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Title: Storia d'Inghilterra, vol 2 Author: Macaulay, Thomas Babington Macaulay, Baron Language: Italian As this book started as an ASCII text book there are no pictures available. *** Start of this LibraryBlog Digital Book "Storia d'Inghilterra, vol 2" *** NOTE DEL TRASCRITTORE: —Corretti gli ovvii errori di stampa e di punteggiatura. —Lʼopera originale non presenta lʼindice; ne è stato prodotto ed inserito uno dal trascrittore. Proprietà letteraria. STORIA DʼINGHILTERRA di LORD MACAULAY, TRADOTTA DA PAOLO EMILIANI–GIUDICI. SECONDA EDIZIONE, RIVEDUTA DAL TRADUTTORE. VOLUME SECONDO. FIRENZE. FELICE LE MONNIER 1860. INDICE CAPITOLO SESTO Pag. 1 CAPITOLO SETTIMO ” 143 CAPITOLO OTTAVO ” 242 CAPITOLO NONO ” 353 CAPITOLO DECIMO ” 493 STORIA DʼINGHILTERRA. CAPITOLO SESTO. SOMMARIO. I. La potenza di Giacomo giunge alla sua maggiore altezza nellʼautunno del 1685.—II. Sua politica estera.—III. Suoi disegni di politica interna; lʼAtto dellʼ_Habeas Corpus_.—IV. Lʼesercito stanziale.—V. Disegni in favore della Religione Cattolica Romana.—VI. Violazione dellʼAtto di Prova; disgrazia di Halifax—VII. Malcontento generale.—VIII. Persecuzione degli Ugonotti francesi.—IX. Effetti da tale persecuzione prodotti in Inghilterra.—X. Ragunanza del Parlamento; discorso del Re; opposizione nella Camera deʼ Comuni.—XI. Sentimenti deʼ Governi stranieri.—XII. Comitato della Camera deʼ Comuni intorno al discorso del Re.—XIII. Sconfitta del Governo.—XIV. Seconda sconfitta del Governo; invettive falle dal Re ai Comuni.—XV. Coke messo in prigione, per aver mancato di rispetto al Re.—XVI. Opposizione al Governo nella Camera deʼ Lordi; il Conte di Devonshire.—XVII. Il Vescovo di Londra.—XVIII. Il Visconte Mordaunt.—XIX. Proroga.—XX. Processi di Lord Gerard e di Hampden.—XXI. Processo di Delamere.—XXII. Effetti dellʼessere stato dichiarato non colpevole.—XXIII. Partiti in Corte; Sentimenti deʼ Tory protestanti.—XXIV. Pubblicazione di scritti trovati nella cassa forte di Carlo II.—XXV. Sentimenti degli uomini più rispettabili fraʼ Cattolici Romani.—XXVI. Cabala dei Cattolici Romani irruenti.—XXVII. Castelmaine; Jermin; White; Tyrconnel.—XXVIII. Sentimenti deʼ ministri dei Governi stranieri.—XXIX. Il Papa e la Compagnia di Gesù in vicendevole opposizione.—XXX. La Compagnia di Gesù.—XXXI. Padre Petre.—XXXII. Umori ed opinioni del Re.—XXXIII. È incoraggiato neʼ suoi errori da Sunderland.—XXXIV. Perfidia di Jeffreys.—XXXV. Godolphin; la Regina; amori del Re.—XXXVI. Caterina Sedley.—XXXVII. Intrighi di Rochester in favore di Caterina Sedley.—XXXVIII. La influenza di Rochester decade.—XXXIX. Castelmaine è inviato a Roma; Giacomo tratta male gli Ugonotti.—XL. La potestà di dispensare.—XLI. Destituzione deʼ Giudici disubbidienti.—XLII. Caso di Sir Eduardo Hales.—XLIII. Ai Romani Cattolici è dato diritto ad occupare i beneficii ecclesiastici; Sclater; Walker.—XLIV. La Decania di Christchurch è data ad un Cattolico Romano.—XLV. Distribuzione deʼ Vescovati.—XLVI. Determinazione di Giacomo ad usare la propria supremazia ecclesiastica contro la Chiesa.—XLVII. Difficoltà a ciò fare.—XLVIII. Crea una nuova Corte dʼAlta Commissione.—XLIX. Procedimenti contro il Vescovo di Londra.—L. Malcontento nato al comparire in pubblico deʼ riti e deʼ vestimenti cattolici romani.—LI. Tumulti.—LII. È formato un campo militare in Hounslow.—LIII. Samuele Johnson.—LIV. Ugo Speke.—LV. Procedimento contro Johnson.—LVI. Zelo del Clero Anglicano contro il papismo; scritti di controversia.—LVII. I Cattolici Romani rimangono vinti.—LVIII. Condizioni della Scozia.—LIX. Queensberry; Perth; Melfort.—LX. Loro apostasia.—LXI. Favore mostrato alla Religione Cattolica Romana in Iscozia; tumulti in Edimburgo.—LXII. Collera del Re.—LXIII. Suoi intendimenti rispetto alla Scozia.—LXIV. Una Deputazione deʼ Consiglieri Privati Scozzesi è mandata a Londra.—LXV. Suoi negoziati col Re; ragunanza degli Stati Scozzesi.—LXVI. Si mostrano disubbidienti.—LXVII. Le loro sessioni vengono aggiornate; sistema arbitrario di governo in Iscozia.—LXVIII. Irlanda.—LXIX. Condizioni delle leggi rispetto a cose religiose.—LXX. Ostilità delle razze; contadini aborigeni.—LXXI. Aristocrazie aborigene.—LXXII. Condizioni della colonia inglese.—LXXIII. Condotta che Giacomo avrebbe dovuto seguire.—LXXIV. Suoi errori—LXXV. Clarendon giunge in Irlanda come Lord Luogotenente.—LXXVI. Sue mortificazioni; paura sparsa fra i coloni.—LXVII. Arrivo di Tyrconnel a Dublino come Generale dʼarmi.—LXXVIII. Parzialità e violenza di lui.—LXXIX. Si studia di far revocare lʼAtto di Stabilimento; ritorna in Inghilterra.—LXXX. Il Re è mal satisfatto di Clarendon.—LXXXI. Rochester è aggredito dalla Cabala gesuitica.—LXXXII. Giacomo si studia di convertire Rochester.—LXXXIII. Destituzione di Rochester.—LXXXIV. Destituzione di Clarendon; Tyrconnel Lord Deputato.—LXXXV. Scoraggiamento deʼ coloni inglesi in Irlanda.—LXXXVI. Effetti della caduta degli Hydes. I. Giacomo trovavasi oramai giunto al più alto grado di potenza e prosperità. Sì in Inghilterra che in Iscozia aveva vinti i suoi nemici, e puniti con una severità che aveva neʼ cuori loro suscitato acerbissimo odio, ma ad un tempo gli aveva efficacemente disanimati. Il partito Whig pareva spento. Il nome di Whig non usavasi mai, tranne come vocabolo di rimprovero. Il Parlamento piegava sommessa la fronte ai voleri del re, il quale aveva potestà di tenerselo sino alla fine del proprio regno. La Chiesa faceva più che mai clamorose proteste di affetto verso lui, proteste chʼella aveva confermate col fatto a tempo della trascorsa insurrezione. I giudici erano suoi strumenti; e qualora non si fossero mostrati tali, stava in lui di cacciarli dʼufficio. I corpi municipali erano pieni di sue creature. Le sue entrate eccedevano dʼassai quelle deʼ suoi predecessori. Ei si gonfiò dʼorgoglio. Non era più lʼuomo il quale, pochi mesi innanzi, tormentato dal dubbio che il trono potesse essergli abbattuto in unʼora sola, aveva implorato con supplicazioni indegne di un re il soccorso dello straniero, ed accettatolo con lacrime di gratitudine. Vagheggiava con la fantasia visioni di dominio e di gloria. Vedevasi già il sovrano predominante dʼEuropa, il campione di molti Stati oppressi da una sola monarchia troppo potente. Fino dal mese di giugno, aveva assicurate le Provincie Unite, che, appena rassettate le faccende dellʼInghilterra, avrebbe mostrato al mondo quanto poco ei temesse la Francia. Giusta siffatte assicuranze, in meno dʼun mese dopo la battaglia di Sedgemoor, concluse con gli Stati Generali un trattato, secondo i principii della triplice alleanza. Fu considerata e allʼAja e a Versailles come circostanza significantissima, che Halifax, perpetuo ed acerrimo nemico della influenza francese, il quale quasi mai, dallʼinizio del regno, era stato consultato sopra alcuno importante negozio, fosse precipuo operatore della lega, in modo da parere che le sue sole parole trovassero ascolto allʼorecchio del principe. E fu circostanza non meno significativa, che innanzi non ne fosse stato fatto pur motto a Barillon. Egli e il suo signore furono presi alla sprovvista. Luigi ne rimase sconcertato, e mostrò grave e non irragionevole ansietà rispetto ai futuri disegni di un principe, il quale, poco avanti, era stato suo pensionato e vassallo. Correva molto la voce che Guglielmo dʼOrange si affaccendasse a formare una grande confederazione, che doveva comprendere i due rami della Casa dʼAustria, le Provincie Unite, il regno di Svezia e lo Elettorato di Brandenburgo. Adesso pareva che tale confederazione dovesse avere a capo il re e il Parlamento dʼInghilterra.[1] II. Difatti, furono iniziate pratiche tendenti a simile scopo. La Spagna propose di formare una stretta lega con Giacomo; il quale accolse favorevolmente la proposta, comecchè chiaro apparisse che tale alleanza sarebbe stata poco meno che una dichiarazione contro la Francia. Ma ei differì la sua ultima risoluzione fino alla nuova ragunanza del Parlamento. Le sorti della Cristianità pendevano dalla disposizione in cui egli avrebbe trovata la Camera deʼ Comuni. Se essa era inchinevole ad approvare i suoi divisamenti di politica interna, non vi sarebbe stata cosa alcuna che gli avesse impedito dʼintervenire con vigore ed autorità nella gran contesa che tosto doveva travagliarsi nel continente. Se la Camera era disubbidiente, egli sarebbe stato costretto a deporre ogni pensiero dʼarbitrato tra le nazioni contendenti, ad implorare nuovamente lo aiuto della Francia, a sottoporsi di nuovo alla dittatura francese, a diventare potentato di terza o quarta classe, e a rifarsi del dispregio, in che lo avrebbero tenuto gli stranieri, trionfando della legge e della pubblica opinione nel proprio regno. III. E veramente, non sembrava facile chʼegli chiedesse ai Comuni più di quello che essi inchinavano a concedere. Avevano già date abbondevoli prove dʼessere desiderosi di serbare intatte le regie prerogative, e di non patire eccessivi scrupoli a notare le usurpazioni chʼegli faceva contro i diritti del popolo. Certo, undici dodicesimi deʼ rappresentanti o dipendevano dalla Corte, o erano zelanti Cavalieri di provincia. Poche erano le cose che una tale Assemblea avrebbe pertinacemente ricusate al Sovrano; e fu fortuna per la nazione, che tali poche cose fossero quelle appunto che a Giacomo stavano più a cuore. Uno deʼ suoi fini era quello dʼottenere la revoca dellʼ_Habeas Corpus_, che egli odiava, come era naturale che un tiranno odiasse il freno più vigoroso che la legislazione impose mai alla tirannide. Cotesto odio gli rimase impresso in mente fino allʼultimo dì di sua vita, e si manifesta negli avvertimenti chʼegli scrisse in esilio per erudimento del figlio.[2] Ma lʼ_Habeas Corpus_, quantunque fosse una legge fatta mentre i Whig dominavano, non era meno cara ai Tory che ai Whig. Non è da maravigliare che questa gran legge fosse tenuta in tanto pregio da tutti glʼInglesi, senza distinzione di partito; perocchè, non per indiretta, ma per diretta operazione contribuisce alla sicurezza e felicità di ogni abitante del Regno.[3] IV. Giacomo vagheggiava un altro disegno, odioso al partito che lo aveva posto sul trono, e ve lo manteneva. Desiderava formare un grande esercito stanziale. Erasi giovato dellʼultima insurrezione per accrescere considerevolmente le forze militari lasciate dal fratello. I corpi che oggidì si chiamano i primi sei reggimenti delle guardie a cavallo, il terzo e quarto reggimento dei dragoni, e i nove reggimenti di fanteria, dal settimo al decimoquinto inclusivamente, erano stati pur allora formati.[4] Lo effetto di tale aumento, e del richiamo del presidio di Tangeri, fu che il numero delle truppe regolari in Inghilterra, erasi in pochi mesi accresciuto da sei mila a circa ventimila uomini. Nessuno deʼ Re nostri in tempo di pace aveva avuto mai tante forze sotto il suo comando. E Giacomo non ne era nè anche soddisfatto. Ripeteva spesso, come non fosse da riposare sulla fedeltà delle milizie civiche, le quali partecipavano di tutte le passioni della classe a cui appartenevano; che in Sedgemoor sʼerano trovati nellʼarmata ribelle più militi cittadini che non fossero nel campo regio; e che se il trono fosse stato difeso soltanto dalle milizie delle Contee, Monmouth avrebbe marciato trionfante da Lyme a Londra. La rendita, per quanto potesse sembrare grande, in agguaglio di quella deʼ Re precedenti, serviva appena a questa nuova spesa. Gran parte deʼ proventi delle nuove tasse spendevasi nel mantenimento della flotta. Sul finire del regno antecedente, lʼintera spesa dellʼarmata, incluso il presidio di Tangeri, era stata minore di trecento mila lire sterline annue. Adesso non sarebbero bastate seicento mila sterline.[5] Se nuovi aumenti dovevano farsi, era necessario chiedere altra pecunia al Parlamento; e non era probabile che esso si sarebbe mostrato proclive a concedere. Il semplice nome dʼesercito stanziale era in odio a tutta la nazione, e a nessuna parte di quella più in odio, che ai gentiluomini Cavalieri, i quali riempivano la Camera Bassa. Nella loro mente, la idea dʼun esercito stanziale richiamava lʼimmagine della Coda del Parlamento, del Protettore, delle spoliazioni della Chiesa, della purgazione delle Università, dellʼabolizione della Parìa, dellʼassassinio del Re, del tristo regno deʼ Santocchi, del piagnisteo e dellʼascetismo, delle multe e deʼ sequestri, deglʼinsulti che i Generali, usciti dalla feccia del popolo, avevano recato alle più antiche ed onorevoli famiglie del reame. Inoltre, non vʼera quasi baronetto o scudiere nel Parlamento, che non andasse non poco debitore della propria importanza nella propria Contea al grado chʼegli aveva nella milizia civica. Se essa veniva abolita, era mestieri che i gentiluomini inglesi perdessero gran parte della loro dignità ed influenza. Era, dunque, probabile che il Re incontrasse maggiori difficoltà ad ottenere i mezzi per il mantenimento dello esercito, che ad ottenere la revoca dellʼ_Habeas Corpus_. V. Ma ambidue i predetti disegni erano subordinati al grande divisamento al quale il Re con tutta lʼanima intendeva, ma che era aborrito da quei gentiluomini Tory, i quali erano pronti a spargere il proprio sangue per difendere i diritti di lui; aborrito da quella Chiesa che non aveva mai, per lo spazio di tre generazioni di discordie civili, vacillato nella fedeltà verso la sua casa; aborrito perfino da quellʼarmata alla quale, negli estremi, era dʼuopo chʼei sʼaffidasse. La sua religione era tuttavia proscritta. Molte leggi rigorose contro i Cattolici Romani contenevansi nel Libro degli Statuti, e non molto tempo innanzi erano state rigorosamente eseguite. LʼAtto di Prova escludeva dagli ufficii civili e militari tutti coloro che dissentivano dalla Chiesa dʼInghilterra; e un Atto posteriore, proposto ed approvato allorché le fandonie di Oates avevano resa frenetica la nazione, ordinava che niuno potesse sedere in nessuna delle Camere del Parlamento se prima non avesse solennemente abiurato la dottrina della transustanziazione. Che il Re desiderasse ottenere piena tolleranza per la Chiesa alla quale egli apparteneva, era cosa naturale e giusta; nè vʼè ragione alcuna a dubitare che, con un poʼ di pazienza, di prudenza e di giustizia, avrebbe ottenuta tale tolleranza. La immensa avversione e paura che il popolo inglese provava per la religione di Giacomo, non era da attribuirsi solamente o principalmente ad animosità teologica. Tutti i dottori della Chiesa Anglicana, non che i più illustri non–conformisti, unanimemente ammettevano che la eterna salute potesse trovarsi anche nella Chiesa Romana: che anzi alcuni credenti di quella Chiesa annoveravansi fra i più illustri eroi della virtù cristiana. È noto che le leggi penali contro il papismo erano ostinatamente difese da molti, che reputavano lʼArianismo, il Quacquerismo, il Giudaismo, considerati spiritualmente, più pericolosi del papismo, e non erano disposti a fare simiglianti leggi contro gli Ariani, i Quacqueri o i Giudei. È facile comprendere perché il Cattolico Romano venisse trattato con meno indulgenza di quella che usavasi ad uomini i quali non credevano nella dottrina deʼ Padri di Nicea, e anche a coloro che non erano stati ammessi nel grembo della Fede Cristiana. Era fra glʼInglesi fortissima la convinzione che il Cattolico Romano, sempre che si trattava dellʼinteresse della propria religione, si credesse sciolto da tutti gli ordinarii dettami della morale; che anzi reputasse meritorio violarli, se, così facendo, poteva liberare dal danno o dal biasimo la Chiesa di cui egli era membro. Nè questa opinione era priva dʼuna certa apparenza di ragione. Era impossibile negare, che varii celebri casuisti cattolici romani avessero scritto a difesa del parlare equivoco, della restrizione mentale, dello spergiuro, e perfino dellʼassassinio. Nè, come dicevasi, le speculazioni di cotesta odiosa scuola di sofisti erano state sterili di frutti. La strage della festività di San Bartolommeo, lo assassinio del primo Guglielmo dʼOrange, quello dʼEnrico III di Francia, le molte congiure macchinate aʼ danni dʼElisabetta, e sopra tutte quella delle polveri, venivano di continuo citate come esempii della stretta connessione tra la viziosa teoria e la pratica viziosa. Allegavasi, come ciascuno di cotali delitti fosse stato suggerito e lodato daʼ teologi cattolici romani. Le lettere che Eduardo Digby scrisse dalla Torre col succo di limone alla propria moglie, erano state di fresco pubblicate, e citavansi spesso. Egli era uomo dotto e gentiluomo onesto in ogni cosa, e forte animato del sentimento del dovere verso Dio. E nondimeno, era stato profondamente implicato nella congiura ordita a fare saltare in aria il Re, i Lordi e i Comuni; e sul punto di andare alla eternità, aveva dichiarato di non sapere intendere in che guisa un Cattolico Romano potesse stimare peccaminoso un tale disegno. La conseguenza che il popolo deduceva da siffatte cose, era che, per quanto onesto si volesse immaginare il carattere dʼun papista, non vi era eccesso di fraude e di crudeltà, di cui egli non fosse capace ogni qualvolta ne andasse della securtà e dellʼonore della propria religione. La straordinaria credenza che ebbero le favole di Oates, è massimamente da attribuirsi al prevalere di tale opinione. Era inutile che lo accusato Cattolico Romano allegasse la integrità, umanità e lealtà da lui mostrate in tutto il corso della propria vita. Era inutile chʼegli adducesse a schiere testimoni rispettabili appartenenti alla sua religione, per contraddire i mostruosi romanzi inventati dallʼuomo più infame del genere umano. Era inutile che, col capestro al collo, invocasse sopra il suo capo la vendetta di quel Dio, al cospetto del quale, tra pochi momenti, egli doveva presentarsi, se ei fosse stato reo di avere meditato alcun male contro il suo principe, o i suoi concittadini protestanti. Le testimonianze addotte in proprio favore servivano solo a provare quanto poco valessero i giuramenti deʼ papisti. Le sue stesse virtù facevano presumere la sua propria reità. Il vedersi dinanzi agli occhi la morte e il giudicio, rendeva più verisimile chʼegli negasse ciò che, senza danno dʼuna causa santissima, non avrebbe potuto confessare. Tra glʼinfelici convinti rei dellʼassassinio di Godfrey, era stato Enrico Berry, protestante di fama non buona. È cosa notevole e bene provata, che le estreme parole di Berry contribuirono più a togliere credenza alla congiura, di quel che facessero le dichiarazioni di tutti i pii ed onorevoli Cattolici Romani che patirono la medesima sorte.[6] E non erano solo lo stolto volgo, i soli zelanti, nello intelletto deʼ quali il fanatismo aveva spento ogni ragione e carità, coloro che consideravano il Cattolico Romano come uomo che, per la facilità della propria coscienza, di leggieri diventava falso testimonio, incendiario, o assassino; come uomo che trattandosi della propria religione non abborriva da qual si fosse atrocità, e non si teneva vincolato da nessuna specie di giuramento. Se in quellʼetà vʼerano due che per intendimento o per indole inclinassero alla tolleranza, queʼ due erano Tillotson e Locke. Nonostante, Tillotson, che per essersi sempre mostrato indulgente a varie classi di scismatici ed eretici, ebbe rimprovero dʼeterodosso, disse dal pulpito alla Camera deʼ Comuni, essere loro debito di provvedere con somma efficacia contro la propaganda dʼuna religione più malefica della irreligione stessa; dʼuna religione che richiedeva daʼ suoi proseliti servigii direttamente opposti ai principii della morale. Confessò come per indole ei fosse prono alla dolcezza; ma il proprio dovere verso la società lo forzava, in quella sola circostanza, ad essere severo. Dichiarò che, secondo egli pensava, i Pagani che non avevano mai udito il nome di Cristo ed erano solo diretti dal lume della ragione naturale, erano membri della civile comunanza più degni di fiducia, che gli uomini educati nelle scuole deʼ casisti papali.[7] Locke, nel celebre trattato, nel quale si affaticò a dimostrare che anche le più grossolane forme dellʼidolatria non erano da inibirsi con leggi penali, sostenne che quella Chiesa la quale insegnava agli uomini di non serbare fede agli eretici, non aveva diritto alla tolleranza.[8] Egli è evidente che, in tali circostanze, il grandissimo dei servigi che un Inglese cattolico romano avrebbe potuto rendere ai propri confratelli, era quello di provare al pubblico, che qualunque cosa alcuni temerari, in tempi di forti commovimenti, avessero potuto scrivere o fare, la sua Chiesa non ammetteva che il fine giustifichi i mezzi incompatibili con la morale. E Giacomo poteva mirabilmente rendere alla fede un tanto servigio. Era Re, e il più potente di quanti principi fossero stati sul trono dʼInghilterra a memoria degli uomini più vecchi. Stava in lui far cessare o rendere perpetuo il rimprovero che si faceva alla sua religione. Sʼegli si fosse uniformato alle leggi, se avesse mantenute le fatte promissioni, se si fosse astenuto dallʼadoperare alcun mezzo iniquo a propagare le sue proprie opinioni teologiche, se avesse sospesa lʼazione degli statuti penali, usando largamente della sua incontrastabile prerogativa di far grazia, a un tempo astenendosi di violare la costituzione civile ed ecclesiastica del Regno; il sentire del suo popolo si sarebbe rapidamente cangiato. Un tanto esempio di buona fede scrupolosamente osservato da un principe papista verso una nazione protestante, avrebbe spenti i comuni sospetti. Quegli uomini che vedevano come a un Cattolico Romano si concedesse dirigere il potere esecutivo, comandare le forze di terra e di mare, convocare o sciogliere il Parlamento, nominare i Vescovi e Decani della Chiesa dʼInghilterra, avrebbero tosto cessato di temere che vi fosse gran male, permettendo ad un Cattolico Romano dʼessere capitano dʼuna compagnia, o aldermanno dʼun borgo. E forse, in pochi anni, la setta per tanto tempo detestata dalla nazione, sarebbe stata, con plauso universale, ammessa agli uffici e al Parlamento. Se, dallʼaltro canto, Giacomo avesse tentato di promuovere glʼinteressi della Chiesa, violando le leggi fondamentali del suo regno e le solenni promesse da lui ripetutamente fatte al cospetto di tutto il mondo, mal potrebbe dubitarsi che gli addebiti che, secondo lʼandazzo, facevansi contro la Religione Cattolica, si considerassero da tutti i Protestanti come pienamente stabiliti. Imperocchè, se mai si fosse potuto sperare che un Cattolico Romano fosse capace di mantenere fede agli eretici, si sarebbe potuto supporre che Giacomo mantenesse fede al clero Anglicano. Ad esso egli andava debitore della sua corona; e se esso non avesse potentemente avversata la legge dʼEsclusione, egli sarebbe stato un esule. Aveva più volte ed enfaticamente riconosciuto i propri obblighi verso quello, e giurato di non attentare minimamente ai diritti spettanti alla Chiesa. Sʼegli non poteva sentirsi obbligato da cosiffatti vincoli, risultava manifestamente che, in ogni cosa concernente la sua superstizione, non vʼera vincolo di gratitudine o di onore che potesse obbligarlo. Era quindi impossibile aver fiducia in lui; e se i suoi popoli non potevano fidarsi di lui, qual altro membro della sua Chiesa era egli meritevole di fiducia? Non era reputato costituzionalmente e per usanza traditore. Per il brusco contegno e la mancanza di riguardo verso gli altrui sentimenti, sʼera scroccato una fama di sincero chʼegli affatto non meritava. I suoi panegiristi affettano di chiamarlo Giacomo il Giusto. Se dunque diventando papista, volesse supporsi chʼegli fosse parimente divenuto dissimulatore e spergiuro, quale conclusione doveva ricavarne un popolo ormai disposto a credere che il papismo avesse perniciosa influenza sul carattere morale dellʼuomo? VI. Per tali ragioni, molti deʼ più illustri cattolici, e fra gli altri il sommo Pontefice, opinavano che glʼinteressi della loro Chiesa nellʼisola nostra verrebbero più efficacemente promossi da una politica costituzionale e moderata. Ma cosiffatte ragioni non facevano punto effetto nel tardo intelletto e nella imperiosa indole di Giacomo. Nel suo ardore a rimuovere glʼimpedimenti che gravavano i suoi correligionari, egli appigliossi ad un partito tale, da persuadere ai più culti e moderati protestanti di quel tempo, che per la salute dello Stato era necessario mantenere in vigore i suddetti impedimenti. Alla politica di lui glʼInglesi Cattolici erano debitori di tre anni di sfrenato e insolente trionfo, e cento quaranta anni di servitù ed abiezione. Molti Cattolici Romani occupavano uffici neʼ reggimenti novellamente formati. Questa violazione della legge per qualche tempo non fu censurata; perocchè le genti non erano disposte a notare ogni irregolarità che commettesse un Re chiamato appena sul trono a difendere la corona e la vita contro i ribelli. Ma il pericolo non era più. Glʼinsorti erano stati vinti e puniti. Il loro malaugurato attentato aveva accresciuta forza al Governo che speravano abbattere. Nondimeno, Giacomo seguitò a concedere comandi militari ad individui privi delle qualità richieste dalla legge; e dopo poco si seppe chʼegli era risoluto di non considerarsi vincolato dallʼAtto di Prova, che sperava dʼindurre il Parlamento a revocarlo, e che ove il Parlamento si fosse mostrato disubbidiente, egli avrebbe fatto da sè. Appena sparsa cotesta voce, un profondo mormorare, foriero di procella, gli dette avviso che lo spirito, innanzi al quale lʼavo, il padre e il fratello di lui erano stati costretti a indietreggiare, come che tacesse, non era spento. Lʼopposizione mostrossi primamente nel Gabinetto. Halifax non ardì nascondere il disgusto e la trepidazione che gli stavano in cuore. In Consiglio animosamente espresse queʼ sentimenti, che, come tosto si vide, concitavano tutta la nazione. Da nessuno deʼ suoi colleghi fu secondato; e non si parlò altrimenti della cosa. Fu chiamato alle stanze reali. Giacomo si studiò di sedurlo coʼ complimenti e con le blandizie, ma non ottenne nulla. Halifax ricusò positivamente di promettere che avrebbe nella Camera deʼ Lordi votato a favore della revoca sia dellʼAtto di Prova, sia dellʼ_Habeas Corpus_. Taluni di coloro che stavano dintorno al Re, lo consigliarono a non cacciare allʼopposizione, in sulla vigilia del ragunarsi del Parlamento, il più eloquente ed esperto uomo di Stato che fosse nel Regno. Gli dissero che Halifax amava la dignità e gli emolumenti dellʼufficio; che mentre seguitava a rimanere Lord Presidente, non gli sarebbe stato possibile adoperare tutta la propria forza contro il Governo, e che destituirlo era il medesimo che emanciparlo da ogni ritegno. Il Re si tenne ostinato. Ad Halifax fu fatto sapere che non vʼera più mestieri deʼ suoi servigi, e il suo nome fu casso dal Libro del Consiglio.[9] VII. La sua destituzione produsse gran senso non solo in Inghilterra, ma anche in Parigi, in Vienna e nellʼAja; imperciocchè bene sapevasi, come egli si fosse sempre studiato di frustrare la influenza che la Francia esercitava nelle cose politiche della Gran Brettagna. Luigi si mostrò grandemente lieto della nuova. I ministri delle Provincie Unite e quelli di Casa dʼAustria, dallʼaltro canto, esaltavano la saviezza e la virtù del deposto uomo di Stato, in modo da offendere la Corte di Whitehall. Giacomo, in ispecie, era incollerito contro il segretario della legazione imperiale, il quale non si astenne dal dire che gli eminenti servigi resi da Halifax nel dibattimento intorno alla Legge dʼEsclusione, erano stati rimunerati con somma ingratitudine.[10] Dopo poco tempo si conobbe che molti sarebbero stati i seguaci di Halifax. Una parte deʼ Tory, guidati da Danby loro antico capo, cominciarono a parlare un linguaggio che olezzava di spirito Whig. Persino i prelati accennavano esservi un punto in cui la lealtà verso il principe doveva cedere a più alte ragioni. Il malcontento deʼ capi dellʼarmata era anche più straordinario e più formidabile. Principiavano già ad apparire i primi segni di queʼ sentimenti che, tre anni dipoi, spinsero molti ufficiali dʼalto grado a disertare la bandiera regia. Uomini che per lo avanti non avevano mai avuto scrupolo alcuno, subitamente divennero scrupolosi. Churchill susurrava sottovoce, che il Re andava troppo oltre. Kirke, pur allora ritornato dalle stragi dʼoccidente, giurava di difendere la religione protestante. E quandʼanche, ei diceva, avesse ad abiurare la fede alla quale era stato educato, non sarebbe mai diventato papista. Egli era già vincolato da una solenne promessa allo imperatore di Marocco, al quale aveva giurato che se mai si fosse indotto ad apostatare, si sarebbe fatto Musulmano.[11] VIII. Mentre la nazione, agitata da molte veementi emozioni, aspettava ansiosa il ragunarsi delle Camere, giunsero di Francia nuove, che accrebbero lo universale eccitamento. La diuturna ed eroica lotta degli Ugonotti col Governo francese era stata condotta a fine dalla destrezza e dal vigore di Richelieu. Il grande uomo di Stato gli vinse; ma confermò loro la libertà di coscienza ad essi conceduta dallo editto di Nantes. Fu loro promesso, sotto alcune non incomode restrizioni, dʼadorare Dio secondo il loro rituale, e di scrivere in difesa della loro dottrina. Erano ammissibili agli uffici politici e militari; nè la eresia loro, per uno spazio considerevole di tempo, impedì ad essi praticamente dʼinnalzarsi nel mondo. Alcuni di loro comandavano lo armate dello Stato, ed altri presiedevano aʼ dipartimenti dʼimportanza nellʼamministrazione civile. Finalmente, variò la fortuna. Luigi XIV, fino dagli anni suoi primi, aveva sentita contro i Calvinisti unʼavversione religiosa e insieme politica. Come zelante Cattolico Romano, detestava i loro domini teologici. Come principe amante del potere assoluto, detestava quelle teorie repubblicane, che erano frammiste alla teologia ginevrina. A poco a poco privò gli scismatici di tutti i loro privilegi. Sʼintromise nella educazione deʼ fanciulli protestanti, confiscò gli averi lasciati in legato ai Concistori protestanti, e con frivoli pretesti chiuse tutte le chiese protestanti. I ministri protestanti furono spogliati daʼ riscuotitori delle tasse. I magistrati protestanti furono privati dellʼonore della nobiltà. Agli ufficiali protestanti della Casa Reale fu annunziato che Sua Maestà più non aveva mestieri deʼ loro servigi. Furono dati ordini perchè nessun protestante fosse ammesso alla professione di legale. La oppressa setta mostrò qualche lieve segno di quello spirito che, nel secolo precedente, aveva sfidata la potenza della Casa di Valois. Ne seguirono stragi e pene capitali. Furono acquartierate compagnie di dragoni nelle città dove gli eretici erano numerosi, e nelle abitazioni rurali di gentiluomini eretici; e la crudeltà e la licenza di cotesti feroci missionari, era approvata o debolmente biasimata dal Governo. Nondimeno, lo editto di Nantes, quantunque fosse stato violato di fatto in tutte le sue più essenziali provvisioni, non era stato per anche formalmente revocato; e il Re più volte dichiarò in solenni atti pubblici, dʼessere deliberato a mantenerlo. Ma i bacchettoni e gli adulatori, che governavano lʼorecchio del Re, gli porsero un consiglio chʼei volentieri accolse. Gli dimostrarono la sua politica di rigore avere già prodotti stupendi effetti, poca o nessuna resistenza essersi fatta al suo volere, migliaia dʼUgonotti essersi già convertiti; e conclusero che, ove egli facesse lʼunico passo che rimaneva a compire lʼopera, coloro che seguitavano a ricalcitrare, si sarebbero sollecitamente sottomessi; la Francia sarebbe purgata della macchia dʼeresia; e il suo principe si sarebbe acquistata una corona celeste non meno gloriosa di quella di San Luigi. Tali argomenti vinsero lʼanimo del Re. Il colpo finale fu dato. Lo editto di Nantes venne revocato; e comparvero, rapidamente succedendosi, numerosi decreti contro i settarii. I fanciulli e le fanciulle furono strappati dalle braccia deʼ genitori, e mandati ad educarsi nei conventi. A tutti i Ministri Calvinisti fu ingiunto o di abiurare la loro religione, o dentro quindici giorni uscire dal territorio della Francia. Agli altri credenti della Chiesa Riformata fu inibito di partirsi dal Regno; e a fine dʼimpedire loro la fuga, i porti e i confini vennero rigorosamente guardati. In tal modo, il traviato gregge—sperava il principe—diviso dai malvagi pastori, sarebbe tosto ritornato in grembo alla vera fede. Ma, a dispetto di tutta la vigilanza della polizia militare, numerosissimi furono gli emigrati. Fu calcolato che in pochi mesi cinquantamila famiglie dissero per sempre addio alla Francia. Nè i fuggenti erano tali da importar poco alla patria che li perdeva. Erano per lo più persone intelligenti, industriose e di austera morale. Trovavansi fra loro nomi illustri nella milizia, nelle scienze, nelle lettere, nelle arti. Parecchi degli esuli offersero le spade loro a Guglielmo dʼOrange, e si resero notevoli pel furore onde combatterono contro il loro persecutore. Altri vendicaronsi con armi anco più formidabili, e per mezzo delle stamperie dʼOlanda, dʼInghilterra, di Germania, infiammarono per trenta anni gli animi di tutta lʼEuropa contro il Governo Francese. Una classe più pacifica di gente istituì manifattorie di seta nel suburbio orientale di Londra. Una compagnia dʼesuli insegnò ai Sassoni a fare le stoffe e i cappelli, di che fino allora la sola Francia aveva tenuto il monopolio. Unʼaltra piantò le prime viti nelle vicinanze del Capo di Buona Speranza.[12] In circostanze ordinarie, le Corti di Spagna e di Roma avrebbero fatto plauso ad un principe che aveva vigorosamente guerreggiato contro la eresia. Ma tanto era lʼodio ispirato dalla ingiustizia ed alterigia di Luigi, che, fattosi egli persecutore, le Corti di Roma e di Spagna presero le parti della libertà religiosa, e forte riprovarono le crudeltà di scagliare senza freno sopra genti inoffensive una feroce e licenziosa soldatesca.[13] Un grido unanime di dolore e di rabbia levossi daʼ petti di tutti i protestanti dʼEuropa. La nuova della revoca dello editto di Nantes giunse in Inghilterra circa una settimana innanzi che si aggiornasse il Parlamento. Apparve allora manifesto, che lo spirito di Gardiner e del Duca dʼAlba seguitava sempre ad animare la Chiesa Cattolica Romana. Luigi non era da meno di Giacomo per generosità ed umanità, e certo eragli superiore in tutte le doti e i requisiti dʼuomo di Stato. Luigi, al pari di di Giacomo, aveva ripetutamente promesso di rispettare i privilegi deʼ suoi sudditi protestanti. Nulladimeno, Luigi adesso era diventato scopertamente persecutore della religione riformata. Quale ragione, dunque, eravi a dubitare che Giacomo aspettasse solo la occasione di seguire lo esempio del Re francese? Egli andava già formando, a dispetto della legge, una forza militare composta in gran parte di Cattolici Romani. Vi era nulla dʼirragionevole nel timore che tale forza potesse venire adoperata a fare ciò che i dragoni francesi avevano fatto? IX. Giacomo rimase conturbato quasi al pari deʼ suoi sudditi per la condotta della Corte di Versailles. A dir vero, essa aveva agito in modo che parea volesse essergli dʼimpaccio e di molestia. Egli stava sul punto di chiedere al corpo legislativo protestante piena tolleranza pei Cattolici Romani. Nulla, quindi, gli poteva giungere tanto importuno, quanto la nuova che in uno Stato vicino, un Governo cattolico romano avesse pur allora privati della tolleranza i protestanti. La sua vessazione fu accresciuta da un discorso che il Vescovo di Valenza, a nome del clero gallicano, diresse a Luigi XIV. Lʼoratore diceva, come il pio sovrano dellʼInghilterra sperasse dal Re Cristianissimo soccorso contro una nazione eretica. Fu notato che i membri della Camera deʼ Comuni mostravansi singolarmente ansiosi di procurarsi esemplari di cotesta arringa, la quale venne letta da tutti glʼInglesi con isdegno e timore.[14] Giacomo voleva frustrare la impressione da siffatte cose prodotta, ed in quel momento mostrare allʼEuropa di non essere schiavo della Francia. Dichiarò quindi pubblicamente, comʼegli disapprovasse il modo onde gli Ugonotti erano stati trattati; largì agli esuli qualche soccorso dal suo tesoro privato; e con lettere munite del gran sigillo, invitò i suoi sudditi ad imitare la liberalità sua. In pochi mesi chiaro si conobbe, come la mostrata commiserazione fosse finta a blandire il Parlamento; come egli sentisse verso i fuorusciti odio mortale; e come di nulla tanto si dolesse, quanto della propria impotenza a fare ciò che Luigi aveva compìto. X. Il dì 9 di novembre, le Camere si ragunarono. I Comuni furono chiamati alla barra deʼ Lordi a udire il discorso della Corona, profferito dal Re stesso sul trono. Lo avea composto da sè. Congratulossi coi suoi amatissimi sudditi di vedere spenta la ribellione nelle Contrade Occidentali; ma soggiunse che la celerità onde quella ribellione era nata e formidabilmente cresciuta, e la lunghezza del tempo in che essa aveva infuriato, dovevano convincere ciascuno quanto poco conto si potesse fare delle milizie cittadine. Aveva per ciò aumentata lʼarmata regolare. Le spese a mantenerla quinci innanzi sarebbero più che raddoppiate; ed aveva fiducia che i Comuni gli concederebbero i mezzi a provvedervi. Annunziò poi agli uditori dʼavere impiegati parecchi ufficiali i quali non sʼerano sottoposti allʼAtto di Prova; ma egli li conosceva ben degni della pubblica fiducia. Temeva che gli uomini astuti si sarebbero giovati di cotesta irregolarità per turbare la concordia che esisteva tra lui e il Parlamento. Ma gli era forza di parlare schietto, dichiarando di essere fermissimo a non dividersi, da servi sulla cui fedeltà ei poteva riposare, e del cui soccorso forse tra poco tempo avrebbe egli avuto mestieri.[15] La esplicita dichiarazione, chʼegli aveva rotte le leggi dalla nazione reputate principalissime tutrici della religione stabilita, e chʼegli era determinato a persistere nel violarle, non era atta a mansuefare gli esasperati animi deʼ suoi sudditi. I Lordi, rade volte inchinevoli ad iniziare lʼopposizione al Governo, consentirono a votare formali rendimenti di grazie per le cose espresse dal Re nel proprio discorso. Ma i Comuni furono meno proclivi. Ritornati alla sala delle loro adunanze, vi fu un profondo silenzio; e sui visi di molti spettabilissimi rappresentanti era dipinta la profonda inquietudine degli animi. Infine, Middleton alzossi, e propose che la Camera subitamente si formasse in Comitato intorno al discorso del Re; ma Sir Edmondo Jennings, Tory zelante della Contea di York, che supponevasi esprimesse il pensiero di Danby, protestò contro, e chiese tempo a considerare maturamente la cosa. Sir Tommaso Clarges, zio materno del Duca di Albemarle, e da lungo tempo rinomato in Parlamento come uomo atto agli affari ed economo della pubblica pecunia, fece eco alle parole di Jennings. Il sentire della Camera deʼ Comuni non poteva non esser chiaro a tutti. Sir Giovanni Ernley, Cancelliere dello Scacchiere, insistè onde lo indugio non fosse più di quarantotto ore; ma gli fu forza cedere, e deliberossi di differire la discussione a tre giorni.[16] Questo intervallo di tempo fu bene adoperato da coloro che erano capi della opposizione alla Corte. E davvero, non era lieve la impresa che si studiavano di compiere. In tre giorni dovevano riordinare un partito patriottico. Non è agevole neʼ giorni nostri intendere la difficoltà di ciò fare; perocchè oggidì può dirsi che la intera nazione assista alle deliberazioni deʼ Lordi e dei Comuni. Ciò che vien detto dai capi del ministero o della opposizione dopo la mezza notte, si legge allʼalba da tutta la metropoli, nel pomeriggio dagli abitanti di Northumberland e di Cornwall, e nella mattina seguente in Irlanda e nelle montagne della Scozia. Nellʼetà nostra, quindi, tutti gli stadii della legislazione, le regole della discussione, la strategia delle fazioni, le opinioni, gli umori, lo stile dʼogni membro di ambedue le Camere, sono cose familiari a centinaia di migliaia dʼuomini. Chiunque adesso entri in Parlamento, possiede ciò che nel secolo decimosettimo si sarebbe reputato gran tesoro di scienza parlamentare. La quale allora nessuno avrebbe potuto acquistare senza aver fatto il tirocinio nel Parlamento. La diversità fra un membro antico ed uno nuovo, era quanta la diversità che corre tra un vecchio soldato ed una recluta di recente tolta allʼaratro; e il Parlamento di Giacomo comprendeva un affatto insolito numero di nuovi membri, i quali dalle loro rurali residenze sʼerano recati a Westminster, privi di sapere politico, e pieni di violenti pregiudizi. Questi gentiluomini odiavano i papisti, ma non portavano odio meno forte ai Whig, e sentivano pel Re superstiziosa venerazione. Di cotesti materiali formare una opposizione, era un fatto che richiedeva arte e delicatezza infinite. Molti uomini di grande importanza, nondimeno, assunsero la impresa e la compirono con esito felice. Vari esperti politici Whig che non sedevano in quel Parlamento, davano utili consigli ed erudimenti. Nel dì che precesse al fissato per la discussione, si tennero molti convegni, dove gli esperti capi ammaestrarono i novizi; e tosto si vide come tali sforzi non fossero stati invano.[17] XI. Le legazioni straniere furono tutte in commovimento. Intendevasi bene che fra pochi giorni si sarebbe risoluta la gran questione, se il Re dʼInghilterra sarebbe o no il vassallo di quello di Francia. I ministri di casa dʼAustria desideravano ardentemente che Giacomo satisfacesse al Parlamento. Papa Innocenzo aveva inviati a Londra due uomini, ai quali aveva commesso di inculcare moderazione e con gli ammonimenti e con lo esempio. Uno era Giovanni Leyburn, Domenicano inglese, già stato segretario del Cardinale Howard; ed uomo che, fornito di qualche dottrina e dʼuna ricca vena di naturale arguzia, era il più cauto, destro e taciturno deʼ viventi. Era stato di recente consacrato vescovo dʼAdrumeto, e fatto Vicario Apostolico della Gran Brettagna. Ferdinando, conte dʼAdda, italiano, di non grande abilità, ma dʼindole mite e di modi cortesi, era stato nominato Nunzio. Questi due personaggi furono lietamente accolti da Giacomo. Nessun vescovo cattolico romano, per più di un secolo e mezzo, aveva esercitata autorità spirituale nellʼisola. Nessun Nunzio ivi era stato ricevuto per lo spazio deʼ centoventisette anni chʼerano scorsi dopo la morte di Maria. Leyburn fu alloggiato in Whitehall, ed ebbe una pensione di mille lire sterline lʼanno. Adda non aveva per anche assunto carattere pubblico. Egli passava per un forestiere dʼalto lignaggio, che per curiosità era venuto a Londra; andava giornalmente a Corte, ed era trattato con segni dʼalta stima. Ambedue gli emissari del pontefice, fecero ogni sforzo per iscemare, quanto fosse possibile, lʼodiosità inseparabile dagli uffici che occupavano, e frenare il temerario zelo di Giacomo. Il Nunzio segnatamente dichiarò, che niuna cosa poteva recare maggior detrimento agli interessi della Chiesa di Roma, che una rottura tra il Re e il Parlamento.[18] Barillon agiva per un altro verso. Gli ordini che aveva ricevuti in questa occasione da Versailles, sono degnissimi di studio; imperocchè porgono la chiave a conoscere la politica seguita sistematicamente dal suo signore verso lʼInghilterra nei venti anni che precessero la nostra Rivoluzione. Luigi scriveva, come le notizie giunte da Madrid fossero sinistre. Ivi fermamente speravasi che Giacomo avrebbe fatta stretta colleganza con la Casa dʼAustria, appena si fosse assicurato che il Parlamento non gli darebbe molestia. In tali circostanze, importava molto alla Francia fare in modo che il Parlamento si mostrasse disubbidiente. A Barillon, quindi, fu dato comandamento di fare, con tutte le possibili cautele, la parte dʼarruffamatassa. In Corte, non doveva lasciare fuggire il destro di stimolare lo zelo religioso e lʼorgoglio regio di Giacomo; ma nel tempo stesso, doveva ingegnarsi di tenere secrete pratiche coi malcontenti. Siffatte relazioni erano rischiose e richiedevano somma destrezza; nondimeno, avrebbe forse trovato mezzo dʼincitare,—senza mettere a repentaglio sè stesso o il proprio Governo,—lo zelo dellʼopposizione per le leggi e le libertà dellʼInghilterra, e lasciare intendere che quelle leggi o libertà non erano dal Re di Francia guardate di mal occhio.[19] XII. Luigi, quando dettava coteste istruzioni, non prevedeva come presto e pienamente la ostinatezza e stupidità di Giacomo gli dovessero togliere dallʼanimo ogni inquietudine. Il dì 11 di novembre, la Camera deʼ Comuni si formò in Comitato per discutere il discorso della Corona. Heneage Finch, Procuratore Generale, teneva il seggio. La discussione fu condotta con peregrino ingegno e destrezza daʼ capi del nuovo partito patriottico. Non uscì loro dalle labbra espressione alcuna dʼirreverenza pel sovrano, o di simpatia pei ribelli. Della insurrezione delle Contrade Occidentali parlarono sempre con abborrimento. Non fecero pur motto delle barbarie di Kirke o di Jeffreys. Ammisero che le gravi spese cagionate daʼ trascorsi disturbi, giustificavano il Re a domandare un aumento di pecuniari sussidi; ma si opposero fortemente ad accrescere lʼarmata, e alla infrazione dellʼAtto di Prova. Pare che i cortigiani avessero studiosamente schivato ogni discorso intorno allʼAtto di Prova. Favellarono, nondimeno, con vigore a dimostrare quanto lʼarmata regolare fosse superiore alla civica milizia. Uno di loro, con modo insultante, chiese se la difesa del reame era da affidarsi alle sole guardie del Re. Un altro disse che gli si mostrasse in che guisa i militi civici della Contea del Devonshire, i quali, sgominati, fuggirono dinanzi ai contadini armati di falci che seguivano Monmouth, avrebbero potuto affrontare le guardie reali di Luigi. Ma cosiffatte ragioni facevano poco effetto nellʼanimo deʼ Cavalieri, che serbavano amara rimembranza del Governo del Protettore. Il sentimento comune a tutti loro fu espresso da Eduardo Seymour, primo deʼ gentiluomini Tory dellʼInghilterra. Egli ammise che la milizia civica non era in condizioni soddisfacenti, ma sostenne che poteva riordinarsi. Tale riordinamento avrebbe richiesto danari; ma, per parte sua, avrebbe più volentieri dato un milione a mantenere una forza dalla quale ei non aveva nulla a temere, che mezzo milione a mantenere una forza della quale gli era dʼuopo vivere in continua trepidazione. Disciplinate le legioni della Civica, rafforzata la flotta, la patria rimarrebbe sicura. Un esercito stanziale avrebbe, se non altro, emunto il pubblico tesoro. Il soldato era uomo rapito alle arti utili. Non produceva nulla; consumava il frutto della industria altrui; e tiranneggiava coloro daʼ quali era mantenuto. Ma la nazione adesso era minacciata non solo di un esercito stanziale, ma dʼun esercito stanziale papista; di un esercito stanziale comandato da ufficiali che potevano essere gentili ed onorevoli, ma erano per principio nemici alla Costituzione del Regno. Sir Guglielmo Twisden, rappresentante della Contea di Kent, parlò nel medesimo senso con detti pungenti, e ne ebbe plauso. Sir Riccardo Temple, uno deʼ pochi Whig che sedevano in quel Parlamento, accomodando la favella agli umori del suo uditorio, rammentò alla Camera, come un esercito stanziale si fosse sperimentato pericoloso sì alla giusta autorità deʼ principi, che alla libertà delle nazioni. Sir Giovanni Maynard, il più dotto giureconsulto deʼ suoi tempi, prese parte alla discussione. Aveva più di ottanta anni, e poteva bene rammentarsi delle contese politiche del regno di Giacomo I. Aveva seduto nel Lungo Parlamento, e parteggiando per le Teste–Rotonde, aveva sempre pôrti consigli di mitezza, ed erasi affaticato a compire una riconciliazione generale. Per le doti della mente, non iscemate punto dalla vecchiezza, e per la scienza nella propria professione, onde egli aveva sì lungamente imposto rispetto in Westminster Hall, governava lʼuditorio nella Camera deʼ Comuni. Anchʼegli si dichiarò avverso allo aumento delle milizie regolari. Dopo molto disputare, fu deliberato di concedere un sussidio alla Corona; ma fu parimente deliberato di presentare una legge per riordinare la milizia civica. Questa ultima deliberazione equivaleva ad una dichiarazione contro lʼidea di formare un esercito stanziale. Il Re ne ebbe assai dispiacere; e si lasciò correre la voce, che se le cose seguitavano ad andare a questo modo, la sessione del Parlamento non avrebbe avuto lunga durata.[20] La dimane riprincipiò la contesa. Il linguaggio del partito patriottico fu visibilmente più audace e pungente, che non era stato il dì innanzi. Il paragrafo del discorso del Re, che si riferiva al sussidio da concedersi, precedette quello che si riferiva allʼAtto di Prova. Fondandosi sopra ciò, Middleton propose che il paragrafo riferentesi al sussidio, venisse discusso il primo nel comitato. Quei della opposizione proposero la questione pregiudiciale. Allegavano come lʼusanza ragionevole e costituzionale fosse di non concedere pecunia innanzi che fosse provveduto agli abusi; la quale usanza sarebbe finita, se la Camera si fosse reputata servilmente vincolata a seguire lʼordine in cui le cose venivano rammentate dal Re sul trono. Fecesi uno squittinio di divisione intorno alla questione se la proposta di Middleton fosse da adottarsi. Il Presidente ordinò che coloro i quali opinavano pel no, andassero nellʼantisala. Se ne offesero molto, e querelaronsi altamente di siffatta servilità e parzialità; imperocchè pensavano, secondo la intricata e sottile regola che allora vigeva, e che ai dì nostri venne messa da parte, sostituendovene unʼaltra più ragionevole e conveniente, avere il diritto di rimanere ai loro seggi; e tutti gli uomini più esperti degli usi parlamentari di quella età sostenevano, che coloro i quali rimanevano nella sala, avevano un vantaggio sopra coloro che uscivano fuori: imperciocchè i seggi erano così difettosi, che niuno il quale avesse avuta la fortuna di trovare un buon posto, amava di perderlo. Ciò non ostante, con isbalordimento deʼ Ministri, molti di coloro daʼ cui voti la Corte onninamente dipendeva, furono veduti muoversi verso la porta. Fra loro era Carlo Fox, pagatore delle truppe, e figlio di Stefano Fox, scrivano della Corte Regia di Palazzo. Il pagatore era stato indotto daʼ suoi amici ad assentarsi durante la discussione. Ma fu tanta la sua ansietà, che entrò nella stanza del Presidente, udì parte del dibattimento, ritirossi; e dopo dʼavere per una o due ore ondeggiato fra la propria coscienza e cinque mila lire sterline di paga annua, prese unʼanimosa risoluzione e si rificcò nella sala, appunto mentre facevasi la votazione. Due ufficiali dellʼarmata, il Colonnello Giovanni Darcy, figlio di Lord Conyers, e il Capitano Giacomo Kendall, andarono nellʼantisala. Middleton scese alla barra e li rimproverò aspramente. In ispecie, diresse la parola a Kendall, servitore bisognoso della Corona, che da un collegio elettorale di Cornwall, ligio agli ordini del Re, era stato mandato al Parlamento, e che di recente aveva ottenuto un dono di cento ribelli condannati alla deportazione. «Signore,» disse Middleton «non comandate voi un reggimento di cavalleria aʼ servigi di Sua Maestà?»—«Sì, o Milord,» rispose Kendall «ma mio fratello è morto ora che è poco, e mi ha lasciato settecento lire sterline lʼanno.» XIII. Come i questori compirono lʼufficio loro, i voti affermativi furono cento ottantadue, i negativi cento ottantatre. In quella Camera di Comuni, che era stata messa insieme per mezzo di raggiri, di corruzione e di violenza; in quella Camera di Comuni, della quale Giacomo aveva detto che più di undici dodicesimi deʼ membri erano quali dovevano essere se gli avesse nominati da sè, la Corte aveva avuta una sconfitta sopra una questione vitale.[21] A cagione di questo voto, le espressioni adoperate dal Re parlando dellʼAtto di Prova furono, il dì 13 novembre, poste in discussione. Eʼ fu risoluto, dopo molto discutere, di fargli un indirizzo, a rammentargli come ei non potesse legalmente seguitare a tenere in ufficio uomini che ricusassero di uniformarsi alla legge, e a sollecitarlo perchè prendesse gli opportuni provvedimenti a quietare i sospetti e le gelosie del popolo.[22] Fu poi proposto che i Lordi venissero richiesti di aderire allo indirizzo. Adesso è impossibile chiarirsi se mai tale proposta fosse stata onestamente fatta dalla opposizione, sperante che il concorso dei Pari avrebbe aggiunto peso alla rimostranza, o fatta artificiosamente dai cortigiani con la speranza che ne seguisse un dissenso fra le due Camere. La proposta venne rigettata.[23] La Camera si era formata in Comitato onde deliberare intorno la pecunia da concedersi. Il Re chiedeva un milione e quattrocento mila lire sterline; ma i Ministri sʼaccôrsero che sarebbe stato vano domandare una sì grossa somma. Il Cancelliere dello Scacchiere propose un milione e dugento mila lire sterline. I capi della opposizione risposero, che concedere tanta pecunia sarebbe stato il medesimo che approvare la permanenza delle forze militari allora esistenti: mentre essi erano disposti solo a dar tanto da bastare pel mantenimento delle truppe regolari finchè le milizie civiche venissero riformate; e però proposero quattro cento mila lire sterline. I cortigiani si misero ad urlare contro siffatta proposta, come indegna della Camera e irriverente al Re. Ma trovarono vigorosa resistenza. Uno deʼ rappresentanti le Contee Occidentali, voglio dire Giovanni Windham, che era deputato di Salisbury, si oppose vivamente, dicendo come egli avesse sempre avuto terrore ed abborrimento per gli eserciti stanziali; massime da che la recente esperienza lʼaveva riconfermato in tale pensiero. Si provò poi di toccare dʼuna cosa che fino allora era stata con sommo studio schivata. Dipinse la desolazione delle Contee Occidentali. Disse che i popoli erano stanchi della oppressura delle truppe, stanchi degli alloggi, delle depredazioni, e di scelleratezze anche peggiori che la legge chiamava fellonie, ma che essendo commesse da tale classe di felloni, non era possibile ottenerne giustizia. I ministri del Re avevano detto alla Camera, che erano stati fatti buoni provvedimenti pel governo dellʼarmata; ma nessuno avrebbe osato dire che fossero stati mandati ad esecuzione. Quale ne era la necessaria conseguenza? Il contrasto tra i paterni ammonimenti profferiti dal trono e la intollerabile tirannia deʼ soldati, non provava egli che lʼarmata era anche allora troppa e pel principe e pel popolo? I Comuni potevano, perfettamente coerenti a sè stessi, senza menomare la fiducia che avevano posta nelle intenzioni di Sua Maestà, ricusare che venisse aumentata una forza che, manifestamente, la Maestà Sua non avrebbe potuto tenere in freno. XIV. La proposta delle quattrocento mila lire sterline, non passò per dodici voti di minoranza. Questa vittoria, riportata dai Ministri, era una quasi sconfitta. I capi del partito patriottico, non punto scoraggiati, indietreggiarono un poco, per ritornare alla prova, e proposero la somma di settecentomila lire sterline. Il Comitato votò nuovamente, e i cortigiani furono sconfìtti con dugentododici voti contro centosessanta.[24] Il dì dopo, i Comuni andarono solennemente a Whitehall recando lʼindirizzo, dove si parlava dellʼAtto di Prova. Il Re li accolse seduto sul trono. Lʼindirizzo era scritto con parole spiranti riverenza ed affetto; imperocchè la maggior parte di coloro che avevano votato a favore di quello, erano fervidamente anzi superstiziosamente realisti, e avevano di leggieri assentito ad inserirvi alcune frasi di complimento, omettendo ogni parola che i cortigiani avevano reputata offensiva. La risposta di Giacomo fu una fredda e austera riprensione. Manifestò dispiacere e maraviglia nel vedere che i Comuni avevano così poco profittato degli ammonimenti dati loro. «Ma,» soggiunse «quantunque possiate seguitare a fare a modo vostro, io sarò fermissimo in tutte le promesse che vi ho fatte.»[25] I Comuni si radunarono nella loro sala mal satisfatti, e alquanto intimoriti. La più parte di loro portavano al Re alta riverenza. Tre anni dʼoltraggi, e dʼinsulti più duri degli oltraggi stessi, bastavano appena a sciogliere i vincoli onde i gentiluomini Cavalieri erano legati al trono. Il Presidente ridisse la sostanza della risposta del Sovrano. Successe per alcun tempo un solenne silenzio; poi si lesse regolarmente lʼordine del giorno; e la Camera si formò in Comitato per discutere la legge di riforma della milizia civica. XV. Nondimeno, servirono poche ore perchè la opposizione si rifacesse dʼanimo. Come, sul cadere del giorno, il Presidente riprese il seggio, Wharton, il più ardito ed operoso deʼ Whig, propose di stabilire il giorno in cui la risposta del Re si dovesse prendere in considerazione. Giovanni Coke, rappresentante di Derby, quantunque fosse Tory conosciuto, secondò le parole di Wharton, dicendo: «Spero che noi tutti saremo Inglesi, e che poche parole altere non varranno a intimorirci e distoglierci dal proprio dovere.» E furono parole coraggiose, ma non savie. «Notate le sue parole!—Alla barra!—Alla Torre!» gridavano da ogni canto della sala. I più moderati proposero, che lʼoffensore venisse severamente ripreso: ma i Ministri insisterono con veemenza perchè fosse mandato in prigione. Dissero che la Camera poteva perdonare le offese fatte ad essa, ma non aveva ragione di rimettere un insulto fatto alla Corona. Coke fu condotto alla Torre. La indiscretezza di un solo uomo aveva interamente disordinato il sistema di strategia con tanta arte congegnato dai capi della opposizione. Invano, in quel momento, Eduardo Seymour tentò di riordinare i suoi aderenti, esortandoli a stabilire il giorno per discutere la risposta del Re, ed esprimendo la fiducia che la discussione sarebbe stata condotta col rispetto debito deʼ sudditi verso il sovrano. I rappresentanti erano tanto intimiditi dal dispiacere del Re, e tanto esasperati dalla rozzezza di Coke, che non sarebbe stato savio partito fare squittinio di divisione.[26] La Camera si aggiornò; e i Ministri sʼillusero credendo che lo spirito della opposizione fosse domo. Ma la mattina del dì 19 novembre, nuovi e sinistri segni comparvero. Era giunto il tempo di prendere in considerazione le petizioni arrivate da ogni parte dellʼInghilterra contro le ultime elezioni. Allorquando, nella prima adunanza del Parlamento, Seymour sʼera altamente querelato del Governo, il quale usando la forza e la fraude aveva impedito che la opinione deʼ collegi elettorali liberamente si manifestasse, non aveva trovato niuno che lo secondasse. Ma molti che allora sʼerano da lui scostati, avevano poi ripreso animo, e con a capo Sir Giovanni Lowther, rappresentante di Cumberland, innanzi lo aggiornamento avevano manifestata la necessità dʼinquisire intorno agli abusi che avevano tanto commossa lʼopinione pubblica. La Camera adesso trovavasi più stizzita; e molti alzavano la voce in tono di minaccia e dʼaccusa. Ai Ministri fu detto, che la nazione aspettava e doveva avere solenne giustizia deʼ torti patiti. Intanto accennavasi destramente, che la migliore espiazione che ogni gentiluomo eletto con illeciti mezzi potesse fare agli occhi del pubblico, era di usare il mal conseguito potere in difesa della religione e delle libertà della patria. Niun rappresentante, che in tanta ora di pericolo facesse il debito proprio, aveva nulla a temere. Forse potevano trovarsi argomenti per escluderlo dal Parlamento; ma la opposizione prometteva di adoperare tutta la propria influenza a farlo rieleggere.[27] XVI. Il giorno stesso chiaramente si conobbe, che lo spirito dʼopposizione erasi propagato dalla Camera deʼ Comuni a quella deʼ Lordi, e perfino al banco deʼ vescovi. Guglielmo Cavendish, Conte di Devonshire, aperse lo arringo nella Camera Alta, e a ciò fare aveva i necessari requisiti. Per ricchezze ed influenza a nessuno deʼ Nobili inglesi era secondo; e la voce pubblica lo diceva il più compìto gentiluomo deʼ tempi suoi. La magnificenza, il gusto, lo ingegno, la classica dottrina, lʼaltezza dello spirito, la grazia e la urbanità deʼ modi, erano qualità che i suoi stessi nemici gli consentivano. Sventuratamente, i panegiristi suoi non potrebbero sostenere che la sua morale rimanesse incontaminata dal contagio a queʼ tempi sparso dappertutto. Quantunque ei procedesse avverso al papismo e al potere arbitrario, aveva sempre abborrito dagli esagerati provvedimenti; era, come vide perduta la Legge dʼEsclusione, inchinato ad un compromesso, e non sʼera mai immischiato negli illegali ed imprudenti disegni che avevano screditato il partito Whig. Ma benchè gli spiacesse in parte la condotta deʼ propri amici, ei non aveva mai mancato di compire con zelo gli ardui e perigliosi doveri dʼamicizia. Sʼera mostrato al fianco di Russell alla sbarra; nel tristo giorno della sua decapitazione, gli aveva detto addio, fra amplessi affettuosi e copiose ed amarissime lacrime; anzi, sʼera offerto di mettere a repentaglio la propria vita per procurargli la fuga.[28] Questo grandʼuomo, adunque, propose in Parlamento di fissare un giorno per esaminare il discorso del Re. Dal lato opposto sostenevasi, che i Lordi col deliberare rendimenti di grazie al Sovrano per il discorso, sʼerano privati del diritto di muovere querela. Ma Halifax trattò con ispregio simile risposta. «Cosiffatti ringraziamenti» disse egli con quella piacevolezza di sarcasmo di cui era maestro «non includono approvazione. Siamo gratissimi sempre che il nostro Sovrano si degna di rivolgerci la parola. E in ispecie siamo grati quando, come ha fatto nella presente occasione, ci parla chiaro ed accenna ciò che ci tocchi a patire.»[29] XVII. Il dottore Enrico Compton, vescovo di Londra. parlò fortemente a favore della proposta. Quantunque ei non avesse ricco corredo di insigni doti, nè fosse profondamente versato negli studi della propria professione, la Camera sempre lo ascoltava con riverenza; imperocchè egli era uno deʼ pochi ecclesiastici che in quellʼetà potesse vantare nobiltà di sangue. Ed egli e la sua famiglia avevano dato prove di lealtà. Suo padre, secondo Conte di Northampton, aveva strenuamente combattuto per Carlo I, e circuito dai soldati dellʼarmata parlamentare, era caduto con la spada in pugno, ricusando di concedere o dʼaccettare quartiere. Lo stesso vescovo, innanzi di ricevere gli ordini sacri, era stato nelle Guardie; e ancorchè generalmente facesse ogni sforzo per mostrare la gravità e la sobrietà convenevoli ad un prelato, di quando in quando si vedeva in lui sfavillare qualche scintilla dellʼantico spirito militare. Gli era stata affidata la educazione religiosa delle due Principesse, e aveva adempito a quel solenne dovere in modo da soddisfare tutti i buoni Protestanti, e da assicurargli considerevole influenza sopra le menti delle sue discepole, e massime della Principessa Anna.[30] Adesso dichiarò dʼavere potestà di manifestare lʼopinione deʼ suoi confratelli, i quali insieme con lui pensavano che la intera Costituzione civile ed ecclesiastica del reame fosse in pericolo.[31] XVIII. Uno deʼ più segnalati discorsi di quel giorno uscì dalle labbra dʼun giovane, che con la bizzarria deʼ suoi casi era destinato a rendere attonita la Europa. Aveva nome Carlo Mordaunt, Visconte Mordaunt, grandemente rinomato anni dopo come Conte di Peterborough. Aveva già date numerose prove di coraggio, di capacità, e di quella stranezza di cervello che rese quel coraggio e quella capacità inutili alla propria patria. Sʼera perfino messo in mente di rivaleggiare con Bourdaloue e Bossuet. Quantunque ei fosse conosciuto come libero pensatore, aveva vegliato tutta notte in un viaggio di mare per comporre sermoni, e con difficoltà gli era stato impedito di edificare con un pio discorso la ciurma di un vascello da guerra. Adesso favellò per la prima volta nella Camera deʼ Pari con singolare eloquenza, con ardore, con audacia. Biasimò i Comuni di non essersi messi in una via più ardimentosa, dicendo: «Essi hanno avuto timore di parlare schietto. Hanno ragionato di sospetti e di gelosie. Che cʼentrano qui le gelosie ed i sospetti? Essi sono sentimenti che provansi per danni incerti e futuri; e il male che stiamo esaminando non è futuro nè incerto. Esiste un esercito stanziale. È comandato da ufficiali papisti. Non abbiamo nemico straniero. Non vʼè ribellione nel paese nostro. A che fine, dunque, si mantengono tanto numerose forze se non per abbattere le nostre leggi, e stabilire il potere arbitrario, cotanto giustamente abborrito dagli Inglesi?»[32] Jeffreys parlò contro la proposta con quel rozzo e feroce stile di cui egli era maestro; ma si accôrse subito non essere così agevole atterrire gli alteri e potenti baroni dʼInghilterra nella loro sala, come lo era intimidire gli avvocati, il cui pane dipendeva dal favore, o gli accusati le cui teste erano nelle mani di lui. Un uomo che abbia passata la vita ad aggredire ed imporre ad altrui, sia quale si voglia supporre il suo coraggio ed ingegno, generalmente, qualvolta è rigorosamente aggredito, fa meschina figura: imperciocchè, non essendo avvezzo a starsi sulla difensiva, si confonde; e il sapere che tutti glʼinsultati da lui godono della sua confusione, lo confonde vie maggiormente. Jeffreys, per la prima volta da che era divenuto grandʼuomo, veniva incontrato a condizioni uguali da avversari che non lo temevano. A soddisfazione universale, era quella la prima volta chʼegli passava dallo estremo dellʼinsolenza allo estremo dellʼabbiettezza, e non potè frenarsi di spargere lacrime di rabbia e di dispetto.[33] Nulla, a dir vero, mancò ad umiliarlo; poichè la sala era piena di circa cento Pari, numero maggiore anche di quello che vi sʼera trovato nel gran di del voto intorno alla Legge dʼEsclusione. Arrogi che vʼera presente anche il Re. Carlo aveva avuto costume di assistere alle tornate della Camera deʼ Lordi per sollazzo, e spesso era solito dire che una discussione gli era di piacevole intertenimento al pari dʼuna commedia. Giacomo ci andò non per divertirsi, ma con la speranza che la propria presenza fosse di qualche freno alla discussione. E sʼingannò. Gli umori della Camera si manifestarono con tanto vigore, che dopo una pungentissima orazione fatta da Halifax a concludere, i cortigiani non vollero avventurarsi allo squittinio di divisione. Fu stabilito un giorno prossimo a prendere in considerazione il discorso del Re; e fu ordinato che tutti i Pari i quali non fossero in luoghi molto distanti da Westminster, si trovassero al proprio posto.[34] XIX. Il dì seguente, il Re in tutta pompa andò alla Camera deʼ Lordi. LʼUsciere della Verga Nera intimò ai Comuni di recarsi alla sbarra; e il Cancelliere annunziò che il Parlamento era prorogato fino al giorno decimo di febbraio.[35] I membri che avevano votato contro la Corte, furono destituiti dai pubblici uffici. Carlo Fox fu cacciato dalla Pagatoria. Il vescovo di Londra cessò dʼessere Decano della Cappella Reale, e il suo nome fu casso dalla lista deʼ Consiglieri Privati. Lo effetto della proroga fu di porre fine ad un processo della più alta importanza. Tommaso Grey, Conte di Stamford, discendente da una delle più illustri famiglie dellʼInghilterra, incolpato di crimenlese, era stato di recente preso e posto in istretta prigionia dentro la Torre. Lo accusavano dʼessere stato implicato nella congiura di Rye House. La esistenza del fatto era stata dichiarata dai Grandi Giurati della Città di Londra, e la causa era stata portata alla Camera deʼ Lordi, che erano il solo tribunale dinanzi a cui un Pari secolare, durante la sessione del Parlamento, potesse essere processato per grave delitto. Il dì stabilito allo esame del caso era il primo di decembre; erano stati dati ordini perchè nella sala di Westminster si facessero gli apparecchi bisognevoli. A cagione della proroga, la causa venne differita ad un tempo indefinito; e Stamford fu tosto messo in libertà.[36] Tre altri Whig di grande importanza stavano già incarcerati allorquando si chiuse la sessione: cioè Carlo Gerard, Lord Gerard di Brandon, primogenito del conte di Maclesfield; Giovanni Hampden, nipote del rinomato capo del Lungo Parlamento; ed Enrico Booth, Lord Delamere. Gerard e Hampden erano accusati come complici della Congiura di Rye House, Delamere, di avere favorita la insurrezione delle Contrade Occidentali. XX. Non era intendimento del Governo far morire Gerard o Hampden. Grey, prima che acconsentisse a testificare contro di loro, aveva patteggiato per la vita loro.[37] Ma vʼera anche una ragione più forte a lasciarli vivi. Erano eredi di grosso patrimonio; ma i genitori loro vivevano ancora. La Corte, quindi, poteva ottenere poco in via di confisca, ma molto in via di riscatto. Gerard fu processato, e dalle assai scarse notizie che ci rimangono, eʼ sembra che si difendesse con grande animo e con vigorose parole. Vantò gli sforzi e i sacrifici fatti dalla sua famiglia per la causa di Carlo I, e provò che Rumsey, quel desso che inventando una storiella aveva assassinato Russell, e poi Cornish dicendone unʼaltra, era testimone affatto indegno di fede. I Giurati, dopo qualche esitazione, lo dissero colpevole. Dopo una lunga prigionia, a Gerard fu concesso di redimersi.[38] Hampden aveva ereditate le opinioni politiche e gran parte delle esimie doti dellʼavo, ma era degenerato dalla probità e dal coraggio onde lʼavo erasi tanto predistinto. Eʼ pare che lo accusato, per crudele astuzia del Governo, fosse lungamente tenuto in una agonia di dubbio, affinchè la sua famiglia sʼinducesse a pagare assai caro il perdono. Il suo spirito prostrossi sotto il terrore della morte. Condotto al banco degli accusati, non solo si confessò reo, ma disonorò il nome illustre chʼegli portava, con sommissioni e suppliche abiette. Protestò di non essere stato partecipe del secreto disegno di assassinare Carlo e Giacomo, ma confessò di avere meditata la ribellione; dichiarossi profondamente pentito del fallo, implorò la intercessione deʼ Giudici, giurando che ove la reale clemenza si stendesse sopra lui, dedicherebbe intera la vita a mostrare la propria gratitudine. I Whig a tanta pusillanimità divennero furiosi, ed altamente dichiararono lui meritare più biasimo di Grey, il quale, diventando testimonio del Governo, aveva serbato un certo decoro. Ad Hampden fu perdonata la vita; ma la sua famiglia pagò alcune migliaia di lire sterline al Cancelliere. Altri cortigiani di minore momento estorsero da lui altre somme più tenui. Lo sciagurato aveva spirito bastevole a sentire la vergogna in cui sʼera gettato. Sopravvisse di parecchi anni al giorno della propria ignominia. Ei visse per vedere il proprio partito trionfante, avere in esso importantissima parte, innalzarsi nello Stato, e far tremare i propri persecutori. Ma una rimembranza insopportabile gli attoscava tanta prosperità. Non riacquistò mai la gaiezza dello spirito, e finalmente di propria mano si tolse la vita.[39] XXI. Che Delamere, ove avesse avuto mestieri della regia clemenza, lʼavrebbe potuta ottenere, non è molto probabile. Egli è certo che tutto il vantaggio che la lettera della legge dava al Governo, fu adoperato contro lui senza scrupolo o vergogna. Era in condizioni diverse da quelle in cui trovavasi Stamford. Lʼaccusa contro costui era stata portata dinanzi alla Camera deʼ Lordi mentre il Parlamento era in sessione, e però non poteva essere processato se non alla riapertura del Parlamento. Tutti i Pari avrebbero allora avuto un voto da dare, e sarebbero stati giudici di diritto e di fatto. Ma lʼatto dʼaccusa contro Delamere non fu prodotto fuori se non dopo la proroga.[40] Egli era, quindi, soggetto alla giurisdizione della corte del Lord Gran Maggiordomo. Questa corte, alla quale appartiene mentre è chiuso il Parlamento la cognizione deʼ delitti di tradimento e di fellonia commessi dai Pari secolari, era allora siffattamente costituita, che nessuno accusato di delitto politico poteva sperare un processo imparziale. Il Re nominava il Lord Gran Maggiordomo. Questi, a proprio arbitrio, nominava vari Pari a giudicare il loro accusato confratello. Al numero loro non era limite. Una semplice maggioranza di voti, purchè fosse di dodici, serviva a dichiarare colpevole. Il Gran Maggiordomo era solo giudice di diritto; e i Lordi erano Giurati per pronunciare sul fatto. Jeffreys fu nominato Gran Maggiordomo. Scelse trenta Pari, e la scelta fu qual poteva aspettarsi da siffatto uomo in simiglianti tempi. Tutti queʼ trenta per opinioni politiche procedevano avversi allo accusato. Quindici erano colonnelli di reggimenti, e potevano essere destituiti a volontà del Re. Tra gli altri quindici erano il Lord Tesoriere, principale segretario di Stato, il Maggiordomo e il Sindaco di Palazzo, il Capitano della Banda deʼ Gentiluomini Pensionisti, il Ciamberlano della Regina, ed altri individui fortemente vincolati alla Corte. Nondimeno, Delamere aveva alcuni grandi vantaggi sopra i colpevoli di minor grado processati in Old Bailay. Quivi i Giurati, violenti uomini di partito, presi per un solo giorno dagli Sceriffi cortigiani fra la massa della società, e rimandati poi nella massa, non avevano freno di rossore; e poco avvezzi a giudicare della evidenza del caso, seguivano senza scrupolo le voglie del seggio. Ma nella corte del Gran Maggiordomo, ogni Giurato era uomo esperto neʼ gravi negozi, e considerevolmente noto al pubblico; e doveva profferire separatamente, e sullʼonor suo, la propria opinione dinanzi a un numeroso concorso. Quella opinione, insieme col suo nome, sarebbe andata in tutte le parti del mondo e rimasta nella storia. Inoltre, quantunque i nobili scelti fossero tutti Tory e quasi tutti impiegati, molti di loro avevano cominciato a sentire inquietudine della condotta del Re, e dubitavano un giorno non sʼavessero a trovare nel caso di Delamere. Jeffreys si condusse, secondo lʼusato, con iniquità ed insolenza. Serbava in petto un vecchio rancore che lo irritava. Era stato capo Giudice di Chester allorquando Delamere, che allora chiamavasi il Signor Booth, rappresentava quella Contea in Parlamento. Booth aveva mosso amarissima querela nella Camera deʼ Comuni perchè i più cari interessi deʼ suoi elettori erano affidati ad un buffone briaco.[41] Il giudice vendicativo, ora non arrossì di adoperare artifici tali, che sarebbero stati criminosi anche in un avvocato. Ricordò ai Lordi Giurati con significantissime parole, che Delamere in Parlamento erasi opposto alla condanna infamante di Monmouth; fatto che non era nè poteva essere provato. Ma non era in potestà di Jeffreys intimorire un sinodo di Pari, come era avvezzo a fare verso i Giurati ordinari. La testimonianza addotta dalla Corona si sarebbe forse reputata ampiamente bastevole nel giorno giuridico nelle Contrade Occidentali o nelle sessioni di Città, ma non poteva per un momento imporre ad uomini come Rochester, Godolphin e Churchill; nè essi, con tutti i falli loro, erano sì depravati, da condannare a morte un uomo contro le più semplici norme della giustizia. Grey, Wade e Goodenough furono dal Governo addotti come testimoni, ma poterono solo ripetere ciò che avevano udito dire da Monmouth e dagli emissari di Wildman. Fu dimostrato con incontrastabile evidenza che un ribaldo, di nome Saxton, principale testimonio dellʼaccusa, già stato implicato nella ribellione, ed ora affaccendato a procacciarsi il perdono testificando contro tutti glʼinvisi al Governo, aveva detto gran numero di menzogne. Tutti i Lordi Giurati, da Churchill, il quale come il più giovane deʼ baroni parlò primo, fino al Tesoriere, dichiararono sullʼonor loro, che Delamere non era colpevole. La gravità e la pompa del processo fece profonda impressione nellʼanimo del Nuncio, ancorchè fosse assuefatto alle cerimonie della Corte di Roma, le quali per solennità e magnificenza vincono tutte le cerimonie del mondo.[42] Il Re, che vʼera presente, e non poteva muovere lamento della sentenza evidentemente giusta, montò in furore contro Saxton, giurando che lo sciagurato sarebbe stato prima posto alla berlina, come reo di spergiuro, innanzi a Westminster Hall; e poi mandato nelle contrade occidentali, per essere appeso alle forche e squartato come reo di tradimento.[43] XXII. La pubblica esultanza, come si seppe che Delamere era stato assoluto, fu grande. Il regno del terrore era finito. Lʼinnocente incominciava a respirare liberamente, e il falso accusatore a tremare. Non può leggersi senza lacrime una lettera scritta in questa occasione. Giunse alla vedova di Russell nella sua solitudine la nuova, e le suscitò nellʼanima un misto di sentimenti diversi. «Rendo grazie a Dio» scriveva ella, «che ha posto alcun freno allo spargimento del sangue in questo misero paese. Ma mentre me ne rallegro con altrui, mi tiro da parte a piangere. Più non mi sento capace di godere; ma ogni nuova circostanza, il paragonare la mia notte di dolore, dopo un tanto giorno, con le loro notti di gioia, o per un pensiero o per un altro, mi tortura lʼanima. Comecchè io sia lungi dal desiderare che le loro ore trascorrano come le mie, non posso frenarmi talvolta di lamentare che le mie non siano simili alle loro.»[44] Adesso il vento era cangiato. La morte di Stafford, accolta con segni di tenerezza e di rimorso dalla plebaglia, alla cui rabbia egli era stato sacrificato, stabilisce il finire di una proscrizione. Il proscioglimento di Delamere stabilisce il chiudersi dʼunʼaltra. I delitti che avevano disonorato il procelloso tribunato di Shaftesbury, erano stati terribilmente espiati. Il sangue deglʼinnocenti papisti era stato più che dieci volte vendicato dal sangue deʼ fervidi protestanti. Unʼaltra grande reazione era incominciata. Le fazioni andavano speditamente prendendo nuove forme. I vecchi collegati scindevansi. Si congiungevano i vecchi nemici. I mali umori spandevansi in tutto il partito fino allora predominante. Una speranza, comunque per allora debole e indistinta, di vittoria e vendetta, rianimava il partito che pareva estinto. In siffatte condizioni si chiuse il 1685, anno torbido e pieno dʼeventi, e incominciò il 1686. XXIII. La proroga aveva disimpacciato il Re dalle moderate rimostranze delle Camere; ma gli toccava udirne altre, simili per lo effetto, ma formulate con parole anche più caute e sommesse. Taluni, che fino allora lo avevano servito con cecità tale da nuocere alla loro fama e al pubblico bene, cominciarono a provare dolorosi presentimenti, e di quando in quando risicavansi a significare alcun che di ciò che sentivano. Per molti anni lo zelo del Tory inglese per la monarchia ereditaria e per la religione stabilita, erano insieme venuti crescendo e scambievolmente afforzandosi. Ei non aveva mai pensato che questi due sentimenti, i quali parevano inseparabili e pressochè identici, si sarebbero un giorno potuti trovare non solo distinti, ma incompatibili. Dal principio della lotta tra gli Stuardi e i Comuni, la causa della Corona e quella della gerarchia erano state apparentemente una causa sola. Carlo I veniva dalla Chiesa considerato come martire. Se Carlo II aveva contro quella congiurato, aveva congiurato secretamente. In pubblico sʼera sempre confessato grato e devoto figliuolo, erasi inginocchiato dinanzi agli altari di essa; e malgrado i suoi corrotti costumi, gli era riuscito di persuadere il maggior numero degli aderenti alla Chiesa, che egli sinceramente la preferisse. Per tutti i conflitti che lʼonesto Cavaliere avesse fino allora potuto sostenere contro i Whig e le Teste–Rotonde, non aveva almeno dovuto patire nessun conflitto nella mente propria. Egli sʼera veduto piano ed aperto dinanzi agli occhi il sentiero del dovere. Traverso al bene e al male, ei doveva mantenersi fedele alla Chiesa e al Re. Ma se queʼ due augusti e venerandi poteri, i quali fino allora sembravano così strettamente congiunti, che i fedeli allʼuno non potevano essere perfidi allʼaltro, venissero divisi da mortale nimistà, a quale partito doveva il realista ortodosso appigliarsi? Quale condizione sarebbe stata più critica che quella di trovarsi ondeggiante tra due doveri egualmente sacri, tra due affetti egualmente fervidi? Come poteva egli rendere a Cesare ciò chʼera di Cesare, e non negare a Dio parte di ciò chʼera di Dio? Nessuno che avesse siffattamente sentito, poteva mirare, senza profondo timore e neri presentimenti, il contrasto tra il Re e il Parlamento intorno allʼAtto di Prova. Se Giacomo anche ora si fosse indotto a ripensare sul proprio disegno, a lasciare riaprire le Camere, e cedere ai desiderii loro, tutto poteva rivolgersi a bene. Così opinavano i due cognati del Re, i Conti cioè, di Clarendon e di Rochester. La potenza e il favore che godevano questi gentiluomini, sembrava veramente grande. Il più giovane deʼ fratelli era Lord Tesoriere e primo ministro; il maggiore, dopo di avere per alquanti mesi tenuto il Sigillo Privato, era stato nominato Luogotenente dʼIrlanda. Il venerando Ormond pensava medesimamente. Middleton e Preston, che, come dirigenti la Camera deʼ Comuni, avevano di recente sperimentato quanto cara fosse aʼ gentiluomini realisti dʼInghilterra la religione stabilita, davano consigli di moderazione. In sul principio del nuovo anno, i sopraddetti uomini di Stato, e il numeroso partito da essi rappresentato, ebbero a patire una crudele mortificazione. Che il Re defunto fosse Cattolico Romano, era stato per molti mesi sospettato e bisbigliato, ma non annunziato formalmente. Tale manifestazione non si sarebbe potuta fare senza grave scandalo. Carlo erasi innumerevoli volte dichiarato protestante, ed aveva avuto costumanza di ricevere dai vescovi della Chiesa stabilita il sacramento della eucaristia. Queʼ Protestanti che lo avevano sostenuto neʼ pericoli, e che di lui serbavano tuttavia affettuosa rimembranza, dovevano provare sdegno e rossore al sentire che la intera sua vita era stata una menzogna; che mentre confessava dʼappartenere alla loro religione, gli aveva veramente tenuti per eretici; e che i demagoghi, i quali lo avevano chiamato papista nascosto, erano stati i soli che avessero formato un esatto giudicio del suo carattere. Anche Luigi intendeva tanto lo stato dellʼopinione pubblica in Inghilterra, da accorgersi come il divulgare il vero potesse recar nocumento, ed aveva, dʼaccordo, fatta promissione di tenere strettamente segreta la conversione di Carlo.[45] Giacomo, nel principio del suo regno, aveva pensato doversi in tanto negozio procedere cauto, e non erasi rischiato a seppellire il fratello, secondo il rito della Chiesa di Roma. Per qualche tempo, quindi, ciascuno potè liberamente credere ciò che volesse. I papisti dicevano che il defunto principe era loro proselite. I Whig lo esecravano come ipocrita e rinnegato. I Tory consideravano la voce della sua apostasia come una calunnia che i papisti e i Whig, per ragioni differentissime, avevano interesse a spargere. XXIV. Giacomo ora fece un passo che pose in gran perturbazione tutto il partito anglicano. Due scritture, in cui erano concisamente esposti gli argomenti dʼordinario usati dai Cattolici Romani nella controversia coi Protestanti, sʼerano trovate nella cassa forte di Carlo, e sembravano di mano sua. Le quali scritture Giacomo mostrò, menandone trionfo, a parecchi Protestanti, e dichiarò sapere che il suo fratello era vissuto e morto Cattolico Romano.[46] Uno di coloro ai quali i manoscritti furono mostrati, fu lo arcivescovo Sancroft. Li lesse grandemente commosso, e rimase tacito. Tale silenzio era solo lo effetto naturale di una lotta tra la riverenza e la repugnanza. Ma Giacomo suppose che il Primate tacesse per la forza irresistibile della ragione, e seriamente lo sfidò a produrre, col soccorso di tutto il seggio episcopale, una soddisfacente risposta. «Datemi una risposta solida e in istile da gentiluomini; e forse potrà far sì, secondo che molto vi sta a cuore, di convertirmi alla vostra Chiesa.» Lo arcivescovo dolcemente rispose, che, secondo lui, cotale risposta poteva farsi senza molta difficoltà; ma non accettò la controversia, adducendo per iscusa la riverenza alla memoria del suo defunto signore. Il Re considerò la scusa come un sutterfugio dʼun vinto avversario.[47] Se egli avesse conosciuta la letteratura polemica deʼ centocinquanta anni precedenti, avrebbe saputo che i documenti ai quali ei dava tanto peso, gli avrebbe potuti comporre ogni giovinetto di quindici anni della scuola di Doaggio, e che non contenevano cosa alcuna, la quale, secondo lʼopinione di tutti i teologi protestanti, non fosse stata dieci mila volte confutata. Nella sua stolta esultanza, ordinò che quegli scritti si stampassero col più squisito lusso tipografico, e vi appiccicò dietro una dichiarazione munita della sua firma, ad attestare che gli originali erano scritti di pugno del fratello. Giacomo ne distribuì con le proprie mani tutti gli esemplari ai cortigiani, e alle persone del popolo che si affollavano attorno il suo cocchio. Ne dètte un esemplare ad una giovine di vile condizione, chʼegli supponeva appartenere alla religione da lui professata, e le assicurò che leggendolo se ne troverebbe edificata grandemente e confortata. In ricambio di questa cortesia, pochi giorni dopo, ella gli mandò una lettera, scongiurandolo di uscire dalla mistica Babilonia, e rimuovere dalle sue labbra la coppa delle fornicazioni.[48] XXV. Tali cose davano somma inquietudine ai Tory aderenti alla Chiesa Anglicana. Nè i più spettabili Cattolici Romani ne rimanevano meglio satisfatti. Si sarebbero, in verità, potuti scusare, se in cosiffatte circostanze la passione gli avesse resi sordi alla voce della prudenza e della giustizia, come quelli che avevano molto sofferto. La gelosia deʼ Protestanti gli aveva gittati giù dal grado in cui erano nati, aveva chiuse le porte del Parlamento agli eredi deʼ Baroni che avevano firmata la _Magna Carta_, e deciso che il comando dʼuna compagnia di pedoni non fosse da fidarsi ai discendenti dei capitani che avevano vinto a Flodden e a San Quintino. Non vʼera un solo Pari eminente, fido alla vecchia religione, del quale lʼonore, gli averi, la vita non fossero stati in pericolo; che non avesse passati molti mesi rinchiuso dentro la Torre, che più volte non si fosse aspettata la miseranda sorte di Stafford. Uomini che erano stati così lungamente e con tale crudeltà oppressati, si sarebbero potuti perdonare, se avessero avidamente côlta la prima occasione a conseguire a un tempo grandezza e vendetta. Ma nè fanatismo, nè ambizione, nè rancore di torti patiti, nè ebrietà prodotta dalla sùbita buona fortuna, poterono far sì che i più cospicui Cattolici Romani non si accorgessero come la prosperità che finalmente erano pervenuti a godere, fosse solo temporanea, e non usata saggiamente, potrebbe tornar loro fatale. Avevano con dura esperienza imparato, che lʼavversione del popolo alla religione loro non era fantasia che sarebbe svanita al comando dʼun principe, ma profondo sentimento, tramandato crescendo per cinque generazioni, spanto in tutte le classi e in tutti i partiti, e avvincolato non meno strettamente coi principii deʼ Tory che con quelli deʼ Whig. Certo, il Re poteva, nello esercizio della sua prerogativa di far grazia, sospendere le leggi penali. Avrebbe in appresso potuto, operando con discrezione, ottenere dal Parlamento la revoca deʼ decreti che privavano deʼ diritti civili gli aderenti alla religione di lui. Ma tentando di domare il sentimento protestante della Inghilterra con mezzi bruschi, era facile vedere che la violenta compressione dʼuna molla così potente ed elastica, sarebbe seguita da uno scatto egualmente violento. I Pari Cattolici Romani, tentando prematuramente di entrare a forza nel Consiglio Privato e nella Camera deʼ Lordi, avrebbero potuto perdere le case e le vaste possessioni loro, e finire la vita o da traditori in Tower Hill, o da mendicanti alle porte deʼ conventi dʼItalia. Così pensava Guglielmo Herbert, conte di Powis, generalmente considerato come capo della aristocrazia cattolica romana, il quale, secondo le fandonie di Oates, doveva essere primo ministro se la congiura papale sortiva prospero successo. Medesimamente opinava Giovanni Bellasyse. In gioventù, aveva valorosamente pugnato per Carlo I; dopo la Restaurazione era stato rimunerato con onori e con gradi militari, e gli aveva deposti dopo che fu promulgato lʼAtto di Prova. A questi insigni capi del partito cattolico facevano eco tutti i più nobili ed opulenti membri della loro Chiesa, tranne Lord Arundell di Wardour, uomo decrepito e pressochè rimbambito. XXVI. Ma in Corte era un piccolo nucleo di Cattolici Romani, che avevano il cuore esulcerato da vecchie ingiurie, il cervello inebriato dal recente innalzamento; che erano impazienti di rampicarsi alle dignità dello Stato, ed avendo poco da perdere, non si davano punto pensiero del giorno del rendimento deʼ conti. XXVII. Uno di costoro era Ruggiero Palmer, conte di Castelmaine in Irlanda, e marito della Duchessa di Cleveland. Sapevasi da tutti chʼegli aveva comperato il suo titolo col disonore della moglie e col proprio. Il suo patrimonio era scarso. Lʼindole sua, scortese per natura, era stata esasperata dalle domestiche vessazioni, dai pubblici rimproveri, e da ciò chʼegli aveva patito a tempo della congiura papale. Era stato lungamente in carcere, e in fine era stato processato per delitto capitale. Fortunatamente per lui, non fu tratto al banco degli accusati se non dopo che erasi spento il primo scoppio del furore popolare, e i falsi testimoni avevano perduto ogni credito. Gli era, quindi, riuscito di campare a gran pena dal pericolo.[49] Con Castelmaine era collegato uno deʼ più prediletti deʼ cento amanti di sua moglie; cioè Enrico Jermyn, che da Giacomo di recente era stato fatto Pari col titolo di Lord Dover. Jermyn, venti e più anni innanzi, erasi reso notevole con isconci amori e disperati duelli. Adesso trovavasi rovinato dal giuoco, ed era ansioso di rifare il patrimonio col mezzo degli uffici lucrosi, dai quali lo escludevano le leggi.[50] Al medesimo branco apparteneva un intrigante ed importuno Irlandese, chiamato White, che aveva molto viaggiato, aveva servito la Casa dʼAustria con un impiego mezzo tra lʼinviato e la spia, e che in rimunerazione deʼ servigi resi era stato fatto marchese dʼAlbeville.[51] Tosto dopo la proroga, questa trista fazione sʼafforzò di un nuovo aiuto. Riccardo Talbot, conte di Tyrconnel, il più feroce ed implacabile di quanti avevano in odio le libertà e la religione dellʼInghilterra, da Dublino era giunto alla Corte. Talbot discendeva da una antica famiglia normanna, la quale, da lungo tempo stabilita in Leicester, era degenerata, aveva adottati i costumi deʼ Celti, e come essi aderito alla vecchia religione, e partecipato alla ribellione del 1641. In gioventù egli era stato uno deʼ più rinomati scrocconi e bravazzoni di Londra; era stato presentato a Carlo ed a Giacomo mentre erano esuli in Fiandra, come un uomo adatto e pronto ad assassinare infamemente il Protettore. Subito dopo la Restaurazione, Talbot si provò dʼottenere il favore della famiglia reale con un servigio anche più infame. Bisognava un pretesto per mezzo del quale giustificare il Duca di York a rompere la promessa di matrimonio onde egli aveva ottenuto da Anna Hyde lʼestrema prova dʼaffetto che possa dare una donna. Talbot, dʼaccordo con alcuni deʼ suoi dissoluti compagni, imprese di apprestare siffatto pretesto. Concertarono di dipingere la povera giovinetta come donna priva di virtù, di pudore, di delicatezza, e inventare lunghe storielle di teneri ritrovi e di rapiti favori. Talbot, segnatamente, riferì come in una delle secrete visite a lei fatte, avesse per caso versato il calamaio del Cancelliere sopra un fascio di scritture, e con quanta destrezza, perchè il vero non si scoprisse, ella ne avesse data la colpa alla sua scimmia. Tali storielle, che se fossero state vere, non sarebbero uscite dalle labbra di nessuno che non fosse il più vile degli uomini, erano prette invenzioni. Talbot tosto fu costretto a confessare che erano tali, e lo fece senza ombra di rossore. Lʼoltraggiata donna divenne duchessa di York. Ove il suo sposo fosse stato uomo diritto ed onorevole, avrebbe con indignazione e disprezzo cacciato via dal proprio cospetto gli sciagurati che gli avevano calunniata la consorte. Ma una delle particolarità del carattere di Giacomo era che nessuna azione, comunque si fosse malvagia e vergognosa, fatta col desiderio di ottenere il suo favore, gli sembrava mai degna dʼessere riprovata. Talbot seguitò a frequentare la Corte, mostravasi quotidianamente con fronte di bronzo dinanzi alla principessa di cui aveva tentata la rovina, ed ottenne il posto lucroso di principale lenone del Re. Dopo non molto tempo, Whitehall si mise sossopra alla nuova che Riccardo (_Dick_) Talbot, come veniva comunemente chiamato, aveva concepito il disegno di assassinare il Duca dʼOrmond. Il bravo fu mandato alla Torre; ma dopo pochi giorni fu visto chiassando per le sale di palazzo, e recando letterine dʼamore su e giù tra il suo signore e le più brutte dame di Corte. Invano i vecchi e discreti consiglieri supplicavano i due principi a non proteggere quel ribaldo, che altro merito non aveva, tranne la prestanza della persona e il gusto nel vestirsi. Talbot non solo era bene accolto nella reggia quando la bottiglia e i dadi giravano attorno, ma veniva attentamente udito in negozi di grave momento. Affettava il carattere di un patriotto irlandese, e patrocinava con grande audacia, e talvolta con esito prospero, la causa deʼ suoi concittadini, i beni deʼ quali erano stati confiscati. Studiavasi, nulladimeno, di farsi ben pagare deʼ servigi che rendeva, e gli venne fatto di acquistare, parte vendendo protezione, parte scroccando, e parte facendo il lenone, una rendita di tremila lire sterline lʼanno; imperocchè, sotto la maschera di leggiero, di prodigo, dʼimprovvido e di impudente bisbetico, egli era pur troppo uno deʼ più venali e cupidi uomini del mondo. Oramai non era più giovane, e scontava con acerbi dolori le stemperatezze della gioventù; ma gli anni e le infermità non gli avevano essenzialmente mutato il carattere e i modi. Sempre che apriva la bocca, schiamazzava, imprecava e bestemmiava con sì terribile violenza, che i più superficiali osservatori lo giudicavano il più feroce deʼ libertini. Il popolo non sapeva intendere come un uomo il quale anche da sobrio, era più furioso e vanitoso dʼaltri ubbriaco, e che sembrava affatto incapace di mascherare il più lieve moto dellʼanimo o di serbare il minimo secreto, potesse veramente essere un adulatore di cuore freddo, dʼocchio acuto e dʼingegno macchinatore. Non pertanto, tale era Talbot. E davvero la sua ipocrisia era dʼuna specie più squisita e più rara che non fosse quella che regnava nel Parlamento di Barebone. Perocchè lo ipocrita perfetto non è colui che asconde il vizio sotto i sembianti della virtù, ma colui il quale si serve del vizio che egli non si vergogna di mostrare, come di maschera per celare un altro vizio più nero e proficuo, che gli giova di tenere nascosto. Talbot, fatto da Giacomo conte di Tyrconnel, aveva comandate le truppe in Irlanda neʼ nove mesi che corsero dalla morte di Carlo al principio del viceregno di Clarendon. Quando il nuovo Luogotenente stava per partire da Londra alla volta di Dublino, il Generale fu chiamato da Dublino a Londra. Dick Talbot era da lungo tempo conosciuto nel cammino che doveva fare. Fra Chester e la Metropoli non vʼera quasi locanda nella quale non avesse attaccato lite. Dovunque giungeva, affaticava i cavalli a dispetto della legge, imprecava ai cuochi ed ai postiglioni, e quasi destava tumulti con le sue insolenti rodomonterie. Andava dicendo che la Riforma aveva rovinato ogni cosa. Ma il bel tempo era presso. Tra breve i Cattolici si sarebbero rialzati, e si sarebbero rifatti sugli eretici. Infuriando e bestemmiando sempre come un indemoniato, ei giunse alla Corte;[52] dove tosto si collegò strettamente con Castelmaine, Dover ed Albeville. Costoro ad una voce gridavano guerra alla costituzione della Chiesa e dello Stato. Dicevano al loro signore, chʼegli per la sua religione e per la dignità della sua Corona, era in debito di affrontare intrepidamente il grido degli eretici demagoghi, e mostrare fin da principio al Parlamento chʼegli sarebbe il signore a dispetto della opposizione, e che il solo effetto della opposizione sarebbe stato di renderlo signore severo. XXVIII. Ciascuno deʼ due partiti in che la Corte era divisa, aveva zelanti alleati stranieri. I ministri di Spagna, dello Impero e degli Stati Generali erano adesso desiderosi di sostenere Rochester, come per lo innanzi lo erano stati verso Halifax. Barillon adoperava tutta la propria influenza dalla parte opposta, ed era aiutato da un altro agente francese, inferiore a lui per grado, ma assai superiore per ingegno; voglio dire da Bonrepaux. Barillon non era privo di buone qualità, ed aveva grande corredo di quelle doti onde allora andavano predistinti i gentiluomini francesi. Ma la sua capacità non era quale il suo alto ufficio richiedeva. Era divenuto pigro e a sè troppo indulgente; amava i piaceri della società e della tavola, meglio delle faccende; e nelle grandi occasioni era dʼuopo che da Versailles venissero ammonimenti, ed anche riprensioni, per ispingerlo ad operare.[53] Bonrepaux si era alzato dalla oscurità a cagione della intelligenza ed industria che aveva mostrata come impiegato nel dipartimento della marina, ed aveva riputazione dʼiniziato ai misteri della politica mercantile. Alla fine del 1685, fu mandato a Londra con varie commissioni dʼalta importanza. Doveva stabilire le basi per un trattato di Commercio, indagare e riferire in che condizioni trovavansi la flotta e gli arsenali inglesi, e fare qualche proposta ai fuorusciti Ugonotti, i quali supponevasi che fossero tanto prostrati dalla penuria e dallʼesilio, che avrebbero di gran cuore accettato quasi qualunque patto di riconciliazione. Il nuovo inviato nasceva da parenti plebei; era di statura quasi nano, dʼaspetto sì brutto da muovere a scherno, e parlava con lʼaccento di Guascogna dove era nato: ma vigoroso buon senso, acutezza di mente, e vivacità di spirito lo rendevano eminentemente adatto al suo ufficio. In onta ad ogni svantaggio di nascita e di persona, fu tosto stimato come assai piacevole compagno, ed espertissimo diplomatico. Mentre folleggiava con la duchessa di Mazzarino, studiavasi di discutere di cose letterarie con Waller e Saint Evremond, e carteggiare con la Fontaine, onde bene erudirsi nella politica inglese. Per la perizia chʼegli aveva nelle cose marittime, venne in grazia di Giacomo; il quale, per molti anni, prestò non poca attenzione alle faccende dello Ammiragliato, e le intendeva quanto egli era capace dʼintendere cosa alcuna al mondo. Conversavano entrambi ogni giorno lungamente e liberamente intorno alle condizioni delle navi e degli arsenali. Lo effetto di tale dimestichezza fu quale era da aspettarsi: val quanto dire, che lo acuto e vigilante francese concepì sommo pregio per le doti e il carattere del re, dicendo il mondo avere male giudicato Sua Maestà Britannica, che aveva meno capacità, e non maggiori virtù di Carlo.[54] I due inviati di Luigi, comecchè mirassero ad un medesimo fine, con molto accorgimento presero vie diverse. Si partirono fra loro la Corte. Bonrepaux usava principalmente con Rochester e gli aderenti di lui. Le relazioni di Barillon erano principalmente con la opposta fazione. Conseguenza ne fu, chʼessi soventi volte guardassero un medesimo fatto da diversi punti di veduta. Il migliore racconto che esista intorno alla contesa che a quel tempo ferveva in Whitehall, è da trovarsi neʼ loro dispacci. XXIX. Come ciascuno deʼ due partiti nella Corte di Giacomo era sostenuto da principi stranieri, così ciascuno aveva il sostegno dʼuna autorità ecclesiastica, alla quale il Re mostrava gran deferenza. Il sommo pontefice inchinava alla moderazione; e i suoi sentimenti erano espressi dal Nunzio e dal Vicario Apostolico.[55] Dallʼaltra parte, stava una corporazione che col suo peso controbilanciava anche quello del Papato; stava, cioè, la potente Compagnia di Gesù. È circostanza importantissima e degna di considerazione, che queste due grandi potenze spirituali, un tempo, a quanto pareva, inseparabilmente collegate, fossero fra loro opposte. Per un periodo di tempo poco minore di mille anni, il clero regolare era stato il sostegno precipuo della Santa Sede. Essa lo aveva protetto daʼ vescovi che volevano immischiarsi nelle sue faccende, e ne era stata ampiamente ricompensata. Senza gli sforzi dei regolari, è probabile che il Vescovo di Roma si sarebbe ridotto ad essere il presidente onorario dʼuna aristocrazia di prelati. Eʼ fu col soccorso deʼ Benedettini, che Gregorio VII potè lottare ad un tempo contro glʼImperatori della Casa di Franconia, e contro il clero secolare. Eʼ fu col soccorso deʼ Domenicani e deʼ Francescani, che Innocenzo III spense la setta degli Albigesi. XXX. Nel secolo decimosesto, il Papato, esposto a nuovi pericoli e più formidabili di quanti lo avessero per innanzi minacciato, fu salvato da un nuovo ordine religioso, animato da vigoroso entusiasmo e costituito con insigne magistero. Allorquando i Gesuiti accorsero alla liberazione del Papato, lo trovarono in estremo pericolo; ma da quel momento le sue sorti mutarono aspetto. Al protestantismo, che per una intera generazione aveva abbattuto tutto ciò che aveva incontrato per via, fu mozzo lo andare avanti, e fu rapidamente fatto indietreggiare dalle Alpi fino alle sponde del Baltico. Non era scorso un secolo da che la Compagnia di Gesù esisteva, e il mondo era pieno deʼ ricordi di quanto essa aveva fatto e sofferto per la fede. Non vʼè comunità religiosa che possa gloriarsi dʼuna schiera di uomini così variamente cospicui; nessuna aveva esteso le proprie operazioni sopra uno spazio sì vasto; e nondimeno, in nessuna vʼera stata cotanto perfetta unità di sentimento e dʼazione. Non era contrada nel mondo, non sentiero nella vita attiva o speculativa, in cui non si trovassero i Gesuiti. Dirigevano i Consigli dei re: decifravano iscrizioni latine: osservavano il moto deʼ Satelliti di Giove: pubblicavano intere biblioteche, controversia, casistica, storia, trattati dʼottica, odi alcaiche, edizioni dei Santi Padri, madrigali, catechismi e satire. La educazione letteraria della gioventù era quasi interamente nelle loro mani, e condotta con esquisita maestria. Sembra che avessero scoperto il punto preciso al quale possa condursi la cultura intellettuale senza il rischio della intellettuale emancipazione. Gli stessi nemici loro erano costretti a confessare, che nellʼarte di governare e formare le menti deʼ giovani, i Gesuiti non avevano rivali. Infrattanto, con assiduità e prospero successo coltivavano la eloquenza del pulpito. Con assiduità e successo anche maggiore si dettero al ministero del confessionale. Per tutta la Europa Cattolica, i secreti dʼogni Governo, e quasi dʼogni notevole famiglia, erano in poter loro. Girovagavano da un paese protestante ad un altro, travestendosi in infinite fogge, da galanti cavalieri, da semplici contadini, da predicatori puritani. Viaggiavano fin dove nè lʼavidità mercantile nè la curiosità della scienza aveva persuaso altri ad andare. Trovavansi in abito di mandarini a dirigere lʼosservatorio astronomico di Pechino. Si vedevano con la marra in mano ammaestrare nellʼagricoltura i selvaggi del Paraguay. Ciò non ostante, in qualunque parte risedessero, qualunque mestiere esercitassero, il loro spirito era sempre lo stesso; cioè piena devozione alla causa comune, implicita obbedienza allʼautorità centrale. Nessuno sʼera scelto da sè il luogo dove abitare e la vocazione da seguire. Se il Gesuita dovesse vivere sotto il cerchio artico o sotto lʼequatore, se dovesse passare tutti i suoi giorni a classificare gemme e a collazionare manoscritti nel Vaticano, o a persuadere i barbari dellʼemisfero meridionale perchè non si divorassero lʼun lʼaltro, erano cose che egli con profonda sommissione lasciava allʼaltrui pensiero. Se lo volevano a Lima, trovavasi con la prima flotta a veleggiare sullʼAtlantico. Se di lui vi era bisogno in Bagdad, si vedeva traverso al deserto fra la prima caravana. Se vʼera bisogno del suo ministero in qualche regione dove la sua vita fosse meno sicura di quella dʼun lupo, dove fosse delitto lʼospitarlo, dove i teschi e i corpi squartati deʼ suoi confratelli glʼindicavano quale sorte egli dovesse aspettarsi, andava senza lamento o esitazione al proprio destino. Nè questo spirito eroico è oggimai estinto. Allorchè, ai tempi nostri, una nuova e terribile pestilenza girò infuriando attorno al globo, mentre in alcune grandi città lo spavento aveva rotti tutti i vincoli che congiungono la società, mentre il clero secolare aveva abbandonato il proprio gregge, mentre non vʼera oro che bastasse a comperare il soccorso del medico, mentre i più potenti affetti di natura cedevano allo amore della vita, il Gesuita vedevasi presso a quel lettuccio che il vescovo e il curato, il medico e la balia, il padre e la madre avevano abbandonato; vedevasi, dico, piegare la persona sulle labbra infette, per raccogliere il fioco accento del moribondo che si confessava, e tenergli dinanzi agli occhi fino allʼultimo istante della vita la immagine del Redentore spirante sulla croce. Ma, con lʼammirevole energia, il disinteresse, e lʼabnegazione che facevano il carattere della Società, erano mescolati grandi vizi. Dicevasi, e non senza fondamento, che lʼardente spirito pubblico che rendeva il Gesuita spregiatore degli agi, della libertà e della vita propria, lo induceva parimente a spregiare il vero e a non sentire pietà; che nessun mezzo il quale potesse promuovere lʼutile della sua religione, sembravagli illecito, o che col vocabolo dʼutilità della propria religione ei troppo spesso intendeva lʼutile della Società sua. Affermavasi, che nelle più atroci congiure di cui faccia ricordanza la storia, lʼazione di lui poteva distintamente scoprirsi; che, solo costante nello affetto per la confraternita alla quale egli apparteneva, in parecchi Stati era lʼinimico più pericoloso della libertà, in altri il più pericoloso nemico dellʼordine. Le più grandi vittorie che vantasse avere riportate pel bene della Chiesa, erano, secondo il giudicio di molti illustri membri di quella, più apparenti che reali. Si era, in verità, affaticato con maraviglioso buon esito a ridurre il mondo sotto le leggi della Chiesa; ma lo aveva fatto rilassando le leggi in guisa che si adattassero ai gusti mondani. Invece di studiarsi dʼinalzare la natura umana alla meta stabilita dai precetti ed esempi divini, egli aveva abbassata quella meta al di sotto dellʼumana natura. Gloriavasi dʼuna moltitudine di convertiti, che per mano sua avevano ricevuto il battesimo nelle più rimote regioni dellʼOriente; ma correva la voce, che ad alcuni di queʼ convertiti, i fatti daʼ quali dipende tutta la dottrina del Vangelo erano stati astutamente nascosti, e che ad altri era stato permesso di schivare la persecuzione collʼinchinarsi dinanzi alle immagini deʼ falsi Dei, mentre internamente recitavano Pater ed Ave. Nè simiglianti arti erano adoperate solo neʼ paesi pagani. Non era da maravigliare che genti dʼogni grado, e specialmente quelle in alto locate, si affollassero attorno ai confessionali nei tempii deʼ Gesuiti; imperocchè da queʼ tribunali di penitenza nessuno se ne andava poco contento. Ivi il sacerdote era tutto a tutti. Mostrava tanto rigore quanto bastasse perchè coloro che gli sʼinginocchiavano dinanzi non ricorressero alle chiese deʼ Domenicani o dei Francescani. Se aveva da fare con unʼanima veramente divota, parlava con le caute parole degli antichi padri cristiani; ma con quella gran parte degli uomini che hanno religione abbastanza da sentire rimorso quando commettono il male, e non abbastanza da astenersi di commetterlo, il Gesuita seguiva un sistema diverso. Non potendo ritrarli dalla colpa, studiavasi di salvarli dal rimorso. Aveva agli ordini suoi un deposito immenso di farmachi per le coscienze perturbate. Neʼ libri composti daʼ casisti suoi confratelli, e stampati con licenza deʼ suoi superiori, trovavasi in gran copia dottrine di conforto per ogni generazione di peccatori. Ivi il mercatante fallito imparava in che modo potesse, senza peccato, nascondere le mercanzie alle indagini deʼ suoi creditori. Il servo apprendeva come potere, senza peccato, rubare le argenterie del proprio padrone. Il mezzano dʼamore veniva fatto certo, ad un cristiano esser lecito sostentare la vita recando lettere e messaggi tra le donne maritate e i loro amanti. Gli alteri e puntigliosi gentiluomini di Francia ricevevano lietamente una decisione a favore del duello. GlʼItaliani, avvezzi a vendicarsi con modi più vili e crudeli, godevano dʼimparare che essi potevano, senza peccato, tirare, nascosti dietro a una siepe, archibugiate ai loro nemici. Allo inganno era lasciata licenza bastevole a distruggere il valore del contratto e del testimonio fra gli uomini. E veramente, se lʼumana società non si disciolse, se vi fu alcuna certezza della vita e degli averi, egli fu perchè il senso comune e la umanità frenavano i popoli dal fare ciò che la Società di Gesù assicurava loro che potessero fare con sicura coscienza. Erano così stranamente mescolati il bene e il male nel carattere di queʼ celebri padri; e in tale mistura stava il secreto della loro gigantesca potenza. La quale non poteva appartenere nè ai pretti ipocriti, nè ai rigidi moralisti; ma poteva solo conseguirsi da uomini che con vero entusiasmo correvano dietro ad un fine, e nel tempo stesso non pativano scrupoli rispetto ai mezzi di giungervi. Fin da principio, i Gesuiti erano vincolati da un voto speciale dʼobbedienza verso il papa. Avevano missione di domare ogni insubordinazione in seno della Chiesa, non che di respingere le ostilità degli aperti nemici di quella. La loro dottrina era similissima a quella che oggidì di qua dalle Alpi si chiama oltremontana, e differiva dalla dottrina di Bossuet quasi quanto da quella di Lutero. Dannavano le libertà gallicane, il diritto deʼ concili ecumenici a sindacare la Santa Sede, e il diritto che vantavano i vescovi a un mandato divino indipendente da Roma. Lainez, a nome di tutta la confraternita, proclamò nel Concilio di Trento, fra gli applausi delle creature di Pio IV e le mormorazioni deʼ prelati francesi e spagnuoli, che il governo dei fedeli era stato affidato da Cristo al solo Papa, e che nel solo Papa era accentrata tutta lʼautorità sacerdotale, e che per mezzo del solo Papa i sacerdoti e i vescovi erano rivestiti di tutta lʼautorità loro.[56] Per molti anni la colleganza tra il Sommo Pontefice e la Società di Gesù non era stata rotta. Ed ove lo fosse stata allorchè Giacomo II ascese al trono dʼInghilterra, ove la influenza deʼ Gesuiti, non che quella del Papa, avesse promossa una politica costituzionale moderata, è probabile che la grande rivoluzione, la quale in breve tempo cangiò le condizioni dellʼEuropa, non sarebbe accaduta. Ma anche avanti la metà del secolo diciassettesimo, la Società, inorgoglita daʼ servigi resi alla Chiesa, fidente nella propria forza, era divenuta disdegnosa del giogo. Sorse una generazione di Gesuiti disposti a lasciarsi proteggere e guidare dalla Corte di Francia, meglio che da quella di Roma; la quale disposizione non era lieve allorchè Innocenzo XI ascese al trono pontificio. In quel tempo, i Gesuiti combattevano una guerra a morte contro un nemico da loro in prima spregiato, ma pel quale poscia erano stati costretti a sentire riverenza e timore. Mentre erano pervenuti al più alto grado di prosperità, furono sfidati da una mano di avversarii, che, a dir vero, non avevano influenza sopra i potenti del mondo, ma avevano fortissima fede religiosa ed energia intellettuale. Travagliavansi in una lunga, strana e gloriosa lotta del genio contro il potere. I Gesuiti chiamarono in soccorso loro, ministeri, tribunali, università, che risposero alla chiamata. Porto Reale si richiamò, e non invano, ai cuori ed alle menti di milioni dʼuomini. I dittatori della Cristianità si trovarono, in un subito, nella condizione di colpevoli. Furono accusati di avere sistematicamente abbassata la meta della morale evangelica a fine dʼaccrescere la loro influenza; e lʼaccusa fu formulata in modo che tirò a sè lʼattenzione dello intero mondo, imperocchè il principale accusatore era Biagio Pascal. Le sue doti intellettuali erano quali rade volte sono state impartite ad alcuna umana creatura; e dello zelo veemente che lʼanimava, erano solenni argomenti le penitenze e le vigilie che anzi tempo trascinarono al sepolcro il macero suo corpo. Aveva lo spirito di San Bernardo; ma la squisitezza, il brio, la purità, la energia, la semplicità della sua eloquenza, nessuno ha mai raggiunto, tranne i grandissimi oratori greci. Tutta Europa lesse e ammirò i suoi scritti, piangendo e ridendo ad un tempo. I Gesuiti si provarono di rispondergli, ma le loro deboli risposte furono ricevute dal pubblico con fischi di scherno. Non che avessero difetto dʼingegno, e di quelle doti le quali si acquistano con elaborata educazione; ma tale educazione, quantunque possa suscitare le forze di una mente ordinaria, tende a spegnere, più presto che a promuovere, il genio originale. Fu universalmente riconosciuto che nella contesa letteraria i Giansenisti rimasero vincitori. Ai Gesuiti nullʼaltro restava, che opprimere la setta da essi non potuta confutare. Luigi XIV era il loro sostegno precipuo. La sua coscienza, fino dagli anni suoi primi, era nelle mani loro; egli aveva da loro imparato ad aborrire il Giansenismo, come aborriva il Protestantismo, e molto più di quanto aborrisse lʼAteismo. Innocenzo XI, dallʼaltra parte, pendeva verso le opinioni giansenistiche. Quindi fu che la Compagnia di Gesù trovossi in una situazione non contemplata mai dal suo fondatore. I Gesuiti si scissero dal Sommo Pontefice, e collegaronsi fortemente con un principe che si spacciava campione delle gallicane libertà e nemico delle pretese oltremontane. In tal guisa la Compagnia divenne in Inghilterra strumento deʼ disegni di Luigi, e cooperò con successo tale che i Cattolici Romani poi lungamente ed amaramente deplorarono, ad accrescere la rottura tra il Re e il Parlamento, ad impacciare il Nunzio, a minare il potere del Lord Tesoriere, ed a promuovere i disperatissimi intendimenti di Tyrconnel. Così, da una parte stavano gli Hydes e tutti i Tory aderenti alla Chiesa Anglicana, Powis e tutti i più rispettabili gentiluomini e nobili, credenti nella religione del Re, gli Stati Generali, la Casa dʼAustria e il Pontefice. Dallʼaltra parte erano pochi avventurieri cattolici romani, senza fortuna e senza riputazione, spalleggiati dalla Francia e daʼ Gesuiti. XXXI. Il principale rappresentante deʼ Gesuiti in Whitehall, era un Inglese padre della Compagnia, il quale per qualche tempo era stato vice–provinciale, prediletto da Giacomo con peculiare favore, e di recente fatto scrivano del gabinetto intimo. Questʼuomo, chiamato Eduardo Petre, discendeva da onorevole famiglia. Aveva modi cortesi e facondo parlare; ma era debole, vano, ambizioso e cupido. Di tutti i pessimi consiglieri che andavano a Whitehall, egli forse fu il fabbro principale nella rovina della Casa Stuarda. XXXII. La ostinata e imperiosa natura del Re faceva grandemente prevalere coloro che lo consigliavano a star fermo, a non cedere in nulla, e a rendersi temuto. Una massima politica gli sʼera cosiffattamente abbarbicata al cervello, che non vʼera ragione che bastasse a sradicarla. A dir vero, egli non era assuefatto a porgere ascolto alla ragione. Il suo modo dʼargomentare, se così si debba chiamare, era quello che non di rado sʼosserva negli individui tardi di cervello e caparbi, avvezzi ad essere circuiti dai loro sottoposti. Asseriva una cosa; e qualvolta i savi uomini provavansi di mostrargli rispettosamente essere erronea, lʼasseriva di nuovo con le stessissime parole, e pensava che così facendo tutte le obiezioni sparissero.[57] «Non farò mai concessioni» spesso ei ripeteva; «mio padre le fece, e gli fu mozzo il capo.»[58] Se fosse stato vero che le concessioni erano tornate fatali a Carlo I, un uomo di buon senso avrebbe conosciuto, un solo esperimento non essere bastevole a stabilire una regola generale anche nelle scienze molto meno complicate di quella di governare; che dal principio del mondo fino a noi, non vi furono mai due fatti politici, le cui condizioni fossero esattamente simili; e che lʼunico modo dʼimparare dalla storia prudenza civile, è quello di esaminare e raffrontare un infinito numero di casi. Ma se lʼunico esempio sul quale appoggiavasi il Re, era buono a provare alcuna cosa, provava solo chʼegli aveva torto. Mal può dubitarsi che, se Carlo avesse francamente fatte al Corto Parlamento, che si ragunò nella primavera del 1640, solo mezze le concessioni chʼegli, pochi mesi dopo, fece al Lungo Parlamento, sarebbe vissuto e morto da Re potentissimo. Dallʼaltro canto, non può punto dubitarsi che, se egli avesse ricusato di fare concessione alcuna al Lungo Parlamento, e avesse ricorso alle armi a difesa della imposta pel mantenimento della flotta, e a difesa della Camera Stellata, avrebbe veduto nelle file degli inimici Hyde e Falkland accanto a Hollis e Hampden. Ma, certo, non avrebbe potuto ricorrere alle armi; poichè nè anche venti Cavalieri sarebbero accorsi al suo vessillo. Solo alle concessioni fatte egli era debitore del soccorso prestatogli dalla gran classe deʼ nobili e deʼ gentiluomini, i quali pugnarono per tanto tempo e con tanto valore per la causa di lui. Ma sarebbe stato inutile dimostrare a Giacomo simiglianti cose. Un altro fatale errore gli si era fitto in mente, e vi stette finchè lo condusse alla rovina. Credeva fermamente, che per qualunque cosa egli avesse potuto fare, i credenti nella Chiesa Anglicana avrebbero sempre agito a seconda deʼ loro principii. Sapeva dʼessere stato proclamato da dieci mila pulpiti. La Università di Oxford aveva solennemente dichiarato, che anche una tirannide terribile quanto quella deʼ più depravati Cesari, non giustificava i sudditi a resistere alla regia autorità: e da ciò egli era cotanto stolto da concludere, che lo intero corpo deʼ Tory gentiluomini e chierici, si sarebbero da lui lasciati spogliare, opprimere ed insultare, senza alzare una mano a difendersi. Eʼ sembra strano che un uomo possa avere trapassato lʼanno cinquantesimo della propria vita, senza scoprire che il popolo talvolta fa ciò che stima illecito: e Giacomo altro fare non doveva che frugarsi nellʼanima, per trovarvi abbondevoli prove a conoscere, che anche un forte sentimento deʼ religiosi doveri non sempre serve a impedire che la fragile creatura umana indulga alle proprie passioni, a dispetto delle leggi divine ed a rischio di terribili pene. Avrebbe dovuto sapere, che comunque egli giudicasse atto peccaminoso lo adulterio, era un adultero; ma nulla valeva a convincerlo che chiunque per principio credeva la ribellione essere peccato, si potesse anche in grande estremità indurre a ribellare. Credeva che la Chiesa Anglicana fosse una vittima paziente, chʼegli poteva senza pericolo oltraggiare e torturare a suo libito; nè si accôrse mai del suo errore se non dopo che vide le Università pronte a coniare le loro argenterie per sussidiare la cassa militare deʼ suoi nemici, e un vescovo lungamente rinomato per la lealtà sua, gettar via la sottana, e cingendo una spada, prendere il comando dʼun reggimento dʼinsorti. XXXIII. A coteste fatali follie il Re era studiosamente incoraggiato da un ministro, che era già stato esclusionista, e tuttavia seguitava a chiamarsi protestante; voglio dire dal Duca di Sunderland. Le cagioni della condotta di questo immorale uomo politico, sono state spesso erroneamente esposte. Mentre ancora viveva, fu dai Giacomisti accusato di avere, anche avanti il cominciamento del regno di Giacomo, il pensiero di produrre una rivoluzione a favore del principe dʼOrange, e dʼavere, con tale scopo, consigliato il Re a commettere numerose aggressioni contro la costituzione civile ed ecclesiastica del reame: frivola storiella che è stata fino ai dì nostri ripetuta da ignoranti scrittori. Ma nessuno storico bene erudito nel vero, qualunque si vogliano supporre i suoi pregiudicii, si è indotto ad accoglierla, come quella che non riposa sopra nessuna prova; e non vʼè prova che basti a convincere gli uomini assennati, che Sunderland deliberatamente si gettasse nella colpa e nella infamia onde produrre un mutamento di cose, nel quale ei vedeva chiaramente di non poter vantaggiare, e seguito il quale, di fatto ei perdè le immense ricchezze e la influenza che sotto Giacomo possedeva. Nè vi è la più lieve cagione per ricorrere ad una sì strana ipotesi, poichè il vero traspare dalla superficie stessa deʼ fatti. Per quanto tortuosa e subdola fosse la via nella quale cotesto uomo procedeva, la ragione che ve lo aveva spinto era semplice. La sua condotta è da attribuirsi alla possanza della cupidigia e del timore che avvicendavansi in unʼanima molto subietta ad entrambe cotali passioni, e che aveva occhio lesto anzichè acuto. Aveva mestieri di assai più potere e pecunia. Lʼuno ei poteva ottenere solamente a danno di Rochester, e lʼunico modo di conseguirlo a detrimento di Rochester, era quello di accrescere lʼavversione che il Re sentiva pei moderati consigli di Rochester. Danari, ei con grande agevolezza e in gran copia poteva ottenere dalla corte di Versailles; e Sunderland fu sollecito a vendersi a quella. Non aveva nessun vizio gioviale o generoso. Curava poco il vino e la beltà, ma bramava la ricchezza con insaziabile e irrefrenabile cupidigia. La passione del giuoco glʼinfuriava tempestosamente nellʼanima, nè era stata domata da perdite rovinosissime. Il suo avito patrimonio era grande. Egli aveva lungamente occupato uffici lucrosi, e non avea trascurata arte nessuna a renderli più lucrosi; ma la sua mala ventura aʼ giuochi di sorte fu tanta, che i suoi beni diventavano quotidianamente più gravati di debiti. Sperando di disimpacciarsi da tante molestie, rivelava a Barillon tutti i disegni che il governo inglese meditasse ostili alla Francia, ed accennò che, pei tempi che correvano, un Segretario di Stato poteva rendere servigi che Luigi avrebbe fatto opera savia a pagare largamente. Lo ambasciatore disse al proprio signore, che sei mila ghinee era la minore gratificazione che potesse offrirsi ad un così importante ministro. Luigi assentì a dare venticinque mila scudi, somma equivalente a circa cinque mila seicento lire sterline. Fu stabilito che Sunderland riceverebbe annualmente la predetta somma, e che egli in ricompensa farebbe ogni sforzo per impedire il ragunarsi del Parlamento.[59] Si collegò quindi alla cabala gesuitica, e usò così destramente dellʼinfluenza della cabala, che gli venne fatto di succedere ad Halifax nellʼalta dignità di Lord Presidente, senza rinunziare allʼufficio maggiormente lucroso di Segretario.[60] Sentì nondimeno di non potere ottenere lʼequivalente influenza in Corte, finchè fosse riputato aderente alla Chiesa Anglicana. Tutte le religioni per lui erano una medesima cosa. Nelle private conversazioni aveva costume di parlare con profano dispregio delle cose più sacre. Deliberò, dunque, di dare al Re il diletto e la gloria di avere compita una conversione. Se non che, eravi dʼuopo qualche destrezza a ciò fare. Non vʼè uomo che sia affatto non curante dellʼopinione dei suoi simili; ed anche Sunderland, quantunque non sentisse molto la vergogna, rifuggiva dalla infamia della pubblica apostasia. Rappresentò la parte sua con esimio magistero. Agli occhi del mondo mostravasi protestante; nelle secreto stanze del re, assumeva il contegno di uno che, seriamente affaccendato ad indagare il vero, pressochè persuaso a dichiararsi Cattolico Romano, ed aspettando dʼessere maggiormente illuminato, era pronto a rendere tutti i possibili servigi ai credenti nella vecchia fede. Giacomo, che non ebbe mai grande discernimento, e nelle materie religiose era affatto cieco, in onta alla esperienza che aveva della umana malvagità, della malvagità deʼ cortigiani come classe, e di quella di Sunderland come individuo, si lasciò gabbare inducendosi a credere che la grazia aveva toccato il più falso e indurito deʼ cuori umani. Per molti mesi lo astuto ministro fu considerato in Corte come buon catecumeno, senza mostrarsi al pubblico in sembianza di rinnegato.[61] Poco dopo, mostrò al Re lʼutilità dʼistituire un comitato secreto di Cattolici Romani, onde consigliare intorno a tutte le cose spettanti allʼinteresse della loro religione. Il comitato adunavasi talvolta nelle stanze di Chiffinch, e talʼaltra negli appartamenti ufficiali di Sunderland, il quale, quantunque fosse tuttavia protestante di nome, era ammesso a tutte le deliberazioni di quello, e tosto giunse a predominarne tutti i membri. Ogni venerdì la cabala gesuitica desinava col Segretario. A mensa conversavano liberamente: e non risparmiavano nè anche le debolezze del Principe, verso il quale intendevano mostrarsi indulgenti. A Petre, Sunderland promise un cappello cardinalizio; a Castelmaine, una magnifica ambasciata a Roma; a Dover, un lucroso comando nelle guardie; e a Tyrconnel, un alto impiego in Irlanda. In tal guisa, stretti insieme dai più forti vincoli dellʼinteresse, costoro cooperavano a cacciare di seggio il Lord Tesoriere.[62] XXXIV. Vʼerano due membri protestanti del Gabinetto, i quali non presero decisamente parte al conflitto. Jeffreys, in questo tempo, era torturato da una crudele infermità interna, esacerbata dalla intemperanza. In un pranzo che un ricco Aldermanno dètte ad alcuni deʼ principali membri del Governo, il Lord Tesoriere e il Lord Cancelliere ubriacaronsi tanto, che si spogliarono quasi ignudi, e vennero a stento impediti dallo arrampicarsi ad un piuolo per bere alla salute di Sua Maestà. Al pio Tesoriere non toccò altro che i pungoli della maldicenza per lʼosceno baccano; ma il Cancelliere fu assalito da un violento accesso del suo vecchio male. Per qualche tempo fu creduto in gravissimo pericolo di vita. Giacomo mostrossi inquietissimo, pensando di dovere perdere un ministro che gli conveniva sì bene, e disse, con qualche verità, la perdita di un tanto uomo non potersi così di leggieri riparare. Jeffreys, venuto in convalescenza, promise di sostenere ambedue i partiti, aspettando di vedere quale di loro fosse rimasto vittorioso. Esistono tuttora alcune curiose prove della sua doppiezza. È stato già notato che i due diplomatici francesi i quali trovavansi in Londra, sʼerano divisi fra loro la Corte. Bonrepaux era di continuo con Rochester, e Barillon stava con Sunderland. A Luigi nella medesima settimana fu scritto da Bonrepaux, che il Cancelliere era tutto dalla parte del Tesoriere, e da Barillon che il Cancelliere era in lega col Segretario.[63] XXXV. Godolphin, cauto e taciturno, fece ogni sforzo a serbarsi neutrale. Le opinioni e i desiderii suoi erano senza dubbio con Rochester; ma, per debito dʼufficio, gli era necessario starsi sempre presso alla Regina, chʼei naturalmente voleva tenersi bene edificata. Certo, vʼè ragione a credere chʼegli sentisse per lei un affetto più romantico di quello che spesso nasce nel cuore dei vecchi uomini di Stato; e certe circostanze che adesso è uopo riferire, lʼavevano interamente gettato nelle mani della cabala gesuitica.[64] Il Re, per quanto fosse uomo dʼindole severa e di grave contegno, rimaneva sotto lo impero delle malìe donnesche, quasi al pari del suo vivace ed amabile fratello. Se non che, la beltà delle leggiadre dame di Carlo non era qualità necessaria a muovere i sensi di Giacomo. Barbera Palmer, Eleonora Gwynn e Luisa de Querouaille annoveravansi tra le più avvenenti donne deʼ tempi loro. Giacomo, mentre era giovane, aveva perduta la libertà propria, era disceso dal proprio grado, e incorso nel dispiacere della propria famiglia per le grossolane fattezze di Anna Hyde. Tosto, a gran sollazzo di tutta la Corte, venne rapito alle braccia di una disavvenente consorte da una concubina anche più disavvenente, cioè da Arabella Churchill. La sua seconda moglie, quantunque avesse venti anni meno di lui, e non fosse spiacevole di viso e di persona, ebbe spessi motivi a lamentare la incostanza del marito. Ma di tutte le sue illecite relazioni, la più forte era quella che lo avvincolava a Caterina Sedley. XXXVI. Questa donna era figliuola di Sir Carlo Sedley, uno deʼ più gai e dissoluti ingegni della Restaurazione. La licenza deʼ suoi scritti non è compensata da molta grazia e vivacità; ma il prestigio del suo conversare era riconosciuto anche dagli uomini più sobri che non facevano stima del suo carattere. Sedergli accanto in teatro, e udirlo a giudicare dʼuna nuova produzione, considerarsi quale insigne favore.[65] Dryden lo aveva onorato ponendolo precipuo interlocutore nel Dialogo intorno alla Poesia Drammatica. I costumi di Sedley erano tali, che anche in quellʼetà porsero grave argomento di scandalo. Una volta, dopo un baccano, si mostrò ignudo al balcone dʼuna taverna presso Covent Garden, arringando la gente che passava con linguaggio così sconcio e insolente, che fu ricacciato dentro da una pioggia di sassate, venne processato per indecente condotta, condannato ad una grossa multa, e dalla Corte del Banco del Re ricevette una invettiva espressa con energiche parole.[66] La sua figlia ne aveva ereditate le doti e la impudenza. Non aveva alcuna leggiadria di persona, tranne due occhi brillanti, lo splendore deʼ quali, agli uomini di gusto squisito, sembrava fiero e punto donnesco. Era magra di forme, e feroce di portamento. Carlo, benchè amasse di conversare secolei, rideva a vederla sì brutta, e soleva dire che i preti lʼavrebbero dovuta prescrivere a Giacomo come penitenza. Ella conosceva bene di non essere bella, e liberamente scherzava sulla propria disavvenenza. Nondimeno, con istrana incoerenza a sè stessa, amava ornare magnificamente la propria persona, e attirarsi i pungentissimi scherzi del pubblico, comparendo in teatro impiastrata, dipinta, coperta di trine di Bruxelles, e fiammeggiante di diamanti, affettando il grazioso contegno dʼuna giovinetta di diciotto anni.[67] Non è agevole a spiegare di che natura fosse la influenza che ella esercitava sopra lʼanimo di Giacomo. Ei più non era giovine. Era religioso; almeno desiderava fare per la propria religione sforzi e sacrifici, da cui la più parte di coloro che si chiamano uomini religiosi avrebbero abborrito. Sembra strano che vi fossero al mondo attrattive le quali valessero a gettarlo in un modo di vita chʼegli avrebbe dovuto considerare altamente criminoso: e in questo caso, niuno poteva intendere in che consistevano tali attrattive. La stessa Caterina era stupefatta della violenta passione del suo reale amante. «Eʼ non può essere per la mia bellezza» diceva essa, «poichè bisogna che egli veda che io non sono punto bella; non può essere per il mio spirito, poichè egli non ne ha tanto da conoscere chʼio ne abbia alcuno.» Il Re, come fu asceso al trono, pel sentimento della nuova responsabilità che pesava sopra lui, aperse per qualche tempo lʼanima propria alle impressioni religiose. Fece ed annunziò molte buone determinazioni, parlò pubblicamente con gran severità degli empii e licenziosi costumi di quel tempo, e in privato assicurò la Regina e il confessore che non avrebbe mai più veduta Caterina Sedley. Le scrisse difatti scongiurandola di abbandonare gli appartamenti da lei occupati in Whitehall, e di trasferirsi in una casa in Saint Jamesʼs Square, che le era stata, a spese di lui, splendidamente addobbata. Le promise nel tempo stesso di darle una grossa pensione dalla sua borsa privata. Caterina, destra, forte, intrepida, e conscia del proprio potere, lo compiacque. Dopo pochi mesi, cominciossi a vociferare che Chiffinch aveva di nuovo ripreso lʼesercizio del proprio ufficio, e che la druda spesso andava e veniva per lʼuscio segreto, pel quale fu fatto passare Padre Huddleston allorquando portò lʼEucaristia al moribondo Carlo. Eʼ sembra che i ministri protestanti del Re sperassero che la cecità del loro signore per cotesta donna, lo avrebbe guarito della cecità assai più perniciosa che lo spingeva aʼ danni della loro religione. Caterina aveva tutti i requisiti che le erano necessari a governare i sentimenti e gli scrupoli del Re, e porgli in piena luce dinanzi allo sguardo tutte le difficoltà e i pericoli contro ai quali ei correva ad urtare a capo fitto. XXXVII. Rochester, campione della Chiesa, sforzossi di accrescere siffatta influenza. Ormond, che è popolarmente considerato come la personificazione di tutto ciò che vʼè di più puro ed elevato in un Inglese Cavaliere, approvò quel disegno. Perfino Lady Rochester non arrossì di cooperarvi, e con riprovevolissimi mezzi. Si tolse lo incarico di dirigere la gelosia dellʼoffesa moglie contro una giovinetta che era al tutto innocente. Tutta la Corte notò i modi freddi ed aspri con che la Regina trattava la povera fanciulla sospetta; ma la cagione del mal umore della Maestà Sua era un mistero. Per alcun tempo, cotesto intrigo andò innanzi con prospero successo e con segretezza. Caterina spesso ripeteva chiaramente al Re ciò che i Lordi protestanti del Consiglio osavano appena accennare con delicate parole. Gli diceva come la sua Corona corresse gravissimo pericolo: il vecchio pazzo Arundell e il furfante Tyrconnel lo condurrebbero alla rovina. Può darsi che le carezze di lei avessero potuto fare ciò che gli sforzi insieme congiunti della Camera deʼ Lordi e di quella deʼ Comuni, della Casa dʼAustria e della Santa Sede, non erano riusciti ad ottenere, se non fosse stata una strana avventura che fece onninamente mutare aspetto alle cose. Giacomo, in un accesso di amorosa insania, deliberò di creare la sua druda Contessa di Dorchester di proprio diritto. Caterina misurò tutto il pericolo di tal passo, e ricusò un onore che le avrebbe suscitata contro la invidia altrui. Lo amante ostinossi, e pose di forza il diploma nelle mani di lei. Ella infine accettò ad un patto, che serve a mostrare quanta fiducia avesse nella propria potenza e nella debolezza di lui. Gli fece solennemente promettere di non lasciarla giammai; ma che volendola lasciare, le dovesse annunziare egli stesso la propria risoluzione, e concederle un abboccamento. Appena divulgossi la nuova dello innalzamento di lei, tutto il palazzo fu sossopra. La Regina sentì ribollirsi nelle vene il fervido sangue italiano. Altera della giovinezza e dellʼavvenenza propria, dellʼalto grado e della intemerata castità, non potè senza strazio di dolore e di rabbia vedersi abbandonata ed insultata per una simile rivale. Rochester, rammentando forse con quanta pazienza, dopo una breve lotta, Caterina di Braganza aveva acconsentito ad usare cortesia alle concubine di Carlo, aveva sperato che, dopo un poco di lamento e di sdegno, Maria di Modena si sarebbe mostrata egualmente sommessa. Eʼ non fu così. Nè anche si provò di ascondere agli occhi del mondo la violenza delle proprie emozioni. Quotidianamente, i cortigiani che andavano a vederla desinare, notavano come le vivande erano riportate via senza chʼella le avesse assaggiate. Le lacrime le scorrevano giù per le guance alla presenza di tutto il cerchio deʼ ministri e degli ambasciatori. Al Re parlò con veemenza. «Lasciatemi andare» esclamò. «Avete fatta la vostra druda contessa; fatela regina. Strappate dal mio capo la corona, e mettetela sopra il suo. Solo lasciatemi seppellire in qualche convento, chʼio non la vegga mai più.» Poi, con più calma, gli chiese in che guisa egli potesse conciliare la sua riprovevole condotta con lo spirito religioso di cui faceva mostra. «Voi siete pronto» disse ella «a porre a repentaglio il vostro Regno per la salute dellʼanima vostra, e nondimeno vi dannate lʼanima per amore di siffatta donna.» Padre Petre, prostrato sulle ginocchia, secondava la Regina. Era suo debito così fare; e lo adempiva valorosamente, poichè era connesso con lʼutile proprio. Il Re per qualche tempo si confessò peccatore, e si mostrò pentito. Nelle ore in che lo assalivano i rimorsi, faceva severe penitenze. Maria serbò fino allʼultimo dì di sua vita, e morente la legò al convento di Chaillot, la disciplina con che Giacomo aveva scontate le proprie peccata flagellandosi vigorosamente le spalle. Nulla, fuorchè lo allontanamento di Caterina, avrebbe potuto porre fine a cotesto conflitto tra un abietto amore ed una superstizione abietta. Giacomo le scrisse, supplicandola e comandandole di partire. Confessava di averle promesso che le avrebbe detto addio col proprio labbro. «Ma conosco pur troppo» soggiungeva «lo impero che voi avete sopra di me. Non avrei forza dʼanimo bastevole a tenermi fermo nella mia risoluzione, se consentissi a rivedervi.» Le offerse un legno per trasportarla, con tutti i comodi e il decoro, alle Fiandre; e le minacciò che ove non si fosse indotta ad andarsene quietamente, sarebbe stata mandata via per forza. La donna, in sulle prime, provò di destare la pietà del Re fingendosi inferma. Poscia prese il contegno dʼuna martire, ed impudentemente si spacciò di patir tanto per la religione protestante. Riprese quindi i modi di Giovanni Hampden, sfidando il re a mandarla via; nel quale caso se ne sarebbe richiamata ai tribunali. Finchè la _Magna Carta_ e lʼ_Habeas Corpus_ erano leggi del Regno, ella voleva starsi dove meglio le talentasse. «E in Fiandra» gridò ella «giammai! Ho imparato una cosa dalla Duchessa di Mazzarino mia amica, ed è di non fidarmi mai dʼun paese dove siano conventi.» Alla perfine, elesse lʼIrlanda come luogo dʼesilio, probabilmente perchè ivi era vicerè il fratello di Rochester suo protettore. E dopo molto indugiare, ella si partì, lasciando vittoriosa la Regina.[68] La storia di questo stranissimo intrigo sarebbe incompiuta, ove non aggiungessi che esiste tuttora una meditazione religiosa, scritta di mano propria dal Lord Tesoriere, nel giorno stesso in cui la notizia chʼegli si provava di governare il suo signore per mezzo dʼuna concubina, fu trasmessa da Bonrepaux a Versailles. Nessun componimento di Ken o di Leighton è imbevuto di spirito più fervido e di pietà più esaltata, che questa religiosa effusione. Non può tenersi in sospetto dʼipocrisia; imperocchè manifesto si conosce che quello scritto doveva solo servire per uso privato dello scrittore, e non fu pubblicato se non cento e più anni dopo chʼegli giaceva cenere ed ossa dentro il sepolcro. Fino a tal segno la storia supera in istranezza la finzione! ed è pur troppo vero che la natura ha capricci che lʼarte non osa imitare. Un poeta drammatico mal si rischierebbe a porre sulla scena un principe severo, nel verno degli anni, pronto a sacrificare la corona per giovare la propria religione, instancabile nel fare proseliti, che ad unʼora abbandonava ed insultava la moglie giovine e bella, per vaghezza d1 una druda che non aveva nè giovinezza nè beltà. Anche meno, se pure è possibile, un drammaturgo ardirebbe immaginare un uomo di Stato che si abbassi al vergognoso mestiere di mezzano dʼamore, e chiami la propria moglie ad aiutarlo in quel disonorevole ufficio; e nulladimanco, nei momenti dʼozio, ridottosi nel domestico ritiro, innalzi lʼanima a Dio, spargendo lacrime di penitenza e recitando devote giaculatorie.[69] XXXVIII. Il Tesoriere presto sʼaccôrse che servendosi di mezzi scandalosi per giungere ad un laudevole fine, aveva commesso non solo un delitto ma uno sbaglio. Adesso la Regina gli era divenuta nemica. Ella fece sembiante, a dir vero, di ascoltare con cortesia le parole con che gli Hydes tentarono di scusare, come meglio poterono, la propria condotta; e in alcune occasioni mostrò di usare la sua influenza a favor loro: ma avrebbe dovuto essere o da più o da meno che non è una donna, se avesse veramente dimenticata la congiura ordinata dalla famiglia della prima moglie di Giacomo contro la sua dignità e felicità domestica. I Gesuiti, con rigorose parole, dimostrarono al Re il pericolo dal quale era, quasi per miracolo, campato, dicendo come la riputazione, la pace e lʼanima di lui fossero state poste a repentaglio per le trame del suo primo ministro. Il Nunzio, che volentieri avrebbe frustrato la influenza del partito violento, e cooperato cogli uomini moderati del Gabinetto, non potè onestamente e decentemente dividersi in questa occasione da Padre Petre. Lo stesso Giacomo, dopo che il mare lo ebbe partito dalle malìe onde era stato sì fortemente affascinato, non potè non sentire ira e dispregio verso coloro i quali sʼerano studiati di governarlo per mezzo deʼ suoi vizi. Le cose successe era mestieri che gli facessero maggiormente stimare la sua Chiesa, e disistimare quella dʼInghilterra. I Gesuiti che, come correva la moda, erano chiamati i più pericolosi deʼ consiglieri spirituali, sofisti che sovvertivano tutto il sistema della morale evangelica, adulatori che andavano debitori del proprio potere principalmente alla indulgenza con cui trattavano i peccati deʼ grandi, lo avevano ritratto da una vita colpevole con rimproveri acri ed arditi, come quelli che Natan fece a David, o Giovanni Battista ad Erode. Dallʼaltra parte, i fervidi Protestanti, che parlavano sempre della rilassatezza deʼ casisti papali, e della malvagità di operare il male perchè se ne potesse conseguire il bene, avevano tentato di procurare il bene della propria Chiesa per una via considerata da ogni cristiano come gravemente criminosa. La vittoria della cabala deʼ pessimi consiglieri fu quindi compiuta. Il Re trattò freddamente Rochester. I cortigiani e i ministri stranieri tosto si accôrsero che il Lord Tesoriere era primo ministro solamente di nome. Seguitò a dare consigli ogni giorno, ed ebbe lʼonta di vederli ogni giorno rigettati. Nulladimeno, non sapeva indursi ad abbandonare quellʼapparenza di potere, e gli emolumenti che direttamente e indirettamente ei ricavava dal suo alto ufficio. Fece quindi quanto potè per nascondere agli occhi del pubblico lʼamarezza dellʼanima sua. Ma le sue violenti passioni e le sue intemperanti abitudini non gli concedevano di sostenere la parte di simulatore. Il suo conturbato aspetto, sempre che egli usciva dalla sala del Consiglio, mostrava che non erano stati lieti i momenti ivi passati; e quando il bicchiere gli scaldava il cervello, gli fuggivano di bocca parole che manifestamente rivelavano la inquietudine dellʼanimo.[70] E aveva ragione dʼessere inquieto. Glʼindiscreti e impopolari provvedimenti si succedevano rapidamente lʼun lʼaltro. Ogni pensiero di ritornare alla politica della Triplice Alleanza era abbandonato. Il Re esplicitamente confessò ai ministri di queʼ potentati continentali, coi quali già aveva avuto intendimento di collegarsi, che aveva affatto mutato pensiero, e che lʼInghilterra doveva seguitare ad essere, come era stata sotto lʼavo, il padre e il fratello suoi, di nessun conto in Europa. «Non sono in condizioni» ei disse allo Ambasciatore Spagnuolo «dʼimpacciarmi di ciò che accade fuori deʼ miei Stati. Sono risoluto di lasciare che le faccende straniere piglino il loro corso, di consolidare lʼautorità mia nel mio Regno, e di fare qualche cosa a pro della mia religione.» Pochi giorni dipoi manifestò i medesimi intendimenti agli Stati Generali.[71] Da quel tempo sino alla fine del suo ignominioso regno, non fece alcuno positivo sforzo a trarsi di vassallaggio, quantunque non potesse mai, senza dare in furore, sentirsi chiamare vassallo. I due fatti onde il pubblico si accôrse che Sunderland e il suo partito avevano vinto, furono la proroga del Parlamento dal febbraio al maggio, e la partenza di Castelmaine per Roma, col grado dʼambasciatore di primissima classe.[72] Fino allora tutti gli affari del Governo Inglese alla Corte Papale erano stati affidati a Giovanni Caryl. Questo gentiluomo era noto ai suoi coetanei come persona ricca e educata, e come autore di due opere drammatiche applaudite; cioè dʼuna tragedia in versi rimati, che era stata resa popolare dallʼinsigne attore Betterton; e di una commedia, che dʼogni suo pregio va debitrice alle scene rubate a Molière. Questi componimenti sono da lungo tempo caduti in oblio; ma ciò che Caryl non valse a fare a suo pro, è stato fatto per lui da un più possente ingegno. Un mezzo verso nel Riccio Rapito ha reso immortale il suo nome. XXXIX. Caryl, il quale al pari di tutti gli altri rispettabili Cattolici Romani era nemico alle misure violente, aveva con buon senso e buon animo adempiuto il suo delicato incarico a Roma. La commissione affidatagli ei compì lodevolmente; ma non aveva carattere officiale, e studiosamente schivò ogni dimostrazione. E però i suoi servigi furono quasi di nessuna spesa al Governo, e non provocarono mormorazioni. Al suo ufficio venne adesso sostituita una dispendiosa e pomposa ambasciata, che offese grandissimamente il popolo inglese, mentre non piacque punto alla Corte di Roma. Castelmaine ebbe lo incarico di domandare un cappello cardinalizio pel suo alleato Padre Petre. Verso il medesimo tempo, il Re cominciò a mostrare, in modo non equivoco, ciò che veramente sentiva verso gli esuli Ugonotti. Mentre sperava di sedurre il Parlamento a mostrarsi sommesso, e intendeva di farsi capo della coalizzazione europea contro la Francia, aveva simulato di biasimare la revoca dello editto di Nantes, e commiserare quegli infelici dalla persecuzione cacciati lungi dalle patrie contrade. Aveva fatto annunziare che in ogni chiesa del Regno si sarebbe fatta, con la sua approvazione, una colletta a beneficio loro. Un apposito proclama era stato compilato con parole che avrebbero ferito lʼorgoglio di un sovrano meno irritabile e vanaglorioso di Luigi. Ma adesso tutto mutò dʼaspetto. I principii del trattato di Dover diventarono di nuovo i fondamenti della politica estera dellʼInghilterra. Si fecero quindi ampie apologie per la scortesia con cui il Governo Inglese aveva agito verso la Francia mostrando favore ai fuorusciti francesi. Il proclama che era spiaciuto a Luigi, fu revocato.[73] I ministri Ugonotti furono avvertiti di parlare con riverenza del loro oppressore neʼ loro pubblici discorsi; se no, avrebbero corso pericolo. Giacomo non solo cessò di manifestare commiserazione per queʼ malarrivati, ma dichiarò di credere che essi covassero perfidissimi disegni, e confessò di avere errato proteggendoli. Giovanni Claude, uno deʼ più illustri fuorusciti, aveva pubblicato nel continente un piccolo volume, nel quale dipingeva con tinte vigorose i patimenti deʼ suoi confratelli. Barillon chiese che il libro venisse solennemente vituperato. Giacomo assentì, e in pieno Consiglio dichiarò, come fosse suo piacere che il libello di Claude venisse bruciato dinanzi la Borsa Reale per mano del boia. Anche Jeffreys ne rimase attonito, e provossi di mostrare che siffatto procedimento era senza esempio; che il libro era scritto in lingua straniera; che era stato stampato in una tipografia straniera; che si riferiva interamente a fatti successi in un paese straniero; e che nessun Governo inglese sʼera mai impacciato di tali opere. Giacomo non patì che la questione venisse discussa. «La mia deliberazione» disse egli «è fatta. Oramai è nata lʼusanza di trattare i Re con poco rispetto, ed è mestieri che tutti vicendevolmente si difendano. Un Re dovrebbe essere sempre il sostegno dellʼaltro; ed io ho ragioni particolari per rendere al Re di Francia questo atto di rispetto.» I consiglieri stettero muti. Lʼordine fu emanato; e il libro di Claude fu dato alle fiamme, non senza alte mormorazioni di molti che erano stati ognora riputati fermi realisti.[74] La colletta, già promessa, fu per lungo tempo per vari pretesti differita. Il Re volentieri avrebbe mancato alla sua parola; ma lʼaveva così solennemente data, che non poteva, senza somma vergogna, ritirarla.[75] Non per tanto, nulla fu omesso che potesse intiepidire lo zelo delle congregazioni. Aspettavasi che, secondo la costumanza solita in simili casi, il popolo venisse esortato dai pulpiti. Ma Giacomo era determinato di non tollerare declamazioni contro la religione e lʼalleato suo. Lo arcivescovo di Canterbury ebbe, perciò, ordine di far sapere al clero, che si doveva semplicemente leggere il regio proclama, senza presumere di predicare intorno ai patimenti deʼ protestanti francesi.[76] Nondimeno, le offerte furono in tanta copia, che, fatta ogni deduzione, la somma di quaranta mila lire sterline venne depositata nella Camera di Londra. Forse non vʼè stata nellʼetà nostra colletta così generosa in proporzione deʼ mezzi della nazione.[77] Il Re rimase amaramente mortificato da sì generosa colletta, fattasi in ubbidienza al suo invito. Sapeva bene, disse egli, che cosa significava tale liberalità. Era un puro dispetto che i Whig avevano inteso di fare a lui ed alla sua religione;[78] ed aveva già deciso che la somma raccolta non servisse per coloro che i donatori volevano beneficare. Era stato per parecchie settimane in istretta comunicazione intorno a questo negozio con la Legazione. Francese; ed approvante la Corte Francese, si appigliò ad un partito che non può di leggieri conciliarsi coʼ principii di tolleranza chʼegli poscia pretese di professare. I fuorusciti erano zelanti del culto e della disciplina deʼ Calvinisti. Giacomo, quindi, fece comandamento che a niuno fosse dato un tozzo di pane o una cesta di carbone, se prima non avesse prestato il giuramento a seconda del rituale anglicano.[79] È cosa strana che questo inospitale provvedimento fosse stato immaginato da un principe, il quale considerava lʼAtto di Prova come un oltraggio fatto ai diritti della coscienza: imperocchè, per quanto ingiusto possa essere lʼimporre un Atto di Prova con sacramento onde chiarirsi se gli uomini meritino occupare gli uffici civili e militari, è senza alcun dubbio assai più ingiusto imporre il detto sacramento per conoscere se essi, nella estrema miseria, meritino carità. Nè Giacomo aveva la scusa che potrebbe allegarsi a scemare la colpa da tutti quasi i persecutori; perocchè la religione chʼegli imponeva ai fuorusciti, a pena di lasciarli morire di fame, non era la religione chʼegli professava. La sua condotta, adunque, verso loro era meno scusabile di quella di Luigi: poichè costui gli oppressava sperando di ricondurli da una dannevole eresia alla vera Chiesa; Giacomo gli opprimeva solo onde costringerli ad apostatare da una dannevole eresia, ed abbracciarne unʼaltra. Una Commissione, nella quale era il Cancelliere, fu istituita a distribuire le pubbliche limosine. Nella prima adunanza, Jeffreys manifestò la volontà del Re. Disse che i fuorusciti erano troppo generalmente nemici della monarchia e dello episcopato. Se volevano ottenere qualche sussidio, era mestieri che si convertissero alla Chiesa Anglicana, e prestassero il giuramento nelle mani del suo cappellano. Molti esuli che erano andati pieni di gratitudine e di speranza a chiedere qualche soccorso, udirono la propria sentenza, e con la disperazione nel cuore partironsi.[80] XL. Si appressava il mese di maggio, mese stabilito per la ragunanza delle Camere; ma furono di nuovo prorogate sino a novembre.[81] Non era strano che il Re aborrisse di vederle adunate; imperciocchè era risoluto di abbracciare una politica che egli sapeva bene essere da loro detestata. Daʼ suoi predecessori aveva ereditate due prerogative, i confini delle quali non sono stati rigorosamente definiti, e che, esercitate illimitatamente, basterebbero a sovvertire tutto lʼordinamento politico dello Stato e della Chiesa. Erano il potere di dispensare e la supremazia ecclesiastica. Per virtù dellʼuno, il Re propose di ammettere i Cattolici Romani, non solo agli uffici civili e militari, ma anche agli spirituali. Per virtù dellʼaltra, sperava di rendere il clero anglicano strumento della distruzione della loro propria Chiesa. Questo disegno si venne gradatamente esplicando da sè. Non si stimò sicuro cominciare concedendo allo intero corpo deʼ Cattolici Romani dispensa dagli statuti che imponevano pene e giuramenti; perciocchè non vʼera cosa che fosse così pienamente stabilita come la illegalità di una tale dispensa. La Cabala nel 1672 aveva promulgata una dichiarazione generale dʼIndulgenza. I Comuni, appena adunatisi, protestarono contro. Carlo II aveva ordinato che fosse cassata in sua presenza, ed aveva di propria bocca e con un messaggio scritto data assicurazione alle Camere, che lʼatto che aveva cagionato tanto lamento, non sarebbe stato mai considerato come esempio precedente. Sarebbe stato difficile trovare in tutti i collegi dʼavvocati un giureconsulto di qualche riputazione, che avesse voluto difendere una prerogativa, alla quale il Sovrano, assiso sul trono in pieno Parlamento, aveva solennemente pochi anni innanzi rinunziato. E però, il primo fine che Giacomo si prefissse, fu quello dʼottenere che le Corti di Diritto Comune riconoscessero chʼegli, almeno fino a questo segno, possedeva la potestà di dispensare. XLI. Ma, quantunque le sue pretese fossero modiche in agguaglio di quelle che manifestò pochi mesi dopo, si accôrse tosto che gli stava contro lʼopinione di quasi tutta Westminster Hall. Quattro deʼ giudici gli fecero intendere, che in questa occasione non potevano secondare il suo proponimento; ed è da notarsi che tutti e quattro erano Tory violenti, e fra essi vʼerano uomini che avevano accompagnato Jeffreys nella sua missione di sangue, e che avevano assentito alla morte di Cornish e dʼElisabetta Gaunt. Jones, Capo Giudice deʼ Piati Comuni, uomo che non sʼera mai prima ricusato a nessuna bassa azione, comunque crudele e servile, adesso parlò nel gabinetto regio con parole che sarebbero state convenevoli alle labbra deʼ magistrati più integerrimi di cui faccia ricordo la storia nostra. Gli fu detto chiaramente, o di smettere la propria opinione, o lasciare lʼimpiego. «In quanto al mio impiego» rispose, «poco mi curo. Ormai son vecchio, e mi son logorata la vita in servizio della Corona; ma rimango mortificato nel vedere che Vostra Maestà mi stimi capace di dare un giudicio che nessuno, tranne un uomo stolto e disonesto, potrebbe dare.»—«Ho risoluto» disse il Re «di avere dodici giudici i quali la pensino come me in questo negozio.»—«La Maestà Vostra» rispose Jones «potrebbe trovare dodici giudici che la pensino come Voi, ma non dodici giurisperiti.»[82] Fu destituito, con Montague, Capo Barone dello Scacchiere; e due altri giudici inferiori, Neville e Charlton. Uno deʼ nuovi giudici era Cristoforo Milton, fratello minore del gran poeta. Poco si sa di Cristoforo, salvo che a tempo della guerra civile era stato realista, e che adesso, giunto alla vecchiezza, pendeva verso il papismo. Non pare che si convertisse mai formalmente alla Chiesa di Roma; ma certo scrupoleggiava a comunicare con la Chiesa dʼInghilterra, ed aveva quindi un forte interesse a difendere la potestà di dispensare.[83] Il Re trovò i suoi consiglieri giuristi disubbidienti quanto i giudici. Il primo che seppe di dovere difendere la potestà di dispensare, fu lʼAvvocato Generale Heneage Finch. Senza tanti andirivieni, ricusò di farlo, e il dì dopo fu destituito dallʼufficio.[84] Al Procuratore Generale Sawyer fu ingiunto di rilasciare ordini per autorizzare i membri della Chiesa di Roma ad occupare i beneficii pertinenti a quella dʼInghilterra. Sawyer era stato profondamente implicato nelle più crude e inique persecuzioni di quel tempo, ed era daʼ Whig abborrito come uomo che aveva le mani imbrattate del sangue di Russell e di Sidney; ma in questa occasione non mostrò difetto dʼonestà e di fermezza. «Sire,» disse egli «questo non importa dispensare semplicemente da uno statuto; ma vale il medesimo che annullare lʼintero Diritto Statutario, da Elisabetta fino a noi. Io non oso porvi mano; e scongiuro la Maestà Vostra a considerare se una tanta aggressione ai diritti della Chiesa sia dʼaccordo con le ultime promesse che avete generosamente fatte.»[85] Sawyer sarebbe stato come Finch destituito, se il Governo avesse potuto trovargli un successore: ma ciò non era cosa di poco momento. Era necessario, a proteggere i diritti della Corona, che uno almeno deʼ legali della Corona fosse uomo dotto, abile ed esperto; e non era da trovarsi un tale uomo che difendesse la potestà di dispensare. Al Procuratore Generale fu, dunque, per pochi mesi lasciato lʼimpiego. Tommaso Powis, uomo da nulla, che non aveva altri requisiti, dalla servilità allʼinfuori, per occupare qualche alto ufficio, fu nominato Avvocato Generale. XLII. Gli apparecchi preliminari erano ormai compiti. Vʼerano un Avvocato Generale per difendere la potestà di dispensare, e dodici giudici per decidere a favore di quella. La questione, adunque, fu sollecitamente messa in campo. Sir Eduardo Hales, gentiluomo di Kent, erasi convertito al papismo in tempi neʼ quali niuno poteva impunemente dichiararsi papista. Aveva tenuta secreta la propria conversione, e tutte le volte che ne veniva richiesto, affermava dʼessere Protestante con solennità tale, da dare poco credito ai suoi principii. Come Giacomo ascese al trono, non vi fu mestieri di simulazione. Sir Eduardo apostatò pubblicamente, e ne ebbe in ricompensa il comando dʼun reggimento di fanteria. Lo aveva tenuto per più di tre mesi senza prestare il giuramento. Era quindi soggetto alla pena di cinquecento lire sterline, che chi lo avesse accusato poteva ricuperare per via dʼazione di debito. Un uomo di condizione servile fu adoperato a portare lʼazione nella Corte del Banco del Re. Sir Eduardo non negò i fatti allegati contro lui, ma disse di possedere lettere patenti, che lo autorizzavano a tenere il suo ufficio, malgrado lʼAtto di Prova. Lo accusatore ammise che le ragioni di Sir Eduardo erano vere in fatto, ma negò che quella fosse una soddisfacente risposta. Così fu fatta una semplice questione di diritto da decidersi dalla Corte. Un avvocato che era notissimo strumento del Governo, comparve per il simulato accusatore, e fece alcune lievi obiezioni alle ragioni allegate dallʼaccusato. Il nuovo Avvocato Generale rispose. Il Procuratore Generale non prese parte al giudicio. Il Lord Capo Giudice, Sir Eduardo Herbert, profferì la sentenza. Annunziò dʼavere esposta la questione a tutti i dodici giudici, e che undici di loro opinavano che il Re potesse legittimamente dispensare dagli statuti penali nei casi particolari, e per ragioni di grave importanza. Il Barone Street, lʼunico che dètte il voto contrario, non fu destituito dallʼufficio. Era uomo così immorale, che era abborrito perfino dai suoi stessi parenti, e che il Principe dʼOrange, a tempo della Rivoluzione, fu avvertito di non ammetterlo al suo cospetto. Il carattere di Street rende impossibile il credere che egli avesse voluto mostrarsi più scrupoloso deʼ suoi colleghi. Il carattere di Giacomo rende impossibile il credere che un Barone dello Scacchiere, mostratosi disubbidiente, fosse stato lasciato nellʼimpiego. Non può esservi alcun dubbio ragionevole che il giudice dissenziente, come lʼaccusatore e il costui difensore, non avessero agito dʼaccordo. Importava assai che vi fosse grande preponderanza dʼautorità a favore della potestà di dispensare; ed era al pari importante che il Banco, che era stato studiosamente ricomposto per quella circostanza, avesse lʼapparenza dʼessere indipendente. Ad un giudice, quindi, che era il meno rispettabile deʼ dodici, fu permesso, e più probabilmente comandato, di votare contro la prerogativa.[86] La potestà in tal modo riconosciuta dalle Corti di Legge, non fu lasciata inoperosa. Un mese dopo la sentenza proferita dal Banco del Re, quattro Lordi cattolici romani furono chiamati al Consiglio Privato. Due di loro, Powis e Bellasyse, appartenevano al partito moderato, e probabilmente accettarono lʼufficio con repugnanza e con molti tristi presentimenti. Gli altri due, Arundell e Dover, non avevano cosiffatti presentimenti.[87] XLIII. La potestà di dispensare fu, nel medesimo tempo, adoperata a rendere i Cattolici Romani atti ad occupare i beneficii ecclesiastici. Il nuovo Avvocato Generale prontamente emanò i decreti che Sawyer aveva ricusato di fare. Uno di questi decreti fu in favore dʼuno sciagurato che aveva nome Eduardo Sclater, e che possedendo due beneficii, voleva tenerli a qualunque costo, e in tutte le vicissitudini. La domenica delle Palme del 1686, egli amministrò la comunione ai suoi parrocchiani secondo il rito della Chiesa Anglicana. Nella seguente domenica della Pasqua, celebrò la Messa. La regia dispensa lo autorizzò a fruire degli emolumenti deʼ suoi beneficii. Alle rimostranze deʼ patroni che gli avevano conferiti, rispose con insolenti parole di provocazione; e mentre alla causa deʼ Cattolici Romani spirava prospero il vento, ei pubblicò un assurdo trattato in difesa della propria apostasia. Ma pochi giorni dopo la Rivoluzione, una gran folla convenne nel tempio di Santa Maria nel Savoy, per vederlo rientrare nel grembo della religione da lui abbandonata. Leggendo lʼabjura, le lacrime gli scendevano copiose giù per le guance, e profferì unʼacre invettiva contro i preti papisti, dalle arti deʼ quali era stato sedotto.[88] Con non minore infamia si condusse Obadia Walker. Era vecchio prete della Chiesa Anglicana, e ben noto nella Università dʼOxford come uomo dotto. Sotto il regno di Carlo, era venuto in sospetto dʼinclinare al papismo, ma esteriormente erasi conformato alla religione stabilita, ed infine era stato eletto Maestro o Rettore del Collegio Universitario. Subito dopo che Giacomo ascese al trono, Walker deliberò di gettar via la maschera con che fino allora sʼera coperto. Si astenne dal culto anglicano, e con alcuni convittori e sottograduati da lui pervertiti, ascoltava giornalmente la Messa nel proprio appartamento. Uno deʼ primi atti del nuovo Avvocato Generale, fu di fare un decreto che autorizzava Walker e i suoi proseliti a ritenere i loro beneficii, non ostante la loro apostasia. Furono tosto chiamati deʼ muratori, perchè trasformassero in oratorio due file di stanze. In pochi giorni nel Collegio Universitario celebraronsi pubblicamente i riti cattolici romani. Vi fu posto a cappellano un Gesuita. Vi fu allogata una tipografia con licenza regia, per istampare i libri cattolici romani. Per lo spazio di due anni e mezzo, Walker seguitò a guerreggiare contro il protestantismo con tutto il rancore dʼun rinnegato: ma quando la fortuna mutò faccia, ei mostrò che gli mancava il coraggio dʼun martire. Fu tratto alla barra della Camera deʼ Comuni perchè rendesse ragione della propria condotta, e fu tanto vigliacco da protestare di non aver mai mutato religione, nè mai cordialmente approvate le dottrine della Chiesa di Roma, e di non essersi mai provato a convertire a quella nessun uomo. Non valeva lʼincomodo di violare gli obblighi più sacri della legge e della fede data per convertire uomini come Walker.[89] XLIV. Dopo breve tempo, il Re fece un passo più innanzi. A Sclater e Walker era stato solamente permesso di tenere, dopo dʼessersi fatti papisti, i beneficii già loro concessi mentre si dicevano protestanti. Conferire unʼalta dignità nella Chiesa Anglicana ad un aperto nemico di quella, era un atto più audace che rompeva le leggi e la reale promessa. Ma non vʼera provvedimento che a Giacomo paresse ardito. Il decanato di Christchurch divenne vacante. Quellʼufficio, e per dignità e per emolumenti, era uno deʼ più considerevoli nella Università di Oxford. Al decano era affidato il governo di un maggior numero di giovani di cospicue parentele e di grandi speranze, che si potesse trovare in qualunque altro collegio. Egli era parimente il capo di una cattedrale. Con ambedue questi caratteri, era necessario chʼegli appartenesse alla Chiesa Anglicana. Nondimeno, Giovanni Massey, che manifestamente era membro della Chiesa di Roma, e che altro merito non aveva, tranne dʼesser membro di quella Chiesa, fu, per virtù della potestà di dispensare, nominato allʼufficio predetto; e tosto dentro le mura di Christchurch fu innalzato un altare, dove ogni giorno si celebrava la Messa.[90] Al Nunzio il Re disse, che come aveva fatto in Oxford, così tra breve farebbe in Cambrigde.[91] XLV. Non pertanto, anche ciò era lieve male in paragone di quello che i Protestanti avevano buone ragioni a temere. Sembrava assai probabile che lʼintero governo della Chiesa Anglicana verrebbe, tra poco tempo, posto nelle mani deʼ suoi mortali nemici. Vʼerano tre insigni sedi vacanti; quella di York, quella di Chester e quella dʼOxford. Il vescovato dʼOxford fu dato a Samuele Parker, parassito; la cui religione, se pure egli aveva religione alcuna, era quella di Roma; e che si chiamava protestante, solo perchè aveva lʼimpaccio dʼuna moglie. «Io voleva» disse il Re ad Adda «nominare un aperto cattolico: ma il tempo non è ancora giunto. Parker è bene disposto per noi; sente come noi; ed a poco per volta convertirà tutto il suo clero.»[92] Il vescovato di Chester, vacante per la morte di Giovanni Pearson, uomo di grande rinomanza e come filologo e come teologo, fu conferito a Tommaso Cartwright, anche più abietto parassito di Parker. Lo arcivescovato di York rimase varii anni vacante. E non potendosi a ciò allegare nessuna buona ragione, sospettavasi che il Re differisse la nomina, finchè si potesse rischiare di porre quellʼinsigne mitra sul capo dʼun papista. E veramente, egli è molto probabile che il senno e la buona disposizione del Papa salvassero da tanto oltraggio la Chiesa Anglicana. Senza speciale dispensa del Papa, nessun Gesuita poteva divenire vescovo; e non vi fu mai modo dʼindurre Innocenzo ad accordarla a Petre. XLVI. Giacomo nè anche dissimulò lo intendimento che aveva di giovarsi con vigore e sistematicamente di tutti i poteri che aveva come capo della Chiesa stabilita, per distruggerla. Disse con chiare parole, che per opera della divina Provvidenza, lʼAtto di Supremazia sarebbe stato il mezzo di richiudere la fatale ferita da esso inflitta nel corpo della Chiesa universale. Enrico ed Elisabetta avevano usurpato un dominio che di diritto apparteneva alla Sede. Tale dominio, nel corso della successione, era venuto nelle mani di un principe ortodosso, il quale lo terrebbe come deposito appartenente alla Santa Sede. La legge gli dava potestà di reprimere gli abusi spirituali: e il primo di quelli chʼegli intendeva reprimere, era la libertà con cui il clero anglicano difendeva la propria religione e combatteva contro le dottrine di Roma.[93] XLVII. Ma incontrò un grande ostacolo. La supremazia ecclesiastica di che egli andava rivestito, non era punto la stessa alta e terribile prerogativa da Elisabetta, da Giacomo I e da Carlo I esercitata. Lʼatto che dava alla Corona una quasi infinita autorità visitatoria sopra la Chiesa, quantunque non fosse mai stato formalmente abrogato, aveva veramente perduto in gran parte il primitivo vigore. La legge in sostanza rimaneva, ma senza nessuna formidabile sanzione, e senza efficace sistema di procedura; ed era perciò poco più che una lettera morta. Lo statuto che rese ad Elisabetta il dominio spirituale, assunto dal padre e deposto dalla sorella, conteneva una clausula che dava al Sovrano autorità di costituire un tribunale che poteva inchiedere e riformare, o punire i delitti ecclesiastici. Per virtù di tale clausula, fu creata la Corte dellʼAlta Commissione; Corte che per molti anni era stata terribile ai non–conformisti, e sotto la cruda amministrazione di Laud divenne argomento di timore e dʼodio, anche a coloro che amavano maggiormente la Chiesa stabilita. Adunatosi il Lungo Parlamento, lʼAlta Commissione venne generalmente giudicata come il più grave degli abusi che la nazione sosteneva. E però fu fatta alquanto frettolosamente una legge, la quale non solo privò la Corona della potestà di nominare visitatori per soprintendere alle faccende della Chiesa, ma abolì senza distinzione ogni specie di corti ecclesiastiche. Dopo la Restaurazione, i Cavalieri, che erano numerosissimi nella Camera deʼ Comuni, per quanto fossero zelanti della prerogativa, rammentavano ancora con amarezza la tirannia dellʼAlta Commissione, e non erano punto disposti a richiamare a vita una cotanto odiosa istituzione. Pensavano, ad unʼora, e non senza ragione, che lo statuto il quale aveva distrutte tutte le corti cristiane del reame senza nulla sostituirvi, fosse soggetto a gravi obiezioni. E però lo revocarono, tranne nella parte che riferivasi allʼAlta Commissione. Così le Corti Arcidiaconali, le Concistoriali, quella dellʼArcivescovo di Canterbury, lʼaltra così detta deʼ Peculiari, e la Corte dei Delegati furono richiamate a vita; ma lʼatto per virtù del quale ad Elisabetta ed aʼ suoi successori era stata concessa la potestà di nominare Commissioni con autorità visitatoria sopra la Chiesa, non solo non fu rimesso in vigore, ma con parole estremamente forti fu dichiarato pienamente abrogato. È, dunque, chiaro, quanto può esserlo qualunque punto di diritto costituzionale, che Giacomo II non era competente a istituire una Commissione, con potestà di visitare e governare la Chiesa Anglicana.