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Title: Storia d'Inghilterra, vol 2
Author: Macaulay, Thomas Babington Macaulay, Baron
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Storia d'Inghilterra, vol 2" ***


                        NOTE DEL TRASCRITTORE:

—Corretti gli ovvii errori di stampa e di punteggiatura.

—Lʼopera originale non presenta lʼindice; ne è stato prodotto ed
 inserito uno dal trascrittore.



                         Proprietà letteraria.

                         STORIA DʼINGHILTERRA

                                  di

                            LORD MACAULAY,

                  TRADOTTA DA PAOLO EMILIANI–GIUDICI.

              SECONDA EDIZIONE, RIVEDUTA DAL TRADUTTORE.

                            VOLUME SECONDO.

                      FIRENZE. FELICE LE MONNIER

                                 1860.



                     INDICE


 CAPITOLO SESTO                    Pag.   1

 CAPITOLO SETTIMO                   ”   143

 CAPITOLO OTTAVO                    ”   242

 CAPITOLO NONO                      ”   353

 CAPITOLO DECIMO                    ”   493



STORIA DʼINGHILTERRA.



CAPITOLO SESTO.

SOMMARIO.

 I. La potenza di Giacomo giunge alla sua maggiore altezza nellʼautunno
 del 1685.—II. Sua politica estera.—III. Suoi disegni di politica
 interna; lʼAtto dellʼ_Habeas Corpus_.—IV. Lʼesercito stanziale.—V.
 Disegni in favore della Religione Cattolica Romana.—VI. Violazione
 dellʼAtto di Prova; disgrazia di Halifax—VII. Malcontento
 generale.—VIII. Persecuzione degli Ugonotti francesi.—IX. Effetti
 da tale persecuzione prodotti in Inghilterra.—X. Ragunanza
 del Parlamento; discorso del Re; opposizione nella Camera deʼ
 Comuni.—XI. Sentimenti deʼ Governi stranieri.—XII. Comitato della
 Camera deʼ Comuni intorno al discorso del Re.—XIII. Sconfitta del
 Governo.—XIV. Seconda sconfitta del Governo; invettive falle dal
 Re ai Comuni.—XV. Coke messo in prigione, per aver mancato di
 rispetto al Re.—XVI. Opposizione al Governo nella Camera deʼ Lordi;
 il Conte di Devonshire.—XVII. Il Vescovo di Londra.—XVIII. Il
 Visconte Mordaunt.—XIX. Proroga.—XX. Processi di Lord Gerard e di
 Hampden.—XXI. Processo di Delamere.—XXII. Effetti dellʼessere stato
 dichiarato non colpevole.—XXIII. Partiti in Corte; Sentimenti deʼ
 Tory protestanti.—XXIV. Pubblicazione di scritti trovati nella cassa
 forte di Carlo II.—XXV. Sentimenti degli uomini più rispettabili fraʼ
 Cattolici Romani.—XXVI. Cabala dei Cattolici Romani irruenti.—XXVII.
 Castelmaine; Jermin; White; Tyrconnel.—XXVIII. Sentimenti deʼ
 ministri dei Governi stranieri.—XXIX. Il Papa e la Compagnia di Gesù
 in vicendevole opposizione.—XXX. La Compagnia di Gesù.—XXXI. Padre
 Petre.—XXXII. Umori ed opinioni del Re.—XXXIII. È incoraggiato
 neʼ suoi errori da Sunderland.—XXXIV. Perfidia di Jeffreys.—XXXV.
 Godolphin; la Regina; amori del Re.—XXXVI. Caterina Sedley.—XXXVII.
 Intrighi di Rochester in favore di Caterina Sedley.—XXXVIII. La
 influenza di Rochester decade.—XXXIX. Castelmaine è inviato a Roma;
 Giacomo tratta male gli Ugonotti.—XL. La potestà di dispensare.—XLI.
 Destituzione deʼ Giudici disubbidienti.—XLII. Caso di Sir Eduardo
 Hales.—XLIII. Ai Romani Cattolici è dato diritto ad occupare i
 beneficii ecclesiastici; Sclater; Walker.—XLIV. La Decania di
 Christchurch è data ad un Cattolico Romano.—XLV. Distribuzione deʼ
 Vescovati.—XLVI. Determinazione di Giacomo ad usare la propria
 supremazia ecclesiastica contro la Chiesa.—XLVII. Difficoltà a
 ciò fare.—XLVIII. Crea una nuova Corte dʼAlta Commissione.—XLIX.
 Procedimenti contro il Vescovo di Londra.—L. Malcontento nato al
 comparire in pubblico deʼ riti e deʼ vestimenti cattolici romani.—LI.
 Tumulti.—LII. È formato un campo militare in Hounslow.—LIII.
 Samuele Johnson.—LIV. Ugo Speke.—LV. Procedimento contro
 Johnson.—LVI. Zelo del Clero Anglicano contro il papismo; scritti
 di controversia.—LVII. I Cattolici Romani rimangono vinti.—LVIII.
 Condizioni della Scozia.—LIX. Queensberry; Perth; Melfort.—LX. Loro
 apostasia.—LXI. Favore mostrato alla Religione Cattolica Romana
 in Iscozia; tumulti in Edimburgo.—LXII. Collera del Re.—LXIII.
 Suoi intendimenti rispetto alla Scozia.—LXIV. Una Deputazione
 deʼ Consiglieri Privati Scozzesi è mandata a Londra.—LXV. Suoi
 negoziati col Re; ragunanza degli Stati Scozzesi.—LXVI. Si mostrano
 disubbidienti.—LXVII. Le loro sessioni vengono aggiornate; sistema
 arbitrario di governo in Iscozia.—LXVIII. Irlanda.—LXIX. Condizioni
 delle leggi rispetto a cose religiose.—LXX. Ostilità delle razze;
 contadini aborigeni.—LXXI. Aristocrazie aborigene.—LXXII. Condizioni
 della colonia inglese.—LXXIII. Condotta che Giacomo avrebbe dovuto
 seguire.—LXXIV. Suoi errori—LXXV. Clarendon giunge in Irlanda
 come Lord Luogotenente.—LXXVI. Sue mortificazioni; paura sparsa
 fra i coloni.—LXVII. Arrivo di Tyrconnel a Dublino come Generale
 dʼarmi.—LXXVIII. Parzialità e violenza di lui.—LXXIX. Si studia di
 far revocare lʼAtto di Stabilimento; ritorna in Inghilterra.—LXXX.
 Il Re è mal satisfatto di Clarendon.—LXXXI. Rochester è aggredito
 dalla Cabala gesuitica.—LXXXII. Giacomo si studia di convertire
 Rochester.—LXXXIII. Destituzione di Rochester.—LXXXIV. Destituzione
 di Clarendon; Tyrconnel Lord Deputato.—LXXXV. Scoraggiamento deʼ
 coloni inglesi in Irlanda.—LXXXVI. Effetti della caduta degli Hydes.


I. Giacomo trovavasi oramai giunto al più alto grado di potenza e
prosperità. Sì in Inghilterra che in Iscozia aveva vinti i suoi
nemici, e puniti con una severità che aveva neʼ cuori loro suscitato
acerbissimo odio, ma ad un tempo gli aveva efficacemente disanimati.
Il partito Whig pareva spento. Il nome di Whig non usavasi mai, tranne
come vocabolo di rimprovero. Il Parlamento piegava sommessa la fronte
ai voleri del re, il quale aveva potestà di tenerselo sino alla fine
del proprio regno. La Chiesa faceva più che mai clamorose proteste
di affetto verso lui, proteste chʼella aveva confermate col fatto a
tempo della trascorsa insurrezione. I giudici erano suoi strumenti;
e qualora non si fossero mostrati tali, stava in lui di cacciarli
dʼufficio. I corpi municipali erano pieni di sue creature. Le sue
entrate eccedevano dʼassai quelle deʼ suoi predecessori. Ei si gonfiò
dʼorgoglio. Non era più lʼuomo il quale, pochi mesi innanzi, tormentato
dal dubbio che il trono potesse essergli abbattuto in unʼora sola,
aveva implorato con supplicazioni indegne di un re il soccorso dello
straniero, ed accettatolo con lacrime di gratitudine. Vagheggiava con
la fantasia visioni di dominio e di gloria. Vedevasi già il sovrano
predominante dʼEuropa, il campione di molti Stati oppressi da una sola
monarchia troppo potente. Fino dal mese di giugno, aveva assicurate le
Provincie Unite, che, appena rassettate le faccende dellʼInghilterra,
avrebbe mostrato al mondo quanto poco ei temesse la Francia. Giusta
siffatte assicuranze, in meno dʼun mese dopo la battaglia di Sedgemoor,
concluse con gli Stati Generali un trattato, secondo i principii
della triplice alleanza. Fu considerata e allʼAja e a Versailles come
circostanza significantissima, che Halifax, perpetuo ed acerrimo
nemico della influenza francese, il quale quasi mai, dallʼinizio del
regno, era stato consultato sopra alcuno importante negozio, fosse
precipuo operatore della lega, in modo da parere che le sue sole parole
trovassero ascolto allʼorecchio del principe. E fu circostanza non
meno significativa, che innanzi non ne fosse stato fatto pur motto a
Barillon. Egli e il suo signore furono presi alla sprovvista. Luigi
ne rimase sconcertato, e mostrò grave e non irragionevole ansietà
rispetto ai futuri disegni di un principe, il quale, poco avanti, era
stato suo pensionato e vassallo. Correva molto la voce che Guglielmo
dʼOrange si affaccendasse a formare una grande confederazione, che
doveva comprendere i due rami della Casa dʼAustria, le Provincie Unite,
il regno di Svezia e lo Elettorato di Brandenburgo. Adesso pareva
che tale confederazione dovesse avere a capo il re e il Parlamento
dʼInghilterra.[1]

II. Difatti, furono iniziate pratiche tendenti a simile scopo. La
Spagna propose di formare una stretta lega con Giacomo; il quale
accolse favorevolmente la proposta, comecchè chiaro apparisse che
tale alleanza sarebbe stata poco meno che una dichiarazione contro
la Francia. Ma ei differì la sua ultima risoluzione fino alla nuova
ragunanza del Parlamento. Le sorti della Cristianità pendevano dalla
disposizione in cui egli avrebbe trovata la Camera deʼ Comuni. Se
essa era inchinevole ad approvare i suoi divisamenti di politica
interna, non vi sarebbe stata cosa alcuna che gli avesse impedito
dʼintervenire con vigore ed autorità nella gran contesa che tosto
doveva travagliarsi nel continente. Se la Camera era disubbidiente,
egli sarebbe stato costretto a deporre ogni pensiero dʼarbitrato tra le
nazioni contendenti, ad implorare nuovamente lo aiuto della Francia, a
sottoporsi di nuovo alla dittatura francese, a diventare potentato di
terza o quarta classe, e a rifarsi del dispregio, in che lo avrebbero
tenuto gli stranieri, trionfando della legge e della pubblica opinione
nel proprio regno.

III. E veramente, non sembrava facile chʼegli chiedesse ai Comuni
più di quello che essi inchinavano a concedere. Avevano già date
abbondevoli prove dʼessere desiderosi di serbare intatte le regie
prerogative, e di non patire eccessivi scrupoli a notare le usurpazioni
chʼegli faceva contro i diritti del popolo. Certo, undici dodicesimi
deʼ rappresentanti o dipendevano dalla Corte, o erano zelanti Cavalieri
di provincia. Poche erano le cose che una tale Assemblea avrebbe
pertinacemente ricusate al Sovrano; e fu fortuna per la nazione, che
tali poche cose fossero quelle appunto che a Giacomo stavano più a
cuore.

Uno deʼ suoi fini era quello dʼottenere la revoca dellʼ_Habeas Corpus_,
che egli odiava, come era naturale che un tiranno odiasse il freno
più vigoroso che la legislazione impose mai alla tirannide. Cotesto
odio gli rimase impresso in mente fino allʼultimo dì di sua vita, e si
manifesta negli avvertimenti chʼegli scrisse in esilio per erudimento
del figlio.[2] Ma lʼ_Habeas Corpus_, quantunque fosse una legge fatta
mentre i Whig dominavano, non era meno cara ai Tory che ai Whig. Non
è da maravigliare che questa gran legge fosse tenuta in tanto pregio
da tutti glʼInglesi, senza distinzione di partito; perocchè, non per
indiretta, ma per diretta operazione contribuisce alla sicurezza e
felicità di ogni abitante del Regno.[3]

IV. Giacomo vagheggiava un altro disegno, odioso al partito che lo
aveva posto sul trono, e ve lo manteneva. Desiderava formare un
grande esercito stanziale. Erasi giovato dellʼultima insurrezione per
accrescere considerevolmente le forze militari lasciate dal fratello.
I corpi che oggidì si chiamano i primi sei reggimenti delle guardie a
cavallo, il terzo e quarto reggimento dei dragoni, e i nove reggimenti
di fanteria, dal settimo al decimoquinto inclusivamente, erano stati
pur allora formati.[4] Lo effetto di tale aumento, e del richiamo
del presidio di Tangeri, fu che il numero delle truppe regolari in
Inghilterra, erasi in pochi mesi accresciuto da sei mila a circa
ventimila uomini. Nessuno deʼ Re nostri in tempo di pace aveva avuto
mai tante forze sotto il suo comando. E Giacomo non ne era nè anche
soddisfatto. Ripeteva spesso, come non fosse da riposare sulla fedeltà
delle milizie civiche, le quali partecipavano di tutte le passioni
della classe a cui appartenevano; che in Sedgemoor sʼerano trovati
nellʼarmata ribelle più militi cittadini che non fossero nel campo
regio; e che se il trono fosse stato difeso soltanto dalle milizie
delle Contee, Monmouth avrebbe marciato trionfante da Lyme a Londra.

La rendita, per quanto potesse sembrare grande, in agguaglio di quella
deʼ Re precedenti, serviva appena a questa nuova spesa. Gran parte deʼ
proventi delle nuove tasse spendevasi nel mantenimento della flotta.
Sul finire del regno antecedente, lʼintera spesa dellʼarmata, incluso
il presidio di Tangeri, era stata minore di trecento mila lire sterline
annue. Adesso non sarebbero bastate seicento mila sterline.[5] Se
nuovi aumenti dovevano farsi, era necessario chiedere altra pecunia
al Parlamento; e non era probabile che esso si sarebbe mostrato
proclive a concedere. Il semplice nome dʼesercito stanziale era in
odio a tutta la nazione, e a nessuna parte di quella più in odio, che
ai gentiluomini Cavalieri, i quali riempivano la Camera Bassa. Nella
loro mente, la idea dʼun esercito stanziale richiamava lʼimmagine
della Coda del Parlamento, del Protettore, delle spoliazioni della
Chiesa, della purgazione delle Università, dellʼabolizione della
Parìa, dellʼassassinio del Re, del tristo regno deʼ Santocchi, del
piagnisteo e dellʼascetismo, delle multe e deʼ sequestri, deglʼinsulti
che i Generali, usciti dalla feccia del popolo, avevano recato alle
più antiche ed onorevoli famiglie del reame. Inoltre, non vʼera quasi
baronetto o scudiere nel Parlamento, che non andasse non poco debitore
della propria importanza nella propria Contea al grado chʼegli aveva
nella milizia civica. Se essa veniva abolita, era mestieri che i
gentiluomini inglesi perdessero gran parte della loro dignità ed
influenza. Era, dunque, probabile che il Re incontrasse maggiori
difficoltà ad ottenere i mezzi per il mantenimento dello esercito, che
ad ottenere la revoca dellʼ_Habeas Corpus_.

V. Ma ambidue i predetti disegni erano subordinati al grande
divisamento al quale il Re con tutta lʼanima intendeva, ma che era
aborrito da quei gentiluomini Tory, i quali erano pronti a spargere
il proprio sangue per difendere i diritti di lui; aborrito da quella
Chiesa che non aveva mai, per lo spazio di tre generazioni di discordie
civili, vacillato nella fedeltà verso la sua casa; aborrito perfino da
quellʼarmata alla quale, negli estremi, era dʼuopo chʼei sʼaffidasse.

La sua religione era tuttavia proscritta. Molte leggi rigorose
contro i Cattolici Romani contenevansi nel Libro degli Statuti, e
non molto tempo innanzi erano state rigorosamente eseguite. LʼAtto
di Prova escludeva dagli ufficii civili e militari tutti coloro che
dissentivano dalla Chiesa dʼInghilterra; e un Atto posteriore, proposto
ed approvato allorché le fandonie di Oates avevano resa frenetica la
nazione, ordinava che niuno potesse sedere in nessuna delle Camere del
Parlamento se prima non avesse solennemente abiurato la dottrina della
transustanziazione. Che il Re desiderasse ottenere piena tolleranza
per la Chiesa alla quale egli apparteneva, era cosa naturale e giusta;
nè vʼè ragione alcuna a dubitare che, con un poʼ di pazienza, di
prudenza e di giustizia, avrebbe ottenuta tale tolleranza.

La immensa avversione e paura che il popolo inglese provava per la
religione di Giacomo, non era da attribuirsi solamente o principalmente
ad animosità teologica. Tutti i dottori della Chiesa Anglicana, non
che i più illustri non–conformisti, unanimemente ammettevano che la
eterna salute potesse trovarsi anche nella Chiesa Romana: che anzi
alcuni credenti di quella Chiesa annoveravansi fra i più illustri eroi
della virtù cristiana. È noto che le leggi penali contro il papismo
erano ostinatamente difese da molti, che reputavano lʼArianismo, il
Quacquerismo, il Giudaismo, considerati spiritualmente, più pericolosi
del papismo, e non erano disposti a fare simiglianti leggi contro gli
Ariani, i Quacqueri o i Giudei.

È facile comprendere perché il Cattolico Romano venisse trattato con
meno indulgenza di quella che usavasi ad uomini i quali non credevano
nella dottrina deʼ Padri di Nicea, e anche a coloro che non erano
stati ammessi nel grembo della Fede Cristiana. Era fra glʼInglesi
fortissima la convinzione che il Cattolico Romano, sempre che si
trattava dellʼinteresse della propria religione, si credesse sciolto da
tutti gli ordinarii dettami della morale; che anzi reputasse meritorio
violarli, se, così facendo, poteva liberare dal danno o dal biasimo la
Chiesa di cui egli era membro.

Nè questa opinione era priva dʼuna certa apparenza di ragione. Era
impossibile negare, che varii celebri casuisti cattolici romani
avessero scritto a difesa del parlare equivoco, della restrizione
mentale, dello spergiuro, e perfino dellʼassassinio. Nè, come dicevasi,
le speculazioni di cotesta odiosa scuola di sofisti erano state sterili
di frutti. La strage della festività di San Bartolommeo, lo assassinio
del primo Guglielmo dʼOrange, quello dʼEnrico III di Francia, le
molte congiure macchinate aʼ danni dʼElisabetta, e sopra tutte quella
delle polveri, venivano di continuo citate come esempii della stretta
connessione tra la viziosa teoria e la pratica viziosa. Allegavasi,
come ciascuno di cotali delitti fosse stato suggerito e lodato daʼ
teologi cattolici romani. Le lettere che Eduardo Digby scrisse dalla
Torre col succo di limone alla propria moglie, erano state di fresco
pubblicate, e citavansi spesso. Egli era uomo dotto e gentiluomo onesto
in ogni cosa, e forte animato del sentimento del dovere verso Dio. E
nondimeno, era stato profondamente implicato nella congiura ordita a
fare saltare in aria il Re, i Lordi e i Comuni; e sul punto di andare
alla eternità, aveva dichiarato di non sapere intendere in che guisa
un Cattolico Romano potesse stimare peccaminoso un tale disegno. La
conseguenza che il popolo deduceva da siffatte cose, era che, per
quanto onesto si volesse immaginare il carattere dʼun papista, non vi
era eccesso di fraude e di crudeltà, di cui egli non fosse capace ogni
qualvolta ne andasse della securtà e dellʼonore della propria religione.

La straordinaria credenza che ebbero le favole di Oates, è massimamente
da attribuirsi al prevalere di tale opinione. Era inutile che lo
accusato Cattolico Romano allegasse la integrità, umanità e lealtà
da lui mostrate in tutto il corso della propria vita. Era inutile
chʼegli adducesse a schiere testimoni rispettabili appartenenti alla
sua religione, per contraddire i mostruosi romanzi inventati dallʼuomo
più infame del genere umano. Era inutile che, col capestro al collo,
invocasse sopra il suo capo la vendetta di quel Dio, al cospetto
del quale, tra pochi momenti, egli doveva presentarsi, se ei fosse
stato reo di avere meditato alcun male contro il suo principe, o i
suoi concittadini protestanti. Le testimonianze addotte in proprio
favore servivano solo a provare quanto poco valessero i giuramenti
deʼ papisti. Le sue stesse virtù facevano presumere la sua propria
reità. Il vedersi dinanzi agli occhi la morte e il giudicio, rendeva
più verisimile chʼegli negasse ciò che, senza danno dʼuna causa
santissima, non avrebbe potuto confessare. Tra glʼinfelici convinti rei
dellʼassassinio di Godfrey, era stato Enrico Berry, protestante di fama
non buona. È cosa notevole e bene provata, che le estreme parole di
Berry contribuirono più a togliere credenza alla congiura, di quel che
facessero le dichiarazioni di tutti i pii ed onorevoli Cattolici Romani
che patirono la medesima sorte.[6]

E non erano solo lo stolto volgo, i soli zelanti, nello intelletto
deʼ quali il fanatismo aveva spento ogni ragione e carità, coloro
che consideravano il Cattolico Romano come uomo che, per la facilità
della propria coscienza, di leggieri diventava falso testimonio,
incendiario, o assassino; come uomo che trattandosi della propria
religione non abborriva da qual si fosse atrocità, e non si teneva
vincolato da nessuna specie di giuramento. Se in quellʼetà vʼerano due
che per intendimento o per indole inclinassero alla tolleranza, queʼ
due erano Tillotson e Locke. Nonostante, Tillotson, che per essersi
sempre mostrato indulgente a varie classi di scismatici ed eretici,
ebbe rimprovero dʼeterodosso, disse dal pulpito alla Camera deʼ
Comuni, essere loro debito di provvedere con somma efficacia contro
la propaganda dʼuna religione più malefica della irreligione stessa;
dʼuna religione che richiedeva daʼ suoi proseliti servigii direttamente
opposti ai principii della morale. Confessò come per indole ei fosse
prono alla dolcezza; ma il proprio dovere verso la società lo forzava,
in quella sola circostanza, ad essere severo. Dichiarò che, secondo
egli pensava, i Pagani che non avevano mai udito il nome di Cristo ed
erano solo diretti dal lume della ragione naturale, erano membri della
civile comunanza più degni di fiducia, che gli uomini educati nelle
scuole deʼ casisti papali.[7] Locke, nel celebre trattato, nel quale si
affaticò a dimostrare che anche le più grossolane forme dellʼidolatria
non erano da inibirsi con leggi penali, sostenne che quella Chiesa la
quale insegnava agli uomini di non serbare fede agli eretici, non aveva
diritto alla tolleranza.[8]

Egli è evidente che, in tali circostanze, il grandissimo dei servigi
che un Inglese cattolico romano avrebbe potuto rendere ai propri
confratelli, era quello di provare al pubblico, che qualunque cosa
alcuni temerari, in tempi di forti commovimenti, avessero potuto
scrivere o fare, la sua Chiesa non ammetteva che il fine giustifichi
i mezzi incompatibili con la morale. E Giacomo poteva mirabilmente
rendere alla fede un tanto servigio. Era Re, e il più potente di
quanti principi fossero stati sul trono dʼInghilterra a memoria degli
uomini più vecchi. Stava in lui far cessare o rendere perpetuo il
rimprovero che si faceva alla sua religione.

Sʼegli si fosse uniformato alle leggi, se avesse mantenute le
fatte promissioni, se si fosse astenuto dallʼadoperare alcun mezzo
iniquo a propagare le sue proprie opinioni teologiche, se avesse
sospesa lʼazione degli statuti penali, usando largamente della sua
incontrastabile prerogativa di far grazia, a un tempo astenendosi di
violare la costituzione civile ed ecclesiastica del Regno; il sentire
del suo popolo si sarebbe rapidamente cangiato. Un tanto esempio di
buona fede scrupolosamente osservato da un principe papista verso una
nazione protestante, avrebbe spenti i comuni sospetti. Quegli uomini
che vedevano come a un Cattolico Romano si concedesse dirigere il
potere esecutivo, comandare le forze di terra e di mare, convocare o
sciogliere il Parlamento, nominare i Vescovi e Decani della Chiesa
dʼInghilterra, avrebbero tosto cessato di temere che vi fosse gran
male, permettendo ad un Cattolico Romano dʼessere capitano dʼuna
compagnia, o aldermanno dʼun borgo. E forse, in pochi anni, la setta
per tanto tempo detestata dalla nazione, sarebbe stata, con plauso
universale, ammessa agli uffici e al Parlamento.

Se, dallʼaltro canto, Giacomo avesse tentato di promuovere glʼinteressi
della Chiesa, violando le leggi fondamentali del suo regno e le
solenni promesse da lui ripetutamente fatte al cospetto di tutto il
mondo, mal potrebbe dubitarsi che gli addebiti che, secondo lʼandazzo,
facevansi contro la Religione Cattolica, si considerassero da tutti
i Protestanti come pienamente stabiliti. Imperocchè, se mai si fosse
potuto sperare che un Cattolico Romano fosse capace di mantenere fede
agli eretici, si sarebbe potuto supporre che Giacomo mantenesse fede
al clero Anglicano. Ad esso egli andava debitore della sua corona; e
se esso non avesse potentemente avversata la legge dʼEsclusione, egli
sarebbe stato un esule. Aveva più volte ed enfaticamente riconosciuto
i propri obblighi verso quello, e giurato di non attentare minimamente
ai diritti spettanti alla Chiesa. Sʼegli non poteva sentirsi obbligato
da cosiffatti vincoli, risultava manifestamente che, in ogni cosa
concernente la sua superstizione, non vʼera vincolo di gratitudine o di
onore che potesse obbligarlo. Era quindi impossibile aver fiducia in
lui; e se i suoi popoli non potevano fidarsi di lui, qual altro membro
della sua Chiesa era egli meritevole di fiducia? Non era reputato
costituzionalmente e per usanza traditore. Per il brusco contegno e
la mancanza di riguardo verso gli altrui sentimenti, sʼera scroccato
una fama di sincero chʼegli affatto non meritava. I suoi panegiristi
affettano di chiamarlo Giacomo il Giusto. Se dunque diventando papista,
volesse supporsi chʼegli fosse parimente divenuto dissimulatore e
spergiuro, quale conclusione doveva ricavarne un popolo ormai disposto
a credere che il papismo avesse perniciosa influenza sul carattere
morale dellʼuomo?

VI. Per tali ragioni, molti deʼ più illustri cattolici, e fra gli
altri il sommo Pontefice, opinavano che glʼinteressi della loro
Chiesa nellʼisola nostra verrebbero più efficacemente promossi da
una politica costituzionale e moderata. Ma cosiffatte ragioni non
facevano punto effetto nel tardo intelletto e nella imperiosa indole
di Giacomo. Nel suo ardore a rimuovere glʼimpedimenti che gravavano i
suoi correligionari, egli appigliossi ad un partito tale, da persuadere
ai più culti e moderati protestanti di quel tempo, che per la salute
dello Stato era necessario mantenere in vigore i suddetti impedimenti.
Alla politica di lui glʼInglesi Cattolici erano debitori di tre anni
di sfrenato e insolente trionfo, e cento quaranta anni di servitù ed
abiezione.

Molti Cattolici Romani occupavano uffici neʼ reggimenti novellamente
formati. Questa violazione della legge per qualche tempo non fu
censurata; perocchè le genti non erano disposte a notare ogni
irregolarità che commettesse un Re chiamato appena sul trono a
difendere la corona e la vita contro i ribelli. Ma il pericolo non
era più. Glʼinsorti erano stati vinti e puniti. Il loro malaugurato
attentato aveva accresciuta forza al Governo che speravano abbattere.
Nondimeno, Giacomo seguitò a concedere comandi militari ad individui
privi delle qualità richieste dalla legge; e dopo poco si seppe chʼegli
era risoluto di non considerarsi vincolato dallʼAtto di Prova, che
sperava dʼindurre il Parlamento a revocarlo, e che ove il Parlamento si
fosse mostrato disubbidiente, egli avrebbe fatto da sè.

Appena sparsa cotesta voce, un profondo mormorare, foriero di procella,
gli dette avviso che lo spirito, innanzi al quale lʼavo, il padre
e il fratello di lui erano stati costretti a indietreggiare, come
che tacesse, non era spento. Lʼopposizione mostrossi primamente nel
Gabinetto. Halifax non ardì nascondere il disgusto e la trepidazione
che gli stavano in cuore. In Consiglio animosamente espresse queʼ
sentimenti, che, come tosto si vide, concitavano tutta la nazione. Da
nessuno deʼ suoi colleghi fu secondato; e non si parlò altrimenti della
cosa. Fu chiamato alle stanze reali. Giacomo si studiò di sedurlo coʼ
complimenti e con le blandizie, ma non ottenne nulla. Halifax ricusò
positivamente di promettere che avrebbe nella Camera deʼ Lordi votato a
favore della revoca sia dellʼAtto di Prova, sia dellʼ_Habeas Corpus_.

Taluni di coloro che stavano dintorno al Re, lo consigliarono a
non cacciare allʼopposizione, in sulla vigilia del ragunarsi del
Parlamento, il più eloquente ed esperto uomo di Stato che fosse nel
Regno. Gli dissero che Halifax amava la dignità e gli emolumenti
dellʼufficio; che mentre seguitava a rimanere Lord Presidente, non
gli sarebbe stato possibile adoperare tutta la propria forza contro
il Governo, e che destituirlo era il medesimo che emanciparlo da ogni
ritegno. Il Re si tenne ostinato. Ad Halifax fu fatto sapere che non
vʼera più mestieri deʼ suoi servigi, e il suo nome fu casso dal Libro
del Consiglio.[9]

VII. La sua destituzione produsse gran senso non solo in Inghilterra,
ma anche in Parigi, in Vienna e nellʼAja; imperciocchè bene sapevasi,
come egli si fosse sempre studiato di frustrare la influenza che la
Francia esercitava nelle cose politiche della Gran Brettagna. Luigi si
mostrò grandemente lieto della nuova. I ministri delle Provincie Unite
e quelli di Casa dʼAustria, dallʼaltro canto, esaltavano la saviezza e
la virtù del deposto uomo di Stato, in modo da offendere la Corte di
Whitehall. Giacomo, in ispecie, era incollerito contro il segretario
della legazione imperiale, il quale non si astenne dal dire che gli
eminenti servigi resi da Halifax nel dibattimento intorno alla Legge
dʼEsclusione, erano stati rimunerati con somma ingratitudine.[10]

Dopo poco tempo si conobbe che molti sarebbero stati i seguaci di
Halifax. Una parte deʼ Tory, guidati da Danby loro antico capo,
cominciarono a parlare un linguaggio che olezzava di spirito Whig.
Persino i prelati accennavano esservi un punto in cui la lealtà
verso il principe doveva cedere a più alte ragioni. Il malcontento
deʼ capi dellʼarmata era anche più straordinario e più formidabile.
Principiavano già ad apparire i primi segni di queʼ sentimenti che,
tre anni dipoi, spinsero molti ufficiali dʼalto grado a disertare
la bandiera regia. Uomini che per lo avanti non avevano mai avuto
scrupolo alcuno, subitamente divennero scrupolosi. Churchill
susurrava sottovoce, che il Re andava troppo oltre. Kirke, pur allora
ritornato dalle stragi dʼoccidente, giurava di difendere la religione
protestante. E quandʼanche, ei diceva, avesse ad abiurare la fede
alla quale era stato educato, non sarebbe mai diventato papista. Egli
era già vincolato da una solenne promessa allo imperatore di Marocco,
al quale aveva giurato che se mai si fosse indotto ad apostatare, si
sarebbe fatto Musulmano.[11]

VIII. Mentre la nazione, agitata da molte veementi emozioni, aspettava
ansiosa il ragunarsi delle Camere, giunsero di Francia nuove, che
accrebbero lo universale eccitamento.

La diuturna ed eroica lotta degli Ugonotti col Governo francese era
stata condotta a fine dalla destrezza e dal vigore di Richelieu.
Il grande uomo di Stato gli vinse; ma confermò loro la libertà di
coscienza ad essi conceduta dallo editto di Nantes. Fu loro promesso,
sotto alcune non incomode restrizioni, dʼadorare Dio secondo il loro
rituale, e di scrivere in difesa della loro dottrina. Erano ammissibili
agli uffici politici e militari; nè la eresia loro, per uno spazio
considerevole di tempo, impedì ad essi praticamente dʼinnalzarsi nel
mondo. Alcuni di loro comandavano lo armate dello Stato, ed altri
presiedevano aʼ dipartimenti dʼimportanza nellʼamministrazione civile.
Finalmente, variò la fortuna. Luigi XIV, fino dagli anni suoi primi,
aveva sentita contro i Calvinisti unʼavversione religiosa e insieme
politica. Come zelante Cattolico Romano, detestava i loro domini
teologici. Come principe amante del potere assoluto, detestava quelle
teorie repubblicane, che erano frammiste alla teologia ginevrina. A
poco a poco privò gli scismatici di tutti i loro privilegi. Sʼintromise
nella educazione deʼ fanciulli protestanti, confiscò gli averi lasciati
in legato ai Concistori protestanti, e con frivoli pretesti chiuse
tutte le chiese protestanti. I ministri protestanti furono spogliati
daʼ riscuotitori delle tasse. I magistrati protestanti furono privati
dellʼonore della nobiltà. Agli ufficiali protestanti della Casa
Reale fu annunziato che Sua Maestà più non aveva mestieri deʼ loro
servigi. Furono dati ordini perchè nessun protestante fosse ammesso
alla professione di legale. La oppressa setta mostrò qualche lieve
segno di quello spirito che, nel secolo precedente, aveva sfidata la
potenza della Casa di Valois. Ne seguirono stragi e pene capitali.
Furono acquartierate compagnie di dragoni nelle città dove gli eretici
erano numerosi, e nelle abitazioni rurali di gentiluomini eretici; e
la crudeltà e la licenza di cotesti feroci missionari, era approvata
o debolmente biasimata dal Governo. Nondimeno, lo editto di Nantes,
quantunque fosse stato violato di fatto in tutte le sue più essenziali
provvisioni, non era stato per anche formalmente revocato; e il Re
più volte dichiarò in solenni atti pubblici, dʼessere deliberato
a mantenerlo. Ma i bacchettoni e gli adulatori, che governavano
lʼorecchio del Re, gli porsero un consiglio chʼei volentieri accolse.
Gli dimostrarono la sua politica di rigore avere già prodotti stupendi
effetti, poca o nessuna resistenza essersi fatta al suo volere,
migliaia dʼUgonotti essersi già convertiti; e conclusero che, ove
egli facesse lʼunico passo che rimaneva a compire lʼopera, coloro che
seguitavano a ricalcitrare, si sarebbero sollecitamente sottomessi; la
Francia sarebbe purgata della macchia dʼeresia; e il suo principe si
sarebbe acquistata una corona celeste non meno gloriosa di quella di
San Luigi. Tali argomenti vinsero lʼanimo del Re. Il colpo finale fu
dato. Lo editto di Nantes venne revocato; e comparvero, rapidamente
succedendosi, numerosi decreti contro i settarii. I fanciulli e le
fanciulle furono strappati dalle braccia deʼ genitori, e mandati ad
educarsi nei conventi. A tutti i Ministri Calvinisti fu ingiunto o
di abiurare la loro religione, o dentro quindici giorni uscire dal
territorio della Francia. Agli altri credenti della Chiesa Riformata
fu inibito di partirsi dal Regno; e a fine dʼimpedire loro la fuga,
i porti e i confini vennero rigorosamente guardati. In tal modo, il
traviato gregge—sperava il principe—diviso dai malvagi pastori,
sarebbe tosto ritornato in grembo alla vera fede. Ma, a dispetto di
tutta la vigilanza della polizia militare, numerosissimi furono gli
emigrati. Fu calcolato che in pochi mesi cinquantamila famiglie dissero
per sempre addio alla Francia. Nè i fuggenti erano tali da importar
poco alla patria che li perdeva. Erano per lo più persone intelligenti,
industriose e di austera morale. Trovavansi fra loro nomi illustri
nella milizia, nelle scienze, nelle lettere, nelle arti. Parecchi
degli esuli offersero le spade loro a Guglielmo dʼOrange, e si resero
notevoli pel furore onde combatterono contro il loro persecutore. Altri
vendicaronsi con armi anco più formidabili, e per mezzo delle stamperie
dʼOlanda, dʼInghilterra, di Germania, infiammarono per trenta anni gli
animi di tutta lʼEuropa contro il Governo Francese. Una classe più
pacifica di gente istituì manifattorie di seta nel suburbio orientale
di Londra. Una compagnia dʼesuli insegnò ai Sassoni a fare le stoffe
e i cappelli, di che fino allora la sola Francia aveva tenuto il
monopolio. Unʼaltra piantò le prime viti nelle vicinanze del Capo di
Buona Speranza.[12]

In circostanze ordinarie, le Corti di Spagna e di Roma avrebbero fatto
plauso ad un principe che aveva vigorosamente guerreggiato contro la
eresia. Ma tanto era lʼodio ispirato dalla ingiustizia ed alterigia
di Luigi, che, fattosi egli persecutore, le Corti di Roma e di Spagna
presero le parti della libertà religiosa, e forte riprovarono le
crudeltà di scagliare senza freno sopra genti inoffensive una feroce
e licenziosa soldatesca.[13] Un grido unanime di dolore e di rabbia
levossi daʼ petti di tutti i protestanti dʼEuropa. La nuova della
revoca dello editto di Nantes giunse in Inghilterra circa una settimana
innanzi che si aggiornasse il Parlamento. Apparve allora manifesto,
che lo spirito di Gardiner e del Duca dʼAlba seguitava sempre ad
animare la Chiesa Cattolica Romana. Luigi non era da meno di Giacomo
per generosità ed umanità, e certo eragli superiore in tutte le doti
e i requisiti dʼuomo di Stato. Luigi, al pari di di Giacomo, aveva
ripetutamente promesso di rispettare i privilegi deʼ suoi sudditi
protestanti. Nulladimeno, Luigi adesso era diventato scopertamente
persecutore della religione riformata. Quale ragione, dunque, eravi a
dubitare che Giacomo aspettasse solo la occasione di seguire lo esempio
del Re francese? Egli andava già formando, a dispetto della legge, una
forza militare composta in gran parte di Cattolici Romani. Vi era nulla
dʼirragionevole nel timore che tale forza potesse venire adoperata a
fare ciò che i dragoni francesi avevano fatto?

IX. Giacomo rimase conturbato quasi al pari deʼ suoi sudditi per la
condotta della Corte di Versailles. A dir vero, essa aveva agito
in modo che parea volesse essergli dʼimpaccio e di molestia. Egli
stava sul punto di chiedere al corpo legislativo protestante piena
tolleranza pei Cattolici Romani. Nulla, quindi, gli poteva giungere
tanto importuno, quanto la nuova che in uno Stato vicino, un Governo
cattolico romano avesse pur allora privati della tolleranza i
protestanti. La sua vessazione fu accresciuta da un discorso che il
Vescovo di Valenza, a nome del clero gallicano, diresse a Luigi XIV.
Lʼoratore diceva, come il pio sovrano dellʼInghilterra sperasse dal
Re Cristianissimo soccorso contro una nazione eretica. Fu notato che
i membri della Camera deʼ Comuni mostravansi singolarmente ansiosi
di procurarsi esemplari di cotesta arringa, la quale venne letta da
tutti glʼInglesi con isdegno e timore.[14] Giacomo voleva frustrare
la impressione da siffatte cose prodotta, ed in quel momento mostrare
allʼEuropa di non essere schiavo della Francia. Dichiarò quindi
pubblicamente, comʼegli disapprovasse il modo onde gli Ugonotti erano
stati trattati; largì agli esuli qualche soccorso dal suo tesoro
privato; e con lettere munite del gran sigillo, invitò i suoi sudditi
ad imitare la liberalità sua. In pochi mesi chiaro si conobbe, come
la mostrata commiserazione fosse finta a blandire il Parlamento; come
egli sentisse verso i fuorusciti odio mortale; e come di nulla tanto
si dolesse, quanto della propria impotenza a fare ciò che Luigi aveva
compìto.

X. Il dì 9 di novembre, le Camere si ragunarono. I Comuni furono
chiamati alla barra deʼ Lordi a udire il discorso della Corona,
profferito dal Re stesso sul trono. Lo avea composto da sè.
Congratulossi coi suoi amatissimi sudditi di vedere spenta la
ribellione nelle Contrade Occidentali; ma soggiunse che la celerità
onde quella ribellione era nata e formidabilmente cresciuta, e la
lunghezza del tempo in che essa aveva infuriato, dovevano convincere
ciascuno quanto poco conto si potesse fare delle milizie cittadine.
Aveva per ciò aumentata lʼarmata regolare. Le spese a mantenerla
quinci innanzi sarebbero più che raddoppiate; ed aveva fiducia che i
Comuni gli concederebbero i mezzi a provvedervi. Annunziò poi agli
uditori dʼavere impiegati parecchi ufficiali i quali non sʼerano
sottoposti allʼAtto di Prova; ma egli li conosceva ben degni della
pubblica fiducia. Temeva che gli uomini astuti si sarebbero giovati
di cotesta irregolarità per turbare la concordia che esisteva tra lui
e il Parlamento. Ma gli era forza di parlare schietto, dichiarando di
essere fermissimo a non dividersi, da servi sulla cui fedeltà ei poteva
riposare, e del cui soccorso forse tra poco tempo avrebbe egli avuto
mestieri.[15]

La esplicita dichiarazione, chʼegli aveva rotte le leggi dalla
nazione reputate principalissime tutrici della religione stabilita,
e chʼegli era determinato a persistere nel violarle, non era atta
a mansuefare gli esasperati animi deʼ suoi sudditi. I Lordi, rade
volte inchinevoli ad iniziare lʼopposizione al Governo, consentirono
a votare formali rendimenti di grazie per le cose espresse dal Re
nel proprio discorso. Ma i Comuni furono meno proclivi. Ritornati
alla sala delle loro adunanze, vi fu un profondo silenzio; e sui
visi di molti spettabilissimi rappresentanti era dipinta la profonda
inquietudine degli animi. Infine, Middleton alzossi, e propose che la
Camera subitamente si formasse in Comitato intorno al discorso del
Re; ma Sir Edmondo Jennings, Tory zelante della Contea di York, che
supponevasi esprimesse il pensiero di Danby, protestò contro, e chiese
tempo a considerare maturamente la cosa. Sir Tommaso Clarges, zio
materno del Duca di Albemarle, e da lungo tempo rinomato in Parlamento
come uomo atto agli affari ed economo della pubblica pecunia, fece
eco alle parole di Jennings. Il sentire della Camera deʼ Comuni non
poteva non esser chiaro a tutti. Sir Giovanni Ernley, Cancelliere dello
Scacchiere, insistè onde lo indugio non fosse più di quarantotto ore;
ma gli fu forza cedere, e deliberossi di differire la discussione a tre
giorni.[16]

Questo intervallo di tempo fu bene adoperato da coloro che erano capi
della opposizione alla Corte. E davvero, non era lieve la impresa che
si studiavano di compiere. In tre giorni dovevano riordinare un partito
patriottico. Non è agevole neʼ giorni nostri intendere la difficoltà di
ciò fare; perocchè oggidì può dirsi che la intera nazione assista alle
deliberazioni deʼ Lordi e dei Comuni. Ciò che vien detto dai capi del
ministero o della opposizione dopo la mezza notte, si legge allʼalba
da tutta la metropoli, nel pomeriggio dagli abitanti di Northumberland
e di Cornwall, e nella mattina seguente in Irlanda e nelle montagne
della Scozia. Nellʼetà nostra, quindi, tutti gli stadii della
legislazione, le regole della discussione, la strategia delle fazioni,
le opinioni, gli umori, lo stile dʼogni membro di ambedue le Camere,
sono cose familiari a centinaia di migliaia dʼuomini. Chiunque adesso
entri in Parlamento, possiede ciò che nel secolo decimosettimo si
sarebbe reputato gran tesoro di scienza parlamentare. La quale allora
nessuno avrebbe potuto acquistare senza aver fatto il tirocinio nel
Parlamento. La diversità fra un membro antico ed uno nuovo, era quanta
la diversità che corre tra un vecchio soldato ed una recluta di recente
tolta allʼaratro; e il Parlamento di Giacomo comprendeva un affatto
insolito numero di nuovi membri, i quali dalle loro rurali residenze
sʼerano recati a Westminster, privi di sapere politico, e pieni di
violenti pregiudizi. Questi gentiluomini odiavano i papisti, ma non
portavano odio meno forte ai Whig, e sentivano pel Re superstiziosa
venerazione. Di cotesti materiali formare una opposizione, era un fatto
che richiedeva arte e delicatezza infinite. Molti uomini di grande
importanza, nondimeno, assunsero la impresa e la compirono con esito
felice. Vari esperti politici Whig che non sedevano in quel Parlamento,
davano utili consigli ed erudimenti. Nel dì che precesse al fissato
per la discussione, si tennero molti convegni, dove gli esperti capi
ammaestrarono i novizi; e tosto si vide come tali sforzi non fossero
stati invano.[17]

XI. Le legazioni straniere furono tutte in commovimento. Intendevasi
bene che fra pochi giorni si sarebbe risoluta la gran questione, se
il Re dʼInghilterra sarebbe o no il vassallo di quello di Francia.
I ministri di casa dʼAustria desideravano ardentemente che Giacomo
satisfacesse al Parlamento. Papa Innocenzo aveva inviati a Londra due
uomini, ai quali aveva commesso di inculcare moderazione e con gli
ammonimenti e con lo esempio. Uno era Giovanni Leyburn, Domenicano
inglese, già stato segretario del Cardinale Howard; ed uomo che,
fornito di qualche dottrina e dʼuna ricca vena di naturale arguzia,
era il più cauto, destro e taciturno deʼ viventi. Era stato di recente
consacrato vescovo dʼAdrumeto, e fatto Vicario Apostolico della Gran
Brettagna. Ferdinando, conte dʼAdda, italiano, di non grande abilità,
ma dʼindole mite e di modi cortesi, era stato nominato Nunzio. Questi
due personaggi furono lietamente accolti da Giacomo. Nessun vescovo
cattolico romano, per più di un secolo e mezzo, aveva esercitata
autorità spirituale nellʼisola. Nessun Nunzio ivi era stato ricevuto
per lo spazio deʼ centoventisette anni chʼerano scorsi dopo la morte
di Maria. Leyburn fu alloggiato in Whitehall, ed ebbe una pensione di
mille lire sterline lʼanno. Adda non aveva per anche assunto carattere
pubblico. Egli passava per un forestiere dʼalto lignaggio, che per
curiosità era venuto a Londra; andava giornalmente a Corte, ed era
trattato con segni dʼalta stima. Ambedue gli emissari del pontefice,
fecero ogni sforzo per iscemare, quanto fosse possibile, lʼodiosità
inseparabile dagli uffici che occupavano, e frenare il temerario zelo
di Giacomo. Il Nunzio segnatamente dichiarò, che niuna cosa poteva
recare maggior detrimento agli interessi della Chiesa di Roma, che una
rottura tra il Re e il Parlamento.[18]

Barillon agiva per un altro verso. Gli ordini che aveva ricevuti in
questa occasione da Versailles, sono degnissimi di studio; imperocchè
porgono la chiave a conoscere la politica seguita sistematicamente dal
suo signore verso lʼInghilterra nei venti anni che precessero la nostra
Rivoluzione. Luigi scriveva, come le notizie giunte da Madrid fossero
sinistre. Ivi fermamente speravasi che Giacomo avrebbe fatta stretta
colleganza con la Casa dʼAustria, appena si fosse assicurato che il
Parlamento non gli darebbe molestia. In tali circostanze, importava
molto alla Francia fare in modo che il Parlamento si mostrasse
disubbidiente. A Barillon, quindi, fu dato comandamento di fare, con
tutte le possibili cautele, la parte dʼarruffamatassa. In Corte, non
doveva lasciare fuggire il destro di stimolare lo zelo religioso e
lʼorgoglio regio di Giacomo; ma nel tempo stesso, doveva ingegnarsi
di tenere secrete pratiche coi malcontenti. Siffatte relazioni erano
rischiose e richiedevano somma destrezza; nondimeno, avrebbe forse
trovato mezzo dʼincitare,—senza mettere a repentaglio sè stesso o il
proprio Governo,—lo zelo dellʼopposizione per le leggi e le libertà
dellʼInghilterra, e lasciare intendere che quelle leggi o libertà non
erano dal Re di Francia guardate di mal occhio.[19]

XII. Luigi, quando dettava coteste istruzioni, non prevedeva come
presto e pienamente la ostinatezza e stupidità di Giacomo gli dovessero
togliere dallʼanimo ogni inquietudine. Il dì 11 di novembre, la
Camera deʼ Comuni si formò in Comitato per discutere il discorso
della Corona. Heneage Finch, Procuratore Generale, teneva il seggio.
La discussione fu condotta con peregrino ingegno e destrezza daʼ
capi del nuovo partito patriottico. Non uscì loro dalle labbra
espressione alcuna dʼirreverenza pel sovrano, o di simpatia pei
ribelli. Della insurrezione delle Contrade Occidentali parlarono sempre
con abborrimento. Non fecero pur motto delle barbarie di Kirke o di
Jeffreys. Ammisero che le gravi spese cagionate daʼ trascorsi disturbi,
giustificavano il Re a domandare un aumento di pecuniari sussidi; ma si
opposero fortemente ad accrescere lʼarmata, e alla infrazione dellʼAtto
di Prova.

Pare che i cortigiani avessero studiosamente schivato ogni discorso
intorno allʼAtto di Prova. Favellarono, nondimeno, con vigore a
dimostrare quanto lʼarmata regolare fosse superiore alla civica
milizia. Uno di loro, con modo insultante, chiese se la difesa del
reame era da affidarsi alle sole guardie del Re. Un altro disse che gli
si mostrasse in che guisa i militi civici della Contea del Devonshire,
i quali, sgominati, fuggirono dinanzi ai contadini armati di falci
che seguivano Monmouth, avrebbero potuto affrontare le guardie reali
di Luigi. Ma cosiffatte ragioni facevano poco effetto nellʼanimo deʼ
Cavalieri, che serbavano amara rimembranza del Governo del Protettore.
Il sentimento comune a tutti loro fu espresso da Eduardo Seymour,
primo deʼ gentiluomini Tory dellʼInghilterra. Egli ammise che la
milizia civica non era in condizioni soddisfacenti, ma sostenne che
poteva riordinarsi. Tale riordinamento avrebbe richiesto danari; ma,
per parte sua, avrebbe più volentieri dato un milione a mantenere
una forza dalla quale ei non aveva nulla a temere, che mezzo milione
a mantenere una forza della quale gli era dʼuopo vivere in continua
trepidazione. Disciplinate le legioni della Civica, rafforzata la
flotta, la patria rimarrebbe sicura. Un esercito stanziale avrebbe,
se non altro, emunto il pubblico tesoro. Il soldato era uomo rapito
alle arti utili. Non produceva nulla; consumava il frutto della
industria altrui; e tiranneggiava coloro daʼ quali era mantenuto. Ma
la nazione adesso era minacciata non solo di un esercito stanziale, ma
dʼun esercito stanziale papista; di un esercito stanziale comandato
da ufficiali che potevano essere gentili ed onorevoli, ma erano per
principio nemici alla Costituzione del Regno. Sir Guglielmo Twisden,
rappresentante della Contea di Kent, parlò nel medesimo senso con detti
pungenti, e ne ebbe plauso. Sir Riccardo Temple, uno deʼ pochi Whig
che sedevano in quel Parlamento, accomodando la favella agli umori
del suo uditorio, rammentò alla Camera, come un esercito stanziale si
fosse sperimentato pericoloso sì alla giusta autorità deʼ principi,
che alla libertà delle nazioni. Sir Giovanni Maynard, il più dotto
giureconsulto deʼ suoi tempi, prese parte alla discussione. Aveva più
di ottanta anni, e poteva bene rammentarsi delle contese politiche del
regno di Giacomo I. Aveva seduto nel Lungo Parlamento, e parteggiando
per le Teste–Rotonde, aveva sempre pôrti consigli di mitezza, ed erasi
affaticato a compire una riconciliazione generale. Per le doti della
mente, non iscemate punto dalla vecchiezza, e per la scienza nella
propria professione, onde egli aveva sì lungamente imposto rispetto
in Westminster Hall, governava lʼuditorio nella Camera deʼ Comuni.
Anchʼegli si dichiarò avverso allo aumento delle milizie regolari.

Dopo molto disputare, fu deliberato di concedere un sussidio alla
Corona; ma fu parimente deliberato di presentare una legge per
riordinare la milizia civica. Questa ultima deliberazione equivaleva
ad una dichiarazione contro lʼidea di formare un esercito stanziale.
Il Re ne ebbe assai dispiacere; e si lasciò correre la voce, che se le
cose seguitavano ad andare a questo modo, la sessione del Parlamento
non avrebbe avuto lunga durata.[20]

La dimane riprincipiò la contesa. Il linguaggio del partito patriottico
fu visibilmente più audace e pungente, che non era stato il dì innanzi.
Il paragrafo del discorso del Re, che si riferiva al sussidio da
concedersi, precedette quello che si riferiva allʼAtto di Prova.
Fondandosi sopra ciò, Middleton propose che il paragrafo riferentesi
al sussidio, venisse discusso il primo nel comitato. Quei della
opposizione proposero la questione pregiudiciale. Allegavano come
lʼusanza ragionevole e costituzionale fosse di non concedere pecunia
innanzi che fosse provveduto agli abusi; la quale usanza sarebbe
finita, se la Camera si fosse reputata servilmente vincolata a seguire
lʼordine in cui le cose venivano rammentate dal Re sul trono.

Fecesi uno squittinio di divisione intorno alla questione se la
proposta di Middleton fosse da adottarsi. Il Presidente ordinò che
coloro i quali opinavano pel no, andassero nellʼantisala. Se ne
offesero molto, e querelaronsi altamente di siffatta servilità e
parzialità; imperocchè pensavano, secondo la intricata e sottile
regola che allora vigeva, e che ai dì nostri venne messa da parte,
sostituendovene unʼaltra più ragionevole e conveniente, avere il
diritto di rimanere ai loro seggi; e tutti gli uomini più esperti
degli usi parlamentari di quella età sostenevano, che coloro i quali
rimanevano nella sala, avevano un vantaggio sopra coloro che uscivano
fuori: imperciocchè i seggi erano così difettosi, che niuno il quale
avesse avuta la fortuna di trovare un buon posto, amava di perderlo.
Ciò non ostante, con isbalordimento deʼ Ministri, molti di coloro daʼ
cui voti la Corte onninamente dipendeva, furono veduti muoversi verso
la porta. Fra loro era Carlo Fox, pagatore delle truppe, e figlio di
Stefano Fox, scrivano della Corte Regia di Palazzo. Il pagatore era
stato indotto daʼ suoi amici ad assentarsi durante la discussione.
Ma fu tanta la sua ansietà, che entrò nella stanza del Presidente,
udì parte del dibattimento, ritirossi; e dopo dʼavere per una o due
ore ondeggiato fra la propria coscienza e cinque mila lire sterline
di paga annua, prese unʼanimosa risoluzione e si rificcò nella sala,
appunto mentre facevasi la votazione. Due ufficiali dellʼarmata, il
Colonnello Giovanni Darcy, figlio di Lord Conyers, e il Capitano
Giacomo Kendall, andarono nellʼantisala. Middleton scese alla barra
e li rimproverò aspramente. In ispecie, diresse la parola a Kendall,
servitore bisognoso della Corona, che da un collegio elettorale di
Cornwall, ligio agli ordini del Re, era stato mandato al Parlamento,
e che di recente aveva ottenuto un dono di cento ribelli condannati
alla deportazione. «Signore,» disse Middleton «non comandate voi un
reggimento di cavalleria aʼ servigi di Sua Maestà?»—«Sì, o Milord,»
rispose Kendall «ma mio fratello è morto ora che è poco, e mi ha
lasciato settecento lire sterline lʼanno.»

XIII. Come i questori compirono lʼufficio loro, i voti affermativi
furono cento ottantadue, i negativi cento ottantatre. In quella
Camera di Comuni, che era stata messa insieme per mezzo di raggiri,
di corruzione e di violenza; in quella Camera di Comuni, della quale
Giacomo aveva detto che più di undici dodicesimi deʼ membri erano quali
dovevano essere se gli avesse nominati da sè, la Corte aveva avuta una
sconfitta sopra una questione vitale.[21]

A cagione di questo voto, le espressioni adoperate dal Re parlando
dellʼAtto di Prova furono, il dì 13 novembre, poste in discussione.
Eʼ fu risoluto, dopo molto discutere, di fargli un indirizzo, a
rammentargli come ei non potesse legalmente seguitare a tenere
in ufficio uomini che ricusassero di uniformarsi alla legge, e a
sollecitarlo perchè prendesse gli opportuni provvedimenti a quietare i
sospetti e le gelosie del popolo.[22]

Fu poi proposto che i Lordi venissero richiesti di aderire allo
indirizzo. Adesso è impossibile chiarirsi se mai tale proposta fosse
stata onestamente fatta dalla opposizione, sperante che il concorso dei
Pari avrebbe aggiunto peso alla rimostranza, o fatta artificiosamente
dai cortigiani con la speranza che ne seguisse un dissenso fra le due
Camere. La proposta venne rigettata.[23]

La Camera si era formata in Comitato onde deliberare intorno la
pecunia da concedersi. Il Re chiedeva un milione e quattrocento mila
lire sterline; ma i Ministri sʼaccôrsero che sarebbe stato vano
domandare una sì grossa somma. Il Cancelliere dello Scacchiere propose
un milione e dugento mila lire sterline. I capi della opposizione
risposero, che concedere tanta pecunia sarebbe stato il medesimo che
approvare la permanenza delle forze militari allora esistenti: mentre
essi erano disposti solo a dar tanto da bastare pel mantenimento
delle truppe regolari finchè le milizie civiche venissero riformate;
e però proposero quattro cento mila lire sterline. I cortigiani si
misero ad urlare contro siffatta proposta, come indegna della Camera
e irriverente al Re. Ma trovarono vigorosa resistenza. Uno deʼ
rappresentanti le Contee Occidentali, voglio dire Giovanni Windham,
che era deputato di Salisbury, si oppose vivamente, dicendo come egli
avesse sempre avuto terrore ed abborrimento per gli eserciti stanziali;
massime da che la recente esperienza lʼaveva riconfermato in tale
pensiero. Si provò poi di toccare dʼuna cosa che fino allora era
stata con sommo studio schivata. Dipinse la desolazione delle Contee
Occidentali. Disse che i popoli erano stanchi della oppressura delle
truppe, stanchi degli alloggi, delle depredazioni, e di scelleratezze
anche peggiori che la legge chiamava fellonie, ma che essendo commesse
da tale classe di felloni, non era possibile ottenerne giustizia. I
ministri del Re avevano detto alla Camera, che erano stati fatti buoni
provvedimenti pel governo dellʼarmata; ma nessuno avrebbe osato dire
che fossero stati mandati ad esecuzione. Quale ne era la necessaria
conseguenza? Il contrasto tra i paterni ammonimenti profferiti dal
trono e la intollerabile tirannia deʼ soldati, non provava egli che
lʼarmata era anche allora troppa e pel principe e pel popolo? I Comuni
potevano, perfettamente coerenti a sè stessi, senza menomare la fiducia
che avevano posta nelle intenzioni di Sua Maestà, ricusare che venisse
aumentata una forza che, manifestamente, la Maestà Sua non avrebbe
potuto tenere in freno.

XIV. La proposta delle quattrocento mila lire sterline, non passò per
dodici voti di minoranza. Questa vittoria, riportata dai Ministri,
era una quasi sconfitta. I capi del partito patriottico, non punto
scoraggiati, indietreggiarono un poco, per ritornare alla prova, e
proposero la somma di settecentomila lire sterline. Il Comitato votò
nuovamente, e i cortigiani furono sconfìtti con dugentododici voti
contro centosessanta.[24]

Il dì dopo, i Comuni andarono solennemente a Whitehall recando
lʼindirizzo, dove si parlava dellʼAtto di Prova. Il Re li accolse
seduto sul trono. Lʼindirizzo era scritto con parole spiranti
riverenza ed affetto; imperocchè la maggior parte di coloro che avevano
votato a favore di quello, erano fervidamente anzi superstiziosamente
realisti, e avevano di leggieri assentito ad inserirvi alcune frasi di
complimento, omettendo ogni parola che i cortigiani avevano reputata
offensiva. La risposta di Giacomo fu una fredda e austera riprensione.
Manifestò dispiacere e maraviglia nel vedere che i Comuni avevano
così poco profittato degli ammonimenti dati loro. «Ma,» soggiunse
«quantunque possiate seguitare a fare a modo vostro, io sarò fermissimo
in tutte le promesse che vi ho fatte.»[25]

I Comuni si radunarono nella loro sala mal satisfatti, e alquanto
intimoriti. La più parte di loro portavano al Re alta riverenza. Tre
anni dʼoltraggi, e dʼinsulti più duri degli oltraggi stessi, bastavano
appena a sciogliere i vincoli onde i gentiluomini Cavalieri erano
legati al trono.

Il Presidente ridisse la sostanza della risposta del Sovrano. Successe
per alcun tempo un solenne silenzio; poi si lesse regolarmente lʼordine
del giorno; e la Camera si formò in Comitato per discutere la legge di
riforma della milizia civica.

XV. Nondimeno, servirono poche ore perchè la opposizione si rifacesse
dʼanimo. Come, sul cadere del giorno, il Presidente riprese il seggio,
Wharton, il più ardito ed operoso deʼ Whig, propose di stabilire il
giorno in cui la risposta del Re si dovesse prendere in considerazione.
Giovanni Coke, rappresentante di Derby, quantunque fosse Tory
conosciuto, secondò le parole di Wharton, dicendo: «Spero che noi tutti
saremo Inglesi, e che poche parole altere non varranno a intimorirci e
distoglierci dal proprio dovere.»

E furono parole coraggiose, ma non savie. «Notate le sue parole!—Alla
barra!—Alla Torre!» gridavano da ogni canto della sala. I più moderati
proposero, che lʼoffensore venisse severamente ripreso: ma i Ministri
insisterono con veemenza perchè fosse mandato in prigione. Dissero
che la Camera poteva perdonare le offese fatte ad essa, ma non aveva
ragione di rimettere un insulto fatto alla Corona. Coke fu condotto
alla Torre. La indiscretezza di un solo uomo aveva interamente
disordinato il sistema di strategia con tanta arte congegnato dai
capi della opposizione. Invano, in quel momento, Eduardo Seymour
tentò di riordinare i suoi aderenti, esortandoli a stabilire il
giorno per discutere la risposta del Re, ed esprimendo la fiducia
che la discussione sarebbe stata condotta col rispetto debito deʼ
sudditi verso il sovrano. I rappresentanti erano tanto intimiditi dal
dispiacere del Re, e tanto esasperati dalla rozzezza di Coke, che non
sarebbe stato savio partito fare squittinio di divisione.[26]

La Camera si aggiornò; e i Ministri sʼillusero credendo che lo spirito
della opposizione fosse domo. Ma la mattina del dì 19 novembre, nuovi
e sinistri segni comparvero. Era giunto il tempo di prendere in
considerazione le petizioni arrivate da ogni parte dellʼInghilterra
contro le ultime elezioni. Allorquando, nella prima adunanza del
Parlamento, Seymour sʼera altamente querelato del Governo, il quale
usando la forza e la fraude aveva impedito che la opinione deʼ collegi
elettorali liberamente si manifestasse, non aveva trovato niuno che lo
secondasse. Ma molti che allora sʼerano da lui scostati, avevano poi
ripreso animo, e con a capo Sir Giovanni Lowther, rappresentante di
Cumberland, innanzi lo aggiornamento avevano manifestata la necessità
dʼinquisire intorno agli abusi che avevano tanto commossa lʼopinione
pubblica. La Camera adesso trovavasi più stizzita; e molti alzavano
la voce in tono di minaccia e dʼaccusa. Ai Ministri fu detto, che la
nazione aspettava e doveva avere solenne giustizia deʼ torti patiti.
Intanto accennavasi destramente, che la migliore espiazione che
ogni gentiluomo eletto con illeciti mezzi potesse fare agli occhi
del pubblico, era di usare il mal conseguito potere in difesa della
religione e delle libertà della patria. Niun rappresentante, che in
tanta ora di pericolo facesse il debito proprio, aveva nulla a temere.
Forse potevano trovarsi argomenti per escluderlo dal Parlamento; ma la
opposizione prometteva di adoperare tutta la propria influenza a farlo
rieleggere.[27]

XVI. Il giorno stesso chiaramente si conobbe, che lo spirito
dʼopposizione erasi propagato dalla Camera deʼ Comuni a quella deʼ
Lordi, e perfino al banco deʼ vescovi. Guglielmo Cavendish, Conte di
Devonshire, aperse lo arringo nella Camera Alta, e a ciò fare aveva i
necessari requisiti. Per ricchezze ed influenza a nessuno deʼ Nobili
inglesi era secondo; e la voce pubblica lo diceva il più compìto
gentiluomo deʼ tempi suoi. La magnificenza, il gusto, lo ingegno, la
classica dottrina, lʼaltezza dello spirito, la grazia e la urbanità
deʼ modi, erano qualità che i suoi stessi nemici gli consentivano.
Sventuratamente, i panegiristi suoi non potrebbero sostenere che la
sua morale rimanesse incontaminata dal contagio a queʼ tempi sparso
dappertutto. Quantunque ei procedesse avverso al papismo e al potere
arbitrario, aveva sempre abborrito dagli esagerati provvedimenti; era,
come vide perduta la Legge dʼEsclusione, inchinato ad un compromesso,
e non sʼera mai immischiato negli illegali ed imprudenti disegni che
avevano screditato il partito Whig. Ma benchè gli spiacesse in parte
la condotta deʼ propri amici, ei non aveva mai mancato di compire con
zelo gli ardui e perigliosi doveri dʼamicizia. Sʼera mostrato al fianco
di Russell alla sbarra; nel tristo giorno della sua decapitazione, gli
aveva detto addio, fra amplessi affettuosi e copiose ed amarissime
lacrime; anzi, sʼera offerto di mettere a repentaglio la propria vita
per procurargli la fuga.[28] Questo grandʼuomo, adunque, propose in
Parlamento di fissare un giorno per esaminare il discorso del Re.
Dal lato opposto sostenevasi, che i Lordi col deliberare rendimenti
di grazie al Sovrano per il discorso, sʼerano privati del diritto
di muovere querela. Ma Halifax trattò con ispregio simile risposta.
«Cosiffatti ringraziamenti» disse egli con quella piacevolezza di
sarcasmo di cui era maestro «non includono approvazione. Siamo
gratissimi sempre che il nostro Sovrano si degna di rivolgerci la
parola. E in ispecie siamo grati quando, come ha fatto nella presente
occasione, ci parla chiaro ed accenna ciò che ci tocchi a patire.»[29]

XVII. Il dottore Enrico Compton, vescovo di Londra. parlò fortemente
a favore della proposta. Quantunque ei non avesse ricco corredo
di insigni doti, nè fosse profondamente versato negli studi della
propria professione, la Camera sempre lo ascoltava con riverenza;
imperocchè egli era uno deʼ pochi ecclesiastici che in quellʼetà
potesse vantare nobiltà di sangue. Ed egli e la sua famiglia avevano
dato prove di lealtà. Suo padre, secondo Conte di Northampton, aveva
strenuamente combattuto per Carlo I, e circuito dai soldati dellʼarmata
parlamentare, era caduto con la spada in pugno, ricusando di concedere
o dʼaccettare quartiere. Lo stesso vescovo, innanzi di ricevere gli
ordini sacri, era stato nelle Guardie; e ancorchè generalmente facesse
ogni sforzo per mostrare la gravità e la sobrietà convenevoli ad un
prelato, di quando in quando si vedeva in lui sfavillare qualche
scintilla dellʼantico spirito militare. Gli era stata affidata la
educazione religiosa delle due Principesse, e aveva adempito a quel
solenne dovere in modo da soddisfare tutti i buoni Protestanti, e
da assicurargli considerevole influenza sopra le menti delle sue
discepole, e massime della Principessa Anna.[30] Adesso dichiarò
dʼavere potestà di manifestare lʼopinione deʼ suoi confratelli, i
quali insieme con lui pensavano che la intera Costituzione civile ed
ecclesiastica del reame fosse in pericolo.[31]

XVIII. Uno deʼ più segnalati discorsi di quel giorno uscì dalle
labbra dʼun giovane, che con la bizzarria deʼ suoi casi era destinato
a rendere attonita la Europa. Aveva nome Carlo Mordaunt, Visconte
Mordaunt, grandemente rinomato anni dopo come Conte di Peterborough.
Aveva già date numerose prove di coraggio, di capacità, e di quella
stranezza di cervello che rese quel coraggio e quella capacità inutili
alla propria patria. Sʼera perfino messo in mente di rivaleggiare
con Bourdaloue e Bossuet. Quantunque ei fosse conosciuto come libero
pensatore, aveva vegliato tutta notte in un viaggio di mare per
comporre sermoni, e con difficoltà gli era stato impedito di edificare
con un pio discorso la ciurma di un vascello da guerra. Adesso favellò
per la prima volta nella Camera deʼ Pari con singolare eloquenza, con
ardore, con audacia. Biasimò i Comuni di non essersi messi in una via
più ardimentosa, dicendo: «Essi hanno avuto timore di parlare schietto.
Hanno ragionato di sospetti e di gelosie. Che cʼentrano qui le gelosie
ed i sospetti? Essi sono sentimenti che provansi per danni incerti
e futuri; e il male che stiamo esaminando non è futuro nè incerto.
Esiste un esercito stanziale. È comandato da ufficiali papisti. Non
abbiamo nemico straniero. Non vʼè ribellione nel paese nostro. A che
fine, dunque, si mantengono tanto numerose forze se non per abbattere
le nostre leggi, e stabilire il potere arbitrario, cotanto giustamente
abborrito dagli Inglesi?»[32]

Jeffreys parlò contro la proposta con quel rozzo e feroce stile di
cui egli era maestro; ma si accôrse subito non essere così agevole
atterrire gli alteri e potenti baroni dʼInghilterra nella loro sala,
come lo era intimidire gli avvocati, il cui pane dipendeva dal favore,
o gli accusati le cui teste erano nelle mani di lui. Un uomo che
abbia passata la vita ad aggredire ed imporre ad altrui, sia quale si
voglia supporre il suo coraggio ed ingegno, generalmente, qualvolta
è rigorosamente aggredito, fa meschina figura: imperciocchè, non
essendo avvezzo a starsi sulla difensiva, si confonde; e il sapere che
tutti glʼinsultati da lui godono della sua confusione, lo confonde
vie maggiormente. Jeffreys, per la prima volta da che era divenuto
grandʼuomo, veniva incontrato a condizioni uguali da avversari che
non lo temevano. A soddisfazione universale, era quella la prima
volta chʼegli passava dallo estremo dellʼinsolenza allo estremo
dellʼabbiettezza, e non potè frenarsi di spargere lacrime di rabbia e
di dispetto.[33] Nulla, a dir vero, mancò ad umiliarlo; poichè la sala
era piena di circa cento Pari, numero maggiore anche di quello che vi
sʼera trovato nel gran di del voto intorno alla Legge dʼEsclusione.
Arrogi che vʼera presente anche il Re. Carlo aveva avuto costume di
assistere alle tornate della Camera deʼ Lordi per sollazzo, e spesso
era solito dire che una discussione gli era di piacevole intertenimento
al pari dʼuna commedia. Giacomo ci andò non per divertirsi, ma con
la speranza che la propria presenza fosse di qualche freno alla
discussione. E sʼingannò. Gli umori della Camera si manifestarono con
tanto vigore, che dopo una pungentissima orazione fatta da Halifax a
concludere, i cortigiani non vollero avventurarsi allo squittinio di
divisione. Fu stabilito un giorno prossimo a prendere in considerazione
il discorso del Re; e fu ordinato che tutti i Pari i quali non fossero
in luoghi molto distanti da Westminster, si trovassero al proprio
posto.[34]

XIX. Il dì seguente, il Re in tutta pompa andò alla Camera deʼ Lordi.
LʼUsciere della Verga Nera intimò ai Comuni di recarsi alla sbarra; e
il Cancelliere annunziò che il Parlamento era prorogato fino al giorno
decimo di febbraio.[35] I membri che avevano votato contro la Corte,
furono destituiti dai pubblici uffici. Carlo Fox fu cacciato dalla
Pagatoria. Il vescovo di Londra cessò dʼessere Decano della Cappella
Reale, e il suo nome fu casso dalla lista deʼ Consiglieri Privati.

Lo effetto della proroga fu di porre fine ad un processo della più
alta importanza. Tommaso Grey, Conte di Stamford, discendente da una
delle più illustri famiglie dellʼInghilterra, incolpato di crimenlese,
era stato di recente preso e posto in istretta prigionia dentro la
Torre. Lo accusavano dʼessere stato implicato nella congiura di Rye
House. La esistenza del fatto era stata dichiarata dai Grandi Giurati
della Città di Londra, e la causa era stata portata alla Camera deʼ
Lordi, che erano il solo tribunale dinanzi a cui un Pari secolare,
durante la sessione del Parlamento, potesse essere processato per
grave delitto. Il dì stabilito allo esame del caso era il primo di
decembre; erano stati dati ordini perchè nella sala di Westminster si
facessero gli apparecchi bisognevoli. A cagione della proroga, la causa
venne differita ad un tempo indefinito; e Stamford fu tosto messo in
libertà.[36]

Tre altri Whig di grande importanza stavano già incarcerati allorquando
si chiuse la sessione: cioè Carlo Gerard, Lord Gerard di Brandon,
primogenito del conte di Maclesfield; Giovanni Hampden, nipote del
rinomato capo del Lungo Parlamento; ed Enrico Booth, Lord Delamere.
Gerard e Hampden erano accusati come complici della Congiura di Rye
House, Delamere, di avere favorita la insurrezione delle Contrade
Occidentali.

XX. Non era intendimento del Governo far morire Gerard o Hampden.
Grey, prima che acconsentisse a testificare contro di loro, aveva
patteggiato per la vita loro.[37] Ma vʼera anche una ragione più forte
a lasciarli vivi. Erano eredi di grosso patrimonio; ma i genitori loro
vivevano ancora. La Corte, quindi, poteva ottenere poco in via di
confisca, ma molto in via di riscatto. Gerard fu processato, e dalle
assai scarse notizie che ci rimangono, eʼ sembra che si difendesse
con grande animo e con vigorose parole. Vantò gli sforzi e i sacrifici
fatti dalla sua famiglia per la causa di Carlo I, e provò che Rumsey,
quel desso che inventando una storiella aveva assassinato Russell,
e poi Cornish dicendone unʼaltra, era testimone affatto indegno di
fede. I Giurati, dopo qualche esitazione, lo dissero colpevole. Dopo
una lunga prigionia, a Gerard fu concesso di redimersi.[38] Hampden
aveva ereditate le opinioni politiche e gran parte delle esimie doti
dellʼavo, ma era degenerato dalla probità e dal coraggio onde lʼavo
erasi tanto predistinto. Eʼ pare che lo accusato, per crudele astuzia
del Governo, fosse lungamente tenuto in una agonia di dubbio, affinchè
la sua famiglia sʼinducesse a pagare assai caro il perdono. Il suo
spirito prostrossi sotto il terrore della morte. Condotto al banco
degli accusati, non solo si confessò reo, ma disonorò il nome illustre
chʼegli portava, con sommissioni e suppliche abiette. Protestò di
non essere stato partecipe del secreto disegno di assassinare Carlo
e Giacomo, ma confessò di avere meditata la ribellione; dichiarossi
profondamente pentito del fallo, implorò la intercessione deʼ Giudici,
giurando che ove la reale clemenza si stendesse sopra lui, dedicherebbe
intera la vita a mostrare la propria gratitudine. I Whig a tanta
pusillanimità divennero furiosi, ed altamente dichiararono lui meritare
più biasimo di Grey, il quale, diventando testimonio del Governo, aveva
serbato un certo decoro. Ad Hampden fu perdonata la vita; ma la sua
famiglia pagò alcune migliaia di lire sterline al Cancelliere. Altri
cortigiani di minore momento estorsero da lui altre somme più tenui.
Lo sciagurato aveva spirito bastevole a sentire la vergogna in cui
sʼera gettato. Sopravvisse di parecchi anni al giorno della propria
ignominia. Ei visse per vedere il proprio partito trionfante, avere
in esso importantissima parte, innalzarsi nello Stato, e far tremare
i propri persecutori. Ma una rimembranza insopportabile gli attoscava
tanta prosperità. Non riacquistò mai la gaiezza dello spirito, e
finalmente di propria mano si tolse la vita.[39]

XXI. Che Delamere, ove avesse avuto mestieri della regia clemenza,
lʼavrebbe potuta ottenere, non è molto probabile. Egli è certo che
tutto il vantaggio che la lettera della legge dava al Governo, fu
adoperato contro lui senza scrupolo o vergogna. Era in condizioni
diverse da quelle in cui trovavasi Stamford. Lʼaccusa contro costui
era stata portata dinanzi alla Camera deʼ Lordi mentre il Parlamento
era in sessione, e però non poteva essere processato se non alla
riapertura del Parlamento. Tutti i Pari avrebbero allora avuto un
voto da dare, e sarebbero stati giudici di diritto e di fatto. Ma
lʼatto dʼaccusa contro Delamere non fu prodotto fuori se non dopo
la proroga.[40] Egli era, quindi, soggetto alla giurisdizione della
corte del Lord Gran Maggiordomo. Questa corte, alla quale appartiene
mentre è chiuso il Parlamento la cognizione deʼ delitti di tradimento
e di fellonia commessi dai Pari secolari, era allora siffattamente
costituita, che nessuno accusato di delitto politico poteva sperare un
processo imparziale. Il Re nominava il Lord Gran Maggiordomo. Questi,
a proprio arbitrio, nominava vari Pari a giudicare il loro accusato
confratello. Al numero loro non era limite. Una semplice maggioranza di
voti, purchè fosse di dodici, serviva a dichiarare colpevole. Il Gran
Maggiordomo era solo giudice di diritto; e i Lordi erano Giurati per
pronunciare sul fatto. Jeffreys fu nominato Gran Maggiordomo. Scelse
trenta Pari, e la scelta fu qual poteva aspettarsi da siffatto uomo in
simiglianti tempi. Tutti queʼ trenta per opinioni politiche procedevano
avversi allo accusato. Quindici erano colonnelli di reggimenti, e
potevano essere destituiti a volontà del Re. Tra gli altri quindici
erano il Lord Tesoriere, principale segretario di Stato, il Maggiordomo
e il Sindaco di Palazzo, il Capitano della Banda deʼ Gentiluomini
Pensionisti, il Ciamberlano della Regina, ed altri individui fortemente
vincolati alla Corte. Nondimeno, Delamere aveva alcuni grandi vantaggi
sopra i colpevoli di minor grado processati in Old Bailay. Quivi i
Giurati, violenti uomini di partito, presi per un solo giorno dagli
Sceriffi cortigiani fra la massa della società, e rimandati poi nella
massa, non avevano freno di rossore; e poco avvezzi a giudicare della
evidenza del caso, seguivano senza scrupolo le voglie del seggio. Ma
nella corte del Gran Maggiordomo, ogni Giurato era uomo esperto neʼ
gravi negozi, e considerevolmente noto al pubblico; e doveva profferire
separatamente, e sullʼonor suo, la propria opinione dinanzi a un
numeroso concorso. Quella opinione, insieme col suo nome, sarebbe
andata in tutte le parti del mondo e rimasta nella storia. Inoltre,
quantunque i nobili scelti fossero tutti Tory e quasi tutti impiegati,
molti di loro avevano cominciato a sentire inquietudine della condotta
del Re, e dubitavano un giorno non sʼavessero a trovare nel caso di
Delamere.

Jeffreys si condusse, secondo lʼusato, con iniquità ed insolenza.
Serbava in petto un vecchio rancore che lo irritava. Era stato capo
Giudice di Chester allorquando Delamere, che allora chiamavasi il
Signor Booth, rappresentava quella Contea in Parlamento. Booth aveva
mosso amarissima querela nella Camera deʼ Comuni perchè i più cari
interessi deʼ suoi elettori erano affidati ad un buffone briaco.[41]
Il giudice vendicativo, ora non arrossì di adoperare artifici tali,
che sarebbero stati criminosi anche in un avvocato. Ricordò ai Lordi
Giurati con significantissime parole, che Delamere in Parlamento erasi
opposto alla condanna infamante di Monmouth; fatto che non era nè
poteva essere provato. Ma non era in potestà di Jeffreys intimorire
un sinodo di Pari, come era avvezzo a fare verso i Giurati ordinari.
La testimonianza addotta dalla Corona si sarebbe forse reputata
ampiamente bastevole nel giorno giuridico nelle Contrade Occidentali
o nelle sessioni di Città, ma non poteva per un momento imporre ad
uomini come Rochester, Godolphin e Churchill; nè essi, con tutti i
falli loro, erano sì depravati, da condannare a morte un uomo contro
le più semplici norme della giustizia. Grey, Wade e Goodenough furono
dal Governo addotti come testimoni, ma poterono solo ripetere ciò
che avevano udito dire da Monmouth e dagli emissari di Wildman. Fu
dimostrato con incontrastabile evidenza che un ribaldo, di nome
Saxton, principale testimonio dellʼaccusa, già stato implicato nella
ribellione, ed ora affaccendato a procacciarsi il perdono testificando
contro tutti glʼinvisi al Governo, aveva detto gran numero di menzogne.
Tutti i Lordi Giurati, da Churchill, il quale come il più giovane deʼ
baroni parlò primo, fino al Tesoriere, dichiararono sullʼonor loro,
che Delamere non era colpevole. La gravità e la pompa del processo
fece profonda impressione nellʼanimo del Nuncio, ancorchè fosse
assuefatto alle cerimonie della Corte di Roma, le quali per solennità e
magnificenza vincono tutte le cerimonie del mondo.[42] Il Re, che vʼera
presente, e non poteva muovere lamento della sentenza evidentemente
giusta, montò in furore contro Saxton, giurando che lo sciagurato
sarebbe stato prima posto alla berlina, come reo di spergiuro, innanzi
a Westminster Hall; e poi mandato nelle contrade occidentali, per
essere appeso alle forche e squartato come reo di tradimento.[43]

XXII. La pubblica esultanza, come si seppe che Delamere era stato
assoluto, fu grande. Il regno del terrore era finito. Lʼinnocente
incominciava a respirare liberamente, e il falso accusatore a tremare.
Non può leggersi senza lacrime una lettera scritta in questa occasione.
Giunse alla vedova di Russell nella sua solitudine la nuova, e le
suscitò nellʼanima un misto di sentimenti diversi. «Rendo grazie a
Dio» scriveva ella, «che ha posto alcun freno allo spargimento del
sangue in questo misero paese. Ma mentre me ne rallegro con altrui, mi
tiro da parte a piangere. Più non mi sento capace di godere; ma ogni
nuova circostanza, il paragonare la mia notte di dolore, dopo un tanto
giorno, con le loro notti di gioia, o per un pensiero o per un altro,
mi tortura lʼanima. Comecchè io sia lungi dal desiderare che le loro
ore trascorrano come le mie, non posso frenarmi talvolta di lamentare
che le mie non siano simili alle loro.»[44]

Adesso il vento era cangiato. La morte di Stafford, accolta con
segni di tenerezza e di rimorso dalla plebaglia, alla cui rabbia egli
era stato sacrificato, stabilisce il finire di una proscrizione. Il
proscioglimento di Delamere stabilisce il chiudersi dʼunʼaltra. I
delitti che avevano disonorato il procelloso tribunato di Shaftesbury,
erano stati terribilmente espiati. Il sangue deglʼinnocenti papisti era
stato più che dieci volte vendicato dal sangue deʼ fervidi protestanti.
Unʼaltra grande reazione era incominciata. Le fazioni andavano
speditamente prendendo nuove forme. I vecchi collegati scindevansi. Si
congiungevano i vecchi nemici. I mali umori spandevansi in tutto il
partito fino allora predominante. Una speranza, comunque per allora
debole e indistinta, di vittoria e vendetta, rianimava il partito che
pareva estinto. In siffatte condizioni si chiuse il 1685, anno torbido
e pieno dʼeventi, e incominciò il 1686.

XXIII. La proroga aveva disimpacciato il Re dalle moderate rimostranze
delle Camere; ma gli toccava udirne altre, simili per lo effetto, ma
formulate con parole anche più caute e sommesse. Taluni, che fino
allora lo avevano servito con cecità tale da nuocere alla loro fama
e al pubblico bene, cominciarono a provare dolorosi presentimenti, e
di quando in quando risicavansi a significare alcun che di ciò che
sentivano.

Per molti anni lo zelo del Tory inglese per la monarchia ereditaria
e per la religione stabilita, erano insieme venuti crescendo e
scambievolmente afforzandosi. Ei non aveva mai pensato che questi due
sentimenti, i quali parevano inseparabili e pressochè identici, si
sarebbero un giorno potuti trovare non solo distinti, ma incompatibili.
Dal principio della lotta tra gli Stuardi e i Comuni, la causa della
Corona e quella della gerarchia erano state apparentemente una causa
sola. Carlo I veniva dalla Chiesa considerato come martire. Se Carlo
II aveva contro quella congiurato, aveva congiurato secretamente.
In pubblico sʼera sempre confessato grato e devoto figliuolo, erasi
inginocchiato dinanzi agli altari di essa; e malgrado i suoi corrotti
costumi, gli era riuscito di persuadere il maggior numero degli
aderenti alla Chiesa, che egli sinceramente la preferisse. Per tutti i
conflitti che lʼonesto Cavaliere avesse fino allora potuto sostenere
contro i Whig e le Teste–Rotonde, non aveva almeno dovuto patire nessun
conflitto nella mente propria. Egli sʼera veduto piano ed aperto
dinanzi agli occhi il sentiero del dovere. Traverso al bene e al male,
ei doveva mantenersi fedele alla Chiesa e al Re. Ma se queʼ due augusti
e venerandi poteri, i quali fino allora sembravano così strettamente
congiunti, che i fedeli allʼuno non potevano essere perfidi allʼaltro,
venissero divisi da mortale nimistà, a quale partito doveva il realista
ortodosso appigliarsi? Quale condizione sarebbe stata più critica che
quella di trovarsi ondeggiante tra due doveri egualmente sacri, tra
due affetti egualmente fervidi? Come poteva egli rendere a Cesare
ciò chʼera di Cesare, e non negare a Dio parte di ciò chʼera di Dio?
Nessuno che avesse siffattamente sentito, poteva mirare, senza profondo
timore e neri presentimenti, il contrasto tra il Re e il Parlamento
intorno allʼAtto di Prova. Se Giacomo anche ora si fosse indotto a
ripensare sul proprio disegno, a lasciare riaprire le Camere, e cedere
ai desiderii loro, tutto poteva rivolgersi a bene.

Così opinavano i due cognati del Re, i Conti cioè, di Clarendon e di
Rochester. La potenza e il favore che godevano questi gentiluomini,
sembrava veramente grande. Il più giovane deʼ fratelli era Lord
Tesoriere e primo ministro; il maggiore, dopo di avere per alquanti
mesi tenuto il Sigillo Privato, era stato nominato Luogotenente
dʼIrlanda. Il venerando Ormond pensava medesimamente. Middleton e
Preston, che, come dirigenti la Camera deʼ Comuni, avevano di recente
sperimentato quanto cara fosse aʼ gentiluomini realisti dʼInghilterra
la religione stabilita, davano consigli di moderazione.

In sul principio del nuovo anno, i sopraddetti uomini di Stato, e il
numeroso partito da essi rappresentato, ebbero a patire una crudele
mortificazione. Che il Re defunto fosse Cattolico Romano, era stato per
molti mesi sospettato e bisbigliato, ma non annunziato formalmente.
Tale manifestazione non si sarebbe potuta fare senza grave scandalo.
Carlo erasi innumerevoli volte dichiarato protestante, ed aveva
avuto costumanza di ricevere dai vescovi della Chiesa stabilita il
sacramento della eucaristia. Queʼ Protestanti che lo avevano sostenuto
neʼ pericoli, e che di lui serbavano tuttavia affettuosa rimembranza,
dovevano provare sdegno e rossore al sentire che la intera sua vita
era stata una menzogna; che mentre confessava dʼappartenere alla loro
religione, gli aveva veramente tenuti per eretici; e che i demagoghi,
i quali lo avevano chiamato papista nascosto, erano stati i soli che
avessero formato un esatto giudicio del suo carattere. Anche Luigi
intendeva tanto lo stato dellʼopinione pubblica in Inghilterra, da
accorgersi come il divulgare il vero potesse recar nocumento, ed
aveva, dʼaccordo, fatta promissione di tenere strettamente segreta la
conversione di Carlo.[45] Giacomo, nel principio del suo regno, aveva
pensato doversi in tanto negozio procedere cauto, e non erasi rischiato
a seppellire il fratello, secondo il rito della Chiesa di Roma. Per
qualche tempo, quindi, ciascuno potè liberamente credere ciò che
volesse. I papisti dicevano che il defunto principe era loro proselite.
I Whig lo esecravano come ipocrita e rinnegato. I Tory consideravano la
voce della sua apostasia come una calunnia che i papisti e i Whig, per
ragioni differentissime, avevano interesse a spargere.

XXIV. Giacomo ora fece un passo che pose in gran perturbazione tutto il
partito anglicano. Due scritture, in cui erano concisamente esposti gli
argomenti dʼordinario usati dai Cattolici Romani nella controversia coi
Protestanti, sʼerano trovate nella cassa forte di Carlo, e sembravano
di mano sua. Le quali scritture Giacomo mostrò, menandone trionfo, a
parecchi Protestanti, e dichiarò sapere che il suo fratello era vissuto
e morto Cattolico Romano.[46] Uno di coloro ai quali i manoscritti
furono mostrati, fu lo arcivescovo Sancroft. Li lesse grandemente
commosso, e rimase tacito. Tale silenzio era solo lo effetto naturale
di una lotta tra la riverenza e la repugnanza. Ma Giacomo suppose
che il Primate tacesse per la forza irresistibile della ragione,
e seriamente lo sfidò a produrre, col soccorso di tutto il seggio
episcopale, una soddisfacente risposta. «Datemi una risposta solida
e in istile da gentiluomini; e forse potrà far sì, secondo che molto
vi sta a cuore, di convertirmi alla vostra Chiesa.» Lo arcivescovo
dolcemente rispose, che, secondo lui, cotale risposta poteva farsi
senza molta difficoltà; ma non accettò la controversia, adducendo
per iscusa la riverenza alla memoria del suo defunto signore. Il Re
considerò la scusa come un sutterfugio dʼun vinto avversario.[47] Se
egli avesse conosciuta la letteratura polemica deʼ centocinquanta anni
precedenti, avrebbe saputo che i documenti ai quali ei dava tanto peso,
gli avrebbe potuti comporre ogni giovinetto di quindici anni della
scuola di Doaggio, e che non contenevano cosa alcuna, la quale, secondo
lʼopinione di tutti i teologi protestanti, non fosse stata dieci mila
volte confutata. Nella sua stolta esultanza, ordinò che quegli scritti
si stampassero col più squisito lusso tipografico, e vi appiccicò
dietro una dichiarazione munita della sua firma, ad attestare che gli
originali erano scritti di pugno del fratello. Giacomo ne distribuì con
le proprie mani tutti gli esemplari ai cortigiani, e alle persone del
popolo che si affollavano attorno il suo cocchio. Ne dètte un esemplare
ad una giovine di vile condizione, chʼegli supponeva appartenere
alla religione da lui professata, e le assicurò che leggendolo se ne
troverebbe edificata grandemente e confortata. In ricambio di questa
cortesia, pochi giorni dopo, ella gli mandò una lettera, scongiurandolo
di uscire dalla mistica Babilonia, e rimuovere dalle sue labbra la
coppa delle fornicazioni.[48]

XXV. Tali cose davano somma inquietudine ai Tory aderenti alla Chiesa
Anglicana. Nè i più spettabili Cattolici Romani ne rimanevano meglio
satisfatti. Si sarebbero, in verità, potuti scusare, se in cosiffatte
circostanze la passione gli avesse resi sordi alla voce della prudenza
e della giustizia, come quelli che avevano molto sofferto. La gelosia
deʼ Protestanti gli aveva gittati giù dal grado in cui erano nati,
aveva chiuse le porte del Parlamento agli eredi deʼ Baroni che avevano
firmata la _Magna Carta_, e deciso che il comando dʼuna compagnia di
pedoni non fosse da fidarsi ai discendenti dei capitani che avevano
vinto a Flodden e a San Quintino. Non vʼera un solo Pari eminente,
fido alla vecchia religione, del quale lʼonore, gli averi, la vita non
fossero stati in pericolo; che non avesse passati molti mesi rinchiuso
dentro la Torre, che più volte non si fosse aspettata la miseranda
sorte di Stafford. Uomini che erano stati così lungamente e con tale
crudeltà oppressati, si sarebbero potuti perdonare, se avessero
avidamente côlta la prima occasione a conseguire a un tempo grandezza
e vendetta. Ma nè fanatismo, nè ambizione, nè rancore di torti patiti,
nè ebrietà prodotta dalla sùbita buona fortuna, poterono far sì che i
più cospicui Cattolici Romani non si accorgessero come la prosperità
che finalmente erano pervenuti a godere, fosse solo temporanea, e
non usata saggiamente, potrebbe tornar loro fatale. Avevano con dura
esperienza imparato, che lʼavversione del popolo alla religione loro
non era fantasia che sarebbe svanita al comando dʼun principe, ma
profondo sentimento, tramandato crescendo per cinque generazioni,
spanto in tutte le classi e in tutti i partiti, e avvincolato non meno
strettamente coi principii deʼ Tory che con quelli deʼ Whig. Certo,
il Re poteva, nello esercizio della sua prerogativa di far grazia,
sospendere le leggi penali. Avrebbe in appresso potuto, operando
con discrezione, ottenere dal Parlamento la revoca deʼ decreti che
privavano deʼ diritti civili gli aderenti alla religione di lui.
Ma tentando di domare il sentimento protestante della Inghilterra
con mezzi bruschi, era facile vedere che la violenta compressione
dʼuna molla così potente ed elastica, sarebbe seguita da uno scatto
egualmente violento. I Pari Cattolici Romani, tentando prematuramente
di entrare a forza nel Consiglio Privato e nella Camera deʼ Lordi,
avrebbero potuto perdere le case e le vaste possessioni loro, e finire
la vita o da traditori in Tower Hill, o da mendicanti alle porte deʼ
conventi dʼItalia.

Così pensava Guglielmo Herbert, conte di Powis, generalmente
considerato come capo della aristocrazia cattolica romana, il quale,
secondo le fandonie di Oates, doveva essere primo ministro se la
congiura papale sortiva prospero successo. Medesimamente opinava
Giovanni Bellasyse. In gioventù, aveva valorosamente pugnato per Carlo
I; dopo la Restaurazione era stato rimunerato con onori e con gradi
militari, e gli aveva deposti dopo che fu promulgato lʼAtto di Prova.
A questi insigni capi del partito cattolico facevano eco tutti i più
nobili ed opulenti membri della loro Chiesa, tranne Lord Arundell di
Wardour, uomo decrepito e pressochè rimbambito.

XXVI. Ma in Corte era un piccolo nucleo di Cattolici Romani, che
avevano il cuore esulcerato da vecchie ingiurie, il cervello inebriato
dal recente innalzamento; che erano impazienti di rampicarsi alle
dignità dello Stato, ed avendo poco da perdere, non si davano punto
pensiero del giorno del rendimento deʼ conti.

XXVII. Uno di costoro era Ruggiero Palmer, conte di Castelmaine in
Irlanda, e marito della Duchessa di Cleveland. Sapevasi da tutti
chʼegli aveva comperato il suo titolo col disonore della moglie e
col proprio. Il suo patrimonio era scarso. Lʼindole sua, scortese
per natura, era stata esasperata dalle domestiche vessazioni, dai
pubblici rimproveri, e da ciò chʼegli aveva patito a tempo della
congiura papale. Era stato lungamente in carcere, e in fine era stato
processato per delitto capitale. Fortunatamente per lui, non fu tratto
al banco degli accusati se non dopo che erasi spento il primo scoppio
del furore popolare, e i falsi testimoni avevano perduto ogni credito.
Gli era, quindi, riuscito di campare a gran pena dal pericolo.[49]
Con Castelmaine era collegato uno deʼ più prediletti deʼ cento amanti
di sua moglie; cioè Enrico Jermyn, che da Giacomo di recente era
stato fatto Pari col titolo di Lord Dover. Jermyn, venti e più anni
innanzi, erasi reso notevole con isconci amori e disperati duelli.
Adesso trovavasi rovinato dal giuoco, ed era ansioso di rifare il
patrimonio col mezzo degli uffici lucrosi, dai quali lo escludevano le
leggi.[50] Al medesimo branco apparteneva un intrigante ed importuno
Irlandese, chiamato White, che aveva molto viaggiato, aveva servito la
Casa dʼAustria con un impiego mezzo tra lʼinviato e la spia, e che in
rimunerazione deʼ servigi resi era stato fatto marchese dʼAlbeville.[51]

Tosto dopo la proroga, questa trista fazione sʼafforzò di un nuovo
aiuto. Riccardo Talbot, conte di Tyrconnel, il più feroce ed
implacabile di quanti avevano in odio le libertà e la religione
dellʼInghilterra, da Dublino era giunto alla Corte.

Talbot discendeva da una antica famiglia normanna, la quale, da lungo
tempo stabilita in Leicester, era degenerata, aveva adottati i costumi
deʼ Celti, e come essi aderito alla vecchia religione, e partecipato
alla ribellione del 1641. In gioventù egli era stato uno deʼ più
rinomati scrocconi e bravazzoni di Londra; era stato presentato a
Carlo ed a Giacomo mentre erano esuli in Fiandra, come un uomo adatto
e pronto ad assassinare infamemente il Protettore. Subito dopo la
Restaurazione, Talbot si provò dʼottenere il favore della famiglia
reale con un servigio anche più infame. Bisognava un pretesto per
mezzo del quale giustificare il Duca di York a rompere la promessa
di matrimonio onde egli aveva ottenuto da Anna Hyde lʼestrema prova
dʼaffetto che possa dare una donna. Talbot, dʼaccordo con alcuni deʼ
suoi dissoluti compagni, imprese di apprestare siffatto pretesto.
Concertarono di dipingere la povera giovinetta come donna priva di
virtù, di pudore, di delicatezza, e inventare lunghe storielle di
teneri ritrovi e di rapiti favori. Talbot, segnatamente, riferì come
in una delle secrete visite a lei fatte, avesse per caso versato il
calamaio del Cancelliere sopra un fascio di scritture, e con quanta
destrezza, perchè il vero non si scoprisse, ella ne avesse data la
colpa alla sua scimmia. Tali storielle, che se fossero state vere,
non sarebbero uscite dalle labbra di nessuno che non fosse il più
vile degli uomini, erano prette invenzioni. Talbot tosto fu costretto
a confessare che erano tali, e lo fece senza ombra di rossore.
Lʼoltraggiata donna divenne duchessa di York. Ove il suo sposo fosse
stato uomo diritto ed onorevole, avrebbe con indignazione e disprezzo
cacciato via dal proprio cospetto gli sciagurati che gli avevano
calunniata la consorte. Ma una delle particolarità del carattere
di Giacomo era che nessuna azione, comunque si fosse malvagia e
vergognosa, fatta col desiderio di ottenere il suo favore, gli
sembrava mai degna dʼessere riprovata. Talbot seguitò a frequentare
la Corte, mostravasi quotidianamente con fronte di bronzo dinanzi
alla principessa di cui aveva tentata la rovina, ed ottenne il posto
lucroso di principale lenone del Re. Dopo non molto tempo, Whitehall
si mise sossopra alla nuova che Riccardo (_Dick_) Talbot, come veniva
comunemente chiamato, aveva concepito il disegno di assassinare il Duca
dʼOrmond. Il bravo fu mandato alla Torre; ma dopo pochi giorni fu visto
chiassando per le sale di palazzo, e recando letterine dʼamore su e
giù tra il suo signore e le più brutte dame di Corte. Invano i vecchi
e discreti consiglieri supplicavano i due principi a non proteggere
quel ribaldo, che altro merito non aveva, tranne la prestanza della
persona e il gusto nel vestirsi. Talbot non solo era bene accolto
nella reggia quando la bottiglia e i dadi giravano attorno, ma veniva
attentamente udito in negozi di grave momento. Affettava il carattere
di un patriotto irlandese, e patrocinava con grande audacia, e talvolta
con esito prospero, la causa deʼ suoi concittadini, i beni deʼ quali
erano stati confiscati. Studiavasi, nulladimeno, di farsi ben pagare
deʼ servigi che rendeva, e gli venne fatto di acquistare, parte
vendendo protezione, parte scroccando, e parte facendo il lenone, una
rendita di tremila lire sterline lʼanno; imperocchè, sotto la maschera
di leggiero, di prodigo, dʼimprovvido e di impudente bisbetico, egli
era pur troppo uno deʼ più venali e cupidi uomini del mondo. Oramai non
era più giovane, e scontava con acerbi dolori le stemperatezze della
gioventù; ma gli anni e le infermità non gli avevano essenzialmente
mutato il carattere e i modi. Sempre che apriva la bocca, schiamazzava,
imprecava e bestemmiava con sì terribile violenza, che i più
superficiali osservatori lo giudicavano il più feroce deʼ libertini.
Il popolo non sapeva intendere come un uomo il quale anche da sobrio,
era più furioso e vanitoso dʼaltri ubbriaco, e che sembrava affatto
incapace di mascherare il più lieve moto dellʼanimo o di serbare il
minimo secreto, potesse veramente essere un adulatore di cuore freddo,
dʼocchio acuto e dʼingegno macchinatore. Non pertanto, tale era Talbot.
E davvero la sua ipocrisia era dʼuna specie più squisita e più rara
che non fosse quella che regnava nel Parlamento di Barebone. Perocchè
lo ipocrita perfetto non è colui che asconde il vizio sotto i sembianti
della virtù, ma colui il quale si serve del vizio che egli non si
vergogna di mostrare, come di maschera per celare un altro vizio più
nero e proficuo, che gli giova di tenere nascosto.

Talbot, fatto da Giacomo conte di Tyrconnel, aveva comandate le truppe
in Irlanda neʼ nove mesi che corsero dalla morte di Carlo al principio
del viceregno di Clarendon. Quando il nuovo Luogotenente stava per
partire da Londra alla volta di Dublino, il Generale fu chiamato
da Dublino a Londra. Dick Talbot era da lungo tempo conosciuto nel
cammino che doveva fare. Fra Chester e la Metropoli non vʼera quasi
locanda nella quale non avesse attaccato lite. Dovunque giungeva,
affaticava i cavalli a dispetto della legge, imprecava ai cuochi ed ai
postiglioni, e quasi destava tumulti con le sue insolenti rodomonterie.
Andava dicendo che la Riforma aveva rovinato ogni cosa. Ma il bel
tempo era presso. Tra breve i Cattolici si sarebbero rialzati, e si
sarebbero rifatti sugli eretici. Infuriando e bestemmiando sempre
come un indemoniato, ei giunse alla Corte;[52] dove tosto si collegò
strettamente con Castelmaine, Dover ed Albeville. Costoro ad una voce
gridavano guerra alla costituzione della Chiesa e dello Stato. Dicevano
al loro signore, chʼegli per la sua religione e per la dignità della
sua Corona, era in debito di affrontare intrepidamente il grido degli
eretici demagoghi, e mostrare fin da principio al Parlamento chʼegli
sarebbe il signore a dispetto della opposizione, e che il solo effetto
della opposizione sarebbe stato di renderlo signore severo.

XXVIII. Ciascuno deʼ due partiti in che la Corte era divisa, aveva
zelanti alleati stranieri. I ministri di Spagna, dello Impero e
degli Stati Generali erano adesso desiderosi di sostenere Rochester,
come per lo innanzi lo erano stati verso Halifax. Barillon adoperava
tutta la propria influenza dalla parte opposta, ed era aiutato da un
altro agente francese, inferiore a lui per grado, ma assai superiore
per ingegno; voglio dire da Bonrepaux. Barillon non era privo di
buone qualità, ed aveva grande corredo di quelle doti onde allora
andavano predistinti i gentiluomini francesi. Ma la sua capacità non
era quale il suo alto ufficio richiedeva. Era divenuto pigro e a sè
troppo indulgente; amava i piaceri della società e della tavola,
meglio delle faccende; e nelle grandi occasioni era dʼuopo che da
Versailles venissero ammonimenti, ed anche riprensioni, per ispingerlo
ad operare.[53] Bonrepaux si era alzato dalla oscurità a cagione
della intelligenza ed industria che aveva mostrata come impiegato nel
dipartimento della marina, ed aveva riputazione dʼiniziato ai misteri
della politica mercantile. Alla fine del 1685, fu mandato a Londra con
varie commissioni dʼalta importanza. Doveva stabilire le basi per un
trattato di Commercio, indagare e riferire in che condizioni trovavansi
la flotta e gli arsenali inglesi, e fare qualche proposta ai fuorusciti
Ugonotti, i quali supponevasi che fossero tanto prostrati dalla penuria
e dallʼesilio, che avrebbero di gran cuore accettato quasi qualunque
patto di riconciliazione. Il nuovo inviato nasceva da parenti plebei;
era di statura quasi nano, dʼaspetto sì brutto da muovere a scherno,
e parlava con lʼaccento di Guascogna dove era nato: ma vigoroso
buon senso, acutezza di mente, e vivacità di spirito lo rendevano
eminentemente adatto al suo ufficio. In onta ad ogni svantaggio di
nascita e di persona, fu tosto stimato come assai piacevole compagno,
ed espertissimo diplomatico. Mentre folleggiava con la duchessa di
Mazzarino, studiavasi di discutere di cose letterarie con Waller e
Saint Evremond, e carteggiare con la Fontaine, onde bene erudirsi nella
politica inglese. Per la perizia chʼegli aveva nelle cose marittime,
venne in grazia di Giacomo; il quale, per molti anni, prestò non poca
attenzione alle faccende dello Ammiragliato, e le intendeva quanto egli
era capace dʼintendere cosa alcuna al mondo. Conversavano entrambi ogni
giorno lungamente e liberamente intorno alle condizioni delle navi
e degli arsenali. Lo effetto di tale dimestichezza fu quale era da
aspettarsi: val quanto dire, che lo acuto e vigilante francese concepì
sommo pregio per le doti e il carattere del re, dicendo il mondo avere
male giudicato Sua Maestà Britannica, che aveva meno capacità, e non
maggiori virtù di Carlo.[54]

I due inviati di Luigi, comecchè mirassero ad un medesimo fine, con
molto accorgimento presero vie diverse. Si partirono fra loro la Corte.
Bonrepaux usava principalmente con Rochester e gli aderenti di lui.
Le relazioni di Barillon erano principalmente con la opposta fazione.
Conseguenza ne fu, chʼessi soventi volte guardassero un medesimo fatto
da diversi punti di veduta. Il migliore racconto che esista intorno
alla contesa che a quel tempo ferveva in Whitehall, è da trovarsi neʼ
loro dispacci.

XXIX. Come ciascuno deʼ due partiti nella Corte di Giacomo era
sostenuto da principi stranieri, così ciascuno aveva il sostegno dʼuna
autorità ecclesiastica, alla quale il Re mostrava gran deferenza. Il
sommo pontefice inchinava alla moderazione; e i suoi sentimenti erano
espressi dal Nunzio e dal Vicario Apostolico.[55] Dallʼaltra parte,
stava una corporazione che col suo peso controbilanciava anche quello
del Papato; stava, cioè, la potente Compagnia di Gesù.

È circostanza importantissima e degna di considerazione, che queste due
grandi potenze spirituali, un tempo, a quanto pareva, inseparabilmente
collegate, fossero fra loro opposte. Per un periodo di tempo poco
minore di mille anni, il clero regolare era stato il sostegno
precipuo della Santa Sede. Essa lo aveva protetto daʼ vescovi che
volevano immischiarsi nelle sue faccende, e ne era stata ampiamente
ricompensata. Senza gli sforzi dei regolari, è probabile che il
Vescovo di Roma si sarebbe ridotto ad essere il presidente onorario
dʼuna aristocrazia di prelati. Eʼ fu col soccorso deʼ Benedettini,
che Gregorio VII potè lottare ad un tempo contro glʼImperatori della
Casa di Franconia, e contro il clero secolare. Eʼ fu col soccorso deʼ
Domenicani e deʼ Francescani, che Innocenzo III spense la setta degli
Albigesi.

XXX. Nel secolo decimosesto, il Papato, esposto a nuovi pericoli e più
formidabili di quanti lo avessero per innanzi minacciato, fu salvato da
un nuovo ordine religioso, animato da vigoroso entusiasmo e costituito
con insigne magistero. Allorquando i Gesuiti accorsero alla liberazione
del Papato, lo trovarono in estremo pericolo; ma da quel momento le
sue sorti mutarono aspetto. Al protestantismo, che per una intera
generazione aveva abbattuto tutto ciò che aveva incontrato per via, fu
mozzo lo andare avanti, e fu rapidamente fatto indietreggiare dalle
Alpi fino alle sponde del Baltico. Non era scorso un secolo da che la
Compagnia di Gesù esisteva, e il mondo era pieno deʼ ricordi di quanto
essa aveva fatto e sofferto per la fede. Non vʼè comunità religiosa
che possa gloriarsi dʼuna schiera di uomini così variamente cospicui;
nessuna aveva esteso le proprie operazioni sopra uno spazio sì vasto; e
nondimeno, in nessuna vʼera stata cotanto perfetta unità di sentimento
e dʼazione. Non era contrada nel mondo, non sentiero nella vita
attiva o speculativa, in cui non si trovassero i Gesuiti. Dirigevano
i Consigli dei re: decifravano iscrizioni latine: osservavano il moto
deʼ Satelliti di Giove: pubblicavano intere biblioteche, controversia,
casistica, storia, trattati dʼottica, odi alcaiche, edizioni dei
Santi Padri, madrigali, catechismi e satire. La educazione letteraria
della gioventù era quasi interamente nelle loro mani, e condotta con
esquisita maestria. Sembra che avessero scoperto il punto preciso al
quale possa condursi la cultura intellettuale senza il rischio della
intellettuale emancipazione. Gli stessi nemici loro erano costretti a
confessare, che nellʼarte di governare e formare le menti deʼ giovani,
i Gesuiti non avevano rivali. Infrattanto, con assiduità e prospero
successo coltivavano la eloquenza del pulpito. Con assiduità e successo
anche maggiore si dettero al ministero del confessionale. Per tutta
la Europa Cattolica, i secreti dʼogni Governo, e quasi dʼogni notevole
famiglia, erano in poter loro. Girovagavano da un paese protestante ad
un altro, travestendosi in infinite fogge, da galanti cavalieri, da
semplici contadini, da predicatori puritani. Viaggiavano fin dove nè
lʼavidità mercantile nè la curiosità della scienza aveva persuaso altri
ad andare. Trovavansi in abito di mandarini a dirigere lʼosservatorio
astronomico di Pechino. Si vedevano con la marra in mano ammaestrare
nellʼagricoltura i selvaggi del Paraguay. Ciò non ostante, in qualunque
parte risedessero, qualunque mestiere esercitassero, il loro spirito
era sempre lo stesso; cioè piena devozione alla causa comune, implicita
obbedienza allʼautorità centrale. Nessuno sʼera scelto da sè il luogo
dove abitare e la vocazione da seguire. Se il Gesuita dovesse vivere
sotto il cerchio artico o sotto lʼequatore, se dovesse passare tutti
i suoi giorni a classificare gemme e a collazionare manoscritti nel
Vaticano, o a persuadere i barbari dellʼemisfero meridionale perchè
non si divorassero lʼun lʼaltro, erano cose che egli con profonda
sommissione lasciava allʼaltrui pensiero. Se lo volevano a Lima,
trovavasi con la prima flotta a veleggiare sullʼAtlantico. Se di lui
vi era bisogno in Bagdad, si vedeva traverso al deserto fra la prima
caravana. Se vʼera bisogno del suo ministero in qualche regione dove
la sua vita fosse meno sicura di quella dʼun lupo, dove fosse delitto
lʼospitarlo, dove i teschi e i corpi squartati deʼ suoi confratelli
glʼindicavano quale sorte egli dovesse aspettarsi, andava senza lamento
o esitazione al proprio destino. Nè questo spirito eroico è oggimai
estinto. Allorchè, ai tempi nostri, una nuova e terribile pestilenza
girò infuriando attorno al globo, mentre in alcune grandi città lo
spavento aveva rotti tutti i vincoli che congiungono la società, mentre
il clero secolare aveva abbandonato il proprio gregge, mentre non vʼera
oro che bastasse a comperare il soccorso del medico, mentre i più
potenti affetti di natura cedevano allo amore della vita, il Gesuita
vedevasi presso a quel lettuccio che il vescovo e il curato, il medico
e la balia, il padre e la madre avevano abbandonato; vedevasi, dico,
piegare la persona sulle labbra infette, per raccogliere il fioco
accento del moribondo che si confessava, e tenergli dinanzi agli occhi
fino allʼultimo istante della vita la immagine del Redentore spirante
sulla croce.

Ma, con lʼammirevole energia, il disinteresse, e lʼabnegazione che
facevano il carattere della Società, erano mescolati grandi vizi.
Dicevasi, e non senza fondamento, che lʼardente spirito pubblico che
rendeva il Gesuita spregiatore degli agi, della libertà e della vita
propria, lo induceva parimente a spregiare il vero e a non sentire
pietà; che nessun mezzo il quale potesse promuovere lʼutile della
sua religione, sembravagli illecito, o che col vocabolo dʼutilità
della propria religione ei troppo spesso intendeva lʼutile della
Società sua. Affermavasi, che nelle più atroci congiure di cui faccia
ricordanza la storia, lʼazione di lui poteva distintamente scoprirsi;
che, solo costante nello affetto per la confraternita alla quale egli
apparteneva, in parecchi Stati era lʼinimico più pericoloso della
libertà, in altri il più pericoloso nemico dellʼordine. Le più grandi
vittorie che vantasse avere riportate pel bene della Chiesa, erano,
secondo il giudicio di molti illustri membri di quella, più apparenti
che reali. Si era, in verità, affaticato con maraviglioso buon esito
a ridurre il mondo sotto le leggi della Chiesa; ma lo aveva fatto
rilassando le leggi in guisa che si adattassero ai gusti mondani.
Invece di studiarsi dʼinalzare la natura umana alla meta stabilita
dai precetti ed esempi divini, egli aveva abbassata quella meta al di
sotto dellʼumana natura. Gloriavasi dʼuna moltitudine di convertiti,
che per mano sua avevano ricevuto il battesimo nelle più rimote regioni
dellʼOriente; ma correva la voce, che ad alcuni di queʼ convertiti,
i fatti daʼ quali dipende tutta la dottrina del Vangelo erano stati
astutamente nascosti, e che ad altri era stato permesso di schivare
la persecuzione collʼinchinarsi dinanzi alle immagini deʼ falsi Dei,
mentre internamente recitavano Pater ed Ave. Nè simiglianti arti erano
adoperate solo neʼ paesi pagani. Non era da maravigliare che genti
dʼogni grado, e specialmente quelle in alto locate, si affollassero
attorno ai confessionali nei tempii deʼ Gesuiti; imperocchè da queʼ
tribunali di penitenza nessuno se ne andava poco contento. Ivi il
sacerdote era tutto a tutti. Mostrava tanto rigore quanto bastasse
perchè coloro che gli sʼinginocchiavano dinanzi non ricorressero
alle chiese deʼ Domenicani o dei Francescani. Se aveva da fare con
unʼanima veramente divota, parlava con le caute parole degli antichi
padri cristiani; ma con quella gran parte degli uomini che hanno
religione abbastanza da sentire rimorso quando commettono il male,
e non abbastanza da astenersi di commetterlo, il Gesuita seguiva un
sistema diverso. Non potendo ritrarli dalla colpa, studiavasi di
salvarli dal rimorso. Aveva agli ordini suoi un deposito immenso di
farmachi per le coscienze perturbate. Neʼ libri composti daʼ casisti
suoi confratelli, e stampati con licenza deʼ suoi superiori, trovavasi
in gran copia dottrine di conforto per ogni generazione di peccatori.
Ivi il mercatante fallito imparava in che modo potesse, senza peccato,
nascondere le mercanzie alle indagini deʼ suoi creditori. Il servo
apprendeva come potere, senza peccato, rubare le argenterie del proprio
padrone. Il mezzano dʼamore veniva fatto certo, ad un cristiano esser
lecito sostentare la vita recando lettere e messaggi tra le donne
maritate e i loro amanti. Gli alteri e puntigliosi gentiluomini di
Francia ricevevano lietamente una decisione a favore del duello.
GlʼItaliani, avvezzi a vendicarsi con modi più vili e crudeli,
godevano dʼimparare che essi potevano, senza peccato, tirare, nascosti
dietro a una siepe, archibugiate ai loro nemici. Allo inganno era
lasciata licenza bastevole a distruggere il valore del contratto e
del testimonio fra gli uomini. E veramente, se lʼumana società non si
disciolse, se vi fu alcuna certezza della vita e degli averi, egli fu
perchè il senso comune e la umanità frenavano i popoli dal fare ciò
che la Società di Gesù assicurava loro che potessero fare con sicura
coscienza.

Erano così stranamente mescolati il bene e il male nel carattere di
queʼ celebri padri; e in tale mistura stava il secreto della loro
gigantesca potenza. La quale non poteva appartenere nè ai pretti
ipocriti, nè ai rigidi moralisti; ma poteva solo conseguirsi da uomini
che con vero entusiasmo correvano dietro ad un fine, e nel tempo stesso
non pativano scrupoli rispetto ai mezzi di giungervi.

Fin da principio, i Gesuiti erano vincolati da un voto speciale
dʼobbedienza verso il papa. Avevano missione di domare ogni
insubordinazione in seno della Chiesa, non che di respingere le
ostilità degli aperti nemici di quella. La loro dottrina era
similissima a quella che oggidì di qua dalle Alpi si chiama
oltremontana, e differiva dalla dottrina di Bossuet quasi quanto da
quella di Lutero. Dannavano le libertà gallicane, il diritto deʼ
concili ecumenici a sindacare la Santa Sede, e il diritto che vantavano
i vescovi a un mandato divino indipendente da Roma. Lainez, a nome
di tutta la confraternita, proclamò nel Concilio di Trento, fra gli
applausi delle creature di Pio IV e le mormorazioni deʼ prelati
francesi e spagnuoli, che il governo dei fedeli era stato affidato
da Cristo al solo Papa, e che nel solo Papa era accentrata tutta
lʼautorità sacerdotale, e che per mezzo del solo Papa i sacerdoti e
i vescovi erano rivestiti di tutta lʼautorità loro.[56] Per molti
anni la colleganza tra il Sommo Pontefice e la Società di Gesù non
era stata rotta. Ed ove lo fosse stata allorchè Giacomo II ascese al
trono dʼInghilterra, ove la influenza deʼ Gesuiti, non che quella
del Papa, avesse promossa una politica costituzionale moderata, è
probabile che la grande rivoluzione, la quale in breve tempo cangiò le
condizioni dellʼEuropa, non sarebbe accaduta. Ma anche avanti la metà
del secolo diciassettesimo, la Società, inorgoglita daʼ servigi resi
alla Chiesa, fidente nella propria forza, era divenuta disdegnosa del
giogo. Sorse una generazione di Gesuiti disposti a lasciarsi proteggere
e guidare dalla Corte di Francia, meglio che da quella di Roma; la
quale disposizione non era lieve allorchè Innocenzo XI ascese al trono
pontificio.

In quel tempo, i Gesuiti combattevano una guerra a morte contro un
nemico da loro in prima spregiato, ma pel quale poscia erano stati
costretti a sentire riverenza e timore. Mentre erano pervenuti al più
alto grado di prosperità, furono sfidati da una mano di avversarii,
che, a dir vero, non avevano influenza sopra i potenti del mondo,
ma avevano fortissima fede religiosa ed energia intellettuale.
Travagliavansi in una lunga, strana e gloriosa lotta del genio
contro il potere. I Gesuiti chiamarono in soccorso loro, ministeri,
tribunali, università, che risposero alla chiamata. Porto Reale si
richiamò, e non invano, ai cuori ed alle menti di milioni dʼuomini.
I dittatori della Cristianità si trovarono, in un subito, nella
condizione di colpevoli. Furono accusati di avere sistematicamente
abbassata la meta della morale evangelica a fine dʼaccrescere la
loro influenza; e lʼaccusa fu formulata in modo che tirò a sè
lʼattenzione dello intero mondo, imperocchè il principale accusatore
era Biagio Pascal. Le sue doti intellettuali erano quali rade volte
sono state impartite ad alcuna umana creatura; e dello zelo veemente
che lʼanimava, erano solenni argomenti le penitenze e le vigilie che
anzi tempo trascinarono al sepolcro il macero suo corpo. Aveva lo
spirito di San Bernardo; ma la squisitezza, il brio, la purità, la
energia, la semplicità della sua eloquenza, nessuno ha mai raggiunto,
tranne i grandissimi oratori greci. Tutta Europa lesse e ammirò i
suoi scritti, piangendo e ridendo ad un tempo. I Gesuiti si provarono
di rispondergli, ma le loro deboli risposte furono ricevute dal
pubblico con fischi di scherno. Non che avessero difetto dʼingegno,
e di quelle doti le quali si acquistano con elaborata educazione; ma
tale educazione, quantunque possa suscitare le forze di una mente
ordinaria, tende a spegnere, più presto che a promuovere, il genio
originale. Fu universalmente riconosciuto che nella contesa letteraria
i Giansenisti rimasero vincitori. Ai Gesuiti nullʼaltro restava,
che opprimere la setta da essi non potuta confutare. Luigi XIV era
il loro sostegno precipuo. La sua coscienza, fino dagli anni suoi
primi, era nelle mani loro; egli aveva da loro imparato ad aborrire
il Giansenismo, come aborriva il Protestantismo, e molto più di
quanto aborrisse lʼAteismo. Innocenzo XI, dallʼaltra parte, pendeva
verso le opinioni giansenistiche. Quindi fu che la Compagnia di Gesù
trovossi in una situazione non contemplata mai dal suo fondatore. I
Gesuiti si scissero dal Sommo Pontefice, e collegaronsi fortemente
con un principe che si spacciava campione delle gallicane libertà e
nemico delle pretese oltremontane. In tal guisa la Compagnia divenne
in Inghilterra strumento deʼ disegni di Luigi, e cooperò con successo
tale che i Cattolici Romani poi lungamente ed amaramente deplorarono,
ad accrescere la rottura tra il Re e il Parlamento, ad impacciare
il Nunzio, a minare il potere del Lord Tesoriere, ed a promuovere i
disperatissimi intendimenti di Tyrconnel.

Così, da una parte stavano gli Hydes e tutti i Tory aderenti alla
Chiesa Anglicana, Powis e tutti i più rispettabili gentiluomini e
nobili, credenti nella religione del Re, gli Stati Generali, la Casa
dʼAustria e il Pontefice. Dallʼaltra parte erano pochi avventurieri
cattolici romani, senza fortuna e senza riputazione, spalleggiati dalla
Francia e daʼ Gesuiti.

XXXI. Il principale rappresentante deʼ Gesuiti in Whitehall, era un
Inglese padre della Compagnia, il quale per qualche tempo era stato
vice–provinciale, prediletto da Giacomo con peculiare favore, e di
recente fatto scrivano del gabinetto intimo. Questʼuomo, chiamato
Eduardo Petre, discendeva da onorevole famiglia. Aveva modi cortesi e
facondo parlare; ma era debole, vano, ambizioso e cupido. Di tutti i
pessimi consiglieri che andavano a Whitehall, egli forse fu il fabbro
principale nella rovina della Casa Stuarda.

XXXII. La ostinata e imperiosa natura del Re faceva grandemente
prevalere coloro che lo consigliavano a star fermo, a non cedere
in nulla, e a rendersi temuto. Una massima politica gli sʼera
cosiffattamente abbarbicata al cervello, che non vʼera ragione che
bastasse a sradicarla. A dir vero, egli non era assuefatto a porgere
ascolto alla ragione. Il suo modo dʼargomentare, se così si debba
chiamare, era quello che non di rado sʼosserva negli individui tardi
di cervello e caparbi, avvezzi ad essere circuiti dai loro sottoposti.
Asseriva una cosa; e qualvolta i savi uomini provavansi di mostrargli
rispettosamente essere erronea, lʼasseriva di nuovo con le stessissime
parole, e pensava che così facendo tutte le obiezioni sparissero.[57]
«Non farò mai concessioni» spesso ei ripeteva; «mio padre le fece, e
gli fu mozzo il capo.»[58] Se fosse stato vero che le concessioni erano
tornate fatali a Carlo I, un uomo di buon senso avrebbe conosciuto, un
solo esperimento non essere bastevole a stabilire una regola generale
anche nelle scienze molto meno complicate di quella di governare;
che dal principio del mondo fino a noi, non vi furono mai due fatti
politici, le cui condizioni fossero esattamente simili; e che lʼunico
modo dʼimparare dalla storia prudenza civile, è quello di esaminare
e raffrontare un infinito numero di casi. Ma se lʼunico esempio sul
quale appoggiavasi il Re, era buono a provare alcuna cosa, provava
solo chʼegli aveva torto. Mal può dubitarsi che, se Carlo avesse
francamente fatte al Corto Parlamento, che si ragunò nella primavera
del 1640, solo mezze le concessioni chʼegli, pochi mesi dopo, fece
al Lungo Parlamento, sarebbe vissuto e morto da Re potentissimo.
Dallʼaltro canto, non può punto dubitarsi che, se egli avesse ricusato
di fare concessione alcuna al Lungo Parlamento, e avesse ricorso alle
armi a difesa della imposta pel mantenimento della flotta, e a difesa
della Camera Stellata, avrebbe veduto nelle file degli inimici Hyde
e Falkland accanto a Hollis e Hampden. Ma, certo, non avrebbe potuto
ricorrere alle armi; poichè nè anche venti Cavalieri sarebbero accorsi
al suo vessillo. Solo alle concessioni fatte egli era debitore del
soccorso prestatogli dalla gran classe deʼ nobili e deʼ gentiluomini, i
quali pugnarono per tanto tempo e con tanto valore per la causa di lui.
Ma sarebbe stato inutile dimostrare a Giacomo simiglianti cose.

Un altro fatale errore gli si era fitto in mente, e vi stette finchè lo
condusse alla rovina. Credeva fermamente, che per qualunque cosa egli
avesse potuto fare, i credenti nella Chiesa Anglicana avrebbero sempre
agito a seconda deʼ loro principii. Sapeva dʼessere stato proclamato
da dieci mila pulpiti. La Università di Oxford aveva solennemente
dichiarato, che anche una tirannide terribile quanto quella deʼ più
depravati Cesari, non giustificava i sudditi a resistere alla regia
autorità: e da ciò egli era cotanto stolto da concludere, che lo
intero corpo deʼ Tory gentiluomini e chierici, si sarebbero da lui
lasciati spogliare, opprimere ed insultare, senza alzare una mano
a difendersi. Eʼ sembra strano che un uomo possa avere trapassato
lʼanno cinquantesimo della propria vita, senza scoprire che il popolo
talvolta fa ciò che stima illecito: e Giacomo altro fare non doveva
che frugarsi nellʼanima, per trovarvi abbondevoli prove a conoscere,
che anche un forte sentimento deʼ religiosi doveri non sempre serve a
impedire che la fragile creatura umana indulga alle proprie passioni,
a dispetto delle leggi divine ed a rischio di terribili pene. Avrebbe
dovuto sapere, che comunque egli giudicasse atto peccaminoso lo
adulterio, era un adultero; ma nulla valeva a convincerlo che chiunque
per principio credeva la ribellione essere peccato, si potesse anche in
grande estremità indurre a ribellare. Credeva che la Chiesa Anglicana
fosse una vittima paziente, chʼegli poteva senza pericolo oltraggiare
e torturare a suo libito; nè si accôrse mai del suo errore se non
dopo che vide le Università pronte a coniare le loro argenterie per
sussidiare la cassa militare deʼ suoi nemici, e un vescovo lungamente
rinomato per la lealtà sua, gettar via la sottana, e cingendo una
spada, prendere il comando dʼun reggimento dʼinsorti.

XXXIII. A coteste fatali follie il Re era studiosamente incoraggiato da
un ministro, che era già stato esclusionista, e tuttavia seguitava a
chiamarsi protestante; voglio dire dal Duca di Sunderland. Le cagioni
della condotta di questo immorale uomo politico, sono state spesso
erroneamente esposte. Mentre ancora viveva, fu dai Giacomisti accusato
di avere, anche avanti il cominciamento del regno di Giacomo, il
pensiero di produrre una rivoluzione a favore del principe dʼOrange,
e dʼavere, con tale scopo, consigliato il Re a commettere numerose
aggressioni contro la costituzione civile ed ecclesiastica del reame:
frivola storiella che è stata fino ai dì nostri ripetuta da ignoranti
scrittori. Ma nessuno storico bene erudito nel vero, qualunque si
vogliano supporre i suoi pregiudicii, si è indotto ad accoglierla,
come quella che non riposa sopra nessuna prova; e non vʼè prova che
basti a convincere gli uomini assennati, che Sunderland deliberatamente
si gettasse nella colpa e nella infamia onde produrre un mutamento
di cose, nel quale ei vedeva chiaramente di non poter vantaggiare,
e seguito il quale, di fatto ei perdè le immense ricchezze e la
influenza che sotto Giacomo possedeva. Nè vi è la più lieve cagione
per ricorrere ad una sì strana ipotesi, poichè il vero traspare dalla
superficie stessa deʼ fatti. Per quanto tortuosa e subdola fosse la
via nella quale cotesto uomo procedeva, la ragione che ve lo aveva
spinto era semplice. La sua condotta è da attribuirsi alla possanza
della cupidigia e del timore che avvicendavansi in unʼanima molto
subietta ad entrambe cotali passioni, e che aveva occhio lesto anzichè
acuto. Aveva mestieri di assai più potere e pecunia. Lʼuno ei poteva
ottenere solamente a danno di Rochester, e lʼunico modo di conseguirlo
a detrimento di Rochester, era quello di accrescere lʼavversione che il
Re sentiva pei moderati consigli di Rochester. Danari, ei con grande
agevolezza e in gran copia poteva ottenere dalla corte di Versailles;
e Sunderland fu sollecito a vendersi a quella. Non aveva nessun vizio
gioviale o generoso. Curava poco il vino e la beltà, ma bramava la
ricchezza con insaziabile e irrefrenabile cupidigia. La passione del
giuoco glʼinfuriava tempestosamente nellʼanima, nè era stata domata
da perdite rovinosissime. Il suo avito patrimonio era grande. Egli
aveva lungamente occupato uffici lucrosi, e non avea trascurata arte
nessuna a renderli più lucrosi; ma la sua mala ventura aʼ giuochi di
sorte fu tanta, che i suoi beni diventavano quotidianamente più gravati
di debiti. Sperando di disimpacciarsi da tante molestie, rivelava
a Barillon tutti i disegni che il governo inglese meditasse ostili
alla Francia, ed accennò che, pei tempi che correvano, un Segretario
di Stato poteva rendere servigi che Luigi avrebbe fatto opera savia
a pagare largamente. Lo ambasciatore disse al proprio signore, che
sei mila ghinee era la minore gratificazione che potesse offrirsi ad
un così importante ministro. Luigi assentì a dare venticinque mila
scudi, somma equivalente a circa cinque mila seicento lire sterline.
Fu stabilito che Sunderland riceverebbe annualmente la predetta somma,
e che egli in ricompensa farebbe ogni sforzo per impedire il ragunarsi
del Parlamento.[59]

Si collegò quindi alla cabala gesuitica, e usò così destramente
dellʼinfluenza della cabala, che gli venne fatto di succedere ad
Halifax nellʼalta dignità di Lord Presidente, senza rinunziare
allʼufficio maggiormente lucroso di Segretario.[60] Sentì nondimeno
di non potere ottenere lʼequivalente influenza in Corte, finchè fosse
riputato aderente alla Chiesa Anglicana. Tutte le religioni per lui
erano una medesima cosa. Nelle private conversazioni aveva costume di
parlare con profano dispregio delle cose più sacre. Deliberò, dunque,
di dare al Re il diletto e la gloria di avere compita una conversione.
Se non che, eravi dʼuopo qualche destrezza a ciò fare. Non vʼè uomo
che sia affatto non curante dellʼopinione dei suoi simili; ed anche
Sunderland, quantunque non sentisse molto la vergogna, rifuggiva dalla
infamia della pubblica apostasia. Rappresentò la parte sua con esimio
magistero. Agli occhi del mondo mostravasi protestante; nelle secreto
stanze del re, assumeva il contegno di uno che, seriamente affaccendato
ad indagare il vero, pressochè persuaso a dichiararsi Cattolico Romano,
ed aspettando dʼessere maggiormente illuminato, era pronto a rendere
tutti i possibili servigi ai credenti nella vecchia fede. Giacomo,
che non ebbe mai grande discernimento, e nelle materie religiose era
affatto cieco, in onta alla esperienza che aveva della umana malvagità,
della malvagità deʼ cortigiani come classe, e di quella di Sunderland
come individuo, si lasciò gabbare inducendosi a credere che la grazia
aveva toccato il più falso e indurito deʼ cuori umani. Per molti mesi
lo astuto ministro fu considerato in Corte come buon catecumeno, senza
mostrarsi al pubblico in sembianza di rinnegato.[61]

Poco dopo, mostrò al Re lʼutilità dʼistituire un comitato secreto di
Cattolici Romani, onde consigliare intorno a tutte le cose spettanti
allʼinteresse della loro religione. Il comitato adunavasi talvolta
nelle stanze di Chiffinch, e talʼaltra negli appartamenti ufficiali
di Sunderland, il quale, quantunque fosse tuttavia protestante di
nome, era ammesso a tutte le deliberazioni di quello, e tosto giunse
a predominarne tutti i membri. Ogni venerdì la cabala gesuitica
desinava col Segretario. A mensa conversavano liberamente: e non
risparmiavano nè anche le debolezze del Principe, verso il quale
intendevano mostrarsi indulgenti. A Petre, Sunderland promise un
cappello cardinalizio; a Castelmaine, una magnifica ambasciata a Roma;
a Dover, un lucroso comando nelle guardie; e a Tyrconnel, un alto
impiego in Irlanda. In tal guisa, stretti insieme dai più forti vincoli
dellʼinteresse, costoro cooperavano a cacciare di seggio il Lord
Tesoriere.[62]

XXXIV. Vʼerano due membri protestanti del Gabinetto, i quali non
presero decisamente parte al conflitto. Jeffreys, in questo tempo,
era torturato da una crudele infermità interna, esacerbata dalla
intemperanza. In un pranzo che un ricco Aldermanno dètte ad alcuni deʼ
principali membri del Governo, il Lord Tesoriere e il Lord Cancelliere
ubriacaronsi tanto, che si spogliarono quasi ignudi, e vennero a
stento impediti dallo arrampicarsi ad un piuolo per bere alla salute
di Sua Maestà. Al pio Tesoriere non toccò altro che i pungoli della
maldicenza per lʼosceno baccano; ma il Cancelliere fu assalito da un
violento accesso del suo vecchio male. Per qualche tempo fu creduto
in gravissimo pericolo di vita. Giacomo mostrossi inquietissimo,
pensando di dovere perdere un ministro che gli conveniva sì bene, e
disse, con qualche verità, la perdita di un tanto uomo non potersi così
di leggieri riparare. Jeffreys, venuto in convalescenza, promise di
sostenere ambedue i partiti, aspettando di vedere quale di loro fosse
rimasto vittorioso. Esistono tuttora alcune curiose prove della sua
doppiezza. È stato già notato che i due diplomatici francesi i quali
trovavansi in Londra, sʼerano divisi fra loro la Corte. Bonrepaux era
di continuo con Rochester, e Barillon stava con Sunderland. A Luigi
nella medesima settimana fu scritto da Bonrepaux, che il Cancelliere
era tutto dalla parte del Tesoriere, e da Barillon che il Cancelliere
era in lega col Segretario.[63]

XXXV. Godolphin, cauto e taciturno, fece ogni sforzo a serbarsi
neutrale. Le opinioni e i desiderii suoi erano senza dubbio con
Rochester; ma, per debito dʼufficio, gli era necessario starsi sempre
presso alla Regina, chʼei naturalmente voleva tenersi bene edificata.
Certo, vʼè ragione a credere chʼegli sentisse per lei un affetto più
romantico di quello che spesso nasce nel cuore dei vecchi uomini di
Stato; e certe circostanze che adesso è uopo riferire, lʼavevano
interamente gettato nelle mani della cabala gesuitica.[64]

Il Re, per quanto fosse uomo dʼindole severa e di grave contegno,
rimaneva sotto lo impero delle malìe donnesche, quasi al pari del suo
vivace ed amabile fratello. Se non che, la beltà delle leggiadre dame
di Carlo non era qualità necessaria a muovere i sensi di Giacomo.
Barbera Palmer, Eleonora Gwynn e Luisa de Querouaille annoveravansi tra
le più avvenenti donne deʼ tempi loro. Giacomo, mentre era giovane,
aveva perduta la libertà propria, era disceso dal proprio grado,
e incorso nel dispiacere della propria famiglia per le grossolane
fattezze di Anna Hyde. Tosto, a gran sollazzo di tutta la Corte, venne
rapito alle braccia di una disavvenente consorte da una concubina anche
più disavvenente, cioè da Arabella Churchill. La sua seconda moglie,
quantunque avesse venti anni meno di lui, e non fosse spiacevole di
viso e di persona, ebbe spessi motivi a lamentare la incostanza del
marito. Ma di tutte le sue illecite relazioni, la più forte era quella
che lo avvincolava a Caterina Sedley.

XXXVI. Questa donna era figliuola di Sir Carlo Sedley, uno deʼ più
gai e dissoluti ingegni della Restaurazione. La licenza deʼ suoi
scritti non è compensata da molta grazia e vivacità; ma il prestigio
del suo conversare era riconosciuto anche dagli uomini più sobri che
non facevano stima del suo carattere. Sedergli accanto in teatro, e
udirlo a giudicare dʼuna nuova produzione, considerarsi quale insigne
favore.[65] Dryden lo aveva onorato ponendolo precipuo interlocutore
nel Dialogo intorno alla Poesia Drammatica. I costumi di Sedley erano
tali, che anche in quellʼetà porsero grave argomento di scandalo. Una
volta, dopo un baccano, si mostrò ignudo al balcone dʼuna taverna
presso Covent Garden, arringando la gente che passava con linguaggio
così sconcio e insolente, che fu ricacciato dentro da una pioggia di
sassate, venne processato per indecente condotta, condannato ad una
grossa multa, e dalla Corte del Banco del Re ricevette una invettiva
espressa con energiche parole.[66] La sua figlia ne aveva ereditate le
doti e la impudenza. Non aveva alcuna leggiadria di persona, tranne
due occhi brillanti, lo splendore deʼ quali, agli uomini di gusto
squisito, sembrava fiero e punto donnesco. Era magra di forme, e feroce
di portamento. Carlo, benchè amasse di conversare secolei, rideva
a vederla sì brutta, e soleva dire che i preti lʼavrebbero dovuta
prescrivere a Giacomo come penitenza. Ella conosceva bene di non essere
bella, e liberamente scherzava sulla propria disavvenenza. Nondimeno,
con istrana incoerenza a sè stessa, amava ornare magnificamente la
propria persona, e attirarsi i pungentissimi scherzi del pubblico,
comparendo in teatro impiastrata, dipinta, coperta di trine di
Bruxelles, e fiammeggiante di diamanti, affettando il grazioso contegno
dʼuna giovinetta di diciotto anni.[67]

Non è agevole a spiegare di che natura fosse la influenza che ella
esercitava sopra lʼanimo di Giacomo. Ei più non era giovine. Era
religioso; almeno desiderava fare per la propria religione sforzi
e sacrifici, da cui la più parte di coloro che si chiamano uomini
religiosi avrebbero abborrito. Sembra strano che vi fossero al mondo
attrattive le quali valessero a gettarlo in un modo di vita chʼegli
avrebbe dovuto considerare altamente criminoso: e in questo caso,
niuno poteva intendere in che consistevano tali attrattive. La stessa
Caterina era stupefatta della violenta passione del suo reale amante.
«Eʼ non può essere per la mia bellezza» diceva essa, «poichè bisogna
che egli veda che io non sono punto bella; non può essere per il mio
spirito, poichè egli non ne ha tanto da conoscere chʼio ne abbia
alcuno.»

Il Re, come fu asceso al trono, pel sentimento della nuova
responsabilità che pesava sopra lui, aperse per qualche tempo lʼanima
propria alle impressioni religiose. Fece ed annunziò molte buone
determinazioni, parlò pubblicamente con gran severità degli empii e
licenziosi costumi di quel tempo, e in privato assicurò la Regina e il
confessore che non avrebbe mai più veduta Caterina Sedley. Le scrisse
difatti scongiurandola di abbandonare gli appartamenti da lei occupati
in Whitehall, e di trasferirsi in una casa in Saint Jamesʼs Square,
che le era stata, a spese di lui, splendidamente addobbata. Le promise
nel tempo stesso di darle una grossa pensione dalla sua borsa privata.
Caterina, destra, forte, intrepida, e conscia del proprio potere, lo
compiacque. Dopo pochi mesi, cominciossi a vociferare che Chiffinch
aveva di nuovo ripreso lʼesercizio del proprio ufficio, e che la druda
spesso andava e veniva per lʼuscio segreto, pel quale fu fatto passare
Padre Huddleston allorquando portò lʼEucaristia al moribondo Carlo. Eʼ
sembra che i ministri protestanti del Re sperassero che la cecità del
loro signore per cotesta donna, lo avrebbe guarito della cecità assai
più perniciosa che lo spingeva aʼ danni della loro religione. Caterina
aveva tutti i requisiti che le erano necessari a governare i sentimenti
e gli scrupoli del Re, e porgli in piena luce dinanzi allo sguardo
tutte le difficoltà e i pericoli contro ai quali ei correva ad urtare a
capo fitto.

XXXVII. Rochester, campione della Chiesa, sforzossi di accrescere
siffatta influenza. Ormond, che è popolarmente considerato come la
personificazione di tutto ciò che vʼè di più puro ed elevato in un
Inglese Cavaliere, approvò quel disegno. Perfino Lady Rochester
non arrossì di cooperarvi, e con riprovevolissimi mezzi. Si tolse
lo incarico di dirigere la gelosia dellʼoffesa moglie contro una
giovinetta che era al tutto innocente. Tutta la Corte notò i modi
freddi ed aspri con che la Regina trattava la povera fanciulla
sospetta; ma la cagione del mal umore della Maestà Sua era un mistero.
Per alcun tempo, cotesto intrigo andò innanzi con prospero successo e
con segretezza. Caterina spesso ripeteva chiaramente al Re ciò che i
Lordi protestanti del Consiglio osavano appena accennare con delicate
parole. Gli diceva come la sua Corona corresse gravissimo pericolo: il
vecchio pazzo Arundell e il furfante Tyrconnel lo condurrebbero alla
rovina. Può darsi che le carezze di lei avessero potuto fare ciò che
gli sforzi insieme congiunti della Camera deʼ Lordi e di quella deʼ
Comuni, della Casa dʼAustria e della Santa Sede, non erano riusciti ad
ottenere, se non fosse stata una strana avventura che fece onninamente
mutare aspetto alle cose. Giacomo, in un accesso di amorosa insania,
deliberò di creare la sua druda Contessa di Dorchester di proprio
diritto. Caterina misurò tutto il pericolo di tal passo, e ricusò un
onore che le avrebbe suscitata contro la invidia altrui. Lo amante
ostinossi, e pose di forza il diploma nelle mani di lei. Ella infine
accettò ad un patto, che serve a mostrare quanta fiducia avesse nella
propria potenza e nella debolezza di lui. Gli fece solennemente
promettere di non lasciarla giammai; ma che volendola lasciare, le
dovesse annunziare egli stesso la propria risoluzione, e concederle un
abboccamento.

