III. Una banda di Giacomisti ebbe lo incarico di assalire il Principe d’Orange ne’ suoi quartieri invernali. Il significato nascosto sotto questa speciosa frase, era di segare la gola al Principe mentre da Richmond andava in cocchio a Kensington. Parrà strano che simiglianti fallacie, che sono la feccia delle dottrine de’ casuisti gesuiti, potessero sedurre uomini di spirito eroico, sì Whig che Tory, a commettere un delitto, che le leggi divine ed umane hanno giustamente notato d’infamia. Ma non vi è sofisma tanto enorme che non inganni le menti rese insane dallo spirito di parte.[359] Argyle, che sopravvisse di poche ore a Rumbold, lasciò testimonianza della virtù del valoroso Inglese. «Il povero Rumbold era mio gran sostegno, e valente uomo, e morì da cristiano.»[360] XXIV. Ayloffe mostrò tanto disprezzo della morte, quanto ne avevano mostrato Argyle e Rumbold: ma la sua fine non edificò, come la loro, le anime pie. Quantunque la simpatia politica lo avesse fatto avvicinare ai Puritani, ei non aveva simpatia religiosa per essi, i quali lo consideravano poco meno d’un ateo. Apparteneva a quella classe de’ Whig che cercavano esempi da imitare meglio fra i patriotti di Grecia e di Roma, che fra i profeti e i giudici d’Israele. Fu fatto prigione e condotto a Glasgow. Quivi tentò di uccidersi con un piccolo coltello; ma comecchè si facesse varie ferite, nessuna di esse fu mortale, ed egli ebbe forze bastevoli a sostenere il viaggio a Londra. Tratto dinanzi al Consiglio Privato, fu interrogato dal Re stesso; ma ebbe tanta altezza di animo, da non provvedere alla propria salute accusando altrui. Corse voce fra i Whig che il Re gli dicesse: «Fareste bene ad essere schietto con me, signore Ayloffe. Voi sapete che è in mio potere il perdonarvi.» Allora il prigione, rompendo l’austero silenzio, rispose: «Ciò potrebbe essere nel vostro potere, non mai nell’indole vostra.» Fu giustiziato, per virtù dell’antica condanna, innanzi la porta del Tempio, e morì con istoico contegno.[361] XXV. In quel mentre, la vendetta de’ vincitori piombò spietatissima sulle popolazioni della Contea d’Argyle. Molti de’ Campbell furono senza processo impiccati da Athol; il quale con difficoltà venne impedito dal Consiglio Privato di fare altre uccisioni. La contrada, per la estensione di trenta miglia d’intorno a Inverary, fu devastata. Le case furono arse, le ruote de’ mulini fatte in pezzi, gli alberi fruttiferi tagliati, e fino le radici seccate col fuoco. Le reti de’ pescatori, solo mezzo di sussistenza a molti abitanti della costa, furono distrutte. Trecento, e più, ribelli e malcontenti vennero deportati alle colonie. Molti di loro furono anche condannati alla mutilazione. In un solo giorno, il carnefice d’Edimburgo tagliò le orecchie a trentacinque prigioni. Parecchie donne, dopo essere state segnate sulla guancia con un ferro rovente, furono mandate oltre l’Atlantico. Pensavasi anche di ottenere dal Parlamento una Legge che proscrivesse il nome di Campbell, come ottanta anni prima era stato proscritto quello di Mac Gregor.[362] E’ pare che la espedizione di Argyle avesse fatto poco senso nelle contrade meridionali dell’Isola. La nuova del suo sbarco giunse in Londra poco avanti che si adunasse il Parlamento Inglese. Il Re ne dètte lo annunzio dal trono; e le Camere lo assicurarono che lo avrebbero difeso contro ogni nemico. Null’altro fu chiesto loro. Sopra la Scozia non avevano autorità nessuna; e una guerra che ardeva così lontano, e della quale quasi fino da principio poteva di leggieri prevedersi l’esito, destò solo un languido interesse in Londra. Ma una settimana innanzi la dispersione finale dell’armata d’Argyle, la Inghilterra era agitata dalla nuova dello sbarco sulle sue spiaggie d’un più formidabile invasore. I fuorusciti avevano stabilito che Monmouth muoverebbe dall’Olanda sei giorni dopo la partenza degli Scozzesi. Egli aveva differita per breve tempo la spedizione, forse sperando che la maggior parte delle soldatesche, stanzianti nel mezzodì, si sarebbero fatte marciare verso tramontana appena scoppiata la guerra nelle montagne, e quindi non avrebbe trovate forze pronte ad opporglisi. Allorquando poi volle partirsi, il vento spirava contrario e impetuoso. Mentre la sua flotta stavasi a sbattere nel Texel, una contesa erasi desta fra le Autorità olandesi. Gli Stati Generali e il Principe d’Orange stavano da una parte; la magistratura e lo Ammiraglio d’Amsterdam, dall’altra. Skelton aveva porta agli Stati Generali una lista di fuorusciti, la dimora de’ quali nelle Provincie Unite recava inquietudine al suo signore. Gli Stati Generali, desiderosi di assentire ad ogni ragionevole richiesta di Giacomo, ne mandarono copie alle Autorità Municipali. Ai magistrati delle città tutte fu ingiunto di usare ogni mezzo ad impedire che i Whig proscritti molestassero il Governo Inglese. Generalmente, questi ordini furono osservati. A Rotterdam in ispecie, dove la influenza di Guglielmo era onnipotente, si fece mostra di tale operosità, da meritarsi i più caldi ringraziamenti di Giacomo. Ma la sede principale degli esuli era Amsterdam, i cui governanti non volevano veder nulla, udire nulla, sapere nulla. Il Gran Sergente della città, che stava giornalmente in comunicazione con Ferguson, riferì all’Aja, come egli non sapesse dove trovare un solo de’ fuorusciti; e con questa scusa al Governo federale fu forza di tenersi pago. Vero è che gli esuli inglesi erano sì ben conosciuti ad Amsterdam, che il popolo appiccava loro gli occhi addosso come se fossero stati Chinesi.[363] Pochi giorni dopo, Skelton ricevè ordini dalla sua Corte perchè chiedesse, che a cagione de’ pericoli che minacciavano il trono del suo signore, i tre reggimenti scozzesi ai servigi delle Provincie Unite, fossero senza indugio rimandati nella Gran Bretagna. Si rivolse al Principe d’Orange; il quale si tolse il carico di maneggiare il negozio, ma predisse che Amsterdam avrebbe opposta qualche difficoltà. La predizione avverossi. I Deputati d’Amsterdam ricusarono d’acconsentire; il che fu cagione di qualche ritardo. Ma la questione non era di quelle che, per virtù della Costituzione della repubblica, una sola città poteva, contro il desiderio della maggioranza, impedire che si mandassero ad esecuzione. La influenza di Guglielmo prevalse; e le truppe furono speditamente imbarcate.[364] Skelton infrattanto adoperavasi, certo non con molto giudizio e moderazione, a fermare le navi equipaggiate dai fuorusciti inglesi. Rimproverò fortemente lo Ammiragliato d’Amsterdam, dicendo che per la negligenza di quello, una banda di ribelli aveva potuto invadere la Gran Bretagna. A un secondo errore della medesima specie non vi sarebbe stata nessuna scusa. Chiese che senza tardanza un grosso legno, chiamato l’Helderenbergh, fosse sequestrato. Spacciavasi destinato per le Canarie. Ma in verità, era stato noleggiato da Monmouth, portava ventisei cannoni, ed era carico d’armi e di munizioni. Lo Ammiragliato d’Amsterdam rispose, che la libertà del traffico e della navigazione non doveva violarsi per lievi ragioni, e che l’Helderenbergh non poteva essere fermato senza comandamento degli Stati Generali. Skelton, che pare avesse costume di cominciare le cose a rovescio, ricorse agli Stati Generali, e questi dettero gli ordini necessari. Allora lo Ammiragliato d’Amsterdam allegò, che nel Texel non vi fossero forze navali bastevoli a fermare un legno grosso come era l’Helderenbergh, e lasciò che Monmouth facesse vela senza molestia.[365] Il tempo era cattivo, il viaggio lungo, e vari vascelli da guerra inglesi incrociavano nel Canale. Ma Monmouth evitò i pericoli del mare e dell’inimico. Passando lungo le rupi della Contea di Dorset, pensò di mandare sur una barca alla riva uno de’ fuorusciti, che aveva nome Tommaso Dare. Questo uomo, quantunque basso di intelligenza e di modi, esercitava grande influenza in Tauton. Gli fu ingiunto di quivi recarsi frettolosamente, attraversando il paese, ed annunziare agli amici suoi, che Monmouth avrebbe tra breve toccato il suolo dell’Inghilterra.[366] XXVI. La mattina del dì undecimo di giugno, l’Helderenbergh, accompagnato da due più piccoli legni, comparve nel porto di Lyme. Questa città è formata da un piccolo gruppo di ripidi ed angusti viottoli, giacenti sur una costa selvaggia, piena di rocce, e battuta da un mare procelloso. Era a que’ giorni notevole per una pila costruitavi nei tempi de’ Plantageneti, con pietre ineguali e non cementate. Questo antico lavoro, conosciuto sotto il nome di _Cob_, chiudeva l’unico porto, dove, per uno spazio di molte miglia, i pescatori potevansi riparare dalle tempeste del Canale. L’apparizione di cotesti tre legni forestieri senza bandiera, rese perplessi gli abitatori di Lyme; ai quali crebbe la inquietudine come non videro ritornare gli ufficiali di Dogana, che, secondo la usanza, si erano recati sul bordo. Il popolo della città corse sulle alture, si stette lungo tempo a guardare con ansietà, ma non sapeva intendere un tanto mistero. Finalmente, sette barche spiccaronsi dalla più grande delle strane navi, e corsero difilate alla spiaggia. Scesero a terra circa ottanta uomini, bene armati e bene in arnese. Erano fra loro Monmouth, Grey, Fletcher, Ferguson, Wade ed Antonio Buyse, ufficiale già stato a servizio dello Elettore di Brandenburgo.[367] Monmouth impose silenzio, prostrassi in ginocchio, e ringraziò Dio per avere scampati gli amici della libertà e della religione pura da’ pericoli del mare, ed implorò la benedizione divina sopra quanto gli restava da fare per terra. Snudò la spada, e condusse i suoi uomini su per le rupi alla città. Appena saputosi sotto quale condottiero ed a che fine la spedizione era arrivata, lo entusiasmo del popolaccio ruppe ogni freno. La piccola città fu tutta in subbuglio; erano le genti che, correndo per ogni verso, andavano gridando: «Monmouth! Monmouth! La Religione Protestante!» Intanto, nella piazza del mercato venne inalberata una bandiera azzurra, che era la insegna degli avventurieri. Le provigioni militari furono poste nel palazzo civico; e una Dichiarazione, nella quale manifestavasi lo scopo della impresa, fu letta presso la croce della città.[368] XXVII. Tale Dichiarazione, capo lavoro del genio di Ferguson, non era un manifesto dignitoso quale avrebbe dovuto essere quello di un condottiero che brandiva la spada a propugnare una gran causa, ma un libello di bassissima specie e per concetto e per elocuzione.[369] Conteneva molte verissime accuse contro il governo, ma erano espresse con lo stile prolisso e gonfio di un cattivo articolo; oltrechè comprendeva motti addebiti che recavano disonore a coloro soltanto che li scagliavano. Vi si affermava come cosa certa, che il Duca di York aveva incendiata Londra, strangolato Godfrey, mozzato il capo ad Essex, avvelenato il Re defunto. A cagione di quei nefandi e snaturati delitti, e principalmente di quel fatto esecrabile, cioè dell’orribile e barbaro parricidio—tale era la facondia e tale la felicità dello scrivere di Ferguson—Giacomo veniva dichiarato mortale e sanguinoso nemico, tiranno, assassino ed usurpatore. Con lui non doveva venirsi a condizioni. La spada non doveva riporsi nel fodero finchè ei non avesse ricevuto il castigo che meritano i traditori. Il governo era da riordinarsi secondo i principii favorevoli alla libertà. Tolleranza per tutte le sètte protestanti; Parlamenti annui, da non prorogarsi e disciogliersi a volontà del Principe; la milizia cittadina unico esercito stanziale, comandato dagli Sceriffi, e questi da eleggersi dai liberi possidenti. In fine, Monmouth dichiarava come egli potesse provare d’essere nato di legittimo matrimonio, ed essere, per diritto di eredità, Re d’Inghilterra; ma per allora poneva da parte i suoi diritti, li sottoponeva al giudicio di un libero Parlamento; e intanto desiderava essere considerato solo come Capitano Generale dei Protestanti inglesi, i quali eransi armati a distruggere la tirannide e il papismo. XXVIII. Disonorevole come era tale Manifesto a coloro che lo avevano messo fuori, non era fatto senza arte a fine di incitare le passioni del volgo. Nelle contrade occidentali produsse grande effetto. I gentiluomini e il clero di quelle parti dell’Inghilterra, tranne pochi, erano Tory. Ma i piccoli possidenti, i trafficanti delle città, i contadini e gli artigiani, erano generalmente animati dal vecchio spirito delle Teste–Rotonde. Molti erano Dissenzienti, ed esasperati da piccole persecuzioni, dispostissimi a gettarsi in una disperata impresa. Il grosso del popolo abborriva dal Papismo, e adorava Monmouth, il quale non gli era straniero. Il viaggio ch’egli nella state del 1680 fece nelle Contee di Somerset e di Devon, era ancora vivo nella memoria di tutti. In quella occasione, era stato sontuosamente ospitato da Tommaso Thynne in Longleat Hall, che era allora, e forse anche oggi, la più magnifica casa campestre dell’Inghilterra. Da Longleat ad Exeter, lungo le siepi, stavano di qua e di là schierati numerosi spettatori che lo acclamavano. Le strade erano sparse di fronde e di fiori. La moltitudine, ansiosa di vedere e toccare il suo prediletto, rompeva le palizzate de’ parchi, ed affollavasi ne’ luoghi dove egli era festeggiato. Quando arrivò a Chard, la sua scorta componevasi di cinquemila cavalli. Ad Exeter tutto il popolo del Devonshire erasi raccolto per salutarlo. Era notevole parte dello spettacolo una compagnia di novecento giovani, i quali, coperti di bianco uniforme, lo precedevano verso la città.[370] Il giro di fortuna, che aveva scissi dalla sua causa i gentiluomini, non aveva prodotto nessuno effetto nel popolo basso. Per esso egli era sempre il buon Duca, il Duca protestante, lo erede legittimo, che una vile congiura aveva privato del proprio retaggio. Le genti correvano in folla al suo vessillo. Tutti gli scrivani ch’egli potè adoperare, non bastavano a notare i nomi delle reclute. Non era anche stato ventiquattro ore sulle rive dell’Inghilterra, e trovatasi a capo di mille cinquecento uomini. Dare arrivò da Taunton con quaranta cavalli d’aspetto non molto marziale, e recò nuove incoraggianti intorno allo stato dell’opinione pubblica nella Contea di Somerset. Fin qui tutto pareva procedere prosperamente.[371] Ma in Bridport andavansi ragunando forze per farsegli contro. Ivi arrivò, nel dì decimoterzo di giugno, il reggimento rosso della guardia civica della Contea di Dorset. Quello della Contea di Somerset, ovvero reggimento giallo, di cui era colonnello Guglielmo Porter, gentiluomo Tory di non poca importanza, aspettavasi per il giorno seguente.[372] Il Duca deliberò di avventurare subitamente il colpo. Parte delle sue truppe apparecchiavasi già a marciare verso Bridport, allorquando un disastroso evento pose in iscompiglio tutto il campo. Fletcher e Saltoun erano stati destinati a comandare, sottoposti a Grey, la cavalleria. Fletcher aveva un cattivo cavallo; e veramente pochi animali erano nel campo che non fossero stati tolti all’aratro. Come gli fu ordinato di partire per Bridport, pensò che l’urgenza del caso gli dovesse essere scusa a giovarsi, senza licenza, d’un bel cavallo che apparteneva a Dare. Questi se ne offese, e parlò dure parole a Fletcher; il quale si tenne cheto più di quanto si sarebbero aspettato coloro che lo conoscevano. In fine Dare, reso più audace dal contegno paziente con che l’altro sosteneva la insolenza di lui, rischiossi a minacciare con una bacchetta il ben nato ed altero Scozzese. Fletcher si sentì ribollire il sangue, trasse fuori una pistola e stese Dare a terra morto. Così repentina e violenta vendetta non sarebbe stata riputata strana in Iscozia, dove le leggi erano state sempre deboli; dove chiunque non si fosse fatta ragione da sè, non era verosimile che la ottenesse da altri; e dove, perciò, della vita umana facevasi così poco pregio, quanto nelle peggio governate provincie della Italia. Ma le genti delle contrade meridionali dell’Isola, non erano avvezze a vedere fare uso delle armi micidiali, e spargersi il sangue per una parola e un gesto aspro, tranne in duello fra gentiluomini pugnanti con armi uguali. Sorse, dunque, un grido universale di vendetta contro lo straniero che aveva assassinato un Inglese. Monmouth non potè far fronte ai clamori. Fletcher, il quale, appena calmato l’impeto della rabbia, si sentì opprimere dal rimorso e dal cordoglio, ricoveratosi sopra l’Helderenbergh, fuggì sul continente, e andò in Ungheria, dove valorosamente pugnò contro il comune nemico del nome cristiano.[373] XXIX. Qualunque fossero state le condizioni degl’insorgenti, alla perdita d’un uomo d’egregie doti d’animo, non poteva di leggieri supplirsi. La mattina del giorno seguente, che era il dì decimoquarto di giugno, Grey, accompagnato da Wade, si mosse con circa cinquecento uomini a dare l’assalto a Bridport. Ne seguì un fatto d’arme confuso e non decisivo, quale era da aspettarsi da due bande di contadini, che comandate da gentiluomini e da avvocati di provincia, erano venute alle mani. Per qualche tempo gli uomini di Monmouth fecero rinculare la guardia civica. Poi essa stette ferma, e costrinse gl’inimici a ritirarsi disordinatamente. Grey, con la sua cavalleria, non si fermò mai finchè non si vide di nuovo salvo a Lyme; ma Wade raccolse i fanti e li condusse innanzi con buon ordine.[374] Levossi allora un violento grido contro Grey; e taluni degli avventurieri incitavano Monmouth a trattarlo severamente. Monmouth, nondimeno, non volle prestare ascolto a cotesti consigli. La sua mitezza è stata da parecchi scrittori attribuita a bontà d’indole, la quale spesso diventava debolezza. Altri hanno supposto ch’egli non volesse condursi violentemente col solo Pari che servisse nella sua armata. Nonostante, è probabile che il Duca, il quale, comunque non fosse grandissimo capitano, s’intendeva di guerra molto meglio de’ predicatori e dei legisti che sempre lo tempestavano con consigli, fece concessioni che gente affatto inesperta nelle faccende militari non avrebbe mai pensato di fare. Per rendere giustizia ad un uomo che ha avuti pochi difensori, è d’uopo osservare, che la parte assegnata a Grey, per tutto il tempo che durò la campagna, era tale, che se egli fosse stato il più ardito ed esperto de’ soldati, non avrebbe potuto mai compierla in modo da acquistargli credito. È noto che un soldato a cavallo richiede un più lungo esercizio di un soldato a piedi, e che il cavallo da guerra richiede anche esso più lungo esercizio del suo cavaliere. Qualche cosa può farsi con una fanteria immatura, purchè abbia entusiasmo e coraggio; ma nulla può esservi più inconvenevole d’una cavalleria nuova e inesperta, composta di possidenti e di trafficanti montati sopra cavalli da soma e da posta: e tale era la cavalleria di Grey. Non è da maravigliarsi che i suoi non sostenessero risoluti l’impeto del fuoco nemico, e non menassero vigorosamente le armi, ma che potessero tenere i posti loro. Le reclute seguitavano ad accorrere a torme. Gli armamenti e gli esercizi militari continuavano ogni giorno. In questo mentre, la nuova della insurrezione erasi sparsa per ogni dove. La sera stessa in cui il Duca pose piede a terra, Gregorio Alford, gonfaloniere di Lyme, Tory zelante ed acerrimo persecutore de’ non conformisti, mandò i suoi servi ad annunziare la cosa ai gentiluomini delle Contee di Somerset e di Dorset, ed egli stesso cavalcò alla volta del paese occidentale. A notte avanzata fermossi in Honiton, dove scrisse in poche parole le triste nuove, e le spedì a Londra.[375] Volò poi ad Exeter, dove trovò Cristoforo Monk, Duca di Albemarle. Questo nobile uomo, figlio ed erede di Giorgio Monk restauratore degli Stuardi, era Lord Luogotenente del Devonshire, ed allora stavasi a passare a rassegna la guardia civica. Aveva pronti sotto il suo comando quattromila militi cittadini. E’ pare ch’egli credesse di potere con tali forze spegnere ad un tratto la ribellione. E però marciò alla volta di Lyme. XXX. Ma come, nel pomeriggio del lunedì 15 di giugno, egli giunse ad Axminster, vi trovò gl’insorgenti pronti a fargli fronte. Gli si presentarono con risoluto aspetto; posero quattro pezzi da campagna contro le truppe regie. Le spesse siepi che da ambo i lati fiancheggiavano gli angusti stradali, erano guarnite di file di moschettieri. Albemarle, nondimeno, aveva meno timore degli apparecchi dell’inimico, che dello spirito che manifestavano le proprie milizie. Tale era la reputazione di Monmouth tra le popolazioni della Contea di Devon, che se le milizie civiche avessero potuto scoprire il suo ben noto aspetto, sarebbero corse in massa a porsi sotto il suo vessillo. Albemarle, quindi, comunque fosse superiore di forze, stimò savio consiglio di ritirarsi. La ritirata tosto prese sembianza di sconfitta. Tutto il paese era sparso d’armi e d’uniformi militari, che i fuggenti gettavano via; ed ove Monmouth gli avesse vigorosamente inseguiti, avrebbe probabilmente preso Exeter senza colpo ferire. Ma ei fu satisfatto dell’ottenuto vantaggio, ed amò meglio che le sue reclute fossero più esercitate innanzi di avventurarsi a fatti rischiosi. Per la qual cosa mosse alla volta di Taunton, dove arrivò il dì decimottavo di giugno, precisamente una settimana dopo il suo sbarco.[376] XXXI. La Corte e il Parlamento s’erano grandemente commossi alle nuove giunte dall’occidente dell’isola. Alle ore cinque della mattina del sabato 13 di giugno, il Re aveva ricevuta la lettera che il Gonfaloniere di Lyme gli aveva spedita da Honiton. Il Consiglio Privato fu subitamente convocato. Si dettero ordini perchè si rafforzasse ogni compagnia di fanteria, ed ogni squadrone di cavalleria. Vennero istituite commissioni per far leva di nuovi reggimenti. XXXII. La lettera di Alford fu presentata alla Camera de’ Lordi, e la sostanza ne venne con un messaggio comunicata a quella de’ Comuni. I Comuni esaminarono i corrieri ch’erano arrivati dall’occidente, e tosto ordinarono di promulgare un decreto che condannasse Monmouth come reo di crimenlese. Si votarono indirizzi al Re, onde assicurarlo che i suoi Pari e il suo popolo erano deliberati di porre per lui la vita e gli averi contro tutti i suoi nemici. Nella prossima tornata, le Camere ordinarono che il Manifesto dei ribelli venisse bruciato per mano del boia; e il decreto di morte infamante passò per tutti gli stadii consueti. Tale decreto nel medesimo giorno fu approvato dal Re; e una rimunerazione di cinquemila lire sterline fu promessa a chiunque avesse arrestato Monmouth.[377] Il fatto che Monmouth era in armi contro il Governo, era così notorio, che il decreto di morte infamante divenne legge con la lieve opposizione di uno o due Pari, e rade volte è stato con severità censurato anco dagli storici Whig. Nulladimeno, qualvolta si consideri di quanta importanza egli sia che gli uffici legislativi si tengano distinti dai giudiciali; che la voce pubblica, comunque forte ed universale, non si abbia per prova legale della colpa; e che si osservi la regola che nessun uomo si debba condannare alla morte senza porgergli modo a difendersi; e con quanta facilità e speditezza le violazioni de’ grandi principii, una volta fatte, si allarghino;—saremo probabilmente disposti a credere che al partito preso dal Parlamento poteva farsi qualche obiezione. Nessuna delle due Camere aveva ragione alcuna, che anche un giudice corrotto come Jeffreys potesse ingiungere ai giurati di considerare come prova del delitto di Monmouth. I messaggeri esaminati dai Comuni non avevano prestato giuramento, e perciò avrebbero potuto raccontare prette fandonie, senza incorrere nella pena dello spergiuro. I Lordi, che avrebbero potuto fargli giurare, a quanto sembra, non esaminarono nessuno de’ testimoni, e non avevano sottocchio altra prova all’infuori della lettera del Gonfaloniere di Lyme, la quale dinanzi alla Legge non era prova nessuna. Gli estremi pericoli, egli è vero, giustificano gli estremi rimedi. Ma il decreto di morte infamante era un rimedio che non poteva mandarsi ad esecuzione mentre durava il pericolo, e, cessato quello, diveniva superfluo. Intanto che Monmouth era in armi, tornava impossibile giustiziarlo. Se era vinto e preso, non vi sarebbe stato rischio o difficoltà a fargli il Processo. Tempo dopo fu ricordato, come curiosa circostanza, che fra i Tory zelanti i quali dalla Camera de’ Comuni recarono il decreto alla barra de’ Lordi, era Sir Giovanni Fenwick, rappresentante di Northumberland.[378] Questo gentiluomo, pochi anni dopo, ebbe occasione di riesaminare la faccenda, e concluse che i decreti di morte infamante erano affatto ingiustificabili. In quell’ora di pericolo, il Parlamento porse altre prove di lealtà. I comuni dettero al Re la potestà di levare una somma straordinaria di quattrocentomila lire sterline per i suoi presentissimi bisogni; e perchè egli non incontrasse difficoltà a trovare la pecunia, si posero a immaginare nuove imposte. Il disegno di tassare le case novellamente edificate nella metropoli, fu rimesso in campo e validamente sostenuto dai gentiluomini di provincia. Fu deliberato non solo di tassare tali case, ma di fare una legge che proibisse di porre le fondamenta di nuovi edifici dentro un dato circuito attenente alla città. Siffatta deliberazione, nondimeno, non fu posta in effetto. Uomini potenti che possedevano terre ne’ suburbii, e speravano di vedere nuove strade e piazze sorgere nelle possessioni loro, si valsero di tutta la loro influenza contro quel progetto. Fecero considerare come si richiedesse non poco tempo a provvedere a’ particolari della nuova legge; mentre i bisogni del Re erano così urgenti, ch’egli aveva creduto necessario accelerare i procedimenti della Camera, gentilmente esortandola a sbrigarsi. Per lo che, il disegno di tassare gli edifizi fu messo da parte, e furono imposti nuovi dazi per cinque anni sopra le sete, le tele e i liquori spiritosi forestieri.[379] I Tory della Camera Bassa, dipoi, misero fuori quella che essi chiamavano Legge per la sicurezza della persona e del Governo del Re. Proposero che verrebbe considerato delitto d’alto tradimento il dire che Monmouth fosse legittimo, il profferire parole tendenti a muovere odio o dispregio contro la persona o il Governo del Sovrano, o il fare proposta in Parlamento di cangiare l’ordine della successione. Alcuni di tali provvedimenti destarono disgusto e timore generale. I Whig, benchè fossero pochi e deboli, provaronsi di riannodarsi, e si trovarono rinforzati da un numero considerevole di moderati e assennati Cavalieri. Dicevano come fosse facile anche ad un uomo onesto frantendere le parole, che facilmente potevano male interpretarsi da un ribaldo. Ciò che si fosse detto metaforicamente, poteva essere inteso alla lettera, e in senso serio ciò che dicevasi per ischerzo. Una particella, un tempo, un modo, un punto ammirativo potevano costituire la differenza tra la colpa e la innocenza. Lo stesso Salvatore del genere umano, nella cui vita intemerata, la malizia non potè trovare argomento d’accusa, era stato tratto al tribunale per parole parlate. Falsi testimoni avevano soppressa una sillaba che avrebbe mostrato chiaramente quelle tali parole essere state dette in senso figurato, e così avevano dato al Sinedrio pretesto, sotto il quale fu consumato il più iniquo degli assassinii giudiciali. Dopo cotesto esempio, chi avrebbe potuto affermare che, se le semplici parole venissero dichiarate delitto d’alto tradimento, il più leale de’ sudditi avrebbe potuto tenersi sicuro della propria vita? Tali argomenti produssero un effetto sì grande, che il Comitato fece alla Legge non poche modificazioni, che la resero assai più mite. Ma la clausola che dichiarava reo di crimenlese qualunque de’ membri del Parlamento avesse proposta la esclusione d’un principe del sangue reale dal trono, sembra non essere stata posta in discussione, e venne adottata. Ed era cosa di nessuna importanza; ma serve a provare la ignoranza ed inespertezza de’ cervelli riscaldati di que’ realisti, de’ quali abbondava la Camera de’ Comuni. Se avessero imparati i primi rudimenti della legislazione, avrebbero veduto che l’atto che essi consideravano di tanto momento, sarebbe stato superfluo mentre il Parlamento era disposto a mantenere l’ordine della successione, e sarebbe stato revocato appena fosse venuto un Parlamento inchinevole a cangiarlo.[380] Il decreto, con le modificazioni fatte, fu approvato e recato alla Camera de’ Lordi, ma non divenne Legge. Il Re aveva ottenuto dal Parlamento tutti i sussidi pecuniari che si sarebbe potuto aspettare; e pensò che, mentre ardeva la ribellione, i nobili e i gentiluomini a lui fidi sarebbero stati più utili nelle loro Contee che in Westminster. Gli esortò quindi a terminare le loro deliberazioni, e nel dì 2 di luglio li accommiatò. Nello stesso giorno, approvò una Legge che richiamava a vita quella censura della stampa, che era spirata nel 1679. Fu espressa con poche parole poste alla fine di uno Statuto contenente varie provvisioni fatte nel finire della sessione. I cortigiani non credevano di avere riportata una vittoria. I Whig non mormorarono punto. Nella Camera de’ Lordi, e in quella dei Comuni non vi furono dispareri, o anco, per quanto si possa adesso conoscere, discussione alcuna intorno a una questione che nella età nostra porrebbe in commovimento la società intera. E davvero, il mutamento era lieve e quasi impercettibile; imperocchè, dopo la scoperta della congiura di Rye House, la libertà della stampa esisteva solo di nome. Per molti mesi quasi nessun foglio avverso alla Corte era stato pubblicato alla macchia; ed alla macchia simili fogli si sarebbero, anche dopo la nuova Legge, potuti stampare.[381] Le Camere si chiusero. Non furono prorogate, ma soltanto aggiornate, affinchè, venuta l’ora di ragunarsi di nuovo, avessero potuto ripigliare i loro lavori dal punto in cui gli avevano lasciati interrotti.[382] XXXIII. Mentre il Parlamento divisava rigorose leggi contro Monmouth e i suoi partigiani, questi era stato accolto in Taunton con modo da fargli sperare che la impresa avrebbe avuto prospero fine. Taunton, al pari della più parte delle città nelle contrade meridionali dell’Inghilterra, era in que’ tempi più importante di quello che sia ai nostri. Quelle città non sono ite in decadenza; chè anzi sono, tranne pochissime, più grandi e più ricche, meglio fabbricate e meglio popolate che non erano nel secolo decimosettimo. Ma, comecchè abbiano fatto positivi progressi, relativamente hanno indietreggiato. Sono state superate per ricchezza e popolazione dalle grandi città manifatturiere e commerciali del settentrione; città che, a tempo degli Stuardi, appena cominciavano ad essere conosciute come sedi dell’industria. Taunton, allorchè vi andò Monmouth, era un luogo d’insigne prosperità. Aveva abbondevoli mercati, e celebri lanifici. La popolazione vantavasi dicendo che la terra era irrigata di latte e di miele. Nè così favellavano solo i naturali del luogo; ogni straniero che salisse sopra la leggiadra torre di Santa Maria Maddalena, confessava di contemplare la più fertile delle valli d’Inghilterra. Era una contrada rigogliosa di pometi e di verdi pascoli, fra i quali sorgevano con vaga apparenza case, capanne e campanili di villaggio. I cittadini da lungo tempo pendevano alle dottrine presbiteriane e ai principii politici de’ Whig. A tempo della grande guerra civile, Taunton, traverso a tutte le vicissitudini, erasi tenuta fida al Parlamento, era stata due volte cinta di stretto assedio da Goring, e due volte difesa dalla eroica virtù di Roberto Blake, che poscia divenne il celeberrimo Ammiraglio della Repubblica. Strade intere erano state incendiate dalle bombe e dalle granate de’ Cavalieri. I viveri erano stati così scarsi, che il Governatore aveva fermamente annunziato di far distribuire al presidio carni di cavallo. Ma nè fuoco nè fame valsero mai a domare lo spirito di que’ cittadini.[383] La Restaurazione non aveva cangiata l’indole degli abitatori di Taunton, i quali seguitavano tuttavia a celebrare lo anniversario del fausto giorno in cui fu levato lo assedio posto alla città dall’armata regia; e il loro ostinato affetto alla vecchia causa, aveva destato in Whitehall tanta ira e timore, che il loro canale era stato riempito, e le loro mura distrutte fino dalle fondamenta.[384] Lo spirito puritano ne’ cuori loro, era stato tenuto sempre desto dai precetti e dallo esempio di uno tra i più celebri uomini del clero dissenziente; voglio dire, di Giuseppe Alleine. Alleine era l’autore d’un Trattato che aveva per titolo «Ammonimento ai non Convertiti;» libro che è anche oggi popolare in Inghilterra e in America. Dal fondo della prigione, dove lo avevano sepolto i vittoriosi Cavalieri, diresse ai suoi diletti amici di Taunton molte epistole imbevute dello spirito d’una pietà veramente eroica. La sua salute in breve tempo soggiacque agli effetti dello studio, degli affanni e della persecuzione; ma la sua memoria rimase lungamente cara e riverita da coloro ch’egli aveva ammoniti e catechizzati.[385] I figli degli uomini, che quaranta anni innanzi avevano difese le mura di Taunton contro i realisti, adesso accoglievano Monmouth con acclamazioni di gioia e d’affetto. Ogni uscio, ogni finestra era adornata di festoni di fiori. Nessuno mostravasi nelle vie senza portare fitta al cappello una verde fronda, insegna della causa popolare. Le damigelle delle più insigni famiglie della città tessevano i vessilli degl’insorgenti. E in ispecie una bandiera, nella quale a magnifici ricami erano rappresentati gli emblemi della regia dignità, fu offerta a Monmouth da un drappello di fanciulle. Egli accettò il dono con quelle incantevoli maniere che erano tutte sue. La damigella che guidava la processione, lo presentò anco d’una piccola Bibbia di gran pregio. Egli la prese con riverenza, e disse: «Io vengo a difendere le verità che si contengono in questo libro, o a suggellarle, qualora bisogni, col sangue mio.»