[94] Che se così fosse stato, poco valeva che lʼAtto di Supremazia, con parole alto sonanti, gli desse facoltà da correggere ciò che non era equo in quella Chiesa. Nullʼaltro, fuorchè una macchina formidabile come quella, chʼera stata distrutta dal Lungo Parlamento, poteva forzare il clero anglicano a divenire strumento del Re per la distruzione della dottrina e del culto anglicano. Egli, perciò, nellʼaprile del 1686, deliberò di creare una nuova Corte dʼAlta Commissione. Il disegno non fu mandato subitamente ad esecuzione. Fu avversato da tutti i ministri che non erano ligii alla Francia ed aʼ Gesuiti. I giureconsulti lo considerarono come oltraggiosa violazione della legge, e gli aderenti alla Chiesa Anglicana come unʼaggressione alla Chiesa loro. Forse la contesa sarebbe durata più a lungo, se non fosse accaduto un fatto che ferì lʼorgoglio e infiammò la collera del Re. Egli, come capo supremo ordinario, aveva dato ordini affinchè il clero anglicano si astenesse di toccare i punti controversi della dottrina. In tal guisa, mentre tutte le Domeniche e le festività dentro il ricinto deʼ reali palazzi recitavansi sermoni a difesa della religione cattolica romana, alla Chiesa dello Stato, alla Chiesa della grandissima parte della nazione era inibito di spiegare e difendere i propri principii. Lo spirito di tutto lʼordine clericale destossi contro cotesta ingiustizia. Guglielmo Sherlock, teologo insigne, che aveva scritto con asprezza contro i Whig e i Dissenzienti, e ne era stato rimunerato dal Governo collʼufficio di Maestro o Rettore del Tempio e con una pensione, fu uno deʼ primi a incorrere nello sdegno del Re. Gli fu sospesa la pensione, ed ei venne severamente redarguito.[95] Poco appresso Giovanni Sharp, Decano di Norwich e Rettore di Saint Giles–in–the–Fields, fece più grave offesa a Giacomo. Era uomo dotto e di fervida pietà, predicatore di gran fama, e prete esemplare. In politica, come tutti i suoi confratelli, era Tory, ed era pur allora stato fatto regio cappellano. Ricevè una lettera di un anonimo, il quale simulava venire da uno deʼ suoi parrocchiani che era stato vinto dagli argomenti deʼ teologi cattolici romani, ed agognava dʼimparare se la Chiesa Anglicana fosse parte della vera Chiesa di Cristo. Nessun teologo che non avesse perduto ogni senso deʼ religiosi doveri o dellʼonore del proprio ministero, poteva ricusare di rispondere. La Domenica prossima, Sharp fece un vigoroso discorso contro le alte pretese della Chiesa di Roma. Alcune delle sue espressioni vennero esagerate, scontorte, e recate dai ciarlieri a Whitehall. Fu falsamente riferito, chʼegli avesse vituperosamente parlato dello disquisizioni teologiche già trovate nella cassa forte di Carlo, e pubblicate da Giacomo. Compton, vescovo di Londra, ebbe da Sunderland ordini di sospendere Sharp, fino a tanto che il Re avesse altrimenti provveduto. Il vescovo si sentì grandemente perplesso. La sua recente condotta nella Camera dei Lordi aveva profondamente offesa la Corte. Il suo nome era già stato casso dalla lista deʼ Consiglieri Privati. Egli era già stato cacciato dallʼufficio che occupava nella cappella reale. Non voleva aggiungere nuove provocazioni; ma lʼatto che gli sʼimponeva era un atto giudiciale. Intese essere ingiusto, e i migliori consiglieri gli assicuravano essere illegale infliggere una pena senza che al supposto colpevole fosse dato modo a difendersi. E però, con umilissime parole, espose al Re le difficoltà ad eseguire lʼordine ricevuto, e avvertì privatamente Sharp a non mostrarsi per allora in pulpito. Per quanto ragionevoli fossero gli scrupoli di Compton, per quanto ossequiose le sue scuse, Giacomo montò in gran furore. Quale insolenza allegare o la giustizia naturale o la legge positiva in opposizione ad un espresso comandamento del Sovrano! Sharp fu dimenticato. Il vescovo divenne segno alla vendetta del Governo.[96] XLVIII. Il Re sentì più penosamente che mai la mancanza di quella arme tremenda che un tempo aveva costretti i disobbedienti ecclesiastici a cedere. Probabilmente, sapeva che per poche acri parole profferite contro il governo di Carlo I, il vescovo Williams era stato dallʼAlta Commissione sospeso da tutte le dignità e funzioni ecclesiastiche. Il disegno di richiamare a vita quel formidabile tribunale, fu più che mai affrettato. Nel mese di luglio, Londra fu in commovimento per la nuova che il Re, sfidando direttamente due atti del Parlamento formulati in vigorosissimi termini, affidava lʼintero governo della Chiesa a sette Commissari.[97] Le parole con che la giurisdizione loro veniva significata, erano, come suoi dirsi, elastiche, e potevano essere stiracchiate per ogni verso. Tutti i collegi e le scuole di grammatica, anche quelli chʼerano stati istituiti dalla liberalità di benefattori privati, furono sottoposti alla autorità della nuova Commissione. Tutti coloro che per guadagnarsi il pane avevano mestieri dʼimpiego nella Chiosa o nelle istituzioni accademiche, dal Primate fino al più piccolo curato, dai vicecancellieri dʼOxford e di Cambridge fino al più umile pedagogo che insegnava il Corderio, rimasero in preda alle voglie del Re. Se qualcuno di quelle molte migliaia di uomini cadeva in sospetto di aver fatto o detto la minima cosa spiacevole al Governo, i Commissari potevano citarlo dinanzi al loro tribunale. Nel modo di contenersi con lui, non erano vincolati da alcun freno, come quelli che erano accusatori a un tempo e giudici. Allo accusato non davasi copia dellʼatto dʼaccusa. Era esaminato e riesaminato; ed ove le sue risposte non fossero soddisfacenti, poteva essere sospeso dallʼufficio, destituito, dichiarato incapace di occupare beneficio alcuno per lo avvenire. Sʼegli fosse stato contumace, poteva essere scomunicato, o, in altre parole, privato di tutti i diritti civili, e imprigionato a vita. Poteva anco, a discrezione della Corte, essere condannato a pagare le spese del processo che lo aveva ridotto ad accattare. Non vʼera appello. I Commissarii avevano ordine di eseguire lʼufficio loro, non ostante alcuna legge che fosse o paresse essere incompatibile con le norme ricevute. Da ultimo, perchè nessuno dubitasse essere stata intenzione del Governo ristabilire quella terribile Corte dalla quale il Lungo Parlamento aveva liberata la nazione, al nuovo tribunale fu ingiunto di usare un suggello in cui fosse il medesimo segno e la epigrafe medesima che erano nel suggello della vecchia Alta Commissione.[98] Capo della Commissione era il Cancelliere. La presenza e lo assenso di lui erano necessarii ad ogni atto. Ciascuno ben conosceva con quanta ingiustizia, insolenza, e barbarie egli sʼera condotto nei tribunali, dove, fino ad un certo segno, era infrenato dalle leggi dellʼInghilterra. Non era quindi difficile prevedere come si sarebbe portato in una situazione in cui egli aveva pieno arbitrio di fare da sè forme di procedura o regole ad investigare i casi. Degli altri sei Commissarii, tre erano prelati e tre laici. A capo della lista era il nome dello Arcivescovo Sancroft. Ma egli era pienamente convinto che la Corte era illegale, che tutti i suoi giudicii sarebbero stati nulli, e che sedendovici sarebbe incorso in grave responsabilità. Deliberò quindi di non accettare il regio mandato. Nulladimeno, non agì in questa occasione con quel coraggio e con quella sincerità chʼei mostrò allorchè, due anni dopo, si trovò ridotto agli estremi. Pregò lo scusassero, allegando gli affari e la mal ferma salute. Gli altri membri della Commissione, egli soggiunse, erano uomini di tanta abilità, da non avere mestieri del suo aiuto. Queste poco sincere scuse sedevano male sul labbro del Primate di tutta lʼInghilterra in quella occasione; nè valsero a salvarlo dalla collera del Re. Egli è vero che il nome di Sancroft non fu cancellato dalla lista deʼ Consiglieri Privali; ma, con amara mortificazione degli amici della Chiesa, non fu più chiamato neʼ giorni di sessione. «Se egli» disse il Re «è sì malato da non potere andare alla Commissione, è cortesia alleggiarlo dal carico di venire al Consiglio.[99]» Il Governo non incontrò uguale difficoltà con Nataniele Crewe, Vescovo della grande e ricca diocesi di Durham, uomo di nobile stirpe, e nella sua professione salito tanto alto, che quasi non poteva desiderare di salire di più; ma abietto, vano e codardo. Era stato fatto decano della Cappella Reale, allorquando il vescovo di Londra fu cacciato di Palazzo. Lʼonore di sedere fra il numero deʼ Commissarii ecclesiastici toccò a Crewe. Nulla giovò che alcuni deʼ suoi amici gli mostrassero il rischio a cui egli si esponeva sedendo in un tribunale illegale. Non vergognò di rispondere, chʼei non poteva vivere privo del sorriso del Re, ed, esultando, significò la speranza che il suo nome sarebbe rimasto nella storia: speranza che non gli andò al tutto fallita.[100] Tommaso Sprat, vescovo di Rochester, fu il terzo Commissario clericale. Era uomo, allo ingegno del quale la posterità non ha reso giustizia. Sventuratamente per la sua riputazione, i suoi versi sono stati stampati nelle raccolte deʼ Poeti Inglesi; e chi lo voglia giudicare daʼ suoi versi, è forza che lo consideri come un imitatore servile, che senza una scintilla dellʼammirevole genio di Cowley, scimmiottava ciò che nello stile di Cowley era meno commendevole: ma chi conosce le prose di Sprat, farà un diverso giudicio delle sue facoltà intellettuali. E veramente, era grande maestro della nostra lingua, e possedeva ad unʼora la eloquenza dellʼoratore, del controversista e dello storico. Il suo carattere morale avrebbe riportato poco biasimo, se egli fosse stato addetto ad una professione meno sacra; imperocchè il peggio che intorno a lui si possa dire, è dʼessere stato indolente, lussurioso e mondano; ma tali falli, quantunque nei secolari non sogliano comunemente considerarsi come bruttissimi, sono scandalosi in un prelato. Lo arcivescovato di York era vacante; Sprat sperava dʼottenerlo, e però accettò lʼufficio nella Commissione ecclesiastica: ma era uomo di sì buona indole, da non potersi condurre con durezza; ed aveva tanto buon senso, da vedere ohe avrebbe in futuro potuto essere chiamato a render conto di sè dinanzi al Parlamento. Per la qual cosa, benchè egli acconsentisse di accettare lʼufficio, si studiò di acquistare, quanto gli fu possibile, meno nemici.[101] I tre altri Commissari furono il Lord Tesoriere, il Lord Presidente, e il Capo Giudice del Banco del Re. Rochester, disapprovando la cosa e brontolando, assentì a servire. Quantunque gli toccasse di soffrir molto alla Corte, non sapeva indursi ad abbandonarla. Quantunque molto amasse la Chiesa, non sapeva indursi a sacrificare per essa il suo bianco bastone, il potere di disporre deglʼimpieghi, la sua paga di ottomila lire sterline lʼanno, e gli assai più grossi emolumenti indiretti del suo ufficio. Scusò con gli altri la propria condotta, e forse con sè stesso, allegando che, come Commissario, avrebbe potuto impedire molti danni; ed ove egli avesse ricusato quel posto, sarebbe stato occupato da qualcun altro meno di lui devoto alla religione protestante. Sunderland rappresentava la cabala gesuitica. La sentenza di recente profferita da Herbert intorno alla questione della potestà di dispensare, era bastevole argomento a provare che non avrebbe abborrito di obbedire ciecamente a tutte le voglie di Giacomo. XLIX. Appena apertasi la Commissione, il vescovo di Londra fu citato dinanzi al nuovo tribunale. Obbedì. «Io voglio da voi» disse Jeffreys «una risposta diretta e positiva. Perchè non avete sospeso il Dottor Sharp?» Il vescovo chiese copia dellʼatto che istituiva la Commissione, per conoscere per virtù di quale autorità egli fosse così interrogato. «Se intendete» disse Jeffreys «contrastare allʼautorità nostra, userò altri mezzi con voi. In quanto allʼatto che chiedete, non dubito punto che lo abbiate veduto. In ogni caso, potreste vederlo per un soldo in qualunque bottega di caffè.» Eʼ pare che la insolente risposta del Cancelliere muovesse a sdegno gli altri Commissari, sì che gli fu forza di addurre qualche scusa contorta. Ritornò poi al punto dal quale erasi dilungato, dicendo: «Questa non è una Corte dove le accuse si mostrano in iscritto. La nostra procedura è sommaria, e verbale. La questione è chiarissima. Perchè non avete voi obbedito al Re?» Con qualche difficoltà Compton potè ottenere un breve indugio, e lʼassistenza dʼun avvocato. Udite le ragioni da lui allegate, fu manifesto a tutti che il vescovo aveva semplicemente fatto ciò chʼegli era tenuto a fare. Il Tesoriere, il Capo Giudice e Sprat opinarono di mandarlo assoluto. Il Re arse di sdegno. Eʼ pareva che la sua Commissione Ecclesiastica gli volesse anchʼella mancare, come gli aveva mancato il suo Parlamento Tory. A Rochester disse di eleggere tra il dichiarare colpevole il vescovo, o lasciare lʼufficio del Tesoro. Rochester fu sì vile, che si arrese. Compton fu sospeso dalle sue funzioni spirituali; il carico della sua grande diocesi fu commesso ai suoi giudici, Sprat e Crewe. Seguitò, non per tanto, a risedere nel proprio palazzo e ricevere le rendite; perocchè sapevasi che ove avessero tentato di privarlo deʼ suoi emolumenti temporali, ei si sarebbe posto sotto la protezione del diritto comune; e lo stesso Herbert dichiarò, che i tribunali di diritto comune avrebbero profferita sentenza contro la Corona. Ciò indusse il Re a star cheto. Solo alquanti giorni erano corsi dacchè egli aveva a suo modo raffazzonate le Corti di Westminster Hall, onde ottenere una sentenza favorevole alla sua potestà di dispensare; e adesso si accôrse che, ove non le avesse di nuovo raffazzonate, non avrebbe potuto ottenere una decisione in favore degli atti della sua Commissione Ecclesiastica. Deliberò, quindi, di differire per breve tempo la confisca deʼ beni liberi deʼ chierici disubbidienti.[102] L. Gli umori della nazione, a dir vero, erano tali da renderlo esitante. Per alcuni mesi, il malcontento era venuto grandemente e con rapidità crescendo. Il Parlamento da lungo tempo aveva inibita la celebrazione del culto cattolico romano. Pel corso di varie generazioni, nessun prete cattolico romano aveva osato mostrarsi in pubblico con le insegne del proprio ufficio. Contro il clero regolare, e contro glʼirrequieti e sottili Gesuiti, erano state fatte molte leggi rigorose. Ogni Gesuita che avesse posto piede nel Regno, era soggetto ad essere impiccato, strascinato e squartato. Coloro che lo avessero scoperto, ricevevano un premio. Non godeva nè anche il beneficio della regola generale, che gli uomini non sono tenuti ad accusare sè stessi. Chiunque fosse in sospetto di essere Gesuita, poteva essere interrogato; e ricusando di rispondere, incarcerato a vita.[103] Tali leggi, benchè non fossero state poste rigorosamente in esecuzione, tranne in tempi di speciale pericolo, e benchè non avessero mai impedito i Gesuiti di venire in Inghilterra, avevano reso necessario il travestirsi. Ma adesso ogni travestimento fu messo da parte. Alcuni insani uomini appartenenti alla religione del Re, incoraggiati da lui, ebbero lʼorgoglio di sfidare leggi che senza verun dubbio erano ancor valide, e sentimenti abbarbicati nel cuore del popolo come non lo erano stati mai nei tempi trascorsi. Sorsero in ogni dove, per tutto il paese, cappelle cattoliche romane. Cocolle, cordoni e rosari vedevansi di continuo per le vie, e rendevano attonita una popolazione di cui lʼuomo più vecchio non aveva mai veduto, tranne sulla scena, un abito monacale. Un convento fu innalzato in Clerkenwell, nel luogo dellʼantico chiostro di San Giovanni. I Francescani occuparono un edificio in Lincolnʼs Inn Fields. I Carmelitani furono acquartierati nella Città. Una congrega di Benedettini ebbe alloggio nel Palazzo di San Giacomo. Nel Savoy fu edificata ai Gesuiti una vasta casa, con una chiesa e una scuola.[104] Lʼarte e la cura onde cotesti padri avevano, per parecchie generazioni, educata la gioventù, avevano strappate le lodi alle labbra ripugnanti deʼ Protestanti più savi. Bacone aveva detto, che il metodo dʼistruzione adoperato nei collegi deʼ Gesuiti, era il migliore che fino allora si conoscesse nel mondo, ed aveva mostrato amaro rincrescimento pensando che un sistema cotanto ammirevole di disciplina intellettuale e morale dovesse servire agli interessi dʼuna religione cotanto corrotta.[105] Non era improbabile che il nuovo collegio nel Savoy, sotto la protezione del Re, sarebbe diventato formidabile rivale delle grandi scuole di Eaton, di Westminster e di Winchester. Poco dopo aperta, la scuola contava quattrocento fanciulli, metà circa deʼ quali erano Protestanti. Costoro non erano tenuti ad assistere alla Messa; ma non poteva esservi dubbio che la influenza di esperti precettori appartenenti alla Chiesa Cattolica Romana, e versati in tutte le arti che valgono a conseguire la fiducia e lʼaffetto della gioventù, non avrebbe fatto molti proseliti. LI. Siffatte cose produssero sommo eccitamento fra il basso popolo, il quale sempre è mosso da ciò che tocca i sensi, più presto che da ciò che si dirige alla ragione. Migliaia di rozze e ignoranti persone, per le quali la potestà di dispensare e la Commissione Ecclesiastica erano parole vuote di senso, videro con indignazione e terrore un collegio di Gesuiti sorgere sulle rive del Tamigi, frati in sottana e cappuccio passeggiare nello Strand, i devoti accorrere in folla alle porte deʼ tempii dove adoravansi le sculte immagini. In parecchi luoghi del paese scoppiarono tumulti. In Coventry e in Worcester, il culto cattolico romano fu violentemente interrotto.[106] In Bristol la marmaglia, spalleggiata, secondo fu detto, dai magistrati, dètte un profano ed indecente spettacolo, in cui la Vergine Maria era rappresentata da un buffone, e unʼostia finta era portata in processione. Il presidio fu chiamato a reprimere la plebaglia. Questa, che sempre era stata lì più che in altro luogo del Regno ferocissima, oppose resistenza. Seguirono da ambe le parti percosse e ferite.[107] Grande era lʼagitazione nella capitale, e maggiore nella Città propriamente detta, che in Westminster. Imperocchè il popolo era avvezzo a vedere le cappelle private degli Ambasciatori Cattolici Romani; ma la Città, a memoria dʼuomo vivente, non era stata mai profanata da cerimonie idolatriche. Nondimeno, lʼinviato dellʼElettore Palatino, incoraggiato dal Re, eresse una cappella in Lime Street. I capi del municipio, quantunque fossero uomini posti in quellʼufficio perchè riconosciuti come Tory, protestarono contro questo fatto, che, dicevano essi, i più dotti gentiluomini in abito lungo consideravano illegale. Il Lord Gonfaloniere ricevè ordine di presentarsi dinanzi al Consiglio Privato. «Badate a quel che fate» disse il Re, «obbeditemi; e non vʼimpacciate con gentiluomini in abito lungo, o in abito corto.» Il Cancelliere tosto cominciò ad inveire contro il malarrivato magistrato, con quella stessa eloquenza che soleva adoperare in Old Bailey. La cappella fu aperta. Tutto il vicinato si pose subito in movimento. Gran torme di popolo accorsero a Cheapside per aggredire la nuova chiesa. I sacerdoti furono insultati. Un crocifisso fu strappato dal luogo, e posto sopra il pozzo della parrocchia. Il Lord Gonfaloniere uscì fuori a quietare il tumulto, ma fu accolto col grido di «Non vogliamo Dio di legno.» La milizia civica ebbe comandamento di sgominare la folla; ma partecipava al sentimento del popolo; e voci corsero per le file che dicevano: «Noi non possiamo in coscienza combattere a pro del papismo.»[108] Lo Elettore Palatino era, come Giacomo, sincero e zelante Cattolico, e imperava, al pari di lui, sopra una popolazione protestante; ma i due principi si somigliavano poco per indole e per intendimento. Lo Elettore aveva promesso di rispettare i diritti della Chiesa chʼegli trovò stabilita neʼ suoi domini. Aveva rigorosamente mantenuta la promessa, e non sʼera lasciato trascinare a nessun atto di violenza dai predicatori, i quali abborrendo dalla sua credenza, dimenticavano di quando in quando il rispetto che gli dovevano.[109] Seppe, e gliene increbbe, che lʼatto imprudente del suo rappresentante aveva grandemente offeso il popolo di Londra; e, a suo sommo onore, dichiarò chʼegli avrebbe rinunziato al privilegio al quale, come principe straniero, aveva diritto, anzi che mettere a rischio la tranquillità dʼuna grande metropoli. «Anchʼio» scrisse egli a Giacomo «ho sudditi protestanti; e so con quanta cautela e destrezza debba agire un principe Cattolico posto in cosiffatte condizioni.» Giacomo, invece di sentire gratitudine per questa mite e savia condotta, mise la lettera in canzone avanti ai ministri stranieri; e deliberò che lo Elettore, volesse o non volesse, avrebbe una cappella nella Città; e qualora la milizia cittadina avesse ricusato di fare il debito proprio, si sarebbero chiamate le guardie.[110] LII. Lo effetto che cotesti perturbamenti produssero sul commercio, fu assai grave. Il ministro olandese scrisse agli Stati Generali, che gli affari alla Borsa erano arrestati. I Commissari delle Dogane riferirono al Re, come nel mese che seguì lʼapertura della Cappella in Lime Street, glʼincassi del porto del Tamigi fossero scemati dʼalcune migliaia di lire sterline.[111] Vari Aldermanni, i quali, comecchè fossero realisti zelanti, nominati in ufficio sotto il nuovo statuto municipale, avevano molto interesse alla prosperità commerciale della città loro, e non amavano nè il papismo nè la legge marziale, dettero la loro rinunzia. Ma il Re era risoluto a non cedere. Formò un campo militare in Hounslow Heath, dove, in una circonferenza di circa due miglia e mezzo, raccolse quattordici battaglioni di fanteria, e trentadue squadroni di cavalleria, che insieme facevano unʼarmata di tredici mila combattenti. Ventisei pezzi dʼartiglieria, e molti carriaggi carichi dʼarmi e di munizioni, furono trascinati dalla Torre, traverso alla città, a Hounslow.[112] I Londrini, vedendo ragunarsi queste grandi forze militari nei dintorni della terra, sentirono un terrore, che in breve scemò collʼavvezzarvisi. Visitare Hounslow neʼ giorni festivi divenne un sollazzo. Il campo offriva lo aspetto dʼuna vasta fiera. Confusa coi moschettieri e coi dragoni, una moltitudine di lindi gentiluomini e dame di Soho Square, di borsaiuoli e di sgualdrine di Whitefriars coʼ visi imbellettati, dʼinfermi in portantine, di frati in cappucci e sottane, di servitori coperti di ricche livree, di merciaiuoli ambulanti, di fruttaiuole, di impertinenti garzoni di bottega e di stupefatti villani, passava di continuo e ripassava fra mezzo alle lunghe file delle tende. In alcuni padiglioni udivasi il baccano dei beoni, in altri le bestemmie deʼ giocatori. E davvero, il luogo pareva un allegro suburbio della metropoli. Il Re, come ben si conobbe due anni dopo, aveva commesso un grande errore. Aveva dimenticato che la vicinanza agisce in più modi. Aveva sperato che lo esercito avrebbe atterrita Londra; ma lo effetto di questo provvedimento fu, che i sentimenti e le opinioni deʼ cittadini di Londra invasero pienamente lʼesercito.[113] Erano appena formati gli accampamenti, allorquando corse voce di litigi tra i soldati protestanti e i papisti.[114] Un breve scritto intitolato: Indirizzo a tutti glʼInglesi protestanti dellʼarmata,—era stato con attività distribuito nel campo. Lo scrittore con veementi parole esortava le truppe a pugnare in difesa, non del Messale, ma della Bibbia, della _Magna Charta_ e della Petizione deʼ Diritti. Il Governo lo vedeva di mal occhio. Era uomo notevole per carattere, e la cui storia può riuscire istruttiva. LIII. Aveva nome Samuele Johnson, era prete della Chiesa Anglicana, e già stato cappellano di Lord Russell. Johnson era uno di quelli uomini mortalmente odiati daʼ loro oppositori, e meno amati che rispettati daʼ loro colleghi. La sua morale era pura, fervido il sentimento religioso che gli stava nel cuore, non ispregevoli la dottrina e le doti dello ingegno, debole il giudicio, e lʼindole acre, torbida e invincibilmente ostinata. Per la sua professione, egli era venuto in odio agli zelanti sostenitori della monarchia; perocchè un repubblicano con gli ordini sacri appariva un ente strano, e quasi contro natura. Mentre Carlo regnava, Johnson aveva pubblicato un libro col titolo di Giuliano Apostata. Era suo scopo mostrare, che i Cristiani del quarto secolo non ammettevano la dottrina della non–resistenza. Era agevole addurre passi di Crisostomo e di Girolamo, scritti con uno spirito assai diverso da quello deʼ teologi anglicani che predicavano contro la Legge dʼEsclusione. Johnson, nulladimeno, trascorse anche più oltre. Tentò di richiamare a vita lʼodioso addebito che, per manifestissime ragioni, Libanio aveva gettato sopra i soldati cristiani di Giuliano; ed affermò che il dardo che uccise lʼimperiale rinnegato, partì non daglʼinimici, ma da qualche Rumbold o Ferguson delle legioni romane. Ne seguì caldissima controversia. I disputatori Whig e Tory lottarono accanitamente intorno ad un passo oscuro, nel quale Gregorio Nazianzeno loda un pio vescovo che andava ad infliggere la fustigazione ad alcuno. I Whig sostenevano che lʼuomo santo andasse a fustigare lo imperatore; i Tory, che egli volesse fustigare, a tutto dire, un capitano delle Guardie. Johnson compose una risposta ai suoi avversarii, nella quale fece un elaborato paragone tra Giuliano e Giacomo, allora Duca di York. Giuliano per molti anni aveva fatto sembiante di aborrire la idolatria, mentre in cuor suo era idolatra. Giuliano aveva, per giungere a certi suoi fini, in alcune occasioni simulato di rispettare i diritti della coscienza. Giuliano aveva punite le città che erano zelanti per la vera religione, spogliandole deʼ loro privilegii municipali. Giuliano daʼ suoi adulatori era stato chiamato il Giusto. Giacomo si sentì provocato a segno, da non poterlo patire. Johnson fu accusato di calunnia, convinto reo, e condannato ad una multa che egli non aveva mezzi di pagare. Fu quindi gettato in un carcere; e sembrava probabile che vi dovesse rimanere per tutta la vita.[115] LIV. Sopra la stanza chʼegli occupava nella prigione del Banco del Re, era rinchiuso un altro condannato, il cui carattere è degno di studio. Chiamavasi Ugo Speke, edera giovane di buona famiglia, ma di singolarmente bassa e depravata indole. In lui la passione del mal fare e di giungere per vie torte ai suoi fini, era quasi frenesia. Arruffare senza essere scoperto, era a lui occupazione e diletto; ed aveva grande arte di giovarsi degli onesti entusiasti come di strumenti della sua fredda malignità. Aveva tentato, per mezzo di uno deʼ suoi fantocci, di spingere Carlo e Giacomo ad assassinare Essex nella Torre. Scopertosi lui essere stato lo istigatore a quel delitto, quantunque gli fosse riuscito gettare in gran parte la colpa sullʼuomo da lui sedotto, non gli era venuto fatto di sottrarsi al castigo. Adesso era in carcere; ma col danaro potè procacciarsi i comodi che ai più poveri prigioni mancavano, ed era tenuto con tanto poco rigore, da comunicare di continuo con uno deʼ suoi colleghi che dirigeva una tipografia clandestina. LV. Johnson era lʼuomo adatto ai fini di Speke. Era zelante ed intrepido, dotto ed esperto disputatore, ma semplice come un fanciullo. Una stretta amicizia nacque fraʼ due compagni di prigione. Johnson scriveva diversi acri e virulenti trattati, che Speke faceva giungere allo stampatore. Allorquando formossi il campo militare in Hounslow, Speke incitò Johnson a comporre un indirizzo per istigare le truppe al disordine. Detto, fatto. Ne furono tirate molte migliaia di copie e portate alla stanza di Speke, da dove furono sparse per tutto il paese, e in ispecie fraʼ soldati. Un Governo più mite di quello che allora reggeva lʼInghilterra si sarebbe risentito a simigliante provocazione. Si fecero rigorose ricerche. Un agente subordinato, di cui eransi serviti per distribuire lʼindirizzo, salvò sè, tradendo Johnson; e Johnson non era uomo da salvarsi tradendo Speke. Se ne fece processo, e lo scrittore fu dichiarato reo. Giuliano Johnson, come comunemente lo chiamavano, fu condannato ad essere tre volte posto alla berlina, e fustigato da Newgate a Tyburn. Il giudice, Sir Francesco Withins, disse al condannato di dovere rendere grazie al Procuratore Generale, che aveva mostrata moderazione, là dove poteva considerare il delitto come crimenlese. «Io non gli debbo punto ringraziamenti» rispose intrepidamente Johnson. «Debbo io, il cui solo delitto è quello di avere difeso la Chiesa e le leggi, mostrarmi grato dʼessere flagellato a guisa dʼun cane, mentre gli scrivacchiatori papisti si lasciano ogni giorno impunemente insultare la Chiesa e violare le leggi?» La energia con che egli favellò fu tale, che i giudici e i legali della Corona stimarono necessario difendersi, e protestarono di non saper nulla di pubblicazioni papiste, a cui il prigione alludeva. Il quale immantinente si trasse di tasca alcuni libri o ninnoli cattolici romani, che allora vendevansi liberamente sotto la regia protezione; lesse ad alta voce i titoli di queʼ libri, e gettò un rosario sul banco agli Avvocati del Re; e forte gridando, disse: «Io presento questa prova dinanzi a Dio, a questo tribunale ed al popolo inglese. Ora vedremo se il Signor Procuratore Generale farà il proprio dovere.» Fu deliberato che innanzi di mandare ad esecuzione la sentenza, Johnson fosse degradato della dignità sacerdotale. I prelati ai quali dalla Commissione Ecclesiastica era stata affidata la cura della diocesi di Londra, lo citarono dinanzi a loro nelle stanze del Capitolo della Cattedrale di San Paolo. Il modo onde egli subì la ceremonia, fece profonda impressione nellʼanimo di molti. Mentre lo spogliavano degli abiti sacerdotali, esclamò: «Voi mi private dellʼabito sacro, perchè mi sono studiato di tenervi addosso il vostro.» Lʼunica formalità che parve contristarlo, fu lʼavergli strappato dalle mani la Bibbia. Lottò debolmente perchè non gliela togliessero, la baciò e diede in uno scoppio di pianto. «Voi non potete» disse egli «privarmi delle speranze che io debbo a quel libro santo.» Tentossi di ottenere che gli fosse perdonata la fustigazione. Un sacerdote cattolico romano, a cui fu fatta la promessa di duecento lire sterline, sʼofferse dʼintercedere per lui. Fu fatta una colletta, e raccolta la somma; e il prete fece ogni possibile sforzo, ma invano. «Il signore Johnson» rispose il Re «ha lo spirito dʼun martire; ed è giusto che divenga tale.» Guglielmo III, pochi anni dopo, disse dʼuno deʼ più arrabbiati e imperterriti Giacomiti: «Egli sʼè fitta in cuore la voglia dʼessere martire, ed io mi son fitto in capo di privarlo della gloria del martirio.» Questi due detti basterebbero soli a spiegare lo differentissime sorti di quei due Principi. Giunse il dì stabilito per la fustigazione. Fu adoperato un flagello di nove funi. Trecento diciassette furono i colpi; ma il paziente non feʼ motto. Dopo, confessò che il tormento era stato crudele; ma mentre ci veniva trascinato, richiamava al pensiero la pazienza con che il Salvatore aveva portata la croce al Golgota; e ne ebbe tanto conforto, che se non fosse stato impedito dal timore dʼincorrere nella taccia di vanaglorioso, avrebbe cantato un salmo con la voce ferma e lieta con che avrebbe adorato Dio nella congregazione. E fu eroismo da farci desiderare che fosse meno macchiato dʼintemperanza e dʼintolleranza.[116] LVI. Fra il clero anglicano, Johnson non trovò compatimento. Aveva tentato di giustificare la ribellione; aveva anche accennato di approvare il regicidio; e i preti della Chiesa dʼInghilterra, malgrado tanta provocazione, sostenevano tenacemente la dottrina della non–resistenza. Ma inquieti e impauriti vedevano il progresso di quella che essi consideravano dannosa superstizione; e mentre aborrivano dal pensiero di difendere la propria religione con la spada, battagliavano con armi di specie diversa. Il predicare contro gli errori del papismo, adesso era da loro considerato come dovere e punto dʼonore. Il clero di Londra, il quale per meriti ed influenza primeggiava fra lʼordine sacerdotale, porse un esempio che intrepidamente seguirono i suoi confratelli in tutto il Regno. Se pochi spiriti audaci avessero osato tanto, sarebbero stati probabilmente riconvenuti dinanzi alla Commissione Ecclesiastica; ma era quasi impossibile punire un fallo che veniva commesso ogni Domenica da migliaia di teologi, da Berwick fino a Penzance. Le tipografie della metropoli, dʼOxford e di Cambridge, erano in continuo moto. La legge che sottoponeva la stampa alla censura, non impediva gli sforzi deʼ controversisti protestanti; perocchè conteneva una clausula a favore delle due Università, ed autorizzava la pubblicazione delle opere teologiche approvate dallo Arcivescovo di Canterbury. Non era, quindi, in potestà del Governo lo imporre silenzio ai difensori della religione dello Stato. Erano una numerosa, imperterrita e ben formata legione di combattenti. Comprendeva eloquenti favellatori, esperti dialettici, dotti profondamente versati nella lettura degli scritti deʼ Santi Padri, ed in ogni ramo di storia ecclesiastica. Alcuni di loro, tempo dopo, rivolsero vicendevolmente gli uni contro gli altri le armi formidabili, da essi già impugnate contro il nemico comune; e a cagione delle feroci contese e delle insolenti vittorie loro, recarono biasimo alla Chiesa che avevano salvata. Ma adesso erano una falange unita. Stava nel vanguardo una fila di fermi ed esperti veterani; Tillotson, Stillingfleet, Sherlock, Prideaux, Whitby, Patrick, Tenison, Wake. Il retroguardo era composto dai più insigni baccellieri, che studiavano per conseguire il diaconato. Predistinto fra le reclute che Cambridge mandava al campo di battaglia, era uno scolare del gran Newton. Aveva nome Enrico Wharton, e pochi mesi prima era stato capo disputatore, ossia principe della sua classe: la sua morte poco appresso fu compianta dagli uomini di ogni partito, qual perdita irreparabile per le lettere.[117] Oxford anchʼessa sʼinorgogliva dʼun giovane, le cui grandi doti intellettuali, che facevano il primo esperimento in questo conflitto, turbarono poscia per quaranta anni la Chiesa e lo Stato; voglio dire di Francesco Atterbury. Da tali ingegni venivano discusse tutte le questioni tra papisti e protestanti, ora in istile sì popolare che potessero intendere i fanciulli e le donne, ora con estremo acume di logica, ed ora con immenso corredo di dottrina. Le pretese della Santa Sede, lʼautorità della tradizione, il purgatorio, la transustanziazione, il sacrificio della Messa, lʼadorazione dellʼostia, il negare il calice ai laici, la confessione, la penitenza, le indulgenze, lʼestrema unzione, la invocazione dei santi, lʼadorazione delle immagini, il celibato del clero, i voti monastici, lʼuso di celebrare il culto pubblico in una lingua ignota al popolo, la corruttela della Corte di Roma, la storia della Riforma, i caratteri deʼ principali riformatori, venivano copiosamente discussi. Gran numero di assurde leggende di miracoli fatti daʼ santi e dalle reliquie furono tradotte dallʼitaliano, e pubblicate come esempi delle arti pretine che avevano ingannata gran parte della Cristianità. Molti degli scritti pubblicati dai teologi anglicani nel breve regno di Giacomo II, probabilmente perirono. Coloro che possono anche oggi trovarsi nelle nostre grandi biblioteche, formano una congerie di circa ventimila pagine.[118] LVII. I Cattolici Romani non cessero senza lottare. Uno di loro, chiamato Enrico Hills, era stato nominato stampatore della casa e cappella reale, e posto dal Re a capo dʼun grande ufficio in Londra, dal quale uscivano a centinaia libri e libercoli teologici. Non meno operosi in Oxford erano i torchi dʼObadia Walker. Ma, salvo qualche cattiva traduzione degli ammirevoli scritti di Bossuet, quelle tipografie non pubblicarono cosa alcuna che avesse il minimo pregio. Nessun savio e sincero Cattolico Romano poteva negare che i campioni della sua Chiesa, e per ingegno e per dottrina, erano di gran lunga inferiori ai loro avversari. Il più grande degli scrittori cattolici sarebbe stato reputato di terzo ordine. Molti di loro, anche qualvolta avessero qualche cosa da dire, non sapevano come dirla. La loro religione gli aveva esclusi dalle scuole e università inglesi; nè fino al tempo in cui Giacomo ascese al trono, essi avevano reputata lʼInghilterra gradita o nè anche sicura residenza. Avevano però spesa la più gran parte della loro vita sul continente, e quasi disimparata la lingua materna. Quando predicavano, il loro accento mezzo forestiero moveva a riso lʼuditorio. Pronunziavano le parole a moʼ di vetturini. La loro locuzione era deturpata da frasi straniere; e quando intendevano essere eloquenti, imitavano, come meglio potevano, quello che consideravasi come bello stile in quelle accademie italiane dove la rettorica, a queʼ tempi, era caduta nella più gran corruzione. Disputatori impacciati da tutti cotesti svantaggi, non avrebbero potuto, anche qualora il vero fosse stato dalla loro parte, far fronte ad uomini, lo stile deʼ quali rifulge mirabilmente di purità e di grazia.[119] Le condizioni in cui la Inghilterra trovatasi nel 1686, non possono esser meglio descritte che con le parole dello Ambasciatore Francese. «Il malcontento» dice egli «è grande e universale; ma il timore di cadere in mali maggiori trattiene tutti coloro che hanno qualche cosa da perdere. Il Re apertamente manifesta la gioia che prova trovandosi in condizione da potere menare arditissimi colpi. Egli ama vedere che altri se ne congratuli con lui. Me ne ha parlato, assicurandomi che non vorrà indietreggiare.»[120] LVIII. Frattanto, nelle altre parti del Regno erano accaduti importantissimi fatti. Le condizioni deʼ protestanti Episcopali di Scozia grandemente differivano da quelle in cui trovavansi i loro confratelli inglesi. Nelle contrade meridionali dellʼisola, la religione dello Stato era quella del popolo, ed aveva forza al tutto indipendente da quella che derivava dal sostegno del Governo. I conformisti sinceri erano in molto maggior numero deʼ papisti e deʼ Protestanti dissenzienti, insieme congiunti. La Chiesa stabilita in Iscozia era la Chiesa di pochi. La più parte della popolazione delle pianure aderiva fermamente alla disciplina deʼ Presbiteriani. La gran massa deʼ Protestanti scozzesi abborriva dalla prelatura, come istituzione contraria alle divine scritture e dʼorigine straniera. I discepoli di Knox la consideravano quale reliquia delle abominazioni della grande Babele. Quel popolo, altero della memoria di Wallace e di Bruce, amaramente rammentava come la Scozia, dacchè i suoi sovrani erano ascesi al trono dellʼInghilterra, fosse stata indipendente solo di nome. Lʼordinamento episcopale alla mente di ciascuno richiamava la immagine di tutti i danni prodotti da venticinque anni di corrotto e crudele Governo. Nulladimeno, tale ordinamento, quantunque sopra unʼangusta base e fra mezzo a terribili procelle, stette, tentennante, a dir vero, ma sostenuto dai magistrati civili, e sperante dʼessere soccorso, sempre che si facesse grave il pericolo, dalla potenza inglese. I ricordi del Parlamento di Scozia erano pieni zeppi di leggi spiranti vendetta contro coloro che in qualunque modo traviassero dalla meta prescritta. Secondo un Atto parlamentare, fatto a tempo di Knox e impregnato del suo spirito, era gravissimo delitto ascoltare la Messa; delitto che, ripetuto tre volte, diventava capitale.[121] Un altro Atto, di fresco approvato ad istanza di Giacomo, puniva di morte chiunque avesse osato predicare in un conventicolo presbiteriano qualunque, ed anche coloro che fossero intervenuti ad un conventicolo allʼaria aperta.[122] La Eucaristia non era, come in Inghilterra, degradata alla condizione di Atto di Prova civile; ma niuno poteva occupare qualsifosse ufficio, aver seggio in Parlamento, o anche diritto di votare nelle elezioni parlamentari, senza firmare, prestando giuramento, una dichiarazione che riprovasse con fortissime parole i principii e deʼ papisti e quelli deʼ Convenzionisti.[123] LIX. Nel Consiglio Privato di Scozia erano due partiti, rispondenti a quelli che lottavano tra loro in Whitehall. Guglielmo Douglas, Duca di Queensberry, era Lord Tesoriere, e per vari anni era stato considerato come primo ministro. Era strettamente vincolato, per parentela e per simiglianza dʼindole e dʼopinioni, al Tesoriere dʼInghilterra. Entrambi erano Tory, entrambi uomini di cervello fervido e di forti pregiudicii, entrambi pronti a secondare il loro signore in ogni aggressione contro le libertà civili del suo popolo; ma entrambi portavano sincero affetto alla Chiesa dello Stato. Queensberry aveva fin dapprima annunziato alla Corte, che non avrebbe partecipato a qualunque innovazione concernente la Chiesa. Ma fraʼ suoi colleghi erano vari uomini, non meno di Sunderland, spregiatori dʼogni principio. E veramente, la Camera del Consiglio dʼEdimburgo era stata, per lo spazio di venticinque anni, scuola di vizi pubblici e privati; ed alcuni uomini politici ivi educati, avevano una così peculiare durezza di cuore e di fronte, che Westminster, anche in quella pessima età, non aveva nulla da contrapporvi. Il Cancelliere Drummond, Conte di Perth, e suo fratello Lord Giovanni Melfort, Segretario di Stato, studiavansi di supplantare Queensberry. Il Cancelliere aveva già un incontrastabile diritto al regio favore, come quello che aveva posto in uso una piccola vite per torturare le dita, la quale recava così esquisito tormento, che aveva strappato confessioni dalle labbra anche di coloro che lo stivaletto, dalla Maestà Sua tanto amato, non aveva potuto indurre a confessare.[124] LX. Ma era ben noto che la barbarie non apriva, così agevolmente come lʼapostasia, il varco al cuore di Giacomo. Alla apostasia, dunque, Perth e Melfort ricorsero con certa audace abiettezza, che nessuno inglese uomo di Stato avrebbe potuto sperar di uguagliare. Dichiararono che ambidue erano stati convertiti dagli scritti trovati entro la cassa forte di Carlo II, e che avevano incominciato a confessarsi e ad ascoltare la Messa.[125] Quanto poco entrasse la coscienza nella conversione di Perth, ne fu chiaro argomento lʼavere egli sposata, pochi giorni dopo, a dispetto delle leggi della religione da lui pur allora abbracciata, una sua cugina germana, senza provvedersi dʼuna dispensa. Come il buon Pontefice seppe la nuova del fatto, disse, con quello spregio e disdegno convenevole alla dignità sua, quella essere una strana specie di conversione.[126] Ma Giacomo ne rimase più agevolmente satisfatto. I due apostati sʼappresentarono a Whitehall, dove riceverono tali assicurazioni di favore, che provaronsi di apporre direttamente addebiti al Tesoriere. Ma tali addebiti erano così manifestamente frivoli, che a Giacomo fu forza di assolvere lo accusato ministro; e molti credettero che il Cancelliere si fosse rovinato per la maligna voglia di rovinare il rivale. Taluno, nondimeno, faceva più esatto giudicio. Halifax, al quale Perth manifestò qualche timore, rispose, con un sorriso di scherno, che non vʼera punto pericolo. «Staʼ di buon animo, Milord; la tua fede ti ha salvato.» La profezia fu vera. Perth e Melfort ritornarono a Edimburgo capi del Governo della loro patria.[127] Un altro membro dei Consiglio Privato di Scozia, cioè Alessandro Stuart, conte di Murrey, discendente ed erede del Reggente, abiurò quella religione della quale il suo illustre antenato era stato precipuo campione, e si dichiarò membro della Chiesa di Roma. Devoto, come sempre era stato Queensberry, alla causa della regia prerogativa, non poteva resistere ai suoi competitori, i quali ambivano, mostrandosi ligii al Sovrano, acquistarne la grazia. Gli toccava sostenere mille mortificazioni ed umiliazioni, simili a quelle che, verso quel tempo, cominciarono ad amareggiare la vita del suo amico Rochester. LXI. Giunsero a Edimburgo lettere regie che autorizzavano i papisti ad occupare gli uffici senza essere sottoposti allʼAtto di Prova. Al clero fu fatto rigoroso comandamento di non fare nelle prediche riflessioni sulla Religione Cattolica Romana. Il Cancelliere si tolse il carico di mandare i mazzieri del Consiglio Privato attorno per le poche tipografie e librerie che allora si trovavano in Edimburgo, ad ordinar loro di non pubblicare nessuna opera senza sua licenza. Intendevasi bene che tale ordine doveva impedire la circolazione degli scritti protestanti. Un onesto cartolaro disse ai mazzieri, chʼegli aveva in bottega un libro che con dure parole discorreva del papismo, e chiese di sapere se lo potesse vendere. Coloro domandarono di vederlo, ed egli mostrò loro un esemplare della Bibbia.[128] Un carico dʼimmagini, di rosari, di croci e di turiboli, giunse a Leith, diretto a Lord Perth. La importazione di tali cose da lungo tempo consideravasi illegale; ma adesso glʼimpiegati delle dogane le lasciarono passare liberamente.[129] Poco dopo si seppe che una cappella papalina era stata accomodata nella casa del Cancelliere, e che vi si celebrava regolarmente la Messa. Insorse la plebe, ed assaltò ferocemente il luogo dove celebravansi i riti idolatrici. Strappò le inferriate delle finestre. Lady Perth, ed alcune altre donne sue amiche, furono imbrattate di fango. Uno deʼ faziosi fu preso, e condannato per ordine del Consiglio Privato alla fustigazione. I suoi compagni lo liberarono, e bastonarono il boia. La città per tutta la notte fu in tumulto. Gli studenti della Università si congiunsero alla folla, incoraggiando glʼinsorti. I borghesi zelanti bevevano alla salute deʼ giovani collegiali, a confusione deʼ papisti; e vicendevolmente facevansi animo ad affrontare i soldati. Questi, che erano già sotto le armi, furono ricevuti con una pioggia di sassate, nella quale un ufficiale rimase ferito. Fu dato ordine di far fuoco; e vari cittadini furono uccisi. Il tumulto fu serio; ma i Drummonds, infiammati dallʼodio e dallʼambizione, stranamente lo esagerarono. Queensberry fece osservare, che la loro relazione avrebbe fatto credere, a chiunque non fosse stato testimonio oculare, che in Edimburgo fosse seguita una sedizione formidabile quanto quella di Masaniello. Essi, allʼincontro, accusarono il Tesoriere non solo di scemare la gravità del delitto, ma dʼaverlo suggerito, e fecero ogni possibile sforzo a procurarsi una prova della colpa di lui. Ad uno deʼ capi, che cadde nelle mani del Governo, fu offerta la grazia, a patto che confessasse dʼessere stato incitato a tumultuare da Queensberry: ma lo stesso entusiasmo religioso che aveva spinto lo sventurato prigione ad illegittima violenza, glʼimpedì di comprare la propria vita con una calunnia. Egli e vari altri deʼ suoi complici furono impiccati. Un soldato che accusavano dʼavere gridato, mentre infuriava la sommossa, come egli desiderasse di dare addosso con la spada ad un papista, venne fucilato; in Edimburgo fu ristabilita la tranquillità: ma coloro che patirono il rigore del Governo furono considerati come martiri; e il Cancelliere papista divenne segno ad un odio mortale, che tra non molto tempo fu ampiamente appagato.[130] LXII. La collera si accese nellʼanimo del Re. La nuova del tumulto gli pervenne mentre la Regina, aiutata dai Gesuiti, aveva pur allora riportata vittoria sopra Lady Dorchester e i suoi collegati protestanti. I malcontenti si accorgerebbero, disse egli, che il solo effetto della resistenza che avevano fatta alla sua volontà, era di renderlo sempre più fermo nel proprio proponimento.[131] Spedì ordini al Consiglio Scozzese di punire con estrema severità i colpevoli, e dʼadoperare senza ritegno lo stivaletto.[132] Simulò di essere profondamente convinto della innocenza del Tesoriere, e gli scrisse cortesissime parole; alle quali parole tennero dietro scortesissimi atti. Il Tesoro scozzese fu affidato ad una Commissione, in onta alle calde insistenze di Rochester, il quale probabilmente previde la propria sorte in quella del proprio parente.[133] Queensberry fu nominato Primo Commissario, e Presidente del Consiglio Privato; ma la sua caduta, quantunque siffattamente addolcita, era sempre una caduta. Gli fu tolto anche il comando del Castello dʼEdimburgo, ed in quel posto di fiducia gli successe il Duca di Gordon, cattolico romano.[134] LXIII. Giunse da Londra al Consiglio Privato una lettera, nella quale erano appieno dichiarati glʼintendimenti del Re. Ei voleva che i Cattolici Romani fossero esenti dalle leggi che imponevano pene e incapacità civili a coloro che non si uniformassero alla religione dello Stato; voleva, inoltre, che si perseguissero senza pietà i Convenzionisti.[135] Ciò incontrò grave opposizione in Consiglio. Alcuni non amavano vedere rilassate le leggi esistenti. Altri, che a ciò non erano punto contrari, sentivano ancora quanto sarebbe stato mostruoso ammettere i Cattolici Romani alle dignità dello Stato, e frattanto non revocare lʼAtto che puniva di morte chiunque intervenisse ad un conventicolo presbiteriano. La risposta del Consiglio, quindi, non fu, secondo lʼusato, ossequiosa. LXIV. Il Re riprese severamente glʼirriverenti consiglieri, e ordinò che tre di loro, cioè il Duca di Hamilton, Sir Giorgio Lockhart e il Generale Drummond, si recassero a Westminster presso lui. Lʼabilità e la istruzione di Hamilton, quantunque non fossero tali da bastare a trarre un uomo dallʼoscurità, sembravano altamente rispettabili in uno che era primo Pari di Scozia. Lockhart era stato da lungo tempo considerato come uno deʼ principali giureconsulti, logici, ed oratori che fossero mai stati nella sua patria, e godeva anche quella specie di stima che deriva dalle vaste possessioni; perocchè la sua opulenza era quale a queʼ tempi pochi deʼ nobili scozzesi possedevano.[136] Era stato, da ultimo, fatto Presidente della Corte di Sessione. Drummond, fratello minore di Perth e di Melfort, era comandante delle forze in Iscozia. Era uomo dissoluto e profano; ma, per un sentimento dʼonore, che mancava affatto ai suoi confratelli, abborriva dalla pubblica apostasia. Visse e morì, secondo lʼespressiva frase dʼun suo concittadino, da cattivo cristiano, ma da buon protestante.[137] Giacomo si compiacque dellʼossequiose parole con che gli favellarono i tre consiglieri, allorchè primamente comparvero al suo cospetto. Parlò assai bene di loro a Barillon, e in specie esaltò Lockhart, come il più esperto ed eloquente degli Scozzesi. Nondimeno, poco appresso si accôrse di non averli esattamente giudicati; e corse voce alla Corte, che fossero stati pervertiti dalle genti con le quali avevano usato famigliarmente in Londra. Hamilton stava molto in compagnia deʼ saldi partigiani della Chiesa Anglicana; e temevasi che Lockhart, il quale era congiunto alla famiglia Wharton, fosse caduto in una compagnia anche peggiore. E veramente, egli era naturale che quelli uomini di Stato, pur allora arrivati da un paese dove ora quasi sconosciuta ogni altra specie dʼopposizione, tranne quella che facevasi per mezzo dʼaperta insurrezione o dʼassassinio, e dove tutto ciò che non fosse furore eslege veniva considerato come avvilimento, rimanessero maravigliati vedendo il caldo e vigoroso e, nondimeno, sobrio scontento che regnava in Inghilterra, e nascesse in loro il pensiero di far prova di resistenza costituzionale alle voglie del Re. Dichiararonsi però dispostissimi ad alleggiare grandemente i Cattolici Romani, ma a due condizioni: primo, che una simile indulgenza venisse anco concessa ai settari calvinisti; e poi, che il Re promettesse solennemente di non tentar nulla a danno della religione protestante. LXV. Ambedue coteste condizioni spiacquero sommamente a Giacomo. Nondimeno, assentì con ripugnanza, dopo parecchi giorni di contrasto, che i presbiteriani venissero trattati con qualche indulgenza; ma non volle affatto concedere loro la piena libertà chʼegli voleva pei membri della sua propria religione.[138] La seconda condizione proposta daʼ tre consiglieri Scozzesi, ei ricusò positivamente dʼammettere, dicendo: la religione protestante essere falsa; per lo che egli non voleva promettere di non giovarsi del proprio potere a danno dʼuna falsa religione. La disputa fu lunga, e non condusse a conclusione che soddisfacesse ad alcuna delle parti.[139] Appressavasi il tempo stabilito alla ragunanza degli Stati Scozzesi; ed era dʼuopo che i tre consiglieri si partissero da Londra per trovarsi allʼapertura del Parlamento in Edimburgo. In questa occasione, Queensberry ricevette un altro affronto. Nellʼantecedente sessione aveva occupato lʼufficio di Lord Alto Commissario, e, come tale, rappresentava la maestà del Re assente. Simile dignità, che era la grandissima alla quale un nobile scozzese potesse aspirare, fu adesso conferita al rinnegato Murray. LXVI. Il dì vigesimonono dʼaprile, il Parlamento sʼadunò in Edimburgo. Vi si lesse una lettera, nella quale il Re esortava gli Stati ad alleggiare i suoi sudditi cattolici romani, ed offriva in ricambio il libero traffico con la Inghilterra, e una amnistia pei delitti politici. Fu istituita una Commissione onde compilare la risposta da farsi al Re. Tale Commissione, quantunque fosse nominata da Murray e composta di Consiglieri Privati e di cortigiani, scrisse una risposta, piena, a dir vero, di espressioni di riverenza e dʼossequio, ma che chiaramente indicava che il Parlamento avrebbe respinto la richiesta del Re. Gli Stati—diceva la Commissione—sarebbero andati sin dove avrebbe loro consentito la propria coscienza, per compiacere ai desiderii della Maestà Sua rispetto ai sudditi appartenenti alla Religione Cattolica Romana. Queste espressioni non soddisfecero punto il Cancelliere: nondimeno, gli fu forza accettarle, ed incontrò anche qualche difficoltà a persuadere il Parlamento perchè le adottasse. Alcuni zelanti partigiani del protestantismo obiettarono contro le parole Religione Cattolica Romana, dicendo non esistere tale religione; bensì una apostasia idolatra, che dalle leggi era punita col capestro: non essere quindi convenevole ad un Cristiano ricordarla con nomi onorevoli. Chiamare Cattolica una simile superstizione, era un rinunziare interamente alla questione che agitavasi fra Roma e le Chiese riformate. Lʼofferta del libero traffico con la Inghilterra, fu considerata come un insulto. «I nostri padri» disse un oratore «venderono il loro Re per lʼoro del mezzogiorno; e sopra noi pesa tuttavia il rimprovero di quellʼiniquo mercato. Non si dica di noi, che abbiamo venduto il nostro Dio!» Sir Giovanni Lauder di Fountainhall, uno deʼ Senatori del Collegio di Giustizia, propose le parole «le persone comunemente chiamate Cattoliche Romane.»—«E che! vorreste voi dare tal soprannome a Sua Maestà?» esclamò il Cancelliere. La risposta, così come fu formata dalla Commissione, passò; ma una grande e rispettabile minoranza votò contro le parole proposte, perchè troppo cortigiane.[140] Eʼ fu notato che i rappresentanti della città mostraronsi, quasi tutti, contrari al Governo. Fino allora essi erano stati di poco peso nel Parlamento, e generalmente considerati come sottoposti ai nobili potenti. Eglino adesso per la prima volta mostrarono indipendenza e risolutezza e spirito di colleganza tali, che la Corte ne ebbe terrore.[141] La risposta spiacque talmente a Giacomo, che non permise che si stampasse nella Gazzetta. Subito dopo, gli giunse la nuova, che una certa legge chʼegli voleva, vedere approvata, non sarebbe stata nè anche proposta. I Lordi degli Articoli, che avevano lʼufficio di formulare gli atti, intorno ai quali poscia gli Stati dovevano deliberare, erano virtualmente nominati dal Re. E anche i Lordi degli Articoli mostraronsi disubbidienti. Come si ragunarono i tre Consiglieri Privati, che erano di recente ritornati da Londra, si fecero capi della opposizione alle voglie del Re. Hamilton dichiarò apertamente di non poter fare ciò che gli veniva chiesto. Egli era suddito fido e leale; ma vʼera un limite imposto dalla coscienza. «La coscienza!» esclamò il Cancelliere «la coscienza è una parola vaga, che significa ogni cosa, o niente.» Lockhart, che sedeva in Parlamento come rappresentante della grande Contea di Lanark, lʼinterruppe dicendo: «Se la coscienza è una parola vuota di senso, la cambieremo con altra frase, che spero significhi qualche cosa. Tolgasi dunque via il vocabolo coscienza, e si adotti—le leggi fondamentali di Scozia.» Queste parole fecero nascere una virulenta discussione. Il Generale Drummond, che rappresentava la Contea di Perth, dichiarò di concordare con lʼopinione di Hamilton e di Lockhart. La maggior parte deʼ vescovi ivi presenti furono del medesimo parere.[142] Bene si scorgeva che nè anche nel Comitato degli Articoli Giacomo poteva avere una maggioranza. Tali nuove lo afflissero e lo irritarono. Parlò in tono dʼira e di minaccia, e punì alcuni deʼ suoi sediziosi ministri, sperando che ciò agli altri servisse dʼammonimento. Parecchi furono cacciati di Consiglio; altri privati delle pensioni, che erano molta parte delle loro entrate. Sir Giorgio Mackenzie di Rosehaugh fu la più cospicua di quelle vittime. Aveva lungamente occupato lʼufficio di Lord Avvocato, ed aveva avuta tanta parte nella persecuzione deʼ Convenzionisti, che fino ai dì nostri presso lʼaustero e religioso contadiname di Scozia serba una odiosa rinomanza, quasi simile a quella di Claverhouse. Mackenzie non aveva profondi studii giuridici; ma come ingegno dotto, spiritoso e fecondo, era altamente riputato fraʼ suoi concittadini; e la sua rinomanza si era sparsa per tutte le botteghe di Città in Londra e pei chiostri di Oxford. Quel che ci rimane delle sue orazioni forensi, lo fa estimare uomo fornito di egregie doti intellettuali; se non che il suo stile è imbrattato di quelle chʼegli certamente considerava come grazie ciceroniane: cioè di esclamazioni, che mostrano più arte che passione, e di amplificazioni studiate, in cui gli epiteti sono, lʼuno sopra lʼaltro, accumulati in pesantissimo modo. Adesso, per la prima volta, aveva manifestati scrupoli; e però, nonostante tutti i suoi diritti alla gratitudine del Governo, fu destituito del suo ufficio. Si ritrasse in campagna, e poco dopo andò a Londra onde scolparsi, ma gli fu negato lʼaccesso alla regia presenza.[143] Intanto che il Re in tal guisa provavasi di atterrire i Lordi degli Articoli, e indurli alla cieca ubbidienza, la pubblica opinione glʼinanimiva a non cedere. Gli estremi sforzi del Cancelliere non poterono far sì, che il sentire della nazione non si manifestasse dal pulpito e dalla stampa. Un libretto scritto con tale audacia ed acrimonia che nessun tipografo volle rischiarsi a stamparlo, girava per tutti i luoghi manoscritto. Le scritture degli avversarii avevano molto minore effetto, quantunque fossero diffuse a spese pubbliche, e gli Scozzesi difensori del Governo fossero soccorsi da un collega inglese di gran fama; voglio dire da Lestrange, che era stato mandato a Edimburgo ed alloggiava in Holyrood House.[144] Alla perfine, dopo tre settimane di continuo discutere, i Lordi degli Articoli vennero ad una risoluzione. Proposero semplicemente, che ai Cattolici Romani fosse permesso di adorare Dio nelle case private, senza incorrere nelle pene comminate dalle leggi; e tosto si conobbe, che quantunque tale provvisione fosse assai lontana dalle richieste e speranze del Re, gli Stati o non lʼavrebbero approvata affatto, o lʼavrebbero approvata con grandi restrizioni e modificazioni. Mentre ferveva la contesa, Londra era in grande ansietà. Ogni relazione, ogni rigo giunto da Edimburgo, era avidamente letto. Un giorno spargevasi la voce che Hamilton avesse ceduto, e che il Governo lʼavrebbe vinta in tutto. Un altro arrivava la nuova che la opposizione si fosse rianimata, e si mostrasse più ostinata che mai. Nei momenti più critici, ordinavasi agli ufficii postali di mandare a Whitehall le valigie della Scozia. Per tutta una settimana, nè anche una lettera privata che venisse di là dal Tweed, fu distribuita in Londra. Ai tempi nostri, un simile interrompimento di comunicazione metterebbe sossopra lʼisola intera; ma allora vʼera così poco traffico e carteggio tra lʼInghilterra e la Scozia, che il danno fu probabilmente molto minore di quello che oggidì arrechi un breve indugio nello arrivo della valigia delle Indie. Mentre i mezzi ordinali di sapere le nuove erano in tal modo intercetti, la folla nelle gallerie di Whitehall osservava intentamente il contegno del Re e deʼ suoi ministri. Fu detto, a grande soddisfazione del popolo, che ogni qualvolta giungeva un corriere dal Nord, glʼinimici della religione protestante avevano aspetti sempre più tristi. Finalmente, con universale esultanza, fu annunziato che la lotta era terminata, il Governo non aveva potuto fare adottare le proposte misure, e il Lord Alto Commissario aveva aggiornato il Parlamento.[145] LXVII. Se Giacomo non fosse stato sordo ad ogni ammonimento, questi fatti sarebbero bastati ad ammonirlo. Pochi mesi avanti, il più ossequioso deʼ Parlamenti Inglesi aveva ricusato di cedere ai voleri di lui. Ma il più ossequioso deʼ Parlamenti Inglesi poteva considerarsi come unʼassemblea animosa e indipendente in agguaglio di qualunque Parlamento che fosse mai stato in Iscozia; e lo spirito servile deʼ Parlamenti Scozzesi, era da trovarsi in altissimo grado estratto, dirò così, e condensato neʼ Lordi degli Articoli. Ed anche costoro sʼerano mostrati disubbidienti. Era, dunque, chiaro che tutte le classi, tutte le istituzioni che fino a quellʼanno erano state considerate come i più forti puntelli della monarchia, persistendo il Re nella sua insana politica, fossero da reputarsi come parte della forza dellʼopposizione. Nulladimanco, tutti cotesti segni gli tornavano inutili. Ad ogni querela egli dava una sola e medesima risposta; cioè che non cederebbe mai, perocchè le concessioni erano state la rovina di suo padre; e alla sua invincibile fermezza facevano plauso la Legazione Francese e la cabala gesuitica. Quindi dichiarò dʼessere stato troppo generoso allorchè sʼindusse a richiedere che gli Stati Scozzesi assentissero ai suoi desiderii. La regia prerogativa gli dava potestà di proteggere gli amici e di punire gli oppositori suoi. Fidavasi che in Iscozia la sua potestà di dispensare non gli verrebbe contrastata da nessuna corte di legge. Ivi esisteva un Atto di Supremazia, il quale dava al Sovrano tale un predominio sopra la Chiesa, che avrebbe potuto satisfare anco Enrico VIII. E però i Papisti furono ammessi in folla agli ufficii ed agli onori. Il vescovo di Dunkeld, che come Lord del Parlamento aveva fatta opposizione al Governo, fu arbitrariamente cacciato dalla sua sede, e gli fu dato un successore. Queensberry fu destituito da tutti i suoi impieghi, ed ebbe ordine di rimanere in Edimburgo, finchè fossero ricerchi ed approvati i conti del Tesoro per tutto il tempo della sua amministrazione.[146] E perchè i rappresentanti delle città erano stati i più sediziosi del Parlamento, fu deliberato di modificare ogni borgo in tutto il Regno. Simile cangiamento era stato poco innanzi fatto in Inghilterra per mezzo di sentenze giudiciarie; ma in quanto alla Scozia, un semplice mandato del Principe reputavasi sufficiente. Furono inibite tutte le elezioni deʼ Magistrati e Consigli municipali; e il Re assunse il diritto di nominare da sè glʼindividui a quegli ufficii.[147] In una lettera formale al Consiglio Privato annunziò che intendeva di erigere una Cappella Cattolica Romana nel palazzo di Holyrood; e comandò che i Giudici considerassero come nulle tutte le leggi contro i papisti, a pena dʼincorrere nella sua disgrazia. Confortò nondimeno i Protestanti Episcopali, assicurando loro che comunque egli fosse deliberato di proteggere la Chiesa Cattolica Romana contro loro, era egualmente deliberato a protegger loro contro ogni usurpazione dalla parte deʼ fanatici. A cotesta lettera Perth propose una risposta, espressa con servilissime parole. Il Consiglio comprendeva molti papisti; e i membri protestanti che continuavano a sedervi, erano intimiditi dalla ostinazione e severità del Re; ed osavano appena sommessamente mormorare. Hamilton profferì alcune parole contro la potestà di dispensare, ma affrettossi a palliarle spiegandole. Lockhart disse, che avrebbe amato meglio perdere il capo, anzi che apporre la sua firma ad una lettera quale era quella composta dal Cancelliere; ma ebbe destrezza di dire tali cose così piano, che fu udito dai soli amici. Le parole di Perth furono approvate con frivolissime modificazioni; gli ordini del Re furono eseguiti; ma un cupo scontento si diffuse in tutta quella minoranza della nazione scozzese, con lʼaiuto della quale il Governo fino allora aveva tenuto in freno la maggioranza.[148] LXVIII. Allorquando lo storico di questo perturbato regno rivolge lo sguardo alla Irlanda, lʼopera sua diventa singolarmente difficile e delicata. Ei procede—per usare la squisita immagine adoperata in simigliante occasione da un poeta latino—sopra un fuoco dʼingannatrici ceneri coperto. Il secolo decimosettimo, in quello sventurato paese, ha lasciato al decimonono un fatale retaggio di maligne passioni. Nessun a delle due razze ha perdonato di cuore i vicendevoli torti recati dai Sassoni difensori di Londonderry, e dai Celti difensori di Limerick. Fino ai dì nostri, una più che spartana alterigia deturpa le molte insigni qualità che caratterizzano i figli deʼ vincitori; mentre un sentimento da Iloti, misto dʼodio e di paura, si manifesta troppo spesso neʼ figli deʼ vinti. Nessuna delle caste avverse può equamente andare assoluta dal biasimo; ma il maggior biasimo tocca a quellʼinsensato e testardo principe, il quale, posto in condizioni di poterle riconciliare, adoperò tutta la sua possa a soffiare nel fuoco della nimistà loro, e in fine le costrinse ad affrontarsi e pugnare per la vita e la morte. LXIX. Gli aggravi che i membri della sua Chiesa sostenevano in Irlanda, differivano grandemente da quelli chʼegli tentava di far cessare in Inghilterra e in Iscozia. Il Libro degli Statuti Irlandesi, poscia deturpato da una intolleranza barbara quanto quella deʼ tempi barbarici, allora conteneva appena un solo Atto, e non molto rigoroso, che imponesse penalità ai papisti, considerati come tali. Al di qua del Canale di San Giorgio, ciascun prete che avesse ricevuto un neofito nel grembo della Chiesa di Roma, era soggetto ad essere appeso alle forche e squartato. Al di là del Canale non correva simile pericolo. Un Gesuita che approdasse a Dover, metteva a repentaglio la vita, mentre poteva in sicurtà passeggiare per le vie di Dublino. Tra noi, niuno poteva occupare un ufficio, o anche procacciarsi da vivere come avvocato o maestro di scuola, senza avere solennemente prestato il giuramento di supremazia; ma in Irlanda un pubblico funzionario non era tenuto a prestare tale giuramento, se non quando gli veniva formalmente imposto.[149] La qual cosa non escludeva daglʼimpieghi niuno che il Governo avesse voluto promuovere. La prova sacramentale e la dichiarazione contro la transustanziazione erano ignote; ed ambedue le Camere del Parlamento ammettevano nel proprio seno glʼindividui di qualunque setta religiosa si fossero. LXX. Parrebbe, adunque, che lʼIrlandese Cattolico Romano fosse in posizione tale, da essere invidiato daʼ suoi confratelli dʼInghilterra e di Scozia. In fatto, nondimeno, le sue condizioni erano più misere ed ardue delle loro; imperciocchè, quantunque non fosse perseguitato come Cattolico Romano, era oppresso come Irlandese. Nel suo paese, il medesimo confine che partiva le religioni, divideva le razze; ed egli apparteneva alla razza vinta, soggiogata ed avvilita. Nel medesimo suolo stanziavano due popolazioni, localmente mescolate, ma mortalmente e politicamente divise. La differenza di religione non era la sola, e forse nè anche la principale differenza che esistesse tra loro. Discendevano da genti diverse, parlavano diversa lingua. Non solo differivano di carattere, ma lʼuna era opposta allʼaltra, quanto lo possono essere due qualunque altri caratteri di razze diverse in Europa: differivano per grado di civiltà. Tra coteste due popolazioni non poteva essere se non poca simpatia; e secoli di calamità e di danni hanno fatto nascere un forte vicendevole abborrimento. La relazione che la minoranza aveva con la maggioranza, somigliava a quella deʼ commilitoni di Guglielmo il Conquistatore coʼ villani sassoni, o a quella deʼ seguaci di Cortes coglʼIndiani del Messico. Il nome dʼIrlandesi allora davasi esclusivamente ai Celti, e a quelle famiglie, le quali, ancorchè non fossero dʼorigine celtica, avevano nel decorso degli anni adottati i celtici costumi. Queste genti, che erano probabilmente un poʼ meno dʼun milione, aderivano, tranne poche, alla Chiesa di Roma. Fra mezzo a loro risedevano circa dugento mila coloni, alteri del loro sangue sassone e della loro fede protestante.[150] La grande preponderanza del numero da una parte, era più che controbilanciata da una gran superiorità dʼintelligenza, di vigore e dʼordine, dallʼaltra. Sembra che glʼInglesi ivi stabiliti fossero per istruzione, energia e perseveranza più presto sopra che sotto lʼordinario livello della popolazione della madre patria. Allʼincontro, il contadiname aborigeno era in uno stato quasi selvaggio. Non lavoravano, se non quando sentivano il pungolo della fame. Contentavansi dʼabitazioni inferiori a quelle che in paesi più prosperi servivano per i bestiami domestici. Già la patata, radice la quale può essere coltivata quasi senza arte, industria o spesa, e non può lungamente tenersi ammassata in gran quantità, era divenuta lo alimento del popolo comune.[151] Da genti che siffattamente vivevano, non era da aspettarsi diligenza nè preveggenza. Anche a poche miglia da Dublino, il viandante, in un suolo che è il più fertile e verdeggiante che sia nel mondo, vedeva con disgusto le misere capanne, innanzi alle quali i barbari, squallidi e seminudi, stavano attoniti a guardarlo mentre passava.[152] LXXI. Lʼaristocrazia aborigena serbava ancora lʼorgoglio della sua nascita, ma aveva perduto la influenza che deriva dalla ricchezza e dal potere. Le terre deʼ signori erano state da Cromwell partite fraʼ suoi seguaci. Parte, a dir vero, del vasto territorio da lui confiscato, era stato reso, dopo la restaurazione della Casa Stuarda, agli antichi proprietari: ma grandissima parte rimaneva in mano deglʼInglesi, ivi stabiliti sotto la guarentigia di un Atto del Parlamento. Questo atto era rimasto in vigore pel corso di venticinque anni; e per virtù di quello, erano state fatte ipoteche, concessioni, vendite e fitti innumerevoli. Gli antichi gentiluomini irlandesi erano dispersi per tutto il mondo. I discendenti deʼ capitani Milesii brulicavano in tutte le corti e in tutti i campi militari del Continente. Quelli spogliati possidenti che rimanevano tuttavia nella patria loro, ripensavano amaramente alle loro perdite, piangevano la dignità od opulenza di che erano stati privati, e nutrivano le feroci speranze dʼunʼaltra rivoluzione. Un individuo appartenente a cotesto ceto, veniva dipinto daʼ suoi concittadini come un gentiluomo che sarebbe dovizioso ove gli fosse resa giustizia, e che sarebbe provveduto dʼun ricco stato ove potesse riaverlo.[153] Rade volte ei si dava a qualche pacifica occupazione. Reputava il commercio più disonorevole del ladroneccio. Talvolta ei diventava predone; talʼaltra, a dispetto della legge, studiavasi di vivere a spese degli antichi affittuari di sua famiglia, i quali, per quanto tristi fossero le loro condizioni, non potevano ricusare parte del loro alimento ad uno che essi seguitavano a considerare come legittimo signore.[154] Quel gentiluomo che avesse avuta la sorte di serbare o riavere qualcuna delle sue terre, spesso viveva a guisa di principotto dʼuna tribù selvaggia, e delle umiliazioni che la razza dominante gli faceva soffrire, rifacevasi governando dispoticamente i propri vassalli, immerso nelle voluttà dʼun rozzo harem, o abbrutendosi quotidianamente con liquori spiritosi.[155] Politicamente, ei non contava nulla. Egli è vero che non vʼera statuto che lo escludesse dalla Camera deʼ Comuni; ma aveva quasi tanto poca probabilità ad essere eletto membro del Parlamento, quanto negli Stati Uniti ne ha un mulatto ad essere eletto senatore. Difatti, un solo papista, dalla Ristaurazione in poi, era stato eletto al Parlamento Irlandese. Il potere legislativo ed esecutivo era interamente nelle mani dei coloni inglesi; la preponderanza deʼ quali era sostenuta da unʼarmata stanziale di sette mila uomini, del cui zelo per ciò che chiamavasi glʼinteressi inglesi, il Governo di Londra poteva fidarsi.[156] Rigorosamente esaminando la cosa, si conoscerà che nè lʼIrlandismo nè lʼInglesismo formavano un corpo perfettamente omogeneo. La distinzione fra glʼIrlandesi di razza celtica, e glʼIrlandesi discendenti dai seguaci di Strongbow e di De Burgh, non era affatto cancellata. I Fitz alcuna volta osavano parlare con dispregio degli Oʼ e dei Mac; e questi talvolta siffatto dispregio ricambiavano con lʼodio. Nella precedente generazione, uno deʼ più potenti degli Oʼ Neill ricusò di mostrare il più lieve segno di rispetto a un gentiluomo cattolico romano dʼorigine normanda. «Dicesi che la sua famiglia sia rimasta tra noi per quattro cento anni. Non importa. Io odio quel villano come se fosse arrivato ieri.»[157] Nulladimeno, eʼ pare che tali sentimenti fossero rari, e che la lotta la quale da lungo tempo ardeva fra i Celti aborigeni e glʼInglesi degeneri, avesse pressochè ceduto alla lotta più feroce che divideva ambedue le razze dalla colonia moderna e protestante. LXXII. La colonia era anchʼessa lacerata da intestine contese, si nazionali che religiose. Di quei che la componevano, i più erano Inglesi; ma non pochi erano delle contrade meridionali della Scozia. Metà appartenevano alla Chiesa Anglicana; gli altri erano Dissenzienti. Ma in Irlanda lo Scozzese e lʼInglese erano fortemente vincolati dalla comune origine: lʼAnglicano e il Presbiteriano lo erano dal protestantismo comune. Tutti i coloni avevano comuni la lingua e glʼinteressi pecuniarii. Erano circondati da nemici comuni, e potevano vivere sicuri per mezzo di cautele e sforzi comuni. Perle quali cose, le poche leggi penali che erano state fatte in Irlanda contro i Protestanti Non–Conformisti, erano lettera morta.[158] La bacchettoneria dei più ostinati partigiani della Chiesa, non poteva allignare al di là del Canale di San Giorgio. Appena il Cavaliere giungeva in Irlanda e vedeva che senza valido e coraggioso aiuto deʼ suoi compatriotti puritani, egli e tutta la sua famiglia avrebbe corso pericolo dʼessere assassinato daʼ ladroni papisti, lʼodio chʼei sentiva contro il Puritanismo, cominciava, suo malgrado, ad intiepidire e spegnersi. Fu notato da uomini illustri di ambedue i partiti, che un Protestante il quale in Irlanda veniva chiamato Tory, in Inghilterra sarebbe stato tenuto per Whig moderato.[159] I Protestanti Non–Conformisti da parte loro tolleravano, con pazienza maggiore di quanta potesse da loro aspettarsi, la vista del più assurdo ordinamento ecclesiastico che sia mai stato nel mondo. Quattro arcivescovi e diciotto vescovi erano impiegati a reggere circa la quinta parte del numero degli Anglicani che abitavano nella sola diocesi di Londra. Del clero parrocchiale, gran parte erano pluralisti, e risedevano lungi dalle loro cure. Vʼerano alcuni che dai propri beneficii ricavavano poco meno di mille lire sterline di rendita annua, senza mai adempire al loro ufficio spirituale. E non pertanto. questa istituzione mostruosa ai Puritani stabiliti in Irlanda, spiaceva meno che la Chiesa Anglicana ai settari inglesi. Imperocchè in Irlanda le scissure religiose erano subordinate alle nazionali; e il Presbiteriano, mentre come teologo non poteva non condannare la gerarchia stabilita, sentiva per essa una specie di compiacimento, qualvolta la considerava come un sontuoso e pomposo trofeo della vittoria riportata dalla illustre razza da cui discendeva.[160] In tal modo i mali che pativano i Romani Cattolici irlandesi, non avevano nulla di comune con quelli deʼ Cattolici inglesi. Il Cattolico Romano delle Contee di Lancaster o di Stafford altro far non doveva che diventare protestante, e subito trovavasi, per ogni rispetto, nel medesimo livello in cui erano i suoi vicini: ma se i Cattolici Romani di Munster o di Connaught si fossero fatti protestanti, sarebbero sempre rimasti un popolo soggetto. Tutti i danni che il Cattolico Romano avesse potuto patire, in Inghilterra, erano effetto di durissime leggi, e vi si poteva porre rimedio con leggi più liberali. Ma fra le due popolazioni che abitavano in Irlanda, era una ineguaglianza, la quale non essendo cagionata dalle leggi, non poteva per virtù di quelle cessare. Lo impero che lʼuna esercitava sullʼaltra, era quello della opulenza, sopra la povertà, del sapere sopra lʼignoranza, e della cultura sopra la barbarie. LXXIII. E parve che lo stesso Giacomo, in sul principio del suo regno, conoscesse perfettamente le sopra esposte cose. I perturbamenti dellʼIrlanda, diceva egli, nascevano non dalle differenze tra Cattolici e Protestanti, ma da quelle tra Irlandesi ed Inglesi.[161] Le conseguenze che da tali premesse avrebbe dovuto dedurre, erano chiare; ma, sventuratamente, per lui e per lʼIrlanda, ei non seppe conoscerle. Se si fosse potuta mitigare la sola animosità nazionale, non vʼè dubbio che lʼanimosità religiosa, non essendo tenuta desta da crude leggi penali, e da rigorosi Atti di Prova, si sarebbe spenta da sè. Calmare una animosità nazionale simile a quella che vicendevolmente sentivano le due razze abitatrici della Irlanda, non poteva essere opera di pochi anni. Nondimeno, un savio e buon principe vi avrebbe, potuto molto contribuire; e Giacomo lʼavrebbe potuto imprendere con vantaggi che nessuno deʼ suoi predecessori o successori ebbe giammai. Come Inglese e Cattolico Romano, egli apparteneva mezzo alla casta dominatrice e mezzo alla dominata, e però aveva i requisiti necessari a far la parte di mediatore fra esse. Nè riesce difficile indicare la via chʼegli avrebbe dovuto prendere. Avrebbe dovuto dichiarare inviolabile la proprietà territoriale esistente, ed annunziare ciò in modo così efficace da calmare lʼansietà deʼ nuovi possidenti, e da estinguere le sinistre speranze che i vecchi proprietari potessero nutrire. Poco importava chiarirsi se vi fosse ingiustizia nel passaggio deʼ beni da uno ad un altro individuo. Quel passaggio, giusto o ingiusto, era seguito tanti anni innanzi, che rovesciarlo sarebbe stato il medesimo che crollare le fondamenta della società. È dʼuopo che ci sia un limite di tempo ad ogni diritto. Dopo trentacinque anni di non interrotto possesso, dopo venticinque, anni di possesso solennemente guarentito dalle leggi, dopo innumerevoli fitti e cessioni, ipoteche e legati, era troppo tardi porre ad esame la validità deʼ titoli. Nondimeno, qualche cosa si sarebbe potuta fare a guarire, i cuori lacerati e rialzare, le prostrate fortune deʼ gentiluomini irlandesi. I coloni erano in prospere condizioni. Avevano grandemente migliorate le loro terre facendovi su fabbricati, piantagioni e chiuse. In pochi anni la rendita era quasi raddoppiata; il commercio era vivo; e le pubbliche entrate, che ascendevano quasi a trecento mila sterline lʼanno, erano più che bastevoli alle spese del Governo locale, e davano un avanzo che mandavasi in Inghilterra. Non vʼera dubbio alcuno, che il primo Parlamento che si fosse ragunato in Dublino, ancorchè rappresentasse quasi esclusivamente glʼinteressi inglesi, in ricompensa alla promessa che il Re avrebbe fatta di mantenere queglʼinteressi neʼ loro diritti legali, gli avrebbe volentieri concessa una considerevolissima somma onde indennizzare, almeno in parte, le famiglie irlandesi ingiustamente spogliate. In cotesto modo, aʼ tempi nostri, il Governo Francese pose fine ai litigi nati dalla più vasta confisca che sia mai stata in Europa. E in simil modo, se Giacomo avesse seguito il parere deʼ suoi consiglieri protestanti, avrebbe almeno grandemente mitigato uno dei precipui mali che affliggevano lʼIrlanda.[162] Fatto ciò, egli avrebbe dovuto affaticarsi a porre in armonia le razze avverse, proteggendo imparzialmente i diritti e frenando gli eccessi di entrambe. Avrebbe dovuto punire con pari severità lʼindigeno che trascorreva alla licenza della barbarie, e il colono che abusava della forza della civiltà. Fino al punto cui poteva giungere la legittima autorità della Corona—e in Irlanda era molto estesa—niuno che per occupare un ufficio avesse i requisiti dʼintegro e di esperto, avrebbe dovuto esserne escluso a cagione della razza alla quale apparteneva e della religione che professava. È probabile che un Re Cattolico Romano, potendo liberamente disporre dʼuna grossa rendita, avrebbe, senza grave difficoltà, potuto persuadere i prelati e i preti cattolici romani a cooperare con lui nella grande impresa della riconciliazione. Molto, nondimeno, sarebbe rimasto a farsi dalla mano riparatrice del tempo. La razza natia avrebbe dovuto imparare dalla colonia la industria e la preveggenza, le arti del vivere civile, e la lingua dellʼInghilterra. Non poteva essere uguaglianza tra uomini che abitavano dentro case, e uomini che stavansi dentro porcili; tra gli uni che si cibavano di pane, o gli altri che alimentavansi di patate; tra quelli che parlavano la nobile favella di grandi filosofi e poeti, e questi che, con pervertito orgoglio, vantavansi di non potere contorcere la loro bocca a balbettare un gergo nel quale erano scritti gli Augumenti delle Scienze e il Paradiso perduto.[163] Nulladimeno, non è irragionevole il credere che se la moderata politica la quale siamo venuti esponendo, fosse stata fermamente seguita dal Governo, ogni distinzione si sarebbe andata a poco a poco cancellando; e adesso non vi sarebbe vestigio della ostilità che ha formata la sciagura della Irlanda, come non ne esiste della avversione che un tempo regnava tra i Sassoni e i Normanni in Inghilterra. LXXIV. E fu sventura che Giacomo, invece di farsi mediatore, divenisse il più feroce e dissennato uomo di parte. Invece di calmare il rancore delle due popolazioni, lʼinfiammò fino ad un punto non mai prima veduto. Deliberò di invertire la loro posizione relativa, e porre i coloni protestanti sotto i piedi deʼ Celti papisti. Appartenere alla Chiesa Anglicana, essere di razza inglese, era agli occhi suoi un demerito per conseguire gli uffici civili e militari. Meditava il disegno di confiscare nuovamente e partire il suolo di mezza lʼisola; e manifestava così chiaramente tale pensiero, che una classe degli abitatori dellʼIrlanda fu tosto agitata da terrori chʼei poscia invano volle calmare, e lʼaltra da speranze chʼegli poi vanamente si studiò di frenare. Ma questa era piccolissima parte della sua colpa e demenza. Stabilì deliberatamente, non solo di dare agli abitatori aborigeni dellʼisola lʼintero possesso del loro paese, ma di giovarsene anche come strumenti per istabilire la tirannide in Inghilterra. Lʼesito di questo divisamento fu quale era da prevedersi. I coloni si posero in sulle difese, con la invincibile pertinacia della loro razza. La madre patria considerava come sua propria la causa loro. Allora seguì una lotta disperata per una terribile partita di giuoco, sulla quale ambe le parti posero ogni cosa più caramente diletta: nè possiamo giustamente biasimare lʼIrlandese o lʼInglese per avere, in tanta estremità, ubbidito alla legge della propria difesa. Il conflitto fu tremendo, ma breve. Il più debole cedette. La sua sorte fu crudele; e nondimeno la crudeltà onde fu trattato, era degna, non di difesa, ma di scusa; imperocchè, quantunque egli avesse sofferto tutto ciò che la tirannia possa infliggere, non patì più di quanto egli stesso avesse inflitto altrui. Lo effetto dellʼinsano attentato di soggiogare la Inghilterra per mezzo della Irlanda, fu che glʼIrlandesi divennero servitori deglʼInglesi. Gli antichi possidenti sforzandosi di ricuperare ciò che avevano perduto, perderono la maggior parte di ciò che era loro rimasto. Il breve predominio del papismo produsse poi tal numero di leggi barbare contro il papismo, che il libro statutario dʼIrlanda è passato in proverbio dʼinfamia per tutta la Cristianità. Tali furono gli amari frutti della politica di Giacomo. Abbiamo già veduto che uno deʼ primi suoi atti, dopo che ascese al trono, fu quello di richiamare Ormond dalla Irlanda. Ormond in quel Regno era considerato come capo deglʼinteressi inglesi; aderiva fermamente alla religione protestante; e il suo potere eccedeva dʼassai quello di un ordinario Lord Luogotenente, prima perchè per grado ed opulenza era il più grande fraʼ coloni, e poi perchè non solo era capo dellʼamministrazione civile, ma anco comandante delle forze. Il Re, in quel tempo, non voleva affidare interamente ad un Irlandese il Governo. Vero è chʼegli avea detto che un vicerè nativo dellʼisola, sarebbe presto diventato sovrano indipendente.[164] Per allora, quindi, ei pensò di partire il potere di che Ormond era rivestito, dando lʼamministrazione civile ad un Lord Luogotenente inglese e protestante, e il comando delle armi ad un Irlandese Cattolico Romano. Lord Luogotenente fu fatto Clarendon; Comandante dello esercito Tyrconnel. Tyrconnel discendeva, secondo che sopra abbiamo detto, da una di quelle degeneri famiglie di Pale, che comunemente erano annoverate fra la popolazione primigenia dʼ Irlanda. Talvolta chiacchierando parlava con albagia normanna dei barbari Celti,[165] ma in fatto parteggiava per i naturali dellʼisola. Odiava i coloni protestanti, i quali lo rimeritavano di pari abborrimento. Clarendon sentiva assai diversamente; ma per indole, interesse e principii, era un ossequioso cortigiano. Aveva animo basso; trovavasi in circostanze impacciate; ed aveva la mente profondamente imbevuta delle dottrine che la Chiesa Anglicana aveva a quei tempi con tanta assiduità propagate. Nondimeno, era fornito di doti non ispregevoli; e sotto un buon Re, forse sarebbe stato un rispettabile vicerè. LXXV. Circa nove mesi erano scorsi dal richiamo dʼOrmond allo arrivo di Clarendon in Dublino. In quellʼintervallo di tempo, il Re era rappresentato da un Consiglio di Lordi Giudici; ma lʼ amministrazione militare era nelle mani di Tyrconnel. Già i disegni della Corte cominciavano a svolgersi. Un ordine reale giunse da Whitehall per disarmare la popolazione. Tale ordine fu rigorosamente eseguito da Tyrconnel, rispetto aglʼInglesi. Benchè le campagne fossero infestate da bande di ladroni, un gentiluomo protestante appena poteva impetrare licenza di tenere un paio di pistole. Al contadiname del paese, dallʼaltra parte, fu concesso di tenere le armi.[166] La esultanza deʼ coloni perciò fu grande; allorchè, finalmente, nel dicembre del 1685, Tyrconnel fu chiamato a Londra, e Clarendon spedito a Dublino. Ma tosto si conobbe che la direzione del Governo Irlandese era di fatto in Londra, non in Dublino. Ogni corriere postale che giungeva dal Canale di San Giorgio, recava nuove della infinita influenza che Tyrconnel esercitava nelle cose irlandesi. Dicevasi che sarebbe fatto Marchese, Duca, comandante delle armi; che gli sarebbe affidata la impresa di riordinare lʼarmata e le Corti di Giustizia.[167] LXXVI. Clarendon rimase amaramente mortificato al trovarsi come un membro subordinato in quella amministrazione, della quale egli aveva creduto dʼessere il capo. Lamentavasi che qualunque cosa egli facesse, fosse male rappresentata daʼ suoi detrattori: e che i più gravi provvedimenti intorno al paese da lui governato, erano fatti in Westminster, resi noti al pubblico, discussi nelle botteghe di Caffè, scritti in migliaia di lettere private, vari giorni prima che ne fosse dato avviso al Lord Luogotenente. Poco importargli, diceva, la sua dignità personale; ma non esser cosa lieve, che il rappresentante della maestà del trono fosse reso zimbello al pubblico disprezzo.[168] La paura rapidamente si diffuse fra glʼInglesi appena conobbero che il vicerè, loro concittadino e protestante, non poteva proteggerli secondo che avevano sperato. Cominciarono a fare amaro esperimento di ciò che importi essere una casta soggetta. Erano molestati daglʼindigeni con accuse di crimenlese e di sedizione. Questo protestante aveva carteggiato con Monmouth; quellʼaltro aveva con poco rispetto favellato del Re quattro o cinque anni innanzi, mentre si discuteva la Legge dʼEsclusione; e la testimonianza del più infame degli uomini serviva a provare la colpa. Il Lord Luogotenente riferì, che temeva, ove non si fosse posto fine a siffatto modo dʼagire, in Dublino tra breve sarebbe stato il regno del terrore simile a quello che sʼera veduto in Londra, allorchè lʼonore e la vita deʼ cittadini erano nelle mani di Oates e di Bedloe.[169] A Clarendon fu, dopo poco tempo, annunziato, in un conciso dispaccio di Sunderland, il principe avere deliberato di fare senza indugio un pieno cangiamento nel Governo civile e militare dellʼIrlanda, e di porre negli uffici un gran numero di Cattolici Romani; e si aggiungeva, con pochissima grazia, che la Maestà Sua aveva in tali cose chiesto consiglio a uomini più competenti del suo inesperto Lord Luogotenente.[170] Avanti che cotesta lettera fosse pervenuta al vicerè, la nuova di ciò che vi si conteneva era per vari mezzi arrivata in Irlanda. Il terrore deʼ coloni fu immenso. Essendo inferiori di numero alla popolazione indigena, la loro condizione sarebbe stata tristissima se la popolazione indigena si fosse armata contro loro di tutti i poteri dello Stato: e tale, nientemeno, era la minaccia. Gli Inglesi abitanti di Dublino passava lʼuno accanto allʼaltro per le vie con afflitto sembiante. Nella Borsa i negozi erano sospesi. I possidenti affrettavansi a vendere a qualunque prezzo le loro terre, e mandare in Inghilterra le somme ricavate. I trafficanti cominciavano ad assestare i loro conti, ed apparecchiavansi a ritirarsi dai commerci. Lo effetto della paura tosto si risentì nella pubblica rendita.[171] Clarendon tentò dʼispirare agli impauriti quella fiducia chʼei non aveva in cuore. Assicurò loro, che la proprietà sarebbe stata considerata come sacra; e disse di sapere di certa scienza, che il Re era determinato di mantenere lʼAtto, così chiamato, di Stabilimento, che guarentiva i loro diritti sulle terre. Ma al Governo in Inghilterra egli scriveva in tono diverso. Rischiossi per fino a querelarsi del Re, e senza biasimare lo intendimento che Sua Maestà aveva dʼimpiegare i Cattolici Romani, suggerì con vigorose parole, che i Cattolici Romani destinati agli impieghi fossero inglesi.[172] La risposta di Giacomo fu secca e fredda. Dichiarò, come egli non intendesse privare i coloni inglesi delle terre loro, ma molti di loro ei teneva suoi nemici; e dacchè consentiva di lasciare tutta lʼopulenza nelle mani deglʼinimici, era maggiormente necessario che lʼamministrazione civile e militare fosse posta in quelle degli amici suoi.[173] Per le quali cose, vari Cattolici Romani furono chiamati al Consiglio Privato; e spedironsi ordini ai municipii perchè ammettessero i Cattolici Romani ai privilegi municipali.[174] A molti ufficiali dellʼesercito fu arbitrariamente tolto e grado e pane. Invano il Lord Luogotenente patrocinò la causa di parecchi, che egli sapeva essere buoni soldati e leali sudditi. Fra costoro erano vecchi Cavalieri, che avevano strenuamente pugnato per la monarchia, e che portavano onorate cicatrici. Neʼ loro posti furono messi uomini i quali altro merito non avevano che la loro religione. Dicevasi che deʼ nuovi capitani e luogotenenti alcuni erano stati bifolchi, altri servitori, altri anche predoni; taluni erano così assuefatti a portare scarponi, che inciampavano e procedevano stranamente impacciati neʼ loro stivali da soldati. Non pochi degli ufficiali destituiti arruolaronsi nellʼesercito olandese, e quattro anni dopo provarono il diletto di sconfiggere ignominiosamente i loro successori, e cacciarli oltre le acque del Boyne.[175] Lʼangoscia e il timore di Clarendon si accrebbero ad una nuova che gli giunse per vie private. Senza la sua approvazione, senza nè anche fargliene saper nulla, facevansi apparecchi per armare e disciplinare tutta la popolazione celtica dellʼisola di cui egli era governatore di solo nome. Tyrconnel da Londra dirigeva le cose; e i prelati cattolici erano suoi agenti. Ciascun prete era stato richiesto di compilare una lista di tutti i suoi parrocchiani maschi, atti alle armi, e mandarla al suo Vescovo.[176] LXVII. Già correva voce che Tyrconnel sarebbe tra breve ritornato a Dublino, investito di poteri straordinari e indipendenti; e la voce ogni giorno maggiormente spandevasi. Il Lord Luogotenente, che per nessuno insulto al mondo sapeva indursi a rinunziare alla pompa e agli emolumenti del suo ufficio, dichiarò che avrebbe piegata la fronte dinanzi al volere del Re, e si sarebbe mostrato in ogni cosa suddito obbediente e fedele. Disse di non avere mai in vita sua avuto il minimo litigio con Tyrconnel, ed era sicuro che nè anche adesso nascerebbe differenza tra loro.[177] Eʼ pare che Clarendon non si rammentasse della congiura fatta a rovinare la fama della sua innocente sorella, della quale congiura Tyrconnel era stato precipuo macchinatore. Simigliante ingiuria non è tale che un uomo dʼalto animo possa agevolmente perdonare. Ma nella malvagia corte nella quale gli Hydes si erano tanto tempo affaccendati a farsi lo stato, simiglianti ingiurie venivano di leggeri perdonate e poste in oblio, non mai per magnanimità di carità cristiana, ma per semplice abiettezza e difetto di senso morale. Nel giugno 1686, Tyrconnel giunse in Irlanda. Il regio mandato lʼautorizzava solamente a comandare le truppe; ma aveva istruzioni concernenti tutte le parti dellʼamministrazione, e a un tratto si recò in mano il Governo effettivo dellʼisola. Il di dopo il suo arrivo, esplicitamente dichiarò, che gli uffici dovevano largamente darsi ai Cattolici Romani, e che per ciò era dʼuopo mandar via i Protestanti. Si dètte con pertinacia ed ardore a riordinare lʼarmata. E davvero chʼera questa lʼunica delle funzioni di comandante supremo chʼegli potesse adempire: poichè, quantunque fosse coraggioso nelle risse e neʼ duelli, non conosceva punto lʼarte militare. Alla prima rassegna chʼegli fece, coloro i quali gli stavano da presso poterono chiaramente accorgersi che egli non sapeva guidare un reggimento.[178] LXXVIII. Cacciare dallʼarmata glʼInglesi e porvi glʼIrlandesi, era, secondo la sua opinione, il principio e il fine dellʼamministrazione della guerra. Ebbe lʼinsolenza di cassare il capitano delle Guardie del Corpo del Lord Luogotenente; nè Clarendon seppe di ciò chʼera seguito, se non quando vide un Cattolico Romano, il cui volto gli giungeva nuovo, scortare il suo cocchio di gala.[179] Il cangiamento non si limitò ai soli ufficiali. Le file furono pienamente disfatte e rifatte. Quattro o cinquecento soldati furono reietti da un solo reggimento, principalmente sotto pretesto dʼessere di statura inferiore a quella richiesta dalla legge. Nulladimeno, anche lʼocchio più inesperto conobbe a un tratto che essi erano più atti e meglio formati deʼ loro successori, il cui aspetto selvaggio e squallido disgustava i riguardanti.[180] Ai nuovi ufficiali fu ingiunto di non arruolare nessun soldato protestante. I reclutatori, invece di battere i loro tamburi per raccogliere volontari nelle fiere e nei mercati, secondo lʼantica usanza, recavansi ai luoghi aʼ quali i Cattolici Romani solevano andare in devoto pellegrinaggio. In poche settimane, il Generale aveva posto nello esercito più di due mila reclute indigene; e chi gli stava dappresso, con sicurtà affermava che pel dì di Natale in tutta lʼarmata non sarebbe rimasto nè anche un soldato di razza inglese.[181] In tutte le questioni che sorgessero nel Consiglio Privato, Tyrconnel mostravasi similmente violento e parziale. Giovanni Keating, Capo giudice deʼ Piati Comuni, uomo insigne per abilità, integrità e lealtà, espose con modi assai miti, che tutto ciò che il Generale potesse ragionevolmente chiedere per la sua propria Chiesa, era la perfetta uguaglianza. Disse, il Re aver voluto manifestamente intendere, che nessun uomo meritevole della fiducia pubblica dovesse essere escluso perchè Cattolico Romano, e nessuno immeritevole della pubblica fiducia dovesse essere ammesso perchè Protestante. Tyrconnel subito cominciò a vomitare imprecazioni e bestemmie. «Io non so che rispondere a ciò; ma devono essere tutti Cattolici Romani.»[182] I più assennati Irlandesi aderenti alla Religione Cattolica rimasero atterriti alla demenza di lui, e provaronsi di rimproverarlo; ma li cacciò via imprecando.[183] La sua brutalità trascorreva tantʼoltre, che molti lo credevano ammattito. Eppure, era meno strana della svergognata volubilità con che gli uscivano di bocca le bugie. Lungo tempo prima aveva acquistato il soprannome di _Lying Dick Talbot_ (il bugiardo Guglielmo Talbot); e a Whitehall ogni strana finzione veniva chiamata una delle verità di Dick Talbot. Adesso giornalmente mostrava dʼessere ben meritevole di cotesta non invidiabile riputazione. E davvero in lui il mentire era una infermità. Dopo dʼaver dato ordini di destituire gli ufficiali inglesi, era capace di condurli nelle sue segrete stanze, e assicurarli della fiducia ed amicizia che sentiva per loro, dicendo: «Dio mi confonda, mi sperda, mi fulmini sʼio non avrò a cuore i vostri interessi.» Talvolta coloro ai quali aveva fatto simili giuramenti, sapevano, innanzi ohe il giorno si chiudesse, dʼessere stati destituiti.[184] LIX. Al suo arrivo, quantunque bestemmiasse oscenamente contro lʼAtto di Stabilimento, e chiamasse glʼinteressi inglesi cosa iniqua, cosa scellerata, cosa maledetta, simulò nondimeno dʼesser convinto che la distribuzione delle proprietà, non si poteva, dopo si lungo corso dʼanni, alterare.[185] Ma giorni dopo, cangiò linguaggio. In Consiglio si mise a declamare con veemenza intorno alla necessità di renderò le terre agli antichi padroni. Ma non aveva per anche ottenuto lʼassenso del Re a codesto fatale disegno. Nella mente di Giacomo, il sentimento nazionale tenzonava ancora debolmente contro la superstizione. Egli era uomo inglese; era Re inglese; e non poteva, senza tristi presentimenti, acconsentire alla destruzione della maggior colonia che lʼInghilterra avesse mai fondata. Glʼinglesi Cattolici Romani, ai quali aveva costume di chiedere consiglio, furono di quasi unanime opinione a favore dellʼAtto di Stabilimento. Non solo lʼonesto e moderato Powis, ma il dissoluto e testardo Dover, porsero savi e patriottici consigli. Tyrconnel mal poteva sperare di frustrare da lungi lo effetto che tali ammonimenti producevano nella mente del Re. Deliberò, quindi, di difendere in persona la causa della sua casta; e però, verso la fine dʼAgosto, partì per lʼInghilterra. LXXX. Si la presenza che lʼassenza di lui erano egualmente cagione di timore al Lord Luogotenente. Gli era veramente doloroso vedersi ogni giorno umiliato dal suo nemico; ma non eragli di minor dolore il sapere che il suo nemico ogni giorno susurrava calunnie e pessimi consigli alle orecchie del Principe. Clarendon era tormentato da molte e diverse vessazioni. In una sua gita nellʼinterno dellʼisola, sʼera veduto trattare con disprezzo dalla popolazione irlandese. I preti cattolici romani esortavano le loro congregazioni a non fargli nessun atto di riverenza. I gentiluomini indigeni invece di andare a complirlo, rimanevano nelle proprie case. Il contadiname indigeno da per tutto cantava canzoni in lingua ersa in lode di Tyrconnel, il quale tra breve sarebbe riapparso ad umiliare pienamente i loro oppressori.[186] Il vicerè era appena ritornato a Dublino dalla sua poco soddisfacente gita, allorquando gli giunsero lettere che gli annunciavano il Re essere seriamente sdegnato contro di lui. La Maestà sua—dicevano tali lettere—aspettarsi che i suoi ministri non solo adempissero i suoi comandamenti, ma gli adempissero di cuore e con esultanza. Esser vero che il Lord Luogotenente non aveva ricusato di cooperare alla riforma dellʼarmata e dellʼamministrazione civile, ma averlo fatto con ripugnanza e con negligenza: il suo aspetto avere tradito il sentimento dellʼanimo: tutti essersi accorti comʼegli disapprovasse la politica che gli era stato commesso di recare ad effetto.[187] Immerso in amarissima angoscia, scrisse lettere onde difendersi; ma gli fu bruscamente annunziato, la sua difesa non essere soddisfacente. Allora, con abiettissime parole, dichiarò che non avrebbe tentato di giustificarsi; si sarebbe sobbarcato riverente alla sentenza, qualunque si fosse, del principe; si sarebbe prostrato nella polvere onde implorare perdono, dacchè egli sincerissimamente pentivasi, e riputava glorioso il morire pel suo sovrano: ma gli era impossibile di vivere percosso dallʼira di lui. Tali parole non movevano da sola ipocrisia dʼinteresse, ma, almeno in parte, da animo prettamente servile e meschino; avvegnachè, nelle lettere di confidenza non destinate ad andare sotto gli occhi del Re, Clarendon si spassionasse nel medesimo tono lamentevole con la propria famiglia: sè essere degno di pietà, sè ruinato, sè non aver forza da sostenere la collera del Re, sè non curare punto la vita ove non vi fosse mezzo a placare lʼira dellʼadorato principe.[188] Il misero si sentì accrescere in cuore lo spavento, come seppe essersi già deliberato in Whitehall di richiamare lui, e fargli succedere il suo rivale e calunniatore Tyrconnel.[189] E in tanto, per alcun tempo lʼavvenire parve rischiararsi; il Re era di buon umore; e per pochi giorni Clarendon sʼilluse credendo che la intercessione del fratello fosse prevalsa, e la tempesta abbonacciata.[190] LXXXI. La tempesta, invece, era appena incominciata. Mentre Clarendon studiavasi di appoggiarsi a Rochester, Rochester non bastava a sostenere sè stesso. Come in Irlanda il fratello maggiore, quantunque avesse le Guardie dʼonore, la spada dello Stato e il titolo dʼEccellenza, era sottoposto di fatto al Comandante delle armi; così in Inghilterra il fratello minore, quantunque ritenesse il bastone bianco e la precedenza, in grazia del suo alto ufficio, sopra i grandi nobili ereditari, andava diventando un semplice impiegato nelle finanze. Il Parlamento fu nuovamente prorogato a un tempo lontano, contro i noti desiderii del Tesoriere. Nè anche gli fu detto che doveva esservi unʼaltra proroga, ma ei ne lesse la nuova nella Gazzetta. La effettiva direzione degli affari era passata nelle mani della cabala, che il venerdì pranzava a casa di Sunderland. Il Gabinetto si ragunava solo per udire la lettura deʼ dispacci giunti dalle Corti straniere; nè tali dispacci contenevano più di quel che si sapesse alla Borsa Reale; imperocchè tutte le legazioni inglesi avevano ricevuto ordini di porre nelle lettere officiali solo i discorsi ordinari delle anticamere, e comunicare privatamente i segreti importanti a Giacomo stesso, a Sunderland o a Petre.[191] E di ciò la vincitrice fazione non era paga. Coloro deʼ quali il Re si fidava, gli dicevano che la ostinatezza con che la nazione avversava i disegni di lui, era veramente da attribuirsi a Rochester. In che guisa avrebbe potuto il popolo credere che il sovrano fosse incrollabilmente risoluto a perseverare nella via nella quale sʼera messo, vedendogli a lato, ostensibilmente primo per possanza e fiducia fra i suoi consiglieri, un uomo che, come tutti sapevano, disapprovava grandemente quella via? Ogni passo che il principe aveva fatto ad umiliare la Chiesa Anglicana, ed esaltare quella di Roma, era stato avversato dal Tesoriere. Era pur vero, che qualvolta aveva sperimentata vana ogni opposizione, egli si era sottomesso di malavoglia; chè anzi aveva cooperato a mandare ad esecuzione quegli stessi progetti chʼegli aveva con estremo calore contrastati. Egli era vero che, quantunque abborrisse la Commissione Ecclesiastica, aveva consentito di essere uno deʼ Commissari. Era anche vero, che mentre dichiarava di non trovare nessuna cagione di biasimo nella condotta del vescovo di Londra, aveva ripugnantemente votato a favore della sentenza che lo cacciò dalla sua sede. Ma ciò non era bastevole. Un principe dedito ad unʼintrapresa così grave ed ardua come quella in cui Giacomo sʼera messo, aveva diritto dʼesigere dal suo primo ministro, non una acquiescenza fatta mal volentieri e senza grazia, ma una zelante e fortissima cooperazione. Mentre con tali consigli la cabala tentava di continuo lʼanimo di Giacomo, gli giungevano per la posta–di–un–soldo molte lettere cieche, ripiene di calunnie contro il Lord Tesoriere. Questo modo dʼaggressione era stato immaginato da Tyrconnel, e concordava perfettamente con ogni azione della sua vita infame.[192] Il Re esitava. Eʼ sembra, a dir vero, che portasse singolare affetto al suo cognato, e per lʼaffinità, e per la lunga dimestichezza, e per molti scambievoli buoni uffici. Pareva probabile che finchè Rochester avesse continuato a sottoporsi, quantunque lento e mormorando, alle voglie del Re, sarebbe rimasto, di nome, primo ministro. Sunderland, quindi, con finissima astuzia suggerì al proprio signore la convenevolezza di chiedere a Rochester lʼunica prova dʼobbedienza; prova che Rochester, senza alcun dubbio, non avrebbe mai data. Per allora—tale era il linguaggio dello scaltro segretario—tornava al Re impossibile consigliarsi col primo deʼ suoi ministri intorno a ciò che gli stava più a cuore. LXXXII. Era doloroso il pensare che i pregiudicii religiosi, in sì grave negozio, dovessero privare il Governo di un tanto aiuto. Forse non era impossibile vincere simiglianti pregiudicii. Allora lo ingannatore bisbigliò sapere che Rochester di recente avesse manifestato qualche dubbio intorno i punti in questione tra i Protestanti e i Cattolici.[193] Ciò fu bastevole perchè il Re prendesse un partito. Cominciò a lusingarsi di potersi sottrarre alla necessità di allontanare da sè un amico, e nel tempo stesso assicurarsi un esperto coadiutore alla grandʼopera chʼera in via di compiere. Fu anche solleticato dalla speranza dʼacquistare il merito e la gloria di avere salvata unʼanima dalla eterna perdizione. Eʼ pare in verità, che intorno questo tempo fosse invaso da un insolito e violento accesso di zelo per la sua religione: la qual cosa è più da notarsi in quanto era pur allora ricaduto, dopo un breve intervallo dʼastinenza, nella dissolutezza; che tutti i teologi cristiani condannano come peccaminosa, e che in un uomo maturo, ed ammogliato ad una giovine e leggiadra donna, anche dai mondani è giudicata riprovevole. Lady Dorchester era ritornata da Dublino, e nuovamente divenuta concubina del Re. Politicamente il suo ritorno non era dʼalcuna importanza. Aveva imparato per propria esperienza, essere stoltezza ogni prova di salvare il suo amante dalla distruzione a cui correva diritto. E però lasciò che i Gesuiti lo guidassero nella condotta politica. Nondimeno, ella era la sola di parecchie donne abbandonate, che a quel tempo dividesse con la Chiesa Cattolica lʼimpero nel cuore di lui.[194] Sembra chʼei pensasse di fare ammenda di aver trascurata la salute dellʼanima propria, dandosi cura delle anime altrui. Si pose, adunque, ad operare con sincera volontà, ma con la volontà dʼun animo aspro, severo ed arbitrario, per la conversione del suo cognato. In ogni udienza accordata al Tesoriere, il tempo era speso ad argomentare intorno allʼautorità della Chiesa ed al culto delle immagini. Rochester aveva fermo in cuore di non abiurare la propria religione; ma non pativa scrupoli a ricorrere, per difendersi, ad artifici disonorevoli al pari di quelli che altri aveva adoperati ad offenderlo. Simulava di parlare come uomo che ondeggi nel dubbio, mostrava desiderio di essere illuminato ove si trovasse nellʼerrore, si faceva prestare libri papisti, ed ascoltava cortesemente i teologi papisti. Ebbe vari colloqui con Leyburn vicario apostolico, con Godden cappellano e limosiniere della Regina vedova, e con Bonaventura Giffard, teologo educato alla polemica nelle scuole di Doaggio. Fu stabilito che vi sarebbe una disputa formale tra cotesti dottori ed alcuni ecclesiastici protestanti. Il Re disse a Rochester, di scegliere qualunque ministro della Chiesa Anglicana, da due soli allʼinfuori. I due esclusi erano Tillotson e Stillingfleet. Tillotson, il più popolare predicatore di queʼ tempi, e per costumi lʼuomo più inoffensivo del mondo, aveva stretta relazione con alcuni dei principali Whig; e Stillingfleet, che avea voce di destro maneggiatore di tutte le armi della controversia, era anche più esoso a Giacomo per avere pubblicata una risposta agli scritti trovati nella cassa forte di Carlo II. Rochester elesse i due regi Cappellani, che per avventura trovavansi di servizio. Uno di loro chiamavasi Simone Patrick, i cui commentari sopra la Bibbia formano ancora parte delle biblioteche teologiche; lʼaltro era Jane, Tory virulento, il quale aveva cooperato a formulare il decreto, con cui la università dʼOxford aveva abbracciate le peggiori follie di Filmer. La conferenza seguì in Whitehall il dì 30 novembre. Rochester, che voleva non si sapesse lui avere consentito a porgere ascolto agli argomenti deʼ preti papisti, si fece promettere secretezza. Non fu presente altro uditore che il Re. La discussione versò intorno alla presenza reale. I teologi cattolici romani assunsero lʼincarico di provarla. Patrik e Jane ragionarono poco; nè era mestieri consumare molte parole, perocchè lo stesso Conte imprese a difendere la dottrina della sua Chiesa; e come soleva succedergli, tosto riscaldato dal conflitto, perdè il proprio contegno, e domandò con gran forza, se era da sperarsi chʼegli si inducesse mai a cangiare religione per argomenti sì frivoli. Poi si rammentò del rischio che egli correva, cominciò nuovamente a dissimulare, lodò i dottori per lʼarte e la dottrina che avevano mostrata nella disputa, e chiese tempo a meditare sopra ciò che avevano detto.[195] Comecchè Giacomo fosse di tardo intendimento, non poteva non accorgersi che il cognato non diceva da senno. Il Re disse a Barillon, che il linguaggio di Rochester non era quello dʼun uomo che sinceramente desideri di giungere al vero. Nondimeno, non amava di proporre al cognato direttamente di eleggere o lʼapostasia o la destituzione: ma tre dì dopo la conferenza, Barillon recossi a visitare il Tesoriere, e con lunga circonlocuzione e molte espressioni dʼamichevole affetto, gli rivelò la spiacevole verità. «Intendete forse» disse Rochester imbrogliato dalle confuse e cerimoniose frasi del ministro francese, «intendete forse che ove io non mi faccia Cattolico, la conseguenza ne sarà che debba perdere il mio posto?»—«Non parlo punto di conseguenze» rispose lo scaltro diplomatico. «Vengo solamente come amico a dirvi chʼio spero che abbiate cura di tenere il vostro posto.»—«Ma certo,» disse Rochester «ciò chiaramente significa che o mi debba fare Cattolico, o andar via.» Gli fece molte dimande onde chiarirsi se Barillon parlasse per ordine del principe, ma non potè ricavarne se non vaghe e misteriose risposte. Infine, simulando una fiducia chʼegli non aveva punto, disse a Barillon che sʼera lasciato ingannare dalle oziose ciarle deʼ maligni, e concluse: «Vi dico che il Re non mi destituirà, e chʼio non rinunzierò mai. Io conosco lui; egli conosce me; e non ho timore di nessuno.» Il Francese rispose essere lieto, essere incantato di sentir ciò; e che lʼunica cagione onde era stato mosso ad intromettersi in cotesta faccenda, era stata la sincera ansietà chʼegli provava per la prosperità e lʼonore del suo egregio amico il Tesoriere. E in tal guisa partironsi, ciascuno illudendosi dʼavere gabbato lʼaltro.[196] Intanto, malgrado le promesse di serbare il secreto, la nuova che il Lord Tesoriere avesse consentito ad essere ammaestrato nelle dottrine del papismo, erasi sparsa per tutta Londra. Patrick e Jane erano stati veduti entrare per quella porta misteriosa che conduceva alle stanze di Chiffinch. Alcuni Cattolici Romani che rigiravano in Corte, avevano indiscretamente o ad arte propalato tutto ciò che sapevano, ed altro ancora. I Tory aderenti alla Chiesa Anglicana, stavano ad aspettare più fondate notizie. Incresceva loro il pensare che il loro capo si fosse mostrato ondeggiante nelle proprie opinioni; ma non sapevano indursi a credere chʼei sarebbe sceso alla abbiettezza dʼun rinnegato. Lo sventurato ministro, straziato a unʼora dalle sue feroci passioni e dai suoi bassi desiderii, molestato dal pubblico biasimo e dalle parole allusive di Barillon, trepidante di perdere la riputazione e lʼufficio, si condusse alle secrete stanze del Re, col proponimento di mantenere lo impiego, ove avesse potuto farlo, abbassandosi ad ogni specie dʼinfamia, tranne una sola. Farebbe sembiante di tentennare nelle sue opinioni religiose, e dʼessere mezzo convertito; prometterebbe di sostenere con ogni sua possa quella politica fino allora da lui oppugnata: ma nel caso che ei si vedesse ridotto agli estremi, ricuserebbe di abbandonare la propria religione. Cominciò, dunque, con dire al Re: lo affare che importava tanto alla Maestà Sua, non sonnacchiare; Jane e Giffard attendere a rovistare libri intorno ai punti controversi fra le due Chiese; ed appena finite le loro lucubrazioni, essere convenevole un altro colloquio. Lamentò quindi amaramente come la città tutta sapesse ciò che avrebbe dovuto tenersi gelosamente nascosto, e come taluni, i quali per la loro posizione potevano supporsi bene informati, riferissero strane cose intorno aglʼintendimenti del principe. «Si vocifera» disse egli «che ove io non faccia siccome la Maestà Vostra vorrebbe, non sarei più oltre tollerato nel mio ufficio.» Il Re rispose con qualche espressione di cortesia, essere malagevole impedire i chiacchiericci del popolo, nè doversi badare alle scempie storielle. Siffatte inconcludenti parole non potevano calmare la perturbata mente del ministro; il quale, anzi, sentendosi violentemente agitato cominciò a supplicare per lo impiego come avrebbe fatto per la propria vita. «La Maestà Vostra vede bene chʼio fo tutto ciò che posso per obbedirvi. E davvero chʼio farò tutto il possibile per obbedirvi in ogni cosa. Vi servirò come vorrete. Anzi farò ogni sforzo per abbracciare la vostra fede; ma non mi si dica, che mentre mi provo di piegare a ciò lʼanimo mio, ove io nol possa, debba perdere ogni cosa. Imperocchè bisogna dire alla Maestà Vostra esservi altri riguardi...»—«Bisogna dirmi! bisogna dirmi!» esclamò il Re con una bestemmia. La minima parola che suonasse onesta e vigorosa, sfuggita fra mezzo a tanto abietto supplicare, bastò a muoverlo ad ira. «Spero» disse il misero Rochester «di non avervi offeso, o Sire. Vostra Maestà certamente non avrebbe fatto buon giudicio di me, qualora non avessi parlato in cotesta guisa.» Il Re ritornò in sè, protestò di non sentirsi offeso, e consigliò il Tesoriere a spregiare le ciarle, e ragionar nuovamente con Jane e Giffard.[197] LXXXIII. Dopo siffatto colloquio, corsero quindici giorni innanzi che gli giungesse il colpo fatale. Rochester spese queʼ quindici giorni a intrigare e supplicare. Studiossi di rendere a sè favorevoli quei Cattolici Romani che maggiormente influivano in Corte. Diceva loro di non potere rinunziare alla propria religione; ma, tranne ciò solo, esser pronto a far tutto quanto potessero desiderare. Soggiungeva che ove egli potesse rimanere in ufficio, avrebbero trovato più utile alla loro causa lui protestante, che qualunque altro della loro religione.[198] Si disse che la moglie di Rochester, la quale giaceva inferma, avesse implorato lʼonore dʼuna visita della molto offesa Regina col fine di muoverla a compassione.[199] Ma gli Hydes scesero invano a tanta abiezione. Petre gli odiava implacabilmente, ed aveva giurata la loro rovina.[200] La sera del diciassette dicembre, il Conte fu chiamato alle stanze del Re. Giacomo era stranamente commosso, e perfino aveva le lacrime sugli occhi. Quello istante, a dir vero, non poteva non isvegliare rimembranze tali da muovere anche un cuor duro. Disse rincrescergli grandemente che il proprio dovere glʼimponesse di sacrificare le sue inclinazioni private. Essere ormai impreteribilmente necessario, che coloro i quali stavano a capo deʼ suoi affari, abbracciassero le opinioni e i sentimenti suoi. Si confessò singolarmente obbligato a Rochester, e aggiunse non essere meritevole del più lieve biasimo il modo onde le finanze erano state da lui amministrate: ma lʼufficio di Lord Tesoriere era di sì grave momento, che, in generale, non era da fidarsi ad una sola persona, e da un Re Cattolico Romano non poteva fidarsi ad un uomo zelante della Chiesa dʼInghilterra. «Pensateci meglio, Milord,» continuò il Re «rileggete gli scritti trovati nella cassa forte di mio fratello. Vi concederò anche qualche altro poʼ di tempo, se così desideriate.» Rochester si accôrse che tutto era finito, e che il miglior partito che gli rimanesse a prendere, era quello di ritirarsi con quanto più danaro e credito gli fosse possibile; e bene vi riuscì. Ottenne una pensione vitalizia di quattro mila lire sterline annue per due vite, suʼ proventi dellʼufficio postale. Aveva accumulato gran copia di pecunia dagli averi deʼ traditori, e serbava la obbligazione scritta di quaranta mila sterline firmata da Grey, e una concessione di tutte le terre che la Corona aveva nei vasti beni di Grey.[201] Niuno era stato mai cacciato dal proprio impiego a condizioni così vantaggiose. Al plauso deʼ sinceri amici della Chiesa Anglicana, Rochester aveva ben poco diritto. Per mantenersi in ufficio, aveva seduto in quel tribunale illegalmente creato con lo scopo di perseguitarla. Per mantenersi in ufficio, aveva disonestamente votato la degradazione deʼ più cospicui ministri di quella, aveva simulato di dubitare della ortodossia, ascoltato con apparenza di docilità i maestri che la chiamavano scismatica ed eretica, e sʼera offerto di secondare i più accaniti nemici cospiranti a distruggerla. La maggior lode che egli potesse meritare, consisteva nello avere aborrito dalla enorme malvagità e vigliaccheria di abiurare pubblicamente, per amore di guadagno, la religione nella quale egli era nato e cresciuto, da lui creduta vera, e per lungo tempo e con ostentazione da lui professata. E nondimeno, la maggior parte degli aderenti alla Chiesa Anglicana, lo esaltavano, quasi fosse stato il più intrepido e puro deʼ martiri. Frugarono dentro il Vecchio e il Nuovo Testamento, dentro i Martirologi dʼEusebio e di Fox, per trovare esempi di paragone alla sua eroica pietà. Ei fu detto Daniele nella caverna deʼ leoni, Shadrach nella fornace ardente, Pietro nella prigione dʼErode, Paolo al tribunale di Nerone, Ignazio nellʼanfiteatro, Latimer nei ceppi. Tra i molti fatti che provano come a queʼ tempi fosse bassa la idea dellʼonore e della virtù negli uomini pubblici, il più convincente è forse lʼammirazione destata dalla costanza di Rochester. LXXXIV. Nella sua caduta trascinò seco Clarendon. Il dì settimo di gennaio 1687, la Gazzetta annunziò al popolo di Londra, che il Tesoro era stato affidato ad una Commissione. Il giorno seguente, giunse a Dublino un dispaccio, in cui formalmente dicevasi che dentro un mese Tyrconnel avrebbe preso le redini del Governo dʼIrlanda. Non senza grande difficoltà costui aveva vinti i numerosi ostacoli che lo impedivano nel cammino dellʼambizione. Sapevasi come egli in cuore nutrisse la voglia di sterminare la colonia inglese in Irlanda. E però gli era necessario di vincere parecchi scrupoli che stavano nellʼanimo del Re. Doveva conquidere la opposizione, non solo deʼ membri protestanti del Governo, non solo deʼ moderati e rispettabili capi deʼ Cattolici Romani, ma altresì di parecchi membri della cabala gesuitica.[202] Sunderland rifuggiva dal pensiero di un rivolgimento religioso, politico e sociale, in Irlanda. Dalla Regina Tyrconnel era personalmente detestato. Per la qual cosa, Powis venne proposto come lʼuomo più atto alla dignità di vicerè. Era di nascita illustre; e comecchè fosse sinceramente Cattolico Romano, veniva daglʼimparziali Protestanti considerato come uomo onesto, e buono Inglese. Non pertanto, ogni opposizione cesse alla energia ed astuzia di Tyrconnel, il quale si mostrò infaticabile a strisciarsi, a bravazzare, a corrompere. Petre fu vinto dallʼadulazione. Sunderland si arrese alle promesse ed alle minacce. Un prezzo immenso,—niente meno che cinque mila lire sterline annue sopra la Irlanda, redimibili col pagamento di cinquanta mila lire sterline,—gli fu offerto. Ove tale proposta fosse respinta, Tyrconnel minacciava di rivelare al Re che il Lord Presidente, neʼ desinari chʼei soleva dare alla cabala tutti i venerdì, aveva dipinto la Maestà Sua come uno imbecille, chʼera forza governare per mezzo dʼuna donna o dʼun prete. Sunderland, pallido e tremante, offrì dʼottenere a Tyrconnel il supremo comando delle milizie, enormi emolumenti, in fine qual si fosse cosa, tranne lʼufficio di vicerè: ma ogni qualunque proposta venne ricusata; e fu mestieri cedere. La stessa Maria di Modena non andò immune della taccia di corruzione. Esisteva in Londra una famosa collana di perle, la quale stimavasi valere dieci mila lire sterline. Apparteneva già al principe Rupert, dal quale era stata lasciata a Margherita Hugues, cortigiana, che verso la fine della vita di lui, lo aveva grandemente dominato. Tyrconnel menava vanto di avere col dono di siffatta collana comperato la protezione della Regina. Furono nondimeno taluni, i quali sospettarono che cotesta asserzione fosse una delle verità di Dick Talbot, e che la non avesse miglior fondamento delle calunnie ventisei anni innanzi da lui inventate a denigrare la fama di Anna Hyde. Ai cortigiani cattolici romani parlò della incertezza onde essi tenevano gli uffici, gli onori e gli emolumenti loro. Disse, il Re poter morire da un giorno allʼaltro, lasciando tutti loro a discrezione di un ostile Governo, e dʼuna plebaglia ostile. Ma se la religione degli avi potesse predominare in Irlanda, se gli interessi inglesi potessero distruggersi, rimarrebbe loro, nel peggiore evento, assicurato un asilo dove riparare, venire a patti, o vantaggiosamente difendersi. Ad un prete papista fu promessa la mitra di Waterford, perchè predicasse in San Giacomo contro lʼAtto di Stabilimento; e il suo sermone, comecchè suscitasse profondo disgusto nel cuore di tutti glʼInglesi che stavano ad ascoltarlo, non andò privo dʼeffetto. Era cessata la lotta che lo amore di patria aveva fino allora nella mente del Re mantenuta contro la bacchettoneria. «Vi sono cose tali da eseguirsi in Irlanda,» disse Giacomo «cose tali, che nessuno Inglese vorrà mai fare.»[203] Alla perfine, tolto di mezzo ogni ostacolo, Tyrconnel, nel febbraio del 1687, cominciò a governare la sua terra natia con la potestà e gli emolumenti di Lord Luogotenente, ma col titolo più modesto di Lord Deputato. LXXXV. Il suo arrivo sparse lo sgomento fra tutta la popolazione inglese. Clarendon fu accompagnato, o sollecitamente seguito a traverso il Canale di San Giorgio, da moltissimi deʼ più illustri abitatori di Dublino, gentiluomini, trafficanti ed artigiani. Si disse che mille e cinquecento famiglie in pochi giorni emigrassero. Nè tanta paura era irragionevole. La impresa di porre tutti i coloni sotto i piedi degli Irlandesi, faceva rapidi progressi. In breve, quasi ogni Consigliere Privato, Giudice, Sceriffo, Gonfaloniere, Aldermanno e Giudice di Pace, fu Celta e Cattolico Romano. Sembrava che le cose presto si volessero disporre in modo, che da una elezione generale sorgerebbe una Camera di Comuni propensa ad abrogare lʼAtto di Stabilimento.[204] Coloro i quali fino allora erano stati signori dellʼisola, adesso lamentavano, nellʼamaritudine dellʼanime loro, dʼessere divenuti preda e ludibrio dei loro propri servi e manuali; le case essere bruciate, e gli armenti rubati impunemente; i nuovi soldati scorrazzare il paese saccheggiando, insultando, stuprando, mutilando qua, facendo colà saltare per aria sopra un lenzuolo un Protestante, legandone un altro pei capelli e flagellandolo; e nulla giovare il richiamarsi alle leggi: i giudici, gli sceriffi, i giurati, i testimoni irlandesi, tutti congiurare a salvare glʼIrlandesi delinquenti; e tra breve tempo, anche senza apposito Atto del Parlamento, tutto il suolo dover cangiare padroni; avvegnachè, governante Tyrconnel, in ogni causa di sfratto, i Giudici avevano sempre sentenziato contro lʼInglese, ed a favore dellʼIrlandese.[205] Mentre Clarendon rimaneva in Dublino, il Sigillo Privato era stato affidato ad una Commissione. I suoi amici speravano che, ritornato a Londra, gli sarebbe tosto reso lʼufficio. Ma il Re e la cabala gesuitica volevano intera la caduta degli Hydes. Lord Arundell di Wardour, Cattolico Romano, ricevè il Sigillo Privato. Bellasyse, Cattolico Romano, fu fatto Primo Lord del Tesoro; e Dover, altro Cattolico Romano, ebbe un posto in quellʼufficio. La nomina di un giuocatore rovinato ad un impiego di tanta fiducia, sarebbe sola bastata a disgustare il pubblico. Il dissoluto Etherege, che allora dimorava in Ratisbona come inviato del Governo inglese, non potè frenarsi dallo esprimere, con un sarcasmo, la speranza che il suo vecchio compagno Dover avrebbe custoditi i danari del Re meglio che i propri. Perchè le finanze non fossero rovinate daʼ papisti privi di capacità ed esperienza, lʼossequioso, diligente e taciturno Godolphin fu nominato Commissario del Tesoro; ma seguitò a rimanere Ciamberlano della Regina.[206] LXXXVI. La destituzione deʼ due fratelli forma una grande epoca nella storia del regno di Giacomo. Da quel tempo apparve manifesto come ciò chʼegli voleva, non fosse la libertà di coscienza peʼ suoi correligionarii, ma la libertà di perseguitare i membri delle altre Chiese. Pretendendo di non volere Atti di Prova, egli ne aveva imposto uno. Pensava che fosse cosa dura, cosa mostruosa, che uomini abili e leali fossero esclusi daʼ pubblici uffici solo perchè erano Cattolici Romani. E nulladimeno, aveva cacciato via un Tesoriere chʼegli teneva leale ed abile, solo perchè era protestante. Corse la voce, essere vicina una proscrizione generale, ed ogni pubblico funzionario dovere eleggere fra la perdita dellʼanima o dellʼimpiego.[207] E chi, a dir vero, avrebbe potuto sperare di mantenersi dopo che gli Hydes erano caduti? Erano cognati del Re, zii e tutori naturali delle sue figliuole; gli erano stati amici fino dagli anni suoi primi, fermi seguaci nellʼavversità e nel pericolo, servi ossequiosi dopo che era asceso sul trono. Loro sola colpa era la religione, e per essa erano stati messi da parte. Ineffabilmente perturbato, ciascuno cominciò a volgere attorno lo sguardo desioso di trovare scampo allʼimminente pericolo; e tosto gli occhi di tutti posaronsi sopra un uomo, il quale da un raro concorso di doti personali e di circostanze fortuite veniva indicato come liberatore. CAPITOLO SETTIMO. SOMMARIO. I. Guglielmo principe dʼOrange. Suo aspetto.—II. Sua vita giovanile.—III. Sue opinioni teologiche.—IV. Sue doti militari.—V. Suo amore deʼ pericoli; sua salute cagionevole; freddezza deʼ suoi modi e forza delle sue emozioni.—VI. Sua amicizia per Bentinck.—VII. Maria Principessa dʼOrange.—VIII. Gilberto Burnet.—IX. Mette dʼaccordo il Principe e la Principessa.—X Relazioni tra Guglielmo e i Partiti inglesi.—XI. Suoi sentimenti verso la Inghilterra, verso lʼOlanda e la Francia.—XII. Coerenza della sua politica.—XIII. Trattato dʼAugusta.—XIV. Guglielmo diviene capo della Opposizione inglese.—XV. Mordaunt propone a Guglielmo di andare in Inghilterra.—XVI. Guglielmo ricusa il consiglio.—XVII. Malumori in Inghilterra dopo la caduta degli Hydes.—XVIII. Conversioni al Papismo; Peterborough; Salisbury.—XIX. Wycherley; Tindal; Haines.—XX. Dryden.—XXI. La Cerva e la Pantera.—XXII. La Corte muta politica verso i Puritani.—XXIII. Concede alla Scozia una certa tolleranza.—XXIV. Tenta con segrete conferenze di corrompere gli avversari.—XXV. Non vi riesce; lʼAmmiraglio Herbert.—XXVI. Dichiarazione dʼIndulgenza.—XXVII. Umori deʼ Protestanti Dissenzienti.—XXVIII. Umori della Chiesa Anglicana.—XXIX. La Corte e la Chiesa si contendono il favore deʼ Puritani.—XXX. Lettera ad un Dissenziente.—XXXI. Condotta dei Dissenzienti—XXXII. Alcuni di loro parteggiano per la Corte; Care; Alsop; Rosewell; Lobb—XXXIII. Penn.—XXXIV. La maggior parte deʼ Puritani si dichiarano avversi alla Corte; Baxter; Howe—XXXV. Bunyan.—XXXVI. Kiffin—XXXVII. Il Principe e la Principessa dʼOrange si mostrano ostili alla Dichiarazione dʼIndulgenza.—XXXVIII. Loro modo di vedere intorno alla difesa deʼ Cattolici Romani In Inghilterra.—XXXIX. Nimistà di Giacomo per Burnet.—XL. Missione di Dykvelt in Inghilterra.—XLI. Negoziati di Dykvelt con gli statisti inglesi; Danby.—XLII. Nottingham.—XLIII. Halifax; Devonshire.—XLIV. Eduardo Russell.—XLV. Compton; Hebert; Churchill.—XLVI. Lady Churchill e la Principessa Anna.—XLVII. Dykvelt ritorna allʼAja, recando lettere di molti uomini cospicui dʼInghilterra.—XLVIII. Missione di Zulestein—XLIX. La inimicizia tra Giacomo e Guglielmo sʼaccresce—L. Influenza della stampa olandese—LI. Carteggio di Stewart e Fagel—LII. Ambasceria di Castelmaine a Roma. I. Il luogo che Guglielmo Enrico, Principe dʼOrange, occupa nella storia dʼInghilterra e in quella del genere umano, è siffattamente grande, da far desiderare che il suo carattere venga con molta diligenza pennelleggiato.[208] Allʼepoca cui richiama la presente narrazione, egli toccava lʼanno trentasettesimo dellʼetà sua. Ma e nel corpo e nella mente sembrava più vecchio di quel che sogliono gli uomini di pari numero dʼanni. E veramente, potrebbe dirsi chʼegli non sia mai stato giovane. I suoi sembianti sono a noi famigliari quasi come lo poterono essere ai suoi capitani e consiglieri. Scultori, pittori, intagliatori, posero ogni arte nel tramandare ai posteri le fattezze di lui; e la sua fisonomia era tale, che, vista una volta, non poteva dimenticarsi mai più. Il suo nome ci sveglia in mente a un tratto la immagine dʼuna figura debole e delicata, con ampia ed elevata fronte, naso ricurvo ed aquilino, occhio sì lucido e acuto da rivaleggiare con quello dellʼaquila, ciglio pensoso e alquanto tristo, bocca ferma ed alquanto sdegnosa, guance pallide, scarne, e profondamente solcate dalla infermità e dalle cure. Un aspetto sì pensoso, severo e solenne, mal si giudicherebbe quello dʼun uomo felice o di buon umore: ma indica manifestamente una capacità pari alle più ardue imprese, e una fortezza che non cede a sciagure e pericoli. II. La natura aveva con profusione conceduto a Guglielmo le doti dʼun gran dominatore; e la educazione le aveva in modo non comune esplicate. Dotato di vigoroso buon senso naturale, di rara forza di volontà, trovossi, appena la sua mente cominciò a concepire, figlio orbato di padre e di madre, capo dʼuna grande ma depressa e disanimata parte, ed erede di vaste e indefinite pretese, le quali destavano paura e avversione nella oligarchia che allora predominava nelle Provincie Unite. Il popolo, che per un secolo sʼera mostrato teneramente affettuoso alla famiglia di Guglielmo, sempre che lo vedeva, a chiari segni indicava di considerarlo come suo legittimo capo. Gli abili ed esperti ministri della Repubblica, implacabili nemici al nome di lui, recavansi quotidianamente a fargli simulati complimenti, e ad osservare i progressi della sua mente. I primi moti della sua ambizione vennero con istudio invigilati: ogni parola che gli uscisse spensieratamente dal labbro, era notata, nè egli aveva da presso alcuno del cui senno potesse fidarsi. Toccava appena il quindicesimo degli anni suoi, allorquando tutti i famigliari che amavano il suo bene, o godevano in alcun modo la sua fiducia, furono dal geloso Governo rimossi dalla sua casa. Indarno ei protestò con energia superiore alla sua età; e taluni videro più volte le lagrime spuntare sugli occhi del giovine prigioniero di Stato. La sua salute, naturalmente delicata, rimase qualche tempo depressa dalle emozioni che la sua trista situazione destavagli in cuore. Simiglianti condizioni traviano e snervano lʼanimo debole, ma nel forte suscitano tutta la vigoria di cui sia capace. Circuito da trame, nelle quali un giovane dʼindole ordinaria sarebbe perito, Guglielmo imparò a procedere cauto e fermo ad un tempo. Assai prima chʼei giungesse alla virilità, sapeva il modo di mantenere un secreto, frustrare lʼaltrui curiosità con secche e caute risposte, nascondere le passioni sotto lʼapparenza di una grave tranquillità. Intanto ei progrediva poco nella educazione letteraria e socievole. I modi deʼ nobili in Olanda difettavano, a quei tempi, di quella grazia che trovavasi in grado perfettissimo neʼ gentiluomini francesi, e che, in grado inferiore, adornava la Corte dʼInghilterra; e i modi di Guglielmo erano prettamente olandesi. Gli stessi suoi concittadini lo reputavano brusco. Ai forestieri spesso ei sembrava grossolano. Nelle sue relazioni colle persone in generale, ci pareva ignorante o non curante di quelle arti che accrescono il pregio dʼun favore, e scemano lʼamarezza dʼun rifiuto. Amava poco le lettere e le scienze. I trovati di Newton e di Leibnizio, i poemi di Dryden e di Boileau gli erano ignoti. Le rappresentazioni drammatiche lo annoiavano; e sia che Oreste vaneggiasse o Tartuffo stringesse la mano dʼElmira, ei volgeva gli occhi dal proscenio per parlare dʼaffari di Stato. Aveva, a dir vero, un certo ingegno pel sarcasmo, e non di rado adoperava, senza saperlo, una certa eloquenza manierata, ma vigorosa ed originale. Nulladimeno, non pretendeva minimamente a mostrarsi ciò che dicesi bello spirito ed oratore. Aveva intera rivolta la mente a quelli studi che formano i valorosi e sagaci uomini di affari. Fino da fanciullo ascoltava con interesse le discussioni concernenti leghe, finanze e guerre. Di geometria sapeva quanto bisogna alla costruzione di un rivellino o di unʼopera a corno. Di lingue, con lʼaiuto dʼuna singolare memoria, imparò tanto da potere intendere e rispondere senza altrui sussidio ad ogni cosa che gli venisse detta, ad ogni lettera che gli fosse scritta. Il suo idioma natio era lʼolandese. Intendeva il latino, lʼitaliano e lo spagnuolo. Parlava e scriveva il francese, lo inglese e il tedesco, inelegantemente, a dir vero, ed inesattamente, ma con facilità e in guisa da farsi intendere. Non vʼerano qualità che potessero essere più proprie ad un uomo destinato ad organizzare grandi alleanze, ed a comandare eserciti, raccolti da diversi paesi. III. Le circostanze lo avevano costretto ad intendere ad una specie di questioni filosofiche, le quali, a quanto sembra, lo interessarono più di quel che fosse da aspettarsi dallʼindole sua. Fraʼ protestanti dellʼisola nostra, erano due grandi partiti religiosi, che quasi esattamente coincidevano coi due grandi partiti politici. I capi della oligarchia municipale erano Arminiani, comunemente dalla moltitudine considerati poco migliori deʼ papisti. I principi dʼOrange erano quasi sempre stati i protettori del Calvinismo, ed andavano debitori di non piccola parte della popolarità loro allo zelo da essi mostrato per le dottrine della elezione e della perseveranza finale; zelo non sempre illuminato dalla scienza o temperato dallʼumanità. Guglielmo, fin da fanciullo, era stato diligentemente erudito nel sistema teologico al quale la sua famiglia aderiva, e prediligevalo con parzialità maggiore di quella che gli uomini generalmente sentono per una fede ereditaria. Aveva meditato intorno ai grandi enimmi chʼerano stati discussi nel Sinodo di Dort, ed aveva trovato nella austera ed inflessibile logica della Scuola Ginevrina qualche cosa che armonizzava con lo intelletto e lʼindole suoi. Certo, egli non imitò mai la intolleranza di cui avevano porto esempio alcuni deʼ suoi antenati. Abborriva da ogni specie di persecuzione: aborrimento chʼegli confessò non solo quando il confessarlo era manifestamente atto politico, ma in parecchi casi in cui sembrava che la simulazione o il silenzio dovessero maggiormente giovargli. Nondimeno le sue opinioni teologiche erano più definite di quelle degli avi suoi. La dottrina della predestinazione egli teneva come pietra angolare della sua religione; e dichiarò più volte, che ove fosse costretto ad abbandonarla, avrebbe con essa perduto ogni fede nella Divina Provvidenza, e sarebbe divenuto un pretto epicureo. Tranne in questo solo caso, fino dai suoi primi anni egli rivolse tutta la vigoria del suo robusto intelletto dalla speculazione alla pratica. I requisiti necessari a condurre importanti affari, in lui erano maturi in unʼepoca della vita, nella quale per la più parte degli uomini appena cominciano a fiorire. Da Ottavio in poi, il mondo non aveva mai veduto altro esempio di precocità nellʼarte di governare. I più esperti diplomatici rimanevano attoniti udendo le osservazioni che a diciassette anni il Principe faceva sugli affari di Stato, ed anche più attoniti vedendo un giovinetto, posto in circostanze tali da farlo apparire passionato, mostrare un contegno composto e imperturbabile al pari del loro. A diciotto anni egli sedeva fraʼ padri della repubblica, grave, discreto e giudizioso, come il più vecchio di loro. A ventun anno, in un giorno di tristezza e di terrore, ei fu posto a capo del Governo. A ventitrè anni godeva per tutta la Europa rinomanza di soldato e dʼuomo politico. Aveva schiacciate le fazioni domestiche; era lʼanima dʼuna potente coalizione, ed aveva pugnato onorevolmente in campo contro alcuni deʼ più grandi generali di quel tempo. IV. Per inclinazione di natura era più guerriero che uomo di Stato; ma, a somiglianza dellʼavo, il tacito Principe che fondò la Repubblica Batava, egli tiene un posto più elevato fra gli uomini di Stato che fraʼ guerrieri. Veramente lʼesito delle battaglie non è prova infallibile dello ingegno dʼun capitano; e sarebbe cosa singolarmente ingiusta giudicare con siffatta prova Guglielmo; imperocchè gli toccò sempre di combattere con capitani, profondi maestri dellʼarte militare, e con milizie per disciplina molto superiori alle sue. Nulladimeno abbiamo ragione di credere che egli non pareggiasse punto, come generale nel campo, alcuni che per doti intellettuali erano a lui molto inferiori. Ai suoi familiari ei ragionava sopra tale subietto con la magnanima franchezza dʼuomo che aveva fatto grandi coso, e che poteva confessare i propri difetti. Diceva di non aver fatto mai il necessario tirocinio dellʼarte militare. Da fanciullo era stato preposto a capo di unʼarmata. Fra i suoi ufficiali non era alcuno che potesse ammaestrarlo. Solo i propri errori e le conseguenze loro gli avevano servito di scuola. «Darei volentieri» esclamò un giorno «buona parte delle mie possessioni pel vantaggio di aver militato in poche campagne sotto il Principe di Condé, prima che avessi comandato un esercito contro lui.» Non è improbabile che lʼostacolo onde Guglielmo fu impedito di conseguire eccellenza nella strategica, contribuisse a rinvigorirgli lo intelletto. Le sue battaglie non lo mostrano un gran tattico, ma gli dànno diritto alla rinomanza di grandʼuomo. Non vʼera disastro che gli potesse far perdere la fermezza o lo impero della propria mente. Rimediava alle proprie sconfitte con celerità talmente maravigliosa, che avanti che glʼinimici cantassero il _Te Deum_, era nuovamente pronto al conflitto; nè lʼavversa fortuna gli fece mai perdere il rispetto e la fiducia deʼ soldati; fiducia e rispetto chʼegli massimamente doveva al proprio coraggio. La più parte degli uomini hanno o con la educazione possono acquistare il coraggio di cui un soldato ha mestieri per condursi senza infamia in una campagna; ma un coraggio simile a quello di Guglielmo, è veramente raro. Egli sostenne ogni prova; guerre, ferite, penose ed opprimenti infermità, fortune di mare, imminente e continuo pericolo dʼessere assassinato; pericolo che ha prostrato uomini di vigorosissima tempra; pericolo che angosciò fortemente il carattere adamantino di Cromwell. Eppure non vi fu occhio che potesse scoprire qual fosse la cosa che il Principe dʼOrange temeva. I suoi consiglieri con difficoltà lo potevano indurre a munirsi contro le pistole e i pugnali deʼ cospiratori.[209] I vecchi marinari maravigliavano vedendo la compostezza chʼegli serbava fra mezzo agli ardui scogli dʼun pericoloso littorale. Nelle battaglie il suo valore lo rendeva cospicuo fra le migliaia di strenui guerrieri, meritavagli il plauso deglʼinimici, e non veniva mai posto in dubbio nè anche dalle avverse fazioni. Nella sua prima campagna si espose al pericolo come uomo che cerchi la morte, fu sempre primo allo assalto ed ultimo alla ritirata, combattè con la spada in pugno dove più ferveva la mischia; e con una palla dʼarchibugio fitta nel braccio e col sangue che gli scorreva giù per la corazza, rimase fermo al suo posto, agitando il cappello sotto il fuoco più vivo. Gli amici lo pregavano di avere più cura della propria vita, che era di inestimabile prezzo alla salute della patria; e il più illustre deʼ suoi antagonisti, il Principe di Condé, notò, dopo la sanguinosa giornata di Seneff, come il Principe dʼOrange in ogni cosa si fosse portato da vecchio generale, tranne nello avere esposto sè stesso al pericolo come un giovine soldato. Guglielmo negò dʼessere reo di temerità, dicendo chʼera sempre rimaso nel posto del pericolo, mosso dal sentimento del proprio dovere e dal pensiero del bene pubblico. Le milizie da lui comandate erano poco assuefatte alla guerra, ed aborrivano da uno stretto scontro colle agguerrite soldatesche di Francia. Era quindi mestieri che il loro capitano mostrasse il modo di vincere le battaglie. E veramente, più dʼuna volta al pericolo dʼuna giornata che pareva disperatamente perduta, ei riparò arditamente riordinando le sgominate schiere, e tagliando con la propria spada i codardi che davano lo esempio della fuga. Alcuna volta, nondimeno, eʼ pareva che sentisse uno strano compiacimento nellʼarrisicare la propria persona. Taluni notarono che non si mostrò mai di così allegro umore, di modi così graziosi ed affabili, come fra mezzo al tumulto od alla strage dʼuna battaglia. Perfino neʼ sollazzi amava lo eccitamento del pericolo. Le carte, gli scacchi, il biliardo non gli andavano punto a sangue. La caccia era la prediletta delle sue ricreazioni; e tanto maggiormente piacevagli, quanto era più rischiosa. Talvolta spiccava tali salti, che i più audaci deʼ suoi compagni non osavano seguirlo. Sembra anche chʼegli reputasse come esercizi effeminati le più difficili cacce dellʼInghilterra, e fra mezzo alle immense foreste di Windsor con doloroso desio ripensasse alle belve che egli aveva costume di inseguire neʼ boschi di Guelders, ai lupi, ai cignali, ai grossi cervi dallʼenormi corna.[210] V. Cotesta impetuosità dʼanima diventa straordinario fenomeno, solo che si consideri come egli fosse singolarmente delicato di corpo. Fino da fanciullo egli era stato debole e malaticcio. In sulla virilità la sua salute erasi intristita per un forte accesso di vajolo. Era asmatico, e pareva volesse andare in consunzione. La sua gracile persona era travagliata da una continua tosse secca. Ei non poteva dormire se non appoggiando il capo sopra parecchi guanciali, e non poteva trarre il respiro se non nellʼaria più pura. Spesso era torturato da crudeli dolori al capo; tosto stancavasi al moto. I medici mantenevano ognora deste le speranze deʼ suoi nemici, predicendo lʼepoca in cui, se pure vʼera certezza alcuna nella scienza, avrebbe cessato di vivere. Nonostante, in una vita che poteva dirsi una continua malattia, la forza dellʼanima non gli falli mai, in ogni grave occasione, a sostenere il suo infermo e languido corpo. Era nato con violente passioni e con gagliardo sentire; ma la forza delle sue emozioni non era minimamente da altri sospettata. Agli occhi del mondo ei nascondeva la gioia, il dolore, lʼaffezione, il risentimento sotto il velo dʼuna calma flemmatica, che lo faceva reputare il più freddo degli uomini. Coloro che gli recavano buone nuove, rade volte potevano in lui scoprire il più lieve segno di contento. Chi lo vedeva dopo una disfatta, in vano cercava di leggergli in volto il dispiacere dellʼanimo. Lodava e riprendeva, premiava e puniva con lʼaustera tranquillità dʼun capitano di Mohawk; ma coloro che bene lo conoscevano e gli stavano da presso sapevano pur troppo che sotto cotesto ghiaccio ardeva perpetuamente un gran fuoco. Rade volte lʼira gli faceva perdere il contegno. Ma quando davvero lo invadeva la rabbia, il primo scoppio ne era tremendo, si che altri appena reputavasi sicuro a farglisi da presso. In simiglianti rari casi, nulladimeno, appena riacquistava lo impero delle proprie facoltà, faceva tali riparazioni a coloro che ne avevano patito il danno, da tentarli a desiderare chʼegli andasse nuovamente in collera. Nellʼaffetto procedeva impetuoso come nellʼira. Amando, egli amava con tutta la vigoria della sua vigorosissima anima. Quando la morte lo privava dellʼoggetto amato, queʼ pochi che erano testimoni del suo strazio, temevano non volesse perdere il senno o la vita. Aʼ pochi intimi amici, nella cui fedeltà e secretezza ei poteva onninamente riposare, era un uomo ben diverso dal riserbato e stoico Guglielmo, che la moltitudine supponeva privo dʼogni mite sentimento. Era cortese, cordiale, aperto, ed anche festevole e faceto, da rimanere a mensa lunghe ore, ed abbandonarsi allʼallegria del conversare. VI. Fra tutti i suoi più cari, ei prediligeva singolarmente un gentiluomo chiamato Bentinck, discendente da una nobile famiglia batava, e destinato ad essere fondatore dʼuna delle maggiori case patrizie dellʼInghilterra. La fedeltà di Bentinck era stata sottoposta a prove non comuni. Mentre le Provincia Unite lottavano a difendere la propria esistenza contro la potenza francese, il giovine Principe, nel quale erano poste tutte le loro speranze, infermò di vajuolo. Tal malattia era stata fatale a parecchi della sua famiglia; e quanto a lui, in sulle prime si manifestò peculiarmente maligna. Grande era la costernazione pubblica. Le strade dellʼAja erano affollate da mane a sera di gente ansiosa di sapere le nuove di Sua Altezza. Infine il male prese un corso meno sinistro. La salvezza dello infermo fu attribuita in parte alla sua singolare tranquillità di spirito, e in parte alla intrepida e instancabile amicizia di Bentinck. Dalle sole mani di Bentinck Guglielmo prendeva i farmachi e il nutrimento. Il solo Bentinck era colui che alzava Guglielmo da letto e ve lo riponeva. «Se Bentinck dormisse o non dormisse mai nel tempo chʼio giacqui infermo» diceva Guglielmo grandemente intenerito a Temple; «non so. Ma questo io so, che per sedici giorni e sedici notti, non chiesi mai cosa alcuna che Bentinck allʼistante non fosse accanto al mio letto.» Innanzi che questo amico fedele finisse di prestare i propri servigi, fu preso dal contagio. Non pertanto, ei non curò la febbre e lo stordimento del capo ondʼera travagliato, finchè il suo signore fu dichiarato convalescente. Allora Bentinck chiese dʼandare a casa; e ne era tempo, imperocchè non poteva più sostenersi sulle proprie gambe. Corse gravissimo pericolo, ma risanò; e non appena si senti in forze da sorgere dal letto, corse allʼarmata, dove per molte ardue campagne fu sempre veduto da presso a Guglielmo, come vi era già stato in pericoli di altra specie. È questa la origine dʼuna amicizia fervida e pura più di qualunque altra di cui faccia ricordo la storia antica o la moderna. I discendenti di Bentinck serbano tuttavia molle lettere da Guglielmo scritte al loro antenato; e non è troppo il dire che chiunque non le abbia studiate, non potrà mai formarsi una giusta idea dellʼindole del Principe. Egli, che i suoi ammiratori generalmente reputavano il più freddo e inaffabile degli uomini, in coteste lettere dimentica ogni distinzione di grado, ed apre lʼanima sua con la ingenuità dʼun fanciullo. Partecipa senza riserbo arcani di gravissimo momento. Palesa con tutta semplicità vasti disegni concernenti tutti i governi europei. Miste a siffatte cose trovansi altre dʼassai diversa natura, ma forse di non minore interesse. Tutte le sue avventure, i suoi sentimenti, le sue lunghe corse ad inseguire un enorme cervo, il suo folleggiare nella festa di Santo Uberto, il vegetare delle sue piantagioni, i suoi poponi andati a male, in che condizione sono i suoi cavalli, il desiderio chʼegli ha di trovare un buon palafreno per la sua moglie; il suo dispiacere udendo che un suo famigliare dopo dʼavere rapito lʼonore ad una fanciulla di buona famiglia, ricusi di sposarla; il suo mal di mare, la sua tosse, il suo mal di capo, i suoi accessi di divozione, la gratitudine chʼegli sente per la divina Provvidenza che lo ha scampato da un grave pericolo, gli sforzi chʼegli fa a sottoporsi alla volontà divina dopo un disastro: queste e simiglianti cose ivi sono descritte con una amabile garrulità, tale da non aspettarsi dal più discreto e calmo uomo di Stato deʼ tempi suoi. Va anche maggiormente notata la spensierata espansione della sua tenerezza, e il fraterno interesse chʼegli prende nella domestica felicità dellʼamico. Se nasce un figlio a Bentinck, Guglielmo gli dice: «Io spero chʼegli viva, per essere buono come voi; ed ove io abbia un figliuolo, le nostre creature si ameranno, lo spero, come ci siamo amati noi.»[211] Per tutta la vita egli seguita ad amare i piccoli Bentinck con affetto paterno. Gli chiama coi più cari nomi; nellʼassenza del padre prende cura di loro; e quantunque gli rincresca di rifiutare loro cosa alcuna, non permette che vadano alla caccia, dove potrebbero correre il pericolo di ricevere un colpo di corno dal cervo inseguito, o abbandonarsi alle intemperanze dʼuna gozzoviglia.[212] Se la loro madre si ammala nellʼassenza del marito, Guglielmo, fra mezzo ad affari di gravissimo momento, trova il tempo di spedire parecchi corrieri in un giorno per recargli notizie della salute di lei.[213] Una volta, come essa dopo una grave infermità è dichiarata fuori di pericolo, il Principe con fervidissime espressioni rende grazie a Dio: «Io scrivo lacrimando di gioia» dice egli.[214] Serpe una singolare magia in coteste lettere, scritte da un uomo, la cui irresistibile energia ed inflessibile fermezza imponevano riverenza ai nemici, il cui freddo e poco grazioso contegno respingeva lʼaffetto di quasi tutti i partigiani, e la cui mente era occupata da giganteschi disegni che hanno cangiata la faccia del mondo. E tanto affetto non era mal collocato. Bentinck allora fu detto da Temple il migliore e più sincero ministro che alcun principe abbia mai avuta la fortuna di possedere, e continuò per tutta la vita a meritarsi un nome tanto onorevole. I due amici veramente erano fatti lʼuno per lʼaltro. Guglielmo non aveva mestieri di chi lo dirigesse o lo lusingasse. Avendo ferma e giusta fiducia nel proprio giudizio, non amava i consiglieri che inclinavano molto a suggerire o ad obiettare. Nel tempo stesso, aveva discernimento ed altezza di mente bastevoli a sdegnare lʼadulazione. Il confidente di un tal principe doveva essere uomo non di genio inventivo, o di predominante carattere, ma valoroso e fedele, capace dʼeseguire puntualmente gli ordini ricevuti, di serbare inviolabilmente il secreto, di notare con occhio vigilante i fatti e riferirli con verità: e tale era Bentinck. VII. Guglielmo nel matrimonio non fu meno fortunato che nellʼamicizia. Nulladimeno, il matrimonio in sulle prime non parve dovere essergli fonte di felicità domestica. A quel parentado egli era stato indotto principalmente da cagioni politiche; nè sembrava probabile che alcuna forte affezione dovesse nascere tra una avvenente fanciulla di sedici anni, di buona indole e intelligente, ma ignorante e semplice; ed uno sposo, il quale, comecchè non giungesse ai ventotto anni, era per costituzione più vecchio del padre di lei, ed aveva modi agghiaccianti, e tenea di continuo la mente occupata dʼaffari pubblici e di cacce. Per qualche tempo Guglielmo fu marito negligente. Fu strappato alle braccia della moglie da altre donne, e in ispecie da Elisabetta Villers, che era una delle dame di lei, e che quantunque fosse priva di attrattive personali e sfigurata da un occhio guercio, aveva ingegno tale da rendersi gradevole a Guglielmo.[215] Per vero dire, egli vergognavasi deʼ propri falli, e con ogni studio cercava nasconderli; ma, non ostanti tutte le sue cautele, Maria bene conosceva la infedeltà del marito. Spie e delatori, istigati dal padre di lei, fecero ogni sforzo per infiammarla allʼira. Un uomo di assai diverso carattere, lʼottimo Ken, il quale fu suo cappellano allʼAja per parecchi mesi, prese tanto fuoco vedendo i torti che ella soffriva, che con più zelo che giudizio minacciò di rimproverare severamente lo infido marito.[216] Ella, non pertanto, sosteneva le proprie ingiurie con tanta mansuetudine e pazienza, che meritò e, a poco a poco, ottenne la stima e la gratitudine di Guglielmo. Rimaneva nondimeno unʼaltra cagione che teneva divisi i loro cuori. Poteva probabilmente giungere il giorno, in cui la Principessa, la quale era stata educata solo a ricamare, leggere la Bibbia e i Doveri dellʼUomo, diverrebbe sovrana dʼun gran Regno, terrebbe la bilancia della politica europea; mentre lo sposo di lei, ambizioso, esperto deʼ pubblici negozi e inchinevole alle grandi intraprese, non troverebbe nel Governo dʼInghilterra luogo a sè convenevole, e avrebbe potere quale e quanto e finchè a lei piacesse concedergliene. Non è strano che un uomo come Guglielmo, amante dellʼautorità e conscio del proprio genio a comandare, sentisse fortemente quella gelosia, la quale in poche ore di sovranità pose la dissensione tra Guildford Dudley e Lady Giovanna, e produsse una rottura anche più tragica fra Darnley e la Regina di Scozia. La Principessa dʼOrange non aveva il più lieve sospetto deʼ pensieri del marito. Il vescovo Compton, suo istitutore, con gran cura lʼaveva erudita nelle cose di religione, insegnandole specialmente a guardarsi dalle arti deʼ teologi cattolici romani; ma lʼaveva lasciata profondamente ignara della sua posizione e della Costituzione inglese. Ella sapeva che, per dovere conjugale, era tenuta ad obbedire al proprio sposo; e non le era mai venuto in mente come la relazione in cui stavano entrambi potesse essere invertita. Nove anni erano corsi di matrimonio innanzi chʼella sapesse la cagione del malcontento di Guglielmo; nè lʼavrebbe mai saputa da lui. Generalmente, ei per natura inchinava più presto a chiudere in cuore che a sfogare i propri dolori; ed in cotesta peculiare occasione le sue labbra rendeva mute una ragionevole delicatezza. In fine, per mezzo di Gilberto Burnet, i due coniugi, avuta una spiegazione, pienamente riconciliaronsi. VIII. La fama di Burnet è stata assalita con singolare malizia e pertinacia. Tali aggressioni cominciarono fino dai suoi primi anni, e continuano tuttavia con non minore virulenza, comecchè egli da cento venticinque e più anni riposi sotterra. Veramente, egli è il bersaglio più adatto che lʼanimosità delle fazioni e gli spiriti petulanti possano mai desiderare; imperciocchè i suoi difetti dʼintendimento e dʼindole sono così visibili, che facile è a ognuno il notarli. Non erano quei difetti che ordinariamente si reputano comuni a tutti i suoi concittadini. Solo fra tutti i non pochi Scozzesi che si sono inalzati a grandezza e prosperità in Inghilterra, egli aveva quel carattere che gli scrittori satirici, i drammatici, i romanzieri sogliono concordemente ascrivere ai venturieri irlandesi. Gli spiriti animali, le millanterie, la vanità, la propensione a spropositare, la provocante indiscretezza, la indomita audacia di lui apprestavano inesauribile materia agli scherni deʼ Tory. Nè i suoi nemici trascuravano di complirlo talvolta, più con piacenteria che con delicatezza, per la spaziosità delle sue spalle, la grossezza delle sue gambe, il buon successo deʼ suoi disegni matrimoniali con qualche amorosa e ricca vedova. Ciò non ostante, Burnet, benchè per molti rispetti fosse subietto di scherno ed anche di grave riprensione, non era uomo spregevole. Aveva vivissima intelligenza, instancabile industria, vasta e svariata dottrina. Era, a un sol tempo, storico, antiquario, teologo, predicatore, articolista, disputatore ed operoso capo politico; e in ciascuna di coteste cose emergeva cospicuo fraʼ suoi competitori. I molti vivaci e brevissimi scritti chʼegli pubblicò sopra i fatti di queʼ tempi, oggimai son noti solo agli amatori di curiosità letterarie; ma la Storia deʼ suoi Tempi, la Storia della Riforma, la Esposizione degli Articoli, il Discorso deʼ Doveri dʼun Pastore, la Vita di Hale, la Vita di Wilmot, vengono anche aʼ di nostri ristampati, nè vi è buona biblioteca privata che non gli abbia neʼ suoi scaffali. Contro questi argomenti tutti gli sforzi dei detrattori riescono vani. Uno scrittore, le cui opere voluminose in diversi rami della letteratura, trovano numerosi lettori cento trenta anni dopo la sua morte, può avere avuto grandi difetti, ma è mestieri che abbia anche avuto meriti grandi; e Burnet aveva grandi meriti, cioè fecondo e vigoroso intelletto e stile, ancorchè ben lontano dalla intemerata purità del bello scrivere, sempre chiaro, spesso vivace, e talvolta inalzantesi fino alla solenne e calorosa eloquenza. Nel pulpito, lo effetto deʼ suoi discorsi, chʼegli recitava senza sussidio di manoscritto, era accresciuto dalla nobiltà della sua persona, e da un modo patetico di porgere. Spesso veniva interrotto dal profondo fremito del suo uditorio; e quando, dopo dʼavere predicato tanto che fosse trascorsa lʼora dellʼoriuolo a polvere—che a queʼ giorni era parte degli ordegni del pulpito,—egli lo prendeva in mano, la congrega clamorosamente lo incoraggiava a seguitare finchè la polvere non fosse passata di nuovo.[217] Sì nel suo carattere morale, che nello intellettuale, i grandi difetti erano più che compensati da grandi meriti. Tuttochè spesso fosse traviato dai pregiudizi e dalla passione, era uomo onesto per eccellenza. Tuttochè non sapesse resistere alle seduzioni della vanità, aveva spirito superiore ad ogni influenza di cupidigia o timore. Era, per indole, cortese, generoso, grato, compassionevole.[218] Il suo zelo religioso, comunque fermo ed ardente, era per lo più temperato dʼumanità, e di rispetto pei diritti della coscienza. Vigorosamente aderendo a quello chʼegli credeva spirito del Cristianesimo, considerava con indifferenza i riti, i nomi e le forme dellʼordinamento della Chiesa; e non era punto inchinevole ad essere severo anche con glʼinfedeli e gli eretici la cui vita fosse pura, e i cui errori sembrassero più presto effetto dʼintelligenza pervertita, che di cuore depravato; ma, al pari di molti dabbene uomini di quella età, considerava il caso della Chiesa di Roma come una eccezione a tutte le regole ordinarie. Burnet, per alcuni anni, ebbe rinomanza europea. La sua Storia della Riforma era stata accolta con istrepitosi applausi da tutti i Protestanti, mentre i Cattolici Romani lʼavevano giudicata come un colpo mortale inflitto alla loro credenza. Il più grande dottore che la Chiesa di Roma abbia mai avuto dopo lo scisma del secolo decimosesto, voglio dire Bossuet vescovo di Meaux, tolse lo incarico di farne una elaborata confutazione. Burnet era stato onorato con un voto di ringraziamento da uno deʼ più zelanti Parlamenti del tempo in cui ferveva la concitazione della Congiura Papale, ed era stato esortato, a nome della Camera deʼ Comuni dʼInghilterra, a seguitare i suoi studi storici. Era stato ammesso alla familiarità di Carlo e di Giacomo, era vissuto in intimità con parecchi egregi uomini di Stato, segnatamente con Halifax, ed era stato direttore spirituale di molti grandi personaggi. Aveva redento dallo ateismo e dalla licenza Giovanni Wilmot, Conte di Rochester, chʼera uno deʼ più splendidi libertini di quel secolo. Lord Stafford, vittima di Oates, comunque Cattolico Romano, aveva, nelle ore estreme di sua vita, ricevuto il conforto delle esortazioni di Burnet intorno a queʼ punti di dottrina sui quali tutti i cristiani concordano. Pochi anni dopo, unʼaltra vittima più illustre, cioè Lord Russell, era stata accompagnata da Burnet dalla Torre al patibolo in Lincolnʼs Inn Fields. La Corte non aveva trascurato mezzo alcuno per trarre a sè un teologo cotanto profondo ed operoso. Non vi fu cosa che non tentasse, regie blandizie e promesse di alte dignità; ma Burnet, quantunque fino dalla giovinezza fosse imbevuto delle servili dottrine che erano in quel tempo comuni al clero, era divenuto Whig per convinzione; e traverso a tutte le vicissitudini, fermamente aderiva ai propri principii. Nondimeno, ei non fu partecipe di quella congiura che recò tanto disonore e calamità al partito Whig, e non solo aborriva dai disegni dʼassassinio concepiti da Goodenough, e da Ferguson, ma opinava che anche il suo diletto ed onorato amico Russell si fosse spinto troppo oltre contro il Governo. Finalmente arrivò tempo in cui la stessa innocenza non era arra di sicurezza. Burnet, comecchè non fosse reo di nessuna trasgressione della legge, fu fatto segno alla vendetta della Corte. Si rifugiò nel Continente, e dopo dʼavere speso un anno a viaggiare la Svizzera, lʼItalia e la Germania—viaggi deʼ quali egli ci ha lasciata una piacevole descrizione,—nella state del 1686 giunse allʼAia, e vi fu accolto con cortesia e riverenza. Conversò più volte e liberamente con la Principessa intorno alle cose politiche e religiose, e tosto le divenne direttore spirituale e confidente. Guglielmo gli usò ospitalità più graziosa di quel che si potesse sperare. Imperciocchè, fra tutti i difetti umani, quei che più lʼoffendevano, erano lʼofficiosità e lʼindiscretezza; e Burnet, a confessione anche deʼ suoi amici e ammiratori, era il più officioso e indiscreto degli uomini. Ma il savio Principe sʼaccôrse che quel petulante e ciarliere teologo, il quale sempre cicalava di secreti, faceva impertinenti domande, sciorinava consigli non richiesti, era, nonostante, uomo retto, animoso, esperto, e ben conosceva gli umori e i disegni delle sètte e delle fazioni inglesi. Burnet aveva gran fama dʼuomo eloquente e dotto. Guglielmo non era uomo erudito; ma da molti anni era stato capo del Governo Olandese in un tempo, in cui la stampa olandese era una delle macchine più formidabili che muovessero lʼopinione pubblica dellʼEuropa; e benchè egli non gustasse i piaceri delle lettere, era savio ed osservatore tanto, da pregiare lʼutilità dello aiuto deʼ letterati. Sapeva bene che un libercolo popolare talvolta poteva tornare proficuo al pari dʼuna vittoria riportata in campo. Sentiva parimente la importanza di avere sempre da presso alcun uomo ben esperto nellʼordinamento politico ed ecclesiastico dellʼisola nostra; e Burnet aveva in sommo grado i requisiti ad essere un dizionario vivente delle cose inglesi, perocchè le sue cognizioni, quantunque non sempre accurate, erano immensamente vaste; e sì in Inghilterra che in Iscozia, pochi erano gli uomini insigni di qual si fosse partito politico o religioso, coʼ quali egli non avesse conversato. Per le quali cose ottenne tanta parte di favore e di fiducia, quanta ne era concessa solo a coloro che formavano il piccolo nucleo intimo deʼ privati amici del Principe. Quando il dottore si prendeva qualche libertà, il che non rade volte avveniva, il suo protettore diventava oltre lʼusato freddo e severo, e tal fiata gli usciva dalle labbra qualche pungente sarcasmo che avrebbe fatto ammutolire chiunque. Tranne in cotesti casi, nondimeno, lʼamicizia tra questi due uomini singolari durò, con qualche temporanea interruzione, fino alla morte. Certo, eʼ non era agevole ferire la sensibilità di Burnet. La compiacenza chʼegli provava di sè, gli spiriti animali, la mancanza di tatto in lui erano tali, che quantunque spesso offendesse altri, giammai egli ne rimaneva offeso. IX. Per cosiffatto carattere, egli aveva i requisiti necessari ad essere paciere tra Guglielmo e Maria. Ogni qualvolta coloro che dovrebbero vicendevolmente stimarsi ed amarsi, si trovano per avventura divisi, come spesso accade, per qualche differenza che sole poche parole franche e chiare basterebbero a comporre, debbono riputarsi bene avventurati ove abbiano un indiscreto amico che palesi intera la verità. Burnet, senza andirivieni, rivelò alla Principessa il pensiero che turbava la mente del suo consorte. E fu quella la prima volta in cui ella seppe, non senza grandemente maravigliarne, come diventando Regina dʼInghilterra, Guglielmo non dovesse secolei sedere sul trono. Dichiarò quindi caldamente dʼesser pronta a porgere qual si fosse prova di sommessione e dʼaffetto conjugale. Burnet, assicurando e giurando di non parlare per suggerimento altrui, disse in lei sola stare intero il rimedio. Ella poteva di leggieri, appena assunta la Corona, indurre il Parlamento non solo a concedere al marito il titolo di Re, ma con un atto legislativo in lui trasferire il Governo dello Stato. «Ma Vostra Altezza Reale» aggiunse egli «dovrebbe, innanzi di parlare, maturamente considerare la cosa; imperocchè egli è un passo, che una volta fatto, non potrebbe facilmente e senza pericolo disfarsi.»—«Non ho bisogno di tempo alcuno a considerare ciò chʼio fo» rispose Maria. «A me basta di cogliere questa occasione per mostrare il mio rispetto pel Principe. Riportategli ciò chʼio vi dico; e conducetelo a me, perchè egli possa udirlo ripetere dal mio labbro stesso.» Burnet andò in traccia di Guglielmo; ma Guglielmo trovavasi molte miglia lontano a dar la caccia ad un cervo. Eʼ non fu se non il giorno susseguente, che ebbe luogo il colloquio fraʼ due conjugi. «Non avevo mai saputo fino a ieri» disse Maria «che vi fosse tale differenza tra le leggi dellʼInghilterra e quelle di Dio. Ma adesso vi prometto che voi sarete colui che governerà sempre; e in ricambio, questo solo vi chiedo, che come io osserverò il divino comandamento, il quale vuole che le mogli obbediscano ai mariti, voi osserviate lʼaltro che ingiunge ai mariti dʼamare le proprie mogli.» Tanta generosità dʼaffetto, pienamente conquise il cuore di Guglielmo. Da quel tempo fino al di funesto in cui egli fu trasportato convulso lungi da lei che giaceva sul letto di morte, fra loro fu sempre vera amicizia e piena confidenza. Esistono ancora molte delle lettere che ella gli scrisse, e porgono numerosi argomenti come a questo uomo così inamabile, quale sembrava agli occhi del pubblico, fosse riuscito dʼispirare ad una bella e virtuosa donna, a lui superiore per nascita, una passione che era quasi idolatria. Il servigio in tal guisa reso da Burnet alla propria patria, era di sommo momento, perocchè era giunto il tempo in cui molto importava alla pubblica salvezza che il Principe e la Principessa fossero pienamente concordi. X. Fino dal tempo in cui fu spenta la insurrezione delle Contrade Occidentali, gravi cagioni di dissenso avevano scisso Guglielmo dai Whig e dai Tory. Aveva con rincrescimento veduti i tentativi fatti daʼ Whig a privare il Governo di certi poteri chʼegli riputava necessari alla efficacia e dignità di quello. Aveva con molto maggiore rincrescimento veduto il modo onde molti di loro sʼerano contenuti verso le pretensioni di Monmouth. Eʼ pareva che lʼopposizione volesse avvilire la Corona dʼInghilterra, e porla sul capo di un bastardo e di un impostore. Nel tempo stesso, il sistema religioso del Principe grandemente differiva da ciò che formava il segno distintivo della credenza deʼ Tory. Costoro erano tutti Arminiani e Prelatisti; spregiavano le Chiese protestanti del continente, e consideravano ogni rigo della loro liturgia e rubrica sacro quasi al pari del vangelo. Le sue opinioni concernenti la metafisica della teologia, erano calviniste: le sue opinioni rispetto allʼordinamento e ai modi del culto, erano larghe. Ammetteva lo episcopato essere una forma legittima e convenevole di governo ecclesiastico; ma parlava con parole acri e sprezzanti della bacchettoneria di coloro i quali giudicavano la ordinazione deʼ vescovi essenziale alla società cristiana. Non aveva punto scrupolo intorno ai vestimenti e ai gesti prescritti dal libro della Preghiera Comune; ma confessava che i riti della Chiesa Anglicana sarebbero migliori se più si allontanassero daʼ riti della Chiesa di Roma. Era stato udito mormorare con segni di cattivo augurio, allorquando nella cappella privata della sua moglie ei vide un altare acconcio secondo il rito anglicano, e non parve molto satisfatto di vedere nelle mani di lei il libro di Hooker sopra lʼOrdinamento Ecclesiastico.