Appena divulgossi la nuova dello innalzamento di lei, tutto il palazzo
fu sossopra. La Regina sentì ribollirsi nelle vene il fervido sangue
italiano. Altera della giovinezza e dellʼavvenenza propria, dellʼalto
grado e della intemerata castità, non potè senza strazio di dolore
e di rabbia vedersi abbandonata ed insultata per una simile rivale.
Rochester, rammentando forse con quanta pazienza, dopo una breve
lotta, Caterina di Braganza aveva acconsentito ad usare cortesia alle
concubine di Carlo, aveva sperato che, dopo un poco di lamento e di
sdegno, Maria di Modena si sarebbe mostrata egualmente sommessa. Eʼ
non fu così. Nè anche si provò di ascondere agli occhi del mondo la
violenza delle proprie emozioni. Quotidianamente, i cortigiani che
andavano a vederla desinare, notavano come le vivande erano riportate
via senza chʼella le avesse assaggiate. Le lacrime le scorrevano giù
per le guance alla presenza di tutto il cerchio deʼ ministri e degli
ambasciatori. Al Re parlò con veemenza. «Lasciatemi andare» esclamò.
«Avete fatta la vostra druda contessa; fatela regina. Strappate
dal mio capo la corona, e mettetela sopra il suo. Solo lasciatemi
seppellire in qualche convento, chʼio non la vegga mai più.» Poi,
con più calma, gli chiese in che guisa egli potesse conciliare la
sua riprovevole condotta con lo spirito religioso di cui faceva
mostra. «Voi siete pronto» disse ella «a porre a repentaglio il
vostro Regno per la salute dellʼanima vostra, e nondimeno vi dannate
lʼanima per amore di siffatta donna.» Padre Petre, prostrato sulle
ginocchia, secondava la Regina. Era suo debito così fare; e lo adempiva
valorosamente, poichè era connesso con lʼutile proprio. Il Re per
qualche tempo si confessò peccatore, e si mostrò pentito. Nelle ore in
che lo assalivano i rimorsi, faceva severe penitenze. Maria serbò fino
allʼultimo dì di sua vita, e morente la legò al convento di Chaillot,
la disciplina con che Giacomo aveva scontate le proprie peccata
flagellandosi vigorosamente le spalle. Nulla, fuorchè lo allontanamento
di Caterina, avrebbe potuto porre fine a cotesto conflitto tra un
abietto amore ed una superstizione abietta. Giacomo le scrisse,
supplicandola e comandandole di partire. Confessava di averle promesso
che le avrebbe detto addio col proprio labbro. «Ma conosco pur troppo»
soggiungeva «lo impero che voi avete sopra di me. Non avrei forza
dʼanimo bastevole a tenermi fermo nella mia risoluzione, se consentissi
a rivedervi.» Le offerse un legno per trasportarla, con tutti i comodi
e il decoro, alle Fiandre; e le minacciò che ove non si fosse indotta
ad andarsene quietamente, sarebbe stata mandata via per forza. La
donna, in sulle prime, provò di destare la pietà del Re fingendosi
inferma. Poscia prese il contegno dʼuna martire, ed impudentemente si
spacciò di patir tanto per la religione protestante. Riprese quindi
i modi di Giovanni Hampden, sfidando il re a mandarla via; nel quale
caso se ne sarebbe richiamata ai tribunali. Finchè la _Magna Carta_ e
lʼ_Habeas Corpus_ erano leggi del Regno, ella voleva starsi dove meglio
le talentasse. «E in Fiandra» gridò ella «giammai! Ho imparato una cosa
dalla Duchessa di Mazzarino mia amica, ed è di non fidarmi mai dʼun
paese dove siano conventi.» Alla perfine, elesse lʼIrlanda come luogo
dʼesilio, probabilmente perchè ivi era vicerè il fratello di Rochester
suo protettore. E dopo molto indugiare, ella si partì, lasciando
vittoriosa la Regina.[68]

La storia di questo stranissimo intrigo sarebbe incompiuta, ove non
aggiungessi che esiste tuttora una meditazione religiosa, scritta di
mano propria dal Lord Tesoriere, nel giorno stesso in cui la notizia
chʼegli si provava di governare il suo signore per mezzo dʼuna
concubina, fu trasmessa da Bonrepaux a Versailles. Nessun componimento
di Ken o di Leighton è imbevuto di spirito più fervido e di pietà più
esaltata, che questa religiosa effusione. Non può tenersi in sospetto
dʼipocrisia; imperocchè manifesto si conosce che quello scritto doveva
solo servire per uso privato dello scrittore, e non fu pubblicato se
non cento e più anni dopo chʼegli giaceva cenere ed ossa dentro il
sepolcro. Fino a tal segno la storia supera in istranezza la finzione!
ed è pur troppo vero che la natura ha capricci che lʼarte non osa
imitare. Un poeta drammatico mal si rischierebbe a porre sulla scena un
principe severo, nel verno degli anni, pronto a sacrificare la corona
per giovare la propria religione, instancabile nel fare proseliti,
che ad unʼora abbandonava ed insultava la moglie giovine e bella, per
vaghezza d1 una druda che non aveva nè giovinezza nè beltà. Anche
meno, se pure è possibile, un drammaturgo ardirebbe immaginare un uomo
di Stato che si abbassi al vergognoso mestiere di mezzano dʼamore, e
chiami la propria moglie ad aiutarlo in quel disonorevole ufficio;
e nulladimanco, nei momenti dʼozio, ridottosi nel domestico ritiro,
innalzi lʼanima a Dio, spargendo lacrime di penitenza e recitando
devote giaculatorie.[69]

XXXVIII. Il Tesoriere presto sʼaccôrse che servendosi di mezzi
scandalosi per giungere ad un laudevole fine, aveva commesso non
solo un delitto ma uno sbaglio. Adesso la Regina gli era divenuta
nemica. Ella fece sembiante, a dir vero, di ascoltare con cortesia le
parole con che gli Hydes tentarono di scusare, come meglio poterono,
la propria condotta; e in alcune occasioni mostrò di usare la sua
influenza a favor loro: ma avrebbe dovuto essere o da più o da meno che
non è una donna, se avesse veramente dimenticata la congiura ordinata
dalla famiglia della prima moglie di Giacomo contro la sua dignità e
felicità domestica. I Gesuiti, con rigorose parole, dimostrarono al Re
il pericolo dal quale era, quasi per miracolo, campato, dicendo come la
riputazione, la pace e lʼanima di lui fossero state poste a repentaglio
per le trame del suo primo ministro. Il Nunzio, che volentieri avrebbe
frustrato la influenza del partito violento, e cooperato cogli uomini
moderati del Gabinetto, non potè onestamente e decentemente dividersi
in questa occasione da Padre Petre. Lo stesso Giacomo, dopo che il mare
lo ebbe partito dalle malìe onde era stato sì fortemente affascinato,
non potè non sentire ira e dispregio verso coloro i quali sʼerano
studiati di governarlo per mezzo deʼ suoi vizi. Le cose successe
era mestieri che gli facessero maggiormente stimare la sua Chiesa,
e disistimare quella dʼInghilterra. I Gesuiti che, come correva la
moda, erano chiamati i più pericolosi deʼ consiglieri spirituali,
sofisti che sovvertivano tutto il sistema della morale evangelica,
adulatori che andavano debitori del proprio potere principalmente
alla indulgenza con cui trattavano i peccati deʼ grandi, lo avevano
ritratto da una vita colpevole con rimproveri acri ed arditi, come
quelli che Natan fece a David, o Giovanni Battista ad Erode. Dallʼaltra
parte, i fervidi Protestanti, che parlavano sempre della rilassatezza
deʼ casisti papali, e della malvagità di operare il male perchè se
ne potesse conseguire il bene, avevano tentato di procurare il bene
della propria Chiesa per una via considerata da ogni cristiano come
gravemente criminosa. La vittoria della cabala deʼ pessimi consiglieri
fu quindi compiuta. Il Re trattò freddamente Rochester. I cortigiani e
i ministri stranieri tosto si accôrsero che il Lord Tesoriere era primo
ministro solamente di nome. Seguitò a dare consigli ogni giorno, ed
ebbe lʼonta di vederli ogni giorno rigettati. Nulladimeno, non sapeva
indursi ad abbandonare quellʼapparenza di potere, e gli emolumenti che
direttamente e indirettamente ei ricavava dal suo alto ufficio. Fece
quindi quanto potè per nascondere agli occhi del pubblico lʼamarezza
dellʼanima sua. Ma le sue violenti passioni e le sue intemperanti
abitudini non gli concedevano di sostenere la parte di simulatore.
Il suo conturbato aspetto, sempre che egli usciva dalla sala del
Consiglio, mostrava che non erano stati lieti i momenti ivi passati; e
quando il bicchiere gli scaldava il cervello, gli fuggivano di bocca
parole che manifestamente rivelavano la inquietudine dellʼanimo.[70]

E aveva ragione dʼessere inquieto. Glʼindiscreti e impopolari
provvedimenti si succedevano rapidamente lʼun lʼaltro. Ogni pensiero
di ritornare alla politica della Triplice Alleanza era abbandonato. Il
Re esplicitamente confessò ai ministri di queʼ potentati continentali,
coi quali già aveva avuto intendimento di collegarsi, che aveva affatto
mutato pensiero, e che lʼInghilterra doveva seguitare ad essere,
come era stata sotto lʼavo, il padre e il fratello suoi, di nessun
conto in Europa. «Non sono in condizioni» ei disse allo Ambasciatore
Spagnuolo «dʼimpacciarmi di ciò che accade fuori deʼ miei Stati. Sono
risoluto di lasciare che le faccende straniere piglino il loro corso,
di consolidare lʼautorità mia nel mio Regno, e di fare qualche cosa
a pro della mia religione.» Pochi giorni dipoi manifestò i medesimi
intendimenti agli Stati Generali.[71] Da quel tempo sino alla fine
del suo ignominioso regno, non fece alcuno positivo sforzo a trarsi
di vassallaggio, quantunque non potesse mai, senza dare in furore,
sentirsi chiamare vassallo.

I due fatti onde il pubblico si accôrse che Sunderland e il suo partito
avevano vinto, furono la proroga del Parlamento dal febbraio al maggio,
e la partenza di Castelmaine per Roma, col grado dʼambasciatore di
primissima classe.[72]

Fino allora tutti gli affari del Governo Inglese alla Corte Papale
erano stati affidati a Giovanni Caryl. Questo gentiluomo era noto ai
suoi coetanei come persona ricca e educata, e come autore di due opere
drammatiche applaudite; cioè dʼuna tragedia in versi rimati, che era
stata resa popolare dallʼinsigne attore Betterton; e di una commedia,
che dʼogni suo pregio va debitrice alle scene rubate a Molière. Questi
componimenti sono da lungo tempo caduti in oblio; ma ciò che Caryl
non valse a fare a suo pro, è stato fatto per lui da un più possente
ingegno. Un mezzo verso nel Riccio Rapito ha reso immortale il suo nome.

XXXIX. Caryl, il quale al pari di tutti gli altri rispettabili
Cattolici Romani era nemico alle misure violente, aveva con buon senso
e buon animo adempiuto il suo delicato incarico a Roma. La commissione
affidatagli ei compì lodevolmente; ma non aveva carattere officiale, e
studiosamente schivò ogni dimostrazione. E però i suoi servigi furono
quasi di nessuna spesa al Governo, e non provocarono mormorazioni.
Al suo ufficio venne adesso sostituita una dispendiosa e pomposa
ambasciata, che offese grandissimamente il popolo inglese, mentre non
piacque punto alla Corte di Roma. Castelmaine ebbe lo incarico di
domandare un cappello cardinalizio pel suo alleato Padre Petre.

Verso il medesimo tempo, il Re cominciò a mostrare, in modo non
equivoco, ciò che veramente sentiva verso gli esuli Ugonotti. Mentre
sperava di sedurre il Parlamento a mostrarsi sommesso, e intendeva
di farsi capo della coalizzazione europea contro la Francia, aveva
simulato di biasimare la revoca dello editto di Nantes, e commiserare
quegli infelici dalla persecuzione cacciati lungi dalle patrie
contrade. Aveva fatto annunziare che in ogni chiesa del Regno si
sarebbe fatta, con la sua approvazione, una colletta a beneficio loro.
Un apposito proclama era stato compilato con parole che avrebbero
ferito lʼorgoglio di un sovrano meno irritabile e vanaglorioso di
Luigi. Ma adesso tutto mutò dʼaspetto. I principii del trattato
di Dover diventarono di nuovo i fondamenti della politica estera
dellʼInghilterra. Si fecero quindi ampie apologie per la scortesia
con cui il Governo Inglese aveva agito verso la Francia mostrando
favore ai fuorusciti francesi. Il proclama che era spiaciuto a Luigi,
fu revocato.[73] I ministri Ugonotti furono avvertiti di parlare
con riverenza del loro oppressore neʼ loro pubblici discorsi; se
no, avrebbero corso pericolo. Giacomo non solo cessò di manifestare
commiserazione per queʼ malarrivati, ma dichiarò di credere che
essi covassero perfidissimi disegni, e confessò di avere errato
proteggendoli. Giovanni Claude, uno deʼ più illustri fuorusciti, aveva
pubblicato nel continente un piccolo volume, nel quale dipingeva con
tinte vigorose i patimenti deʼ suoi confratelli. Barillon chiese che
il libro venisse solennemente vituperato. Giacomo assentì, e in pieno
Consiglio dichiarò, come fosse suo piacere che il libello di Claude
venisse bruciato dinanzi la Borsa Reale per mano del boia. Anche
Jeffreys ne rimase attonito, e provossi di mostrare che siffatto
procedimento era senza esempio; che il libro era scritto in lingua
straniera; che era stato stampato in una tipografia straniera; che si
riferiva interamente a fatti successi in un paese straniero; e che
nessun Governo inglese sʼera mai impacciato di tali opere. Giacomo
non patì che la questione venisse discussa. «La mia deliberazione»
disse egli «è fatta. Oramai è nata lʼusanza di trattare i Re con poco
rispetto, ed è mestieri che tutti vicendevolmente si difendano. Un
Re dovrebbe essere sempre il sostegno dellʼaltro; ed io ho ragioni
particolari per rendere al Re di Francia questo atto di rispetto.» I
consiglieri stettero muti. Lʼordine fu emanato; e il libro di Claude fu
dato alle fiamme, non senza alte mormorazioni di molti che erano stati
ognora riputati fermi realisti.[74]

La colletta, già promessa, fu per lungo tempo per vari pretesti
differita. Il Re volentieri avrebbe mancato alla sua parola; ma
lʼaveva così solennemente data, che non poteva, senza somma vergogna,
ritirarla.[75] Non per tanto, nulla fu omesso che potesse intiepidire
lo zelo delle congregazioni. Aspettavasi che, secondo la costumanza
solita in simili casi, il popolo venisse esortato dai pulpiti. Ma
Giacomo era determinato di non tollerare declamazioni contro la
religione e lʼalleato suo. Lo arcivescovo di Canterbury ebbe, perciò,
ordine di far sapere al clero, che si doveva semplicemente leggere
il regio proclama, senza presumere di predicare intorno ai patimenti
deʼ protestanti francesi.[76] Nondimeno, le offerte furono in tanta
copia, che, fatta ogni deduzione, la somma di quaranta mila lire
sterline venne depositata nella Camera di Londra. Forse non vʼè stata
nellʼetà nostra colletta così generosa in proporzione deʼ mezzi della
nazione.[77]

Il Re rimase amaramente mortificato da sì generosa colletta, fattasi
in ubbidienza al suo invito. Sapeva bene, disse egli, che cosa
significava tale liberalità. Era un puro dispetto che i Whig avevano
inteso di fare a lui ed alla sua religione;[78] ed aveva già deciso
che la somma raccolta non servisse per coloro che i donatori volevano
beneficare. Era stato per parecchie settimane in istretta comunicazione
intorno a questo negozio con la Legazione. Francese; ed approvante la
Corte Francese, si appigliò ad un partito che non può di leggieri
conciliarsi coʼ principii di tolleranza chʼegli poscia pretese di
professare. I fuorusciti erano zelanti del culto e della disciplina
deʼ Calvinisti. Giacomo, quindi, fece comandamento che a niuno fosse
dato un tozzo di pane o una cesta di carbone, se prima non avesse
prestato il giuramento a seconda del rituale anglicano.[79] È cosa
strana che questo inospitale provvedimento fosse stato immaginato da
un principe, il quale considerava lʼAtto di Prova come un oltraggio
fatto ai diritti della coscienza: imperocchè, per quanto ingiusto possa
essere lʼimporre un Atto di Prova con sacramento onde chiarirsi se gli
uomini meritino occupare gli uffici civili e militari, è senza alcun
dubbio assai più ingiusto imporre il detto sacramento per conoscere
se essi, nella estrema miseria, meritino carità. Nè Giacomo aveva
la scusa che potrebbe allegarsi a scemare la colpa da tutti quasi i
persecutori; perocchè la religione chʼegli imponeva ai fuorusciti,
a pena di lasciarli morire di fame, non era la religione chʼegli
professava. La sua condotta, adunque, verso loro era meno scusabile di
quella di Luigi: poichè costui gli oppressava sperando di ricondurli da
una dannevole eresia alla vera Chiesa; Giacomo gli opprimeva solo onde
costringerli ad apostatare da una dannevole eresia, ed abbracciarne
unʼaltra.

Una Commissione, nella quale era il Cancelliere, fu istituita a
distribuire le pubbliche limosine. Nella prima adunanza, Jeffreys
manifestò la volontà del Re. Disse che i fuorusciti erano troppo
generalmente nemici della monarchia e dello episcopato. Se volevano
ottenere qualche sussidio, era mestieri che si convertissero alla
Chiesa Anglicana, e prestassero il giuramento nelle mani del suo
cappellano. Molti esuli che erano andati pieni di gratitudine e di
speranza a chiedere qualche soccorso, udirono la propria sentenza, e
con la disperazione nel cuore partironsi.[80]

XL. Si appressava il mese di maggio, mese stabilito per la ragunanza
delle Camere; ma furono di nuovo prorogate sino a novembre.[81] Non
era strano che il Re aborrisse di vederle adunate; imperciocchè era
risoluto di abbracciare una politica che egli sapeva bene essere da
loro detestata. Daʼ suoi predecessori aveva ereditate due prerogative,
i confini delle quali non sono stati rigorosamente definiti, e
che, esercitate illimitatamente, basterebbero a sovvertire tutto
lʼordinamento politico dello Stato e della Chiesa. Erano il potere di
dispensare e la supremazia ecclesiastica. Per virtù dellʼuno, il Re
propose di ammettere i Cattolici Romani, non solo agli uffici civili
e militari, ma anche agli spirituali. Per virtù dellʼaltra, sperava
di rendere il clero anglicano strumento della distruzione della loro
propria Chiesa.

Questo disegno si venne gradatamente esplicando da sè. Non si stimò
sicuro cominciare concedendo allo intero corpo deʼ Cattolici Romani
dispensa dagli statuti che imponevano pene e giuramenti; perciocchè
non vʼera cosa che fosse così pienamente stabilita come la illegalità
di una tale dispensa. La Cabala nel 1672 aveva promulgata una
dichiarazione generale dʼIndulgenza. I Comuni, appena adunatisi,
protestarono contro. Carlo II aveva ordinato che fosse cassata in
sua presenza, ed aveva di propria bocca e con un messaggio scritto
data assicurazione alle Camere, che lʼatto che aveva cagionato tanto
lamento, non sarebbe stato mai considerato come esempio precedente.
Sarebbe stato difficile trovare in tutti i collegi dʼavvocati un
giureconsulto di qualche riputazione, che avesse voluto difendere
una prerogativa, alla quale il Sovrano, assiso sul trono in pieno
Parlamento, aveva solennemente pochi anni innanzi rinunziato. E però,
il primo fine che Giacomo si prefissse, fu quello dʼottenere che le
Corti di Diritto Comune riconoscessero chʼegli, almeno fino a questo
segno, possedeva la potestà di dispensare.

XLI. Ma, quantunque le sue pretese fossero modiche in agguaglio di
quelle che manifestò pochi mesi dopo, si accôrse tosto che gli stava
contro lʼopinione di quasi tutta Westminster Hall. Quattro deʼ giudici
gli fecero intendere, che in questa occasione non potevano secondare
il suo proponimento; ed è da notarsi che tutti e quattro erano Tory
violenti, e fra essi vʼerano uomini che avevano accompagnato Jeffreys
nella sua missione di sangue, e che avevano assentito alla morte di
Cornish e dʼElisabetta Gaunt. Jones, Capo Giudice deʼ Piati Comuni,
uomo che non sʼera mai prima ricusato a nessuna bassa azione, comunque
crudele e servile, adesso parlò nel gabinetto regio con parole che
sarebbero state convenevoli alle labbra deʼ magistrati più integerrimi
di cui faccia ricordo la storia nostra. Gli fu detto chiaramente, o di
smettere la propria opinione, o lasciare lʼimpiego. «In quanto al mio
impiego» rispose, «poco mi curo. Ormai son vecchio, e mi son logorata
la vita in servizio della Corona; ma rimango mortificato nel vedere
che Vostra Maestà mi stimi capace di dare un giudicio che nessuno,
tranne un uomo stolto e disonesto, potrebbe dare.»—«Ho risoluto» disse
il Re «di avere dodici giudici i quali la pensino come me in questo
negozio.»—«La Maestà Vostra» rispose Jones «potrebbe trovare dodici
giudici che la pensino come Voi, ma non dodici giurisperiti.»[82]
Fu destituito, con Montague, Capo Barone dello Scacchiere; e due
altri giudici inferiori, Neville e Charlton. Uno deʼ nuovi giudici
era Cristoforo Milton, fratello minore del gran poeta. Poco si sa di
Cristoforo, salvo che a tempo della guerra civile era stato realista,
e che adesso, giunto alla vecchiezza, pendeva verso il papismo. Non
pare che si convertisse mai formalmente alla Chiesa di Roma; ma certo
scrupoleggiava a comunicare con la Chiesa dʼInghilterra, ed aveva
quindi un forte interesse a difendere la potestà di dispensare.[83]

Il Re trovò i suoi consiglieri giuristi disubbidienti quanto i giudici.
Il primo che seppe di dovere difendere la potestà di dispensare, fu
lʼAvvocato Generale Heneage Finch. Senza tanti andirivieni, ricusò di
farlo, e il dì dopo fu destituito dallʼufficio.[84] Al Procuratore
Generale Sawyer fu ingiunto di rilasciare ordini per autorizzare
i membri della Chiesa di Roma ad occupare i beneficii pertinenti
a quella dʼInghilterra. Sawyer era stato profondamente implicato
nelle più crude e inique persecuzioni di quel tempo, ed era daʼ Whig
abborrito come uomo che aveva le mani imbrattate del sangue di Russell
e di Sidney; ma in questa occasione non mostrò difetto dʼonestà
e di fermezza. «Sire,» disse egli «questo non importa dispensare
semplicemente da uno statuto; ma vale il medesimo che annullare
lʼintero Diritto Statutario, da Elisabetta fino a noi. Io non oso
porvi mano; e scongiuro la Maestà Vostra a considerare se una tanta
aggressione ai diritti della Chiesa sia dʼaccordo con le ultime
promesse che avete generosamente fatte.»[85] Sawyer sarebbe stato come
Finch destituito, se il Governo avesse potuto trovargli un successore:
ma ciò non era cosa di poco momento. Era necessario, a proteggere i
diritti della Corona, che uno almeno deʼ legali della Corona fosse
uomo dotto, abile ed esperto; e non era da trovarsi un tale uomo che
difendesse la potestà di dispensare. Al Procuratore Generale fu,
dunque, per pochi mesi lasciato lʼimpiego. Tommaso Powis, uomo da
nulla, che non aveva altri requisiti, dalla servilità allʼinfuori, per
occupare qualche alto ufficio, fu nominato Avvocato Generale.

XLII. Gli apparecchi preliminari erano ormai compiti. Vʼerano un
Avvocato Generale per difendere la potestà di dispensare, e dodici
giudici per decidere a favore di quella. La questione, adunque, fu
sollecitamente messa in campo. Sir Eduardo Hales, gentiluomo di Kent,
erasi convertito al papismo in tempi neʼ quali niuno poteva impunemente
dichiararsi papista. Aveva tenuta secreta la propria conversione, e
tutte le volte che ne veniva richiesto, affermava dʼessere Protestante
con solennità tale, da dare poco credito ai suoi principii. Come
Giacomo ascese al trono, non vi fu mestieri di simulazione. Sir
Eduardo apostatò pubblicamente, e ne ebbe in ricompensa il comando
dʼun reggimento di fanteria. Lo aveva tenuto per più di tre mesi senza
prestare il giuramento. Era quindi soggetto alla pena di cinquecento
lire sterline, che chi lo avesse accusato poteva ricuperare per via
dʼazione di debito. Un uomo di condizione servile fu adoperato a
portare lʼazione nella Corte del Banco del Re. Sir Eduardo non negò
i fatti allegati contro lui, ma disse di possedere lettere patenti,
che lo autorizzavano a tenere il suo ufficio, malgrado lʼAtto di
Prova. Lo accusatore ammise che le ragioni di Sir Eduardo erano vere
in fatto, ma negò che quella fosse una soddisfacente risposta. Così
fu fatta una semplice questione di diritto da decidersi dalla Corte.
Un avvocato che era notissimo strumento del Governo, comparve per
il simulato accusatore, e fece alcune lievi obiezioni alle ragioni
allegate dallʼaccusato. Il nuovo Avvocato Generale rispose. Il
Procuratore Generale non prese parte al giudicio. Il Lord Capo Giudice,
Sir Eduardo Herbert, profferì la sentenza. Annunziò dʼavere esposta
la questione a tutti i dodici giudici, e che undici di loro opinavano
che il Re potesse legittimamente dispensare dagli statuti penali nei
casi particolari, e per ragioni di grave importanza. Il Barone Street,
lʼunico che dètte il voto contrario, non fu destituito dallʼufficio.
Era uomo così immorale, che era abborrito perfino dai suoi stessi
parenti, e che il Principe dʼOrange, a tempo della Rivoluzione, fu
avvertito di non ammetterlo al suo cospetto. Il carattere di Street
rende impossibile il credere che egli avesse voluto mostrarsi più
scrupoloso deʼ suoi colleghi. Il carattere di Giacomo rende impossibile
il credere che un Barone dello Scacchiere, mostratosi disubbidiente,
fosse stato lasciato nellʼimpiego. Non può esservi alcun dubbio
ragionevole che il giudice dissenziente, come lʼaccusatore e il costui
difensore, non avessero agito dʼaccordo. Importava assai che vi fosse
grande preponderanza dʼautorità a favore della potestà di dispensare;
ed era al pari importante che il Banco, che era stato studiosamente
ricomposto per quella circostanza, avesse lʼapparenza dʼessere
indipendente. Ad un giudice, quindi, che era il meno rispettabile deʼ
dodici, fu permesso, e più probabilmente comandato, di votare contro la
prerogativa.[86]

La potestà in tal modo riconosciuta dalle Corti di Legge, non fu
lasciata inoperosa. Un mese dopo la sentenza proferita dal Banco
del Re, quattro Lordi cattolici romani furono chiamati al Consiglio
Privato. Due di loro, Powis e Bellasyse, appartenevano al partito
moderato, e probabilmente accettarono lʼufficio con repugnanza e con
molti tristi presentimenti. Gli altri due, Arundell e Dover, non
avevano cosiffatti presentimenti.[87]

XLIII. La potestà di dispensare fu, nel medesimo tempo, adoperata a
rendere i Cattolici Romani atti ad occupare i beneficii ecclesiastici.
Il nuovo Avvocato Generale prontamente emanò i decreti che Sawyer aveva
ricusato di fare. Uno di questi decreti fu in favore dʼuno sciagurato
che aveva nome Eduardo Sclater, e che possedendo due beneficii, voleva
tenerli a qualunque costo, e in tutte le vicissitudini. La domenica
delle Palme del 1686, egli amministrò la comunione ai suoi parrocchiani
secondo il rito della Chiesa Anglicana. Nella seguente domenica della
Pasqua, celebrò la Messa. La regia dispensa lo autorizzò a fruire
degli emolumenti deʼ suoi beneficii. Alle rimostranze deʼ patroni che
gli avevano conferiti, rispose con insolenti parole di provocazione;
e mentre alla causa deʼ Cattolici Romani spirava prospero il vento,
ei pubblicò un assurdo trattato in difesa della propria apostasia. Ma
pochi giorni dopo la Rivoluzione, una gran folla convenne nel tempio di
Santa Maria nel Savoy, per vederlo rientrare nel grembo della religione
da lui abbandonata. Leggendo lʼabjura, le lacrime gli scendevano
copiose giù per le guance, e profferì unʼacre invettiva contro i preti
papisti, dalle arti deʼ quali era stato sedotto.[88]

Con non minore infamia si condusse Obadia Walker. Era vecchio prete
della Chiesa Anglicana, e ben noto nella Università dʼOxford come uomo
dotto. Sotto il regno di Carlo, era venuto in sospetto dʼinclinare al
papismo, ma esteriormente erasi conformato alla religione stabilita, ed
infine era stato eletto Maestro o Rettore del Collegio Universitario.
Subito dopo che Giacomo ascese al trono, Walker deliberò di gettar via
la maschera con che fino allora sʼera coperto. Si astenne dal culto
anglicano, e con alcuni convittori e sottograduati da lui pervertiti,
ascoltava giornalmente la Messa nel proprio appartamento. Uno deʼ
primi atti del nuovo Avvocato Generale, fu di fare un decreto che
autorizzava Walker e i suoi proseliti a ritenere i loro beneficii, non
ostante la loro apostasia. Furono tosto chiamati deʼ muratori, perchè
trasformassero in oratorio due file di stanze. In pochi giorni nel
Collegio Universitario celebraronsi pubblicamente i riti cattolici
romani. Vi fu posto a cappellano un Gesuita. Vi fu allogata una
tipografia con licenza regia, per istampare i libri cattolici romani.
Per lo spazio di due anni e mezzo, Walker seguitò a guerreggiare contro
il protestantismo con tutto il rancore dʼun rinnegato: ma quando
la fortuna mutò faccia, ei mostrò che gli mancava il coraggio dʼun
martire. Fu tratto alla barra della Camera deʼ Comuni perchè rendesse
ragione della propria condotta, e fu tanto vigliacco da protestare
di non aver mai mutato religione, nè mai cordialmente approvate
le dottrine della Chiesa di Roma, e di non essersi mai provato a
convertire a quella nessun uomo. Non valeva lʼincomodo di violare gli
obblighi più sacri della legge e della fede data per convertire uomini
come Walker.[89]

XLIV. Dopo breve tempo, il Re fece un passo più innanzi. A Sclater e
Walker era stato solamente permesso di tenere, dopo dʼessersi fatti
papisti, i beneficii già loro concessi mentre si dicevano protestanti.
Conferire unʼalta dignità nella Chiesa Anglicana ad un aperto nemico
di quella, era un atto più audace che rompeva le leggi e la reale
promessa. Ma non vʼera provvedimento che a Giacomo paresse ardito. Il
decanato di Christchurch divenne vacante. Quellʼufficio, e per dignità
e per emolumenti, era uno deʼ più considerevoli nella Università di
Oxford. Al decano era affidato il governo di un maggior numero di
giovani di cospicue parentele e di grandi speranze, che si potesse
trovare in qualunque altro collegio. Egli era parimente il capo di
una cattedrale. Con ambedue questi caratteri, era necessario chʼegli
appartenesse alla Chiesa Anglicana. Nondimeno, Giovanni Massey, che
manifestamente era membro della Chiesa di Roma, e che altro merito non
aveva, tranne dʼesser membro di quella Chiesa, fu, per virtù della
potestà di dispensare, nominato allʼufficio predetto; e tosto dentro
le mura di Christchurch fu innalzato un altare, dove ogni giorno si
celebrava la Messa.[90] Al Nunzio il Re disse, che come aveva fatto in
Oxford, così tra breve farebbe in Cambrigde.[91]

XLV. Non pertanto, anche ciò era lieve male in paragone di quello
che i Protestanti avevano buone ragioni a temere. Sembrava assai
probabile che lʼintero governo della Chiesa Anglicana verrebbe, tra
poco tempo, posto nelle mani deʼ suoi mortali nemici. Vʼerano tre
insigni sedi vacanti; quella di York, quella di Chester e quella
dʼOxford. Il vescovato dʼOxford fu dato a Samuele Parker, parassito;
la cui religione, se pure egli aveva religione alcuna, era quella di
Roma; e che si chiamava protestante, solo perchè aveva lʼimpaccio dʼuna
moglie. «Io voleva» disse il Re ad Adda «nominare un aperto cattolico:
ma il tempo non è ancora giunto. Parker è bene disposto per noi; sente
come noi; ed a poco per volta convertirà tutto il suo clero.»[92] Il
vescovato di Chester, vacante per la morte di Giovanni Pearson, uomo di
grande rinomanza e come filologo e come teologo, fu conferito a Tommaso
Cartwright, anche più abietto parassito di Parker. Lo arcivescovato di
York rimase varii anni vacante. E non potendosi a ciò allegare nessuna
buona ragione, sospettavasi che il Re differisse la nomina, finchè si
potesse rischiare di porre quellʼinsigne mitra sul capo dʼun papista. E
veramente, egli è molto probabile che il senno e la buona disposizione
del Papa salvassero da tanto oltraggio la Chiesa Anglicana. Senza
speciale dispensa del Papa, nessun Gesuita poteva divenire vescovo; e
non vi fu mai modo dʼindurre Innocenzo ad accordarla a Petre.

XLVI. Giacomo nè anche dissimulò lo intendimento che aveva di giovarsi
con vigore e sistematicamente di tutti i poteri che aveva come capo
della Chiesa stabilita, per distruggerla. Disse con chiare parole,
che per opera della divina Provvidenza, lʼAtto di Supremazia sarebbe
stato il mezzo di richiudere la fatale ferita da esso inflitta nel
corpo della Chiesa universale. Enrico ed Elisabetta avevano usurpato un
dominio che di diritto apparteneva alla Sede. Tale dominio, nel corso
della successione, era venuto nelle mani di un principe ortodosso,
il quale lo terrebbe come deposito appartenente alla Santa Sede. La
legge gli dava potestà di reprimere gli abusi spirituali: e il primo
di quelli chʼegli intendeva reprimere, era la libertà con cui il
clero anglicano difendeva la propria religione e combatteva contro le
dottrine di Roma.[93]

XLVII. Ma incontrò un grande ostacolo. La supremazia ecclesiastica di
che egli andava rivestito, non era punto la stessa alta e terribile
prerogativa da Elisabetta, da Giacomo I e da Carlo I esercitata.
Lʼatto che dava alla Corona una quasi infinita autorità visitatoria
sopra la Chiesa, quantunque non fosse mai stato formalmente abrogato,
aveva veramente perduto in gran parte il primitivo vigore. La legge
in sostanza rimaneva, ma senza nessuna formidabile sanzione, e senza
efficace sistema di procedura; ed era perciò poco più che una lettera
morta.

Lo statuto che rese ad Elisabetta il dominio spirituale, assunto dal
padre e deposto dalla sorella, conteneva una clausula che dava al
Sovrano autorità di costituire un tribunale che poteva inchiedere
e riformare, o punire i delitti ecclesiastici. Per virtù di tale
clausula, fu creata la Corte dellʼAlta Commissione; Corte che per
molti anni era stata terribile ai non–conformisti, e sotto la cruda
amministrazione di Laud divenne argomento di timore e dʼodio, anche a
coloro che amavano maggiormente la Chiesa stabilita. Adunatosi il Lungo
Parlamento, lʼAlta Commissione venne generalmente giudicata come il più
grave degli abusi che la nazione sosteneva. E però fu fatta alquanto
frettolosamente una legge, la quale non solo privò la Corona della
potestà di nominare visitatori per soprintendere alle faccende della
Chiesa, ma abolì senza distinzione ogni specie di corti ecclesiastiche.

Dopo la Restaurazione, i Cavalieri, che erano numerosissimi nella
Camera deʼ Comuni, per quanto fossero zelanti della prerogativa,
rammentavano ancora con amarezza la tirannia dellʼAlta Commissione,
e non erano punto disposti a richiamare a vita una cotanto odiosa
istituzione. Pensavano, ad unʼora, e non senza ragione, che lo statuto
il quale aveva distrutte tutte le corti cristiane del reame senza nulla
sostituirvi, fosse soggetto a gravi obiezioni. E però lo revocarono,
tranne nella parte che riferivasi allʼAlta Commissione. Così le
Corti Arcidiaconali, le Concistoriali, quella dellʼArcivescovo di
Canterbury, lʼaltra così detta deʼ Peculiari, e la Corte dei Delegati
furono richiamate a vita; ma lʼatto per virtù del quale ad Elisabetta
ed aʼ suoi successori era stata concessa la potestà di nominare
Commissioni con autorità visitatoria sopra la Chiesa, non solo non
fu rimesso in vigore, ma con parole estremamente forti fu dichiarato
pienamente abrogato. È, dunque, chiaro, quanto può esserlo qualunque
punto di diritto costituzionale, che Giacomo II non era competente
a istituire una Commissione, con potestà di visitare e governare
la Chiesa Anglicana.[94] Che se così fosse stato, poco valeva che
lʼAtto di Supremazia, con parole alto sonanti, gli desse facoltà da
correggere ciò che non era equo in quella Chiesa. Nullʼaltro, fuorchè
una macchina formidabile come quella, chʼera stata distrutta dal Lungo
Parlamento, poteva forzare il clero anglicano a divenire strumento
del Re per la distruzione della dottrina e del culto anglicano. Egli,
perciò, nellʼaprile del 1686, deliberò di creare una nuova Corte dʼAlta
Commissione. Il disegno non fu mandato subitamente ad esecuzione. Fu
avversato da tutti i ministri che non erano ligii alla Francia ed aʼ
Gesuiti. I giureconsulti lo considerarono come oltraggiosa violazione
della legge, e gli aderenti alla Chiesa Anglicana come unʼaggressione
alla Chiesa loro. Forse la contesa sarebbe durata più a lungo, se non
fosse accaduto un fatto che ferì lʼorgoglio e infiammò la collera del
Re. Egli, come capo supremo ordinario, aveva dato ordini affinchè il
clero anglicano si astenesse di toccare i punti controversi della
dottrina. In tal guisa, mentre tutte le Domeniche e le festività
dentro il ricinto deʼ reali palazzi recitavansi sermoni a difesa della
religione cattolica romana, alla Chiesa dello Stato, alla Chiesa della
grandissima parte della nazione era inibito di spiegare e difendere
i propri principii. Lo spirito di tutto lʼordine clericale destossi
contro cotesta ingiustizia. Guglielmo Sherlock, teologo insigne,
che aveva scritto con asprezza contro i Whig e i Dissenzienti, e ne
era stato rimunerato dal Governo collʼufficio di Maestro o Rettore
del Tempio e con una pensione, fu uno deʼ primi a incorrere nello
sdegno del Re. Gli fu sospesa la pensione, ed ei venne severamente
redarguito.[95] Poco appresso Giovanni Sharp, Decano di Norwich e
Rettore di Saint Giles–in–the–Fields, fece più grave offesa a Giacomo.
Era uomo dotto e di fervida pietà, predicatore di gran fama, e prete
esemplare. In politica, come tutti i suoi confratelli, era Tory, ed
era pur allora stato fatto regio cappellano. Ricevè una lettera di
un anonimo, il quale simulava venire da uno deʼ suoi parrocchiani
che era stato vinto dagli argomenti deʼ teologi cattolici romani, ed
agognava dʼimparare se la Chiesa Anglicana fosse parte della vera
Chiesa di Cristo. Nessun teologo che non avesse perduto ogni senso
deʼ religiosi doveri o dellʼonore del proprio ministero, poteva
ricusare di rispondere. La Domenica prossima, Sharp fece un vigoroso
discorso contro le alte pretese della Chiesa di Roma. Alcune delle
sue espressioni vennero esagerate, scontorte, e recate dai ciarlieri
a Whitehall. Fu falsamente riferito, chʼegli avesse vituperosamente
parlato dello disquisizioni teologiche già trovate nella cassa forte
di Carlo, e pubblicate da Giacomo. Compton, vescovo di Londra, ebbe da
Sunderland ordini di sospendere Sharp, fino a tanto che il Re avesse
altrimenti provveduto. Il vescovo si sentì grandemente perplesso. La
sua recente condotta nella Camera dei Lordi aveva profondamente offesa
la Corte. Il suo nome era già stato casso dalla lista deʼ Consiglieri
Privati. Egli era già stato cacciato dallʼufficio che occupava nella
cappella reale. Non voleva aggiungere nuove provocazioni; ma lʼatto
che gli sʼimponeva era un atto giudiciale. Intese essere ingiusto, e i
migliori consiglieri gli assicuravano essere illegale infliggere una
pena senza che al supposto colpevole fosse dato modo a difendersi. E
però, con umilissime parole, espose al Re le difficoltà ad eseguire
lʼordine ricevuto, e avvertì privatamente Sharp a non mostrarsi per
allora in pulpito. Per quanto ragionevoli fossero gli scrupoli di
Compton, per quanto ossequiose le sue scuse, Giacomo montò in gran
furore. Quale insolenza allegare o la giustizia naturale o la legge
positiva in opposizione ad un espresso comandamento del Sovrano! Sharp
fu dimenticato. Il vescovo divenne segno alla vendetta del Governo.[96]

XLVIII. Il Re sentì più penosamente che mai la mancanza di quella arme
tremenda che un tempo aveva costretti i disobbedienti ecclesiastici
a cedere. Probabilmente, sapeva che per poche acri parole profferite
contro il governo di Carlo I, il vescovo Williams era stato dallʼAlta
Commissione sospeso da tutte le dignità e funzioni ecclesiastiche. Il
disegno di richiamare a vita quel formidabile tribunale, fu più che mai
affrettato. Nel mese di luglio, Londra fu in commovimento per la nuova
che il Re, sfidando direttamente due atti del Parlamento formulati
in vigorosissimi termini, affidava lʼintero governo della Chiesa a
sette Commissari.[97] Le parole con che la giurisdizione loro veniva
significata, erano, come suoi dirsi, elastiche, e potevano essere
stiracchiate per ogni verso. Tutti i collegi e le scuole di grammatica,
anche quelli chʼerano stati istituiti dalla liberalità di benefattori
privati, furono sottoposti alla autorità della nuova Commissione.
Tutti coloro che per guadagnarsi il pane avevano mestieri dʼimpiego
nella Chiosa o nelle istituzioni accademiche, dal Primate fino al più
piccolo curato, dai vicecancellieri dʼOxford e di Cambridge fino al
più umile pedagogo che insegnava il Corderio, rimasero in preda alle
voglie del Re. Se qualcuno di quelle molte migliaia di uomini cadeva in
sospetto di aver fatto o detto la minima cosa spiacevole al Governo,
i Commissari potevano citarlo dinanzi al loro tribunale. Nel modo di
contenersi con lui, non erano vincolati da alcun freno, come quelli
che erano accusatori a un tempo e giudici. Allo accusato non davasi
copia dellʼatto dʼaccusa. Era esaminato e riesaminato; ed ove le sue
risposte non fossero soddisfacenti, poteva essere sospeso dallʼufficio,
destituito, dichiarato incapace di occupare beneficio alcuno per lo
avvenire. Sʼegli fosse stato contumace, poteva essere scomunicato, o,
in altre parole, privato di tutti i diritti civili, e imprigionato
a vita. Poteva anco, a discrezione della Corte, essere condannato a
pagare le spese del processo che lo aveva ridotto ad accattare. Non
vʼera appello. I Commissarii avevano ordine di eseguire lʼufficio loro,
non ostante alcuna legge che fosse o paresse essere incompatibile
con le norme ricevute. Da ultimo, perchè nessuno dubitasse essere
stata intenzione del Governo ristabilire quella terribile Corte
dalla quale il Lungo Parlamento aveva liberata la nazione, al nuovo
tribunale fu ingiunto di usare un suggello in cui fosse il medesimo
segno e la epigrafe medesima che erano nel suggello della vecchia Alta
Commissione.[98]

Capo della Commissione era il Cancelliere. La presenza e lo assenso
di lui erano necessarii ad ogni atto. Ciascuno ben conosceva con
quanta ingiustizia, insolenza, e barbarie egli sʼera condotto nei
tribunali, dove, fino ad un certo segno, era infrenato dalle leggi
dellʼInghilterra. Non era quindi difficile prevedere come si sarebbe
portato in una situazione in cui egli aveva pieno arbitrio di fare da
sè forme di procedura o regole ad investigare i casi.

Degli altri sei Commissarii, tre erano prelati e tre laici. A capo
della lista era il nome dello Arcivescovo Sancroft. Ma egli era
pienamente convinto che la Corte era illegale, che tutti i suoi
giudicii sarebbero stati nulli, e che sedendovici sarebbe incorso
in grave responsabilità. Deliberò quindi di non accettare il regio
mandato. Nulladimeno, non agì in questa occasione con quel coraggio e
con quella sincerità chʼei mostrò allorchè, due anni dopo, si trovò
ridotto agli estremi. Pregò lo scusassero, allegando gli affari e la
mal ferma salute. Gli altri membri della Commissione, egli soggiunse,
erano uomini di tanta abilità, da non avere mestieri del suo aiuto.
Queste poco sincere scuse sedevano male sul labbro del Primate di
tutta lʼInghilterra in quella occasione; nè valsero a salvarlo dalla
collera del Re. Egli è vero che il nome di Sancroft non fu cancellato
dalla lista deʼ Consiglieri Privali; ma, con amara mortificazione degli
amici della Chiesa, non fu più chiamato neʼ giorni di sessione. «Se
egli» disse il Re «è sì malato da non potere andare alla Commissione, è
cortesia alleggiarlo dal carico di venire al Consiglio.[99]»

Il Governo non incontrò uguale difficoltà con Nataniele Crewe, Vescovo
della grande e ricca diocesi di Durham, uomo di nobile stirpe, e nella
sua professione salito tanto alto, che quasi non poteva desiderare
di salire di più; ma abietto, vano e codardo. Era stato fatto decano
della Cappella Reale, allorquando il vescovo di Londra fu cacciato di
Palazzo. Lʼonore di sedere fra il numero deʼ Commissarii ecclesiastici
toccò a Crewe. Nulla giovò che alcuni deʼ suoi amici gli mostrassero
il rischio a cui egli si esponeva sedendo in un tribunale illegale.
Non vergognò di rispondere, chʼei non poteva vivere privo del sorriso
del Re, ed, esultando, significò la speranza che il suo nome sarebbe
rimasto nella storia: speranza che non gli andò al tutto fallita.[100]

Tommaso Sprat, vescovo di Rochester, fu il terzo Commissario clericale.
Era uomo, allo ingegno del quale la posterità non ha reso giustizia.
Sventuratamente per la sua riputazione, i suoi versi sono stati
stampati nelle raccolte deʼ Poeti Inglesi; e chi lo voglia giudicare
daʼ suoi versi, è forza che lo consideri come un imitatore servile,
che senza una scintilla dellʼammirevole genio di Cowley, scimmiottava
ciò che nello stile di Cowley era meno commendevole: ma chi conosce
le prose di Sprat, farà un diverso giudicio delle sue facoltà
intellettuali. E veramente, era grande maestro della nostra lingua, e
possedeva ad unʼora la eloquenza dellʼoratore, del controversista e
dello storico. Il suo carattere morale avrebbe riportato poco biasimo,
se egli fosse stato addetto ad una professione meno sacra; imperocchè
il peggio che intorno a lui si possa dire, è dʼessere stato indolente,
lussurioso e mondano; ma tali falli, quantunque nei secolari non
sogliano comunemente considerarsi come bruttissimi, sono scandalosi
in un prelato. Lo arcivescovato di York era vacante; Sprat sperava
dʼottenerlo, e però accettò lʼufficio nella Commissione ecclesiastica:
ma era uomo di sì buona indole, da non potersi condurre con durezza;
ed aveva tanto buon senso, da vedere ohe avrebbe in futuro potuto
essere chiamato a render conto di sè dinanzi al Parlamento. Per la qual
cosa, benchè egli acconsentisse di accettare lʼufficio, si studiò di
acquistare, quanto gli fu possibile, meno nemici.[101]

I tre altri Commissari furono il Lord Tesoriere, il Lord Presidente,
e il Capo Giudice del Banco del Re. Rochester, disapprovando la cosa
e brontolando, assentì a servire. Quantunque gli toccasse di soffrir
molto alla Corte, non sapeva indursi ad abbandonarla. Quantunque
molto amasse la Chiesa, non sapeva indursi a sacrificare per essa il
suo bianco bastone, il potere di disporre deglʼimpieghi, la sua paga
di ottomila lire sterline lʼanno, e gli assai più grossi emolumenti
indiretti del suo ufficio. Scusò con gli altri la propria condotta, e
forse con sè stesso, allegando che, come Commissario, avrebbe potuto
impedire molti danni; ed ove egli avesse ricusato quel posto, sarebbe
stato occupato da qualcun altro meno di lui devoto alla religione
protestante. Sunderland rappresentava la cabala gesuitica. La sentenza
di recente profferita da Herbert intorno alla questione della potestà
di dispensare, era bastevole argomento a provare che non avrebbe
abborrito di obbedire ciecamente a tutte le voglie di Giacomo.

XLIX. Appena apertasi la Commissione, il vescovo di Londra fu citato
dinanzi al nuovo tribunale. Obbedì. «Io voglio da voi» disse Jeffreys
«una risposta diretta e positiva. Perchè non avete sospeso il Dottor
Sharp?»

Il vescovo chiese copia dellʼatto che istituiva la Commissione, per
conoscere per virtù di quale autorità egli fosse così interrogato.
«Se intendete» disse Jeffreys «contrastare allʼautorità nostra, userò
altri mezzi con voi. In quanto allʼatto che chiedete, non dubito punto
che lo abbiate veduto. In ogni caso, potreste vederlo per un soldo in
qualunque bottega di caffè.» Eʼ pare che la insolente risposta del
Cancelliere muovesse a sdegno gli altri Commissari, sì che gli fu forza
di addurre qualche scusa contorta. Ritornò poi al punto dal quale erasi
dilungato, dicendo: «Questa non è una Corte dove le accuse si mostrano
in iscritto. La nostra procedura è sommaria, e verbale. La questione
è chiarissima. Perchè non avete voi obbedito al Re?» Con qualche
difficoltà Compton potè ottenere un breve indugio, e lʼassistenza dʼun
avvocato. Udite le ragioni da lui allegate, fu manifesto a tutti che
il vescovo aveva semplicemente fatto ciò chʼegli era tenuto a fare. Il
Tesoriere, il Capo Giudice e Sprat opinarono di mandarlo assoluto. Il
Re arse di sdegno. Eʼ pareva che la sua Commissione Ecclesiastica gli
volesse anchʼella mancare, come gli aveva mancato il suo Parlamento
Tory. A Rochester disse di eleggere tra il dichiarare colpevole il
vescovo, o lasciare lʼufficio del Tesoro. Rochester fu sì vile, che
si arrese. Compton fu sospeso dalle sue funzioni spirituali; il carico
della sua grande diocesi fu commesso ai suoi giudici, Sprat e Crewe.
Seguitò, non per tanto, a risedere nel proprio palazzo e ricevere le
rendite; perocchè sapevasi che ove avessero tentato di privarlo deʼ
suoi emolumenti temporali, ei si sarebbe posto sotto la protezione
del diritto comune; e lo stesso Herbert dichiarò, che i tribunali di
diritto comune avrebbero profferita sentenza contro la Corona. Ciò
indusse il Re a star cheto. Solo alquanti giorni erano corsi dacchè
egli aveva a suo modo raffazzonate le Corti di Westminster Hall, onde
ottenere una sentenza favorevole alla sua potestà di dispensare; e
adesso si accôrse che, ove non le avesse di nuovo raffazzonate, non
avrebbe potuto ottenere una decisione in favore degli atti della sua
Commissione Ecclesiastica. Deliberò, quindi, di differire per breve
tempo la confisca deʼ beni liberi deʼ chierici disubbidienti.[102]

L. Gli umori della nazione, a dir vero, erano tali da renderlo
esitante. Per alcuni mesi, il malcontento era venuto grandemente e
con rapidità crescendo. Il Parlamento da lungo tempo aveva inibita
la celebrazione del culto cattolico romano. Pel corso di varie
generazioni, nessun prete cattolico romano aveva osato mostrarsi in
pubblico con le insegne del proprio ufficio. Contro il clero regolare,
e contro glʼirrequieti e sottili Gesuiti, erano state fatte molte leggi
rigorose. Ogni Gesuita che avesse posto piede nel Regno, era soggetto
ad essere impiccato, strascinato e squartato. Coloro che lo avessero
scoperto, ricevevano un premio. Non godeva nè anche il beneficio
della regola generale, che gli uomini non sono tenuti ad accusare sè
stessi. Chiunque fosse in sospetto di essere Gesuita, poteva essere
interrogato; e ricusando di rispondere, incarcerato a vita.[103] Tali
leggi, benchè non fossero state poste rigorosamente in esecuzione,
tranne in tempi di speciale pericolo, e benchè non avessero mai
impedito i Gesuiti di venire in Inghilterra, avevano reso necessario il
travestirsi. Ma adesso ogni travestimento fu messo da parte. Alcuni
insani uomini appartenenti alla religione del Re, incoraggiati da
lui, ebbero lʼorgoglio di sfidare leggi che senza verun dubbio erano
ancor valide, e sentimenti abbarbicati nel cuore del popolo come non
lo erano stati mai nei tempi trascorsi. Sorsero in ogni dove, per
tutto il paese, cappelle cattoliche romane. Cocolle, cordoni e rosari
vedevansi di continuo per le vie, e rendevano attonita una popolazione
di cui lʼuomo più vecchio non aveva mai veduto, tranne sulla scena,
un abito monacale. Un convento fu innalzato in Clerkenwell, nel luogo
dellʼantico chiostro di San Giovanni. I Francescani occuparono un
edificio in Lincolnʼs Inn Fields. I Carmelitani furono acquartierati
nella Città. Una congrega di Benedettini ebbe alloggio nel Palazzo di
San Giacomo. Nel Savoy fu edificata ai Gesuiti una vasta casa, con
una chiesa e una scuola.[104] Lʼarte e la cura onde cotesti padri
avevano, per parecchie generazioni, educata la gioventù, avevano
strappate le lodi alle labbra ripugnanti deʼ Protestanti più savi.
Bacone aveva detto, che il metodo dʼistruzione adoperato nei collegi
deʼ Gesuiti, era il migliore che fino allora si conoscesse nel mondo,
ed aveva mostrato amaro rincrescimento pensando che un sistema
cotanto ammirevole di disciplina intellettuale e morale dovesse
servire agli interessi dʼuna religione cotanto corrotta.[105] Non
era improbabile che il nuovo collegio nel Savoy, sotto la protezione
del Re, sarebbe diventato formidabile rivale delle grandi scuole di
Eaton, di Westminster e di Winchester. Poco dopo aperta, la scuola
contava quattrocento fanciulli, metà circa deʼ quali erano Protestanti.
Costoro non erano tenuti ad assistere alla Messa; ma non poteva esservi
dubbio che la influenza di esperti precettori appartenenti alla Chiesa
Cattolica Romana, e versati in tutte le arti che valgono a conseguire
la fiducia e lʼaffetto della gioventù, non avrebbe fatto molti
proseliti.

LI. Siffatte cose produssero sommo eccitamento fra il basso popolo, il
quale sempre è mosso da ciò che tocca i sensi, più presto che da ciò
che si dirige alla ragione. Migliaia di rozze e ignoranti persone, per
le quali la potestà di dispensare e la Commissione Ecclesiastica erano
parole vuote di senso, videro con indignazione e terrore un collegio
di Gesuiti sorgere sulle rive del Tamigi, frati in sottana e cappuccio
passeggiare nello Strand, i devoti accorrere in folla alle porte deʼ
tempii dove adoravansi le sculte immagini. In parecchi luoghi del paese
scoppiarono tumulti. In Coventry e in Worcester, il culto cattolico
romano fu violentemente interrotto.[106] In Bristol la marmaglia,
spalleggiata, secondo fu detto, dai magistrati, dètte un profano ed
indecente spettacolo, in cui la Vergine Maria era rappresentata da
un buffone, e unʼostia finta era portata in processione. Il presidio
fu chiamato a reprimere la plebaglia. Questa, che sempre era stata
lì più che in altro luogo del Regno ferocissima, oppose resistenza.
Seguirono da ambe le parti percosse e ferite.[107] Grande era
lʼagitazione nella capitale, e maggiore nella Città propriamente
detta, che in Westminster. Imperocchè il popolo era avvezzo a vedere
le cappelle private degli Ambasciatori Cattolici Romani; ma la Città,
a memoria dʼuomo vivente, non era stata mai profanata da cerimonie
idolatriche. Nondimeno, lʼinviato dellʼElettore Palatino, incoraggiato
dal Re, eresse una cappella in Lime Street. I capi del municipio,
quantunque fossero uomini posti in quellʼufficio perchè riconosciuti
come Tory, protestarono contro questo fatto, che, dicevano essi, i
più dotti gentiluomini in abito lungo consideravano illegale. Il Lord
Gonfaloniere ricevè ordine di presentarsi dinanzi al Consiglio Privato.
«Badate a quel che fate» disse il Re, «obbeditemi; e non vʼimpacciate
con gentiluomini in abito lungo, o in abito corto.» Il Cancelliere
tosto cominciò ad inveire contro il malarrivato magistrato, con quella
stessa eloquenza che soleva adoperare in Old Bailey. La cappella fu
aperta. Tutto il vicinato si pose subito in movimento. Gran torme di
popolo accorsero a Cheapside per aggredire la nuova chiesa. I sacerdoti
furono insultati. Un crocifisso fu strappato dal luogo, e posto sopra
il pozzo della parrocchia. Il Lord Gonfaloniere uscì fuori a quietare
il tumulto, ma fu accolto col grido di «Non vogliamo Dio di legno.» La
milizia civica ebbe comandamento di sgominare la folla; ma partecipava
al sentimento del popolo; e voci corsero per le file che dicevano: «Noi
non possiamo in coscienza combattere a pro del papismo.»[108]

Lo Elettore Palatino era, come Giacomo, sincero e zelante Cattolico,
e imperava, al pari di lui, sopra una popolazione protestante; ma i
due principi si somigliavano poco per indole e per intendimento. Lo
Elettore aveva promesso di rispettare i diritti della Chiesa chʼegli
trovò stabilita neʼ suoi domini. Aveva rigorosamente mantenuta la
promessa, e non sʼera lasciato trascinare a nessun atto di violenza
dai predicatori, i quali abborrendo dalla sua credenza, dimenticavano
di quando in quando il rispetto che gli dovevano.[109] Seppe, e
gliene increbbe, che lʼatto imprudente del suo rappresentante aveva
grandemente offeso il popolo di Londra; e, a suo sommo onore, dichiarò
chʼegli avrebbe rinunziato al privilegio al quale, come principe
straniero, aveva diritto, anzi che mettere a rischio la tranquillità
dʼuna grande metropoli. «Anchʼio» scrisse egli a Giacomo «ho sudditi
protestanti; e so con quanta cautela e destrezza debba agire un
principe Cattolico posto in cosiffatte condizioni.» Giacomo, invece di
sentire gratitudine per questa mite e savia condotta, mise la lettera
in canzone avanti ai ministri stranieri; e deliberò che lo Elettore,
volesse o non volesse, avrebbe una cappella nella Città; e qualora
la milizia cittadina avesse ricusato di fare il debito proprio, si
sarebbero chiamate le guardie.[110]

LII. Lo effetto che cotesti perturbamenti produssero sul commercio,
fu assai grave. Il ministro olandese scrisse agli Stati Generali,
che gli affari alla Borsa erano arrestati. I Commissari delle Dogane
riferirono al Re, come nel mese che seguì lʼapertura della Cappella in
Lime Street, glʼincassi del porto del Tamigi fossero scemati dʼalcune
migliaia di lire sterline.[111] Vari Aldermanni, i quali, comecchè
fossero realisti zelanti, nominati in ufficio sotto il nuovo statuto
municipale, avevano molto interesse alla prosperità commerciale
della città loro, e non amavano nè il papismo nè la legge marziale,
dettero la loro rinunzia. Ma il Re era risoluto a non cedere. Formò un
campo militare in Hounslow Heath, dove, in una circonferenza di circa
due miglia e mezzo, raccolse quattordici battaglioni di fanteria, e
trentadue squadroni di cavalleria, che insieme facevano unʼarmata
di tredici mila combattenti. Ventisei pezzi dʼartiglieria, e molti
carriaggi carichi dʼarmi e di munizioni, furono trascinati dalla Torre,
traverso alla città, a Hounslow.[112] I Londrini, vedendo ragunarsi
queste grandi forze militari nei dintorni della terra, sentirono un
terrore, che in breve scemò collʼavvezzarvisi. Visitare Hounslow neʼ
giorni festivi divenne un sollazzo. Il campo offriva lo aspetto dʼuna
vasta fiera. Confusa coi moschettieri e coi dragoni, una moltitudine di
lindi gentiluomini e dame di Soho Square, di borsaiuoli e di sgualdrine
di Whitefriars coʼ visi imbellettati, dʼinfermi in portantine, di
frati in cappucci e sottane, di servitori coperti di ricche livree,
di merciaiuoli ambulanti, di fruttaiuole, di impertinenti garzoni di
bottega e di stupefatti villani, passava di continuo e ripassava fra
mezzo alle lunghe file delle tende. In alcuni padiglioni udivasi il
baccano dei beoni, in altri le bestemmie deʼ giocatori. E davvero,
il luogo pareva un allegro suburbio della metropoli. Il Re, come ben
si conobbe due anni dopo, aveva commesso un grande errore. Aveva
dimenticato che la vicinanza agisce in più modi. Aveva sperato
che lo esercito avrebbe atterrita Londra; ma lo effetto di questo
provvedimento fu, che i sentimenti e le opinioni deʼ cittadini di
Londra invasero pienamente lʼesercito.[113]

Erano appena formati gli accampamenti, allorquando corse voce di
litigi tra i soldati protestanti e i papisti.[114] Un breve scritto
intitolato: Indirizzo a tutti glʼInglesi protestanti dellʼarmata,—era
stato con attività distribuito nel campo. Lo scrittore con veementi
parole esortava le truppe a pugnare in difesa, non del Messale, ma
della Bibbia, della _Magna Charta_ e della Petizione deʼ Diritti. Il
Governo lo vedeva di mal occhio. Era uomo notevole per carattere, e la
cui storia può riuscire istruttiva.

LIII. Aveva nome Samuele Johnson, era prete della Chiesa Anglicana, e
già stato cappellano di Lord Russell. Johnson era uno di quelli uomini
mortalmente odiati daʼ loro oppositori, e meno amati che rispettati
daʼ loro colleghi. La sua morale era pura, fervido il sentimento
religioso che gli stava nel cuore, non ispregevoli la dottrina e le
doti dello ingegno, debole il giudicio, e lʼindole acre, torbida e
invincibilmente ostinata. Per la sua professione, egli era venuto in
odio agli zelanti sostenitori della monarchia; perocchè un repubblicano
con gli ordini sacri appariva un ente strano, e quasi contro natura.
Mentre Carlo regnava, Johnson aveva pubblicato un libro col titolo di
Giuliano Apostata. Era suo scopo mostrare, che i Cristiani del quarto
secolo non ammettevano la dottrina della non–resistenza. Era agevole
addurre passi di Crisostomo e di Girolamo, scritti con uno spirito
assai diverso da quello deʼ teologi anglicani che predicavano contro la
Legge dʼEsclusione. Johnson, nulladimeno, trascorse anche più oltre.
Tentò di richiamare a vita lʼodioso addebito che, per manifestissime
ragioni, Libanio aveva gettato sopra i soldati cristiani di Giuliano;
ed affermò che il dardo che uccise lʼimperiale rinnegato, partì non
daglʼinimici, ma da qualche Rumbold o Ferguson delle legioni romane.
Ne seguì caldissima controversia. I disputatori Whig e Tory lottarono
accanitamente intorno ad un passo oscuro, nel quale Gregorio Nazianzeno
loda un pio vescovo che andava ad infliggere la fustigazione ad alcuno.
I Whig sostenevano che lʼuomo santo andasse a fustigare lo imperatore;
i Tory, che egli volesse fustigare, a tutto dire, un capitano delle
Guardie. Johnson compose una risposta ai suoi avversarii, nella quale
fece un elaborato paragone tra Giuliano e Giacomo, allora Duca di
York. Giuliano per molti anni aveva fatto sembiante di aborrire
la idolatria, mentre in cuor suo era idolatra. Giuliano aveva, per
giungere a certi suoi fini, in alcune occasioni simulato di rispettare
i diritti della coscienza. Giuliano aveva punite le città che erano
zelanti per la vera religione, spogliandole deʼ loro privilegii
municipali. Giuliano daʼ suoi adulatori era stato chiamato il Giusto.
Giacomo si sentì provocato a segno, da non poterlo patire. Johnson fu
accusato di calunnia, convinto reo, e condannato ad una multa che egli
non aveva mezzi di pagare. Fu quindi gettato in un carcere; e sembrava
probabile che vi dovesse rimanere per tutta la vita.[115]

LIV. Sopra la stanza chʼegli occupava nella prigione del Banco del
Re, era rinchiuso un altro condannato, il cui carattere è degno di
studio. Chiamavasi Ugo Speke, edera giovane di buona famiglia, ma di
singolarmente bassa e depravata indole. In lui la passione del mal
fare e di giungere per vie torte ai suoi fini, era quasi frenesia.
Arruffare senza essere scoperto, era a lui occupazione e diletto; ed
aveva grande arte di giovarsi degli onesti entusiasti come di strumenti
della sua fredda malignità. Aveva tentato, per mezzo di uno deʼ suoi
fantocci, di spingere Carlo e Giacomo ad assassinare Essex nella Torre.
Scopertosi lui essere stato lo istigatore a quel delitto, quantunque
gli fosse riuscito gettare in gran parte la colpa sullʼuomo da lui
sedotto, non gli era venuto fatto di sottrarsi al castigo. Adesso era
in carcere; ma col danaro potè procacciarsi i comodi che ai più poveri
prigioni mancavano, ed era tenuto con tanto poco rigore, da comunicare
di continuo con uno deʼ suoi colleghi che dirigeva una tipografia
clandestina.

LV. Johnson era lʼuomo adatto ai fini di Speke. Era zelante ed
intrepido, dotto ed esperto disputatore, ma semplice come un fanciullo.
Una stretta amicizia nacque fraʼ due compagni di prigione. Johnson
scriveva diversi acri e virulenti trattati, che Speke faceva giungere
allo stampatore. Allorquando formossi il campo militare in Hounslow,
Speke incitò Johnson a comporre un indirizzo per istigare le truppe
al disordine. Detto, fatto. Ne furono tirate molte migliaia di copie e
portate alla stanza di Speke, da dove furono sparse per tutto il paese,
e in ispecie fraʼ soldati. Un Governo più mite di quello che allora
reggeva lʼInghilterra si sarebbe risentito a simigliante provocazione.
Si fecero rigorose ricerche. Un agente subordinato, di cui eransi
serviti per distribuire lʼindirizzo, salvò sè, tradendo Johnson; e
Johnson non era uomo da salvarsi tradendo Speke. Se ne fece processo,
e lo scrittore fu dichiarato reo. Giuliano Johnson, come comunemente
lo chiamavano, fu condannato ad essere tre volte posto alla berlina,
e fustigato da Newgate a Tyburn. Il giudice, Sir Francesco Withins,
disse al condannato di dovere rendere grazie al Procuratore Generale,
che aveva mostrata moderazione, là dove poteva considerare il delitto
come crimenlese. «Io non gli debbo punto ringraziamenti» rispose
intrepidamente Johnson. «Debbo io, il cui solo delitto è quello di
avere difeso la Chiesa e le leggi, mostrarmi grato dʼessere flagellato
a guisa dʼun cane, mentre gli scrivacchiatori papisti si lasciano
ogni giorno impunemente insultare la Chiesa e violare le leggi?» La
energia con che egli favellò fu tale, che i giudici e i legali della
Corona stimarono necessario difendersi, e protestarono di non saper
nulla di pubblicazioni papiste, a cui il prigione alludeva. Il quale
immantinente si trasse di tasca alcuni libri o ninnoli cattolici
romani, che allora vendevansi liberamente sotto la regia protezione;
lesse ad alta voce i titoli di queʼ libri, e gettò un rosario sul banco
agli Avvocati del Re; e forte gridando, disse: «Io presento questa
prova dinanzi a Dio, a questo tribunale ed al popolo inglese. Ora
vedremo se il Signor Procuratore Generale farà il proprio dovere.»

Fu deliberato che innanzi di mandare ad esecuzione la sentenza, Johnson
fosse degradato della dignità sacerdotale. I prelati ai quali dalla
Commissione Ecclesiastica era stata affidata la cura della diocesi di
Londra, lo citarono dinanzi a loro nelle stanze del Capitolo della
Cattedrale di San Paolo. Il modo onde egli subì la ceremonia, fece
profonda impressione nellʼanimo di molti. Mentre lo spogliavano degli
abiti sacerdotali, esclamò: «Voi mi private dellʼabito sacro, perchè
mi sono studiato di tenervi addosso il vostro.» Lʼunica formalità
che parve contristarlo, fu lʼavergli strappato dalle mani la Bibbia.
Lottò debolmente perchè non gliela togliessero, la baciò e diede in uno
scoppio di pianto. «Voi non potete» disse egli «privarmi delle speranze
che io debbo a quel libro santo.» Tentossi di ottenere che gli fosse
perdonata la fustigazione. Un sacerdote cattolico romano, a cui fu
fatta la promessa di duecento lire sterline, sʼofferse dʼintercedere
per lui. Fu fatta una colletta, e raccolta la somma; e il prete fece
ogni possibile sforzo, ma invano. «Il signore Johnson» rispose il Re
«ha lo spirito dʼun martire; ed è giusto che divenga tale.» Guglielmo
III, pochi anni dopo, disse dʼuno deʼ più arrabbiati e imperterriti
Giacomiti: «Egli sʼè fitta in cuore la voglia dʼessere martire, ed io
mi son fitto in capo di privarlo della gloria del martirio.» Questi due
detti basterebbero soli a spiegare lo differentissime sorti di quei due
Principi.

Giunse il dì stabilito per la fustigazione. Fu adoperato un flagello
di nove funi. Trecento diciassette furono i colpi; ma il paziente
non feʼ motto. Dopo, confessò che il tormento era stato crudele; ma
mentre ci veniva trascinato, richiamava al pensiero la pazienza con
che il Salvatore aveva portata la croce al Golgota; e ne ebbe tanto
conforto, che se non fosse stato impedito dal timore dʼincorrere
nella taccia di vanaglorioso, avrebbe cantato un salmo con la voce
ferma e lieta con che avrebbe adorato Dio nella congregazione. E fu
eroismo da farci desiderare che fosse meno macchiato dʼintemperanza e
dʼintolleranza.[116]

LVI. Fra il clero anglicano, Johnson non trovò compatimento. Aveva
tentato di giustificare la ribellione; aveva anche accennato di
approvare il regicidio; e i preti della Chiesa dʼInghilterra, malgrado
tanta provocazione, sostenevano tenacemente la dottrina della
non–resistenza. Ma inquieti e impauriti vedevano il progresso di quella
che essi consideravano dannosa superstizione; e mentre aborrivano dal
pensiero di difendere la propria religione con la spada, battagliavano
con armi di specie diversa. Il predicare contro gli errori del
papismo, adesso era da loro considerato come dovere e punto dʼonore.
Il clero di Londra, il quale per meriti ed influenza primeggiava fra
lʼordine sacerdotale, porse un esempio che intrepidamente seguirono i
suoi confratelli in tutto il Regno. Se pochi spiriti audaci avessero
osato tanto, sarebbero stati probabilmente riconvenuti dinanzi alla
Commissione Ecclesiastica; ma era quasi impossibile punire un fallo che
veniva commesso ogni Domenica da migliaia di teologi, da Berwick fino a
Penzance. Le tipografie della metropoli, dʼOxford e di Cambridge, erano
in continuo moto. La legge che sottoponeva la stampa alla censura,
non impediva gli sforzi deʼ controversisti protestanti; perocchè
conteneva una clausula a favore delle due Università, ed autorizzava
la pubblicazione delle opere teologiche approvate dallo Arcivescovo
di Canterbury. Non era, quindi, in potestà del Governo lo imporre
silenzio ai difensori della religione dello Stato. Erano una numerosa,
imperterrita e ben formata legione di combattenti. Comprendeva
eloquenti favellatori, esperti dialettici, dotti profondamente versati
nella lettura degli scritti deʼ Santi Padri, ed in ogni ramo di storia
ecclesiastica. Alcuni di loro, tempo dopo, rivolsero vicendevolmente
gli uni contro gli altri le armi formidabili, da essi già impugnate
contro il nemico comune; e a cagione delle feroci contese e delle
insolenti vittorie loro, recarono biasimo alla Chiesa che avevano
salvata. Ma adesso erano una falange unita. Stava nel vanguardo
una fila di fermi ed esperti veterani; Tillotson, Stillingfleet,
Sherlock, Prideaux, Whitby, Patrick, Tenison, Wake. Il retroguardo era
composto dai più insigni baccellieri, che studiavano per conseguire il
diaconato. Predistinto fra le reclute che Cambridge mandava al campo di
battaglia, era uno scolare del gran Newton. Aveva nome Enrico Wharton,
e pochi mesi prima era stato capo disputatore, ossia principe della
sua classe: la sua morte poco appresso fu compianta dagli uomini di
ogni partito, qual perdita irreparabile per le lettere.[117] Oxford
anchʼessa sʼinorgogliva dʼun giovane, le cui grandi doti intellettuali,
che facevano il primo esperimento in questo conflitto, turbarono poscia
per quaranta anni la Chiesa e lo Stato; voglio dire di Francesco
Atterbury. Da tali ingegni venivano discusse tutte le questioni
tra papisti e protestanti, ora in istile sì popolare che potessero
intendere i fanciulli e le donne, ora con estremo acume di logica,
ed ora con immenso corredo di dottrina. Le pretese della Santa Sede,
lʼautorità della tradizione, il purgatorio, la transustanziazione, il
sacrificio della Messa, lʼadorazione dellʼostia, il negare il calice ai
laici, la confessione, la penitenza, le indulgenze, lʼestrema unzione,
la invocazione dei santi, lʼadorazione delle immagini, il celibato
del clero, i voti monastici, lʼuso di celebrare il culto pubblico in
una lingua ignota al popolo, la corruttela della Corte di Roma, la
storia della Riforma, i caratteri deʼ principali riformatori, venivano
copiosamente discussi. Gran numero di assurde leggende di miracoli
fatti daʼ santi e dalle reliquie furono tradotte dallʼitaliano, e
pubblicate come esempi delle arti pretine che avevano ingannata gran
parte della Cristianità. Molti degli scritti pubblicati dai teologi
anglicani nel breve regno di Giacomo II, probabilmente perirono. Coloro
che possono anche oggi trovarsi nelle nostre grandi biblioteche,
formano una congerie di circa ventimila pagine.[118]

LVII. I Cattolici Romani non cessero senza lottare. Uno di loro,
chiamato Enrico Hills, era stato nominato stampatore della casa e
cappella reale, e posto dal Re a capo dʼun grande ufficio in Londra,
dal quale uscivano a centinaia libri e libercoli teologici. Non
meno operosi in Oxford erano i torchi dʼObadia Walker. Ma, salvo
qualche cattiva traduzione degli ammirevoli scritti di Bossuet,
quelle tipografie non pubblicarono cosa alcuna che avesse il minimo
pregio. Nessun savio e sincero Cattolico Romano poteva negare che i
campioni della sua Chiesa, e per ingegno e per dottrina, erano di
gran lunga inferiori ai loro avversari. Il più grande degli scrittori
cattolici sarebbe stato reputato di terzo ordine. Molti di loro,
anche qualvolta avessero qualche cosa da dire, non sapevano come
dirla. La loro religione gli aveva esclusi dalle scuole e università
inglesi; nè fino al tempo in cui Giacomo ascese al trono, essi avevano
reputata lʼInghilterra gradita o nè anche sicura residenza. Avevano
però spesa la più gran parte della loro vita sul continente, e quasi
disimparata la lingua materna. Quando predicavano, il loro accento
mezzo forestiero moveva a riso lʼuditorio. Pronunziavano le parole a
moʼ di vetturini. La loro locuzione era deturpata da frasi straniere; e
quando intendevano essere eloquenti, imitavano, come meglio potevano,
quello che consideravasi come bello stile in quelle accademie italiane
dove la rettorica, a queʼ tempi, era caduta nella più gran corruzione.
Disputatori impacciati da tutti cotesti svantaggi, non avrebbero
potuto, anche qualora il vero fosse stato dalla loro parte, far fronte
ad uomini, lo stile deʼ quali rifulge mirabilmente di purità e di
grazia.[119]

Le condizioni in cui la Inghilterra trovatasi nel 1686, non possono
esser meglio descritte che con le parole dello Ambasciatore Francese.
«Il malcontento» dice egli «è grande e universale; ma il timore di
cadere in mali maggiori trattiene tutti coloro che hanno qualche cosa
da perdere. Il Re apertamente manifesta la gioia che prova trovandosi
in condizione da potere menare arditissimi colpi. Egli ama vedere che
altri se ne congratuli con lui. Me ne ha parlato, assicurandomi che non
vorrà indietreggiare.»[120]

LVIII. Frattanto, nelle altre parti del Regno erano accaduti
importantissimi fatti. Le condizioni deʼ protestanti Episcopali di
Scozia grandemente differivano da quelle in cui trovavansi i loro
confratelli inglesi. Nelle contrade meridionali dellʼisola, la
religione dello Stato era quella del popolo, ed aveva forza al tutto
indipendente da quella che derivava dal sostegno del Governo. I
conformisti sinceri erano in molto maggior numero deʼ papisti e deʼ
Protestanti dissenzienti, insieme congiunti. La Chiesa stabilita in
Iscozia era la Chiesa di pochi. La più parte della popolazione delle
pianure aderiva fermamente alla disciplina deʼ Presbiteriani. La
gran massa deʼ Protestanti scozzesi abborriva dalla prelatura, come
istituzione contraria alle divine scritture e dʼorigine straniera. I
discepoli di Knox la consideravano quale reliquia delle abominazioni
della grande Babele. Quel popolo, altero della memoria di Wallace e
di Bruce, amaramente rammentava come la Scozia, dacchè i suoi sovrani
erano ascesi al trono dellʼInghilterra, fosse stata indipendente solo
di nome. Lʼordinamento episcopale alla mente di ciascuno richiamava
la immagine di tutti i danni prodotti da venticinque anni di corrotto
e crudele Governo. Nulladimeno, tale ordinamento, quantunque sopra
unʼangusta base e fra mezzo a terribili procelle, stette, tentennante,
a dir vero, ma sostenuto dai magistrati civili, e sperante dʼessere
soccorso, sempre che si facesse grave il pericolo, dalla potenza
inglese. I ricordi del Parlamento di Scozia erano pieni zeppi di leggi
spiranti vendetta contro coloro che in qualunque modo traviassero
dalla meta prescritta. Secondo un Atto parlamentare, fatto a tempo di
Knox e impregnato del suo spirito, era gravissimo delitto ascoltare
la Messa; delitto che, ripetuto tre volte, diventava capitale.[121]
Un altro Atto, di fresco approvato ad istanza di Giacomo, puniva di
morte chiunque avesse osato predicare in un conventicolo presbiteriano
qualunque, ed anche coloro che fossero intervenuti ad un conventicolo
allʼaria aperta.[122] La Eucaristia non era, come in Inghilterra,
degradata alla condizione di Atto di Prova civile; ma niuno poteva
occupare qualsifosse ufficio, aver seggio in Parlamento, o anche
diritto di votare nelle elezioni parlamentari, senza firmare, prestando
giuramento, una dichiarazione che riprovasse con fortissime parole i
principii e deʼ papisti e quelli deʼ Convenzionisti.[123]

LIX. Nel Consiglio Privato di Scozia erano due partiti, rispondenti a
quelli che lottavano tra loro in Whitehall. Guglielmo Douglas, Duca di
Queensberry, era Lord Tesoriere, e per vari anni era stato considerato
come primo ministro. Era strettamente vincolato, per parentela e per
simiglianza dʼindole e dʼopinioni, al Tesoriere dʼInghilterra. Entrambi
erano Tory, entrambi uomini di cervello fervido e di forti pregiudicii,
entrambi pronti a secondare il loro signore in ogni aggressione contro
le libertà civili del suo popolo; ma entrambi portavano sincero affetto
alla Chiesa dello Stato. Queensberry aveva fin dapprima annunziato
alla Corte, che non avrebbe partecipato a qualunque innovazione
concernente la Chiesa. Ma fraʼ suoi colleghi erano vari uomini,
non meno di Sunderland, spregiatori dʼogni principio. E veramente,
la Camera del Consiglio dʼEdimburgo era stata, per lo spazio di
venticinque anni, scuola di vizi pubblici e privati; ed alcuni uomini
politici ivi educati, avevano una così peculiare durezza di cuore e
di fronte, che Westminster, anche in quella pessima età, non aveva
nulla da contrapporvi. Il Cancelliere Drummond, Conte di Perth, e suo
fratello Lord Giovanni Melfort, Segretario di Stato, studiavansi di
supplantare Queensberry. Il Cancelliere aveva già un incontrastabile
diritto al regio favore, come quello che aveva posto in uso una piccola
vite per torturare le dita, la quale recava così esquisito tormento,
che aveva strappato confessioni dalle labbra anche di coloro che lo
stivaletto, dalla Maestà Sua tanto amato, non aveva potuto indurre a
confessare.[124]

LX. Ma era ben noto che la barbarie non apriva, così agevolmente come
lʼapostasia, il varco al cuore di Giacomo. Alla apostasia, dunque,
Perth e Melfort ricorsero con certa audace abiettezza, che nessuno
inglese uomo di Stato avrebbe potuto sperar di uguagliare. Dichiararono
che ambidue erano stati convertiti dagli scritti trovati entro la
cassa forte di Carlo II, e che avevano incominciato a confessarsi e
ad ascoltare la Messa.[125] Quanto poco entrasse la coscienza nella
conversione di Perth, ne fu chiaro argomento lʼavere egli sposata,
pochi giorni dopo, a dispetto delle leggi della religione da lui pur
allora abbracciata, una sua cugina germana, senza provvedersi dʼuna
dispensa. Come il buon Pontefice seppe la nuova del fatto, disse,
con quello spregio e disdegno convenevole alla dignità sua, quella
essere una strana specie di conversione.[126] Ma Giacomo ne rimase più
agevolmente satisfatto. I due apostati sʼappresentarono a Whitehall,
dove riceverono tali assicurazioni di favore, che provaronsi di apporre
direttamente addebiti al Tesoriere. Ma tali addebiti erano così
manifestamente frivoli, che a Giacomo fu forza di assolvere lo accusato
ministro; e molti credettero che il Cancelliere si fosse rovinato per
la maligna voglia di rovinare il rivale. Taluno, nondimeno, faceva più
esatto giudicio. Halifax, al quale Perth manifestò qualche timore,
rispose, con un sorriso di scherno, che non vʼera punto pericolo. «Staʼ
di buon animo, Milord; la tua fede ti ha salvato.» La profezia fu vera.
Perth e Melfort ritornarono a Edimburgo capi del Governo della loro
patria.[127] Un altro membro dei Consiglio Privato di Scozia, cioè
Alessandro Stuart, conte di Murrey, discendente ed erede del Reggente,
abiurò quella religione della quale il suo illustre antenato era stato
precipuo campione, e si dichiarò membro della Chiesa di Roma. Devoto,
come sempre era stato Queensberry, alla causa della regia prerogativa,
non poteva resistere ai suoi competitori, i quali ambivano, mostrandosi
ligii al Sovrano, acquistarne la grazia. Gli toccava sostenere mille
mortificazioni ed umiliazioni, simili a quelle che, verso quel tempo,
cominciarono ad amareggiare la vita del suo amico Rochester.

LXI. Giunsero a Edimburgo lettere regie che autorizzavano i papisti ad
occupare gli uffici senza essere sottoposti allʼAtto di Prova. Al clero
fu fatto rigoroso comandamento di non fare nelle prediche riflessioni
sulla Religione Cattolica Romana. Il Cancelliere si tolse il carico
di mandare i mazzieri del Consiglio Privato attorno per le poche
tipografie e librerie che allora si trovavano in Edimburgo, ad ordinar
loro di non pubblicare nessuna opera senza sua licenza. Intendevasi
bene che tale ordine doveva impedire la circolazione degli scritti
protestanti. Un onesto cartolaro disse ai mazzieri, chʼegli aveva in
bottega un libro che con dure parole discorreva del papismo, e chiese
di sapere se lo potesse vendere. Coloro domandarono di vederlo, ed
egli mostrò loro un esemplare della Bibbia.[128] Un carico dʼimmagini,
di rosari, di croci e di turiboli, giunse a Leith, diretto a Lord
Perth. La importazione di tali cose da lungo tempo consideravasi
illegale; ma adesso glʼimpiegati delle dogane le lasciarono passare
liberamente.[129] Poco dopo si seppe che una cappella papalina era
stata accomodata nella casa del Cancelliere, e che vi si celebrava
regolarmente la Messa. Insorse la plebe, ed assaltò ferocemente il
luogo dove celebravansi i riti idolatrici. Strappò le inferriate
delle finestre. Lady Perth, ed alcune altre donne sue amiche, furono
imbrattate di fango. Uno deʼ faziosi fu preso, e condannato per ordine
del Consiglio Privato alla fustigazione. I suoi compagni lo liberarono,
e bastonarono il boia. La città per tutta la notte fu in tumulto. Gli
studenti della Università si congiunsero alla folla, incoraggiando
glʼinsorti. I borghesi zelanti bevevano alla salute deʼ giovani
collegiali, a confusione deʼ papisti; e vicendevolmente facevansi
animo ad affrontare i soldati. Questi, che erano già sotto le armi,
furono ricevuti con una pioggia di sassate, nella quale un ufficiale
rimase ferito. Fu dato ordine di far fuoco; e vari cittadini furono
uccisi. Il tumulto fu serio; ma i Drummonds, infiammati dallʼodio e
dallʼambizione, stranamente lo esagerarono. Queensberry fece osservare,
che la loro relazione avrebbe fatto credere, a chiunque non fosse
stato testimonio oculare, che in Edimburgo fosse seguita una sedizione
formidabile quanto quella di Masaniello. Essi, allʼincontro, accusarono
il Tesoriere non solo di scemare la gravità del delitto, ma dʼaverlo
suggerito, e fecero ogni possibile sforzo a procurarsi una prova della
colpa di lui. Ad uno deʼ capi, che cadde nelle mani del Governo, fu
offerta la grazia, a patto che confessasse dʼessere stato incitato a
tumultuare da Queensberry: ma lo stesso entusiasmo religioso che aveva
spinto lo sventurato prigione ad illegittima violenza, glʼimpedì di
comprare la propria vita con una calunnia. Egli e vari altri deʼ suoi
complici furono impiccati. Un soldato che accusavano dʼavere gridato,
mentre infuriava la sommossa, come egli desiderasse di dare addosso con
la spada ad un papista, venne fucilato; in Edimburgo fu ristabilita
la tranquillità: ma coloro che patirono il rigore del Governo furono
considerati come martiri; e il Cancelliere papista divenne segno ad un
odio mortale, che tra non molto tempo fu ampiamente appagato.[130]

LXII. La collera si accese nellʼanimo del Re. La nuova del tumulto
gli pervenne mentre la Regina, aiutata dai Gesuiti, aveva pur
allora riportata vittoria sopra Lady Dorchester e i suoi collegati
protestanti. I malcontenti si accorgerebbero, disse egli, che il solo
effetto della resistenza che avevano fatta alla sua volontà, era di
renderlo sempre più fermo nel proprio proponimento.[131] Spedì ordini
al Consiglio Scozzese di punire con estrema severità i colpevoli,
e dʼadoperare senza ritegno lo stivaletto.[132] Simulò di essere
profondamente convinto della innocenza del Tesoriere, e gli scrisse
cortesissime parole; alle quali parole tennero dietro scortesissimi
atti. Il Tesoro scozzese fu affidato ad una Commissione, in onta
alle calde insistenze di Rochester, il quale probabilmente previde
la propria sorte in quella del proprio parente.[133] Queensberry fu
nominato Primo Commissario, e Presidente del Consiglio Privato; ma la
sua caduta, quantunque siffattamente addolcita, era sempre una caduta.
Gli fu tolto anche il comando del Castello dʼEdimburgo, ed in quel
posto di fiducia gli successe il Duca di Gordon, cattolico romano.[134]

LXIII. Giunse da Londra al Consiglio Privato una lettera, nella quale
erano appieno dichiarati glʼintendimenti del Re. Ei voleva che i
Cattolici Romani fossero esenti dalle leggi che imponevano pene e
incapacità civili a coloro che non si uniformassero alla religione
dello Stato; voleva, inoltre, che si perseguissero senza pietà i
Convenzionisti.[135] Ciò incontrò grave opposizione in Consiglio.
Alcuni non amavano vedere rilassate le leggi esistenti. Altri, che a
ciò non erano punto contrari, sentivano ancora quanto sarebbe stato
mostruoso ammettere i Cattolici Romani alle dignità dello Stato, e
frattanto non revocare lʼAtto che puniva di morte chiunque intervenisse
ad un conventicolo presbiteriano. La risposta del Consiglio, quindi,
non fu, secondo lʼusato, ossequiosa.

LXIV. Il Re riprese severamente glʼirriverenti consiglieri, e ordinò
che tre di loro, cioè il Duca di Hamilton, Sir Giorgio Lockhart e il
Generale Drummond, si recassero a Westminster presso lui. Lʼabilità
e la istruzione di Hamilton, quantunque non fossero tali da bastare
a trarre un uomo dallʼoscurità, sembravano altamente rispettabili in
uno che era primo Pari di Scozia. Lockhart era stato da lungo tempo
considerato come uno deʼ principali giureconsulti, logici, ed oratori
che fossero mai stati nella sua patria, e godeva anche quella specie
di stima che deriva dalle vaste possessioni; perocchè la sua opulenza
era quale a queʼ tempi pochi deʼ nobili scozzesi possedevano.[136]
Era stato, da ultimo, fatto Presidente della Corte di Sessione.
Drummond, fratello minore di Perth e di Melfort, era comandante delle
forze in Iscozia. Era uomo dissoluto e profano; ma, per un sentimento
dʼonore, che mancava affatto ai suoi confratelli, abborriva dalla
pubblica apostasia. Visse e morì, secondo lʼespressiva frase dʼun suo
concittadino, da cattivo cristiano, ma da buon protestante.[137]

Giacomo si compiacque dellʼossequiose parole con che gli favellarono i
tre consiglieri, allorchè primamente comparvero al suo cospetto. Parlò
assai bene di loro a Barillon, e in specie esaltò Lockhart, come il
più esperto ed eloquente degli Scozzesi. Nondimeno, poco appresso si
accôrse di non averli esattamente giudicati; e corse voce alla Corte,
che fossero stati pervertiti dalle genti con le quali avevano usato
famigliarmente in Londra. Hamilton stava molto in compagnia deʼ saldi
partigiani della Chiesa Anglicana; e temevasi che Lockhart, il quale
era congiunto alla famiglia Wharton, fosse caduto in una compagnia
anche peggiore. E veramente, egli era naturale che quelli uomini di
Stato, pur allora arrivati da un paese dove ora quasi sconosciuta
ogni altra specie dʼopposizione, tranne quella che facevasi per
mezzo dʼaperta insurrezione o dʼassassinio, e dove tutto ciò che non
fosse furore eslege veniva considerato come avvilimento, rimanessero
maravigliati vedendo il caldo e vigoroso e, nondimeno, sobrio scontento
che regnava in Inghilterra, e nascesse in loro il pensiero di far prova
di resistenza costituzionale alle voglie del Re. Dichiararonsi però
dispostissimi ad alleggiare grandemente i Cattolici Romani, ma a due
condizioni: primo, che una simile indulgenza venisse anco concessa ai
settari calvinisti; e poi, che il Re promettesse solennemente di non
tentar nulla a danno della religione protestante.

LXV. Ambedue coteste condizioni spiacquero sommamente a Giacomo.
Nondimeno, assentì con ripugnanza, dopo parecchi giorni di contrasto,
che i presbiteriani venissero trattati con qualche indulgenza; ma
non volle affatto concedere loro la piena libertà chʼegli voleva pei
membri della sua propria religione.[138] La seconda condizione proposta
daʼ tre consiglieri Scozzesi, ei ricusò positivamente dʼammettere,
dicendo: la religione protestante essere falsa; per lo che egli non
voleva promettere di non giovarsi del proprio potere a danno dʼuna
falsa religione. La disputa fu lunga, e non condusse a conclusione che
soddisfacesse ad alcuna delle parti.[139]

Appressavasi il tempo stabilito alla ragunanza degli Stati Scozzesi;
ed era dʼuopo che i tre consiglieri si partissero da Londra per
trovarsi allʼapertura del Parlamento in Edimburgo. In questa occasione,
Queensberry ricevette un altro affronto. Nellʼantecedente sessione
aveva occupato lʼufficio di Lord Alto Commissario, e, come tale,
rappresentava la maestà del Re assente. Simile dignità, che era la
grandissima alla quale un nobile scozzese potesse aspirare, fu adesso
conferita al rinnegato Murray.

LXVI. Il dì vigesimonono dʼaprile, il Parlamento sʼadunò in Edimburgo.
Vi si lesse una lettera, nella quale il Re esortava gli Stati ad
alleggiare i suoi sudditi cattolici romani, ed offriva in ricambio
il libero traffico con la Inghilterra, e una amnistia pei delitti
politici. Fu istituita una Commissione onde compilare la risposta da
farsi al Re. Tale Commissione, quantunque fosse nominata da Murray e
composta di Consiglieri Privati e di cortigiani, scrisse una risposta,
piena, a dir vero, di espressioni di riverenza e dʼossequio, ma che
chiaramente indicava che il Parlamento avrebbe respinto la richiesta
del Re. Gli Stati—diceva la Commissione—sarebbero andati sin dove
avrebbe loro consentito la propria coscienza, per compiacere ai
desiderii della Maestà Sua rispetto ai sudditi appartenenti alla
Religione Cattolica Romana. Queste espressioni non soddisfecero punto
il Cancelliere: nondimeno, gli fu forza accettarle, ed incontrò anche
qualche difficoltà a persuadere il Parlamento perchè le adottasse.
Alcuni zelanti partigiani del protestantismo obiettarono contro
le parole Religione Cattolica Romana, dicendo non esistere tale
religione; bensì una apostasia idolatra, che dalle leggi era punita
col capestro: non essere quindi convenevole ad un Cristiano ricordarla
con nomi onorevoli. Chiamare Cattolica una simile superstizione, era
un rinunziare interamente alla questione che agitavasi fra Roma e le
Chiese riformate. Lʼofferta del libero traffico con la Inghilterra,
fu considerata come un insulto. «I nostri padri» disse un oratore
«venderono il loro Re per lʼoro del mezzogiorno; e sopra noi pesa
tuttavia il rimprovero di quellʼiniquo mercato. Non si dica di noi, che
abbiamo venduto il nostro Dio!» Sir Giovanni Lauder di Fountainhall,
uno deʼ Senatori del Collegio di Giustizia, propose le parole «le
persone comunemente chiamate Cattoliche Romane.»—«E che! vorreste
voi dare tal soprannome a Sua Maestà?» esclamò il Cancelliere. La
risposta, così come fu formata dalla Commissione, passò; ma una grande
e rispettabile minoranza votò contro le parole proposte, perchè
troppo cortigiane.[140] Eʼ fu notato che i rappresentanti della città
mostraronsi, quasi tutti, contrari al Governo. Fino allora essi
erano stati di poco peso nel Parlamento, e generalmente considerati
come sottoposti ai nobili potenti. Eglino adesso per la prima volta
mostrarono indipendenza e risolutezza e spirito di colleganza tali, che
la Corte ne ebbe terrore.[141]

La risposta spiacque talmente a Giacomo, che non permise che si
stampasse nella Gazzetta. Subito dopo, gli giunse la nuova, che una
certa legge chʼegli voleva, vedere approvata, non sarebbe stata
nè anche proposta. I Lordi degli Articoli, che avevano lʼufficio
di formulare gli atti, intorno ai quali poscia gli Stati dovevano
deliberare, erano virtualmente nominati dal Re. E anche i Lordi
degli Articoli mostraronsi disubbidienti. Come si ragunarono i tre
Consiglieri Privati, che erano di recente ritornati da Londra, si
fecero capi della opposizione alle voglie del Re. Hamilton dichiarò
apertamente di non poter fare ciò che gli veniva chiesto. Egli era
suddito fido e leale; ma vʼera un limite imposto dalla coscienza. «La
coscienza!» esclamò il Cancelliere «la coscienza è una parola vaga,
che significa ogni cosa, o niente.» Lockhart, che sedeva in Parlamento
come rappresentante della grande Contea di Lanark, lʼinterruppe
dicendo: «Se la coscienza è una parola vuota di senso, la cambieremo
con altra frase, che spero significhi qualche cosa. Tolgasi dunque via
il vocabolo coscienza, e si adotti—le leggi fondamentali di Scozia.»
Queste parole fecero nascere una virulenta discussione. Il Generale
Drummond, che rappresentava la Contea di Perth, dichiarò di concordare
con lʼopinione di Hamilton e di Lockhart. La maggior parte deʼ vescovi
ivi presenti furono del medesimo parere.[142]

Bene si scorgeva che nè anche nel Comitato degli Articoli Giacomo
poteva avere una maggioranza. Tali nuove lo afflissero e lo irritarono.
Parlò in tono dʼira e di minaccia, e punì alcuni deʼ suoi sediziosi
ministri, sperando che ciò agli altri servisse dʼammonimento. Parecchi
furono cacciati di Consiglio; altri privati delle pensioni, che erano
molta parte delle loro entrate. Sir Giorgio Mackenzie di Rosehaugh fu
la più cospicua di quelle vittime. Aveva lungamente occupato lʼufficio
di Lord Avvocato, ed aveva avuta tanta parte nella persecuzione deʼ
Convenzionisti, che fino ai dì nostri presso lʼaustero e religioso
contadiname di Scozia serba una odiosa rinomanza, quasi simile a quella
di Claverhouse. Mackenzie non aveva profondi studii giuridici; ma come
ingegno dotto, spiritoso e fecondo, era altamente riputato fraʼ suoi
concittadini; e la sua rinomanza si era sparsa per tutte le botteghe
di Città in Londra e pei chiostri di Oxford. Quel che ci rimane delle
sue orazioni forensi, lo fa estimare uomo fornito di egregie doti
intellettuali; se non che il suo stile è imbrattato di quelle chʼegli
certamente considerava come grazie ciceroniane: cioè di esclamazioni,
che mostrano più arte che passione, e di amplificazioni studiate, in
cui gli epiteti sono, lʼuno sopra lʼaltro, accumulati in pesantissimo
modo. Adesso, per la prima volta, aveva manifestati scrupoli; e
però, nonostante tutti i suoi diritti alla gratitudine del Governo,
fu destituito del suo ufficio. Si ritrasse in campagna, e poco dopo
andò a Londra onde scolparsi, ma gli fu negato lʼaccesso alla regia
presenza.[143] Intanto che il Re in tal guisa provavasi di atterrire
i Lordi degli Articoli, e indurli alla cieca ubbidienza, la pubblica
opinione glʼinanimiva a non cedere. Gli estremi sforzi del Cancelliere
non poterono far sì, che il sentire della nazione non si manifestasse
dal pulpito e dalla stampa. Un libretto scritto con tale audacia ed
acrimonia che nessun tipografo volle rischiarsi a stamparlo, girava
per tutti i luoghi manoscritto. Le scritture degli avversarii avevano
molto minore effetto, quantunque fossero diffuse a spese pubbliche,
e gli Scozzesi difensori del Governo fossero soccorsi da un collega
inglese di gran fama; voglio dire da Lestrange, che era stato mandato a
Edimburgo ed alloggiava in Holyrood House.[144]

Alla perfine, dopo tre settimane di continuo discutere, i Lordi degli
Articoli vennero ad una risoluzione. Proposero semplicemente, che ai
Cattolici Romani fosse permesso di adorare Dio nelle case private,
senza incorrere nelle pene comminate dalle leggi; e tosto si conobbe,
che quantunque tale provvisione fosse assai lontana dalle richieste
e speranze del Re, gli Stati o non lʼavrebbero approvata affatto, o
lʼavrebbero approvata con grandi restrizioni e modificazioni.

Mentre ferveva la contesa, Londra era in grande ansietà. Ogni
relazione, ogni rigo giunto da Edimburgo, era avidamente letto. Un
giorno spargevasi la voce che Hamilton avesse ceduto, e che il Governo
lʼavrebbe vinta in tutto. Un altro arrivava la nuova che la opposizione
si fosse rianimata, e si mostrasse più ostinata che mai. Nei momenti
più critici, ordinavasi agli ufficii postali di mandare a Whitehall le
valigie della Scozia. Per tutta una settimana, nè anche una lettera
privata che venisse di là dal Tweed, fu distribuita in Londra. Ai
tempi nostri, un simile interrompimento di comunicazione metterebbe
sossopra lʼisola intera; ma allora vʼera così poco traffico e carteggio
tra lʼInghilterra e la Scozia, che il danno fu probabilmente molto
minore di quello che oggidì arrechi un breve indugio nello arrivo della
valigia delle Indie. Mentre i mezzi ordinali di sapere le nuove erano
in tal modo intercetti, la folla nelle gallerie di Whitehall osservava
intentamente il contegno del Re e deʼ suoi ministri. Fu detto, a grande
soddisfazione del popolo, che ogni qualvolta giungeva un corriere dal
Nord, glʼinimici della religione protestante avevano aspetti sempre
più tristi. Finalmente, con universale esultanza, fu annunziato che
la lotta era terminata, il Governo non aveva potuto fare adottare
le proposte misure, e il Lord Alto Commissario aveva aggiornato il
Parlamento.[145]

LXVII. Se Giacomo non fosse stato sordo ad ogni ammonimento, questi
fatti sarebbero bastati ad ammonirlo. Pochi mesi avanti, il più
ossequioso deʼ Parlamenti Inglesi aveva ricusato di cedere ai voleri di
lui. Ma il più ossequioso deʼ Parlamenti Inglesi poteva considerarsi
come unʼassemblea animosa e indipendente in agguaglio di qualunque
Parlamento che fosse mai stato in Iscozia; e lo spirito servile deʼ
Parlamenti Scozzesi, era da trovarsi in altissimo grado estratto, dirò
così, e condensato neʼ Lordi degli Articoli. Ed anche costoro sʼerano
mostrati disubbidienti. Era, dunque, chiaro che tutte le classi, tutte
le istituzioni che fino a quellʼanno erano state considerate come i
più forti puntelli della monarchia, persistendo il Re nella sua insana
politica, fossero da reputarsi come parte della forza dellʼopposizione.
Nulladimanco, tutti cotesti segni gli tornavano inutili. Ad ogni
querela egli dava una sola e medesima risposta; cioè che non cederebbe
mai, perocchè le concessioni erano state la rovina di suo padre; e alla
sua invincibile fermezza facevano plauso la Legazione Francese e la
cabala gesuitica.

Quindi dichiarò dʼessere stato troppo generoso allorchè sʼindusse a
richiedere che gli Stati Scozzesi assentissero ai suoi desiderii.
La regia prerogativa gli dava potestà di proteggere gli amici e di
punire gli oppositori suoi. Fidavasi che in Iscozia la sua potestà di
dispensare non gli verrebbe contrastata da nessuna corte di legge.
Ivi esisteva un Atto di Supremazia, il quale dava al Sovrano tale un
predominio sopra la Chiesa, che avrebbe potuto satisfare anco Enrico
VIII. E però i Papisti furono ammessi in folla agli ufficii ed agli
onori. Il vescovo di Dunkeld, che come Lord del Parlamento aveva fatta
opposizione al Governo, fu arbitrariamente cacciato dalla sua sede, e
gli fu dato un successore. Queensberry fu destituito da tutti i suoi
impieghi, ed ebbe ordine di rimanere in Edimburgo, finchè fossero
ricerchi ed approvati i conti del Tesoro per tutto il tempo della sua
amministrazione.[146] E perchè i rappresentanti delle città erano
stati i più sediziosi del Parlamento, fu deliberato di modificare ogni
borgo in tutto il Regno. Simile cangiamento era stato poco innanzi
fatto in Inghilterra per mezzo di sentenze giudiciarie; ma in quanto
alla Scozia, un semplice mandato del Principe reputavasi sufficiente.
Furono inibite tutte le elezioni deʼ Magistrati e Consigli municipali;
e il Re assunse il diritto di nominare da sè glʼindividui a quegli
ufficii.[147] In una lettera formale al Consiglio Privato annunziò
che intendeva di erigere una Cappella Cattolica Romana nel palazzo
di Holyrood; e comandò che i Giudici considerassero come nulle tutte
le leggi contro i papisti, a pena dʼincorrere nella sua disgrazia.
Confortò nondimeno i Protestanti Episcopali, assicurando loro che
comunque egli fosse deliberato di proteggere la Chiesa Cattolica
Romana contro loro, era egualmente deliberato a protegger loro contro
ogni usurpazione dalla parte deʼ fanatici. A cotesta lettera Perth
propose una risposta, espressa con servilissime parole. Il Consiglio
comprendeva molti papisti; e i membri protestanti che continuavano
a sedervi, erano intimiditi dalla ostinazione e severità del Re; ed
osavano appena sommessamente mormorare. Hamilton profferì alcune
parole contro la potestà di dispensare, ma affrettossi a palliarle
spiegandole. Lockhart disse, che avrebbe amato meglio perdere il
capo, anzi che apporre la sua firma ad una lettera quale era quella
composta dal Cancelliere; ma ebbe destrezza di dire tali cose così
piano, che fu udito dai soli amici. Le parole di Perth furono approvate
con frivolissime modificazioni; gli ordini del Re furono eseguiti; ma
un cupo scontento si diffuse in tutta quella minoranza della nazione
scozzese, con lʼaiuto della quale il Governo fino allora aveva tenuto
in freno la maggioranza.[148]

LXVIII. Allorquando lo storico di questo perturbato regno rivolge lo
sguardo alla Irlanda, lʼopera sua diventa singolarmente difficile e
delicata. Ei procede—per usare la squisita immagine adoperata in
simigliante occasione da un poeta latino—sopra un fuoco dʼingannatrici
ceneri coperto. Il secolo decimosettimo, in quello sventurato paese,
ha lasciato al decimonono un fatale retaggio di maligne passioni.
Nessun a delle due razze ha perdonato di cuore i vicendevoli torti
recati dai Sassoni difensori di Londonderry, e dai Celti difensori di
Limerick. Fino ai dì nostri, una più che spartana alterigia deturpa le
molte insigni qualità che caratterizzano i figli deʼ vincitori; mentre
un sentimento da Iloti, misto dʼodio e di paura, si manifesta troppo
spesso neʼ figli deʼ vinti.

Nessuna delle caste avverse può equamente andare assoluta dal biasimo;
ma il maggior biasimo tocca a quellʼinsensato e testardo principe,
il quale, posto in condizioni di poterle riconciliare, adoperò tutta
la sua possa a soffiare nel fuoco della nimistà loro, e in fine le
costrinse ad affrontarsi e pugnare per la vita e la morte.

LXIX. Gli aggravi che i membri della sua Chiesa sostenevano in
Irlanda, differivano grandemente da quelli chʼegli tentava di far
cessare in Inghilterra e in Iscozia. Il Libro degli Statuti Irlandesi,
poscia deturpato da una intolleranza barbara quanto quella deʼ tempi
barbarici, allora conteneva appena un solo Atto, e non molto rigoroso,
che imponesse penalità ai papisti, considerati come tali. Al di qua del
Canale di San Giorgio, ciascun prete che avesse ricevuto un neofito
nel grembo della Chiesa di Roma, era soggetto ad essere appeso alle
forche e squartato. Al di là del Canale non correva simile pericolo.
Un Gesuita che approdasse a Dover, metteva a repentaglio la vita,
mentre poteva in sicurtà passeggiare per le vie di Dublino. Tra noi,
niuno poteva occupare un ufficio, o anche procacciarsi da vivere
come avvocato o maestro di scuola, senza avere solennemente prestato
il giuramento di supremazia; ma in Irlanda un pubblico funzionario
non era tenuto a prestare tale giuramento, se non quando gli veniva
formalmente imposto.[149] La qual cosa non escludeva daglʼimpieghi
niuno che il Governo avesse voluto promuovere. La prova sacramentale e
la dichiarazione contro la transustanziazione erano ignote; ed ambedue
le Camere del Parlamento ammettevano nel proprio seno glʼindividui di
qualunque setta religiosa si fossero.

LXX. Parrebbe, adunque, che lʼIrlandese Cattolico Romano fosse in
posizione tale, da essere invidiato daʼ suoi confratelli dʼInghilterra
e di Scozia. In fatto, nondimeno, le sue condizioni erano più misere
ed ardue delle loro; imperciocchè, quantunque non fosse perseguitato
come Cattolico Romano, era oppresso come Irlandese. Nel suo paese,
il medesimo confine che partiva le religioni, divideva le razze;
ed egli apparteneva alla razza vinta, soggiogata ed avvilita. Nel
medesimo suolo stanziavano due popolazioni, localmente mescolate, ma
mortalmente e politicamente divise. La differenza di religione non era
la sola, e forse nè anche la principale differenza che esistesse tra
loro. Discendevano da genti diverse, parlavano diversa lingua. Non
solo differivano di carattere, ma lʼuna era opposta allʼaltra, quanto
lo possono essere due qualunque altri caratteri di razze diverse in
Europa: differivano per grado di civiltà. Tra coteste due popolazioni
non poteva essere se non poca simpatia; e secoli di calamità e di danni
hanno fatto nascere un forte vicendevole abborrimento. La relazione
che la minoranza aveva con la maggioranza, somigliava a quella deʼ
commilitoni di Guglielmo il Conquistatore coʼ villani sassoni, o a
quella deʼ seguaci di Cortes coglʼIndiani del Messico.

Il nome dʼIrlandesi allora davasi esclusivamente ai Celti, e a quelle
famiglie, le quali, ancorchè non fossero dʼorigine celtica, avevano nel
decorso degli anni adottati i celtici costumi. Queste genti, che erano
probabilmente un poʼ meno dʼun milione, aderivano, tranne poche, alla
Chiesa di Roma. Fra mezzo a loro risedevano circa dugento mila coloni,
alteri del loro sangue sassone e della loro fede protestante.[150]

La grande preponderanza del numero da una parte, era più che
controbilanciata da una gran superiorità dʼintelligenza, di vigore
e dʼordine, dallʼaltra. Sembra che glʼInglesi ivi stabiliti fossero
per istruzione, energia e perseveranza più presto sopra che
sotto lʼordinario livello della popolazione della madre patria.
Allʼincontro, il contadiname aborigeno era in uno stato quasi
selvaggio. Non lavoravano, se non quando sentivano il pungolo della
fame. Contentavansi dʼabitazioni inferiori a quelle che in paesi più
prosperi servivano per i bestiami domestici. Già la patata, radice la
quale può essere coltivata quasi senza arte, industria o spesa, e non
può lungamente tenersi ammassata in gran quantità, era divenuta lo
alimento del popolo comune.[151] Da genti che siffattamente vivevano,
non era da aspettarsi diligenza nè preveggenza. Anche a poche miglia da
Dublino, il viandante, in un suolo che è il più fertile e verdeggiante
che sia nel mondo, vedeva con disgusto le misere capanne, innanzi alle
quali i barbari, squallidi e seminudi, stavano attoniti a guardarlo
mentre passava.[152]

LXXI. Lʼaristocrazia aborigena serbava ancora lʼorgoglio della sua
nascita, ma aveva perduto la influenza che deriva dalla ricchezza e dal
potere. Le terre deʼ signori erano state da Cromwell partite fraʼ suoi
seguaci. Parte, a dir vero, del vasto territorio da lui confiscato,
era stato reso, dopo la restaurazione della Casa Stuarda, agli antichi
proprietari: ma grandissima parte rimaneva in mano deglʼInglesi, ivi
stabiliti sotto la guarentigia di un Atto del Parlamento. Questo atto
era rimasto in vigore pel corso di venticinque anni; e per virtù di
quello, erano state fatte ipoteche, concessioni, vendite e fitti
innumerevoli. Gli antichi gentiluomini irlandesi erano dispersi per
tutto il mondo. I discendenti deʼ capitani Milesii brulicavano in
tutte le corti e in tutti i campi militari del Continente. Quelli
spogliati possidenti che rimanevano tuttavia nella patria loro,
ripensavano amaramente alle loro perdite, piangevano la dignità od
opulenza di che erano stati privati, e nutrivano le feroci speranze
dʼunʼaltra rivoluzione. Un individuo appartenente a cotesto ceto,
veniva dipinto daʼ suoi concittadini come un gentiluomo che sarebbe
dovizioso ove gli fosse resa giustizia, e che sarebbe provveduto dʼun
ricco stato ove potesse riaverlo.[153] Rade volte ei si dava a qualche
pacifica occupazione. Reputava il commercio più disonorevole del
ladroneccio. Talvolta ei diventava predone; talʼaltra, a dispetto della
legge, studiavasi di vivere a spese degli antichi affittuari di sua
famiglia, i quali, per quanto tristi fossero le loro condizioni, non
potevano ricusare parte del loro alimento ad uno che essi seguitavano
a considerare come legittimo signore.[154] Quel gentiluomo che
avesse avuta la sorte di serbare o riavere qualcuna delle sue terre,
spesso viveva a guisa di principotto dʼuna tribù selvaggia, e delle
umiliazioni che la razza dominante gli faceva soffrire, rifacevasi
governando dispoticamente i propri vassalli, immerso nelle voluttà dʼun
rozzo harem, o abbrutendosi quotidianamente con liquori spiritosi.[155]
Politicamente, ei non contava nulla. Egli è vero che non vʼera statuto
che lo escludesse dalla Camera deʼ Comuni; ma aveva quasi tanto poca
probabilità ad essere eletto membro del Parlamento, quanto negli Stati
Uniti ne ha un mulatto ad essere eletto senatore. Difatti, un solo
papista, dalla Ristaurazione in poi, era stato eletto al Parlamento
Irlandese. Il potere legislativo ed esecutivo era interamente nelle
mani dei coloni inglesi; la preponderanza deʼ quali era sostenuta
da unʼarmata stanziale di sette mila uomini, del cui zelo per ciò
che chiamavasi glʼinteressi inglesi, il Governo di Londra poteva
fidarsi.[156]

Rigorosamente esaminando la cosa, si conoscerà che nè lʼIrlandismo nè
lʼInglesismo formavano un corpo perfettamente omogeneo. La distinzione
fra glʼIrlandesi di razza celtica, e glʼIrlandesi discendenti dai
seguaci di Strongbow e di De Burgh, non era affatto cancellata. I Fitz
alcuna volta osavano parlare con dispregio degli Oʼ e dei Mac; e questi
talvolta siffatto dispregio ricambiavano con lʼodio. Nella precedente
generazione, uno deʼ più potenti degli Oʼ Neill ricusò di mostrare il
più lieve segno di rispetto a un gentiluomo cattolico romano dʼorigine
normanda. «Dicesi che la sua famiglia sia rimasta tra noi per quattro
cento anni. Non importa. Io odio quel villano come se fosse arrivato
ieri.»[157] Nulladimeno, eʼ pare che tali sentimenti fossero rari, e
che la lotta la quale da lungo tempo ardeva fra i Celti aborigeni e
glʼInglesi degeneri, avesse pressochè ceduto alla lotta più feroce che
divideva ambedue le razze dalla colonia moderna e protestante.

LXXII. La colonia era anchʼessa lacerata da intestine contese, si
nazionali che religiose. Di quei che la componevano, i più erano
Inglesi; ma non pochi erano delle contrade meridionali della
Scozia. Metà appartenevano alla Chiesa Anglicana; gli altri erano
Dissenzienti. Ma in Irlanda lo Scozzese e lʼInglese erano fortemente
vincolati dalla comune origine: lʼAnglicano e il Presbiteriano lo
erano dal protestantismo comune. Tutti i coloni avevano comuni la
lingua e glʼinteressi pecuniarii. Erano circondati da nemici comuni,
e potevano vivere sicuri per mezzo di cautele e sforzi comuni. Perle
quali cose, le poche leggi penali che erano state fatte in Irlanda
contro i Protestanti Non–Conformisti, erano lettera morta.[158] La
bacchettoneria dei più ostinati partigiani della Chiesa, non poteva
allignare al di là del Canale di San Giorgio. Appena il Cavaliere
giungeva in Irlanda e vedeva che senza valido e coraggioso aiuto deʼ
suoi compatriotti puritani, egli e tutta la sua famiglia avrebbe corso
pericolo dʼessere assassinato daʼ ladroni papisti, lʼodio chʼei sentiva
contro il Puritanismo, cominciava, suo malgrado, ad intiepidire e
spegnersi. Fu notato da uomini illustri di ambedue i partiti, che un
Protestante il quale in Irlanda veniva chiamato Tory, in Inghilterra
sarebbe stato tenuto per Whig moderato.[159]

I Protestanti Non–Conformisti da parte loro tolleravano, con pazienza
maggiore di quanta potesse da loro aspettarsi, la vista del più
assurdo ordinamento ecclesiastico che sia mai stato nel mondo.
Quattro arcivescovi e diciotto vescovi erano impiegati a reggere circa
la quinta parte del numero degli Anglicani che abitavano nella sola
diocesi di Londra. Del clero parrocchiale, gran parte erano pluralisti,
e risedevano lungi dalle loro cure. Vʼerano alcuni che dai propri
beneficii ricavavano poco meno di mille lire sterline di rendita
annua, senza mai adempire al loro ufficio spirituale. E non pertanto.
questa istituzione mostruosa ai Puritani stabiliti in Irlanda,
spiaceva meno che la Chiesa Anglicana ai settari inglesi. Imperocchè
in Irlanda le scissure religiose erano subordinate alle nazionali; e
il Presbiteriano, mentre come teologo non poteva non condannare la
gerarchia stabilita, sentiva per essa una specie di compiacimento,
qualvolta la considerava come un sontuoso e pomposo trofeo della
vittoria riportata dalla illustre razza da cui discendeva.[160]

In tal modo i mali che pativano i Romani Cattolici irlandesi, non
avevano nulla di comune con quelli deʼ Cattolici inglesi. Il Cattolico
Romano delle Contee di Lancaster o di Stafford altro far non doveva
che diventare protestante, e subito trovavasi, per ogni rispetto, nel
medesimo livello in cui erano i suoi vicini: ma se i Cattolici Romani
di Munster o di Connaught si fossero fatti protestanti, sarebbero
sempre rimasti un popolo soggetto. Tutti i danni che il Cattolico
Romano avesse potuto patire, in Inghilterra, erano effetto di durissime
leggi, e vi si poteva porre rimedio con leggi più liberali. Ma fra
le due popolazioni che abitavano in Irlanda, era una ineguaglianza,
la quale non essendo cagionata dalle leggi, non poteva per virtù di
quelle cessare. Lo impero che lʼuna esercitava sullʼaltra, era quello
della opulenza, sopra la povertà, del sapere sopra lʼignoranza, e della
cultura sopra la barbarie.

LXXIII. E parve che lo stesso Giacomo, in sul principio del suo regno,
conoscesse perfettamente le sopra esposte cose. I perturbamenti
dellʼIrlanda, diceva egli, nascevano non dalle differenze tra Cattolici
e Protestanti, ma da quelle tra Irlandesi ed Inglesi.[161] Le
conseguenze che da tali premesse avrebbe dovuto dedurre, erano chiare;
ma, sventuratamente, per lui e per lʼIrlanda, ei non seppe conoscerle.

Se si fosse potuta mitigare la sola animosità nazionale, non vʼè
dubbio che lʼanimosità religiosa, non essendo tenuta desta da crude
leggi penali, e da rigorosi Atti di Prova, si sarebbe spenta da sè.
Calmare una animosità nazionale simile a quella che vicendevolmente
sentivano le due razze abitatrici della Irlanda, non poteva essere
opera di pochi anni. Nondimeno, un savio e buon principe vi avrebbe,
potuto molto contribuire; e Giacomo lʼavrebbe potuto imprendere con
vantaggi che nessuno deʼ suoi predecessori o successori ebbe giammai.
Come Inglese e Cattolico Romano, egli apparteneva mezzo alla casta
dominatrice e mezzo alla dominata, e però aveva i requisiti necessari a
far la parte di mediatore fra esse. Nè riesce difficile indicare la via
chʼegli avrebbe dovuto prendere. Avrebbe dovuto dichiarare inviolabile
la proprietà territoriale esistente, ed annunziare ciò in modo così
efficace da calmare lʼansietà deʼ nuovi possidenti, e da estinguere
le sinistre speranze che i vecchi proprietari potessero nutrire. Poco
importava chiarirsi se vi fosse ingiustizia nel passaggio deʼ beni
da uno ad un altro individuo. Quel passaggio, giusto o ingiusto, era
seguito tanti anni innanzi, che rovesciarlo sarebbe stato il medesimo
che crollare le fondamenta della società. È dʼuopo che ci sia un limite
di tempo ad ogni diritto. Dopo trentacinque anni di non interrotto
possesso, dopo venticinque, anni di possesso solennemente guarentito
dalle leggi, dopo innumerevoli fitti e cessioni, ipoteche e legati,
era troppo tardi porre ad esame la validità deʼ titoli. Nondimeno,
qualche cosa si sarebbe potuta fare a guarire, i cuori lacerati e
rialzare, le prostrate fortune deʼ gentiluomini irlandesi. I coloni
erano in prospere condizioni. Avevano grandemente migliorate le loro
terre facendovi su fabbricati, piantagioni e chiuse. In pochi anni la
rendita era quasi raddoppiata; il commercio era vivo; e le pubbliche
entrate, che ascendevano quasi a trecento mila sterline lʼanno, erano
più che bastevoli alle spese del Governo locale, e davano un avanzo
che mandavasi in Inghilterra. Non vʼera dubbio alcuno, che il primo
Parlamento che si fosse ragunato in Dublino, ancorchè rappresentasse
quasi esclusivamente glʼinteressi inglesi, in ricompensa alla promessa
che il Re avrebbe fatta di mantenere queglʼinteressi neʼ loro diritti
legali, gli avrebbe volentieri concessa una considerevolissima somma
onde indennizzare, almeno in parte, le famiglie irlandesi ingiustamente
spogliate. In cotesto modo, aʼ tempi nostri, il Governo Francese pose
fine ai litigi nati dalla più vasta confisca che sia mai stata in
Europa. E in simil modo, se Giacomo avesse seguito il parere deʼ suoi
consiglieri protestanti, avrebbe almeno grandemente mitigato uno dei
precipui mali che affliggevano lʼIrlanda.[162]

Fatto ciò, egli avrebbe dovuto affaticarsi a porre in armonia le razze
avverse, proteggendo imparzialmente i diritti e frenando gli eccessi
di entrambe. Avrebbe dovuto punire con pari severità lʼindigeno che
trascorreva alla licenza della barbarie, e il colono che abusava della
forza della civiltà. Fino al punto cui poteva giungere la legittima
autorità della Corona—e in Irlanda era molto estesa—niuno che per
occupare un ufficio avesse i requisiti dʼintegro e di esperto, avrebbe
dovuto esserne escluso a cagione della razza alla quale apparteneva e
della religione che professava. È probabile che un Re Cattolico Romano,
potendo liberamente disporre dʼuna grossa rendita, avrebbe, senza grave
difficoltà, potuto persuadere i prelati e i preti cattolici romani a
cooperare con lui nella grande impresa della riconciliazione. Molto,
nondimeno, sarebbe rimasto a farsi dalla mano riparatrice del tempo.
La razza natia avrebbe dovuto imparare dalla colonia la industria e la
preveggenza, le arti del vivere civile, e la lingua dellʼInghilterra.
Non poteva essere uguaglianza tra uomini che abitavano dentro case,
e uomini che stavansi dentro porcili; tra gli uni che si cibavano di
pane, o gli altri che alimentavansi di patate; tra quelli che parlavano
la nobile favella di grandi filosofi e poeti, e questi che, con
pervertito orgoglio, vantavansi di non potere contorcere la loro bocca
a balbettare un gergo nel quale erano scritti gli Augumenti delle
Scienze e il Paradiso perduto.[163] Nulladimeno, non è irragionevole il
credere che se la moderata politica la quale siamo venuti esponendo,
fosse stata fermamente seguita dal Governo, ogni distinzione si sarebbe
andata a poco a poco cancellando; e adesso non vi sarebbe vestigio
della ostilità che ha formata la sciagura della Irlanda, come non ne
esiste della avversione che un tempo regnava tra i Sassoni e i Normanni
in Inghilterra.

LXXIV. E fu sventura che Giacomo, invece di farsi mediatore, divenisse
il più feroce e dissennato uomo di parte. Invece di calmare il rancore
delle due popolazioni, lʼinfiammò fino ad un punto non mai prima
veduto. Deliberò di invertire la loro posizione relativa, e porre i
coloni protestanti sotto i piedi deʼ Celti papisti. Appartenere alla
Chiesa Anglicana, essere di razza inglese, era agli occhi suoi un
demerito per conseguire gli uffici civili e militari. Meditava il
disegno di confiscare nuovamente e partire il suolo di mezza lʼisola;
e manifestava così chiaramente tale pensiero, che una classe degli
abitatori dellʼIrlanda fu tosto agitata da terrori chʼei poscia invano
volle calmare, e lʼaltra da speranze chʼegli poi vanamente si studiò di
frenare. Ma questa era piccolissima parte della sua colpa e demenza.
Stabilì deliberatamente, non solo di dare agli abitatori aborigeni
dellʼisola lʼintero possesso del loro paese, ma di giovarsene anche
come strumenti per istabilire la tirannide in Inghilterra. Lʼesito
di questo divisamento fu quale era da prevedersi. I coloni si posero
in sulle difese, con la invincibile pertinacia della loro razza. La
madre patria considerava come sua propria la causa loro. Allora seguì
una lotta disperata per una terribile partita di giuoco, sulla quale
ambe le parti posero ogni cosa più caramente diletta: nè possiamo
giustamente biasimare lʼIrlandese o lʼInglese per avere, in tanta
estremità, ubbidito alla legge della propria difesa. Il conflitto fu
tremendo, ma breve. Il più debole cedette. La sua sorte fu crudele;
e nondimeno la crudeltà onde fu trattato, era degna, non di difesa,
ma di scusa; imperocchè, quantunque egli avesse sofferto tutto
ciò che la tirannia possa infliggere, non patì più di quanto egli
stesso avesse inflitto altrui. Lo effetto dellʼinsano attentato di
soggiogare la Inghilterra per mezzo della Irlanda, fu che glʼIrlandesi
divennero servitori deglʼInglesi. Gli antichi possidenti sforzandosi
di ricuperare ciò che avevano perduto, perderono la maggior parte di
ciò che era loro rimasto. Il breve predominio del papismo produsse poi
tal numero di leggi barbare contro il papismo, che il libro statutario
dʼIrlanda è passato in proverbio dʼinfamia per tutta la Cristianità.
Tali furono gli amari frutti della politica di Giacomo.

Abbiamo già veduto che uno deʼ primi suoi atti, dopo che ascese al
trono, fu quello di richiamare Ormond dalla Irlanda. Ormond in quel
Regno era considerato come capo deglʼinteressi inglesi; aderiva
fermamente alla religione protestante; e il suo potere eccedeva dʼassai
quello di un ordinario Lord Luogotenente, prima perchè per grado ed
opulenza era il più grande fraʼ coloni, e poi perchè non solo era
capo dellʼamministrazione civile, ma anco comandante delle forze. Il
Re, in quel tempo, non voleva affidare interamente ad un Irlandese il
Governo. Vero è chʼegli avea detto che un vicerè nativo dellʼisola,
sarebbe presto diventato sovrano indipendente.[164] Per allora, quindi,
ei pensò di partire il potere di che Ormond era rivestito, dando
lʼamministrazione civile ad un Lord Luogotenente inglese e protestante,
e il comando delle armi ad un Irlandese Cattolico Romano. Lord
Luogotenente fu fatto Clarendon; Comandante dello esercito Tyrconnel.

Tyrconnel discendeva, secondo che sopra abbiamo detto, da una di
quelle degeneri famiglie di Pale, che comunemente erano annoverate
fra la popolazione primigenia dʼ Irlanda. Talvolta chiacchierando
parlava con albagia normanna dei barbari Celti,[165] ma in fatto
parteggiava per i naturali dellʼisola. Odiava i coloni protestanti, i
quali lo rimeritavano di pari abborrimento. Clarendon sentiva assai
diversamente; ma per indole, interesse e principii, era un ossequioso
cortigiano. Aveva animo basso; trovavasi in circostanze impacciate;
ed aveva la mente profondamente imbevuta delle dottrine che la Chiesa
Anglicana aveva a quei tempi con tanta assiduità propagate. Nondimeno,
era fornito di doti non ispregevoli; e sotto un buon Re, forse sarebbe
stato un rispettabile vicerè.

LXXV. Circa nove mesi erano scorsi dal richiamo dʼOrmond allo arrivo
di Clarendon in Dublino. In quellʼintervallo di tempo, il Re era
rappresentato da un Consiglio di Lordi Giudici; ma lʼ amministrazione
militare era nelle mani di Tyrconnel. Già i disegni della Corte
cominciavano a svolgersi. Un ordine reale giunse da Whitehall per
disarmare la popolazione. Tale ordine fu rigorosamente eseguito da
Tyrconnel, rispetto aglʼInglesi. Benchè le campagne fossero infestate
da bande di ladroni, un gentiluomo protestante appena poteva impetrare
licenza di tenere un paio di pistole. Al contadiname del paese,
dallʼaltra parte, fu concesso di tenere le armi.[166] La esultanza deʼ
coloni perciò fu grande; allorchè, finalmente, nel dicembre del 1685,
Tyrconnel fu chiamato a Londra, e Clarendon spedito a Dublino. Ma tosto
si conobbe che la direzione del Governo Irlandese era di fatto in
Londra, non in Dublino. Ogni corriere postale che giungeva dal Canale
di San Giorgio, recava nuove della infinita influenza che Tyrconnel
esercitava nelle cose irlandesi. Dicevasi che sarebbe fatto Marchese,
Duca, comandante delle armi; che gli sarebbe affidata la impresa di
riordinare lʼarmata e le Corti di Giustizia.[167]

LXXVI. Clarendon rimase amaramente mortificato al trovarsi come
un membro subordinato in quella amministrazione, della quale egli
aveva creduto dʼessere il capo. Lamentavasi che qualunque cosa egli
facesse, fosse male rappresentata daʼ suoi detrattori: e che i più
gravi provvedimenti intorno al paese da lui governato, erano fatti in
Westminster, resi noti al pubblico, discussi nelle botteghe di Caffè,
scritti in migliaia di lettere private, vari giorni prima che ne fosse
dato avviso al Lord Luogotenente. Poco importargli, diceva, la sua
dignità personale; ma non esser cosa lieve, che il rappresentante della
maestà del trono fosse reso zimbello al pubblico disprezzo.[168] La
paura rapidamente si diffuse fra glʼInglesi appena conobbero che il
vicerè, loro concittadino e protestante, non poteva proteggerli secondo
che avevano sperato. Cominciarono a fare amaro esperimento di ciò
che importi essere una casta soggetta. Erano molestati daglʼindigeni
con accuse di crimenlese e di sedizione. Questo protestante aveva
carteggiato con Monmouth; quellʼaltro aveva con poco rispetto favellato
del Re quattro o cinque anni innanzi, mentre si discuteva la Legge
dʼEsclusione; e la testimonianza del più infame degli uomini serviva a
provare la colpa. Il Lord Luogotenente riferì, che temeva, ove non si
fosse posto fine a siffatto modo dʼagire, in Dublino tra breve sarebbe
stato il regno del terrore simile a quello che sʼera veduto in Londra,
allorchè lʼonore e la vita deʼ cittadini erano nelle mani di Oates e di
Bedloe.[169]

A Clarendon fu, dopo poco tempo, annunziato, in un conciso dispaccio
di Sunderland, il principe avere deliberato di fare senza indugio
un pieno cangiamento nel Governo civile e militare dellʼIrlanda,
e di porre negli uffici un gran numero di Cattolici Romani; e si
aggiungeva, con pochissima grazia, che la Maestà Sua aveva in tali
cose chiesto consiglio a uomini più competenti del suo inesperto Lord
Luogotenente.[170]

Avanti che cotesta lettera fosse pervenuta al vicerè, la nuova di
ciò che vi si conteneva era per vari mezzi arrivata in Irlanda. Il
terrore deʼ coloni fu immenso. Essendo inferiori di numero alla
popolazione indigena, la loro condizione sarebbe stata tristissima
se la popolazione indigena si fosse armata contro loro di tutti i
poteri dello Stato: e tale, nientemeno, era la minaccia. Gli Inglesi
abitanti di Dublino passava lʼuno accanto allʼaltro per le vie con
afflitto sembiante. Nella Borsa i negozi erano sospesi. I possidenti
affrettavansi a vendere a qualunque prezzo le loro terre, e mandare in
Inghilterra le somme ricavate. I trafficanti cominciavano ad assestare
i loro conti, ed apparecchiavansi a ritirarsi dai commerci. Lo effetto
della paura tosto si risentì nella pubblica rendita.[171] Clarendon
tentò dʼispirare agli impauriti quella fiducia chʼei non aveva in
cuore. Assicurò loro, che la proprietà sarebbe stata considerata come
sacra; e disse di sapere di certa scienza, che il Re era determinato di
mantenere lʼAtto, così chiamato, di Stabilimento, che guarentiva i loro
diritti sulle terre. Ma al Governo in Inghilterra egli scriveva in tono
diverso. Rischiossi per fino a querelarsi del Re, e senza biasimare
lo intendimento che Sua Maestà aveva dʼimpiegare i Cattolici Romani,
suggerì con vigorose parole, che i Cattolici Romani destinati agli
impieghi fossero inglesi.[172]

La risposta di Giacomo fu secca e fredda. Dichiarò, come egli non
intendesse privare i coloni inglesi delle terre loro, ma molti di
loro ei teneva suoi nemici; e dacchè consentiva di lasciare tutta
lʼopulenza nelle mani deglʼinimici, era maggiormente necessario che
lʼamministrazione civile e militare fosse posta in quelle degli amici
suoi.[173]

Per le quali cose, vari Cattolici Romani furono chiamati al Consiglio
Privato; e spedironsi ordini ai municipii perchè ammettessero i
Cattolici Romani ai privilegi municipali.[174] A molti ufficiali
dellʼesercito fu arbitrariamente tolto e grado e pane. Invano il Lord
Luogotenente patrocinò la causa di parecchi, che egli sapeva essere
buoni soldati e leali sudditi. Fra costoro erano vecchi Cavalieri,
che avevano strenuamente pugnato per la monarchia, e che portavano
onorate cicatrici. Neʼ loro posti furono messi uomini i quali altro
merito non avevano che la loro religione. Dicevasi che deʼ nuovi
capitani e luogotenenti alcuni erano stati bifolchi, altri servitori,
altri anche predoni; taluni erano così assuefatti a portare scarponi,
che inciampavano e procedevano stranamente impacciati neʼ loro
stivali da soldati. Non pochi degli ufficiali destituiti arruolaronsi
nellʼesercito olandese, e quattro anni dopo provarono il diletto di
sconfiggere ignominiosamente i loro successori, e cacciarli oltre le
acque del Boyne.[175]

Lʼangoscia e il timore di Clarendon si accrebbero ad una nuova che
gli giunse per vie private. Senza la sua approvazione, senza nè anche
fargliene saper nulla, facevansi apparecchi per armare e disciplinare
tutta la popolazione celtica dellʼisola di cui egli era governatore di
solo nome. Tyrconnel da Londra dirigeva le cose; e i prelati cattolici
erano suoi agenti. Ciascun prete era stato richiesto di compilare una
lista di tutti i suoi parrocchiani maschi, atti alle armi, e mandarla
al suo Vescovo.[176]

LXVII. Già correva voce che Tyrconnel sarebbe tra breve ritornato a
Dublino, investito di poteri straordinari e indipendenti; e la voce
ogni giorno maggiormente spandevasi. Il Lord Luogotenente, che per
nessuno insulto al mondo sapeva indursi a rinunziare alla pompa e
agli emolumenti del suo ufficio, dichiarò che avrebbe piegata la
fronte dinanzi al volere del Re, e si sarebbe mostrato in ogni cosa
suddito obbediente e fedele. Disse di non avere mai in vita sua
avuto il minimo litigio con Tyrconnel, ed era sicuro che nè anche
adesso nascerebbe differenza tra loro.[177] Eʼ pare che Clarendon
non si rammentasse della congiura fatta a rovinare la fama della sua
innocente sorella, della quale congiura Tyrconnel era stato precipuo
macchinatore. Simigliante ingiuria non è tale che un uomo dʼalto animo
possa agevolmente perdonare. Ma nella malvagia corte nella quale gli
Hydes si erano tanto tempo affaccendati a farsi lo stato, simiglianti
ingiurie venivano di leggeri perdonate e poste in oblio, non mai per
magnanimità di carità cristiana, ma per semplice abiettezza e difetto
di senso morale. Nel giugno 1686, Tyrconnel giunse in Irlanda. Il
regio mandato lʼautorizzava solamente a comandare le truppe; ma aveva
istruzioni concernenti tutte le parti dellʼamministrazione, e a un
tratto si recò in mano il Governo effettivo dellʼisola. Il di dopo il
suo arrivo, esplicitamente dichiarò, che gli uffici dovevano largamente
darsi ai Cattolici Romani, e che per ciò era dʼuopo mandar via i
Protestanti. Si dètte con pertinacia ed ardore a riordinare lʼarmata.
E davvero chʼera questa lʼunica delle funzioni di comandante supremo
chʼegli potesse adempire: poichè, quantunque fosse coraggioso nelle
risse e neʼ duelli, non conosceva punto lʼarte militare. Alla prima
rassegna chʼegli fece, coloro i quali gli stavano da presso poterono
chiaramente accorgersi che egli non sapeva guidare un reggimento.[178]

LXXVIII. Cacciare dallʼarmata glʼInglesi e porvi glʼIrlandesi, era,
secondo la sua opinione, il principio e il fine dellʼamministrazione
della guerra. Ebbe lʼinsolenza di cassare il capitano delle Guardie
del Corpo del Lord Luogotenente; nè Clarendon seppe di ciò chʼera
seguito, se non quando vide un Cattolico Romano, il cui volto gli
giungeva nuovo, scortare il suo cocchio di gala.[179] Il cangiamento
non si limitò ai soli ufficiali. Le file furono pienamente disfatte
e rifatte. Quattro o cinquecento soldati furono reietti da un solo
reggimento, principalmente sotto pretesto dʼessere di statura inferiore
a quella richiesta dalla legge. Nulladimeno, anche lʼocchio più
inesperto conobbe a un tratto che essi erano più atti e meglio formati
deʼ loro successori, il cui aspetto selvaggio e squallido disgustava
i riguardanti.[180] Ai nuovi ufficiali fu ingiunto di non arruolare
nessun soldato protestante. I reclutatori, invece di battere i loro
tamburi per raccogliere volontari nelle fiere e nei mercati, secondo
lʼantica usanza, recavansi ai luoghi aʼ quali i Cattolici Romani
solevano andare in devoto pellegrinaggio. In poche settimane, il
Generale aveva posto nello esercito più di due mila reclute indigene;
e chi gli stava dappresso, con sicurtà affermava che pel dì di Natale
in tutta lʼarmata non sarebbe rimasto nè anche un soldato di razza
inglese.[181]

In tutte le questioni che sorgessero nel Consiglio Privato, Tyrconnel
mostravasi similmente violento e parziale. Giovanni Keating, Capo
giudice deʼ Piati Comuni, uomo insigne per abilità, integrità e lealtà,
espose con modi assai miti, che tutto ciò che il Generale potesse
ragionevolmente chiedere per la sua propria Chiesa, era la perfetta
uguaglianza. Disse, il Re aver voluto manifestamente intendere, che
nessun uomo meritevole della fiducia pubblica dovesse essere escluso
perchè Cattolico Romano, e nessuno immeritevole della pubblica fiducia
dovesse essere ammesso perchè Protestante. Tyrconnel subito cominciò a
vomitare imprecazioni e bestemmie. «Io non so che rispondere a ciò; ma
devono essere tutti Cattolici Romani.»[182] I più assennati Irlandesi
aderenti alla Religione Cattolica rimasero atterriti alla demenza di
lui, e provaronsi di rimproverarlo; ma li cacciò via imprecando.[183]
La sua brutalità trascorreva tantʼoltre, che molti lo credevano
ammattito. Eppure, era meno strana della svergognata volubilità con che
gli uscivano di bocca le bugie. Lungo tempo prima aveva acquistato il
soprannome di _Lying Dick Talbot_ (il bugiardo Guglielmo Talbot); e a
Whitehall ogni strana finzione veniva chiamata una delle verità di Dick
Talbot. Adesso giornalmente mostrava dʼessere ben meritevole di cotesta
non invidiabile riputazione. E davvero in lui il mentire era una
infermità. Dopo dʼaver dato ordini di destituire gli ufficiali inglesi,
era capace di condurli nelle sue segrete stanze, e assicurarli della
fiducia ed amicizia che sentiva per loro, dicendo: «Dio mi confonda, mi
sperda, mi fulmini sʼio non avrò a cuore i vostri interessi.» Talvolta
coloro ai quali aveva fatto simili giuramenti, sapevano, innanzi ohe il
giorno si chiudesse, dʼessere stati destituiti.[184]

LIX. Al suo arrivo, quantunque bestemmiasse oscenamente contro lʼAtto
di Stabilimento, e chiamasse glʼinteressi inglesi cosa iniqua, cosa
scellerata, cosa maledetta, simulò nondimeno dʼesser convinto che la
distribuzione delle proprietà, non si poteva, dopo si lungo corso
dʼanni, alterare.[185] Ma giorni dopo, cangiò linguaggio. In Consiglio
si mise a declamare con veemenza intorno alla necessità di renderò le
terre agli antichi padroni. Ma non aveva per anche ottenuto lʼassenso
del Re a codesto fatale disegno. Nella mente di Giacomo, il sentimento
nazionale tenzonava ancora debolmente contro la superstizione. Egli era
uomo inglese; era Re inglese; e non poteva, senza tristi presentimenti,
acconsentire alla destruzione della maggior colonia che lʼInghilterra
avesse mai fondata. Glʼinglesi Cattolici Romani, ai quali aveva costume
di chiedere consiglio, furono di quasi unanime opinione a favore
dellʼAtto di Stabilimento. Non solo lʼonesto e moderato Powis, ma
il dissoluto e testardo Dover, porsero savi e patriottici consigli.
Tyrconnel mal poteva sperare di frustrare da lungi lo effetto che
tali ammonimenti producevano nella mente del Re. Deliberò, quindi, di
difendere in persona la causa della sua casta; e però, verso la fine
dʼAgosto, partì per lʼInghilterra.