[386] Ma intanto che Monmouth beavasi degli applausi della moltitudine, non poteva non accorgersi, con timore e rammarico, che le classi alte procedevano, quasi senza eccezione, ostili alla sua intrapresa, e che nessuna delle Contee, dove ei si era mostrato, insorgeva. Era stato assicurato da agenti che dicevano di saperlo da Wildman, come tutta l’aristocrazia Whig agognasse a correre alle armi. Ciò non ostante, era scorsa più d’una settimana da che la sua bandiera era stata inalberata in Lyme. I lavoranti, i piccoli fattori, i bottegai coi loro giovani, i predicatori dissenzienti, erano corsi in folla al campo de’ ribelli; ma nè anche un solo Pari, o baronetto, o cavaliere, o membro della Camera de’ Comuni, tranne qualche scudiere di sì poca importanza da non essere mai stato commissario di pace, erasi congiunto con gl’invasori. Ferguson, il quale fino dalla morte di Carlo era sempre stato l’angiolo malvagio di Monmouth, trovò lì pronto il consiglio. Il Duca, evitando di assumere il titolo di Re, erasi messo in una falsa postura. Se si fosse dichiarato sovrano d’Inghilterra, la sua causa avrebbe avuto sembiante di legalità. Adesso era impossibile conciliare il suo Manifesto coi principii della Costituzione. Era chiaro che o Monmouth o il suo zio era il Re legittimo. Monmouth non si rischiò a chiamarsi Re legittimo, e nondimeno negava che il suo zio lo fosse. Coloro che stavano per Giacomo, pugnavano per il solo uomo il quale s’era avventurato a pretendere al trono; e però, secondo le leggi del reame, facevano il proprio debito. Coloro che parteggiavano per Monmouth, combattevano per un sistema politico ignoto, che era da stabilirsi da una Convenzione non ancora esistente. Non è meraviglia che gli uomini cospicui per grado ed opulenza, si tenessero alieni da una intrapresa che minacciava distruggere quel sistema, nella cui durata essi avevano cotanto interesse. Se il Duca avesse proclamata la propria legittimità ed assunta la Corona, avrebbe a un tratto abbattuta la predetta obiezione. La questione non sarebbe più stata tra l’antica Costituzione e la nuova; sarebbe bensì stata semplice questione di diritto ereditario tra due principi. XXXIV. Con simiglianti argomenti, Ferguson, quasi immediatamente dopo lo sbarco, aveva con insistenza stimolato il Duca a proclamarsi Re; e Grey opinava nel modo medesimo. Monmouth avrebbe assai volentieri seguito il loro consiglio; ma Wade ed altri repubblicani lo avversavano, e il loro capo con la usata pieghevolezza cesse alle ragioni che adducevano. In Taunton la questione fu rimessa in campo. Monmouth chiamò a sè coloro che dissentivano, li assicurò che ei non vedeva altro modo ad ottenere lo aiuto dell’aristocrazia di qualunque partito si fosse, e gli riuscì di strappare loro mal grado il consentimento. La mattina del dì ventesimo di giugno, egli fu proclamato Re nella piazza di Taunton. I suoi seguaci ripetevano il suo titolo con gioia ed affetto. Ma potendo nascere confusione, ove si fosse chiamato Re Giacomo II, lo chiamavano spesso col nome strano di Re Monmouth; col quale nome il male arrivato principe era spesso ricordato, a memoria di uomini tuttora viventi, nelle Contee occidentali.[387] In meno di ventiquattro ore, dopo ch’egli ebbe assunto il titolo di Re, promulgò vari proclami muniti della sua firma. Con uno poneva a prezzo la testa del rivale. Con un altro dichiarava illegale assemblea il Parlamento allora ragunato in Westminster, e comandava ai membri che si sciogliessero. Col terzo, inibiva al popolo di pagare le tasse all’usurpatore. Col quarto dichiarava Albemarle traditore.[388] Albemarle mandò cotesti proclami a Londra, solo come esempi di follia e d’impertinenza. Non fecero altro effetto, che quello di destare maraviglia e disprezzo; nè Monmouth aveva ragione di credere che l’assunzione del titolo regio avesse migliorate le sue condizioni. Soltanto una settimana era corsa da che egli si era solennemente obbligato a non prendere la Corona, finchè un libero Parlamento non avesse riconosciuti i suoi diritti. Rompendo quella promessa, era incorso nello addebito di leggerezza, se non di perfidia. La classe ch’egli aveva sperato di trarre al suo partito, seguitò a tenersi in disparte. Le ragioni che impedivano ai gran Lordi e gentiluomini Whig di riconoscere lui come Re, erano per lo meno forti al pari di quelle onde erano stati impediti dal correre a lui come loro Capitano generale. Egli è vero che aborrivano la persona, la religione e la politica di Giacomo; ma questi più non era giovine. La maggiore delle sue figlie era giustamente diletta al popolo, come quella che fermamente aderiva alla fede riformata; ed era moglie di un principe che era il capo ereditario de’ Protestanti del Continente, d’un principe ch’era stato educato in una repubblica, e che supponevasi avere sentimenti convenevoli a un Re costituzionale. Era egli savio partito esporsi agli orrori della guerra civile per la semplice probabilità di ottenere subitamente ciò che la natura, senza spargimento di sangue, senza violazione della legge, avrebbe con ogni probabilità, fra non molti anni, fatto? Forse v’erano ragioni per cacciar via Giacomo; ma dov’erano le ragioni per innalzare Monmouth? Escludere un principe dal trono per cagione d’inettitudine, era un partito consono ai principii de’ Whig. Ma non era principio alcuno, secondo il quale si potessero escludere gli eredi legittimi, i quali venivano riputati non solo irreprensibili, ma altamente meritevoli della pubblica fiducia. Nessun uomo di senno avrebbe creduto che Monmouth fosse legittimo, o, per meglio dire, ch’ei si tenesse legittimo. Egli era, dunque, non un semplice usurpatore, ma un usurpatore di pessima specie; cioè un impostore. S’egli avesse voluto provare il suo preteso diritto con forme legali, lo avrebbe potuto fare solo per mezzo di falsi documenti e di spergiuri. Tutti gli onesti e savi uomini non amavano vedere una frode,—la quale, ove fosse stata adoperata ad ottenere il possesso d’una cosa, sarebbe stata punita con il flagello e la gogna,—ricompensata col trono dell’Inghilterra. La vecchia nobiltà del reame, non sapeva patire che il bastardo di Lucia Walters fosse preferito ai legittimi discendenti dei Fitzalans e dei De Veres. Coloro che sapevano spingere più lungi gli sguardi, era d’uopo s’accorgessero, che ove a Monmouth fosse riuscito di abbattere il Governo esistente, ne sarebbe nata una guerra tra lui e la Casa d’Orange; guerra che avrebbe potuto durare più lungo tempo e produrre maggiori calamità di quella delle Rose; guerra che avrebbe forse divisi i protestanti d’Europa in partiti avversi, avrebbe accese le ostilità fra l’Inghilterra e l’Olanda, e le avrebbe rese entrambe facile preda della Francia. E’ sembra, adunque, che tutti i principali Whig opinassero che la impresa di Monmouth non potesse non finire con qualche grande disastro per la nazione, ma che la sua sconfitta sarebbe stata un disastro minore della sua vittoria. E’ non fu solo per la inazione della Aristocrazia Whig che gl’invasori rimasero sconcertati. La ricchezza e la potenza di Londra, nella precedente generazione, erano bastate, e potevano nuovamente bastare a far traboccare la bilancia in un conflitto civile. I Londrini avevano per innanzi date assai prove dell’odio loro contro il papismo, e dell’affetto loro verso il Duca Protestante. Egli aveva troppo di leggieri creduto che, appena posto il piede nell’isola, la metropoli sarebbe insorta. Ma, benchè avesse ricevuto la nuova che migliaia di cittadini eransi arruolati come volontari per combattere a pro della buona causa, nulla fu fatto. Vero è che gli agitatori che avevano promesso di sorgere al primo segno, e che s’erano forse immaginati, mentre il pericolo era lontano, che avrebbero avuto animo di mantenere la loro promessa, scoraggiaronsi appena videro avvicinarsi il tempo critico. Wildman s’impaurì tanto, che sembrava avesse perduto lo intendimento. Danvers, in prima, scusò la propria inazione dicendo che non avrebbe prese le armi finchè Monmouth non si fosse proclamato Re; e allorquando Monmouth ciò fece, il vigliacco gli volse le spalle, dichiarando che i buoni repubblicani rimanevano sciolti d’ogni promessa fatta ad un capo che aveva così vergognosamente rotta la fede. In ogni tempo gli esempi più vili della umana natura sono da trovarsi fra’ demagoghi![389] Il giorno che seguì a quello in cui Monmouth aveva assunto il nome di Re, ei marciò da Taunton a Bridgewater. Fu notato come egli non fosse di buon umore. Le acclamazioni delle migliaia di fedeli che lo circuivano per ogni dove si volgesse, non valsero a cacciare la nube che gli sedeva sul ciglio. Coloro che lo avevano veduto cinque anni innanzi mentre viaggiava la Contea di Somerset, non potevano senza commiserazione osservare i segni del cordoglio e dell’ansietà sopra quelle soavi e piacevoli sembianze che avevano conquiso il cuore di tanti.[390] Ferguson era d’umore assai diverso. In costui la ribalderia era mescolata con una strana vanità, che rendeva immagine d’insania. Il pensiero ch’egli avesse suscitata una ribellione e conceduta una Corona, aveva dato volta al suo cervello. Pavoneggiavasi brandendo la spada, e gridando alla folla ragunata a vedere l’armata partirsi da Taunton: «Guardatemi! Voi avete sentito parlare di me. Io sono Ferguson, la cui testa è stata messa a prezzo per tante centinaia di lire sterline.» E quest’uomo, senza principii e insieme infermo di cervello, signoreggiava lo intelletto e la coscienza dello sventurato Monmouth![391] XXXV. Bridgewater era una delle poche città le quali avessero tuttavia alcuni magistrati Whig. Il gonfaloniere e gli aldermanni uscirono vestiti degli abiti propri della dignità loro ad accogliere il Duca, e, precedendolo, lo condussero nella maggior piazza, e lo proclamarono Re. Le sue truppe trovarono comodi alloggiamenti, e furono provviste del bisognevole con poca spesa, o gratuitamente, dal popolo della città e de’ luoghi circostanti. Egli andò ad alloggiare nel Castello, edifizio che era già stato onorato da altri principi. L’armata s’accampò lì presso. Essa allora comprendeva circa seimila uomini, e se non ci fosse stato difetto d’armi, si sarebbe potuta aumentare del doppio. Il Duca aveva seco portato dal continente una scarsa provvista di picche e d’archibugi. Molti de’ suoi seguaci, quindi, non avevano altre armi che gli strumenti che essi usavano nell’agricoltura o nelle miniere. Il più formidabile di questi rozzi strumenti da guerra, era formato della lama di una falce legata alla punta d’un palo.[392] Ai decurioni delle campagne circostanti a Taunton e Bridgewater, fu fatto comandamento di cercare falci dove che si fosse, e portarne quante ne avessero potuto trovare al campo. Nientedimeno, e’ fu impossibile, anche con questi ingegni, satisfare alle richieste; e gran numero di gente desiderosa di farsi iscrivere ne’ ruoli militari, fu rimandata.[393] I fanti erano divisi in sei reggimenti. Molti di loro avevano appartenuto alla milizia civica, e portavano tuttavia i loro uniformi rossi e gialli. I cavalli erano circa mille; ma la più parte degli uomini avevano grossi puledri, quali allora si lasciavano crescere a branco nelle maremme della Contea di Somerset, a fine di fornire Londra con cavalli da cocchio e da carretta. Questi animali erano così disadatti agli usi militari, che non avevano nè anche imparato ad obbedire alla briglia, ed appena sentivano il suono del tamburo o lo scoppio d’un’arma, non era possibile governarli. Una piccola legione di quaranta Guardie del Corpo, bene armate sopra buoni cavalli a proprie spese, stavano presso a Monmouth. Il popolo di Bridgewater, che s’era arricchito esercitando un utile traffico nella costa, lo provvide di una piccola somma di danari.[394] XXXVI. Per tutto questo tempo, le forze militari del governo s’erano venute ragunando. Ad occidente dell’armata ribelle, Albemarle aveva ancora un grosso corpo di milizie civiche del Devonshire. Ad oriente, la guardia cittadina della Contea di Wilt erasi raccolta sotto il comando di Tommaso Herbert, Conte di Pembroke. Fra tramontana e levante, Enrico Somerset, Duca di Beaufort, era in armi. La potenza di Beaufort, somigliava alquanto quella de’ grandi baroni del secolo decimoquinto. Era presidente del Paese di Galles e Lord Luogotenente di quattro Contee inglesi. Le sue gite officiali per le vaste regioni, nelle quali egli rappresentava la maestà del trono, erano per magnificenza poco inferiori al viaggio del sovrano. L’ordinamento della sua casa rammentava le usanze d’una generazione più antica. La terra, per gran tratto, intorno i suoi giardini, apparteneva a lui; e i contadini che la coltivavano, erano parte della sua famiglia. Nove mense ogni giorno stavano nel suo palazzo apparecchiate a duecento persone. Una folla di gentiluomini e di paggi erano sottoposti agli ordini del suo maggiordomo. Una intera truppa di cavalleria obbediva al suo cavallerizzo maggiore. La rinomanza della cucina, delle cantine, delle mute, delle stalle, risonava alto per tutta la Inghilterra. I gentiluomini di molte miglia all’intorno, andavano alteri della magnificenza del loro grande vicino, e nel tempo stesso erano ammaliati della indole buona e de’ modi affabili di lui. Egli era zelante Cavaliere della vecchia scuola. In questa occasione, quindi, adoperò tutta la sua influenza ed autorità a difesa della Corona, ed occupò Bristol con le civiche milizie della Contea di Gloucester, le quali pare che fossero meglio disciplinate dell’altre.[395] Nelle Contee più discoste da quella di Somerset, i sostenitori del trono stavano all’erta. La milizia di Sussex cominciò a muoversi verso occidente sotto il comando di Riccardo Lord Lumley, il quale, quantunque di recente avesse abjurata la religione cattolica romana, mantenevasi fermamente fedele a un re cattolico romano. Giacomo Bertie, Conte d’Abingdon, ragunò le milizie della Contea d’Oxford. Giovanni Fell, Vescovo d’Oxford, che era anche Decano di Christchurch, intimò a tutti i sotto–graduati della sua Università di prendere le armi per difendere la Corona. Gli uomini in sottana affollaronsi a dare i loro nomi. Il solo Christchurch fornì circa cento lancieri e moschettieri. I giovani nobili e i gentiluomini de’ Comuni vi agivano come ufficiali; e il figlio maggiore del Lord Luogotenente era colonnello.[396] Ma il Re sperava soprattutto nelle truppe regolari. Churchill era stato diretto verso occidente coi così detti Azzurri; Feversham gli teneva dietro con tutte le forze che s’erano potute togliere dalle vicinanze di Londra. Un corriere era partito per la Olanda, recando una lettera, nella quale ordinavasi a Skelton d’ottenere che i tre reggimenti inglesi al servizio olandese, venissero tosto spediti al Tamigi. Come ei ne fece la richiesta, il partito avverso alla casa d’Orange, con a capo i deputati d’Amsterdam, nuovamente provossi di suscitare cagioni d’indugio. Ma l’energia di Guglielmo, il quale aveva nella faccenda un interesse quasi uguale a quello di Giacomo, e vedeva con grave inquietudine i progressi di Monmouth, vinse ogni opposizione; e dopo pochi giorni i reggimenti imbarcaronsi.[397] Approdati in Inghilterra, erano già arrivati in ottime condizioni a Gravesend, e Giacomo li aveva passati a rassegna in Blackheath. Disse più volte allo ambasciatore olandese di non avere mai in vita sua veduti soldati più belli o meglio disciplinati, e dichiaravasi gratissimo al Principe d’Orange ed agli Stati per un rinforzo cotanto utile ed opportuno. Se non che tale soddisfazione non era intera. Per quanto laudevolmente quegli uomini eseguissero i militari esercizi, erano alquanto imbevuti delle opinioni politiche e religiose del popolo olandese. Uno de’ soldati venne fucilato, ad un altro venne inflitta la pena della frusta per avere bevuto alla salute del Duca di Monmouth. Non fu, dunque, riputato savio consiglio il porli dove era maggiore il pericolo. Furono trattenuti ne’ dintorni di Londra sino alla fine della campagna. Ma, in grazia del loro arrivo, il Re potè mandare verso occidente quelle fanterie delle quali, senza i reggimenti predetti, vi sarebbe stato bisogno nella metropoli.[398] Mentre il Governo in questa guisa apparecchiavasi al conflitto coi ribelli in campo, non furono trascurate certe cautele di specie diversa. Nella sola Londra, duecento persone che stimavansi potere mettersi a capo di un movimento Whig, vennero imprigionate. Fra queste, erano molti grandi mercatanti. Chiunque era esoso alla Corte, si dètte in preda al timore. Una tristezza universale si sparse per tutta la città. Gli affari languivano alla Borsa; e i teatri erano tanto deserti, che un’opera nuova, scritta da Dryden, e posta in iscena con decorazioni d’insolita magnificenza, non potè andare innanzi, perocchè i proventi non servivano alle spese della rappresentazione.[399] I magistrati e il clero mostravansi da per tutto operosi. In ogni dove, i Dissenzienti erano strettamente tenuti d’occhio. Nelle Contee di Chester e di Shrop, ardeva feroce la persecuzione; in quella di Northampton, si fecero numerosi imprigionamenti; e le carceri d’Oxford rigurgitavano di prigioni. Nessun teologo puritano, comunque di moderate opinioni e di cauta condotta, era sicuro di non essere strappato dalla propria famiglia e sepolto in un carcere.[400] Frattanto Monmouth avanzavasi da Bridgewater, molestato sempre da Churchill, il quale pare facesse tutto ciò che con una mano d’uomini era possibile ad un valoroso ed esperto soldato di fare. L’armata ribelle, molestata dall’inimico e da una forte pioggia, la sera del di 22 giugno, fermossi a Glastonbury. Le case della piccola città non potevano apprestare ricovero a tanto numero d’armati: parecchi dei quali, perciò, aqquartieraronsi nelle Chiese, altri accesero i loro fuochi fra mezzo alle venerande rovine dell’Abbadia, che un tempo era stata la più ricca delle case religiose dell’isola nostra. Da Glastonbury il Duca marciò verso Wells, da dove si condusse a Stepton Mallet.[401] XXXVII. Pare che fin qui egli errasse di luogo in luogo, senza altro scopo che di raccogliere uomini. Adesso era d’uopo formare un piano di operazioni militari. Fu suo primo pensiero di prendere Bristol. Molti de’ precipui abitatori di quel luogo importante erano Whig. Quivi anche erasi esteso uno de’ fili della congiura de’ Whig. Presidiavano la città le milizie della Contea di Gloucester. Se egli avesse potuto vincere Beaufort, e le sue bande rurali, prima dello arrivo delle truppe regolari, i ribelli avrebbero a un tratto avuto in mano abbondevoli mezzi pecuniari; il credito delle armi di Monmouth si sarebbe alto levato; e i suoi amici in ogni parte del Regno avrebbero avuto coraggio di palesarsi. Bristol aveva certe fortificazioni, le quali a settentrione dell’Avon, verso la Contea di Gloucester, erano deboli; ma a mezzodì, verso quella di Somerset, erano più solide. Fu, quindi, deliberato di dare lo assalto dal lato di Gloucester. Ma a ciò fare, era necessario andarci per un cammino circolare, e valicare l’Avon a Keynsham. Il ponte a Keynsham era stato in parte distrutto dalla milizia civica, ed era impraticabile. Fu, quindi, spedito innanzi un numero d’uomini a farvi i necessari ripari. Gli altri li seguivano più lentamente, e il dì ventesimoquarto di giugno fecero alto a Pensford per riposarsi. Pensford distava solo cinque, miglia da Bristol, dal lato della Contea di Gloucester; ma questo lato, al quale poteva arrivarsi solo girando intorno per Keynsham, era lontano una giornata di cammino.[402] E quella fu notte dì gran tumulto ed aspettazione in Bristol. I fautori di Monmouth sapevano ch’egli era quasi a vista della città, e immaginavano che sarebbe stato fra loro avanti lo spuntare del giorno. Circa un’ora dopo il tramonto, un legno mercantile che era presso nel canale, prese fuoco. Tale accidente, in un porto pieno di navi, destò grande spavento. Tutto il fiume fu in iscompiglio. Le vie brulicavano di gente. Gridi sediziosi risonavano fra la confusione e le tenebre. Poscia fu detto, e da’ Tory e dai Whig, che il fuoco era stato appiccato dagli amici di Monmouth, sperando che le milizie civiche sarebbero accorse a impedire che l’incendio si allargasse; e che in quel mentre, l’armata ribelle, fatto impeto, sarebbe entrata nella città dal lato di Somerset. Se fu tale lo scopo degl’incendiarii, esso andò del tutto fallito. Beaufort, invece di mandare i suoi uomini al canale, li tenne tutta notte sotto le armi attorno il bel tempio di Santa Maria Redcliff, a mezzodì dell’Avon. Ei disse che avrebbe meglio veduto ardere Bristol, anzi l’avrebbe arsa egli stesso, che lasciarla occupare dai traditori. Col soccorso di una coorte di cavalleria regolare, che poche ore avanti eragli giunta da Chippenham, ei potè impedire lo scoppio d’una insurrezione. Gli sarebbe stato impossibile frenare i malcontenti dentro le mura, e respingere a un tempo un assalto di fuori: ma l’assalto non avvenne. Lo incendio, che era stato cagione di tanto commovimento in Bristol, vedevasi distintamente da Pensford. Monmouth, nondimeno, non reputò utile cangiare il suo disegno. Si tenne cheto fino al sorgere del sole, e poi si condusse a Keynsham, dove trovò accomodato il ponte. Deliberò di lasciare l’armata a riposarsi, nel pomeriggio, ed appena giunta la notte, procedere alla volta di Bristol.[403] Ma non era più a tempo. Le forze del Re si appressavano. Il Colonnello Oglethorpe, capitanando circa cento Guardie del Corpo, e facendo impeto contro Keynsham, sgominò due legioni della cavalleria ribelle che rischiossi a fargli fronte, e si ritrasse, con poco suo danno e con molto dell’inimico. XXXVIII. In siffatte circostanze, Monmouth reputò necessario porre da parte la impresa di Bristol.[404] Ma quale era il partito da prendere? Ne furono posti in campo e discussi parecchi. Fu detto che Monmouth avrebbe potuto accelerare il passo verso Gloucester, valicare il Severn, rompere il ponte, e a destra, protetto dal fiume, gettarsi, attraversando la Contea di Worcester, in quelle di Shrop e di Chester. Egli, anni innanzi, aveva viaggiati que’ luoghi, e v’era stato accolto come nelle Contee di Somerset e di Devon. La sua presenza avrebbe riacceso lo zelo in cuore ai suoi vecchi amici; e il suo esercito in pochi giorni si sarebbe raddoppiato. Ciò non ostante, considerata pienamente la cosa, parve che cotale disegno, comecchè specioso, fosse ineseguibile. I ribelli erano male calzati, e stanchi a cagione delle diuturne fatiche sostenute, trascinandosi tra il fango e sotto gravissime pioggie. Molestati ed impediti, come sarebbero stati ad ogni passo, dalla cavalleria nemica, non potevano sperare di giungere a Gloucester senza cadere in mano del corpo principale delle truppe regie, ed essere forzati ad un generale fatto d’arme con ogni svantaggio. Fu, dunque, proposto di entrare nella Contea di Wilt. Coloro i quali affermavano di conoscere que’ luoghi, assicuravano il Duca, che ivi avrebbe raccolti tali rinforzi, da potere con sicurtà dare battaglia.[405] Seguì questo consiglio, e volse il passo verso la Contea di Wilt. Primamente intimò a Bath di aprirgli le porte. Ma Bath era fortemente presidiata dalle milizie del Re; e Feversham si approssimava. I ribelli, quindi, non si provarono d’aggredire le mura, ma corsero in fretta a Philip’s Norton, dove fermaronsi la sera del dì 26 giugno. Feversham vi si condusse anch’egli. La mattina del dì seguente, a buon’ora, rimasero commossi alla nuova ch’egli era lì presso. Ordinaronsi, disponendosi in fila lungo le siepi del cammino che conduceva alla città. XXXIX. L’avanguardia dell’armata regia tosto comparve. Era composta di circa cinquecento uomini, capitanati dal Duca di Grafton, giovine di spirito audace e di maniere rozze, il quale era forse desideroso di mostrarsi in nulla partecipe allo sleale attentato del suo fratello naturale. Grafton tra breve si trovò in un profondo calle, da ambo i lati del quale muovevagli addosso una tempesta d’archibugiate. Non ostante, si spinse arditamente oltre, finchè pervenne all’ingresso di Philip’s Norton. Ivi trovò chiuso il cammino da una barricata, d’onde un altro vivissimo fuoco gli veniva di fronte. I suoi uomini si perdettero d’animo, e indietreggiarono fuggendo. Innanzi che uscissero dal calle, più di cento tra loro erano morti o feriti. La ritirata di Grafton fu tagliata da una mano di cavalleria nemica; ma egli si aperse fra mezzo a quelli valorosamente il cammino, e si pose in salvo.[406] L’avanguardo in tal guisa respinto, si congiunse col corpo principale dell’esercito regio. Le due armate allora si trovarono faccia a faccia; e ricambiaronsi poche archibugiate, che furono di poco o di punto effetto. Nessuna era impaziente di venire alle mani. Feversham non voleva combattere fino a che non fosse arrivata l’artiglieria, e si ripiegò verso Bradford. Monmouth, appena sopraggiunta la notte, abbandonò la propria posizione, marciò verso mezzodì, e sul fare del giorno pervenne a Frome, dove sperava trovare rinforzi. Frome gli era favorevole quanto Taunton o Bridgewater, ma non potè far nulla per lui. Pochi giorni avanti, eravi stata una insurrezione, e il Manifesto di Monmouth era stato attaccato in piazza. Ma la nuova di tale movimento era pervenuta al Conte di Pembroke, che trovavasi non molto discosto con le civiche milizie della Contea di Wilt. Era, quindi, con esse accorso a Frome; aveva messa in rotta una folla di campagnuoli, i quali, armati di falci e tridenti, tentavano di fargli fronte; era entrato nella città ed aveva disarmati gli abitanti. E però non v’erano armi, e Monmouth non poteva apprestarne.[407] XL. L’armata ribelle trovavasi in triste condizioni. La marcia del dì precedente l’aveva stancata. La pioggia era caduta a torrenti; e le strade erano diventate pantani. Non v’era nuova dei promessi soccorsi della Contea di Wilt. Arrivò un messo, annunziando che le forze d’Argyle erano state disperse in Iscozia. Un altro disse che Feversham, congiuntosi con l’artiglieria, era sulle mosse. Monmouth intendeva le cose di guerra tanto, da accorgersi che i suoi seguaci, con tutto il loro zelo e coraggio, non avrebbero potuto resistere ai soldati regolari. Erasi fino allora illuso sperando che alcuni di que’ reggimenti, da lui per innanzi comandati, sarebbero corsi sotto il suo vessillo; ma adesso era costretto a deporre tale speranza. Qui l’animo gli venne meno. Appena poteva far mostra di fermezza bastevole a dare ordini. Nella propria sciagura, amaramente dolevasi de’ sinistri consiglieri, dai quali era stato indotto ad abbandonare il suo beato ritiro di Brabante. E segnatamente contro Wildman trascorse a virulente imprecazioni.[408] Ed allora, nel debole ed agitato cervello gli sorse un vergognoso pensiero; quello, cioè, di abbandonare alla vendetta del Governo le migliaia d’uomini—i quali, da lui chiamati e accorsi per amore di lui, avevano abbandonato le abitazioni e i campi propri;—partirsi di nascosto, co’ suoi più alti ufficiali; condursi a qualche porto di mare innanzi che nascesse il sospetto della sua fuga, e rifuggirsi nel continente, dove fra le braccia di Lady Wentworth avrebbe dimenticata la propria ambizione e vergogna. Seriamente discusse cotesto disegno co’ principali de’ suoi consiglieri. Taluni di loro, tementi per la propria vita, lo ascoltarono approvando; ma Grey, il quale, secondo la confessione anche de’ suoi detrattori, era intrepido sempre, tranne quando le spade gli lampeggiavano dinanzi e le palle gli fischiavano d’intorno, si oppose con estremo calore alla ostinata proposta, e supplicò il Duca ad esporsi a ogni pericolo, più presto che ricompensare con la ingratitudine e col tradimento il fervido affetto dimostratogli dal contadiname delle contrade occidentali.[409] Il pensiero della fuga venne, dunque, abbandonato; ma non era agevole formare un piano qualunque di campagna. Procedere verso Londra sarebbe stata demenza; imperocchè la via che ivi conduce, attraversa diritta il vasto piano di Salisbury, sul quale le truppe, e soprattutto la cavalleria regolare, avrebbero pugnato con ogni vantaggio contro uomini indisciplinati. In questo mentre, arrivò al campo la nuova che i campagnuoli delle maremme pressò Axbridge erano insorti a difendere la religione protestante, s’erano armati di tridenti, correggiati e forconi, e si andavano ragunando a migliaia presso Bridgewater. Monmouth deliberò di ritornare in quel luogo, e rafforzarsi di questi nuovi collegati.[410] I ribelli, adunque, si mossero alla volta di Wells, e vi arrivarono con contegno non amichevole. Erano tutti, salvo pochi, avversi alla prelatura; e mostrarono la propria avversione in modo da recar loro pochissimo onore. Non solo strapparono il piombo dal tetto del magnifico Duomo, onde farne palle da archibugio,—cosa che poteva essere escusata da’ bisogni della guerra,—ma profanamente ne distrussero gli ornati. Grey con molta difficoltà potè, ponendosi dinanzi all’altare con la spada sguainata, salvarlo dagli insulti di alcuni ribaldi, i quali vi volevano crapoleggiare dintorno.[411] XLI. Il giovedì, 2 di luglio, Monmouth rientrò in Bridgewater, in condizioni meno liete di quelle onde vi era giunto dieci giorni prima. Il rinforzo che vi trovò, era di poco conto. L’armata regia era lì presso. Per un istante divisò di fortificare la terra; e furono chiamati centinaia di lavoranti a scavare fossi ed alzare ripari. Poi, mutando consiglio, pensò di gettarsi nella Contea di Chester; disegno ch’egli aveva respinto come ineseguibile mentre trovavasi in Keynsham, e che certamente non era meglio eseguibile adesso che egli stava in Bridgewater.[412] XLII. Mentre tentennava tra pensieri egualmente disperati, comparvero le forze regie. Erano composte di circa duemila cinquecento soldati regolari, e di circa mille e cinquecento militi cittadini della Contea di Wilt. La mattina della domenica, 5 luglio, a buon’ora partiti da Somerton, piantarono le tende, quel giorno stesso, a circa tre miglia da Bridgewater nel piano di Sedgemoor. Il Dottore Pietro Mew, vescovo di Winchester, gli accompagnava. Questo prelato aveva in gioventù sua portate le armi a difesa di Carlo I contro il Parlamento. Nè gli anni nè la professione gli avevano al tutto estinto nell’animo lo spirito guerresco; e forse credeva che l’apparizione di uno de’ padri della Chiesa protestante nel campo regio, avrebbe rinvigorito il sentimento di lealtà in cuore a quegli onesti che ondeggiavano fra l’abborrimento del papismo e quello della ribellione. Il campanile della chiesa parrocchiale di Bridgewater, dicesi sia il più alto che si trovi nella Contea di Somerset, e vi si goda la vista di tutto il paese circostante. Monmouth, insieme con alcuni de’ suoi ufficiali, vi salì fino alla cima, ed osservò con un cannocchiale la posizione dell’inimico. Vedeva uno spazio piano, adesso rigoglioso di campi da grano e d’alberi fruttiferi, ma allora, secondo che suona il suo nome, per la più parte tristo pantano. Quando le pioggie erano copiose, e il Parret, coi ruscelli che vi si gettavano dentro, straripava, cotesto spazio era affatto inondato. In antico era parte di quella vasta palude, famosa nelle nostre vecchie cronache, per avere fermate le incursioni di due successive razze d’invasori. Aveva per lungo tempo protetti i Celti dalle aggressioni dei Re di Wessex, e difeso Alfredo dalla persecuzione dei Danesi. In quei tempi remoti, questa regione non poteva traversarsi se non con navicelli. Era un immenso stagno, sparso di molte isolette di terreno ineguale e traditore, coperto di folti giunchi, fra mezzo ai quali brulicavano i cervi e i porci selvatici. Anche ai tempi de’ Tudor, il viandante, che da Ilchester recavasi a Bridgewater, era costretto a camminare per una curva di parecchie miglia onde evitare le acque. Allorquando Monmouth gettò gli occhi sopra Sedgemoor, lo spazio predetto era stato in parte acconciato dall’arte, ed era intersecato da molti larghi e profondi fossi, che in quel paese si chiamano rhines. In mezzo al pantano sorgevano, aggruppati attorno ai campanili delle chiese, pochi villaggi, i nomi dei quali sembrano accennare che un tempo erano circondati dalle acque. In uno di essi, detto Weston Zoyland, era la cavalleria regia, e il quartiere generale di Feversham. Molte persone tuttora viventi hanno veduta la figlia della fantesca che in quel giorno lo servì a pranzo; e un gran piatto di porcellana di Persia, che gli fu posto dinanzi, serbasi anche oggi con gran cura in que’ dintorni. È da notarsi che la popolazione della Contea di Somerset non è, come ne’ distretti manifatturieri, composta di soli emigranti da luoghi lontani. Non è raro trovare contadini che coltivano il medesimo podere coltivato dai loro progenitori al tempo che i Plantageneti regnavano in Inghilterra. Le tradizioni della Contea di Somerset riescono, quindi, non poco utili allo storico.[413] A maggior distanza da Bridgewater, giace il villaggio di Middlezoy. In esso e ne’ suoi dintorni erasi acquartierata la milizia civica della Contea di Wilt, sotto il comando di Pembroke. Sopra lo aperto scopeto, non lungi da Chedzoy, stavano accampati vari battaglioni di fanteria regolare. Monmouth ad essi rivolse tristamente lo sguardo. Non poteva non rammentarsi come, pochi anni innanzi, capitanando una colonna di quegli stessi soldati, aveva posti in fuga i feroci entusiasti che difendevano Bothwell Bridge. Poteva bene distinguere nell’armata nemica la valorosa legione, che allora dal nome del suo colonnello, chiamavasi reggimento di Dumbarton; ma che da lungo tempo è stata conosciuta come il primo reggimento di linea, e che in tutte le quattro parti del mondo ha nobilmente mantenuta la sua reputazione primitiva. «Conosco quegli uomini,» disse Monmouth; «essi combatteranno. Se io non avessi altri che loro soli, tutto anderebbe bene.»[414] Ciò nulla ostante, lo aspetto del nemico non era tale da scoraggiare affatto. Le tre divisioni della regia armata giacevano assai discoste l’una dall’altra. In tutti i loro movimenti era apparenza di trascuraggine e di lassa disciplina. Sapevasi che erano intenti a briacarsi col sidro di Zoyland. Era ben nota la incapacità di Feversham, comandante supremo, il quale anche in quell’ora di tanto momento ad altro non pensava che a mangiare e dormire. Churchill, a dir vero, era capitano pari ad impresa assai più rischiosa di quella di sconfiggere una masnada di male armati e mal esercitati contadini. Ma il genio che in tempi posteriori umiliò sei Marescialli di Francia, non occupava adesso il luogo che gli conveniva. Feversham parlava poco con Churchill, e in modo da non animarlo a dare consigli. Il Luogotenente, col sentimento del proprio sapere nell’arte militare, impaziente di sottostare ad un capo ch’egli spregiava, e tremante per la salute dell’armata, seppe, nonostante, così bene frenarsi e dissimulare ciò ch’egli sentiva, che Feversham ne lodò la operosa subordinazione, e promise di riferirlo al Re.[415] Monmouth, osservata la disposizione delle forze regie, e bene istrutto della condizione in cui erano, pensò che un assalto notturno sarebbe potuto riuscire. Deliberò di correre la sorte, e subito fece i necessari apparecchi. Era giorno di domenica; e i suoi seguaci, la maggior parte dei quali erano stati educati al culto puritano, passarono gran parte del giorno in esercizi religiosi. Il piano del Castello, dove era accampata l’armata, presentava uno spettacolo, quale, dopo lo scioglimento dell’esercito di Cromwell, la Inghilterra non aveva mai più veduto. I predicatori dissenzienti, che avevano prese le armi contro il papismo, alcuni de’ quali avevano forse anche pugnato nella grande guerra civile, oravano e predicavano in abito scarlatto e in istivali, con la spada a fianco. Ferguson era uno di coloro che arringavano. Tolse a testo del suo sermone la tremenda imprecazione con che gl’Israeliti dimoranti oltre il Giordano, purgavansi dell’addebito che stoltamente loro davano i confratelli dell’opposta sponda del fiume. «Il Signore Iddio degli Dei, il Signore Iddio degli Dei, egli conosce, e Israele egli conoscerà. Se ciò sia ribellione o trasgressione contro il Signore, non ci salvare in quel giorno.»[416] Che si dovesse dare un assalto col favore della notturna tenebra, non era un secreto in Bridgewater. La terra era piena di donne, che dalla circostante regione vi erano accorse a centinaia per rivedere ancora i mariti, i figliuoli, gli amanti e i fratelli loro. Molti in quel giorno si dissero il doloroso addio, e molti si divisero per non rivedersi più mai.[417] La nuova del preparato assalto pervenne all’orecchio d’una fanciulla, che era zelante pel Re. Ancorchè ella fosse d’indole modesta, ebbe l’animo di andare da sè fino a Feversham, e riferirgliene. Uscì cauta da Bridgewater, e si avviò ai regi accampamenti. Ma quel campo non era luogo dove l’innocenza potesse tenersi sicura. Anco gli ufficiali, spregiando dall’un canto le forze irregolari dell’inimico, e dall’altro il negligente capitano al quale essi erano sottoposti, stemperatamente abbandonatisi al vino, erano pronti ad ogni eccesso di crudeltà e licenza. Uno di loro pose le mani addosso alla malarrivata fanciulla, ricusò di ascoltare il messaggio che recava, e la oltraggiò brutalmente. Ella fuggì straziata dalla rabbia e dalla vergogna, lasciando le scellerate soldatesche al proprio destino.