[219] XI. Egli, adunque, da lungo tempo seguiva con occhio vigile il progresso della contesa tra le fazioni inglesi; ma senza sentire forte predilezione per nessuna di quelle. In verità, fino allʼultimo giorno di sua vita, ei non divenne nè Whig nè Tory. Difettava di ciò che è fondamento ad ambi cotesti caratteri; imperciocchè egli non diventò mai Inglese. È vero che salvò lʼInghilterra; ma non lʼamò mai, e non fu mai da essa riamato. Per lui lʼisola nostra fu sempre terra dʼesilio, chʼegli visitava con ripugnanza e abbandonava con diletto. Anche mentre le rendeva quei servigi, deʼ quali fino ai nostri giorni sentiamo i felici effetti, il bene di quella non era lo scopo precipuo delle sue azioni. Sʼei sentiva amore di patria, lo sentiva tutto per la Olanda. Quivi era la splendida tomba entro la quale riposava il grande uomo politico, di cui egli aveva ereditato il sangue, il nome, lʼindole, il genio. Quivi il semplice suono del suo titolo era una magica parola, che per tre generazioni aveva destato lo affettuoso entusiasmo deʼ contadini e degli artigiani. Lʼolandese era lo idioma chʼegli aveva imparato dalla balia; olandesi gli amici della sua giovinezza. I sollazzi, gli edifizi, le campagne della sua terra natia gli empivano il cuore. Ad essa ei volgeva sempre desioso lo sguardo da unʼaltra patria più altera e più bella. Nella galleria di Whitehall egli amaramente ripensava alla sua avita casa nel Bosco allʼAja; e non sentivasi mai tanto felice, quanto nel giorno in cui dalla magnificenza di Windsor passava alla sua molto più modesta abitazione in Loo. Nel suo splendido esilio ei trovava consolazione creandosi dʼintorno, con edifici, piantagioni, escavazioni, una scena che gli rammentasse le uniformi moli di rossi mattoni, i lunghi canali, e le simmetriche aiuole di fiori, fra mezzo ai quali egli aveva trascorsi i suoi giovani anni. E nonostante, cotesto suo affetto per la sua terra materna era subordinato ad un altro sentimento che da gran tempo aveva signoreggiato nellʼanima sua, erasi mescolato a tutte le sue passioni, lo aveva spinto a maravigliose imprese, lo aveva sostenuto nelle mortificazioni, neʼ dolori, nelle infermità, e che verso la fine della sua vita sembrò per alcun tempo languire, ma tosto ridestossi più fiero che mai, e seguitò ad animarlo fino allʼora suprema, in cui i ministri di Dio recitavano accanto al suo letto di morte la prece deʼ moribondi. Questo sentimento era la inimicizia alla Francia, e al Re magnifico, il quale in più sensi rappresentava la Francia, e a virtù e pregi eminentemente francesi congiungeva quellʼambizione irrequieta, scevra di scrupoli e vanagloriosa, che ha più volte ridesto contro la Francia il risentimento dellʼEuropa. Non è difficile rintracciare il progresso del sentimento che a poco a poco sʼinsignorì interamente dellʼanima di Guglielmo. Mentre egli era ancora fanciullo, la sua patria era stata aggredita da Luigi, sfidando con ostentazione la giustizia e il diritto pubblico; era stata corsa, devastata, ed abbandonata ad ogni eccesso di ladroneria, di licenza e di crudeltà. Gli Olandesi sgomenti, sʼerano umiliati dinanzi allʼorgoglioso vincitore, chiedendo mercè. Era stato loro risposto, che ove desiderassero ottenere la pace, era mestieri rinunciare alla indipendenza, e rendere ogni anno omaggio alla Casa deʼ Borboni. Lʼoltraggiata nazione, disperando dʼogni altro umano argomento, aveva aperte le sue dighe, chiamando in soccorso le onde marine contro la tirannia francese. Eʼ fu nelle angosce di quel conflitto, allorquando i contadini tremebondi fuggivano dinanzi agli invasori, centinaia di ameni giardini e di ville erano sepolte sotto le acque, le deliberazioni del Senato erano interrotte dagli svenimenti e dal pianto deʼ vecchi senatori, i quali non potevano sopportare il pensiero di sopravvivere alla libertà ed alla gloria della loro terra natia; eʼ fu in queʼ terribili giorni, che Guglielmo fu chiamato a capo dello Stato. Per alcun tempo la resistenza gli parve impossibile. Cercava da per tutto soccorso, e lo cercava invano. Spagna era snervata, Germania conturbata, Inghilterra corrotta. Nullʼaltro partito sembrava rimanere al giovine Statoldero, che quello di morire con la spada in pugno, o farsi lo Enea dʼuna grande emigrazione, e creare unʼaltra Olanda in contrade inaccessibili alla tirannia della Francia. Nessuno ostacolo sarebbe allora rimasto a infrenare il progresso della Casa Borbonica. In pochi anni essa avrebbe potuto annettere ai propri domini la Lorena e le Fiandre, Castiglia ed Aragona, Napoli e Milano, il Messico e il Perù. Luigi avrebbe potuto assumere la Corona imperiale, porre un principe della sua famiglia sopra il trono della Polonia, divenire solo signore dellʼEuropa dai deserti della Scizia fino allʼOceano Atlantico, e dellʼAmerica dalle regioni nordiche del tropico del Cancro, fino alle regioni meridionali del tropico del Capricorno. Tale era il prospetto del futuro che stava dinanzi agli occhi di Guglielmo nel suo primo entrare nella vita politica, e che non gli sparì mai dallo sguardo fino allʼestremo deʼ suoi giorni. La Monarchia Francese era per lui ciò che la Repubblica Romana era per Annibale, ciò che la Potenza Ottomana era per Scanderbeg, ciò che la dominazione inglese era per Wallace. Questa intensa e invincibile animosità era rafforzata dalla religione. Centinaia di concionatori calvinisti predicavano, che il medesimo potere che aveva suscitato Sansone per essere il flagello deʼ Filistei, e che aveva chiamato Gedeone dallʼaja per domare i Madianiti, aveva suscitato Guglielmo dʼOrange per essere il campione di tutte le nazioni libere, e di tutte le Chiese pure; pensiero che non fu senza influenza sulla mente di lui. Alla fiducia che lo eroico fatalista aveva posta nel suo alto destino e nella sua sacra causa, è da attribuirsi in parte la singolare indifferenza onde egli affrontava il pericolo. Aveva debito di compire unʼaltra impresa; e finchè non fosse compita, nulla gli avrebbe potuto nuocere. E però, per virtù di questo pensiero, egli, malgrado i pronostici deʼ medici, si riebbe da infermità che sembravano disperate; lo aperto navicello in cui egli si gettò nel fitto buio della notte fra mezzo alle frementi onde dellʼOceano, e presso ad una traditrice spiaggia, lo condusse a terra; e in venti campi di battaglia, le palle deʼ cannoni gli fischiarono dʼintorno senza toccarlo. Lo ardore e la perseveranza con che egli si dedicò alla propria missione, mal troverebbero agguaglio nella storia degli uomini illustri. Considerando il suo gran fine, ei reputava la vita altrui di sì poco pregio, come la propria. Pur troppo, anche i più miti e generosi soldati di quella età avevano lʼabitudine di curar poco lo spargimento del sangue, e le devastazioni inseparabili dalle grandi imprese militari; e il cuore di Guglielmo era indurito non solo dalla insensibilità acquistata nellʼesercizio della guerra, ma da quella specie di insensibilità più severa, la quale nasce dalla coscienza del dovere. Tre grandi coalizioni, tre lunghe e sanguinose guerre, in cui tutta Europa dalla Vistola fino allʼOceano occidentale era in armi, devono attribuirsi alla sua invincibile energia. Allorquando nel 1678 gli Stati Generali, esausti e scuorati, desideravano posa, la sua voce tuonava contro coloro che volevano riporre la spada nel fodero. Se la pace fu fatta, ciò avvenne solo perchè egli non potè infondere neʼ cuori altrui uno spirito fiero e risoluto come il suo. In sullo estremo istante, con la speranza di rompere le pratiche che ei sapeva pressochè concluse, combattè una delle più sanguinose ed ostinate battaglie, deʼ tempi suoi. Dal giorno in cui fu firmata la pace di Nimega egli cominciò a meditare unʼaltra coalizione. La sua contesa con Luigi, tradotta dal campo di battaglia al gabinetto, venne poco dopo esacerbata da un privato litigio. Per ingegno, indole, modi ed opinioni, i due rivali erano lʼuno allʼaltro diametralmente opposti. Luigi, gentile e dignitoso, prodigo e voluttuoso, amante della pompa ed abborrente dai pericoli, munificente protettore delle arti e delle lettere, e crudele persecutore deʼ Calvinisti, offriva un notevole contrasto verso Guglielmo, semplice nelle sue inclinazioni, di poco grazioso portamento, infaticabile e intrepido in guerra, non curante degli ameni studi, e fermo partigiano deʼ teologi Ginevrini. I due nemici non osservarono lungamente quelle cortesie che i loro pari, anche oppugnantisi con le armi, rade volte trascurano. Guglielmo, a dir vero, giunse fino ad offrire i suoi migliori servigi al Re di Francia. Ma tali cortesie vennero estimate al loro giusto pregio, e ricompensate con una riprensione. Il gran Re affettava disprezzo pel principotto servitore dʼuna federazione di città commercianti; e ad ogni segno di spregio lo intrepido Statoldero rispondeva con una nuova disfida. Guglielmo prendeva il suo titolo—titolo che le vicissitudini del secolo precedente avevano reso uno deʼ più illustri in Europa—da una città che giace sulle rive del Rodano non lungi da Avignone; e che, al pari dʼAvignone, quantunque da ogni lato circuita dal territorio francese, era propriamente feudo non della Corona di Francia, ma dello Impero. Luigi, con quella ostentazione spregiatrice del diritto pubblico, la quale formava il suo carattere, occupò Orange, ne smantellò le fortificazioni e ne confiscò le rendite. Guglielmo dichiarò ad alta voce a molti cospicui personaggi, i quali con lui sedevano a mensa, che avrebbe fatto pentire il Re Cristianissimo dellʼoltraggio ricevuto; ed allorchè dal Conte dʼAvaux gli fu chiesto conto delle parole profferite, ricusò positivamente o di ritrattarle o di spiegarle. La querela andò tanto oltre, che il ministro francese non poteva rischiarsi di comparire nelle sale della Principessa per timore di essere insultato.[220] I sentimenti di Guglielmo verso la Francia, spiegano tutta la sua politica verso la Inghilterra. Il suo spirito pubblico era europeo. Il fine principale dʼogni suo studio non era lʼisola nostra, non era nè anche la sua Olanda, ma la grande comunità delle nazioni minacciata di essere soggiogata da uno Stato troppo potente. Coloro i quali commettono lo errore di considerarlo come uomo di Stato inglese, è forza che guardino la intera sua vita in una falsa luce, e non perverranno a scoprire nessun principio buono o cattivo, Whig o Tory, al quale possano riferirsi le sue più importanti azioni. Ma ove lo consideriamo come uomo, il cui fine speciale era quello di congiungere una torma di Stati deboli, divisi e sgomenti, in ferma e vigorosa concordia contro un comune nemico; ove lo consideriamo come uomo, agli occhi del quale la Inghilterra importava principalmente, perchè, senza essa, la grande coalizione da lui desiderata, sarebbe stata incompiuta; saremo costretti ad ammettere che non vi è stata una vita sì lunga, di cui facciano ricordo le storie, maggiormente uniforme dal principio sino alla fine, quanto quella di cotesto gran Principe.[221] XII. Col filo che adesso abbiamo tra le mani, potremo senza difficoltà rintracciare la via dritta in effetto, sebbene in apparenza talvolta tortuosa, chʼegli prese verso le nostre interne fazioni. Chiaramente vedeva (ciò che non era sfuggito agli occhi di uomini meno sagaci di lui) come la impresa alla quale egli con tutta lʼanima intendeva, potesse avere probabilità di prospero successo con la Inghilterra amica, dʼesito incerto con la Inghilterra neutrale, e di disperatissimo fine ove la Inghilterra agisse come aveva agito ai tempi della Cabala. Con non minore chiarezza, vedeva che tra la politica estera e la interna del Governo Inglese vʼera stretta connessione; che il sovrano del nostro paese, operando dʼaccordo col Parlamento, deve sempre di necessità esercitare grande influenza negli affari della Cristianità, e deve anche avere un evidente interesse di avversare lo indebito ingrandimento dʼogni potentato continentale; che, dallʼaltro canto, il sovrano privo della fiducia del Parlamento e impedito nella sua via, non può avere se non poco peso nella politica europea, e che quel poco peso potrebbe anche gettarsi tutto nel lato nocivo della bilancia. Il principe, adunque, desiderava massimamente la concordia fra il Trono e il Parlamento. Il modo di stabilirla, e quale delle due parti dovesse fare concessioni allʼaltra, erano, secondo lui, cose dʼimportanza secondaria. Avrebbe gradito, senza alcun dubbio, di vedere una piena riconciliazione senza il sacrificio dʼun briciolo della regia prerogativa; perocchè alla integrità di quella egli aveva diritto di reversibilità; ed egli, per indole, era cupido di potere e intollerante di freno, almeno quanto qualunque degli Stuardi. Ma non vʼera gioiello della Corona chʼegli non fosse apparecchiato a sacrificare, anche dopo che la Corona era passata sul suo capo, qualvolta fosse convinto siffatto sacrificio essere impreteribilmente necessario al suo grande disegno. E però, nel tempo della congiura papale, comecchè egli disapprovasse la violenza con cui la opposizione assaliva la regia autorità, esortò il Governo a desistere. La condotta della Camera deʼ Comuni rispetto agli affari interni, diceva egli, era molto irragionevole: ma finchè rimaneva malcontenta, le libertà della Europa pericolavano; ed a questa suprema ragione ogni altra doveva cedere. Giusta siffatti principii egli operò allorquando la Legge dʼEsclusione pose la nazione tutta in commovimento. Non vʼè ragione a credere chʼegli incoraggiasse la opposizione a spingere innanzi quella legge, e ricusare ogni patto che le venisse offerto dal trono. Ma come chiaro si conobbe che, ove non si fosse posta in campo quella legge, vi sarebbe stata seria rottura tra i Comuni e la Corte, egli intelligibilmente, benchè con assai decoroso riserbo, manifestò la propria opinione, dicendo il Governo dovere ad ogni costo riconciliarsi coi rappresentanti del popolo. Allorchè una violenta e rapida mutazione dellʼopinione pubblica aveva lasciato per alcun tempo il partito Whig privo dʼogni soccorso, Guglielmo tentò di giungere al suo scopo supremo per una nuova via, forse allʼindole sua più convenevole di quella chʼegli aveva anteriormente presa. Pei cangiati umori della nazione, era poco probabile che venisse eletto un Parlamento disposto ad opporsi alle voglie del Sovrano. Carlo per alcun tempo fu solo padrone. Il Principe quindi rivolse ogni pensiero a renderselo favorevole. Nella state del 1683, quasi nel momento medesimo in cui la scoperta della congiura di Rye House sconfisse i Whig e rese trionfante il Re, succedevano altrove fatti tali che Guglielmo non poteva vedere senza estrema ansietà e timore. Il Turco aveva condotte le sue schiere fino ai suburbii di Vienna. La grande Monarchia Austriaca, nel cui soccorso il Principe aveva calcolato, sembrava giunta alla estrema rovina. Per la qual cosa, ei mandò in fretta Bentinck dallʼAja a Londra, ingiungendogli di nulla omettere che fosse necessario a riconciliargli la Corte dʼInghilterra, e peculiarmente significare, con le più calde espressioni, lʼorrore che il suo signore aveva sentito per la congiura deʼ Whig. Nel corso deʼ diciotto susseguenti mesi, vi fu qualche speranza che la influenza di Halifax prevalesse, e che la Corte di Whitehall ritornasse alla politica della Triplice Alleanza. Guglielmo nutrì avidamente in cuore tale speranza, e fece ogni sforzo per conseguire lʼamicizia di Carlo. La ospitalità che Monmouth trovò allʼAja, deve principalmente attribuirsi alla brama che il Principe aveva di appagare i segreti desideri del padre di Monmouth. Appena morto Carlo, Guglielmo mirando ognora intentamente al supremo suo scopo, di nuovo cangiò contegno. Aveva ospitato Monmouth per piacere al Re defunto. Affinchè il Re Giacomo non avesse argomento di querelarsi, Monmouth ebbe commiato. Abbiamo veduto come, scoppiata la insurrezione delle contrade occidentali, i reggimenti inglesi che servivano in Olanda, fossero, alla prima richiesta, mercè gli sforzi del Principe, mandati alla patria loro. Per vero dire, Guglielmo anche si offerse a comandare in persona contro i ribelli; e che tale offerta fosse perfettamente sincera, non potrà mai dubitarsi, solo che si leggano le sue lettere confidenziali a Bentinck.[222] Il Principe manifestamente in quel tempo sperava, che il gran disegno al quale nella mente sua ogni altra cosa era subordinata, fosse approvato e sostenuto dal suo suocero. Lʼaltero linguaggio che allora Giacomo teneva verso la Francia, la prontezza con che egli consentì ad una alleanza difensiva con le Provincie Unite, la inclinazione chʼegli mostrava a collegarsi con la Casa dʼAustria, accrescevano cotesta speranza. Ma poco dopo rabbuiossi la scena. La caduta di Halifax, la rottura tra Giacomo e il Parlamento, la proroga, lo annunzio distintamente fatto dal Re ai ministri stranieri che oramai la politica estera non lo distrarrebbe dallo intendere a trovare provvedimenti onde rinvigorire la regia prerogativa e promuovere glʼinteressi della sua Chiesa, posero fine a tanta illusione. Chiaro vedevasi, che arrivato il tempo critico per la Europa, la Inghilterra, signoreggiata da Giacomo, o sarebbe rimasta inoperosa, o avrebbe operato in unione della Francia. XIII. E la crisi europea era imminente. La Casa dʼAustria, dopo una serie di vittorie, erasi assicurata dʼogni pericolo da parte della Turchia, e non trovavasi più nella necessità di sostenere pazientemente le usurpazioni e glʼinsulti di Luigi. Per lo che, nel luglio del 1686, fu firmato in Augusta un trattato, col quale i Principi dello Impero collegavansi strettamente insieme a vicendevole difesa. Il Re di Spagna e di Svezia erano parti di cotesta alleanza; lʼuno come Sovrano delle provincie comprese nel circolo della Borgogna, lʼaltro come Duca di Pomerania. I confederati dichiaravano di non avere intendimento alcuno di aggredire, nè voglia dʼoffendere nessun potentato, ma erano bene risoluti di non tollerare la minima infrazione dei diritti che il Corpo Germanico possedeva sotto la sanzione del diritto pubblico e della pubblica fede. Vincolavansi tutti a difendersi in caso di bisogno, e stabilivano le forze che ogni membro della lega dovesse apprestare, ove fosse mestieri respingere lʼaggressione.[223] Il nome di Guglielmo non si leggeva in quellʼatto; ma tutti sapevano che esso era opera di lui, e prevedevano che tra breve tempo egli sarebbe nuovamente il capitano dʼuna coalizione contro la Francia. In cosiffatte circostanze, tra lui e il vassallo della Francia non poteva esistere buono e cordiale intendimento. Non vʼera aperta rottura, non ricambio di minacce o di rimproveri; ma il suocero e il genero sʼerano per sempre lʼuno dallʼaltro separati. XIV. Nel tempo medesimo in cui il Principe era così diviso dalla Corte dʼInghilterra, andavano disparendo le cagioni che avevano fino allora prodotto freddezza tra lui e i due grandi partiti del popolo inglese. Gran parte, che formava forse una maggioranza numerica, dei Whig, aveva prestato favore a Monmouth: ma Monmouth non era più. I Tory, dallʼaltro canto, avevano temuto che glʼinteressi della Chiesa anglicana non avessero ad essere sicuri sotto lo impero dʼun uomo educato fraʼ presbiteriani olandesi, e, come ciascuno sapeva, di larghe opinioni rispetto ai vestimenti, alle cerimonie, allo episcopato: ma dacchè quella Chiesa diletta era stata minacciata da molto maggiori pericoli, cosiffatti timori erano quasi spenti. In tal guisa, nello istante medesimo, ambidue i grandi partiti cominciarono a porre le speranze e lo affetto loro nello stesso capo. I vecchi repubblicani non potevano ricusare la loro fiducia ad un uomo, il quale aveva per molti anni degnamente tenuta la più alta magistratura dʼuna repubblica. I vecchi realisti credevano di agire secondo i loro principii, tributando profonda riverenza ad un Principe cotanto vicino al trono. In tali condizioni, era cosa di massima importanza la perfetta unione tra Guglielmo e Maria. Un malinteso tra la erede presuntiva della Corona e il marito, avrebbe prodotto uno scisma in quella vasta massa che da ogni parte andavasi raccogliendo intorno al vessillo dʼun solo capo. Avventuratamente, ogni pericolo di questo malinteso fu tolto dallo intervento di Burnet; e il Principe divenne lo incontrastato capo di tutto quel gran partito che faceva opposizione al Governo, partito che quasi comprendeva la intera nazione. Non vʼè ragione a credere che egli verso questo tempo meditasse la grande impresa alla quale poscia fu da una dura necessità trascinato. Scorgeva bene che la opinione pubblica dellʼInghilterra, comecchè i cuori fossero esasperati dagli aggravi del Governo, non era punto matura per la rivoluzione. Avrebbe senza dubbio voluto evitare lo scandolo che doveva produrre una lotta mortale tra persone strette con vincoli di consanguineità e dʼaffinità. Anche per ambizione, gli ripugnava il riconoscere dalla violenza quella grandezza alla quale egli sarebbe pervenuto pel corso ordinario della natura e della legge: perocchè, bene sapeva che ove la corona fosse regolarmente toccata in sorte alla sua moglie, le regie prerogative non patirebbero detrimento; ed allʼincontro, se ei lʼottenesse per elezione, gli verrebbe concessa con quelle condizioni che agli elettori piacesse dʼimporre. Egli, adunque, fece pensiero, come sembra, di attendere con pazienza il giorno in cui potesse con incontrastato titolo governare, e di contentarsi infrattanto di esercitare grande influenza sopra gli affari della Inghilterra, come primo Principe del sangue, e capo del partito che decisamente preponderava nella nazione, e che certo, appena ragunato il Parlamento, avrebbe decisamente preponderato in ambedue le Camere. XV. Egli è vero che già a Guglielmo, da un uomo meno savio e più impetuoso chʼegli non fosse, era stato consigliato di appigliarsi a più audace partito. Questo consigliere era il giovane Lord Mordaunt. In quel tempo non era sorto un uomo che avesse genio più inventivo e spirito più ardimentoso di lui. Se la impresa era splendida, Mordaunt rade volte chiedeva se fosse fattibile. La sua vita fu un bizzarro romanzo, composto di misteriosi intrighi dʼamore e di politica, di violente e rapide variazioni di scena e di fortuna, e di vittorie somiglievoli a quelle dʼAmadigi e di Lancillotto, più presto che a quelle di Lussemburgo e dʼEugenio. Gli episodii disseminati nella sua strana istoria erano cónsoni a tutto il tenore della vita sua. Vʼerano notturni incontri con ladroni generosi; e dame nobili e belle liberate dalle mani deʼ loro rapitori. Mordaunt essendosi reso notevole per la eloquenza e lʼaudacia con che nella Camera deʼ Lordi erasi opposto alla Corte, tosto dopo la proroga del Parlamento, si rifuggì allʼAja, e propose a Guglielmo di fare una sùbita discesa in Inghilterra. Erasi persuaso che sarebbe stato così facile sorprendere tre grandi Regni, come lungo tempo dopo gli tornò facile sorprendere Barcellona. XVI. Guglielmo ascoltò, ripensò, e rispose, con parole vaghe: il bene dellʼInghilterra stargli tanto a cuore, che non lo perderebbe mai dʼocchio.[224] Qualunque fossero i suoi intendimenti, non era probabile chʼei si scegliesse a confidente un temerario e vanaglorioso cavaliere errante. Questi due mortali nullʼaltro avevano di comune che il coraggio personale, il quale in entrambi giungeva allʼaltezza dʼun favoloso eroismo. Mordaunt aveva bisogno solamente di eccitarsi nel conflitto, e di rendere attonito il mondo. Guglielmo mirava perpetuamente ad un solo gran fine, al quale era trascinato da una forte passione, chʼegli reputava sacro dovere. Onde ridursi a quel fine, faceva prova dʼuna pazienza, siccome una volta egli disse, simile a quella con cui aveva veduto nel canale un marinaio lottare contro la corrente, spesso ricacciato indietro, ma non cessando mai di spingersi innanzi, satisfatto se potesse con molte ore di fatica, avanzare di pochi passi.[225] Il Principe pensava che le imprese le quali non lo facevano avvicinare a cotesto fine, per quanto il volgo potesse estimarle gloriose, fossero vanità fanciullesche. Sʼavvisò, quindi, di ricusare il consiglio di Mordaunt; e senza alcun dubbio ei fece bene. Se Guglielmo nel 1686, o anche nel 1687, avesse tentato di fare ciò che egli fece con tanto prospero esito nel 1688, è probabile che molti Whig, alla sua chiamata, sarebbero corsi alle armi; ma avrebbe, ad unʼora, sperimentato la nazione non essere per anche apparecchiata ad accogliere un liberatore armato che veniva da terra straniera, e la Chiesa non essere stata provocata e insultata fino a porre in dimenticanza la dottrina politica, della quale sʼera per tanto tempo singolarmente inorgoglita. I vecchi Cavalieri sarebbero accorsi intorno al regio vessillo: si sarebbe, probabilmente, in tutti i tre Regni accesa una guerra civile, lunga e sanguinosa al pari di quella della precedente generazione. E mentre nelle Isole Britanniche infuriasse siffatta guerra, che non avrebbe mai potuto tentare Luigi nel continente? E quale speranza sarebbe rimasta alla Olanda, emunta di forze militari ed abbandonata dal suo Statoldero? XVII. Guglielmo, adunque, fu pago per allora di provvedere in modo da rendere concorde e rianimare la potente opposizione dalla quale era riconosciuto come capo. E ciò non era difficile. La caduta degli Hydes aveva destato in tutta la Inghilterra strano timore e forte sdegno. Tutti accorgevansi, oggimai trattarsi di sapere non se il protestantismo sarebbe predominante, ma se sarebbe tollerato. Al Tesoriere era succeduta una Commissione, della quale era capo un papista. Il Sigillo Privato era stato affidato ad un papista. Al Lord Luogotenente dʼIrlanda era succeduto un uomo, il quale non aveva nessun altro merito per quellʼalto ufficio, tranne dʼessere papista. Lʼultima persona che un Governo, sollecito del bene dello Stato, avrebbe dovuto mandare a Dublino, era Tyrconnel. Per le sue maniere brutali era indegno di rappresentare la maestà della Corona. Per la pochezza dello intendimento e la violenza dellʼindole, era inetto a maneggiare gravi affari di Stato. Lʼodio mortale chʼegli sentiva pei possessori della più parte del suolo dʼIrlanda, lo rendeva segnatamente inabile a governare quel Regno. Ma la sua intemperante bacchettoneria era reputata bastevole espiazione della intemperanza delle altre sue passioni; e a contemplazione del suo odio contro la fede riformata, lo lasciavano abbandonarsi senza freno al suo odio contro il nome inglese. Tale era allora il vero intendimento del Re intorno ai diritti della coscienza! Voleva che il Parlamento abrogasse tutte le incapacità delle quali erano gravati i papisti, solo perchè potesse alla sua volta imporre pari incapacità ai Protestanti. Chiaro vedevasi che sotto un simigliante Principe lʼapostasia era il solo sentiero da condurre alla grandezza. E non pertanto, era un sentiero pel quale pochi rischiavansi di procedere; avvegnachè lo spirito nazionale fosse ormai desto, e ad ogni rinnegato toccasse soffrire tanto scherno ed abborrimento da parte del pubblico, che anche i cuori più induriti e nudi di vergogna non potevano non sentirlo. XVIII. Non può negarsi che alcune notevoli conversioni di recente avevano avuto luogo; ma tutte erano tali da accrescere poco credito alla Chiesa di Roma. Due uomini dʼalto grado, Enrico Mordaunt Conte di Peterborough, e Giacomo Cecil Conte di Salisbury, avevano abbracciata quella religione. Ma Peterborough, il quale era stato operoso soldato, cortigiano e diplomatico, allora giaceva affranto dagli anni e dalle infermità; e coloro che lo vedevano procedere per le sale di Whitehall barcollante, appoggiato ad un bastoncello e ravvolto di pannilani e dʼimpiastri, della sua diserzione confortavansi pensando chʼegli sʼera mantenuto fido alla religione degli avi finchè le sue facoltà intellettive non furono spente.[226] La imbecillità di Salisbury era passata in proverbio. Oltremodo sensuale, era tanto ingrassato che appena si poteva muovere, e quel corpo tardo era degno abitacolo dʼunʼanima stupida. Le satire di queʼ tempi lo dipingono come uomo nato stampato per farsi ingannare, il quale fino allora essendo stato vittima deʼ giuocatori, poteva di leggieri essere vittima dei frati. Una pasquinata, la quale circa lʼepoca del ritiro di Rochester, fu appiccata alla porta della casa di Salisbury nello Strand, esprimeva con grossolane parole lʼorrore con cui il savio Roberto Cecil, ove fosse potuto sorgere dal sepolcro, avrebbe veduto quale abbietta creatura era lʼerede deʼ suoi titoli ed onori.[227] XIX. Questi due uomini erano i più alti per grado fraʼ proseliti di Giacomo. Vʼerano altri rinnegati di unʼaltra specie; uomini di doti insigni, ma privi dʼogni principio e dʼogni senso della propria dignità. Abbiamo ragione di credere che fra costoro fosse Guglielmo Wycherley, il più licenzioso e insensibile scrittore dʼuna scuola singolarmente insensibile e licenziosa.[228] È certo che Matteo Tindal, il quale più tardi acquistò grande rinomanza scrivendo contro il Cristianesimo, fu in quel tempo ricevuto nel grembo della Chiesa infallibile; fatto, che, come può agevolmente supporsi, i teologi coi quali egli poscia appiccò controversia, non lasciarono punto nellʼoblio.[229] Altro più infame apostata fu Giuseppe Haines, il cui nome adesso giace quasi dimenticato, ma che era ben noto a queʼ tempi come avventuriere di versatile ingegno, scroccone, falsificatore di monete, falso testimonio, mallevadore impostore, maestro di ballo, buffone, comico, poeta. Taluni deʼ suoi prologhi ed epiloghi furono molto ammirati daʼ suoi contemporanei, i quali universalmente gli rendevano lode di buono attore. Costui si fece Cattolico Romano, e si recò in Italia come addetto allʼambasciata di Castelmaine; ma tosto, per riprovevole condotta, venne cacciato via. Se è da prestarsi fede ad una tradizione lungamente conservatasi, Haines ebbe la impudenza dʼasserire che la Vergine Maria gli era apparsa per esortarlo alla penitenza. Dopo la Rivoluzione, si provò di pacificarsi coi suoi concittadini con una ammenda più scandolosa dellʼoffesa stessa. Una notte, innanzi di rappresentare la parte sua in una farsa, comparve sul proscenio, avvolto in un bianco lenzuolo, con una torcia in mano, recitando una profana ed indecente filastrocca di versi, chʼegli chiamò la propria ritrattazione.[230] XX. Col nome di Haines correva congiunto in molti libelli il nome di un rinnegato più illustre, cioè di Giovanni Dryden. A quel tempo egli era in sul declinare degli anni suoi. Dopo molti successi ora prosperi ora sinistri, lʼopinione generale lo considerava come primo fra i poeti inglesi coetanei. I suoi diritti alla gratitudine di Giacomo erano molto superiori a quelli di qualunque altro scrittore del Regno. Ma Giacomo pregiava poco i versi, e molto il danaro. Dal dì in cui egli ascese al trono, si diede a fare piccole riforme economiche, e tali che acquistano sempre al Governo la taccia di spilorceria, senza recare alcun manifesto giovamento alle finanze. Una delle vittime di questa insensata parsimonia, fu il Poeta Laureato. Eʼ fu ordinato, che nella patente, la quale a cagion della nuova successione al trono, doveva rinnovarsi, lʼannuo onorario in origine concesso a Jonson, e continuato ai suoi successori, si omettesse.[231] Fu questo lʼunico pensiero che il Re, nel primo anno del suo regno, si degnò di volgere al possente poeta satirico, il quale, mentre ardeva il conflitto intorno alla Legge dʼEsclusione, aveva sparso il terrore nel partito deʼ Whig. Dryden era povero, e mal sopportava la povertà. Sapeva poco e davasi poco pensiero delle cose di religione. Se aveva in petto profondamente radicato alcun sentimento, era lʼavversione contro i preti di tutte le religioni, Leviti, Auguri, Muftì, Cattolici Romani, Presbiteriani, Anglicani. La natura non gli aveva largito anima elevata; e le sue occupazioni non erano state punto tali, da fargli acquistare altezza e delicatezza dʼanimo. Per molti anni erasi guadagnato il pane quotidiano arruffianando la sua musa al pervertito gusto della platea, e grossolanamente adulando ricchi e nobili protettori. Rispetto di sè, e senso squisito di convenevolezza, non potevano trovarsi in un uomo il quale aveva trascinata una vita di mendicità e di adulazione. Pensando che ove egli seguitasse a chiamarsi protestante, i suoi servigi non verrebbero rimunerati, si dichiarò papista. Cessò subitamente la parsimonia del Re. A Dryden fu conceduta una annua pensione di cento lire sterline, ed ebbe il carico di difendere in verso e in prosa la sua nuova religione. Due illustri scrittori, Samuele Johnson e Gualtiero Scott, hanno fatto ogni sforzo per persuadere sè ed altrui, che cotesta memorabile conversione fosse sincera. Era cosa naturale che volessero cancellare una macchia disonorevole dalla memoria dʼun ingegno da essi giustamente ammirato, e col quale concordavano rispetto ad opinioni politiche; ma lo storico imparziale è uopo che pronunci un giudizio assai dal loro differente. Vi sarà sempre forte presunzione contro la sincerità dʼuna conversione ogni qualvolta riesca a utile del convertito. Nel caso di Dryden, non vi ha nulla che contrappesi siffatta presunzione. I suoi scritti teologici provano ad esuberanza chʼegli non si studiò mai con diligenza ed amore di imparare il vero, e che le sue nozioni intorno alla Chiesa abbandonata e alla Chiesa abbracciata da lui, erano superficialissime. Nè la sua condotta dopo la conversione, fu quella dʼun uomo da un profondo senso deʼ propri doveri costretto a fare un così solenne passo. Ove egli fosse stato tale, la medesima convinzione che lo aveva condotto ad abbracciare la Chiesa di Roma, gli avrebbe certo impedito di violare gravemente e per abitudine i precetti da quella Chiesa, come da ogni altra società cristiana, riconosciuti obbligatorii. Tra i suoi scritti precedenti e traʼ susseguenti alla sua conversione, vi sarebbe stata notevole diversità. Avrebbe sentito rimorso deʼ suoi trenta anni di vita letteraria, durante i quali egli aveva sistematicamente adoperata la sua rara potenza di linguaggio e di versificazione a corrompere il pubblico. Dalla sua penna non sarebbe uscita, da quellʼora in poi, una sola parola tendente a rendere spregevole la virtù, e ad infiammare le licenziose passioni. Ed è sventuratamente vero, che i drammi da lui scritti dopo la sua pretesa conversione, non sono punto meno impuri o profani di quelli della sua giovinezza. Anche traducendo, scostavasi dai suoi originali per andare in cerca dʼimmagini, che, ove le avesse trovate negli originali stessi, avrebbe dovuto schivare. Ciò che in quelli era cattivo, nelle sue versioni diventava peggiore; ciò che era puro, passando nella sua mente, contraeva qualche macchia. Le più grossolane satire di Giovenale egli rese più riprovevoli; inserì descrizioni lascive nelle Novelle di Boccaccio; e corruppe la dolce e limpida poesia delle Georgiche con lordure che avrebbero stomacato Virgilio. XXI. Lo aiuto di Dryden fu accolto con gioia da quei teologi cattolici romani, i quali con difficoltà sostenevano un conflitto contro i più illustri ingegni della Chiesa Stabilita. Non potevano non riconoscere il fatto, che il loro stile, sfigurato da barbarismi contratti in Roma e in Doaggio, faceva meschina figura in paragone della eloquenza di Tillotson e Sherlock. Per lo che, pareva loro non essere lieve acquisto la cooperazione del più grande scrittore vivente dellʼidioma inglese. Il primo servigio che a lui fu chiesto in prezzo della sua pensione, fu di difendere in prosa la sua Chiesa contro Stillingfleet. Ma lʼarte di dir bene le cose diventa inutile ad un uomo che non abbia nulla da dire; e tale era il caso di Dryden. Vide come egli non valesse a sostenere il combattimento con un uomo da lunghi anni assuefatto a maneggiare le armi della controversia. Il battagliere veterano disarmò il novizio, gli inflisse qualche ferita di dispregio, e si volse contro più formidabili combattenti. Dryden allora impugnò unʼarma, nella quale non era agevole trovare chi potesse vincerlo. Si ritrasse alcun tempo dal trambusto deʼ caffè e deʼ teatri per rinchiudersi in un quieto luogo nella Contea di Huntingdon, ed ivi compose con insolita cura e fatica il suo celebre poema intorno ai punti disputati tra la Chiesa di Roma e quella dʼInghilterra. Rappresentò la Romana sotto la similitudine dʼuna candida cerva, sempre in pericolo di morte, e nondimeno destinata a non morire. Le belve della foresta congiuravano a spegnerla. Il Tremante coniglio, a dir vero, si teneva strettamente neutrale; ma la volpe Sociniana, il lupo Presbiteriano, lʼorso Indipendente, il cignale Anabattista, avventavano sguardi feroci alla intemerata creatura. Nondimeno ella poteva rischiarsi a bere insieme con loro alla fonte comune sotto la protezione del leone Regale. La Chiesa Anglicana era significata dalla pantera con la pelle macchiata, ma bella, anco troppo bella per bestia da preda. La cerva e la pantera, egualmente esose al feroce popolo della foresta, si ritrassero da parte per ragionare intorno al pericolo comune. Quindi seguitarono a discutere intorno ai punti delle loro differenze, e dimenando le code e leccandosi le ganasce, tennero un lungo colloquio sopra la presenza reale, lʼautorità deʼ papi e deʼ concili, le leggi penali, lʼAtto di Prova, gli spergiuri dʼOates, i servigi resi da Butler, benchè non ricompensati, al partito deʼ Cavalieri, i libercoli di Stillingfleet, e le ampie spalle e i fortunati negozi matrimoniali di Burnet. Lʼassurdità di questo poetico disegno è manifestissima. E in vero, cosiffatta allegoria non poteva regolarmente procedere oltre a dieci versi. Non vʼè magistero di forma che possa servire di compenso agli errori di un tal disegno. E nulladimeno, la Favola della Cerva e della Pantera è senza verun dubbio la produzione più pregevole della letteratura inglese del breve e torbido regno di Giacomo II. In nessuna delle opere di Dryden si potrebbero trovare brani più patetici e splendidi, maggior pieghevolezza ed energia di stile, e più piacevole e variata armonia. Il poema comparve alla luce con ogni vantaggio che la regia protezione potesse impartire. Una magnifica edizione ne fu fatta per la Scozia nella tipografia cattolica romana di Holyrood House. Ma le genti non erano in umore da lasciarsi ammaliare dal lucido stile e dagli armoniosi versi dello apostata. Il disgusto eccitato dalla sua venalità, il timore eccitato dalla politica di cui egli sʼera fatto panegirista, non erano cose da cantarsi per addormentare le menti. Il pubblico fu infiammato di giustissimo sdegno da coloro cui gli scherni del poeta scottavano, e da coloro che erano invidi della sua rinomanza. Non ostante le restrizioni che avvincolavano la stampa, ogni giorno apparivano satire intorno alla vita e agli scritti di lui. Ora lo chiamavano Bayes, ora il Poeta Squab. Gli rammentavano come in gioventù avesse tributato alla Casa di Cromwell le medesime servili lusinghe le quali egli adesso tributava alla Casa degli Stuardi. Alcuni deʼ suoi avversari maliziosamente ristamparono i versi pieni di sarcasmo già da lui scritti contro il papismo, allorquando non gli avrebbe nulla giovato lʼessere papista. Tra i molti componimenti satirici venuti alla luce in tale occasione, il più notevole fu opera di due giovani, i quali di recente avevano compiti i loro studi in Cambridge, ed erano stati accolti come novizi di belle speranze neʼ caffè letterari di Londra; voglio dire Carlo Montague e Matteo Prior. Montague era di nobile schiatta; la origine di Prior era talmente oscura, che nessun biografo ha potuto rinvenirla: entrambi poscia giunsero in alto; entrambi allo amore delle lettere congiungevano arte mirabile in quella specie dʼaffari di che i letterati generalmente sentono disgusto. Tra i cinquanta poeti deʼ quali Johnson ha scritto le vite, Montague e Prior sono i soli che avessero profonda conoscenza del commercio e delle finanze. Non andò guari, e presero vie lʼuna dallʼaltra diverse. La loro giovanile amicizia si sciolse. Uno di loro divenne capo del partito Whig, e fu processato dai Tory. Allʼaltro furono affidati tutti i misteri della diplomazia deʼ Tory, e fu lungamente tenuto in istretta prigionia dai Whig. Infine, dopo molti anni di vicissitudini, i due colleghi, chʼerano stati lungo tempo divisi, si ricongiunsero nellʼAbbadia di Westminster. XXII. Chiunque abbia attentamente letto il racconto della Cerva e della Pantera, si sarà dovuto accorgere che mentre Dryden lo stava componendo, grande variazione era seguita neʼ disegni di coloro che si servivano di lui come loro interprete. In sul principio, la Chiesa Anglicana è rammentata con tenerezza e rispetto, e viene esortata a collegarsi coʼ Cattolici Romani contro le sètte deʼ Puritani; ma alla fine del componimento, e nella prefazione scritta dopo che quello fu compiuto, i Protestanti Dissenzienti vengono invitati a far causa comune coi Cattolici Romani contro la Chiesa dʼInghilterra. Sì fatto mutamento di linguaggio nel poeta cortigiano indicava un grande mutamento nella politica della Corte. Il primitivo scopo di Giacomo era stato quello dʼottenere per la propria Chiesa non solo piena immunità da tutte le pene e da tutte le incapacità civili, ma ampia partecipazione ai beneficii ecclesiastici ed universitari, e nel tempo stesso di rinvigorire le leggi contro le sètte puritane. Tutte le dispense speciali da lui concedute, erano state a pro deʼ Cattolici Romani. Tutte le leggi più dure contro i Presbiteriani, glʼIndipendenti, i Battisti, erano state per qualche tempo da lui mandate severamente ad esecuzione. Mentre Hale comandava un reggimento, mentre Powis sedeva nel Consiglio, mentre Massey era decano, mentre i breviari e i messali stampavansi in Oxford muniti di regia licenza, mentre lʼOstia esponevasi pubblicamente in Londra sotto la protezione delle picche e degli archibugi delle guardie reali, mentre frati e monaci vestiti degli abiti loro passeggiavano per le vie della metropoli, Baxter era sepolto in carcere; Howe era in esilio; le leggi dette _Five–Mile–Act_, e _Conventicle–Act_, erano in pieno vigore; gli scrittori puritani erano costretti a ricorrere alle tipografie straniere o clandestine; le congregazioni puritane potevano riunirsi solamente di notte o in luoghi vasti, e i ministri puritani erano forzati a predicare travestiti da carbonai o da marinari. In Iscozia il Re, mentre non trascurava sforzo nessuno ad estorcere dagli Stati pieno alleggiamento pei Cattolici Romani, aveva chiesto ed ottenuto nuovi statuti di severità senza esempio contro i presbiteriani. La sua condotta verso gli esuli Ugonotti aveva con non minore chiarezza rivelato il suo cuore. Abbiamo di sopra veduto, che quando la pubblica munificenza aveva posto nelle mani del Re una grossa somma per alleggiare la sciagura di queʼ miseri, egli, rompendo ogni legge dʼospitalità e di buona fede, impose loro di rinunziare al culto calvinista, cui essi forte aderivano, ed abbracciare quello della Chiesa Anglicana, innanzi dʼottenere la più piccola parte delle limosine che erano state a lui affidate. Tale fu la sua politica finchè nutrì la speranza che la Chiesa Anglicana avrebbe consentito a predominare insieme con la Chiesa di Roma. Tanta speranza un tempo fu per lui una certezza. Lo entusiasmo con che i Tory lo avevano salutato nello ascendere chʼegli fece al trono, le elezioni, il rispettoso linguaggio e le ampie concessioni del suo Parlamento, la insurrezione delle Contrade Occidentali spenta, prostrato il partito che aveva tentato di privarlo della corona; queste e simiglianti altre cose lo avevano spinto oltre i confini della ragione. Era sicuro che ogni ostacolo cederebbe innanzi la sua potenza e fermezza. Il Parlamento gli oppose resistenza. Egli adoperò il cipiglio e le minacce; ma a nulla giovarono. Si provò di prorogarlo; ma dal giorno della proroga la opposizione ai suoi disegni era divenuta ognora più forte. Sembrava chiaro che volendo mandare ad effetto il proprio pensiero, gli era mestieri farlo sfidando quel gran partito che aveva dato segnalate prove di fedeltà al suo grado, alla sua famiglia, alla sua persona. Tutto il clero anglicano, tutti i gentiluomini Cavalieri gli stavano contro. Invano egli, per virtù della sua supremazia ecclesiastica, aveva comandato al clero che si astenesse dal discutere i punti controversi. In ogni chiesa parrocchiale del Regno, tutte le domeniche i sacerdoti esortavano i fedeli a guardarsi dagli errori di Roma: esortazioni che erano le sole efficaci, perocchè venivano accompagnate da proteste di riverenza verso il Sovrano, e da giuramenti di sopportare pazientemente ciò che gli sarebbe piaciuto di infliggere. I Cavalieri e scudieri realisti, i quali in quarantacinque anni di guerra e di fazioni avevano con esimio valore difeso il trono, adesso andavano con franche parole dicendo, essere risoluti di difendere con pari valore la Chiesa. Per quanto duro dʼintelletto fosse Giacomo, per quanto ei fosse dʼindole dispotica, conobbe chʼera tempo di appigliarsi ad altra via. Non poteva a un tratto rischiarsi ad oltraggiare tutti i suoi sudditi protestanti. Se si fosse potuto indurre a fare concessioni al partito predominante in ambe le Camere, a lasciare alla Chiesa Stabilita tutti gli emolumenti, i privilegi, le dignità, avrebbe potuto sturbare le ragunanze deʼ presbiteriani, ed empire le carceri di predicatori Battisti. Ma se era risoluto di spogliare la gerarchia, gli era mestieri privarsi della voluttà di perseguire i Dissenzienti. Se doveva da quinci innanzi appiccare lite coʼ suoi vecchi amici, gli era necessario far tregua coi vecchi nemici. Poteva opprimere la Chiesa Anglicana solo formando contro essa una vasta coalizione, che comprendesse le sètte, le quali, benchè e per dottrine e per ordinamento differissero lʼuna dallʼaltra molto più che da quella, potevano, perchè erano egualmente gelose della sua grandezza e ne temevano la intolleranza, essere indotte a far posa alle loro animosità finchè la ponessero in condizione di non poterle più opprimere. Cosiffatto disegno piacevagli singolarmente per questa ragione. Potendo riuscirgli di riconciliare fra loro i protestanti non–conformisti, gli era dato sperare di porsi al sicuro contro ogni probabilità di ribellione. Secondo i teologi anglicani, nessun suddito per qual si fosse provocazione poteva equamente resistere con la forza allʼunto del Signore. La dottrina deʼ Puritani era ben diversa. Essi non avevano scrupolo a trucidare i tiranni con la spada di Gedeone. Molti di loro non temevano dʼusare la daga di Ehud. E forse in quel mentre meditavano unʼinsurrezione simile a quella delle Contrade Occidentali, una congiura come quella di Rye House. Giacomo quindi pensò di potere senza pericolo perseguitare la Chiesa qualora gli fosse riuscito di amicarsi i Dissenzienti. Il partito, i cui principii non gli offrivano nessuna guarentigia, si sarebbe a lui accostato per interesse. Il partito del quale egli aggrediva glʼinteressi, sarebbe stato impedito dʼinsorgere per principio politico. Mosso da tali considerazioni, Giacomo, dal tempo in cui si divise di mal umore dal suo Parlamento, cominciò a meditare una lega generale di tutti i non–conformisti, cattolici e protestanti, contro la religione dello Stato. Fino dal Natale del 1685, gli agenti delle Provincie Unite scrivevano al loro Governo, essersi deliberato di concedere, e pubblicare tra breve una tolleranza generale.[232] Si vide col fatto che tale annunzio era prematuro. Eʼ sembra nondimeno, che i separatisti fossero trattati con più mitezza nel 1686, che nellʼanno precedente. Ma solo a poco a poco, e dopo lunga tenzone con le proprie inclinazioni, il Re potè indursi a formare colleganza con coloro chʼegli sopra tutti aborriva. Doveva vincere un odio non lieve o capriccioso, non nato e cresciuto pur allora, ma, ereditario nella sua famiglia, rinvigorito da gravissimi torti inflitti e sofferti pel corso di cento venti anni di vicende, e immedesimato a tutti i suoi sentimenti religiosi, politici, domestici e personali. Quattro generazioni di Stuardi avevano mosso guerra mortale a quattro generazioni di Puritani; e per tutta quella lunga guerra non vʼera stato nessuno fra gli Stuardi che al pari di lui odiasse i Puritani, e fosse da loro odiato. Eransi provati a disonorarlo, e ad escluderlo dal trono; lo avevano chiamato incendiario, scannatore, avvelenatore; lo avevano cacciato dallo Ammiragliato e dal Consiglio; lo avevano più volte bandito; avevano congiurato ad assassinarlo; gli erano a migliaia insorti contro impugnando le armi. Ei se ne era vendicato con una strage non mai fino allora veduta in Inghilterra. I loro capi e le loro squartate membra stavansi tuttavia fitti sulle pertiche a imputridire in tutte le piazze delle Contee di Somerset e di Dorset. Donne venerande per età e tenute in grande onoranza per religione e carità daʼ settarii, erano state decapitate e bruciate vive per falli sì lievi, che nessun buon principe avrebbe giudicate meritevoli nè anche dʼuna severa riprensione. Tali erano state, anco in Inghilterra, le relazioni tra il Re e i Puritani; e in Iscozia, la tirannia del Re e il furore deʼ Puritani erano tali, che nessuno Inglese gli avrebbe potuti concepire. Porre in oblio una nimistà così lunga e mortale non era lieve impresa per un cuore singolarmente duro e implacabile qual era quello di Giacomo. La tenzone che travagliava lʼanimo del Re, non isfuggì allʼocchio di Barillon. Alla fine di gennaio 1687, egli spedì a Versailles una lettera notevolissima. Il Re—tale era la sostanza di cotesto documento—era quasi convinto di non potere ottenere piena libertà a pro deʼ Cattolici Romani, e a un tempo mantenere le leggi contro i Protestanti Dissenzienti. Per la qual cosa, inclinava al partito di concedere una indulgenza generale; ma in cuor suo amerebbe meglio di potere anche adesso dividere la sua protezione e il suo favore tra la Chiesa di Roma e quella dʼInghilterra, escludendone tutte le altre sètte religiose.[233] XXIII. Pochissimi giorni dopo che fu scritto cotale dispaccio, Giacomo, esitando e di poco buona grazia, fece i primi passi a negoziare coi Puritani. Aveva fatto pensiero di cominciare dalla Scozia, dove la sua potestà di dispensare era stata riconosciuta dagli Stati verso lui ossequenti. Il dì 12 febbraio, quindi, fu pubblicata in Edimburgo una ordinanza ad alleggiare le coscienze scrupolose,[234] la quale prova come fosse esatto il giudicio di Barillon. Fino nello stesso atto di fare concessioni ai Presbiteriani, Giacomo non poteva nascondere il disgusto che sentiva per essi. I Cattolici ebbero piena tolleranza. I Quacqueri ebbero poca ragione di dolersi. Ma la indulgenza concessa ai Presbiteriani, che formavano la maggioranza del popolo scozzese, fu inceppata da condizioni tali, da renderla pressochè inutile. Al vecchio Atto di Prova, il quale escludeva egualmente i Cattolici e i Presbiteriani dagli uffici, fu sostituito un nuovo Atto di Prova che ammetteva i Cattolici, ma escludeva la maggior parte deʼ Presbiteriani. Ai Cattolici era lecito edificare cappelle, e anche portare lʼOstia processionalmente in ogni luogo, tranne nelle strade maestre deʼ borghi reali; ai Quacqueri era lecito di ragunarsi neʼ pubblici edifici: ma ai Presbiteriani fu inibito di adorare Dio altrove che nelle private abitazioni; non dovevano osare di erigere edifici per ragunarvisi; non potevano servirsi nè anche di una loggia o di un granaio per gli esercizi religiosi; e fu loro distintamente notificato, che ove avessero ardimento di tenere conventicole allʼaria aperta, la legge che puniva di morte i predicatori e gli uditori, verrebbe eseguita senza misericordia. Qualunque prete cattolico poteva dir Messa; qualunque Quacquero poteva arringare innanzi ai suoi confratelli: ma il Consiglio Privato ebbe comandamento di impedire che nessun ministro presbiteriano predicasse, senza speciale licenza del Governo. Ogni parola di cotesto Atto e delle lettere onde fu accompagnato, mostra quanto costasse al Re di mitigare minimamente il rigore col quale egli aveva sempre trattato i vecchi nemici della sua famiglia.[235] XXIV. Veramente, abbiamo ragione di credere, che allorquando egli pubblicò cotesta ordinanza, non era pienamente risoluto di far lega coi Puritani, e che il suo scopo era solo di concedere loro tanto favore che bastasse ad atterrire i credenti della Chiesa Anglicana e indurli a cedere. Onde egli aspettò per un mese a fine di vedere lo effetto che produrrebbe in Inghilterra lʼeditto promulgato in Edimburgo. Quel mese fu da lui impiegato assiduamente, giusta il consiglio di Petre, in ciò che chiamavasi ingabinettare. Londra era molto affollata di gente. Aspettavasi dʼora in ora la riapertura delle Camere pel disbrigo degli affari, e molti deʼ membri erano in città. Il Re si pose a indagare lʼanimo di ciascuno partitamente. Lusingavasi che i Tory zelanti—e di siffatti uomini, tranne pochissimi, era composta la Camera deʼ Comuni—avrebbero difficoltà a resistere alle calde dimande, fatte loro non in comune, ma separatamente a ciascuno, non dal trono, ma nella familiarità della conversazione. I rappresentanti, perciò, i quali recavansi a Whitehall per rendere riverenza al sovrano, erano tratti in disparte, e ricevevano lʼonore di lunghi colloqui. Il Re li pregava, a nome della lealtà loro, a compiacerlo nella sola cosa che gli stesse a cuore. Diceva andarci dellʼonor suo; le leggi fatte sotto il suo predecessore da Parlamenti faziosi contro i Cattolici Romani, avere avuto di mira lui solo; tali leggi avergli inflitta una macchia, averlo espulso dallʼAmmiragliato e dal Consiglio Privato; avere egli diritto che tutti coloro dai quali era amato e riverito, dovessero cooperare ad abrogare quelle leggi. Come si accôrse che i rappresentanti rimanevano duri alle sue esortazioni, si mise ad intimidirli e a corromperli. A coloro che ricusarono di cedere alle sue voglie, fu a chiare note detto, che non dovevano aspettarsi il più lieve segno della grazia sovrana. Per quanto ei fosse spilorcio, aperse e profuse i suoi tesori. Parecchi di coloro, chʼerano stati invitati a conferire con lui, uscirono dalle regie stanze con le mani piene dʼoro dato dal Re stesso. XXV. I Giudici, che a quel tempo facevano il giro ufficiale di primavera, ebbero ordine di vedere quei rappresentanti che rimanevano in provincia, e investigare i loro intendimenti. Il risultamento di tali investigazioni fu, che la grande maggioranza della Camera deʼ Comuni era risolutamente decisa ad opporsi alle misure della Corte.[236] Fra coloro la cui fermezza destò universale ammirazione, si rese notevole Arturo Herbert, fratello del Capo Giudice, rappresentante di Dover, Maestro Guardaroba e Contrammiraglio dʼInghilterra. Arturo Herbert era molto amato daʼ marinai, ed aveva voce dʼessere uno deʼ migliori ufficiali appartenenti al ceto aristocratico. Supponevasi comunemente chʼegli avrebbe di leggeri aderito alle voglie del Re, imperciocchè era non curante della religione, amante di godere e di spendere; non aveva patrimonio; i suoi impieghi gli fruttavano quattromila lire sterline lʼanno; ed era da lungo tempo annoverato tra i più fidi partigiani di Giacomo. Non per tanto, allorchè il Contrammiraglio fu condotto alle secrete stanze del suo signore e gli fu richiesta la promessa di votare contro la revoca dellʼAtto di Prova, rispose che lʼonore e la coscienza non gli consentivano di farlo. «Nessuno dubita dellʼonor vostro,» disse il Re «ma un uomo che conduce la vita come voi, non dovrebbe parlare di coscienza.» A questo rimprovero, che usciva con cattiva grazia dalle labbra del drudo di Caterina Sedley, Herbert animosamente rispose: «Io ho i miei difetti, o Sire; ma potrei nominare taluni i quali parlano di coscienza assai più di quel che io ho costume di fare, e intanto menano una vita sciolta come la mia.» Fu destituito da tutti i suoi impieghi; e i suoi conti dʼentrata e uscita come Maestro Guardaroba, furono sindacati con grande, e—come egli se ne dolse—ingiusta severità.[237] Oggimai vedevasi chiaramente, che era mestieri abbandonare la speranza dʼuna lega tra la Chiesa dʼInghilterra e quella di Roma a fine di partire tra esse gli uffici e gli emolumenti. Nullʼaltro rimaneva, che tentare una coalizione tra la Chiesa di Roma e le sètte puritane contro la Chiesa Anglicana. XXVI. Il diciottesimo giorno di marzo, il Re annunziò al Consiglio Privato il pensiero di prorogare il Parlamento sino alla fine di novembre, e concedere, di propria autorità, a tutti i suoi sudditi piena libertà di coscienza.[238] Il di quarto dʼaprile, fu promulgata la memorabile Dichiarazione dʼIndulgenza. In questa Dichiarazione, il Re significava essere suo desiderio di vedere il suo popolo rientrare in grembo di quella Chiesa alla quale egli apparteneva. Ma poichè ciò non poteva conseguirsi, annunziava chʼera suo intendimento proteggere ciascuno nel pieno esercizio della propria religione. Ripeteva tutte quelle frasi che otto anni innanzi, quando anchʼegli pativa oppressione, sʼudivano di continuo sulle sue labbra, ma che aveva cessato dʼusare fino dal giorno in cui, per un volgere di fortuna, era venuto in condizione di farsi oppressore. Diceva, essere da lungo tempo convinto, che la coscienza non doveva forzarsi; che la persecuzione tornava nociva allo incremento della popolazione e del commercio, e non conduceva mai al fine vagheggiato dal persecutore. Ripeteva la promessa, già più volte fatta e più volte violata, di volere proteggere la Chiesa dello Stato nel godimento deʼ suoi diritti. Procedeva quindi ad annullare, di propria autorità, una lunga serie di Statuti. Sospendeva tutte le leggi penali contro tutte le classi deʼ non–conformisti. Autorizzava i Cattolici Romani e i Protestanti Dissenzienti a esercitare pubblicamente il loro culto. Inibiva aʼ suoi sudditi—pena la collera sovrana—di molestare alcuna religiosa assemblea. Abrogava parimente quegli Atti che imponevano la prova religiosa come requisito ad occupare gli uffici civili e militari.[239] Che la Dichiarazione dʼIndulgenza fosse atto incostituzionale, è cosa, intorno alla quale entrambi i grandi partiti inglesi hanno sempre pienamente concordato. Chiunque sia capace di ragionare sopra una questione politica, deve intendere che un monarca competente ad emanare una simigliante dichiarazione, è niente meno che un monarca assoluto. Nè a difesa di Giacomo possono allegarsi quelle ragioni con le quali molti atti arbitrari degli Stuardi sono stati difesi o scusati. Non può dirsi chʼei sʼingannasse circa i confini della regia prerogativa, come quelli che non erano esattamente definiti. Imperciocchè è innegabile chʼegli li travarcava, non ostante che gli stesse dinanzi allo sguardo un esempio recente che in quel caso precisamente li stabiliva. Quindici anni innanzi, una Dichiarazione dʼIndulgenza era stata promulgata dal suo fratello per consiglio della Cabala. Ove cotesta Dichiarazione si paragoni con quella di Giacomo, potrebbe reputarsi modesta e cauta. La Dichiarazione di Carlo dispensava solo dalle leggi penali. La Dichiarazione di Giacomo dispensava anco da tutti gli Atti di Prova religiosa. La Dichiarazione di Carlo permetteva ai Cattolici Romani di celebrare il loro culto solamente nelle private abitazioni. Per virtù della Dichiarazione di Giacomo, essi potevano erigere e adornare i tempii, ed anche andare processionalmente lungo Fleet Street con croci, immagini e gonfaloni. E non ostante ciò, la Dichiarazione di Carlo era stata nel modo più solenne giudicata illegale. La Camera deʼ Comuni aveva deliberato, che il Re non aveva potestà di dispensare dagli Statuti nelle materie ecclesiastiche. Carlo aveva ordinato che quellʼistrumento venisse cancellato in presenza sua, aveva con le proprie mani strappato il sigillo, e con un messaggio munito della sua firma, e colle proprie labbra dal trono in pieno Parlamento, aveva chiaramente promesso ad ambe le Camere, che quellʼAtto, il quale aveva loro recato si grave offesa, non verrebbe mai considerato come esempio. Le Camere a pieni voti, tranne un solo, avevano ringraziato il Re per essersi degnato di compiacere ai desiderii loro. Non vʼè questione costituzionale che sia stata decisa con maggiore delicatezza, chiarezza ed unanimità. I difensori di Giacomo, ad escusarlo, hanno spesso allegato il giudizio della Corte del Banco del Re intorno alla querela collusivamente deposta contro Sir Eduardo Hales: ma tale argomento è di nessun valore; imperocchè quella sentenza, come è a tutti noto, fu ottenuta da Giacomo per mezzo di sollecitazioni e di minacce, cacciando via i magistrati scrupolosi, e sostituendone altri più cortigiani. E nondimeno, quella sentenza, tuttochè dal fôro e dalla nazione venisse generalmente considerata come incostituzionale, giunse solo ad affermare, che il sovrano, per ispeciali ragioni di Stato, può glʼindividui nominatamente esentare dagli Statuti portanti incapacità. Ma nessun tribunale, di faccia alla solenne decisione parlamentare del 1673, si era arrischialo ad affermare, che il Re avesse facoltà dʼautorizzare con un solo editto tutti i suoi sudditi a disubbidire ad interi volumi di leggi. XXVII. Tali, nonostante, erano le condizioni deʼ partiti, che credevasi certo, la Dichiarazione di Giacomo, quantunque fosse il più audace degli attentati fatti dagli Stuardi contro le pubbliche libertà, dover piacere a quegli stessi cittadini, i quali avevano con più coraggio e pertinacia resistito a tutti gli altri attentati degli Stuardi contro le libertà pubbliche. Non era supponibile che il Protestante non–conformista, daʼ suoi concittadini diviso da dure leggi rigorosamente eseguile, volesse contrastare la validità dʼun decreto che lo alleggiava da insopportabili aggravi. Un osservatore pacato e filosofo avrebbe indubitatamente affermato, che nessun male derivante da tutte le leggi intolleranti fatte dai Parlamenti, era da paragonarsi a quello che sarebbe nato, ove il potere legislativo dal Parlamento fosse passato nelle mani del principe. Ma tanta pacatezza e filosofia non è da trovarsi in coloro che gemono nella sciagura, e ai quali sʼoffre la tentazione dʼessere subitamente liberati. Un teologo puritano non poteva punto negare, che la potestà di dispensare pretesa dalla Corona, era incompatibile coʼ principii fondamentali della Costituzione. Ma anderebbe forse scusato sʼegli avesse detto: Che importa a me della Costituzione? LʼAtto dʼUniformità lo aveva, in onta alle promissioni sovrane, privato di un beneficio chʼera sua proprietà, e lo aveva ridotto miserabile e dipendente. LʼAtto, chiamato _Five–Mile–Act_, lo aveva bandito dalla sua abitazione, daʼ parenti, dagli amici, da quasi tutti i luoghi pubblici. Per vigore del _Conventicle–Act_, gli erano stati tolti i beni, ed egli era stato seppellito in carcere fra mezzo ai ladroni ed agli assassini. Fuori di prigione si vedeva ai fianchi gli ufficiali della giustizia; era costretto a dar la mancia alle spie perchè non lo denunciassero; passava ignominiosamente travestito, per finestre e bugigattoli onde riunirsi al proprio gregge; e versando lʼonda battesimale e amministrando il pane eucaristico, tendeva gli orecchi ansiosamente ascoltando il segno che lʼavvertisse come gli uscieri si avvicinavano. Non era egli uno scherno pretendere che un uomo in siffatta guisa oppresso patisse il martirio per gli averi e la libertà deʼ suoi spogliatori ed oppressori? La Dichiarazione, per quanto potesse sembrare dispotica ai suoi felici vicini, lo liberava da tanti mali. Egli fu chiamato ad eleggere, non tra la libertà e la schiavitù, ma fra due gioghi; ed è naturale chʼegli stimasse il giogo del Re più lieve di quello della Chiesa Anglicana. XXVIII. Mentre tali pensieri agitavansi in mente ai Dissenzienti, il partito anglicano era compreso di maraviglia e di terrore. Cotesto nuovo rivolgimento delle pubbliche cose era, a dir vero, terribile. La Casa Stuarda in lega coʼ repubblicani e coi regicidi contro i Cavalieri dʼInghilterra; il papismo in lega coʼ Puritani contro un ordinamento ecclesiastico, del quale i Puritani non querelavansi, se non che riteneva troppo deʼ riti papali: erano portenti tali da confondere tutti i calcoli degli uomini di Stato. La Chiesa doveva, adunque, essere aggredita da ogni parte; e capo della aggressione doveva essere colui che, per virtù della costituzione, era capo della Chiesa stessa. Era, quindi, naturale che rimanesse maravigliata e atterrita. E misti alla maraviglia e al terrore, destaronsi altri sinistri umori: risentimento contro lo spergiuro Principe, da essa fino allora affettuosamente servito; e rimorso delle crudeltà, a commettere le quali egli era stato complice della Chiesa, e adesso pareva dovernela punire. Ed era giusta punizione, imperocchè essa raccoglieva ciò che aveva seminato. Dopo la Restaurazione, trovandosi al più alto grado di sua potenza, non aveva ella altro spirito che vendetta. Aveva inanimati, incitati e quasi costretti gli Stuardi a rimunerare con perfida ingratitudine i recenti servigi deʼ Presbiteriani. Se nella stagione della prosperità ella si fosse interposta, come era suo debito, a pro deʼ propri nemici, gli avrebbe ora nella sciagura trovati amici. Forse non era troppo tardi; forse poteva anche riuscire di volgere la strategia del suo infido oppressore contro lui stesso. Esisteva fra il Clero Anglicano un partito moderato, il quale era stato sempre animato da miti sentimenti verso i Protestanti Dissenzienti. Cotesto partito non era numeroso; ma sʼera reso rispettabile per lʼabilità, la dottrina, e la virtù di coloro che lo componevano. Gli alti dignitari ecclesiastici gli erano stati poco favorevoli, e i bacchettoni della scuola di Laud lo avevano senza pietà oltraggiato: ma dal giorno in cui apparve la Dichiarazione dʼIndulgenza fino a quando la potenza di Giacomo cessò dʼincutere terrore, tutta quanta la Chiesa Anglicana sembrò animata dallo spirito, e guidata dai consigli deʼ calunniati Latitudinarii. XXIX. Allora seguì, per così dire, una concorrenza al rincaro più strana dʼogni altra, di cui serbi ricordo la storia. Da una parte il Re, dallʼaltra la Chiesa, studiavano acquistarsi, ciascuno a danno dellʼaltro, i favori di coloro ad opprimere i quali, fino a quel tempo, il Re e la Chiesa erano andati dʼaccordo. I Protestanti Dissenzienti, pochi mesi innanzi, erano una classe spregiata e proscritta; adesso tenevano la bilancia del potere. La durezza usata loro venne universalmente condannata. La Corte si provò di gettare tutta la colpa sopra la gerarchia; la quale la rigettava in viso alla Corte. Il Re dichiarò dʼavere a malincuore perseguito i Separatisti, solo perchè i suoi affari erano in tali condizioni, che egli non poteva rischiarsi a spiacere al clero anglicano. Il clero protestava dʼavere avuto parte in una severità contraria alle proprie inclinazioni, solo per deferenza allʼautorità del Re. Il Re mise insieme una raccolta di storielle concernenti rettori e vicari, i quali con minacce di persecuzione avevano estorto danaro dai Protestanti Dissenzienti. Ne parlò molto e pubblicamente; minacciò dʼistituire unʼinchiesta, la quale avrebbe mostrato al mondo i parrochi nelle loro genuine sembianze: e di fatto, creò diverse Commissioni, incaricando certi agenti, deʼ quali credeva potersi fidare, dʼindagare quanta pecunia in diversi luoghi del reame gli aderenti alla religione dello Stato avevano estorta daʼ settari. I difensori della Chiesa, dallʼaltro canto, citavano esempi di onesti sacerdoti, i quali dalla Corte erano stati ripresi e minacciati per avere dal pulpito inculcata la tolleranza, e ricusato di spiare e denunziare le piccole congregazioni di Non–Conformisti. Il Re asseriva che parecchi partigiani della Chiesa Anglicana, coi quali aveva conferito in secreto, gli avevano offerte ampie concessioni a favore deʼ Cattolici, a patto che la persecuzione contro i Puritani avesse a continuare. Gli accusati partigiani della Chiesa animosamente dicevano falsa lʼaccusa, aggiungendo che ove avessero voluto consentire ciò che il Re domandava, questi avrebbe volentieri conceduto loro che si indennizzassero perseguitando e spogliando i Protestanti Dissenzienti.[240] La Corte era cangiata dʼaspetto. Lʼabito da prete non poteva mostrarvisi senza provocare gli scherni e i maliziosi bisbigli deʼ cortigiani. Le dame di Corte, invece, astenevansi di ridere, e i ciamberlani sʼinchinavano profondamente quando per la reggia vedevano il viso e il vestire deʼ Puritani, che da tanto tempo erano stati neʼ circoli del bel mondo materia di scherno. Taunton, che pel corso di due generazioni era stata il baluardo del partito delle Teste–Rotonde nelle Contrade Occidentali, che aveva due volte respinto le armi di Carlo I, che sʼera levata come un solo uomo a favore di Monmouth, e che da Kirke e da Jeffreys era stata trasmutata in macello di carne umana, sembrava avere repentinamente acquistato nel cuore del Re il posto una volta occupato da Oxford.[241] Il Re faceva forza a sè stesso, per mostrarsi lusinghevolmente cortese aʼ più egregi fraʼ Dissenzienti. A chi offerse danari, a chi uffici municipali, a chi grazie pei parenti ed amici, i quali, implicati nella congiura di Rye House o nella ribellione di Monmouth, ramingavano nel continente, o sudavano fra le piantagioni americane. Simulò perfino di consentire coʼ Puritani inglesi nella cortesia che mostravano ai loro confratelli stranieri. Furono pubblicati in Edimburgo un secondo e un terzo proclama, coʼ quali considerevolmente egli slargava la futile tolleranza concessa ai presbiteriani dallo editto di febbraio.[242] I banditi Ugonotti, che il Re per molti mesi aveva guardati in cagnesco, privandoli della limosina fatta loro dalla nazione, adesso ricevevano alleggiamento e carezze. Il Consiglio emanò un ordine per destare a favor loro la pubblica liberalità. La condizione di conformarsi al culto anglicano, che il Re aveva loro imposta per ottenere parte della limosina, sembra questa volta essere stata tacitamente abrogata; e i difensori della politica del Re ebbero la sfrontatezza di affermare, che quella condizione—la quale, come risulta incontrastabilmente daʼ fatti, era stata immaginata da lui dʼaccordo con Barillon—fosse stata adottata ad istanza deʼ prelati della Chiesa Anglicana.[243] Mentre il Re in cotesto modo studiavasi di blandire i suoi antichi avversari, gli amici della Chiesa non erano meno di lui operosi. Appena vedevansi i segni di quellʼacrimonia e di quel disprezzo con che, dopo la Restaurazione, i prelati e i preti solevano trattare i settarii. Coloro che poco innanzi erano additati come scismatici o fanatici, adesso erano divenuti diletti confratelli protestanti; deboli uomini forse, ma tuttavia confratelli, i cui scrupoli meritavano pietoso compatimento. Ove essi in cotesta crisi si mostrassero sinceri alla causa della Costituzione inglese e della religione riformata, la loro generosità verrebbe tosto e largamente rimunerata. Invece di una indulgenza di nessun valore legale, ne otterrebbero una vera, assicurata con un atto del Parlamento. Anzi, molti aderenti alla Chiesa Anglicana, i quali fino allora sʼerano fatti notare per la loro inflessibile venerazione dʼogni gesto e dʼogni parola prescritta nel Libro della Preghiera Comune, dichiaravansi oramai favorevoli, non solo alla tolleranza, ma anche alla comprensione. Dicevano che la disputa intorno al vestire e allo atteggiarsi, aveva per lungo tempo diviso coloro i quali concordavano intorno ai punti essenziali della religione. Finita la lotta mortale contro il comune nemico, vedrebbero come il clero anglicano si mostrerebbe pronto a far loro ogni concessione. Se i Dissenzienti dimandassero allora ciò che è ragionevole, non solo sarebbero loro concessi gli uffici civili, ma gli ecclesiastici; e Baxter e Howe, senza macchia veruna dʼonore e di coscienza, potrebbero assidersi fra i vescovi. XXX. Fra tutti i numerosi scritti coʼ quali in quel tempo la Corte e la Chiesa ingegnavansi di trarre a sè il Puritano, che oggimai, per uno strano volgere di fortuna, era divenuto arbitro delle sorti deʼ suoi persecutori, dʼun solo è serbata fino ai dì nostri ricordanza; cioè della Lettera a un Dissenziente. In questo articoletto, tratteggiato con gran magistero, tutti gli argomenti atti a convincere un Non–Conformista comʼera di suo dovere e interesse il preferire la lega con la Chiesa alla lega con la Corte, sono condensati nel più breve spazio, con lucidissimo ordine disposti, illustrati con spiritosa vivacità, e rinvigoriti con eloquenza, la quale, ancorchè fervida e veemente, non travarca i confini del buon senso e della convenevolezza. La sensazione da esso prodotta fu immensa; imperocchè, essendo un solo foglio volante, ne furono spediti per la posta ventimila e più esemplari; e non vi fu luogo nel Regno, in cui non ne fosse sentito lo effetto. Tosto comparvero alla luce ventiquattro risposte; ma la voce pubblica le disse tutte cattive, e peggiore di tutte quella di Lestrange.[244] Il Governo ne fu fortemente irritato, e fece ogni sforzo a scoprire lo autore della Lettera; ma non fu possibile trovarne prove legali. Ad alcuni parve riconoscervi le opinioni e lo stile di Temple.[245] Ma, a dir vero, quella larghezza e acutezza di concepimento, quella vivacità di fantasia, quello stile terso ed energico, quella calma dignità, mezzo cortigiana e mezzo filosofica, non perturbata mai dalla estrema concitazione del conflitto, erano qualità appartenenti al solo Halifax. XXXI. I Dissenzienti ondeggiavano; nè vanno di ciò rimproverati, avvegnachè il Re gli alleviasse daʼ mali che essi soffrivano. Molti insigni pastori erano stati liberati dalla prigionia; altri eransi rischiati a ritornare dallo esilio. Le congregazioni che fino allora sʼerano tenute di furto e fra le tenebre, adesso ragunavansi in pieno giorno; cantavano salmi ad alta voce, tanto da farsi udire dai magistrati, daʼ sagrestani e dagli agenti di polizia. Parecchi modesti edifici per servigio del culto puritano, cominciarono a sorgere in tutta la Inghilterra. Un diligente viaggiatore potrebbe anche oggi notare la data del 1687, in alcuno deʼ più vecchi di siffatti edifici. Nondimeno, per un giudizioso Dissenziente, le profferte della Chiesa erano più accettabili di quelle fatte dal Re. La Dichiarazione era nulla al cospetto della legge. Sospendeva gli statuti penali contro i Non–Conformisti, solo finchè rimanevano sospesi i principii fondamentali della Costituzione, e lʼautorità legittima del corpo legislativo. E che era mai il valore di privilegi posseduti con tanta ignominia e con sì poca sicurezza? Il trono da un giorno allʼaltro avrebbe potuto divenire vacante, e toccare in sorte ad un Sovrano fedele osservatore della religione dello Stato. Si sarebbe potuto ragunare un Parlamento composto di credenti nella Chiesa Anglicana. Quanto, deplorabile sarebbe allora la situazione deʼ Dissenzienti, collegati coʼ Gesuiti contro la Costituzione! La Chiesa offriva una indulgenza molto differente da quella concessa da Giacomo, e valida e sacra al pari della _Magna Carta_. Ambedue i partiti avversi offrivano libertà ai Separatisti: ma lʼuno voleva che essi la comperassero col sacrifizio della libertà civile; lʼaltro glʼinvitava a godere della libertà civile e della religiosa. Per tali ragioni, quando anche si fosse potuto prestar fede alla sincerità della Corte, un Dissenziente avrebbe ragionevolmente dovuto congiungere la propria sorte con quella della Chiesa. Ma qual guarentigia della propria sincerità offriva la Corte? La condotta fino a quel tempo tenuta da Giacomo era nota a ciascuno. Per vero dire, non era impossibile che un persecutore si fosse potuto col ragionamento e con la esperienza convincere dellʼutilità della tolleranza. Ma Giacomo non asseriva dʼessersi pur allora convinto: allʼincontro, non lasciava sfuggire nessuna occasione per protestare come egli da molti anni per principio abborrisse da ogni intolleranza. E nulladimeno, in pochi mesi, aveva perseguitato a morte uomini, donne, giovinette, per la loro religione. Aveva egli agito contro la evidenza e le proprie convinzioni? O adesso mentiva per calcolo? Da questo dilemma non vʼera modo a svincolarsi; ed ambedue le supposizioni erano fatali alla pretesa onestà del Re. Era parimente manifesto, chʼegli sʼera compiutamente sottoposto ai Gesuiti. Solo pochi giorni innanzi la pubblicazione della Indulgenza, la Società di Gesù era stata da lui onorata, malgrado i ben noti desiderii della Santa Sede, con un nuovo segno di fiducia ed approvazione. Il Padre Mansueto, dellʼOrdine deʼ Francescani, suo confessore, riverito da tutti per la sua indole dolce e per la sua vita irreprensibile, ma da lungo tempo in odio a Tyrconnel e Petre, era stato posto da parte. Il posto vacante era stato dato ad un Inglese, di nome Warner, il quale, apostatando dalla religione del proprio paese, erasi fatto Gesuita. Tale nomina non fu punto gradevole ai Cattolici Romani moderati ed al Nunzio; e da ogni protestante venne considerata come prova dello assoluto predominio deʼ Gesuiti sullʼanimo del Re.[246] Siano quante si vogliano le lodi alle quali queʼ reverendi possano giustamente pretendere, gli stessi adulatori non potrebbero loro attribuire le qualità di largamente liberali o rigorosamente veraci. Che, trattandosi dello interesse dellʼordine, non avessero mai avuto scrupoli a chiamare in loro aiuto la spada deʼ Principi, o violare il vero e la buona fede, era stato asserito al cospetto del mondo, non solo daʼ protestanti loro accusatori, ma da uomini altresì della cui virtù e del cui genio gloriavasi la Chiesa di Roma. Era incredibile che un cieco discepolo deʼ Gesuiti, per principio fosse zelante della libertà di coscienza; ma non era nè incredibile nè improbabile chʼegli si reputasse giustificato, dissimulando i propri veri sentimenti, onde rendere servigio alla propria vera religione. Era certo che il Re in cuor suo gli Anglicani preferiva ai Puritani. Era certo parimente, che mentre aveva speranza di trarre al suo partito i credenti della Chiesa dʼInghilterra, non sʼera menomamente mostrato cortese verso i Puritani. Poteva, adunque, dubitarsi, che ove gli Anglicani si fossero anche allora arresi ai suoi desiderii, non avrebbe volentieri sacrificato i Puritani? Per la parola da lui più volte data, ei non sʼera astenuto dallo invadere i diritti legittimi di quel clero, il quale aveva date cotante prove di affetto e di fedeltà verso la casa di lui. Di qual sicurtà sarebbe adunque la sua parola alle sètte che da lui divideva la rimembranza di mille imperdonabili ferite fatte e ricevute? XXXII. Calmato il primo concitamento, prodotto dalla promulgazione della Indulgenza, eʼ parve che una rottura avesse avuto luogo nel partito puritano. La minoranza, capitanata da pochi faccendieri che difettavano di senno e miravano al proprio interesse, sosteneva il Re. Enrico Care, il quale da gran tempo era stato il più acre ed indefesso articolista deʼ Non–Conformisti, e neʼ giorni della Congiura Papale aveva osteggiato Giacomo con estremo furore in un Giornale settimanale detto _Pacco di Notizie da Roma_, adesso alzava la voce ad adulare, come lʼaveva già alzata a vomitare calunnie ed insulti.[247] Lo agente precipuo adoperato dal Governo a raggirare i Presbiteriani, era Vincenzo Alsop, teologo di qualche riputazione, e come predicatore e come scrittore. Il suo figliuolo, che era incorso nelle pene comminate aʼ rei di crimenlese, ottenne la grazia; e in tal guisa il padre adoperò tutta la propria influenza a pro della Corte.[248] Con Alsop si congiunse Tommaso Rosewell. Costui, mentre infuriava la persecuzione contro i Dissenzienti dopo la scoperta della Congiura di Rye House, era stato falsamente accusato di avere predicato contro il Governo, era stato processato da Jeffreys, e in onta alla evidenza deʼ fatti, convinto daʼ giurati corrotti e dannato a morte. La ingiustizia della sentenza era sì enorme, che gli stessi cortigiani ne vergognarono. Un gentiluomo Tory che era stato presente al processo, corse di subito a Carlo, dichiarando che la testa del suddito più leale in Inghilterra non sarebbe più in sicuro, qualora Rosewell venisse punito. Gli stessi giurati punse il rimorso quando ripensarono sopra ciò che avevano fatto, e sforzaronsi di salvare la vita a quel misero. In fine, egli ottenne perdono, ma a patto di dare una forte cauzione di buona condotta per tutta la vita, e di presentarsi periodicamente al Banco della Corte del Re. Oggimai per volere del Re fu liberato da cotesto carico; e in tal modo divenne partigiano della Corte.[249] Lo incarico di trarre al partito della Corte glʼindipendenti, venne affidato ad uno deʼ loro ministri, chiamato Stefano Lobb. Lobb era uomo debole, violento ed ambizioso. Sʼera spinto tanto oltre nella opposizione, chʼera stato nominatamente proscritto in parecchi editti. Adesso si rappacificò col Governo, e trascese tanto a mostrarsi servile, quanto aveva trasceso a mostrarsi fazioso. Si collegò con la cabala gesuitica, e caldamente suggerì cose, dalle quali abborrivano i più savi ed onesti Cattolici Romani. Fu notato come egli di continuo fosse in palazzo, e spesso nelle secrete stanze del Re; come menasse una vita splendida, alla quale i teologi puritani erano poco assuefatti; e fosse perpetuamente circondato da sollecitatori, imploranti protezione ad ottenere grazie od uffici.[250] XXXIII. Con Lobb era in grande intimità Guglielmo Penn. Penn non era stato mai uomo di vigoroso intelletto. La vita da lui per due anni menata, gli aveva non poco guasto il senso morale; e se la coscienza mai gli rimordesse, confortavasi pensando di tendere a buono e nobile scopo, e di non ricevere paga in danaro peʼ propri servigii. Per influenza di questi, e dʼaltri uomini meno cospicui, diverse corporazioni di Dissenzienti presentarono al Re indirizzi in rendimento di grazie. Gli scrittori Tory hanno dirittamente notato, che il linguaggio di cotesti scritti era così disgustevolmente servile, come qualunque altra cosa che possa trovarsi neʼ più ampollosi elogi che i Vescovi facevano degli Stuardi. Ma, diligentemente esaminando, è agevole accorgersi che tale vergogna pesa sopra pochi del partito puritano. Non vʼera città di mercato in Inghilterra, in cui non fosse almeno un nucleo di Separatisti. Non fu trascurato sforzo veruno per indurli a ringraziare il Re della largita Indulgenza. Lettere circolari, con preghiera di firmarle, correvano per ogni angolo del Regno, in tanto numero, che le valigie postali—come scherzevolmente dicevasi—erano troppo gravi per essere trasportate dai cavalli da posta. E nulladimeno, tutti glʼindirizzi che poteronsi ottenere da tutti i Presbiteriani, Indipendenti e Battisti, sparsi per la Inghilterra, non giunsero, in sei mesi, al numero di sessanta; nè vʼè ragione a credere che fossero muniti di numerose firme.[251] XXXIV. La massima parte deʼ protestanti non–conformisti, con fermezza aderenti alla libertà civile, e non fidenti nelle promesse del Re e deʼ Gesuiti, immutabilmente ricusarono di rendere grazie per un favore, il quale, come bene poteva auspicarsi, nascondeva una trama. Così pensavano tutti i più illustri capi di quel partito. Uno di essi era Baxter. Secondo che abbiamo osservato, era stato processato tosto dopo lʼascensione di Giacomo al trono; era stato brutalmente insultato da Jeffreys, e convinto da giurati, quali in queʼ tempi gli Sceriffi cortigiani avevano costume di scegliere. Baxter da circa un anno e mezzo era rimasto in carcere, allorquando la Corte cominciò seriamente a pensare di collegarsi coi non–conformisti. Non solo gli fu data libertà, ma gli venne detto che ove volesse abitare in Londra, poteva farlo, senza temere che la legge chiamata _Five–Act–Mile_ gli fosse applicata. Il Governo forse sperava che la rimembranza deʼ mali sofferti, e il sentimento del conseguito riposo, avrebbe in lui prodotto il medesimo effetto che destò in Rosewell e Lobb. Vana speranza! perocchè Baxter non era uomo da lasciarsi ingannare o corrompere. Ricusò di firmare qualunque indirizzo per rendere al Sovrano grazie della compartita Indulgenza, e adoperò tutta lʼautorità sua a promuovere la concordia tra la Chiesa e i Presbiteriani.[252] Se vi fu uomo daʼ Protestanti Dissenzienti maggiormente stimato di Baxter, egli era Giovanni Howe. Ad Howe, come a Baxter, tornava personalmente utile il mutamento nella politica pur allora seguito. La tirannide stessa la quale aveva sepolto Baxter in carcere, aveva cacciato Howe in bando; e tosto dopo che Baxter era stato tratto fuori della prigione del Banco del Re, Howe da Utrecht ritornava in Inghilterra. Aspettavasi a Whitehall, che Howe adoperasse a beneficio della Corte tutta lʼautorità chʼegli esercitava sopra i suoi confratelli. Il Re stesso condiscese a chiedere il soccorso del suddito da lui già oppresso. Eʼ sembra che Howe tentennasse; ma gli Hampden, ai quali era vincolato di stretta amistanza, lo mantennero fermamente fedele alla causa della Costituzione. Una ragunanza di ministri presbiteriani fu tenuta in sua casa, onde considerare le condizioni deʼ tempi, e stabilire il cammino da prendersi. La Corte era ansiosa di conoscerne il risultamento. Due messi regii erano presenti alla discussione, e recarono la trista nuova, che Howe sʼera dichiarato decisamente avverso alla potestà di dispensare, e, dopo lunghe dispute, aveva tratto alla propria opinione la maggioranza della assemblea.[253] XXXV. Ai nomi di Baxter e di Howe è dʼuopo aggiungere quello di un uomo loro inferiore e per grado sociale e per istruzione, ma uguale per virtù, e superiore per ingegno; voglio dire Giovanni Bunyan. Aveva esercitato il mestiere di calderaio, e servito come semplice soldato nello esercito parlamentare. Ancora nel fiore degli anni, sʼera sentito torturare dal rimorso pei peccati della sua gioventù, il più grave deʼ quali sembra essere stato di quelli che il mondo reputa veniali. Un vivo sentire e una potente immaginazione rendevano nel cuor suo singolarmente terribile il conflitto. Gli pareva dʼessere colpito da una sentenza di riprovazione, dʼavere bestemmiato contro lo Spirito Santo, dʼavere venduto Cristo, di essere ossesso dal demonio. Ora udiva alte voci dal cielo che lo ammonivano; ora si sentiva dalle furie infernali susurrare agli orecchi empi consigli. Gli apparivano visioni di lontane montagne sopra le cui cime il sole mandava coruschi i suoi raggi; ma dalle quali egli era diviso da un vasto deserto di neve. Sentiva dietro le spalle il demonio tirarlo per gli abiti. Pensava portare impresso sulla fronte il segno di Caino. Temeva dʼesser presso a scoppiare al pari di Giuda. La tortura della mente gli rovinò la salute. Un giorno, dibattevasi come uomo colpito da paralisi. Un altro, ei si sentiva ardere in petto un vivo fuoco. Torna difficile lo intendere in che guisa egli potesse sopravvivere a uno strazio sì forte e sì lungo. In fine, squarciaronsi le nubi che gli ottenebravano la mente. Dal fondo della disperazione, il penitente innalzossi a uno stato di calma beata. Adesso sentivasi tratto da irresistibile impulso ad impartire agli altri la beatitudine chʼegli godeva.[254] Si aggregò ai Battisti, e divenne predicatore e scrittore. La sua educazione era stata quella dʼun artigiano. Non sapeva altra lingua che la inglese, così come era parlata dal volgo. Non aveva studiato nessuno insigne modello di scrivere, ad eccezione—eccezione, a dir vero, importantissima—della nostra egregia versione della Bibbia. Scriveva con cattiva ortografia. Commetteva di frequente errori grammaticali. Nulladimeno, la innata forza del genio e la esperienza di tutte le passioni religiose, dalla disperazione fino allʼestasi, supplivano in lui abbondantemente al difetto della dottrina. La sua rozza eloquenza concitava e faceva stemperare in lacrime coloro che ascoltavano svogliatamente gli elaborati discorsi di grandi filosofi ed ebraisti. I suoi scritti erano grandemente popolari nelle infime classi. Uno di essi, intitolato il Viaggio del Pellegrino, venne, vivente ancora lʼautore, tradotto in varie lingue straniere. E non per tanto, era pressochè sconosciuto agli uomini dotti e culti; e da quasi un secolo formava il diletto deʼ pii abitatori delle capanne e degli artigiani, innanzi che venisse pubblicamente commendato da alcuno letterato eminente. Alla perfine, i critici sʼindussero a ricercare dove giacesse il segreto dʼuna popolarità cotanto ampia e durevole; e furono costretti a confessare, che la ignorante moltitudine aveva giudicato più dirittamente dei dotti, e che lo spregiato libercolo era veramente un capolavoro. Bunyan, per certo, è il primo degli scrittori dʼAllegorie, come Demostene è il primo degli oratori, e Shakespeare il primo deʼ poeti drammatici. Altri allegoristi hanno fatto prova di uguale ingegno; ma a nessun altro di loro è mai riuscito di toccare il cuore, e trasmutare in astrazioni oggetti di terrore, di pietà e dʼaffetto.[255] Mal potrebbe dirsi che alcun Dissenziente inglese avesse più di Giovanni Bunyan provato il rigore delle leggi penali. Deʼ ventisette anni corsi dopo la Restaurazione, ne aveva passati dodici in carcere. Persisteva a predicare, ma gli era uopo travestirsi da carrettiere. Spesso veniva introdotto nelle ragunanze per qualche uscio segreto, con la casacca sur una spalla e la frusta in mano. Se avesse pensato alla salvezza ed agli agi suoi, avrebbe plaudito alla pubblicazione della Indulgenza. Adesso, in fine, gli era dato liberamente pregare e predicare di pieno giorno. Il suo uditorio sʼandava rapidamente accrescendo; migliaia di cuori pendevano dallo sue labbra; e in Bedford, dove egli dʼordinario stanziava, furono raccolti in abbondanza danari a edificare una sala dʼadunanza. Lʼautorità di lui sul basso popolo era tanta, che il Governo volentieri gli avrebbe dato qualche ufficio municipale: ma il suo vigoroso intendimento e il suo robusto animo inglese resistettero contro ogni tentazione ed inganno. Vedeva chiaramente come la concessa tolleranza altro non fosse che un amo per trarre alla rovina il partito puritano; nè accettando un ufficio, a conseguire il quale egli non aveva i requisiti legali, voleva riconoscere la validità della potestà di dispensare. Uno degli ultimi atti della gloriosa sua vita fu di ricusare un convegno al quale ei venne invitato da un agente del Governo.[256] XXXVI. Per quanto grande fosse fraʼ Battisti lʼautorità di Bunyan, quella di Guglielmo Kiffin era anco maggiore. Kiffin era primo tra loro e per ricchezze e per grado. Aveva costume di compartire nelle loro ragunanze i suoi doni spirituali; ma non sosteneva la vita con la predicazione. Conduceva esteso traffico; aveva gran credito nella Borsa di Londra; ed aveva accumulato un gran patrimonio. Forse in quella occasione non vʼera uomo che potesse rendere alla Corte maggiori servigi. Ma tra lui e la Corte stava la rimembranza dʼun terribile fatto. Egli era lʼavo deʼ due Hewling, queʼ prestanti giovani, i quali, fra tutte le vittime del Tribunale di Sangue, erano stati i più universalmente compianti. Della trista sorte di uno di loro, Giacomo era in guisa speciale responsabile. Jeffreys aveva differita la esecuzione della sentenza pel minore deʼ fratelli. La sorella del malarrivato giovane era stata introdotta da Churchill al cospetto di Giacomo, ed aveva implorata mercè; ma il cuore del Re era rimasto duro come un macigno. Grande, a tanta sciagura, era stato il dolore della famiglia; ma Kiffin era colui che destava più compassione. Aveva settanta anni di età allorquando rimase deserto e superstite a coloro che dovevano chiudergli i moribondi lumi. Gli adulatori venali e senza cuore di Whitehall, da sè giudicando gli altri, pensavano che il venerando vecchio si sarebbe agevolmente riconciliato, ove il Re gli gittasse sulle spalle la veste di Aldermanno, e gli desse qualche compensazione pecuniaria pei beni confiscati ai nepoti. Penn ebbe incarico di sedurlo, ma invano. Giacomo volle provare quale effetto produrrebbero le regie blandizie. Kiffin fu chiamato a palazzo. Vi trovò una eletta brigata di nobili e di gentiluomini. Appena egli comparve, il Re gli si fece incontro volgendogli graziose parole, e concluse: «Io ho notato il vostro nome, signore Kiffin, nella lista degli Aldermanni di Londra.» Il vegliardo fisse gli occhi negli occhi del Re, e dando in uno scoppio di pianto, rispose: «Sire, io son logoro affatto: mi sento inetto a servire Vostra Maestà o la Città. Ahi! Sire, la morte delle mie povere creature mi ha trafitto il cuore. La ferita mi sanguina più che mai, e la porterò meco sotterra.» Il Re per un istante ammutolì confuso; poi disse: «Signore Kiffin, troverò io un balsamo a cotesta piaga.» Certamente Giacomo non intendeva dire cosa crudele o insolente; allʼopposto eʼ sembra che fosse, contro lʼusato, di modi dolci e cortesi. Nondimeno, la storia non rammenta parole uscitegli dal labbro, che, al pari delle poche riferite, porgano più sinistra idea del suo carattere. Sono parole dʼun uomo di cuor duro e di mente abietta, inetto a concepire che vʼhanno dolori, a mitigare i quali non valgono nè pensioni nè onorificenze dʼuffici.[257] La parte deʼ Dissidenti favorevoli alla nuova politica del Re, se in prima era poco numerosa, tosto cominciò a scemare; imperciocchè i Non–Conformisti non guari dopo sʼaccôrsero che la Indulgenza aveva ristretto più presto che esteso i loro privilegi spirituali. La precipua caratteristica del Puritano era lo abborrimento deʼ riti della Chiesa di Roma. Egli aveva abbandonata la Chiesa Anglicana, perocchè stimava chʼessa somigliasse molto alla sua superba e voluttuosa sorella, la maliarda dalla coppa dʼoro e dal manto di porpora. Adesso vedeva che una delle condizioni implicite di quella colleganza, da parecchi deʼ suoi pastori fatta con la Corte, era che la religione della Corte dovesse essere trattata con rispetto e dolcezza. Sentì quindi amaro desio deʼ giorni della persecuzione. Mentre erano in vigore le leggi penali, egli aveva ascoltata la parola di vita furtivamente e con suo pericolo: ma tuttavia lʼaveva ascoltata. Quando i confratelli ragunavansi nella più secreta stanza, quando le scolte erano ai posti loro, le porte ben chiuse, e il predicatore, travestito da macellaio o da vetturino, sʼera introdotto su peʼ tetti, allora almeno poteva adorare Dio secondo il vero culto. La verità divina non era minimamente taciuta o timidamente espressa per umani riguardi. Tutte le dottrine distintive della teologia puritana erano pienamente, e perfino con modi rozzi, significate. Alla Chiesa di Roma non usavasi punto indulgenza. La Bestia, lo Anticristo, lʼUomo del Peccato, la mistica Jezabelle, la mistica Babilonia, erano le frasi ordinariamente adoperate a descrivere quella augusta e incantevole superstizione. In siffatto modo avevano favellato un tempo Alsop, Lobb, Rosewell ed altri ministri, i quali erano stati poco innanzi accolti nella reggia; ma così più non favellavano. Teologi che avevano in animo di conseguire la grazia e la fiducia del Re, non potevano rischiarsi a parlare aspramente della religione del Re. Le congregazioni per ciò altamente, dolevansi, che dopo promulgata la Dichiarazione che pretendeva dar loro piena libertà di coscienza, non avevano mai più udito predicare fedelmente e con franchezza il Vangelo. Per lo innanzi erano stati costretti a procacciarsi di furto il cibo spirituale; ma avutolo, lo trovavano condito a seconda del gusto loro. Adesso potevano liberamente cibarsi; ma quel cibo aveva perduto tutto il suo sapore. Adunavansi di giorno e dentro comodi edifici; ma udivano discorsi meno soddisfacenti di quelli che avrebbero udito daʼ rettori anglicani. Nella chiesa parrocchiale il culto e la idolatria di Roma venivano ogni domenica energicamente riprovati; ma nella sala dellʼadunanza, il pastore che pochi mesi prima aveva vituperato il clero anglicano quasi al pari deʼ papisti, adesso con gran cura astenevasi dal biasimare il papismo, o esprimeva quel biasimo con parole sì delicate, da non offendere nè anche le orecchie di Padre Petre. Nè era possibile addurre ragione plausibile a giustificare siffatto mutamento. Le dottrine cattoliche romane non avevano patita la minima variazione. A memoria dʼuomo vivente, i preti cattolici romani non erano stati mai cotanto operosi a fare proseliti; non erano mai usciti daʼ torchi tanti scritti cattolici romani; tutti coloro, ai quali importavano le cose di religione, non avevano mai con tanto calore atteso al conflitto tra i Cattolici Romani e i Presbiteriani. Che poteva pensarsi della sincerità di teologi i quali non sʼerano mai stanchi di irridere al papismo, quando esso era comparativamente innocuo e privo di soccorso, e che adesso, giunto il tempo di vero pericolo per la fede riformata, schivavano studiosamente di profferire una sola parola offensiva contro un Gesuita? La loro condotta di leggeri spiegavasi. Era noto che parecchi di loro avevano ottenuto il perdono. Sospettavasi che altri avessero ricevuto danari. Il loro modello poteva trovarsi in quel debole apostolo, il quale, vinto dalla paura, rinnegò il Maestro, cui aveva pur dianzi giurato immutabile affetto; e in quellʼaltro apostolo più vigliacco, che vendè il proprio Signore per un pugno di monete.[258] In cotal modo i ministri Dissenzienti i quali sʼerano dati alla Corte, andavano rapidamente perdendo lʼautorità da essi un dì esercitata sopra i loro confratelli. Dallʼaltra banda, i settari sentivansi tratti da un forte sentimento religioso verso queʼ prelati e preti della Chiesa Anglicana, i quali, in onta aʼ comandamenti, alle minacce, alle promesse del Re, facevano ostinata guerra alla Chiesa di Roma. Gli Anglicani e i Puritani, sì lungamente divisi da nimistà mortale, si venivano sempre più ravvicinando, ed ogni passo che facevano verso lʼunione, accresceva la influenza di colui che era capo dʼentrambi. Guglielmo, per ogni rispetto, era lʼuomo adatto a fare la parte di mediatore tra questi due grandi partiti della nazione inglese. Non poteva dirsi aderente nè allʼuno nè allʼaltro. Nondimeno, nessuno di quelli, non traviando dalla ragione, poteva non considerarlo come amico. Il suo sistema teologico concordava con quello deʼ Puritani. Nel tempo stesso, ei reputava lo episcopato, non quale istituzione divina, ma qual forma veramente legale ed utile di Governo ecclesiastico. Le questioni di gesti, di vestimenti, di feste, di liturgie, egli considerava come di nessuna importanza. Avrebbe meglio gradito un culto più semplice, e simile a quello al quale fin da fanciullo egli era assuefatto. Ma era apparecchiato ad uniformarsi a qualunque rituale fosse stato accetto alla nazione; e solo insisteva che altri non pretendesse dovere egli perseguitare i suoi confratelli protestanti aʼ quali la coscienza non consentiva di seguire lo esempio di lui. Due anni innanzi, i numerosi bacchettoni di ambe le sètte lo avrebbero giudicato un pretto Laodiceo, nè caldo nè freddo, e solo degno dʼessere respinto. Ma lo zelo che aveva già infiammato gli Anglicani contro i Dissenzienti, e i Dissenzienti contro gli Anglicani, sʼera talmente mitigato nella avversità e nel pericolo comuni, che la tiepidezza, un tempo attribuita a Guglielmo come un delitto, oggimai veniva annoverata fra le precipue virtù sue. XXXVII. Tutti erano ansiosi di sapere ciò che egli pensasse intorno alla Dichiarazione dʼIndulgenza. Per qualche tempo, in Whitehall speravasi che, pel suo ben noto rispetto verso i diritti della coscienza, egli si sarebbe almeno astenuto dal disapprovare pubblicamente una politica che aveva una speciosa apparenza di liberalità. Penn spedì in gran copia disquisizioni allʼAja, e perfino ci andò da sè, sperando nessuno resisterebbe alla sua eloquenza, della quale egli aveva alto concetto. Ma, comunque arringasse intorno al subietto con una facondia tale da stancare i suoi uditori, e comecchè assicurasse dʼessergli stato rivelato da un uomo al quale era concesso di conversare con gli angioli, lo approssimarsi di una età dʼoro per la libertà religiosa, non fece la menoma impressione sopra lʼanimo del principe.[259] «Voi mi chiedete» disse Guglielmo ad uno degli agenti del Re «di secondare una guerra contro la mia propria religione. Io non posso con sicurtà di coscienza farlo, e nol farò, no, nè anche per la Corona dʼInghilterra, nè per lo impero del mondo.» Tali parole vennero ridette al Re, e grandemente lo perturbarono.[260] Scrisse di propria mano urgentissime lettere. Talvolta usò il tono dʼun uomo offeso. Egli era il capo della famiglia reale, e come tale aveva diritto dʼesigere obbedienza daʼ membri di quella; e gli tornava duro vedersi avversato nella cosa che gli stava più a cuore. Altra volta, adoperando una seduzione, alla quale credevano Guglielmo non potere resistere, gli fu fatto sapere, che ove egli cedesse in cotesto solo punto, il Governo inglese in ricompensa lo avrebbe con tutte le sue forze aiutato nella lotta contro la Francia. Ma non era uomo da lasciarsi cogliere alla rete. Bene sapeva che Giacomo, senza il concorso del Parlamento, non avrebbe in guisa alcuna potuto rendere efficaci servigi alla causa comune a tutta lʼEuropa; e non era dubbio, che ove venisse ragunato il Parlamento, ambedue le Camere avrebbero, prima dʼogni altra cosa, chiesta lʼabrogazione della Indulgenza. La Principessa assenti a tutto ciò che le fu detto dal marito. I loro concordi pareri, espressi con parole ferme, ma temperate, furono comunicati al Re. Dichiaravano, profondamente rincrescere loro il cammino nel quale la Maestà Sua erasi messa: esser convinti, aver egli usurpata una prerogativa che per legge non gli apparteneva: contro siffatta usurpazione protestare, non solo come amici alla libertà civile, ma come membri della regale famiglia, i quali avevano grande interesse a mantenere i diritti di quella Corona che un giorno essi avrebbero forse portato; imperocchè erasi per esperienza veduto, come in Inghilterra il governo dispotico non potesse mancare di far nascere una reazione più perniciosa dello stesso dispotismo; e poteva ragionevolmente temersi, che la nazione impaurita ed esacerbata dalla minaccia della tirannide, potrebbe prendere a schifo anco la monarchia costituzionale. E però consigliavano il Re di governare il paese secondo lo leggi. Ammettevano, la legge potersi variare in meglio dalla autorità competente, e alcuni articoli della Dichiarazione meritare dʼessere formulati in un Atto di Parlamento. Aggiungevano, chʼessi non erano persecutori, e avrebbero quindi con satisfazione veduto i Protestanti Dissenzienti alleggiati, ma con modo convenevole, da tutti gli statuti penali: avrebbero, con pari satisfazione, veduto ammetterli, ma con modo egualmente convenevole, agli uffici civili. Quivi era dʼuopo alle Altezze Loro fermarsi; imperciocchè non potevano non temere grandemente, che se i Cattolici Romani venissero dichiarati capaci ad occupare impieghi di pubblica fiducia, gravissimi mali ne nascerebbero; e lasciavano senza ambiguità intendere, che tali timori originavano precipuamente dalla condotta di Giacomo.[261] XXXVIII. La opinione manifestata dal Principe e dalla Principessa intorno alle incapacità che gravavano i Cattolici Romani, era quella di quasi tutti gli uomini di Stato e i filosofi che allora erano zelanti della libertà politica e religiosa. Nella età nostra, allʼincontro, gli uomini illuminati hanno soventi volte con rincrescimento asserito, che in cotesto subietto Guglielmo sembra minore, ove si agguagli al suo suocero. Vero è che alcune considerazioni necessarie a rettamente giudicare, sono sfuggite alla mente di molti scrittori del secolo decimonono. Vi sono due opposti errori, in cui coloro che studiano gli annali della patria nostra, continuamente pericolano di cadere: lo errore di giudicare il presente per mezzo del passato; e lo errore di giudicare il passato per mezzo del presente. Il primo appartiene alle menti inchinevoli a venerare ciò che è vecchio: il secondo alle menti corrive ad ammirare ciò che è nuovo. Lʼuno può sempre osservarsi neʼ ragionamenti deʼ politici conservatori intorno alle questioni deʼ loro tempi; lʼaltro, nelle speculazioni degli scrittori della scuola liberale sempre che discutono intorno ai fatti dʼun età trascorsa. Quello è più pernicioso in un uomo di Stato; questo in uno storico. Non è agevole a chi, neʼ tempi nostri, imprende a trattare della rivoluzione che detronizzò gli Stuardi, tenersi fermamente per lo diritto mezzo fra cotesti due estremi. La questione se i membri della Chiesa Cattolica Romana potevano senza pericolo ammettersi al Parlamento e agli uffici, perturbò la patria nostra, regnante Giacomo II; quietò alla caduta di lui; e dopo dʼessere rimasta sopita per più dʼun secolo, fu ridestata da quel grande concitamento dello spirito umano, dopo il ragunarsi della Assemblea Nazionale in Francia. Pel corso di trenta anni, la contesa progredì in ambedue le Camere del Parlamento, in ogni collegio elettorale, in ogni cerchio sociale. Distrusse ministeri, sgominò partiti; in una parte dello Impero rese impossibile ogni specie di Governo; e in fine ci condusse allʼorlo dʼuna guerra civile. Anche terminata la lotta, le passioni che ne erano nate, continuarono ad infuriare. Era pressochè impossibile a chiunque avesse la mente dominata da cotali passioni, il vedere nella loro vera luce gli eventi degli anni 1687 e 1688. Parecchi uomini politici, muovendo da questa retta sentenza, che la Rivoluzione è stata un gran bene alla patria nostra, giunsero alla falsa conclusione, che non si poteva senza pericolo abolire nessuno Atto di Prova, cui gli uomini di Stato della Rivoluzione avevano creduto necessario dʼimporre, a fine di proteggere la religione e la libertà nostra. Altri, muovendo dalla retta sentenza, che le incapacità imposte ai Cattolici Romani non avevano prodotto altro che danno, giunsero alla falsa conclusione, che in nessun tempo le predette incapacità furono mai necessarie. Il primo errore serpeva per entro alle orazioni dellʼacuto e dotto Eldon; il secondo influì anche sopra un intelletto grave e filosofico, qual era quello di Mackintosh. Nonostante, esaminando bene la cosa, si vedrà forse che noi possiamo difendere la condotta che era unanimemente approvata da tutti gli statisti inglesi del secolo decimosettimo, senza porre in questione la saviezza della condotta unanimemente approvata da tutti glʼinglesi statisti del tempo nostro. Senza dubbio, egli è un male che alcun cittadino sia escluso dagli uffici civili a cagione delle sue opinioni religiose; ma talvolta alla umana saggezza altro non rimane che lo scegliere fra diversi mali. Può una nazione trovarsi in tale situazione, che la maggioranza debba o imporre incapacità o sottoporvisi; e ciò che in condizioni ordinarie può giustamente biasimarsi come persecuzione, possa essere considerato come retto mezzo di difesa: e siffatta, nellʼanno 1687, era la situazione dellʼInghilterra. Secondo la Costituzione del Regno, Giacomo aveva potestà di nominare quasi tutti i pubblici ufficiali; politici, giudiciali, ecclesiastici, militari e marittimi. Nello esercizio di tale potestà egli non era, al pari deʼ Sovrani deʼ giorni nostri, costretto ad agire secondo il consiglio deʼ ministri approvati dalla Camera deʼ Comuni. Era quindi evidente, che, a meno chʼegli non fosse strettamente obbligato per legge a non concedere uffici ad altri che ai Protestanti, starebbe in lui di non concederli ad altri che ai Cattolici Romani. I Cattolici Romani erano pochi di numero, e fra loro non vʼera un solo uomo deʼ cui servigi la cosa pubblica non potesse fare a meno. La proporzione in che essi stavano verso la popolazione dellʼInghilterra, era assai minore di quel che sia nei giorni nostri. Imperciocchè, adesso, dalla Irlanda lʼonda della emigrazione di continuo si versa sulle nostre grandi città; ma nel secolo decimosettimo non era in Londra nè anche una colonia irlandese. Quarantanove cinquantesimi degli abitanti del reame, quarantanove cinquantesimi dei possidenti del reame, pressochè tutti gli uomini abili, esperti e dotti nella politica, nella giurisprudenza, nellʼarte militare, erano Protestanti. Nondimeno, il Re, stranamente acciecato, sʼera fitto in capo di servirsi della sua potestà di conferire glʼimpieghi, come di un mezzo a fare proseliti. Appartenere alla Chiesa di lui, era agli occhi suoi il primo di tutti i requisiti ad ottenere un ufficio. Appartenere alla Chiesa dello Stato, era una positiva incapacità. Biasimava, egli è vero, con parole, cui hanno fatto plauso alcuni creduli amici della libertà religiosa, la mostruosa ingiustizia di quellʼAtto di Prova, che escludeva una piccola minoranza della nazione daʼ pubblici impieghi; ma nel tempo stesso studiavasi dʼimporre un Atto di Prova che escludesse la maggioranza. Gli pareva ingiusto che un uomo il quale fosse buon finanziere e suddito leale, dovesse essere escluso dallʼufficio di Lord Tesoriere solamente perchè era papista. Ma egli stesso aveva cacciato via un Lord Tesoriere, da lui tenuto per buon finanziere e leale suddito, solamente perchè era Protestante. Aveva più volte e chiaramente detto, che non avrebbe mai posto il bianco bastone nelle mani dʼun eretico. Quanto agli altri grandi uffici dello Stato, aveva tenuto la medesima condotta. Già il Lord Presidente, il Lord del Sigillo Privato, il Lord Ciamberlano, il Lord detto _Groom of the Stole_, il primo Lord del Tesoro, un Segretario di Stato, il Lord Alto Commissario di Scozia, il Cancelliere e il Segretario di Scozia, erano, o facevano mostra dʼessere, Cattolici Romani. Molti di costoro nati nella Chiesa Anglicana, sʼerano resi colpevoli dʼapostasia pubblica o segreta, onde ottenere i loro alti uffici, o mantenervisi. Tutti i Protestanti che seguitavano a rimanere in alcuni impieghi dʼimportanza, di continuo temevano dʼessere destituiti. Non finirei mai se volessi notare gli altri impieghi occupati dai Cattolici Romani, i quali già brulicavano in ogni dipartimento del pubblico servizio. Essi erano Lordi Luogotenenti, Deputati Luogotenenti, Magistrati, Giudici di Pace, Commissari delle Dogane, Legati presso le Corti straniere, Colonnelli di Reggimento, Governatori di fortezze. La proporzione degli emolumenti che la Corona aveva potestà di concedere e che i Cattolici avevano in pochi mesi ottenuti, era dieci volte maggiore di quel che sarebbe stata sotto un governo imparziale. E vʼera anche peggio. Ad essi fu data potestà di governare la Chiesa Anglicana. Uomini che avevano assicurato al Re di professare la religione di lui, sedevano nellʼAlta Commissione, ed esercitavano giurisdizione suprema nelle cose spirituali sopra tutti i prelati e i preti della Religione dello Stato. Beneficii ecclesiastici di grande dignità erano, stati impartiti ad uomini che o professavano apertamente il papismo, o lo professavano di furto. E tutto ciò compivasi mentre le leggi contro il papismo non erano per anche abrogate, e mentre Giacomo aveva non poco interesse a simulare rispetto ai diritti della coscienza. Quale, dunque, sarebbe verosimilmente stata la sua condotta, se i suoi sudditi avessero consentito con un Atto legislativo a liberarlo anco dallʼombra della restrizione? È egli possibile dubitare, che facendo uso strettamente legale della prerogativa, i Protestanti sarebbero stati esclusi dagli uffici, come lo fossero mai stati i Cattolici Romani per virtù dʼAtto Parlamentare? Con quanta ostinazione Giacomo fosse deliberato a compartire ai suoi correligionari gli emolumenti dello Stato fuori dʼogni proporzione col numero e con lʼimportanza loro, si raccoglie dalle istruzioni chʼegli, esule e vecchio, scrisse per ammaestramento di suo figlio. Non è possibile senza un sentimento di pietà e di scherno leggere quelle espansioni dʼuna mente alla quale tutti gli ammonimenti della esperienza e dellʼavversità erano tornati vani. Ivi il Pretendente è avvertito, ove ascendesse mai sul trono dʼInghilterra, a partire gli uffici, e conferirne ai membri della Chiesa di Roma tanta parte, quanta sarebbe loro bastata se invece dʼessere la cinquantesima parte della nazione, ne fossero stati la metà. Un Segretario di Stato, un Commissario del Tesoro, un Segretario di Guerra, il maggior numero deʼ grandi dignitari della Casa Reale, il maggior numero degli ufficiali dellʼesercito, debbono sempre essere Cattolici. Tali erano glʼintendimenti di Giacomo dopo che la sua perversa bacchettoneria gli aveva chiamato sul capo una punizione la quale aveva spaventato il mondo intero. È egli, quindi, possibile dubitare quale sarebbe stata la sua condotta se il suo popolo, tratto in inganno dal vuoto nome di libertà religiosa, lo avesse lasciato senza freno procedere per la sua via? Eʼ sembra che anco Penn, per quanto intemperante e dissennato fosse il suo zelo per la dichiarazione, sentisse come la parzialità onde gli onori e gli emolumenti erano prodigati ai Cattolici Romani, poteva ragionevolmente destare gelosia nella nazione. Ei confessava, che, abrogando lʼAtto di Prova, i Protestanti avrebbero diritto ad un compenso, o, come egli diceva, equivalente; e giunse fino a indicare varie specie di compensi. Per parecchi giorni la parola _equivalente_, dalla Francia pur allora passata in Inghilterra, sʼudiva sulle labbra di tutti gli oratori delle botteghe di caffè: se non che poche pagine, condite di acuta logica e delicato sarcasmo, scritte da Halifax, posero fine a queʼ futili disegni. Una delle proposte di Penn era di fare una legge la quale dividesse in tre parti uguali glʼimpieghi che la Corona aveva potestà di concedere, e desse una di queste tre parti ai membri della Chiesa di Roma. Ed anche con siffatto ordinamento, i membri della Chiesa di Roma avrebbero ottenuto gli uffici in proporzione quasi venti volte maggiore di quel che sarebbe stato giusto; e nondimeno, non abbiamo ragione a credere che il Re volesse consentire a cotale ordinamento. Ma ove avesse consentito, quale guarentigia avrebbe egli offerto di mantenere il patto? Il dilemma proposto da Halifax non ammetteva risposta. Se le leggi vi legano, osservate quella che esiste; se non vi legano, è inutile farne una nuova.[262] È chiaro, adunque, che la questione non era di vedere se gli uffici secolari dovessero essere accessibili aglʼindividui di tutte le sètte. Finchè Giacomo rimaneva sul trono, era inevitabile la esclusione; e si trattava di sapere quali dovevano rimanere esclusi, i Papisti o i Protestanti, i pochi o i molti, centomila inglesi o cinque milioni. Cotali sono i gravi argomenti pei quali la condotta del Principe dʼOrange verso i Cattolici Romani dʼInghilterra si può conciliare coʼ principii della libertà religiosa. Questi argomenti, come potrebbe notarsi, non hanno relazione alcuna con la teologia cattolica romana. Potrebbe anche notarsi, che essi tornarono vani dopo che la Corona si fu rafferma in una dinastia di sovrani protestanti, e dopo che la Camera deʼ Comuni nello Stato ebbe acquistata tanta preponderanza, che nessun sovrano, siano qualunque si vogliano supporre le sue opinioni o le sue tendenze, avrebbe potuto imitare lo esempio di Giacomo. La nazione, non per tanto, dopo i terrori, le lotte, i pericoli suoi, rimase piena dʼumori sospettosi e vendicativi. E però queʼ mezzi di difesa, un tempo dalla necessità giustificati, e dalla sola necessità giustificabili, furono ostinatamente adoperati anco dopo che non furono più necessari, e non furono messi da banda finchè il volgare pregiudizio mantenne un conflitto di molti anni contro la nazione. Ma neʼ tempi di Giacomo la nazione e il pregiudizio volgare stavano insieme congiunti. I fanatici ed ignoranti volevano escludere dagli uffici il Cattolico Romano perchè adorava glʼidoli di legno e di pietra; perchè era segnato del segno della bestia, aveva arsa Londra, strangolato sir Edmondsbury Godfrey; e il più savio e tollerante politico, mentre sorrideva aglʼinganni che traviavano la plebe, riusciva, per diverso cammino, alla stessa conclusione. Il gran pensiero di Guglielmo oramai era quello di congiungere in un solo corpo le numerose parti del popolo, le quali lo consideravano come loro capo comune. A compire cotesta opera fu aiutato da alcuni abili e fidi uomini, fraʼ quali gli furono di singolare utilità Burnet e Dykvelt. XXXIX. Quanto a Burnet, a dir vero, era mestieri servirsene con qualche cautela. La cortesia onde egli era stato accolto allʼAja, aveva destata la rabbia di Giacomo. Il quale scrisse a Maria varie lettere piene dʼinvettive contro lo insolente e sedizioso teologo da lei protetto. Ma cosiffatte accuse fecero in lei sì poco effetto, che scrisse al padre lettere di risposta dettate dallo stesso Burnet. In fine, nel gennaio del 1687, il Re ricorse a più vigorosi mezzi. Skelton, che aveva rappresentato il governo inglese appo le Provincie Unite, era stato inviato a Parigi, e gli era stato sostituito Albeville, il più debole e vile di tutti i componenti la cabala gesuitica. Albeville non curavasi dʼaltro che del danaro, e lo prendeva da tutti coloro che glielʼoffrissero. Era pagato a un tempo dalla Francia e dallʼOlanda; anzi abbassavasi fino al di sotto della miserabile dignità della corruzione, ed accettava mance sì frivole, chʼerano degne più presto dʼun facchino o dʼun servitore che dʼun inviato, baronetto inglese e insignito di un marchesato in paese straniero. Una volta accettò con molta compiacenza una gratificazione di cinquanta zecchini in prezzo dʼun servigio da lui reso agli Stati Generali. Costui ebbe incarico di chiedere che Burnet non fosse più oltre tollerato allʼAja. Guglielmo che non voleva perdere un amico si utile, rispose tosto con la sua solita freddezza: «Io non so, o Signore, che il Dottore da che è stato qui, abbia fatto o detto cosa, di cui sua Maestà possa muovere giusto lamento.» Ma Giacomo instette; il tempo dʼuna aperta rottura non era per anche arrivato; e fu mestieri cedere. Per diciotto e più mesi Burnet non comparve mai dinanzi al Principe o alla Principessa: ma abitava loro da presso; sapeva ogni cosa che seguisse; veniva continuamente richiesto di consiglio; la sua penna era adoperata in tutte le più importanti occorrenze; e molti deʼ più pungenti ed efficaci articoli, che intorno a quel tempo pubblicavansi in Londra, venivano dirittamente a lui attribuiti. Oltre misura sʼaccrebbe la rabbia di Giacomo, il quale era sempre stato non poco inchinevole allʼira. Per nessuno deʼ suoi nemici, nè anche per coloro che lo avevano con lo spergiuro incolpato di tradimento e dʼassassinio, aveva egli mai sentito lo sdegno onde adesso era acceso contro Burnet. Sua Maestà quotidianamente vituperava il Dottore con parole indegne dʼun Re, e meditava vendicarsene con modo proditorio. Il solo sangue non sarebbe bastato a sbramare quellʼodio frenetico. Lo insolente teologo, innanzi che gli fosse concessa la morte, doveva patire i tormenti della tortura. Fortunatamente egli era scozzese; e in Iscozia, avanti che fosse appeso alle forche nel Grassmarket, potevano dirompergli le gambe con lo stivaletto. Per la qual cosa venne contro lui istituito un processo in Edimburgo: ma sʼera naturalizzato in Olanda; aveva sposata una olandese; e sapevasi certo che il governo della sua patria adottiva non lo avrebbe consegnato. Fu quindi deliberato di coglierlo alla rete e rapirlo. Con grossa somma di pecunia si presero a soldo alcuni facinorosi uomini per compire la perigliosa ed infame opera. Un ordine di sborsare tre mila lire sterline a cotesto uso fu scritto per esser firmato nellʼufficio del Segretario di stato. A Luigi fu palesato il disegno, e vi prese un caldo interesse. Diceva di volere fare ogni sforzo perchè lo scellerato fosse dato nelle mani del Governo inglese, promettendo ad un tempo asilo sicuro in Francia ai ministri della vendetta di Giacomo. Burnet bene sapeva dʼessere in grave pericolo; ma la timidità non andava annoverata fraʼ suoi difetti. Stampò una coraggiosa risposta alle colpe che gli erano state apposte daʼ tribunali di Edimburgo. Diceva saper bene che lo volevano ammazzare senza processo; ma affidarsi nel Re dei Re, al cospetto del quale il sangue innocente non grida invano vendetta anco contro i possenti principi della terra. Invitò a desinare alcuni amici suoi, e in sulla fine disse loro in solenne contegno lʼultimo addio, come uomo dannato a morire, col quale non era quinci innanzi per loro sicuro il conversare. Non pertanto seguitò a mostrarsi in tutti i luoghi pubblici dellʼAja con tanta audacia da muovere gli amici suoi a rimproverarlo di insana temerità.[263] XL. Mentre Burnet era segretario di Guglielmo per gli affari inglesi in Olanda, Dykvelt non era stato meno utilmente mandato in Inghilterra. Dykvelt apparteneva a quella insigne classe dʼuomini pubblici, i quali avendo imparato la politica nella nobile scuola di Giovanni De Witt, dopo la caduta di quel gran ministro, pensavano di adempiere meglio al debito loro verso la repubblica collegandosi col Principe di Orange. Fra tutti i diplomatici aʼ servigi delle Provincie Unite nessuno per destrezza, indole e modi, era superiore a Dykvelt. Nella conoscenza degli affari inglesi, a quanto sembra, nessuno lʼuguagliava. Trovato un pretesto, egli in sul principio del 1687 fu spedito in Inghilterra per una commissione speciale, munito di lettere di credenza dagli Stati Generali. Ma in verità egli non andava ambasciatore al Governo, bensì alla opposizione; e intorno al modo di condursi ricevè istruzioni peculiari scritte da Burnet ed approvate da Guglielmo.[264] XLI. Dykvelt scrisse come Giacomo fosse amaramente mortificato della condotta del Principe e della Principessa. «Il dovere del mio nepote» disse il Re «è quello di rinvigorire il mio braccio, ed invece gli è piaciuto di contrariarmi sempre.» Dykvelt rispose che nelle faccende private Sua Altezza aveva mostrato ed era pronto a mostrare la più grande deferenza ai voleri del Re; ma non era ragionevole pretendere chʼegli, principe protestante, cooperasse con altri aʼ danni della religione protestante.[265] Il Re si tacque, ma non calmossi. Vedeva, con tanto cattivo umore da non poterlo nascondere, Dykvelt ordinare e disciplinare le varie frazioni della opposizione, con una maestria, che sarebbe stata argomento di lode in uno statista inglese, e che era maravigliosa in uno straniero. Al clero diceva che avrebbe nel principe dʼOrange trovato un amico allo episcopato e al Libro della Preghiera Comune. Incoraggiava i Non–Conformisti ad aspettarsi da lui, non solo tolleranza, ma comprensione ovvero assimilazione alla Chiesa dello Stato. Seppe conciliarsi perfino i Cattolici Romani; ed alcuni deʼ più rispettabili fra loro dichiararono al cospetto del Re dʼessere soddisfatti delle proposte di Dykvelt, e dʼamar meglio una tolleranza assicurata con un Atto legislativo, che un predominio illegale e precario.[266] I capi di tutti i più importanti partiti della nazione conferivano spesso in presenza del destro diplomatico. In siffatte ragunanze le opinioni del partito Tory erano principalmente espresse daʼ Conti di Danby e di Nottingham. Quantunque otto e più anni fossero decorsi dacchè Danby era caduto dal potere, ei godeva tuttavia grande reputazione fraʼ vecchi Cavalieri di Inghilterra; e molti anche di queʼ Whig, i quali lo avevano per innanzi osteggiato, adesso inchinavano a credere chʼegli portasse la pena di falli non suoi, e che il suo zelo per la regia prerogativa, comecchè lo avesse di sovente fatto traviare, fosse contemperato da due sentimenti che gli tornavano ad onore: dallo zelo per la religione dello Stato, e dallo zelo per la dignità e la indipendenza della patria. Era parimente tenuto in grande stima allʼAja, dove non era stato mai dimenticato come egli fosse colui, il quale, malgrado la Francia e i Papisti, aveva indotto Carlo a concedere la mano della Principessa Maria al cugino di lei. XLII. Daniele Finch, Conte di Nottingham, gentiluomo il cui nome spesso sʼincontrerà nella storia di tre regni pieni di vicissitudini, discendeva da una famiglia sopra tutte eminente nel fôro. Uno deʼ suoi congiunti era stato Guardasigilli di Carlo I, aveva prostituito le insigni qualità e la dottrina onde era adorno, a riprovevoli fini, ed era stato perseguitato dalla vendetta della Camera deʼ Comuni allora governata da Falkland. Heneage Finch nella susseguente generazione aveva acquistata più onorevole rinomanza. Tosto dopo la Ristaurazione era stato fatto Avvocato Generale. Sʼera quindi inalzato al grado di Procuratore Generale, di Lord Guardasigilli, di Lord Cancelliere, di Barone Finch, di Conte di Nottingham. In tutta la sua prospera carriera aveva sempre mantenuta la prerogativa tanto alto quanto più glielo avevano conceduto la onestà e la decenza; ma non sʼera mai implicato in nessuna cospirazione contro le leggi fondamentali del Regno. Fra mezzo a una Corte corrotta aveva mantenuta intemerata la propria integrità. Godeva alta riputazione dʼoratore, quantunque il suo stile formato sopra scrittori anteriori alle guerre civili, venisse verso gli ultimi suoi anni giudicato duro e pedantesco daglʼingegni della sorgente generazione. In Westminster Hall lo rammentano tuttora con riverenza, come colui che, primo tra tutti, da quella confusione che in antico dicevasi Equità, trasse un nuovo sistema di giurisprudenza, regolare e compiuto al pari di quello il quale aʼ dì nostri amministrano i Giudici del Diritto Comune.[267] Parte considerevole delle doti morali o intellettuali di questo gran magistrato aveva ereditate col titolo di Nottingham il maggiore deʼ suoi figli. Il conte Daniele era onorevole e virtuoso uomo. Comecchè fosse schiavo dʼalcuni assurdi pregiudicii, e soggetto a strani accessi di capriccio, non può tacciarsi dʼavere deviato dal sentiero della rettitudine per correre dietro ad illeciti guadagni o ad illeciti diletti. Come il padre suo, egli era egregio parlatore, penetrante, ma prolisso, e solenne con troppa monotonia. La sua persona era in perfetta armonia con la sua eloquenza. Il suo atteggiamento era secco e diritto, il colore della pelle sì bruno che si sarebbe potuto riputare nato in un clima più caldo del nostro; e i suoi austeri sembianti componeva in guisa da somigliare al capo deʼ piagnoni in un funerale. Dicevasi comunemente chʼegli sembrasse un grande di Spagna, più presto che un gentiluomo inglese. I soprannomi di Dismal (_lugubre_, _tristo_), Don Dismallo, Don Diego, gli furono apposti dagli spiriti arguti, e non sono per anche caduti nellʼoblio. Aveva studiosamente atteso alla scienza chʼera stata cagione dello inalzamento di sua famiglia, e per uomo del suo grado e della sua ricchezza, egli era assai dotto nelle patrie leggi. Amava fervidamente la Chiesa Anglicana, e mostrava ad essa riverenza in due modi non comuni fra queʼ Lordi, i quali in quel tempo menavano vanto dʼesserle caldi amici, pubblicando, cioè, scritti a difenderne i dogmi, e conducendo la vita secondo i precetti di quella. Al pari degli altri zelanti della Chiesa Anglicana, aveva, fino a poco innanzi, tenacemente sostenuta lʼautorità monarchica. Ma alla politica adottata dalla Corte, dopo che fu spenta la insurrezione delle Contrade Occidentali, egli era acremente ostile, e lo divenne maggiormente dal di in cui il suo minor fratello Heneage Finch era stato destituito dallʼufficio di Avvocato Generale per avere ricusato di difendere la potestà di dispensare, pretesa dal Re.[268] XLIII. Con questi due Conti del partito Tory oggimai trovavasi congiunto Halifax, lo spettabile capo deʼ Barcamenanti. Eʼ pare che in quel tempo Halifax avesse un gran predominio sulla mente di Nottingham. Tra Halifax e Danby era una nimistà, la quale, già nota nella Corte di Carlo, poi perturbò la Corte di Guglielmo, ma come molte altre nimicizie, fu sopita dalla tirannia di Giacomo. I due avversari di frequente trovavansi insieme nelle ragunanze tenute da Dykvelt, e concordavano nel biasimare la politica del Governo, nel riverire il Principe dʼOrange. La diversità del carattere di cotesti due uomini di Stato vedevasi a chiari segni nelle loro relazioni con lʼoratore olandese. Halifax mostrava ammirevole ingegno nel discutere, ma ripugnava a venire ad alcuna ardimentosa e irrevocabile deliberazione. Danby, assai meno sottile ed eloquente, aveva più energia, risolutezza, e pratica sagacia. Non pochi deʼ Whig più cospicui di continuo comunicavano con Dykvelt. Ma i capi delle grandi famiglie Cavendish e Russell non poterono prendervi quella parte attiva e notevole chʼera da aspettarsi dal grado e dalle opinioni loro. Sopra la fama e le sorti di Devonshire pesava in quel tempo una nube. Egli aveva una malaugurata contesa con la Corte, non per una ragione politica ed onorevole, ma per una rissa privata, nella quale anche i più caldi deʼ suoi amici non lo reputavano affatto scevro di biasimo. Trovandosi a Whitehall era stato insultato da un uomo che aveva nome Colepepper, ed era uno di queʼ bravazzoni i quali infestavano le sale di Corte, e studiavano di procacciarsi il favore del Governo affrontando i membri dellʼopposizione. Il Re stesso si mostrò grandemente sdegnato pel modo con che uno deʼ più illustri Pari del Regno era stato trattato dentro la reggia; e a placare Devonshire promise che Colepepper non metterebbe mai più il piede in palazzo. Nulladimeno, poco dopo, lo interdetto fu tolto; e il risentimento del Conte destossi di nuovo. I suoi servi ne abbracciarono la causa; e per le vie di Westminster si videro scene che parevano richiamare la memoria di tempi barbari. Il Consiglio Privato consumava il suo tempo nelle accuse e recriminazioni delle parti avverse. La moglie di Colepepper dichiarò come la vita di lei e quella del marito fossero in continuo pericolo, e le case loro fossero state assalite da facinorosi coperti della livrea di Cavendish. Devonshire disse che dalle finestre di Colepepper gli era stato tirato un colpo di pistola. Colepepper negò il fatto, confessando a un tempo stesso, che una pistola, carica solo a polvere, era stata scaricata in un momento di terrore a fine di chiamare allʼarmi le guardie. Mentre ferveva il litigio, il Conte incontrò Colepepper nella gran sala di Whitehall, e gli parve di vedere in sulla fronte al bravazzone unʼaria di fiducia e di trionfo. Nulla dʼinconvenevole accadde al cospetto del Re, ma appena entrambi trovaronsi fuori la sala, lungi dalla presenza di lui, Devonshire propose di terminare in sullʼistante la contesa con la spada. Lʼaltro ricusò la disfida. Allora lʼaltero ed animoso Pari, dimenticando la riverenza dovuta al luogo, ed al proprio carattere, diede un colpo di mazza in viso a Colepepper. Tutti concordemente biasimarono questʼatto come indiscretissimo e indecentissimo; nè lo stesso Devonshire, come si sentì calmare il sangue, ci potè ripensare senza rincrescimento e vergogna. Il Governo nondimeno, con la solita insania, lo trattò con tanto rigore, che in breve egli si acquistò la universale simpatia della nazione. Una accusa criminale fu deposta presso il Banco del Re. Lo accusato allegò i suoi privilegi di Pari; ma ciò con una pronta sentenza non fu ammesso; nè si può negare che tale sentenza, fosse o non fosse conforme alle regole pratiche della legge inglese, era in istretta conformità coi grandi principii sopra i quali ogni legge dovrebbe appoggiarsi. Nullʼaltro dunque rimanevagli che il confessarsi reo. Il tribunale, per le successive destituzioni, era stato ridotto ad una sommissione così assoluta, che il governo il quale aveva intentato il processo, potè dettare la condanna. I giudici andarono in corpo da Jeffreys, il quale insistè che condannassero il reo ad una pena di trentamila lire stelline. Siffatta somma, ragguagliata alle rendite deʼ nobili di quella età, risponderebbe a centocinquantamila sterline del decimonono secolo. In presenza del Cancelliere i giudici non profferirono verbo di disapprovazione; ma appena partitisi, Sir Giovanni Powell, nel quale sʼera ridotto tutto quel poco dʼonestà che rimanesse nel tribunale, mormorò dicendo la multa essere enorme, e solo la decima parte essere bene bastevole. I suoi confratelli non furono dʼaccordo con lui; nè egli in cotesto caso fece prova di quel coraggio, con che pochi mesi dopo, in un memorando giorno, redense la propria fama. Il Conte quindi fu condannato ad una pena di trentamila lire sterline, e alla carcere fino alla estinzione del pagamento. Una tanta somma di pecunia non si sarebbe in un solo giorno potuta mettere insieme nè anche dal grandissimo deʼ nobili. La sentenza della carcerazione nondimeno fu più agevolmente pronunziata che eseguita. Devonshire erasi ritirato a Chatsworth, dove attendeva a trasformare la vecchia magione gotica della sua famiglia in un edificio degno di Palladio. Il distretto del Peak era in quei tempi rozzo come oggidì trovasi Connemara, e lo sceriffo credeva, o simulava, essere difficile metter le mani addosso al signore dʼuna regione così selvaggia fra mezzo a cotanti fedeli famigliari e dipendenti. In tal guisa passarono parecchi giorni: ma in fine il Conte e lo sceriffo furono entrambi imprigionati. Intanto una folla dʼintercessori cominciò a darsi moto. Si disse che la Contessa vedova di Devonshire era stata ammessa alle secrete stanze del Re, al quale aveva rammentato come il valoroso Carlo Cavendish cognato di lei fosse morto in Gainsborough combattendo a difesa della Corona, ed aveva mostrato certe scritte nelle quali Carlo I e Carlo II riconoscevano di avere ricevuto grosse somme prestate loro da suo marito a tempo delle guerre civili. Siffatte somme non erano state mai rese, e computatovi i frutti, ammontavano ad una somma maggiore della immensa multa imposta dalla Corte del Banco del Re. Vi era altra ragione che sembra avere avuto agli occhi di Giacomo maggior peso che la rimembranza deʼ servigi resi al trono. Forse sarebbe stato mestieri convocare il Parlamento, e credevasi che allora Devonshire avrebbe prodotto un ricorso contro la sentenza per difetto di forma. Il punto, intorno al quale egli intendeva di appellarsi contro la sentenza del Banco del Re, riferivasi ai privilegi della paria. Il tribunale che doveva di ciò giudicare era la Camera deʼ Pari; e così essendo, la Corte non poteva essere sicura neppure del voto dei più cortigiani fraʼ nobili. Non era dubbio alcuno che la sentenza verrebbe annullata, e che il Governo per volere abbracciar troppo perderebbe ogni cosa cosa. E però Giacomo inchinava a venire a patti. A Devonshire fu fatto sapere che ove egli firmasse una scritta dʼobbligo di trenta mila sterline, e in tal guisa si precludesse la vita a intentare unʼazione per difetto di forma, sarebbe liberato di prigione, e dipenderebbe dalla sua futura condotta lʼuso da farsi di cotale documento. Sʼegli votasse a favore della potestà di dispensare, non se ne parlerebbe altrimenti; ma sʼegli amasse meglio di mantenere la propria popolarità, gli si farebbe pagare trenta mila lire sterline. Ei ricusò, per qualche tempo, di consentire a tale proposta; ma divenutagli insopportabile la prigionia, firmò la scritta dʼobbligo e fu scarcerato: e comecchè consentisse a gravare di tal pesante carico il suo patrimonio, nulla potè indurlo a promettere dʼabbandonare il partito e i principii suoi. Seguitò ad essere partecipe di tutti gli arcani della opposizione: ma per alquanti mesi i suoi amici politici reputarono esser meglio per lui e per la causa comune chʼegli si tenesse in fondo alla scena.[269] XLIV. Il Conte di Bedford non sʼera mai più riavuto dal colpo con che, quattro anni innanzi, la sventura gli aveva trafitto il cuore. Per sentimenti personali, non che per opinioni politiche, egli procedeva ostile alla Corte: ma non era operoso nel combinare i mezzi dʼavversarla. Nelle ragunanze deʼ malcontenti lo suppliva il suo nepote, cioè il celebre Eduardo Russell, uomo dʼincontrastato coraggio ed abilità, ma di principii sciolti e dʼindole torbida. Era marino, sʼera segnalato nellʼarte sua, e sotto il precedente regno aveva occupato un ufficio in palazzo. Ma tutti i vincoli onde era legato alla famiglia reale erano stati infranti dalla morte del suo cugino Guglielmo. Lʼaudace, irrequieto e vendicativo marino ormai sedeva nei Consigli, che, secondo lo Inviato Olandese, rappresentavano la più ardita ed operosa parte dellʼopposizione, di quegli uomini, i quali sotto i nomi di Testerotonde, Esclusionisti e Whig avevano mantenuta con varia fortuna una contesa di quarantacinque anni contro tre Re successivi. Cotesto partito, dianzi depresso e quasi estinto, ma ora nuovamente risorto e pieno di vita e pressochè predominante, non pativa gli scrupoli deʼ Tory o deʼ Barcamenanti, ed era pronto a snudare il ferro contro il tiranno nel primo giorno in cui il ferro si sarebbe potuto snudare con ragionevole speranza di buon esito. XLV. Rimane ancora a far menzione di tre uomini coʼ quali Dykvelt tenne relazioni di confidenza, e con lʼaiuto deʼ quali egli sperava di assicurarsi del buon volere di tre grandi classi di cittadini. Il Vescovo Compton assunse lo incarico di acquistare il favore del clero: lʼAmmiraglio Herbert imprese di esercitare la propria influenza sulla flotta; e per mezzo di Churchill doveva crearsi un partito nellʼesercito. Non è mestieri ragionare della condotta di Compton e di quella dʼHerbert. Avendo essi nelle cose temporali servito con zelo e fedeltà la Corona, erano incorsi nella collera del Re, ricusando di farsi strumenti a distruggere la propria religione. Entrambi avevano dalla esperienza imparato come agevolmente Giacomo ponesse in oblio gli obblighi, e con quanta acrimonia rammentasse quelle chʼegli considerava offese. Il Vescovo con una sentenza illegale era stato sospeso dalle sue funzioni. Lo Ammiraglio in un solo istante dalla opulenza aveva ruinato a povertà. La situazione di Churchill era ben differente. Egli pel regio favore era stato inalzato dalla oscurità ad alto grado, e dalla povertà alla ricchezza. Avendo cominciata la propria carriera da semplice porta–bandiera e da povero, a trentasette anni trovavasi Maggiore Generale, Pari di Scozia e Pari dʼInghilterra: comandava una compagnia delle Guardie del Corpo: occupava varii lucrosi impieghi; e fino allora nessun indizio mostrava chʼegli avesse minimamente perduto quel favore al quale tanto doveva. Era vincolato a Giacomo, non solo per debito comune di fedeltà, ma per onor militare, per gratitudine personale, e, siccome pareva ai frivoli osservatori, pei più forti legami dellʼutile proprio. Ma Churchill non era osservatore superficiale, e conosceva profondamente dove stava il suo vero utile. Se il suo signore conseguisse piena libertà di concedere gli uffici ai papisti, non rimarrebbe in quelli nemmeno un solo deʼ protestanti. Per qualche tempo pochi deʼ più prediletti servitori della Corona forse sarebbero esenti dalla proscrizione universale, sperando che sʼinducessero a cangiare religione; ma anche essi tra breve cadrebbero, lʼuno dopo lʼaltro, come era già caduto Rochester. Churchill avrebbe potuto schivare cotesto pericolo, ed acquistare maggior grazia presso il Re uniformandosi alla Chiesa di Roma; e pareva probabile con un uomo che non era meno notevole per avarizia ed abiettezza, che per capacità e valore, non aborrirebbe dal pensiero di ascoltare la Messa. Ma vʼha tale incoerenza nella umana natura, che esiste qualche parte sensibile anche nelle coscienze più dure. E così costui, che doveva il proprio inalzamento al disonore della sorella, chʼera stato mantenuto dalla più prodiga, imperiosa e svergognata delle bagasce, e la cui vita pubblica, a coloro che possono tenere fitti gli occhi allo abbagliante splendore del genio e della gloria, sembrerà un prodigio di turpitudini, credeva nella religione chʼegli aveva succhiata col latte, e rifuggiva dal pensiero di abiurarla formalmente. Egli si stava fra un terribile dilemma. Tra i mali terreni quello che più egli temeva era la povertà. Lʼunico delitto del quale il suo cuore aveva ribrezzo, era lʼapostasia. Ed ove la corte giungesse a conseguire il fine al quale aspirava, non vʼera dubbio chʼegli sarebbe stato costretto ad eleggere o lʼapostasia, o la povertà. Per le quali considerazioni deliberò di attraversare i disegni della Corte; e tosto si vide come non vʼera colpa nè infamia nella quale egli non fosse pronto ad incorrere, onde far fronte al bisogno di rinunciare o aglʼimpieghi o alla propria religione.[270] XLVI. Eʼ non era soltanto come comandante dʼalto grado nelle milizie, e cospicuo per arte e coraggio, che Churchill potesse giovare lʼopposizione. Era, se non assolutamente essenziale, importantissimo al buon successo deʼ disegni di Guglielmo, che la sua cognata, la quale nellʼordine della successione alla Corona dʼInghilterra stava tra la sua moglie e lui, cooperasse di pieno accordo con essi. Tutti gli ostacoli che gli si paravano dinanzi si sarebbero grandemente accresciuti, se Anna si fosse dichiarata favorevole alla Indulgenza. Il partito al quale ella si sarebbe appigliata dipendeva dalla volontà altrui, perocchè era donna di tardo intendimento, e quantunque nel suo carattere fossero i semi di una caparbietà e inflessibilità ereditarie, che molti anni dipoi gran potere e grandi provocazioni fecero germogliare e crescere, nondimeno era allora schiava obbediente ad una donna di carattere più vivo ed imperioso. Colei, dalla quale Anna lasciava dispoticamente governarsi, era la moglie di Churchill, donna che poscia ebbe grande influenza sopra le sorti della Inghilterra e dellʼEuropa. La celebre favorita chiamavasi Sara Jennings. Francesca sua sorella maggiore aveva acquistata rinomanza di beltà e leggerezza di carattere fra mezzo la folla delle donne belle e dissolute che adornarono e disonorarono Whitehall finchè durò lʼintemperante carnevale della Restaurazione. Una volta si travestì da fruttaiuola e corse gridando per le vie.[271] Le persone gravi predicevano che una fanciulla così poco discreta e delicata difficilmente troverebbe marito. Nondimeno ebbe tre mariti, e adesso era la moglie di Tyrconnel. Sara, dotata di bellezza meno regolare, aveva forse maggiori attrattive. Il suo viso era espressivo; le sue forme non avevano difetto di vezzi donneschi; e i suoi copiosi e leggiadri capelli non per anche sfigurati dalla polvere, secondo il barbaro costume, che, vivente lei, fu introdotto in Inghilterra, formavano lʼammirazione di tutti. Tra i galanti giovani che tentavano di conquiderle il cuore, ella prescelse il Colonnello Churchill, giovane, bello, grazioso, insinuante, eloquente, valoroso. Certo egli ne era innamorato, imperocchè non aveva patrimonio, tranne lʼannua rendita da lui acquistata coglʼinfami doni della Duchessa di Cleveland: aveva avidità insaziabile di ricchezze: Sara era povera; e a lui era stata proposta la mano di unʼaltra poco avvenente ma ricca fanciulla. Dopo una interna lotta fra i due partiti, lʼamore vinse lʼavarizia; il vincolo maritale non fece che accrescergli in cuore la passione; e fino allʼultima ora della vita di lui, Sara gustò il diletto dʼessere la sola fra le umane creature la quale potesse far traviare quellʼacuto e fermo intelletto, e fosse fervidamente amata da quel gelido cuore, e servilmente temuta da quellʼanimo intrepido. Secondo lʼopinione del mondo, il fido amore di Churchill ebbe ampia rimunerazione. La sua moglie, comunque scarsa di sostanze, gli portò una dote, che impiegata con giudizio, lo inalzò al grado di Duca, di Principe dello Impero, di capitano generale dʼuna grande coalizione, di arbitro tra principi potenti, e, ciò chʼegli pregiava sopra ogni cosa, lo rese il più ricco suddito che fosse in Europa. Ella era cresciuta fino dallʼinfanzia con la Principessa Anna, e neʼ cuori di entrambe era nata stretta amicizia. Per indole lʼuna poco somigliava allʼaltra. Anna era inerte e taciturna. Verso coloro chʼerano cari al suo cuore, mostravasi soave. La ira neʼ suoi sembianti prendeva forma di tristezza. Chiudeva in petto forte sentimento di religione, ed amava anche con bacchettoneria il rito e lʼordinamento della Chiesa Anglicana. Sara era vivace e volubile, dominava coloro ai quali prodigava le sue carezze, e ogni qual volta sentivasi offesa, sfogava la propria rabbia con pianti e impetuosi rimproveri. Non pretendeva affatto a mostrarsi una santa, e rasentò la taccia dʼirreligiosa. Allora non era per anche ciò che ella divenne quando certi vizi le sviluppò in cuore la prosperità, e certi altri lʼavversità, quando il buon successo e le lusinghe le avevano dato volta al cervello, quando il suo cuore esulcerarono mortificazioni e disastri. Ella visse tanto da ridursi la più odiosa e misera delle umane creature, vecchia strega in guerra con tutti i suoi, in guerra coi propri figli, e coʼ figliuoli deʼ figli, grande e ricca, ma apprezzatrice della grandezza e delle ricchezze, perchè con esse ella poteva affrontare lʼopinione pubblica, e sfrenatamente sbramare lʼodio suo contro i vivi e i morti. Regnante Giacomo, ella veniva considerata solo come una leggiadra ed altera giovine, la quale a volte mostravasi di cattivo umore o bisbetica, difetti che le venivano di leggieri perdonati in grazia della sua leggiadria. È comune opinione che le differenze dʼinclinazione, di mente, dʼindole non siano dʼimpedimento allʼamicizia, e che sovente la più stretta intimità esista tra due anime, lʼuna delle quali possegga ciò di cui lʼaltra difetta. Lady Churchill era amata e quasi adorata da Anna, la quale non poteva vivere divisa dallʼoggetto della sua romanzesca tenerezza. Anna prese marito, e fu moglie fedele ed affettuosa. Ma il Principe Giorgio, uomo pesante, che amava di cuore sopra ogni cosa un buon desinare e un buon fiasco, non acquistò mai su lei una influenza da paragonarsi a quella che esercitava lʼamica, e tosto si sottopose anchʼegli con istupida pazienza allo impero di quel vigoroso e predominante spirito che governava la moglie. Dai regali sposi nacquero figliuoli; ed Anna non difettava di sentimento materno. Ma la tenerezza che ella sentiva per le proprie creature era languida, in agguaglio allo affetto con che amava la compagna della sua infanzia. In fine la Principessa divenne insofferente deʼ riguardi che la convenienza imponevate: non poteva sentirsi chiamare Madama ed Altezza Reale da colei che le era più che sorella. Tali parole, per vero, erano necessario nella galleria o nel salone; ma smettevansi nelle segrete stanze. Anna chiamavasi la signora Morley, e Lady Churchill la signora Freeman; e sotto questi fanciulleschi nomi corse per venti anni un carteggio da cui finalmente dipesero le sorti di governi e dinastie. Ma per allora Anna non aveva potere politico nè patronato. Lʼamica Sara faceva lʼufficio di Maggiordoma, con un onorario di sole quattrocento lire sterline annue. Nonostante, vi è ragione a credere che in quel tempo Churchill potesse per mezzo della moglie appagare la passione onde era governato. La principessa, quantunque avesse una pingue entrata e gusti semplici, contrasse debiti, che furono da suo padre non senza brontolare pagati: e fu detto che di cotesti impacci pecuniarii era stata cagione la sua prodiga bontà verso la prediletta amica.[272] Alla perfine era giunto il tempo in cui cotesta singolare amicizia doveva esercitare grande influenza sopra gli affari dello Stato. Aspettavasi con grande ansietà sapere qual parte seguirebbe la Principessa Anna nella contesa che agitava la Inghilterra tutta quanta. Da un lato stava il dovere filiale; dallʼaltro la salvezza della religione, da lei sinceramente amata. Un carattere meno inerte avrebbe lungamente tentennato fra motivi così forti e rispettabili. Ma la influenza dei Churchill risolvè la questione; e la loro protettrice divenne parte importante di quella vasta lega che aveva per capo il Principe dʼOrange. XLVII. Nel giugno del 1686 Dykvelt ritornò allʼAja. Presentò agli Stati Generali una lettera del Re, che encomiava la condotta tenuta da lui nella sua dimora in Londra. Cotesti encomii, nulladimeno, erano prettamente formali. Giacomo nelle comunicazioni private, scritte di propria mano, acremente querelavasi che il Legato era vissuto in grande intimità coi più faziosi che fossero nel Regno, e gli aveva animati a persistere neʼ loro maligni proponimenti. Dykvelt recò parimente un fascio di lettere deʼ più eminenti tra coloro coʼ quali erasi abboccato nel suo soggiorno in Inghilterra. Costoro generalmente esprimevano infinita riverenza ed affetto per Guglielmo, e quanto alle loro mire, riferivansi alle informazioni orali che ne averebbe date il portatore delle lettere. Halifax ragionava colla sua consueta acutezza e vivacità intorno alle condizioni e alle speranze del paese, ma adoperava gran cura a non impegnarsi in nessuna pericolosa linea di condotta. Danby scrisse in un tono più audace e risoluto, e non potè frenarsi dallo schernire delicatamente gli scrupoli del suo egregio rivale. Ma la più notevole fra tutte era la lettera di Churchill. Era scritta con quella eloquenza naturale, la quale, per quanto egli fosse letterato, non gli mancava mai nelle grandi occasioni, e con unʼaria di magnanimità, che egli, perfido qual era, sapeva assumere con singolare destrezza. Diceva, la Principessa Anna avergli fatto comandamento di assicurare i suoi illustri parenti dellʼAja chʼessa era, con lʼaiuto di Dio, deliberatissima a perdere piuttosto la vita, che rendersi colpevole dʼapostasia. Quanto a sè stesso, glʼimpieghi e la grazia del Re erano nulla, trattandosi della sua religione. E concludeva dichiarando altamente, che se non poteva pretendere di avere menata la vita dʼun santo, sarebbe pronto, venuta lʼoccasione, a morire da martire.[273] XLVIII. Dykvelt era così bene riuscito nella sua commissione, che tosto trovossi un pretesto a spedire un altro agente onde continuare lʼopera con sì buoni auspici incominciata. Il nuovo Inviato, che poscia fondò una nobile casa inglese estinta ai tempi nostri, era cugino illegittimo di Guglielmo; e portava un titolo tratto dalla signoria di Zulestein. La parentela di Zulestein con la Casa dʼOrange gli dava importanza agli occhi del pubblico. Aveva il portamento dʼun valoroso soldato; per ingegno diplomatico e scienza cedeva di molto a Dykvelt, ma anche tale inferiorità aveva i suoi vantaggi. Un militare, il quale non sʼera mai impacciato di cose politiche, poteva, senza ombra di sospetto, tenere con lʼaristocrazia inglese relazioni, che, ove egli fosse stato rinomato maestro degli intrighi di Stato, sarebbero state rigorosamente spiate. Zulestein, dopo una breve assenza, fece ritorno alla patria recando lettere e messaggi orali non meno importanti di quelli chʼerano stati affidati al suo predecessore. Da quel tempo sʼistituì un carteggio regolare tra il Principe e la opposizione. Agenti di varie condizioni andavano e venivano dal Tamigi allʼAja. Fra questi fu utilissimo uno Scozzese non privo dʼingegno, e fornito di grande attività, il quale aveva nome Johnstone. Era cugino di Burnet, e figlio dʼun illustre convenzionista, il quale poco dopo la Restaurazione era stato dannato a morire come reo dʼalto tradimento, e veniva onorato come martire dal proprio partito. XLIX. La rottura tra il re dʼInghilterra e il Principe dʼOrange facevasi sempre maggiore. Una grave contesa era nata a cagione dei sei reggimenti che erano al soldo delle Provincie Unite. Il Re desiderava che venissero posti sotto il comando dʼufficiali romani. Il Principe fermamente sʼopponeva. Il Re aveva ricorso ai soliti luoghi comuni della tolleranza. Il Principe rispondeva chʼegli altro non faceva che seguire lo esempio di Sua Maestà. Era a tutti noto che uomini abili e leali erano stati in Inghilterra cacciati daʼ loro uffici, solo per essere protestanti. Era quindi ragione che lo Statoldero e gli Stati Generali tenessero ai papisti chiuso lʼadito agli alti impieghi pubblici. La risposta del Principe provocò lʼira di Giacomo a tal segno, chʼegli nel suo furore perdè dʼocchio la verità e il buon senso. Diceva con veemenza esser falso chʼegli avesse cacciato alcuno per motivi religiosi. E se lo avesse fatto, che importava ciò al Principe o agli Stati? Erano essi suoi padroni? Dovevano essi sedere a scranna per giudicare della condotta deʼ Sovrani stranieri? Da quel dì egli ebbe voglia di richiamare i suoi sudditi chʼerano aʼ servigi del Governo Olandese. Pensava che facendoli venire in Inghilterra, avrebbe reso più forte sè, e più deboli i suoi peggiori nemici. Ma vʼerano difficoltà tali di finanza che era impossibile non se ne accorgesse. Il numero deʼ soldati chʼegli manteneva, comecchè fosse maggiore che neʼ tempi trascorsi, e amministrato con parsimonia, era quale le sue rendite potessero sopportare. Se allo esercito si aggiungessero i battaglioni che erano al soldo dellʼOlanda, il Tesoro fallirebbe. Forse si potrebbe indurre Luigi a prenderli al suo servizio. Così verrebbero allontanati da un paese dove rimanevano sempre esposti alla corruttrice influenza dʼun governo repubblicano e dʼun culto calvinista, e sarebbero posti in un paese dove niuno rischiavasi a far fronte ai comandi del Sovrano o alle dottrine della vera Chiesa. I soldati tosto disimparerebbero ogni eresia politica e religiosa. Il Principe loro naturale potrebbe in pochi di richiamarli a prestargli mano forte, e in ogni occorrenza esser sicuro della fedeltà loro. Sʼaprirono intorno a questo negozio pratiche tra Whitehall e Versailles. Luigi aveva quanti soldati gli bisognavano; e se così non fosse stato, non avrebbe mai voluto milizie inglesi al suo soldo; imperciocchè la paga in Inghilterra, per quanto oggimai ci possa sembrare poca, era maggiore di quella che si dava in Francia. Nel tempo stesso era un gran che privare Guglielmo di sì belle milizie. Dopo un carteggio che durò alcune settimane, a Barillon fu data podestà di promettere che ove Giacomo richiamasse dallʼOlanda i soldati inglesi, Luigi pagherebbe la spesa a mantenerne due mila in Inghilterra. Tale offerta Giacomo accettò con calde espressioni di gratitudine. Ordinate le cose a quel modo, chiese agli Stati Generali che gli mandassero i sei reggimenti. Gli Stati Generali ligi a Guglielmo, risposero che simigliante domanda, in siffatte circostanze, non era autorizzata dai Trattati esistenti, e positivamente ricusarono dʼammetterla. È cosa notevole come Amsterdam, la quale aveva votato per tenere le predette milizie in Olanda, mentre Giacomo ne aveva mestieri contro glʼinsorti delle Contrade Occidentali, adesso fece ogni sforzo perchè si cedesse alla domanda del Re. In ambedue i casi, il solo scopo di coloro che reggevano quella grande città era quello di opporsi ai desiderii del Principe dʼOrange.[274] L. Ma le armi dʼOlanda erano a Giacomo meno formidabili di quel che fossero i torchj olandesi. AllʼAja stampavansi quotidianamente libri e libercoli inglesi contro il Governo di lui; nè vi era vigilanza a impedire che migliaia di esemplari ne fossero introdotte di contrabbando nelle Contee poste lungo lʼoceano germanico. Fra tutte coteste pubblicazioni ne va predistinta una per la sua importanza e per lo immenso effetto che produsse. La opinione che intorno allʼAtto dʼIndulgenza tenevano il Principe e la Principessa dʼOrange, era ben nota a tutti coloro che prendevano interesse alle cose pubbliche. Ma perchè tale opinione non era stata officialmente annunciata, molti che non avevano mezzi di ricorrere a buone fonti, erano ingannati o rimanevano perplessi vedendo la sicurezza con che i partigiani della Corte asserivano le Altezze Loro approvare i recenti Atti del Re. Smentire pubblicamente tal voce sarebbe stato un mezzo semplice ed ovvio, se il solo scopo di Guglielmo fosse stato quello di vantaggiare i propri interessi in Inghilterra. Ma egli considerava la Inghilterra principalmente come strumento necessario alla esecuzione deʼ suoi grandi disegni intorno lʼEuropa; ai quali egli sperava di ottenere la cooperazione di ambedue le Case dʼAustria, deʼ Principi Italiani ed anche del Sommo Pontefice. Vʼera ragione a temere, una dichiarazione soddisfacente ai Protestanti inglesi non eccitasse sospetto e sinistri umori in Madrid, in Vienna, in Torino ed in Roma. A tal fine il Principe si astenne lungo tempo dallo esprimere i propri sentimenti. In fine gli fu fatto notare come il suo prolungato silenzio avesse destato inquietudine e diffidenza fra coloro che volevano il suo bene, e fosse ormai tempo di parlare: deliberò quindi di manifestare il proprio intendimento. LI. Un Whig scozzese, chiamato Giacomo Stewart, parecchi anni innanzi, sʼera rifugiato in Olanda onde sottrarsi allo stivaletto e alle forche, ed aveva stretto amicizia col Gran Pensionario Fagel, il quale godeva largamente la fiducia e la grazia dello Statoldero. Stewart era colui che aveva scritto il virulento Manifesto dʼArgyle. Appena promulgata la Indulgenza, Stewart pensò di cogliere il destro non solo ad ottenere perdono, ma a meritarsi una ricompensa. Offerse al governo al quale egli era stato nemico i propri servigi, che furono accettati, e mandò a Fagel una lettera dicendo essere stata scritta per ordine di Giacomo. In essa il Pensionario veniva richiesto di adoperare tutta la sua influenza sul Principe e la Principessa onde indurli a secondare la politica del padre loro. Dopo alcuni giorni dʼindugio Fagel mandò una risposta profondamente pensata, e scritta con arte squisitissima. Niuno che mediti quel notevole documento, può non accorgersi che quantunque fosse composto con lo intendimento di rassicurare e piacere ai Protestanti inglesi, non vi si contiene una sola parola che possa recare offesa nè anche al Vaticano. Vi si diceva che Guglielmo e Maria approverebbero volentieri lʼabrogazione dʼogni legge penale contro ogni Inglese di qualunque classe si fosse, per cagione dʼopinioni religiose. Ma bisognava distinguere punizione da incapacità. Ammettere agli uffici i Cattolici Romani, non sarebbe, secondo opinavano le Altezze loro, vantaggioso nè al bene dellʼInghilterra, nè a quello degli stessi Cattolici Romani. Il Manifesto fu tradotto in varie lingue, e sparso profusamente per tutta lʼEuropa. Della versione inglese, fatta con gran cura da Burnet, ne furono introdotti nelle Contee Orientali circa cinquantamila esemplari, e furono rapidamente diffusi per tutto il reame. Nessuno scritto politico ebbe mai esito cotanto felice. I Protestanti dellʼisola nostra fecero plauso alla mirabile fermezza con che Guglielmo dichiarava di non potere assentire che i papisti avessero partecipazione alcuna alle cose di Governo. Ai Principi Cattolici Romani, dallʼaltro canto, piaceva lo stile mite e sobrio con cui era vestito il concetto del Principe, e la speranza ivi espressa che sotto il suo governo nessun credente della Chiesa di Roma riceverebbe molestia per motivo di religione. LII. È probabile che anche il Pontefice leggesse con piacere cotesta celebre lettera. Alcuni mesi innanzi aveva dato commiato a Castelmaine in un modo tale da mostrare poco riguardo pel Re dʼInghilterra. A Papa Innocenzo spiaceva affatto la politica interna non che la esterna del Governo Britannico. Vedeva come glʼingiusti e impolitici provvedimenti della cabala gesuitica avessero a rendere perpetue le leggi penali più presto che giungere ad abrogare lʼAtto di Prova. La sua contesa con la Corte di Versailles diveniva sempre più grave; nè poteva egli o come Principe temporale o come Sommo Pontefice sentire schietta amistà pel vassallo di quella Corte. Castelmaine non aveva i requisiti necessari a spegnere cotesta ripugnanza. Conosceva bene Roma, e, come laico, era profondamente erudito nelle controversie teologiche.[275] Ma non aveva la destrezza che il suo ufficio richiedeva; e quandʼanche fosse stato abilissimo diplomatico, vʼera una ragione che lo avrebbe reso inadatto a compire convenevolmente la sua commissione. Tutta Europa conoscevalo come il marito della più svergognata femmina, e non altrimenti. Era impossibile parlare con lui senza richiamarsi alla memoria il modo onde erasi acquistato il titolo chʼegli portava. Ciò sarebbe stato ben poco, sʼegli fosse stato ambasciatore a qualche dissoluta Corte, come quella in cui aveva pur dianzi dominato la Marchesa di Montespan. Ma era manifestamente inconvenevole lo averlo inviato ad unʼambasciata di natura più presto spirituale che temporale e ad un Pontefice di austerità antica. I Protestanti in tutta Europa lo ponevano in canzone; ed Innocenzo, già sfavorevolmente disposto verso il Governo Inglese, considerò il complimento fattogli quasi come affronto. A Castelmaine era stata assegnata una paga di cento lire sterline per settimana; ma egli ne mosse lamento dicendo che tre volte tanto appena sarebbe bastato: imperocchè in Roma i Ministri deʼ grandi potentati continentali si sforzavano di vincersi vicendevolmente per isplendidezza agli occhi di un popolo, il quale per essere avvezzo a vedere tanta magnificenza di edifizi, di decorazioni e di cerimonie, era di difficile contentatura. Dichiarò sempre di averci rimesso del suo. Lo accompagnavano vari giovani delle migliori famiglie cattoliche dellʼInghilterra, come sarebbero i Ratcliffe, gli Arundell, e i Tichborne. In Roma alloggiava in palazzo Panfili a mezzogiorno della magnifica Piazza Navona. Fino daʼ primi giorni era stato privatamente ricevuto da Papa Innocenzo; ma la pubblica udienza fu lungamente ritardata. E veramente gli apparecchi che andava facendo Castelmaine erano così sontuosi, che quantunque fossero incominciati alla Pasqua di Resurrezione del 1686 non furono compiti se non nel novembre dellʼanno stesso; nel quale mese il Papa ebbe, o simulò dʼavere un accesso di podagra che fece differire la cerimonia. Finalmente nel gennaio del 1687 la solenne presentazione segui con insolita pompa. I cocchi già lavorati appositamente in Roma, erano così magnifici che vennero reputati degni dʼessere trasmessi ai posteri per mezzo di belle incisioni, e celebrati dai poeti in diverse lingue.[276] La facciata del palazzo della legazione in quel solenne giorno era decorata con pitture di assurde e gigantesche allegorie. Vʼerano effigiati San Giorgio col piede sul collo di Tito Oates, ed Ercole che con la mazza percoteva College, il manuale protestante, il quale invano tentava difendersi col suo correggiato. Dopo cotesta pubblica dimostrazione, Castelmaine invitò tutti i più notevoli personaggi che allora si trovassero in Roma, ad un banchetto in quella gaia e splendida sala, la quale Pietro da Cortona ornò con pitture rappresentanti i fatti dellʼEneide. La intiera città corse a vedere la solennità; e a stento una compagnia di Svizzeri potè mantenere lʼordine fra gli spettatori. I nobili dello Stato Pontificio in contraccambio offrirono dispendiosi intertenimenti allo Ambasciatore; e i poeti e i belli spiriti furono invitati a tributare a lui e al suo signore iperboliche adulazioni, quali sogliono usarsi quando il genio e il gusto trovansi in gran decadenza. Fra tutti cotesti adulatori va predistinta una testa coronata. Erano corsi trenta e più anni da che Cristina, figlia del grande Gustavo, era volontariamente discesa dal trono di Svezia. Dopo lungo pellegrinare, nel corso del quale ella commise molte follie e molti delitti, erasi finalmente fermata in Roma, dove occupavasi di calcoli astrologici, dʼintrighi di conclave, e sollazzavasi con pitture, gemme, manoscritti, e medaglie. In quellʼoccasione ella compose alcune stanze in italiano in lode del Principe inglese, il quale, al pari di lei, nato da stirpe di Re fino allora considerati come campioni della Riforma, erasi, come lei, riconciliato allʼantica Chiesa. Una splendida ragunanza ebbe luogo nel suo palazzo; i suoi versi, posti in musica, furono cantati fra gli applausi universali; ed un suo famigliare, uomo letterato, recitò una orazione sul medesimo subietto, scritta in un stile si florido e intemperante, che pare offendesse il severo orecchio degli Inglesi che vʼerano presenti. I Gesuiti, nemici del Papa, devoti agli interessi della Francia, e inchinevoli a glorificare Giacomo, accolsero la legazione inglese con estrema pompa in quella principesca casa dove riposano le ossa dʼIgnazio di Loyola, rinchiuse in un monumento di lapislazzuli e dʼoro. La scultura e la pittura, la poesia e lʼeloquenza furono adoperate ad onorare gli stranieri: ma le arti tutte erano miseramente degenerate. Vi fu profusione di turgida ed impura latinità, indegna dʼun Ordine così erudito; e talune delle iscrizioni che adornavano le pareti, peccavano in cosa ben altrimenti più seria che non fosse lo stile. In una dicevasi che Giacomo aveva spedito al cielo il proprio fratello come suo messaggiero, ed in unʼaltra che Giacomo aveva apprestate le ali, con che il fratello erasi levato allʼeteree regioni. Vʼera anco un più sciagurato distico, al quale per allora si badò poco, ma che pochi mesi dopo fu rammentato ed ebbe sinistra interpretazione. «O Re,» diceva il poeta «cessa di sospirare per avere un figlio. Quandʼanche la natura si mostrasse avversa al tuo desiderio, le stelle troveranno modo di compiacerti.» Fra mezzo a tanti festeggiamenti, Castelmaine ebbe a soffrire mortificazioni ed umiliazioni crudeli. Il Pontefice trattavalo con estrema freddezza e riserbo. Qualvolta lo Ambasciatore lo sollecitava dʼuna risposta alla richiesta fatta di concedere un cappello cardinalizio a Petre, Papa Innocenzio, facendosi venire un violento colpo di tosse, poneva fine al colloquio. Si sparse per tutta Roma la voce di coteste singolari udienze. Pasquino non tacque. Tutti i curiosi e i ciarlieri della città più sfaccendata del mondo, tranne solo i Gesuiti e i Prelati partigiani della Francia, facevano le matte risate alla sconfitta di Castelmaine; ed egli chʼera poco dolce dʼindole, ne divenne furioso, e fece correre in giro uno scritto mordace contro il Papa. Castelmaine così ponevasi dalla parte del torto; e lo scaltro Italiano acquistava vantaggio e voleva giovarsene. Dichiarò senza ambagi come la regola che escludeva i Gesuiti dalle dignità ecclesiastiche non si dovesse violare in favore di Padre Petre. Castelmaine offeso minacciò di andarsene via da Roma. Innocenzo rispose, con una mansueta impertinenza, tanto più provocante quanto non poteva distinguersi dalla semplicità, che Sua Eccellenza se ne andasse pure se così le piacesse. «Ma se noi dobbiamo perderlo» aggiunse il venerando Pontefice, «speriamo chʼegli badi alla propria salute nel fare il viaggio. GlʼInglesi non sanno quanto sia pernicioso in questi nostri paesi il viaggiare sotto i calori del giorno. Sarebbe bene adunque chʼegli si partisse avanti lʼalba onde a mezzodì si potesse riposare.» Con tale salutare consiglio e col dono dʼun rosario, il malarrivato ambasciatore ebbe commiato. Pochi mesi di poi comparve alla luce, in italiano e in inglese, una pomposa storia della sua legazione, stampata magnificamente in foglio e adorna dʼincisioni. Il frontespizio, a grande scandalo di tutti i Protestanti, rappresentava Castelmaine nel suo abito di Pari, con la corona di Conte nelle mani, in atto di baciare il piede a Papa Innocenzo.[277] CAPITOLO OTTAVO. SOMMARIO. I. Consacrazione del Nunzio nel Palazzo di San Giacomo; Sua solenne presentazione a Corte.—II. Il Duca di Somerset.—III. Scioglimento del Parlamento. Delitti militari illegalmente puniti—IV. Atti dellʼAlta Commissione.—V. Le Università.—VI. Processi contro la Università di Cambridge.—VII. Il Conte di Mulgrave—VIII. Condizioni dʼOxford.—IX. Il Collegio della Maddalena in Oxford.—X. Il Re raccomanda Antonio Farmer per la presidenza.—XI. I Convittori del Collegio della Maddalena sono citati dinanzi lʼAlta Commissione.—XII. Parker raccomandato per Presidente; la Certosa.—XIII. Viaggio del Re.—XIV. Il Re in Oxford; riprende i Convittori della Maddalena.—XV. Penn tenta di farsi mediatore.—XVI. Commissarii speciali ecclesiastici mandati in Oxford.—XVII. Protesta di Hough; Parker entra in ufficio.—XVIII. I Convittori sono cacciati via.—XIX. Il Collegio della Maddalena diventa seminario papale.—XX. Risentimento del Clero.—XXI. Disegni della Cabala Gesuitica rispetto alla successione—XXII. Disegni di Giacomo e Tyrconnel a fine di impedire che la Principessa dʼOrange succedesse nel regno dʼIrlanda.—XXIII. La Regina è incinta; il fatto non è creduto da nessuno.—XXIV. Umori deʼ Collegi elettorali, e dei Pari.—XXV. Giacomo delibera di convocare il Parlamento adulterando le elezioni.—XXVI. Il Consiglio deʼ Regolatori.—XXVII. Destituzioni di molti Lordi Luogotenenti; il Conte dʼOxford.—XXVIII. Il Conte di Shrewsbury.—XXIX. Il Conte di Dorset.—XXX. Domande fatte ai magistrati.—XXXI. Loro risposta; i disegni del Re riescono vani.—XXXII. Lista di Sceriffi.—XXXIII. Carattere dei gentiluomini Cattolici Romani nelle campagne—XXXIV. Umori deʼ Dissenzienti; Regolamento dei Municipi.—XXXV. Inquisizione in tutti i Dipartimenti del Governo—XXXVI. Destituzione di Sawyer.—XXXVII. Williams avvocato Generale.—XXXVIII. Seconda Dichiarazione dʼIndulgenza.—XXXIX. Il Clero riceve ordine di leggerla.—XL. Il Clero esita a farlo; Patriottismo deʼ Protestanti non–conformisti di Londra.—XLI. Consulte del Clero di Londra.—XLII. Consulte nel Palazzo Lambeth.—XLIII. Petizione deʼ sette Vescovi presentata al Re.—XLIV. Il Clero di Londra disubbidisce agli ordini reali.—XLV. Il Governo esita.—XLVI. Delibera di fare ai Vescovi un processo per calunnia.—XLVII. Vengono esaminati dal Consiglio Privato.—XLVIII. Incarcerati nella Torre di Londra—XLIX. Nascita del Pretendente; universalmente creduta supposta.—L. I Vescovi, tradotti dinanzi il Banco del Re, son posti in libertà sotto cauzione.—LI. Agitazioni nel pubblico.—LII. Inquietudini di Sunderland.—LIII. Fa professione di Cattolico Romano.—LIV. Processo deʼ Vescovi.—LV. Sentenza; esultanza del popolo.—LVI. Stato singolare dellʼopinione pubblica in quel tempo. I. Le aperte scortesie del Pontefice erano bastevoli a irritare il più mansueto deʼ principi; ma il solo effetto che produssero sullʼanimo di Giacomo fu quello di renderlo più prodigo di carezze e di complimenti. Mentre Castelmaine, collʼanima esasperata dallo sdegno, cammino faceva alla volta dellʼInghilterra, il Nunzio era colmato di onori tali che se fosse dipeso da lui li avrebbe ricusati. Per una finzione dʼuso frequente nella Chiesa di Roma, era stato poco innanzi insignito della dignità vescovile senza diocesi. Gli era stato dato il titolo di Vescovo dʼAmasia, città del Ponto e patria di Strabone e di Mitridate. Giacomo insistè perchè la cerimonia della consacrazione fosse fatta entro la Cappella del Palazzo di San Giacomo. Leyburn Vicario Apostolico, e due prelati irlandesi officiarono. Le porte furono spalancate al pubblico; e fu notato come parecchi Puritani, i quali pur dianzi sʼerano fatti cortigiani, fossero fra gli spettatori. La sera di quel dì medesimo, Adda, vestito degli abiti alla nuova dignità convenevoli, si recò allo appartamento della Regina. Re Giacomo in presenza di tutta la Corte cadde sulle ginocchia implorando la benedizione. E in onta del freno imposto dallʼuso cortigianesco, gli astanti indarno studiaronsi di nascondere il disgusto che loro ispirava quellʼatto.