LXXX. Si la presenza che lʼassenza di lui erano egualmente cagione di
timore al Lord Luogotenente. Gli era veramente doloroso vedersi ogni
giorno umiliato dal suo nemico; ma non eragli di minor dolore il sapere
che il suo nemico ogni giorno susurrava calunnie e pessimi consigli
alle orecchie del Principe. Clarendon era tormentato da molte e diverse
vessazioni. In una sua gita nellʼinterno dellʼisola, sʼera veduto
trattare con disprezzo dalla popolazione irlandese. I preti cattolici
romani esortavano le loro congregazioni a non fargli nessun atto
di riverenza. I gentiluomini indigeni invece di andare a complirlo,
rimanevano nelle proprie case. Il contadiname indigeno da per tutto
cantava canzoni in lingua ersa in lode di Tyrconnel, il quale tra breve
sarebbe riapparso ad umiliare pienamente i loro oppressori.[186] Il
vicerè era appena ritornato a Dublino dalla sua poco soddisfacente
gita, allorquando gli giunsero lettere che gli annunciavano il Re
essere seriamente sdegnato contro di lui. La Maestà sua—dicevano
tali lettere—aspettarsi che i suoi ministri non solo adempissero i
suoi comandamenti, ma gli adempissero di cuore e con esultanza. Esser
vero che il Lord Luogotenente non aveva ricusato di cooperare alla
riforma dellʼarmata e dellʼamministrazione civile, ma averlo fatto
con ripugnanza e con negligenza: il suo aspetto avere tradito il
sentimento dellʼanimo: tutti essersi accorti comʼegli disapprovasse
la politica che gli era stato commesso di recare ad effetto.[187]
Immerso in amarissima angoscia, scrisse lettere onde difendersi; ma
gli fu bruscamente annunziato, la sua difesa non essere soddisfacente.
Allora, con abiettissime parole, dichiarò che non avrebbe tentato
di giustificarsi; si sarebbe sobbarcato riverente alla sentenza,
qualunque si fosse, del principe; si sarebbe prostrato nella polvere
onde implorare perdono, dacchè egli sincerissimamente pentivasi, e
riputava glorioso il morire pel suo sovrano: ma gli era impossibile
di vivere percosso dallʼira di lui. Tali parole non movevano da sola
ipocrisia dʼinteresse, ma, almeno in parte, da animo prettamente
servile e meschino; avvegnachè, nelle lettere di confidenza non
destinate ad andare sotto gli occhi del Re, Clarendon si spassionasse
nel medesimo tono lamentevole con la propria famiglia: sè essere degno
di pietà, sè ruinato, sè non aver forza da sostenere la collera del
Re, sè non curare punto la vita ove non vi fosse mezzo a placare lʼira
dellʼadorato principe.[188] Il misero si sentì accrescere in cuore lo
spavento, come seppe essersi già deliberato in Whitehall di richiamare
lui, e fargli succedere il suo rivale e calunniatore Tyrconnel.[189]
E in tanto, per alcun tempo lʼavvenire parve rischiararsi; il Re
era di buon umore; e per pochi giorni Clarendon sʼilluse credendo
che la intercessione del fratello fosse prevalsa, e la tempesta
abbonacciata.[190]

LXXXI. La tempesta, invece, era appena incominciata. Mentre Clarendon
studiavasi di appoggiarsi a Rochester, Rochester non bastava a
sostenere sè stesso. Come in Irlanda il fratello maggiore, quantunque
avesse le Guardie dʼonore, la spada dello Stato e il titolo
dʼEccellenza, era sottoposto di fatto al Comandante delle armi; così in
Inghilterra il fratello minore, quantunque ritenesse il bastone bianco
e la precedenza, in grazia del suo alto ufficio, sopra i grandi nobili
ereditari, andava diventando un semplice impiegato nelle finanze. Il
Parlamento fu nuovamente prorogato a un tempo lontano, contro i noti
desiderii del Tesoriere. Nè anche gli fu detto che doveva esservi
unʼaltra proroga, ma ei ne lesse la nuova nella Gazzetta. La effettiva
direzione degli affari era passata nelle mani della cabala, che il
venerdì pranzava a casa di Sunderland. Il Gabinetto si ragunava solo
per udire la lettura deʼ dispacci giunti dalle Corti straniere; nè
tali dispacci contenevano più di quel che si sapesse alla Borsa Reale;
imperocchè tutte le legazioni inglesi avevano ricevuto ordini di porre
nelle lettere officiali solo i discorsi ordinari delle anticamere,
e comunicare privatamente i segreti importanti a Giacomo stesso, a
Sunderland o a Petre.[191] E di ciò la vincitrice fazione non era paga.
Coloro deʼ quali il Re si fidava, gli dicevano che la ostinatezza
con che la nazione avversava i disegni di lui, era veramente da
attribuirsi a Rochester. In che guisa avrebbe potuto il popolo credere
che il sovrano fosse incrollabilmente risoluto a perseverare nella
via nella quale sʼera messo, vedendogli a lato, ostensibilmente
primo per possanza e fiducia fra i suoi consiglieri, un uomo che,
come tutti sapevano, disapprovava grandemente quella via? Ogni passo
che il principe aveva fatto ad umiliare la Chiesa Anglicana, ed
esaltare quella di Roma, era stato avversato dal Tesoriere. Era pur
vero, che qualvolta aveva sperimentata vana ogni opposizione, egli si
era sottomesso di malavoglia; chè anzi aveva cooperato a mandare ad
esecuzione quegli stessi progetti chʼegli aveva con estremo calore
contrastati. Egli era vero che, quantunque abborrisse la Commissione
Ecclesiastica, aveva consentito di essere uno deʼ Commissari. Era
anche vero, che mentre dichiarava di non trovare nessuna cagione di
biasimo nella condotta del vescovo di Londra, aveva ripugnantemente
votato a favore della sentenza che lo cacciò dalla sua sede. Ma ciò
non era bastevole. Un principe dedito ad unʼintrapresa così grave ed
ardua come quella in cui Giacomo sʼera messo, aveva diritto dʼesigere
dal suo primo ministro, non una acquiescenza fatta mal volentieri e
senza grazia, ma una zelante e fortissima cooperazione. Mentre con
tali consigli la cabala tentava di continuo lʼanimo di Giacomo, gli
giungevano per la posta–di–un–soldo molte lettere cieche, ripiene di
calunnie contro il Lord Tesoriere. Questo modo dʼaggressione era stato
immaginato da Tyrconnel, e concordava perfettamente con ogni azione
della sua vita infame.[192]

Il Re esitava. Eʼ sembra, a dir vero, che portasse singolare affetto
al suo cognato, e per lʼaffinità, e per la lunga dimestichezza, e per
molti scambievoli buoni uffici. Pareva probabile che finchè Rochester
avesse continuato a sottoporsi, quantunque lento e mormorando, alle
voglie del Re, sarebbe rimasto, di nome, primo ministro. Sunderland,
quindi, con finissima astuzia suggerì al proprio signore la
convenevolezza di chiedere a Rochester lʼunica prova dʼobbedienza;
prova che Rochester, senza alcun dubbio, non avrebbe mai data. Per
allora—tale era il linguaggio dello scaltro segretario—tornava al Re
impossibile consigliarsi col primo deʼ suoi ministri intorno a ciò che
gli stava più a cuore.

LXXXII. Era doloroso il pensare che i pregiudicii religiosi, in
sì grave negozio, dovessero privare il Governo di un tanto aiuto.
Forse non era impossibile vincere simiglianti pregiudicii. Allora
lo ingannatore bisbigliò sapere che Rochester di recente avesse
manifestato qualche dubbio intorno i punti in questione tra i
Protestanti e i Cattolici.[193] Ciò fu bastevole perchè il Re prendesse
un partito. Cominciò a lusingarsi di potersi sottrarre alla necessità
di allontanare da sè un amico, e nel tempo stesso assicurarsi un
esperto coadiutore alla grandʼopera chʼera in via di compiere. Fu
anche solleticato dalla speranza dʼacquistare il merito e la gloria
di avere salvata unʼanima dalla eterna perdizione. Eʼ pare in verità,
che intorno questo tempo fosse invaso da un insolito e violento
accesso di zelo per la sua religione: la qual cosa è più da notarsi in
quanto era pur allora ricaduto, dopo un breve intervallo dʼastinenza,
nella dissolutezza; che tutti i teologi cristiani condannano come
peccaminosa, e che in un uomo maturo, ed ammogliato ad una giovine
e leggiadra donna, anche dai mondani è giudicata riprovevole. Lady
Dorchester era ritornata da Dublino, e nuovamente divenuta concubina
del Re. Politicamente il suo ritorno non era dʼalcuna importanza.
Aveva imparato per propria esperienza, essere stoltezza ogni prova
di salvare il suo amante dalla distruzione a cui correva diritto.
E però lasciò che i Gesuiti lo guidassero nella condotta politica.
Nondimeno, ella era la sola di parecchie donne abbandonate, che a
quel tempo dividesse con la Chiesa Cattolica lʼimpero nel cuore di
lui.[194] Sembra chʼei pensasse di fare ammenda di aver trascurata la
salute dellʼanima propria, dandosi cura delle anime altrui. Si pose,
adunque, ad operare con sincera volontà, ma con la volontà dʼun animo
aspro, severo ed arbitrario, per la conversione del suo cognato. In
ogni udienza accordata al Tesoriere, il tempo era speso ad argomentare
intorno allʼautorità della Chiesa ed al culto delle immagini. Rochester
aveva fermo in cuore di non abiurare la propria religione; ma non
pativa scrupoli a ricorrere, per difendersi, ad artifici disonorevoli
al pari di quelli che altri aveva adoperati ad offenderlo. Simulava
di parlare come uomo che ondeggi nel dubbio, mostrava desiderio di
essere illuminato ove si trovasse nellʼerrore, si faceva prestare
libri papisti, ed ascoltava cortesemente i teologi papisti. Ebbe vari
colloqui con Leyburn vicario apostolico, con Godden cappellano e
limosiniere della Regina vedova, e con Bonaventura Giffard, teologo
educato alla polemica nelle scuole di Doaggio. Fu stabilito che vi
sarebbe una disputa formale tra cotesti dottori ed alcuni ecclesiastici
protestanti. Il Re disse a Rochester, di scegliere qualunque ministro
della Chiesa Anglicana, da due soli allʼinfuori. I due esclusi erano
Tillotson e Stillingfleet. Tillotson, il più popolare predicatore di
queʼ tempi, e per costumi lʼuomo più inoffensivo del mondo, aveva
stretta relazione con alcuni dei principali Whig; e Stillingfleet, che
avea voce di destro maneggiatore di tutte le armi della controversia,
era anche più esoso a Giacomo per avere pubblicata una risposta agli
scritti trovati nella cassa forte di Carlo II. Rochester elesse i due
regi Cappellani, che per avventura trovavansi di servizio. Uno di loro
chiamavasi Simone Patrick, i cui commentari sopra la Bibbia formano
ancora parte delle biblioteche teologiche; lʼaltro era Jane, Tory
virulento, il quale aveva cooperato a formulare il decreto, con cui la
università dʼOxford aveva abbracciate le peggiori follie di Filmer. La
conferenza seguì in Whitehall il dì 30 novembre. Rochester, che voleva
non si sapesse lui avere consentito a porgere ascolto agli argomenti
deʼ preti papisti, si fece promettere secretezza. Non fu presente
altro uditore che il Re. La discussione versò intorno alla presenza
reale. I teologi cattolici romani assunsero lʼincarico di provarla.
Patrik e Jane ragionarono poco; nè era mestieri consumare molte parole,
perocchè lo stesso Conte imprese a difendere la dottrina della sua
Chiesa; e come soleva succedergli, tosto riscaldato dal conflitto,
perdè il proprio contegno, e domandò con gran forza, se era da sperarsi
chʼegli si inducesse mai a cangiare religione per argomenti sì frivoli.
Poi si rammentò del rischio che egli correva, cominciò nuovamente
a dissimulare, lodò i dottori per lʼarte e la dottrina che avevano
mostrata nella disputa, e chiese tempo a meditare sopra ciò che avevano
detto.[195]

Comecchè Giacomo fosse di tardo intendimento, non poteva non accorgersi
che il cognato non diceva da senno. Il Re disse a Barillon, che il
linguaggio di Rochester non era quello dʼun uomo che sinceramente
desideri di giungere al vero. Nondimeno, non amava di proporre al
cognato direttamente di eleggere o lʼapostasia o la destituzione: ma
tre dì dopo la conferenza, Barillon recossi a visitare il Tesoriere,
e con lunga circonlocuzione e molte espressioni dʼamichevole affetto,
gli rivelò la spiacevole verità. «Intendete forse» disse Rochester
imbrogliato dalle confuse e cerimoniose frasi del ministro francese,
«intendete forse che ove io non mi faccia Cattolico, la conseguenza ne
sarà che debba perdere il mio posto?»—«Non parlo punto di conseguenze»
rispose lo scaltro diplomatico. «Vengo solamente come amico a dirvi
chʼio spero che abbiate cura di tenere il vostro posto.»—«Ma certo,»
disse Rochester «ciò chiaramente significa che o mi debba fare
Cattolico, o andar via.» Gli fece molte dimande onde chiarirsi se
Barillon parlasse per ordine del principe, ma non potè ricavarne se non
vaghe e misteriose risposte. Infine, simulando una fiducia chʼegli non
aveva punto, disse a Barillon che sʼera lasciato ingannare dalle oziose
ciarle deʼ maligni, e concluse: «Vi dico che il Re non mi destituirà,
e chʼio non rinunzierò mai. Io conosco lui; egli conosce me; e non
ho timore di nessuno.» Il Francese rispose essere lieto, essere
incantato di sentir ciò; e che lʼunica cagione onde era stato mosso ad
intromettersi in cotesta faccenda, era stata la sincera ansietà chʼegli
provava per la prosperità e lʼonore del suo egregio amico il Tesoriere.
E in tal guisa partironsi, ciascuno illudendosi dʼavere gabbato
lʼaltro.[196]

Intanto, malgrado le promesse di serbare il secreto, la nuova che il
Lord Tesoriere avesse consentito ad essere ammaestrato nelle dottrine
del papismo, erasi sparsa per tutta Londra. Patrick e Jane erano stati
veduti entrare per quella porta misteriosa che conduceva alle stanze
di Chiffinch. Alcuni Cattolici Romani che rigiravano in Corte, avevano
indiscretamente o ad arte propalato tutto ciò che sapevano, ed altro
ancora. I Tory aderenti alla Chiesa Anglicana, stavano ad aspettare
più fondate notizie. Incresceva loro il pensare che il loro capo si
fosse mostrato ondeggiante nelle proprie opinioni; ma non sapevano
indursi a credere chʼei sarebbe sceso alla abbiettezza dʼun rinnegato.
Lo sventurato ministro, straziato a unʼora dalle sue feroci passioni
e dai suoi bassi desiderii, molestato dal pubblico biasimo e dalle
parole allusive di Barillon, trepidante di perdere la riputazione e
lʼufficio, si condusse alle secrete stanze del Re, col proponimento
di mantenere lo impiego, ove avesse potuto farlo, abbassandosi
ad ogni specie dʼinfamia, tranne una sola. Farebbe sembiante di
tentennare nelle sue opinioni religiose, e dʼessere mezzo convertito;
prometterebbe di sostenere con ogni sua possa quella politica fino
allora da lui oppugnata: ma nel caso che ei si vedesse ridotto agli
estremi, ricuserebbe di abbandonare la propria religione. Cominciò,
dunque, con dire al Re: lo affare che importava tanto alla Maestà Sua,
non sonnacchiare; Jane e Giffard attendere a rovistare libri intorno
ai punti controversi fra le due Chiese; ed appena finite le loro
lucubrazioni, essere convenevole un altro colloquio. Lamentò quindi
amaramente come la città tutta sapesse ciò che avrebbe dovuto tenersi
gelosamente nascosto, e come taluni, i quali per la loro posizione
potevano supporsi bene informati, riferissero strane cose intorno
aglʼintendimenti del principe. «Si vocifera» disse egli «che ove io
non faccia siccome la Maestà Vostra vorrebbe, non sarei più oltre
tollerato nel mio ufficio.» Il Re rispose con qualche espressione di
cortesia, essere malagevole impedire i chiacchiericci del popolo, nè
doversi badare alle scempie storielle. Siffatte inconcludenti parole
non potevano calmare la perturbata mente del ministro; il quale, anzi,
sentendosi violentemente agitato cominciò a supplicare per lo impiego
come avrebbe fatto per la propria vita. «La Maestà Vostra vede bene
chʼio fo tutto ciò che posso per obbedirvi. E davvero chʼio farò tutto
il possibile per obbedirvi in ogni cosa. Vi servirò come vorrete. Anzi
farò ogni sforzo per abbracciare la vostra fede; ma non mi si dica,
che mentre mi provo di piegare a ciò lʼanimo mio, ove io nol possa,
debba perdere ogni cosa. Imperocchè bisogna dire alla Maestà Vostra
esservi altri riguardi...»—«Bisogna dirmi! bisogna dirmi!» esclamò il
Re con una bestemmia. La minima parola che suonasse onesta e vigorosa,
sfuggita fra mezzo a tanto abietto supplicare, bastò a muoverlo ad
ira. «Spero» disse il misero Rochester «di non avervi offeso, o Sire.
Vostra Maestà certamente non avrebbe fatto buon giudicio di me, qualora
non avessi parlato in cotesta guisa.» Il Re ritornò in sè, protestò di
non sentirsi offeso, e consigliò il Tesoriere a spregiare le ciarle, e
ragionar nuovamente con Jane e Giffard.[197]

LXXXIII. Dopo siffatto colloquio, corsero quindici giorni innanzi che
gli giungesse il colpo fatale. Rochester spese queʼ quindici giorni
a intrigare e supplicare. Studiossi di rendere a sè favorevoli quei
Cattolici Romani che maggiormente influivano in Corte. Diceva loro di
non potere rinunziare alla propria religione; ma, tranne ciò solo,
esser pronto a far tutto quanto potessero desiderare. Soggiungeva
che ove egli potesse rimanere in ufficio, avrebbero trovato più
utile alla loro causa lui protestante, che qualunque altro della
loro religione.[198] Si disse che la moglie di Rochester, la quale
giaceva inferma, avesse implorato lʼonore dʼuna visita della molto
offesa Regina col fine di muoverla a compassione.[199] Ma gli Hydes
scesero invano a tanta abiezione. Petre gli odiava implacabilmente, ed
aveva giurata la loro rovina.[200] La sera del diciassette dicembre,
il Conte fu chiamato alle stanze del Re. Giacomo era stranamente
commosso, e perfino aveva le lacrime sugli occhi. Quello istante,
a dir vero, non poteva non isvegliare rimembranze tali da muovere
anche un cuor duro. Disse rincrescergli grandemente che il proprio
dovere glʼimponesse di sacrificare le sue inclinazioni private. Essere
ormai impreteribilmente necessario, che coloro i quali stavano a capo
deʼ suoi affari, abbracciassero le opinioni e i sentimenti suoi. Si
confessò singolarmente obbligato a Rochester, e aggiunse non essere
meritevole del più lieve biasimo il modo onde le finanze erano state
da lui amministrate: ma lʼufficio di Lord Tesoriere era di sì grave
momento, che, in generale, non era da fidarsi ad una sola persona,
e da un Re Cattolico Romano non poteva fidarsi ad un uomo zelante
della Chiesa dʼInghilterra. «Pensateci meglio, Milord,» continuò il
Re «rileggete gli scritti trovati nella cassa forte di mio fratello.
Vi concederò anche qualche altro poʼ di tempo, se così desideriate.»
Rochester si accôrse che tutto era finito, e che il miglior partito
che gli rimanesse a prendere, era quello di ritirarsi con quanto più
danaro e credito gli fosse possibile; e bene vi riuscì. Ottenne una
pensione vitalizia di quattro mila lire sterline annue per due vite,
suʼ proventi dellʼufficio postale. Aveva accumulato gran copia di
pecunia dagli averi deʼ traditori, e serbava la obbligazione scritta
di quaranta mila sterline firmata da Grey, e una concessione di tutte
le terre che la Corona aveva nei vasti beni di Grey.[201] Niuno era
stato mai cacciato dal proprio impiego a condizioni così vantaggiose.
Al plauso deʼ sinceri amici della Chiesa Anglicana, Rochester aveva ben
poco diritto. Per mantenersi in ufficio, aveva seduto in quel tribunale
illegalmente creato con lo scopo di perseguitarla. Per mantenersi in
ufficio, aveva disonestamente votato la degradazione deʼ più cospicui
ministri di quella, aveva simulato di dubitare della ortodossia,
ascoltato con apparenza di docilità i maestri che la chiamavano
scismatica ed eretica, e sʼera offerto di secondare i più accaniti
nemici cospiranti a distruggerla. La maggior lode che egli potesse
meritare, consisteva nello avere aborrito dalla enorme malvagità e
vigliaccheria di abiurare pubblicamente, per amore di guadagno, la
religione nella quale egli era nato e cresciuto, da lui creduta vera,
e per lungo tempo e con ostentazione da lui professata. E nondimeno,
la maggior parte degli aderenti alla Chiesa Anglicana, lo esaltavano,
quasi fosse stato il più intrepido e puro deʼ martiri. Frugarono dentro
il Vecchio e il Nuovo Testamento, dentro i Martirologi dʼEusebio e
di Fox, per trovare esempi di paragone alla sua eroica pietà. Ei fu
detto Daniele nella caverna deʼ leoni, Shadrach nella fornace ardente,
Pietro nella prigione dʼErode, Paolo al tribunale di Nerone, Ignazio
nellʼanfiteatro, Latimer nei ceppi. Tra i molti fatti che provano
come a queʼ tempi fosse bassa la idea dellʼonore e della virtù negli
uomini pubblici, il più convincente è forse lʼammirazione destata dalla
costanza di Rochester.

LXXXIV. Nella sua caduta trascinò seco Clarendon. Il dì settimo
di gennaio 1687, la Gazzetta annunziò al popolo di Londra, che il
Tesoro era stato affidato ad una Commissione. Il giorno seguente,
giunse a Dublino un dispaccio, in cui formalmente dicevasi che dentro
un mese Tyrconnel avrebbe preso le redini del Governo dʼIrlanda.
Non senza grande difficoltà costui aveva vinti i numerosi ostacoli
che lo impedivano nel cammino dellʼambizione. Sapevasi come egli
in cuore nutrisse la voglia di sterminare la colonia inglese in
Irlanda. E però gli era necessario di vincere parecchi scrupoli che
stavano nellʼanimo del Re. Doveva conquidere la opposizione, non
solo deʼ membri protestanti del Governo, non solo deʼ moderati e
rispettabili capi deʼ Cattolici Romani, ma altresì di parecchi membri
della cabala gesuitica.[202] Sunderland rifuggiva dal pensiero di
un rivolgimento religioso, politico e sociale, in Irlanda. Dalla
Regina Tyrconnel era personalmente detestato. Per la qual cosa, Powis
venne proposto come lʼuomo più atto alla dignità di vicerè. Era di
nascita illustre; e comecchè fosse sinceramente Cattolico Romano,
veniva daglʼimparziali Protestanti considerato come uomo onesto, e
buono Inglese. Non pertanto, ogni opposizione cesse alla energia ed
astuzia di Tyrconnel, il quale si mostrò infaticabile a strisciarsi, a
bravazzare, a corrompere. Petre fu vinto dallʼadulazione. Sunderland
si arrese alle promesse ed alle minacce. Un prezzo immenso,—niente
meno che cinque mila lire sterline annue sopra la Irlanda, redimibili
col pagamento di cinquanta mila lire sterline,—gli fu offerto. Ove
tale proposta fosse respinta, Tyrconnel minacciava di rivelare al Re
che il Lord Presidente, neʼ desinari chʼei soleva dare alla cabala
tutti i venerdì, aveva dipinto la Maestà Sua come uno imbecille,
chʼera forza governare per mezzo dʼuna donna o dʼun prete. Sunderland,
pallido e tremante, offrì dʼottenere a Tyrconnel il supremo comando
delle milizie, enormi emolumenti, in fine qual si fosse cosa, tranne
lʼufficio di vicerè: ma ogni qualunque proposta venne ricusata; e
fu mestieri cedere. La stessa Maria di Modena non andò immune della
taccia di corruzione. Esisteva in Londra una famosa collana di perle,
la quale stimavasi valere dieci mila lire sterline. Apparteneva già
al principe Rupert, dal quale era stata lasciata a Margherita Hugues,
cortigiana, che verso la fine della vita di lui, lo aveva grandemente
dominato. Tyrconnel menava vanto di avere col dono di siffatta collana
comperato la protezione della Regina. Furono nondimeno taluni, i quali
sospettarono che cotesta asserzione fosse una delle verità di Dick
Talbot, e che la non avesse miglior fondamento delle calunnie ventisei
anni innanzi da lui inventate a denigrare la fama di Anna Hyde. Ai
cortigiani cattolici romani parlò della incertezza onde essi tenevano
gli uffici, gli onori e gli emolumenti loro. Disse, il Re poter morire
da un giorno allʼaltro, lasciando tutti loro a discrezione di un
ostile Governo, e dʼuna plebaglia ostile. Ma se la religione degli avi
potesse predominare in Irlanda, se gli interessi inglesi potessero
distruggersi, rimarrebbe loro, nel peggiore evento, assicurato un asilo
dove riparare, venire a patti, o vantaggiosamente difendersi. Ad un
prete papista fu promessa la mitra di Waterford, perchè predicasse in
San Giacomo contro lʼAtto di Stabilimento; e il suo sermone, comecchè
suscitasse profondo disgusto nel cuore di tutti glʼInglesi che stavano
ad ascoltarlo, non andò privo dʼeffetto. Era cessata la lotta che lo
amore di patria aveva fino allora nella mente del Re mantenuta contro
la bacchettoneria. «Vi sono cose tali da eseguirsi in Irlanda,» disse
Giacomo «cose tali, che nessuno Inglese vorrà mai fare.»[203]

Alla perfine, tolto di mezzo ogni ostacolo, Tyrconnel, nel febbraio
del 1687, cominciò a governare la sua terra natia con la potestà e gli
emolumenti di Lord Luogotenente, ma col titolo più modesto di Lord
Deputato.

LXXXV. Il suo arrivo sparse lo sgomento fra tutta la popolazione
inglese. Clarendon fu accompagnato, o sollecitamente seguito a traverso
il Canale di San Giorgio, da moltissimi deʼ più illustri abitatori di
Dublino, gentiluomini, trafficanti ed artigiani. Si disse che mille e
cinquecento famiglie in pochi giorni emigrassero. Nè tanta paura era
irragionevole. La impresa di porre tutti i coloni sotto i piedi degli
Irlandesi, faceva rapidi progressi. In breve, quasi ogni Consigliere
Privato, Giudice, Sceriffo, Gonfaloniere, Aldermanno e Giudice di
Pace, fu Celta e Cattolico Romano. Sembrava che le cose presto si
volessero disporre in modo, che da una elezione generale sorgerebbe
una Camera di Comuni propensa ad abrogare lʼAtto di Stabilimento.[204]
Coloro i quali fino allora erano stati signori dellʼisola, adesso
lamentavano, nellʼamaritudine dellʼanime loro, dʼessere divenuti preda
e ludibrio dei loro propri servi e manuali; le case essere bruciate,
e gli armenti rubati impunemente; i nuovi soldati scorrazzare il
paese saccheggiando, insultando, stuprando, mutilando qua, facendo
colà saltare per aria sopra un lenzuolo un Protestante, legandone un
altro pei capelli e flagellandolo; e nulla giovare il richiamarsi alle
leggi: i giudici, gli sceriffi, i giurati, i testimoni irlandesi, tutti
congiurare a salvare glʼIrlandesi delinquenti; e tra breve tempo, anche
senza apposito Atto del Parlamento, tutto il suolo dover cangiare
padroni; avvegnachè, governante Tyrconnel, in ogni causa di sfratto,
i Giudici avevano sempre sentenziato contro lʼInglese, ed a favore
dellʼIrlandese.[205]

Mentre Clarendon rimaneva in Dublino, il Sigillo Privato era stato
affidato ad una Commissione. I suoi amici speravano che, ritornato
a Londra, gli sarebbe tosto reso lʼufficio. Ma il Re e la cabala
gesuitica volevano intera la caduta degli Hydes. Lord Arundell di
Wardour, Cattolico Romano, ricevè il Sigillo Privato. Bellasyse,
Cattolico Romano, fu fatto Primo Lord del Tesoro; e Dover, altro
Cattolico Romano, ebbe un posto in quellʼufficio. La nomina di un
giuocatore rovinato ad un impiego di tanta fiducia, sarebbe sola
bastata a disgustare il pubblico. Il dissoluto Etherege, che allora
dimorava in Ratisbona come inviato del Governo inglese, non potè
frenarsi dallo esprimere, con un sarcasmo, la speranza che il suo
vecchio compagno Dover avrebbe custoditi i danari del Re meglio che i
propri. Perchè le finanze non fossero rovinate daʼ papisti privi di
capacità ed esperienza, lʼossequioso, diligente e taciturno Godolphin
fu nominato Commissario del Tesoro; ma seguitò a rimanere Ciamberlano
della Regina.[206]

LXXXVI. La destituzione deʼ due fratelli forma una grande epoca
nella storia del regno di Giacomo. Da quel tempo apparve manifesto
come ciò chʼegli voleva, non fosse la libertà di coscienza peʼ suoi
correligionarii, ma la libertà di perseguitare i membri delle altre
Chiese. Pretendendo di non volere Atti di Prova, egli ne aveva imposto
uno. Pensava che fosse cosa dura, cosa mostruosa, che uomini abili e
leali fossero esclusi daʼ pubblici uffici solo perchè erano Cattolici
Romani. E nulladimeno, aveva cacciato via un Tesoriere chʼegli teneva
leale ed abile, solo perchè era protestante.

Corse la voce, essere vicina una proscrizione generale, ed ogni
pubblico funzionario dovere eleggere fra la perdita dellʼanima o
dellʼimpiego.[207] E chi, a dir vero, avrebbe potuto sperare di
mantenersi dopo che gli Hydes erano caduti? Erano cognati del Re, zii
e tutori naturali delle sue figliuole; gli erano stati amici fino
dagli anni suoi primi, fermi seguaci nellʼavversità e nel pericolo,
servi ossequiosi dopo che era asceso sul trono. Loro sola colpa era
la religione, e per essa erano stati messi da parte. Ineffabilmente
perturbato, ciascuno cominciò a volgere attorno lo sguardo desioso
di trovare scampo allʼimminente pericolo; e tosto gli occhi di tutti
posaronsi sopra un uomo, il quale da un raro concorso di doti personali
e di circostanze fortuite veniva indicato come liberatore.



CAPITOLO SETTIMO.


SOMMARIO.

 I. Guglielmo principe dʼOrange. Suo aspetto.—II. Sua vita
 giovanile.—III. Sue opinioni teologiche.—IV. Sue doti militari.—V.
 Suo amore deʼ pericoli; sua salute cagionevole; freddezza deʼ suoi
 modi e forza delle sue emozioni.—VI. Sua amicizia per Bentinck.—VII.
 Maria Principessa dʼOrange.—VIII. Gilberto Burnet.—IX. Mette
 dʼaccordo il Principe e la Principessa.—X Relazioni tra Guglielmo e
 i Partiti inglesi.—XI. Suoi sentimenti verso la Inghilterra, verso
 lʼOlanda e la Francia.—XII. Coerenza della sua politica.—XIII.
 Trattato dʼAugusta.—XIV. Guglielmo diviene capo della Opposizione
 inglese.—XV. Mordaunt propone a Guglielmo di andare in
 Inghilterra.—XVI. Guglielmo ricusa il consiglio.—XVII. Malumori
 in Inghilterra dopo la caduta degli Hydes.—XVIII. Conversioni
 al Papismo; Peterborough; Salisbury.—XIX. Wycherley; Tindal;
 Haines.—XX. Dryden.—XXI. La Cerva e la Pantera.—XXII. La Corte
 muta politica verso i Puritani.—XXIII. Concede alla Scozia una
 certa tolleranza.—XXIV. Tenta con segrete conferenze di corrompere
 gli avversari.—XXV. Non vi riesce; lʼAmmiraglio Herbert.—XXVI.
 Dichiarazione dʼIndulgenza.—XXVII. Umori deʼ Protestanti
 Dissenzienti.—XXVIII. Umori della Chiesa Anglicana.—XXIX. La Corte
 e la Chiesa si contendono il favore deʼ Puritani.—XXX. Lettera ad
 un Dissenziente.—XXXI. Condotta dei Dissenzienti—XXXII. Alcuni di
 loro parteggiano per la Corte; Care; Alsop; Rosewell; Lobb—XXXIII.
 Penn.—XXXIV. La maggior parte deʼ Puritani si dichiarano avversi alla
 Corte; Baxter; Howe—XXXV. Bunyan.—XXXVI. Kiffin—XXXVII. Il Principe
 e la Principessa dʼOrange si mostrano ostili alla Dichiarazione
 dʼIndulgenza.—XXXVIII. Loro modo di vedere intorno alla difesa deʼ
 Cattolici Romani In Inghilterra.—XXXIX. Nimistà di Giacomo per
 Burnet.—XL. Missione di Dykvelt in Inghilterra.—XLI. Negoziati di
 Dykvelt con gli statisti inglesi; Danby.—XLII. Nottingham.—XLIII.
 Halifax; Devonshire.—XLIV. Eduardo Russell.—XLV. Compton; Hebert;
 Churchill.—XLVI. Lady Churchill e la Principessa Anna.—XLVII.
 Dykvelt ritorna allʼAja, recando lettere di molti uomini cospicui
 dʼInghilterra.—XLVIII. Missione di Zulestein—XLIX. La inimicizia
 tra Giacomo e Guglielmo sʼaccresce—L. Influenza della stampa
 olandese—LI. Carteggio di Stewart e Fagel—LII. Ambasceria di
 Castelmaine a Roma.

I. Il luogo che Guglielmo Enrico, Principe dʼOrange, occupa nella
storia dʼInghilterra e in quella del genere umano, è siffattamente
grande, da far desiderare che il suo carattere venga con molta
diligenza pennelleggiato.[208]

Allʼepoca cui richiama la presente narrazione, egli toccava lʼanno
trentasettesimo dellʼetà sua. Ma e nel corpo e nella mente sembrava
più vecchio di quel che sogliono gli uomini di pari numero dʼanni. E
veramente, potrebbe dirsi chʼegli non sia mai stato giovane. I suoi
sembianti sono a noi famigliari quasi come lo poterono essere ai suoi
capitani e consiglieri. Scultori, pittori, intagliatori, posero ogni
arte nel tramandare ai posteri le fattezze di lui; e la sua fisonomia
era tale, che, vista una volta, non poteva dimenticarsi mai più. Il suo
nome ci sveglia in mente a un tratto la immagine dʼuna figura debole
e delicata, con ampia ed elevata fronte, naso ricurvo ed aquilino,
occhio sì lucido e acuto da rivaleggiare con quello dellʼaquila, ciglio
pensoso e alquanto tristo, bocca ferma ed alquanto sdegnosa, guance
pallide, scarne, e profondamente solcate dalla infermità e dalle cure.
Un aspetto sì pensoso, severo e solenne, mal si giudicherebbe quello
dʼun uomo felice o di buon umore: ma indica manifestamente una capacità
pari alle più ardue imprese, e una fortezza che non cede a sciagure e
pericoli.

II. La natura aveva con profusione conceduto a Guglielmo le doti dʼun
gran dominatore; e la educazione le aveva in modo non comune esplicate.
Dotato di vigoroso buon senso naturale, di rara forza di volontà,
trovossi, appena la sua mente cominciò a concepire, figlio orbato di
padre e di madre, capo dʼuna grande ma depressa e disanimata parte,
ed erede di vaste e indefinite pretese, le quali destavano paura e
avversione nella oligarchia che allora predominava nelle Provincie
Unite. Il popolo, che per un secolo sʼera mostrato teneramente
affettuoso alla famiglia di Guglielmo, sempre che lo vedeva, a chiari
segni indicava di considerarlo come suo legittimo capo. Gli abili ed
esperti ministri della Repubblica, implacabili nemici al nome di lui,
recavansi quotidianamente a fargli simulati complimenti, e ad osservare
i progressi della sua mente. I primi moti della sua ambizione vennero
con istudio invigilati: ogni parola che gli uscisse spensieratamente
dal labbro, era notata, nè egli aveva da presso alcuno del cui senno
potesse fidarsi. Toccava appena il quindicesimo degli anni suoi,
allorquando tutti i famigliari che amavano il suo bene, o godevano in
alcun modo la sua fiducia, furono dal geloso Governo rimossi dalla
sua casa. Indarno ei protestò con energia superiore alla sua età; e
taluni videro più volte le lagrime spuntare sugli occhi del giovine
prigioniero di Stato. La sua salute, naturalmente delicata, rimase
qualche tempo depressa dalle emozioni che la sua trista situazione
destavagli in cuore. Simiglianti condizioni traviano e snervano lʼanimo
debole, ma nel forte suscitano tutta la vigoria di cui sia capace.
Circuito da trame, nelle quali un giovane dʼindole ordinaria sarebbe
perito, Guglielmo imparò a procedere cauto e fermo ad un tempo. Assai
prima chʼei giungesse alla virilità, sapeva il modo di mantenere un
secreto, frustrare lʼaltrui curiosità con secche e caute risposte,
nascondere le passioni sotto lʼapparenza di una grave tranquillità.
Intanto ei progrediva poco nella educazione letteraria e socievole. I
modi deʼ nobili in Olanda difettavano, a quei tempi, di quella grazia
che trovavasi in grado perfettissimo neʼ gentiluomini francesi, e
che, in grado inferiore, adornava la Corte dʼInghilterra; e i modi di
Guglielmo erano prettamente olandesi. Gli stessi suoi concittadini lo
reputavano brusco. Ai forestieri spesso ei sembrava grossolano. Nelle
sue relazioni colle persone in generale, ci pareva ignorante o non
curante di quelle arti che accrescono il pregio dʼun favore, e scemano
lʼamarezza dʼun rifiuto. Amava poco le lettere e le scienze. I trovati
di Newton e di Leibnizio, i poemi di Dryden e di Boileau gli erano
ignoti. Le rappresentazioni drammatiche lo annoiavano; e sia che Oreste
vaneggiasse o Tartuffo stringesse la mano dʼElmira, ei volgeva gli
occhi dal proscenio per parlare dʼaffari di Stato. Aveva, a dir vero,
un certo ingegno pel sarcasmo, e non di rado adoperava, senza saperlo,
una certa eloquenza manierata, ma vigorosa ed originale. Nulladimeno,
non pretendeva minimamente a mostrarsi ciò che dicesi bello spirito
ed oratore. Aveva intera rivolta la mente a quelli studi che formano
i valorosi e sagaci uomini di affari. Fino da fanciullo ascoltava
con interesse le discussioni concernenti leghe, finanze e guerre. Di
geometria sapeva quanto bisogna alla costruzione di un rivellino o
di unʼopera a corno. Di lingue, con lʼaiuto dʼuna singolare memoria,
imparò tanto da potere intendere e rispondere senza altrui sussidio ad
ogni cosa che gli venisse detta, ad ogni lettera che gli fosse scritta.
Il suo idioma natio era lʼolandese. Intendeva il latino, lʼitaliano e
lo spagnuolo. Parlava e scriveva il francese, lo inglese e il tedesco,
inelegantemente, a dir vero, ed inesattamente, ma con facilità e in
guisa da farsi intendere. Non vʼerano qualità che potessero essere
più proprie ad un uomo destinato ad organizzare grandi alleanze, ed a
comandare eserciti, raccolti da diversi paesi.

III. Le circostanze lo avevano costretto ad intendere ad una specie
di questioni filosofiche, le quali, a quanto sembra, lo interessarono
più di quel che fosse da aspettarsi dallʼindole sua. Fraʼ protestanti
dellʼisola nostra, erano due grandi partiti religiosi, che quasi
esattamente coincidevano coi due grandi partiti politici. I capi della
oligarchia municipale erano Arminiani, comunemente dalla moltitudine
considerati poco migliori deʼ papisti. I principi dʼOrange erano quasi
sempre stati i protettori del Calvinismo, ed andavano debitori di non
piccola parte della popolarità loro allo zelo da essi mostrato per le
dottrine della elezione e della perseveranza finale; zelo non sempre
illuminato dalla scienza o temperato dallʼumanità. Guglielmo, fin da
fanciullo, era stato diligentemente erudito nel sistema teologico al
quale la sua famiglia aderiva, e prediligevalo con parzialità maggiore
di quella che gli uomini generalmente sentono per una fede ereditaria.
Aveva meditato intorno ai grandi enimmi chʼerano stati discussi nel
Sinodo di Dort, ed aveva trovato nella austera ed inflessibile logica
della Scuola Ginevrina qualche cosa che armonizzava con lo intelletto
e lʼindole suoi. Certo, egli non imitò mai la intolleranza di cui
avevano porto esempio alcuni deʼ suoi antenati. Abborriva da ogni
specie di persecuzione: aborrimento chʼegli confessò non solo quando il
confessarlo era manifestamente atto politico, ma in parecchi casi in
cui sembrava che la simulazione o il silenzio dovessero maggiormente
giovargli. Nondimeno le sue opinioni teologiche erano più definite di
quelle degli avi suoi. La dottrina della predestinazione egli teneva
come pietra angolare della sua religione; e dichiarò più volte, che
ove fosse costretto ad abbandonarla, avrebbe con essa perduto ogni
fede nella Divina Provvidenza, e sarebbe divenuto un pretto epicureo.
Tranne in questo solo caso, fino dai suoi primi anni egli rivolse
tutta la vigoria del suo robusto intelletto dalla speculazione alla
pratica. I requisiti necessari a condurre importanti affari, in lui
erano maturi in unʼepoca della vita, nella quale per la più parte degli
uomini appena cominciano a fiorire. Da Ottavio in poi, il mondo non
aveva mai veduto altro esempio di precocità nellʼarte di governare. I
più esperti diplomatici rimanevano attoniti udendo le osservazioni che
a diciassette anni il Principe faceva sugli affari di Stato, ed anche
più attoniti vedendo un giovinetto, posto in circostanze tali da farlo
apparire passionato, mostrare un contegno composto e imperturbabile al
pari del loro. A diciotto anni egli sedeva fraʼ padri della repubblica,
grave, discreto e giudizioso, come il più vecchio di loro. A ventun
anno, in un giorno di tristezza e di terrore, ei fu posto a capo del
Governo. A ventitrè anni godeva per tutta la Europa rinomanza di
soldato e dʼuomo politico. Aveva schiacciate le fazioni domestiche; era
lʼanima dʼuna potente coalizione, ed aveva pugnato onorevolmente in
campo contro alcuni deʼ più grandi generali di quel tempo.

IV. Per inclinazione di natura era più guerriero che uomo di Stato;
ma, a somiglianza dellʼavo, il tacito Principe che fondò la Repubblica
Batava, egli tiene un posto più elevato fra gli uomini di Stato
che fraʼ guerrieri. Veramente lʼesito delle battaglie non è prova
infallibile dello ingegno dʼun capitano; e sarebbe cosa singolarmente
ingiusta giudicare con siffatta prova Guglielmo; imperocchè gli
toccò sempre di combattere con capitani, profondi maestri dellʼarte
militare, e con milizie per disciplina molto superiori alle sue.
Nulladimeno abbiamo ragione di credere che egli non pareggiasse punto,
come generale nel campo, alcuni che per doti intellettuali erano a lui
molto inferiori. Ai suoi familiari ei ragionava sopra tale subietto
con la magnanima franchezza dʼuomo che aveva fatto grandi coso, e
che poteva confessare i propri difetti. Diceva di non aver fatto mai
il necessario tirocinio dellʼarte militare. Da fanciullo era stato
preposto a capo di unʼarmata. Fra i suoi ufficiali non era alcuno che
potesse ammaestrarlo. Solo i propri errori e le conseguenze loro gli
avevano servito di scuola. «Darei volentieri» esclamò un giorno «buona
parte delle mie possessioni pel vantaggio di aver militato in poche
campagne sotto il Principe di Condé, prima che avessi comandato un
esercito contro lui.» Non è improbabile che lʼostacolo onde Guglielmo
fu impedito di conseguire eccellenza nella strategica, contribuisse a
rinvigorirgli lo intelletto. Le sue battaglie non lo mostrano un gran
tattico, ma gli dànno diritto alla rinomanza di grandʼuomo. Non vʼera
disastro che gli potesse far perdere la fermezza o lo impero della
propria mente. Rimediava alle proprie sconfitte con celerità talmente
maravigliosa, che avanti che glʼinimici cantassero il _Te Deum_, era
nuovamente pronto al conflitto; nè lʼavversa fortuna gli fece mai
perdere il rispetto e la fiducia deʼ soldati; fiducia e rispetto
chʼegli massimamente doveva al proprio coraggio. La più parte degli
uomini hanno o con la educazione possono acquistare il coraggio di cui
un soldato ha mestieri per condursi senza infamia in una campagna;
ma un coraggio simile a quello di Guglielmo, è veramente raro. Egli
sostenne ogni prova; guerre, ferite, penose ed opprimenti infermità,
fortune di mare, imminente e continuo pericolo dʼessere assassinato;
pericolo che ha prostrato uomini di vigorosissima tempra; pericolo che
angosciò fortemente il carattere adamantino di Cromwell. Eppure non
vi fu occhio che potesse scoprire qual fosse la cosa che il Principe
dʼOrange temeva. I suoi consiglieri con difficoltà lo potevano indurre
a munirsi contro le pistole e i pugnali deʼ cospiratori.[209] I vecchi
marinari maravigliavano vedendo la compostezza chʼegli serbava fra
mezzo agli ardui scogli dʼun pericoloso littorale. Nelle battaglie il
suo valore lo rendeva cospicuo fra le migliaia di strenui guerrieri,
meritavagli il plauso deglʼinimici, e non veniva mai posto in dubbio
nè anche dalle avverse fazioni. Nella sua prima campagna si espose al
pericolo come uomo che cerchi la morte, fu sempre primo allo assalto ed
ultimo alla ritirata, combattè con la spada in pugno dove più ferveva
la mischia; e con una palla dʼarchibugio fitta nel braccio e col
sangue che gli scorreva giù per la corazza, rimase fermo al suo posto,
agitando il cappello sotto il fuoco più vivo. Gli amici lo pregavano
di avere più cura della propria vita, che era di inestimabile prezzo
alla salute della patria; e il più illustre deʼ suoi antagonisti, il
Principe di Condé, notò, dopo la sanguinosa giornata di Seneff, come il
Principe dʼOrange in ogni cosa si fosse portato da vecchio generale,
tranne nello avere esposto sè stesso al pericolo come un giovine
soldato. Guglielmo negò dʼessere reo di temerità, dicendo chʼera
sempre rimaso nel posto del pericolo, mosso dal sentimento del proprio
dovere e dal pensiero del bene pubblico. Le milizie da lui comandate
erano poco assuefatte alla guerra, ed aborrivano da uno stretto
scontro colle agguerrite soldatesche di Francia. Era quindi mestieri
che il loro capitano mostrasse il modo di vincere le battaglie. E
veramente, più dʼuna volta al pericolo dʼuna giornata che pareva
disperatamente perduta, ei riparò arditamente riordinando le sgominate
schiere, e tagliando con la propria spada i codardi che davano lo
esempio della fuga. Alcuna volta, nondimeno, eʼ pareva che sentisse
uno strano compiacimento nellʼarrisicare la propria persona. Taluni
notarono che non si mostrò mai di così allegro umore, di modi così
graziosi ed affabili, come fra mezzo al tumulto od alla strage dʼuna
battaglia. Perfino neʼ sollazzi amava lo eccitamento del pericolo. Le
carte, gli scacchi, il biliardo non gli andavano punto a sangue. La
caccia era la prediletta delle sue ricreazioni; e tanto maggiormente
piacevagli, quanto era più rischiosa. Talvolta spiccava tali salti,
che i più audaci deʼ suoi compagni non osavano seguirlo. Sembra
anche chʼegli reputasse come esercizi effeminati le più difficili
cacce dellʼInghilterra, e fra mezzo alle immense foreste di Windsor
con doloroso desio ripensasse alle belve che egli aveva costume di
inseguire neʼ boschi di Guelders, ai lupi, ai cignali, ai grossi cervi
dallʼenormi corna.[210]

V. Cotesta impetuosità dʼanima diventa straordinario fenomeno, solo che
si consideri come egli fosse singolarmente delicato di corpo. Fino da
fanciullo egli era stato debole e malaticcio. In sulla virilità la sua
salute erasi intristita per un forte accesso di vajolo. Era asmatico,
e pareva volesse andare in consunzione. La sua gracile persona era
travagliata da una continua tosse secca. Ei non poteva dormire se non
appoggiando il capo sopra parecchi guanciali, e non poteva trarre il
respiro se non nellʼaria più pura. Spesso era torturato da crudeli
dolori al capo; tosto stancavasi al moto. I medici mantenevano ognora
deste le speranze deʼ suoi nemici, predicendo lʼepoca in cui, se
pure vʼera certezza alcuna nella scienza, avrebbe cessato di vivere.
Nonostante, in una vita che poteva dirsi una continua malattia,
la forza dellʼanima non gli falli mai, in ogni grave occasione, a
sostenere il suo infermo e languido corpo.

Era nato con violente passioni e con gagliardo sentire; ma la forza
delle sue emozioni non era minimamente da altri sospettata. Agli
occhi del mondo ei nascondeva la gioia, il dolore, lʼaffezione, il
risentimento sotto il velo dʼuna calma flemmatica, che lo faceva
reputare il più freddo degli uomini. Coloro che gli recavano buone
nuove, rade volte potevano in lui scoprire il più lieve segno di
contento. Chi lo vedeva dopo una disfatta, in vano cercava di leggergli
in volto il dispiacere dellʼanimo. Lodava e riprendeva, premiava e
puniva con lʼaustera tranquillità dʼun capitano di Mohawk; ma coloro
che bene lo conoscevano e gli stavano da presso sapevano pur troppo
che sotto cotesto ghiaccio ardeva perpetuamente un gran fuoco. Rade
volte lʼira gli faceva perdere il contegno. Ma quando davvero lo
invadeva la rabbia, il primo scoppio ne era tremendo, si che altri
appena reputavasi sicuro a farglisi da presso. In simiglianti rari
casi, nulladimeno, appena riacquistava lo impero delle proprie
facoltà, faceva tali riparazioni a coloro che ne avevano patito il
danno, da tentarli a desiderare chʼegli andasse nuovamente in collera.
Nellʼaffetto procedeva impetuoso come nellʼira. Amando, egli amava
con tutta la vigoria della sua vigorosissima anima. Quando la morte
lo privava dellʼoggetto amato, queʼ pochi che erano testimoni del suo
strazio, temevano non volesse perdere il senno o la vita. Aʼ pochi
intimi amici, nella cui fedeltà e secretezza ei poteva onninamente
riposare, era un uomo ben diverso dal riserbato e stoico Guglielmo, che
la moltitudine supponeva privo dʼogni mite sentimento. Era cortese,
cordiale, aperto, ed anche festevole e faceto, da rimanere a mensa
lunghe ore, ed abbandonarsi allʼallegria del conversare.

VI. Fra tutti i suoi più cari, ei prediligeva singolarmente un
gentiluomo chiamato Bentinck, discendente da una nobile famiglia
batava, e destinato ad essere fondatore dʼuna delle maggiori case
patrizie dellʼInghilterra. La fedeltà di Bentinck era stata sottoposta
a prove non comuni. Mentre le Provincia Unite lottavano a difendere
la propria esistenza contro la potenza francese, il giovine Principe,
nel quale erano poste tutte le loro speranze, infermò di vajuolo. Tal
malattia era stata fatale a parecchi della sua famiglia; e quanto a
lui, in sulle prime si manifestò peculiarmente maligna. Grande era la
costernazione pubblica. Le strade dellʼAja erano affollate da mane
a sera di gente ansiosa di sapere le nuove di Sua Altezza. Infine
il male prese un corso meno sinistro. La salvezza dello infermo fu
attribuita in parte alla sua singolare tranquillità di spirito, e in
parte alla intrepida e instancabile amicizia di Bentinck. Dalle sole
mani di Bentinck Guglielmo prendeva i farmachi e il nutrimento. Il solo
Bentinck era colui che alzava Guglielmo da letto e ve lo riponeva. «Se
Bentinck dormisse o non dormisse mai nel tempo chʼio giacqui infermo»
diceva Guglielmo grandemente intenerito a Temple; «non so. Ma questo io
so, che per sedici giorni e sedici notti, non chiesi mai cosa alcuna
che Bentinck allʼistante non fosse accanto al mio letto.» Innanzi che
questo amico fedele finisse di prestare i propri servigi, fu preso dal
contagio. Non pertanto, ei non curò la febbre e lo stordimento del capo
ondʼera travagliato, finchè il suo signore fu dichiarato convalescente.
Allora Bentinck chiese dʼandare a casa; e ne era tempo, imperocchè non
poteva più sostenersi sulle proprie gambe. Corse gravissimo pericolo,
ma risanò; e non appena si senti in forze da sorgere dal letto, corse
allʼarmata, dove per molte ardue campagne fu sempre veduto da presso a
Guglielmo, come vi era già stato in pericoli di altra specie.

È questa la origine dʼuna amicizia fervida e pura più di qualunque
altra di cui faccia ricordo la storia antica o la moderna. I
discendenti di Bentinck serbano tuttavia molle lettere da Guglielmo
scritte al loro antenato; e non è troppo il dire che chiunque non le
abbia studiate, non potrà mai formarsi una giusta idea dellʼindole
del Principe. Egli, che i suoi ammiratori generalmente reputavano il
più freddo e inaffabile degli uomini, in coteste lettere dimentica
ogni distinzione di grado, ed apre lʼanima sua con la ingenuità dʼun
fanciullo. Partecipa senza riserbo arcani di gravissimo momento. Palesa
con tutta semplicità vasti disegni concernenti tutti i governi europei.
Miste a siffatte cose trovansi altre dʼassai diversa natura, ma forse
di non minore interesse. Tutte le sue avventure, i suoi sentimenti, le
sue lunghe corse ad inseguire un enorme cervo, il suo folleggiare nella
festa di Santo Uberto, il vegetare delle sue piantagioni, i suoi poponi
andati a male, in che condizione sono i suoi cavalli, il desiderio
chʼegli ha di trovare un buon palafreno per la sua moglie; il suo
dispiacere udendo che un suo famigliare dopo dʼavere rapito lʼonore
ad una fanciulla di buona famiglia, ricusi di sposarla; il suo mal di
mare, la sua tosse, il suo mal di capo, i suoi accessi di divozione, la
gratitudine chʼegli sente per la divina Provvidenza che lo ha scampato
da un grave pericolo, gli sforzi chʼegli fa a sottoporsi alla volontà
divina dopo un disastro: queste e simiglianti cose ivi sono descritte
con una amabile garrulità, tale da non aspettarsi dal più discreto e
calmo uomo di Stato deʼ tempi suoi. Va anche maggiormente notata la
spensierata espansione della sua tenerezza, e il fraterno interesse
chʼegli prende nella domestica felicità dellʼamico. Se nasce un figlio
a Bentinck, Guglielmo gli dice: «Io spero chʼegli viva, per essere
buono come voi; ed ove io abbia un figliuolo, le nostre creature si
ameranno, lo spero, come ci siamo amati noi.»[211] Per tutta la vita
egli seguita ad amare i piccoli Bentinck con affetto paterno. Gli
chiama coi più cari nomi; nellʼassenza del padre prende cura di loro;
e quantunque gli rincresca di rifiutare loro cosa alcuna, non permette
che vadano alla caccia, dove potrebbero correre il pericolo di ricevere
un colpo di corno dal cervo inseguito, o abbandonarsi alle intemperanze
dʼuna gozzoviglia.[212] Se la loro madre si ammala nellʼassenza del
marito, Guglielmo, fra mezzo ad affari di gravissimo momento, trova
il tempo di spedire parecchi corrieri in un giorno per recargli
notizie della salute di lei.[213] Una volta, come essa dopo una grave
infermità è dichiarata fuori di pericolo, il Principe con fervidissime
espressioni rende grazie a Dio: «Io scrivo lacrimando di gioia» dice
egli.[214] Serpe una singolare magia in coteste lettere, scritte da un
uomo, la cui irresistibile energia ed inflessibile fermezza imponevano
riverenza ai nemici, il cui freddo e poco grazioso contegno respingeva
lʼaffetto di quasi tutti i partigiani, e la cui mente era occupata da
giganteschi disegni che hanno cangiata la faccia del mondo.

E tanto affetto non era mal collocato. Bentinck allora fu detto da
Temple il migliore e più sincero ministro che alcun principe abbia
mai avuta la fortuna di possedere, e continuò per tutta la vita a
meritarsi un nome tanto onorevole. I due amici veramente erano fatti
lʼuno per lʼaltro. Guglielmo non aveva mestieri di chi lo dirigesse o
lo lusingasse. Avendo ferma e giusta fiducia nel proprio giudizio, non
amava i consiglieri che inclinavano molto a suggerire o ad obiettare.
Nel tempo stesso, aveva discernimento ed altezza di mente bastevoli a
sdegnare lʼadulazione. Il confidente di un tal principe doveva essere
uomo non di genio inventivo, o di predominante carattere, ma valoroso e
fedele, capace dʼeseguire puntualmente gli ordini ricevuti, di serbare
inviolabilmente il secreto, di notare con occhio vigilante i fatti e
riferirli con verità: e tale era Bentinck.

VII. Guglielmo nel matrimonio non fu meno fortunato che nellʼamicizia.
Nulladimeno, il matrimonio in sulle prime non parve dovere essergli
fonte di felicità domestica. A quel parentado egli era stato indotto
principalmente da cagioni politiche; nè sembrava probabile che alcuna
forte affezione dovesse nascere tra una avvenente fanciulla di sedici
anni, di buona indole e intelligente, ma ignorante e semplice; ed uno
sposo, il quale, comecchè non giungesse ai ventotto anni, era per
costituzione più vecchio del padre di lei, ed aveva modi agghiaccianti,
e tenea di continuo la mente occupata dʼaffari pubblici e di cacce. Per
qualche tempo Guglielmo fu marito negligente. Fu strappato alle braccia
della moglie da altre donne, e in ispecie da Elisabetta Villers, che
era una delle dame di lei, e che quantunque fosse priva di attrattive
personali e sfigurata da un occhio guercio, aveva ingegno tale da
rendersi gradevole a Guglielmo.[215] Per vero dire, egli vergognavasi
deʼ propri falli, e con ogni studio cercava nasconderli; ma, non
ostanti tutte le sue cautele, Maria bene conosceva la infedeltà
del marito. Spie e delatori, istigati dal padre di lei, fecero ogni
sforzo per infiammarla allʼira. Un uomo di assai diverso carattere,
lʼottimo Ken, il quale fu suo cappellano allʼAja per parecchi mesi,
prese tanto fuoco vedendo i torti che ella soffriva, che con più
zelo che giudizio minacciò di rimproverare severamente lo infido
marito.[216] Ella, non pertanto, sosteneva le proprie ingiurie con
tanta mansuetudine e pazienza, che meritò e, a poco a poco, ottenne
la stima e la gratitudine di Guglielmo. Rimaneva nondimeno unʼaltra
cagione che teneva divisi i loro cuori. Poteva probabilmente giungere
il giorno, in cui la Principessa, la quale era stata educata solo a
ricamare, leggere la Bibbia e i Doveri dellʼUomo, diverrebbe sovrana
dʼun gran Regno, terrebbe la bilancia della politica europea; mentre
lo sposo di lei, ambizioso, esperto deʼ pubblici negozi e inchinevole
alle grandi intraprese, non troverebbe nel Governo dʼInghilterra
luogo a sè convenevole, e avrebbe potere quale e quanto e finchè a
lei piacesse concedergliene. Non è strano che un uomo come Guglielmo,
amante dellʼautorità e conscio del proprio genio a comandare, sentisse
fortemente quella gelosia, la quale in poche ore di sovranità pose
la dissensione tra Guildford Dudley e Lady Giovanna, e produsse una
rottura anche più tragica fra Darnley e la Regina di Scozia. La
Principessa dʼOrange non aveva il più lieve sospetto deʼ pensieri
del marito. Il vescovo Compton, suo istitutore, con gran cura
lʼaveva erudita nelle cose di religione, insegnandole specialmente a
guardarsi dalle arti deʼ teologi cattolici romani; ma lʼaveva lasciata
profondamente ignara della sua posizione e della Costituzione inglese.
Ella sapeva che, per dovere conjugale, era tenuta ad obbedire al
proprio sposo; e non le era mai venuto in mente come la relazione in
cui stavano entrambi potesse essere invertita. Nove anni erano corsi
di matrimonio innanzi chʼella sapesse la cagione del malcontento di
Guglielmo; nè lʼavrebbe mai saputa da lui. Generalmente, ei per natura
inchinava più presto a chiudere in cuore che a sfogare i propri dolori;
ed in cotesta peculiare occasione le sue labbra rendeva mute una
ragionevole delicatezza. In fine, per mezzo di Gilberto Burnet, i due
coniugi, avuta una spiegazione, pienamente riconciliaronsi.

VIII. La fama di Burnet è stata assalita con singolare malizia e
pertinacia. Tali aggressioni cominciarono fino dai suoi primi anni, e
continuano tuttavia con non minore virulenza, comecchè egli da cento
venticinque e più anni riposi sotterra. Veramente, egli è il bersaglio
più adatto che lʼanimosità delle fazioni e gli spiriti petulanti
possano mai desiderare; imperciocchè i suoi difetti dʼintendimento e
dʼindole sono così visibili, che facile è a ognuno il notarli. Non
erano quei difetti che ordinariamente si reputano comuni a tutti i suoi
concittadini. Solo fra tutti i non pochi Scozzesi che si sono inalzati
a grandezza e prosperità in Inghilterra, egli aveva quel carattere
che gli scrittori satirici, i drammatici, i romanzieri sogliono
concordemente ascrivere ai venturieri irlandesi. Gli spiriti animali,
le millanterie, la vanità, la propensione a spropositare, la provocante
indiscretezza, la indomita audacia di lui apprestavano inesauribile
materia agli scherni deʼ Tory. Nè i suoi nemici trascuravano di
complirlo talvolta, più con piacenteria che con delicatezza, per la
spaziosità delle sue spalle, la grossezza delle sue gambe, il buon
successo deʼ suoi disegni matrimoniali con qualche amorosa e ricca
vedova. Ciò non ostante, Burnet, benchè per molti rispetti fosse
subietto di scherno ed anche di grave riprensione, non era uomo
spregevole. Aveva vivissima intelligenza, instancabile industria, vasta
e svariata dottrina. Era, a un sol tempo, storico, antiquario, teologo,
predicatore, articolista, disputatore ed operoso capo politico; e in
ciascuna di coteste cose emergeva cospicuo fraʼ suoi competitori. I
molti vivaci e brevissimi scritti chʼegli pubblicò sopra i fatti di
queʼ tempi, oggimai son noti solo agli amatori di curiosità letterarie;
ma la Storia deʼ suoi Tempi, la Storia della Riforma, la Esposizione
degli Articoli, il Discorso deʼ Doveri dʼun Pastore, la Vita di Hale,
la Vita di Wilmot, vengono anche aʼ di nostri ristampati, nè vi è buona
biblioteca privata che non gli abbia neʼ suoi scaffali. Contro questi
argomenti tutti gli sforzi dei detrattori riescono vani. Uno scrittore,
le cui opere voluminose in diversi rami della letteratura, trovano
numerosi lettori cento trenta anni dopo la sua morte, può avere avuto
grandi difetti, ma è mestieri che abbia anche avuto meriti grandi;
e Burnet aveva grandi meriti, cioè fecondo e vigoroso intelletto e
stile, ancorchè ben lontano dalla intemerata purità del bello scrivere,
sempre chiaro, spesso vivace, e talvolta inalzantesi fino alla solenne
e calorosa eloquenza. Nel pulpito, lo effetto deʼ suoi discorsi,
chʼegli recitava senza sussidio di manoscritto, era accresciuto dalla
nobiltà della sua persona, e da un modo patetico di porgere. Spesso
veniva interrotto dal profondo fremito del suo uditorio; e quando,
dopo dʼavere predicato tanto che fosse trascorsa lʼora dellʼoriuolo a
polvere—che a queʼ giorni era parte degli ordegni del pulpito,—egli
lo prendeva in mano, la congrega clamorosamente lo incoraggiava a
seguitare finchè la polvere non fosse passata di nuovo.[217] Sì nel suo
carattere morale, che nello intellettuale, i grandi difetti erano più
che compensati da grandi meriti. Tuttochè spesso fosse traviato dai
pregiudizi e dalla passione, era uomo onesto per eccellenza. Tuttochè
non sapesse resistere alle seduzioni della vanità, aveva spirito
superiore ad ogni influenza di cupidigia o timore. Era, per indole,
cortese, generoso, grato, compassionevole.[218] Il suo zelo religioso,
comunque fermo ed ardente, era per lo più temperato dʼumanità, e
di rispetto pei diritti della coscienza. Vigorosamente aderendo a
quello chʼegli credeva spirito del Cristianesimo, considerava con
indifferenza i riti, i nomi e le forme dellʼordinamento della Chiesa; e
non era punto inchinevole ad essere severo anche con glʼinfedeli e gli
eretici la cui vita fosse pura, e i cui errori sembrassero più presto
effetto dʼintelligenza pervertita, che di cuore depravato; ma, al pari
di molti dabbene uomini di quella età, considerava il caso della Chiesa
di Roma come una eccezione a tutte le regole ordinarie.

Burnet, per alcuni anni, ebbe rinomanza europea. La sua Storia
della Riforma era stata accolta con istrepitosi applausi da tutti
i Protestanti, mentre i Cattolici Romani lʼavevano giudicata come
un colpo mortale inflitto alla loro credenza. Il più grande dottore
che la Chiesa di Roma abbia mai avuto dopo lo scisma del secolo
decimosesto, voglio dire Bossuet vescovo di Meaux, tolse lo incarico
di farne una elaborata confutazione. Burnet era stato onorato con un
voto di ringraziamento da uno deʼ più zelanti Parlamenti del tempo
in cui ferveva la concitazione della Congiura Papale, ed era stato
esortato, a nome della Camera deʼ Comuni dʼInghilterra, a seguitare
i suoi studi storici. Era stato ammesso alla familiarità di Carlo e
di Giacomo, era vissuto in intimità con parecchi egregi uomini di
Stato, segnatamente con Halifax, ed era stato direttore spirituale di
molti grandi personaggi. Aveva redento dallo ateismo e dalla licenza
Giovanni Wilmot, Conte di Rochester, chʼera uno deʼ più splendidi
libertini di quel secolo. Lord Stafford, vittima di Oates, comunque
Cattolico Romano, aveva, nelle ore estreme di sua vita, ricevuto il
conforto delle esortazioni di Burnet intorno a queʼ punti di dottrina
sui quali tutti i cristiani concordano. Pochi anni dopo, unʼaltra
vittima più illustre, cioè Lord Russell, era stata accompagnata da
Burnet dalla Torre al patibolo in Lincolnʼs Inn Fields. La Corte non
aveva trascurato mezzo alcuno per trarre a sè un teologo cotanto
profondo ed operoso. Non vi fu cosa che non tentasse, regie blandizie e
promesse di alte dignità; ma Burnet, quantunque fino dalla giovinezza
fosse imbevuto delle servili dottrine che erano in quel tempo comuni
al clero, era divenuto Whig per convinzione; e traverso a tutte le
vicissitudini, fermamente aderiva ai propri principii. Nondimeno,
ei non fu partecipe di quella congiura che recò tanto disonore e
calamità al partito Whig, e non solo aborriva dai disegni dʼassassinio
concepiti da Goodenough, e da Ferguson, ma opinava che anche il suo
diletto ed onorato amico Russell si fosse spinto troppo oltre contro
il Governo. Finalmente arrivò tempo in cui la stessa innocenza non
era arra di sicurezza. Burnet, comecchè non fosse reo di nessuna
trasgressione della legge, fu fatto segno alla vendetta della Corte.
Si rifugiò nel Continente, e dopo dʼavere speso un anno a viaggiare la
Svizzera, lʼItalia e la Germania—viaggi deʼ quali egli ci ha lasciata
una piacevole descrizione,—nella state del 1686 giunse allʼAia, e vi
fu accolto con cortesia e riverenza. Conversò più volte e liberamente
con la Principessa intorno alle cose politiche e religiose, e tosto le
divenne direttore spirituale e confidente. Guglielmo gli usò ospitalità
più graziosa di quel che si potesse sperare. Imperciocchè, fra tutti
i difetti umani, quei che più lʼoffendevano, erano lʼofficiosità
e lʼindiscretezza; e Burnet, a confessione anche deʼ suoi amici e
ammiratori, era il più officioso e indiscreto degli uomini. Ma il savio
Principe sʼaccôrse che quel petulante e ciarliere teologo, il quale
sempre cicalava di secreti, faceva impertinenti domande, sciorinava
consigli non richiesti, era, nonostante, uomo retto, animoso, esperto,
e ben conosceva gli umori e i disegni delle sètte e delle fazioni
inglesi. Burnet aveva gran fama dʼuomo eloquente e dotto. Guglielmo non
era uomo erudito; ma da molti anni era stato capo del Governo Olandese
in un tempo, in cui la stampa olandese era una delle macchine più
formidabili che muovessero lʼopinione pubblica dellʼEuropa; e benchè
egli non gustasse i piaceri delle lettere, era savio ed osservatore
tanto, da pregiare lʼutilità dello aiuto deʼ letterati. Sapeva bene
che un libercolo popolare talvolta poteva tornare proficuo al pari
dʼuna vittoria riportata in campo. Sentiva parimente la importanza di
avere sempre da presso alcun uomo ben esperto nellʼordinamento politico
ed ecclesiastico dellʼisola nostra; e Burnet aveva in sommo grado i
requisiti ad essere un dizionario vivente delle cose inglesi, perocchè
le sue cognizioni, quantunque non sempre accurate, erano immensamente
vaste; e sì in Inghilterra che in Iscozia, pochi erano gli uomini
insigni di qual si fosse partito politico o religioso, coʼ quali
egli non avesse conversato. Per le quali cose ottenne tanta parte di
favore e di fiducia, quanta ne era concessa solo a coloro che formavano
il piccolo nucleo intimo deʼ privati amici del Principe. Quando il
dottore si prendeva qualche libertà, il che non rade volte avveniva,
il suo protettore diventava oltre lʼusato freddo e severo, e tal fiata
gli usciva dalle labbra qualche pungente sarcasmo che avrebbe fatto
ammutolire chiunque. Tranne in cotesti casi, nondimeno, lʼamicizia tra
questi due uomini singolari durò, con qualche temporanea interruzione,
fino alla morte. Certo, eʼ non era agevole ferire la sensibilità di
Burnet. La compiacenza chʼegli provava di sè, gli spiriti animali, la
mancanza di tatto in lui erano tali, che quantunque spesso offendesse
altri, giammai egli ne rimaneva offeso.

IX. Per cosiffatto carattere, egli aveva i requisiti necessari ad
essere paciere tra Guglielmo e Maria. Ogni qualvolta coloro che
dovrebbero vicendevolmente stimarsi ed amarsi, si trovano per avventura
divisi, come spesso accade, per qualche differenza che sole poche
parole franche e chiare basterebbero a comporre, debbono riputarsi
bene avventurati ove abbiano un indiscreto amico che palesi intera la
verità. Burnet, senza andirivieni, rivelò alla Principessa il pensiero
che turbava la mente del suo consorte. E fu quella la prima volta in
cui ella seppe, non senza grandemente maravigliarne, come diventando
Regina dʼInghilterra, Guglielmo non dovesse secolei sedere sul trono.
Dichiarò quindi caldamente dʼesser pronta a porgere qual si fosse prova
di sommessione e dʼaffetto conjugale. Burnet, assicurando e giurando
di non parlare per suggerimento altrui, disse in lei sola stare intero
il rimedio. Ella poteva di leggieri, appena assunta la Corona, indurre
il Parlamento non solo a concedere al marito il titolo di Re, ma con
un atto legislativo in lui trasferire il Governo dello Stato. «Ma
Vostra Altezza Reale» aggiunse egli «dovrebbe, innanzi di parlare,
maturamente considerare la cosa; imperocchè egli è un passo, che una
volta fatto, non potrebbe facilmente e senza pericolo disfarsi.»—«Non
ho bisogno di tempo alcuno a considerare ciò chʼio fo» rispose Maria.
«A me basta di cogliere questa occasione per mostrare il mio rispetto
pel Principe. Riportategli ciò chʼio vi dico; e conducetelo a me,
perchè egli possa udirlo ripetere dal mio labbro stesso.» Burnet andò
in traccia di Guglielmo; ma Guglielmo trovavasi molte miglia lontano
a dar la caccia ad un cervo. Eʼ non fu se non il giorno susseguente,
che ebbe luogo il colloquio fraʼ due conjugi. «Non avevo mai saputo
fino a ieri» disse Maria «che vi fosse tale differenza tra le leggi
dellʼInghilterra e quelle di Dio. Ma adesso vi prometto che voi sarete
colui che governerà sempre; e in ricambio, questo solo vi chiedo, che
come io osserverò il divino comandamento, il quale vuole che le mogli
obbediscano ai mariti, voi osserviate lʼaltro che ingiunge ai mariti
dʼamare le proprie mogli.» Tanta generosità dʼaffetto, pienamente
conquise il cuore di Guglielmo. Da quel tempo fino al di funesto in
cui egli fu trasportato convulso lungi da lei che giaceva sul letto di
morte, fra loro fu sempre vera amicizia e piena confidenza. Esistono
ancora molte delle lettere che ella gli scrisse, e porgono numerosi
argomenti come a questo uomo così inamabile, quale sembrava agli occhi
del pubblico, fosse riuscito dʼispirare ad una bella e virtuosa donna,
a lui superiore per nascita, una passione che era quasi idolatria.

Il servigio in tal guisa reso da Burnet alla propria patria, era di
sommo momento, perocchè era giunto il tempo in cui molto importava alla
pubblica salvezza che il Principe e la Principessa fossero pienamente
concordi.

X. Fino dal tempo in cui fu spenta la insurrezione delle Contrade
Occidentali, gravi cagioni di dissenso avevano scisso Guglielmo dai
Whig e dai Tory. Aveva con rincrescimento veduti i tentativi fatti
daʼ Whig a privare il Governo di certi poteri chʼegli riputava
necessari alla efficacia e dignità di quello. Aveva con molto maggiore
rincrescimento veduto il modo onde molti di loro sʼerano contenuti
verso le pretensioni di Monmouth. Eʼ pareva che lʼopposizione volesse
avvilire la Corona dʼInghilterra, e porla sul capo di un bastardo e
di un impostore. Nel tempo stesso, il sistema religioso del Principe
grandemente differiva da ciò che formava il segno distintivo della
credenza deʼ Tory. Costoro erano tutti Arminiani e Prelatisti;
spregiavano le Chiese protestanti del continente, e consideravano
ogni rigo della loro liturgia e rubrica sacro quasi al pari del
vangelo. Le sue opinioni concernenti la metafisica della teologia,
erano calviniste: le sue opinioni rispetto allʼordinamento e ai modi
del culto, erano larghe. Ammetteva lo episcopato essere una forma
legittima e convenevole di governo ecclesiastico; ma parlava con parole
acri e sprezzanti della bacchettoneria di coloro i quali giudicavano
la ordinazione deʼ vescovi essenziale alla società cristiana. Non
aveva punto scrupolo intorno ai vestimenti e ai gesti prescritti dal
libro della Preghiera Comune; ma confessava che i riti della Chiesa
Anglicana sarebbero migliori se più si allontanassero daʼ riti della
Chiesa di Roma. Era stato udito mormorare con segni di cattivo augurio,
allorquando nella cappella privata della sua moglie ei vide un altare
acconcio secondo il rito anglicano, e non parve molto satisfatto
di vedere nelle mani di lei il libro di Hooker sopra lʼOrdinamento
Ecclesiastico.[219]

XI. Egli, adunque, da lungo tempo seguiva con occhio vigile il
progresso della contesa tra le fazioni inglesi; ma senza sentire forte
predilezione per nessuna di quelle. In verità, fino allʼultimo giorno
di sua vita, ei non divenne nè Whig nè Tory. Difettava di ciò che è
fondamento ad ambi cotesti caratteri; imperciocchè egli non diventò
mai Inglese. È vero che salvò lʼInghilterra; ma non lʼamò mai, e
non fu mai da essa riamato. Per lui lʼisola nostra fu sempre terra
dʼesilio, chʼegli visitava con ripugnanza e abbandonava con diletto.
Anche mentre le rendeva quei servigi, deʼ quali fino ai nostri giorni
sentiamo i felici effetti, il bene di quella non era lo scopo precipuo
delle sue azioni. Sʼei sentiva amore di patria, lo sentiva tutto per
la Olanda. Quivi era la splendida tomba entro la quale riposava il
grande uomo politico, di cui egli aveva ereditato il sangue, il nome,
lʼindole, il genio. Quivi il semplice suono del suo titolo era una
magica parola, che per tre generazioni aveva destato lo affettuoso
entusiasmo deʼ contadini e degli artigiani. Lʼolandese era lo idioma
chʼegli aveva imparato dalla balia; olandesi gli amici della sua
giovinezza. I sollazzi, gli edifizi, le campagne della sua terra natia
gli empivano il cuore. Ad essa ei volgeva sempre desioso lo sguardo da
unʼaltra patria più altera e più bella. Nella galleria di Whitehall
egli amaramente ripensava alla sua avita casa nel Bosco allʼAja;
e non sentivasi mai tanto felice, quanto nel giorno in cui dalla
magnificenza di Windsor passava alla sua molto più modesta abitazione
in Loo. Nel suo splendido esilio ei trovava consolazione creandosi
dʼintorno, con edifici, piantagioni, escavazioni, una scena che gli
rammentasse le uniformi moli di rossi mattoni, i lunghi canali, e le
simmetriche aiuole di fiori, fra mezzo ai quali egli aveva trascorsi i
suoi giovani anni. E nonostante, cotesto suo affetto per la sua terra
materna era subordinato ad un altro sentimento che da gran tempo aveva
signoreggiato nellʼanima sua, erasi mescolato a tutte le sue passioni,
lo aveva spinto a maravigliose imprese, lo aveva sostenuto nelle
mortificazioni, neʼ dolori, nelle infermità, e che verso la fine della
sua vita sembrò per alcun tempo languire, ma tosto ridestossi più fiero
che mai, e seguitò ad animarlo fino allʼora suprema, in cui i ministri
di Dio recitavano accanto al suo letto di morte la prece deʼ moribondi.
Questo sentimento era la inimicizia alla Francia, e al Re magnifico,
il quale in più sensi rappresentava la Francia, e a virtù e pregi
eminentemente francesi congiungeva quellʼambizione irrequieta, scevra
di scrupoli e vanagloriosa, che ha più volte ridesto contro la Francia
il risentimento dellʼEuropa.

Non è difficile rintracciare il progresso del sentimento che a poco
a poco sʼinsignorì interamente dellʼanima di Guglielmo. Mentre egli
era ancora fanciullo, la sua patria era stata aggredita da Luigi,
sfidando con ostentazione la giustizia e il diritto pubblico; era stata
corsa, devastata, ed abbandonata ad ogni eccesso di ladroneria, di
licenza e di crudeltà. Gli Olandesi sgomenti, sʼerano umiliati dinanzi
allʼorgoglioso vincitore, chiedendo mercè. Era stato loro risposto,
che ove desiderassero ottenere la pace, era mestieri rinunciare alla
indipendenza, e rendere ogni anno omaggio alla Casa deʼ Borboni.
Lʼoltraggiata nazione, disperando dʼogni altro umano argomento,
aveva aperte le sue dighe, chiamando in soccorso le onde marine
contro la tirannia francese. Eʼ fu nelle angosce di quel conflitto,
allorquando i contadini tremebondi fuggivano dinanzi agli invasori,
centinaia di ameni giardini e di ville erano sepolte sotto le acque,
le deliberazioni del Senato erano interrotte dagli svenimenti e dal
pianto deʼ vecchi senatori, i quali non potevano sopportare il pensiero
di sopravvivere alla libertà ed alla gloria della loro terra natia; eʼ
fu in queʼ terribili giorni, che Guglielmo fu chiamato a capo dello
Stato. Per alcun tempo la resistenza gli parve impossibile. Cercava da
per tutto soccorso, e lo cercava invano. Spagna era snervata, Germania
conturbata, Inghilterra corrotta. Nullʼaltro partito sembrava rimanere
al giovine Statoldero, che quello di morire con la spada in pugno, o
farsi lo Enea dʼuna grande emigrazione, e creare unʼaltra Olanda in
contrade inaccessibili alla tirannia della Francia. Nessuno ostacolo
sarebbe allora rimasto a infrenare il progresso della Casa Borbonica.
In pochi anni essa avrebbe potuto annettere ai propri domini la Lorena
e le Fiandre, Castiglia ed Aragona, Napoli e Milano, il Messico e il
Perù. Luigi avrebbe potuto assumere la Corona imperiale, porre un
principe della sua famiglia sopra il trono della Polonia, divenire
solo signore dellʼEuropa dai deserti della Scizia fino allʼOceano
Atlantico, e dellʼAmerica dalle regioni nordiche del tropico del
Cancro, fino alle regioni meridionali del tropico del Capricorno. Tale
era il prospetto del futuro che stava dinanzi agli occhi di Guglielmo
nel suo primo entrare nella vita politica, e che non gli sparì mai
dallo sguardo fino allʼestremo deʼ suoi giorni. La Monarchia Francese
era per lui ciò che la Repubblica Romana era per Annibale, ciò che la
Potenza Ottomana era per Scanderbeg, ciò che la dominazione inglese
era per Wallace. Questa intensa e invincibile animosità era rafforzata
dalla religione. Centinaia di concionatori calvinisti predicavano, che
il medesimo potere che aveva suscitato Sansone per essere il flagello
deʼ Filistei, e che aveva chiamato Gedeone dallʼaja per domare i
Madianiti, aveva suscitato Guglielmo dʼOrange per essere il campione
di tutte le nazioni libere, e di tutte le Chiese pure; pensiero che
non fu senza influenza sulla mente di lui. Alla fiducia che lo eroico
fatalista aveva posta nel suo alto destino e nella sua sacra causa, è
da attribuirsi in parte la singolare indifferenza onde egli affrontava
il pericolo. Aveva debito di compire unʼaltra impresa; e finchè non
fosse compita, nulla gli avrebbe potuto nuocere. E però, per virtù di
questo pensiero, egli, malgrado i pronostici deʼ medici, si riebbe
da infermità che sembravano disperate; lo aperto navicello in cui
egli si gettò nel fitto buio della notte fra mezzo alle frementi onde
dellʼOceano, e presso ad una traditrice spiaggia, lo condusse a terra;
e in venti campi di battaglia, le palle deʼ cannoni gli fischiarono
dʼintorno senza toccarlo. Lo ardore e la perseveranza con che egli si
dedicò alla propria missione, mal troverebbero agguaglio nella storia
degli uomini illustri. Considerando il suo gran fine, ei reputava la
vita altrui di sì poco pregio, come la propria. Pur troppo, anche i più
miti e generosi soldati di quella età avevano lʼabitudine di curar poco
lo spargimento del sangue, e le devastazioni inseparabili dalle grandi
imprese militari; e il cuore di Guglielmo era indurito non solo dalla
insensibilità acquistata nellʼesercizio della guerra, ma da quella
specie di insensibilità più severa, la quale nasce dalla coscienza del
dovere. Tre grandi coalizioni, tre lunghe e sanguinose guerre, in cui
tutta Europa dalla Vistola fino allʼOceano occidentale era in armi,
devono attribuirsi alla sua invincibile energia. Allorquando nel 1678
gli Stati Generali, esausti e scuorati, desideravano posa, la sua
voce tuonava contro coloro che volevano riporre la spada nel fodero.
Se la pace fu fatta, ciò avvenne solo perchè egli non potè infondere
neʼ cuori altrui uno spirito fiero e risoluto come il suo. In sullo
estremo istante, con la speranza di rompere le pratiche che ei sapeva
pressochè concluse, combattè una delle più sanguinose ed ostinate
battaglie, deʼ tempi suoi. Dal giorno in cui fu firmata la pace di
Nimega egli cominciò a meditare unʼaltra coalizione. La sua contesa
con Luigi, tradotta dal campo di battaglia al gabinetto, venne poco
dopo esacerbata da un privato litigio. Per ingegno, indole, modi ed
opinioni, i due rivali erano lʼuno allʼaltro diametralmente opposti.
Luigi, gentile e dignitoso, prodigo e voluttuoso, amante della pompa
ed abborrente dai pericoli, munificente protettore delle arti e delle
lettere, e crudele persecutore deʼ Calvinisti, offriva un notevole
contrasto verso Guglielmo, semplice nelle sue inclinazioni, di poco
grazioso portamento, infaticabile e intrepido in guerra, non curante
degli ameni studi, e fermo partigiano deʼ teologi Ginevrini. I due
nemici non osservarono lungamente quelle cortesie che i loro pari,
anche oppugnantisi con le armi, rade volte trascurano. Guglielmo, a
dir vero, giunse fino ad offrire i suoi migliori servigi al Re di
Francia. Ma tali cortesie vennero estimate al loro giusto pregio,
e ricompensate con una riprensione. Il gran Re affettava disprezzo
pel principotto servitore dʼuna federazione di città commercianti;
e ad ogni segno di spregio lo intrepido Statoldero rispondeva con
una nuova disfida. Guglielmo prendeva il suo titolo—titolo che le
vicissitudini del secolo precedente avevano reso uno deʼ più illustri
in Europa—da una città che giace sulle rive del Rodano non lungi da
Avignone; e che, al pari dʼAvignone, quantunque da ogni lato circuita
dal territorio francese, era propriamente feudo non della Corona di
Francia, ma dello Impero. Luigi, con quella ostentazione spregiatrice
del diritto pubblico, la quale formava il suo carattere, occupò Orange,
ne smantellò le fortificazioni e ne confiscò le rendite. Guglielmo
dichiarò ad alta voce a molti cospicui personaggi, i quali con lui
sedevano a mensa, che avrebbe fatto pentire il Re Cristianissimo
dellʼoltraggio ricevuto; ed allorchè dal Conte dʼAvaux gli fu chiesto
conto delle parole profferite, ricusò positivamente o di ritrattarle o
di spiegarle. La querela andò tanto oltre, che il ministro francese non
poteva rischiarsi di comparire nelle sale della Principessa per timore
di essere insultato.[220]

I sentimenti di Guglielmo verso la Francia, spiegano tutta la sua
politica verso la Inghilterra. Il suo spirito pubblico era europeo. Il
fine principale dʼogni suo studio non era lʼisola nostra, non era nè
anche la sua Olanda, ma la grande comunità delle nazioni minacciata
di essere soggiogata da uno Stato troppo potente. Coloro i quali
commettono lo errore di considerarlo come uomo di Stato inglese,
è forza che guardino la intera sua vita in una falsa luce, e non
perverranno a scoprire nessun principio buono o cattivo, Whig o Tory,
al quale possano riferirsi le sue più importanti azioni. Ma ove lo
consideriamo come uomo, il cui fine speciale era quello di congiungere
una torma di Stati deboli, divisi e sgomenti, in ferma e vigorosa
concordia contro un comune nemico; ove lo consideriamo come uomo, agli
occhi del quale la Inghilterra importava principalmente, perchè, senza
essa, la grande coalizione da lui desiderata, sarebbe stata incompiuta;
saremo costretti ad ammettere che non vi è stata una vita sì lunga, di
cui facciano ricordo le storie, maggiormente uniforme dal principio
sino alla fine, quanto quella di cotesto gran Principe.[221]

XII. Col filo che adesso abbiamo tra le mani, potremo senza difficoltà
rintracciare la via dritta in effetto, sebbene in apparenza talvolta
tortuosa, chʼegli prese verso le nostre interne fazioni. Chiaramente
vedeva (ciò che non era sfuggito agli occhi di uomini meno sagaci di
lui) come la impresa alla quale egli con tutta lʼanima intendeva,
potesse avere probabilità di prospero successo con la Inghilterra
amica, dʼesito incerto con la Inghilterra neutrale, e di disperatissimo
fine ove la Inghilterra agisse come aveva agito ai tempi della Cabala.
Con non minore chiarezza, vedeva che tra la politica estera e la
interna del Governo Inglese vʼera stretta connessione; che il sovrano
del nostro paese, operando dʼaccordo col Parlamento, deve sempre di
necessità esercitare grande influenza negli affari della Cristianità,
e deve anche avere un evidente interesse di avversare lo indebito
ingrandimento dʼogni potentato continentale; che, dallʼaltro canto,
il sovrano privo della fiducia del Parlamento e impedito nella sua
via, non può avere se non poco peso nella politica europea, e che
quel poco peso potrebbe anche gettarsi tutto nel lato nocivo della
bilancia. Il principe, adunque, desiderava massimamente la concordia
fra il Trono e il Parlamento. Il modo di stabilirla, e quale delle
due parti dovesse fare concessioni allʼaltra, erano, secondo lui,
cose dʼimportanza secondaria. Avrebbe gradito, senza alcun dubbio, di
vedere una piena riconciliazione senza il sacrificio dʼun briciolo
della regia prerogativa; perocchè alla integrità di quella egli aveva
diritto di reversibilità; ed egli, per indole, era cupido di potere
e intollerante di freno, almeno quanto qualunque degli Stuardi. Ma
non vʼera gioiello della Corona chʼegli non fosse apparecchiato a
sacrificare, anche dopo che la Corona era passata sul suo capo,
qualvolta fosse convinto siffatto sacrificio essere impreteribilmente
necessario al suo grande disegno. E però, nel tempo della congiura
papale, comecchè egli disapprovasse la violenza con cui la opposizione
assaliva la regia autorità, esortò il Governo a desistere. La condotta
della Camera deʼ Comuni rispetto agli affari interni, diceva egli, era
molto irragionevole: ma finchè rimaneva malcontenta, le libertà della
Europa pericolavano; ed a questa suprema ragione ogni altra doveva
cedere. Giusta siffatti principii egli operò allorquando la Legge
dʼEsclusione pose la nazione tutta in commovimento. Non vʼè ragione
a credere chʼegli incoraggiasse la opposizione a spingere innanzi
quella legge, e ricusare ogni patto che le venisse offerto dal trono.
Ma come chiaro si conobbe che, ove non si fosse posta in campo quella
legge, vi sarebbe stata seria rottura tra i Comuni e la Corte, egli
intelligibilmente, benchè con assai decoroso riserbo, manifestò la
propria opinione, dicendo il Governo dovere ad ogni costo riconciliarsi
coi rappresentanti del popolo. Allorchè una violenta e rapida mutazione
dellʼopinione pubblica aveva lasciato per alcun tempo il partito Whig
privo dʼogni soccorso, Guglielmo tentò di giungere al suo scopo supremo
per una nuova via, forse allʼindole sua più convenevole di quella
chʼegli aveva anteriormente presa. Pei cangiati umori della nazione,
era poco probabile che venisse eletto un Parlamento disposto ad opporsi
alle voglie del Sovrano. Carlo per alcun tempo fu solo padrone. Il
Principe quindi rivolse ogni pensiero a renderselo favorevole. Nella
state del 1683, quasi nel momento medesimo in cui la scoperta della
congiura di Rye House sconfisse i Whig e rese trionfante il Re,
succedevano altrove fatti tali che Guglielmo non poteva vedere senza
estrema ansietà e timore. Il Turco aveva condotte le sue schiere fino
ai suburbii di Vienna. La grande Monarchia Austriaca, nel cui soccorso
il Principe aveva calcolato, sembrava giunta alla estrema rovina.
Per la qual cosa, ei mandò in fretta Bentinck dallʼAja a Londra,
ingiungendogli di nulla omettere che fosse necessario a riconciliargli
la Corte dʼInghilterra, e peculiarmente significare, con le più calde
espressioni, lʼorrore che il suo signore aveva sentito per la congiura
deʼ Whig.

Nel corso deʼ diciotto susseguenti mesi, vi fu qualche speranza che
la influenza di Halifax prevalesse, e che la Corte di Whitehall
ritornasse alla politica della Triplice Alleanza. Guglielmo nutrì
avidamente in cuore tale speranza, e fece ogni sforzo per conseguire
lʼamicizia di Carlo. La ospitalità che Monmouth trovò allʼAja, deve
principalmente attribuirsi alla brama che il Principe aveva di
appagare i segreti desideri del padre di Monmouth. Appena morto Carlo,
Guglielmo mirando ognora intentamente al supremo suo scopo, di nuovo
cangiò contegno. Aveva ospitato Monmouth per piacere al Re defunto.
Affinchè il Re Giacomo non avesse argomento di querelarsi, Monmouth
ebbe commiato. Abbiamo veduto come, scoppiata la insurrezione delle
contrade occidentali, i reggimenti inglesi che servivano in Olanda,
fossero, alla prima richiesta, mercè gli sforzi del Principe, mandati
alla patria loro. Per vero dire, Guglielmo anche si offerse a comandare
in persona contro i ribelli; e che tale offerta fosse perfettamente
sincera, non potrà mai dubitarsi, solo che si leggano le sue lettere
confidenziali a Bentinck.[222]

Il Principe manifestamente in quel tempo sperava, che il gran disegno
al quale nella mente sua ogni altra cosa era subordinata, fosse
approvato e sostenuto dal suo suocero. Lʼaltero linguaggio che allora
Giacomo teneva verso la Francia, la prontezza con che egli consentì ad
una alleanza difensiva con le Provincie Unite, la inclinazione chʼegli
mostrava a collegarsi con la Casa dʼAustria, accrescevano cotesta
speranza. Ma poco dopo rabbuiossi la scena. La caduta di Halifax,
la rottura tra Giacomo e il Parlamento, la proroga, lo annunzio
distintamente fatto dal Re ai ministri stranieri che oramai la politica
estera non lo distrarrebbe dallo intendere a trovare provvedimenti onde
rinvigorire la regia prerogativa e promuovere glʼinteressi della sua
Chiesa, posero fine a tanta illusione. Chiaro vedevasi, che arrivato il
tempo critico per la Europa, la Inghilterra, signoreggiata da Giacomo,
o sarebbe rimasta inoperosa, o avrebbe operato in unione della Francia.

XIII. E la crisi europea era imminente. La Casa dʼAustria, dopo una
serie di vittorie, erasi assicurata dʼogni pericolo da parte della
Turchia, e non trovavasi più nella necessità di sostenere pazientemente
le usurpazioni e glʼinsulti di Luigi. Per lo che, nel luglio del 1686,
fu firmato in Augusta un trattato, col quale i Principi dello Impero
collegavansi strettamente insieme a vicendevole difesa. Il Re di Spagna
e di Svezia erano parti di cotesta alleanza; lʼuno come Sovrano delle
provincie comprese nel circolo della Borgogna, lʼaltro come Duca di
Pomerania. I confederati dichiaravano di non avere intendimento alcuno
di aggredire, nè voglia dʼoffendere nessun potentato, ma erano bene
risoluti di non tollerare la minima infrazione dei diritti che il Corpo
Germanico possedeva sotto la sanzione del diritto pubblico e della
pubblica fede. Vincolavansi tutti a difendersi in caso di bisogno, e
stabilivano le forze che ogni membro della lega dovesse apprestare, ove
fosse mestieri respingere lʼaggressione.[223] Il nome di Guglielmo non
si leggeva in quellʼatto; ma tutti sapevano che esso era opera di lui,
e prevedevano che tra breve tempo egli sarebbe nuovamente il capitano
dʼuna coalizione contro la Francia. In cosiffatte circostanze, tra
lui e il vassallo della Francia non poteva esistere buono e cordiale
intendimento. Non vʼera aperta rottura, non ricambio di minacce o
di rimproveri; ma il suocero e il genero sʼerano per sempre lʼuno
dallʼaltro separati.

XIV. Nel tempo medesimo in cui il Principe era così diviso dalla
Corte dʼInghilterra, andavano disparendo le cagioni che avevano fino
allora prodotto freddezza tra lui e i due grandi partiti del popolo
inglese. Gran parte, che formava forse una maggioranza numerica, dei
Whig, aveva prestato favore a Monmouth: ma Monmouth non era più. I
Tory, dallʼaltro canto, avevano temuto che glʼinteressi della Chiesa
anglicana non avessero ad essere sicuri sotto lo impero dʼun uomo
educato fraʼ presbiteriani olandesi, e, come ciascuno sapeva, di larghe
opinioni rispetto ai vestimenti, alle cerimonie, allo episcopato: ma
dacchè quella Chiesa diletta era stata minacciata da molto maggiori
pericoli, cosiffatti timori erano quasi spenti. In tal guisa, nello
istante medesimo, ambidue i grandi partiti cominciarono a porre le
speranze e lo affetto loro nello stesso capo. I vecchi repubblicani non
potevano ricusare la loro fiducia ad un uomo, il quale aveva per molti
anni degnamente tenuta la più alta magistratura dʼuna repubblica. I
vecchi realisti credevano di agire secondo i loro principii, tributando
profonda riverenza ad un Principe cotanto vicino al trono. In tali
condizioni, era cosa di massima importanza la perfetta unione tra
Guglielmo e Maria. Un malinteso tra la erede presuntiva della Corona
e il marito, avrebbe prodotto uno scisma in quella vasta massa che da
ogni parte andavasi raccogliendo intorno al vessillo dʼun solo capo.
Avventuratamente, ogni pericolo di questo malinteso fu tolto dallo
intervento di Burnet; e il Principe divenne lo incontrastato capo di
tutto quel gran partito che faceva opposizione al Governo, partito che
quasi comprendeva la intera nazione.

Non vʼè ragione a credere che egli verso questo tempo meditasse la
grande impresa alla quale poscia fu da una dura necessità trascinato.
Scorgeva bene che la opinione pubblica dellʼInghilterra, comecchè i
cuori fossero esasperati dagli aggravi del Governo, non era punto
matura per la rivoluzione. Avrebbe senza dubbio voluto evitare lo
scandolo che doveva produrre una lotta mortale tra persone strette
con vincoli di consanguineità e dʼaffinità. Anche per ambizione,
gli ripugnava il riconoscere dalla violenza quella grandezza alla
quale egli sarebbe pervenuto pel corso ordinario della natura e della
legge: perocchè, bene sapeva che ove la corona fosse regolarmente
toccata in sorte alla sua moglie, le regie prerogative non patirebbero
detrimento; ed allʼincontro, se ei lʼottenesse per elezione, gli
verrebbe concessa con quelle condizioni che agli elettori piacesse
dʼimporre. Egli, adunque, fece pensiero, come sembra, di attendere con
pazienza il giorno in cui potesse con incontrastato titolo governare,
e di contentarsi infrattanto di esercitare grande influenza sopra gli
affari della Inghilterra, come primo Principe del sangue, e capo del
partito che decisamente preponderava nella nazione, e che certo, appena
ragunato il Parlamento, avrebbe decisamente preponderato in ambedue le
Camere.

XV. Egli è vero che già a Guglielmo, da un uomo meno savio e più
impetuoso chʼegli non fosse, era stato consigliato di appigliarsi a
più audace partito. Questo consigliere era il giovane Lord Mordaunt.
In quel tempo non era sorto un uomo che avesse genio più inventivo e
spirito più ardimentoso di lui. Se la impresa era splendida, Mordaunt
rade volte chiedeva se fosse fattibile. La sua vita fu un bizzarro
romanzo, composto di misteriosi intrighi dʼamore e di politica, di
violente e rapide variazioni di scena e di fortuna, e di vittorie
somiglievoli a quelle dʼAmadigi e di Lancillotto, più presto che a
quelle di Lussemburgo e dʼEugenio. Gli episodii disseminati nella sua
strana istoria erano cónsoni a tutto il tenore della vita sua. Vʼerano
notturni incontri con ladroni generosi; e dame nobili e belle liberate
dalle mani deʼ loro rapitori. Mordaunt essendosi reso notevole per la
eloquenza e lʼaudacia con che nella Camera deʼ Lordi erasi opposto
alla Corte, tosto dopo la proroga del Parlamento, si rifuggì allʼAja,
e propose a Guglielmo di fare una sùbita discesa in Inghilterra. Erasi
persuaso che sarebbe stato così facile sorprendere tre grandi Regni,
come lungo tempo dopo gli tornò facile sorprendere Barcellona.

XVI. Guglielmo ascoltò, ripensò, e rispose, con parole vaghe: il
bene dellʼInghilterra stargli tanto a cuore, che non lo perderebbe
mai dʼocchio.[224] Qualunque fossero i suoi intendimenti, non era
probabile chʼei si scegliesse a confidente un temerario e vanaglorioso
cavaliere errante. Questi due mortali nullʼaltro avevano di comune
che il coraggio personale, il quale in entrambi giungeva allʼaltezza
dʼun favoloso eroismo. Mordaunt aveva bisogno solamente di eccitarsi
nel conflitto, e di rendere attonito il mondo. Guglielmo mirava
perpetuamente ad un solo gran fine, al quale era trascinato da una
forte passione, chʼegli reputava sacro dovere. Onde ridursi a quel
fine, faceva prova dʼuna pazienza, siccome una volta egli disse, simile
a quella con cui aveva veduto nel canale un marinaio lottare contro la
corrente, spesso ricacciato indietro, ma non cessando mai di spingersi
innanzi, satisfatto se potesse con molte ore di fatica, avanzare di
pochi passi.[225] Il Principe pensava che le imprese le quali non
lo facevano avvicinare a cotesto fine, per quanto il volgo potesse
estimarle gloriose, fossero vanità fanciullesche.

Sʼavvisò, quindi, di ricusare il consiglio di Mordaunt; e senza alcun
dubbio ei fece bene. Se Guglielmo nel 1686, o anche nel 1687, avesse
tentato di fare ciò che egli fece con tanto prospero esito nel 1688,
è probabile che molti Whig, alla sua chiamata, sarebbero corsi alle
armi; ma avrebbe, ad unʼora, sperimentato la nazione non essere per
anche apparecchiata ad accogliere un liberatore armato che veniva da
terra straniera, e la Chiesa non essere stata provocata e insultata
fino a porre in dimenticanza la dottrina politica, della quale sʼera
per tanto tempo singolarmente inorgoglita. I vecchi Cavalieri sarebbero
accorsi intorno al regio vessillo: si sarebbe, probabilmente, in tutti
i tre Regni accesa una guerra civile, lunga e sanguinosa al pari di
quella della precedente generazione. E mentre nelle Isole Britanniche
infuriasse siffatta guerra, che non avrebbe mai potuto tentare Luigi
nel continente? E quale speranza sarebbe rimasta alla Olanda, emunta di
forze militari ed abbandonata dal suo Statoldero?

XVII. Guglielmo, adunque, fu pago per allora di provvedere in modo
da rendere concorde e rianimare la potente opposizione dalla quale
era riconosciuto come capo. E ciò non era difficile. La caduta degli
Hydes aveva destato in tutta la Inghilterra strano timore e forte
sdegno. Tutti accorgevansi, oggimai trattarsi di sapere non se il
protestantismo sarebbe predominante, ma se sarebbe tollerato. Al
Tesoriere era succeduta una Commissione, della quale era capo un
papista. Il Sigillo Privato era stato affidato ad un papista. Al Lord
Luogotenente dʼIrlanda era succeduto un uomo, il quale non aveva
nessun altro merito per quellʼalto ufficio, tranne dʼessere papista.
Lʼultima persona che un Governo, sollecito del bene dello Stato,
avrebbe dovuto mandare a Dublino, era Tyrconnel. Per le sue maniere
brutali era indegno di rappresentare la maestà della Corona. Per la
pochezza dello intendimento e la violenza dellʼindole, era inetto a
maneggiare gravi affari di Stato. Lʼodio mortale chʼegli sentiva pei
possessori della più parte del suolo dʼIrlanda, lo rendeva segnatamente
inabile a governare quel Regno. Ma la sua intemperante bacchettoneria
era reputata bastevole espiazione della intemperanza delle altre sue
passioni; e a contemplazione del suo odio contro la fede riformata, lo
lasciavano abbandonarsi senza freno al suo odio contro il nome inglese.
Tale era allora il vero intendimento del Re intorno ai diritti della
coscienza! Voleva che il Parlamento abrogasse tutte le incapacità delle
quali erano gravati i papisti, solo perchè potesse alla sua volta
imporre pari incapacità ai Protestanti. Chiaro vedevasi che sotto un
simigliante Principe lʼapostasia era il solo sentiero da condurre alla
grandezza. E non pertanto, era un sentiero pel quale pochi rischiavansi
di procedere; avvegnachè lo spirito nazionale fosse ormai desto, e ad
ogni rinnegato toccasse soffrire tanto scherno ed abborrimento da parte
del pubblico, che anche i cuori più induriti e nudi di vergogna non
potevano non sentirlo.

XVIII. Non può negarsi che alcune notevoli conversioni di recente
avevano avuto luogo; ma tutte erano tali da accrescere poco credito
alla Chiesa di Roma. Due uomini dʼalto grado, Enrico Mordaunt Conte di
Peterborough, e Giacomo Cecil Conte di Salisbury, avevano abbracciata
quella religione. Ma Peterborough, il quale era stato operoso soldato,
cortigiano e diplomatico, allora giaceva affranto dagli anni e dalle
infermità; e coloro che lo vedevano procedere per le sale di Whitehall
barcollante, appoggiato ad un bastoncello e ravvolto di pannilani
e dʼimpiastri, della sua diserzione confortavansi pensando chʼegli
sʼera mantenuto fido alla religione degli avi finchè le sue facoltà
intellettive non furono spente.[226] La imbecillità di Salisbury era
passata in proverbio. Oltremodo sensuale, era tanto ingrassato che
appena si poteva muovere, e quel corpo tardo era degno abitacolo
dʼunʼanima stupida. Le satire di queʼ tempi lo dipingono come uomo
nato stampato per farsi ingannare, il quale fino allora essendo stato
vittima deʼ giuocatori, poteva di leggieri essere vittima dei frati.
Una pasquinata, la quale circa lʼepoca del ritiro di Rochester, fu
appiccata alla porta della casa di Salisbury nello Strand, esprimeva
con grossolane parole lʼorrore con cui il savio Roberto Cecil, ove
fosse potuto sorgere dal sepolcro, avrebbe veduto quale abbietta
creatura era lʼerede deʼ suoi titoli ed onori.[227]

XIX. Questi due uomini erano i più alti per grado fraʼ proseliti
di Giacomo. Vʼerano altri rinnegati di unʼaltra specie; uomini di
doti insigni, ma privi dʼogni principio e dʼogni senso della propria
dignità. Abbiamo ragione di credere che fra costoro fosse Guglielmo
Wycherley, il più licenzioso e insensibile scrittore dʼuna scuola
singolarmente insensibile e licenziosa.[228] È certo che Matteo
Tindal, il quale più tardi acquistò grande rinomanza scrivendo contro
il Cristianesimo, fu in quel tempo ricevuto nel grembo della Chiesa
infallibile; fatto, che, come può agevolmente supporsi, i teologi
coi quali egli poscia appiccò controversia, non lasciarono punto
nellʼoblio.[229] Altro più infame apostata fu Giuseppe Haines, il cui
nome adesso giace quasi dimenticato, ma che era ben noto a queʼ tempi
come avventuriere di versatile ingegno, scroccone, falsificatore di
monete, falso testimonio, mallevadore impostore, maestro di ballo,
buffone, comico, poeta. Taluni deʼ suoi prologhi ed epiloghi furono
molto ammirati daʼ suoi contemporanei, i quali universalmente gli
rendevano lode di buono attore. Costui si fece Cattolico Romano, e si
recò in Italia come addetto allʼambasciata di Castelmaine; ma tosto,
per riprovevole condotta, venne cacciato via. Se è da prestarsi fede
ad una tradizione lungamente conservatasi, Haines ebbe la impudenza
dʼasserire che la Vergine Maria gli era apparsa per esortarlo alla
penitenza. Dopo la Rivoluzione, si provò di pacificarsi coi suoi
concittadini con una ammenda più scandolosa dellʼoffesa stessa. Una
notte, innanzi di rappresentare la parte sua in una farsa, comparve
sul proscenio, avvolto in un bianco lenzuolo, con una torcia in mano,
recitando una profana ed indecente filastrocca di versi, chʼegli chiamò
la propria ritrattazione.[230]

XX. Col nome di Haines correva congiunto in molti libelli il nome di
un rinnegato più illustre, cioè di Giovanni Dryden. A quel tempo egli
era in sul declinare degli anni suoi. Dopo molti successi ora prosperi
ora sinistri, lʼopinione generale lo considerava come primo fra i poeti
inglesi coetanei. I suoi diritti alla gratitudine di Giacomo erano
molto superiori a quelli di qualunque altro scrittore del Regno. Ma
Giacomo pregiava poco i versi, e molto il danaro. Dal dì in cui egli
ascese al trono, si diede a fare piccole riforme economiche, e tali che
acquistano sempre al Governo la taccia di spilorceria, senza recare
alcun manifesto giovamento alle finanze. Una delle vittime di questa
insensata parsimonia, fu il Poeta Laureato. Eʼ fu ordinato, che nella
patente, la quale a cagion della nuova successione al trono, doveva
rinnovarsi, lʼannuo onorario in origine concesso a Jonson, e continuato
ai suoi successori, si omettesse.[231] Fu questo lʼunico pensiero che
il Re, nel primo anno del suo regno, si degnò di volgere al possente
poeta satirico, il quale, mentre ardeva il conflitto intorno alla
Legge dʼEsclusione, aveva sparso il terrore nel partito deʼ Whig.
Dryden era povero, e mal sopportava la povertà. Sapeva poco e davasi
poco pensiero delle cose di religione. Se aveva in petto profondamente
radicato alcun sentimento, era lʼavversione contro i preti di tutte
le religioni, Leviti, Auguri, Muftì, Cattolici Romani, Presbiteriani,
Anglicani. La natura non gli aveva largito anima elevata; e le sue
occupazioni non erano state punto tali, da fargli acquistare altezza
e delicatezza dʼanimo. Per molti anni erasi guadagnato il pane
quotidiano arruffianando la sua musa al pervertito gusto della platea,
e grossolanamente adulando ricchi e nobili protettori. Rispetto di sè,
e senso squisito di convenevolezza, non potevano trovarsi in un uomo il
quale aveva trascinata una vita di mendicità e di adulazione. Pensando
che ove egli seguitasse a chiamarsi protestante, i suoi servigi non
verrebbero rimunerati, si dichiarò papista. Cessò subitamente la
parsimonia del Re. A Dryden fu conceduta una annua pensione di cento
lire sterline, ed ebbe il carico di difendere in verso e in prosa la
sua nuova religione.

Due illustri scrittori, Samuele Johnson e Gualtiero Scott, hanno
fatto ogni sforzo per persuadere sè ed altrui, che cotesta memorabile
conversione fosse sincera. Era cosa naturale che volessero cancellare
una macchia disonorevole dalla memoria dʼun ingegno da essi giustamente
ammirato, e col quale concordavano rispetto ad opinioni politiche;
ma lo storico imparziale è uopo che pronunci un giudizio assai dal
loro differente. Vi sarà sempre forte presunzione contro la sincerità
dʼuna conversione ogni qualvolta riesca a utile del convertito. Nel
caso di Dryden, non vi ha nulla che contrappesi siffatta presunzione.
I suoi scritti teologici provano ad esuberanza chʼegli non si studiò
mai con diligenza ed amore di imparare il vero, e che le sue nozioni
intorno alla Chiesa abbandonata e alla Chiesa abbracciata da lui, erano
superficialissime. Nè la sua condotta dopo la conversione, fu quella
dʼun uomo da un profondo senso deʼ propri doveri costretto a fare un
così solenne passo. Ove egli fosse stato tale, la medesima convinzione
che lo aveva condotto ad abbracciare la Chiesa di Roma, gli avrebbe
certo impedito di violare gravemente e per abitudine i precetti da
quella Chiesa, come da ogni altra società cristiana, riconosciuti
obbligatorii. Tra i suoi scritti precedenti e traʼ susseguenti alla
sua conversione, vi sarebbe stata notevole diversità. Avrebbe sentito
rimorso deʼ suoi trenta anni di vita letteraria, durante i quali egli
aveva sistematicamente adoperata la sua rara potenza di linguaggio
e di versificazione a corrompere il pubblico. Dalla sua penna non
sarebbe uscita, da quellʼora in poi, una sola parola tendente a rendere
spregevole la virtù, e ad infiammare le licenziose passioni. Ed è
sventuratamente vero, che i drammi da lui scritti dopo la sua pretesa
conversione, non sono punto meno impuri o profani di quelli della
sua giovinezza. Anche traducendo, scostavasi dai suoi originali per
andare in cerca dʼimmagini, che, ove le avesse trovate negli originali
stessi, avrebbe dovuto schivare. Ciò che in quelli era cattivo, nelle
sue versioni diventava peggiore; ciò che era puro, passando nella sua
mente, contraeva qualche macchia. Le più grossolane satire di Giovenale
egli rese più riprovevoli; inserì descrizioni lascive nelle Novelle di
Boccaccio; e corruppe la dolce e limpida poesia delle Georgiche con
lordure che avrebbero stomacato Virgilio.

XXI. Lo aiuto di Dryden fu accolto con gioia da quei teologi cattolici
romani, i quali con difficoltà sostenevano un conflitto contro i più
illustri ingegni della Chiesa Stabilita. Non potevano non riconoscere
il fatto, che il loro stile, sfigurato da barbarismi contratti in Roma
e in Doaggio, faceva meschina figura in paragone della eloquenza di
Tillotson e Sherlock. Per lo che, pareva loro non essere lieve acquisto
la cooperazione del più grande scrittore vivente dellʼidioma inglese.
Il primo servigio che a lui fu chiesto in prezzo della sua pensione,
fu di difendere in prosa la sua Chiesa contro Stillingfleet. Ma lʼarte
di dir bene le cose diventa inutile ad un uomo che non abbia nulla
da dire; e tale era il caso di Dryden. Vide come egli non valesse a
sostenere il combattimento con un uomo da lunghi anni assuefatto a
maneggiare le armi della controversia. Il battagliere veterano disarmò
il novizio, gli inflisse qualche ferita di dispregio, e si volse contro
più formidabili combattenti. Dryden allora impugnò unʼarma, nella
quale non era agevole trovare chi potesse vincerlo. Si ritrasse alcun
tempo dal trambusto deʼ caffè e deʼ teatri per rinchiudersi in un
quieto luogo nella Contea di Huntingdon, ed ivi compose con insolita
cura e fatica il suo celebre poema intorno ai punti disputati tra la
Chiesa di Roma e quella dʼInghilterra. Rappresentò la Romana sotto
la similitudine dʼuna candida cerva, sempre in pericolo di morte, e
nondimeno destinata a non morire. Le belve della foresta congiuravano
a spegnerla. Il Tremante coniglio, a dir vero, si teneva strettamente
neutrale; ma la volpe Sociniana, il lupo Presbiteriano, lʼorso
Indipendente, il cignale Anabattista, avventavano sguardi feroci alla
intemerata creatura. Nondimeno ella poteva rischiarsi a bere insieme
con loro alla fonte comune sotto la protezione del leone Regale. La
Chiesa Anglicana era significata dalla pantera con la pelle macchiata,
ma bella, anco troppo bella per bestia da preda. La cerva e la pantera,
egualmente esose al feroce popolo della foresta, si ritrassero da
parte per ragionare intorno al pericolo comune. Quindi seguitarono a
discutere intorno ai punti delle loro differenze, e dimenando le code
e leccandosi le ganasce, tennero un lungo colloquio sopra la presenza
reale, lʼautorità deʼ papi e deʼ concili, le leggi penali, lʼAtto di
Prova, gli spergiuri dʼOates, i servigi resi da Butler, benchè non
ricompensati, al partito deʼ Cavalieri, i libercoli di Stillingfleet, e
le ampie spalle e i fortunati negozi matrimoniali di Burnet.

Lʼassurdità di questo poetico disegno è manifestissima. E in vero,
cosiffatta allegoria non poteva regolarmente procedere oltre a dieci
versi. Non vʼè magistero di forma che possa servire di compenso agli
errori di un tal disegno. E nulladimeno, la Favola della Cerva e
della Pantera è senza verun dubbio la produzione più pregevole della
letteratura inglese del breve e torbido regno di Giacomo II. In nessuna
delle opere di Dryden si potrebbero trovare brani più patetici e
splendidi, maggior pieghevolezza ed energia di stile, e più piacevole e
variata armonia.

Il poema comparve alla luce con ogni vantaggio che la regia protezione
potesse impartire. Una magnifica edizione ne fu fatta per la Scozia
nella tipografia cattolica romana di Holyrood House. Ma le genti
non erano in umore da lasciarsi ammaliare dal lucido stile e dagli
armoniosi versi dello apostata. Il disgusto eccitato dalla sua
venalità, il timore eccitato dalla politica di cui egli sʼera fatto
panegirista, non erano cose da cantarsi per addormentare le menti. Il
pubblico fu infiammato di giustissimo sdegno da coloro cui gli scherni
del poeta scottavano, e da coloro che erano invidi della sua rinomanza.
Non ostante le restrizioni che avvincolavano la stampa, ogni giorno
apparivano satire intorno alla vita e agli scritti di lui. Ora lo
chiamavano Bayes, ora il Poeta Squab. Gli rammentavano come in gioventù
avesse tributato alla Casa di Cromwell le medesime servili lusinghe le
quali egli adesso tributava alla Casa degli Stuardi. Alcuni deʼ suoi
avversari maliziosamente ristamparono i versi pieni di sarcasmo già
da lui scritti contro il papismo, allorquando non gli avrebbe nulla
giovato lʼessere papista. Tra i molti componimenti satirici venuti
alla luce in tale occasione, il più notevole fu opera di due giovani,
i quali di recente avevano compiti i loro studi in Cambridge, ed erano
stati accolti come novizi di belle speranze neʼ caffè letterari di
Londra; voglio dire Carlo Montague e Matteo Prior. Montague era di
nobile schiatta; la origine di Prior era talmente oscura, che nessun
biografo ha potuto rinvenirla: entrambi poscia giunsero in alto;
entrambi allo amore delle lettere congiungevano arte mirabile in quella
specie dʼaffari di che i letterati generalmente sentono disgusto. Tra
i cinquanta poeti deʼ quali Johnson ha scritto le vite, Montague e
Prior sono i soli che avessero profonda conoscenza del commercio e
delle finanze. Non andò guari, e presero vie lʼuna dallʼaltra diverse.
La loro giovanile amicizia si sciolse. Uno di loro divenne capo del
partito Whig, e fu processato dai Tory. Allʼaltro furono affidati
tutti i misteri della diplomazia deʼ Tory, e fu lungamente tenuto in
istretta prigionia dai Whig. Infine, dopo molti anni di vicissitudini,
i due colleghi, chʼerano stati lungo tempo divisi, si ricongiunsero
nellʼAbbadia di Westminster.

XXII. Chiunque abbia attentamente letto il racconto della Cerva e
della Pantera, si sarà dovuto accorgere che mentre Dryden lo stava
componendo, grande variazione era seguita neʼ disegni di coloro che
si servivano di lui come loro interprete. In sul principio, la Chiesa
Anglicana è rammentata con tenerezza e rispetto, e viene esortata a
collegarsi coʼ Cattolici Romani contro le sètte deʼ Puritani; ma alla
fine del componimento, e nella prefazione scritta dopo che quello fu
compiuto, i Protestanti Dissenzienti vengono invitati a far causa
comune coi Cattolici Romani contro la Chiesa dʼInghilterra.

Sì fatto mutamento di linguaggio nel poeta cortigiano indicava un
grande mutamento nella politica della Corte. Il primitivo scopo di
Giacomo era stato quello dʼottenere per la propria Chiesa non solo
piena immunità da tutte le pene e da tutte le incapacità civili, ma
ampia partecipazione ai beneficii ecclesiastici ed universitari, e
nel tempo stesso di rinvigorire le leggi contro le sètte puritane.
Tutte le dispense speciali da lui concedute, erano state a pro deʼ
Cattolici Romani. Tutte le leggi più dure contro i Presbiteriani,
glʼIndipendenti, i Battisti, erano state per qualche tempo da
lui mandate severamente ad esecuzione. Mentre Hale comandava un
reggimento, mentre Powis sedeva nel Consiglio, mentre Massey era
decano, mentre i breviari e i messali stampavansi in Oxford muniti
di regia licenza, mentre lʼOstia esponevasi pubblicamente in Londra
sotto la protezione delle picche e degli archibugi delle guardie
reali, mentre frati e monaci vestiti degli abiti loro passeggiavano
per le vie della metropoli, Baxter era sepolto in carcere; Howe era
in esilio; le leggi dette _Five–Mile–Act_, e _Conventicle–Act_, erano
in pieno vigore; gli scrittori puritani erano costretti a ricorrere
alle tipografie straniere o clandestine; le congregazioni puritane
potevano riunirsi solamente di notte o in luoghi vasti, e i ministri
puritani erano forzati a predicare travestiti da carbonai o da
marinari. In Iscozia il Re, mentre non trascurava sforzo nessuno ad
estorcere dagli Stati pieno alleggiamento pei Cattolici Romani, aveva
chiesto ed ottenuto nuovi statuti di severità senza esempio contro
i presbiteriani. La sua condotta verso gli esuli Ugonotti aveva con
non minore chiarezza rivelato il suo cuore. Abbiamo di sopra veduto,
che quando la pubblica munificenza aveva posto nelle mani del Re una
grossa somma per alleggiare la sciagura di queʼ miseri, egli, rompendo
ogni legge dʼospitalità e di buona fede, impose loro di rinunziare
al culto calvinista, cui essi forte aderivano, ed abbracciare quello
della Chiesa Anglicana, innanzi dʼottenere la più piccola parte delle
limosine che erano state a lui affidate.

Tale fu la sua politica finchè nutrì la speranza che la Chiesa
Anglicana avrebbe consentito a predominare insieme con la Chiesa di
Roma. Tanta speranza un tempo fu per lui una certezza. Lo entusiasmo
con che i Tory lo avevano salutato nello ascendere chʼegli fece al
trono, le elezioni, il rispettoso linguaggio e le ampie concessioni
del suo Parlamento, la insurrezione delle Contrade Occidentali spenta,
prostrato il partito che aveva tentato di privarlo della corona;
queste e simiglianti altre cose lo avevano spinto oltre i confini
della ragione. Era sicuro che ogni ostacolo cederebbe innanzi la
sua potenza e fermezza. Il Parlamento gli oppose resistenza. Egli
adoperò il cipiglio e le minacce; ma a nulla giovarono. Si provò di
prorogarlo; ma dal giorno della proroga la opposizione ai suoi disegni
era divenuta ognora più forte. Sembrava chiaro che volendo mandare
ad effetto il proprio pensiero, gli era mestieri farlo sfidando quel
gran partito che aveva dato segnalate prove di fedeltà al suo grado,
alla sua famiglia, alla sua persona. Tutto il clero anglicano, tutti i
gentiluomini Cavalieri gli stavano contro. Invano egli, per virtù della
sua supremazia ecclesiastica, aveva comandato al clero che si astenesse
dal discutere i punti controversi. In ogni chiesa parrocchiale del
Regno, tutte le domeniche i sacerdoti esortavano i fedeli a guardarsi
dagli errori di Roma: esortazioni che erano le sole efficaci, perocchè
venivano accompagnate da proteste di riverenza verso il Sovrano, e da
giuramenti di sopportare pazientemente ciò che gli sarebbe piaciuto di
infliggere. I Cavalieri e scudieri realisti, i quali in quarantacinque
anni di guerra e di fazioni avevano con esimio valore difeso il
trono, adesso andavano con franche parole dicendo, essere risoluti
di difendere con pari valore la Chiesa. Per quanto duro dʼintelletto
fosse Giacomo, per quanto ei fosse dʼindole dispotica, conobbe chʼera
tempo di appigliarsi ad altra via. Non poteva a un tratto rischiarsi
ad oltraggiare tutti i suoi sudditi protestanti. Se si fosse potuto
indurre a fare concessioni al partito predominante in ambe le Camere,
a lasciare alla Chiesa Stabilita tutti gli emolumenti, i privilegi,
le dignità, avrebbe potuto sturbare le ragunanze deʼ presbiteriani,
ed empire le carceri di predicatori Battisti. Ma se era risoluto di
spogliare la gerarchia, gli era mestieri privarsi della voluttà di
perseguire i Dissenzienti. Se doveva da quinci innanzi appiccare
lite coʼ suoi vecchi amici, gli era necessario far tregua coi vecchi
nemici. Poteva opprimere la Chiesa Anglicana solo formando contro essa
una vasta coalizione, che comprendesse le sètte, le quali, benchè e
per dottrine e per ordinamento differissero lʼuna dallʼaltra molto
più che da quella, potevano, perchè erano egualmente gelose della sua
grandezza e ne temevano la intolleranza, essere indotte a far posa alle
loro animosità finchè la ponessero in condizione di non poterle più
opprimere.

Cosiffatto disegno piacevagli singolarmente per questa ragione. Potendo
riuscirgli di riconciliare fra loro i protestanti non–conformisti,
gli era dato sperare di porsi al sicuro contro ogni probabilità di
ribellione. Secondo i teologi anglicani, nessun suddito per qual si
fosse provocazione poteva equamente resistere con la forza allʼunto del
Signore. La dottrina deʼ Puritani era ben diversa. Essi non avevano
scrupolo a trucidare i tiranni con la spada di Gedeone. Molti di loro
non temevano dʼusare la daga di Ehud. E forse in quel mentre meditavano
unʼinsurrezione simile a quella delle Contrade Occidentali, una
congiura come quella di Rye House. Giacomo quindi pensò di potere senza
pericolo perseguitare la Chiesa qualora gli fosse riuscito di amicarsi
i Dissenzienti. Il partito, i cui principii non gli offrivano nessuna
guarentigia, si sarebbe a lui accostato per interesse. Il partito del
quale egli aggrediva glʼinteressi, sarebbe stato impedito dʼinsorgere
per principio politico.

Mosso da tali considerazioni, Giacomo, dal tempo in cui si divise di
mal umore dal suo Parlamento, cominciò a meditare una lega generale
di tutti i non–conformisti, cattolici e protestanti, contro la
religione dello Stato. Fino dal Natale del 1685, gli agenti delle
Provincie Unite scrivevano al loro Governo, essersi deliberato di
concedere, e pubblicare tra breve una tolleranza generale.[232] Si
vide col fatto che tale annunzio era prematuro. Eʼ sembra nondimeno,
che i separatisti fossero trattati con più mitezza nel 1686, che
nellʼanno precedente. Ma solo a poco a poco, e dopo lunga tenzone
con le proprie inclinazioni, il Re potè indursi a formare colleganza
con coloro chʼegli sopra tutti aborriva. Doveva vincere un odio non
lieve o capriccioso, non nato e cresciuto pur allora, ma, ereditario
nella sua famiglia, rinvigorito da gravissimi torti inflitti e
sofferti pel corso di cento venti anni di vicende, e immedesimato a
tutti i suoi sentimenti religiosi, politici, domestici e personali.
Quattro generazioni di Stuardi avevano mosso guerra mortale a quattro
generazioni di Puritani; e per tutta quella lunga guerra non vʼera
stato nessuno fra gli Stuardi che al pari di lui odiasse i Puritani,
e fosse da loro odiato. Eransi provati a disonorarlo, e ad escluderlo
dal trono; lo avevano chiamato incendiario, scannatore, avvelenatore;
lo avevano cacciato dallo Ammiragliato e dal Consiglio; lo avevano
più volte bandito; avevano congiurato ad assassinarlo; gli erano a
migliaia insorti contro impugnando le armi. Ei se ne era vendicato
con una strage non mai fino allora veduta in Inghilterra. I loro capi
e le loro squartate membra stavansi tuttavia fitti sulle pertiche a
imputridire in tutte le piazze delle Contee di Somerset e di Dorset.
Donne venerande per età e tenute in grande onoranza per religione e
carità daʼ settarii, erano state decapitate e bruciate vive per falli
sì lievi, che nessun buon principe avrebbe giudicate meritevoli nè
anche dʼuna severa riprensione. Tali erano state, anco in Inghilterra,
le relazioni tra il Re e i Puritani; e in Iscozia, la tirannia del Re
e il furore deʼ Puritani erano tali, che nessuno Inglese gli avrebbe
potuti concepire. Porre in oblio una nimistà così lunga e mortale non
era lieve impresa per un cuore singolarmente duro e implacabile qual
era quello di Giacomo.

La tenzone che travagliava lʼanimo del Re, non isfuggì allʼocchio
di Barillon. Alla fine di gennaio 1687, egli spedì a Versailles
una lettera notevolissima. Il Re—tale era la sostanza di cotesto
documento—era quasi convinto di non potere ottenere piena libertà a
pro deʼ Cattolici Romani, e a un tempo mantenere le leggi contro i
Protestanti Dissenzienti. Per la qual cosa, inclinava al partito di
concedere una indulgenza generale; ma in cuor suo amerebbe meglio di
potere anche adesso dividere la sua protezione e il suo favore tra la
Chiesa di Roma e quella dʼInghilterra, escludendone tutte le altre
sètte religiose.[233]

XXIII. Pochissimi giorni dopo che fu scritto cotale dispaccio, Giacomo,
esitando e di poco buona grazia, fece i primi passi a negoziare coi
Puritani. Aveva fatto pensiero di cominciare dalla Scozia, dove la sua
potestà di dispensare era stata riconosciuta dagli Stati verso lui
ossequenti. Il dì 12 febbraio, quindi, fu pubblicata in Edimburgo una
ordinanza ad alleggiare le coscienze scrupolose,[234] la quale prova
come fosse esatto il giudicio di Barillon. Fino nello stesso atto di
fare concessioni ai Presbiteriani, Giacomo non poteva nascondere il
disgusto che sentiva per essi. I Cattolici ebbero piena tolleranza. I
Quacqueri ebbero poca ragione di dolersi. Ma la indulgenza concessa
ai Presbiteriani, che formavano la maggioranza del popolo scozzese,
fu inceppata da condizioni tali, da renderla pressochè inutile. Al
vecchio Atto di Prova, il quale escludeva egualmente i Cattolici e i
Presbiteriani dagli uffici, fu sostituito un nuovo Atto di Prova che
ammetteva i Cattolici, ma escludeva la maggior parte deʼ Presbiteriani.
Ai Cattolici era lecito edificare cappelle, e anche portare lʼOstia
processionalmente in ogni luogo, tranne nelle strade maestre deʼ borghi
reali; ai Quacqueri era lecito di ragunarsi neʼ pubblici edifici: ma
ai Presbiteriani fu inibito di adorare Dio altrove che nelle private
abitazioni; non dovevano osare di erigere edifici per ragunarvisi;
non potevano servirsi nè anche di una loggia o di un granaio per
gli esercizi religiosi; e fu loro distintamente notificato, che ove
avessero ardimento di tenere conventicole allʼaria aperta, la legge
che puniva di morte i predicatori e gli uditori, verrebbe eseguita
senza misericordia. Qualunque prete cattolico poteva dir Messa;
qualunque Quacquero poteva arringare innanzi ai suoi confratelli: ma il
Consiglio Privato ebbe comandamento di impedire che nessun ministro
presbiteriano predicasse, senza speciale licenza del Governo. Ogni
parola di cotesto Atto e delle lettere onde fu accompagnato, mostra
quanto costasse al Re di mitigare minimamente il rigore col quale egli
aveva sempre trattato i vecchi nemici della sua famiglia.[235]

XXIV. Veramente, abbiamo ragione di credere, che allorquando egli
pubblicò cotesta ordinanza, non era pienamente risoluto di far lega coi
Puritani, e che il suo scopo era solo di concedere loro tanto favore
che bastasse ad atterrire i credenti della Chiesa Anglicana e indurli
a cedere. Onde egli aspettò per un mese a fine di vedere lo effetto
che produrrebbe in Inghilterra lʼeditto promulgato in Edimburgo. Quel
mese fu da lui impiegato assiduamente, giusta il consiglio di Petre, in
ciò che chiamavasi ingabinettare. Londra era molto affollata di gente.
Aspettavasi dʼora in ora la riapertura delle Camere pel disbrigo degli
affari, e molti deʼ membri erano in città. Il Re si pose a indagare
lʼanimo di ciascuno partitamente. Lusingavasi che i Tory zelanti—e
di siffatti uomini, tranne pochissimi, era composta la Camera deʼ
Comuni—avrebbero difficoltà a resistere alle calde dimande, fatte loro
non in comune, ma separatamente a ciascuno, non dal trono, ma nella
familiarità della conversazione. I rappresentanti, perciò, i quali
recavansi a Whitehall per rendere riverenza al sovrano, erano tratti in
disparte, e ricevevano lʼonore di lunghi colloqui. Il Re li pregava, a
nome della lealtà loro, a compiacerlo nella sola cosa che gli stesse
a cuore. Diceva andarci dellʼonor suo; le leggi fatte sotto il suo
predecessore da Parlamenti faziosi contro i Cattolici Romani, avere
avuto di mira lui solo; tali leggi avergli inflitta una macchia, averlo
espulso dallʼAmmiragliato e dal Consiglio Privato; avere egli diritto
che tutti coloro dai quali era amato e riverito, dovessero cooperare ad
abrogare quelle leggi. Come si accôrse che i rappresentanti rimanevano
duri alle sue esortazioni, si mise ad intimidirli e a corromperli.
A coloro che ricusarono di cedere alle sue voglie, fu a chiare note
detto, che non dovevano aspettarsi il più lieve segno della grazia
sovrana. Per quanto ei fosse spilorcio, aperse e profuse i suoi tesori.
Parecchi di coloro, chʼerano stati invitati a conferire con lui,
uscirono dalle regie stanze con le mani piene dʼoro dato dal Re stesso.

XXV. I Giudici, che a quel tempo facevano il giro ufficiale di
primavera, ebbero ordine di vedere quei rappresentanti che rimanevano
in provincia, e investigare i loro intendimenti. Il risultamento
di tali investigazioni fu, che la grande maggioranza della Camera
deʼ Comuni era risolutamente decisa ad opporsi alle misure della
Corte.[236] Fra coloro la cui fermezza destò universale ammirazione, si
rese notevole Arturo Herbert, fratello del Capo Giudice, rappresentante
di Dover, Maestro Guardaroba e Contrammiraglio dʼInghilterra. Arturo
Herbert era molto amato daʼ marinai, ed aveva voce dʼessere uno deʼ
migliori ufficiali appartenenti al ceto aristocratico. Supponevasi
comunemente chʼegli avrebbe di leggeri aderito alle voglie del Re,
imperciocchè era non curante della religione, amante di godere e
di spendere; non aveva patrimonio; i suoi impieghi gli fruttavano
quattromila lire sterline lʼanno; ed era da lungo tempo annoverato
tra i più fidi partigiani di Giacomo. Non per tanto, allorchè il
Contrammiraglio fu condotto alle secrete stanze del suo signore e
gli fu richiesta la promessa di votare contro la revoca dellʼAtto di
Prova, rispose che lʼonore e la coscienza non gli consentivano di
farlo. «Nessuno dubita dellʼonor vostro,» disse il Re «ma un uomo che
conduce la vita come voi, non dovrebbe parlare di coscienza.» A questo
rimprovero, che usciva con cattiva grazia dalle labbra del drudo di
Caterina Sedley, Herbert animosamente rispose: «Io ho i miei difetti,
o Sire; ma potrei nominare taluni i quali parlano di coscienza assai
più di quel che io ho costume di fare, e intanto menano una vita
sciolta come la mia.» Fu destituito da tutti i suoi impieghi; e i suoi
conti dʼentrata e uscita come Maestro Guardaroba, furono sindacati con
grande, e—come egli se ne dolse—ingiusta severità.[237]

Oggimai vedevasi chiaramente, che era mestieri abbandonare la speranza
dʼuna lega tra la Chiesa dʼInghilterra e quella di Roma a fine di
partire tra esse gli uffici e gli emolumenti. Nullʼaltro rimaneva, che
tentare una coalizione tra la Chiesa di Roma e le sètte puritane contro
la Chiesa Anglicana.

XXVI. Il diciottesimo giorno di marzo, il Re annunziò al Consiglio
Privato il pensiero di prorogare il Parlamento sino alla fine di
novembre, e concedere, di propria autorità, a tutti i suoi sudditi
piena libertà di coscienza.[238] Il di quarto dʼaprile, fu promulgata
la memorabile Dichiarazione dʼIndulgenza.

In questa Dichiarazione, il Re significava essere suo desiderio di
vedere il suo popolo rientrare in grembo di quella Chiesa alla quale
egli apparteneva. Ma poichè ciò non poteva conseguirsi, annunziava
chʼera suo intendimento proteggere ciascuno nel pieno esercizio della
propria religione. Ripeteva tutte quelle frasi che otto anni innanzi,
quando anchʼegli pativa oppressione, sʼudivano di continuo sulle sue
labbra, ma che aveva cessato dʼusare fino dal giorno in cui, per un
volgere di fortuna, era venuto in condizione di farsi oppressore.
Diceva, essere da lungo tempo convinto, che la coscienza non doveva
forzarsi; che la persecuzione tornava nociva allo incremento della
popolazione e del commercio, e non conduceva mai al fine vagheggiato
dal persecutore. Ripeteva la promessa, già più volte fatta e più volte
violata, di volere proteggere la Chiesa dello Stato nel godimento deʼ
suoi diritti. Procedeva quindi ad annullare, di propria autorità,
una lunga serie di Statuti. Sospendeva tutte le leggi penali contro
tutte le classi deʼ non–conformisti. Autorizzava i Cattolici Romani e
i Protestanti Dissenzienti a esercitare pubblicamente il loro culto.
Inibiva aʼ suoi sudditi—pena la collera sovrana—di molestare alcuna
religiosa assemblea. Abrogava parimente quegli Atti che imponevano
la prova religiosa come requisito ad occupare gli uffici civili e
militari.[239]

Che la Dichiarazione dʼIndulgenza fosse atto incostituzionale, è cosa,
intorno alla quale entrambi i grandi partiti inglesi hanno sempre
pienamente concordato. Chiunque sia capace di ragionare sopra una
questione politica, deve intendere che un monarca competente ad emanare
una simigliante dichiarazione, è niente meno che un monarca assoluto.
Nè a difesa di Giacomo possono allegarsi quelle ragioni con le quali
molti atti arbitrari degli Stuardi sono stati difesi o scusati. Non può
dirsi chʼei sʼingannasse circa i confini della regia prerogativa, come
quelli che non erano esattamente definiti. Imperciocchè è innegabile
chʼegli li travarcava, non ostante che gli stesse dinanzi allo sguardo
un esempio recente che in quel caso precisamente li stabiliva. Quindici
anni innanzi, una Dichiarazione dʼIndulgenza era stata promulgata dal
suo fratello per consiglio della Cabala. Ove cotesta Dichiarazione si
paragoni con quella di Giacomo, potrebbe reputarsi modesta e cauta.
La Dichiarazione di Carlo dispensava solo dalle leggi penali. La
Dichiarazione di Giacomo dispensava anco da tutti gli Atti di Prova
religiosa. La Dichiarazione di Carlo permetteva ai Cattolici Romani
di celebrare il loro culto solamente nelle private abitazioni. Per
virtù della Dichiarazione di Giacomo, essi potevano erigere e adornare
i tempii, ed anche andare processionalmente lungo Fleet Street con
croci, immagini e gonfaloni. E non ostante ciò, la Dichiarazione di
Carlo era stata nel modo più solenne giudicata illegale. La Camera deʼ
Comuni aveva deliberato, che il Re non aveva potestà di dispensare
dagli Statuti nelle materie ecclesiastiche. Carlo aveva ordinato che
quellʼistrumento venisse cancellato in presenza sua, aveva con le
proprie mani strappato il sigillo, e con un messaggio munito della sua
firma, e colle proprie labbra dal trono in pieno Parlamento, aveva
chiaramente promesso ad ambe le Camere, che quellʼAtto, il quale aveva
loro recato si grave offesa, non verrebbe mai considerato come esempio.
Le Camere a pieni voti, tranne un solo, avevano ringraziato il Re per
essersi degnato di compiacere ai desiderii loro. Non vʼè questione
costituzionale che sia stata decisa con maggiore delicatezza, chiarezza
ed unanimità.

I difensori di Giacomo, ad escusarlo, hanno spesso allegato il giudizio
della Corte del Banco del Re intorno alla querela collusivamente
deposta contro Sir Eduardo Hales: ma tale argomento è di nessun
valore; imperocchè quella sentenza, come è a tutti noto, fu ottenuta
da Giacomo per mezzo di sollecitazioni e di minacce, cacciando via
i magistrati scrupolosi, e sostituendone altri più cortigiani.
E nondimeno, quella sentenza, tuttochè dal fôro e dalla nazione
venisse generalmente considerata come incostituzionale, giunse solo
ad affermare, che il sovrano, per ispeciali ragioni di Stato, può
glʼindividui nominatamente esentare dagli Statuti portanti incapacità.
Ma nessun tribunale, di faccia alla solenne decisione parlamentare
del 1673, si era arrischialo ad affermare, che il Re avesse facoltà
dʼautorizzare con un solo editto tutti i suoi sudditi a disubbidire ad
interi volumi di leggi.

XXVII. Tali, nonostante, erano le condizioni deʼ partiti, che
credevasi certo, la Dichiarazione di Giacomo, quantunque fosse il
più audace degli attentati fatti dagli Stuardi contro le pubbliche
libertà, dover piacere a quegli stessi cittadini, i quali avevano
con più coraggio e pertinacia resistito a tutti gli altri attentati
degli Stuardi contro le libertà pubbliche. Non era supponibile che
il Protestante non–conformista, daʼ suoi concittadini diviso da dure
leggi rigorosamente eseguile, volesse contrastare la validità dʼun
decreto che lo alleggiava da insopportabili aggravi. Un osservatore
pacato e filosofo avrebbe indubitatamente affermato, che nessun male
derivante da tutte le leggi intolleranti fatte dai Parlamenti, era da
paragonarsi a quello che sarebbe nato, ove il potere legislativo dal
Parlamento fosse passato nelle mani del principe. Ma tanta pacatezza
e filosofia non è da trovarsi in coloro che gemono nella sciagura,
e ai quali sʼoffre la tentazione dʼessere subitamente liberati. Un
teologo puritano non poteva punto negare, che la potestà di dispensare
pretesa dalla Corona, era incompatibile coʼ principii fondamentali
della Costituzione. Ma anderebbe forse scusato sʼegli avesse detto:
Che importa a me della Costituzione? LʼAtto dʼUniformità lo aveva,
in onta alle promissioni sovrane, privato di un beneficio chʼera
sua proprietà, e lo aveva ridotto miserabile e dipendente. LʼAtto,
chiamato _Five–Mile–Act_, lo aveva bandito dalla sua abitazione, daʼ
parenti, dagli amici, da quasi tutti i luoghi pubblici. Per vigore
del _Conventicle–Act_, gli erano stati tolti i beni, ed egli era
stato seppellito in carcere fra mezzo ai ladroni ed agli assassini.
Fuori di prigione si vedeva ai fianchi gli ufficiali della giustizia;
era costretto a dar la mancia alle spie perchè non lo denunciassero;
passava ignominiosamente travestito, per finestre e bugigattoli
onde riunirsi al proprio gregge; e versando lʼonda battesimale e
amministrando il pane eucaristico, tendeva gli orecchi ansiosamente
ascoltando il segno che lʼavvertisse come gli uscieri si avvicinavano.
Non era egli uno scherno pretendere che un uomo in siffatta guisa
oppresso patisse il martirio per gli averi e la libertà deʼ suoi
spogliatori ed oppressori? La Dichiarazione, per quanto potesse
sembrare dispotica ai suoi felici vicini, lo liberava da tanti mali.
Egli fu chiamato ad eleggere, non tra la libertà e la schiavitù, ma fra
due gioghi; ed è naturale chʼegli stimasse il giogo del Re più lieve di
quello della Chiesa Anglicana.

XXVIII. Mentre tali pensieri agitavansi in mente ai Dissenzienti, il
partito anglicano era compreso di maraviglia e di terrore. Cotesto
nuovo rivolgimento delle pubbliche cose era, a dir vero, terribile.
La Casa Stuarda in lega coʼ repubblicani e coi regicidi contro i
Cavalieri dʼInghilterra; il papismo in lega coʼ Puritani contro un
ordinamento ecclesiastico, del quale i Puritani non querelavansi,
se non che riteneva troppo deʼ riti papali: erano portenti tali da
confondere tutti i calcoli degli uomini di Stato. La Chiesa doveva,
adunque, essere aggredita da ogni parte; e capo della aggressione
doveva essere colui che, per virtù della costituzione, era capo della
Chiesa stessa. Era, quindi, naturale che rimanesse maravigliata e
atterrita. E misti alla maraviglia e al terrore, destaronsi altri
sinistri umori: risentimento contro lo spergiuro Principe, da essa fino
allora affettuosamente servito; e rimorso delle crudeltà, a commettere
le quali egli era stato complice della Chiesa, e adesso pareva
dovernela punire. Ed era giusta punizione, imperocchè essa raccoglieva
ciò che aveva seminato. Dopo la Restaurazione, trovandosi al più alto
grado di sua potenza, non aveva ella altro spirito che vendetta.
Aveva inanimati, incitati e quasi costretti gli Stuardi a rimunerare
con perfida ingratitudine i recenti servigi deʼ Presbiteriani. Se
nella stagione della prosperità ella si fosse interposta, come era
suo debito, a pro deʼ propri nemici, gli avrebbe ora nella sciagura
trovati amici. Forse non era troppo tardi; forse poteva anche riuscire
di volgere la strategia del suo infido oppressore contro lui stesso.
Esisteva fra il Clero Anglicano un partito moderato, il quale era stato
sempre animato da miti sentimenti verso i Protestanti Dissenzienti.
Cotesto partito non era numeroso; ma sʼera reso rispettabile per
lʼabilità, la dottrina, e la virtù di coloro che lo componevano. Gli
alti dignitari ecclesiastici gli erano stati poco favorevoli, e i
bacchettoni della scuola di Laud lo avevano senza pietà oltraggiato: ma
dal giorno in cui apparve la Dichiarazione dʼIndulgenza fino a quando
la potenza di Giacomo cessò dʼincutere terrore, tutta quanta la Chiesa
Anglicana sembrò animata dallo spirito, e guidata dai consigli deʼ
calunniati Latitudinarii.