[418] Appressavasi già l’ora del gran rischio. La notte non sorgeva male adatta ad una tanta intrapresa. La luna era nella sua pienezza, le bandiere del Nord splendevano ai suoi raggi. Ma la nebbia del padule era sì folta sopra Sedgemoor, da non potersi nulla discernere a cinquanta passi di distanza.[419] XLIII. Battevano le ore undici, allorquando il Duca, con le sue Guardie del corpo, uscì dal Castello. La sua mente non era nello stato convenevole a chi tra breve debba tentare un colpo decisivo. Gli stessi fanciulli, che affollavansi a vederlo passare, si accorgevano—e lo rammentarono poi lungamente—come il suo viso fosse tristo, e pieno di sinistro augurio. L’armata marciò per un sentiero circolare, lungo pressochè sei miglia, verso gli accampamenti regi in Sedgemoor. Parte di quel cammino serba fino ai giorni presenti il nome di sentiero della Guerra (_War Lane_). I fanti erano condotti dallo stesso Monmouth; i cavalli affidati a Grey, malgrado le proteste di molti, che rimembravano lo sciagurato fatto di Bridport. Fu ordinato che si osservasse il più rigoroso silenzio, non si battessero tamburi, non si scaricasse arma. La parola la quale doveva fra le tenebre servire di riconoscimento agl’insorti, era Soho. Senza dubbio era stata prescelta per alludere a Soho Fields in Londra, dove sorgeva il palazzo del Duca.[420] Verso l’un’ora, nella mattina di lunedì, 6 di luglio, i ribelli erano sullo scopeto. Ma tra loro e il nemico giacevano tre grossi rigagni pieni d’acqua e di mota. Monmouth sapeva di doverne passare due, chiamati Black Ditch, e Langmoor Rhine. Ma, strano a dirsi! neppure da un solo de’ suoi esploratori gli era stata fatta menzione d’un fosso, chiamato Bussex Rhine, che copriva da presso il campo regio. I carri che trasportavano le munizioni, rimasero all’ingresso dello scopeto. I cavalli e i fanti, ordinati in lunga, e stretta colonna, passarono sur un argine il Black Ditch. Ve n’era un altro simile traverso al Langmoor Rhine; ma la guida, in mezzo alla nebbia, smarrì la via: innanzi che si provvedesse allo sbaglio, ci fu qualche indugio e tumulto. In fine passarono; ma nella confusione prese fuoco una pistola. Alcune delle Guardie a cavallo che facevano la scolta, udirono lo scoppio, e si accorsero come una gran moltitudine di gente avanzavasi fra mezzo alla nebbia. Scaricarono le loro carabine, e corsero di galoppo per varie direzioni a chiamare all’armi. Alcune andarono a Weston Zoyland, dove era la cavalleria. Un soldato a cavallo dette di sproni, e corse al campo dove era la fanteria, gridando con gran forza che l’inimico era per giungere. I tamburi del reggimento di Dumbarton batterono alle armi, e i soldati corsero alle proprie file. Ed era tempo, perocchè Monmouth andava disponendo l’armata per dare lo assalto. Ordinò a Grey di precedere con la cavalleria, mentre egli stesso lo seguiva a capo de’ fanti. Grey si spinse innanzi finchè i passi gli vennero inaspettatamente troncati dal Bussex Rhine. Sul lato opposto del fosso la fanteria reale ordinavasi frettolosamente a battaglia. «Per chi siete voi?» chiese gridando un ufficiale delle Guardie a piedi. «Pel Re» rispose una voce dalle file della cavalleria ribelle. «Per quale Re?» disse l’altro. «Re Monmouth» fu la risposta, accompagnata col grido di guerra che quaranta anni prima era stato inscritto sui vessilli de’ reggimenti parlamentari: «Dio sia con noi.» E immantinente, le truppe reali fecero tale scarica d’archibugi, che pose in fuga per ogni banda i cavalli degl’insorgenti. Il mondo attribuisce questa ignominiosa rotta alla pusillanimità di Grey. Nulladimeno, non è in nessuna guisa certo che Churchill avrebbe fatta miglior prova a capo d’uomini i quali non avevano mai per innanzi maneggiate armi a cavallo, e i cui cavalli non erano avvezzi, non solo a starsi fermi al fuoco, ma ad obbedire al freno. Pochi momenti dopo che la cavalleria del Duca erasi dispersa per il pantano, giunse correndo la fanteria, guidata fra le tenebre dalle micce accese del reggimento di Dumbarton. Monmouth rimase attonito, vedendo che un largo e profondo fosso giaceva tra lui e il campo ch’egli aveva sperato di sorprendere. Gl’insorti fermaronsi sull’argine e fecero fuoco, che fu ricambiato da una parte della fanteria reale, schierata sull’argine opposto. Per tre quarti d’ora, il fuoco degli archibugi non cessò mai. I contadini del Somerset si condussero come vecchi soldati, tranne che dettero troppo alta la mira alle artiglierie loro. Ma le altre divisioni dell’armata regia erano tutte in movimento. Le Guardie del Corpo e gli Azzurri vennero a spron battuto da Weston Zoyland, e dispersero in un attimo alcuni cavalli di Grey, i quali tentavano di raccogliersi. I fuggenti sparsero la paura fra i loro compagni del retroguardo, ai quali erano affidate le munizioni. I vagonieri retrocessero a gran passi senza fermarsi, finchè si videro molte miglia lontani dal campo di battaglia. Monmouth fino allora aveva sostenuta la parte propria come un robusto ed esperto guerriero. Era stato veduto a piedi, impugnando la picca, e incoraggiando con la voce e con l’esempio la propria fanteria. Ma conosceva sì bene le cose militari, da accorgersi che tutto era finito. I suoi uomini avevano perduto il vantaggio che avrebbero potuto derivare dal buio e dalla sorpresa. Erano stati abbandonati dalla cavalleria e dai vagoni della munizione. Le forze del Re erano unite e in buon ordine. Feversham, desto dal fuoco, alzatosi di letto, annodata bene la cravatta, e guardatosi allo specchio, era venuto a vedere ciò che facevano i suoi. Intanto,—e ciò fu di maggiore importanza,—Churchill aveva rapidamente disposte in guisa affatto nuova le fanterie. Il giorno era presso a spuntare. L’esito d’un conflitto alla luce del sole, in un piano aperto, non poteva essere dubbio. Nondimeno, Monmouth avrebbe dovuto sentire come a lui non convenisse fuggire, mentre migliaia d’uomini, che dallo affetto che gli portavano erano stati spinti alla propria rovina, seguitavano a combattere per la sua causa. Ma le vane speranze e lo intenso amore della vita prevalsero. Vide che, indugiando, la cavalleria regia gli avrebbe potuto impedire la ritirata. Montò, quindi, a cavallo e uscì dal campo. Nondimeno, i suoi fanti, comunque abbandonati, fecero estrema resistenza. Le Guardie del Corpo gli strinsero dalla diritta, gli Azzurri da mancina; ma i villani della Contea di Somerset, con le falci loro e le punte degli archibugi, fecero fronte, come fossero vecchi soldati, alla cavalleria reale. Oglethorpe fece vigorosa prova per romperli, e fu validamente respinto. Sarsfield, egregio ufficiale irlandese, il cui nome acquistò dipoi una trista celebrità, gli assaltò dall’altro lato; ma indietreggiarono i suoi, ed egli stesso fu gettato a terra, dove rimase alcun tempo come morto. Gli sforzi de’ robusti campagnuoli non potevano lungamente durare. Non avevano più polvere. Gridavano spesso: «Munizione! per l’amor di Dio; munizione!» Ma munizione non v’era. Quand’ecco sopraggiunge l’artiglieria regia. Era stata collocata a mezzo miglio, nella strada maestra, da Weston Zoyland a Bridgewater. Erano così difettosi gli arnesi da guerra dell’armata inglese, che vi sarebbe stata molta difficoltà a strascinare i grossi cannoni al luogo dove ardeva la guerra, se il vescovo di Winchester non avesse offerti all’uopo i cavalli della propria carrozza. Questo immischiarsi di un prelato cristiano in un negozio di sangue, è stato, con istrana incoerenza, riprovato da scrittori Whig, i quali non vedono nulla di criminoso nella condotta de’ numerosi ministri puritani che in quell’occasione avevano prese le armi contro il Governo. Anche dopo arrivati i cannoni, vi era cotale difetto di artiglieri, che un sergente del reggimento di Dumbarton dovette badare da sè al maneggio di alcuni di quelli.[421] Ciò non ostante, i cannoni, comunque male adoperati, tosto posero fine alla pugna. Le picche dei battaglioni ribelli cominciarono a piegare; le file si ruppero; la cavalleria reale fece impeto di nuovo, rovesciando ogni cosa che le si parava dinanzi; la fanteria si mosse traverso al fosso. Anco in tanta estremità, i minatori di Mendip si tennero ostinatamente fermi, e venderono cara la vita loro. Ma in pochi minuti la rotta degl’insorti fu compiuta. De’ soldati, trecento erano morti o feriti. De’ ribelli, più d’un migliaio giacevano esanimi sullo scopeto.[422] In tal modo ebbe fine l’ultimo combattimento, che meriti il nome di battaglia combattuta sul suolo inglese. La impressione che ne rimase nei semplici abitatori di quelle vicinanze, fu profonda e durevole; impressione che, a dir vero, si è spesso rinnovata. Imperocchè, anche ai tempi nostri, lo aratro e la marra non rade volte disseppelliscono funebri ricordi, teschi, stinchi, e armi stranamente formate di villici strumenti. I vecchi contadini, non è guari, raccontavano che nella loro fanciullezza solevano giocare sullo scopeto alla battaglia fra gli uomini di Re Giacomo e quelli di Re Monmouth, e che questi sempre gridavano: Soho![423] Ciò che sembra il più straordinario nella battaglia di Sedgemoor, è che l’esito ne sia stato dubbio per un momento, e che i ribelli abbiano cotanto resistito. Che cinque o sei mila carbonai e contadini potessero per un’ora sola lottare con mezzo il numero di quella cavalleria e fanteria regolare, ai dì nostri verrebbe reputato miracolo. Ma forse scemerebbe la nostra maraviglia, ove considerassimo che al tempo di Giacomo II, la disciplina delle milizie regolari era estremamente lassa; e dall’altro canto, il contadiname era accostumato a servire nella guardia civica. La diversità, quindi, tra un reggimento di fanti e un reggimento di villani pur allora reclutati, comunque considerevole, non era punto ciò che sarebbe adesso. Monmouth non conduceva una pretta marmaglia ad assaltare buoni soldati; imperocchè i suoi seguaci non erano affatto ignari del mestiere del soldato; e le truppe di Feversham, in paragone delle odierne truppe inglesi, potevano quasi chiamarsi una marmaglia. Battevano le ore quattro; il sole levavasi sull’orizzonte, allorquando la sconfitta armata inondò le vie di Bridgewater. Gli urli, il sangue, le ferite, i visi cadaverici degli uomini che cadevano a terra per non più rialzarsi, empirono d’orrore e spavento la città tutta. Oltredichè i vincitori gl’inseguivano da presso. Coloro fra gli abitanti i quali avevano favorita la insurrezione, aspettavansi il saccheggio e la strage, e imploravano protezione ai loro vicini che professavano la religione cattolica romana, o erano conosciuti come Tory; e gli stessi più virulenti storici Whig affermano, come cosa certa, che tale protezione venne cortesemente e generosamente concessa.[424] XLIV. Per tutto quel giorno, i vincitori continuarono ad inseguire i fuggitivi. Gli abitatori de’ villaggi circostanti, lungo tempo ricordarono con che strepito di zampe e tempesta di maledizioni la cavalleria, a guisa di turbine, passava. Innanzi che fosse sera, cinquecento prigioni erano stipati dentro la chiesa parrocchiale di Western Zoyland. Ottanta di loro erano feriti; e cinque spirarono fra le sacre pareti. Gran numero di lavoranti furono forzati a seppellire gli uccisi. Pochi, che erano manifestamente partigiani de’ vinti, vennero riserbati all’osceno ufficio di squartare i prigionieri. Gli uomini delle decurie delle vicine parrocchie, furono adoperati ad alzar forche e procurare catene. E tutto ciò seguiva mentre le campane di Weston Zoyland e Chedzoy suonavano a festa, e i soldati cantavano e facevano baccano fra mezzo ai cadaveri sullo scopeto: imperciocchè i fattori delle vicinanze, appena saputo l’esito del combattimento, erano stati solleciti a mandare fiaschi ripieni del loro miglior sidro, come offerte di pace, ai vincitori.[425] XLV. Feversham era stimato uomo di buona indole; ma era forestiere, ignaro delle leggi e non curante del sentire degl’Inglesi. Avvezzo alla licenza militare della Francia, aveva imparato dal vincitore del Palatinato, suo congiunto, non a vincere, ma a devastare. Un considerevole numero di prigioni furono subito destinati ad essere messi a morte. Fra essi era un uomo famoso per velocità nel correre. Gli si fece sperare che gli verrebbe concessa la vita, se egli avesse vinto nella corsa un puledro delle maremme. Lo spazio ch’egli corse insieme col cavallo è tuttora segnato da termini ben conosciuti sullo scopeto, ed è lungo circa tre quarti di miglio. Feversham non vergognò, dopo d’avere veduta la prova, d’impiccare lo sciagurato. Il dì dopo, si vide una lunga fila di forche innalzate lungo la via maestra da Bridgewater a Weston Zoyland. Da ciascuna pendeva un prigioniero. Quattro di loro furono lasciati a marcire ne’ ferri.[426] In quel mentre, Monmouth, accompagnato da Grey e da pochi altri amici, fuggiva dal campo di battaglia. A Chedzoy fece sosta un momento per montare un cavallo fresco, e nascondere il suo nastro azzurro e la decorazione dell’ordine di Giorgio. Poi si mosse in fretta alla volta di Bristol Channel. Dalle alture a tramontana del campo di battaglia, vide il lampo e il fumo dell’ultima scarica che facevano i suoi abbandonati seguaci. Avanti le ore sei, egli trovavasi venti miglia lungi da Sedgemoor. Alcuni de’ suoi compagni lo consigliavano a traversare le acque e rifuggirsi nel paese di Galles; e questo, indubitabilmente, sarebbe stato il miglior partito da prendere. Egli vi sarebbe arrivato innanzi che vi fosse giunta la nuova della sua sconfitta; e in una contrada così selvaggia e rimota dalla sede del Governo, avrebbe potuto lungamente rimanere sconosciuto. Nulladimeno, deliberò di spingersi nella Contea di Hamp, sperando di potersi nascondere ne’ tuguri de’ predatori di cervi fra le quercie di New Forest, fino a che si fosse potuto procurare i mezzi d’imbarcarsi pel continente. E però, con Grey e col Tedesco, volse i passi al sud–est. Ma il cammino era pieno di pericoli, perciocchè ai tre fuggitivi era forza passare per luoghi dove ciascuno già sapeva la nuova dell’esito della battaglia, e dove niun passeggiero di apparenza sospetta si sarebbe potuto sottrarre ad uno stretto esame. Cavalcarono tutto il giorno, schivando città e villaggi. Nè ciò allora era così difficile come adesso potrebbe sembrare: imperocchè gli uomini d’allora potevano ricordarsi del tempo in cui il cervo selvatico vagava liberamente per le foreste dalle rive dell’Avon, nella contea di Wilt fino alla costa meridionale di quella di Hamp.[427] Alla perfine, in Cranbourne Chase, ai cavalli mancarono le forze. Monmouth e i suoi colleghi, quindi, gli abbandonarono, nascondendo le briglie e le selle; e procuratisi abiti contadineschi, travestironsi, e continuarono a piedi verso New Forest. Passarono la notte all’aria aperta; ma prima che spuntasse l’alba, si videro per ogni parte circondati di mille traversie. Lord Lumley che stanziava a Ringwood con un grosso corpo di milizie civiche di Sussex, ne aveva mandate legioni per ogni verso. Sir Guglielmo Portman, con la civica di Somerset, aveva formata una catena di posti militari, dal mare fino alla estremità settentrionale di Dorset. Alle ore cinque della mattina del dì 7, Grey, che vagava diviso da’ suoi amici, fu preso da due delle vedette di Sussex. Si sobbarcò alla propria sorte con la calma di colui al quale la perplessità è più insoffribile della disperazione. «Dacchè mettemmo piede a terra» disse egli «non ho avuto un buon desinare o una sola notte di riposo.» Mal poteva dubitarsi che il capo de’ ribelli fosse poco lontano. Gl’inseguenti accrebbero la loro operosa vigilanza. Le capanne sparse su per l’aprico paese fra i confini delle Contee di Dorset e di Hamp, vennero rigorosamente ricercate da Lumley; e il contadino con cui Monmouth aveva barattato gli abiti, fu scoperto. Portman giunse con una grossa legione di cavalleria e di fanteria a prestare mano forte a coloro che erano intenti alla ricerca; i quali tosto volsero la propria attenzione ad un luogo bene adatto a ricoverare i fuggitivi. Era un vasto tratto di terra diviso da uno spazio chiuso dalla campagna aperta, partito con numerose siepi in piccoli poderi; in alcuni de’ quali la segala, i piselli e l’avena, erano sì alti, da potervisi nascondere un uomo; altri erano coperti di fratte e di scope. Una donnicciola riferì d’avere veduti due stranieri nascosti in que’ luoghi. La cupidigia della vicina ricompensa, rinfiammò lo zelo de’ soldati. Fu stabilito, che chiunque avesse fatto il debito proprio, avrebbe avuta parte del promesso premio di cinque mila lire sterline. Fatte strettissimamente guardare le siepi esteriori, si posero con infaticabile cura a frugare dentro lo spazio interno, scagliando parimente tra le fratte vari cani di squisitissimo odorato. Il sole era vôlto al tramonto, senza che avessero potuto nulla trovare; ma tutta la notte si tennero in istretta vigilanza. Trenta volte i fuggitivi rischiaronsi a varcare la siepe esteriore; ma ogni passo trovavano guardato. Una volta, scoperti, fu loro fatto fuoco addosso: allora, dividendosi, si nascosero in differenti luoghi. XLVI. Il dì seguente, al sorgere del sole, ricominciata la ricerca, Buyse venne ritrovato. Ei confessò d’essersi poche ore innanzi diviso dal Duca. Gl’inseguenti, adunque, si posero a frugare con maggior cura dentro il grano e le macchie, finchè scoprirono nascosto in un fosso un uomo di scarno aspetto. Gli si gettarono addosso. Alcuni stavano per fare fuoco; ma Portman impedì ogni violenza. Il prigioniero era in abito di pastore; la sua barba, grigia anzi tempo, era lunga di parecchi giorni. Tremava grandemente, e non poteva parlare. Anche coloro che lo conoscevano di persona, dubitarono in prima s’egli fosse lo elegante e leggiadro Monmouth. Portman gli frugò nelle tasche, e fra parecchi piselli raccolti nella rabbia della fame, vi trovò un oriuolo, una borsa d’oro, un albo pieno di canzoni, di ricette, di preghiere e di malie, e l’ordine di Giorgio, del quale, molti anni prima, il Re Carlo II aveva decorato il prediletto figliuolo. Subitamente furono spediti nunzii a Whitehall, che recarono la lieta nuova e la decorazione dell’ordine di Giorgio, come segno della verità del fatto. Il prigioniero, sotto strettissima guardia, fu condotto a Ringwood.[428] Tutto era perduto, null’altro a lui rimanendo che apparecchiarsi a sostenere la morte in modo convenevole ad uomo che non s’era creduto indegno di portare la corona di Guglielmo il Conquistatore e di Riccardo Cuor di Lione, dell’eroe di Cressy e dell’eroe d’Agincourt. Egli avrebbe potuto richiamare alla mente altri domestici esempi, anco meglio convenienti alla propria condizione. In duecento anni, due sovrani, il cui sangue scorreva nelle sue vene, l’uno de’ quali era una delicata donna, s’erano trovati nella condizione medesima in cui egli stava;—avevano mostrato nel carcere e sul palco una virtù, della quale nella prospera fortuna sembravano incapaci, e quasi redensero i loro grandi delitti ed errori sopportando con cristiana mansuetudine e con dignità principesca le pene inflitte loro dai nemici vittoriosi. Monmouth non era mai stato accusato di codardia; e quand’anche avesse avuto difetto di coraggio naturale, si sarebbe sperato che in quella estremità gliene dessero la disperazione e l’orgoglio. A lui erano rivolti gli occhi di tutto il mondo. La più tarda posterità avrebbe saputo come egli, in quel solenne momento, si fosse condotto. Verso i valorosi contadini dell’occidente egli era in debito di mostrare, che essi non avevano sparso il proprio sangue per un capo indegno del loro affetto. Verso colei che aveva tutto sacrificato per amor suo, egli era in debito di mostrarsi in guisa, che ella, dovendo piangere di lui, non ne avesse ad arrossire. Non era degno di lui il lamentarsi o il supplicare. Oltredichè, la propria ragione gli avrebbe dovuto addimostrare, essere vano ogni lamento ed ogni preghiera. A ciò ch’egli aveva fatto, non potea esservi perdono. Trovavasi fra gli artigli di un uomo che non perdonava giammai. Ma la forza d’animo di Monmouth non era di quella specie che nasce dalla riflessione e dal rispetto di sè; nè la natura gli aveva largito uno di que’ cuori robusti, da’ quali nè avversità nè pericolo valgono a strappare un segno di debolezza. Il suo coraggio innalzavasi e cadeva coi suoi spiriti animali. Nel campo di battaglia lo sostenevano lo eccitamento dell’azione, la speranza della vittoria, e la misteriosa potenza dell’esempio altrui. Tutti cotesti sostegni adesso più non erano. L’idolo della Corte e della plebe, avvezzo ad essere amato e adorato dovunque si fosse mostrato, ora vedevasi cinto da rigidi carcerieri, negli occhi de’ quali ei leggeva la propria sorte. Dopo poche ore di trista prigionia, egli doveva patire violenta e vergognosa morte. Il cuore gli venne meno. La vita gli parve degna d’essere comprata con ogni specie d’umiliazione; nè il suo intelletto, stato sempre debole, ed ora perturbato dal terrore, poteva intendere che la umiliazione lo avrebbe avvilito, ma salvato non mai. XLVII. Appena giunto a Ringwood, scrisse al Re una lettera, come poteva dettarla un uomo cui un codardo timore abbia tolto ogni senso di vergogna. Con caldissime parole espresse il rimorso ch’egli sentiva pel tradimento commesso. Affermò, che allorquando aveva ai proprii cugini nell’Aja promesso di non suscitare commovimenti in Inghilterra, egli intendeva osservare pienamente la promessa. Per sua sventura, era stato poi sedotto al misfatto da certe orride genti, le quali gli avevano con varie calunnie scaldato il cervello, e sofisticando lo avevano traviato: ma oramai abborriva que’ tristi; abborriva sè stesso. Pregava, con pietosi detti, d’essere ammesso alla presenza del Re. Aveva da palesargli un secreto che ei non poteva fidare alla penna, un secreto che era racchiuso in una sola parola; e s’egli avesse potuto dire quella tale parola, il trono sarebbe fatto sicuro d’ogni pericolo. Il dì seguente scrisse altre lettere alla Regina vedova, e al Lord Tesoriere, pregandoli ad intercedere per lui.[429] Appena si seppe in Londra ch’egli si era siffattamente avvilito, ognuno ne rimase attonito; e nessuno quanto Barillon, il quale aveva, stando in Inghilterra, vedute due sanguinose proscrizioni, in cui non poche vittime sì dell’opposizione che della Corte, senza preghi e piagnistei donneschi, eransi sobbarcate al proprio fato.[430] XLVIII. Monmouth e Grey rimasero due giorni in Ringvood. Furono poi menati a Londra, sotto la guardia di un grosso corpo di milizie regolari e civiche. Nel cocchio del Duca era un ufficiale, che aveva ordine di pugnalarlo se si fosse tentato di liberarlo. In ogni città giacente lungo il cammino, stavano schierati i militi cittadini delle vicinanze, sotto il comando de’ precipui gentiluomini. La marcia durò tre giorni fino a Wauxhall, dove un reggimento comandato da Giorgio Legge, Lord Dartmouth, era apparecchiato a ricevere i prigionieri. I quali furono posti in una barca, e pel fiume condotti a Whitehall Stairs. Lumley e Portman guardarono a vicenda giorno e notte il Duca, finchè lo ebbero messo dentro il Palazzo.[431] Il contegno di Monmouth e quello di Grey nel viaggio, riempirono di ammirazione chiunque li vedeva. Monmouth era affatto prostrato. Grey non solo era tranquillo, ma brioso; parlava piacevolmente di cavalli, di cani, di cacce, e alludeva perfino scherzevolmente al pericolo in cui trovavasi. Il Re non è da biasimarsi d’avere dannato Monmouth a morire. Chiunque si faccia capo d’una ribellione contro un Governo stabilito, rischia la vita sull’esito di quella; e la ribellione era la parte minore de’ delitti di Monmouth. Egli aveva dichiarato contro il proprio zio una guerra a morte. Nel manifesto promulgato in Lyme, aveva condannato Giacomo alla esecrazione come incendiario, come assassino, che aveva strangolato un uomo innocente e mozzo il capo ad un altro, e infine come avvelenatore del proprio fratello. Perdonare ad un nemico che non aveva abborrito di ricorrere a cosiffatte enormezze, sarebbe stato un atto di generosità rara, e forse biasimevole. Ma vederlo e non perdonargli la vita, era un offendere ogni senso d’umanità e di decenza.[432] Se non che, il Re era risoluto di mostrarsi implacabile. Il prigioniero, le braccia legate con un laccio di seta dietro le spalle, fu menato al cospetto dell’inesorabile parente da lui oltraggiato. XLIX. Monmouth prostrossi a terra, trascinandosi a piedi del Re. Pianse; tentò di stringere con le incatenate braccia le ginocchia dello zio. Lo supplicò di concedergli la vita, solo la vita, la vita ad ogni costo. Confessò d’essere reo d’un gran delitto, ma provossi di darne la colpa agli altri, e in ispecie ad Argyle; il quale avrebbe meglio poste le proprie gambe nello stivaletto, che salvare la vita con tanto avvilimento. A nome de’ vincoli del sangue, della memoria del Re defunto, che era stato il migliore e più sincero de’ fratelli, lo sventurato implorò mercè ai piedi di Giacomo. Giacomo con gravità rispose essere tardi il pentirsi; a lui spiacere la sciagura che il prigioniero s’era voluto chiamare sul capo, ma il delitto non esser tale da potersi usare clemenza. Un proclama pieno d’atroci calunnie era stato pubblicato. Il regio titolo era stato assunto. Per così gravi tradimenti non potere esserci perdono in questo mondo. Lo esterrefatto Duca giurò non aver mai voluto usurpare la Corona, ma essere stato da altri tratto in quel fatale errore. In quanto al proclama, egli non era colui che lo aveva scritto; non lo aveva nè anche letto; lo aveva firmato senza gettarvi gli occhi sopra: era tutta opera di Ferguson, di quel sanguinario e scellerato Ferguson. «Sperate voi ch’io creda» disse Giacomo, con ben meritato disprezzo, «che abbiate apposta la vostra firma ad una scrittura di tanto momento, senza saperne il contenuto?» Ma gli rimaneva a scendere oltre in fondo alla infamia. Egli era il gran campione della religione protestante, lo interesse della quale gli era servito di pretesto a congiurare contro il Governo del proprio padre, e gettare la patria nelle calamità della guerra civile: e nondimeno, non vergognò di accennare come egli fosse proclive a riconciliarsi con la Chiesa di Roma. Il Re gli offerse volentieri ogni aiuto spirituale, ma non fe’ motto di perdono o di clemenza. «Non v’è dunque speranza?» chiese Monmouth. Giacomo non rispose, e gli volse le spalle. Allora Monmouth si sforzò di rifarsi d’animo, e si alzò, ritirandosi con una fermezza da lui non mostrata mai dopo la propria caduta.[433] Poi Grey comparve alla regia presenza. Egli si condusse con tale decoro e fortezza, che commosse anche l’austero e astioso Giacomo: non si scusò punto, e non si piegò punto a chiedere la vita. Ambi i prigionieri furono mandati pel fiume alla Torre. Non vi fu tumulto; ma molte migliaia di persone, con l’ansietà e il cordoglio dipinti sul volto, provaronsi di vedere i due sciagurati. Appena il Duca si vide lontano dallo aspetto del Re, la risolutezza rinatagli in cuore svanì. Andando al carcere gemeva, accusava i suoi seguaci, e con abbiettezza implorava Dartmouth intercedesse per lui. «So bene, Milord, che amavate mio padre. Per l’amore di lui, per l’amore di Dio, ingegnatevi di trovar modo ad ottenermi mercè.» Dartmouth rispose che il Re aveva parlato il vero, e che un suddito che aveva assunto il titolo regio, si era chiuso ogni via al perdono.[434] Poco dopo che Monmouth venne rinchiuso nella Torre, gli fu annunziato che la moglie, per ordine del Re, era arrivata per vederlo. Era in compagnia del Conte di Clarendon Lord del Sigillo Privato. Il marito le fece freddissima accoglienza, e rivolse quasi sempre la parola a Clarendon, implorando intercedesse per lui. Clarendon non gli porse nessuna speranza; e la sera stessa due prelati, Turner vescovo di Ely, e Ken vescovo di Bath e Wells, arrivarono alla Torre, recando un solenne messaggio da parte del Re. Era la notte del lunedì. Il mercoledì prossimo Monmouth doveva morire. Ei cadde in grande agitazione; il sangue gli fuggì dalle guance, e per qualche tempo non potè profferire parola. La più parte del breve spazio di tempo che gli rimaneva, egli spese provandosi indarno di ottenere, se non perdono, almeno una sospensione della sentenza. Scrisse al Re ed a vari cortigiani lettere compassionevoli, ma indarno. Gli furono dalla Corte mandati alcuni sacerdoti cattolici; i quali tosto s’accorsero ch’egli avrebbe volentieri comprata la vita rinnegando la religione di cui in modo speciale erasi dichiarato difensore: nondimeno, se gli era forza morire, sarebbe morto senza la loro assoluzione, egualmente che con quella.[435] Nè Ken e Turner rimasero satisfatti delle opinioni di lui. Secondo loro, come secondo la maggior parte de’ loro confratelli, la dottrina della non–resistenza era il segno distintivo della Chiesa Anglicana. I due Vescovi insistettero perchè Monmouth confessasse, che snudando la spada contro il Governo, egli aveva commesso un gran peccato; e in ciò lo trovarono ostinatamente eterodosso. Nè era questa la sola delle sue eresie. Sosteneva che la sua relazione con Lady Wentworth fosse irreprensibile agli occhi di Dio. Diceva d’avere contratto matrimonio mentre era fanciullo. Non si era dato mai pensiero della sua Duchessa. La felicità ch’egli non aveva trovata in casa propria, l’aveva cercata in seno a dissoluti amori, dannati dalla religione e dalla morale. Enrichetta era stata colei che lo aveva redento da una vita di vizi. Ad essa egli era stato rigorosamente fedele. Entrambi d’accordo avevano pôrte al cielo ferventi preghiere perchè li guidasse. Dopo le quali preghiere, il loro scambievole affetto erasi afforzato: non potevano, quindi, più oltre dubitare che al cospetto di Dio essi erano come due sposi. I vescovi rimasero così scandalezzati a coteste idee intorno al vincolo coniugale, che ricusarono di ministrargli la comunione. Tutto ciò che da lui poterono ottenere, fu la promessa, che nella unica notte che gli restava a vivere, pregasse Iddio a largirgli lume bastevole onde conoscere se fosse nell’errore. Il mercoledì mattina, a sua particolare richiesta, il Dottore Tommaso Tenison, che allora era vicario di San Martino, e in quell’importante ufficio erasi acquistato la pubblica stima, andò alla Torre. Da Tenison, uomo noto per moderatezza d’opinioni, il Duca aspettavasi indulgenza maggiore di quanta gliene avessero potuto mostrare Ken e Turner. Ma Tenison, qualunque fossero le sue opinioni concernenti la non–resistenza in astratto, reputava la recente ribellione sconsiderata ed iniqua, e le idee di Monmouth rispetto al matrimonio pericolosissimo inganno. Monmouth fu ostinato, dicendo d’avere pregato il cielo perchè lo illuminasse. I suoi sentimenti rimanevano sempre gli stessi; e non poteva dubitare d’essere nella diritta via. Tenison lo esortò con modo più mite di quello che avevano adoperato i due vescovi. Ma al pari di loro, pensò di non potere in coscienza amministrare la eucaristia ad un uomo la cui penitenza era così poco soddisfacente.[436] L’ora appressavasi: ogni speranza era spenta: Monmouth da un timore pusillanime era passato all’apatia della disperazione. Gli furono condotti i figliuoli, perchè desse loro l’estremo vale; erano accompagnati dalla moglie. Le parlò cortesemente, ma senza emozione. Comecchè fosse donna di gran forza d’animo, e avesse poca cagione ad amarlo, il suo dolore fu tanto, che nessuno degli astanti potè frenare le lacrime. Egli solo non ne rimase commosso.[437] L. Battevano le ore dieci. Il cocchio del Luogotenente della Torre era pronto. Monmouth pregò i suoi consiglieri spirituali lo accompagnassero al luogo del patibolo; e quelli acconsentirono: ma gli dissero, che, secondo il loro giudicio, egli stava per morire male apparecchiato; e che dovendolo accompagnare, stimavano debito loro esortarlo fino allo estremo momento. Passando dinanzi alle milizie schierate, le salutò con un sorriso, e con passi fermi ascese sul palco. Tower Hill era coperto fino ai tetti d’una innumerevole folla di spettatori, i quali in solenne silenzio, rotto solo da sospiri e da pianti, aspettavano d’udire le supreme parole dell’idolo del popolo. «Dirò poco:» cominciò egli «io qui vengo non a parlare, ma a morire. Io muoio protestante della Chiesa Anglicana.» I vescovi lo interruppero, dicendo che ove non confessasse la resistenza essere peccato, egli non era membro della loro Chiesa. Cominciò a parlare d’Enrichetta, e disse: lei essere virtuosa ed onorata giovine; lui averla amata fino allo estremo, e non poter morire senza esprimere ciò che sentiva. I vescovi di nuovo lo pregarono non parlasse in quel modo. Seguì un alterco. I sacerdoti sono stati accusati d’avere trattato aspramente un moribondo. Ma sembra che solo adempissero quello che essi reputavano debito proprio. Monmouth conosceva i loro principii, e se avesse voluto schivare la importunità loro, non avrebbe dovuto richiedere la loro assistenza. I loro argomenti generali contro la dottrina della resistenza, non fecero in lui effetto veruno. Ma allorquando gli favellarono della rovina alla quale aveva trascinati i suoi valorosi ed affettuosi seguaci, del sangue che era stato sparso, delle anime che s’erano presentate senza i debiti apparecchi al tribunale di Dio, ei ne fu commosso, e disse con flebile voce: «Lo confesso, e me ne dolgo.» I sacerdoti fecero con lui lunghe e ferventi preci; ed egli li accompagnò fino al punto in cui invocavano la benedizione divina sul Re. Egli tacque. «Signore,» disse uno di loro «non pregate con noi per il Re?» Monmouth, dopo una tenzone fra il sì e il no, esclamò «Amen.» Ma indarno i prelati lo scongiurarono di dirigere ai soldati ed al popolo poche parole onde esortarli ad obbedire al Governo. «Io non vo’ fare discorsi» rispose.—«Solo poche parole, o Milord.» Volse le spalle, chiamò il suo servo, gli pose nelle mani un astuccio da stecchini, ultimo pegno d’un amore sventurato, dicendogli: «Recalo a colei.» Allora si fe’ presso al carnefice Giovanni Ketch, scellerato uomo che aveva macellate molte valorose e nobili vittime, e il cui nome per un secolo e mezzo è stato regolarmente appiccato a tutti coloro che gli succedevano nell’odioso mestiere.[438] «Ecco» disse il Duca «sei ghinee per voi. Non fate a me ciò che faceste a Lord Russell. Mi è stato detto che gli deste tre o quattro colpi. Il mio servo vi darà dell’altro oro, se voi farete bene l’ufficio vostro.» Allora spogliossi, tastò il taglio della scure, disse che temeva non fosse bene affilato e adattò il capo sul ceppo. I sacerdoti frattanto seguitavano ad esclamare con gran forza: «Dio accolga il vostro pentimento; Dio accolga il vostro imperfetto pentimento.» Il boia si pose in atto di fare il proprio ufficio. Ma erasi conturbato alle parole del Duca. Il primo colpo fece soltanto un lieve taglio. Il Duca si divincolò, rizzossi dal ceppo, fulminando cogli occhi il carnefice, poi ripiegò il capo. Il colpo fu ripetuto due e tre volte, ma tuttavia il capo non era separato dal tronco il quale seguiva a divincolarsi. La folla mandava urli d’orrore e di rabbia. Ketch, bestemiando, gittò via la scure, e disse: «Non posso farlo; il cuore mi manca.»