[278] E davvero da lunghissimo tempo non sʼera visto un sovrano inglese piegare il ginocchio innanzi ad uomo mortale; e coloro i quali contemplarono quello strano spettacolo, non potevano non richiamare alla memoria il giorno di vergogna, in cui Re Giovanni rese omaggio per la sua corona nelle mani di Pandolfo. II. Breve tempo dopo, una cerimonia anche di più ostentata solennità ebbe luogo in onore della Santa Sede. Eʼ fu deliberato che il Nunzio andasse processionalmente a Corte. In tale occasione alcuni, della cui obbedienza il Re era sicuro, mostrarono per la prima volta segni di spirito disubbidiente. Si rese notevole fra tutti Carlo Seymour, secondo Pari secolare del Regno, e comunemente chiamato lʼorgoglioso Duca di Somerset. E certo egli era uomo, in cui lʼorgoglio della stirpe e del grado era quasi infermità di mente. Le sostanze da lui ereditate non erano pari allʼalto posto chʼegli teneva nellʼaristocrazia inglese; ma era diventato signore della più vasta possessione territoriale dʼInghilterra sposando la figlia ed erede dellʼultimo Percy, il quale portava lʼantica corona ducale di Northumberland. Somerset aveva soli venticinque anni, ed era poco noto al pubblico. Era Ciamberlano del Re, e colonnello di uno deʼ reggimenti levati a tempo della insurrezione delle Contrade Occidentali. Non aveva avuto scrupolo di portare la Spada dello Stato nella Cappella reale, neʼ giorni di festa: ma adesso risolutamente ricusò di mischiarsi al corteggio che doveva festeggiare il Nunzio. Taluni di sua famiglia lo supplicarono a non tirarsi sul capo la collera del Re; ma i loro preghi furono vani. Il Re stesso si provò a rimproverarlo dicendo: «Io credeva, Milord, farvi un grande onore eleggendovi ad accompagnare il ministro della prima testa coronata del mondo.»—«Sire,» rispose il Duca «mi si assicura che io non possa obbedire a Vostra Maestà senza contraffare alla legge.»—«Farò che voi temiate me al pari della legge,» riprese insolentemente il Re: «non sapete che io sono superiore alla legge?»—«Vostra Maestà potrebbe essere superiore alla legge» rispose Somerset, «ma io non lo sono; e mentre obbedisco alla legge, non ho timore di nulla.» Il Re gli volse altamente irato le spalle, e tosto lo destituì dʼogni ufficio nella casa reale e nello esercito.[279] Nondimeno in una cosa Giacomo usò alquanto di prudenza. Non si rischiò di esporre il Nunzio in solenne processione agli occhi della vasta popolazione di Londra. La ceremonia fu fatta il dì 3 luglio 1687, in Windsor. La gente accorse in folla a quella piccola città, tanto che mancarono i viveri e gli alloggi; e molte persone dʼalta condizione rimasero tutta la giornata nelle loro carrozze aspettando di vedere lo spettacolo. In fine, in sul tardi del pomeriggio, comparve il maresciallo del palazzo seguito daʼ suoi uomini a cavallo. Quindi veniva una lunga fila di volanti, e da ultimo in un cocchio di Corte procedeva Adda coperto dʼuna veste purpurea, con una croce che gli luccicava sul petto. Era seguito dalle carrozze deʼ principali cortigiani e ministri di Stato. Ed in questo corteo gli spettatori riconobbero con indignazione lʼarmi e le livree di Crewe vescovo di Durham, e di Cartwright Vescovo di Chester.[280] III. Il dì susseguente leggevasi nella gazzetta un decreto che discioglieva il Parlamento, il quale di tutti i quindici Parlamenti convocati dagli Stuardi era stato il più ossequioso.[281] Intanto nuove difficoltà sorgevano in Westminster Hall. Pochi mesi erano corsi da che erano stati destituiti alcuni giudici e sostituiti altri a fine dʼottenere una sentenza favorevole alla Corona nella causa di Sir Eduardo Hales; e già era necessario fare nuovi cangiamenti. Il Re aveva appena formato quello esercito, con lʼaiuto del quale principalmente egli sperava di compire i propri disegni, allorchè si avvide di non poterlo tenere in freno. In tempo di guerra nel Regno un soldato ribelle o disertore poteva esser giudicato da un tribunale militare, e la sentenza eseguita dal Provosto Maresciallo. Ma adesso vʼera perfetta pace. Il diritto comune dʼInghilterra, originato in una età in cui ogni uomo portava le armi secondo le occorrenze, e giammai di continuo, non faceva distinzione, in tempo di pace, da un soldato ad un altro suddito qualunque; nè vʼera Atto alcuno somiglievole a quello, per virtù del quale lʼautorità necessaria al governo delle truppe regolari, annualmente si affida al Sovrano. Alcuni vecchi statuti, a dir vero, dichiaravano in certi casi speciali crimenlese la diserzione. Ma tali statuti erano applicabili solo ai soldati nellʼatto di prestare servizio al Re in guerra, e non potevansi senza aperta mala fede stiracchiare tanto da applicarli al caso di colui, il quale, in tempo di profonda quiete dentro e fuori lo Stato, sentendosi stanco di rimanere più oltre negli accampamenti di Hounslow facesse ritorno al suo villaggio nativo. Sembra che il Governo non avesse potestà di ritenere un tale uomo più di quella che non ne abbia un fornaio o un sartore sopra i suoi lavoranti. Il soldato e i suoi ufficiali agli occhi della legge erano in pari condizione. Sʼegli bestemmiava contro loro, era punito come reo di bestemmia; se gli batteva, era processato per offesa. Vero è che le milizie regolari avevano minor freno delle civiche. Perocchè queste erano un corpo istituito da un Atto parlamentare, il quale aveva provveduto che si potessero, per violazione di disciplina, infliggere sommariamente pene leggiere. Non sembra che sotto il regno di Carlo II si fosse fatta molto sentire la inconvenevolezza pratica di siffatta condizione della legge. Ciò potrebbe forse spiegarsi dicendo che fino allʼultimo anno del suo regno, le forze chʼegli manteneva in Inghilterra, erano precipuamente composte di soldati appartenenti alla casa reale, la cui paga era tanta che la destituzione dal servizio sarebbe stata dalla più parte di loro considerata come una sciagura. Lo stipendio di un soldato comune nelle Guardie del Corpo era una provvisione degna del figlio minore dʼun gentiluomo. Anche le Guardie a piedi erano pagate quanto i manifattori in tempi prosperi, ed erano quindi in condizioni tali da essere invidiati dalla classe deʼ lavoranti. Il ritorno del presidio di Tangeri, e le leve deʼ nuovi reggimenti avevano apportata una seria riforma. Adesso erano in Inghilterra molte migliaia di soldati, ciascuno deʼ quali riceveva soli otto soldi di paga per giorno. Il timore dʼessere licenziati non era bastevole a tenerli dentro gli stretti confini del dovere: e le pene corporali non potevano legalmente dagli ufficiali essere inflitte. Giacomo aveva quindi due sole vie ad eleggere, o lasciare che la sua armata si disciogliesse da sè, o indurre i Giudici a dichiarare che la legge fosse ciò che ogni giureconsulto sapeva non essere. A ciò fare importava segnatamente esser sicuro della cooperazione di due tribunali; la Corte del Banco del Re che era il primo tribunale criminale del Regno, e la Corte chiamata del _goal–delivery_, che sedeva in Old Bailey, ed aveva giurisdizione sopra i delitti commessi nella capitale. In ambedue queste Corti vʼerano grandi difficoltà. Herbert, Capo Giudice del Banco del Re, per quanto fino allora si fosse mostrato servile, non avrebbe osato di trascorrere più oltre. Più ostinata resistenza era da aspettarsi da Giovanni Holt, il quale, come _Recorder_ della città di Londra, occupava il banco in Old Bailey. Holt era uomo eminentemente dotto nella giurisprudenza, dotato di mente lucida, coraggioso ed onesto; e comecchè non fosse stato mai fazioso, le sue opinioni politiche sentivano di spirito Whig. Nulladimeno dinanzi alla volontà del Re disparvero tutti gli ostacoli. Ad Holt fu tolto lʼufficio. Herbert ed un altro giudice furono cacciati dal Banco del Re; e queʼ posti vacanti vennero dati ad uomini nei quali il Governo poteva pienamente confidare. E per vero dire, ei fu mestieri scendere a ciò che vi era di più basso nel ceto legale per trovare uomini pronti a rendere i servigi richiesti dal Re. La ignoranza del nuovo Capo Giudice Sir Roberto Wright passava in proverbio; e pure la ignoranza non era il peggiore deʼ suoi difetti. Era stato rovinato daʼ vizii, aveva ricorso a mezzi infami per far danari, ed una volta fece un falso _affidavit_, ovvero dichiarazione con giuramento, per guadagnare cinquecento sterline. Povero, dissoluto e svergognato, era divenuto uno deʼ parassiti di Jeffreys, che lo promosse nel medesimo tempo in cui lo caricava dʼinsulti. Tale era lʼuomo scelto da Giacomo a Lord Capo Giudice dʼInghilterra. Un certo Roberto Allibone, che era nelle leggi anche più ignorante di Wright, e come cattolico romano non poteva occupare impieghi, fu fatto secondo giudice del Banco del Re. Sir Bartolommeo Shower, ugualmente noto come Tory servile ed oratore noioso, fu nominato _Recorder_ di Londra. Dopo tali variazioni, a parecchi disertori fu fatto il processo. Vennero dichiarati rei a dispetto della lettera e dello spirito della legge. Alcuni furono condannati a morte nel Banco del Re, altri in Old Bailey. Vennero impiccati al cospetto deʼ reggimenti ai quali appartenevano; e sʼebbe cura che la esecuzione della sentenza fosse annunziata nella gazzetta di Londra, la quale di rado dava notizia di siffatti eventi.[282] IV. Era da credersi che la legge, violata con tanta impudenza da Corti la cui autorità derivava interamente da quella, e che avevano costume di toglierla a guida neʼ loro giudizii, sarebbe poco rispettata da un tribunale istituito da un capriccio tirannico. La nuova Alta Commissione nei primi mesi della sua esistenza aveva semplicemente inibito ad alcuni chierici lo esercizio delle loro funzioni spirituali; essa non aveva attentato ai diritti di proprietà. Ma sul principio del 1687, eʼ fu deliberato di colpire cotesti diritti, e di porre in mente ad ogni prete e prelato anglicano la convinzione, che, ricusando di aiutare il Governo a distruggere la Chiesa di cui egli era ministro, verrebbe in un attimo ridotto alla miseria. Sarebbe stata prudenza farne la prima prova sopra qualche oscuro individuo. Ma era tanta la cecità del Governo, che in una età più credula si sarebbe chiamata fatalità. A un tratto dunque fu dichiarata la guerra alle due più venerabili corporazioni del reame, voglio dire alle Università dʼOxford, e di Cambridge. V. Queʼ due grandi corpi da lunghissimi anni erano stati molto potenti; e la potenza loro in sul declinare del secolo decimo settimo era giunta al più alto grado. Nessuno deʼ paesi vicini poteva gloriarsi di centri di dottrina splendidi ed opulenti al pari di quelli. Le scuole dʼEdimburgo e di Glasgow, di Leida e di Utrecht, di Lovanio e di Lipsia, di Padova e di Bologna, sembravano dappoco ai dotti chʼerano stati educati neʼ magnifici istituti di Wykeham e di Wolsey, di Enrico VI, e dʼEnrico VIII. Le lettere e le scienze nel sistema accademico dʼInghilterra, erano circondate di gran pompa, avevano una magistratura, ed erano strettamente connesse con tutte le più auguste istituzioni dello Stato. Essere Cancelliere dʼuna Università reputavasi onorificenza, alla quale ardentemente ambivano i magnati del Regno. Rappresentare una Università in Parlamento era scopo allʼambizione degli uomini di Stato. I nobili e perfino i principi inorgoglivansi di ricevere da una Università il privilegio dʼindossare la veste scarlatta di dottore. I curiosi erano attratti alle Università dal diletto di ammirare quegli antichi edifizi ricchi di memorie del medio evo, quelle moderne fabbriche che mostravano quanto potessero gli squisiti ingegni di Jones e di Wren, quelle magnifiche sale e cappelle, i Musei, i giardini botanici, e le sole grandi Biblioteche pubbliche che a quei tempi esistessero nel Regno. La pompa che Oxford mostrava nelle solennità, rivaleggiava con quella deʼ principi sovrani. Quando il venerando Duca dʼOrmond Cancelliere di quellʼUniversità, coperto del suo manto ricamato, sedeva sul trono sotto la dipinta volta del teatro di Sheldon, circondato da centinaia di graduati vestiti secondo lʼordine loro, mentre i più nobili giovani dellʼInghilterra solennemente a lui presentavansi come candidati peʼ grandi accademici, egli faceva una comparsa regale quasi al pari del suo signore nella Sala del Banchetto in Whitehall. Nella Università sʼerano educati glʼintelletti di quasi tutti i più eminenti chierici, laici, medici, begli spiriti, poeti, ed oratori del reame, e gran parte deʼ nobili e dei ricchi gentiluomini. È anche da notarsi che la relazione tra lo scolare e la scuola non rompevasi alla sua partenza da quella. Spesso egli seguitava ad essere per tutta la vita membro del corpo accademico, e come tale votava in tutte le elezioni di maggiore importanza. Serbava quindi per le sue antiche passeggiate lungo il Cam e lʼIsis una memoria più affettuosa, che gli uomini educati spesso non sentono per il luogo della loro educazione. In tutta Inghilterra non era angolo in cui le due Università non avessero grati e zelanti figli. Ogni attentato contro lʼonore e gli interessi di Cambridge e di Oxford non poteva non provocare il risentimento dʼuna possente, operosa e intelligente classe, sparsa in ogni Contea da Northumberland fino a Cornwall. I graduati residenti, come corpo, allora non erano forse positivamente superiori a quelli deʼ tempi nostri: ma in paragone delle altre classi sociali occupavano una posizione più alta: imperocchè Cambridge ed Oxford erano allora le sole due città provinciali del Regno, nelle quali si trovasse un gran numero dʼuomini eminenti per cultura intellettuale. Anche la metropoli teneva in grande riverenza lʼautorità delle Università non solo nelle questioni di teologia, di filosofia naturale e dʼantichità classiche, ma altresì in quelle materie nelle quali le metropoli generalmente pretendono il diritto di giudicare in ultimo appello. Dal Caffè Will e dalla platea del teatro regio di Drury Lane i critici riferivansi al giudizio deʼ due grandi centri del sapere e del gusto. Le produzioni drammatiche, chʼerano state con entusiasmo applaudite in Londra, non riputavansi fuori di pericolo finchè non avessero sperimentato il severo giudizio degli uditori assuefatti a studiare Sofocle e Terenzio.[283] Le Università dʼInghilterra avevano adoperata tutta la loro influenza morale ed intellettuale a pro della Corona. Carlo I aveva fatto dʼOxford il suo quartiere generale; e tutti i Collegi a impinguare la sua cassa militare avevano fuse le loro argenterie. Cambridge non era meno benevola alla Corona. Aveva mandata anche essa aʼ regi accampamenti gran parte delle sue argenterie, e avrebbe parimenti dato il resto se la città non fosse stata presa dalle soldatesche del Parlamento. Ambedue le Università dai vittoriosi Puritani erano state severissimamente trattate; ambedue avevano con gioia plaudito alla Restaurazione; fermamente avversata la Legge dʼEsclusione; e mostrato profondo orrore alla scoperta della Congiura di Rye–House. Cambridge non solo aveva deposto Monmouth dallʼufficio di Cancelliere, ma ad esprimere come forte abborrisse il tradimento di lui, con modo indegno della sede della sapienza aveva data alle fiamme la tela in cui il pennello di Kneller aveva con isquisitissimo magistero dipinto il ritratto del Duca.[284] Oxford, la quale era più presso agli insorti delle Contrade Occidentali, aveva date prove maggiori della sua lealtà. Gli studenti, con lʼapprovazione deʼ loro maestri, avevano a centinaia preso le armi per difendere i diritti ereditari del Re. Tali erano le corporazioni che Giacomo aveva deliberato di insultare e spogliare, rompendo apertamente le leggi e la fede data. VI. Parecchi Atti di Parlamento, chiari quanto qualunque altro che si contenga nel libro degli Statuti, avevano provveduto che niuno si potesse ammettere ad alcun grado in ambe le Università senza prestare il giuramento di supremazia, e un altro di simile carattere, detto giuramento di obbedienza. Nonostante, nel febbraio del 1687, giunse a Cambridge una lettera del Re che ingiungeva fosse ammesso al grado di Maestro dellʼArti un monaco benedettino chiamato Albano Francis. Gli ufficiali accademici, ondeggiando tra la riverenza pel Re e la riverenza per le leggi, stavansi gravemente contristati. Mandarono in gran diligenza messaggi al Duca dʼAlbemarle, successore di Monmouth nella dignità di Cancelliere dellʼUniversità. Lo pregavano di presentare nel suo vero aspetto il caso al Sovrano. Intanto lʼarchivista e i bidelli andarono ad annunziare a Francis che ove egli prestasse i giuramenti secondo richiedeva la legge, sarebbe subito ammesso. Francis ricusò di giurare, inveì contro gli ufficiali della Università mancatori di rispetto al comando sovrano, e trovandoli inflessibili, montò a cavallo, e corse a recare le sue doglianze a Whitehall. I Capi deʼ Collegi allora si ragunarono a consiglio. Vennero consultati i migliori giureconsulti, e tutti unanimemente giudicarono il corpo universitario avere bene operato. Ma già era per via unʼaltra lettera scritta da Sunderland con altere e minacciose parole. Albemarle annunziò contristatissimo alla Università avere egli fatto ogni sforzo, ma essere stato freddamente e con poca grazia accolto dal Re. Il corpo accademico, impaurito della collera sovrana, e sinceramente desideroso di compiacere ai voleri del Re, ma deliberato di non violare le patrie leggi, gli sottopose le più umili e riverenti spiegazioni, ma indarno. Poco dopo al Vice–Cancelliere e al Senato universitario fu formalmente intimato di comparire, pel dì 21 aprile, dinanzi alla nuova Alta Commissione; il Vice–Cancelliere in persona; il Senato, che è composto di tutti i Dottori e Maestri dellʼUniversità, per mezzo di suoi deputati. VII. Giunto il dì stabilito, la sala del Consiglio era affollata. Jeffreys teneva il seggio presidenziale. Rochester, dopo che gli era stato tolto il bianco bastone, non era più membro, e gli era succeduto al posto il Lord Ciamberlano Giovanni Sheffield Conte di Mulgrave. La sorte di questo gentiluomo da un solo lato è simile a quella del suo collega Sprat. Mulgrave scrisse versi appena al disopra della mediocrità; ma perchè era uomo dʼalto grado nel mondo politico ed elegante, i suoi versi trovarono ammiratori. Il tempo sciolse il prestigio, ma, sciaguratamente per lui, ciò non avvenne se non dopo che i suoi poetici componimenti per diritto di prescrizione erano stati inseriti in tutte le raccolte deʼ Poeti inglesi. Per la qual cosa fino aʼ dì nostri i suoi insipidi Saggi in verso e le sue scempiate canzoni ad Amoretta e Gloriana ristampansi accanto al Como di Milton e al Festino dʼAlessandro di Dryden. Onde è che adesso Mulgrave è conosciuto come poetastro, e come tale meritamente spregiato. Nondimeno, egli era, a dir vero, come affermano anche coloro che non lo amavano nè lo stimavano, uomo dʼinsigni doti intellettuali, e nella eloquenza parlamentare punto inferiore a qual si fosse oratore deʼ tempi suoi. Il suo carattere morale era spregevole. Egli era libertino senza quella larghezza di cuore e di mano che talvolta rende amabile il libertinismo, ed altero aristocratico senza quella altezza di sentimenti, che talvolta rende rispettabile lʼaristocratica alterigia. Gli scrittori satirici di quellʼetà gli apposero il soprannome di Lord Tuttorgoglio. Eppure cotesto suo orgoglio egli accompagnava con tutti i vizi più abietti. Molti maravigliavansi come un uomo, che aveva così alta opinione della propria dignità, fosse tanto difficile e misero in tutte le sue faccende pecuniarie. Aveva gravemente offesa la famiglia regale osando accogliere in petto la speranza di ottenere il cuore e la mano della Principessa Anna. Disilluso di cotanta speranza, sʼera sforzato di riacquistare con ogni bassezza la grazia che per presunzione egli aveva perduta. Il suo epitaffio, composto da lui stesso, rivela tuttora a coloro che traversano lʼAbbadia di Westminster, chʼegli visse e morì da scettico nelle cose di religione; e dalle memorie che ci ha lasciate, impariamo come uno deʼ suoi più ordinari subietti di scherzo fosse la superstizione romana. Ma appena Giacomo salì al trono, Mulgrave cominciò a manifestare forte inclinazione verso il papismo, e in fine privatamente fece sembiante dʼesser convertito. Questa abietta ipocrisia era stata ricompensata con un posto nella Commissione Ecclesiastica.[285] Innanzi cotesto formidabile tribunale si appresentò il Dottore Giovanni Pechell Vice–Cancelliere della Università di Cambridge. Era uomo di non grande abilità e vigoria di carattere, ma lo accompagnavano otto insigni accademici eletti a rappresentare il Senato. Uno di loro era Isacco Newton, Convittore del Collegio della Trinità e Professore di Matematiche. Il suo genio era allora nel massimo vigore. La grande opera, che lo ha collocato di sopra ai geometri e aʼ naturalisti di tutti i tempi e di tutte le nazioni, stavasi stampando per ordine della Società Reale, ed era pressochè pronta a pubblicarsi. Egli amava fermamente la libertà civile e la religione protestante; ma per le sue abitudini, valeva poco neʼ conflitti della vita attiva. E però tenne un modesto silenzio fra mezzo ai deputati, lasciando ad uomini maggiormente esperti nelle faccende lo incarico di difendere la causa della sua diletta Università. Non vi fu mai caso più chiaro di cotesto. La legge non ammetteva stiracchiature. La pratica aveva quasi invariabilmente seguita sempre la legge. Poteva forse essere accaduto che in un giorno di solennità, nel conferirsi gran numero di gradi onorari, fosse passato fra la folla qualcuno senza prestare i giuramenti. Ma tale irregolarità, semplice effetto della inavvertenza e della fretta, non poteva citarsi come esempio. Ambasciatori stranieri di diverse nazioni, ed in ispecie un Musulmano, erano stati ammessi senza giuramento; ma poteva dubitarsi se a cosiffatti casi fossero applicabili la ragione e lo spirito degli Atti del Parlamento. Non pretendevasi nè anco che alcuno il quale, richiesto, avesse ricusato di prestare i giuramenti, ottenesse mai un grado accademico; e questo era precisamente il caso di Francis. I deputati mostraronsi pronti a provare che, regnante Carlo II, parecchi ordini regali erano stati considerati come nulli, perocchè le persone raccomandate non si erano volute uniformare alla legge, e che, in simili casi, il Governo aveva sempre approvato lʼoperare dellʼUniversità. Ma Jeffreys non volle udire nulla. Disse il Vice–Cancelliere essere uomo debole, ignorante e timido, per lo che disfrenò tutta la insolenza che era per tanti anni stata il terrore di Old Bailey. Lo sventurato Dottore, non avvezzo a tale spettacolo, cadde in disperata agitazione di mente, e perdè la parola. Allorchè gli altri accademici, che potevano meglio difendere la propria causa, provaronsi di parlare, furono duramente fatti tacere: «Voi non siete Vice–Cancelliere; quando lo sarete, parlerete; per ora è vostro debito tenere chiuse le labbra.» Furono cacciati fuori la sala senza che potessero farsi ascoltare. Poco tempo dopo, citati di nuovo a presentarsi, fu loro annunziato che la Commissione aveva deliberato di sospendere Pechell dallʼufficio, e toglierli tutti gli emolumenti chʼerano come sua proprietà. «Quanto a voi altri,» disse Jeffreys «che per la più parte siete ecclesiastici, vi manderò a casa con un testo della Scrittura. Andate, e non peccate mai più, perchè non vi accada peggio.»[286] VIII. Siffatto procedere potrebbe sembrare bastevolmente ingiusto e violento. Ma il Re aveva già incominciato a trattare Oxford con tanto rigore, che quello mostrato contro Cambridge potrebbe chiamarsi dolcezza. Già il Collegio della Università era stato trasmutato da Obadia Walker in seminario cattolico romano. Già il Collegio della Chiesa–di–Cristo era governato da un decano cattolico. La Messa celebravasi giornalmente in ambidue cotesti collegi. La tranquilla e maestosa città, un tempo sì devota ai principii monarchici, era agitala da passioni non mai per lo innanzi conosciute. I sottograduati, con connivenza deʼ loro superiori, facevano le fischiate ai membri della congregazione di Walker, e cantavano satire sotto le sue finestre. Sono giunti fino a noi alcuni frammenti delle serenate che mettevano in subbuglio High–Street. Lo intercalare dʼuna ballata diceva: «Il vecchio Obadia—Canta lʼAve Maria.» Come i comici giunsero in Oxford, lʼopinione pubblica si manifestò con maggior forza. Venne rappresentata la produzione drammatica di Howard intitolata il _Comitato_. Questo componimento, scritto poco dopo la Restaurazione, dipingeva i Puritani in sembianti odiosi e spregevoli, e però era stato per venticinque anni applaudito dagli Oxfordiani. Adesso piaceva più che mai; imperciocchè per fortuna uno deʼ precipui caratteri era un vecchio ipocrita che aveva nome Obadia. Gli uditori diedero in fragoroso scoppio dʼ applausi quando, nellʼultima scena, Obadia viene strascinato fuori con un capestro al collo; e i clamori raddoppiarono quando uno degli attori, alterando la commedia, annunzio che Obadia meritava dʼessere impiccato per avere rinnegata la propria religione. Il Re rimase grandemente irritato a tale insulto. Era cotanto rivoluzionario lo spirito della Università, che uno deʼ nuovi reggimenti—quel desso che ora chiamasi Secondo deʼ Dragoni delle Guardie—fu acquartierato in Oxford, onde impedire uno scoppio.[287] Dopo cotesti fatti Giacomo avrebbe dovuto convincersi che la via da lui presa doveva di necessità condurlo a ruina. Ai clamori di Londra era da lungo tempo assuefatto. Sʼerano levati contro lui ora giustamente ed ora a torto. Egli li aveva più volte affrontati, e poteva forse tuttavia affrontarli. Ma che Oxford, sede della lealtà, quartiere generale dello esercito deʼ Cavalieri, luogo dove il padre e il fratello trasferirono la corte loro quando non si tenevano più sicuri nella loro tempestosa metropoli, luogo dove gli scritti deʼ grandi intelletti repubblicani erano stati di recente dati alle fiamme, fosse ora agitata da sinistri umori; che quegli animosi giovani, i quali pochi mesi innanzi avevano ardentemente prese le armi contro glʼinsorti delle Contrade Occidentali, avessero ad essere con difficoltà tenuti in freno dalla carabina e dalla spada, erano segni di cattivo augurio per la casa degli Stuardi. Tali ammonimenti, nondimeno, tornarono inutili allo stupido, inflessibile e testardo tiranno. Era deliberato di dare alla sua Chiesa i più ricchi e splendidi stabilimenti dʼInghilterra. A nulla giovarono le rimostranze deʼ migliori e più savi traʼ suoi consiglieri cattolici romani. Gli dimostrarono come egli potesse rendere grandi servigi alla causa della sua religione, senza violare i diritti di proprietà. Un assegnamento annuo di due mila lire sterline, che agevolmente poteva trarsi dal suo tesoro privato, sarebbe bastato a mantenere un collegio di Gesuiti. Siffatto collegio provveduto di abili, dotti e zelanti precettori, sorgerebbe come formidabile rivale alle vecchie istituzioni accademiche, le quali mostravano non pochi segni di quella languidezza, che è quasi inseparabile dal sentirsi sicuro ed opulento. Il collegio di Re Giacomo tosto verrebbe considerato, anche dagli stessi Protestanti, il primo istituto dʼeducazione nellʼisola e per scienza e per disciplina morale. Ciò sarebbe il mezzo più efficace e meno odioso con che umiliare la Chiesa Anglicana ed esaltare la cattolica. Il Conte dʼAilesbury, uno deʼ più fidi servitori della regale famiglia, quantunque Protestante, offerse mille lire sterline per mandare ad esecuzione quel disegno, più presto che vedere che il suo signore violasse i diritti di proprietà, e rompesse la fede data alla Chiesa dello Stato.[288] Tale proposta, nondimeno, non piacque al Re, come quella che, a dir vero, per molte ragioni, era poco convenevole alla dura indole di lui. Imperciocchè aveva non poco diletto a domare e sconfiggere lʼaltrui volontà, e gli doleva privarsi deʼ propri danari. Ciò chʼegli non aveva la generosità di fare a proprie spese, voleva farlo a spese degli altri. Deliberato di conseguire un fine, lʼorgoglio e lʼostinazione glʼimpedivano di retrocedere; e a poco per volta si era già ridotto a commettere atti di turchesca tirannide, atti che ridussero la nazione a convincersi che la proprietà di un libero possidente inglese sotto un Re cattolico romano non era punto sicura, come non lo era quella dʼun greco sotto la dominazione musulmana. IX. Il Collegio della Maddalena in Oxford, fondato nel secolo decimoquinto da Guglielmo di Waynflete Vescovo di Winchester e Lord Gran Cancelliere, era uno deʼ più cospicui deʼ nostri istituti accademici. Una graziosa torre, in cima alla quale allʼalba del di primo di maggio i coristi cantavano un inno latino, presentavasi da lungi allʼocchio del viandante che veniva da Londra. Come egli appressavasi, la vedeva sorgere fraʼ merli sopra una vasta mole bassa ed irregolare, ma singolarmente veneranda, la quale, cinta di verdura, signoreggiava le lente acque del Cherwell. Egli entrava per una porta sormontata da una leggiadra finestra, e penetrava in uno spazioso chiostro ornato dʼimmagini rappresentanti le virtù e i vizi, rozzamente scolpite in pietra grigia dai muratori del secolo decimoquinto. La mensa della società era con profusione apparecchiata in un magnifico refettorio adorno di pitture e di fantastici intagli. Il servizio di chiesa facevasi mattina e sera in una cappella, chʼera stata molto danneggiata daʼ Riformatori e dai Puritani, ma tuttavia, così guasta, era edificio dʼinsigne bellezza, ai tempi nostri ristaurato con arte e con gusto squisiti. I vasti giardini lungo la riva del fiume, erano notevoli per la grandezza degli alberi, fra mezzo ai quali torreggiava una delle maraviglie della vegetazione dellʼisola, cioè una quercia gigantesca, secondo che comunemente dicevasi, dʼun secolo più antica del più antico collegio dellʼUniversità. Gli statuti collegiali ordinavano che i Re dʼInghilterra e i Principi di Galles dovessero alloggiare alla Maddalena. Eduardo IV vi aveva abitato quando la fabbrica non era peranche finita. Riccardo III vi aveva tenuto corte, udito le dispute nella sala, regalmente festeggiato, e a rimunerare i suoi ospiti aveva loro fatto presenti di daini delle sue foreste. Due eredi presuntivi della Corona, anzi tempo spenti, Arturo fratello maggiore di Enrico VIII, ed Enrico fratello maggiore di Carlo I, erano stati membri di quel collegio. Un altro Principe del sangue, lʼultimo e migliore degli Arcivescovi cattolici romani di Canterbury, il buon Reginaldo Polo, vi aveva fatti i suoi studi. Aʼ tempi della guerra civile il Collegio della Maddalena era rimasto fido alla Corona. Ivi Rupert aveva stabilito il suo quartiere generale; e le sue trombe sʼudivano per quei quieti chiostri quando egli ragunava i suoi cavalli per muovere a qualcuna delle sue più audaci intraprese. La maggior parte deʼ collegiali erano ecclesiastici, e non potevano aiutare il Re se non con preci e pecunia. Ma un collega loro, il quale era Dottore in Diritto Civile, fece leva dʼuna schiera di sottograduati, e cadde valorosamente combattendo alla loro testa contro i soldati dʼEssex. Posate le armi, e venuta la Inghilterra sotto la dominazione delle Teste–Rotonde, sei settimi dei membri del collegio ricusarono di sottomettersi agli usurpatori: per la qual cosa furono cacciati dalle loro abitazioni, e privati delle rendite. Coloro che sopravvissero alla Restaurazione, fecero ritorno alle loro gradite stanze. Adesso era loro succeduta una generazione dʼuomini, i quali ne avevano ereditato le opinioni e lo spirito. Mentre infuriava la ribellione delle Contrade Occidentali, tutti coloro che nel Collegio della Maddalena la età o la professione non impediva dal portare le armi, erano ardentemente accorsi a combattere a pro della Corona. Eʼ sarebbe difficile trovare in tutto il Regno una corporazione, che al pari di cotesta fosse meritevole della gratitudine degli Stuardi.[289] La società era composta dʼun Presidente, di quaranta Convittori (_Fellows_), di trenta scolari chiamati _Demies_, e dʼun convenevole numero di cappellani, cherici e coristi. A tempo della visita generale sotto il regno di Enrico VIII, le rendite del collegio erano molto maggiori di quelle dʼogni altro simigliante istituto nel reame, maggiori quasi per metà di quelle del magnifico istituto da Enrico VI fondato in Cambridge; e assai più del doppio di quelle che Guglielmo Wykeham aveva assegnato al suo collegio in Oxford. Sotto Giacomo II le ricchezze della Maddalena erano immense, e la fama le esagerava. Dicevasi comunemente che il collegio fosse più ricco delle più ricche Abadie del continente; e il popolo affermava che, finiti i fitti esistenti, la entrata crescerebbe fino alla somma prodigiosa di quaranta mila lire sterline lʼanno.[290] I Convittori, per virtù degli statuti compilati dal fondatore, avevano potestà di eleggere il presidente fra coloro che erano allora o erano stati convittori o della Maddalena o del Collegio Nuovo. Avevano per lo più siffatta potestà liberamente esercitato. Ma alcuna volta il Re aveva raccomandato qualche partigiano della Corte alla scelta degli elettori; e in tali casi il collegio sʼera mostrato riverente ai desiderii del Sovrano. Nel marzo del 1687, il Presidente della Maddalena fini di vivere. Aspirava a succedergli uno deʼ Convittori, cioè il Dottore Tommaso Smith, volgarmente soprannominato Rabbi Smith, insigne viaggiatore, bibliofilo, antiquario, ed orientalista, già stato cappellano di legazione a Costantinopoli, e adoperato a collazionare il Manoscritto Alessandrino. Credeva di meritare la protezione del Governo come uomo dotto e come Tory zelante. E davvero era ardentemente e fermamente il più realista che si potesse trovare in tutta la Chiesa Anglicana. Da lungo tempo aveva stretta amicizia con Parker Vescovo dʼOxford, per mezzo del quale egli sperava ottenere dal Re una lettera commendatizia al collegio; Parker gli promise di fare il possibile, ma tosto riferì di avere incontrato parecchie difficoltà. «Il re» disse egli «non raccomanderà alcuno che non sia amico alla religione della Maestà Sua. Che potreste voi fare per compiacerlo in quanto a ciò?» Smith rispose che ove egli fosse fatto Presidente, farebbe ogni sforzo per promuovere le lettere, la vera religione di Cristo, e la lealtà verso il Sovrano. «Ciò non servirebbe» disse il Vescovo. «Se è così» rispose animosamente Smith, «sia chi si voglia il Presidente: io non posso promettere altro.» X. La elezione era stabilita pel di 13 aprile, e ai Convittori fu annunziato di ragunarsi. Dicevasi che il Re manderebbe una lettera a raccomandare pel posto vacante un certo Antonio Farmer. Era stato membro della Università di Cambridge ed aveva schivato di essere espulso, accortamente ritirandosi a tempo. Sʼera quindi collegato coʼ Dissidenti; e poi, recatosi ad Oxford, era entrato nel Collegio della Maddalena, dove si rese notevole per ogni generazione di vizi. Quasi sempre strascinavasi al collegio a notte avanzata, senza potere profferire parola, come colui chʼera briaco. Acquistò fama per essersi messo a capo dʼun tumulto in Abingdon. Frequentava sempre i convegni deʼ libertini. In fine, fattosi lenone, era disceso anche al di sotto della ordinaria sozzura del suo mestiere, ricevendo danari da certi dissoluti giovani per aver loro resi servigi tali che il labbro pudico della storia non può ricordare senza arrossirne. Cotesto sciagurato, nondimeno, aveva simulato di farsi papista, e la sua apostasia fu considerata come bastevole espiazione di tutti i suoi vizi. E comecchè fosse ancora giovine dʼanni, fu dalla Corte scelto a governare una grave e religiosa società, nella quale era tuttavia fresca la scandalosa memoria del suo depravato vivere. Come cattolico romano, egli, secondo la legge comune del paese, non poteva occupare veruno ufficio accademico. Per non essere mai stato Convittore della Maddalena o del Collegio Nuovo, non poteva, in virtù dʼun ordinamento speciale di Guglielmo Waynflete, essere eletto Presidente. Guglielmo aveva anche comandato a coloro che dovevano fruire della liberalità sua, di badare peculiarmente alla moralità di colui che dovevano eleggere a loro capo; e quandʼanche egli non avesse lasciato scritto cotale comandamento, una corporazione composta in massima parte di ecclesiastici non poteva decentemente affidare ad un uomo quale era Farmer il governo dʼun istituto dʼeducazione. I Convittori rispettosamente esposero al Re le difficoltà in cui si troverebbero, ove, come ne correva la voce, Farmer venisse loro raccomandato; e pregavano, che qualora piacesse alla Maestà Sua immischiarsi nella elezione, proponesse qualche persona a favore della quale potessero legalmente e con sicura coscienza votare. La rispettosa preghiera fu posta in non cale. La lettera del Re giunse, e fu recata da Roberto Charnock, che dianzi sʼ era fatto papista, uomo fornito di coraggio e di qualità, ma di sì violenta indole che pochi anni dopo commise un atroce delitto ed ebbe miseranda fine. Il dì 13 aprile, la società congregossi nella cappella. Speravano tutti che il Re si movesse alla rimostranza che gli avevano presentata. Lʼassemblea quindi si aggiornò al dì 15, che era lʼultimo giorno, nel quale, secondo gli statuti del collegio, la elezione doveva aver luogo. Giunto il predetto giorno, i Convittori ragunaronsi di nuovo entro la cappella. Non vʼera risposta alcuna da Whitehall. Due o tre degli anziani, fraʼ quali era Smith, inchinavano a posporre ancora la elezione, più presto che fare un passo che avrebbe potuto offendere il Re. Ma il testo degli statuti, che i membri del collegio avevano giurato di osservare, era chiaro. Fu quindi generale opinione di non ammettere altro indugio. Ne segui vivissima discussione. Gli elettori erano sì concitati che non potevano starsi neʼ loro seggi, e tumultuavano. Coloro che volevano la elezione immediata, richiamavansi aʼ loro giuramenti ed alle prescrizioni del fondatore, del quale mangiavano il pane, e ripetevano il Re non avere diritto dʼimporre un candidato anche avente i necessari requisiti. Fra mezzo alla contesa udironsi alcune parole spiacevoli alle orecchie dʼun Tory, si che Smith irritato esclamò: lo spirito di Ferguson avere invaso i cuori deʼ suoi confratelli. Finalmente eʼ fu deliberato di fare subito la elezione. Charnock uscì fuori della cappella. Gli altri Convittori, ricevuta la comunione, procederono a votare, e sortì eletto Giovanni Hough uomo di grande virtù e prudenza, il quale avendo sostenuto con fortezza la persecuzione, e con mansuetudine la prosperità, elevatosi a più alte dignità e rifiutatene anche di maggiori, mori estremamente vecchio, senza perdere la vigoria della mente, cinquantasei e più anni dopo quel memorando giorno. La società affrettossi a far conoscere al Re le circostanze che avevano reso necessario lo eleggere senza altro indugio il Presidente, e pregarono il Duca di Ormond, come patrono della Università, e il Vescovo di Winchester, come ispettore del Collegio della Maddalena, perchè volessero assumersi lʼufficio dʼintercessori: ma il Re, torpido di mente, era siffattamente incollerito che non volle ascoltare spiegazioni. XI. Neʼ primi giorni di giugno, i Convittori furono citati ad appresentarsi dinanzi allʼAlta Commissione in Whitehall. Cinque di loro, come deputati degli altri, obbedirono. Jeffreys gli trattò secondo suo costume. Quando uno di loro, chʼera un venerando Dottore nomato Fairfax, espresse qualche dubbio intorno alla validità della Commissione, il Cancelliere cominciò ad urlare a guisa di belva feroce: «Chi è costui? Chi gli ha dato lo incarico di venire a far lo impudente in questo luogo? Chiappatelo; mettetelo in secreta. Che fa egli senza custode? Egli è pazzo, ed è sotto la mia custodia. Mi maraviglio che nessuno sia venuto a richiedermelo per tenerlo in buona guardia.» Poichè si fu così sfogato, e furono lette le deposizioni concernenti il carattere morale del candidato proposto dal Re, nessuno deʼ Commissari ebbe la sfrontatezza di asserire che un tale uomo potesse convenevolmente essere eletto capo dʼun gran collegio. Obadia Walker e gli altri papisti dʼOxford i quali trovavansi lì presenti a difendere glʼinteressi del loro proselito, rimasero estremamente confusi. La Commissione dichiarò nulla la elezione di Hough, e sospese Fairfax dallʼufficio di Convittore: ma non fu più ragionato di Farmer; e nel mese di agosto giunse ai Convittori una lettera del Re, il quale proponeva loro Parker, Vescovo dʼOxford. XII. Parker non era apertamente papista. Nondimeno esisteva contro lui un impedimento, il quale, quando anche la presidenza fosse stata vacante, sarebbe stato decisivo: imperocchè egli non era mai stato Convittore nè della Maddalena, nè del Collegio Nuovo. Ma la presidenza non era vacante: Hough era stato debitamente eletto; e tutti i membri del Collegio erano tenuti per sacramento a sostenerlo nellʼufficio. E però, significando la lealtà e il rincrescimento loro, scusaronsi di non potere obbedire ai comandi del Re. Mentre Oxford in siffatto modo opponeva ferma resistenza alla tirannide, altri altrove non meno ferma opposizione faceva. Tempo innanzi, Giacomo, ai rettori della Certosa, che erano uomini dʼaltissimo grado e reputatissimi nel Regno, aveva comandato dʼammettere un certo Popham cattolico romano allo Spedale loro sottoposto. Il Direttore Tommaso Burnet, ecclesiastico insigne per ingegno, dottrina e virtù, ebbe il coraggio di dir loro, quantunque il feroce Jeffreys fosse del seggio, come ciò che da loro volevasi era contrario alla volontà del fondatore, non che ad un Atto del Parlamento. «E che importa ciò?» disse un cortigiano che era uno deʼ governatori. «Importa molto, io credo,» rispose una voce resa fioca dagli anni e dal dolore, e che non pertanto moveva da tal uomo da essere udita con rispetto, cioè la voce, del venerando Ormond. «Un Atto di Parlamento» seguitò il patriarca deʼ Cavalieri «non è, secondo il mio giudicio, cosa di lieve momento.» Fu messa innanzi la questione se Popham dovesse essere ammesso, e fu risoluta pel no. Il Cancelliere, che non potè sfogarsi bestemmiando e imprecando contro Ormond, uscì fuori spumante di rabbia e fu seguito da pochi altri, di guisa che i membri rimasti non furono più in numero legale, e non poterono fare una formale risposta allʼordine sovrano. Lʼaltra adunanza ebbe luogo solo due giorni dopo che lʼAlta Commissione aveva con sua sentenza cassato la elezione di Hough e sospeso Fairfax. Un secondo ordine sovrano, munito del Gran Sigillo, fu presentato ai rettori: ma il tirannesco modo con cui era stato trattato il Collegio della Maddalena, aveva maggiormente destato il loro coraggio invece di domarlo. Scrissero una lettera a Sunderland, onde pregarlo ad annunziare al Re come essi in quel negozio non potessero obbedire alla Maestà Sua, senza violare la legge e mancare al debito loro. Eʼ non è dubbio veruno che se cotesto documento fosse stato sottoscritto da nomi ordinari, il Re sarebbe trascorso a qualche eccesso. Ma anche a lui imponevano riverenza i grandi nomi di Ormond, Halifax, Danby, e Nottingham, capi di tutti i vari partiti ai quali egli andava debitore della Corona. E però fu pago di ordinare che Jeffreys pensasse quale fosse la via da prendersi. Una volta fu annunciato che verrebbe istituito un processo nella Corte del Banco del Re; unʼaltra, che la Commissione Ecclesiastica evocherebbe a sè la faccenda; ma tali minacce a poco a poco svanirono.[291] XIII. La estate era bene inoltrata allorquando il Re intraprese un viaggio, il più lungo e più magnifico che da molti anni i sovrani dʼInghilterra avessero fatto. Da Windsor il di 16 agosto egli passò a Portsmouth, girò attorno le fortificazioni, toccò parecchie persone scrofolose, e quindi imbarcatosi in uno deʼ suoi legni giunse a Southampton. Da Southampton viaggiò a Bath, dove rimase pochi giorni e lasciò la Regina. Nel partirsi fu accompagnato dal Grande Sceriffo della Contea di Somerset e da una numerosa coorte di gentiluomini fino ai confini, dove il Grande Sceriffo della Contea di Gloucester con un non meno splendido accompagnamento stavasi ad aspettarlo. Il Duca di Beaufort corse ad incontrare i cocchi del Re e li condusse a Badminton, dove era apparecchiato un banchetto degno della rinomata magnificenza della sua casa. Nel pomeriggio, la cavalcata procedè fino a Gloucester; e a due miglia dalla città fu salutata dal Vescovo e dal clero. A Porta Orientale aspettavala il Gonfaloniere recando le chiavi. Le campane sonavano a festa; e le fontane versavano vino mentre il Re traversava le vie per andare al ricinto che chiude il venerando Duomo. Dormì quella notte nel decanato, e la dimane partì per Worcester. Da Worcester andò a Ludlow, Shrewsbury, e Chester, e venne in ogni luogo accolto con segni di riverenza e di gioia, dimostrazioni chʼegli ebbe la debolezza di considerare come prove che il malcontento, provocato dagli atti suoi, era ormai cessato, e che egli poteva di leggieri riportare piena vittoria. Barillon, il quale era più sagace, scrisse a Luigi che il Re dʼInghilterra illudevasi, che il viaggio non aveva recato nessun bene positivo, e che quegli stessi gentiluomini delle Contee di Worcester e di Shrop i quali avevano creduto loro debito accogliere il loro ospite e Sovrano con ogni segno dʼonorificenza, si troverebbero più disubbidienti che mai quando verrebbe fuori la questione intorno allʼAtto di Prova.[292] Lungo il viaggio, al regio corteo si congiunsero due cortigiani per indole ed opinioni lʼuno dallʼaltro grandemente diversi. Penn trovavasi a Chester per un giro pastorale. La popolarità e lʼautorità chʼegli aveva fraʼ suoi confratelli erano grandemente scemate sino da quando egli sʼera fatto strumento del Re e dei Gesuiti.[293] Ei fu, nondimeno, assai graziosamente accolto da Giacomo, e la domenica gli fu concesso di arringare in piazza, mentre Cartwright predicava dentro il Duomo, e il Re ascoltava la Messa ad un altare appositamente accomodato nel Palazzo della Contea. E per vero dire si disse che la Maestà Sua si degnasse di recarsi alla ragunanza deʼ Quacqueri, ed ascoltare con gravità la melodiosa eloquenza dellʼamico suo.[294] Il furioso Tyrconnel era arrivato da Dublino per rendere conto della propria amministrazione. Tutti i più spettabili Inglesi cattolici lo guardavano di mal occhio, considerandolo come nemico della loro razza e scandalo della religione loro. Ma egli fu cordialmente accolto dal suo signore, il quale lo accomiatò dandogli più che mai assicurazioni di fiducia e di appoggio. Piacque grandemente a Giacomo lʼudire che tra breve lo intero Governo dʼIrlanda si ridurrebbe in mano deʼ soli Cattolici Romani. Ai coloni inglesi era stato già tolto ogni potere politico; nullʼaltro rimaneva che privarli delle loro sostanze; oltraggio, chʼera differito finchè si fosse a ciò fare assicurata la cooperazione dʼun Parlamento irlandese.[295] Dalla Contea di Chester il Re si volse verso il mezzogiorno, e indubitabilmente credendo che i Convittori del Collegio della Maddalena, comunque turbolenti, non ardirebbero disobbedire ad un comandamento uscito dalle stesse sue labbra, sʼavviò a Oxford. Cammino facendo, visitò vari luoghi che peculiarmente lo interessavano, come Re, come fratello, e come figlio. Visitò il tetto ospitale di Boscobel e gli avanzi della quercia tanto famosa nella storia di sua famiglia. Cavalcò al campo dʼEdgehill, dove i Cavalieri primamente pugnarono coi soldati del Parlamento. Il dì 3 di settembre, pranzò solennemente nel palazzo di Woodstock, antica e rinomata magione, della quale adesso non resta nè anco una pietra, ma il cui sito sul prato del parco di Blenheim è indicato da due sicomori che sorgono presso al magnifico ponte. XIV. La sera ei giunse ad Oxford, e vi fu ricevuto coʼ soliti onori. Gli studenti con indosso lʼabito accademico erano schierati a salutarlo a destra e a sinistra dallo ingresso della città fino alla porta maggiore dalla Chiesa–di–Cristo. Prese stanza al decanato, dove fra gli altri preparamenti a convenevolmente riceverlo, trovò una cappella acconcia alla celebrazione della Messa.[296] Il dì seguente al suo arrivo i Convittori della Maddalena ebbero ordine di appresentarsi a lui. Quando gli furono dinanzi, gli ricevè con insolenza maggiore di quella che i Puritani avevano usata ai loro antecessori. «Voi non vi siete condotti meco da gentiluomini,» esclamò Giacomo. «Voi siete stati male educati e avete mancato al proprio dovere.» E quelli, cadendo sulle proprie ginocchia, gli porgevano una petizione, chʼegli non volle ricevere. «È questa la lealtà di cui mena sì gran vanto la vostra Chiesa Anglicana? Non avrei mai creduto che tanti chierici della Chiesa dʼInghilterra si trovassero immischiati in siffatto negozio. Andate via, andate. Io sono il Re, e voglio essere ubbidito. Adunatevi sullʼistante nella vostra cappella, ed eleggete il Vescovo dʼOxford. Coloro che ricuseranno, ci pensino prima. Sentiranno sui loro capi tutto il peso della mia mano. Sapranno che importi spiacere al loro Re.» I Convittori, rimanendo tuttavia inginocchioni, di nuovo porsero la petizione. Ma il Re irato, gettandola via, gridò: «Toglietevi dal mio cospetto, vi dico; non riceverò nulla da voi, finchè non abbiate eletto il Vescovo.» Se ne andarono, e senza un momento dʼindugio ragunaronsi nella loro cappella. Proposero se si avesse ad obbedire ai comandi del Re. Smith era assente. Il solo Charnock dètte il voto affermativo. Gli altri Convittori che ivi trovavansi, dichiararono dʼessere in ogni cosa pronti ad obbedire al Re, ma di non volere violare gli statuti e i giuramenti loro. Il Re, gravemente incollerito e mortificato per la sua sconfitta, si partì da Oxford e andò a raggiungere la Regina in Bath. Per la ostinazione e violenza sue ei sʼera posto in una impacciosa situazione. Aveva avuta molta fiducia nello effetto del suo cipiglio e delle sue sdegnose parole, ed aveva sullʼesito della contesa incautamente giocato non il solo credito del suo Governo, ma la sua dignità personale. Poteva egli cedere ai suoi sudditi da lui minacciati a voce alta e con furiosi gesti? E nondimeno poteva egli rischiarsi a destituire in un solo giorno una folla di rispettabili ecclesiastici, rei soltanto di avere adempito ciò che la nazione intera considerava come debito loro? Forse si sarebbe potuta trovare una via ad uscirne da questo dilemma. Forse il collegio si sarebbe potuto ridurre alla sommissione per mezzo del terrore, delle carezze, della corruzione. XV. E però si dètte incarico a Penn dʼaccomodare la faccenda. Egli aveva tanto buon senso da non approvare il violento ed ingiusto procedere del Governo, e perfino rischiossi ad esprimere in parte il proprio intendimento. Giacomo, come sempre, ostinavasi nel torto. Il Quacquero cortigiano fece ogni sforzo per sedurre il collegio ad uscire dalla diritta via. Parimente provossi ad intimidirlo, dicendo il collegio correre a certa rovina; il Re essere grandemente corrucciato; il caso potere farsi, come da tutti generalmente credevasi, gravissimo; non esservi fanciullo il quale non pensasse che Sua Maestà voleva fare a suo modo, e non avrebbe sofferto di essere avversata. Per le quali cose Penn esortava i Convittori a non confidare nella rettitudine della loro causa, ma a sottomettersi, o almeno a temporeggiare. Tali consigli parvero stranissimi sulle labbra dʼun uomo, il quale era stato espulso dalla Università per avere suscitato un tumulto in occasione della cotta da prete, il quale aveva corso pericolo dʼessere diseredato più presto che far di cappello ai principi del sangue, ed era stato più volte messo in carcere per avere arringato nelle conventicole. Non gli riusci di intimorire i Convittori della Maddalena. I quali rispondendo ai suoi ammonimenti rammentarongli come nella passata generazione trentaquattro sopra quaranta Convittori avevano lietamente abbandonato i loro diletti chiostri e giardini, la sala, la cappella, andando alla ventura senza tetto nè pane, piuttosto che violare il giuramento di fedeltà al legittimo Sovrano. Il Re adesso volendoli costringere a rompere un altro giuramento, si sarebbe accorto che lʼantico coraggio non era spento nel Collegio della Maddalena. Allora Penn provò maniere più dolci. Ebbe un colloquio con Hough e alcuni deʼ Convittori, e dopo molte proteste di simpatia ed amicizia cominciò ad accennare ad un compromesso. Il Re non patirebbe contradizione. Era forza che il collegio cedesse. Parker doveva essere eletto. Ma costui era di mal ferma salute; tutti i suoi beneficii tra breve diverrebbero vacanti. «Il Dottore Hough» disse Penn «potrebbe allora diventare Vescovo dʼOxford. Vi piacerebbe ciò, o signori?» Penn aveva spesa la vita a declamare contro un culto salariato. Sosteneva dʼessere tenuto a ricusare il pagamento della decima, e ciò quando aveva comperato terreni soggetti alla decima, e gli era stato concesso redimerli pagando un tanto. Secondo i suoi stessi principii, egli commetteva un grave peccato adoperandosi ad ottenere un beneficio ad onorevolissime condizioni per il più pio degli ecclesiastici. Nulladimeno fino a tal segno i suoi costumi erano stati corrotti dalle sue cattive relazioni, e il suo intendimento sʼera intenebrato per intemperante zelo dʼuna sola cosa, chʼei non si fece scrupolo di diventare mezzano di turpissima simonia, e di usare un vescovato come amo a indurre un ecclesiastico allo spergiuro. Hough rispose con cortese dispregio non richiedere altro dalla Corona che la sola giustizia. «Noi stiamo fermi» dissʼegli «sui nostri statuti e i giuramenti nostri: ma, anche ponendo da parte giuramenti e statuti, sentiamo il debito di difendere la nostra religione. I papisti ci hanno rubato il Collegio dellʼUniversità, e quello della Chiesa–di–Cristo. Adesso combattono a toglierci la Maddalena. Tra breve avranno il resto.» Penn ebbe la stoltezza di rispondere chʼegli in verità credeva adesso i papisti sarebbero contenti. «Il Collegio dellʼUniversità è molto piacevole. La Chiesa–di–Cristo è un luogo magnifico. La Maddalena è un bello edificio; convenevole la posizione; deliziosi i viali lungo il fiume. Se i Cattolici Romani sono ragionevoli, potrebbero di ciò chiamarsi satisfatti.» Questa assurda confessione sarebbe sola bastata a rendere impossibile che Hough e i suoi confratelli cedessero. Le pratiche furono rotte; e il Re affrettossi, siccome aveva minacciato, a far provare ai disobbedienti tutto il peso dellʼira sua. XVI. A Cartwright Vescovo di Chester, a Wright Capo Giudice del Banco del Re, e a Sir Tommaso Jenner, uno deʼ Baroni dello Scacchiere, fu data commissione speciale di esercitare potestà di ispezione sul collegio. Il dì 20 ottobre giunsero in Oxford scortati da tre compagnie di dragoni con le spade sguainate. Il giorno susseguente presero i loro seggi nella sala della Maddalena. Cartwright pronunciò una orazione piena di sensi di lealtà, che pochi anni innanzi sarebbe stata ricolma dʼapplausi, e che ora, invece, fu ascoltata con indignazione. Ne seguì una lunga disputa. Il Presidente difese con arte, contegno e coraggio i propri diritti. Protestò grande rispetto per lʼautorità regia; ma fermamente sostenne che per virtù delle leggi inglesi era libero possessore della casa e delle rendite annesse allʼufficio di Presidente; di siffatta proprietà sua ei non poteva essere privato da un atto arbitrario del Sovrano. «Vi sottometterete» chiese il Vescovo «alla nostra ispezione?»—«Mi ci sottometto» rispose destramente Hough «tanto quanto è compatibile con le leggi, e non più.»—«Volete voi consegnare le chiavi delle vostre stanze?» disse Cartwright. Hough rimase tacito. Lʼaltro ripetè la dimanda, e Hough rispose con un cortese ma fermo rifiuto. I commissari lo dichiararono intruso, e imposero ai Convittori di non più riconoscere lʼautorità di lui, e di assistere alla istallazione del Vescovo dʼOxford. Charnock fu pronto a promettere obbedienza; Smith diede una risposta evasiva; ma tutti gli altri membri del collegio dichiararono fermamente di riconoscere Hough come loro legittimo capo. XVII. Allora Hough supplicò i Commissari perchè gli dessero licenza di dire poche parole. Cortesemente consentirono quelli, perocchè speravano chʼegli in grazia dellʼindole sua calma e soave cominciasse a cedere. «Milordi,» disse egli «oggidì voi mi avete privato della mia libera proprietà: protesto quindi contro ogni vostro atto come illegale, ingiusto e nullo; e me ne appello al Re nostro sovrano nelle sue corti di giustizia.» Un alto rumore dʼapplauso levossi fra mezzo agli uditori che riempivano la sala. I Commissari andarono in sulle furie. Invano fecero ricercare deʼ perturbatori, e volsero la rabbia loro contro il solo Hough. «Non crediate di far bravazzate con noi,» disse Jenner.—«Io sosterrò lʼautorità della Maestà Sua» esclamò Wright «finchè avrò fiato in corpo. Tutto questo nasce dalla vostra sediziosa protesta. Voi avete turbata la pace, e ne renderete ragione dinanzi al Banco del Re. Vʼimpongo di presentarvi alla prima sessione sotto pena di mille lire sterline. Vedremo se la potestà civile vi possa mettere la testa a partito; ed ove ciò non basti, proverete lʼautorità militare.» E veramente Oxford era in tale fermento che i Commissari vivevano inquieti. Aʼ soldati fu fatto comandamento di caricare le loro carabine. Dicevasi che si fosse spedito a Londra un messo per affrettare lʼarrivo dʼun rinforzo di milizie. Ciò non ostante, non seguì alcun disturbo. Il Vescovo dʼOxford fu pacificamente istallato per procura: ma soli due membri del collegio erano presenti alla cerimonia. Numerosi segni indicavano che lo spirito di resistenza sʼera sparso anco nella plebe. Il portinaio del collegio gettò via le chiavi; il camarlingo ricusò di cancellare dal libro delle spese il nome di Hough, e fu tosto cacciato. In tutta la città non fu possibile trovare un magnano che forzasse la serratura delle stanze del Presidente, e fu dʼuopo che gli stessi servitori deʼ Commissari rompessero le porte con barre di ferro. I sermoni recitati la susseguente Domenica nella chiesa dellʼUniversità erano pieni di considerazioni tali, che Cartwright ne rimase ferito nel vivo; ma erano espresse con tal arte, chʼegli non potè mostrare ragionevole risentimento. A questo punto, ove Giacomo non fosse stato affatto accecato, le cose si sarebbero potute fermare. I Convittori generalmente non erano inchinevoli a spingere più oltre la resistenza. Opinavano che ricusando di assistere allʼammissione del Presidente intruso, porgerebbero sufficiente prova di rispetto agli statuti e ai giuramenti loro, e che, trovandosi egli in possesso dellʼufficio, potrebbero equamente riconoscerlo per loro capo, finchè una sentenza dʼun tribunale competente lo rimovesse. Solo uno deʼ Convittori, voglio dire il Dottore Fairfax, ricusava di cedere. I Commissari sarebbero volentieri venuti a cotesti patti; e per poche ore vi fu una tregua che molti credevano probabile finisse con un pacifico accomodamento: ma tosto ogni cosa andò sossopra. I convittori si accôrsero che lʼopinione pubblica accusavali di codardia. I cittadini già parlavano ironicamente della coscienza deʼ membri della Maddalena, ed affermavano che il coraggioso Hough e lʼonesto Fairfax erano stati traditi e abbandonati. Anche più molesto giungeva loro lo scherno di Obadia Walker e deʼ suoi confratelli rinnegati. In tal guisa dunque, dicevano gli apostati, dovevano finire tutti i paroloni con che il Collegio aveva dichiarato di difendere ad ogni costo il suo legittimo Presidente, e la sua religione protestante! Mentre i Convittori acremente molestati dal pubblico biasimo, pentivansi della condizionata sommissione alla quale avevano assentito, seppero che il Re non ne era punto soddisfatto. Diceva egli non bastare chʼessi fossero pronti a riconoscere il Vescovo dʼOxford come Presidente di fatto; era dʼuopo che distintamente riconoscessero la legalità della Commissione e di tutto ciò che essa aveva operato. Era dʼuopo che confessassero dʼavere mancato al debito loro, che si dichiarassero pentiti, promettessero di condursi meglio in avvenire, e chiedessero perdono alla Maestà Sua prostrandosi ai suoi piedi. I due Convittori, deʼ quali il Re non aveva cagione a dolersi, furono esentati dallʼobbligo di scendere a tanta umiliazione. Giacomo—ed è tutto dire—non commise mai un errore più madornale. I Convittori già forte pentiti dʼavere concesso tanto, e incitati dal pubblico biasimo, ardentemente colsero il destro di riacquistare la pubblica stima. Dichiararono quindi unanimemente che non avrebbero mai chiesto perdono dʼavere ragione, o ammesso la legalità della ispezione del collegio e della destituzione del loro Presidente. XVIII. Allora il Re, secondo che avea minacciato, fece loro sentire tutto il peso della sua mano. Con un solo decreto furono tutti dannati ad essere espulsi. E poichè sapevasi che molti nobili e gentiluomini, i quali avevano patronato di beneficii, gli avrebbero volentieri dati a coloro che tanto soffrivano per le leggi della Inghilterra e la religione protestante, lʼAlta Commissione dichiarò i cacciati Convittori incapaci dʼoccupare beneficii ecclesiastici; e coloro i quali non avevano per anche presi gli ordini sacri, incapaci di ricevere il carattere clericale. Giacomo poteva gioire pensando dʼavere tolto a molti di loro gli agi e le speranze di maggiori dignità, e di averli gettati in una disperata indigenza. Ma tutti questi rigori produssero un effetto onninamente contrario a quello chʼegli sʼera augurato. Lo spirito inglese, quellʼindomito spirito che nessun Re della Casa Stuarda potè mai giungere per esperienza ad intendere, destossi vigorosissimo contro una tanta ingiustizia. Oxford, sede tranquilla delle lettere e della lealtà, era in condizioni somiglievoli a quelle in cui trovavasi la città di Londra il giorno dopo che Carlo I tentò di porre le mani addosso ai cinque rappresentanti della Camera. Il Vice–Cancelliere, invitato a pranzo dai Commissari nel dì stesso della espulsione, ricusò dicendo: «Il mio gusto è ben differente da quello del Colonnello Kirke. Non posso mangiare con appetito accanto ad una forca.» Gli scolari ricusavano di far di cappello ai nuovi rettori della Maddalena. A Smith fu apposto il soprannome di Dottore Birba, e venne pubblicamente insultato in un Caffè. Allorchè Charnock ordinò ai Demies di fare i loro esercizi accademici dinanzi a lui, quelli risposero che essendo privi deʼ loro legittimi direttori, non volevano sottomettersi allʼautorità usurpata. Congregavansi da sè e per gli studi e per gli uffici divini. A corromperli vennero loro offerti lucrosi posti di Convittori che erano per allora stati dichiarati vacanti: ma tutti i sottograduati, uno dopo lʼaltro, animosamente risposero le loro coscienze non consentire chʼessi traessero profitto dalla ingiustizia. Un solo giovanetto, che venne indotto ad accettare un posto, fu dai colleghi cacciato fuori dalla sala. Vari giovani di altri collegi vennero invitati; ma ogni prova fu vana. Il più ricco istituto che fosse nel Regno sembrava avere perduta ogni attrattiva per gli studenti bisognosi. Frattanto, in Londra e per tutto il reame, facevansi collette per soccorrere i cacciati Convittori. La Principessa dʼOrange, a somma soddisfazione di tutti i Protestanti, si firmò per dugento lire sterline. E nondimeno il Re persisteva a procedere nellʼintrapreso cammino. Alla cacciata deʼ Convittori segui quella dʼuna folla di Demies. Intanto il nuovo Presidente andava languendo per infermità di corpo e dʼanimo. Aveva fatto un ultimo e debole sforzo a servire il Governo pubblicando, mentre il collegio era in aperta ribellione contro lʼautorità sua, una difesa della Dichiarazione dʼIndulgenza, o per dir meglio una difesa della dottrina della transustanziazione. Questo scritto provocò molte risposte, ed in ispecie una dettata con istraordinaria vigoria ed acrimonia da Burnet. Parecchi giorni dopo la espulsione dei Demies, Parker morì nella casa stessa, della quale egli sʼera violentemente impossessato. Si disse che il rimorso e la vergogna lo facessero morire di crepacuore. Le sue ossa giacciono nella leggiadra cappella del collegio: ma nessun monumento ne indica il luogo. XIX. Allora il Re volle mandare ad esecuzione tutto il suo disegno. Il collegio fu trasformato in seminario papale. Bonaventura Giffard, vescovo cattolico di Madura, fu nominato Presidente. Nella Cappella celebravansi i riti cattolici romani. In un solo giorno dodici Cattolici Romani furono ammessi come Convittori. Alcuni abietti Protestanti chiesero il convittorato, ma fu loro risposto con aperto rifiuto. Smith, realista esagerato, ma tuttavia sincero credente nella Chiesa Anglicana, non potè patire di vedere tanta trasformazione, e si assentò. Gli fu fatto comandamento di ritornare alla sua residenza, e non avendo obbedito, fu espulso anchʼegli: e in tal guisa lʼopera della spoliazione fu compiuta.[297] La natura del sistema accademico dellʼInghilterra è tale che nessuna cosa, la quale tocchi seriamente lo interesse e lʼonore dellʼuna o dellʼaltra Università può mancare di produrre grave concitamento in tutto il paese. Per la quale cosa ogni colpo che andasse a percuotere il Collegio della Maddalena, era sentito fino al più remoto angolo del Regno. Neʼ caffè di Londra, neʼ tribunali, neʼ recinti di tutte le cattedrali, neʼ presbiterii e nelle ville sparse per le più remote Contee, gli uomini tutti sentivano commiserazione per gli sciagurati e sdegno contro il Governo. La protesta di Hough venne in ogni dove applaudita, in ogni dove destava orrore la violenza contro il suo domicilio; ed in fine la cacciata deʼ Convittori ruppe queʼ vincoli, un tempo sì forti e sì cari, che congiungevano la Chiesa Anglicana alla Casa Stuarda. XX. Amari risentimenti e crudeli sospetti daʼ cuori di tutti cacciarono via lo affetto e la fiducia. Non vʼera canonico, non rettore, non vicario, la cui mente non fosse perturbata dal pensiero, che, per quanto la sua indole fosse quieta, ed oscura la sua condizione, potesse in pochi mesi essere cacciato dalla propria abitazione con un editto arbitrario, e ridursi a mendicare lacero e stanco con la moglie e i figliuoli, e vedere occupata da qualche apostata quella proprietà che era a lui assicurata da leggi dʼantichità immemorabile e dalla parola sovrana. Tale era dunque la ricompensa di quella eroica lealtà che non venne mai meno fra mezzo alle vicende di cinquantʼanni procellosi! Egli era per questo che il clero aveva sostenuto la spoliazione e la persecuzione nella causa di Carlo I! Egli era per questo chʼesso aveva favoreggiato Carlo II, nella sua dura contesa coi Whig! Egli era per questo chʼesso si era spinto in capo alla pugna contro coloro che studiavansi di privare Giacomo del suo diritto ereditario! Alla sola fedeltà del clero, il tiranno era debitore di quel potere chʼegli adesso adoperava ad opprimerlo e rovinarlo. Il clero da lungo tempo era assuefatto a raccontare con acerbe parole tutto ciò che aveva sofferto sotto il dominio deʼ Puritani. Ma i Puritani potevano in alcun modo escusarsi. Erano aperti nemici; avevano torti da vendicare; e anche rifoggiando la costituzione ecclesiastica del paese e cacciando chiunque aveva ricusato di riconoscere la loro Convenzione, non erano stati affatto privi di pietà. A colui, al quale avevano tolti i beneficii, avevano almeno lasciato tanto da poter sostenere la vita. Ma lʼodio che il Re sentiva contro la Chiesa, la quale lo aveva salvato dallo esilio e posto sul trono, non era tale da potersi di leggieri saziare. Nullʼaltro, fuorchè la estrema rovina delle sue vittime, lʼavrebbe potuto far pago. Non bastava che fossero espulsi dalle loro case e spogliati degli averi: furono con maligno studio chiusi dinanzi a loro tutti i sentieri della vita neʼ quali gli uomini della loro professione potessero procacciarsi la sussistenza; e nulla rimase loro che il precario ed umiliante mezzo dʼandare accattando per lo amore di Dio. Il Clero Anglicano, quindi, e quelli traʼ laici, i quali erano partigiani dello episcopato protestante, provavano oggimai pel Re quei sentimenti che la ingiustizia congiunta alla ingratitudine fanno naturalmente nascere e crescere nel cuore umano. Nulladimeno il credente nella Chiesa Anglicana doveva vincere non pochi scrupoli di coscienza e dʼonore innanzi dʼindursi a resistere con la forza al Governo. Gli era stato insegnato che la obbedienza passiva era comandata senza restrizione o eccezione dalle leggi divine: ed era dottrina chʼegli professava con ostentazione. Aveva sempre spregiata la idea che potrebbe succedere un caso estremo il quale giustificasse colui che sguainasse la spada contro la tirannide regia. Per lo che i propri principii e la vergogna glʼimpedivano dʼimitare lo esempio delle ribelli Teste–Rotonde, mentre restava speranza di pacifico e legittimo rimedio: la quale speranza poteva ragionevolmente durare finchè la Principessa dʼOrange rimaneva erede immediata della Corona. Se ci potesse pazientemente sostenere questa dura prova della sua fede, le leggi della natura farebbero per lui ciò chʼegli non potrebbe fare da sè senza peccato e senza disonore. Aʼ danni della Chiesa verrebbe il rimedio; i beni e la dignità sue sarebbero tutelati da nuove guarentigie; ed a quei perversi ministri, daʼ quali neʼ dì dellʼavversità aveva patito offese ed insulti, sarebbe inflitta memorabile pena. XXI. Lʼavvenimento che la Chiesa Anglicana considerava in futuro come un pacifico ed onorevole fine di tutte le sue perturbazioni, era tale che nè anche i membri più scioperati della cabala gesuitica potevano pensarvi senza gravi timori. Se il loro signore morendo non lasciasse loro altra sicurtà contro le leggi penali se non una Dichiarazione che lʼopinione pubblica universalmente considerava come nulla, se un Parlamento animato dallo stesso spirito che aveva predominato nel Parlamento di Carlo II si ragunasse intorno al trono dʼun sovrano protestante, non era egli probabile che seguisse una terribile rappresaglia, che le vecchie leggi contro il papismo venissero rigorosamente poste in vigore, e che altre nuove e più severe se ne aggiungessero al libro degli Statuti? I malvagi consiglieri tormentava da lungo un cupo timore, e parecchi di loro meditavano strani e disperati rimedi. Giacomo era appena asceso sul trono allorquando cominciò a correre sorda una voce per le sale di Whitehall, che, ove la Principessa Anna consentisse a farsi cattolica romana, non sarebbe impossibile, col soccorso di Re Luigi, trasferire in lei il diritto ereditario che spettava alla maggiore sorella. Dalla Legazione Francese tale disegno venne caldamente approvato; e Bonrepaux asserì di credere che Giacomo vi avrebbe agevolmente consentito.[298] Nondimeno eʼ fu in breve tempo a tutti manifesto che Anna irremovibilmente aderiva alla Chiesa Anglicana. Il perchè ogni pensiero di farla Regina fu messo da banda. Nonostante, una mano di fanatici continuavano ancora a nutrire la perversa speranza di giungere a cangiare lʼordine della successione. Il piano da essi immaginato fu espresso in uno scritto di cui rimane una rozza traduzione francese. Dicevano come era da sperare che il Re potesse stabilire la vera religione senza appigliarsi a partiti estremi, ma nel peggior caso potrebbe lasciare la sua corona a disposizione di Luigi. Era meglio per glʼInglesi essere vassalli della Francia che schiavi del demonio.[299] Questo stranissimo documento corse tanto per le mani deʼ gesuiti e deʼ cortigiani, che alcuni insigni Cattolici, neʼ quali la bacchettoneria non aveva spento lo amore della patria, ne dettero una copia allo Ambasciatore Olandese. Costui lo pose nelle mani di Giacomo; il quale grandemente agitato lo disse foggiato da qualche articolista in Olanda. Il Ministro Olandese risolutamente rispose che poteva provare il contrario con la testimonianza di vari cospicui membri della Chiesa di Sua Maestà; anzi non gli sarebbe tornato difficile additarne lo scrittore, il quale, al postutto, aveva espresso semplicemente ciò che molti preti e molti faccendieri politici andavano tuttodì dicendo nelle sale del palazzo. Il Re non credè opportuno chiedere chi fosse cotesto scrittore, ma lasciando da parte lʼaccusa di falsità, protestò in tono veemente e solenne che non gli era mai venuto in capo il minimo pensiero di diseredare la maggiore delle sue figliuole. «Nessuno» disse egli «osò giammai accennarmene. Non gli avrei mai prestato ascolto: perocchè Dio non ci comanda di propagare la vera religione per mezzo dellʼingiustizia; e questa sarebbe la più stolta e snaturata ingiustizia.» Nonostante siffatte proteste, Barillon,[300] pochi giorni dopo, scrisse alla sua Corte che Giacomo aveva incominciato a porgere ascolto a consigli concernenti un cambiamento nellʼordine della successione; che la questione, senza alcun dubbio, era delicatissima, ma vʼera ragione a sperare che col tempo e collʼaccortezza si troverebbe una via a porre la Corona in capo a qualche Cattolico Romano escludendone le due Principesse.[301] Per molti mesi tale questione seguitò a discutersi daʼ più arrabbiati e stravaganti papisti cortigiani, i quali giunsero per fino a nominare i candidati alla regia dignità.[302] XXII. Nulladimeno eʼ non è probabile che Giacomo intendesse mai appigliarsi a così insano partito. Doveva conoscere che la Inghilterra non avrebbe nè anche per un solo giorno sopportato il giogo dʼun usurpatore, il quale per giunta fosse papista, e che ogni attentato contro i diritti della Principessa Maria avrebbe provocato mortale resistenza, e da parte di tutti coloro che avevano difesa la Legge dʼEsclusione, e da parte di tutti coloro che lʼavevano oppugnata. Non vʼè nondimeno il minimo dubbio che il Re fosse complice in una congiura meno assurda ma non meno ingiustificabile contro i diritti delle proprie figliuole. Tyrconnel con lʼapprovazione del suo signore, aveva ordita una trama a separare la Irlanda dalla Monarchia Britannica, e porla sotto la protezione di Luigi, appena la corona passasse ad un sovrano protestante. Bonrepaux, al quale sopra ciò era stato chiesto consiglio, aveva comunicato quel disegno alla sua Corte, e gli era stato risposto dʼassicurare a Tyrconnel che la Francia a compierlo presterebbe ogni efficace soccorso.[303] Coteste pratiche, delle quali, quantunque forse non fossero esattamente conosciute allʼAja, vʼera forte sospetto, non debbono porsi da canto qualora si voglia equamente giudicare della condotta che pochi mesi dopo tenne la Principessa dʼOrange. Coloro che lʼaccusano di avere violato il debito filiale, è forza che ammettano che il suo fallo era grandemente escusato pei torti da lei sofferti. Se per giovare alla propria religione ella ruppe i più sacri vincoli del sangue, altro non fece che seguire lo esempio del padre. Essa non consentì a rovesciarlo dal trono se non quando fu certa chʼegli congiurava a diseredarla. XXIII. Bonrepaux aveva appena ricevute lettere che gli dicevano come Luigi avesse deliberato di aiutare Tyrconnel nella audace intrapresa, allorquando fu forza abbandonarne il pensiero. Nel cuore di Giacomo era già sceso il primo raggio dʼuna speranza di consolazione e diletto. La Regina era incinta. Innanzi la fine dʼottobre 1687, la nuova cominciò a bisbigliarsi. Eʼ fu notato come la Regina non fosse intervenuta a qualche pubblica cerimonia, dicendo di non sentirsi bene in salute. Eʼ fu detto che portava sempre addosso molte reliquie alle quali ascrivevasi virtù straordinaria. In breve la novella dalla reggia passò ai caffè della Metropoli e si sparse per tutto il paese. Pochi ne accolsero con gioia lo annunzio. Quasi tutta la nazione lʼudì con un sentimento misto di timore e di scherno. Certo non vʼera nulla di strano nella cosa. Il Re aveva pur allora compiuto il cinquantesimoquarto degli anni suoi. La Regina era nel meriggio della vita. Aveva già concepiti quattro figliuoli chʼerano morti; e lungo tempo dopo sgravossi dʼun altro bambino allorchè nessuno più aveva interesse a crederlo supposto, e che perciò non fu mai reputato tale. Nondimeno essendo corsi cinque anni dalla sua ultima gravidanza, la gente, governata dallo inganno che agli uomini rende credibile ciò chʼessi desiano, aveva cessato di temere chʼella darebbe un erede al trono. Dallʼaltra parte, nulla sembrava più naturale e probabile che una pia frode immaginata dai Gesuiti. Era certo chʼessi dovevano considerare lo scettro nelle mani della Principessa dʼOrange come una delle maggiori calamità che potessero accadere alla Chiesa. Era medesimamente certo chʼessi non avrebbero avuto scrupolo alcuno a fare ogni cosa necessaria a salvare la Chiesa loro da una grave calamità. In parecchi libri, scritti da ingegni eminenti della Compagnia e stampati con licenza deʼ superiori, insegnavasi distintamente che mezzi più contrari alle idee della giustizia e della umanità che non fosse quello dʼintrodurre un erede spurio in una famiglia, potevano legittimamente adoperarsi per fini meno importanti che non fosse la conversione dʼun Regno eretico. Sʼera sparsa la voce che alcuni deʼ regi consiglieri, e perfino il Re stesso, cospirassero a fraudare la Principessa Maria, in tutto o in parte, del suo legittimo retaggio. Nacque quindi nel popolo un sospetto, a dir vero non bene fondato, ma in nessuna maniera così assurdo come comunemente si suppone. La stoltezza di alcuni Cattolici Romani confermava il pregiudicio del volgo. Ragionavano del lieto evento come di cosa strana e miracolosa, come di opera di quello stesso Potere Divino che aveva reso Sara felice ed orgogliosa dʼIsacco, ed aveva concesso Samuele alle preci di Anna. Era di recente morta la Duchessa di Modena madre di Maria. Dicevasi che poco tempo innanzi di morire ella supplicasse la Vergine di Loreto con fervidi voti e ricche offerte, a dare un figlio a Giacomo. Lo stesso Re nello antecedente agosto deviò dallo intrapreso viaggio per visitare il Pozzo Santo, dove aveva pregato San Venifredo a fine dʼottenere quel dono, senza il quale il suo gran disegno di propagare la vera fede sarebbe rimasto incompiuto. Glʼimprudenti zelatori che armeggiavano con siffatte novelle, predicevano con sicurezza che la creatura non ancor nata sarebbe un maschio, ed erano pronti a scommettere venti ghinee contro una. Affermavano che il cielo non ci si sarebbe intromesso senza un gran fine. Un certo fanatico annunciò che la Regina partorirebbe due gemelli, il maggiore deʼ quali sarebbe Re dʼInghilterra, il minore Pontefice di Roma. Maria non seppe nascondere il diletto con che udì tale vaticinio, e le sue cameriste si accôrsero che parlandogliene le recavano grandissima consolazione. I Cattolici Romani avrebbero fatto assai meglio se avessero favellato della gravidanza come di cosa naturale, e se si fossero mostrati temperanti nella loro inattesa ventura. Il loro insolente tripudio destò la pubblica indignazione. Dal Principe e dalla Principessa di Danimarca fino ai vetturini e alle pettegole niuno alludeva senza dileggio allo aspettato parto. I belli spiriti di Londra descrissero il nuovo miracolo in versi, i quali, come può bene supporsi, non erano troppo delicati. I rozzi scudieri delle campagne davano in uno scoppio di riso qualvolta sʼimbattevano in qualche persona semplice tanto da credere che la Regina dovesse positivamente di nuovo esser madre. Comparve un proclama del Re che ordinava al clero di leggere una formula di preghiera e rendimento di grazie, la quale era stata composta per cotesto lieto evento da Crewe e da Sprat. Il clero obbedì: ma fu notato che le congregazioni non rispondevano nè facevano segni di riverenza. Poco dopo in tutte le botteghe da caffè andò in giro una satira brutale contro i prelati cortigiani che avevano venduta la propria penna a Giacomo. Alla madre East toccò ancora buona parte dʼingiurie. Con quel volgare monosillabo i nostri antenati avevano degradato il nome della grande Casa dʼEste, che regnava in Modena.[304] La nuova speranza che sollevò lʼanimo del Re, sorgeva commista a non pochi timori. Qualche cosa di più che non fosse il nascimento di un principe di Galles, era necessaria al complemento deʼ disegni del partito gesuitico. Non era molto verosimile che Giacomo vivesse fino a tanto che il suo figliuolo fosse in età da esercitare la potestà regia. La legge non provvedeva al caso dʼun sovrano minorenne. Il regnante principe non era competente a fare per testamento gli opportuni provvedimenti. Il solo corpo legislativo poteva supplire a tale difetto. Se Giacomo, innanzi che si fosse ciò fatto, morisse lasciando un successore di tenera età, il potere sovrano indubitabilmente andrebbe nelle mani deʼ Protestanti. Queʼ Tory, i quali aderivano fermamente alla dottrina, che nulla poteva giustificarli a resistere al loro signore sovrano, non patirebbero scrupoli a snudare la spada contro una donna papista che osasse usurpare la tutela del reame e del Re fanciullo. Lʼesito della contesa non era da porsi in dubbio. Il Principe dʼOrange o la sua moglie sarebbe Reggente. Il giovane Re verrebbe posto nelle mani di istitutori eretici, le cui arti potrebbero speditamente cancellare dalla sua mente le impressioni ricevute nella prima fanciullezza. Egli sarebbe forse un altro Eduardo VI; e la grazia, ottenuta da Dio ad intercessione della Vergine Madre e di San Venifredo, diventerebbe una sciagura.[305] Questo era un pericolo al quale nulla, tranne un Atto del Parlamento, poteva provvedere; ed ottenere tale Atto non era facile. XXIV. Ogni cosa pareva indicare che ove le Camere venissero convocate, si ragunerebbero in Westminster animate dallo spirito del 1640. Lʼesito delle elezioni delle Contee mal poteva porsi in dubbio. Tutti i liberi possidenti, grandi e piccoli, chierici e laici, erano forte esasperati contro il Governo. Nella maggior parte di quelle città, dove il diritto di votare dipendeva dal pagare le imposte o dallʼoccupare certe possessioni, nessun candidato della corte ardirebbe mostrare il viso. Moltissimi deʼ membri della Camera dei Comuni erano eletti dalle corporazioni municipali, le quali erano state dianzi riordinate con lo scopo di distruggere la influenza dei Whig e dei Dissenzienti. Più di cento collegi elettorali erano stati spogliati del loro privilegio da tribunali devoti alla Corona, o erano stati persuasi a rinunziarlo volontariamente per evitare di esservi costretti. Ogni Gonfaloniere, ogni Aldermanno, ogni cancelliere comunitativo da Berwick a Helstone era Tory e credente nella Chiesa Anglicana: ma i Tory e gli Anglicani adesso più non erano devoti al Sovrano. I nuovi municipi erano più intrattabili degli antichi, e senza dubbio eleggerebbero rappresentanti, il cui primo Atto sarebbe quello di incriminare tutti i papisti del Consiglio Privato e tutti i componenti lʼAlta Commissione. Nella Camera deʼ Lordi lo aspetto non era meno minaccioso che in quella deʼ Comuni. Egli era certo che la immensa maggioranza deʼ Pari secolari avverserebbe le proposte del Re: e fra tutti i vescovi, che sette anni innanzi erano stati unanimi a difenderlo contro coloro i quali sforzavansi di privarlo del suo diritto ereditario, egli poteva sperare aiuto solo da quattro o cinque adulatori, spregiati daʼ loro colleghi e da tuttaquanta la nazione.[306] A quanti non erano accecati dalla passione, coteste difficoltà parevano insuperabili. I meno scrupolosi schiavi del Potere mostravano segni dʼinquietudine. Dryden diceva sotto voce che il Re provandosi dʼacconciare le cose, le rendeva più triste, e così dicendo sospirava gli aurei giorni dello spensierato e buon Carlo.[307] Perfino Jeffreys tentennava. Fintanto che rimase povero, mostrossi in tutto e per tutto pronto ad affrontare lʼodio pubblico per amore di guadagno. Ma adesso, per mezzo della corruzione e delle estorsioni, aveva accumulate grandi ricchezze; e desiderava conservarle più presto che accrescerle. Il Re aspramente lo rimproverò di lentezza. Temendo che gli venisse tolto il Gran Sigillo, promise tutto ciò che gli fu chiesto: ma Barillon, scrivendo la cosa a Luigi, notò che il Re dʼInghilterra poteva avere poca fiducia in chiunque avesse qualche cosa da perdere.[308] XXV. Ciò non ostante, Giacomo deliberò di andare innanzi. La sanzione del Parlamento era necessaria al suo sistema; ed era manifestamente impossibile ottenerla da un libero e legittimo Parlamento: ma non sarebbe stato affatto impossibile, per mezzo della corruzione, delle minacce, dello arbitrio regio, dello stiracchiamento della legge, mettere insieme unʼassemblea che si chiamasse Parlamento e registrasse vogliosamente ogni qualunque editto del Sovrano. Dovevansi nominare tali relatori elettorali che si giovassero del minimo pretesto a dichiarare debitamente eletti i rappresentanti favorevoli al Re. Dovevasi far sapere ad ogni impiegato, dal massimo allʼinfimo, che ove egli desiderasse di ritenere lʼufficio era mestieri, in questa faccenda, mettere il voto agli ordini del Governo. Intanto lʼAlta Commissione terrebbe gli occhi sul clero. I borghi, i quali erano già stati riformati per servire ad un altro scopo, lo sarebbero di nuovo per servire a questo. Il Re sperava con tali mezzi ottenere la maggioranza nella Camera deʼ Comuni; e avuta questa, torrebbe a quella deʼ Lordi ogni arma da nuocere. A lui incontrastabilmente la legge dava la potestà di creare Pari senza limite alcuno; e adesso era risoluto dʼadoperarla. Non desiderava, e certo nessun sovrano potrebbe mai desiderarlo, di rendere spregevole la più alta dignità che la Corona possa concedere. Sperava che chiamando alcuni eredi presuntivi allʼassemblea nella quale col tempo dovevano sedere, e conferendo titoli inglesi ad alcuni Lordi di Scozia e dʼIrlanda, potrebbe assicurarsi la desiderata maggioranza senza nobilitare uomini nuovi in tanto numero da rendere ridicoli la coronetta e lo ermellino, voglio dire i nomi di Duca e di Conte. Ma in caso di necessità non vʼera eccesso a cui egli non fosse pronto a trascorrere. Allorchè fra mezzo una numerosa brigata taluno disse che i Pari sarebbero intrattabili, «Stolto che siete,» esclamò Sunderland rivolto a Churchill, «le vostre compagnie di Guardie saranno tutte inalzate alla dignità di Pari.»[309] Deliberato dunque di adulterare il Parlamento, Giacomo si pose con metodo ed energia allʼardua opera. Comparve nella Gazzetta un proclama ad annunziare come il Re volesse riesaminare le Commissioni di Pace e di Luogotenenza, e ritenere neʼ pubblici uffici solo queʼ gentiluomini che fossero pronti a sostenere la sua politica.[310] Un comitato di sette consiglieri sedeva in Whitehall onde regolare—era questo il vocabolo—le corporazioni municipali. In quel comitato il solo Jeffreys rappresentava glʼinteressi del protestantismo; e il solo Powis i Cattolici moderati: tutti gli altri membri appartenevano alla fazione gesuitica. Fra essi era Petre, il quale aveva pur allora prestato giuramento di Consigliere Privato. Finchè egli non prese seggio al Banco, la dignità ricevuta era stata un segreto per ciascuno, fuori che per Sunderland. A questa nuova violazione della legge il pubblico sdegno scoppiò in violenti clamori; e fu notato che i Cattolici Romani ne sparlavano più deʼ Protestanti. Il vano ed ambizioso Gesuita ebbe adesso lo incarico di disfare e rifare mezzi i collegi elettorali del Regno. Sotto la direzione del Comitato deʼ Consiglieri Privati fu istituito un Sotto–Comitato composto di faccendieri di grado più basso, ai quali erano affidate le minuzie dellʼimpresa. I Sotto–Comitati locali in tutto il paese comunicavano col seggio centrale in Westminster.[311] XXVI. Coloro dai quali Giacomo precipuamente sperava aiuto in cotesta nuova ed ardua intrapresa, erano i Lordi Luogotenenti. A ciascuno di costoro furono mandati ordini in iscritto perchè immediatamente si recasse nella propria Contea. Quivi doveva chiamare dinanzi a sè tutti i Giudici di Pace, e far loro parecchie domande congegnate in modo da chiarire come essi si condurrebbero in una generale elezione. Doveva fedelmente notare le loro risposte e trasmetterle al Governo. Doveva presentare una lista di Cattolici Romani e di Dissenzienti che avessero più requisiti per occupare gli uffici civili e militari. Doveva inoltre indagare le condizioni deʼ borghi nella sua Contea, e riferire tutto ciò che fosse necessario a guidare le operazioni dellʼUfficio deʼ Regolatori. Gli fu ingiunto di eseguire cotesti ordini da sè, e inibito di delegare qualunque altra persona.[312] XXVII. Il primo effetto che tali ordini produssero avrebbe tosto fatto rinsavire un principe meno ebbro di Giacomo. Metà deʼ Lordi Luogotenenti dʼInghilterra perentoriamente ricusarono di prestarsi allʼodioso servigio che da essi voleva il Governo; e furono incontanente destituiti. Tutti coloro sopra i quali piombò questa gloriosa sciagura, erano Pari di gran conto e fino allora considerati come strenui propugnatori della monarchia. È pregio dellʼopera che di taluni sia fatto peculiare ricordo. Il più nobile suddito inglese, e per vero, secondo che glʼInglesi solevano dire, il più nobile suddito che fosse in Europa, era Aubrey De Vere, ventesimo ed ultimo degli antichi Conti dʼOxford. Derivava il suo titolo, per una non interrotta linea mascolina, da un tempo in cui le famiglie di Howard e di Seymour erano ancora nella oscurità, quando i Neville e i Percy avevano solo rinomanza provinciale, e quando il gran nome di Plantageneto non sʼera per anche udito in Inghilterra. Uno dei capi della famiglia De Vere era rivestito dʼalto comando in Hastings: un altro aveva marciato con Goffredo e Tancredi sopra cumuli di teste musulmane al Sepolcro di Cristo. Il primo Conte dʼOxford era stato ministro ad Enrico Beauclerc. Il terzo Conte si era reso notevole fraʼ Lordi, i quali strapparono la _Magna Charta_ a Giovanni. Il settimo Conte aveva strenuamente pugnato a Cressy e Pointiers. Il decimoterzo Conte tra mezzo a molte vicende di fortuna era stato capo del partito della Rosa Rossa, ed aveva capitanato il vanguardo nella battaglia campale di Bosworth. Il decimosettimo Conte nella Corte dʼElisabetta sʼera acquistato onorato seggio fra i vetusti poeti inglesi. Il decimonono Conte era caduto combattendo per la Religione Protestante e per la libertà della Europa sotto le mura di Maastricht. Il suo figlio Aubrey, nel quale si estinse la più lunga e più illustre discendenza deʼ Nobili inglesi, uomo di morale dissoluta, ma dʼindole inoffensiva e di maniere cortigianesche, era Lord Luogotenente dʼEssex, e Colonnello degli Azzurri. Non era di carattere fazioso, e per interesse propendeva ad evitare ogni rottura con la Corte; perocchè il suo patrimonio era impacciato; e il suo comando militare, lucroso. Fu chiamato alle stanze del Re, il quale gli chiese quale fosse il suo intendimento. «Sire,» rispose Oxford «verserò per la Maestà Vostra contro tutti i suoi nemici fino lʼultima stilla del mio sangue. Ma in cotesto affare ne va la coscienza, e non posso obbedire.» Gli furono in sullʼistante tolti il reggimento e la luogotenenza.[313] XXVIII. Inferiore per antichità e splendore alla casa De Vere, ma ad essa sola, era quella di Talbot. Dal regno di Eduardo III in poi, i Talbot avevano sempre seduto fraʼ Pari del Regno. La Contea di Shrewsbury era stata, nel secolo decimoquinto, concessa a Giovanni Talbot, lo antagonista della Pulcella dʼOrleans. I suoi concittadini lo avevano lungo tempo ricordato con riverenza ed affetto quale uno deʼ più illustri fra quei guerrieri, che sʼerano sforzati a fondare un grande impero inglese nel Continente dʼEuropa. Lo indomito coraggio, di cui egli fece prova fra mezzo ai disastri, aveva per lui destato uno interesse maggiore di quello che avevano ispirato capitani più fortunati; e la sua morte aveva apprestato al nostro antico teatro una commoventissima scena. I suoi posteri, per dugento anni, goderono deʼ più grandi onori. Capo della famiglia a tempo della Restaurazione era Francesco, undecimo Conte, e Cattolico Romano. La sua morie era stata accompagnata da vicissitudini, che anche in queʼ licenziosi tempi che seguirono alla caduta della tirannide dei Puritani, avevano in tutti destato orrore e pietà. Il Duca di Buckingham nel corso deʼ suoi scandalosi amori sʼinvaghì per un istante della Contessa di Shrewsbury. Ella agevolmente gli si arrese. Il marito sfidò il drudo, e cadde morto. Taluni affermarono che lʼabbandonata donna, travestita da uomo, si stette a vedere il duello, ed altri che essa strinse al seno il vittorioso amante ancora lordo del sangue del suo marito. Le dignità dellʼucciso passarono al suo figliuolo, ancora infante, che aveva nome Carlo. Giunto lʼorfanello alla virilità, tutti confessavano che fraʼ giovani Nobili dellʼInghilterra a nessuno, quanto a lui, la natura era stata prodiga deʼ suoi doni. Aveva prestante la persona, singolarmente dolce lʼindole, tanto alto lo ingegno, che ove gli fosse toccato di nascere in umile condizione, si sarebbe potuto inalzare alle maggiori dignità civili. Tante squisite doti egli aveva siffattamente perfezionate, che innanzi che uscisse di minorità, era reputato uno deʼ più egregi gentiluomini e sapienti deʼ tempi suoi. Della sua dottrina porgono testimonio libri dʼogni genere, che tuttora esistono, postillati di sua mano. Parlava il francese al pari dʼun ciamberlano della Corte di Re Luigi, e lʼitaliano come un cittadino di Firenze. Era impossibile che un tanto giovane non desiderasse sapere le ragioni per cui la sua famiglia aveva ricusato di uniformarsi alla religione dello Stato. Studiò con somma cura le dottrine controverse, sottopose i suoi dubbi ad alcuni sacerdoti della sua propria religione, pose le loro risposte sotto gli occhi di Tillotson, ponderò lungamente e con attenzione gli argomenti prodotti da ambe le parti, e dopo due anni dʼesame si fece Protestante. La Chiesa Anglicana accolse con gioia lo illustre convertito. Egli godeva grande popolarità, la quale divenne maggiore dopo che si seppe come il Re avesse indarno adoperate sollecitazioni e promesse a farlo ritornare alla abiurata superstizione. Nondimeno il carattere del giovine Conte non si esplicò in modo affatto soddisfacente a coloro che avevano principalmente cooperato a convertirlo. I suoi costumi non ischivarono il contagio del libertinismo comune alle classi elevate. E veramente la scossa, che aveva distrutti i suoi pregiudizi, aveva nel tempo stesso rese fluttuanti le sue opinioni lasciandolo in piena balìa al proprio sentire. Ma comecchè i suoi principii difettassero di fermezza, i suoi impulsi erano così generosi, la sua indole sì blanda, i suoi modi cotanto graziosi e semplici, che tornava impossibile non amarlo. Lo chiamarono tosto il Re deʼ Cuori, e per tutto il corso dʼuna lunga, fortunosa ed agitatissima vita, non demeritò mai tal nome.[314] Shrewsbury era Lord Luogotenente della Contea di Stafford e colonnello dʼuno deʼ reggimenti di cavalleria fatti in occasione della insurrezione delle Contrade Occidentali, e perchè ricusò di ubbidire alle voglie deʼ Regolatori, fu privato di entrambi gli uffici. XXIX. Nessuno deʼ Nobili inglesi aveva reputazione nel pubblico al pari di Carlo Sackville Conte di Dorset. E davvero egli era insigne uomo. In gioventù era stato uno deʼ più famosi libertini deʼ licenziosi tempi della Restaurazione. Era stato il terrore delle guardie di Città, aveva passate molte notti nel corpo di guardia, e infine fu rinchiuso nella prigione di Newgate. La sua passione per Bettina Morrice, e per Norina Gwynn, che lo chiamava il suo Carlo I, aveva apprestato non poca materia di sollazzo e di scandalo alla città.[315] Nondimeno fra mezzo alle follie e ai vizi, ciascuno riconosceva il suo coraggio, il suo squisito intendimento, e la natia bontà del suo cuore. Dicevano che gli eccessi, ai quali sʼera abbandonato, fossero a lui comuni con tutta la classe deʼ gaii giovani Cavalieri; ma la sua pietà pel dolore altrui e la generosità con che egli espiava i suoi torti, erano qualità tutte sue. I colleghi maravigliavansi della distinzione che il pubblico faceva tra lui ed essi. «Qualunque cosa egli faccia,» diceva Wilmot «non ha mai torto.» Lʼopinione del mondo divenne più favorevole a Dorset quando il fuoco dellʼanima sua fu temperato dagli anni e dal matrimonio. Le sue graziose maniere, il suo gaio conversare, la dolcezza del suo cuore, la generosità della sua mano, universalmente lodavansi. Dicevasi non vi fosse giorno in cui qualche sventurata famiglia non avesse cagione a benedire il nome di lui. E nulladimeno, con tutta la sua buona indole, erano tali le punture deʼ suoi sarcasmi, che coloro i quali erano da tutta la città temuti pel loro spirito satirico, temevano forte la lingua di Dorset. Tutti i partiti politici lo stimavano e carezzavano: ma la politica non gli andava molto a sangue. Sʼegli dalla necessità avesse avuto incitamento a cercare ventura, probabilmente si sarebbe inalzato ai più alti uffici pubblici; ma la sua schiatta era sì illustre e la sua opulenza sì vasta, che mancavano a lui gli sproni più potenti che stimolano gli uomini a gettarsi neʼ pubblici affari. La parte che egli ebbe nel Parlamento e nella Diplomazia basta a dimostrare che a lui nullʼaltro mancava che la inclinazione per gareggiare con Danby e con Sunderland: ma ei si volse a studi che maggiormente gli talentavano. Al pari di molti, i quali, forniti di doti naturali, sono per indole ed abitudine indolenti, divenne buontempone, voluttuoso, e maestro in quelle dilettevoli conoscenze che si acquistano senza severa applicazione. Era universalmente tenuto pel miglior giudice che fosse nella Corte in materia di pittura, scultura, architettura e teatri. Nelle questioni di lettere amene i suoi giudizi erano considerati in tutti i Caffè come inappellabili. Varie egregie produzioni drammatiche, che non erano state applaudite alla prima rappresentazione, si sostennero col solo soccorso della autorità di lui contro i clamori della platea, e si avventurarono con prospero esito ad una seconda prova. La squisitezza del suo gusto nella letteratura francese ebbe le lodi di Saint–Evremond e di La Fontaine. La Inghilterra non aveva mai avuto un uguale protettore delle lettere. La sua bontà estendevasi con pari giudizio e liberalità a tutti, senza riguardo di sètte o di fazioni. Glʼingegni, lʼuno allʼaltro avversi per gelosia letteraria o per diversità dʼopinioni politiche, concordavano a riconoscere la sua imparziale cortesia. Dryden confessava dʼessere stato salvato dalla rovina per la principesca generosità di Dorset. E nel tempo medesimo Montague e Prior, che avevano scritto pungenti satire contro Dryden, furono posti da Dorset nella vita pubblica; e la migliore commedia di Shadwell, mortale nemico di Dryden, fu scritta in una villa di Dorset. Il magnifico Conte, ove ne avesse avuta voglia, avrebbe potuto rivaleggiare con coloro ai quali contentavasi dʼessere benefattore; imperciocchè i versi chʼegli alcuna volta compose, per quanto non fossero studiati, rivelano un ingegno, il quale, assiduamente coltivato, avrebbe prodotto qualche cosa di grande. Nel volumetto delle sue opere si trovano canzoni che hanno la spontanea vigoria di Suckling, e satire nelle quali scintilla lo arguto spirito di Butler.[316] Dorset era Lord Luogotenente di Sussex, e sopra Sussex i Regolatori tenevano con ansietà fitti gli occhi: imperocchè in nessuna altra Contea, tranne Cornwall e Wiltshire, era sì gran numero di piccoli borghi. Gli fu ingiunto di recarsi al suo posto. Niuno di coloro che lo conoscevano aspettavasi chʼegli obbedisse. Rispose come conveniva, e gli fu annunciato non esservi più mestieri deʼ suoi servigi. Si accrebbe lo interesse che ispiravano le sue nobili ed amabili qualità, poichè si seppe chʼegli aveva ricevuto per la posta una lettera cieca, in cui si diceva che, ove egli non si prestasse prontamente ai desiderii del Re, tutto il suo ingegno e la sua popolarità non lo avrebbero salvato dallo assassinio. Simile ammonimento era stato mandato a Shrewsbury. Le lettere di minaccia erano allora più rare di quello che divennero poi. Non è quindi strano che il popolo esasperato inchinasse a credere che i migliori e più nobili uomini dʼInghilterra dovevano veramente essere vittime deʼ pugnali papisti.[317] Appunto quando coteste lettere formavano il chiacchiericcio di tutta Londra, trovossi in sulla via mutilato il cadavere dʼun cospicuo Puritano. Tosto si conobbe che il braccio dello assassino non era stato mosso da cagione religiosa o politica. Ma i primi sospetti della plebe caddero sopra i papisti. Lo sbranato corpo fu portato in processione alla casa deʼ Gesuiti nel Savoy; e per poche ore il terrore e la rabbia del popolaccio non furono meno violenti che nel giorno in cui lʼassassinato Godfrey fu portato alla sepoltura.[318] Le altre destituzioni vanno con maggior brevità riferite. Il Duca di Somerset, al quale pochi mesi prima era stato tolto il comando del reggimento, adesso fu privato della luogotenenza di East–Riding nella Contea di York. Il North–Riding fu tolto al Visconte Fauconberg, il Shropshire al Visconte Newport, e la Contea di Lancastro al Conte di Derby, nipote dello strenuo cavaliere, che animosamente era corso incontro alla morte per difendere la Casa Stuarda. Il Conte di Pembroke, il quale di recente aveva con fedeltà e coraggio difesa la Corona contro Monmouth, fu destituito nel Wiltshire, il Conte di Rutland nella Contea di Leicester, il Conte di Bridgewater in quella di Buckingham, il Conte di Thanet in Cumberland, il Conte di Northampton nella Contea di Warwick, il Conte dʼAbingdon in quella di Oxford, e in quella di Derby il Conte di Scarsdale. Questi fu anche destituito dallʼufficio di colonnello di cavalleria, e da un altro ufficio nella casa della Principessa di Danimarca. Essa lottò per mantenerlo al suo servizio, e cedette solo ad un comando perentorio del padre. Il Conte di Gainsborough fu cacciato non solo dalla luogotenenza di Hampshire, ma anche dal governo di Portsmouth e dalla ispezione di New–Forest, due posti che egli pochi mesi prima aveva comperati per cinquemila lire sterline.[319] Il Re non potè trovare nessuno deʼ grandi Lordi, e, per dir vero, deʼ Lordi Protestanti di nessuna specie, i quali volessero accettare gli uffici vacanti. E gli fu mestieri assegnare due Contee a Jeffreys, uomo nuovo che possedeva pochi beni territoriali, e due a Preston, il quale non era nè anche Pari Inglese. Le altre Contee le quali rimasero senza governatori, furono affidate ad alcuni ben noti Cattolici, o a cortigiani che avevano secretamente promesso a Giacomo di dichiararsi cattolici appena lo potessero prudentemente fare. XXX. Alla perfine la nuova macchina fu messa in azione; e tosto da ogni parte del Regno arrivarono nuove che non era punto riuscita. Il catechismo, a norma del quale i Lordi Luogotenenti dovevano saggiare le opinioni deʼ gentiluomini delle campagne, comprendeva tre questioni. Dovevasi chiedere ad ogni magistrato, e ad ogni luogotenente deputato, primo, se nel caso chʼegli venisse eletto rappresentante al Parlamento, voterebbe a favore dʼuna proposta formata secondo i principii della Dichiarazione dʼIndulgenza; secondo, se, come elettore, sosterrebbe i candidati impegnati a votare a favore di quella proposta; terzo, se, come uomo privato seconderebbe i benevoli disegni del Re vivendo in pace con gli uomini di qualunque religione si fossero.[320] XXXI. Appena furono spedite le domande, una formula di risposta, congegnata con ammirevole arte, fu mandata in giro per tutto il Reame, e venne generalmente adottata; ed era del seguente tenore: «Come membro della Camera deʼ Comuni, ove avessi lʼonore di esserlo, sarà mio debito ponderare con gran cura tutte le ragioni che nella discussione si adducessero pro e contro una legge dʼIndulgenza, e quindi voterò secondo la convinzione della mia coscienza. Come elettore, sosterrò queʼ candidati le cui opinioni intorno ai doveri di rappresentante concorderanno con le mie. Come uomo privato, desidero vivere in pace ed affetto con ciascuno.» Questa risposta più provocante dʼun diretto rifiuto, come quella che olezzava un poco di sì castigata e decorosa ironia da non destare risentimento, fu tutto ciò che gli emissari della Corte poterono ricavare dalle labbra di quasi tutti i gentiluomini delle campagne. Ragioni, promesse, minacce, tutto fu vano. Il Duca di Norfolk, comecchè fosse Protestante e non approvasse il procedere del Governo, aveva acconsentito a servirlo da agente in due Contee. Prima andò in Surrey dove sʼaccôrse di non potere far nulla.[321] Poi passò a Norfolk, e tornò indietro per annunziare al Re che di settanta notevoli gentiluomini che erano in ufficio in quella grande provincia, solo sei porgevano speranza che sosterrebbero la politica della Corte.[322] Il Duca di Bedford, la cui autorità estendevasi sopra quattro Contee inglesi e sopra tutto il Principato di Galles, ritornò a Whitehall con nuove non meno scoraggianti.[323] Rochester era Lord Luogotenente della Contea di Hertford. Aveva consumato tutto quel poco di virtù che egli aveva in cuore lottando contro la tentazione di vendere la propria fede religiosa. Lo vincolava tuttavia alla Corte unʼannua pensione di quattromila lire sterline; e in ricambio era pronto a rendere al Governo qualunque servigio, comunque illegale e disonorevole, purchè non si volesse da lui una formale riconciliazione con Roma. Aveva volentieri accettato lo incarico di corrompere la sua Contea; e lo eseguì, secondo era suo costume, con indiscreto ardore e violenza. Ma la sua collera non produsse alcuno effetto negli animi inflessibili degli scudieri ai quali ei sʼera rivolto. Ad una voce gli dissero di non volere mandare al Parlamento un uomo, il quale fosse disposto a votare per la distruzione delle guarentigie della fede protestante.[324] La medesima risposta fu data al Cancelliere nella Contea di Buckingham.[325] I gentiluomini di quella di Shrop, ragunati a Ludlow, unanimemente ricusarono di vincolarsi con la promessa che il Re chiedeva loro.[326] Il Conte di Yarmouth riferì dal Wiltshire che di sessanta magistrati e Deputati Luogotenenti, coi quali aveva tenuto ragionamento, soli sette avevano date risposte favorevoli, ed anche in queʼ sette non era da fidare.[327] Il rinnegato Peterborough non fece nulla di buono nella Contea di Northampton.[328] Il suo confratello rinnegato, Dover, ebbe la medesima sorte nella Contea di Cambridge.[329] Preston recò sinistre nuove da Cumberland e Westmoreland. Le Contee di Dorset e di Huntingdon erano animate del medesimo spirito. Il Conte di Bath, dopo lunghe pratiche, ritornò dalle Contrade Occidentali con tristi augurii. Aveva avuta potestà di fare le più seducenti offerte agli abitatori di quella regione. In ispecie aveva loro promesso che ove si mostrassero riverenti ai voleri del sovrano, il traffico del rame sarebbe reso libero dalle oppressive restrizioni che lo gravavano. Tutti i Giudici e i Deputati Luogotenenti di Devonshire e di Cornwall, senza eccettuarne nè anche uno, dichiararono dʼesser pronti a porre a repentaglio vita e sostanze pel Re, ma la religione protestante era ad essi più cara della roba e della vita. «Sire,» soggiunse Bath «se Vostra Maestà destituisse tutti cotesti gentiluomini, i successori loro darebbero precisamente la medesima risposta.»[330] Se vi era distretto in cui il Governo potesse sperare esito prospero, era quello di Lancastro. Molto dubitavasi del risultamento di ciò che quivi succedeva. In nessuna parte del reame era sì gran numero di famiglie sempre fide alla vecchia religione. I capi di molte di quelle famiglie, per virtù della potestà di dispensare, erano stati fatti Giudici di Pace, e comandanti delle milizie civiche. E nonostante, dalla Contea di Lancastro il nuovo Luogotenente, chʼera cattolico romano, riferì come due terzi dei deputati e deʼ magistrati procedessero avversi alla Corte.[331] Ma ciò che seguì in Lancastro irritò anche più profondamente lʼorgoglio del Re. Arabella Churchill, venti e più anni innanzi, gli aveva partorito un figlio, che dipoi acquistò gran fama dʼessere il più esperto capitano dʼEuropa. Il giovinetto, che aveva nome Giacomo Fitzjames, non aveva per anche dato segni di dovere pervenire a quellʼaltezza a cui poscia pervenne: ma i suoi modi erano così gentili e inoffensivi chʼegli non aveva altro nemico che Maria di Modena, la quale da lungo tempo sentiva pel figlio della concubina lʼimplacabile odio dʼuna moglie priva di figliuoli. Alcuni della fazione gesuitica, avanti lo annunzio della gravidanza della Regina, avevano seriamente pensato di contrapporlo come rivale alla Principessa dʼOrange.[332] Ove si rammenti che Monmouth, comecchè fosse creduto legittimo dal volgo, e fosse campione della religione dello Stato, aveva pienamente fallito in un simigliante tentativo, eʼ sembra straordinario che vi fossero uomini tanto ciechi per fanatismo, da pensare di porre sul trono un giovane che era universalmente conosciuto come bastardo papista. Eʼ non parve che il Re secondasse mai un così assurdo disegno. Il fanciullo, nondimeno, fu riconosciuto, e gli furono prodigate tutte quelle onorificenze che si possano concedere ad un suddito che non sia di sangue regio. Era stato creato Duca di Berwick, ed allora occupava non pochi onorevoli e lucrosi uffici, tolti a queʼ Nobili che avevano ricusato di arrendersi ai desiderii sovrani. Successe al Conte dʼOxford nel grado di colonnello degli Azzurri, e al Conte di Gainsborough nella Luogotenenza di Hampshire, nella ispezione di New–Forest, e nel Governo di Portsmouth. Berwick aspettavasi che gli venisse incontro, alla frontiera di Hampshire, secondo era costume, una lunga cavalcata di baronetti, cavalieri, e scudieri: ma non ci fu una sola persona di riguardo che si mostrasse a dargli il benvenuto. Ordinò per lettere ai gentiluomini che comparissero al suo cospetto, ma solo cinque o sei obbedirono: gli altri non aspettarono dʼessere destituiti per dichiarare chʼessi non parteciperebbero al Governo civile e militare della loro Contea, mentre il Re vi era rappresentato da un papista; e deposero, di propria volontà, i loro uffici.[333] Sunderland, il quale era stato nominato Lord Luogotenente della Contea di Northampton, trovò qualche pretesto per non andare ad affrontare lo sdegno e lo spregio deʼ gentiluomini di quella Contea; e le sue scuse furono di leggieri ammesse, dacchè il Re aveva cominciato a intendere come non fosse da porre speranza alcuna nei gentiluomini delle campagne.[334] È da notarsi che coloro i quali mostravansi così animosi non erano gli antichi nemici della Casa Stuarda. Dalle commissioni di Pace e di Luogotenenza erano stati già da lungo tempo eliminati tutti i nomi repubblicani. Coloro, dai quali la Corte si era indarno studiata dʼottenere la promessa di secondarla, erano, senza eccettuarne nè anche uno, tutti Tory. I più vecchi di loro avevano le cicatrici delle ferite riportate dalle spade delle Teste–Rotonde, e le ricevute delle argenterie con le quali avevano soccorso Carlo I in bisogno. I più giovani avevano fermamente parteggiato per Giacomo contro Shaftesbury e Monmouth. Tali erano coloro che furono destituiti in massa da quello stesso principe, al quale avevano dato cotanto segnalate prove di fedeltà. Ma la cacciata dallʼufficio altro non fece che renderli più inflessibili nel loro proponimento. Essi consideravano come sacro punto dʼonore difendersi animosamente a vicenda in cotesta crisi. Non vi poteva essere dubbio che, raccogliendo onestamente i suffragi deʼ liberi possidenti, non verrebbe eletto nè anche un solo rappresentante favorevole alla politica del Governo. Gli elettori con grande ansietà chiedevansi a vicenda se fosse verosimile che i suffragi venissero onestamente raccolti. XXXII. Aspettavasi con impazienza la lista degli Sceriffi per lʼanno nuovo. Giunse nelle Contee mentre i Lordi Luogotenenti affaccendavansi neʼ loro maneggi elettorali, e fu ricevuta con universale grido di timore e di sdegno. La maggior parte di coloro che dovevano presedere alle elezioni delle Contee, erano Cattolici Romani o Protestanti Dissenzienti, i quali avevano approvata la Dichiarazione dʼIndulgenza.[335] Per qualche tempo regnò gravissimo timore; ma poco dopo si spense. Eravi buona ragione a credere che vi fosse un punto oltre il quale il Re non poteva nemmeno sperare la cooperazione degli Sceriffi suoi correligionari. XXXIII. Tra il cattolico cortigiano e il gentiluomo di campagna cattolico era poca simpatia. La cabala che predominava in Whitehall era composta in parte di fanatici, pronti a rompere tutti i principii della morale e mandare a soqquadro il mondo a fine di propagare la religione loro, e in parte dʼipocriti, i quali per cupidigia di guadagno avevano rinnegata la fede in che erano cresciuti, e adesso travarcavano i confini dello zelo che è proprio dei neofiti. Entrambi, i fanatici cortigiani e glʼipocriti, erano generalmente privi dʼogni patrio sentimento, che in alcuni di loro era stato spento dallo affetto per la propria Chiesa. Alcuni erano Irlandesi, il cui patriottismo consisteva nellʼodiare mortalmente i Sassoni conquistatori dellʼIrlanda. Altri erano traditori stipendiati da un Potentato straniero. Taluni avevano passata gran parte della loro vita lungi dal patrio suolo, e, od erano cosmopoliti, od aborrivano i costumi e le istituzioni del paese chʼerano deputati a governare. Tra cosiffatti uomini e il gentiluomo rurale di Chester o di Stafford che aderiva alla vecchia Chiesa, non era nulla di comune. Senza essere nè fanatico nè ipocrita, era Cattolico Romano, perchè il padre e lʼavo erano stati Cattolici; e manteneva lʼavita fede come generalmente gli uomini sogliono fare, cioè con sincerità, ma con poco entusiasmo. In ogni altra cosa egli era un semplice scudiere o possidente inglese; e se differiva daʼ suoi vicini, differiva in ciò chʼegli era più semplice e contadinesco di loro. Per le sue incapacità civili non aveva potuto esplicare le sue doti intellettuali fino a quellʼaltezza—comunque fosse moderata—alla quale giungevano ordinariamente glʼintelletti deʼ protestanti gentiluomini delle campagne. Nella fanciullezza escluso da Eaton e da Westminster, nella gioventù da Oxford e da Cambridge, e nella virilità dal Parlamento e dalle magistrature, generalmente ei vegetava tranquillo come gli olmi del viale che conduceva alla rustica magione degli avi suoi. I campi, le cascine, i cani, la canna da pescare, lo schioppo, il sidro, la birra e il tabacco occupavano pressochè tutti i suoi pensieri. Coʼ suoi vicini, malgrado la differenza di religione, era per lo più in amichevoli relazioni: perocchè essi lo sperimentavano inoffensivo e scevro di ambizione. Egli era quasi sempre di buona ed antica famiglia, e sempre Cavaliere. Le sue peculiari opinioni, delle quali ei non faceva pompa, non davano noia a nessuno. Egli non tormentava, al pari del Puritano, sè ed altrui, scrupoleggiando sopra ogni cosa che fosse dilettevole. Allʼincontro egli era allegro cacciatore, e compagnevole quanto qualunque altro uomo, che avesse prestato il giuramento di supremazia, e fatta la dichiarazione contro la transustanziazione. Trovavasi coʼ suoi vicini allʼagguato, inseguiva con essi il fuggente animale, e finita la caccia, gli conduceva seco a casa a mangiare un pasticcio e bere un bicchiere di vecchia birra. Lʼoppressione da lui sofferta non era stata tale da spingerlo a disperati eccessi. Anche quando la sua Chiesa pativa barbara persecuzione, egli aveva corso lieve pericolo nella vita e negli averi. I più impudenti e falsi testimoni mal potevano rischiarsi ad oltraggiare il buon senso, accusando il gentiluomo cattolico come reo di congiura. I papisti che Oates volle colpire, erano Pari, Prelati, Gesuiti, Benedettini, faccendieri politici, rinomati legisti, medici di Corte. Il gentiluomo cattolico delle campagne, protetto dalla propria vita oscura e pacifica, e dal buon volere deʼ suoi vicini, faceva il suo ricolto di fieno, o riempiva di caccia la sua carniera senza molestia veruna, mentre Colemann e Langhorne, Whitbread e Pikering, lo Arcivescovo Plunkett e Lord Stafford, morivano di capestro o di scure. Parecchi scellerati, a dir vero avevano tentato accusare di tradimento Sir Tommaso Gascoigne, vecchio baronetto cattolico della Contea di York: ma dodici fraʼ migliori gentiluomini del West–Riding, che conoscevano il suo modo di vivere, non poterono persuadersi che lʼonesto vecchio avesse assoldati sicari ad assassinare il Re; e in onta alle accuse, che fecero poco onore ai giudici, lo dichiararono innocente. Talvolta, in verità, il capo dʼunʼantica e rispettabile famiglia di provincia forse amaramente considerava dʼessere escluso, a cagione delle sue religiose credenze, dagli uffici e dalle dignità che uomini di più umile stirpe e meno opulenti erano reputati capaci dʼoccupare: ma era poco inchinevole a rischiare le sostanze e la vita in una lotta sproporzionatamente disuguale; e lʼonesto suo patriottismo avrebbe con raccapriccio aborrito dai pensieri di Petre e di Tyrconnel. Certo ei sarebbe stato pronto, come ciascuno deʼ suoi vicini protestanti, a cingersi la spada ed a porre le pistole negli arcioni per difendere la terra natia contro i Francesi o i papisti dʼIrlanda. Tale era comunemente il carattere degli uomini deʼ quali Giacomo voleva servirsi come di strumento a condurre a suo modo le elezioni delle Contee. Ei tosto sʼaccôrse come essi non fossero propensi a perdere la stima deʼ loro concittadini, e mettere in pericolo il capo e la roba, rendendo al Sovrano infami e criminosi servigi. Parecchi di loro non accettarono la nomina di Sceriffo. Di coloro i quali accettarono lʼufficio, molti dichiararono che farebbero onestamente il debito proprio, come se fossero membri della Chiesa dello Stato, e non proclamerebbero eletto alcun candidato che non riportasse la maggioranza deʼ suffragi.[336] XXXIV. Se il Re poteva poco confidare neʼ suoi Sceriffi Cattolici, anche meno lo poteva neʼ Puritani. Dacchè era stata pubblicata la Dichiarazione dʼIndulgenza, erano corsi vari mesi pieni di gravissimi eventi e di continue controversie. Il lungo discutere aveva aperti gli occhi a molti Dissenzienti: ma gli Atti del Governo, e segnatamente il rigore col quale aveva trattato il Collegio della Maddalena, avevano contribuito, anche più della penna di Halifax, a insospettire e collegare tutte le classi deʼ Protestanti. Molti di queʼ settari che sʼerano indotti ad esprimere la propria gratitudine per la Indulgenza, adesso vergognavano del proprio errore, ed erano desiderosi di fare ammenda accomunando le loro sorti a quelle del maggior numero deʼ loro concittadini. A cagione di cotesto mutamento seguito neʼ Non–Conformisti, il Governo trovò nella città ostacoli pressochè uguali a quelli che aveva incontrato nelle Contee. Quando i Regolatori incominciarono lʼopera loro, reputarono come certo che ogni Dissenziente, beneficiato dalla Indulgenza, sarebbe favorevole alla politica del Re. Erano quindi sicuri di potere mettere in tutti gli uffici municipali del Regno fermissimi amici. Nei nuovi statuti municipali la Corona sʼera riserbata la potestà di destituire, a suo arbitrio, i magistrati, e adesso lʼadoperò illimitatamente. Non era al pari evidente che Giacomo avesse la potestà di nominare nuovi magistrati; ma, lʼavesse o non lʼavesse, egli era deliberato dʼarrogarsela. In ogni parte, dal Tweed al Landʼs End tutti i funzionari Tory furono destituiti, e negli uffici vacanti furono posti Presbiteriani, Indipendenti, e Battisti. Nel nuovo statuto municipale di Londra la Corona sʼera riserbata la potestà di destituire i Maestri, i Direttori, e gli Assessori di tutte le compagnie. E però più di ottocento spettabilissimi cittadini, tutti aderenti a quel partito che aveva avversata la Legge di Esclusione, furono con un solo editto cacciati daʼ loro uffici. Poco dopo, comparve un supplemento a cotesta lunga lista.[337] Ma avevano appena prestato giuramento i nuovi ufficiali, allorquando si conobbe come essi fossero intrattabili quanto i loro predecessori. In Newcastle–on–Tyne i Regolatori nominarono un Gonfaloniere Cattolico Romano, e Aldermanni Puritani. Non dubitavasi punto che il corpo municipale, siffattamente ricostituito, non votasse un indirizzo, dichiarando di volere secondare i provvedimenti del Re. Ma quando fu proposto dal Gonfaloniere, venne rigettato; onde egli corse furioso a Londra per dire al Re che i Dissenzienti erano tutti birboni e ribelli, e che in tutto il Municipio di Governo non poteva sperare altro che quattro voti.[338] In Reading furono destituiti ventiquattro Aldermanni Tory, ed eletti altrettanti nuovi, deʼ quali ventitrè, dichiaratisi immediatamente avversi alla Indulgenza, furono anche essi cacciati via.[339] In pochi giorni il borgo di Yarmouth fu retto da tre diverse magistrature; tutte medesimamente ostili alla corte.[340] Questi sono semplici esempi di ciò che accadeva in tutto il reame. Lo ambasciatore Olandese scrisse agli Stati che in molte città i pubblici ufficiali entro un mese si erano mutati due volte e anche tre, e lo erano stati invano.[341] Dai ricordi del Consiglio Privato si raccoglie che il numero delle _regolazioni_—tale è il vocabolo che adoperavano—furono oltre a dugento.[342] I Regolatori conobbero, come, tranne in pochi Municipi, le cose sʼerano mutate in peggio. I Tory malcontenti, anco mentre mormoravano contro la politica del Re, avevano sempre protestato del loro rispetto per la persona e la dignità di lui, e riprovato ogni pensiero di resistenza. Assai diverso era il linguaggio di alcuni traʼ membri deʼ Corpi Municipali. Dicevasi che taluni vecchi soldati della Repubblica, i quali con maraviglia loro e del pubblico, erano stati creati Aldermanni, rispondessero chiaramente agli agenti della Corte che il sangue scorrerebbe a fiumi innanzi che si raffermasse in Inghilterra il papismo e la tirannide.[343] I Regolatori conobbero essersi poco o nulla conseguito da ciò che fino allora avevano fatto. Non vi era altro che un solo mezzo il quale facesse loro sperare di ottenere lo scopo. Era mestieri togliere gli statuti ai borghi, e concederne altri che limitassero la franchigia elettorale a piccolissimi collegi dʼelettorali nominati dal Sovrano.[344] Ma in che guisa mandare siffatto disegno ad esecuzione? In pochi di tali statuti la Corona sʼera riserbata il diritto di revoca: ma gli altri egli poteva riprendere solo per rinunzia volontariamente fatta dai Municipi, o per sentenza del Banco del Re. Intanto pochi corpi municipali erano disposti a rinunziare volontariamente ai loro statuti; e una sentenza secondo gli intendimenti del Governo non poteva sperarsi nè anche da uno schiavo qual era Wright. I mandati di _Quo Warranto_, pochi anni innanzi spediti per ischiacciare il partito deʼ Whig, erano stati disapprovati da ogni uomo imparziale. Eppure tali mandati avevano almeno sembianza di giustizia; perocchè colpivano gli antichi corpi municipali, deʼ quali pochi erano quelli in cui, col volgere degli anni, non fosse nato qualche abuso bastevole a fornire un pretesto per un processo penale. Ma i Corpi Municipali che ora volevasi disfare erano tuttavia nella innocenza della infanzia, sì che il più vecchio non aveva compiuto il quinto degli anni suoi. Era impossibile che molti di essi avessero commesso delitti da meritarsi la privazione del privilegio elettorale. Gli stessi giudici erano inquieti, e dimostrarono al Re come ciò che da loro si voleva, fosse diametralmente contrario ai più evidenti principii della legge e della giustizia: ma ogni rimostranza fu vana. Ai borghi fu intimato di rinunciare ai loro statuti. Pochi ubbidirono, e il modo onde il Re si condusse con queʼ pochi non confortò gli altri a fidarsi di lui. In varie città il diritto di votare fu tolto alla comunità, e dato a pochi, ai quali fu chiesto il giuramento di eleggere i candidati proposti dal Governo. In Tewkesbury, per modo dʼesempio, la franchigia fu data solo a tredici persone; e nondimeno anche questo numero era grande. Lʼodio e il timore sʼera talmente sparso per tutta la popolazione, che tornava quasi impossibile mettere insieme in una città, con qual si fosse specie dʼimbroglio, tredici individui neʼ quali la Corte potesse avere piena fiducia. Corse la voce che la maggioranza del nuovo collegio elettorale di Tewkesbury fosse animata dal medesimo sentimento chʼera universale in tutta la nazione, e che, arrivato il giorno decisivo, manderebbe Protestanti sinceri al Parlamento. I Regolatori in gran collera minacciarono di ridurre a tre soli il numero degli elettori.[345] Frattanto la maggior parte deʼ borghi negarono di rinunciare ai loro privilegi. Barnstaple, Winchester, e Buckingham si resero notevoli per essersi arditamente opposti. In Oxford la proposta che la città rinunziasse alle franchigie fu rigettata da ottantadue voti contro due.[346] Il Temple e Westminster erano sossopra per lo strano affollamento degli affari che giungevano da ogni angolo del Regno. Ogni legale di gran nome era sopraccarico deʼ ricorsi deʼ Municipi che a lui si volgevano per essere difesi. I litiganti privati querelavansi che le loro faccende venivano trascurate.[347] Era impossibile in pochissimo tempo sbrigare tanto numero di cause. La tirannide se ne accorgeva, ma non poteva patire il minimo indugio, e non trascurò nulla che valesse ad atterrire i borghi disubbidienti, e indurli a sottomettersi. In Buckingham alcuni degli ufficiali del Municipio avevano detto di Jeffreys parole che non erano di lode. Fu loro intentato un processo, e fatto intendere che ove non volessero redimersi rinunziando ai loro statuti, non verrebbe loro usata ombra di misericordia.[348] In Winchester vennero adottati provvedimenti anche più rigorosi. Una numerosa soldatesca fu spedita alla città a solo fine di gravare e vessare gli abitanti:[349] i quali stettero fermi ed animosi; e lʼopinione pubblica accusava Giacomo di volere imitare la peggiore delle scelleratezze del suo confratello di Francia. Dicevasi che principiavano già le dragonate; e vi era cagione a temere tanta enormezza. Giacomo sʼera fitto in mente il pensiero che lʼunico mezzo di far cedere una città ostinata era quello di acquartierare i soldati in seno alle famiglie. Avrebbe dovuto conoscere che questo provvedimento, sessanta anni innanzi, aveva destato terribili mali umori, ed era stato solennemente dichiarato illegale dalla Petizione dei Diritti. E difatti ne chiese consiglio al Capo Giudice del Banco del Re:[350] il risultamento della consulta rimase secreto; ma in pochi giorni lo aspetto degli affari si fece tale, che un timore più forte ed efficace che non fosse quello di suscitare la collera del Re, cominciò a imporre qualche freno anco ad un uomo abietto qual era Wright. XXXV. Mentre i Lordi Luogotenenti interrogavano i Giudici di Pace, mentre i Regolatori riformavano i borghi, in tutti i dipartimenti dellʼamministrazione pubblica facevasi rigorosa inquisizione. Ad ognuno deʼ vecchi Cavalieri rovinati, i quali in ricambio del sangue sparso e deʼ beni perduti per difendere la Corona, avevano ottenuto qualche piccolo ufficio sotto la giurisdizione del Guardaroba o del Maestro di caccia, fu intimato di eleggere fra il Re e la Chiesa. I Commissari delle Dogane o dellʼExcise ebbero comandamento di appresentarsi alla Maestà Sua nellʼUfficio del Tesoro. Quivi egli chiese loro la promessa di secondare la sua politica, e ingiunse di farlo parimente promettere aʼ loro sottoposti.[351] Un ufficiale di Dogana rispose al regio comandamento in un modo tale da destare compassione e riso. «Io ho» disse egli «quattordici ragioni per ubbidire a Sua Maestà, una moglie e tredici figliuoli.»[352] Tali ragioni, per vero dire, ponevano alle strette; nulladimeno non furono pochi gli esempi, nei quali, malgrado ragioni siffatte, prevalse la riverenza della religione e lo amore della patria. Abbiamo argomento di credere che il Governo allora meditasse profondamente un colpo che avrebbe ridotto molte migliaia di famiglie ad accattare, e perturbato tutto lʼordine sociale in ciascuna parte del paese. Non era concesso vendere senza licenza, vino, birra, o caffè. Sʼera sparsa la voce che a chiunque possedeva siffatta licenza sarebbe tra breve ingiunto di fare quella promessa chʼera stata imposta ai pubblici impiegati, e, negando, abbandonare il suo traffico.[353] Eʼ sembra certo, che ove si fosse fatto un tal passo, i luoghi di pubblico divertimento o ritrovo sarebbero a un tratto stati chiusi a centinaia in tutto il Regno. Quale effetto avrebbe prodotto cotesto immischiarsi del Governo nei comodi di tutte le classi, può di leggieri immaginarsi. Il risentimento che fanno nascere gli aggravi non è sempre proporzionato alla importanza loro; e non è affatto improbabile che la revoca delle licenze avrebbe fatto ciò che la revoca degli statuti municipali aveva mancato di fare. Le alte classi sociali avrebbero sentita la mancanza della bottega di Saint–James–Street, dove solevano prendere la cioccolata; e agli uomini di faccende sarebbe mancata la tazza di caffé chʼessi erano assuefatti a bere fumando la pipa e chiacchierando di cose politiche in Change–Alley. I Circoli si sarebbero affannati a trovare un ricovero. Il viandante avrebbe sul far della notte trovato deserta lʼosteria, dove credeva potere alloggiare e cenare. Il contadino avrebbe amaramente ripensato alla botteghetta dove egli soleva bere la birra sulla panca neʼ giorni estivi, e accanto al camino in tempo dʼinverno. Il popolo, a cosiffatta provocazione, sarebbe forse insorto tuttoquanto senza attendere il soccorso di stranieri alleati. XXXVI. Non era da aspettarsi che un Principe, il quale voleva che tutti i più umili servitori del Governo secondassero la sua politica sotto pena dʼessere destituiti, seguitasse a mantenere in ufficio un Procuratore Generale, che non ascondeva la propria avversione a quella politica. Sawyer era stato tollerato nel suo posto per diciotto e più mesi, dopo chʼegli sʼera dichiarato contrario alla potestà di dispensare. Di tale strana indulgenza egli andava debitore alla estrema difficoltà che incontrò il Governo a trovare un uomo da sostituirgli. Per proteggere glʼinteressi pecuniari della Corona, era mestieri che almeno uno deʼ due capi della legge fosse uomo dotto ed esperto; e non era punto facile indurre qual si fosse legale dotto ed esperto ad esporsi al pericolo, commettendo quotidianamente atti, che dal Parlamento alla prima riunione verrebbero forse considerati come gravi delitti. Era stato impossibile trovare un Avvocato Generale migliore di Powis, uomo che non conosceva nessuna specie di freno, ma era incompetente ad adempiere gli ordinari doveri del proprio ufficio. Per tali ragioni fu creduto necessario partire il lavoro. Congiunsero insieme un Procuratore, la cui scienza giuridica scemava di pregio peʼ suoi scrupoli di coscienza, con un Avvocato, nel quale la mancanza dʼogni scrupolo compensava in alcun modo la mancanza del sapere. Quando il Governo voleva fare osservare la legge si serviva di Sawyer; quando desiderava violarla adoperava Powis. Cotesto accomodamento durò finchè il Re potè assicurarsi deʼ servigi di un avvocato il quale era ad un tempo e più vile di Powis e più abile di Sawyer. XXXVII. Nessuno deʼ legali allora viventi aveva fatto più che Guglielmo Williams virulenta opposizione alla Corte. Sotto Carlo II, egli aveva acquistato reputazione e come Whig e come Esclusionista. Prevalenti le fazioni, era stato eletto Presidente della Camera deʼ Comuni. Dopo la proroga del Parlamento dʼOxford aveva comunemente difeso i più turbolenti demagoghi accusati di sedizione. Nessuno gli negava acutezza di mente e scienza; credevasi che i principali suoi difetti fossero temerità e spirito di parte. Non vʼera per anche il menomo sospetto chʼegli avesse altri difetti, in paragone deʼ quali la temerità e lo spirito di parte potevano considerarsi come virtù. Il Governo cercava pretesto a colpirlo, e non gli fu difficile trovarlo. Egli aveva pubblicato, per ordine della Camera deʼ Comuni, una relazione scritta da Dangerfield, la quale, qualora fosse stata pubblicata da un uomo privato, sarebbe stata indubitabilmente tenuta per libello sedizioso. Williams fu accusato dinanzi la Corte del Banco del Re; invano allegò i privilegi parlamentari; fu dichiarato reo, e condannato ad una pena di dieci mila lire sterline. Ne pagò una parte, e del rimanente firmò una scritta dʼobbligo. Il Conte di Peterborough, il quale era stato ingiuriosamente rammentato nella relazione di Dangerfield, allʼesito prospero del processo, intentò unʼazione civile contro Williams e chiese una forte somma per rifacimento di danni. Williams era ridotto agli estremi, allorquando gli si offrì una sola via di scampo, ed era via dalla quale con raccapriccio avrebbe arretrato il piede ogni uomo fermo neʼ suoi principii ed animoso, affrontando più presto la miseria, la prigione, o la morte. Pensò di vendersi al Governo del quale era stato nemico e vittima; offrirsi dʼassaltare con audacia da disperato quelle libertà e quella religione, per le quali aveva dianzi mostrato zelo intemperante; espiare i suoi principii Whig rendendo servigi, dai quali i bacchettoni Tory, lordi ancora del sangue di Russell e di Sidney, rifuggivano inorriditi. Il mercato fu concluso; gli fu condonalo il debito chʼegli aveva verso la Corona; e per la mediazione del Re, Peterborough sʼindusse ad un compromesso. Sawyer fu cacciato; Powis fatto Procuratore Generale; e Williams, nominato Avvocato Generale, ebbe la dignità di cavaliere, e in gran copia il regio favore. E ancorchè per grado ei fosse il secondo ufficiale della Corona nellʼordine giudiciario, aveva tanta abilità, dottrina ed energia, che cacciò tosto nellʼombra il proprio superiore.[354] Williams non era da lungo tempo in ufficio allorquando dovè essere parte principale nel più memorabile processo di Stato, di cui facciano ricordo gli Annali dellʼInghilterra. XXXVIII. Il dì 27 aprile 1688, il Re promulgò una seconda Dichiarazione dʼIndulgenza. In essa citava per esteso la Dichiarazione dello scorso aprile, e diceva che la sua vita passata doveva oramai convincere il popolo chʼegli non era uomo da retrocedere da un intrapreso cammino. Ma perchè alcuni faziosi si andavano affaccendando a persuadere al pubblico chʼegli poteva essere forzato a mutare proposito quanto alla Indulgenza, reputava necessario dichiarare chʼegli era determinatissimo di compiere ciò che aveva divisato, e che perciò aveva destituiti molti ufficiali civili e militari disubbidienti. Annunciava che avrebbe convocato il Parlamento nel novembre, al più tardi; ed esortava i suoi sudditi ad eleggere rappresentanti tali che lo aiutassero a mandare ad effetto la grande opera intrapresa.[355] XXXIX. Questo Atto in sulle prime fece poca impressione. Non conteneva nulla di nuovo; e tutti maravigliavano come il Re avesse creduto valere lo incomodo di pubblicare un solenne Manifesto semplicemente con lo scopo di dichiarare chʼegli si manteneva sempre fermo nel proprio proposito.[356] Forse Giacomo si sentì pungere al vivo dalla indifferenza onde venne dal pubblico accolto lo annunzio della presa determinazione, e credè che la dignità e autorità sue ne soffrirebbero ove ei senza indugio non compisse alcun che di nuovo e di notevole. Il dì 4 maggio, quindi, egli fece unʼOrdinanza in Consiglio nella quale comandava che la nuova Dichiarazione venisse letta per due domeniche successive fra mezzo al servizio divino, dai ministri officianti in tutte le chiese e cappelle del Regno. In Londra e neʼ suburbii la lettura doveva aver luogo neʼ dì 20 e 27 maggio, nelle altre parti dʼInghilterra nei dì 3 e 10 giugno. Ai vescovi fu ingiunto di distribuire esemplari della Dichiarazione nelle loro diocesi.[357] Ove si consideri come il clero della Chiesa stabilita, senza quasi nessuna eccezione, reputasse la Indulgenza violazione delle leggi del reame, infrazione della fede data dal Re, e colpo fatale contro glʼinteressi e la dignità della loro professione, non potrebbe punto dubitarsi che la Ordinanza in Consiglio mirava ad essere accolta dal clero come un affronto. Dicevasi comunemente fra il popolo che Petre aveva affermato tale intenzione del Governo, usando una grossolana metafora tolta dalla rettorica delle lingue orientali. Diceva che avrebbe fatto al clero mangiar fango, il più schifoso e nauseante fango. Ma per quanto tirannico e maligno fosse il mandato, il clero anglicano ubbidirebbe egli? La indole del Re era arbitraria e severa. La Commissione Ecclesiastica giudicava con modo pronto e spicciativo, quasi fosse Corte Marziale. Chiunque si rischiasse a resistere, dentro una sola settimana poteva esser cacciato dal suo presbiterio, privato di tutte le sue entrate, dichiarato incapace di occupare ogni altro beneficio ecclesiastico, e ridotto a mendicare di porta in porta. Se, a dir vero, lo intero corpo del clero si fosse collettivamente opposto agli ordini regi, era probabile che nè anche Giacomo avrebbe osato di punire a un tratto diecimila delinquenti. Ma non vi fu tempo di formare una estesa combinazione. LʼOrdinanza in Consiglio fu riferita nella Gazzetta del dì 7 di maggio. Il dì 20 la Dichiarazione doveva essere letta da tutti i pulpiti di Londra e deʼ luoghi circostanti. Non vʼera sforzo in queʼ tempi che bastasse a conoscere entro quindici giorni le intenzioni della decima parte deʼ ministri parrocchiali sparsi in tutto il Regno. Non era agevole raccogliere in breve glʼintendimenti deʼ Vescovi. Era anche da temersi che, se il clero ricusasse di leggere la Dichiarazione, e i Protestanti Dissenzienti interpretassero sinistramente il rifiuto, ei dispererebbe dʼottenere tolleranza pel credenti della Chiesa Anglicana, e darebbe compiuta vittoria alla Corte. XL. Il clero quindi esitava; ed era degno di scusa, imperocchè parecchi laici eminenti, che godevano molto la pubblica fiducia, inchinavano a consigliare obbedienza. Pensavano essi che non fosse da sperarsi in una generale opposizione, e che una opposizione parziale rovinerebbe glʼindividui, con poca utilità della Chiesa e della nazione. Così a quel tempo opinavano Halifax e Nottingham. Il giorno era vicino, e nondimeno non vʼera accordo nè risoluzione presa.[358] In tali circostanze, i Protestanti Dissenzienti di Londra acquistaronsi diritto alla eterna gratitudine del loro paese. Il Governo gli aveva fino allora considerati come parte della sua forza. Pochi deʼ loro più operosi e tonanti predicatori, corrotti dai favori della Corte, avevano formato indirizzi ad approvare la politica del Re. Altri irritati dalla rimembranza di gravissimi danni recati loro dalla Chiesa Anglicana e dalla Casa Stuarda, avevano veduto con crudele diletto il Principe tiranno dalla tiranna gerarchia per fiera nimistà separarsi; ed entrambi affaccendarsi a cercare, per nuocersi a vicenda, soccorso presso le sètte dianzi perseguite e spregiate. Ma cotesto sentimento, comunque fosse naturale, era stato lungamente appagato; ed era giunto il tempo in cui era necessario eleggere: e i Non–Conformisti della città, con insigne generosità dʼanimo, si collegarono coi membri della Chiesa a difendere le leggi fondamentali del Regno. Baxter, Bates e Howe si resero notevoli per gli sforzi fatti a formare tal colleganza: ma il generoso entusiasmo che animava la intera classe deʼ Puritani rese agevole il negozio. Lo zelo del gregge vinse quello deʼ pastori. A quei predicatori Puritani e Indipendenti, che si mostravano inchinevoli a secondare il Re contro lʼordinamento ecclesiastico, fu chiaramente detto, che ove non cangiassero condotta, le loro congregazioni non li avrebbero mai più ascoltati nè pagati. Alsop, che sʼera illuso di potere fraʼ suoi discepoli acquistare al Re un gran numero di partigiani, sʼaccòrse dʼessere spregiato ed abborrito da coloro che dianzi gli prestavano riverenza come a guida spirituale; cadde in profonda malinconia, e si sottrasse agli occhi del pubblico. Giungevano deputazioni a vari membri del clero, supplicandoli a non volere giudicare di tutti i Dissenzienti dalle abbiette adulazioni onde di recente andava ripiena la Gazzetta di Londra, ed esortandoli—poichè erano posti alla vanguardia di questa grande battaglia—a mostrarsi imperterriti per difendere le libertà dellʼInghilterra e la fede data in custodia ai Santi. Coteste assicurazioni furono accolte con gioia e gratitudine. Esisteva, nondimeno, molta ansietà e discordanza di opinioni fra coloro ai quali apparteneva deliberare se la domenica del dì 20 si dovesse o non si dovesse obbedire al comando del Re. XLI. Il clero di Londra, allora universalmente reputato come il fiore del ceto ecclesiastico, tenne una ragunanza, alla quale intervennero quindici Dottori in Divinità. Tillotson Decano di Canterbury, il più celebre predicatore di quel tempo, si mosse dal letto dove giaceva infermo. Sherlock Maestro del Tempio, Patrick Decano di Peterborough e Rettore della insigne parrocchia di San Paolo in Convento–Garden, e Stillingfleet Arcidiacono di Londra e Decano della Cattedrale di San Paolo vi assistevano. Lʼopinione generale dellʼAssemblea, a quanto sembra, era quella di doversi obbedire allʼOrdinanza in Consiglio. La disputa cominciava a divenire procellosa, e avrebbe potuto produrre conseguenze fatali, se non vi avesse posto fine con la sua fermezza e col suo senno il Dottore Eduardo Fowler, Vicario di San Gilles in Cripplegate, uno del piccolo ma cospicuo numero degli ecclesiastici i quali accoppiavano lo amore della libertà civile, proprio della scuola di Calvino, con le dottrine teologiche della scuola di Arminio.[359] Fowler dunque, levandosi, favellò in questa guisa: «Bisogna chʼio parli chiaro. La questione è così semplice che il ragionare a lungo non potrà chiarirla, bensì riscaldare i cervelli. Ciascuno dica un Sì o un No. Io non mʼintendo vincolato dal voto della maggioranza. Mi rincrescerebbe di rompere lʼunità. Ma in coscienza non posso leggere questa Dichiarazione.» Tillotson, Patrick, Sherlock e Stillingfleet dichiararono dʼessere della medesima opinione. La maggioranza cede allʼautorità dʼuna minoranza cotanto rispettabile. Fu quindi posta in iscritto una deliberazione per la quale tutti glʼintervenuti allʼadunanza vincolavansi fra loro a non leggere la Dichiarazione. Patrick fu il primo ad apporvi il proprio nome; Fowler firmò dopo lui. Il documento fu mandato in giro per tutta la città, e fu tosto sottoscritto da ottantacinque beneficiarii.[360] Intanto vari Vescovi stavansi ansiosamente a meditare intorno al partito da abbracciarsi. Il dì 12 di maggio, una grave e dotta comitiva sedeva a mensa in casa del Primate a Lambeth. Compton Vescovo di Londra, Turner Vescovo dʼEly, White Vescovo di Peterborough, e Tenison Rettore della Parrocchia di San Martino erano fra gli ospiti. Il Conte di Clarendon, incrollabile zelatore della Chiesa, vʼera stato invitato. Cartwright Vescovo di Chester vi sʼera intruso, probabilmente per ispiare la ragunanza; e finchè vi rimase, non vi fu conversazione confidenziale: ma appena partitosi; venne proposta e discussa la grande quistione che agitava le menti di tutti, ed opinarono generalmente che la Dichiarazione non si dovesse leggere. Lettere furono tosto spedite a vari deʼ più spettabili prelati della provincia di Canterbury, sollecitandoli a recarsi senza il minimo indugio a Londra onde spalleggiare il loro metropolitano in un caso così importante.[361] E non dubitandosi punto, che, ove tali lettere si mettessero allʼufficio postale in Lombard–Street, verrebbero intercettate, spedironsi corrieri a cavallo per deporle agli uffici postali delle più vicine città di provincia. Il Vescovo di Winchester, il quale aveva dato segnalate prove della sua lealtà in Sedgemoor, comecchè fosse infermo, volle ubbidire alla chiamata, ma non ebbe forze bastevoli a soffrire il moto della carrozza. La lettera diretta a Guglielmo Lloyd Vescovo di Norwich, non ostanti tutte le cautele prese, fu trattenuta dal postiere; e cotesto prelato, che non era secondo a nessuno deʼ suoi confratelli per coraggio e zelo della causa comune al clero, non giunse in Londra a tempo.[362] Il Vescovo di Santo Asaph, che, come il precedente, aveva nome Guglielmo Lloyd, uomo pio, dotto ed onesto, ma di poca mente, mezzo ammattito dallʼostinatezza di volere pescare nelle Profezie di Daniele e nellʼApocalisse non so quali schiarimenti intorno al Papa e al Re di Francia, arrivò frettolosamente alla Metropoli il dì 16.[363] Nel giorno seguente vi giunse lo egregio Ken Vescovo di Bath e Wells, Lake Vescovo di Chichester, e Sir Giovanni Trelawney Vescovo di Bristol, baronetto discendente da antica ed onorevole famiglia di Cornwall. XLII. Il dì 18 ebbe luogo in Lambeth unʼadunanza di prelati e di altri eminenti teologi. Tillotson, Tenison, Stillingfleet, Patrick e Sherlock erano presenti. Dopo lungo discutere, lo Arcivescovo scrisse di propria mano una petizione che esprimeva il generale intendimento dellʼassemblea. Non era scritta con istile molto felice, sì che la sintassi impacciata ed inelegante destò alquanto dileggio contro Sancroft, il quale lo sostenne con meno pazienza di quella onde egli fece prova in circostanze assai più ardue. Ma nella sostanza nulla potrebbe essere formato con più magistero di cotesto memorando documento. Protestavano caldamente contro ogni taccia di slealtà ed intolleranza. Assicuravano il Re che la Chiesa era tuttavia, come era sempre stata, fedele al trono; assicuravano che i Vescovi, a tempo e a luogo, come Lordi del Parlamento e membri della Alta Camera di Convocazione, mostrerebbero di sapere compatire gli scrupoli di coscienza neʼ Dissenzienti. Ma il Parlamento, sì sotto il regno passato che sotto il presente, aveva decretato, il Sovrano non essere costituzionalmente competente a dispensare dagli statuti in materie ecclesiastiche. La Dichiarazione quindi era illegale; e i supplicanti non potevano, per prudenza, coscienza, ed onore partecipare alla solenne pubblicazione dʼun Atto illegale nella casa di Dio e fra mezzo agli uffici divini. XLIII. Questo documento fu firmato dallʼArcivescovo e da sei deʼ suoi suffraganei, Lloyd di Santo Asaph, Turner dʼEly, Lake di Chichester, Ken di Bath e Wells, White di Peterborough, e Trelawney di Bristol. Il vescovo di Londra, come sospeso dalle sue funzioni, non firmò. Era la sera di venerdì in sul tardi: e la domenica mattina la Dichiarazione doveva leggersi nelle chiese di Londra. Era necessario che la petizione pervenisse senza indugio alle mani del Re. I sei Vescovi si recarono a Whitehall. LʼArcivescovo, al quale da lungo tempo era stato inibito lʼaccesso alla Corte, non accompagnò i colleghi. Lloyd, lasciati i suoi confratelli in casa di Lord Dartmouth chʼera presso al palazzo, sʼappresentò a Sunderland, pregandolo di leggere la petizione, e di dirgli quando al Re piacerebbe di riceverla. Sunderland, temendo di compromettersi, rifiutò di leggere lo scritto, ma si condusse subitamente alle regie stanze. Giacomo ordinò di far passare i vescovi. Gli era stato riferito dal suo cagnotto Cartwright, che essi erano inchinevoli ad ubbidire al regio mandato, ma che desideravano si facesse qualche lieve modificazione nella forma, al qual fine intendevano presentare una umilissima dimanda. Per lo che la Maestà Sua era di buonissimo umore. Come gli si furono inginocchiati dinanzi, disse cortesemente si alzassero, e prese lo scritto dalle mani di Lloyd, dicendo: «Questa è scrittura di Monsignore di Canterbury.»—«Sì, o Sire, scritta di sua propria mano,» gli, fu risposto. Giacomo lesse la petizione; la ripiegò; e turbossi nello aspetto dicendo: «Ciò mi sorprende grandemente. Non me lo sarei mai aspettato dalla vostra Chiesa, e segnatamente da alcuni di voi. Questo importa inalzare il vessillo della ribellione.» I vescovi si misero a protestare fervidamente della loro lealtà: ma il Re, come era suo costume, non cessava di ripetere le medesime parole: «Vi dico che è inalzare il vessillo della ribellione.»—«Ribellione!» esclamò Trelawney cadendo sulle sue ginocchia; «Per lo amore di Dio, o Sire, non ci dite parole così dure. Nessuno deʼ Trelawney può essere un ribelle. Vi ricordi che la mia famiglia ha combattuto in difesa della Corona. Vi rimembri deʼ servigi chʼio vi resi quando Monmouth aveva invaso le Contrade Occidentali.»—«Siamo noi che abbiamo spenta lʼultima ribellione,» disse Lake «e non ne susciteremo unʼaltra.»—«Noi ribelli!» esclamò Turner, «noi siamo pronti a morire ai piedi di Vostra Maestà.»—«Sire,» disse Ken con tono più fermo, «spero che ci vogliate concedere quella libertà di coscienza che voi accordate a tutto il genere umano.» E nulladimeno Giacomo seguitava: «Questa è ribellione. Questo importa inalzare il vessillo della ribellione. Fu ella mai posta in dubbio, prima dʼoggi, da un buono Anglicano la potestà di dispensare? Alcuni di voi non hanno eglino predicato e scritto a difenderla? È pretta ribellione. Voglio che la mia Dichiarazione sia letta.»—«Noi abbiamo due doveri da compiere,» rispose Ken, «il nostro dovere verso Dio, e il nostro dovere verso Vostra Maestà. Voi onoriamo: ma temiamo Dio.»—«Merito io questo?» gridò il Re viemaggiormente incollerito. «Io che sono stato tanto amico della vostra Chiesa! Non mi aspettava tanto da alcuni di voi. Io voglio essere ubbidito. La mia Dichiarazione deve essere pubblicata. Voi siete trombe di sedizione. Che fate voi qui? Andate alle vostre diocesi, e fate che io sia ubbidito. Terrò questo scritto; non lo perderò mai, e mi ricorderò sempre che voi lo avete firmato.»—«Sia fatta la volontà di Dio,» disse Ken.—«Dio mi ha data la potestà di dispensare,» disse il Re, «ed io saprò mantenerla. Vi dico che vi sono settemila credenti della vostra Chiesa, i quali non hanno piegato il ginocchio dinanzi a Baal.» I vescovi rispettosamente partironsi.[364] Quella stessa sera il documento da loro presentato al Re, si vide messo a stampa, parola per parola; trovavasi in tutte le botteghe da caffè, e si vendeva per le strade. In ogni parte la gente si alzava da letto e fermava i rivenditori. Si disse che lo stampatore in poche ore guadagnasse mille lire sterline vendendo questo scritto a un soldo. Ciò forse è una esagerazione: ma tuttavia prova che la vendita fu enorme. In che guisa la petizione pervenisse allo stampatore è tuttora un mistero. Sancroft dichiarò dʼavere prese tutte le cautele perchè non fosse pubblicata, e di non conoscerne altra copia, tranne quella scritta di sua mano, e da Lloyd posta nelle mani del Re. La veracità dello Arcivescovo non ammette il minimo sospetto. Pure non è punto improbabile che alcuni deʼ teologi, i quali aiutarono a compilare la petizione, possano averla tenuta a mente e mandata allo stampatore. Nondimeno comunemente credevasi che qualche famigliare del Re fosse stato indiscreto o traditore.[365] Poco minore fu la impressione che fece nel popolo una breve lettera, scritta con gran vigoria di raziocinio e di stile, stampata alla macchia, e profusamente sparsa il dì medesimo per la posta e per mezzo deʼ procacci. Ne fu mandata copia ad ogni chierico del Regno. Lo scrittore non istudiavasi di dissimulare il pericolo che correrebbero i disubbidienti al regio mandato; ma dimostrava vivamente come era maggiore il pericolo di cedere. «Se leggiamo la Dichiarazione,» diceva egli, «cadiamo per non rialzarci mai più; cadiamo incompianti e spregiati; cadiamo fra le maledizioni dʼun popolo che sarà rovinato dalla nostra debolezza.» Taluni credevano che questa lettera fosse venuta dalla Olanda. Altri lʼattribuirono a Sherlock. Ma Prideaux, Decano di Norwich, il quale fu principale agente a spargerla, la credè lavoro di Halifax. La condotta deʼ prelati fu universalmente e immensamente applaudita: ma taluni mormoravano dicendo che uomini sì gravi, se reputavansi obbligati in coscienza a fare al Re una rimostranza, dovevano farla assai prima. Era egli bene lasciarlo nel buio fino a trentasei ore avanti il tempo stabilito per la lettura della Dichiarazione? Quandʼanche volesse revocare lʼordinanza in Consiglio, non era egli troppo tardi? Così sembravano concludere che la petizione aveva lo scopo, non di muovere il Re, ma dʼinfiammare gli umori del popolo.[366] Tali doglianze erano affatto prive di fondamento. Lʼordine del Re era giunto ai vescovi nuovo, inaspettato, impacciante. Era debito loro consultarsi vicendevolmente, ed indagare, per quanto fosse possibile, lʼopinione del clero innanzi di appigliarsi ad un partito. Il clero era sparso per tutto il reame. Alcuni distavano gli uni dagli altri una settimana di cammino. Giacomo concedeva loro solo quindici giorni ad informarsi, riunirsi, discutere e decidere; e però non aveva diritto a credersi leso per essere presso a finire i quindici giorni innanzi chʼegli conoscesse la loro deliberazione. E non è vero chʼessi non gli dessero tempo bastevole a revocare lʼOrdinanza qualora avesse avuto la prudenza di farlo. Avrebbe potuto convocare il Consiglio nel sabato mattina, e innanzi che fosse notte, si sarebbe saputo per tutta Londra e peʼ suburbii, chʼegli aveva ceduto alle preghiere deʼ padri della Chiesa Anglicana. Nonostante, il sabato scorse senza che il Governo mostrasse segno di cedere, e giunse la domenica, giorno lungamente memorabile. XLIV. Nella città e nel circondario di Londra erano circa cento chiese parrocchiali. Solo in quattro fu eseguito lʼordine del Re. In San Gregorio la Dichiarazione fu letta da un ecclesiastico chiamato Martin. Appena egli ebbe profferite le prime parole tutti gli astanti alzaronsi ed uscirono. In San Matteo in Friday–Street uno sciagurato che aveva nome Timoteo Hall, e che aveva disonorato lʼabito sacerdotale facendo da sensale alla Duchessa di Portsmouth nella vendita delle grazie, e adesso nutriva speranza dʼottenere il vescovato dʼOxford, fu similmente lasciato solo in chiesa. In Serjeantʼs Inn in Chancery–Lane, il chierico disse di avere dimenticato a casa lo scritto; e al Capo Giudice del Banco del Re, il quale vi sʼera condotto per vedere se si obbedisse al regio mandato, fu forza contentarsi di siffatta scusa. Samuele Wesley, padre di Giovanni e di Carlo Wesley, e Curato in una chiesa di Londra, predicando in quel giorno, prese a testo lʼanimosa risposta fatta dai tre Ebrei al tiranno Caldeo: «Sappi, o Re, che noi non serviremo ai tuoi Dii, nè adoreremo la immagine dʼoro da te inalzata.» Perfino nella cappella del Palazzo di San Giacomo il ministro che officiava ebbe il coraggio di non ubbidire al comando regio. I giovani di Westminster lungo tempo rammentaronsi della scena che seguì quel giorno nellʼAbbadia. Vi officiava, come Decano, Sprat vescovo di Rochester. Appena cominciò a leggere la Dichiarazione, la sua voce fu soffocata dalle mormorazioni e dal rumore della gente che usciva in folla dal coro. Egli fu preso da sì forte tremito che mal poteva tenere in mano lo scritto. Assai prima chʼegli finisse di leggere, il luogo era abbandonato da tutti, fuorchè da coloro che la propria condizione costringeva a rimanervi.[367] La Chiesa non era mai stata tanto cara alla nazione quanto nel pomeriggio di quel giorno. Ogni dissenso pareva sparito. Baxter dal pergamo fece lo elogio deʼ vescovi e del clero parrocchiale. Il Ministro Olandese, poche ore dopo, scrisse agli Stati Generali, che il Clero Anglicano si era acquistata la pubblica stima tanto da non credersi. Diceva che i Non–Conformisti con grido unanime asserivano amar meglio rimanere sotto gli Statuti penali che separare la causa loro da quella deʼ prelati.[368] Scorsa unʼaltra settimana dʼansietà e dʼagitazione, giunse la domenica. Nuovamente le chiese della Metropoli erano affollate di migliaia e migliaia di persone. La Dichiarazione non fu letta in nessuno altro luogo che in quelle poche chiese dove era stata letta la precedente settimana. Il ministro, che aveva officiato nella cappella del Palazzo di San Giacomo, era stato destituito, e in vece sua un ecclesiastico più ossequioso comparve con lo scritto in mano; ma era tanto commosso che non potè profferire parola. E veramente lʼopinione pubblica si era manifestata in guisa che nessuno, tranne il migliore e più nobile, o il peggiore e più vile degli uomini, poteva senza scomporsi, affrontarla.[369] XLV. Il Re stesso per un momento rimase attonito dinanzi alla violenta tempesta da lui suscitata. Che farebbe egli adesso? Andare avanti, o retrocedere: ed era impossibile procedere senza pericolo e tornare indietro senza umiliazione. Ebbe allora il pensiero di emanare una seconda Ordinanza per ingiungere al clero con parole dʼira e dʼalterigia di pubblicare la Dichiarazione, minacciando a un tempo che chiunque si mostrasse disubbidiente verrebbe subitamente sospeso. LʼOrdinanza fu scritta e mandata al tipografo, poi fu ritirata; poi rimandata di nuovo alla stamperia, e di nuovo ritirata.[370] Coloro i quali volevano si adoperassero mezzi rigorosi, consigliavano un diverso provvedimento: citare, cioè, dinanzi alla Commissione Ecclesiastica i prelati che avevano firmata la petizione, e deporli dalle loro sedi. Ma contro questo partito sorsero forti obiezioni in Consiglio. Era stato annunziato che le Camere verrebbero convocate innanzi la fine dellʼanno. I Lordi considererebbero come nulla la sentenza di deposizione contro i vescovi, insisterebbero che Sancroft e i suoi colleghi fossero ammessi ai loro seggi nel Parlamento, e ricuserebbero di riconoscere un nuovo Arcivescovo di Canterbury o un nuovo Vescovo di Bath e Wells. In tal modo, la sessione, la quale pareva dovere essere per sè stessa bastevolmente procellosa, incomincerebbe con una mortale contesa tra la Corona e i Pari. Se quindi reputavasi necessario punire i vescovi, ciò doveva farsi secondo lʼusanza delle Leggi Inglesi. Sunderland fin da principio si era opposto, per quanto gli fu possibile, alla Ordinanza in Consiglio. Adesso suggerì di prendere una via, la quale se non era scevra dʼinconvenienti, era la più prudente e la più dignitosa che fra tanti sbagli rimanesse aperta al Governo. Il Re con grazia e dignità annunzierebbe al mondo essere profondamente dolente della indebita condotta della Chiesa Anglicana, ma non potere porre in oblio tutti i servigi resi da quella, in perigliosi tempi, al padre, al fratello ed a sè; non volere egli, come fautore della libertà di coscienza, trattare rigorosamente uomini ai quali la coscienza, comecchè mal consigliata e piena dʼirragionevoli scrupoli, non consentiva dʼubbidire ai suoi comandi; per la qual cosa abbandonerebbe i colpevoli a quella pena che loro infliggerebbe il rimorso, quando, meditando pacatamente sulle azioni proprie, le raffrontassero con quelle dottrine di lealtà, delle quali menavano sì gran vanto. Non solo Powis e Bellasyse, i quali avevano sempre consigliato moderazione, ma anco Dover ed Arundell inchinavano alla proposta di Sunderland. Jeffreys, dallʼaltro canto, sosteneva che il Governo sarebbe disonorato ove siffatti trasgressori, quali erano i sette vescovi, si punissero con una semplice riprensione. Nondimeno ei non desiderava che venissero citati dinanzi la Commissione Ecclesiastica, della quale egli era capo, o per dir meglio, solo Giudice: imperocchè il peso dellʼodio pubblico che già lo premeva, era troppo anco per la sua svergognata fronte e il suo cuore indurato; e rifuggiva dalla responsabilità in cui sarebbe incorso pronunziando una sentenza illegale contro i governanti della Chiesa amati tanto dalla nazione. E però propose di perseguitarli criminalmente. XLVI. Fu quindi determinato che lo Arcivescovo e gli altri sei che avevano firmata la petizione, fossero tradotti dinanzi la Corte del Banco del Re, come autori di un libello sedizioso. Non era da dubitarsi che verrebbero dichiarati rei. I giudici e gli ufficiali loro erano cagnotti della Corte. Dal dì in cui la Città di Londra era stata privata dello Statuto Municipale, nè anche uno di coloro i quali il Governo aveva voluto punire, era stato assoluto daʼ Giurati. I prelati disubbidienti sarebbero probabilmente condannati a rovinose multe ed a lunga prigionia, e si reputerebbero bene avventurati di potersi redimere, secondando, e dentro e fuori il Parlamento, i disegni del sovrano.[371] Il dì 27 maggio fu intimato ai Vescovi di appresentarsi pel giorno ottavo di giugno dinanzi il Consiglio del Re. Non sappiamo perchè fosse loro dato sì lungo periodo di tempo. Forse Giacomo sperava che alcuni deʼ colpevoli, paventando la sua collera, cedessero pria che giungesse il giorno stabilito a leggere la Dichiarazione nelle loro diocesi, e a fine di pacificarsi secolui, persuadessero il loro clero ad obbedire al regio decreto. Se tale era la sua speranza, egli sperò invano. Giunta la domenica del 3 giugno, in tutta Inghilterra fu seguito lo esempio della Metropoli. Già i Vescovi di Norwich, Gloucester, Salisbury, Winchester, ed Exeter, avevano, in pegno dellʼapprovazione loro, firmate alcune copie della petizione. Il Vescovo di Worchester aveva rifiutato di distribuire la Dichiarazione fra il suo clero. Il Vescovo di Hereford lʼaveva distribuita; ma comunemente credevasi che egli, per avere ciò fatto, fosse straziato dal rimorso e dalla vergogna. Neppure un solo prete di parrocchia fra cinquanta ubbidì alla Ordinanza in Consiglio. Nella grande diocesi di Chester, la quale comprendeva la Contea di Lancastro, Cartwright non potè persuadere altri che tre soli ecclesiastici ad obbedire al Re. Nella diocesi di Norwich sono molte centinaia di parrocchie, e non pertanto in sole quattro fu letta la Dichiarazione. Il cortigiano Vescovo di Rochester non potè vincere gli scrupoli del cappellano di Chatam, il cui pane dipendeva dal Governo. Esiste tuttora una commovente lettera che questo buon sacerdote scrisse al Segretario dello Ammiragliato. «Io non posso» diceva egli «sperare la protezione di Vostra Eccellenza. Sia fatta la volontà di Dio. Io scelgo i patimenti più presto che il peccato.»[372] XLVII. La sera dellʼ8 giugno i sette prelati, provvedutisi dellʼassistenza deʼ più illustri giureconsulti dʼInghilterra, si condussero a palazzo, e furono introdotti nella camera del Consiglio. La loro petizione era sulla tavola. Il Cancelliere la prese in mano, e mostrandola allo Arcivescovo disse: «È questa la carta scritta da Vostra Eccellenza Reverendissima, e presentata a Sua Maestà daʼ sei Vescovi qui presenti?» Sancroft guardò il foglio, e volgendosi al Re favellò in questa guisa: «Sire, io mi sto in questo luogo in sembianza di colpevole; io non lo era mai stato per lo innanzi, e non credevo mai che un giorno lo sarei. Meno anco avrei potuto credere che fossi accusato dʼoffesa contro il mio Re: ma se ho la sventura di trovarmi in questa condizione, prego Vostra Maestà di non offendersi, se mi valgo del mio legittimo diritto, ricusando di dire cosa che mi possa rendere reo.»—«Cotesti sono pretti cavilli,» disse il Re. «Spero che Vostra Eccellenza non osi negare la propria scrittura.»—«Sire,» disse Lloyd che aveva molto studiato i casisti, «tutti i teologi concordano ad asserire che un uomo in situazione pari alla nostra può ricusare di rispondere ad una simile domanda.» Il Re, che era tardo di mente quanto corrivo a riscaldarsi il sangue, non intese le parole del prelato; ed insisteva e andava viepiù montando in collera. «Sire,» disse lo Arcivescovo, «io non sono tenuto ad accusare me stesso. Nondimeno se Vostra Maestà positivamente mi comanda di rispondere, obbedirò con la fiducia che un principe giusto e generoso non permetta che ciò chʼio dico per ubbidire agli ordini suoi, sia considerato come argomento ad incriminarmi.»—«Voi non dovete venire a patti col vostro Sovrano,» disse il Cancelliere. «No,» esclamò il Re. «Io non vi comando questo. Se a voi parrà di negare la vostra scrittura, non ho più nulla a dire.» I Vescovi furono più volte fatti uscire dalla sala, e più volte richiamati. Alla perfine, Giacomo positivamente comandò loro di rispondere alla domanda. Non promise espressamente che la confessione non verrebbe considerata come argomento contro di loro. Ma essi non senza ragione supponevano che dopo la protesta fatta dallo Arcivescovo e la risposta data dal Re, un tale impegno fosse sottinteso nel suo comando. Sancroft riconobbe per suo lo scritto, e i suoi confratelli ne seguirono lo esempio. Allora furono interrogati intorno alla significanza dʼalcune parole della petizione, e intorno alla lettera che era andata in giro con tanto effetto per tutto il Regno: ma le loro parole furono così circospette, che il Consiglio non potè ricavare nulla dallo esame. Il Cancelliere quindi annunziò loro che verrebbe fatto contro essi un processo criminale nella Corte del Banco del Re, e intimò che sottoscrivessero lʼobbligo di presentarsi. Ricusarono allegando il privilegio della Paria: imperocchè i migliori giuristi di Westminster Hall avevano assicurato loro che nessun Pari poteva esser costretto a firmare il predetto obbligo per accusa di libello; ed essi non reputavansi in diritto di rinunciare al privilegio dellʼordine loro. Il Re fu tanto stolto da stimarsi personalmente offeso, perchè, in una questione legale, si richiamavano al parere deʼ dottori della legge. «Voi prestate fede a chiunque, fuori che a me,» disse egli. E davvero sentivasi mortificato e trepidava come quegli che sʼera spinto tanto oltre, che, persistendo essi, a lui non rimaneva altro partito che gettarli in carcere; e quantunque non prevedesse punto tutte le conseguenze di un tale passo, forse le prevedeva tanto da esserne perturbato. I Vescovi rimasero fermissimi nel loro proposto. Fu quindi spedito un mandato al Luogotenente della Torre per tenerli in custodia, ed apparecchiata una barca a trasportarveli pel fiume.[373] XLVIII. Sapevasi in tutta Londra che i Vescovi erano dinanzi al Consiglio. La pubblica ansietà era infinita. Una grande moltitudine sʼaccalcava nei cortili di Whitehall e nelle vie circostanti. Molti avevano costume di recarsi sulle rive del Tamigi a godervi il fresco nelle sere estive. Ma in cotesta sera tuttoquanto il fiume era coperto di barche. Come i sette Vescovi comparvero circondati dalle guardie, lʼemozione del popolo ruppe ogni freno. La gente a migliaia cadde inginocchioni pregando ad alta voce per coloro, i quali, animati dal coraggio di Ridley e di Latimer, avevano affrontato il tiranno reso insano di tutta la bacchettoneria di Maria la Bevisangue. Molti gettaronsi nelle acque fino al petto, implorando dai Padri Santi la benedizione. Per tutto il fiume, da Whitehall fino al Ponte di Londra, la barca regia passò fra mezzo a due file di gondole, dalle quali moveva unanime il grido: «Dio benedica alle Vostre Eccellenze Reverendissime.» Il Re grandemente impaurito, comandò che si raddoppiasse il presidio della Torre, che le Guardie si tenessero pronte a combattere, e che si staccassero due compagnie da ogni reggimento nel Regno, e si dirigessero subito a Londra. Ma le milizie chʼegli reputava mezzo precipuo a coartare il popolo, partecipavano al sentire del popolo. Le stesse sentinelle che facevano la guardia alla Porta deʼ Traditori, chiedevano la benedizione ai martiri affidati alla loro custodia. Sir Eduardo Hales, Luogotenente della Torre, era poco propenso a usare cortesia aʼ suoi prigionieri: perocchè aveva rinnegata la Chiesa per la quale essi tanto pativano, ed occupava vari uffici lucrosi per virtù di quella potestà di dispensare, contro la quale essi avevano protestato. Arse di sdegno allorchè seppe che i suoi soldati bevevano alla salute deʼ Vescovi, e ordinò agli ufficiali provvedessero che lo scandalo non fosse ripetuto. Ma gli ufficiali riferirono non esservi modo a impedire la cosa, e che il presidio non voleva bere alla salute di nessun altro. Nè solo con siffatti festeggiamenti i soldati mostravano riverenza ai padri della Chiesa. Si videro entro la Torre tali segni di divozione, che i pii sacerdoti ringraziavano Dio di avere fatto nascere il bene dal male, e reso la persecuzione deʼ suoi servi fedeli mezzo di salvazione a molte anime. Per tutto il giorno i cocchi e le livree deʼ primi nobili dellʼInghilterra vedevansi attorno alle porte della prigione. Migliaia di spettatori coprivano di continuo Tower–Hill.[374] Ma fra le testimonianze della pubblica riverenza e simpatia che i prelati ricevevano, ve ne fu una la quale, sopra tutte, recò sdegno e paura al Re. Egli seppe che una deputazione di dieci ministri Non–Conformisti erasi recata alla Torre. Ne fece venire quattro dinanzi al suo cospetto, ed aspramente rimproverolli. Costoro animosamente risposero come essi reputavano debito loro porre in oblio i passati litigi, e collegarsi con gli uomini che difendevano la Religione Protestante.[375] XLIX. Le porte della Torre sʼerano appena chiuse dietro aʼ prigioni, allorquando sopraggiunse un fatto ad accrescere il pubblico concitamento. Era stato annunziato che la Regina non avrebbe partorito avanti il mese di Luglio. Ma il dì dopo che i Vescovi sʼerano presentati dinanzi al Consiglio, eʼ fu notato come il Re fosse inquieto per lei. La sera, non pertanto, ella giuocò a carte in Whitehall fin presso la mezzanotte. Poi fu menata in portantina al Palazzo di San Giacomo, dove le era stato in fretta apparecchiato un appartamento a riceverla. Allora si videro vari messi correre qua e colà in cerca di medici, di preti, di Lordi del Consiglio, di dame di Corte. In poche ore molti pubblici ufficiali e signore dʼalto grado si raccolsero nella camera della Regina. Ivi la domenica mattina del dì 10 di giugno, giorno per lungo tempo celebrato come sacro dai troppo fedeli partigiani dʼuna malvagia causa, nacque il più sventurato deʼ principi, destinato a settanta anni di vita esule e raminga, di vani disegni, di onori più amari deglʼinsulti, e di speranze che fanno sanguinare il cuore. Le calamità della povera creatura cominciarono innanzi la sua nascita. La nazione sopra la quale, secondo il corso ordinario della successione, egli doveva regnare, era profondamente persuasa che la Regina non fosse gravida. Per quanto fossero evidenti le prove della verità del parto, un numero considerevole di persone si sarebbe forse ostinato a sostenere che i Gesuiti avessero destramente fatto un giuoco di mano: e le prove, parte per caso, parte per grave imprudenza, sottostavano a non poche obiezioni. Molti dʼambo i sessi trovavansi dentro la camera della puerpera nel momento che nacque il bambino, ma nessuno di loro godeva largamente la pubblica fiducia. Deʼ Consiglieri Privati, ivi presenti, mezzi erano Cattolici Romani; e coloro che chiamavansi Protestanti venivano comunemente reputati traditori della patria e di Dio. Molte delle cameriste erano Francesi, Italiane e Portoghesi. Delle dame inglesi alcune erano Papiste ed altre mogli di Papisti. Taluni che avevano diritto speciale ad essere presenti, e la cui testimonianza avrebbe satisfatto a tutti glʼintelletti accessibili alla ragione, erano assenti; e di ciò il Re fu tenuto responsabile. Tra tutti gli abitatori della isola, la Principessa Anna era colei che avesse maggiore interesse nella cosa. Il sesso e la esperienza la rendevano adatta a proteggere il diritto ereditario della sua sorella e suo proprio. Le si era nellʼanima fortemente insinuato il sospetto che veniva confermato da circostanze frivole o immaginarie. Credeva che la Regina con grande studio fuggisse la vigilanza della cognata, ed attribuiva a colpa una riserva che forse nasceva da delicatezza.