XXIX. Allora seguì, per così dire, una concorrenza al rincaro più
strana dʼogni altra, di cui serbi ricordo la storia. Da una parte il
Re, dallʼaltra la Chiesa, studiavano acquistarsi, ciascuno a danno
dellʼaltro, i favori di coloro ad opprimere i quali, fino a quel tempo,
il Re e la Chiesa erano andati dʼaccordo. I Protestanti Dissenzienti,
pochi mesi innanzi, erano una classe spregiata e proscritta; adesso
tenevano la bilancia del potere. La durezza usata loro venne
universalmente condannata. La Corte si provò di gettare tutta la colpa
sopra la gerarchia; la quale la rigettava in viso alla Corte. Il Re
dichiarò dʼavere a malincuore perseguito i Separatisti, solo perchè i
suoi affari erano in tali condizioni, che egli non poteva rischiarsi a
spiacere al clero anglicano. Il clero protestava dʼavere avuto parte in
una severità contraria alle proprie inclinazioni, solo per deferenza
allʼautorità del Re. Il Re mise insieme una raccolta di storielle
concernenti rettori e vicari, i quali con minacce di persecuzione
avevano estorto danaro dai Protestanti Dissenzienti. Ne parlò molto
e pubblicamente; minacciò dʼistituire unʼinchiesta, la quale avrebbe
mostrato al mondo i parrochi nelle loro genuine sembianze: e di
fatto, creò diverse Commissioni, incaricando certi agenti, deʼ quali
credeva potersi fidare, dʼindagare quanta pecunia in diversi luoghi
del reame gli aderenti alla religione dello Stato avevano estorta
daʼ settari. I difensori della Chiesa, dallʼaltro canto, citavano
esempi di onesti sacerdoti, i quali dalla Corte erano stati ripresi e
minacciati per avere dal pulpito inculcata la tolleranza, e ricusato
di spiare e denunziare le piccole congregazioni di Non–Conformisti. Il
Re asseriva che parecchi partigiani della Chiesa Anglicana, coi quali
aveva conferito in secreto, gli avevano offerte ampie concessioni a
favore deʼ Cattolici, a patto che la persecuzione contro i Puritani
avesse a continuare. Gli accusati partigiani della Chiesa animosamente
dicevano falsa lʼaccusa, aggiungendo che ove avessero voluto consentire
ciò che il Re domandava, questi avrebbe volentieri conceduto loro
che si indennizzassero perseguitando e spogliando i Protestanti
Dissenzienti.[240]

La Corte era cangiata dʼaspetto. Lʼabito da prete non poteva
mostrarvisi senza provocare gli scherni e i maliziosi bisbigli deʼ
cortigiani. Le dame di Corte, invece, astenevansi di ridere, e i
ciamberlani sʼinchinavano profondamente quando per la reggia vedevano
il viso e il vestire deʼ Puritani, che da tanto tempo erano stati neʼ
circoli del bel mondo materia di scherno. Taunton, che pel corso di
due generazioni era stata il baluardo del partito delle Teste–Rotonde
nelle Contrade Occidentali, che aveva due volte respinto le armi di
Carlo I, che sʼera levata come un solo uomo a favore di Monmouth, e che
da Kirke e da Jeffreys era stata trasmutata in macello di carne umana,
sembrava avere repentinamente acquistato nel cuore del Re il posto una
volta occupato da Oxford.[241] Il Re faceva forza a sè stesso, per
mostrarsi lusinghevolmente cortese aʼ più egregi fraʼ Dissenzienti. A
chi offerse danari, a chi uffici municipali, a chi grazie pei parenti
ed amici, i quali, implicati nella congiura di Rye House o nella
ribellione di Monmouth, ramingavano nel continente, o sudavano fra
le piantagioni americane. Simulò perfino di consentire coʼ Puritani
inglesi nella cortesia che mostravano ai loro confratelli stranieri.
Furono pubblicati in Edimburgo un secondo e un terzo proclama, coʼ
quali considerevolmente egli slargava la futile tolleranza concessa ai
presbiteriani dallo editto di febbraio.[242] I banditi Ugonotti, che il
Re per molti mesi aveva guardati in cagnesco, privandoli della limosina
fatta loro dalla nazione, adesso ricevevano alleggiamento e carezze.
Il Consiglio emanò un ordine per destare a favor loro la pubblica
liberalità. La condizione di conformarsi al culto anglicano, che il Re
aveva loro imposta per ottenere parte della limosina, sembra questa
volta essere stata tacitamente abrogata; e i difensori della politica
del Re ebbero la sfrontatezza di affermare, che quella condizione—la
quale, come risulta incontrastabilmente daʼ fatti, era stata immaginata
da lui dʼaccordo con Barillon—fosse stata adottata ad istanza deʼ
prelati della Chiesa Anglicana.[243]

Mentre il Re in cotesto modo studiavasi di blandire i suoi antichi
avversari, gli amici della Chiesa non erano meno di lui operosi.
Appena vedevansi i segni di quellʼacrimonia e di quel disprezzo con
che, dopo la Restaurazione, i prelati e i preti solevano trattare
i settarii. Coloro che poco innanzi erano additati come scismatici
o fanatici, adesso erano divenuti diletti confratelli protestanti;
deboli uomini forse, ma tuttavia confratelli, i cui scrupoli meritavano
pietoso compatimento. Ove essi in cotesta crisi si mostrassero sinceri
alla causa della Costituzione inglese e della religione riformata,
la loro generosità verrebbe tosto e largamente rimunerata. Invece di
una indulgenza di nessun valore legale, ne otterrebbero una vera,
assicurata con un atto del Parlamento. Anzi, molti aderenti alla
Chiesa Anglicana, i quali fino allora sʼerano fatti notare per la
loro inflessibile venerazione dʼogni gesto e dʼogni parola prescritta
nel Libro della Preghiera Comune, dichiaravansi oramai favorevoli,
non solo alla tolleranza, ma anche alla comprensione. Dicevano che
la disputa intorno al vestire e allo atteggiarsi, aveva per lungo
tempo diviso coloro i quali concordavano intorno ai punti essenziali
della religione. Finita la lotta mortale contro il comune nemico,
vedrebbero come il clero anglicano si mostrerebbe pronto a far loro
ogni concessione. Se i Dissenzienti dimandassero allora ciò che è
ragionevole, non solo sarebbero loro concessi gli uffici civili, ma
gli ecclesiastici; e Baxter e Howe, senza macchia veruna dʼonore e di
coscienza, potrebbero assidersi fra i vescovi.

XXX. Fra tutti i numerosi scritti coʼ quali in quel tempo la Corte e
la Chiesa ingegnavansi di trarre a sè il Puritano, che oggimai, per
uno strano volgere di fortuna, era divenuto arbitro delle sorti deʼ
suoi persecutori, dʼun solo è serbata fino ai dì nostri ricordanza;
cioè della Lettera a un Dissenziente. In questo articoletto,
tratteggiato con gran magistero, tutti gli argomenti atti a convincere
un Non–Conformista comʼera di suo dovere e interesse il preferire la
lega con la Chiesa alla lega con la Corte, sono condensati nel più
breve spazio, con lucidissimo ordine disposti, illustrati con spiritosa
vivacità, e rinvigoriti con eloquenza, la quale, ancorchè fervida e
veemente, non travarca i confini del buon senso e della convenevolezza.
La sensazione da esso prodotta fu immensa; imperocchè, essendo un
solo foglio volante, ne furono spediti per la posta ventimila e più
esemplari; e non vi fu luogo nel Regno, in cui non ne fosse sentito
lo effetto. Tosto comparvero alla luce ventiquattro risposte; ma la
voce pubblica le disse tutte cattive, e peggiore di tutte quella
di Lestrange.[244] Il Governo ne fu fortemente irritato, e fece
ogni sforzo a scoprire lo autore della Lettera; ma non fu possibile
trovarne prove legali. Ad alcuni parve riconoscervi le opinioni e lo
stile di Temple.[245] Ma, a dir vero, quella larghezza e acutezza
di concepimento, quella vivacità di fantasia, quello stile terso ed
energico, quella calma dignità, mezzo cortigiana e mezzo filosofica,
non perturbata mai dalla estrema concitazione del conflitto, erano
qualità appartenenti al solo Halifax.

XXXI. I Dissenzienti ondeggiavano; nè vanno di ciò rimproverati,
avvegnachè il Re gli alleviasse daʼ mali che essi soffrivano. Molti
insigni pastori erano stati liberati dalla prigionia; altri eransi
rischiati a ritornare dallo esilio. Le congregazioni che fino allora
sʼerano tenute di furto e fra le tenebre, adesso ragunavansi in
pieno giorno; cantavano salmi ad alta voce, tanto da farsi udire dai
magistrati, daʼ sagrestani e dagli agenti di polizia. Parecchi modesti
edifici per servigio del culto puritano, cominciarono a sorgere in
tutta la Inghilterra. Un diligente viaggiatore potrebbe anche oggi
notare la data del 1687, in alcuno deʼ più vecchi di siffatti edifici.
Nondimeno, per un giudizioso Dissenziente, le profferte della Chiesa
erano più accettabili di quelle fatte dal Re. La Dichiarazione
era nulla al cospetto della legge. Sospendeva gli statuti penali
contro i Non–Conformisti, solo finchè rimanevano sospesi i principii
fondamentali della Costituzione, e lʼautorità legittima del corpo
legislativo. E che era mai il valore di privilegi posseduti con tanta
ignominia e con sì poca sicurezza? Il trono da un giorno allʼaltro
avrebbe potuto divenire vacante, e toccare in sorte ad un Sovrano
fedele osservatore della religione dello Stato. Si sarebbe potuto
ragunare un Parlamento composto di credenti nella Chiesa Anglicana.
Quanto, deplorabile sarebbe allora la situazione deʼ Dissenzienti,
collegati coʼ Gesuiti contro la Costituzione! La Chiesa offriva una
indulgenza molto differente da quella concessa da Giacomo, e valida e
sacra al pari della _Magna Carta_. Ambedue i partiti avversi offrivano
libertà ai Separatisti: ma lʼuno voleva che essi la comperassero col
sacrifizio della libertà civile; lʼaltro glʼinvitava a godere della
libertà civile e della religiosa.

Per tali ragioni, quando anche si fosse potuto prestar fede alla
sincerità della Corte, un Dissenziente avrebbe ragionevolmente
dovuto congiungere la propria sorte con quella della Chiesa. Ma qual
guarentigia della propria sincerità offriva la Corte? La condotta fino
a quel tempo tenuta da Giacomo era nota a ciascuno. Per vero dire, non
era impossibile che un persecutore si fosse potuto col ragionamento
e con la esperienza convincere dellʼutilità della tolleranza. Ma
Giacomo non asseriva dʼessersi pur allora convinto: allʼincontro, non
lasciava sfuggire nessuna occasione per protestare come egli da molti
anni per principio abborrisse da ogni intolleranza. E nulladimeno, in
pochi mesi, aveva perseguitato a morte uomini, donne, giovinette, per
la loro religione. Aveva egli agito contro la evidenza e le proprie
convinzioni? O adesso mentiva per calcolo? Da questo dilemma non
vʼera modo a svincolarsi; ed ambedue le supposizioni erano fatali
alla pretesa onestà del Re. Era parimente manifesto, chʼegli sʼera
compiutamente sottoposto ai Gesuiti. Solo pochi giorni innanzi la
pubblicazione della Indulgenza, la Società di Gesù era stata da lui
onorata, malgrado i ben noti desiderii della Santa Sede, con un nuovo
segno di fiducia ed approvazione. Il Padre Mansueto, dellʼOrdine deʼ
Francescani, suo confessore, riverito da tutti per la sua indole dolce
e per la sua vita irreprensibile, ma da lungo tempo in odio a Tyrconnel
e Petre, era stato posto da parte. Il posto vacante era stato dato ad
un Inglese, di nome Warner, il quale, apostatando dalla religione del
proprio paese, erasi fatto Gesuita. Tale nomina non fu punto gradevole
ai Cattolici Romani moderati ed al Nunzio; e da ogni protestante
venne considerata come prova dello assoluto predominio deʼ Gesuiti
sullʼanimo del Re.[246] Siano quante si vogliano le lodi alle quali
queʼ reverendi possano giustamente pretendere, gli stessi adulatori
non potrebbero loro attribuire le qualità di largamente liberali o
rigorosamente veraci. Che, trattandosi dello interesse dellʼordine,
non avessero mai avuto scrupoli a chiamare in loro aiuto la spada deʼ
Principi, o violare il vero e la buona fede, era stato asserito al
cospetto del mondo, non solo daʼ protestanti loro accusatori, ma da
uomini altresì della cui virtù e del cui genio gloriavasi la Chiesa di
Roma. Era incredibile che un cieco discepolo deʼ Gesuiti, per principio
fosse zelante della libertà di coscienza; ma non era nè incredibile nè
improbabile chʼegli si reputasse giustificato, dissimulando i propri
veri sentimenti, onde rendere servigio alla propria vera religione. Era
certo che il Re in cuor suo gli Anglicani preferiva ai Puritani. Era
certo parimente, che mentre aveva speranza di trarre al suo partito
i credenti della Chiesa dʼInghilterra, non sʼera menomamente mostrato
cortese verso i Puritani. Poteva, adunque, dubitarsi, che ove gli
Anglicani si fossero anche allora arresi ai suoi desiderii, non avrebbe
volentieri sacrificato i Puritani? Per la parola da lui più volte data,
ei non sʼera astenuto dallo invadere i diritti legittimi di quel clero,
il quale aveva date cotante prove di affetto e di fedeltà verso la casa
di lui. Di qual sicurtà sarebbe adunque la sua parola alle sètte che
da lui divideva la rimembranza di mille imperdonabili ferite fatte e
ricevute?

XXXII. Calmato il primo concitamento, prodotto dalla promulgazione
della Indulgenza, eʼ parve che una rottura avesse avuto luogo nel
partito puritano. La minoranza, capitanata da pochi faccendieri che
difettavano di senno e miravano al proprio interesse, sosteneva il Re.
Enrico Care, il quale da gran tempo era stato il più acre ed indefesso
articolista deʼ Non–Conformisti, e neʼ giorni della Congiura Papale
aveva osteggiato Giacomo con estremo furore in un Giornale settimanale
detto _Pacco di Notizie da Roma_, adesso alzava la voce ad adulare,
come lʼaveva già alzata a vomitare calunnie ed insulti.[247] Lo agente
precipuo adoperato dal Governo a raggirare i Presbiteriani, era
Vincenzo Alsop, teologo di qualche riputazione, e come predicatore e
come scrittore. Il suo figliuolo, che era incorso nelle pene comminate
aʼ rei di crimenlese, ottenne la grazia; e in tal guisa il padre
adoperò tutta la propria influenza a pro della Corte.[248] Con Alsop si
congiunse Tommaso Rosewell. Costui, mentre infuriava la persecuzione
contro i Dissenzienti dopo la scoperta della Congiura di Rye House,
era stato falsamente accusato di avere predicato contro il Governo,
era stato processato da Jeffreys, e in onta alla evidenza deʼ fatti,
convinto daʼ giurati corrotti e dannato a morte. La ingiustizia della
sentenza era sì enorme, che gli stessi cortigiani ne vergognarono. Un
gentiluomo Tory che era stato presente al processo, corse di subito a
Carlo, dichiarando che la testa del suddito più leale in Inghilterra
non sarebbe più in sicuro, qualora Rosewell venisse punito. Gli stessi
giurati punse il rimorso quando ripensarono sopra ciò che avevano
fatto, e sforzaronsi di salvare la vita a quel misero. In fine, egli
ottenne perdono, ma a patto di dare una forte cauzione di buona
condotta per tutta la vita, e di presentarsi periodicamente al Banco
della Corte del Re. Oggimai per volere del Re fu liberato da cotesto
carico; e in tal modo divenne partigiano della Corte.[249]

Lo incarico di trarre al partito della Corte glʼindipendenti, venne
affidato ad uno deʼ loro ministri, chiamato Stefano Lobb. Lobb era
uomo debole, violento ed ambizioso. Sʼera spinto tanto oltre nella
opposizione, chʼera stato nominatamente proscritto in parecchi editti.
Adesso si rappacificò col Governo, e trascese tanto a mostrarsi
servile, quanto aveva trasceso a mostrarsi fazioso. Si collegò con la
cabala gesuitica, e caldamente suggerì cose, dalle quali abborrivano
i più savi ed onesti Cattolici Romani. Fu notato come egli di
continuo fosse in palazzo, e spesso nelle secrete stanze del Re;
come menasse una vita splendida, alla quale i teologi puritani erano
poco assuefatti; e fosse perpetuamente circondato da sollecitatori,
imploranti protezione ad ottenere grazie od uffici.[250]

XXXIII. Con Lobb era in grande intimità Guglielmo Penn. Penn non era
stato mai uomo di vigoroso intelletto. La vita da lui per due anni
menata, gli aveva non poco guasto il senso morale; e se la coscienza
mai gli rimordesse, confortavasi pensando di tendere a buono e nobile
scopo, e di non ricevere paga in danaro peʼ propri servigii.

Per influenza di questi, e dʼaltri uomini meno cospicui, diverse
corporazioni di Dissenzienti presentarono al Re indirizzi in rendimento
di grazie. Gli scrittori Tory hanno dirittamente notato, che il
linguaggio di cotesti scritti era così disgustevolmente servile, come
qualunque altra cosa che possa trovarsi neʼ più ampollosi elogi che
i Vescovi facevano degli Stuardi. Ma, diligentemente esaminando, è
agevole accorgersi che tale vergogna pesa sopra pochi del partito
puritano. Non vʼera città di mercato in Inghilterra, in cui non fosse
almeno un nucleo di Separatisti. Non fu trascurato sforzo veruno
per indurli a ringraziare il Re della largita Indulgenza. Lettere
circolari, con preghiera di firmarle, correvano per ogni angolo del
Regno, in tanto numero, che le valigie postali—come scherzevolmente
dicevasi—erano troppo gravi per essere trasportate dai cavalli da
posta. E nulladimeno, tutti glʼindirizzi che poteronsi ottenere
da tutti i Presbiteriani, Indipendenti e Battisti, sparsi per la
Inghilterra, non giunsero, in sei mesi, al numero di sessanta; nè vʼè
ragione a credere che fossero muniti di numerose firme.[251]

XXXIV. La massima parte deʼ protestanti non–conformisti, con fermezza
aderenti alla libertà civile, e non fidenti nelle promesse del Re
e deʼ Gesuiti, immutabilmente ricusarono di rendere grazie per un
favore, il quale, come bene poteva auspicarsi, nascondeva una trama.
Così pensavano tutti i più illustri capi di quel partito. Uno di
essi era Baxter. Secondo che abbiamo osservato, era stato processato
tosto dopo lʼascensione di Giacomo al trono; era stato brutalmente
insultato da Jeffreys, e convinto da giurati, quali in queʼ tempi gli
Sceriffi cortigiani avevano costume di scegliere. Baxter da circa un
anno e mezzo era rimasto in carcere, allorquando la Corte cominciò
seriamente a pensare di collegarsi coi non–conformisti. Non solo gli
fu data libertà, ma gli venne detto che ove volesse abitare in Londra,
poteva farlo, senza temere che la legge chiamata _Five–Act–Mile_
gli fosse applicata. Il Governo forse sperava che la rimembranza
deʼ mali sofferti, e il sentimento del conseguito riposo, avrebbe
in lui prodotto il medesimo effetto che destò in Rosewell e Lobb.
Vana speranza! perocchè Baxter non era uomo da lasciarsi ingannare
o corrompere. Ricusò di firmare qualunque indirizzo per rendere al
Sovrano grazie della compartita Indulgenza, e adoperò tutta lʼautorità
sua a promuovere la concordia tra la Chiesa e i Presbiteriani.[252]

Se vi fu uomo daʼ Protestanti Dissenzienti maggiormente stimato di
Baxter, egli era Giovanni Howe. Ad Howe, come a Baxter, tornava
personalmente utile il mutamento nella politica pur allora seguito.
La tirannide stessa la quale aveva sepolto Baxter in carcere, aveva
cacciato Howe in bando; e tosto dopo che Baxter era stato tratto
fuori della prigione del Banco del Re, Howe da Utrecht ritornava
in Inghilterra. Aspettavasi a Whitehall, che Howe adoperasse a
beneficio della Corte tutta lʼautorità chʼegli esercitava sopra i suoi
confratelli. Il Re stesso condiscese a chiedere il soccorso del suddito
da lui già oppresso. Eʼ sembra che Howe tentennasse; ma gli Hampden,
ai quali era vincolato di stretta amistanza, lo mantennero fermamente
fedele alla causa della Costituzione. Una ragunanza di ministri
presbiteriani fu tenuta in sua casa, onde considerare le condizioni
deʼ tempi, e stabilire il cammino da prendersi. La Corte era ansiosa
di conoscerne il risultamento. Due messi regii erano presenti alla
discussione, e recarono la trista nuova, che Howe sʼera dichiarato
decisamente avverso alla potestà di dispensare, e, dopo lunghe dispute,
aveva tratto alla propria opinione la maggioranza della assemblea.[253]

XXXV. Ai nomi di Baxter e di Howe è dʼuopo aggiungere quello di un
uomo loro inferiore e per grado sociale e per istruzione, ma uguale
per virtù, e superiore per ingegno; voglio dire Giovanni Bunyan. Aveva
esercitato il mestiere di calderaio, e servito come semplice soldato
nello esercito parlamentare. Ancora nel fiore degli anni, sʼera sentito
torturare dal rimorso pei peccati della sua gioventù, il più grave
deʼ quali sembra essere stato di quelli che il mondo reputa veniali.
Un vivo sentire e una potente immaginazione rendevano nel cuor suo
singolarmente terribile il conflitto. Gli pareva dʼessere colpito da
una sentenza di riprovazione, dʼavere bestemmiato contro lo Spirito
Santo, dʼavere venduto Cristo, di essere ossesso dal demonio. Ora udiva
alte voci dal cielo che lo ammonivano; ora si sentiva dalle furie
infernali susurrare agli orecchi empi consigli. Gli apparivano visioni
di lontane montagne sopra le cui cime il sole mandava coruschi i suoi
raggi; ma dalle quali egli era diviso da un vasto deserto di neve.
Sentiva dietro le spalle il demonio tirarlo per gli abiti. Pensava
portare impresso sulla fronte il segno di Caino. Temeva dʼesser presso
a scoppiare al pari di Giuda. La tortura della mente gli rovinò la
salute. Un giorno, dibattevasi come uomo colpito da paralisi. Un
altro, ei si sentiva ardere in petto un vivo fuoco. Torna difficile
lo intendere in che guisa egli potesse sopravvivere a uno strazio sì
forte e sì lungo. In fine, squarciaronsi le nubi che gli ottenebravano
la mente. Dal fondo della disperazione, il penitente innalzossi a
uno stato di calma beata. Adesso sentivasi tratto da irresistibile
impulso ad impartire agli altri la beatitudine chʼegli godeva.[254]
Si aggregò ai Battisti, e divenne predicatore e scrittore. La sua
educazione era stata quella dʼun artigiano. Non sapeva altra lingua
che la inglese, così come era parlata dal volgo. Non aveva studiato
nessuno insigne modello di scrivere, ad eccezione—eccezione, a dir
vero, importantissima—della nostra egregia versione della Bibbia.
Scriveva con cattiva ortografia. Commetteva di frequente errori
grammaticali. Nulladimeno, la innata forza del genio e la esperienza
di tutte le passioni religiose, dalla disperazione fino allʼestasi,
supplivano in lui abbondantemente al difetto della dottrina. La sua
rozza eloquenza concitava e faceva stemperare in lacrime coloro che
ascoltavano svogliatamente gli elaborati discorsi di grandi filosofi
ed ebraisti. I suoi scritti erano grandemente popolari nelle infime
classi. Uno di essi, intitolato il Viaggio del Pellegrino, venne,
vivente ancora lʼautore, tradotto in varie lingue straniere. E non
per tanto, era pressochè sconosciuto agli uomini dotti e culti; e da
quasi un secolo formava il diletto deʼ pii abitatori delle capanne e
degli artigiani, innanzi che venisse pubblicamente commendato da alcuno
letterato eminente. Alla perfine, i critici sʼindussero a ricercare
dove giacesse il segreto dʼuna popolarità cotanto ampia e durevole;
e furono costretti a confessare, che la ignorante moltitudine aveva
giudicato più dirittamente dei dotti, e che lo spregiato libercolo era
veramente un capolavoro. Bunyan, per certo, è il primo degli scrittori
dʼAllegorie, come Demostene è il primo degli oratori, e Shakespeare
il primo deʼ poeti drammatici. Altri allegoristi hanno fatto prova di
uguale ingegno; ma a nessun altro di loro è mai riuscito di toccare
il cuore, e trasmutare in astrazioni oggetti di terrore, di pietà e
dʼaffetto.[255]

Mal potrebbe dirsi che alcun Dissenziente inglese avesse più di
Giovanni Bunyan provato il rigore delle leggi penali. Deʼ ventisette
anni corsi dopo la Restaurazione, ne aveva passati dodici in carcere.
Persisteva a predicare, ma gli era uopo travestirsi da carrettiere.
Spesso veniva introdotto nelle ragunanze per qualche uscio segreto,
con la casacca sur una spalla e la frusta in mano. Se avesse pensato
alla salvezza ed agli agi suoi, avrebbe plaudito alla pubblicazione
della Indulgenza. Adesso, in fine, gli era dato liberamente pregare
e predicare di pieno giorno. Il suo uditorio sʼandava rapidamente
accrescendo; migliaia di cuori pendevano dallo sue labbra; e in
Bedford, dove egli dʼordinario stanziava, furono raccolti in abbondanza
danari a edificare una sala dʼadunanza. Lʼautorità di lui sul basso
popolo era tanta, che il Governo volentieri gli avrebbe dato qualche
ufficio municipale: ma il suo vigoroso intendimento e il suo robusto
animo inglese resistettero contro ogni tentazione ed inganno. Vedeva
chiaramente come la concessa tolleranza altro non fosse che un amo
per trarre alla rovina il partito puritano; nè accettando un ufficio,
a conseguire il quale egli non aveva i requisiti legali, voleva
riconoscere la validità della potestà di dispensare. Uno degli ultimi
atti della gloriosa sua vita fu di ricusare un convegno al quale ei
venne invitato da un agente del Governo.[256]

XXXVI. Per quanto grande fosse fraʼ Battisti lʼautorità di Bunyan,
quella di Guglielmo Kiffin era anco maggiore. Kiffin era primo tra
loro e per ricchezze e per grado. Aveva costume di compartire nelle
loro ragunanze i suoi doni spirituali; ma non sosteneva la vita con
la predicazione. Conduceva esteso traffico; aveva gran credito nella
Borsa di Londra; ed aveva accumulato un gran patrimonio. Forse in
quella occasione non vʼera uomo che potesse rendere alla Corte maggiori
servigi. Ma tra lui e la Corte stava la rimembranza dʼun terribile
fatto. Egli era lʼavo deʼ due Hewling, queʼ prestanti giovani, i
quali, fra tutte le vittime del Tribunale di Sangue, erano stati i
più universalmente compianti. Della trista sorte di uno di loro,
Giacomo era in guisa speciale responsabile. Jeffreys aveva differita
la esecuzione della sentenza pel minore deʼ fratelli. La sorella del
malarrivato giovane era stata introdotta da Churchill al cospetto di
Giacomo, ed aveva implorata mercè; ma il cuore del Re era rimasto
duro come un macigno. Grande, a tanta sciagura, era stato il dolore
della famiglia; ma Kiffin era colui che destava più compassione.
Aveva settanta anni di età allorquando rimase deserto e superstite a
coloro che dovevano chiudergli i moribondi lumi. Gli adulatori venali
e senza cuore di Whitehall, da sè giudicando gli altri, pensavano che
il venerando vecchio si sarebbe agevolmente riconciliato, ove il Re
gli gittasse sulle spalle la veste di Aldermanno, e gli desse qualche
compensazione pecuniaria pei beni confiscati ai nepoti. Penn ebbe
incarico di sedurlo, ma invano. Giacomo volle provare quale effetto
produrrebbero le regie blandizie. Kiffin fu chiamato a palazzo. Vi
trovò una eletta brigata di nobili e di gentiluomini. Appena egli
comparve, il Re gli si fece incontro volgendogli graziose parole, e
concluse: «Io ho notato il vostro nome, signore Kiffin, nella lista
degli Aldermanni di Londra.» Il vegliardo fisse gli occhi negli occhi
del Re, e dando in uno scoppio di pianto, rispose: «Sire, io son logoro
affatto: mi sento inetto a servire Vostra Maestà o la Città. Ahi! Sire,
la morte delle mie povere creature mi ha trafitto il cuore. La ferita
mi sanguina più che mai, e la porterò meco sotterra.» Il Re per un
istante ammutolì confuso; poi disse: «Signore Kiffin, troverò io un
balsamo a cotesta piaga.» Certamente Giacomo non intendeva dire cosa
crudele o insolente; allʼopposto eʼ sembra che fosse, contro lʼusato,
di modi dolci e cortesi. Nondimeno, la storia non rammenta parole
uscitegli dal labbro, che, al pari delle poche riferite, porgano più
sinistra idea del suo carattere. Sono parole dʼun uomo di cuor duro e
di mente abietta, inetto a concepire che vʼhanno dolori, a mitigare i
quali non valgono nè pensioni nè onorificenze dʼuffici.[257]

La parte deʼ Dissidenti favorevoli alla nuova politica del Re, se in
prima era poco numerosa, tosto cominciò a scemare; imperciocchè i
Non–Conformisti non guari dopo sʼaccôrsero che la Indulgenza aveva
ristretto più presto che esteso i loro privilegi spirituali. La
precipua caratteristica del Puritano era lo abborrimento deʼ riti della
Chiesa di Roma. Egli aveva abbandonata la Chiesa Anglicana, perocchè
stimava chʼessa somigliasse molto alla sua superba e voluttuosa
sorella, la maliarda dalla coppa dʼoro e dal manto di porpora. Adesso
vedeva che una delle condizioni implicite di quella colleganza, da
parecchi deʼ suoi pastori fatta con la Corte, era che la religione
della Corte dovesse essere trattata con rispetto e dolcezza. Sentì
quindi amaro desio deʼ giorni della persecuzione. Mentre erano in
vigore le leggi penali, egli aveva ascoltata la parola di vita
furtivamente e con suo pericolo: ma tuttavia lʼaveva ascoltata. Quando
i confratelli ragunavansi nella più secreta stanza, quando le scolte
erano ai posti loro, le porte ben chiuse, e il predicatore, travestito
da macellaio o da vetturino, sʼera introdotto su peʼ tetti, allora
almeno poteva adorare Dio secondo il vero culto. La verità divina non
era minimamente taciuta o timidamente espressa per umani riguardi.
Tutte le dottrine distintive della teologia puritana erano pienamente,
e perfino con modi rozzi, significate. Alla Chiesa di Roma non usavasi
punto indulgenza. La Bestia, lo Anticristo, lʼUomo del Peccato, la
mistica Jezabelle, la mistica Babilonia, erano le frasi ordinariamente
adoperate a descrivere quella augusta e incantevole superstizione. In
siffatto modo avevano favellato un tempo Alsop, Lobb, Rosewell ed altri
ministri, i quali erano stati poco innanzi accolti nella reggia; ma
così più non favellavano. Teologi che avevano in animo di conseguire
la grazia e la fiducia del Re, non potevano rischiarsi a parlare
aspramente della religione del Re. Le congregazioni per ciò altamente,
dolevansi, che dopo promulgata la Dichiarazione che pretendeva dar
loro piena libertà di coscienza, non avevano mai più udito predicare
fedelmente e con franchezza il Vangelo. Per lo innanzi erano stati
costretti a procacciarsi di furto il cibo spirituale; ma avutolo, lo
trovavano condito a seconda del gusto loro. Adesso potevano liberamente
cibarsi; ma quel cibo aveva perduto tutto il suo sapore. Adunavansi di
giorno e dentro comodi edifici; ma udivano discorsi meno soddisfacenti
di quelli che avrebbero udito daʼ rettori anglicani. Nella chiesa
parrocchiale il culto e la idolatria di Roma venivano ogni domenica
energicamente riprovati; ma nella sala dellʼadunanza, il pastore che
pochi mesi prima aveva vituperato il clero anglicano quasi al pari deʼ
papisti, adesso con gran cura astenevasi dal biasimare il papismo, o
esprimeva quel biasimo con parole sì delicate, da non offendere nè
anche le orecchie di Padre Petre. Nè era possibile addurre ragione
plausibile a giustificare siffatto mutamento. Le dottrine cattoliche
romane non avevano patita la minima variazione. A memoria dʼuomo
vivente, i preti cattolici romani non erano stati mai cotanto operosi a
fare proseliti; non erano mai usciti daʼ torchi tanti scritti cattolici
romani; tutti coloro, ai quali importavano le cose di religione, non
avevano mai con tanto calore atteso al conflitto tra i Cattolici Romani
e i Presbiteriani. Che poteva pensarsi della sincerità di teologi i
quali non sʼerano mai stanchi di irridere al papismo, quando esso era
comparativamente innocuo e privo di soccorso, e che adesso, giunto il
tempo di vero pericolo per la fede riformata, schivavano studiosamente
di profferire una sola parola offensiva contro un Gesuita? La loro
condotta di leggeri spiegavasi. Era noto che parecchi di loro avevano
ottenuto il perdono. Sospettavasi che altri avessero ricevuto danari.
Il loro modello poteva trovarsi in quel debole apostolo, il quale,
vinto dalla paura, rinnegò il Maestro, cui aveva pur dianzi giurato
immutabile affetto; e in quellʼaltro apostolo più vigliacco, che vendè
il proprio Signore per un pugno di monete.[258]

In cotal modo i ministri Dissenzienti i quali sʼerano dati alla Corte,
andavano rapidamente perdendo lʼautorità da essi un dì esercitata sopra
i loro confratelli. Dallʼaltra banda, i settari sentivansi tratti
da un forte sentimento religioso verso queʼ prelati e preti della
Chiesa Anglicana, i quali, in onta aʼ comandamenti, alle minacce,
alle promesse del Re, facevano ostinata guerra alla Chiesa di Roma.
Gli Anglicani e i Puritani, sì lungamente divisi da nimistà mortale,
si venivano sempre più ravvicinando, ed ogni passo che facevano verso
lʼunione, accresceva la influenza di colui che era capo dʼentrambi.
Guglielmo, per ogni rispetto, era lʼuomo adatto a fare la parte di
mediatore tra questi due grandi partiti della nazione inglese. Non
poteva dirsi aderente nè allʼuno nè allʼaltro. Nondimeno, nessuno di
quelli, non traviando dalla ragione, poteva non considerarlo come
amico. Il suo sistema teologico concordava con quello deʼ Puritani. Nel
tempo stesso, ei reputava lo episcopato, non quale istituzione divina,
ma qual forma veramente legale ed utile di Governo ecclesiastico.
Le questioni di gesti, di vestimenti, di feste, di liturgie, egli
considerava come di nessuna importanza. Avrebbe meglio gradito un culto
più semplice, e simile a quello al quale fin da fanciullo egli era
assuefatto. Ma era apparecchiato ad uniformarsi a qualunque rituale
fosse stato accetto alla nazione; e solo insisteva che altri non
pretendesse dovere egli perseguitare i suoi confratelli protestanti aʼ
quali la coscienza non consentiva di seguire lo esempio di lui. Due
anni innanzi, i numerosi bacchettoni di ambe le sètte lo avrebbero
giudicato un pretto Laodiceo, nè caldo nè freddo, e solo degno dʼessere
respinto. Ma lo zelo che aveva già infiammato gli Anglicani contro i
Dissenzienti, e i Dissenzienti contro gli Anglicani, sʼera talmente
mitigato nella avversità e nel pericolo comuni, che la tiepidezza, un
tempo attribuita a Guglielmo come un delitto, oggimai veniva annoverata
fra le precipue virtù sue.

XXXVII. Tutti erano ansiosi di sapere ciò che egli pensasse intorno
alla Dichiarazione dʼIndulgenza. Per qualche tempo, in Whitehall
speravasi che, pel suo ben noto rispetto verso i diritti della
coscienza, egli si sarebbe almeno astenuto dal disapprovare
pubblicamente una politica che aveva una speciosa apparenza di
liberalità. Penn spedì in gran copia disquisizioni allʼAja, e perfino
ci andò da sè, sperando nessuno resisterebbe alla sua eloquenza, della
quale egli aveva alto concetto. Ma, comunque arringasse intorno al
subietto con una facondia tale da stancare i suoi uditori, e comecchè
assicurasse dʼessergli stato rivelato da un uomo al quale era concesso
di conversare con gli angioli, lo approssimarsi di una età dʼoro per
la libertà religiosa, non fece la menoma impressione sopra lʼanimo del
principe.[259] «Voi mi chiedete» disse Guglielmo ad uno degli agenti
del Re «di secondare una guerra contro la mia propria religione. Io non
posso con sicurtà di coscienza farlo, e nol farò, no, nè anche per la
Corona dʼInghilterra, nè per lo impero del mondo.» Tali parole vennero
ridette al Re, e grandemente lo perturbarono.[260] Scrisse di propria
mano urgentissime lettere. Talvolta usò il tono dʼun uomo offeso. Egli
era il capo della famiglia reale, e come tale aveva diritto dʼesigere
obbedienza daʼ membri di quella; e gli tornava duro vedersi avversato
nella cosa che gli stava più a cuore. Altra volta, adoperando una
seduzione, alla quale credevano Guglielmo non potere resistere, gli fu
fatto sapere, che ove egli cedesse in cotesto solo punto, il Governo
inglese in ricompensa lo avrebbe con tutte le sue forze aiutato nella
lotta contro la Francia. Ma non era uomo da lasciarsi cogliere alla
rete. Bene sapeva che Giacomo, senza il concorso del Parlamento, non
avrebbe in guisa alcuna potuto rendere efficaci servigi alla causa
comune a tutta lʼEuropa; e non era dubbio, che ove venisse ragunato
il Parlamento, ambedue le Camere avrebbero, prima dʼogni altra cosa,
chiesta lʼabrogazione della Indulgenza.

La Principessa assenti a tutto ciò che le fu detto dal marito. I
loro concordi pareri, espressi con parole ferme, ma temperate, furono
comunicati al Re. Dichiaravano, profondamente rincrescere loro il
cammino nel quale la Maestà Sua erasi messa: esser convinti, aver egli
usurpata una prerogativa che per legge non gli apparteneva: contro
siffatta usurpazione protestare, non solo come amici alla libertà
civile, ma come membri della regale famiglia, i quali avevano grande
interesse a mantenere i diritti di quella Corona che un giorno essi
avrebbero forse portato; imperocchè erasi per esperienza veduto,
come in Inghilterra il governo dispotico non potesse mancare di far
nascere una reazione più perniciosa dello stesso dispotismo; e poteva
ragionevolmente temersi, che la nazione impaurita ed esacerbata dalla
minaccia della tirannide, potrebbe prendere a schifo anco la monarchia
costituzionale. E però consigliavano il Re di governare il paese
secondo lo leggi. Ammettevano, la legge potersi variare in meglio dalla
autorità competente, e alcuni articoli della Dichiarazione meritare
dʼessere formulati in un Atto di Parlamento. Aggiungevano, chʼessi
non erano persecutori, e avrebbero quindi con satisfazione veduto
i Protestanti Dissenzienti alleggiati, ma con modo convenevole, da
tutti gli statuti penali: avrebbero, con pari satisfazione, veduto
ammetterli, ma con modo egualmente convenevole, agli uffici civili.
Quivi era dʼuopo alle Altezze Loro fermarsi; imperciocchè non potevano
non temere grandemente, che se i Cattolici Romani venissero dichiarati
capaci ad occupare impieghi di pubblica fiducia, gravissimi mali ne
nascerebbero; e lasciavano senza ambiguità intendere, che tali timori
originavano precipuamente dalla condotta di Giacomo.[261]

XXXVIII. La opinione manifestata dal Principe e dalla Principessa
intorno alle incapacità che gravavano i Cattolici Romani, era quella di
quasi tutti gli uomini di Stato e i filosofi che allora erano zelanti
della libertà politica e religiosa. Nella età nostra, allʼincontro,
gli uomini illuminati hanno soventi volte con rincrescimento asserito,
che in cotesto subietto Guglielmo sembra minore, ove si agguagli al
suo suocero. Vero è che alcune considerazioni necessarie a rettamente
giudicare, sono sfuggite alla mente di molti scrittori del secolo
decimonono.

Vi sono due opposti errori, in cui coloro che studiano gli annali
della patria nostra, continuamente pericolano di cadere: lo errore di
giudicare il presente per mezzo del passato; e lo errore di giudicare
il passato per mezzo del presente. Il primo appartiene alle menti
inchinevoli a venerare ciò che è vecchio: il secondo alle menti
corrive ad ammirare ciò che è nuovo. Lʼuno può sempre osservarsi neʼ
ragionamenti deʼ politici conservatori intorno alle questioni deʼ
loro tempi; lʼaltro, nelle speculazioni degli scrittori della scuola
liberale sempre che discutono intorno ai fatti dʼun età trascorsa.
Quello è più pernicioso in un uomo di Stato; questo in uno storico.

Non è agevole a chi, neʼ tempi nostri, imprende a trattare della
rivoluzione che detronizzò gli Stuardi, tenersi fermamente per lo
diritto mezzo fra cotesti due estremi. La questione se i membri
della Chiesa Cattolica Romana potevano senza pericolo ammettersi al
Parlamento e agli uffici, perturbò la patria nostra, regnante Giacomo
II; quietò alla caduta di lui; e dopo dʼessere rimasta sopita per più
dʼun secolo, fu ridestata da quel grande concitamento dello spirito
umano, dopo il ragunarsi della Assemblea Nazionale in Francia. Pel
corso di trenta anni, la contesa progredì in ambedue le Camere del
Parlamento, in ogni collegio elettorale, in ogni cerchio sociale.
Distrusse ministeri, sgominò partiti; in una parte dello Impero rese
impossibile ogni specie di Governo; e in fine ci condusse allʼorlo
dʼuna guerra civile. Anche terminata la lotta, le passioni che ne erano
nate, continuarono ad infuriare. Era pressochè impossibile a chiunque
avesse la mente dominata da cotali passioni, il vedere nella loro vera
luce gli eventi degli anni 1687 e 1688.

Parecchi uomini politici, muovendo da questa retta sentenza, che la
Rivoluzione è stata un gran bene alla patria nostra, giunsero alla
falsa conclusione, che non si poteva senza pericolo abolire nessuno
Atto di Prova, cui gli uomini di Stato della Rivoluzione avevano
creduto necessario dʼimporre, a fine di proteggere la religione e la
libertà nostra. Altri, muovendo dalla retta sentenza, che le incapacità
imposte ai Cattolici Romani non avevano prodotto altro che danno,
giunsero alla falsa conclusione, che in nessun tempo le predette
incapacità furono mai necessarie. Il primo errore serpeva per entro
alle orazioni dellʼacuto e dotto Eldon; il secondo influì anche sopra
un intelletto grave e filosofico, qual era quello di Mackintosh.

Nonostante, esaminando bene la cosa, si vedrà forse che noi possiamo
difendere la condotta che era unanimemente approvata da tutti gli
statisti inglesi del secolo decimosettimo, senza porre in questione
la saviezza della condotta unanimemente approvata da tutti glʼinglesi
statisti del tempo nostro.

Senza dubbio, egli è un male che alcun cittadino sia escluso dagli
uffici civili a cagione delle sue opinioni religiose; ma talvolta alla
umana saggezza altro non rimane che lo scegliere fra diversi mali. Può
una nazione trovarsi in tale situazione, che la maggioranza debba o
imporre incapacità o sottoporvisi; e ciò che in condizioni ordinarie
può giustamente biasimarsi come persecuzione, possa essere considerato
come retto mezzo di difesa: e siffatta, nellʼanno 1687, era la
situazione dellʼInghilterra.

Secondo la Costituzione del Regno, Giacomo aveva potestà di nominare
quasi tutti i pubblici ufficiali; politici, giudiciali, ecclesiastici,
militari e marittimi. Nello esercizio di tale potestà egli non era,
al pari deʼ Sovrani deʼ giorni nostri, costretto ad agire secondo il
consiglio deʼ ministri approvati dalla Camera deʼ Comuni. Era quindi
evidente, che, a meno chʼegli non fosse strettamente obbligato per
legge a non concedere uffici ad altri che ai Protestanti, starebbe in
lui di non concederli ad altri che ai Cattolici Romani. I Cattolici
Romani erano pochi di numero, e fra loro non vʼera un solo uomo deʼ
cui servigi la cosa pubblica non potesse fare a meno. La proporzione
in che essi stavano verso la popolazione dellʼInghilterra, era assai
minore di quel che sia nei giorni nostri. Imperciocchè, adesso, dalla
Irlanda lʼonda della emigrazione di continuo si versa sulle nostre
grandi città; ma nel secolo decimosettimo non era in Londra nè anche
una colonia irlandese. Quarantanove cinquantesimi degli abitanti del
reame, quarantanove cinquantesimi dei possidenti del reame, pressochè
tutti gli uomini abili, esperti e dotti nella politica, nella
giurisprudenza, nellʼarte militare, erano Protestanti. Nondimeno, il
Re, stranamente acciecato, sʼera fitto in capo di servirsi della sua
potestà di conferire glʼimpieghi, come di un mezzo a fare proseliti.
Appartenere alla Chiesa di lui, era agli occhi suoi il primo di tutti
i requisiti ad ottenere un ufficio. Appartenere alla Chiesa dello
Stato, era una positiva incapacità. Biasimava, egli è vero, con parole,
cui hanno fatto plauso alcuni creduli amici della libertà religiosa,
la mostruosa ingiustizia di quellʼAtto di Prova, che escludeva
una piccola minoranza della nazione daʼ pubblici impieghi; ma nel
tempo stesso studiavasi dʼimporre un Atto di Prova che escludesse
la maggioranza. Gli pareva ingiusto che un uomo il quale fosse buon
finanziere e suddito leale, dovesse essere escluso dallʼufficio di
Lord Tesoriere solamente perchè era papista. Ma egli stesso aveva
cacciato via un Lord Tesoriere, da lui tenuto per buon finanziere e
leale suddito, solamente perchè era Protestante. Aveva più volte e
chiaramente detto, che non avrebbe mai posto il bianco bastone nelle
mani dʼun eretico. Quanto agli altri grandi uffici dello Stato, aveva
tenuto la medesima condotta. Già il Lord Presidente, il Lord del
Sigillo Privato, il Lord Ciamberlano, il Lord detto _Groom of the
Stole_, il primo Lord del Tesoro, un Segretario di Stato, il Lord Alto
Commissario di Scozia, il Cancelliere e il Segretario di Scozia, erano,
o facevano mostra dʼessere, Cattolici Romani. Molti di costoro nati
nella Chiesa Anglicana, sʼerano resi colpevoli dʼapostasia pubblica
o segreta, onde ottenere i loro alti uffici, o mantenervisi. Tutti i
Protestanti che seguitavano a rimanere in alcuni impieghi dʼimportanza,
di continuo temevano dʼessere destituiti. Non finirei mai se volessi
notare gli altri impieghi occupati dai Cattolici Romani, i quali già
brulicavano in ogni dipartimento del pubblico servizio. Essi erano
Lordi Luogotenenti, Deputati Luogotenenti, Magistrati, Giudici di
Pace, Commissari delle Dogane, Legati presso le Corti straniere,
Colonnelli di Reggimento, Governatori di fortezze. La proporzione degli
emolumenti che la Corona aveva potestà di concedere e che i Cattolici
avevano in pochi mesi ottenuti, era dieci volte maggiore di quel che
sarebbe stata sotto un governo imparziale. E vʼera anche peggio. Ad
essi fu data potestà di governare la Chiesa Anglicana. Uomini che
avevano assicurato al Re di professare la religione di lui, sedevano
nellʼAlta Commissione, ed esercitavano giurisdizione suprema nelle
cose spirituali sopra tutti i prelati e i preti della Religione dello
Stato. Beneficii ecclesiastici di grande dignità erano, stati impartiti
ad uomini che o professavano apertamente il papismo, o lo professavano
di furto. E tutto ciò compivasi mentre le leggi contro il papismo non
erano per anche abrogate, e mentre Giacomo aveva non poco interesse a
simulare rispetto ai diritti della coscienza. Quale, dunque, sarebbe
verosimilmente stata la sua condotta, se i suoi sudditi avessero
consentito con un Atto legislativo a liberarlo anco dallʼombra della
restrizione? È egli possibile dubitare, che facendo uso strettamente
legale della prerogativa, i Protestanti sarebbero stati esclusi dagli
uffici, come lo fossero mai stati i Cattolici Romani per virtù dʼAtto
Parlamentare?

Con quanta ostinazione Giacomo fosse deliberato a compartire ai suoi
correligionari gli emolumenti dello Stato fuori dʼogni proporzione
col numero e con lʼimportanza loro, si raccoglie dalle istruzioni
chʼegli, esule e vecchio, scrisse per ammaestramento di suo figlio.
Non è possibile senza un sentimento di pietà e di scherno leggere
quelle espansioni dʼuna mente alla quale tutti gli ammonimenti della
esperienza e dellʼavversità erano tornati vani. Ivi il Pretendente
è avvertito, ove ascendesse mai sul trono dʼInghilterra, a partire
gli uffici, e conferirne ai membri della Chiesa di Roma tanta parte,
quanta sarebbe loro bastata se invece dʼessere la cinquantesima parte
della nazione, ne fossero stati la metà. Un Segretario di Stato, un
Commissario del Tesoro, un Segretario di Guerra, il maggior numero
deʼ grandi dignitari della Casa Reale, il maggior numero degli
ufficiali dellʼesercito, debbono sempre essere Cattolici. Tali erano
glʼintendimenti di Giacomo dopo che la sua perversa bacchettoneria gli
aveva chiamato sul capo una punizione la quale aveva spaventato il
mondo intero. È egli, quindi, possibile dubitare quale sarebbe stata
la sua condotta se il suo popolo, tratto in inganno dal vuoto nome di
libertà religiosa, lo avesse lasciato senza freno procedere per la sua
via?

Eʼ sembra che anco Penn, per quanto intemperante e dissennato fosse il
suo zelo per la dichiarazione, sentisse come la parzialità onde gli
onori e gli emolumenti erano prodigati ai Cattolici Romani, poteva
ragionevolmente destare gelosia nella nazione. Ei confessava, che,
abrogando lʼAtto di Prova, i Protestanti avrebbero diritto ad un
compenso, o, come egli diceva, equivalente; e giunse fino a indicare
varie specie di compensi. Per parecchi giorni la parola _equivalente_,
dalla Francia pur allora passata in Inghilterra, sʼudiva sulle labbra
di tutti gli oratori delle botteghe di caffè: se non che poche pagine,
condite di acuta logica e delicato sarcasmo, scritte da Halifax, posero
fine a queʼ futili disegni. Una delle proposte di Penn era di fare una
legge la quale dividesse in tre parti uguali glʼimpieghi che la Corona
aveva potestà di concedere, e desse una di queste tre parti ai membri
della Chiesa di Roma. Ed anche con siffatto ordinamento, i membri della
Chiesa di Roma avrebbero ottenuto gli uffici in proporzione quasi
venti volte maggiore di quel che sarebbe stato giusto; e nondimeno,
non abbiamo ragione a credere che il Re volesse consentire a cotale
ordinamento. Ma ove avesse consentito, quale guarentigia avrebbe egli
offerto di mantenere il patto? Il dilemma proposto da Halifax non
ammetteva risposta. Se le leggi vi legano, osservate quella che esiste;
se non vi legano, è inutile farne una nuova.[262]

È chiaro, adunque, che la questione non era di vedere se gli uffici
secolari dovessero essere accessibili aglʼindividui di tutte le sètte.
Finchè Giacomo rimaneva sul trono, era inevitabile la esclusione; e
si trattava di sapere quali dovevano rimanere esclusi, i Papisti o i
Protestanti, i pochi o i molti, centomila inglesi o cinque milioni.

Cotali sono i gravi argomenti pei quali la condotta del Principe
dʼOrange verso i Cattolici Romani dʼInghilterra si può conciliare coʼ
principii della libertà religiosa. Questi argomenti, come potrebbe
notarsi, non hanno relazione alcuna con la teologia cattolica romana.
Potrebbe anche notarsi, che essi tornarono vani dopo che la Corona
si fu rafferma in una dinastia di sovrani protestanti, e dopo che la
Camera deʼ Comuni nello Stato ebbe acquistata tanta preponderanza, che
nessun sovrano, siano qualunque si vogliano supporre le sue opinioni
o le sue tendenze, avrebbe potuto imitare lo esempio di Giacomo. La
nazione, non per tanto, dopo i terrori, le lotte, i pericoli suoi,
rimase piena dʼumori sospettosi e vendicativi. E però queʼ mezzi di
difesa, un tempo dalla necessità giustificati, e dalla sola necessità
giustificabili, furono ostinatamente adoperati anco dopo che non
furono più necessari, e non furono messi da banda finchè il volgare
pregiudizio mantenne un conflitto di molti anni contro la nazione.
Ma neʼ tempi di Giacomo la nazione e il pregiudizio volgare stavano
insieme congiunti. I fanatici ed ignoranti volevano escludere dagli
uffici il Cattolico Romano perchè adorava glʼidoli di legno e di
pietra; perchè era segnato del segno della bestia, aveva arsa Londra,
strangolato sir Edmondsbury Godfrey; e il più savio e tollerante
politico, mentre sorrideva aglʼinganni che traviavano la plebe,
riusciva, per diverso cammino, alla stessa conclusione.

Il gran pensiero di Guglielmo oramai era quello di congiungere in un
solo corpo le numerose parti del popolo, le quali lo consideravano come
loro capo comune. A compire cotesta opera fu aiutato da alcuni abili
e fidi uomini, fraʼ quali gli furono di singolare utilità Burnet e
Dykvelt.

XXXIX. Quanto a Burnet, a dir vero, era mestieri servirsene con qualche
cautela. La cortesia onde egli era stato accolto allʼAja, aveva destata
la rabbia di Giacomo. Il quale scrisse a Maria varie lettere piene
dʼinvettive contro lo insolente e sedizioso teologo da lei protetto.
Ma cosiffatte accuse fecero in lei sì poco effetto, che scrisse al
padre lettere di risposta dettate dallo stesso Burnet. In fine, nel
gennaio del 1687, il Re ricorse a più vigorosi mezzi. Skelton, che
aveva rappresentato il governo inglese appo le Provincie Unite, era
stato inviato a Parigi, e gli era stato sostituito Albeville, il più
debole e vile di tutti i componenti la cabala gesuitica. Albeville non
curavasi dʼaltro che del danaro, e lo prendeva da tutti coloro che
glielʼoffrissero. Era pagato a un tempo dalla Francia e dallʼOlanda;
anzi abbassavasi fino al di sotto della miserabile dignità della
corruzione, ed accettava mance sì frivole, chʼerano degne più presto
dʼun facchino o dʼun servitore che dʼun inviato, baronetto inglese e
insignito di un marchesato in paese straniero. Una volta accettò con
molta compiacenza una gratificazione di cinquanta zecchini in prezzo
dʼun servigio da lui reso agli Stati Generali. Costui ebbe incarico di
chiedere che Burnet non fosse più oltre tollerato allʼAja. Guglielmo
che non voleva perdere un amico si utile, rispose tosto con la sua
solita freddezza: «Io non so, o Signore, che il Dottore da che è
stato qui, abbia fatto o detto cosa, di cui sua Maestà possa muovere
giusto lamento.» Ma Giacomo instette; il tempo dʼuna aperta rottura
non era per anche arrivato; e fu mestieri cedere. Per diciotto e più
mesi Burnet non comparve mai dinanzi al Principe o alla Principessa:
ma abitava loro da presso; sapeva ogni cosa che seguisse; veniva
continuamente richiesto di consiglio; la sua penna era adoperata
in tutte le più importanti occorrenze; e molti deʼ più pungenti ed
efficaci articoli, che intorno a quel tempo pubblicavansi in Londra,
venivano dirittamente a lui attribuiti.

Oltre misura sʼaccrebbe la rabbia di Giacomo, il quale era sempre
stato non poco inchinevole allʼira. Per nessuno deʼ suoi nemici,
nè anche per coloro che lo avevano con lo spergiuro incolpato di
tradimento e dʼassassinio, aveva egli mai sentito lo sdegno onde adesso
era acceso contro Burnet. Sua Maestà quotidianamente vituperava il
Dottore con parole indegne dʼun Re, e meditava vendicarsene con modo
proditorio. Il solo sangue non sarebbe bastato a sbramare quellʼodio
frenetico. Lo insolente teologo, innanzi che gli fosse concessa la
morte, doveva patire i tormenti della tortura. Fortunatamente egli
era scozzese; e in Iscozia, avanti che fosse appeso alle forche nel
Grassmarket, potevano dirompergli le gambe con lo stivaletto. Per la
qual cosa venne contro lui istituito un processo in Edimburgo: ma sʼera
naturalizzato in Olanda; aveva sposata una olandese; e sapevasi certo
che il governo della sua patria adottiva non lo avrebbe consegnato. Fu
quindi deliberato di coglierlo alla rete e rapirlo. Con grossa somma
di pecunia si presero a soldo alcuni facinorosi uomini per compire
la perigliosa ed infame opera. Un ordine di sborsare tre mila lire
sterline a cotesto uso fu scritto per esser firmato nellʼufficio del
Segretario di stato. A Luigi fu palesato il disegno, e vi prese un
caldo interesse. Diceva di volere fare ogni sforzo perchè lo scellerato
fosse dato nelle mani del Governo inglese, promettendo ad un tempo
asilo sicuro in Francia ai ministri della vendetta di Giacomo. Burnet
bene sapeva dʼessere in grave pericolo; ma la timidità non andava
annoverata fraʼ suoi difetti. Stampò una coraggiosa risposta alle colpe
che gli erano state apposte daʼ tribunali di Edimburgo. Diceva saper
bene che lo volevano ammazzare senza processo; ma affidarsi nel Re dei
Re, al cospetto del quale il sangue innocente non grida invano vendetta
anco contro i possenti principi della terra. Invitò a desinare alcuni
amici suoi, e in sulla fine disse loro in solenne contegno lʼultimo
addio, come uomo dannato a morire, col quale non era quinci innanzi per
loro sicuro il conversare. Non pertanto seguitò a mostrarsi in tutti i
luoghi pubblici dellʼAja con tanta audacia da muovere gli amici suoi a
rimproverarlo di insana temerità.[263]

XL. Mentre Burnet era segretario di Guglielmo per gli affari inglesi in
Olanda, Dykvelt non era stato meno utilmente mandato in Inghilterra.
Dykvelt apparteneva a quella insigne classe dʼuomini pubblici, i quali
avendo imparato la politica nella nobile scuola di Giovanni De Witt,
dopo la caduta di quel gran ministro, pensavano di adempiere meglio al
debito loro verso la repubblica collegandosi col Principe di Orange.
Fra tutti i diplomatici aʼ servigi delle Provincie Unite nessuno per
destrezza, indole e modi, era superiore a Dykvelt. Nella conoscenza
degli affari inglesi, a quanto sembra, nessuno lʼuguagliava. Trovato
un pretesto, egli in sul principio del 1687 fu spedito in Inghilterra
per una commissione speciale, munito di lettere di credenza dagli Stati
Generali. Ma in verità egli non andava ambasciatore al Governo, bensì
alla opposizione; e intorno al modo di condursi ricevè istruzioni
peculiari scritte da Burnet ed approvate da Guglielmo.[264]

XLI. Dykvelt scrisse come Giacomo fosse amaramente mortificato della
condotta del Principe e della Principessa. «Il dovere del mio nepote»
disse il Re «è quello di rinvigorire il mio braccio, ed invece gli è
piaciuto di contrariarmi sempre.» Dykvelt rispose che nelle faccende
private Sua Altezza aveva mostrato ed era pronto a mostrare la più
grande deferenza ai voleri del Re; ma non era ragionevole pretendere
chʼegli, principe protestante, cooperasse con altri aʼ danni della
religione protestante.[265] Il Re si tacque, ma non calmossi. Vedeva,
con tanto cattivo umore da non poterlo nascondere, Dykvelt ordinare e
disciplinare le varie frazioni della opposizione, con una maestria,
che sarebbe stata argomento di lode in uno statista inglese, e che
era maravigliosa in uno straniero. Al clero diceva che avrebbe nel
principe dʼOrange trovato un amico allo episcopato e al Libro della
Preghiera Comune. Incoraggiava i Non–Conformisti ad aspettarsi da lui,
non solo tolleranza, ma comprensione ovvero assimilazione alla Chiesa
dello Stato. Seppe conciliarsi perfino i Cattolici Romani; ed alcuni
deʼ più rispettabili fra loro dichiararono al cospetto del Re dʼessere
soddisfatti delle proposte di Dykvelt, e dʼamar meglio una tolleranza
assicurata con un Atto legislativo, che un predominio illegale e
precario.[266] I capi di tutti i più importanti partiti della nazione
conferivano spesso in presenza del destro diplomatico. In siffatte
ragunanze le opinioni del partito Tory erano principalmente espresse
daʼ Conti di Danby e di Nottingham. Quantunque otto e più anni fossero
decorsi dacchè Danby era caduto dal potere, ei godeva tuttavia grande
reputazione fraʼ vecchi Cavalieri di Inghilterra; e molti anche di queʼ
Whig, i quali lo avevano per innanzi osteggiato, adesso inchinavano a
credere chʼegli portasse la pena di falli non suoi, e che il suo zelo
per la regia prerogativa, comecchè lo avesse di sovente fatto traviare,
fosse contemperato da due sentimenti che gli tornavano ad onore:
dallo zelo per la religione dello Stato, e dallo zelo per la dignità
e la indipendenza della patria. Era parimente tenuto in grande stima
allʼAja, dove non era stato mai dimenticato come egli fosse colui, il
quale, malgrado la Francia e i Papisti, aveva indotto Carlo a concedere
la mano della Principessa Maria al cugino di lei.

XLII. Daniele Finch, Conte di Nottingham, gentiluomo il cui nome
spesso sʼincontrerà nella storia di tre regni pieni di vicissitudini,
discendeva da una famiglia sopra tutte eminente nel fôro. Uno deʼ suoi
congiunti era stato Guardasigilli di Carlo I, aveva prostituito le
insigni qualità e la dottrina onde era adorno, a riprovevoli fini, ed
era stato perseguitato dalla vendetta della Camera deʼ Comuni allora
governata da Falkland. Heneage Finch nella susseguente generazione
aveva acquistata più onorevole rinomanza. Tosto dopo la Ristaurazione
era stato fatto Avvocato Generale. Sʼera quindi inalzato al grado di
Procuratore Generale, di Lord Guardasigilli, di Lord Cancelliere, di
Barone Finch, di Conte di Nottingham. In tutta la sua prospera carriera
aveva sempre mantenuta la prerogativa tanto alto quanto più glielo
avevano conceduto la onestà e la decenza; ma non sʼera mai implicato in
nessuna cospirazione contro le leggi fondamentali del Regno. Fra mezzo
a una Corte corrotta aveva mantenuta intemerata la propria integrità.
Godeva alta riputazione dʼoratore, quantunque il suo stile formato
sopra scrittori anteriori alle guerre civili, venisse verso gli ultimi
suoi anni giudicato duro e pedantesco daglʼingegni della sorgente
generazione. In Westminster Hall lo rammentano tuttora con riverenza,
come colui che, primo tra tutti, da quella confusione che in antico
dicevasi Equità, trasse un nuovo sistema di giurisprudenza, regolare
e compiuto al pari di quello il quale aʼ dì nostri amministrano i
Giudici del Diritto Comune.[267] Parte considerevole delle doti morali
o intellettuali di questo gran magistrato aveva ereditate col titolo di
Nottingham il maggiore deʼ suoi figli. Il conte Daniele era onorevole
e virtuoso uomo. Comecchè fosse schiavo dʼalcuni assurdi pregiudicii,
e soggetto a strani accessi di capriccio, non può tacciarsi dʼavere
deviato dal sentiero della rettitudine per correre dietro ad illeciti
guadagni o ad illeciti diletti. Come il padre suo, egli era egregio
parlatore, penetrante, ma prolisso, e solenne con troppa monotonia.
La sua persona era in perfetta armonia con la sua eloquenza. Il suo
atteggiamento era secco e diritto, il colore della pelle sì bruno che
si sarebbe potuto riputare nato in un clima più caldo del nostro; e i
suoi austeri sembianti componeva in guisa da somigliare al capo deʼ
piagnoni in un funerale. Dicevasi comunemente chʼegli sembrasse un
grande di Spagna, più presto che un gentiluomo inglese. I soprannomi
di Dismal (_lugubre_, _tristo_), Don Dismallo, Don Diego, gli furono
apposti dagli spiriti arguti, e non sono per anche caduti nellʼoblio.
Aveva studiosamente atteso alla scienza chʼera stata cagione dello
inalzamento di sua famiglia, e per uomo del suo grado e della sua
ricchezza, egli era assai dotto nelle patrie leggi. Amava fervidamente
la Chiesa Anglicana, e mostrava ad essa riverenza in due modi non
comuni fra queʼ Lordi, i quali in quel tempo menavano vanto dʼesserle
caldi amici, pubblicando, cioè, scritti a difenderne i dogmi, e
conducendo la vita secondo i precetti di quella. Al pari degli altri
zelanti della Chiesa Anglicana, aveva, fino a poco innanzi, tenacemente
sostenuta lʼautorità monarchica. Ma alla politica adottata dalla Corte,
dopo che fu spenta la insurrezione delle Contrade Occidentali, egli era
acremente ostile, e lo divenne maggiormente dal di in cui il suo minor
fratello Heneage Finch era stato destituito dallʼufficio di Avvocato
Generale per avere ricusato di difendere la potestà di dispensare,
pretesa dal Re.[268]

XLIII. Con questi due Conti del partito Tory oggimai trovavasi
congiunto Halifax, lo spettabile capo deʼ Barcamenanti. Eʼ pare che in
quel tempo Halifax avesse un gran predominio sulla mente di Nottingham.
Tra Halifax e Danby era una nimistà, la quale, già nota nella Corte
di Carlo, poi perturbò la Corte di Guglielmo, ma come molte altre
nimicizie, fu sopita dalla tirannia di Giacomo. I due avversari di
frequente trovavansi insieme nelle ragunanze tenute da Dykvelt, e
concordavano nel biasimare la politica del Governo, nel riverire il
Principe dʼOrange. La diversità del carattere di cotesti due uomini
di Stato vedevasi a chiari segni nelle loro relazioni con lʼoratore
olandese. Halifax mostrava ammirevole ingegno nel discutere, ma
ripugnava a venire ad alcuna ardimentosa e irrevocabile deliberazione.
Danby, assai meno sottile ed eloquente, aveva più energia, risolutezza,
e pratica sagacia.

Non pochi deʼ Whig più cospicui di continuo comunicavano con Dykvelt.
Ma i capi delle grandi famiglie Cavendish e Russell non poterono
prendervi quella parte attiva e notevole chʼera da aspettarsi dal grado
e dalle opinioni loro. Sopra la fama e le sorti di Devonshire pesava in
quel tempo una nube. Egli aveva una malaugurata contesa con la Corte,
non per una ragione politica ed onorevole, ma per una rissa privata,
nella quale anche i più caldi deʼ suoi amici non lo reputavano affatto
scevro di biasimo. Trovandosi a Whitehall era stato insultato da un
uomo che aveva nome Colepepper, ed era uno di queʼ bravazzoni i quali
infestavano le sale di Corte, e studiavano di procacciarsi il favore
del Governo affrontando i membri dellʼopposizione. Il Re stesso si
mostrò grandemente sdegnato pel modo con che uno deʼ più illustri Pari
del Regno era stato trattato dentro la reggia; e a placare Devonshire
promise che Colepepper non metterebbe mai più il piede in palazzo.
Nulladimeno, poco dopo, lo interdetto fu tolto; e il risentimento
del Conte destossi di nuovo. I suoi servi ne abbracciarono la causa;
e per le vie di Westminster si videro scene che parevano richiamare
la memoria di tempi barbari. Il Consiglio Privato consumava il suo
tempo nelle accuse e recriminazioni delle parti avverse. La moglie di
Colepepper dichiarò come la vita di lei e quella del marito fossero in
continuo pericolo, e le case loro fossero state assalite da facinorosi
coperti della livrea di Cavendish. Devonshire disse che dalle finestre
di Colepepper gli era stato tirato un colpo di pistola. Colepepper
negò il fatto, confessando a un tempo stesso, che una pistola, carica
solo a polvere, era stata scaricata in un momento di terrore a fine
di chiamare allʼarmi le guardie. Mentre ferveva il litigio, il Conte
incontrò Colepepper nella gran sala di Whitehall, e gli parve di
vedere in sulla fronte al bravazzone unʼaria di fiducia e di trionfo.
Nulla dʼinconvenevole accadde al cospetto del Re, ma appena entrambi
trovaronsi fuori la sala, lungi dalla presenza di lui, Devonshire
propose di terminare in sullʼistante la contesa con la spada. Lʼaltro
ricusò la disfida. Allora lʼaltero ed animoso Pari, dimenticando la
riverenza dovuta al luogo, ed al proprio carattere, diede un colpo di
mazza in viso a Colepepper. Tutti concordemente biasimarono questʼatto
come indiscretissimo e indecentissimo; nè lo stesso Devonshire, come
si sentì calmare il sangue, ci potè ripensare senza rincrescimento e
vergogna. Il Governo nondimeno, con la solita insania, lo trattò con
tanto rigore, che in breve egli si acquistò la universale simpatia
della nazione. Una accusa criminale fu deposta presso il Banco del Re.
Lo accusato allegò i suoi privilegi di Pari; ma ciò con una pronta
sentenza non fu ammesso; nè si può negare che tale sentenza, fosse
o non fosse conforme alle regole pratiche della legge inglese, era
in istretta conformità coi grandi principii sopra i quali ogni legge
dovrebbe appoggiarsi. Nullʼaltro dunque rimanevagli che il confessarsi
reo. Il tribunale, per le successive destituzioni, era stato ridotto
ad una sommissione così assoluta, che il governo il quale aveva
intentato il processo, potè dettare la condanna. I giudici andarono
in corpo da Jeffreys, il quale insistè che condannassero il reo ad una
pena di trentamila lire stelline. Siffatta somma, ragguagliata alle
rendite deʼ nobili di quella età, risponderebbe a centocinquantamila
sterline del decimonono secolo. In presenza del Cancelliere i giudici
non profferirono verbo di disapprovazione; ma appena partitisi, Sir
Giovanni Powell, nel quale sʼera ridotto tutto quel poco dʼonestà che
rimanesse nel tribunale, mormorò dicendo la multa essere enorme, e
solo la decima parte essere bene bastevole. I suoi confratelli non
furono dʼaccordo con lui; nè egli in cotesto caso fece prova di quel
coraggio, con che pochi mesi dopo, in un memorando giorno, redense la
propria fama. Il Conte quindi fu condannato ad una pena di trentamila
lire sterline, e alla carcere fino alla estinzione del pagamento.
Una tanta somma di pecunia non si sarebbe in un solo giorno potuta
mettere insieme nè anche dal grandissimo deʼ nobili. La sentenza della
carcerazione nondimeno fu più agevolmente pronunziata che eseguita.
Devonshire erasi ritirato a Chatsworth, dove attendeva a trasformare
la vecchia magione gotica della sua famiglia in un edificio degno di
Palladio. Il distretto del Peak era in quei tempi rozzo come oggidì
trovasi Connemara, e lo sceriffo credeva, o simulava, essere difficile
metter le mani addosso al signore dʼuna regione così selvaggia fra
mezzo a cotanti fedeli famigliari e dipendenti. In tal guisa passarono
parecchi giorni: ma in fine il Conte e lo sceriffo furono entrambi
imprigionati. Intanto una folla dʼintercessori cominciò a darsi moto.
Si disse che la Contessa vedova di Devonshire era stata ammessa alle
secrete stanze del Re, al quale aveva rammentato come il valoroso Carlo
Cavendish cognato di lei fosse morto in Gainsborough combattendo a
difesa della Corona, ed aveva mostrato certe scritte nelle quali Carlo
I e Carlo II riconoscevano di avere ricevuto grosse somme prestate
loro da suo marito a tempo delle guerre civili. Siffatte somme non
erano state mai rese, e computatovi i frutti, ammontavano ad una somma
maggiore della immensa multa imposta dalla Corte del Banco del Re. Vi
era altra ragione che sembra avere avuto agli occhi di Giacomo maggior
peso che la rimembranza deʼ servigi resi al trono. Forse sarebbe stato
mestieri convocare il Parlamento, e credevasi che allora Devonshire
avrebbe prodotto un ricorso contro la sentenza per difetto di forma. Il
punto, intorno al quale egli intendeva di appellarsi contro la sentenza
del Banco del Re, riferivasi ai privilegi della paria. Il tribunale
che doveva di ciò giudicare era la Camera deʼ Pari; e così essendo, la
Corte non poteva essere sicura neppure del voto dei più cortigiani fraʼ
nobili. Non era dubbio alcuno che la sentenza verrebbe annullata, e che
il Governo per volere abbracciar troppo perderebbe ogni cosa cosa. E
però Giacomo inchinava a venire a patti. A Devonshire fu fatto sapere
che ove egli firmasse una scritta dʼobbligo di trenta mila sterline, e
in tal guisa si precludesse la vita a intentare unʼazione per difetto
di forma, sarebbe liberato di prigione, e dipenderebbe dalla sua futura
condotta lʼuso da farsi di cotale documento. Sʼegli votasse a favore
della potestà di dispensare, non se ne parlerebbe altrimenti; ma sʼegli
amasse meglio di mantenere la propria popolarità, gli si farebbe pagare
trenta mila lire sterline. Ei ricusò, per qualche tempo, di consentire
a tale proposta; ma divenutagli insopportabile la prigionia, firmò la
scritta dʼobbligo e fu scarcerato: e comecchè consentisse a gravare di
tal pesante carico il suo patrimonio, nulla potè indurlo a promettere
dʼabbandonare il partito e i principii suoi. Seguitò ad essere
partecipe di tutti gli arcani della opposizione: ma per alquanti mesi
i suoi amici politici reputarono esser meglio per lui e per la causa
comune chʼegli si tenesse in fondo alla scena.[269]

XLIV. Il Conte di Bedford non sʼera mai più riavuto dal colpo con
che, quattro anni innanzi, la sventura gli aveva trafitto il cuore.
Per sentimenti personali, non che per opinioni politiche, egli
procedeva ostile alla Corte: ma non era operoso nel combinare i mezzi
dʼavversarla. Nelle ragunanze deʼ malcontenti lo suppliva il suo
nepote, cioè il celebre Eduardo Russell, uomo dʼincontrastato coraggio
ed abilità, ma di principii sciolti e dʼindole torbida. Era marino,
sʼera segnalato nellʼarte sua, e sotto il precedente regno aveva
occupato un ufficio in palazzo. Ma tutti i vincoli onde era legato
alla famiglia reale erano stati infranti dalla morte del suo cugino
Guglielmo. Lʼaudace, irrequieto e vendicativo marino ormai sedeva nei
Consigli, che, secondo lo Inviato Olandese, rappresentavano la più
ardita ed operosa parte dellʼopposizione, di quegli uomini, i quali
sotto i nomi di Testerotonde, Esclusionisti e Whig avevano mantenuta
con varia fortuna una contesa di quarantacinque anni contro tre Re
successivi. Cotesto partito, dianzi depresso e quasi estinto, ma ora
nuovamente risorto e pieno di vita e pressochè predominante, non pativa
gli scrupoli deʼ Tory o deʼ Barcamenanti, ed era pronto a snudare il
ferro contro il tiranno nel primo giorno in cui il ferro si sarebbe
potuto snudare con ragionevole speranza di buon esito.

XLV. Rimane ancora a far menzione di tre uomini coʼ quali Dykvelt
tenne relazioni di confidenza, e con lʼaiuto deʼ quali egli sperava
di assicurarsi del buon volere di tre grandi classi di cittadini.
Il Vescovo Compton assunse lo incarico di acquistare il favore del
clero: lʼAmmiraglio Herbert imprese di esercitare la propria influenza
sulla flotta; e per mezzo di Churchill doveva crearsi un partito
nellʼesercito.

Non è mestieri ragionare della condotta di Compton e di quella
dʼHerbert. Avendo essi nelle cose temporali servito con zelo e fedeltà
la Corona, erano incorsi nella collera del Re, ricusando di farsi
strumenti a distruggere la propria religione. Entrambi avevano dalla
esperienza imparato come agevolmente Giacomo ponesse in oblio gli
obblighi, e con quanta acrimonia rammentasse quelle chʼegli considerava
offese. Il Vescovo con una sentenza illegale era stato sospeso dalle
sue funzioni. Lo Ammiraglio in un solo istante dalla opulenza aveva
ruinato a povertà. La situazione di Churchill era ben differente. Egli
pel regio favore era stato inalzato dalla oscurità ad alto grado, e
dalla povertà alla ricchezza. Avendo cominciata la propria carriera
da semplice porta–bandiera e da povero, a trentasette anni trovavasi
Maggiore Generale, Pari di Scozia e Pari dʼInghilterra: comandava una
compagnia delle Guardie del Corpo: occupava varii lucrosi impieghi;
e fino allora nessun indizio mostrava chʼegli avesse minimamente
perduto quel favore al quale tanto doveva. Era vincolato a Giacomo,
non solo per debito comune di fedeltà, ma per onor militare, per
gratitudine personale, e, siccome pareva ai frivoli osservatori, pei
più forti legami dellʼutile proprio. Ma Churchill non era osservatore
superficiale, e conosceva profondamente dove stava il suo vero utile.
Se il suo signore conseguisse piena libertà di concedere gli uffici
ai papisti, non rimarrebbe in quelli nemmeno un solo deʼ protestanti.
Per qualche tempo pochi deʼ più prediletti servitori della Corona
forse sarebbero esenti dalla proscrizione universale, sperando che
sʼinducessero a cangiare religione; ma anche essi tra breve cadrebbero,
lʼuno dopo lʼaltro, come era già caduto Rochester. Churchill avrebbe
potuto schivare cotesto pericolo, ed acquistare maggior grazia presso
il Re uniformandosi alla Chiesa di Roma; e pareva probabile con un uomo
che non era meno notevole per avarizia ed abiettezza, che per capacità
e valore, non aborrirebbe dal pensiero di ascoltare la Messa. Ma vʼha
tale incoerenza nella umana natura, che esiste qualche parte sensibile
anche nelle coscienze più dure. E così costui, che doveva il proprio
inalzamento al disonore della sorella, chʼera stato mantenuto dalla più
prodiga, imperiosa e svergognata delle bagasce, e la cui vita pubblica,
a coloro che possono tenere fitti gli occhi allo abbagliante splendore
del genio e della gloria, sembrerà un prodigio di turpitudini, credeva
nella religione chʼegli aveva succhiata col latte, e rifuggiva dal
pensiero di abiurarla formalmente. Egli si stava fra un terribile
dilemma. Tra i mali terreni quello che più egli temeva era la povertà.
Lʼunico delitto del quale il suo cuore aveva ribrezzo, era lʼapostasia.
Ed ove la corte giungesse a conseguire il fine al quale aspirava, non
vʼera dubbio chʼegli sarebbe stato costretto ad eleggere o lʼapostasia,
o la povertà. Per le quali considerazioni deliberò di attraversare i
disegni della Corte; e tosto si vide come non vʼera colpa nè infamia
nella quale egli non fosse pronto ad incorrere, onde far fronte al
bisogno di rinunciare o aglʼimpieghi o alla propria religione.[270]

XLVI. Eʼ non era soltanto come comandante dʼalto grado nelle milizie,
e cospicuo per arte e coraggio, che Churchill potesse giovare
lʼopposizione. Era, se non assolutamente essenziale, importantissimo
al buon successo deʼ disegni di Guglielmo, che la sua cognata, la
quale nellʼordine della successione alla Corona dʼInghilterra stava
tra la sua moglie e lui, cooperasse di pieno accordo con essi. Tutti
gli ostacoli che gli si paravano dinanzi si sarebbero grandemente
accresciuti, se Anna si fosse dichiarata favorevole alla Indulgenza.
Il partito al quale ella si sarebbe appigliata dipendeva dalla volontà
altrui, perocchè era donna di tardo intendimento, e quantunque nel
suo carattere fossero i semi di una caparbietà e inflessibilità
ereditarie, che molti anni dipoi gran potere e grandi provocazioni
fecero germogliare e crescere, nondimeno era allora schiava obbediente
ad una donna di carattere più vivo ed imperioso. Colei, dalla quale
Anna lasciava dispoticamente governarsi, era la moglie di Churchill,
donna che poscia ebbe grande influenza sopra le sorti della Inghilterra
e dellʼEuropa.

La celebre favorita chiamavasi Sara Jennings. Francesca sua sorella
maggiore aveva acquistata rinomanza di beltà e leggerezza di carattere
fra mezzo la folla delle donne belle e dissolute che adornarono e
disonorarono Whitehall finchè durò lʼintemperante carnevale della
Restaurazione. Una volta si travestì da fruttaiuola e corse gridando
per le vie.[271] Le persone gravi predicevano che una fanciulla così
poco discreta e delicata difficilmente troverebbe marito. Nondimeno
ebbe tre mariti, e adesso era la moglie di Tyrconnel. Sara, dotata di
bellezza meno regolare, aveva forse maggiori attrattive. Il suo viso
era espressivo; le sue forme non avevano difetto di vezzi donneschi;
e i suoi copiosi e leggiadri capelli non per anche sfigurati dalla
polvere, secondo il barbaro costume, che, vivente lei, fu introdotto in
Inghilterra, formavano lʼammirazione di tutti.

Tra i galanti giovani che tentavano di conquiderle il cuore, ella
prescelse il Colonnello Churchill, giovane, bello, grazioso,
insinuante, eloquente, valoroso. Certo egli ne era innamorato,
imperocchè non aveva patrimonio, tranne lʼannua rendita da lui
acquistata coglʼinfami doni della Duchessa di Cleveland: aveva avidità
insaziabile di ricchezze: Sara era povera; e a lui era stata proposta
la mano di unʼaltra poco avvenente ma ricca fanciulla. Dopo una interna
lotta fra i due partiti, lʼamore vinse lʼavarizia; il vincolo maritale
non fece che accrescergli in cuore la passione; e fino allʼultima ora
della vita di lui, Sara gustò il diletto dʼessere la sola fra le umane
creature la quale potesse far traviare quellʼacuto e fermo intelletto,
e fosse fervidamente amata da quel gelido cuore, e servilmente temuta
da quellʼanimo intrepido.

Secondo lʼopinione del mondo, il fido amore di Churchill ebbe ampia
rimunerazione. La sua moglie, comunque scarsa di sostanze, gli portò
una dote, che impiegata con giudizio, lo inalzò al grado di Duca, di
Principe dello Impero, di capitano generale dʼuna grande coalizione,
di arbitro tra principi potenti, e, ciò chʼegli pregiava sopra ogni
cosa, lo rese il più ricco suddito che fosse in Europa. Ella era
cresciuta fino dallʼinfanzia con la Principessa Anna, e neʼ cuori di
entrambe era nata stretta amicizia. Per indole lʼuna poco somigliava
allʼaltra. Anna era inerte e taciturna. Verso coloro chʼerano cari al
suo cuore, mostravasi soave. La ira neʼ suoi sembianti prendeva forma
di tristezza. Chiudeva in petto forte sentimento di religione, ed
amava anche con bacchettoneria il rito e lʼordinamento della Chiesa
Anglicana. Sara era vivace e volubile, dominava coloro ai quali
prodigava le sue carezze, e ogni qual volta sentivasi offesa, sfogava
la propria rabbia con pianti e impetuosi rimproveri. Non pretendeva
affatto a mostrarsi una santa, e rasentò la taccia dʼirreligiosa.
Allora non era per anche ciò che ella divenne quando certi vizi le
sviluppò in cuore la prosperità, e certi altri lʼavversità, quando il
buon successo e le lusinghe le avevano dato volta al cervello, quando
il suo cuore esulcerarono mortificazioni e disastri. Ella visse tanto
da ridursi la più odiosa e misera delle umane creature, vecchia strega
in guerra con tutti i suoi, in guerra coi propri figli, e coʼ figliuoli
deʼ figli, grande e ricca, ma apprezzatrice della grandezza e delle
ricchezze, perchè con esse ella poteva affrontare lʼopinione pubblica,
e sfrenatamente sbramare lʼodio suo contro i vivi e i morti. Regnante
Giacomo, ella veniva considerata solo come una leggiadra ed altera
giovine, la quale a volte mostravasi di cattivo umore o bisbetica,
difetti che le venivano di leggieri perdonati in grazia della sua
leggiadria.

È comune opinione che le differenze dʼinclinazione, di mente, dʼindole
non siano dʼimpedimento allʼamicizia, e che sovente la più stretta
intimità esista tra due anime, lʼuna delle quali possegga ciò di cui
lʼaltra difetta. Lady Churchill era amata e quasi adorata da Anna,
la quale non poteva vivere divisa dallʼoggetto della sua romanzesca
tenerezza. Anna prese marito, e fu moglie fedele ed affettuosa. Ma
il Principe Giorgio, uomo pesante, che amava di cuore sopra ogni
cosa un buon desinare e un buon fiasco, non acquistò mai su lei una
influenza da paragonarsi a quella che esercitava lʼamica, e tosto si
sottopose anchʼegli con istupida pazienza allo impero di quel vigoroso
e predominante spirito che governava la moglie. Dai regali sposi
nacquero figliuoli; ed Anna non difettava di sentimento materno. Ma la
tenerezza che ella sentiva per le proprie creature era languida, in
agguaglio allo affetto con che amava la compagna della sua infanzia.
In fine la Principessa divenne insofferente deʼ riguardi che la
convenienza imponevate: non poteva sentirsi chiamare Madama ed Altezza
Reale da colei che le era più che sorella. Tali parole, per vero, erano
necessario nella galleria o nel salone; ma smettevansi nelle segrete
stanze. Anna chiamavasi la signora Morley, e Lady Churchill la signora
Freeman; e sotto questi fanciulleschi nomi corse per venti anni un
carteggio da cui finalmente dipesero le sorti di governi e dinastie. Ma
per allora Anna non aveva potere politico nè patronato. Lʼamica Sara
faceva lʼufficio di Maggiordoma, con un onorario di sole quattrocento
lire sterline annue. Nonostante, vi è ragione a credere che in quel
tempo Churchill potesse per mezzo della moglie appagare la passione
onde era governato. La principessa, quantunque avesse una pingue
entrata e gusti semplici, contrasse debiti, che furono da suo padre non
senza brontolare pagati: e fu detto che di cotesti impacci pecuniarii
era stata cagione la sua prodiga bontà verso la prediletta amica.[272]

Alla perfine era giunto il tempo in cui cotesta singolare amicizia
doveva esercitare grande influenza sopra gli affari dello Stato.
Aspettavasi con grande ansietà sapere qual parte seguirebbe la
Principessa Anna nella contesa che agitava la Inghilterra tutta
quanta. Da un lato stava il dovere filiale; dallʼaltro la salvezza
della religione, da lei sinceramente amata. Un carattere meno inerte
avrebbe lungamente tentennato fra motivi così forti e rispettabili. Ma
la influenza dei Churchill risolvè la questione; e la loro protettrice
divenne parte importante di quella vasta lega che aveva per capo il
Principe dʼOrange.

XLVII. Nel giugno del 1686 Dykvelt ritornò allʼAja. Presentò agli
Stati Generali una lettera del Re, che encomiava la condotta tenuta da
lui nella sua dimora in Londra. Cotesti encomii, nulladimeno, erano
prettamente formali. Giacomo nelle comunicazioni private, scritte di
propria mano, acremente querelavasi che il Legato era vissuto in grande
intimità coi più faziosi che fossero nel Regno, e gli aveva animati a
persistere neʼ loro maligni proponimenti. Dykvelt recò parimente un
fascio di lettere deʼ più eminenti tra coloro coʼ quali erasi abboccato
nel suo soggiorno in Inghilterra. Costoro generalmente esprimevano
infinita riverenza ed affetto per Guglielmo, e quanto alle loro mire,
riferivansi alle informazioni orali che ne averebbe date il portatore
delle lettere. Halifax ragionava colla sua consueta acutezza e vivacità
intorno alle condizioni e alle speranze del paese, ma adoperava gran
cura a non impegnarsi in nessuna pericolosa linea di condotta. Danby
scrisse in un tono più audace e risoluto, e non potè frenarsi dallo
schernire delicatamente gli scrupoli del suo egregio rivale. Ma la più
notevole fra tutte era la lettera di Churchill. Era scritta con quella
eloquenza naturale, la quale, per quanto egli fosse letterato, non
gli mancava mai nelle grandi occasioni, e con unʼaria di magnanimità,
che egli, perfido qual era, sapeva assumere con singolare destrezza.
Diceva, la Principessa Anna avergli fatto comandamento di assicurare
i suoi illustri parenti dellʼAja chʼessa era, con lʼaiuto di Dio,
deliberatissima a perdere piuttosto la vita, che rendersi colpevole
dʼapostasia. Quanto a sè stesso, glʼimpieghi e la grazia del Re erano
nulla, trattandosi della sua religione. E concludeva dichiarando
altamente, che se non poteva pretendere di avere menata la vita dʼun
santo, sarebbe pronto, venuta lʼoccasione, a morire da martire.[273]

XLVIII. Dykvelt era così bene riuscito nella sua commissione, che tosto
trovossi un pretesto a spedire un altro agente onde continuare lʼopera
con sì buoni auspici incominciata. Il nuovo Inviato, che poscia fondò
una nobile casa inglese estinta ai tempi nostri, era cugino illegittimo
di Guglielmo; e portava un titolo tratto dalla signoria di Zulestein.
La parentela di Zulestein con la Casa dʼOrange gli dava importanza
agli occhi del pubblico. Aveva il portamento dʼun valoroso soldato;
per ingegno diplomatico e scienza cedeva di molto a Dykvelt, ma anche
tale inferiorità aveva i suoi vantaggi. Un militare, il quale non sʼera
mai impacciato di cose politiche, poteva, senza ombra di sospetto,
tenere con lʼaristocrazia inglese relazioni, che, ove egli fosse stato
rinomato maestro degli intrighi di Stato, sarebbero state rigorosamente
spiate. Zulestein, dopo una breve assenza, fece ritorno alla patria
recando lettere e messaggi orali non meno importanti di quelli
chʼerano stati affidati al suo predecessore. Da quel tempo sʼistituì
un carteggio regolare tra il Principe e la opposizione. Agenti di
varie condizioni andavano e venivano dal Tamigi allʼAja. Fra questi
fu utilissimo uno Scozzese non privo dʼingegno, e fornito di grande
attività, il quale aveva nome Johnstone. Era cugino di Burnet, e figlio
dʼun illustre convenzionista, il quale poco dopo la Restaurazione era
stato dannato a morire come reo dʼalto tradimento, e veniva onorato
come martire dal proprio partito.

XLIX. La rottura tra il re dʼInghilterra e il Principe dʼOrange
facevasi sempre maggiore. Una grave contesa era nata a cagione dei sei
reggimenti che erano al soldo delle Provincie Unite. Il Re desiderava
che venissero posti sotto il comando dʼufficiali romani. Il Principe
fermamente sʼopponeva. Il Re aveva ricorso ai soliti luoghi comuni
della tolleranza. Il Principe rispondeva chʼegli altro non faceva che
seguire lo esempio di Sua Maestà. Era a tutti noto che uomini abili
e leali erano stati in Inghilterra cacciati daʼ loro uffici, solo
per essere protestanti. Era quindi ragione che lo Statoldero e gli
Stati Generali tenessero ai papisti chiuso lʼadito agli alti impieghi
pubblici. La risposta del Principe provocò lʼira di Giacomo a tal
segno, chʼegli nel suo furore perdè dʼocchio la verità e il buon senso.
Diceva con veemenza esser falso chʼegli avesse cacciato alcuno per
motivi religiosi. E se lo avesse fatto, che importava ciò al Principe o
agli Stati? Erano essi suoi padroni? Dovevano essi sedere a scranna per
giudicare della condotta deʼ Sovrani stranieri? Da quel dì egli ebbe
voglia di richiamare i suoi sudditi chʼerano aʼ servigi del Governo
Olandese. Pensava che facendoli venire in Inghilterra, avrebbe reso più
forte sè, e più deboli i suoi peggiori nemici. Ma vʼerano difficoltà
tali di finanza che era impossibile non se ne accorgesse. Il numero
deʼ soldati chʼegli manteneva, comecchè fosse maggiore che neʼ tempi
trascorsi, e amministrato con parsimonia, era quale le sue rendite
potessero sopportare. Se allo esercito si aggiungessero i battaglioni
che erano al soldo dellʼOlanda, il Tesoro fallirebbe. Forse si potrebbe
indurre Luigi a prenderli al suo servizio. Così verrebbero allontanati
da un paese dove rimanevano sempre esposti alla corruttrice influenza
dʼun governo repubblicano e dʼun culto calvinista, e sarebbero posti
in un paese dove niuno rischiavasi a far fronte ai comandi del Sovrano
o alle dottrine della vera Chiesa. I soldati tosto disimparerebbero
ogni eresia politica e religiosa. Il Principe loro naturale potrebbe
in pochi di richiamarli a prestargli mano forte, e in ogni occorrenza
esser sicuro della fedeltà loro.

Sʼaprirono intorno a questo negozio pratiche tra Whitehall e
Versailles. Luigi aveva quanti soldati gli bisognavano; e se così non
fosse stato, non avrebbe mai voluto milizie inglesi al suo soldo;
imperciocchè la paga in Inghilterra, per quanto oggimai ci possa
sembrare poca, era maggiore di quella che si dava in Francia. Nel tempo
stesso era un gran che privare Guglielmo di sì belle milizie. Dopo un
carteggio che durò alcune settimane, a Barillon fu data podestà di
promettere che ove Giacomo richiamasse dallʼOlanda i soldati inglesi,
Luigi pagherebbe la spesa a mantenerne due mila in Inghilterra. Tale
offerta Giacomo accettò con calde espressioni di gratitudine. Ordinate
le cose a quel modo, chiese agli Stati Generali che gli mandassero i
sei reggimenti. Gli Stati Generali ligi a Guglielmo, risposero che
simigliante domanda, in siffatte circostanze, non era autorizzata dai
Trattati esistenti, e positivamente ricusarono dʼammetterla. È cosa
notevole come Amsterdam, la quale aveva votato per tenere le predette
milizie in Olanda, mentre Giacomo ne aveva mestieri contro glʼinsorti
delle Contrade Occidentali, adesso fece ogni sforzo perchè si cedesse
alla domanda del Re. In ambedue i casi, il solo scopo di coloro che
reggevano quella grande città era quello di opporsi ai desiderii del
Principe dʼOrange.[274]

L. Ma le armi dʼOlanda erano a Giacomo meno formidabili di quel che
fossero i torchj olandesi. AllʼAja stampavansi quotidianamente libri
e libercoli inglesi contro il Governo di lui; nè vi era vigilanza
a impedire che migliaia di esemplari ne fossero introdotte di
contrabbando nelle Contee poste lungo lʼoceano germanico. Fra tutte
coteste pubblicazioni ne va predistinta una per la sua importanza e
per lo immenso effetto che produsse. La opinione che intorno allʼAtto
dʼIndulgenza tenevano il Principe e la Principessa dʼOrange, era ben
nota a tutti coloro che prendevano interesse alle cose pubbliche. Ma
perchè tale opinione non era stata officialmente annunciata, molti
che non avevano mezzi di ricorrere a buone fonti, erano ingannati o
rimanevano perplessi vedendo la sicurezza con che i partigiani della
Corte asserivano le Altezze Loro approvare i recenti Atti del Re.
Smentire pubblicamente tal voce sarebbe stato un mezzo semplice ed
ovvio, se il solo scopo di Guglielmo fosse stato quello di vantaggiare
i propri interessi in Inghilterra. Ma egli considerava la Inghilterra
principalmente come strumento necessario alla esecuzione deʼ suoi
grandi disegni intorno lʼEuropa; ai quali egli sperava di ottenere la
cooperazione di ambedue le Case dʼAustria, deʼ Principi Italiani ed
anche del Sommo Pontefice. Vʼera ragione a temere, una dichiarazione
soddisfacente ai Protestanti inglesi non eccitasse sospetto e sinistri
umori in Madrid, in Vienna, in Torino ed in Roma. A tal fine il
Principe si astenne lungo tempo dallo esprimere i propri sentimenti. In
fine gli fu fatto notare come il suo prolungato silenzio avesse destato
inquietudine e diffidenza fra coloro che volevano il suo bene, e fosse
ormai tempo di parlare: deliberò quindi di manifestare il proprio
intendimento.

LI. Un Whig scozzese, chiamato Giacomo Stewart, parecchi anni innanzi,
sʼera rifugiato in Olanda onde sottrarsi allo stivaletto e alle forche,
ed aveva stretto amicizia col Gran Pensionario Fagel, il quale godeva
largamente la fiducia e la grazia dello Statoldero. Stewart era colui
che aveva scritto il virulento Manifesto dʼArgyle. Appena promulgata la
Indulgenza, Stewart pensò di cogliere il destro non solo ad ottenere
perdono, ma a meritarsi una ricompensa. Offerse al governo al quale
egli era stato nemico i propri servigi, che furono accettati, e mandò
a Fagel una lettera dicendo essere stata scritta per ordine di
Giacomo. In essa il Pensionario veniva richiesto di adoperare tutta la
sua influenza sul Principe e la Principessa onde indurli a secondare
la politica del padre loro. Dopo alcuni giorni dʼindugio Fagel mandò
una risposta profondamente pensata, e scritta con arte squisitissima.
Niuno che mediti quel notevole documento, può non accorgersi che
quantunque fosse composto con lo intendimento di rassicurare e piacere
ai Protestanti inglesi, non vi si contiene una sola parola che possa
recare offesa nè anche al Vaticano. Vi si diceva che Guglielmo e Maria
approverebbero volentieri lʼabrogazione dʼogni legge penale contro ogni
Inglese di qualunque classe si fosse, per cagione dʼopinioni religiose.
Ma bisognava distinguere punizione da incapacità. Ammettere agli
uffici i Cattolici Romani, non sarebbe, secondo opinavano le Altezze
loro, vantaggioso nè al bene dellʼInghilterra, nè a quello degli
stessi Cattolici Romani. Il Manifesto fu tradotto in varie lingue, e
sparso profusamente per tutta lʼEuropa. Della versione inglese, fatta
con gran cura da Burnet, ne furono introdotti nelle Contee Orientali
circa cinquantamila esemplari, e furono rapidamente diffusi per tutto
il reame. Nessuno scritto politico ebbe mai esito cotanto felice. I
Protestanti dellʼisola nostra fecero plauso alla mirabile fermezza con
che Guglielmo dichiarava di non potere assentire che i papisti avessero
partecipazione alcuna alle cose di Governo. Ai Principi Cattolici
Romani, dallʼaltro canto, piaceva lo stile mite e sobrio con cui era
vestito il concetto del Principe, e la speranza ivi espressa che
sotto il suo governo nessun credente della Chiesa di Roma riceverebbe
molestia per motivo di religione.

LII. È probabile che anche il Pontefice leggesse con piacere cotesta
celebre lettera. Alcuni mesi innanzi aveva dato commiato a Castelmaine
in un modo tale da mostrare poco riguardo pel Re dʼInghilterra. A Papa
Innocenzo spiaceva affatto la politica interna non che la esterna del
Governo Britannico. Vedeva come glʼingiusti e impolitici provvedimenti
della cabala gesuitica avessero a rendere perpetue le leggi penali
più presto che giungere ad abrogare lʼAtto di Prova. La sua contesa
con la Corte di Versailles diveniva sempre più grave; nè poteva egli
o come Principe temporale o come Sommo Pontefice sentire schietta
amistà pel vassallo di quella Corte. Castelmaine non aveva i requisiti
necessari a spegnere cotesta ripugnanza. Conosceva bene Roma, e, come
laico, era profondamente erudito nelle controversie teologiche.[275]
Ma non aveva la destrezza che il suo ufficio richiedeva; e quandʼanche
fosse stato abilissimo diplomatico, vʼera una ragione che lo avrebbe
reso inadatto a compire convenevolmente la sua commissione. Tutta
Europa conoscevalo come il marito della più svergognata femmina, e
non altrimenti. Era impossibile parlare con lui senza richiamarsi
alla memoria il modo onde erasi acquistato il titolo chʼegli portava.
Ciò sarebbe stato ben poco, sʼegli fosse stato ambasciatore a qualche
dissoluta Corte, come quella in cui aveva pur dianzi dominato la
Marchesa di Montespan. Ma era manifestamente inconvenevole lo averlo
inviato ad unʼambasciata di natura più presto spirituale che temporale
e ad un Pontefice di austerità antica. I Protestanti in tutta Europa
lo ponevano in canzone; ed Innocenzo, già sfavorevolmente disposto
verso il Governo Inglese, considerò il complimento fattogli quasi come
affronto. A Castelmaine era stata assegnata una paga di cento lire
sterline per settimana; ma egli ne mosse lamento dicendo che tre volte
tanto appena sarebbe bastato: imperocchè in Roma i Ministri deʼ grandi
potentati continentali si sforzavano di vincersi vicendevolmente per
isplendidezza agli occhi di un popolo, il quale per essere avvezzo a
vedere tanta magnificenza di edifizi, di decorazioni e di cerimonie,
era di difficile contentatura. Dichiarò sempre di averci rimesso del
suo. Lo accompagnavano vari giovani delle migliori famiglie cattoliche
dellʼInghilterra, come sarebbero i Ratcliffe, gli Arundell, e i
Tichborne. In Roma alloggiava in palazzo Panfili a mezzogiorno della
magnifica Piazza Navona. Fino daʼ primi giorni era stato privatamente
ricevuto da Papa Innocenzo; ma la pubblica udienza fu lungamente
ritardata. E veramente gli apparecchi che andava facendo Castelmaine
erano così sontuosi, che quantunque fossero incominciati alla Pasqua
di Resurrezione del 1686 non furono compiti se non nel novembre
dellʼanno stesso; nel quale mese il Papa ebbe, o simulò dʼavere un
accesso di podagra che fece differire la cerimonia. Finalmente nel
gennaio del 1687 la solenne presentazione segui con insolita pompa. I
cocchi già lavorati appositamente in Roma, erano così magnifici che
vennero reputati degni dʼessere trasmessi ai posteri per mezzo di belle
incisioni, e celebrati dai poeti in diverse lingue.[276] La facciata
del palazzo della legazione in quel solenne giorno era decorata con
pitture di assurde e gigantesche allegorie. Vʼerano effigiati San
Giorgio col piede sul collo di Tito Oates, ed Ercole che con la mazza
percoteva College, il manuale protestante, il quale invano tentava
difendersi col suo correggiato. Dopo cotesta pubblica dimostrazione,
Castelmaine invitò tutti i più notevoli personaggi che allora si
trovassero in Roma, ad un banchetto in quella gaia e splendida sala,
la quale Pietro da Cortona ornò con pitture rappresentanti i fatti
dellʼEneide. La intiera città corse a vedere la solennità; e a stento
una compagnia di Svizzeri potè mantenere lʼordine fra gli spettatori.
I nobili dello Stato Pontificio in contraccambio offrirono dispendiosi
intertenimenti allo Ambasciatore; e i poeti e i belli spiriti furono
invitati a tributare a lui e al suo signore iperboliche adulazioni,
quali sogliono usarsi quando il genio e il gusto trovansi in gran
decadenza. Fra tutti cotesti adulatori va predistinta una testa
coronata. Erano corsi trenta e più anni da che Cristina, figlia del
grande Gustavo, era volontariamente discesa dal trono di Svezia. Dopo
lungo pellegrinare, nel corso del quale ella commise molte follie e
molti delitti, erasi finalmente fermata in Roma, dove occupavasi
di calcoli astrologici, dʼintrighi di conclave, e sollazzavasi con
pitture, gemme, manoscritti, e medaglie. In quellʼoccasione ella
compose alcune stanze in italiano in lode del Principe inglese, il
quale, al pari di lei, nato da stirpe di Re fino allora considerati
come campioni della Riforma, erasi, come lei, riconciliato allʼantica
Chiesa. Una splendida ragunanza ebbe luogo nel suo palazzo; i suoi
versi, posti in musica, furono cantati fra gli applausi universali; ed
un suo famigliare, uomo letterato, recitò una orazione sul medesimo
subietto, scritta in un stile si florido e intemperante, che pare
offendesse il severo orecchio degli Inglesi che vʼerano presenti.
I Gesuiti, nemici del Papa, devoti agli interessi della Francia, e
inchinevoli a glorificare Giacomo, accolsero la legazione inglese
con estrema pompa in quella principesca casa dove riposano le ossa
dʼIgnazio di Loyola, rinchiuse in un monumento di lapislazzuli e dʼoro.
La scultura e la pittura, la poesia e lʼeloquenza furono adoperate ad
onorare gli stranieri: ma le arti tutte erano miseramente degenerate.
Vi fu profusione di turgida ed impura latinità, indegna dʼun Ordine
così erudito; e talune delle iscrizioni che adornavano le pareti,
peccavano in cosa ben altrimenti più seria che non fosse lo stile. In
una dicevasi che Giacomo aveva spedito al cielo il proprio fratello
come suo messaggiero, ed in unʼaltra che Giacomo aveva apprestate le
ali, con che il fratello erasi levato allʼeteree regioni. Vʼera anco
un più sciagurato distico, al quale per allora si badò poco, ma che
pochi mesi dopo fu rammentato ed ebbe sinistra interpretazione. «O Re,»
diceva il poeta «cessa di sospirare per avere un figlio. Quandʼanche la
natura si mostrasse avversa al tuo desiderio, le stelle troveranno modo
di compiacerti.»

Fra mezzo a tanti festeggiamenti, Castelmaine ebbe a soffrire
mortificazioni ed umiliazioni crudeli. Il Pontefice trattavalo con
estrema freddezza e riserbo. Qualvolta lo Ambasciatore lo sollecitava
dʼuna risposta alla richiesta fatta di concedere un cappello
cardinalizio a Petre, Papa Innocenzio, facendosi venire un violento
colpo di tosse, poneva fine al colloquio. Si sparse per tutta Roma
la voce di coteste singolari udienze. Pasquino non tacque. Tutti i
curiosi e i ciarlieri della città più sfaccendata del mondo, tranne
solo i Gesuiti e i Prelati partigiani della Francia, facevano le
matte risate alla sconfitta di Castelmaine; ed egli chʼera poco dolce
dʼindole, ne divenne furioso, e fece correre in giro uno scritto
mordace contro il Papa. Castelmaine così ponevasi dalla parte del
torto; e lo scaltro Italiano acquistava vantaggio e voleva giovarsene.
Dichiarò senza ambagi come la regola che escludeva i Gesuiti dalle
dignità ecclesiastiche non si dovesse violare in favore di Padre
Petre. Castelmaine offeso minacciò di andarsene via da Roma. Innocenzo
rispose, con una mansueta impertinenza, tanto più provocante quanto non
poteva distinguersi dalla semplicità, che Sua Eccellenza se ne andasse
pure se così le piacesse. «Ma se noi dobbiamo perderlo» aggiunse il
venerando Pontefice, «speriamo chʼegli badi alla propria salute nel
fare il viaggio. GlʼInglesi non sanno quanto sia pernicioso in questi
nostri paesi il viaggiare sotto i calori del giorno. Sarebbe bene
adunque chʼegli si partisse avanti lʼalba onde a mezzodì si potesse
riposare.» Con tale salutare consiglio e col dono dʼun rosario, il
malarrivato ambasciatore ebbe commiato. Pochi mesi di poi comparve
alla luce, in italiano e in inglese, una pomposa storia della sua
legazione, stampata magnificamente in foglio e adorna dʼincisioni. Il
frontespizio, a grande scandalo di tutti i Protestanti, rappresentava
Castelmaine nel suo abito di Pari, con la corona di Conte nelle mani,
in atto di baciare il piede a Papa Innocenzo.[277]



CAPITOLO OTTAVO.

SOMMARIO.


 I. Consacrazione del Nunzio nel Palazzo di San Giacomo; Sua solenne
 presentazione a Corte.—II. Il Duca di Somerset.—III. Scioglimento
 del Parlamento. Delitti militari illegalmente puniti—IV. Atti
 dellʼAlta Commissione.—V. Le Università.—VI. Processi contro la
 Università di Cambridge.—VII. Il Conte di Mulgrave—VIII. Condizioni
 dʼOxford.—IX. Il Collegio della Maddalena in Oxford.—X. Il Re
 raccomanda Antonio Farmer per la presidenza.—XI. I Convittori del
 Collegio della Maddalena sono citati dinanzi lʼAlta Commissione.—XII.
 Parker raccomandato per Presidente; la Certosa.—XIII. Viaggio del
 Re.—XIV. Il Re in Oxford; riprende i Convittori della Maddalena.—XV.
 Penn tenta di farsi mediatore.—XVI. Commissarii speciali
 ecclesiastici mandati in Oxford.—XVII. Protesta di Hough; Parker
 entra in ufficio.—XVIII. I Convittori sono cacciati via.—XIX. Il
 Collegio della Maddalena diventa seminario papale.—XX. Risentimento
 del Clero.—XXI. Disegni della Cabala Gesuitica rispetto alla
 successione—XXII. Disegni di Giacomo e Tyrconnel a fine di impedire
 che la Principessa dʼOrange succedesse nel regno dʼIrlanda.—XXIII.
 La Regina è incinta; il fatto non è creduto da nessuno.—XXIV.
 Umori deʼ Collegi elettorali, e dei Pari.—XXV. Giacomo delibera di
 convocare il Parlamento adulterando le elezioni.—XXVI. Il Consiglio
 deʼ Regolatori.—XXVII. Destituzioni di molti Lordi Luogotenenti;
 il Conte dʼOxford.—XXVIII. Il Conte di Shrewsbury.—XXIX. Il Conte
 di Dorset.—XXX. Domande fatte ai magistrati.—XXXI. Loro risposta;
 i disegni del Re riescono vani.—XXXII. Lista di Sceriffi.—XXXIII.
 Carattere dei gentiluomini Cattolici Romani nelle campagne—XXXIV.
 Umori deʼ Dissenzienti; Regolamento dei Municipi.—XXXV. Inquisizione
 in tutti i Dipartimenti del Governo—XXXVI. Destituzione di
 Sawyer.—XXXVII. Williams avvocato Generale.—XXXVIII. Seconda
 Dichiarazione dʼIndulgenza.—XXXIX. Il Clero riceve ordine di
 leggerla.—XL. Il Clero esita a farlo; Patriottismo deʼ Protestanti
 non–conformisti di Londra.—XLI. Consulte del Clero di Londra.—XLII.
 Consulte nel Palazzo Lambeth.—XLIII. Petizione deʼ sette Vescovi
 presentata al Re.—XLIV. Il Clero di Londra disubbidisce agli ordini
 reali.—XLV. Il Governo esita.—XLVI. Delibera di fare ai Vescovi
 un processo per calunnia.—XLVII. Vengono esaminati dal Consiglio
 Privato.—XLVIII. Incarcerati nella Torre di Londra—XLIX. Nascita del
 Pretendente; universalmente creduta supposta.—L. I Vescovi, tradotti
 dinanzi il Banco del Re, son posti in libertà sotto cauzione.—LI.
 Agitazioni nel pubblico.—LII. Inquietudini di Sunderland.—LIII.
 Fa professione di Cattolico Romano.—LIV. Processo deʼ Vescovi.—LV.
 Sentenza; esultanza del popolo.—LVI. Stato singolare dellʼopinione
 pubblica in quel tempo.

I. Le aperte scortesie del Pontefice erano bastevoli a irritare
il più mansueto deʼ principi; ma il solo effetto che produssero
sullʼanimo di Giacomo fu quello di renderlo più prodigo di carezze e di
complimenti. Mentre Castelmaine, collʼanima esasperata dallo sdegno,
cammino faceva alla volta dellʼInghilterra, il Nunzio era colmato di
onori tali che se fosse dipeso da lui li avrebbe ricusati. Per una
finzione dʼuso frequente nella Chiesa di Roma, era stato poco innanzi
insignito della dignità vescovile senza diocesi. Gli era stato dato
il titolo di Vescovo dʼAmasia, città del Ponto e patria di Strabone e
di Mitridate. Giacomo insistè perchè la cerimonia della consacrazione
fosse fatta entro la Cappella del Palazzo di San Giacomo. Leyburn
Vicario Apostolico, e due prelati irlandesi officiarono. Le porte
furono spalancate al pubblico; e fu notato come parecchi Puritani, i
quali pur dianzi sʼerano fatti cortigiani, fossero fra gli spettatori.
La sera di quel dì medesimo, Adda, vestito degli abiti alla nuova
dignità convenevoli, si recò allo appartamento della Regina. Re Giacomo
in presenza di tutta la Corte cadde sulle ginocchia implorando la
benedizione. E in onta del freno imposto dallʼuso cortigianesco, gli
astanti indarno studiaronsi di nascondere il disgusto che loro ispirava
quellʼatto.[278] E davvero da lunghissimo tempo non sʼera visto un
sovrano inglese piegare il ginocchio innanzi ad uomo mortale; e coloro
i quali contemplarono quello strano spettacolo, non potevano non
richiamare alla memoria il giorno di vergogna, in cui Re Giovanni rese
omaggio per la sua corona nelle mani di Pandolfo.

II. Breve tempo dopo, una cerimonia anche di più ostentata solennità
ebbe luogo in onore della Santa Sede. Eʼ fu deliberato che il Nunzio
andasse processionalmente a Corte. In tale occasione alcuni, della
cui obbedienza il Re era sicuro, mostrarono per la prima volta segni
di spirito disubbidiente. Si rese notevole fra tutti Carlo Seymour,
secondo Pari secolare del Regno, e comunemente chiamato lʼorgoglioso
Duca di Somerset. E certo egli era uomo, in cui lʼorgoglio della stirpe
e del grado era quasi infermità di mente. Le sostanze da lui ereditate
non erano pari allʼalto posto chʼegli teneva nellʼaristocrazia inglese;
ma era diventato signore della più vasta possessione territoriale
dʼInghilterra sposando la figlia ed erede dellʼultimo Percy, il quale
portava lʼantica corona ducale di Northumberland. Somerset aveva
soli venticinque anni, ed era poco noto al pubblico. Era Ciamberlano
del Re, e colonnello di uno deʼ reggimenti levati a tempo della
insurrezione delle Contrade Occidentali. Non aveva avuto scrupolo
di portare la Spada dello Stato nella Cappella reale, neʼ giorni di
festa: ma adesso risolutamente ricusò di mischiarsi al corteggio che
doveva festeggiare il Nunzio. Taluni di sua famiglia lo supplicarono a
non tirarsi sul capo la collera del Re; ma i loro preghi furono vani.
Il Re stesso si provò a rimproverarlo dicendo: «Io credeva, Milord,
farvi un grande onore eleggendovi ad accompagnare il ministro della
prima testa coronata del mondo.»—«Sire,» rispose il Duca «mi si
assicura che io non possa obbedire a Vostra Maestà senza contraffare
alla legge.»—«Farò che voi temiate me al pari della legge,» riprese
insolentemente il Re: «non sapete che io sono superiore alla
legge?»—«Vostra Maestà potrebbe essere superiore alla legge» rispose
Somerset, «ma io non lo sono; e mentre obbedisco alla legge, non ho
timore di nulla.» Il Re gli volse altamente irato le spalle, e tosto lo
destituì dʼogni ufficio nella casa reale e nello esercito.[279]

Nondimeno in una cosa Giacomo usò alquanto di prudenza. Non si rischiò
di esporre il Nunzio in solenne processione agli occhi della vasta
popolazione di Londra. La ceremonia fu fatta il dì 3 luglio 1687, in
Windsor. La gente accorse in folla a quella piccola città, tanto che
mancarono i viveri e gli alloggi; e molte persone dʼalta condizione
rimasero tutta la giornata nelle loro carrozze aspettando di vedere
lo spettacolo. In fine, in sul tardi del pomeriggio, comparve il
maresciallo del palazzo seguito daʼ suoi uomini a cavallo. Quindi
veniva una lunga fila di volanti, e da ultimo in un cocchio di Corte
procedeva Adda coperto dʼuna veste purpurea, con una croce che gli
luccicava sul petto. Era seguito dalle carrozze deʼ principali
cortigiani e ministri di Stato. Ed in questo corteo gli spettatori
riconobbero con indignazione lʼarmi e le livree di Crewe vescovo di
Durham, e di Cartwright Vescovo di Chester.[280]

III. Il dì susseguente leggevasi nella gazzetta un decreto che
discioglieva il Parlamento, il quale di tutti i quindici Parlamenti
convocati dagli Stuardi era stato il più ossequioso.[281]

Intanto nuove difficoltà sorgevano in Westminster Hall. Pochi mesi
erano corsi da che erano stati destituiti alcuni giudici e sostituiti
altri a fine dʼottenere una sentenza favorevole alla Corona nella causa
di Sir Eduardo Hales; e già era necessario fare nuovi cangiamenti.

Il Re aveva appena formato quello esercito, con lʼaiuto del quale
principalmente egli sperava di compire i propri disegni, allorchè si
avvide di non poterlo tenere in freno. In tempo di guerra nel Regno
un soldato ribelle o disertore poteva esser giudicato da un tribunale
militare, e la sentenza eseguita dal Provosto Maresciallo. Ma adesso
vʼera perfetta pace. Il diritto comune dʼInghilterra, originato in una
età in cui ogni uomo portava le armi secondo le occorrenze, e giammai
di continuo, non faceva distinzione, in tempo di pace, da un soldato
ad un altro suddito qualunque; nè vʼera Atto alcuno somiglievole a
quello, per virtù del quale lʼautorità necessaria al governo delle
truppe regolari, annualmente si affida al Sovrano. Alcuni vecchi
statuti, a dir vero, dichiaravano in certi casi speciali crimenlese la
diserzione. Ma tali statuti erano applicabili solo ai soldati nellʼatto
di prestare servizio al Re in guerra, e non potevansi senza aperta mala
fede stiracchiare tanto da applicarli al caso di colui, il quale, in
tempo di profonda quiete dentro e fuori lo Stato, sentendosi stanco
di rimanere più oltre negli accampamenti di Hounslow facesse ritorno
al suo villaggio nativo. Sembra che il Governo non avesse potestà
di ritenere un tale uomo più di quella che non ne abbia un fornaio
o un sartore sopra i suoi lavoranti. Il soldato e i suoi ufficiali
agli occhi della legge erano in pari condizione. Sʼegli bestemmiava
contro loro, era punito come reo di bestemmia; se gli batteva, era
processato per offesa. Vero è che le milizie regolari avevano minor
freno delle civiche. Perocchè queste erano un corpo istituito da un
Atto parlamentare, il quale aveva provveduto che si potessero, per
violazione di disciplina, infliggere sommariamente pene leggiere.

Non sembra che sotto il regno di Carlo II si fosse fatta molto sentire
la inconvenevolezza pratica di siffatta condizione della legge. Ciò
potrebbe forse spiegarsi dicendo che fino allʼultimo anno del suo
regno, le forze chʼegli manteneva in Inghilterra, erano precipuamente
composte di soldati appartenenti alla casa reale, la cui paga era
tanta che la destituzione dal servizio sarebbe stata dalla più parte
di loro considerata come una sciagura. Lo stipendio di un soldato
comune nelle Guardie del Corpo era una provvisione degna del figlio
minore dʼun gentiluomo. Anche le Guardie a piedi erano pagate quanto i
manifattori in tempi prosperi, ed erano quindi in condizioni tali da
essere invidiati dalla classe deʼ lavoranti. Il ritorno del presidio
di Tangeri, e le leve deʼ nuovi reggimenti avevano apportata una
seria riforma. Adesso erano in Inghilterra molte migliaia di soldati,
ciascuno deʼ quali riceveva soli otto soldi di paga per giorno. Il
timore dʼessere licenziati non era bastevole a tenerli dentro gli
stretti confini del dovere: e le pene corporali non potevano legalmente
dagli ufficiali essere inflitte. Giacomo aveva quindi due sole vie
ad eleggere, o lasciare che la sua armata si disciogliesse da sè,
o indurre i Giudici a dichiarare che la legge fosse ciò che ogni
giureconsulto sapeva non essere.

A ciò fare importava segnatamente esser sicuro della cooperazione di
due tribunali; la Corte del Banco del Re che era il primo tribunale
criminale del Regno, e la Corte chiamata del _goal–delivery_, che
sedeva in Old Bailey, ed aveva giurisdizione sopra i delitti commessi
nella capitale. In ambedue queste Corti vʼerano grandi difficoltà.
Herbert, Capo Giudice del Banco del Re, per quanto fino allora si
fosse mostrato servile, non avrebbe osato di trascorrere più oltre.
Più ostinata resistenza era da aspettarsi da Giovanni Holt, il quale,
come _Recorder_ della città di Londra, occupava il banco in Old Bailey.
Holt era uomo eminentemente dotto nella giurisprudenza, dotato di mente
lucida, coraggioso ed onesto; e comecchè non fosse stato mai fazioso,
le sue opinioni politiche sentivano di spirito Whig. Nulladimeno
dinanzi alla volontà del Re disparvero tutti gli ostacoli. Ad Holt
fu tolto lʼufficio. Herbert ed un altro giudice furono cacciati dal
Banco del Re; e queʼ posti vacanti vennero dati ad uomini nei quali il
Governo poteva pienamente confidare. E per vero dire, ei fu mestieri
scendere a ciò che vi era di più basso nel ceto legale per trovare
uomini pronti a rendere i servigi richiesti dal Re. La ignoranza del
nuovo Capo Giudice Sir Roberto Wright passava in proverbio; e pure la
ignoranza non era il peggiore deʼ suoi difetti. Era stato rovinato
daʼ vizii, aveva ricorso a mezzi infami per far danari, ed una volta
fece un falso _affidavit_, ovvero dichiarazione con giuramento, per
guadagnare cinquecento sterline. Povero, dissoluto e svergognato, era
divenuto uno deʼ parassiti di Jeffreys, che lo promosse nel medesimo
tempo in cui lo caricava dʼinsulti. Tale era lʼuomo scelto da Giacomo
a Lord Capo Giudice dʼInghilterra. Un certo Roberto Allibone, che era
nelle leggi anche più ignorante di Wright, e come cattolico romano non
poteva occupare impieghi, fu fatto secondo giudice del Banco del Re.
Sir Bartolommeo Shower, ugualmente noto come Tory servile ed oratore
noioso, fu nominato _Recorder_ di Londra. Dopo tali variazioni, a
parecchi disertori fu fatto il processo. Vennero dichiarati rei a
dispetto della lettera e dello spirito della legge. Alcuni furono
condannati a morte nel Banco del Re, altri in Old Bailey. Vennero
impiccati al cospetto deʼ reggimenti ai quali appartenevano; e sʼebbe
cura che la esecuzione della sentenza fosse annunziata nella gazzetta
di Londra, la quale di rado dava notizia di siffatti eventi.[282]

IV. Era da credersi che la legge, violata con tanta impudenza da
Corti la cui autorità derivava interamente da quella, e che avevano
costume di toglierla a guida neʼ loro giudizii, sarebbe poco rispettata
da un tribunale istituito da un capriccio tirannico. La nuova Alta
Commissione nei primi mesi della sua esistenza aveva semplicemente
inibito ad alcuni chierici lo esercizio delle loro funzioni spirituali;
essa non aveva attentato ai diritti di proprietà. Ma sul principio del
1687, eʼ fu deliberato di colpire cotesti diritti, e di porre in mente
ad ogni prete e prelato anglicano la convinzione, che, ricusando di
aiutare il Governo a distruggere la Chiesa di cui egli era ministro,
verrebbe in un attimo ridotto alla miseria.

Sarebbe stata prudenza farne la prima prova sopra qualche oscuro
individuo. Ma era tanta la cecità del Governo, che in una età più
credula si sarebbe chiamata fatalità. A un tratto dunque fu dichiarata
la guerra alle due più venerabili corporazioni del reame, voglio dire
alle Università dʼOxford, e di Cambridge.

V. Queʼ due grandi corpi da lunghissimi anni erano stati molto potenti;
e la potenza loro in sul declinare del secolo decimo settimo era
giunta al più alto grado. Nessuno deʼ paesi vicini poteva gloriarsi
di centri di dottrina splendidi ed opulenti al pari di quelli. Le
scuole dʼEdimburgo e di Glasgow, di Leida e di Utrecht, di Lovanio
e di Lipsia, di Padova e di Bologna, sembravano dappoco ai dotti
chʼerano stati educati neʼ magnifici istituti di Wykeham e di Wolsey,
di Enrico VI, e dʼEnrico VIII. Le lettere e le scienze nel sistema
accademico dʼInghilterra, erano circondate di gran pompa, avevano una
magistratura, ed erano strettamente connesse con tutte le più auguste
istituzioni dello Stato. Essere Cancelliere dʼuna Università reputavasi
onorificenza, alla quale ardentemente ambivano i magnati del Regno.
Rappresentare una Università in Parlamento era scopo allʼambizione
degli uomini di Stato. I nobili e perfino i principi inorgoglivansi
di ricevere da una Università il privilegio dʼindossare la veste
scarlatta di dottore. I curiosi erano attratti alle Università dal
diletto di ammirare quegli antichi edifizi ricchi di memorie del
medio evo, quelle moderne fabbriche che mostravano quanto potessero
gli squisiti ingegni di Jones e di Wren, quelle magnifiche sale e
cappelle, i Musei, i giardini botanici, e le sole grandi Biblioteche
pubbliche che a quei tempi esistessero nel Regno. La pompa che Oxford
mostrava nelle solennità, rivaleggiava con quella deʼ principi sovrani.
Quando il venerando Duca dʼOrmond Cancelliere di quellʼUniversità,
coperto del suo manto ricamato, sedeva sul trono sotto la dipinta volta
del teatro di Sheldon, circondato da centinaia di graduati vestiti
secondo lʼordine loro, mentre i più nobili giovani dellʼInghilterra
solennemente a lui presentavansi come candidati peʼ grandi accademici,
egli faceva una comparsa regale quasi al pari del suo signore nella
Sala del Banchetto in Whitehall. Nella Università sʼerano educati
glʼintelletti di quasi tutti i più eminenti chierici, laici, medici,
begli spiriti, poeti, ed oratori del reame, e gran parte deʼ nobili e
dei ricchi gentiluomini. È anche da notarsi che la relazione tra lo
scolare e la scuola non rompevasi alla sua partenza da quella. Spesso
egli seguitava ad essere per tutta la vita membro del corpo accademico,
e come tale votava in tutte le elezioni di maggiore importanza. Serbava
quindi per le sue antiche passeggiate lungo il Cam e lʼIsis una memoria
più affettuosa, che gli uomini educati spesso non sentono per il luogo
della loro educazione. In tutta Inghilterra non era angolo in cui le
due Università non avessero grati e zelanti figli. Ogni attentato
contro lʼonore e gli interessi di Cambridge e di Oxford non poteva
non provocare il risentimento dʼuna possente, operosa e intelligente
classe, sparsa in ogni Contea da Northumberland fino a Cornwall.

I graduati residenti, come corpo, allora non erano forse positivamente
superiori a quelli deʼ tempi nostri: ma in paragone delle altre classi
sociali occupavano una posizione più alta: imperocchè Cambridge ed
Oxford erano allora le sole due città provinciali del Regno, nelle
quali si trovasse un gran numero dʼuomini eminenti per cultura
intellettuale. Anche la metropoli teneva in grande riverenza lʼautorità
delle Università non solo nelle questioni di teologia, di filosofia
naturale e dʼantichità classiche, ma altresì in quelle materie nelle
quali le metropoli generalmente pretendono il diritto di giudicare in
ultimo appello. Dal Caffè Will e dalla platea del teatro regio di Drury
Lane i critici riferivansi al giudizio deʼ due grandi centri del sapere
e del gusto. Le produzioni drammatiche, chʼerano state con entusiasmo
applaudite in Londra, non riputavansi fuori di pericolo finchè non
avessero sperimentato il severo giudizio degli uditori assuefatti a
studiare Sofocle e Terenzio.[283]

Le Università dʼInghilterra avevano adoperata tutta la loro influenza
morale ed intellettuale a pro della Corona. Carlo I aveva fatto
dʼOxford il suo quartiere generale; e tutti i Collegi a impinguare
la sua cassa militare avevano fuse le loro argenterie. Cambridge
non era meno benevola alla Corona. Aveva mandata anche essa aʼ regi
accampamenti gran parte delle sue argenterie, e avrebbe parimenti
dato il resto se la città non fosse stata presa dalle soldatesche del
Parlamento. Ambedue le Università dai vittoriosi Puritani erano state
severissimamente trattate; ambedue avevano con gioia plaudito alla
Restaurazione; fermamente avversata la Legge dʼEsclusione; e mostrato
profondo orrore alla scoperta della Congiura di Rye–House. Cambridge
non solo aveva deposto Monmouth dallʼufficio di Cancelliere, ma ad
esprimere come forte abborrisse il tradimento di lui, con modo indegno
della sede della sapienza aveva data alle fiamme la tela in cui il
pennello di Kneller aveva con isquisitissimo magistero dipinto il
ritratto del Duca.[284] Oxford, la quale era più presso agli insorti
delle Contrade Occidentali, aveva date prove maggiori della sua lealtà.
Gli studenti, con lʼapprovazione deʼ loro maestri, avevano a centinaia
preso le armi per difendere i diritti ereditari del Re. Tali erano le
corporazioni che Giacomo aveva deliberato di insultare e spogliare,
rompendo apertamente le leggi e la fede data.

VI. Parecchi Atti di Parlamento, chiari quanto qualunque altro che
si contenga nel libro degli Statuti, avevano provveduto che niuno si
potesse ammettere ad alcun grado in ambe le Università senza prestare
il giuramento di supremazia, e un altro di simile carattere, detto
giuramento di obbedienza. Nonostante, nel febbraio del 1687, giunse a
Cambridge una lettera del Re che ingiungeva fosse ammesso al grado di
Maestro dellʼArti un monaco benedettino chiamato Albano Francis.

Gli ufficiali accademici, ondeggiando tra la riverenza pel Re e la
riverenza per le leggi, stavansi gravemente contristati. Mandarono
in gran diligenza messaggi al Duca dʼAlbemarle, successore di
Monmouth nella dignità di Cancelliere dellʼUniversità. Lo pregavano
di presentare nel suo vero aspetto il caso al Sovrano. Intanto
lʼarchivista e i bidelli andarono ad annunziare a Francis che ove egli
prestasse i giuramenti secondo richiedeva la legge, sarebbe subito
ammesso. Francis ricusò di giurare, inveì contro gli ufficiali della
Università mancatori di rispetto al comando sovrano, e trovandoli
inflessibili, montò a cavallo, e corse a recare le sue doglianze a
Whitehall.

I Capi deʼ Collegi allora si ragunarono a consiglio. Vennero consultati
i migliori giureconsulti, e tutti unanimemente giudicarono il corpo
universitario avere bene operato. Ma già era per via unʼaltra lettera
scritta da Sunderland con altere e minacciose parole. Albemarle
annunziò contristatissimo alla Università avere egli fatto ogni
sforzo, ma essere stato freddamente e con poca grazia accolto dal Re.
Il corpo accademico, impaurito della collera sovrana, e sinceramente
desideroso di compiacere ai voleri del Re, ma deliberato di non violare
le patrie leggi, gli sottopose le più umili e riverenti spiegazioni,
ma indarno. Poco dopo al Vice–Cancelliere e al Senato universitario
fu formalmente intimato di comparire, pel dì 21 aprile, dinanzi alla
nuova Alta Commissione; il Vice–Cancelliere in persona; il Senato, che
è composto di tutti i Dottori e Maestri dellʼUniversità, per mezzo di
suoi deputati.

VII. Giunto il dì stabilito, la sala del Consiglio era affollata.
Jeffreys teneva il seggio presidenziale. Rochester, dopo che gli era
stato tolto il bianco bastone, non era più membro, e gli era succeduto
al posto il Lord Ciamberlano Giovanni Sheffield Conte di Mulgrave.
La sorte di questo gentiluomo da un solo lato è simile a quella del
suo collega Sprat. Mulgrave scrisse versi appena al disopra della
mediocrità; ma perchè era uomo dʼalto grado nel mondo politico ed
elegante, i suoi versi trovarono ammiratori. Il tempo sciolse il
prestigio, ma, sciaguratamente per lui, ciò non avvenne se non dopo che
i suoi poetici componimenti per diritto di prescrizione erano stati
inseriti in tutte le raccolte deʼ Poeti inglesi. Per la qual cosa
fino aʼ dì nostri i suoi insipidi Saggi in verso e le sue scempiate
canzoni ad Amoretta e Gloriana ristampansi accanto al Como di Milton
e al Festino dʼAlessandro di Dryden. Onde è che adesso Mulgrave
è conosciuto come poetastro, e come tale meritamente spregiato.
Nondimeno, egli era, a dir vero, come affermano anche coloro che non
lo amavano nè lo stimavano, uomo dʼinsigni doti intellettuali, e nella
eloquenza parlamentare punto inferiore a qual si fosse oratore deʼ
tempi suoi. Il suo carattere morale era spregevole. Egli era libertino
senza quella larghezza di cuore e di mano che talvolta rende amabile
il libertinismo, ed altero aristocratico senza quella altezza di
sentimenti, che talvolta rende rispettabile lʼaristocratica alterigia.
Gli scrittori satirici di quellʼetà gli apposero il soprannome di
Lord Tuttorgoglio. Eppure cotesto suo orgoglio egli accompagnava con
tutti i vizi più abietti. Molti maravigliavansi come un uomo, che
aveva così alta opinione della propria dignità, fosse tanto difficile
e misero in tutte le sue faccende pecuniarie. Aveva gravemente offesa
la famiglia regale osando accogliere in petto la speranza di ottenere
il cuore e la mano della Principessa Anna. Disilluso di cotanta
speranza, sʼera sforzato di riacquistare con ogni bassezza la grazia
che per presunzione egli aveva perduta. Il suo epitaffio, composto
da lui stesso, rivela tuttora a coloro che traversano lʼAbbadia di
Westminster, chʼegli visse e morì da scettico nelle cose di religione;
e dalle memorie che ci ha lasciate, impariamo come uno deʼ suoi
più ordinari subietti di scherzo fosse la superstizione romana. Ma
appena Giacomo salì al trono, Mulgrave cominciò a manifestare forte
inclinazione verso il papismo, e in fine privatamente fece sembiante
dʼesser convertito. Questa abietta ipocrisia era stata ricompensata con
un posto nella Commissione Ecclesiastica.[285]

Innanzi cotesto formidabile tribunale si appresentò il Dottore Giovanni
Pechell Vice–Cancelliere della Università di Cambridge. Era uomo di
non grande abilità e vigoria di carattere, ma lo accompagnavano otto
insigni accademici eletti a rappresentare il Senato. Uno di loro era
Isacco Newton, Convittore del Collegio della Trinità e Professore di
Matematiche. Il suo genio era allora nel massimo vigore. La grande
opera, che lo ha collocato di sopra ai geometri e aʼ naturalisti di
tutti i tempi e di tutte le nazioni, stavasi stampando per ordine
della Società Reale, ed era pressochè pronta a pubblicarsi. Egli amava
fermamente la libertà civile e la religione protestante; ma per le
sue abitudini, valeva poco neʼ conflitti della vita attiva. E però
tenne un modesto silenzio fra mezzo ai deputati, lasciando ad uomini
maggiormente esperti nelle faccende lo incarico di difendere la causa
della sua diletta Università.

Non vi fu mai caso più chiaro di cotesto. La legge non ammetteva
stiracchiature. La pratica aveva quasi invariabilmente seguita sempre
la legge. Poteva forse essere accaduto che in un giorno di solennità,
nel conferirsi gran numero di gradi onorari, fosse passato fra la
folla qualcuno senza prestare i giuramenti. Ma tale irregolarità,
semplice effetto della inavvertenza e della fretta, non poteva
citarsi come esempio. Ambasciatori stranieri di diverse nazioni, ed
in ispecie un Musulmano, erano stati ammessi senza giuramento; ma
poteva dubitarsi se a cosiffatti casi fossero applicabili la ragione
e lo spirito degli Atti del Parlamento. Non pretendevasi nè anco che
alcuno il quale, richiesto, avesse ricusato di prestare i giuramenti,
ottenesse mai un grado accademico; e questo era precisamente il caso
di Francis. I deputati mostraronsi pronti a provare che, regnante
Carlo II, parecchi ordini regali erano stati considerati come nulli,
perocchè le persone raccomandate non si erano volute uniformare alla
legge, e che, in simili casi, il Governo aveva sempre approvato
lʼoperare dellʼUniversità. Ma Jeffreys non volle udire nulla. Disse il
Vice–Cancelliere essere uomo debole, ignorante e timido, per lo che
disfrenò tutta la insolenza che era per tanti anni stata il terrore
di Old Bailey. Lo sventurato Dottore, non avvezzo a tale spettacolo,
cadde in disperata agitazione di mente, e perdè la parola. Allorchè
gli altri accademici, che potevano meglio difendere la propria causa,
provaronsi di parlare, furono duramente fatti tacere: «Voi non siete
Vice–Cancelliere; quando lo sarete, parlerete; per ora è vostro
debito tenere chiuse le labbra.» Furono cacciati fuori la sala senza
che potessero farsi ascoltare. Poco tempo dopo, citati di nuovo a
presentarsi, fu loro annunziato che la Commissione aveva deliberato
di sospendere Pechell dallʼufficio, e toglierli tutti gli emolumenti
chʼerano come sua proprietà. «Quanto a voi altri,» disse Jeffreys «che
per la più parte siete ecclesiastici, vi manderò a casa con un testo
della Scrittura. Andate, e non peccate mai più, perchè non vi accada
peggio.»[286]

VIII. Siffatto procedere potrebbe sembrare bastevolmente ingiusto
e violento. Ma il Re aveva già incominciato a trattare Oxford con
tanto rigore, che quello mostrato contro Cambridge potrebbe chiamarsi
dolcezza. Già il Collegio della Università era stato trasmutato da
Obadia Walker in seminario cattolico romano. Già il Collegio della
Chiesa–di–Cristo era governato da un decano cattolico. La Messa
celebravasi giornalmente in ambidue cotesti collegi. La tranquilla e
maestosa città, un tempo sì devota ai principii monarchici, era agitala
da passioni non mai per lo innanzi conosciute. I sottograduati, con
connivenza deʼ loro superiori, facevano le fischiate ai membri della
congregazione di Walker, e cantavano satire sotto le sue finestre. Sono
giunti fino a noi alcuni frammenti delle serenate che mettevano in
subbuglio High–Street. Lo intercalare dʼuna ballata diceva: «Il vecchio
Obadia—Canta lʼAve Maria.»

Come i comici giunsero in Oxford, lʼopinione pubblica si manifestò con
maggior forza. Venne rappresentata la produzione drammatica di Howard
intitolata il _Comitato_. Questo componimento, scritto poco dopo la
Restaurazione, dipingeva i Puritani in sembianti odiosi e spregevoli,
e però era stato per venticinque anni applaudito dagli Oxfordiani.
Adesso piaceva più che mai; imperciocchè per fortuna uno deʼ precipui
caratteri era un vecchio ipocrita che aveva nome Obadia. Gli uditori
diedero in fragoroso scoppio dʼ applausi quando, nellʼultima scena,
Obadia viene strascinato fuori con un capestro al collo; e i clamori
raddoppiarono quando uno degli attori, alterando la commedia, annunzio
che Obadia meritava dʼessere impiccato per avere rinnegata la propria
religione. Il Re rimase grandemente irritato a tale insulto. Era
cotanto rivoluzionario lo spirito della Università, che uno deʼ nuovi
reggimenti—quel desso che ora chiamasi Secondo deʼ Dragoni delle
Guardie—fu acquartierato in Oxford, onde impedire uno scoppio.[287]

Dopo cotesti fatti Giacomo avrebbe dovuto convincersi che la via da lui
presa doveva di necessità condurlo a ruina. Ai clamori di Londra era
da lungo tempo assuefatto. Sʼerano levati contro lui ora giustamente
ed ora a torto. Egli li aveva più volte affrontati, e poteva forse
tuttavia affrontarli. Ma che Oxford, sede della lealtà, quartiere
generale dello esercito deʼ Cavalieri, luogo dove il padre e il
fratello trasferirono la corte loro quando non si tenevano più sicuri
nella loro tempestosa metropoli, luogo dove gli scritti deʼ grandi
intelletti repubblicani erano stati di recente dati alle fiamme, fosse
ora agitata da sinistri umori; che quegli animosi giovani, i quali
pochi mesi innanzi avevano ardentemente prese le armi contro glʼinsorti
delle Contrade Occidentali, avessero ad essere con difficoltà tenuti
in freno dalla carabina e dalla spada, erano segni di cattivo augurio
per la casa degli Stuardi. Tali ammonimenti, nondimeno, tornarono
inutili allo stupido, inflessibile e testardo tiranno. Era deliberato
di dare alla sua Chiesa i più ricchi e splendidi stabilimenti
dʼInghilterra. A nulla giovarono le rimostranze deʼ migliori e più
savi traʼ suoi consiglieri cattolici romani. Gli dimostrarono come
egli potesse rendere grandi servigi alla causa della sua religione,
senza violare i diritti di proprietà. Un assegnamento annuo di due
mila lire sterline, che agevolmente poteva trarsi dal suo tesoro
privato, sarebbe bastato a mantenere un collegio di Gesuiti. Siffatto
collegio provveduto di abili, dotti e zelanti precettori, sorgerebbe
come formidabile rivale alle vecchie istituzioni accademiche, le
quali mostravano non pochi segni di quella languidezza, che è quasi
inseparabile dal sentirsi sicuro ed opulento. Il collegio di Re Giacomo
tosto verrebbe considerato, anche dagli stessi Protestanti, il primo
istituto dʼeducazione nellʼisola e per scienza e per disciplina morale.
Ciò sarebbe il mezzo più efficace e meno odioso con che umiliare la
Chiesa Anglicana ed esaltare la cattolica. Il Conte dʼAilesbury, uno
deʼ più fidi servitori della regale famiglia, quantunque Protestante,
offerse mille lire sterline per mandare ad esecuzione quel disegno, più
presto che vedere che il suo signore violasse i diritti di proprietà,
e rompesse la fede data alla Chiesa dello Stato.[288] Tale proposta,
nondimeno, non piacque al Re, come quella che, a dir vero, per molte
ragioni, era poco convenevole alla dura indole di lui. Imperciocchè
aveva non poco diletto a domare e sconfiggere lʼaltrui volontà, e gli
doleva privarsi deʼ propri danari. Ciò chʼegli non aveva la generosità
di fare a proprie spese, voleva farlo a spese degli altri. Deliberato
di conseguire un fine, lʼorgoglio e lʼostinazione glʼimpedivano di
retrocedere; e a poco per volta si era già ridotto a commettere atti
di turchesca tirannide, atti che ridussero la nazione a convincersi
che la proprietà di un libero possidente inglese sotto un Re cattolico
romano non era punto sicura, come non lo era quella dʼun greco sotto la
dominazione musulmana.

IX. Il Collegio della Maddalena in Oxford, fondato nel secolo
decimoquinto da Guglielmo di Waynflete Vescovo di Winchester e
Lord Gran Cancelliere, era uno deʼ più cospicui deʼ nostri istituti
accademici. Una graziosa torre, in cima alla quale allʼalba del di
primo di maggio i coristi cantavano un inno latino, presentavasi
da lungi allʼocchio del viandante che veniva da Londra. Come egli
appressavasi, la vedeva sorgere fraʼ merli sopra una vasta mole bassa
ed irregolare, ma singolarmente veneranda, la quale, cinta di verdura,
signoreggiava le lente acque del Cherwell. Egli entrava per una porta
sormontata da una leggiadra finestra, e penetrava in uno spazioso
chiostro ornato dʼimmagini rappresentanti le virtù e i vizi, rozzamente
scolpite in pietra grigia dai muratori del secolo decimoquinto. La
mensa della società era con profusione apparecchiata in un magnifico
refettorio adorno di pitture e di fantastici intagli. Il servizio di
chiesa facevasi mattina e sera in una cappella, chʼera stata molto
danneggiata daʼ Riformatori e dai Puritani, ma tuttavia, così guasta,
era edificio dʼinsigne bellezza, ai tempi nostri ristaurato con arte
e con gusto squisiti. I vasti giardini lungo la riva del fiume, erano
notevoli per la grandezza degli alberi, fra mezzo ai quali torreggiava
una delle maraviglie della vegetazione dellʼisola, cioè una quercia
gigantesca, secondo che comunemente dicevasi, dʼun secolo più antica
del più antico collegio dellʼUniversità.