—«Ripiglia la scure,» gridò lo sceriffo.—«Gettatelo giù dal palco,» urlò la folla. Finalmente il carnefice riprese la scure, e con due altri colpi lo finì; ma gli fu d’uopo usare un coltello per ispiccare il capo dal collo. La folla fu presa da tanta frenesia di rabbia, che il boia fu quasi per essere sbranato, e venne condotto via fra mezzo a numerose guardie.[439] In quel mentre, molti tuffavano i loro fazzoletti nel sangue di Monmouth; avvengachè da gran parte della folla venisse considerato come un martire, che era morto per la religione protestante. Il capo mozzo e il tronco furono posti in un feretro coperto d’una coltre di velluto nero, e sotterrati senza pompa sotto la tavola della comunione della Cappella di San Pietro nella Torre. Dopo quattro anni, il pavimento del santuario fu di nuovo smosso; e accanto alle ossa di Monmouth, furono sepolte quelle di Jeffreys. In vero, non v’è sulla terra luogo più tristo di questo piccolo cimitero. La idea della morte ivi è congiunta, non come in Westminster o in San Paolo, con quella del genio e della virtù, della venerazione pubblica e della fama gloriosa; non come nelle nostre chiese e campisanti più umili, con ciò che v’è di più dolcemente diletto nella carità sociale e domestica: ma con ciò che vi è di più funesto nella umana natura e nelle sorti umane; col barbaro trionfo di nemici implacabili; con la incostanza, la ingratitudine, la codardia degli amici; con tutte le miserie della grandezza caduta e della fama infame. Ivi sono state deposte, per tanti anni e tanti, dalle ruvide mani de’ carcerieri, senza pianto di amici, le reliquie di uomini che sono stati capitani d’eserciti, capi di partiti, oracoli di senati, ed ornamenti di Corti. Ivi fu trasportato, avanti alla finestra dove Giovanna Grey soleva pregare, lo sbranato cadavere di Guildford Dudley. Ivi riposa, accanto al fratello da lui assassinato, Eduardo Seymour, Duca di Somerset, e Protettore del Regno. Ivi è fatto cenere il tronco di Giovanni Fisher, Vescovo di Rochester e Cardinale di San Vitale, uomo degno di essere vissuto in età migliore, e d’esser morto per una miglior causa. Ivi giace Giovanni Dudley, Duca di Northumberland, Lord Grande Ammiraglio; e Tommaso Cromwell, Conte di Essex, Lord Tesoriere. Ivi anche è un altro Essex, sul quale la natura aveva profuso invano tutto il tesoro de’ suoi doni; e che il valore, la grazia, lo ingegno, il regio favore, i plausi popolari condussero a prematura e ignominiosa morte. Nè molto discosto dormono due capi della gran Casa di Howard; Tommaso, quarto Duca di Norfolk, e Filippo, undecimo Conte d’Arundel. Qua e colà, fra le spesse sepolture d’irrequieti ed ambiziosi uomini di Stato, giacciono alcune vittime più delicate; Margherita di Salisbury, ultima reliquia dell’altero nome di Plantageneto; e quelle due leggiadre regine spente dalla gelosa rabbia d’Enrico. Con le ceneri di questi cotali fu mescolata la cenere di Monmouth.[440] Pochi mesi dopo, il tranquillo villaggio di Toddlington, nella Contea di Bedford, vide un assai più tristo funerale. Presso a quel villaggio innalzavasi una antica e splendida magione, dove abitavano i Wentworth. La loro sepoltura era sempre stata sotto l’arcata di mezzo della chiesa parrocchiale. Quivi, nella primavera che seguì alla morte di Monmouth, fu trasportato il feretro della giovine baronessa Wentworth di Nettlestede. La famiglia le innalzò un sontuoso mausoleo: ma un suo ricordo meno dispendioso fu per lungo tempo ammirato con più profondo interesse. Il suo nome intagliato da lui ch’ella aveva cotanto amato, potevasi, pochi anni sono, discernere sul tronco d’un albero del parco contiguo. LI. Lady Wentworth non era la sola che amasse con immenso affetto la memoria del Duca. La immagine di lui rimase impressa nel cuore del popolo, finchè la generazione che lo aveva conosciuto non fu spenta. Nastri, fiocchi, ed altre simiglianti inezie portate da lui, furono venerate come preziose reliquie da coloro che avevano sotto lui pugnato a Sedgemoor. I vecchi che gli sopravvissero, desideravano, sul punto di morire, che que’ cari ricordi fossero con loro sepolti. Un bottone d’oro filato, che a mala pena potè evitare tale destino, anche oggi si vede in una casa d’onde si scuopre il campo della battaglia. Anzi, tanta era la devozione che il popolo portava al suo prediletto, che, non ostante la più forte prova che possa rendere indubitabile il fatto d’una morte, molti seguitavano a illudersi della speranza che il Duca fosse vivo, e dovesse tosto mostrarsi in armi. Un uomo, dicevano, che mirabilmente somigliava Monmouth, si era sacrificato per salvare lo eroe de’ protestanti. Il volgo continuò per lungo tempo, in ogni grave occasione, a bisbigliare che il giorno era vicino, e che il Re Monmouth sarebbe tra poco riapparso. Nel 1686, un ribaldo che si spacciava pel Duca, ed aveva ragunata pecunia in diversi villaggi della Contea di Wilt, fu preso e fustigato da Newgate fino a Tyburn. Nel 1698, allorchè la Inghilterra da parecchi anni godeva la libertà costituzionale sotto una nuova dinastia, il figlio di un locandiere si fece credere, fra mezzo ai piccoli possidenti di Sussex, il loro amato Monmouth, e frodò molti che non erano dell’infima classe. Gli venne fatta una colletta di cinquecento lire sterline. I fattori gli diedero un cavallo. Le mogli loro gli mandarono ceste piene di polli e d’anitre, e gli si mostrarono generose, secondo che fu detto, di favori più teneri; imperocchè, rispetto alla galanteria per lo meno, la copia non era indegna di rappresentare l’originale. Come quell’impostore fu gettato in prigione, i suoi creduli seguaci lo mantenevano con lusso. Alcuni di loro comparvero in tribunale per dargli animo allorquando fu processato nella Corte di Horsham. E tanto durò lo inganno, che Giorgio III era già da parecchi anni sul trono, che Voltaire estimò necessario confutare seriamente la ipotesi, che l’uomo dalla maschera di ferro fosse il Duca di Monmouth.[441] Forse egli è un fatto poco meno notevole, che fino ad oggi gli abitatori di alcuni luoghi delle contrade occidentali d’Inghilterra, qualvolta qualche legge concernente i loro interessi discutesi nella Camera de’ Lordi, si reputano in diritto di chiedere soccorso al Duca di Buccleuch, discendente dello sventurato capo pel quale i loro antecessori versarono il proprio sangue. La storia di Monmouth basterebbe sola a confutare lo addebito d’incostanza che di frequente suole gettarsi sopra il basso popolo. I popoli talvolta sono incostanti, perchè sono esseri umani. Ma che siano tali paragonati alla gente educata, voglio dire alle aristocrazie o ai principi, può sicuramente negarsi. Sarebbe agevole recare esempi di demagoghi, la cui popolarità sia rimasta ferma, laddove i sovrani e i parlamenti hanno tolta la già data fiducia a molti uomini di Stato. Mentre Swift seguitò a vivere molti anni scemo delle facoltà intellettive, la plebe irlandese continuava sempre ad accendere fuochi di gioia nel giorno natalizio del celebre scrittore, in commemorazione de’ servigi, che, secondo la comune credenza, egli aveva resi alla patria nel tempo in cui la sua mente era in pieno vigore. Mentre sette ministeri furono innalzati al potere e cacciati via a cagione degli intrighi di Corte, o de’ mutamenti d’opinione delle alte classi della società, il dissoluto Wilkes non perdè mai l’affezione d’una marmaglia da lui spogliata e derisa. Gli uomini politici che, nel 1807, s’erano studiati d’ingraziarsi a Giorgio III difendendo Carolina di Brunswick, non arrossirono, nel 1820, di ambire al favore di Giorgio IV, perseguitandola. Ma nel 1820, come nel 1807, tutta la classe degli operai con fanatico ardore parteggiava per lei. La cosa medesima avvenne di Monmouth. Nel 1680, era stato adorato e dai gentiluomini e da’ contadini delle contrade occidentali. Nel 1685 mostrossi di nuovo. Ai gentiluomini era diventato obietto d’avversione; dai contadini era tuttavia amato con un affetto forte come la morte, con un affetto non estinguibile per infortuni o per falli, per la fuga da Sedgemoor, per la lettera di Ringwood, o per le querule ed abiette supplicazioni in Whitehall. Lo addebito che equamente può darsi al popolo, sta in ciò, ch’esso non è incostante, ma elegge sempre il suo prediletto così male, che la sua costanza diventi vizio, e non virtù. LII. Mentre la decapitazione di Monmouth occupava le menti di tutti in Londra, le Contee che erano insorte contro il Governo pativano tutte le enormezze che una feroce soldatesca possa commettere. Feversham era stato chiamato a Corte, dove lo aspettavano onori e rimunerazioni ch’ei poco meritava. Fu fatto cavaliere della Giarrettiera, e capitano del primo e più lucroso reggimento delle Guardie del Corpo: ma la Corte e la Città ridevano delle sue imprese militari; e lo spirito di Buckingham fece l’ultime sue prove a schernire il guerriero che aveva riportata una vittoria standosi a poltrire sul letto.[442] Feversham lasciò il comando in Bridgewater al Colonnello Percy Kirke, avventuriero militare, ch’erasi educato al vizio nella peggiore di tutte le scuole, cioè in Tangeri. Kirke, pel corso d’alcuni anni, aveva comandato il presidio di quella città, occupato in continue ostilità contro le tribù de’ Barbari, ignari delle leggi che governano le nazioni incivilite e cristiane. Dentro le mura della propria fortezza egli imperava da despota. L’unico freno alla sua tirannide era il timore d’esser chiamato a render conto da un lontano e spensierato Governo. Poteva, quindi, con sicurtà sbrigliarsi ai più audaci eccessi di rapacità, di crudeltà, di licenza. Viveva con immensa dissolutezza, e con le estorsioni procuravasi i mezzi di satisfarla. Nessuna mercatanzia poteva vendersi finchè Kirke non l’avesse rifiutata. Non si poteva decidere questioni di diritto finchè Kirke non ne avesse ricevuto il prezzo. Una volta, solo per capriccio di malignità, versò tutto il vino della cantina di un oste. Un’altra volta cacciò via tutti gli Ebrei da Tangeri; due de’ quali egli mandò alla Inquisizione Spagnuola, che tosto li arse vivi. Sotto cotesto giogo di ferro non s’udiva un lamento, imperocchè il terrore teneva in freno l’odio. Due individui che gli si erano mostrati disobbedienti, furono trovati morti; e fu universale credenza che fossero stati assassinati per ordine di Kirke. Quando i soldati spiacevangli, li faceva flagellare con severità spietata; ma li compensava permettendo che dormissero alle vedette, vagassero, rubassero, percotessero e insultassero i mercatanti e gli operai. Allorchè Tangeri fu abbandonata, Kirke ritornò in Inghilterra. Seguitò a tenere il comando de’ suoi vecchi soldati, i quali talvolta chiamavansi Primo Reggimento Tangeri, e tal altra Reggimento Regina Caterina. E perchè erano stati ordinati con lo scopo di far guerra ad un popolo infedele, portavano nella bandiera un emblema cristiano, lo Agnello Pasquale. In allusione a siffatto emblema e in senso di acre ironia, cotesti uomini, i più feroci delle inglesi milizie, chiamavansi gli Agnelli di Kirke (_Kirk’s Lambs_). Questo reggimento, che ora è il secondo di linea, serba tuttora l’antica insegna, che poscia riceveva nuovo splendore per le decorazioni acquistate onoratamente in Egitto, in Ispagna e nel cuore dell’Asia.[443] Tale era il capitano e tali i soldati, i quali furono scagliati addosso alle popolazioni della Contea di Somerset. Kirke da Bridgewater marciò a Taunton. Era accompagnato da due carriaggi pieni di ribelli feriti, le cui piaghe non erano fasciate, e da una lunga fila di prigioni che andavano a piedi, due a due incatenati. Vari di costoro egli impiccò appena giunto a Taunton, senza forma nessuna di processo. Non fu loro conceduto nè anche dire l’ultimo addio ai più stretti parenti. Serviva di forca la insegna di White Hart Inn. Dicesi che gl’impiccamenti si facessero di faccia alle finestre dove i soldati di Tangeri gozzovigliavano, e che ad ogni brindisi si impiccasse un prigioniero. Come i morenti dimenavano le gambe nell’ultima agonia, il colonnello faceva battere i tamburi, dicendo di volere accompagnare con la musica la danza de’ ribelli. La tradizione vuole che ad uno de’ prigioni non fu nè anche concessa la grazia di farlo prontamente morire. Due volte fu appeso al posto, e due calato a terra. Due volte gli fu chiesto se era pentito del tradimento, e due egli rispose che se la impresa era da farsi nuovamente, egli l’avrebbe rifatta daccapo. Allora gli fu messo il capestro per l’ultima volta. Fu tanto il numero de’ cadaveri squartati, che il carnefice stavasi nel sangue fino alle gambe. Era aiutato da un povero uomo, il quale essendo caduto in sospetto, fu forzato a redimere la propria vita bollendo nella pece i cadaveri de’ propri fratelli. Il contadino che aveva assentito a compiere questo ufficio, ritornò poscia al proprio aratro. Ma un segno come quello di Caino gli rimase impresso sulla fronte. Era conosciuto nel suo villaggio col nome di Maso Bolli–uomini (Boilman). I villici per lungo tempo seguitarono a narrare, che, quantunque egli con la sua opera di peccato e di vergogna si salvasse dalla vendetta degli Agnelli, non aveva evitata quella del cielo. Infuriante una forte procella, ei corse a ricoverarsi sotto una quercia, e lì fu incenerito da un fulmine.[444] Il numero di coloro che in tal guisa furono macellati, non si conosce con certezza. Nove furono registrati ne’ libri mortuari della parrocchia di Taunton; ma que’ libri contengono i nomi di coloro che ebbero sepoltura cristiana. Coloro che furono impiccati in catene, e coloro, le teste e le membra de’ quali furono mandate ai circostanti villaggi, dovettero essere un numero molto maggiore. Credevasi in Londra, a quel tempo, che Kirke, nella settimana che seguì alla battaglia, facesse morire cento prigioni.[445] Nondimeno, la crudeltà non era l’unica passione di questo uomo. Amava il danaro, e non era novizio nell’arte di estorcere. Per quaranta lire sterline poteva ottenersi un salvocondotto, col quale, comecchè fosse di nessun valore al cospetto della legge, il compratore poteva passare senza molestia per i posti militari degli Agnelli, onde ridursi ad un porto di mare, e rifugiarsi ad un paese straniero. Le navi che dovevano mettere alla vela per la Nuova Inghilterra, trovaronsi in quell’occasione così affollate di fuggitivi di Sedgemoor, che si correva pericolo le provvigioni non bastassero al viaggio.[446] Kirke, non ostante la rozza e feroce indole sua, amava anche i piaceri; e nulla è più probabile di ciò ch’egli si giovasse del proprio potere a sbramare le sue lussuriose voglie. Fu detto ch’egli avesse vinta la virtù d’una donna onesta, promettendole di salvare la vita ad un uomo da lei svisceratamente amato; e dopo ch’ella ebbe ceduto, le mostrasse appeso alle forche il cadavere di colui, per amore del quale la sventurata aveva sacrificato il proprio onore. Ogni giudice imparziale è forza che non presti fede a siffatta novella, non essendovi prova che la confermi. La più antica autorità su cui si possa appoggiare, è una poesia scritta da Pomfret. Gli storici più insigni di quell’età, mentre discorrono i delitti di Kirke, o non ricordano punto cotesta atrocissima scelleratezza, o la rammentano come cosa vociferata, ma senza prove. Coloro che la raccontano, la descrivono con tali varianti, da renderla incredibile. Alcuni pongono la scena in Taunton, altri in Exeter. Chi dice la eroina della novella fosse una fanciulla, chi una sposa. Questi affermano che colui che ella intendeva redimere col proprio disonore, le fosse padre: quegli altri fratello, ed altri ancora marito. Inoltre la storiella, innanzi che Kirke fosse nato, era stata detta di molti altri oppressori, ed era divenuta têma avidamente trattato dagli scrittori di drammi e di novelle. Due uomini politici del secolo decimoquinto, Rhynsault, il prediletto di Carlo il Temerario Duca di Borgogna, ed Oliviero le Dain, il prediletto di Luigi XI di Francia, erano stati accusati del medesimo delitto. Cintio lo aveva tolto a subietto di un suo romanzo; Whetstone dal racconto di Cintio aveva desunto il rozzo dramma di Promo e Cassandra; e Shakespeare avea tolto da Whetstone lo intrecciò della sua insigne Tragicommedia, che chiamò Misura per Misura. E come Kirke non fu il primo, così non fu nè anche l’ultimo, cui la voce popolare attribuisse cotesto eccesso di malvagità. Mentre in Francia infuriava la reazione che seguì alla tirannide de’ Giacobini, una similissima colpa fu apposta a Giuseppe Lebon, che era uno de’ più odiosi strumenti del Comitato di Salute Pubblica; e dopo esame, anco i suoi persecutori conclusero che non aveva alcun fondamento.[447] Il Governo era mal satisfatto di Kirke, non per la barbarie con che aveva trattati i suoi prigioni poveri, ma per la venale mitezza che aveva dimostra ai colpevoli ricchi.[448] Fu, dunque, sollecitamente richiamato. Nel medesimo tempo era per compiersi una meno illegale e insieme più cruda strage. La vendetta venne differita per alcune settimane. Desideravasi che non si principiasse il giro per le contrade occidentali finchè gli altri non fossero terminati. Infrattanto, le carceri delle Contee di Somerset e di Dorset rigurgitavano di migliaia di prigioni. Il migliore amico e protettore di cotesti infelici in quella estremità, fu uno che abborriva le loro opinioni religiose e politiche, e al quale essi avevano senza provocazione fatto del male; voglio dire il vescovo Ken. Il buon prelato adoperò ogni mezzo per ammansare i carcerieri, e dalla sua propria mensa vescovile diede soccorsi per potere migliorare il rozzo e scarso alimento di coloro che gli avevano guasta la sua cara Chiesa Cattedrale. La sua condotta in quel caso era in armonia con tutta la sua vita. Aveva, a dir vero, intenebrato lo intelletto da molte superstizioni e molti pregiudizi; ma il suo carattere morale, ove imparzialmente si giudichi, sta al paragone con qualsivoglia altro nella storia ecclesiastica, e sembra farsi da presso, per quanto concede la infermità della umana natura, alla perfezione ideale della virtù cristiana.[449] LIII. Questa sua opera di carità non durò lungo tempo. Pensavasi già a spopolare rapidamente ed efficacemente le carceri. In sul principiare di settembre, Jeffreys, accompagnato da quattro altri giudici, cominciò quel giro la cui memoria durerà quanto la nostra razza e la lingua nostra. Gli ufficiali che comandavano le truppe nei distretti dove egli doveva recarsi, ebbero ordini di prestargli qualunque forza militare avesse potuto richiedere. La ferocità dell’indole sua non aveva mestieri di sprone; e nondimeno gli fu dato incitamento. Al Lord Cancelliere andavano mancando la salute e gli spiriti. Era stato profondamente afflitto dalla freddezza del Re e dalla insolenza del Capo Giudice; e poco era il conforto che poteva trovare gettando lo sguardo sopra la trascorsa sua vita, la quale, se non era infamata da alcuno atroce delitto, era lorda di vigliaccheria, di amore di sè e di servilità. L’infelice ne rimase così profondamente umiliato, che allorquando comparve per l’ultima volta in Westminster Hall, aveva in mano un mazzetto di fiori per nascondersi il viso; perocchè, secondo egli stesso confessò poscia, non poteva sostenere lo aspetto della tribuna e degli uditori. E’ sembra che la idea della vicina morte gl’inspirasse insolito coraggio. Deliberò di alleggiare la propria coscienza, chiese un’udienza al Re, parlò con zelo dei pericoli che inseparabilmente accompagnano i violenti ed arbitrali consigli, e riprovò le illegali crudeltà commesse dai soldati nella Contea di Somerset. Poco dopo si partì da Londra per andare a morire. Mandò l’ultimo fiato pochi giorni dopo che i giudici erano partiti per le contrade occidentali. Venne subito dato annunzio a Jeffreys, che poteva aspettarsi il Gran Sigillo in premio di fedeli e vigorosi servigi.[450] LIV. In Whinchester il Capo Giudice aprì le sessioni della sua commissione. La Contea di Hamp non era stata il teatro della guerra; ma molti de’ vinti ribelli s’erano, come il loro capo, quivi rifuggiti. Due di loro, Giovanni Hickes, teologo non–conformista, e Riccardo Nelthorpe, giureconsulto posto fuori la legge per avere avuta parte nella congiura di Rye House, avevano cercato asilo nella casa di Alice, vedova di Giovanni Lisle. Giovanni Lisle aveva seduto nel Lungo Parlamento e nella Alta Corte di Giustizia, era stato Commissario del Gran Sigillo a tempo della Repubblica, ed era stato creato Lord da Cromwell. Questi titoli datigli dal Protettore, non erano stati riconosciuti da nessuno de’ Governi che avevano retta la Inghilterra dopo la caduta della casa di Cromwell; ma sembra che, conversando, venissero dati a Lisle anche da’ realisti. La vedova di lui, quindi, era comunemente conosciuta col nome di Lady Alice. Era imparentata a molte rispettabili e ad alcune nobili famiglie, ed era generalmente stimata anco dai gentiluomini Tory della sua Contea. Imperciocchè costoro bene conoscevano, avere essa riprovati taluni atti di violenza a’ quali il suo marito aveva partecipato, sparse amare lacrime sopra la sorte di Carlo I, e protetti e aiutati nella loro miseria molti Cavalieri. La stessa donnesca cortesia, onde era stata mossa a mostrarsi amichevole ai realisti, mentre loro volgeva avversa la sorte, non gli consentì di ricusare un pane e un nascondiglio agli sciagurati che adesso la scongiuravano di proteggerli. Gli accolse in casa propria, dette loro cibo e bevanda, e luogo di riposo. Il dì dopo, la sua casa fu circuita di soldati. Cercarono dappertutto. Hickes fu trovato nascosto nella cantina, e Nelthorpe dentro il camino. Se Lady Alice conosceva gli ospiti suoi essere stati implicati nella insurrezione, senza dubbio era rea di ciò che rigorosamente si chiama delitto capitale. Imperocchè la legge che distingue il principale dallo accessorio, rispetto ad alto tradimento, era allora, ed è tuttavia tale, che disonora la Giurisprudenza inglese. Nei casi di fellonia, una distinzione fondata sopra la giustizia e la ragione è da farsi tra principale ed accessorio dopo il fatto. Chiunque asconda alla giustizia un uomo ch’egli sa essere un assassino, comunque meriti una pena, non è meritevole della pena debita all’assassino; ma chiunque dia ricovero ad un uomo ch’egli sa essere traditore, è, secondo la sentenza di tutti i nostri giuristi, reo d’alto tradimento. Non è mestieri dimostrare l’assurdità e la crudeltà d’una legge che comprende nella medesima definizione, e punisce della stessa pena, delitti che stanno agli opposti estremi nell’ordine della colpa. Il sentimento che fa rabbrividire il suddito più leale al pensiero di porre a vergognosa morte il ribelle, che vinto, inseguito, e in agonia mortale, chiegga un morso di pane e un po’ d’acqua, può essere debolezza; ma è debolezza strettamente congiunta alla virtù; debolezza la quale, nel modo onde è formato l’essere umano, mal possiamo sradicare dall’animo, senza svellere con essa molti altri nobili e benevoli sentimenti. Un savio e buono legislatore potrebbe reputare giusto non sanzionare tal debolezza; ma quasi sempre vi si mostrerà connivente, e la punirà con moderazione. In nessun caso la considererà come un delitto della più brutta specie. Se Flora Macdonald bene operasse nascondendo il condannato erede degli Stuardi, se un valoroso soldato de’ tempi nostri bene operasse aiutando Lavalette a fuggire, sono quistioni intorno alle quali i casuisti potrebbero variamente opinare: ma porre tali azioni nella medesima classe coi delitti di Guido Faux e di Fieschi, è un fare oltraggio alla umanità e al senso comune. Tale, nondimeno, è la classificazione della nostra legge. È manifesto che nulla altro che un mite Governo potrebbe rendere sopportabile siffatta condizione della legge. Ed è giusto dire, che pel corso di molte generazioni nessun Governo inglese, tranne uno solo, ha trattato con rigore le persone ree solamente di avere protetto gli sconfitti e gl’insorti fuggitivi. Alle donne, in ispecie, è stato concesso, come per una tal quale tacita prescrizione, il diritto d’usare fra mezzo alle devastazioni e alle vendette quella pietà, che è il più caro di tutti i loro vezzi. Sino dallo scoppio della gran guerra civile, numerosi ribelli, alcuni de’ quali erano uomini ben altrimenti importanti che Hickes e Nelthorpe, sono stati protetti, contro la severità di governi vittoriosi, dalla destrezza e generosità femminile. Ma nessun sovrano inglese cui sia fuggita di mano la preda, salvo il feroce e implacabile Giacomo, ebbe mai la barbarie nè anche di pensare a porre una donna a cruda e vergognosa morte, per una cotanto veniale e caritatevole trasgressione. Per quanto odiosa fosse la legge, fu d’uopo stiracchiarla a fine di uccidere Alice Lisle. Secondo la dottrina sostenuta da’ più insigni autori, ella non poteva essere dichiarata convinta, fino a che non fossero stati dichiarati tali i ribelli da essa ospitati.[451] Ciò non ostante, fu trascinata al tribunale innanzi che a Hickes o a Nelthorpe fosse fatto il processo. In quel caso non era agevole ottenere una sentenza a seconda delle voglie del principe. I testimoni tergiversavano. I Giurati, che erano i principali gentiluomini della Contea di Hamp, raccapricciavano al pensiero di mandare una povera creatura a morire, per essersi condotta in guisa da meritare lode meglio che biasimo. Jeffreys era furibondo; avvegnachè, essendo questo il primo caso di crimenlese ch’egli trattava nell’intrapreso giro, sembrasse assai probabile che la preda gli avesse a fuggire dalle unghie. Tempestava, malediceva, bestemmiava con parole di che nessun uomo bene educato avrebbe fatto uso in una corsa o in un combattimento di galli. Uno de’ testimoni, chiamato Dunne, in parte commosso per Lady Alice, in parte atterrito dalle minacce e maledizioni del Capo Giudice, perdè affatto il cervello, e in fine si tacque. «Oh! come è dura la verità» disse Jeffreys «ad uscir fuori dalle labbra d’un ribaldo e bugiardo presbiteriano!» Il testimone, dopo pochi minuti, balbettò poche parole vuote di senso: «Vi fu mai» esclamò il Giudice con una bestemmia, «vi fu egli mai sopra la faccia della terra un simigliante scellerato? Credi tu che vi è un Dio? Credi tu nel fuoco dell’inferno? Tra tutti i testimoni che mi sono capitati fra le mani, non ne ho mai veduto uno simile a te.» Il povero uomo, insensato per terrore, nuovamente si tacque; e nuovamente Jeffreys urlò: «Spero, Signori Giurati, che voi notiate l’orribile condotta di costui. Come si può egli fare a meno di non abborrire costoro e la religione che professano? Un Turco è un santo in agguaglio di codesto sciagurato. Un pagano arrossirebbe di tanta ribalderia. Gesù benedetto! Fra quale genia di vipere ci è toccato di vivere!»—«Io non so che dire, mio signore,» disse tremando Dunne. Il Giudice di nuovo con una mitraglia di bestemmie. «Vi fu egli mai al mondo» gridò «più impudente briccone? Fate lume, ch’io possa vedere il suo viso di bronzo. Voi, o gentiluomini, che siete consiglieri della Corona, badate di pronunciare contro costui una sentenza che lo dichiari spergiuro.» Dopo che i testimoni furono siffattamente esaminati, Lady Alice fu chiamata a difendersi. Cominciò dicendo,—il che poteva esser vero,—che quantunque ella si fosse accorta del turbamento di Hickes allorquando lo accolse in casa, non sapeva nè sospettava che fosse implicato nella ribellione. Egli era ministro di Dio, ed uomo di pace. Non poteva ella, dunque, pensare ch’egli avesse prese le armi contro il Governo; e aveva supposto ch’ei si volesse nascondere perchè v’erano contro lui mandati d’arresto per avere predicato in piazza. Il Capo Giudice si mise a tempestare: «Ma ve lo dirò io. Non v’è un solo tra questi bugiardi e piagnolosi presbiteriani, che, d’un modo o d’un altro, non abbia avuto mano nella ribellione. Il Presbiterianismo comprende ogni specie di scelleraggine. Null’altro fuorchè il Presbiterianismo ha potuto rendere Dunne ribaldo. Mostrami un presbiteriano, e ti mostrerò un bugiardo.» Riepilogò il caso col medesimo tono, declamò per un’ora contro i Whig e i Dissenzienti, e rammentò ai Giurati come il marito della colpevole avesse avuto parte nella morte di Carlo I; fatto non provato da veruna testimonianza; e se provato, sarebbe stato di nessun peso nel caso della donna. I Giurati si ritrassero, e rimasero lungo tempo a deliberare. Il Giudice divenne impaziente, dicendo di non potere intendere in che modo, in un caso così chiaro, essi s’erano alzati dal seggio. Mandò un messo a dire loro, che se non si spicciavano subito, avrebbe aggiornata la Corte, e gli avrebbe chiusi a chiave tutta la notte. Così posti alla tortura, uscirono fuori, ma per dire che dubitavano se esistesse la reità. Jeffreys li rimproverò con veemenza; ed essi, dopo un’altra deliberazione, profferirono ripugnanti l’opinione che affermava la esistenza della colpa. Il dì seguente fu pronunciata la sentenza. Jeffreys ordinò che Lady Alice fosse arsa viva quel giorno stesso. Questo eccesso di barbarie mosse a pietà ed a sdegno anche i più ardenti partigiani della Corona. Il clero della Cattedrale di Winchester protestò dinanzi al Capo Giudice, il quale, comunque di brutale natura, non era così stolto da porsi al pericolo d’una contesa sopra tale subietto con una classe tenuta in tanta riverenza dal partito Tory. Consentì a differire a cinque giorni la esecuzione della sentenza. Nel qual tempo, gli amici della sventurata scongiurarono Giacomo a mostrarsi clemente. Varie dame d’alto grado intercessero per lei. Feversham, la cui influenza in Corte era cresciuta per la fresca vittoria, e che, come ne corse la voce, era stato comprato all’uopo, parlò a favore di Lady Alice. Clarendon, cognato del Re, orò slmilmente per lei. Ma tutto fu vano. Il più che potè ottenersi, fu che la condanna al fuoco venisse commutata con la decapitazione. La donna si sobbarcò con coraggiosa calma al proprio fato, e le fu mozzo il capo sul palco nel mercato di Winchester.[452] LV. Nell’Hampshire, Alice Lisle fu la sola vittima; ma il giorno che seguì alla sua decapitazione, Jeffreys giunse a Dorchester, città principale della Contea nella quale Monmouth era sbarcato, ed ebbe principio la strage giudiciale. Il tribunale, per ordine del Capo Giudice, fu parato di scarlatto; la qual novità parve al popolo indicare sanguinosi proponimenti. Si disse anche, che quando il prete il quale predicò in occasione dell’aprirsi della Corte, insistè sul dovere della misericordia, il Giudice sorrideva ferocemente digrignando i denti; la qual cosa fu tenuta a sinistro augurio di ciò che era per eseguire.[453] Trecento e più erano i prigioni ai quali doveva farsi il processo. La impresa pareva grave; ma Jeffreys aveva immaginato come renderla lieve. Fece intendere che l’unico mezzo di ottenere perdono o mitezza di pena, era il confessarsi colpevole. Ventinove individui, i quali confidavano nello spirito patrio, dichiarati convinti, furono senza alcun indugio legati insieme. Gli altri prigioni si confessarono rei a centinaia. Contro dugentonovantadue fu profferita sentenza di morte. Coloro che vennero impiccati nella Contea di Dorset furono settantaquattro. Da Dorchester Jeffreys si condusse ad Exeter. La guerra civile era giunta appena alle frontiere del Devonshire. Quivi, dunque, comparativamente poche furono le persone condannate a morire. La Contea di Somerset, sede precipua della ribellione, era stata serbata all’ultima e più tremenda vendetta. In quella Contea, dugentotrentatrè prigioni in pochi giorni furono impiccati, strascinati per le vie, e squartati. In ogni luogo dove due strade s’incrociassero, in ogni mercato, sul prato d’ogni grosso villaggio che avesse dati soldati a Monmouth, cadaveri in catene sbattuti dal vento, o teschi e membra confitti sui pali, attoscavano l’aria, e facevano inorridire i viandanti. In molte parrocchie, il contadiname non poteva ragunarsi nella casa di Dio, senza vedere il teschio del vicino digrignante i denti dal portico. Il Capo Giudice si trovava nel proprio elemento. Come procedeva l’opera di sangue, ei si sentiva rifare d’animo. Sghignazzava, mandava gridi di gioia, scherzava, bestemmiava da farsi credere da mattina a sera briaco. Ma in lui non era facile distinguere la frenesia prodotta dalle malvagie passioni, da quella cagionatagli da’ liquori spiritosi. Uno de’ prigioni protestò che i testimoni addottigli contro non erano degni di fede. Uno di loro, ei disse, era un papista, l’altro una prostituta. «Svergognato ribelle,» esclamò il Giudice «osi fare riflessioni sui testimoni del Re? Ti vedo, scellerato, già ti vedo col capestro al collo.» Un altro dichiarò d’essere buon protestante. «Protestante!» disse Jeffreys; «volete intendere presbiteriano; ci scommetterei. Io so fiutare un presbiteriano a quaranta miglia di distanza.» Un malarrivato uomo mosse a pietà anche i Tory più acerrimi. «Milord,» dissero eglino «questa povera creatura vive della carità della parrocchia.»—«Non pensate,» disse il Giudice «libererò io la parrocchia di cotesto carico.» Non erano solo i prigioni coloro che erano segno al suo furore. Gentiluomini e nobili di gran conto e d’intemerata lealtà, i quali provavansi di fargli conoscere qualche circostanza attenuante, erano quasi certi di ricevere ciò che egli, nello sconcio dialetto da lui imparato nelle osterie di Whitechapel, chiamava un colpettino con la parte aspra della sua lingua. A Lord Starnell, Pari Tory, il quale non potè frenare il ribrezzo ch’egli provava vedendo l’iniquissimo modo di macellare i suoi vicini, in punizione venne appeso alla porta del parco un cadavere in catene.[454] Da tali spettacoli ebbero origine molti terribili racconti, che gli agricoltori della Contea di Somerset solevano narrare col bicchiere colmo di sidro ai fuochi di Natale. Negli ultimi quaranta anni, i contadini, in alcune contrade, ben conoscevano i luoghi maledetti, e dopo il tramonto vi passavano mal volentieri.[455] Jeffreys gloriavasi d’avere impiccati più traditori egli solo, che non tutti insieme i suoi predecessori dal tempo della Conquista in poi. Certo è che il numero dei giustiziati da lui in un mese e in una Contea, sorpassò quello di tutti i delinquenti politici che sono stati giustiziati nell’isola nostra dalla Rivoluzione in qua. Le ribellioni del 1715 o del 1745, durarono più lungamente, e furono più estese e di più formidabile aspetto di quella che fu spenta in Sedgemoor. Non si è comunemente creduto che dopo la ribellione del 1715 e quella del 1745, la Casa di Hannover si mostrasse clemente. Eppure, tutte le esecuzioni capitali del 1715 e del 1745 congiunte insieme, parranno poche in confronto di quelle che infamarono il Tribunale di Sangue. Il numero dei ribelli impiccati in quella occasione da Jeffreys fu di trecento venti.