[376] Incitata da tali sospetti, Anna aveva deliberato di trovarsi presente e vigilare quando sarebbe giunto il gran giorno. Ma non aveva estimato necessario trovarsi al suo posto un mese innanzi, e come si disse, seguendo il consiglio del padre, era andata a bere le acque di Bath. Sancroft, che pel suo eminente ufficio era in debito di trovarsi presente, e nella cui probità la nazione aveva piena fiducia, poche ore prima era stato rinchiuso da Giacomo dentro la Torre. Gli Hydes erano protettori naturali deʼ diritti delle due Principesse. Lo Ambasciatore Olandese poteva essere considerato come rappresentante di Guglielmo, il quale, come primo principe del sangue e marito della figlia maggiore del Re, aveva sommo interesse a vedere con gli occhi propri ciò che seguiva. Giacomo non pensò mai di chiamare nessuno, nè maschio nè femmina, della famiglia Hyde; nè lo Ambasciatore Olandese fu invitato a trovarsi presente. I posteri hanno pienamente assoluto il Re della frode imputatagli dal suo popolo. Ma torna impossibile lo assolverlo di quella insania e testardaggine che spiegano e scusano lo errore deʼ suoi coetanei. Conosceva benissimo i sospetti sparsi per tutto il reame;[377] avrebbe dovuto sapere che non potevano dileguarsi alla sola testimonianza deʼ membri della Chiesa di Roma, o di tali, che sebbene si facessero chiamare membri della Chiesa dʼInghilterra, si erano mostrati pronti a sacrificare gli interessi di quella per ottenere il regio favore. Che il fatto fosse giunto imprevisto al Re, è innegabile: ma ebbe dodici ore di tempo a disporre le cose. Non gli fu difficile empire il palazzo di San Giacomo con una folla di bacchettoni e di parassiti, nella cui parola la nazione non aveva punto fiducia. Sarebbe stato egualmente facile invitare alcuni eminenti personaggi, il cui affetto verso le Principesse e la religione dello Stato non ammetteva dubbio nessuno. Tempo dopo, allorquando egli aveva già caramente pagato il suo temerario spregio della pubblica opinione, era usanza in San Germano escusare lui gettandone sugli altri il biasimo. Alcuni Giacomisti accusarono Anna di essersi appositamente tenuta da parte. Anzi non vergognarono dʼaffermare che Sancroft aveva astutamente provocato il Re per essere imprigionato nella Torre, onde mancasse il suo attestato che avrebbe dissipate le calunnie deʼ malcontenti.[378] Lʼassurdità di tali accuse è evidente. Era egli possibile che Anna o Sancroft prevedessero che la Regina avesse ad ingannarsi dʼun mese neʼ propri calcoli? Se ella avesse calcolato rettamente, Anna sarebbe ritornata da Bath, e Sancroft sarebbe uscito dalla Torre per trovarsi al posto loro pel tempo del parto. In ogni modo gli zii paterni delle figlie del Re non erano nè lontani nè in carcere. Il messo, il quale recò lo annunzio a tutto il drappello deʼ rinnegati, Dover, Peterborough, Murray, Sunderland, e Mulgrave, lo avrebbe con la stessa facilità recato a Clarendon, il quale, come essi, era membro del Consiglio Privato. La sua casa in Jermyn Street non distava più di dugento passi dalla camera della Regina, e nondimeno gli toccò a sapere, dallʼagitarsi e dal sussurrare della congregazione nella Chiesa di San Giacomo, che la sua nipote non era più la erede presuntiva della Corona.[379] Non fu egli chiamato forse perchè era il più prossimo parente delle Principesse dʼOrange e di Danimarca, o perchè invariabilmente aderiva alla Chiesa Anglicana? La nazione diceva con grido unanime che vʼera stato di mezzo una impostura. I papisti, per parecchi mesi, avevano predetto nelle prediche e negli scritti loro, in prosa e in verso, in inglese e in latino, che Dio concederebbe alle preci della Chiesa un Principe di Galles: e i loro vaticinii oggimai sʼerano avverati. Tutti i testimoni che non potevano essere ingannati o corrotti, erano stati con sommo studio esclusi. Anna era stata gabbata mandandola a Bath. Il Primate, la vigilia del dì stabilito a compiere la scellerata opera, era stato gettato in carcere in onta ad ogni uso di legge e ai privilegi della Paria. Non sʼera permesso che vi si trovasse presente nè anche un solo degli uomini o delle donne, che avessero il più lieve interesse a smascherare la frode. La Regina era stata, nel cuore della notte e improvvisamente, condotta al palazzo di San Giacomo, perocchè in quello edifizio, meno adatto di Whitehall agli onesti comodi, aveva stanze e aditi bene convenevoli alle intenzioni deʼ Gesuiti. Quivi, fra una congrega di zelanti, i quali non reputavano delitto nessuna cosa che tendesse a promuovere glʼinteressi della Chiesa loro, e di cortigiani che non istimavano criminoso nulla che tendesse ad arricchirli ed inalzarli, un bambino nato pur allora era stato messo di furto nel regio talamo, e quindi mostrato in trionfo come lo erede di tre Regni. Col cervello infiammato da tali sospetti, ingiusti a dir vero, ma non innaturali, gli uomini affollavansi più che mai a rendere omaggio a quelle sante vittime del tiranno, il quale, dopo dʼavere per tanto tempo recato iniquissimi danni al suo popolo, aveva adesso colma la misura della iniquità sua, mostrandosi proditoriamente ingiusto contro le proprie creature.[380] Il Principe dʼOrange, non sospettando di nessuna frode, e ignorando qual fosse la opinione pubblica in Inghilterra, ordinò che si facessero in casa sua preghiere pel bene del suo piccolo cognato, e spedì Zulestein a Londra a congratularsi col suocero. Zulestein maravigliò udendo tutte le persone nelle quali sʼimbatteva, parlare apertamente della infame frode praticata dai Gesuiti, e ad ogni istante vedendo qualche nuova pasquinata intorno alla gravidanza; e al parto. Però scrisse allʼAja che in dieci uomini nè anche uno solo credeva che il fanciullo fosse nato dalla Regina.[381] Infrattanto il contegno dei sette prelati accresceva lo interesse che il caso loro aveva suscitato. La sera del Venerdì Nero—così il popolo chiamava il giorno in cui furono arrestati—giunsero al carcere allʼora del servizio divino. Recaronsi tosto alla cappella. Accadde che nella seconda lezione fossero queste parole: «In ogni cosa commendandoci, come ministri di Dio, nella molta pazienza, nelle afflizioni, nella miseria, nelle percosse, nelle prigionie.» Tutti gli zelanti Anglicani gioirono della coincidenza, e rammentarono quanta consolazione una simile coincidenza, quaranta anni innanzi, aveva arrecata a Carlo I, in punto di morte. La sera del giorno seguente, chʼera sabato 8 giugno, giunse una lettera di Sunderland che ordinava al cappellano di leggere la Dichiarazione pel dì seguente fra mezzo agli uffici divini. E poichè il giorno stabilito dalla Ordinanza in Consiglio per la lettura da farsi in Londra, era da lungo tempo spirato, questo nuovo atto del Governo poteva considerarsi come vilissimo e puerile insulto fatto ai venerandi prigioni. Il cappellano ricusò dʼobbedire; fu destituito, e la cappella venne chiusa.[382] L. I vescovi edificavano tutti quelli che stavano loro dʼintorno, per la fermezza e la calma con che sostenevano la prigionia, per la modestia e mansuetudine onde accoglievano gli applausi e le benedizioni di tutto il paese, e per la lealtà chʼessi mostravano verso il loro persecutore, il quale agognava a distruggerli. Rimasero in carcere soli otto giorni. Il venerdì 15 giugno, chʼera il primo giorno dellʼapertura del giudizio, furono condotti dinanzi al Banco del Re. Immensa folla di popolo stavasi lì ad aspettarli. Dagli scali del fiume fino alla Corte gli spettatori erano in lunghe file schierati, colmandoli di benedizioni o di applausi. «Amici,» dicevano i prigioni passando «onorate il Re; e ricordatevi di noi nelle vostre preci.» Queste umili e pie parole commossero gli spettatori fino alle lacrime. Come essi giunsero al cospetto deʼ Giudici, il Procuratore Generale produsse la requisitoria, che aveva avuto incarico di preparare, e propose che agli accusati si desse ordine di favellare. I loro avvocati dallʼaltro canto obiettavano dicendo che i vescovi erano stati illegalmente rinchiusi in carcere, e quindi la loro presenza dinanzi la Corte non era regolare. Fu dibattuta lungamente la questione se un Pari fosse tenuto a firmare una obbligazione per presentarsi al giudizio, come incolpato di libello, e fu risoluta dalla maggior parte deʼ giudici a favore della Corona. I prigionieri allora si dichiararono non colpevoli. La discussione della causa fu rimessa a quindici giorni, cioè al 29 giugno. Frattanto furono posti in libertà dopo dʼessersi obbligati a presentarsi pel dì stabilito. I legati della Corona operarono con prudenza, non richiedendo mallevadorie. Imperciocchè Halifax aveva ordinate le cose in modo che ventuno Pari secolari fraʼ più cospicui fossero pronti a prestarsi come mallevadori, tre per ciascuno accusato; ed una tanta manifestazione di sentimento fraʼ nobili sarebbe stata di non lieve danno al Governo. Sapevasi ancora che uno deʼ più ricchi Dissenzienti della città aveva sollecitato lʼonore di dare cauzione per Ken. Ai vescovi fu allora concesso di andarsene a casa loro. Il volgo che non sʼintendeva punto della procedura giudiciaria che aveva avuto luogo nel Banco del Re, e che aveva veduto i suoi prediletti pastori condotti sotto stretta guardia a Westminster Hall, ed ora li vedeva uscirne liberi, immaginò che la buona causa prosperasse, e diede in uno scoppio dʼapplausi. Le campane sonavano in segno di gioia. Sprat rimase attonito vedendo il campanile della sua Abbadia fare eco agli altri, e lo fece subitamente tacere; ma ciò provocò sdegnose mormorazioni. Ai vescovi riusciva difficile sottrarsi alle importunità della folla che gli acclamava. Lloyd fu ritenuto nel cortile di Palazzo dagli ammiratori che si accalcavano dʼintorno a toccargli la mano e baciargli il lembo della veste, finchè Clarendon non senza difficoltà lo trasse seco conducendolo a casa per una via traversa. Vuolsi che Cartwright fosse sì stolto da mischiarsi nella folla. Alcuno che lo vide in abito episcopale chiese e ricevè la benedizione. Ma un altro che gli stava accanto, gridò: «Sapete voi chi è colui che vi ha data la benedizione?»—«Certo chʼio lo so,» rispose il benedetto; «egli è uno deʼ Sette.»—«No,» riprese lʼaltro, «è il vescovo papista di Chester.»—«O papista cane,» esclamò rabbiosamente il Protestante, «ripigliati la tua benedizione.» Tale era il concorso e tale il concitamento del popolo, che lo Ambasciatore dʼOlanda rimase meravigliato vedendo finire il giorno senza lo scoppio dʼuna insurrezione. Il re non era punto tranquillo. Per trovarsi parato a reprimere ogni commovimento, la mattina aveva passato in rivista in Hyde–Park vari battaglioni di fanteria. Non ostante, non è certo che in caso di bisogno le sue truppe gli avrebbero ubbidito. Quando Sancroft, nel pomeriggio, giunse a Lambeth, trovò i granatieri, i quali avevano quartiere in quel suburbio, dinanzi alla porta del suo palazzo. Schierati in fila a destra e a sinistra, gli chiedevano la benedizione mentre egli passava fra loro. A stento potè dissuaderli dallo accendere un falò ad onorare il suo ritorno a casa. Quella sera nondimeno furono molti i fuochi di gioia nella Città. Due Cattolici Romani che ebbero la indiscretezza di percuotere alcuni fanciulli intervenuti a cotesti festeggiamenti, furono presi dalla plebe, la quale strappò loro gli abiti, e ignominiosamente li segnò in fronte con un ferro infocato.[383] Sir Eduardo Hales si recò presso i vescovi chiedendo dʼessere pagato. Essi rifiutarono di pagare cosa alcuna per una detenzione da essi considerata illegale, ad un officiale la cui commissione, secondo i principii loro, era nulla. Il Luogotenente accennò con intelligibilissime parole che ove gli cadessero nuovamente tra le mani, gli avrebbe messi ai ferri e fatti dormire sulla nuda terra. I vescovi risposero: «Siamo in disgrazia del Re, e profondamente ce ne rincresce; ma un suddito che ci minacci, invano perde il flato.» Non è agevole immaginare quale fosse la indignazione del popolo, allorchè, concitato come era, seppe che un rinnegato della religione protestante, il quale teneva un comando in onta alle leggi fondamentali della Inghilterra, aveva osato minacciare a quegli ecclesiastici, venerandi per età e dignità, tutte le barbarie della Torre di Lollard.[384] LI. Innanzi che giungesse il giorno stabilito pel processo, lʼagitazione erasi sparsa fino alle più remote parti dellʼisola. Dalla Scozia i vescovi riceverono lettere con le quali i Presbiteriani di quel paese da tanto tempo e così acremente ostili alla prelatura, gli assicuravano della loro simpatia.[385] Il popolo di Cornwall, razza fiera, ardita, atletica, nella quale il sentimento della terra natia è più forte che in qualunque altra parte del Regno, fu grandemente commosso dal pericolo di Trelawney, da essi venerato meno come Principe della Chiesa che come capo dʼuna onorevole casata, ed erede, per venti generazioni, dʼantenati i quali erano famosi avanti che i Normanni ponessero piede in Inghilterra. Per tutto il paese il contadiname cantava una ballata, della quale tuttavia si rammenta lo intercalare che diceva così: «Dovrà morire Trelawney, dovrà morire Trelawney? Allora trentamila giovani di Cornwall ne vorranno sapere il perchè.» I minatori di fondo alle loro cave facevano eco a quel canto con questa leggiera variante: «Allora ventimila di sotto terra ne vorranno sapere il perchè.»[386] I contadini in molte parti di quelle contrade ad alta voce parlavano dʼuna strana speranza che non sʼera mai spenta neʼ loro cuori. Dicevano che il Duca Protestante, il loro diletto Monmouth tra breve si mostrerebbe, li condurrebbe alla vittoria, e calpesterebbe il Re e i Gesuiti.[387] I ministri erano costernati. Lo stesso Jeffreys sarebbe volentieri tornato addietro. Egli incaricò Clarendon dʼun amichevole messaggio ai vescovi, e diede ad altrui la colpa della persecuzione da lui consigliata. Sunderland di nuovo rischiossi a provare la necessità di fare concessioni, dicendo come il fortunato nascimento dello erede del trono apprestasse al Re il destro di ritirarsi da una posizione piena di pericoli e dʼinconvenevolezza senza acquistarsi il rimprovero di timidità o di capriccio. In cosiffatti felici eventi i sovrani avevano avuto costume di allegrare i sudditi con atti di clemenza, e nulla poteva tornare di tanta utilità al Principe di Galles, quanto lʼessere, fino dalle fasce, pacificatore del padre con lʼagitata nazione. Ma il Re stava più che mai duro. «Anderò avanti,» diceva egli. «Finora sono stato troppo indulgente; e la indulgenza trasse mio padre alla rovina.»[388] LII. Lʼartificioso ministro si accòrse che Giacomo aveva per innanzi seguito i consigli di lui solamente perchè concordavano coglʼintendimenti suoi, e che dal momento in cui egli aveva cominciato a consigliare il bene, lo aveva fatto indarno. Nel processo contro il Collegio della Maddalena, Sunderland aveva mostrato segni di lentezza. Sʼera dianzi provato a persuadere il Re che il disegno di Tyrconnel di confiscare i beni deʼ coloni inglesi in Irlanda era pieno di pericoli, e col soccorso di Powis e Bellasyse aveva potuto ottenere che la esecuzione fosse differita ad un altro anno. Ma cotesta timidità e scrupolosità spiaceva al Re e gli aveva messo in cuore il sospetto.[389] Il giorno della giustizia era giunto per Sunderland. Egli trovavasi nelle condizioni in cui sʼera, alcuni mesi prima, trovato Rochester. Entrambi questi uomini di Stato provarono lʼangoscia di tenersi dolorosamente aggrappati al potere che visibilmente fuggiva loro di mano. Entrambi videro i suggerimenti loro con ischerno rigettati. Entrambi sentirono lʼamarezza di leggere la collera e la diffidenza nel viso e negli atti del loro signore; e nondimeno il paese gli chiamò responsabili di queʼ delitti ed errori dai quali invano sʼerano sforzati a dissuaderlo. Mentre sospettava chʼessi si studiassero di acquistarsi popolarità a danno dellʼautorità e dignità loro, la voce pubblica altamente accusavali che volessero conseguire il regio favore a danno del proprio onore e del bene della nazione. Nondimeno, malgrado tutte le mortificazioni e le umiliazioni, ambidue si tennero attaccati allo ufficio con la tenacità dʼun uomo che stia per annegarsi. Ambidue tentarono di rendersi propizio il Re simulando il desiderio di entrare nel grembo della sua Chiesa. Ma in ciò vi fu un limite che Rochester non osò travarcare. Si spinse fino sullʼorlo dellʼapostasia: ma retrocesse: e il mondo, a contemplazione della fermezza onde egli ricusò di fare lʼultimo passo, gli perdonò generosamente tutti i falli anteriori. LIII. Sunderland, meno scrupoloso e suscettibile di rossore, deliberò di scontare la sua moderazione e ricuperare la regia confidenza, con un atto, che ad un cuore che senta la importanza delle verità religiose, deve sembrare uno deʼ più infami delitti, e che gli stessi mondani considerano come ultimo eccesso di bassezza. Circa otto giorni innanzi il dì stabilito pel gran processo, venne pubblicamente annunziato chʼegli era Papista. Il Re raccontava con gioia questo nuovo trionfo della grazia divina. I cortigiani e gli ambasciatori facevano ogni sforzo a non perdere il contegno, mentre il rinnegato asseriva dʼessere stato convinto da lungo tempo della impossibilità di trovare salvazione fuori della Chiesa di Roma, e che la sua coscienza non fu mai tranquilla finchè egli non ebbe rinunciato alle eresie nelle quali era stato educato. La nuova in breve si sparse. In tutti i Caffè raccontavasi come il primo Ministro dʼInghilterra, a piedi nudi, e con torcetto in mano, si fosse presentato alla porta della cappella regale, e umilmente picchiasse per essere messo dentro; come un prete di dentro dimandasse chi era egli; come Sunderland rispondesse: un povero peccatore, che lungo tempo aveva errato lungi dalla vera Chiesa, supplicare che la lo accogliesse e lo assolvesse; come allora le porte si aprissero, e il neofito fosse ammesso ai santi misteri.[390] LIV. Questa scandalosa apostasia altro non fece che accrescere lo interesse col quale la nazione aspettava il giorno in cui dovevano decidersi le sorti deʼ sette animosi confessori della Chiesa Anglicana. Il Re quindi pose ogni cura a mettere insieme un Collegio di giurati ligi alle sue voglie. I legali della Corona ebbero ordine di fare rigorosa inquisizione delle opinioni di coloro i cui nomi erano registrati nel libro deʼ liberi possidenti. Sir Samuele Astry, Cancelliere della Corona, il quale in simili casi doveva scegliere i nomi, fu chiamato a palazzo ed ebbe un colloquio con Giacomo alla presenza del Gran Cancelliere.[391] Eʼ sembra che Sir Samuele facesse ogni sforzo: imperocchè fra i quarantotto individui da lui nominati, vʼerano, come si disse, vari servitori del Re e vari Cattolici Romani.[392] Ma poichè gli avvocati deʼ vescovi avevano diritto di cassare otto nomi, e servi del Re e Cattolici furono rigettati. I legali della Corona ne rigettarono altri dodici: in tal guisa la lista venne ridotta a ventiquattro; e i dodici che risponderebbero i primi allʼappello nominale dovevano giudicare del fatto. Il dì 29 giugno Westminster Hall, Old–Place–Yard, e New–Place–Yard, e tutte le vie circostanti per lungo tratto, erano accalcati di gente. Simigliante uditorio non fu veduto nè prima nè poi nella Corte del Banco del Re. Trentacinque Pari secolari del Regno furono contati fra mezzo alla folla.[393] Tutti e quattro i giudici della Corte erano ai loro seggi. Wright, il quale presedeva, era stato inalzato al suo alto ufficio sopra molti altri uomini di maggiore abilità e dottrina, solo perchè la servilità sua non conosceva scrupoli. Allybone era Papista, e del suo impiego andava debitore a quella potestà di dispensare, la cui legalità era materia alla presente discussione. Holloway fino allora era stato docile e utile strumento del Governo. Lo stesso Powell che godeva somma riputazione dʼonestà, aveva partecipato a certi atti che era impossibile difendere. Nella famosa causa di Sir Eduardo Hales, Powis, esitando alquanto, a dir vero, e dopo qualche indugio, si era congiunto alla maggioranza del seggio, e in tal modo aveva impresso al proprio carattere una macchia che fu pienamente cancellata dalla onorevole condotta che ei tenne in questo giorno. La difesa dʼambe le parti non era punto equilibrata. Il Governo aveva daʼ suoi legali richiesto servigi così odiosi e disonorevoli che tutti i più esperti giureconsulti del partito Tory avevano, lʼuno dopo lʼaltro, rifiutato di prestarsi, ed erano stati destituiti daʼ loro uffici. Sir Tommaso Powis, Procuratore Generale, era appena di terzo ordine nella sua professione. LʼAvvocato Generale Sir Guglielmo Williams aveva mente viva e indomito coraggio, ma difettava di giudizio, amava il bisticciare, non sapeva governare le proprie passioni, ed era in odio e dispregio a tutti i partiti politici. I più notevoli assessori dellʼuno e dellʼaltro erano Serjeant Trinder Cattolico Romano, e Sir Bartolommeo Shower Recorder di Londra, il quale era alquanto dotto negli studi legali, ma con le sue nauseanti adulazioni e col perpetuamente ridire il già detto apprestava materia di dileggio a Westminster Hall. Il Governo voleva assicurarsi i servigi di Maynard; ma costui dichiarò che in coscienza non poteva fare ciò che gli si chiedeva.[394] Dallʼaltra parte si stavano quasi tutti i più illustri ingegni di cui in quella età il fôro potesse gloriarsi. Sawyer e Finch, i quali, quando Giacomo ascese al trono, erano Procuratore ed Avvocato Generali, e mentre si perseguitavano i Whig sotto il regno di Carlo, avevano servito la Corona con soverchio ardore ed esito prospero, erano fra i difensori degli accusati. Vʼerano parimente altri due uomini, i quali, dopo che lʼattività di Maynard era scemata col crescere degli anni, avevano reputazione dʼessere i due migliori legali che si potessero trovare neʼ tribunali. Lʼuno chiamavasi Pemberton, e nel tempo di Carlo II era stato Capo Giudice del Banco del Re; destituito poscia perchè troppo umano e moderato, aveva ripreso lo esercizio della sua professione. Lʼaltro aveva nome Pollexfen; era stato per lungo tempo il principale assessore deʼ giudici nel loro periodico giro per le Contrade Occidentali, e quantunque avesse perduta ogni popolarità difendendo la Corona nel Tribunale di Sangue, e in specie arringando contro Alice Lisle, era a tutti noto chʼegli fosse internamente Whig, per non dire repubblicano. Vʼera anche Sir Creswell Levinz, uomo di grande dottrina ed esperienza, ma singolarmente pusillanime. Era stato destituito dal suo ufficio per avere avuto timore di servire ai fini del Governo. Adesso temeva di mostrarsi fra gli avvocati deʼ vescovi, e in sulle prime aveva ricusato dʼassumerne la difesa: ma lʼintero corpo deʼ procuratori che solevano impiegarlo, lo minacciò di non dargli più nessuna causa, qualora egli ricusasse di assumere quella deʼ vescovi.[395] Sir Giorgio Treby, abile e zelante Whig, il quale, vigente il vecchio Statuto, era stato Recorder di Londra, difendeva anchʼei gli accusati. Sir Giovanni Holt Avvocato Whig più illustre anco di Treby, non fu chiamato alla difesa, a cagione, per quanto sembra, di qualche pregiudizio che Sancroft aveva contro lui, ma venne privatamente consultato dal Vescovo di Londra.[396] Il più giovane fra i difensori era un avvocato chiamato Giovanni Somers. Non aveva vantaggio di nascita o di ricchezza, nè fino allora aveva avuto il destro di acquistare reputazione agli occhi del pubblico: ma il suo genio, la sua industria, le sue grandi e varie qualità erano note a parecchi suoi amici; e nonostanti le sue opinioni Whig, il suo giusto e lucido modo dʼargomentare, e la costante irreprensibilità della condotta gli avevano già reso benevolo lʼorecchio della Corte del Banco del Re. Johnstone aveva ai Vescovi energicamente dimostrata la importanza di averlo nella difesa; e dicesi che Pollexfen dichiarasse non esservi in Westminster Hall un uomo che potesse, al pari di Somers, trattare una questione storica e costituzionale. I giurati prestarono sacramento: erano tutti di condizione rispettabile. Ne era capo Sir Ruggiero Langley, baronetto dʼantica ed onorevole famiglia. Gli erano colleghi un cavaliere e dieci scudieri, parecchi deʼ quali erano conosciuti come ricchi possidenti. Vʼ erano alcuni Non–Conformisti, perocchè i Vescovi erano saviamente deliberati di non mostrare diffidenza deʼ protestanti Dissenzienti. Il solo Michele Arnold dava da temere, dacchè essendo egli il birraio del palazzo, sospettavasi che votasse a favore del Governo. Fu detto chʼegli amaramente si lamentasse della posizione in cui si trovava. «Qualunque cosa io faccia,» disse egli «sono sicuro dʼuscirne mezzo rovinato. Se dico: Non Colpevole, non venderò più la mia birra al Re; e se dico: Colpevole, non ne venderò più a nessun altro.»[397] Finalmente incominciò il processo. Ed è tale, che anche letto con freddezza dopo più dʼun secolo e mezzo, serba tutto lo interesse dʼun dramma. Gli avvocati disputavano da ambo i lati con insolito accanimento e veemenza; lʼuditorio ascoltava con estrema ansietà, quasi la sorte di ciascuno dipendesse dal detto che dovevano profferire i giurati; e il volgere della fortuna era così subitaneo e maraviglioso, che la moltitudine in un solo momento più volte passò dallʼansietà alla gioia, e dalla gioia a più profonda ansietà. I Vescovi erano accusati dʼavere pubblicato, nella Contea di Middlesex, un falso, maligno, e sedizioso libello. Il Procuratore e lo Avvocato tentarono di provare la scrittura. A questo fine varie persone furono chiamate per testificare delle firme deʼ Vescovi. Ma i testimoni sentivano tanta ripugnanza che la Corte da nessuno di loro potè ottenere una sola chiara risposta. Pemberton, Pollexfen, e Levinz dichiararono che nessuna delle predette testimonianze era atta a convincere i giurati. Due deʼ Giudici, cioè Holloway e Powell, furono della stessa opinione; e in cuore agli spettatori crebbe la speranza. A un tratto i legali della Corona dissero di volere prendere una via diversa. Powis, con rossore e ripugnanza tali da non poterli dissimulare, pose nel banco deʼ testimoni Blathwayt chʼera uno degli scrivani del Consiglio Privato, e trovavasi presente quando i Vescovi furono interrogati dal Re. Blathwayt giurò di averli uditi riconoscere le loro firme. Tale testimonianza era decisiva. «Perchè dunque,» disse il giudice Holloway al Procuratore Generale «se avevate cotesta prova, non lʼavete prodotta in principio, senza farci perdere cotanto tempo?» Allora si conobbe che la difesa della Corona non aveva voluto, senza assoluto bisogno, valersi di questo modo di prova. Pemberton interruppe Blathwayt, lo assoggettò ad un contro–esame, ed insistè perchè raccontasse pienamente tutto ciò chʼera seguito fra il Re e gli accusati. «Questa è curiosa davvero!» esclamò Williams. «Credete voi» disse Powis «di potere liberamente fare ai testimoni tutte le impertinenti domande che vi passano pel capo?» Gli avvocati deʼ Vescovi non erano uomini da lasciarsi soverchiare. «Egli ha giurato» rispose Pollexfen «di dire la verità, e tutta la verità; e a noi fa mestieri una risposta, e lʼavremo.» Il testimone si confuse, equivocò, simulò di frantendere la domanda, implorò la protezione della Corte. Ma era caduto in mani dalle quali non era facile svincolarsi. Infine il Procuratore Generale sʼinterpose, dicendo: «So voi persistete a fare tali dimande, diteci almeno lʼuso che intendete di farne.» Pemberton, il quale in tutto il dibattimento aveva fatto il debito proprio da uomo coraggioso ed accorto, rispose senza esitare: «Signori, risponderò al Procuratore, ed agirò schiettamente con la Corte. Se i Vescovi riconobbero questo scritto sulla promessa della Maestà Sua che la loro confessione non verrebbe adoperata come arma a ferirli, spero che lʼAccusa non se ne voglia slealmente giovare.»—«Voi attribuite a Sua Maestà una cosa chʼio non ardisco nominare,» disse Williams, «e dacchè vi piace di essere tanto importuno, chiedo a nome del Re, che se ne prenda ricordo.»—«Che intendete dire, Signore Avvocato Generale?» disse, interponendosi, Sawyer. «So io quello che dico,» rispose lo apostata; «voglio che nella Corte si prenda ricordo della domanda.»—«Prendete quanti ricordi vi aggrada, io non vi temo, Signore Avvocato Generale,» disse Pemberton. Seguì quindi un rumoroso ed accanito alterco, che a stento fu fatto cessare dal Capo Giudice. In altre circostanze probabilmente avrebbe ordinato di prendere ricordo della domanda, e mandato Pemberton in carcere. Ma in quel gran giorno egli era impaurito. Spesso gettava gli occhi su quel folto drappello di Conti e di Baroni, che lo invigilavano, e forse alla prima apertura del Parlamento potevano essergli giudici. Uno degli astanti affermò che il Capo Giudice aveva tal viso come se credesse ciascuno deʼ Pari ivi presenti avesse nella propria tasca un capestro.[398] Finalmente Blathwayt fu costretto a fare un minuto racconto di ciò che aveva veduto con gli occhi propri. Da quanto egli disse pareva che il Re non fosse venuto ad espresso patto coi Vescovi. Ma pareva medesimamente che i Vescovi potessero con tutta ragione credere che il patto fosse sottinteso. A dir vero, dalla ripugnanza che avevano i legali della Corona a porre nel banco deʼ testimoni lo scrivano del Consiglio, e dalla virulenza con che sʼopposero al contro–esame di Pemberton, chiaro si deduce che avessero la stessa opinione. Nondimeno rimase provato che la scrittura era deʼ Vescovi. Ma surse una nuova e più grave obiezione. Non bastava che i Vescovi avessero scritto lʼallegato libello; era necessario provare che lo avevano scritto nella Contea di Middlesex. La qual cosa non solo non potevano provare il Procuratore e lʼAvvocato Generale, ma la Difesa aveva i mezzi di provare il contrario. Imperocchè avvenne che dal tempo in cui fu pubblicata lʼOrdinanza in Consiglio, fino a dopo che la petizione era stata presentata al Re, Sancroft non fosse nè anche una volta uscito dal suo palazzo di Lambeth. In tal guisa ruinava al tutto il fondamento sul quale posava lʼAccusa, e lʼuditorio con gran gioia aspettavasi che i Vescovi fossero immediatamente prosciolti. I legali della Corona di nuovo cangiarono tattica, ed abbandonando affatto lʼaccusa dʼavere scritto un libello, impresero a provare che i Vescovi avevano pubblicato un libello nella Contea di Middlessex. E anche ciò era molto difficile a provare. La consegna della petizione al Re, indubitabilmente, agli occhi della legge, era lo stesso che pubblicarla. Ma in che guisa provare siffatta consegna? Niuno nelle regie stanze sʼera trovato presente allʼudienza. La scena era seguita solo tra il Re e gli accusati. Il Re non poteva essere chiamato in testimonio; non vʼera dunque altro mezzo a provare la cosa che la confessione degli accusati. Indarno Blathwayt venne nuovamente esaminato. Disse di rammentarsi bene che i Vescovi avevano riconosciute le loro firme; ma non si ricordava affatto che confessassero che lo scritto che era sul banco del Consiglio Privato, fosse quel medesimo che avevano posto nelle mani del Re; non si ricordava nè anco che venissero sopra ciò interrogati. Furono chiamati vari altri ufficiali chʼerano di servizio al Consiglio Privato, e fra essi Samuele Pepys segretario dello Ammiragliato; ma nessuno di loro potè rammentarsi che si parlasse della consegna. Nulla valse che Williams accatastasse le domande, finchè la difesa deʼ Vescovi dichiarò che tante storture, tante sottigliezze, tanti cavilli non sʼerano mai veduti in nessuna corte di giustizia; e lo stesso Wright fu costretto a confessare che il modo tenuto dallo Avvocato Generale nello esame deʼ testimoni era contrario a tutte le regole. Come i testimoni, lʼuno dopo lʼaltro, negativamente rispondevano, gli astanti davano in tali scoppi di riso e grida di trionfo, che parevano far crollare la sala e che i giudici non sʼattentavano di reprimere. Finalmente la vittoria deʼ Vescovi pareva assicurata. Se i loro difensori si fossero taciuti, la sentenza favorevole sarebbe stata sicura; perocchè non vʼera nessuno attestato che dal più corrotto e svergognato giudice potesse considerarsi come prova legale della pubblicazione. Il Capo Giudice incominciava già a favellare ai giurati, e avrebbe sicuramente loro inculcato di assolvere gli accusati, allorquando Finch, con somma imprudenza, chiese licenza di parlare, «Se volete essere ascoltato,» disse Wright, «lo sarete: ma voi non conoscete i vostri interessi.» Gli altri difensori fecero si che Finch tacesse, e pregarono il Capo Giudice a continuare. E già ricominciava a favellare, allorchè giunse allo Avvocato Generale un messo, recando la nuova che Lord Sunderland proverebbe la pubblicazione, e arriverebbe fra un istante alla Corte. Wright malignamente disse ai difensori non avessero a ringraziare altri che sè stessi per la nuova piega che erano per prendere le cose. Lo scoraggiamento si mostrò nello aspetto di ciascuno degli astanti. Finch per alcune ore fu lʼuomo più impopolare del paese. Perchè egli non si stava seduto come avevano fatto i suoi colleghi, migliori di lui, Sawyer, Pemberton, e Pollexfen? Il prurito dʼimmischiarsi in ogni cosa, e lʼambizione chʼegli aveva di fare un bel discorso avevano rovinato tutto. Intanto il Lord Presidente fu condotto in portantina fra mezzo alla sala. Come egli passava nessuno gli faceva di cappello; e sʼudirono molte voci che lo chiamavano «Papista cane.» Giunse alla Corte pallido e tremante, cogli occhi bassi; e nel fare la sua deposizione, a quando a quando gli mancava la voce. Giurò che i Vescovi gli avevano palesato lo intendimento di presentare una petizione al Re, e che a tal fine erano stati introdotti nelle regie stanze. Questo fatto congiunto con lʼaltro, che dopo dʼessersi partiti dalla presenza del Re, fu vista nelle mani di lui una petizione munita delle loro firme, era tal prova che poteva ragionevolmente convincere i giurati del fatto della pubblicazione. La pubblicazione adunque rimase provata. Ma lo scritto in tal guisa pubblicato era un libello falso, maligno, sedizioso? Fino a questo punto sʼera discusso se un fatto, che ciascuno sapeva esser vero, potesse provarsi secondo le regole tecniche della scienza legale; ma adesso la contesa divenne assai più grave. Era necessario esaminare i limiti della prerogativa e della libertà, il diritto del Re a dispensare dagli statuti, il diritto deʼ sudditi a presentare petizioni a risarcimento di danni. Per tre ore gli avvocati degli accusati argomentarono con gran forza a difendere i principii fondamentali della costituzione, e provarono coi Giornali, ovvero processi verbali della Camera deʼ Comuni, che i Vescovi avevano detta la schietta verità quando dimostrarono al Re che la potestà di dispensare chʼegli voleva arrogarsi, era stata più volte dichiarata illegale dal Parlamento. Somers fu lʼultimo a perorare. Parlò poco più di cinque minuti; ma ogni parola che gli uscì dalle labbra era pregna di significanza; e allorquando si assise, la sua reputazione dʼoratore e di giureconsulto costituzionale era stabilita. Esaminò, una per una, tutte le parole adoperate dallʼAccusa per esprimere il delitto imputato ai Vescovi, e mostrò che ciascuna, sia aggettivo, sia sostantivo, era affatto impropria. I Vescovi venivano accusati dʼavere scritto e pubblicato un libello falso, maligno, e sedizioso. Lo scritto loro non era falso; perchè ogni fatto allegato provavano i Giornali del Parlamento esser vero. Lo scritto non era maligno; perchè gli accusati non avevano cercato pretesto ad una lotta, ma erano stati messi dal Governo in posizione tale che dovevano od opporsi al volere del Re, o violare i più sacri doveri della coscienza e dellʼonore. Lo scritto non era sedizioso; perchè non era stato sparso dagli scrittori fra la plebe, ma privatamente messo da loro nelle mani del solo Re; e non era un libello, ma era una petizione decente, e tale che per le leggi della Inghilterra, anzi per le leggi di Roma Imperiale, per le leggi di tutti gli Stati inciviliti, un suddito che si creda gravato, può lecitamente presentare al Sovrano. Il Procuratore Generale nella sua risposta fu breve e fiacco. Lo Avvocato Generale parlò diffusissimamente e con grande acrimonia, e venne spesso interrotto daʼ clamori e dai fischi dellʼuditorio. Giunse perfino ad affermare che nessun suddito o corporazione di sudditi, tranne le Camere del Parlamento, hanno diritto di presentare petizioni al Re. A tali parole le gallerie divennero furiose; e lo stesso Capo Giudice rimase attonito alla sfrontatezza di cotesto giubba–rivoltata. In fine Wright cominciò a riassumere la questione. Le sue parole mostravano che la paura chʼegli aveva del Governo era temperata da quella che gli aveva posta nellʼanimo un uditorio sì numeroso, sì illustre e sì grandemente concitato. Disse che non darebbe parere intorno alla questione della podestà di dispensare, poichè non lo reputava necessario; che non poteva approvare in gran parte il discorso dello Avvocato Generale; che i sudditi avevano diritto di far petizioni, ma che la petizione della quale facevasi dibattimento nella Corte, era formulata con parole sconvenevoli, e la legge la considerava come libello. Medesimamente opinò Allybone, ma nel favellare mostrò tanto grossolana ignoranza della legge e della storia, da meritarsi il disprezzo di tutti gli astanti. Holloway scansò la questione della potestà di dispensare, ma disse che la petizione gli sembrava tale quale i sudditi che si credano gravati hanno diritto di presentare; e quindi non era un libello. Powell ebbe anche maggiore ardimento. Confessò che, secondo lui, la Dichiarazione dʼIndulgenza era nulla, e che la potestà di dispensare, nel modo onde dianzi sʼera esercitata, era onninamente incompatibile con la legge. Se a tali usurpazioni della prerogativa non si poneva freno, il Parlamento era finito. Tutta lʼautorità legislativa si ridurrebbe nelle mani del Re. «Lʼesito di questa faccenda, o Signori,» disse egli, «lo lascio a Dio e alla vostra coscienza.»[399] Era ben tardi quando i giurati si ritrassero a deliberare. E fu notte di forte ansietà. Ci rimangono alcune delle lettere che furono scritte in quelle ore di perplessità, e che perciò hanno per noi speciale interesse. «È assai tardi,» scriveva il Nunzio del Papa, «e la sentenza finora non si conosce. I giudici e gli accusati se ne sono andati alle loro case. I giurati sono in sessione. Domani sapremo lʼesito di questa gran lotta.» Il patrocinatore deʼ Vescovi rimase tutta la notte con un numero di servi nelle scale che conducevano alla stanza dove i giurati deliberavano. Era impreteribile invigilare gli ufficiali che guardavano lʼuscio; perocchè essendo costoro in sospetto di favoreggiare la Corona, ove non fossero rigorosamente sorvegliati, avrebbero potuto apprestare deʼ cibi a qualche giurato cortigiano, il quale avrebbe così affamato i colleghi. E però la gente dei Vescovi faceva stretta guardia. Non fu concesso nè anche dʼintrodurre una candela per accendere una pipa. Verso le ore quattro di mattina si lasciarono passare alcuni vasi dʼacqua da lavarsi; e i giurati, ardendo di sete, la beverono tuttaquanta. Gran numero di gente si aggirò fino allʼalba per le vie circostanti. Ogni ora giungeva da Whitehall un messo per sapere ciò che facevasi. Dalla stanza si udivano spesso le voci e gli alterchi deʼ giurati: ma non sapevasi nulla di certo.[400] In sul principio, nove opinavano che non vi fosse colpa, e tre che la vi fosse. Due della minoranza dopo poco cedettero; ma Arnold rimaneva ostinato. Tommaso Austin ricchissimo gentiluomo di campagna, il quale aveva prestata somma attenzione al detto deʼ testimoni e alla discussione, ed aveva preso copiosi appunti, voleva ragionare con Arnold; ma costui nol consentì, dicendo sgarbatamente chʼegli non era assuefatto ad argomentare e discutere; la sua coscienza non era satisfatta; e quindi egli non avrebbe dichiarati innocenti i Vescovi. «Se dite questo,» disse Austin, «guardatevi bene. Io sono il più grasso e il più forte di tutti, e innanzi che altri mi costringa a chiamare libello simile petizione, mi starò qui finchè mi sarò ridotto alla grossezza dʼuna canna da pipa.» Erano le ore sei della mattina, allorquando Arnold cedè. Tosto si sparse la voce che tutti i giurati erano dʼaccordo: ma il giudicio era sempre un segreto.[401] Alle ore dieci antimeridiane ragunossi di nuovo la Corte. La folla era immensa. I giurati si assisero ai posti loro. Nessuno osava alitare, era profondo silenzio. LV. Sir Samuele Astry disse ai giurati: «Trovate voi gli accusati, o alcuno di loro, colpevoli del delitto ad essi imputato, o gli trovate non colpevoli?» Sir Ruggiero Langley rispose: «Non colpevoli.» Appena profferite queste parole, Halifax si alzò e scosse in aria il cappello. A quel segno, i banchi e le gallerie diedero in uno scoppio dʼapplausi. In un momento diecimila persone accalcate dentro la spaziosa sala risposero con sì fragorose grida di gioia che ne tremò il vecchio palco di quercia, e un istante dopo lʼinnumerevole turba che stava fuori levò tal grido dʼallegrezza che fu udito fino a Temple–Bar, al quale grido risposero le barche che coprivano il Tamigi. Un tonfo dʼarme risonò sul fiume, e poi un altro ancora, talmente che in pochi momenti la lieta nuova volò ai quartieri di Savoy e di Blackfriars fino al Ponte di Londra, ed alla selva di navi che oltre si distende. Come fu sparsa la nuova, le vie e le piazze, i mercati e i caffè echeggiavano dʼacclamazioni. Eppure queste acclamazioni erano meno strane delle lacrime che si vedevano negli occhi di tutti: imperocchè i cuori di tutti erano stati trafitti a tal punto che lʼaustera natura deglʼInglesi, così poco avvezzi a mostrare con segni esteriori le interne emozioni, non potè resistere; e migliaia di persone singhiozzavano lacrimando di gioia. Infrattanto di mezzo alla folla movevansi uomini a cavallo dirigendosi per tutte le grandi vie, nunzi della vittoria riportata dalla Chiesa e dalla patria nostre. E non pertanto lʼacre e intrepido animo dellʼAvvocato Generale non impaurì a quella immensa esplosione. Sforzandosi di farsi udire, non ostante i clamori, richiese che i giudici facessero arrestare coloro, i quali con grida sediziose avevano violata la dignità del tribunale. I giudici fecero arrestare un popolano; ma pensando che sarebbe assurdo il punire un solo individuo per un delitto di cui erano rei centinaia di migliaia, lo mandarono via con una lieve riprensione.[402] Era inutile in quel momento pensare a qualunque altra cosa. E davvero i clamori della moltitudine erano tali, che per una mezza ora non fu possibile dire una sola parola nella Corte. Williams giunse alla sua vettura fra mezzo a una tempesta di fischi e dʼimprecazioni. Cartwright, che non poteva frenare la propria curiosità, aveva avuta la stoltezza e la impudenza di recarsi a Westminster per udire la sentenza. Agli abiti sacerdotali e alla corpulenza fu riconosciuto, e fischiato passando per la sala. «Badate» diceva uno «al lupo sotto veste dʼagnello.»—«Fate largo» esclamò un altro «allʼuomo che ha il papa nel ventre.»[403] I prelati, a fin dʼevitare la folla che chiedeva la loro benedizione, si rifugiarono dentro la più vicina cappella, dove si celebravano gli uffici divini. Quel dì molte chiese erano aperte in tutta la metropoli, alle quali accorreva gran numero di persone pie. Le campane di tutte le parrocchie nella città e neʼ luoghi circostanti sonavano a festa. Intanto i giurati non sapevano distrigarsi dalla calca per uscire dalla sala. Erano costretti a stringere le mani a centinaia. «Dio ve ne renda merito,» esclamava la gente; «Dio protegga le vostre famiglie; vi siete portati da onesti e buoni gentiluomini; oggi voi ci avete salvato tutti.» Come i nobili, i quali erano intervenuti alla udienza per proteggere la buona causa, si rimisero in carrozza, spargevano dagli sportelli pugni di monete fra il popolo, dicendogli bevesse alla salute del Re, deʼ Vescovi, e dei Giurati.[404] Il Procuratore Generale recò la trista nuova a Sunderland, il quale per avventura in quellʼora stavasi conversando col Nunzio. «Non vi sono state mai a memoria dʼuomo» disse Powis «grida e lacrime di gioia come quelle dʼoggi.»[405] Il Re in quel giorno era andato a visitare il campo in Hounslow Heath. Sunderland subitamente spedì un messo a dare la nuova a Giacomo, il quale in quello istante trovavasi entro la tenda di Feversham. Ne rimase estremamente turbato; esclamò in francese: «Peggio per loro!» e partì tosto per Londra. Presente lui, la riverenza impedì ai soldati la libera espansione deʼ loro cuori; ma appena egli si discostò dal campo, furono udite alte acclamazioni. Ne rimase maravigliato, e chiese che significasse quel frastuono. «Non è nulla,» gli fu risposto: «i soldati tripudiano per la liberazione deʼ Vescovi.»—«E voi chiamate nulla ciò?» disse Giacomo. E ripetè: «Peggio per loro.»[406] Ed aveva bene ragione dʼessere di cattivo umore. La sua sconfitta era stata piena ed umiliantissima. Se i prelati si fossero sottratti alla condanna per difetto di forma nella procedura, o perchè non avevano scritta la petizione in Middlessex, o perchè era stato impossibile provare che avevano posto nelle mani del Re lo scritto pel quale la Corona gli aveva chiamati in giudizio, la prerogativa regia non avrebbe patito detrimento. Ma fu insigne ventura pel paese che il fatto della pubblicazione venisse pienamente provato. La Difesa quindi era stata costretta a combattere contro la potestà di dispensare, e lʼaveva combattuta con audacia, dottrina ed eloquenza. Gli avvocati del Governo, come tutti vedevano, erano stati vinti nella contesa. Nemmeno un solo dei giudici erasi rischiato ad asserire che la Indulgenza fosse legale, chè anzi uno di loro lʼaveva con forti parole dichiarata illegale. La nazione intera ad una voce diceva che la potestà di dispensare aveva ricevuto un colpo fatale. Finch, che il giorno precedente era stato universalmente vituperato, adesso ebbe plausi universali. Dicevasi chʼegli non aveva fatto decidere la causa in un modo che avrebbe lasciata nel dubbio la grande questione costituzionale: imperocchè una sentenza che avesse assoluto i suoi clienti, senza condannare la Dichiarazione dʼIndulgenza, sarebbe stata una mezza vittoria. Vero è che Finch non meritava nè il biasimo che gli fu dato mentre lʼesito della causa era ancora dubbio, nè le lodi che gli profusero dopo che lʼesito fu prospero. Era assurdo vituperarlo, perchè, nel breve indugio di cui egli fu cagione, i legali della Corona scoprirono inaspettatamente novelle prove. Era egualmente assurdo supporre chʼegli per calcolo esponesse i suoi clienti al pericolo a fine di stabilire un principio generale: ed era anche più assurdo commendarlo di ciò che sarebbe stato violare gravemente il dovere della sua professione. A quel lieto giorno seguì una notte di non minore letizia. I Vescovi, ed alcuni deʼ loro più rispettabili amici, indarno sforzaronsi dʼimpedire ogni tumultuoso festeggiamento. Giammai a memoria deʼ più vecchi, nè anche in quella sera nella quale si sparse per tutta Londra la nuova che lo esercito di Scozia erasi dichiarato a favore dʼun libero Parlamento, giammai le vie della città sʼerano viste così splendenti di fuochi di gioia. Attorno ad ogni luminaria la folla beveva alla salute deʼ vescovi ed alla confusione deʼ Papisti. Le finestre erano illuminate con file di candele; ciascuna fila ne aveva sette, e il torcetto di mezzo che sʼinalzava fra tutte, simboleggiava il Primate. Sʼudiva di continuo lo scoppio delle bombe e delle arme da fuoco. Una catasta di fascine ardeva di faccia alla porta maggiore di Whitehall; altre dinanzi alle case deʼ Pari Cattolici Romani. Lord Arundell di Vardour saviamente abbonì la marmaglia facendo distribuire un poʼ di moneta. Ma nel palazzo Salisbury nello Strand si provarono di fare resistenza. I servi di Lord Salisbury uscirono fuori e fecero fuoco; uccisero soltanto lo scaccino della parrocchia chʼera lì per ispengere le fiamme, e subito sconfitti furono ricacciati nel palazzo. Nessuno degli spettacoli di quella notte diede tanto sollazzo alla plebe quanto uno al quale pochi anni prima era assuefatta, e che adesso volle rinnovellare, voglio dire il bruciamento della effigie del Papa. Questo spettacolo, che un tempo era famigliare, è oggimai da noi conosciuto solamente per mezzo di descrizioni e dʼincisioni. Una figura, in nulla somiglievole alle rozze immagini di Guido Faux che ai tempi nostri si conducono in processione il dì 5 novembre, ma fatta di cera con una certa arte, e adorna, con spesa non lieve, degli abiti pontificali e della tiara, era posta sopra una sedia somigliante a quella sulla quale i vescovi di Roma nelle grandi solennità vengono condotti in San Pietro fino allo altare maggiore. Sua Santità era generalmente accompagnata da un corteo di Cardinali e di Gesuiti. Gli stava accanto, chinandoglisi allʼorecchio, un buffone travestito da demonio con le corna e la coda. Non vi era Protestante ricco e zelante che si mostrasse avaro di dare la sua ghinea per tal festa; e se debbasi credere alla voce popolare, la spesa della processione talvolta ascendeva a mille lire sterline. Dopo che la immagine del Papa era stata solennemente condotta per alcune ore fra mezzo alla folla, era data alle fiamme tra le fragorose acclamazioni degli astanti. Finchè durò la popolarità di Oates e di Shaftesbury questa cerimonia ebbe luogo ogni anno il dì natalizio della Regina Elisabetta, in Fleet–Street, di faccia alle finestre del Circolo Whig. Ed era tanta la celebrità di cotesto grottesco spettacolo, che Barillon una volta pose a repentaglio la propria vita, sporgendo la persona, per meglio vederlo, da un luogo ove erasi nascosto.[407] Ma dal giorno in cui fu scoperta la congiura di Rye House fino a quello in cui furono assoluti i sette Vescovi, la cerimonia era caduta in disuso. Adesso, nondimeno, vari fantocci rappresentanti il Papa si videro in varie parti di Londra. Il Nunzio ne rimase scandalizzato, e il Re sentì questo insulto più di tutti gli affronti fino allora ricevuti. I magistrati non poterono porvi impedimento alcuno. La domenica albeggiava, e le campane delle Chiese parrocchiali chiamavano i devoti alle preci mattutine, quando i fuochi cominciavano ad estinguersi e la folla a disperdersi. Fu allora promulgato un editto contro i perturbatori; molti deʼ quali—ed erano per la più parte giovani di bottega—furono arrestati; ma alle sessioni di Middlesex i giurati dichiararono non esservi luogo a procedere. I magistrati, molti deʼ quali erano cattolici romani, rimproverarono il Gran Giury, e gli rimandarono tre o quattro volte glʼincolpati, ma non poterono ottenere nulla.[408] LVI. Intanto la lieta nuova giungeva a volo in ogni parte del Regno, e dovunque era ricevuta con gioia. Gloucester, Bedford, e Linchfield mostrarono grande zelo: ma Bristol e Norwich, che per popolazione e ricchezza erano dopo Londra le prime, furono solo a Londra seconde per lʼentusiasmo con che celebrarono il lieto evento. La persecuzione deʼ Vescovi è un evento che sta da sè nella nostra storia. Esso fu il primo ed ultimo fatto in cui due sentimenti tremendamente potenti, due sentimenti che per lo più si sono vicendevolmente avversati, e ciascuno deʼ quali, qualvolta sono venuti in forte concitamento, è bastato a sconvolgere lo Stato, erano congiunti in perfetta armonia. Questi sentimenti erano lo affetto per la Chiesa e lo affetto per la libertà. Pel corso di molte generazioni ogni violento scoppio del sentimento per la Chiesa Anglicana è stato sempre, tranne una sola volta, avverso alla libertà civile; ogni violento scoppio di zelo per la libertà è stato sempre, tranne una sola volta, avverso allʼautorità ed influenza della prelatura e del elencato. Nel 1688 la causa della gerarchia fu per un istante identica a quella del popolo. Novemila e più ecclesiastici capitanati dal Primate e daʼ suoi più spettabili suffraganei, si mostrarono pronti a soffrire la carcere e la perdita degli averi per difendere il gran principio fondamentale della nostra costituzione. Ne nacque una coalizione che comprendeva i più zelanti Cavalieri, i più zelanti repubblicani, e tutte le classi intermedie del popolo. Il coraggio che nella precedente generazione aveva sostenuto Hampden, il coraggio che nella generazione susseguente sostenne Sacheverell, si congiunsero insieme per sostenere lʼArcivescovo il quale era Hampden e Sacheverell in una sola persona. Le classi della società che hanno maggiore interesse a mantenere lʼordine, che in tempi di politici commovimenti sono sempre pronte a rafforzare il braccio al Governo, e che naturalmente abborrono gli agitatori, si lasciarono, senza scrupolo, guidare dallʼuomo venerabile, che era primo Pari del Regno, primo ministro della Chiesa, Tory in politica, santo per costumi; uomo che la tirannide, malgrado lui, aveva fatto diventare demagogo. Coloro, dallʼaltra banda, i quali avevano sempre abborrito lʼEpiscopato, come rimasuglio del Papismo, e come strumento del potere assoluto, domandavano ora colle ginocchia inchine la benedizione di un prelato, che era pronto a soffrire la carcere e posare le stanche sue membra sulla nuda terra, più presto che tradire glʼinteressi della Religione protestante e porre la prerogativa disopra alla legge. Allo amore della Chiesa ed allʼamore della libertà era congiunto, in questa gran crisi, un altro sentimento che va annoverato fra le più pregievoli peculiarità del nostro carattere nazionale. Un individuo oppresso dal Governo, ove anche non abbia il minimo diritto alla riverenza ed alla gratitudine pubblica, generalmente desta simpatia nel popolo nostro. Così, al tempo degli avi nostri, la persecuzione di Wilkes bastò a porre sossopra la nazione. Noi stessi lʼabbiamo veduta agitarsi quasi fino alla insania peʼ torti fatti alla Regina Carolina. È quindi probabile che quando anche al processo contro i vescovi non fosse stato annesso un grande interesse politico e religioso, la Inghilterra non avrebbe veduto, senza sentirsi fortemente mossa ad ira e pietà, sette vegliardi di intemerata virtù perseguitati dalla vendetta dʼun temerario ed inesorabile Principe, il quale doveva alla fedeltà loro la Corona chʼegli portava. Animati da cosiffatti sentimenti, i nostri antichi ordinaronsi in vasta e stretta falange contro il Governo. Comprendeva tutti i Protestanti di qual si fosse grado, partito o setta. Nella vanguardia stavano i Lordi spirituali e secolari. Li seguivano i gentiluomini possidenti e il clero, entrambe le Università, tutte le corti di giustizia, i mercanti, i bottegaj, i fattori, i facchini delle grandi città, i contadini che lavoravano la terra. La lega contro il Re comprendeva gli ufficiali che comandavano sulle navi, le sentinelle che guardavano il suo palazzo. I nomi di Whig e di Tory furono per un momento posti in oblio. Il vecchio Esclusionista stringeva la mano al vecchio abborrente. Episcopali, Presbiteriani, Indipendenti, Battisti dimenticarono le loro lunghe contese, per ricordarsi soltanto della comune fede protestante e del pericolo comune. I teologi educati nella scuola di Laud parlavano a voce alta non solo di tolleranza, ma di comprensione. Lo Arcivescovo poco dopo dʼessere stato assoluto pubblicò certa lettera pastorale che è uno dei più notevoli componimenti di quella età. Fino dagli anni suoi primi aveva combattuto contro i Non–Conformisti, e gli aveva più volte assaliti con ingiusta e poco cristiana acrimonia. La sua principale opera era indecente caricatura della teologia calvinista.[409] Aveva composto pei dì 14 gennaio e 29 maggio certe preci, le quali toccavano deʼ Puritani con parole sì ostili, che il Governo aveva reputato necessario temperarle. Ma adesso il suo cuore si era addolcito ed aperto. Solennemente ingiunse ai Vescovi e al clero, usassero estrema benevolenza ai loro confratelli Dissenzienti, li visitassero spesso, ospitalmente li trattassero, cortesemente con essi conversassero, gli persuadessero, se fosse possibile, ad uniformarsi alla Chiesa Anglicana; ma se non fosse possibile, si congiungessero loro con sincero e cordiale affetto a propugnare la benedetta causa della Riforma.[410] Molti uomini pii negli anni susseguenti ripensavano con amaro desiderio a quellʼepoca. La dipingevano come la breve alba di una età dʼoro fra due età di ferro. Tali lamenti, comecchè fossero naturali, non erano ragionevoli. La coalizione del 1688 nacque, e potè nascere, solo dalla tirannide chʼera quasi frenesia, e dal pericolo che minacciava a un tempo tutte le grandi istituzioni del paese. Se poscia non vi è stata mai una somigliante colleganza, egli è perchè non vi è mai stato simile pessimo governo. È mestieri rammentare, che quantunque la concordia sia in sè migliore della discordia, la discordia può indicare un migliore cammino di quello che indichi la concordia. Le calamità e i pericoli soventi volte stringono gli uomini a collegarsi. La prosperità e la sicurezza spesso gli spingono a separarsi. CAPITOLO NONO. SOMMARIO. I. Mutamento nellʼopinione deʼ Tory circa la legalità della Resistenza.—II. Russell propone al Principe dʼOrange uno sbarco in Inghilterra.—III. Enrico Sidney.—IV. Devonshire; Shrewsbury; Halifax.—V. Danby.—VI. Il Vescovo Compton—VII. Nottingham; Lumley—VIII. Invito mandato a Guglielmo.—IX. Condotta di Maria.—X. Difficoltà della impresa di Guglielmo.—XI. Condotta di Giacomo dopo il Processo dei Vescovi.—XII. Destituzioni e Promozioni.—XIII. Procedimenti nellʼAlta Commissione; Spart rinunzia al suo ufficio.—XIV Malcontento del Clero; Affari dʼOxford.—XV. Malcontento deʼ Gentiluomini.—XVI. Malcontento dello Esercito.—XVII. Arrivo delle truppe Irlandesi; indignazione pubblica.—XVIII. Lillibullero—XIX. Politica delle Provincie Unite.—XX. Errori del Re di Francia.—XXI. Sua contesa col Papa rispetto alle Franchigie.—XXII. Lo Arcivescovato di Colonia.—XXIII. Destrezza di Guglielmo—XXIV. Suoi apparecchi militari e navali.—XXV. Gli giungono dalla Inghilterra numerose assicurazioni di soccorso.—XXVI. Sunderland.—XXVII. Ansietà di Guglielmo; Ammonimenti dati a Giacomo.—XXVIII. Sforzi di Luigi per salvare Giacomo.—XXIX. Giacomo li rende vani.—XXX. Le armi francesi invadono la Germania.—XXXI. Guglielmo ottiene la Sanzione degli Stati Generali alla sua impresa.—XXXII. Schomberg; Avventurieri Inglesi allʼAja.—XXXIII. Manifesto di Guglielmo—XXXIV. Giacomo si scuote alla presenza del pericolo; suoi mezzi marittimi.—XXXV. Suoi mezzi militari.—XXXVI. Tenta di rendersi benevoli i sudditi.—XXXVII. Dà udienza ai Vescovi.—XXXVIII. Le sue concessioni sono mal ricevute.—XXXIX. Prove della nascita del Principe di Galles presentate al Consiglio Privato.—XL. Disgrazia di Sunderland.—XLI. Guglielmo prende commiato dagli Stati dʼOlanda.—XLII. Sʼimbarca, fa vela, ed è ricacciato addietro da una tempesta.—XLIII. Il suo Manifesto giunge in Inghilterra; Giacomo interroga i Lordi.—XLIV. Guglielmo fa vela di nuovo.—XLV. Passa lo Stretto.—XLVI. Approda a Torbay.—XLVII. Entra in Exeter.—XLVIII. Colloquio del Re coi Vescovi.—XLIX. Tumulti in Londra.—L. Uomini dʼalto grado cominciano ad accorrere al Principe.—LI. Lovelace.—LII. Colchester; Abingdon.—LIII Diserzione di Cornbury.—LIV. petizione deʼ Lordi per la convocazione del Parlamento.—LV. Il Re va a Salisbury.—LVI. Seymour; Corte di Guglielmo in Exeter.—LVII. Insurrezione nelle Contrade Settentrionali.—LVIII. Scaramuccia in Wincanton.—LIX. Diserzione di Churchill e di Grafton—LX. Lo esercito regio si ritira da Salisbury.—LXI. Diserzione del Principe Giorgio e di Ormond.—LXII. Fuga della Principessa Anna.—LXIII. Giacomo convoca un Consiglio di Lordi.—LXIV. Nomina una Commissione per trattare con Guglielmo—LXV. È una finzione.—LXVI. Dartmouth ricusa di mandare il Principe di Galles in Francia.—LXVII. Agitazione di Londra.—LXVIII. Proclama apocrifo.—LXIX. Insurrezione in varie parti del paese.—LXX. Clarendon si reca presso il Principe in Salisbury; Dissenzione nel campo del Principe.—LXXI. Il Principe giunge a Hungerford; Scaramuccia in Reading; La Commissione del Re arriva a Hungerford.—LXXII. Negoziati.—LXXIII. La Regina e il Principe di Galles sono mandati in Francia; Lauzun.—LXXIV. Il Re sʼapparecchia a fuggire.—LXXV. Sua fuga. I. Il processo vinto daʼ Vescovi non fu il solo evento che fa del giorno decimoterzo di giugno 1688 una grande epoca nella storia. In quel dì, mentre le campane di cento chiese sonavano a festa, mentre numerose turbe di popolo affaccendavansi da Hyde–Park a Mile–End a fare fuochi di gioia ed ardere le immagini del Papa per celebrare la memoranda notte, fu spedito da Londra allʼAja un documento quasi quanto la _Magna Charta_ importantissimo alle libertà della Inghilterra. La persecuzione deʼ Vescovi, e la nascita del Principe di Galles avevano prodotto un grande rivolgimento nellʼopinione di molti Tory. Nel momento stesso, in cui la loro Chiesa pativa gli ultimi eccessi di danno e dʼinsulto, vedevansi costretti a perdere ogni speranza di pacifica liberazione. Fino allora sʼerano lusingati che la prova alla quale era stata posta la lealtà loro, quantunque severa, sarebbe temporanea, e che alle loro doglianze, verrebbe resa giustizia senza che si rompesse il corso ordinario della successione al trono. Adesso ravvisavano le cose in modo assai diverso. Per quanto potessero addentrare lo sguardo nel futuro, altro non vedevano che il mal governo degli ultimi tre anni prolungarsi a tempo indefinito. La cuna dello erede presuntivo della Corona era circondata di Gesuiti; i quali con sommo studio gli avrebbero nella mente infantile istillato odio mortale contro quella Chiesa di cui un giorno ei sarebbe stato capo, odio ispiratore di tutta la sua vita, e chʼegli avrebbe trasmesso ai suoi successori. A questo spettacolo di calamità non era confine; estendevasi al di là della vita del più giovane deʼ viventi, al di là del secolo decimottavo. Nessuno avrebbe potuto asserire per quante generazioni i Protestanti sarebbero dannati a gemere sotto una oppressura, la quale, anche allorchè reputavasi breve, era stata quasi insopportabile. I più illustri fraʼ dottori anglicani di quellʼepoca avevano insegnato come nessuna infrazione di legge o di contratto, nessuno eccesso di crudeltà, di rapacità, di licenza, dalla parte del Re legittimo, bastasse a giustificare la resistenza che il popolo potrebbe opporre alla forza di lui. Taluni di loro sʼerano piaciuti di mostrare la dottrina della non–resistenza in una forma cotanto esagerata da scandalizzarne il buon senso del genere umano. Spesso e con veemenza notavano che Nerone era capo del Governo Romano, mentre San Paolo inculcava il debito dʼubbidire ai magistrati. La conseguenza che ne deducevano era, che se un Re inglese, senza autorità di legge ma a suo libito, perseguitasse i propri sudditi ripugnanti ad adorare gli idoli; se li gettasse fra mezzo ai leoni nella Torre; se, coprendoli dʼuna veste di pece, gli bruciasse per illuminare il Parco di San Giacomo, e procedesse con siffatte stragi fino a lasciare intere città e Contee senza un solo abitante, i sopravviventi sarebbero tuttavia tenuti a sottomettersi, e lasciarsi sbranare o arrostire vivi senza opporre la più lieve resistenza. Gli argomenti addotti a sostenere cotesta sentenza erano futilissimi; ma al difetto di solidi argomenti suppliva lʼonnipotente sofisticare dello interesse e della passione. Molti scrittori si sono maravigliati che gli alteri Cavalieri dʼInghilterra potessero mostrarsi caldi difensori per la più servile dottrina che sia mai stata fra gli uomini. Vero è che essa in principio era pel Cavaliere tuttʼaltro che servile; per lʼopposto tendeva a renderlo non schiavo, ma libero e signore di sè; lo esaltava esaltando il Re chʼegli considerava suo protettore, suo amico, e capo del suo diletto partito e della sua dilettissima Chiesa. Mentre i Repubblicani dominavano, il Realista aveva sofferto danni ed insulti, deʼ quali, mercè la restaurazione del governo legittimo, egli aveva potuto prendersi la rivincita. Nella sua mente quindi la idea della ribellione richiamava quella di degradazione e servaggio, e la idea di autorità monarchica, quella di libertà e predominio. Non gli era mai venuto in capo che potesse giungere il tempo in cui un Re, uno Stuardo, perseguiterebbe i più leali del clero e deʼ gentiluomini con animosità maggiore di quella Coda del Parlamento e del protettore. Eppure siffatto tempo era giunto. Adesso era da vedersi con che modo la pazienza che gli aderenti della Chiesa confessavano dʼavere imparata negli scritti di San Paolo resisterebbe alla prova dʼuna persecuzione da non paragonarsi alla severissima di Nerone. Lo evento fu tale che ciascuno, il quale per poco conoscesse la natura umana, avrebbe di leggieri predetto. Lʼoppressione fece sollecitamente ciò che la filosofia e la eloquenza non avevano potuto fare. Il sistema di Filmer avrebbe potuto sopravvivere agli assalti di Locke: ma non si riebbe mai dal colpo mortale datogli da Giacomo. Quella logica, la quale, mentre veniva adoperata a provare che i Presbiteriani e glʼIndipendenti avrebbero dovuto sopportare mansuetamente la prigione e la confisca, era stata giudicala tale da non ammettere risposta, parve di pochissimo peso allorquando fu questione di sapere se i Vescovi Anglicani dovevano essere imprigionati, e le rendite deʼ Collegi Anglicani confiscate. Era stato soventi volte ripetuto daʼ pergami di tutte le cattedrali del paese, che il precetto apostolico di obbedire ai magistrati civili fosse assoluto ed universale, e che fosse empia presunzione nellʼuomo il volere limitare un precetto al quale non aveva posto limite alcuno la parola di Dio. E nondimeno adesso i teologi, la cui sagacità stimolavano glʼimminenti pericoli neʼ quali trovavansi di essere privati deʼ loro benefizi e prebende per fare posto ai papisti, trovavano vizioso il ragionamento dianzi reputato convincentissimo. La morale della scrittura non era da interpretarsi come gli Atti del Parlamento, o i trattati deʼ casisti delle scuole. E davvero chi deʼ cristiani porse mai la guancia sinistra al malfattore che lo aveva percosso nella destra? Chi deʼ cristiani diede mai il suo mantello ai ladri che gli avevano rubato la veste? Sì nel Vecchio che nel Nuovo Testamento le regole generali erano sempre scritte senza eccezioni. A moʼ dʼesempio, il precetto generale di non uccidere non era accompagnato dalla eccezione che giustifica il guerriero che uccida altri a difesa del suo Re e della sua patria. Il generale precetto di non giurare non era accompagnato da nessuna eccezione a favore del testimonio che giuri di dire il vero dinanzi ai giudici. E nondimeno la legalità della guerra difensiva e del giuramento giudiciale era impugnata solo da pochi oscuri settari, e positivamente affermata negli articoli della Chiesa Anglicana. Tutti gli argomenti i quali dimostravano che il Quacquero, ricusando di servire nella milizia o di baciare il Vangelo, era irragionevole e perverso, potevan rivolgersi contro coloro che negavano ai sudditi il diritto di resistere con la forza alla eccessiva tirannia. Se ammettevasi che le autorità bibliche che proibivano lʼomicidio e quelle che proibivano il giuramento, comunque espresse in forma generale, dovevano essere interpretate in subordinazione al gran comandamento che ingiunge ad ogni uomo il debito di promuovere il bene del prossimo, e siffattamente interpretate non si trovavano applicabili ai casi in cui lʼomicidio e il giuramento potrebbe essere assolutamente necessario a proteggere i più gravi interessi della società, non era agevole negare che le autorità bibliche che inibivano la resistenza si dovessero interpretare nel modo medesimo. Se allo antico popolo di Dio era stato talvolta ordinato di distruggere la vita umana e tal altra dʼobbligarsi per sacramento, talvolta gli era stato anche ordinato di resistere ai principi malvagi. Se i primitivi Padri della Chiesa avevano in varie occasioni detto parole, che sembravano sottintendere la riprovazione della resistenza, avevano parimente in altre occasioni usato parole che sembravano sottintendere la riprovazione dʼogni guerra e dʼogni giuramento. E veramente la dottrina della obbedienza passiva, quale insegnavasi in Oxford sotto il regno di Carlo II, può dedursi dalla Bibbia soltanto con un modo dʼinterpretazione che irresistibilmente ci condurrebbe alle conclusioni di Barclay e di Penn. Eʼ non era solo per mezzo degli argomenti tratti dalla lettera delle Sante Scritture che i teologi anglicani, negli anni che immediatamente seguirono alla Restaurazione, si studiavano di provare la loro prediletta dottrina. Aveano tentato dimostrare, che, quando anche la rivelazione non avesse parlato, la ragione avrebbe insegnato ai savi uomini essere iniqua e insana ogni resistenza al Governo stabilito. Universalmente ammettevasi che cosiffatta resistenza, tranne nei casi estremi, non era giustificabile. Ma chi avrebbe osato stabilire il confine fra i casi estremi e gli ordinari? Vʼera egli governo al mondo sotto cui non fossero malcontenti e faziosi i quali potessero dire, e forse pensare, che le loro doglianze costituissero un caso estremo? Se fosse stato possibile stabilire una regola chiara ed esatta che inibisse agli uomini di ribellarsi contro Trajano, e ad un tempo desse loro libertà di ribellarsi contro Caligola, tale regola sarebbe stata sommamente benefica. Ma siffatta regola non vʼè stata nè vi sarà mai. Dire che la ribellione fosse legittima, date certe circostanze, senza esattamente definirle, era come si dicesse che a ciascuno era lecito ribellarsi tutte le volte che lo reputasse opportuno; ed una società nella quale ciascuno potesse ribellarsi ogni qual volta lo reputasse opportuno, sarebbe più infelice dʼuna società governata dal più crudele e sfrenato despota. Era quindi mestieri di mantenere in tutta la sua interezza il gran principio della non–resistenza. Forse potevano addursi casi peculiari neʼ quali la resistenza tornasse utile ad un popolo: ma generalmente era meglio che un popolo tollerasse con pazienza un cattivo governo, anzi che alleggiarsi violando una legge dalla quale dipendeva la sicurtà dʼogni governo. Cotesti ragionamenti di leggieri potevano persuadere un partito dominante e felice, ma non potevano sostenere lo esame di cervelli fortemente concitati dalla ingiustizia e ingratitudine del principe. Egli è vero che è impossibile stabilire lo esatto confine fra la resistenza legittima e la illegittima: ma tale impossibilità sorge dalla natura stessa del diritto e del torto, e si trova pressochè in ciascuna parte della Scienza Morale. Una buona azione non è distinta da una cattiva coi segni chiari che distinguono una figura esagona da una quadra. Vʼè un punto in cui la virtù e il vizio si confondono insieme. E chi ha potuto mai additare con esattezza il limite tra il coraggio e la temerità, tra la prudenza e la codardia, tra la liberalità e la prodigalità? Chi ha potuto mai dire fino a che punto debba giungere la mercè verso gli offensori, e quando cessi di meritare tal nome e diventi perniciosa debolezza? Quale casista o legislatore ha potuto mai rettamente definire i confini del diritto della propria difesa? Tutti i nostri giureconsulti sostengono che una certa misura di pericolo di vita o di perdita di membra giustifica un uomo ad uccidere lʼaggressore: ma hanno disperato di poter descrivere con precisi vocaboli, quanta e quale debba essere la misura del pericolo. Dicono soltanto che non debba essere lieve pericolo; ma un pericolo tale che dia grave timore ad un uomo di spirito fermo; e chi oserebbe dire quale sia questo timore che meriti dʼessere chiamato grave, o qual sia la precisa tempra dello spirito che meriti il nome di fermo? Senza dubbio è cosa increscevole che lʼindole deʼ vocaboli e quella delle cose non ammettano leggi più accurate: nè è da negarsi che male possono operare gli uomini qualvolta sono giudici in causa propria, e procedere con subito impeto alla esecuzione del proprio giudicio. E nulladimeno chi per ciò interdirebbe la propria difesa? Il diritto che ha un popolo di resistere ad un cattivo governo, ha stretta analogia col diritto che un individuo, privo di protezione legale, ha ad uccidere lo aggressore. In ambi i casi il male deve essere grave. In ambi i casi ogni regolare e pacifico modo di difesa deve essere esaurito pria che la parte offesa si appigli ad un partito estremo. In ambi i casi sʼincorre in terribile responsabilità. In ambi i casi la prova grava sulla coscienza di colui che sʼappiglia ad uno espediente sì disperato; ed ove non riesca a difendersi, va giustamente soggetto alla più severe pene. Ma in nessun caso potremmo assolutamente negare la esistenza del diritto. Un uomo aggredito dagli assassini, non è tenuto a lasciarsi torturare o scannare senza far uso delle proprie armi per la ragione che nessuno ha mai potuto con precisione definire la misura del pericolo che giustifica lʼomicidio. Nè una società è tenuta a sopportare passivamente gli eccessi della tirannide per la ragione che nessuno ha mai potuto precisamente definire la misura del mal governo che giustifica la ribellione. Ma poteva ella la resistenza degli Inglesi ad un principe quale era Giacomo chiamarsi propriamente ribellione? Egli è vero che i migliori discepoli di Filmer sostenevano non esservi differenza veruna tra lʼordinamento politico della patria nostra e quello della Turchia, e che se il Re non confiscava il contenuto di tutte le casse che erano in Lombard–Street, e non mandava i muti a recare il capestro a Sancroft e ad Halifax, ciò era solo perchè egli era sì benigno da non usare tutta la potestà datagli da Dio. Ma la maggior parte deʼ Tory, quantunque nel fervore del conflitto potessero adoperare parole che sembrassero approvare coteste enormi dottrine, abborrivano cordialmente il dispotismo. Agli occhi loro il governo inglese era una monarchia limitata. E come potrebbe chiamarsi limitata una monarchia ove non si possa mai, nè anche come unico ed estremo mezzo, adoperare la forza a fine di mantenere tali limitazioni? In Moscovia, dove per virtù della costituzione dello Stato il sovrano era assoluto, poteva con qualche apparenza di vero sostenersi che, per qualunque eccesso egli commettesse, aveva diritto, giusta i principii della religione cristiana, ad essere obbedito daʼ suoi sudditi. Ma tra noi principe e popolo erano vicendevolmente vincolati dalle leggi. Giacomo adunque era colui il quale rendevasi meritevole del castigo minacciato a coloro che insultassero la potestà costituita. Giacomo era colui che resisteva ai comandamenti di Dio; che ricalcitrava contro lʼautorità legittima, alla quale doveva sottoporsi, non solo per timore, ma per coscienza, e che, secondo il vero senso delle parole di Cristo, non rendeva a Cesare ciò che era di Cesare. Mossi da simiglianti considerazioni, i più illustri e savi fra i Tory incominciarono ad accorgersi dʼavere troppo stiracchiata la dottrina della obbedienza passiva. La differenza fra costoro e i Whig rispetto agli obblighi vicendevoli del Re e dei sudditi cessò allora dʼessere una differenza di principio. Certo rimanevano per anche molte storielle controversie tra il partito che da lungo tempo aveva propugnato la legalità della resistenza e i nuovi convertiti. La memoria del Martire beato seguitava ad essere quanto mai riverita da queʼ vecchi Cavalieri, i quali erano pronti a impugnare le armi contro il degenere figlio, e seguitavano ad abborrire il Lungo Parlamento, la Congiura di Rye House, e la insurrezione delle contrade Occidentali. Ma non ostante i loro pensamenti intorno al passato, il modo onde ravvisavano il presente era identico a quello deʼ Whig: imperocchè ammettevano che la estrema oppressione potesse giustificare la resistenza, ed affermavano che la oppressione, sotto la quale la nazione allora gemeva, era estrema.[411] Nulladimeno non è da supporsi che tutti i Tory, anche in quelle circostanze, abbandonassero un domma che fino da fanciulli avevano imparato a considerare come parte essenziale della dottrina cristiana, che avevano per molti anni con veemente ostentazione professato, e tentato di propagare per mezzo della persecuzione. Molti manteneva fermi nei principii loro la coscienza, e molti il rossore. Ma la maggior parte, anche di coloro che seguitavano tuttavia a credere illegale ogni resistenza al sovrano, inchinavano, nel caso dʼun conflitto civile, a tenersi neutrali. Nessuna provocazione gli avrebbe tratti a ribellare: ma ove la ribellione scoppiasse, non sembra che si reputassero tenuti a combattere per Giacomo II come avevano combattuto per Carlo I. Ai Cristiani di Roma San Paolo aveva inibito di fare resistenza al governo di Nerone: ma non vʼera ragione a credere che lo Apostolo, se fosse stato vivo allorquando le legioni e il Senato insorsero contro quel malvagio imperatore, avrebbe comandato aʼ suoi confratelli di correre in armi a difesa della tirannide. Il dovere della Chiesa perseguitata era manifesto: soffrire con pazienza e porre la propria causa nelle mani di Dio. Ma se a Dio, la cui provvidenza suscita perpetuamente il bene dal male, piacesse, come soventi volte gli era piaciuto, di rimediare ai danni per mezzo di tali le cui tristi passioni la Chiesa coʼ suoi ammonimenti non aveva potuto mansuefare, essa poteva con gratitudine accettare da Dio la liberazione, che a lei, secondo le sue dottrine, non era concesso di compiere da sè. E però molti deʼ Tory, i quali tuttavia abborrivano da ogni pensiero di aggredire il Governo, non erano minimamente inchinevoli a difenderlo, e forse, mentre gloriavansi deʼ loro scrupoli, in cuor loro godevano che altri non fosse come essi scrupoloso. I Whig sʼaccôrsero che il tempo per loro era arrivato. La questione se dovessero snudare la spada contro il governo era stata per sei o sette anni pretta questione di prudenza; e adesso la prudenza stessa glʼincitava ad appigliarsi a più audaci partiti. II. Nel maggio, innanzi al nascimento del Principe di Galles, e mentre era tuttavia incerto se la Dichiarazione dʼIndulgenza sarebbe o non sarebbe letta nelle chiese, Eduardo Russell era andato allʼAja. Aveva con vivi colori rappresentato al principe lo stato del pubblico sentire, e lo aveva consigliato a mostrarsi in Inghilterra capo dʼuna forte schiera di soldati, e chiamare il popolo alle armi. Guglielmo ad un solo sguardo conobbe la importanza della crisi. «O adesso o mai,» disse in latino a Dikwelt.[412] Con Russell tenne parole più misurate, riconobbe i mali dello Stato essere tali da richiedere straordinario rimedio, ma parlò calorosamente del caso dʼun esito sinistro, e delle calamità che da ciò ne verrebbero alla Gran Brettagna e alla Europa. Sapeva bene che coloro i quali parlavano con sonanti paroloni di sacrificare vita e roba pel bene della patria esiterebbero ove si presentasse alle loro menti lo spettacolo dʼun altro Tribunale di Sangue. Per la qual cosa a lui bisognavano non vaghe proteste di buon volere, ma inviti chiari e promesse esplicite di appoggio, munite della firma di potenti e cospicui uomini. Russell gli fece notare come fosse pericoloso affidare il disegno a un gran numero di persone. Guglielmo ne convenne, e disse bastargli poche firme, purchè fossero dʼuomini di Stato rappresentanti di grandi interessi.[413] III. Con tale risposta Russell fece ritorno a Londra dove trovò il pubblico concitamento maggiore e sempre crescente. La carcerazione deʼ vescovi e il parto della Regina resero lʼopera di lui più agevole di quello chʼegli aveva presupposto. Non perdè tempo a raccogliere i voti deʼ capi della opposizione, avendo a principale coadiutore Enrico Sidney fratello dʼAlgernon. È da notarsi che Eduardo Russell ed Enrico Sidney erano stati addetti alla famiglia di Giacomo; che entrambi, in parte per private e in parte per pubbliche cagioni, gli divennero nemici; e che entrambi avevano da vendicare il sangue deʼ congiunti, i quali, lʼanno stesso, erano caduti vittime della implacabile ferocia del tiranno. Qui finisce ogni somiglianza tra loro. Russell, fornito di non poca abilità, era orgoglioso, virulento, irrequieto, e violento. Sidney, dotato dʼindole dolce e dʼamabilissimi modi, sembrava difettare di capacità e di sapere, e starsi immerso nella voluttà e nellʼindolenza. Era assai bello di viso e di persona. In gioventù era stato il terrore deʼ mariti, ed anche adesso che toccava quasi cinquanta anni, era il prediletto delle donne e lo invidiato daʼ giovani. Per innanzi era stato allʼAja con un pubblico ufficio, ed erasi acquistato in larga misura la confidenza di Guglielmo. Molti ne maravigliavano: imperciocchè eʼ sembrava che tra il più austero degli uomini di Stato e il più dissoluto degli oziosi non vi potesse essere nulla di comune. Swift, molti anni dopo, non poteva persuadersi in che modo un uomo, chʼegli aveva conosciuto solo come un vecchio libertino, frivolo e privo di lettere, avesse veramente avuto tanta parte in una grande rivoluzione. Nondimeno un ingegno meno acuto di Swift si sarebbe potuto accorgere che nellʼindole umana esiste un certo tatto, somiglievole ad un istinto, che spesso manca ai grandi oratori e ai filosofi, e che spesso si trova in individui, i quali, ove si giudichino dal conversare e dagli scritti loro, si reputerebbero semplicioni. E davvero quando un uomo possiede cotesto tatto, in un certo senso gli torna utile lʼessere privo di quelle doti più appariscenti che lo renderebbero oggetto di ammirazione, dʼinvidia, e di timore. Sidney è un notevolissimo esempio di questa verità. Poco capace, ignorante, e dissoluto come pareva essere, intendeva, o per dire meglio, sentiva con chi era necessario tenersi in riserbo, e con chi liberamente e con securtà comunicare. Per la qual cosa egli compì ciò che Mordaunt con tutta la sua vivacità ed immaginazione, o Burnet con tutta la sua svariata dottrina e fluida eloquenza, non avrebbero potuto mai fare.[414] IV. Coʼ vecchi Whig egli non poteva incontrare nessuna difficoltà; come quelli che opinavano non esservi stato in molti anni un solo momento, in cui i pubblici danni non giustificassero la resistenza. Devonshire, che poteva considerarsi loro capo, e che aveva torti privati e pubblici da vendicare, accolse con tutto il cuore il gran disegno e si fece mallevadore di tutto il suo partito.[415] Russell rivelò il secreto a Shrewsbury. Sidney saggiò Halifax. Shrewsbury assunse la parte sua con coraggio e risolutezza tali, che anni dopo parvero mancare al suo carattere. Tosto si profferì parato a porre a repentaglio roba, onori, e vita. Halifax allo incontro accolse i primi cenni della impresa in un modo da far temere che fosse inutile, e forse pericoloso parlargliene esplicitamente. Certo egli non era lʼuomo per una tanta impresa. Aveva intelletto inesauribilmente fecondo di distinzioni e dʼobiezioni, e indole tranquilla e repugnante alle avventure. Era pronto ad avversare la Corte fino allo estremo nella Camera deʼ Lordi e con scritti anonimi, ma poco disposto a cangiare i suoi ozi signorili per la mal sicura ed agitata vita di cospiratore, a porsi nelle mani deʼ complici, a vivere in perenne timore dello arrivo dʼun mandato dʼarresto e deʼ regii messaggieri, e forse anco di finire i suoi giorni sul palco, o di vivere accattando in qualche appartata via dellʼAja. E però disse poche parole che chiaramente significavano la sua ripugnanza a conoscere le arcane intenzioni deʼ suoi più arditi e impetuosi amici. Sidney lo intese, e tacque.[416] V. Si rivolse quindi a Danby, ed ebbe miglior ventura. E veramente il pericolo e lo eccitamento, che riuscivano insoffribili alla mente di Halifax più delicatamente organizzata, erano dʼirresistibile fascino allo audace ed attivo spirito di Danby. I differenti caratteri di questi due uomini di Stato si leggevano neʼ loro visi. Il ciglio, lʼocchio e la bocca di Halifax indicavano un potente intelletto, e uno squisito senso di scherzo; ma la sua espressione era quella dʼuno scettico, dʼun voluttuoso, dʼun uomo ripugnante a rischiare tutto in una sola partita, o ad essere martire dʼun principio. Chi conosce le fattezze di Halifax non maraviglierà che sopra tutti gli scrittori egli si dilettasse di Montaigne.[417] Danby era uno scheletro; e la sua faccia scarna e solcata di rughe, benchè bella e nobile, esprimeva esattamente lʼacutezza della sua intelligenza e la sua irrequieta ambizione. Una volta ei si era già inalzato dalla oscurità ai fastigi del potere; ne era caduto a capofitto; aveva corso pericolo di vita; aveva passati degli anni in carcere; adesso era libero: ma ciò non lo appagava: egli ardeva di farsi nuovamente grande. Fedele alla Chiesa Anglicana, e ostile alla influenza francese, non poteva sperare di divenire grande in una Corte brulicante di Gesuiti ed ossequiosa alla Casa deʼ Borboni. Ma sʼegli fosse parte precipua dʼuna rivoluzione che farebbe svanire i disegni deʼ Papisti, che porrebbe fine al vassallaggio sotto il quale la Inghilterra da lunghi anni gemeva, e trasferirebbe la potestà regia a due anime illustri da lui unite in matrimonio, potrebbe risorgere dalla oscurità con nuovo splendore. I Whig, lʼanimosità deʼ quali, nove anni innanzi, lo aveva cacciato dallʼufficio, congiungerebbero, alla sua avventurata riapparizione, i loro applausi agli applausi deʼ Cavalieri suoi vecchi amici. Già egli sʼera pienamente riconciliato con uno deʼ precipui personaggi che lo avevano messo in istato dʼaccusa, cioè col conte di Devonshire. Entrambi si erano incontrati in un villaggio nel Peak, e sʼerano ricambiati assicurazioni di benevolenza. Devonshire aveva francamente confessato che i Whig erano rei dʼuna grande ingiustizia, ma aveva dichiarato che adesso confessavano dʼavere errato. Danby, dal canto suo, aveva qualche ritrattazione a fare. Un tempo aveva professato, o simulato di professare la dottrina dellʼobbedienza passiva nel senso più esteso del vocabolo. Mentre egli era ministro e con la sua sanzione era stata proposta una legge, la quale ove fosse stata approvata, avrebbe escluso dal Parlamento e dagli uffici chiunque avesse ricusato di dichiarare con giuramento la illegalità della resistenza. Ma il suo vigoroso intendimento, ora affatto desto per lʼansietà del bene pubblico e del proprio, non poteva lasciarsi ingannare, se pure lo avea mai fatto innanzi, da cotali fanciullesche fallacie. VI. Il perchè assentì, senza andirivieni, alla congiura, e sforzossi di trarvi dentro Compton Vescovo di Londra, già sospeso, e non incontrò difficoltà veruna a riuscirvi. Non vʼera prelato che al pari di Compton avesse patito la ingiustizia del Governo; nè vʼera prelato che potesse tanto sperare da un rivolgimento; imperciocchè egli aveva diretta la educazione della Principessa dʼOrange, e credevasi che ne avesse in larga misura la fiducia. Come i suoi confratelli egli, finchè non fu oppresso, aveva insegnato essere delitto resistere alla oppressione; ma dacchè gli fu forza appresentarsi allʼAlta Commissione, un nuovo raggio di luce scese a stenebrargli la mente. VII. Danby e Compton desideravano avere Nottingham compagno alla impresa. Gli apersero intieramente il disegno, e quei lo approvò. Ma dopo pochi giorni cominciò a sentirsi inquieto. Non aveva mente abbastanza forte da emanciparsi dai pregiudicii della educazione. Andò in giro da un teologo ad un altro proponendo loro con parole generali casi ipotetici di tirannia, e chiedendo se in simili casi la resistenza fosse legittima. Le risposte che nʼebbe accrebbero la irrequietudine dellʼanimo suo, finchè disse ai suoi complici di non potere andare più oltre con essi. Se lo stimavano capace di tradirli, potevano pugnalarlo, chè non gli avrebbe biasimati, imperocchè tirandosi indietro dopo essersi spinto tanto innanzi, aveva loro dato diritto sopra la sua vita. Gli assicurò nondimeno che non avevano nulla a temere da lui; chʼegli manterrebbe il segreto; desiderava loro prospera fortuna, ma la sua coscienza non gli consentiva di partecipare ad una ribellione. Ascoltarono siffatte parole con sospetto e con isdegno. Sidney, le cui idee intorno agli scrupoli di coscienza, erano estremamente vaghe, scrisse al Principe che Nottingham sʼera impaurito. È debito di giustizia, nondimeno, il confessare che tutta la vita di Nottingham fu tale che ci è forza credere la sua condotta in questa circostanza, quantunque poco savia e irresoluta, essere stata onestissima.[418] Gli agenti del Principe ebbero miglior ventura con Lord Lumley, il quale, non ostanti i grandi servigi da lui resi nel tempo della insurrezione delle Contrade Occidentali, sapeva dʼessere abborrito in Whitehall non solo come eretico, ma come rinnegato, e per ciò era più ardente che non fossero la maggior parte deʼ nati Protestanti, a prendere le armi in difesa del Protestantismo.[419] VIII. Nel mese di giugno le ragunanze deʼ congiurati furono frequenti; e fecero il passo decisivo nellʼultimo giorno del mese, in quel giorno stesso in che i Vescovi furono dichiarati innocenti. Spedirono allʼAja un invito formale ricopiato da Sidney, ma composto da qualcuno più esperto di lui nellʼarte di scrivere. In quel documento assicurano a Guglielmo che diciannove ventesimi del popolo inglese erano desiderosi di un mutamento, e coopererebbero ad effettuarlo solo che potessero ottenere di fuori il soccorso di una forza bastevole a impedire che coloro i quali corressero alle armi fossero dispersi e macellati innanzi che si potessero in un modo qualunque militarmente ordinare. Se Sua Altezza approdasse allʼisola accompagnato da una schiera di soldati, le genti a migliaia correrebbero a porsi sotto la sua bandiera; sì che bene presto si vedrebbe alla testa di forze assai superiori allo esercito regio dellʼInghilterra. Oltre di che il Governo non poteva implicitamente essere sicuro della obbedienza di cotesto esercito. Gli ufficiali erano malcontenti; e i soldati sentivano contro il papismo quella avversione che era comune a tutta la classe dalla quale erano stati presi. Nella flotta il sentimento protestante era anche più forte. Importava singolarmente fare un passo decisivo mentre le cose erano in tali condizioni. La impresa diverrebbe vie maggiormente ardua ove venisse differita fino a che il Re, riformando borghi e reggimenti, mettesse insieme un parlamento ed una armata sopra cui potesse riposare. I cospiratori, quindi, supplicavano il Principe di venire fra loro al più tosto possibile. Gli davano parola dʼonore che si sarebbero associati a lui; e imprendevano a trarre al partito tanto numero di persone da poterle impunemente rendere partecipi di un così grave e pericoloso secreto. Rispetto ad una sola cosa si credevano in debito di rimostrare con sua Altezza, cioè di non essersi giovato della opinione che la massima parte del popolo inglese aveva intorno al nascimento del regio infante, e dʼavere, invece, mandate congratulazioni a Whitehall, quasi sembrasse riconoscere che il neonato, che chiamavasi Principe di Galles, fosse il legittimo erede del trono. Ciò era un grave errore ed aveva intiepidito lo zelo nel cuore di molti. Nè anche una in mille persone dubitava che lo infante fosse un intruso; e il Principe tradirebbe i propri interessi ove le sospettose circostanze che avevano accompagnato il parto della Regina, non primeggiassero fra le ragioni che lo costringevano a prendere le armi.[420] Cotesto scritto fu firmato in cifra dai sette capi della congiura, Shrewsbury, Devonshire, Danby, Lumley, Compton, Russell e Sidney. Herbert si tolse il carico di messaggiero. Ed essendo la sua commissione pericolosissima, si travestì da semplice marinaio ed approdò sicuro in Olanda il dì dopo finito il processo deʼ Vescovi. Appresentossi sullʼistante al Principe; il quale, chiamati a sè Bentinck e Dykvelt, si stette con loro parecchi giorni a deliberare. Prima conseguenza di ciò fu che più non si leggesse nella cappella della Principessa la preghiera pel Principe di Galles.[421] IX. Dalla consorte Guglielmo non poteva temere veruna opposizione. Lo intelletto di Maria era stato pienamente soggiogato da quello di lui; e ciò che è più estraordinario, egli ne acquistò intieramente lo affetto. Egli le teneva luogo di genitori, da lei perduti per morte e per allontanamento, di figli che il cielo aveva negati alle sue preci, e di patria dalla quale ella era bandita. Nel cuore di lei Guglielmo divideva lo impero soltanto con Dio. Probabilmente non portò mai vero affetto al padre da lei lasciato nella prima giovinezza, e da lunghi anni non riveduto: oltrechè dopo il suo matrimonio, Giacomo non le aveva mostrato segni di tenerezza, nè si era condotto in modo da destare teneri sentimenti nel cuore della figlia. Anzi fece ogni possibile sforzo a perturbarle la felicità domestica stabilendo nella stessa casa di Maria un sistema di spionaggio, di sorveglianza e di chiacchiericcio. Egli possedeva entrate molto maggiori di quelle deʼ predecessori suoi, ed aveva assegnato alla figlia minore una provvisione annua di quarantamila lire sterline:[422] ma la erede presuntiva del suo trono non aveva mai ricevuto da lui il minimo soccorso pecuniario, ed appena aveva i mezzi di poter fare una convenevole comparsa fra le principesse dʼEuropa. Erasi provata ad intercedere appo lui a favore di Compton suo precettore ed amico, il quale, accusato di non avere voluto commettere un atto di flagrante ingiustizia, era stato sospeso dalle funzioni episcopali: ma era stata respinta con mala grazia.[423] Dal giorno in cui sʼera chiaramente conosciuto che ella e il marito erano deliberati di non partecipare alla distruzione della Costituzione inglese, uno deʼ fini precipui della politica di Giacomo era stato quello di nuocere ad entrambi. Aveva richiamate le milizie inglesi dalla Olanda, congiurato con Tyrconnel e con la Francia contro i diritti di Maria, ordito trame per privarla almeno dʼuna delle tre Corone, che, alla morte di lui, le spettavano. Adesso credevasi da quasi tutto il popolo e da molti personaggi alto locati per grado e per abilità, che egli avesse introdotto nella famiglia regale un Principe di Galles supposto, onde privare della magnifica eredità la figliuola; e non vʼè ragione a dubitare chʼessa non partecipasse al comune sospetto. Era dunque impossibile che amasse un cotal padre. I suoi principii religiosi, a dir vero, erano siffattamente rigidi che probabilmente si sarebbe provata a compiere quello che ella considerava suo dovere anche verso un padre da lei non amato. Nondimeno nelle presenti circostanze giudicò che il diritto di Giacomo ad essere obbedito doveva cedere ad un altro più sacro diritto. E veramente tutti i teologi e pubblicisti concordano ad affermare che quando la figlia del principe dʼun paese è congiunta in matrimonio al principe dʼun altro, è tenuta a dimenticare il suo popolo e la famiglia paterna, e nel caso dʼuna rottura tra il suo marito e i suoi parenti, associarsi alle sorti del marito. Questa è la regola incontrastabile anche ove il marito abbia torto; ed a Maria la impresa meditata da Guglielmo sembrava non solo giusta, ma santa. X. E quantunque ella con ogni cura sʼastenesse dal fare o dal dire la più lieve cosa che potesse accrescere le difficoltà del consorte, coteste difficoltà erano veramente gravi; erano poco intese anco da coloro che lo avevano invitato, e sono state imperfettamente esposte da coloro che hanno scritta la storia della sua espedizione. Gli ostacoli che doveva aspettarsi dʼincontrare in Inghilterra, comecchè fossero i meno formidabili fraʼ molti che attraversavano il suo disegno, erano tuttavia gravi. Accorgevasi che sarebbe stata demenza imitare lo esempio di Monmouth, traversare il mare con pochi avventurieri inglesi, e sperare in una generale insurrezione delle popolazioni. Era necessario—e lo avevano detto tutti coloro dai quali egli era stato invitato—di condurre seco unʼarmata. E, così facendo, chi risponderebbe dello effetto che potrebbe produrre la comparsa di cosiffatta armata? Il Governo era giustamente odiato: ma il popolo inglese, non avvezzo a vedere mai le Potenze continentali immischiarsi nelle cose dʼInghilterra, guarderebbe di buon occhio un liberatore che venisse circondato da soldati stranieri? Se parte delle regie milizie facesse risolutamente fronte aglʼinvasori, non desterebbero esse ben presto la simpatia di milioni? Una sconfitta sarebbe fatale alla impresa. Una vittoria sanguinosa riportata nel cuore dellʼisola daʼ mercenari degli Stati Generali sopra le Guardie e le altre milizie del Re, sarebbe calamità grave quasi al pari dʼuna sconfitta; sarebbe la più cruda ferita inflitta allʼorgoglio della più orgogliosa tra le nazioni. Il principe non avrebbe mai portata con pace e sicurezza una corona siffattamente acquistata. Lʼodio contro lʼAlta Commissione e i Gesuiti cederebbe il posto allʼodio più intenso che susciterebbero gli stranieri conquistatori; e molti che fino allora avevano sentito timore ed abborrimento per la Potenza francese, direbbero, che, ove fosse mestieri sopportare un giogo straniero, sarebbe minore ignominia sottoporsi alla Francia anzi che allʼOlanda. Tali considerazioni erano bastevoli a rendere inquieto lʼanimo di Guglielmo anche ove avesse potuto disporre di tutti i mezzi militari delle provincie Unite. Ma in verità pareva assai dubbio che ottenesse un solo battaglione. Tra tutte le difficoltà con le quali gli toccava lottare, la maggiore, benchè poco notata dagli Storici inglesi, sorgeva dalla costituzione stessa della Repubblica Batava. Nessuno Stato è mai esistito per lungo ordine dʼanni con un ordinamento politico egualmente inconvenevole. Gli Stati Generali non potevano fare guerra, pace, leghe, o imporre tasse senza il consenso degli Stati di ciascuna provincia. Gli Stati dʼuna provincia non potevano dare tale consenso senza quello di ogni municipio, che partecipava alla rappresentanza. Ciascun municipio, in un certo senso, era uno Stato sovrano, e come tale pretendeva al diritto di comunicare direttamente con gli Ambasciatori stranieri, e di stabilire con essi i mezzi a frustrare i disegni aʼ quali gli altri municipii intendevano. In alcuni Consigli municipali era potentissimo il partito che pel corso di varie generazioni sentiva gelosia della influenza dello Statoldero. Capi di questo partito erano i magistrati della nobile città dʼAmsterdam, la quale in queʼ tempi godeva della più grande prosperità. Dalla pace di Nimega in poi non avevano cessato mai di tenere amichevoli relazioni con Re Luigi per mezzo del suo esperto ed operoso ambasciatore il Conte dʼAvaux. Alcune proposte presentate dallo Statoldero come indispensabili alla sicurtà della Repubblica, sanzionate da tutte le provincie, tranne dagli Stati della Olanda, e sanzionate da diciassette deʼ diciotto Consigli municipali dʼOlanda, erano state più volte respinte dal solo voto dʼAmsterdam. Lʼunico rimedio costituzionale in simiglianti casi era quello di mandare i deputati delle città assenzienti alla città dissenziente onde fare una rimostranza. Il numero dei deputati era illimitato; potevano continuare a rimostrare per quanto tempo credessero necessario; e intanto la città che ostinavasi a non cedere ai loro ragionamenti era tenuta a mantenerli a sue spese. Questo modo assurdo di coartare era stato una volta sperimentato con esito prospero nella piccola città di Gorkum, ma non era verosimile che riuscisse efficace nella potente e ricca Amsterdam, famosa in tutto il mondo per i suoi bacini popolati di navi, i suoi canali circondati da vaste magioni, il sue maestoso palazzo governativo coperto da cima a fondo di peregrini marmi, i suoi magazzini ripieni dei più costosi prodotti di Ceylan e di Surinam, e la sua Borsa che perpetuamente risonava di tutti glʼidiomi parlati dalle nazioni civili.[424] Le contese tra la maggioranza che spalleggiava lo Statoldero, e la minoranza capitanata daʼ magistrati dʼAmsterdam erano più volte trascorse tanto oltre da far temere inevitabile lo spargimento del sangue. Una volta, il Principe tentò di punire come traditori i deputati disubbidienti; unʼaltra, le porte dʼAmsterdam gli vennero chiuse in faccia, e si fecero leve di milizie per difendere i privilegi del Consiglio Municipale. E però non era verosimile che i rettori di quella grande città consentissero ad una impresa grandemente offensiva a Luigi da essi cotanto corteggiato, impresa che probabilmente ingrandirebbe la Casa dʼOrange da essi abborrita. Nulladimeno senza cotesto consenso la impresa non poteva legalmente eseguirsi. Vincere con la forza la opposizione loro, era un partito al quale, in circostanze diverse, lʼinflessibile e audace Statoldero non avrebbe sdegnato dʼappigliarsi. Ma in quel momento egli era importantissimo schivare con sommo studio ogni atto che avesse sembianza di tirannesco. Non poteva rischiarsi a violare le leggi fondamentali della Olanda nellʼistante medesimo in cui egli era per isnudare la spada contro il suocero che violava le leggi fondamentali della Inghilterra. Il rovesciare con violenza una libera Costituzione sarebbe stato uno strano preludio a ristabilirne violentemente unʼaltra.[425] E vʼera anche unʼaltra difficoltà, pochissimo notata dagli scrittori inglesi, alla quale Guglielmo teneva sempre fitta la mente. Nella spedizione che egli meditava, poteva aver prospero successo solamente appellandosi al sentimento protestante dellʼInghilterra, e stimolandolo finchè divenisse, per un certo tempo, il dominante e quasi esclusivo sentimento della nazione. Ciò sarebbe stato agevolissimo qualora lo scopo di tutta la sua politica fosse stato di produrre un rivolgimento nella isola nostra e regnarvi. Ma contemplava un altro fine chʼegli poteva conseguire con lo aiuto deʼ principi, sinceri credenti nella Chiesa di Roma. Voleva congiungere lo Impero, il Re Cattolico, e la Santa Sede insieme con lʼInghilterra e la Olanda in una lega contro la preponderanza francese. Era quindi mestieri che, mentre vibrava il più gran colpo che fosse mai dato in difesa del protestantismo, si studiasse a non perdere il buon volere di queʼ Governi che consideravano il protestantismo come mortale eresia. Erano coteste le complicate difficoltà della grande impresa. Gli statisti del continente ne vedevano una parte; gli Inglesi unʼaltra. Solo una mente vasta e vigorosa le comprese tutte, e deliberò di vincerle. Non era agevole rovesciare il Governo inglese per mezzo dʼunʼarmata straniera senza offendere lʼorgoglio nazionale degli Inglesi. Non era agevole ottenere dalla fazione Batava, partigiana della Francia e avversa alla Casa dʼOrange, il consenso ad una impresa che distruggerebbe tutti i disegni della Francia e inalzerebbe a grandezza la Casa dʼOrange. Non era agevole condurre i Protestanti entusiasti in una crociata contro il Papismo col plauso di quasi tutti i governi papisti e del Papa stesso. E nondimeno Guglielmo compiè tutte le sopradette cose. Tutti i suoi fini, anche quelli che sembravano singolarmente incompatibili fra loro, egli raggiunse pienamente e a un tratto. Le storie degli antichi e deʼ moderni tempi non ricordano un simile trionfo di sapienza politica. Lʼopera sarebbe veramente stata difficile anche per un uomo di Stato qual era il Principe dʼOrange, ove i suoi precipui oppositori non si fossero trovati in preda ad unʼebbrezza tale che da molti, non inchinevoli alla superstizione, fu attribuita a singolare giudizio di Dio. Il Re dʼInghilterra non solo fu, come era sempre stato, stupido e testardo: ma perfino i consigli dello astuto Re di Francia parvero dettati dalla insania. Guglielmo fece ogni sforzo possibile di saviezza e dʼenergia. Ma i suoi nemici posero ogni studio a sgombrargli il terreno di quegli ostacoli cui nessuna saviezza od energia avrebbe potuto vincere. XI. Nel gran giorno in cui furono assoluti i Vescovi, e spedito lo invito allʼAja, Giacomo, tristo ed agitato, da Hounslow fece ritorno a Westminster. E non ostante che si sforzasse di mostrarsi in lieto aspetto,[426] i fuochi di gioia, le bombe, e soprattutto il bruciamento delle immagini del Papa in ogni quartiere di Londra non erano cose da addolcirgli lʼanimo. Coloro che lo avevano veduto la mattina, poterono leggergli nel viso e nel portamento le violente emozioni che gli perturbavano la mente.[427] Per varii giorni parve così ripugnante a parlare del processo, che nè anco Barillon potè rischiarsi a fargliene motto.[428] Tosto cominciò a farsi manifesto come la sconfitta e la mortificazione avessero indurito il cuore del Re. Le prime parole che egli profferì appena seppe che le vittime erano campate dagli artigli della sua vendetta, furono: «Peggio per loro!» In pochi giorni chiaramente si vide quale fosse il significato di coteste parole, da lui, secondo il costume, ripetute molte volte. Accusava sè stesso non dʼavere perseguito i Vescovi, ma dʼaverlo fatto dinanzi a un tribunale, dove le questioni di fatto erano decise dai giurati, e dove i principii stabiliti dalla legge non potevano porsi in non cale nemmeno daʼ giudici più servili. Deliberò adunque di rimediare a tanto errore. Non solo i sette prelati che avevano firmata la petizione, ma tutto il Clero Anglicano avrebbero ragione di maledire quel giorno in cui avevano riportato vittoria sopra il loro sovrano. Circa quindici giorni dopo il processo, fu emanato un ordine che ingiungeva a tutti i Cancellieri della Diocesi e a tutti gli Arcidiaconi di fare stretta inquisizione in tutti i luoghi soggetti alla giurisdizione loro, e riferire allʼAlta Commissione, entro cinque settimane, i nomi di queʼ rettori, vicari e curati, che avevano ricusato di leggere la Dichiarazione dʼIndulgenza.[429] Il Re godeva immaginando il terrore che sentirebbero i colpevoli vedendosi citati dinanzi ad un tribunale che loro non avrebbe dato quartiere.[430] Il numero deʼ rei era quasi, o senza quasi, dieci mila: e dopo ciò chʼera accaduto al Collegio della Maddalena, ciascuno di loro poteva a ragione aspettarsi dʼessere interdetto da tutte le sue funzioni spirituali, privato del suo benefizio, dichiarato incapace di occuparne qualunque altro, e obbligato a pagare le spese del processo che lo aveva ridotto a mendicare. XII. Tale era la persecuzione che Giacomo, fremente di rabbia per la sconfitta ricevuta a Westminster Hall, aveva pensato di far piombare sopra il clero. Intanto si provò di mostrare ai legali con una spicciativa distribuzione di premii e di castighi, che una intrepida e svergognata servilità anche con poco prospero esito, era argomento sicuro per meritarsi il regio favore; e chiunque, dopo anni di ossequiosità, si attentasse deviare dʼun attimo per far mostra di onestà o di coraggio, rendevasi reo dʼimperdonabile offesa. La violenza e lʼaudacia che lo apostata Williams aveva mostrato nel processo deʼ Vescovi lo aveva reso segno allʼodio della intera nazione.[431] Il re lo rimeritò col farlo baronetto. Holloway e Powell avevano scemata alquanto la propria infamia dichiarando che, secondo il loro giudizio, la petizione non era un libello. Il Re li destituì.[432] Le sorti di Wright sembrarono per qualche tempo ondeggiare nella incertezza. Nel riassunto chʼei fece della discussione sʼera mostrato avverso aʼ Vescovi: ma aveva tollerato che gli avvocati loro ponessero in questione la potestà di dispensare. Aveva detto che la petizione era un libello: ma a bello studio erasi astenuto dal chiamare legale la Dichiarazione; e per tutto il corso del processo il suo contegno era stato quello di chi ricordi che potrà giungere il giorno di renderne conto. A dir vero, egli era ben meritevole dʼindulgenza; imperocchè mal poteva aspettarsi che vi fosse al mondo impudenza tale da star salda senza traballare un momento al cospetto di tali giureconsulti e dʼun tanto uditorio. Nondimeno i membri della cabala gesuitica lo accusarono di pusillanimità; il Cancelliere gli dètte del somaro; ed era opinione generale che verrebbe nominato un nuovo Capo Giudice.[433] Ma non seguì nessun cangiamento. E davvero non sarebbe stata lieve impresa il supplire al posto di Wright. I molti giurati che erano a lui superiori per abilità e per dottrina, quasi senza nessuna eccezione, procedevano avversi ai disegni del Governo; e i pochi che lo vincevano per turpitudine e sfrontatezza, quasi senza nessuna eccezione, trovavansi solo negli infimi gradi del ceto legale, e sarebbero stati incompetenti a condurre gli affari ordinarii della Corte del Banco del Re. Egli è vero che Williams aveva tutte le qualità che Giacomo richiedeva in un magistrato; ma i suoi servigi erano necessari alla barra; e qualora lo avessero da quivi rimosso, la Corona sarebbe rimasta senza il concorso di un solo avvocato nè anche di terzo ordine. A nullʼaltra cosa il Re era rimasto attonito e mortificato quanto al vedere lo entusiasmo deʼ Dissenzienti nella causa deʼ Vescovi. Penn, il quale quantunque avesse sacrificato ricchezze ed onorificenze agli scrupoli della coscienza, sembrava immaginare che nessuno altri che lui avesse coscienza, attribuì il malcontento deʼ Puritani ad invidia e ad ambizione non appagata. Essi non avevano partecipato ai benefizi promessi loro dalla Dichiarazione dʼIndulgenza: nessuno di loro era stato elevato ad alti ed onorevoli uffici; per la qual cosa non era strano che fossero gelosi deʼ Cattolici Romani. Pochissimi giorni dopo finito il processo deʼ Vescovi, Silas Titus, cospicuo presbiteriano, virulento esclusionista, e uno degli accusatori di Stafford, fu invitato ad occupare un seggio nel Consiglio Privato. Egli era uno di coloro sopra i quali lʼopposizione con grande fiducia riposava. Ma la dignità offertagli, e la speranza di riavere una grossa somma di pecunia dovutagli dalla Corona, vinsero la sua virtù, e con estremo disgusto di tutti i Protestanti, prestò il giuramento.[434] XIII. I disegni vendicativi del Re contro la Chiesa non ebbero effetto. Quasi tutti gli Arcidiaconi e Cancellieri diocesani ricusarono di dare le richieste informazioni. Giunto il giorno che il Governo aveva stabilito a citare tutto il clero per render conto del delitto di disobbedienza, lʼAlta Commissione ragunossi, e trovò che quasi nessuno degli ufficiali ecclesiastici aveva trasmesso la relazione ordinata. Nel tempo stesso fu deposta sul Banco una scrittura di grave importanza. La mandava Sprat Vescovo di Rochester. Pel corso di due anni, lusingato dalla speranza dʼun arcivescovato, erasi sobbarcato al rimprovero di perseguitare quella Chiesa che egli era tenuto con ogni obbligo di coscienza e dʼonore a difendere. Ma, disilluso nella sua speranza, sʼaccôrse che ove non abiurasse la sua religione, non avrebbe probabilità di ascendere alla sede metropolitana di York. Era di tanto buona indole che non poteva godere della tirannide, ed aveva tanto discernimento da vedere i segni della vicina retribuzione. Per lo che deliberò di rinunciare al suo odioso ufficio: e comunicò la sua deliberazione ai colleghi con una lettera, scritta, al pari di tutti i suoi componimenti in prosa, con grande proprietà e dignità di stile. Diceva essergli impossibile continuare più oltre a sedere nella Commissione: avere egli, per obbedire ai comandamenti sovrani, letta la Dichiarazione: ma non poter presumere di condannare migliaia di pii e leali ecclesiastici, i quali ravvisavano in diverso aspetto la cosa; e poichè si voleva punirli per avere agito secondo la loro coscienza, ei dichiarava essere pronto a soffrire con loro più presto che farsi strumento deʼ loro danni. I Commissarii lessero e rimasero sbalorditi. Gli errori del loro collega, la conosciuta scioltezza deʼ suoi principii, la conosciuta bassezza del suo animo, davano maggior peso alla sua defezione. È mestieri che un Governo sia in vero pericolo quando un nomo come Sprat gli favella col linguaggio di Hampden. Il tribunale, dianzi così insolente, a un tratto invilì. Gli ecclesiastici che ne avevano sfidata lʼautorità, non furono nè anco rimproverati. Non fu reputato savio consiglio sospettare minimamente che si fossero di proposito mostrati disobbedienti; fu loro semplicemente ingiunto di mandare le relazioni dentro quattro mesi. La Commissione poi si sciolse singolarmente perturbata come quella che aveva ricevuto un colpo mortale.[435] XIV. Mentre lʼAlta Commissione retrocedeva da un conflitto con la Chiesa, la Chiesa, con la coscienza della propria forza ed animata da nuovo entusiasmo, provocò con parecchie disfide lʼAlta Commissione allo assalto. Tosto dopo lʼassoluzione deʼ Vescovi, il venerabile Ormond, il più illustre deʼ Cavalieri della gran guerra civile, soccombeva al peso delle sue infermità. La nuova della sua morte fu speditamente trasmessa ad Oxford. Sullʼistante la Università della quale egli da lungo tempo era stato Cancelliere, ragunossi per eleggere il successore. Un partito voleva lo eloquente ed egregio Halifax, un altro il grave ed ortodosso Nottingam. Alcuni rammentarono il Conte dʼAbingdon che abitava lì vicino ed era stato pur allora destituito dalla Luogotenenza della Contea per non avere voluto secondare il Re contro la religione dello Stato. Ma la maggioranza, composta di centottanta graduati, votò a favore del giovine Duca dʼOrmond, nipote del defunto, e figlio del valoroso Ossory. La fretta con che eseguirono la elezione nacque dal timore che, indugiando un solo giorno, il Re potesse imporre loro qualche candidato che tradirebbe i loro diritti. Siffatto timore era ben ragionevole: imperciocchè solo due ore dopo sciolta lʼadunanza, giunse un ordine da Whitehall che richiedeva eleggessero Jeffreys. Per buona sorte la elezione del giovane Ormond era già irrevocabilmente fatta.[436] Alquanti giorni dopo lʼinfame Timoteo Hall, il quale sʼera reso notevole fra il clero di Londra leggendo la Dichiarazione, fu rimunerato col vescovato di Oxford che era rimasto vacante dopo la morte del non meno infame Parker. Hall giunse alla sua sede: ma i canonici della cattedrale ricusarono di assistere alla sua istallazione. La Università non volle concedergli il titolo di Dottore: nè anche uno degli scolari ricorse a lui per gli ordini sacri: nessuno gli faceva di cappello; ed ei si trovò solo dentro il suo palazzo.[437] Tosto dopo il Collegio della Maddalena doveva disporre dʼun benefizio vacante. Hough e i suoi cacciati confratelli ragunaronsi e proposero un chierico; il vescovo di Gloucester, nella cui diocesi era quel benefizio, diede senza esitare la investitura allo eletto.[438] XV. I gentiluomini non erano meno riottosi del clero. I tribunali in quella estate avevano in tutto il paese un insolito aspetto. Ai giudici, innanzi di mettersi in giro, era stato ordinato di presentarsi al Re, il quale aveva loro fatto comandamento dʼispirare ai grandi giurati, in tutto il Regno, il dovere di eleggere rappresentanti al Parlamento disposti a secondare la sua politica. Essi obbedirono declamando con veemenza contro il clero, ingiuriando i vescovi, chiamando la memoranda petizione libello sedizioso, criticando aspramente lo stile di Sancroft, il quale, a dir vero, offriva pretesto alla critica, e dicendo che monsignore meritava le sferzate per mano del Dottore Busby per avere scritto in cattivo inglese. Ma il solo effetto di cotali indecenti declamazioni fu dʼaccrescere il malcontento del popolo. Furono loro negate tutte le dimostrazioni di quella riverenza che il popolo soleva mostrare alla dignità giudiciale ed alla regia Commissione. Era antica usanza che uomini rispettabili per nascita e ricchezza si unissero a cavallo con lo Sceriffo quando egli scortava i giudici alla città della Contea; ma siffatta processione adesso non fu possibile formare in nessuna parte del reame. I successori di Powell e di Holloway segnatamente furono trattati con notevole dispregio. Era loro stato assegnato il giro dʼOxford; aspettavansi dʼessere accolti in ogni Contea da una cavalcata di gentiluomini realisti; ma come si appressarono a Wallingford, dove dovevano aprire la loro commissione per Berkshire, il solo Sceriffo uscì loro incontro. Come si avvicinarono ad Oxford, la metropoli eminentemente realista di una eminentemente realista provincia, furono anche quivi incontrati dal solo Sceriffo.[439] XVI. Lʼesercito non era meno disaffezionato del clero e deʼ gentiluomini. Il presidio della Torre aveva bevuto alla salute deʼ vescovi prigioni. Le Guardie a piedi in Lambeth avevano con ogni dimostrazione di rispetto salutato il Primate che faceva ritorno al suo palazzo. In nessun luogo quanto nel campo di Hounslow Heath la nuova della liberazione deʼ vescovi era stata accolta con più clamorosa gioia. In verità le grandi forze che il Re aveva ragunate a fine dʼatterrire la ricalcitrante metropoli erano divenute più ricalcitranti alla metropoli stessa, ed incuteveno maggior timore alla Corte, che ai cittadini. Per lo che in sul principio dʼagosto il campo fu sciolto, e le truppe furono acquartierate in varie parti del Regno.[440] Giacomo lusingavasi che sarebbe più agevole governare separati battaglioni, che molte migliaia dʼuomini insieme raccolti. Volle farne esperienza col reggimento di fanteria comandato da Lord Lichfield, e che ora chiamasi Duodecimo di Linea. Lo scelse probabilmente per essere stato creato a tempo della insurrezione delle Contrade Occidentali, nella Contea di Stafford, dove i Cattolici Romani erano più numerosi e potenti che quasi in ciascuna altra parte della Inghilterra. I soldati furono schierati alla presenza del Re. Il Maggiore disse loro che Sua Maestà desiderava chʼessi firmassero una scritta con la quale obbligavansi a secondarlo nel mandare ad esecuzione i suoi intendimenti rispetto allʼAtto di Prova, e che coloro ai quali piacesse di non obbedire, lasciassero in sullʼistante il servigio. Il Re rimase sommamente attonito vedendo intiere file di soldati porre giù le picche e gli archibugi. Solo due ufficiali e pochi comuni, tutti Cattolici, obbedirono. Egli rimase per poco in silenzio: poi comandò ai disobbedienti di ripigliare le armi loro, e con irato ciglio disse: «unʼaltra volta non vi farò più lʼonore di consultarvi.»[441] Chiaro vedevasi che essendo egli deliberato a persistere nel suo proposito, gli era mestieri riformare lo esercito. Se non che a ciò fare non poteva trovare i mezzi nellʼisola nostra. I membri della sua Chiesa, anche neʼ distretti dove erano più numerosi, erano una piccola minoranza rispetto alla popolazione. Lʼodio contro il papismo erasi sparso in tutte le classi deʼ Protestanti, ed era divenuto la suprema passione perfino negli agricoltori e negli artigiani. Ma in unʼaltra parte deʼ suoi dominii la maggioranza del popolo era animata da spirito assai differente. Non vʼera limite al numero deʼ soldati cattolici che la buona paga e i quartieri in Inghilterra attirerebbero al di qua del Canale di San Giorgio. Tyrconnel per qualche tempo aveva posto ogni cura a formare dal contadiname della sua patria una forza militare della quale il suo signore potesse fidarsi. Già quasi tutta lʼarmata dʼIrlanda era composta di papisti Celti per sangue e per lingua. Barillon più volte fervidamente consigliò Giacomo a condurre in Inghilterra quellʼarmata per coartare glʼInglesi.[442] XVII. Giacomo tentennava. Voleva essere circondato da milizie sopra le quali potesse riposare: ma temeva lʼesplosione del sentimento nazionale che si sarebbe manifestato al comparire dʼuna gran forza irlandese sopra il suolo dʼInghilterra. In fine, come segue spesso allorquando una mente debole si prova di schivare due opposte inconvenienze, egli sʼattenne ad un partito che le congiunse tutte quante. Fece venire tanti Irlandesi quanti non bastavano a tenere sottomessa la sola città di Londra, o la sola Contea di York, ma più che bastevoli a destare rabbia e paura in tutto il Regno da Northumberland fino a Cornwall. Un battaglione dopo lʼaltro, composti e disciplinati da Tyrconnel, approdavano sulle coste occidentali e movevano verso la metropoli; e furono fatte venire non poche reclute irlandesi per riempire i vuoti deʼ reggimenti inglesi.[443] Tra tutti gli errori commessi da Giacomo nessuno fu più fatale di questo. Già aveva perduto lo affetto del suo popolo violando le leggi, confiscando gli averi e perseguitando la religione. Nel cuore di coloro, che un tempo erano stati fervidi zelatori della monarchia, aveva già posto i semi della ribellione. E nondimeno poteva ancora, con qualche probabilità di buona riuscita, rivolgersi allo spirito patriottico deʼ suoi sudditi contro un invasore; perocchè erano razza isolana per indole e geografica posizione. Le loro antipatie nazionali in quella età erano, per vero dire, irragionevolmente forti. GlʼInglesi non erano assuefatti al freno e allo immischiarsi dello straniero. La comparsa dʼunʼarmata forestiera nellʼisola loro gli avrebbe spinti a correre sotto il vessillo dʼun Re chʼessi non avevano ragione di amare. Guglielmo forse non avrebbe potuto vincere un tale ostacolo; ma Giacomo lo tolse di mezzo. Nemmeno lʼarrivo di una brigata di moschettieri del Re Luigi avrebbe destato risentimento e vergogna quanto ne sentirono i nostri antenati allorchè videro le schiere deʼ Papisti, pur allora giunti da Dublino, marciare con pompa militare lungo le vie maestre. Niun uomo di sangue inglese considerava come compatriotti glʼIrlandesi aborigeni. Essi non appartenevano alla nostra razza; erano distinti da noi per più particolarità morali e intellettuali, che la diversità delle condizioni e della educazione, per quanto fosse grande, non bastava a spiegare. Avevano aspetto e idioma tutto proprio. Quando parlavano inglese, la loro pronunzia era ridicola; le loro frasi grottesche, come sempre sono le frasi di chi pensi in una lingua ed esprima i propri pensieri in unʼaltra. Per la qual cosa per noi essi erano stranieri; e di tutti gli stranieri erano i più odiati e tenuti in dispregio: i più odiati, perocchè per cinque secoli erano sempre stati nostri nemici; i più tenuti in dispregio, perocchè erano nostri nemici vinti, resi schiavi e spogliati. Lo Inglese paragonava con orgoglio i propri campi colle desolate lande, donde sbucavano i banditi a rubare ed assassinare, e la propria abitazione coʼ tuguri dove il villano e il maiale di Shannon sʼavvoltolavano insieme nel sudiciume. Egli apparteneva ad una società molto inferiore certamente per ricchezza e civiltà a quella in che noi viviamo, ma tuttavia a una delle più opulente e incivilite società del mondo: glʼIrlandesi erano rozzi quasi al pari deʼ selvaggi di Labrador. Egli era uomo libero: glʼIrlandesi erano servi ereditari della razza inglese. Egli adorava Dio con un culto puro e ragionevole: glʼIrlandesi giacevano immersi nella idolatria e nella superstizione. Egli sapeva che grandi torme dʼIrlandesi erano spesso fuggite dinanzi ad una mano dʼInglesi, e che la intera popolazione dʼIrlanda era stata tenuta in freno da una piccola colonia inglese: e compiacevasi a concludere chʼegli nellʼordine di natura era un essere più elevato dello Irlandese: imperocchè in tal guisa una razza dominante sempre spiega la sua superiorità ed escusa la sua tirannia. Nessuno oggimai nega agli Irlandesi vivacità, brio, eloquenza, fra le nazioni del mondo: cento campi di battaglia testificano che essi, ove abbiano buona disciplina, sono strenui soldati. Nondimeno egli è certo, che un secolo e mezzo fa erano generalmente spregiati nella isola nostra come gente stupida e codarda. E questi erano gli uomini che dovevano tenere in freno la Inghilterra a viva forza, mentre compivasi la distruzione della libertà e della Chiesa sue! Al solo pensiero ribolliva il sangue nelle vene dʼogni Inglese. Essere vinti daʼ Francesi o dagli Spagnuoli sarebbe, in paragone, sembrato un destino tollerabile. Noi eravamo assuefatti a trattare da pari a pari coʼ Francesi e con gli Spagnuoli. Ne avevamo ora invidiata la prosperità, ora temuta la potenza, ora gioito della loro amicizia. In onta al nostro insocievole orgoglio, le consideravamo come grandi nazioni, e non negavamo che andavano gloriose di uomini insigni nelle arti della guerra e della pace. Ma essere soggiogati da una casta inferiore era avvilimento oltre ogni credere grandissimo. GlʼInglesi provavano quel sentimento che proverebbero gli abitatori di Charleston e della Nuova Orleans, se quelle città fossero occupate da un presidio di Negri. I fatti genuini sarebbero stati sufficienti a suscitare inquietudine e sdegno: ma cotesti fatti erano inoltre adulterati da mille sinistre finzioni che correvano di caffè in caffè, di bettola in bettola, e andando diventavano sempre più terribili. Il numero delle truppe irlandesi venute fra noi poteva suscitare ragionevole e grave timore rispetto aʼ disegni del Re: ma era ingrandito dieci volte più dal pubblico timore. Poteva bene supporsi che il rozzo fantaccino di Connaught posto con lʼarmi in mano fra mezzo a un popolo straniero che egli odiava e dal quale egli era odiato, commettesse qualche eccesso. Ma tali eccessi venivano esagerati narrandoli; e per giunta agli oltraggi che lo straniero aveva veramente commessi, gli venivano attribuiti tutti i delitti deʼ suoi camerati inglesi. Da ogni parte del Regno sorse un grido contro i barbari forestieri che invadevano le case private, prendevano barocci e cavalli, estorcevano danari ed insultavano donne. Dicevasi che cotesti uomini fossero i figliuoli di coloro, che quarantasette anni innanzi avevano fatto strage di migliaia di Protestanti. La ribellione del 1641, la quale anche narrata con calma susciterebbe pietà ed orrore, e che era stata bruttamente esagerata daʼ nazionali e religiosi rancori, era adesso divenuta la materia prediletta delle conversazioni. Spaventevoli storielle di case bruciate con le famiglie dentro, di donne e fanciulli macellati, di consanguinei costretti dalla tortura ad assassinarsi a vicenda, di cadaveri oltraggiati e mutilati, erano narrate e udite con piena credenza e vivo interesse. Aggiungevasi poi che i codardi selvaggi che avevano di sorpresa commesse tutte coteste crudeltà sopra una colonia senza sospetto e priva dʼogni difesa, appena Cromwell si fu mostrato fra loro a farne vendetta, percossi da subito terrore, avevano messe giù le armi, e senza nè anche tentare le sorti di un solo combattimento erano ricaduti nel ben meritato servaggio. A molli indizi prevedevasi che il Lord Luogotenente meditava unʼaltra grande spoliazione e strage della colonia Sassone. Già migliaia di coloni protestanti, fuggendo la ingiustizia e la insolenza di Tyrconnel, avevano riacceso lo sdegno della madre patria narrando tutto ciò che avevano sofferto, e tutto ciò che avevano, con troppa ragione, temuto. Fino a che segno lʼopinione pubblica fosse stata esasperata dalle querimonie deʼ fuggitivi era stato di recente mostrato in modo da non indurre in errore. Tyrconnel aveva mandato per essere approvata dal Re una proposta di revoca della legge che assicurava il possesso di mezzo il suolo dʼIrlanda, e aveva spediti a Westminster due agenti cattolici suoi concittadini che erano stati inalzati ad alti uffici nellʼordine giudiciario: Nugent, Capo–Giudice della Corte del Banco del Re in Irlanda, uomo che personificava tutti i vizi e le debolezze che glʼInglesi reputavano come facienti il carattere del papista celtico; e Rice, uno deʼ Baroni dello Scacchiere Irlandese, uomo che per abilità e cognizioni era il primo fraʼ suoi compatriotti e correligionari. Lo scopo della missione era a tutti noto; e i due giudici non potevano rischiarsi a comparire in pubblico. La plebaglia, riconoscendoli, gridava: «Fate largo agli ambascitari irlandesi;» e il loro cocchio veniva scortato con solenne berlina da una turba dʼuscieri e di corrieri che portavano in mano bastoni con patate fitte in punta.[444] E davvero, in quel tempo lʼavversione de glʼInglesi contro glʼIrlandesi era sì forte ed universale, che la sentivano perfino i più spettabili Cattolici Romani. Powis e Bellasyse anche in Consiglio significarono con aspre e virulente parole la loro antipatia contro gli stranieri;[445] antipatia che era anche più forte fra glʼInglesi Protestanti, e più forte ancora nellʼarmata. Nè gli ufficiali, nè i soldati erano disposti a tollerare con pazienza la predilezione che il loro signore mostrava ad una razza vinta e forestiera. Il Duca di Berwick, colonnello dellʼottavo reggimento di linea acquartierato in Portsmouth, ordinò che trenta uomini pur allora giunti dallʼIrlanda fossero inscritti neʼ ruoli militari. I soldati inglesi dichiararono di non volere servire insieme con glʼintrusi. Giovanni Beaumont Luogotenente colonnello, a nome suo e di cinque capitani, protestò al cospetto del Duca contro questo insulto fatto alla nazione ed allʼesercito inglese, dicendo: «Noi componemmo il reggimento a nostre proprie spese per difendere la corona della Maestà sua in perigliosi tempi. Allora non incontrammo difficoltà a trovare centinaia di reclute inglesi. Noi possiamo agevolmente tenere congiunta ogni compagnia senza ammettervi glʼIrlandesi. E però reputiamo che ne vada dellʼonor nostro nel tollerare che ci vengano imposti cotesti stranieri; e chiediamo che o ci sia permesso di comandare a soldati nostri concittadini, o che si accetti la nostra rinuncia.» Berwick scrisse a Windsor per sapere in che guisa comportarsi. Il Re, grandemente esasperato, spedì subito una legione di cavalleria a Portsmouth perchè gli conducesse dinanzi i sei ufficiali disubbidienti. Furono tradotti avanti a un Consiglio di guerra. Ricusarono di sottomettersi, e furono dannati ad essere cassi daʼ ruoli, la qual pena allora era la massima che una Corte marziale potesse infliggere. La intera nazione feʼ plauso agli ufficiali caduti in disgrazia: e lʼopinione pubblica fu maggiormente irritata dalla voce corsa, quantunque senza fondamento, che essi mentre rimanevano in carcere, erano stati crudelmente trattati.[446] XVIII. Lʼopinione pubblica non manifestavasi allora con queʼ segni che oggidì sono comuni fra noi, cioè con numerose ragunanze e veementi arringhe. Nondimeno trovò una via ad esplodere. Tommaso Wharton, il quale nellʼultimo Parlamento era stato rappresentante della Contea di Buckingam ed aveva fama di libertino e di Whig, scrisse una ballata satirica sopra Tyrconnel. In questa breve poesia un Irlandese si congratulava con un altro suo concittadino, in un gergo barbaro, pel prossimo trionfo del papismo e della razza milesia. Diceva che lo erede protestante della Corona sarebbe escluso. Gli ufficiali protestanti verrebbero cacciati. La Magna Charta e i ciarlieri che si richiamavano ad essa verrebbero impiccati alla medesima forca. Il buon Talbot verserebbe a torrenti glʼimpieghi sopra i suoi concittadini, e segherebbe la gola aglʼInglesi. Questi versi, che non sʼinalzavano punto sopra la poesia plateale, avevano per intercalare un vocabolo che dicevasi essere stato adoperato come parola dʼordine daglʼinsorti dʼUlster nel 1644. La nazione sʼincapriccì deʼ versi e della musica. Da un angolo allʼaltro, per lʼintera Inghilterra, tutta la popolazione non rifiniva mai di cantare cotesti versi scempi, che in ispecie formavano il diletto dello esercito inglese. Settanta e più anni dopo la Rivoluzione, un grande scrittore dipinse con arte squisita un veterano che aveva combattuto sul Boyne e in Namur; e uno deʼ tratti caratteristici del buon veterano consisteva nel fischiare il Lilliburello.[447] Wharthon poscia menò vanto dʼavere cacciato con cotesti versi un Re da tre Regni. Ma, a dir vero, la fama di Lilliburello fu lo effetto, non già la cagione, di quel concitamento nel pubblico sentire, che produsse la Rivoluzione. Mentre Giacomo suscitava contro sè stesso tutti i sentimenti nazionali, i quali, se non fosse stata la sua insania, avrebbero potuto salvargli il trono, Luigi in modo diverso sforzavasi non meno efficacemente a facilitare la intrapresa che Guglielmo stavasi meditando. XIX. In Olanda il partito favorevole alla Francia era una minoranza bastevolmente forte, secondo lʼordinamento politico della Batava Federazione, a impedire che lo Statoldero tentasse un gran colpo. Tenersi bene edificata cotesta minoranza era uno scopo al quale, se la Corte di Versailles fosse stata savia, doveva, in quelle circostanze, essere posposto ogni altro qualunque. Luigi, nondimeno, per qualche tempo aveva lavorato, quasi lo facesse di proposito, a straniarsi daʼ suoi amici Olandesi; ed in fine, benchè non senza difficoltà, gli venne fatto di renderseli nemici nel momento preciso in cui il loro aiuto gli sarebbe stato dʼinestimabile prezzo. Vʼerano due cose, le quali gli Olandesi peculiarmente sentivano, la religione e il commercio; e il Re di Francia aveva pur allora assalito il commercio e la religione loro. La persecuzione degli Ugonotti e la revoca dello editto di Nantes avevano da per tutto destato in cuore deʼ Protestanti sdegno e dolore; sentimenti che in Olanda erano più forti che altrove: imperocchè molti individui oriundi Olandesi, fidando nelle ripetute e solenni dichiarazioni di Luigi, il quale assicurava di mantenere la tolleranza dallʼavo suo concessa, sʼerano, per cagione di commercio, stabiliti, e gran parte di loro naturalizzati in Francia. Ogni corso di posta recava in Olanda la nuova che costoro erano con estremo rigore trattati per semplici motivi religiosi. Dicevasi che in casa di uno stavano acquartierati i dragoni; un altro era stato posto ignudo presso al fuoco fino a rimanerne mezzo arrostito. A tutti era, sotto severissime pene, inibito di celebrare i riti della propria religione, e di partirsi dal paese, al quale, sotto promesse menzognere erano stati attirati. I partigiani della Casa dʼOrange schiamazzavano contro la crudeltà e la perfidia del tiranno. Lʼopposizione era confusa e scuorata. Lo stesso Consiglio municipale dʼAmsterdam, comechè fosse fortemente favorevole aglʼinteressi della Francia, e aderisse alla teologia arminiana, e fosse poco inchinevole a biasimare Luigi e consentire coʼ Calvinisti da esso perseguitati, non poteva rischiarsi ad avversare lʼopinione pubblica; perocchè in quella grande città non era un solo mercante il quale non avesse qualche parente od amico fra coloro che pativano tanto danno. Numerose petizioni firmate da nomi rispettabili venivano presentate ai borgomastri, pregandoli a rimostrare vigorosamente presso lo Ambasciatore Avaux. Fraʼ supplichevoli erano taluni i quali osavano introdursi nel palazzo degli Stati, e cadendo sulle loro ginocchia descrivevano, fra le lagrime e i singhiozzi, la misera sorte deʼ loro cari, e supplicavano i magistrati ad intercedere. I pergami delle Chiese risonavano dʼinvettive e di lamenti. Daʼ torchi uscivano racconti che laceravano lʼanima, e virulente arringhe. Avaux conobbe tutto il pericolo, e riferì alla sua Corte che anche i bene intenzionati—così egli sempre chiamava i nemici della Casa dʼOrange—o partecipavano allʼuniversale sentimento o ne erano impauriti; e consigliò si cedesse alquanto ai loro desiderii. Le risposte giuntegli da Versailles furono gelide ed acri. Ad alcune famiglie, non naturalizzate in Francia, era stato concesso di ritornare alla patria loro: ma a queʼ naturali dʼOlanda che avevano ottenuto lettere di naturalizzazione Luigi ricusò ogni indulgenza, dicendo che nessuna Potenza sulla terra doveva immischiarsi fra lui e i suoi sudditi. Costoro avevano scelto di essere annoverati fraʼ sudditi suoi, e nessun potentato straniero aveva diritto a sindacarlo intorno al modo di trattarli. I magistrati dʼAmsterdam naturalmente sdegnaronsi della spregiante ingratitudine del Principe al quale con ardore e senza ombra di scrupolo avevano servito contro lʼopinione universale deʼ loro concittadini. Alla già riferita tenne dietro, poco dipoi, unʼaltra provocazione che fu più profondamente sentita. Luigi cominciò a far guerra al loro commercio. Dapprima con un editto proibì la importazione delle aringhe neʼ suoi dominii. Avaux sʼaffrettò a scrivere alla sua Corte che un simigliante passo aveva destato indignazione e timore, che sessantamila persone vivevano con la pesca delle aringhe, e che gli Stati probabilmente adotterebbero qualche provvedimento di rappresaglia. Gli fu risposto che il Re era deliberato non solo a persistere, ma ben anco ad accrescere i dazi su molte mercanzie delle quali la Olanda faceva lucroso traffico con la Francia. La conseguenza di cotesti errori commessi in onta a ripetuti ammonimenti, e, a quanto sembra, per ebbrezza di caparbietà, fu, che nel momento in cui il voto dʼun solo potente membro della Batava Federazione avrebbe potuto impedire un evento fatale a tutta la politica di Luigi, tal voto non osò manifestarsi. Lo Ambasciatore con tutta la sua arte invano si studiò di raggranellare quel partito, col cui soccorso, per vari anni era riuscito a tenere in freno lo Statoldero. XX. Lʼarroganza ed ostinazione del signore frustrava tutti gli sforzi del servo; il quale finalmente fu costretto ad annunziare a Versailles che non era più da confidare nella città dʼAmsterdam da sì gran tempo amica della Francia, che alcuni deʼ bene intenzionati temevano per la loro religione, e che i pochi i quali ancora si mantenevano fermi non potevano rischiarsi a significare i loro intendimenti. La fervida eloquenza deʼ predicatori che declamavano contro gli orrori della persecuzione francese, e le querimonie dei falliti che attribuivano la propria rovina ai decreti francesi, avevano concitato il popolo a tal segno che nessuno deʼ cittadini poteva dichiararsi favorevole alla Francia senza imminente pericolo di essere gettato dentro il più vicino canale. Tutti rammentavansi che solo quindici anni innanzi il più illustre capo del partito avverso alla Casa dʼOrange era stato fatto in brani dalla infuriata plebe nel ricinto stesso del palazzo degli Stati Generali; ed era probabile che ugual sorte toccasse a coloro i quali, in quella gran crisi, venissero accusati di secondare i disegni della Francia contro la patria loro e contro la religione riformata.[448] XXI. Mentre Luigi in tal guisa costringeva i suoi fautori in Olanda a diventare, o a fingersi, suoi nemici, lavorava con non minore efficacia a rimuovere tutti gli scrupoli che avrebbero potuto impedire i principi cattolici del continente di secondare i disegni di Guglielmo. Un nuovo litigio era sorto tra la Corte di Versailles e il Vaticano, litigio nel quale il Re francese si mostrò più che in ogni altra sua azione ingiusto ed insolente. Era vecchio costume in Roma che nessuno ufficiale di giustizia o di finanza potesse entrare nellʼabitazione deʼ ministri che rappresentavano gli Stati cattolici. In progresso non solo lʼabitazione, ma i luoghi circostanti reputavansi inviolabili. Era punto dʼonore per ogni ambasciatore estendere quanto più potesse i confini del circondario che rimaneva sotto la sua protezione. Infine i distretti privilegiati, dentro i quali il Governo papale non aveva maggior potenza che nel Louvre o nellʼEscuriale, comprendevano mezza la città. Ogni asilo era pieno di contrabbandieri, di falliti disonesti, di ladri e dʼassassini. In ogni asilo erano magazzini di cose rubate o di mercanzie fraudolentemente introdotte. Da ogni asilo uomini facinorosi uscivano di notte a saccheggiare ed a pugnalare la gente. In nessuna terra della Cristianità, quindi, la legge era così impotente e la malvagità sì audace come nellʼantica metropoli della religione e dellʼincivilimento. Intorno a siffatto danno Innocenzo pensava come si conveniva ad un sacerdote e ad un principe. Dichiarò dunque di non volere accogliere nessuno Ambasciatore il quale si ostinasse a mantenere un diritto distruggitore dellʼordine e della morale. Vi fu dapprima un gran mormorare, ma egli si mostrò cotanto fermo che tutti i Governi, tranne un solo, in breve tempo cederono. Lo Imperatore, che per grado era il primo tra tutti i monarchi cristiani, la Corte di Spagna, che predistinguevasi fra tutte per suscettibilità e pertinacia neʼ punti dʼetichetta, rinunciarono al mostruoso privilegio. Il solo Luigi si mostrò intrattabile, dicendo importargli poco ciò che piacesse agli altri sovrani di fare. Per la qual cosa spedì a Roma unʼambasceria, scortata da numeroso stuolo di cavalli e di fanti. Lo Ambasciatore giunse al suo palazzo come un generale che entri trionfante in una città conquistata. Il palazzo era fortemente guardato; attorno al recinto privilegiato le sentinelle facevano la ronda di giorno e di notte, come sopra le mura dʼuna fortezza. Il Papa rimase fermo. «Confidano» esclamò egli «neʼ cocchi e neʼ cavalli: ma noi invocheremo il nome di Dio nostro signore.» Diede di piglio alle sue armi spirituali, e pose la parte della città presidiata daʼ Francesi sotto lo interdetto.[449] Questo litigio era nel massimo fervore allorchè ne sorse un altro; nel quale tutto il Corpo Germanico aveva interesse ugualmente che il Papa. XXII. Colonia e il distretto circostante governava un Arcivescovo che era elettore dello Impero. Il diritto di eleggere il gran prelato spettava, sotto certe condizioni, al Capitolo della Cattedrale. Lo Arcivescovo era parimente Vescovo di Liegi, di Munster e di Hildesheim. I suoi dominii erano vasti, e comprendevano varie fortezze, le quali nel caso dʼuna campagna sul Reno sarebbero state importantissime. In tempo di guerra poteva condurre in campo venti mila uomini. Luigi aveva fatto ogni possibile sforzo a rendersi bene affetto un così valido alleato, e vʼera tanto riuscito che Colonia rimaneva quasi divisa dalla Germania, e formava un baluardo della Francia. Molti ecclesiastici ligi alla Corte di Versailles erano stati messi nel Capitolo; e il Cardinale Furstemburg, creatura di quella Corte, era stato nominato Coadiutore. Nella state del 1688 lʼArcivescovato divenne vacante. Furstemburg era il candidato della Casa deʼ Borboni. I nemici di quella proponevano il giovine Principe Clemente di Baviera. Furstemburg era già Vescovo, e quindi non poteva essere trasferito ad altra diocesi senza speciale dispensa del pontefice, o per una postulazione, nella quale era necessario che fossero concordi i voti di due terzi del Capitolo di Colonia. Il Papa non volle concedere la dispensa ad una creatura della Francia. Lo Imperatore indusse più dʼuna terza parte del Capitolo a votare in favore del Principe Bavaro. Infrattanto neʼ Capitoli di Liegi, di Munster, e di Hildesheim la maggioranza procedeva avversa alla Francia. Luigi vide con isdegno e paura, come una vasta provincia che egli aveva incominciato a considerare qual feudo della sua Corona, fosse per divenire, non solo indipendente, ma ostile a lui. In una scrittura dettata con grande acrimonia si querelò della ingiustizia con che la Francia in tutte le occasioni era trattata dalla Santa Sede, la quale era in debito di largire la sua paterna protezione ad ogni parte della Cristianità. A molti segni vedevasi come egli avesse deliberato di sostenere la pretesa del suo candidato con le armi, contro il Papa, e i collegati del Papa.[450] XXIII. In cotal modo Luigi, con due opposti errori, suscitò a un tratto contro sè stesso il risentimento deʼ due partiti religiosi, nei quali lʼEuropa occidentale era divisa. Inimicatasi una grande classe deʼ cristiani col perseguitare gli Ugonotti, si inimicava lʼaltra collʼinsultare la Santa Sede. Tali errori egli commise in un tempo in cui non poteva impunemente commetterne alcuno, e sotto gli occhi dʼun avversario, il quale per vigilanza, sagacia, ed energia non era secondo a nessun uomo politico di cui serbi ricordo la storia. Guglielmo vide con austero diletto i suoi avversari affaticarsi a sgombrargli dʼogni ostacolo il cammino. Mentre suscitavano contro sè stessi la nimistà di ogni setta, egli poneva sommo studio a conciliarsele tutte. Con isquisito magistero presentò ai vari Governi in differente aspetto il gran disegno chʼegli meditava; ed è mestieri aggiungere che quantunque tali aspetti fossero differenti, nessuno era falso. Esortò i Principi della Germania settentrionale a collegarsi con lui per difendere la causa comune di tutte le chiese riformate. Pose sotto gli occhi deʼ due capi della Casa dʼAustria il pericolo onde erano minacciati dallʼambizione francese, e la necessità di redimere lʼInghilterra dal vassallaggio e di congiungerla alla Federazione Europea.[451] Mostrossi sdegnoso, e con tutta verità, dʼogni bacchettoneria. Diceva che il vero nemico deʼ Cattolici Inglesi era quel monarca, uomo corto di vista, e duro di cuore, il quale potendo agevolmente ottenere ad essi una tolleranza legale, aveva calpestata la legge, la libertà e il diritto di proprietà, per inalzarli ad un predominio odioso e precario. Se si lasciava continuare nella sua insania ne conseguiterebbe tra breve uno scoppio popolare, al quale terrebbe dietro una barbara persecuzione deʼ papisti. Il Principe dichiarava che lo evitare gli errori di tale persecuzione era uno deʼ precipui suoi fini. Ove egli fosse avventurato nel suo disegno, adoprerebbe lo acquistato potere come capo deʼ Protestanti, a proteggere i credenti nella Chiesa di Roma. Forse le passioni destate dalla tirannia di Giacomo renderebbero impossibile lʼabrogazione delle leggi penali, ma un savio governo ben poteva mitigarle. A nessuna classe dʼuomini poteva recare vantaggio la proposta spedizione quanto aʼ queʼ pacifici e non ambiziosi Cattolici Romani, i quali desideravano solamente seguire la propria vocazione e senza molestia adorare il Creatore. I soli perdenti sarebbero i Tyrconnel, i Dover, gli Albeville, e gli altri avventurieri politici, i quali in ricompensa delle adulazioni e deʼ pessimi consigli avevano ottenuto dal loro troppo credulo signore governi, reggimenti, ed ambasciate. XXIV. Mentre Guglielmo sforzavasi a procacciarsi la simpatia dei Protestanti e deʼ Cattolici, si studiava con non minor vigore e prudenza a provvedersi dei mezzi militari che la sua impresa richiedeva. Non poteva fare uno sbarco in Inghilterra senza la sanzione delle Provincie Unite; ed ove lʼavesse chiesta innanzi che il suo disegno fosse maturo per mandarsi ad effetto, i suoi intendimenti forse sarebbero avversati dalla fazione ostile alla sua Casa, e certamente verrebbero divulgati in tutto il mondo. Per lo che deliberò di fare con ispeditezza i necessari apparecchi, e appena compiuti, giovarsi di qualche momento favorevole per richiedere lo assenso alla Federazione. Gli agenti della Francia notavano che si mostrava quanto mai affaccendato. Non passava giorno senza che egli fosse veduto correre dalla sua villa allʼAja. Stavasi sempre rinchiuso a colloquio coʼ suoi più cospicui aderenti. Ventiquattro vascelli furono armati in addizione alle forze ordinarie mantenute dalla Repubblica. Per avventura vʼera un bel pretesto ad accrescere la flotta: imperciocchè alcuni corsari algerini avevano dianzi osato mostrarsi nellʼOceano Germanico. Formossi un campo in Nimega, dove si raccolsero molte migliaia di soldati. A fine di rinforzare cotesto esercito richiamaronsi i presidii daʼ luoghi forti nel Brabante Olandese. Perfino la rinomata fortezza di Bergopzoom fu lasciata quasi senza difesa. Pezzi da campagna, bombe, e cassoni da tutti i magazzini delle Provincie Unite furono trasportati al quartiere generale. Tutti i fornai di Roterdam affaticavansi giorno e notte a fare biscotto. Tutti gli armaiuoli dʼUtrecht non bastavano ad eseguire le commissioni di pistole ed archibugi. Tutti i sellai dʼAmsterdam lavoravano indefessamente a fare arnesi. Sei mila marinai furono aggiunti al servizio della flotta. Si fece una leva di sette mila nuovi soldati. Veramente non potevano essere formalmente arruolati senza lo assenso della Federazione; ma erano bene ammaestrati e tenuti in tanta disciplina che potevano senza difficoltà ordinarsi a reggimenti dentro ventiquattro ore dopo ottenuto lo assenso. Tali preparamenti richiedevano pecunia annoverata: ma Guglielmo con rigida economia aveva accumulato per qualche grave occorrenza un tesoro di dugento cinquanta mila lire sterline. Al rimanente provvide lo zelo deʼ suoi partigiani. Oro in gran copia, o, come si disse, una somma non minore di cento mila ghinee gli fu mandata dallʼInghilterra. Gli Ugonotti, i quali avevano seco portato nello esilio molta quantità di metalli preziosi, di gran cuore gli prestarono tutto ciò che possedevano: imperciocchè ardentemente speravano, che, ove la impresa avesse esito prospero, sarebbe loro resa la patria, e temevano, che fallendo egli, non sarebbero nè anche sicuri nella patria adottiva.[452] XXV. Negli ultimi giorni di luglio e in tutto il mese dʼagosto gli apparecchi processero rapidamente, se non che allo ardente animo di Guglielmo parevano andare troppo lenti. Intanto diventava più attiva la comunicazione tra la Olanda e lʼInghilterra. I consueti modi di trasmettere notizie e passeggieri più non furono reputati sicuri. Una barca leggiera e maravigliosamente veloce andava e veniva di continuo da Schevening alla costa orientale dellʼisola nostra.[453] Per questo mezzo giunsero a Guglielmo non poche lettere scrittegli da uomini notevolissimi nella Chiesa, nello Stato, e nello esercito. Due deʼ sette prelati che avevano firmata la memoranda petizione, cioè Lloyd Vescovo di Santo Asaph, e Trelawney Vescovo di Bristol, mentre erano in carcere, avevano bene meditato sulla dottrina della resistenza, ed erano pronti ad accogliere un liberatore armato. Un fratello del Vescovo di Bristol, il colonnello Carlo Trelawney, che comandava uno deʼ reggimenti di Tangeri, adesso conosciuto come il Quarto di Linea, si mostrò ardente di snudare la spada a pro della Religione Protestante. Simiglianti assicurazioni mandò il feroce Kirke. Churchill, in una lettera scritta con qualche elevatezza di stile, indizio certo che egli era per commettere una viltà, si dichiarò deliberato a compiere il suo dovere verso Dio e la patria, e disse che poneva il proprio onore assolutamente nelle mani del Principe dʼOrange. Guglielmo senza dubbio lesse queste parole con quellʼamaro e cinico sorriso che dava una poco piacevole espressione al suo volto. Non ispettava a lui prender cura dellʼonore degli altri; nè i più rigidi casisti avevano giudicato illecito ad un generale lo invitare, giovarsi, e rimunerare i servigi deʼ disertori chʼei non potesse spregiare.[454] La lettera di Churchill fu recata da Sidney, la cui posizione in Inghilterra era divenuta pericolosa, e il quale, prese molte cautele a nascondere la sua traccia, era giunto in Olanda a mezzo agosto.[455] Verso il medesimo tempo Shrewsbury ed Eduardo Russell traversarono lʼOceano Germanico in un battello che avevano con grande segretezza noleggiato, e comparvero allʼAja. Shrewsbury recò seco dodici mila lire sterline, chʼaveva messe insieme ipotecando i suoi beni, e le pose nella banca dʼAmsterdam.[456] Devonshire, Danby, e Lumley rimasero in Inghilterra, dove tolsero lo incarico di correre alle armi appena il Principe dʼOrange ponesse piede nellʼisola. XXVI. Non vʼè ragione a credere che in questa occorrenza Guglielmo ricevesse assicurazioni di sostegno dalla parte dʼun uomo bene dai sopranotati diverso. La storia deglʼintrighi di Sunderland è coperta da un buio che non è probabile venga mai diradato da nessuno scrittore: ma comunque sia impossibile scoprire intera la verità, egli è agevole notare alcune finzioni palpabilissime. I Giacomiti, per manifeste ragioni, affermarono che la rivoluzione del 1688 fu il resultamento dʼuna congiura tramata lungo tempo innanzi, e rappresentarono Sunderland come capo deʼ congiurati. Asserivano chʼegli, per eseguire il suo arcano disegno, aveva incitato il suo troppo fidente signore a dispensare dagli statuti, a creare un tribunale illegale, a confiscare gli averi deʼ sudditi, e ad imprigionare i padri della Chiesa Anglicana. Questo romanzo non ha verun fondamento storico, e comechè sia stato più volte ripetuto fino ai tempi nostri, non merita confutazione. Non vi è fatto più certo di questo, che Sunderland si oppose quasi sempre aglʼinsani provvedimenti di Giacomo, ed in ispecie alla persecuzione deʼ Vescovi, la quale veramente produsse la crisi decisiva. Ma quando anche cotesto fatto non fosse provato, rimarrebbe un altro valido argomento che basterebbe a decidere la controversia. Qual ragionevole motivo aveva Sunderland per desiderare una rivoluzione? Nel sistema politico esistente egli trovavasi nella maggiore altezza di onori e di prosperità. Come presidente del Consiglio aveva la precedenza su tutti i Pari secolari. Come primo Segretario di Stato era il più attivo e potente membro del Gabinetto. Poteva anche sperare la dignità di Duca. Aveva ottenuto lʼordine della giarrettiera dianzi portato dallo splendido e versatile Buckingham, il quale, avendo consunto un patrimonio principesco e un vigoroso intelletto, era disceso nella tomba abbandonato, spregiato, e col cuore trafitto.[457] Il danaro che Sunderland amava più che li onori, pioveva sopra lui in tanta copia, che amministrandolo moderatamente, egli poteva sperare di farsi uno dei più ricchi uomini dʼEuropa. Gli emolumenti diretti del suo ufficio, benchè fossero considerevoli, erano piccola parte di ciò chʼegli guadagnava. Dalla sola Francia riceveva regolarmente uno stipendio annuo di circa sei mila sterline, oltre alle ampie gratificazioni straordinarie. Aveva patteggiato con Tyrconnel per cinque mila lire sterline lʼanno, o cinquanta mila una volta sola, sopra lʼIrlanda. Quali somme accumulasse vendendo impieghi, titoli e grazie, può solo immaginarsi, ma dovevano essere enormi. Eʼ pareva che Giacomo godesse di far nuotare nellʼoro un uomo chʼegli pretendeva dʼavere convertito. Tutte le multe, tutte le confische andavano a Sunderland. In ogni concessione fatta esigeva una decima. Se qualche chiedente si rischiava implorare un favore direttamente dal Re, Giacomo gli rispondeva: «Avete voi parlato col Lord Presidente?» Un tale ardì dirgli che il Lord Presidente ingoiava tutto il danaro della Corte. «Bene» rispose Sua Maestà «egli lo merita tutto.»[458] Non vi sarebbe la minima esagerazione ad affermare che i guadagni del Ministro giungevano a trenta mila lire sterline lʼanno: ed è mestieri rammentarsi che le rendite di trenta mila sterline erano in quel tempo più rare di quello che siano ai dì nostri le rendite di cento mila. È probabile che allora in tutto il Regno non vi fosse alcun Pari, la cui entrata patrimoniale uguagliasse quella che Sunderland traeva dal proprio ufficio. Poteva quindi Sunderland sperare che, sorto un nuovo ordine di cose, implicato, come egli era, in atti illegali ed impopolari, membro dellʼAlta Commissione, rinnegato che il popolo in tutti i luoghi di pubblico convegno chiamava papista cane, egli conseguisse maggiore opulenza e grandezza? Poteva inoltre sperare di sottrarsi alla ben meritata pena? Certo egli era assuefatto da lungo tempo a prevedere il giorno, in cui Guglielmo e Maria, nel corso ordinario della natura e della legge, sarebbero saliti sul trono dʼInghilterra, ed è probabile che avesse tentato di aprirsi la via al favor loro con promesse e servigi, i quali, ove fossero stati scoperti, non avrebbero accresciuto il suo credito in Whitehall. Ma può con sicurtà affermarsi che egli non desiderava di vederli inalzati al potere per mezzo dʼuna rivoluzione, e che non prevedeva siffatta rivoluzione allorquando, verso la fine di giugno 1688, abbracciò solennemente la fede della Chiesa di Roma. Appena, nondimeno, egli con quellʼinespiabile delitto sʼera reso segno allʼodio ed al disprezzo della intera nazione, quando seppe le armi nazionali e forestiere apparecchiarsi a rivendicare in breve tempo lʼordinamento politico ed ecclesiastico della Inghilterra. Da quello istante sembra che tutti i suoi disegni si cangiassero. La paura che gli aveva invilito lʼanimo gli stava scritta in viso sì che ciascuno poteva accorgersene.[459] Mal poteva dubitarsi, che, seguìta una rivoluzione, i pessimi consiglieri che circondavano il trono verrebbero chiamati a rendere rigoroso conto; e Sunderland fra cotesti consiglieri era primo per grado. La perdita dellʼufficio, della mercede, delle pensioni, era il meno chʼegli avesse a temere. La sua casa patrimoniale e i suoi boschi in Althorpe avrebbero corso pericolo dʼessere confiscati; forse ei sarebbe gettato per lunghi anni in carcere; avrebbe finiti i suoi giorni in terra straniera dopo dʼavere trascinata la vita con una pensione assegnatagli dalla generosità della Francia. Ed anche ciò non era il peggiore deʼ mali. Lo sventurato ministro cominciava a sentirsi perturbata la mente da sinistre visioni dʼuna innumerevole folla ragunata in Tower Hill e schiamazzante di feroce gioia alla vista dello apostata, del palco parato a bruno, di Burnet leggente la preghiera degli agonizzanti, e di Ketch appoggiato sopra la scure che aveva troncate le teste di Russell e di Monmouth. Gli rimaneva una via a salvarsi, via più terribile per un animo nobile di quello che sia la prigione o il patibolo; poteva forse, con una tradigione commessa a tempo, conseguire il perdono daglʼinimici del Governo. Stava in lui di render loro inestimabili servigi: poichè egli godeva della piena fiducia del Re, aveva grande influenza nella cabala gesuitica, e la cieca confidenza dello Ambasciatore Francese. Non mancava un mezzo di comunicazione, mezzo degno del fine al quale egli voleva giungere. La Contessa di Sunderland era una artificiosa donna, e sotto il manto della divozione che ingannava gli uomini gravi, conduceva di continuo amorosi e politici intrighi.[460] Il bello e dissoluto Enrico Sidney era stato per lungo tempo il suo favorito amante. Al marito piaceva di vederla in tal modo posta in comunicazione con la Corte dellʼAja. Quando egli desiderava far giungere un segreto messaggio in Olanda, parlava con la sua moglie; la quale scriveva a Sidney; e Sidney comunicava la lettera a Guglielmo. Una di coteste lettere, intercettata, fu recata a Giacomo. Essa protestò fervidamente chiamandola apocrifa. Sunderland con singolarissima astuzia si difese dicendo che era impossibile a qualunque uomo essere cotanto vile da fare ciò chʼegli veramente faceva. «E quando anche fosse carattere di Lady Sunderland» soggiunse, «io non vi ho nulla da vedere. Vostra Maestà conosce le mie domestiche sciagure. La relazione di mia moglie con Sidney è pur troppo nota a tutti. Chi potrebbe mai credere chʼio scegliessi a mio confidente lʼuomo che mi ha offeso nellʼonore, lʼuomo che sopra tutti i viventi io dovrei maggiormente odiare?»[461] Questa difesa fu reputata soddisfacente; e lʼirco marito seguitò a comunicare secretamente colla sua moglie adultera, lʼadultera con lʼamante, e lo amante coʼ nemici di Giacomo. Egli è probabilissimo che le prime positive assicurazioni dello aiuto di Sunderland fossero oralmente da Sidney comunicate a Guglielmo verso la metà dʼagosto. Certo è che da quel tempo fino a quando la spedizione fu pronta a far vela, la Contessa tenne col suo amante un significantissimo carteggio. Poche delle sue lettere, in parte scritte in cifra, esistono ancora, e contengono proteste di buon volere e promesse di servigi miste con ardenti preghiere di protezione. La scrittrice promette che il suo marito farà tutto ciò che i suoi amici dellʼAja possono desiderare: suppone che gli sarà mestieri per qualche tempo esulare: ma spera che il bando di lui non sia perpetuo, e che egli non venga spogliato deʼ suoi beni patrimoniali; e instantemente prega di sapere in che luogo sarà meglio per lui rifugiarsi, finchè sia abbonacciata la prima furia della tempesta popolare.[462] XXVII. Lo aiuto di Sunderland fu bene accolto: imperciocchè avvicinandosi il tempo di tentare il gran colpo, lʼansietà di Guglielmo sʼera fatta grandissima. Agli occhi altrui con la fredda tranquillità dello aspetto ei nascondeva i suoi sentimenti, ma a Bentinck apriva tutto il suo cuore. Gli apparecchi non erano interamente compiuti. Il disegno era già sospettato e non poteva oltre differirsi. Il Re di Francia o la città dʼAmsterdam potevano frustrarlo. Se Luigi mandasse una grande forza militare nel Brabante, se la fazione che odiava lo Statoldero alzasse il capo, tutto sarebbe finito. «Le mie pene, la mia irrequietudine,» scriveva il Principe «sono terribili. Non so in che guisa io proceda. Mai in vita mia io ho sentito, come ora, il bisogno dello aiuto di Dio.»[463] La moglie di Bentinck era in quel tempo pericolosamente inferma, ed ambi gli amici sentivano per lei penosissima ansietà. «Dio vi conforti,» scriveva Guglielmo, «e vi dia animo a sostenere la parte vostra in unʼopera, dalla quale, per quanto è dato agli uomini conoscere, dipende il bene della sua Chiesa.»[464] E davvero egli era impossibile che un così vasto disegno contro il Re dʼInghilterra rimanesse per molti giorni secreto. Non vʼera arte ad impedire che gli uomini savi sʼaccorgessero deʼ grandi apparati militari e marittimi che Guglielmo andava facendo, e ne sospettassero lo scopo. Sul principio dʼagosto bisbigliavasi per tutta Londra dello avvicinarsi dʼun grande evento. Il debole e corrotto Albeville in queʼ giorni trovavasi in Inghilterra, ed era o simulava dʼessere certo che il Governo Olandese non macchinava nulla contro Giacomo. Ma mentre Albeville rimaneva lontano dal suo posto, Avaux con arte somma compiva i doveri dʼAmbasciatore Francese ed Inglese presso gli Stati, e mandava copiose notizie a Barillon egualmente che a Luigi. Avaux era persuaso che si meditava uno sbarco in Inghilterra, e gli venne fatto di convincerne il suo signore. Ogni corriere che giungesse a Westminster o dallʼAja o da Versailles, recava seri ammonimenti.[465] Ma Giacomo trovavasi involto in uno inganno, che, a quanto sembra, era artificiosamente accresciuto da Sunderland. Lo astuto ministro diceva che il Principe dʼOrange non si rischierebbe mai ad una spedizione oltre mare, lasciando la Olanda priva di difesa. Gli Stati rammentandosi deʼ danni patiti e del pericolo di patirne maggiori nellʼinfausto anno 1672, non si porrebbero a repentaglio di vedere un esercito straniero accamparsi nel piano fra Utrecht e Amsterdam. Non era dubbio che fossero molti sinistri umori in Inghilterra: ma fra i mali umori e la ribellione era immenso lo spazio. I più ricchi e spettabili cittadini non erano minimamente disposti a rischiare onori, vita e sostanze. Quanti uomini cospicui fraʼ Whig avevano parlato con alto–sonanti parole, mentre Monmouth era neʼ Paesi Bassi! E nondimeno chi di loro accorse al suo vessillo allorchè egli lo inalzò a ribellare lʼInghilterra? Era agevole ad intendere il perchè Luigi simulava di prestar fede a cotesti vani rumori. Certo egli sperava, atterrando il Re dʼInghilterra, indurlo a spalleggiare la Francia nella contesa per lo arcivescovato di Colonia. Con tali ragionamenti Giacomo era di leggieri tenuto in una stupida sicurezza.[466] I timori e lo sdegno di Luigi quotidianamente crescevano. Lo stile delle sue lettere si faceva sempre più pungente ed energico.[467] Scriveva di non sapere intendere cotesto letargo nella vigilia dʼuna tremenda crisi. Era il Re forse ammaliato? I suoi ministri erano forse ciechi? Era egli possibile che nessuno in Whitehall sʼaccorgesse di ciò che accadeva in Inghilterra e nel continente? Tanta sicurezza mal poteva essere lo effetto della imprevidenza. Qualche scelleraggine vi stava sotto. Giacomo evidentemente trovavasi in cattive mani. Barillon fu rigorosamente avvertito a non fidarsi alla cieca deʼ ministri inglesi: ma fu avvertito invano. Sunderland aveva avvinto e Barillon e Giacomo in un fascino tale che non vʼera ammonimento che valesse a romperlo. XXVIII. Luigi affaccendavasi ognora con maggior vigoria. Bonrepaux il quale per perspicacia valeva molto più di Barillon, e aveva sempre aborrito e diffidato di Sunderland, fu spedito a Londra per offrire soccorsi marittimi. Ad Avaux nel tempo stesso fu ingiunto di dichiarare agli Stati Generali che la Francia aveva preso Giacomo sotto la sua protezione. Un gran corpo di truppe era pronto a marciare alla frontiera olandese. Questa audace prova di salvare suo malgrado lo accecato tiranno, fu fatta di pieno accordo con Skelton, il quale allora era ambasciatore dʼInghilterra presso la Corte di Versailles. Avaux uniformandosi alle ricevute istruzioni, chiese agli Stati una udienza che gli venne subito concessa. Lʼassemblea era oltre il consueto numerosa. Generalmente credevasi che il Francese dovesse fare qualche comunicazione concernente il commercio; e così supponendo il Presidente aveva apparecchiata una convenevole risposta in iscritto. Ma appena Avaux cominciò ad esporre la sua commissione, segni dʼinquietudine apparvero in tutto lʼuditorio. Coloro che erano in voce di godere la confidenza del Principe dʼOrange, abbassaron gli occhi. Lʼagitazione si fece maggiore allorchè lo Inviato annunziò che il suo signore era intimamente stretto coʼ vincoli dʼamistà e dʼalleanza a Sua Maestà Britannica, e che ogni aggressione contro la Inghilterra verrebbe considerata come una dichiarazione di guerra alla Francia. Il presidente, côlto di sorpresa, balbettò poche parole evasive; e la conferenza si sciolse. Nel medesimo tempo fu notificato agli Stati che Luigi aveva preso sotto la sua protezione il Cardinale Furstemburg e il Capitolo di Colonia.[468] I deputati erano nella massima agitazione. Alcuni consigliavano indugio e cautela. Altri gridavano guerra. Fagel parlò con veementi parole della insolenza francese, e pregò i colleghi a non lasciarsi impaurire dalle minacce. Disse che la risposta più convenevole a cosiffatte comunicazioni era quella di accrescere maggiormente le forze di terra e di mare. Tosto fu spedito un corriere a richiamare Guglielmo da Minden, dove teneva un colloquio di somma importanza con lo Elettore di Brandenburgo. XXIX. Ma non vʼera ragione alcuna di timore. Giacomo correva da sè alla propria rovina, ed ogni sforzo fatto a fermarlo lo spingeva più rapidamente al proprio destino. Mentre il suo trono era consolidato, il suo popolo sommesso, il più ossequioso doʼ Parlamenti pronto a indovinarne i desiderii e compiacerlo, mentre le repubbliche e i potentati stranieri gareggiavano a tenerselo bene edificato, mentre stava solo in lui il divenire lʼarbitro della Cristianità, egli sʼera abbassato a farsi lo schiavo e il mercenario della Francia. E adesso mentre per una catena di delitti e di follie, sʼera inimicato coʼ vicini, coʼ sudditi, coʼ soldati, coʼ marinai, coʼ figli suoi, ed altro rifugio non rimanevagli che la protezione della Francia, fu preso da uno accesso dʼorgoglio, e deliberò di far pompa dʼindipendenza agli occhi di tutto il mondo. Lo aiuto, chʼegli, quando non ne aveva mestieri, non aveva vergognato di accettare con lacrime di gioia, adesso che gli era necessario, lo aveva sprezzantemente ricusato. Essendosi mostrato abietto mentre poteva con convenevolezza mostrarsi puntiglioso a mantenere la propria dignità, egli divenne con ingratitudine altero nel momento in cui lʼalterigia doveva gettarlo nello scherno e nella rovina. Ei si mostrò risentito allo amichevole intervento che avrebbe potuto salvarlo. Si vide mai un Re siffattamente trattato? Era egli un fanciullo o un idiota, che altri avesse ad impacciarsi deʼ fatti suoi? Era egli un principotto, un Cardinale Furstemburg, il quale cadrebbe se non fosse sostenuto dal suo potente protettore? Doveva egli perdere la stima di tutta Europa accettando un pomposo protettorato che egli non aveva mai chiesto? Skelton fu richiamato a rendere ragione della sua condotta, ed appena giunto a Londra fu imprigionato nella Torre. Citters fu bene accolto in Whitehall ed ebbe una lunga udienza. Egli poteva, con veracità maggiore di quella che in simiglianti occasioni i diplomatici reputano necessaria, smentire dalla parte degli Stati Generali qual si fosse disegno ostile: imperciocchè gli Stati Generali fino allora non avevano notizia officiale dello intendimento di Guglielmo; nè era affatto impossibile che essi anche allora non gli dessero la loro approvazione. Giacomo disse che non prestava punto fede alle voci dʼuna invasione Olandese, e che la condotta del Governo Francese gli aveva recato maraviglia e molestia. A Middleton fu ingiunto di assicurare tutti i ministri stranieri come non esistesse tra la Francia e lʼInghilterra quella lega, che la Corte di Versailles voleva, pei propri fini, far credere. Al Nuncio il Re disse che i disegni di Luigi erano manifestissimi e che verrebbero frustrati. Questa officiosa protezione era un insulto e insieme una trappola. «Il mio buon fratello» soggiunse Giacomo «ha ottime qualità; ma lʼadulazione e la vanità gli hanno dato volta al cervello.»[469] Adda, al quale importava più Colonia che la Inghilterra, secondò cotesto strano inganno. Albeville, che era già ritornato al suo posto, ebbe comandamento di dare assicurazioni dʼamistà agli Stati Generali e di aggiungere parole che sarebbero state convenevoli sulle labbra dʼElisabetta o di Cromwell. «Il mio Signore» disse egli «per la sua potenza e pel suo animo si è inalzato al di sopra della posizione dove la Francia pretende tenerlo. Vi è qualche differenza tra un Re dʼInghilterra ed un Arcivescovo di Colonia.» Lʼaccoglienza fatta a Bonrepaux in Whitehall fu fredda. I soccorsi marittimi chʼegli offriva non furono affatto ricusati: ma gli fu forza tornarsene senza avere nulla concluso; e agli Ambasciatori delle Province Unite e della Casa dʼAustria fu detto che lʼambasciata francese non era stata gradita dal Re e non aveva prodotto nessun effetto. Dopo la Rivoluzione Sunderland vantossi, e forse diceva il vero, dʼavere indotto il proprio signore a rifiutare lo aiuto proffertogli dalla Francia.