Gli statuti collegiali ordinavano che i Re dʼInghilterra e i Principi
di Galles dovessero alloggiare alla Maddalena. Eduardo IV vi aveva
abitato quando la fabbrica non era peranche finita. Riccardo III
vi aveva tenuto corte, udito le dispute nella sala, regalmente
festeggiato, e a rimunerare i suoi ospiti aveva loro fatto presenti di
daini delle sue foreste. Due eredi presuntivi della Corona, anzi tempo
spenti, Arturo fratello maggiore di Enrico VIII, ed Enrico fratello
maggiore di Carlo I, erano stati membri di quel collegio. Un altro
Principe del sangue, lʼultimo e migliore degli Arcivescovi cattolici
romani di Canterbury, il buon Reginaldo Polo, vi aveva fatti i suoi
studi. Aʼ tempi della guerra civile il Collegio della Maddalena era
rimasto fido alla Corona. Ivi Rupert aveva stabilito il suo quartiere
generale; e le sue trombe sʼudivano per quei quieti chiostri quando
egli ragunava i suoi cavalli per muovere a qualcuna delle sue più
audaci intraprese. La maggior parte deʼ collegiali erano ecclesiastici,
e non potevano aiutare il Re se non con preci e pecunia. Ma un collega
loro, il quale era Dottore in Diritto Civile, fece leva dʼuna schiera
di sottograduati, e cadde valorosamente combattendo alla loro testa
contro i soldati dʼEssex. Posate le armi, e venuta la Inghilterra
sotto la dominazione delle Teste–Rotonde, sei settimi dei membri del
collegio ricusarono di sottomettersi agli usurpatori: per la qual cosa
furono cacciati dalle loro abitazioni, e privati delle rendite. Coloro
che sopravvissero alla Restaurazione, fecero ritorno alle loro gradite
stanze. Adesso era loro succeduta una generazione dʼuomini, i quali
ne avevano ereditato le opinioni e lo spirito. Mentre infuriava la
ribellione delle Contrade Occidentali, tutti coloro che nel Collegio
della Maddalena la età o la professione non impediva dal portare le
armi, erano ardentemente accorsi a combattere a pro della Corona. Eʼ
sarebbe difficile trovare in tutto il Regno una corporazione, che al
pari di cotesta fosse meritevole della gratitudine degli Stuardi.[289]

La società era composta dʼun Presidente, di quaranta Convittori
(_Fellows_), di trenta scolari chiamati _Demies_, e dʼun convenevole
numero di cappellani, cherici e coristi. A tempo della visita generale
sotto il regno di Enrico VIII, le rendite del collegio erano molto
maggiori di quelle dʼogni altro simigliante istituto nel reame,
maggiori quasi per metà di quelle del magnifico istituto da Enrico VI
fondato in Cambridge; e assai più del doppio di quelle che Guglielmo
Wykeham aveva assegnato al suo collegio in Oxford. Sotto Giacomo II
le ricchezze della Maddalena erano immense, e la fama le esagerava.
Dicevasi comunemente che il collegio fosse più ricco delle più ricche
Abadie del continente; e il popolo affermava che, finiti i fitti
esistenti, la entrata crescerebbe fino alla somma prodigiosa di
quaranta mila lire sterline lʼanno.[290]

I Convittori, per virtù degli statuti compilati dal fondatore, avevano
potestà di eleggere il presidente fra coloro che erano allora o erano
stati convittori o della Maddalena o del Collegio Nuovo. Avevano per
lo più siffatta potestà liberamente esercitato. Ma alcuna volta il Re
aveva raccomandato qualche partigiano della Corte alla scelta degli
elettori; e in tali casi il collegio sʼera mostrato riverente ai
desiderii del Sovrano.

Nel marzo del 1687, il Presidente della Maddalena fini di vivere.
Aspirava a succedergli uno deʼ Convittori, cioè il Dottore Tommaso
Smith, volgarmente soprannominato Rabbi Smith, insigne viaggiatore,
bibliofilo, antiquario, ed orientalista, già stato cappellano di
legazione a Costantinopoli, e adoperato a collazionare il Manoscritto
Alessandrino. Credeva di meritare la protezione del Governo come uomo
dotto e come Tory zelante. E davvero era ardentemente e fermamente il
più realista che si potesse trovare in tutta la Chiesa Anglicana. Da
lungo tempo aveva stretta amicizia con Parker Vescovo dʼOxford, per
mezzo del quale egli sperava ottenere dal Re una lettera commendatizia
al collegio; Parker gli promise di fare il possibile, ma tosto riferì
di avere incontrato parecchie difficoltà. «Il re» disse egli «non
raccomanderà alcuno che non sia amico alla religione della Maestà Sua.
Che potreste voi fare per compiacerlo in quanto a ciò?» Smith rispose
che ove egli fosse fatto Presidente, farebbe ogni sforzo per promuovere
le lettere, la vera religione di Cristo, e la lealtà verso il Sovrano.
«Ciò non servirebbe» disse il Vescovo. «Se è così» rispose animosamente
Smith, «sia chi si voglia il Presidente: io non posso promettere altro.»

X. La elezione era stabilita pel di 13 aprile, e ai Convittori fu
annunziato di ragunarsi. Dicevasi che il Re manderebbe una lettera
a raccomandare pel posto vacante un certo Antonio Farmer. Era stato
membro della Università di Cambridge ed aveva schivato di essere
espulso, accortamente ritirandosi a tempo. Sʼera quindi collegato
coʼ Dissidenti; e poi, recatosi ad Oxford, era entrato nel Collegio
della Maddalena, dove si rese notevole per ogni generazione di vizi.
Quasi sempre strascinavasi al collegio a notte avanzata, senza potere
profferire parola, come colui chʼera briaco. Acquistò fama per essersi
messo a capo dʼun tumulto in Abingdon. Frequentava sempre i convegni
deʼ libertini. In fine, fattosi lenone, era disceso anche al di sotto
della ordinaria sozzura del suo mestiere, ricevendo danari da certi
dissoluti giovani per aver loro resi servigi tali che il labbro pudico
della storia non può ricordare senza arrossirne. Cotesto sciagurato,
nondimeno, aveva simulato di farsi papista, e la sua apostasia fu
considerata come bastevole espiazione di tutti i suoi vizi. E comecchè
fosse ancora giovine dʼanni, fu dalla Corte scelto a governare
una grave e religiosa società, nella quale era tuttavia fresca la
scandalosa memoria del suo depravato vivere.

Come cattolico romano, egli, secondo la legge comune del paese, non
poteva occupare veruno ufficio accademico. Per non essere mai stato
Convittore della Maddalena o del Collegio Nuovo, non poteva, in virtù
dʼun ordinamento speciale di Guglielmo Waynflete, essere eletto
Presidente. Guglielmo aveva anche comandato a coloro che dovevano
fruire della liberalità sua, di badare peculiarmente alla moralità di
colui che dovevano eleggere a loro capo; e quandʼanche egli non avesse
lasciato scritto cotale comandamento, una corporazione composta in
massima parte di ecclesiastici non poteva decentemente affidare ad un
uomo quale era Farmer il governo dʼun istituto dʼeducazione.

I Convittori rispettosamente esposero al Re le difficoltà in cui
si troverebbero, ove, come ne correva la voce, Farmer venisse loro
raccomandato; e pregavano, che qualora piacesse alla Maestà Sua
immischiarsi nella elezione, proponesse qualche persona a favore della
quale potessero legalmente e con sicura coscienza votare. La rispettosa
preghiera fu posta in non cale. La lettera del Re giunse, e fu recata
da Roberto Charnock, che dianzi sʼ era fatto papista, uomo fornito di
coraggio e di qualità, ma di sì violenta indole che pochi anni dopo
commise un atroce delitto ed ebbe miseranda fine. Il dì 13 aprile,
la società congregossi nella cappella. Speravano tutti che il Re si
movesse alla rimostranza che gli avevano presentata. Lʼassemblea quindi
si aggiornò al dì 15, che era lʼultimo giorno, nel quale, secondo
gli statuti del collegio, la elezione doveva aver luogo. Giunto il
predetto giorno, i Convittori ragunaronsi di nuovo entro la cappella.
Non vʼera risposta alcuna da Whitehall. Due o tre degli anziani, fraʼ
quali era Smith, inchinavano a posporre ancora la elezione, più presto
che fare un passo che avrebbe potuto offendere il Re. Ma il testo degli
statuti, che i membri del collegio avevano giurato di osservare, era
chiaro. Fu quindi generale opinione di non ammettere altro indugio. Ne
segui vivissima discussione. Gli elettori erano sì concitati che non
potevano starsi neʼ loro seggi, e tumultuavano. Coloro che volevano
la elezione immediata, richiamavansi aʼ loro giuramenti ed alle
prescrizioni del fondatore, del quale mangiavano il pane, e ripetevano
il Re non avere diritto dʼimporre un candidato anche avente i necessari
requisiti. Fra mezzo alla contesa udironsi alcune parole spiacevoli
alle orecchie dʼun Tory, si che Smith irritato esclamò: lo spirito
di Ferguson avere invaso i cuori deʼ suoi confratelli. Finalmente eʼ
fu deliberato di fare subito la elezione. Charnock uscì fuori della
cappella. Gli altri Convittori, ricevuta la comunione, procederono
a votare, e sortì eletto Giovanni Hough uomo di grande virtù e
prudenza, il quale avendo sostenuto con fortezza la persecuzione, e con
mansuetudine la prosperità, elevatosi a più alte dignità e rifiutatene
anche di maggiori, mori estremamente vecchio, senza perdere la vigoria
della mente, cinquantasei e più anni dopo quel memorando giorno.

La società affrettossi a far conoscere al Re le circostanze che
avevano reso necessario lo eleggere senza altro indugio il Presidente,
e pregarono il Duca di Ormond, come patrono della Università, e il
Vescovo di Winchester, come ispettore del Collegio della Maddalena,
perchè volessero assumersi lʼufficio dʼintercessori: ma il Re, torpido
di mente, era siffattamente incollerito che non volle ascoltare
spiegazioni.

XI. Neʼ primi giorni di giugno, i Convittori furono citati ad
appresentarsi dinanzi allʼAlta Commissione in Whitehall. Cinque di
loro, come deputati degli altri, obbedirono. Jeffreys gli trattò
secondo suo costume. Quando uno di loro, chʼera un venerando Dottore
nomato Fairfax, espresse qualche dubbio intorno alla validità della
Commissione, il Cancelliere cominciò ad urlare a guisa di belva
feroce: «Chi è costui? Chi gli ha dato lo incarico di venire a far
lo impudente in questo luogo? Chiappatelo; mettetelo in secreta. Che
fa egli senza custode? Egli è pazzo, ed è sotto la mia custodia. Mi
maraviglio che nessuno sia venuto a richiedermelo per tenerlo in buona
guardia.» Poichè si fu così sfogato, e furono lette le deposizioni
concernenti il carattere morale del candidato proposto dal Re, nessuno
deʼ Commissari ebbe la sfrontatezza di asserire che un tale uomo
potesse convenevolmente essere eletto capo dʼun gran collegio. Obadia
Walker e gli altri papisti dʼOxford i quali trovavansi lì presenti
a difendere glʼinteressi del loro proselito, rimasero estremamente
confusi. La Commissione dichiarò nulla la elezione di Hough, e sospese
Fairfax dallʼufficio di Convittore: ma non fu più ragionato di Farmer;
e nel mese di agosto giunse ai Convittori una lettera del Re, il quale
proponeva loro Parker, Vescovo dʼOxford.

XII. Parker non era apertamente papista. Nondimeno esisteva contro
lui un impedimento, il quale, quando anche la presidenza fosse stata
vacante, sarebbe stato decisivo: imperocchè egli non era mai stato
Convittore nè della Maddalena, nè del Collegio Nuovo. Ma la presidenza
non era vacante: Hough era stato debitamente eletto; e tutti i membri
del Collegio erano tenuti per sacramento a sostenerlo nellʼufficio. E
però, significando la lealtà e il rincrescimento loro, scusaronsi di
non potere obbedire ai comandi del Re.

Mentre Oxford in siffatto modo opponeva ferma resistenza alla
tirannide, altri altrove non meno ferma opposizione faceva. Tempo
innanzi, Giacomo, ai rettori della Certosa, che erano uomini
dʼaltissimo grado e reputatissimi nel Regno, aveva comandato
dʼammettere un certo Popham cattolico romano allo Spedale loro
sottoposto. Il Direttore Tommaso Burnet, ecclesiastico insigne per
ingegno, dottrina e virtù, ebbe il coraggio di dir loro, quantunque
il feroce Jeffreys fosse del seggio, come ciò che da loro volevasi
era contrario alla volontà del fondatore, non che ad un Atto del
Parlamento. «E che importa ciò?» disse un cortigiano che era uno deʼ
governatori. «Importa molto, io credo,» rispose una voce resa fioca
dagli anni e dal dolore, e che non pertanto moveva da tal uomo da
essere udita con rispetto, cioè la voce, del venerando Ormond. «Un
Atto di Parlamento» seguitò il patriarca deʼ Cavalieri «non è, secondo
il mio giudicio, cosa di lieve momento.» Fu messa innanzi la questione
se Popham dovesse essere ammesso, e fu risoluta pel no. Il Cancelliere,
che non potè sfogarsi bestemmiando e imprecando contro Ormond, uscì
fuori spumante di rabbia e fu seguito da pochi altri, di guisa che i
membri rimasti non furono più in numero legale, e non poterono fare una
formale risposta allʼordine sovrano.

Lʼaltra adunanza ebbe luogo solo due giorni dopo che lʼAlta Commissione
aveva con sua sentenza cassato la elezione di Hough e sospeso Fairfax.
Un secondo ordine sovrano, munito del Gran Sigillo, fu presentato ai
rettori: ma il tirannesco modo con cui era stato trattato il Collegio
della Maddalena, aveva maggiormente destato il loro coraggio invece
di domarlo. Scrissero una lettera a Sunderland, onde pregarlo ad
annunziare al Re come essi in quel negozio non potessero obbedire alla
Maestà Sua, senza violare la legge e mancare al debito loro.

Eʼ non è dubbio veruno che se cotesto documento fosse stato
sottoscritto da nomi ordinari, il Re sarebbe trascorso a qualche
eccesso. Ma anche a lui imponevano riverenza i grandi nomi di Ormond,
Halifax, Danby, e Nottingham, capi di tutti i vari partiti ai quali
egli andava debitore della Corona. E però fu pago di ordinare che
Jeffreys pensasse quale fosse la via da prendersi. Una volta fu
annunciato che verrebbe istituito un processo nella Corte del Banco
del Re; unʼaltra, che la Commissione Ecclesiastica evocherebbe a sè la
faccenda; ma tali minacce a poco a poco svanirono.[291]

XIII. La estate era bene inoltrata allorquando il Re intraprese un
viaggio, il più lungo e più magnifico che da molti anni i sovrani
dʼInghilterra avessero fatto. Da Windsor il di 16 agosto egli passò a
Portsmouth, girò attorno le fortificazioni, toccò parecchie persone
scrofolose, e quindi imbarcatosi in uno deʼ suoi legni giunse a
Southampton. Da Southampton viaggiò a Bath, dove rimase pochi giorni
e lasciò la Regina. Nel partirsi fu accompagnato dal Grande Sceriffo
della Contea di Somerset e da una numerosa coorte di gentiluomini
fino ai confini, dove il Grande Sceriffo della Contea di Gloucester
con un non meno splendido accompagnamento stavasi ad aspettarlo. Il
Duca di Beaufort corse ad incontrare i cocchi del Re e li condusse a
Badminton, dove era apparecchiato un banchetto degno della rinomata
magnificenza della sua casa. Nel pomeriggio, la cavalcata procedè fino
a Gloucester; e a due miglia dalla città fu salutata dal Vescovo e dal
clero. A Porta Orientale aspettavala il Gonfaloniere recando le chiavi.
Le campane sonavano a festa; e le fontane versavano vino mentre il Re
traversava le vie per andare al ricinto che chiude il venerando Duomo.
Dormì quella notte nel decanato, e la dimane partì per Worcester. Da
Worcester andò a Ludlow, Shrewsbury, e Chester, e venne in ogni luogo
accolto con segni di riverenza e di gioia, dimostrazioni chʼegli ebbe
la debolezza di considerare come prove che il malcontento, provocato
dagli atti suoi, era ormai cessato, e che egli poteva di leggieri
riportare piena vittoria. Barillon, il quale era più sagace, scrisse
a Luigi che il Re dʼInghilterra illudevasi, che il viaggio non aveva
recato nessun bene positivo, e che quegli stessi gentiluomini delle
Contee di Worcester e di Shrop i quali avevano creduto loro debito
accogliere il loro ospite e Sovrano con ogni segno dʼonorificenza,
si troverebbero più disubbidienti che mai quando verrebbe fuori la
questione intorno allʼAtto di Prova.[292]

Lungo il viaggio, al regio corteo si congiunsero due cortigiani per
indole ed opinioni lʼuno dallʼaltro grandemente diversi. Penn trovavasi
a Chester per un giro pastorale. La popolarità e lʼautorità chʼegli
aveva fraʼ suoi confratelli erano grandemente scemate sino da quando
egli sʼera fatto strumento del Re e dei Gesuiti.[293] Ei fu, nondimeno,
assai graziosamente accolto da Giacomo, e la domenica gli fu concesso
di arringare in piazza, mentre Cartwright predicava dentro il Duomo,
e il Re ascoltava la Messa ad un altare appositamente accomodato nel
Palazzo della Contea. E per vero dire si disse che la Maestà Sua si
degnasse di recarsi alla ragunanza deʼ Quacqueri, ed ascoltare con
gravità la melodiosa eloquenza dellʼamico suo.[294]

Il furioso Tyrconnel era arrivato da Dublino per rendere conto della
propria amministrazione. Tutti i più spettabili Inglesi cattolici lo
guardavano di mal occhio, considerandolo come nemico della loro razza
e scandalo della religione loro. Ma egli fu cordialmente accolto dal
suo signore, il quale lo accomiatò dandogli più che mai assicurazioni
di fiducia e di appoggio. Piacque grandemente a Giacomo lʼudire che
tra breve lo intero Governo dʼIrlanda si ridurrebbe in mano deʼ soli
Cattolici Romani. Ai coloni inglesi era stato già tolto ogni potere
politico; nullʼaltro rimaneva che privarli delle loro sostanze;
oltraggio, chʼera differito finchè si fosse a ciò fare assicurata la
cooperazione dʼun Parlamento irlandese.[295]

Dalla Contea di Chester il Re si volse verso il mezzogiorno, e
indubitabilmente credendo che i Convittori del Collegio della
Maddalena, comunque turbolenti, non ardirebbero disobbedire ad un
comandamento uscito dalle stesse sue labbra, sʼavviò a Oxford. Cammino
facendo, visitò vari luoghi che peculiarmente lo interessavano, come
Re, come fratello, e come figlio. Visitò il tetto ospitale di Boscobel
e gli avanzi della quercia tanto famosa nella storia di sua famiglia.
Cavalcò al campo dʼEdgehill, dove i Cavalieri primamente pugnarono coi
soldati del Parlamento. Il dì 3 di settembre, pranzò solennemente nel
palazzo di Woodstock, antica e rinomata magione, della quale adesso
non resta nè anco una pietra, ma il cui sito sul prato del parco di
Blenheim è indicato da due sicomori che sorgono presso al magnifico
ponte.

XIV. La sera ei giunse ad Oxford, e vi fu ricevuto coʼ soliti onori.
Gli studenti con indosso lʼabito accademico erano schierati a salutarlo
a destra e a sinistra dallo ingresso della città fino alla porta
maggiore dalla Chiesa–di–Cristo. Prese stanza al decanato, dove fra
gli altri preparamenti a convenevolmente riceverlo, trovò una cappella
acconcia alla celebrazione della Messa.[296] Il dì seguente al suo
arrivo i Convittori della Maddalena ebbero ordine di appresentarsi
a lui. Quando gli furono dinanzi, gli ricevè con insolenza maggiore
di quella che i Puritani avevano usata ai loro antecessori. «Voi non
vi siete condotti meco da gentiluomini,» esclamò Giacomo. «Voi siete
stati male educati e avete mancato al proprio dovere.» E quelli,
cadendo sulle proprie ginocchia, gli porgevano una petizione, chʼegli
non volle ricevere. «È questa la lealtà di cui mena sì gran vanto la
vostra Chiesa Anglicana? Non avrei mai creduto che tanti chierici della
Chiesa dʼInghilterra si trovassero immischiati in siffatto negozio.
Andate via, andate. Io sono il Re, e voglio essere ubbidito. Adunatevi
sullʼistante nella vostra cappella, ed eleggete il Vescovo dʼOxford.
Coloro che ricuseranno, ci pensino prima. Sentiranno sui loro capi
tutto il peso della mia mano. Sapranno che importi spiacere al loro
Re.» I Convittori, rimanendo tuttavia inginocchioni, di nuovo porsero
la petizione. Ma il Re irato, gettandola via, gridò: «Toglietevi dal
mio cospetto, vi dico; non riceverò nulla da voi, finchè non abbiate
eletto il Vescovo.»

Se ne andarono, e senza un momento dʼindugio ragunaronsi nella loro
cappella. Proposero se si avesse ad obbedire ai comandi del Re. Smith
era assente. Il solo Charnock dètte il voto affermativo. Gli altri
Convittori che ivi trovavansi, dichiararono dʼessere in ogni cosa
pronti ad obbedire al Re, ma di non volere violare gli statuti e i
giuramenti loro.

Il Re, gravemente incollerito e mortificato per la sua sconfitta,
si partì da Oxford e andò a raggiungere la Regina in Bath. Per
la ostinazione e violenza sue ei sʼera posto in una impacciosa
situazione. Aveva avuta molta fiducia nello effetto del suo cipiglio
e delle sue sdegnose parole, ed aveva sullʼesito della contesa
incautamente giocato non il solo credito del suo Governo, ma la sua
dignità personale. Poteva egli cedere ai suoi sudditi da lui minacciati
a voce alta e con furiosi gesti? E nondimeno poteva egli rischiarsi a
destituire in un solo giorno una folla di rispettabili ecclesiastici,
rei soltanto di avere adempito ciò che la nazione intera considerava
come debito loro? Forse si sarebbe potuta trovare una via ad uscirne
da questo dilemma. Forse il collegio si sarebbe potuto ridurre alla
sommissione per mezzo del terrore, delle carezze, della corruzione.

XV. E però si dètte incarico a Penn dʼaccomodare la faccenda. Egli
aveva tanto buon senso da non approvare il violento ed ingiusto
procedere del Governo, e perfino rischiossi ad esprimere in parte il
proprio intendimento. Giacomo, come sempre, ostinavasi nel torto.
Il Quacquero cortigiano fece ogni sforzo per sedurre il collegio ad
uscire dalla diritta via. Parimente provossi ad intimidirlo, dicendo il
collegio correre a certa rovina; il Re essere grandemente corrucciato;
il caso potere farsi, come da tutti generalmente credevasi, gravissimo;
non esservi fanciullo il quale non pensasse che Sua Maestà voleva fare
a suo modo, e non avrebbe sofferto di essere avversata. Per le quali
cose Penn esortava i Convittori a non confidare nella rettitudine della
loro causa, ma a sottomettersi, o almeno a temporeggiare. Tali consigli
parvero stranissimi sulle labbra dʼun uomo, il quale era stato espulso
dalla Università per avere suscitato un tumulto in occasione della
cotta da prete, il quale aveva corso pericolo dʼessere diseredato più
presto che far di cappello ai principi del sangue, ed era stato più
volte messo in carcere per avere arringato nelle conventicole. Non gli
riusci di intimorire i Convittori della Maddalena. I quali rispondendo
ai suoi ammonimenti rammentarongli come nella passata generazione
trentaquattro sopra quaranta Convittori avevano lietamente abbandonato
i loro diletti chiostri e giardini, la sala, la cappella, andando alla
ventura senza tetto nè pane, piuttosto che violare il giuramento di
fedeltà al legittimo Sovrano. Il Re adesso volendoli costringere a
rompere un altro giuramento, si sarebbe accorto che lʼantico coraggio
non era spento nel Collegio della Maddalena.

Allora Penn provò maniere più dolci. Ebbe un colloquio con Hough
e alcuni deʼ Convittori, e dopo molte proteste di simpatia ed
amicizia cominciò ad accennare ad un compromesso. Il Re non patirebbe
contradizione. Era forza che il collegio cedesse. Parker doveva essere
eletto. Ma costui era di mal ferma salute; tutti i suoi beneficii tra
breve diverrebbero vacanti. «Il Dottore Hough» disse Penn «potrebbe
allora diventare Vescovo dʼOxford. Vi piacerebbe ciò, o signori?» Penn
aveva spesa la vita a declamare contro un culto salariato. Sosteneva
dʼessere tenuto a ricusare il pagamento della decima, e ciò quando
aveva comperato terreni soggetti alla decima, e gli era stato concesso
redimerli pagando un tanto. Secondo i suoi stessi principii, egli
commetteva un grave peccato adoperandosi ad ottenere un beneficio
ad onorevolissime condizioni per il più pio degli ecclesiastici.
Nulladimeno fino a tal segno i suoi costumi erano stati corrotti
dalle sue cattive relazioni, e il suo intendimento sʼera intenebrato
per intemperante zelo dʼuna sola cosa, chʼei non si fece scrupolo
di diventare mezzano di turpissima simonia, e di usare un vescovato
come amo a indurre un ecclesiastico allo spergiuro. Hough rispose
con cortese dispregio non richiedere altro dalla Corona che la sola
giustizia. «Noi stiamo fermi» dissʼegli «sui nostri statuti e i
giuramenti nostri: ma, anche ponendo da parte giuramenti e statuti,
sentiamo il debito di difendere la nostra religione. I papisti ci hanno
rubato il Collegio dellʼUniversità, e quello della Chiesa–di–Cristo.
Adesso combattono a toglierci la Maddalena. Tra breve avranno il resto.»

Penn ebbe la stoltezza di rispondere chʼegli in verità credeva adesso
i papisti sarebbero contenti. «Il Collegio dellʼUniversità è molto
piacevole. La Chiesa–di–Cristo è un luogo magnifico. La Maddalena è
un bello edificio; convenevole la posizione; deliziosi i viali lungo
il fiume. Se i Cattolici Romani sono ragionevoli, potrebbero di ciò
chiamarsi satisfatti.» Questa assurda confessione sarebbe sola bastata
a rendere impossibile che Hough e i suoi confratelli cedessero. Le
pratiche furono rotte; e il Re affrettossi, siccome aveva minacciato,
a far provare ai disobbedienti tutto il peso dellʼira sua.

XVI. A Cartwright Vescovo di Chester, a Wright Capo Giudice del Banco
del Re, e a Sir Tommaso Jenner, uno deʼ Baroni dello Scacchiere, fu
data commissione speciale di esercitare potestà di ispezione sul
collegio. Il dì 20 ottobre giunsero in Oxford scortati da tre compagnie
di dragoni con le spade sguainate. Il giorno susseguente presero
i loro seggi nella sala della Maddalena. Cartwright pronunciò una
orazione piena di sensi di lealtà, che pochi anni innanzi sarebbe stata
ricolma dʼapplausi, e che ora, invece, fu ascoltata con indignazione.
Ne seguì una lunga disputa. Il Presidente difese con arte, contegno
e coraggio i propri diritti. Protestò grande rispetto per lʼautorità
regia; ma fermamente sostenne che per virtù delle leggi inglesi era
libero possessore della casa e delle rendite annesse allʼufficio di
Presidente; di siffatta proprietà sua ei non poteva essere privato da
un atto arbitrario del Sovrano. «Vi sottometterete» chiese il Vescovo
«alla nostra ispezione?»—«Mi ci sottometto» rispose destramente
Hough «tanto quanto è compatibile con le leggi, e non più.»—«Volete
voi consegnare le chiavi delle vostre stanze?» disse Cartwright.
Hough rimase tacito. Lʼaltro ripetè la dimanda, e Hough rispose con
un cortese ma fermo rifiuto. I commissari lo dichiararono intruso, e
imposero ai Convittori di non più riconoscere lʼautorità di lui, e di
assistere alla istallazione del Vescovo dʼOxford. Charnock fu pronto a
promettere obbedienza; Smith diede una risposta evasiva; ma tutti gli
altri membri del collegio dichiararono fermamente di riconoscere Hough
come loro legittimo capo.

XVII. Allora Hough supplicò i Commissari perchè gli dessero licenza
di dire poche parole. Cortesemente consentirono quelli, perocchè
speravano chʼegli in grazia dellʼindole sua calma e soave cominciasse
a cedere. «Milordi,» disse egli «oggidì voi mi avete privato della
mia libera proprietà: protesto quindi contro ogni vostro atto come
illegale, ingiusto e nullo; e me ne appello al Re nostro sovrano nelle
sue corti di giustizia.» Un alto rumore dʼapplauso levossi fra mezzo
agli uditori che riempivano la sala. I Commissari andarono in sulle
furie. Invano fecero ricercare deʼ perturbatori, e volsero la rabbia
loro contro il solo Hough. «Non crediate di far bravazzate con noi,»
disse Jenner.—«Io sosterrò lʼautorità della Maestà Sua» esclamò Wright
«finchè avrò fiato in corpo. Tutto questo nasce dalla vostra sediziosa
protesta. Voi avete turbata la pace, e ne renderete ragione dinanzi
al Banco del Re. Vʼimpongo di presentarvi alla prima sessione sotto
pena di mille lire sterline. Vedremo se la potestà civile vi possa
mettere la testa a partito; ed ove ciò non basti, proverete lʼautorità
militare.» E veramente Oxford era in tale fermento che i Commissari
vivevano inquieti. Aʼ soldati fu fatto comandamento di caricare le
loro carabine. Dicevasi che si fosse spedito a Londra un messo per
affrettare lʼarrivo dʼun rinforzo di milizie. Ciò non ostante, non
seguì alcun disturbo. Il Vescovo dʼOxford fu pacificamente istallato
per procura: ma soli due membri del collegio erano presenti alla
cerimonia. Numerosi segni indicavano che lo spirito di resistenza sʼera
sparso anco nella plebe. Il portinaio del collegio gettò via le chiavi;
il camarlingo ricusò di cancellare dal libro delle spese il nome di
Hough, e fu tosto cacciato. In tutta la città non fu possibile trovare
un magnano che forzasse la serratura delle stanze del Presidente, e fu
dʼuopo che gli stessi servitori deʼ Commissari rompessero le porte con
barre di ferro. I sermoni recitati la susseguente Domenica nella chiesa
dellʼUniversità erano pieni di considerazioni tali, che Cartwright ne
rimase ferito nel vivo; ma erano espresse con tal arte, chʼegli non
potè mostrare ragionevole risentimento.

A questo punto, ove Giacomo non fosse stato affatto accecato, le cose
si sarebbero potute fermare. I Convittori generalmente non erano
inchinevoli a spingere più oltre la resistenza. Opinavano che ricusando
di assistere allʼammissione del Presidente intruso, porgerebbero
sufficiente prova di rispetto agli statuti e ai giuramenti loro, e
che, trovandosi egli in possesso dellʼufficio, potrebbero equamente
riconoscerlo per loro capo, finchè una sentenza dʼun tribunale
competente lo rimovesse. Solo uno deʼ Convittori, voglio dire il
Dottore Fairfax, ricusava di cedere. I Commissari sarebbero volentieri
venuti a cotesti patti; e per poche ore vi fu una tregua che molti
credevano probabile finisse con un pacifico accomodamento: ma tosto
ogni cosa andò sossopra. I convittori si accôrsero che lʼopinione
pubblica accusavali di codardia. I cittadini già parlavano ironicamente
della coscienza deʼ membri della Maddalena, ed affermavano che il
coraggioso Hough e lʼonesto Fairfax erano stati traditi e abbandonati.
Anche più molesto giungeva loro lo scherno di Obadia Walker e deʼ suoi
confratelli rinnegati. In tal guisa dunque, dicevano gli apostati,
dovevano finire tutti i paroloni con che il Collegio aveva dichiarato
di difendere ad ogni costo il suo legittimo Presidente, e la sua
religione protestante! Mentre i Convittori acremente molestati dal
pubblico biasimo, pentivansi della condizionata sommissione alla quale
avevano assentito, seppero che il Re non ne era punto soddisfatto.
Diceva egli non bastare chʼessi fossero pronti a riconoscere il Vescovo
dʼOxford come Presidente di fatto; era dʼuopo che distintamente
riconoscessero la legalità della Commissione e di tutto ciò che essa
aveva operato. Era dʼuopo che confessassero dʼavere mancato al debito
loro, che si dichiarassero pentiti, promettessero di condursi meglio in
avvenire, e chiedessero perdono alla Maestà Sua prostrandosi ai suoi
piedi. I due Convittori, deʼ quali il Re non aveva cagione a dolersi,
furono esentati dallʼobbligo di scendere a tanta umiliazione.

Giacomo—ed è tutto dire—non commise mai un errore più madornale. I
Convittori già forte pentiti dʼavere concesso tanto, e incitati dal
pubblico biasimo, ardentemente colsero il destro di riacquistare la
pubblica stima. Dichiararono quindi unanimemente che non avrebbero mai
chiesto perdono dʼavere ragione, o ammesso la legalità della ispezione
del collegio e della destituzione del loro Presidente.

XVIII. Allora il Re, secondo che avea minacciato, fece loro sentire
tutto il peso della sua mano. Con un solo decreto furono tutti dannati
ad essere espulsi. E poichè sapevasi che molti nobili e gentiluomini,
i quali avevano patronato di beneficii, gli avrebbero volentieri
dati a coloro che tanto soffrivano per le leggi della Inghilterra
e la religione protestante, lʼAlta Commissione dichiarò i cacciati
Convittori incapaci dʼoccupare beneficii ecclesiastici; e coloro i
quali non avevano per anche presi gli ordini sacri, incapaci di
ricevere il carattere clericale. Giacomo poteva gioire pensando dʼavere
tolto a molti di loro gli agi e le speranze di maggiori dignità, e di
averli gettati in una disperata indigenza.

Ma tutti questi rigori produssero un effetto onninamente contrario
a quello chʼegli sʼera augurato. Lo spirito inglese, quellʼindomito
spirito che nessun Re della Casa Stuarda potè mai giungere per
esperienza ad intendere, destossi vigorosissimo contro una tanta
ingiustizia. Oxford, sede tranquilla delle lettere e della lealtà, era
in condizioni somiglievoli a quelle in cui trovavasi la città di Londra
il giorno dopo che Carlo I tentò di porre le mani addosso ai cinque
rappresentanti della Camera. Il Vice–Cancelliere, invitato a pranzo
dai Commissari nel dì stesso della espulsione, ricusò dicendo: «Il
mio gusto è ben differente da quello del Colonnello Kirke. Non posso
mangiare con appetito accanto ad una forca.» Gli scolari ricusavano di
far di cappello ai nuovi rettori della Maddalena. A Smith fu apposto
il soprannome di Dottore Birba, e venne pubblicamente insultato in
un Caffè. Allorchè Charnock ordinò ai Demies di fare i loro esercizi
accademici dinanzi a lui, quelli risposero che essendo privi deʼ loro
legittimi direttori, non volevano sottomettersi allʼautorità usurpata.
Congregavansi da sè e per gli studi e per gli uffici divini. A
corromperli vennero loro offerti lucrosi posti di Convittori che erano
per allora stati dichiarati vacanti: ma tutti i sottograduati, uno
dopo lʼaltro, animosamente risposero le loro coscienze non consentire
chʼessi traessero profitto dalla ingiustizia. Un solo giovanetto, che
venne indotto ad accettare un posto, fu dai colleghi cacciato fuori
dalla sala. Vari giovani di altri collegi vennero invitati; ma ogni
prova fu vana. Il più ricco istituto che fosse nel Regno sembrava
avere perduta ogni attrattiva per gli studenti bisognosi. Frattanto,
in Londra e per tutto il reame, facevansi collette per soccorrere i
cacciati Convittori. La Principessa dʼOrange, a somma soddisfazione di
tutti i Protestanti, si firmò per dugento lire sterline. E nondimeno
il Re persisteva a procedere nellʼintrapreso cammino. Alla cacciata
deʼ Convittori segui quella dʼuna folla di Demies. Intanto il nuovo
Presidente andava languendo per infermità di corpo e dʼanimo. Aveva
fatto un ultimo e debole sforzo a servire il Governo pubblicando,
mentre il collegio era in aperta ribellione contro lʼautorità sua, una
difesa della Dichiarazione dʼIndulgenza, o per dir meglio una difesa
della dottrina della transustanziazione. Questo scritto provocò molte
risposte, ed in ispecie una dettata con istraordinaria vigoria ed
acrimonia da Burnet. Parecchi giorni dopo la espulsione dei Demies,
Parker morì nella casa stessa, della quale egli sʼera violentemente
impossessato. Si disse che il rimorso e la vergogna lo facessero morire
di crepacuore. Le sue ossa giacciono nella leggiadra cappella del
collegio: ma nessun monumento ne indica il luogo.

XIX. Allora il Re volle mandare ad esecuzione tutto il suo disegno.
Il collegio fu trasformato in seminario papale. Bonaventura Giffard,
vescovo cattolico di Madura, fu nominato Presidente. Nella Cappella
celebravansi i riti cattolici romani. In un solo giorno dodici
Cattolici Romani furono ammessi come Convittori. Alcuni abietti
Protestanti chiesero il convittorato, ma fu loro risposto con aperto
rifiuto. Smith, realista esagerato, ma tuttavia sincero credente nella
Chiesa Anglicana, non potè patire di vedere tanta trasformazione, e si
assentò. Gli fu fatto comandamento di ritornare alla sua residenza, e
non avendo obbedito, fu espulso anchʼegli: e in tal guisa lʼopera della
spoliazione fu compiuta.[297]

La natura del sistema accademico dellʼInghilterra è tale che nessuna
cosa, la quale tocchi seriamente lo interesse e lʼonore dellʼuna o
dellʼaltra Università può mancare di produrre grave concitamento in
tutto il paese. Per la quale cosa ogni colpo che andasse a percuotere
il Collegio della Maddalena, era sentito fino al più remoto angolo
del Regno. Neʼ caffè di Londra, neʼ tribunali, neʼ recinti di tutte
le cattedrali, neʼ presbiterii e nelle ville sparse per le più remote
Contee, gli uomini tutti sentivano commiserazione per gli sciagurati
e sdegno contro il Governo. La protesta di Hough venne in ogni dove
applaudita, in ogni dove destava orrore la violenza contro il suo
domicilio; ed in fine la cacciata deʼ Convittori ruppe queʼ vincoli, un
tempo sì forti e sì cari, che congiungevano la Chiesa Anglicana alla
Casa Stuarda.

XX. Amari risentimenti e crudeli sospetti daʼ cuori di tutti cacciarono
via lo affetto e la fiducia. Non vʼera canonico, non rettore, non
vicario, la cui mente non fosse perturbata dal pensiero, che, per
quanto la sua indole fosse quieta, ed oscura la sua condizione, potesse
in pochi mesi essere cacciato dalla propria abitazione con un editto
arbitrario, e ridursi a mendicare lacero e stanco con la moglie e i
figliuoli, e vedere occupata da qualche apostata quella proprietà che
era a lui assicurata da leggi dʼantichità immemorabile e dalla parola
sovrana. Tale era dunque la ricompensa di quella eroica lealtà che non
venne mai meno fra mezzo alle vicende di cinquantʼanni procellosi!
Egli era per questo che il clero aveva sostenuto la spoliazione e
la persecuzione nella causa di Carlo I! Egli era per questo chʼesso
aveva favoreggiato Carlo II, nella sua dura contesa coi Whig! Egli
era per questo chʼesso si era spinto in capo alla pugna contro coloro
che studiavansi di privare Giacomo del suo diritto ereditario! Alla
sola fedeltà del clero, il tiranno era debitore di quel potere chʼegli
adesso adoperava ad opprimerlo e rovinarlo. Il clero da lungo tempo
era assuefatto a raccontare con acerbe parole tutto ciò che aveva
sofferto sotto il dominio deʼ Puritani. Ma i Puritani potevano in alcun
modo escusarsi. Erano aperti nemici; avevano torti da vendicare; e
anche rifoggiando la costituzione ecclesiastica del paese e cacciando
chiunque aveva ricusato di riconoscere la loro Convenzione, non erano
stati affatto privi di pietà. A colui, al quale avevano tolti i
beneficii, avevano almeno lasciato tanto da poter sostenere la vita. Ma
lʼodio che il Re sentiva contro la Chiesa, la quale lo aveva salvato
dallo esilio e posto sul trono, non era tale da potersi di leggieri
saziare. Nullʼaltro, fuorchè la estrema rovina delle sue vittime,
lʼavrebbe potuto far pago. Non bastava che fossero espulsi dalle loro
case e spogliati degli averi: furono con maligno studio chiusi dinanzi
a loro tutti i sentieri della vita neʼ quali gli uomini della loro
professione potessero procacciarsi la sussistenza; e nulla rimase loro
che il precario ed umiliante mezzo dʼandare accattando per lo amore di
Dio.

Il Clero Anglicano, quindi, e quelli traʼ laici, i quali erano
partigiani dello episcopato protestante, provavano oggimai pel Re
quei sentimenti che la ingiustizia congiunta alla ingratitudine
fanno naturalmente nascere e crescere nel cuore umano. Nulladimeno
il credente nella Chiesa Anglicana doveva vincere non pochi scrupoli
di coscienza e dʼonore innanzi dʼindursi a resistere con la forza
al Governo. Gli era stato insegnato che la obbedienza passiva era
comandata senza restrizione o eccezione dalle leggi divine: ed era
dottrina chʼegli professava con ostentazione. Aveva sempre spregiata
la idea che potrebbe succedere un caso estremo il quale giustificasse
colui che sguainasse la spada contro la tirannide regia. Per lo che
i propri principii e la vergogna glʼimpedivano dʼimitare lo esempio
delle ribelli Teste–Rotonde, mentre restava speranza di pacifico e
legittimo rimedio: la quale speranza poteva ragionevolmente durare
finchè la Principessa dʼOrange rimaneva erede immediata della Corona.
Se ci potesse pazientemente sostenere questa dura prova della sua
fede, le leggi della natura farebbero per lui ciò chʼegli non potrebbe
fare da sè senza peccato e senza disonore. Aʼ danni della Chiesa
verrebbe il rimedio; i beni e la dignità sue sarebbero tutelati da
nuove guarentigie; ed a quei perversi ministri, daʼ quali neʼ dì
dellʼavversità aveva patito offese ed insulti, sarebbe inflitta
memorabile pena.

XXI. Lʼavvenimento che la Chiesa Anglicana considerava in futuro come
un pacifico ed onorevole fine di tutte le sue perturbazioni, era tale
che nè anche i membri più scioperati della cabala gesuitica potevano
pensarvi senza gravi timori. Se il loro signore morendo non lasciasse
loro altra sicurtà contro le leggi penali se non una Dichiarazione
che lʼopinione pubblica universalmente considerava come nulla, se un
Parlamento animato dallo stesso spirito che aveva predominato nel
Parlamento di Carlo II si ragunasse intorno al trono dʼun sovrano
protestante, non era egli probabile che seguisse una terribile
rappresaglia, che le vecchie leggi contro il papismo venissero
rigorosamente poste in vigore, e che altre nuove e più severe se ne
aggiungessero al libro degli Statuti? I malvagi consiglieri tormentava
da lungo un cupo timore, e parecchi di loro meditavano strani e
disperati rimedi. Giacomo era appena asceso sul trono allorquando
cominciò a correre sorda una voce per le sale di Whitehall, che, ove
la Principessa Anna consentisse a farsi cattolica romana, non sarebbe
impossibile, col soccorso di Re Luigi, trasferire in lei il diritto
ereditario che spettava alla maggiore sorella. Dalla Legazione Francese
tale disegno venne caldamente approvato; e Bonrepaux asserì di credere
che Giacomo vi avrebbe agevolmente consentito.[298] Nondimeno eʼ fu
in breve tempo a tutti manifesto che Anna irremovibilmente aderiva
alla Chiesa Anglicana. Il perchè ogni pensiero di farla Regina fu
messo da banda. Nonostante, una mano di fanatici continuavano ancora
a nutrire la perversa speranza di giungere a cangiare lʼordine della
successione. Il piano da essi immaginato fu espresso in uno scritto di
cui rimane una rozza traduzione francese. Dicevano come era da sperare
che il Re potesse stabilire la vera religione senza appigliarsi a
partiti estremi, ma nel peggior caso potrebbe lasciare la sua corona a
disposizione di Luigi. Era meglio per glʼInglesi essere vassalli della
Francia che schiavi del demonio.[299] Questo stranissimo documento
corse tanto per le mani deʼ gesuiti e deʼ cortigiani, che alcuni
insigni Cattolici, neʼ quali la bacchettoneria non aveva spento lo
amore della patria, ne dettero una copia allo Ambasciatore Olandese.
Costui lo pose nelle mani di Giacomo; il quale grandemente agitato
lo disse foggiato da qualche articolista in Olanda. Il Ministro
Olandese risolutamente rispose che poteva provare il contrario con
la testimonianza di vari cospicui membri della Chiesa di Sua Maestà;
anzi non gli sarebbe tornato difficile additarne lo scrittore, il
quale, al postutto, aveva espresso semplicemente ciò che molti preti
e molti faccendieri politici andavano tuttodì dicendo nelle sale
del palazzo. Il Re non credè opportuno chiedere chi fosse cotesto
scrittore, ma lasciando da parte lʼaccusa di falsità, protestò in
tono veemente e solenne che non gli era mai venuto in capo il minimo
pensiero di diseredare la maggiore delle sue figliuole. «Nessuno»
disse egli «osò giammai accennarmene. Non gli avrei mai prestato
ascolto: perocchè Dio non ci comanda di propagare la vera religione
per mezzo dellʼingiustizia; e questa sarebbe la più stolta e snaturata
ingiustizia.» Nonostante siffatte proteste, Barillon,[300] pochi
giorni dopo, scrisse alla sua Corte che Giacomo aveva incominciato a
porgere ascolto a consigli concernenti un cambiamento nellʼordine della
successione; che la questione, senza alcun dubbio, era delicatissima,
ma vʼera ragione a sperare che col tempo e collʼaccortezza si
troverebbe una via a porre la Corona in capo a qualche Cattolico
Romano escludendone le due Principesse.[301] Per molti mesi tale
questione seguitò a discutersi daʼ più arrabbiati e stravaganti papisti
cortigiani, i quali giunsero per fino a nominare i candidati alla regia
dignità.[302]

XXII. Nulladimeno eʼ non è probabile che Giacomo intendesse mai
appigliarsi a così insano partito. Doveva conoscere che la Inghilterra
non avrebbe nè anche per un solo giorno sopportato il giogo dʼun
usurpatore, il quale per giunta fosse papista, e che ogni attentato
contro i diritti della Principessa Maria avrebbe provocato mortale
resistenza, e da parte di tutti coloro che avevano difesa la Legge
dʼEsclusione, e da parte di tutti coloro che lʼavevano oppugnata.
Non vʼè nondimeno il minimo dubbio che il Re fosse complice in una
congiura meno assurda ma non meno ingiustificabile contro i diritti
delle proprie figliuole. Tyrconnel con lʼapprovazione del suo
signore, aveva ordita una trama a separare la Irlanda dalla Monarchia
Britannica, e porla sotto la protezione di Luigi, appena la corona
passasse ad un sovrano protestante. Bonrepaux, al quale sopra ciò era
stato chiesto consiglio, aveva comunicato quel disegno alla sua Corte,
e gli era stato risposto dʼassicurare a Tyrconnel che la Francia a
compierlo presterebbe ogni efficace soccorso.[303] Coteste pratiche,
delle quali, quantunque forse non fossero esattamente conosciute
allʼAja, vʼera forte sospetto, non debbono porsi da canto qualora si
voglia equamente giudicare della condotta che pochi mesi dopo tenne
la Principessa dʼOrange. Coloro che lʼaccusano di avere violato il
debito filiale, è forza che ammettano che il suo fallo era grandemente
escusato pei torti da lei sofferti. Se per giovare alla propria
religione ella ruppe i più sacri vincoli del sangue, altro non fece che
seguire lo esempio del padre. Essa non consentì a rovesciarlo dal trono
se non quando fu certa chʼegli congiurava a diseredarla.

XXIII. Bonrepaux aveva appena ricevute lettere che gli dicevano come
Luigi avesse deliberato di aiutare Tyrconnel nella audace intrapresa,
allorquando fu forza abbandonarne il pensiero. Nel cuore di Giacomo era
già sceso il primo raggio dʼuna speranza di consolazione e diletto. La
Regina era incinta.

Innanzi la fine dʼottobre 1687, la nuova cominciò a bisbigliarsi. Eʼ
fu notato come la Regina non fosse intervenuta a qualche pubblica
cerimonia, dicendo di non sentirsi bene in salute. Eʼ fu detto che
portava sempre addosso molte reliquie alle quali ascrivevasi virtù
straordinaria. In breve la novella dalla reggia passò ai caffè della
Metropoli e si sparse per tutto il paese. Pochi ne accolsero con gioia
lo annunzio. Quasi tutta la nazione lʼudì con un sentimento misto di
timore e di scherno. Certo non vʼera nulla di strano nella cosa. Il
Re aveva pur allora compiuto il cinquantesimoquarto degli anni suoi.
La Regina era nel meriggio della vita. Aveva già concepiti quattro
figliuoli chʼerano morti; e lungo tempo dopo sgravossi dʼun altro
bambino allorchè nessuno più aveva interesse a crederlo supposto, e
che perciò non fu mai reputato tale. Nondimeno essendo corsi cinque
anni dalla sua ultima gravidanza, la gente, governata dallo inganno
che agli uomini rende credibile ciò chʼessi desiano, aveva cessato
di temere chʼella darebbe un erede al trono. Dallʼaltra parte, nulla
sembrava più naturale e probabile che una pia frode immaginata dai
Gesuiti. Era certo chʼessi dovevano considerare lo scettro nelle
mani della Principessa dʼOrange come una delle maggiori calamità che
potessero accadere alla Chiesa. Era medesimamente certo chʼessi non
avrebbero avuto scrupolo alcuno a fare ogni cosa necessaria a salvare
la Chiesa loro da una grave calamità. In parecchi libri, scritti da
ingegni eminenti della Compagnia e stampati con licenza deʼ superiori,
insegnavasi distintamente che mezzi più contrari alle idee della
giustizia e della umanità che non fosse quello dʼintrodurre un erede
spurio in una famiglia, potevano legittimamente adoperarsi per fini
meno importanti che non fosse la conversione dʼun Regno eretico.
Sʼera sparsa la voce che alcuni deʼ regi consiglieri, e perfino il
Re stesso, cospirassero a fraudare la Principessa Maria, in tutto o
in parte, del suo legittimo retaggio. Nacque quindi nel popolo un
sospetto, a dir vero non bene fondato, ma in nessuna maniera così
assurdo come comunemente si suppone. La stoltezza di alcuni Cattolici
Romani confermava il pregiudicio del volgo. Ragionavano del lieto
evento come di cosa strana e miracolosa, come di opera di quello stesso
Potere Divino che aveva reso Sara felice ed orgogliosa dʼIsacco, ed
aveva concesso Samuele alle preci di Anna. Era di recente morta la
Duchessa di Modena madre di Maria. Dicevasi che poco tempo innanzi di
morire ella supplicasse la Vergine di Loreto con fervidi voti e ricche
offerte, a dare un figlio a Giacomo. Lo stesso Re nello antecedente
agosto deviò dallo intrapreso viaggio per visitare il Pozzo Santo,
dove aveva pregato San Venifredo a fine dʼottenere quel dono, senza il
quale il suo gran disegno di propagare la vera fede sarebbe rimasto
incompiuto. Glʼimprudenti zelatori che armeggiavano con siffatte
novelle, predicevano con sicurezza che la creatura non ancor nata
sarebbe un maschio, ed erano pronti a scommettere venti ghinee contro
una. Affermavano che il cielo non ci si sarebbe intromesso senza un
gran fine. Un certo fanatico annunciò che la Regina partorirebbe due
gemelli, il maggiore deʼ quali sarebbe Re dʼInghilterra, il minore
Pontefice di Roma. Maria non seppe nascondere il diletto con che udì
tale vaticinio, e le sue cameriste si accôrsero che parlandogliene
le recavano grandissima consolazione. I Cattolici Romani avrebbero
fatto assai meglio se avessero favellato della gravidanza come di cosa
naturale, e se si fossero mostrati temperanti nella loro inattesa
ventura. Il loro insolente tripudio destò la pubblica indignazione.
Dal Principe e dalla Principessa di Danimarca fino ai vetturini e alle
pettegole niuno alludeva senza dileggio allo aspettato parto. I belli
spiriti di Londra descrissero il nuovo miracolo in versi, i quali,
come può bene supporsi, non erano troppo delicati. I rozzi scudieri
delle campagne davano in uno scoppio di riso qualvolta sʼimbattevano
in qualche persona semplice tanto da credere che la Regina dovesse
positivamente di nuovo esser madre. Comparve un proclama del Re che
ordinava al clero di leggere una formula di preghiera e rendimento
di grazie, la quale era stata composta per cotesto lieto evento da
Crewe e da Sprat. Il clero obbedì: ma fu notato che le congregazioni
non rispondevano nè facevano segni di riverenza. Poco dopo in tutte
le botteghe da caffè andò in giro una satira brutale contro i prelati
cortigiani che avevano venduta la propria penna a Giacomo. Alla madre
East toccò ancora buona parte dʼingiurie. Con quel volgare monosillabo
i nostri antenati avevano degradato il nome della grande Casa dʼEste,
che regnava in Modena.[304]

La nuova speranza che sollevò lʼanimo del Re, sorgeva commista a non
pochi timori. Qualche cosa di più che non fosse il nascimento di un
principe di Galles, era necessaria al complemento deʼ disegni del
partito gesuitico. Non era molto verosimile che Giacomo vivesse fino a
tanto che il suo figliuolo fosse in età da esercitare la potestà regia.
La legge non provvedeva al caso dʼun sovrano minorenne. Il regnante
principe non era competente a fare per testamento gli opportuni
provvedimenti. Il solo corpo legislativo poteva supplire a tale
difetto. Se Giacomo, innanzi che si fosse ciò fatto, morisse lasciando
un successore di tenera età, il potere sovrano indubitabilmente
andrebbe nelle mani deʼ Protestanti. Queʼ Tory, i quali aderivano
fermamente alla dottrina, che nulla poteva giustificarli a resistere
al loro signore sovrano, non patirebbero scrupoli a snudare la spada
contro una donna papista che osasse usurpare la tutela del reame e
del Re fanciullo. Lʼesito della contesa non era da porsi in dubbio.
Il Principe dʼOrange o la sua moglie sarebbe Reggente. Il giovane Re
verrebbe posto nelle mani di istitutori eretici, le cui arti potrebbero
speditamente cancellare dalla sua mente le impressioni ricevute nella
prima fanciullezza. Egli sarebbe forse un altro Eduardo VI; e la
grazia, ottenuta da Dio ad intercessione della Vergine Madre e di San
Venifredo, diventerebbe una sciagura.[305] Questo era un pericolo al
quale nulla, tranne un Atto del Parlamento, poteva provvedere; ed
ottenere tale Atto non era facile.

XXIV. Ogni cosa pareva indicare che ove le Camere venissero convocate,
si ragunerebbero in Westminster animate dallo spirito del 1640. Lʼesito
delle elezioni delle Contee mal poteva porsi in dubbio. Tutti i
liberi possidenti, grandi e piccoli, chierici e laici, erano forte
esasperati contro il Governo. Nella maggior parte di quelle città, dove
il diritto di votare dipendeva dal pagare le imposte o dallʼoccupare
certe possessioni, nessun candidato della corte ardirebbe mostrare
il viso. Moltissimi deʼ membri della Camera dei Comuni erano eletti
dalle corporazioni municipali, le quali erano state dianzi riordinate
con lo scopo di distruggere la influenza dei Whig e dei Dissenzienti.
Più di cento collegi elettorali erano stati spogliati del loro
privilegio da tribunali devoti alla Corona, o erano stati persuasi a
rinunziarlo volontariamente per evitare di esservi costretti. Ogni
Gonfaloniere, ogni Aldermanno, ogni cancelliere comunitativo da Berwick
a Helstone era Tory e credente nella Chiesa Anglicana: ma i Tory e gli
Anglicani adesso più non erano devoti al Sovrano. I nuovi municipi
erano più intrattabili degli antichi, e senza dubbio eleggerebbero
rappresentanti, il cui primo Atto sarebbe quello di incriminare tutti i
papisti del Consiglio Privato e tutti i componenti lʼAlta Commissione.

Nella Camera deʼ Lordi lo aspetto non era meno minaccioso che in quella
deʼ Comuni. Egli era certo che la immensa maggioranza deʼ Pari secolari
avverserebbe le proposte del Re: e fra tutti i vescovi, che sette
anni innanzi erano stati unanimi a difenderlo contro coloro i quali
sforzavansi di privarlo del suo diritto ereditario, egli poteva sperare
aiuto solo da quattro o cinque adulatori, spregiati daʼ loro colleghi e
da tuttaquanta la nazione.[306]

A quanti non erano accecati dalla passione, coteste difficoltà
parevano insuperabili. I meno scrupolosi schiavi del Potere mostravano
segni dʼinquietudine. Dryden diceva sotto voce che il Re provandosi
dʼacconciare le cose, le rendeva più triste, e così dicendo sospirava
gli aurei giorni dello spensierato e buon Carlo.[307] Perfino Jeffreys
tentennava. Fintanto che rimase povero, mostrossi in tutto e per tutto
pronto ad affrontare lʼodio pubblico per amore di guadagno. Ma adesso,
per mezzo della corruzione e delle estorsioni, aveva accumulate grandi
ricchezze; e desiderava conservarle più presto che accrescerle. Il Re
aspramente lo rimproverò di lentezza. Temendo che gli venisse tolto
il Gran Sigillo, promise tutto ciò che gli fu chiesto: ma Barillon,
scrivendo la cosa a Luigi, notò che il Re dʼInghilterra poteva avere
poca fiducia in chiunque avesse qualche cosa da perdere.[308]

XXV. Ciò non ostante, Giacomo deliberò di andare innanzi. La sanzione
del Parlamento era necessaria al suo sistema; ed era manifestamente
impossibile ottenerla da un libero e legittimo Parlamento: ma non
sarebbe stato affatto impossibile, per mezzo della corruzione, delle
minacce, dello arbitrio regio, dello stiracchiamento della legge,
mettere insieme unʼassemblea che si chiamasse Parlamento e registrasse
vogliosamente ogni qualunque editto del Sovrano. Dovevansi nominare
tali relatori elettorali che si giovassero del minimo pretesto a
dichiarare debitamente eletti i rappresentanti favorevoli al Re.
Dovevasi far sapere ad ogni impiegato, dal massimo allʼinfimo, che
ove egli desiderasse di ritenere lʼufficio era mestieri, in questa
faccenda, mettere il voto agli ordini del Governo. Intanto lʼAlta
Commissione terrebbe gli occhi sul clero. I borghi, i quali erano
già stati riformati per servire ad un altro scopo, lo sarebbero di
nuovo per servire a questo. Il Re sperava con tali mezzi ottenere
la maggioranza nella Camera deʼ Comuni; e avuta questa, torrebbe a
quella deʼ Lordi ogni arma da nuocere. A lui incontrastabilmente la
legge dava la potestà di creare Pari senza limite alcuno; e adesso era
risoluto dʼadoperarla. Non desiderava, e certo nessun sovrano potrebbe
mai desiderarlo, di rendere spregevole la più alta dignità che la
Corona possa concedere. Sperava che chiamando alcuni eredi presuntivi
allʼassemblea nella quale col tempo dovevano sedere, e conferendo
titoli inglesi ad alcuni Lordi di Scozia e dʼIrlanda, potrebbe
assicurarsi la desiderata maggioranza senza nobilitare uomini nuovi in
tanto numero da rendere ridicoli la coronetta e lo ermellino, voglio
dire i nomi di Duca e di Conte. Ma in caso di necessità non vʼera
eccesso a cui egli non fosse pronto a trascorrere. Allorchè fra mezzo
una numerosa brigata taluno disse che i Pari sarebbero intrattabili,
«Stolto che siete,» esclamò Sunderland rivolto a Churchill, «le vostre
compagnie di Guardie saranno tutte inalzate alla dignità di Pari.»[309]

Deliberato dunque di adulterare il Parlamento, Giacomo si pose con
metodo ed energia allʼardua opera. Comparve nella Gazzetta un proclama
ad annunziare come il Re volesse riesaminare le Commissioni di Pace e
di Luogotenenza, e ritenere neʼ pubblici uffici solo queʼ gentiluomini
che fossero pronti a sostenere la sua politica.[310] Un comitato di
sette consiglieri sedeva in Whitehall onde regolare—era questo il
vocabolo—le corporazioni municipali. In quel comitato il solo Jeffreys
rappresentava glʼinteressi del protestantismo; e il solo Powis i
Cattolici moderati: tutti gli altri membri appartenevano alla fazione
gesuitica. Fra essi era Petre, il quale aveva pur allora prestato
giuramento di Consigliere Privato. Finchè egli non prese seggio al
Banco, la dignità ricevuta era stata un segreto per ciascuno, fuori
che per Sunderland. A questa nuova violazione della legge il pubblico
sdegno scoppiò in violenti clamori; e fu notato che i Cattolici Romani
ne sparlavano più deʼ Protestanti. Il vano ed ambizioso Gesuita ebbe
adesso lo incarico di disfare e rifare mezzi i collegi elettorali del
Regno. Sotto la direzione del Comitato deʼ Consiglieri Privati fu
istituito un Sotto–Comitato composto di faccendieri di grado più basso,
ai quali erano affidate le minuzie dellʼimpresa. I Sotto–Comitati
locali in tutto il paese comunicavano col seggio centrale in
Westminster.[311]

XXVI. Coloro dai quali Giacomo precipuamente sperava aiuto in cotesta
nuova ed ardua intrapresa, erano i Lordi Luogotenenti. A ciascuno di
costoro furono mandati ordini in iscritto perchè immediatamente si
recasse nella propria Contea. Quivi doveva chiamare dinanzi a sè tutti
i Giudici di Pace, e far loro parecchie domande congegnate in modo da
chiarire come essi si condurrebbero in una generale elezione. Doveva
fedelmente notare le loro risposte e trasmetterle al Governo. Doveva
presentare una lista di Cattolici Romani e di Dissenzienti che avessero
più requisiti per occupare gli uffici civili e militari. Doveva inoltre
indagare le condizioni deʼ borghi nella sua Contea, e riferire tutto
ciò che fosse necessario a guidare le operazioni dellʼUfficio deʼ
Regolatori. Gli fu ingiunto di eseguire cotesti ordini da sè, e inibito
di delegare qualunque altra persona.[312]

XXVII. Il primo effetto che tali ordini produssero avrebbe tosto
fatto rinsavire un principe meno ebbro di Giacomo. Metà deʼ Lordi
Luogotenenti dʼInghilterra perentoriamente ricusarono di prestarsi
allʼodioso servigio che da essi voleva il Governo; e furono
incontanente destituiti. Tutti coloro sopra i quali piombò questa
gloriosa sciagura, erano Pari di gran conto e fino allora considerati
come strenui propugnatori della monarchia. È pregio dellʼopera che di
taluni sia fatto peculiare ricordo.

Il più nobile suddito inglese, e per vero, secondo che glʼInglesi
solevano dire, il più nobile suddito che fosse in Europa, era Aubrey De
Vere, ventesimo ed ultimo degli antichi Conti dʼOxford. Derivava il suo
titolo, per una non interrotta linea mascolina, da un tempo in cui le
famiglie di Howard e di Seymour erano ancora nella oscurità, quando i
Neville e i Percy avevano solo rinomanza provinciale, e quando il gran
nome di Plantageneto non sʼera per anche udito in Inghilterra. Uno dei
capi della famiglia De Vere era rivestito dʼalto comando in Hastings:
un altro aveva marciato con Goffredo e Tancredi sopra cumuli di teste
musulmane al Sepolcro di Cristo. Il primo Conte dʼOxford era stato
ministro ad Enrico Beauclerc. Il terzo Conte si era reso notevole fraʼ
Lordi, i quali strapparono la _Magna Charta_ a Giovanni. Il settimo
Conte aveva strenuamente pugnato a Cressy e Pointiers. Il decimoterzo
Conte tra mezzo a molte vicende di fortuna era stato capo del partito
della Rosa Rossa, ed aveva capitanato il vanguardo nella battaglia
campale di Bosworth. Il decimosettimo Conte nella Corte dʼElisabetta
sʼera acquistato onorato seggio fra i vetusti poeti inglesi. Il
decimonono Conte era caduto combattendo per la Religione Protestante e
per la libertà della Europa sotto le mura di Maastricht. Il suo figlio
Aubrey, nel quale si estinse la più lunga e più illustre discendenza
deʼ Nobili inglesi, uomo di morale dissoluta, ma dʼindole inoffensiva e
di maniere cortigianesche, era Lord Luogotenente dʼEssex, e Colonnello
degli Azzurri. Non era di carattere fazioso, e per interesse propendeva
ad evitare ogni rottura con la Corte; perocchè il suo patrimonio era
impacciato; e il suo comando militare, lucroso. Fu chiamato alle stanze
del Re, il quale gli chiese quale fosse il suo intendimento. «Sire,»
rispose Oxford «verserò per la Maestà Vostra contro tutti i suoi nemici
fino lʼultima stilla del mio sangue. Ma in cotesto affare ne va la
coscienza, e non posso obbedire.» Gli furono in sullʼistante tolti il
reggimento e la luogotenenza.[313]

XXVIII. Inferiore per antichità e splendore alla casa De Vere, ma ad
essa sola, era quella di Talbot. Dal regno di Eduardo III in poi,
i Talbot avevano sempre seduto fraʼ Pari del Regno. La Contea di
Shrewsbury era stata, nel secolo decimoquinto, concessa a Giovanni
Talbot, lo antagonista della Pulcella dʼOrleans. I suoi concittadini
lo avevano lungo tempo ricordato con riverenza ed affetto quale uno
deʼ più illustri fra quei guerrieri, che sʼerano sforzati a fondare un
grande impero inglese nel Continente dʼEuropa. Lo indomito coraggio,
di cui egli fece prova fra mezzo ai disastri, aveva per lui destato
uno interesse maggiore di quello che avevano ispirato capitani più
fortunati; e la sua morte aveva apprestato al nostro antico teatro
una commoventissima scena. I suoi posteri, per dugento anni, goderono
deʼ più grandi onori. Capo della famiglia a tempo della Restaurazione
era Francesco, undecimo Conte, e Cattolico Romano. La sua morie era
stata accompagnata da vicissitudini, che anche in queʼ licenziosi
tempi che seguirono alla caduta della tirannide dei Puritani, avevano
in tutti destato orrore e pietà. Il Duca di Buckingham nel corso deʼ
suoi scandalosi amori sʼinvaghì per un istante della Contessa di
Shrewsbury. Ella agevolmente gli si arrese. Il marito sfidò il drudo,
e cadde morto. Taluni affermarono che lʼabbandonata donna, travestita
da uomo, si stette a vedere il duello, ed altri che essa strinse al
seno il vittorioso amante ancora lordo del sangue del suo marito. Le
dignità dellʼucciso passarono al suo figliuolo, ancora infante, che
aveva nome Carlo. Giunto lʼorfanello alla virilità, tutti confessavano
che fraʼ giovani Nobili dellʼInghilterra a nessuno, quanto a lui, la
natura era stata prodiga deʼ suoi doni. Aveva prestante la persona,
singolarmente dolce lʼindole, tanto alto lo ingegno, che ove gli fosse
toccato di nascere in umile condizione, si sarebbe potuto inalzare alle
maggiori dignità civili. Tante squisite doti egli aveva siffattamente
perfezionate, che innanzi che uscisse di minorità, era reputato uno
deʼ più egregi gentiluomini e sapienti deʼ tempi suoi. Della sua
dottrina porgono testimonio libri dʼogni genere, che tuttora esistono,
postillati di sua mano. Parlava il francese al pari dʼun ciamberlano
della Corte di Re Luigi, e lʼitaliano come un cittadino di Firenze.
Era impossibile che un tanto giovane non desiderasse sapere le ragioni
per cui la sua famiglia aveva ricusato di uniformarsi alla religione
dello Stato. Studiò con somma cura le dottrine controverse, sottopose
i suoi dubbi ad alcuni sacerdoti della sua propria religione, pose
le loro risposte sotto gli occhi di Tillotson, ponderò lungamente
e con attenzione gli argomenti prodotti da ambe le parti, e dopo
due anni dʼesame si fece Protestante. La Chiesa Anglicana accolse
con gioia lo illustre convertito. Egli godeva grande popolarità, la
quale divenne maggiore dopo che si seppe come il Re avesse indarno
adoperate sollecitazioni e promesse a farlo ritornare alla abiurata
superstizione. Nondimeno il carattere del giovine Conte non si esplicò
in modo affatto soddisfacente a coloro che avevano principalmente
cooperato a convertirlo. I suoi costumi non ischivarono il contagio
del libertinismo comune alle classi elevate. E veramente la scossa,
che aveva distrutti i suoi pregiudizi, aveva nel tempo stesso rese
fluttuanti le sue opinioni lasciandolo in piena balìa al proprio
sentire. Ma comecchè i suoi principii difettassero di fermezza, i suoi
impulsi erano così generosi, la sua indole sì blanda, i suoi modi
cotanto graziosi e semplici, che tornava impossibile non amarlo. Lo
chiamarono tosto il Re deʼ Cuori, e per tutto il corso dʼuna lunga,
fortunosa ed agitatissima vita, non demeritò mai tal nome.[314]

Shrewsbury era Lord Luogotenente della Contea di Stafford e colonnello
dʼuno deʼ reggimenti di cavalleria fatti in occasione della
insurrezione delle Contrade Occidentali, e perchè ricusò di ubbidire
alle voglie deʼ Regolatori, fu privato di entrambi gli uffici.

XXIX. Nessuno deʼ Nobili inglesi aveva reputazione nel pubblico al
pari di Carlo Sackville Conte di Dorset. E davvero egli era insigne
uomo. In gioventù era stato uno deʼ più famosi libertini deʼ licenziosi
tempi della Restaurazione. Era stato il terrore delle guardie di
Città, aveva passate molte notti nel corpo di guardia, e infine fu
rinchiuso nella prigione di Newgate. La sua passione per Bettina
Morrice, e per Norina Gwynn, che lo chiamava il suo Carlo I, aveva
apprestato non poca materia di sollazzo e di scandalo alla città.[315]
Nondimeno fra mezzo alle follie e ai vizi, ciascuno riconosceva il
suo coraggio, il suo squisito intendimento, e la natia bontà del suo
cuore. Dicevano che gli eccessi, ai quali sʼera abbandonato, fossero
a lui comuni con tutta la classe deʼ gaii giovani Cavalieri; ma la
sua pietà pel dolore altrui e la generosità con che egli espiava i
suoi torti, erano qualità tutte sue. I colleghi maravigliavansi della
distinzione che il pubblico faceva tra lui ed essi. «Qualunque cosa
egli faccia,» diceva Wilmot «non ha mai torto.» Lʼopinione del mondo
divenne più favorevole a Dorset quando il fuoco dellʼanima sua fu
temperato dagli anni e dal matrimonio. Le sue graziose maniere, il
suo gaio conversare, la dolcezza del suo cuore, la generosità della
sua mano, universalmente lodavansi. Dicevasi non vi fosse giorno in
cui qualche sventurata famiglia non avesse cagione a benedire il nome
di lui. E nulladimeno, con tutta la sua buona indole, erano tali le
punture deʼ suoi sarcasmi, che coloro i quali erano da tutta la città
temuti pel loro spirito satirico, temevano forte la lingua di Dorset.
Tutti i partiti politici lo stimavano e carezzavano: ma la politica
non gli andava molto a sangue. Sʼegli dalla necessità avesse avuto
incitamento a cercare ventura, probabilmente si sarebbe inalzato ai
più alti uffici pubblici; ma la sua schiatta era sì illustre e la sua
opulenza sì vasta, che mancavano a lui gli sproni più potenti che
stimolano gli uomini a gettarsi neʼ pubblici affari. La parte che egli
ebbe nel Parlamento e nella Diplomazia basta a dimostrare che a lui
nullʼaltro mancava che la inclinazione per gareggiare con Danby e con
Sunderland: ma ei si volse a studi che maggiormente gli talentavano.
Al pari di molti, i quali, forniti di doti naturali, sono per indole
ed abitudine indolenti, divenne buontempone, voluttuoso, e maestro
in quelle dilettevoli conoscenze che si acquistano senza severa
applicazione. Era universalmente tenuto pel miglior giudice che fosse
nella Corte in materia di pittura, scultura, architettura e teatri.
Nelle questioni di lettere amene i suoi giudizi erano considerati in
tutti i Caffè come inappellabili. Varie egregie produzioni drammatiche,
che non erano state applaudite alla prima rappresentazione, si
sostennero col solo soccorso della autorità di lui contro i clamori
della platea, e si avventurarono con prospero esito ad una seconda
prova. La squisitezza del suo gusto nella letteratura francese ebbe le
lodi di Saint–Evremond e di La Fontaine. La Inghilterra non aveva mai
avuto un uguale protettore delle lettere. La sua bontà estendevasi
con pari giudizio e liberalità a tutti, senza riguardo di sètte o di
fazioni. Glʼingegni, lʼuno allʼaltro avversi per gelosia letteraria o
per diversità dʼopinioni politiche, concordavano a riconoscere la sua
imparziale cortesia. Dryden confessava dʼessere stato salvato dalla
rovina per la principesca generosità di Dorset. E nel tempo medesimo
Montague e Prior, che avevano scritto pungenti satire contro Dryden,
furono posti da Dorset nella vita pubblica; e la migliore commedia
di Shadwell, mortale nemico di Dryden, fu scritta in una villa di
Dorset. Il magnifico Conte, ove ne avesse avuta voglia, avrebbe potuto
rivaleggiare con coloro ai quali contentavasi dʼessere benefattore;
imperciocchè i versi chʼegli alcuna volta compose, per quanto non
fossero studiati, rivelano un ingegno, il quale, assiduamente
coltivato, avrebbe prodotto qualche cosa di grande. Nel volumetto
delle sue opere si trovano canzoni che hanno la spontanea vigoria
di Suckling, e satire nelle quali scintilla lo arguto spirito di
Butler.[316]

Dorset era Lord Luogotenente di Sussex, e sopra Sussex i Regolatori
tenevano con ansietà fitti gli occhi: imperocchè in nessuna altra
Contea, tranne Cornwall e Wiltshire, era sì gran numero di piccoli
borghi. Gli fu ingiunto di recarsi al suo posto. Niuno di coloro che
lo conoscevano aspettavasi chʼegli obbedisse. Rispose come conveniva,
e gli fu annunciato non esservi più mestieri deʼ suoi servigi. Si
accrebbe lo interesse che ispiravano le sue nobili ed amabili qualità,
poichè si seppe chʼegli aveva ricevuto per la posta una lettera
cieca, in cui si diceva che, ove egli non si prestasse prontamente
ai desiderii del Re, tutto il suo ingegno e la sua popolarità non
lo avrebbero salvato dallo assassinio. Simile ammonimento era stato
mandato a Shrewsbury. Le lettere di minaccia erano allora più rare di
quello che divennero poi. Non è quindi strano che il popolo esasperato
inchinasse a credere che i migliori e più nobili uomini dʼInghilterra
dovevano veramente essere vittime deʼ pugnali papisti.[317] Appunto
quando coteste lettere formavano il chiacchiericcio di tutta Londra,
trovossi in sulla via mutilato il cadavere dʼun cospicuo Puritano.
Tosto si conobbe che il braccio dello assassino non era stato mosso da
cagione religiosa o politica. Ma i primi sospetti della plebe caddero
sopra i papisti. Lo sbranato corpo fu portato in processione alla casa
deʼ Gesuiti nel Savoy; e per poche ore il terrore e la rabbia del
popolaccio non furono meno violenti che nel giorno in cui lʼassassinato
Godfrey fu portato alla sepoltura.[318]

Le altre destituzioni vanno con maggior brevità riferite. Il Duca di
Somerset, al quale pochi mesi prima era stato tolto il comando del
reggimento, adesso fu privato della luogotenenza di East–Riding nella
Contea di York. Il North–Riding fu tolto al Visconte Fauconberg, il
Shropshire al Visconte Newport, e la Contea di Lancastro al Conte di
Derby, nipote dello strenuo cavaliere, che animosamente era corso
incontro alla morte per difendere la Casa Stuarda. Il Conte di
Pembroke, il quale di recente aveva con fedeltà e coraggio difesa
la Corona contro Monmouth, fu destituito nel Wiltshire, il Conte di
Rutland nella Contea di Leicester, il Conte di Bridgewater in quella di
Buckingham, il Conte di Thanet in Cumberland, il Conte di Northampton
nella Contea di Warwick, il Conte dʼAbingdon in quella di Oxford, e
in quella di Derby il Conte di Scarsdale. Questi fu anche destituito
dallʼufficio di colonnello di cavalleria, e da un altro ufficio nella
casa della Principessa di Danimarca. Essa lottò per mantenerlo al suo
servizio, e cedette solo ad un comando perentorio del padre. Il Conte
di Gainsborough fu cacciato non solo dalla luogotenenza di Hampshire,
ma anche dal governo di Portsmouth e dalla ispezione di New–Forest,
due posti che egli pochi mesi prima aveva comperati per cinquemila lire
sterline.[319]

Il Re non potè trovare nessuno deʼ grandi Lordi, e, per dir vero, deʼ
Lordi Protestanti di nessuna specie, i quali volessero accettare gli
uffici vacanti. E gli fu mestieri assegnare due Contee a Jeffreys,
uomo nuovo che possedeva pochi beni territoriali, e due a Preston, il
quale non era nè anche Pari Inglese. Le altre Contee le quali rimasero
senza governatori, furono affidate ad alcuni ben noti Cattolici, o a
cortigiani che avevano secretamente promesso a Giacomo di dichiararsi
cattolici appena lo potessero prudentemente fare.

XXX. Alla perfine la nuova macchina fu messa in azione; e tosto da
ogni parte del Regno arrivarono nuove che non era punto riuscita. Il
catechismo, a norma del quale i Lordi Luogotenenti dovevano saggiare le
opinioni deʼ gentiluomini delle campagne, comprendeva tre questioni.
Dovevasi chiedere ad ogni magistrato, e ad ogni luogotenente deputato,
primo, se nel caso chʼegli venisse eletto rappresentante al Parlamento,
voterebbe a favore dʼuna proposta formata secondo i principii della
Dichiarazione dʼIndulgenza; secondo, se, come elettore, sosterrebbe i
candidati impegnati a votare a favore di quella proposta; terzo, se,
come uomo privato seconderebbe i benevoli disegni del Re vivendo in
pace con gli uomini di qualunque religione si fossero.[320]

XXXI. Appena furono spedite le domande, una formula di risposta,
congegnata con ammirevole arte, fu mandata in giro per tutto il Reame,
e venne generalmente adottata; ed era del seguente tenore: «Come membro
della Camera deʼ Comuni, ove avessi lʼonore di esserlo, sarà mio
debito ponderare con gran cura tutte le ragioni che nella discussione
si adducessero pro e contro una legge dʼIndulgenza, e quindi voterò
secondo la convinzione della mia coscienza. Come elettore, sosterrò
queʼ candidati le cui opinioni intorno ai doveri di rappresentante
concorderanno con le mie. Come uomo privato, desidero vivere in pace
ed affetto con ciascuno.» Questa risposta più provocante dʼun diretto
rifiuto, come quella che olezzava un poco di sì castigata e decorosa
ironia da non destare risentimento, fu tutto ciò che gli emissari della
Corte poterono ricavare dalle labbra di quasi tutti i gentiluomini
delle campagne. Ragioni, promesse, minacce, tutto fu vano. Il Duca
di Norfolk, comecchè fosse Protestante e non approvasse il procedere
del Governo, aveva acconsentito a servirlo da agente in due Contee.
Prima andò in Surrey dove sʼaccôrse di non potere far nulla.[321]
Poi passò a Norfolk, e tornò indietro per annunziare al Re che di
settanta notevoli gentiluomini che erano in ufficio in quella grande
provincia, solo sei porgevano speranza che sosterrebbero la politica
della Corte.[322] Il Duca di Bedford, la cui autorità estendevasi sopra
quattro Contee inglesi e sopra tutto il Principato di Galles, ritornò
a Whitehall con nuove non meno scoraggianti.[323] Rochester era Lord
Luogotenente della Contea di Hertford. Aveva consumato tutto quel poco
di virtù che egli aveva in cuore lottando contro la tentazione di
vendere la propria fede religiosa. Lo vincolava tuttavia alla Corte
unʼannua pensione di quattromila lire sterline; e in ricambio era
pronto a rendere al Governo qualunque servigio, comunque illegale e
disonorevole, purchè non si volesse da lui una formale riconciliazione
con Roma. Aveva volentieri accettato lo incarico di corrompere la sua
Contea; e lo eseguì, secondo era suo costume, con indiscreto ardore e
violenza. Ma la sua collera non produsse alcuno effetto negli animi
inflessibili degli scudieri ai quali ei sʼera rivolto. Ad una voce
gli dissero di non volere mandare al Parlamento un uomo, il quale
fosse disposto a votare per la distruzione delle guarentigie della
fede protestante.[324] La medesima risposta fu data al Cancelliere
nella Contea di Buckingham.[325] I gentiluomini di quella di Shrop,
ragunati a Ludlow, unanimemente ricusarono di vincolarsi con la
promessa che il Re chiedeva loro.[326] Il Conte di Yarmouth riferì
dal Wiltshire che di sessanta magistrati e Deputati Luogotenenti, coi
quali aveva tenuto ragionamento, soli sette avevano date risposte
favorevoli, ed anche in queʼ sette non era da fidare.[327] Il rinnegato
Peterborough non fece nulla di buono nella Contea di Northampton.[328]
Il suo confratello rinnegato, Dover, ebbe la medesima sorte nella
Contea di Cambridge.[329] Preston recò sinistre nuove da Cumberland e
Westmoreland. Le Contee di Dorset e di Huntingdon erano animate del
medesimo spirito. Il Conte di Bath, dopo lunghe pratiche, ritornò
dalle Contrade Occidentali con tristi augurii. Aveva avuta potestà
di fare le più seducenti offerte agli abitatori di quella regione.
In ispecie aveva loro promesso che ove si mostrassero riverenti ai
voleri del sovrano, il traffico del rame sarebbe reso libero dalle
oppressive restrizioni che lo gravavano. Tutti i Giudici e i Deputati
Luogotenenti di Devonshire e di Cornwall, senza eccettuarne nè anche
uno, dichiararono dʼesser pronti a porre a repentaglio vita e sostanze
pel Re, ma la religione protestante era ad essi più cara della roba e
della vita. «Sire,» soggiunse Bath «se Vostra Maestà destituisse tutti
cotesti gentiluomini, i successori loro darebbero precisamente la
medesima risposta.»[330] Se vi era distretto in cui il Governo potesse
sperare esito prospero, era quello di Lancastro. Molto dubitavasi del
risultamento di ciò che quivi succedeva. In nessuna parte del reame era
sì gran numero di famiglie sempre fide alla vecchia religione. I capi
di molte di quelle famiglie, per virtù della potestà di dispensare,
erano stati fatti Giudici di Pace, e comandanti delle milizie civiche.
E nonostante, dalla Contea di Lancastro il nuovo Luogotenente, chʼera
cattolico romano, riferì come due terzi dei deputati e deʼ magistrati
procedessero avversi alla Corte.[331] Ma ciò che seguì in Lancastro
irritò anche più profondamente lʼorgoglio del Re. Arabella Churchill,
venti e più anni innanzi, gli aveva partorito un figlio, che dipoi
acquistò gran fama dʼessere il più esperto capitano dʼEuropa. Il
giovinetto, che aveva nome Giacomo Fitzjames, non aveva per anche dato
segni di dovere pervenire a quellʼaltezza a cui poscia pervenne: ma
i suoi modi erano così gentili e inoffensivi chʼegli non aveva altro
nemico che Maria di Modena, la quale da lungo tempo sentiva pel figlio
della concubina lʼimplacabile odio dʼuna moglie priva di figliuoli.
Alcuni della fazione gesuitica, avanti lo annunzio della gravidanza
della Regina, avevano seriamente pensato di contrapporlo come rivale
alla Principessa dʼOrange.[332] Ove si rammenti che Monmouth, comecchè
fosse creduto legittimo dal volgo, e fosse campione della religione
dello Stato, aveva pienamente fallito in un simigliante tentativo, eʼ
sembra straordinario che vi fossero uomini tanto ciechi per fanatismo,
da pensare di porre sul trono un giovane che era universalmente
conosciuto come bastardo papista. Eʼ non parve che il Re secondasse mai
un così assurdo disegno. Il fanciullo, nondimeno, fu riconosciuto, e
gli furono prodigate tutte quelle onorificenze che si possano concedere
ad un suddito che non sia di sangue regio. Era stato creato Duca di
Berwick, ed allora occupava non pochi onorevoli e lucrosi uffici, tolti
a queʼ Nobili che avevano ricusato di arrendersi ai desiderii sovrani.
Successe al Conte dʼOxford nel grado di colonnello degli Azzurri, e al
Conte di Gainsborough nella Luogotenenza di Hampshire, nella ispezione
di New–Forest, e nel Governo di Portsmouth. Berwick aspettavasi che gli
venisse incontro, alla frontiera di Hampshire, secondo era costume, una
lunga cavalcata di baronetti, cavalieri, e scudieri: ma non ci fu una
sola persona di riguardo che si mostrasse a dargli il benvenuto. Ordinò
per lettere ai gentiluomini che comparissero al suo cospetto, ma solo
cinque o sei obbedirono: gli altri non aspettarono dʼessere destituiti
per dichiarare chʼessi non parteciperebbero al Governo civile e
militare della loro Contea, mentre il Re vi era rappresentato da un
papista; e deposero, di propria volontà, i loro uffici.[333]

Sunderland, il quale era stato nominato Lord Luogotenente della Contea
di Northampton, trovò qualche pretesto per non andare ad affrontare lo
sdegno e lo spregio deʼ gentiluomini di quella Contea; e le sue scuse
furono di leggieri ammesse, dacchè il Re aveva cominciato a intendere
come non fosse da porre speranza alcuna nei gentiluomini delle
campagne.[334]

È da notarsi che coloro i quali mostravansi così animosi non erano
gli antichi nemici della Casa Stuarda. Dalle commissioni di Pace e di
Luogotenenza erano stati già da lungo tempo eliminati tutti i nomi
repubblicani. Coloro, dai quali la Corte si era indarno studiata
dʼottenere la promessa di secondarla, erano, senza eccettuarne nè
anche uno, tutti Tory. I più vecchi di loro avevano le cicatrici delle
ferite riportate dalle spade delle Teste–Rotonde, e le ricevute delle
argenterie con le quali avevano soccorso Carlo I in bisogno. I più
giovani avevano fermamente parteggiato per Giacomo contro Shaftesbury
e Monmouth. Tali erano coloro che furono destituiti in massa da quello
stesso principe, al quale avevano dato cotanto segnalate prove di
fedeltà. Ma la cacciata dallʼufficio altro non fece che renderli più
inflessibili nel loro proponimento. Essi consideravano come sacro
punto dʼonore difendersi animosamente a vicenda in cotesta crisi. Non
vi poteva essere dubbio che, raccogliendo onestamente i suffragi deʼ
liberi possidenti, non verrebbe eletto nè anche un solo rappresentante
favorevole alla politica del Governo. Gli elettori con grande ansietà
chiedevansi a vicenda se fosse verosimile che i suffragi venissero
onestamente raccolti.

XXXII. Aspettavasi con impazienza la lista degli Sceriffi per lʼanno
nuovo. Giunse nelle Contee mentre i Lordi Luogotenenti affaccendavansi
neʼ loro maneggi elettorali, e fu ricevuta con universale grido
di timore e di sdegno. La maggior parte di coloro che dovevano
presedere alle elezioni delle Contee, erano Cattolici Romani o
Protestanti Dissenzienti, i quali avevano approvata la Dichiarazione
dʼIndulgenza.[335] Per qualche tempo regnò gravissimo timore; ma poco
dopo si spense. Eravi buona ragione a credere che vi fosse un punto
oltre il quale il Re non poteva nemmeno sperare la cooperazione degli
Sceriffi suoi correligionari.

XXXIII. Tra il cattolico cortigiano e il gentiluomo di campagna
cattolico era poca simpatia. La cabala che predominava in Whitehall era
composta in parte di fanatici, pronti a rompere tutti i principii della
morale e mandare a soqquadro il mondo a fine di propagare la religione
loro, e in parte dʼipocriti, i quali per cupidigia di guadagno avevano
rinnegata la fede in che erano cresciuti, e adesso travarcavano i
confini dello zelo che è proprio dei neofiti. Entrambi, i fanatici
cortigiani e glʼipocriti, erano generalmente privi dʼogni patrio
sentimento, che in alcuni di loro era stato spento dallo affetto per la
propria Chiesa. Alcuni erano Irlandesi, il cui patriottismo consisteva
nellʼodiare mortalmente i Sassoni conquistatori dellʼIrlanda. Altri
erano traditori stipendiati da un Potentato straniero. Taluni avevano
passata gran parte della loro vita lungi dal patrio suolo, e, od
erano cosmopoliti, od aborrivano i costumi e le istituzioni del paese
chʼerano deputati a governare. Tra cosiffatti uomini e il gentiluomo
rurale di Chester o di Stafford che aderiva alla vecchia Chiesa,
non era nulla di comune. Senza essere nè fanatico nè ipocrita, era
Cattolico Romano, perchè il padre e lʼavo erano stati Cattolici; e
manteneva lʼavita fede come generalmente gli uomini sogliono fare, cioè
con sincerità, ma con poco entusiasmo. In ogni altra cosa egli era un
semplice scudiere o possidente inglese; e se differiva daʼ suoi vicini,
differiva in ciò chʼegli era più semplice e contadinesco di loro.
Per le sue incapacità civili non aveva potuto esplicare le sue doti
intellettuali fino a quellʼaltezza—comunque fosse moderata—alla quale
giungevano ordinariamente glʼintelletti deʼ protestanti gentiluomini
delle campagne. Nella fanciullezza escluso da Eaton e da Westminster,
nella gioventù da Oxford e da Cambridge, e nella virilità dal
Parlamento e dalle magistrature, generalmente ei vegetava tranquillo
come gli olmi del viale che conduceva alla rustica magione degli avi
suoi. I campi, le cascine, i cani, la canna da pescare, lo schioppo,
il sidro, la birra e il tabacco occupavano pressochè tutti i suoi
pensieri. Coʼ suoi vicini, malgrado la differenza di religione, era
per lo più in amichevoli relazioni: perocchè essi lo sperimentavano
inoffensivo e scevro di ambizione. Egli era quasi sempre di buona
ed antica famiglia, e sempre Cavaliere. Le sue peculiari opinioni,
delle quali ei non faceva pompa, non davano noia a nessuno. Egli
non tormentava, al pari del Puritano, sè ed altrui, scrupoleggiando
sopra ogni cosa che fosse dilettevole. Allʼincontro egli era allegro
cacciatore, e compagnevole quanto qualunque altro uomo, che avesse
prestato il giuramento di supremazia, e fatta la dichiarazione contro
la transustanziazione. Trovavasi coʼ suoi vicini allʼagguato, inseguiva
con essi il fuggente animale, e finita la caccia, gli conduceva
seco a casa a mangiare un pasticcio e bere un bicchiere di vecchia
birra. Lʼoppressione da lui sofferta non era stata tale da spingerlo
a disperati eccessi. Anche quando la sua Chiesa pativa barbara
persecuzione, egli aveva corso lieve pericolo nella vita e negli
averi. I più impudenti e falsi testimoni mal potevano rischiarsi ad
oltraggiare il buon senso, accusando il gentiluomo cattolico come reo
di congiura. I papisti che Oates volle colpire, erano Pari, Prelati,
Gesuiti, Benedettini, faccendieri politici, rinomati legisti, medici di
Corte. Il gentiluomo cattolico delle campagne, protetto dalla propria
vita oscura e pacifica, e dal buon volere deʼ suoi vicini, faceva
il suo ricolto di fieno, o riempiva di caccia la sua carniera senza
molestia veruna, mentre Colemann e Langhorne, Whitbread e Pikering,
lo Arcivescovo Plunkett e Lord Stafford, morivano di capestro o di
scure. Parecchi scellerati, a dir vero avevano tentato accusare di
tradimento Sir Tommaso Gascoigne, vecchio baronetto cattolico della
Contea di York: ma dodici fraʼ migliori gentiluomini del West–Riding,
che conoscevano il suo modo di vivere, non poterono persuadersi che
lʼonesto vecchio avesse assoldati sicari ad assassinare il Re; e in
onta alle accuse, che fecero poco onore ai giudici, lo dichiararono
innocente. Talvolta, in verità, il capo dʼunʼantica e rispettabile
famiglia di provincia forse amaramente considerava dʼessere escluso,
a cagione delle sue religiose credenze, dagli uffici e dalle dignità
che uomini di più umile stirpe e meno opulenti erano reputati capaci
dʼoccupare: ma era poco inchinevole a rischiare le sostanze e la vita
in una lotta sproporzionatamente disuguale; e lʼonesto suo patriottismo
avrebbe con raccapriccio aborrito dai pensieri di Petre e di Tyrconnel.
Certo ei sarebbe stato pronto, come ciascuno deʼ suoi vicini
protestanti, a cingersi la spada ed a porre le pistole negli arcioni
per difendere la terra natia contro i Francesi o i papisti dʼIrlanda.
Tale era comunemente il carattere degli uomini deʼ quali Giacomo
voleva servirsi come di strumento a condurre a suo modo le elezioni
delle Contee. Ei tosto sʼaccôrse come essi non fossero propensi a
perdere la stima deʼ loro concittadini, e mettere in pericolo il capo
e la roba, rendendo al Sovrano infami e criminosi servigi. Parecchi
di loro non accettarono la nomina di Sceriffo. Di coloro i quali
accettarono lʼufficio, molti dichiararono che farebbero onestamente
il debito proprio, come se fossero membri della Chiesa dello Stato,
e non proclamerebbero eletto alcun candidato che non riportasse la
maggioranza deʼ suffragi.[336]

XXXIV. Se il Re poteva poco confidare neʼ suoi Sceriffi Cattolici,
anche meno lo poteva neʼ Puritani. Dacchè era stata pubblicata la
Dichiarazione dʼIndulgenza, erano corsi vari mesi pieni di gravissimi
eventi e di continue controversie. Il lungo discutere aveva aperti gli
occhi a molti Dissenzienti: ma gli Atti del Governo, e segnatamente il
rigore col quale aveva trattato il Collegio della Maddalena, avevano
contribuito, anche più della penna di Halifax, a insospettire e
collegare tutte le classi deʼ Protestanti. Molti di queʼ settari che
sʼerano indotti ad esprimere la propria gratitudine per la Indulgenza,
adesso vergognavano del proprio errore, ed erano desiderosi di fare
ammenda accomunando le loro sorti a quelle del maggior numero deʼ loro
concittadini.

A cagione di cotesto mutamento seguito neʼ Non–Conformisti, il
Governo trovò nella città ostacoli pressochè uguali a quelli che
aveva incontrato nelle Contee. Quando i Regolatori incominciarono
lʼopera loro, reputarono come certo che ogni Dissenziente, beneficiato
dalla Indulgenza, sarebbe favorevole alla politica del Re. Erano
quindi sicuri di potere mettere in tutti gli uffici municipali del
Regno fermissimi amici. Nei nuovi statuti municipali la Corona sʼera
riserbata la potestà di destituire, a suo arbitrio, i magistrati, e
adesso lʼadoperò illimitatamente. Non era al pari evidente che Giacomo
avesse la potestà di nominare nuovi magistrati; ma, lʼavesse o non
lʼavesse, egli era deliberato dʼarrogarsela. In ogni parte, dal Tweed
al Landʼs End tutti i funzionari Tory furono destituiti, e negli
uffici vacanti furono posti Presbiteriani, Indipendenti, e Battisti.
Nel nuovo statuto municipale di Londra la Corona sʼera riserbata
la potestà di destituire i Maestri, i Direttori, e gli Assessori
di tutte le compagnie. E però più di ottocento spettabilissimi
cittadini, tutti aderenti a quel partito che aveva avversata la Legge
di Esclusione, furono con un solo editto cacciati daʼ loro uffici.
Poco dopo, comparve un supplemento a cotesta lunga lista.[337] Ma
avevano appena prestato giuramento i nuovi ufficiali, allorquando si
conobbe come essi fossero intrattabili quanto i loro predecessori. In
Newcastle–on–Tyne i Regolatori nominarono un Gonfaloniere Cattolico
Romano, e Aldermanni Puritani. Non dubitavasi punto che il corpo
municipale, siffattamente ricostituito, non votasse un indirizzo,
dichiarando di volere secondare i provvedimenti del Re. Ma quando fu
proposto dal Gonfaloniere, venne rigettato; onde egli corse furioso a
Londra per dire al Re che i Dissenzienti erano tutti birboni e ribelli,
e che in tutto il Municipio di Governo non poteva sperare altro che
quattro voti.[338] In Reading furono destituiti ventiquattro Aldermanni
Tory, ed eletti altrettanti nuovi, deʼ quali ventitrè, dichiaratisi
immediatamente avversi alla Indulgenza, furono anche essi cacciati
via.[339] In pochi giorni il borgo di Yarmouth fu retto da tre diverse
magistrature; tutte medesimamente ostili alla corte.[340] Questi sono
semplici esempi di ciò che accadeva in tutto il reame. Lo ambasciatore
Olandese scrisse agli Stati che in molte città i pubblici ufficiali
entro un mese si erano mutati due volte e anche tre, e lo erano stati
invano.[341] Dai ricordi del Consiglio Privato si raccoglie che il
numero delle _regolazioni_—tale è il vocabolo che adoperavano—furono
oltre a dugento.[342] I Regolatori conobbero, come, tranne in pochi
Municipi, le cose sʼerano mutate in peggio. I Tory malcontenti, anco
mentre mormoravano contro la politica del Re, avevano sempre protestato
del loro rispetto per la persona e la dignità di lui, e riprovato ogni
pensiero di resistenza. Assai diverso era il linguaggio di alcuni
traʼ membri deʼ Corpi Municipali. Dicevasi che taluni vecchi soldati
della Repubblica, i quali con maraviglia loro e del pubblico, erano
stati creati Aldermanni, rispondessero chiaramente agli agenti della
Corte che il sangue scorrerebbe a fiumi innanzi che si raffermasse in
Inghilterra il papismo e la tirannide.[343]

I Regolatori conobbero essersi poco o nulla conseguito da ciò che
fino allora avevano fatto. Non vi era altro che un solo mezzo il
quale facesse loro sperare di ottenere lo scopo. Era mestieri
togliere gli statuti ai borghi, e concederne altri che limitassero la
franchigia elettorale a piccolissimi collegi dʼelettorali nominati dal
Sovrano.[344]

Ma in che guisa mandare siffatto disegno ad esecuzione? In pochi di
tali statuti la Corona sʼera riserbata il diritto di revoca: ma gli
altri egli poteva riprendere solo per rinunzia volontariamente fatta
dai Municipi, o per sentenza del Banco del Re. Intanto pochi corpi
municipali erano disposti a rinunziare volontariamente ai loro statuti;
e una sentenza secondo gli intendimenti del Governo non poteva sperarsi
nè anche da uno schiavo qual era Wright. I mandati di _Quo Warranto_,
pochi anni innanzi spediti per ischiacciare il partito deʼ Whig, erano
stati disapprovati da ogni uomo imparziale. Eppure tali mandati avevano
almeno sembianza di giustizia; perocchè colpivano gli antichi corpi
municipali, deʼ quali pochi erano quelli in cui, col volgere degli
anni, non fosse nato qualche abuso bastevole a fornire un pretesto per
un processo penale. Ma i Corpi Municipali che ora volevasi disfare
erano tuttavia nella innocenza della infanzia, sì che il più vecchio
non aveva compiuto il quinto degli anni suoi. Era impossibile che
molti di essi avessero commesso delitti da meritarsi la privazione
del privilegio elettorale. Gli stessi giudici erano inquieti, e
dimostrarono al Re come ciò che da loro si voleva, fosse diametralmente
contrario ai più evidenti principii della legge e della giustizia:
ma ogni rimostranza fu vana. Ai borghi fu intimato di rinunciare ai
loro statuti. Pochi ubbidirono, e il modo onde il Re si condusse con
queʼ pochi non confortò gli altri a fidarsi di lui. In varie città
il diritto di votare fu tolto alla comunità, e dato a pochi, ai
quali fu chiesto il giuramento di eleggere i candidati proposti dal
Governo. In Tewkesbury, per modo dʼesempio, la franchigia fu data
solo a tredici persone; e nondimeno anche questo numero era grande.
Lʼodio e il timore sʼera talmente sparso per tutta la popolazione,
che tornava quasi impossibile mettere insieme in una città, con qual
si fosse specie dʼimbroglio, tredici individui neʼ quali la Corte
potesse avere piena fiducia. Corse la voce che la maggioranza del
nuovo collegio elettorale di Tewkesbury fosse animata dal medesimo
sentimento chʼera universale in tutta la nazione, e che, arrivato
il giorno decisivo, manderebbe Protestanti sinceri al Parlamento. I
Regolatori in gran collera minacciarono di ridurre a tre soli il numero
degli elettori.[345] Frattanto la maggior parte deʼ borghi negarono di
rinunciare ai loro privilegi. Barnstaple, Winchester, e Buckingham si
resero notevoli per essersi arditamente opposti. In Oxford la proposta
che la città rinunziasse alle franchigie fu rigettata da ottantadue
voti contro due.[346] Il Temple e Westminster erano sossopra per
lo strano affollamento degli affari che giungevano da ogni angolo
del Regno. Ogni legale di gran nome era sopraccarico deʼ ricorsi
deʼ Municipi che a lui si volgevano per essere difesi. I litiganti
privati querelavansi che le loro faccende venivano trascurate.[347]
Era impossibile in pochissimo tempo sbrigare tanto numero di cause.
La tirannide se ne accorgeva, ma non poteva patire il minimo indugio,
e non trascurò nulla che valesse ad atterrire i borghi disubbidienti,
e indurli a sottomettersi. In Buckingham alcuni degli ufficiali del
Municipio avevano detto di Jeffreys parole che non erano di lode. Fu
loro intentato un processo, e fatto intendere che ove non volessero
redimersi rinunziando ai loro statuti, non verrebbe loro usata ombra
di misericordia.[348] In Winchester vennero adottati provvedimenti
anche più rigorosi. Una numerosa soldatesca fu spedita alla città a
solo fine di gravare e vessare gli abitanti:[349] i quali stettero
fermi ed animosi; e lʼopinione pubblica accusava Giacomo di volere
imitare la peggiore delle scelleratezze del suo confratello di Francia.
Dicevasi che principiavano già le dragonate; e vi era cagione a temere
tanta enormezza. Giacomo sʼera fitto in mente il pensiero che lʼunico
mezzo di far cedere una città ostinata era quello di acquartierare i
soldati in seno alle famiglie. Avrebbe dovuto conoscere che questo
provvedimento, sessanta anni innanzi, aveva destato terribili mali
umori, ed era stato solennemente dichiarato illegale dalla Petizione
dei Diritti. E difatti ne chiese consiglio al Capo Giudice del Banco
del Re:[350] il risultamento della consulta rimase secreto; ma in pochi
giorni lo aspetto degli affari si fece tale, che un timore più forte ed
efficace che non fosse quello di suscitare la collera del Re, cominciò
a imporre qualche freno anco ad un uomo abietto qual era Wright.

XXXV. Mentre i Lordi Luogotenenti interrogavano i Giudici di Pace,
mentre i Regolatori riformavano i borghi, in tutti i dipartimenti
dellʼamministrazione pubblica facevasi rigorosa inquisizione. Ad ognuno
deʼ vecchi Cavalieri rovinati, i quali in ricambio del sangue sparso
e deʼ beni perduti per difendere la Corona, avevano ottenuto qualche
piccolo ufficio sotto la giurisdizione del Guardaroba o del Maestro di
caccia, fu intimato di eleggere fra il Re e la Chiesa. I Commissari
delle Dogane o dellʼExcise ebbero comandamento di appresentarsi alla
Maestà Sua nellʼUfficio del Tesoro. Quivi egli chiese loro la promessa
di secondare la sua politica, e ingiunse di farlo parimente promettere
aʼ loro sottoposti.[351] Un ufficiale di Dogana rispose al regio
comandamento in un modo tale da destare compassione e riso. «Io ho»
disse egli «quattordici ragioni per ubbidire a Sua Maestà, una moglie
e tredici figliuoli.»[352] Tali ragioni, per vero dire, ponevano alle
strette; nulladimeno non furono pochi gli esempi, nei quali, malgrado
ragioni siffatte, prevalse la riverenza della religione e lo amore
della patria. Abbiamo argomento di credere che il Governo allora
meditasse profondamente un colpo che avrebbe ridotto molte migliaia
di famiglie ad accattare, e perturbato tutto lʼordine sociale in
ciascuna parte del paese. Non era concesso vendere senza licenza, vino,
birra, o caffè. Sʼera sparsa la voce che a chiunque possedeva siffatta
licenza sarebbe tra breve ingiunto di fare quella promessa chʼera
stata imposta ai pubblici impiegati, e, negando, abbandonare il suo
traffico.[353] Eʼ sembra certo, che ove si fosse fatto un tal passo, i
luoghi di pubblico divertimento o ritrovo sarebbero a un tratto stati
chiusi a centinaia in tutto il Regno. Quale effetto avrebbe prodotto
cotesto immischiarsi del Governo nei comodi di tutte le classi, può di
leggieri immaginarsi. Il risentimento che fanno nascere gli aggravi
non è sempre proporzionato alla importanza loro; e non è affatto
improbabile che la revoca delle licenze avrebbe fatto ciò che la revoca
degli statuti municipali aveva mancato di fare. Le alte classi sociali
avrebbero sentita la mancanza della bottega di Saint–James–Street, dove
solevano prendere la cioccolata; e agli uomini di faccende sarebbe
mancata la tazza di caffé chʼessi erano assuefatti a bere fumando la
pipa e chiacchierando di cose politiche in Change–Alley. I Circoli si
sarebbero affannati a trovare un ricovero. Il viandante avrebbe sul far
della notte trovato deserta lʼosteria, dove credeva potere alloggiare
e cenare. Il contadino avrebbe amaramente ripensato alla botteghetta
dove egli soleva bere la birra sulla panca neʼ giorni estivi, e accanto
al camino in tempo dʼinverno. Il popolo, a cosiffatta provocazione,
sarebbe forse insorto tuttoquanto senza attendere il soccorso di
stranieri alleati.

XXXVI. Non era da aspettarsi che un Principe, il quale voleva che
tutti i più umili servitori del Governo secondassero la sua politica
sotto pena dʼessere destituiti, seguitasse a mantenere in ufficio
un Procuratore Generale, che non ascondeva la propria avversione a
quella politica. Sawyer era stato tollerato nel suo posto per diciotto
e più mesi, dopo chʼegli sʼera dichiarato contrario alla potestà di
dispensare. Di tale strana indulgenza egli andava debitore alla estrema
difficoltà che incontrò il Governo a trovare un uomo da sostituirgli.
Per proteggere glʼinteressi pecuniari della Corona, era mestieri che
almeno uno deʼ due capi della legge fosse uomo dotto ed esperto; e
non era punto facile indurre qual si fosse legale dotto ed esperto
ad esporsi al pericolo, commettendo quotidianamente atti, che dal
Parlamento alla prima riunione verrebbero forse considerati come gravi
delitti. Era stato impossibile trovare un Avvocato Generale migliore
di Powis, uomo che non conosceva nessuna specie di freno, ma era
incompetente ad adempiere gli ordinari doveri del proprio ufficio.
Per tali ragioni fu creduto necessario partire il lavoro. Congiunsero
insieme un Procuratore, la cui scienza giuridica scemava di pregio peʼ
suoi scrupoli di coscienza, con un Avvocato, nel quale la mancanza
dʼogni scrupolo compensava in alcun modo la mancanza del sapere. Quando
il Governo voleva fare osservare la legge si serviva di Sawyer; quando
desiderava violarla adoperava Powis. Cotesto accomodamento durò finchè
il Re potè assicurarsi deʼ servigi di un avvocato il quale era ad un
tempo e più vile di Powis e più abile di Sawyer.

XXXVII. Nessuno deʼ legali allora viventi aveva fatto più che Guglielmo
Williams virulenta opposizione alla Corte. Sotto Carlo II, egli aveva
acquistato reputazione e come Whig e come Esclusionista. Prevalenti
le fazioni, era stato eletto Presidente della Camera deʼ Comuni. Dopo
la proroga del Parlamento dʼOxford aveva comunemente difeso i più
turbolenti demagoghi accusati di sedizione. Nessuno gli negava acutezza
di mente e scienza; credevasi che i principali suoi difetti fossero
temerità e spirito di parte. Non vʼera per anche il menomo sospetto
chʼegli avesse altri difetti, in paragone deʼ quali la temerità e lo
spirito di parte potevano considerarsi come virtù. Il Governo cercava
pretesto a colpirlo, e non gli fu difficile trovarlo. Egli aveva
pubblicato, per ordine della Camera deʼ Comuni, una relazione scritta
da Dangerfield, la quale, qualora fosse stata pubblicata da un uomo
privato, sarebbe stata indubitabilmente tenuta per libello sedizioso.
Williams fu accusato dinanzi la Corte del Banco del Re; invano allegò
i privilegi parlamentari; fu dichiarato reo, e condannato ad una pena
di dieci mila lire sterline. Ne pagò una parte, e del rimanente firmò
una scritta dʼobbligo. Il Conte di Peterborough, il quale era stato
ingiuriosamente rammentato nella relazione di Dangerfield, allʼesito
prospero del processo, intentò unʼazione civile contro Williams e
chiese una forte somma per rifacimento di danni. Williams era ridotto
agli estremi, allorquando gli si offrì una sola via di scampo, ed
era via dalla quale con raccapriccio avrebbe arretrato il piede ogni
uomo fermo neʼ suoi principii ed animoso, affrontando più presto la
miseria, la prigione, o la morte. Pensò di vendersi al Governo del
quale era stato nemico e vittima; offrirsi dʼassaltare con audacia da
disperato quelle libertà e quella religione, per le quali aveva dianzi
mostrato zelo intemperante; espiare i suoi principii Whig rendendo
servigi, dai quali i bacchettoni Tory, lordi ancora del sangue di
Russell e di Sidney, rifuggivano inorriditi. Il mercato fu concluso;
gli fu condonalo il debito chʼegli aveva verso la Corona; e per la
mediazione del Re, Peterborough sʼindusse ad un compromesso. Sawyer
fu cacciato; Powis fatto Procuratore Generale; e Williams, nominato
Avvocato Generale, ebbe la dignità di cavaliere, e in gran copia il
regio favore. E ancorchè per grado ei fosse il secondo ufficiale della
Corona nellʼordine giudiciario, aveva tanta abilità, dottrina ed
energia, che cacciò tosto nellʼombra il proprio superiore.[354]

Williams non era da lungo tempo in ufficio allorquando dovè essere
parte principale nel più memorabile processo di Stato, di cui facciano
ricordo gli Annali dellʼInghilterra.

XXXVIII. Il dì 27 aprile 1688, il Re promulgò una seconda Dichiarazione
dʼIndulgenza. In essa citava per esteso la Dichiarazione dello scorso
aprile, e diceva che la sua vita passata doveva oramai convincere il
popolo chʼegli non era uomo da retrocedere da un intrapreso cammino.
Ma perchè alcuni faziosi si andavano affaccendando a persuadere al
pubblico chʼegli poteva essere forzato a mutare proposito quanto alla
Indulgenza, reputava necessario dichiarare chʼegli era determinatissimo
di compiere ciò che aveva divisato, e che perciò aveva destituiti molti
ufficiali civili e militari disubbidienti. Annunciava che avrebbe
convocato il Parlamento nel novembre, al più tardi; ed esortava i suoi
sudditi ad eleggere rappresentanti tali che lo aiutassero a mandare ad
effetto la grande opera intrapresa.[355]

XXXIX. Questo Atto in sulle prime fece poca impressione. Non conteneva
nulla di nuovo; e tutti maravigliavano come il Re avesse creduto
valere lo incomodo di pubblicare un solenne Manifesto semplicemente
con lo scopo di dichiarare chʼegli si manteneva sempre fermo nel
proprio proposito.[356] Forse Giacomo si sentì pungere al vivo dalla
indifferenza onde venne dal pubblico accolto lo annunzio della presa
determinazione, e credè che la dignità e autorità sue ne soffrirebbero
ove ei senza indugio non compisse alcun che di nuovo e di notevole. Il
dì 4 maggio, quindi, egli fece unʼOrdinanza in Consiglio nella quale
comandava che la nuova Dichiarazione venisse letta per due domeniche
successive fra mezzo al servizio divino, dai ministri officianti
in tutte le chiese e cappelle del Regno. In Londra e neʼ suburbii
la lettura doveva aver luogo neʼ dì 20 e 27 maggio, nelle altre
parti dʼInghilterra nei dì 3 e 10 giugno. Ai vescovi fu ingiunto di
distribuire esemplari della Dichiarazione nelle loro diocesi.[357]

Ove si consideri come il clero della Chiesa stabilita, senza quasi
nessuna eccezione, reputasse la Indulgenza violazione delle leggi
del reame, infrazione della fede data dal Re, e colpo fatale contro
glʼinteressi e la dignità della loro professione, non potrebbe punto
dubitarsi che la Ordinanza in Consiglio mirava ad essere accolta dal
clero come un affronto. Dicevasi comunemente fra il popolo che Petre
aveva affermato tale intenzione del Governo, usando una grossolana
metafora tolta dalla rettorica delle lingue orientali. Diceva che
avrebbe fatto al clero mangiar fango, il più schifoso e nauseante
fango. Ma per quanto tirannico e maligno fosse il mandato, il clero
anglicano ubbidirebbe egli? La indole del Re era arbitraria e severa.
La Commissione Ecclesiastica giudicava con modo pronto e spicciativo,
quasi fosse Corte Marziale. Chiunque si rischiasse a resistere, dentro
una sola settimana poteva esser cacciato dal suo presbiterio, privato
di tutte le sue entrate, dichiarato incapace di occupare ogni altro
beneficio ecclesiastico, e ridotto a mendicare di porta in porta. Se,
a dir vero, lo intero corpo del clero si fosse collettivamente opposto
agli ordini regi, era probabile che nè anche Giacomo avrebbe osato di
punire a un tratto diecimila delinquenti. Ma non vi fu tempo di formare
una estesa combinazione. LʼOrdinanza in Consiglio fu riferita nella
Gazzetta del dì 7 di maggio. Il dì 20 la Dichiarazione doveva essere
letta da tutti i pulpiti di Londra e deʼ luoghi circostanti. Non vʼera
sforzo in queʼ tempi che bastasse a conoscere entro quindici giorni
le intenzioni della decima parte deʼ ministri parrocchiali sparsi in
tutto il Regno. Non era agevole raccogliere in breve glʼintendimenti
deʼ Vescovi. Era anche da temersi che, se il clero ricusasse di
leggere la Dichiarazione, e i Protestanti Dissenzienti interpretassero
sinistramente il rifiuto, ei dispererebbe dʼottenere tolleranza pel
credenti della Chiesa Anglicana, e darebbe compiuta vittoria alla Corte.

XL. Il clero quindi esitava; ed era degno di scusa, imperocchè parecchi
laici eminenti, che godevano molto la pubblica fiducia, inchinavano a
consigliare obbedienza. Pensavano essi che non fosse da sperarsi in
una generale opposizione, e che una opposizione parziale rovinerebbe
glʼindividui, con poca utilità della Chiesa e della nazione. Così a
quel tempo opinavano Halifax e Nottingham. Il giorno era vicino, e
nondimeno non vʼera accordo nè risoluzione presa.[358]

In tali circostanze, i Protestanti Dissenzienti di Londra acquistaronsi
diritto alla eterna gratitudine del loro paese. Il Governo gli aveva
fino allora considerati come parte della sua forza. Pochi deʼ loro
più operosi e tonanti predicatori, corrotti dai favori della Corte,
avevano formato indirizzi ad approvare la politica del Re. Altri
irritati dalla rimembranza di gravissimi danni recati loro dalla Chiesa
Anglicana e dalla Casa Stuarda, avevano veduto con crudele diletto il
Principe tiranno dalla tiranna gerarchia per fiera nimistà separarsi;
ed entrambi affaccendarsi a cercare, per nuocersi a vicenda, soccorso
presso le sètte dianzi perseguite e spregiate. Ma cotesto sentimento,
comunque fosse naturale, era stato lungamente appagato; ed era giunto
il tempo in cui era necessario eleggere: e i Non–Conformisti della
città, con insigne generosità dʼanimo, si collegarono coi membri
della Chiesa a difendere le leggi fondamentali del Regno. Baxter,
Bates e Howe si resero notevoli per gli sforzi fatti a formare tal
colleganza: ma il generoso entusiasmo che animava la intera classe deʼ
Puritani rese agevole il negozio. Lo zelo del gregge vinse quello deʼ
pastori. A quei predicatori Puritani e Indipendenti, che si mostravano
inchinevoli a secondare il Re contro lʼordinamento ecclesiastico,
fu chiaramente detto, che ove non cangiassero condotta, le loro
congregazioni non li avrebbero mai più ascoltati nè pagati. Alsop, che
sʼera illuso di potere fraʼ suoi discepoli acquistare al Re un gran
numero di partigiani, sʼaccòrse dʼessere spregiato ed abborrito da
coloro che dianzi gli prestavano riverenza come a guida spirituale;
cadde in profonda malinconia, e si sottrasse agli occhi del pubblico.
Giungevano deputazioni a vari membri del clero, supplicandoli a non
volere giudicare di tutti i Dissenzienti dalle abbiette adulazioni onde
di recente andava ripiena la Gazzetta di Londra, ed esortandoli—poichè
erano posti alla vanguardia di questa grande battaglia—a mostrarsi
imperterriti per difendere le libertà dellʼInghilterra e la fede data
in custodia ai Santi. Coteste assicurazioni furono accolte con gioia
e gratitudine. Esisteva, nondimeno, molta ansietà e discordanza di
opinioni fra coloro ai quali apparteneva deliberare se la domenica del
dì 20 si dovesse o non si dovesse obbedire al comando del Re.

XLI. Il clero di Londra, allora universalmente reputato come il fiore
del ceto ecclesiastico, tenne una ragunanza, alla quale intervennero
quindici Dottori in Divinità. Tillotson Decano di Canterbury, il più
celebre predicatore di quel tempo, si mosse dal letto dove giaceva
infermo. Sherlock Maestro del Tempio, Patrick Decano di Peterborough
e Rettore della insigne parrocchia di San Paolo in Convento–Garden, e
Stillingfleet Arcidiacono di Londra e Decano della Cattedrale di San
Paolo vi assistevano. Lʼopinione generale dellʼAssemblea, a quanto
sembra, era quella di doversi obbedire allʼOrdinanza in Consiglio. La
disputa cominciava a divenire procellosa, e avrebbe potuto produrre
conseguenze fatali, se non vi avesse posto fine con la sua fermezza
e col suo senno il Dottore Eduardo Fowler, Vicario di San Gilles in
Cripplegate, uno del piccolo ma cospicuo numero degli ecclesiastici i
quali accoppiavano lo amore della libertà civile, proprio della scuola
di Calvino, con le dottrine teologiche della scuola di Arminio.[359]
Fowler dunque, levandosi, favellò in questa guisa: «Bisogna chʼio
parli chiaro. La questione è così semplice che il ragionare a lungo
non potrà chiarirla, bensì riscaldare i cervelli. Ciascuno dica un Sì
o un No. Io non mʼintendo vincolato dal voto della maggioranza. Mi
rincrescerebbe di rompere lʼunità. Ma in coscienza non posso leggere
questa Dichiarazione.» Tillotson, Patrick, Sherlock e Stillingfleet
dichiararono dʼessere della medesima opinione. La maggioranza cede
allʼautorità dʼuna minoranza cotanto rispettabile. Fu quindi posta
in iscritto una deliberazione per la quale tutti glʼintervenuti
allʼadunanza vincolavansi fra loro a non leggere la Dichiarazione.
Patrick fu il primo ad apporvi il proprio nome; Fowler firmò dopo
lui. Il documento fu mandato in giro per tutta la città, e fu tosto
sottoscritto da ottantacinque beneficiarii.[360]

Intanto vari Vescovi stavansi ansiosamente a meditare intorno al
partito da abbracciarsi. Il dì 12 di maggio, una grave e dotta comitiva
sedeva a mensa in casa del Primate a Lambeth. Compton Vescovo di
Londra, Turner Vescovo dʼEly, White Vescovo di Peterborough, e Tenison
Rettore della Parrocchia di San Martino erano fra gli ospiti. Il
Conte di Clarendon, incrollabile zelatore della Chiesa, vʼera stato
invitato. Cartwright Vescovo di Chester vi sʼera intruso, probabilmente
per ispiare la ragunanza; e finchè vi rimase, non vi fu conversazione
confidenziale: ma appena partitosi; venne proposta e discussa la grande
quistione che agitava le menti di tutti, ed opinarono generalmente che
la Dichiarazione non si dovesse leggere. Lettere furono tosto spedite
a vari deʼ più spettabili prelati della provincia di Canterbury,
sollecitandoli a recarsi senza il minimo indugio a Londra onde
spalleggiare il loro metropolitano in un caso così importante.[361] E
non dubitandosi punto, che, ove tali lettere si mettessero allʼufficio
postale in Lombard–Street, verrebbero intercettate, spedironsi corrieri
a cavallo per deporle agli uffici postali delle più vicine città di
provincia. Il Vescovo di Winchester, il quale aveva dato segnalate
prove della sua lealtà in Sedgemoor, comecchè fosse infermo, volle
ubbidire alla chiamata, ma non ebbe forze bastevoli a soffrire il
moto della carrozza. La lettera diretta a Guglielmo Lloyd Vescovo
di Norwich, non ostanti tutte le cautele prese, fu trattenuta dal
postiere; e cotesto prelato, che non era secondo a nessuno deʼ suoi
confratelli per coraggio e zelo della causa comune al clero, non
giunse in Londra a tempo.[362] Il Vescovo di Santo Asaph, che, come il
precedente, aveva nome Guglielmo Lloyd, uomo pio, dotto ed onesto, ma
di poca mente, mezzo ammattito dallʼostinatezza di volere pescare nelle
Profezie di Daniele e nellʼApocalisse non so quali schiarimenti intorno
al Papa e al Re di Francia, arrivò frettolosamente alla Metropoli il dì
16.[363] Nel giorno seguente vi giunse lo egregio Ken Vescovo di Bath
e Wells, Lake Vescovo di Chichester, e Sir Giovanni Trelawney Vescovo
di Bristol, baronetto discendente da antica ed onorevole famiglia di
Cornwall.

XLII. Il dì 18 ebbe luogo in Lambeth unʼadunanza di prelati e di
altri eminenti teologi. Tillotson, Tenison, Stillingfleet, Patrick e
Sherlock erano presenti. Dopo lungo discutere, lo Arcivescovo scrisse
di propria mano una petizione che esprimeva il generale intendimento
dellʼassemblea. Non era scritta con istile molto felice, sì che la
sintassi impacciata ed inelegante destò alquanto dileggio contro
Sancroft, il quale lo sostenne con meno pazienza di quella onde egli
fece prova in circostanze assai più ardue. Ma nella sostanza nulla
potrebbe essere formato con più magistero di cotesto memorando
documento. Protestavano caldamente contro ogni taccia di slealtà ed
intolleranza. Assicuravano il Re che la Chiesa era tuttavia, come
era sempre stata, fedele al trono; assicuravano che i Vescovi, a
tempo e a luogo, come Lordi del Parlamento e membri della Alta Camera
di Convocazione, mostrerebbero di sapere compatire gli scrupoli di
coscienza neʼ Dissenzienti. Ma il Parlamento, sì sotto il regno
passato che sotto il presente, aveva decretato, il Sovrano non essere
costituzionalmente competente a dispensare dagli statuti in materie
ecclesiastiche. La Dichiarazione quindi era illegale; e i supplicanti
non potevano, per prudenza, coscienza, ed onore partecipare alla
solenne pubblicazione dʼun Atto illegale nella casa di Dio e fra mezzo
agli uffici divini.

XLIII. Questo documento fu firmato dallʼArcivescovo e da sei deʼ suoi
suffraganei, Lloyd di Santo Asaph, Turner dʼEly, Lake di Chichester,
Ken di Bath e Wells, White di Peterborough, e Trelawney di Bristol.
Il vescovo di Londra, come sospeso dalle sue funzioni, non firmò.
Era la sera di venerdì in sul tardi: e la domenica mattina la
Dichiarazione doveva leggersi nelle chiese di Londra. Era necessario
che la petizione pervenisse senza indugio alle mani del Re. I sei
Vescovi si recarono a Whitehall. LʼArcivescovo, al quale da lungo
tempo era stato inibito lʼaccesso alla Corte, non accompagnò i
colleghi. Lloyd, lasciati i suoi confratelli in casa di Lord Dartmouth
chʼera presso al palazzo, sʼappresentò a Sunderland, pregandolo
di leggere la petizione, e di dirgli quando al Re piacerebbe di
riceverla. Sunderland, temendo di compromettersi, rifiutò di leggere
lo scritto, ma si condusse subitamente alle regie stanze. Giacomo
ordinò di far passare i vescovi. Gli era stato riferito dal suo
cagnotto Cartwright, che essi erano inchinevoli ad ubbidire al regio
mandato, ma che desideravano si facesse qualche lieve modificazione
nella forma, al qual fine intendevano presentare una umilissima
dimanda. Per lo che la Maestà Sua era di buonissimo umore. Come gli
si furono inginocchiati dinanzi, disse cortesemente si alzassero, e
prese lo scritto dalle mani di Lloyd, dicendo: «Questa è scrittura
di Monsignore di Canterbury.»—«Sì, o Sire, scritta di sua propria
mano,» gli, fu risposto. Giacomo lesse la petizione; la ripiegò; e
turbossi nello aspetto dicendo: «Ciò mi sorprende grandemente. Non me
lo sarei mai aspettato dalla vostra Chiesa, e segnatamente da alcuni
di voi. Questo importa inalzare il vessillo della ribellione.» I
vescovi si misero a protestare fervidamente della loro lealtà: ma il
Re, come era suo costume, non cessava di ripetere le medesime parole:
«Vi dico che è inalzare il vessillo della ribellione.»—«Ribellione!»
esclamò Trelawney cadendo sulle sue ginocchia; «Per lo amore di Dio, o
Sire, non ci dite parole così dure. Nessuno deʼ Trelawney può essere
un ribelle. Vi ricordi che la mia famiglia ha combattuto in difesa
della Corona. Vi rimembri deʼ servigi chʼio vi resi quando Monmouth
aveva invaso le Contrade Occidentali.»—«Siamo noi che abbiamo spenta
lʼultima ribellione,» disse Lake «e non ne susciteremo unʼaltra.»—«Noi
ribelli!» esclamò Turner, «noi siamo pronti a morire ai piedi di Vostra
Maestà.»—«Sire,» disse Ken con tono più fermo, «spero che ci vogliate
concedere quella libertà di coscienza che voi accordate a tutto il
genere umano.» E nulladimeno Giacomo seguitava: «Questa è ribellione.
Questo importa inalzare il vessillo della ribellione. Fu ella mai
posta in dubbio, prima dʼoggi, da un buono Anglicano la potestà di
dispensare? Alcuni di voi non hanno eglino predicato e scritto a
difenderla? È pretta ribellione. Voglio che la mia Dichiarazione sia
letta.»—«Noi abbiamo due doveri da compiere,» rispose Ken, «il nostro
dovere verso Dio, e il nostro dovere verso Vostra Maestà. Voi onoriamo:
ma temiamo Dio.»—«Merito io questo?» gridò il Re viemaggiormente
incollerito. «Io che sono stato tanto amico della vostra Chiesa! Non
mi aspettava tanto da alcuni di voi. Io voglio essere ubbidito. La mia
Dichiarazione deve essere pubblicata. Voi siete trombe di sedizione.
Che fate voi qui? Andate alle vostre diocesi, e fate che io sia
ubbidito. Terrò questo scritto; non lo perderò mai, e mi ricorderò
sempre che voi lo avete firmato.»—«Sia fatta la volontà di Dio,»
disse Ken.—«Dio mi ha data la potestà di dispensare,» disse il Re,
«ed io saprò mantenerla. Vi dico che vi sono settemila credenti della
vostra Chiesa, i quali non hanno piegato il ginocchio dinanzi a
Baal.» I vescovi rispettosamente partironsi.[364] Quella stessa sera
il documento da loro presentato al Re, si vide messo a stampa, parola
per parola; trovavasi in tutte le botteghe da caffè, e si vendeva
per le strade. In ogni parte la gente si alzava da letto e fermava i
rivenditori. Si disse che lo stampatore in poche ore guadagnasse mille
lire sterline vendendo questo scritto a un soldo. Ciò forse è una
esagerazione: ma tuttavia prova che la vendita fu enorme. In che guisa
la petizione pervenisse allo stampatore è tuttora un mistero. Sancroft
dichiarò dʼavere prese tutte le cautele perchè non fosse pubblicata,
e di non conoscerne altra copia, tranne quella scritta di sua mano, e
da Lloyd posta nelle mani del Re. La veracità dello Arcivescovo non
ammette il minimo sospetto. Pure non è punto improbabile che alcuni
deʼ teologi, i quali aiutarono a compilare la petizione, possano
averla tenuta a mente e mandata allo stampatore. Nondimeno comunemente
credevasi che qualche famigliare del Re fosse stato indiscreto o
traditore.[365] Poco minore fu la impressione che fece nel popolo una
breve lettera, scritta con gran vigoria di raziocinio e di stile,
stampata alla macchia, e profusamente sparsa il dì medesimo per la
posta e per mezzo deʼ procacci. Ne fu mandata copia ad ogni chierico
del Regno. Lo scrittore non istudiavasi di dissimulare il pericolo
che correrebbero i disubbidienti al regio mandato; ma dimostrava
vivamente come era maggiore il pericolo di cedere. «Se leggiamo la
Dichiarazione,» diceva egli, «cadiamo per non rialzarci mai più;
cadiamo incompianti e spregiati; cadiamo fra le maledizioni dʼun popolo
che sarà rovinato dalla nostra debolezza.» Taluni credevano che questa
lettera fosse venuta dalla Olanda. Altri lʼattribuirono a Sherlock. Ma
Prideaux, Decano di Norwich, il quale fu principale agente a spargerla,
la credè lavoro di Halifax.

La condotta deʼ prelati fu universalmente e immensamente applaudita:
ma taluni mormoravano dicendo che uomini sì gravi, se reputavansi
obbligati in coscienza a fare al Re una rimostranza, dovevano farla
assai prima. Era egli bene lasciarlo nel buio fino a trentasei
ore avanti il tempo stabilito per la lettura della Dichiarazione?
Quandʼanche volesse revocare lʼordinanza in Consiglio, non era egli
troppo tardi? Così sembravano concludere che la petizione aveva lo
scopo, non di muovere il Re, ma dʼinfiammare gli umori del popolo.[366]
Tali doglianze erano affatto prive di fondamento. Lʼordine del Re era
giunto ai vescovi nuovo, inaspettato, impacciante. Era debito loro
consultarsi vicendevolmente, ed indagare, per quanto fosse possibile,
lʼopinione del clero innanzi di appigliarsi ad un partito. Il clero era
sparso per tutto il reame. Alcuni distavano gli uni dagli altri una
settimana di cammino. Giacomo concedeva loro solo quindici giorni ad
informarsi, riunirsi, discutere e decidere; e però non aveva diritto
a credersi leso per essere presso a finire i quindici giorni innanzi
chʼegli conoscesse la loro deliberazione. E non è vero chʼessi non gli
dessero tempo bastevole a revocare lʼOrdinanza qualora avesse avuto la
prudenza di farlo. Avrebbe potuto convocare il Consiglio nel sabato
mattina, e innanzi che fosse notte, si sarebbe saputo per tutta Londra
e peʼ suburbii, chʼegli aveva ceduto alle preghiere deʼ padri della
Chiesa Anglicana. Nonostante, il sabato scorse senza che il Governo
mostrasse segno di cedere, e giunse la domenica, giorno lungamente
memorabile.

XLIV. Nella città e nel circondario di Londra erano circa cento
chiese parrocchiali. Solo in quattro fu eseguito lʼordine del Re. In
San Gregorio la Dichiarazione fu letta da un ecclesiastico chiamato
Martin. Appena egli ebbe profferite le prime parole tutti gli astanti
alzaronsi ed uscirono. In San Matteo in Friday–Street uno sciagurato
che aveva nome Timoteo Hall, e che aveva disonorato lʼabito sacerdotale
facendo da sensale alla Duchessa di Portsmouth nella vendita delle
grazie, e adesso nutriva speranza dʼottenere il vescovato dʼOxford, fu
similmente lasciato solo in chiesa. In Serjeantʼs Inn in Chancery–Lane,
il chierico disse di avere dimenticato a casa lo scritto; e al Capo
Giudice del Banco del Re, il quale vi sʼera condotto per vedere se si
obbedisse al regio mandato, fu forza contentarsi di siffatta scusa.
Samuele Wesley, padre di Giovanni e di Carlo Wesley, e Curato in una
chiesa di Londra, predicando in quel giorno, prese a testo lʼanimosa
risposta fatta dai tre Ebrei al tiranno Caldeo: «Sappi, o Re, che
noi non serviremo ai tuoi Dii, nè adoreremo la immagine dʼoro da
te inalzata.» Perfino nella cappella del Palazzo di San Giacomo il
ministro che officiava ebbe il coraggio di non ubbidire al comando
regio. I giovani di Westminster lungo tempo rammentaronsi della scena
che seguì quel giorno nellʼAbbadia. Vi officiava, come Decano, Sprat
vescovo di Rochester. Appena cominciò a leggere la Dichiarazione, la
sua voce fu soffocata dalle mormorazioni e dal rumore della gente
che usciva in folla dal coro. Egli fu preso da sì forte tremito che
mal poteva tenere in mano lo scritto. Assai prima chʼegli finisse di
leggere, il luogo era abbandonato da tutti, fuorchè da coloro che la
propria condizione costringeva a rimanervi.[367]

La Chiesa non era mai stata tanto cara alla nazione quanto nel
pomeriggio di quel giorno. Ogni dissenso pareva sparito. Baxter dal
pergamo fece lo elogio deʼ vescovi e del clero parrocchiale. Il
Ministro Olandese, poche ore dopo, scrisse agli Stati Generali, che
il Clero Anglicano si era acquistata la pubblica stima tanto da non
credersi. Diceva che i Non–Conformisti con grido unanime asserivano
amar meglio rimanere sotto gli Statuti penali che separare la causa
loro da quella deʼ prelati.[368]

Scorsa unʼaltra settimana dʼansietà e dʼagitazione, giunse la domenica.
Nuovamente le chiese della Metropoli erano affollate di migliaia e
migliaia di persone. La Dichiarazione non fu letta in nessuno altro
luogo che in quelle poche chiese dove era stata letta la precedente
settimana. Il ministro, che aveva officiato nella cappella del Palazzo
di San Giacomo, era stato destituito, e in vece sua un ecclesiastico
più ossequioso comparve con lo scritto in mano; ma era tanto commosso
che non potè profferire parola. E veramente lʼopinione pubblica si
era manifestata in guisa che nessuno, tranne il migliore e più
nobile, o il peggiore e più vile degli uomini, poteva senza scomporsi,
affrontarla.[369]

XLV. Il Re stesso per un momento rimase attonito dinanzi alla violenta
tempesta da lui suscitata. Che farebbe egli adesso? Andare avanti, o
retrocedere: ed era impossibile procedere senza pericolo e tornare
indietro senza umiliazione. Ebbe allora il pensiero di emanare
una seconda Ordinanza per ingiungere al clero con parole dʼira e
dʼalterigia di pubblicare la Dichiarazione, minacciando a un tempo
che chiunque si mostrasse disubbidiente verrebbe subitamente sospeso.
LʼOrdinanza fu scritta e mandata al tipografo, poi fu ritirata; poi
rimandata di nuovo alla stamperia, e di nuovo ritirata.[370] Coloro i
quali volevano si adoperassero mezzi rigorosi, consigliavano un diverso
provvedimento: citare, cioè, dinanzi alla Commissione Ecclesiastica
i prelati che avevano firmata la petizione, e deporli dalle loro
sedi. Ma contro questo partito sorsero forti obiezioni in Consiglio.
Era stato annunziato che le Camere verrebbero convocate innanzi la
fine dellʼanno. I Lordi considererebbero come nulla la sentenza di
deposizione contro i vescovi, insisterebbero che Sancroft e i suoi
colleghi fossero ammessi ai loro seggi nel Parlamento, e ricuserebbero
di riconoscere un nuovo Arcivescovo di Canterbury o un nuovo Vescovo
di Bath e Wells. In tal modo, la sessione, la quale pareva dovere
essere per sè stessa bastevolmente procellosa, incomincerebbe con una
mortale contesa tra la Corona e i Pari. Se quindi reputavasi necessario
punire i vescovi, ciò doveva farsi secondo lʼusanza delle Leggi
Inglesi. Sunderland fin da principio si era opposto, per quanto gli fu
possibile, alla Ordinanza in Consiglio. Adesso suggerì di prendere una
via, la quale se non era scevra dʼinconvenienti, era la più prudente
e la più dignitosa che fra tanti sbagli rimanesse aperta al Governo.
Il Re con grazia e dignità annunzierebbe al mondo essere profondamente
dolente della indebita condotta della Chiesa Anglicana, ma non potere
porre in oblio tutti i servigi resi da quella, in perigliosi tempi, al
padre, al fratello ed a sè; non volere egli, come fautore della libertà
di coscienza, trattare rigorosamente uomini ai quali la coscienza,
comecchè mal consigliata e piena dʼirragionevoli scrupoli, non
consentiva dʼubbidire ai suoi comandi; per la qual cosa abbandonerebbe
i colpevoli a quella pena che loro infliggerebbe il rimorso, quando,
meditando pacatamente sulle azioni proprie, le raffrontassero con
quelle dottrine di lealtà, delle quali menavano sì gran vanto. Non solo
Powis e Bellasyse, i quali avevano sempre consigliato moderazione,
ma anco Dover ed Arundell inchinavano alla proposta di Sunderland.
Jeffreys, dallʼaltro canto, sosteneva che il Governo sarebbe disonorato
ove siffatti trasgressori, quali erano i sette vescovi, si punissero
con una semplice riprensione. Nondimeno ei non desiderava che venissero
citati dinanzi la Commissione Ecclesiastica, della quale egli era capo,
o per dir meglio, solo Giudice: imperocchè il peso dellʼodio pubblico
che già lo premeva, era troppo anco per la sua svergognata fronte e il
suo cuore indurato; e rifuggiva dalla responsabilità in cui sarebbe
incorso pronunziando una sentenza illegale contro i governanti della
Chiesa amati tanto dalla nazione. E però propose di perseguitarli
criminalmente.

XLVI. Fu quindi determinato che lo Arcivescovo e gli altri sei che
avevano firmata la petizione, fossero tradotti dinanzi la Corte del
Banco del Re, come autori di un libello sedizioso. Non era da dubitarsi
che verrebbero dichiarati rei. I giudici e gli ufficiali loro erano
cagnotti della Corte. Dal dì in cui la Città di Londra era stata
privata dello Statuto Municipale, nè anche uno di coloro i quali il
Governo aveva voluto punire, era stato assoluto daʼ Giurati. I prelati
disubbidienti sarebbero probabilmente condannati a rovinose multe ed
a lunga prigionia, e si reputerebbero bene avventurati di potersi
redimere, secondando, e dentro e fuori il Parlamento, i disegni del
sovrano.[371]

Il dì 27 maggio fu intimato ai Vescovi di appresentarsi pel giorno
ottavo di giugno dinanzi il Consiglio del Re. Non sappiamo perchè fosse
loro dato sì lungo periodo di tempo. Forse Giacomo sperava che alcuni
deʼ colpevoli, paventando la sua collera, cedessero pria che giungesse
il giorno stabilito a leggere la Dichiarazione nelle loro diocesi, e a
fine di pacificarsi secolui, persuadessero il loro clero ad obbedire al
regio decreto. Se tale era la sua speranza, egli sperò invano. Giunta
la domenica del 3 giugno, in tutta Inghilterra fu seguito lo esempio
della Metropoli. Già i Vescovi di Norwich, Gloucester, Salisbury,
Winchester, ed Exeter, avevano, in pegno dellʼapprovazione loro,
firmate alcune copie della petizione. Il Vescovo di Worchester aveva
rifiutato di distribuire la Dichiarazione fra il suo clero. Il Vescovo
di Hereford lʼaveva distribuita; ma comunemente credevasi che egli, per
avere ciò fatto, fosse straziato dal rimorso e dalla vergogna. Neppure
un solo prete di parrocchia fra cinquanta ubbidì alla Ordinanza in
Consiglio. Nella grande diocesi di Chester, la quale comprendeva la
Contea di Lancastro, Cartwright non potè persuadere altri che tre soli
ecclesiastici ad obbedire al Re. Nella diocesi di Norwich sono molte
centinaia di parrocchie, e non pertanto in sole quattro fu letta la
Dichiarazione. Il cortigiano Vescovo di Rochester non potè vincere gli
scrupoli del cappellano di Chatam, il cui pane dipendeva dal Governo.
Esiste tuttora una commovente lettera che questo buon sacerdote scrisse
al Segretario dello Ammiragliato. «Io non posso» diceva egli «sperare
la protezione di Vostra Eccellenza. Sia fatta la volontà di Dio. Io
scelgo i patimenti più presto che il peccato.»[372]

XLVII. La sera dellʼ8 giugno i sette prelati, provvedutisi
dellʼassistenza deʼ più illustri giureconsulti dʼInghilterra, si
condussero a palazzo, e furono introdotti nella camera del Consiglio.
La loro petizione era sulla tavola. Il Cancelliere la prese in mano,
e mostrandola allo Arcivescovo disse: «È questa la carta scritta da
Vostra Eccellenza Reverendissima, e presentata a Sua Maestà daʼ sei
Vescovi qui presenti?» Sancroft guardò il foglio, e volgendosi al Re
favellò in questa guisa: «Sire, io mi sto in questo luogo in sembianza
di colpevole; io non lo era mai stato per lo innanzi, e non credevo
mai che un giorno lo sarei. Meno anco avrei potuto credere che fossi
accusato dʼoffesa contro il mio Re: ma se ho la sventura di trovarmi
in questa condizione, prego Vostra Maestà di non offendersi, se mi
valgo del mio legittimo diritto, ricusando di dire cosa che mi possa
rendere reo.»—«Cotesti sono pretti cavilli,» disse il Re. «Spero che
Vostra Eccellenza non osi negare la propria scrittura.»—«Sire,» disse
Lloyd che aveva molto studiato i casisti, «tutti i teologi concordano
ad asserire che un uomo in situazione pari alla nostra può ricusare di
rispondere ad una simile domanda.» Il Re, che era tardo di mente quanto
corrivo a riscaldarsi il sangue, non intese le parole del prelato;
ed insisteva e andava viepiù montando in collera. «Sire,» disse lo
Arcivescovo, «io non sono tenuto ad accusare me stesso. Nondimeno se
Vostra Maestà positivamente mi comanda di rispondere, obbedirò con la
fiducia che un principe giusto e generoso non permetta che ciò chʼio
dico per ubbidire agli ordini suoi, sia considerato come argomento ad
incriminarmi.»—«Voi non dovete venire a patti col vostro Sovrano,»
disse il Cancelliere. «No,» esclamò il Re. «Io non vi comando questo.
Se a voi parrà di negare la vostra scrittura, non ho più nulla a dire.»