[456] Tanta strage doveva disgustare chiunque, anche se quegli sciagurati fossero stati generalmente esosi. Invece, per la maggior parte, erano uomini di vita irreprensibile, e profondamente religiosi. Consideravano sè stessi, ed erano considerati da moltissimi loro vicini, non come malfattori, ma come martiri che suggellavano col proprio sangue la verità della religione protestante. Pochi de’ condannati si mostrarono pentiti del già fatto. Molti, animati dall’antico spirito puritano, andarono incontro alla morte, non solo con fortezza, ma con esultanza. Invano i ministri della Chiesa stabilita gli ammonivano intorno alla colpa della ribellione, e alla importanza della assoluzione del prete. La pretesa del Re ad autorità illimitata nelle cose temporali, e la pretesa del clero al potere spirituale di legare e di sciogliere, movevano a riso quegl’intrepidi settarii. Taluni di loro composero inni in prigione, e li cantavano sulla funebre treggia che li menava a guastare. Cristo—cantavano essi, mentre spogliavansi per patire il macello—sarebbe tra breve venuto in terra a redimere Sion, ed a far guerra a Babilonia; avrebbe innalzato il proprio vessillo, suonata la tromba, e reso ai suoi nemici dieci volte più quel male che era stato fatto ai suoi servi. Le estreme parole loro furono notate; le loro lettere d’addio serbate come tesori; ed in tal modo, mescendovi qualche invenzione o esagerazione, formossi un copioso supplemento al martirologio de’ tempi di Maria la Bevisangue.[457] LVI. È pregio dell’opera fare speciale menzione di alcuni casi. Abramo Holmes, ufficiale veterano dello esercito parlamentare, uno di quei zelanti che non vorrebbero altro Re che Re Gesù Cristo, era stato preso in Sedgemoor. Nel furore della battaglia gli era stato orribilmente fracassato un braccio, e non essendovi lì pronto un chirurgo, il robusto vecchio soldato se lo amputò da sè. Fu condotto a Londra, ed esaminato dal Re in Consiglio; ma non volle sottomettersi. «Io sono un uomo vecchio,» disse egli «e i giorni che mi rimangono a vivere non valgono il prezzo d’una bugia o d’un atto di viltà. Io sono stato sempre repubblicano, e lo sono ancora.» Fu rimandato alle contrade occidentali, ed ivi impiccato. Il popolo s’atterrì nel vedere che le bestie le quali dovevano trascinarlo alla forca, divennero restie e tornarono indietro. Holmes anch’egli dubitava l’Angelo del Signore, come nei tempi antichi, non istesse in sulla via con la spada in pugno, invisibile all’occhio umano, ma visibile a quello degli animali. «Fermate, signori,» egli esclamò «lasciatemi andare a piedi. In questo fatto si asconde più di ciò che voi pensate. Rammentatevi come l’asina vedesse colui che il profeta non poteva vedere.» Andò con piè fermo alla forca, sorridendo favellò al popolo, pregò fervidamente Dio perchè affrettasse la caduta dell’Anticristo e la liberazione della Inghilterra; salì la scala, e per iscusarsi che non saliva speditamente disse: «Voi lo vedete, io ho un braccio solo.»[458] LVII. Non meno animosamente morì Cristoforo Battiscombe, giovine avvocato di buona famiglia ed agiata, il quale in Dorchester, piacevole città di provincia, altera del gusto e della cultura che vi regnava, veniva da tutti ammirato come esempio del gentiluomo compito. Grande fu l’interesse a salvargli la vita. Si credeva in que’ luoghi, che fosse promesso sposo d’una giovine signora di gentile lignaggio, sorella dello Sceriffo; che ella si gettasse ai piedi di Jeffreys per implorare mercè, e che Jeffreys la cacciasse via con uno scherzo così osceno, che ripeterlo offenderebbe la decenza e l’umanità. Il suo amante patì la pena con pietà e coraggio in Lyme.[459] LVIII. Interesse anche maggiore destò la sorte di due valorosi fratelli, Guglielmo e Beniamino Hewling. Erano giovani, avvenenti, compiti, e bene imparentati. L’avo loro materno chiamavasi Kiffin; era uno de’ principali mercatanti di Londra, e generalmente considerato come capo dei Battisti. Jeffreys trattò nel Processo con insigne brutalità Guglielmo Hewling, dicendogli: «Voi avete un nonno che merita d’essere impiccato splendidamente al pari di voi.» Il povero giovanetto, che aveva soli diciannove anni, soffrì la morte con tanta mansuetudine e fortezza d’animo, che un ufficiale dell’armata, il quale assisteva alla esecuzione della sentenza, e s’era reso notevole per asprezza e severità, ne fu stranamente intenerito, e disse: «Non credo che il Lord Capo Giudice stesso potrebbe sostenere questo spettacolo.» Nutrivasi speranza che a Beniamino sarebbe concesso il perdono. E davvero, una vittima di teneri anni bastava allo strazio d’una sola famiglia. Lo stesso Jeffreys era, o simulava d’essere, proclive alla clemenza. Vero è che uno de’ suoi congiunti, dal quale egli sperava molto, e che perciò non poteva essere da lui trattato come generalmente lo erano gli altri intercessori, favellò vigorosamente a favore della derelitta famiglia. Fu quindi differita la esecuzione della sentenza, onde riferirsi a Londra. Una sorella del condannato andò con una supplica a Whitehall. Molti de’ cortigiani le desiderarono prospero successo; e Churchill, che fra i non pochi suoi falli non annoverava la crudeltà, ottenne che venisse ammessa alla presenza del sovrano. «Con tutto il cuore desidero che la vostra preghiera venga esaudita,» disse egli, mentre con la donna aspettava in anticamera. «Ma non v’illudete di speranze. Questo marmo» e toccò con la mano il caminetto «non è più duro del Re.» La predizione avverossi. Giacomo fu inesorabile. Beniamino Hewling morì con animo indomito fra i lamenti degli spettatori, ai quali non poterono frenarsi di fare eco i soldati che stavano schierati intorno alla forca.[460] LIX. Eppure, i ribelli dannati a morire erano meno degni di commiserazione, che coloro i quali rimasero in vita. Parecchi prigioni, ai quali Jeffreys non potè in nessuna guisa apporre il delitto di crimenlese, furono dichiarati rei di cattiva condotta, e condannati ad una fustigazione non meno terribile di quella inflitta ad Oates. Una donna, accusata di alcune sconsiderate parole quali erano state profferite da mezze le donne delle contrade dove infuriava la guerra, fu condannata ad essere flagellata in tutte le città di mercato della Contea di Dorset. Patì parte della pena innanzi che Jeffreys fosse ritornato a Londra; ma come egli più non fu nelle contrade occidentali, i carcerieri, con la caritatevole connivenza de’ magistrati, presero sopra di sè la responsabilità di non darle altre torture. Una sentenza anche più terribile fu profferita contro un giovinetto chiamato Tutchin, processato come reo di parole sediziose. Secondo il costume, il Giudice con detti osceni e scurrili lo interruppe mentre si difendeva: «Voi siete un ribelle; e tutta la vostra famiglia, da Adamo in qua, è stata di ribelli. Mi si dice che siate poeta; io rimerò versi con voi.» La condanna fu sette anni di prigionia, e la fustigazione, da infliggerglisi ciascun anno in tutte le città di mercato della Contea di Dorset. Le donne che trovavansi nelle gallerie, dettero in uno scoppio di pianto. L’istruttore del processo alzossi grandemente turbato, dicendo: «Milord, lo accusato è assai giovane; e molte sono le città di mercato nella Contea. La sentenza equivale ad una fustigazione ogni quindici giorni per sette anni.»—«Se egli è giovane d’anni,» disse Jeffreys «è vecchio di ribalderia. Donne, voi non conoscete bene, come lo conosco io, questo bricconcello. La pena non è nè anche metà di quella che meriterebbe. S’interessi anche tutta l’Inghilterra, nulla m’indurrà a mitigarla.» Tutchin in preda alla disperazione scongiurò, e forse con ischiettezza, lo impiccassero. Avventuratamente per lui, in quella occasione cadde malato di vajuolo, e fu lasciato libero. E posciachè pareva molto probabile che la sentenza non verrebbe mai eseguita, il Capo Giudice si indusse al perdono in compenso d’una grossa mancia che gettò il condannato in fondo alla miseria. L’indole di Tutchin, per lo innanzi non mite, fu esasperata fino alla frenesia per effetto di ciò ch’egli aveva sofferto. E’ visse per diventare uno de’ più virulenti e pertinaci avversari della Casa Stuarda e del partito Tory.[461] LX. Il numero de’ prigioni deportati da Jeffreys fu ottocento quarantuno. Costoro, assai più miseri de’ loro colleghi dannati a morte, furono distribuiti a branchi e concessi a persone godenti il favore della Corte. Le condizioni del dono, furono che i condannati verrebbero trasportati oltremare come schiavi, che non sarebbero emancipati per dieci anni, e che il luogo del loro confine fosse qualcuna delle isole dell’Indie Occidentali. Questa ultima condizione fu con sommo studio immaginata per accrescere la infelicità degli esuli. Nella Nuova Inghilterra o nella Nuova Jersey avrebbero potuto trovare una popolazione disposta a mitigare le loro miserie, ed un clima non isfavorevole alla salute ed alle forze loro. Fu quindi deliberato mandarli in quelle colonie nelle quali un puritano non avrebbe potuto aspettarsi di destare un poco di compassione, e dove un lavorante nato sotto la zona temperata avrebbe avuto poca salute. Ed erano tali le condizioni del traffico degli schiavi, che que’ nuovi infelici, non ostante la lunghezza del viaggio e le infermità in cui sarebbero probabilmente caduti, valevano molto. Jeffreys calcolò che, l’un per l’altro, pagate tutte le spese, valevano da dieci a quindici lire sterline ciascuno. E però ci furono molte ostinate contese a farseli concedere. Alcuni Tory delle contrade occidentali d’Inghilterra credettero d’avere, a cagione degli sforzi fatti e de’ danni sofferti nel tempo della insurrezione, diritto a essere partecipi degli utili che erano stati sollecitamente carpiti dai parassiti di Whitehall. Nondimeno i cortigiani la vinsero.[462] La sciagura degli esuli uguagliava appieno quella de’ Negli che oggidì vengono trasportati da Congo al Brasile. Da’ migliori documenti che finora si conoscano, risulta che la quinta parte di coloro che furono imbarcati, vennero, avanti che finisse il viaggio, gettati in pasto ai pesci. Questa mercanzia umana fu stivata nel fondo di piccoli legni. Così poco era lo spazio, che gl’infelici, molti de’ quali erano anche tormentati dalle ferite non per anche richiuse, non potevano tutti insieme giacere senza che l’uno si ponesse sull’altro. Non gli lasciavano mai venire sul ponte. I boccaporti erano sempre guardati da sentinelle armate di coltelli e di tromboni. In fondo alla nave tutto era tenebre, puzzo, lamenti, morbi e morte. Di novantanove condannati che trasportava una nave, ventidue morirono prima che giungessero alla Giamaica, quantunque il viaggio fosse fatto con insolita celerità. Quei che rimasero vivi, quando arrivarono al luogo del loro servaggio, avevano sembianza di scheletri. Per alcune settimane avevano avuto cattivo biscotto ed acqua fetida in così poca quantità, che sarebbe appena bastato ad uno solo quel tanto che doveva servire per cinque. Trovavansi quindi in tale stato, che un mercatante al quale erano stati affidati, reputò necessario, innanzi che li vendesse, ingrassarli.[463] LXI. Intanto, una folla di avidi delatori contrastavansi e dividevansi a brani le sostanze de’ ribelli che erano stati giustiziati, e degli altri infelicissimi che consumavansi sotto il sole del Tropico. Secondo la legge, un suddito condannato come reo di crimenlese, perde gli averi; la qual legge dopo il Tribunale di Sangue fu eseguita con un rigore crudele ad un’ora e ridicolo. Le sconsolate vedove e i miseri orfani de’ lavoranti i cui cadaveri erano appesi sui canti delle piazze, venivano intimati a comparire dinanzi agli agenti del Tesoro, perchè rendessero ragione di ciò che fosse divenuto di una cesta, d’un’oca, d’un pezzo di lardo, d’un fiasco di sidro, d’un sacco di fave, d’un mannello di fieno.[464] Mentre i piccoli impiegati del Governo spogliavano le famiglie de’ contadini giustiziati, il Capo Giudice rapidamente accumulava un patrimonio, saccheggiando l’alta classe de’ Whig. Faceva largo traffico di grazie. L’affare più lucrativo di questa specie ch’egli facesse, fu con un gentiluomo chiamato Edmondo Prideaux. È certo che Prideaux non aveva prese le armi contro il Governo; ed è probabile che il suo unico delitto fosse la ricchezza avuta in retaggio dal padre, illustre legale, che aveva occupato uffici eminenti sotto il Protettore. Jeffreys non lasciò intentato alcun mezzo per farlo comparire reo di tradigione. Offerse la grazia ad alcuni prigioni, a patto di testificare contro Prideaux. Questo sventurato giacque lungo tempo in carcere; e infine, vinto dal timore della forca, consentì a pagare quindici mila lire sterline, onde esserne liberato. Questa gran somma di danaro andò tutta nelle mani di Jeffreys; il quale comprò una terra, cui il popolo pose il nome di Aceldama, alludendo a quel campo maledetto che era stato comperato col prezzo d’un sangue innocente.[465] In questo lavoro d’estorsione, egli era abilmente aiutato dalla ciurma de’ parassiti che avevano costume di ubriacarsi e ridere con lui. L’ufficio di questi uomini era di mercanteggiare coi condannati vinti dal terrore della morte, e coi genitori tremanti per la vita de’ figli. Parte di questo bottino andava a Jeffreys. Dicesi, che con uno di questi compagnoni gozzovigliando, giuocasse la grazia di un ricco traditore. Non era senza pericolo il ricorrere ad altro intercessore che ai suoi cagnotti; perocchè egli era gelosissimo di codesto monopolio di clemenza. Altri sospettò perfino ch’egli avesse fatti impiccare taluni, soltanto perchè s’erano ingegnati d’ottenere la regia clemenza per vie indipendenti da lui.[466] LXII. Alcuni cortigiani, nondimeno, studiaronsi di partecipare alquanto di cotesto traffico. Le donne della corte della Regina si resero notevoli per rapacità e durezza di cuore. Parte del disonore da esse acquistato cade sulla loro signora; imperocchè solo per la relazione che avevano con essa poterono arricchirsi con quel turpe traffico; e non è dubbio che ella con una parola, con uno sguardo, avrebbe potuto frenarle. Invece, le inanimiva coi pessimo esempio, se non voglia credersi con espressa approvazione. Pare ch’ella fosse una delle molte creature che sostengono l’avversa meglio che la prospera fortuna. Mentre il suo marito era suddito ed esule, escluso dai pubblici uffici, e in presentissimo pericolo di perdere il diritto–al trono, con la soavità e la umiltà de’ modi ella rendeva a sè cortesi anche coloro che maggiormente abborrivano la religione di lei. Ma la sua buona indole scomparve appena la fortuna mutò aspetto. La mansueta ed affabile Duchessa divenne una sgraziata ed altera Regina.[467] Le sciagure che poi ebbe a patire, l’hanno resa obietto di qualche interesse; ma tale interesse si accrescerebbe non poco, ove alcuno potesse dimostrare che ella, nel tempo della sua grandezza, salvasse o almeno si provasse di salvare una sola vittima dalla più spaventevole proscrizione che sia mai stata in Inghilterra. Sventuratamente, la sola richiesta che si conosca fatta da lei rispetto ai ribelli, fu che le fossero donati cento di quelli condannati alla deportazione.[468] L’utile ch’ella ne trasse, computando quelli che nel viaggio morirono di fame o di febbre, non può estimarsi a meno di un migliaio di ghinee. Non possiamo, adunque, maravigliarci che le sue serve imitassero la sua avidità, indegna di una principessa; e la sua crudeltà, innaturale ad una donna. Richiesero mille lire sterline da Ruggiero Hoare, mercante di Bridgewater, che aveva contribuito alla cassa militare dell’armata ribelle. Ma la preda sopra la quale gettarono con maggiore avidità li artigli, fu tale, che anche i cuori più crudi se ne sarebbero astenuti. Già alcune delle fanciulle che avevano in Tauton offerta a Monmouth la bandiera, avevano crudelmente scontato il loro delitto. Una di loro era stata gettata in un carcere, dove una infermità contagiosa faceva strage. Ammalatasi, vi morì. Un’altra erasi presentata in tribunale dinanzi a Jeffreys implorando misericordia. «Portala via, carceriere,» urlò il Giudice, con uno di quegli atroci sguardi che spesso avevano atterrito animi più robusti che non era quello della malarrivata fanciulla. Ella dètte in uno scoppio di lacrime, si gettò il cappuccio sul viso; seguì il carceriere, e presa di spavento, dopo poche ore era freddo cadavere. La maggior parte, però, delle donzelle che erano andate in processione, viveva tuttavia. Alcune di esse non avevano nè anche dieci anni d’età. Tutte avevano agito secondo gli ordini della loro maestra di scuola, senza sapere che commettevano un delitto. Le dame di corte della Regina chiesero al Re licenza di estorcere danari dai genitori di quelle povere creature; e la licenza fu data. In Taunton giunse l’ordine di prendere e mettere in carcere tutte quelle tenere fanciulle. Sir Francesco Warre di Hestercombe, rappresentante Tory di Bridgewater, fu pregato di togliersi il carico di riscuotere il danaro del riscatto. Gli fu scritto di manifestare con vigorosi termini, come le dame di Corte non avrebbero patito indugio alcuno, e fossero deliberate di tradurre le colpevoli dinanzi al tribunale, se non veniva tosto sborsata una convenevole somma di danari, e per somma convenevole intendevano sette mila lire sterline. Warre ricusò di immischiarsi, menomamente in un affare così scandaloso. Le dame di corte allora si rivolsero a Guglielmo Penn, il quale accettò la commissione. Eppure parrebbe che un po’ di quel pertinace scrupolo ch’egli aveva spesso mostrato circa al togliersi il cappello di capo, non sarebbe stato fuori di luogo in simigliante occasione. Forse egli fe’ tacere i rimorsi della propria coscienza, ripetendo a sè stesso che nessuna parte della estorta pecunia rimarrebbe nelle sue mani; che ricusando egli il mandato delle dame, esse avrebbero trovato agenti meno umani; che compiacendole, avrebbe accresciuta la propria influenza in Corte: e che mercè tale influenza, egli aveva potuto e poteva ancora rendere grandi servigi ai suoi oppressi confratelli. Le dame d’onore, infine, furono costrette a contentarsi di meno del terzo della somma che avevano primamente richiesta.[469] Nessun sovrano inglese ha mai porto maggior prove d’indole feroce, di quel che facesse Giacomo II; e nondimeno, la sua crudeltà non era odiosa quanto la sua clemenza, o forse sarebbe più esatto il dire, che la clemenza e crudeltà sue erano tali da infamarsi vicendevolmente. Il ribrezzo che sentiamo alla sorte de’ semplici villani, de’ fanciulli, delle dame delicate, si accresce qualvolta ci facciamo a considerare a chi e per quali ragioni egli accordava il perdono. La regola secondo la quale un principe, dopo una ribellione, dovrebbe condursi nello scegliere i ribelli perchè siano puniti, è singolarmente chiara. Contro i capi, gli uomini cospicui per ricchezza e educazione, i quali con la potenza e le arti proprie abbiano indotta la moltitudine ad errare, il Governo deve mostrarsi dirittamente severo. Ma lo ingannato volgo, finita la strage sul campo di battaglia, è d’uopo che venga trattato con estrema clemenza. Questa regola, così manifestamente concorde alla giustizia ed alla umanità, non solo non venne osservata, ma fu invertita. Mentre coloro i quali si sarebbero dovuti mandare impuniti, venivano tratti a centinaia al macello, i pochi che si sarebbero potuti giustamente abbandonare allo estremo rigore della legge, erano risparmiati. Cotesta bizzarra clemenza ha resi perplessi alcuni scrittori, e ad altri è stato subietto di ridicoli elogi. Non era nè al tutto misteriosa, nè al tutto degna di lode: e può in ciascun caso attribuirsi ad una cagione sordida o ad una malefica, a sete di pecunia o a sete di sangue. LXIII. Nel caso di Grey non erano circostanze attenuanti. Per le sue doti, il suo sapere, il grado che per retaggio ei teneva nello Stato, e l’alto comando che aveva avuto nell’armata ribelle, sarebbe stato agli occhi d’un Governo giusto, obietto più meritevole di castigo di quello che fossero Alice Lisle, Guglielmo Hewling, o chiunque altri delle centinaia di contadini ignoranti, de’ quali i teschi e gli squartati corpi erano esposti nelle città della Contea di Somerset. Ma il patrimonio di Grey era grande, e rigorosamente ipotecato. Egli altro non aveva de’ suoi beni che una rendita vitalizia, e non poteva perdere più di ciò che fruiva. Se veniva punito di morte, le sue terre erano subito devolute allo erede prossimo. Se gli si concedeva il perdono, poteva pagare un grosso riscatto. Gli fu quindi concesso di redimersi, dando una scritta d’obbligo per quaranta mila lire sterline al Lord Tesoriere, ed altre somme minori ad altri cortigiani.[470] LXIV. Sir Giovanni Cochrane aveva tenuto fra i ribelli scozzesi il grado medesimo occupato da Grey nelle contrade occidentali d’Inghilterra. Che Cochrane fosse perdonato da un principe oltremodo vendicativo, pareva incredibile. Ma Cochrane era cadetto d’una ricca famiglia; non poteva, dunque, daini ottenersi danaro se non col salvargli la vita. Il padre suo, Lord Dundonald, offerse cinque mila lire sterline di mancia ai preti della casa reale; e la grazia fu conceduta.[471] Samuele Storey, rinomato seminatore di sedizioni, che era stato commissario nella armata ribelle, e con veementi arringhe, in cui Giacomo era descritto come incendiario ed avvelenatore, aveva infiammato l’ignorante popolaccio della Contea di Somerset, ottenne il perdono; imperocchè aiutò mirabilmente Jeffreys ad estorcere le quindici mila lire sterline a Prideaux.[472] Nessuno dei traditori aveva meno diritto a sperare grazia che Wade, Goodenough e Ferguson. Questi tre capi della ribellione erano fuggiti insieme dal campo di Sedgemoor, ed erano giunti salvi alla costa; ma avevano trovato una fregata in crociera presso il luogo dove speravano imbarcarsi. Si erano quindi l’uno dall’altro partiti. Wade e Goodenough, in breve tempo scoperti, furono menati a Londra. Comunque fossero stati profondamente implicati nella congiura di Rye House, comunque si fossero resi notevoli fra’ capi della insurrezione delle contrade occidentali, fu loro lasciata la vita, perchè potevano rivelare cose, onde il Re togliesse cagione ad uccidere e spogliare taluni ch’egli odiava, ma ai quali non aveva fino allora potuto trovare delitto da apporre.[473] In qual modo Ferguson fosse fuggito, fu, ed è tuttavia, un mistero. Di tutti gl’inimici del Governo, egli era, senza dubbio nessuno, il più reo. Era stato il primo macchinatore della congiura per assassinare Carlo e Giacomo. Aveva scritto il manifesto, che per insolenza, malignità e bugiarderia, non ha paragone fra i libelli di que’ procellosi tempi. Aveva incitato Monmouth prima ad invadere il Regno, e poi ad usurpare la corona. Era ragionevole credere che si sarebbe con ogni studio cercato l’arcitraditore, come spesso lo chiamavano; alle quali ricerche un uomo così singolare per aspetto e loquela mal poteva sottrarsi. Affermavasi con sicurezza nelle botteghe da caffè in Londra, che Ferguson fosse stato preso; notizia che fu creduta da uomini i quali avevano buoni mezzi di sapere il vero. Dopo, si seppe ch’egli era sano e salvo sul continente. Corse molto il sospetto che egli di continuo carteggiasse col Governo, contro cui di continuo macchinava congiure; che mentre incitava i suoi colleghi ad ogni eccesso d’imprudenza, desse a Whitehall tante notizie rispetto ai loro procedimenti, quante sarebbero potute bastare a salvargli la vita; e che perciò si fossero dati ordini a lasciarlo fuggire.[474] Jeffreys, compiuta l’opera, ritornò a chiedere il meritato premio. Giunse a Windsor, lasciandosi addietro strage, lutto e terrore. L’odio che gli portavano le genti della Contea di Somerset, è senza esempio nella storia nostra. Non fu spento dal tempo o da politici mutamenti, fu lungamente tramandato di generazione in generazione, e si sfogò ferocemente sopra la sua innocente progenie. Da molti anni era già morto, il suo nome e il suo titolo erano già estinti, allorchè la contessa di Pomfret, viaggiando per la strada d’occidente, fu insultata dalla plebe, e si accorse di non rimanere in sicurtà fra i discendenti di coloro che avevano veduto il Tribunale di Sangue.[475] Ma alla Corte, Jeffreys fu cordialmente accolto. Era il giudice tanto gradito al proprio signore. Giacomo aveva con interesse e diletto tenuto dietro alla missione di lui. Nelle sue sale ed a mensa aveva spesso favellato della devastazione che si stava facendo tra i suoi disaffezionati sudditi, con esultanza che rendeva attoniti i ministri stranieri. Di propria mano aveva scritto racconti di quella ch’egli, con frase faceta, chiamava la campagna del suo Lord Capo Giudice nelle contrade occidentali. Scrisse all’Aja, come parecchie centinaia di ribelli fossero stati condannati. Alcuni di loro erano già stati impiccati, altri lo sarebbero; i rimanenti verrebbero deportati alle piantagioni. Non giovò a nulla lo avere Ken scritto per implorare mercè al traviato popolo, e lo avere dipinto con commovente eloquenza l’orribile stato della propria diocesi. Lamentava come fosse impossibile procedere per le strade maestre senza vedere qualche terribile spettacolo, e come l’aria della Contea di Somerset fosse pregna di morte. Il Re lesse, e rimase, secondo il detto di Churchill, più duro del marmo de’ camini di Whitehall. LXV. A Windsor, il Gran Sigillo d’Inghilterra fu posto nelle mani di Jeffreys, e nel prossimo numero della Gazzetta di Londra fu solennemente annunziato che cosiffatto onore era la rimunerazione de’ molti insigni servigi da lui resi alla Corona.[476] In un periodo posteriore di tempo, allorquando gli uomini tutti di tutti i partiti parlavano con raccapriccio del Tribunale di Sangue, il malvagio Giudice e il Re malvagio provaronsi di scolparsi, gettandosi scambievolmente il biasimo addosso. Jeffreys, rinchiuso nella Torre, protestò che negli atti più feroci di crudeltà da lui commessi, non aveva travarcati gli ordini espressi del proprio signore; che anzi non gli aveva osservati con quella severità che gli era stata ingiunta. Giacomo, in Saint Germain, avrebbe voluto far credere ch’egli era stato inchinevole alla clemenza, e che la violenza del ministro gli aveva attirato sul capo un biasimo non meritato. Ma niuna di queste due anime crude può mandarsi assoluta, l’una a detrimento dell’altra. La falsità della scusa addotta da Giacomo è provata da ciò che scrisse di proprio pugno. Quella di Jeffrey, quando anche fosse vera in fatto, è estremamente indegna. La strage delle contrade occidentali era finita; quella di Londra era presso a cominciare. Il Governo singolarmente desiderava trovare vittime fra i grandi mercatanti Whig della Città. Nel regno precedente essi erano stati parte formidabile della potenza dell’Opposizione. Erano ricchi; e la loro opulenza non era, al pari di quella di molti nobili e gentiluomini di provincia, protetta da ipoteche contro la confisca. Nel caso di Grey, e d’altri uomini nella medesima condizione, era impossibile saziare ad un’ora la crudeltà e la rapacità; ma un ricco trafficante poteva essere mandato alle forche, e insieme spogliato. I grandi del commercio, nondimeno, ancorchè comunemente fossero ostili al papismo e al potere arbitrario, erano stati scrupolosi o timidi tanto, da non incorrere nel delitto d’alto tradimento. Uno de’ più considerevoli fra essi, era Enrico Cornish. Era stato Aldermanno quando la Città possedeva il suo antico statuto; teneva l’ufficio di Sceriffo mentre la questione della Legge d’Esclusione occupava le menti di tutti. In politica era Whig, in religione pendeva verso le opinioni presbiteriane; ma era d’indole cauta e temperata. Non è stato provato con testimoni di fede degni, ch’egli si spingesse mai fino all’orlo dell’alto tradimento, senza tuttavia gettarvisi dentro. Mentre era Sceriffo, gli aveva ripugnato l’animo a servirsi, come suo deputato, di un uomo irruente e immorale quale era Goodenough. Scoperta la congiura di Rye House, la Corte sperò grandemente di trovarvi implicato Cornish; speranze che andarono a vuoto. Uno de’ congiurati, a dir vero, cioè Giovanni Rumsay, era pronto a giurare ogni cosa; ma un solo testimone non fu riputato sufficiente, e un secondo non fu possibile trovare. Da quel tempo erano corsi due e più anni. Cornish si credeva sicuro, ma l’occhio del tiranno vegliava sopra di lui. Goodenough, atterrito dal prossimo spettacolo della morte, e scusando la propria malignità colla sfavorevole opinione in cui lo aveva sempre tenuto il suo antico padrone, assentì a fare la parte di quel testimone che fino allora non s’era potuto trovare. Cornish venne preso mentre negoziava alla Borsa, condotto in carcere, tenuto per alcuni giorni in istretta solitudine, e tratto senza essere punto preparato al tribunale di Old Bailey. L’accusa era interamente fondata sopra la testimonianza di Rumsay e di Goodenough. Entrambi, siccome essi medesimi confessarono, erano complici della congiura onde accusavano il prigione. Entrambi erano fortemente stimolati da speranza e timore ad incriminarlo. Furono addotti anche testimoni che provavano come Goodenough gli fosse nemico personale. La storiella che disse Rumsay, era incompatibile con quella ch’egli aveva raccontata allorquando comparve in tribunale a testificare contro Lord Russell. Ma queste ragioni furono addotte invano. Al banco sedevano tre giudici che avevano seguito Jeffreys nella sua missione di sangue alle contrade occidentali; e fu notato da coloro che ne osservavano il contegno, ch’essi erano tornati dalla strage di Taunton con feroce ed irritato animo. Egli è pur troppo vero che il gusto del sangue è un appetito che anco gli uomini di non crudele natura possono per abitudine agevolmente acquistare. La barra e il seggio si congiunsero ad atterrire il malfortunato Whig. I Giurati, eletti dal cortigiano Sceriffo, decisero di leggieri esistere la colpa; e, malgrado il mormorare dello indignato pubblico, Cornish fu fatto morire dieci giorni dopo essere stato imprigionato. E perchè fosse intera la degradazione, la forca fu innalzata dove King Street si congiunge con Cheapside di faccia alla casa nella quale quell’infelice, riverito da tutti, era lungamente vissuto; voglio dire di faccia alla Borsa, dove egli aveva sempre avuto immenso credito, ed al Guildhall, dove s’era reso cospicuo come capo popolare. Ei morì animosamente, profferendo molte pie parole; ma co’ gesti e con lo sguardo mostrò tale forte risentimento per la barbarie ed ingiustizia onde era stato trattato, che i suoi nemici sparsero una vile calunnia, dicendo come egli fosse ubriaco o fuori di sè allorquando venne condotto al patibolo. Guglielmo Penn, nondimeno, che stava presso alla forca, e i cui pregiudizi erano tutti a favore del Governo, affermò poscia di non avere veduto nel contegno di Cornish null’altro che la indignazione naturale d’un uomo innocente, tratto al macello con forme legali. La testa dell’assassinato magistrato fu posta sopra il Guildhall.[477] LXVI. Per quanto iniquo fosse il riferito caso, non era l’iniquissimo de’ tanti che infamarono le sessioni autunnali di quell’anno in Old Bailey. Fra gl’implicati nella congiura di Rye House, era un uomo chiamato Giacomo Burton. Per confessione propria, s’era trovato presente allorchè i suoi compiici avevano discusso intorno al disegno d’assassinio. Scoperta la congiura, fu promesso un premio a chi lo avesse arrestato. Ei venne salvato da morte da una vecchia matrona, di nome Elisabetta Gaunt, che professava le dottrine de’ Battisti. Questa donna, con le maniere e le frasi peculiari alla sua sètta, era armata di un grande spirito di carità. Spendeva la vita a soccorrere gl’infelici di qualunque opinione religiosa si fossero, ed era ben conosciuta come colei che di continuo andava visitando le carceri. Le opinioni politiche e teologiche, non che la inchinevolezza alla commiserazione, la indussero a fare tutto ciò che potè a fine di salvare Burton. Provvide che una barca lo trasportasse a Gravesend, dove s’imbarcò sopra un legno che andava ad Amsterdam. Nel partirsi, ella gli pose in mano una somma di denari, che, rispetto ai suoi mezzi, era assai grande. Burton, dopo d’essere vissuto lungo tempo in esilio, ritornò con Monmouth in Inghilterra, pugnò in Sedgemoor, fuggì a Londra, ed ebbe asilo in casa di Giovanni Fernley, barbiere in Whitechapel. Fernley era poverissimo. Sapeva che un premio di cento lire sterline era stato offerto dal Governo per la cattura di Burton. Ma l’onesto uomo era incapace di tradire colui che nell’estremo pericolo aveva trovato ricovero sotto il suo tetto. Sventuratamente si sparse la voce, che Giacomo era maggiormente rigoroso contro coloro i quali davano ricetto ai ribelli, che contro i ribelli stessi. Aveva pubblicamente dichiarato, che di tutte le specie di crimenlese, quella di sottrarre i traditori alla sua vendetta, era la più imperdonabile. Burton lo seppe; si diede nelle mani del Governo, accusando Fernley ed Elisabetta Gaunt come rei di averlo ricoverato ed aiutato a fuggire. Furono tratti al tribunale. Lo scellerato al quale avevano salvata la vita, ebbe cuore e faccia di comparire come precipuo testimone contro loro. Dichiarati convinti, Fernley fu condannato alla forca, Elisabetta Gaunt al fuoco. Anche dopo gli orribili fatti di quell’anno, molti credevano impossibile che coteste sentenze si mandassero ad esecuzione. Ma il Re fu senza pietà. Fernley venne impiccato. Elisabetta Gaunt fu arsa viva in Tyburn il dì medesimo nel quale Cornish fu tratto a morte in Cheapside. Lasciò un foglio, scritto, a dir vero, in istile non leggiadro, ma tale che fu letto da migliaia di persone con commiserazione e raccapriccio. «Il mio fallo» diceva essa «è stato tale da essere perdonato da un principe. Altro non ho fatto che aiutare una povera famiglia, ed ecco! è forza ch’io muoia per avere ciò fatto.» Querelavasi della insolenza de’ giudici, della ferocia del carceriere, e della tirannia del maggiore di tutti, al piacere del quale essa e tante altre vittime erano state immolate. Perdonava le ingiurie che le erano state da loro fatte; ma come implacabili nemici di quella buona causa, che pure sarebbe risorta e trionferebbe, li abbandonava al giudizio del Re dei Re. Fino allo estremo mantenne forte e tranquillo l’animo: il che rammentò agli spettatori le più eroiche morti di cui avevano letta la descrizione nel libro di Fox. Guglielmo Penn, che, a quanto pare, piacevasi sommamente di quegli spettacoli che gli uomini d’indole mite comunemente sogliono schivare, da Cheapside, dove aveva veduto impiccare Cornish, corse in fretta a Tyburn per vedere ardere Elisabetta Gaunt. Riferì poscia, che come ella si pose con calma a disporre la paglia in guisa che il suo patire fosse più breve, a tutti gli astanti scoppiarono le lagrime. Fu notato che mentre compivasi il più iniquo assassinio giudiciale che avesse infamato que’ tristissimi tempi, si sfrenò tale una procella, che non ve n’era mai stata un’altra somigliante dopo quel grande uragano che aveva infuriato mentre giaceva sul letto di morte Oliviero. Gli oppressi Puritani contarono, non senza trista soddisfazione, le case atterrate, le navi sbalzate dall’impeto della procella; e sentivano alquanto racconsolarsi pensando che il cielo mostrasse spaventevoli segni della ira sua contro la iniquità che affliggeva la terra. Da quel terribile giorno in poi, nessuna donna in Inghilterra ha patita la pena di morte per delitto politico.