[470] La ostinata demenza di Giacomo destò, come era naturale, lo sdegno del suo potente vicino. Luigi si dolse che in ricambio deʼ grandissimi servigi chʼegli poteva rendere al Governo inglese, quel Governo gli aveva dato una mentita in faccia a tutta la Cristianità. Notò giustamente che tutto ciò che era stato detto da Avaux rispetto alla alleanza tra la Francia e la Gran Bretagna era vero secondo lo spirito, comechè forse non vero secondo la lettera. Non esisteva trattato compilato in articoli, munito di firme, sigilli e ratifiche; ma pel corso di parecchi anni erano state ricambiate tra le due Corti assicurazioni equivalenti, nellʼopinione degli uomini dʼonore, ad un trattato. Luigi aggiunse che per quanto fosse elevato il suo posto in Europa, non avrebbe mai sentita tanto assurda gelosia della propria dignità da prendere per insulto un atto suggerito dallʼamicizia. Ma Giacomo era in condizioni differentissime, e in breve conoscerebbe il pregio di un aiuto da lui con sì poca buona grazia ricusato.[471] Nulladimeno, malgrado la stupidità e la ingratitudine di Giacomo, sarebbe stato savio provvedimento per Luigi il persistere nella determinazione notificata agli Stati Generali. Avaux che per sagacia e discernimento era degno antagonista di Guglielmo, era assolutamente di questa opinione. Precipuo scopo del Governo francese—così ragionava lo esperto Ambasciatore—dovrebbe essere quello dʼimpedire la invasione della Inghilterra. Il modo dʼimpedirla era dʼinvadere i Paesi Bassi sotto il dominio della Spagna, e minacciare i batavi confini. Il Principe dʼOrange era cotanto impegnato nella sua intrapresa, da persistere quandʼanco vedesse la bianca bandiera sventolare sopra le mura di Brusselles. Aveva già detto che ove gli Spagnuoli potessero fare in guisa da tenere fino a primavera Ostenda, Mons e Namur, ci sarebbe ritornato dalla Inghilterra con forze bastevoli a ricuperare tostamente le perdute province. Ma comechè tale fosse la opinione del Principe, tale non era quella degli Stati, i quali non avrebbero agevolmente consentito a mandare il Capitano e il fiore dellʼarmata loro oltre lʼOceano Germanico, mentre un formidabile nemico minacciava il loro territorio.[472] XXX. Luigi reputava savie coteste ragioni: ma era già deliberato di agire in modo diverso. Forse era stato provocato dalla scortesia e dalla caparbietà del Governo inglese, e voleva appagare lo sdegno a spese del proprio interesse. Forse lo traviavano i consigli di Louvois suo ministro della guerra, che aveva grande influenza e non guardava di buon occhio Avaux. Il Re di Francia deliberò di tentare altrove un grande ed inatteso colpo. Ritrasse le sue schiere dalle Fiandre e le gettò nella Germania. Unʼarmata, sotto il comando nominale del Delfino, ma veramente guidata dal Duca di Duras, e da Vauban, padre della scienza delle fortificazioni, invase Philipsburg. Unʼaltra, condotta dal Marchese di Bouffiers, prese Worms, Magonza e Treveri. Una terza, comandata dal Marchese di Humières, entrò in Bonn. Per tutta la linea del Reno, da Carlsruhe fino a Colonia, lo esercito francese fu vittorioso. La nuova della caduta di Philipsburg giunse a Versailles il dì dʼOgnissanti, mentre la Corte ascoltava la predica nella cappella. Il Re fece al predicatore segno di fermarsi, annunziò la lieta nuova e inginocchiandosi ringraziò Dio di questa gran vittoria. Lʼuditorio ne pianse di gioia.[473] La notizia fu accolta con entusiasmo dallo ardente e vanitoso popolo della Francia. I poeti celebrarono il trionfo del loro magnifico protettore. Gli oratori esaltarono dai pergami la sapienza e magnanimità del figlio primogenito della Chiesa. Cantossi con insolita pompa il Te Deum, e le solenni melodie dellʼorgano risonavano miste al clangore deʼ timpani ed allo squillo delle trombe. Ma vʼera poca ragione a rallegrarsi. Il grande uomo di Stato che capitanava la Coalizione Europea, gioiva in cuor suo vedendo così male diretta la energia del suo nemico. Luigi con la sua prontezza aveva ottenuto qualche vantaggio in Germania: ma poteva giovargli poco ove la Inghilterra, inoperosa e priva di gloria sotto quattro Re successivi, riprendesse lʼantico suo grado fra i potentati dʼEuropa. Poche settimane bastavano per compire la impresa dalla quale dipendeva il destino del mondo; e per poche settimane le Province Unite potevano mantenersi sicure da ogni pericolo. XXXI. Guglielmo allora spinse i suoi apparecchi con indefessa operosità e con minore segretezza di quella che per innanzi aveva creduto necessaria. Giungevangli ogni giorno nuovo assicurazioni di soccorso dalle Corti straniere. Ogni opposizione nellʼAja era spenta. Invano Avaux in quegli estremi momenti studiossi con ogni sua arte a rianimare la fazione che pel corso di tre generazioni aveva avversato la Casa dʼOrange. I capi di quella fazione, a dir vero, non procedevano favorevoli allo Statoldero; come quelli che ragionevolmente temevano che ove egli avesse prospera ventura in Inghilterra, diventerebbe assoluto signore della Olanda. Nondimeno gli errori della Corte di Versailles, e la destrezza onde egli se nʼera giovato, rendevano impossibile il continuare la lotta contro di lui. Conobbe essere giunto il tempo di chiedere lo assenso degli Stati. Amsterdam era il quartiere generale del partito ostile alla razza, alla dignità, alla persona di lui; ed anche quivi ei non aveva adesso nulla da temere. Alcuni dei precipui magistrati di quella città avevano avuto più volte secreti colloqui con lui, con Dykvelt e con Bentinck, ed erano stati indotti a promettere che avrebbero secondato o almeno non avversato la grande intrapresa: altri erano esasperati dagli editti commerciali di Luigi: altri erano dolentissimi pei parenti e per gli amici tormentati dai dragoni francesi: altri abborrivano dalla responsabilità di far nascere uno scisma che potrebbe essere fatale alla Federazione Batava: ed altri avevano paura del popolo, il quale, incitato dalle arringhe deʼ zelanti predicatori, era pronto a porre le mani addosso ad ogni traditore della Religione Protestante. La maggioranza quindi di quel Consiglio municipale, che aveva da lungo tempo favorita la Francia, si dichiarò favorevole alla impresa di Guglielmo. E però in ogni parte delle Province Unite era svanito ogni timore dʼopposizione; e lo assenso di tutta la Federazione fu formalmente dato in scerete ragunanze.[474] Il Principe aveva già posto gli occhi sopra un generale che avesse requisiti da essere a lui secondo nel comando. Ciò non era cosa di lieve importanza. Unʼarchibugiata fortuita o il pugnale dʼun assassino avrebbe potuto in un istante lasciare lo esercito senza capo; ed era mestieri che un successore fosse pronto ad occupare il posto vacante. Nulladimeno egli era impossibile deputare a tanto ufficio un Inglese senza offendere i Whig o i Tory; nè fra glʼInglesi vʼera alcuno che avesse lʼarte militare bisognevole a condurre una campagna. Dallʼaltro canto non era agevole proporre uno straniero senza offendere il senso nazionale degli alteri isolani. Un solo era lʼuomo in Europa contro il quale non poteva farsi obiezione, cioè Federigo Conte di Schomberg, tedesco dʼuna famiglia nobile del Palatinato. Era universalmente reputato il più grande maestro dellʼarte della guerra. La pietà e rettitudine sue, che non avevano mai ceduto a fortissime tentazioni, lo rendevano ben meritevole di riverenza e fiducia. Come che fosse Protestante, aveva per molti anni militato al soldo di Luigi, e in onta alle inique trame deʼ Gesuiti aveva strappato da lui, dopo una serie di gloriosi fatti, il bastone di Maresciallo di Francia. Allorquando la persecuzione cominciò ad infuriare, il valoroso veterano ostinatamente ricusò di conseguire con lʼapostasia il regio favore; rinunziò, senza mormorare, a tutti i suoi onori e comandi; abbandonò per sempre la sua patria adottiva, e rifugiossi alla Corte di Berlino. Aveva settanta e più anni dʼetà, ma era in pieno vigore di mente e di corpo. Era stato in Inghilterra, dove fu molto amato ed onorato; e parlava la nostra favella non solo intelligibilmente, ma con grazia e purezza; qualità di cui allora pochi stranieri potevano menar vanto. Con lo assenso dello Elettore di Brandenburgo e con la cordiale approvazione di tutti i capi deʼ partiti inglesi fu nominato Luogotenente di Guglielmo.[475] XXXII. LʼAja era allora piena di avventurieri di tutti i vari partiti che la tirannia di Giacomo aveva congiunti in una strana coalizione; vecchi realisti, che avevano sparso il proprio sangue in difesa del trono; vecchi agitatori dellʼesercito del Parlamento; Tory, che erano stati perseguitati a tempo della Legge dʼEsclusione; Whig, che erano fuggiti al Continente per avere partecipato alla Congiura di Rye House. Primeggiavano in cotesto grande miscuglio Gherardo Conte di Maclesfield, antico Cavaliere che aveva combattuto per Carlo I ed esulato con Carlo II; Arcibaldo Campbell che era figlio primogenito dello sventurato Argyle, dal quale non aveva altro ereditato che il nome illustre e lʼinalienabile affetto dʼuna numerosa tribù; Carlo Paulet, Conte di Wiltshire, erede presuntivo del Marchesato di Wincester; e Pellegrino Osborne, Lord Dumblane, erede presuntivo della Contea di Danby. Notavasi fra i più importanti volontari Mordaunt che esultava nella speranza di incontrare avventure, alle quali irresistibilmente lo traeva la fiera sua indole. Fletcher di Saltoun, mentre stavasi a guardare i confini della Cristianità contro glʼinfedeli, avendo saputo che vi era speranza di liberare la patria, sʼera affrettato ad offrire al liberatore lo aiuto della sua spada. Sir Patrizio Hume, il quale dopo di essere fuggito dalla Scozia era vissuto umilmente in Utrecht, adesso uscì dalla oscurità; ma per fortuna in questa occasione la sua eloquenza poteva recare poco danno; imperocchè il Principe dʼOrange non era punto disposto ad essere Luogotenente dʼuna società ciarliera come era stata quella che aveva rovinata la impresa dʼArgyle. Il sottile ed irrequieto Wildman, che alcuni anni innanzi, non trovandosi sicuro in Inghilterra, aveva cercato un asilo in Germania, adesso accorse alla Corte del Principe. Vʼera anche Carstairs, ministro Presbiteriano di Scozia, che per accorgimento e coraggio non era secondo a nessuno degli uomini politici di quellʼepoca. Fagel, parecchi anni prima, gli aveva affidato segreti importantissimi, che i più orribili tormenti dello stivaletto e delle tanaglie non gli avevano potuto strappare dalle labbra. Per cotesta rara fortezza ei sʼacquistò il primo posto dopo Bentinck nella stima e fiducia del Principe.[476] Ferguson non poteva rimanere quieto mentre apparecchiavasi una rivoluzione. Si procurò un imbarco nella flotta e cominciò ad affaccendarsi fraʼ suoi compagni dʼesilio: ma trovò in tutti diffidenza e disprezzo. Egli era stato grande uomo in quel nucleo dʼignoranti e furibondi fuorusciti che avevano spinto il debole Monmouth alla rovina: ma tra i gravi uomini di Stato e Capitani che coadiuvavano il risoluto e sagace Guglielmo, non vʼera luogo per un agitatore di bassa sfera, mezzo maniaco e mezzo birbone. XXXIII. La differenza fra la spedizione del 1685 e quella del 1688 risultava bastevolmente dalla differenza tra le dichiarazioni pubblicate dai capi dellʼuna e dellʼaltra. Per Monmouth Ferguson aveva scrivacchiato un assurdo e brutale libello, dove accusava Re Giacomo dʼavere bruciato Londra, strangolato Godfrey, fatto strage dʼEssex, e propinato il veleno a Carlo. La Dichiarazione di Guglielmo fu scritta dal Gran Pensionario Fagel il quale aveva alta riputazione di pubblicista. Quantunque fosse grave e dotta, nella sua forma originale era troppo prolissa: ma venne compendiata e tradotta in inglese da Burnet, il quale sʼintendeva bene dellʼarte dello scrivere popolare. In un solenne preambolo stabiliva il principio che in ogni società la rigorosa osservanza della legge era egualmente necessaria alla felicità delle nazioni ed alla sicurezza deʼ Governi. Il Principe dʼOrange aveva quindi veduto con profondo rammarico come le leggi fondamentali del Regno, al quale egli era congiunto con stretti vincoli di sangue e di matrimonio, fossero grandemente e sistematicamente violate. La potestà di dispensare dagli Atti del Parlamento era stata stiracchiata a segno che tutta lʼautorità legislativa era ridotta nella sola Corona. Sentenze repugnanti allo spirito della Costituzione erano state profferite dai tribunali, destituendo i giudici incorruttibili, e sostituendo loro uomini pronti ad obbedire implicitamente agli ordini del Governo. Non ostanti le ripetute assicurazioni che il Re aveva date di mantenere la religione dello Stato, persone manifestamente avverse a quella erano state promosse non solo agli uffici civili, ma anco ai beneficii ecclesiastici. Il governo della Chiesa, in onta al chiarissimo senso degli Statuti, era stato affidato ad una nuova Corte dʼAlta Commissione, nella quale aveva seggio un uomo che apertamente professava il Papismo. Uomini dabbene, per avere ricusato di violare il dovere e i giuramenti loro, erano stati spogliati della loro proprietà in dispregio della _Magna Charta_ e delle libertà dʼInghilterra. Intanto individui che legalmente non potevano porre piede nellʼisola erano stati posti a capo deʼ seminari per corrompere le menti deʼ giovani. Luogotenenti, Deputati Luogotenenti, Giudici di Pace erano stati a centinaia destituiti per avere rifiutato di secondare una politica perniciosa ed incostituzionale. Quasi tutti i borghi del Regno erano stati privati delle loro franchigie. Le Corti di giustizia erano in condizioni tali, che le loro sentenze, anche nelle cause civili, non ispiravano più fiducia, e la loro servilità nelle criminali aveva fatto spargere nel Regno il sangue innocente. Tutti cotesti abusi, venuti in disgusto alla nazione inglese, il Governo aveva intenzione di difendere, secondo che sembrava, con una armata di Papisti Irlandesi. Nè ciò era tutto. I Principi più assoluti del mondo non avevano reputato delitto in un suddito lo esporre modestamente e con pace gli aggravi, e chiederne giustizia. Ma in Inghilterra le cose erano giunte a tale eccesso che il supplicare veniva reputato gravissimo delitto. Per nessuna altra colpa che quella dʼavere presentata al Sovrano una petizione scritta con rispettosissime parole i padri della Chiesa Anglicana erano stati messi in carcere e processati; e destituiti i giudici che diedero il voto in loro favore. La convocazione dʼun legittimo Parlamento poteva essere un rimedio efficace a tutti cotesti mali: ma un simile Parlamento, a meno che non fosse interamente cangiato il Governo, non era da sperarsi dalla nazione. La Corte mostrava evidentemente la intenzione di mettere insieme, rifoggiando a suo modo i municipii e deputando ufficiali elettorali papisti, una Camera di Comuni che fosse tale di solo nome. In fine, vʼerano circostanze che facevano sospettare non essere nato dalla Regina lo infante che chiamavasi Principe di Galles. Per queste ragioni il Principe, in contemplazione della sua stretta parentela con la regia famiglia, e per gratitudine dello affetto che il popolo inglese aveva sempre portato alla sua diletta consorte ed a lui, cedendo allo invito di non pochi Lordi spirituali e secolari e di molti altri uomini dʼogni grado, aveva deliberato di recarsi nellʼisola con forze sufficenti a reprimere la violenza. Lungi dalla sua mente ogni pensiero di conquista. Protestava che finchè le sue milizie rimarrebbero in Inghilterra, sarebbero tenute nella più rigorosa disciplina, ed appena la nazione si fosse liberata dal giogo della tirannide, sarebbero mandate via. Suo unico scopo era quello di far convocare un libero e legittimo Parlamento; alla decisione del quale egli faceva solenne sacramento di lasciare tutte le questioni pubbliche e private. Come questa dichiarazione cominciò a correre attorno per lʼAja, apparvero segni di dissensione fra glʼInglesi. Wildman, indefesso nel male, indusse alcuni deʼ suoi concittadini, ed in ispecie il testardo e leggiero Mordaunt a dichiarare che a tali patti non prenderebbero le armi, dicendo che lo scritto era stato ideato per piacere ai Cavalieri e ai parrochi; i danni della Chiesa e il processo deʼ Vescovi vi facevano troppa figura; e non vʼera pur motto del tirannesco modo onde i Tory, innanzi che rompessero con la Corte, avevano trattato i Whig. Wildman allora produsse un contro–manifesto, da lui apparecchiato, il quale, ove fosse stato abbracciato, avrebbe indignati il Clero Anglicano e quattro quinti dellʼaristocrazia territoriale. I principali Whig gli fecero vigorosa opposizione; e segnatamente Russell dichiarò che ove venisse adottato lo insano suggerimento di Wildman, si sarebbe sciolta la coalizione dalla quale unicamente poteva il popolo inglese sperare dʼessere liberato. In fine la contesa fu ricomposta per lʼautorità di Guglielmo, il quale, col suo consueto buon senso, stabilì che il manifesto rimanesse quasi come era stato congegnato da Fagel e da Burnet.[477] XXXIV. Mentre tali cose seguivano in Olanda, Giacomo erasi finalmente accorto del proprio pericolo. Da varie parti gli giungevano avvisi che mal potevano mettersi in non cale, finchè un dispaccio dʼAlbeville gli tolse ogni dubbio. Dicesi che come il Re lo ebbe letto, tosto impallidisse e perdesse per alcun tempo la parola.[478] Ed era naturale che ne rimanesse atterrito: imperocchè il primo vento che spirasse di levante avrebbe portato un esercito ostile alle spiagge del suo reame. Tutta Europa, tranne un solo potentato, attendeva con impazienza la nuova della sua caduta. Anzi egli aveva respinto con un insulto lo amichevole intervento che lo avrebbe potuto salvare. Le schiere francesi, che, sʼegli non fosse stato demente, avrebbero potuto atterrire gli Stati Generali, stavansi ad assediare Philipsburg, o presidiavano Magonza. Tra pochi giorni forse gli toccherebbe di pugnare sul territorio inglese a difendere la propria corona e il diritto ereditario del suo figliuolo infante. Grandi, a dir vero, erano in apparenza i suoi mezzi. La flotta era in assai migliori condizioni di quello che fosse nel tempo, in cui egli ascese al trono: e tali miglioramenti in parte erano da attribuirsi aʼ suoi propri sforzi. Non aveva nominato Lord Grande Ammiraglio o Consiglio dʼAmmiragliato, ma aveva riserbata a se stesso lʼalta direzione degli affari marittimi con la vigorosa assistenza di Pepys. Dice il proverbio che lʼocchio del padrone vale più di quello del ministro: e in una età di corruzione e di peculato è verosimile che un dipartimento al quale un sovrano, anche di pochissima mente, rivolge la propria attenzione, si mantenga comparativamente libero dagli abusi. Sarebbe stato facile trovare un ministro della marina più abile di Giacomo; ma non sarebbe stato facile, fra gli uomini pubblici di quel tempo, trovare, tranne Giacomo stesso, un ministro della marina, il quale non rubasse sulle provigioni, non accettasse doni dai contraenti, e non addebitasse la Corona deʼ non mai fatti ripari. E veramente il Re era quasi il solo del quale si potesse esser certi che non frodasse il Re. E però negli ultimi tre anni più che neʼ precedenti eravi stato meno sciupío e meno rubamenti negli arsenali. Sʼerano costruiti parecchi vascelli atti a navigare. Giacomo aveva emanato un opportuno decreto col quale, accrescendo la paga dei capitani, rigorosamente inibiva loro di trasportare da un porto allʼaltro mercanzie senza regia licenza. Lo effetto di queste riforme già era visibile; e a Giacomo non riuscì difficile allestire in brevissimo tempo una considerevole flotta. Trenta vascelli di linea, tutti di terzo e quarto ordine, furono ragunati nel Tamigi sotto il comando di Lord Dartmouth, la cui lealtà non ammetteva sospetto. Egli veniva reputato nellʼarte sua più esperto di tutti i marini patrizi, i quali in quella età inalzavansi ai supremi comandi nella flotta senza educazione marittima, ed erano a un tempo capitani di vascello sul mare, e colonnelli di fanteria per terra.[479] XXXV. Lʼarmata regolare era più grande di quante ne avessero mai comandate i re dʼInghilterra, e fu rapidamente accresciuta. Nei reggimenti che esistevano vennero incorporate nuove compagnie. Furono create commissioni a formarne altri. Quattro mila uomini furono aggiunti alle forze militari dellʼInghilterra; tremila speditamente fatti venire dalla Irlanda; altrettanti dalla Scozia diretti verso il mezzogiorno. Giacomo stimava circa quaranta mila uomini—senza contarvi la milizia civica—le forze che poteva opporre agli invasori.[480] La flotta e lo esercito, quindi, erano più che bastevoli a respingere la invasione degli Olandesi. Ma poteva il Re fidarsi dello esercito e della flotta? Le milizie urbane non accorrerebbero a migliaia al vessillo del liberatore? Il partito, che pochi anni innanzi aveva snudata la spada in favore di Monmouth, senza dubbio accoglierebbe il Principe dʼOrange. E dove era egli mai quel partito che per quarantasette anni era stato lʼegida della monarchia? Dove erano quegli strenui gentiluomini i quali erano sempre stati pronti a spargere il proprio sangue a difesa della Corona? Oltraggiati e insultati, cacciati dalle magistrature e dalla milizia, mostravansi senza maschera lieti del pericolo in cui vedevano travagliarsi lo ingrato sovrano. Dove erano mai quei sacerdoti e prelati, i quali da dieci mila pergami avevano predicato il debito dʼobbedire allʼunto del Signore? Alcuni di loro erano stati messi in carcere, altri spogliati degli averi, e tutti posti sotto al ferreo giogo dellʼAlta Commissione, ed avevano grandemente temuto un nuovo capriccio del tiranno non li privasse della libera proprietà loro, lasciandoli senza un tozzo di pane. Eʼ sembrava incredibile che gli Anglicani, anche in quegli estremi, dimenticassero pienamente quella dottrina di cui menavano peculiare vanto. Ma poteva egli il loro oppressore augurarsi di trovare fra essi quello spirito che nella precedente generazione aveva trionfato sopra i soldati dʼEssex e di Waller, e dopo una disperata lotta ceduto solo al genio e vigore di Cromwell? Il tiranno ne impaurì davvero. E cessando di ripetere che le concessioni avevano sempre tratto i principi alla rovina, confessò amaramente essergli dʼuopo corteggiare di nuovo i Tory.[481] XXXVI. Abbiamo ragione di credere che Halifax verso questo tempo fosse invitato a rientrare nel governo, e che ciò non gli spiacesse. La parte di mediatore fra il trono e la nazione era quella che meglio gli stava, e che ei singolarmente ambiva. Non si sa in che guisa si rompessero le pratiche con lui: ma non è improbabile che la questione della potestà di dispensare fosse difficoltà insormontabile. Per averla avversata, tre anni innanzi, era caduto in disgrazia; e fra le cose che erano quinci succedute non ve nʼera alcuna che gli potesse far cangiare opinione. Giacomo, dallʼaltro canto, era fermamente deliberato di non fare concessione alcuna intorno a quel punto.[482] Rispetto alle altre cose era meno pertinace. Emanò un proclama col quale solennemente prometteva proteggere la chiesa dʼInghilterra e mantenere lʼAtto dʼUniformità. Dichiaravasi desideroso di fare grandi sacrifici alla concordia. Diceva non volere più oltre insistere sullʼammissione deʼ Cattolici Romani alla Camera deʼ Comuni; e sperava di sicuro che i suoi sudditi giustamente apprezzerebbero la prova chʼegli porgeva a volere appagare i loro desiderii. Tre giorni dopo espresse la intenzione di porre nuovamente in ufficio i magistrati o i luogotenenti deputati chʼegli aveva destituiti per avere ricusato di secondare la politica del governo. Il dì dopo la comparsa di questa notificazione Compton fu dalla sospensione prosciolto.[483] XXXVII. Nel tempo medesimo il Re diede udienza a tutti i vescovi che erano in Londra. Avevano chiesto dʼessere ammessi alla presenza di lui onde confortarlo deʼ loro consigli in quelle gravissime circostanze. Il Primate favellò per tutti. Rispettosamente pregò il Re a porre lʼamministrazione nelle mani dʼuomini che avessero i debiti requisiti per condurre il governo; revocare tutti gli atti consumati sotto pretesto della potestà di dispensare; annullare lʼAlta Commissione; riparare alle ingiustizie commesse contro il Collegio della Maddalena, e rendere ai Municipii le loro antiche franchigie. Accennò con molta chiarezza ad un desiderevole evento che avrebbe pienamente consolidato il trono e resa la pace al perturbato reame. Ove Sua Maestà sʼinducesse a riesaminare i punti controversi fra la Chiesa di Roma e quella dʼInghilterra, forse, mercè la grazia divina, gli argomenti che i vescovi desideravano esporle lʼavrebbero convinta essere suo debito ritornare alla religione del padre e dellʼavo. Finqui, disse Sancroft, aveva espresso glʼintendimenti deʼ suoi confratelli. Ma vʼera una cosa intorno a cui non li aveva consultati, e chʼegli reputava suo dovere esporre al sovrano. E veramente egli era il solo uomo del clero che potesse toccare di tale subietto senza essere sospettato di mirare al proprio interesse. La sede metropolitana di York da tre anni era vacante. Lo arcivescovo supplicò il Re di darla a un pio e dotto teologo, ed aggiunse che un siffatto teologo poteva senza difficoltà trovarsi fra coloro che erano lì presenti. Il Re seppe frenarsi tanto da rendere grazie ai Vescovi per quegli sgradevoli ammonimenti, e promise loro di ponderare bene ciò che avevano detto.[484] Quanto alla potestà di dispensare non volle cedere un jota. Nessuno deglʼindividui incapaci fu rimosso dagli uffici civili o militari. Ma alcuni deʼ suggerimenti di Sancroft vennero abbracciati. Dentro quarantotto ore la Corte dellʼAlta Commissione fu abolita.[485] Fu risoluto di rendere alla Città di Londra lo statuto toltole sei anni innanzi; e il Cancelliere fu mandato con gran solennità a recare a Guildhall quella veneranda cartapecora.[486] Sette giorni dopo fu annunziato al pubblico che il Vescovo di Winchester, il quale per virtù del proprio ufficio era Visitatore del Collegio della Maddalena, aveva avuto dal Re lo incarico di riparare ai danni recati a quella società. Eʼ non fu senza una lunga lotta e un amarissimo affanno che Giacomo scese a questa ultima umiliazione; e per vero dire non cedette finchè il Vicario Apostolico Leyburn, il quale, a quanto sembra, si condusse sempre da onesto e savio uomo, dichiarò che, secondo il suo giudicio, il Presidente e i Convittori cacciati avevano patito ingiustizia, e che per ragioni religiose e politiche era dʼuopo rendere loro il già tolto.[487] In pochi giorni fu pubblicato un decreto che restituiva le tolte franchigie a tutti i municipii.[488] XXXVIII. Giacomo lusingavasi che concessioni sì grandi, fatte nel breve spazio dʼun mese, gli farebbero di nuovo acquistare lo affetto del suo popolo. Non può dubitarsi che ove egli le avesse fatte pria che vi fosse ragione ad attendere una invasione dalla Olanda, avrebbero molto contribuito a riconciliarlo coi Tory. Ma i principi che concedono al timore ciò che ricusano alla giustizia, non debbono sperare gratitudine. Per tre anni il Re era stato duro ad ogni argomento, ad ogni preghiera. Chi deʼ ministri aveva osato inalzare la voce in favore della costituzione civile ed ecclesiastica del Regno, era caduto in disgrazia. Un Parlamento eminentemente realista erasi provato a protestare con dolci e rispettosi modi contro la violazione delle leggi fondamentali della Inghilterra, ed era stato acremente ripreso, prorogato, e disciolto. I giudici, ad uno ad uno, erano stati privati dellʼermellino, per non essersi voluti indurre a profferire sentenze contrarie ad ogni specie di leggi. Ai più spettabili cavalieri era stato chiuso lʼadito al governo delle loro Contee perchè avevano ricusato di tradire le libertà pubbliche. Gli ecclesiastici a centinaia erano stati privati deʼ loro beneficii, perchè sʼerano mantenuti fedeli ai propri giuramenti. Alcuni prelati, alla cui ostinata fedeltà il Re era debitore della propria corona, lo avevano supplicato in ginocchioni a non volere che si violassero le leggi di Dio e della patria. La loro modesta petizione era stata considerata come libello sedizioso. Erano stati forte ripresi, minacciati, imprigionati, processati, e a mala pena avevano scansata la estrema rovina. La nazione in fine, vedendo il diritto soverchiato dalla forza, e perfino le supplicazioni reputarsi delitto, cominciò a pensare al modo di commettere le proprie sorti allʼesito dʼuna guerra. Lʼoppressore seppe essere pronto un liberatore armato, il quale sarebbe di gran cuore accolto daʼ Whig e dai Tory, dai Dissenzienti e dagli Anglicani. E tutto cangiossi in un attimo. Quel governo che aveva rimeritato i suoi servitori fidi e costanti con la spoliazione e la persecuzione, quel governo che alle solide ragioni ed alle commoventi preghiere aveva risposto con le ingiurie e glʼinsulti, si fece in un istante stranamente mite. La Gazzetta in ciascun suo numero annunziava la riparazione di qualche ingiustizia. Allora chiaramente si conobbe che non era da porre fede nella equità, nellʼumanità, nella solenne parola del Re, e che egli avrebbe governato bene finchè esisteva il timore della resistenza. I suoi sudditi, quindi, non erano punto disposti a ridargli quella fiducia chʼegli aveva giustamente perduta, o a mitigare la pressura che sola gli aveva strappato dalle mani i pochi buoni atti da lui fatti in tutto il tempo del suo regnare. Cresceva sempre in cuore di tutti lʼardente desiderio dello arrivo degli Olandesi. La plebe aspramente imprecava e malediva ai venti che in quella stagione ostinatissimi spiravano da ponente, e impedivano che lʼarmata del Principe salpasse, e a un tempo portavano nuovi soldati irlandesi da Dublino a Chester. Dicevano spirare vento papista, ed affollavansi in Cheapside con gli occhi intenti sul campanile di Bow–Church pregando che la banderuola indicasse lo spirare di un vento protestante.[489] Il sentimento universale fu accresciuto da un fatto, che, sebbene fosse perfettamente accidentale, venne attribuito alla perfidia del Re. Il Vescovo di Winchester annunziò che, obbedendo al regio comando, egli doveva ribenedire i Convittori già cacciati dal Collegio della Maddalena. E avendo per cotesta cerimonia stabilito il dì 21 ottobre, il giorno precedente giunse in Oxford. La intera Università era in grande aspettazione. Gli espulsi Convittori erano arrivati da ogni parte del Regno, bramosi di rientrare nelle loro dilette abitazioni. Trecento gentiluomini a cavallo scortarono il Vescovo Visitatore al suo alloggio. Mentre ei procedeva, le campane sonavano a festa, e unʼinnumerevole folla di popolo che accalcavasi per tutta High–Street mandava voci di acclamazione. Si ritrasse onde riposarsi. La dimane dinanzi le porte della Maddalena era accorsa una gran turba di gente: ma il Vescovo non compariva; e tosto si seppe essere giunto un regio messo recandogli lʼordine di partire immediatamente per Whitehall. Questo strano fatto destò in tutti molta maraviglia ed ansietà: ma in poche ore si sparse una nuova, la quale ad uomini non senza ragione disposti a pensare al peggio parve chiaramente spiegare il perchè Giacomo aveva mutato proponimento. La flotta olandese aveva messo alla vela, ed era stata ricacciata indietro da una tempesta. Le ciarle popolari esagerarono il disastro. Dicevasi, molti vascelli essersi perduti, migliaia di cavalli periti; ogni pensiero dʼuno sbarco in Inghilterra doversi abbandonare almeno per quellʼanno. Ed erano efficaci avvertimenti alla nazione. Mentre Giacomo era atterrito dalla prossima invasione e ribellione, aveva ordinato si rendesse giustizia a coloro che erano stati illegalmente spogliati. Appena si vide sicuro dello imminente pericolo, rivocò quegli ordini. Cotesta imputazione, comechè allora fosse generalmente creduta e dopo venisse ripetuta da scrittori che dovevano essere bene informati, era priva di fondamento. E certo che il disastro della flotta olandese non poteva, per nessuna guisa di comunicazione, sapersi in Westminster se non alcune ore dopo che il Vescovo di Winchester avesse ricevuto gli ordini di partirsi da Oxford. Il Re, nondimeno, aveva poca ragione a dolersi dei sospetti deʼ suoi popoli. Se talvolta, senza rigoroso esame deʼ fatti, attribuivano alla disonesta politica di lui ciò che veramente era effetto del caso e della imprevidenza, la colpa era tutta sua. Che a coloro, i quali hanno lʼabitudine di rompere la fede, non si presti credenza quando intendono serbarla, ciò altro non è che giusta e ben meritata pena.[490] È da notarsi che Giacomo, in questa occasione, incorse in un non meritato addebito, soltanto per essersi mostrato corrivo a scolparsi dʼunʼaltra imputazione chʼegli egualmente non meritava. Il Vescovo di Winchester era stato in gran fretta richiamato da Oxford per trovarsi presente ad una straordinaria sessione del Consiglio Privato, o, a dir meglio, Assemblea di Notabili convocata in Whitehall. In questa solenne ragunanza oltre i Consiglieri Privati furono chiamati tutti i Pari spirituali e secolari che per avventura trovavansi nella metropoli e neʼ luoghi circostanti, i Giudici, gli Avvocati della Corona, il Lord Gonfaloniere e gli Aldermanni della Città di Londra. Fu fatto intendere a Petre che farebbe bene dʼassentarsi: perocchè pochi Pari avrebbero tollerato di trovarsi in compagnia di lui. Presso al capo del banco era posto un seggio per la Regina vedova. La principessa Anna era stata invitata ad assistervi, ma si scusò dicendo sentirsi poco bene di salute. XXXIX. Giacomo disse a cotesto grande consesso chʼegli reputava necessario produrre le prove della nascita del proprio figliuolo. Uomini malvagi con le arti loro avevano invelenito a tal segno lʼanimo del pubblico, che moltissimi credevano il Principe di Galles non essere veramente nato dalla Regina. Ma la Provvidenza aveva ordinate le cose in modo che forse giammai principe venne al mondo in presenza di cotanti testimoni; i quali erano lì presenti per deporre il vero. Dopo che furono raccolte e scritte tutte le testimonianze, Giacomo con grande solennità dichiarò che lo addebito datogli era onninamente falso, e chʼegli avrebbe piuttosto patito mille morti che ledere i diritti di nessuna delle sue creature. Tutti gli astanti ne parvero soddisfatti. Le prove testimoniali vennero tosto pubblicate, e tutti gli uomini savi o imparziali le stimarono decisive.[491] Ma i savi sono sempre pochi; e quasi nessuno allora era imparziale. Tutta la nazione era persuasa che ogni papista sincero si credeva tenuto a spergiurare, qualora lo spergiuro giovasse alla propria Chiesa. Coloro che, nati protestanti, per cupidigia di guadagno avevano simulato di convertirsi al papismo, erano meno degni di fede anche deʼ sinceri papisti. Il detto di tutti coloro che appartenevano a queste due classi era quindi considerato come nullo. In tal guisa si trovò grandemente scemato il peso delle testimonianze nelle quali Giacomo confidava: le altre venivano malignamente esaminate. Trovavasi sempre qualche obiezione contro i pochi testimoni protestanti che avevano detto alcuna cosa dʼimportante. Questi era notissimo come avido adulatore. Quellʼaltro non aveva per anche apostatato, ma era stretto parente dʼun apostata. La gente chiedeva, come aveva chiesto in principio, perchè, se non vʼera nulla di male, il Re, sapendo che molti dubitavano della gravidanza della sua moglie, non aveva provveduto sì che il parto fosse provato in modo più soddisfacente. Non vʼera nulla da sospettare neʼ falsi calcoli, nello improvviso cangiare dʼabitazione, nellʼassenza della Principessa Anna e dello Arcivescovo di Canterbury? Perchè non era egli presente nessun prelato della Chiesa Anglicana? Perchè non fu chiamato lo Ambasciatore Olandese? Perchè, sopra tutto, agli Hyde, servi leali della Corona, figli fedeli della Chiesa, e naturali tutori degli interessi delle loro nepoti, non fu egli concesso di trovarsi fra la folla deʼ papisti che riempivano le sale e giungevano fino al regio talamo? Perchè, insomma, nella lunga lista degli astanti non era un solo nome meritevole della fiducia e del rispetto del pubblico? La vera risposta a coteste domande era che il Re, uomo di debole intendimento e dʼindole dispotica, aveva volentieri côlto quel destro a manifestare il suo disprezzo per la opinione deʼ suoi sudditi. Ma la moltitudine, non contenta di questa spiegazione, attribuiva a una profondamente meditata scelleraggine ciò che era effetto di demenza e caparbietà. Nè così pensava la sola moltitudine. La Principessa Anna mentre stava ad abbigliarsi, il dì dopo la sopra riferita adunanza, parlò del fatto con tali parole di scherno che le sue cameriste ardirono celiarne anche esse. Alcuni deʼ Lordi che avevano ascoltato lo esame deʼ testimoni, e ne parevano sodisfatti, non ne erano punto convinti. Lloyd Vescovo di Santo Asaph, uomo universalmente riverito per la pietà e dottrina sue, seguitò finchè visse a credere alla esistenza dʼun inganno. XL. Non erano trascorse molte ore da che le prove testimoniali prese nel Consiglio stavano nelle mani del pubblico, quando corse attorno la voce che Sunderland era stato destituito di tutti i suoi uffici. Eʼ sembra che la nuova della sua disgrazia giungesse di sorpresa ai politici dei Caffè; ma coloro che notavano attentamente ciò che accadeva in Palazzo, non ne rimasero punto maravigliati. Non era legalmente o palpabilmente provato chʼegli fosse reo di tradimento: ma coloro che lo sorvegliavano da presso, forte sospettavano che per un mezzo o per un altro egli fosse in comunicazione coglʼinimici del Governo nel quale occupava un posto così alto. Con imperterrita fronte imprecò sul proprio capo tutti i mali in questo e nellʼaltro mondo ove fosse traditore. Protestò dicendo il suo solo delitto essere quello dʼavere servito troppo bene la Corona. Non aveva egli dato pegni alla causa del Re? Non aveva egli rotto ogni ponte, che nel caso dʼun disastro potesse servirgli di ritirata? Non aveva fatto il possibile per sostenere la potestà di dispensare; non aveva seduto nellʼAlta Commissione, e firmato lʼordine dʼimprigionare i Vescovi; non era comparso come testimonio contro loro, a risico della vita, fra i fischi e le maledizioni delle migliaia di spettatori che riempivano Westminster Hall? Non aveva egli data la estrema prova di fedeltà abiurando la propria fede ed entrando nel grembo della Chiesa detestata dalla nazione? Che poteva egli mai sperare da un mutamento politico? E che non aveva egli mai da temere? Questi ragionamenti, comechè fossero solidi ed espressi con la più insinuante destrezza, non potevano spengere la impressione prodotta dai bisbigli e dalle relazioni che giungevano da cento parti diverse. Il Re divenne ogni dì sempre più freddo. Sunderland tentò di sostenersi col soccorso della Regina; ottenne una udienza, e trovavasi già nello appartamento di lei, allorchè entrò Middleton, e per ordine del Re gli chiese i sigilli. Quella sera il caduto ministro fu ammesso per lʼultima volta alle secrete stanze del principe da lui lusingato e tradito. La scena fu stranissima. Sunderland sostenne maravigliosamente la parte della virtù calunniata. Disse non rincrescergli dʼavere perduto il posto di Segretario di Stato o di Presidente del Consiglio, se gli rimaneva la fortuna di non demeritare la stima del suo Sovrano. «Deh! Sire, non mi vogliate rendere il gentiluomo più infelice che sia neʼ vostri dominii, ricusando di dichiarare che non mi credete reo di slealtà.» Il Re non sapeva che rispondere. Non aveva prove positive della colpa; e la energia e il tono patetico onde Sunderland mentiva erano tali, che avrebbero ingannato uno intendimento più acuto di quello con cui egli aveva da fare. Nella Legazione Francese le sue proteste erano credute vere. Ivi dichiarò che rimarrebbe per pochi giorni in Londra e si mostrerebbe alla Corte. Poi se ne anderebbe nella sua abitazione campestre in Althorpe e si proverebbe a rifare con la economia il dilapidato patrimonio. Ove scoppiasse una rivoluzione si rifugierebbe in Francia, perocchè la sua mal ricompensata lealtà non gli aveva lasciato altro asilo sulla terra.[492] I Sigilli tolti a Sunderland furono affidati a Preston. La Gazzetta nel medesimo numero in cui annunziò questo cambiamento conteneva la notizia officiale del disastro della flotta olandese:[493] disastro grave, quantunque lo fosse meno di quello che il Re e i suoi pochi aderenti, traviati dal proprio desiderio, erano inchinevoli a credere. XLI. Il dì 16 ottobre, secondo il calendario inglese, fu convocata una solenne adunanza degli Stati dʼOlanda. Il Principe vi andò per dir loro addio. Li ringraziò della benevolenza con la quale avevano vegliato sopra la sua persona quando egli era orfano fanciullo, della fiducia che avevano posta in lui durante il suo governo, e dellʼaiuto che gli avevan prestato in quella gran crisi. Li pregò a credere che egli sempre aveva inteso con ogni studio promuovere il bene della patria. Ora li lasciava, forse per non più ritornare. Ove cadesse difendendo la religione riformata e la indipendenza della Europa, raccomandava loro la sua diletta consorte. Il Gran Pensionario gli rispose con tremula voce; e in tutto quel grave senato non vʼera alcuno che non lacrimasse. Ma Guglielmo non fu nè anche per un istante abbandonato dal suo ferreo stoicismo, e si stava fraʼ suoi amici che piangevano tranquillo ed austero come se fosse per lasciarli onde partire per le sue foreste di Loo.[494] I deputati delle principali città lo accompagnarono fino al suo bargio. Gli stessi rappresentanti dʼAmsterdam, da lungo tempo sede precipua dʼopposizione al governo di lui, erano fra mezzo al corteo. In tutte le chiese dellʼAja si fecero pubbliche preci per lui. XLII. In sulla sera giunse a Helvoetsluys e si recò sur una fregata che aveva nome Brill. Tosto fece inalberare la sua bandiera, nella quale era lʼarme di Nassau inquartata con quella dʼInghilterra. Il motto ricamato in lettere grandi tre piedi era felicemente scelto. La Casa dʼOrange da lungo tempo aveva assunta lʼepigrafe ellittica: «Io Manterrò,» Adesso la ellissi fu compita con le parole: «Le libertà dʼInghilterra e la Religione Protestante.» Erano corse poche ore da che il Principe era sulla nave, allorchè il vento cominciò a spirare secondo. Il dì 19 la flotta salpò, e spinta da un forte vento aveva corsa mezza la distanza dalla costa olandese a quella dʼInghilterra. Ed ecco improvviso cangiare il vento, che soffiando impetuoso da ponente suscitò una violenta tempesta. Le navi disperse e sbattute ripararonsi, come meglio poterono, ai lidi olandesi. Il Brill arrivò a Helvoetsluys il dì 21. Coloro che erano sulla nave del Principe notarono maravigliando che nè pericolo nè mortificazione valsero a perturbarlo un solo momento. Quantunque soffrisse di mal di mare, ricusò di andare a terra: imperocchè pensava che rimanendo sul bordo, ei significherebbe efficacissimamente alla Europa che la sostenuta fortuna aveva solo per breve tempo differita la esecuzione del suo disegno. In due o tre giorni la flotta si raccolse. Solo un bastimento sʼera perduto. Non mancava nè anco uno deʼ soldati o marinaj. Alcuni cavalli erano periti: ma tale perdita speditamente riparò il Principe: e innanzi che la Gazzetta di Londra spargesse la nuova dello infortunio, egli era nuovamente pronto a far vela.[495] XLIII. Il Manifesto lo precedè di sole poche ore. Il dì primo di novembre cominciò a bisbigliarsene misteriosamente fraʼ politici di Londra: con gran segretezza correva di mano in mano, e fu introdotto nelle buche dello Ufficio postale. Uno degli agenti venne arrestato, e i pieghi che egli portava furono recati a Whitehall. Il Re lesse, e grandemente turbossi. Il suo primo impulso fu di nascondere agli occhi di tutti il Manifesto. Ne gettò nel fuoco tutti gli esemplari, tranne un solo chʼegli quasi non osava fare uscire dalle sue proprie mani.[496] Il paragrafo onde egli fu maggiormente perturbato, era quello in cui dicevasi che alcuni Pari spirituali e secolari avevano invitato il Principe dʼOrange a invadere la Inghilterra. Halifax, Clarendon e Nottingham trovavansi in Londra, e vennero tosto chiamati al Palazzo e interrogati. Halifax, comechè fosse conscio della propria innocenza, in prima rifiutò di rispondere. «Vostra Maestà» disse egli «mi chiede se io sia reo di crimenlese. Se sono sospettato, mi traduca dinanzi ai miei Pari. E come può la Maestà Vostra riposare sulla risposta dʼun colpevole che si veda in pericolo di vita? Quando anche io avessi invitato il Principe, senza il minimo scrupolo risponderei: Non sono colpevole.» Il Re disse che non credeva Halifax reo, e che gli aveva fatta quella dimanda come un gentiluomo chiede ad altro gentiluomo calunniato se vi sia il minimo fondamento alla calunnia. «In questo caso» rispose Halifax «non ho difficoltà ad assicurarvi, come gentiluomo che parli a gentiluomo, sul mio onore, che è sacro quanto il mio giuramento, che non ho invitato il Principe dʼOrange.»[497] Clarendon e Nottingham diedero la medesima risposta. Il Re desiderava anco più ardentemente di sincerarsi della inclinazione deʼ Prelati. Se essi gli erano ostili, il suo trono pericolava davvero. Ma ciò non era possibile. Vʼera alcun che di mostruoso nel supporre che un Vescovo della Chiesa Anglicana potesse ribellarsi contro il proprio Sovrano. Compton fu chiamato alle stanze del Re, il quale gli chiese se credeva che lʼasserzione del Principe avesse il minimo fondamento. Il Vescovo trovossi impacciato a rispondere, poichè era uno deʼ sette che avevano sottoscritto lo invito; e la sua coscienza, che non era molto destra, non gli concedeva, a quanto sembra, di dire unʼaperta bugia. «Sire,» disse egli «io sono sicurissimo che non vi è uno traʼ miei colleghi che non sia, al pari di me, innocente in questo negozio.» Lo equivoco era ingegnoso: ma se la differenza fra il peccato di siffatto equivoco e il peccato dʼuna menzogna vaglia uno sforzo dʼingegno, è cosa da porsi in dubbio. Il Re ne fu satisfatto; e disse: «Vi assolvo tutti da ogni sospetto, ma reputo necessario che pubblicamente contraddiciate il calunnioso addebito datovi nel Manifesto del Principe.» Il Vescovo naturalmente chiese di vedere lo scritto che egli doveva contradire; ma il Re non volle consentirvi. Il dì seguente comparve un proclama che minacciava le più severe pene a tutti coloro che osassero spargere o semplicemente leggere il Manifesto di Guglielmo.[498] Il Primate e i pochi Pari spirituali che per avventura trovavansi in Londra riceverono ordine dʼappresentarsi al Re. Allʼudienza vʼera anche Preston col Manifesto in mano. «Milordi,» disse Giacomo «udite questo paragrafo che tocca di voi.» Preston allora lesse le parole colle quali erano rammentati i Pari spirituali. Il Re continuò: «Io non credo un jota di tutto questo: sono sicuro della vostra innocenza; ma stimo necessario farvi sapere ciò di che siete accusati.» Il Primate con mille rispettose espressioni protestò che il Re non gli rendeva altro che giustizia. «Io sono nato suddito di Vostra Maestà. Ho più volte confermata la fedeltà mia con giuramento. Non posso avere se non un solo Re ad una volta. Non ho invitato il Principe; e credo che nessuno deʼ miei confratelli lo abbia fatto.»—«Non io di certo,» disse Crewe di Durham. «Nè anchʼio,» disse Cartwright di Chester. A Crewe ed a Cartwright bene poteva prestarsi fede; perocchè entrambi erano stati membri dellʼAlta Commissione. Quando toccò a Compton di rispondere, evase la domanda con un modo che poteva fare invidia a un Gesuita: «Io diedi jeri la mia risposta a vostra Maestà.» Il Re ripetè più volte che li credeva innocenti. Nondimeno disse che, secondo il suo giudicio, sarebbe utile a sè e allʼonor loro che essi ne facessero pubblica discolpa. Richiese quindi che protestassero in iscritto dʼabborrire il disegno del Principe. I Prelati rimasero taciti; il Re suppose che il silenzio significasse assentimento, e dètte loro commiato.[499] Infrattanto lʼarmata navale di Guglielmo veleggiava lʼOceano Germanico. Aveva salpato per la seconda volta la sera del giovedì, primo di novembre. Il vento spirava prospero da levante. Il naviglio per dodici ore fece via fra ponente e settentrione. Le navi leggiere mandate dallo Ammiraglio inglese onde osservare, recarono la nuova la quale confermò la comune opinione, cioè che il nemico si proverebbe di approdare alla Contea di York. Improvvisamente, ad un segnale fatto dal vascello del Principe, lʼintiera flotta girò di bordo e si diresse giù per la Manica. Il vento medesimo che spirava secondo aglʼinvasori, impediva Dartmouth dʼuscire dal Tamigi. I suoi legni furono costretti ad ammainare; e due delle sue fregate che erano uscite in alto mare, sconquassate dalla violenza delle onde, furono respinte nel fiume.[500] XLIV. La flotta olandese andando rapidamente col vento in poppa, giunse allo Stretto verso le ore dieci antimeridiane nel sabato del 3 novembre. La precedeva lo stesso Guglielmo sul Brill. Seicento e più navi, gonfie le vele dal prospero vento, lo seguivano. I legni da trasporto tenevano il centro fiancheggiati da più di cinquanta vascelli da guerra. Herbert col titolo di Luogotenente Generale Ammiraglio comandava la intera flotta, e stavasi nel retroguardo: e molti marinaj inglesi, infiammati dallʼodio contro il papismo e attirati dalla buona paga, erano sotto i suoi ordini. Non senza difficoltà Guglielmo potè indurre alcuni ufficiali olandesi di grande reputazione a sottoporsi alla autorità dʼuno straniero. Ma questo provvedimento era sommamente savio. Nella flotta del Re esistevano molti mali umori ed un fervido zelo per la fede protestante. A memoria deʼ vecchi marinaj la flotta inglese e la olandese avevano tre volte con eroico coraggio e varia fortuna conteso per lo impero del mare. I nostri marinaj non avevano dimenticato Tromp che aveva minacciato di spazzare con una scopa il Canale, o De Ruyter che aveva appiccato il fuoco agli arsenali del Medway. Se le due nazioni rivali si trovassero nuovamente faccia a faccia sullʼelemento alla cui sovranità entrambe pretendevano, ogni altro pensiero cederebbe alla vicendevole animosità; e ne seguirebbe forse sanguinosa ed ostinata battaglia. Una sconfitta sarebbe stata fatale alla impresa di Guglielmo. Anche la vittoria avrebbe sconcertato i profondamente meditati disegni della sua politica. E però egli saviamente provvide che ove i marinaj di Giacomo lo inseguissero, sarebbero salutati nella patria lingua ed esortati da un ammiraglio, sotto il comando del quale avevano già servito, e che era da loro grandemente stimato, a non combattere contro i loro colleghi a favore della tirannide papale. Con ciò si scanserebbe forse un conflitto. Ed ove seguisse un conflitto, i due comandanti avversari sarebbero entrambi inglesi; nè lʼorgoglio deglʼisolani si sentirebbe offeso sapendo che Dartmouth era stato costretto a cedere a Herbert.[501] XLV. Fortunatamente le cautele di Guglielmo non furono necessarie. Poco dopo mezzodì egli si lasciò addietro lo Stretto. La sua flotta stendevasi fino ad una lega da Dover a tramontana e da Calais a mezzogiorno. I vascelli dalle estremità destra e sinistra salutarono a un tempo ambe le fortezze. Le trombe, i timpani, e i tamburi udivansi distintamente dalla spiaggia francese e dalla inglese. Una innumerevole turba di spettatori copriva il bianco littorale di Kent; unʼaltra la costa di Piccardia. Rapin di Thoyras, che la persecuzione aveva cacciato dalla sua patria, e che, preso servizio nellʼarmata olandese, aveva accompagnato il Principe in Inghilterra, descrisse, molti anni dipoi, cotesto spettacolo come il più magnifico e commovente che occhio umano giammai contemplasse. Al tramontare del sole la flotta aveva passato Beachy–Head. Si accesero i lumi. Il mare per un tratto di non poche miglia pareva in fiamme. Ma tutti i piloti tenevano fitti gli occhi per la intera notte alle tre vaste lanterne che risplendevano su la poppa Brill.[502] In quel mentre un messo corse per la posta da Dover Castle a Whitehall recando la nuova che gli Olandesi avevano passato lo Stretto e procedevano verso Ponente. Eʼ fu mestieri cangiare in un subito tutti i provvedimenti militari. Furono da per tutto spediti messi. Gli ufficiali furono svegliati e fatti levare a mezza notte. Nella domenica alle tre della mattina in Hyde Parck fu una gran rivista a lume di torce. Il Re, credendo che Guglielmo approderebbe alla Contea di York, aveva mandato vari reggimenti verso il paese settentrionale. Furono quindi spediti messi a richiamarli. Tutti i soldati, tranne quelli che reputavansi necessari a mantenere la pace nella metropoli, ebbero ordine di partire per lʼoccidente. Salisbury doveva essere il punto di riunione: ma stimandosi possibile che Portsmouth fosse la prima ad essere assaltata, tre battaglioni di Guardie e una forte schiera di cavalleria partirono per quella fortezza. In poche ore si seppe non esservi nulla da temere por Portsmouth, e le sopradette truppe ebbero ordine di cangiare cammino e correre in fretta a Salisbury.[503] Allʼalbeggiare del dì, domenica 4 novembre, le alture dellʼisola di Wight sorgevano dinanzi alla flotta olandese. Quel giorno era lo anniversario della nascita e del matrimonio di Guglielmo. La mattina abbassaronsi per qualche ora le vele, e sul bordo delle navi si celebrarono i divini uffici. Nel pomeriggio e per tutta la notte il naviglio seguitò a procedere. Torbay era il luogo dove il Principe aveva intendimento di approdare. Ma nella mattina del lunedì, 5 di novembre, era nuvolo. Il pilota del Brill non potè distinguere i segnali e condusse la flotta troppo oltre a Ponente. Il pericolo era grande. Ritornare contro il vento, impossibile. Il porto più vicino era Plymouth; ma quivi stavasi un presidio sotto il comando di Lord Bath; il quale si sarebbe potuto opporre allo sbarco, e ne sarebbero forse nate gravi conseguenze. Inoltre non vi poteva essere dubbio che in quel momento la flotta regia fosse uscita dal Tamigi e venisse a piene vele giù per la Manica. Russell conobbe la gravità del pericolo, e, rivoltosi a Burnet, esclamò: «Ormai potete recitare le vostre preci, o Dottore: tutto è finito.» In quellʼistante il vento cangiò; una brezza leggiera cominciò a spirare da Mezzogiorno: la nebbia si disperse; ricomparve il sole; e alla luce temperata dʼun mezzodì dʼautunno la flotta rivolse le prore, passò attorno lʼelevata punta di Berry–Head, e si diresse in salvamento al porto di Torbay.[504] XLVI. Da quellʼepoca in poi quel porto ha grandemente cangiato dʼaspetto. Lo anfiteatro che circonda lo spazioso bacino, adesso mostra in ogni dove i segni della prosperità e dello incivilimento. Alla estremità fra Tramontana e Levante sorge un vasto locale di bagni, ai quali accorrono le genti dalle più rimote parti dellʼisola nostra attrattevi dalla dolcezza di un aere dʼItalia; imperocchè in quel clima il mirto fiorisce a cielo aperto; e perfino i mesi del verno sono più dolci che lo aprile in Northumberland. Contiene circa diecimila abitatori. Le chiese e le cappelle novellamente edificate, i bagni e le biblioteche, gli alberghi e i pubblici giardini, la infermeria e il museo, le bianche strade che giacciono a guisa di terrazze, lʼuna sovrapposta allʼaltra, le amene ville che sorgono fra gli alberi e i fiori, offrono uno spettacolo grandemente diverso da qualunque altro potesse nel secolo decimo settimo offrirne la Inghilterra. Allʼopposita punta della baja giace, coperta da Berry–Head, la città di Brixham, dove è il più ricco mercato di pesci nellʼisola. Ivi sul principio del secolo nostro sono stati fatti una darsena e un porto, ma si sono sperimentati insufficienti al traffico ognora crescente. Ha circa sessantamila abitanti, e dugento navi con un tonnellaggio più del doppio maggiore di quello del porto di Liverpool sotto i Re Stuardi. Ma Torbay, allorquando la flotta olandese vi gettò lʼàncora, conoscevasi solo come un seno di mare dove i legni talvolta si rifugiavano cacciati dalle procelle dello Atlantico. Le sue tranquille spiagge non erano disturbate dal frastuono del commercio e del piacere; e i tuguri deʼ contadini e deʼ pescatori sorgevano sparsi qua e là, dove ora il luogo è coperto di popolosi mercati e di eleganti edifici. Il contadiname della costa di Devonshire ricordava con affetto il nome di Monmouth, e detestava il Papismo. E però corse alla spiaggia recando vettovaglie e profferendosi a servire i liberatori. Subito cominciò ad eseguirsi lo sbarco. Sessanta barche trasportarono le truppe a terra. Le precedeva Mackay coʼ reggimenti inglesi. Gli tenne dietro il Principe, il quale sbarcò dove adesso è la riviera di Brixham. Il luogo è cangiato intieramente dʼaspetto. Dove ora vediamo un porto popolato di navi, e una piazza di mercato brulicante di compratori e venditori, allora le acque rompevansi contro una desolata scogliera: ma un frammento del sasso sopra il quale il liberatore pose primamente il piede scendendo dalla sua barca, è stato con gran cura conservato ed esposto alla pubblica venerazione nel centro di quella riviera. Il Principe, appena posto il piede a terra, chiese deʼ cavalli. Procuraronsi nel vicino villaggio due bestie, quali i piccoli possidenti di quel tempo solevano tenere. Guglielmo e Schomberg, montativi sopra, andarono ad esaminare il paese. Come Burnet scese alla spiaggia, corse al Principe. Ebbe luogo tra loro un piacevole colloquio. Burnet, fattegli con sincera gioia le sue congratulazioni, chiese con sollecitudine quali erano i suoi disegni. I militari rade volte inchinano a consigliarsi con gli uomini da sottana intorno a cose spettanti alla milizia; e Guglielmo pei consiglieri che, senza professare lʼarte della guerra, sʼimmischiano nelle questioni della guerra, sentiva un disgusto maggiore di quello che i soldati, in simili casi, ordinariamente provano. Ma in quello istante egli era di assai buono umore, ed invece dʼesprimere il proprio dispiacere con una breve e pungente riprensione, graziosamente stese la destra al suo cappellano, rispondendogli con unʼaltra dimanda: «Orbene, Dottore, che pensate voi adesso della predestinazione?» Il rimprovero era così delicato che Burnet, il quale non avea prontissimo intendimento, non se ne accôrse; e però rispose con gran fervore chʼegli non dimenticherebbe mai il modo segnalato onde la Provvidenza aveva favorito la loro intrapresa.[505] Nel primo giorno le milizie scese a terra patirono molti disagi. Il suolo per le cadute piogge era fangoso. I bagagli rimanevano tuttavia sulle navi. Ufficiali dʼalto grado furono costretti a dormire con addosso gli abiti bagnati, sullʼumido terreno: lo stesso Principe dovette contentarsi dʼuna povera trabacca, dove fu dalla sua nave portato un lettuccio che accomodarono sul suolo. La sua bandiera venne inalberata sul tetto di frasche.[506] Era alquanto difficile sbarcare i cavalli; e pareva probabile che a ciò fare si richiedessero vari giorni. Ma la susseguente dimane le cose cangiarono. Il vento calmossi; il mare era piano come un cristallo. Alcuni pescatori additarono un luogo dove le navi potevano spingersi fino a quaranta piedi dalla riva. E ciò fatto, in tre ore molte centinaia di cavalli sani e salvi furono condotti nuotando fino alla spiaggia. Era appena terminato lo sbarco allorchè il vento ricominciò a soffiare impetuoso da Ponente. Lʼinimico che veniva giù per la Manica era stato impedito dal medesimo mutamento di tempo, che aveva concesso a Guglielmo dʼapprodare. Per due giorni la flotta del Re rimase immobile per la bonaccia in vista a Beachy–Head. Infine Dartmouth potè muoversi. Passò lʼisola di Wight, e da uno deʼ suoi vascelli scoprivansi le cime degli alberi della flotta olandese ancorata in Torbay. In quel momento sopravvenne una tempesta, e lo costrinse a ricoverarsi nel porto di Portsmouth.[507] Allora Giacomo, che poteva giudicare intorno a cose di marina, si dichiarò sodisfattissimo della condotta del suo ammiraglio, il quale aveva fatto ciò che uomo potesse fare, ed aveva ceduto solo alla irresistibile contrarietà del vento e delle onde. Più tardi lo sciagurato principe cominciò, senza ragione, a sospettare che Dartmouth fosse reo di tradimento o almeno di lentezza.[508] Il tempo aveva sì bene giovata la causa deʼ Protestanti, che taluni più pii che savi crederono sicuramente le ordinarie leggi della natura essere state sospese per la salvezza della libertà e della religione dʼInghilterra. Precisamente cento anni innanzi, dicevano essi, lʼarmata, invincibile da forza umana, era stata dispersa dal soffio dellʼira di Dio. La libertà civile e la vera fede trovaronsi di nuovo in pericolo, e di nuovo i docili elementi combatterono per la buona causa. Il vento sbuffava forte da Levante mentre il Principe voleva passare lo Stretto; cominciò a spirare da Mezzogiorno allorchè egli desiderava dʼapprodare a Torbay; era cessato affatto mentre facevasi lo sbarco, e divenne di nuovo procelloso percotendo in faccia la flotta regia. Nè tralasciavano di notare come per una straordinaria coincidenza il Principe fosse giunto alle nostre spiagge nel giorno in cui la Chiesa Anglicana celebrava con preci e rendimenti di grazie la memoria di quello evento onde miracolosamente la casa regale e i tre Stati del Regno avevano scansato la più nera congiura che ordissero mai i papisti. Carstairs, i cui consigli ascoltava con attenzione il Principe, gli suggerì che, appena eseguito lo sbarco, si rendessero solenni ringraziamenti a Dio per la protezione manifestamente accordata alla grande intrapresa. Questo provvedimento produsse ottimo effetto. I soldati così, persuasi dʼavere il favore del cielo, sentironsi rianimati di nuovo coraggio; e il popolo inglese si formò la migliore opinione dʼun capitano e dʼun esercito cotanto osservatori dei religiosi doveri. Martedì, 6 di novembre, lʼarmata di Guglielmo incominciò a marciare. Alcuni reggimenti si avanzarono fino a Newton–Abbot. Un sasso collocato nel centro di quella piccola città, indica tuttora il luogo dove il Manifesto del Principe fu letto solennemente al popolo. Le truppe si movevano lente: imperciocchè la pioggia cadeva giù a torrenti; e le strade della Inghilterra erano allora in condizioni che parevano terribili a genti avvezze alle eccellenti vie della Olanda. Guglielmo si fermò per due giorni in Ford, sede dellʼantica e illustre famiglia di Courtenay nelle vicinanze di Newton–Abbot. Ivi fu splendidamente alloggiato e festeggiato; ma è da notarsi che il padrone di casa, comechè fosse conosciutissimo Whig, non volle essere il primo a rischiare la vita e gli averi, e cautamente si astenne di fare cosa, che, ove il Re vincesse, potesse prendersi per delitto. XLVII. Intanto Exeter era grandemente agitata. Il vescovo Lamplugh, appena saputa la nuova dello arrivo degli Olandesi a Torbay, atterrito corse a Londra. Il Decano fuggì anchʼesso. I Magistrati rimasero fedeli al Re, gli abitanti si dichiararono a favore del Principe. Ogni cosa era in iscompiglio allorquando, il giovedì mattina 8 novembre, un corpo di truppe, capitanate da Mordaunt, comparve dinanzi alla città. Vʼera anco Burnet, al quale Guglielmo aveva affidato lo incarico di preservare il clero della cattedrale dai danni e daglʼinsulti.[509] Il Gonfaloniere e gli Aldermanni avevano ordinato che si chiudessero le porte, ma alla prima intimazione vennero aperte. Apparecchiossi lʼabitazione del Decano per alloggiarvi il Principe; il quale vi arrivò il dì seguente, venerdì 9 febbraio. I Magistrati erano stati sollecitati ad andargli solennemente incontro alle porte della città, ma ostinatamente ricusarono. Nondimeno la pompa di quel giorno poteva far senza di loro. Non sʼera mai visto in Devonshire un tanto spettacolo. Molti fecero mezza giornata di cammino per incontrare il campione della religione loro. Gli abitatori di tutti i villaggi circostanti uscivano in folla. Una gran moltitudine composta principalmente di giovani contadini armati deʼ loro bastoni si era raccolta sulla cima di Haldon–Hill, dʼonde lʼarmata, passato Chudleigh, primamente scoprì la fertile convalle dellʼExe, e le due massicce torri sorgenti fra la nuvola di fumo che copriva la metropoli del paese occidentale. Lo stradale, per tutto il lungo pendio e il piano fino alle sponde del fiume, era fiancheggiato da file di spettatori. Dalla Porta Occidentale fino al ricinto della Cattedrale la folla e le acclamazioni erano tali che rammentavano ai Londrini lo affollarsi del popolo nel giorno festivo del Lord Gonfaloniere. Le case erano parate a festa. Porte, finestre, veroni, e tetti rigurgitavano di spettatori. Un occhio assuefatto alla pompa della guerra, avrebbe trovato molto a ridire intorno a cosiffatto spettacolo. Imperciocchè lo affannoso marciare sotto la pioggia per istrade dove i piedi deʼ viandanti affondavano ad ogni passo non aveva migliorato lʼaspetto dei soldati nè degli arnesi loro. Ma la popolazione di Devonshire, non avvezza punto allo splendore deʼ campi bene ordinati, era compresa dʼammirazione e diletto. Cominciarono a correre per tutto il Regno descrizioni di cotesto marziale spettacolo, fatte in guisa da appagare la vaghezza che sente il volgo pel maraviglioso. Imperocchè lʼarmata olandese, composta dʼuomini nati in vari climi, e che avevano militato sotto varie bandiere, offriva una scena grottesca e insieme magnifica e terribile aglʼIsolani, i quali generalmente avevano confusissima idea deʼ paesi stranieri. Macclesfield precedeva a cavallo guidando dugento gentiluomini, la più parte dʼorigine inglese, coperti di luccicanti elmi e corazze, e montati sopra destrieri fiamminghi. Ciascuno di loro era accompagnato da un moro delle piantagioni di zucchero sulle coste della Guiana. I cittadini dʼExeter i quali non avevano mai veduto tanto numero dʼindividui della razza affricana, guardavano stupefatti queʼ neri visi adorni di ricamati turbanti e di bianche piume. Veniva poscia uno squadrone di cavalieri svedesi vestiti di nere armature e di pelli, e con le spade in pugno. Attiravano peculiarmente gli sguardi di tutti, poichè dicevasi che fossero abitanti dʼuna terra cinta dai ghiacci dellʼOceano, nella quale la notte durava sei mesi, e che ciascuno di loro avesse ucciso lʼenorme orso bianco di cui indossava la pelle. Quindi circondato da una nobile compagnia di gentiluomini e di paggi procedeva sventolando allʼaura il vessillo del Principe. Il popolo affollato su per i tetti e le finestre vi figgeva sopra gli sguardi leggendovi con diletto la memoranda epigrafe: «La Religione Protestante e le libertà della Inghilterra.» Ma si accrebbero oltre misura le grida di plauso allorquando, preceduto da quaranta battistrada, sopra un candido destriero comparve il Principe chiuso nelle armi, con una bianca piuma sullʼelmo. Lo aspetto marziale con cui egli cavalcava, la pensosa e imponente espressione della sua vasta fronte e del suo occhio aquilino si ravvisano anche oggi nel dipinto di Kneller. Una sola volta il suo austero sembiante si atteggiò al sorriso. Una donna, grave dʼanni, forse appartenente a quegli zelanti Puritani i quali per ventotto anni di persecuzione avevano con ferma fede aspettato la consolazione dʼIsraele, o forse madre di qualche ribelle che aveva perduta la vita nella strage di Sedgemoor, o nel più atroce macello del Tribunale di Sangue, uscì dalla folla, e precipitandosi fra mezzo alle spade sguainate e ai frementi cavalli, toccò la mano del liberatore, ed esclamò che oramai era felice. Presso al Principe cavalcava un uomo sul quale parimente si fissavano gli sguardi di tutti. Dicevano che egli era il gran Conte Schomberg, il più valoroso soldato che fosse in Europa dopo la morte di Turenna e di Condé; lʼuomo, il cui genio e valore avevano salvato la monarchia portoghese nel campo di Montes Claros, lʼuomo che sʼera acquistato gloria anche maggiore deponendo il bastone di Maresciallo di Francia per serbarsi fedele alla propria religione. Rammentavasi parimente come i due eroi, i quali indissolubilmente congiunti dal comune Protestantismo ora entravano in Exeter, un tempo erano stati lʼuno allʼaltro avversi sotto le mura di Maestricht, e che la energia del giovine principe era stata costretta a cedere alla fredda scienza del veterano, il quale adesso cavalcava amico al fianco di Guglielmo. Seguiva poi una colonna di fanti svizzeri barbuti, famosi per valore e disciplina già da due secoli in tutte le guerre del continente, ma non veduti mai fino allora in Inghilterra. Venivano quindi parecchie legioni, le quali, secondo la costumanza di quei tempi, portavano i nomi deʼ loro condottieri, Bentinck, Solmes e Ginkell, Talmash e Mackay. Con peculiare compiacenza glʼInglesi miravano un valoroso reggimento che tuttavia portava il nome dellʼonorando e compianto Ossory. Lo effetto di cotesto spettacolo era accresciuto dalla memoria delle famose gesta delle quali erano stati parte molti dei guerrieri che adesso entravano per Porta Orientale: imperocchè avevano ben altrimenti militato che la guardia civica di Devonshire o i soldati del campo di Hounslow. Alcuni di loro avevano respinto il feroce assalto deʼ Francesi sul campo di Seneff, altri erano venuti alle mani con glʼInfedeli per difendere la Cristianità nel gran giorno in cui fu levato lo assedio di Vienna. Lʼaccesa fantasia faceva nella moltitudine aberrare gli stessi sensi. Lettere di notizie spargevano per ogni contrada del Regno favolosi racconti della statura e della forza degli invasori. Affermavasi che erano, quasi senza eccezione, alti più di sei piedi, ed avevano sì enormi picche, spade ed archibugi, che non sʼera mai veduto nulla di simile in Inghilterra. Nè la maraviglia nel popolo scemò quando comparve lʼartiglieria, che era composta di ventuno vasti cannoni di bronzo, ciascuno con gran fatica trascinato da sedici cavalli. Molta curiosità destò anche una strana macchina montata sopra ruote, ed era una fucina mobile provveduta di tutti gli strumenti e i materiali bisognevoli a riattare armi e carriaggi. Ma nessuna cosa suscitò tanto la universale ammirazione quanto un ponte di barche che fu celerissimamente gettato sullʼExe pel passaggio deʼ vagoni, e con la medesima celerità levato, e in pezzi portato via. Era stato costruito, se la fama porgeva il vero, secondo un disegno immaginato dai Cristiani che guerreggiavano contro i Turchi sul Danubio. Gli stranieri ispiravano affetto insieme ed ammirazione. Il loro condottiere politico studiossi di acquartierarli in modo da recare il minore incomodo possibile agli abitatori di Exeter e dei circostanti villaggi. Fu mantenuta la più rigorosa disciplina. Non solo sʼimpedì efficacemente il saccheggio e lʼinsulto, ma fu ingiunto alle truppe di mostrarsi cortesi a tutte le classi. Coloro i quali giudicavano dʼunʼarmata dalla condotta di Kirke e deʼ suoi Agnelli, rimanevano attoniti a vedere i soldati di Guglielmo non bestemmiare mai parlando alle ostesse, o non prendere un ovo senza pagarlo. In ricambio di cotesta moderazione il popolo li provvide abbondantemente di vettovaglie a modico prezzo.[510] Era di non poca importanza vedere il partito al quale in questa gran crisi il Clero della Chiesa Anglicana si appiglierebbe. I membri del Capitolo di Exeter furono i primi richiesti a dichiararsi. Burnet fece sapere ai Canonici, ormai per la fuga del Decano rimasti senza capo, che non sarebbe loro più oltre consentito di usare la preghiera pel Principe di Galles, e che si celebrerebbe un solenne servigio divino in onore del prospero arrivo del Principe dʼOrange. I Canonici non vollero mostrarsi neʼ loro stalli; ma alcuni deʼ coristi e prebendari intervennero. Guglielmo si condusse con gran solennità militare alla Cattedrale; ed appena entratovi, il famoso organo, che non era secondo a nessuno di quelli onde avea vanto la Olanda, cominciò a suonare trionfalmente. Egli ascese al magnifico seggio vescovile, adorno dʼintagli del secolo decimoquinto. Gli stava ai piedi Burnet, e da ambo i lati era schierata una turba di guerrieri e di nobili. I cantori, vestiti di bianco, intonarono il _Te Deum_. Finito il cantico, Burnet lesse il Manifesto del Principe; ma come ebbe profferite le prime parole i prebendari e i cantori uscirono frettolosamente dal coro. Infine Burnet gridò: «Dio salvi il Principe dʼOrange!» E molte voci fervorosamente risposero «_Amen._[511]» La domenica, 11 novembre, Burnet predicò dinanzi al Principe nella Cattedrale, e si diffuse sopra la grande misericordia di Dio verso la Chiesa e la nazione dʼInghilterra. Nel tempo stesso un evento singolarissimo seguiva in un luogo sacro di minore importanza. Ferguson ardeva di predicare in una ragunanza di presbiteriani. Il ministro e gli anziani non lo consentirono: ma quel torbido e mezzo demente uomo, immaginando che fossero giunti di nuovo i tempi di Fleetwood e di Harrison, forzò lo ingresso, e con la spada in pugno facendosi far largo, ascese sul pulpito, ed eruttò una feroce invettiva contro il Re. Ma la stagione per siffatte follie non era più; e cotesta scena altro non eccitò che scherno e disgusto.[512] XLVIII. Mentre le sopra narrate cose accadevano in Devonshire, lʼagitazione in Londra era grandissima. Il Manifesto del Principe, nonostanti tutte le cautele del Governo, correva per le mani di ciascuno. Il dì sesto di novembre, Giacomo, ancora ignorando in qual parte della costa glʼinvasori erano sbarcati, chiamò alle sue stanze il Primate ed altri tre Vescovi, cioè Compton di Londra, White di Peterborough, e Sprat di Rochester. Il Re cortesemente si stette ad ascoltare i prelati che facevano fervide proteste di lealtà, e li assicurò che non aveva di loro il più lieve sospetto. «Ma dovʼè» soggiunse poi «lo scritto che mi dovevate portare?»—«Sire,» rispose Sancroft «non abbiamo nessuno scritto da darvi. Non abbiamo mestieri scolparci al cospetto del mondo. Non è cosa nuova per noi il patire insulti e calunnie. La nostra coscienza ci assolve: la Maestà Vostra ci assolve: e di ciò siamo satisfatti.»—«Bene» disse il Re. «Ma una dichiarazione fatta da voi mi è necessaria.» E mostrando loro un esemplare del Manifesto del Principe, «Ecco» soggiunse, «ecco in che modo voi siete qui rammentati.»—«Sire,» rispose uno deʼ Vescovi, «nè anche una persona in cinquecento reputa genuino cotesto documento.»—«No!» esclamò fieramente il Re: «eppure questi cinquecento condurranno il Principe dʼOrange a segarmi la gola.»—«Dio nol voglia,» esclamarono ad una voce i prelati. Ma Giacomo che non fu mai di lucido intendimento, adesso lo aveva onninamente turbato. Una delle peculiarità del suo carattere consisteva in questo, che quando la sua opinione non veniva adottata, ei credeva che si dubitasse della sua veracità. «Questo scritto non è genuino!» esclamò egli svoltandone con le proprie mani i fogli. «Non sono io degno di fede? La mia parola non val forse nulla?»—«Ad ogni modo, o Sire,» disse uno deʼ Vescovi «questo non è affare ecclesiastico, ed entra nella sfera della potestà secolare. Dio ha posta nelle mani vostre la spada; e non ispetta a noi invadere le vostre funzioni.» Allora lo Arcivescovo con quella dolce e temperata malignità che reca più profonde ferite, chiese scusa di non volere impacciarsi di documenti politici. «Io e i miei confratelli, o Sire,» soggiunse «abbiamo già crudelmente sofferto per esserci voluti immischiare negli affari di Stato: e saremo sì cauti da non farlo di nuovo. Una volta firmammo una innocentissima petizione; la presentammo nella maniera più rispettosa; e ci fu detto di avere commesso un grave delitto. La sola misericordia divina potè salvarci. E, Sire, i vostri Procuratore ed Avvocato Generali affermarono, come fondamento dʼaccusa, che noi fuori del Parlamento siamo uomini privati, e quindi era criminosa presunzione in noi lo immischiarsi di cose politiche. E ci aggredirono con tale furore, che, quanto a me, io mi detti per ispacciato.»—«Vi ringrazio di ciò che dite, Monsignore di Canterbury,» disse il Re; «speravo che non vi reputaste perduto cadendo nelle mie mani.» Queste parole sarebbero state bene nella bocca dʼun Sovrano misericordioso, ma uscivano di mala grazia dalle labbra dʼun principe il quale aveva arsa viva una donna per avere ospitato uno deʼ fuorusciti; dʼun principe, il quale erasi mostrato duro come un macigno verso il nipote, che disperatamente dolorando gli abbracciava le ginocchia. Ma lo Arcivescovo non era uomo da lasciarsi imporre silenzio. Egli riepilogò la storia delle proprie vicende, enumerò glʼinsulti che le creature della corte avevano fatto alla Chiesa Anglicana, e fra gli altri non dimenticò gli scherni ai quali era stato segno il suo stile. Il Re non aveva nulla a dire se non che era inutile ripetere le vecchie doglianze, e chʼegli aveva sperato coteste cose essere già cadute in oblio. Egli, che non dimenticava mai la più lieve ingiuria, non sapeva intendere in che guisa altri avessero a rammentarsi per poche settimane le più mortali ingiurie che avesse fatto loro. Infine il discorso fu ricondotto al subietto dal quale aveva deviato. Il Re instava perchè i Vescovi dichiarassero con pubblico documento aborrire dalla impresa del Principe. Ma essi protestando sommessamente della loro lealtà, furono ostinatissimi a ricusare, dicendo il Principe asserire che era stato invitato daʼ Pari spirituali e secolari; lʼaddebito era a tutti comune; perchè dunque non doveva essere comune anco la discolpa? «Io vedo come egli è,» disse Giacomo. «Voi avete favellato con alcuni Pari secolari, i quali vi hanno persuaso a contrariarmi in questo negozio.» I Vescovi solennemente affermarono che ciò non era vero. Ma sembrerebbe strano, soggiunsero, che in una questione che spettava a cose politiche e militari importantissime, non si avesse a far conto deʼ Pari secolari, e la parte precipua fosse assegnata ai prelati. «Ma questo» disse il Re «è il mio metodo. Io sono il Re vostro; e spetta a me giudicare di ciò che meglio mi conviene. Io voʼ fare a mio modo; e richiedo che mi aiutiate.» I Vescovi lo assicurarono di aiutarlo come ministri di Dio con le loro preci, e come Pari del Regno col loro consiglio nel Parlamento. Giacomo, al quale non facevano mestieri nè le preci degli eretici nè consigli di Parlamento, si sentì amaramente contrariato. Dopo un lungo alterco: «Ho finito» disse egli, «io non vi dirò più nulla. Dacchè non volete secondarmi, è uopo chʼio confidi in me solo e nelle mie armi.»[513] XLIX. I Vescovi sʼerano appena partiti dal cospetto del Re, allorquando giunse un messo recando la nuova che il dì precedente il Principe dʼOrange era sbarcato in Devonshire. Nella susseguente settimana Londra fu nella più violenta agitazione. La domenica, 11 novembre, si sparse la voce che dentro un monastero istituito in Clerkenwell sotto la protezione del Re nascondevansi coltelli, gratelle e caldaie per torturare gli eretici. Una gran folla si raccolse attorno quellʼedificio, e stava per demolirlo, allorchè giunse la forza militare. La folla fu dispersa, e vari individui rimasero morti. Fu fatta una inchiesta, e i Giurati diedero una decisione tale che era indizio certo del pubblico sentire. Dissero che alcuni leali e bene intenzionati individui, i quali erano accorsi per disperdere i traditori e i pubblici nemici ragunatisi intorno ad un convento cattolico, erano stati premeditatamente assassinati dai soldati: e questo strano giudicio fu firmato da tutti i Giurati. Gli ecclesiastici di Clerkenwell, naturalmente impauriti a questi sinistri segni, volevano porre in salvo le cose loro. Venne lor fatto di trafugare la maggior parte deʼ propri mobili innanzi che traspirasse nella città la loro intenzione. Ma finalmente la marmaglia ne ebbe sospetto. Gli ultimi due barocci furono fermati in Holborn, e tutto ciò che vʼera sopra fu arso nella pubblica via. E nʼebbero tanto terrore i Cattolici, che tutti i luoghi destinati al loro culto furono chiusi, tranne quelli che appartenevano alla famiglia regale ed agli Ambasciatori stranieri.[514] Nulladimeno le cose non procedevano per anche affatto sfavorevoli a Giacomo. Glʼinvasori da parecchi giorni erano in Inghilterra, e non pertanto nessun personaggio notevole si era con essi congiunto. Nessuno scoppio di ribellione nè a settentrione nè a levante. Non pareva che alcuno impiegato avesse tradito il proprio Sovrano. Lʼarmata regia sʼandava speditamente raccogliendo in Salisbury, e quantunque per disciplina fosse inferiore a quella di Guglielmo, la superava per numero. L. Senza dubbio il Principe rimase attonito e mortificato vedendo la indolenza di coloro che lo aveano invitato alla impresa. Il basso popolo di Devonshire lo aveva accolto con ogni segno di affetto: ma nessuno deʼ Nobili, nessun gentiluomo di alta importanza era fino allora accorso al quartiere generale. La spiegazione di questo singolarissimo fatto è probabilmente da trovarsi in ciò, che egli aveva approdato ad un luogo dellʼisola, nel quale ei non era aspettato. I suoi amici nel paese settentrionale avevano fatti i necessari apparecchi ad insorgere, supponendo chʼegli si mostrerebbe fra loro con unʼarmata. I suoi amici nelle contrade occidentali non avevano fatto apparecchi di nessuna specie, e rimasero naturalmente sconcertati trovandosi allo improvviso chiamati ad iniziare un movimento sì grande e pieno di pericoli. Rammentavano, o, per dir meglio, avevano dinanzi agli occhi i disastrosi effetti della ribellione, forche, capi mozzi, membra squartate, famiglie tuttavia coperte di vesti gramagliose per la morte di queʼ valorosi che avevano amata la patria loro di grande ma imprudente amore. Dopo esempi così terribili e recenti era naturale lo esitare. Era medesimamente naturale, dallʼaltro canto, che Guglielmo, il quale, fidandosi alle promesse giuntegli dalla Inghilterra, aveva posto a repentaglio non solo la fama e le sorti sue, ma anche la prosperità e la indipendenza della sua terra natia, ne rimanesse profondamente mortificato. E nʼebbe tanto sdegno, che parlò di retrocedere a Torbay, rimbarcare le sue truppe, e ritornare in Olanda abbandonando coloro che lo avevano tradito al ben meritato destino. Infine il lunedì, 12 novembre, un gentiluomo chiamato Burrington, che abitava nelle vicinanze di Crediton, accorse al vessillo del Principe, e il suo esempio fu seguito da alcuni altri di quei luoghi. LI. E già parecchi personaggi di maggiore importanza da varie parti del paese dirigevansi ad Exeter. Primo tra loro era Giovanni Lord Lovelace, uomo cospicuo per gusto, per magnificenza e per audaci e veementi opinioni Whig. Era stato per cagioni politiche cinque o sei volte messo in carcere. Lʼultimo delitto di cui gli facevano addebito era il non avere egli voluto riconoscere la validità dʼun mandato dʼarresto firmato da un Giudice di Pace cattolico. Tradotto dinanzi il Consiglio Privato, aveva subito rigoroso esame, ma senza esito alcuno. Ostinatamente ricusò di confessarsi reo; e le testimonianze a lui contrarie non furono bastevoli a farlo condannare. Fu posto in libertà; Ma avanti chʼegli si partisse, Giacomo, acceso dʼira, esclamò: «Milord, questa non è la prima volta che voi mi gabbate.»—«Sire,» rispose Lovelace imperterrito «io non ho mai gabbato Vostra Maestà, nè alcun altro; e i miei accusatori, qualunque essi siano, mentiscono.» Lovelace era stato dipoi ammesso alla confidenza di coloro che tramavano la rivoluzione.[515] La sua magione, edificata dagli avi suoi con le spoglie deʼ galeoni spagnuoli che tornavano dalle Indie, inalzatasi sopra le rovine dʼun edifizio dedicato a Nostra Donna in quella amenissima valle, fra mezzo alla quale il Tamigi, ancora non contaminato dal contatto dʼuna grande capitale, e le cui acque non erano costrette ad alzarsi ed abbassarsi pel flusso e riflusso del mare, scorre sotto foreste di faggi attorno le vaghe colline di Berkshire. Sotto la magnifica sala adorna delle opere deʼ pennelli italiani, era un sotterraneo, nel quale talora sʼerano trovate le ossa di vetusti cenobiti. In questo tenebroso luogo alcuni zelanti e audaci oppositori del Governo eransi molte volte nel cuor della notte raccolti a secreto colloquio in queʼ giorni neʼ quali la Inghilterra ansiosamente aspettava il vento protestante.[516] Adesso era giunto il tempo dʼoperare. Lovelace con settanta suoi seguaci, bene armati a cavallo, partì dalla sua abitazione dirigendosi verso ponente. Giunse alla Contea di Gloucester senza incontrare veruno ostacolo. Ma Beaufort, governatore di quella Contea, faceva ogni sforzo dʼautorità e dʼinfluenza a difesa della Corona. Aveva chiamato alle armi la milizia civica, e ne aveva appostata una forte schiera a Cirencester. Come Lovelace quivi arrivò, gli fu fatto sapere che gli verrebbe negato il passo. Gli era quindi forza o abbandonare il suo disegno o aprirsi la via combattendo. Deliberò di combattere; e gli amici e fittajuoli suoi valorosamente lo secondarono. Si venne alle mani; la milizia civica perdè un ufficiale e sei o sette uomini; ma infine i seguaci di Lovelace furono vinti, ed egli, fatto prigione, fu mandato al castello di Gloucester.[517] LII. Ad altri corse più prospera la fortuna. Nel giorno in cui accadeva la scaramuccia in Cirencester, Riccardo Savage Lord Colchester, figlio ed erede del conte Rivers, e padre, per un illegittimo amore, di quello sventurato poeta i cui misfatti ed infortuni formano una delle più nere pagine della storia letteraria, giunse con tra sessanta o settanta cavalieri ad Exeter. Con lui vi arrivò lo audace e turbulento Tommaso Wharton. Poche ore dopo comparve Eduardo Russell, figlio del conte di Bedford e fratello del virtuoso gentiluomo al quale era stato mozzo il capo sul palco. Un altro arrivo di maggiore importanza fu poco dopo annunziato. Colchester, Wharton, e Russell appartenevano a quel partito che era stato sempre avverso alla corte. Allʼincontro Giacomo Bertie, conte dʼAbingdon, veniva considerato come partigiano del governo dispotico. Sʼera mostrato fedele a Giacomo nel tempo in cui discutevasi della Legge dʼEsclusione. Mentre era Luogotenente dʼOxford aveva agito con severità e vigore contro i fautori di Monmouth, ed aveva acceso fuochi di gioia per celebrare la sconfitta dʼArgyle. Ma il timore del papismo lo aveva cacciato nella opposizione fraʼ ribelli. Egli fu il primo Pari del Regno che comparisse al quartiere generale del Principe dʼOrange.[518] Ma il Re aveva meno da temere da coloro i quali apertamente procedevano avversi allʼautorità sua, che dalla tenebrosa congiura le cui fila eransi sparse nella sua armata e perfino nella sua propria famiglia. Della quale congiura va considerato come lʼanima Churchill, uomo senza rivali per sagacia e destrezza, da natura dotato dʼuna certa fredda intrepidezza che non gli veniva mai meno nel combattere o nel mentire, occupante un posto elevato nellʼordine militare, e oltre misura favorito dalla Principessa Anna. Non era ancora tempo chʼegli facesse il colpo decisivo. Ma anche allora, per mezzo dʼun suo agente subordinato, inflisse una ferita, se non mortale, gravissima alla causa regia. LIII. Eduardo, visconte Cornbury, figlio primogenito del conte di Clarendon, era un giovane di poca abilità, di stemperati costumi, e dʼindole violenta. Aveva daʼ suoi primi anni imparato a considerare i suoi vincoli di sangue con la Principessa Anna come lo sgabello a salire sublime, e lo avevano esortato a tenersela bene edificata. Non era mai venuto in mente al padre suo che la lealtà ereditaria degli Hyde potesse correre pericolo di contaminarsi dentro la famiglia della figliuola prediletta del Re: ma in quella famiglia signoreggiavano i Churchill; e Cornbury divenne loro strumento. Comandava uno deʼ reggimenti deʼ Dragoni che era stato mandato nelle contrade occidentali. Le cose erano state disposte in modo che per poche ore il di 14 novembre egli fosse il più anziano degli ufficiali in Salisbury, e tutte le milizie ivi raccolte rimanessero sottoposte alla sua autorità. Eʼ sembra straordinario che in tanta crisi, lʼarmata dalla quale ogni cosa dipendeva, fosse, anco per un solo istante, lasciata sotto il comando dʼun giovane colonnello, privo dʼabilità e di esperienza. Se non che mal può dubitarsi che tale combinazione fosse lo effetto di un disegno profondamente meditato, e non è dubbio nessuno a quale testa ed a qual cuore si debba attribuire. Tosto fu dato ordine aʼ tre reggimenti di cavalleria congregati in Salisbury di marciare verso ponente. Lo stesso Cornbury, capitanandoli, li condusse prima a Blandford, poscia a Dorchester, donde, dopo unʼora di riposo, partirono per Axminster. Alcuni degli ufficiali cominciarono a sentire inquietudine e chiesero la spiegazione di questi strani movimenti. Cornbury rispose chʼegli aveva ordini di dare un notturno assalto ad alcune schiere dal Principe dʼOrange poste in Honiton. Non per ciò si spense ogni sospetto. Alle ripetute insistenze Cornbury evasivamente rispondeva, finchè gli ufficiali vivamente lo sollecitarono mostrasse loro i pretesi ordini. Egli sʼaccòrse non solo essergli impossibile di condurre più oltre, secondo che aveva sperato, i tre reggimenti, ma trovarsi in grave pericolo. Per la qual cosa riparò con pochi seguaci al quartiere generale degli Olandesi. La maggior parte delle sue milizie ritornò a Salisbury: ma alcuni soldati, già distaccati dal corpo, seguitarono a dirigersi ad Honiton. Quivi trovaronsi in mezzo ad una grossa schiera bene apparecchiata a riceverli. Resistere era impossibile. Il loro condottiere li persuase a porsi sotto il vessillo di Guglielmo. A gratificarli venne loro offerto un mese di paga, che fu dalla più parte di loro accettata.[519] La nuova di questi eventi giunse a Londra il dì 15. Giacomo in quella mattina era di buonissimo umore. Il vescovo Lamplugh sʼera pur allora presentato a Corte arrivando da Exeter, ed era stato con estrema cortesia accolto. «Monsignore,» gli disse il Re «voi siete un vero vecchio Cavaliere.» Lʼarcivescovato di York, da due anni e mezzo vacante, fu immediatamente conferito a Lamplugh in rimunerazione della sua lealtà. Nel pomeriggio, il Re pur allora sʼera posto a desinare, quando giunse un messo recando la nuova della diserzione di Cornbury. Giacomo lasciò intatto il pranzo, mangiò un crostino di pane, bevve un bicchiere di vino, e si ritirò alle sue stanze. Seppe dipoi che mentre alzavasi da mensa, vari Lordi neʼ quali egli poneva grandissima fiducia, stringevansi vicendevolmente le destre nella contigua galleria congratulandosi del prospero andamento delle cose. Quando la nuova fu recata agli appartamenti della Regina, essa e le sue cameriste diedero in uno scoppio di pianto, mettendo dolorose grida.[520] E davvero il colpo era gravissimo. Egli è vero che la perdita che direttamente faceva la Corona e il guadagno diretto degli invasori ascendeva appena a dugento uomini ed altrettanti cavalli. Ma dove avrebbe potuto dʼallora in poi Giacomo trovare queʼ sentimenti che formano la forza degli Stati e degli eserciti? Cornbury era lo erede di una casa che primeggiava fra tutte pel suo affetto verso la monarchia. Clarendon suo padre e Rochester suo zio erano uomini la cui fedeltà riputavasi inaccessibile ad ogni qualsiasi tentazione. Quale doveva essere la forza di quel sentimento contro cui nulla giovavano gli ereditari pregiudizi più profondamente radicati, di quel sentimento che poteva persuadere un giovine ufficiale dʼalta nascita alla diserzione, resa più colpevole dallo abuso di fiducia e dalla menzogna? Lo avvenimento era assai più grave appunto perchè Cornbury non era dotato di egregie qualità nè dʼindole intraprendente. Era impossibile dubitare che esistesse in alcun luogo una mano più potente ed artificiosa che lo moveva. Tosto si conobbe chi era cotesto motore. Intanto non vʼera uomo nel campo regio che fosse sicuro di non essere circondato da traditori. Il grado politico, il grado militare, lʼonore dʼun gentiluomo, lʼonore dʼun soldato, le più forti proteste di fedeltà, il più puro sangue di Cavaliere, oramai non offrivano sicurtà alcuna. Ciascuno poteva dubitare che gli ordini datigli daʼ suoi superiori non tendessero a giovare lʼinimico. Era quindi necessariamente distrutta quella cieca obbedienza senza la quale gli eserciti diventano una semplice marmaglia. Quale disciplina poteva esistere tra soldati che sʼerano dianzi sottratti ad una trama, ricusando di seguire il loro capitano in una secreta spedizione, e insistendo che mostrasse gli ordini sovrani? Cornbury fu poco dopo seguito da una folla di disertori che lo superavano per grado e capacità: ma per pochi giorni egli fu solo nella sua vergogna ed acremente ripreso da molti i quali poscia, imitandone lo esempio, glʼinvidiarono la disonorevole precedenza. Era fra costoro il suo proprio padre. Clarendon, appena saputane la nuova, diede pateticamente in uno scoppio di rabbia e di dolore. «Dio mio!» esclamò «che un mio figliuolo debba essere ribelle!» Quindici giorni dopo era anche egli nel numero deʼ ribelli. Nondimeno sarebbe ingiusto chiamarlo un ipocrita. Nelle rivoluzioni la vita dellʼuomo si svolge celerissima: la esperienza di molti anni si trova concentrata tutta in poche ore: le vecchie abitudini di pensiero e dʼazione violentemente si rompono: le novità, che a primo sguardo destano timore ed aborrimento, in pochi giorni diventano familiari, tollerabili, seducenti. Molti, dotati di virtù più pura e di maggiore animo che non fosse Clarendon, erano pronti, innanzi che si chiudesse quellʼanno memorabile, a fare ciò che al principio dellʼanno essi avrebbero giudicato iniquo ed infame. Lo sventurato padre, come meglio potè ricomponendosi, fece chiedere una privata udienza al Re, il quale gliela consentì. Giacomo con insolita cortesia disse commiserare nel profondo del cuore i parenti di Cornbury, e non reputarli tenuti a render conto del delitto commesso dallo indegno giovane. Clarendon ritornò a casa sua non osando guardare in viso i propri amici. Tosto nondimeno ei rimase attonito sapendo che lʼazione la quale, secondo che egli credè in sulle prime, aveva per sempre disonorata la sua famiglia, era stata applaudita da vari personaggi alto locati. La Principessa di Danimarca sua nipote gli chiese perchè si teneva chiuso agli occhi del mondo. Egli rispose, la scelleraggine del figlio averlo oppresso di vergogna. Anna parve di non intendere punto, e soggiunse: «La gente è molto inquieta rispetto al papismo. Io credo che molti altri dello esercito faranno lo stesso.»[521] Il Re, grandemente perturbato, chiamò a sè i precipui ufficiali che erano in Londra. Churchill che verso quel tempo era stato promosso al grado di Luogotenente Generale, si presentò con quella blanda serenità di aspetto, che non era mai turbata da periglio o da infamia. Allʼadunanza intervenne Enrico Fitzroy Duca di Grafton, il quale per audacia ed operosità predistinguevasi tra i figli naturali di Carlo II. Grafton era colonnello del primo reggimento delle Guardie a piedi. A quanto pare, in quel tempo egli era sotto lʼimpero di Churchill, ed apparecchiato a disertare dalla regia bandiera, appena giungesse il momento opportuno. Erano anco ivi presenti due altri traditori, cioè Kirke e Trelawney, i quali comandavano due feroci e sfrenate bande, allora detti i reggimenti di Tangeri. Entrambi, al pari degli altri ufficiali protestanti dello esercito, da lungo tempo mal tolleravano la predilezione del Re verso i suoi correligionari; e Trelawney in ispecie rammentava con acre risentimento la persecuzione del vescovo di Bristol suo fratello. Giacomo favellò allʼassemblea con parole degne dʼun migliore uomo e dʼuna causa migliore. Disse potere darsi che taluni degli ufficiali avessero scrupoli di coscienza per combattere in suo favore. Quando così fosse, ei desiderava che dessero la loro rinuncia. Ma li esortava e come gentiluomini e come soldati a non imitare il vergognoso esempio di Cornbury. Tutti parevano commossi, e nessuno lo era quanto Churchill. Egli fu il primo a giurare con ben simulato entusiasmo dʼessere pronto a spargere fino lʼultima stilla del proprio sangue pel suo amato Sovrano. Simiglianti proteste fece Grafton; e Kirke e Trelawney ne seguirono lo esempio.[522] LIV. Ingannato da tali assicuranze il Re si apparecchiò a recarsi in Salisbury. Avanti la sua partenza seppe che un numero considerevole di Pari secolari e spirituali desiderava unʼudienza. Andavano, guidati da Sancroft, per porre nelle mani di Giacomo una petizione, nella quale lo pregavano a convocare un libero e legittimo Parlamento, e aprire pratiche dʼaccordo col Principe dʼOrange. La storia di questa petizione è ben curiosa. Eʼ sembra che due grandi capi deʼ partiti, che da lungo tempo rivaleggiavano ed osteggiavansi, ne concepissero ad un tempo il pensiero. Parlo di Rochester e di Halifax. Ambedue, senza che lʼuno sapesse dellʼaltro, ne chiesero consiglio ai Vescovi. I Vescovi caldamente ne approvarono la idea. Fu quindi proposto di ragunare unʼassemblea di Pari, onde deliberare intorno alla forma da darsi alla sopra riferita petizione. E perchè era il tempo delle sessioni giudiciarie, gli uomini di grado e di alta condizione quotidianamente accorrevano a Westminster Hall come adesso affollansi ai Circoli di Pall Mall in Saint Jamesʼs–Street Nulla poteva essere più facile ai Pari ivi presenti, che ritirarsi in qualche stanza contigua, e sedersi a consulta. Ma sorsero inaspettatamente alcuni ostacoli. Halifax prima si mostrò freddo, poi contrario. Era sua indole obiettare ad ogni cosa, ed in questa occasione le sue facoltà intellettive aguzzava la rivalità. Il disegno, da lui approvato mentre consideravalo come suo proprio, cominciò a dispiacergli appena seppe chʼera anco venuto in mente a Rochester, dal quale egli era stato lungamente avversato e infine cacciato dal posto, e che egli odiava, secondochè lo consentiva il suo pacifico temperamento. Nottingham allora lasciava trascinarsi da Halifax; ed entrambi dichiararono che non avrebbero posto i nomi loro nella petizione qualora Rochester vi apponesse il suo. Clarendon invano lo scongiurò. «Io non intendo mancare di rispetto a Milord Rochester,» rispose Halifax «ma egli è stato membro della Commissione Ecclesiastica, gli atti della quale tra breve saranno subietto di gravissima inchiesta; e non è convenevole che un uomo il quale ha seduto in quel tribunale partecipi alla nostra petizione.» Nottingham con alte parole di stima personale verso Rochester fu della opinione di Halifax. Lʼautorità di questi due Lordi dissenzienti distolse vari altri dal sottoscrivere lʼindirizzo; ma gli Hyde e i Vescovi stettero fermi. Si raccolsero diciannove firme; e i chiedenti recaronsi in corpo al cospetto del Re.[523] Giacomo ricevè di mala grazia la petizione. Li assicurò stargli molto a cuore la convocazione dʼun libero Parlamento; e promise, sulla fede di Re, che lo convocherebbe appena il Principe dʼOrange sgombrasse dallʼisola. «Ma in che guisa» disse egli «può dirsi libero un Parlamento mentre il Regno è invaso da un nemico, che può disporre di quasi cento voti?» Ai prelati favellò con peculiare acrimonia, dicendo: «Lʼaltro giorno non potei indurvi a protestare contro questa invasione: ma voi adesso siete abbastanza pronti a dichiararvi contro me. Allora non vʼera lecito immischiarvi di cose politiche; ed ora non avete scrupolo a farlo. Voi avete suscitato questo spirito di ribellione nel vostro gregge, e adesso lo fomentate. Fareste meglio ad insegnare al popolo il modo di obbedire, che insegnare a me il modo di governare.» Sʼaccese poi di grande ira come vide sotto il nome di Grafton segnato presso quello di Sancroft, ed aspramente gli disse: «Voi non sapete un jota di religione, nè ve ne importa nulla; e nondimeno, in fè di Dio! pretendete dʼavere una coscienza.»—«Egli è vero, o Sire,» rispose con impudente franchezza il nipote; «egli è vero che io ho poca coscienza; ma appartengo ad un partito che ne ha molta.»[524] LV. Per quanto fossero acri le parole del Re, lo erano meno di quelle che profferì dopo che i Vescovi si furono dalla sua presenza partiti. Disse dʼavere già fatto troppo sperando di gratificarsi un popolo irreverente ed ingrato; avere sempre abborrito dalla idea di fare concessioni; ma vi sʼera lasciato indurre; e adesso, come il padre suo, vedeva per prova che le concessioni rendono i sudditi più esigenti. Quinci innanzi non cederebbe in nulla, nè anche dʼun atomo; e secondo suo costume ripetè più volte e con forza: «Nè anche dʼun atomo.» Non solo non farebbe proposte agli invasori, ma non ne accetterebbe nessuna. Se gli Olandesi mandassero a chiedere tregua, il primo messaggiero sarebbe rimandato senza risposta, il secondo impiccato.[525] In tale umore Giacomo partì per Salisbury. Il suo ultimo atto, avanti di partirsi, fu di nominare un Consiglio di cinque Lordi, perchè lo rappresentassero durante la sua assenza. Deʼ cinque, due erano papisti, e per virtù della legge inabili ad occupare gli uffici. Jeffreys era con essi, ma la nazione detestavalo più dei papisti. A Preston e Godolphin, che erano gli altri due membri, non si poteva nulla obiettare. Il dì, in che il Re partì da Londra, il Principe di Galles fu mandato a Portsmouth. Questa fortezza aveva uno strenuo presidio sotto il comando di Berwick. Era lì presso la flotta comandata da Dartmouth; e supponevasi, che ove le cose procedessero male, il regio infante si sarebbe senza ostacolo potuto condurre in Francia.[526] LVI. Il dì 19, Giacomo giunse a Salisbury, e pose il suo quartiere generale nel palazzo del Vescovo. Da ogni parte gli arrivavano sinistre nuove. Le Contee occidentali alla perfine erano insorte. Appena si seppe la diserzione di Cornbury, molti ricchi possidenti presero animo ed accorsero ad Exeter. Era fra essi Sir Guglielmo Portman di Bryanstone, uno deʼ più grandi uomini della Contea di Dorset, e Sir Francesco Warre di Hestercombe che aveva somma riputazione nella Contea di Somerset.[527] Ma il più cospicuo deʼ nuovi venuti era Seymour, che aveva di recente ereditato il titolo di baronetto,—titolo che aggiungeva poco alla sua dignità,—e per nascita, per influenza politica e per abilità parlamentare primeggiava oltre ogni paragone fraʼ gentiluomini Tory dʼInghilterra. Dicesi che nella prima udienza porgesse tale argomento dellʼaltera indole sua, che recò maraviglia e sollazzo al Principe. «Io credo, Sir Eduardo,» disse Guglielmo per usargli una cortesia «che voi siate della famiglia del Duca di Somerset.»—«Altezza, chiedo scusa,» rispose Sir Eduardo che non dimenticava mai dʼessere il capo del ramo maggiore deʼ Seymours, «il Duca di Somerset è della mia famiglia.[528]» Il quartiere generale di Guglielmo allora cominciò a prendere la sembianza dʼuna corte. Sessanta e più personaggi cospicui per grado ed opulenza trovavansi in Exeter; e la mostra quotidiana delle ricche livree e deʼ cocchi a sei cavalli nel ricinto della Cattedrale rendeva in alcun modo immagine della magnificenza e gaiezza di Whitehall. Il basso popolo anelava di correre alle armi, sì che sarebbe stato agevole formare molti battaglioni di fanti. Ma Schomberg, che faceva poco conto di soldati novellamente tolti allo aratro, sosteneva che ove la impresa non avesse prospero successo senza siffatto aiuto, non sarebbe riuscita affatto: e Guglielmo, che quanto Schomberg bene intendevasi dʼarte militare, era del medesimo parere. E però difficilmente concedeva commissioni di reclutare nuovi reggimenti, non accettando altri che uomini scelti. Desideravasi che il Principe ricevesse pubblicamente in corpo tutti i nobili e i gentiluomini che sʼerano raccolti in Exeter. Rivolse loro brevi, caute e dignitose parole. Disse che sebbene non conoscesse di aspetto tutti coloro che gli stavano dinanzi, pure ne aveva notati i nomi, e sapeva quale insigne reputazione godessero nel paese loro. Dolcemente li rimproverò di lentezza ad accorrere, ma espresse la ferma speranza che non sarebbe stato troppo tardi per salvare il reame. «Adunque, o gentiluomini, amici, e confratelli protestanti,» soggiunse egli «noi con tutto il cuore diciamo a tutti voi e ai seguaci vostri, siate ben venuti alla nostra corte ed al nostro campo.»[529] Seymour, accorto uomo politico, per la sua lunga esperienza nella tattica delle fazioni, tosto conobbe che il partito che sʼandava raccogliendo sotto il vessillo del Principe aveva mestieri dʼessere organizzato. Lo chiamava una corda di sabbia: non vʼera scopo comune o formalmente determinato; nessuno sʼera impegnato a nulla. Appena si sciolse lʼassemblea tenuta da Guglielmo nel Decanato, Seymour fece chiamare Burnet, e gli suggerì il pensiero di formare unʼassociazione, e dʼobbligare tutti glʼInglesi aderenti al Principe ad apporre le loro firme ad un documento, in cui si dichiarassero fedeli al loro condottiero e si vincolassero vicendevolmente. Burnet riferì la cosa al Principe ed a Shrewsbury, i quali lʼassentirono. Fu convocata unʼadunanza nella Cattedrale, dove fu letto, approvato, e firmato un breve documento scritto da Burnet. I soscrittori promettevano di eseguire concordemente le cose contenute nel Manifesto di Guglielmo; difendere lui, ed a vicenda difendersi; fare segnalata vendetta di chi attentasse alla vita di lui, ed anche, ove siffatto attentato sventuratamente avesse effetto, persistere nella impresa finchè le libertà e la religione del paese fossero pienamente assicurate.[530] Verso quel tempo arrivò ad Exeter un messaggiero del Conte di Bath, il quale aveva il comando di Plymouth. Bath poneva sè, le sue truppe e la fortezza da lui governata a disposizione del Principe. Glʼinvasori quindi non avevano più un solo nemico alle spalle.[531] LVII. Mentre le contrade occidentali in tal guisa insorgevano ad affrontare il Re, le settentrionali gli divampavano dietro. Il dì 16, Delamere corse alle armi nella Contea di Chester. Convocò i suoi fittajuoli, gli esortò a seguirlo, promise loro che, ove cadessero in battaglia, ei rinnoverebbe il fitto ai loro figli, ed ammonì chiunque avesse un buon cavallo di andare al campo, o mandarvi altri in sua vece.[532] Comparve a Manchester con cinquanta armati a cavallo, il quale numero si triplicò innanzi chʼegli giungesse a Boaden Downs. Le circostanti contrade erano in somma agitazione. Era stato provveduto che Danby prendesse York, e Devonshire si mostrasse in Nottingham. Quivi non si temeva alcuna resistenza. Ma in York trovavasi un piccolo presidio sotto il comando di Sir Giovanni Reresby. Danby agì con rara destrezza. Era stata convocata pel dì 22 novembre una ragunanza deʼ gentiluomini e deʼ possidenti della Contea di York per fare un indirizzo al Re sullo stato delle cose. Tutti i Luogotenenti deputati dei tre Ridings, vari nobili, e una folla di ricchi scudieri e di pingui possidenti erano andati alla capitale della provincia. Quattro distaccamenti di milizia civica erano sotto le armi per mantenere la pubblica tranquillità. Il palazzo comunitativo era pieno di liberi possidenti, ed era appena cominciata la discussione, allorquando levossi repentinamente il grido che i Papisti, corsi alle armi, facevano strage deʼ protestanti. I Papisti di York più verisimilmente studiavansi a cercare dove nascondersi che ad aggredire i nemici, i quali per numero li superavano in proporzione di cento ad uno. Ma in quel tempo non vi era storiella orrenda o maravigliosa delle atrocità dei Papisti, alle quali il popolo non prestasse fede. La ragunanza sgomentata si disciolse. La intera città fu in iscompiglio. In quel mentre Danby con circa cento uomini a cavallo corse dinanzi alla milizia civica gridando: «Giù il Papismo! Viva il libero Parlamento! Viva la religione protestante!» Le milizie risposero al grido. Sorpresero tosto e disarmarono il presidio. Il governatore venne arrestato; le porte furono chiuse, e in ogni dove poste sentinelle. Lasciarono che la infuriata plebe atterrasse una cappella cattolica, ma pare che non seguisse altro danno. Il dì seguente il palazzo comunitativo era pieno deʼ più notabili gentiluomini della Contea, e dei principali magistrati della città. Il Lord Gonfaloniere teneva il seggio. Danby propose di scrivere una dichiarazione nella quale fossero espresse le ragioni che inducevano gli amici della Costituzione e della religione protestante a correre alle armi. Questa dichiarazione fu calorosamente approvata, e in poche ore munita delle firme di sei Pari, di cinque baronetti, di sei cavalieri, e di molti gentiluomini di gran conto.[533] Infrattanto Devonshire, capitanando una grossa legione di amici e dipendenti suoi, partitosi dal palagio chʼegli stava erigendo in Chatsworth, comparve armato in Derby. Quivi consegnò formalmente alle autorità municipali uno scritto in cui erano esposte le ragioni che lo avevano spinto alla impresa. Ne andò quindi a Nottingham, che tosto divenne il centro della insurrezione delle contrade settentrionali. Promulgò un proclama scritto con forti e ardite parole. Vi si diceva che il vocabolo ribellione era uno spauracchio che non poteva spaventare alcun uomo ragionevole. Era ella ribellione difendere quelle leggi e quella religione che ogni Re dʼInghilterra era tenuto per sacramento a tutelare? In che modo siffatto giuramento fosse stato osservato, era questione la quale, come speravasi, un libero Parlamento tra breve scioglierebbe. Nel tempo stesso glʼinsorti dichiaravano di non considerare qual ribellione, ma quale legittima difesa, il resistere ad un tiranno, che, tranne la propria volontà, non conosceva legge veruna. La insurrezione del paese settentrionale diventava ogni giorno più formidabile. Quattro potenti e ricchi Conti, cioè Manchester, Stamford, Rutland, Chesterfield giunsero a Nottingham, e furono seguiti da Lord Cholmondley e da Lord Grey di Ruthyn.[534] Intanto le due armate nel mezzogiorno facevansi lʼuna allʼaltra sempre più presso. Il Principe dʼOrange, saputo lo arrivo del Re a Salisbury, pensò essere tempo di partirsi da Exeter. Pose la città e il paese circostante sotto il governo di Sir Eduardo Seymour, e il mercoledì 21 novembre, scortato da molti deʼ più notevoli gentiluomini delle contrade occidentali, si avviò ad Axminster, dove rimase vari giorni. Il Re ardeva di venire alle mani; ed era naturale chʼegli così bramasse. Ogni ora che passava, scemava le sue forze, ed accresceva quelle del nemico. Inoltre era importantissimo che le sue truppe venissero allo spargimento del sangue: imperciochè una grande battaglia, qualunque ne fosse lʼesito, non poteva altro che nuocere alla popolarità del Principe. Guglielmo intendeva profondamente tutto ciò, ed era deliberato di evitare, quanto più potesse, un combattimento. Dicesi che quando a Schomberg fu riferito che i nemici si appressavano deliberatissimi a combattere, rispondesse col contegno di capitano espertissimo nellʼarte sua: «Sarà come vorremo noi.» Era, nondimeno, impossibile scansare qualunque scaramuccia tra le vanguardie dei due eserciti. Guglielmo desiderava che in siffatte piccole fazioni non accadesse nulla che potesse offendere lʼorgoglio o destare il sentimento di vendetta della nazione di cui sʼera fatto liberatore. E però con ammirevole prudenza pose i suoi reggimenti inglesi in quei luoghi dove maggiore era il rischio dʼuna collisione. E perchè gli avamposti dellʼarmata regia erano Irlandesi, nei piccoli combattimenti di questa breve campagna glʼinvasori avevano seco la cordiale simpatia di tutti glʼInglesi. LVIII. Il primo di cotesti scontri ebbe luogo in Wincanton. Il reggimento di Mackay, composto di soldati inglesi, era presso a un corpo di regie truppe irlandesi, capitanate dal valoroso Sarsfield loro concittadino. Mackay mandò un piccolo drappello deʼ suoi sotto il comando dʼun luogotenente chiamato Campbell, in cerca di cavalli pel bagaglio. Campbell li trovò in Wincanton, e già allontanavasi dalla città per ritornare al campo, allorquando vide avvicinarsi un forte distaccamento delle truppe di Sarsfield. GlʼIrlandesi erano in proporzione di quattro contro uno: ma Campbell deliberò di combattere fino allʼultimo sangue. Con una mano di coraggiosissimi uomini si appostò sul cammino. Gli altri suoi soldati si posero lungo le siepi che fiancheggiavano da ambe le parti lo stradale. Giunti glʼinimici, Campbell gridò: «Alto! Per chi siete voi?»—«Io sono pel re Giacomo,» rispose il condottiero delle milizie regie. «Ed io pel Principe dʼOrange,» esclamò Campbell. «E noi vʼ_imprinciperemo_ bene,» rispose imprecando lʼIrlandese. «Fuoco!» gridò Campbell: ed una grandine di fuoco piovve allʼistante da ambe le siepi. I soldati del Re riceverono tre bene aggiustate scariche innanzi che potessero far fuoco. In fine venne loro fatto di superare una delle siepi, ed avrebbero oppressa la piccola banda deglʼinimici, se i campagnuoli che portavano odio mortale aglʼIrlandesi non avessero sparsa la falsa nuova dello appressarsi dʼaltre truppe del Principe. Sarsfield suonò a raccolta e ritirossi; Campbell seguitò il cammino senza molestia, seco recando i cavalli da bagaglio. Questo fatto, onorevole, senza dubbio, al valore ed alla disciplina dellʼarmata del Principe, fu dalla voce pubblica esagerato come una vittoria che i protestanti inglesi avevano riportata contro un numero grandemente maggiore di barbari papisti, venuti da Connaught ad opprimere lʼisola nostra.[535] Poche ore dopo la narrata scaramuccia seguì un evento che pose fine ad ogni pericolo di più grave conflitto tra i due eserciti. Churchill ed alcuni deʼ suoi principali complici erano in Salisbury. Due deʼ congiurati, cioè Kirke e Trelawney, se nʼerano andati a Warminster dove i reggimenti loro stanziavano. Tutto era maturo per eseguire la lungamente meditata tradigione. Churchill consigliò il Re a visitare Warminster, onde ispezionarvi le truppe. Giacomo assentì; ed il suo cocchio stavasi alla porta del palagio vescovile, quando ei cominciò a versare abbondantemente sangue dalle narici. Fu quindi costretto a differire la sua gita, e porsi in mano deʼ medici. La emorragia non gli cessò se non dopo tre giorni; e intanto gli giungevano funestissime nuove. Non era possibile che una congiura la quale aveva sì sparse le fila come quella di cui Churchill era capo, si tenesse strettamente secreta. Non vʼera prova che potesse farlo tradurre dinanzi ai Giurati o ad una corte marziale: ma strani bisbigli correvano per tutto il campo. Feversham, il quale era comandante supremo, riferì che regnavano sinistri umori nellʼarmata. Fu fatto intendere al Re che alcuni i quali gli stavano da presso non gli erano amici, e che sarebbe stata saggia cautela mandare Churchill e Grafton sotto buona guardia a Portsmouth. Giacomo respinse il consiglio; dacchè fra i suoi vizi non era la inclinazione a sospettare. A vero dire la fiducia chʼegli poneva nelle proteste di fedeltà e dʼaffetto, era quanta ne avrebbe potuto avere più presto un fanciullo di buon cuore e privo dʼesperienza, che un politico molto provetto negli anni, il quale aveva praticato assai il mondo, aveva molto sofferto dalle arti degli scellerati, e il cui carattere non faceva punto onore alla specie umana. Sarebbe difficile additare un altro uomo, il quale, così poco scrupoloso a rompere la fede, fosse così restio a credere che altri volesse contro di lui tradirla. Nondimeno le nuove ricevute intorno le condizioni della sua armata lo conturbarono molto. Adesso non più mostravasi impaziente di venire a battaglia: pensava anzi di ritirarsi. Nella sera del sabato 24 novembre convocò un consiglio di guerra. Alla ragunanza convennero quegli ufficiali contro cui era stato caldamente ammonito a tenersi cauto. Feversham opinò per la ritirata. Churchill manifestò contrario parere. Il consiglio durò fino a mezza notte. Finalmente il Re dichiarò essere deliberato a ritirarsi. Churchill vide o sʼimmaginò dʼessere sospettato, e comunque sapesse perfettamente governare i moti dello animo, non valse a nascondere la propria inquietudine. Innanzi lʼalba, accompagnato da Grafton, fuggì al quartiere generale del Principe.[536] LIX. Churchill, partendo, lasciò una lettera a spiegare il suo intendimento. Era scritta con quel decoro chʼegli non mancò mai di serbare fra mezzo alla colpa e al disonore. Riconobbe dʼandar debitore dʼogni sua cosa alla regia benevolenza. Lo interesse e la gratitudine, diceva egli, lo persuadevano a mantenersi fido al proprio Sovrano. Sotto nessun altro governo poteva sperare la grandezza e prosperità chʼegli allora godeva, ma tutti cotesti argomenti dovevano cedere al primissimo deʼ doveri. Egli era protestante, e non poteva in coscienza snudare la spada contro la causa del Protestantismo. Quanto al resto, era pronto a porre a repentaglio vita ed averi per difendere la sacra persona e i diritti del suo amatissimo signore.[537] Alla dimane il campo era sossopra. Gli amici del Re percossi da spavento; i suoi nemici non potevano nascondere la gioia deʼ loro cuori. La costernazione di Giacomo sʼaccrebbe alle nuove che giunsero il dì medesimo da Warminster. Kirke che ivi comandava, aveva ricusato di obbedire ad ordini giunti da Salisbury. Non era più dubbio che anche egli fosse in lega col Principe dʼOrange. Dicevasi inoltre chʼegli fosse già passato con le sue milizie al campo del nemico; e tale voce, comechè falsa, fu per alcune ore pienamente creduta.[538] Un nuovo raggio di luce lampeggiò alla mente dello sciagurato Re. Gli parve dʼintendere il perchè pochi giorni innanzi era stato esortato a visitare Warminster. Ivi si sarebbe trovato privo di soccorso, in balìa deʼ congiurati, e presso agli avamposti nemici. Coloro che sarebbero stati disposti a difenderlo avrebbero agevolmente ceduto agli aggressori. Egli sarebbe stato condotto prigioniero al quartiere generale deglʼinvasori. Forse sarebbe stato commesso qualche più nero tradimento; imperocchè chi una volta ha posto il piede in una via di malvagità e di periglio non è più padrone di fermarsi, e spesso una fatalità, che gli è di giusta pena, lo spinge a delitti, dalla idea dei quali egli avrebbe dapprima rifuggito con raccapriccio. E davvero era visibile la mano di qualche Santo protettore in ciò, che un Re sì devoto alla Chiesa Cattolica, nel momento medesimo in cui correva a gran passi alla cattività, e forse alla morte, fosse stato improvvisamente impedito da quella chʼegli aveva giudicata pericolosa infermità. LX. Tutte coteste cose raffermarono lʼanimo del Re nel pensiero chʼegli aveva fatto la sera antecedente. Ordinò una sùbita ritirata. Salisbury fu tutta in subuglio. Il campo levossi con tal confusione che rendeva immagine dʼuna fuga. Niuno sapeva di chi fidarsi, e a cui obbedire. La forza materiale dello esercito era di poco scemata; ma la morale non era più. Molti, che la vergogna frenava dal correre al quartiere generale del Principe, affrettaronsi a seguire lo esempio dal quale avrebbero ognora aborrito; e molti che avrebbero difeso il Re mentre pareva risolutamente correre incontro aglʼinvasori, non si sentirono inchinevoli a seguire un vessillo che fuggiva.[539] Giacomo quel giorno giunse ad Andover. Lo accompagnavano il Principe Giorgio suo genero, e il Duca dʼOrmond. Entrambi erano fraʼ cospiratori, e avrebbero forse tenuto dietro a Churchill, ove questi, a cagione di ciò che seguì nel consiglio di guerra, non avesse reputato più utile partirsi allo improvviso. La impenetrabile stupidità del Principe Giorgio in questa occasione gli fu più utile di ciò che sarebbe stata lʼastuzia. Ogni qualvolta udiva alcun che di nuovo, egli aveva il vezzo di esclamare in francese: «_Est–il possible?_» Questo ritornello adesso gli fu di grande utilità. «_Est–il possible?_» gridò egli come seppe che Churchill e Grafton se nʼerano andati. Ed appena giunte le sinistre nuove di Warminster, esclamò nuovamente: «_Est–il possible?_» LXI. Il Principe Giorgio ed Ormond in Andover furono invitati a cenare col Re. Tristissima cena! Il Re gemeva sotto la soma delle sue sciagure. Il suo genero gli teneva stupidissima compagnia. «Io ho saggiato il Principe Giorgio mentre era sobrio,» diceva Carlo II, «e lʼho saggiato mentre era ubriaco; e o briaco o sobrio non val nulla.»[540] Ormond, che per indole era timido e taciturno, non era verosimile che fosse dʼallegro umore in quel momento. Alla perfine la cena terminò. Il Re si ritrasse a riposare. Il Principe ed Ormond, appena Giacomo sorse da mensa, montando sui cavalli che erano lì pronti, partironsi, accompagnati dal Conte di Drumlanrig, figlio primogenito del Duca di Queensberry. La defezione di questo giovine Nobile non era cosa di poca importanza; imperocchè Queensberry era il capo dei protestanti episcopali di Scozia, setta al cui paragone i più esagerati Tory inglesi potevano considerarsi pressochè Whig; e lo stesso Drumlanrig era luogotenente colonnello del reggimento di Dundee, banda dai Whig detestata più degli Agnelli di Kirke. La mattina appresso fu recato al Re lo annunzio di questa nuova sciagura, e se ne mostrò meno dolente di quel che si sarebbe supposto. Il colpo da lui ricevuto ventiquattro ore innanzi lo aveva apparecchiato quasi a qualunque disastro, e non poteva seriamente adirarsi del Principe Giorgio,—il quale era uomo da non farsene nessun conto,—per avere ceduto alle arti dʼun tentatore quale era Churchill. «E che! _Est–il possible_ se ne è andato anche egli?» disse Giacomo. «Al postutto sarebbe stata maggiore la perdita di un buon soldato.»[541] Per dir vero, eʼ sembra che in quel tempo tutta la collera del Re fosse accentrata, e non senza cagione, sopra un solo uomo. Prese la via di Londra, ardendo di vendetta contro Churchill, ed appena giuntovi seppe che lʼarcingannatore aveva commesso un nuovo delitto. La Principessa Anna da parecchie ore era sparita. LXII. Anna, la quale altra volontà non aveva che quella dei Churchill, una settimana innanzi era stata da loro persuasa a scrivere di propria mano a Guglielmo, significandogli che approvava la impresa. Assicuravalo chʼella trovavasi interamente nelle mani deʼ suoi amici, e che sarebbe rimasta in palazzo o sarebbesi rifugiata nella Città a seconda del loro consiglio.[542] La domenica, 25 novembre, ella e coloro che per lei pensavano, trovaronsi nella necessità di prendere una improvvisa deliberazione. Nel pomeriggio di quel dì stesso un corriere da Salisbury recò la nuova che Churchill era scomparso, chʼera stato accompagnato da Grafton, che Kirke aveva tradito, e che le milizie regie frettolosamente ritiravansi. Quella sera le sale di Whitehall erano affollate da immenso numero di persone come usualmente avveniva quando una grave notizia buona o cattiva giungeva alla città. La curiosità e lʼansietà erano dipinte nel viso di ciascuno. La Regina proruppe naturalmente in parole di sdegno contro il capo deʼ traditori, e non risparmiò la sua troppo compiacente protettrice. Nella parte del palazzo abitata da Anna furono raddoppiate le sentinelle. La Principessa era atterrita. Tra poche ore il padre sarebbe giunto a Westminster. Non era verosimile che lʼavrebbe personalmente trattata con severità; ma non era da sperarsi chʼegli le permetterebbe di godere più a lungo della compagnia della sua diletta amica. Mal poteva dubitarsi che Sara verrebbe arrestata e sottoposta al rigoroso esame di astuti e crudi inquisitori. Le sue carte sarebbero sequestrate. Forse si scoprirebbe qualche documento che mettesse in pericolo la sua vita. Ed ove ciò fosse, vʼera da temere di peggio. La vendetta dello implacabile Re non conosceva distinzione di sesso. Per delitti molto più lievi di quelli che probabilmente verrebbero imputati a Lady Churchill, aveva mandate donne alle forche e al ceppo. La forza dello affetto infiammò lʼanimo debole della Principessa. Non vʼera vincolo chʼella non fosse pronta a rompere, non rischio a correre per lʼoggetto del suo immenso amore. «Mi getterò giù dalla finestra» gridò ella «piuttosto che lasciarmi trovare qui da mio padre.» Lady Churchill sʼincaricò di apparecchiare la fuga. Si pose frettolosamente in comunicazione con alcuni capi della congiura. In poche ore ogni cosa fu pronta. Quella sera Anna si ritrasse, secondo il consueto modo, alle sue stanze. Sul cadere della notte levossi, ed accompagnata dallʼamica Sara e da due altre donne discese per le secrete scale in veste da camera e in pianelle. Le fuggenti giunsero nella strada senza ostacolo, dove le attendeva una carrozza dʼaffitto, dinanzi al cui sportello stavano due uomini. Uno era Compton Vescovo di Londra, vecchio ajo della Principessa; lʼaltro era il magnifico e squisito Dorset, che vedendo la grandezza del pubblico pericolo erasi destato dal suo voluttuoso far niente. La carrozza tosto si diresse ad Aldersgate Street, dove allora sorgeva lʼabitazione di città deʼ Vescovi di Londra, accanto alla Cattedrale. Ivi la Principessa passò la notte. Il dì seguente partì per Epping Forest. In queʼ selvaggi luoghi Dorset possedeva una veneranda magione, oggimai da lungo tempo distrutta. Sotto il suo tetto ospitale che da molti anni era il favorito ritrovo deʼ begli spiriti e deʼ poeti, i fuggitivi fecero breve soggiorno. Non potevano sperare di giungere in sicurtà al campo di Guglielmo, perocchè il cammino era occupato dalle regie milizie. Fu quindi deliberato che Anna riparasse fra mezzo agli insorti delle contrade settentrionali. Compton per allora dismesse al tutto il suo carattere sacerdotale. Il pericolo e il conflitto gli avevano riacceso nel cuore tutto il fuoco guerriero onde era pieno ventotto anni innanzi, allorquando cavalcava fra le Guardie del Corpo. Ei precedeva il cocchio della Principessa, vestito dʼun giustacore di cuojo di bufalo, grandi stivali, spada a fianco, e pistole allʼarcione. Innanzi di giungere a Nottingham trovossi circondata da un drappello di gentiluomini che volontariamente erano corsi a scortarla. Costoro invitarono il Vescovo a farsi loro colonnello; ed egli vi consentì con alacrità tale da scandalizzarne i rigidi Anglicani, e da non acquistargli grande reputazione agli occhi deʼ Whig.[543] LXIII. Allorquando la mattina del dì 26 lo appartamento di Anna fu trovato vuoto, nacque grande costernazione in Whitehall. Mentre le sue cameriste correvano su e giù peʼ cortili del palazzo strillando e torcendosi le mani, mentre Lord Craven comandante delle Guardie a piedi interrogava le sentinelle della galleria, mentre il Cancelliere poneva i suggelli alle carte deʼ Churchill, la nudrice della Principessa negli appartamenti del Re piangeva gridando che la sua diletta signora era stata assassinata dai papisti. La nuova volò a Westminster Hall. Ivi si disse che Sua Altezza era stata trascinata a forza e in qualche luogo imprigionata. Quando non fu più possibile negare che la sua fuga era stata volontaria, sʼinventarono mille ciarle a spiegarne la cagione. Era stata villanamente insultata e minacciata; anzi, quantunque si trovasse in quella condizione in cui la donna merita peculiarmente lʼaltrui tenerezza, era stata battuta dalla sua crudele madrigna. La plebe, da molti anni di pessimo governo resa sospettosa e irritabile, venne in tanto concitamento per queste calunnie, che la Regina non si teneva sicura. Molti Tory cattolici e alcuni protestanti, la cui lealtà era incrollabile, corsero alla reggia pronti a difenderla ove seguisse uno scoppio dʼira popolare. Fra mezzo a tanta perturbazione e a tanto terrore giunse la nuova della fuga del Principe Giorgio. Poco dopo verso sera arrivò il Re, al quale fu annunziato la sua figlia essere scomparsa. Dopo tanti patimenti questʼultima afflizione gli strappò dalle labbra un doloroso grido: «Dio mi soccorra, anche i miei figli mi hanno abbandonato!»[544] Quella sera fino a tardi sedè in consiglio coʼ suoi principali ministri. Fu deliberato di intimare a tutti i Lordi spirituali e secolari che allora trovavansi in Londra, che comparissero la dimane al suo cospetto, onde richiederli solennemente di consiglio. Per la qual cosa, il pomeriggio del martedì 27, i Lordi adunaronsi nella sala da pranzo del palazzo. Lʼassemblea era composta di nove prelati e fra trenta e quaranta Nobili secolari, tutti protestanti. I due Segretari di Stato, Middleton e Preston, quantunque non fossero Pari dʼInghilterra, erano presenti. Il Re presedeva in persona. Gli si leggeva sul viso e nello atteggiamento chʼegli soffriva dʼanima e di corpo. Aperse la ragunanza facendo capo dalla petizione che gli era stata presentata poco innanzi la sua partenza per Salisbury. In quella petizione veniva pregato a convocare un libero Parlamento. Disse che nelle condizioni in cui egli allora trovavasi, non aveva reputato opportuno acconsentire. Ma nel tempo della sua assenza da Londra erano seguiti gravissimi mutamenti. Aveva parimente notato che il suo popolo dappertutto mostrava bramosia di vedere adunate le Camere. Per tutte queste cose egli chiamava a consiglio i suoi Pari fedeli, perchè gli manifestassero il loro parere. Per qualche tempo eʼ fu silenzio, finchè Oxford, la cui famiglia, per antichità e magnificenza superiore a tutte, gli dava una specie di primato nella ragunanza, disse che secondo la sua opinione queʼ Lordi i quali avevano sottoscritta la petizione, cui la Maestà Sua accennava, erano in debito di manifestare i loro pensieri. Queste parole mossero Rochester a favellare. Difese la petizione e dichiarò di non vedere altra speranza per il trono e il paese che la convocazione dʼun libero Parlamento. Disse non volere rischiarsi ad affermare che in tanto grave estremità, anche quel rimedio potesse tornare efficace: ma non ne aveva altro da proporre. Aggiunse parergli sano partito aprire pratiche col Principe dʼOrange. Jeffreys e Godolphin parlarono dopo, ed entrambi dichiararono essere della medesima opinione di Rochester. Allora sorse Clarendon, e, con somma maraviglia di quanti rammentavano le sue proteste di lealtà, e i suoi disperati affanni e il rossore cui si era abbandonato, solo pochi giorni innanzi, per la diserzione del proprio figliuolo, proruppe in virulenti invettive contro la tirannide e il papismo. «Anche adesso» disse egli «Sua Maestà in Londra fa leva dʼun reggimento al quale non è ammesso nessun protestante.»—«Non è vero!» gridò dal seggio Giacomo grandemente agitato. Clarendon insisteva, e lasciò da parte questo offensivo subietto per passare ad un altro maggiormente offensivo. Accusò lo sventurato Re di pusillanimità. Perchè ritirarsi da Salisbury? Perchè non tentare le sorti dʼuna battaglia? Era forse da biasimarsi il popolo se cedeva ad un invasore mentre vedeva il proprio Re fuggire insieme con la sua armata? Giacomo sentì amaramente cotesti insulti, e ne serbò lunga ricordanza. E davvero gli stessi Whig reputarono indecenti e poco generose le parole di Clarendon. Halifax parlò in modo diverso. Per molti anni di pericolo aveva con ammirevole abilità difeso la costituzione civile ed ecclesiastica del paese contro la regia prerogativa. Ma il suo lucido intendimento, singolarmente nemico dʼogni entusiasmo, ed avverso agli estremi, cominciò a pendere verso la causa del Sovrano nel momento stesso nel quale queʼ romorosi realisti, che poco innanzi avevano esecrato i Barcamenanti quasi fossero ribelli, alzavano il vessillo della ribellione. Egli ambiva, in quella congiuntura, a farsi paciere fra il trono e la nazione. A ciò lo rendevano adatto lo ingegno e il carattere; e se non vi riuscì, deve attribuirsi a certe cagioni, a vincere le quali non era destrezza che bastasse, e precipuamente alla follia, slealtà, ed ostinatezza del Principe chʼegli si studiava di salvare. Halifax disse non poche verità spiacevoli a Giacomo, ma con tal delicatezza da meritargli la taccia dʼadulatore da parte di quegli abietti spiriti, i quali non sanno intendere come ciò che giustamente merita il nome di adulazione quando è diretto al potente, sia debito dʼumanità quando si rivolge al caduto. Con mille espressioni di simpatia e deferenza, dichiarò essere dʼavviso che il Re dovesse oggimai apparecchiarsi a fare grandi sacrifici. Non bastava convocare un libero Parlamento o iniziare pratiche dʼaccordo col Principe dʼOrange. Era necessario fare ragione almeno ad alcuni deʼ torti di cui moveva lamento la nazione, senza attendere che lo esigessero le Camere o il Capitano dello esercito nemico. Nottingham con parole egualmente rispettose fece eco a quelle di Halifax. Le principali concessioni che i Lordi volevano che il Re facesse erano queste: cacciare dagli uffici tutti i Cattolici Romani; separarsi interamente dalla Francia; e concedere illimitata amnistia a tutti coloro che avevano prese le armi contro lui. Pareva che intorno allʼultima di coteste concessioni non fosse da disputare. Imperocchè, quantunque coloro che pugnavano contro il Re avessero agito in modo da suscitargli in cuore, non senza ragione, il più acre risentimento, era più verosimile chʼegli si trovasse tra breve in loro balìa, che essi nella sua. Sarebbe stata cosa puerile iniziare pratiche dʼaccordo con Guglielmo, e nello stesso tempo riserbarsi il diritto di vendetta contro coloro che Guglielmo non poteva senza infamia lasciare in abbandono. Ma lo intenebrato intendimento e lʼindole implacabile di Giacomo resisterono lungamente alle ragioni addotte da coloro che affaticavansi a convincerlo essere opera da savio perdonare delitti chʼegli non poteva punire. «Non posso acconsentire,» esclamò egli. «È mestieri chʼio dia degli esempi: Churchill sopra tutti, Churchill, quel desso chʼio inalzai tanto. Egli è la sola cagione di tanto male. Egli ha corrotta la mia armata. Egli ha corrotta la mia figliuola. Egli mi avrebbe dato in mano al Principe dʼOrange, se non mi avesse soccorso la mano di Dio. Milordi, voi siete stranamente ansiosi per la salvezza deʼ traditori, e nessuno di voi si dà il minimo pensiero della mia.» In risposta a questo scoppio dʼira impotente, coloro i quali lo avevano esortato a concedere lʼamnistia, gli mostrarono con profondo rispetto, ma con fermezza, che un Principe aggredito da potenti nemici non può trovare scampo se non nella vittoria o nella riconciliazione. «Se la Maestà Vostra, dopo ciò che è accaduto, vede tuttavia speranza alcuna di salvezza nelle armi, lʼopera nostra è finita: ma se non ha questa speranza, non le resta altra àncora di salute che il riacquistare lo affetto del popolo.» Dopo una lunga e calorosa discussione, il Re sciolse la ragunanza dicendo: «Milordi, voi avete usata meco gran libertà di parole; ma non me ne ho per male. Oramai mi son messo in capo una cosa, e vi rimango irremovibile, cioè, convocherò il Parlamento. Gli altri consigli che mi avete pôrti sono di grave momento: nè vi dee far meraviglia se innanzi di decidere, io prendo tempo una notte a pensarvi sopra.»[545] LXIV. Primamente Giacomo parve disposto a bene giovarsi del tempo da lui preso a riflettere. Al Cancelliere fu fatto comandamento di scrivere il decreto a convocare il Parlamento pel dì 13 gennaio. Halifax fu chiamato al palazzo, ed ebbe una lunga udienza, e parlò molto più liberamente di quello che egli aveva reputato decoroso di fare al cospetto dʼuna numerosa assemblea. Gli fu detto dʼessere stato nominato commissario per trattare col Principe dʼOrange. In questo ufficio gli furono dati a compagni Nottingham e Godolphin. Il Re dichiarò dʼessere parato a fare grandi sacrifici per amore della pace. Halifax rispose chʼera dʼuopo farli pur troppo. «Vostra Maestà» disse egli «non deve aspettarsi che coloro i quali hanno in mano il potere, consentano a patti che lascino le leggi in balìa della regia prerogativa.» Con questa distinta dichiarazione delle sue mire, egli accettò la commissione che il Re desiderava affidargli.[546] Le concessioni che poche ore innanzi erano state ostinatissimamente respinte, adesso furono fatte in modo liberalissimo. Fu pubblicato un proclama nel quale il Re non solo concedeva pieno perdono a tutti i ribelli, ma li dichiarò elegibili al prossimo Parlamento. Nè anche si richiedeva come condizione dʼelegibilità che dovessero porre giù le armi. La medesima Gazzetta che annunziava la prossima ragunanza delle Camere, conteneva la notificazione che Sir Eduardo Hales, il quale, come papista, rinnegato e precipuo campione della potestà di dispensare, e come duro carceriere deʼ Vescovi, era uno degli uomini più impopolari del Regno, aveva cessato di essere Luogotenente della Torre, e gli aveva succeduto Bevil Skelton, dianzi suo prigione, il quale quantunque avesse poca riputazione presso i suoi concittadini, almeno non difettava dei necessari requisiti ad occupare un pubblico ufficio.[547] LXV. Se non che coteste concessioni erano dirette solo ad abbacinare i Lordi e la nazione per nascondere i veri disegni del Re. Egli aveva secretamente deliberato, anche in quellʼora di pericolo, di non voler cedere in nulla. Nel giorno medesimo, in cui pubblicò il proclama dʼamnistia, spiegò pienamente le proprie intenzioni a Barillon. «Queste pratiche dʼaccordo» disse Giacomo «sono una pretta finzione. È mestieri chʼio mandi commissari a mio nipote, affinchè io acquisti tempo ad imbarcare la mia moglie e il Principe di Galles. Voi conoscete gli umori delle mie truppe. Di nessuno altro che deglʼIrlandesi io potrei fidarmi; e glʼIrlandesi non sono in numero bastevole a resistere allʼinimico. Il Parlamento mʼimporrebbe patti chʼio non potrei sopportare. Sarei forzato a disfare ciò che ho già fatto a pro deʼ Cattolici, ed a romperla col Re di Francia. E però, appena la Regina e mio figlio saranno in salvo, partirò dalla Inghilterra e cercherò rifugio in Irlanda, in Iscozia, o presso il vostro signore.»[548] E già il Re aveva fatti i preparamenti bisognevoli a mandare questo disegno ad esecuzione. Dover era stato spedito a Portsmouth con ordine di aver cura del Principe di Galles; e a Dartmouth, che ivi comandava la flotta, era stato ingiunto dʼobbedire a Dover in tutto ciò che concernesse il regio infante, e di tenere prontissimo a far vela per la Francia, appena ricevutone lʼavviso, un naviglio equipaggiato da marinaj fedeli.[549] Il Re quindi mandò ordini positivi perchè lo infante fosse subito condotto al più vicino porto del continente.[550] Dopo il Principe di Galles, il primo pensiero del Re era il Gran Sigillo. A questo simbolo della regia autorità i nostri giureconsulti hanno sempre attribuito una quasi misteriosa importanza. Ammettono che se il Cancelliere, senza licenza del Re, lo apponga ad un diploma di parìa o a un decreto di grazia, quantunque ei si renda colpevole di grave delitto, il documento non può essere posto in questione da nessuna Corte di legge, e può essere annullato solo da un atto parlamentare. Eʼ sembra che Giacomo paventasse che questo strumento della sua volontà potesse cadere nelle mani deʼ suoi nemici, i quali con esso potrebbero dare validità legale ad atti che lo avrebbero potuto gravemente danneggiare. Nè i suoi timori sono da reputarsi irragionevoli sempre che si rammenti che appunto cento anni più tardi il Gran Sigillo di un Re fu adoperato, con lo assenso deʼ Lordi e deʼ Comuni, e con lʼapprovazione di molti incliti statisti e giureconsulti, a fine di trasferire al figliuolo le prerogative di lui. Perchè non si facesse abuso del talismano che aveva tanto formidabile potenza, Giacomo deliberò di tenerlo a brevissima distanza dal suo gabinetto. Per la qual cosa ingiunse a Jeffreys di sloggiare dalla casa da lui di recente edificata in Duke Street, e di risedere in un piccolo appartamento di Whitehall.[551] LXVI. Il Re aveva fatto ogni apparecchio a fuggire, allorquando un inatteso ostacolo lo costrinse a differire la esecuzione del proprio disegno. I suoi agenti in Portsmouth cominciarono a scrupoleggiare. Lo stesso Dover, ancorchè fosse uno della cabala gesuitica, mostrò segni di titubanza. Dartmouth era anche meno inchinevole ad obbedire alle voglie del Re. Fino allora sʼera mantenuto fedele al trono, ed aveva fatto il possibile, con una flotta disaffezionata e col vento contrario, per impedire che gli Olandesi sbarcassero in Inghilterra; ma era membro zelante della Chiesa stabilita, e in nessuna maniera partigiano della politica di quel governo chʼegli si reputava tenuto, per debito e per onore, a difendere. I torbidi umori degli ufficiali e degli altri uomini a lui sottoposti gli recavano non poca ansietà; ed era giunta opportuna ad alleggiargli lʼanimo la nuova della convocazione dʼun libero Parlamento, e della nomina deʼ commissari a trattare col Principe dʼOrange. La flotta ne fece clamoroso tripudio. Un indirizzo onde ringraziare il Re per queste generose concessioni fatte allʼopinione pubblica fu scritto sul bordo della nave capitana. Lo ammiraglio fu il primo a firmare. Trentotto capitani, dopo lui, vi apposero i loro nomi. Mentre questo documento era recato a Whitehall, giunse a Portsmouth il messo che recava lʼordine di condurre in sullʼistante il Principe di Galles in Francia. Dartmouth seppe, e ne provò amaro dolore e risentimento, il libero Parlamento, la generale amnistia, le pratiche collʼinimico, altro non essere che parte dʼun grande inganno ordito contro la nazione, del quale inganno egli doveva essere complice. In una patetica ed animosa lettera dichiarò dʼavere ormai obbedito fino al punto oltre il quale ad un protestante e ad un Inglese non era lecito andare. Porre lo erede presuntivo della corona britannica nelle mani di Luigi sarebbe stato niente meno che tradimento contro la monarchia; lo che avrebbe resa furibonda la nazione della quale il Sovrano aveva pur troppo perduto lo affetto. Il Principe di Galles non sarebbe mai più ritornato, o ritornerebbe condotto in Inghilterra da unʼarmata francese. Ove Sua Altezza rimanesse nellʼisola, il peggio che sarebbe potuto accadere era di vederlo educare in seno alla Chiesa nazionale; e chʼegli fosse siffattamente educato doveva essere il desiderio dʼogni suddito leale. Dartmouth concludeva dichiarandosi pronto a rischiare la propria vita per la difesa del trono, ma protestava di non volere partecipare al trasferimento del Principe in Francia.[552] Questa lettera sconcertò tutti i disegni di Giacomo. Sʼaccôrse, inoltre, di non potere in questa circostanza aspettarsi obbedienza passiva dal suo ammiraglio: imperocchè Dartmouth era giunto fino a porre parecchie scialuppe alla bocca del porto di Portsmouth con ordine di non lasciar passare nessun legno senza prima esaminarlo. Era quindi necessario fare altri provvedimenti; era mestieri condurre il bambino a Londra, e da quivi mandarlo in Francia. A far ciò bisognava passassero alcuni giorni. Frattanto era dʼuopo lusingare il popolo con la speranza dʼun libero Parlamento e con la simulazione di trattare col Principe dʼOrange. Furono quindi spediti i decreti per le elezioni. I trombetti andavano e venivano dalla metropoli al quartiere generale degli Olandesi. Infine giunsero i salvocondotti pei tre Commissari regi, i quali partirono pel campo nemico. LXVII. Lasciarono Londra tremendamente agitata. Le passioni che pel corso di tre anni di perturbazioni, sʼerano gradualmente rinvigorite, adesso, libere da ogni freno di timore, e stimolate dalla vittoria e dalla simpatia, mostravansi senza maschera perfino dentro la reggia. I Gran Giurati di Middlessex pronunciarono un atto dʼaccusa contro il Conte di Salisbury per avere abbracciato il papismo.[553] Il Lord Gonfaloniere ordinò che le case deʼ cattolici romani nella Città venissero perquisite onde vedere se contenessero armi. La plebaglia irruppe nellʼabitazione di un rispettabile mercatante cattolico, per sincerarsi sʼegli avesse scavata una mina dalla sua cantina fino alla chiesa parrocchiale onde far saltare in aria il parroco e i congregati.[554] I merciaioli per le vie gridavano vendendo satire contro Padre Petre, il quale sʼera sottratto, e non quando era ancor tempo, dal suo appartamento in palazzo.[555] La celebre canzone di Wharton con molti versi aggiunti cantavasi più che mai ad alta voce in tutte le strade della metropoli. Le stesse sentinelle che guardavano il palazzo cantavano sotto voce: «GlʼInglesi bevono a confusione del Papismo, _Lillibullero bullen a la_.» Le tipografie clandestine di Londra lavoravano senza posa. Molti fogli correvano giornalmente per la città, nè i magistrati avevano modo o non volevano scoprire per quali mezzi. LXVIII. Uno di questi scritti hanno salvato dallʼoblio la singolare audacia onde era composto e lo immenso effetto che produsse. Simulava dʼessere un supplemento al Manifesto del Principe dʼOrange, scritto di suo pugno e munito del suo sigillo: ma lo stile era molto diverso da quello del Manifesto vero. Minacciava vendetta, senza riguardo alle costumanze deʼ popoli inciviliti e cristiani, contro tutti quei papisti che osassero parteggiare pel Re. Verrebbero trattati non come soldati o gentiluomini, ma come predoni. La ferocia e licenza dellʼarmata degli invasori che una vigorosa mano aveva fino allora rattenuti, sarebbe lasciata senza freno contro i papisti. I buoni protestanti, e in ispecie coloro che abitavano nella metropoli, venivano esortati, a nome di quanto avevano di più caro al mondo, e comandati, sotto pena dello sdegno del Principe, a prendere, disarmare e condurre in carcere i Cattolici loro vicini. Dicesi che questo documento una mattina fosse trovato da un libraio Whig allʼuscio della sua bottega. Affrettossi a stamparlo. Molti esemplari ne furono spediti per la posta e corsero rapidamente per le mani di tutti. Gli uomini savi non esitarono a reputarlo scrittura foggiata da qualche irrequieto e immorale avventuriere della razza di coloro che nei tempi torbidi sono sempre pronti ad eseguire i più vili e tenebrosi uffici delle fazioni. Ma la moltitudine restò presa allʼamo. E veramente a tal punto era stato concitato il sentimento nazionale e religioso contro i papisti irlandesi, che la maggior parte di coloro, i quali non reputavano autentico quello scritto spurio, inclinavano ad applaudirlo come opportuno esempio di energia. Come si seppe che Guglielmo non ne era lo autore, tutti interrogavansi a vicenda chi fosse lo impostore che con tanta audacia e tanto effetto aveva presa la maschera di Sua Altezza. Alcuni sospettarono di Ferguson, altri di Johnson. Finalmente dopo ventisette anni Ugo Speke confessò dʼaverlo egli composto, e chiese alla Casa di Brunswick una rimunerazione per avere reso alla religione protestante un così segnalato servigio. Asserì, col tono di chi creda avere fatto cosa eminentemente virtuosa ed onorevole, che quando la invasione olandese aveva gettato Whitehall nella costernazione, egli sʼera profferto alla Corte, e simulando rottura coʼ Whig, aveva promesso di spiarne i passi; che con tale mezzo era stato ammesso al cospetto del Re, aveva giurato fedeltà, gli era stata promessa pecunia in gran copia, e sʼera procurato deʼ segnali con che poteva andare e venire nel campo nemico. Protestò di avere fatte tutte coteste cose col solo scopo di avventare senza sospetto un colpo mortale al Governo, e far nascere nel popolo un violento scoppio di sdegno contro i Cattolici Romani. Disse che il falso Manifesto era uno deʼ mezzi da lui divisati: ma è da dubitare se le sue pretensioni fossero bene fondate. Imperocchè indugiò tanto a dirlo da farci ragionevolmente sospettare chʼegli aspettasse la morte di chi poteva contradirgli; oltrechè non addusse altra testimonianza che la propria asserzione.[556] LXIX. Mentre le cose sopra narrate succedevano in Londra, ogni corriere postale da tutte le parti del Regno recava la notizia di qualche novella insurrezione. Lumley aveva presa Newcastle. Gli abitatori lo avevano accolto con gioia. La statua del Re, che sorgeva sopra un alto piedistallo di marmo, era stata rovesciata e gettata nel Tyne. Fu lungamente serbata in Hull la memoria del 3 dicembre, come giorno della presa della città. Vʼera un presidio sotto il comando di Lord Langdale cattolico romano. Gli ufficiali protestanti concertarono colla magistratura un piano dʼinsurrezione: Langdale e i suoi fautori furono arrestati; e i soldati e i cittadini si congiunsero a favore della religione protestante e dʼun libero Parlamento.[557] Le contrade orientali erano anche esse insorte. Il Duca di Norfolk, seguito da trecento gentiluomini bene armati a cavallo, comparve nella vasta piazza di mercato in Norwich. Il Gonfaloniere e gli Aldermanni corsero a lui e promisero di collegarsi con lui contro il papismo e la tirannide.[558] Lord Herbert di Cherbury e Sir Eduardo Harley presero le armi nella Contea di Worchester.[559] Bristol, seconda città del reame, aprì le sue porte a Shrewsbury. Il Vescovo Trelawney, il quale nella Torre aveva disimparato affatto la dottrina della non resistenza, fu il primo a far plauso alla venuta delle truppe del Principe. Siffatti erano gli umori degli abitanti, che non sʼera creduto necessario lasciare fra loro una guarnigione.[560] La popolazione di Gloucester insorse e liberò di prigione Lovelace, il quale si vide tosto raccogliere dintorno unʼarmata irregolare. Alcuni deʼ suoi cavalieri avevano semplici cavezze invece di briglie. Molti deʼ suoi fanti per tuttʼarme avevano bastoni. Ma queste schiere, comunque si fossero, marciarono senza contrasto traverso alle Contee già sì fide alla Casa Stuarda, e infine entrarono trionfanti in Oxford. Corsero loro incontro solennemente i magistrati. La stessa Università, esasperata dagli oltraggi dianzi sostenuti, era poco inchinevole a disapprovare la ribellione. Già alcuni deʼ capi dei Collegi avevano spedito un loro rappresentante per riferire al Principe dʼOrange che essi di tutto cuore erano per lui, e pronti a fondere, ove bisognasse, le loro argenterie. Per lo che il condottiero Whig cavalcò per la città principale deʼ Tory fra le acclamazioni universali. Lo precedevano i tamburi sonando il Lillibullero. Gli teneva dietro una vasta onda di cavalli e di fanti. Tutta High Street era parata con drappi color dʼarancio, imperocchè questo colore aveva già il doppio significato, che dopo centosessanta anni serba tuttavia, voglio dire per lo Inglese protestante era emblema di libertà civile e religiosa, pel Celta cattolico era simbolo di persecuzione e servaggio.[561] LXX. Mentre da ogni lato sorgevano nemici attorno al Re, gli amici sollecitamente lo abbandonavano. La idea della resistenza era divenuta famigliare a ciascuno. Molti che mostraronsi inorriditi allorchè ebbero la nuova delle prime diserzioni, adesso rimproveravano sè stessi dʼessere stati così lenti a conoscere il tempo. Non vʼera più ostacolo o periglio ad accorrere a Guglielmo. Il Re, chiamando la nazione ad eleggere i rappresentanti al Parlamento, aveva implicitamente autorizzato ognuno a recarsi dove avesse voti o interessi; e molti di queʼ luoghi erano già occupati daglʼinvasori o dagli insorti. Clarendon ardentemente colse il destro di abbandonare il già cadente Sovrano. Sapeva dʼaverlo mortalmente offeso col suo discorso in Consiglio: e si sentì mortificato non vedendosi nominare per uno deʼ tre regii Commissari. Egli aveva deʼ possessi nel Wiltshire. Deliberò di portare candidato per quella Contea il proprio figlio, quel desso della cui condotta egli aveva dianzi sentito dolore ed orrore; e sotto pretesto di badare alla elezione partì per il paese occidentale. Tosto gli tennero dietro il Conte dʼOxford, ed altri i quali fino allora avevano protestato di non avere nissuna relazione con la intrapresa del Principe.[562] Verso questo tempo glʼinvasori, regolarmente, comechè con lentezza, procedendo, trovavansi a settanta miglia da Londra. Quantunque il verno fosse quasi a mezzo, il tempo era bello, il cammino piacevole; e i piani di Salisbury sembravano prati amenissimi a loro che sʼerano affannati traverso alle fangose rotaje degli stradali di Devonshire e di Somersetshire. Lʼarmata procedeva accanto a Stonehenge, e i reggimenti, lʼuno dopo lʼaltro, stavansi a contemplare quelle misteriose rovine, famose per tutto il continente, come la più grande maraviglia della nostra isola. Guglielmo entrò in Salisbury con la stessa pompa militare con cui era entrato in Exeter, ed alloggiò nel palazzo, pochi giorni innanzi occupato dal Re.[563] Quivi al suo corteo si aggiunsero i Conti di Clarendon e dʼOxford ed altri cospicui personaggi, i quali fino a pochi giorni avanti erano considerati zelanti realisti. Van Citters arrivò anche egli al quartiere generale degli Olandesi. Per parecchie settimane egli era stato quasi prigione nella sua casa presso Whitehall, di continuo sorvegliato da spie che sʼavvicendavano senza perderlo dʼocchio un istante. Nondimeno, malgrado le spie, o forse per mezzo loro, gli era venuto fatto di sapere esattamente ciò che succedeva in palazzo; e adesso bene e copiosamente edotto degli uomini e delle cose, giunse al campo a giovare le deliberazioni di Guglielmo.[564] Fino a questo punto la impresa del Principe era proceduta prosperamente oltre le speranze deʼ più ardenti suoi fautori. E adesso, secondo la legge universale che governa le cose umane, la prosperità cominciò a produrre la disunione. GlʼInglesi raccolti in Salisbury si scissero in due partiti. Lʼuno era composto di Whig, i quali avevano sempre considerato le dottrine della obbedienza passiva e dello incancellabile diritto ereditario come superstizioni servili. Molti di loro avevano passato degli anni in esilio; tutti erano stati esclusi daʼ favori della Corona. Adesso esultavano vagheggiando vicinissimo il giorno della grandezza e della vendetta. Ardenti di sdegno, inebriati di vittoria e di speranza, non volevano udire a parlare di patti. Nullʼaltro fuorchè la detronizzazione del loro nemico gli avrebbe contentati: nè può negarsi che, ciò volendo, fossero a sè medesimi perfettamente coerenti. Nove anni innanzi avevano fatto ogni sforzo per escluderlo dal trono, perchè credevano chʼegli sarebbe verosimilmente stato cattivo Re. E però non era da sperarsi che lo lascerebbero volentieri sul trono dopo che lo avevano sperimentato Re oltre ogni ragionevole preveggenza cattivissimo. Dallʼaltro canto non pochi deʼ fautori di Guglielmo erano Tory zelanti, i quali fino allora avevano professata la dottrina della non resistenza nella forma più assoluta, ma la cui fede in cotesta dottrina per un istante aveva ceduto alle irruenti passioni eccitate dalla ingratitudine del Re e dal pericolo della Chiesa. Per un vecchio Cavaliere non vʼera condizione più tormentosa che quella di impugnare le armi contro il trono. Gli scrupoli che non gli avevano impedito dallo accorrere al campo degli Olandesi cominciarono, appena vi giunse, a straziargli crudelmente la coscienza, la quale lo faceva dubitare di avere commesso un delitto. In ogni evento sʼera reso meritevole di rimprovero operando in diretta opposizione ai principii di tutta la sua vita. Sentiva invincibile avversione pei suoi nuovi collegati, gente, per quanto egli potesse rammentarsi, da lui sempre ingiuriata e perseguitata, cioè Presbiteriani, Indipendenti, Anabattisti, vecchi soldati di Cromwell, bravi di Shaftsbury, congiurati di Rye House, capitani della Insurrezione delle contrade occidentali. Naturalmente desiderava trovare qualche scusa che gli ponesse in pace la coscienza, lo liberasse dalla taccia dʼincoerenza, e stabilisse una distinzione tra lui e la folla deʼ ribelli scismatici, da lui sempre spregiati e aborriti, ma coi quali egli adesso correva pericolo dʼessere confuso. Per le quali cose protestava fervidamente contro ogni pensiero di strappare la corona da quella cervice resa sacra dal volere di Dio e dalle leggi del Regno. Il suo più caldo desiderio era di vedere una riconciliazione a patti non indecorosi alla dignità regia. Egli non era traditore; e a dir vero non opponeva resistenza allʼautorità del Sovrano. Era corso alle armi perchè egli era convinto che il miglior servizio che si potesse rendere al trono era quello di redimere con una lievissima coercizione la Maestà Sua dalle mani deʼ pessimi consiglieri. I mali, che la vicendevole animosità di queste fazioni tendeva a far nascere, furono in gran parte scansati per lʼautorità e saggezza del Principe. Circuito da ardenti disputatori, officiosi consiglieri, abietti adulatori, spie vigilanti, maligni ciarlieri, rimaneva sempre tranquillo senza che altri potesse leggergli nel cuore. Potendo, taceva; costretto a parlare, il tono serio e imperioso con che significava le sue bene ponderate opinioni, faceva tosto ammutolire chiunque. Qualsivoglia cosa dicessero i suoi troppo zelanti fautori, ei non profferì mai verbo che desse il minimo sospetto di ambire alla corona dʼInghilterra. Senza dubbio ben si accorgeva che fra lui e quella corona esistevano tuttavia parecchi ostacoli, i quali nessuna prudenza avrebbe potuto vincere, e potevano ad un solo passo falso diventare insormontabili. La sola probabilità chʼegli avesse di ottenere quello splendido premio non istava nello impossessarsene ruvidamente, ma nello aspettare fino a tanto che senza la minima apparenza di sforzo e dʼastuzia lo conducessero al suo arcano scopo la forza delle circostanze, gli errori deʼ suoi avversari, e la libera elezione dei tre Stati del reame. Coloro che provaronsi dʼinterrogarlo, non riuscirono a saper nulla, e nondimeno non poterono accusarlo di simulazione. Egli tranquillamente li rimandava al suo Manifesto, assicurandoli che le sue mire non erano cangiate da poi che era stato scritto quel documento. Con tanta espertezza governava gli animi dei suoi partigiani, che pare la loro discordia gli rafforzasse, anzichè indebolirgli il braccio: ma la discordia scoppiava violentissima appena sottraevansi al freno di lui, sturbava lʼarmonia deʼ conviti, e non rispettava nè anche la santità della casa di Dio. Clarendon, il quale si studiava di nascondersi agli occhi altrui e a quelli della propria coscienza, affettando con ostentazione sentimenti di lealtà—prova manifesta della sua ribellione—raccapricciò vedendo alcuni deʼ suoi colleghi col bicchiere in mano schernire lʼamnistia che il Re generosamente aveva offerta loro. Dicevano non aver bisogno di perdono: ma innanzi di finire, volevano ridurre il Re a domandare perdono a loro. Anche maggiormente impaurì e disgustò ogni buon Tory un fatto che accadde nella cattedrale di Salisbury. Appena il ministro che officiava cominciò a leggere la preghiera pel Re, Burnet, il quale fra i molti suoi pregi non annoverava la facoltà di sapere frenarsi e il senso delicato delle convenevolezze, essendo in ginocchioni, si alzò, si assise nel proprio stallo, e profferì alcune sprezzanti parole che sturbarono le divozioni degli astanti.[565] In breve le fazioni, onde era diviso il campo regio, ebbero occasione a misurare le proprie forze. I Commissari del Re erano già in viaggio. Erano corsi vari giorni dopo la loro nomina; e reputavasi strano che in un caso cotanto urgente indugiassero sì lungamente ad arrivare. Ma in verità nè Giacomo nè Guglielmo desideravano che le pratiche speditamente sʼiniziassero; imperocchè lʼuno bramava solo di acquistare il tempo bastevole a mandare in Francia la moglie e il figliuolo; e la posizione dellʼaltro si faceva ognora più vantaggiosa. Infine il Principe fece annunziare ai Commissari che gli avrebbe ricevuti in Hungerford. Probabilmente scelse questo luogo, perchè, ad uguale distanza da Salisbury e da Oxford, era bene adattato per un convegno deʼ suoi più importanti fautori. In Salisbury erano quei nobili e gentiluomini che lo avevano accompagnato da Olanda od erano corsi a trovarlo nelle contrade occidentali; ed in Oxford erano molti deʼ capi della insurrezione del paese settentrionale. LXXI. In sul tardi, giovedì 6 dicembre, giunse a Hungerford. La piccola città fu tosto ripiena di persone dʼalto grado e notevoli che vi accorrevano da diverse parti. Il Principe era scortato da un forte corpo di truppe. I Lordi del settentrione conducevano seco centinaia di cavalieri irregolari, il cui equipaggio e modo di cavalcare moveva a riso coloro chʼerano assuefatti allo splendido aspetto ed agli esatti movimenti delle armate regolari.[566] Mentre il Principe rimaneva in Hungerford ebbe luogo un accanito scontro tra dugentocinquanta deʼ suoi e seicento Irlandesi che erano appostati in Reading. Glʼinvasori in questo fatto fecero bella prova della superiorità della loro disciplina. Comechè fossero molto inferiori di numero, essi al primo assalto sgominarono le regie milizie, le quali corsero giù per le strade fino alla piazza di mercato. Quivi glʼIrlandesi tentarono di riordinarsi; ma vigorosamente aggrediti di fronte, mentre gli abitanti facevano fuoco dalle finestre delle case circostanti, tosto scoraronsi, e fuggirono perdendo la bandiera e cinquanta uomini. Dei vincitori solo cinque caddero morti. Ne gioirono tutti ugualmente i Lordi e i Gentiluomini che seguivano Guglielmo; perocchè in quel fatto non accadde nulla che offendesse il sentimento nazionale. Gli Olandesi non avevano vinto glʼInglesi, ma avevano soccorsa una città inglese a liberarsi dalla insopportabile dominazione deglʼIrlandesi.[567] La mattina del sabato, 8 dicembre, i commissari del Re giunsero a Hungerford. Le Guardie del Corpo del Principe schieraronsi a riceverli con gli onori militari. Bentinck li accolse e propose loro di condurli immediatamente al cospetto del suo signore. Manifestarono la speranza che il Principe volesse accordar loro una udienza privata; ma fu loro risposto chʼegli era deliberato di ascoltarli e rispondere in pubblico. Furono introdotti nella sua camera da letto, dove lo trovarono fra mezzo a una folla di nobili e di gentiluomini. Halifax, cui il grado, la età, lʼabilità davano il diritto di precedenza, prese a favellare. La proposta che i Commissari avevano ordine di fare era, che i punti di controversia fossero portati dinanzi al Parlamento, a convocare il quale già si stavano suggellando i decreti, e che in quel mentre lʼarmata del Principe si fermasse a trenta o quaranta miglia lontano da Londra. Halifax dopo dʼaver detto che questa era la base sopra cui egli e i suoi colleghi erano apparecchiati a trattare, pose nelle mani di Guglielmo una lettera del Re, e prese commiato. Guglielmo, schiusa la lettera, parve oltre lʼusato commuoversi. Era la prima che ricevesse dal suocero dopo che erano in aperta rottura. Un tempo erano stati in buone relazioni e familiarmente carteggiavano; nè anco dopo che entrambi avevano cominciato a sospettarsi ed aborrirsi vicendevolmente sʼerano astenuti nelle loro lettere da quelle forme di cortesia che comunemente adoperano le persone strettamente congiunte coʼ vincoli del sangue e del matrimonio. La lettera recata daʼ Commissari era scritta da un segretario in forma diplomatica e in lingua francese. «Ho avute molte lettere del Re,» disse Guglielmo, «ma tutte sempre in inglese e scritte di suo pugno.» Favellò con una sensibilità chʼegli era poco assuefatto a mostrare. Forse in quello istante pensava quanto rimprovero dovesse arrecare a lui e alla consorte, così a lui affettuosa, la sua intrapresa, comechè fosse giusta, benefica e necessaria. Forse rammaricavasi della durezza del destino, il quale lo aveva ridotto a una condizione tale chʼei non poteva adempiere ai suoi doveri pubblici senza frangere i domestici vincoli, e invidiava lo avventuroso stato di coloro che non sono responsabili della salvezza delle nazioni e delle Chiese. Ma siffatti pensieri, se pure gli sorsero in mente, ei fermamente represse. Esortò i Lordi e i Gentiluomini, da lui convocati in questa occasione, a consultare insieme, senza lo impaccio della sua presenza, intorno alla risposta da farsi al Re. Riserbossi non per tanto la potestà della decisione finale dopo avere ascoltati i loro consigli. Quindi lasciolli, e si ritirò a Littlecote Hall, magione rurale giacente a circa due miglia di distanza, e famosa fino ai tempi nostri non tanto per la sua veneranda architettura e i suoi begli arredi, quanto per un orribile e misterioso delitto ivi commesso neʼ tempi dei Tudor.[568] Innanzi che si allontanasse da Hungerford gli fu detto che Halifax aveva desiderato di abboccarsi con Burnet. In questo desiderio non era nulla di strano; imperocchè Halifax e Burnet avevano da lungo tempo avuto relazioni dʼamicizia. E per vero dire non vʼerano due uomini che così poco si rassomigliassero. Burnet era estremamente privo di delicatezza e di tatto. Halifax aveva delicatissimo gusto, e fortissima tendenza al dileggio. Burnet mirava ogni azione ed ogni carattere traverso a uno strumento scontorto e colorato dallo spirito di parte. La mente di Halifax inchinava a scoprire i falli deʼ suoi colleghi più presto che quelli degli avversari. Burnet, non ostante le sue debolezze e le vicissitudini dʼuna vita passata in circostanze non molto favorevoli alla pietà, era uomo sinceramente pio. Lo scettico e satirico Halifax aveva taccia dʼincredulo. Halifax quindi aveva spesso provocato la sdegnosa censura di Burnet; e Burnet era spesso lo zimbello deʼ pungenti e gentili scherzi di Halifax. Nondimeno lʼuno sentivasi vicendevolmente attirato verso lʼaltro, ne amava il conversare, ne pregiava lʼabilità, liberamente ricambiava le opinioni e i buoni uffici in tempi pericolosi. Nondimeno Halifax adesso non desiderava rivedere il suo vecchio conoscente soltanto per riguardi personali. I Commissari erano di necessità ansiosi di sapere quale fosse il vero scopo del Principe. Aveva loro ricusato un colloquio privato; e poco poteva raccogliersi da ciò chʼegli potesse dire in una pubblica udienza. Quasi tutti i suoi confidenti erano uomini al pari di lui taciturni e impenetrabili. Il solo Burnet era ciarliero e indiscreto. E nondimeno le circostanze avevano fatto nascere il bisogno di fidarsi di lui; e Halifax con la sua squisita destrezza gli avrebbe indubitatamente tratto dalla bocca i secreti, agevolmente come le parole. Guglielmo sapeva tutto questo, e come gli fu detto che Halifax andava in cerca del dottore, non potè frenarsi dallo esclamare: «Se si uniranno insieme, eʼ vi sarà un bel pettegolezzo.» A Burnet fu inibito di vedere i Commissari in privato; ma con parole cortesissime gli fu detto che il Principe non aveva il più lieve sospetto della fedeltà di lui; e perchè non vi fosse cagione a dolersene, la inibizione fu generale. LXXII. Quel dì i nobili e i gentiluomini, ai quali Guglielmo aveva chiesto consiglio, adunaronsi nella gran sala del principale albergo di Hungerford. Oxford presedeva, e le proposte del Re furono prese in considerazione. Tosto si conobbe che lʼassemblea era divisa in due partiti, lʼuno deʼ quali era bramoso di venire a patti col Re, lʼaltro ne voleva la piena rovina; ed erano i più. Ma fu notato che Shrewsbury, il quale a preferenza di tutti i Nobili dʼInghilterra supponevasi godere la confidenza di Guglielmo, quantunque fosse Whig, in questa occasione era coi Tory. Dopo molto contendere fu formulata la questione. La maggioranza opinò doversi rigettare le proposte che i regii Commissari avevano ordine di fare. La deliberazione dellʼassemblea fu recata al Principe in Littlecote. In nessunʼaltra circostanza per tutto il corso della sua fortunosa vita egli mostrò maggiore prudenza e ritegno. Non poteva volere la buona riuscita dello accordo. Ma era tanto savio da conoscere, che ove le pratiche andassero a vuoto per cagione delle sue irragionevoli pretese, ei perderebbe il pubblico favore. E però, vinta la opinione deʼ suoi ardenti fautori, si dichiarò deliberatissimo a trattare sopra le basi proposte dal Re. Molti dei Lordi e dei Gentiluomini radunati in Hungerford rimostrarono: litigarono un intero giorno: ma Guglielmo rimase incrollabile nel suo proposito. Dichiarò di volere porre ogni questione nelle mani del Parlamento pur allora convocato, e di non procedere oltre a quaranta miglia da Londra. Dal canto suo fece certe domande che anche i meno inchinevoli a lodarlo reputarono moderate. Insistè perchè gli statuti vigenti rimanessero in vigore finchè venissero riformati dallʼautorità competente, e perchè chiunque occupasse un ufficio senza i requisiti legali fosse quinci innanzi destituito. Dirittamente pensava che le deliberazioni del Parlamento non potevano procedere libere, se dovesse aprirsi circondato dai reggimenti irlandesi, mentre egli e la sua armata rimanevano lontani di parecchie miglia. Per lo che reputava necessario che, dovendo le sue truppe rimanersi a quaranta miglia da Londra dalla parte occidentale, le truppe del Re si dovessero ritirare ad uguale distanza dalla parte orientale. In tal guisa rimaneva attorno al luogo, dove le Camere dovevano adunarsi, un ampio cerchio di terreno neutrale, dentro cui erano due fortezze di grande importanza per la popolazione della metropoli; la Torre cioè, che signoreggiava le abitazioni, e Tilbury Fort che signoreggiava il commercio marittimo. Era impossibile lasciare questi due luoghi senza presidio. Guglielmo quindi propose che temporaneamente venissero affidati alla Città di Londra. Sarebbe forse convenevole, che il Re, apertosi il Parlamento, se ne andasse a Westminster con un corpo di guardie. In questo caso il Principe voleva il diritto di andarvi anchʼegli con un eguale numero di soldati. Parevagli giusto, che, mentre rimanevano sospese le operazioni militari, ambedue le armate si considerassero come ai servigi della nazione inglese, e fossero pagate dallʼentrate dellʼInghilterra. Da ultimo richiese alcune guarentigie perchè il Re non si giovasse dello armistizio per introdurre forze francesi nellʼisola. Il punto di maggior pericolo era Portsmouth. Il Principe non insisteva che gli venisse data nelle mani questa importante fortezza, ma propose che, durante la tregua, fosse affidata al comando dʼun ufficiale meritevole della fiducia sua e di Giacomo. Le proposte di Guglielmo erano espresse con la dilicata equità convenevole meglio a un arbitro disinteressato il quale profferisca un giudizio, che ad un principe vittorioso il quale imponga condizioni ad un disastrato nemico. I partigiani del Re non ebbero nulla a ridire. Ma fraʼ Whig nacquero assai mormorazioni. Dicevano non volere riconciliazione col loro vecchio signore; reputarsi sciolti da ogni vincolo di fedeltà; non essere disposti a riconoscere lʼautorità dʼun Parlamento convocato con decreto di lui. Aggiungevano chʼessi non volevano armistizio, e non poteano intendere, che dovendo esservi un armistizio, fosse da concludersi a patti uguali. Per virtù di tutte le leggi della guerra il più forte aveva diritto a giovarsi della propria forza; e nella indole di Giacomo vʼera egli nulla che giustificasse una tanto estraordinaria indulgenza? Coloro che siffattamente ragionavano, ben poco conoscevano da quale altezza e con che occhio veggente il condottiero da essi biasimato contemplasse la intera situazione della Inghilterra e dellʼEuropa. Anelavano a rovinare Giacomo, e però avrebbero voluto o ricusare di trattare con essolui a patti uguali, o imporgli condizioni insopportabilmente dure. Perchè il vasto e profondo disegno politico di Guglielmo non patisse detrimento era necessario che Giacomo ruinasse al precipizio, rigettando condizioni così ostentatamente liberali. Lʼesito delle cose provò la saviezza deʼ provvedimenti che la maggioranza degli Inglesi ragunati in Hungerford era inchinevole a condannare. La domenica, 9 dicembre, le domande del Principe furono poste in iscritto e consegnate a Halifax. I Commissari desinarono in Littlecote, dove una splendida assemblea era stata invitata a incontrarli. Lʼantica sala, dalle cui pareti pendevano armature che avevano veduto la guerra delle Rose, e ritratti deʼ valorosi che erano stati ornamento della corte di Filippo e di Maria, era adesso ripiena di Pari e di Generali. In tanta folla potevano ricambiarsi brevi dimande e risposte senza farsi scorgere. Halifax colse il destro che gli si offrì primo, per conoscere ciò che Burnet sapeva o pensava. «Che intendete di fare?» chiese lo accorto diplomatico. «Desiderate di avere il Re nelle vostre mani?»