I Vescovi furono più volte fatti uscire dalla sala, e più volte
richiamati. Alla perfine, Giacomo positivamente comandò loro di
rispondere alla domanda. Non promise espressamente che la confessione
non verrebbe considerata come argomento contro di loro. Ma essi non
senza ragione supponevano che dopo la protesta fatta dallo Arcivescovo
e la risposta data dal Re, un tale impegno fosse sottinteso nel suo
comando. Sancroft riconobbe per suo lo scritto, e i suoi confratelli
ne seguirono lo esempio. Allora furono interrogati intorno alla
significanza dʼalcune parole della petizione, e intorno alla lettera
che era andata in giro con tanto effetto per tutto il Regno: ma le loro
parole furono così circospette, che il Consiglio non potè ricavare
nulla dallo esame. Il Cancelliere quindi annunziò loro che verrebbe
fatto contro essi un processo criminale nella Corte del Banco del Re,
e intimò che sottoscrivessero lʼobbligo di presentarsi. Ricusarono
allegando il privilegio della Paria: imperocchè i migliori giuristi di
Westminster Hall avevano assicurato loro che nessun Pari poteva esser
costretto a firmare il predetto obbligo per accusa di libello; ed essi
non reputavansi in diritto di rinunciare al privilegio dellʼordine
loro. Il Re fu tanto stolto da stimarsi personalmente offeso, perchè,
in una questione legale, si richiamavano al parere deʼ dottori della
legge. «Voi prestate fede a chiunque, fuori che a me,» disse egli. E
davvero sentivasi mortificato e trepidava come quegli che sʼera spinto
tanto oltre, che, persistendo essi, a lui non rimaneva altro partito
che gettarli in carcere; e quantunque non prevedesse punto tutte le
conseguenze di un tale passo, forse le prevedeva tanto da esserne
perturbato. I Vescovi rimasero fermissimi nel loro proposto. Fu quindi
spedito un mandato al Luogotenente della Torre per tenerli in custodia,
ed apparecchiata una barca a trasportarveli pel fiume.[373]

XLVIII. Sapevasi in tutta Londra che i Vescovi erano dinanzi al
Consiglio. La pubblica ansietà era infinita. Una grande moltitudine
sʼaccalcava nei cortili di Whitehall e nelle vie circostanti. Molti
avevano costume di recarsi sulle rive del Tamigi a godervi il fresco
nelle sere estive. Ma in cotesta sera tuttoquanto il fiume era coperto
di barche. Come i sette Vescovi comparvero circondati dalle guardie,
lʼemozione del popolo ruppe ogni freno. La gente a migliaia cadde
inginocchioni pregando ad alta voce per coloro, i quali, animati
dal coraggio di Ridley e di Latimer, avevano affrontato il tiranno
reso insano di tutta la bacchettoneria di Maria la Bevisangue. Molti
gettaronsi nelle acque fino al petto, implorando dai Padri Santi
la benedizione. Per tutto il fiume, da Whitehall fino al Ponte di
Londra, la barca regia passò fra mezzo a due file di gondole, dalle
quali moveva unanime il grido: «Dio benedica alle Vostre Eccellenze
Reverendissime.» Il Re grandemente impaurito, comandò che si
raddoppiasse il presidio della Torre, che le Guardie si tenessero
pronte a combattere, e che si staccassero due compagnie da ogni
reggimento nel Regno, e si dirigessero subito a Londra. Ma le milizie
chʼegli reputava mezzo precipuo a coartare il popolo, partecipavano al
sentire del popolo. Le stesse sentinelle che facevano la guardia alla
Porta deʼ Traditori, chiedevano la benedizione ai martiri affidati alla
loro custodia. Sir Eduardo Hales, Luogotenente della Torre, era poco
propenso a usare cortesia aʼ suoi prigionieri: perocchè aveva rinnegata
la Chiesa per la quale essi tanto pativano, ed occupava vari uffici
lucrosi per virtù di quella potestà di dispensare, contro la quale essi
avevano protestato. Arse di sdegno allorchè seppe che i suoi soldati
bevevano alla salute deʼ Vescovi, e ordinò agli ufficiali provvedessero
che lo scandalo non fosse ripetuto. Ma gli ufficiali riferirono non
esservi modo a impedire la cosa, e che il presidio non voleva bere
alla salute di nessun altro. Nè solo con siffatti festeggiamenti i
soldati mostravano riverenza ai padri della Chiesa. Si videro entro
la Torre tali segni di divozione, che i pii sacerdoti ringraziavano
Dio di avere fatto nascere il bene dal male, e reso la persecuzione
deʼ suoi servi fedeli mezzo di salvazione a molte anime. Per tutto il
giorno i cocchi e le livree deʼ primi nobili dellʼInghilterra vedevansi
attorno alle porte della prigione. Migliaia di spettatori coprivano
di continuo Tower–Hill.[374] Ma fra le testimonianze della pubblica
riverenza e simpatia che i prelati ricevevano, ve ne fu una la quale,
sopra tutte, recò sdegno e paura al Re. Egli seppe che una deputazione
di dieci ministri Non–Conformisti erasi recata alla Torre. Ne fece
venire quattro dinanzi al suo cospetto, ed aspramente rimproverolli.
Costoro animosamente risposero come essi reputavano debito loro porre
in oblio i passati litigi, e collegarsi con gli uomini che difendevano
la Religione Protestante.[375]

XLIX. Le porte della Torre sʼerano appena chiuse dietro aʼ prigioni,
allorquando sopraggiunse un fatto ad accrescere il pubblico
concitamento. Era stato annunziato che la Regina non avrebbe partorito
avanti il mese di Luglio. Ma il dì dopo che i Vescovi sʼerano
presentati dinanzi al Consiglio, eʼ fu notato come il Re fosse inquieto
per lei. La sera, non pertanto, ella giuocò a carte in Whitehall fin
presso la mezzanotte. Poi fu menata in portantina al Palazzo di San
Giacomo, dove le era stato in fretta apparecchiato un appartamento a
riceverla. Allora si videro vari messi correre qua e colà in cerca di
medici, di preti, di Lordi del Consiglio, di dame di Corte. In poche
ore molti pubblici ufficiali e signore dʼalto grado si raccolsero
nella camera della Regina. Ivi la domenica mattina del dì 10 di
giugno, giorno per lungo tempo celebrato come sacro dai troppo fedeli
partigiani dʼuna malvagia causa, nacque il più sventurato deʼ principi,
destinato a settanta anni di vita esule e raminga, di vani disegni, di
onori più amari deglʼinsulti, e di speranze che fanno sanguinare il
cuore.

Le calamità della povera creatura cominciarono innanzi la sua
nascita. La nazione sopra la quale, secondo il corso ordinario della
successione, egli doveva regnare, era profondamente persuasa che la
Regina non fosse gravida. Per quanto fossero evidenti le prove della
verità del parto, un numero considerevole di persone si sarebbe forse
ostinato a sostenere che i Gesuiti avessero destramente fatto un giuoco
di mano: e le prove, parte per caso, parte per grave imprudenza,
sottostavano a non poche obiezioni. Molti dʼambo i sessi trovavansi
dentro la camera della puerpera nel momento che nacque il bambino, ma
nessuno di loro godeva largamente la pubblica fiducia. Deʼ Consiglieri
Privati, ivi presenti, mezzi erano Cattolici Romani; e coloro che
chiamavansi Protestanti venivano comunemente reputati traditori della
patria e di Dio. Molte delle cameriste erano Francesi, Italiane e
Portoghesi. Delle dame inglesi alcune erano Papiste ed altre mogli di
Papisti. Taluni che avevano diritto speciale ad essere presenti, e la
cui testimonianza avrebbe satisfatto a tutti glʼintelletti accessibili
alla ragione, erano assenti; e di ciò il Re fu tenuto responsabile.
Tra tutti gli abitatori della isola, la Principessa Anna era colei
che avesse maggiore interesse nella cosa. Il sesso e la esperienza la
rendevano adatta a proteggere il diritto ereditario della sua sorella
e suo proprio. Le si era nellʼanima fortemente insinuato il sospetto
che veniva confermato da circostanze frivole o immaginarie. Credeva che
la Regina con grande studio fuggisse la vigilanza della cognata, ed
attribuiva a colpa una riserva che forse nasceva da delicatezza.[376]
Incitata da tali sospetti, Anna aveva deliberato di trovarsi presente
e vigilare quando sarebbe giunto il gran giorno. Ma non aveva estimato
necessario trovarsi al suo posto un mese innanzi, e come si disse,
seguendo il consiglio del padre, era andata a bere le acque di Bath.
Sancroft, che pel suo eminente ufficio era in debito di trovarsi
presente, e nella cui probità la nazione aveva piena fiducia, poche ore
prima era stato rinchiuso da Giacomo dentro la Torre. Gli Hydes erano
protettori naturali deʼ diritti delle due Principesse. Lo Ambasciatore
Olandese poteva essere considerato come rappresentante di Guglielmo, il
quale, come primo principe del sangue e marito della figlia maggiore
del Re, aveva sommo interesse a vedere con gli occhi propri ciò che
seguiva. Giacomo non pensò mai di chiamare nessuno, nè maschio nè
femmina, della famiglia Hyde; nè lo Ambasciatore Olandese fu invitato a
trovarsi presente.

I posteri hanno pienamente assoluto il Re della frode imputatagli
dal suo popolo. Ma torna impossibile lo assolverlo di quella insania
e testardaggine che spiegano e scusano lo errore deʼ suoi coetanei.
Conosceva benissimo i sospetti sparsi per tutto il reame;[377] avrebbe
dovuto sapere che non potevano dileguarsi alla sola testimonianza
deʼ membri della Chiesa di Roma, o di tali, che sebbene si facessero
chiamare membri della Chiesa dʼInghilterra, si erano mostrati pronti a
sacrificare gli interessi di quella per ottenere il regio favore. Che
il fatto fosse giunto imprevisto al Re, è innegabile: ma ebbe dodici
ore di tempo a disporre le cose. Non gli fu difficile empire il palazzo
di San Giacomo con una folla di bacchettoni e di parassiti, nella cui
parola la nazione non aveva punto fiducia. Sarebbe stato egualmente
facile invitare alcuni eminenti personaggi, il cui affetto verso le
Principesse e la religione dello Stato non ammetteva dubbio nessuno.

Tempo dopo, allorquando egli aveva già caramente pagato il suo
temerario spregio della pubblica opinione, era usanza in San Germano
escusare lui gettandone sugli altri il biasimo. Alcuni Giacomisti
accusarono Anna di essersi appositamente tenuta da parte. Anzi non
vergognarono dʼaffermare che Sancroft aveva astutamente provocato il
Re per essere imprigionato nella Torre, onde mancasse il suo attestato
che avrebbe dissipate le calunnie deʼ malcontenti.[378] Lʼassurdità
di tali accuse è evidente. Era egli possibile che Anna o Sancroft
prevedessero che la Regina avesse ad ingannarsi dʼun mese neʼ propri
calcoli? Se ella avesse calcolato rettamente, Anna sarebbe ritornata da
Bath, e Sancroft sarebbe uscito dalla Torre per trovarsi al posto loro
pel tempo del parto. In ogni modo gli zii paterni delle figlie del Re
non erano nè lontani nè in carcere. Il messo, il quale recò lo annunzio
a tutto il drappello deʼ rinnegati, Dover, Peterborough, Murray,
Sunderland, e Mulgrave, lo avrebbe con la stessa facilità recato a
Clarendon, il quale, come essi, era membro del Consiglio Privato. La
sua casa in Jermyn Street non distava più di dugento passi dalla camera
della Regina, e nondimeno gli toccò a sapere, dallʼagitarsi e dal
sussurrare della congregazione nella Chiesa di San Giacomo, che la sua
nipote non era più la erede presuntiva della Corona.[379] Non fu egli
chiamato forse perchè era il più prossimo parente delle Principesse
dʼOrange e di Danimarca, o perchè invariabilmente aderiva alla Chiesa
Anglicana?

La nazione diceva con grido unanime che vʼera stato di mezzo una
impostura. I papisti, per parecchi mesi, avevano predetto nelle
prediche e negli scritti loro, in prosa e in verso, in inglese e in
latino, che Dio concederebbe alle preci della Chiesa un Principe di
Galles: e i loro vaticinii oggimai sʼerano avverati. Tutti i testimoni
che non potevano essere ingannati o corrotti, erano stati con sommo
studio esclusi. Anna era stata gabbata mandandola a Bath. Il Primate,
la vigilia del dì stabilito a compiere la scellerata opera, era stato
gettato in carcere in onta ad ogni uso di legge e ai privilegi della
Paria. Non sʼera permesso che vi si trovasse presente nè anche un
solo degli uomini o delle donne, che avessero il più lieve interesse
a smascherare la frode. La Regina era stata, nel cuore della notte e
improvvisamente, condotta al palazzo di San Giacomo, perocchè in quello
edifizio, meno adatto di Whitehall agli onesti comodi, aveva stanze
e aditi bene convenevoli alle intenzioni deʼ Gesuiti. Quivi, fra una
congrega di zelanti, i quali non reputavano delitto nessuna cosa che
tendesse a promuovere glʼinteressi della Chiesa loro, e di cortigiani
che non istimavano criminoso nulla che tendesse ad arricchirli ed
inalzarli, un bambino nato pur allora era stato messo di furto nel
regio talamo, e quindi mostrato in trionfo come lo erede di tre Regni.
Col cervello infiammato da tali sospetti, ingiusti a dir vero, ma non
innaturali, gli uomini affollavansi più che mai a rendere omaggio a
quelle sante vittime del tiranno, il quale, dopo dʼavere per tanto
tempo recato iniquissimi danni al suo popolo, aveva adesso colma la
misura della iniquità sua, mostrandosi proditoriamente ingiusto contro
le proprie creature.[380]

Il Principe dʼOrange, non sospettando di nessuna frode, e ignorando
qual fosse la opinione pubblica in Inghilterra, ordinò che si facessero
in casa sua preghiere pel bene del suo piccolo cognato, e spedì
Zulestein a Londra a congratularsi col suocero. Zulestein maravigliò
udendo tutte le persone nelle quali sʼimbatteva, parlare apertamente
della infame frode praticata dai Gesuiti, e ad ogni istante vedendo
qualche nuova pasquinata intorno alla gravidanza; e al parto. Però
scrisse allʼAja che in dieci uomini nè anche uno solo credeva che il
fanciullo fosse nato dalla Regina.[381]

Infrattanto il contegno dei sette prelati accresceva lo interesse che
il caso loro aveva suscitato. La sera del Venerdì Nero—così il popolo
chiamava il giorno in cui furono arrestati—giunsero al carcere allʼora
del servizio divino. Recaronsi tosto alla cappella. Accadde che nella
seconda lezione fossero queste parole: «In ogni cosa commendandoci,
come ministri di Dio, nella molta pazienza, nelle afflizioni, nella
miseria, nelle percosse, nelle prigionie.» Tutti gli zelanti Anglicani
gioirono della coincidenza, e rammentarono quanta consolazione una
simile coincidenza, quaranta anni innanzi, aveva arrecata a Carlo I, in
punto di morte.

La sera del giorno seguente, chʼera sabato 8 giugno, giunse una lettera
di Sunderland che ordinava al cappellano di leggere la Dichiarazione
pel dì seguente fra mezzo agli uffici divini. E poichè il giorno
stabilito dalla Ordinanza in Consiglio per la lettura da farsi in
Londra, era da lungo tempo spirato, questo nuovo atto del Governo
poteva considerarsi come vilissimo e puerile insulto fatto ai venerandi
prigioni. Il cappellano ricusò dʼobbedire; fu destituito, e la cappella
venne chiusa.[382]

L. I vescovi edificavano tutti quelli che stavano loro dʼintorno,
per la fermezza e la calma con che sostenevano la prigionia, per la
modestia e mansuetudine onde accoglievano gli applausi e le benedizioni
di tutto il paese, e per la lealtà chʼessi mostravano verso il loro
persecutore, il quale agognava a distruggerli. Rimasero in carcere soli
otto giorni. Il venerdì 15 giugno, chʼera il primo giorno dellʼapertura
del giudizio, furono condotti dinanzi al Banco del Re. Immensa folla
di popolo stavasi lì ad aspettarli. Dagli scali del fiume fino alla
Corte gli spettatori erano in lunghe file schierati, colmandoli di
benedizioni o di applausi. «Amici,» dicevano i prigioni passando
«onorate il Re; e ricordatevi di noi nelle vostre preci.» Queste umili
e pie parole commossero gli spettatori fino alle lacrime. Come essi
giunsero al cospetto deʼ Giudici, il Procuratore Generale produsse la
requisitoria, che aveva avuto incarico di preparare, e propose che agli
accusati si desse ordine di favellare. I loro avvocati dallʼaltro canto
obiettavano dicendo che i vescovi erano stati illegalmente rinchiusi in
carcere, e quindi la loro presenza dinanzi la Corte non era regolare.
Fu dibattuta lungamente la questione se un Pari fosse tenuto a
firmare una obbligazione per presentarsi al giudizio, come incolpato
di libello, e fu risoluta dalla maggior parte deʼ giudici a favore
della Corona. I prigionieri allora si dichiararono non colpevoli.
La discussione della causa fu rimessa a quindici giorni, cioè al 29
giugno. Frattanto furono posti in libertà dopo dʼessersi obbligati
a presentarsi pel dì stabilito. I legati della Corona operarono con
prudenza, non richiedendo mallevadorie. Imperciocchè Halifax aveva
ordinate le cose in modo che ventuno Pari secolari fraʼ più cospicui
fossero pronti a prestarsi come mallevadori, tre per ciascuno accusato;
ed una tanta manifestazione di sentimento fraʼ nobili sarebbe stata
di non lieve danno al Governo. Sapevasi ancora che uno deʼ più ricchi
Dissenzienti della città aveva sollecitato lʼonore di dare cauzione per
Ken.

Ai vescovi fu allora concesso di andarsene a casa loro. Il volgo che
non sʼintendeva punto della procedura giudiciaria che aveva avuto
luogo nel Banco del Re, e che aveva veduto i suoi prediletti pastori
condotti sotto stretta guardia a Westminster Hall, ed ora li vedeva
uscirne liberi, immaginò che la buona causa prosperasse, e diede in
uno scoppio dʼapplausi. Le campane sonavano in segno di gioia. Sprat
rimase attonito vedendo il campanile della sua Abbadia fare eco
agli altri, e lo fece subitamente tacere; ma ciò provocò sdegnose
mormorazioni. Ai vescovi riusciva difficile sottrarsi alle importunità
della folla che gli acclamava. Lloyd fu ritenuto nel cortile di Palazzo
dagli ammiratori che si accalcavano dʼintorno a toccargli la mano e
baciargli il lembo della veste, finchè Clarendon non senza difficoltà
lo trasse seco conducendolo a casa per una via traversa. Vuolsi che
Cartwright fosse sì stolto da mischiarsi nella folla. Alcuno che lo
vide in abito episcopale chiese e ricevè la benedizione. Ma un altro
che gli stava accanto, gridò: «Sapete voi chi è colui che vi ha data
la benedizione?»—«Certo chʼio lo so,» rispose il benedetto; «egli
è uno deʼ Sette.»—«No,» riprese lʼaltro, «è il vescovo papista di
Chester.»—«O papista cane,» esclamò rabbiosamente il Protestante,
«ripigliati la tua benedizione.»

Tale era il concorso e tale il concitamento del popolo, che lo
Ambasciatore dʼOlanda rimase meravigliato vedendo finire il giorno
senza lo scoppio dʼuna insurrezione. Il re non era punto tranquillo.
Per trovarsi parato a reprimere ogni commovimento, la mattina aveva
passato in rivista in Hyde–Park vari battaglioni di fanteria. Non
ostante, non è certo che in caso di bisogno le sue truppe gli avrebbero
ubbidito. Quando Sancroft, nel pomeriggio, giunse a Lambeth, trovò i
granatieri, i quali avevano quartiere in quel suburbio, dinanzi alla
porta del suo palazzo. Schierati in fila a destra e a sinistra, gli
chiedevano la benedizione mentre egli passava fra loro. A stento potè
dissuaderli dallo accendere un falò ad onorare il suo ritorno a casa.
Quella sera nondimeno furono molti i fuochi di gioia nella Città. Due
Cattolici Romani che ebbero la indiscretezza di percuotere alcuni
fanciulli intervenuti a cotesti festeggiamenti, furono presi dalla
plebe, la quale strappò loro gli abiti, e ignominiosamente li segnò in
fronte con un ferro infocato.[383]

Sir Eduardo Hales si recò presso i vescovi chiedendo dʼessere
pagato. Essi rifiutarono di pagare cosa alcuna per una detenzione
da essi considerata illegale, ad un officiale la cui commissione,
secondo i principii loro, era nulla. Il Luogotenente accennò con
intelligibilissime parole che ove gli cadessero nuovamente tra le mani,
gli avrebbe messi ai ferri e fatti dormire sulla nuda terra. I vescovi
risposero: «Siamo in disgrazia del Re, e profondamente ce ne rincresce;
ma un suddito che ci minacci, invano perde il flato.» Non è agevole
immaginare quale fosse la indignazione del popolo, allorchè, concitato
come era, seppe che un rinnegato della religione protestante, il quale
teneva un comando in onta alle leggi fondamentali della Inghilterra,
aveva osato minacciare a quegli ecclesiastici, venerandi per età e
dignità, tutte le barbarie della Torre di Lollard.[384]

LI. Innanzi che giungesse il giorno stabilito pel processo,
lʼagitazione erasi sparsa fino alle più remote parti dellʼisola. Dalla
Scozia i vescovi riceverono lettere con le quali i Presbiteriani di
quel paese da tanto tempo e così acremente ostili alla prelatura, gli
assicuravano della loro simpatia.[385] Il popolo di Cornwall, razza
fiera, ardita, atletica, nella quale il sentimento della terra natia
è più forte che in qualunque altra parte del Regno, fu grandemente
commosso dal pericolo di Trelawney, da essi venerato meno come Principe
della Chiesa che come capo dʼuna onorevole casata, ed erede, per venti
generazioni, dʼantenati i quali erano famosi avanti che i Normanni
ponessero piede in Inghilterra. Per tutto il paese il contadiname
cantava una ballata, della quale tuttavia si rammenta lo intercalare
che diceva così: «Dovrà morire Trelawney, dovrà morire Trelawney?
Allora trentamila giovani di Cornwall ne vorranno sapere il perchè.» I
minatori di fondo alle loro cave facevano eco a quel canto con questa
leggiera variante: «Allora ventimila di sotto terra ne vorranno sapere
il perchè.»[386]

I contadini in molte parti di quelle contrade ad alta voce parlavano
dʼuna strana speranza che non sʼera mai spenta neʼ loro cuori. Dicevano
che il Duca Protestante, il loro diletto Monmouth tra breve si
mostrerebbe, li condurrebbe alla vittoria, e calpesterebbe il Re e i
Gesuiti.[387]

I ministri erano costernati. Lo stesso Jeffreys sarebbe volentieri
tornato addietro. Egli incaricò Clarendon dʼun amichevole messaggio
ai vescovi, e diede ad altrui la colpa della persecuzione da lui
consigliata. Sunderland di nuovo rischiossi a provare la necessità di
fare concessioni, dicendo come il fortunato nascimento dello erede del
trono apprestasse al Re il destro di ritirarsi da una posizione piena
di pericoli e dʼinconvenevolezza senza acquistarsi il rimprovero di
timidità o di capriccio. In cosiffatti felici eventi i sovrani avevano
avuto costume di allegrare i sudditi con atti di clemenza, e nulla
poteva tornare di tanta utilità al Principe di Galles, quanto lʼessere,
fino dalle fasce, pacificatore del padre con lʼagitata nazione. Ma
il Re stava più che mai duro. «Anderò avanti,» diceva egli. «Finora
sono stato troppo indulgente; e la indulgenza trasse mio padre alla
rovina.»[388]

LII. Lʼartificioso ministro si accòrse che Giacomo aveva per
innanzi seguito i consigli di lui solamente perchè concordavano
coglʼintendimenti suoi, e che dal momento in cui egli aveva cominciato
a consigliare il bene, lo aveva fatto indarno. Nel processo contro
il Collegio della Maddalena, Sunderland aveva mostrato segni di
lentezza. Sʼera dianzi provato a persuadere il Re che il disegno di
Tyrconnel di confiscare i beni deʼ coloni inglesi in Irlanda era
pieno di pericoli, e col soccorso di Powis e Bellasyse aveva potuto
ottenere che la esecuzione fosse differita ad un altro anno. Ma
cotesta timidità e scrupolosità spiaceva al Re e gli aveva messo in
cuore il sospetto.[389] Il giorno della giustizia era giunto per
Sunderland. Egli trovavasi nelle condizioni in cui sʼera, alcuni
mesi prima, trovato Rochester. Entrambi questi uomini di Stato
provarono lʼangoscia di tenersi dolorosamente aggrappati al potere
che visibilmente fuggiva loro di mano. Entrambi videro i suggerimenti
loro con ischerno rigettati. Entrambi sentirono lʼamarezza di leggere
la collera e la diffidenza nel viso e negli atti del loro signore; e
nondimeno il paese gli chiamò responsabili di queʼ delitti ed errori
dai quali invano sʼerano sforzati a dissuaderlo. Mentre sospettava
chʼessi si studiassero di acquistarsi popolarità a danno dellʼautorità
e dignità loro, la voce pubblica altamente accusavali che volessero
conseguire il regio favore a danno del proprio onore e del bene della
nazione. Nondimeno, malgrado tutte le mortificazioni e le umiliazioni,
ambidue si tennero attaccati allo ufficio con la tenacità dʼun uomo
che stia per annegarsi. Ambidue tentarono di rendersi propizio il Re
simulando il desiderio di entrare nel grembo della sua Chiesa. Ma in
ciò vi fu un limite che Rochester non osò travarcare. Si spinse fino
sullʼorlo dellʼapostasia: ma retrocesse: e il mondo, a contemplazione
della fermezza onde egli ricusò di fare lʼultimo passo, gli perdonò
generosamente tutti i falli anteriori.

LIII. Sunderland, meno scrupoloso e suscettibile di rossore, deliberò
di scontare la sua moderazione e ricuperare la regia confidenza,
con un atto, che ad un cuore che senta la importanza delle verità
religiose, deve sembrare uno deʼ più infami delitti, e che gli stessi
mondani considerano come ultimo eccesso di bassezza. Circa otto
giorni innanzi il dì stabilito pel gran processo, venne pubblicamente
annunziato chʼegli era Papista. Il Re raccontava con gioia questo nuovo
trionfo della grazia divina. I cortigiani e gli ambasciatori facevano
ogni sforzo a non perdere il contegno, mentre il rinnegato asseriva
dʼessere stato convinto da lungo tempo della impossibilità di trovare
salvazione fuori della Chiesa di Roma, e che la sua coscienza non
fu mai tranquilla finchè egli non ebbe rinunciato alle eresie nelle
quali era stato educato. La nuova in breve si sparse. In tutti i Caffè
raccontavasi come il primo Ministro dʼInghilterra, a piedi nudi, e
con torcetto in mano, si fosse presentato alla porta della cappella
regale, e umilmente picchiasse per essere messo dentro; come un prete
di dentro dimandasse chi era egli; come Sunderland rispondesse: un
povero peccatore, che lungo tempo aveva errato lungi dalla vera Chiesa,
supplicare che la lo accogliesse e lo assolvesse; come allora le porte
si aprissero, e il neofito fosse ammesso ai santi misteri.[390]

LIV. Questa scandalosa apostasia altro non fece che accrescere lo
interesse col quale la nazione aspettava il giorno in cui dovevano
decidersi le sorti deʼ sette animosi confessori della Chiesa
Anglicana. Il Re quindi pose ogni cura a mettere insieme un Collegio
di giurati ligi alle sue voglie. I legali della Corona ebbero ordine
di fare rigorosa inquisizione delle opinioni di coloro i cui nomi
erano registrati nel libro deʼ liberi possidenti. Sir Samuele Astry,
Cancelliere della Corona, il quale in simili casi doveva scegliere
i nomi, fu chiamato a palazzo ed ebbe un colloquio con Giacomo alla
presenza del Gran Cancelliere.[391] Eʼ sembra che Sir Samuele facesse
ogni sforzo: imperocchè fra i quarantotto individui da lui nominati,
vʼerano, come si disse, vari servitori del Re e vari Cattolici
Romani.[392] Ma poichè gli avvocati deʼ vescovi avevano diritto di
cassare otto nomi, e servi del Re e Cattolici furono rigettati. I
legali della Corona ne rigettarono altri dodici: in tal guisa la lista
venne ridotta a ventiquattro; e i dodici che risponderebbero i primi
allʼappello nominale dovevano giudicare del fatto.

Il dì 29 giugno Westminster Hall, Old–Place–Yard, e New–Place–Yard, e
tutte le vie circostanti per lungo tratto, erano accalcati di gente.
Simigliante uditorio non fu veduto nè prima nè poi nella Corte del
Banco del Re. Trentacinque Pari secolari del Regno furono contati fra
mezzo alla folla.[393]

Tutti e quattro i giudici della Corte erano ai loro seggi. Wright, il
quale presedeva, era stato inalzato al suo alto ufficio sopra molti
altri uomini di maggiore abilità e dottrina, solo perchè la servilità
sua non conosceva scrupoli. Allybone era Papista, e del suo impiego
andava debitore a quella potestà di dispensare, la cui legalità era
materia alla presente discussione. Holloway fino allora era stato
docile e utile strumento del Governo. Lo stesso Powell che godeva
somma riputazione dʼonestà, aveva partecipato a certi atti che era
impossibile difendere. Nella famosa causa di Sir Eduardo Hales, Powis,
esitando alquanto, a dir vero, e dopo qualche indugio, si era congiunto
alla maggioranza del seggio, e in tal modo aveva impresso al proprio
carattere una macchia che fu pienamente cancellata dalla onorevole
condotta che ei tenne in questo giorno.

La difesa dʼambe le parti non era punto equilibrata. Il Governo aveva
daʼ suoi legali richiesto servigi così odiosi e disonorevoli che
tutti i più esperti giureconsulti del partito Tory avevano, lʼuno
dopo lʼaltro, rifiutato di prestarsi, ed erano stati destituiti daʼ
loro uffici. Sir Tommaso Powis, Procuratore Generale, era appena
di terzo ordine nella sua professione. LʼAvvocato Generale Sir
Guglielmo Williams aveva mente viva e indomito coraggio, ma difettava
di giudizio, amava il bisticciare, non sapeva governare le proprie
passioni, ed era in odio e dispregio a tutti i partiti politici. I
più notevoli assessori dellʼuno e dellʼaltro erano Serjeant Trinder
Cattolico Romano, e Sir Bartolommeo Shower Recorder di Londra, il
quale era alquanto dotto negli studi legali, ma con le sue nauseanti
adulazioni e col perpetuamente ridire il già detto apprestava materia
di dileggio a Westminster Hall. Il Governo voleva assicurarsi i servigi
di Maynard; ma costui dichiarò che in coscienza non poteva fare ciò che
gli si chiedeva.[394]

Dallʼaltra parte si stavano quasi tutti i più illustri ingegni di cui
in quella età il fôro potesse gloriarsi. Sawyer e Finch, i quali,
quando Giacomo ascese al trono, erano Procuratore ed Avvocato Generali,
e mentre si perseguitavano i Whig sotto il regno di Carlo, avevano
servito la Corona con soverchio ardore ed esito prospero, erano fra i
difensori degli accusati. Vʼerano parimente altri due uomini, i quali,
dopo che lʼattività di Maynard era scemata col crescere degli anni,
avevano reputazione dʼessere i due migliori legali che si potessero
trovare neʼ tribunali. Lʼuno chiamavasi Pemberton, e nel tempo di
Carlo II era stato Capo Giudice del Banco del Re; destituito poscia
perchè troppo umano e moderato, aveva ripreso lo esercizio della sua
professione. Lʼaltro aveva nome Pollexfen; era stato per lungo tempo
il principale assessore deʼ giudici nel loro periodico giro per le
Contrade Occidentali, e quantunque avesse perduta ogni popolarità
difendendo la Corona nel Tribunale di Sangue, e in specie arringando
contro Alice Lisle, era a tutti noto chʼegli fosse internamente Whig,
per non dire repubblicano. Vʼera anche Sir Creswell Levinz, uomo di
grande dottrina ed esperienza, ma singolarmente pusillanime. Era stato
destituito dal suo ufficio per avere avuto timore di servire ai fini
del Governo. Adesso temeva di mostrarsi fra gli avvocati deʼ vescovi,
e in sulle prime aveva ricusato dʼassumerne la difesa: ma lʼintero
corpo deʼ procuratori che solevano impiegarlo, lo minacciò di non
dargli più nessuna causa, qualora egli ricusasse di assumere quella deʼ
vescovi.[395]

Sir Giorgio Treby, abile e zelante Whig, il quale, vigente il vecchio
Statuto, era stato Recorder di Londra, difendeva anchʼei gli accusati.
Sir Giovanni Holt Avvocato Whig più illustre anco di Treby, non
fu chiamato alla difesa, a cagione, per quanto sembra, di qualche
pregiudizio che Sancroft aveva contro lui, ma venne privatamente
consultato dal Vescovo di Londra.[396] Il più giovane fra i difensori
era un avvocato chiamato Giovanni Somers. Non aveva vantaggio di
nascita o di ricchezza, nè fino allora aveva avuto il destro di
acquistare reputazione agli occhi del pubblico: ma il suo genio, la
sua industria, le sue grandi e varie qualità erano note a parecchi
suoi amici; e nonostanti le sue opinioni Whig, il suo giusto e lucido
modo dʼargomentare, e la costante irreprensibilità della condotta gli
avevano già reso benevolo lʼorecchio della Corte del Banco del Re.
Johnstone aveva ai Vescovi energicamente dimostrata la importanza di
averlo nella difesa; e dicesi che Pollexfen dichiarasse non esservi in
Westminster Hall un uomo che potesse, al pari di Somers, trattare una
questione storica e costituzionale.

I giurati prestarono sacramento: erano tutti di condizione
rispettabile. Ne era capo Sir Ruggiero Langley, baronetto dʼantica
ed onorevole famiglia. Gli erano colleghi un cavaliere e dieci
scudieri, parecchi deʼ quali erano conosciuti come ricchi possidenti.
Vʼ erano alcuni Non–Conformisti, perocchè i Vescovi erano saviamente
deliberati di non mostrare diffidenza deʼ protestanti Dissenzienti.
Il solo Michele Arnold dava da temere, dacchè essendo egli il birraio
del palazzo, sospettavasi che votasse a favore del Governo. Fu detto
chʼegli amaramente si lamentasse della posizione in cui si trovava.
«Qualunque cosa io faccia,» disse egli «sono sicuro dʼuscirne mezzo
rovinato. Se dico: Non Colpevole, non venderò più la mia birra al Re;
e se dico: Colpevole, non ne venderò più a nessun altro.»[397]

Finalmente incominciò il processo. Ed è tale, che anche letto con
freddezza dopo più dʼun secolo e mezzo, serba tutto lo interesse
dʼun dramma. Gli avvocati disputavano da ambo i lati con insolito
accanimento e veemenza; lʼuditorio ascoltava con estrema ansietà, quasi
la sorte di ciascuno dipendesse dal detto che dovevano profferire i
giurati; e il volgere della fortuna era così subitaneo e maraviglioso,
che la moltitudine in un solo momento più volte passò dallʼansietà alla
gioia, e dalla gioia a più profonda ansietà.

I Vescovi erano accusati dʼavere pubblicato, nella Contea di
Middlesex, un falso, maligno, e sedizioso libello. Il Procuratore e
lo Avvocato tentarono di provare la scrittura. A questo fine varie
persone furono chiamate per testificare delle firme deʼ Vescovi. Ma
i testimoni sentivano tanta ripugnanza che la Corte da nessuno di
loro potè ottenere una sola chiara risposta. Pemberton, Pollexfen,
e Levinz dichiararono che nessuna delle predette testimonianze era
atta a convincere i giurati. Due deʼ Giudici, cioè Holloway e Powell,
furono della stessa opinione; e in cuore agli spettatori crebbe la
speranza. A un tratto i legali della Corona dissero di volere prendere
una via diversa. Powis, con rossore e ripugnanza tali da non poterli
dissimulare, pose nel banco deʼ testimoni Blathwayt chʼera uno degli
scrivani del Consiglio Privato, e trovavasi presente quando i Vescovi
furono interrogati dal Re. Blathwayt giurò di averli uditi riconoscere
le loro firme. Tale testimonianza era decisiva. «Perchè dunque,»
disse il giudice Holloway al Procuratore Generale «se avevate cotesta
prova, non lʼavete prodotta in principio, senza farci perdere cotanto
tempo?» Allora si conobbe che la difesa della Corona non aveva voluto,
senza assoluto bisogno, valersi di questo modo di prova. Pemberton
interruppe Blathwayt, lo assoggettò ad un contro–esame, ed insistè
perchè raccontasse pienamente tutto ciò chʼera seguito fra il Re e
gli accusati. «Questa è curiosa davvero!» esclamò Williams. «Credete
voi» disse Powis «di potere liberamente fare ai testimoni tutte le
impertinenti domande che vi passano pel capo?» Gli avvocati deʼ
Vescovi non erano uomini da lasciarsi soverchiare. «Egli ha giurato»
rispose Pollexfen «di dire la verità, e tutta la verità; e a noi fa
mestieri una risposta, e lʼavremo.» Il testimone si confuse, equivocò,
simulò di frantendere la domanda, implorò la protezione della Corte.
Ma era caduto in mani dalle quali non era facile svincolarsi. Infine
il Procuratore Generale sʼinterpose, dicendo: «So voi persistete
a fare tali dimande, diteci almeno lʼuso che intendete di farne.»
Pemberton, il quale in tutto il dibattimento aveva fatto il debito
proprio da uomo coraggioso ed accorto, rispose senza esitare: «Signori,
risponderò al Procuratore, ed agirò schiettamente con la Corte. Se i
Vescovi riconobbero questo scritto sulla promessa della Maestà Sua che
la loro confessione non verrebbe adoperata come arma a ferirli, spero
che lʼAccusa non se ne voglia slealmente giovare.»—«Voi attribuite
a Sua Maestà una cosa chʼio non ardisco nominare,» disse Williams,
«e dacchè vi piace di essere tanto importuno, chiedo a nome del Re,
che se ne prenda ricordo.»—«Che intendete dire, Signore Avvocato
Generale?» disse, interponendosi, Sawyer. «So io quello che dico,»
rispose lo apostata; «voglio che nella Corte si prenda ricordo della
domanda.»—«Prendete quanti ricordi vi aggrada, io non vi temo, Signore
Avvocato Generale,» disse Pemberton. Seguì quindi un rumoroso ed
accanito alterco, che a stento fu fatto cessare dal Capo Giudice. In
altre circostanze probabilmente avrebbe ordinato di prendere ricordo
della domanda, e mandato Pemberton in carcere. Ma in quel gran giorno
egli era impaurito. Spesso gettava gli occhi su quel folto drappello
di Conti e di Baroni, che lo invigilavano, e forse alla prima apertura
del Parlamento potevano essergli giudici. Uno degli astanti affermò che
il Capo Giudice aveva tal viso come se credesse ciascuno deʼ Pari ivi
presenti avesse nella propria tasca un capestro.[398]

Finalmente Blathwayt fu costretto a fare un minuto racconto di ciò
che aveva veduto con gli occhi propri. Da quanto egli disse pareva
che il Re non fosse venuto ad espresso patto coi Vescovi. Ma pareva
medesimamente che i Vescovi potessero con tutta ragione credere che
il patto fosse sottinteso. A dir vero, dalla ripugnanza che avevano i
legali della Corona a porre nel banco deʼ testimoni lo scrivano del
Consiglio, e dalla virulenza con che sʼopposero al contro–esame di
Pemberton, chiaro si deduce che avessero la stessa opinione.

Nondimeno rimase provato che la scrittura era deʼ Vescovi. Ma surse una
nuova e più grave obiezione. Non bastava che i Vescovi avessero scritto
lʼallegato libello; era necessario provare che lo avevano scritto
nella Contea di Middlesex. La qual cosa non solo non potevano provare
il Procuratore e lʼAvvocato Generale, ma la Difesa aveva i mezzi di
provare il contrario. Imperocchè avvenne che dal tempo in cui fu
pubblicata lʼOrdinanza in Consiglio, fino a dopo che la petizione era
stata presentata al Re, Sancroft non fosse nè anche una volta uscito
dal suo palazzo di Lambeth. In tal guisa ruinava al tutto il fondamento
sul quale posava lʼAccusa, e lʼuditorio con gran gioia aspettavasi che
i Vescovi fossero immediatamente prosciolti.

I legali della Corona di nuovo cangiarono tattica, ed abbandonando
affatto lʼaccusa dʼavere scritto un libello, impresero a provare che
i Vescovi avevano pubblicato un libello nella Contea di Middlessex. E
anche ciò era molto difficile a provare. La consegna della petizione
al Re, indubitabilmente, agli occhi della legge, era lo stesso che
pubblicarla. Ma in che guisa provare siffatta consegna? Niuno nelle
regie stanze sʼera trovato presente allʼudienza. La scena era seguita
solo tra il Re e gli accusati. Il Re non poteva essere chiamato
in testimonio; non vʼera dunque altro mezzo a provare la cosa che
la confessione degli accusati. Indarno Blathwayt venne nuovamente
esaminato. Disse di rammentarsi bene che i Vescovi avevano riconosciute
le loro firme; ma non si ricordava affatto che confessassero che lo
scritto che era sul banco del Consiglio Privato, fosse quel medesimo
che avevano posto nelle mani del Re; non si ricordava nè anco che
venissero sopra ciò interrogati. Furono chiamati vari altri ufficiali
chʼerano di servizio al Consiglio Privato, e fra essi Samuele Pepys
segretario dello Ammiragliato; ma nessuno di loro potè rammentarsi
che si parlasse della consegna. Nulla valse che Williams accatastasse
le domande, finchè la difesa deʼ Vescovi dichiarò che tante storture,
tante sottigliezze, tanti cavilli non sʼerano mai veduti in nessuna
corte di giustizia; e lo stesso Wright fu costretto a confessare che
il modo tenuto dallo Avvocato Generale nello esame deʼ testimoni era
contrario a tutte le regole. Come i testimoni, lʼuno dopo lʼaltro,
negativamente rispondevano, gli astanti davano in tali scoppi di riso e
grida di trionfo, che parevano far crollare la sala e che i giudici non
sʼattentavano di reprimere.

Finalmente la vittoria deʼ Vescovi pareva assicurata. Se i loro
difensori si fossero taciuti, la sentenza favorevole sarebbe stata
sicura; perocchè non vʼera nessuno attestato che dal più corrotto
e svergognato giudice potesse considerarsi come prova legale della
pubblicazione. Il Capo Giudice incominciava già a favellare ai giurati,
e avrebbe sicuramente loro inculcato di assolvere gli accusati,
allorquando Finch, con somma imprudenza, chiese licenza di parlare,
«Se volete essere ascoltato,» disse Wright, «lo sarete: ma voi non
conoscete i vostri interessi.» Gli altri difensori fecero si che Finch
tacesse, e pregarono il Capo Giudice a continuare. E già ricominciava
a favellare, allorchè giunse allo Avvocato Generale un messo, recando
la nuova che Lord Sunderland proverebbe la pubblicazione, e arriverebbe
fra un istante alla Corte. Wright malignamente disse ai difensori non
avessero a ringraziare altri che sè stessi per la nuova piega che erano
per prendere le cose. Lo scoraggiamento si mostrò nello aspetto di
ciascuno degli astanti. Finch per alcune ore fu lʼuomo più impopolare
del paese. Perchè egli non si stava seduto come avevano fatto i suoi
colleghi, migliori di lui, Sawyer, Pemberton, e Pollexfen? Il prurito
dʼimmischiarsi in ogni cosa, e lʼambizione chʼegli aveva di fare un bel
discorso avevano rovinato tutto.

Intanto il Lord Presidente fu condotto in portantina fra mezzo alla
sala. Come egli passava nessuno gli faceva di cappello; e sʼudirono
molte voci che lo chiamavano «Papista cane.» Giunse alla Corte pallido
e tremante, cogli occhi bassi; e nel fare la sua deposizione, a quando
a quando gli mancava la voce. Giurò che i Vescovi gli avevano palesato
lo intendimento di presentare una petizione al Re, e che a tal fine
erano stati introdotti nelle regie stanze. Questo fatto congiunto con
lʼaltro, che dopo dʼessersi partiti dalla presenza del Re, fu vista
nelle mani di lui una petizione munita delle loro firme, era tal
prova che poteva ragionevolmente convincere i giurati del fatto della
pubblicazione.

La pubblicazione adunque rimase provata. Ma lo scritto in tal guisa
pubblicato era un libello falso, maligno, sedizioso? Fino a questo
punto sʼera discusso se un fatto, che ciascuno sapeva esser vero,
potesse provarsi secondo le regole tecniche della scienza legale; ma
adesso la contesa divenne assai più grave. Era necessario esaminare
i limiti della prerogativa e della libertà, il diritto del Re a
dispensare dagli statuti, il diritto deʼ sudditi a presentare petizioni
a risarcimento di danni. Per tre ore gli avvocati degli accusati
argomentarono con gran forza a difendere i principii fondamentali della
costituzione, e provarono coi Giornali, ovvero processi verbali della
Camera deʼ Comuni, che i Vescovi avevano detta la schietta verità
quando dimostrarono al Re che la potestà di dispensare chʼegli voleva
arrogarsi, era stata più volte dichiarata illegale dal Parlamento.
Somers fu lʼultimo a perorare. Parlò poco più di cinque minuti; ma
ogni parola che gli uscì dalle labbra era pregna di significanza; e
allorquando si assise, la sua reputazione dʼoratore e di giureconsulto
costituzionale era stabilita. Esaminò, una per una, tutte le parole
adoperate dallʼAccusa per esprimere il delitto imputato ai Vescovi,
e mostrò che ciascuna, sia aggettivo, sia sostantivo, era affatto
impropria. I Vescovi venivano accusati dʼavere scritto e pubblicato un
libello falso, maligno, e sedizioso. Lo scritto loro non era falso;
perchè ogni fatto allegato provavano i Giornali del Parlamento esser
vero. Lo scritto non era maligno; perchè gli accusati non avevano
cercato pretesto ad una lotta, ma erano stati messi dal Governo in
posizione tale che dovevano od opporsi al volere del Re, o violare
i più sacri doveri della coscienza e dellʼonore. Lo scritto non era
sedizioso; perchè non era stato sparso dagli scrittori fra la plebe,
ma privatamente messo da loro nelle mani del solo Re; e non era un
libello, ma era una petizione decente, e tale che per le leggi della
Inghilterra, anzi per le leggi di Roma Imperiale, per le leggi di tutti
gli Stati inciviliti, un suddito che si creda gravato, può lecitamente
presentare al Sovrano.

Il Procuratore Generale nella sua risposta fu breve e fiacco. Lo
Avvocato Generale parlò diffusissimamente e con grande acrimonia, e
venne spesso interrotto daʼ clamori e dai fischi dellʼuditorio. Giunse
perfino ad affermare che nessun suddito o corporazione di sudditi,
tranne le Camere del Parlamento, hanno diritto di presentare petizioni
al Re. A tali parole le gallerie divennero furiose; e lo stesso Capo
Giudice rimase attonito alla sfrontatezza di cotesto giubba–rivoltata.

In fine Wright cominciò a riassumere la questione. Le sue parole
mostravano che la paura chʼegli aveva del Governo era temperata da
quella che gli aveva posta nellʼanimo un uditorio sì numeroso, sì
illustre e sì grandemente concitato. Disse che non darebbe parere
intorno alla questione della podestà di dispensare, poichè non lo
reputava necessario; che non poteva approvare in gran parte il
discorso dello Avvocato Generale; che i sudditi avevano diritto di far
petizioni, ma che la petizione della quale facevasi dibattimento nella
Corte, era formulata con parole sconvenevoli, e la legge la considerava
come libello. Medesimamente opinò Allybone, ma nel favellare mostrò
tanto grossolana ignoranza della legge e della storia, da meritarsi
il disprezzo di tutti gli astanti. Holloway scansò la questione della
potestà di dispensare, ma disse che la petizione gli sembrava tale
quale i sudditi che si credano gravati hanno diritto di presentare;
e quindi non era un libello. Powell ebbe anche maggiore ardimento.
Confessò che, secondo lui, la Dichiarazione dʼIndulgenza era nulla, e
che la potestà di dispensare, nel modo onde dianzi sʼera esercitata,
era onninamente incompatibile con la legge. Se a tali usurpazioni
della prerogativa non si poneva freno, il Parlamento era finito. Tutta
lʼautorità legislativa si ridurrebbe nelle mani del Re. «Lʼesito di
questa faccenda, o Signori,» disse egli, «lo lascio a Dio e alla vostra
coscienza.»[399]

Era ben tardi quando i giurati si ritrassero a deliberare. E fu notte
di forte ansietà. Ci rimangono alcune delle lettere che furono scritte
in quelle ore di perplessità, e che perciò hanno per noi speciale
interesse. «È assai tardi,» scriveva il Nunzio del Papa, «e la sentenza
finora non si conosce. I giudici e gli accusati se ne sono andati alle
loro case. I giurati sono in sessione. Domani sapremo lʼesito di questa
gran lotta.»

Il patrocinatore deʼ Vescovi rimase tutta la notte con un numero
di servi nelle scale che conducevano alla stanza dove i giurati
deliberavano. Era impreteribile invigilare gli ufficiali che guardavano
lʼuscio; perocchè essendo costoro in sospetto di favoreggiare la
Corona, ove non fossero rigorosamente sorvegliati, avrebbero potuto
apprestare deʼ cibi a qualche giurato cortigiano, il quale avrebbe
così affamato i colleghi. E però la gente dei Vescovi faceva stretta
guardia. Non fu concesso nè anche dʼintrodurre una candela per
accendere una pipa. Verso le ore quattro di mattina si lasciarono
passare alcuni vasi dʼacqua da lavarsi; e i giurati, ardendo di sete,
la beverono tuttaquanta. Gran numero di gente si aggirò fino allʼalba
per le vie circostanti. Ogni ora giungeva da Whitehall un messo per
sapere ciò che facevasi. Dalla stanza si udivano spesso le voci e gli
alterchi deʼ giurati: ma non sapevasi nulla di certo.[400]

In sul principio, nove opinavano che non vi fosse colpa, e tre che
la vi fosse. Due della minoranza dopo poco cedettero; ma Arnold
rimaneva ostinato. Tommaso Austin ricchissimo gentiluomo di campagna,
il quale aveva prestata somma attenzione al detto deʼ testimoni e
alla discussione, ed aveva preso copiosi appunti, voleva ragionare
con Arnold; ma costui nol consentì, dicendo sgarbatamente chʼegli non
era assuefatto ad argomentare e discutere; la sua coscienza non era
satisfatta; e quindi egli non avrebbe dichiarati innocenti i Vescovi.
«Se dite questo,» disse Austin, «guardatevi bene. Io sono il più
grasso e il più forte di tutti, e innanzi che altri mi costringa a
chiamare libello simile petizione, mi starò qui finchè mi sarò ridotto
alla grossezza dʼuna canna da pipa.» Erano le ore sei della mattina,
allorquando Arnold cedè. Tosto si sparse la voce che tutti i giurati
erano dʼaccordo: ma il giudicio era sempre un segreto.[401]

Alle ore dieci antimeridiane ragunossi di nuovo la Corte. La folla era
immensa. I giurati si assisero ai posti loro. Nessuno osava alitare,
era profondo silenzio.

LV. Sir Samuele Astry disse ai giurati: «Trovate voi gli accusati, o
alcuno di loro, colpevoli del delitto ad essi imputato, o gli trovate
non colpevoli?» Sir Ruggiero Langley rispose: «Non colpevoli.» Appena
profferite queste parole, Halifax si alzò e scosse in aria il cappello.
A quel segno, i banchi e le gallerie diedero in uno scoppio dʼapplausi.
In un momento diecimila persone accalcate dentro la spaziosa sala
risposero con sì fragorose grida di gioia che ne tremò il vecchio
palco di quercia, e un istante dopo lʼinnumerevole turba che stava
fuori levò tal grido dʼallegrezza che fu udito fino a Temple–Bar, al
quale grido risposero le barche che coprivano il Tamigi. Un tonfo
dʼarme risonò sul fiume, e poi un altro ancora, talmente che in pochi
momenti la lieta nuova volò ai quartieri di Savoy e di Blackfriars
fino al Ponte di Londra, ed alla selva di navi che oltre si distende.
Come fu sparsa la nuova, le vie e le piazze, i mercati e i caffè
echeggiavano dʼacclamazioni. Eppure queste acclamazioni erano meno
strane delle lacrime che si vedevano negli occhi di tutti: imperocchè
i cuori di tutti erano stati trafitti a tal punto che lʼaustera
natura deglʼInglesi, così poco avvezzi a mostrare con segni esteriori
le interne emozioni, non potè resistere; e migliaia di persone
singhiozzavano lacrimando di gioia. Infrattanto di mezzo alla folla
movevansi uomini a cavallo dirigendosi per tutte le grandi vie, nunzi
della vittoria riportata dalla Chiesa e dalla patria nostre. E non
pertanto lʼacre e intrepido animo dellʼAvvocato Generale non impaurì
a quella immensa esplosione. Sforzandosi di farsi udire, non ostante
i clamori, richiese che i giudici facessero arrestare coloro, i quali
con grida sediziose avevano violata la dignità del tribunale. I giudici
fecero arrestare un popolano; ma pensando che sarebbe assurdo il
punire un solo individuo per un delitto di cui erano rei centinaia di
migliaia, lo mandarono via con una lieve riprensione.[402]

Era inutile in quel momento pensare a qualunque altra cosa. E davvero
i clamori della moltitudine erano tali, che per una mezza ora non
fu possibile dire una sola parola nella Corte. Williams giunse alla
sua vettura fra mezzo a una tempesta di fischi e dʼimprecazioni.
Cartwright, che non poteva frenare la propria curiosità, aveva avuta
la stoltezza e la impudenza di recarsi a Westminster per udire la
sentenza. Agli abiti sacerdotali e alla corpulenza fu riconosciuto,
e fischiato passando per la sala. «Badate» diceva uno «al lupo sotto
veste dʼagnello.»—«Fate largo» esclamò un altro «allʼuomo che ha il
papa nel ventre.»[403]

I prelati, a fin dʼevitare la folla che chiedeva la loro benedizione,
si rifugiarono dentro la più vicina cappella, dove si celebravano gli
uffici divini. Quel dì molte chiese erano aperte in tutta la metropoli,
alle quali accorreva gran numero di persone pie. Le campane di tutte
le parrocchie nella città e neʼ luoghi circostanti sonavano a festa.
Intanto i giurati non sapevano distrigarsi dalla calca per uscire dalla
sala. Erano costretti a stringere le mani a centinaia. «Dio ve ne
renda merito,» esclamava la gente; «Dio protegga le vostre famiglie;
vi siete portati da onesti e buoni gentiluomini; oggi voi ci avete
salvato tutti.» Come i nobili, i quali erano intervenuti alla udienza
per proteggere la buona causa, si rimisero in carrozza, spargevano
dagli sportelli pugni di monete fra il popolo, dicendogli bevesse alla
salute del Re, deʼ Vescovi, e dei Giurati.[404]

Il Procuratore Generale recò la trista nuova a Sunderland, il quale
per avventura in quellʼora stavasi conversando col Nunzio. «Non vi
sono state mai a memoria dʼuomo» disse Powis «grida e lacrime di gioia
come quelle dʼoggi.»[405] Il Re in quel giorno era andato a visitare
il campo in Hounslow Heath. Sunderland subitamente spedì un messo a
dare la nuova a Giacomo, il quale in quello istante trovavasi entro
la tenda di Feversham. Ne rimase estremamente turbato; esclamò in
francese: «Peggio per loro!» e partì tosto per Londra. Presente lui,
la riverenza impedì ai soldati la libera espansione deʼ loro cuori; ma
appena egli si discostò dal campo, furono udite alte acclamazioni. Ne
rimase maravigliato, e chiese che significasse quel frastuono. «Non è
nulla,» gli fu risposto: «i soldati tripudiano per la liberazione deʼ
Vescovi.»—«E voi chiamate nulla ciò?» disse Giacomo. E ripetè: «Peggio
per loro.»[406]

Ed aveva bene ragione dʼessere di cattivo umore. La sua sconfitta
era stata piena ed umiliantissima. Se i prelati si fossero sottratti
alla condanna per difetto di forma nella procedura, o perchè non
avevano scritta la petizione in Middlessex, o perchè era stato
impossibile provare che avevano posto nelle mani del Re lo scritto
pel quale la Corona gli aveva chiamati in giudizio, la prerogativa
regia non avrebbe patito detrimento. Ma fu insigne ventura pel paese
che il fatto della pubblicazione venisse pienamente provato. La
Difesa quindi era stata costretta a combattere contro la potestà di
dispensare, e lʼaveva combattuta con audacia, dottrina ed eloquenza.
Gli avvocati del Governo, come tutti vedevano, erano stati vinti nella
contesa. Nemmeno un solo dei giudici erasi rischiato ad asserire che
la Indulgenza fosse legale, chè anzi uno di loro lʼaveva con forti
parole dichiarata illegale. La nazione intera ad una voce diceva che
la potestà di dispensare aveva ricevuto un colpo fatale. Finch, che
il giorno precedente era stato universalmente vituperato, adesso
ebbe plausi universali. Dicevasi chʼegli non aveva fatto decidere la
causa in un modo che avrebbe lasciata nel dubbio la grande questione
costituzionale: imperocchè una sentenza che avesse assoluto i suoi
clienti, senza condannare la Dichiarazione dʼIndulgenza, sarebbe stata
una mezza vittoria. Vero è che Finch non meritava nè il biasimo che gli
fu dato mentre lʼesito della causa era ancora dubbio, nè le lodi che
gli profusero dopo che lʼesito fu prospero. Era assurdo vituperarlo,
perchè, nel breve indugio di cui egli fu cagione, i legali della Corona
scoprirono inaspettatamente novelle prove. Era egualmente assurdo
supporre chʼegli per calcolo esponesse i suoi clienti al pericolo a
fine di stabilire un principio generale: ed era anche più assurdo
commendarlo di ciò che sarebbe stato violare gravemente il dovere della
sua professione.

A quel lieto giorno seguì una notte di non minore letizia. I Vescovi,
ed alcuni deʼ loro più rispettabili amici, indarno sforzaronsi
dʼimpedire ogni tumultuoso festeggiamento. Giammai a memoria deʼ
più vecchi, nè anche in quella sera nella quale si sparse per tutta
Londra la nuova che lo esercito di Scozia erasi dichiarato a favore
dʼun libero Parlamento, giammai le vie della città sʼerano viste così
splendenti di fuochi di gioia. Attorno ad ogni luminaria la folla
beveva alla salute deʼ vescovi ed alla confusione deʼ Papisti. Le
finestre erano illuminate con file di candele; ciascuna fila ne aveva
sette, e il torcetto di mezzo che sʼinalzava fra tutte, simboleggiava
il Primate. Sʼudiva di continuo lo scoppio delle bombe e delle arme da
fuoco. Una catasta di fascine ardeva di faccia alla porta maggiore di
Whitehall; altre dinanzi alle case deʼ Pari Cattolici Romani. Lord
Arundell di Vardour saviamente abbonì la marmaglia facendo distribuire
un poʼ di moneta. Ma nel palazzo Salisbury nello Strand si provarono
di fare resistenza. I servi di Lord Salisbury uscirono fuori e fecero
fuoco; uccisero soltanto lo scaccino della parrocchia chʼera lì per
ispengere le fiamme, e subito sconfitti furono ricacciati nel palazzo.
Nessuno degli spettacoli di quella notte diede tanto sollazzo alla
plebe quanto uno al quale pochi anni prima era assuefatta, e che
adesso volle rinnovellare, voglio dire il bruciamento della effigie
del Papa. Questo spettacolo, che un tempo era famigliare, è oggimai
da noi conosciuto solamente per mezzo di descrizioni e dʼincisioni.
Una figura, in nulla somiglievole alle rozze immagini di Guido Faux
che ai tempi nostri si conducono in processione il dì 5 novembre, ma
fatta di cera con una certa arte, e adorna, con spesa non lieve, degli
abiti pontificali e della tiara, era posta sopra una sedia somigliante
a quella sulla quale i vescovi di Roma nelle grandi solennità vengono
condotti in San Pietro fino allo altare maggiore. Sua Santità era
generalmente accompagnata da un corteo di Cardinali e di Gesuiti.
Gli stava accanto, chinandoglisi allʼorecchio, un buffone travestito
da demonio con le corna e la coda. Non vi era Protestante ricco e
zelante che si mostrasse avaro di dare la sua ghinea per tal festa;
e se debbasi credere alla voce popolare, la spesa della processione
talvolta ascendeva a mille lire sterline. Dopo che la immagine del Papa
era stata solennemente condotta per alcune ore fra mezzo alla folla,
era data alle fiamme tra le fragorose acclamazioni degli astanti.
Finchè durò la popolarità di Oates e di Shaftesbury questa cerimonia
ebbe luogo ogni anno il dì natalizio della Regina Elisabetta, in
Fleet–Street, di faccia alle finestre del Circolo Whig. Ed era tanta
la celebrità di cotesto grottesco spettacolo, che Barillon una volta
pose a repentaglio la propria vita, sporgendo la persona, per meglio
vederlo, da un luogo ove erasi nascosto.[407] Ma dal giorno in cui fu
scoperta la congiura di Rye House fino a quello in cui furono assoluti
i sette Vescovi, la cerimonia era caduta in disuso. Adesso, nondimeno,
vari fantocci rappresentanti il Papa si videro in varie parti di
Londra. Il Nunzio ne rimase scandalizzato, e il Re sentì questo insulto
più di tutti gli affronti fino allora ricevuti. I magistrati non
poterono porvi impedimento alcuno. La domenica albeggiava, e le campane
delle Chiese parrocchiali chiamavano i devoti alle preci mattutine,
quando i fuochi cominciavano ad estinguersi e la folla a disperdersi.
Fu allora promulgato un editto contro i perturbatori; molti deʼ
quali—ed erano per la più parte giovani di bottega—furono arrestati;
ma alle sessioni di Middlesex i giurati dichiararono non esservi luogo
a procedere. I magistrati, molti deʼ quali erano cattolici romani,
rimproverarono il Gran Giury, e gli rimandarono tre o quattro volte
glʼincolpati, ma non poterono ottenere nulla.[408]

LVI. Intanto la lieta nuova giungeva a volo in ogni parte del Regno,
e dovunque era ricevuta con gioia. Gloucester, Bedford, e Linchfield
mostrarono grande zelo: ma Bristol e Norwich, che per popolazione e
ricchezza erano dopo Londra le prime, furono solo a Londra seconde per
lʼentusiasmo con che celebrarono il lieto evento.

La persecuzione deʼ Vescovi è un evento che sta da sè nella nostra
storia. Esso fu il primo ed ultimo fatto in cui due sentimenti
tremendamente potenti, due sentimenti che per lo più si sono
vicendevolmente avversati, e ciascuno deʼ quali, qualvolta sono
venuti in forte concitamento, è bastato a sconvolgere lo Stato, erano
congiunti in perfetta armonia. Questi sentimenti erano lo affetto per
la Chiesa e lo affetto per la libertà. Pel corso di molte generazioni
ogni violento scoppio del sentimento per la Chiesa Anglicana è stato
sempre, tranne una sola volta, avverso alla libertà civile; ogni
violento scoppio di zelo per la libertà è stato sempre, tranne una
sola volta, avverso allʼautorità ed influenza della prelatura e
del elencato. Nel 1688 la causa della gerarchia fu per un istante
identica a quella del popolo. Novemila e più ecclesiastici capitanati
dal Primate e daʼ suoi più spettabili suffraganei, si mostrarono
pronti a soffrire la carcere e la perdita degli averi per difendere
il gran principio fondamentale della nostra costituzione. Ne nacque
una coalizione che comprendeva i più zelanti Cavalieri, i più
zelanti repubblicani, e tutte le classi intermedie del popolo. Il
coraggio che nella precedente generazione aveva sostenuto Hampden, il
coraggio che nella generazione susseguente sostenne Sacheverell, si
congiunsero insieme per sostenere lʼArcivescovo il quale era Hampden
e Sacheverell in una sola persona. Le classi della società che hanno
maggiore interesse a mantenere lʼordine, che in tempi di politici
commovimenti sono sempre pronte a rafforzare il braccio al Governo,
e che naturalmente abborrono gli agitatori, si lasciarono, senza
scrupolo, guidare dallʼuomo venerabile, che era primo Pari del Regno,
primo ministro della Chiesa, Tory in politica, santo per costumi; uomo
che la tirannide, malgrado lui, aveva fatto diventare demagogo. Coloro,
dallʼaltra banda, i quali avevano sempre abborrito lʼEpiscopato,
come rimasuglio del Papismo, e come strumento del potere assoluto,
domandavano ora colle ginocchia inchine la benedizione di un prelato,
che era pronto a soffrire la carcere e posare le stanche sue membra
sulla nuda terra, più presto che tradire glʼinteressi della Religione
protestante e porre la prerogativa disopra alla legge. Allo amore della
Chiesa ed allʼamore della libertà era congiunto, in questa gran crisi,
un altro sentimento che va annoverato fra le più pregievoli peculiarità
del nostro carattere nazionale. Un individuo oppresso dal Governo, ove
anche non abbia il minimo diritto alla riverenza ed alla gratitudine
pubblica, generalmente desta simpatia nel popolo nostro. Così, al tempo
degli avi nostri, la persecuzione di Wilkes bastò a porre sossopra la
nazione. Noi stessi lʼabbiamo veduta agitarsi quasi fino alla insania
peʼ torti fatti alla Regina Carolina. È quindi probabile che quando
anche al processo contro i vescovi non fosse stato annesso un grande
interesse politico e religioso, la Inghilterra non avrebbe veduto,
senza sentirsi fortemente mossa ad ira e pietà, sette vegliardi di
intemerata virtù perseguitati dalla vendetta dʼun temerario ed
inesorabile Principe, il quale doveva alla fedeltà loro la Corona
chʼegli portava.

Animati da cosiffatti sentimenti, i nostri antichi ordinaronsi in vasta
e stretta falange contro il Governo. Comprendeva tutti i Protestanti di
qual si fosse grado, partito o setta. Nella vanguardia stavano i Lordi
spirituali e secolari. Li seguivano i gentiluomini possidenti e il
clero, entrambe le Università, tutte le corti di giustizia, i mercanti,
i bottegaj, i fattori, i facchini delle grandi città, i contadini che
lavoravano la terra. La lega contro il Re comprendeva gli ufficiali che
comandavano sulle navi, le sentinelle che guardavano il suo palazzo. I
nomi di Whig e di Tory furono per un momento posti in oblio. Il vecchio
Esclusionista stringeva la mano al vecchio abborrente. Episcopali,
Presbiteriani, Indipendenti, Battisti dimenticarono le loro lunghe
contese, per ricordarsi soltanto della comune fede protestante e del
pericolo comune. I teologi educati nella scuola di Laud parlavano a
voce alta non solo di tolleranza, ma di comprensione. Lo Arcivescovo
poco dopo dʼessere stato assoluto pubblicò certa lettera pastorale che
è uno dei più notevoli componimenti di quella età. Fino dagli anni suoi
primi aveva combattuto contro i Non–Conformisti, e gli aveva più volte
assaliti con ingiusta e poco cristiana acrimonia. La sua principale
opera era indecente caricatura della teologia calvinista.[409] Aveva
composto pei dì 14 gennaio e 29 maggio certe preci, le quali toccavano
deʼ Puritani con parole sì ostili, che il Governo aveva reputato
necessario temperarle. Ma adesso il suo cuore si era addolcito ed
aperto. Solennemente ingiunse ai Vescovi e al clero, usassero estrema
benevolenza ai loro confratelli Dissenzienti, li visitassero spesso,
ospitalmente li trattassero, cortesemente con essi conversassero,
gli persuadessero, se fosse possibile, ad uniformarsi alla Chiesa
Anglicana; ma se non fosse possibile, si congiungessero loro con
sincero e cordiale affetto a propugnare la benedetta causa della
Riforma.[410]

Molti uomini pii negli anni susseguenti ripensavano con amaro desiderio
a quellʼepoca. La dipingevano come la breve alba di una età dʼoro fra
due età di ferro. Tali lamenti, comecchè fossero naturali, non erano
ragionevoli. La coalizione del 1688 nacque, e potè nascere, solo dalla
tirannide chʼera quasi frenesia, e dal pericolo che minacciava a un
tempo tutte le grandi istituzioni del paese. Se poscia non vi è stata
mai una somigliante colleganza, egli è perchè non vi è mai stato simile
pessimo governo. È mestieri rammentare, che quantunque la concordia sia
in sè migliore della discordia, la discordia può indicare un migliore
cammino di quello che indichi la concordia. Le calamità e i pericoli
soventi volte stringono gli uomini a collegarsi. La prosperità e la
sicurezza spesso gli spingono a separarsi.



CAPITOLO NONO.

SOMMARIO.


 I. Mutamento nellʼopinione deʼ Tory circa la legalità della
 Resistenza.—II. Russell propone al Principe dʼOrange uno sbarco
 in Inghilterra.—III. Enrico Sidney.—IV. Devonshire; Shrewsbury;
 Halifax.—V. Danby.—VI. Il Vescovo Compton—VII. Nottingham;
 Lumley—VIII. Invito mandato a Guglielmo.—IX. Condotta di
 Maria.—X. Difficoltà della impresa di Guglielmo.—XI. Condotta
 di Giacomo dopo il Processo dei Vescovi.—XII. Destituzioni e
 Promozioni.—XIII. Procedimenti nellʼAlta Commissione; Spart
 rinunzia al suo ufficio.—XIV Malcontento del Clero; Affari
 dʼOxford.—XV. Malcontento deʼ Gentiluomini.—XVI. Malcontento
 dello Esercito.—XVII. Arrivo delle truppe Irlandesi; indignazione
 pubblica.—XVIII. Lillibullero—XIX. Politica delle Provincie
 Unite.—XX. Errori del Re di Francia.—XXI. Sua contesa col
 Papa rispetto alle Franchigie.—XXII. Lo Arcivescovato di
 Colonia.—XXIII. Destrezza di Guglielmo—XXIV. Suoi apparecchi
 militari e navali.—XXV. Gli giungono dalla Inghilterra numerose
 assicurazioni di soccorso.—XXVI. Sunderland.—XXVII. Ansietà di
 Guglielmo; Ammonimenti dati a Giacomo.—XXVIII. Sforzi di Luigi per
 salvare Giacomo.—XXIX. Giacomo li rende vani.—XXX. Le armi francesi
 invadono la Germania.—XXXI. Guglielmo ottiene la Sanzione degli Stati
 Generali alla sua impresa.—XXXII. Schomberg; Avventurieri Inglesi
 allʼAja.—XXXIII. Manifesto di Guglielmo—XXXIV. Giacomo si scuote
 alla presenza del pericolo; suoi mezzi marittimi.—XXXV. Suoi mezzi
 militari.—XXXVI. Tenta di rendersi benevoli i sudditi.—XXXVII.
 Dà udienza ai Vescovi.—XXXVIII. Le sue concessioni sono mal
 ricevute.—XXXIX. Prove della nascita del Principe di Galles
 presentate al Consiglio Privato.—XL. Disgrazia di Sunderland.—XLI.
 Guglielmo prende commiato dagli Stati dʼOlanda.—XLII. Sʼimbarca,
 fa vela, ed è ricacciato addietro da una tempesta.—XLIII. Il suo
 Manifesto giunge in Inghilterra; Giacomo interroga i Lordi.—XLIV.
 Guglielmo fa vela di nuovo.—XLV. Passa lo Stretto.—XLVI. Approda
 a Torbay.—XLVII. Entra in Exeter.—XLVIII. Colloquio del Re
 coi Vescovi.—XLIX. Tumulti in Londra.—L. Uomini dʼalto grado
 cominciano ad accorrere al Principe.—LI. Lovelace.—LII. Colchester;
 Abingdon.—LIII Diserzione di Cornbury.—LIV. petizione deʼ Lordi
 per la convocazione del Parlamento.—LV. Il Re va a Salisbury.—LVI.
 Seymour; Corte di Guglielmo in Exeter.—LVII. Insurrezione nelle
 Contrade Settentrionali.—LVIII. Scaramuccia in Wincanton.—LIX.
 Diserzione di Churchill e di Grafton—LX. Lo esercito regio si
 ritira da Salisbury.—LXI. Diserzione del Principe Giorgio e di
 Ormond.—LXII. Fuga della Principessa Anna.—LXIII. Giacomo convoca
 un Consiglio di Lordi.—LXIV. Nomina una Commissione per trattare
 con Guglielmo—LXV. È una finzione.—LXVI. Dartmouth ricusa di
 mandare il Principe di Galles in Francia.—LXVII. Agitazione di
 Londra.—LXVIII. Proclama apocrifo.—LXIX. Insurrezione in varie parti
 del paese.—LXX. Clarendon si reca presso il Principe in Salisbury;
 Dissenzione nel campo del Principe.—LXXI. Il Principe giunge a
 Hungerford; Scaramuccia in Reading; La Commissione del Re arriva a
 Hungerford.—LXXII. Negoziati.—LXXIII. La Regina e il Principe di
 Galles sono mandati in Francia; Lauzun.—LXXIV. Il Re sʼapparecchia a
 fuggire.—LXXV. Sua fuga.

I. Il processo vinto daʼ Vescovi non fu il solo evento che fa del
giorno decimoterzo di giugno 1688 una grande epoca nella storia. In
quel dì, mentre le campane di cento chiese sonavano a festa, mentre
numerose turbe di popolo affaccendavansi da Hyde–Park a Mile–End a
fare fuochi di gioia ed ardere le immagini del Papa per celebrare la
memoranda notte, fu spedito da Londra allʼAja un documento quasi quanto
la _Magna Charta_ importantissimo alle libertà della Inghilterra.

La persecuzione deʼ Vescovi, e la nascita del Principe di Galles
avevano prodotto un grande rivolgimento nellʼopinione di molti Tory.
Nel momento stesso, in cui la loro Chiesa pativa gli ultimi eccessi
di danno e dʼinsulto, vedevansi costretti a perdere ogni speranza
di pacifica liberazione. Fino allora sʼerano lusingati che la prova
alla quale era stata posta la lealtà loro, quantunque severa, sarebbe
temporanea, e che alle loro doglianze, verrebbe resa giustizia senza
che si rompesse il corso ordinario della successione al trono. Adesso
ravvisavano le cose in modo assai diverso. Per quanto potessero
addentrare lo sguardo nel futuro, altro non vedevano che il mal governo
degli ultimi tre anni prolungarsi a tempo indefinito. La cuna dello
erede presuntivo della Corona era circondata di Gesuiti; i quali
con sommo studio gli avrebbero nella mente infantile istillato odio
mortale contro quella Chiesa di cui un giorno ei sarebbe stato capo,
odio ispiratore di tutta la sua vita, e chʼegli avrebbe trasmesso ai
suoi successori. A questo spettacolo di calamità non era confine;
estendevasi al di là della vita del più giovane deʼ viventi, al di
là del secolo decimottavo. Nessuno avrebbe potuto asserire per
quante generazioni i Protestanti sarebbero dannati a gemere sotto una
oppressura, la quale, anche allorchè reputavasi breve, era stata quasi
insopportabile.

I più illustri fraʼ dottori anglicani di quellʼepoca avevano insegnato
come nessuna infrazione di legge o di contratto, nessuno eccesso di
crudeltà, di rapacità, di licenza, dalla parte del Re legittimo,
bastasse a giustificare la resistenza che il popolo potrebbe opporre
alla forza di lui. Taluni di loro sʼerano piaciuti di mostrare la
dottrina della non–resistenza in una forma cotanto esagerata da
scandalizzarne il buon senso del genere umano. Spesso e con veemenza
notavano che Nerone era capo del Governo Romano, mentre San Paolo
inculcava il debito dʼubbidire ai magistrati. La conseguenza che ne
deducevano era, che se un Re inglese, senza autorità di legge ma a suo
libito, perseguitasse i propri sudditi ripugnanti ad adorare gli idoli;
se li gettasse fra mezzo ai leoni nella Torre; se, coprendoli dʼuna
veste di pece, gli bruciasse per illuminare il Parco di San Giacomo, e
procedesse con siffatte stragi fino a lasciare intere città e Contee
senza un solo abitante, i sopravviventi sarebbero tuttavia tenuti a
sottomettersi, e lasciarsi sbranare o arrostire vivi senza opporre
la più lieve resistenza. Gli argomenti addotti a sostenere cotesta
sentenza erano futilissimi; ma al difetto di solidi argomenti suppliva
lʼonnipotente sofisticare dello interesse e della passione. Molti
scrittori si sono maravigliati che gli alteri Cavalieri dʼInghilterra
potessero mostrarsi caldi difensori per la più servile dottrina che
sia mai stata fra gli uomini. Vero è che essa in principio era pel
Cavaliere tuttʼaltro che servile; per lʼopposto tendeva a renderlo non
schiavo, ma libero e signore di sè; lo esaltava esaltando il Re chʼegli
considerava suo protettore, suo amico, e capo del suo diletto partito
e della sua dilettissima Chiesa. Mentre i Repubblicani dominavano,
il Realista aveva sofferto danni ed insulti, deʼ quali, mercè la
restaurazione del governo legittimo, egli aveva potuto prendersi la
rivincita. Nella sua mente quindi la idea della ribellione richiamava
quella di degradazione e servaggio, e la idea di autorità monarchica,
quella di libertà e predominio. Non gli era mai venuto in capo che
potesse giungere il tempo in cui un Re, uno Stuardo, perseguiterebbe
i più leali del clero e deʼ gentiluomini con animosità maggiore di
quella Coda del Parlamento e del protettore. Eppure siffatto tempo
era giunto. Adesso era da vedersi con che modo la pazienza che gli
aderenti della Chiesa confessavano dʼavere imparata negli scritti
di San Paolo resisterebbe alla prova dʼuna persecuzione da non
paragonarsi alla severissima di Nerone. Lo evento fu tale che ciascuno,
il quale per poco conoscesse la natura umana, avrebbe di leggieri
predetto. Lʼoppressione fece sollecitamente ciò che la filosofia e la
eloquenza non avevano potuto fare. Il sistema di Filmer avrebbe potuto
sopravvivere agli assalti di Locke: ma non si riebbe mai dal colpo
mortale datogli da Giacomo.

Quella logica, la quale, mentre veniva adoperata a provare che
i Presbiteriani e glʼIndipendenti avrebbero dovuto sopportare
mansuetamente la prigione e la confisca, era stata giudicala tale
da non ammettere risposta, parve di pochissimo peso allorquando
fu questione di sapere se i Vescovi Anglicani dovevano essere
imprigionati, e le rendite deʼ Collegi Anglicani confiscate. Era stato
soventi volte ripetuto daʼ pergami di tutte le cattedrali del paese,
che il precetto apostolico di obbedire ai magistrati civili fosse
assoluto ed universale, e che fosse empia presunzione nellʼuomo il
volere limitare un precetto al quale non aveva posto limite alcuno
la parola di Dio. E nondimeno adesso i teologi, la cui sagacità
stimolavano glʼimminenti pericoli neʼ quali trovavansi di essere
privati deʼ loro benefizi e prebende per fare posto ai papisti,
trovavano vizioso il ragionamento dianzi reputato convincentissimo.
La morale della scrittura non era da interpretarsi come gli Atti del
Parlamento, o i trattati deʼ casisti delle scuole. E davvero chi deʼ
cristiani porse mai la guancia sinistra al malfattore che lo aveva
percosso nella destra? Chi deʼ cristiani diede mai il suo mantello ai
ladri che gli avevano rubato la veste? Sì nel Vecchio che nel Nuovo
Testamento le regole generali erano sempre scritte senza eccezioni.
A moʼ dʼesempio, il precetto generale di non uccidere non era
accompagnato dalla eccezione che giustifica il guerriero che uccida
altri a difesa del suo Re e della sua patria. Il generale precetto di
non giurare non era accompagnato da nessuna eccezione a favore del
testimonio che giuri di dire il vero dinanzi ai giudici. E nondimeno
la legalità della guerra difensiva e del giuramento giudiciale era
impugnata solo da pochi oscuri settari, e positivamente affermata
negli articoli della Chiesa Anglicana. Tutti gli argomenti i quali
dimostravano che il Quacquero, ricusando di servire nella milizia o di
baciare il Vangelo, era irragionevole e perverso, potevan rivolgersi
contro coloro che negavano ai sudditi il diritto di resistere con la
forza alla eccessiva tirannia. Se ammettevasi che le autorità bibliche
che proibivano lʼomicidio e quelle che proibivano il giuramento,
comunque espresse in forma generale, dovevano essere interpretate in
subordinazione al gran comandamento che ingiunge ad ogni uomo il debito
di promuovere il bene del prossimo, e siffattamente interpretate non
si trovavano applicabili ai casi in cui lʼomicidio e il giuramento
potrebbe essere assolutamente necessario a proteggere i più gravi
interessi della società, non era agevole negare che le autorità
bibliche che inibivano la resistenza si dovessero interpretare nel modo
medesimo. Se allo antico popolo di Dio era stato talvolta ordinato di
distruggere la vita umana e tal altra dʼobbligarsi per sacramento,
talvolta gli era stato anche ordinato di resistere ai principi malvagi.
Se i primitivi Padri della Chiesa avevano in varie occasioni detto
parole, che sembravano sottintendere la riprovazione della resistenza,
avevano parimente in altre occasioni usato parole che sembravano
sottintendere la riprovazione dʼogni guerra e dʼogni giuramento. E
veramente la dottrina della obbedienza passiva, quale insegnavasi in
Oxford sotto il regno di Carlo II, può dedursi dalla Bibbia soltanto
con un modo dʼinterpretazione che irresistibilmente ci condurrebbe alle
conclusioni di Barclay e di Penn.

Eʼ non era solo per mezzo degli argomenti tratti dalla lettera delle
Sante Scritture che i teologi anglicani, negli anni che immediatamente
seguirono alla Restaurazione, si studiavano di provare la loro
prediletta dottrina. Aveano tentato dimostrare, che, quando anche la
rivelazione non avesse parlato, la ragione avrebbe insegnato ai savi
uomini essere iniqua e insana ogni resistenza al Governo stabilito.
Universalmente ammettevasi che cosiffatta resistenza, tranne nei casi
estremi, non era giustificabile. Ma chi avrebbe osato stabilire il
confine fra i casi estremi e gli ordinari? Vʼera egli governo al mondo
sotto cui non fossero malcontenti e faziosi i quali potessero dire, e
forse pensare, che le loro doglianze costituissero un caso estremo?
Se fosse stato possibile stabilire una regola chiara ed esatta che
inibisse agli uomini di ribellarsi contro Trajano, e ad un tempo desse
loro libertà di ribellarsi contro Caligola, tale regola sarebbe stata
sommamente benefica. Ma siffatta regola non vʼè stata nè vi sarà
mai. Dire che la ribellione fosse legittima, date certe circostanze,
senza esattamente definirle, era come si dicesse che a ciascuno era
lecito ribellarsi tutte le volte che lo reputasse opportuno; ed una
società nella quale ciascuno potesse ribellarsi ogni qual volta lo
reputasse opportuno, sarebbe più infelice dʼuna società governata dal
più crudele e sfrenato despota. Era quindi mestieri di mantenere in
tutta la sua interezza il gran principio della non–resistenza. Forse
potevano addursi casi peculiari neʼ quali la resistenza tornasse utile
ad un popolo: ma generalmente era meglio che un popolo tollerasse con
pazienza un cattivo governo, anzi che alleggiarsi violando una legge
dalla quale dipendeva la sicurtà dʼogni governo.

Cotesti ragionamenti di leggieri potevano persuadere un partito
dominante e felice, ma non potevano sostenere lo esame di cervelli
fortemente concitati dalla ingiustizia e ingratitudine del principe.
Egli è vero che è impossibile stabilire lo esatto confine fra la
resistenza legittima e la illegittima: ma tale impossibilità sorge
dalla natura stessa del diritto e del torto, e si trova pressochè in
ciascuna parte della Scienza Morale. Una buona azione non è distinta da
una cattiva coi segni chiari che distinguono una figura esagona da una
quadra. Vʼè un punto in cui la virtù e il vizio si confondono insieme.
E chi ha potuto mai additare con esattezza il limite tra il coraggio
e la temerità, tra la prudenza e la codardia, tra la liberalità e la
prodigalità? Chi ha potuto mai dire fino a che punto debba giungere
la mercè verso gli offensori, e quando cessi di meritare tal nome e
diventi perniciosa debolezza? Quale casista o legislatore ha potuto
mai rettamente definire i confini del diritto della propria difesa?
Tutti i nostri giureconsulti sostengono che una certa misura di
pericolo di vita o di perdita di membra giustifica un uomo ad uccidere
lʼaggressore: ma hanno disperato di poter descrivere con precisi
vocaboli, quanta e quale debba essere la misura del pericolo. Dicono
soltanto che non debba essere lieve pericolo; ma un pericolo tale che
dia grave timore ad un uomo di spirito fermo; e chi oserebbe dire quale
sia questo timore che meriti dʼessere chiamato grave, o qual sia la
precisa tempra dello spirito che meriti il nome di fermo? Senza dubbio
è cosa increscevole che lʼindole deʼ vocaboli e quella delle cose non
ammettano leggi più accurate: nè è da negarsi che male possono operare
gli uomini qualvolta sono giudici in causa propria, e procedere con
subito impeto alla esecuzione del proprio giudicio. E nulladimeno
chi per ciò interdirebbe la propria difesa? Il diritto che ha un
popolo di resistere ad un cattivo governo, ha stretta analogia col
diritto che un individuo, privo di protezione legale, ha ad uccidere
lo aggressore. In ambi i casi il male deve essere grave. In ambi i
casi ogni regolare e pacifico modo di difesa deve essere esaurito
pria che la parte offesa si appigli ad un partito estremo. In ambi i
casi sʼincorre in terribile responsabilità. In ambi i casi la prova
grava sulla coscienza di colui che sʼappiglia ad uno espediente sì
disperato; ed ove non riesca a difendersi, va giustamente soggetto alla
più severe pene. Ma in nessun caso potremmo assolutamente negare la
esistenza del diritto. Un uomo aggredito dagli assassini, non è tenuto
a lasciarsi torturare o scannare senza far uso delle proprie armi per
la ragione che nessuno ha mai potuto con precisione definire la misura
del pericolo che giustifica lʼomicidio. Nè una società è tenuta a
sopportare passivamente gli eccessi della tirannide per la ragione che
nessuno ha mai potuto precisamente definire la misura del mal governo
che giustifica la ribellione.

Ma poteva ella la resistenza degli Inglesi ad un principe quale era
Giacomo chiamarsi propriamente ribellione? Egli è vero che i migliori
discepoli di Filmer sostenevano non esservi differenza veruna tra
lʼordinamento politico della patria nostra e quello della Turchia,
e che se il Re non confiscava il contenuto di tutte le casse che
erano in Lombard–Street, e non mandava i muti a recare il capestro
a Sancroft e ad Halifax, ciò era solo perchè egli era sì benigno
da non usare tutta la potestà datagli da Dio. Ma la maggior parte
deʼ Tory, quantunque nel fervore del conflitto potessero adoperare
parole che sembrassero approvare coteste enormi dottrine, abborrivano
cordialmente il dispotismo. Agli occhi loro il governo inglese era una
monarchia limitata. E come potrebbe chiamarsi limitata una monarchia
ove non si possa mai, nè anche come unico ed estremo mezzo, adoperare
la forza a fine di mantenere tali limitazioni? In Moscovia, dove per
virtù della costituzione dello Stato il sovrano era assoluto, poteva
con qualche apparenza di vero sostenersi che, per qualunque eccesso
egli commettesse, aveva diritto, giusta i principii della religione
cristiana, ad essere obbedito daʼ suoi sudditi. Ma tra noi principe e
popolo erano vicendevolmente vincolati dalle leggi. Giacomo adunque era
colui il quale rendevasi meritevole del castigo minacciato a coloro che
insultassero la potestà costituita. Giacomo era colui che resisteva ai
comandamenti di Dio; che ricalcitrava contro lʼautorità legittima, alla
quale doveva sottoporsi, non solo per timore, ma per coscienza, e che,
secondo il vero senso delle parole di Cristo, non rendeva a Cesare ciò
che era di Cesare.

Mossi da simiglianti considerazioni, i più illustri e savi fra i Tory
incominciarono ad accorgersi dʼavere troppo stiracchiata la dottrina
della obbedienza passiva. La differenza fra costoro e i Whig rispetto
agli obblighi vicendevoli del Re e dei sudditi cessò allora dʼessere
una differenza di principio. Certo rimanevano per anche molte storielle
controversie tra il partito che da lungo tempo aveva propugnato la
legalità della resistenza e i nuovi convertiti. La memoria del Martire
beato seguitava ad essere quanto mai riverita da queʼ vecchi Cavalieri,
i quali erano pronti a impugnare le armi contro il degenere figlio,
e seguitavano ad abborrire il Lungo Parlamento, la Congiura di Rye
House, e la insurrezione delle contrade Occidentali. Ma non ostante
i loro pensamenti intorno al passato, il modo onde ravvisavano il
presente era identico a quello deʼ Whig: imperocchè ammettevano che la
estrema oppressione potesse giustificare la resistenza, ed affermavano
che la oppressione, sotto la quale la nazione allora gemeva, era
estrema.[411]

Nulladimeno non è da supporsi che tutti i Tory, anche in quelle
circostanze, abbandonassero un domma che fino da fanciulli avevano
imparato a considerare come parte essenziale della dottrina cristiana,
che avevano per molti anni con veemente ostentazione professato, e
tentato di propagare per mezzo della persecuzione. Molti manteneva
fermi nei principii loro la coscienza, e molti il rossore. Ma la
maggior parte, anche di coloro che seguitavano tuttavia a credere
illegale ogni resistenza al sovrano, inchinavano, nel caso dʼun
conflitto civile, a tenersi neutrali. Nessuna provocazione gli avrebbe
tratti a ribellare: ma ove la ribellione scoppiasse, non sembra che si
reputassero tenuti a combattere per Giacomo II come avevano combattuto
per Carlo I. Ai Cristiani di Roma San Paolo aveva inibito di fare
resistenza al governo di Nerone: ma non vʼera ragione a credere che
lo Apostolo, se fosse stato vivo allorquando le legioni e il Senato
insorsero contro quel malvagio imperatore, avrebbe comandato aʼ suoi
confratelli di correre in armi a difesa della tirannide. Il dovere
della Chiesa perseguitata era manifesto: soffrire con pazienza e porre
la propria causa nelle mani di Dio. Ma se a Dio, la cui provvidenza
suscita perpetuamente il bene dal male, piacesse, come soventi volte
gli era piaciuto, di rimediare ai danni per mezzo di tali le cui tristi
passioni la Chiesa coʼ suoi ammonimenti non aveva potuto mansuefare,
essa poteva con gratitudine accettare da Dio la liberazione, che a
lei, secondo le sue dottrine, non era concesso di compiere da sè. E
però molti deʼ Tory, i quali tuttavia abborrivano da ogni pensiero di
aggredire il Governo, non erano minimamente inchinevoli a difenderlo, e
forse, mentre gloriavansi deʼ loro scrupoli, in cuor loro godevano che
altri non fosse come essi scrupoloso.

I Whig sʼaccôrsero che il tempo per loro era arrivato. La questione
se dovessero snudare la spada contro il governo era stata per sei o
sette anni pretta questione di prudenza; e adesso la prudenza stessa
glʼincitava ad appigliarsi a più audaci partiti.

II. Nel maggio, innanzi al nascimento del Principe di Galles, e
mentre era tuttavia incerto se la Dichiarazione dʼIndulgenza sarebbe
o non sarebbe letta nelle chiese, Eduardo Russell era andato allʼAja.
Aveva con vivi colori rappresentato al principe lo stato del pubblico
sentire, e lo aveva consigliato a mostrarsi in Inghilterra capo dʼuna
forte schiera di soldati, e chiamare il popolo alle armi.

Guglielmo ad un solo sguardo conobbe la importanza della crisi. «O
adesso o mai,» disse in latino a Dikwelt.[412] Con Russell tenne parole
più misurate, riconobbe i mali dello Stato essere tali da richiedere
straordinario rimedio, ma parlò calorosamente del caso dʼun esito
sinistro, e delle calamità che da ciò ne verrebbero alla Gran Brettagna
e alla Europa. Sapeva bene che coloro i quali parlavano con sonanti
paroloni di sacrificare vita e roba pel bene della patria esiterebbero
ove si presentasse alle loro menti lo spettacolo dʼun altro Tribunale
di Sangue. Per la qual cosa a lui bisognavano non vaghe proteste di
buon volere, ma inviti chiari e promesse esplicite di appoggio, munite
della firma di potenti e cospicui uomini. Russell gli fece notare come
fosse pericoloso affidare il disegno a un gran numero di persone.
Guglielmo ne convenne, e disse bastargli poche firme, purchè fossero
dʼuomini di Stato rappresentanti di grandi interessi.[413]

III. Con tale risposta Russell fece ritorno a Londra dove trovò il
pubblico concitamento maggiore e sempre crescente. La carcerazione deʼ
vescovi e il parto della Regina resero lʼopera di lui più agevole
di quello chʼegli aveva presupposto. Non perdè tempo a raccogliere i
voti deʼ capi della opposizione, avendo a principale coadiutore Enrico
Sidney fratello dʼAlgernon. È da notarsi che Eduardo Russell ed Enrico
Sidney erano stati addetti alla famiglia di Giacomo; che entrambi,
in parte per private e in parte per pubbliche cagioni, gli divennero
nemici; e che entrambi avevano da vendicare il sangue deʼ congiunti,
i quali, lʼanno stesso, erano caduti vittime della implacabile
ferocia del tiranno. Qui finisce ogni somiglianza tra loro. Russell,
fornito di non poca abilità, era orgoglioso, virulento, irrequieto,
e violento. Sidney, dotato dʼindole dolce e dʼamabilissimi modi,
sembrava difettare di capacità e di sapere, e starsi immerso nella
voluttà e nellʼindolenza. Era assai bello di viso e di persona. In
gioventù era stato il terrore deʼ mariti, ed anche adesso che toccava
quasi cinquanta anni, era il prediletto delle donne e lo invidiato
daʼ giovani. Per innanzi era stato allʼAja con un pubblico ufficio,
ed erasi acquistato in larga misura la confidenza di Guglielmo. Molti
ne maravigliavano: imperciocchè eʼ sembrava che tra il più austero
degli uomini di Stato e il più dissoluto degli oziosi non vi potesse
essere nulla di comune. Swift, molti anni dopo, non poteva persuadersi
in che modo un uomo, chʼegli aveva conosciuto solo come un vecchio
libertino, frivolo e privo di lettere, avesse veramente avuto tanta
parte in una grande rivoluzione. Nondimeno un ingegno meno acuto di
Swift si sarebbe potuto accorgere che nellʼindole umana esiste un
certo tatto, somiglievole ad un istinto, che spesso manca ai grandi
oratori e ai filosofi, e che spesso si trova in individui, i quali, ove
si giudichino dal conversare e dagli scritti loro, si reputerebbero
semplicioni. E davvero quando un uomo possiede cotesto tatto, in
un certo senso gli torna utile lʼessere privo di quelle doti più
appariscenti che lo renderebbero oggetto di ammirazione, dʼinvidia, e
di timore. Sidney è un notevolissimo esempio di questa verità. Poco
capace, ignorante, e dissoluto come pareva essere, intendeva, o per
dire meglio, sentiva con chi era necessario tenersi in riserbo, e con
chi liberamente e con securtà comunicare. Per la qual cosa egli compì
ciò che Mordaunt con tutta la sua vivacità ed immaginazione, o Burnet
con tutta la sua svariata dottrina e fluida eloquenza, non avrebbero
potuto mai fare.[414]

IV. Coʼ vecchi Whig egli non poteva incontrare nessuna difficoltà; come
quelli che opinavano non esservi stato in molti anni un solo momento,
in cui i pubblici danni non giustificassero la resistenza. Devonshire,
che poteva considerarsi loro capo, e che aveva torti privati e pubblici
da vendicare, accolse con tutto il cuore il gran disegno e si fece
mallevadore di tutto il suo partito.[415]

Russell rivelò il secreto a Shrewsbury. Sidney saggiò Halifax.
Shrewsbury assunse la parte sua con coraggio e risolutezza tali, che
anni dopo parvero mancare al suo carattere. Tosto si profferì parato a
porre a repentaglio roba, onori, e vita. Halifax allo incontro accolse
i primi cenni della impresa in un modo da far temere che fosse inutile,
e forse pericoloso parlargliene esplicitamente. Certo egli non era
lʼuomo per una tanta impresa. Aveva intelletto inesauribilmente fecondo
di distinzioni e dʼobiezioni, e indole tranquilla e repugnante alle
avventure. Era pronto ad avversare la Corte fino allo estremo nella
Camera deʼ Lordi e con scritti anonimi, ma poco disposto a cangiare i
suoi ozi signorili per la mal sicura ed agitata vita di cospiratore, a
porsi nelle mani deʼ complici, a vivere in perenne timore dello arrivo
dʼun mandato dʼarresto e deʼ regii messaggieri, e forse anco di finire
i suoi giorni sul palco, o di vivere accattando in qualche appartata
via dellʼAja. E però disse poche parole che chiaramente significavano
la sua ripugnanza a conoscere le arcane intenzioni deʼ suoi più arditi
e impetuosi amici. Sidney lo intese, e tacque.[416]

V. Si rivolse quindi a Danby, ed ebbe miglior ventura. E veramente il
pericolo e lo eccitamento, che riuscivano insoffribili alla mente di
Halifax più delicatamente organizzata, erano dʼirresistibile fascino
allo audace ed attivo spirito di Danby. I differenti caratteri di
questi due uomini di Stato si leggevano neʼ loro visi. Il ciglio,
lʼocchio e la bocca di Halifax indicavano un potente intelletto, e
uno squisito senso di scherzo; ma la sua espressione era quella dʼuno
scettico, dʼun voluttuoso, dʼun uomo ripugnante a rischiare tutto in
una sola partita, o ad essere martire dʼun principio. Chi conosce le
fattezze di Halifax non maraviglierà che sopra tutti gli scrittori
egli si dilettasse di Montaigne.[417] Danby era uno scheletro; e la
sua faccia scarna e solcata di rughe, benchè bella e nobile, esprimeva
esattamente lʼacutezza della sua intelligenza e la sua irrequieta
ambizione. Una volta ei si era già inalzato dalla oscurità ai fastigi
del potere; ne era caduto a capofitto; aveva corso pericolo di vita;
aveva passati degli anni in carcere; adesso era libero: ma ciò non lo
appagava: egli ardeva di farsi nuovamente grande. Fedele alla Chiesa
Anglicana, e ostile alla influenza francese, non poteva sperare di
divenire grande in una Corte brulicante di Gesuiti ed ossequiosa alla
Casa deʼ Borboni. Ma sʼegli fosse parte precipua dʼuna rivoluzione
che farebbe svanire i disegni deʼ Papisti, che porrebbe fine al
vassallaggio sotto il quale la Inghilterra da lunghi anni gemeva, e
trasferirebbe la potestà regia a due anime illustri da lui unite in
matrimonio, potrebbe risorgere dalla oscurità con nuovo splendore.
I Whig, lʼanimosità deʼ quali, nove anni innanzi, lo aveva cacciato
dallʼufficio, congiungerebbero, alla sua avventurata riapparizione,
i loro applausi agli applausi deʼ Cavalieri suoi vecchi amici. Già
egli sʼera pienamente riconciliato con uno deʼ precipui personaggi che
lo avevano messo in istato dʼaccusa, cioè col conte di Devonshire.
Entrambi si erano incontrati in un villaggio nel Peak, e sʼerano
ricambiati assicurazioni di benevolenza. Devonshire aveva francamente
confessato che i Whig erano rei dʼuna grande ingiustizia, ma aveva
dichiarato che adesso confessavano dʼavere errato. Danby, dal canto
suo, aveva qualche ritrattazione a fare. Un tempo aveva professato,
o simulato di professare la dottrina dellʼobbedienza passiva nel
senso più esteso del vocabolo. Mentre egli era ministro e con la
sua sanzione era stata proposta una legge, la quale ove fosse stata
approvata, avrebbe escluso dal Parlamento e dagli uffici chiunque
avesse ricusato di dichiarare con giuramento la illegalità della
resistenza. Ma il suo vigoroso intendimento, ora affatto desto per
lʼansietà del bene pubblico e del proprio, non poteva lasciarsi
ingannare, se pure lo avea mai fatto innanzi, da cotali fanciullesche
fallacie.

VI. Il perchè assentì, senza andirivieni, alla congiura, e sforzossi di
trarvi dentro Compton Vescovo di Londra, già sospeso, e non incontrò
difficoltà veruna a riuscirvi. Non vʼera prelato che al pari di Compton
avesse patito la ingiustizia del Governo; nè vʼera prelato che potesse
tanto sperare da un rivolgimento; imperciocchè egli aveva diretta la
educazione della Principessa dʼOrange, e credevasi che ne avesse in
larga misura la fiducia. Come i suoi confratelli egli, finchè non fu
oppresso, aveva insegnato essere delitto resistere alla oppressione; ma
dacchè gli fu forza appresentarsi allʼAlta Commissione, un nuovo raggio
di luce scese a stenebrargli la mente.

VII. Danby e Compton desideravano avere Nottingham compagno alla
impresa. Gli apersero intieramente il disegno, e quei lo approvò.
Ma dopo pochi giorni cominciò a sentirsi inquieto. Non aveva mente
abbastanza forte da emanciparsi dai pregiudicii della educazione.
Andò in giro da un teologo ad un altro proponendo loro con parole
generali casi ipotetici di tirannia, e chiedendo se in simili casi
la resistenza fosse legittima. Le risposte che nʼebbe accrebbero la
irrequietudine dellʼanimo suo, finchè disse ai suoi complici di non
potere andare più oltre con essi. Se lo stimavano capace di tradirli,
potevano pugnalarlo, chè non gli avrebbe biasimati, imperocchè
tirandosi indietro dopo essersi spinto tanto innanzi, aveva loro dato
diritto sopra la sua vita. Gli assicurò nondimeno che non avevano
nulla a temere da lui; chʼegli manterrebbe il segreto; desiderava loro
prospera fortuna, ma la sua coscienza non gli consentiva di partecipare
ad una ribellione. Ascoltarono siffatte parole con sospetto e con
isdegno. Sidney, le cui idee intorno agli scrupoli di coscienza,
erano estremamente vaghe, scrisse al Principe che Nottingham sʼera
impaurito. È debito di giustizia, nondimeno, il confessare che tutta la
vita di Nottingham fu tale che ci è forza credere la sua condotta in
questa circostanza, quantunque poco savia e irresoluta, essere stata
onestissima.[418]

Gli agenti del Principe ebbero miglior ventura con Lord Lumley, il
quale, non ostanti i grandi servigi da lui resi nel tempo della
insurrezione delle Contrade Occidentali, sapeva dʼessere abborrito
in Whitehall non solo come eretico, ma come rinnegato, e per ciò era
più ardente che non fossero la maggior parte deʼ nati Protestanti, a
prendere le armi in difesa del Protestantismo.[419]

VIII. Nel mese di giugno le ragunanze deʼ congiurati furono frequenti;
e fecero il passo decisivo nellʼultimo giorno del mese, in quel giorno
stesso in che i Vescovi furono dichiarati innocenti. Spedirono allʼAja
un invito formale ricopiato da Sidney, ma composto da qualcuno più
esperto di lui nellʼarte di scrivere. In quel documento assicurano a
Guglielmo che diciannove ventesimi del popolo inglese erano desiderosi
di un mutamento, e coopererebbero ad effettuarlo solo che potessero
ottenere di fuori il soccorso di una forza bastevole a impedire che
coloro i quali corressero alle armi fossero dispersi e macellati
innanzi che si potessero in un modo qualunque militarmente ordinare.
Se Sua Altezza approdasse allʼisola accompagnato da una schiera
di soldati, le genti a migliaia correrebbero a porsi sotto la sua
bandiera; sì che bene presto si vedrebbe alla testa di forze assai
superiori allo esercito regio dellʼInghilterra. Oltre di che il Governo
non poteva implicitamente essere sicuro della obbedienza di cotesto
esercito. Gli ufficiali erano malcontenti; e i soldati sentivano
contro il papismo quella avversione che era comune a tutta la classe
dalla quale erano stati presi. Nella flotta il sentimento protestante
era anche più forte. Importava singolarmente fare un passo decisivo
mentre le cose erano in tali condizioni. La impresa diverrebbe vie
maggiormente ardua ove venisse differita fino a che il Re, riformando
borghi e reggimenti, mettesse insieme un parlamento ed una armata sopra
cui potesse riposare. I cospiratori, quindi, supplicavano il Principe
di venire fra loro al più tosto possibile. Gli davano parola dʼonore
che si sarebbero associati a lui; e imprendevano a trarre al partito
tanto numero di persone da poterle impunemente rendere partecipi di
un così grave e pericoloso secreto. Rispetto ad una sola cosa si
credevano in debito di rimostrare con sua Altezza, cioè di non essersi
giovato della opinione che la massima parte del popolo inglese aveva
intorno al nascimento del regio infante, e dʼavere, invece, mandate
congratulazioni a Whitehall, quasi sembrasse riconoscere che il
neonato, che chiamavasi Principe di Galles, fosse il legittimo erede
del trono. Ciò era un grave errore ed aveva intiepidito lo zelo nel
cuore di molti. Nè anche una in mille persone dubitava che lo infante
fosse un intruso; e il Principe tradirebbe i propri interessi ove le
sospettose circostanze che avevano accompagnato il parto della Regina,
non primeggiassero fra le ragioni che lo costringevano a prendere le
armi.[420]

Cotesto scritto fu firmato in cifra dai sette capi della congiura,
Shrewsbury, Devonshire, Danby, Lumley, Compton, Russell e Sidney.
Herbert si tolse il carico di messaggiero. Ed essendo la sua
commissione pericolosissima, si travestì da semplice marinaio ed
approdò sicuro in Olanda il dì dopo finito il processo deʼ Vescovi.
Appresentossi sullʼistante al Principe; il quale, chiamati a sè
Bentinck e Dykvelt, si stette con loro parecchi giorni a deliberare.
Prima conseguenza di ciò fu che più non si leggesse nella cappella
della Principessa la preghiera pel Principe di Galles.[421]

IX. Dalla consorte Guglielmo non poteva temere veruna opposizione.
Lo intelletto di Maria era stato pienamente soggiogato da quello di
lui; e ciò che è più estraordinario, egli ne acquistò intieramente lo
affetto. Egli le teneva luogo di genitori, da lei perduti per morte
e per allontanamento, di figli che il cielo aveva negati alle sue
preci, e di patria dalla quale ella era bandita. Nel cuore di lei
Guglielmo divideva lo impero soltanto con Dio. Probabilmente non portò
mai vero affetto al padre da lei lasciato nella prima giovinezza, e
da lunghi anni non riveduto: oltrechè dopo il suo matrimonio, Giacomo
non le aveva mostrato segni di tenerezza, nè si era condotto in modo
da destare teneri sentimenti nel cuore della figlia. Anzi fece ogni
possibile sforzo a perturbarle la felicità domestica stabilendo nella
stessa casa di Maria un sistema di spionaggio, di sorveglianza e di
chiacchiericcio. Egli possedeva entrate molto maggiori di quelle
deʼ predecessori suoi, ed aveva assegnato alla figlia minore una
provvisione annua di quarantamila lire sterline:[422] ma la erede
presuntiva del suo trono non aveva mai ricevuto da lui il minimo
soccorso pecuniario, ed appena aveva i mezzi di poter fare una
convenevole comparsa fra le principesse dʼEuropa. Erasi provata ad
intercedere appo lui a favore di Compton suo precettore ed amico, il
quale, accusato di non avere voluto commettere un atto di flagrante
ingiustizia, era stato sospeso dalle funzioni episcopali: ma era stata
respinta con mala grazia.[423] Dal giorno in cui sʼera chiaramente
conosciuto che ella e il marito erano deliberati di non partecipare
alla distruzione della Costituzione inglese, uno deʼ fini precipui
della politica di Giacomo era stato quello di nuocere ad entrambi.
Aveva richiamate le milizie inglesi dalla Olanda, congiurato con
Tyrconnel e con la Francia contro i diritti di Maria, ordito trame
per privarla almeno dʼuna delle tre Corone, che, alla morte di lui,
le spettavano. Adesso credevasi da quasi tutto il popolo e da molti
personaggi alto locati per grado e per abilità, che egli avesse
introdotto nella famiglia regale un Principe di Galles supposto,
onde privare della magnifica eredità la figliuola; e non vʼè ragione
a dubitare chʼessa non partecipasse al comune sospetto. Era dunque
impossibile che amasse un cotal padre. I suoi principii religiosi,
a dir vero, erano siffattamente rigidi che probabilmente si sarebbe
provata a compiere quello che ella considerava suo dovere anche verso
un padre da lei non amato. Nondimeno nelle presenti circostanze
giudicò che il diritto di Giacomo ad essere obbedito doveva cedere ad
un altro più sacro diritto. E veramente tutti i teologi e pubblicisti
concordano ad affermare che quando la figlia del principe dʼun paese è
congiunta in matrimonio al principe dʼun altro, è tenuta a dimenticare
il suo popolo e la famiglia paterna, e nel caso dʼuna rottura tra il
suo marito e i suoi parenti, associarsi alle sorti del marito. Questa è
la regola incontrastabile anche ove il marito abbia torto; ed a Maria
la impresa meditata da Guglielmo sembrava non solo giusta, ma santa.

X. E quantunque ella con ogni cura sʼastenesse dal fare o dal dire
la più lieve cosa che potesse accrescere le difficoltà del consorte,
coteste difficoltà erano veramente gravi; erano poco intese anco da
coloro che lo avevano invitato, e sono state imperfettamente esposte da
coloro che hanno scritta la storia della sua espedizione.

Gli ostacoli che doveva aspettarsi dʼincontrare in Inghilterra,
comecchè fossero i meno formidabili fraʼ molti che attraversavano
il suo disegno, erano tuttavia gravi. Accorgevasi che sarebbe stata
demenza imitare lo esempio di Monmouth, traversare il mare con pochi
avventurieri inglesi, e sperare in una generale insurrezione delle
popolazioni. Era necessario—e lo avevano detto tutti coloro dai quali
egli era stato invitato—di condurre seco unʼarmata. E, così facendo,
chi risponderebbe dello effetto che potrebbe produrre la comparsa di
cosiffatta armata? Il Governo era giustamente odiato: ma il popolo
inglese, non avvezzo a vedere mai le Potenze continentali immischiarsi
nelle cose dʼInghilterra, guarderebbe di buon occhio un liberatore
che venisse circondato da soldati stranieri? Se parte delle regie
milizie facesse risolutamente fronte aglʼinvasori, non desterebbero
esse ben presto la simpatia di milioni? Una sconfitta sarebbe fatale
alla impresa. Una vittoria sanguinosa riportata nel cuore dellʼisola
daʼ mercenari degli Stati Generali sopra le Guardie e le altre milizie
del Re, sarebbe calamità grave quasi al pari dʼuna sconfitta; sarebbe
la più cruda ferita inflitta allʼorgoglio della più orgogliosa tra le
nazioni. Il principe non avrebbe mai portata con pace e sicurezza una
corona siffattamente acquistata. Lʼodio contro lʼAlta Commissione e
i Gesuiti cederebbe il posto allʼodio più intenso che susciterebbero
gli stranieri conquistatori; e molti che fino allora avevano sentito
timore ed abborrimento per la Potenza francese, direbbero, che, ove
fosse mestieri sopportare un giogo straniero, sarebbe minore ignominia
sottoporsi alla Francia anzi che allʼOlanda.

Tali considerazioni erano bastevoli a rendere inquieto lʼanimo di
Guglielmo anche ove avesse potuto disporre di tutti i mezzi militari
delle provincie Unite. Ma in verità pareva assai dubbio che ottenesse
un solo battaglione. Tra tutte le difficoltà con le quali gli toccava
lottare, la maggiore, benchè poco notata dagli Storici inglesi,
sorgeva dalla costituzione stessa della Repubblica Batava. Nessuno
Stato è mai esistito per lungo ordine dʼanni con un ordinamento
politico egualmente inconvenevole. Gli Stati Generali non potevano
fare guerra, pace, leghe, o imporre tasse senza il consenso degli
Stati di ciascuna provincia. Gli Stati dʼuna provincia non potevano
dare tale consenso senza quello di ogni municipio, che partecipava
alla rappresentanza. Ciascun municipio, in un certo senso, era uno
Stato sovrano, e come tale pretendeva al diritto di comunicare
direttamente con gli Ambasciatori stranieri, e di stabilire con essi i
mezzi a frustrare i disegni aʼ quali gli altri municipii intendevano.
In alcuni Consigli municipali era potentissimo il partito che pel
corso di varie generazioni sentiva gelosia della influenza dello
Statoldero. Capi di questo partito erano i magistrati della nobile
città dʼAmsterdam, la quale in queʼ tempi godeva della più grande
prosperità. Dalla pace di Nimega in poi non avevano cessato mai di
tenere amichevoli relazioni con Re Luigi per mezzo del suo esperto
ed operoso ambasciatore il Conte dʼAvaux. Alcune proposte presentate
dallo Statoldero come indispensabili alla sicurtà della Repubblica,
sanzionate da tutte le provincie, tranne dagli Stati della Olanda, e
sanzionate da diciassette deʼ diciotto Consigli municipali dʼOlanda,
erano state più volte respinte dal solo voto dʼAmsterdam. Lʼunico
rimedio costituzionale in simiglianti casi era quello di mandare i
deputati delle città assenzienti alla città dissenziente onde fare
una rimostranza. Il numero dei deputati era illimitato; potevano
continuare a rimostrare per quanto tempo credessero necessario; e
intanto la città che ostinavasi a non cedere ai loro ragionamenti era
tenuta a mantenerli a sue spese. Questo modo assurdo di coartare era
stato una volta sperimentato con esito prospero nella piccola città di
Gorkum, ma non era verosimile che riuscisse efficace nella potente e
ricca Amsterdam, famosa in tutto il mondo per i suoi bacini popolati
di navi, i suoi canali circondati da vaste magioni, il sue maestoso
palazzo governativo coperto da cima a fondo di peregrini marmi, i suoi
magazzini ripieni dei più costosi prodotti di Ceylan e di Surinam, e la
sua Borsa che perpetuamente risonava di tutti glʼidiomi parlati dalle
nazioni civili.[424]

Le contese tra la maggioranza che spalleggiava lo Statoldero, e la
minoranza capitanata daʼ magistrati dʼAmsterdam erano più volte
trascorse tanto oltre da far temere inevitabile lo spargimento del
sangue. Una volta, il Principe tentò di punire come traditori i
deputati disubbidienti; unʼaltra, le porte dʼAmsterdam gli vennero
chiuse in faccia, e si fecero leve di milizie per difendere i privilegi
del Consiglio Municipale. E però non era verosimile che i rettori di
quella grande città consentissero ad una impresa grandemente offensiva
a Luigi da essi cotanto corteggiato, impresa che probabilmente
ingrandirebbe la Casa dʼOrange da essi abborrita. Nulladimeno senza
cotesto consenso la impresa non poteva legalmente eseguirsi. Vincere
con la forza la opposizione loro, era un partito al quale, in
circostanze diverse, lʼinflessibile e audace Statoldero non avrebbe
sdegnato dʼappigliarsi. Ma in quel momento egli era importantissimo
schivare con sommo studio ogni atto che avesse sembianza di tirannesco.
Non poteva rischiarsi a violare le leggi fondamentali della Olanda
nellʼistante medesimo in cui egli era per isnudare la spada contro
il suocero che violava le leggi fondamentali della Inghilterra. Il
rovesciare con violenza una libera Costituzione sarebbe stato uno
strano preludio a ristabilirne violentemente unʼaltra.[425]

E vʼera anche unʼaltra difficoltà, pochissimo notata dagli scrittori
inglesi, alla quale Guglielmo teneva sempre fitta la mente. Nella
spedizione che egli meditava, poteva aver prospero successo solamente
appellandosi al sentimento protestante dellʼInghilterra, e stimolandolo
finchè divenisse, per un certo tempo, il dominante e quasi esclusivo
sentimento della nazione. Ciò sarebbe stato agevolissimo qualora lo
scopo di tutta la sua politica fosse stato di produrre un rivolgimento
nella isola nostra e regnarvi. Ma contemplava un altro fine chʼegli
poteva conseguire con lo aiuto deʼ principi, sinceri credenti nella
Chiesa di Roma. Voleva congiungere lo Impero, il Re Cattolico, e la
Santa Sede insieme con lʼInghilterra e la Olanda in una lega contro
la preponderanza francese. Era quindi mestieri che, mentre vibrava
il più gran colpo che fosse mai dato in difesa del protestantismo,
si studiasse a non perdere il buon volere di queʼ Governi che
consideravano il protestantismo come mortale eresia.

Erano coteste le complicate difficoltà della grande impresa. Gli
statisti del continente ne vedevano una parte; gli Inglesi unʼaltra.
Solo una mente vasta e vigorosa le comprese tutte, e deliberò di
vincerle. Non era agevole rovesciare il Governo inglese per mezzo
dʼunʼarmata straniera senza offendere lʼorgoglio nazionale degli
Inglesi. Non era agevole ottenere dalla fazione Batava, partigiana
della Francia e avversa alla Casa dʼOrange, il consenso ad una impresa
che distruggerebbe tutti i disegni della Francia e inalzerebbe a
grandezza la Casa dʼOrange. Non era agevole condurre i Protestanti
entusiasti in una crociata contro il Papismo col plauso di quasi tutti
i governi papisti e del Papa stesso. E nondimeno Guglielmo compiè tutte
le sopradette cose. Tutti i suoi fini, anche quelli che sembravano
singolarmente incompatibili fra loro, egli raggiunse pienamente e a un
tratto. Le storie degli antichi e deʼ moderni tempi non ricordano un
simile trionfo di sapienza politica.

Lʼopera sarebbe veramente stata difficile anche per un uomo di Stato
qual era il Principe dʼOrange, ove i suoi precipui oppositori non
si fossero trovati in preda ad unʼebbrezza tale che da molti, non
inchinevoli alla superstizione, fu attribuita a singolare giudizio di
Dio. Il Re dʼInghilterra non solo fu, come era sempre stato, stupido
e testardo: ma perfino i consigli dello astuto Re di Francia parvero
dettati dalla insania. Guglielmo fece ogni sforzo possibile di saviezza
e dʼenergia. Ma i suoi nemici posero ogni studio a sgombrargli il
terreno di quegli ostacoli cui nessuna saviezza od energia avrebbe
potuto vincere.

XI. Nel gran giorno in cui furono assoluti i Vescovi, e spedito lo
invito allʼAja, Giacomo, tristo ed agitato, da Hounslow fece ritorno
a Westminster. E non ostante che si sforzasse di mostrarsi in lieto
aspetto,[426] i fuochi di gioia, le bombe, e soprattutto il bruciamento
delle immagini del Papa in ogni quartiere di Londra non erano cose da
addolcirgli lʼanimo. Coloro che lo avevano veduto la mattina, poterono
leggergli nel viso e nel portamento le violente emozioni che gli
perturbavano la mente.[427] Per varii giorni parve così ripugnante a
parlare del processo, che nè anco Barillon potè rischiarsi a fargliene
motto.[428]

Tosto cominciò a farsi manifesto come la sconfitta e la mortificazione
avessero indurito il cuore del Re. Le prime parole che egli profferì
appena seppe che le vittime erano campate dagli artigli della sua
vendetta, furono: «Peggio per loro!» In pochi giorni chiaramente si
vide quale fosse il significato di coteste parole, da lui, secondo
il costume, ripetute molte volte. Accusava sè stesso non dʼavere
perseguito i Vescovi, ma dʼaverlo fatto dinanzi a un tribunale, dove
le questioni di fatto erano decise dai giurati, e dove i principii
stabiliti dalla legge non potevano porsi in non cale nemmeno daʼ
giudici più servili. Deliberò adunque di rimediare a tanto errore.
Non solo i sette prelati che avevano firmata la petizione, ma tutto
il Clero Anglicano avrebbero ragione di maledire quel giorno in cui
avevano riportato vittoria sopra il loro sovrano. Circa quindici
giorni dopo il processo, fu emanato un ordine che ingiungeva a tutti
i Cancellieri della Diocesi e a tutti gli Arcidiaconi di fare stretta
inquisizione in tutti i luoghi soggetti alla giurisdizione loro,
e riferire allʼAlta Commissione, entro cinque settimane, i nomi
di queʼ rettori, vicari e curati, che avevano ricusato di leggere
la Dichiarazione dʼIndulgenza.[429] Il Re godeva immaginando il
terrore che sentirebbero i colpevoli vedendosi citati dinanzi ad un
tribunale che loro non avrebbe dato quartiere.[430] Il numero deʼ rei
era quasi, o senza quasi, dieci mila: e dopo ciò chʼera accaduto al
Collegio della Maddalena, ciascuno di loro poteva a ragione aspettarsi
dʼessere interdetto da tutte le sue funzioni spirituali, privato del
suo benefizio, dichiarato incapace di occuparne qualunque altro,
e obbligato a pagare le spese del processo che lo aveva ridotto a
mendicare.

XII. Tale era la persecuzione che Giacomo, fremente di rabbia per
la sconfitta ricevuta a Westminster Hall, aveva pensato di far
piombare sopra il clero. Intanto si provò di mostrare ai legali
con una spicciativa distribuzione di premii e di castighi, che una
intrepida e svergognata servilità anche con poco prospero esito, era
argomento sicuro per meritarsi il regio favore; e chiunque, dopo anni
di ossequiosità, si attentasse deviare dʼun attimo per far mostra di
onestà o di coraggio, rendevasi reo dʼimperdonabile offesa. La violenza
e lʼaudacia che lo apostata Williams aveva mostrato nel processo deʼ
Vescovi lo aveva reso segno allʼodio della intera nazione.[431] Il re
lo rimeritò col farlo baronetto. Holloway e Powell avevano scemata
alquanto la propria infamia dichiarando che, secondo il loro giudizio,
la petizione non era un libello. Il Re li destituì.[432] Le sorti
di Wright sembrarono per qualche tempo ondeggiare nella incertezza.
Nel riassunto chʼei fece della discussione sʼera mostrato avverso
aʼ Vescovi: ma aveva tollerato che gli avvocati loro ponessero in
questione la potestà di dispensare. Aveva detto che la petizione era
un libello: ma a bello studio erasi astenuto dal chiamare legale la
Dichiarazione; e per tutto il corso del processo il suo contegno era
stato quello di chi ricordi che potrà giungere il giorno di renderne
conto. A dir vero, egli era ben meritevole dʼindulgenza; imperocchè mal
poteva aspettarsi che vi fosse al mondo impudenza tale da star salda
senza traballare un momento al cospetto di tali giureconsulti e dʼun
tanto uditorio. Nondimeno i membri della cabala gesuitica lo accusarono
di pusillanimità; il Cancelliere gli dètte del somaro; ed era opinione
generale che verrebbe nominato un nuovo Capo Giudice.[433] Ma non
seguì nessun cangiamento. E davvero non sarebbe stata lieve impresa il
supplire al posto di Wright. I molti giurati che erano a lui superiori
per abilità e per dottrina, quasi senza nessuna eccezione, procedevano
avversi ai disegni del Governo; e i pochi che lo vincevano per
turpitudine e sfrontatezza, quasi senza nessuna eccezione, trovavansi
solo negli infimi gradi del ceto legale, e sarebbero stati incompetenti
a condurre gli affari ordinarii della Corte del Banco del Re. Egli è
vero che Williams aveva tutte le qualità che Giacomo richiedeva in un
magistrato; ma i suoi servigi erano necessari alla barra; e qualora lo
avessero da quivi rimosso, la Corona sarebbe rimasta senza il concorso
di un solo avvocato nè anche di terzo ordine.

A nullʼaltra cosa il Re era rimasto attonito e mortificato quanto al
vedere lo entusiasmo deʼ Dissenzienti nella causa deʼ Vescovi. Penn,
il quale quantunque avesse sacrificato ricchezze ed onorificenze agli
scrupoli della coscienza, sembrava immaginare che nessuno altri che
lui avesse coscienza, attribuì il malcontento deʼ Puritani ad invidia
e ad ambizione non appagata. Essi non avevano partecipato ai benefizi
promessi loro dalla Dichiarazione dʼIndulgenza: nessuno di loro era
stato elevato ad alti ed onorevoli uffici; per la qual cosa non era
strano che fossero gelosi deʼ Cattolici Romani. Pochissimi giorni dopo
finito il processo deʼ Vescovi, Silas Titus, cospicuo presbiteriano,
virulento esclusionista, e uno degli accusatori di Stafford, fu
invitato ad occupare un seggio nel Consiglio Privato. Egli era uno di
coloro sopra i quali lʼopposizione con grande fiducia riposava. Ma
la dignità offertagli, e la speranza di riavere una grossa somma di
pecunia dovutagli dalla Corona, vinsero la sua virtù, e con estremo
disgusto di tutti i Protestanti, prestò il giuramento.[434]

XIII. I disegni vendicativi del Re contro la Chiesa non ebbero effetto.
Quasi tutti gli Arcidiaconi e Cancellieri diocesani ricusarono di
dare le richieste informazioni. Giunto il giorno che il Governo
aveva stabilito a citare tutto il clero per render conto del delitto
di disobbedienza, lʼAlta Commissione ragunossi, e trovò che quasi
nessuno degli ufficiali ecclesiastici aveva trasmesso la relazione
ordinata. Nel tempo stesso fu deposta sul Banco una scrittura di grave
importanza. La mandava Sprat Vescovo di Rochester. Pel corso di due
anni, lusingato dalla speranza dʼun arcivescovato, erasi sobbarcato
al rimprovero di perseguitare quella Chiesa che egli era tenuto con
ogni obbligo di coscienza e dʼonore a difendere. Ma, disilluso nella
sua speranza, sʼaccôrse che ove non abiurasse la sua religione, non
avrebbe probabilità di ascendere alla sede metropolitana di York. Era
di tanto buona indole che non poteva godere della tirannide, ed aveva
tanto discernimento da vedere i segni della vicina retribuzione. Per
lo che deliberò di rinunciare al suo odioso ufficio: e comunicò la
sua deliberazione ai colleghi con una lettera, scritta, al pari di
tutti i suoi componimenti in prosa, con grande proprietà e dignità di
stile. Diceva essergli impossibile continuare più oltre a sedere nella
Commissione: avere egli, per obbedire ai comandamenti sovrani, letta
la Dichiarazione: ma non poter presumere di condannare migliaia di pii
e leali ecclesiastici, i quali ravvisavano in diverso aspetto la cosa;
e poichè si voleva punirli per avere agito secondo la loro coscienza,
ei dichiarava essere pronto a soffrire con loro più presto che farsi
strumento deʼ loro danni.

I Commissarii lessero e rimasero sbalorditi. Gli errori del loro
collega, la conosciuta scioltezza deʼ suoi principii, la conosciuta
bassezza del suo animo, davano maggior peso alla sua defezione. È
mestieri che un Governo sia in vero pericolo quando un nomo come
Sprat gli favella col linguaggio di Hampden. Il tribunale, dianzi
così insolente, a un tratto invilì. Gli ecclesiastici che ne avevano
sfidata lʼautorità, non furono nè anco rimproverati. Non fu reputato
savio consiglio sospettare minimamente che si fossero di proposito
mostrati disobbedienti; fu loro semplicemente ingiunto di mandare
le relazioni dentro quattro mesi. La Commissione poi si sciolse
singolarmente perturbata come quella che aveva ricevuto un colpo
mortale.[435]

XIV. Mentre lʼAlta Commissione retrocedeva da un conflitto con la
Chiesa, la Chiesa, con la coscienza della propria forza ed animata da
nuovo entusiasmo, provocò con parecchie disfide lʼAlta Commissione allo
assalto. Tosto dopo lʼassoluzione deʼ Vescovi, il venerabile Ormond, il
più illustre deʼ Cavalieri della gran guerra civile, soccombeva al peso
delle sue infermità. La nuova della sua morte fu speditamente trasmessa
ad Oxford. Sullʼistante la Università della quale egli da lungo tempo
era stato Cancelliere, ragunossi per eleggere il successore. Un partito
voleva lo eloquente ed egregio Halifax, un altro il grave ed ortodosso
Nottingam. Alcuni rammentarono il Conte dʼAbingdon che abitava lì
vicino ed era stato pur allora destituito dalla Luogotenenza della
Contea per non avere voluto secondare il Re contro la religione dello
Stato. Ma la maggioranza, composta di centottanta graduati, votò a
favore del giovine Duca dʼOrmond, nipote del defunto, e figlio del
valoroso Ossory. La fretta con che eseguirono la elezione nacque dal
timore che, indugiando un solo giorno, il Re potesse imporre loro
qualche candidato che tradirebbe i loro diritti. Siffatto timore era
ben ragionevole: imperciocchè solo due ore dopo sciolta lʼadunanza,
giunse un ordine da Whitehall che richiedeva eleggessero Jeffreys. Per
buona sorte la elezione del giovane Ormond era già irrevocabilmente
fatta.[436] Alquanti giorni dopo lʼinfame Timoteo Hall, il quale
sʼera reso notevole fra il clero di Londra leggendo la Dichiarazione,
fu rimunerato col vescovato di Oxford che era rimasto vacante dopo
la morte del non meno infame Parker. Hall giunse alla sua sede:
ma i canonici della cattedrale ricusarono di assistere alla sua
istallazione. La Università non volle concedergli il titolo di Dottore:
nè anche uno degli scolari ricorse a lui per gli ordini sacri: nessuno
gli faceva di cappello; ed ei si trovò solo dentro il suo palazzo.[437]

Tosto dopo il Collegio della Maddalena doveva disporre dʼun benefizio
vacante. Hough e i suoi cacciati confratelli ragunaronsi e proposero
un chierico; il vescovo di Gloucester, nella cui diocesi era quel
benefizio, diede senza esitare la investitura allo eletto.[438]

XV. I gentiluomini non erano meno riottosi del clero. I tribunali
in quella estate avevano in tutto il paese un insolito aspetto. Ai
giudici, innanzi di mettersi in giro, era stato ordinato di presentarsi
al Re, il quale aveva loro fatto comandamento dʼispirare ai grandi
giurati, in tutto il Regno, il dovere di eleggere rappresentanti al
Parlamento disposti a secondare la sua politica. Essi obbedirono
declamando con veemenza contro il clero, ingiuriando i vescovi,
chiamando la memoranda petizione libello sedizioso, criticando
aspramente lo stile di Sancroft, il quale, a dir vero, offriva
pretesto alla critica, e dicendo che monsignore meritava le sferzate
per mano del Dottore Busby per avere scritto in cattivo inglese. Ma
il solo effetto di cotali indecenti declamazioni fu dʼaccrescere il
malcontento del popolo. Furono loro negate tutte le dimostrazioni
di quella riverenza che il popolo soleva mostrare alla dignità
giudiciale ed alla regia Commissione. Era antica usanza che uomini
rispettabili per nascita e ricchezza si unissero a cavallo con lo
Sceriffo quando egli scortava i giudici alla città della Contea; ma
siffatta processione adesso non fu possibile formare in nessuna parte
del reame. I successori di Powell e di Holloway segnatamente furono
trattati con notevole dispregio. Era loro stato assegnato il giro
dʼOxford; aspettavansi dʼessere accolti in ogni Contea da una cavalcata
di gentiluomini realisti; ma come si appressarono a Wallingford, dove
dovevano aprire la loro commissione per Berkshire, il solo Sceriffo
uscì loro incontro. Come si avvicinarono ad Oxford, la metropoli
eminentemente realista di una eminentemente realista provincia, furono
anche quivi incontrati dal solo Sceriffo.[439]

XVI. Lʼesercito non era meno disaffezionato del clero e deʼ
gentiluomini. Il presidio della Torre aveva bevuto alla salute deʼ
vescovi prigioni. Le Guardie a piedi in Lambeth avevano con ogni
dimostrazione di rispetto salutato il Primate che faceva ritorno al
suo palazzo. In nessun luogo quanto nel campo di Hounslow Heath la
nuova della liberazione deʼ vescovi era stata accolta con più clamorosa
gioia. In verità le grandi forze che il Re aveva ragunate a fine
dʼatterrire la ricalcitrante metropoli erano divenute più ricalcitranti
alla metropoli stessa, ed incuteveno maggior timore alla Corte, che ai
cittadini. Per lo che in sul principio dʼagosto il campo fu sciolto, e
le truppe furono acquartierate in varie parti del Regno.[440]

Giacomo lusingavasi che sarebbe più agevole governare separati
battaglioni, che molte migliaia dʼuomini insieme raccolti. Volle farne
esperienza col reggimento di fanteria comandato da Lord Lichfield, e
che ora chiamasi Duodecimo di Linea. Lo scelse probabilmente per essere
stato creato a tempo della insurrezione delle Contrade Occidentali,
nella Contea di Stafford, dove i Cattolici Romani erano più numerosi
e potenti che quasi in ciascuna altra parte della Inghilterra. I
soldati furono schierati alla presenza del Re. Il Maggiore disse
loro che Sua Maestà desiderava chʼessi firmassero una scritta con
la quale obbligavansi a secondarlo nel mandare ad esecuzione i suoi
intendimenti rispetto allʼAtto di Prova, e che coloro ai quali piacesse
di non obbedire, lasciassero in sullʼistante il servigio. Il Re
rimase sommamente attonito vedendo intiere file di soldati porre giù
le picche e gli archibugi. Solo due ufficiali e pochi comuni, tutti
Cattolici, obbedirono. Egli rimase per poco in silenzio: poi comandò
ai disobbedienti di ripigliare le armi loro, e con irato ciglio disse:
«unʼaltra volta non vi farò più lʼonore di consultarvi.»[441]

Chiaro vedevasi che essendo egli deliberato a persistere nel suo
proposito, gli era mestieri riformare lo esercito. Se non che a ciò
fare non poteva trovare i mezzi nellʼisola nostra. I membri della
sua Chiesa, anche neʼ distretti dove erano più numerosi, erano una
piccola minoranza rispetto alla popolazione. Lʼodio contro il papismo
erasi sparso in tutte le classi deʼ Protestanti, ed era divenuto la
suprema passione perfino negli agricoltori e negli artigiani. Ma in
unʼaltra parte deʼ suoi dominii la maggioranza del popolo era animata
da spirito assai differente. Non vʼera limite al numero deʼ soldati
cattolici che la buona paga e i quartieri in Inghilterra attirerebbero
al di qua del Canale di San Giorgio. Tyrconnel per qualche tempo aveva
posto ogni cura a formare dal contadiname della sua patria una forza
militare della quale il suo signore potesse fidarsi. Già quasi tutta
lʼarmata dʼIrlanda era composta di papisti Celti per sangue e per
lingua. Barillon più volte fervidamente consigliò Giacomo a condurre in
Inghilterra quellʼarmata per coartare glʼInglesi.[442]

XVII. Giacomo tentennava. Voleva essere circondato da milizie sopra le
quali potesse riposare: ma temeva lʼesplosione del sentimento nazionale
che si sarebbe manifestato al comparire dʼuna gran forza irlandese
sopra il suolo dʼInghilterra. In fine, come segue spesso allorquando
una mente debole si prova di schivare due opposte inconvenienze, egli
sʼattenne ad un partito che le congiunse tutte quante. Fece venire
tanti Irlandesi quanti non bastavano a tenere sottomessa la sola città
di Londra, o la sola Contea di York, ma più che bastevoli a destare
rabbia e paura in tutto il Regno da Northumberland fino a Cornwall.
Un battaglione dopo lʼaltro, composti e disciplinati da Tyrconnel,
approdavano sulle coste occidentali e movevano verso la metropoli; e
furono fatte venire non poche reclute irlandesi per riempire i vuoti
deʼ reggimenti inglesi.[443]

Tra tutti gli errori commessi da Giacomo nessuno fu più fatale di
questo. Già aveva perduto lo affetto del suo popolo violando le leggi,
confiscando gli averi e perseguitando la religione. Nel cuore di
coloro, che un tempo erano stati fervidi zelatori della monarchia,
aveva già posto i semi della ribellione. E nondimeno poteva ancora,
con qualche probabilità di buona riuscita, rivolgersi allo spirito
patriottico deʼ suoi sudditi contro un invasore; perocchè erano razza
isolana per indole e geografica posizione. Le loro antipatie nazionali
in quella età erano, per vero dire, irragionevolmente forti. GlʼInglesi
non erano assuefatti al freno e allo immischiarsi dello straniero. La
comparsa dʼunʼarmata forestiera nellʼisola loro gli avrebbe spinti a
correre sotto il vessillo dʼun Re chʼessi non avevano ragione di amare.
Guglielmo forse non avrebbe potuto vincere un tale ostacolo; ma Giacomo
lo tolse di mezzo. Nemmeno lʼarrivo di una brigata di moschettieri del
Re Luigi avrebbe destato risentimento e vergogna quanto ne sentirono
i nostri antenati allorchè videro le schiere deʼ Papisti, pur allora
giunti da Dublino, marciare con pompa militare lungo le vie maestre.
Niun uomo di sangue inglese considerava come compatriotti glʼIrlandesi
aborigeni. Essi non appartenevano alla nostra razza; erano distinti
da noi per più particolarità morali e intellettuali, che la diversità
delle condizioni e della educazione, per quanto fosse grande, non
bastava a spiegare. Avevano aspetto e idioma tutto proprio. Quando
parlavano inglese, la loro pronunzia era ridicola; le loro frasi
grottesche, come sempre sono le frasi di chi pensi in una lingua
ed esprima i propri pensieri in unʼaltra. Per la qual cosa per noi
essi erano stranieri; e di tutti gli stranieri erano i più odiati e
tenuti in dispregio: i più odiati, perocchè per cinque secoli erano
sempre stati nostri nemici; i più tenuti in dispregio, perocchè erano
nostri nemici vinti, resi schiavi e spogliati. Lo Inglese paragonava
con orgoglio i propri campi colle desolate lande, donde sbucavano i
banditi a rubare ed assassinare, e la propria abitazione coʼ tuguri
dove il villano e il maiale di Shannon sʼavvoltolavano insieme nel
sudiciume. Egli apparteneva ad una società molto inferiore certamente
per ricchezza e civiltà a quella in che noi viviamo, ma tuttavia a
una delle più opulente e incivilite società del mondo: glʼIrlandesi
erano rozzi quasi al pari deʼ selvaggi di Labrador. Egli era uomo
libero: glʼIrlandesi erano servi ereditari della razza inglese. Egli
adorava Dio con un culto puro e ragionevole: glʼIrlandesi giacevano
immersi nella idolatria e nella superstizione. Egli sapeva che grandi
torme dʼIrlandesi erano spesso fuggite dinanzi ad una mano dʼInglesi,
e che la intera popolazione dʼIrlanda era stata tenuta in freno da
una piccola colonia inglese: e compiacevasi a concludere chʼegli
nellʼordine di natura era un essere più elevato dello Irlandese:
imperocchè in tal guisa una razza dominante sempre spiega la sua
superiorità ed escusa la sua tirannia. Nessuno oggimai nega agli
Irlandesi vivacità, brio, eloquenza, fra le nazioni del mondo: cento
campi di battaglia testificano che essi, ove abbiano buona disciplina,
sono strenui soldati. Nondimeno egli è certo, che un secolo e mezzo
fa erano generalmente spregiati nella isola nostra come gente stupida
e codarda. E questi erano gli uomini che dovevano tenere in freno
la Inghilterra a viva forza, mentre compivasi la distruzione della
libertà e della Chiesa sue! Al solo pensiero ribolliva il sangue nelle
vene dʼogni Inglese. Essere vinti daʼ Francesi o dagli Spagnuoli
sarebbe, in paragone, sembrato un destino tollerabile. Noi eravamo
assuefatti a trattare da pari a pari coʼ Francesi e con gli Spagnuoli.
Ne avevamo ora invidiata la prosperità, ora temuta la potenza, ora
gioito della loro amicizia. In onta al nostro insocievole orgoglio, le
consideravamo come grandi nazioni, e non negavamo che andavano gloriose
di uomini insigni nelle arti della guerra e della pace. Ma essere
soggiogati da una casta inferiore era avvilimento oltre ogni credere
grandissimo. GlʼInglesi provavano quel sentimento che proverebbero
gli abitatori di Charleston e della Nuova Orleans, se quelle città
fossero occupate da un presidio di Negri. I fatti genuini sarebbero
stati sufficienti a suscitare inquietudine e sdegno: ma cotesti fatti
erano inoltre adulterati da mille sinistre finzioni che correvano di
caffè in caffè, di bettola in bettola, e andando diventavano sempre
più terribili. Il numero delle truppe irlandesi venute fra noi poteva
suscitare ragionevole e grave timore rispetto aʼ disegni del Re: ma
era ingrandito dieci volte più dal pubblico timore. Poteva bene
supporsi che il rozzo fantaccino di Connaught posto con lʼarmi in
mano fra mezzo a un popolo straniero che egli odiava e dal quale egli
era odiato, commettesse qualche eccesso. Ma tali eccessi venivano
esagerati narrandoli; e per giunta agli oltraggi che lo straniero
aveva veramente commessi, gli venivano attribuiti tutti i delitti deʼ
suoi camerati inglesi. Da ogni parte del Regno sorse un grido contro i
barbari forestieri che invadevano le case private, prendevano barocci e
cavalli, estorcevano danari ed insultavano donne. Dicevasi che cotesti
uomini fossero i figliuoli di coloro, che quarantasette anni innanzi
avevano fatto strage di migliaia di Protestanti. La ribellione del
1641, la quale anche narrata con calma susciterebbe pietà ed orrore,
e che era stata bruttamente esagerata daʼ nazionali e religiosi
rancori, era adesso divenuta la materia prediletta delle conversazioni.
Spaventevoli storielle di case bruciate con le famiglie dentro, di
donne e fanciulli macellati, di consanguinei costretti dalla tortura
ad assassinarsi a vicenda, di cadaveri oltraggiati e mutilati, erano
narrate e udite con piena credenza e vivo interesse. Aggiungevasi poi
che i codardi selvaggi che avevano di sorpresa commesse tutte coteste
crudeltà sopra una colonia senza sospetto e priva dʼogni difesa, appena
Cromwell si fu mostrato fra loro a farne vendetta, percossi da subito
terrore, avevano messe giù le armi, e senza nè anche tentare le sorti
di un solo combattimento erano ricaduti nel ben meritato servaggio. A
molli indizi prevedevasi che il Lord Luogotenente meditava unʼaltra
grande spoliazione e strage della colonia Sassone. Già migliaia
di coloni protestanti, fuggendo la ingiustizia e la insolenza di
Tyrconnel, avevano riacceso lo sdegno della madre patria narrando
tutto ciò che avevano sofferto, e tutto ciò che avevano, con troppa
ragione, temuto. Fino a che segno lʼopinione pubblica fosse stata
esasperata dalle querimonie deʼ fuggitivi era stato di recente mostrato
in modo da non indurre in errore. Tyrconnel aveva mandato per essere
approvata dal Re una proposta di revoca della legge che assicurava il
possesso di mezzo il suolo dʼIrlanda, e aveva spediti a Westminster
due agenti cattolici suoi concittadini che erano stati inalzati ad
alti uffici nellʼordine giudiciario: Nugent, Capo–Giudice della Corte
del Banco del Re in Irlanda, uomo che personificava tutti i vizi e le
debolezze che glʼInglesi reputavano come facienti il carattere del
papista celtico; e Rice, uno deʼ Baroni dello Scacchiere Irlandese,
uomo che per abilità e cognizioni era il primo fraʼ suoi compatriotti
e correligionari. Lo scopo della missione era a tutti noto; e i due
giudici non potevano rischiarsi a comparire in pubblico. La plebaglia,
riconoscendoli, gridava: «Fate largo agli ambascitari irlandesi;»
e il loro cocchio veniva scortato con solenne berlina da una turba
dʼuscieri e di corrieri che portavano in mano bastoni con patate fitte
in punta.[444]

E davvero, in quel tempo lʼavversione de glʼInglesi contro
glʼIrlandesi era sì forte ed universale, che la sentivano perfino i
più spettabili Cattolici Romani. Powis e Bellasyse anche in Consiglio
significarono con aspre e virulente parole la loro antipatia contro
gli stranieri;[445] antipatia che era anche più forte fra glʼInglesi
Protestanti, e più forte ancora nellʼarmata. Nè gli ufficiali, nè i
soldati erano disposti a tollerare con pazienza la predilezione che
il loro signore mostrava ad una razza vinta e forestiera. Il Duca di
Berwick, colonnello dellʼottavo reggimento di linea acquartierato in
Portsmouth, ordinò che trenta uomini pur allora giunti dallʼIrlanda
fossero inscritti neʼ ruoli militari. I soldati inglesi dichiararono
di non volere servire insieme con glʼintrusi. Giovanni Beaumont
Luogotenente colonnello, a nome suo e di cinque capitani, protestò
al cospetto del Duca contro questo insulto fatto alla nazione ed
allʼesercito inglese, dicendo: «Noi componemmo il reggimento a nostre
proprie spese per difendere la corona della Maestà sua in perigliosi
tempi. Allora non incontrammo difficoltà a trovare centinaia di reclute
inglesi. Noi possiamo agevolmente tenere congiunta ogni compagnia senza
ammettervi glʼIrlandesi. E però reputiamo che ne vada dellʼonor nostro
nel tollerare che ci vengano imposti cotesti stranieri; e chiediamo che
o ci sia permesso di comandare a soldati nostri concittadini, o che
si accetti la nostra rinuncia.» Berwick scrisse a Windsor per sapere
in che guisa comportarsi. Il Re, grandemente esasperato, spedì subito
una legione di cavalleria a Portsmouth perchè gli conducesse dinanzi i
sei ufficiali disubbidienti. Furono tradotti avanti a un Consiglio di
guerra. Ricusarono di sottomettersi, e furono dannati ad essere cassi
daʼ ruoli, la qual pena allora era la massima che una Corte marziale
potesse infliggere. La intera nazione feʼ plauso agli ufficiali caduti
in disgrazia: e lʼopinione pubblica fu maggiormente irritata dalla
voce corsa, quantunque senza fondamento, che essi mentre rimanevano in
carcere, erano stati crudelmente trattati.[446]

XVIII. Lʼopinione pubblica non manifestavasi allora con queʼ segni che
oggidì sono comuni fra noi, cioè con numerose ragunanze e veementi
arringhe. Nondimeno trovò una via ad esplodere. Tommaso Wharton, il
quale nellʼultimo Parlamento era stato rappresentante della Contea di
Buckingam ed aveva fama di libertino e di Whig, scrisse una ballata
satirica sopra Tyrconnel. In questa breve poesia un Irlandese si
congratulava con un altro suo concittadino, in un gergo barbaro,
pel prossimo trionfo del papismo e della razza milesia. Diceva che
lo erede protestante della Corona sarebbe escluso. Gli ufficiali
protestanti verrebbero cacciati. La Magna Charta e i ciarlieri che si
richiamavano ad essa verrebbero impiccati alla medesima forca. Il buon
Talbot verserebbe a torrenti glʼimpieghi sopra i suoi concittadini,
e segherebbe la gola aglʼInglesi. Questi versi, che non sʼinalzavano
punto sopra la poesia plateale, avevano per intercalare un vocabolo
che dicevasi essere stato adoperato come parola dʼordine daglʼinsorti
dʼUlster nel 1644. La nazione sʼincapriccì deʼ versi e della musica.
Da un angolo allʼaltro, per lʼintera Inghilterra, tutta la popolazione
non rifiniva mai di cantare cotesti versi scempi, che in ispecie
formavano il diletto dello esercito inglese. Settanta e più anni
dopo la Rivoluzione, un grande scrittore dipinse con arte squisita
un veterano che aveva combattuto sul Boyne e in Namur; e uno deʼ
tratti caratteristici del buon veterano consisteva nel fischiare il
Lilliburello.[447]

Wharthon poscia menò vanto dʼavere cacciato con cotesti versi un Re da
tre Regni. Ma, a dir vero, la fama di Lilliburello fu lo effetto, non
già la cagione, di quel concitamento nel pubblico sentire, che produsse
la Rivoluzione.