[478] LXVII. Ciò che Goodenough aveva fatto, non fu reputato bastevole a meritarsi la grazia. Il Governo voleva ancora una vittima di non alta condizione; un chirurgo, cioè, di nome Bateman. Aveva, come tale, servito Shaftesbury, ed erasi mostrato zelante Esclusionista. Forse era stato anche partecipe del segreto della congiura Whig; ma gli è certo, lui non essere stato uno de’ precipui congiurati; perocchè nella congerie delle deposizioni pubblicate dal Governo, il suo nome si incontra una volta sola, e non implicato in nessun delitto che toccasse l’alto tradimento. Dal suo atto d’accusa, e dalla relazione che ci rimane intorno al suo processo, chiaro si deduce che non gli venne mai apposta la colpa di avere partecipato al disegno di assassinare i due reali fratelli. La malignità con che un uomo cotanto oscuro, reo di sì lieve fallo, venne perseguitato, mentre a traditori assai più rei e bene altrimenti notevoli fu conceduto redimersi testificando contro lui, sembrava richiedere spiegazione; e una spiegazione disonorevole fu data. Allorchè Oates, dopo la patita flagellazione, fu portato privo di sensi, e come tutti pensavano, nell’estrema agonia, a Newgate, Bateman gli aveva cavato sangue e fasciate le ferite. E questo fu per lui delitto imperdonabile. I testimoni addottigli contro, erano uomini di tristissima fama; i quali, inoltre, giuravano ciò che veniva loro ingiunto, a fine di salvare la propria vita. Nessuno di loro aveva fino allora ottenuto il perdono; e il popolo soleva dire che essi pescavano la preda, come corvi di mare, con la corda al collo. Il prigione, istupidito dal sentirsi male, non potè proferire parola, o intendere ciò che accadeva. Il figlio e la figlia di lui gli stavano accanto sul banco degli accusati. Lessero, come meglio poterono, alcuni appunti ch’egli aveva notati, ed esaminarono i testimoni. E tutto fu invano. Bateman fu dichiarato convinto, impiccato e squartato.[479] LXVIII. Giammai, nè anche sotto la tirannia di Laud, le condizioni de’ Puritani erano state deplorabili come in quel tempo; giammai le spie erano state così affaccendate a scoprire ragunanze; giammai i magistrati, i grandi Giurati, i rettori e i sorvegliatori delle chiese erano stati così vigilanti. Molti Dissenzienti furono citati dinanzi le Corti ecclesiastiche. Ad altri era forza comprare la connivenza degli agenti del Governo con doni di fiaschi di vino, e di guanti pieni di ghinee. Riusciva impossibile ai Separatisti ragunarsi insieme a pregare, senza usar cautele simili a quelle che adoperano i coniatori di monete false, e i ricettatori di robe rubate. Cangiavano spesso il luogo dell’adunanza. Gli uffici divini talvolta facevansi innanzi lo spuntare del giorno, tal’altra nel cuore della notte. Attorno all’edifizio dove stavasi raccolto il piccolo gregge, ponevano sentinelle a dare lo annunzio se vedevano appressarsi una persona estranea. Il ministro travestito veniva introdotto per il giardino e la corte di dietro. In alcune case vi erano uscì invisibili, per i quali, in caso di pericolo, egli se ne sarebbe potuto andare. Se accadeva che i Non–Conformisti abitassero in case contigue, le pareti erano spesso forate, in guisa che vi fosse secreta comunicazione di casa in casa. Non cantavano salmi, e adoperavano diversi ingegni a impedire che la voce del predicatore, negl’istanti di fervore, fosse udita oltre le pareti. Non ostanti tutte coteste cautele, tornava impossibile eludere la vigilanza dei delatori. Ne’ suburbii di Londra, segnatamente, la legge veniva eseguita col massimo rigore. Vari ricchi gentiluomini furono accusati di tenere conventicoli. Inquisironsi minutamente le loro case, e furono fatti sequestri equivalenti alla somma di molte migliaia di lire sterline. I settarii più fieri ed audaci, così cacciati dalle case, ragunavansi all’aria aperta, deliberati di opporre forza alla forza. Un giudice di Middlessex che aveva saputo esservi una ragunanza di settari in un renaio, prese seco un numeroso branco di agenti di polizia, piombò sopra l’assemblea e pose le mani addosso al predicatore. Ma la congrega che era composta di circa duecento uomini, liberò tosto il pastore, ponendo in fuga il magistrato e i suoi uomini.[480] Simili fatti, nondimeno, non accadevano d’ordinario. Generalmente parlando, lo spirito puritano non era stato mai, ne’ tempi anteriori o posteriori, con tanta efficacia domato, come lo fu in quell’anno. I libellisti Tory vantavansi come nessuno de’ fanatici osasse muovere la lingua o la penna a difendere le proprie opinioni religiose. I Ministri Dissenzienti, comunque fossero uomini egregi per dottrina e doti d’animo, non potevano rischiarsi a passeggiare per le vie, temendo di patire oltraggi; i quali non solo non erano repressi, ma venivano promossi da coloro che avevano debito di tutelare la pace. Alcuni teologi di gran fama, fra’ quali Riccardo Baxter, erano sepolti in carcere. Altri, e fra essi Giovanni Howe, i quali per venticinque anni s’erano mantenuti intrepidi contro l’oppressione, si persero d’animo, ed abbandonarono il Regno. Gran numero di gente, assuefatta ad intervenire alle conventicole, andava alle parrocchie. E fu notato che gli scismatici, i quali dal terrore erano stati costretti a uniformarsi al culto del Governo, potevano di leggieri distinguersi alla difficoltà che avevano a trovare le collette nel libro delle preghiere, ed alla mal destra maniera onde chinavano il capo al nome di Gesù.[481] Per lunghi anni, lo autunno del 1685 fu ricordato dai Non–Conformisti come tempo di calamità e di terrore. Nulladimeno, in quell’autunno si sarebbero potuti discernere i primi lievi indizi di un gran mutamento di fortuna; e innanzi che scorressero diciotto mesi, lo intollerante Re e la Chiesa intollerante mostravansi, a vicendevole rovina, ansiosi di procacciarsi il soccorso del partito al quale entrambi avevano recato cotanto male. FINE DEL VOLUME PRIMO. NOTE: [1] In questo e nel seguente Capitolo rarissime volte ho reputato necessario di citare autorità di scrittori; perocchè in questi Capitoli non ho descritti minutamente gli avvenimenti, e adoperati materiali reconditi; e i fatti che rammento sono in gran parte tali, che chi conosce anche non molto la storia d’Inghilterra, ove non li sapesse equamente estimare, saprebbe per lo meno dove ricorrere per sincerarsene. Ne’ Capitoli susseguenti indicherò studiosamente le fonti alle quali ho ricorso. [2] Queste cose vengono magistrevolmente esposte da Hallam nel primo capitolo della sua _Storia Costituzionale_. [3] Sentiamo il dovere di avvertire una volta per sempre i nostri lettori, onde non dimentichino mai che l’autore inglese del presente libro è protestante; e quindi, comunque si mostri imparzialissimo e superiore alle passioni di setta, dipingendo a tratti brevi e filosofici il lacrimevole periodo delle lotte religiose nella Gran Bretagna, manifesta delle dottrine non conformi alla nostra religione cattolica. Tralasciamo di apporre delle annotazioni, prima perchè questa essendo un’opera storica, non può essere un trattato di controversia religiosa; e poi perchè ricorrono spontanee alla mente d’ogni lettore le risposte con le quali la Chiesa ha vittoriosamente combattute e respinte le opinioni de’ protestanti. (_L’Editore_.) [4] Vedi un documento singolarissimo che Strype credeva scritto di mano di Gardiner. _Ecclesiast. Memor._, Lib. II, c. 17. [5] Sono precise parole di Cranmer. Vedi l’Appendice alla _Storia della Riforma_, di Burnet; Parte I, Lib. III, N. 21; Questione 9. [6] Neale, storico puritano, dopo d’avere riprovata la crudeltà con che Elisabetta trattò la setta alla quale egli apparteneva, conclude in questa guisa: «La regina Elisabetta, malgrado tutti cotesti falli, sarà sempre rammentata qual principessa savia e politica, per avere liberato il proprio Regno dalle difficoltà in cui trovavasi involto al suo avvenimento al trono; per avere serbata la Riforma protestante contro i vigorosi attentati del papa, dello Imperatore e del Re di Spagna al di fuori, e contro la Regina di Scozia, e i suoi sudditi papisti al di dentro ... Fu gloria del suo secolo, e sarà sempre l’ammirazione de’ posteri.» _Storia dei Puritani_, Part. I, cap. 8. [7] Giuseppe Hall, a que’ tempi decano di Worcester, e poi vescovo di Norwich, era uno de’ commissarii. Nella vita ch’egli scrisse di sè, dice: «La mia indegnità fu nominata come uno degli assistenti di quell’onorevole, grave e reverenda ragunanza.» Ai seguaci dell’Alta Chiesa siffatta umiltà parrà non poco fuor di luogo. [8] Peckard, _Vita di Ferrar.—– Il monastero Arminiano, ovvero Breve Descrizione del luogo dello il Monastero Arminiano a Little Gidding, nella Contea di Huntingdon_, 1641. [9] Parmi che dal carteggio di Wentworth si raccolga chiaramente ciò che ho affermato nel testo. Ricopiare tutti i luoghi che mi hanno condotto alla conclusione surriferita, sarebbe impossibile; nè sarebbe agevole farne una scelta migliore di quella che è stata già fatta da Hallam. Esorto, non pertanto, il lettore a consultare il documento che concerne gli affari del Palatinato, in data del dì 31 marzo 1637, e che fu dettato dallo stesso Wentworth. [10] Sono parole di Wentworth. Vedi la sua Lettera a Laud, in data del 16 decembre 1631 [11] Vedi il suo rapporto a Carlo per l’anno 1639. [12] Vedi la sua lettera al conte di Northumberland, io data del 30 luglio 1630. [13] Quanto poco entrasse in ciò la compassione per l’orso, è provato a sufficienza dalle seguenti parole, estratte da una scrittura che porta per titolo: _A perfect diurnal of some Passages of Parliament, and from other Parts of the Kingdom, from Monday July 24th., to Monday July 31th. 1643._ «La regina, venendo dall’Olanda, condusse seco, oltre una compagnia di uomini brutali, una compagnia di orsi selvaggi, a qual fine lo giudicherete da ciò che sono per dire. Codesti orsi erano tenuti intorno a Newark, ed erano condotti costantemente alle città di provincia nel giorno di domenica per farli tormentare: tale è la religione che ci si vorrebbe imporre; e se alcuno avesse osato astenersi da siffatte abominevoli profanazioni, o anche parlarne contro, veniva subito notato per Testa–Rotonda o Puritano, ed era sicuro d’essere spogliato. Ma alcuni soldati del colonello Cromwell venuti a caso alla città di Uppingham in Rutland, la domenica trovarono gli orsi, che, secondo il costume, si facevano giuocare; li presero, li legarono ad un albero, e con gli archibugi li uccisero.» Questo esempio non è solo. Il colonello Pride, quando era sceriffo di Surrey, ordinò che le bestie del serraglio di Southwark si uccidessero. Uno scrittore satirico gli pone in bocca le seguenti parole, con cui si sforza di difendere quell’atto: «La prima cosa che mi pesa sull’anima è l’uccisione degli orsi; per la quale il popolo mi odia, e mi carica di mille ingiurie e vituperii. Ma David non uccise egli un orso? Il Lord Deputato Ireton non uccise anch’egli un orso? Un altro de’ nostri Lordi non uccise cinque orsi?» _Ultimo discorso e parole di Tommaso Pride, dette dal letto di morte_. [14] «_Romping under the mistletoe._» La frase esprime una costumanza inglese, e non ha corrispondente in italiano, e quindi riesce inintelligibile. In Inghilterra, ne’ giorni di Natale, appendono alla soffitta d’una stanza un ramo di cotesta pianta parassita, che cresce sui tronchi degli alberi; e per parecchi giorni vi tripudiano, o fanno baccano sotto. (_Nota del Traduttore._) [15] Abbiamo adoperato il vocabolo generico _giuochi_, perchè la parola _hockey_, che usa l’autore e significa un giuoco speciale, non ha corrispondente in italiano. Questo giuoco consiste in questo che i giuocatori si dividono in due opposte falangi; ciascuna delle quali, con bastoni ricurvi nella punta, si studia di spingere una palla verso una meta posta in direzione contraria di quella degli avversari ec. (_Nota del Traduttore._) [16] Vedi l’opera di Pen intitolata: _Nuovi Testimonii provati essere Vecchi Eretici_; e le opere di Muggleton, _passim_. [17] Il Mercoledì in inglese si dice _Wednesday_, che secondo alcuni significa _giorno d’Odino_. (_Nota del Traduttore._) [18] Con questo nome chiamavasi uno strumento di tortura adoperato in Iscozia; perchè era a foggia di uno stivale di ferro, che adattavasi alle gambe de’ martoriati, e stringevasi con una vite fino a dirompere le ossa. (_Nota del Traduttore._) [19] La cosa più notevole che fosse detta intorno a questo subietto nella Camera de’ Comuni, uscì dalle labbra di Sir Guglielmo Coventry: «I nostri antenati non tirarono mai una linea a circonscrivere la prerogativa e la libertà.» [20] A celebrare la memoria della condanna capitale di Carlo I, alcuni repubblicani mangiavano una testa di vitello. Ne nacque quindi un’associazione che assunse il nome notato nel testo. (_Nota del Traduttore._) [21] Da quanto è detto nel testo, argomentasi che io reputo Halifax, autore, o almeno uno degli autori, del _Carattere di un Barcamenante_, che un tempo corse sotto il nome del suo congiunto Sir Guglielmo Conventry. [22] _Mob_ vale folla, e Johnson la fa derivare dalla voce latina _mobile_.—_Sham_, che secondo lo stesso scrittore deriva dal vocabolo gallese _shommi_, significa inganno, impostura. (_Nota del Traduttore._) [23] _Esame di North_, VII, 574. [24] Uno de’ Pari che trovavasi presente, ha descritto lo effetto della eloquenza di Halifax con parole che io riporterò, perocchè, quantunque siano da lungo tempo a stampa, sono probabilmente conosciute da pochi anche fra i più curiosi e diligenti lettori della storia: «I nemici del Duca che sostenevano la legge, erano uomini eloquentissimi e forniti di egregie doti: ma sorse ad oppugnarla un nobile Lord, il quale, quel giorno, per vigoria di parola, per ragioni, per argomenti tratti da ciò che potesse concernere gl’interessi pubblici e privati degli uomini, per onore, coscienza, grado, superò se stesso ed ogni altro; e finalmente rimase vittorioso, abbattendo lo spirito e la malizia della parte avversa.» Questo brano è tratto da una Memoria di Enrico Conte di Pietroburgo, in un volume intitolato «_Brevi Genealogie_ di Roberto Halstead», in folio, 1685. Il nome di Halstead è fittizio. I veri autori furono il Conte di Pietroburgo stesso, e il suo cappellano. Questo libro è estremamente raro. Ne furono stampali soli ventiquattro esemplari: due de’ quali ora si trovano nel Museo Britannico; uno apparteneva a Giorgio IV; l’altro al signor Grenville. [25] Di ciò si fa memoria in un’opera curiosa intitolata: _Ragguaglio della solenne comparsa fatta a Roma gli otto di gennaio 1687 dall’illustrissimo ed eccellentissimo signor conte di Castlemaine._ [26] _Esame di North_, 69. [27] Lord Preston, il quale era inviato in Parigi, scrisse di là ad Halifax le seguenti cose: «Mi accorgo che la Signoria vostra continua sempre nella sciagura di non essere bene accetto in questa Corte; e il signor Barillon non ardisce farvi buon viso dacchè il suo signore vi guarda in cagnesco. Conosco bene i meriti della Signoria vostra; ne hanno timore, e perciò vi odiano: siate sicuro, milord, se tutta la loro forza bastasse a mandarvi a Rufford, l’adoprerebbero a tal fine. Due sono gli addebiti che vi dànno; la segretezza e la incorruttibilità. Lo so, perchè ne hanno parlato.» La data della lettera è del 5 ottobre N. S. 1683. [28] _Osservazioni sulle liste di mortalità_, del capitano Giovanni Graunt (sir Guglielmo Petty), cap. XI. [29] «Comprende un milione e cinquecentomila che passano la vita in essa.» (_Bellezze della Gran Brettagna_, 1671.) [30] Isacco Vossio, _De magnitudine urbium Sinarum_, 1685. Vossio, secondo che narra Saint Evremond, parlava di questo subbietto più spesso e più a lungo di quel che le culte brigate ne volessero intendere. [31] King, _Osservazioni Naturali e Politiche_, 1696. Questo pregevole trattato, che dovrebbe leggersi nella forma in cui fu scritto dall’autore, e non come è stato raffazzonato da Davenant, si trova in alcune edizioni dei _Computi_ di Chalmers. [32] Dalrymple, _Appendice alla Parte II_, Lib I. Il costume di computare la popolazione per sètte, fu lungo tempo di moda. Gulliver dice del Re di Brobdignag: «Egli rise alla mia strana aritmetica, come gli piacque di chiamarla, nell’indagare il numero della nostra popolazione, facendone un computo dalle diverse sètte religiose e politiche, che sono fra noi.» [33] Prefazione alle Liste della popolazione del 1831. [34] _Statutes_, 14, Car. II cap. 22; 18 e 19, Car. II, cap. 3; 29 e 30, Car. II, cap. 2. [35] Nicholson e Bourne, _Discorso sullo antico Stato della Frontiera_, 1777. [36] Gray, _Diario di un Viaggio ai Laghi_, 3 ottobre 1769. [37] North, _Vita di Guildford_. Hutchinson, _Storia di Cumberland, parrocchia di Brampton_. [38] Vedi il _Diario_ di Sir Walter Scott, 7 ottobre 1827, nella _Vita_ che ne scrisse Lockhart. [39] Darlymple, _Appendice alla Parte II_, lib. I. Il computo dell’imposta sui focolari conduceva, a un dipresso, alla medesima conclusione. I focolari nella provincia di York non erano neanche un sesto di quelli di tutta l’Inghilterra. [40] Naturalmente, qui non pretendo di essere esatto; ma credo che chiunque si voglia prendere l’incomodo di paragonare gli ultimi computi dell’imposta sui focolari di Guglielmo III col censimento del 1841, verrà ad una conclusione non molto diversa dalla mia. [41] Nella Biblioteca di Pepys esistono alcune ballate di quei tempi intorno alla imposta sui camini. Ne recherò uno o due brani:— «Le buone vecchierelle, ogni qualvolta spiavano l’esattore della tassa dei camini, affrettavansi a porre ne’ loro nascondigli pentole e vasi di terra. Non v’è una vecchia fra dieci—cercate per tutta la nazione—la quale, se le parlate dell’esattore, non gli mandi una o due maledizioni.» E di nuovo: «Come soldati saccheggiatori, essi (gli esattori) entravano nelle case e rapivano le sostanze de’ poverelli, mentre i miseri fanciulli impauriti piangevano: il che non mitigava punto il loro insolente orgoglio.» Nel Museo Britannico, esistono alcuni versi triviali, composti sul medesimo soggetto e col medesimo spirito: «Se anche la tassa non è pagata, malgrado la povertà, per crudeltà strappano via l’unico letto, sopra cui il povero uomo riposa il suo capo stanco, e lo privano ad un’ora del suo riposo e del suo pane.» Colgo il destro, il primo che mi si faccia innanzi, di dichiararmi grato alla cortesia e liberalità, con cui il Maestro e il Vice–Maestro del Collegio della Maddalena di Cambridge mi hanno dato accesso alle pregevoli Raccolte di Pepys. [42] Le principali autorità di cui mi servo per queste nozioni intorno alle Finanze; si trovano nei _Giornali de’ Comuni_, 1 e 20 marzo 1688–89. [43] Vedi, a modo d’esempio, la pittura della terrazza di Malborough, nell’_Itinerarium Curiosum_ di Stukeley. [44] Chamberlayne, _Stato dell’Inghilterra_, 1684. [45] 13 e 14, Car. II, cap. 3; 15 Car. II, cap. 4. Chamberlayne, _Stato dell’Inghilterra_, 1684. [46] Dryden, nel suo _Cimone ed Ifigenia_, esprime, con la sua consueta acutezza ed energia, i sentimenti di moda negli adulatori di Giacomo II. «La contrada risuona all’intorno d’alte grida, e la rozza milizia brulica su per i campi; bocche senza mani, mantenute con gravi spese, e che non per tanto sono un carico in tempo di pace, e una debole difesa in tempo di guerra. Una volta il mese marciano intrepidi; banda tumultuosa, e sempre, fuorchè in tempo di bisogno, pronta. Ciò era la mattina, quando, uscendo alla guardia ordinati, rendevano immagine di armati apparecchiati ad una breve prova; e poi correvano ad ubriacarsi: il che forma la loro occupazione giornaliera.» [47] Equivale a _Bufali_. [48] La maggior parte dei materiali di cui ho fatto uso nel descrivere le milizie regolari, si trova nei _Ricordi storici dei Reggimenti_, pubblicati per ordine del Re Guglielmo IV, e sotto la direzione dell’Aiutante Generale. Vedi anche Chamberlayne, _Stato dell’Inghilterra_, 1684; _Compendio della Disciplina Militare Inglese, stampato per ordine speciale_, 1688; _Esercizi di Fanteria per ordine delle Loro Maestà_, 1690. [49] Mi riporto ad un dispaccio di Bonrepaux a Seignelay, in data dell’8 (o 18) febbraio 1686. Fu ricopiato per Fox negli Archivii francesi, durante la pace d’Amiens; e, con gli altri materiali raccolti da quel grande uomo, affidato a me dalla cortesia di Lady Holland defunta, e dell’attuale Lord Holland. Dovrei aggiungere che anche fra mezzo ai disturbi che di recente hanno sconvolta Parigi, non ho incontrata difficoltà ad ottenere, dalla liberalità di que’ funzionari, estratti per supplire a certe lacune che trovansi nella collezione di Fox. [50] Le mie nozioni rispetto alla condizione della marina di quel tempo, sono attinte principalmente agli scritti di Pepys. La relazione ch’egli nel 1684 presentò a Carlo II, a quanto credo, non è stata mai pubblicata. Il manoscritto trovasi nel Collegio della Maddalena di Cambridge. Nel medesimo Collegio trovasi anche un altro pregevole manoscritto, contenente una minuta descrizione degli stabilimenti marittimi del paese nel dicembre del 1684. _La Memoria concernente lo stato della Real Marina per lo spazio di dieci anni, fino a Dicembre 1688_, scritta da Pepys, e il suo diario e carteggio, durante la sua missione a Tangeri, sono a stampa; e me ne sono molto servito. Vedi parimente Sheffield, _Memorie_; Teonge, Diario; Aubrey, Vita di Monk; la _Vita di Sir Cloudesley Shovel_, 1708; _il Giornale dei Comuni, 1 e 20 marzo 1688–89_. [51] Chamberlayne, _Stato dell’Inghilterra_, 1684; _Giornale dei Comuni_, 1º marzo, e 20 marzo 1688–89. Nel 1833 fu deliberato, dopo una esatta indagine, di tener sempre in pronto cento settanta mila barili di polvere: regola che è anche oggi osservata. [52] Sembra dai ricordi dell’Ammiragliato, che agli ufficiali di bandiera fosse concessa la mezza paga nel 1668, e ai Capitani di prima e seconda classe non prima del 1674. [53] Warrant, ne’ _Ricordi dell’Ufficio della Guerra_, in data del 26 marzo 1678. [54] Evelyn, _Diario_, 27 gennaio 1682. Ho veduto un atto munito del sigillo privato in data del 17 maggio 1683, che conferma la testimonianza di Evelyn. [55] Giacomo II spedì inviati in Spagna, Svezia e Danimarca: nondimeno, lui regnante, le spese diplomatiche ascendevano a poco più di 30,000 sterline l’anno. Vedi il _Giornale dei Comuni_, 20 marzo 1688–89. Chamberlayne, _Stato dell’Inghilterra_, 1684, 1687. [56] Carte, _Vita di Ormond_. [57] Pepys, _Diario_, 14 febbraio 1668–69. [58] Vedi il Rapporto della causa di Bath e Montagne, che fu decisa dal Lord Cancelliere Somers nel decembre del 1593. [59] Per nove mesi dell’anno, cominciando dal Natale del 1679, le rendite della Sede di Canterbury venivano riscosse da un ufficiale nominato dalla Corona; i conti del quale oggidì esistono nel Museo Britannico (Mss. Lansdowne 885). La rendita lorda di que’ nove mesi non arrivava a quattromila sterline; e la differenza tra la rendita lorda e la netta era evidentemente considerevole. [60] King, _Conclusioni Naturali e Politiche_. Davenant, _Bilancia del Traffico_. Sir Guglielmo Temple dice: «Le rendite della Camera dei Comuni di rado hanno sorpassato quattrocentomila lire sterline.» _Memorie_, Parte III. [61] Langton, _Conversazioni con Hale_, 1672. [62] _Giornale dei Comuni_, 27 aprile 1689. Chamberlayne, _Stato dell’Inghilterra_, 1684. [63] Vedi i _Viaggi del Granduca Cosimo_. [64] King, _Conclusioni Naturali e Politiche_. Davenant, Bilancia del Traffico. [65] Vedi l’_Itinerarium Angliæ_, 1675, di Giovanni Ogilby, Regio Cosmografo. Descrive gran parte del paese come boscoso, incolto e pieno di rocce, e paludoso d’ambe le parti. In alcune delle sue Carte topografiche, le strade a traverso i luoghi chiusi sono descritte da linee, e quelle a traverso i luoghi non chiusi sono segnate con punti. La parte de’ luoghi non chiusi, i quali, seppure erano coltivati, dovevano esserlo pessimamente, sembra essere stata grandissima. Da Abington fino a Gloucester, per modo d’esempio, che forma un tratto di quaranta o cinquanta miglia, non v’era un solo campo chiuso, e appena un solo tra Biggleswade e Lincoln. [66] Grandi copie di questi importantissimi disegni esistono nella bella raccolta legata da Grenville al Museo Britannico. [67] Evelyn, _Diario_, 2 giugno 1675. [68] Vedi White, _Selborne_; Bell, _Storia dei Quadrupedi dell’Inghilterra_; _Ricreazione del Gentiluomo_, 1686; Aubrey, _Storia Naturale della Contea di Wilt_, 1685; Morton, _Storia della Contea di Northampton_, 1712; Willougby, _Ornitologia_, 1678; Latham, _Sinopsi Generale degli Uccelli_; Sir Tommaso Browne, _Descrizione degli Uccelli che si trovano in Norfolk_. [69] Il sacco inglese (_quarter_) corrisponde a 8 staia toscane. (_Nota del Traduttore._) [70] King, _Conclusioni Naturali e Politiche_. Davenant, _Bilancia del traffico_. [71] Vedi gli _Almanacchi_ del 1684 e 1685. [72] Vedi M’. Culloch, _Statistica dell’Impero Britannico_, Parte III, cap. 1, sez. 6. [73] King e Davenant, luogo citato. Il Duca di Newcastle, _Della Equitazione; Ricreazione del Gentiluomo_, 1686. Il possedere «cavalle stornelle di Fiandra» era argomento di grandezza ai tempi di Pope, ed anche dopo. Il proverbio comune che la cavalla grigia è la migliore, originò, come credo, dalla preferenza che davasi generalmente alle cavalle grigie delle Fiandre sopra i migliori cavalli da carrozza di razza inglese [74] Vedi una nota curiosa di Tonkin nel libro di Carew, intitolato _Considerazioni su Cornwall_, edizione di Lord De Dunstanville. [75] Borlase, _Storia Naturale di Cornwall_, 1758. La quantità del rame che oggi si estrae, è stata da me desunta dalle relazioni fatte al Parlamento. Davenant, nel 1700, stimava il prodotto annuo di tutte le miniere dell’Inghilterra ad una somma tra sette o otto cento mila sterline. [76] _Transazioni Filosofiche_, N. 23, Nov. 1669; N. 66, Dic. 1670; N. 103, Mag. 1674; N. 156, Feb. 1683–84. [77] Yarranton, _Progressi dell’Inghilterra per terra e per mare_, 1677; Porter, _Progresso della Nazione_. Vedi anche una breve storia, notevolmente perspicua, de’ lavori di ferro dell’Inghilterra in M’. Culloch, _Statistica dello Impero Britannico_. [78] Misura di carbone, equivalente a trentasei moggia. (_Nota del Trad._) [79] Vedi Chamberlayne, _Stato dell’Inghilterra_, 1684, 1687; _Angliæ Metropolis_, 1691; M’. Culloch, _Statistica dello Impero Britannico_, parte III, cap. 2 (ediz. del 1847). Nel 1845, la quantità del carbone trasportato a Londra, come si deduce dalle relazioni parlamentari, fu di 3,460,000 tonnellate. [80] Ho attinte le mie idee intorno al gentiluomo di provincia del secolo decimosettimo a così gran numero di fonti, da non esser possibile citarle tutte. È forza ch’io lasci la mia descrizione al giudizio di coloro che hanno studiata la storia e l’amena letteratura di quel tempo. [81] Vedi Heylin, _Cyprianus Anglicus_. [82] Eachard, _Cagioni del dispregio del Clero_; Oldham, _Satira diretta ad un amico sul punto di lasciare l’Università_; _Tatler_, 255, 258. Che il Clero Inglese fosse composto d’individui di bassa nascita, è notato nei viaggi del Granduca Cosimo, Appendice A. [83] «A causidico, medicastro, ipsâque artificum farragine ecclesiæ rector aut vicarius contemnitur et fit ludibrio. Gentis et familiæ nitor sacris ordinibus pollutus censetur: fœminisque natalitio insignibus unicum inculcatur sæpius præceptum, ne modestiæ naufragium faciant, aut (quod idem auribus tam delicatulis sonat) ne clerico se nuptas dari patiantur.» _Angliæ Notitia_ di Tommaso Wood di New College; Oxford, 1686. [84] _Vita di Clarendon_, II. 21. [85] Vedi le _Ingiunzioni_ del 1559, nella raccolta del Vescovo Sparrow. Geremia Collier, nel suo _Saggio sopra l’orgoglio_, parla di questa ingiunzione con un’acrimonia, che prova come il suo proprio orgoglio non fosse ancora domo. [86] Ruggiero ed Abigail, nella _Donna Sprezzante_ di Fletcher; Bull e la Balia, nella _Ricaduta_ di Vanbrough; Smirk e Susanna, nelle _Streghe della Contea di Lancaster_ di Sadwell, possono servire d’esempio. [87] Swift, _Avvertimenti ai Servi_. [88] Questa distinzione fra clero rurale e clero cittadino, è positivamente notata da Eachard, e salta agli occhi di chiunque abbia studiata la storia ecclesiastica di quell’età. [89] Nelson, _Vita di Bull_. Intorno alla estrema difficoltà che incontrava il clero di provincia a procurarsi libri, vedi la _Vita di Tommaso Bray_, fondatore della Società per la propagazione del Vangelo. [90] «L’ho (_Dryden_) spesso udito confessare con compiacenza, che s’egli aveva qualche maestria nella prosa, la doveva allo avere spesso letti gli scritti dello Arcivescovo Tillotson.» Congreve, _Dedica dei Drammi di Dryden_. [91] Leggi contro le riunioni legittime. (_Nota del Traduttore._) [92] Ho adottato l’estimo di Davenant, che è poco più basso di quello di King. [93] Evelyn, _Diario_, 27 giugno 1654; Pepys, _Diario_, 13 giugno 1668; Ruggiero North, _Vite del Lord Cancelliere Guildford, e di Sir Dudley North_; Petty, _Aritmetica Politica_. Ho adottato i fatti di Petty, ma nel farne le deduzioni, ho seguito Hing e Davenant; i quali, quantunque non avessero maggiore abilità di lui, avevano il vantaggio di essere a lui posteriori di tempo. Intorno al mestiere di raccogliere e trafugare uomini, che rendeva infame il nome di Bristol, vedi North, _Vita di Guildford_, 121, 216, e l’arringa di Jeffreys su tale subietto, nella _Storia imparziale della sua vita e morte_, stampata ne’ _Bloody Assizes_. Il suo stile era usualmente aspro; ma non posso annoverare fra i delitti ascrittigli la sua invettiva contro i magistrati di Bristol. [94] Fuller, _Personaggi celebri_; Evelyn, _Diario_, 17 ottobre 1671; Giornale di E. Browne, figlio di Sir Tommaso Browne, gennajo 1663–64; Blomefield, _Storia di Norfolk; Storia della città e Contea di Norwich_, 2 vol. 1768. [95] Pare che la popolazione di York, secondo le liste de’ battesimi e delle morti, nella _Storia_ di Drake, fosse, nel 1730, circa 13,000. Exeter aveva solo 17,000 abitanti nel 1801. La popolazione di Worcester fu numerata tosto innanzi l’assedio del 1646. Vedi Nash, _Storia della Contea di Worcester_. Ho tenuto conto dell’aumento che deve supporsi esservi seguito nello spazio di quaranta anni. Nel 1740, la popolazione di Nottingham era, giusta l’enumerazione fattane, di 10,000 anime. Vedi la _Storia_ di Dering. Qual fosse la popolazione di Gloucester, potrebbe dedursi dal numero delle case, che King trovò nelle liste della imposta sui fuochi, e dal numero delle nascite e morti, che è riportato nella _Storia_ di Atkyns. La popolazione di Derby era di 4000 anime nel 1712. Vedi la _Storia_ Ms. di Wolley, citata nella _Magna Britannia_ di Lyson. La popolazione di Shrewsbury fu numerata nel 1695. Intorno alle delizie di Shrewsbury, vedi l’_Ufficiale Reclutatore_ di Farquhar. La descrizione che ne fa questo scrittore trovasi in una ballata, esistente nella Biblioteca di Pepys, ed ha l’intercalare «Shrewsbury for me.» [96] Blome, _Britannia_, 1673; Aikin _Il Paese attorno Manchester; Direttorio di Manchester_, 1845; Baines, _Storia della manifattura di Cotone_. Le migliori notizie che io abbia potuto trovare rispetto alla popolazione di Manchester nel secolo decimosettimo, si contengono in una scrittura del Reverendo R. Parkinson, pubblicata nel _Giornale della Società Statistica_, ottobre 1842. [97] Thoresby, _Ducatus Leodensis_; Whitaker, _Loidis and Elmete_; Wardell, _Storia Municipale del Borgo di Leeds_. [98] Hunter, _Storia della Contea di Hallam_. [99] Blome, _Britannia_, 1673; Dugdale, _La Contea di Varwick_; Nort, _Esame_, pag. 321, Prefazione all’_Assalonne ed Achitofel_; Hutton, _Storia di Birmingham_; Boswell, _Vita di Johnson_. Nel 1690, le morti di Birmingham furono 150; le nascite 125. Reputo probabile che la mortalità annua fosse poco meno di uno in ogni venticinque individui. In Londra era considerevolmente maggiore. Uno storico di Nottingham, mezzo secolo dopo, vantava la straordinaria salubrità della città propria, dove la mortalità annua era in proporzione di uno a trenta. Vedi Dering, _Storia di Nottingham_. [100] Blome, _Britannia_; Gregson, _Antichità della Contea Palatina e del Ducato di Lancaster_, Parte II; _Petizione di Liverpool_, nel Libro del Consiglio Privato, 10 maggio 1686. Nel 1690, le morti in Liverpool furono 151, le nascite 120. Nel 1844, la entrata netta delle dogane di Liverpool fu di 4,365,526 lire sterline, 1 scellino e 8 soldi. [101] Atkyns, _Contea di Gloucester_. [102] _Magna Britannia_; Grose, _Antichità_; New Brightelmstone Directory, 1770. [103] _Viaggio nella Contea di Derby_, di Tomaso Browne, figlio di Sir Tommaso. [104] Vedi Wood, _Storia di Bath_, 1749; Evelin, _Diario_, 27 giugno 1654; Pepys, _Diario_, 12 giugno 1668; Stukeley, _Itinerarium curiosum_; Collinson, _Contea di Somerset_; Dottor Peirce, _Storia e Memorie di Bath_, 1713, lib. I, cap. 8, osser. 2, 1684. Ho consultato varie carte topografiche e pitture di Bath, in ispecie una carta curiosa, che è circondata dalle vedute de’ principali edificii. Ha la data del 1717. [105] Secondo King, 530,000. [106] Macpherson, _Storia del Commercio_; Chalmers; Chamberlayne, _Stato dell’Inghilterra_, 1684. Il tonnellaggio dei piroscafi appartenenti al porto di Londra alla fine del 1847 era di 60,000 tonnellate. La somma media, dal 1842 al 1845, che incassava la Dogana del porto, era di 11,000,000. [107] Lisson, _Dintorni di Londra_. I battesimi in Chelsea, tra il 1680 e 1690, erano quarantadue l’anno. [108] Cowley, _Discorso intorno la Solitudine_. [109] Le notizie più ampie e più degne di fede inforno alla condizione degli edificii di Londra verso questo tempo, ritrovansi nelle carte topografiche e nei disegni esistenti nel Museo Britannico, e nella Biblioteca di Pepys. Della cattiva fattura de’ mattoni delle fabbriche di Londra, è fatto speciale ricordo ne’ Viaggi del Granduca Cosimo. Nello _Esploratore di Londra_ di Ward, vi è una relazione de’ lavori della chiesa di San Paolo. Mi vergogno quasi di citare un così nauseante cicaleccio; ma mi è stato forza scendere, se pure è possibile, anche più basso, per raccogliere materiali. [110] Evelyn, _Diario_, 20 settembre 1672. [111] Ruggiero North, _Vita di Sir Dudley North_. [112] North, _Esame_. Questo piacevole scrittore ci ha conservato un esempio dei voli sublimi ai quali abbandonavasi il Pindaro della Città: «Il venerando Sir Giovanni Moor! Dopo secoli adorisi tal nome!» [113] Chamberlayne, _Stato dell’Inghilterra_, 1684; _Angliæ Metropolis_, 1690; Seymour, _Londra_ 1734. [114] Inigo Jones è uno dei più celebri architetti inglesi. (_Nota del Trad._) [115] North, _Esame_, 116. Wood, _Ath, Ox. Shaftesbury. La litania_ del Duca di Buckingam. [116] _Viaggi del Granduca Cosimo_. [117] Chamberlayne, _Stato dell’Inghilterra_ 1684; Pennant, _Londra_; Smith, _Vita di Nollekens_. [118] Evelyn, _Diario_, 10 ottob. 