—«Niente affatto» rispose Burnet; «non vogliamo fare il minimo male alla sua persona.»—«E ove se ne andasse?» soggiunse Halifax. «Non potremmo desiderare nulla di meglio» disse Burnet. Non vʼè dubbio che Burnet, così favellando, esprimesse la opinione universale deʼ Whig nel campo del Principe. Tutti bramavano che Giacomo fuggisse dal paese: ma solo pochi deʼ più savi tra loro intendevano di quanta importanza fosse che la sua fuga venisse attribuita dalla nazione alla insania e ostinatezza di lui, e non ai duri trattamenti e a ben fondati timori. Eʼ pare probabile che anche negli estremi cui egli era adesso ridotto, tutti i suoi nemici congiunti insieme non lʼavrebbero potuto rovesciare, qualora egli non fosse stato il peggiore nemico di sè stesso: ma mentre i suoi Commissari affaticavansi a salvarlo, egli con ogni studio cercava di rendere vani gli sforzi loro.[569] I suoi disegni infine erano maturi per la esecuzione. Le pretese pratiche avevano risposto allo intento. Nel dì stesso in cui i tre Lordi giunsero a Hungerford, il Principe di Galles arrivò a Westminster. Avevano provveduto che passasse pel Ponte di Londra; ed alcune legioni irlandesi gli erano state spedite incontro a Southwark; ma vennero accolte da una gran folla di popolo con tale tempesta di fischi e di maledizioni, che esse reputarono prudente con tutta fretta ritirarsi. La povera creatura passò il Tamigi a Kingston, e fu condotta a Whitehall con tanta secretezza che molti la credevano tuttavia a Portsmouth.[570] LXXIII. Adesso il primo pensiero di Giacomo era quello di mandare il figlio e la moglie senza indugio fuori del Regno. Ma di chi fidarsi per eseguire la fuga? Dartmouth era il più leale deʼ Tory protestanti; e Dartmouth aveva ricusato. Dover era creatura deʼ Gesuiti: e anche Dover aveva esitato. Non era assai facile trovare un Inglese dʼalto grado ed onore il quale si togliesse lo incarico di porre nelle mani del Re di Francia lo erede presuntivo della Corona dʼInghilterra. In queste circostanze Giacomo pose gli occhi sopra un gentiluomo francese il quale allora dimorava in Londra, cioè Antonio Conte di Lauzun. È stato detto che la vita di costui fosse più strana dʼun sogno. Neʼ suoi giovani anni era stato intimo collega di Luigi, ed aveva avuta speranza deʼ più alti impieghi sotto la Corona francese. Poi la fortuna volse la sua ruota. Luigi aveva con amari rimproveri allontanato da sè lo amico della sua giovinezza, e, dicesi, poco mancò non lo schiaffeggiasse. Il caduto cortigiano era stato rinchiuso in una fortezza: ma ne era uscito, aveva riacquistata la grazia del suo signore, ed acceso il cuore ad una delle più grandi dame dʼEuropa, cioè Anna Maria, figlia di Gastone Duca dʼOrleans, nipote del Re Enrico IV, ed erede delle immense possessioni della Casa di Monpensier. I due amanti si volevano congiungere in matrimonio, che fu assentito dal Re. Per poche ore Lauzun fu considerato in Corte come membro adottivo della famiglia Borbone. La dote della Principessa poteva essere ambita anche da un Sovrano: tre grandi ducati, un principato indipendente con zecca e tribunali, ed una rendita superiore a quella del Regno di Scozia. Ma tanto splendido apparato in un istante svanì. Gli sponsali furono rotti. Lo amante per molti anni visse rinchiuso in un castello sulle Alpi. In fine Luigi divenne più mite. A Lauzun fu inibito di comparire al cospetto del Re, ma gli venne data libertà, lontano dalla Corte. Visitò la Inghilterra, e fu bene accolto da Giacomo e dal ceto elegante di Londra: imperciocchè in quel tempo i gentiluomini francesi venivano reputati per tutta Europa modelli di squisita educazione: e molti Cavalieri e Visconti, i quali non erano mai stati ammessi al cerchio di Versailles, erano oggetto di curiosità e di ammirazione in Whitehall. Lauzun quindi nelle presenti circostanze era lʼuomo opportuno. Aveva animo e sentimento dʼonore, era assuefatto a strane avventure, e con lʼacutezza di mente e lo ironico dileggio dʼun compìto uomo di mondo aveva forte propensione a farla da cavaliere errante. Lo amore di patria e i propri interessi lo persuadevano a addossarsi una commissione, dalla quale tutti i più fedeli sudditi della Corona inglese parevano aborrire. Come custode, in un pericoloso momento, della Regina della Gran Bretagna e del Principe di Galles, poteva onorevolmente ritornare al paese natio; e forse verrebbe nuovamente ammesso a vedere Luigi vestirsi e desinare, e dopo tante vicende, nel volgere degli anni suoi, si rimetterebbe forse in via di riacquistare con istrana guisa il regio favore. Spinto da tali sentimenti Lauzun con ardore accettò lʼalto incarico propostogli. Gli apparecchi per la fuga si fecero sollecitamente: fu ordinato che una nave stesse pronta a Gravesend: ma giungere a Gravesend non era agevole cosa. La città era in estremo concitamento. La minima cagione bastava a fare ragunare il popolo. Nessun forestiero poteva mostrarsi per le vie senza timore dʼessere fermato, interrogato, e condotto dinanzi a un magistrato come fosse gesuita travestito. Era quindi necessario prendere la via lungo la sponda meridionale del Tamigi. Non fu trascurata nessuna cautela a evitare ogni sospetto. Il Re e la Regina, secondo il consueto modo, ritiraronsi per riposare. Quando per qualche tempo fu quiete universale in palazzo, Giacomo levatosi chiamò uno deʼ suoi servitori dicendogli; «Troverete un uomo alla porta dellʼanticamera; conducetelo a me.» Il servo obbedì, e Lauzun fu introdotto nella stanza del regio talamo. «Affido a voi» disse Giacomo «la Regina e mio figlio; bisogna porre a rischio ogni cosa per condurli in Francia.» Lauzun con ispirito veramente cavalleresco rese grazie del pericoloso onore che Giacomo gli faceva, e chiese licenza di giovarsi dello aiuto del suo amico Saint–Victor gentiluomo provenzale, che aveva dato numerose prove di coraggio e di fede. Il Re accettò volentieri i servigi di un tanto uomo. Lauzun porse la mano a Maria; Saint–Victor inviluppò nel suo caldo pastrano lo sventurato erede di tanti Re: e scesi giù per una scala secreta, sʼimbarcarono in una gondola scoperta. Ed era pur miserabile viaggio. La notte era nera; pioveva a dirotto; il vento mugghiava; le onde accavallavansi: alla perfine la barchetta giunse a Lambeth; e i fuggenti sbarcarono presso a una locanda dove stava ad aspettarli una carrozza. Corse qualche tempo innanzi di attaccare i cavalli. Maria, temendo dʼessere riconosciuta, non volle entrare nella locanda, ma si rimase col figliuolo nelle braccia sotto la torre della Chiesa di Lambeth per ricoverarsi dalla tempesta, tremando ogni volta che il mozzo di stalla le si avvicinava con la lanterna. Era accompagnata da due donne, lʼuna delle quali aveva lʼufficio di allattare il Principe, lʼaltra quello di vegliarlo alla culla; ma potevano essere di poca utilità alla loro signora, come quelle che erano straniere, mal potevano parlare lʼinglese, e tremavano sotto la rigida sferza del clima dʼInghilterra. Lʼunica consolazione fu quella che lo infante era di buona salute e non pianse punto. La carrozza finalmente si mosse. Saint–Victor la seguiva a cavallo. I fuggenti giunsero sani e salvi a Gravesend, e sʼimbarcarono nella nave che li aspettava. Vi trovarono Lord Powis con sua moglie. Vʼerano anco tre ufficiali irlandesi. Costoro erano stati spediti colà, onde, nascendo un caso disperato, soccorressero Lauzun; poichè non reputavasi punto impossibile che il capitano della nave si scoprisse infido: ed erano stati dati ordini di pugnalarlo al minimo sospetto di tradigione. Nulladimeno non fu necessario appigliarsi ad alcun violento partito. La nave, spinta da prospero vento, scese giù pel fiume; e Saint–Victor, avendola veduta far vela, ritornò spronando il cavallo per recare la lieta nuova a Whitehall. La mattina del lunedì, 10 dicembre, il Re seppe che la moglie ed il figliuolo avevano intrapreso il loro viaggio con molta probabilità di giungere al luogo dove erano diretti. Verso quel tempo arrivò a Whitehall un messo con dispacci da Hungerford. Se Giacomo avesse avuto un poco più di discernimento, e un poco meno di ostinazione, queʼ dispacci lo avrebbero indotto a considerare nuovamente i propri disegni. I Commissari mandavano lettere piene di speranza. I patti proposti dal vincitore erano stranamente liberali. Il Re stesso non potè frenarsi dal dire che erano più favorevoli di quel che si sarebbe aspettato. Certo egli avrebbe potuto non senza ragione sospettare che fossero stati fatti con intendimento non amichevole: ma ciò non importava nulla; imperocchè, sia che fossero offerti con la speranza che accettandoli egli ponesse i fondamenti dʼuna felice riconciliazione, sia, come è più probabile, con la speranza che rigettandoli sarebbe comparso alla nazione estremamente irragionevole e incorreggibile, il modo di condursi era al pari evidente. In entrambi i casi la sua politica era quella di accettarli senza il menomo indugio e fedelmente osservarli.[571] LXXIV. Ma tosto fu chiaro che Guglielmo aveva profondamente conosciuta lʼindole dellʼuomo col quale egli aveva da fare, e nellʼoffrire queʼ patti che i Whig in Hungerford avevano biasimati come troppo indulgenti, non aveva rischiato nulla. La solenne commedia, onde il pubblico era stato tenuto a bada fino dalla ritirata dello esercito regio da Salisbury, fu prolungata anche per poche ore. Tutti i Lordi che trovavansi ancora nella metropoli furono invitati al palazzo per udire in che stato erano le pratiche aperte per loro consiglio. Fu stabilita unʼaltra ragunanza di Pari pel dì susseguente. Al Lord Gonfaloniere e agli Sceriffi di Londra fu anche intimato di recarsi presso il Re. Gli esortò ad adempiere con energia i loro doveri, e confessò come egli avesse creduto utile mandare la moglie e il figlio fuori del paese, ma gli assicurò chʼei rimarrebbe al suo posto. Mentre egli profferiva questa menzogna indegna dʼun uomo e dʼun Re, rimaneva fermissimo nel proposito di partirsi innanzi lʼalba del prossimo giorno. E difatti aveva già affidati i più preziosi deʼ suoi arredi a vari ambasciatori stranieri. Le sue più importanti scritture erano state depositate nelle mani del Ministro Toscano. Ma innanzi dʼaccingersi alla fuga rimaneva anco qualche altra cosa a farsi. Il tiranno gioiva del pensiero di vendicarsi dʼun popolo aborrente dal dispotismo, rovesciandogli sul capo tutti i mali dellʼanarchia. Comandò che il Gran Sigillo e i decreti per la convocazione del Parlamento fossero recati alle sue stanze. Tutti i decreti che potè avere in mano egli gettò nel fuoco. Quelli chʼerano stati spediti annullò con una scrittura stesa in forma legale. A Feversham scrisse una lettera, che aveva sembianza di comando, ingiungendogli di sciogliere lo esercito. Non ostante il Re seguitava a nascondere anche ai suoi principali ministri la intenzione di fuggire. Sul punto di ritirarsi esortò Jeffreys a trovarsi la dimane a buonʼora nel gabinetto; e mentre stava per entrare a letto susurrò allʼorecchio di Mulgrave dicendo che le nuove giunte da Hungerford erano sodisfacenti. Ciascuno si ritirò, tranne il duca di Northumberland. Questo giovane, figlio naturale di Carlo II, partoritogli dalla Duchessa di Cleveland, comandava una compagnia di Guardie del Corpo, ed era Lord Ciamberlano. Eʼ pare essere costumanza di Corte che, assente la Regina, un Ciamberlano dormisse in un lettuccio nella camera del Re; e quella sera ciò toccava a Northumberland. LXXV. Alle ore tre della mattina, martedì 11 dicembre, Giacomo levossi, prese in mano il Gran Sigillo, fece comandamento a Northumberland di non aprire lʼuscio avanti lʼora consueta, e disparve per un andito secreto, probabilmente lo stesso pel quale Huddleston era stato introdotto al letto del moribondo Carlo. Sir Eduardo Hales stavasi ad aspettare con una carrozza dʼaffitto. Giacomo fu condotto a Millbank, dove traversò con un navicello il Tamigi. Presso Lambeth gettò nelle onde il Gran Sigillo, che molti mesi dopo venne per avventura tratto fuori da un pescatore che trovollo nella sua rete. Sbarcò a Wauxhall, dove era pronto un cocchio, e immediatamente prese la via di Sheerness, dove una barca della dogana aveva ordine di aspettare il suo arrivo.[572] CAPITOLO DECIMO. SOMMARIO. I. Si sparge la nuova della fuga di Giacomo; grande agitazione.—II. I Lordi si radunano in Guildhall—III. Tumulti in Londra.—IV. La casa dello Ambasciatore di Spagna è saccheggiala.—V. Arresto di Jeffreys.—VI. La Notte Irlandese—VII. Il Re è arrestato presso Sheerness.—VIII. I Lordi ordinano che sia posto in libertà.—IX. Imbarazzo di Guglielmo.—X. Arresto di Feversham; arrivo di Giacomo a Londra.—XI. Consulta tenuta in Windsor.—XII. Le truppe olandesi occupano Whitehall.—XIII. Messaggio del Principe a Giacomo.—XIV. Giacomo parte per Rochester.—XV. Arrivo di Guglielmo al Palazzo San Giacomo.—XVI. Lo consigliano ad assumere la Corona per diritto di conquista.—XVII. Egli convoca i Lordi e i Membri deʼ Parlamenti di Carlo II.—XVIII. Giacomo fugge da Rochester.—XIX. Discussioni e determinazioni deʼ Lordi.—XX. Discussioni e determinazioni deʼ Comuni convocati dal Principe.—XXI. Si convoca una Convenzione; sforzi del Principe per ristabilire lʼordine.—XXII. Sua politica tollerante.—XXIII. Satisfazione deʼ potentati cattolici romani; pubblica opinione in Francia.—XXIV. Accoglienze fatte alla Regina dʼInghilterra in Francia.—XXV. Arrivo di Giacomo a Saint–Germain.—XXVI. Pubblica opinione nelle Province Unite—XXVII. Elezione dei Membri della Convenzione.—XXVIII. Affari di Scozia.—XXIX. Partiti in Inghilterra.—XXX. Disegno di Sherlock—XXXI. Disegno di Sancroft.—XXXII. Disegno di Danby.—XXXIII. Disegno dei Whig. La Convenzione si aduna; membri principali della Camera dei Comuni.—XXXIV. Elezione del Presidente—XXXV. Discussione sopra le condizioni della nazione.—XXXVI. Deliberazione che dichiara vacante il trono. È spedita alla Camera dei Lordi; Discussione nella Camera dei Lordi intorno al disegno di nominare una reggenza.—XXXVII. Scisma tra i Whig e i seguaci di Danby.—XXXVIII. Adunanza in casa del Conte di Devonshire.—XXXIX. Discussione nella Camera deʼ Lordi intorno alla questione se il trono debba considerarsi come vacante. La maggioranza nega.—XL. Agitazione in Londra.—XLI. Lettera di Giacomo alla Convenzione.—XLII. Discussioni; Negoziati; Lettera del Principe dʼOrange a Danby.—XLIII. La principessa Anna aderisce al disegno deʼ Whig.—XLIV. Guglielmo manifesta i proprii pensieri.—XLV. Conferenza delle due Camere.—XLVI. I Lordi cedono.—XLVII. Proposta di nuove Leggi per la sicurezza della Libertà.—XLVIII. Dispute e Concordia.—XLIX. La Dichiarazione dei Diritti.—L. Arrivo di Maria.—LI. Offerta ed accettazione della Corona.—LII. Guglielmo e Maria vengono proclamati.—LIII. Indole speciale della Rivoluzione inglese. I. Northumberland ubbidì fedelmente al comando, e non aprì lʼuscio del regio appartamento se non a giorno chiaro. Lʼanticamera era piena di cortigiani venuti a complire il Re allʼalzarsi da letto, e di Lordi chiamati a consiglio. La nuova della fuga di Giacomo in un istante volò dalla reggia alle strade, e tutta la metropoli ne rimase commossa. Eʼ fu un terribile momento. Il Re se nʼera andato; il Principe non ancora giunto; non era stata istituita una Reggenza; il Gran Sigillo, essenziale allʼamministrazione della ordinaria giustizia, era scomparso. Presto si seppe che Feversham, ricevuta la lettera del Re, aveva subitamente disciolto lo esercito. Quale rispetto per le leggi e la proprietà potevano avere i soldati in armi e raccolti, senza il freno della disciplina militare, e privi delle cose necessaria alla vita? Dallʼaltro canto la plebe di Londra da parecchi giorni mostravasi fortemente inchinevole al tumulto ed alla rapina. La urgenza del caso congiunse per breve tempo tutti coloro ai quali importava la pubblica quiete. Rochester aveva fino a quel giorno fermamente aderito alla causa regia. Adesso conobbe non esservi che una sola via per evitare lo universale scompiglio. «Congregate le vostre guardie» disse egli a Northumberland, «e dichiaratevi pel Principe dʼOrange.» Northumberland seguì prontamente il consiglio. I precipui ufficiali dello esercito che allora trovavansi in Londra convennero a Whitehall, e deliberarono di sottoporsi alle autorità di Guglielmo, e finchè conoscessero la volontà di lui, tenere sotto disciplina i loro soldati, ed assistere la potestà civile onde mantenere lʼordine.[573] II. I Pari recaronsi a Guildhall, e dai magistrati della città vi furono ricevuti con tutti gli onori. A rigore di legge i Pari non avevano maggior diritto che ogni altra classe di persone ad assumere il potere esecutivo. Ma egli era alla pubblica salvezza necessario un governo provvisorio; e gli occhi di tutti naturalmente volgevansi ai magnati ereditari del Regno. La gravità del pericolo trasse Sancroft fuori dal suo palazzo. Occupò il seggio; e, lui presidente, il nuovo Arcivescovo di York, cinque Vescovi, e ventidue Lordi secolari, deliberarono di comporre, sottoscrivere e pubblicare un Manifesto. In questo documento dichiararono di aderire fermamente alla religione e alla costituzione del paese; aggiunsero che avevano vagheggiata la speranza di vedere raddrizzati i torti e ristabilita la pubblica quiete dal Parlamento pur allora convocato dal Re; ma tale speranza rimaneva distrutta dalla sua fuga. Per lo che avevano deliberato di congiungersi col Principe dʼOrange onde rivendicare le patrie libertà, assicurare i diritti della Chiesa, accordare una giusta libertà di coscienza ai dissenzienti e rafforzare in tutto il mondo glʼinteressi del protestantismo. Fino allo arrivo di Sua Altezza essi erano pronti ad assumere la responsabilità di prendere i provvedimenti necessari alla conservazione dellʼordine. Sullʼistante fu spedita una deputazione a presentare il predetto Manifesto al Principe, ed annunziargli chʼegli era impazientemente aspettato a Londra.[574] I Lordi quindi si posero a pensare intorno ai modi di prevenire ogni tumulto. Fecero chiamare i due Segretari di Stato. Middleton ricusò di ubbidire a quella chʼegli considerava autorità usurpata: ma Preston, ancora attonito per la fuga del suo signore, e non sapendo che cosa aspettarsi, obbedì alla chiamata. Un messaggio fu mandato a Skelton Luogotenente della Torre, perchè si presentasse in Guildhall. Andatovi, gli fu detto non esservi più oltre mestieri deʼ suoi servigi, e però consegnasse immediatamente le chiavi. Gli fu sostituito Lord Lucas. Nel tempo stesso i Pari ordinarono che si scrivesse a Darthmouth ingiungendogli dʼastenersi da ogni atto ostile contro la flotta olandese, e di licenziare tutti gli ufficiali papisti a lui sottoposti.[575] La parte che in cotesti procedimenti ebbero Sancroft ed altri che fino a quel giorno si erano mantenuti strettamente fedeli al principio della obbedienza passiva, è degna di speciale considerazione. Usurpare il comando delle forze militari e navali dello Stato, destituire gli ufficiali preposti dal Re al comando deʼ suoi castelli e navigli, e inibire allo ammiraglio di dare battaglia ai nemici di lui, erano niente meno che atti di ribellione. E nonostante vari Tory abili ed onesti, seguaci della scuola di Filmer, erano persuasi di poter fare tutte le sopra dette cose senza incorrere nella colpa di resistere al loro Sovrano. Il loro argomentare era per lo meno ingegnoso. Dicevano, il Governo essere ordinato da Dio, e la monarchia ereditaria eminentemente ordinata da Dio. Finchè il Re comanda ciò che è legittimo, noi siamo tenuti a prestargli obbedienza attiva; comandando ciò che è illegittimo, obbedienza passiva. Non vi è caso estremo che ne possa giustificare ad opporci a lui con la forza. Ma ove a lui piaccia di deporre il suo ufficio, egli perde ogni diritto sopra di noi. Finchè ci governa, quantunque ci governi male, siamo obbligati a chinare la fronte; ma ricusando egli di governarci in veruna maniera, non siamo tenuti a rimanere perpetuamente privi di governo. Lʼanarchia non è ordinamento di Dio; nè egli ci ascriverà a peccato se nel caso che un principe, il quale in onta a gravissime provocazioni non abbiamo cessato mai di onorare e obbedire, si parta senza che noi sappiamo dove, non lasciando un suo vicario, ci apprendiamo al solo partito che ci rimanga a impedire la dissoluzione della società. Se il nostro Sovrano fosse rimasto fra noi, noi saremmo pronti, per quanto poco egli meritasse il nostro affetto, a morire ai suoi piedi. Se, lasciandoci, avesse nominato una reggenza per governarci con autorità delegatale durante la sua assenza, noi ci saremmo rivolti a tale reggenza soltanto. Ma egli è scomparso senza lasciare nessun provvedimento per la conservazione dellʼordine o per lʼamministrazione della giustizia. Con lui e col suo Gran Sigillo è sparita tutta la macchina per mezzo della quale si possa punire un assassino, decidere del diritto di proprietà, distribuire ai creditori i beni dʼun fallito. Il suo ultimo atto è stato di sciogliere migliaia dʼuomini armati dal freno della disciplina militare, e porli in condizioni o di saccheggiare o di morire di fame. Fra poche ore ciascun uomo sʼarmerà contro il suo prossimo. La vita, gli averi, lʼonore delle donne saranno in balìa di ogni uomo sfrenato. Noi adesso ci troviamo in quello stato di natura intorno al quale i filosofi hanno scritto cotanto; nel quale stato siamo posti non per colpa nostra, ma per volontario abbandono di colui che avrebbe dovuto essere nostro protettore. Il suo abbandono può dirittamente chiamarsi volontario: imperocchè nè la vita nè la libertà sue erano in periglio. I suoi nemici già avevano consentito ad aprire pratiche dʼaccordo sopra una base proposta da lui stesso, ed eransi offerti a sospendere immediatamente le ostilità a patti che egli non negava essere liberali. In tali circostanze egli ha disertato il suo posto. Noi non facciamo la minima ritrattazione; non siamo in cosa alcuna incoerenti. Ci manteniamo tuttavia fermi senza modificazione nelle nostre vecchie dottrine. Seguitiamo a credere che in qualunque caso è peccato resistere al magistrato; ma affermiamo che adesso non vi è verun magistrato cui resistere. Colui che era magistrato, dopo dʼavere per lungo tempo fatto abuso della propria potestà, ha abdicato da sè. Lo abuso non ci dava diritto a deporlo: ma lʼabdicazione ci dà diritto a provvedere al miglior modo di supplire al suo ufficio. III. Per cosiffatte ragioni il partito del Principe si accrebbe di molti che per lʼinnanzi sʼerano tenuti in disparte. A memoria dʼuomo non era mai stata, come in quella congiuntura, una quasi universale concordia fra glʼInglesi; e mai quanto allora vʼera stato sì grande bisogno di concordia. Non vʼera più alcuna autorità legittima. Tutte le tristi passioni che il Governo ha debito dʼinfrenare, e che i migliori Governi imperfettamente infrenano, trovaronsi in un subito sciolte dʼogni ritegno; lʼavarizia, la licenza, la vendetta, il vicendevole odio delle sètte, il vicendevole odio delle razze. In simiglianti casi avviene che le belve umane, le quali, abbandonate dai ministri dello Stato e della religione, barbare fra mezzo alla città, pagane fra mezzo al cristianesimo, brulicano tra ogni fisica e morale bruttura nelle cantine e nelle soffitte delle grandi città, acquistino a un tratto terribile importanza. Così fu di Londra. Allo avvicinarsi della notte—per avventura la più lunga notte dellʼanno—eruppero da ogni spelonca di vizio, dalle taverne di Hockley e dal laberinto dʼosterie e di bordelli nel quartiere di Friars, migliaia di ladroncelli e di ladroni, di borsaiuoli e di briganti. A costoro mescolaronsi migliaia dʼoziosi giovani di bottega, i quali ardevano solo della libidine di tumultuare. Perfino uomini pacifici ed onesti erano spinti dallʼanimosità religiosa a congiungersi con la sfrenata plebaglia: imperocchè il grido di «Giù il Papismo,» grido che aveva più volte messa a repentaglio la esistenza di Londra, era il segnale dellʼoltraggio e della rapina. Primamente la canaglia gettossi sopra le case appartenenti al culto cattolico. Gli edifici furono atterrati. Banchi, pulpiti, confessionali, breviari furono accatastati ed arsi. Un gran monte di libri e di arredi era in fiamme presso il convento di Clerkenwell. Unʼaltra catasta bruciava innanzi le rovine del convento deʼ Francescani in Lincolnʼs Inn Fields. La cappella in Lime Street, la cappella in Bucklersbury, furono smantellate. Le dipinture, le immagini, i crocifissi vennero condotti trionfalmente per le vie al lume delle torce divelte dagli altari. La processione pareva una selva di spade e di bastoni, e in cima ad ogni spada e bastone era fitta una melarancia. La stamperia reale, donde nei precedenti tre anni erano usciti innumerevoli scritti in difesa della supremazia del Papa, del culto delle immagini, e deʼ voti monastici, per adoperare una grossolana metafora che allora per la prima volta cominciò ad usarsi, fu sventrata. La vasta provigione di carta, che in gran parte non era lordata dalla stampa, apprestò materia ad un immenso falò. Daʼ monasteri, dai templi, dai pubblici uffici la furibonda moltitudine si volse alle private abitazioni. Parecchie case furono saccheggiate e distrutte: ma la pochezza del bottino non appagando i saccheggiatori, tosto si sparse la voce che le cose più preziose deʼ papisti erano state poste al sicuro presso gli ambasciatori stranieri. Nulla importava alla selvaggia e stolta plebaglia il diritto delle genti e il rischio di provocare contro la patria la vendetta di tuttaquanta lʼEuropa. Le case degli ambasciatori furono assediate. Una gran folla si raccolse dinanzi la porta di Barillon in Saint Jamesʼs Square. Ei nondimeno si condusse meglio di quel che si sarebbe creduto. Imperocchè, quantunque il Governo da lui rappresentato fosse tenuto in aborrimento, la liberalità sua nello spendere e la puntualità nel pagare lo avevano reso bene affetto al popolo. Inoltre egli aveva presa la precauzione di chiedere parecchi soldati a guardia della sua casa: e perchè vari uomini dʼalto grado che abitavano vicino a lui, avevano fatto lo stesso, una forza considerevole si raccolse in quella piazza. La tumultuante plebe quindi, assicuratasi che sotto il tetto di Barillon non vʼerano nascosti nè armi nè preti, cessò di molestarlo e ne andò via. Lo ambasciatore veneto fu protetto da una compagnia militare: ma le magioni dove abitavano i ministri dello Elettore Palatino e del Granduca di Toscana, furono distrutte. Una preziosa cassetta il Ministro Toscano riuscì a salvare dalle mani deʼ facinorosi. Vi si contenevano nove volumi di memorie scritte di mano propria da Giacomo. I quali volumi, pervenuti a salvamento in Francia, dopo lo spazio di cento e più anni, perirono fra le stragi dʼuna rivoluzione assai più formidabile di quella dalla quale erano scampati. Ma ne rimangono tuttavia alcuni frammenti, che, comunque gravemente mutili e incastrati in una farragine di fanciullesche finzioni, sono ben meritevoli dʼattento studio. IV. Le ricche argenterie della Cappella Reale erano state depositate in Wild House presso Lincolnʼs Inn Fields, dove abitava Ronquillo ambasciatore di Spagna. Ronquillo, sapendo chʼegli e la sua Corte non avevano male meritato della nazione inglese, non aveva creduto necessario chiedere dei soldati: ma la marmaglia non era in umore da fare sottili distinzioni. Il nome di Spagna da lungo tempo richiamava alla mente degli Inglesi la idea della Inquisizione, dellʼArmada, delle crudeltà di Maria, e delle congiure contro Elisabetta. Ronquillo dal canto suo sʼera acquistato di molti nemici fra il popolo, giovandosi del suo privilegio per non pagare i suoi debiti. E però la sua casa fu saccheggiata senza misericordia; ed una pregevole biblioteca da lui raccolta rimase preda delle fiamme. Il solo conforto chʼegli ebbe in tanto disastro fu di potere salvare dalle mani degli aggressori lʼostia santa che era nella sua cappella.[576] La mattina del di 12 dicembre sorse in assai lugubre aspetto. La metropoli in molti luoghi presentava lo spettacolo dʼuna città presa dʼassalto. I Lordi ragunaronsi in Whitehall e fecero ogni sforzo per ristabilire la quiete. Le milizie civiche furono chiamate alle armi. Un corpo di cavalleria fu tenuto pronto a disperdere i tumultuosi assembramenti. Ai governi stranieri fu peʼ gravi insulti data quella soddisfazione che si potè maggiore in quel momento. Fu promesso un premio a chiunque scoprisse le robe rapite in Wild House; e Ronquillo al quale non era rimasto un solo letto o unʼoncia dʼargento, fu splendidamente alloggiato nel deserto palagio dei Re dʼInghilterra. Gli fu apprestata una sontuosa mensa; e gli ufficiali della Guardia Palatina ebbero ordine di stare nella sua anticamera come costumavasi fare col Sovrano. Tali segni di rispetto abbonirono il puntiglioso orgoglio della Corte Spagnuola, e tolsero ogni pericolo di rottura.[577] V. Ad ogni modo, non ostante i bene intesi sforzi del Governo Provvisorio, lʼagitazione facevasi ognora più formidabile. La fu accresciuta da un caso che anche oggi dopo tanto tempo non può narrarsi senza provare il piacere della vendetta. Uno speculatore che abitava in Wapping, e trafficava prestando ai marini del luogo pecunia ad usura, aveva tempo innanzi prestato una somma, prendendo ipoteca sul carico dʼuna nave. Il debitore ricorse al tribunale detto dʼEquità, per essere sciolto dalla sua obbligazione; e la causa fu portata dinanzi a Jeffreys. Lo avvocato del debitore avendo poche ragioni da allegare, disse che il prestatore era un barcamenante. Il Cancelliere, appena udito ciò, si accese di rabbia. «Un barcamenante! dove è egli? Chʼio lo veda. Ho sentito parlare di quella specie di mostro. A che si assomiglia egli?» Lo sventurato creditore fu costretto a comparire. Il Cancelliere gli rivolse ferocissimo lo sguardo, inveì contro lui, e cacciollo via mezzo morto dallo spavento. «Finchè avrò vita» disse il povero uomo uscendo barcollante dalla corte, «non dimenticherò mai quel terribile aspetto.» Ma finalmente era per lui arrivato il giorno della vendetta. Il barcamenante passeggiava per Wapping, allorquando gli parve di conoscere il riso dʼun uomo il quale faceva capolino dalla finestra dʼuna birreria. Non poteva ingannarsi. Aveva rasi i sopraccigli; vestiva lʼabito di un marinajo di Newcastle ed era coperto di polve di carbone: ma il selvaggio occhio e la bocca di Jeffreys non erano tali da non riconoscersi. Fu dato lʼallarme. In un istante la birreria fu circondata da centinaia di popolani che imprecando scuotevano i loro bastoni. Il fuggitivo Cancelliere ebbe salva la vita da una compagnia della milizia civica; e fu condotto dinanzi al Lord Gonfaloniere. Questi era uomo semplice, vissuto sempre nella oscurità, e adesso trovandosi attore importante in una grande rivoluzione, sʼera sentito venire il capogiro. Gli avvenimenti delle ventiquattro ore decorse, e lo stato pericoloso della Città alle sue cure affidata, lo avevano perturbato di mente e di corpo. Allorchè il grande uomo, al cui cipiglio, pochi giorni avanti, aveva tremato lʼintero Regno, fu tratto al tribunale, bruttato di ceneri, mezzo morto di spavento e seguito da una rabbiosa moltitudine, si accrebbe oltre ogni credere lʼagitazione del male arrivato Gonfaloniere. Convulso e fuori di sè fu trasportato a letto, donde non sorse più. Intanto la folla di fuori cresceva sempre, e orribilmente tempestava. Jeffreys pregò dʼessere menato in prigione. Si ottenne a tale effetto un ordine deʼ Lordi che sedevano in Whitehall; ed ei fu condotto in una carrozza alla Torre. Procedeva scortato da due reggimenti della milizia civica, i quali non senza difficoltà potevano frenare il popolo. Più volte si videro nella necessità di ordinarsi come se avessero a sostenere un assalto di cavalleria, e di presentare una selva di picche alla irrompente plebe. La quale vedendo rapirsi la vendetta teneva dietro al cocchio con urli di rabbia fino alla porta della Torre, brandendo bastoni e scuotendo capestri agli occhi del prigioniero. Lo sciagurato intanto tremava di spavento; arrostava le mani, affacciavasi con occhi stralunati ora a questo ora a quello degli sportelli, e fra il tumulto si udiva gridare: «Teneteli lontani, o signori! Per lʼamore di Dio, teneteli lontani!» Infine dopo aver provate amarezze maggiori di quelle della morte, fu in sicurtà alloggiato nella fortezza, dove alcune delle sue più illustri vittime avevano passati gli estremi giorni della loro vita, e dove egli fu destinato a finire la sua con inenarrabile ignominia ed orrore.[578] In tutto questo tempo si cercarono diligentemente i preti cattolici romani. Molti vennero arrestati. Due Vescovi, cioè Ellis e Leyburn, furono mandati a Newgate. Il Nunzio che aveva poca ragione a sperare che la moltitudine rispettasse il suo carattere sacerdotale e politico, fuggì travestito da servitore fra la gente del Ministro di Savoja.[579] VI. Un altro giorno di agitazione e di terrore si chiuse, e fu seguito dalla più strana e terribile notte che fosse mai stata in Inghilterra. Sul far della sera la plebaglia aggredì una magnifica casa pochi mesi avanti edificata per Lord Powis, la quale nel regno di Giorgio II era residenza del Duca di Newcastle, e che si vede anche oggi allʼangolo tra ponente e tramontana di Lincolnʼs Inn Fields. Vi furono mandati alcuni soldati: la plebaglia fu dispersa, la quiete sembrava ristabilita, e i cittadini se ne tornavano in pace alle proprie case, quando sorse un bisbiglio che in un momento divenne tremendo clamore, ed in unʼora da Piccadilly giunse a Whitechapel e si sparse per tutta la metropoli. Dicevasi che glʼIrlandesi lasciati senza freno da Feversham marciavano alla volta di Londra facendo strage dʼogni uomo, donna e fanciullo che incontrassero per via. Allʼuna ora della mattina i tamburi della milizia civica suonavano allʼarme. In ogni dove le donne atterrite piangevano ed arrostavano le mani, mentre i padri e i mariti loro armavansi per uscire a combattere. Prima delle ore due la metropoli presentava un aspetto sì bellicoso che avrebbe potuto atterrire unʼarmata regolare. A tutte le finestre vedevansi i lumi. I luoghi pubblici risplendevano come se fosse pieno giorno. Le grandi vie erano asserragliate. Venti e più mila picche ed archibugi fiancheggiavano le strade. Lʼultima alba del solstizio dʼinverno trovò tutta la città ancora in armi. Pel corso di molti anni i Londrini serbarono viva ricordanza di quella chʼessi chiamavano la Notte Irlandese. Come si seppe non esservi nessuna cagione di timore, il Governo cercò studiosamente dʼindagare lʼorigine della ciarla che aveva fatto nascere cotanta agitazione. Sembra che taluni, che avevano sembianze e vesti di contadini pur allora giunti dalla campagna, spargessero poco prima di mezza notte la nuova neʼ suburbi: ma donde venissero e chi li movesse, rimase sempre un mistero. Poco dopo da molti luoghi arrivarono notizie che accrebbero maggiormente la universale perplessità. Il timore panico non aveva invaso la sola Londra. La voce che i soldati irlandesi disciolti venivano a fare scempio deʼ Protestanti era stata sparsa, con maligna destrezza, in molti luoghi lʼuno a lunga distanza dallʼaltro. Gran numero di lettere, con molta arte scritte a fine di spaventare lo ignorante popolo, erano state spedite per le diligenze, i vagoni, e la posta a varie parti della Inghilterra. Tutte queste lettere giunsero aʼ loro indirizzi quasi nel medesimo tempo. In cento città a unʼora la plebe credè che si appressassero i barbari in armi con lo intendimento di commettere scelleratezze simili a quelle che avevano infamata la ribellione dʼUlster. A nessuno deʼ Protestanti si sarebbe usata misericordia. I figliuoli sarebbero stati costretti per mezzo della tortura a trucidare i loro genitori. I bambini sarebbero confitti alle picche o gettati fra le fiammeggianti rovine di quelle che pur dianzi erano felici abitazioni. Grandi turbe di popolo si raccolsero armate; in taluni luoghi cominciarono a distruggere i ponti ed asserragliare le vie: ma il concitamento presto calmossi. In molti distretti coloro che erano stati vittime di tanto inganno udirono con piacere misto di vergogna non esservi un solo soldato papista che non fosse lontano sei o sette giorni di marcia. Veramente in qualche luogo accadde che alcuna banda dispersa dʼIrlandesi si mostrasse e dimandasse pane; ma non può loro attribuirsi a delitto se non si contentassero di morire di fame; e non vʼè prova che commettessero alcun grave oltraggio. Certo erano meno numerosi di quel che supponevasi comunemente; e trovavansi scorati, vedendosi a un tratto privi di capitani e di vettovaglie framezzo a una potente popolazione, dalla quale erano considerati come un branco di lupi. Fra tutti i sudditi di Giacomo nessuno aveva più ragione ad esecrarlo che questi sciagurati membri della sua Chiesa e difensori del suo trono.[580] È cosa onorevole al carattere deglʼInglesi, che non ostante la generale avversione contro la religione cattolica romana e la razza irlandese, non ostante lʼanarchia che nacque alla fuga di Giacomo, non ostante le subdole macchinazioni adoperate a inferocire la plebe, non fu commesso in quella congiuntura nessuno atroce delitto. Molte facultà, a dir vero, furono distrutte e rapite; le case di molti gentiluomini cattolici romani aggredite; giardini devastati; cervi uccisi e portati via. Alcuni venerandi avanzi della nostra architettura del medio evo serbano tuttora i segni della violenza popolare. In molti luoghi lo andare e venire liberamente per le strade era impedito da una polizia creatasi da sè, la quale fermava ogni viandante onde sincerarsi con prove se fosse papista. Il Tamigi era infestato da una torma di pirati, che sotto pretesto di cercare armi o delinquenti, mettevano sossopra ogni barca che passava; insultati e maltrattati gli uomini impopolari. Molti che tali non erano, reputaronsi fortunati di potere riscattare le persone e la roba loro donando alcune ghinee ai fanatici Protestanti, i quali senza autorità legittima sʼerano fatti inquisitori. Ma in tutta cotesta confusione che durò vari giorni e si estese a molte Contee, nessuno deʼ Cattolici Romani perdè la vita. La plebaglia non mostrò brama di sangue, tranne nel caso di Jeffreys; e lʼodio di che sʼera reso segno costui poteva piuttosto chiamarsi umanità che crudeltà.[581] Molti anni dipoi Ugo Speke affermò che la Notte Irlandese era opera sua, chʼegli aveva istigati i villani che posero in concitazione Londra, e che egli era lo autore delle lettere le quali avevano sparso lo spavento in tutta lʼisola. La sua asserzione non è intrinsecamente improbabile: ma non ha altra prova tranne le parole di lui. Egli era uomo bene capace di commettere tanta scelleraggine, e anche capace di vantarsi falsamente dʼaverla commessa.[582] Guglielmo era impazientemente aspettato a Londra, poichè nessuno dubitava che egli con la energia e abilità sue ristabilisse tosto lʼordine e la sicurezza pubblica. Nondimeno vi fu qualche indugio, del quale il Principe non può giustamente biasimarsi. La sua primitiva intenzione era stata di recarsi da Hungerford ad Oxford, dove, secondo che lo avevano assicurato, avrebbe avuto onorevoli e affettuose accoglienze: ma lo arrivo della deputazione partita da Guildhall lo indusse a cangiare pensiero e correre speditamente alla metropoli. Per via seppe che Feversham, obbedendo ai comandamenti del Re, aveva disciolto lo esercito, e che migliaia di soldati senza freno, e privi delle cose necessarie alla vita, erano sparse per le Contee le quali attraversa la via che mena a Londra. Gli era quindi impossibile di viaggiare con poco seguito senza grave pericolo non solo per la sua propria persona, di cui non aveva costume dʼessere molto sollecito, ma anche pei grandi interessi a lui affidati. Era mestieri che egli si movesse a seconda del muoversi delle sue milizie, le quali in quei tempi non potevano procedere se non lentamente a mezzo il verno per gli stradali della Inghilterra. In cosiffatte circostanze egli perdè alquanto il suo ordinario contegno. «Con me non si deve trattare a questo modo» esclamò egli con acrimonia, «e Milord Feversham se ne avvedrà bene.» Furono presi pronti e savi provvedimenti per rimediare ai mali cagionati da Giacomo. A Churchill e Grafton fu dato lo incarico di raggranellare la dispersa soldatesca e riordinarla. I soldati inglesi vennero invitati a rientrare nello esercito. Agli irlandesi fu fatto comandamento di rendere le armi sotto pena di essere trattati come banditi, ma fu loro assicurato che, obbedendo con pace, verrebbero provveduti del necessario.[583] Gli ordini del Principe furono quasi senza ostacolo mandati ad esecuzione, tranne la resistenza che fecero i soldati irlandesi che presidiavano Tilbury. Uno di costoro appuntò una pistola contro Grafton; lʼarme non prese fuoco, e lo assassino in sullʼistante fu steso morto da un Inglese. Circa due cento di cotesti sciagurati stranieri coraggiosamente tentarono di ritornare alla loro patria. Impossessaronsi di un bastimento grave di un ricco carico che pur allora dalle Indie era arrivato al Tamigi, e provaronsi di avere a forza piloti a Gravesend. Ma non ne potendo trovare alcuno, furono costretti a confidare in quel poco che essi medesimi sapevano dʼarte nautica. Il legno poco dopo investì contro la spiaggia, e a quei miseri dopo qualche spargimento di sangue fu forza porre giù le armi.[584] Erano già corse cinque settimane da che Guglielmo era in Inghilterra, duranti le quali gli aveva arriso la fortuna. Egli aveva fatto bella mostra di prudenza e fermezza, e nondimeno gli avevano meno giovato queste virtù sue che lʼaltrui insania e pusillanimità. Ed ora che ei sembrava vicino a conseguire il fine della sua intrapresa, sopraggiunse a sconcertargli i disegni uno di quegli strani accidenti che così spesso confondono i più studiati divisamenti della politica. VII. La mattina del di 13 dicembre, il popolo di Londra, non per anco riavutosi dallʼagitazione della Notte Irlandese, rimase attonito alla nuova che il Re era stato fermato ed era sempre nellʼisola. La nuova prese consistenza per tutto il giorno, e avanti sera fu pienamente confermata. Giacomo aveva viaggiato mutando cavalli lungo la riva meridionale del Tamigi, e la mattina del di 12 era giunto ad Emley Ferry presso lʼisola di Sheppey, dove aspettavalo la nave sopra la quale ei doveva imbarcarsi. Vi montò sopra; ma il vento spirava forte, e il padrone non volle rischiarsi a mettere alla vela senza maggior quantità di zavorra. In tal guisa una marea andò perduta. Era quasi a mezzo il suo corso la notte allorquando la nave cominciò a muoversi. In queʼ giorni la nuova che il Re era scomparso, che il paese era senza governo, e Londra tutta sossopra, erasi sparsa lungo il Tamigi, e neʼ luoghi dove era giunta aveva fatto nascere violenza e disordine. I rozzi pescatori della spiaggia di Kent adocchiarono con sospetto e cupidigia la nave. Corse voce che alcuni individui vestiti da gentiluomini erano frettolosamente andati in sul bordo. Forse erano Gesuiti: forse erano ricchi. Cinquanta o sessanta barcaiuoli, spinti a un tempo dallʼodio contro il papismo e dalla avidità di predare, circondarono la nave quando ella era in sul punto di far vela. Fu detto ai passeggieri che bisognava andare a terra per essere esaminati da un magistrato. La figura del Re suscitò deʼ sospetti. «Gli è padre Petre» gridò uno di queʼ ribaldi «lo conosco alle sue scarne ganasce.»—«Fruga cotesto vecchio gesuita, cotesto viso da galera» urlarono tutti ad una voce. Ei tosto fu segno alle ruvide spinte di coloro che lo circondavano. Gli tolsero i danari e lʼoriuolo. Egli aveva addosso lʼanello della incoronazione ed altre gioie di gran valore, che sfuggirono alle ricerche di queʼ ladri, i quali erano così ignoranti in materia di gioie che presero per pezzi di vetro i diamanti delle fibbie del Re. In fine i prigioni furono messi a terra e condotti ad una locanda. Quivi a vederli erasi affollata molta gente; e Giacomo, quantunque fosse sfigurato da una parrucca di forma e colore diversa da quella chʼegli era uso a portare, fu a un tratto riconosciuto. Per un istante la plebaglia parve compresa di terrore; ma i capi esortandola la rianimarono; e la vista di Hales, che tutti ben conoscevano e forte odiavano, infiammò il loro furore. Il suo parco era in quelle vicinanze, e in quel momento stesso una banda di facinorosi saccheggiavano la casa e davano la caccia ai cervi di lui. La folla assicurò il Re, che non aveva intenzione di fargli alcun male, ma ricusò di lasciarlo partire. Avvenne che il Conte di Winchelsea protestante ma fervido realista, capo della famiglia Finch e prossimo parente di Nottingham, si trovasse in Canterbury. Appena seppe lo accaduto corse in fretta alla costa accompagnato da alcuni gentiluomini di Kent. Per mezzo loro il Re fu condotto a un luogo più convenevole: ma rimaneva tuttavia prigioniero. La folla non cessava di vigilare attorno alla casa dove era stato condotto; e alcuni dei capi stavansi a guardia dinanzi lʼuscio della sua camera. Il suo contegno infrattanto era quello di un uomo snervato di mente e di corpo sotto il peso delle proprie sciagure. Talvolta parlava con tanta alterigia che i villani, i quali lo guardavano, sentivansi provocati ad insolenti risposte. Poi piegavasi a supplicare. «Lasciatemene andare» diceva egli «procuratemi una barca. Il Principe dʼOrange mi fa la caccia per togliermi la vita. Se non mi lascerete fuggire, eʼ sarà troppo tardi. Il mio sangue ricadrà sulle vostre teste. Colui che non è con me, è contro me.» Togliendo occasione da queste parole del Vangelo predicò per mezzʼora. Favellò stranamente sopra moltissime cose, sopra la disobbedienza deʼ Convittori del Collegio della Maddalena, i miracoli del Pozzo di San Venifredo, la slealtà deʼ preti, la virtù dʼun frammento del vero legno della Santa Croce chʼegli aveva sventuratamente perduto. «E che ho mai fatto?» chiese agli scudieri di Kent che gli stavano attorno. «Ditemi il vero: qual fallo ho io mai commesso?» Coloro, ai quali egli faceva queste domande, furono tanto umani da non dargli le risposte che meritava, e stavansi con compassionevole silenzio ad ascoltare quellʼinsano cicaleccio.[585] Quando pervenne alla metropoli la nuova chʼegli era stato fermato, insultato, manomesso e spogliato, e che tuttavia rimaneva nelle mani di queʼ brutali ribaldi, ridestaronsi molte passioni. I rigidi Anglicani, i quali poche ore innanzi avevano cominciato a credersi liberi dal debito di fedeltà verso lui, adesso scrupoleggiavano. Egli non aveva abbandonato il reame, nè abdicato. Ove egli ripigliasse la regia dignità, potrebbero essi, secondo i principii loro, ricusare di prestargli obbedienza? I veggenti uomini di stato prevedevano con rammarico che tutte le contese che per un momento la sua fuga aveva abbonacciate, tornando egli, tornerebbero a rinascere assai più virulente. Alcuni del popolo basso, comechè animati dal sentimento deʼ recenti torti, sentivano pietà dʼun gran Principe oltraggiato da gente ribalda, e inchinavano a sperare—speranza più onorevole alla indole che al discernimento loro—che anche adesso egli si sarebbe potuto pentire delle colpe che gli avevano attirato sul capo un così tremendo castigo. Dal momento in che si seppe il Re essere tuttavia in Inghilterra, Sancroft che fino allora era stato capo del Governo Provvisorio, si assentò dalle sedute deʼ Pari. Sul seggio presidenziale fu posto Halifax, il quale era allora ritornato dal quartiere generale degli Olandesi. In poche ore lʼanimo suo era grandemente mutato. Adesso il senso del bene pubblico e privato lo spingeva a collegarsi coi Whig. Ove candidamente si ponderino le prove fino a noi pervenute, è forza credere chʼegli accettasse lʼufficio di Commissario Regio con la sincera speranza di effettuare tra il Re e il Principe un accomodamento a convenevoli patti. Le pratiche dʼaccordo erano incominciate prosperamente: il Principe aveva offerto patti che il Re stesso giudicò convenevoli: il facondo e ingegnoso barcamenante lusingavasi di rendersi mediatore fra le inferocite fazioni, dettare un trattato dʼaccordo fra le opinioni esagerate ed avverse, assicurare le libertà e la religione della patria senza esporla ai pericoli inseparabili da un mutamento di dinastia e da una successione contrastata. Mentre compiacevasi di un pensiero così consentaneo alla indole sua, seppe dʼessere stato ingannato, e adoperato come strumento a ingannare la nazione. La sua commissione ad Hungerford era stata quella dʼuno stolto. Il Re non aveva mai avuto intendimento di osservare le condizioni chʼegli aveva ai Commissari ordinato di proporre. Aveva loro ordinato di dichiarare chʼegli voleva sottoporre tutte le questioni controverse al Parlamento da lui convocato; e mentre essi eseguivano il suo messaggio, aveva bruciati i decreti di convocazione, fatto sparire il Sigillo, sbandato lo esercito, sospesa lʼamministrazione della giustizia, disciolto il Governo, e se nʼera fuggito dalla metropoli. Halifax sʼaccôrse oramai non essere più possibile comporre amichevolmente le cose. È anche da sospettarsi chʼegli provasse quella molestia che è naturale ad un uomo che, godendo grande riputazione di saviezza, si trovi ingannato da una intelligenza immensurabilmente inferiore alla sua propria, e quella molestia che è naturale a chi, essendo espertissimo nellʼarte del dileggio, si trovi posto in una situazione ridicola. Dalla riflessione e dal risentimento fu indotto ad abbandonare ogni pensiero di conciliazione alla quale egli aveva fino allora sempre mirato, e a farsi capo di coloro che volevano porre Guglielmo sul trono.[586] Esiste ancora un Diario dove Halifax scrisse di propria mano tutto ciò che seguì nel Consiglio da lui preseduto.[587] Non fu trascurata precauzione alcuna creduta necessaria a prevenire gli oltraggi e i ladronecci. I Pari si assunsero la responsabilità di ordinare ai soldati, che, ove la plebaglia tumultuasse di nuovo, le facessero fuoco contro. Jeffreys fu condotto a Whitehall e interrogato affinchè rivelasse ciò che era divenuto del Gran Sigillo e dei decreti di convocazione. E pregando egli ardentemente, fu rimandato alla Torre come unico luogo dove potesse avere salva la vita. Si ritirò ringraziando e benedicendo coloro che gli avevano conceduta la protezione del carcere. Un Nobile Whig propose di porre in libertà Oates; ma la proposta venne respinta.[588] Le faccende del giorno erano quasi sbrigate, e Halifax stava per alzarsi dal seggio, quando gli fu annunziato essere giunto un messaggiero da Sheerness. Non vʼera cosa che potesse produrre più perplessità o molestia. Fare o non far nulla importava incorrere in grave responsabilità. Halifax, desiderando probabilmente acquistar tempo per comunicare col Principe, avrebbe voluto differire la sessione; ma Mulgrave pregò i Lordi a rimanere, e fece entrare il messaggiero. Questi raccontò con molte lacrime il successo, consegnò una lettera scritta di mano propria dal Re, la quale non era diretta a nessuno, ma invocava lo aiuto di tutti i buoni Inglesi.[589] VIII. Non era possibile porre in non cale un simigliante appello. I Lordi ordinarono a Feversham corresse con una compagnia di Guardie del Corpo al luogo dove il Re era arrestato e gli desse libertà. Già Middleton ed altri pochi aderenti di Giacomo sʼerano partiti per soccorrere il loro sventurato signore. Lo trovarono tenuto in istretta prigionia, sì che non fu loro concesso di essere introdotti al cospetto di lui senza aver prima consegnate le spade. Il concorso del popolo era immenso. Taluni gentiluomini Whig di quelle vicinanze avevano condotto un numeroso corpo di milizie civiche per guardarlo. Avevano erroneamente pensato che ritenendolo prigioniero si acquisterebbero la grazia deʼ suoi nemici, e rimasero grandemente conturbati allorchè seppero che il Governo Provvisorio di Londra aveva disapprovato il modo onde il Re era stato trattato, e che era presso a giungere una squadra di cavalleria per liberarlo. Difatti Feversham non indugiò ad arrivare. Aveva lasciate le sue truppe in Sittingbourne; ma non vi fu mestieri adoperare la forza. Il Re fu lasciato partire senza ostacolo, e venne daʼ suoi amici condotto a Rochester, dove prese un poco di riposo di cui aveva sommo bisogno. Era in istato da fare pietà. Non solo aveva onninamente perturbato lo intendimento, che per altro non era stato mai lucidissimo, ma quel coraggio, chʼegli da giovane aveva mostrato in varie battaglie di mare e di terra, lo aveva abbandonato. Eʼ pare che le ruvide fatiche corporali da lui adesso per la prima volta sostenute, lo prostrassero più che ogni altro evento della travagliata sua vita. La diserzione del suo esercito, deʼ suoi bene affetti, della sua famiglia, lo toccava meno delle indegnità patite quando ei venne arrestato in su la nave. La ricordanza di tali indegnità seguitò lungo tempo a invelenirgli il cuore, e una volta fece cose da muovere a scherno tutta la Europa. Nel quarto anno del suo esilio tentò di sedurre i propri sudditi offrendo loro unʼamnistia. Vi si conteneva una lunga lista dʼeccezioni, e in essa i poveri pescatori che gli avevano sgarbatamente frugate le tasche erano notati accanto ai nomi di Churchill e di Danby. Da ciò possiamo giudicare quanto amaramente ei sentisse lʼoltraggio pur dianzi sofferto.[590] Nulladimeno, ove egli avesse avuto un poco di buon senso, si sarebbe accorto che coloro i quali lo avevano arrestato, gli avevano, senza saperlo, reso un gran servigio. Gli eventi successi dopo la sua assenza dalla metropoli lo avrebbero dovuto convincere che, qualora gli fosse riuscito fuggire, non sarebbe più mai ritornato. A suo dispetto era stato salvato dal precipizio. Gli rimaneva unʼaltra sola speranza. Per quanto gravi fossero i suoi delitti, detronizzarlo mentre ei rimaneva nel Regno e mostravasi pronto ad assentire ai patti che glʼimporrebbe un libero Parlamento, sarebbe stato pressochè impossibile. Per breve tempo egli parve propenso a rimanere. Spedì Feversham da Rochester con una lettera a Guglielmo. La sostanza della quale era che Sua Maestà già sʼera messo in cammino per ritornare a Whitehall, che desiderava avere un colloquio col Principe, e che il palazzo di San Giacomo sarebbe apparecchiato per Sua Altezza.[591] IX. Guglielmo era in Windsor. Aveva con profondo rincrescimento saputi i fatti successi nella costa di Kent. Poco avanti che gliene giungesse la nuova, coloro che gli stavano da presso avevano notato chʼegli era dʼinsolito buon umore. Ed aveva ragione di star lieto. Vedevasi dinanzi lo sguardo un trono vacante; parea che tutti i partiti a una voce lo invitassero a salirvi. In un baleno la scena cangiossi: lʼabdicazione non era consumata; molti deʼ suoi stessi fautori avrebbero scrupoleggiato a deporre un Re che rimanesse fra loro, glʼinvitasse ad esporre le loro doglianze in modo parlamentare, e promettesse piena giustizia. Era uopo che il Principe esaminasse le nuove condizioni in cui si trovava, e si appigliasse a nuovo partito. Non vedeva alcuna via alla quale non si potesse nulla obbiettare, nessuna via che lo ponesse in una situazione vantaggiosa al pari di quella dove egli era poche ore innanzi. Nondimeno qualche cosa poteva farsi. Il primo tentativo fatto dal Re per fuggire non era riuscito: era sommamente da desiderarsi chʼegli si ponesse di nuovo alla prova con migliore successo. Bisognava impaurirlo e sedurlo. La liberalità usatagli nelle pratiche dʼaccordo fatte in Hungerford, liberalità alla quale egli aveva risposto rompendo la fede, adesso sarebbe intempestiva. Bisognava non proporgli patti nessuni dʼaccomodamento; e proponendone egli, rispondergli con freddezza; non usargli violenza, e neanche minacce; e nondimeno non era impossibile, anco senza siffatti mezzi, rendere un uomo cotanto pusillanime, inquieto della propria salvezza. E allora, posto di nuovo lʼanimo nel solo pensiero della fuga, era dʼuopo facilitargliela, e procurare che qualche zelante stoltamente non lo arrestasse una seconda volta. X. Tale era il concetto di Guglielmo: e la destrezza e fermezza con che lo mandò ad esecuzione offre uno strano contrasto con la demenza e codardia dellʼuomo con cui egli aveva da fare. Tosto gli si presentò il destro dʼiniziare un sistema dʼintimidazione. Feversham giunse a Windsor portatore della lettera di Giacomo. Il messaggiero non era stato giudiciosamente scelto. Egli era quel desso che aveva disciolto lo esercito regio. A lui principalmente imputavano la confusione e il terrore della Notte Irlandese. Il pubblico ad alta voce lo biasimava. Guglielmo, provocato, aveva profferito poche parole di minaccia; e poche parole di minaccia uscite dalle labbra di Guglielmo sempre significavano qualcosa. A Feversham fu detto mostrasse il salvocondotto. Non ne aveva. Venendo senza esso framezzo a un campo ostile, secondo le leggi della guerra, sʼera reso meritevol dʼessere trattato con estrema severità. Guglielmo non volle vederlo, e comandò che venisse arrestato.[592] Zulestein fu tostamente spedito a riferire a Giacomo che Guglielmo non consentiva il proposto colloquio, e desiderava che la Maestà Sua rimanesse in Rochester. Ma non era più tempo. Giacomo era già in Londra. Aveva esitato circa al viaggio, e una volta si era nuovamente provato a fuggire dallʼisola. Ma infine cedè alle esortazioni degli amici chʼerano più savi di lui, e partì alla volta di Whitehall. Vi arrivò il pomeriggio di domenica, 16 dicembre. Temeva che la plebe, la quale nella sua assenza aveva dato tanti segni della avversione che sentiva contro il Papismo, gli facesse qualche affronto. Ma la stessa violenza dellʼira popolare erasi calmata; la tempesta abbonacciata. Gaiezza e compassione avevano succeduto al furore. Nessuno mostravasi inchinevole a insultare il Re; qualche acclamazione fu udita mentre il suo cocchio traversava la Città. Le campane di alcune chiese suonarono a festa; furono accesi pochi fuochi di gioia a onorare il suo ritorno.[593] La sua debole mente pur dianzi oppressa dallo scoraggiamento dètte in istravaganze a cotesti inattesi segni di bontà e compassione mostrati dal popolo. Giacomo entrò rinfrancato nel proprio palazzo, il quale subitamente riprese il suo antico aspetto. I preti cattolici romani, che neʼ decorsi giorni sʼerano frettolosamente nascosti neʼ sotterranei e nelle soffitte per scansare il furore della plebe, uscirono dai loro luridi nascondigli chiedendo i loro antichi appartamenti in palazzo. Un Gesuita recitava il rendimento di grazie alla mensa del Re. Il vernacolo irlandese, allora il più odioso di tutti i suoni alle orecchie inglesi, udivasi per tutti i cortili e le sale. Il Re stesso aveva ripresa la sua vecchia alterigia. Tenne un Consiglio—lʼultimo deʼ suoi Consigli—ed anche negli estremi cui era ridotto convocò individui privi deʼ requisiti legali ad intervenirvi. Si mostrò gravemente indignato contro quei Lordi, che nella sua assenza avevano osato assumere il governo dello Stato. Era loro dovere lasciare che la società si dissolvesse, le case degli Ambasciatori venissero distrutte, Londra arsa, più presto che assumere le funzioni chʼegli aveva creduto giusto abbandonare. Fra coloro che ei così gravemente riprendeva, erano alcuni Nobili e Prelati, i quali a dispetto di tutti i suoi errori gli erano rimasti costantemente fedeli, e anche dopo questa altra provocazione non seppero, per timore o speranza, indursi a prestare obbedienza ad altro sovrano.[594] Ma tale coraggio presto gli venne meno. Era egli appena entrato in palazzo allorquando gli fu detto che Zulestein era pur giunto messaggiero del Principe. Zulestein espose la fredda e severa ambasciata di Guglielmo. Il Re insisteva per avere un colloquio col nepote. «Non mi sarei partito da Rochester» disse egli «se avessi saputo tale essere il suo volere: ma da che qui mi ritrovo, spero chʼei voglia venire al palazzo di San Giacomo.»—«Debbo dire chiaramente alla Maestà Vostra» rispose Zulestein «che Sua Altezza non verrà a Londra finchè vi rimarranno soldati che non siano sotto gli ordini suoi.» Il Re confuso a siffatta risposta, ammutolì. Zulestein andonne via; e tosto entrò in camera un gentiluomo recando la nuova dello arresto di Feversham.[595] Giacomo ne rimase grandemente conturbato. Pure la rimembranza deʼ plausi con che era pur dianzi stato accolto, gli confortava lʼanimo. Gli sorse in cuore una stolta speranza. Pensò che Londra, la quale da tanto tempo era stata il baluardo della religione protestante e delle opinioni Whig, fosse pronta a prendere le armi in difesa di lui. Mandò a chiedere al Municipio, se sʼimpegnerebbe a difenderlo contro il Principe, qualora Giacomo si recasse ad abitare nella Città. Ma il Municipio, che non aveva posto in oblio la confisca deʼ suoi privilegi e lo assassinio giuridico di Cornish, ricusò di dare la promessa richiesta. Allora il Re si sentì nuovamente scorato. In qual luogo, diceva egli, troverebbe protezione? Valeva lo stesso essere circondato dalle truppe olandesi che dalle sue Guardie del Corpo. Quanto ai cittadini, adesso egli comprese quanto valessero i plausi e le luminarie. Altro partito non gli rimaneva che fuggire; e nondimeno vedeva bene che nessuna cosa potevano tanto desiderare i suoi nemici, quanto la sua fuga.[596] XI. Mentre egli siffattamente trepidava, in Windsor deliberavasi intorno al suo fato. Adesso la corte di Guglielmo era strabocchevolmente affollata di uomini illustri di tutti i partiti.Vʼerano giunti la più parte deʼ capi della insurrezione delle contrade settentrionali. Vari Lordi, i quali nellʼanarchia deʼ giorni precedenti si erano costituiti da sè in Governo provvisorio, appena ritornato il Re, lasciata Londra, se nʼerano andati al quartier generale. Fra loro era anco Halifax. Guglielmo lo aveva accolto con gran satisfazione, ma non aveva potuto frenare un ironico sorriso vedendo lo ingegnoso e compìto uomo politico, il quale aveva ambito a farsi arbitro in quella grande contesa, essere costretto ad abbandonare ogni via di mezzo e prendere un partito deciso. Fra coloro che in questa congiuntura arrivarono a Windsor erano alcuni che avevano con ignominiosi servigi comperata la grazia di Giacomo, e adesso erano bramosi di scontare, tradendo il loro signore, il delitto dʼavere tradita la patria. Tale era Titus, che aveva seduto in Consiglio in onta alle leggi, e sʼera affaticato a stringere i puritani coʼ Gesuiti in una lega contro la costituzione. Tale era Williams, il quale, per cupidigia di guadagno, di demagogo sʼera fatto campione della regia prerogativa, e adesso era prontissimo a commettere una seconda apostasia. Il Principe con giusto dispregio lasciò che cotesti uomini si stessero vanamente aspettando unʼudienza alla porta del suo appartamento.[597] Il lunedì, 17 dicembre, tutti i Pari che erano in Windsor furono convocati a una solenne consulta da tenersi nel castello. Il subietto delle loro deliberazioni era ciò che fosse da farsi del Re: Guglielmo non reputò savio partito trovarsi presente alla discussione. Ei si ritirò; ed Halifax fu posto sul seggio presidenziale. I Lordi concordavano in una cosa sola, cioè non doversi permettere che il Re rimanesse dove era. Unanimemente estimavano dannoso che lʼun principe si fortificasse in Whitehall, e lʼaltro nel palazzo di San Giacomo, e che vi fossero due guarnigioni nemiche in uno spazio di cento acri. Un tale provvedimento non poteva mancare di far nascere sospetti, insulti, e battibecchi che finirebbero forse col sangue. Per le quali ragioni i Lordi ingannati crederono necessario mandar via Giacomo di Londra. Proposero qual luogo convenevole Ham, che Lauderdale lungo la riva del Tamigi aveva edificato con le ricchezze rubate in Iscozia e con la pecunia datagli dalla Francia a corromperlo, e che era considerato come la più magnifica delle ville. I Lordi, venuti a tale conclusione, invitarono il Principe a recarsi fra loro. Halifax gli comunicò la deliberazione. Guglielmo approvò. Fu scritto un breve messaggio da spedirsi al Re. «E per chi glielo manderemo?» domandò Guglielmo. «Non dovrebbe essergli recato» disse Halifax «da uno degli ufficiali di Vostra Altezza?»—«No, milord,» rispose il principe; «con vostra licenza, il messaggio è spedito per consiglio delle Signorie Vostre; dovrebbe quindi recarglielo alcuno di voi.» Allora senza far sosta, onde non si desse luogo a rimostranze, ei nominò messaggieri Halifax, Shrewsbury e Delamere.[598] Sembra che la deliberazione deʼ Lordi fosse unanime. Ma nellʼassemblea erano alcuni, che non approvavano affatto il provvedimento chʼessi affettavano di approvare, e che desideravano vedere usata verso il Re una severità che non rischiavansi a manifestare. È cosa notevole che capo di questo partito era un Pari, già stato Tory esagerato, che poscia non volle prestare giuramento a Guglielmo: questo Pari era Clarendon. La rapidità onde in cotesta crisi ei passò da uno allʼaltro estremo, parrebbe incredibile a coloro che vivono in tempi di pace, ma non ne maraviglieranno coloro i quali hanno avuto occasione di osservare il corso delle rivoluzioni. Si avvide che lʼasprezza con cui egli al regio cospetto aveva censurato lo intero sistema del governo, aveva mortalmente offeso il suo antico signore. Dallʼaltra parte, come zio delle Principesse, poteva sperare dʼingrandirsi e arricchire nel nuovo ordine di cose che già sʼiniziava. La colonia inglese in Irlanda lo teneva come amico e patrono; ed ei pensava che assai parte della propria importanza riposava sulla fiducia e lo affetto di quella. A tali considerazioni cederono i principii da lui con tanta ostentazione per tutta la sua vita professati. Si recò dunque alle secrete stanze del Principe e gli appresentò il pericolo di lasciare il Re in libertà. I protestanti dʼIrlanda essere in estremo periglio. Uno solo il mezzo ad assicurare loro la roba e la vita, tenere, cioè, Sua Maestà in istretta prigionia. Non essere prudente rinchiuderlo in uno deʼ castelli della Inghilterra: ma potersi mandarlo di là dal mare e chiuderlo nella fortezza di Breda finchè fossero pienamente ricomposte le cose delle Isole Britanniche. Se tanto ostaggio rimanesse nelle mani del Principe, Tyrconnel probabilmente porrebbe giù la spada del comando, e senza strepito la preponderanza inglese verrebbe ristabilita in Irlanda. Se dallʼaltro canto Giacomo fuggisse in Francia, e si mostrasse a Dublino accompagnato da un esercito straniero, ne nascerebbero gli effetti più disastrosi. Guglielmo riconobbe la gravità di cotesti ragionamenti: ma ciò non poteva farsi. Ei conosceva lʼindole di sua moglie, e sapeva bene chʼella non avrebbe mai consentito. E veramente non sarebbe stata per lui onorevole cosa trattare con tanto rigore il vinto suocero. Nè poteva affermarsi come certo la generosità non essere la più sana politica. Chi avrebbe potuto prevedere lo effetto che la severità suggerita da Clarendon produrrebbe nella opinione pubblica della Inghilterra? Era forse impossibile che quello entusiasmo di lealtà, che il Re aveva prostrato con la propria malvagia condotta, risorgesse appena si sapesse egli essere entro le mura di una fortezza straniera? Per queste ragioni Guglielmo si tenne fermissimo a non privare della libertà il proprio suocero; e non è dubbio che ciò fosse savio partito.[599] Giacomo, mentre si discuteva intorno alla sua sorte, rimase in Whitehall, affascinato, a quanto sembra, dalla grandezza e imminenza del pericolo, e inetto a lottare o a fuggire. La sera giunse la nuova che gli Olandesi avevano occupato Chelsea e Kensington. Il Re nondimeno si apparecchiò a riposarsi secondo il consueto. Le guardie dette Coldstream erano di servizio in palazzo. Le comandava Guglielmo Conte di Craven, uomo vecchio, che cinquanta e più anni prima si era reso famoso nelle armi e negli amori, aveva sostenuto a Creutznach con tanto coraggio la disperata battaglia, che vuolsi il gran Gustavo battendogli la spalla gli dicesse: Bravo!—e credevasi che sopra mille rivali avesse conquistato il cuore della sventurata Regina di Boemia. Craven adesso aveva ottantʼanni, ma il suo spirito non era per anche domo dal tempo.[600] XII. Erano battute le ore dieci allorquando gli fu annunziato che tre battaglioni di fanteria del Principe con alcune legioni di cavalleria venivano giù pel lungo viale del Parco di San Giacomo con micce accese, e prontissimi ad agire. Il Conte Solmes che comandava gli stranieri disse avere ordine dʼimpossessarsi militarmente dei posti attorno a Whitehall, ed esortò Craven a ritirarsi in pace. Craven giurò di lasciarsi piuttosto tagliare a pezzi: ma come il Re, che stavasi spogliando, seppe ciò che seguiva, vietò al valoroso veterano di fare una resistenza che non poteva essere che vana. Verso le ore undici le guardie Coldstream sʼerano ritirate, e a guardia di ogni angolo del palazzo vedevansi le sentinelle olandesi. Alcuni deʼ servitori del Re chiesero se sarebbesi rischiato a dormire circondato daglʼinimici. Rispose che essi non potevano trattarlo peggio di quel che avevano fatto i suoi propri sudditi, e con lʼapatia di un uomo istupidito dalle sciagure andossene a letto e si pose a dormire.[601] XIII. Appena erasi fatto silenzio in palazzo quando esso fu nuovamente interrotto. Poco dopo mezzanotte i tre Lordi giunsero da Windsor. Middleton fu chiamato a riceverli. Gli dissero chʼerano portatori dʼun messaggio che non poteva differirsi. Il Re fu destato dal suo primo sonno; ed essi furono introdotti nella sua camera da letto. Gli posero nelle mani la lettera loro affidata, e gli dissero che il Principe tra poche ore arriverebbe a Westminster, e che Sua Maestà farebbe bene a partire per Ham avanti le ore dieci della mattina. Giacomo fece qualche obiezione. Disse non piacergli Ham, essere luogo gradevole in estate, ma freddo e privo di comodi a Natale; oltre di che era senza mobilia. Halifax rispose che sullʼistante verrebbe ammobiliato. I tre messaggieri ritiraronsi, ma furono subitamente seguiti da Middleton, il quale disse loro che il Re preferirebbe Rochester ad Ham. Risposero non avere potestà di consentire al desiderio della Maestà Sua, ma manderebbero tosto un messo al Principe, il quale quella notte doveva alloggiare in Sion House. Il messo partì immediatamente, e tornò innanzi lʼalba recando il consenso di Guglielmo; il quale lo diede di gran cuore: imperciocchè non era dubbio che il Re avesse scelto Rochester come luogo che offriva agevolezza a fuggire, e chʼegli fuggisse era ciò che desiderava il suo genero.[602] XIV. La mattina del dì 18 dicembre, giorno di pioggia e di procella, il bargio del Re a buonʼora aspettava dinanzi le scale di Whitehall, ed era circondato da otto o dieci barche ripiene di soldati olandesi. Vari Nobili e gentiluomini accompagnarono il Re fino alla riva. Dicesi, e può ben credersi, che piangessero: imperciocchè anche i più zelanti amici della libertà non potevano vedere senza commuoversi la trista e ignominiosa fine dʼuna dinastia che avrebbe potuto essere sì grande. Shrewsbury fece quanto più potè per consolare il caduto Sovrano. Perfino lʼaspro ed esagerato Delamere era intenerito. Ma fu notato che Halifax, che aveva sempre mostrata tenerezza verso i vinti, in quel caso era meno compassionevole deʼ suoi due colleghi. Aveva tuttavia lʼanima invelenita dalla rimembranza dʼessere stato spedito ambasciatore da scherno a Hungerford.[603] Mentre il bargio reale lentamente procedeva su per le agitate onde del fiume, lo esercito del Principe dallʼoccidente veniva arrivando a Londra. Era stato saviamente ordinato che il servigio della metropoli fosse fatto dai soldati britannici al soldo degli Stati Generali. I tre reggimenti inglesi furono acquartierati dentro e attorno alla Torre, i tre scozzesi in Southwark.[604] XV. Malgrado il cattivo tempo una gran folla di popolo sʼera raccolta fra Albemarle House e il palazzo di San Giacomo per plaudire al Principe. Tutti i cappelli e i bastoni erano ornati dʼun nastro colore di melarancia. Le campane suonavano per tutta Londra. Le finestre erano tutte piene di candele per la luminara. Nelle strade vedevansi cataste di legna e fascine per accendere fuochi di gioia. Guglielmo nondimeno cui non garbava lo affollarsi e il rumoreggiare della gente, passò traverso al Parco. Avanti notte giunse al palazzo di San Giacomo in un cocchio leggiero, accompagnato da Schomberg. In breve tutte le stanze e le scale del palazzo furono popolate da coloro che erano accorsi a corteggiarlo. E la folla era tanta, che personaggi dʼaltissimo grado non poterono penetrare nella sala dove stavasi il Principe.[605] Mentre Westminster era in cotesto concitamento, il Municipio in Guildhall apparecchiava un indirizzo di ringraziamenti e congratulazioni. Il Lord Gonfaloniere non potè presedere. Non aveva mai più alzato il capo da letto sino dal giorno in cui il Cancelliere travestito da carbonaio era stato trascinato alla sala della giustizia. Ma gli Aldermanni e gli altri ufficiali del corpo municipale erano ai loro posti. Il dì seguente i magistrati della città recaronsi solennemente a complire il liberatore. La gratitudine loro fu con eloquenti parole espressa dal cancelliere Sir Giorgio Treby. Disse che alcuni Principi della Casa di Nassau erano stati principali ufficiali dʼuna grande repubblica. Altri avevano portata la corona imperiale. Ma il titolo peculiare di questa illustre famiglia alla pubblica venerazione era che Dio lʼaveva eletta e consacrata allʼalto ufficio di difendere il vero e la libertà contro i tiranni di generazione in generazione. Il dì stesso tutti i prelati che trovavansi in città, tranne Sancroft, andarono in corpo al cospetto del Principe; quindi il clero di Londra, cioè gli uomini più cospicui del ceto ecclesiastico per dottrina, facondia e influenza, aventi a capo il loro Vescovo. Erano fra loro alcuni illustri ministri dissenzienti, i quali Compton, a suo sommo onore, trattò con segnalata cortesia. Pochi mesi avanti o dopo, simigliante cortesia sarebbe stata da molti anglicani considerata come tradigione verso la Chiesa. Anche allora un occhio veggente poteva bene accorgersi che la tregua, alla quale le sètte protestanti erano state costrette, non sarebbe lungamente sopravvissuta al pericolo che lʼaveva fatta nascere. Circa cento teologi non conformisti, residenti nella capitale, presentarono un indirizzo a parte. Furono introdotti da Devonshire ed accolti con ogni segno di gentilezza e rispetto. Il ceto legale andò anchʼesso a fare omaggio; lo conduceva Maynard, il quale a novanta anni dʼetà era forte di mente e di corpo come quando in Westminster Hall sorse accusatore di Strafford. «Signore Avvocato» disse il Principe «voi dovete avere sopravvissuto a tutti i legali vostri coetanei.»—«Sì, Altezza,» rispose il vegliardo «e se non venivate voi sopravvivevo anco alle leggi.»[606] Ma comechè glʼindirizzi fossero molti e pieni di elogi, le acclamazioni alte, le illuminazioni splendide, il palazzo di San Giacomo troppo angusto per la folla deʼ corteggiatori, i teatri ogni notte dalla platea al soffitto adorni di nastri colore di melarancia, Guglielmo sentiva che le difficoltà della sua intrapresa cominciavano allora. Aveva rovesciato un Governo, ma adesso doveva compiere lʼassai più difficile lavoro di ricostruirne un altro. Da quando sbarcò a Torbay finchè giunse a Londra, aveva esercitata lʼautorità, che per le leggi della guerra, riconosciute da tutto il mondo incivilito, appartiene al comandante dʼun esercito nel campo. Adesso era necessario mutare il suo carattere di generale in quello di magistrato; e questa non era agevole impresa. Un solo passo falso poteva esser fatale; ed era impossibile fare un solo passo senza offendere pregiudicii e svegliare acri passioni. XVI. Alcuni deʼ consiglieri del Principe lo incitavano a prendere a un tratto la corona per diritto di conquista; e poi in qualità di Re spedire muniti del proprio Gran Sigillo i decreti a convocare il Parlamento. Molti insigni giureconsulti lo confortavano ad appigliarsi a tale partito, dicendo essere quella la via più breve di giungere dove, andandovi altrimenti, sʼincontrerebbero innumerevoli ostacoli e contese. Ciò era strettamente conforme al felice esempio dato da Enrico VII dopo la battaglia di Bosworth. Farebbe ad un tempo cessare gli scrupoli che molti spettabili uomini sentivano quanto alla legalità di trasferire il giuramento di fedeltà da un sovrano ad un altro. Nè la legge civile nè quella della Chiesa Anglicana riconoscevano neʼ sudditi il diritto di detronizzare il Sovrano. Ma nessun giureconsulto, nessun teologo negò mai che una nazione vinta in guerra, potesse senza peccato sobbarcarsi al volere del Dio degli eserciti. Difatti dopo la conquista caldea, i più pii e patriottici degli Ebrei non crederono di mancare al proprio debito verso il Re loro, servendo lealmente il nuovo signore dato loro dalla Provvidenza. I tre confessori, che erano rimasti miracolosamente illesi nellʼardente fornace, tennero altri uffici nella provincia di Babilonia. Daniele fu ministro dello Assiro che soggiogò Giuda, e del Persiano che soggiogò lʼAssiria. Che anzi lo stesso Gesù, il quale secondo la carne era Principe della Casa di David, comandando ai suoi concittadini di pagare il tributo a Cesare, aveva voluto significare che la conquista straniera annulla il diritto ereditario ed è titolo legittimo di dominio. Era quindi probabile che un gran numero di Tory, quantunque non potessero con sicura coscienza eleggersi un Re, accetterebbero senza esitazione quello che gli eventi della guerra avevano dato loro.[607] Dallʼaltra parte, nondimeno, vʼerano ragioni di grave momento. Il Principe non poteva pretendere dʼavere guadagnata la corona con la propria spada senza bruttamente rompere la fede data. Nel suo Manifesto aveva protestato contro ogni pensiero di conquistare la Inghilterra; aveva asserito che coloro i quali gli attribuivano siffatto disegno, calunniavano iniquamente non solo lui, ma tutti quei Nobili e gentiluomini patriotti che lo avevano invitato; che le forze da lui condotte erano evidentemente inadequate ad una impresa così ardua; e che era fermamente deliberato di portare innanzi a un libero Parlamento tutte le pubbliche doglianze e le sue proprie pretese. Non era equo nè saggio chʼei per qualsiasi cosa terrena rompesse la sua parola solennemente impegnata al cospetto di tutta la Europa. Nè era certo che, chiamandosi conquistatore, chetasse quegli scrupoli onde i rigidi Anglicani ripugnavano a riconoscerlo Re. Imperocchè, in qualunque modo egli si chiamasse, tutto il mondo sapeva chʼegli non era vero conquistatore. Era manifestamente unʼaperta finzione il dire che questo gran Regno, con una potente flotta in mare, con un esercito stanziale di quarantamila uomini, e con una milizia civica di centotrentamila uomini, fosse stato, senza un solo assedio o una sola battaglia, ridotto a condizione di provincia da quindicimila invasori. Non era verosimile che cosiffatta finzione rasserenasse le coscienze realmente scrupolose, mentre non mancherebbe di ferire lʼorgoglio nazionale ormai cotanto sensitivo e irritabile. I soldati inglesi erano in tali umori che richiedevano dʼessere con somma accortezza governati. Sentivano che nella recente campagna non avevano sostenuta una onorevolissima parte. I capitani e i soldati comuni erano al pari impazienti di provare che non avevano per difetto di coraggio ceduto a forze inferiori. Taluni officiali olandesi erano stati tanto indiscreti da vantarsi, col bicchiere in mano dentro una taverna, dʼavere rinculata lʼarmata regia. Questo insulto aveva fra le truppe inglesi suscitato un fermento, che ove non vi si fosse prontamente immischiato Guglielmo, sarebbe forse finito in una terribile strage.[608] Quale, in tali circostanze, poteva essere lo effetto di un proclama che avesse annunziato il comandante degli stranieri considerare lʼisola intera come legittima preda di guerra? Era anche da ricordarsi che, pubblicando un simigliante proclama, il Principe avrebbe a un tratto abrogati tutti quei diritti deʼ quali egli sʼera dichiarato campione: perocchè lʼautorità di un conquistatore straniero non è circoscritta dalle costumanze e dagli statuti della nazione conquistata, ma è in sè stessa dispotica. E quindi Guglielmo o non poteva dichiararsi Re, o poteva dichiarare nulle la _Magna Charta_ e la Petizione dei Diritti, abolire il processo dinanzi ai Giurati, e imporre tasse senza il consenso del Parlamento. Poteva, a dir vero, ristabilire lʼantica costituzione del reame. Ma, ciò facendo, era provvedimento arbitrario. Quinci innanzi la libertà dellʼInghilterra verrebbe fruita dai cittadini con umiliante possesso; nè sarebbe, quale era stata fino allora, unʼantichissima eredità, ma un dono recente che il generoso signore, da cui era stato ai suoi sudditi impartito, poteva ripigliare a suo talento. XVII. Guglielmo adunque dirittamente e con prudenza fece pensiero dʼosservare le promesse contenute nel suo Manifesto, e lasciare alle Camere lʼufficio di riordinare il governo. Con tanto studio egli schivò tutto ciò che potesse sembrare usurpazione, che non volle, senza una qualche sembianza dʼautorità parlamentare, avventurarsi a convocare gli Stati del Regno, o dirigere il potere esecutivo nel tempo in cui si facevano le elezioni. Nello Stato non vʼera autorità strettamente parlamentare: ma potevasi in poche ore mettere insieme una assemblea alla quale la nazione portasse gran parte della riverenza dovuta a un Parlamento. Poteva formarsi una Camera deʼ numerosi Lordi spirituali e secolari che allora si trovavano in Londra, e lʼaltra degli antichi membri della Camera deʼ Comuni e deʼ Magistrati della Città. Tale disegno era ingegnoso e venne prontamente mandato ad effetto. Fu intimato ai Pari di trovarsi pel dì 21 dicembre al Palazzo di San Giacomo. Vi accorsero circa settanta. Il Principe gli esortò considerassero le condizioni del paese, e presentassero a lui il resultato delle loro deliberazioni. Poco dopo comparve un annunzio, col quale invitavansi tutti i gentiluomini che erano stati membri della Camera deʼ Comuni sotto il regno di Carlo II, a presentarsi a Sua Altezza la mattina del dì 26. Furono anche chiamati gli Aldermanni di Londra, e al Municipio fu richiesto di mandare una deputazione.[609] Taluni hanno spesso richiesto, in tono di rimprovero, il perchè lo invito non fu mandato anche ai membri del Parlamento che lʼanno precedente era stato disciolto. La risposta è chiara. Uno deʼ precipui aggravi deʼ quali la nazione querelavasi era il modo onde era stato eletto quel Parlamento. La maggior parte deʼ rappresentanti i borghi erano stati eletti da collegi elettorali ordinati in un modo che veniva universalmente considerato illegale, ed era stato biasimato dal Principe nel suo Manifesto. Lo stesso Giacomo, poco innanzi la sua caduta, aveva assentito a rendere aʼ Municipi le antiche franchigie. Guglielmo adunque sarebbe stato incoerentissimo a sè stesso, qualora, dopo dʼavere prese le armi col fine di ricuperare i ritolti privilegi municipali, avesse riconosciuto come legittimi rappresentanti delle città dʼInghilterra individui eletti in onta a quei privilegi. Sabato, il dì 22, i Lordi ragunaronsi nella consueta sala. Spesero quel giorno a stabilire il modo di procedere. Elessero un segretario; e non potendosi avere fiducia di nessuno deʼ dodici giudici, invitarono alcuni deʼ più reputati avvocati per giovarsi del loro consiglio nelle questioni legali. Deliberarono che nel prossimo lunedì lo stato del Regno verrebbe preso in considerazione.[610] Lo intervallo fra la tornata del sabato e quella del lunedì fu tempo dʼansietà e pieno dʼavvenimenti. Un forte partito fraʼ Pari vagheggiava tuttavia la speranza che la Costituzione e la religione del Regno si potessero assicurare senza deporre il Re dal trono. Costoro determinarono di mandargli un indirizzo supplicandolo consentisse termini tali da far cessare il malcontento e i timori suscitati dalla sua passata condotta. Sancroft, il quale, dopo il ritorno del Re da Kent a Whitehall, non sʼera più immischiato neʼ pubblici affari, in questa occasione uscì fuori del suo ritiro onde porsi a capo dei realisti. Parecchi messaggieri furono spediti a Rochester con lettere pel Re. Lo assicuravano che i suoi interessi sarebbero strenuamente difesi, solo chʼegli in questo estremo momento si persuadesse a rinunziare ai disegni cotanto dal suo popolo aborriti. Alcuni spettabili Cattolici Romani gli tennero dietro onde scongiurarlo, per amore della comune religione, non si ostinasse in una vana contesa.[611] Il consiglio era salutare; ma Giacomo non era in condizione da seguirlo. Comunque avesse avuto sempre debole e tardo intendimento, le donnesche paure e le puerili fantasie che gli agitavano lʼanima, glielo rendevano affatto inutile. Accorgevasi bene la sua fuga essere la cosa che sopra tutto temevano gli amici e desideravano glʼinimici suoi. E quando anco avesse corso pericolo di vita a rimanere, lʼoccasione era tale chʼegli avrebbe dovuto reputare infame il ritirarsi: imperocchè trattavasi di sapere se egli e i posteri suoi dovessero regnare assisi sul trono avito, o andare raminghi ed accattando in terra straniera. Ma nellʼanima sua ogni altro sentimento aveva ceduto al vigliacco timore di perdere la vita. Alle calde preghiere e alle incontrastabili ragioni degli agenti mandati a Rochester dagli amici suoi, egli dava una sola risposta: la sua testa essere in pericolo. Invano gli assicuravano tale sospetto essere privo di fondamento; il buon senso, ove non fosse la virtù, dovere dissuadere il Principe dʼOrange dalla colpa e vergogna del regicidio e del parricidio, e molti, i quali non consentirebbero a detronizzare il loro Sovrano mentre rimaneva nellʼisola, reputarsi per la sua diserzione sciolti dal loro debito di fedeltà. Ma la paura vinse ogni altro sentimento. Giacomo risolvè di partirsi; e gli era agevole farlo. Era trascuratamente guardato: tutti avevano a lui libero accesso; navi pronte a far vela trovavansi poco da lui distanti, e le barche potevano spingersi fino al giardino della casa dove egli alloggiava. Se fosse stato savio, le cure che davansi i suoi custodi a facilitargli la fuga, sarebbero state sufficenti a convincerlo chʼegli avrebbe dovuto rimanere colà dove era. E veramente la rete era così apertamente tesa da non ingannare altri che uno stolto reso insano dal terrore. XVIII. Il Re sollecitamente apparecchiò tutto per eseguire il proprio disegno. La sera del sabato 22 assicurò alcuni deʼ gentiluomini, i quali erano stati spediti da Londra portatori di nuove e di consigli, che li avrebbe veduti la dimane. Andonne a letto, levossi sul cadere della notte, e accompagnato da Berwick per un uscio secreto scese, e andò, traversando il giardino, alla spiaggia del Medway. Una piccola gondola stavasi ad aspettarlo. La domenica allʼalba i fuggenti erano sopra una barca da pescare che scendeva giù pel Tamigi.[612] Il pomeriggio la nuova della fuga giunse a Londra. I fautori del Re rimasero confusi. I Whig non poterono frenare la gioia loro. La fausta notizia incoraggiò il Principe a fare un ardito ed importante passo. Sapeva esservi comunicazioni tra la Legazione Francese e il partito ostile a lui. Era ben noto che quella Legazione sʼintendeva maravigliosamente di tutte le arti della corruzione; e mal poteva dubitarsi che in tanta congiuntura non aborrirebbero di adoperare le pistole e ogni sorta dʼintrighi. Barillon sommamente desiderava di rimanere per pochi altri giorni in Londra, e a tale scopo non aveva trascurata arte alcuna a blandire i vincitori. Nelle strade abboniva il popolaccio, che lo guardava in cagnesco, gettandogli dal cocchio pugni di monete. A mensa beveva pubblicamente alla salute del Principe dʼOrange. Ma Guglielmo non era uomo da lasciarsi prendere allʼamo da tali moine. A dir vero, non erasi arrogato lo esercizio della regia autorità; ma era Generale, e come tale non era tenuto a tollerare nel territorio da lui militarmente occupato la presenza di un uomo chʼegli credeva spione. Innanzi sera a Barillon fu intimato di partirsi dalla Inghilterra entro ventiquattro ore. Pregò caldamente gli si concedesse un breve indugio: ma i momenti erano preziosi; lʼordine fu ripetuto in modo più perentorio, ed ei di mala voglia partì per Dover. E perchè non vi mancasse nessuna dimostrazione di spregio e di sfida, venne scortato fino alla costa da uno deʼ suoi concittadini protestanti dalla persecuzione cacciati in esilio. Era tanto il risentimento che nel cuore di tutti avevano suscitato lʼambizione e lʼarroganza francese, che perfino quegli Inglesi i quali generalmente non inchinavano a guardare di buon occhio la condotta di Guglielmo, altamente plaudirono allorchè lo videro ritorcere con tanta energia la insolenza con che Luigi per tanti anni aveva trattato ogni corte dʼEuropa.[613] XIX. Il lunedì i Lordi adunaronsi di nuovo. Halifax venne eletto a presiedere. Il Primate era assente, i realisti afflitti e scuorati, i Whig ardenti ed animosissimi. Sapevasi che Giacomo partendo aveva lasciata una lettera. Alcuni degli amici suoi proposero che fosse deposta sul banco, vanamente sperando che contenesse cose tali da apprestare la base ad un prospero accomodamento. A tale proposta fu fatta e vinta la questione pregiudiciale. Godolphin, che era tenuto per bene affetto al suo antico signore, profferì poche parole che furono decisive. «Ho veduto lo scritto,» disse egli «e mi duole il dirvi che non contiene nulla che possa minimamente satisfare le Signorie Vostre.» E veramente non conteneva una sola parola di pentimento deʼ passati errori, non speranza di non più ricadervi in futuro, e di ciò che era accaduto dava la colpa alla malizia di Guglielmo e alla cecità dʼuna nazione ingannata dagli speciosi nomi di proprietà e religione. Nessuno tentò di proporre di aprire pratiche dʼaccordo con un Principe che pareva reso più ostinato nel male dalla rigorosa scuola dellʼavversità. Si disse qualcosa sul fare inchieste intorno alla nascita del Principe di Galles; ma i Pari Whig trattarono la cosa con isdegno. «Non mi aspettava, Milordi,» esclamò Filippo Lord Wharton, vecchia Testarotonda che aveva comandato un reggimento contro Carlo I in Edgehill, «non mi aspettava di udire alcuno in questo giorno rammentare il fanciullo cui fu dato il nome di Principe di Galles; e spero che ormai sia rammentato per lʼultima volta.» Dopo lungo discutere fu deliberato di presentare due indirizzi a Guglielmo. In uno lo pregavano di assumersi provvisoriamente lʼamministrazione del governo; nellʼaltro lo esortavano a invitare con lettere circolari munite della sua propria firma tutti i collegi elettorali del Regno a inviare i loro rappresentanti a Westminster. Nel tempo stesso i Pari assumevano lo incarico di emanare un ordine perchè tutti i Papisti, salvo pochi individui privilegiati, fossero banditi da Londra e dalle vicinanze.[614] I Lordi presentarono i loro indirizzi al Principe il dì susseguente, senza attendere lʼesito delle deliberazioni deʼ Comuni da lui convocati. Eʼ sembra che i Nobili ereditari in questo momento fossero ansiosissimi di far mostra della dignità loro, e non erano inchinevoli a riconoscere uguale autorità in una assemblea non riconosciuta dalla legge. Pensavano dʼessere una vera Camera di Lordi; lʼaltra disprezzavano come illusoria Camera di Comuni. Guglielmo, nondimeno, saviamente disse di non volere nulla decidere finchè non conoscesse lʼopinione deʼ gentiluomini, i quali per lʼinnanzi erano stati onorati della fiducia delle Contee e delle città dʼInghilterra.[615] XX. I Comuni chʼerano stati chiamati adunaronsi nella Cappella di Santo Stefano e formarono unʼassemblea numerosa. Posero sul seggio presidenziale Enrico Powle, già rappresentante di Cirencester in vari Parlamenti, e deʼ principali propugnatori della Legge dʼEsclusione. Furono proposti e approvati indirizzi simili a quelli dei Lordi. Non vi fu differenza dʼopinioni sopra alcuna questione di grave momento; ed alcuni deboli tentativi fatti a suscitare discussioni sopra materie di forma, incontrarono universale disprezzo. Sir Roberto Sawyer disse di non potere intendere in che modo il Principe potesse amministrare il governo senza alcun titolo speciale, come sarebbe Reggente o Protettore. Il vecchio Maynard il quale, come giureconsulto, non aveva chi gli stesse a fronte, e che anche aveva somma pratica della tattica delle rivoluzioni, non ebbe cura di frenare il proprio sdegno contro una obiezione così puerile, fatta in un momento in cui la concordia e la prontezza erano della più alta importanza. «Noi staremo qui un secolo» disse egli «se rimarremo finchè Sir Roberto intenda come la cosa sia possibile.» Lʼassemblea reputò la risposta degna del cavillo che lʼavea provocata.[616] XXI. Le deliberazioni dellʼadunanza furono comunicate al Principe; il quale annunziò che oramai cederebbe alla richiesta delle due Camere, e spedirebbe lettere di convocazione per ragunare una Convenzione degli Stati del Reame, e finchè non fosse ragunata, eserciterebbe egli il potere esecutivo.[617] Ei sʼera accinto a non lieve impresa. Il Governo era onninamente sossopra. I Giudici di Pace avevano abbandonate le loro funzioni. Gli ufficiali della pubblica rendita avevano cessato di riscuotere le tasse. Lʼarmata disciolta da Feversham era ancora in confusione e pronta ad ammutinarsi. La flotta non era in meno tristi condizioni. Gli ufficiali militari e civili della Corona erano creditori di grosse somme per paghe arretrate; e nello Scacchiere altro non era che quarantamila lire sterline. Il Principe con somma energia si pose a rifare lʼordine. Pubblicò un proclama che esortava tutti i magistrati a continuare neʼ loro uffici, e un altro in cui ordinava la riscossione delle imposte.[618] Il nuovo riordinamento dello esercito con rapidità procedeva. Molti deʼ Nobili e gentiluomini cui Giacomo aveva tolto il comando deʼ reggimenti inglesi furono richiamati. Fu trovato modo a impiegare le migliaia di soldati irlandesi da Giacomo fatti venire in Inghilterra. Non potevano in sicurtà rimanere in un paese dove essi erano segno alla animosità nazionale e religiosa. Non potevano con sicurtà mandarsi a casa loro per afforzare lʼarmata di Tyrconnel. Fu quindi provveduto di spedirli sul continente, dove, sotto il vessillo di Casa dʼAustria, potevano riuscire dʼindiretta ma efficace utilità alla causa della costituzione inglese e della religione protestante. Dartmouth fu destituito; e promettendo ad ogni marinaio prontamente la paga dovutagli, la flotta riconciliossi a Guglielmo. La città di Londra imprese ad appianargli le difficoltà di finanza. Il Consiglio Municipale, con voto unanime, sʼimpegnò a procurargli duecento mila lire sterline. E fu considerato come gran prova della opulenza e del patriottismo dei mercatanti della metropoli il trovare in quarantotto ore la intera somma senza altra guarentigia che la parola del Principe. Poche settimane innanzi Giacomo non aveva potuto procurarsi una somma assai minore, ancorchè avesse offerto di pagare frutti più alti, e dare in pegno beni di molto pregio.[619] XXII. In pochissimi giorni lo sconvolgimento prodotto dalla invasione, dalla insurrezione, dalla fuga di Giacomo e dalla sospensione dʼogni regolare governo, era finito, e il paese aveva ripreso il consueto aspetto. Regnava universale sentimento di sicurezza. Anche le classi maggiormente esposte allʼodio pubblico, e che avevano maggiore ragione a temere una persecuzione, furono protette dalla accorta clemenza del vincitore. Individui profondamente implicati negli illegali atti dello antecedente regno, non solo passeggiavano sicuri per le vie, ma profferivansi candidati alla Convenzione. Mulgrave non fu accolto di mala grazia al palazzo di San Giacomo. A Feversham, sprigionato, fu permesso di riprendere lʼunico ufficio pel quale aveva i debiti requisiti, cioè quello di tenere la banca al giuoco della bassetta in casa della Regina vedova. Ma non vi fu classe del popolo che avesse tanta cagione di sentire gratitudine per Guglielmo al pari deʼ Cattolici Romani. Non sarebbe stato savio partito abrogare formalmente i severi provvedimenti fatti daʼ Pari contro i credenti dʼuna religione generalmente aborrita dalla nazione: ma tali provvedimenti vennero praticamente annullati mercè la prudenza ed umanità del Principe. Marciando da Torbay alla volta di Londra aveva dato ordine di non recar danno alle persone e alle abitazioni deʼ papisti. Adesso rinnovò tali ordini, e ingiunse a Burnet gli facesse rigorosamente eseguire. Non poteva fare migliore scelta, imperciocchè Burnet era uomo di tanta generosità e buona indole, che il suo cuore era sempre aperto aglʼinfelici; e nel tempo medesimo il suo ben noto odio contro il papismo era pei più fervidi protestanti sufficiente sicurtà che glʼinteressi della religione loro non correrebbero il minimo rischio nelle mani di lui. Ascoltava cortesemente le querele deʼ Cattolici Romani, procurava il passaporto a tutti coloro che amavano meglio andarsene di là dal mare, e si recò da sè a Newgate per visitare i prelati ivi rinchiusi. Ordinò che venissero trasferiti in più comode stanze, e serviti con ogni riguardo. Gli assicurò solennemente che non verrebbe loro torto un capello, ed appena il Principe fosse in condizione da agire secondo che desiderava, gli avrebbe posti in libertà. Il Ministro di Spagna riferì al proprio Governo, e per mezzo di questo al Papa, che nessun Cattolico poteva sentire scrupolo di coscienza a cagione della recente rivoluzione della Inghilterra; che deʼ pericoli, ai quali i credenti nella vera Chiesa trovavansi esposti, il solo Giacomo era responsabile, e che il solo Guglielmo li aveva salvati da una sanguinosa persecuzione.[620] XXIII. E però con quasi piena soddisfazione i Principi della Casa dʼAustria e il Sommo Pontefice sentirono che il lungo vassallaggio della Inghilterra era finito. Come si seppe in Madrid che Guglielmo andava a vele gonfie nella sua intrapresa, un solo nel consiglio di Stato di Spagna osò esprimere il proprio rincrescimento al vedere come un fatto, che politicamente considerato era faustissimo, sarebbe stato dannoso aglʼinteressi della vera Chiesa.[621] Ma la tollerante politica del Principe prestamente quietò tutti gli scrupoli, e il suo inalzamento non fu veduto con minore satisfazione dai bacchettoni Grandi di Spagna, che dai Whig inglesi. Con assai diverso sentimento la nuova di questa grande rivoluzione fu accolta in Francia. In un solo giorno la politica dʼun regno lungo, pieno di vicissitudini e glorioso, restò sconcertata. Inghilterra era di nuovo la Inghilterra dʼElisabetta e di Cromwell; e le relazioni di tutti gli Stati della Cristianità furono pienamente cangiate dalla repentina intromissione di questo nuovo potentato nel sistema europeo. I Parigini non sapevano dʼaltro discorrere se non di ciò che seguiva in Londra. Il sentimento nazionale e religioso spingevali a parteggiare per Giacomo. Non sapevano un jota della costituzione inglese. Abbominavano la Chiesa Anglicana. La nostra rivoluzione pareva loro non il trionfo della libertà sopra la tirannide, ma una orrenda tragedia domestica, nella quale un venerabile e pio Servio veniva tratto giù dal trono da un Tarquinio, e schiacciato dalle ruote del cocchio dʼuna Tullia. Gridavano vergogna ai capitani traditori, esecravano le snaturate figliuole, e sentivano per Guglielmo profondo disgusto, comecchè temperato dal rispetto che il valore, la capacità, e i prosperi successi sogliono ispirare.[622] La Regina, sotto la sferza del notturno vento e della pioggia, stringendo al petto il parvolo erede di tre corone, il Re arrestato, derubato, e oltraggiato da uomini ribaldi, erano cose che destavano commiserazione e romanzesco interesse nel cuore di tutti i Francesi. Ma Luigi fu quegli che provò particolari emozioni vedendo le calamità della Casa Stuarda. Si sentì ridestare nellʼanima lo egoismo e la generosità tutta dellʼindole sua. Dopo molti anni di prosperità egli aveva finalmente dato in un grave inciampo. Aveva calcolato sopra lo aiuto o la neutralità della Inghilterra; e adesso non poteva altro da quella aspettarsi che energica e pertinace ostilità. Parecchi giorni innanzi avrebbe non senza ragione potuto sperare di soggiogare le Fiandre e dettare la legge alla Germania; e adesso si reputerebbe fortunato ove potesse difendere i confini del Regno contro una lega da lunghissimi anni non più veduta in Europa. Da questa cotanto nuova, impacciosa e pericolosa posizione, nullʼaltro che una controrivoluzione o una guerra civile nelle Isole britanniche poteva liberarlo. Per le quali cose ambizione e paura lo spingevano ad abbracciare la causa della caduta dinastia. Ed è giusto il dire che a ciò fare lo movevano anche sentimenti più nobili che lʼambizione e il timore non fossero. Il suo cuore era naturalmente compassionevole, e le sciagure di Giacomo erano tali da svegliare tutta la compassione di Luigi. Le circostanze in cui egli erasi trovato avevano impedito il libero corso ai suoi buoni sentimenti. La simpatia rade volte è vigorosa dove è grande ineguaglianza di condizioni; ed egli sʼera tanto alto levato sopra gli altri uomini, che le loro miserie gli destavano in cuore una tepida pietà, quale sarebbe quella che noi proviamo ai patimenti degli animali inferiori, dʼun pettirosso affamato o dʼun spedato cavallo da posta. La devastazione del Palatinato e la persecuzione degli Ugonotti non gli avevano quindi turbato lʼanimo in guisa, che tosto non glielo mettessero in calma lʼorgoglio e la bacchettoneria. Ma si sentì destare nellʼanima tutta la tenerezza di cui egli era capace, vedendo la miseria di un gran Re, che pochi giorni innanzi era stato servito in ginocchio da grandi Signori, e che adesso era esule e mendico. A questo sentimento di tenerezza era commista una vanità non ignobile. Voleva dare al mondo un esempio di munificenza e cortesia. Voleva mostrare allʼumanità quale dovrebbe essere il contegno di un perfetto gentiluomo in altissimo stato e in una solenne congiuntura; e, a vero dire, ei si condusse da uomo cavallerescamente urbano e generoso, sì che di altro esempio non si onoravano gli annali della Europa dal tempo in cui il Principe Nero si stette in piedi dietro la sedia del Re Giovanni a cena nel campo di Poitiers. XXIV. Appena si seppe in Versailles che la Regina dʼInghilterra era approdata in Francia, le venne apparecchiato un palazzo. Furono spediti cocchi e compagnie di Guardie por istarsi agli ordini di lei. Perchè ella potesse comodamente viaggiare, si feʼ racconciare la strada di Calais. A Lauzun non solo fu, a riguardo di lei, concesso perdono delle colpe passate, ma egli ebbe lʼonore dʼuna lettera amichevole scritta di mano di Luigi. Maria faceva cammino alla volta della corte francese, allorquando giunse la nuova che il suo marito, dopo un procelloso viaggio, era sbarcato a salvamento presso il piccolo villaggio dʼAmbleteuse. Personaggi dʼalto grado furono tosto spediti da Versailles a compirlo e servirgli di scorta. Frattanto Luigi, accompagnato dalla sua famiglia e daʼ suoi Nobili, uscì in solenne corteo a ricevere lʼesule Regina. Il suo cocchio sontuoso era preceduto dagli alabardieri svizzeri. Lo fiancheggiava di qua o di là il corpo delle Guardie a cavallo sonando i cimbali e le trombe. Dietro il Re in cento carrozze, ciascuna tirata da sei cavalli, veniva la più splendida aristocrazia che fosse in Europa, tutta piume, nastri, gioie e ricami. La processione non aveva fatto molto cammino quando fu annunziato che Maria appressavasi. Luigi scese dal cocchio, e a piedi le andò incontro. Ella diede in uno scoppio di passionate espressioni di gratitudine. «Madama,» disse il Re di Francia «egli è un tristo servigio quello che oggi vi rendo. Spero che in futuro io possa rendervene di maggiori e più piacevoli.» Così dicendo, baciò il pargoletto Principe di Galles, e fece sedere alla sua destra la Regina nel cocchio reale. Allora la cavalcata si volse verso Saint–Germain. Quivi nella estremità dʼuna foresta popolata di belve da caccia, e in cima a un colle che sovrasta al tortuoso corso della Senna, Francesco I aveva edificato un castello, ed Enrico IV una magnifica terrazza. Di tutte le magioni deʼ Re di Francia, in nessuna si respirava aria più salubre e godevasi un più ameno spettacolo. La grandezza e vetustà veneranda degli alberi, la beltà deʼ giardini, lʼabbondanza delle acque erano in gran fama. Ivi Luigi XIV era nato, e nei suoi giovani anni ivi avea tenuta la sua corte, aveva aggiunti vari padiglioni alla magione di Francesco, e finita la terrazza di Enrico. Nonostante, presto il Re provò inesplicabile disgusto pel luogo dove era nato. Ei lasciò Saint–Germain per trasferirsi a Versailles, e spese somme pressochè favolose nel vano sforzo di creare un paradiso in un luogo singolarmente sterile e insalubre, tutto sabbia e fango, senza boschi, senza acqua e senza caccia. Saint–Germain adunque fu scelto per abitazione della reale famiglia dʼInghilterra. Vi era stata in fretta trasportata sontuosa mobilia. Le stanze pel Principe di Galles erano state provvedute dʼogni cosa necessaria ai bisogni dʼun pargolo. Uno deʼ servi presentò alla Regina la chiave di un ricco scrigno che trovavasi nello appartamento di lei. Ella lo aprì, e vi trovò dentro seimila luigi dʼoro. XXV. Il dì susseguente Giacomo arrivò a Saint–Germain. Vi era Luigi a riceverlo. Lo sventurato esule gli fece un sì profondo inchino che pareva volesse abbracciare le ginocchia del suo protettore. Luigi sollevatolo, abbracciollo con fraterna tenerezza. I due Re entrarono in camera della Regina. «Ecco qui un gentiluomo» le disse Luigi «che voi gradirete di vedere.» Quindi dopo avere pregato il suo ospite a volere pel dì prossimo visitare Versailles, e concedergli il piacere di mostrargli gli edificii, le pitture, e le piantagioni, prese commiato, senza cerimonie, quasi fossero vecchi amici. Dopo poche ore agli sposi reali venne annunziato che per tutto il tempo chʼessi farebbero al Re di Francia il favore di accettarne lʼospitalità, verrebbe loro pagata dal suo tesoro lʼannua somma di quarantacinquemila lire sterline. Diecimila ne furono subito date loro per le spese dʼinstallazione. La liberalità di Luigi fu non per tanto molto meno rara e ammirevole della squisita delicatezza con che ei si affaticò ad addolcire le amarezze deʼ suoi ospiti ed alleggiare il quasi intollerabile peso degli obblighi che addossava loro. Egli, che fino allora nelle questioni di precedenza era stato fastidioso, litigioso, insolente, che sʼera più volte mostrato pronto a gettare la Europa in guerra più presto che cedere nel più frivolo punto dʼ_etichetta_, adesso fu puntiglioso contro sè stesso, ma puntiglioso per i suoi sventurati amici. Ordinò che Maria fosse trattata con tutti i segni di rispetto onde era stata trattata la defunta sua moglie. Fu discusso se i Principi della Casa di Borbone avessero diritto di sedersi in presenza della Regina. Simiglianti inezie erano cose gravi nellʼantica Corte di Francia. Vʼerano esempi pro e contra: ma Luigi decise la questione contro il proprio sangue. Alcune dame dʼaltissimo grado trascurarono la cerimonia di baciare il lembo della veste di Maria. Luigi notò la omissione, e con voce tale e con tale sguardo, che tutte le dame di corte da quel giorno mostraronsi sempre pronte a baciarle il piede. Allorquando lʼEster, pur allora scritta da Racine, venne rappresentata in Saint–Cyr, Maria occupò il seggio dʼonore. Giacomo le sedeva a destra. Luigi modestamente le si assise a sinistra. Anzi ei consentì che nel suo proprio palazzo un esule, il quale viveva della sua generosità, assumesse il titolo di Re di Francia, e come Re di Francia inquartasse i gigli coʼ lioni inglesi, e come Re di Francia neʼ giorni in che la corte prendeva il lutto, vestisse abito di colore violetto. Il contegno deʼ Nobili francesi in pubblico prendeva norma dal Sovrano, ma non era possibile impedire che essi liberamente pensassero ed esprimessero i loro pensieri nelle conversazioni private, con la pungente e delicata arguzia che forma il carattere della nazione e del ceto loro. Di Maria pensavano favorevolmente. La trovavano piacente di persona e dignitosa nel portamento. Ne veneravano il coraggio e lo affetto di madre, e ne commiseravano la sinistra fortuna. Ma per Giacomo sentivano estremo dispregio. Non potevano patire la sua insensibilità, il modo freddo onde egli discorreva con chi che si fosse della propria rovina, e il fanciullesco diletto che prendeva della pompa e del lusso di Versailles. Attribuivano questa strana apatia, non a filosofia o religione, ma a stupidità e abiettezza dʼanimo, e notarono come nessuno che aveva avuto lʼ onore dʼascoltare dalla bocca di Sua Maestà Britannica il racconto dello proprie vicissitudini si maravigliasse di vedere lui in Saint–Germain e il suo genero nel palazzo di San Giacomo.[623] XXVI. Nelle Province Unite la commozione prodotta dalle nuove giunte dʼInghilterra era anche maggiore che in Francia. Era quello il tempo in cui la Batava Federazione era pervenuta al più alto fastigio di gloria e potenza. Dal giorno in cui la spedizione fece vela tutta la nazione olandese era stata in preda a somma ansietà. Le chiese non erano mai state come allora popolate di gente. I predicatori non avevano mai arringato con maggiore veemenza. Gli abitanti dellʼAja non poterono frenarsi dallo insultare Albeville. La sua casa era giorno e notte sì strettamente circondata dalla plebaglia, che nessuno rischiavasi a visitarlo; ed egli temeva non appiccassero fuoco alla sua cappella.[624] Ad ogni corriere che giungeva recando nuove dello avanzarsi del Principe, i suoi concittadini si sentivano rincuorati; e allorquando si seppe chʼegli, cedendo allo invito fattogli dai Lordi e dallʼAssemblea deʼ Comuni, aveva assunto il potere esecutivo, tutte le fazioni olandesi proruppero in un grido universale di gioia e dʼorgoglio. Sollecitamente fu spedita unʼambasceria straordinaria a recargli le congratulazioni della madre patria. Uno degli ambasciatori era Dykvelt, uomo in quella occasione di non poca utilità per la destrezza, e per la profonda scienza chʼegli aveva della politica inglese; e gli fu dato per collega Niccola Witsen, Borgomastro dʼAmsterdam, il quale sembra essere stato scelto a fine di provare a tutta Europa che la lunga contesa tra la Casa dʼOrange e la città principale della Olanda era cessata. Il dì 8 gennaio Dykwelt e Witsen si presentarono a Westminster. Guglielmo favellò loro con franchezza e cordialità tali che rare volte ei mostrava conversando con glʼInglesi. Le sue prime parole furono queste: «Bene! e che cosa dicono ora gli amici a casa nostra?» E veramente il solo plauso che parve forte commuovere la stoica indole di lui, fu quello della terra natia. Della immensa popolarità chʼegli godeva in Inghilterra, parlò con freddo sdegno, e predisse con troppa verità la reazione che ne sarebbe seguita. «Qui» disse egli «oggi dappertutto si grida _Osanna_, e forse domani si griderà _Crucifige_».[625] XXVII. Il dì appresso furono eletti i primi membri della Convenzione. La città di Londra diede lo esempio, e senza contesa elesse quattro ricchi mercatanti caldissimi Whig. Il Re e i suoi fautori avevano sperato che molti ufficiali deʼ collegi elettorali considererebbero come nulla la lettera del Principe; ma fu vana speranza. Le elezioni procederono rapidamente e senza intoppo. Non vi fu quasi ombra di contesa: imperocchè la nazione per più dʼun anno aveva sempre aspettato lʼapertura delle Camere. I decreti di convocazione erano stati due volte emessi e due revocati. Alcuni collegi elettorali, per virtù di tali decreti, avevano già eletto i loro rappresentanti. Non vʼera Contea nella quale i gentiluomini e i borghesi non avessero, molti mesi prima, posto lʼocchio sopra candidati buoni protestanti, ad eleggere i quali dovevasi fare ogni sforzo in onta ai voleri del Re e ai raggiri del Lord Luogotenente; e questi candidati ora vennero generalmente eletti senza opposizione. Il Principe diede rigorosi ordini che nessuno ufficiale pubblico in questa occasione adoperasse quelle arti che avevano recato tanto disonore al cessato Governo. Comandò in ispecie che nessun soldato osasse mostrarsi nelle città nelle quali facevansi le elezioni.[626] I suoi ammiratori poterono vantare, e i suoi nemici sembra non potessero negare, che gli elettori esprimessero liberamente la propria opinione. Vero è chʼegli rischiava poco. Il partito a lui bene affetto era trionfante e pieno dʼentusiasmo, di vita e dʼenergia. Quello da cui poteva aspettarsi seria opposizione era disunito e scorato, stizzito con sè stesso, e anco più stizzito col proprio capo. La maggior parte, quindi, delle Contee e deʼ borghi elessero rappresentanti Whig. XXVIII. Eʼ non fu sopra la sola Inghilterra che Guglielmo estese la sua tutela. La Scozia era insorta contro i suoi tiranni. Tutti i soldati regolari, i quali lʼavevano lungamente tenuta in freno, erano stati richiamati da Giacomo per soccorrerlo contro glʼinvasori olandesi, tranne un piccolo presidio, che sotto il comando del Duca di Gordon, gran signore cattolico, stavasi nel castello dʼEdimburgo. Ogni corriere che era andato nelle contrade settentrionali nel mese di novembre, mese così pieno di vicende, aveva recato nuove che concitavano le passioni degli oppressi Scozzesi. Finchè era ancor dubbio lʼesito delle operazioni militari, in Edimburgo accaddero subugli e clamori che si fecero più minacciosi dopo la ritirata di Giacomo da Salisbury. Gran torme di gente ragunavansi primamente di notte, poi di giorno. Bruciavano le immagini del papa; chiedevano clamorosamente un libero Parlamento: si videro attaccati ai muri deʼ cartelli dove le teste deʼ ministri della Corona erano messe a prezzo. Fra costoro il più detestato era Perth, come colui chʼera Cancelliere, godeva altamente il regio favore, era apostata della fede riformata, e il primo che aveva nelle leggi penali della patria introdotto il ferreo strumento per macerare le dita. Era uomo privo di vigore, e dʼanimo abietto; e il solo coraggio chʼegli avesse era la sfrontatezza che sfida la infamia, e assiste senza commuoversi agli altrui tormenti. In quel tempo era capo del Consiglio; ma, venutogli meno lʼanimo, abbandonò il proprio posto, e a fuggire ogni pericolo,—secondo che giudicava dagli sguardi e dalle grida del feroce popolaccio,—di Edimburgo,—ritirossi a una sua villa che sorgeva non lontana dalla città. Si fece accompagnare a Castle Drummond da una numerosa guardia; ma, appena partito lui, la città insorse. Pochi soldati provaronsi di reprimere la insurrezione, ma furono vinti. Il palazzo di Holyrood, che era stato trasformato in seminario e tipografia cattolica romana, fu preso dʼassalto e saccheggiato. Libri papalini, rosari, crocifissi e pitture furono accatastati e arsi in High Street. Framezzo a tanta agitazione giunse la nuova della fuga del Re. I membri del Governo deposero ogni pensiero di contendere col furore popolare, e mutarono partito con quella prontezza allora comune fra i politici scozzesi. Il Consiglio Privato con un proclama ordinò il disarmo di tutti i papisti, e con un altro invitò i protestanti a collegarsi per la difesa della religione pura. La nazione non aveva aspettato lo invito. Città e campagna erano già in arme a favore del Principe dʼOrange. Nithisdale e Clydesdale erano le sole regioni in cui fosse ombra di speranza che i cattolici romani farebbero testa; ed entrambe furono occupate da bande di presbiteriani armati. Fra glʼinsorti erano alcuni cupi e feroci uomini, i quali, già stati infidi ad Argyle, ora erano egualmente pronti ad esserlo a Guglielmo. Dicevano Sua Altezza essere uomo maligno; non una parola della Convenzione nel suo Manifesto; gli Olandesi, gente con la quale nessun vero servo di Dio poteva concordare, essere in lega coʼ Luterani, e un Luterano, al pari dʼun Gesuita, essere figlio del demonio. Ma la voce universale di tutto il Regno vinse lo sconcio gracidare di cotesta odiata fazione.[627] Il concitamento in breve giunse fino alle vicinanze di Castle Drummond. Perth conobbe di non essere sicuro nè anche fraʼ suoi propri servi e fittajuoli. Si abbandonò a quel disperato dolore in cui la sua cruda tirannia aveva spesso gettato uomini migliori di lui. Si provò di cercare conforto neʼ riti della sua novella Chiesa. Importunava i preti a confortarlo, pregava, si confessava, si comunicava: ma la sua fede era sì debole chʼegli affermò che, malgrado tutte le sue divozioni, era straziato dal terrore della morte. Intanto seppe che potea fuggire sopra un vascello che stavasi di faccia a Brentisland. Travestitosi come meglio potè, dopo un lungo e difficile cammino per non frequentati sentieri su per i monti dʼOchill, che allora erano coperti di neve, gli venne fatto dʼimbarcarsi: ma, non ostante tutte le sue cautele, era stato riconosciuto, e il grido della scoperta sʼera in un baleno propalato. Come si seppe che il crudo rinnegato era in mare ed aveva seco dellʼoro, taluni incitati dallʼodio e dalla cupidigia si posero ad inseguirlo. Un legno comandato da un antico cacciatore di buoi raggiunse il fuggente vascello e lo prese allʼabbordaggio. Perth travestito da donna dal fondo in cui sʼera nascosto fu tratto sul ponte, dove fu spogliato, frugato e saccheggiato. Gli aggressori appuntarongli le baionette al petto. E mentre ei con abiette strida supplicava gli lasciassero la vita, fu condotto a terra e gettato nella prigione comune di Kirkaldy. Di là, per ordine del Consiglio da lui dianzi presieduto, e che era composto dʼuomini partecipi delle sue colpe, fu trasferito al Castello di Stirling. Era giorno di domenica, e lʼora degli uffici divini, allorquando egli, cinto da guardie, fu menato alla sua prigione; ma perfino i rigidi Puritani dimenticarono la santità del giorno e del servizio. La gente erompeva fuori dalle chiese per vedere passare quel carnefice, e il frastuono delle minacce, maledizioni e urli dʼira lo accompagnò fino alla porta del carcere.[628] Vari egregi Scozzesi trovavansi in Londra quando vi arrivò il Principe; e molti altri vi accorsero a corteggiarlo. Il dì 7 gennaio li chiamò a Whitehall. La congrega fu grande e rispettabile: al Duca di Hamilton e al Conte di Arran suo primogenito, capi dʼuna casa quasi regale, tenevano dietro trenta Lordi e circa ottanta gentiluomini di gran conto. Guglielmo gli esortò a consultare fra loro, e fargli sapere il miglior modo di promuovere il bene del loro paese. Quindi ritirossi perchè deliberassero liberamente senza lo impaccio della presenza di lui. Andati alla sala del Consiglio, posero Hamilton sul seggio. Ancorchè sembri che ci fosse poca differenza dʼopinione, le discussioni loro durarono tre giorni, fatto che si spiega pensando che Sir Patrizio Hume era uno degli oratori. Arran rischiossi a proporre sʼaprissero col Re pratiche dʼaccordo. Ma tale proposta, male accolta da suo padre e dalla intera assemblea, non trovò nessuno che la secondasse. Alla perfine vennero a deliberazioni strettamente somiglievoli a quelle che, pochi giorni innanzi, i Lordi e i Comuni dʼInghilterra avevano presentate al Principe. Lo pregavano di convocare una Convenzione degli Stati di Scozia, stabilire il dì 14 marzo per giorno dellʼAdunanza, e fino a quel giorno assumersi egli lʼamministrazione civile e militare. Il Principe assentì alla richiesta; e quindi il governo di tutta lʼisola si ridusse nelle sue mani.[629] XXIX. Avvicinavasi il momento decisivo, e si accrebbe lʼagitazione nel pubblico. In ogni dove vedevansi gli uomini politici far capannelli e discutere. Le botteghe da caffè fervevano; le tipografie della metropoli lavoravano senza posa. Deʼ fogli stampati a quel tempo, anche oggi se ne possono raccogliere tanti da formare vari volumi; e non è difficile, leggendo tali scritture, farsi una idea delle condizioni in cui trovavansi i partiti. Era una piccolissima fazione che voleva richiamare Giacomo senza alcuna stipulazione. Altra fazione anchʼessa piccolissima voleva istituire una repubblica, e affidare il governo ad un Consiglio di Stato sotto la presidenza del Principe dʼOrange. Ma entrambe queste estreme opinioni erano a tutti in aborrimento. Diciannove ventesimi della nazione erano gente in cui lo affetto alla monarchia ereditaria era congiunto, benchè ove più ove meno, con lo affetto alla libertà costituzionale, e che era egualmente avversa allʼabolizione della dignità regia e alla restaurazione incondizionata del Re. Ma nel vasto spazio che divideva i bacchettoni che seguitavano ad attenersi alle dottrine di Filmer, dagli entusiasti che tuttavia sognavano i sogni di Harrington, vʼera luogo per molte varietà dʼopinioni. Se poniamo da parte le minute suddivisioni, vedremo che la massima parte della nazione e della Convenzione era partita in quattro corpi: tre erano Tory, il quarto era Whig. Lʼaccordo tra i Whig e i Tory non era rimaso superstite al pericolo che lʼaveva fatto nascere. In varie occasioni mentre che il Principe marciava alla volta di Londra, la dissensione era scoppiata fraʼ suoi fautori. Mentre era ancor dubbio lʼesito della impresa, egli con isquisito accorgimento aveva di leggieri chetato ogni dissenso. Ma dal dì in cui egli entrò trionfante nel palazzo di San Giacomo, ogni suo accorgimento tornò inefficace. La vittoria, liberando la nazione dalla paura della tirannide papale, gli aveva rapita di mano mezza la sua influenza. Vecchie antipatie, che sedaronsi mentre i Vescovi erano nella Torre, i Gesuiti in consiglio, i leali ecclesiastici a torme privati del loro pane, i leali gentiluomini a centinaia scacciati dalle Commissioni di pace, si ridestarono forti ed operose. Il realista raccapricciava pensando di trovarsi in lega con coloro chʼegli fino dalla sua giovinezza mortalmente odiava, coi vecchi capitani parlamentari che gli avevano devastate le ville, coi vecchi commissari parlamentari che gli avevano sequestrati i beni, con uomini che avevano in Rye House tramato il macello e capitanata la insurrezione delle contrade occidentali. Inoltre quella diletta Chiesa, per amore della quale egli, dopo una penosa lotta, aveva rotto il suo debito dʼobbedienza verso il trono, era ella veramente salva? O lʼaveva egli redenta da un nemico perchè rimanesse in preda ad un altro? I preti papisti, a dir vero, erano in esilio, nascosti, o imprigionati. Nessun Gesuita o Benedettino che avesse cara la vita osava mostrarsi vestito degli abiti dellʼordine suo. Ma i dottori presbiteriani e glʼIndipendenti andavano in processione a riverire il capo del governo, e venivano da lui accolti di buona grazia come i veri successori degli apostoli. Alcuni scismatici apertamente dicevano sperare che tosto sarebbe tolto via ogni ostacolo che gli escludeva daʼ beneficii ecclesiastici; che gli Articoli verrebbero mitigati, riformata la liturgia; non più festa il dì di Natale, non più digiuno il venerdì santo; canonici consacrati dal Vescovo, senza le bianche vestimenta, ministrerebbero nei cori delle cattedrali il pane e il vino eucaristico ai fedeli comodamente assisi neʼ loro banchi. Il Principe certamente non era presbiteriano fanatico; ma per lo meno era Latitudinario: non aveva scrupolo di comunicarsi secondo il rito anglicano; ma non si dava pensiero intorno alla forma secondo la quale altri si comunicava. Era anco da temersi che la moglie fosse troppo imbevuta deʼ principii di lui. La coscienza della Principessa era diretta da Burnet. Ella aveva ascoltato predicatori appartenenti a diverse sètte protestanti. Aveva dianzi detto di non discernere differenza veruna tra la Chiesa anglicana e le altre Chiese riformate.[630] Era quindi necessario che i Cavalieri in cosiffatte circostanze seguissero lo esempio dato nel 1641 dai padri loro, si separassero dalle Testerotonde e dai settarii, e, nonostante tutti i falli del monarca ereditario, sostenessero la causa della ereditaria monarchia. La parte animata da questi sentimenti era numerosa e rispettabile. Comprendeva circa mezza la Camera deʼ Lordi, circa un terzo di quella deʼ Comuni, la maggior parte deʼ gentiluomini rurali, e almeno nove decimi del clero; ma era lacerata dalle dissensioni, e per ogni lato cinta di ostacoli. XXX. Una frazione di questo gran partito, frazione che era specialmente forte fra gli ecclesiastici, e della quale Sherlock era lʼorgano principale, voleva si aprissero pratiche dʼaccordo con Giacomo, che fosse invitato a ritornare a Whitehall a condizioni tali che pienamente rimanesse assicurata la costituzione civile ed ecclesiastica del Regno.[631] Egli è evidente che questo disegno, benchè fosse vigorosamente propugnato dal clero, era al tutto incompatibile con le dottrine per lunghi anni da esso insegnate. Veramente era un tentativo di aprire una via di mezzo dove non era spazio ad aprirla, di effettuare una concordia tra due cose che concordia non ammettevano, cioè tra la resistenza e la non resistenza. I Tory dapprima sʼerano appoggiati al principio della non resistenza; ma la più parte di loro avevano abbandonato quel principio e non inchinavano a riabbracciarlo. I Cavalieri dʼInghilterra, come classe, erano stati così, direttamente o indirettamente, implicati nella ultima insurrezione contro il Re, che non potevano per vergogna parlare del sacro debito di obbedire a Nerone; nè volevano richiamare il Principe sotto il cui pessimo governo avevano cotanto sofferto, senza esigere da lui condizioni tali da rendergli impossibile ogni abuso di potere. Trovavansi quindi in falsa posizione. La loro antica teoria, vera o falsa che fosse, almeno era completa e coerente. Se era vera, dovevano immediatamente invitare il Re a tornare indietro e permettergli, ove così gli piacesse, di punire nel capo come rei di crimenlese Seymour e Danby, il Vescovo di Londra e quello di Bristol, ristabilire la Commissione ecclesiastica, riempiere la Chiesa di dignitari papisti, e porre lo esercito sotto il comando di ufficiali papisti. Ma se, come gli stessi Tory allora sembravano confessare, quella teoria era falsa, a che aprire pratiche dʼaccordo col Re? Se ammettevano chʼegli potesse legalmente essere privato del trono finchè non desse soddisfacenti guarentigie per la sicurtà della costituzione della Chiesa e dello Stato, non era agevole negare chʼegli potesse legalmente esserne privato per sempre. Imperocchè quale soddisfacente guarentigia poteva egli dare? Come era possibile formulare un Atto di Parlamento in termini più chiari di quelli in che erano espressi gli atti parlamentari, i quali ingiungevano che il Decano della Chiesa di Cristo fosse un protestante? Come era egli possibile esprimere una qualunque promessa con parole più energiche di quelle con le quali Giacomo aveva più volte dichiarato di rigorosamente rispettare i diritti del Clero Anglicano? Se legge od onore fossero stati bastevoli a vincolarlo, ei non sarebbe mai stato costretto a fuggire dal suo Regno. E non valendo onore o legge a vincolarlo, era savio provvedimento permettergli che ritornasse. XXXI. È possibile, non pertanto, che, malgrado i predetti argomenti, una proposta di aprire pratiche con Giacomo sarebbe stata fatta nella Convenzione e sostenuta daʼ Tory, ove egli in questa, come in qualsivoglia altra occasione, non fosse stato il peggiore nemico di sè stesso. Ogni corriere postale che giungeva a Londra da Saint–Germain, recava nuove tali da intiepidire lo ardore deʼ suoi partigiani. Ei non credeva valesse lo incomodo simulare rincrescimento deʼ passati errori o promessa di emendarsi. Pubblicò un Manifesto, nel quale diceva avere sempre posto ogni cura a governare con giustizia e moderazione i suoi popoli, e che essi ingannati da immaginari aggravi erano corsi da sè alla rovina.[632] La sua demenza ed ostinazione fece sì che coloro i quali più ardentemente desideravano riporlo sul trono ad eque condizioni, comprendessero che, proponendo in quel momento dʼaprire pratiche con lui, danneggerebbero la causa che volevano propugnare. Deliberarono quindi di collegarsi con unʼaltra fazione di Tory capitanata da Sancroft. Questi credè avere trovato modo di provvedere al governo del paese senza richiamare Giacomo, non privandolo ad un tempo della sua Corona. Questo modo altro non era che istituire una Reggenza. I più ostinati di queʼ teologi che avevano inculcata la dottrina della obbedienza passiva non avevano mai sostenuto che siffatta obbedienza si dovesse prestare ad un bambino o a un demente. Era universalmente riconosciuto che, quando il legittimo Sovrano fosse intellettualmente incapace di esercitare il proprio ufficio, poteva deputarsi alcuno ad agire in sua vece, e che chiunque resistesse a cotesto deputato, e per iscusa allegasse il comando di un principe in fasce o demente, incorrerebbe giustamente nelle pene della ribellione. La stupidità, lʼostinatezza, e la superstizione—in questa guisa ragionava il Primate—avevano reso Giacomo inetto a reggere i propri dominii come un fanciullo in fasce, o un pazzo che nel Manicomio di Bedlam si giaccia sulla paglia digrignando i denti e dicendo scempie parole. Era dunque mestieri appigliarsi al provvedimento preso allorchè Enrico VI era infante, e una seconda volta abbracciato allorchè fu colpito da letargia. Giacomo non poteva esercitare lʼufficio di Re; ma doveva seguitare ad avere sembianza di Re. I decreti dovevano portare il suo nome, le monete e il Gran Sigillo essere segnati della immagine ed epigrafe di lui; gli Atti del Parlamento portare gli anni del suo regno. Ma il potere esecutivo doveva essergli tolto, ed affidato a un Reggente eletto dagli Stati del Reame. In questa guisa, sosteneva con gravità Sancroft, il popolo non mancherebbe al proprio debito, strettamente manterrebbe il giuramento di fedeltà prestato al suo Re; e i più ortodossi anglicani, senza il minimo scrupolo di coscienza, potrebbero esercitare gli uffici sotto il Reggente.[633] La opinione di Sancroft era di gran peso nel partito Tory e segnatamente nel clero. Una settimana innanzi il giorno stabilito al ragunarsi della Convenzione, una congrega di gravissimi uomini nel palazzo Lambeth, assistè alle preci nella cappella, desinò col Primate, e finalmente si strinse a consulta intorno alle pubbliche faccende. Vʼerano presenti cinque suffraganei dello Arcivescovo, i quali nella decorsa estate avevano secolui diviso i perigli e la gloria. I Conti di Clarendon e di Ailesbury rappresentavano i Tory secolari. Parve che unanimemente lʼassemblea opinasse che coloro i quali avevano prestato a Giacomo il giuramento di fedeltà, potevano lecitamente negargli obbedienza; ma non potevano con sicurtà di coscienza chiamare chiunque altri si fosse col nome di Re.[634] XXXII. In tal modo due frazioni del partito Tory, lʼuna che desiderava un accomodamento con Giacomo, lʼaltra che avversava tale accomodamento, concordarono a propugnare il disegno dʼinstituire una Reggenza. Ma una terza frazione, la quale comechè non fosse numerosa aveva gran peso e influenza, proponeva un assai diverso provvedimento. I capi di questa piccola schiera erano Danby e il Vescovo di Londra nella Camera deʼ Lordi, e Sir Roberto Sawyer in quella deʼ Comuni. Crederono dʼavere trovato modo di fare una compiuta rivoluzione sotto forme rigorosamente legali. Dicevano essere contrario ad ogni principio che il Re venisse detronizzato daʼ suoi sudditi; nè vʼera necessità di farlo. Fuggendo, egli aveva abdicato il suo potere e la sua dignità. Il trono doveva considerarsi come vacante; e tutti i giureconsulti costituzionali sostenevano che il trono dʼInghilterra non poteva esserlo nè anche un momento. E però il più prossimo erede era da reputarsi Sovrano. Ma chi era cotesto prossimo erede? Quanto al pargolo che era stato condotto in Francia, la sua venuta al mondo era accompagnata da molti sospetti. Era dovere verso gli altri membri della regale famiglia e verso la nazione che si rimovesse ogni dubbio. Guglielmo, a nome della Principessa dʼOrange sua consorte, aveva solennemente dimandata una inchiesta, la quale sarebbe stata instituita se gli accusati di frode non si fossero appigliati ad un partito, che in qualunque caso ordinario sarebbe stato considerato come prova decisiva della colpa. Senza aspettare lʼesito di un solenne processo parlamentare, se nʼerano fuggiti in paese straniero, secoloro conducendo lo infante, e le cameriste francesi e italiane, le quali, ove ci fosse stato frode, avrebbero dovuto saperla, e quindi sarebbero state sottoposte a rigoroso contro–esame. Era impossibile ammettere il diritto del fanciullo senza avere compita la inchiesta; e coloro che si dicevano suoi genitori avevano resa ogni inchiesta impossibile. Era quindi mestieri reputarlo condannato in contumacia. Se ei pativa ingiustizia, ne avea colpa non la nazione, ma coloro la cui strana condotta al tempo della nascita di lui aveva giustificato la nazione a domandare una inchiesta, alla quale si sottrassero con la fuga. Per le quali cose poteva a buon diritto considerarsi come pretendente; e in tal modo la Corona rimaneva devoluta alla Principessa dʼOrange. Essa era adunque di fatto Regina regnante. Alle Camere altro non rimaneva a fare che proclamarla. Ella poteva, se così le piacesse, nominare primo ministro il marito, e anche, assenziente il Parlamento, conferirgli il titolo di Re. Coloro, che preferivano questo disegno a qualunque altro, erano pochi; ed era sicuro che verrebbe avversato da tutti quei che tuttavia serbavano qualche affetto per Giacomo, e da tutti i partigiani di Guglielmo. Pure Danby, fidando nella pratica chʼegli aveva della tattica parlamentare, e sapendo quanto possa, ogniqualvolta i grandi partiti trovinsi a un dipresso bilanciati, una piccola schiera di dissenzienti, non disperava di tenere sospeso il resultato della contesa, finchè entrambi, Whig e Tory, non avendo più speranza di piena vittoria, e tementi gli effetti dello indugiare, lo lasciassero agire come arbitro. E non era impossibile che gli riuscisse, se i suoi sforzi fossero stati secondati, anzi non fossero stati frustrati da colei chʼegli desiderava inalzare al fastigio della umana grandezza. Per quanto egli avesse occhio veggente e pratica negli affari, ignorava affatto la indole di Maria e lo affetto chʼella nutriva pel suo consorte; nè Compton antico precettore di lei era meglio informato. Guglielmo aveva modi secchi e freddi, inferma salute, indole punto blanda; non era uomo da fare supporre che potesse ispirare una violenta passione ad una giovane di ventisei anni. Sapevasi chʼegli non era stato sempre rigorosamente fedele alla propria moglie; e i ciarlieri andavano dicendo chʼella non menava felice la vita in compagnia di lui. I più sottili politici, perciò, non sospettarono mai che con tutti i suoi falli egli regnasse sul cuore di lei con un impero che non ottennero mai sul cuore di nessuna donna principi rinomatissimi pei loro successi nelle faccende dʼamore, come a modo dʼesempio Francesco I ed Enrico IV, Luigi XIV e Carlo II, e che i tre regni aviti non fossero principalmente dʼalcun valore agli occhi di lei, se non perchè, nel concederli allo sposo, poteva provargli quanto intenso e disinteressato era lo affetto chʼella gli portava. Danby, affatto ignaro di coteste cose, le assicurò che egli avrebbe difesi i diritti di lei, e che, ove ella lo secondasse, sperava di porla sola sul trono.[635] XXXIII. La condotta deʼ Whig era semplice e ragionevole. Professavano il principio che il nostro Governo era essenzialmente un contratto formato per una parte dal giuramento di fedeltà, e per unʼaltra dal giuramento della incoronazione, e che i doveri imposti da tale contratto erano scambievoli. Credevano che un Sovrano il quale abusasse gravemente deʼ propri poteri, potesse essere legittimamente avversato dal suo popolo e privato del trono. Ciò posto, nessuno negava che Giacomo avesse fatto grave abuso del proprio potere; e tutto il partito Whig era pronto a dichiararlo decaduto. Se il Principe di Galles fosse o non fosse legittimo, non era subietto meritevole dʼessere discusso. Per escluderlo dal trono ora esistevano ragioni più forti di quelle che si potessero dedurre dalla qualità di sua nascita. Un bambino introdotto di soppiatto nel regio talamo poteva forse riuscire buon Re dʼInghilterra. Ma non era possibile sperarlo trattandosi dʼun bambino cresciuto e educato da un padre chʼera il più stupido ed ostinato dei tiranni, in un paese straniero, sede del dispotismo e della superstizione; in un paese dove gli ultimi vestigi della libertà erano scomparsi; dove gli Stati Generali avevano cessato di ragunarsi; dove i Parlamenti da lungo tempo registravano senza la più lieve rimostranza i più oppressivi editti del Sovrano; dove il valore, lo ingegno, la dottrina sembravano esistere solamente a fine dʼingrandire un solo uomo; dove lʼadulazione era precipuo subietto alla stampa, al pulpito, alla scena; e dove uno deʼ precipui subietti della adulazione era la barbara persecuzione della Chiesa Riformata. Era egli verosimile che sotto cosiffatta tutela e in quella cotale situazione il fanciullo imparasse rispetto verso le istituzioni della sua terra natia? Poteva egli dubitarsi che crescerebbe per essere lo schiavo deʼ Gesuiti e deʼ Borboni, che avrebbe più sinistri pregiudicii—se pure ciò era possibile—che qualunque altro deʼ precedenti Stuardi contro le leggi della Inghilterra? I Whig inoltre non pensavano, che, avuto riguardo alle attuali condizioni della patria, fosse opera in sè stessa inconvenevole dipartirsi dalla ordinaria regola della successione. Opinavano che finchè tale regola rimaneva in vigore, le dottrine dellʼindestruttibile diritto ereditario e della obbedienza passiva piacerebbero alla Corte, verrebbero inculcate dal clero, e rimarrebbero abbarbicate nelle menti del popolo. Seguiterebbe a prevalere la idea che la dignità regia è ordinamento di Dio con significato diverso da quello che sʼintende dicendo ogni altra specie di Governo essere ordinamento di Dio. Era chiaro che finchè questa superstizione non fosse spenta, la Costituzione non avrebbe mai sicurtà: imperocchè una monarchia veramente limitata non può lungo tempo durare in una società che consideri la monarchia come cosa divina, e le limitazioni come trovati umani. Perchè il principato esista in perfetta armonia con le libertà nostre, è mestieri che esso non possa mostrare un titolo più alto e venerando di quello onde noi possediamo le nostre libertà. Il Re va quinci innanzi considerato come magistrato, alto magistrato, a dir vero, e degno di somma onoranza, ma, al pari di tutti gli altri magistrati, soggetto alla legge, e derivante la potestà sua dal cielo in senso non diverso da quello che potrebbe intendersi dicendo che le Camere deʼ Lordi e dei Comuni derivano la potestà loro dal cielo. Il modo migliore a conseguire un così salutare cangiamento sarebbe quello dʼinterrompere il corso della successione. Sotto sovrani i quali reputassero a un dipresso alto tradimento il predicare la non resistenza e la teoria del governo patriarcale, sotto sovrani la cui autorità derivando dalle deliberazioni delle due Camere non sʼinalzasse di sopra alla sua sorgente, vi sarebbe poco pericolo di patire oppressione simile a quella che aveva per due generazioni costretti glʼInglesi a correre alle armi contro gli Stuardi. Per cotali ragionamenti i Whig erano apparecchiati a dichiarare vacante il trono, a provvedervi per mezzo della elezione, e imporre al Principe da loro scelto condizioni tali che fermamente tutelassero il paese contro il pessimo Governo. E oramai era arrivato il tempo di risolvere queste grandi questioni. Allʼalba del dì 22 gennaio la Camera deʼ Comuni era affollata di rappresentanti delle Contee e deʼ borghi. Sui banchi vedevansi molti visi ben noti in quel luogo sotto il regno di Carlo II, ma che non vi sʼerano più veduti sotto il suo successore. Molti di quegli scudieri Tory, e di queʼ bisognosi dipendenti dalla Corte i quali erano stati eletti deputati al Parlamento del 1685, avevano dato luogo ad uomini dello antico partito patriottico, a coloro che avevano strappato di mano alla Cabala il potere, votato lʼAtto dellʼ_Habeas Corpus_, e mandato alla Camera deʼ Lordi la Legge dʼEsclusione. Fra essi era Powle, uomo profondamente versato nella storia e nelle leggi del Parlamento, e dotato di quella specie di eloquenza che si richiede ogni qualvolta gravi questioni si agitano dinanzi a un Senato; e Sir Tommaso Littleton, versato nella politica europea e dotato di forte e sottile logica, con la quale sovente, dopo una lunga seduta, accesi i lumi, aveva ridesta la stanca camera, e deciso dellʼesito della discussione. Eravi anco Guglielmo Sacheverell, oratore, la cui somma abilità parlamentare molti anni dipoi era tema prediletto ai discorsi di quei vecchi che vissero tanto da vedere i conflitti di Walpole e di Pulteney.[636] Con questi illustri uomini vedevasi Sir Roberto Clayton, il più ricco mercatante di Londra, il cui palazzo nel Ghetto Vecchio vinceva per magnificenza le magioni aristocratiche di Lincolnʼs Inn Fields e di Covent Garden, la cui villa sorgente tra i colli di Surrey veniva descritta come un Eden, i cui banchetti gareggiavano con quelli deʼ Re, e la cui giudiciosa munificenza, della quale fanno tuttora testimonio molti pubblici monumenti, lo avevano reso degno di occupare negli annali della Città un posto secondo solamente a quello di Gresham. Nel Parlamento che nel 1681 si tenne in Oxford, Clayton, come rappresentante la metropoli e ad istanza deʼ suoi elettori, aveva chiesto licenza di presentare la Legge dʼEsclusione, ed era stato secondato da Lord Russell. Nel 1685, la Città privata delle sue franchigie e governata dalle creature della Corte, aveva eletto quattro rappresentanti Tory. Ma ora le erano stati resi i perduti privilegi, ed aveva nuovamente eletto Clayton per acclamazione.[637] Nè deve tacersi di Giovanni Birch. Aveva incominciata la vita facendo il carrettiere, ma nelle guerre civili, lasciato il suo baroccio, si era fatto soldato, e inalzato al grado di Colonnello nello esercito della repubblica, aveva in alti uffici fiscali mostrato grande ingegno per gli affari, e comechè serbasse fino allo estremo suo dì i ruvidi modi del dialetto plebeo della sua giovinezza, mercè il suo vigoroso buon senso e il suo naturale acume, erasi acquistato tanta reputazione nella Camera deʼ Comuni da essere considerato qual formidabile avversario daʼ più compiti oratori del suo tempo.[638] Questi erano i più cospicui fraʼ veterani, i quali dopo un lungo ritiro ritornavano alla vita pubblica. Ma tosto furono vinti da due giovani Whig, i quali in cotesto solenne giorno sedevano per la prima volta nella Camera; inalzaronsi poi ai più alti onori dello Stato, fecero fronte alle più feroci procelle delle fazioni, ed avendo per lungo tempo goduta somma rinomanza di statisti, dʼoratori, e di magnifici protettori deglʼingegni e del sapere, morirono nello spazio di pochi mesi, tosto dopo che la Casa di Brunswick ascese al trono dʼInghilterra. Costoro chiamavansi Carlo Montague e Giovanni Somers. È dʼuopo fare menzione dʼun altro nome, dʼun nome allora noto a un piccolo drappello di filosofi, ma adesso pronunciato di là dal Gange e dal Mississipì con riverenza maggiore di quella che il mondo tributa alla memoria dei grandissimi guerrieri e regnatori. Fra la folla dei rappresentanti che stavansi in silenzio vedevasi la maestosa e pensosa fronte dʼIsacco Newton. La famosa Università sulla quale il genio di lui aveva già incominciato ad imprimere un carattere peculiare, tuttora chiaramente visibile dopo lo spazio di centosessanta anni, lo aveva mandato suo rappresentante alla Convenzione; ed egli vi sedeva nella sua modesta grandezza, discreto ma incrollabile amico della libertà civile e religiosa. XXXIV. Il primo atto della Convenzione fu quello di eleggere un Presidente; e la elezione da essa fatta indicò manifestissimamente la opinione che aveva rispetto alle grandi questioni che doveva risolvere. Fino alla vigilia dellʼapertura delle Camere era bene inteso che Seymour sarebbe chiamato al seggio presidenziale. Ei lo aveva già per vari anni occupato, aveva titoli insigni e diversi a quella onorificenza, nobiltà di sangue, opulenza, sapere, esperienza, facondia. Aveva da lunghi anni capitanato una potente schiera di rappresentanti delle Contee occidentali. Benchè fosse Tory, nellʼultimo Parlamento sʼera messo con notevole abilità e coraggio, a capo della opposizione contro il papismo e la tirannide. Era uno deʼ gentiluomini che primi accorsero al quartiere generale degli Olandesi in Exeter, e aveva formata quella lega, per vigore della quale i fautori del Principe sʼerano vicendevolmente vincolati a vincere o morire insieme. Ma poche ore innanzi lʼapertura delle Camere, corse la voce che Seymour era avverso a dichiarare vacante il trono. Appena, quindi, i banchi furono ripieni, il Conte di Wiltshire, che rappresentava la Contea di Hamp, levossi e propose Powle a presidente. Sir Vere Fane, rappresentante di Kent, secondò la proposta. Poteva farsi una ragionevole obiezione, perocchè si sapeva che una petizione doveva essere presentata contro la elezione di Powle; ma il grido generale della Camera lo chiamò al seggio; e i Tory reputarono prudente assentire.[639] Il bastone fu quindi posto sul banco; si lesse la lista deʼ rappresentanti, e i nomi di coloro che mancavano furono notati. Intanto i Pari, in numero di circa cento, sʼerano adunati, avevano eletto Halifax a presidente, e nominato vari reputati giureconsulti a fare lʼufficio che negli ordinari Parlamenti spetta ai Giudici. Per tutto quel giorno vi fu frequente comunicazione tra le due Camere. Furono dʼaccordo a pregare il Principe seguitasse ad amministrare il governo finchè gli farebbero sapere le deliberazioni loro, a significargli la loro gratitudine dʼavere egli, con lʼaiuto di Dio, liberata la nazione, e a stabilire che il 31 gennaio si osservasse come giorno di ringraziamento per la liberazione.[640] Fin qui non era differenza alcuna di opinione: ma ambedue le parti apparecchiavansi alla lotta. I Tory erano forti nella Camera Alta, e deboli nella Bassa; e sʼaccorgevano che in quella congiuntura la Camera che fosse prima a prendere una risoluzione avrebbe gran vantaggio sopra lʼaltra. Non vʼera la più lieve probabilità che i Comuni mandassero ai Lordi un voto a favore del disegno dʼistituire una Reggenza: ma ove tal voto dai Lordi fosse mandato ai Comuni, non era onninamente impossibile che molti rappresentanti, anco Whig, inchinassero ad assentire più presto che incorrere nella grave responsabilità di far nascere discordia e indugio in una crisi che richiedeva unione e prestezza. I Comuni avevano deliberato che lunedì 28 di gennaio prenderebbero in considerazione le condizioni del paese. I Lordi Tory, perciò, proposero di discutere, nel venerdì 25, intorno al grande affare pel quale erano stati convocati. Ma le cagioni che a ciò li movevano furono chiaramente conosciute, e la loro tattica frustrata da Halifax, il quale dopo il suo ritorno da Hungerford aveva sempre veduto che il governo poteva riordinarsi solo a seconda deʼ principii deʼ Whig, e però sʼera temporaneamente con costoro collegato. Devonshire propose che il martedì 29 fosse il giorno stabilito. «Allora» disse egli con più verità che discernimento «potrebbe venirci dalla Camera Bassa qualche lume che ci servisse di guida.» La proposta fu approvata: ma le sue parole vennero severamente censurate da alcuni deʼ suoi confratelli come offensive alla dignità dellʼordine loro.[641] XXXV. Il dì 28 i Comuni si formarono in Comitato generale. Un rappresentante, il quale trenta e più anni innanzi era stato uno deʼ Lordi di Cromwell, voglio dire Riccardo Hampden figlio dello illustre condottiero delle Testerotonde e padre dello sventurato gentiluomo, il quale con dispendiosi donativi ed abiette sommissioni aveva a mala pena campata la vita dalla vendetta di Giacomo, fu posto nel seggio; e il grande dibattimento ebbe principio. In breve ora si vide che da una immensa maggioranza Giacomo non era più considerato come Re. Gilberto Dolben, figlio dello Arcivescovo di York, fu il primo a dichiarare la propria opinione. Fu sostenuto da molti, e in ispecie dallo audace e virulento Wharton; da Sawyer, il quale, facendo vigorosa opposizione alla potestà di dispensare, aveva in alcun modo scontato le antiche colpe; da Maynard, la cui voce, quantunque fosse cotanto fievole per la età da non giungere ai banchi distanti, imponeva tuttavia riverenza a tutti i partiti, e da Somers, che nella Sala del Parlamento mostrò per la prima volta in quel giorno luminosa eloquenza e svariata erudizione. Sir Guglielmo Williams con la sua fronte di bronzo e la sua lingua volubile sosteneva la predetta opinione. Era già stato profondamente implicato in tutti gli eccessi dʼuna pessima opposizione e dʼun pessimo governo. Aveva perseguitati glʼinnocenti papisti e i protestanti innocenti; era stato protettore dʼOates e strumento di Petre. Il suo nome era associato con una sediziosa violenza che tutti i rispettabili Whig con rincrescimento e vergogna ricordavano, e con gli eccessi del dispotismo aborriti dai Tory rispettabili. Non è facile intendere in che modo gli uomini possano vivere sotto il pondo di cotanta infamia: ma anche tanta infamia non bastava ad opprimere Williams. Non arrossì di vituperare il caduto padrone, al quale erasi venduto per far cose tali che nessun uomo onesto del ceto legale avrebbe mai fatte, e dal quale dopo sei mesi aveva ricevuta la dignità di baronetto come ricompensa di servilità. Tre soli si rischiarono di opporsi a quella che evidentemente era opinione universale di tutta lʼassemblea. Sir Cristoforo Musgrave, gentiluomo Tory di gran conto ed abilità, espresse alcuni dubbi. Heneage Finch si lasciò uscire di bocca alcune parole, le quali erano intese a insinuare si aprissero pratiche col Re. Questo suggerimento fu così male accolto, chʼegli fu costretto a spiegarsi. Protestò dʼessere stato franteso, esser convinto che sotto un tale Principe non sarebbero sicure la religione, la libertà, le sostanze; richiamare Re Giacomo e secolui trattare, essere un fatale provvedimento; ma molti che non consentivano chʼegli esercitasse la potestà regia, scrupoleggiare nel volerlo privare del regio titolo. Lʼunico espediente che poteva far cessare ogni difficoltà era lʼistituire una Reggenza. La proposta piacque sì poco che Finch non ebbe animo di chiedere si ponesse ai voti. Riccardo Fanshaw, Visconte Fanshaw del Regno dʼIrlanda, disse poche parole a favore di Giacomo e propose la discussione si aggiornasse; ma la proposta provocò universale riprovazione. I rappresentanti, lʼuno dopo lʼaltro, affaccendavansi a mostrare la importanza del far presto. Dicevano i momenti essere preziosi, intensa la pubblica ansietà, sospeso il commercio. La minoranza con tristo animo si sobbarcò, lasciando che il partito predominante procedesse per la intrapresa via. XXXVI. Quale sarebbe stata questa via non si poteva chiaramente conoscere: avvegnachè la maggioranza si componesse di due classi dʼuomini. Gli uni erano ardenti e virulenti Whig, i quali ove fossero lasciati liberi dʼogni intoppo avrebbero dato ai procedimenti della Convenzione un carattere affatto rivoluzionario. Gli altri ammettevano la necessità dʼuna rivoluzione, ma la consideravano come un necessario male, e desideravano mascherarla, per quanto fosse possibile, con la sembianza della legittimità. I primi richiedevano si riconoscesse distintamente nei sudditi il diritto di detronizzare i principi; i secondi desideravano di liberare la patria da un cattivo principe senza promulgare alcun principio di cui si potesse fare abuso a fine di indebolire la giusta e salutare autorità deʼ futuri monarchi. Gli uni discorrevano principalmente del mal governo del Re; gli altri della sua fuga. Quegli lo consideravano come decaduto; questi pensavano chʼegli avesse abdicato. Non era agevole formulare un pensiero in modo da essere approvato da coloro il cui assenso era importante; ma in fine dei molti suggerimenti che si facevano da tutte le parti, formarono una deliberazione che riuscì a tutti soddisfacente. Fu proposto si dichiarasse, che il Re Giacomo II, intento a distruggere la Costituzione del Regno, rompendo il primitivo contratto tra Re e popolo, e pei consigli deʼ Gesuiti e di altri malvagi uomini avendo violato le leggi fondamentali, ed essendo fuggito dal Regno, aveva abdicato il governo, per la quale cosa il trono era divenuto vacante. Questa deliberazione è stata spesso sottoposta a critica sottile e severa quanto non lo fu mai sentenza alcuna scritta dalla mano dellʼuomo: e forse non vi fu mai sentenza umana che sia meno meritevole di siffatta critica. Che un Re facendo grave abuso del proprio potere possa perderlo, è vero. Che un Re che fugga senza provvedere al Governo e lasci i suoi popoli in istato dʼanarchia, possa senza molta stiracchiatura di parole considerarsi come colui che ha abdicato anche il suo ufficio, è pur vero. Ma nessuno scrittore accurato affermerebbe che il tristo governo lungamente continuato e la diserzione, congiunti insieme, costituiscano un atto dʼabdicazione. È del pari evidente che il rammentare i Gesuiti e gli altri sinistri consiglieri di Giacomo indebolisce, invece di afforzare, il caso contro lui. Perciocchè certo eʼ si deve maggiore indulgenza ad un uomo traviato da perniciosi consigli, che ad un uomo il quale per semplice tendenza di sua indole commetta il male. Non importa ciò nonostante esaminare coteste memorande parole come esamineremmo un capitolo dʼAristotele o di Hobbes; esse vanno considerate non come parole, ma come fatti. Se producono ciò che devono, sono ragionevoli ancorchè possano sembrare contradittorie. Se falliscono al fine loro, sono assurde quando anche avessero la evidenza dʼuna dimostrazione. La logica non transige. La politica consiste essenzialmente nella transazione. Non è quindi cosa strana che alcuni deʼ più importanti e utili documenti del mondo si annoverino fra i componimenti più illogici che sieno stati mai scritti. Lo scopo di Somers, di Maynard e degli altri cospicui uomini che formularono quella celebre proposta, fu non di lasciare alla posterità un modello di definizione e di partizione, ma di rendere impossibile la ristaurazione dʼun tiranno, e porre sul trono un Sovrano sotto il quale le leggi e la libertà non pericolassero. Questo scopo conseguirono adoperando un linguaggio che in un trattato filosofico verrebbe equamente tacciato di inesattezza e confusione. Poco badavano se la maggiore concordasse con la conclusione, mentre lʼuna procacciava loro duecento voti, e la conclusione altrettanti. Infatti la sola bellezza di quella deliberazione consiste nella sua incoerenza. Conteneva una frase atta a satisfare ogni frazione della maggioranza. Il rammentare il primitivo contratto piaceva ai discepoli di Sidney. La parola abdicazione appagava i politici dʼuna più timida scuola. Erano senza dubbio molti fervidi protestanti i quali rimanevano soddisfatti della censura gettata suʼ Gesuiti. Pel vero uomo di Stato la sola clausula importante era quella che dichiarava vacante il trono; e ove ei potesse farla abbracciare, poco glʼimportava il preambolo. La forza che in tal modo trovossi raccolta rese disperata ogni resistenza. La proposta venne adottata senza voto dalla Commissione. Fu ordinato di farne in sullʼistante la relazione. Powle ritornò al seggio; il bastone fu posto sul banco: Hampden lesse, la Camera assentì alla relazione, e gli ordinò la portasse alla Camera deʼ Lordi.[642] La dimane i Lordi ragunaronsi a buonʼora. I banchi deʼ Pari sì spirituali che secolari erano affollati. Hampden comparve alla sbarra e pose la deliberazione deʼ Comuni nelle mani di Halifax. La Camera Alta si formò in Comitato, e Danby fu fatto presidente. La discussione fu poco dopo interrotta da Hampden che ritornava con un altro messaggio. La Camera riprese la seduta: fu annunziato che i Comuni avevano reputato incompatibile con la sicurezza e col bene di questa nazione protestante lʼessere governata da un Re papista. A questa deliberazione, evidentemente inconciliabile con la dottrina dello indestruttibile diritto ereditario, i Pari dettero immediato e unanime assenso. Questo principio in tal guisa affermato, da allora fino ad oggi è stato tenuto sacro da tutti gli statisti protestanti, e da tutti i cattolici ragionevoli non è stato creduto soggetto ad obiezioni. Se i nostri sovrani fossero al pari del presidente degli Stati Uniti, semplici ufficiali civili, non sarebbe facile difendere tale restrizione. Ma dacchè alla Corona inglese è annessa la qualità di capo della Chiesa Anglicana, non vʼè intolleranza nel dire che una Chiesa non dovrebbe essere soggetta ad un capo che la consideri come scismatica ed eretica.[643] Dopo questa breve interruzione i Lordi nuovamente formaronsi in Comitato. I Tory insistevano perchè il loro disegno si discutesse prima che venisse preso in considerazione il voto dei Comuni che dichiarava vacante il trono. Ciò fu loro concesso; e fu posta la questione se una Reggenza, esercitando il regio potere, vita durante di Giacomo, ed in suo nome, sarebbe il migliore espediente a salvare le leggi e la libertà della nazione. La disputa fu lunga ed animata. I principali propugnatori della Reggenza erano Rochester e Nottingham. Halifax e Danby difendevano la contraria opinione. Il Primate—strano a dirsi!—non comparve, quantunque i Tory vivamente lo importunassero perchè si ponesse a capo loro. La sua assenza gli provocò contro molte aspre censure; e gli stessi suoi apologisti non hanno potuto addurre alcuna ragione che lo purghi del biasimo.[644] Era egli lʼautore del disegno dʼistituire una Reggenza. Pochi giorni innanzi in un foglio scritto di sua mano aveva asserito quel disegno essere manifestamente il migliore che si potesse trovare. Le deliberazioni dei Lordi i quali lo sostenevano avevano avuto luogo in casa di lui. Era suo debito dichiarare in pubblico i propri intendimenti. Nessuno potrebbe tenerlo in sospetto di codardia o di volgare cupidigia. Eʼ fu probabilmente per paura di far male in cosa di tanto momento chʼegli non fece nulla; ma avrebbe dovuto sapere che un uomo nella sua posizione, non facendo nulla, faceva male. Un uomo che abbia scrupolo di assumere grave responsabilità in una solenne crisi, dovrebbe averlo parimenti ad accettare lʼufficio di primo ministro della Chiesa e primo Pari del Regno. Non è strana cosa, nondimeno, che la mente di Sancroft non fosse tranquilla; imperocchè egli non poteva essere tanto cieco da non vedere che il disegno da lui agli amici suoi proposto era estremamente incompatibile con tutto ciò che egli e i suoi confratelli avevano per molti anni insegnato. Che il Re avesse diritto divino e indistruttibile al potere regio, e che al potere regio, anche quando ne venga fatto enorme abuso, non si potesse senza peccato opporre resistenza, era dottrina della quale la Chiesa Anglicana andava da lunghi anni orgogliosa. Questa dottrina significava ella in queʼ tempi che il Re aveva un divino e indistruttibile diritto ad avere la effigie e il nome suo intagliati sopra un sigillo, che doveva quotidianamente adoperarsi, suo malgrado, onde apprestare ai suoi nemici i mezzi di fargli la guerra, e mandare gli amici di lui alle forche come rei di avergli obbedito? Tutto il debito di un buon suddito consisteva egli nellʼusare il vocabolo Re? Così essendo, Fairfax in Naseby e Bradshau nellʼAlta Corte di Giustizia avevano adempito tutti i doveri di buoni sudditi: imperciocchè Carlo dai Generali che gli guerreggiavano contro, ed anche daʼ giudici che lo condannarono, veniva chiamato Re. Nulla nella condotta del Lungo Parlamento era stato più severamente biasimato dalla Chiesa che lʼingegnoso artificio di usare il nome di Carlo contro Carlo stesso. A ciascuno deʼ ministri della Chiesa era stato imposto di firmare una dichiarazione che condannava come proditoria la finzione onde lʼautorità del Sovrano veniva separata dalla sua persona.[645] Eppure cotesta proditoria finzione era adesso considerata dal Primate e daʼ suoi suffraganei come la sola base sopra la quale, in stretta uniformità ai principii del Cristianesimo, si potesse erigere un governo. La distinzione che Sancroft aveva preso dalle Testerotonde della precedente generazione, sovvertiva dalle fondamenta il sistema politico che la Chiesa e le Università pretendevano avere imparato daʼ libri di San Paolo. Lo Spirito Santo—era stato le mille volte ridetto—aveva comandato ai Romani dʼobbedire a Nerone. Ed ora parea che tale precetto significasse che i Romani dovessero chiamare Nerone Augusto. Erano perfettamente liberi di cacciarlo oltre lʼEufrate, mandarlo a mendicare fraʼ Parti, opporgli la forza ove avesse tentato di ritornare, punire tutti coloro che osassero aiutarlo e tenere con lui corrispondenza, e concedere la potestà tribunizia e la consolare, la presidenza del Senato e il comando delle Legioni a Galba o a Vespasiano. Lʼanalogia che lo Arcivescovo immaginò dʼavere scoperta tra il caso di un Re perverso e quello di un Re maniaco non è degna del più lieve esame. Era chiaro non trovarsi Giacomo in quello stato di mente in cui, ove egli fosse stato un gentiluomo rurale o un mercatante, qualunque tribunale lo avrebbe dichiarato inetto a fare un contratto o un testamento. Egli era dissennato nel modo che lo sono tutti i Re malvagi; come era Carlo I quando andò ad arrestare i cinque rappresentanti deʼ Comuni; Carlo II quando concluse il trattato di Dover. Se questa sorte dʼinfermità mentale non giustifica i sudditi che negano dʼobbedire ai principi, il disegno dʼistituire una Reggenza era evidentemente inammissibile; se giustifica i sudditi che negano dʼobbedire ai principi, la dottrina della non resistenza era pienamente rovesciata; e tutto ciò per cui ogni moderato Whig aveva lottato trovavasi pienamente ammesso. Quanto al giuramento di fedeltà, pel quale Sancroft e i suoi discepoli provavano tanta ansietà, una cosa almeno è chiara, cioè che, chiunque avesse ragione, essi avevano torto. I Whig pensavano che nel giuramento dʼobbedienza erano sottintese certe condizioni, che il Re le aveva violate, e quindi il giuramento era divenuto nullo. Ma se la dottrina deʼ Whig era falsa, se il giuramento seguitava ad essere obbligatorio, potevano veramente credere gli uomini assennati che votando la Reggenza scanserebbero la colpa di spergiuri? Potevano essi affermare che rimanevano veramente fidi a Giacomo mentre, in onta alle proteste chʼegli faceva al cospetto di tutta Europa, essi davano ad altri la potestà di riscuotere la pubblica pecunia, convocare e prorogare il Parlamento, creare Duchi e Conti, nominare Vescovi e Giudici, graziare i rei, comandare le forze dello Stato, e concludere trattati con le Potenze straniere? Aveva egli il Pascal potuto trovare, in tutte le frenesie deʼ casisti gesuiti, un sofisma più spregevole di quello che adesso, a quanto parea, bastava a calmare le coscienze deʼ Padri della Chiesa Anglicana? Era evidentissimo che il disegno dʼinstituire una Reggenza non si poteva difendere che coi principii dei Whig. Tra i ragionatori che sostenevano quel disegno e la maggioranza della Camera deʼ Comuni non vi poteva essere disputa circa la questione del diritto. Eʼ non rimaneva altro che la questione dellʼutilità. E poteva un grave uomo di Stato pretendere essere utile costituire un governo con due capi, dando ad uno il regio potere senza la dignità regia, e allʼaltro la dignità regia senza il regio potere? Era chiaro che un simile ordinamento, anche reso necessario dalla infanzia o dalla demenza del Principe, recava seco gravissimi inconvenienti. Che i tempi di Reggenza fossero tempi di debolezza, di perturbamenti e di disastri, era verità provata dalla intera storia dʼInghilterra, di Francia, e di Scozia, ed era quasi divenuta proverbio. Pure, in un caso dʼinfanzia o di demenza, il Re per lo meno era passivo. Non poteva di fatto controbilanciare il Reggente. Ciò che ora proponevasi era che la Inghilterra avesse due primi magistrati dʼetà matura e di mente sana, che vicendevolmente si facessero implacabile guerra. Era assurdo discorrere di lasciare a Giacomo il nudo nome di Re e privarlo al tutto del potere regio; perocchè il nome era parte di quel potere; il vocabolo Re era parola di prestigio. Nella mente di molti Inglesi era congiunto con la idea di un carattere misterioso derivato dal cielo, e nella mente di quasi tutti glʼInglesi con la idea di autorità legittima e veneranda. Certo se il titolo aveva tanto potere, coloro i quali sostenevano che Giacomo dovesse essere privato dʼogni potere, non potevano negare chʼegli dovesse essere privato del titolo. E fino a quando doveva egli durare lo strano governo proposto da Sancroft? Tutti gli argomenti che potevano addursi per istituirlo, si potevano con uguale forza addurre per mantenerlo sino alla fine deʼ secoli. Se il pargoletto trasportato in Francia era veramente nato dalla Regina, doveva ereditare il divino e inalienabile diritto di essere chiamato Re. Il medesimo diritto probabilmente sarebbe stato trasmesso di papista in papista per glʼinteri secoli decimottavo e decimonono. Ambo le Camere avevano ad unanimità deliberato non dovere la Inghilterra essere governata da un papista. Poteva quindi darsi che di generazione in generazione il governo seguitasse ad essere amministrato da Reggenti a nome di Re raminghi e mendicanti. Non era dubbio che i Reggenti dovessero essere eletti dal Parlamento. Lo effetto, dunque, di questo disegno, trovato a serbare intatto il sacro principio della monarchia ereditaria, sarebbe stato quello di rendere elettiva la monarchia. Unʼaltra invincibile ragione fu addotta contro il disegno di Sancroft. Era nel libro degli Statuti una legge fatta tosto dopo la lunga e sanguinosa contesa tra la Casa di York e quella di Lancaster, a fine dʼevitare che si rinnovassero le calamità che le vicendevoli vittorie delle predette Case avevano cagionato ai Nobili e gentiluomini del reame. Questa legge provvedeva che niuno, aderendo al Re in possesso del trono, incorrerebbe nelle pene di tradigione. Allorquando i regicidi furono processati dopo la Restaurazione, taluni di loro insisterono per essere giudicati secondo quella legge. Dicevano dʼavere obbedito al governo esistente di fatto, e però non essere traditori. I giudici ammisero che tale difesa sarebbe stata buona ove gli accusati avessero agito sotto lʼautorità di un usurpatore, il quale, come Enrico IV e Riccardo III, portasse il titolo di Re, ma dichiararono che non poteva giovare ad uomini i quali accusarono, condannarono e giustiziarono uno che nellʼatto dellʼaccusa, della sentenza e della esecuzione, era designato col nome di Re. Ne seguiva quindi che chiunque sostenesse un Reggente in opposizione a Giacomo, correrebbe gran rischio di essere impiccato, trascinato e squartato, ove Giacomo ricuperasse il potere sovrano; ma nessuno, senza violare la legge in modo tale che forse nè anche Jeffreys si rischierebbe ad usare, potrebbe essere punito aderendo ad un Re che regnava, quantunque contro ogni diritto, in Whitehall contro un Re legittimo il quale era esule in Saint–Germain.[646] Eʼ pare che i sopra esposti argomenti non ammettessero risposta; e furono energicamente addotti da Danby il quale aveva arte maravigliosa a rendere chiara alla più torpida mente ogni cosa chʼei prendeva a dimostrare, e da Halifax il quale per abbondanza di concetti e splendore di locuzione non era pareggiato da nessuno fra gli oratori di quella età. Nondimeno erano così potenti e numerosi i Tory nella Camera Alta, che, nonostante la debolezza della causa loro, la diserzione del loro capo, e lʼabilità deʼ loro oppositori, furono presso a trionfare in quel giorno. I votanti erano cento. Quarantanove votarono per la Reggenza, cinquantuno contro. Colla minoranza erano i figli naturali di Carlo, i cognati di Giacomo, i Duchi di Somerset e dʼOrmond, lo Arcivescovo di York e undici vescovi. Nessuno deʼ prelati, salvo Compton e Trelawney, votò con la maggioranza.