Mentre Giacomo suscitava contro sè stesso tutti i sentimenti nazionali,
i quali, se non fosse stata la sua insania, avrebbero potuto salvargli
il trono, Luigi in modo diverso sforzavasi non meno efficacemente a
facilitare la intrapresa che Guglielmo stavasi meditando.

XIX. In Olanda il partito favorevole alla Francia era una minoranza
bastevolmente forte, secondo lʼordinamento politico della Batava
Federazione, a impedire che lo Statoldero tentasse un gran colpo.
Tenersi bene edificata cotesta minoranza era uno scopo al quale, se la
Corte di Versailles fosse stata savia, doveva, in quelle circostanze,
essere posposto ogni altro qualunque. Luigi, nondimeno, per qualche
tempo aveva lavorato, quasi lo facesse di proposito, a straniarsi daʼ
suoi amici Olandesi; ed in fine, benchè non senza difficoltà, gli venne
fatto di renderseli nemici nel momento preciso in cui il loro aiuto gli
sarebbe stato dʼinestimabile prezzo.

Vʼerano due cose, le quali gli Olandesi peculiarmente sentivano, la
religione e il commercio; e il Re di Francia aveva pur allora assalito
il commercio e la religione loro. La persecuzione degli Ugonotti e la
revoca dello editto di Nantes avevano da per tutto destato in cuore
deʼ Protestanti sdegno e dolore; sentimenti che in Olanda erano più
forti che altrove: imperocchè molti individui oriundi Olandesi, fidando
nelle ripetute e solenni dichiarazioni di Luigi, il quale assicurava
di mantenere la tolleranza dallʼavo suo concessa, sʼerano, per cagione
di commercio, stabiliti, e gran parte di loro naturalizzati in Francia.
Ogni corso di posta recava in Olanda la nuova che costoro erano con
estremo rigore trattati per semplici motivi religiosi. Dicevasi che
in casa di uno stavano acquartierati i dragoni; un altro era stato
posto ignudo presso al fuoco fino a rimanerne mezzo arrostito. A tutti
era, sotto severissime pene, inibito di celebrare i riti della propria
religione, e di partirsi dal paese, al quale, sotto promesse menzognere
erano stati attirati. I partigiani della Casa dʼOrange schiamazzavano
contro la crudeltà e la perfidia del tiranno. Lʼopposizione era confusa
e scuorata. Lo stesso Consiglio municipale dʼAmsterdam, comechè fosse
fortemente favorevole aglʼinteressi della Francia, e aderisse alla
teologia arminiana, e fosse poco inchinevole a biasimare Luigi e
consentire coʼ Calvinisti da esso perseguitati, non poteva rischiarsi
ad avversare lʼopinione pubblica; perocchè in quella grande città non
era un solo mercante il quale non avesse qualche parente od amico
fra coloro che pativano tanto danno. Numerose petizioni firmate da
nomi rispettabili venivano presentate ai borgomastri, pregandoli
a rimostrare vigorosamente presso lo Ambasciatore Avaux. Fraʼ
supplichevoli erano taluni i quali osavano introdursi nel palazzo degli
Stati, e cadendo sulle loro ginocchia descrivevano, fra le lagrime e i
singhiozzi, la misera sorte deʼ loro cari, e supplicavano i magistrati
ad intercedere. I pergami delle Chiese risonavano dʼinvettive e di
lamenti. Daʼ torchi uscivano racconti che laceravano lʼanima, e
virulente arringhe. Avaux conobbe tutto il pericolo, e riferì alla sua
Corte che anche i bene intenzionati—così egli sempre chiamava i nemici
della Casa dʼOrange—o partecipavano allʼuniversale sentimento o ne
erano impauriti; e consigliò si cedesse alquanto ai loro desiderii.
Le risposte giuntegli da Versailles furono gelide ed acri. Ad alcune
famiglie, non naturalizzate in Francia, era stato concesso di ritornare
alla patria loro: ma a queʼ naturali dʼOlanda che avevano ottenuto
lettere di naturalizzazione Luigi ricusò ogni indulgenza, dicendo che
nessuna Potenza sulla terra doveva immischiarsi fra lui e i suoi
sudditi. Costoro avevano scelto di essere annoverati fraʼ sudditi suoi,
e nessun potentato straniero aveva diritto a sindacarlo intorno al
modo di trattarli. I magistrati dʼAmsterdam naturalmente sdegnaronsi
della spregiante ingratitudine del Principe al quale con ardore e senza
ombra di scrupolo avevano servito contro lʼopinione universale deʼ loro
concittadini. Alla già riferita tenne dietro, poco dipoi, unʼaltra
provocazione che fu più profondamente sentita. Luigi cominciò a far
guerra al loro commercio. Dapprima con un editto proibì la importazione
delle aringhe neʼ suoi dominii. Avaux sʼaffrettò a scrivere alla sua
Corte che un simigliante passo aveva destato indignazione e timore,
che sessantamila persone vivevano con la pesca delle aringhe, e
che gli Stati probabilmente adotterebbero qualche provvedimento di
rappresaglia. Gli fu risposto che il Re era deliberato non solo a
persistere, ma ben anco ad accrescere i dazi su molte mercanzie delle
quali la Olanda faceva lucroso traffico con la Francia. La conseguenza
di cotesti errori commessi in onta a ripetuti ammonimenti, e, a quanto
sembra, per ebbrezza di caparbietà, fu, che nel momento in cui il
voto dʼun solo potente membro della Batava Federazione avrebbe potuto
impedire un evento fatale a tutta la politica di Luigi, tal voto non
osò manifestarsi. Lo Ambasciatore con tutta la sua arte invano si
studiò di raggranellare quel partito, col cui soccorso, per vari anni
era riuscito a tenere in freno lo Statoldero.

XX. Lʼarroganza ed ostinazione del signore frustrava tutti gli sforzi
del servo; il quale finalmente fu costretto ad annunziare a Versailles
che non era più da confidare nella città dʼAmsterdam da sì gran tempo
amica della Francia, che alcuni deʼ bene intenzionati temevano per
la loro religione, e che i pochi i quali ancora si mantenevano fermi
non potevano rischiarsi a significare i loro intendimenti. La fervida
eloquenza deʼ predicatori che declamavano contro gli orrori della
persecuzione francese, e le querimonie dei falliti che attribuivano
la propria rovina ai decreti francesi, avevano concitato il popolo a
tal segno che nessuno deʼ cittadini poteva dichiararsi favorevole alla
Francia senza imminente pericolo di essere gettato dentro il più vicino
canale. Tutti rammentavansi che solo quindici anni innanzi il più
illustre capo del partito avverso alla Casa dʼOrange era stato fatto in
brani dalla infuriata plebe nel ricinto stesso del palazzo degli Stati
Generali; ed era probabile che ugual sorte toccasse a coloro i quali,
in quella gran crisi, venissero accusati di secondare i disegni della
Francia contro la patria loro e contro la religione riformata.[448]

XXI. Mentre Luigi in tal guisa costringeva i suoi fautori in Olanda a
diventare, o a fingersi, suoi nemici, lavorava con non minore efficacia
a rimuovere tutti gli scrupoli che avrebbero potuto impedire i principi
cattolici del continente di secondare i disegni di Guglielmo. Un nuovo
litigio era sorto tra la Corte di Versailles e il Vaticano, litigio
nel quale il Re francese si mostrò più che in ogni altra sua azione
ingiusto ed insolente.

Era vecchio costume in Roma che nessuno ufficiale di giustizia
o di finanza potesse entrare nellʼabitazione deʼ ministri che
rappresentavano gli Stati cattolici. In progresso non solo
lʼabitazione, ma i luoghi circostanti reputavansi inviolabili. Era
punto dʼonore per ogni ambasciatore estendere quanto più potesse i
confini del circondario che rimaneva sotto la sua protezione. Infine
i distretti privilegiati, dentro i quali il Governo papale non aveva
maggior potenza che nel Louvre o nellʼEscuriale, comprendevano
mezza la città. Ogni asilo era pieno di contrabbandieri, di falliti
disonesti, di ladri e dʼassassini. In ogni asilo erano magazzini di
cose rubate o di mercanzie fraudolentemente introdotte. Da ogni asilo
uomini facinorosi uscivano di notte a saccheggiare ed a pugnalare la
gente. In nessuna terra della Cristianità, quindi, la legge era così
impotente e la malvagità sì audace come nellʼantica metropoli della
religione e dellʼincivilimento. Intorno a siffatto danno Innocenzo
pensava come si conveniva ad un sacerdote e ad un principe. Dichiarò
dunque di non volere accogliere nessuno Ambasciatore il quale si
ostinasse a mantenere un diritto distruggitore dellʼordine e della
morale. Vi fu dapprima un gran mormorare, ma egli si mostrò cotanto
fermo che tutti i Governi, tranne un solo, in breve tempo cederono. Lo
Imperatore, che per grado era il primo tra tutti i monarchi cristiani,
la Corte di Spagna, che predistinguevasi fra tutte per suscettibilità
e pertinacia neʼ punti dʼetichetta, rinunciarono al mostruoso
privilegio. Il solo Luigi si mostrò intrattabile, dicendo importargli
poco ciò che piacesse agli altri sovrani di fare. Per la qual cosa
spedì a Roma unʼambasceria, scortata da numeroso stuolo di cavalli e
di fanti. Lo Ambasciatore giunse al suo palazzo come un generale che
entri trionfante in una città conquistata. Il palazzo era fortemente
guardato; attorno al recinto privilegiato le sentinelle facevano la
ronda di giorno e di notte, come sopra le mura dʼuna fortezza. Il Papa
rimase fermo. «Confidano» esclamò egli «neʼ cocchi e neʼ cavalli:
ma noi invocheremo il nome di Dio nostro signore.» Diede di piglio
alle sue armi spirituali, e pose la parte della città presidiata daʼ
Francesi sotto lo interdetto.[449]

Questo litigio era nel massimo fervore allorchè ne sorse un altro; nel
quale tutto il Corpo Germanico aveva interesse ugualmente che il Papa.

XXII. Colonia e il distretto circostante governava un Arcivescovo che
era elettore dello Impero. Il diritto di eleggere il gran prelato
spettava, sotto certe condizioni, al Capitolo della Cattedrale. Lo
Arcivescovo era parimente Vescovo di Liegi, di Munster e di Hildesheim.
I suoi dominii erano vasti, e comprendevano varie fortezze, le quali
nel caso dʼuna campagna sul Reno sarebbero state importantissime. In
tempo di guerra poteva condurre in campo venti mila uomini. Luigi aveva
fatto ogni possibile sforzo a rendersi bene affetto un così valido
alleato, e vʼera tanto riuscito che Colonia rimaneva quasi divisa dalla
Germania, e formava un baluardo della Francia. Molti ecclesiastici ligi
alla Corte di Versailles erano stati messi nel Capitolo; e il Cardinale
Furstemburg, creatura di quella Corte, era stato nominato Coadiutore.

Nella state del 1688 lʼArcivescovato divenne vacante. Furstemburg era
il candidato della Casa deʼ Borboni. I nemici di quella proponevano
il giovine Principe Clemente di Baviera. Furstemburg era già Vescovo,
e quindi non poteva essere trasferito ad altra diocesi senza speciale
dispensa del pontefice, o per una postulazione, nella quale era
necessario che fossero concordi i voti di due terzi del Capitolo di
Colonia. Il Papa non volle concedere la dispensa ad una creatura della
Francia. Lo Imperatore indusse più dʼuna terza parte del Capitolo a
votare in favore del Principe Bavaro. Infrattanto neʼ Capitoli di
Liegi, di Munster, e di Hildesheim la maggioranza procedeva avversa
alla Francia. Luigi vide con isdegno e paura, come una vasta provincia
che egli aveva incominciato a considerare qual feudo della sua Corona,
fosse per divenire, non solo indipendente, ma ostile a lui. In una
scrittura dettata con grande acrimonia si querelò della ingiustizia con
che la Francia in tutte le occasioni era trattata dalla Santa Sede, la
quale era in debito di largire la sua paterna protezione ad ogni parte
della Cristianità. A molti segni vedevasi come egli avesse deliberato
di sostenere la pretesa del suo candidato con le armi, contro il Papa,
e i collegati del Papa.[450]

XXIII. In cotal modo Luigi, con due opposti errori, suscitò a un
tratto contro sè stesso il risentimento deʼ due partiti religiosi, nei
quali lʼEuropa occidentale era divisa. Inimicatasi una grande classe
deʼ cristiani col perseguitare gli Ugonotti, si inimicava lʼaltra
collʼinsultare la Santa Sede. Tali errori egli commise in un tempo in
cui non poteva impunemente commetterne alcuno, e sotto gli occhi dʼun
avversario, il quale per vigilanza, sagacia, ed energia non era secondo
a nessun uomo politico di cui serbi ricordo la storia. Guglielmo vide
con austero diletto i suoi avversari affaticarsi a sgombrargli dʼogni
ostacolo il cammino. Mentre suscitavano contro sè stessi la nimistà
di ogni setta, egli poneva sommo studio a conciliarsele tutte. Con
isquisito magistero presentò ai vari Governi in differente aspetto il
gran disegno chʼegli meditava; ed è mestieri aggiungere che quantunque
tali aspetti fossero differenti, nessuno era falso. Esortò i Principi
della Germania settentrionale a collegarsi con lui per difendere
la causa comune di tutte le chiese riformate. Pose sotto gli occhi
deʼ due capi della Casa dʼAustria il pericolo onde erano minacciati
dallʼambizione francese, e la necessità di redimere lʼInghilterra
dal vassallaggio e di congiungerla alla Federazione Europea.[451]
Mostrossi sdegnoso, e con tutta verità, dʼogni bacchettoneria. Diceva
che il vero nemico deʼ Cattolici Inglesi era quel monarca, uomo corto
di vista, e duro di cuore, il quale potendo agevolmente ottenere ad
essi una tolleranza legale, aveva calpestata la legge, la libertà e il
diritto di proprietà, per inalzarli ad un predominio odioso e precario.
Se si lasciava continuare nella sua insania ne conseguiterebbe tra
breve uno scoppio popolare, al quale terrebbe dietro una barbara
persecuzione deʼ papisti. Il Principe dichiarava che lo evitare gli
errori di tale persecuzione era uno deʼ precipui suoi fini. Ove egli
fosse avventurato nel suo disegno, adoprerebbe lo acquistato potere
come capo deʼ Protestanti, a proteggere i credenti nella Chiesa di
Roma. Forse le passioni destate dalla tirannia di Giacomo renderebbero
impossibile lʼabrogazione delle leggi penali, ma un savio governo ben
poteva mitigarle. A nessuna classe dʼuomini poteva recare vantaggio la
proposta spedizione quanto aʼ queʼ pacifici e non ambiziosi Cattolici
Romani, i quali desideravano solamente seguire la propria vocazione
e senza molestia adorare il Creatore. I soli perdenti sarebbero i
Tyrconnel, i Dover, gli Albeville, e gli altri avventurieri politici,
i quali in ricompensa delle adulazioni e deʼ pessimi consigli avevano
ottenuto dal loro troppo credulo signore governi, reggimenti, ed
ambasciate.

XXIV. Mentre Guglielmo sforzavasi a procacciarsi la simpatia dei
Protestanti e deʼ Cattolici, si studiava con non minor vigore
e prudenza a provvedersi dei mezzi militari che la sua impresa
richiedeva. Non poteva fare uno sbarco in Inghilterra senza la sanzione
delle Provincie Unite; ed ove lʼavesse chiesta innanzi che il suo
disegno fosse maturo per mandarsi ad effetto, i suoi intendimenti forse
sarebbero avversati dalla fazione ostile alla sua Casa, e certamente
verrebbero divulgati in tutto il mondo. Per lo che deliberò di fare
con ispeditezza i necessari apparecchi, e appena compiuti, giovarsi di
qualche momento favorevole per richiedere lo assenso alla Federazione.
Gli agenti della Francia notavano che si mostrava quanto mai
affaccendato. Non passava giorno senza che egli fosse veduto correre
dalla sua villa allʼAja. Stavasi sempre rinchiuso a colloquio coʼ suoi
più cospicui aderenti. Ventiquattro vascelli furono armati in addizione
alle forze ordinarie mantenute dalla Repubblica. Per avventura vʼera
un bel pretesto ad accrescere la flotta: imperciocchè alcuni corsari
algerini avevano dianzi osato mostrarsi nellʼOceano Germanico. Formossi
un campo in Nimega, dove si raccolsero molte migliaia di soldati. A
fine di rinforzare cotesto esercito richiamaronsi i presidii daʼ luoghi
forti nel Brabante Olandese. Perfino la rinomata fortezza di Bergopzoom
fu lasciata quasi senza difesa. Pezzi da campagna, bombe, e cassoni da
tutti i magazzini delle Provincie Unite furono trasportati al quartiere
generale. Tutti i fornai di Roterdam affaticavansi giorno e notte a
fare biscotto. Tutti gli armaiuoli dʼUtrecht non bastavano ad eseguire
le commissioni di pistole ed archibugi. Tutti i sellai dʼAmsterdam
lavoravano indefessamente a fare arnesi. Sei mila marinai furono
aggiunti al servizio della flotta. Si fece una leva di sette mila nuovi
soldati. Veramente non potevano essere formalmente arruolati senza
lo assenso della Federazione; ma erano bene ammaestrati e tenuti in
tanta disciplina che potevano senza difficoltà ordinarsi a reggimenti
dentro ventiquattro ore dopo ottenuto lo assenso. Tali preparamenti
richiedevano pecunia annoverata: ma Guglielmo con rigida economia aveva
accumulato per qualche grave occorrenza un tesoro di dugento cinquanta
mila lire sterline. Al rimanente provvide lo zelo deʼ suoi partigiani.
Oro in gran copia, o, come si disse, una somma non minore di cento
mila ghinee gli fu mandata dallʼInghilterra. Gli Ugonotti, i quali
avevano seco portato nello esilio molta quantità di metalli preziosi,
di gran cuore gli prestarono tutto ciò che possedevano: imperciocchè
ardentemente speravano, che, ove la impresa avesse esito prospero,
sarebbe loro resa la patria, e temevano, che fallendo egli, non
sarebbero nè anche sicuri nella patria adottiva.[452]

XXV. Negli ultimi giorni di luglio e in tutto il mese dʼagosto gli
apparecchi processero rapidamente, se non che allo ardente animo di
Guglielmo parevano andare troppo lenti. Intanto diventava più attiva
la comunicazione tra la Olanda e lʼInghilterra. I consueti modi di
trasmettere notizie e passeggieri più non furono reputati sicuri.
Una barca leggiera e maravigliosamente veloce andava e veniva di
continuo da Schevening alla costa orientale dellʼisola nostra.[453]
Per questo mezzo giunsero a Guglielmo non poche lettere scrittegli
da uomini notevolissimi nella Chiesa, nello Stato, e nello esercito.
Due deʼ sette prelati che avevano firmata la memoranda petizione,
cioè Lloyd Vescovo di Santo Asaph, e Trelawney Vescovo di Bristol,
mentre erano in carcere, avevano bene meditato sulla dottrina della
resistenza, ed erano pronti ad accogliere un liberatore armato. Un
fratello del Vescovo di Bristol, il colonnello Carlo Trelawney, che
comandava uno deʼ reggimenti di Tangeri, adesso conosciuto come il
Quarto di Linea, si mostrò ardente di snudare la spada a pro della
Religione Protestante. Simiglianti assicurazioni mandò il feroce Kirke.
Churchill, in una lettera scritta con qualche elevatezza di stile,
indizio certo che egli era per commettere una viltà, si dichiarò
deliberato a compiere il suo dovere verso Dio e la patria, e disse
che poneva il proprio onore assolutamente nelle mani del Principe
dʼOrange. Guglielmo senza dubbio lesse queste parole con quellʼamaro e
cinico sorriso che dava una poco piacevole espressione al suo volto.
Non ispettava a lui prender cura dellʼonore degli altri; nè i più
rigidi casisti avevano giudicato illecito ad un generale lo invitare,
giovarsi, e rimunerare i servigi deʼ disertori chʼei non potesse
spregiare.[454]

La lettera di Churchill fu recata da Sidney, la cui posizione in
Inghilterra era divenuta pericolosa, e il quale, prese molte cautele a
nascondere la sua traccia, era giunto in Olanda a mezzo agosto.[455]
Verso il medesimo tempo Shrewsbury ed Eduardo Russell traversarono
lʼOceano Germanico in un battello che avevano con grande segretezza
noleggiato, e comparvero allʼAja. Shrewsbury recò seco dodici mila lire
sterline, chʼaveva messe insieme ipotecando i suoi beni, e le pose
nella banca dʼAmsterdam.[456] Devonshire, Danby, e Lumley rimasero in
Inghilterra, dove tolsero lo incarico di correre alle armi appena il
Principe dʼOrange ponesse piede nellʼisola.

XXVI. Non vʼè ragione a credere che in questa occorrenza Guglielmo
ricevesse assicurazioni di sostegno dalla parte dʼun uomo bene dai
sopranotati diverso. La storia deglʼintrighi di Sunderland è coperta da
un buio che non è probabile venga mai diradato da nessuno scrittore:
ma comunque sia impossibile scoprire intera la verità, egli è agevole
notare alcune finzioni palpabilissime. I Giacomiti, per manifeste
ragioni, affermarono che la rivoluzione del 1688 fu il resultamento
dʼuna congiura tramata lungo tempo innanzi, e rappresentarono
Sunderland come capo deʼ congiurati. Asserivano chʼegli, per eseguire
il suo arcano disegno, aveva incitato il suo troppo fidente signore
a dispensare dagli statuti, a creare un tribunale illegale, a
confiscare gli averi deʼ sudditi, e ad imprigionare i padri della
Chiesa Anglicana. Questo romanzo non ha verun fondamento storico, e
comechè sia stato più volte ripetuto fino ai tempi nostri, non merita
confutazione. Non vi è fatto più certo di questo, che Sunderland
si oppose quasi sempre aglʼinsani provvedimenti di Giacomo, ed in
ispecie alla persecuzione deʼ Vescovi, la quale veramente produsse
la crisi decisiva. Ma quando anche cotesto fatto non fosse provato,
rimarrebbe un altro valido argomento che basterebbe a decidere la
controversia. Qual ragionevole motivo aveva Sunderland per desiderare
una rivoluzione? Nel sistema politico esistente egli trovavasi nella
maggiore altezza di onori e di prosperità. Come presidente del
Consiglio aveva la precedenza su tutti i Pari secolari. Come primo
Segretario di Stato era il più attivo e potente membro del Gabinetto.
Poteva anche sperare la dignità di Duca. Aveva ottenuto lʼordine della
giarrettiera dianzi portato dallo splendido e versatile Buckingham,
il quale, avendo consunto un patrimonio principesco e un vigoroso
intelletto, era disceso nella tomba abbandonato, spregiato, e col
cuore trafitto.[457] Il danaro che Sunderland amava più che li onori,
pioveva sopra lui in tanta copia, che amministrandolo moderatamente,
egli poteva sperare di farsi uno dei più ricchi uomini dʼEuropa. Gli
emolumenti diretti del suo ufficio, benchè fossero considerevoli,
erano piccola parte di ciò chʼegli guadagnava. Dalla sola Francia
riceveva regolarmente uno stipendio annuo di circa sei mila sterline,
oltre alle ampie gratificazioni straordinarie. Aveva patteggiato con
Tyrconnel per cinque mila lire sterline lʼanno, o cinquanta mila una
volta sola, sopra lʼIrlanda. Quali somme accumulasse vendendo impieghi,
titoli e grazie, può solo immaginarsi, ma dovevano essere enormi. Eʼ
pareva che Giacomo godesse di far nuotare nellʼoro un uomo chʼegli
pretendeva dʼavere convertito. Tutte le multe, tutte le confische
andavano a Sunderland. In ogni concessione fatta esigeva una decima.
Se qualche chiedente si rischiava implorare un favore direttamente dal
Re, Giacomo gli rispondeva: «Avete voi parlato col Lord Presidente?»
Un tale ardì dirgli che il Lord Presidente ingoiava tutto il danaro
della Corte. «Bene» rispose Sua Maestà «egli lo merita tutto.»[458]
Non vi sarebbe la minima esagerazione ad affermare che i guadagni del
Ministro giungevano a trenta mila lire sterline lʼanno: ed è mestieri
rammentarsi che le rendite di trenta mila sterline erano in quel tempo
più rare di quello che siano ai dì nostri le rendite di cento mila.
È probabile che allora in tutto il Regno non vi fosse alcun Pari, la
cui entrata patrimoniale uguagliasse quella che Sunderland traeva dal
proprio ufficio.

Poteva quindi Sunderland sperare che, sorto un nuovo ordine di cose,
implicato, come egli era, in atti illegali ed impopolari, membro
dellʼAlta Commissione, rinnegato che il popolo in tutti i luoghi di
pubblico convegno chiamava papista cane, egli conseguisse maggiore
opulenza e grandezza? Poteva inoltre sperare di sottrarsi alla ben
meritata pena?

Certo egli era assuefatto da lungo tempo a prevedere il giorno, in cui
Guglielmo e Maria, nel corso ordinario della natura e della legge,
sarebbero saliti sul trono dʼInghilterra, ed è probabile che avesse
tentato di aprirsi la via al favor loro con promesse e servigi, i
quali, ove fossero stati scoperti, non avrebbero accresciuto il suo
credito in Whitehall. Ma può con sicurtà affermarsi che egli non
desiderava di vederli inalzati al potere per mezzo dʼuna rivoluzione,
e che non prevedeva siffatta rivoluzione allorquando, verso la fine di
giugno 1688, abbracciò solennemente la fede della Chiesa di Roma.

Appena, nondimeno, egli con quellʼinespiabile delitto sʼera reso
segno allʼodio ed al disprezzo della intera nazione, quando seppe le
armi nazionali e forestiere apparecchiarsi a rivendicare in breve
tempo lʼordinamento politico ed ecclesiastico della Inghilterra. Da
quello istante sembra che tutti i suoi disegni si cangiassero. La
paura che gli aveva invilito lʼanimo gli stava scritta in viso sì
che ciascuno poteva accorgersene.[459] Mal poteva dubitarsi, che,
seguìta una rivoluzione, i pessimi consiglieri che circondavano il
trono verrebbero chiamati a rendere rigoroso conto; e Sunderland fra
cotesti consiglieri era primo per grado. La perdita dellʼufficio, della
mercede, delle pensioni, era il meno chʼegli avesse a temere. La sua
casa patrimoniale e i suoi boschi in Althorpe avrebbero corso pericolo
dʼessere confiscati; forse ei sarebbe gettato per lunghi anni in
carcere; avrebbe finiti i suoi giorni in terra straniera dopo dʼavere
trascinata la vita con una pensione assegnatagli dalla generosità della
Francia. Ed anche ciò non era il peggiore deʼ mali. Lo sventurato
ministro cominciava a sentirsi perturbata la mente da sinistre visioni
dʼuna innumerevole folla ragunata in Tower Hill e schiamazzante di
feroce gioia alla vista dello apostata, del palco parato a bruno, di
Burnet leggente la preghiera degli agonizzanti, e di Ketch appoggiato
sopra la scure che aveva troncate le teste di Russell e di Monmouth.
Gli rimaneva una via a salvarsi, via più terribile per un animo nobile
di quello che sia la prigione o il patibolo; poteva forse, con una
tradigione commessa a tempo, conseguire il perdono daglʼinimici del
Governo. Stava in lui di render loro inestimabili servigi: poichè
egli godeva della piena fiducia del Re, aveva grande influenza nella
cabala gesuitica, e la cieca confidenza dello Ambasciatore Francese.
Non mancava un mezzo di comunicazione, mezzo degno del fine al quale
egli voleva giungere. La Contessa di Sunderland era una artificiosa
donna, e sotto il manto della divozione che ingannava gli uomini gravi,
conduceva di continuo amorosi e politici intrighi.[460] Il bello e
dissoluto Enrico Sidney era stato per lungo tempo il suo favorito
amante. Al marito piaceva di vederla in tal modo posta in comunicazione
con la Corte dellʼAja. Quando egli desiderava far giungere un segreto
messaggio in Olanda, parlava con la sua moglie; la quale scriveva a
Sidney; e Sidney comunicava la lettera a Guglielmo. Una di coteste
lettere, intercettata, fu recata a Giacomo. Essa protestò fervidamente
chiamandola apocrifa. Sunderland con singolarissima astuzia si difese
dicendo che era impossibile a qualunque uomo essere cotanto vile da
fare ciò chʼegli veramente faceva. «E quando anche fosse carattere
di Lady Sunderland» soggiunse, «io non vi ho nulla da vedere. Vostra
Maestà conosce le mie domestiche sciagure. La relazione di mia moglie
con Sidney è pur troppo nota a tutti. Chi potrebbe mai credere chʼio
scegliessi a mio confidente lʼuomo che mi ha offeso nellʼonore, lʼuomo
che sopra tutti i viventi io dovrei maggiormente odiare?»[461] Questa
difesa fu reputata soddisfacente; e lʼirco marito seguitò a comunicare
secretamente colla sua moglie adultera, lʼadultera con lʼamante, e lo
amante coʼ nemici di Giacomo.

Egli è probabilissimo che le prime positive assicurazioni dello aiuto
di Sunderland fossero oralmente da Sidney comunicate a Guglielmo
verso la metà dʼagosto. Certo è che da quel tempo fino a quando la
spedizione fu pronta a far vela, la Contessa tenne col suo amante un
significantissimo carteggio. Poche delle sue lettere, in parte scritte
in cifra, esistono ancora, e contengono proteste di buon volere e
promesse di servigi miste con ardenti preghiere di protezione. La
scrittrice promette che il suo marito farà tutto ciò che i suoi amici
dellʼAja possono desiderare: suppone che gli sarà mestieri per qualche
tempo esulare: ma spera che il bando di lui non sia perpetuo, e che
egli non venga spogliato deʼ suoi beni patrimoniali; e instantemente
prega di sapere in che luogo sarà meglio per lui rifugiarsi, finchè sia
abbonacciata la prima furia della tempesta popolare.[462]

XXVII. Lo aiuto di Sunderland fu bene accolto: imperciocchè
avvicinandosi il tempo di tentare il gran colpo, lʼansietà di Guglielmo
sʼera fatta grandissima. Agli occhi altrui con la fredda tranquillità
dello aspetto ei nascondeva i suoi sentimenti, ma a Bentinck apriva
tutto il suo cuore. Gli apparecchi non erano interamente compiuti. Il
disegno era già sospettato e non poteva oltre differirsi. Il Re di
Francia o la città dʼAmsterdam potevano frustrarlo. Se Luigi mandasse
una grande forza militare nel Brabante, se la fazione che odiava lo
Statoldero alzasse il capo, tutto sarebbe finito. «Le mie pene, la
mia irrequietudine,» scriveva il Principe «sono terribili. Non so in
che guisa io proceda. Mai in vita mia io ho sentito, come ora, il
bisogno dello aiuto di Dio.»[463] La moglie di Bentinck era in quel
tempo pericolosamente inferma, ed ambi gli amici sentivano per lei
penosissima ansietà. «Dio vi conforti,» scriveva Guglielmo, «e vi dia
animo a sostenere la parte vostra in unʼopera, dalla quale, per quanto
è dato agli uomini conoscere, dipende il bene della sua Chiesa.»[464]

E davvero egli era impossibile che un così vasto disegno contro il
Re dʼInghilterra rimanesse per molti giorni secreto. Non vʼera arte
ad impedire che gli uomini savi sʼaccorgessero deʼ grandi apparati
militari e marittimi che Guglielmo andava facendo, e ne sospettassero
lo scopo. Sul principio dʼagosto bisbigliavasi per tutta Londra dello
avvicinarsi dʼun grande evento. Il debole e corrotto Albeville in
queʼ giorni trovavasi in Inghilterra, ed era o simulava dʼessere
certo che il Governo Olandese non macchinava nulla contro Giacomo. Ma
mentre Albeville rimaneva lontano dal suo posto, Avaux con arte somma
compiva i doveri dʼAmbasciatore Francese ed Inglese presso gli Stati,
e mandava copiose notizie a Barillon egualmente che a Luigi. Avaux
era persuaso che si meditava uno sbarco in Inghilterra, e gli venne
fatto di convincerne il suo signore. Ogni corriere che giungesse a
Westminster o dallʼAja o da Versailles, recava seri ammonimenti.[465]
Ma Giacomo trovavasi involto in uno inganno, che, a quanto sembra,
era artificiosamente accresciuto da Sunderland. Lo astuto ministro
diceva che il Principe dʼOrange non si rischierebbe mai ad una
spedizione oltre mare, lasciando la Olanda priva di difesa. Gli Stati
rammentandosi deʼ danni patiti e del pericolo di patirne maggiori
nellʼinfausto anno 1672, non si porrebbero a repentaglio di vedere
un esercito straniero accamparsi nel piano fra Utrecht e Amsterdam.
Non era dubbio che fossero molti sinistri umori in Inghilterra: ma
fra i mali umori e la ribellione era immenso lo spazio. I più ricchi
e spettabili cittadini non erano minimamente disposti a rischiare
onori, vita e sostanze. Quanti uomini cospicui fraʼ Whig avevano
parlato con alto–sonanti parole, mentre Monmouth era neʼ Paesi Bassi! E
nondimeno chi di loro accorse al suo vessillo allorchè egli lo inalzò
a ribellare lʼInghilterra? Era agevole ad intendere il perchè Luigi
simulava di prestar fede a cotesti vani rumori. Certo egli sperava,
atterrando il Re dʼInghilterra, indurlo a spalleggiare la Francia
nella contesa per lo arcivescovato di Colonia. Con tali ragionamenti
Giacomo era di leggieri tenuto in una stupida sicurezza.[466] I timori
e lo sdegno di Luigi quotidianamente crescevano. Lo stile delle sue
lettere si faceva sempre più pungente ed energico.[467] Scriveva di
non sapere intendere cotesto letargo nella vigilia dʼuna tremenda
crisi. Era il Re forse ammaliato? I suoi ministri erano forse ciechi?
Era egli possibile che nessuno in Whitehall sʼaccorgesse di ciò che
accadeva in Inghilterra e nel continente? Tanta sicurezza mal poteva
essere lo effetto della imprevidenza. Qualche scelleraggine vi stava
sotto. Giacomo evidentemente trovavasi in cattive mani. Barillon fu
rigorosamente avvertito a non fidarsi alla cieca deʼ ministri inglesi:
ma fu avvertito invano. Sunderland aveva avvinto e Barillon e Giacomo
in un fascino tale che non vʼera ammonimento che valesse a romperlo.

XXVIII. Luigi affaccendavasi ognora con maggior vigoria. Bonrepaux il
quale per perspicacia valeva molto più di Barillon, e aveva sempre
aborrito e diffidato di Sunderland, fu spedito a Londra per offrire
soccorsi marittimi. Ad Avaux nel tempo stesso fu ingiunto di dichiarare
agli Stati Generali che la Francia aveva preso Giacomo sotto la
sua protezione. Un gran corpo di truppe era pronto a marciare alla
frontiera olandese. Questa audace prova di salvare suo malgrado lo
accecato tiranno, fu fatta di pieno accordo con Skelton, il quale
allora era ambasciatore dʼInghilterra presso la Corte di Versailles.
Avaux uniformandosi alle ricevute istruzioni, chiese agli Stati una
udienza che gli venne subito concessa. Lʼassemblea era oltre il
consueto numerosa. Generalmente credevasi che il Francese dovesse fare
qualche comunicazione concernente il commercio; e così supponendo il
Presidente aveva apparecchiata una convenevole risposta in iscritto.
Ma appena Avaux cominciò ad esporre la sua commissione, segni
dʼinquietudine apparvero in tutto lʼuditorio. Coloro che erano in voce
di godere la confidenza del Principe dʼOrange, abbassaron gli occhi.
Lʼagitazione si fece maggiore allorchè lo Inviato annunziò che il suo
signore era intimamente stretto coʼ vincoli dʼamistà e dʼalleanza a
Sua Maestà Britannica, e che ogni aggressione contro la Inghilterra
verrebbe considerata come una dichiarazione di guerra alla Francia.
Il presidente, côlto di sorpresa, balbettò poche parole evasive; e la
conferenza si sciolse. Nel medesimo tempo fu notificato agli Stati che
Luigi aveva preso sotto la sua protezione il Cardinale Furstemburg e il
Capitolo di Colonia.[468]

I deputati erano nella massima agitazione. Alcuni consigliavano indugio
e cautela. Altri gridavano guerra. Fagel parlò con veementi parole
della insolenza francese, e pregò i colleghi a non lasciarsi impaurire
dalle minacce. Disse che la risposta più convenevole a cosiffatte
comunicazioni era quella di accrescere maggiormente le forze di terra
e di mare. Tosto fu spedito un corriere a richiamare Guglielmo da
Minden, dove teneva un colloquio di somma importanza con lo Elettore di
Brandenburgo.

XXIX. Ma non vʼera ragione alcuna di timore. Giacomo correva da sè
alla propria rovina, ed ogni sforzo fatto a fermarlo lo spingeva più
rapidamente al proprio destino. Mentre il suo trono era consolidato,
il suo popolo sommesso, il più ossequioso doʼ Parlamenti pronto a
indovinarne i desiderii e compiacerlo, mentre le repubbliche e i
potentati stranieri gareggiavano a tenerselo bene edificato, mentre
stava solo in lui il divenire lʼarbitro della Cristianità, egli sʼera
abbassato a farsi lo schiavo e il mercenario della Francia. E adesso
mentre per una catena di delitti e di follie, sʼera inimicato coʼ
vicini, coʼ sudditi, coʼ soldati, coʼ marinai, coʼ figli suoi, ed altro
rifugio non rimanevagli che la protezione della Francia, fu preso
da uno accesso dʼorgoglio, e deliberò di far pompa dʼindipendenza
agli occhi di tutto il mondo. Lo aiuto, chʼegli, quando non ne
aveva mestieri, non aveva vergognato di accettare con lacrime di
gioia, adesso che gli era necessario, lo aveva sprezzantemente
ricusato. Essendosi mostrato abietto mentre poteva con convenevolezza
mostrarsi puntiglioso a mantenere la propria dignità, egli divenne
con ingratitudine altero nel momento in cui lʼalterigia doveva
gettarlo nello scherno e nella rovina. Ei si mostrò risentito allo
amichevole intervento che avrebbe potuto salvarlo. Si vide mai un Re
siffattamente trattato? Era egli un fanciullo o un idiota, che altri
avesse ad impacciarsi deʼ fatti suoi? Era egli un principotto, un
Cardinale Furstemburg, il quale cadrebbe se non fosse sostenuto dal
suo potente protettore? Doveva egli perdere la stima di tutta Europa
accettando un pomposo protettorato che egli non aveva mai chiesto?
Skelton fu richiamato a rendere ragione della sua condotta, ed appena
giunto a Londra fu imprigionato nella Torre. Citters fu bene accolto
in Whitehall ed ebbe una lunga udienza. Egli poteva, con veracità
maggiore di quella che in simiglianti occasioni i diplomatici reputano
necessaria, smentire dalla parte degli Stati Generali qual si fosse
disegno ostile: imperciocchè gli Stati Generali fino allora non avevano
notizia officiale dello intendimento di Guglielmo; nè era affatto
impossibile che essi anche allora non gli dessero la loro approvazione.
Giacomo disse che non prestava punto fede alle voci dʼuna invasione
Olandese, e che la condotta del Governo Francese gli aveva recato
maraviglia e molestia. A Middleton fu ingiunto di assicurare tutti i
ministri stranieri come non esistesse tra la Francia e lʼInghilterra
quella lega, che la Corte di Versailles voleva, pei propri fini,
far credere. Al Nuncio il Re disse che i disegni di Luigi erano
manifestissimi e che verrebbero frustrati. Questa officiosa protezione
era un insulto e insieme una trappola. «Il mio buon fratello» soggiunse
Giacomo «ha ottime qualità; ma lʼadulazione e la vanità gli hanno dato
volta al cervello.»[469] Adda, al quale importava più Colonia che
la Inghilterra, secondò cotesto strano inganno. Albeville, che era
già ritornato al suo posto, ebbe comandamento di dare assicurazioni
dʼamistà agli Stati Generali e di aggiungere parole che sarebbero
state convenevoli sulle labbra dʼElisabetta o di Cromwell. «Il mio
Signore» disse egli «per la sua potenza e pel suo animo si è inalzato
al di sopra della posizione dove la Francia pretende tenerlo. Vi
è qualche differenza tra un Re dʼInghilterra ed un Arcivescovo di
Colonia.» Lʼaccoglienza fatta a Bonrepaux in Whitehall fu fredda. I
soccorsi marittimi chʼegli offriva non furono affatto ricusati: ma gli
fu forza tornarsene senza avere nulla concluso; e agli Ambasciatori
delle Province Unite e della Casa dʼAustria fu detto che lʼambasciata
francese non era stata gradita dal Re e non aveva prodotto nessun
effetto. Dopo la Rivoluzione Sunderland vantossi, e forse diceva
il vero, dʼavere indotto il proprio signore a rifiutare lo aiuto
proffertogli dalla Francia.[470]

La ostinata demenza di Giacomo destò, come era naturale, lo sdegno del
suo potente vicino. Luigi si dolse che in ricambio deʼ grandissimi
servigi chʼegli poteva rendere al Governo inglese, quel Governo
gli aveva dato una mentita in faccia a tutta la Cristianità. Notò
giustamente che tutto ciò che era stato detto da Avaux rispetto
alla alleanza tra la Francia e la Gran Bretagna era vero secondo lo
spirito, comechè forse non vero secondo la lettera. Non esisteva
trattato compilato in articoli, munito di firme, sigilli e ratifiche;
ma pel corso di parecchi anni erano state ricambiate tra le due Corti
assicurazioni equivalenti, nellʼopinione degli uomini dʼonore, ad un
trattato. Luigi aggiunse che per quanto fosse elevato il suo posto in
Europa, non avrebbe mai sentita tanto assurda gelosia della propria
dignità da prendere per insulto un atto suggerito dallʼamicizia. Ma
Giacomo era in condizioni differentissime, e in breve conoscerebbe il
pregio di un aiuto da lui con sì poca buona grazia ricusato.[471]

Nulladimeno, malgrado la stupidità e la ingratitudine di Giacomo,
sarebbe stato savio provvedimento per Luigi il persistere nella
determinazione notificata agli Stati Generali. Avaux che per sagacia e
discernimento era degno antagonista di Guglielmo, era assolutamente di
questa opinione. Precipuo scopo del Governo francese—così ragionava
lo esperto Ambasciatore—dovrebbe essere quello dʼimpedire la invasione
della Inghilterra. Il modo dʼimpedirla era dʼinvadere i Paesi Bassi
sotto il dominio della Spagna, e minacciare i batavi confini. Il
Principe dʼOrange era cotanto impegnato nella sua intrapresa, da
persistere quandʼanco vedesse la bianca bandiera sventolare sopra le
mura di Brusselles. Aveva già detto che ove gli Spagnuoli potessero
fare in guisa da tenere fino a primavera Ostenda, Mons e Namur, ci
sarebbe ritornato dalla Inghilterra con forze bastevoli a ricuperare
tostamente le perdute province. Ma comechè tale fosse la opinione
del Principe, tale non era quella degli Stati, i quali non avrebbero
agevolmente consentito a mandare il Capitano e il fiore dellʼarmata
loro oltre lʼOceano Germanico, mentre un formidabile nemico minacciava
il loro territorio.[472]

XXX. Luigi reputava savie coteste ragioni: ma era già deliberato di
agire in modo diverso. Forse era stato provocato dalla scortesia e
dalla caparbietà del Governo inglese, e voleva appagare lo sdegno a
spese del proprio interesse. Forse lo traviavano i consigli di Louvois
suo ministro della guerra, che aveva grande influenza e non guardava
di buon occhio Avaux. Il Re di Francia deliberò di tentare altrove
un grande ed inatteso colpo. Ritrasse le sue schiere dalle Fiandre
e le gettò nella Germania. Unʼarmata, sotto il comando nominale del
Delfino, ma veramente guidata dal Duca di Duras, e da Vauban, padre
della scienza delle fortificazioni, invase Philipsburg. Unʼaltra,
condotta dal Marchese di Bouffiers, prese Worms, Magonza e Treveri. Una
terza, comandata dal Marchese di Humières, entrò in Bonn. Per tutta la
linea del Reno, da Carlsruhe fino a Colonia, lo esercito francese fu
vittorioso. La nuova della caduta di Philipsburg giunse a Versailles il
dì dʼOgnissanti, mentre la Corte ascoltava la predica nella cappella.
Il Re fece al predicatore segno di fermarsi, annunziò la lieta nuova
e inginocchiandosi ringraziò Dio di questa gran vittoria. Lʼuditorio
ne pianse di gioia.[473] La notizia fu accolta con entusiasmo dallo
ardente e vanitoso popolo della Francia. I poeti celebrarono il
trionfo del loro magnifico protettore. Gli oratori esaltarono dai
pergami la sapienza e magnanimità del figlio primogenito della
Chiesa. Cantossi con insolita pompa il Te Deum, e le solenni melodie
dellʼorgano risonavano miste al clangore deʼ timpani ed allo squillo
delle trombe. Ma vʼera poca ragione a rallegrarsi. Il grande uomo di
Stato che capitanava la Coalizione Europea, gioiva in cuor suo vedendo
così male diretta la energia del suo nemico. Luigi con la sua prontezza
aveva ottenuto qualche vantaggio in Germania: ma poteva giovargli
poco ove la Inghilterra, inoperosa e priva di gloria sotto quattro Re
successivi, riprendesse lʼantico suo grado fra i potentati dʼEuropa.
Poche settimane bastavano per compire la impresa dalla quale dipendeva
il destino del mondo; e per poche settimane le Province Unite potevano
mantenersi sicure da ogni pericolo.

XXXI. Guglielmo allora spinse i suoi apparecchi con indefessa operosità
e con minore segretezza di quella che per innanzi aveva creduto
necessaria. Giungevangli ogni giorno nuovo assicurazioni di soccorso
dalle Corti straniere. Ogni opposizione nellʼAja era spenta. Invano
Avaux in quegli estremi momenti studiossi con ogni sua arte a rianimare
la fazione che pel corso di tre generazioni aveva avversato la Casa
dʼOrange. I capi di quella fazione, a dir vero, non procedevano
favorevoli allo Statoldero; come quelli che ragionevolmente temevano
che ove egli avesse prospera ventura in Inghilterra, diventerebbe
assoluto signore della Olanda. Nondimeno gli errori della Corte di
Versailles, e la destrezza onde egli se nʼera giovato, rendevano
impossibile il continuare la lotta contro di lui. Conobbe essere
giunto il tempo di chiedere lo assenso degli Stati. Amsterdam era il
quartiere generale del partito ostile alla razza, alla dignità, alla
persona di lui; ed anche quivi ei non aveva adesso nulla da temere.
Alcuni dei precipui magistrati di quella città avevano avuto più volte
secreti colloqui con lui, con Dykvelt e con Bentinck, ed erano stati
indotti a promettere che avrebbero secondato o almeno non avversato la
grande intrapresa: altri erano esasperati dagli editti commerciali di
Luigi: altri erano dolentissimi pei parenti e per gli amici tormentati
dai dragoni francesi: altri abborrivano dalla responsabilità di
far nascere uno scisma che potrebbe essere fatale alla Federazione
Batava: ed altri avevano paura del popolo, il quale, incitato dalle
arringhe deʼ zelanti predicatori, era pronto a porre le mani addosso
ad ogni traditore della Religione Protestante. La maggioranza quindi
di quel Consiglio municipale, che aveva da lungo tempo favorita la
Francia, si dichiarò favorevole alla impresa di Guglielmo. E però in
ogni parte delle Province Unite era svanito ogni timore dʼopposizione;
e lo assenso di tutta la Federazione fu formalmente dato in scerete
ragunanze.[474]

Il Principe aveva già posto gli occhi sopra un generale che avesse
requisiti da essere a lui secondo nel comando. Ciò non era cosa di
lieve importanza. Unʼarchibugiata fortuita o il pugnale dʼun assassino
avrebbe potuto in un istante lasciare lo esercito senza capo; ed era
mestieri che un successore fosse pronto ad occupare il posto vacante.
Nulladimeno egli era impossibile deputare a tanto ufficio un Inglese
senza offendere i Whig o i Tory; nè fra glʼInglesi vʼera alcuno che
avesse lʼarte militare bisognevole a condurre una campagna. Dallʼaltro
canto non era agevole proporre uno straniero senza offendere il senso
nazionale degli alteri isolani. Un solo era lʼuomo in Europa contro il
quale non poteva farsi obiezione, cioè Federigo Conte di Schomberg,
tedesco dʼuna famiglia nobile del Palatinato. Era universalmente
reputato il più grande maestro dellʼarte della guerra. La pietà e
rettitudine sue, che non avevano mai ceduto a fortissime tentazioni,
lo rendevano ben meritevole di riverenza e fiducia. Come che fosse
Protestante, aveva per molti anni militato al soldo di Luigi, e in onta
alle inique trame deʼ Gesuiti aveva strappato da lui, dopo una serie di
gloriosi fatti, il bastone di Maresciallo di Francia. Allorquando la
persecuzione cominciò ad infuriare, il valoroso veterano ostinatamente
ricusò di conseguire con lʼapostasia il regio favore; rinunziò, senza
mormorare, a tutti i suoi onori e comandi; abbandonò per sempre la sua
patria adottiva, e rifugiossi alla Corte di Berlino. Aveva settanta e
più anni dʼetà, ma era in pieno vigore di mente e di corpo. Era stato
in Inghilterra, dove fu molto amato ed onorato; e parlava la nostra
favella non solo intelligibilmente, ma con grazia e purezza; qualità di
cui allora pochi stranieri potevano menar vanto. Con lo assenso dello
Elettore di Brandenburgo e con la cordiale approvazione di tutti i capi
deʼ partiti inglesi fu nominato Luogotenente di Guglielmo.[475]

XXXII. LʼAja era allora piena di avventurieri di tutti i vari partiti
che la tirannia di Giacomo aveva congiunti in una strana coalizione;
vecchi realisti, che avevano sparso il proprio sangue in difesa del
trono; vecchi agitatori dellʼesercito del Parlamento; Tory, che erano
stati perseguitati a tempo della Legge dʼEsclusione; Whig, che erano
fuggiti al Continente per avere partecipato alla Congiura di Rye House.

Primeggiavano in cotesto grande miscuglio Gherardo Conte di
Maclesfield, antico Cavaliere che aveva combattuto per Carlo I ed
esulato con Carlo II; Arcibaldo Campbell che era figlio primogenito
dello sventurato Argyle, dal quale non aveva altro ereditato che
il nome illustre e lʼinalienabile affetto dʼuna numerosa tribù;
Carlo Paulet, Conte di Wiltshire, erede presuntivo del Marchesato
di Wincester; e Pellegrino Osborne, Lord Dumblane, erede presuntivo
della Contea di Danby. Notavasi fra i più importanti volontari
Mordaunt che esultava nella speranza di incontrare avventure, alle
quali irresistibilmente lo traeva la fiera sua indole. Fletcher
di Saltoun, mentre stavasi a guardare i confini della Cristianità
contro glʼinfedeli, avendo saputo che vi era speranza di liberare
la patria, sʼera affrettato ad offrire al liberatore lo aiuto della
sua spada. Sir Patrizio Hume, il quale dopo di essere fuggito dalla
Scozia era vissuto umilmente in Utrecht, adesso uscì dalla oscurità;
ma per fortuna in questa occasione la sua eloquenza poteva recare
poco danno; imperocchè il Principe dʼOrange non era punto disposto ad
essere Luogotenente dʼuna società ciarliera come era stata quella che
aveva rovinata la impresa dʼArgyle. Il sottile ed irrequieto Wildman,
che alcuni anni innanzi, non trovandosi sicuro in Inghilterra, aveva
cercato un asilo in Germania, adesso accorse alla Corte del Principe.
Vʼera anche Carstairs, ministro Presbiteriano di Scozia, che per
accorgimento e coraggio non era secondo a nessuno degli uomini politici
di quellʼepoca. Fagel, parecchi anni prima, gli aveva affidato segreti
importantissimi, che i più orribili tormenti dello stivaletto e delle
tanaglie non gli avevano potuto strappare dalle labbra. Per cotesta
rara fortezza ei sʼacquistò il primo posto dopo Bentinck nella stima e
fiducia del Principe.[476] Ferguson non poteva rimanere quieto mentre
apparecchiavasi una rivoluzione. Si procurò un imbarco nella flotta
e cominciò ad affaccendarsi fraʼ suoi compagni dʼesilio: ma trovò
in tutti diffidenza e disprezzo. Egli era stato grande uomo in quel
nucleo dʼignoranti e furibondi fuorusciti che avevano spinto il debole
Monmouth alla rovina: ma tra i gravi uomini di Stato e Capitani che
coadiuvavano il risoluto e sagace Guglielmo, non vʼera luogo per un
agitatore di bassa sfera, mezzo maniaco e mezzo birbone.

XXXIII. La differenza fra la spedizione del 1685 e quella del 1688
risultava bastevolmente dalla differenza tra le dichiarazioni
pubblicate dai capi dellʼuna e dellʼaltra. Per Monmouth Ferguson aveva
scrivacchiato un assurdo e brutale libello, dove accusava Re Giacomo
dʼavere bruciato Londra, strangolato Godfrey, fatto strage dʼEssex,
e propinato il veleno a Carlo. La Dichiarazione di Guglielmo fu
scritta dal Gran Pensionario Fagel il quale aveva alta riputazione di
pubblicista. Quantunque fosse grave e dotta, nella sua forma originale
era troppo prolissa: ma venne compendiata e tradotta in inglese da
Burnet, il quale sʼintendeva bene dellʼarte dello scrivere popolare.
In un solenne preambolo stabiliva il principio che in ogni società la
rigorosa osservanza della legge era egualmente necessaria alla felicità
delle nazioni ed alla sicurezza deʼ Governi. Il Principe dʼOrange
aveva quindi veduto con profondo rammarico come le leggi fondamentali
del Regno, al quale egli era congiunto con stretti vincoli di sangue
e di matrimonio, fossero grandemente e sistematicamente violate. La
potestà di dispensare dagli Atti del Parlamento era stata stiracchiata
a segno che tutta lʼautorità legislativa era ridotta nella sola
Corona. Sentenze repugnanti allo spirito della Costituzione erano state
profferite dai tribunali, destituendo i giudici incorruttibili, e
sostituendo loro uomini pronti ad obbedire implicitamente agli ordini
del Governo. Non ostanti le ripetute assicurazioni che il Re aveva
date di mantenere la religione dello Stato, persone manifestamente
avverse a quella erano state promosse non solo agli uffici civili, ma
anco ai beneficii ecclesiastici. Il governo della Chiesa, in onta al
chiarissimo senso degli Statuti, era stato affidato ad una nuova Corte
dʼAlta Commissione, nella quale aveva seggio un uomo che apertamente
professava il Papismo. Uomini dabbene, per avere ricusato di violare il
dovere e i giuramenti loro, erano stati spogliati della loro proprietà
in dispregio della _Magna Charta_ e delle libertà dʼInghilterra.
Intanto individui che legalmente non potevano porre piede nellʼisola
erano stati posti a capo deʼ seminari per corrompere le menti deʼ
giovani. Luogotenenti, Deputati Luogotenenti, Giudici di Pace erano
stati a centinaia destituiti per avere rifiutato di secondare una
politica perniciosa ed incostituzionale. Quasi tutti i borghi del Regno
erano stati privati delle loro franchigie. Le Corti di giustizia erano
in condizioni tali, che le loro sentenze, anche nelle cause civili,
non ispiravano più fiducia, e la loro servilità nelle criminali aveva
fatto spargere nel Regno il sangue innocente. Tutti cotesti abusi,
venuti in disgusto alla nazione inglese, il Governo aveva intenzione di
difendere, secondo che sembrava, con una armata di Papisti Irlandesi.
Nè ciò era tutto. I Principi più assoluti del mondo non avevano
reputato delitto in un suddito lo esporre modestamente e con pace gli
aggravi, e chiederne giustizia. Ma in Inghilterra le cose erano giunte
a tale eccesso che il supplicare veniva reputato gravissimo delitto.
Per nessuna altra colpa che quella dʼavere presentata al Sovrano una
petizione scritta con rispettosissime parole i padri della Chiesa
Anglicana erano stati messi in carcere e processati; e destituiti
i giudici che diedero il voto in loro favore. La convocazione dʼun
legittimo Parlamento poteva essere un rimedio efficace a tutti cotesti
mali: ma un simile Parlamento, a meno che non fosse interamente
cangiato il Governo, non era da sperarsi dalla nazione. La Corte
mostrava evidentemente la intenzione di mettere insieme, rifoggiando
a suo modo i municipii e deputando ufficiali elettorali papisti,
una Camera di Comuni che fosse tale di solo nome. In fine, vʼerano
circostanze che facevano sospettare non essere nato dalla Regina lo
infante che chiamavasi Principe di Galles. Per queste ragioni il
Principe, in contemplazione della sua stretta parentela con la regia
famiglia, e per gratitudine dello affetto che il popolo inglese aveva
sempre portato alla sua diletta consorte ed a lui, cedendo allo
invito di non pochi Lordi spirituali e secolari e di molti altri
uomini dʼogni grado, aveva deliberato di recarsi nellʼisola con forze
sufficenti a reprimere la violenza. Lungi dalla sua mente ogni pensiero
di conquista. Protestava che finchè le sue milizie rimarrebbero in
Inghilterra, sarebbero tenute nella più rigorosa disciplina, ed appena
la nazione si fosse liberata dal giogo della tirannide, sarebbero
mandate via. Suo unico scopo era quello di far convocare un libero e
legittimo Parlamento; alla decisione del quale egli faceva solenne
sacramento di lasciare tutte le questioni pubbliche e private.

Come questa dichiarazione cominciò a correre attorno per lʼAja,
apparvero segni di dissensione fra glʼInglesi. Wildman, indefesso nel
male, indusse alcuni deʼ suoi concittadini, ed in ispecie il testardo
e leggiero Mordaunt a dichiarare che a tali patti non prenderebbero le
armi, dicendo che lo scritto era stato ideato per piacere ai Cavalieri
e ai parrochi; i danni della Chiesa e il processo deʼ Vescovi vi
facevano troppa figura; e non vʼera pur motto del tirannesco modo onde
i Tory, innanzi che rompessero con la Corte, avevano trattato i Whig.
Wildman allora produsse un contro–manifesto, da lui apparecchiato,
il quale, ove fosse stato abbracciato, avrebbe indignati il Clero
Anglicano e quattro quinti dellʼaristocrazia territoriale. I principali
Whig gli fecero vigorosa opposizione; e segnatamente Russell dichiarò
che ove venisse adottato lo insano suggerimento di Wildman, si
sarebbe sciolta la coalizione dalla quale unicamente poteva il popolo
inglese sperare dʼessere liberato. In fine la contesa fu ricomposta
per lʼautorità di Guglielmo, il quale, col suo consueto buon senso,
stabilì che il manifesto rimanesse quasi come era stato congegnato da
Fagel e da Burnet.[477]

XXXIV. Mentre tali cose seguivano in Olanda, Giacomo erasi finalmente
accorto del proprio pericolo. Da varie parti gli giungevano avvisi che
mal potevano mettersi in non cale, finchè un dispaccio dʼAlbeville
gli tolse ogni dubbio. Dicesi che come il Re lo ebbe letto, tosto
impallidisse e perdesse per alcun tempo la parola.[478] Ed era
naturale che ne rimanesse atterrito: imperocchè il primo vento che
spirasse di levante avrebbe portato un esercito ostile alle spiagge
del suo reame. Tutta Europa, tranne un solo potentato, attendeva con
impazienza la nuova della sua caduta. Anzi egli aveva respinto con un
insulto lo amichevole intervento che lo avrebbe potuto salvare. Le
schiere francesi, che, sʼegli non fosse stato demente, avrebbero potuto
atterrire gli Stati Generali, stavansi ad assediare Philipsburg, o
presidiavano Magonza. Tra pochi giorni forse gli toccherebbe di pugnare
sul territorio inglese a difendere la propria corona e il diritto
ereditario del suo figliuolo infante. Grandi, a dir vero, erano in
apparenza i suoi mezzi. La flotta era in assai migliori condizioni
di quello che fosse nel tempo, in cui egli ascese al trono: e tali
miglioramenti in parte erano da attribuirsi aʼ suoi propri sforzi. Non
aveva nominato Lord Grande Ammiraglio o Consiglio dʼAmmiragliato, ma
aveva riserbata a se stesso lʼalta direzione degli affari marittimi con
la vigorosa assistenza di Pepys. Dice il proverbio che lʼocchio del
padrone vale più di quello del ministro: e in una età di corruzione
e di peculato è verosimile che un dipartimento al quale un sovrano,
anche di pochissima mente, rivolge la propria attenzione, si mantenga
comparativamente libero dagli abusi. Sarebbe stato facile trovare
un ministro della marina più abile di Giacomo; ma non sarebbe stato
facile, fra gli uomini pubblici di quel tempo, trovare, tranne
Giacomo stesso, un ministro della marina, il quale non rubasse sulle
provigioni, non accettasse doni dai contraenti, e non addebitasse
la Corona deʼ non mai fatti ripari. E veramente il Re era quasi il
solo del quale si potesse esser certi che non frodasse il Re. E però
negli ultimi tre anni più che neʼ precedenti eravi stato meno sciupío
e meno rubamenti negli arsenali. Sʼerano costruiti parecchi vascelli
atti a navigare. Giacomo aveva emanato un opportuno decreto col
quale, accrescendo la paga dei capitani, rigorosamente inibiva loro
di trasportare da un porto allʼaltro mercanzie senza regia licenza.
Lo effetto di queste riforme già era visibile; e a Giacomo non riuscì
difficile allestire in brevissimo tempo una considerevole flotta.
Trenta vascelli di linea, tutti di terzo e quarto ordine, furono
ragunati nel Tamigi sotto il comando di Lord Dartmouth, la cui lealtà
non ammetteva sospetto. Egli veniva reputato nellʼarte sua più esperto
di tutti i marini patrizi, i quali in quella età inalzavansi ai supremi
comandi nella flotta senza educazione marittima, ed erano a un tempo
capitani di vascello sul mare, e colonnelli di fanteria per terra.[479]

XXXV. Lʼarmata regolare era più grande di quante ne avessero mai
comandate i re dʼInghilterra, e fu rapidamente accresciuta. Nei
reggimenti che esistevano vennero incorporate nuove compagnie. Furono
create commissioni a formarne altri. Quattro mila uomini furono
aggiunti alle forze militari dellʼInghilterra; tremila speditamente
fatti venire dalla Irlanda; altrettanti dalla Scozia diretti verso il
mezzogiorno. Giacomo stimava circa quaranta mila uomini—senza contarvi
la milizia civica—le forze che poteva opporre agli invasori.[480]

La flotta e lo esercito, quindi, erano più che bastevoli a respingere
la invasione degli Olandesi. Ma poteva il Re fidarsi dello esercito
e della flotta? Le milizie urbane non accorrerebbero a migliaia al
vessillo del liberatore? Il partito, che pochi anni innanzi aveva
snudata la spada in favore di Monmouth, senza dubbio accoglierebbe
il Principe dʼOrange. E dove era egli mai quel partito che per
quarantasette anni era stato lʼegida della monarchia? Dove erano quegli
strenui gentiluomini i quali erano sempre stati pronti a spargere il
proprio sangue a difesa della Corona? Oltraggiati e insultati, cacciati
dalle magistrature e dalla milizia, mostravansi senza maschera lieti
del pericolo in cui vedevano travagliarsi lo ingrato sovrano. Dove
erano mai quei sacerdoti e prelati, i quali da dieci mila pergami
avevano predicato il debito dʼobbedire allʼunto del Signore? Alcuni
di loro erano stati messi in carcere, altri spogliati degli averi, e
tutti posti sotto al ferreo giogo dellʼAlta Commissione, ed avevano
grandemente temuto un nuovo capriccio del tiranno non li privasse
della libera proprietà loro, lasciandoli senza un tozzo di pane. Eʼ
sembrava incredibile che gli Anglicani, anche in quegli estremi,
dimenticassero pienamente quella dottrina di cui menavano peculiare
vanto. Ma poteva egli il loro oppressore augurarsi di trovare fra essi
quello spirito che nella precedente generazione aveva trionfato sopra i
soldati dʼEssex e di Waller, e dopo una disperata lotta ceduto solo al
genio e vigore di Cromwell? Il tiranno ne impaurì davvero. E cessando
di ripetere che le concessioni avevano sempre tratto i principi alla
rovina, confessò amaramente essergli dʼuopo corteggiare di nuovo i
Tory.[481]

XXXVI. Abbiamo ragione di credere che Halifax verso questo tempo fosse
invitato a rientrare nel governo, e che ciò non gli spiacesse. La parte
di mediatore fra il trono e la nazione era quella che meglio gli stava,
e che ei singolarmente ambiva. Non si sa in che guisa si rompessero le
pratiche con lui: ma non è improbabile che la questione della potestà
di dispensare fosse difficoltà insormontabile. Per averla avversata,
tre anni innanzi, era caduto in disgrazia; e fra le cose che erano
quinci succedute non ve nʼera alcuna che gli potesse far cangiare
opinione. Giacomo, dallʼaltro canto, era fermamente deliberato di non
fare concessione alcuna intorno a quel punto.[482] Rispetto alle altre
cose era meno pertinace. Emanò un proclama col quale solennemente
prometteva proteggere la chiesa dʼInghilterra e mantenere lʼAtto
dʼUniformità. Dichiaravasi desideroso di fare grandi sacrifici alla
concordia. Diceva non volere più oltre insistere sullʼammissione deʼ
Cattolici Romani alla Camera deʼ Comuni; e sperava di sicuro che i suoi
sudditi giustamente apprezzerebbero la prova chʼegli porgeva a volere
appagare i loro desiderii. Tre giorni dopo espresse la intenzione di
porre nuovamente in ufficio i magistrati o i luogotenenti deputati
chʼegli aveva destituiti per avere ricusato di secondare la politica
del governo. Il dì dopo la comparsa di questa notificazione Compton fu
dalla sospensione prosciolto.[483]

XXXVII. Nel tempo medesimo il Re diede udienza a tutti i vescovi che
erano in Londra. Avevano chiesto dʼessere ammessi alla presenza di lui
onde confortarlo deʼ loro consigli in quelle gravissime circostanze.
Il Primate favellò per tutti. Rispettosamente pregò il Re a porre
lʼamministrazione nelle mani dʼuomini che avessero i debiti requisiti
per condurre il governo; revocare tutti gli atti consumati sotto
pretesto della potestà di dispensare; annullare lʼAlta Commissione;
riparare alle ingiustizie commesse contro il Collegio della Maddalena,
e rendere ai Municipii le loro antiche franchigie. Accennò con molta
chiarezza ad un desiderevole evento che avrebbe pienamente consolidato
il trono e resa la pace al perturbato reame. Ove Sua Maestà sʼinducesse
a riesaminare i punti controversi fra la Chiesa di Roma e quella
dʼInghilterra, forse, mercè la grazia divina, gli argomenti che i
vescovi desideravano esporle lʼavrebbero convinta essere suo debito
ritornare alla religione del padre e dellʼavo. Finqui, disse Sancroft,
aveva espresso glʼintendimenti deʼ suoi confratelli. Ma vʼera una cosa
intorno a cui non li aveva consultati, e chʼegli reputava suo dovere
esporre al sovrano. E veramente egli era il solo uomo del clero che
potesse toccare di tale subietto senza essere sospettato di mirare
al proprio interesse. La sede metropolitana di York da tre anni era
vacante. Lo arcivescovo supplicò il Re di darla a un pio e dotto
teologo, ed aggiunse che un siffatto teologo poteva senza difficoltà
trovarsi fra coloro che erano lì presenti. Il Re seppe frenarsi tanto
da rendere grazie ai Vescovi per quegli sgradevoli ammonimenti, e
promise loro di ponderare bene ciò che avevano detto.[484] Quanto alla
potestà di dispensare non volle cedere un jota. Nessuno deglʼindividui
incapaci fu rimosso dagli uffici civili o militari. Ma alcuni deʼ
suggerimenti di Sancroft vennero abbracciati. Dentro quarantotto
ore la Corte dellʼAlta Commissione fu abolita.[485] Fu risoluto di
rendere alla Città di Londra lo statuto toltole sei anni innanzi; e
il Cancelliere fu mandato con gran solennità a recare a Guildhall
quella veneranda cartapecora.[486] Sette giorni dopo fu annunziato al
pubblico che il Vescovo di Winchester, il quale per virtù del proprio
ufficio era Visitatore del Collegio della Maddalena, aveva avuto dal
Re lo incarico di riparare ai danni recati a quella società. Eʼ non
fu senza una lunga lotta e un amarissimo affanno che Giacomo scese
a questa ultima umiliazione; e per vero dire non cedette finchè il
Vicario Apostolico Leyburn, il quale, a quanto sembra, si condusse
sempre da onesto e savio uomo, dichiarò che, secondo il suo giudicio,
il Presidente e i Convittori cacciati avevano patito ingiustizia, e
che per ragioni religiose e politiche era dʼuopo rendere loro il già
tolto.[487] In pochi giorni fu pubblicato un decreto che restituiva le
tolte franchigie a tutti i municipii.[488]

XXXVIII. Giacomo lusingavasi che concessioni sì grandi, fatte nel
breve spazio dʼun mese, gli farebbero di nuovo acquistare lo affetto
del suo popolo. Non può dubitarsi che ove egli le avesse fatte pria
che vi fosse ragione ad attendere una invasione dalla Olanda,
avrebbero molto contribuito a riconciliarlo coi Tory. Ma i principi
che concedono al timore ciò che ricusano alla giustizia, non debbono
sperare gratitudine. Per tre anni il Re era stato duro ad ogni
argomento, ad ogni preghiera. Chi deʼ ministri aveva osato inalzare la
voce in favore della costituzione civile ed ecclesiastica del Regno,
era caduto in disgrazia. Un Parlamento eminentemente realista erasi
provato a protestare con dolci e rispettosi modi contro la violazione
delle leggi fondamentali della Inghilterra, ed era stato acremente
ripreso, prorogato, e disciolto. I giudici, ad uno ad uno, erano stati
privati dellʼermellino, per non essersi voluti indurre a profferire
sentenze contrarie ad ogni specie di leggi. Ai più spettabili cavalieri
era stato chiuso lʼadito al governo delle loro Contee perchè avevano
ricusato di tradire le libertà pubbliche. Gli ecclesiastici a centinaia
erano stati privati deʼ loro beneficii, perchè sʼerano mantenuti fedeli
ai propri giuramenti. Alcuni prelati, alla cui ostinata fedeltà il Re
era debitore della propria corona, lo avevano supplicato in ginocchioni
a non volere che si violassero le leggi di Dio e della patria. La loro
modesta petizione era stata considerata come libello sedizioso. Erano
stati forte ripresi, minacciati, imprigionati, processati, e a mala
pena avevano scansata la estrema rovina. La nazione in fine, vedendo il
diritto soverchiato dalla forza, e perfino le supplicazioni reputarsi
delitto, cominciò a pensare al modo di commettere le proprie sorti
allʼesito dʼuna guerra. Lʼoppressore seppe essere pronto un liberatore
armato, il quale sarebbe di gran cuore accolto daʼ Whig e dai Tory,
dai Dissenzienti e dagli Anglicani. E tutto cangiossi in un attimo.
Quel governo che aveva rimeritato i suoi servitori fidi e costanti
con la spoliazione e la persecuzione, quel governo che alle solide
ragioni ed alle commoventi preghiere aveva risposto con le ingiurie
e glʼinsulti, si fece in un istante stranamente mite. La Gazzetta in
ciascun suo numero annunziava la riparazione di qualche ingiustizia.
Allora chiaramente si conobbe che non era da porre fede nella equità,
nellʼumanità, nella solenne parola del Re, e che egli avrebbe governato
bene finchè esisteva il timore della resistenza. I suoi sudditi,
quindi, non erano punto disposti a ridargli quella fiducia chʼegli
aveva giustamente perduta, o a mitigare la pressura che sola gli aveva
strappato dalle mani i pochi buoni atti da lui fatti in tutto il tempo
del suo regnare. Cresceva sempre in cuore di tutti lʼardente desiderio
dello arrivo degli Olandesi. La plebe aspramente imprecava e malediva
ai venti che in quella stagione ostinatissimi spiravano da ponente, e
impedivano che lʼarmata del Principe salpasse, e a un tempo portavano
nuovi soldati irlandesi da Dublino a Chester. Dicevano spirare vento
papista, ed affollavansi in Cheapside con gli occhi intenti sul
campanile di Bow–Church pregando che la banderuola indicasse lo spirare
di un vento protestante.[489]

Il sentimento universale fu accresciuto da un fatto, che, sebbene
fosse perfettamente accidentale, venne attribuito alla perfidia del
Re. Il Vescovo di Winchester annunziò che, obbedendo al regio comando,
egli doveva ribenedire i Convittori già cacciati dal Collegio della
Maddalena. E avendo per cotesta cerimonia stabilito il dì 21 ottobre,
il giorno precedente giunse in Oxford. La intera Università era in
grande aspettazione. Gli espulsi Convittori erano arrivati da ogni
parte del Regno, bramosi di rientrare nelle loro dilette abitazioni.
Trecento gentiluomini a cavallo scortarono il Vescovo Visitatore al
suo alloggio. Mentre ei procedeva, le campane sonavano a festa, e
unʼinnumerevole folla di popolo che accalcavasi per tutta High–Street
mandava voci di acclamazione. Si ritrasse onde riposarsi. La dimane
dinanzi le porte della Maddalena era accorsa una gran turba di gente:
ma il Vescovo non compariva; e tosto si seppe essere giunto un regio
messo recandogli lʼordine di partire immediatamente per Whitehall.
Questo strano fatto destò in tutti molta maraviglia ed ansietà: ma in
poche ore si sparse una nuova, la quale ad uomini non senza ragione
disposti a pensare al peggio parve chiaramente spiegare il perchè
Giacomo aveva mutato proponimento. La flotta olandese aveva messo alla
vela, ed era stata ricacciata indietro da una tempesta. Le ciarle
popolari esagerarono il disastro. Dicevasi, molti vascelli essersi
perduti, migliaia di cavalli periti; ogni pensiero dʼuno sbarco in
Inghilterra doversi abbandonare almeno per quellʼanno. Ed erano
efficaci avvertimenti alla nazione. Mentre Giacomo era atterrito dalla
prossima invasione e ribellione, aveva ordinato si rendesse giustizia
a coloro che erano stati illegalmente spogliati. Appena si vide sicuro
dello imminente pericolo, rivocò quegli ordini. Cotesta imputazione,
comechè allora fosse generalmente creduta e dopo venisse ripetuta da
scrittori che dovevano essere bene informati, era priva di fondamento.
E certo che il disastro della flotta olandese non poteva, per nessuna
guisa di comunicazione, sapersi in Westminster se non alcune ore dopo
che il Vescovo di Winchester avesse ricevuto gli ordini di partirsi da
Oxford. Il Re, nondimeno, aveva poca ragione a dolersi dei sospetti deʼ
suoi popoli. Se talvolta, senza rigoroso esame deʼ fatti, attribuivano
alla disonesta politica di lui ciò che veramente era effetto del caso e
della imprevidenza, la colpa era tutta sua. Che a coloro, i quali hanno
lʼabitudine di rompere la fede, non si presti credenza quando intendono
serbarla, ciò altro non è che giusta e ben meritata pena.[490]

È da notarsi che Giacomo, in questa occasione, incorse in un non
meritato addebito, soltanto per essersi mostrato corrivo a scolparsi
dʼunʼaltra imputazione chʼegli egualmente non meritava. Il Vescovo di
Winchester era stato in gran fretta richiamato da Oxford per trovarsi
presente ad una straordinaria sessione del Consiglio Privato, o, a dir
meglio, Assemblea di Notabili convocata in Whitehall. In questa solenne
ragunanza oltre i Consiglieri Privati furono chiamati tutti i Pari
spirituali e secolari che per avventura trovavansi nella metropoli e
neʼ luoghi circostanti, i Giudici, gli Avvocati della Corona, il Lord
Gonfaloniere e gli Aldermanni della Città di Londra. Fu fatto intendere
a Petre che farebbe bene dʼassentarsi: perocchè pochi Pari avrebbero
tollerato di trovarsi in compagnia di lui. Presso al capo del banco
era posto un seggio per la Regina vedova. La principessa Anna era
stata invitata ad assistervi, ma si scusò dicendo sentirsi poco bene di
salute.

XXXIX. Giacomo disse a cotesto grande consesso chʼegli reputava
necessario produrre le prove della nascita del proprio figliuolo.
Uomini malvagi con le arti loro avevano invelenito a tal segno lʼanimo
del pubblico, che moltissimi credevano il Principe di Galles non
essere veramente nato dalla Regina. Ma la Provvidenza aveva ordinate
le cose in modo che forse giammai principe venne al mondo in presenza
di cotanti testimoni; i quali erano lì presenti per deporre il vero.
Dopo che furono raccolte e scritte tutte le testimonianze, Giacomo
con grande solennità dichiarò che lo addebito datogli era onninamente
falso, e chʼegli avrebbe piuttosto patito mille morti che ledere i
diritti di nessuna delle sue creature.

Tutti gli astanti ne parvero soddisfatti. Le prove testimoniali vennero
tosto pubblicate, e tutti gli uomini savi o imparziali le stimarono
decisive.[491] Ma i savi sono sempre pochi; e quasi nessuno allora era
imparziale. Tutta la nazione era persuasa che ogni papista sincero
si credeva tenuto a spergiurare, qualora lo spergiuro giovasse alla
propria Chiesa. Coloro che, nati protestanti, per cupidigia di guadagno
avevano simulato di convertirsi al papismo, erano meno degni di fede
anche deʼ sinceri papisti. Il detto di tutti coloro che appartenevano
a queste due classi era quindi considerato come nullo. In tal guisa
si trovò grandemente scemato il peso delle testimonianze nelle quali
Giacomo confidava: le altre venivano malignamente esaminate. Trovavasi
sempre qualche obiezione contro i pochi testimoni protestanti che
avevano detto alcuna cosa dʼimportante. Questi era notissimo come
avido adulatore. Quellʼaltro non aveva per anche apostatato, ma era
stretto parente dʼun apostata. La gente chiedeva, come aveva chiesto
in principio, perchè, se non vʼera nulla di male, il Re, sapendo
che molti dubitavano della gravidanza della sua moglie, non aveva
provveduto sì che il parto fosse provato in modo più soddisfacente. Non
vʼera nulla da sospettare neʼ falsi calcoli, nello improvviso cangiare
dʼabitazione, nellʼassenza della Principessa Anna e dello Arcivescovo
di Canterbury? Perchè non era egli presente nessun prelato della Chiesa
Anglicana? Perchè non fu chiamato lo Ambasciatore Olandese? Perchè,
sopra tutto, agli Hyde, servi leali della Corona, figli fedeli della
Chiesa, e naturali tutori degli interessi delle loro nepoti, non fu
egli concesso di trovarsi fra la folla deʼ papisti che riempivano le
sale e giungevano fino al regio talamo? Perchè, insomma, nella lunga
lista degli astanti non era un solo nome meritevole della fiducia e del
rispetto del pubblico? La vera risposta a coteste domande era che il
Re, uomo di debole intendimento e dʼindole dispotica, aveva volentieri
côlto quel destro a manifestare il suo disprezzo per la opinione deʼ
suoi sudditi. Ma la moltitudine, non contenta di questa spiegazione,
attribuiva a una profondamente meditata scelleraggine ciò che era
effetto di demenza e caparbietà. Nè così pensava la sola moltitudine.
La Principessa Anna mentre stava ad abbigliarsi, il dì dopo la sopra
riferita adunanza, parlò del fatto con tali parole di scherno che
le sue cameriste ardirono celiarne anche esse. Alcuni deʼ Lordi che
avevano ascoltato lo esame deʼ testimoni, e ne parevano sodisfatti,
non ne erano punto convinti. Lloyd Vescovo di Santo Asaph, uomo
universalmente riverito per la pietà e dottrina sue, seguitò finchè
visse a credere alla esistenza dʼun inganno.

XL. Non erano trascorse molte ore da che le prove testimoniali prese
nel Consiglio stavano nelle mani del pubblico, quando corse attorno
la voce che Sunderland era stato destituito di tutti i suoi uffici.
Eʼ sembra che la nuova della sua disgrazia giungesse di sorpresa
ai politici dei Caffè; ma coloro che notavano attentamente ciò che
accadeva in Palazzo, non ne rimasero punto maravigliati. Non era
legalmente o palpabilmente provato chʼegli fosse reo di tradimento:
ma coloro che lo sorvegliavano da presso, forte sospettavano che per
un mezzo o per un altro egli fosse in comunicazione coglʼinimici
del Governo nel quale occupava un posto così alto. Con imperterrita
fronte imprecò sul proprio capo tutti i mali in questo e nellʼaltro
mondo ove fosse traditore. Protestò dicendo il suo solo delitto essere
quello dʼavere servito troppo bene la Corona. Non aveva egli dato
pegni alla causa del Re? Non aveva egli rotto ogni ponte, che nel
caso dʼun disastro potesse servirgli di ritirata? Non aveva fatto il
possibile per sostenere la potestà di dispensare; non aveva seduto
nellʼAlta Commissione, e firmato lʼordine dʼimprigionare i Vescovi;
non era comparso come testimonio contro loro, a risico della vita,
fra i fischi e le maledizioni delle migliaia di spettatori che
riempivano Westminster Hall? Non aveva egli data la estrema prova di
fedeltà abiurando la propria fede ed entrando nel grembo della Chiesa
detestata dalla nazione? Che poteva egli mai sperare da un mutamento
politico? E che non aveva egli mai da temere? Questi ragionamenti,
comechè fossero solidi ed espressi con la più insinuante destrezza,
non potevano spengere la impressione prodotta dai bisbigli e dalle
relazioni che giungevano da cento parti diverse. Il Re divenne ogni
dì sempre più freddo. Sunderland tentò di sostenersi col soccorso
della Regina; ottenne una udienza, e trovavasi già nello appartamento
di lei, allorchè entrò Middleton, e per ordine del Re gli chiese i
sigilli. Quella sera il caduto ministro fu ammesso per lʼultima volta
alle secrete stanze del principe da lui lusingato e tradito. La scena
fu stranissima. Sunderland sostenne maravigliosamente la parte della
virtù calunniata. Disse non rincrescergli dʼavere perduto il posto di
Segretario di Stato o di Presidente del Consiglio, se gli rimaneva
la fortuna di non demeritare la stima del suo Sovrano. «Deh! Sire,
non mi vogliate rendere il gentiluomo più infelice che sia neʼ vostri
dominii, ricusando di dichiarare che non mi credete reo di slealtà.»
Il Re non sapeva che rispondere. Non aveva prove positive della colpa;
e la energia e il tono patetico onde Sunderland mentiva erano tali,
che avrebbero ingannato uno intendimento più acuto di quello con cui
egli aveva da fare. Nella Legazione Francese le sue proteste erano
credute vere. Ivi dichiarò che rimarrebbe per pochi giorni in Londra
e si mostrerebbe alla Corte. Poi se ne anderebbe nella sua abitazione
campestre in Althorpe e si proverebbe a rifare con la economia il
dilapidato patrimonio. Ove scoppiasse una rivoluzione si rifugierebbe
in Francia, perocchè la sua mal ricompensata lealtà non gli aveva
lasciato altro asilo sulla terra.[492]

I Sigilli tolti a Sunderland furono affidati a Preston. La Gazzetta nel
medesimo numero in cui annunziò questo cambiamento conteneva la notizia
officiale del disastro della flotta olandese:[493] disastro grave,
quantunque lo fosse meno di quello che il Re e i suoi pochi aderenti,
traviati dal proprio desiderio, erano inchinevoli a credere.

XLI. Il dì 16 ottobre, secondo il calendario inglese, fu convocata una
solenne adunanza degli Stati dʼOlanda. Il Principe vi andò per dir loro
addio. Li ringraziò della benevolenza con la quale avevano vegliato
sopra la sua persona quando egli era orfano fanciullo, della fiducia
che avevano posta in lui durante il suo governo, e dellʼaiuto che gli
avevan prestato in quella gran crisi. Li pregò a credere che egli
sempre aveva inteso con ogni studio promuovere il bene della patria.
Ora li lasciava, forse per non più ritornare. Ove cadesse difendendo la
religione riformata e la indipendenza della Europa, raccomandava loro
la sua diletta consorte. Il Gran Pensionario gli rispose con tremula
voce; e in tutto quel grave senato non vʼera alcuno che non lacrimasse.
Ma Guglielmo non fu nè anche per un istante abbandonato dal suo ferreo
stoicismo, e si stava fraʼ suoi amici che piangevano tranquillo ed
austero come se fosse per lasciarli onde partire per le sue foreste di
Loo.[494]

I deputati delle principali città lo accompagnarono fino al suo bargio.
Gli stessi rappresentanti dʼAmsterdam, da lungo tempo sede precipua
dʼopposizione al governo di lui, erano fra mezzo al corteo. In tutte le
chiese dellʼAja si fecero pubbliche preci per lui.

XLII. In sulla sera giunse a Helvoetsluys e si recò sur una fregata
che aveva nome Brill. Tosto fece inalberare la sua bandiera, nella
quale era lʼarme di Nassau inquartata con quella dʼInghilterra. Il
motto ricamato in lettere grandi tre piedi era felicemente scelto. La
Casa dʼOrange da lungo tempo aveva assunta lʼepigrafe ellittica: «Io
Manterrò,» Adesso la ellissi fu compita con le parole: «Le libertà
dʼInghilterra e la Religione Protestante.»

Erano corse poche ore da che il Principe era sulla nave, allorchè il
vento cominciò a spirare secondo. Il dì 19 la flotta salpò, e spinta
da un forte vento aveva corsa mezza la distanza dalla costa olandese
a quella dʼInghilterra. Ed ecco improvviso cangiare il vento, che
soffiando impetuoso da ponente suscitò una violenta tempesta. Le
navi disperse e sbattute ripararonsi, come meglio poterono, ai lidi
olandesi. Il Brill arrivò a Helvoetsluys il dì 21. Coloro che erano
sulla nave del Principe notarono maravigliando che nè pericolo nè
mortificazione valsero a perturbarlo un solo momento. Quantunque
soffrisse di mal di mare, ricusò di andare a terra: imperocchè pensava
che rimanendo sul bordo, ei significherebbe efficacissimamente alla
Europa che la sostenuta fortuna aveva solo per breve tempo differita la
esecuzione del suo disegno. In due o tre giorni la flotta si raccolse.
Solo un bastimento sʼera perduto. Non mancava nè anco uno deʼ soldati
o marinaj. Alcuni cavalli erano periti: ma tale perdita speditamente
riparò il Principe: e innanzi che la Gazzetta di Londra spargesse la
nuova dello infortunio, egli era nuovamente pronto a far vela.[495]

XLIII. Il Manifesto lo precedè di sole poche ore. Il dì primo di
novembre cominciò a bisbigliarsene misteriosamente fraʼ politici di
Londra: con gran segretezza correva di mano in mano, e fu introdotto
nelle buche dello Ufficio postale. Uno degli agenti venne arrestato,
e i pieghi che egli portava furono recati a Whitehall. Il Re lesse, e
grandemente turbossi. Il suo primo impulso fu di nascondere agli occhi
di tutti il Manifesto. Ne gettò nel fuoco tutti gli esemplari, tranne
un solo chʼegli quasi non osava fare uscire dalle sue proprie mani.[496]

Il paragrafo onde egli fu maggiormente perturbato, era quello in cui
dicevasi che alcuni Pari spirituali e secolari avevano invitato il
Principe dʼOrange a invadere la Inghilterra. Halifax, Clarendon e
Nottingham trovavansi in Londra, e vennero tosto chiamati al Palazzo e
interrogati. Halifax, comechè fosse conscio della propria innocenza,
in prima rifiutò di rispondere. «Vostra Maestà» disse egli «mi chiede
se io sia reo di crimenlese. Se sono sospettato, mi traduca dinanzi
ai miei Pari. E come può la Maestà Vostra riposare sulla risposta
dʼun colpevole che si veda in pericolo di vita? Quando anche io
avessi invitato il Principe, senza il minimo scrupolo risponderei:
Non sono colpevole.» Il Re disse che non credeva Halifax reo, e che
gli aveva fatta quella dimanda come un gentiluomo chiede ad altro
gentiluomo calunniato se vi sia il minimo fondamento alla calunnia. «In
questo caso» rispose Halifax «non ho difficoltà ad assicurarvi, come
gentiluomo che parli a gentiluomo, sul mio onore, che è sacro quanto
il mio giuramento, che non ho invitato il Principe dʼOrange.»[497]
Clarendon e Nottingham diedero la medesima risposta. Il Re desiderava
anco più ardentemente di sincerarsi della inclinazione deʼ Prelati. Se
essi gli erano ostili, il suo trono pericolava davvero. Ma ciò non era
possibile. Vʼera alcun che di mostruoso nel supporre che un Vescovo
della Chiesa Anglicana potesse ribellarsi contro il proprio Sovrano.
Compton fu chiamato alle stanze del Re, il quale gli chiese se credeva
che lʼasserzione del Principe avesse il minimo fondamento. Il Vescovo
trovossi impacciato a rispondere, poichè era uno deʼ sette che avevano
sottoscritto lo invito; e la sua coscienza, che non era molto destra,
non gli concedeva, a quanto sembra, di dire unʼaperta bugia. «Sire,»
disse egli «io sono sicurissimo che non vi è uno traʼ miei colleghi
che non sia, al pari di me, innocente in questo negozio.» Lo equivoco
era ingegnoso: ma se la differenza fra il peccato di siffatto equivoco
e il peccato dʼuna menzogna vaglia uno sforzo dʼingegno, è cosa da
porsi in dubbio. Il Re ne fu satisfatto; e disse: «Vi assolvo tutti da
ogni sospetto, ma reputo necessario che pubblicamente contraddiciate
il calunnioso addebito datovi nel Manifesto del Principe.» Il Vescovo
naturalmente chiese di vedere lo scritto che egli doveva contradire; ma
il Re non volle consentirvi.

Il dì seguente comparve un proclama che minacciava le più severe
pene a tutti coloro che osassero spargere o semplicemente leggere il
Manifesto di Guglielmo.[498] Il Primate e i pochi Pari spirituali che
per avventura trovavansi in Londra riceverono ordine dʼappresentarsi al
Re. Allʼudienza vʼera anche Preston col Manifesto in mano. «Milordi,»
disse Giacomo «udite questo paragrafo che tocca di voi.» Preston allora
lesse le parole colle quali erano rammentati i Pari spirituali. Il Re
continuò: «Io non credo un jota di tutto questo: sono sicuro della
vostra innocenza; ma stimo necessario farvi sapere ciò di che siete
accusati.»

Il Primate con mille rispettose espressioni protestò che il Re non gli
rendeva altro che giustizia. «Io sono nato suddito di Vostra Maestà. Ho
più volte confermata la fedeltà mia con giuramento. Non posso avere se
non un solo Re ad una volta. Non ho invitato il Principe; e credo che
nessuno deʼ miei confratelli lo abbia fatto.»—«Non io di certo,» disse
Crewe di Durham. «Nè anchʼio,» disse Cartwright di Chester. A Crewe ed
a Cartwright bene poteva prestarsi fede; perocchè entrambi erano stati
membri dellʼAlta Commissione. Quando toccò a Compton di rispondere,
evase la domanda con un modo che poteva fare invidia a un Gesuita: «Io
diedi jeri la mia risposta a vostra Maestà.»

Il Re ripetè più volte che li credeva innocenti. Nondimeno disse che,
secondo il suo giudicio, sarebbe utile a sè e allʼonor loro che essi
ne facessero pubblica discolpa. Richiese quindi che protestassero
in iscritto dʼabborrire il disegno del Principe. I Prelati rimasero
taciti; il Re suppose che il silenzio significasse assentimento, e
dètte loro commiato.[499]

Infrattanto lʼarmata navale di Guglielmo veleggiava lʼOceano Germanico.
Aveva salpato per la seconda volta la sera del giovedì, primo di
novembre. Il vento spirava prospero da levante. Il naviglio per dodici
ore fece via fra ponente e settentrione. Le navi leggiere mandate
dallo Ammiraglio inglese onde osservare, recarono la nuova la quale
confermò la comune opinione, cioè che il nemico si proverebbe di
approdare alla Contea di York. Improvvisamente, ad un segnale fatto
dal vascello del Principe, lʼintiera flotta girò di bordo e si diresse
giù per la Manica. Il vento medesimo che spirava secondo aglʼinvasori,
impediva Dartmouth dʼuscire dal Tamigi. I suoi legni furono costretti
ad ammainare; e due delle sue fregate che erano uscite in alto mare,
sconquassate dalla violenza delle onde, furono respinte nel fiume.[500]

XLIV. La flotta olandese andando rapidamente col vento in poppa,
giunse allo Stretto verso le ore dieci antimeridiane nel sabato del
3 novembre. La precedeva lo stesso Guglielmo sul Brill. Seicento e
più navi, gonfie le vele dal prospero vento, lo seguivano. I legni da
trasporto tenevano il centro fiancheggiati da più di cinquanta vascelli
da guerra. Herbert col titolo di Luogotenente Generale Ammiraglio
comandava la intera flotta, e stavasi nel retroguardo: e molti marinaj
inglesi, infiammati dallʼodio contro il papismo e attirati dalla buona
paga, erano sotto i suoi ordini. Non senza difficoltà Guglielmo potè
indurre alcuni ufficiali olandesi di grande reputazione a sottoporsi
alla autorità dʼuno straniero. Ma questo provvedimento era sommamente
savio. Nella flotta del Re esistevano molti mali umori ed un fervido
zelo per la fede protestante. A memoria deʼ vecchi marinaj la flotta
inglese e la olandese avevano tre volte con eroico coraggio e varia
fortuna conteso per lo impero del mare. I nostri marinaj non avevano
dimenticato Tromp che aveva minacciato di spazzare con una scopa il
Canale, o De Ruyter che aveva appiccato il fuoco agli arsenali del
Medway. Se le due nazioni rivali si trovassero nuovamente faccia a
faccia sullʼelemento alla cui sovranità entrambe pretendevano, ogni
altro pensiero cederebbe alla vicendevole animosità; e ne seguirebbe
forse sanguinosa ed ostinata battaglia. Una sconfitta sarebbe stata
fatale alla impresa di Guglielmo. Anche la vittoria avrebbe sconcertato
i profondamente meditati disegni della sua politica. E però egli
saviamente provvide che ove i marinaj di Giacomo lo inseguissero,
sarebbero salutati nella patria lingua ed esortati da un ammiraglio,
sotto il comando del quale avevano già servito, e che era da loro
grandemente stimato, a non combattere contro i loro colleghi a favore
della tirannide papale. Con ciò si scanserebbe forse un conflitto.
Ed ove seguisse un conflitto, i due comandanti avversari sarebbero
entrambi inglesi; nè lʼorgoglio deglʼisolani si sentirebbe offeso
sapendo che Dartmouth era stato costretto a cedere a Herbert.[501]

XLV. Fortunatamente le cautele di Guglielmo non furono necessarie.
Poco dopo mezzodì egli si lasciò addietro lo Stretto. La sua flotta
stendevasi fino ad una lega da Dover a tramontana e da Calais a
mezzogiorno. I vascelli dalle estremità destra e sinistra salutarono a
un tempo ambe le fortezze. Le trombe, i timpani, e i tamburi udivansi
distintamente dalla spiaggia francese e dalla inglese. Una innumerevole
turba di spettatori copriva il bianco littorale di Kent; unʼaltra
la costa di Piccardia. Rapin di Thoyras, che la persecuzione aveva
cacciato dalla sua patria, e che, preso servizio nellʼarmata olandese,
aveva accompagnato il Principe in Inghilterra, descrisse, molti anni
dipoi, cotesto spettacolo come il più magnifico e commovente che occhio
umano giammai contemplasse. Al tramontare del sole la flotta aveva
passato Beachy–Head. Si accesero i lumi. Il mare per un tratto di non
poche miglia pareva in fiamme. Ma tutti i piloti tenevano fitti gli
occhi per la intera notte alle tre vaste lanterne che risplendevano su
la poppa Brill.[502]

In quel mentre un messo corse per la posta da Dover Castle a Whitehall
recando la nuova che gli Olandesi avevano passato lo Stretto e
procedevano verso Ponente. Eʼ fu mestieri cangiare in un subito tutti
i provvedimenti militari. Furono da per tutto spediti messi. Gli
ufficiali furono svegliati e fatti levare a mezza notte. Nella domenica
alle tre della mattina in Hyde Parck fu una gran rivista a lume di
torce. Il Re, credendo che Guglielmo approderebbe alla Contea di York,
aveva mandato vari reggimenti verso il paese settentrionale. Furono
quindi spediti messi a richiamarli. Tutti i soldati, tranne quelli
che reputavansi necessari a mantenere la pace nella metropoli, ebbero
ordine di partire per lʼoccidente. Salisbury doveva essere il punto
di riunione: ma stimandosi possibile che Portsmouth fosse la prima ad
essere assaltata, tre battaglioni di Guardie e una forte schiera di
cavalleria partirono per quella fortezza. In poche ore si seppe non
esservi nulla da temere por Portsmouth, e le sopradette truppe ebbero
ordine di cangiare cammino e correre in fretta a Salisbury.[503]

Allʼalbeggiare del dì, domenica 4 novembre, le alture dellʼisola di
Wight sorgevano dinanzi alla flotta olandese. Quel giorno era lo
anniversario della nascita e del matrimonio di Guglielmo. La mattina
abbassaronsi per qualche ora le vele, e sul bordo delle navi si
celebrarono i divini uffici. Nel pomeriggio e per tutta la notte il
naviglio seguitò a procedere. Torbay era il luogo dove il Principe
aveva intendimento di approdare. Ma nella mattina del lunedì, 5 di
novembre, era nuvolo. Il pilota del Brill non potè distinguere i
segnali e condusse la flotta troppo oltre a Ponente. Il pericolo era
grande. Ritornare contro il vento, impossibile. Il porto più vicino era
Plymouth; ma quivi stavasi un presidio sotto il comando di Lord Bath;
il quale si sarebbe potuto opporre allo sbarco, e ne sarebbero forse
nate gravi conseguenze. Inoltre non vi poteva essere dubbio che in
quel momento la flotta regia fosse uscita dal Tamigi e venisse a piene
vele giù per la Manica. Russell conobbe la gravità del pericolo, e,
rivoltosi a Burnet, esclamò: «Ormai potete recitare le vostre preci, o
Dottore: tutto è finito.» In quellʼistante il vento cangiò; una brezza
leggiera cominciò a spirare da Mezzogiorno: la nebbia si disperse;
ricomparve il sole; e alla luce temperata dʼun mezzodì dʼautunno la
flotta rivolse le prore, passò attorno lʼelevata punta di Berry–Head, e
si diresse in salvamento al porto di Torbay.[504]

XLVI. Da quellʼepoca in poi quel porto ha grandemente cangiato
dʼaspetto. Lo anfiteatro che circonda lo spazioso bacino, adesso mostra
in ogni dove i segni della prosperità e dello incivilimento. Alla
estremità fra Tramontana e Levante sorge un vasto locale di bagni,
ai quali accorrono le genti dalle più rimote parti dellʼisola nostra
attrattevi dalla dolcezza di un aere dʼItalia; imperocchè in quel clima
il mirto fiorisce a cielo aperto; e perfino i mesi del verno sono
più dolci che lo aprile in Northumberland. Contiene circa diecimila
abitatori. Le chiese e le cappelle novellamente edificate, i bagni e
le biblioteche, gli alberghi e i pubblici giardini, la infermeria e
il museo, le bianche strade che giacciono a guisa di terrazze, lʼuna
sovrapposta allʼaltra, le amene ville che sorgono fra gli alberi e i
fiori, offrono uno spettacolo grandemente diverso da qualunque altro
potesse nel secolo decimo settimo offrirne la Inghilterra. Allʼopposita
punta della baja giace, coperta da Berry–Head, la città di Brixham,
dove è il più ricco mercato di pesci nellʼisola. Ivi sul principio
del secolo nostro sono stati fatti una darsena e un porto, ma si sono
sperimentati insufficienti al traffico ognora crescente. Ha circa
sessantamila abitanti, e dugento navi con un tonnellaggio più del
doppio maggiore di quello del porto di Liverpool sotto i Re Stuardi. Ma
Torbay, allorquando la flotta olandese vi gettò lʼàncora, conoscevasi
solo come un seno di mare dove i legni talvolta si rifugiavano cacciati
dalle procelle dello Atlantico. Le sue tranquille spiagge non erano
disturbate dal frastuono del commercio e del piacere; e i tuguri deʼ
contadini e deʼ pescatori sorgevano sparsi qua e là, dove ora il luogo
è coperto di popolosi mercati e di eleganti edifici.

Il contadiname della costa di Devonshire ricordava con affetto il nome
di Monmouth, e detestava il Papismo. E però corse alla spiaggia recando
vettovaglie e profferendosi a servire i liberatori. Subito cominciò
ad eseguirsi lo sbarco. Sessanta barche trasportarono le truppe a
terra. Le precedeva Mackay coʼ reggimenti inglesi. Gli tenne dietro
il Principe, il quale sbarcò dove adesso è la riviera di Brixham. Il
luogo è cangiato intieramente dʼaspetto. Dove ora vediamo un porto
popolato di navi, e una piazza di mercato brulicante di compratori e
venditori, allora le acque rompevansi contro una desolata scogliera: ma
un frammento del sasso sopra il quale il liberatore pose primamente il
piede scendendo dalla sua barca, è stato con gran cura conservato ed
esposto alla pubblica venerazione nel centro di quella riviera.

Il Principe, appena posto il piede a terra, chiese deʼ cavalli.
Procuraronsi nel vicino villaggio due bestie, quali i piccoli
possidenti di quel tempo solevano tenere. Guglielmo e Schomberg,
montativi sopra, andarono ad esaminare il paese.

Come Burnet scese alla spiaggia, corse al Principe. Ebbe luogo tra
loro un piacevole colloquio. Burnet, fattegli con sincera gioia le sue
congratulazioni, chiese con sollecitudine quali erano i suoi disegni. I
militari rade volte inchinano a consigliarsi con gli uomini da sottana
intorno a cose spettanti alla milizia; e Guglielmo pei consiglieri che,
senza professare lʼarte della guerra, sʼimmischiano nelle questioni
della guerra, sentiva un disgusto maggiore di quello che i soldati,
in simili casi, ordinariamente provano. Ma in quello istante egli era
di assai buono umore, ed invece dʼesprimere il proprio dispiacere con
una breve e pungente riprensione, graziosamente stese la destra al suo
cappellano, rispondendogli con unʼaltra dimanda: «Orbene, Dottore,
che pensate voi adesso della predestinazione?» Il rimprovero era così
delicato che Burnet, il quale non avea prontissimo intendimento, non se
ne accôrse; e però rispose con gran fervore chʼegli non dimenticherebbe
mai il modo segnalato onde la Provvidenza aveva favorito la loro
intrapresa.[505]

Nel primo giorno le milizie scese a terra patirono molti disagi. Il
suolo per le cadute piogge era fangoso. I bagagli rimanevano tuttavia
sulle navi. Ufficiali dʼalto grado furono costretti a dormire con
addosso gli abiti bagnati, sullʼumido terreno: lo stesso Principe
dovette contentarsi dʼuna povera trabacca, dove fu dalla sua nave
portato un lettuccio che accomodarono sul suolo. La sua bandiera venne
inalberata sul tetto di frasche.[506] Era alquanto difficile sbarcare
i cavalli; e pareva probabile che a ciò fare si richiedessero vari
giorni. Ma la susseguente dimane le cose cangiarono. Il vento calmossi;
il mare era piano come un cristallo. Alcuni pescatori additarono un
luogo dove le navi potevano spingersi fino a quaranta piedi dalla riva.
E ciò fatto, in tre ore molte centinaia di cavalli sani e salvi furono
condotti nuotando fino alla spiaggia.

Era appena terminato lo sbarco allorchè il vento ricominciò a soffiare
impetuoso da Ponente. Lʼinimico che veniva giù per la Manica era
stato impedito dal medesimo mutamento di tempo, che aveva concesso a
Guglielmo dʼapprodare. Per due giorni la flotta del Re rimase immobile
per la bonaccia in vista a Beachy–Head. Infine Dartmouth potè muoversi.
Passò lʼisola di Wight, e da uno deʼ suoi vascelli scoprivansi le cime
degli alberi della flotta olandese ancorata in Torbay. In quel momento
sopravvenne una tempesta, e lo costrinse a ricoverarsi nel porto di
Portsmouth.[507] Allora Giacomo, che poteva giudicare intorno a cose di
marina, si dichiarò sodisfattissimo della condotta del suo ammiraglio,
il quale aveva fatto ciò che uomo potesse fare, ed aveva ceduto solo
alla irresistibile contrarietà del vento e delle onde. Più tardi lo
sciagurato principe cominciò, senza ragione, a sospettare che Dartmouth
fosse reo di tradimento o almeno di lentezza.[508]

Il tempo aveva sì bene giovata la causa deʼ Protestanti, che taluni
più pii che savi crederono sicuramente le ordinarie leggi della natura
essere state sospese per la salvezza della libertà e della religione
dʼInghilterra. Precisamente cento anni innanzi, dicevano essi,
lʼarmata, invincibile da forza umana, era stata dispersa dal soffio
dellʼira di Dio. La libertà civile e la vera fede trovaronsi di nuovo
in pericolo, e di nuovo i docili elementi combatterono per la buona
causa. Il vento sbuffava forte da Levante mentre il Principe voleva
passare lo Stretto; cominciò a spirare da Mezzogiorno allorchè egli
desiderava dʼapprodare a Torbay; era cessato affatto mentre facevasi
lo sbarco, e divenne di nuovo procelloso percotendo in faccia la
flotta regia. Nè tralasciavano di notare come per una straordinaria
coincidenza il Principe fosse giunto alle nostre spiagge nel giorno in
cui la Chiesa Anglicana celebrava con preci e rendimenti di grazie la
memoria di quello evento onde miracolosamente la casa regale e i tre
Stati del Regno avevano scansato la più nera congiura che ordissero
mai i papisti. Carstairs, i cui consigli ascoltava con attenzione il
Principe, gli suggerì che, appena eseguito lo sbarco, si rendessero
solenni ringraziamenti a Dio per la protezione manifestamente accordata
alla grande intrapresa. Questo provvedimento produsse ottimo effetto.
I soldati così, persuasi dʼavere il favore del cielo, sentironsi
rianimati di nuovo coraggio; e il popolo inglese si formò la migliore
opinione dʼun capitano e dʼun esercito cotanto osservatori dei
religiosi doveri.

Martedì, 6 di novembre, lʼarmata di Guglielmo incominciò a marciare.
Alcuni reggimenti si avanzarono fino a Newton–Abbot. Un sasso collocato
nel centro di quella piccola città, indica tuttora il luogo dove il
Manifesto del Principe fu letto solennemente al popolo. Le truppe
si movevano lente: imperciocchè la pioggia cadeva giù a torrenti; e
le strade della Inghilterra erano allora in condizioni che parevano
terribili a genti avvezze alle eccellenti vie della Olanda. Guglielmo
si fermò per due giorni in Ford, sede dellʼantica e illustre famiglia
di Courtenay nelle vicinanze di Newton–Abbot. Ivi fu splendidamente
alloggiato e festeggiato; ma è da notarsi che il padrone di casa,
comechè fosse conosciutissimo Whig, non volle essere il primo a
rischiare la vita e gli averi, e cautamente si astenne di fare cosa,
che, ove il Re vincesse, potesse prendersi per delitto.

XLVII. Intanto Exeter era grandemente agitata. Il vescovo Lamplugh,
appena saputa la nuova dello arrivo degli Olandesi a Torbay, atterrito
corse a Londra. Il Decano fuggì anchʼesso. I Magistrati rimasero
fedeli al Re, gli abitanti si dichiararono a favore del Principe.
Ogni cosa era in iscompiglio allorquando, il giovedì mattina 8
novembre, un corpo di truppe, capitanate da Mordaunt, comparve dinanzi
alla città. Vʼera anco Burnet, al quale Guglielmo aveva affidato
lo incarico di preservare il clero della cattedrale dai danni e
daglʼinsulti.[509] Il Gonfaloniere e gli Aldermanni avevano ordinato
che si chiudessero le porte, ma alla prima intimazione vennero aperte.
Apparecchiossi lʼabitazione del Decano per alloggiarvi il Principe;
il quale vi arrivò il dì seguente, venerdì 9 febbraio. I Magistrati
erano stati sollecitati ad andargli solennemente incontro alle porte
della città, ma ostinatamente ricusarono. Nondimeno la pompa di quel
giorno poteva far senza di loro. Non sʼera mai visto in Devonshire
un tanto spettacolo. Molti fecero mezza giornata di cammino per
incontrare il campione della religione loro. Gli abitatori di tutti i
villaggi circostanti uscivano in folla. Una gran moltitudine composta
principalmente di giovani contadini armati deʼ loro bastoni si era
raccolta sulla cima di Haldon–Hill, dʼonde lʼarmata, passato Chudleigh,
primamente scoprì la fertile convalle dellʼExe, e le due massicce
torri sorgenti fra la nuvola di fumo che copriva la metropoli del
paese occidentale. Lo stradale, per tutto il lungo pendio e il piano
fino alle sponde del fiume, era fiancheggiato da file di spettatori.
Dalla Porta Occidentale fino al ricinto della Cattedrale la folla e
le acclamazioni erano tali che rammentavano ai Londrini lo affollarsi
del popolo nel giorno festivo del Lord Gonfaloniere. Le case erano
parate a festa. Porte, finestre, veroni, e tetti rigurgitavano di
spettatori. Un occhio assuefatto alla pompa della guerra, avrebbe
trovato molto a ridire intorno a cosiffatto spettacolo. Imperciocchè
lo affannoso marciare sotto la pioggia per istrade dove i piedi deʼ
viandanti affondavano ad ogni passo non aveva migliorato lʼaspetto
dei soldati nè degli arnesi loro. Ma la popolazione di Devonshire, non
avvezza punto allo splendore deʼ campi bene ordinati, era compresa
dʼammirazione e diletto. Cominciarono a correre per tutto il Regno
descrizioni di cotesto marziale spettacolo, fatte in guisa da appagare
la vaghezza che sente il volgo pel maraviglioso. Imperocchè lʼarmata
olandese, composta dʼuomini nati in vari climi, e che avevano militato
sotto varie bandiere, offriva una scena grottesca e insieme magnifica e
terribile aglʼIsolani, i quali generalmente avevano confusissima idea
deʼ paesi stranieri. Macclesfield precedeva a cavallo guidando dugento
gentiluomini, la più parte dʼorigine inglese, coperti di luccicanti
elmi e corazze, e montati sopra destrieri fiamminghi. Ciascuno di loro
era accompagnato da un moro delle piantagioni di zucchero sulle coste
della Guiana. I cittadini dʼExeter i quali non avevano mai veduto tanto
numero dʼindividui della razza affricana, guardavano stupefatti queʼ
neri visi adorni di ricamati turbanti e di bianche piume. Veniva poscia
uno squadrone di cavalieri svedesi vestiti di nere armature e di pelli,
e con le spade in pugno. Attiravano peculiarmente gli sguardi di tutti,
poichè dicevasi che fossero abitanti dʼuna terra cinta dai ghiacci
dellʼOceano, nella quale la notte durava sei mesi, e che ciascuno di
loro avesse ucciso lʼenorme orso bianco di cui indossava la pelle.
Quindi circondato da una nobile compagnia di gentiluomini e di paggi
procedeva sventolando allʼaura il vessillo del Principe. Il popolo
affollato su per i tetti e le finestre vi figgeva sopra gli sguardi
leggendovi con diletto la memoranda epigrafe: «La Religione Protestante
e le libertà della Inghilterra.» Ma si accrebbero oltre misura le
grida di plauso allorquando, preceduto da quaranta battistrada, sopra
un candido destriero comparve il Principe chiuso nelle armi, con una
bianca piuma sullʼelmo. Lo aspetto marziale con cui egli cavalcava,
la pensosa e imponente espressione della sua vasta fronte e del suo
occhio aquilino si ravvisano anche oggi nel dipinto di Kneller. Una
sola volta il suo austero sembiante si atteggiò al sorriso. Una donna,
grave dʼanni, forse appartenente a quegli zelanti Puritani i quali
per ventotto anni di persecuzione avevano con ferma fede aspettato
la consolazione dʼIsraele, o forse madre di qualche ribelle che
aveva perduta la vita nella strage di Sedgemoor, o nel più atroce
macello del Tribunale di Sangue, uscì dalla folla, e precipitandosi
fra mezzo alle spade sguainate e ai frementi cavalli, toccò la mano
del liberatore, ed esclamò che oramai era felice. Presso al Principe
cavalcava un uomo sul quale parimente si fissavano gli sguardi di
tutti. Dicevano che egli era il gran Conte Schomberg, il più valoroso
soldato che fosse in Europa dopo la morte di Turenna e di Condé;
lʼuomo, il cui genio e valore avevano salvato la monarchia portoghese
nel campo di Montes Claros, lʼuomo che sʼera acquistato gloria anche
maggiore deponendo il bastone di Maresciallo di Francia per serbarsi
fedele alla propria religione. Rammentavasi parimente come i due
eroi, i quali indissolubilmente congiunti dal comune Protestantismo
ora entravano in Exeter, un tempo erano stati lʼuno allʼaltro avversi
sotto le mura di Maestricht, e che la energia del giovine principe era
stata costretta a cedere alla fredda scienza del veterano, il quale
adesso cavalcava amico al fianco di Guglielmo. Seguiva poi una colonna
di fanti svizzeri barbuti, famosi per valore e disciplina già da due
secoli in tutte le guerre del continente, ma non veduti mai fino allora
in Inghilterra. Venivano quindi parecchie legioni, le quali, secondo
la costumanza di quei tempi, portavano i nomi deʼ loro condottieri,
Bentinck, Solmes e Ginkell, Talmash e Mackay. Con peculiare compiacenza
glʼInglesi miravano un valoroso reggimento che tuttavia portava il nome
dellʼonorando e compianto Ossory. Lo effetto di cotesto spettacolo era
accresciuto dalla memoria delle famose gesta delle quali erano stati
parte molti dei guerrieri che adesso entravano per Porta Orientale:
imperocchè avevano ben altrimenti militato che la guardia civica di
Devonshire o i soldati del campo di Hounslow. Alcuni di loro avevano
respinto il feroce assalto deʼ Francesi sul campo di Seneff, altri
erano venuti alle mani con glʼInfedeli per difendere la Cristianità nel
gran giorno in cui fu levato lo assedio di Vienna. Lʼaccesa fantasia
faceva nella moltitudine aberrare gli stessi sensi. Lettere di notizie
spargevano per ogni contrada del Regno favolosi racconti della statura
e della forza degli invasori. Affermavasi che erano, quasi senza
eccezione, alti più di sei piedi, ed avevano sì enormi picche, spade ed
archibugi, che non sʼera mai veduto nulla di simile in Inghilterra. Nè
la maraviglia nel popolo scemò quando comparve lʼartiglieria, che era
composta di ventuno vasti cannoni di bronzo, ciascuno con gran fatica
trascinato da sedici cavalli. Molta curiosità destò anche una strana
macchina montata sopra ruote, ed era una fucina mobile provveduta
di tutti gli strumenti e i materiali bisognevoli a riattare armi e
carriaggi. Ma nessuna cosa suscitò tanto la universale ammirazione
quanto un ponte di barche che fu celerissimamente gettato sullʼExe pel
passaggio deʼ vagoni, e con la medesima celerità levato, e in pezzi
portato via. Era stato costruito, se la fama porgeva il vero, secondo
un disegno immaginato dai Cristiani che guerreggiavano contro i Turchi
sul Danubio. Gli stranieri ispiravano affetto insieme ed ammirazione.
Il loro condottiere politico studiossi di acquartierarli in modo da
recare il minore incomodo possibile agli abitatori di Exeter e dei
circostanti villaggi. Fu mantenuta la più rigorosa disciplina. Non
solo sʼimpedì efficacemente il saccheggio e lʼinsulto, ma fu ingiunto
alle truppe di mostrarsi cortesi a tutte le classi. Coloro i quali
giudicavano dʼunʼarmata dalla condotta di Kirke e deʼ suoi Agnelli,
rimanevano attoniti a vedere i soldati di Guglielmo non bestemmiare
mai parlando alle ostesse, o non prendere un ovo senza pagarlo. In
ricambio di cotesta moderazione il popolo li provvide abbondantemente
di vettovaglie a modico prezzo.[510]

Era di non poca importanza vedere il partito al quale in questa gran
crisi il Clero della Chiesa Anglicana si appiglierebbe. I membri del
Capitolo di Exeter furono i primi richiesti a dichiararsi. Burnet fece
sapere ai Canonici, ormai per la fuga del Decano rimasti senza capo,
che non sarebbe loro più oltre consentito di usare la preghiera pel
Principe di Galles, e che si celebrerebbe un solenne servigio divino
in onore del prospero arrivo del Principe dʼOrange. I Canonici non
vollero mostrarsi neʼ loro stalli; ma alcuni deʼ coristi e prebendari
intervennero. Guglielmo si condusse con gran solennità militare alla
Cattedrale; ed appena entratovi, il famoso organo, che non era secondo
a nessuno di quelli onde avea vanto la Olanda, cominciò a suonare
trionfalmente. Egli ascese al magnifico seggio vescovile, adorno
dʼintagli del secolo decimoquinto. Gli stava ai piedi Burnet, e da ambo
i lati era schierata una turba di guerrieri e di nobili. I cantori,
vestiti di bianco, intonarono il _Te Deum_. Finito il cantico, Burnet
lesse il Manifesto del Principe; ma come ebbe profferite le prime
parole i prebendari e i cantori uscirono frettolosamente dal coro.
Infine Burnet gridò: «Dio salvi il Principe dʼOrange!» E molte voci
fervorosamente risposero «_Amen._[511]»

La domenica, 11 novembre, Burnet predicò dinanzi al Principe nella
Cattedrale, e si diffuse sopra la grande misericordia di Dio verso
la Chiesa e la nazione dʼInghilterra. Nel tempo stesso un evento
singolarissimo seguiva in un luogo sacro di minore importanza. Ferguson
ardeva di predicare in una ragunanza di presbiteriani. Il ministro
e gli anziani non lo consentirono: ma quel torbido e mezzo demente
uomo, immaginando che fossero giunti di nuovo i tempi di Fleetwood e
di Harrison, forzò lo ingresso, e con la spada in pugno facendosi far
largo, ascese sul pulpito, ed eruttò una feroce invettiva contro il Re.
Ma la stagione per siffatte follie non era più; e cotesta scena altro
non eccitò che scherno e disgusto.[512]

XLVIII. Mentre le sopra narrate cose accadevano in Devonshire,
lʼagitazione in Londra era grandissima. Il Manifesto del Principe,
nonostanti tutte le cautele del Governo, correva per le mani di
ciascuno. Il dì sesto di novembre, Giacomo, ancora ignorando in qual
parte della costa glʼinvasori erano sbarcati, chiamò alle sue stanze
il Primate ed altri tre Vescovi, cioè Compton di Londra, White di
Peterborough, e Sprat di Rochester. Il Re cortesemente si stette ad
ascoltare i prelati che facevano fervide proteste di lealtà, e li
assicurò che non aveva di loro il più lieve sospetto. «Ma dovʼè»
soggiunse poi «lo scritto che mi dovevate portare?»—«Sire,» rispose
Sancroft «non abbiamo nessuno scritto da darvi. Non abbiamo mestieri
scolparci al cospetto del mondo. Non è cosa nuova per noi il patire
insulti e calunnie. La nostra coscienza ci assolve: la Maestà Vostra
ci assolve: e di ciò siamo satisfatti.»—«Bene» disse il Re. «Ma
una dichiarazione fatta da voi mi è necessaria.» E mostrando loro
un esemplare del Manifesto del Principe, «Ecco» soggiunse, «ecco
in che modo voi siete qui rammentati.»—«Sire,» rispose uno deʼ
Vescovi, «nè anche una persona in cinquecento reputa genuino cotesto
documento.»—«No!» esclamò fieramente il Re: «eppure questi cinquecento
condurranno il Principe dʼOrange a segarmi la gola.»—«Dio nol voglia,»
esclamarono ad una voce i prelati. Ma Giacomo che non fu mai di
lucido intendimento, adesso lo aveva onninamente turbato. Una delle
peculiarità del suo carattere consisteva in questo, che quando la sua
opinione non veniva adottata, ei credeva che si dubitasse della sua
veracità. «Questo scritto non è genuino!» esclamò egli svoltandone con
le proprie mani i fogli. «Non sono io degno di fede? La mia parola
non val forse nulla?»—«Ad ogni modo, o Sire,» disse uno deʼ Vescovi
«questo non è affare ecclesiastico, ed entra nella sfera della potestà
secolare. Dio ha posta nelle mani vostre la spada; e non ispetta a
noi invadere le vostre funzioni.» Allora lo Arcivescovo con quella
dolce e temperata malignità che reca più profonde ferite, chiese
scusa di non volere impacciarsi di documenti politici. «Io e i miei
confratelli, o Sire,» soggiunse «abbiamo già crudelmente sofferto per
esserci voluti immischiare negli affari di Stato: e saremo sì cauti da
non farlo di nuovo. Una volta firmammo una innocentissima petizione;
la presentammo nella maniera più rispettosa; e ci fu detto di avere
commesso un grave delitto. La sola misericordia divina potè salvarci.
E, Sire, i vostri Procuratore ed Avvocato Generali affermarono, come
fondamento dʼaccusa, che noi fuori del Parlamento siamo uomini privati,
e quindi era criminosa presunzione in noi lo immischiarsi di cose
politiche. E ci aggredirono con tale furore, che, quanto a me, io mi
detti per ispacciato.»—«Vi ringrazio di ciò che dite, Monsignore di
Canterbury,» disse il Re; «speravo che non vi reputaste perduto cadendo
nelle mie mani.» Queste parole sarebbero state bene nella bocca dʼun
Sovrano misericordioso, ma uscivano di mala grazia dalle labbra dʼun
principe il quale aveva arsa viva una donna per avere ospitato uno
deʼ fuorusciti; dʼun principe, il quale erasi mostrato duro come un
macigno verso il nipote, che disperatamente dolorando gli abbracciava
le ginocchia. Ma lo Arcivescovo non era uomo da lasciarsi imporre
silenzio. Egli riepilogò la storia delle proprie vicende, enumerò
glʼinsulti che le creature della corte avevano fatto alla Chiesa
Anglicana, e fra gli altri non dimenticò gli scherni ai quali era
stato segno il suo stile. Il Re non aveva nulla a dire se non che era
inutile ripetere le vecchie doglianze, e chʼegli aveva sperato coteste
cose essere già cadute in oblio. Egli, che non dimenticava mai la più
lieve ingiuria, non sapeva intendere in che guisa altri avessero a
rammentarsi per poche settimane le più mortali ingiurie che avesse
fatto loro.

Infine il discorso fu ricondotto al subietto dal quale aveva deviato.
Il Re instava perchè i Vescovi dichiarassero con pubblico documento
aborrire dalla impresa del Principe. Ma essi protestando sommessamente
della loro lealtà, furono ostinatissimi a ricusare, dicendo il Principe
asserire che era stato invitato daʼ Pari spirituali e secolari;
lʼaddebito era a tutti comune; perchè dunque non doveva essere comune
anco la discolpa? «Io vedo come egli è,» disse Giacomo. «Voi avete
favellato con alcuni Pari secolari, i quali vi hanno persuaso a
contrariarmi in questo negozio.» I Vescovi solennemente affermarono
che ciò non era vero. Ma sembrerebbe strano, soggiunsero, che in una
questione che spettava a cose politiche e militari importantissime,
non si avesse a far conto deʼ Pari secolari, e la parte precipua fosse
assegnata ai prelati. «Ma questo» disse il Re «è il mio metodo. Io sono
il Re vostro; e spetta a me giudicare di ciò che meglio mi conviene.
Io voʼ fare a mio modo; e richiedo che mi aiutiate.» I Vescovi lo
assicurarono di aiutarlo come ministri di Dio con le loro preci, e come
Pari del Regno col loro consiglio nel Parlamento. Giacomo, al quale non
facevano mestieri nè le preci degli eretici nè consigli di Parlamento,
si sentì amaramente contrariato. Dopo un lungo alterco: «Ho finito»
disse egli, «io non vi dirò più nulla. Dacchè non volete secondarmi, è
uopo chʼio confidi in me solo e nelle mie armi.»[513]

XLIX. I Vescovi sʼerano appena partiti dal cospetto del Re, allorquando
giunse un messo recando la nuova che il dì precedente il Principe
dʼOrange era sbarcato in Devonshire. Nella susseguente settimana
Londra fu nella più violenta agitazione. La domenica, 11 novembre,
si sparse la voce che dentro un monastero istituito in Clerkenwell
sotto la protezione del Re nascondevansi coltelli, gratelle e caldaie
per torturare gli eretici. Una gran folla si raccolse attorno
quellʼedificio, e stava per demolirlo, allorchè giunse la forza
militare. La folla fu dispersa, e vari individui rimasero morti.
Fu fatta una inchiesta, e i Giurati diedero una decisione tale che
era indizio certo del pubblico sentire. Dissero che alcuni leali e
bene intenzionati individui, i quali erano accorsi per disperdere
i traditori e i pubblici nemici ragunatisi intorno ad un convento
cattolico, erano stati premeditatamente assassinati dai soldati: e
questo strano giudicio fu firmato da tutti i Giurati. Gli ecclesiastici
di Clerkenwell, naturalmente impauriti a questi sinistri segni,
volevano porre in salvo le cose loro. Venne lor fatto di trafugare la
maggior parte deʼ propri mobili innanzi che traspirasse nella città
la loro intenzione. Ma finalmente la marmaglia ne ebbe sospetto. Gli
ultimi due barocci furono fermati in Holborn, e tutto ciò che vʼera
sopra fu arso nella pubblica via. E nʼebbero tanto terrore i Cattolici,
che tutti i luoghi destinati al loro culto furono chiusi, tranne
quelli che appartenevano alla famiglia regale ed agli Ambasciatori
stranieri.[514]

Nulladimeno le cose non procedevano per anche affatto sfavorevoli a
Giacomo. Glʼinvasori da parecchi giorni erano in Inghilterra, e non
pertanto nessun personaggio notevole si era con essi congiunto. Nessuno
scoppio di ribellione nè a settentrione nè a levante. Non pareva che
alcuno impiegato avesse tradito il proprio Sovrano. Lʼarmata regia
sʼandava speditamente raccogliendo in Salisbury, e quantunque per
disciplina fosse inferiore a quella di Guglielmo, la superava per
numero.

L. Senza dubbio il Principe rimase attonito e mortificato vedendo la
indolenza di coloro che lo aveano invitato alla impresa. Il basso
popolo di Devonshire lo aveva accolto con ogni segno di affetto:
ma nessuno deʼ Nobili, nessun gentiluomo di alta importanza era
fino allora accorso al quartiere generale. La spiegazione di questo
singolarissimo fatto è probabilmente da trovarsi in ciò, che egli aveva
approdato ad un luogo dellʼisola, nel quale ei non era aspettato.
I suoi amici nel paese settentrionale avevano fatti i necessari
apparecchi ad insorgere, supponendo chʼegli si mostrerebbe fra loro
con unʼarmata. I suoi amici nelle contrade occidentali non avevano
fatto apparecchi di nessuna specie, e rimasero naturalmente sconcertati
trovandosi allo improvviso chiamati ad iniziare un movimento sì grande
e pieno di pericoli. Rammentavano, o, per dir meglio, avevano dinanzi
agli occhi i disastrosi effetti della ribellione, forche, capi mozzi,
membra squartate, famiglie tuttavia coperte di vesti gramagliose per la
morte di queʼ valorosi che avevano amata la patria loro di grande ma
imprudente amore. Dopo esempi così terribili e recenti era naturale lo
esitare. Era medesimamente naturale, dallʼaltro canto, che Guglielmo,
il quale, fidandosi alle promesse giuntegli dalla Inghilterra, aveva
posto a repentaglio non solo la fama e le sorti sue, ma anche la
prosperità e la indipendenza della sua terra natia, ne rimanesse
profondamente mortificato. E nʼebbe tanto sdegno, che parlò di
retrocedere a Torbay, rimbarcare le sue truppe, e ritornare in Olanda
abbandonando coloro che lo avevano tradito al ben meritato destino.
Infine il lunedì, 12 novembre, un gentiluomo chiamato Burrington, che
abitava nelle vicinanze di Crediton, accorse al vessillo del Principe,
e il suo esempio fu seguito da alcuni altri di quei luoghi.

LI. E già parecchi personaggi di maggiore importanza da varie parti
del paese dirigevansi ad Exeter. Primo tra loro era Giovanni Lord
Lovelace, uomo cospicuo per gusto, per magnificenza e per audaci e
veementi opinioni Whig. Era stato per cagioni politiche cinque o sei
volte messo in carcere. Lʼultimo delitto di cui gli facevano addebito
era il non avere egli voluto riconoscere la validità dʼun mandato
dʼarresto firmato da un Giudice di Pace cattolico. Tradotto dinanzi
il Consiglio Privato, aveva subito rigoroso esame, ma senza esito
alcuno. Ostinatamente ricusò di confessarsi reo; e le testimonianze
a lui contrarie non furono bastevoli a farlo condannare. Fu posto in
libertà; Ma avanti chʼegli si partisse, Giacomo, acceso dʼira, esclamò:
«Milord, questa non è la prima volta che voi mi gabbate.»—«Sire,»
rispose Lovelace imperterrito «io non ho mai gabbato Vostra Maestà, nè
alcun altro; e i miei accusatori, qualunque essi siano, mentiscono.»
Lovelace era stato dipoi ammesso alla confidenza di coloro che
tramavano la rivoluzione.[515] La sua magione, edificata dagli avi
suoi con le spoglie deʼ galeoni spagnuoli che tornavano dalle Indie,
inalzatasi sopra le rovine dʼun edifizio dedicato a Nostra Donna
in quella amenissima valle, fra mezzo alla quale il Tamigi, ancora
non contaminato dal contatto dʼuna grande capitale, e le cui acque
non erano costrette ad alzarsi ed abbassarsi pel flusso e riflusso
del mare, scorre sotto foreste di faggi attorno le vaghe colline di
Berkshire. Sotto la magnifica sala adorna delle opere deʼ pennelli
italiani, era un sotterraneo, nel quale talora sʼerano trovate le
ossa di vetusti cenobiti. In questo tenebroso luogo alcuni zelanti e
audaci oppositori del Governo eransi molte volte nel cuor della notte
raccolti a secreto colloquio in queʼ giorni neʼ quali la Inghilterra
ansiosamente aspettava il vento protestante.[516] Adesso era giunto
il tempo dʼoperare. Lovelace con settanta suoi seguaci, bene armati
a cavallo, partì dalla sua abitazione dirigendosi verso ponente.
Giunse alla Contea di Gloucester senza incontrare veruno ostacolo. Ma
Beaufort, governatore di quella Contea, faceva ogni sforzo dʼautorità e
dʼinfluenza a difesa della Corona. Aveva chiamato alle armi la milizia
civica, e ne aveva appostata una forte schiera a Cirencester. Come
Lovelace quivi arrivò, gli fu fatto sapere che gli verrebbe negato il
passo. Gli era quindi forza o abbandonare il suo disegno o aprirsi
la via combattendo. Deliberò di combattere; e gli amici e fittajuoli
suoi valorosamente lo secondarono. Si venne alle mani; la milizia
civica perdè un ufficiale e sei o sette uomini; ma infine i seguaci di
Lovelace furono vinti, ed egli, fatto prigione, fu mandato al castello
di Gloucester.[517]

LII. Ad altri corse più prospera la fortuna. Nel giorno in cui accadeva
la scaramuccia in Cirencester, Riccardo Savage Lord Colchester, figlio
ed erede del conte Rivers, e padre, per un illegittimo amore, di quello
sventurato poeta i cui misfatti ed infortuni formano una delle più nere
pagine della storia letteraria, giunse con tra sessanta o settanta
cavalieri ad Exeter. Con lui vi arrivò lo audace e turbulento Tommaso
Wharton. Poche ore dopo comparve Eduardo Russell, figlio del conte di
Bedford e fratello del virtuoso gentiluomo al quale era stato mozzo il
capo sul palco. Un altro arrivo di maggiore importanza fu poco dopo
annunziato. Colchester, Wharton, e Russell appartenevano a quel partito
che era stato sempre avverso alla corte. Allʼincontro Giacomo Bertie,
conte dʼAbingdon, veniva considerato come partigiano del governo
dispotico. Sʼera mostrato fedele a Giacomo nel tempo in cui discutevasi
della Legge dʼEsclusione. Mentre era Luogotenente dʼOxford aveva agito
con severità e vigore contro i fautori di Monmouth, ed aveva acceso
fuochi di gioia per celebrare la sconfitta dʼArgyle. Ma il timore del
papismo lo aveva cacciato nella opposizione fraʼ ribelli. Egli fu il
primo Pari del Regno che comparisse al quartiere generale del Principe
dʼOrange.[518]

Ma il Re aveva meno da temere da coloro i quali apertamente procedevano
avversi allʼautorità sua, che dalla tenebrosa congiura le cui fila
eransi sparse nella sua armata e perfino nella sua propria famiglia.
Della quale congiura va considerato come lʼanima Churchill, uomo
senza rivali per sagacia e destrezza, da natura dotato dʼuna certa
fredda intrepidezza che non gli veniva mai meno nel combattere o nel
mentire, occupante un posto elevato nellʼordine militare, e oltre
misura favorito dalla Principessa Anna. Non era ancora tempo chʼegli
facesse il colpo decisivo. Ma anche allora, per mezzo dʼun suo agente
subordinato, inflisse una ferita, se non mortale, gravissima alla causa
regia.

LIII. Eduardo, visconte Cornbury, figlio primogenito del conte di
Clarendon, era un giovane di poca abilità, di stemperati costumi, e
dʼindole violenta. Aveva daʼ suoi primi anni imparato a considerare
i suoi vincoli di sangue con la Principessa Anna come lo sgabello a
salire sublime, e lo avevano esortato a tenersela bene edificata.
Non era mai venuto in mente al padre suo che la lealtà ereditaria
degli Hyde potesse correre pericolo di contaminarsi dentro la
famiglia della figliuola prediletta del Re: ma in quella famiglia
signoreggiavano i Churchill; e Cornbury divenne loro strumento.
Comandava uno deʼ reggimenti deʼ Dragoni che era stato mandato nelle
contrade occidentali. Le cose erano state disposte in modo che per
poche ore il di 14 novembre egli fosse il più anziano degli ufficiali
in Salisbury, e tutte le milizie ivi raccolte rimanessero sottoposte
alla sua autorità. Eʼ sembra straordinario che in tanta crisi, lʼarmata
dalla quale ogni cosa dipendeva, fosse, anco per un solo istante,
lasciata sotto il comando dʼun giovane colonnello, privo dʼabilità e di
esperienza. Se non che mal può dubitarsi che tale combinazione fosse lo
effetto di un disegno profondamente meditato, e non è dubbio nessuno a
quale testa ed a qual cuore si debba attribuire.

Tosto fu dato ordine aʼ tre reggimenti di cavalleria congregati in
Salisbury di marciare verso ponente. Lo stesso Cornbury, capitanandoli,
li condusse prima a Blandford, poscia a Dorchester, donde, dopo
unʼora di riposo, partirono per Axminster. Alcuni degli ufficiali
cominciarono a sentire inquietudine e chiesero la spiegazione di
questi strani movimenti. Cornbury rispose chʼegli aveva ordini di dare
un notturno assalto ad alcune schiere dal Principe dʼOrange poste in
Honiton. Non per ciò si spense ogni sospetto. Alle ripetute insistenze
Cornbury evasivamente rispondeva, finchè gli ufficiali vivamente lo
sollecitarono mostrasse loro i pretesi ordini. Egli sʼaccòrse non
solo essergli impossibile di condurre più oltre, secondo che aveva
sperato, i tre reggimenti, ma trovarsi in grave pericolo. Per la qual
cosa riparò con pochi seguaci al quartiere generale degli Olandesi.
La maggior parte delle sue milizie ritornò a Salisbury: ma alcuni
soldati, già distaccati dal corpo, seguitarono a dirigersi ad Honiton.
Quivi trovaronsi in mezzo ad una grossa schiera bene apparecchiata a
riceverli. Resistere era impossibile. Il loro condottiere li persuase a
porsi sotto il vessillo di Guglielmo. A gratificarli venne loro offerto
un mese di paga, che fu dalla più parte di loro accettata.[519]

La nuova di questi eventi giunse a Londra il dì 15. Giacomo in quella
mattina era di buonissimo umore. Il vescovo Lamplugh sʼera pur allora
presentato a Corte arrivando da Exeter, ed era stato con estrema
cortesia accolto. «Monsignore,» gli disse il Re «voi siete un vero
vecchio Cavaliere.» Lʼarcivescovato di York, da due anni e mezzo
vacante, fu immediatamente conferito a Lamplugh in rimunerazione della
sua lealtà. Nel pomeriggio, il Re pur allora sʼera posto a desinare,
quando giunse un messo recando la nuova della diserzione di Cornbury.
Giacomo lasciò intatto il pranzo, mangiò un crostino di pane, bevve
un bicchiere di vino, e si ritirò alle sue stanze. Seppe dipoi che
mentre alzavasi da mensa, vari Lordi neʼ quali egli poneva grandissima
fiducia, stringevansi vicendevolmente le destre nella contigua
galleria congratulandosi del prospero andamento delle cose. Quando la
nuova fu recata agli appartamenti della Regina, essa e le sue cameriste
diedero in uno scoppio di pianto, mettendo dolorose grida.[520]

E davvero il colpo era gravissimo. Egli è vero che la perdita che
direttamente faceva la Corona e il guadagno diretto degli invasori
ascendeva appena a dugento uomini ed altrettanti cavalli. Ma dove
avrebbe potuto dʼallora in poi Giacomo trovare queʼ sentimenti che
formano la forza degli Stati e degli eserciti? Cornbury era lo erede di
una casa che primeggiava fra tutte pel suo affetto verso la monarchia.
Clarendon suo padre e Rochester suo zio erano uomini la cui fedeltà
riputavasi inaccessibile ad ogni qualsiasi tentazione. Quale doveva
essere la forza di quel sentimento contro cui nulla giovavano gli
ereditari pregiudizi più profondamente radicati, di quel sentimento che
poteva persuadere un giovine ufficiale dʼalta nascita alla diserzione,
resa più colpevole dallo abuso di fiducia e dalla menzogna? Lo
avvenimento era assai più grave appunto perchè Cornbury non era dotato
di egregie qualità nè dʼindole intraprendente. Era impossibile dubitare
che esistesse in alcun luogo una mano più potente ed artificiosa che lo
moveva. Tosto si conobbe chi era cotesto motore. Intanto non vʼera uomo
nel campo regio che fosse sicuro di non essere circondato da traditori.
Il grado politico, il grado militare, lʼonore dʼun gentiluomo, lʼonore
dʼun soldato, le più forti proteste di fedeltà, il più puro sangue
di Cavaliere, oramai non offrivano sicurtà alcuna. Ciascuno poteva
dubitare che gli ordini datigli daʼ suoi superiori non tendessero
a giovare lʼinimico. Era quindi necessariamente distrutta quella
cieca obbedienza senza la quale gli eserciti diventano una semplice
marmaglia. Quale disciplina poteva esistere tra soldati che sʼerano
dianzi sottratti ad una trama, ricusando di seguire il loro capitano in
una secreta spedizione, e insistendo che mostrasse gli ordini sovrani?

Cornbury fu poco dopo seguito da una folla di disertori che lo
superavano per grado e capacità: ma per pochi giorni egli fu solo
nella sua vergogna ed acremente ripreso da molti i quali poscia,
imitandone lo esempio, glʼinvidiarono la disonorevole precedenza. Era
fra costoro il suo proprio padre. Clarendon, appena saputane la nuova,
diede pateticamente in uno scoppio di rabbia e di dolore. «Dio mio!»
esclamò «che un mio figliuolo debba essere ribelle!» Quindici giorni
dopo era anche egli nel numero deʼ ribelli. Nondimeno sarebbe ingiusto
chiamarlo un ipocrita. Nelle rivoluzioni la vita dellʼuomo si svolge
celerissima: la esperienza di molti anni si trova concentrata tutta in
poche ore: le vecchie abitudini di pensiero e dʼazione violentemente si
rompono: le novità, che a primo sguardo destano timore ed aborrimento,
in pochi giorni diventano familiari, tollerabili, seducenti. Molti,
dotati di virtù più pura e di maggiore animo che non fosse Clarendon,
erano pronti, innanzi che si chiudesse quellʼanno memorabile, a fare
ciò che al principio dellʼanno essi avrebbero giudicato iniquo ed
infame.