1683; 19 gennajo 1685–86. [119] _Stat._ I di Giac. II, c. 22; Evelyn, _Diario_, 7 dicembre 1684. [120] Il vecchio Generale Oglethorpe, morto nel 1785, aveva il costume di vantarsi d’avere in quel luogo ucciso degli uccelli sotto il regno di Anna. Vedi Pennant, _Londra_; e il _Magazzino del Gentiluomo_, luglio 1785. [121] Il campo della peste potrà vedersi nelle carte topografiche di Londra, anche in quelle edite verso la fine del regno di Giorgio I. [122] Vedi una curiosissima pianta di Covent Garden, fatta nel 1690, e incisa per la Storia di Westminster scritta da Smith. Vedi altresì il Mattino dipinto da Hogarth, allorquando le case della Piazza erano tuttavia abitate dai gentiluomini. [123] _Lo Esploratore di Londra_; Maso Brown, _Vedute comiche di Londra e di Westminster_; Turner, _Proposta per impiegare i poveri_, 1678; _Corriere Quotidiano_, e _Giornale Quotidiano_, 7 giugno 1733; _Causa tra Michael ed Allestree_ nel 1676, 2 Levinz., pag 172. Michael era stato pesto da due cavalli che Allestree domava in Lincoln’s Inn Fields. La dichiarazione stabiliva che l’accusato «_porta deux chivals ungovernable en un coach, et improvide, incaute, et absque debita consideratione ineptitudinis loci la eux drive pur eux faire tractable et apt pur un coach, quels chivals, pur ceo que, per leur ferocite, ne poient estre rule, curre sur le plaintiff et le noie_.» [124] Stat. 12 di Gior. I, c. 25; _Giornale dei Comuni_, 25 febbraio, 2 marzo 1725–26; _Il Giardiniere di Londra_, 1712; _Evening Post_, 25 Marzo 1731. Non mi è riuscito di trovare questo numero del Giornale _Evening Post_: però lo cito sulla fede di Malcolm, che lo rammenta nella sua _Storia di Londra_. [125] _Lettres sur les Anglois_, scritte ne’ primi anni del regno di Guglielmo III; Swift, _City Shower_; Gay, _Trivia_. Johnson aveva costume di riferire un colloquio che egli ebbe con sua madre intorno al cedere o a prendere il muro. [126] Oldham, _Imitazione della Satira III di Giovenale_, 1682; Shadwell, _Scourers_, 1690. Molte altre autorità incontrerà di leggieri chiunque conosca la letteratura popolare di quella e della susseguente generazione. Potrebbe sospettarsi che alcuni dei _Tityre Tus_, da buoni Cavalieri, rompessero le finestre di Milton poco dopo la Restaurazione. Io credo ch’egli pensasse a que’ malanni di Londra allorquando dettò quei versi: «Nelle splendide città, quando lo strepito delle contese e dei danni e degli oltraggi giunge alle loro più alte torri, e quando la notte intenebra le vie, i figli di Belial gavazzano trasportati dal vino e dalla insolenza.» [127] _Angliæ Metropolis_, 1690, sez. 17, che ha per titolo: _Intorno alla nuova luce_; Seymour, _Londra_. [128] Stowe, _Sguardo sopra Londra_; Shadwell, _Lo Scudiere d’Alsazia_; Ward, _L’Esploratore di Londra; Stat._ 8 e 9 di Gugliel. III, cap. 27. [129] Vedi il racconto che fa Sir Ruggiero North del modo con cui Wright fu fatto giudice, e il racconto di Clarendon sul modo con cui Sir Giorgio Savile fu fatto Pari. [130] Le fonti alle quali ho attinto le mie nozioni intorno alla Corte, sono sì numerose, che mal si potrebbero citare. Fra esse giova indicare i _Dispacci_ di Barillon, di Van Citters, di Ronquillo e d’Adda; i _Viaggi del Granduca Cosimo_, i _Diarii_ di Pepys, di Evelyn e di Teonge; e le _Memorie_ di Grammont e di Reresby. [131] La principale caratteristica di questo dialetto consisteva in ciò, che in moltissime parole la _O_ si pronunciava come _A. Stork_, a modo d’esempio, era pronunciato _Stark_. Vedi Vanbrugh, _La Ricaduta_. Lord Sunderland era gran maestro di questo tono cortigiano, come lo chiama Ruggero North; e Tito Oates lo affettava, sperando di passare per un egregio gentiluomo. _Esame_, 77, 254. [132] Non è d’uopo richiamare l’attenzione del lettore alla ironia della frase. Dai precedenti capitoli si sarà accorto come l’autore senza distinzione di opinioni politiche e religiose renda giustizia a tutti, anzi si mostri severissimo contro i protestanti fanatici. (_Nota dell’Editore_). [133] _Lettres sur les Anglois; Viaggi_ di Maso Brown; Ward, _Esploratore di Londra; La natura di una Bottega da Caffè_, 1673; _Regolamenti ed ordini della Bottega del Caffè_, 1674; _La Bottega del Caffè difesa_, 1675; _Satira contro il Caffè_; North, _Esame_, 138; _Vita di Guildford_, 152; _Vita di Sir Dudley North_, 149; _Vita del Dottor Radcliffe_ pubblicata da Curll nel 1715. La più viva descrizione del Caffè Will si trova nel _Topo da città e da campagna_. Vi è un tratto notevole intorno alla influenza degli oratori delle botteghe da caffè, nelle _Brevi Genealogie_ di Halstead, stampate nel 1685. [134] Il testo dice _cockney_, vocabolo che non può avere in italiano l’equivalente. In Londra si chiamano _cockney_ coloro che sono nati ed abitano presso _Bow Church_, e si suppone che non siano mai usciti dal ricinto della _City_, e che uscendo fuori si maravigliano di tutto, in guisa da rendersi ridicoli. Fra le mille storielle che si narrano per mettere in caricatura (ci si perdoni la frase) il _Cockney_, dicesi che uno di loro andando a caccia, uccidesse un’upupa o un barbagianni in un cimitero, e tornasse costernato a casa credendo di avere morto un cherubino. (_Nota del Traduttore._) [135] _Centuria d’Invenzioni_, 1663, nº 68. [136] North, _Vita di Guildford_, 136. [137] Thoresby, _Diario_, 21 ottobre 1680, 3 agosto 1712. [138] Pepys, _Diario_, 12 e 16 giugno 1668. [139] Ibidem, 28 febbrajo 1660. [140] Thoresby, _Diario_, 17 maggio 1695. [141] Ibidem, 27 dicembre 1708. [142] _Viaggio nella Contea di Derby_, di G. Browne, figlio di Sir Tommaso Browne, 1662. Cotton _Angler_, 1676. [143] _Carteggio_ di Enrico Conte di Clarendon, 30 Dicembre 1685, 1 Gennajo 1686. [144] Postlethwaite, _Vocabol._ alla parola Strade. _Storia di Hawkhurst_, nella _Bibliotheca Topographica Britannica_. [145] _Annali della Regina Anna_, 1703: Appendice, nº 3. [146] 15 di Car. II, c. 1. [147] Gl’inconvenienti del vecchio sistema vengono esposti mirabilmente in molte petizioni, che trovansi nel _Giornale dei Comuni_ del 1725–26. In quanto alle violente opposizioni che incontrò il sistema nuovo, veggasì il _Magazzino del Gentiluomo_ del 1749. [148] Postlethwaite, _Vocabol._ alla parola _Strade_. [149] _Loidis and Elmete._ Marshall, _Economia rurale dell’Inghilterra_. Nel 1739, Roderico Random andò da Scozia a Newcastle sopra un cavallo da basto. [150] Cotton, _Epistola a G. Bradshaw_. [151] Anthony à Wood, _Vita scritta da lui stesso_. [152] Chamberlayne, _Stato dell’Inghilterra_, 1684. Vedi anche la lista delle carrozze e dei vagoni da viaggio, in fine del libro intitolato: _Angliæ Metropolis_, 1690. [153] Giovanni Cresset, Ragioni per sopprimere le carrozze da viaggio, 1672. Tali ragioni vennero poi inserite in uno scritto intitolato: _Il grande interesse dell’Inghilterra spiegato_, 1673. L’opposizione di Cresset alle vetture da viaggio provocò alcune risposte, da me consultate. [154] Chamberlayne, _Stato dell’Inghilterra_, 1684; North, _Esame_, 105; Evelyn, _Diario_, 9 e 10 ottobre 1671. [155] Vedi la _Gazzetta di Londra_, 14 maggio 1677, 4 agosto 1687, 5 dicembre 1687. L’ultima confessione di Agostino King (figlio d’un illustre teologo, e educato in Cambridge), che nel marzo del 1688 fu impiccato a Gloucester, è sommamente curiosa. [156] «_Aimwell_. Di grazia, signore, non v’ho già veduto al Caffè Will? _Gibbet_. Sì, signore, e anche a quello di Wite»—Beaux, _Stratagemma_. [157] Gent, _Storia di York_. Un altro ladrone della medesima specie, chiamato Biss, fu nel 1695 impiccato in Salisbury. In una ballata che trovasi nella Biblioteca di Pepys, viene rappresentato in questa guisa: «Che direte voi ora, mio onorevole Signore? Che male c’è egli in ciò? Il bravo ed animoso Biss altro non ha fatto che aborrire i ricchi e gli avari opulenti.» [158] Pope, _Memorie di Duval_, pubblicate poco dopo l’esecuzione della sentenza. Oates _Εἰχών Βασιλχη_, Part. I. [159] Vedi il Prologo ai _Racconti di Cantorbery_ di Chauser; Harrison, _Descrizione storica dell’Isola della Gran Brettagna_; e il racconto che fa Pepys del suo viaggio fatto nella state del 1668. Della superiorità delle Locande inglesi è fatta memoria nei _Viaggi del Granduca Cosimo_. [160] _Stat_. 12 di Car. II, c. 35; Chamberlayne, _Stato dell’Inghilterra_, 1684; _Angliæ Metropolis_, 1690; _Gazzetta di Londra_, 22 giugno 1685, 15 agosto 1687. [161] _Gazzetta di Londra_, 14 settembre 1685. [162] Smith, _Notizie Correnti_, 30 marzo e 3 aprile 1680. [163] _Angliæ Metropolis_, 1690. [164] _Giornale de’ Comuni_, 4 settembre 1660, 1 marzo 1688–89; Chamberlayne, 1684; Davenant, _Della Rendita pubblica_, Discorso IV. [165] Gazzetta di Londra, 5 e 17 maggio 1680. [166] Nel Museo Britannico trovasi una curiosa, e, a quel ch’io ne penso, unica collezione di cotesti giornali. [167] Per modo d’esempio, non è pur motto nella Gazzetta intorno agli importantissimi atti parlamentari del novembre 1685, o intorno al processo e all’assoluzione de’ sette vescovi. [168] Ruggiero North, _Vita, del dottor Giovanni North_. Intorno alle lettere di notizie, vedi l’_Esame_, 133. [169] Colgo questa occasione per esprimere la mia gratitudine alla famiglia del mio diletto ed onorando amico Sir Giacomo Mackintosh, per avermi confidati i materiali da lui raccolti quando meditava un lavoro simigliante a quello che io ho intrapreso. Non ho mai veduto, e credo che altrove non esista, una sì pregevole collezione di documenti tratti dagli archivi pubblici e privati. Il giudicio con che Sir Giacomo, nelle grandi masse delle più rozze materie storiche, scelse l’utile e lasciò da parte l’inutile, può meritamente apprezzarsi solo da chi dopo lui abbia lavorato nella medesima miniera. [170] _Vita di Tommaso Gent_. Un compiuto catalogo di tutte le stamperie esistenti nel 1724, trovasi negli _Aneddoti Letterarii del secolo decimottavo_, di Nichols. In pochi anni il numero si era grandemente accresciuto; e nonostante, v’erano trentaquattro contee prive di tipografi, ed una di esse era quella di Lancaster. [171] Per la intelligenza di questo vocabolo, vedi a pag. 228. (_Nota del Traduttore._) [172] Per la intelligenza di questo vocabolo vedi, a pag. 235. (_Nota del Traduttore._) [173] L’_Osservatore_, 29 e 31 gennaio 1685; Calamy, _Vita di Baxter_; _Memoriale non–conformista_. [174] Sembra che Cotton, a quanto ricavasi dal suo _Angler_, avesse collocata tutta la sua biblioteca nel vano d’una finestra: e Cotton era un letterato. Allorchè Franklin nel 1724 visitò per la prima volta Londra, non vi si conoscevano biblioteche circolanti. Della folla de’ lettori nelle botteghe de’ librai, fa menzione Ruggiero North nella Vita di Giovanni suo fratello. [175] Basta un solo esempio. La regina Maria aveva commendevoli doti naturali, era stata educata da un vescovo, amava la storia e la poesia, e da uomini veramente illustri era considerata come donna illustre. Nella biblioteca dell’Aja esiste una bellissima Bibbia inglese, che fu presentata a lei nel dì della sua incoronazione nella Abbadia di Westminster. Nel frontespizio si vedono le seguenti parole scritte di sua propria mano: «_This book was given the King and I, at our crownation_. MARIE R.» [176] Ruggiero North racconta, come suo fratello Giovanni, che era professore di greco in Cambridge, lamentasse amaramente la ignoranza della lingua greca nel clero dell’Università. [177] Butler, in una satira pungentissima, dice: «Quantunque lo intarsiare ne’ loro discorsi parole greche e latine venga reputata vanagloriosa rettorica di pedanti, imperlarli di frasi francesi è cosa meritoria.» [178] L’esempio più notevole che mi corra alla memoria è in un poemetto di Dryden sopra la coronazione di Carlo II. Dryden di certo non poteva addurre la scusa di povertà della lingua per usare parole tratte da qualsifosse favella straniera: «Quivi nelle sere estive voi accorrete per gustare la fraicheur dell’aria più pura.» [179] È una sètta che crede Adamo essere stato predestinato a peccare; ed e opposta alla sètta de’ Sublapsarii, che ammettono la contraria opinione. (_Nota del Traduttore._) [180] Per l’allusione di questo vocabolo, che metaforicamente vale _parola d’ordine_, o di riconoscimento, vedi la Bibbia, _Giudici_, Lib. XII, 6. (_Nota del Traduttore._) [181] Geremia Collier, con la sua solita forza ed acrimonia, ha inveito contro siffatto odioso costume. [182] Il contratto trovasi nella edizione di Dryden, fatta da Sir Walter Scott. [183] Vedi la _Vita di Southern_, scritta da Shiels. [184] Vedi Rochester, _Infortunii de’ Poeti_. [185] _Saggio intorno alla scena inglese_. [186] Shiels, _Vita di Southern_. [187] Se a qualche lettore le mie espressioni paressero troppo severe, lo consiglierei a leggere l’_Epilogo_ di Dryden al _Duca di Guisa_, e notare che era recitato da una donna. [188] Vedi, in ispecie, l’_Oceana_ di Harrington. [189] Vedi Sprat, _Storia della Società Reale_. [190] Cowley, _Ode alla Società Reale_. [191] «Allora anderemo sino allo estremo confine del globo, e vedremo l’ocèano pendere sul cielo: di là noi conosceremo i nostri rotanti vicini, ed esamineremo con sicurezza il mondo lunare.» _Annus Mirabilis_, 164. [192] North, _Vita di Guildford_. [193] Pepys, _Diario_, 30 maggio 1667. [194] Io credo che Buttler fosse il solo uomo di vero genio, il quale tra la Restaurazione e la Rivoluzione mostrasse amara avversione alla nuova filosofia, come allora chiamavasi. Vedi la satira contro la Società Reale e l’Elefante nella Luna. [195] La sollecitudine onde gli agronomi di quella età facevano esperimenti a migliorare l’arte, è ben descritta da Aubrey, _Storia naturale della Contea di Wilt_, 1685. [196] Sprat, _Storia della Società Reale_. [197] Walpole, _Aneddoti intorno alla Pittura_; _Gazzetta di Londra_, 31 marzo 1683. North, _Vita di Guildford_. [198] Dei gran prezzi con che furono pagate le opere di Varelst e di Verrio, è fatto ricordo da Walpole negli _Aneddoti intorno la Pittura_. [199] Petty, _Aritmetica politica_. [200] _Stat._ 5. di Elis., c. 4. _Archeologia_, vol. XI. [201] Riccardo Dunning, _Metodo chiaro e facile che dimostra il modo d’adempiere l’ufficio di sorvegliatore de’ poveri_; 1ª edizione 1685; 2ª edizione 1686. [202] Cullum, _Storia di Hawsteed_. [203] Ruggles, _Dei Poveri_. [204] Vedi Thurloe, _Scritture di Stato_; il _Memorandum dei Deputati Olandesi_ in data del 2–12 agosto 1653. [205] Questo oratore fu Giovanni Basset, rappresentante di Barnstple. Vedi Smith, _Memorie di Wool_, cap. 68. [206] Questa ballata si conserva nel Museo Britannico. Non è notato l’anno preciso in cui fu scritta; ma l’_Imprimatur_ di Ruggiero Lestrange determina la data in modo da servire al mio scopo. Ne riporterò alcuni versi. È il padrone che parla in questa guisa: «Nei tempi andati, avevamo il costume di pagare tanto che i nostri operai vivessero come fattori; ma i tempi sono cangiati, e lo faremo loro intendere......... gli faremo lavorare duramente per sei soldi il giorno; comecchè, ove si vogliano giustamente pagare, meritino uno scellino: se ne mormorassero dicendo di esser troppo poco, daremo loro la scelta, o di lavorare o d’andarsene via. E così noi accumuliamo le nostre ricchezze, e ci facciamo lo stato con le fatiche di molti poveri uomini che lavorano da mane a sera. Viva dunque l’arte della lana! Va mirabilmente bene! I nostri lavoranti sudano, ma noi viviamo tranquilli, andando e venendo quando e come ci piace.» [207] Chamberlayne, _Stato dell’Inghilterra_; Petty, _Aritmetica politica_, cap. 8; Dunning, _Metodo piano e facile_; Firmin, _Proposta per impiegare i Poveri_. È da notarsi che Firmin era un insigne filantropo. [208] King, nelle sue _Conclusioni naturali e politiche_, calcolò all’ingrosso, la plebe dell’Inghilterra ascendere a 880,000 famiglie; delle quali 440,000, secondo lui, mangiavano cibo animale due volte la settimana. Le altre 440,000 non ne mangiavano affatto, o almeno non più d’una volta la settimana. [209] _Decimoquarto Rapporto della Commissione intorno alla Legge dei Poveri_, Appendice B, nº 2, Appendice C, nº 1, 1848. De’ due calcoli della Tassa de’ Poveri rammentati nel testo, uno fu fatto da Arturo Moore; l’altro, alcuni anni dopo, da Riccardo Dunning. Il primo si trova nel _Saggio sulle Vie e sui Mezzi_ di Davenant; il secondo, nella pregevole opera di Sir Federigo Eden sui Poveri. King e Davenant credono che i poveri e i mendicanti nel 1696 fossero l,330,000 in una popolazione di 5,500,000; lo che sembra incredibile. Nel 1846, il numero delle persone che ricevevano soccorso, da quanto appare da’ documenti officiali, era solo di 1,332,089, in una popolazione di circa 17,000,000. Dovrebbe ancora notarsi, che è probabile nelle liste ufficiali, che un povero venga riportato più volte. Consiglierei il lettore a consultare il libretto di De Foe, che ha per titolo: _Dare l’elemosina, non è carità_; e le tavole di Greenwich, che trovansi nel _Dizionario Commerciale_ di MᶜCulloch, alla parola _Prezzi_. [210] Le morti furono 23,222.—Petty, _Aritmetica politica_. [211] Burnet, I, 560. [212] Muggleton, _Atti de’ Testimoni dello Spirito_. [213] Maso Brown descrive cotesta scena con parole che non oso riferire. [214] Ward, _Esploratore di Londra_. [215] Pepys, _Diario_, 28 decembre 1663, 2 settembre 1667. [216] Burnet, I, 606; _Lo Spettatore_, nº 462; _Giornali dei Lordi_, 28 ottobre 1678; Cibber, _Apologia_. [217] Burnet, I, 605, 606; Welwood, 138; North, _Vita di Guildford_, 251. [218] Potrei giovarmi di questa occasione per rammentare al lettore che qualvolta io noto una sola data, seguo il vecchio stile che nel secolo decimosettimo vigeva in Inghilterra; ma io pongo il principio dell’anno a dì 1 gennaio. [219] Saint–Evremond, _passim_. Saint–Rèal, _Memoires de la Duchesse de Mazarin_; Rochester, _L’Addio_; Evelyn, _Diario_, 6 settembre 1676, 11 giugno 1699. [220] Evelyn, _Diario_, 28 gennaio 1684–85; Saint–Evremond, _Lettera a Dèry_. [221] Evelyn, _Diario_, 4 febbraio 1684–85. [222] Ruggiero North, _Vita di Sir Dudley North_, 170; _Il vero Patriotta vendicato, ovvero Giustificazione di Sua Eccellenza il C....... di R........_; Burnet, I, 605. I Libri del Tesoro provano che Burnet era bene informato. [223] Evelyn, _Diario_, 24 gennaio 1681–82; 4 ottobre 1683. [224] _Carteggio_ di Dugdale. [225] Hawkins, _Vita di Ken_, 1713. [226] Vedi la _Gazzetta di Londra_ 21 novembre 1678. Barillon e Burnet dicono che Huddleston fu eccettuato da tutti gli atti del Parlamento contro i preti; ma ciò è un errore. [227] Clarke, _Vita di Giacomo_, II, I, 746; _Memorie Originali_, Barillon, _Dispaccio_ dell’8–18 febbraio 1685; Citters, _Dispacci_ del 3–13 e del 6–16 febbraio; Huddleston, _Narrazione_; Lettere di Filippo, secondo Conte di Chesterfield, Sir H. Ellis, _Lettere Originali_, Serie I, vol. III, 333; Serie II, vol. IV, 74; Ms. Chaillot; Burnet, I, 606; Evelyn, _Diario_, 4 febbraio 1684–85; Welwood, _Memorie_, 140; North, _Vita di Guildford_, 252; _Esame_, 648; Hawkins, _Vita di Ken_; Dryden, _Threnodia Augustalis_; Sir H. Halford, _Saggio intorno alle morti di personaggi illustri_. Vedi anche un frammento d’una lettera scritta da Lord Bruce, lungo tempo dopo che era divenuto Conte di Ailesbury, stampata nel _Magazzino Europeo_, aprile 1795. Ailesbury dà dell’impostore a Burnet. Nondimeno la sua propria narrazione e quella di Burnet ad ogni lettore d’animo schietto non parranno contraddittorie. Ho veduto nel Museo Britannico, ed anche nella Biblioteca dello Istituto Reale, un foglio curioso, dove si contiene un racconto della morte di Carlo. Trovasi nella Collezione di Somers. L’autore era evidentemente un cattolico romano zelante, e dovette essere in grado d’attingere a buone fonti di notizie. Sospetto molto che fosse in relazione diretta o indiretta con lo stesso Giacomo. Non vi si trova nome scritto pienamente; ma le iniziali, tranne in un solo luogo, sono perfettamente intelligibili Dice che al D. di Y. fu rammentato il debito in cui era verso il suo fratello da P. M. A C. F, Debbo confessare la mia impossibilità a decifrare le ultime cinque lettere; e a un tempo mi consola il vedere che Walter Scott non sia stato più avventurato di me. Dopo che fu pubblicata la prima edizione di questa opera, mi sono state comunicate varie ingegnose conghietture intorno a coteste lettere misteriose; ma rimango convinto che finora non mi è stata suggerita la vera soluzione. Parrebbe che nessun fatto nella storia dovesse essere più esattamente da noi conosciuto, di quelli che avvennero attorno al letto di morte di Carlo II. Abbiamo parecchie relazioni scritte da tali, che comunque non fossero testimoni oculari, avevano i mezzi migliori per sapere il vero da’ testimoni oculari. Nulladimeno, chiunque si provasse a formare un racconto da siffatta vasta massa di materiali, troverebbe l’opera difficile. Certamente Giacomo e la sua moglie, allorquando riferirono il fatto alle monache di Chaillot, in alcune cose non poterono trovarsi d’accordo. La Regina diceva che, dopochè Carlo ebbe ricevuti gli ultimi sacramenti, i vescovi protestanti tornarono ad esortarlo. Il Re diceva che ciò non era vero. «Certo, ripigliò la Regina, me lo avete detto voi stesso.»—–«Egli è impossibile che io ve lo possa aver detto, disse il Re, poichè nulla accadde di simile.» È cosa spiacevole che Sir Enrico Halford si fosse così poco studiato di sincerarsi de’ fatti, intorno ai quali ha profferito giudicio. Non pare ch’egli conoscesse la esistenza delle narrazioni di Giacomo, di Barillon e di Huddleston. Poichè questa è la prima occasione in cui cito il carteggio de’ Ministri olandesi alla Corte d’Inghilterra, debbo qui rammentare, che una serie di dispacci, dal dì in che Giacomo ascese al trono fino alla sua fuga, forma una delle parti più pregevoli della collezione di Mackintosh. I dispacci susseguenti fino al pieno stabilimento del governo nel febbraio 1689, me li sono procurati all’Aia. Negli archivi olandesi si è pochissimo frugato. Abbondano di notizie di grandissimo interesse per ogni Inglese. Sono mirabilmente ordinati, e affidati alla custodia di gentiluomini, la cortesia, la liberalità e lo zelo de’ quali per il bene delle lettere non può essere bastevolmente commendata. Vorrei potere esprimere gli obblighi miei verso i signori De Jonge e Van Zwanne. [228] Clarendon, con giusto sdegno, fa menzione di questa calunnia: «Secondo la carità di quel tempo verso Cromwell, moltissimi avrebbero voluto credere che morisse di veleno: del che allora non vi fu apparenza; nè poi se ne fece mai prova.» Libro XIV. [229] Welwood, 139; Burnet, I, 609; Sheffield, _Carattere di Carlo II_; North, _Vita di Guildford_, 252; _Esame_, 684; _Politica della Rivoluzione_; Higgons sopra Burnet. Ciò che North dice dell’imbarazzo e della perplessità de’ medici, è confermato dai dispacci di Citters. Sono stato molto in dubbio intorno alla strana storiella de’ sospetti di Short. Un tempo inchinavo a adottare l’opinione di North. Ma, comecchè io dia poco peso all’autorità di Welwood e di Burnet, in questo caso non posso ricusare la testimonianza d’un uomo così bene informato e imparziale come Sheffield. [230] _Gazzetta di Londra_, 9 febbraio 1684–85; Clarke, _Vita di Giacomo II_, vol. II, 3; Barillon, 9–19 febbraio; Evelyn, _Diario_, 6 febbraio. [231] Vedi gli autori citati nella nota precedente. Vedi anche lo _Esame_, 647; Burnet, I, 620; Higgons, sopra Burnet. [232] _Gazzetta di Londra_, 14 febbraio 1684–85; Evelyn, _Diario_ del medesimo giorno; Burnet, I, 610; _Il villano sfrenato_. [233] Burnet, I, 628; Lestrange, l’_Osservatore_, 11 febbraio 1684–85. [234] Le lettere tra Rochester ed Ormond intorno a questa faccenda, si trovano nel carteggio di Clarendon. [235] Lo annunzio de’ cangiamenti ministeriali trovasi nella Gazzetta di Londra, 19 febbraio 1684–85. Vedi Burnet, I, 621; Barillon, 9–19, 16–26 febbraio, e 19 febbraio–1 marzo. [236] Carte, V_ita d’Ormond; Consulte secrete del partito papista in Irlanda_, 1690. _Memorie dell’Irlanda_, 1716. [237] _Sessioni di Natale_, del 1678. [238] _Gli atti de’ Testimoni dello Spirito_, parte V, cap. 5. In questa opera Ludowick, secondo la sua maniera, si vendica del «diavolo urlante» come egli chiama Jeffreys, con una lista di maledizioni che farebbero invidia all’Ernolfo di Sterne. Il processo seguì in gennaio 1677. [239] Queste parole si trovano in molti libretti di quel tempo. Tito Oates non si stancava mai di citarle. Vedi il suo _Εἰχών Βασιλχη_. [240] Le principali fonti alle quali ho attinto per dipingere il carattere di Jeffreys, sono i _Processi di Stato e la Vita di Guildford_, scritta da North. Qualche tocco di minore importanza lo debbo ai libretti contemporanei in versi e in prosa; come il _Tribunale di sangue_, la _Vita e Morte di Giorgio Lord Jeffreys_, il _Panegirico di Lord Jeffreys_, la _Lettera al Lord Cancelliere_, la _Elegia di Jeffreys_. Vedi parimente Evelyn, _Diario_, 5 dicembre 1683, 31 ottobre 1685. Non è mestieri avvertire il lettore di consultare la insigne opera di Lord Campbell. [241] _Gazzetta di Londra_, 12 febbraio 1684–85; North, _Vita di Guildford_, 254. [242] La fonte principale a cui ho attinto, è il dispaccio di Barillon, 9–19 febbraio 1685. Si trova nell’Appendice alla Storia di Fox. Vedi anche la _Lettera_ di Preston a Giacomo, in data del 18–28 aprile 1685, presso Dalrymple. [243] Luigi a Barillon, 10–20 febbraio 1685. [244] Barillon, 16–26 febbraio 1685. [245] Barillon, 18–28 febbraio 1685. [246] Dartmouth, _Annotazioni a Brunel_, I, 264; Chesterfield, _Lettere_, 18 novembre 1784. Chesterfield è un testimonio incontrastabile; perocchè la rendita di cinquecento sterline era un carico sui beni di Halifax suo avo. Credo che siano mal fondate le aggiunte che fa Pope all’avarizia di Churchill. «Il galante cui ella pagò largamente il salto dalla finestra, visse assai per ricusare alla sua druda mezzo scudo.» Curll chiama malediche queste parole. [247] Pope, negli _Aneddoti_ di Spence. [248] Vedi i _Ricordi Storici del 1º de’ Dragoni Reali_. La nomina di Churchill al comando di questo reggimento fu posta in ridicolo come esempio di assurda parzialità. Una satira di quel tempo, che non rammento di aver mai veduta a stampa, ma che esiste Ms. nel Museo Britannico, contiene le seguenti parole: «Tagliamo co’ cucchiai la carne; la cosa è ragionevole quanto la nomina di Churchill al comando de’ Dragoni.» [249] Barillon, 16–24 febbraio 1685. [250] Barillon, 6–16 aprile; Luigi a Barillon, 14–24 aprile. [251] Potrei trascrivere mezzo il carteggio di Barillon a provare la mia asserzione; ma ne citerò solo un brano, in cui la politica del Governo francese verso la Inghilterra è esposta concisamente e con perfetta chiarezza: «_On peut tenir pour une maxime indubitable, que l’accord du Roy d’Angleterre avec son Parlement, en quelque manière qu’il ne faste, n’est pas conforme aux intèrêts de V. M. Je me contente de penser cela sans m’en ouvrir à personne, ei je cache avec soin mes sentimens à cet ègard_,» Barillon a Luigi, 28 febbraio–10 marzo 1687. Che questo fosse il vero secreto di tutta la politica di Luigi verso il paese nostro, la Corte di Vienna comprendeva perfettamente. Lo imperatore Leopoldo scriveva in questa guisa a Giacomo (30 marzo 9 aprile 1689): «_Galli id unum agebant, ut perpetuas inter Serenitatem vestram et ejusdem populos fovendo simultates, reliquae Christianae Europae tanto securius insultarent_.» [252] «_Que sea unido con su reyno, y en toda buena intelligencia con el Parlamento_». Dispaccio del Re di Spagna a Don Pietro Ronquillo, 16–26 marzo 1856. Trovasi negli archivii di Simancas, che tengono gran copia di scritture relative agli affari d’Inghilterra. Copie delle più interessanti di tali scritture possiede Guizot, dal quale mi furono prestate. Provo particolare soddisfazione nello attestare questo seguo d’amicizia d’un tanto uomo. [253] Pochi de’ miei lettori inglesi vorranno approfondire la storia di questa contesa. Si trova sommariamente raccontata da Bossuet nella _Vita del Cardinale Bausset_, e da Voltaire nel _Secolo di Luigi XIV_. [254] Brunet, I, 661; Lettera in data di Roma; e Dodd, _Storia della Chiesa_, parte VIII, libro I, art. 1. [255] _Consulte del Consiglio di Stato di Spagna_, 2–12 e 16–26 aprile 1685. negli Archivii di Simancas. [256] Luigi a Barillon, 22 maggio–1 giugno 1685; Burnet, I, 623. [257] Clarke, _Vita di Giacomo II_, vol. II, 5; Barillon, 19 febbraio–1 marzo 1685; Evelyn, _Diario_, 5 marzo 1684–85. [258] «A coloro che chiedono grazie, egli giura pel sangue di Dio, e gli sgrida come se venissero a rubare cucchiai.» _Lamentable Lory_, Ballata, 1684. [259] Barillon, 20–30 aprile 1685. [260] Dal dispaccio d’Adda, in data del 23 gennaio–1 febbrajo 1686, e dalle parole del Padre d’Orlèans (_Histoire des Rèvolutions d’Angleterre_, Lib. XI), chiaro si deduce che i Cattolici rigorosi giudicarono inescusabile la condotta del Re. [261] _Gazzetta di Londra; Gazzetta di Francia_; Clarke, _Vita di Giacomo II_, vol. II, 10; _Gloria della incoronazione di Giacomo II e della Regina Maria_, di Francesco Sandford, Araldo di Lancaster, in folio, 1687; Evelyn, _Diario_, 21 maggio 1685; _Dispaccio_ degli ambasciatori Olandesi, 10–20 aprile 1685; Burnet, I,628; Eachard, III, 734; _Sermone recitato avanti le LL. MM. Giacomo II e Maria, nel dì della loro incoronazione nella Badia di Westminster_, 23 aprile 1685, da Francesco, Lord Vescovo J’Ely e Lord Limosiniere. Ho veduta una relazione in italiano pubblicata in Modena, degna di considerazione, massime per l’artifizio con che lo scrittore tace il fatto, che le preci e i salmi furono cantati in inglese, e che i Vescovi erano eretici. [262] Vedi la _Gazzetta di Londra_ ne’ mesi di febbrajo, marzo ed aprile 1685. [263] Sarebbe facile riempire un volume delle cose che gli storici e gli articolisti Whig hanno scritto intorno a questo subietto. Citerò solo uno scrittore il quale era aderente alla Chiesa Anglicana e Tory. «Fu creduto che le elezioni» dice Evelyn «in parecchi luoghi fossero state indecentemente condotte. Il Cielo disponga le cose meglio di quello che alcuni credono inevitabile!» (10 maggio 1685.) E nuovamente: «Vero è che vi furono molti de’ nuovi rappresentanti, la cui elezione o rielezione è stata universalmente condannata.» (22 maggio.) [264] Da una lettera di notizie, esistente nella Biblioteca dello Istituto Reale. Citters fa menzione della forza dei partito Whig nella Contea di Bedford. [265] Bramston, _Memorie_. [266] _Riflessioni intorno a una Rimostranza e Protesta di tutti i buoni Protestanti di questo Regno_, 1689; _Dialogo tra Due amici_, 1689. [267] _Memorie della Vita di Tommaso Marchese di Wharton_, 1715. [268] Così chiamasi nelle città d’Inghilterra quel luogo dove in antico era eretta una croce. (_Nota del Traduttore._) [269] Vedi nel _Guardiano_, Nº 67, un articolo, squisito esempio della peculiare maniera di Addison. Sarebbe difficile trovare in qualsiasi altro scrittore un simile esempio di benevolenza condita delicatamente di spregio. [270] L’_Osservatore_, 4 aprile 1685. [271] Dispaccio degli Ambasciatori Olandesi, 10–20 aprile 1685. [272] Burnet, I, 626. [273] _Fedele racconto delle infermità, morte e sepoltura del Capitano Bedlow_. 1680;—Narrazione del Lord Capo Giudice North. [274] Smith, _Intrighi della Congiura Papale_, 1685. [275] Burnet, I, 439. [276] Vedi il processo, nella _Collezione de’ Processi di Stato_. [277] Evelyn, _Diario_, 7 maggio 1685. [278] Esistono molti ritratti di Oates. Le pittura più viva della sua persona si trovano nello _Esame_ di North, 225, nell’_Assalonne ed Achitofel_ di Dryden, e in un foglio volante che ha per titolo «_Fischi e Grida contro T. O._» [279] Vedi queste cose minutamente notate nella _Collezione dei Processi di Stato_. [280] _Gazzetta di Francia_, 29 maggio–9 giugno 1685. [281] Dispaccio degli Ambasciatori Olandesi, 19–29 maggio 1685. [282] Evelyn, _Diario_, 22 maggio, 1685; Eachard, III, 741; Burnet, I, 637; L’_Osservatore_, 27 marzo 1685; Oates, _Εἰχών_, 89; _Εἰχών_, _βροτολοιγοῡ_, 1697; _Giornale dei Comuni_, maggio, giugno e luglio 1689; Maso Brown, _Avvertimento al dottore Oates_. Alcune circostanze interessanti sono rammentate in un foglio volante, stampato per A. Brooks, Charing, Cross, 1685. Ho veduto certi articoli di quel tempo scritti in francese e in italiano, e contenenti la storia del processo e della esecuzione della sentenza. Una stampa rappresentante Tito Oates posto alla gogna, fu pubblicata in Milano con questa curiosa epigrafe: «_Questo è il naturale ritratto di Tito Otez, ovvero Oatz, Inglese, posto in berlina, uno de’ principali professori della religione protestante, acerrimo persecutore de’ Cattolici, e gran spergiuro_.» Ho veduto parimente una incisione olandese rappresentante la punizione d’Oates, con alcuni versi latini, de’ quali i seguenti sono un esempio: _At Doctor fictus non fictos pertulit ictus, A tortore datos haud molli in corpore gratos, Disceret ut vere scelera ob commissa rubere._ L’anagramma del suo nome «_Testis Ovat_» trovasi in molte stampe pubblicate in vari paesi. [283] Blackstone, _Commentarii_, Capitolo dell’Omicidio. [284] Secondo Ruggero North, i giudici decisero che Dangerfield, essendo stato prima convinto di spergiuro, era incompetente a far da testimonio nel processo della Congiura. Ma questo è uno de’ molti esempi della inesattezza di Ruggero. Dal rapporto del processo di Lord Castelmaine, fatto in giugno 1680, parrebbe che dopo molti contrasti tra gli avvocati, e molto consultare fra i giudici de’ varii tribunali in Westminster Hall, a Dangerfield fosse concesso di prestare il giuramento e raccontare la propria storia: ma i giudici, con molto senno, non gli vollero prestar fede. [285] Il processo di Dangerfield non fu registrato; ma in un foglio volante contemporaneo ne ho veduto un racconto conciso. Un sunto della testimonianza contro Francis, e il discorso ch’ei fece sul punto di morire, trovasi nella _Collezione dei Processi di Stato_. Vedi Eachard, III, 741. La narrazione di Burnet contiene più abbagli che parole. Vedi anche lo _Esame_ di North, 256; il breve racconto della vita di Dangerfield nel _Tribunale di Sangue_; l’Osservatore del 20 giugno 1685; e il poemetto intitolato, _Lo Spettro di Dangerfield a Jeffreys_. Un rarissimo volume che ha per titolo _Brevi Genealogie_ di Roberto Halstead, Lord Peterborough dice che Dangerfield, col quale egli aveva avuto qualche relazione, era «un giovane che aveva decente persona, serio contegno, e loquela che non sembrava procedere da una ordinaria intelligenza.» [286] Baxter, nella prefazione all’opera di Sir Matteo Hale, intitolata: _Giudicio intorno alla natura della vera Religione_, 1684. [287] Vedi l’Osservatore del 25 febbraio 1685; l’atto d’accusa nella _Collezione de’ Processi di Stato_; il racconto che fa Calamy di ciò che seguì nella corte (_Vita di Baxter_, cap. 14); e i curiosissimi estratti dei Mss. di Baxter, nella vita di lui, scritta da Orme e pubblicata nel 1830. [288] Mss. di Baxter, citati da Orme. [289] Atto Parlam. di Car. II, 29 marzo 1651; di Giac. VII, 28 aprile e 13 maggio 1685. [290] Atto Parlam. di Giac. VII, 8 maggio 1685; l’_Osservatore_, 20 giugno 1685. Lestrange evidentemente desiderava di vedere che lo esempio dato in Iscozia venisse imitato in Inghilterra. [291] Sono sue parole riferite da lui stesso. Clarke, _Vita di Giacomo II_, volume I, 656. _Memorie Originali_. [292] Atto Parlam. di Carlo II, 31 agosto 1681. [293] Burnet, I, 583; Wodrow, III, v. 2, Sventuratamente, mancano gli atti del Consiglio Privato Scozzese di quasi tutto il governo del duca di York. [294] Wodrow, III, IX, 6. [295] Wodrow, III, IX, 6. Lo editore del Burnet, stampato in Oxford, si studia di scusare quest’atto, asserendo che Claverhouse avesse allora l’incarico di intercettare ogni comunicazione tra Argyle e Monmouth, e supponendo che Giovanni Brown fosse stato scoperto come portatore di notizie tra i campi ribelli. Sventuratamente per questa ipotesi, Giovanni Brown fu morto il dì primo di maggio, mentre Argyle e Monmouth erano entrambi in Olanda, e mentre non era insurrezione in nessun luogo dell’Isola nostra. [296] Wodrow, III, IX, 6. [297] Wodrow, III, IX, 6. [298] Ibidem, _Nube di Testimonianza._ [299] Wodrow, III, IX, 6. L’epitaffio di Margherita Wilson nel Camposanto di Wigton, è stampato nell’Appendice alla _Nube di Testimonianza_: «Assassinata per aver confessato Cristo capo supremo della Chiesa, e non per altro delitto, che per non avere confessata la Prelatura, e non avere abiurata la fede de’ Presbiteriani, nel mare, legata ad un palo, ella patì il martirio per amore di Gesù Cristo.» [300] Vedi la lettera al re Carlo II, premessa all’_Apologia_ di Barclay. [301] Sewel, _Storia dei Quacqueri_, libro X. [302] _Minute delle Adunante Annuali_, 1689, 1690. [303] Clarkson, _Del Quacquerismo; Costumi Peculiari_, cap. 5. [304] Dopo ch’io aveva già scritto questo tratto, ho trovato nel Museo Britannico un manoscritto (Mss. Harl. 7506) col titolo seguente: _Relazione delle presure, de’ sequestri, delle grandi spoliazioni e stragi, fatte negli averi di varii protestanti Dissenzienti, chiamati Quacqueri, dietro processi a seconda di vecchi Statuti fatti contro i Papisti e i Recusanti papalini_. Il MS. è notato come già appartenente a Giacomo, e sembra che dal suo servo di fiducia, Colonnello Graham, fosse stato dato a Lord Oxford. A me pare che ciò confermi il mio modo di giudicare la condotta del re verso i Quacqueri. [305] Le visita di Penn a Whitehall, e le sue levate da letto in Kensington, sono vivacissimamente descritte, benchè in cattivissimo latino, da Gherardo Croese: «_Sumebat rex saepe secretum, non horarium, vero horarum plurium, in quo de variis rebus cum Penno serio sermonem conferebat; et interim differebat audire praecipuorum nobilium ordinem, qui hoc interim spatio in procoetone, in proximo, regem conventum praesto erant_.» Della folla de’ chiedenti nella casa di Penn, Croese dice: «_Vidi quandoque de hoc genere hominum non minus bis centum_.» _Historia Quakeriana_, lib. II, 1695. [306] «Ventimila sterline nella mia tasca, e centomila nella mia provincia.» _Lettera_ di Penn a Popple. [307] Questi ordini, firmati da Sunderland, si trovano nella _Storia_ di Sewel. Hanno la data del 18 aprile 1685. Sono scritti in uno stile singolarmente oscuro ed intricato, ma credo d’averne esattamente esposto lo spirito. Non ho potuto trovare nessuna prova che alcuno che non fosse Cattolico Romano o Quacquero, riacquistasse, per virtù di questi ordini, la propria libertà. Vedi Neal, _Storia dei Puritani_, vol. II, cap. 3; Gherardo Croese, lib. II. Croese vuole che il numero dei Quacqueri liberati fosse millequattrocento sessanta. [308] Barillon, 28 maggio–7 giugno 1685; l’_Osservatore_ del 27 maggio 1685; Sir J. Reresby, _Memorie_. [309] Luigi XIV scriveva a Barillon, intorno a questa classe di Esclusionisti, le seguenti parole: «_L’intèrêt qu’ils auront à effacer cette tâche par des services considèrables, les portera, selon toutes les apparences, à le servir plus utilement que ne pourraient faire ceux qui ont toujours ètè les plus attachès à sa personne._» 15–25 maggio, 1685. [310] Barillon, 4–14 maggio 1685; Sir Giovanni Reresby, _Memorie_. [311] Burnet, I, 626; Evelyn, _Diario_, 22 maggio 1685. [312] Ruggero North, _Vita di Guildford_, 218; Bramston, _Memorie_. [313] North, _Vita di Guildford_, 228; _Notizie di Westminster_. [314] Burnet, I, 382; _Carte_ di Rowdon, Lord Conway a Sir Giorgio Rawdon, 28 dicembre 1677. [315] _Gazzetta di Londra_, 25 maggio 1685; Evelyn, _Diario_, 22 maggio 1685. [316] North, _Vita di Guildford_, 256. [317] Burnet, 1, 639; Evelyn, _Diario_, 22 maggio 1685; Barillon, 23 maggio–2 giugno, e 25 maggio–4 giugno, 1685, Il silenzio dei Giornali de’ Comuni rese perplesso il signor Fox; ma si spiega dal fatto che la proposta di Seymour non fu secondata. [318] _Giornali de’ Comuni_, 22 maggio. Stat. Jac. II, I, 1. [319] _Giornali de’ Comuni_, 26, 27 maggio. Sir. J. Reresby, _Memorie_. [320] _Giornali de’ Comuni_, 27 maggio 1685. [321] Ruggiero North, _Vita di Sir Dudley North; Vita di Guildford_, 166; M’Culloc, _Letteratura della Economia Politica_. [322] _Vita di Dudley North_, 176; Lonsdale, _Memorie_; Van Citters, 12, 22 giugno 1685. [323] _Giornali de’ Comuni_, 1 marzo 1689. [324] _Giornali de’ Lordi_, 18, 19 marzo 1679; 22 maggio 1685. [325] Stat. 5 di Giorgio IV, c. 46. [326] Clarendon, _Storia della Ribellione_, lib. XIV; Burnet, _De’ suoi tempi_, I, 546, 625; Wade e Ireton, _Narrazioni_, MS. Landsdowne, 1152, l’_Informazione_ di West nell’Appendice alla _Vera Relazione_ di Sprat. [327] _Gazzetta di Londra_, 4 gennaio 1684–85; MS. Ferguson, nella Storia di Eachard, III, 764; _Narrazione_ di Gray; Sprat, _Vera Relazione_; Danvers, _Trattato intorno al Battesimo_; Danvers, _La Innocenza e la Verità vendicate_; Crosby, _Storia dei Battisti Inglesi_. [328] Per la intelligenza dell’allusione, vedi gli _Atti degli Apostoli_, cap. XVIII. (_Nota del Traduttore._) [329] Sprat, _Vera Relazione_; Burnet, I, 634; _Confessione_ di Wade, Ms. Harl, 6845. Lord Howard d’Escrick accusò Ayloffe d’avere proposto lo assassinio del Duca di York; ma Lord Howard era un vile bugiardo: tale storiella non formò parte della sua confessione originale, ma vi fu aggiunta dipoi come supplemento; e però non è degna di fede. [330] _Confessione_ di Wade, Ms. Harl. 6845; Ms. Lansdowne, 1152; Holloway, _Narrazione_ nell’Appendice alla _Vera Relazione_ di Sprat. Wade confessò che Holloway aveva detta la pura verità. [331] Sprat, _Vera Relazione_, e l’Appendice _passim_. [332] Sprat, _Vera Relazione_, e l’Appendice; Processo contro Rumbold, nella _Collezione de’ Processi di Stato_; Burnet, _De’ suoi tempi_, I, 633; Appendice alla _Storia_ di Fox, Nº IV. [333] Narrazione di Grey: il suo processo trovasi nella _Collezione dei Processi di Stato_; Sprat, _Vera Relazione_. [334] Nella collezione di Pepys v’è una stampa rappresentante una delle feste da ballo che verso quel tempo Guglielmo e Maria dettero nell’Oranje Zaali. [335] Avaux, _Neg_. 