[647] Erano vicine le ore nove della sera quando fu levata la seduta nella Camera deʼ Lordi. Il dì che seguiva era il 30 gennaio, anniversario della morte di Carlo I. Il clero anglicano per molti anni aveva reputato debito sacro inculcare in quel giorno le dottrine della non resistenza e della obbedienza passiva. Ora i suoi vecchi sermoni giovavano poco; e molti teologi perfino dubitavano se potessero rischiarsi a leggere per intero la liturgia. La Camera Bassa aveva dichiarato vacante il trono. LʼAlta non aveva per anche espressa alcuna opinione. Non era quindi facile cosa decidere se si dovessero recitare le preci pel Sovrano. Ogni ministro nel compiere i divini uffici seguì il proprio talento. Nella più parte delle chiese della metropoli le preghiere per Giacomo furono omesse: ma in Santa Margherita, Sharp Decano di Norwich, richiesto di predicare dinanzi ai Comuni, non solo lesse in faccia a loro lʼintero servizio come era scritto nel libro, ma prima di incominciare il sermone invocò con sue proprie parole il cielo perchè benedicesse il Re, e verso la fine del suo discorso declamò contro la dottrina gesuitica che insegnava potere i principi essere legalmente detronizzati dai loro sudditi. Quel dì stesso il Presidente alla Camera mosse querela di tal affronto dicendo: «Voi un giorno votate un provvedimento, e il dì dopo viene contraddetto dal pulpito al cospetto vostro.» Sharp fu energicamente difeso dai Tory, e trovò amici anche fraʼ Whig: imperocchè rammentavano tuttavia chʼegli aveva corso gravissimo pericolo allorquando nei tristi tempi ebbe il coraggio, malgrado il divieto del Re, di predicare contro il papismo. Sir Cristoforo Musgrave ingegnosissimamente notò non avere la Camera ordinato la pubblicazione della deliberazione che dichiarava vacante il trono. Sharp adunque non solo non era tenuto a saperla, ma non ne avrebbe potuto parlare senza violare i privilegi parlamentari, pel quale attentato avrebbe corso rischio di essere chiamato alla sbarra e prostrato sulle proprie ginocchia sostenere una riprensione. La maggioranza conobbe non essere savio partito in quel momento attaccar lite col clero; e troncò la questione.[648] Mentre i Comuni discutevano intorno al sermone di Sharp, i Lordi si erano di nuovo costituiti in Comitato per considerare le condizioni del paese, ed avevano ordinato che venisse paragrafo per paragrafo letta la deliberazione che dichiarava vacante il trono. La prima espressione che fece nascere una disputa era dove si ammetteva il contratto originale tra Re e popolo. Non era da aspettarsi che i Pari Tory lasciassero passare una frase che conteneva la quintessenza delle opinioni deʼ Whig. Si venne ai voti; e risultò con cinquantatre favorevoli sopra quarantasei contrari che le controverse parole rimarrebbero. Presero poscia in considerazione il severo biasimo che i Comuni avevano dato al governo di Giacomo e fu unanimemente approvato. Sorse qualche obiezione verbale contro la proposizione in cui si affermava che Giacomo aveva abdicato. Fu proposto si correggesse con dire chʼegli aveva abbandonato il Governo. Questa emenda fu abbracciata, a quanto sembra, quasi senza dibattimento nè votazione. Essendo già tardi, i Lordi aggiornarono la tornata.[649] XXXVII. Fin qui la piccola schiera dei Pari, guidati da Danby, aveva agito dʼaccordo con Halifax e coi Whig. Tale unione aveva fatto sì che il disegno dʼinstituire una Reggenza era stato rigettato, ed abbracciata la dottrina del contratto originale. La proposizione che Giacomo aveva cessato dʼessere Re era stata il punto di congiunzione deʼ due partiti che formavano la maggioranza. Ma da quel punto lʼuno dallʼaltro divergeva. La questione che doveva poscia risolversi era, se il trono fosse da considerarsi vacante; questione non di semplici parole, ma di grave importanza pratica. Se il trono era vacante, gli Stati del reame potevano darlo a Guglielmo. Se non era vacante, ei poteva succedere soltanto dopo la sua consorte, la Principessa Anna e i discendenti di lei. Secondo i seguaci di Danby era massima stabilita non potere la patria nostra nemmeno per un istante trovarsi senza legittimo Principe. Lʼuomo poteva morire; ma il magistrato era immortale. Lʼuomo poteva abdicare; ma il magistrato era irremovibile. Se noi—ragionavano essi—una volta ammettiamo il trono essere vacante, ammettiamo che la nostra monarchia è elettiva. Il monarca che vi poniamo diventa un Sovrano non secondo la forma dʼInghilterra, ma secondo quella di Polonia. Quando anche scegliessimo lʼindividuo stesso destinato a regnare per diritto di nascita, quellʼindividuo tuttavia regnerebbe non per diritto di nascita, ma per virtù della nostra elezione, e prenderebbe come dono ciò che dovrebbe considerarsi retaggio. La salutare riverenza tributata finora al sangue regio e allʼordine della primogenitura verrebbe grandemente scemata. Il male si farebbe anco maggiore se noi non solo dessimo il trono per elezione; ma lo dessimo a un principe il quale indubitatamente avesse i requisiti di un grande ed ottimo regnatore, e il quale ci avesse maravigliosamente liberati, ma non fosse primo e nè anco secondo nellʼordine della successione. Se una volta diciamo che il merito, ancorchè eminente, è un diritto per acquistare la Corona, distruggiamo i fondamenti del nostro ordinamento politico, e stabiliamo un esempio, del quale ogni guerriero o statista ambizioso che avesse reso grandi servigi al pubblico sarebbe tentato a giovarsi. Questo pericolo scansiamo seguendo logicamente i principii della Costituzione fino alle ultime conseguenze loro. Lo accesso alla Corona era aperto come alla morte del principe regnante: da quel momento medesimo il più prossimo erede diventò nostro legittimo Sovrano. Noi consideriamo la Principessa dʼOrange come la più prossima erede, sosteniamo quindi che si debba senza il minimo indugio proclamare, quale è difatto, nostra Regina. I Whig rispondevano essere scempiezza applicare le regole ordinarie ad un paese in istato di rivoluzione, la gran questione non doversi decidere coi dettati deʼ pedanti curiali, e dovendosi a quel modo decidere, quei dettati potersi da ambe le parti addurre. Se era massima di legge che il trono non poteva essere giammai vacante, era parimente massima di legge che un uomo non poteva avere un erede, che, lui vivente, succeda. Giacomo era vivente. In che modo adunque la Principessa dʼOrange poteva ella succedergli? Vero era che le leggi dellʼInghilterra avevano pienamente provveduto alla successione nel caso in cui il potere dʼun sovrano e la sua vita naturale finissero ad un tempo, ma non avevano provveduto peʼ casi in cui il suo potere cessasse innanzi chʼegli finisse di vivere; e la Convenzione ora doveva risolvere uno di questi rarissimi casi. Che Giacomo non possedeva più il trono, ambedue le Camere avevano dichiarato. Nè il diritto comune nè gli statuti designavano individuo alcuno che avesse diritto ad ascendere sul trono nel tempo che intercedeva tra la decadenza del Re e la sua morte. Ne seguiva dunque che il trono era vacante, e che le Camere potevano invitare il Principe dʼOrange ad ascendervi. Chʼegli non fosse il più prossimo erede nellʼordine della discendenza, era vero: ma ciò non nuoceva punto, anzi era un positivo vantaggio. La monarchia ereditaria era una buona istituzione politica, ma non era in nulla più sacra delle altre buone istituzioni politiche. Sventuratamente i bacchettoni e servili teologi lʼavevano fatta diventare mistero religioso, imponente e incomprensibile quasi al pari della transustanzazione. Primissimo scopo degli statisti inglesi doveva essere quello di mantenere la istituzione e a un tempo distrigarla dalle abiette e malefiche superstizioni fra le quali dianzi era stata involta, sì che invece di essere un bene riusciva dannosa alla società; e a cotesto scopo si giungerebbe meglio, pria deviando alquanto e per un tempo dalla regola generale della discendenza, per poscia ritornarvi. XXXVIII. Molti sforzi furono fatti per impedire ogni aperta rottura tra i partigiani dei Principe e quei della Principessa. Si tenne unʼadunanza in casa del Conte di Devonshire, e vi fu caldo contendere. Halifax era il precipuo propugnatore di Guglielmo, Danby lo era di Maria. Danby non conosceva punto lo intendimento di Maria. Da qualche tempo era aspettata in Londra, ma lʼavevano trattenuta in Olanda prima i massi di ghiaccio che impedivano il corso deʼ fiumi, e, strutto il ghiaccio, i venti che spiravano forte da ponente. Se ella fosse giunta più presto, la contesa probabilmente si sarebbe a un tratto calmata. Halifax dallʼaltro canto non aveva potestà di dire alcuna cosa in nome di Guglielmo. Il Principe, fedele alla promessa di lasciare alla Convenzione lʼincarico di riordinare il governo, sʼera tenuto in impenetrabile riserbo e non sʼera lasciato sfuggire parola, sguardo o gesto, che esprimesse satisfazione o dispiacere. Uno degli Olandesi fidatissimo del Principe, invitato allʼadunanza, fu dai Pari istantemente sollecitato desse loro qualche informazione. Ei si scusò lungamente. Infine cedè alle loro istanze sino a dire: «Io altro non posso che indovinare lo intendimento di Sua Altezza. Se desiderate sapere ciò che io ne indovino, credo che egli non amerà mai dʼessere il ciamberlano di sua moglie: del resto non so nulla.»—«E non per tanto adesso io ne so qualcosa» disse Danby, «ne so abbastanza, ne so molto.» Quindi si partì, e lʼassemblea si disciolse.[650] Il dì 31 gennaio la disputa che privatamente era finita nella sopra narrata guisa, fu pubblicamente rinnovata nella Camera deʼ Pari. Quel giorno era stato stabilito come solennità di rendimento di grazie. Vari vescovi, fraʼ quali erano Ken e Sprat, avevano composta una forma di preghiera adatta alla circostanza. È al tutto libera dalla adulazione e dalla malignità onde spesso in quella età erano deturpati simili componimenti; e meglio di qualunque altra forma di preghiera fatta per occasione speciale nello spazio di due secoli, sostiene il paragone con quel gran modello di casta, alta e patetica eloquenza, cioè col Libro delle Preghiere Comuni. I Lordi la mattina si condussero allʼabadia di Westminster. I Comuni avevano desiderato che Burnet predicasse in Santa Margherita. Non era verosimile chʼegli cadesse nel medesimo errore che il dì precedente in quello stesso luogo altri aveva commesso. Non è dubbio che il suo vigoroso ed animato discorso ponesse in commovimento gli uditori. Non solo fu stampato per ordine della Camera, ma tradotto in francese per edificazione dei protestanti stranieri.[651] Il giorno si chiuse con le feste consuete in simili solennità. Tutta la città risplendeva con fuochi di gioia e luminarie: il rimbombo deʼ cannoni e il suono delle campane durò fino a notte inoltrata: ma innanzi che i lumi fossero spenti e le strade in silenzio, era seguito un evento che raffreddò la pubblica esultanza. XXXIX. I Pari dallʼAbadia andati alla Camera avevano ripresa la discussione sopra le condizioni della nazione. Le ultime parole della deliberazione deʼ Comuni vennero prese in considerazione; e tosto chiaramente si vide che la maggioranza non era inchinevole ad approvarle. Ai circa cinquanta Lordi i quali sostenevano che il titolo di Re apparteneva sempre a Giacomo si aggiunsero altri sette o otto i quali dianzi volevano che fosse già devoluto a Maria. I Whig vedendosi vinti di numero, si provarono di venire a patti. Proposero di levare le parole che dichiaravano vacante il trono, e di semplicemente proclamare Re e Regina il Principe e la Principessa. Era evidente che tale dichiarazione comprendeva, benchè non lo affermasse espressamente, tutto ciò che i Tory repugnavano a concedere: imperocchè nessuno poteva pretendere che Guglielmo fosse succeduto alla dignità regia per diritto di nascita. Approvare quindi una deliberazione che lo riconoscesse era un atto dʼelezione; e in che guisa poteva esservi elezione senza vacanza? La proposta deʼ Lordi Whig fu rigettata con cinquantadue voti contro quarantasette. Allora posero la questione se il trono fosse vacante. Gli approvanti furono quarantuno, i neganti cinquantacinque. Della minoranza trentasei protestarono.[652] XL. Nei due giorni susseguenti Londra era piena di ansietà e inquietudine. I Tory cominciarono a sperare di potere nuovamente con migliore esito mettere innanzi il loro prediletto disegno dʼinstituire una Reggenza. Forse lo stesso Principe, vedendo perduta ogni speranza di acquistare la Corona, preferirebbe il progetto di Sancroft a quello di Danby. Certo era meglio essere Re che Reggente; ma era anche meglio essere Reggente che Ciamberlano. Dallʼaltro canto la più bassa e feroce classe deʼ Whig, i vecchi emissari di Shaftesbury, e i vecchi complici di College, cominciarono ad affaccendarsi nella città. Si videro turbe affollarsi in Palace Yard, e prorompere in parole di minacce. Lord Lovelace il quale era in sospetto di avere suscitato il tafferuglio, annunziò ai Pari chʼegli aveva lo incarico di presentare una petizione nella quale si domandava che in sullʼistante il Principe e la Principessa dʼOrange venissero dichiarati Re e Regina. Gli fu domandato chi fossero coloro che avevano firmata la petizione. «Nessuno finora vi ha posto la mano» rispose egli, «ma quando ve la porterò, vi saranno mani tante che bastino.» Tale minaccia impaurì e disgustò il suo proprio partito. E veramente i più cospicui Whig avevano, anche più deʼ Tory, bramosia che le deliberazioni della Convenzione fossero perfettamente libere, e che nessuno dei fautori di Giacomo potesse allegare che alcuna delle Camere fosse stata costretta dalla forza. Una petizione simile a quella affidata a Lovelace fu presentata alla Camera dei Comuni, ma venne sprezzantemente respinta. Maynard fu primo a protestare contro la canaglia delle strade che tentava dʼintimorire gli Stati del reame. Guglielmo chiamò a sè Lovelace, lo rimproverò severamente, e ordinò che i magistrati agissero con vigore contro glʼilleciti assembramenti.[653] Non è cosa nella storia della nostra rivoluzione che meriti dʼessere ammirata e tolta ad esempio, quanto il modo onde i due partiti della Convenzione, nel momento in cui più fervevano le loro contese, si congiunsero come un solo uomo per resistere alla dittatura della plebaglia di Londra. XLI. Ma quantunque i Whig fossero pienamente deliberati di mantenere lʼordine e rispettare la libertà deʼ dibattimenti, erano parimente determinati di non fare alcuna concessione. Il sabato, 2 febbraio, i Comuni senza votazione decisero di starsi fermi nella forma primitiva della loro deliberazione. Giacomo, come sempre, venne in aiuto deʼ suoi nemici. Era pur allora arrivata a Londra una lettera di lui diretta alla Convenzione. Era stata trasmessa a Preston dallo apostata Melfort, il quale era grandemente favorito in Saint–Germain. Il nome di Melfort era in abominio ad ogni Anglicano. Lʼessere egli ministro confidente di Giacomo bastava a dimostrare che la costui demenza ed ostinatezza erano infermità incurabili. Nessun membro dellʼuna o dellʼaltra Camera si rischiò a proporre la lettura di un foglio che veniva da quelle cotali mani. Non per tanto il contenuto era ben noto alla città tutta. La Maestà Sua esortava i Lordi e i Comuni a non disperare della sua clemenza, e benevolmente prometteva di perdonare coloro che lo avevano tradito, tranne pochi chʼegli non nominava. Come era egli possibile fare alcuna cosa a pro dʼun Principe, il quale, vinto, abbandonato, bandito, vivente di limosine, diceva a coloro che erano arbitri delle sue sorti, che ove lo ponessero nuovamente sul trono, non impiccherebbe che pochi di loro? XLII. La contesa tra le due Camere durò alcuni altri giorni. Il lunedì 4 di febbraio i Pari deliberarono dʼinsistere sulle loro modificazioni: ma fu messa nel processo verbale una proteste firmata da trentanove membri.[654] Il giorno dopo i Tory pensarono di far prova della forza loro nella Camera Bassa; vi concorsero assai numerosi, e fecero la proposta di assentire alle modificazioni deʼ Lordi. Coloro che erano pel progetto di Sancroft e coloro che erano pel progetto di Danby votarono insieme: ma furono vinti da duecentottantadue voti contro centocinquantuno. La Camera allora deliberò di avere un libero colloquio coi Lordi.[655] Nello stesso tempo potenti sforzi facevansi fuori le mura del Parlamento affine che la contesa fra le due Camere cessasse. Burnet si reputò dalla importanza della crisi giustificato a divulgare le mire secrete confidategli dalla Principessa. Disse sapere dalle labbra di lei, chʼera da lungo tempo pienamente deliberata, anche se il trono le venisse pel corso regolare della discendenza, a porre il potere, assenziente il Parlamento, nelle mani del suo consorte. Danby ricevè da lei una viva e quasi sdegnosa riprensione. Gli scrisse chʼella era la moglie del Principe, che altro non desiderava, se non essere a lui sottoposta; la più crudele ingiuria che le si potesse fare era il controporta a lui come competitrice; e chiunque ciò facesse non verrebbe mai considerato da lei come vero amico.[656] XLIII. Ai Tory rimaneva ancora una speranza. Era possibile che Anna ponesse innanzi i propri diritti e quelli deʼ figli suoi. Provaronsi in tutte le guise a incitare lʼambizione e atterrire la coscienza di lei. Suo zio Clarendon si mostrò a ciò fare operosissimo. Solo poche settimane erano corse da che la speranza della opulenza e della grandezza lo aveva spinto a rinnegare i principii da lui ostentatamente professati per tutta la vita, abbandonare la causa del Re, collegarsi coi Wildman e coi Ferguson, anzi proporre che il Re fosse condotto prigione in terra straniera e rinchiuso in una fortezza cinta di pestilenti maremme. Era stato indotto a tale strana trasformazione dalla brama di essere fatto Vicerè dʼIrlanda. Nonostante, presto si vide che il proselite aveva poca speranza di ottenere il magnifico premio al quale era intento il suo cuore: perocchè intorno agli affari di quellʼisola ad altri chiedevasi consiglio; allʼincontro, quando egli importunamente lʼoffriva, era accolto freddamente. Andò molte volte al palazzo di San Giacomo, ma appena potè ottenere il favore di una parola o dʼuno sguardo. Ora il Principe scriveva; ora aveva mestieri dʼaria e doveva cavalcare pel parco; ora stavasi rinchiuso con gli ufficiali ragionando di faccende militari e non poteva dare ascolto a nessuno. Clarendon si accôrse non essere verosimile di guadagnar nulla col sacrificio deʼ suoi principii e pensò di ripigliarli. In dicembre lʼambizione lo aveva reso ribelle. In gennaio il disinganno lo aveva fatto nuovamente diventare realista. Il rimorso che sentiva nella coscienza di non essere stato Tory costante, diede una speciale acrimonia al suo Torysmo.[657] Nella Camera dei Lordi aveva fatto il possibile a impedire ogni accomodamento. Adesso pel medesimo fine fece prova di tutta la sua influenza sullo spirito della Principessa Anna. Ma cotesta influenza era poca in paragone di quella dei Churchill, i quali accortamente chiamarono in aiuto due potenti collegati, cioè Tillotson, il quale come direttore spirituale aveva in queʼ tempi immensa autorità, e Lady Russell, le cui nobili e care virtù, esposte a crudelissime prove, le avevano acquistata reputazione di santa. Tosto si seppe che la Principessa di Danimarca desiderava che Guglielmo regnasse a vita; e quindi fu chiaro che difendere la causa delle figlie di Giacomo contro loro stesse era disperata impresa.[658] XLIV. Guglielmo intanto giudicò arrivato il tempo di dichiarare lʼanimo suo. Chiamò a sè Halifax, Danby, Shrewsbury e alcuni altri notevolissimi capi politici, e con quellʼaria di stoica apatia, sotto la quale fino da fanciullo sʼera avvezzo a nascondere le più forti emozioni, favellò loro poche parole profondamente meditate e di gran peso. Disse che egli fino allora aveva taciuto; non adoperato sollecitazioni nè minacce, nè anche fatta la minima allusione alle opinioni e ai desiderii suoi: ma ormai il caso era sì critico chʼei reputava necessario dichiarare il proprio intendimento. Non aveva nè diritto nè volontà di dettare alla Convenzione. Tutto ciò che egli pretendeva, altro non era che il privilegio di rifiutare ogni ufficio chʼegli non potesse occupare con onore per sè, ed a beneficio del pubblico. Un forte partito voleva instituire una Reggenza. Spettava alle Camere giudicare se tale provvedimento sarebbe utile alla nazione. In quel subietto egli aveva le sue ferme opinioni; e credeva giusto dire chiaramente chʼegli non voleva essere Reggente. Un altro partito voleva porre la Principessa sul trono, e a lui, vita durante, concedere il titolo di Re e tanta parte nel Governo quanta piacesse alla consorte dargliene. Ei non si abbasserebbe a tanto. Stimava la Principessa quanto era possibile che lʼuomo stimi la donna; ma neanche da lei egli accetterebbe un posto subordinato e precario nel Governo. Era così fatto da non potere starsi legato al grembiule della migliore delle mogli. Non desiderava immischiarsi negli affari della Inghilterra; ma consentendo a prendervi parte, non vʼera che una sola parte chʼegli potesse utilmente ed onorevolmente prendere. Se gli Stati gli offrissero la Corona a vita, ei lʼaccetterebbe. Se no, egli, senza dolersi, ritornerebbe alla terra natia. Concluse dicendo reputare ragionevole che la Principessa Anna e i suoi discendenti, nella successione al trono, venissero preferiti a qualunque figlio ei potesse avere da altra moglie che dalla Principessa Maria.[659] E sciolse la congrega. Le cose dette dal Principe in poche ore furono note a tutta Londra. Era chiaro che doveva essere Re. Lʼunica questione era sapere sʼegli dovesse tenere la dignità regia solo, o insieme con la Principessa. Halifax e pochi altri politici uomini, i quali manifestamente discernevano il pericolo di partire la sovrana potestà esecutiva, desideravano che finchè vivesse Guglielmo, Maria fosse soltanto Regina Consorte e suddita. Ma questo ordinamento, comechè potesse con molte ragioni propugnarsi, urtava il sentimento universale, anche di quegli Inglesi che portavano maggiore affetto al Principe. La sua moglie aveva dato non mai vista prova di sommissione ed amore coniugale; ed il meno che potesse farsi per ricambiarla era conferirle la dignità di Regina Regnante. Guglielmo Herbert, uno deʼ più ardenti fautori del Principe, ne fu tanto esasperato che saltò fuori dal letto, dove egli si stava infermo di podagra, ed energicamente dichiarò che non avrebbe mai snudata la spada se avesse preveduto un sì vergognoso ordinamento. Nessuno quanto Burnet prese la faccenda sul serio. Sentì ribollirsi il sangue nelle vene pensando al torto che volevano fare alla sua diletta protettrice. Rimproverò acremente Bentinck, e chiese licenza di rinunciare allʼufficio di cappellano. «Finchè io sarò servo di Sua Altezza» disse il valoroso ed onesto teologo, «sarà per me inconvenevole avversare alcuna cosa che sia da lui secondata. Desidero quindi dʼessere libero perchè io possa combattere per la Principessa con tutti i mezzi che Dio mi ha dato.» Bentinck persuase Burnet a differire la dichiarazione delle ostilità fino a quando fosse chiaramente nota la risoluzione di Guglielmo. In poche ore il disegno che aveva suscitato tanto risentimento fu abbandonato; e tutti coloro i quali non più consideravano Giacomo come Re, concordarono intorno al modo di provvedere al trono. Era dʼuopo che Guglielmo e Maria fossero Re e Regina; le effigie di ambedue si vedessero congiunte sulle monete; i decreti corressero in nome di entrambi; entrambi godessero tutti gli onori e le immunità personali della sovranità: ma il potere esecutivo, che non poteva senza pericolo partirsi, doveva appartenere al solo Guglielmo.[660] XLV. Giunto il tempo stabilito al libero colloquio fra le due Camere, i Commissari dei Lordi, indossando lʼabito del loro ufficio si assisero da un lato attorno la tavola nella Sala dipinta: ma dallʼaltro lato la folla deʼ membri della Camera deʼ Comuni era sì grande che i gentiluomini i quali dovevano discutere intorno al subietto controverso, invano provaronsi di ottenere posto. Non senza difficoltà e lungo indugio il Sergente dʼArmi potè farsi passare.[661] Finalmente incominciò la discussione. È giunta sino a noi una copiosa relazione deʼ discorsi dʼambe le parti. Pochi sono gli studiosi della storia i quali non abbiano svolta con ardente curiosità tale relazione e non lʼabbiano gettata via disillusi. La questione tra le due Camere fu discussa da ambo le parti come questione di legge. Le obiezioni fatte daʼ Lordi alla deliberazione dei Comuni furono in materia di vocaboli e di punti tecnici, ed ebbero risposte della medesima sorta. Somers difese lʼuso della parola _abdicazione_ citando Grozio e Brissonio, Spigelio e Bartolo. Sfidato ad addurre qualche autorità per sostenere la proposizione che la Inghilterra poteva essere senza sovrano, ei produsse un documento parlamentare del 1399 in cui stabilivasi espressamente che il trono era rimasto vacante dalla abdicazione di Riccardo II fino allʼinalzamento di Enrico IV. I Lordi risposero adducendo un documento parlamentare dellʼanno primo dʼEduardo IV, dal quale appariva, che lo strumento del 1399 era stato solennemente annullato. Sostenevano quindi che lo esempio recato da Somers non poteva applicarsi al caso. Surse allora Treby in soccorso di Somers, e produsse il documento parlamentare dellʼanno primo di Enrico VII, che revocava lʼatto dʼEduardo IV, e per conseguenza ristabiliva la validità del documento del 1399. Dopo parecchie ore il colloquio fu sciolto.[662] I Lordi si congregarono nella sala loro. Ben vedevasi che essi stavano quasi per cedere, e che il colloquio era stato per semplice forma. I fautori di Maria sʼerano accorti che ponendola sul trono come rivale del marito, le avevano recato grave dispiacere. Taluni dei Pari che dianzi avevano votato per instituire una Reggenza avevano fatto pensiero o di assentarsi o di secondare la deliberazione della Camera Bassa. Affermavano non avere cangiato opinione; ma qual si fosse governo esser meglio che nessun governo; il paese non poter più a lungo sopportare cotesta angosciosa sospensione. Lo stesso Nottingham, il quale nella Sala dipinta aveva diretta la discussione contro i Comuni, dichiarò che, quantunque la coscienza non gli consentisse di cedere, ei godeva vedendo le coscienze degli altri essere meno fastidiose. Vari Lordi i quali non avevano fino allora votato nella Convenzione erano stati indotti a recarvisi: Lord Lexington il quale era pur allora giunto dal Continente; il Conte di Lincoln che era mezzo maniaco; il Conte di Carlisle che si trascinava sulle grucce; e il Vescovo di Durham, il quale sʼera tenuto nascosto e intendeva fuggire oltre mare; ma gli era stato annunziato che ove egli votasse pel riordinamento del Governo, non si farebbe mai più parola della sua condotta nella Commissione Ecclesiastica. Danby, desideroso di spengere lo scisma da lui cagionato, esortò la Camera, con un discorso superiore anche alla sua ordinaria valentia, a non perseverare in una contesa che poteva riuscire fatale allo Stato. Fu caldamente secondato da Halifax. Il partito avverso si perdè dʼanimo. Posta la questione se Giacomo avesse abdicato il governo, solo tre Lordi dettero il voto negativo. Nella questione se il trono fosse vacante, gli approvanti furono sessantadue, i neganti quarantasette. Fu immediatamente approvata senza votazione la proposta che il Principe e la Principessa dʼOrange fossero dichiarati Re e Regina dʼInghilterra.[663] XLVI. Nottingham allora propose che la formula deʼ giuramenti di fedeltà e di supremazia si variasse in modo da potersi con sicura coscienza prestare da coloro i quali al pari di lui disapprovavano ciò che la Convenzione aveva fatto, e non per tanto volevano schiettamente essere leali e rispettosi sudditi deʼ nuovi sovrani. A tale proposizione nessuno obiettò. Non è dubbio che intorno a ciò vi fosse intelligenza tra i capi deʼ Whig e quei Lordi Tory i cui voti avevano fatto traboccare la bilancia nellʼultima tornata. Le nuove formole di giuramento furono mandate ai Comuni insieme con la deliberazione che il Principe e la Principessa venissero dichiarati Re e Regina.[664] XLVII. Ormai era noto a chi doveva darsi la Corona. Rimaneva a decidersi a quali condizioni si dovesse darla. I Comuni avevano eletto un Comitato per discutere e riferire i provvedimenti da farsi onde assicurare la legge e la libertà contro le aggressioni deʼ futuri sovrani; e il Comitato aveva già fatta la relazione.[665] La quale proponeva primamente che quei grandi principii della Costituzione che erano stati violati dal deposto Re, fossero solennemente rivendicati: e in secondo luogo che si facessero molte nuove leggi a fine dʼinfrenare la regia prerogativa e purificare lʼamministrazione della giustizia. La maggior parte deʼ suggerimenti del Comitato erano eccellenti; ma era affatto impossibile che le Camere nello spazio di un mese, e anche di un anno, potessero debitamente trattare così numerose, varie e importanti materie. Fra le altre cose fu proposto di riformare la milizia civica; restringere la potestà che i sovrani avevano di prorogare e sciogliere il Parlamento; limitare la durata deʼ Parlamenti; impedire che si opponesse la grazia del Re ad unʼaccusa parlamentare; concedere tolleranza ai protestanti dissenzienti; definire con maggior precisione il delitto dʼalto tradimento; condurre i processi di crimenlese in modo più favorevole allʼinnocenza; rendere duraturo a vita lʼufficio di giudice; variare il modo di nominare gli sceriffi; nominare i giurati in guisa da impedire la parzialità e la corruzione; abolire lʼuso di fare i processi criminali nella Corte del Banco del Re; riformare la Corte della Cancelleria; stabilire lʼonorario deʼ pubblici ufficiali; ed emendare la legge di _Quo Warranto_. Era chiaro che a far leggi savie e profondamente pensate sopra tali materie bisognava più dʼuna laboriosa sessione; ed era parimente chiaro che leggi fatte in fretta e mal digerite sopra materie sì gravi non potevano che produrre nuovi mali peggiori di quelli che avrebbero potuto spegnere. Se il Comitato intendeva dare una lista di tutte le riforme che il Parlamento avrebbe dovuto fare in tempo proprio, la lista era stranamente imperfetta. Letta appena la relazione, i rappresentanti, lʼuno dopo lʼaltro, sorsero suggerendo aggiunzioni. Fu proposto e approvato che si proibisse la rendita deglʼimpieghi, che si rendesse più efficace lʼAtto dellʼ_Habeas Corpus_, e che si rivedesse la legge di _Mandamus_. Un tale si scagliò contro glʼimpiegati della imposta sui fuochi, un altro contro quei dellʼ_Excise_: e la Camera deliberò di reprimere gli abusi dʼentrambi. È cosa notevolissima che, mentre lo intero sistema politico, militare, giudiciario e fiscale del Regno nella sopradetta guisa passavasi a rassegna, nè anche uno deʼ rappresentanti del popolo proponesse la revoca della legge che sottoponeva la stampa alla censura. Gli stessi uomini intelligenti non ancora intendevano che la libertà della discussione è il precipuo baluardo di tutte le altre libertà.[666] XLVIII. La camera era in grave imbarazzo. Alcuni oratori calorosamente dicevano essersi già perduto assai tempo; doversi stabilire il Governo senza nemmeno un giorno dʼindugio; la società inquieta; languente il commercio; la colonia inglese dʼIrlanda in imminente pericolo di perire; sovrastare una guerra straniera; essere possibile che in pochi giorni lʼesule Re approdasse con unʼarmata francese a Dublino, e da Dublino in breve tempo trapassasse a Chester. Non era ella insania in un caso tanto critico lasciare il trono vacante, e, mentre la esistenza stessa del Parlamento era in pericolo, consumare il tempo a discutere se i Parlamenti dovessero prorogarsi dal Sovrano o da sè? Dallʼaltra parte chiedevasi se la Convenzione credesse dʼavere adempito il proprio debito col solo rovesciare un Principe per inalzare un altro. Certo ora, o mai, era il momento di assicurare la libertà pubblica con difese tali da potere efficacemente impedire le usurpazioni della regia prerogativa.[667] Senza alcun dubbio gravi erano le ragioni allegate da ambe le parti. Gli esperti capi dei Whig, fra i quali Somers andava sempre acquistando maggiore riputazione, proposero una via di mezzo. Dicevano la Camera avere in mira due cose chʼerano da considerarsi lʼuna dallʼaltra distinte; assicurare, cioè, lʼantico ordinamento politico del reame contro le illegali aggressioni; e migliorare tale politico ordinamento con riforme legali. La prima poteva conseguirsi facendo nella deliberazione che chiamava i nuovi sovrani al trono, solenne ricordo del diritto che aveva la Nazione inglese alle sue vetuste franchigie, in guisa che il Re possedesse la sua Corona, e il popolo i suoi privilegi in forza di un solo e medesimo titolo. Ad ottenere la seconda era mestieri un intero volume di leggi elaborate. Lʼuna poteva conseguirsi in un solo giorno; lʼaltra appena in cinque anni. Quanto alla prima tutti i partiti erano dʼaccordo; quanto alla seconda vʼera innumerevole varietà dʼopinioni. Nessun membro dellʼuna e dellʼaltra Camera esiterebbe un istante a votare che il Re non potesse imporre tasse senza consenso del Parlamento; ma non sarebbe possibile fare alcuna nuova legge di procedura nei casi dʼalto tradimento, senza far nascere lunga discussione, ed essere da questi riprovata come ingiusta verso lo accusato, e da quelli come ingiusta verso la Corona. Lo scopo dʼuna straordinaria Convenzione degli Stati del reame non era di trattare le faccende che ordinariamente trattano i Parlamenti, stabilire lʼonorario dei Maestri in Cancelleria, e fare provvisioni contro le esazioni degli ufficiali dellʼExcise, ma di regolare la gran macchina del Governo. Fatto ciò, sarebbe tempo di ricercare quali miglioramenti le nostre istituzioni richiedessero; nè nello indugio sarebbe rischio; imperocchè un Sovrano che regnasse semplicemente mercè la elezione del popolo non potrebbe lungo tempo ricusare il suo assenso a quei provvedimenti che il popolo, parlando per mezzo deʼ suoi rappresentanti, chiedesse. Per tali ragioni i Comuni saggiamente sʼindussero a differire ogni riforma finchè fosse ristaurata in tutte le sue parti lʼantica Costituzione del Regno, e per allora pensare di provvedere al trono senza imporre a Guglielmo ed a Maria altro obbligo che quello di governare secondo le leggi esistenti dʼInghilterra. Affinchè le questioni controverse tra gli Stuardi e la nazione più oltre non risorgessero, eʼ fu deliberato che lʼAtto in forza del quale il Principe e la Principessa dʼOrange erano chiamati al trono contenesse espressi in distintissima e solenne forma i principii fondamentali della Costituzione. Questo documento che chiamasi Dichiarazione dei Diritti fu compilato da un Comitato preseduto da Somers. Per un giovine giureconsulto che soltanto dieci giorni innanzi aveva per la prima volta favellato nella Camera deʼ Comuni, lʼessere stato eletto ad un ufficio di tanto onore e tanta importanza nel Parlamento, è sufficiente prova della superiorità del suo ingegno. In poche ore la Dichiarazione fu finita e approvata dai Comuni. I Lordi vi assentirono con qualche modificazione di poco momento.[668] XLIX. La Dichiarazione incominciava riepilogando gli errori e i delitti che avevano resa necessaria la rivoluzione. Giacomo aveva invaso il campo del Corpo Legislativo, trattato come delitto una modesta petizione, oppresso la Chiesa per mezzo di un tribunale illegale, senza consenso del Parlamento imposto tasse e mantenuto in tempo di pace un esercito stanziale, violato la libertà delle elezioni, e pervertito il corso della giustizia. Questioni che poteva legittimamente discutere il solo Parlamento erano state subietto di persecuzione nel Banco del Re. Erano stati eletti Giurati parziali e corrotti; estorti ai prigioni eccessivi riscatti; imposte multe eccessive; inflitte barbare e insolite pene; le sostanze degli accusati tolte a questi, e innanzi che fossero dichiarati rei convinti, date ad altrui. Colui, per autorità del quale sʼerano fatte tali cose, aveva abdicato il Governo. Il Principe dʼOrange, fatto da Dio glorioso strumento a liberare il paese dalla superstizione e dalla tirannide, aveva invitato gli Stati del reame a ragunarsi e consultare intorno al modo di assicurare la religione, la legge e la libertà. I Lordi e i Comuni dopo matura deliberazione aveano innanzi tutto, secondo lo esempio degli avi, rivendicato i vetusti diritti e le libertà della Inghilterra. Avevano quindi dichiarato che la potestà di dispensare dianzi usurpata ed esercitata da Giacomo non aveva esistenza legale; che senza lʼautorizzazione del Parlamento il Sovrano non poteva esigere danaro dal suddito; che senza il consenso del Parlamento non poteva mantenersi esercito stanziale in tempo di pace. Il diritto deʼ sudditi a far petizioni, il diritto degli elettori a scegliere liberamente i loro rappresentanti, il diritto deʼ Parlamenti alla libertà della discussione, il diritto della Nazione ad una pura e mite amministrazione della giustizia secondo lo spirito mite delle sue leggi, tutte queste cose vennero solennemente espresse, e dalla Convenzione, a nome del popolo, reclamate come incontrastabile eredità deglʼInglesi. Rivendicati in cosiffatta guisa i principii della Costituzione, i Lordi e i Comuni, pienamente confidando che il liberatore reputasse sacre le leggi e le libertà da lui già salvate, determinavano che Guglielmo e Maria, Principe e Principessa dʼOrange, venissero dichiarati Re e Regina dʼInghilterra, loro vita durante, e che, viventi entrambi, il potere esecutivo fosse nelle mani del solo Principe. Dopo la morte loro, al trono succederebbero i discendenti di Maria, poi la Principessa Anna e suoi discendenti, poi i discendenti di Guglielmo. L. Verso questo tempo il vento aveva cessato di spirare da ponente. La nave sulla quale la Principessa dʼOrange sʼera imbarcata, trovavasi il dì 11 febbraio di faccia a Margate, la dimane gettò lʼàncora in Greenwich.[669] Le furono fatte gioiose e affettuose accoglienze: ma il suo contegno spiacque gravemente ai Tory, e daʼ Whig non fu reputato scevro di biasimo. Una donna giovane, da un destino tristo e tremendo come quello che pesava sulle favolose famiglie di Labdaco e di Pelope, posta in condizioni da non potere, senza violare i propri doveri verso Dio, il marito e la patria, ricusare dʼascendere al trono dal quale il padre suo era stato dianzi rovesciato, avrebbe dovuto avere aspetto tristo o almeno grave. E non per tanto Maria non solo era di lieto ma di stravagante umore. Fu detto chʼella entrasse in Whitehall col fanciullesco diletto di vedersi padrona di un sì bel palagio, corresse per le stanze, facesse capolino negli stanzini, e si stesse ad osservare gli arredi del letto di gala siffattamente, che sembrava non rammentasse da chi quei magnifici appartamenti erano stati dianzi occupati. Burnet, il quale fino allora lʼaveva reputata un angiolo in forma umana, non potè in quella occasione astenersi dal biasimarla. E ne era maggiormente attonito, perocchè nel togliere da lei commiato allʼAja, lʼaveva veduta,—quantunque fosse pienamente persuasa di procedere per la via del dovere,—profondamente accuorata. A lui, come a direttore spirituale, ella poscia disse le ragioni della propria condotta. Guglielmo le aveva scritto che taluni di coloro che sʼerano provati a dividere i suoi interessi da quelli di lei, seguitavano a tramare: andavano spargendo chʼessa si reputava lesa neʼ suoi diritti; ed ove si mostrasse in melanconico aspetto, la ciarla toglierebbe sembianza di verità. La supplicava quindi ad assumere nella sua prima comparsa unʼaria di allegria. Il suo cuore—diceva ella—era ben lungi dallʼessere lieto; ma aveva fatto ogni sforzo a parerlo; e temendo di non rappresentare convenevolmente una parte chʼella non sentiva, lʼaveva esagerata. Il suo contegno fu subietto a volumi di scurrilità in prosa e in versi; le scemò reputazione presso taluni di coloro la cui stima ella teneva in pregio; nè il mondo mai seppe, finchè ella non fu in luogo dove nè lode nè biasimo poteva coglierla, che la condotta la quale le aveva meritato il rimprovero di insensibilità e leggerezza, era stupendo esempio di quella perfetta e disinteressata devozione di cui lʼuomo sembra incapace, ma che talvolta si trova nella donna.[670] LI. Il mercoledì mattina, 13 febbraio, la Corte di Whitehall e tutte le vie circostanti erano accalcate di gente. La magnifica Sala del banchetto, capolavoro dʼInigo, e adorna deʼ capolavori di Rubens, era stata apparecchiata per una grande cerimonia. Lungo le pareti stavansi in fila gli ufficiali delle Guardie. Presso la porta di tramontana, a diritta, vedevasi un gran numero di Pari; vʼerano a sinistra i Comuni col presidente loro accompagnato dal mazziere. Apertasi la porta di mezzogiorno, il Principe e la Principessa dʼOrange lʼuno a fianco dellʼaltra entrarono e presero posto sotto il baldacchino reale. Ambedue le Camere si appressarono inchinandosi. Guglielmo e Maria si fecero innanzi di pochi passi. Halifax a diritta e Powle a sinistra avanzatisi, Halifax favellò. Disse la Convenzione avere fatta una deliberazione chʼegli pregava le Altezze Loro dʼascoltare. Quelle fecero cenno dʼassentimento, e il Cancelliere lesse ad alta voce la Dichiarazione dei Diritti. E come egli ebbe finito, Halifax in nome di tutti gli Stati del Reame, pregò il Principe e la Principessa dʼaccettare la Corona. LII. Guglielmo a nome suo e della moglie rispose che essi tenevano in maggior pregio la Corona perchè era loro offerta come pegno della fiducia della nazione. «Pieni di gratitudine noi accettiamo» disse egli «il dono che ci avete offerto.» Poi, quanto a sè, gli assicurò che le leggi della Inghilterra da lui ora rivendicate, sarebbero norma della sua condotta; che egli si studierebbe di promuovere il bene del Regno, e quanto ai mezzi di farlo, chiederebbe sempre consiglio alle Camere, volendosi più volentieri fidare del giudicio loro che del suo.[671] Queste parole furono accolte con uno scoppio di gioiose grida alle quali in un baleno risposero dalle vie gli evviva di molte migliaia. I Lordi e i Comuni quindi rispettosamente uscirono dalla Sala del banchetto e andarono in processione alla maggior porta di Whitehall, dove li attendevano gli Araldi coperti deʼ loro sontuosi mantelli. Tutto quello spazio fino a Charing Cros rendeva immagine di un mare di teste. I timpani suonarono, squillarono le trombe, e il Re dʼArmi ad alta voce proclamò il Principe e la Principessa dʼOrange Re e Regina dʼInghilterra, intimò a tutti glʼInglesi dʼessere, dʼallora innanzi, sinceramente fedeli e ligi ai nuovi sovrani, e supplicò Dio, il quale aveva con sì segnalato modo liberata la nostra Chiesa e la nostra Nazione, benedicesse Guglielmo e Maria, concedendo loro lungo e felice regno.[672] LIII. In questa guisa fu consumata la Rivoluzione inglese. Ogni qual volta la paragoniamo con quelle, che, negli ultimi sessanta anni, hanno rovesciato tanti vetusti governi, non possiamo a meno di rimanere maravigliati dellʼindole speciale di quella. Perchè la sua indole fosse così speciale è bastevolmente chiaro, e non per tanto eʼ sembra che non sia stata sempre intesa da coloro che lʼhanno commendata nè da coloro che lʼhanno biasimata. Le rivoluzioni del Continente successe nei secoli decimottavo e decimonono ebbero luogo in paesi dove da lungo tempo più non rimaneva vestigio della monarchia temperata del medio evo. Il diritto che aveva il Principe di fare leggi, e imporre tasse, era rimasto per molte generazioni incontrastato. Il suo trono era difeso da un grande esercito stanziale. Il suo governo non poteva senza estremo pericolo essere biasimato nè anche con moderatissime parole. I suoi sudditi non godevano la libertà personale che a libito del Principe. Non restava neppure una istituzione, a memoria deʼ più vecchi, la quale prestasse al suddito sufficiente protezione contro le enormezze della tirannide. Quelle grandi congreghe che un tempo avevano domata la potestà regia erano cadute in oblio. La struttura e i privilegi loro erano noti ai soli antiquari. Non possiamo quindi maravigliarci che allorquando ad uomini siffattamente governati venne fatto di strappare il supremo potere dalle mani di un governo che in cuor loro da lungo tempo aborrivano, eglino fossero corrivi a demolire e inetti a riedificare; che rimanessero sedotti da ogni novità, proscrivessero ogni titolo, cerimonia, e frase che richiamava alla mente la idea del vecchio sistema, e dilungandosi con disgusto dalle nazionali tradizioni frugassero nei volumi deʼ politici filosofanti a trovarvi principii di governo, o con ridicola e stolta affettazione scimmiottassero i patriotti di Atene e di Roma. Non possiamo medesimamente maravigliarci che la violenta azione dello spirito rivoluzionario fosse seguita da una reazione al pari violenta, e che la confusione, poco dopo, generasse un dispotismo più severo di quello donde essa era nata. Se noi ci fossimo trovati nella medesima situazione; se a Strafford fosse riuscito di mandare ad effetto la sua prediletta idea del _Compiuto_, di formare un esercito numeroso e bene disciplinato, come quello che, pochi anni dopo, Cromwell creò; se parecchie decisioni giudiciali simili a quella che fu profferita dalla Camera dello Scacchiere nel caso della imposta marittima, avessero trasferito nella Corona il diritto di gravare il popolo di balzelli; se la Camera Stellata e lʼAlta Commissione Ecclesiastica avessero seguitato a multare, mutilare e porre in carcere chiunque osava alzare la voce contro il Governo; se la stampa fosse stata pienamente inceppata come in Vienna e in Napoli; se i nostri Re avessero gradatamente recato alle loro mani tutto il potere legislativo; se pel corso di sei generazioni non avessimo avuta nè anche una sessione di Parlamento; e se alla perfine in qualche istante di fiero concitamento fossimo insorti contro i nostri padroni; quale scoppio di furore popolare ne sarebbe seguito! Con che fracasso, udito e sentito sino ai confini del mondo, il vasto edificio sociale sarebbe caduto a terra! Quante migliaia dʼesuli, un tempo i più felici e culti membri di questa grande cittadinanza, sarebbero andati mendicando il pane loro per le terre del Continente, o avrebbero cercato ricovero neʼ rozzi tugurii fra mezzo alle foreste dellʼAmerica! Quante volte avremmo veduto sossopra i lastricati di Londra per asserragliare le strade, crivellate di palle le case, spumanti di sangue i rigagnoli! Quante volte saremmo furiosamente corsi da un estremo allʼaltro, dallʼanarchia cercando rifugio nel dispotismo, e a liberarci dal dispotismo ricadendo nellʼanarchia! Quanti anni di sangue e di confusione ci sarebbe costato lo imparare i rudimenti primi della sapienza politica! Da quante fanciullesche teorie saremmo stati ingannati! Quante informi e mal ponderate Costituzioni avremmo inalzate solo per vederle nuovamente cadere! Sarebbe stata insigne ventura per noi se mezzo secolo di rigida disciplina fosse stato sufficiente a educarci a godere della vera libertà. Tali sciagure la nostra Rivoluzione scansava. Era vigorosamente difensiva ed aveva seco prescrizione e legittimità. Tra noi, e solo tra noi, una monarchia temperata dal secolo decimoterzo sʼera serbata intatta fino al decimosettimo. Le nostre istituzioni parlamentari erano in pieno vigore; eccellenti i più essenziali principii del Governo; non formalmente nè esattamente compresi in un solo documento scritto, ma sparsi nei nostri antichi e nobili statuti, e—cosa di somma importanza—impressi da quattrocento anni in cuore a tutti glʼInglesi. Che senza il consenso deʼ rappresentanti della Nazione non si potesse fare atti legislativi, imporre tasse, mantenere esercito stanziale, imprigionare nessuno nè anche per un giorno ad arbitrio del Sovrano; che nessun satellite del Governo potesse allegare un ordine del Re come scusa per violare qual si fosse diritto dellʼinfimo suddito; tutte queste cose erano considerate tanto daʼ Whig che dai Tory quali leggi fondamentali del reame. Un Regno in cui erano siffatte leggi fondamentali non aveva mestieri dʼuna nuova Costituzione. Ma comechè non vi fosse cotesto bisogno, era chiara la necessità di riforme. Il pessimo governo degli Stuardi, e le perturbazioni da quello suscitate, bastevolmente provavano che il nostro ordinamento politico in alcuna sua parte difettava; ed era debito della Convenzione indagare e supplire a tale difetto. Varie questioni di grave momento lasciavano tuttavia aperto il campo alle dispute. La nostra Costituzione era nata in tempi nei quali gli uomini di Stato non erano cotanto assuefatti a fare definizioni esatte. Ne erano quindi impercettibilmente surte anomalie incompatibili con la Costituzione e pericolose alla sua stessa esistenza, e non avendo nel corso di anni molti cagionato gravi inconvenienti, avevano a poco a poco acquistato forza di prescrizione. Rimedio a questi mali era il riconfermare i diritti del popolo con parole tali che eliminassero ogni controversia, e dichiarare che nessuno esempio valesse a giustificare qual si fosse violazione di questi diritti. Ciò fatto, eʼ sarebbe stato impossibile ai nostri principi male intendere la legge; ma non facendosi alcunʼaltra cosa di più, non era al tutto improbabile che essi la potessero violare. Sventuratamente la Chiesa aveva da lungo tempo insegnato alla Nazione che la monarchia ereditaria, sola tra tutte le nostre istituzioni, era divina e inviolabile; che il diritto che ha la Camera dei Comuni di partecipare al potere legislativo, era semplicemente diritto umano, ma quello che ha il Re alla obbedienza passiva del popolo era derivato dal Cielo; che la _Magna Charta_ era uno statuto il quale poteva revocarsi da coloro che lo avevano fatto, ma il principio, per virtù del quale i principi di sangue regio venivano chiamati al trono per ordine di successione, era dʼorigine divina, ed ogni atto parlamentare incompatibile con quello era nullo. Egli è evidente che in una società nella quale tali superstizioni prevalgono, la libertà costituzionale è dʼuopo sia mal sicura. Una potestà che è considerata come ordinamento dellʼuomo non vale ad infrenare una potestà che è creduta ordinamento di Dio. È vano sperare che le leggi, per quanto siano eccellenti, infrenino durevolmente un Re, il quale secondo chʼegli stesso e la maggior parte deʼ suoi popoli credono, ha una autorità infinitamente più alta di quella che spetta alle leggi. Privare la dignità regia di cotali misteriosi attributi, e stabilire il principio che i Re regnino in forza dʼun diritto che in nulla differisca da quello onde i liberi possidenti eleggono i rappresentanti delle Contee, o dal diritto onde i Giudici concedono un ordine di _Habeas Corpus_, era assolutamente necessario alla sicurezza delle libertà nostre. La Convenzione, dunque, aveva due grandi doveri da adempiere: distrigare, cioè, da ogni ambiguità le leggi fondamentali del reame; e sradicare dalle menti dei governanti e dei governati la falsa e perniciosa idea che la regia prerogativa era più sublime, e più sacra delle predette leggi fondamentali. Al primo scopo si giunse con la esposizione solenne e la rivendicazione con che incomincia la Dichiarazione dei Diritti; al secondo con la risoluzione onde il trono fu giudicato vacante, e Guglielmo e Maria furono invitati ad ascendervi. Il mutamento sembra lieve. La Corona non fu privata nè anche dʼuno deʼ suoi fiori; nessun nuovo diritto concesso al popolo. Le leggi inglesi in tutto e per tutto, secondo il giudicio deʼ più grandi giureconsulti, di Holt e di Treby, di Maynard e di Somers, dopo la Rivoluzione rimasero le stesse di prima. Alcuni punti controversi furono risoluti secondo la opinione deʼ migliori giuristi; e solo si deviò alquanto dallʼordinaria linea di successione. Ciò fu tutto; e bastava. Perchè la nostra Rivoluzione fu una rivendicazione degli antichi diritti, fu condotta rigorosamente osservando le antiche formalità. Quasi in ogni atto e in ogni parola manifesto si vede un profondo rispetto pel passato. Gli Stati del reame deliberarono nelle vecchie sale e giusta le vecchie regole. Powle fu condotto al seggio nella consueta forma fra colui che lo aveva proposto e colui che aveva secondata la proposta. Lʼusciere con la sua mazza guidò i messaggieri dei Lordi al banco dei Comuni: e le tre riverenze furono debitamente fatte. La conferenza dʼambedue le Camere ebbe luogo con tutte le antiche cerimonie. Da un lato della tavola, nella Sala Dipinta, i Commissari deʼ Lordi sedevano col capo coperto e vestiti dʼermellino e dʼoro. Dallʼaltro lato i Commissari deʼ Comuni stavansi in piedi e a capo scoperto. I discorsi fattivi paiono un contrapposto pressochè ridicolo della eloquenza rivoluzionaria dʼogni altro paese. Ambidue i partiti mostrarono la medesima riverenza verso le antiche tradizioni costituzionali dello Stato. Solo disputavano in che senso quelle tradizioni erano da intendersi. I propugnatori della libertà non fecero pur motto dellʼuguaglianza naturale degli uomini e della inalienabile sovranità del popolo, di Armodio o di Timoleone, di Bruto primo o di Bruto secondo. Allorquando fu detto che in forza della legge della Inghilterra la Corona rimaneva essenzialmente devoluta al più prossimo erede, risposero che in forza della legge della Inghilterra, un uomo ancora in vita non poteva avere erede. Allorquando fu detto non esservi esempio a dichiarare vacante il trono, mostrarono una pergamena, scritta circa trecento anni innanzi in bizzarro carattere e in barbaro latino, e tratta dagli Archivi della Torre, nella quale facevasi ricordo come gli Stati del reame avessero dichiarato vacante il trono dʼun Plantageneto perfido e tiranno. In fine, composta ogni disputa, i nuovi Sovrani vennero proclamati con lʼantica pompa. Vi fu tutto il bizzarro apparato araldico: Clarencieux e Norroy, Portcullis, e Rouge Dragon, le trombe, le bandiere, e le grottesche sopravvesti ricamate a lioni e a gigli. Il titolo di Re di Francia preso dal vincitore di Cressy non fu omesso nella lista dei titoli regi. A noi che siamo vissuti nel 1848 parrà forse un abuso di vocabolo chiamare col terribile nome di Rivoluzione un fatto consumato con tanta riflessione, con tanta moderazione, e con tanto scrupolosa osservanza delle forme prescritte. E nulladimeno questa Rivoluzione, fra tutte la meno violenta, di tutte la più benefica, sciolse diffinitivamente la grande questione di sapere se lo elemento popolare, il quale fino dalla età di Fitzwalter e di De Montfort era sempre esistito nellʼordinamento politico della Inghilterra, verrebbe distrutto dallo elemento monarchico, o si lascerebbe sviluppare liberamente e divenire predominante. La lotta traʼ due principii era stata lunga, accanita, e dubbia. Era durata per quattro regni. Aveva prodotto sedizioni, accuse, ribellioni, battaglie, assedii, proscrizioni, stragi giudiciali. Tal volta la libertà, tal altra il principato parvero sul punto di spegnersi. Per molti anni la energia di metà della Inghilterra sʼera sforzata di frustrare la energia dellʼaltra metà. Il potere esecutivo e il legislativo sʼerano lʼun lʼaltro tanto efficacemente contrastati da rimanerne entrambi impotenti, al segno che lo Stato era divenuto nulla nel sistema politico dellʼEuropa. Il Re dʼArmi allorchè innanzi la porta di Whitehall proclamò Guglielmo e Maria, annunziava finita la gran lotta; perfetta lʼunione fra il trono e il Parlamento; la Inghilterra da lungo tempo dipendente e caduta in abiezione, ridivenuta Potenza di primo ordine; le antiche leggi che vincolavano la regia prerogativa sarebbero per lo avvenire tenute sacre come la prerogativa stessa, e produrrebbero tutti gli effetti loro; il potere esecutivo verrebbe amministrato secondo il voto dei rappresentanti del popolo; qualunque riforma proposta dopo matura deliberazione dalle due Camere, non sarebbe ostinatamente avversata dal Sovrano. La Dichiarazione dei Diritti, comechè non rendesse legge ciò che per lo innanzi legge non era, conteneva i germi della legge che dètte la libertà religiosa ai Dissenzienti, della legge che assicurò la indipendenza deʼ giudici; della legge che limitò la durata deʼ Parlamenti, della legge che pose la libertà della stampa sotto la protezione dei Giurati, della legge che vietò il traffico degli schiavi, della legge che abolì il giuramento religioso, della legge che liberò i Cattolici Romani dalle incapacità civili, della legge che riformò il sistema rappresentativo, dʼogni buona legge che è stata promulgata nello spazio di centosessanta anni, dʼogni buona legge in fine che quinci innanzi verrà reputata necessaria a promuovere il bene pubblico, e a soddisfare alle richieste della pubblica opinione. Il più grande encomio che possa farsi della Rivoluzione del 1688 sta nel dire che essa fu lʼultima delle nostre rivoluzioni. Ormai sono trascorse varie generazioni senza che nessuno Inglese assennato e animato di spirito patrio abbia fatto pensiero di resistere al Governo stabilito. Ogni onesto e savio uomo è profondamente convinto—convinzione ogni giorno riconfermata dalla esperienza—che i mezzi di ottenere qual si voglia miglioramento richiesto dalla Costituzione, si possano trovare nella Costituzione stessa. Ora, o giammai, dovremmo estimare di quale importanza sia la resistenza degli antichi nostri fatta alla Casa Stuarda. Dintorno a noi tutto il mondo è travagliato dal travaglio delle grandi nazioni. Governi che dianzi pareva dovessero durare deʼ secoli, sono stati, in un subito, scossi e rovesciati. Le più orgogliose metropoli della Europa occidentale sono state inondate di sangue cittadino. Tutte le sinistre passioni, cupidigia di guadagno, sete di vendetta, vicendevole aborrimento di classi, vicendevole aborrimento di razze, hanno rotto il freno delle leggi divine e delle umane. Timore e ansietà hanno annuvolato lo aspetto e contristato il cuore a milioni dʼuomini. Sospeso il commercio; paralizzata la industria; diventato povero il ricco, poverissimo il povero; predicate dalla tribuna e difese con la spada dottrine ostili alle scienze, alle arti, alla industria, alla carità di famiglia; dottrine tali che, se potessero mandarsi ad effetto, disfarebbero, in trenta anni, tutto ciò che trenta secoli hanno fatto a bene della umanità, e renderebbero le più belle province di Francia e di Germania selvagge come il Congo e la Patagonia; la Europa è stata minacciata di giogo da barbari, al paragone dei quali i barbari seguaci dʼAttila e Alboino erano culti ed umani. I veri amici del popolo con profondo dolore hanno confessato trovarsi in grave pericolo interessi più preziosi di qualsiasi privilegio politico, ed essere necessario sacrificare fino la libertà onde salvare lo incivilimento. Frattanto nellʼisola nostra il corso regolare del Governo non è stato mai interrotto nè anche per un giorno. I pochi facinorosi arsi da libidine di licenza e di saccheggio, non hanno avuto lʼanimo dʼaffrontare la forza dʼuna nazione leale, schierata in ferma attitudine intorno a un trono paterno. E ove si chieda la ragione onde le sorti nostre sono state tanto diverse dalle altrui, è da rispondersi che noi non abbiamo mai perduto ciò che gli altri, ciechi e forsennati, si studiano di riacquistare. Perchè noi avemmo una rivoluzione conservatrice nel secolo decimosettimo, non ne abbiamo avuta una distruggitrice nel decimonono. Perchè serbammo la libertà fra mezzo al servaggio, noi abbiamo lʼordine fra mezzo allʼanarchia. Per lʼautorità delle leggi, la sicurezza degli averi, la pace delle strade, la felicità delle famiglie, noi dobbiamo essere grati, dopo Colui che a suo arbitrio esalta ed umilia le nazioni, al Lungo Parlamento, alla Convenzione, ed a Guglielmo dʼOrange. FINE. NOTE: [1] Avaus, _Neg._, 6–16 agosto 1685; Dispaccio di Citters e deʼ suoi colleghi, nel quale è incluso il trattato, 14–24 agosto; Luigi a Barillon, 14–24 e 20–30 agosto. [2] Avvertimenti intitolati: _Per mio figlio il Principe di Galles_; nelle carte degli Stuardi. [3] «Lʼ_Habeas Corpus_» diceva Johnson, che era il più bacchettone deʼ Tory, a Boswell, «è il solo pregio che il nostro Governo abbia sopra quelli degli altri paesi.» [4] Vedi i _Ricordi Storici deʼ Reggimenti_, pubblicati sotto la revisione dellʼAiutante Generale. [5] Barillon, 3–13 dicembre 1685. Egli aveva studiato molto la materia: «_Cʼest un détail_, diceva, _dont jʼai connoissance_.» Daʼ libri del Tesoro si raccoglie, che la spesa dellʼarmata per lʼanno 1687, fu stabilita il dì primo di gennaio a 623,104 lire sterline, 9 scellini e undici soldi. [6] Burnet, I, 447. [7] Tillotson, _Sermone_ detto innanzi alla Camera deʼ Comuni, il dì 5 di novembre 1685. [8] Locke, _Lettera prima intorno alla Tolleranza_. [9] _Libro del Consiglio_. La destituzione di Halifax è in data del 21 ottobre 1685. Halifax a Chesterfield; Barillon, 19–29 ottobre. [10] Barillon, 26 ottobre–5 novembre 1685; Luigi a Barillon, 27 ottobre–6 novembre; 6–16 novembre. [11] Vi è un notevole racconto deʼ primi segni del malcontento fraʼ Tory, in una lettera di Halifax a Chesterfield, scritta nellʼottobre del 1685; Burnet, I, 684. [12] Gli scritti di quel tempo, trattanti in varie lingue di cotesta persecuzione, sono innumerevoli. Una narrazione chiara, tersa, vivace, trovasi nel libro di Voltaire: _Siècle de Louis XIV_. [13] «_Misionarios embotados_,» dice Ronquillo. «_Apostoli Armati_» li chiama Innocenzo. Nella Collezione di Mackintosh vi è una notevole lettera di Ronquillo intorno a questo subbietto, in data del 26 marzo–5 aprile 1687. Vedi Venier, _Relazione di Francia_, 1689, citata dal Professore Ranke nella sua _Storia del Papato_, libro VIII. [14] «Mi dicono che tutti questi parlamentarii ne hanno voluto copia; il che assolutamente avrà causate pessime impressioni.»—Adda, 9–19 Novembre 1685. Vedi Evelyn, _Diario_, 3 novembre. [15] _Giornali deʼ Lordi_, 9 novembre 1685. «Vengo assicurato (dice Adda) che S. M. stessa abbia composto il discorso.»—Dispaccio del 16–26 novembre 1685. [16] _Giornali deʼ Comuni_; Bramston, _Memorie_; Giacomo Von Leeuwen agli Stati Generali, 10–20 novembre 1685. Leeuwen era segretario dellʼAmbasciata Olandese, e nellʼassenza di Citters mantenne il carteggio col proprio Governo. Intorno a Clarges. Vedi Burnet, I, 98. [17] Barillon, 16–26 novembre, 1685. [18] Dodd, _Storia della Chiesa_; Leeuven, 17–27 novembre 1685; Barillon, 24 Dicembre 1685. Barillon dice intorno ad Adda: “_On lʼavoit fait prévenir que la sûreté et lʼavantage des Catholiques consistoient dans une réunìon entière de sa Majesté Britannique et de son Parlement_.” Lettere dʼInnocenzio a Giacomo, in data del 27 luglio–6 agosto, e del 23 settembre–3 ottobre 1685, Dispacci dʼAdda, 8–19 e 16–26 novembre 1685. Lʼinteressantissimo Carteggio dʼAdda, copiato dagli archivi papali, trovasi nel Museo Britannico; Mss. aggiunti, Mº 15395. [19] Questo notevolissimo dispaccio ha la data del 9–19 novembre 1685, ed è compreso nellʼAppendice alla _Storia_ di Fox. [20] _Giornali deʼ Comuni_, 12 novembre 1685; Leeuwen, 13–23 novembre; Barillon 16–26 novembre: Sir Giovanni Bramston, _Memorie_. La migliore relazione delle discussioni deʼ Comuni nel Novembre 1685, è una di quelle la cui storia è alquanto curiosa. Ve ne sono due copie manoscritte nel Museo Brittannico, Ms. Harl, 7187; Ms. Lans, 253. In queste copie, i nomi deʼ Presidenti sono interamente scritti. Lʼautore della _Vita di Giacomo_, pubblicata nel 1702, ricopiò questa relazione, ma diede solo le iniziali deʼ nomi deʼ Presidenti. Gli editori deʼ _Dibattimenti_ di Chandler, e della _Storia Parlamentare_, si provarono dʼindovinare i nomi da coteste iniziali, e talvolta non sʼapposero al vero. Essi attribuiscono a Waller un pregevolissimo discorso, di cui parlerò tra poco, e che fu certamente fatto da Windham, rappresentante di Salisbury. Mi rincresce di vedermi forzato a smentire che le ultime parole profferite in pubblico da Waller, fossero così onorevoli per lui. [21] _Giornali deʼ Comuni_, 13 novembre 1685; Bramston, _Memorie_; Barillon, 16–26 novembre; Leeuwen, 12–23 novembre; _Memorie_ di Sir Stefano Fox, 1717; _La causa della Chiesa dʼInghilterra schiettamente dichiarata_; Burnet, I, 666, e lʼannotazione del Presidente Onslow. [22] _Giornali deʼ Comuni_, novembre 1685; Ms. Harl, 7187; Ms. Lans, 253. [23] Intorno a questo subbietto, gli autori in modo straordinario discordano; e dopo dʼavere lungamente esaminata la faccenda, debbo confessare che i pareri si equilibrano. Nella _Vita di Giacomo_ (1702) è detto, che la proposta venisse dalla Corte. Il che è confermato da un luogo notevole nelle _Carte degli Stuardi_, il quale fu corretto dallo stesso pretendente (Clarke, _Vita di Giacomo II_, vol. II; 55). Dallʼaltro canto, Reresby che era presente alla discussione, e Barillon che avrebbe dovuto sapere il vero, fanno credere che la proposta venisse dalla opposizione. I manoscritti Harleiano e Lansdowniano differiscono nella sola parola da cui dipende la questione. Sventuratamente, Bramston quel dì non era nella Camera. (Giacomo Van Leeuwen rammenta la proposta e lo squittinio di divisione, ma non aggiunge una parola che possa spargere la più piccola luce sulle condizioni deʼ partiti.) Mi è forza confessare la mia impossibilità a dedurre con sicurezza alcuna conseguenza daʼ nomi deʼ questori Sir Giuseppe Williamson e Sir Francesco Russell per la maggioranza, Lord Ancram e Sir Enrico Goodricke per la minoranza. Mi parrebbe probabile che Lord Ancram si fosse posto dalla parte della Corte, e Sir Enrico Goodricke da quella della opposizione. [24] _Giornali deʼ Comuni_, 16 novembre 1685; Ms. Harl 7187; Ms. Lans. 235. [25] _Giornali deʼ Comuni_, 17, 18 novembre 1685 [26] _Giornali deʼ Comuni_, 18 novembre 1685; Ms. Harl. 7187; Ms. Lans. 253; Burnet, I, 667. [27] Lonsdale, _Memorie_. Burnet dice (I, 667) che nella Camera deʼ Comuni seguì unʼacre discussione rispetto alle elezioni dopo lʼimprigionamento di Coke. Ciò, quindi, dovette accadere il dì 19 di novembre; perocchè Coke fu condotto alla Torre il dì 18, e il dì 20 il Parlamento fu prorogato. La narrazione di Burnet è confermata dai _Giornali deʼ Comuni_, da cui si raccoglie che il dì 19 si discuteva di varie elezioni. [28] Burnet, I, 560; _Orazione funebre del duca di Devonshire_, detta da Kennet, 1708; _Viaggi di Cosimo III in Inghilterra_. [29] Bramston, _Memorie_. Burnet erra in quanto al tempo in cui fu fatta questa osservazione, e in quanto alla persona che la fece. Nella Lettera di Halifax ad un Dissenziente, trovasi una notevole allusione a questa discussione. [30] Wood, _Athenæ Oxonienses_; Gooch, _Orazione funebre del Vescovo Compton_. [31] Teonge, _Diario_. [32] Barillon ci ha lasciata la migliore relazione di questo dibattimento. Ne estrarrò ciò chʼei dice intorno al discorso di Mordaunt. «_Milord Mordaunt, quoique jeune, parla avec eloquence et force. Il dit que la question nʼétoit pas reduite, comme la Chambre des Communes le prétendoit, à guerir des jalousies et défiances, qui avoient lieu dans les choses incertaines; mais que ce qui se passoit ne lʼétoit pas; quʼil y avoit une armée sur pied qui subsistoit, et qui étoit remplie dʼofficiers catholiques; qui ne pouvoit être conservée que pour le renversement des loix; et que la subsistance de lʼarmée, quand il nʼy a aucune guerre ni au dedans ni au dehors, étoit lʼètablissement du gouvernement arbitraire, pour le quel les Anglois ont une adversion si bien fondée._» [33] Gli riusciva facilissimo il piangere. «Non poteva» dice lʼautore del _Panegirico_ «frenare le lacrime quando altri gli faceva fronte arditamente.—Parlasi delle sue bravazzate e del suo orgoglioso coraggio; ma vi può essere cosa alcuna di più umile in un uomo del suo alto grado, che piangere e singhiozzare?» Nella risposta al _Panegirico_ si dice «che il non aver saputo frenare le lacrime gli toglieva di poter fare la parte dʼipocrita.» [34] _Giornali deʼ Lordi_, 19 novembre 1685; Barillon, 23 novembre–3 dicembre; Dispaccio Olandese, 20–30 novembre; Luttrell, _Diario_, 19 Novembre; Burnet, I, 665. Il discorso di chiusura fatto da Halifax è rammentato dal Nunzio nel suo dispaccio del 16–26 novembre. Adda, circa un mese dopo, fa testimonianza del potente ingegno di Halifax: «Da questo uomo, che ha gran credito nel Parlamento e grande eloquenza, non si possono attendere che fiere contraddizioni; e nel partito regio non vi è un uomo da contrapporsi.» 21–31 dicembre. [35] _Giornali deʼ Lordi e deʼ Comuni_, 20 novembre 1685. [36] _Giornali deʼ Lordi_, 11, 17, 18 novembre 1685. [37] Burnet, I, 616. [38] Bramston, _Memorie_; Luttrell, _Diario_. [39] Il processo trovasi nella Collezione deʼ Processi di Stato; Bramston, _Memorie_; Burnet, I, 647; _Giornali deʼ Lordi_, 20 dicembre 1689. [40] _Giornali deʼ Lordi_, 9, 10, 16 Novembre 1685. [41] _Discorso intorno alla corruzione deʼ Giudici_, nelle Opere di Lord Delamere, 1694. [42] “Fu una funzione piena di gravità, di ordine e di gran speciosità.” Adda, 15–25 gennaio, 1686. [43] Il processo trovasi nella _Collezione deʼ Processi di Stato_. Leeuwen 15–25. 19–29 gennaio 1686. [44] Lady Russell al Dottore Fitzwilliam, 15 gennaio 1686. [45] Luigi a Barillon, 10–20 febbraio 1685. [46] Evelyn, _Diario_, 2 ottobre, 1685. [47] Clarke, _Vita di Giacomo II_, vol. II, 9; _Mem. Orig._ [48] Leeuwen, 1–11 e 12–22 gennaio 1686. La lettera di questa giovinetta, quantunque fosse lunghissima ed assurda, fu reputata degna dʼessere mandata agli Stati Generali, come espressione deʼ tempi. [49] Vedi il suo processo nella _Collezione deʼ Processi di Stato_, e il suo curioso Manifesto, stampato nel 1681. [50] _Mémoires de Grammont_; Pepys, _Diario_, 19 agosto 1662; Bonrepaux a Seignelay, 1–11 febbraio 1686. [51] Bonrepaux a Seignelay, 1–11 febbraio 1686. [52] _Mémoires de Grammont_; _Vita dʼEduardo, Conte di Clarendon; Carteggio dʼEnrico, Conte di Clarendon, passim_, e in ispecie la lettera in data del dì 29 dicembre 1685; Ms. di Sheridan, fra le Carte degli Stuardi; _Carteggio di Ellis_, 12 gennaio 1686. [53] Vedi il suo ultimo carteggio, _passim_; St. Evremond, _passim_; le lettere di madama di Sévigné in principio del 1689. Vedi anche le istruzioni a Tallard dopo la pace dì Ryswick, negli Archivi francesi. [54] St. Simon, _Memorie_, 1697, 1719; St. Evremond; La Fontaine; Bonrepaux a Seignelay, 28 gennaio–7 febbraio, 8–18 febbraio 1686. [55] Adda, 16–26 novembre, 7–17, e 21–31 dicembre 1685. In questi dispacci Adda adduce alcune ragioni per venire ad un compromesso, abolendo le leggi penali, e lasciando lʼAtto di Prova. Egli chiama il conflitto fra il Governo e il Parlamento “una gran disgrazia.” Ripetutamente accenna che il Re, per mezzo dʼuna politica conforme alla Costituzione, avrebbe potuto ottenere molto a favore dei Cattolici Romani, e che gli sforzi chʼegli faceva a volerli illegalmente alleggiare, avrebbero probabilmente fatto nascere grandi calamità. [56] Fra Paolo Sarpi, libro VIII; Pallavicino, libro XVIII, cap. 15. [57] Tale era il costume della sua figlia Anna; e Marlborough diceva chʼella lo aveva imparato dal padre.—_Difesa della Duchessa di Marlborough_. [58] Fino al tempo del processo deʼ Vescovi, Giacomo andava sempre dicendo ad Adda, che tutte le calamità di Carlo I seguirono «per la troppa indulgenza.» Dispaccio del 29 giugno–9 luglio 1688. [59] Barillon 16–26 novembre 1685; Luigi a Barillon, 26 novembre–6 dicembre. In una scrittura del 1687, molto curiosa, quasi senza alcun dubbio di mano di Bonrepaux, e che ora trovasi negli archivi di Francia, Sunderland è dipinto con queste parole: “_La passion quʼil a pour le jeu, et les pertes considérables quʼil y a faites, incommodent fort ses affaires. Il nʼaime pas le vin; et il hait les femmes_.” [60] Si ricava dal libro del Consiglio, chʼegli entrò nellʼufficio di presidente il dì 4 dicembre 1685. [61] Bonrepaux non si lasciò così agevolmente ingannare come Giacomo. “_En son particulier, il_ (Sunderland) _nʼen professe aucune_ (religion), _et en parle fort librement. Ces sortes de discours seroient en exécration en France. Ici ils sont ordinaires parmi un certain nombre de gens du pays_.”—Bonrepaux a Seignelay, 25 maggio–4 giugno 1687. [62] Clarke, _Vita di Giacomo II_, vol. II, 74, 77; _Mem. Orig_.; Ms. di Sheridan; Barillon, 19–29 marzo 1686. [63] Beresby, _Memorie_; Luttrell, _Diario_, 2 febbraio 1685–86; Barillon 4–14 febbraio; Bonrepaux, 25 gennaio–4 febbraio. [64] Dartmouth, annotazione a Burnet, I, 621. In una satira di quel tempo è notato che Godolphin “Batte il tempo colla testa politica, e approva tutto, satisfatto dellʼincarico di portare il manicotto e i guanti della Regina.” [65] Pepys, 4 ottobre 1664. [66] Pepys, 1 luglio 1663. [67] Vedi i versi satirici che Dorset le scrisse contro. [68] Le fonti principali pel racconto di questo intrigo, sono i dispacci di Barillon e di Bonrepaux, del principio dellʼanno 1686. Vedi Barillon, 25 gennaio, 4 febbraio; 28 gennaio–7 febbraio, 1–11, 8–18, 19–29 febbraio, e Bonrepaux sotto le stesse prime quattro date; Evelyn, Diario, 19 gennaio; Reresby, Memorie; Burnet, I, 682; Ms. Sheridan; Ms. Chaillot; Dispacci dʼAdda, 22 gennaio–1 febbraio, e 29 gennaio–8 febbraio 1686. Adda scrive da uomo pio, ma debole e ignorante. Sembra che non conoscesse nulla della vita anteriore di Giacomo. [69] La meditazione ha la data 25 gennaio–4 febbraio. Bonrepaux, nel suo dispaccio del medesimo giorno, dice: “_Lʼintrigue avait été conduite par Milord Rochester et sa femme.... Leur projet étoit de faire gouverner le Roy dʼAngleterre par la nouvelle comtesse; ils sʼétoient assurés dʼelle_.” Mentre Bonrepaux riferiva queste cose al suo Governo, Rochester scriveva: “O mio Dio, insegnami a numerare i miei giorni, onde io possa dedicare il mio cuore alla saviezza. Insegnami a contare i giorni da me spesi nella vanità e nellʼozio, ed insegnami a contare quelli che io ho spesi nel peccato e nelle male opere. O Dio, insegnami anche a numerare i giorni della mia afflizione, e a renderti grazie per tutto ciò che è venuto dalle tue mani. Insegnami parimente a numerare i giorni di questa grandezza mondana di cui io ho tanta parte, e insegnami a considerarli come giorni di vanità e di tribolazione di spirito.” [70] «_Je vis Milord Rochester, comme il sortoit du conseil, fort chagrin; et sur la fin du souper, il lui en échappe quelque chose_.» Bonrepaux, 18–28 febbraio 1686. Vedi anche Barillon, 1–14, 4–11 marzo. [71] Barillon, 22 marzo–1 aprile, 12–22 aprile 1686. [72] Gazzetta di Londra, 15 febbraio 1685–86; Luttrell, _Diario_, 8 febbraio; Leeuwen, 9–19 febbraio; Clarke, _Vita di Giacomo II_, vol. Il, 75; _Mem. Orig_. [73] Leeuwen, 23 febbraio–5 marzo 1686. [74] Barillon, 26 aprile–6 maggio, 3–13 maggio 1656; Citters 7–17 maggio; Evelyn, _Diario_, 5 maggio; Luttrell, Diario della stessa data; Libro del Consiglio Privato, 2 maggio. [75] Lady Russel al dottore Fitzwilliams, 22 gennaio 1686; Barillon, 15–25 febbraio, 22 febbraio–4 marzo 1686. «_Ce prince témoigne_» dice Barillon «_une grande aversion pour eux, et auroit bien voulu se dispenser de la collecte, qui est ordonnée en leur faveur; mais il nʼa pas cru que cela fût possible_.» [76] Barillon, 22 febbraio–4 marzo 1686. [77] Relazione della Commissione, in data del 15 marzo 1688. [78] «_Le roi dʼAngleterre connoît bien que les gens mal intentionnés pour lui sont les plus prompts et les plus disposés à donner considérablement... Sa Majesté Britannique connoît bien quʼil auroit été à propos de ne point ordonner de colecte, et que les gens mal intentionnés contre la religion catholique et contre lui, se servent de cette occasion pour témoigner leur zèle_.» Barillon. 19–29 aprile 1686. [79] Barillon, 15–25 febbraio, 22 febbraio–4 marzo, 19–29 aprile 1686; Luigi a Barillon, 5–15 marzo. [80] Barillon, 19–29 aprile; Lady Russell al dottore Fitzwilliams, 14 aprile. “Ne mandò via molti” ella dice “coʼ cuori contristati.” [81] _Gazzetta di Londra_ del 13 maggio 1686. [82] Raresby, _Memorie_; Eachard, III, 797; Kennet, III, 451. [83] _Gazzetta di Londra_, 22 e 29 aprile 1686; Barillon, 19–29 aprile; Evelyn, _Diario, 2 giugno_; Luttrell, 8 giugno; Dodd, _Storia della Chiesa_. [84] North, _Vita di Guildford_, 288. [85] Raresby, _Memorie_. [86] Vedi la relazione di questo caso nella _Collezione deʼ Processi di Stato_; Citters, 4–14 maggio, 22 giugno 2 luglio 1686; Evelyn, _Diario_, 27 giugno; Luttrell, _Diario_, 21 giugno. In quanto a Street, vedi il _Diario_ di Clarendon, 27 dicembre 1688. [87] _Gazzetta di Londra_, 19 luglio 1686. [88] Vedi le lettere patenti presso Gutch, _Collectanea curiosa_. La loro data è del 3 maggio 1686. Sclater, _Consensus Veterum_; Gee, _Veteres Vindicati_, che è una risposta al libro di Sclater; il dottore Antonio Horneck, _Relazione dellʼabjura di Sclater degli errori del papismo, il dì 5 maggio 1689_; Dodd, _Storia della Chiesa_, Parte VIII, libro II, articolo 3. [89] Gutch, _Collectanea curiosa_; Dodd, VIII, II, 3; Wood, _Athenæ Oxonienses_; Ellis, _Carteggio_, 27 febbraio 1686; _Giornali deʼ Comuni_, 26 ottobre 1689. [90] Gutch, _Collectanea curiosa_; Wood, _Athenæ Oxonienses_; _Dialogo tra uno della Chiesa Anglicana e un Dissenziente_, 1689. [91] Adda, 9–19 luglio 1686. [92] Adda, 30 luglio–9 agosto 1686. [93] “_Ce prince mʼa dit que Dieu avoit permis que toutes les loix qui ont été faites pour établir la religion protestante, et détruire la religion catholique, servent présentement de fondement à ce quʼil veut faire pour lʼétablissement de la vraie religion, et le mettent en droit dʼexercer un pouvoir encore plus grand que celui quʼont les rois catholiques sur les affaires ecclésiastiques dans les autres pays._” Barillon, 12–22 luglio 1686.—Ad Adda, Sua Maestà, pochi giorni dopo, disse: “Che lʼautorità concessale dal Parlamento sopra lʼecclesiastico senza alcun limite, con fine contrario, fosse adesso per servire al vantaggio deʼ medesimi Cattolici.” 23 luglio–2 agosto. [94] Tutta la questione è lucidamente e vittoriosamente discussa in un breve trattato di queʼ tempi, che ha per titolo: _La potestà del Re nelle materie ecclesiastiche, chiaramente esposta_. Vedi anche il conciso ma forte ragionamento dellʼArcivescovo Sancroft. Doyly, _Vita di Sancroft_, I, 229. [95] Lettera di Giacomo a Clarendon, 18 febbraio 1685–86. [96] La migliore narrazione di questi fatti trovasi nella _Vita di Sharp_, scritta da suo figlio. Citters, 29 giugno–9 luglio 1686. [97] Barillon, 21 luglio–1 agosto 1686; Citters, 16–26 luglio; Libro del Consiglio Privato, 17 luglio; Ellis, _Carteggio_, 17 luglio; Evelyn, _Diario_, 14 luglio; Luttrell, _Diario_, 5–6 agosto. [98] Il segno era una rosa ed una corona. Innanzi il segno erano le lettere iniziali del nome del sovrano, e dopo esso la lettera R. Attorno il suggello leggevasi questa epigrafe: _Sigillum commissariorum regiæ majestatis ad causas ecclesiasticas_. [99] Appendice al _Diario_ di Clarendon; Citters, 8–18 ottobre; Barillon, 11–21 ottobre; Doyly, _Vita di Sancroft_. [100] Burnet, I, 676. [101] Burnet, I, 675, II, 629; Sprat, _Lettere a Dorset_. [102] Burnet, I, 677; Barillon, 6–16 settembre 1686. Gli atti pubblici si trovano nella _Collezione deʼ Processi di Stato_. [103] 27. Elisab, c. 2; 2. Giac, I, c. 4; 3. Giac. I, c. 5. [104] Clarke, _Vita di Giacomo II_, vol. II, 79, 80; _Mem. Orig._ [105] De Augumentis, I, VI, 4. [106] Citters, 14–24 maggio 1686. [107] Citters, 18–28 maggio 1656; Adda, 19–29 maggio. [108] Ellis, _Carteggio_, 27 aprile 1686; Barillon, 19–29 aprile; Citters, 20–30 aprile; Libro del Consiglio Privato, 27 marzo; Luttrel, _Diario_; Adda, 26 febbraio–8 marzo, 26 marzo–5 aprile, 2–12 aprile, 23 aprile–3 maggio. [109] Burnet, _Viaggi_. [110] Barillon, 27 maggio–6 giugno 1686. [111] Citters, 25 maggio–4 giugno 1686. [112] Ellis, _Carteggio_, 25 giugno 1686; Citters, 2–12 luglio; Luttrell, _Diario_, 19 luglio. [113] Vedi le poesie di queʼ tempi intitolate: _Hounslow Heath_, e _Lo Spettro di Cesare_; Evelyn, _Diario_, 2 giugno 1686. Una ballata, nella Biblioteca di Pepys, contiene il tratto seguente: «Io amava il luogo oltre ogni credere: non vidi mai un campo così bello: nessuna donna che non fosse convenevolmente vestita, poteva gustare un bicchiere di vino.» [114] Luttrell, Diario, 18 giugno 1686. [115] Vedi le _Memorie_ di Johnson premesse alla edizione _in folio_ della sua vita, il suo Giuliano, e le risposte ai suoi avversari. Vedi anche il _Gioviano_ dʼHickes. [116] _Vita di Johnson_, premessa alle sue opere; _Storia segreta della felice Rivoluzione_ di Ugo Speke; _Processi di Stato_; Citters, 23 novembre–3 dicembre 1686. Il miglior racconto del processo di Johnson è quello di Citters. Ho veduto un foglio volante che lo conferma. [117] Vedi la prefazione ai _Sermoni postumi_ dʼEnrico Wharton. [118] Lo affermo per esperienza. Ve nʼè unʼinsigne raccolta nel Museo Britannico. Birch dice, nella _Vita di Tillotson_, che lo Arcivescovo Wake non potè formare un esatto catalogo di tutti gli scritti pubblicati intorno a questa controversia. [119] Il cardinale Howard parlò fortemente a Burnet in Roma intorno a ciò. Burnet, I, 662. Vi è anche un curioso tratto, che si riferisce a tale subietto, in un dispaccio di Barillon: ma ho smarrita la citazione. Uno deʼ Cattolici Romani disputanti in questa controversia, cioè il gesuita Andrea Patton, che Oliver, nella Biografia della Società di Gesù, giudica uomo dʼinsigne abilità, confessa francamente i propri difetti. «A. P. avendo dimorato per lo spazio di anni diciotto fuori della terra natia, non pretende ancora di sapere parlare e scrivere perfettamente la lingua inglese.» La sua ortografia veramente fa pietà. In una lettera scrive _wright_ invece di _write_, _woed_ invece di _would_. Sfidò Tenison a disputare in latino, perchè potessero combattere con armi uguali. In una satira di quel tempo, intitolata il _Consiglio_, si leggono le seguenti parole: «Manda Pulton ad essere sferzato alla scuola di Bushy, acciocchè, stampando, non più si mostri sciocco.» Un altro Cattolico Romano, chiamato Guglielmo Clench, scrisse un trattato intorno alla Supremazia del Papa, e vi appose una dedica italiana alla Regina. Ad esempio del suo stile serva il seguente saggio: «O del sagro marito fortunata consorte! O dolce alleviamento dʼaffari alti! O grato ristoro di pensieri noiosi, nel cui petto latteo, lucente specchio dʼillibata matronal pudicizia, nel cui seno odorato, come in porto dʼamor si ritira il Giacomo! O beata regia coppia! O felice inserto tra lʼinvincibil leone e le candide aquile!» Lo stile inglese di Clench è dello stesso conio del suo toscano. A modo dʼesempio: «Pietro significa una rocca inespugnabile, che può evacuare tutte le congiure del divano dellʼinferno, e naufragare tutti i luridi disegni deglʼinveleniti eretici.» Un altro trattato cattolico romano, che ha per titolo _La Chiesa dʼInghilterra fedelmente descritta_, incomincia dicendo: “Il fuoco fatuo della Riforma, che è diventato una cometa per molti atti di spoliazioni e di rapine, è stato introdotto in Inghilterra, purificato delle lordure che aveva contratte fra i laghi delle Alpi.” [120] Barillon, 19–29 luglio 1686. [121] Att. Parlam., 24 agosto 1560; 15 dicembre 1567. [122] Att. Parlam., 8 maggio 1685. [123] Att. Parlam., 31 agosto 1681. [124] Burnet, I, 584. [125] Burnet, I, 652, 653. [126] Ibid., I, 678. [127] Ibid., I, 653. [128] Fountainhall, 28 gennaio 1685–86. [129] Fountainhall, 11 gennaio 1685–86. [130] Fountainhall, 31 gennaio e 1 febbraio 1685–86; Burnet, I, 678; Processi di David Mowbray ed Alessandro Keith, nella _Collezione deʼ Processi di Stato_: Bonrepaux, 11–21 febbraio. [131] Luigi a Barillon, 18–28 febbraio 1686. [132] Fountainhall, 16 febbraio; Woodrow, libro III, cap. X, sez. 4. “Vogliamo” scriveva graziosamente Sua Maestà “che non risparmiate nessun mezzo legale di prova, infliggendo anche la tortura ec.” [133] Bonrepaux, 18–28 febbraio 1686. [134] Fountainhall, 11 marzo 1686; Adda, 1–11 marzo. [135] Questa lettera ha la data del 4 marzo 1686. [136] Barillon, 19–29 aprile 1686; Burnet, I, 370. [137] Queste parole si trovano in una lettera di Johnstone di Waristoun. [138] Alcune parole di Barillon meritano dʼessere qui riferite. Basterebbero esse sole a sciogliere una questione che lʼignoranza e lo spirito di parte hanno grandemente resa dubbiosa. «_Cette liberté accordée aux Non–Conformistes a fait une grande difficulté, et a été débattue pendant plusieurs jours. Le Roy dʼAngleterre avoit fort envie que les Catholiques eussent seuls la liberté de lʼexercice de leur religion_.» 19–29 aprile 1686. [139] Barillon, 19–29 aprile 1686; Citters, 13–23, 20–30 aprile, 9–19 maggio. [140] Fountainhall, 6 maggio 1686. [141] Ibid., 15 giugno 1656. [142] Citters, 11–21 maggio 1686. Citters scrisse agli Stati, che lo sapeva da buona fonte. Ricopio una parte della sua narrazione. E un piacevole saggio dello impasticciato dialetto che usavano a queʼ tempi i Diplomatici Olandesi. «_Des Konigs missive, boven en behalven den Hoog Commissaris aensprake, aen et parlement afgesonden, gelyck dat altoos gebruyckebyck is, waerby Syne Majestayt nu in genere versocht hieft de mitigatie der rigoureuse ofte sanglante wetten van het Ryck jegens het Pausdom, in het Generale Comitée des Articles (500 men het daer naemt) na ordre gestelt en gelesen synde inʼt voteren, der Hertog van Hamilton onder anderen Klaer nyt seyde dat hy daertoe nient sonde verstaen, dat hy anders genegen was den konig in allen voorval getroou te dienen volgens het dictamen syner conscientie: ʼt gene reden gof aen de Lord Cancellier de Grave Perts te seggen dat hei woort conscientie niets en beduyde, en alleen een, individuum vagum was, waerop dev Cavalier Locquard dan verder gingh; wit man niet verstaen de betyckenis van het woordt conscientie, soo sal ik in fortioribus seggen dat wy meynen volgens de fondamentale wetten van het ryck_.» Nel Villano sfrenato vi è un tratto curioso, al quale, senza il riferito dispaccio di Citters, non avrei prestata fede. «Non possono sentire a nominare la coscienza. Uno che, rispetto a ciò, conosceva bene gli umori del Consiglio, disse ad un gentiluomo che vi andava: Vi scongiuro, in qualunque cosa facciate, a non parlar mai di coscienza innanzi ai Lordi, perocchè non possono patire nè anche di udirne il nome.» [143] Fountainhall, 17 maggio 1686. [144] Woodrow, III, X, 3. [145] Citters, 28 maggio–7 giugno, 1–11 giugno, 4–11 giugno 1686; Fountainhall, 15 giugno; Luttrell, _Diario_, 2–16 giugno. [146] Fountainhall, 21 giugno 1686. [147] Ibid., 16 settembre 1686. [148] Fountainhall, 16 settembre; Woodrow, III, X, 3. [149] Le provvisioni dellʼAtto Irlandese di Supremazia, 2 Elis., cap. 1, sono sostanzialmente le stesse dellʼAtto Inglese di Supremazia, 1 Elis., cap. 1; ma lʼAtto Inglese tosto fu trovato difettivo: al che fu provveduto con altro alto più vigoroso, 5 Elis., cap. 1. In Irlanda non si fece mai un somigliante atto supplementare. Lʼarcivescovo King, _Stato dellʼIrlanda_, cap. II, sez. 9, riferisce che la costruzione usata in quel testo fu messa nellʼAtto Irlandese di Supremazia. Egli chiama siffatta costruzione gesuitica; ma a me non sembra tale. [150] _Anatomia politica dellʼIrlanda_. [151] _Anatomia politica dellʼIrlanda_, 1672; Hudibras Irlandese, 1689; Giovanni Dunton, _Relazione dellʼIrlanda_, 1699. [152] Clarendon a Rochester, 4 maggio 1686. [153] Lettera del vescovo Malony al vescovo Tyrrel, 8 marzo 1689. [154] Statuto 10 e 11 di Carlo II, cap. 16; King, _Condizioni deʼ Protestanti dʼIrlanda_, cap. II, sez. 8. [155] King, cap. II, sez. 8. Il _King Corny_ di Miss Edgeworth appartiene ad una più tarda e più incivilita generazione; ma chi abbia studiato quella mirabile pittura, può farsi unʼidea di ciò che il bisavo di _King Corny_ doveva essere. [156] King, cap. III, sez. 2. [157] MS. Sheridan; Prefazione al volume 1 della _Hibernia Anglicana_, 1690. _Consulte secrete del Partito papista in Irlanda_. 1689. [158] «Eravi libertà di coscienza per connivenza, quantunque non vi fosse per legge.» King, cap. III, sez. 1. [159] In una lettera a Giacomo, trovatasi tra le carte del vescovo Tyrrel, e che ha la data del 14 agosto 1686, sʼincontrano alcune notevoli espressioni: «Pochi o nessuni sono i Protestanti in quel paese, i quali non siano collegati coi Whig contro il nemico comune.» E più sotto: «Coloro che qui (cioè in Inghilterra) passavano per Tory, pubblicamente parteggiano pei Whig in Irlanda.» Swift diceva le medesime cose pochi anni dopo al re Guglielmo: «Mi rammento dʼaver detto al re, trovandomi in Inghilterra, che i più rigorosi Tory che siano tra noi, ivi sarebbero Whig moderati.»—Lettera intorno alla Prova Sacramentale. [160] La ricchezza e la negligenza del clero anglicano dʼIrlanda sono ricordate con fortissime parole dal Lord Luogotenente Clarendon, testimone degno di tutta fede. [161] Clarendon rammenta ciò al re in una lettera in data del 14 marzo 1685–86, ed aggiunge chʼera cosa verissima. [162] Clarendon propose caldamente questa misura, ed opinava che il Parlamento Irlandese avrebbe fatta la parte sua. Vedi la lettera di lui ad Ormond, 28 agosto 1686. [163] Fu un OʼNeill, uomo di grande importanza, colui che disse non essere convenevole per lui storcere la bocca a balbettare lʼinglese. Prefazione al vol. I della _Hibernia Anglicana_. [164] Ms. Sheridan, tra le carte degli Stuardi. Debbo confessarmi grato alla cortesia con cui il sig. Glover mi ha aiutato a cercare quel pregevole manoscritto. Dagli ammonimenti che Giacomo, nel 1692, scrisse per suo figlio, pare chʼegli sempre pensasse che la Irlanda non si potesse senza pericolo affidare ad un Lord Luogotenente Irlandese. [165] Ms. Sheridan. [166] Clarendon a Rochester, 17 gennaio 1685–86; _Consulte segrete del Partito papista_ in Irlanda, 1690. [167] Clarendon a Rochester, 27 febbraio 1685–86. [168] Clarendon a Rochester e a Sunderland, 2 marzo 1685–86; ed a Rochester, 14 marzo. [169] Clarendon a Sunderland, 26 febbraio 1685–86. [170] Sunderland a Clarendon, 11 marzo 1685–86 [171] Clarendon a Rochester, 14 marzo 1685–86. [172] Clarendon a Giacomo, 4 marzo 1685–86. [173] Giacomo a Clarendon, 6 aprile 1685–86. [174] Sunderland a Clarendon, Clarendon a Sunderland, 6–11 luglio–22 maggio 1686; Clarendon ad Ormond, 30 maggio. [175] Clarendon a Rochester e a Sunderland, 1 giugno 1686; a Rochester, 12 giugno; King, _Condizioni deʼ Protestanti dʼIrlanda_, cap. II, sez. 6 e 7; _Apologia dei Protestanti dʼIrlanda_, 1689. [176] Clarendon a Rochester, 15 maggio 1686. [177] Clarendon a Rochester, 11 maggio 1686. [178] Ibid., 8 giugno 1686. [179] _Consulte secrete del Partito papista in Irlanda._ [180] Clarendon a Rochester, 26 giugno, e 4 luglio 1686; _Apologia deʼ Protestanti dʼIrlanda_, 1689. [181] Clarendon a Rochester, 4–22 luglio 1686; a Sunderland, 6 luglio; al re, 14 agosto. [182] Clarendon a Rochester, 19 giugno 1686. [183] Ibid., 22 giugno 1686. [184] MS. Sheridan; King, _Condizioni deʼ Protestanti dʼIrlanda_, cap. III, sezione 3 e 8. Un notabilissimo saggio della impudente mendacità di Tyrconnel trovasi nella lettera di Clarendon a Rochester, 22 luglio 1686. [185] Clarendon a Rochester, 8 giugno 1686. [186] Clarendon a Rochester, 23 settembre e 2 ottobre 1686; _Consulte secrete del Partito papista in Irlanda_, 1690. [187] Clarendon a Rochester, 6 ottobre 1686. [188] Clarendon al re, ed a Rochester, 23 ottobre 1686. [189] Clarendon a Rochester, 29, 30 ottobre 1686. [190] Ibid, 27 novembre 1686. [191] Barillon, 13–23 settembre 1686: Clarke, _Vita di Giacomo II_, vol. II, 99. [192] Ms. Sheridan. [193] Clarke, _Vita di Giacomo II_, vol. II, 100. [194] Barillon, 13–23 settembre 1686; Bonrepaux, 4 giugno 1687. [195] Barillon, 2–12 dicembre 1686; Burnet, I, 684; Clarke, _Vita di Giacomo II_, vol. II, 100; Dodd, Storia della Chiesa. Mi sono studiato dʼintessere un racconto schietto da cotesti materiali che lottano tra loro. Mi par chiaro, dagli stessi scritti di Rochester, che in questa occasione egli non si mostrasse così tenace come è stato asserito da Burnet, e dal biografo di Giacomo. [196] Dalle carte di Rochester, in data del dì 3 dicembre 1686. [197] Dalle carte di Rochester, 4 dicembre 1686. [198] Barillon, 20–30 dicembre 1686. [199] Burnet, I, 684. [200] Bonrepaux, 25 maggio–4 giugno 1687. [201] Carte di Rochester, 19 dicembre 1686; Barillon, 30 dicembre–9 gennaio 1686–87; Burnet, I, 685; Clarke, _Vita di Giacomo II_, II, 102. Libro del Tesoro, 29 dicembre 1686. [202] Il Vescovo Malony, in una lettera al vescovo Tyrrel, dice: «Nessun Cattolico o qualunque altro Inglese penserà mai, o farà mai un passo, o lascerà mai fare al re un passo pel vostro risorgimento; ma vi lascerà quali siete stati finora; lascerà i vostri nemici pesare sulle vostre teste: nè vi è Inglese, sia cattolico o no, di qualsivoglia grado o qualità, che abborrisca di sacrificare tutta la Irlanda a fine di salvare il suo più lieve interesse in Inghilterra: ei la vedrebbe più volentieri abitata tutta quanta dagli Inglesi di qualunque religione, che dagli Irlandesi.» [203] Il migliore racconto di questi fatti trovasi nel Ms. Sheridan. [204] Ms. Sheridan; Oldmixon, _Memorie sopra la Irlanda_; King, _Condizioni dei Protestanti dellʼIrlanda_, e segnatamente il cap. III; _Apologia deʼ Protestanti dellʼIrlanda_, 1689. [205] _Consulte segrete del Partito papale in Irlanda_, 1690. [206] Gazzetta di Londra, 6 gennaio e 14 marzo 1686–87; Evelyn, _Diario_, 10 marzo; Etherege, Lettera a Dover, nel Museo Britannico. [207] «Pare che gli animi sono inaspriti dalla voce che corre per il popolo, dʼesser cacciato il detto ministro per non essere Cattolico: perciò tirarsi allʼesterminio deʼ Protestanti.» Adda, 31 dicembre–10 gennaio 1687. [208] Le fonti principali da cui ho ricavata la materia a ritrarre il Principe dʼOrange, sono la _Storia_ di Burnet, le _Memorie_ di Temple e Gourville, le _Legazioni_ deʼ Conti dʼEstrade e dʼAvaux, le _Lettere_ di Sir Giorgio Downing al Lord Cancelliere Clarendon, la voluminosa _Storia_ di Wagenaar, lʼopera di Kamper intitolata _Karakterkunde der Vaderlandsche Geschiendeis_; e sopra tutto lo Epistolario familiare di Guglielmo, del quale carteggio il Duca di Portland concesse a Sir Giacomo Mackintosh dʼestrarre una copia. [209] Dopo la pace di Ryswick, Guglielmo fu caldamente pregato dagli amici suoi a parlare severamente allo ambasciadore francese intorno alle trame dʼassassinio che i Giacomiti di Saint–Germains meditavano sempre. La fredda magnanimità ondʼegli accolse tali annunzi di pericolo è singolarmente caratteristica. A Bentinck, che da Parigi aveva trasmesso avvisi di grande sospetto, Guglielmo rispose in fine ad una lunga lettera dʼaffari queste semplici parole:—«_Pour les assassins, je ne luy en ay pas voulu parler, croiant que cʼétoit au dessous de moy;_» 2–12 maggio 1698. Citando la riferita lettera, ho conservata la ortografia originale, seppure meriti tal nome. [210] Da Windsor scriveva a Bentinck, allora ambasciatore a Parigi: «_Jʼay pris avant hier un cerf dans la foreste avec les chiains du Pr. de Denm., et ay fait un assez jolie chasse, autant que ce vilain paiis le permest_;» 20 marzo–1 Aprile 1698. Lʼortografia è cattiva, ma non peggiore di quella di Napoleone. Guglielmo da Loo scrisse con più buon umore:«_Nous avons pris deux gros cerfs, le premier dans Dorewaert, qui est des plus gros que je sache avoir jamais pris. Il porte seize_.» 25 ottobre–4 novembre 1697. [211] Marzo 1679. [212] «_Voilà en peu de mot le détail de nostre St. Hubert. Et jʼay eu soin que M. Woodstoc_ (era figlio maggiore di Bentinck) _nʼa point esté à la chasse, bien moin au soupè; quoyquʼil fût icy. Vous pouvez pourtant croire que de nʼavoir pas chassè lʼa un peu mortifiè, mais je ne lʼay pas ausé prendre sur moy, puisque vous mʼaviez dit que vous ne le souhaitiez pas_.» Da Loo, 4 novembre 1697. [213] 15 giugno 1688. [214] 6 settembre 1679. [215] Vedi ciò che di lei scrive Swift, nel _Giornale a Stella_. [216] Enrico Sidney, _Diario_, 31 marzo 1680, nella interessante collezione di Blencowe. [217] Il Presidente Onslow, Annotazione a Burnet, I, 596. Johnson, _Vita di Spraf_. [218] Niuno ha contraddetto a Burnet con maggior frequenza ed asprezza di Dartmouth. Nondimeno Dartmouth scrisse: «Non credo chʼegli a disegno abbia mai pubblicato cosa chʼegli credesse falsa.» Più tardi Dartmouth, provocato da alcune osservazioni che lo concernevano nel secondo volume della Storia di Burnet, disdisse la riferita lode: il che non merita conto dʼoccuparsene. Anche Swift ebbe la giustizia di dire: «Al postutto, egli era un uomo generoso e di buona indole.» _Brevi osservazioni intorno la Storia del Vescovo Burnet_. Suole riprendersi Burnet come storico molto trascurato; ma io reputo affatto ingiusto cotale addebito. Ei pare singolarmente trascurato, solo perchè la sua narrazione è stata sottoposta ad uno scrutinio singolarmente severo ed ostile. Se qualcuno deʼ Whig avesse giudicato valere lo incomodo di sottoporre le _Memorie_ di Reresby, lo _Esame_ di North, il _Racconto della Rivoluzione_ fatto da Mulgrave, o la _Vita di Giacomo II_ pubblicata da Clarke, ad un simile scrutinio, chiaro si vedrebbe che Burnet è ben lungi dallʼessere il più inesatto scrittore deʼ suoi tempi. [219] Vedi la Narrazione ms. del Dr. Hooper, pubblicata nellʼAppendice alla _Vita di Guglielmo_, scritta da Dungannon. [220] Avaux, _Negoziazioni_, 10–20 Agosto, 14–24 Settembre–8 Ottobre, 7–17 dicembre 1682. [221] Non posso ricusare a me stesso il piacere di citare la descrizione che Massillon, con modo ostile, quantunque giudizioso e nobile, fa di Guglielmo. «_Un prince profond dans ses vues; habile à former des ligues et a réunir les esprits; plus heureux à exciter les guerres quʼà combattre; plus à craindre encore dans le secret du cabinet quʼà fa tête des armées; un ennemi que la haine du nom français avoit rendu capable dʼimaginer de grandes choses et de les exécuter; un de ces génies qui semblent être nés pour mouvoir à leur gré les peuples et les souverains; un grand homme, sʼil nʼavoit jamais voulu être roi._»_ Oraison funèbre de M. le Dauphin_. [222] Per esempio: «_Je crois M. Feversham un très brave et honeste homme. Mais je doute sʼil a assez dʼexpérience à diriger une si grande affaire quʼil a sur les bras. Dieu lui donne un succès prompt et heureux. Mais je ne suis pas hors dʼinquiétude_.» 7–17 luglio 1685. Inoltre, dopo dʼaver ricevuta la nuova della battaglia di Sedgemoor, egli scrive: «_Dieu soit loué du bon succès que les troupes du Roy ont eu contre les rebelles. Je ne doute pas que cette affaire ne soit entièrement assoupie, et que le règne du Roy soit heureux: ce que Dieu veuille_.» 10–20 luglio. [223] Questo trattato trovasi nel _Recueil des Traités_, IV, Nº 209. [224] Burnet, I, 762. [225] Temple, _Memorie_. [226] Vedi le poesie intitolate: _I Convertiti_, e _LʼInganno_. [227] Trovasi nella _Collezione delle Poesie Politiche_. [228] Le notizie che abbiamo intorno a Wycherley, sono pochissime; ma due cose sono certe: cioè, che negli ultimi anni di sua vita egli si chiamava papista, e che ricevè danari da Giacomo. Dubito poco la sua conversione non gli sia stata pagata. [229] Vedi lo articolo intorno a lui nella _Biographia Britannica_. [230] Vedi ciò che intorno a lui dice Giacomo Quin, nella _Miscellanea_ di Davies; Tommaso Brown, _Opere_; _Vite degli Scrocconi_; Dryden, nellʼEpilogo del _Secular Masque_. [231] Questo fatto, che sfuggì alle minute ricerche di Malone, si raccoglie dal Copia–Lettere del Tesoro 1685. [232] Leenwen, 25 dicembre–4 gennaio 1685–86. [233] Barillon, 31 gennaio–10 febbraio 1686–87: _«Je crois que, dans le fond, si on ne pouvoit laisser que la Religion Anglicane et la Catholique établies par les loix, le Roy dʼAngleterre en seroit bien plus content.»_ [234] Trovasi nellʼopera di Wodrow, Appendice, vol. II. Nº 129. [235] Wodrow, Appendice, vol. II, Nº 128, 129, 132. [236] Barillon, 28 febbraio–10 marzo 1686–87; Citters, 15–25 febbraio; Reresby, _Memorie_; Bonrepaux, 25 maggio–4 giugno 1687. [237] Barillon, 14–24 marzo 1687; Lady Russell al Dottore Fitzwilliam, 1 aprile; Burnet, I, 671, 772. Questo colloquio è riferito con qualche differenza da Clarke nella _Vita di Giacomo_, II, 204. Ma quel brano non è parte delle Memorie originali del Re. [238] _Gazzetta di Londra_, 21 marzo 1686–87. [239] _Gazzetta di Londra_, 7 aprile 1687. [240] _Libro del tesoro_. Vedi, in ispecie, le istruzioni in data del dì 8 marzo 1687–88; Burnet, I, 715; _Riflessioni intorno al Proclama di sua Maestà sopra la Tolleranza in Iscozia_; _Lettere contenenti alcune riflessioni sopra la Dichiarazione fatta da sua Maestà per la Libertà di Coscienza_; _Apologia della Chiesa Anglicana rispetto allo spirito di persecuzione del quale è accusata_, 1687–88. Mi riesce impossibile citare tutti gli scritti da cui ho tratto i materiali per descrivere le condizioni deʼ partiti a quel tempo. [241] _Lettera ad un Dissenziente_. [242] Wodrow, Appendice, vol. II, Nº 132, 134. [243] _Gazzetta di Londra_, 21 aprile 1687; _Critica dʼuno scritto di recente pubblicato col titolo: Lettera ad un Dissenziente_, per E. C. (Enrico Care), 1687. [244] Lestrange, _Risposta alla Lettera ad un Dissenziente_; Care, _Critica della Lettera ad un Dissenziente_; _Dialogo tra Enrico e Ruggiero_, cioè tra Enrico Care e Ruggiero Lestrange. [245] La Lettera era firmata T. W. Care nella sua _Critica_, dice: «Questo Messer Politico T. W., o W. T.; perocchè alcuni critici pensano doversi leggere a questo modo.» [246] Ellis, _Carteggio_, 15 marzo, 27 luglio 1686; Barillon, 28 febbraio–10 Marzo, 3–13 marzo, 6–16 marzo; Ronquillo, 9–19 marzo 1687, nella collezione di Mackintosh. [247] Wood, _Athenæ Oxonienses_; lʼ_Osservatore_; _Eraclitus Ridens_, passim. Gli scritti di Care apprestano i migliori argomenti a conoscere il suo carattere. [248] Calamy, _Relazione intorno ai Ministri cacciati o fatti tacere dopo la Restaurazione_, Contea di Northampton; Wood, _Athenæ Oxonienses_; _Biographia Britannica_. [249] _Processi di Stato_; Samuele Rosewell, _Vita di Tommaso Rosewell_, 1718; Calamy, _Relazione_ ec. [250] _Gazzetta di Londra_, 15 marzo 1685–86; Nichols, _Difesa della Chiesa Anglicana_; Pierce, _Difesa dei Dissenzienti_. [251] Questi indirizzi si trovano in vari numeri della _Gazzetta di Londra_. [252] Calamy, _Vita di Baxter_. [253] Calamy, _Vita di Howe_. La parte che la famiglia Hampden ebbe in quella faccenda, si conosce da una lettera di Johnstone a Waristoun, in data del 13 giugno 1688. [254] Bunyan [255] Young mette al pari la prosa di Bunyan con la poesia di Durfey. Le classi elevate, nel _Don Chisciotte Spirituale_, pongono il _Viaggio del Pellegrino_ (_Pilgrimʼs Progress_) con _Jack lo Ammazza–giganti_. Sul declinare del secolo decimottavo, Cooper appena si rischiò ad alludere al grande allegorista, dicendo: “Io non ti nomino, perocchè un nome così spregiato potrebbe muovere lʼaltrui scherno contro la fama che ben meriti.” [256] Vedi la _Continuazione della Vita di Bunyan_, aggiunta alla sua _Grazia Abbondante_. [257] Kiffin, _Memorie_; Luson, _Lettera a Brooke_, 11 maggio 1773, nel _Carteggio_ di Hugues. [258] Vedi, fra tutti gli altri libercoli di quei tempi, uno scritto col titolo di _Esposizione deʼ Pericoli imminenti ai Protestanti_. [259] Burnet, I. 693, 694. [260] «_Le prince dʼOrange, qui avoit éludé jusquʼalors de faire une réponse positive, dit..... quʼil ne consentira jamais à la suppression de ces loix qui avoient été établies pour le maintien et la sureté de la Religion protestante; et que sa conscience ne le lui permettoit point, non seulement pour la succession du royaume dʼAngleterre, mais même pour lʼempire du monde: en sorte que le Roi dʼAngleterre est plus aigri contre lui quʼil nʼa jamais été._»—Bonrepaux, 11–21 giugno 1687. [261] Burnet, I, 710; Bonrepaux, 24 maggio–4 giugno 1687. [262] Johnstone, 13 gennaio 1689; Halifax, _Anatomia dʼun Equivalente_. [263] Burnet, I, 726–731; _Risposta alle Lettere dʼAccusa emanate contro il Dott. Burnet_; Avaux, _Negoziazioni_, 7–17, 14–24 luglio, 28 luglio–7 Agosto 1687, 19–29 gennaio 1688; Luigi a Barillon, 30 dicembre–9 gennaio 1687–88; Johnstone di Waristoun, 21 febbraio 1688; Lady Russell al Dott. Fitzwilliam, 5 ottobre 1687. Poichè taluni hanno sospettato che Burnet, il quale certo non aveva costume di far poco valere la propria importanza, esagerasse il pericolo al quale trovavasi esposto, riferirò le parole di Luigi e quelle di Johnstone: «_Qui que ce soit_, dice Luigi, _qui entreprenne de lʼenlever en Hollande trouvera non seulement une retraite assurée et une entière protection dans mes états, mais aussi toute lʼassistance quʼil pourra désirer pour faire conduire sûrement ce scélérat en Angleterre._»—«La faccenda di Bamfield (_Burnet_) è certamente vera, dice Johnstone. Nessuno ne dubita qui, e alcuni che vi sono mescolati non la negano. I suoi amici dicono di sapere chʼegli si dà poco pensiero di sè, ma mosso da vanità, a fine di mostrare il suo coraggio, mostra la sua follia; di guisa che, se male glʼincorra, la gente ne farà le risate. Vi prego, ditegli queste cose da parte di Jones (_Johnstone_). Se si potesse metter le mani addosso a qualcuno nellʼatto di fare il _coup dʼessai_, servirebbe ad atterrire gli altri perchè non attentino ad Ogle (_al Principe_).» [264] Burnet, I, 708; Avaux, _Negoziazioni_, 3–13 gennaio, 6–16 febbraio 1687; Van Kampen, _Karakterkunde_ ec. [265] Burnet, I, 711. I dispacci di Dykvelt agli Stati Generali non contengono, per quanto io abbia veduto o possa sapere, una sola parola allusiva al vero scopo della sua legazione. Il suo carteggio col Principe di Orange era strettamente privato. [266] Bonrepaux, 12–22 settembre 1687. [267] Vedi la Vita che ne scrisse Campbell. [268] Johnstone, _Carteggio_; Mackay, _Memorie_; Arbuthnot, _John Bull_. Vedi anche gli scritti di Swift, _passim_, dal 1710 al 1714; Whiston, _Lettera al Conte di Nottingham_, e la risposta del Conte. [269] Kennet, _Orazione funebre del Duca di Devonshire_, e _Memorie della famiglia di Cavendish_; _Processi di Stato_; _Libro del Consiglio Privato_, 5 marzo 1685–86; Barillon 30 giugno–10 luglio 1687; Johnstone, 8–18 dicembre 1687; _Giornali deʼ Lordi_, 6 maggio 1689. «_Ses amis et ses proches_, dice Barillon, _lui conseillent de prendre le bon parti, mais il persiste jusquʼà prèsent à ne se point soumettre. Sʼil vouloit se bien conduire et renoncer a être populaire, il ne payeroit pas lʼamende; mais sʼil sʼopiniâtre, il lui en coûtera trente mille pièces, et il demeurera prisonnier jusquʼà lʼactuel payement._» [270] La ragione della condotta di Churchill trovasi con chiarezza e brevità dimostrata nella _Difesa della Duchessa di Marlborough_: “Era manifesto a tutto il mondo, che nel modo onde Re Giacomo conduceva le cose, ciascuno, o presto o tardi, sarebbe stato rovinato ricusando di farsi Cattolico Romano. Ciò mi indusse a plaudire al Principe dʼOrange, che imprese a liberarci da tanto servaggio.” [271] Grammont, _Memorie_; Pepys, 21 febbraio 1684–85. [272] Sarebbe infinito enumerare tutti i libri dai quali ho tratto le materie a giudicare il carattere della Duchessa. Le lettere sue, la difesa, le risposte che provocò, sono state le mie fonti precipue. [273] La epistola formale che Dykvelt recò agli Stati, trovasi negli Archivi dellʼAja. Le altre lettere sopra rammentate sono state pubblicate da Dalrymple, Appendice al Libro V. [274] Sunderland a Guglielmo, 24 agosto 1686; Guglielmo a Sunderland, 2–12 settembre 1686; Barillon, 6–16 maggio, 26 maggio–5 giugno, 3–13 ottobre, 28 novembre–8 dicembre 1687; Luigi a Barillon, 14–24 ottobre 1687; _Memoriale dʼAlbeville_, 15–25 dicembre 1687; Giacomo a Guglielmo, 17 gennaio, 16 febbraio, 2, 13 marzo 1688; Avaux, _Negoz._, 1–11, 6–16, 8–18 marzo, 22 marzo–1 aprile 1688. [275] Adda, 9–19 novembre 1686. [276] Il Professore di lingua greca nel Collegio di Propaganda espresse la sua ammirazione in certi detestabili distici, deʼ quali ecco un esempio: _Ῥωγερίου δὴ σκεψόνος λαμπροῖο θρίαμβον ὦκα μάλ̓ ήϊσσεν και θέεν ὄχλος ἅπας._ _Θαυμάζουσα δὲ τὴν πομπὴν παγχρυσεά τ̓ αὐτοῦ ἅρματα, τοὺς δ̓ ἵππους, τοιάδε ῾Ρώμη ἔφη_.... I versi latini sono poco migliori. Nahum Tate rispose in inglese: _His glorious train and passing pomp to view, A pomp that even to Rome itself was new, Each age, each sex, the latian turrets filled, Each age and sex in tears of joy distilled._ [277] Carteggio di Giacomo e dʼInnocenzo nel Museo Britannico; Burnet, I, 703–705; Welwood _Memorie_; _Giornali deʼ Comuni_, 28 ottobre 1689; _Relazione delta legazione di Sua Eccellenza Ruggiero Conte di Castelmaine per Michele Wright, maestro di casa di Sua Eccellenza in Roma_, 1685. [278] Barillon, 2–12 maggio 1687. [279] _Memorie del Duca di Somerset_; Citters, 5–15 luglio 1687; Eachard, _Storia della Rivoluzione_; Clarke, _Vita di Giacomo II_, ii, 116, 117, 118; Lord Lonsdale, _Memorie_. [280] _Gazzetta di Londra_, 7 luglio 1687; Citters, 7–17 luglio; Vedi la Relazione della Ceremonia stampata fra gli scritti di Somers. [281] _Gazzetta di Londra_, 4 luglio 1687. [282] Vedi gli Statuti 18 Enr. 6, c. 19; 2 e 3, Ed. 6, c. 2; Eachard, _Storia della Rivoluzione_; Kennet, III, 468; North, _Vita di Guildford_, 247; _Gazzetta di Londra_, 18 aprile; 23 maggio 1687; _Difesa del C. di R._ (Conte di Rochester). [283] I Prologhi di Dryden e le _Memorie_ di Cibber contengono abbondevoli prove della stima che i più grandi poeti ed attori facevano del gusto degli Oxfordiani. [284] Vedi la poesia intitolata: _Consiglio al Pittore intorno la Sconfitta deʼ ribelli nelle Contrade Occidentali_. Vedi anche unʼaltra poesia detestabilissima sul medesimo subietto, dettata da Stepney, che allora era studente nel Collegio della Trinità. [285] Vedi il carattere di Sheffield come lo descrive Mackay, e la nota di Swift; la _Satira sopra i Deponenti_, 1688; _Vita di Giovanni Duca della Contea di Buckingham_, 1729; Barillon, 30 agosto 1687. Serbo una satira manoscritta contro Mulgrave con la data del 1690 Non è priva di spirito; i più notevoli versi dicono così: «Pietro (_Petre_) oggi e Burnet domani, egli (Mulgrave) lusinga i farabutti di tutti i partiti e di tutte le religioni.» [286] Vedi il processo contro la Università di Cambridge nella _Collezione dei Processi di Stato_. [287] Wood, _Athenæ Oxonienses; Apologia della vita di Colley Cibber_; Citters, 2–12 marzo 1686. [288] Burnet, I, 697; _Lettera di Lord Ailesbury_, pubblicata nel _Magazzino Europeo_, aprile 1795. [289] Wood, _Athenæ Oxonienses_; Walker, _Patimenti del Clero_. [290] Burnet, I, 697; Tanner, _Notitia Monastica_. Dalla visita o ispezione fatta nel ventesimosesto anno di Enrico VIII risultò che lʼ annua rendita del Collegio del Re era lire sterline 751, del Collegio Nuovo 487, e di quello della Maddalena 1076. [291] _Relazione del Processo del Charterhouse_, 1689. [292] Vedi la _Gazzetta di Londra_, dal 18 agosto fino al 1º settembre 1687; Barillon, 19–29 settembre. [293] «_Penn chef des Quakers, quʼon sait être dans les intérêts du Roi dʼAngleterre, est si fort décrié parmi ceux de son parti, quʼils nʼont plus aucune confiance en lui_.» Bonrepaux a Seignelay, 12–22 settembre 1687. A queste parole risponde la testimonianza di Gherardo Croese: «_Etiam Quakeri Pennum non amplius, ut ante, ita amabant ac magnifaciebant, quidam aversabantur ac fugiebant_.» _Historia Quakeriana_, lib. II, 1695. [294] Cartwright, _Diario_, 30 agosto 1687. Clarkson, _Vita di Guglielmo Penn_. [295] _Gazzetta di Londra_, 5 settembre; Ms. Sheridan; Barillon, 6–16 settembre 1687. «_Le Roi son maître, dice Barillon, a témoigné une grande satisfaction des mesures quʼil a prises, et a autorisé ce quʼil a fait en faveur des Catholiques. Il les établit dans les emplois et les charges, en sorte que lʼautorité se trouvera bientôt entre leurs mains. Il reste encore beaucoup de choses à faire en ce pays–là pour retirer les biens injustement ôtés aux Catholiques; mais cela ne peut sʼexécuter quʼavec le temps et dans lʼassemblée dʼun parlement en Irlande_.» [296] _Gazzetta di Londra_, 5 e 8 settembre 1687. [297] Vedi il _Processo contro il Collegio della Maddalena in Oxford, per non avere eletto Antonio Farmer a Presidente del detto Collegio_, nella _Collezione dei Processi di Stato_, edizione di Howell; Luttrell, _Diario_, 15, 17, giugno, 24 ottobre, 10 dicembre 1687; Smith, _Narrazione_; Lettera del dott. Riccardo Rawlinson in data del 31 ottobre 1687; Reresby, _Memorie_; Burnet, I, 699; Cartwright, _Diario_; Citters, 23 ottobre–4 novembre, 28 ottobre–7 novembre, 8–18 novembre 1687. [298] «_Quand on connoît le dedans de cette cour aussi intimement que je la connois, on peut croire que sa Majesté Britannique donnera volontiers dans ces sortes de projets_.» Bonrepaux a Seignelay, 18–28 marzo 1686. [299] «_Que, quand pour établir la religion catholique, et pour la confirmer icy, il (Giacomo) devroit se rendre en quelque façon dépendant de la France, et mettre la décision de la succession à la couronne entre les mains de ce monarque là, quʼil seroit obligé de le faire, parce quʼil vaudroit mieux pour ses sujets quʼils devinssent vassaux du Roy de France, étant catholique, que de demeurer comme esclaves du Diable_.» Questo documento esiste e negli Archivi di Francia e in quelli dʼOlanda. [300] Citters, 6–16, 17–27 agosto 1686; Barillon, 19–29 agosto. [301] Barillon, 13–23 settembre 1686. «_La succession est une matière fort délicate à traiter. Je sais pourtant quʼon en parle au Roy dʼAngleterre, et quʼon ne désespère pas avec le temps de trouver des moyens pour faire passer la couronne sur la tête dʼun héritier catholique._» [302] Bonrepaux, 11–21 luglio 1687. [303] Bonrepaux a Seignelay, 25 agosto–4 settembre 1687. Riferirò poche parole di questo notevolissimo documento: «_Je sais bien certainement que lʼintention du Roy dʼAngleterre est de faire perdre ce royaume (la Irlanda) à son successeur, et de le fortifier en sorte que tous ses sujets catholiques y puissent avoir un asyle assuré. Son projet est de mettre les choses en cet estat dans le cours de cinq années_.» Nelle _Consulte Secrete del Partito Papale in Irlanda_, stampate nel 1690, è un luogo che mostra come siffatte pratiche non fossero tenute strettamente secrete. «Quantunque il Re tenesse questo disegno celato alla più parte deʼ suoi Consiglieri, nondimeno è certo chʼegli aveva promesso al Re di Francia la facoltà di disporre di quel governo e di quel Regno quando le cose fossero apparecchiate in modo da potere far ciò impunemente.» [304] Citters, 28 ottobre–7 novembre, 22 novembre–2 dicembre 1687; la Principessa Anna alla Principessa dʼOrange, 14 e 20 marzo 1687–88; Barillon, 1–11 dicembre 1687; _Politica della Rivoluzione_; la Canzone intitolata: _Two Toms and a Nat_; Johnstone, 4 aprile 1688; _Consulte secrete del partito Papale in Irlanda_, 1690. [305] Le inquietudini del Re intorno a questo negozio sono riferite da Ronquillo, 12–22 dicembre 1687: «_Un Principe de Vales y un Duque de York y otro de Lochaosterna_ (credo voglia dire Lancastro) _no bastan a redimir la gente; porque el Rey tiene 54 annos, y vendrá a morir, dejando los hijos pequeños, y que entonces el reyno se apoderará dellos, y les nambrará tutor, y los educará en la religion protestante, contra la disposicion que dejare el Rey, y la autoritad de la Reyna_.» [306] Esistono tre liste di quel tempo; una negli Archivi francesi due altre in quelli della famiglia Portland. In tali liste i Pari sono classificati con le seguenti categorie: _Per lʼabrogazione dellʼAtto di Prova.—Contro lʼabrogazione—Dubbi_. Secondo una delle predette liste 31 sono pro, 86 contra, 20 dubbi; secondo lʼaltra 33 pro, 87 contra, 19 dubbi; secondo la terza 35 pro, 92 contra, e 10 dubbi. Di questi documenti trovansi le copie nei Mss. Mackintosh. [307] Nel Museo Britannico esiste una lettera di Dryden ad Etherege in data di febbraio 1688. Non mi ricordo dʼaverla veduta mai stampata «Voglia il cielo, dice Dryden, che il nostro sovrano promuova con lo esempio gli ozi beati, siccome fece il suo fratello di benedetta memoria: imperocchè il cuore mi dice chʼegli non vantaggerà punto le sue faccende col darsi moto.» [308] Barillon, 20 agosto–8 settembre 1687. [309] Lo riferì Lord Bradford, che vi si trovava presente, a Dartmouth; Annotazione a Burnet, I, 755. [310] _Gazzetta di Londra_, 12 dicembre 1687. [311] Bonrepaux a Seignelay, 14–24 novembre; Citters, 15–25 novembre; _Giornali dei Lordi_, 10 dicembre 1689. [312] Citters, 28 ottobre–7 novembre 1687. [313] Halstead, _Breve Genealogia della Famiglia De Vere_, 1685; Collins, _Collezioni storiche_. Vedi neʼ _Giornali deʼ Lordi_, e nelle _Relazioni_ di Jones i processi rispetto alla Contea di Oxford, marzo e aprile 1625–26. Lo esordio del discorso del Lord Capo Giudice Crew si annovera fra i più squisiti esempi dellʼantica eloquenza inglese. Citters, 7–17 febbraio 1688. [314] Coxe, _Carteggio di Shrewsbury_; Mackay, _Memorie; Vita di Carlo Duca di Shrewsbury_, 1718; Burnet, I, 762; Birch, _Vita di Tillotson_, dove il lettore troverà una lettera di Tillotson a Shrewsbury, la quale mi sembra esempio di grave, amichevole e cortesissimo rimprovero. [315] Norina chiamava Re Carlo il suo Carlo III. Si disputa se Dorset o il Maggiore Hart fosse per lei il Carlo I. Ma a me sembra che in favore di Dorset siano maggiori le testimonianze. Vedi il passo soppresso di Burnet, I, 263, e Pepys, _Diario_, 26 ottobre 1667. [316] Pepys, _Diario_; la dedica delle poesie di Prior al Duca di Dorset; Johnson, _Vita di Dorset_; Dryden, _Saggio sopra la Satira_, e la dedica del _Saggio sopra la Poesia Drammatica_. Lo affetto che Dorset sentiva per la sua moglie e la rigorosa fedeltà che le serbò, sono sprezzantemente rammentate dal dissoluto Sir Giorgio Etherege nelle sue lettere da Ratisbona, 9–19 dicembre 1687, e 16–26 gennaio 1688; Shadwell, dedica dello _Scudiero dʼAlsazia_; Burnet, I, 264; Mackay, _Caratteri_. Alcune delle specialità di Dorset sono ben descritte nello epitaffio che di lui scrisse Pope: «Dolce era la sua indole, quantunque fosse severo il suo canto.» E appresso: «Benedetto cortigiano, il quale potè rendersi gradito al Re ed al paese, e nondimeno tener sacre le sue amicizie e le sue agiatezze.» [317] Barillon, 9–19 gennaio 1688; Citters, 31 gennaio–10 febbraio. [318] Adda, 3–13, 10–20 febbraio 1688. [319] Barillon, 5–15, 8–18, 12–22 dicembre 1687; Citters, 29 novembre–9 dicembre, 2–12 dicembre. [320] Citters, 28 ottobre–7 novembre 1687; Lonsdale, _Memorie_. [321] Citters, 22 novembre–2 dicembre 1687. [322] Ibid., 27 dicembre–6 gennaio 1687–88. [323] Ibid. [324] Johnstone nota due volte la collera di Rochester in questa occasione, 25 novembre, e 8 dicembre 1687. Della sua poca riuscita fa menzione Citters, 6–16 dicembre. [325] Citters, 6–16 dicembre 1687. [326] Ibid., 20–30 dicembre 1687. [327] Ibid., 30 marzo–9 aprile 1687. [328] Ibid., 22 novembre–2 dicembre 1687. [329] Citters, 15–25 novembre 1687. [330] Citters, 10–20 aprile 1688. [331] Deʼ timori che si avevano intorno alla Contea di Lancastro parla Citters in un dispaccio in data del 18–28 novembre 1687; e del risultato in un dispaccio scritto quattro giorni dopo. [332] Bonrepaux, 11–21 luglio 1687. [333] Citters, 3–13 febbraio 1688. [334] Citters, 5–15 aprile 1688. [335] _Gazzetta di Londra_, 5 dicembre 1687; Citters, 6–16 dicembre. [336] Circa venti anni innanzi questa epoca un Gesuita aveva notato la vita ritirata che menavano in Inghilterra i gentiluomini delle campagne. «La nobiltà inglese, se non se legata in servigio di Corte, o in opera di maestrato, vive, e gode il più dellʼanno alla campagna, neʼ suoi palagi e poderi, dove son liberi e padroni; e ciò tanto più sollecitamente i Cattolici, quanto più utilmente, sì come meno osservati colà.» _LʼInghilterra descritta dal P. Daniello Bartoli_, Roma 1667. «Molti degli Sceriffi papisti, scriveva Johnstone, hanno possessioni e dichiarano che chiunque sʼaspetti chʼessi falsino le elezioni, si troverà ingannato. I gentiluomini papisti che vivono nelle loro case di campagna sono molto diversi da coloro che abitano qui in città. Parecchi di loro hanno ricusata la nomina di Sceriffi e Luogotenenti Deputati.» 8 dicembre 1687. Ronquillo dice le stesse cose: «_Algunos Catolicos que fueron nombrados por sherifez se han excusado_.» 9–19 gennaio 1688. Alcuni mesi dopo scrisse alla sua Corte che i gentiloomini cattolici delle campagne avrebbero acconsentito a un accomodamento le cui condizioni sarebbero state lʼabolizione delle leggi penali, e la conservazione dellʼAtto di Prova. «_Estoy informado, dice egli que los Catolicos de las provincias no lo repruebon; pues non pretendiendo oficios, y siendo solo algunos de la Corte los provechosos, les parece que mejoran su estado, quedando seguros ellos y sus descendientes en la religion, en la quietad, y en la securitad de sus haciendas_.» 23 luglio–2 agosto 1688. [337] _Libro del Consiglio Privato_, 25 settembre 1687; 21 febbraio 1687–88. [338] Ricordi del Corpo Municipale, citati da Brand nella _Storia di Newcastle_; Johnstone, 21 febbraio 1687–88. [339] Johnstone, 21 febbraio 1687–88. [340] Citters, 14–24 febbraio 1687–88. [341] Ibid. 1–11 maggio 1688. [342] Nel margine del libro del Consiglio Privato sono notate le parole “Seconda Regolazione, e Terza Regolazione” sempre che un Corpo Municipale era stato riformato più volte. [343] Johnstone, 23 maggio 1688. [344] Ibid., 21 febbraio 1688. [345] Johnstone, 21 febbraio 1688. [346] Citters, 20–30 marzo 1688. [347] Ibid., 1–11 maggio 1688. [348] Citters, 22 maggio–1 giugno 1688. [349] Ibid., 1–11 maggio 1688. [350] Ibid., 18–28 maggio 1688. [351] Citters, 6–16 aprile 1688; Copialettere del Tesoro, 24 marzo 1687–88; Ronquillo, 16–26 aprile. [352] Citters, 18–28 maggio 1688. [353] Citters, 18–28 maggio 1688. [354] _Gazzetta di Londra_, 1688. Vedi processo contro Williams nella _Collezione dei Processi di Stato_. “_Ha hecho_, dice Ronquillo, _grande susto el haber nombrado el abogado Williams que fue el orador y el mas arrabiado de toda la casa de los comunes en los ultimos terribles parlamentos del Rey difunto_.” 27 novembre–7 dicembre 1687. [355] _Gazzetta di Londra_, 30 aprile 1688; Barillon, 26 aprile–6 maggio. [356] Citters, 1–11 maggio 1688. [357] _Gazzetta di Londra_, 7 maggio 1688. [358] Johnstone, 27 maggio 1688. [359] Io sospetto che Alessandro Knox, uomo insigne, del quale lo eloquente conversare e le elaborate lettere ebbero grande influenza sulle menti deʼ suoi coetanei, imparasse gran parte del suo sistema teologico negli scritti di Fowler. Il libro di Fowler intorno allo _Intendimento del Cristianesimo_ fu assalito da Giovanni Bunyam con ferocia da non potersi giustificare, ma che può alquanto essere scusata dalla nascita e dalla educazione dellʼonesto calderaio. [360] Johnstone, 23 maggio 1688. Vi è una poesia satirica su questa ragunanza, ed ha titolo _La Cabala Clericale_. [361] Clarendon, _Diario_, 22 maggio 1688. [362] Estratti dal Ms. Tanner neʼ _Processi di Stato_ di Howell; _Vita di Prideaux_; Clarendon, _Diario_, 16 maggio 1688. [363] Clarendon, _Diario_, 16 e 17 maggio 1688. [364] Sancroft, Relazione del fatto, tratta dal Ms. di Tanner. Citters, 22 maggio–1 giugno 1688. [365] Burnet, I, 741; _Politica della Rivoluzione_. [366] Clarke, _Vita di Giacomo II_, ii, 155. [367] Citters, 22 maggio–1 giugno 1688; Burnet, I, 740; e lʼannotazione di Lord Dartmouth; Southey, _Vita di Wesley_. [368] Citters, 22 maggio–1 giugno 1688. [369] Citters, 29 maggio–8 giugno 1688. [370] Citters, 29 maggio–8 giugno 1688. [371] Barillon, 24 maggio–3 giugno, 31 maggio–10 giugno 1688; Citters, 1–11 luglio; Adda, 25 maggio–4 giugno, 30 maggio–9 giugno, 1–11 giugno; Clarke, _Vita di Giacomo II_, ii, 158. [372] Burnet, I, 740; Vita di Prideaux; Citters, 12–22, 15–25 giugno 1688, MS. Tanner; Vita e Carteggio di Pepys. [373] Vedi la Relazione di Sancroft, stampata, e tratta dal MS. Tanner. [374] Burnet, I, 741; Citters, 8–18, 12–22 giugno 1688; Luttrell, Diario, 8 giugno; Evelyn, Diario; Lettera del dottore Nalson a sua moglie, in data del 14 giugno, e tratta dal MS. Tanner; Reresby, Memorie. [375] Reresby, Memorie. [376] Carteggio tra Anna e Maria in Darlymple; Clarendon, _Diario_, 31 ottobre 1688. [377] Ciò chiaro si deduce dal _Diario_ di Clarendon, 31 ottobre 1688. [378] Clarke, _Vita di Giacomo II_, ii, 159, 160. [379] Clarendon, _Diario_, 10 giugno 1688. [380] Johnstone in poche parole narra squisitamente il caso: “Generalmente il popolo crede che tutto sia un inganno; perocchè dicono: i calcoli sono cangiati, la principessa allontanata, la famiglia Clarendon e lo Ambasciatore Olandese non invitati, la instantaneità della cosa, le prediche, le assicurazioni deʼ preti, la furia.” 13 giugno 1688. [381] Ronquillo, 26 luglio–5 agosto. Ronquillo aggiunge che le cose dette da Zulestein circa la pubblica opinione in Inghilterra, erano esattamente vere. [382] Citters, 12–22 giugno 1688; Luttrell, _Diario_, 18 giugno. [383] Per le cose eseguite in questo giorno vedi i _Processi di Stato_; Clarendon, _Diario_; Luttrell, Diario; Citters, 15–25 giugno; Johnstone, 19 giugno; _Politica della Rivoluzione_. [384] Johnstone, 18 giugno 1688; Evelyn, _Diario_, 29 giugno. [385] Ms. Tanner. [386] Questo fatto mi fu comunicato cortesissimamente dal Reverendo R. S. Hawker di Morwenstow in Cornwall. [387] Johnstone, 18 giugno 1688. [388] Adda, 29 giugno–9 luglio 1688. [389] Non è da fidarsi—già sʼintende—in ciò che lo stesso Sunderland racconta. Ma egli chiama in testimonio Godolphin di ciò che seguì rispetto allʼAtto di Stabilimento in Irlanda. [390] Barillon, 24 giugno–1 luglio 1688; Adda, 29 giugno–9 luglio; Citters, 26 giugno–6 luglio; Johnstone, 2 luglio 1688; _I Convertiti_, poesia. [391] Clarendon, _Diario_, 21 giugno 1688. [392] Citters, 26 giugno–6 luglio 1688. [393] Johnstone, 2 luglio 1688. [394] Johnstone, 2 luglio 1688. [395] Johnstone, 2 luglio 1688. Lo editore delle relazioni di Levinz grandemente si maraviglia che, dopo la Rivoluzione, Levinz non fosse rimesso nel suo ufficio. I fatti narrati da Johnstone varranno forse a spiegare questa apparente ingiustizia. [396] Lo deduco da una lettera di Compton a Sancroft, in data del 12 giugno. [397] _Politica della Rivoluzione_. [398] Sono le precise parole dʼun testimone oculare, e trovansi in una lettera nella Collezione di Mackintosh. [399] Vedi il processo nella _Collezione dei Processi di Stato_. Ho tratto alcuni particolari da Johnstone ed alcuni altri da Van Citters. [400] Johnstone, 2 luglio 1688; Lettera del signor Ince allo Arcivescovo, in data delle ore sei antimeridiane; Ms. Tanner; _Politica della Rivoluzione_. [401] Johnstone, 2 luglio 1688. [402] _Processi di Stato_; Oldmixon, 739; Clarendon, _Diario_, 25 giugno 1688; Johnstone, 2 luglio; Citters, 3–13 luglio; Adda, 6–16 luglio; Luttrell, _Diario_; Barillon, 2–12 luglio. [403] Citters 3–13 luglio. La gravità con cui egli racconta il fatto produce un effetto comico: “_Den Bisschop van Chester, wie seer de partie van het hof houdt, om te voldoen aan syne gewoone nieusgierigheit, hem op dien tyt in Westminster Hall mede hebbende laten vinden, in het uitgaan doorgaans was nitgekreten voor een grypende wolf in schaaps kleederen; en hy synde een heer van hooge stature en vollyvig, spotsgewyse alomme geroepen was dat men woor hem plaats moeste maken, om te laten passen, gelyck ook geschiede, om dat soo sy uitschreouwden en hem in het aansigt seyden, hy deh Paas in syn buych hadde_.” [404] Luttrell; Citters, 3–13 luglio 1688. “_Soo syn integendeet gedagtejurys met de uyterste acclamatie en alle teyckenen van genegenheyt in danckbaarbeyt in het door passeren van de gemeente ontvangen. Honderden vielen haar om den hals met alle bedenckelycke wewensch van segen en geluck over hare persoonen on familien, om dat sy haar so husch en eerlyck buyten verwagtinge als het ware in desen gedragen hadden. Veele van de grouten en cleynen adel wierpen in het wegryden handen vol gelt onder de armen luyden om op de gesontheyt van den Coning, der Heeren Prelaten, en de Jurys te drincken_.” [405] “_Mi trovava con Milord Sunderland la stessa mattina, quando venne lʼAvvocato Generale a rendergli conto del successo, e disse che mai più a memoria dʼuomini si era sentito un applauso, mescolato di voci e lacrime di giubilo, eguale a quello che veniva egli di vedere in questʼoccasione_.” Adda, 6–16 luglio 1688. [406] Burnet, I, 74; Citters, 3–13 luglio 1688. [407] Vedi una assai curiosa Relazione, pubblicata nel 1710 fra altre scritture da Danby, allora Duca di Leeds. Un piacevole racconto di cotesta cerimonia trovasi nello _Esame_ di North, 570. Vedi anche lʼannotazione allo Epilogo dellʼ_Edipo_ nelle Opere di Dryden, edizione di Gualtiero Scott. [408] Reresby, _Memorie_; Citters, 3–13 luglio 1688; Adda, 6–16 luglio; Barillon, 2–12 luglio; Luttrell, _Diario_; Lettera di notizie, 4 luglio; Oldmixon, 739, Carteggio di Ellis. [409] Il _Fur Prædestinatus_. [410] Questo documento trovasi nella prima delle dodici Collezioni degli scritti relativi agli affari dʼInghilterra, stampati verso la fine del 1688 e il principio del 1689. Fu pubblicato il dì 26 luglio, poco meno dʼun mese dopo il processo. Lloyd di Santo Asaph intorno al medesimo tempo disse ad Enrico Wharton che i Vescovi si proponevano di adottare una politica affatto nuova verso i Protestanti Dissenzienti. “_Omni modo curaturos ut ecclesia sordibus et corruptelis penitus exueretur; ut sectariis reformatis reditus in ecclesiæ sinum exoptati occasio ac ratio concederetur, si qui sobrii et pii essent; ut pertinacibus interim jugum levaretur, extinctis penitus legibus mulctatoriis_.”—_Excerpta ex Vita H. Wharton_. [411] Questo variare dʼopinioni nel partito Tory è assai bene esposto in un libretto pubblicato nel principio del 1689, col titolo: _Dialogo tra due Amici, nel quale la Chiesa Anglicana si difende dʼessersi collegata col Principe dʼOrange_. [412] «_Aut nunc, aut nunquam_.» Ms. Witsen citato da Wagenaar, lib. LX. [413] Burnet, I, 763. [414] Sidney, _Diario e Carteggio_, pubblicati da Blencowe; Mackay, Memorie, e la nota di Swift: Burnet, I, 763. [415] Burnet, I, 763; Lettera in cifra a Guglielmo in data del 18 giugno 1688 in Dalrymple. [416] Burnet, I, 764; Lettera in cifra a Guglielmo, in data del 18 giugno 1688. [417] Intorno a Montaigne, vedi la lettera di Halifax a Cotton. Credo che la testa di Halifax che si vede nellʼAbbadia di Westminster porga di lui migliore idea di quel che facciano tutte le pitture e incisioni da me vedute. [418] Burnet, I, 764; Sidney al principe dʼOrange, 30 giugno 1688, in Dalrymple. [419] Burnet, I, 763; Lumley a Guglielmo, 31 maggio 1688, in Dalrymple. [420] Vedi cotesto invito distesamente riportato da Dalrymple. [421] Lettera di Sidney a Guglielmo, 30 giugno 1688; Avaux, _Negoz._, 10–20, 12–22 luglio. [422] Bonrepaux, 18–28 luglio 1687. [423] Estratti di Birch, nel Museo Britannico. [424] Avaux, _Negoz._, 28 ottobre–8 novembre 1683. [425] Quanto alle relazioni che passavano tra lo Statoldero e la città di Amsterdam, vedi Avaux, _passim_. [426] Adda, 6–16 luglio 1688. [427] Reresby, _Memorie_. [428] Barillon, 2–12 luglio 1688. [429] _Gazzetta di Londra_ del 16 luglio 1688. Lʼordine ha la data del 14 luglio. [430] Sono parole di Barillon, 6–16 luglio 1688. [431] Vedi una delle numerose ballate di quel tempo dove si fa allusione aʼ due Bretoni, che sono Jeffreys e Williams, entrambi naturali del paese di Galles. [432] Gazzetta di Londra, 9 luglio 1688. [433] Ellis, _Carteggio_, 10 luglio 1688; Clarendon, _Diario_, 3 agosto 1688. [434] _Gazzetta di Londra_, 9 luglio 1688; Adda, 13–23 luglio; Evelyn, _Diario_, 12 luglio; Johnstone, 8–18 dicembre 1687, 6–16 febbraio 1688. [435] Lettere di Sprat al Conte di Dorset; _Gazzetta di Londra_, 23 agosto 1688. [436] _Gazzetta di Londra_, 26 luglio 1688; Adda, 27 luglio–6 agosto; Lettera di Notizie nella Collezione Mackintosh, 25 luglio; Ellis, _Carteggio_, 28–31 luglio; Wood, _Fasti Oxonienses_. [437] Wood, _Athenæ Oxonienses_; Luttrell, _Diario_, 23 agosto 1688. [438] Ronquillo, 17–27 settembre 1688; Luttrell, _Diario_, 6 settembre. [439] Ellis, _Carteggio_, 4, 7 agosto 1688; Sprat, Relazione della Conferenza del 6 di novembre 1688. [440] Luttrell, Diario, 8 agosto 1688. [441] Ciò è riferito da tre scrittori, che potevano ben ricordarsi delle cose seguite in queʼ tempi, Kennet, Eachard, e Oldmixon. Vedi parimente lʼ_Avvertimento contro i Whig_. [442] Barillon, 23 agosto–2 settembre 1688, 3–13, 6–16, 8–18 settembre. [443] Luttrell, _Diario_, 27 agosto 1688. [444] King; _Condizioni dei Protestanti Irlandesi; Consulte secrete del Partito Papale in Irlanda_. [445] _Consulte secrete del partito Papale in Irlanda_. [446] _Storia della Diserzione_, 1689 (raffronta la prima con la seconda edizione); Barillon, 8–18 settembre 1688; Citters, alla stessa data; Clarke Vita di Giacomo II, ii, 168. Il compilatore di questa opera afferma che Churchill mosse la Corte Marziale a condannare i sei ufficiali a morte. Non sembra che tale storiella sia stata ricavata dalle carte del re, io quindi la considero come una delle tante menzogne inventate a San Germano a fine di denigrare un carattere già bastevolmente nero. Che Churchill in questa occasione avesse potuto simulare grande sdegno, onde nascondere il tradimento chʼei meditava, è molto probabile. Ma è impossibile a credersi che un uomo sensato come lui avesse spinto il Consiglio di Guerra ad infliggere una pena che era al di là della sua competenza. [447] La canzone di Lilliburello si trova nella Raccolta delle Poesie politiche. La prima parte si trova nei _Resti_ di Percy, ma non la seconda parte, la quale vi fu aggiunta dopo lo sbarco di Guglielmo. Nello _Esaminatore_, e in varii libercoli del 1712 si afferma che Wharton ne è lʼautore. [448] Vedi le _Negoziazioni_ del Conte dʼAvaux. Mi sarebbe quasi impossibile citare tutti i luoghi daʼ quali ho attinto le materie per questa parte del mio racconto. I più importanti si trovano sotto le seguenti date: 1685, 20, 24 settembre, 5 ottobre, 20 dicembre; 1686, 3 gennaio, 22 novembre; 1687, 2 ottobre, 6, 19 novembre; 1688, 29 luglio, 20 agosto. Lord Lonsdale nelle sue _Memorie_ giustamente nota che, se Luigi fosse stato più savio, la città dʼAmsterdam avrebbe impedita la Rivoluzione. [449] Ranke, _Die Römischen Päpste_, lib. VIII; Burnet, I, 759. [450] Burnet, I, 758. Lo scritto di Luigi ha la data del 28 agosto–6 settembre 1688, e trovasi nel _Recueil de Traités_, vol. IV, n. 219. [451] Per la profonda destrezza con cui egli mostrò sotto due diversi aspetti la sua politica a due diversi partiti fu acremente rimproverato poscia nella Corte di San Germano: «_Licet federatis publicus ille prædo haud aliud aperte proponat nisi ut Gallici Imperii exuberans amputetur potestas, verumtamen sibi et suis ex hæretica fæce complicibus, ut pro comperto habemus, longe aliud promittit, nempe ut, exciso vel enervato Francorum regno, ubi Catholicarum partium summum jam robur situm est, hæretica ipsorum pravitas per orbem Christianum universum prævaleat_.»—Lettera di Giacomo al Papa, evidentemente scritta nel 1689. [452] Avaux, _Negoz._, 2–12, 10–20, 11–21, 14–24, 16–26, 17–27 agosto, 23 agosto–2 settembre 1688. [453] Avaux, _Negoz._, 4–14 settembre 1688. [454] Burnet, I, 765. La lettera di Churchill ha la data del 4 agosto 1688. [455] Guglielmo a Bentinck, 17–27 agosto 1688. [456] _Memorie del Duca di Shrewsbury_, 1718. [457] _Gazzetta di Londra_, 25, 28 aprile 1687. [458] _Consulte secrete del partito Papale in Irlanda_. Le cose sopradette sono confermate da ciò che Bonrepaux scriveva a Seignelay, 12–22 settembre 1687. «_Il_ (Sunderland) _amassera beaucoup dʼargent, le roi son maître lui donnant la plus grande partie de celui qui provient des confiscations ou des accommodemens que ceux qui ont encouru des peines font pour obtenir leur grace_.» [459] Adda, dice che il terrore gli si leggeva chiaramente in viso; 26 ottobre–5 novembre 1688. [460] Raffronta ciò che ne dice Evelyn con ciò che intorno a lei scrisse allʼAja la principessa di Danimarca, e con le sue stesse lettere ad Enrico Sidney. [461] Bonrepaux a Seignelay, 11–21 luglio 1688. [462] Vedi le sue lettere nel _Diario_ e Carteggio di Sidney di recente pubblicati. Fox, nella sua copia deʼ Dispacci di Barillon, nota il dì 30 agosto N. S. 1688, come data del tempo in cui è certo che Sunderland praticasse il tradimento. [463] 19–29 agosto 1688. [464] 4–14 settembre 1688. [465] Avaux, 19–29 luglio, 31 luglio–10 agosto, 11–21 agosto 1688; Luigi a Barillon, 2–12, 16–26 agosto. [466] Barillon, 20–30 agosto. 23 agosto–2 settembre 1688; Adda, 24 agosto–3 settembre; Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 177. _Mem. Orig_. [467] Luigi a Barillon, 3–13, 8–18, 11–21 settembre 1688. [468] Avaux, 23 agosto–2 settembre, 30 agosto–9 settembre 1688. [469] «Che lʼadulazione e la vanità gli avevano tornato il capo» Adda, 31 agosto–10 settembre 1688. [470] Citters, 11–21 settembre 1688; Avaux, 17–27 settembre, 27 settembre–7 ottobre; Barillon, 23 settembre–3 ottobre; Wagenaar, libro LX; Sunderland, _Apologia_. Spesso è stato asserito che Giacomo ricusò lo aiuto dʼun esercito francese. Vero è che tale offerta non fu mai fatta. Le truppe francesi sarebbero state più utili a Giacomo minacciando le frontiere dellʼOlanda, che traversando il Canale. [471] Luigi a Barillon, 20–30 settembre 1688. [472] Avaux, 27 settembre–7 ottobre, 4–14 ottobre 1688. [473] Madame de Sévigné, 24 ottobre–3 novembre 1688. [474] Ms Witsen citato da Wagenaar; lord Lonsdale, _Memorie_; Avaux, 4–14, 5–15 ottobre 1688. La dichiarazione formale degli Stati Generali, in data del 18–28 ottobre, trovasi nel _Recueil des Traités_, vol. IV, nº 225. [475] _Abrégé de la Vie de Frédéric Duc de Schomberg_, 1690; Sidney a Guglielmo, 30 giugno 1688; Burnet, I, 677. [476] Burnet, I, 584; Mackay, _Memorie_. [477] Burnet, I, 775, 780. [478] Eachard, _Storia della Rivoluzione_, II, 2. [479] Pepys, _Memorie relative alla Real Marina_, 1690; Clarke, _Vita di Giacomo II_, ii, 186, _Memorie originali_; Adda, 21 settembre–1 ottobre; Citters, 21 settembre–4 ottobre. [480] Clarke, _Vita di Giacomo II_, ii, 186, _Memorie originali_; Adda, 24 settembre–1 ottobre; Citters, 21 settembre–1 ottobre. [481] Adda, 28 settembre–8 ottobre 1688. Da questo dispaccio si raccoglie come Giacomo forte temesse una defezione universale neʼ suoi sudditi. [482] La poca luce che ci resta intorno a queste pratiche è derivata dagli scritti di Reresby, il quale ne fu informato da una donna chʼegli non nomina, e alla quale non potevasi prestare cieca credenza. [483] _Gazzetta di Londra_, 24, 27 settembre, 1 ottobre 1688. [484] Mss. Tanner; Burnet, I, 784. Credo che Burnet abbia confusa questa udienza con unʼaltra che ebbe luogo parecchie settimane dopo. [485] _Gazzetta di Londra_, 8 ottobre 1688. [486] _Gazzetta di Londra_, 8 ottobre 1688. [487] _Gazzetta di Londra_, 15 ottobre 1688; Adda, 12–22 ottobre. Sembra che il Nunzio, comechè generalmente abborrisse dalle misure violente, si fosse opposto alla riabilitazione di Hough, probabilmente per favorire glʼinteressi di Giffard e degli altri Cattolici romani che stanziavano nel Collegio della Maddalena. Leyburn disse dʼessere «_nel sentimento che fosse stato uno sbaglio, e che il possesso in cui si trovano ora li Cattolici fosse violento ed illegale, onde non era privar questi di un dritto acquisito, ma rendere agli altri quello che era stato levato con violenza._» [488] _Gazzetta di Londra_, 18 ottobre 1688. [489] “_Vento papista_,” dice Adda, 24 ottobre–3 novembre 1688. Sembra che il vocabolo _protestante_ sia stato primamente applicato a quel vento, che per qualche tempo impedì a Tyrconnel di prendere possesso del governo dʼIrlanda. Vedi la prima parte del _Lillibullero_. [490] Tutte le prove di questo fatto sono raccolte neʼ _Processi di Stato_, edizione di Howell. [491] Si trovano con molti altri particolari neʼ _Processi di Stato_, edizione di Howell. [492] Barillon. 8–18, 15–25, 18–28 ottobre, 23 ottobre–1 novembre, 27 ottobre–6 novembre, 29 ottobre–8 novembre 1688; Adda, 26 ottobre–5 novembre. [493] _Gazzetta di Londra_, 29 ottobre 1688. [494] _Registro degli Atti degli Stati dʼOlanda e della Frisia Occidentale_; Burnet, I, 782. [495] _Gazzetta di Londra_, 29 ottobre 1688; Burnet, I, 782; Bentinck a sua moglie, 21–31 ottobre, 22 ottobre–1 novembre, 24 ottobre–3 novembre, 27 ottobre–6 novembre 1688. [496] Citters, 2–12 novembre 1688; Adda; 2–12 novembre. [497] Ronquillo, 12–22 novembre 1688. «_Estas respuestas_» dice Ronquillo «_son ciertas, aunque mas las encubrian en la corte_.» [498] _Gazzetta di Londra_, 5 novembre 1688. Il Proclama ha la data del dì 2 novembre. [499] Mss. Tanner. [500] Burnet, I, 787; Rapin, Whittle, _Diario esatto; Spedizione del principe dʼOrange in Inghilterra_, 1688; _Storia della Diserzione_, 1688; Dartmouth a Giacomo, 5 novembre 1688, in Dalrymple. [501] Avaux, 12–22 luglio, 14–24 agosto 1688. Intorno a questo soggetto il sig. De Jonge, il quale è parente deʼ discendenti dello Ammiraglio olandese Evertsen, mi ha cortesemente comunicate alcune interessanti notizie, tratte dalle carte di famiglia. In una lettera a Bentinck, in data del 6–16 settembre 1688, Guglielmo insiste sulla importanza dʼevitare un conflitto, e chiede che lo dica a Herbert: «_Ce nʼest pas le tems de faire voir sa bravoure ni de se battre si on le peut éviter. Je le luy ai déjà dit; mais il sera nécessaire que vous le répétiez, et que vous le luy fassiez bien comprendre._» [502] Rapin, _Storia_; Whittle, _Diario esatto_. Io ho veduto una carta di queʼ tempi nella quale è disegnato lʼordine con cui veleggiava la flotta olandese. [503] Adda, 5–15 novembre 1688; Lettera di Notizie nella Collezione di Mackintosh; Citters, 6–16 novembre. [504] Burnet, I, 788; Estratti dalle Carte di Legge nella Collezione di Mackintosh. [505] Credo che nessuno, il quale paragoni il racconto che fa Burnet di questo colloquio con ciò che ne dice Dartmouth, possa dubitare chʼio abbia fedelmente riferito lo accaduto. [506] Ho veduta una incisione, fatta a queʼ tempi in Olanda, rappresentante lo sbarco. Vi si vedono alcuni uomini che portano il letto del Principe nella trabacca in cima alla quale sventola la sua bandiera. [507] Burnet, I, 789. Legge, _Carte_. [508] Il 9 novembre 1688, Giacomo scrisse a Dartmouth queste parole: “Nessuno avrebbe potuto fare altrimenti da quello che avete fatto voi. Io sono sicuro che tutti i più esperti uomini di mare debbono essere di questa opinione.” Ma vedi Clarke, _Vita di Giacomo II_, 207, _Memorie Originali_. [509] Burnet, I, 790. [510] Vedi Whittle, _Diario_, la _Spedizione di Sua Altezza_, e la Lettera da Exon pubblicata in quel tempo. Io ho veduto manoscritte due Lettere di notizie, dove e descritta la pompa dello ingresso del Principe in Exeter. Pochi mesi dopo un cattivo poeta scrisse un dramma, intitolato: _Lʼultima Rivoluzione_. Una delle scene è in Exeter. Si vedono i battaglioni dellʼarmata del Principe marciare verso la città con bandiere spiegate e tamburo battente, fra il plauso deʼ cittadini. Un nobile chiamato Misopapa dice: “Potete voi, o mio Signore, indovinare in quali terribili sembianti la colpa e la paura hanno rappresentato la vostra armata alla Corte? Si esagera il numero e la statura deʼ vostri soldati; si dice che ciascuno di loro sia alto per lo meno sei piedi, tutti vestiti di pelle dʼorso, Svizzeri, Svedesi e Brandenburgesi.” In una canzone composta subito dopo lo ingresso in Exeter, glʼIrlandesi sono descritti come nani in paragone deʼ giganti comandati da Guglielmo. «Povero Berwich, come le tue care gioie potranno opporsi al famoso _viaggio_? I tuoi più alti giovani sono fantocci dinanzi ai guerrieri di Brandenburgo e di Svezia. _Coraggio! Coraggio!_» Addison nel _Freeholder_ allude allo effetto straordinario che producevano queste romanzesche storielle. [511] _Spedizione del principe dʼOrange_; Oldmixon, 755; Whittle, _Diario_; Eachard, III, 911; _Gazzetta di Londra_, 15 novembre 1688. [512] _Gazzetta di Londra_, 15 novembre 1688; _Spedizione del Principe dʼOrange_. [513] Clarke, _Vita di Giacomo_, II, 210, _Memor. Orig._; Sprat, _Narrazione_; Citters, 6–16 novembre 1688. [514] Luttrell, _Diario_; Lettera di notizie nella Collezione di Mackintosh; Adda, 16–26 novembre 1688. [515] Johnstone, 27 febbraio 1688; Citters, alla medesima data. [516] Lysons, _Magna Britannia_, Berkshire. [517] _Gazzetta di Londra_, 15 novembre 1688; Luttrell, _Diario_. [518] Burnet, I, 790; _Vita di Guglielmo_, 1703. [519] Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 215; _Memor. Orig._; Burnet, I, 790; Clarendon, _Diario_, 15 novembre 1688; _Gazzetta di Londra_, 17 novembre. [520] Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 218; Clarendon, _Diario_, 15 novembre 1688; Citters, 16–26 novembre. [521] Clarendon, _Diario_, 15,16, 17, 20 novembre 1688. [522] Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 219, _Memorie Originali_. [523] Clarendon, _Diario_, dallʼ8 al 17 novembre 1688. [524] Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 212, _Memorie Originali_; Clarendon, _Diario_, 17 novembre 1688; Citters, 20–30 novembre; Burnet, I, 791; _Alcune riflessioni sopra la Umilissima Petizione presentata allʼAugusta Maestà del Re_, 1688; _Modesta difesa della Petizione; Prima Collezione delle Scritture concernenti gli Affari dʼInghilterra_, 1688. [525] Adda, 19, 29 novembre 1688. [526] Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 220, 221. [527] Eachard, _Storia della Rivoluzione_. [528] La risposta che Seymour diede al Principe è riferita da molti scrittori. Somiglia molto a ciò che si racconta della famiglia Manriquez. Dicesi che essa avesse per epigrafe nellʼarmi gentilizie queste parole: “_Nos no descendemos de los Reyes, sino los Reyes descienden de nos._”—Carpentariana. [529] _Quarta Collezione di Scritture_, 1688; Lettera scritta da Exon; Burnet, I, 792. [530] Burnet, I, 792; _Storia della Diserzione; Seconda Collezione di Scritture_, 1688. [531] Lettera di Bath al Principe dʼOrange, 18 novembre 1688; Dalrymple. [532] _Prima Collezione di Scritture_, 1688; _Gazzetta di Londra_, 22 novembre. [533] Reresby, _Memorie_; Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 231, _Memorie Originali_. [534] Cibber, _Apologia_; _Storia della Diserzione_; Lutrell, _Diario_; _Seconda Collezione di Scritture_, 1688. [535] Whittle, _Diario_; _Storia della Diserzione_; Luttrell, _Diario_. [536] Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 222, _Memorie Originali_; Barillon, 21 novembre–1 dicembre 1688; Ms. Sheridan. [537] _Prima Collezione di Scritture_, 1688. [538] Lettera di Middleton a Preston, in data di Salisbury, 25 novembre. “Scelleraggine sopra scelleragine” dice Middleton, “e lʼultima anche maggiore della prima.” Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 224, 225, _Memorie Originali_. [539] _Storia della Diserzione_; Luttrell, _Diario_. [540] Dartmouth, Annotazione a Burnet, I, 643. [541] Clarendon, _Diario_, 26 novembre; Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 224. La lettera del Principe Giorgio al Re è stata più volte stampata. [542] Questa lettera, in data del 18 novembre, trovasi in Dalrymple. [543] Clarendon, _Diario_, 25, 26 novembre 1688; Citters, 26 novembre–6 dicembre; Ellis, Carteggio, 19 dicembre; _Difesa della Duchessa di Marlbourough_; Burnet, 1, 792; Compton al Principe dʼOrange, 2 dicembre 1688 in Dalrymple. Lʼabito militare del Vescovo è rammentato in innumerevoli scritti e satire di queʼ tempi. [544] Dartmouth, Annotazione a Burnet, I, 792; Citters, 26 novembre–6 dicembre 1688; Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 226, _Memorie Originali_; Clarendon _Diario_, 26 novembre, _Politica della Rivoluzione_. [545] Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 236, _Mem. Orig._; Burnet, I, 794; Luttrell, _Diario_; Clarendon, _Diario_, 27 novembre 1688; Citters, 27 novembre–7 dicembre, e 30 novembre–10 dicembre. Citters evidentemente ne fu informato da uno deʼ Lordi che si trovarono presenti. E poichè la cosa è importante, addurrò due brani deʼ suoi dispacci. Il Re disse: «Dat het by na voor hem unmogelyck was te pardoneren persoonen wie so hoog in syn reguarde schuldig stonden, vooral seer nytvarende jegens den Lord Churchill, wien hy hadde groot gemaakt en nogtans meyude de eenigste oorsake van alle dese desertie en van de retraite van bare Coninglycke Hoogheden te wesen» (_uno dei Lordi, probabilmente Halifax o Nottingham_) “Seer hadde geurgeet op de securiteyt van de lords die nu met syn Hoogheyt geengageert staan. Soo hoor ick” _dice Citters_ «dat syn Majesteyt onder anderen soude gesegt hebben;—Men sprekt al voor de securiteyt voor andere, en nient voor de myne.—Waar op een der Pairs resolut dan met groot respect soude geantwoordt hebben dat, soo syne Majesteytʼs wapenen in staat waren on hem te connen mainteneren, dat dan sulk syne securiteyte koude wesen; son niet, en soo de difficulteyt dan nog te surmonteren was, dat het den moeste geschieden door de meeste condescendance, en hoe meer die was, en hy genegen orn aan de natie contentement de geven, dat syne securiteyt ook des te grooter soude wesen.» [546] Lettera del Vescovo di Santo Asaph al Principe dʼOrange, 17 dicembre 1688. [547] _Gazzetta di Londra_, 29 novembre, 3 dicembre 1688; Clarendon, _Diario_, 29, 30 novembre. [548] Barillon, 1–11 dicembre 1688. [549] Giacomo a Dartmouth, 25 novembre 1688. Le lettere si trovano in Dalrymple. [550] Giacomo a Dartmouth, 1 dicembre 1688. [551] Luttrell, _Diario_. [552] _Seconda Collezione di Scritture_, 1688; la lettera di Dartmouth in data del dì 3 dicembre 1688, trovasi in Dalrymple; Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 233, _Memorie Originali_. Giacomo accusa Dartmouth di avere indotto la flotta a fare un indirizzo per chiedere la convocazione del Parlamento. Ed è pretta calunnia. Lʼindirizzo contiene solo ringraziamenti al Re per avere convocato il Parlamento, e fu scritto prima che Dartmouth avesse il più lieve sospetto che Sua Maestà stesse ingannando la nazione. [553] Luttrell, _Diario_. [554] Adda, 7–17 dicembre 1688. [555] Il Nunzio dice: “_Se lo avesse fatto prima di ora, per il Re ne sarebbe stato meglio._” [556] Vedi la _Storia secreta della Rivoluzione_ di Ugo Speke, 1715. Nella Biblioteca di Londra è un esemplare di questa opera rara, ed ha una nota manoscritta che sembra di mano dello autore. [557] Brand, _Storia di Newcastle_; Tickell, _Storia di Hull_. [558] Il racconto di ciò che seguì in Norwich trovasi in un foglio di quei tempi inserito in varie collezioni. Vedi anco la _Quarta Collezione di Scritture_, 1688. [559] Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 233; Memoria ms. della famiglia Harley nella Collezione di Mackintosh. [560] Citters, 9–19 dicembre 1688. Lettera del Vescovo di Bristol al Principe dʼOrange, 5 dicembre 1688, in Dalrymple. [561] Citters, 27 novembre–7 dicembre 1688; Clarendon, _Diario_, 11 dicembre; _Canzone sopra lo ingresso di Lord Lovelace in Oxford_, 1688; Burnet, I, 793. [562] Clarendon, _Diario_, 2, 3, 4, 5 dicembre 1688. [563] Whittle, _Diario Esatto_; Eachard, _Storia della Rivoluzione_. [564] Citters, 20–30 novembre, 9–19 dicembre 1688. [565] Clarendon, _Diario_, 6, 7 dicembre 1688. [566] Clarendon, _Diario_, 7 dicembre 1688. [567] _Storia della Diserzione_; Citters, 9–19 dicembre 1688; _Diario Esatto_; Oldmixon, 760. [568] Vedi una interessantissima nota al canto V del _Rokeby_ di Gualtiero Scott. [569] La narrazione che ho fatta di ciò che successe in Hungerford è presa dal _Diario_ di Clarendon, 8, 9 dicembre 1688; Burnet, I, 794; Proposta consegnata al Principe dai Commissarii, e Risposta del Principe; Sir Patrizio Hume, _Diario_; Citters, 9–19 dicembre. [570] Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 237. Burnet—strano a dirsi!—non aveva udito, o dimenticò di notare, che il Principe era stato ricondotto a Londra; I, 796. [571] Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 246; Père dʼOrleans, _Révolutions dʼAngleterre_; Madame de Sévigné, 14–24 dicembre; Dangeau, _Memorie_, 13–23 dicembre. Quanto a Lauzun vedi le _Memorie_ di Madamigella e del Duca di Saint–Simon, e i _Caratteri_ di Labruyère. [572] _Storia della Diserzione_; Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 251, _Memorie Originali_; Mulgrave, _Racconto della Rivoluzione_; Burnet, I, 795. [573] _Storia della Diserzione_; Mulgrave, _Racconto della Rivoluzione_; Eachard, _Storia della Rivoluzione_. [574] _Gazzetta di Londra_, 13 dicembre 1688. [575] Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 259; Mulgrave, _Racconto della Rivoluzione_; Legge, _Scritture_, nella Collezione di Mackintosh. [576] _Gazzetta di Londra_, 13 dicembre 1688; Barillon, 14–24 dicembre; Citters, alla medesima data; Luttrell, _Diario_; Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 256, _Memorie Originali_; Ellis, _Carteggio_, 13 dicembre; _Consulta del Consiglio di Stato di Spagna_, 19–29 gennaio 1689. Eʼ sembra che Ronquillo amaramente si querelasse presso il suo Governo per le perdite fatte; “_sirviendole solo de consuelo el haber tenido prevencion de poder consumir el Santissimo._” [577] _Gazzetta di Londra_, 13 dicembre 1688; Luttrell, _Diario_; Mulgrave, _Racconto della Rivoluzione_; _Consulta del Consiglio di Stato di Spagna_, 19–29 gennaio 1689. Nel Consiglio fu accennato a rappresaglie, ma tale suggerimento fu trattato con dispregio. “_Habiendo sido este echo por un furor de pueblo, sin consentimiento dei gobierno, y antes contra su voluntad, como lo ha mostrado la satisfaction che le han dado y le han prometido, parece que no hay juicio humano que puede acconsejar que se pase a semejante remedio._” [578] North, _Vita di Guildford_, 220; _Elegia di Jeffreys_; Luttrell, _Diario_; Oldmixon, 762. Oldmixon trovavasi tra la folla, e non dubito che fosse uno deʼ più furibondi. Egli racconta bene la cosa. Ellis, _Carteggio_; Burnet, I, 797, e la annotazione di Onslon. [579] Adda, 9–19 dicembre; Citters, 18–28 dicembre. [580] Citters, 14–24 dicembre; Luttrell, _Diario_; Ellis, _Carteggio_; Oldmizon, 761; Speke, _Storia Secreta della Rivoluzione_; Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 257; Eachard, _Storia della Rivoluzione_; _Storia della Diserzione_. [581] Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 258. [582] _Storia Secreta della Rivoluzione_. [583] Clarendon, _Diario_, 13 dicembre 1688; Citters, 14–24 dicembre; Eachard, _Storia della Rivoluzione_. [584] Citters, 14–24 dicembre; Luttrell, _Diario_. [585] Mulgrave, _Racconto della Rivoluzione_; Clarendon, _Diario_, 16 dicembre 1688. [586] A Reresby fu detto da una dama, chʼegli non nomina, il Re non avere avuta intenzione di fuggire finchè non ricevè una lettera scrittagli da Halifax che allora trovavasi in Hungerford, la quale lettera annunziava a Giacomo che rimanendo correva pericolo di vita. Questa, senza dubbio, è pretta favola. Il Re, innanzi che i Commissarii partissero da Londra, aveva detto a Barillon che la loro ambasceria altro non era che finzione, e sʼera mostrato deliberatissimo a lasciare lʼInghilterra. Chiaro si raccoglie dalla narrazione di Reresby che Halifax si reputò trattato vergognosamente. [587] Ms. Harl., 255. [588] Ms. Halifax; Citters, 18–28 dicembre, 1688. [589] Mulgrave, _Racconto della Rivoluzione_. [590] Vedi il suo Proclama colla data di Saint–Germain, 20 aprile 1692. [591] Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 261, _Mem. Orig._ [592] Clarendon, _Diario_, 16 dicembre 1688; Burnet, I, 800. [593] Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 262, _Mem. Orig._; Burnet, I, 799. Nella _Storia della Diserzione_ (1689) si afferma che le acclamazioni vennero da alcuni sfaccendati ragazzi, e che la maggior parte del popolo guardava in silenzio. Oldmixon, che trovavasi nella folla, dice lo stesso; e Ralph, i cui pregiudizi erano diversissimi da quei di Oldmixon, afferma la medesima cosa, e dice dʼaverlo saputo da un testimonio oculare. Forse la verità si è che le dimostrazioni di gioia furono piccolissime, ma sembrarono straordinarie perchè aspettavasi uno scoppio di sdegno nel pubblico. Barillon parla di acclamazioni e fuochi di gioia, ma aggiunge: _“Le peuple dans le fond est pour le Prince dʼOrange.”_ 17–27 dicembre 1688. [594] _Gazzetta di Londra_, 16 dicembre 1688; Mulgrave, _Racconto della Rivoluzione_; _Storia della Diserzione_; Burnet, I, 799; Evelyn, _Diario_, 13, 17 dicembre 1688 [595] Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 262, _Mem. Orig._ [596] Barillon, 17–27 dicembre 1688; Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 271. [597] Mulgrave, _Racconto della Rivoluzione_; Clarendon, _Diario_, 16 dicembre 1688. [598] Burnet, I, 800; Clarendon, _Diario_, 17 dicembre 1688; Citters, 18–28 dicembre 1688. [599] Burnet, I, 800; _Condotta della Duchessa di Marlborough_, Mulgrave, _Racconto della Rivoluzione_. Clarendon non dice nulla sotto questa data; ma vedi il suo Diario, 19 agosto 1689. [600] Harte, _Vita di Gustavo Adolfo_. [601] Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 264, e segnatamente le _Memorie Originali_; Mulgrave, _Racconto della Rivoluzione_; Rapin de Thoyras. È dʼuopo rammentare che Rapin fu parte in questi avvenimenti. [602] Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 265; _Mem. Orig._; Mulgrave, _Racconto della Rivoluzione_; Burnet, I, 801; Citters, 18–28 dicembre 1688. [603] Citters, 18–28 dicembre 1688; Evelyn, _Diario_, alla medesima data; Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 266, 267, _Memorie Originali_. [604] Citters, 18–28 dicembre 1688. [605] Luttrell, _Diario_; Evelyn, _Diario_; Clarendon, Diario, 18 dicembre 1688; _Politica della Rivoluzione_. [606] _Quarta Collezione di Scritture concernenti gli affari presenti dellʼInghilterra_, 1688; Burnet, I, 802, 803; Calamy, _Vita e Tempi di Baxter_, cap. XIV. [607] Burnet, I, 803. [608] _Gazzetta di Francia_, 26 gennaio–5 febbraio 1689. [609] _Storia della Diserzione_; Clarendon, _Diario_, 21 dicembre 1688; Burnet, I, 803, e la nota dʼOnslou. [610] Clarendon, _Diario_, 21 dicembre 1688; Citters, alla medesima data. [611] Clarendon, _Diario_, 21, 22 dicembre 1688; Clarke, _Vita di Giacomo_, II, 268, 270, _Memorie Originali_. [612] Clarendon, 23 dicembre 1688; Clarke, _Vita di Giacomo_, II, 271, 273, 275, _Mem. Orig_. [613] Citters, 1–11 gennaio 1689; Ms. Witsen citato da Wagenaar, libro LX. [614] Halifax, _Appunti_; Ms. Lansdowne, 255; Clarendon, _Diario_, 24 dicembre 1688; _Gazzetta di Londra_, 31 dicembre. [615] Citters, 25 dicembre–4 gennaio 1688–89. [616] Colui che fece la obiezione riferita nel testo, neʼ libri e nelle scritture di queʼ tempi si trova indicato con le sole iniziali. Eachard attribuisce il cavillo a Sir Roberto Southwell. Ma io non dubito che Oldmixon dica il vero ponendolo nella bocca di Sawyer. [617] _Storia della Diserzione; Vita di Guglielmo_, 1703; Citters, 28 dicembre–7 gennaio 1688–89. [618] _Gazzetta di Londra_, 3, 7 gennaio 1689 [619] _Gazzetta di Londra_, 10, 17 gennaio 1689; Luttrell, _Diario_; Legge, _Scritti_; Citters, 1–11, 4–14, 11–21 gennaio 1689; Ronquillo, 15–25 gennaio, 23 febbraio–5 Marzo; _Consulta del Consiglio di Stato di Spagna_, 26 marzo–5 aprile. [620] Burnet, I, 802; Ronquillo, 2–12 gennaio, 8–18 febbraio 1689. Gli originali di questi dispacci mi furono affidati dalla cortesia della defunta Lady Holland e dal vivente Lord Holland. Dellʼultimo dispaccio citerò poche parole: “_La tema de S. M. Britanica à seguir imprudentes consejos perdió á los Catolicos aquella quietud en que les dexó Carlos Segundo. V. E. asegure à su Santidad que mas sacaré del Principe para los Catolicos que pudiera sacar del Rey._” [621] Il dì 13–23 dicembre 1688 lo Ammiraglio di Castiglia in questa guisa espresse la propria opinione: “_Esta materia es de calidad que non puede dexar de padecer nuestra sagrada religion ó el servicio de V. M.; porque si el Principe de Orange tiene buenos succesos, nos aseguraremos de Franceses, pero peligrarà la religion._” Il Consiglio il dì 16–26 febbraio si mostrò assai soddisfatto dʼuna lettera del Principe, nella quale questi prometteva “_que los Catolicos que se portaren con prudencia no sean molestados, y gocen libertad de conscientia, por ser contra su dictamen el forzar, ni castigár por esta razon a nadie_...” [622] Nel capitolo di La Bruyère intitolato “_Sur les Jugemens_” trovasi un luogo che è degno di essere letto, come quello che mostra il modo onde un Francese di merito insigne ravvisava la nostra Rivoluzione. [623] La narrazione che ho fatta delle accoglienze chʼebbero in Francia Giacomo e sua moglie, è desunta principalmente dalle lettere di Madama di Sévigné, e dalle Memorie di Dangeau. [624] Albeville a Preston, 23 novembre–3 dicembre 1688, nella Collezione di Mackintosh. [625] “_Tishier un Hosanna: maar ʼt zal veelligt haast Kruist hem Kruist hem zin._” Ms. Witsen presso Wagenaar, lib. LXI. È pure strana coincidenza che pochissimi anni avanti, Riccardo Duke, poeta Tory, un tempo rinomato, ma adesso appena rammentato tranne nello schizzo biografico fattone da Johnson, aveva, rispetto a Giacomo, adoperata la medesima immagine. “Il grido della plebaglia giudaica deʼ tempi antichi non era prima _Osanna_ e poi _Crucifige_?” _La Rivista._ Dispaccio degli Ambasciatori straordinarii Olandesi, 8–18 gennaio 1689; Citters, alla stessa data. [626] _Gazzetta di Londra_, 7 gennaio 1688–89. [627] _Sesta Collezione di Scritture_, 1689; Wodrow, III, xii, 4, App. 150, 151; Burnet, I, 801. [628] Perth a Lady Errol, 29 dicembre 1688; a Melfort, 21 dicembre 1688; _Sesta Collezione di Scritture_, 1689. [629] Burnet, I, 805; _Sesta Collezione di Scritture_, 1689. [630] Albeville, 9–19 novembre 1688. [631] Vedi lo scritto intitolato: _Lettera ad un membro della Convenzione_, e la Risposta, 1689, Burnet, I, 809. [632] Lettera ai Lordi del Consiglio, 4–14 gennaio 1688–89; Clarendon, _Diario_, 9–19 gennaio. [633] Eʼ pare incredibile che alcuno si potesse lasciare sedurre da codeste stramberie. Però reputo opportuno citare le stesse parole di Sancroft che sono fino a noi pervenute, scritte di sua propria mano. “La capacità ed autorità politica del Re, e il suo nome nel Governo, sono perfetti e non possono errare; ma la sua persona essendo umana e mortale, e non privilegiata sopra le altre creature, è soggetta a tutti i difetti e gli errori di quelle. Egli può quindi essere inetto a dirigere il Governo, e spendere la pubblica pecunia ec., o per assenza, infanzia, demenza, delirio, apatia, infermità casuale o naturale, o da ultimo per invincibili pregiudicii di mente, contratti e raffermi dalla educazione e dallʼabitudine, aggiuntovi inalterabili risoluzioni, in materie affatto incompatibili con le leggi, la religione, la pace, e la vera politica del Regno. In tutti questi casi—io dico—bisogna che esistano uno o più individui deputati a supplire a tale difetto, e come vicarii del Re, e per suo potere ed autorità dirigano la cosa pubblica. Fatto questo, soggiungo che tutte le procedure, le autorizzazioni, le commissioni, le concessioni ec., pubblicate come per lo innanzi, sono legali e valide ad ogni effetto, e il debito di fedeltà nel popolo rimane lo stesso, i suoi giuramenti ed obblighi non sono in nulla impediti..... Finchè il Governo procede per autorità e in nome del Re, tutti quei sacri vincoli e quelle forme di procedura stabilite sono mantenute, e la coscienza di nessuno non sarà gravata di cosa alcuna chʼegli avesse scrupolo ad intraprendere.”—MS Tanner; Doyly, _Vita di Sancroft_. Non era al tutto irragionevole che lo stile del buon Arcivescovo facesse ridere i cortigiani di Giacomo. [634] Evelyn, 15 gennaio 1688–89. [635] Clarendon, _Diario_, 24 dicembre 1688; Burnet, I, 819; _Proposte umilmente offerte a pro della Principessa dʼOrange_, 28 gennaio, 1688–89. [636] Burnet, I, 389, e le annotazioni del Presidente Onslow. [637] Evelyn, _Diario_, 26 settembre 1672, 12 ottobre 1679, 13 luglio 1700; Seymour, _Sguardo su Londra_. [638] Burnet, I, 388, e le annotazioni del Presidente Onslow. [639] Citters, 22 gennaio–1 febbraio 1689; _Dibattimenti_ di Grey. [640] _Giornali dei Comuni, e dei Lordi_, 22 gennaio 1688–89; Citters, e Clarendon, _Diario_, alla medesima data. [641] _Giornali dei Lordi_, 25 gennaio 1688–89; Clarendon, _Diario_, 23, 25 gennaio. [642] _Giornali deʼ Comuni_, 28 gennaio 1688–89; Grey, _Dibattimenti_; Citters, 29 gennaio–8 febbraio. Se la relazione che si vede nei Dibattimenti di Grey è esatta, bisogna che Citters fosse male informato rispetto al Discorso di Sawyer. [643] _Giornali deʼ Lordi e deʼ Comuni_, 29 gennaio 1688–89. [644] Clarendon, _Diario_, 21 gennaio 1688–89; Burnet, I, 810; Doyly, _Vita di Sancroft_. [645] Vedi lʼ_Atto di Uniformità_. [646] Stat. 2 Hen. 7, c. 1: Lord Coke, _Instituta_, parte III, cap. 1; _Processo di Cook accusato dʼalto tradimento_, nella _Collezione dei Processi di Stato_; Burnet, I, 813, e lʼannotazione di Swift. [647] _Giornali dei Lordi_, 29 gennaio 1688–89; Clarendon, _Diario_; Evelyn, _Diario_; Citters; Eachard, _Storia della Rivoluzione_; Burnet, I, 813; _Storia del ristabilimento del Governo_, 1689. Il numero deʼ votanti pro e contra non è notato neʼ Giornali ed è variamente riferito da varii scrittori. Ho seguito Clarendon il quale si diede lo incomodo di fare le liste della maggioranza e della minoranza. [648] Grey, _Dibattimenti_; Evelyn, _Diario_; _Vita dellʼArcivescovo Sharp scritta da suo figlio_; _Apologia per la Nuova Separazione, lettera al Dottore Giovanni Sharp Arcivescovo di York_, 1691. [649] _Giornali dei Lordi_, 30 gennaio 1688–89; Clarendon, _Diario_. [650] Dartmouth, annotazione a Burnet, I, 393. Dartmouth dice che lʼOlandese rammentato nel testo era Fagel. È uno sbaglio di penna perdonabilissimo in una postilla marginale notata in fretta; ma Dalrymple ed altri non avrebbero dovuto ricopiare un errore così palpabile. Fagel morì in Olanda il dì 5 dicembre 1688 mentre Guglielmo era a Salisbury e Giacomo a Whitehall. Suppongo che lʼOlandese fosse o Dykvelt, o Bentink, o Zulestein, e più probabilmente Dykvelt. [651] Sì la preghiera che il sermone di Burnet si trovano tuttora nelle nostre grandi Biblioteche, e compensano lo incomodo di leggerli. [652] _Giornali dei Lordi_, 31 gennaio 1688–89. [653] Citters, 5–15 febbraio 1689; Clarendon, _Diario_, 2 febbraio. Questo fatto è grandemente esagerato nellʼopera intitolata: _Politica della Rivoluzione_, libro assurdissimo, ma di qualche utilità come ricordo delle stolte dicerie di queʼ tempi. Grey, _Dibattimenti_. [654] La lettera di Giacomo in data del 24 gennaio–3 febbraio 1689, si trova in Kennet. Clarke nella _Vita di Giacomo_ di malissima fede lʼha smozzicata. Vedi Clarendon, _Diario_, 2, 4 febbraio; Grey, _Dibattimenti_; Giornali dei Lordi, 2, 4 febbraio 1688–89. [655] È stato asserito da varii scrittori, e fra gli altri da Ralph e da M. Mazure che Danby firmò la protesta. Ciò è un errore. Probabilmente alcuno che consultò i _Giornali_ prima che fossero stampati lesse Danby invece di Derby; _Giornali dei Lordi_, 4 febbraio 1688–89. Evelyn, pochi giorni innanzi, scrisse per isbaglio Derby invece di Danby. _Diario_, 29 gennaio 1688–89. [656] Burnet, I, 819. [657] Clarendon, _Diario_, 1, 4, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14 gennaio 1688–89. Burnet, I, 807. [658] Clarendon, Diario, 5 febbraio 1688–89; _Difesa della Duchessa di Marlborough_; Mulgrave, _Racconto della Rivoluzione_. [659] Burnet, I, 820. Burnet afferma di non avere raccontati gli eventi di questi torbidi tempi secondo lʼordine cronologico. Sono stato quindi costretto a riordinarli indovinando; ma penso di male non mʼapporre supponendo che la lettera della Principessa dʼOrange a Danby arrivasse, e il Principe dichiarasse il proprio intendimento, tra il giovedì 31 gennaio, e il mercoledì 6 febbraio. [660] Mulgrave, _Racconto della Rivoluzione_. Nelle tre prime edizioni questo fatto fu da me narrato inesattamente. In gran parte la colpa fu mia, ma in parte fu anche di Burnet, il quale usando trascuratamente la parola _egli_ mʼindusse in inganno. Burnet, I, 818. [661] _Giornali dei Comuni_, 6 febbraio 1688–89. [662] Vedi i _Giornali deʼ Lordi_, e quei _deʼ Comuni_, 6 febbraio 1688–89, e la Relazione della Conferenza. [663] _Giornali deʼ Lordi_, 6 febbraio 1688–89; Clarendon, _Diario_; Burnet, I, 822, e lʼannotazione di Darmouth; Citters, 8–18 febbraio. Quanto al numero mi sono attenuto a Clarendon. Alcuni scrittori dicono la maggioranza essere stata più piccola, altri più grande. [664] _Giornali deʼ Lordi_, 6, 7 febbraio 1688–89; Clarendon, _Diario_. [665] _Giornali dei Comuni_, 29 gennaio, 2 febbraio 1688–89. [666] _Giornali deʼ Comuni_, 2 febbraio 1688–89. [667] Grey, _Dibattimenti_; Burnet, I, 822. [668] _Giornali deʼ Comuni_, 4, 8, 11, 12 febbraio; _Giornali dei Lordi_, 9, 11, 12 febbraio 1688–89. [669] _Gazzetta di Londra_, 14 febbraio 1688–89; Citters, 12–22 febbraio. [670] _Difesa della Duchessa di Marlborough_; _Rivista della Difesa_; Burnet, I, 781, 825, e lʼannotazione di Dartmouth; Evelyn, _Diario_, 21 febbraio 1688–89. [671] _Giornali dei Lordi_, e _dei Comuni_, 14 febbraio 1688–89; Citters, 15–26 febbraio. Citters pone in bocca a Guglielmo più forti espressioni di rispetto per lʼautorità del Parlamento di quelle che si leggono nei _Giornali_; ma dal detto di Powle risulta che la relazione contenuta nei _Giornali_ non era rigorosamente esatta. [672] _Gazzetta di Londra_, 14 febbraio 1688–89; _Giornali dei Lordi e dei Comuni_, 13 febbraio; Citters, 15–26 febbraio; Evelyn, 21 febbraio. *** End of this LibraryBlog Digital Book "Storia d'Inghilterra, vol 2" *** Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.