25 gennaio 1685. Lettera di Giacomo alla Principessa d’Orange, gennaio 1684–85, fra gli Estratti di Birch nel Museo Britannico. [336] _Narrazione_ di Grey; _Confessione_ di Wade, Ms. Landsdowne 1152. [337] Burnet, I, 542; Wood, _Athenae Oxonienses_, sotto il nome di Owen; _Assalonne ed Achitofel_, parte II; Eachard; III, 682, 697; Sprat, _Vera Relazione, passim; Memoriale de’ Non–conformisti_; North, _Esame_, 399. [338] _Confessione_ di Wade, Ms. Harl. 6845. [339] Avaux, Neg. 20, 22 febbraio 1685; lettera di Monmouth a Giacomo, in data di Ringwood. [340] _Storia del re Guglielmo III_, 2ª edizione 1703, vol. I, 160. [341] Welwoold, _Memorie_, App. XV; Burnet, I, 630. Grey riferì la cosa in modo alquanto diverso, ma lo fece per salvare la propria vita. Don Pedro Ronquillo, ambasciatore spagnuolo presso la corte inglese, in una lettera al governatore de’ Paesi Bassi, scritta verso quel tempo, irride Monmouth perchè viveva alle spese d’una donna innamorata; e sospetta, senza fondamento nessuno, che la passione del duca fosse venale. «_Hallandose hoy tan falto de medios que ha menester trasformarse en Amor con Miledi, en vista de la necessitad de poder subsistir_.» Ronquillo a Grana, 30 marzo–9 aprile 1685. [342] Processo contro Argyle, nella _Collezione de’ Processi di Stato_; Burnet, I, 521; _Relazione semplice e vera delle scoperte fatte in Iscozia_, 1684; _La nebbia scozzese dissipata; l’indicazione_ di Sir Giorgio Mackenzie; Lord Fountainhall, _Note Cronologiche_. [343] Informazione di Roberto Smith, nell’Appendice alla _Vera Relazione_ di Sprat. [344] _Relazione semplice e vera delle scoperte fatte in Iscozia_. [345] _Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio_, lib. II, cap. 33. [346] Vedi la _Narrazione_ di Sir Patrizio Hume, _passim_. [347] _Narrazione_ di Grey; _Confessione_ di Wade, Ms. Harl. 6845. [348] Burnet, I, 631. [349] _Narrazione_ di Grey. [350] Le Clerc, _Vita di Locke_; Lord King, _Vita di Locke_; Lord Grenville, _Oxford e Locke_. Locke non è da confondersi coll’Anabattista Niccola Look, il cui nome è scritto Locke nella confessione di Grey, e che è ricordato nel Ms. Lansdowne Nº 1152, e nella narrazione di Buccleuch aggiunta alla dissertazione di Rose. Non crederei quasi necessaria questa avvertenza, se non vedessi che la somiglianza di questi due nomi indusse in errore il presidente Onslow, ch’era uomo assai dotto nella storia di quei tempi. Vedi la sua annotazione a Burnet, I, 629. [351] Wodrow, libro III, cap. 9; _Gazzetta di Londra_, 11 maggio 1685; Barillon, 11–21 maggio. [352] _Registro degli Atti degli Stati Generali_, 5–15 maggio 1685. [353] Di ciò si fa ricordo nelle sue lettere credenziali in data del 16 marzo 1684–85. [354] Bonnepaux a Seignelay, 4–14 febbraio 1686. [355] Avaux, _Neg._ 30 aprile, 10 marzo, 1–11 maggio, 5–15 maggio 1685; _Narrazione_ di Sir Patrick Hume; Lettera dell’Ammiragliato d’Amsterdam agli Stati Generali, 20 giugno 1685; Memoriale di Skelton, consegnato agli Stati Generali, 10 maggio 1685. [356] Se taluno inchinasse a sospettare che io abbia esagerata l’assurdità e ferocia di questi uomini, lo consiglierei a leggere due libri, che varranno a convincerlo come io ne abbia mitigato più presto che esagerato il ritratto. Questi libri sono intitolati: _Il villano sfrenato_, e _Le contese fedeli sbrogliate_. [357] Poche parole che trovavansi nelle prime cinque edizioni di questa opera, sono state omesse in questo luogo. Qui ed altrove, secondo la osservazione di Aytoun, io aveva scambiate le Guardie della Città, che erano comandate da un ufficiale chiamato Graham, coi Dragoni di Graham di Claverhouse. [358] Gli autori, dai quali ho desunta la storia della espedizione d’Argyle, sono Sir Patrizio Hume, il quale fu testimone oculare di ciò che narrava; e Wodrow, che ebbe tra mani materiali pregevolissimi, e, fra gli altri, gli stessi scritti del Conte. Dove accade questione di veracità tra Argyle e Hume, non dubito che l’autorità d’Argyle meriti più fede. Vedi anche Burnet, I, 631, e la _Vita di Bresson_ pubblicata dal Dottore Mac Crie. Il racconto della Ribellione Scozzese nella _Vita di Giacomo II_, scritta da Clarke, è un romanzo ridicolo, composto da un Giacomista, il quale non si dette nè anche l’incomodo di guardare una carta topografica del teatro della guerra. [359] Wodrow, III, IX, 10; _Martirologio dell’Occidente_; Burnet I, 633; Fox, _Storia_, Appendice IV. Non trovo modo, tranne quello indicato nel testo, a conciliare Rumbold che negava d’aver mai avuto in mente la idea d’assassinio, e Rumbold che confessava d’avere nominata la propria casa come luogo convenevole ad assalire i due Principi. La distinzione che, come ho supposto, egli faceva, fu fatta da un altro congiurato di Rye House, il quale, al pari di lui, era vecchio soldato della Repubblica; voglio dire il Capitano Walcot. Nel Processo di Walcot, West, testimone a favore della Corona, disse: «Capitano, voi avete acconsentito di essere uno di coloro che dovevano assaltare le Guardie.»—«Quale è adunque la ragione,» chiese il Capo Giudice Pemperton, «che egli non intendeva uccidere il Re?»—«Egli disse» rispose West «essere vigliaccheria uccidere un uomo disarmato, e che non lo avrebbe fatto.» [360] Wodrow, III, IX, 9. [361] _Narrazione_ di Wade, Ms. Harl, 6845; Burnet, I, 634; _Dispaccio_ di Citters, 30 ottobre–9 novembre 1685; Luttrell, _Diario_ della medesima data. [362] Wodrow, III, IX, 4, e III, IX, 10. Wodrow riferisce, giusta gli Atti del Consiglio, i nomi di tutti i prigioni, mutilati, deportati o segnati col ferro rovente. [363] La lettera di Skelton ha la data del 7–17 maggio 1686. Trovasi insieme con una lettera dello _Schout_, o Gran Sergente d’Amsterdam, in un volumetto pubblicato pochi mesi dopo, che ha per titolo: «_Histoire des èvènemens tragiques d’Angleterre_.» I documenti inseriti in quell’opera, sono, per quanto ho potuto sincerarmene, ricopiati esattamente dagli Archivi Olandesi, salvo che la dicitura francese di Skelton, che non era purissima, è leggiermente corretta. Vedi anche la _Narrazione_ di Grey. Goodenogh, nel suo esame dopo la battaglia di Sedgemoor, disse che «lo _Schout_ d’Amsterdam favoriva particolarmente il disegno dei fuorusciti.» Ms. Lansdowne, 1152. Non vale l’incomodo di confutare quelli scrittori i quali rappresentano il Principe d’Orange come complice della impresa di Monmouth. La circostanza sopra la quale essi principalmente fondano la loro asserzione, è che le Autorità d’Amsterdam non adoperassero mezzi efficaci a impedire la partenza della spedizione. Questa circostanza, a vero dire, prova moltissimo che Guglielmo non favorisse la spedizione. Niuno che non ignori profondamente le istituzioni e la politica dell’Olanda, considererà lo Statoldero responsabile de’ procedimenti de’ capi del partito di Loevestein. [364] Avaux, Neg. 7–17, 8–18, 14–24 giugno 1685; _Lettera del Principe d’Orange a Lord Rochester_, 9 giugno, 1685. [365] Citters, 9–19, 12–22 giugno 1685. Il carteggio di Skelton con gli Stati Generali e con l’Ammiragliato d’Amsterdam, esiste negli Archivii dell’Aja. Alcuni brani se ne trovano negli _Evènements tragiques d’Angleterre_. Vedi anche Burnet, I, 640. [366] Confessione di Wade, nelle carte di Hardwicke; Ms. Harl., 6845. [367] Vedi la testimonianza di Buyse contro Monmouth e Fletcher, nella _Collezione dei Processi di Stato_. [368] _Giornali della Camera de’ Comuni_, 13 giugno 1685; Ms. Harl. 1685; Ms. Lansdowne, 1152. [369] Burnet I, 641, Confessione di Goodenough, nel Ms. Lansdowne 1152. La _Dichiarazione_, come fu originalmente stampata, è rarissima a trovarsi: ve n’è un esemplare nel Museo Britannico. [370] _Racconto storico della Vita e delle azioni magnanime dello Illustrissimo Principe Giacomo, Duca di Monmouth_; 1683. [371] _Confessione_ di Wade; Carte di Hagdwicke; Carte di Axe; Ms. Harl, 6845. [372] Ms. Harl. 6845. [373] Testimonianza di Buyse, nella _Collezione dei Processi di Stato_; Burnet I, 642; Ms. di Ferguson citato da Eachard. [374] _Gazzetta di Londra_, 18 giugno 1685; Confessione di Wade, Carte di Hardwicke. [375] _Giornali de’ Lordi_, 13 giugno 1685. [376] _Confessione_ di Wade; Ms. di Ferguson; Carte di Axe, Ms. Harl., 6845; Oldmixon, 701, 702. Oldmixon, che allora era fanciullo, abitava presso il teatro degli avvenimenti. [377] _Gazzetta di Londra_, 18 giugno 1685; _Giornali de’ Lordi e de’ Comuni_, 13 e 15 giugno; Dispaccio Olandese, 16–26 giugno. [378] Oldmixon s’ingannava là dove dice che Fenwick portò il decreto alla Camera de’ Lordi; mentre si raccoglie dai _Giornali_, che fu Lord Ancram. [379] _Giornali de’ Comuni_, 17, 18, 19 giugno 1685; Raresby, _Memorie_. [380] _Giornali de’ Comuni_, 19, 29 giugno 1685; Lord Lonsdale, _Memorie_, 8, 9; Burnet, I, 639. La Legge, come fu modificata dal Comitato, trovasi nella Storia di Fox, Appendice III. Se il racconto di Burnet è corretto, i delitti che, secondo la Legge modificata, furono puniti con la privazione de’ diritti civili, nella compilazione primitiva della stessa legge venivano considerati come capitali. [381] Stat. I di Giac. II, c. 17; _Giornali de’ Lordi_, 2 luglio 1685. [382] Giornali dei Lordi e de’ Comuni, 2 luglio 1685. [383] Toulmin, _Storia di Taunton_, edizione di Savage. [384] Sprat, _Vera Relazione_; Toulmin, Storia di Taunton. [385] _Vita e morte di Giuseppe Alleine_, 1672. _Memoriale dei Non–Conformisti_. [386] Ms. Harl. 7006; Oldmixon, 702; Eachard, III, 763. [387] _Confessione_ di Wade; _Confessione_ di Goodenough, Ms. Harl. 1152; Oldmixon, 702. La narrazione di Ferguson è al tutto indegna di fede. Una copia del proclama trovasi nel Ms. Harl. 7006. [388] Nel Museo Britannico sì trovano le copie degli ultimi tre proclami; Ms. Harl. 7006. Il primo non l’ho mai veduto, ma è ricordato da Wade. [389] _Narrazione_ di Grey; Ms. di Ferguson, Eachard, III, 754. [390] _La Persecuzione esposta_ da Giovanni Whiting. [391] Ms. Harl. 6845. [392] Una di queste armi si vede anche oggi nella Torre. [393] _Narrazione di Grey_; _Narrazione_ di Paschall, nell’Appendice alla _Difesa_ di Heywood. [394] Oldmixon, 702. [395] North, _Vita di Guildford_, 132. Racconti della marcia di Beaufort per il Paese di Galles e le vicine Contee, si trovano nella _Gazzetta di Londra_, giugno 1684; _Lettera di Beaufort a Clarendon_, 14 giugno 1685. [396] Il Vescovo Fell a Clarendon, 20 giugno; Abingdon a Clarendon 20, 25, 26 giugno 1685; Ms. Lansdowne, 846. [397] Avaux 5–15, 6–16 luglio 1685. [398] Citters, 30 giugno–10 luglio, 3–13 luglio, 21–31 luglio, 1685; Avaux, _Negoz._, 5–15 luglio; _Gazzetta di Londra_, 6 luglio. [399] Barillon 6–16 luglio, 1685; Prefazione di Scott, nell’_Albione e Albanio_. [400] Abingdon a Clarendon, 29 giugno 1685; Bates, _Vita di Henry_. [401] _Gazzetta di Londra_ 22 e 25 giugno 1685; _Confessione di Wade_; Oldmixon, 703; Ms. Harl., 6845. [402] _Confessione_ di Wade. [403] _Confessione_ di Wade; Oldmixon, 703; Ms. Harl., 6845; Querela di Jeffreys al Gran Giurì di Bristol, 21 settembre 1685. [404] _Gazzetta di Londra_, 29 giugno 1685; _Confessione_ di Wade. [405] _Confessione_ di Wade. [406] _Gazzetta di Londra_, 2 luglio 1685; Barillon 6–16 luglio; Confessione di Wade. [407] _Gazzetta di Londra_, 29 giugno 1685, Citters, 30 giugno–10 luglio. [408] Ms. Harl., 6845; _Confessione_ di Wade. [409] _Confessione_ di Wade; Eachard, III, 766. [410] _Confessione_ di Wade. [411] _Gazzetta di Londra_, 6 luglio 1685; Citters 3–13 luglio; Oldmixon, 703. [412] _Confessione_ di Wade. [413] Matt. West. _Flor. Hist._, A. D. 788; Cronaca Ms. citata da Sharon Turner nella _Storia degli Anglo–Sassoni_, libro IV, cap. 19. Drayton, _Polyolbion_, III; Leland, _Itinerario_; Oldmixon, 703. Oldmixon trovavasi allora a Bridgewater, e probabilmente vide il Duca sul campanile. Il piatto rammentato nel testo, appartiene al signor Stradling, il quale, con sollecitudine degna di lode, ha raccolte e serbate le reliquie e le tradizioni della insurrezione occidentale. [414] Oldmixon, 703. [415] Churchill a Clarendon, 4 luglio, 1685. [416] Oldmixon, 703. L’Osservatore, 1 agosto, 1685. [417] Paschall, _Narrazione_, nell’appendice a Heywood. [418] Kennet, edizione del 1719, III, 432. Sono costretto a prestar fede alla verità di questo deplorabile fatto. Il vescovo asserisce d’essergli stato riferito, nel 1718, da un valoroso ufficiale degli Azzurri, il quale aveva combattuto a Sedgemoor, e aveva con gli occhi propri veduta la povera fanciulla andarsene in preda ad un disperato dolore. [419] _Narrazione di un ufficiale delle Guardie a cavallo_, presso Kennet, edizione del 1719, III, 432; Giornale Ms. della ribellione occidentale, scritto da Eduardo Dummer; Dryden, _il Cervo e la Pantera_, Parte II. Le parole di Dryden sono degne d’essere riferite: «Tali erano i lieti trionfi del cielo per l’ultima notturna vittoria di Giacomo, pegno d’amore del suo onnipotente Protettore, fuochi di gioia che gli angioli accendevano nelle celesti regioni. Vidi con gli occhi miei la pura luce e leggera serpere pel cupo orrore e vincere la notte. Il messaggiero sollecitamente recò la nuova che racconsolò tre nazioni afflitte; ma il Nunzio del cielo era arrivato innanzi.» [420] Molti scrittori hanno affermato, ed in ispecie Pennan, che il quartiere di Londra chiamato Soho, deriva il nome dalla parola d’ordine dell’armata di Monmouth in Sedgemoor. Soho Fields si trova rammentato in parecchi libri stampati avanti la insurrezione delle Contrade Occidentali; a mo’ d’esempio, in Chamberlayne; _Stato d’Inghilterra_, 1684. [421] Esiste un ordine di Giacomo perchè si pagassero quaranta lire sterline al Sergente Weems del Reggimento di Dumbarton «per avere resi buoni servigii nel fatto d’arme di Sedgemoor nello scaricare i grossi cannoni contro i ribelli.» _Ricordo Storico del 1º, ovvero del Reggimento Reale di Fanteria_. [422] Giacomo II, _Narrazione della Battaglia di Sedgemoor_, nelle Scritture di Stato di Lord Hardwicke; _Confessione_ di Wade; Ms. di Ferguson; _Narrazione_, presso Eachard, III, 768; _Narrazione d’un Ufficiale delle Guardie a cavallo_, presso Kennet, edizione del 1719, III, 432. _Gazzetta di Londra_, 9 luglio 1685; Oldmixon, 703; Paschall, _Narrazione_; Burnet I, 643; Evelyn _Diario_, 8 luglio; Citters 7–17 luglio; Barillon 9–19 luglio; Reresby, _Memorie; La Battaglia di Sedgemoor_, farsa del Duca di Buckingham; _Giornale Ms. della Ribellione occidentale, fatto da Eduardo Dummer; che allora serviva nel corpo d’artiglieria adoperata da sua Maestà ad opprimerla_. Quest’ultimo manoscritto trovasi nella Biblioteca di Pepys, ed e pregevolissimo; non per il racconto, che contiene poco di notevole, ma per la esposizione dei piani così detti, di battaglia, i quali la dimostrano qual era, in quattro o cinque diversi stadii. «La storia d’una battaglia» dice il più grande de’ capitani viventi «non è dissimile dalla storia d’una festa da ballo. Alcuni possono ricordarsi di tutti i più piccoli eventi, il resultato de’ quali è la perdita della battaglia, o la vittoria: ma nessuno può richiamarsi a mente l’ordine, o quel preciso momento nel quale seguirono; la qual cosa costituisce tutta la differenza rispetto al valore od importanza loro........ Appunto per mostrarvi quanto poca fiducia meritino quelle che si suppongono essere le migliori relazioni d’una battaglia, vi dico solo che il Generale..... nella sua narrazione, ricorda certe cose che non accaddero punto. È impossibile affermare il quando e in che ordine seguì ciascun fatto importante.» _Carte di Wellington_, 8 e 17 agosto, 1815. La battaglia, intorno alla quale il Duca di Wellington scriveva nel riferito modo, era quella di Waterloo, combattuta solo pochi giorni innanzi, in pieno giorno, e sotto i vigili ed esperti occhi suoi. Quale, dunque, deve essere la difficoltà di compilare da dodici diverse relazioni il racconto d’una battaglia accaduta cento sessanta e più anni sono, e fra tale oscurità che i combattenti non potevano nulla discernere a cinquanta passi di distanza? La difficoltà è accresciuta da ciò, che i testimoni oculari che potevano sapere il vero, non erano inchinevoli a palesarlo. Lo scritto che io ho posto in cima alle autorità sopra citate, si mostra evidentemente parzialissimo di Feversham. Wade scriveva col terrore del capestro. Ferguson, che rade volte mostravasi scrupoloso intorno alla veracità delle proprie asserzioni, in questa occasione fu bugiardo quanto Bobadil o Parolles. Oldmixon che, allorquando seguì la battaglia, trovavasi fanciullo in Bridgewater, dove passò poi gran parte della sua vita, era a tal segno sotto la influenza delle passioni locali, che ogni informazione locale gli fu inutile. Il desiderio ch’egli aveva di magnificare il valore de’ contadini della Contea di Somerset (valore riconosciuto anche da’ loro nemici, e che per ciò non aveva mestieri d’esagerazioni o di finzioni), lo condusse a comporre un romanzo assurdo. La lode che Barillon, uomo francese, avvezzo a spregiare le leve in massa, fece dell’armata de’ vinti, vale assai più: «_Son infanterie fit fort bien. On eut de la peine à les rompre, et les soldats combattoient avec les crosses de mousquet et les scies qu’ils avoient au bout de grands bastons au lieu de picques_.» Oggimai, poco si può imparare visitando il campo della battaglia, perocchè lo aspetto del paese è grandemente mutato; e il vecchio Bussex Rhine, sulle cui sponde seguì la gran lotta, da lungo tempo più non esiste. Quello che adesso si chiama Rhine, è di data posteriore, ed ha un corso diverso da quello dell’antico. Mi sono molto giovato del racconto che Roberts fa di quella battaglia nella _Vita di Monmouth_, cap, XXII, il quale racconto in sostanza concorda con le descrizioni di Dummer. [423] Ho sapute queste cose da persone che abitano presso a Sedgemoor. [424] Oldmixon, 704. [425] Locke, _Ribellione delle contrade occidentali_; Stradling, _Prioria di Chillon_. [426] Locke, _Ribellione delle contrade Occidentali_; Stradling; _Prioria di Chillon_; Oldmixon, 704. [427] Aubrey, _Storia Naturale della Contea di Wilt_, 1691. [428] _Relazione del modo onde fu preso il Duca di Monmouth, pubblicata d’ordine di Sua Maestà: Gazzetta di Francia_, 18–28 luglio 1685; Eachard, III, 770; Burnet, I, 644, e la Nota di Dartmouth; Citters, 10–20 luglio 1685 [429] La lettera di Monmouth al Re fu stampata in quel tempo, per ordine del Governo; quella alla Regina vedova si trova fra le _Lettere originali_ di Sir H. Ellis; l’altra a Rochester è nel _Carteggio_ di Clarendon. [430] «_On trouve_» egli scrisse «_fort à redire icy, qu’il ayt fait une chose si peu ordinaire aux Anglois_;» 13–23 luglio 1685. [431] _Relazione del modo onde fu preso il Duca di Monmouth: Gazzetta_, 16 giugno 1685; Citters, 14–24 luglio. [432] Barillon ne fu manifestamente maravigliato: «_Il se vient de passer icy une chose bien extraordinaire, et fort opposée à l’usage ordinaire des autres nations_.» 13–23 luglio 1685. [433] Burnet, I, 644; Evelyn, Diario, 15 luglio; Sir J. Bramstom, _Memorie_; Revesby, _Memorie_; Giacomo al Principe d’Orange, 14 luglio 1685; Barillon, 16–26 luglio; Ms. Buccleuch. [434] Giacomo al Principe d’Orange, 14 luglio 1685; Dispacci Olandesi della medesima data: Luttrell, _Diario_; Dartmouth, Annotazione a Burnet, I, 646. [435] Ms. Buccleuch; Clarcke, _Vita di Giacomo II_, II, 37; _Mem. Orig_.; Citters, 14–24 luglio 1685; _Gazzetta di Francia_, 1–11 agosto. [436] Ms. Buccleuch; Clarke, _Vita di Giacomo II_, vol. II, 37, 38; _Mem. Orig_.; Burnet, I, 645; la Relazione di Tenison presso Kennet, III, 432, edizione del 1719. [437] Ms. Buccleuch. [438] Il nome di Ketch spesso andava unito con quello di Jeffreys nelle satire di que’ tempi: «Mentre Jeffreys siede sul banco, Ketch siede sul gibetto;» dice un poeta. L’anno che seguì alla morte di Monmouth, Ketch fu destituito per avere insultato uno degli Sceriffi, e gli successe un macellaio chiamato Rose. Ma dopo quattro mesi, Rose fu impiccato in Tyburn, e Ketch rimesso in ufficio. Luttrell, _Diario_, 20 gennaio e 28 maggio, 1686. Vedi una curiosa nota del Dottore Grey all’_Hudibras_, Parte III, Canto II, verso 1534. [439] _Relazione della decapitazione di Monmouth_, firmata dai teologi che lo assisterono. Ms. Buccleuch; Burnet, I, 646; Citters, 17–27 luglio, 1685; Luttrell, _Diario_; Evelyn, _Diario_, 15 luglio; Barillon, 19–29 luglio. [440] Non posso frenarmi d’esprimere il disgusto che provo pensando alla barbara stoltezza che ha trasformata questa interessantissima chiesetta in un luogo che rende immagine d’una sala d’adunanza in una città manifatturiera. [441] _L’Osservatore_, 1 agosto 1685; _Gazzetta di Francia_, 2 novembre 1686; Lettera da Humphrey Vanley, in data del 25 agosto 1698, nella _Collezione_ d’Aubrey; Voltaire, _Dizionario filosofico_. Nella _Collezione_ di Pepys si trovano varie ballate scritte dopo la morte di Monmouth, le quali lo descrivono come vivente, e ne predicono il prossimo ritorno. Ne citerò due brani: «Quantunque questa sia una lugubre storia della caduta del mio disegno, pure verrò di nuovo cinto di gloria se vivrò fino all’ottantanove; poichè io ho un forte esercito e gran copia di munizioni.» «Allora Monmouth si mostrerà in tutta la sua gloria ai suoi amici inglesi, e farà cessare tutte le storielle che si spacciano da per tutto. Vedranno che io non mi sono degradato ad esser preso cogliendo piselli, o nascosto dentro un capannone di fieno. Che strane fandonie sono coteste?» [442] _Gazzetta di Londra_, 3 agosto 1685; _La Battaglia di Sedgemoor_, Farsa. [443] Pepys, Diario scritto in Tangeri; _Ricordi Storici del Reggimento Secondo, ovvero Reggimento R. Regina di Fanteria_. [444] _Tribunale di Sangue_; Burnet, I, 647; Luttrell, _Diario_, 15 luglio 1685; Locke, _Ribellione delle Contrade Occidentali_; Toulmin, _Storia di Taunton_, pubblicata da Savage. [445] Luttrell, _Diario_, 15 luglio 1685; Toulmin, _Storia di Taunton_. [446] Oldmixon, 705; _Vita ed errori di Giovanni Dunton_, cap. 7. [447] Il silenzio di Oldmixon e de’ compilatori del _Martirologio del Paese Occidentale_, mi sembrerebbe bastevole a togliere ogni dubbio. Giova anche notare, che la storiella di Rhynsault è riferita da Steel nel nº 491 dello _Spettatore_. Certamente, egli è appena possibile il credere che se un delitto esattamente simile a quello di Rhynsault, fosse stato commesso, a memoria degli uomini allora viventi, in Inghilterra da un Ufficiale dì Giacomo II, Steel, che era indiscretamente e intempestivamente corrivo a far pompa delle sue opinioni Whig, non avrebbe fatta allusione a quel fatto. Intorno al caso di Lebon, Vedi il _Monitore_, 4 Messidoro, Anno III. [448] Sunderland a Kirke, 14 e 28 luglio 1685. «Sua Maestà» dice Sunderland, «mi comanda di esprimervi il dispiacere che Essa prova a siffatti procedimenti, e desidera che badiate perchè non vi fugga persona alcuna implicata nella ribellione.» È giusto aggiungere che nella medesima lettera Kirke viene biasimato di permettere ai suoi soldati che dimorino fuori le caserme. [449] Vorrei potere prestar fede alla novella popolare, che Ken, immediatamente dopo la battaglia di Sedgemoor, facesse conoscere ai capi dell’armata regia la illegalità delle esecuzioni militari. Non dubito che se egli si fosse trovato presente, avrebbe fatto ogni sforzo per far prevalere la legge e la clemenza. Ma non v’è testimonianza degna di fede, che affermi lui in que’ giorni esservisi trovato. Dai Giornali della Camera de’ Lordi certo risulta, che egli, il giovedì avanti la battaglia, fosse in Westminster. È similmente certo che il lunedì dopo la battaglia, ei si trovasse con Monmouth nella Torre. [450] North, _Vita di Guildford_, 260, 263, 273; Mackintosh, _Sguardo sul regno di Giacomo II_, pag. 16 in nota; Lettera di Jeffreys a Sunderland, 5 settembre 1685. [451] Vedi il preambolo all’Atto con cui il Parlamento revocò la sentenza che dannava Lady Alice a morte infamante. [452] Processo di Alice Lisle, nella _Collezione de’ Processi di Stato_; Stat. I di Gugl. e Mar.; Burnet, I, 649; _Avvertimento contro i Whig_. [453] _Tribunale di Sangue_. [454] Locke, _Ribellione delle Contrade Occidentali_. [455] Ciò che qui affermo posso attestare per rimembranze della mia fanciullezza. [456] Lord Lonsdale dice che fossero settecento; Burnet seicento. Io mi sono attenuto alla lista che i Giudici mandarono al Tesoro, e che tuttora è visibile ivi in un Epistolario del 1685. Vedi il _Tribunale di Sangue_; Locke, _Ribellione delle Contrade Occidentali_; il _Panegirico di Lord Jeffreys_; Burnet, I, 648; Eachard, III, 775; Oldmixon, 705. [457] Alcune delle preci, esortazioni ed inni dei giustiziati si trovano nel _Tribunale di Sangue_. [458] _Tribunale di Sangue_; Locke, _Ribellione delle Contrade Occidentali_; Lord Lonsdale, _Memorie; Narrazione della Battaglia di Sedgemoor_, negli scritti di Hardwicke. Il racconto che ne fa Clarke nella _Vita di Giacomo II_, non è tratto dai manoscritti del re, e si confuta bastevolmente da sè. [459] _Tribunale di Sangue_; Locke, _Ribellione delle Contrade Occidentali; Umile petizione delle Vedove e dagli Orfani delle Contrade Occidentali d’Inghilterra; Panegirico di Lord Jeffreys_. [460] Intorno agli Hewling ho seguito le _Memorie_ di Kiffin, e la narrazione di Hewling Luson, che trovasi nella seconda edizione del Carteggio di Hugues, vol. II, nell’Appendice. I racconti che se ne fanno nella _Ribellione delle Contrade Occidentali di Locke_, e nel _Panegirico_ di Lord Jeffreys, sono pieni d’errori. Gran parte della relazione contenuta nel _Tribunale di Sangue_ fu scritta da Kiffin, e concorda in ogni parola con le sue _Memorie_. [461] Vedi il racconto che Tutchin fa del proprio caso nel _Tribunale di Sangue_. [462] Sunderland a Jeffreys, 14 settembre 1685; Jeffreys al re, 19 settembre 1685, nell’ufficio delle scritture di Stato. [463] La migliore descrizione de’ patimenti de’ ribelli che furono deportati, trovasi in un curiosissimo racconto scritto da Giovanni Coad, legnaiuolo onesto e pieno del timore di Dio. Aveva combattuto per Monmouth, era stato gravemente ferito a Philip’s Norton, processato da Jeffreys e mandato alla Giammaica. Il Ms. originale mi fu cortesemente prestato dal signor Phippard, al quale appartiene. [464] Nei ricordi del Tesoro dell’autunno 1685, sono varie lettere, nelle quali si ordina che vengano fatte indagini intorno ad inezie di questa specie. [465] _Giornali de’ Comuni_, 9 ottobre, 10 novembre, 26 dicembre 1690; Oldmixon, 706; _Panegirico di Jeffreys_. [466] _Vita e morte di Lord Jeffreys; Panegirico di Jeffreys_; Kiffin, _Memorie_. [467] Burnet, I, 368; Evelyn, Diario, 4 febbraio 1684–85, luglio 1686. In una delle satire di quel tempo si leggono le seguenti parole: Mentre era duchessa, ella era gentile, soave e cortese; Quando fu regina, diventò un demonio rabido e furioso. [468] Sunderland a Jeffreys, 14 settembre 1685. [469] Locke, _Ribellione della Contrade Occidentali_; Toulmin, _Storia di Taunton_, edizione di Savage; lettera del duca di Somerset a Sir F. Warre; lettera di Sunderland a Penn, 13 febbraio 1685–86, tratta dall’ufficio delle scritture di Stato, nella collezione di Mackintosh. [470] Burnet, I, 646, e la nota del presidente Onslow; Clarendon a Rochester, 8 maggio 1686. [471] Burnet, I, 634. [472] Calamy, Memorie; _Giornali dei Comuni_, 26 dicembre 1685; Sunderland a Jeffreys, 14 settembre 1685; libro del Consiglio Privato, 23 febbraio 1685–86. [473] Ms. Lansdowne 1152; Ms. Harl. 6845; _Gazzetta di Londra_, 20 luglio 1685. [474] Molti scrittori hanno asserito, senza il più lieve fondamento, che Giacomo concedesse il perdono a Ferguson. Taluni hanno spinta la propria assurdità fino a citare questo perdono immaginario,—il quale, ove fosse vero, proverebbe soltanto che Ferguson era una spia della corte,—in prova della magnanimità e benignità del principe che decapitò Alice Lisle e bruciò Elisabetta Gaunt. Ferguson non solo non fu perdonato, ma escluso nominatamente dall’amnistia generale data nella susseguente primavera (_Gazzetta di Londra_, 15 marzo 1685–86). Se, come ne corse universale sospetto e come sembra probabile, gli fu usata clemenza, questa fu tale che Giacomo, non senza ragione, ne sentiva vergogna; e quindi, per quanto fu possibile, si tenne secreta. Le voci che allora ne corsero in Londra, sono ricordate nell’_Osservatore_, 1º agosto 1685. Sir Giovanni Raresby, che avrebbe dovuto essere bene informato, positivamente afferma, che Ferguson fu preso tre giorni dopo la battaglia di Sedgemoor. Ma Sir Giovanni errò certamente rispetto alla data, ed avrà quindi potuto errare rispetto all’intero fatto. Dalla _Gazzetta di Londra_, e dalla confessione di Goodenough (Ms. Lansdowne 1152), chiaro risulta che quindici giorni dopo la battaglia, Ferguson non era stato preso, e supponevasi nascosto in qualche luogo in Inghilterra. [475] Granger, Storia Biografica, «Jeffreys.» [476] Burnet, I, 648; Giacomo al principe d’Orange, 10 e 20 settembre 1685; Lord Lonsdale, _Memorie; Gazzetta di Londra_, 1º ottobre 1685. [477] Processo di Cornish, nella _Collezione de’ Processi di Stato_; Sir G. Hawles, _Osservazioni sopra il Processo di Cornish_; Burnet, I, 651; _Il Tribunale di Sangue_: Stat. I, Gugl. e Mar. [478] Processi di Fernley e d’Elisabetta Gaunt, nella _Collezione de’ Processi di Stato_; Burnet, I, 649; _Il Tribunale di Sangue_; Sir G. Bramston, _Memorie_; Luttrell, _Diario_, 23 ottobre 1685. [479] Processo di Bateman, nella _Collezione de’ Processi di Stato_; Osservazioni di Sir Giovanni Hawles. È pregio dell’opera raffrontare la testimonianza di Tommaso Lee fatta in questa occasione, con la sua confessione tempo innanzi pubblicata per ordine del Governo. [480] Citters, 13–23 ottobre, 1685. [481] Neal, _Storia de’ Puritani_; Calamy, _Relazione de’ Ministri cacciati, e il Memoriale de’ Non–Conformisti_, contengono copiose prove della severità di questa persecuzione. La lettera d’Addio di Howe al suo gregge, trovasi nella vita di questo grande uomo, scritta egregiamente da Rogers. Howe lamenta di non potere porsi a risico di procedere per le vie di Londra, e la sua salute essere danneggiata per difetto d’aria e di moto. Ma la più viva pittura dei Non–Conformisti ci è data dalla penna di Lestrange, loro mortale nemico, nell’_Osservatore_, ne’ mesi di settembre ed ottobre del 1685. *** End of this LibraryBlog Digital Book "Storia d'Inghilterra, vol 1" *** Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.