Lo sventurato padre, come meglio potè ricomponendosi, fece chiedere
una privata udienza al Re, il quale gliela consentì. Giacomo con
insolita cortesia disse commiserare nel profondo del cuore i parenti di
Cornbury, e non reputarli tenuti a render conto del delitto commesso
dallo indegno giovane. Clarendon ritornò a casa sua non osando guardare
in viso i propri amici. Tosto nondimeno ei rimase attonito sapendo
che lʼazione la quale, secondo che egli credè in sulle prime, aveva
per sempre disonorata la sua famiglia, era stata applaudita da vari
personaggi alto locati. La Principessa di Danimarca sua nipote gli
chiese perchè si teneva chiuso agli occhi del mondo. Egli rispose, la
scelleraggine del figlio averlo oppresso di vergogna. Anna parve di
non intendere punto, e soggiunse: «La gente è molto inquieta rispetto
al papismo. Io credo che molti altri dello esercito faranno lo
stesso.»[521]

Il Re, grandemente perturbato, chiamò a sè i precipui ufficiali che
erano in Londra. Churchill che verso quel tempo era stato promosso
al grado di Luogotenente Generale, si presentò con quella blanda
serenità di aspetto, che non era mai turbata da periglio o da infamia.
Allʼadunanza intervenne Enrico Fitzroy Duca di Grafton, il quale per
audacia ed operosità predistinguevasi tra i figli naturali di Carlo
II. Grafton era colonnello del primo reggimento delle Guardie a piedi.
A quanto pare, in quel tempo egli era sotto lʼimpero di Churchill, ed
apparecchiato a disertare dalla regia bandiera, appena giungesse il
momento opportuno. Erano anco ivi presenti due altri traditori, cioè
Kirke e Trelawney, i quali comandavano due feroci e sfrenate bande,
allora detti i reggimenti di Tangeri. Entrambi, al pari degli altri
ufficiali protestanti dello esercito, da lungo tempo mal tolleravano la
predilezione del Re verso i suoi correligionari; e Trelawney in ispecie
rammentava con acre risentimento la persecuzione del vescovo di Bristol
suo fratello. Giacomo favellò allʼassemblea con parole degne dʼun
migliore uomo e dʼuna causa migliore. Disse potere darsi che taluni
degli ufficiali avessero scrupoli di coscienza per combattere in suo
favore. Quando così fosse, ei desiderava che dessero la loro rinuncia.
Ma li esortava e come gentiluomini e come soldati a non imitare il
vergognoso esempio di Cornbury. Tutti parevano commossi, e nessuno
lo era quanto Churchill. Egli fu il primo a giurare con ben simulato
entusiasmo dʼessere pronto a spargere fino lʼultima stilla del proprio
sangue pel suo amato Sovrano. Simiglianti proteste fece Grafton; e
Kirke e Trelawney ne seguirono lo esempio.[522]

LIV. Ingannato da tali assicuranze il Re si apparecchiò a recarsi in
Salisbury. Avanti la sua partenza seppe che un numero considerevole di
Pari secolari e spirituali desiderava unʼudienza. Andavano, guidati da
Sancroft, per porre nelle mani di Giacomo una petizione, nella quale
lo pregavano a convocare un libero e legittimo Parlamento, e aprire
pratiche dʼaccordo col Principe dʼOrange.

La storia di questa petizione è ben curiosa. Eʼ sembra che due grandi
capi deʼ partiti, che da lungo tempo rivaleggiavano ed osteggiavansi,
ne concepissero ad un tempo il pensiero. Parlo di Rochester e di
Halifax. Ambedue, senza che lʼuno sapesse dellʼaltro, ne chiesero
consiglio ai Vescovi. I Vescovi caldamente ne approvarono la idea. Fu
quindi proposto di ragunare unʼassemblea di Pari, onde deliberare
intorno alla forma da darsi alla sopra riferita petizione. E perchè
era il tempo delle sessioni giudiciarie, gli uomini di grado e di
alta condizione quotidianamente accorrevano a Westminster Hall come
adesso affollansi ai Circoli di Pall Mall in Saint Jamesʼs–Street Nulla
poteva essere più facile ai Pari ivi presenti, che ritirarsi in qualche
stanza contigua, e sedersi a consulta. Ma sorsero inaspettatamente
alcuni ostacoli. Halifax prima si mostrò freddo, poi contrario. Era sua
indole obiettare ad ogni cosa, ed in questa occasione le sue facoltà
intellettive aguzzava la rivalità. Il disegno, da lui approvato mentre
consideravalo come suo proprio, cominciò a dispiacergli appena seppe
chʼera anco venuto in mente a Rochester, dal quale egli era stato
lungamente avversato e infine cacciato dal posto, e che egli odiava,
secondochè lo consentiva il suo pacifico temperamento. Nottingham
allora lasciava trascinarsi da Halifax; ed entrambi dichiararono che
non avrebbero posto i nomi loro nella petizione qualora Rochester
vi apponesse il suo. Clarendon invano lo scongiurò. «Io non intendo
mancare di rispetto a Milord Rochester,» rispose Halifax «ma egli è
stato membro della Commissione Ecclesiastica, gli atti della quale tra
breve saranno subietto di gravissima inchiesta; e non è convenevole
che un uomo il quale ha seduto in quel tribunale partecipi alla nostra
petizione.» Nottingham con alte parole di stima personale verso
Rochester fu della opinione di Halifax. Lʼautorità di questi due Lordi
dissenzienti distolse vari altri dal sottoscrivere lʼindirizzo; ma gli
Hyde e i Vescovi stettero fermi. Si raccolsero diciannove firme; e i
chiedenti recaronsi in corpo al cospetto del Re.[523]

Giacomo ricevè di mala grazia la petizione. Li assicurò stargli
molto a cuore la convocazione dʼun libero Parlamento; e promise,
sulla fede di Re, che lo convocherebbe appena il Principe dʼOrange
sgombrasse dallʼisola. «Ma in che guisa» disse egli «può dirsi libero
un Parlamento mentre il Regno è invaso da un nemico, che può disporre
di quasi cento voti?» Ai prelati favellò con peculiare acrimonia,
dicendo: «Lʼaltro giorno non potei indurvi a protestare contro questa
invasione: ma voi adesso siete abbastanza pronti a dichiararvi contro
me. Allora non vʼera lecito immischiarvi di cose politiche; ed ora
non avete scrupolo a farlo. Voi avete suscitato questo spirito di
ribellione nel vostro gregge, e adesso lo fomentate. Fareste meglio
ad insegnare al popolo il modo di obbedire, che insegnare a me il
modo di governare.» Sʼaccese poi di grande ira come vide sotto il
nome di Grafton segnato presso quello di Sancroft, ed aspramente gli
disse: «Voi non sapete un jota di religione, nè ve ne importa nulla;
e nondimeno, in fè di Dio! pretendete dʼavere una coscienza.»—«Egli
è vero, o Sire,» rispose con impudente franchezza il nipote; «egli è
vero che io ho poca coscienza; ma appartengo ad un partito che ne ha
molta.»[524]

LV. Per quanto fossero acri le parole del Re, lo erano meno di
quelle che profferì dopo che i Vescovi si furono dalla sua presenza
partiti. Disse dʼavere già fatto troppo sperando di gratificarsi un
popolo irreverente ed ingrato; avere sempre abborrito dalla idea di
fare concessioni; ma vi sʼera lasciato indurre; e adesso, come il
padre suo, vedeva per prova che le concessioni rendono i sudditi
più esigenti. Quinci innanzi non cederebbe in nulla, nè anche dʼun
atomo; e secondo suo costume ripetè più volte e con forza: «Nè anche
dʼun atomo.» Non solo non farebbe proposte agli invasori, ma non ne
accetterebbe nessuna. Se gli Olandesi mandassero a chiedere tregua,
il primo messaggiero sarebbe rimandato senza risposta, il secondo
impiccato.[525] In tale umore Giacomo partì per Salisbury. Il suo
ultimo atto, avanti di partirsi, fu di nominare un Consiglio di cinque
Lordi, perchè lo rappresentassero durante la sua assenza. Deʼ cinque,
due erano papisti, e per virtù della legge inabili ad occupare gli
uffici. Jeffreys era con essi, ma la nazione detestavalo più dei
papisti. A Preston e Godolphin, che erano gli altri due membri, non
si poteva nulla obiettare. Il dì, in che il Re partì da Londra, il
Principe di Galles fu mandato a Portsmouth. Questa fortezza aveva uno
strenuo presidio sotto il comando di Berwick. Era lì presso la flotta
comandata da Dartmouth; e supponevasi, che ove le cose procedessero
male, il regio infante si sarebbe senza ostacolo potuto condurre in
Francia.[526]

LVI. Il dì 19, Giacomo giunse a Salisbury, e pose il suo quartiere
generale nel palazzo del Vescovo. Da ogni parte gli arrivavano sinistre
nuove. Le Contee occidentali alla perfine erano insorte. Appena si
seppe la diserzione di Cornbury, molti ricchi possidenti presero
animo ed accorsero ad Exeter. Era fra essi Sir Guglielmo Portman di
Bryanstone, uno deʼ più grandi uomini della Contea di Dorset, e Sir
Francesco Warre di Hestercombe che aveva somma riputazione nella Contea
di Somerset.[527] Ma il più cospicuo deʼ nuovi venuti era Seymour,
che aveva di recente ereditato il titolo di baronetto,—titolo che
aggiungeva poco alla sua dignità,—e per nascita, per influenza
politica e per abilità parlamentare primeggiava oltre ogni paragone
fraʼ gentiluomini Tory dʼInghilterra. Dicesi che nella prima udienza
porgesse tale argomento dellʼaltera indole sua, che recò maraviglia
e sollazzo al Principe. «Io credo, Sir Eduardo,» disse Guglielmo
per usargli una cortesia «che voi siate della famiglia del Duca di
Somerset.»—«Altezza, chiedo scusa,» rispose Sir Eduardo che non
dimenticava mai dʼessere il capo del ramo maggiore deʼ Seymours, «il
Duca di Somerset è della mia famiglia.[528]»

Il quartiere generale di Guglielmo allora cominciò a prendere la
sembianza dʼuna corte. Sessanta e più personaggi cospicui per grado
ed opulenza trovavansi in Exeter; e la mostra quotidiana delle ricche
livree e deʼ cocchi a sei cavalli nel ricinto della Cattedrale rendeva
in alcun modo immagine della magnificenza e gaiezza di Whitehall.
Il basso popolo anelava di correre alle armi, sì che sarebbe stato
agevole formare molti battaglioni di fanti. Ma Schomberg, che faceva
poco conto di soldati novellamente tolti allo aratro, sosteneva che
ove la impresa non avesse prospero successo senza siffatto aiuto,
non sarebbe riuscita affatto: e Guglielmo, che quanto Schomberg
bene intendevasi dʼarte militare, era del medesimo parere. E però
difficilmente concedeva commissioni di reclutare nuovi reggimenti, non
accettando altri che uomini scelti.

Desideravasi che il Principe ricevesse pubblicamente in corpo tutti i
nobili e i gentiluomini che sʼerano raccolti in Exeter. Rivolse loro
brevi, caute e dignitose parole. Disse che sebbene non conoscesse di
aspetto tutti coloro che gli stavano dinanzi, pure ne aveva notati i
nomi, e sapeva quale insigne reputazione godessero nel paese loro.
Dolcemente li rimproverò di lentezza ad accorrere, ma espresse la ferma
speranza che non sarebbe stato troppo tardi per salvare il reame.
«Adunque, o gentiluomini, amici, e confratelli protestanti,» soggiunse
egli «noi con tutto il cuore diciamo a tutti voi e ai seguaci vostri,
siate ben venuti alla nostra corte ed al nostro campo.»[529]

Seymour, accorto uomo politico, per la sua lunga esperienza nella
tattica delle fazioni, tosto conobbe che il partito che sʼandava
raccogliendo sotto il vessillo del Principe aveva mestieri dʼessere
organizzato. Lo chiamava una corda di sabbia: non vʼera scopo comune
o formalmente determinato; nessuno sʼera impegnato a nulla. Appena si
sciolse lʼassemblea tenuta da Guglielmo nel Decanato, Seymour fece
chiamare Burnet, e gli suggerì il pensiero di formare unʼassociazione,
e dʼobbligare tutti glʼInglesi aderenti al Principe ad apporre le
loro firme ad un documento, in cui si dichiarassero fedeli al loro
condottiero e si vincolassero vicendevolmente. Burnet riferì la cosa
al Principe ed a Shrewsbury, i quali lʼassentirono. Fu convocata
unʼadunanza nella Cattedrale, dove fu letto, approvato, e firmato
un breve documento scritto da Burnet. I soscrittori promettevano di
eseguire concordemente le cose contenute nel Manifesto di Guglielmo;
difendere lui, ed a vicenda difendersi; fare segnalata vendetta di
chi attentasse alla vita di lui, ed anche, ove siffatto attentato
sventuratamente avesse effetto, persistere nella impresa finchè le
libertà e la religione del paese fossero pienamente assicurate.[530]

Verso quel tempo arrivò ad Exeter un messaggiero del Conte di Bath, il
quale aveva il comando di Plymouth. Bath poneva sè, le sue truppe e
la fortezza da lui governata a disposizione del Principe. Glʼinvasori
quindi non avevano più un solo nemico alle spalle.[531]

LVII. Mentre le contrade occidentali in tal guisa insorgevano ad
affrontare il Re, le settentrionali gli divampavano dietro. Il dì
16, Delamere corse alle armi nella Contea di Chester. Convocò i suoi
fittajuoli, gli esortò a seguirlo, promise loro che, ove cadessero in
battaglia, ei rinnoverebbe il fitto ai loro figli, ed ammonì chiunque
avesse un buon cavallo di andare al campo, o mandarvi altri in sua
vece.[532] Comparve a Manchester con cinquanta armati a cavallo, il
quale numero si triplicò innanzi chʼegli giungesse a Boaden Downs.

Le circostanti contrade erano in somma agitazione. Era stato provveduto
che Danby prendesse York, e Devonshire si mostrasse in Nottingham.
Quivi non si temeva alcuna resistenza. Ma in York trovavasi un piccolo
presidio sotto il comando di Sir Giovanni Reresby. Danby agì con
rara destrezza. Era stata convocata pel dì 22 novembre una ragunanza
deʼ gentiluomini e deʼ possidenti della Contea di York per fare un
indirizzo al Re sullo stato delle cose. Tutti i Luogotenenti deputati
dei tre Ridings, vari nobili, e una folla di ricchi scudieri e di
pingui possidenti erano andati alla capitale della provincia. Quattro
distaccamenti di milizia civica erano sotto le armi per mantenere la
pubblica tranquillità. Il palazzo comunitativo era pieno di liberi
possidenti, ed era appena cominciata la discussione, allorquando
levossi repentinamente il grido che i Papisti, corsi alle armi,
facevano strage deʼ protestanti. I Papisti di York più verisimilmente
studiavansi a cercare dove nascondersi che ad aggredire i nemici, i
quali per numero li superavano in proporzione di cento ad uno. Ma in
quel tempo non vi era storiella orrenda o maravigliosa delle atrocità
dei Papisti, alle quali il popolo non prestasse fede. La ragunanza
sgomentata si disciolse. La intera città fu in iscompiglio. In quel
mentre Danby con circa cento uomini a cavallo corse dinanzi alla
milizia civica gridando: «Giù il Papismo! Viva il libero Parlamento!
Viva la religione protestante!» Le milizie risposero al grido.
Sorpresero tosto e disarmarono il presidio. Il governatore venne
arrestato; le porte furono chiuse, e in ogni dove poste sentinelle.
Lasciarono che la infuriata plebe atterrasse una cappella cattolica,
ma pare che non seguisse altro danno. Il dì seguente il palazzo
comunitativo era pieno deʼ più notabili gentiluomini della Contea, e
dei principali magistrati della città. Il Lord Gonfaloniere teneva il
seggio. Danby propose di scrivere una dichiarazione nella quale fossero
espresse le ragioni che inducevano gli amici della Costituzione e della
religione protestante a correre alle armi. Questa dichiarazione fu
calorosamente approvata, e in poche ore munita delle firme di sei Pari,
di cinque baronetti, di sei cavalieri, e di molti gentiluomini di gran
conto.[533]

Infrattanto Devonshire, capitanando una grossa legione di amici e
dipendenti suoi, partitosi dal palagio chʼegli stava erigendo in
Chatsworth, comparve armato in Derby. Quivi consegnò formalmente alle
autorità municipali uno scritto in cui erano esposte le ragioni che lo
avevano spinto alla impresa. Ne andò quindi a Nottingham, che tosto
divenne il centro della insurrezione delle contrade settentrionali.
Promulgò un proclama scritto con forti e ardite parole. Vi si diceva
che il vocabolo ribellione era uno spauracchio che non poteva
spaventare alcun uomo ragionevole. Era ella ribellione difendere
quelle leggi e quella religione che ogni Re dʼInghilterra era tenuto
per sacramento a tutelare? In che modo siffatto giuramento fosse
stato osservato, era questione la quale, come speravasi, un libero
Parlamento tra breve scioglierebbe. Nel tempo stesso glʼinsorti
dichiaravano di non considerare qual ribellione, ma quale legittima
difesa, il resistere ad un tiranno, che, tranne la propria volontà,
non conosceva legge veruna. La insurrezione del paese settentrionale
diventava ogni giorno più formidabile. Quattro potenti e ricchi Conti,
cioè Manchester, Stamford, Rutland, Chesterfield giunsero a Nottingham,
e furono seguiti da Lord Cholmondley e da Lord Grey di Ruthyn.[534]

Intanto le due armate nel mezzogiorno facevansi lʼuna allʼaltra sempre
più presso. Il Principe dʼOrange, saputo lo arrivo del Re a Salisbury,
pensò essere tempo di partirsi da Exeter. Pose la città e il paese
circostante sotto il governo di Sir Eduardo Seymour, e il mercoledì
21 novembre, scortato da molti deʼ più notevoli gentiluomini delle
contrade occidentali, si avviò ad Axminster, dove rimase vari giorni.

Il Re ardeva di venire alle mani; ed era naturale chʼegli così
bramasse. Ogni ora che passava, scemava le sue forze, ed accresceva
quelle del nemico. Inoltre era importantissimo che le sue truppe
venissero allo spargimento del sangue: imperciochè una grande
battaglia, qualunque ne fosse lʼesito, non poteva altro che nuocere
alla popolarità del Principe. Guglielmo intendeva profondamente
tutto ciò, ed era deliberato di evitare, quanto più potesse, un
combattimento. Dicesi che quando a Schomberg fu riferito che i nemici
si appressavano deliberatissimi a combattere, rispondesse col contegno
di capitano espertissimo nellʼarte sua: «Sarà come vorremo noi.» Era,
nondimeno, impossibile scansare qualunque scaramuccia tra le vanguardie
dei due eserciti. Guglielmo desiderava che in siffatte piccole fazioni
non accadesse nulla che potesse offendere lʼorgoglio o destare il
sentimento di vendetta della nazione di cui sʼera fatto liberatore. E
però con ammirevole prudenza pose i suoi reggimenti inglesi in quei
luoghi dove maggiore era il rischio dʼuna collisione. E perchè gli
avamposti dellʼarmata regia erano Irlandesi, nei piccoli combattimenti
di questa breve campagna glʼinvasori avevano seco la cordiale simpatia
di tutti glʼInglesi.

LVIII. Il primo di cotesti scontri ebbe luogo in Wincanton. Il
reggimento di Mackay, composto di soldati inglesi, era presso a un
corpo di regie truppe irlandesi, capitanate dal valoroso Sarsfield
loro concittadino. Mackay mandò un piccolo drappello deʼ suoi sotto
il comando dʼun luogotenente chiamato Campbell, in cerca di cavalli
pel bagaglio. Campbell li trovò in Wincanton, e già allontanavasi
dalla città per ritornare al campo, allorquando vide avvicinarsi un
forte distaccamento delle truppe di Sarsfield. GlʼIrlandesi erano in
proporzione di quattro contro uno: ma Campbell deliberò di combattere
fino allʼultimo sangue. Con una mano di coraggiosissimi uomini si
appostò sul cammino. Gli altri suoi soldati si posero lungo le siepi
che fiancheggiavano da ambe le parti lo stradale. Giunti glʼinimici,
Campbell gridò: «Alto! Per chi siete voi?»—«Io sono pel re Giacomo,»
rispose il condottiero delle milizie regie. «Ed io pel Principe
dʼOrange,» esclamò Campbell. «E noi vʼ_imprinciperemo_ bene,» rispose
imprecando lʼIrlandese. «Fuoco!» gridò Campbell: ed una grandine di
fuoco piovve allʼistante da ambe le siepi. I soldati del Re riceverono
tre bene aggiustate scariche innanzi che potessero far fuoco. In fine
venne loro fatto di superare una delle siepi, ed avrebbero oppressa la
piccola banda deglʼinimici, se i campagnuoli che portavano odio mortale
aglʼIrlandesi non avessero sparsa la falsa nuova dello appressarsi
dʼaltre truppe del Principe. Sarsfield suonò a raccolta e ritirossi;
Campbell seguitò il cammino senza molestia, seco recando i cavalli da
bagaglio. Questo fatto, onorevole, senza dubbio, al valore ed alla
disciplina dellʼarmata del Principe, fu dalla voce pubblica esagerato
come una vittoria che i protestanti inglesi avevano riportata contro un
numero grandemente maggiore di barbari papisti, venuti da Connaught ad
opprimere lʼisola nostra.[535]

Poche ore dopo la narrata scaramuccia seguì un evento che pose fine
ad ogni pericolo di più grave conflitto tra i due eserciti. Churchill
ed alcuni deʼ suoi principali complici erano in Salisbury. Due deʼ
congiurati, cioè Kirke e Trelawney, se nʼerano andati a Warminster
dove i reggimenti loro stanziavano. Tutto era maturo per eseguire la
lungamente meditata tradigione.

Churchill consigliò il Re a visitare Warminster, onde ispezionarvi
le truppe. Giacomo assentì; ed il suo cocchio stavasi alla porta del
palagio vescovile, quando ei cominciò a versare abbondantemente sangue
dalle narici. Fu quindi costretto a differire la sua gita, e porsi in
mano deʼ medici. La emorragia non gli cessò se non dopo tre giorni; e
intanto gli giungevano funestissime nuove.

Non era possibile che una congiura la quale aveva sì sparse le fila
come quella di cui Churchill era capo, si tenesse strettamente secreta.
Non vʼera prova che potesse farlo tradurre dinanzi ai Giurati o ad
una corte marziale: ma strani bisbigli correvano per tutto il campo.
Feversham, il quale era comandante supremo, riferì che regnavano
sinistri umori nellʼarmata. Fu fatto intendere al Re che alcuni i
quali gli stavano da presso non gli erano amici, e che sarebbe stata
saggia cautela mandare Churchill e Grafton sotto buona guardia a
Portsmouth. Giacomo respinse il consiglio; dacchè fra i suoi vizi non
era la inclinazione a sospettare. A vero dire la fiducia chʼegli poneva
nelle proteste di fedeltà e dʼaffetto, era quanta ne avrebbe potuto
avere più presto un fanciullo di buon cuore e privo dʼesperienza, che
un politico molto provetto negli anni, il quale aveva praticato assai
il mondo, aveva molto sofferto dalle arti degli scellerati, e il cui
carattere non faceva punto onore alla specie umana. Sarebbe difficile
additare un altro uomo, il quale, così poco scrupoloso a rompere la
fede, fosse così restio a credere che altri volesse contro di lui
tradirla. Nondimeno le nuove ricevute intorno le condizioni della sua
armata lo conturbarono molto. Adesso non più mostravasi impaziente di
venire a battaglia: pensava anzi di ritirarsi. Nella sera del sabato
24 novembre convocò un consiglio di guerra. Alla ragunanza convennero
quegli ufficiali contro cui era stato caldamente ammonito a tenersi
cauto. Feversham opinò per la ritirata. Churchill manifestò contrario
parere. Il consiglio durò fino a mezza notte. Finalmente il Re dichiarò
essere deliberato a ritirarsi. Churchill vide o sʼimmaginò dʼessere
sospettato, e comunque sapesse perfettamente governare i moti dello
animo, non valse a nascondere la propria inquietudine. Innanzi lʼalba,
accompagnato da Grafton, fuggì al quartiere generale del Principe.[536]

LIX. Churchill, partendo, lasciò una lettera a spiegare il suo
intendimento. Era scritta con quel decoro chʼegli non mancò mai di
serbare fra mezzo alla colpa e al disonore. Riconobbe dʼandar debitore
dʼogni sua cosa alla regia benevolenza. Lo interesse e la gratitudine,
diceva egli, lo persuadevano a mantenersi fido al proprio Sovrano.
Sotto nessun altro governo poteva sperare la grandezza e prosperità
chʼegli allora godeva, ma tutti cotesti argomenti dovevano cedere al
primissimo deʼ doveri. Egli era protestante, e non poteva in coscienza
snudare la spada contro la causa del Protestantismo. Quanto al resto,
era pronto a porre a repentaglio vita ed averi per difendere la sacra
persona e i diritti del suo amatissimo signore.[537]

Alla dimane il campo era sossopra. Gli amici del Re percossi da
spavento; i suoi nemici non potevano nascondere la gioia deʼ loro
cuori. La costernazione di Giacomo sʼaccrebbe alle nuove che giunsero
il dì medesimo da Warminster. Kirke che ivi comandava, aveva ricusato
di obbedire ad ordini giunti da Salisbury. Non era più dubbio che
anche egli fosse in lega col Principe dʼOrange. Dicevasi inoltre
chʼegli fosse già passato con le sue milizie al campo del nemico; e
tale voce, comechè falsa, fu per alcune ore pienamente creduta.[538]
Un nuovo raggio di luce lampeggiò alla mente dello sciagurato Re. Gli
parve dʼintendere il perchè pochi giorni innanzi era stato esortato
a visitare Warminster. Ivi si sarebbe trovato privo di soccorso, in
balìa deʼ congiurati, e presso agli avamposti nemici. Coloro che
sarebbero stati disposti a difenderlo avrebbero agevolmente ceduto
agli aggressori. Egli sarebbe stato condotto prigioniero al quartiere
generale deglʼinvasori. Forse sarebbe stato commesso qualche più nero
tradimento; imperocchè chi una volta ha posto il piede in una via
di malvagità e di periglio non è più padrone di fermarsi, e spesso
una fatalità, che gli è di giusta pena, lo spinge a delitti, dalla
idea dei quali egli avrebbe dapprima rifuggito con raccapriccio. E
davvero era visibile la mano di qualche Santo protettore in ciò, che
un Re sì devoto alla Chiesa Cattolica, nel momento medesimo in cui
correva a gran passi alla cattività, e forse alla morte, fosse stato
improvvisamente impedito da quella chʼegli aveva giudicata pericolosa
infermità.

LX. Tutte coteste cose raffermarono lʼanimo del Re nel pensiero chʼegli
aveva fatto la sera antecedente. Ordinò una sùbita ritirata. Salisbury
fu tutta in subuglio. Il campo levossi con tal confusione che rendeva
immagine dʼuna fuga. Niuno sapeva di chi fidarsi, e a cui obbedire.
La forza materiale dello esercito era di poco scemata; ma la morale
non era più. Molti, che la vergogna frenava dal correre al quartiere
generale del Principe, affrettaronsi a seguire lo esempio dal quale
avrebbero ognora aborrito; e molti che avrebbero difeso il Re mentre
pareva risolutamente correre incontro aglʼinvasori, non si sentirono
inchinevoli a seguire un vessillo che fuggiva.[539]

Giacomo quel giorno giunse ad Andover. Lo accompagnavano il Principe
Giorgio suo genero, e il Duca dʼOrmond. Entrambi erano fraʼ
cospiratori, e avrebbero forse tenuto dietro a Churchill, ove questi, a
cagione di ciò che seguì nel consiglio di guerra, non avesse reputato
più utile partirsi allo improvviso. La impenetrabile stupidità del
Principe Giorgio in questa occasione gli fu più utile di ciò che
sarebbe stata lʼastuzia. Ogni qualvolta udiva alcun che di nuovo, egli
aveva il vezzo di esclamare in francese: «_Est–il possible?_» Questo
ritornello adesso gli fu di grande utilità. «_Est–il possible?_» gridò
egli come seppe che Churchill e Grafton se nʼerano andati. Ed appena
giunte le sinistre nuove di Warminster, esclamò nuovamente: «_Est–il
possible?_»

LXI. Il Principe Giorgio ed Ormond in Andover furono invitati a
cenare col Re. Tristissima cena! Il Re gemeva sotto la soma delle
sue sciagure. Il suo genero gli teneva stupidissima compagnia. «Io
ho saggiato il Principe Giorgio mentre era sobrio,» diceva Carlo II,
«e lʼho saggiato mentre era ubriaco; e o briaco o sobrio non val
nulla.»[540] Ormond, che per indole era timido e taciturno, non era
verosimile che fosse dʼallegro umore in quel momento. Alla perfine la
cena terminò. Il Re si ritrasse a riposare. Il Principe ed Ormond,
appena Giacomo sorse da mensa, montando sui cavalli che erano lì
pronti, partironsi, accompagnati dal Conte di Drumlanrig, figlio
primogenito del Duca di Queensberry. La defezione di questo giovine
Nobile non era cosa di poca importanza; imperocchè Queensberry era
il capo dei protestanti episcopali di Scozia, setta al cui paragone
i più esagerati Tory inglesi potevano considerarsi pressochè Whig; e
lo stesso Drumlanrig era luogotenente colonnello del reggimento di
Dundee, banda dai Whig detestata più degli Agnelli di Kirke. La mattina
appresso fu recato al Re lo annunzio di questa nuova sciagura, e se
ne mostrò meno dolente di quel che si sarebbe supposto. Il colpo da
lui ricevuto ventiquattro ore innanzi lo aveva apparecchiato quasi
a qualunque disastro, e non poteva seriamente adirarsi del Principe
Giorgio,—il quale era uomo da non farsene nessun conto,—per avere
ceduto alle arti dʼun tentatore quale era Churchill. «E che! _Est–il
possible_ se ne è andato anche egli?» disse Giacomo. «Al postutto
sarebbe stata maggiore la perdita di un buon soldato.»[541] Per dir
vero, eʼ sembra che in quel tempo tutta la collera del Re fosse
accentrata, e non senza cagione, sopra un solo uomo. Prese la via di
Londra, ardendo di vendetta contro Churchill, ed appena giuntovi seppe
che lʼarcingannatore aveva commesso un nuovo delitto. La Principessa
Anna da parecchie ore era sparita.

LXII. Anna, la quale altra volontà non aveva che quella dei Churchill,
una settimana innanzi era stata da loro persuasa a scrivere di
propria mano a Guglielmo, significandogli che approvava la impresa.
Assicuravalo chʼella trovavasi interamente nelle mani deʼ suoi amici,
e che sarebbe rimasta in palazzo o sarebbesi rifugiata nella Città
a seconda del loro consiglio.[542] La domenica, 25 novembre, ella e
coloro che per lei pensavano, trovaronsi nella necessità di prendere
una improvvisa deliberazione. Nel pomeriggio di quel dì stesso un
corriere da Salisbury recò la nuova che Churchill era scomparso,
chʼera stato accompagnato da Grafton, che Kirke aveva tradito, e che
le milizie regie frettolosamente ritiravansi. Quella sera le sale di
Whitehall erano affollate da immenso numero di persone come usualmente
avveniva quando una grave notizia buona o cattiva giungeva alla città.
La curiosità e lʼansietà erano dipinte nel viso di ciascuno. La Regina
proruppe naturalmente in parole di sdegno contro il capo deʼ traditori,
e non risparmiò la sua troppo compiacente protettrice. Nella parte
del palazzo abitata da Anna furono raddoppiate le sentinelle. La
Principessa era atterrita. Tra poche ore il padre sarebbe giunto a
Westminster. Non era verosimile che lʼavrebbe personalmente trattata
con severità; ma non era da sperarsi chʼegli le permetterebbe di
godere più a lungo della compagnia della sua diletta amica. Mal poteva
dubitarsi che Sara verrebbe arrestata e sottoposta al rigoroso esame
di astuti e crudi inquisitori. Le sue carte sarebbero sequestrate.
Forse si scoprirebbe qualche documento che mettesse in pericolo la
sua vita. Ed ove ciò fosse, vʼera da temere di peggio. La vendetta
dello implacabile Re non conosceva distinzione di sesso. Per delitti
molto più lievi di quelli che probabilmente verrebbero imputati a
Lady Churchill, aveva mandate donne alle forche e al ceppo. La forza
dello affetto infiammò lʼanimo debole della Principessa. Non vʼera
vincolo chʼella non fosse pronta a rompere, non rischio a correre
per lʼoggetto del suo immenso amore. «Mi getterò giù dalla finestra»
gridò ella «piuttosto che lasciarmi trovare qui da mio padre.» Lady
Churchill sʼincaricò di apparecchiare la fuga. Si pose frettolosamente
in comunicazione con alcuni capi della congiura. In poche ore ogni cosa
fu pronta. Quella sera Anna si ritrasse, secondo il consueto modo, alle
sue stanze. Sul cadere della notte levossi, ed accompagnata dallʼamica
Sara e da due altre donne discese per le secrete scale in veste da
camera e in pianelle. Le fuggenti giunsero nella strada senza ostacolo,
dove le attendeva una carrozza dʼaffitto, dinanzi al cui sportello
stavano due uomini. Uno era Compton Vescovo di Londra, vecchio ajo
della Principessa; lʼaltro era il magnifico e squisito Dorset, che
vedendo la grandezza del pubblico pericolo erasi destato dal suo
voluttuoso far niente. La carrozza tosto si diresse ad Aldersgate
Street, dove allora sorgeva lʼabitazione di città deʼ Vescovi di
Londra, accanto alla Cattedrale. Ivi la Principessa passò la notte. Il
dì seguente partì per Epping Forest. In queʼ selvaggi luoghi Dorset
possedeva una veneranda magione, oggimai da lungo tempo distrutta.
Sotto il suo tetto ospitale che da molti anni era il favorito ritrovo
deʼ begli spiriti e deʼ poeti, i fuggitivi fecero breve soggiorno. Non
potevano sperare di giungere in sicurtà al campo di Guglielmo, perocchè
il cammino era occupato dalle regie milizie. Fu quindi deliberato che
Anna riparasse fra mezzo agli insorti delle contrade settentrionali.
Compton per allora dismesse al tutto il suo carattere sacerdotale. Il
pericolo e il conflitto gli avevano riacceso nel cuore tutto il fuoco
guerriero onde era pieno ventotto anni innanzi, allorquando cavalcava
fra le Guardie del Corpo. Ei precedeva il cocchio della Principessa,
vestito dʼun giustacore di cuojo di bufalo, grandi stivali, spada
a fianco, e pistole allʼarcione. Innanzi di giungere a Nottingham
trovossi circondata da un drappello di gentiluomini che volontariamente
erano corsi a scortarla. Costoro invitarono il Vescovo a farsi loro
colonnello; ed egli vi consentì con alacrità tale da scandalizzarne i
rigidi Anglicani, e da non acquistargli grande reputazione agli occhi
deʼ Whig.[543]

LXIII. Allorquando la mattina del dì 26 lo appartamento di Anna fu
trovato vuoto, nacque grande costernazione in Whitehall. Mentre le sue
cameriste correvano su e giù peʼ cortili del palazzo strillando e
torcendosi le mani, mentre Lord Craven comandante delle Guardie a piedi
interrogava le sentinelle della galleria, mentre il Cancelliere poneva
i suggelli alle carte deʼ Churchill, la nudrice della Principessa negli
appartamenti del Re piangeva gridando che la sua diletta signora era
stata assassinata dai papisti. La nuova volò a Westminster Hall. Ivi si
disse che Sua Altezza era stata trascinata a forza e in qualche luogo
imprigionata. Quando non fu più possibile negare che la sua fuga era
stata volontaria, sʼinventarono mille ciarle a spiegarne la cagione.
Era stata villanamente insultata e minacciata; anzi, quantunque si
trovasse in quella condizione in cui la donna merita peculiarmente
lʼaltrui tenerezza, era stata battuta dalla sua crudele madrigna. La
plebe, da molti anni di pessimo governo resa sospettosa e irritabile,
venne in tanto concitamento per queste calunnie, che la Regina non si
teneva sicura. Molti Tory cattolici e alcuni protestanti, la cui lealtà
era incrollabile, corsero alla reggia pronti a difenderla ove seguisse
uno scoppio dʼira popolare. Fra mezzo a tanta perturbazione e a tanto
terrore giunse la nuova della fuga del Principe Giorgio. Poco dopo
verso sera arrivò il Re, al quale fu annunziato la sua figlia essere
scomparsa. Dopo tanti patimenti questʼultima afflizione gli strappò
dalle labbra un doloroso grido: «Dio mi soccorra, anche i miei figli mi
hanno abbandonato!»[544]

Quella sera fino a tardi sedè in consiglio coʼ suoi principali
ministri. Fu deliberato di intimare a tutti i Lordi spirituali e
secolari che allora trovavansi in Londra, che comparissero la dimane
al suo cospetto, onde richiederli solennemente di consiglio. Per la
qual cosa, il pomeriggio del martedì 27, i Lordi adunaronsi nella
sala da pranzo del palazzo. Lʼassemblea era composta di nove prelati
e fra trenta e quaranta Nobili secolari, tutti protestanti. I due
Segretari di Stato, Middleton e Preston, quantunque non fossero Pari
dʼInghilterra, erano presenti. Il Re presedeva in persona. Gli si
leggeva sul viso e nello atteggiamento chʼegli soffriva dʼanima e di
corpo. Aperse la ragunanza facendo capo dalla petizione che gli era
stata presentata poco innanzi la sua partenza per Salisbury. In quella
petizione veniva pregato a convocare un libero Parlamento. Disse che
nelle condizioni in cui egli allora trovavasi, non aveva reputato
opportuno acconsentire. Ma nel tempo della sua assenza da Londra erano
seguiti gravissimi mutamenti. Aveva parimente notato che il suo popolo
dappertutto mostrava bramosia di vedere adunate le Camere. Per tutte
queste cose egli chiamava a consiglio i suoi Pari fedeli, perchè gli
manifestassero il loro parere.

Per qualche tempo eʼ fu silenzio, finchè Oxford, la cui famiglia, per
antichità e magnificenza superiore a tutte, gli dava una specie di
primato nella ragunanza, disse che secondo la sua opinione queʼ Lordi i
quali avevano sottoscritta la petizione, cui la Maestà Sua accennava,
erano in debito di manifestare i loro pensieri.

Queste parole mossero Rochester a favellare. Difese la petizione e
dichiarò di non vedere altra speranza per il trono e il paese che la
convocazione dʼun libero Parlamento. Disse non volere rischiarsi ad
affermare che in tanto grave estremità, anche quel rimedio potesse
tornare efficace: ma non ne aveva altro da proporre. Aggiunse
parergli sano partito aprire pratiche col Principe dʼOrange. Jeffreys
e Godolphin parlarono dopo, ed entrambi dichiararono essere della
medesima opinione di Rochester.

Allora sorse Clarendon, e, con somma maraviglia di quanti rammentavano
le sue proteste di lealtà, e i suoi disperati affanni e il rossore
cui si era abbandonato, solo pochi giorni innanzi, per la diserzione
del proprio figliuolo, proruppe in virulenti invettive contro la
tirannide e il papismo. «Anche adesso» disse egli «Sua Maestà
in Londra fa leva dʼun reggimento al quale non è ammesso nessun
protestante.»—«Non è vero!» gridò dal seggio Giacomo grandemente
agitato. Clarendon insisteva, e lasciò da parte questo offensivo
subietto per passare ad un altro maggiormente offensivo. Accusò lo
sventurato Re di pusillanimità. Perchè ritirarsi da Salisbury? Perchè
non tentare le sorti dʼuna battaglia? Era forse da biasimarsi il
popolo se cedeva ad un invasore mentre vedeva il proprio Re fuggire
insieme con la sua armata? Giacomo sentì amaramente cotesti insulti,
e ne serbò lunga ricordanza. E davvero gli stessi Whig reputarono
indecenti e poco generose le parole di Clarendon. Halifax parlò in
modo diverso. Per molti anni di pericolo aveva con ammirevole abilità
difeso la costituzione civile ed ecclesiastica del paese contro la
regia prerogativa. Ma il suo lucido intendimento, singolarmente
nemico dʼogni entusiasmo, ed avverso agli estremi, cominciò a pendere
verso la causa del Sovrano nel momento stesso nel quale queʼ romorosi
realisti, che poco innanzi avevano esecrato i Barcamenanti quasi
fossero ribelli, alzavano il vessillo della ribellione. Egli ambiva,
in quella congiuntura, a farsi paciere fra il trono e la nazione. A
ciò lo rendevano adatto lo ingegno e il carattere; e se non vi riuscì,
deve attribuirsi a certe cagioni, a vincere le quali non era destrezza
che bastasse, e precipuamente alla follia, slealtà, ed ostinatezza del
Principe chʼegli si studiava di salvare.

Halifax disse non poche verità spiacevoli a Giacomo, ma con tal
delicatezza da meritargli la taccia dʼadulatore da parte di quegli
abietti spiriti, i quali non sanno intendere come ciò che giustamente
merita il nome di adulazione quando è diretto al potente, sia debito
dʼumanità quando si rivolge al caduto. Con mille espressioni di
simpatia e deferenza, dichiarò essere dʼavviso che il Re dovesse
oggimai apparecchiarsi a fare grandi sacrifici. Non bastava convocare
un libero Parlamento o iniziare pratiche dʼaccordo col Principe
dʼOrange. Era necessario fare ragione almeno ad alcuni deʼ torti di cui
moveva lamento la nazione, senza attendere che lo esigessero le Camere
o il Capitano dello esercito nemico. Nottingham con parole egualmente
rispettose fece eco a quelle di Halifax. Le principali concessioni
che i Lordi volevano che il Re facesse erano queste: cacciare dagli
uffici tutti i Cattolici Romani; separarsi interamente dalla Francia;
e concedere illimitata amnistia a tutti coloro che avevano prese le
armi contro lui. Pareva che intorno allʼultima di coteste concessioni
non fosse da disputare. Imperocchè, quantunque coloro che pugnavano
contro il Re avessero agito in modo da suscitargli in cuore, non
senza ragione, il più acre risentimento, era più verosimile chʼegli si
trovasse tra breve in loro balìa, che essi nella sua. Sarebbe stata
cosa puerile iniziare pratiche dʼaccordo con Guglielmo, e nello stesso
tempo riserbarsi il diritto di vendetta contro coloro che Guglielmo
non poteva senza infamia lasciare in abbandono. Ma lo intenebrato
intendimento e lʼindole implacabile di Giacomo resisterono lungamente
alle ragioni addotte da coloro che affaticavansi a convincerlo essere
opera da savio perdonare delitti chʼegli non poteva punire. «Non posso
acconsentire,» esclamò egli. «È mestieri chʼio dia degli esempi:
Churchill sopra tutti, Churchill, quel desso chʼio inalzai tanto.
Egli è la sola cagione di tanto male. Egli ha corrotta la mia armata.
Egli ha corrotta la mia figliuola. Egli mi avrebbe dato in mano al
Principe dʼOrange, se non mi avesse soccorso la mano di Dio. Milordi,
voi siete stranamente ansiosi per la salvezza deʼ traditori, e nessuno
di voi si dà il minimo pensiero della mia.» In risposta a questo
scoppio dʼira impotente, coloro i quali lo avevano esortato a concedere
lʼamnistia, gli mostrarono con profondo rispetto, ma con fermezza, che
un Principe aggredito da potenti nemici non può trovare scampo se non
nella vittoria o nella riconciliazione. «Se la Maestà Vostra, dopo ciò
che è accaduto, vede tuttavia speranza alcuna di salvezza nelle armi,
lʼopera nostra è finita: ma se non ha questa speranza, non le resta
altra àncora di salute che il riacquistare lo affetto del popolo.»
Dopo una lunga e calorosa discussione, il Re sciolse la ragunanza
dicendo: «Milordi, voi avete usata meco gran libertà di parole; ma non
me ne ho per male. Oramai mi son messo in capo una cosa, e vi rimango
irremovibile, cioè, convocherò il Parlamento. Gli altri consigli che mi
avete pôrti sono di grave momento: nè vi dee far meraviglia se innanzi
di decidere, io prendo tempo una notte a pensarvi sopra.»[545]

LXIV. Primamente Giacomo parve disposto a bene giovarsi del tempo
da lui preso a riflettere. Al Cancelliere fu fatto comandamento di
scrivere il decreto a convocare il Parlamento pel dì 13 gennaio.
Halifax fu chiamato al palazzo, ed ebbe una lunga udienza, e parlò
molto più liberamente di quello che egli aveva reputato decoroso di
fare al cospetto dʼuna numerosa assemblea. Gli fu detto dʼessere
stato nominato commissario per trattare col Principe dʼOrange. In
questo ufficio gli furono dati a compagni Nottingham e Godolphin. Il
Re dichiarò dʼessere parato a fare grandi sacrifici per amore della
pace. Halifax rispose chʼera dʼuopo farli pur troppo. «Vostra Maestà»
disse egli «non deve aspettarsi che coloro i quali hanno in mano il
potere, consentano a patti che lascino le leggi in balìa della regia
prerogativa.» Con questa distinta dichiarazione delle sue mire,
egli accettò la commissione che il Re desiderava affidargli.[546]
Le concessioni che poche ore innanzi erano state ostinatissimamente
respinte, adesso furono fatte in modo liberalissimo. Fu pubblicato
un proclama nel quale il Re non solo concedeva pieno perdono a tutti
i ribelli, ma li dichiarò elegibili al prossimo Parlamento. Nè anche
si richiedeva come condizione dʼelegibilità che dovessero porre giù
le armi. La medesima Gazzetta che annunziava la prossima ragunanza
delle Camere, conteneva la notificazione che Sir Eduardo Hales, il
quale, come papista, rinnegato e precipuo campione della potestà di
dispensare, e come duro carceriere deʼ Vescovi, era uno degli uomini
più impopolari del Regno, aveva cessato di essere Luogotenente della
Torre, e gli aveva succeduto Bevil Skelton, dianzi suo prigione, il
quale quantunque avesse poca riputazione presso i suoi concittadini,
almeno non difettava dei necessari requisiti ad occupare un pubblico
ufficio.[547]

LXV. Se non che coteste concessioni erano dirette solo ad abbacinare
i Lordi e la nazione per nascondere i veri disegni del Re. Egli aveva
secretamente deliberato, anche in quellʼora di pericolo, di non voler
cedere in nulla. Nel giorno medesimo, in cui pubblicò il proclama
dʼamnistia, spiegò pienamente le proprie intenzioni a Barillon. «Queste
pratiche dʼaccordo» disse Giacomo «sono una pretta finzione. È mestieri
chʼio mandi commissari a mio nipote, affinchè io acquisti tempo ad
imbarcare la mia moglie e il Principe di Galles. Voi conoscete gli
umori delle mie truppe. Di nessuno altro che deglʼIrlandesi io potrei
fidarmi; e glʼIrlandesi non sono in numero bastevole a resistere
allʼinimico. Il Parlamento mʼimporrebbe patti chʼio non potrei
sopportare. Sarei forzato a disfare ciò che ho già fatto a pro deʼ
Cattolici, ed a romperla col Re di Francia. E però, appena la Regina
e mio figlio saranno in salvo, partirò dalla Inghilterra e cercherò
rifugio in Irlanda, in Iscozia, o presso il vostro signore.»[548]

E già il Re aveva fatti i preparamenti bisognevoli a mandare questo
disegno ad esecuzione. Dover era stato spedito a Portsmouth con ordine
di aver cura del Principe di Galles; e a Dartmouth, che ivi comandava
la flotta, era stato ingiunto dʼobbedire a Dover in tutto ciò che
concernesse il regio infante, e di tenere prontissimo a far vela per
la Francia, appena ricevutone lʼavviso, un naviglio equipaggiato da
marinaj fedeli.[549] Il Re quindi mandò ordini positivi perchè lo
infante fosse subito condotto al più vicino porto del continente.[550]
Dopo il Principe di Galles, il primo pensiero del Re era il Gran
Sigillo. A questo simbolo della regia autorità i nostri giureconsulti
hanno sempre attribuito una quasi misteriosa importanza. Ammettono
che se il Cancelliere, senza licenza del Re, lo apponga ad un diploma
di parìa o a un decreto di grazia, quantunque ei si renda colpevole
di grave delitto, il documento non può essere posto in questione
da nessuna Corte di legge, e può essere annullato solo da un atto
parlamentare. Eʼ sembra che Giacomo paventasse che questo strumento
della sua volontà potesse cadere nelle mani deʼ suoi nemici, i quali
con esso potrebbero dare validità legale ad atti che lo avrebbero
potuto gravemente danneggiare. Nè i suoi timori sono da reputarsi
irragionevoli sempre che si rammenti che appunto cento anni più tardi
il Gran Sigillo di un Re fu adoperato, con lo assenso deʼ Lordi e deʼ
Comuni, e con lʼapprovazione di molti incliti statisti e giureconsulti,
a fine di trasferire al figliuolo le prerogative di lui. Perchè non
si facesse abuso del talismano che aveva tanto formidabile potenza,
Giacomo deliberò di tenerlo a brevissima distanza dal suo gabinetto.
Per la qual cosa ingiunse a Jeffreys di sloggiare dalla casa da lui
di recente edificata in Duke Street, e di risedere in un piccolo
appartamento di Whitehall.[551]

LXVI. Il Re aveva fatto ogni apparecchio a fuggire, allorquando un
inatteso ostacolo lo costrinse a differire la esecuzione del proprio
disegno. I suoi agenti in Portsmouth cominciarono a scrupoleggiare.
Lo stesso Dover, ancorchè fosse uno della cabala gesuitica, mostrò
segni di titubanza. Dartmouth era anche meno inchinevole ad obbedire
alle voglie del Re. Fino allora sʼera mantenuto fedele al trono, ed
aveva fatto il possibile, con una flotta disaffezionata e col vento
contrario, per impedire che gli Olandesi sbarcassero in Inghilterra;
ma era membro zelante della Chiesa stabilita, e in nessuna maniera
partigiano della politica di quel governo chʼegli si reputava tenuto,
per debito e per onore, a difendere. I torbidi umori degli ufficiali
e degli altri uomini a lui sottoposti gli recavano non poca ansietà;
ed era giunta opportuna ad alleggiargli lʼanimo la nuova della
convocazione dʼun libero Parlamento, e della nomina deʼ commissari a
trattare col Principe dʼOrange. La flotta ne fece clamoroso tripudio.
Un indirizzo onde ringraziare il Re per queste generose concessioni
fatte allʼopinione pubblica fu scritto sul bordo della nave capitana.
Lo ammiraglio fu il primo a firmare. Trentotto capitani, dopo lui, vi
apposero i loro nomi. Mentre questo documento era recato a Whitehall,
giunse a Portsmouth il messo che recava lʼordine di condurre in
sullʼistante il Principe di Galles in Francia. Dartmouth seppe,
e ne provò amaro dolore e risentimento, il libero Parlamento, la
generale amnistia, le pratiche collʼinimico, altro non essere che
parte dʼun grande inganno ordito contro la nazione, del quale inganno
egli doveva essere complice. In una patetica ed animosa lettera
dichiarò dʼavere ormai obbedito fino al punto oltre il quale ad un
protestante e ad un Inglese non era lecito andare. Porre lo erede
presuntivo della corona britannica nelle mani di Luigi sarebbe stato
niente meno che tradimento contro la monarchia; lo che avrebbe resa
furibonda la nazione della quale il Sovrano aveva pur troppo perduto
lo affetto. Il Principe di Galles non sarebbe mai più ritornato, o
ritornerebbe condotto in Inghilterra da unʼarmata francese. Ove Sua
Altezza rimanesse nellʼisola, il peggio che sarebbe potuto accadere
era di vederlo educare in seno alla Chiesa nazionale; e chʼegli fosse
siffattamente educato doveva essere il desiderio dʼogni suddito leale.
Dartmouth concludeva dichiarandosi pronto a rischiare la propria vita
per la difesa del trono, ma protestava di non volere partecipare al
trasferimento del Principe in Francia.[552]

Questa lettera sconcertò tutti i disegni di Giacomo. Sʼaccôrse,
inoltre, di non potere in questa circostanza aspettarsi obbedienza
passiva dal suo ammiraglio: imperocchè Dartmouth era giunto fino a
porre parecchie scialuppe alla bocca del porto di Portsmouth con ordine
di non lasciar passare nessun legno senza prima esaminarlo. Era quindi
necessario fare altri provvedimenti; era mestieri condurre il bambino a
Londra, e da quivi mandarlo in Francia. A far ciò bisognava passassero
alcuni giorni. Frattanto era dʼuopo lusingare il popolo con la speranza
dʼun libero Parlamento e con la simulazione di trattare col Principe
dʼOrange. Furono quindi spediti i decreti per le elezioni. I trombetti
andavano e venivano dalla metropoli al quartiere generale degli
Olandesi. Infine giunsero i salvocondotti pei tre Commissari regi, i
quali partirono pel campo nemico.

LXVII. Lasciarono Londra tremendamente agitata. Le passioni che pel
corso di tre anni di perturbazioni, sʼerano gradualmente rinvigorite,
adesso, libere da ogni freno di timore, e stimolate dalla vittoria e
dalla simpatia, mostravansi senza maschera perfino dentro la reggia.
I Gran Giurati di Middlessex pronunciarono un atto dʼaccusa contro
il Conte di Salisbury per avere abbracciato il papismo.[553] Il Lord
Gonfaloniere ordinò che le case deʼ cattolici romani nella Città
venissero perquisite onde vedere se contenessero armi. La plebaglia
irruppe nellʼabitazione di un rispettabile mercatante cattolico, per
sincerarsi sʼegli avesse scavata una mina dalla sua cantina fino
alla chiesa parrocchiale onde far saltare in aria il parroco e i
congregati.[554] I merciaioli per le vie gridavano vendendo satire
contro Padre Petre, il quale sʼera sottratto, e non quando era ancor
tempo, dal suo appartamento in palazzo.[555] La celebre canzone di
Wharton con molti versi aggiunti cantavasi più che mai ad alta voce in
tutte le strade della metropoli. Le stesse sentinelle che guardavano
il palazzo cantavano sotto voce: «GlʼInglesi bevono a confusione del
Papismo, _Lillibullero bullen a la_.» Le tipografie clandestine di
Londra lavoravano senza posa. Molti fogli correvano giornalmente per la
città, nè i magistrati avevano modo o non volevano scoprire per quali
mezzi.

LXVIII. Uno di questi scritti hanno salvato dallʼoblio la singolare
audacia onde era composto e lo immenso effetto che produsse. Simulava
dʼessere un supplemento al Manifesto del Principe dʼOrange, scritto di
suo pugno e munito del suo sigillo: ma lo stile era molto diverso da
quello del Manifesto vero. Minacciava vendetta, senza riguardo alle
costumanze deʼ popoli inciviliti e cristiani, contro tutti quei papisti
che osassero parteggiare pel Re. Verrebbero trattati non come soldati
o gentiluomini, ma come predoni. La ferocia e licenza dellʼarmata
degli invasori che una vigorosa mano aveva fino allora rattenuti,
sarebbe lasciata senza freno contro i papisti. I buoni protestanti, e
in ispecie coloro che abitavano nella metropoli, venivano esortati,
a nome di quanto avevano di più caro al mondo, e comandati, sotto
pena dello sdegno del Principe, a prendere, disarmare e condurre in
carcere i Cattolici loro vicini. Dicesi che questo documento una
mattina fosse trovato da un libraio Whig allʼuscio della sua bottega.
Affrettossi a stamparlo. Molti esemplari ne furono spediti per la
posta e corsero rapidamente per le mani di tutti. Gli uomini savi
non esitarono a reputarlo scrittura foggiata da qualche irrequieto e
immorale avventuriere della razza di coloro che nei tempi torbidi sono
sempre pronti ad eseguire i più vili e tenebrosi uffici delle fazioni.
Ma la moltitudine restò presa allʼamo. E veramente a tal punto era
stato concitato il sentimento nazionale e religioso contro i papisti
irlandesi, che la maggior parte di coloro, i quali non reputavano
autentico quello scritto spurio, inclinavano ad applaudirlo come
opportuno esempio di energia. Come si seppe che Guglielmo non ne era lo
autore, tutti interrogavansi a vicenda chi fosse lo impostore che con
tanta audacia e tanto effetto aveva presa la maschera di Sua Altezza.
Alcuni sospettarono di Ferguson, altri di Johnson. Finalmente dopo
ventisette anni Ugo Speke confessò dʼaverlo egli composto, e chiese
alla Casa di Brunswick una rimunerazione per avere reso alla religione
protestante un così segnalato servigio. Asserì, col tono di chi creda
avere fatto cosa eminentemente virtuosa ed onorevole, che quando
la invasione olandese aveva gettato Whitehall nella costernazione,
egli sʼera profferto alla Corte, e simulando rottura coʼ Whig, aveva
promesso di spiarne i passi; che con tale mezzo era stato ammesso al
cospetto del Re, aveva giurato fedeltà, gli era stata promessa pecunia
in gran copia, e sʼera procurato deʼ segnali con che poteva andare e
venire nel campo nemico. Protestò di avere fatte tutte coteste cose col
solo scopo di avventare senza sospetto un colpo mortale al Governo, e
far nascere nel popolo un violento scoppio di sdegno contro i Cattolici
Romani. Disse che il falso Manifesto era uno deʼ mezzi da lui divisati:
ma è da dubitare se le sue pretensioni fossero bene fondate. Imperocchè
indugiò tanto a dirlo da farci ragionevolmente sospettare chʼegli
aspettasse la morte di chi poteva contradirgli; oltrechè non addusse
altra testimonianza che la propria asserzione.[556]

LXIX. Mentre le cose sopra narrate succedevano in Londra, ogni corriere
postale da tutte le parti del Regno recava la notizia di qualche
novella insurrezione. Lumley aveva presa Newcastle. Gli abitatori lo
avevano accolto con gioia. La statua del Re, che sorgeva sopra un
alto piedistallo di marmo, era stata rovesciata e gettata nel Tyne.
Fu lungamente serbata in Hull la memoria del 3 dicembre, come giorno
della presa della città. Vʼera un presidio sotto il comando di Lord
Langdale cattolico romano. Gli ufficiali protestanti concertarono colla
magistratura un piano dʼinsurrezione: Langdale e i suoi fautori furono
arrestati; e i soldati e i cittadini si congiunsero a favore della
religione protestante e dʼun libero Parlamento.[557]

Le contrade orientali erano anche esse insorte. Il Duca di Norfolk,
seguito da trecento gentiluomini bene armati a cavallo, comparve
nella vasta piazza di mercato in Norwich. Il Gonfaloniere e gli
Aldermanni corsero a lui e promisero di collegarsi con lui contro il
papismo e la tirannide.[558] Lord Herbert di Cherbury e Sir Eduardo
Harley presero le armi nella Contea di Worchester.[559] Bristol,
seconda città del reame, aprì le sue porte a Shrewsbury. Il Vescovo
Trelawney, il quale nella Torre aveva disimparato affatto la dottrina
della non resistenza, fu il primo a far plauso alla venuta delle
truppe del Principe. Siffatti erano gli umori degli abitanti, che non
sʼera creduto necessario lasciare fra loro una guarnigione.[560] La
popolazione di Gloucester insorse e liberò di prigione Lovelace, il
quale si vide tosto raccogliere dintorno unʼarmata irregolare. Alcuni
deʼ suoi cavalieri avevano semplici cavezze invece di briglie. Molti
deʼ suoi fanti per tuttʼarme avevano bastoni. Ma queste schiere,
comunque si fossero, marciarono senza contrasto traverso alle Contee
già sì fide alla Casa Stuarda, e infine entrarono trionfanti in Oxford.
Corsero loro incontro solennemente i magistrati. La stessa Università,
esasperata dagli oltraggi dianzi sostenuti, era poco inchinevole a
disapprovare la ribellione. Già alcuni deʼ capi dei Collegi avevano
spedito un loro rappresentante per riferire al Principe dʼOrange che
essi di tutto cuore erano per lui, e pronti a fondere, ove bisognasse,
le loro argenterie. Per lo che il condottiero Whig cavalcò per la città
principale deʼ Tory fra le acclamazioni universali. Lo precedevano
i tamburi sonando il Lillibullero. Gli teneva dietro una vasta onda
di cavalli e di fanti. Tutta High Street era parata con drappi color
dʼarancio, imperocchè questo colore aveva già il doppio significato,
che dopo centosessanta anni serba tuttavia, voglio dire per lo Inglese
protestante era emblema di libertà civile e religiosa, pel Celta
cattolico era simbolo di persecuzione e servaggio.[561]

LXX. Mentre da ogni lato sorgevano nemici attorno al Re, gli amici
sollecitamente lo abbandonavano. La idea della resistenza era divenuta
famigliare a ciascuno. Molti che mostraronsi inorriditi allorchè ebbero
la nuova delle prime diserzioni, adesso rimproveravano sè stessi
dʼessere stati così lenti a conoscere il tempo. Non vʼera più ostacolo
o periglio ad accorrere a Guglielmo. Il Re, chiamando la nazione
ad eleggere i rappresentanti al Parlamento, aveva implicitamente
autorizzato ognuno a recarsi dove avesse voti o interessi; e molti di
queʼ luoghi erano già occupati daglʼinvasori o dagli insorti. Clarendon
ardentemente colse il destro di abbandonare il già cadente Sovrano.
Sapeva dʼaverlo mortalmente offeso col suo discorso in Consiglio: e
si sentì mortificato non vedendosi nominare per uno deʼ tre regii
Commissari. Egli aveva deʼ possessi nel Wiltshire. Deliberò di portare
candidato per quella Contea il proprio figlio, quel desso della cui
condotta egli aveva dianzi sentito dolore ed orrore; e sotto pretesto
di badare alla elezione partì per il paese occidentale. Tosto gli
tennero dietro il Conte dʼOxford, ed altri i quali fino allora avevano
protestato di non avere nissuna relazione con la intrapresa del
Principe.[562]

Verso questo tempo glʼinvasori, regolarmente, comechè con lentezza,
procedendo, trovavansi a settanta miglia da Londra. Quantunque il
verno fosse quasi a mezzo, il tempo era bello, il cammino piacevole;
e i piani di Salisbury sembravano prati amenissimi a loro che sʼerano
affannati traverso alle fangose rotaje degli stradali di Devonshire
e di Somersetshire. Lʼarmata procedeva accanto a Stonehenge, e
i reggimenti, lʼuno dopo lʼaltro, stavansi a contemplare quelle
misteriose rovine, famose per tutto il continente, come la più grande
maraviglia della nostra isola. Guglielmo entrò in Salisbury con la
stessa pompa militare con cui era entrato in Exeter, ed alloggiò nel
palazzo, pochi giorni innanzi occupato dal Re.[563]

Quivi al suo corteo si aggiunsero i Conti di Clarendon e dʼOxford
ed altri cospicui personaggi, i quali fino a pochi giorni avanti
erano considerati zelanti realisti. Van Citters arrivò anche egli al
quartiere generale degli Olandesi. Per parecchie settimane egli era
stato quasi prigione nella sua casa presso Whitehall, di continuo
sorvegliato da spie che sʼavvicendavano senza perderlo dʼocchio un
istante. Nondimeno, malgrado le spie, o forse per mezzo loro, gli era
venuto fatto di sapere esattamente ciò che succedeva in palazzo; e
adesso bene e copiosamente edotto degli uomini e delle cose, giunse al
campo a giovare le deliberazioni di Guglielmo.[564]

Fino a questo punto la impresa del Principe era proceduta prosperamente
oltre le speranze deʼ più ardenti suoi fautori. E adesso, secondo la
legge universale che governa le cose umane, la prosperità cominciò a
produrre la disunione. GlʼInglesi raccolti in Salisbury si scissero
in due partiti. Lʼuno era composto di Whig, i quali avevano sempre
considerato le dottrine della obbedienza passiva e dello incancellabile
diritto ereditario come superstizioni servili. Molti di loro avevano
passato degli anni in esilio; tutti erano stati esclusi daʼ favori
della Corona. Adesso esultavano vagheggiando vicinissimo il giorno
della grandezza e della vendetta. Ardenti di sdegno, inebriati di
vittoria e di speranza, non volevano udire a parlare di patti.
Nullʼaltro fuorchè la detronizzazione del loro nemico gli avrebbe
contentati: nè può negarsi che, ciò volendo, fossero a sè medesimi
perfettamente coerenti. Nove anni innanzi avevano fatto ogni sforzo per
escluderlo dal trono, perchè credevano chʼegli sarebbe verosimilmente
stato cattivo Re. E però non era da sperarsi che lo lascerebbero
volentieri sul trono dopo che lo avevano sperimentato Re oltre ogni
ragionevole preveggenza cattivissimo.

Dallʼaltro canto non pochi deʼ fautori di Guglielmo erano Tory
zelanti, i quali fino allora avevano professata la dottrina della
non resistenza nella forma più assoluta, ma la cui fede in cotesta
dottrina per un istante aveva ceduto alle irruenti passioni eccitate
dalla ingratitudine del Re e dal pericolo della Chiesa. Per un vecchio
Cavaliere non vʼera condizione più tormentosa che quella di impugnare
le armi contro il trono. Gli scrupoli che non gli avevano impedito
dallo accorrere al campo degli Olandesi cominciarono, appena vi giunse,
a straziargli crudelmente la coscienza, la quale lo faceva dubitare
di avere commesso un delitto. In ogni evento sʼera reso meritevole di
rimprovero operando in diretta opposizione ai principii di tutta la
sua vita. Sentiva invincibile avversione pei suoi nuovi collegati,
gente, per quanto egli potesse rammentarsi, da lui sempre ingiuriata
e perseguitata, cioè Presbiteriani, Indipendenti, Anabattisti, vecchi
soldati di Cromwell, bravi di Shaftsbury, congiurati di Rye House,
capitani della Insurrezione delle contrade occidentali. Naturalmente
desiderava trovare qualche scusa che gli ponesse in pace la coscienza,
lo liberasse dalla taccia dʼincoerenza, e stabilisse una distinzione
tra lui e la folla deʼ ribelli scismatici, da lui sempre spregiati e
aborriti, ma coi quali egli adesso correva pericolo dʼessere confuso.
Per le quali cose protestava fervidamente contro ogni pensiero di
strappare la corona da quella cervice resa sacra dal volere di Dio e
dalle leggi del Regno. Il suo più caldo desiderio era di vedere una
riconciliazione a patti non indecorosi alla dignità regia. Egli non
era traditore; e a dir vero non opponeva resistenza allʼautorità del
Sovrano. Era corso alle armi perchè egli era convinto che il miglior
servizio che si potesse rendere al trono era quello di redimere con una
lievissima coercizione la Maestà Sua dalle mani deʼ pessimi consiglieri.

I mali, che la vicendevole animosità di queste fazioni tendeva a far
nascere, furono in gran parte scansati per lʼautorità e saggezza del
Principe. Circuito da ardenti disputatori, officiosi consiglieri,
abietti adulatori, spie vigilanti, maligni ciarlieri, rimaneva sempre
tranquillo senza che altri potesse leggergli nel cuore. Potendo,
taceva; costretto a parlare, il tono serio e imperioso con che
significava le sue bene ponderate opinioni, faceva tosto ammutolire
chiunque. Qualsivoglia cosa dicessero i suoi troppo zelanti fautori,
ei non profferì mai verbo che desse il minimo sospetto di ambire
alla corona dʼInghilterra. Senza dubbio ben si accorgeva che fra
lui e quella corona esistevano tuttavia parecchi ostacoli, i quali
nessuna prudenza avrebbe potuto vincere, e potevano ad un solo passo
falso diventare insormontabili. La sola probabilità chʼegli avesse
di ottenere quello splendido premio non istava nello impossessarsene
ruvidamente, ma nello aspettare fino a tanto che senza la minima
apparenza di sforzo e dʼastuzia lo conducessero al suo arcano scopo
la forza delle circostanze, gli errori deʼ suoi avversari, e la
libera elezione dei tre Stati del reame. Coloro che provaronsi
dʼinterrogarlo, non riuscirono a saper nulla, e nondimeno non
poterono accusarlo di simulazione. Egli tranquillamente li rimandava
al suo Manifesto, assicurandoli che le sue mire non erano cangiate
da poi che era stato scritto quel documento. Con tanta espertezza
governava gli animi dei suoi partigiani, che pare la loro discordia gli
rafforzasse, anzichè indebolirgli il braccio: ma la discordia scoppiava
violentissima appena sottraevansi al freno di lui, sturbava lʼarmonia
deʼ conviti, e non rispettava nè anche la santità della casa di Dio.
Clarendon, il quale si studiava di nascondersi agli occhi altrui e a
quelli della propria coscienza, affettando con ostentazione sentimenti
di lealtà—prova manifesta della sua ribellione—raccapricciò vedendo
alcuni deʼ suoi colleghi col bicchiere in mano schernire lʼamnistia
che il Re generosamente aveva offerta loro. Dicevano non aver bisogno
di perdono: ma innanzi di finire, volevano ridurre il Re a domandare
perdono a loro. Anche maggiormente impaurì e disgustò ogni buon Tory un
fatto che accadde nella cattedrale di Salisbury. Appena il ministro che
officiava cominciò a leggere la preghiera pel Re, Burnet, il quale fra
i molti suoi pregi non annoverava la facoltà di sapere frenarsi e il
senso delicato delle convenevolezze, essendo in ginocchioni, si alzò,
si assise nel proprio stallo, e profferì alcune sprezzanti parole che
sturbarono le divozioni degli astanti.[565]

In breve le fazioni, onde era diviso il campo regio, ebbero occasione
a misurare le proprie forze. I Commissari del Re erano già in viaggio.
Erano corsi vari giorni dopo la loro nomina; e reputavasi strano che
in un caso cotanto urgente indugiassero sì lungamente ad arrivare.
Ma in verità nè Giacomo nè Guglielmo desideravano che le pratiche
speditamente sʼiniziassero; imperocchè lʼuno bramava solo di acquistare
il tempo bastevole a mandare in Francia la moglie e il figliuolo;
e la posizione dellʼaltro si faceva ognora più vantaggiosa. Infine
il Principe fece annunziare ai Commissari che gli avrebbe ricevuti
in Hungerford. Probabilmente scelse questo luogo, perchè, ad uguale
distanza da Salisbury e da Oxford, era bene adattato per un convegno
deʼ suoi più importanti fautori. In Salisbury erano quei nobili e
gentiluomini che lo avevano accompagnato da Olanda od erano corsi a
trovarlo nelle contrade occidentali; ed in Oxford erano molti deʼ capi
della insurrezione del paese settentrionale.

LXXI. In sul tardi, giovedì 6 dicembre, giunse a Hungerford. La
piccola città fu tosto ripiena di persone dʼalto grado e notevoli che
vi accorrevano da diverse parti. Il Principe era scortato da un forte
corpo di truppe. I Lordi del settentrione conducevano seco centinaia di
cavalieri irregolari, il cui equipaggio e modo di cavalcare moveva a
riso coloro chʼerano assuefatti allo splendido aspetto ed agli esatti
movimenti delle armate regolari.[566]

Mentre il Principe rimaneva in Hungerford ebbe luogo un accanito
scontro tra dugentocinquanta deʼ suoi e seicento Irlandesi che erano
appostati in Reading. Glʼinvasori in questo fatto fecero bella prova
della superiorità della loro disciplina. Comechè fossero molto
inferiori di numero, essi al primo assalto sgominarono le regie
milizie, le quali corsero giù per le strade fino alla piazza di
mercato. Quivi glʼIrlandesi tentarono di riordinarsi; ma vigorosamente
aggrediti di fronte, mentre gli abitanti facevano fuoco dalle finestre
delle case circostanti, tosto scoraronsi, e fuggirono perdendo la
bandiera e cinquanta uomini. Dei vincitori solo cinque caddero morti.
Ne gioirono tutti ugualmente i Lordi e i Gentiluomini che seguivano
Guglielmo; perocchè in quel fatto non accadde nulla che offendesse il
sentimento nazionale. Gli Olandesi non avevano vinto glʼInglesi, ma
avevano soccorsa una città inglese a liberarsi dalla insopportabile
dominazione deglʼIrlandesi.[567]

La mattina del sabato, 8 dicembre, i commissari del Re giunsero a
Hungerford. Le Guardie del Corpo del Principe schieraronsi a riceverli
con gli onori militari. Bentinck li accolse e propose loro di condurli
immediatamente al cospetto del suo signore. Manifestarono la speranza
che il Principe volesse accordar loro una udienza privata; ma fu loro
risposto chʼegli era deliberato di ascoltarli e rispondere in pubblico.
Furono introdotti nella sua camera da letto, dove lo trovarono fra
mezzo a una folla di nobili e di gentiluomini. Halifax, cui il grado,
la età, lʼabilità davano il diritto di precedenza, prese a favellare.
La proposta che i Commissari avevano ordine di fare era, che i punti
di controversia fossero portati dinanzi al Parlamento, a convocare
il quale già si stavano suggellando i decreti, e che in quel mentre
lʼarmata del Principe si fermasse a trenta o quaranta miglia lontano
da Londra. Halifax dopo dʼaver detto che questa era la base sopra cui
egli e i suoi colleghi erano apparecchiati a trattare, pose nelle mani
di Guglielmo una lettera del Re, e prese commiato. Guglielmo, schiusa
la lettera, parve oltre lʼusato commuoversi. Era la prima che ricevesse
dal suocero dopo che erano in aperta rottura. Un tempo erano stati
in buone relazioni e familiarmente carteggiavano; nè anco dopo che
entrambi avevano cominciato a sospettarsi ed aborrirsi vicendevolmente
sʼerano astenuti nelle loro lettere da quelle forme di cortesia che
comunemente adoperano le persone strettamente congiunte coʼ vincoli
del sangue e del matrimonio. La lettera recata daʼ Commissari era
scritta da un segretario in forma diplomatica e in lingua francese.
«Ho avute molte lettere del Re,» disse Guglielmo, «ma tutte sempre in
inglese e scritte di suo pugno.» Favellò con una sensibilità chʼegli
era poco assuefatto a mostrare. Forse in quello istante pensava
quanto rimprovero dovesse arrecare a lui e alla consorte, così a
lui affettuosa, la sua intrapresa, comechè fosse giusta, benefica e
necessaria. Forse rammaricavasi della durezza del destino, il quale
lo aveva ridotto a una condizione tale chʼei non poteva adempiere ai
suoi doveri pubblici senza frangere i domestici vincoli, e invidiava lo
avventuroso stato di coloro che non sono responsabili della salvezza
delle nazioni e delle Chiese. Ma siffatti pensieri, se pure gli sorsero
in mente, ei fermamente represse. Esortò i Lordi e i Gentiluomini,
da lui convocati in questa occasione, a consultare insieme, senza lo
impaccio della sua presenza, intorno alla risposta da farsi al Re.
Riserbossi non per tanto la potestà della decisione finale dopo avere
ascoltati i loro consigli. Quindi lasciolli, e si ritirò a Littlecote
Hall, magione rurale giacente a circa due miglia di distanza, e famosa
fino ai tempi nostri non tanto per la sua veneranda architettura e i
suoi begli arredi, quanto per un orribile e misterioso delitto ivi
commesso neʼ tempi dei Tudor.[568]

Innanzi che si allontanasse da Hungerford gli fu detto che Halifax
aveva desiderato di abboccarsi con Burnet. In questo desiderio non
era nulla di strano; imperocchè Halifax e Burnet avevano da lungo
tempo avuto relazioni dʼamicizia. E per vero dire non vʼerano due
uomini che così poco si rassomigliassero. Burnet era estremamente
privo di delicatezza e di tatto. Halifax aveva delicatissimo gusto,
e fortissima tendenza al dileggio. Burnet mirava ogni azione ed ogni
carattere traverso a uno strumento scontorto e colorato dallo spirito
di parte. La mente di Halifax inchinava a scoprire i falli deʼ suoi
colleghi più presto che quelli degli avversari. Burnet, non ostante le
sue debolezze e le vicissitudini dʼuna vita passata in circostanze non
molto favorevoli alla pietà, era uomo sinceramente pio. Lo scettico
e satirico Halifax aveva taccia dʼincredulo. Halifax quindi aveva
spesso provocato la sdegnosa censura di Burnet; e Burnet era spesso
lo zimbello deʼ pungenti e gentili scherzi di Halifax. Nondimeno
lʼuno sentivasi vicendevolmente attirato verso lʼaltro, ne amava il
conversare, ne pregiava lʼabilità, liberamente ricambiava le opinioni
e i buoni uffici in tempi pericolosi. Nondimeno Halifax adesso non
desiderava rivedere il suo vecchio conoscente soltanto per riguardi
personali. I Commissari erano di necessità ansiosi di sapere quale
fosse il vero scopo del Principe. Aveva loro ricusato un colloquio
privato; e poco poteva raccogliersi da ciò chʼegli potesse dire in
una pubblica udienza. Quasi tutti i suoi confidenti erano uomini al
pari di lui taciturni e impenetrabili. Il solo Burnet era ciarliero e
indiscreto. E nondimeno le circostanze avevano fatto nascere il bisogno
di fidarsi di lui; e Halifax con la sua squisita destrezza gli avrebbe
indubitatamente tratto dalla bocca i secreti, agevolmente come le
parole. Guglielmo sapeva tutto questo, e come gli fu detto che Halifax
andava in cerca del dottore, non potè frenarsi dallo esclamare: «Se si
uniranno insieme, eʼ vi sarà un bel pettegolezzo.» A Burnet fu inibito
di vedere i Commissari in privato; ma con parole cortesissime gli fu
detto che il Principe non aveva il più lieve sospetto della fedeltà
di lui; e perchè non vi fosse cagione a dolersene, la inibizione fu
generale.

LXXII. Quel dì i nobili e i gentiluomini, ai quali Guglielmo aveva
chiesto consiglio, adunaronsi nella gran sala del principale albergo
di Hungerford. Oxford presedeva, e le proposte del Re furono prese
in considerazione. Tosto si conobbe che lʼassemblea era divisa in
due partiti, lʼuno deʼ quali era bramoso di venire a patti col Re,
lʼaltro ne voleva la piena rovina; ed erano i più. Ma fu notato che
Shrewsbury, il quale a preferenza di tutti i Nobili dʼInghilterra
supponevasi godere la confidenza di Guglielmo, quantunque fosse Whig,
in questa occasione era coi Tory. Dopo molto contendere fu formulata
la questione. La maggioranza opinò doversi rigettare le proposte
che i regii Commissari avevano ordine di fare. La deliberazione
dellʼassemblea fu recata al Principe in Littlecote. In nessunʼaltra
circostanza per tutto il corso della sua fortunosa vita egli mostrò
maggiore prudenza e ritegno. Non poteva volere la buona riuscita dello
accordo. Ma era tanto savio da conoscere, che ove le pratiche andassero
a vuoto per cagione delle sue irragionevoli pretese, ei perderebbe il
pubblico favore. E però, vinta la opinione deʼ suoi ardenti fautori,
si dichiarò deliberatissimo a trattare sopra le basi proposte dal Re.
Molti dei Lordi e dei Gentiluomini radunati in Hungerford rimostrarono:
litigarono un intero giorno: ma Guglielmo rimase incrollabile nel suo
proposito. Dichiarò di volere porre ogni questione nelle mani del
Parlamento pur allora convocato, e di non procedere oltre a quaranta
miglia da Londra. Dal canto suo fece certe domande che anche i meno
inchinevoli a lodarlo reputarono moderate. Insistè perchè gli statuti
vigenti rimanessero in vigore finchè venissero riformati dallʼautorità
competente, e perchè chiunque occupasse un ufficio senza i requisiti
legali fosse quinci innanzi destituito. Dirittamente pensava che le
deliberazioni del Parlamento non potevano procedere libere, se dovesse
aprirsi circondato dai reggimenti irlandesi, mentre egli e la sua
armata rimanevano lontani di parecchie miglia. Per lo che reputava
necessario che, dovendo le sue truppe rimanersi a quaranta miglia da
Londra dalla parte occidentale, le truppe del Re si dovessero ritirare
ad uguale distanza dalla parte orientale. In tal guisa rimaneva attorno
al luogo, dove le Camere dovevano adunarsi, un ampio cerchio di terreno
neutrale, dentro cui erano due fortezze di grande importanza per la
popolazione della metropoli; la Torre cioè, che signoreggiava le
abitazioni, e Tilbury Fort che signoreggiava il commercio marittimo.
Era impossibile lasciare questi due luoghi senza presidio. Guglielmo
quindi propose che temporaneamente venissero affidati alla Città di
Londra. Sarebbe forse convenevole, che il Re, apertosi il Parlamento,
se ne andasse a Westminster con un corpo di guardie. In questo caso il
Principe voleva il diritto di andarvi anchʼegli con un eguale numero di
soldati. Parevagli giusto, che, mentre rimanevano sospese le operazioni
militari, ambedue le armate si considerassero come ai servigi della
nazione inglese, e fossero pagate dallʼentrate dellʼInghilterra. Da
ultimo richiese alcune guarentigie perchè il Re non si giovasse dello
armistizio per introdurre forze francesi nellʼisola. Il punto di
maggior pericolo era Portsmouth. Il Principe non insisteva che gli
venisse data nelle mani questa importante fortezza, ma propose che,
durante la tregua, fosse affidata al comando dʼun ufficiale meritevole
della fiducia sua e di Giacomo.

Le proposte di Guglielmo erano espresse con la dilicata equità
convenevole meglio a un arbitro disinteressato il quale profferisca un
giudizio, che ad un principe vittorioso il quale imponga condizioni
ad un disastrato nemico. I partigiani del Re non ebbero nulla a
ridire. Ma fraʼ Whig nacquero assai mormorazioni. Dicevano non volere
riconciliazione col loro vecchio signore; reputarsi sciolti da ogni
vincolo di fedeltà; non essere disposti a riconoscere lʼautorità dʼun
Parlamento convocato con decreto di lui. Aggiungevano chʼessi non
volevano armistizio, e non poteano intendere, che dovendo esservi
un armistizio, fosse da concludersi a patti uguali. Per virtù di
tutte le leggi della guerra il più forte aveva diritto a giovarsi
della propria forza; e nella indole di Giacomo vʼera egli nulla
che giustificasse una tanto estraordinaria indulgenza? Coloro che
siffattamente ragionavano, ben poco conoscevano da quale altezza e con
che occhio veggente il condottiero da essi biasimato contemplasse la
intera situazione della Inghilterra e dellʼEuropa. Anelavano a rovinare
Giacomo, e però avrebbero voluto o ricusare di trattare con essolui a
patti uguali, o imporgli condizioni insopportabilmente dure. Perchè il
vasto e profondo disegno politico di Guglielmo non patisse detrimento
era necessario che Giacomo ruinasse al precipizio, rigettando
condizioni così ostentatamente liberali. Lʼesito delle cose provò la
saviezza deʼ provvedimenti che la maggioranza degli Inglesi ragunati in
Hungerford era inchinevole a condannare.

La domenica, 9 dicembre, le domande del Principe furono poste in
iscritto e consegnate a Halifax. I Commissari desinarono in Littlecote,
dove una splendida assemblea era stata invitata a incontrarli. Lʼantica
sala, dalle cui pareti pendevano armature che avevano veduto la guerra
delle Rose, e ritratti deʼ valorosi che erano stati ornamento della
corte di Filippo e di Maria, era adesso ripiena di Pari e di Generali.
In tanta folla potevano ricambiarsi brevi dimande e risposte senza
farsi scorgere. Halifax colse il destro che gli si offrì primo, per
conoscere ciò che Burnet sapeva o pensava. «Che intendete di fare?»
chiese lo accorto diplomatico. «Desiderate di avere il Re nelle vostre
mani?»—«Niente affatto» rispose Burnet; «non vogliamo fare il minimo
male alla sua persona.»—«E ove se ne andasse?» soggiunse Halifax.
«Non potremmo desiderare nulla di meglio» disse Burnet. Non vʼè dubbio
che Burnet, così favellando, esprimesse la opinione universale deʼ
Whig nel campo del Principe. Tutti bramavano che Giacomo fuggisse
dal paese: ma solo pochi deʼ più savi tra loro intendevano di quanta
importanza fosse che la sua fuga venisse attribuita dalla nazione alla
insania e ostinatezza di lui, e non ai duri trattamenti e a ben fondati
timori. Eʼ pare probabile che anche negli estremi cui egli era adesso
ridotto, tutti i suoi nemici congiunti insieme non lʼavrebbero potuto
rovesciare, qualora egli non fosse stato il peggiore nemico di sè
stesso: ma mentre i suoi Commissari affaticavansi a salvarlo, egli con
ogni studio cercava di rendere vani gli sforzi loro.[569]

I suoi disegni infine erano maturi per la esecuzione. Le pretese
pratiche avevano risposto allo intento. Nel dì stesso in cui i
tre Lordi giunsero a Hungerford, il Principe di Galles arrivò a
Westminster. Avevano provveduto che passasse pel Ponte di Londra; ed
alcune legioni irlandesi gli erano state spedite incontro a Southwark;
ma vennero accolte da una gran folla di popolo con tale tempesta di
fischi e di maledizioni, che esse reputarono prudente con tutta fretta
ritirarsi. La povera creatura passò il Tamigi a Kingston, e fu condotta
a Whitehall con tanta secretezza che molti la credevano tuttavia a
Portsmouth.[570]

LXXIII. Adesso il primo pensiero di Giacomo era quello di mandare il
figlio e la moglie senza indugio fuori del Regno. Ma di chi fidarsi per
eseguire la fuga? Dartmouth era il più leale deʼ Tory protestanti; e
Dartmouth aveva ricusato. Dover era creatura deʼ Gesuiti: e anche Dover
aveva esitato. Non era assai facile trovare un Inglese dʼalto grado ed
onore il quale si togliesse lo incarico di porre nelle mani del Re di
Francia lo erede presuntivo della Corona dʼInghilterra.

In queste circostanze Giacomo pose gli occhi sopra un gentiluomo
francese il quale allora dimorava in Londra, cioè Antonio Conte di
Lauzun. È stato detto che la vita di costui fosse più strana dʼun
sogno. Neʼ suoi giovani anni era stato intimo collega di Luigi, ed
aveva avuta speranza deʼ più alti impieghi sotto la Corona francese.
Poi la fortuna volse la sua ruota. Luigi aveva con amari rimproveri
allontanato da sè lo amico della sua giovinezza, e, dicesi, poco mancò
non lo schiaffeggiasse. Il caduto cortigiano era stato rinchiuso in
una fortezza: ma ne era uscito, aveva riacquistata la grazia del suo
signore, ed acceso il cuore ad una delle più grandi dame dʼEuropa,
cioè Anna Maria, figlia di Gastone Duca dʼOrleans, nipote del Re Enrico
IV, ed erede delle immense possessioni della Casa di Monpensier. I due
amanti si volevano congiungere in matrimonio, che fu assentito dal
Re. Per poche ore Lauzun fu considerato in Corte come membro adottivo
della famiglia Borbone. La dote della Principessa poteva essere ambita
anche da un Sovrano: tre grandi ducati, un principato indipendente
con zecca e tribunali, ed una rendita superiore a quella del Regno di
Scozia. Ma tanto splendido apparato in un istante svanì. Gli sponsali
furono rotti. Lo amante per molti anni visse rinchiuso in un castello
sulle Alpi. In fine Luigi divenne più mite. A Lauzun fu inibito di
comparire al cospetto del Re, ma gli venne data libertà, lontano dalla
Corte. Visitò la Inghilterra, e fu bene accolto da Giacomo e dal ceto
elegante di Londra: imperciocchè in quel tempo i gentiluomini francesi
venivano reputati per tutta Europa modelli di squisita educazione: e
molti Cavalieri e Visconti, i quali non erano mai stati ammessi al
cerchio di Versailles, erano oggetto di curiosità e di ammirazione
in Whitehall. Lauzun quindi nelle presenti circostanze era lʼuomo
opportuno. Aveva animo e sentimento dʼonore, era assuefatto a strane
avventure, e con lʼacutezza di mente e lo ironico dileggio dʼun compìto
uomo di mondo aveva forte propensione a farla da cavaliere errante.
Lo amore di patria e i propri interessi lo persuadevano a addossarsi
una commissione, dalla quale tutti i più fedeli sudditi della Corona
inglese parevano aborrire. Come custode, in un pericoloso momento,
della Regina della Gran Bretagna e del Principe di Galles, poteva
onorevolmente ritornare al paese natio; e forse verrebbe nuovamente
ammesso a vedere Luigi vestirsi e desinare, e dopo tante vicende, nel
volgere degli anni suoi, si rimetterebbe forse in via di riacquistare
con istrana guisa il regio favore.

Spinto da tali sentimenti Lauzun con ardore accettò lʼalto incarico
propostogli. Gli apparecchi per la fuga si fecero sollecitamente:
fu ordinato che una nave stesse pronta a Gravesend: ma giungere a
Gravesend non era agevole cosa. La città era in estremo concitamento.
La minima cagione bastava a fare ragunare il popolo. Nessun forestiero
poteva mostrarsi per le vie senza timore dʼessere fermato, interrogato,
e condotto dinanzi a un magistrato come fosse gesuita travestito. Era
quindi necessario prendere la via lungo la sponda meridionale del
Tamigi. Non fu trascurata nessuna cautela a evitare ogni sospetto. Il
Re e la Regina, secondo il consueto modo, ritiraronsi per riposare.
Quando per qualche tempo fu quiete universale in palazzo, Giacomo
levatosi chiamò uno deʼ suoi servitori dicendogli; «Troverete un
uomo alla porta dellʼanticamera; conducetelo a me.» Il servo obbedì,
e Lauzun fu introdotto nella stanza del regio talamo. «Affido a
voi» disse Giacomo «la Regina e mio figlio; bisogna porre a rischio
ogni cosa per condurli in Francia.» Lauzun con ispirito veramente
cavalleresco rese grazie del pericoloso onore che Giacomo gli faceva,
e chiese licenza di giovarsi dello aiuto del suo amico Saint–Victor
gentiluomo provenzale, che aveva dato numerose prove di coraggio e
di fede. Il Re accettò volentieri i servigi di un tanto uomo. Lauzun
porse la mano a Maria; Saint–Victor inviluppò nel suo caldo pastrano
lo sventurato erede di tanti Re: e scesi giù per una scala secreta,
sʼimbarcarono in una gondola scoperta. Ed era pur miserabile viaggio.
La notte era nera; pioveva a dirotto; il vento mugghiava; le onde
accavallavansi: alla perfine la barchetta giunse a Lambeth; e i
fuggenti sbarcarono presso a una locanda dove stava ad aspettarli una
carrozza. Corse qualche tempo innanzi di attaccare i cavalli. Maria,
temendo dʼessere riconosciuta, non volle entrare nella locanda, ma
si rimase col figliuolo nelle braccia sotto la torre della Chiesa di
Lambeth per ricoverarsi dalla tempesta, tremando ogni volta che il
mozzo di stalla le si avvicinava con la lanterna. Era accompagnata
da due donne, lʼuna delle quali aveva lʼufficio di allattare il
Principe, lʼaltra quello di vegliarlo alla culla; ma potevano essere
di poca utilità alla loro signora, come quelle che erano straniere,
mal potevano parlare lʼinglese, e tremavano sotto la rigida sferza del
clima dʼInghilterra. Lʼunica consolazione fu quella che lo infante era
di buona salute e non pianse punto. La carrozza finalmente si mosse.
Saint–Victor la seguiva a cavallo. I fuggenti giunsero sani e salvi a
Gravesend, e sʼimbarcarono nella nave che li aspettava. Vi trovarono
Lord Powis con sua moglie. Vʼerano anco tre ufficiali irlandesi.
Costoro erano stati spediti colà, onde, nascendo un caso disperato,
soccorressero Lauzun; poichè non reputavasi punto impossibile che il
capitano della nave si scoprisse infido: ed erano stati dati ordini
di pugnalarlo al minimo sospetto di tradigione. Nulladimeno non fu
necessario appigliarsi ad alcun violento partito. La nave, spinta da
prospero vento, scese giù pel fiume; e Saint–Victor, avendola veduta
far vela, ritornò spronando il cavallo per recare la lieta nuova a
Whitehall.

La mattina del lunedì, 10 dicembre, il Re seppe che la moglie ed il
figliuolo avevano intrapreso il loro viaggio con molta probabilità
di giungere al luogo dove erano diretti. Verso quel tempo arrivò a
Whitehall un messo con dispacci da Hungerford. Se Giacomo avesse
avuto un poco più di discernimento, e un poco meno di ostinazione,
queʼ dispacci lo avrebbero indotto a considerare nuovamente i propri
disegni. I Commissari mandavano lettere piene di speranza. I patti
proposti dal vincitore erano stranamente liberali. Il Re stesso
non potè frenarsi dal dire che erano più favorevoli di quel che
si sarebbe aspettato. Certo egli avrebbe potuto non senza ragione
sospettare che fossero stati fatti con intendimento non amichevole:
ma ciò non importava nulla; imperocchè, sia che fossero offerti con
la speranza che accettandoli egli ponesse i fondamenti dʼuna felice
riconciliazione, sia, come è più probabile, con la speranza che
rigettandoli sarebbe comparso alla nazione estremamente irragionevole e
incorreggibile, il modo di condursi era al pari evidente. In entrambi i
casi la sua politica era quella di accettarli senza il menomo indugio e
fedelmente osservarli.[571]

LXXIV. Ma tosto fu chiaro che Guglielmo aveva profondamente conosciuta
lʼindole dellʼuomo col quale egli aveva da fare, e nellʼoffrire
queʼ patti che i Whig in Hungerford avevano biasimati come troppo
indulgenti, non aveva rischiato nulla. La solenne commedia, onde il
pubblico era stato tenuto a bada fino dalla ritirata dello esercito
regio da Salisbury, fu prolungata anche per poche ore. Tutti i Lordi
che trovavansi ancora nella metropoli furono invitati al palazzo
per udire in che stato erano le pratiche aperte per loro consiglio.
Fu stabilita unʼaltra ragunanza di Pari pel dì susseguente. Al Lord
Gonfaloniere e agli Sceriffi di Londra fu anche intimato di recarsi
presso il Re. Gli esortò ad adempiere con energia i loro doveri, e
confessò come egli avesse creduto utile mandare la moglie e il figlio
fuori del paese, ma gli assicurò chʼei rimarrebbe al suo posto.
Mentre egli profferiva questa menzogna indegna dʼun uomo e dʼun Re,
rimaneva fermissimo nel proposito di partirsi innanzi lʼalba del
prossimo giorno. E difatti aveva già affidati i più preziosi deʼ suoi
arredi a vari ambasciatori stranieri. Le sue più importanti scritture
erano state depositate nelle mani del Ministro Toscano. Ma innanzi
dʼaccingersi alla fuga rimaneva anco qualche altra cosa a farsi. Il
tiranno gioiva del pensiero di vendicarsi dʼun popolo aborrente dal
dispotismo, rovesciandogli sul capo tutti i mali dellʼanarchia. Comandò
che il Gran Sigillo e i decreti per la convocazione del Parlamento
fossero recati alle sue stanze. Tutti i decreti che potè avere in mano
egli gettò nel fuoco. Quelli chʼerano stati spediti annullò con una
scrittura stesa in forma legale. A Feversham scrisse una lettera, che
aveva sembianza di comando, ingiungendogli di sciogliere lo esercito.
Non ostante il Re seguitava a nascondere anche ai suoi principali
ministri la intenzione di fuggire. Sul punto di ritirarsi esortò
Jeffreys a trovarsi la dimane a buonʼora nel gabinetto; e mentre stava
per entrare a letto susurrò allʼorecchio di Mulgrave dicendo che le
nuove giunte da Hungerford erano sodisfacenti. Ciascuno si ritirò,
tranne il duca di Northumberland. Questo giovane, figlio naturale di
Carlo II, partoritogli dalla Duchessa di Cleveland, comandava una
compagnia di Guardie del Corpo, ed era Lord Ciamberlano. Eʼ pare essere
costumanza di Corte che, assente la Regina, un Ciamberlano dormisse
in un lettuccio nella camera del Re; e quella sera ciò toccava a
Northumberland.

LXXV. Alle ore tre della mattina, martedì 11 dicembre, Giacomo levossi,
prese in mano il Gran Sigillo, fece comandamento a Northumberland di
non aprire lʼuscio avanti lʼora consueta, e disparve per un andito
secreto, probabilmente lo stesso pel quale Huddleston era stato
introdotto al letto del moribondo Carlo. Sir Eduardo Hales stavasi ad
aspettare con una carrozza dʼaffitto. Giacomo fu condotto a Millbank,
dove traversò con un navicello il Tamigi. Presso Lambeth gettò nelle
onde il Gran Sigillo, che molti mesi dopo venne per avventura tratto
fuori da un pescatore che trovollo nella sua rete.

Sbarcò a Wauxhall, dove era pronto un cocchio, e immediatamente prese
la via di Sheerness, dove una barca della dogana aveva ordine di
aspettare il suo arrivo.[572]



CAPITOLO DECIMO.

SOMMARIO.


 I. Si sparge la nuova della fuga di Giacomo; grande agitazione.—II.
 I Lordi si radunano in Guildhall—III. Tumulti in Londra.—IV. La
 casa dello Ambasciatore di Spagna è saccheggiala.—V. Arresto di
 Jeffreys.—VI. La Notte Irlandese—VII. Il Re è arrestato presso
 Sheerness.—VIII. I Lordi ordinano che sia posto in libertà.—IX.
 Imbarazzo di Guglielmo.—X. Arresto di Feversham; arrivo di
 Giacomo a Londra.—XI. Consulta tenuta in Windsor.—XII. Le
 truppe olandesi occupano Whitehall.—XIII. Messaggio del Principe
 a Giacomo.—XIV. Giacomo parte per Rochester.—XV. Arrivo di
 Guglielmo al Palazzo San Giacomo.—XVI. Lo consigliano ad assumere
 la Corona per diritto di conquista.—XVII. Egli convoca i Lordi
 e i Membri deʼ Parlamenti di Carlo II.—XVIII. Giacomo fugge da
 Rochester.—XIX. Discussioni e determinazioni deʼ Lordi.—XX.
 Discussioni e determinazioni deʼ Comuni convocati dal Principe.—XXI.
 Si convoca una Convenzione; sforzi del Principe per ristabilire
 lʼordine.—XXII. Sua politica tollerante.—XXIII. Satisfazione deʼ
 potentati cattolici romani; pubblica opinione in Francia.—XXIV.
 Accoglienze fatte alla Regina dʼInghilterra in Francia.—XXV. Arrivo
 di Giacomo a Saint–Germain.—XXVI. Pubblica opinione nelle Province
 Unite—XXVII. Elezione dei Membri della Convenzione.—XXVIII.
 Affari di Scozia.—XXIX. Partiti in Inghilterra.—XXX. Disegno
 di Sherlock—XXXI. Disegno di Sancroft.—XXXII. Disegno di
 Danby.—XXXIII. Disegno dei Whig. La Convenzione si aduna;
 membri principali della Camera dei Comuni.—XXXIV. Elezione
 del Presidente—XXXV. Discussione sopra le condizioni della
 nazione.—XXXVI. Deliberazione che dichiara vacante il trono. È
 spedita alla Camera dei Lordi; Discussione nella Camera dei Lordi
 intorno al disegno di nominare una reggenza.—XXXVII. Scisma tra i
 Whig e i seguaci di Danby.—XXXVIII. Adunanza in casa del Conte di
 Devonshire.—XXXIX. Discussione nella Camera deʼ Lordi intorno alla
 questione se il trono debba considerarsi come vacante. La maggioranza
 nega.—XL. Agitazione in Londra.—XLI. Lettera di Giacomo alla
 Convenzione.—XLII. Discussioni; Negoziati; Lettera del Principe
 dʼOrange a Danby.—XLIII. La principessa Anna aderisce al disegno
 deʼ Whig.—XLIV. Guglielmo manifesta i proprii pensieri.—XLV.
 Conferenza delle due Camere.—XLVI. I Lordi cedono.—XLVII. Proposta
 di nuove Leggi per la sicurezza della Libertà.—XLVIII. Dispute
 e Concordia.—XLIX. La Dichiarazione dei Diritti.—L. Arrivo di
 Maria.—LI. Offerta ed accettazione della Corona.—LII. Guglielmo e
 Maria vengono proclamati.—LIII. Indole speciale della Rivoluzione
 inglese.

I. Northumberland ubbidì fedelmente al comando, e non aprì lʼuscio del
regio appartamento se non a giorno chiaro. Lʼanticamera era piena di
cortigiani venuti a complire il Re allʼalzarsi da letto, e di Lordi
chiamati a consiglio. La nuova della fuga di Giacomo in un istante volò
dalla reggia alle strade, e tutta la metropoli ne rimase commossa.

Eʼ fu un terribile momento. Il Re se nʼera andato; il Principe non
ancora giunto; non era stata istituita una Reggenza; il Gran Sigillo,
essenziale allʼamministrazione della ordinaria giustizia, era
scomparso. Presto si seppe che Feversham, ricevuta la lettera del Re,
aveva subitamente disciolto lo esercito. Quale rispetto per le leggi
e la proprietà potevano avere i soldati in armi e raccolti, senza il
freno della disciplina militare, e privi delle cose necessaria alla
vita? Dallʼaltro canto la plebe di Londra da parecchi giorni mostravasi
fortemente inchinevole al tumulto ed alla rapina. La urgenza del caso
congiunse per breve tempo tutti coloro ai quali importava la pubblica
quiete. Rochester aveva fino a quel giorno fermamente aderito alla
causa regia. Adesso conobbe non esservi che una sola via per evitare
lo universale scompiglio. «Congregate le vostre guardie» disse egli a
Northumberland, «e dichiaratevi pel Principe dʼOrange.» Northumberland
seguì prontamente il consiglio. I precipui ufficiali dello esercito che
allora trovavansi in Londra convennero a Whitehall, e deliberarono di
sottoporsi alle autorità di Guglielmo, e finchè conoscessero la volontà
di lui, tenere sotto disciplina i loro soldati, ed assistere la potestà
civile onde mantenere lʼordine.[573]

II. I Pari recaronsi a Guildhall, e dai magistrati della città vi
furono ricevuti con tutti gli onori. A rigore di legge i Pari non
avevano maggior diritto che ogni altra classe di persone ad assumere
il potere esecutivo. Ma egli era alla pubblica salvezza necessario un
governo provvisorio; e gli occhi di tutti naturalmente volgevansi ai
magnati ereditari del Regno. La gravità del pericolo trasse Sancroft
fuori dal suo palazzo. Occupò il seggio; e, lui presidente, il nuovo
Arcivescovo di York, cinque Vescovi, e ventidue Lordi secolari,
deliberarono di comporre, sottoscrivere e pubblicare un Manifesto.
In questo documento dichiararono di aderire fermamente alla religione
e alla costituzione del paese; aggiunsero che avevano vagheggiata
la speranza di vedere raddrizzati i torti e ristabilita la pubblica
quiete dal Parlamento pur allora convocato dal Re; ma tale speranza
rimaneva distrutta dalla sua fuga. Per lo che avevano deliberato di
congiungersi col Principe dʼOrange onde rivendicare le patrie libertà,
assicurare i diritti della Chiesa, accordare una giusta libertà di
coscienza ai dissenzienti e rafforzare in tutto il mondo glʼinteressi
del protestantismo. Fino allo arrivo di Sua Altezza essi erano pronti
ad assumere la responsabilità di prendere i provvedimenti necessari
alla conservazione dellʼordine. Sullʼistante fu spedita una deputazione
a presentare il predetto Manifesto al Principe, ed annunziargli chʼegli
era impazientemente aspettato a Londra.[574]

I Lordi quindi si posero a pensare intorno ai modi di prevenire
ogni tumulto. Fecero chiamare i due Segretari di Stato. Middleton
ricusò di ubbidire a quella chʼegli considerava autorità usurpata: ma
Preston, ancora attonito per la fuga del suo signore, e non sapendo
che cosa aspettarsi, obbedì alla chiamata. Un messaggio fu mandato a
Skelton Luogotenente della Torre, perchè si presentasse in Guildhall.
Andatovi, gli fu detto non esservi più oltre mestieri deʼ suoi servigi,
e però consegnasse immediatamente le chiavi. Gli fu sostituito
Lord Lucas. Nel tempo stesso i Pari ordinarono che si scrivesse a
Darthmouth ingiungendogli dʼastenersi da ogni atto ostile contro la
flotta olandese, e di licenziare tutti gli ufficiali papisti a lui
sottoposti.[575]

La parte che in cotesti procedimenti ebbero Sancroft ed altri che fino
a quel giorno si erano mantenuti strettamente fedeli al principio
della obbedienza passiva, è degna di speciale considerazione. Usurpare
il comando delle forze militari e navali dello Stato, destituire gli
ufficiali preposti dal Re al comando deʼ suoi castelli e navigli, e
inibire allo ammiraglio di dare battaglia ai nemici di lui, erano
niente meno che atti di ribellione. E nonostante vari Tory abili ed
onesti, seguaci della scuola di Filmer, erano persuasi di poter fare
tutte le sopra dette cose senza incorrere nella colpa di resistere
al loro Sovrano. Il loro argomentare era per lo meno ingegnoso.
Dicevano, il Governo essere ordinato da Dio, e la monarchia ereditaria
eminentemente ordinata da Dio. Finchè il Re comanda ciò che è
legittimo, noi siamo tenuti a prestargli obbedienza attiva; comandando
ciò che è illegittimo, obbedienza passiva. Non vi è caso estremo che
ne possa giustificare ad opporci a lui con la forza. Ma ove a lui
piaccia di deporre il suo ufficio, egli perde ogni diritto sopra di
noi. Finchè ci governa, quantunque ci governi male, siamo obbligati a
chinare la fronte; ma ricusando egli di governarci in veruna maniera,
non siamo tenuti a rimanere perpetuamente privi di governo. Lʼanarchia
non è ordinamento di Dio; nè egli ci ascriverà a peccato se nel caso
che un principe, il quale in onta a gravissime provocazioni non abbiamo
cessato mai di onorare e obbedire, si parta senza che noi sappiamo
dove, non lasciando un suo vicario, ci apprendiamo al solo partito
che ci rimanga a impedire la dissoluzione della società. Se il nostro
Sovrano fosse rimasto fra noi, noi saremmo pronti, per quanto poco egli
meritasse il nostro affetto, a morire ai suoi piedi. Se, lasciandoci,
avesse nominato una reggenza per governarci con autorità delegatale
durante la sua assenza, noi ci saremmo rivolti a tale reggenza
soltanto. Ma egli è scomparso senza lasciare nessun provvedimento per
la conservazione dellʼordine o per lʼamministrazione della giustizia.
Con lui e col suo Gran Sigillo è sparita tutta la macchina per mezzo
della quale si possa punire un assassino, decidere del diritto di
proprietà, distribuire ai creditori i beni dʼun fallito. Il suo ultimo
atto è stato di sciogliere migliaia dʼuomini armati dal freno della
disciplina militare, e porli in condizioni o di saccheggiare o di
morire di fame. Fra poche ore ciascun uomo sʼarmerà contro il suo
prossimo. La vita, gli averi, lʼonore delle donne saranno in balìa di
ogni uomo sfrenato. Noi adesso ci troviamo in quello stato di natura
intorno al quale i filosofi hanno scritto cotanto; nel quale stato
siamo posti non per colpa nostra, ma per volontario abbandono di colui
che avrebbe dovuto essere nostro protettore. Il suo abbandono può
dirittamente chiamarsi volontario: imperocchè nè la vita nè la libertà
sue erano in periglio. I suoi nemici già avevano consentito ad aprire
pratiche dʼaccordo sopra una base proposta da lui stesso, ed eransi
offerti a sospendere immediatamente le ostilità a patti che egli non
negava essere liberali. In tali circostanze egli ha disertato il suo
posto. Noi non facciamo la minima ritrattazione; non siamo in cosa
alcuna incoerenti. Ci manteniamo tuttavia fermi senza modificazione
nelle nostre vecchie dottrine. Seguitiamo a credere che in qualunque
caso è peccato resistere al magistrato; ma affermiamo che adesso non
vi è verun magistrato cui resistere. Colui che era magistrato, dopo
dʼavere per lungo tempo fatto abuso della propria potestà, ha abdicato
da sè. Lo abuso non ci dava diritto a deporlo: ma lʼabdicazione ci dà
diritto a provvedere al miglior modo di supplire al suo ufficio.

III. Per cosiffatte ragioni il partito del Principe si accrebbe di
molti che per lʼinnanzi sʼerano tenuti in disparte. A memoria dʼuomo
non era mai stata, come in quella congiuntura, una quasi universale
concordia fra glʼInglesi; e mai quanto allora vʼera stato sì grande
bisogno di concordia. Non vʼera più alcuna autorità legittima. Tutte le
tristi passioni che il Governo ha debito dʼinfrenare, e che i migliori
Governi imperfettamente infrenano, trovaronsi in un subito sciolte
dʼogni ritegno; lʼavarizia, la licenza, la vendetta, il vicendevole
odio delle sètte, il vicendevole odio delle razze. In simiglianti casi
avviene che le belve umane, le quali, abbandonate dai ministri dello
Stato e della religione, barbare fra mezzo alla città, pagane fra
mezzo al cristianesimo, brulicano tra ogni fisica e morale bruttura
nelle cantine e nelle soffitte delle grandi città, acquistino a un
tratto terribile importanza. Così fu di Londra. Allo avvicinarsi della
notte—per avventura la più lunga notte dellʼanno—eruppero da ogni
spelonca di vizio, dalle taverne di Hockley e dal laberinto dʼosterie
e di bordelli nel quartiere di Friars, migliaia di ladroncelli e
di ladroni, di borsaiuoli e di briganti. A costoro mescolaronsi
migliaia dʼoziosi giovani di bottega, i quali ardevano solo della
libidine di tumultuare. Perfino uomini pacifici ed onesti erano
spinti dallʼanimosità religiosa a congiungersi con la sfrenata
plebaglia: imperocchè il grido di «Giù il Papismo,» grido che aveva
più volte messa a repentaglio la esistenza di Londra, era il segnale
dellʼoltraggio e della rapina. Primamente la canaglia gettossi sopra
le case appartenenti al culto cattolico. Gli edifici furono atterrati.
Banchi, pulpiti, confessionali, breviari furono accatastati ed arsi.
Un gran monte di libri e di arredi era in fiamme presso il convento di
Clerkenwell. Unʼaltra catasta bruciava innanzi le rovine del convento
deʼ Francescani in Lincolnʼs Inn Fields. La cappella in Lime Street,
la cappella in Bucklersbury, furono smantellate. Le dipinture, le
immagini, i crocifissi vennero condotti trionfalmente per le vie al
lume delle torce divelte dagli altari. La processione pareva una
selva di spade e di bastoni, e in cima ad ogni spada e bastone era
fitta una melarancia. La stamperia reale, donde nei precedenti tre
anni erano usciti innumerevoli scritti in difesa della supremazia del
Papa, del culto delle immagini, e deʼ voti monastici, per adoperare
una grossolana metafora che allora per la prima volta cominciò ad
usarsi, fu sventrata. La vasta provigione di carta, che in gran
parte non era lordata dalla stampa, apprestò materia ad un immenso
falò. Daʼ monasteri, dai templi, dai pubblici uffici la furibonda
moltitudine si volse alle private abitazioni. Parecchie case furono
saccheggiate e distrutte: ma la pochezza del bottino non appagando i
saccheggiatori, tosto si sparse la voce che le cose più preziose deʼ
papisti erano state poste al sicuro presso gli ambasciatori stranieri.
Nulla importava alla selvaggia e stolta plebaglia il diritto delle
genti e il rischio di provocare contro la patria la vendetta di
tuttaquanta lʼEuropa. Le case degli ambasciatori furono assediate. Una
gran folla si raccolse dinanzi la porta di Barillon in Saint Jamesʼs
Square. Ei nondimeno si condusse meglio di quel che si sarebbe creduto.
Imperocchè, quantunque il Governo da lui rappresentato fosse tenuto
in aborrimento, la liberalità sua nello spendere e la puntualità nel
pagare lo avevano reso bene affetto al popolo. Inoltre egli aveva
presa la precauzione di chiedere parecchi soldati a guardia della
sua casa: e perchè vari uomini dʼalto grado che abitavano vicino a
lui, avevano fatto lo stesso, una forza considerevole si raccolse in
quella piazza. La tumultuante plebe quindi, assicuratasi che sotto
il tetto di Barillon non vʼerano nascosti nè armi nè preti, cessò di
molestarlo e ne andò via. Lo ambasciatore veneto fu protetto da una
compagnia militare: ma le magioni dove abitavano i ministri dello
Elettore Palatino e del Granduca di Toscana, furono distrutte. Una
preziosa cassetta il Ministro Toscano riuscì a salvare dalle mani deʼ
facinorosi. Vi si contenevano nove volumi di memorie scritte di mano
propria da Giacomo. I quali volumi, pervenuti a salvamento in Francia,
dopo lo spazio di cento e più anni, perirono fra le stragi dʼuna
rivoluzione assai più formidabile di quella dalla quale erano scampati.
Ma ne rimangono tuttavia alcuni frammenti, che, comunque gravemente
mutili e incastrati in una farragine di fanciullesche finzioni, sono
ben meritevoli dʼattento studio.

IV. Le ricche argenterie della Cappella Reale erano state depositate
in Wild House presso Lincolnʼs Inn Fields, dove abitava Ronquillo
ambasciatore di Spagna. Ronquillo, sapendo chʼegli e la sua Corte
non avevano male meritato della nazione inglese, non aveva creduto
necessario chiedere dei soldati: ma la marmaglia non era in umore da
fare sottili distinzioni. Il nome di Spagna da lungo tempo richiamava
alla mente degli Inglesi la idea della Inquisizione, dellʼArmada, delle
crudeltà di Maria, e delle congiure contro Elisabetta. Ronquillo dal
canto suo sʼera acquistato di molti nemici fra il popolo, giovandosi
del suo privilegio per non pagare i suoi debiti. E però la sua casa fu
saccheggiata senza misericordia; ed una pregevole biblioteca da lui
raccolta rimase preda delle fiamme. Il solo conforto chʼegli ebbe in
tanto disastro fu di potere salvare dalle mani degli aggressori lʼostia
santa che era nella sua cappella.[576]

La mattina del di 12 dicembre sorse in assai lugubre aspetto. La
metropoli in molti luoghi presentava lo spettacolo dʼuna città presa
dʼassalto. I Lordi ragunaronsi in Whitehall e fecero ogni sforzo per
ristabilire la quiete. Le milizie civiche furono chiamate alle armi.
Un corpo di cavalleria fu tenuto pronto a disperdere i tumultuosi
assembramenti. Ai governi stranieri fu peʼ gravi insulti data quella
soddisfazione che si potè maggiore in quel momento. Fu promesso un
premio a chiunque scoprisse le robe rapite in Wild House; e Ronquillo
al quale non era rimasto un solo letto o unʼoncia dʼargento, fu
splendidamente alloggiato nel deserto palagio dei Re dʼInghilterra.
Gli fu apprestata una sontuosa mensa; e gli ufficiali della Guardia
Palatina ebbero ordine di stare nella sua anticamera come costumavasi
fare col Sovrano. Tali segni di rispetto abbonirono il puntiglioso
orgoglio della Corte Spagnuola, e tolsero ogni pericolo di rottura.[577]

V. Ad ogni modo, non ostante i bene intesi sforzi del Governo
Provvisorio, lʼagitazione facevasi ognora più formidabile. La fu
accresciuta da un caso che anche oggi dopo tanto tempo non può narrarsi
senza provare il piacere della vendetta. Uno speculatore che abitava
in Wapping, e trafficava prestando ai marini del luogo pecunia ad
usura, aveva tempo innanzi prestato una somma, prendendo ipoteca sul
carico dʼuna nave. Il debitore ricorse al tribunale detto dʼEquità,
per essere sciolto dalla sua obbligazione; e la causa fu portata
dinanzi a Jeffreys. Lo avvocato del debitore avendo poche ragioni da
allegare, disse che il prestatore era un barcamenante. Il Cancelliere,
appena udito ciò, si accese di rabbia. «Un barcamenante! dove è egli?
Chʼio lo veda. Ho sentito parlare di quella specie di mostro. A che si
assomiglia egli?» Lo sventurato creditore fu costretto a comparire.
Il Cancelliere gli rivolse ferocissimo lo sguardo, inveì contro lui,
e cacciollo via mezzo morto dallo spavento. «Finchè avrò vita» disse
il povero uomo uscendo barcollante dalla corte, «non dimenticherò mai
quel terribile aspetto.» Ma finalmente era per lui arrivato il giorno
della vendetta. Il barcamenante passeggiava per Wapping, allorquando
gli parve di conoscere il riso dʼun uomo il quale faceva capolino
dalla finestra dʼuna birreria. Non poteva ingannarsi. Aveva rasi i
sopraccigli; vestiva lʼabito di un marinajo di Newcastle ed era coperto
di polve di carbone: ma il selvaggio occhio e la bocca di Jeffreys
non erano tali da non riconoscersi. Fu dato lʼallarme. In un istante
la birreria fu circondata da centinaia di popolani che imprecando
scuotevano i loro bastoni. Il fuggitivo Cancelliere ebbe salva la vita
da una compagnia della milizia civica; e fu condotto dinanzi al Lord
Gonfaloniere. Questi era uomo semplice, vissuto sempre nella oscurità,
e adesso trovandosi attore importante in una grande rivoluzione, sʼera
sentito venire il capogiro. Gli avvenimenti delle ventiquattro ore
decorse, e lo stato pericoloso della Città alle sue cure affidata, lo
avevano perturbato di mente e di corpo. Allorchè il grande uomo, al
cui cipiglio, pochi giorni avanti, aveva tremato lʼintero Regno, fu
tratto al tribunale, bruttato di ceneri, mezzo morto di spavento e
seguito da una rabbiosa moltitudine, si accrebbe oltre ogni credere
lʼagitazione del male arrivato Gonfaloniere. Convulso e fuori di sè fu
trasportato a letto, donde non sorse più. Intanto la folla di fuori
cresceva sempre, e orribilmente tempestava. Jeffreys pregò dʼessere
menato in prigione. Si ottenne a tale effetto un ordine deʼ Lordi che
sedevano in Whitehall; ed ei fu condotto in una carrozza alla Torre.
Procedeva scortato da due reggimenti della milizia civica, i quali
non senza difficoltà potevano frenare il popolo. Più volte si videro
nella necessità di ordinarsi come se avessero a sostenere un assalto di
cavalleria, e di presentare una selva di picche alla irrompente plebe.
La quale vedendo rapirsi la vendetta teneva dietro al cocchio con urli
di rabbia fino alla porta della Torre, brandendo bastoni e scuotendo
capestri agli occhi del prigioniero. Lo sciagurato intanto tremava di
spavento; arrostava le mani, affacciavasi con occhi stralunati ora a
questo ora a quello degli sportelli, e fra il tumulto si udiva gridare:
«Teneteli lontani, o signori! Per lʼamore di Dio, teneteli lontani!»
Infine dopo aver provate amarezze maggiori di quelle della morte, fu in
sicurtà alloggiato nella fortezza, dove alcune delle sue più illustri
vittime avevano passati gli estremi giorni della loro vita, e dove egli
fu destinato a finire la sua con inenarrabile ignominia ed orrore.[578]

In tutto questo tempo si cercarono diligentemente i preti cattolici
romani. Molti vennero arrestati. Due Vescovi, cioè Ellis e Leyburn,
furono mandati a Newgate. Il Nunzio che aveva poca ragione a sperare
che la moltitudine rispettasse il suo carattere sacerdotale e politico,
fuggì travestito da servitore fra la gente del Ministro di Savoja.[579]

VI. Un altro giorno di agitazione e di terrore si chiuse, e fu
seguito dalla più strana e terribile notte che fosse mai stata in
Inghilterra. Sul far della sera la plebaglia aggredì una magnifica
casa pochi mesi avanti edificata per Lord Powis, la quale nel regno di
Giorgio II era residenza del Duca di Newcastle, e che si vede anche
oggi allʼangolo tra ponente e tramontana di Lincolnʼs Inn Fields. Vi
furono mandati alcuni soldati: la plebaglia fu dispersa, la quiete
sembrava ristabilita, e i cittadini se ne tornavano in pace alle
proprie case, quando sorse un bisbiglio che in un momento divenne
tremendo clamore, ed in unʼora da Piccadilly giunse a Whitechapel e
si sparse per tutta la metropoli. Dicevasi che glʼIrlandesi lasciati
senza freno da Feversham marciavano alla volta di Londra facendo strage
dʼogni uomo, donna e fanciullo che incontrassero per via. Allʼuna
ora della mattina i tamburi della milizia civica suonavano allʼarme.
In ogni dove le donne atterrite piangevano ed arrostavano le mani,
mentre i padri e i mariti loro armavansi per uscire a combattere.
Prima delle ore due la metropoli presentava un aspetto sì bellicoso
che avrebbe potuto atterrire unʼarmata regolare. A tutte le finestre
vedevansi i lumi. I luoghi pubblici risplendevano come se fosse pieno
giorno. Le grandi vie erano asserragliate. Venti e più mila picche
ed archibugi fiancheggiavano le strade. Lʼultima alba del solstizio
dʼinverno trovò tutta la città ancora in armi. Pel corso di molti anni
i Londrini serbarono viva ricordanza di quella chʼessi chiamavano
la Notte Irlandese. Come si seppe non esservi nessuna cagione di
timore, il Governo cercò studiosamente dʼindagare lʼorigine della
ciarla che aveva fatto nascere cotanta agitazione. Sembra che taluni,
che avevano sembianze e vesti di contadini pur allora giunti dalla
campagna, spargessero poco prima di mezza notte la nuova neʼ suburbi:
ma donde venissero e chi li movesse, rimase sempre un mistero. Poco
dopo da molti luoghi arrivarono notizie che accrebbero maggiormente
la universale perplessità. Il timore panico non aveva invaso la sola
Londra. La voce che i soldati irlandesi disciolti venivano a fare
scempio deʼ Protestanti era stata sparsa, con maligna destrezza, in
molti luoghi lʼuno a lunga distanza dallʼaltro. Gran numero di lettere,
con molta arte scritte a fine di spaventare lo ignorante popolo, erano
state spedite per le diligenze, i vagoni, e la posta a varie parti
della Inghilterra. Tutte queste lettere giunsero aʼ loro indirizzi
quasi nel medesimo tempo. In cento città a unʼora la plebe credè che
si appressassero i barbari in armi con lo intendimento di commettere
scelleratezze simili a quelle che avevano infamata la ribellione
dʼUlster. A nessuno deʼ Protestanti si sarebbe usata misericordia. I
figliuoli sarebbero stati costretti per mezzo della tortura a trucidare
i loro genitori. I bambini sarebbero confitti alle picche o gettati
fra le fiammeggianti rovine di quelle che pur dianzi erano felici
abitazioni. Grandi turbe di popolo si raccolsero armate; in taluni
luoghi cominciarono a distruggere i ponti ed asserragliare le vie: ma
il concitamento presto calmossi. In molti distretti coloro che erano
stati vittime di tanto inganno udirono con piacere misto di vergogna
non esservi un solo soldato papista che non fosse lontano sei o sette
giorni di marcia. Veramente in qualche luogo accadde che alcuna banda
dispersa dʼIrlandesi si mostrasse e dimandasse pane; ma non può loro
attribuirsi a delitto se non si contentassero di morire di fame; e non
vʼè prova che commettessero alcun grave oltraggio. Certo erano meno
numerosi di quel che supponevasi comunemente; e trovavansi scorati,
vedendosi a un tratto privi di capitani e di vettovaglie framezzo a
una potente popolazione, dalla quale erano considerati come un branco
di lupi. Fra tutti i sudditi di Giacomo nessuno aveva più ragione ad
esecrarlo che questi sciagurati membri della sua Chiesa e difensori del
suo trono.[580]

È cosa onorevole al carattere deglʼInglesi, che non ostante la generale
avversione contro la religione cattolica romana e la razza irlandese,
non ostante lʼanarchia che nacque alla fuga di Giacomo, non ostante
le subdole macchinazioni adoperate a inferocire la plebe, non fu
commesso in quella congiuntura nessuno atroce delitto. Molte facultà,
a dir vero, furono distrutte e rapite; le case di molti gentiluomini
cattolici romani aggredite; giardini devastati; cervi uccisi e portati
via. Alcuni venerandi avanzi della nostra architettura del medio evo
serbano tuttora i segni della violenza popolare. In molti luoghi lo
andare e venire liberamente per le strade era impedito da una polizia
creatasi da sè, la quale fermava ogni viandante onde sincerarsi con
prove se fosse papista. Il Tamigi era infestato da una torma di pirati,
che sotto pretesto di cercare armi o delinquenti, mettevano sossopra
ogni barca che passava; insultati e maltrattati gli uomini impopolari.
Molti che tali non erano, reputaronsi fortunati di potere riscattare le
persone e la roba loro donando alcune ghinee ai fanatici Protestanti, i
quali senza autorità legittima sʼerano fatti inquisitori. Ma in tutta
cotesta confusione che durò vari giorni e si estese a molte Contee,
nessuno deʼ Cattolici Romani perdè la vita. La plebaglia non mostrò
brama di sangue, tranne nel caso di Jeffreys; e lʼodio di che sʼera
reso segno costui poteva piuttosto chiamarsi umanità che crudeltà.[581]

Molti anni dipoi Ugo Speke affermò che la Notte Irlandese era opera
sua, chʼegli aveva istigati i villani che posero in concitazione
Londra, e che egli era lo autore delle lettere le quali avevano sparso
lo spavento in tutta lʼisola. La sua asserzione non è intrinsecamente
improbabile: ma non ha altra prova tranne le parole di lui. Egli era
uomo bene capace di commettere tanta scelleraggine, e anche capace di
vantarsi falsamente dʼaverla commessa.[582]

Guglielmo era impazientemente aspettato a Londra, poichè nessuno
dubitava che egli con la energia e abilità sue ristabilisse tosto
lʼordine e la sicurezza pubblica. Nondimeno vi fu qualche indugio, del
quale il Principe non può giustamente biasimarsi. La sua primitiva
intenzione era stata di recarsi da Hungerford ad Oxford, dove, secondo
che lo avevano assicurato, avrebbe avuto onorevoli e affettuose
accoglienze: ma lo arrivo della deputazione partita da Guildhall lo
indusse a cangiare pensiero e correre speditamente alla metropoli.
Per via seppe che Feversham, obbedendo ai comandamenti del Re, aveva
disciolto lo esercito, e che migliaia di soldati senza freno, e privi
delle cose necessarie alla vita, erano sparse per le Contee le quali
attraversa la via che mena a Londra. Gli era quindi impossibile di
viaggiare con poco seguito senza grave pericolo non solo per la sua
propria persona, di cui non aveva costume dʼessere molto sollecito,
ma anche pei grandi interessi a lui affidati. Era mestieri che egli
si movesse a seconda del muoversi delle sue milizie, le quali in quei
tempi non potevano procedere se non lentamente a mezzo il verno per
gli stradali della Inghilterra. In cosiffatte circostanze egli perdè
alquanto il suo ordinario contegno. «Con me non si deve trattare a
questo modo» esclamò egli con acrimonia, «e Milord Feversham se ne
avvedrà bene.» Furono presi pronti e savi provvedimenti per rimediare
ai mali cagionati da Giacomo. A Churchill e Grafton fu dato lo incarico
di raggranellare la dispersa soldatesca e riordinarla. I soldati
inglesi vennero invitati a rientrare nello esercito. Agli irlandesi fu
fatto comandamento di rendere le armi sotto pena di essere trattati
come banditi, ma fu loro assicurato che, obbedendo con pace, verrebbero
provveduti del necessario.[583]

Gli ordini del Principe furono quasi senza ostacolo mandati ad
esecuzione, tranne la resistenza che fecero i soldati irlandesi che
presidiavano Tilbury. Uno di costoro appuntò una pistola contro
Grafton; lʼarme non prese fuoco, e lo assassino in sullʼistante fu
steso morto da un Inglese. Circa due cento di cotesti sciagurati
stranieri coraggiosamente tentarono di ritornare alla loro patria.
Impossessaronsi di un bastimento grave di un ricco carico che pur
allora dalle Indie era arrivato al Tamigi, e provaronsi di avere a
forza piloti a Gravesend. Ma non ne potendo trovare alcuno, furono
costretti a confidare in quel poco che essi medesimi sapevano dʼarte
nautica. Il legno poco dopo investì contro la spiaggia, e a quei miseri
dopo qualche spargimento di sangue fu forza porre giù le armi.[584]

Erano già corse cinque settimane da che Guglielmo era in Inghilterra,
duranti le quali gli aveva arriso la fortuna. Egli aveva fatto bella
mostra di prudenza e fermezza, e nondimeno gli avevano meno giovato
queste virtù sue che lʼaltrui insania e pusillanimità.

Ed ora che ei sembrava vicino a conseguire il fine della sua
intrapresa, sopraggiunse a sconcertargli i disegni uno di quegli strani
accidenti che così spesso confondono i più studiati divisamenti della
politica.

VII. La mattina del di 13 dicembre, il popolo di Londra, non per anco
riavutosi dallʼagitazione della Notte Irlandese, rimase attonito alla
nuova che il Re era stato fermato ed era sempre nellʼisola. La nuova
prese consistenza per tutto il giorno, e avanti sera fu pienamente
confermata.

Giacomo aveva viaggiato mutando cavalli lungo la riva meridionale
del Tamigi, e la mattina del di 12 era giunto ad Emley Ferry presso
lʼisola di Sheppey, dove aspettavalo la nave sopra la quale ei doveva
imbarcarsi. Vi montò sopra; ma il vento spirava forte, e il padrone non
volle rischiarsi a mettere alla vela senza maggior quantità di zavorra.
In tal guisa una marea andò perduta. Era quasi a mezzo il suo corso la
notte allorquando la nave cominciò a muoversi. In queʼ giorni la nuova
che il Re era scomparso, che il paese era senza governo, e Londra tutta
sossopra, erasi sparsa lungo il Tamigi, e neʼ luoghi dove era giunta
aveva fatto nascere violenza e disordine. I rozzi pescatori della
spiaggia di Kent adocchiarono con sospetto e cupidigia la nave. Corse
voce che alcuni individui vestiti da gentiluomini erano frettolosamente
andati in sul bordo. Forse erano Gesuiti: forse erano ricchi. Cinquanta
o sessanta barcaiuoli, spinti a un tempo dallʼodio contro il papismo
e dalla avidità di predare, circondarono la nave quando ella era in
sul punto di far vela. Fu detto ai passeggieri che bisognava andare a
terra per essere esaminati da un magistrato. La figura del Re suscitò
deʼ sospetti. «Gli è padre Petre» gridò uno di queʼ ribaldi «lo conosco
alle sue scarne ganasce.»—«Fruga cotesto vecchio gesuita, cotesto viso
da galera» urlarono tutti ad una voce. Ei tosto fu segno alle ruvide
spinte di coloro che lo circondavano. Gli tolsero i danari e lʼoriuolo.
Egli aveva addosso lʼanello della incoronazione ed altre gioie di gran
valore, che sfuggirono alle ricerche di queʼ ladri, i quali erano così
ignoranti in materia di gioie che presero per pezzi di vetro i diamanti
delle fibbie del Re.

In fine i prigioni furono messi a terra e condotti ad una locanda.
Quivi a vederli erasi affollata molta gente; e Giacomo, quantunque
fosse sfigurato da una parrucca di forma e colore diversa da quella
chʼegli era uso a portare, fu a un tratto riconosciuto. Per un
istante la plebaglia parve compresa di terrore; ma i capi esortandola
la rianimarono; e la vista di Hales, che tutti ben conoscevano
e forte odiavano, infiammò il loro furore. Il suo parco era in
quelle vicinanze, e in quel momento stesso una banda di facinorosi
saccheggiavano la casa e davano la caccia ai cervi di lui. La folla
assicurò il Re, che non aveva intenzione di fargli alcun male, ma
ricusò di lasciarlo partire. Avvenne che il Conte di Winchelsea
protestante ma fervido realista, capo della famiglia Finch e prossimo
parente di Nottingham, si trovasse in Canterbury. Appena seppe lo
accaduto corse in fretta alla costa accompagnato da alcuni gentiluomini
di Kent. Per mezzo loro il Re fu condotto a un luogo più convenevole:
ma rimaneva tuttavia prigioniero. La folla non cessava di vigilare
attorno alla casa dove era stato condotto; e alcuni dei capi stavansi a
guardia dinanzi lʼuscio della sua camera. Il suo contegno infrattanto
era quello di un uomo snervato di mente e di corpo sotto il peso delle
proprie sciagure. Talvolta parlava con tanta alterigia che i villani,
i quali lo guardavano, sentivansi provocati ad insolenti risposte. Poi
piegavasi a supplicare. «Lasciatemene andare» diceva egli «procuratemi
una barca. Il Principe dʼOrange mi fa la caccia per togliermi la vita.
Se non mi lascerete fuggire, eʼ sarà troppo tardi. Il mio sangue
ricadrà sulle vostre teste. Colui che non è con me, è contro me.»
Togliendo occasione da queste parole del Vangelo predicò per mezzʼora.
Favellò stranamente sopra moltissime cose, sopra la disobbedienza deʼ
Convittori del Collegio della Maddalena, i miracoli del Pozzo di San
Venifredo, la slealtà deʼ preti, la virtù dʼun frammento del vero
legno della Santa Croce chʼegli aveva sventuratamente perduto. «E che
ho mai fatto?» chiese agli scudieri di Kent che gli stavano attorno.
«Ditemi il vero: qual fallo ho io mai commesso?» Coloro, ai quali egli
faceva queste domande, furono tanto umani da non dargli le risposte
che meritava, e stavansi con compassionevole silenzio ad ascoltare
quellʼinsano cicaleccio.[585]

Quando pervenne alla metropoli la nuova chʼegli era stato fermato,
insultato, manomesso e spogliato, e che tuttavia rimaneva nelle
mani di queʼ brutali ribaldi, ridestaronsi molte passioni. I rigidi
Anglicani, i quali poche ore innanzi avevano cominciato a credersi
liberi dal debito di fedeltà verso lui, adesso scrupoleggiavano. Egli
non aveva abbandonato il reame, nè abdicato. Ove egli ripigliasse la
regia dignità, potrebbero essi, secondo i principii loro, ricusare
di prestargli obbedienza? I veggenti uomini di stato prevedevano con
rammarico che tutte le contese che per un momento la sua fuga aveva
abbonacciate, tornando egli, tornerebbero a rinascere assai più
virulente. Alcuni del popolo basso, comechè animati dal sentimento deʼ
recenti torti, sentivano pietà dʼun gran Principe oltraggiato da gente
ribalda, e inchinavano a sperare—speranza più onorevole alla indole
che al discernimento loro—che anche adesso egli si sarebbe potuto
pentire delle colpe che gli avevano attirato sul capo un così tremendo
castigo.

Dal momento in che si seppe il Re essere tuttavia in Inghilterra,
Sancroft che fino allora era stato capo del Governo Provvisorio, si
assentò dalle sedute deʼ Pari. Sul seggio presidenziale fu posto
Halifax, il quale era allora ritornato dal quartiere generale degli
Olandesi. In poche ore lʼanimo suo era grandemente mutato. Adesso il
senso del bene pubblico e privato lo spingeva a collegarsi coi Whig.
Ove candidamente si ponderino le prove fino a noi pervenute, è forza
credere chʼegli accettasse lʼufficio di Commissario Regio con la
sincera speranza di effettuare tra il Re e il Principe un accomodamento
a convenevoli patti. Le pratiche dʼaccordo erano incominciate
prosperamente: il Principe aveva offerto patti che il Re stesso
giudicò convenevoli: il facondo e ingegnoso barcamenante lusingavasi
di rendersi mediatore fra le inferocite fazioni, dettare un trattato
dʼaccordo fra le opinioni esagerate ed avverse, assicurare le libertà
e la religione della patria senza esporla ai pericoli inseparabili
da un mutamento di dinastia e da una successione contrastata. Mentre
compiacevasi di un pensiero così consentaneo alla indole sua, seppe
dʼessere stato ingannato, e adoperato come strumento a ingannare la
nazione. La sua commissione ad Hungerford era stata quella dʼuno
stolto. Il Re non aveva mai avuto intendimento di osservare le
condizioni chʼegli aveva ai Commissari ordinato di proporre. Aveva loro
ordinato di dichiarare chʼegli voleva sottoporre tutte le questioni
controverse al Parlamento da lui convocato; e mentre essi eseguivano
il suo messaggio, aveva bruciati i decreti di convocazione, fatto
sparire il Sigillo, sbandato lo esercito, sospesa lʼamministrazione
della giustizia, disciolto il Governo, e se nʼera fuggito dalla
metropoli. Halifax sʼaccôrse oramai non essere più possibile comporre
amichevolmente le cose. È anche da sospettarsi chʼegli provasse quella
molestia che è naturale ad un uomo che, godendo grande riputazione di
saviezza, si trovi ingannato da una intelligenza immensurabilmente
inferiore alla sua propria, e quella molestia che è naturale a chi,
essendo espertissimo nellʼarte del dileggio, si trovi posto in una
situazione ridicola. Dalla riflessione e dal risentimento fu indotto
ad abbandonare ogni pensiero di conciliazione alla quale egli aveva
fino allora sempre mirato, e a farsi capo di coloro che volevano porre
Guglielmo sul trono.[586]

Esiste ancora un Diario dove Halifax scrisse di propria mano tutto
ciò che seguì nel Consiglio da lui preseduto.[587] Non fu trascurata
precauzione alcuna creduta necessaria a prevenire gli oltraggi e i
ladronecci. I Pari si assunsero la responsabilità di ordinare ai
soldati, che, ove la plebaglia tumultuasse di nuovo, le facessero
fuoco contro. Jeffreys fu condotto a Whitehall e interrogato affinchè
rivelasse ciò che era divenuto del Gran Sigillo e dei decreti di
convocazione. E pregando egli ardentemente, fu rimandato alla
Torre come unico luogo dove potesse avere salva la vita. Si ritirò
ringraziando e benedicendo coloro che gli avevano conceduta la
protezione del carcere. Un Nobile Whig propose di porre in libertà
Oates; ma la proposta venne respinta.[588]

Le faccende del giorno erano quasi sbrigate, e Halifax stava per
alzarsi dal seggio, quando gli fu annunziato essere giunto un
messaggiero da Sheerness. Non vʼera cosa che potesse produrre più
perplessità o molestia. Fare o non far nulla importava incorrere in
grave responsabilità. Halifax, desiderando probabilmente acquistar
tempo per comunicare col Principe, avrebbe voluto differire la
sessione; ma Mulgrave pregò i Lordi a rimanere, e fece entrare il
messaggiero. Questi raccontò con molte lacrime il successo, consegnò
una lettera scritta di mano propria dal Re, la quale non era diretta a
nessuno, ma invocava lo aiuto di tutti i buoni Inglesi.[589]

VIII. Non era possibile porre in non cale un simigliante appello. I
Lordi ordinarono a Feversham corresse con una compagnia di Guardie del
Corpo al luogo dove il Re era arrestato e gli desse libertà.

Già Middleton ed altri pochi aderenti di Giacomo sʼerano partiti per
soccorrere il loro sventurato signore. Lo trovarono tenuto in istretta
prigionia, sì che non fu loro concesso di essere introdotti al cospetto
di lui senza aver prima consegnate le spade. Il concorso del popolo
era immenso. Taluni gentiluomini Whig di quelle vicinanze avevano
condotto un numeroso corpo di milizie civiche per guardarlo. Avevano
erroneamente pensato che ritenendolo prigioniero si acquisterebbero
la grazia deʼ suoi nemici, e rimasero grandemente conturbati allorchè
seppero che il Governo Provvisorio di Londra aveva disapprovato il modo
onde il Re era stato trattato, e che era presso a giungere una squadra
di cavalleria per liberarlo. Difatti Feversham non indugiò ad arrivare.
Aveva lasciate le sue truppe in Sittingbourne; ma non vi fu mestieri
adoperare la forza. Il Re fu lasciato partire senza ostacolo, e venne
daʼ suoi amici condotto a Rochester, dove prese un poco di riposo di
cui aveva sommo bisogno. Era in istato da fare pietà. Non solo aveva
onninamente perturbato lo intendimento, che per altro non era stato
mai lucidissimo, ma quel coraggio, chʼegli da giovane aveva mostrato
in varie battaglie di mare e di terra, lo aveva abbandonato. Eʼ pare
che le ruvide fatiche corporali da lui adesso per la prima volta
sostenute, lo prostrassero più che ogni altro evento della travagliata
sua vita. La diserzione del suo esercito, deʼ suoi bene affetti, della
sua famiglia, lo toccava meno delle indegnità patite quando ei venne
arrestato in su la nave. La ricordanza di tali indegnità seguitò
lungo tempo a invelenirgli il cuore, e una volta fece cose da muovere
a scherno tutta la Europa. Nel quarto anno del suo esilio tentò di
sedurre i propri sudditi offrendo loro unʼamnistia. Vi si conteneva
una lunga lista dʼeccezioni, e in essa i poveri pescatori che gli
avevano sgarbatamente frugate le tasche erano notati accanto ai nomi di
Churchill e di Danby. Da ciò possiamo giudicare quanto amaramente ei
sentisse lʼoltraggio pur dianzi sofferto.[590]

Nulladimeno, ove egli avesse avuto un poco di buon senso, si sarebbe
accorto che coloro i quali lo avevano arrestato, gli avevano, senza
saperlo, reso un gran servigio. Gli eventi successi dopo la sua assenza
dalla metropoli lo avrebbero dovuto convincere che, qualora gli fosse
riuscito fuggire, non sarebbe più mai ritornato. A suo dispetto era
stato salvato dal precipizio. Gli rimaneva unʼaltra sola speranza. Per
quanto gravi fossero i suoi delitti, detronizzarlo mentre ei rimaneva
nel Regno e mostravasi pronto ad assentire ai patti che glʼimporrebbe
un libero Parlamento, sarebbe stato pressochè impossibile.

Per breve tempo egli parve propenso a rimanere. Spedì Feversham da
Rochester con una lettera a Guglielmo. La sostanza della quale era che
Sua Maestà già sʼera messo in cammino per ritornare a Whitehall, che
desiderava avere un colloquio col Principe, e che il palazzo di San
Giacomo sarebbe apparecchiato per Sua Altezza.[591]

IX. Guglielmo era in Windsor. Aveva con profondo rincrescimento saputi
i fatti successi nella costa di Kent. Poco avanti che gliene giungesse
la nuova, coloro che gli stavano da presso avevano notato chʼegli era
dʼinsolito buon umore. Ed aveva ragione di star lieto. Vedevasi dinanzi
lo sguardo un trono vacante; parea che tutti i partiti a una voce lo
invitassero a salirvi. In un baleno la scena cangiossi: lʼabdicazione
non era consumata; molti deʼ suoi stessi fautori avrebbero
scrupoleggiato a deporre un Re che rimanesse fra loro, glʼinvitasse ad
esporre le loro doglianze in modo parlamentare, e promettesse piena
giustizia. Era uopo che il Principe esaminasse le nuove condizioni in
cui si trovava, e si appigliasse a nuovo partito. Non vedeva alcuna via
alla quale non si potesse nulla obbiettare, nessuna via che lo ponesse
in una situazione vantaggiosa al pari di quella dove egli era poche ore
innanzi. Nondimeno qualche cosa poteva farsi. Il primo tentativo fatto
dal Re per fuggire non era riuscito: era sommamente da desiderarsi
chʼegli si ponesse di nuovo alla prova con migliore successo. Bisognava
impaurirlo e sedurlo. La liberalità usatagli nelle pratiche dʼaccordo
fatte in Hungerford, liberalità alla quale egli aveva risposto
rompendo la fede, adesso sarebbe intempestiva. Bisognava non proporgli
patti nessuni dʼaccomodamento; e proponendone egli, rispondergli con
freddezza; non usargli violenza, e neanche minacce; e nondimeno non
era impossibile, anco senza siffatti mezzi, rendere un uomo cotanto
pusillanime, inquieto della propria salvezza. E allora, posto di nuovo
lʼanimo nel solo pensiero della fuga, era dʼuopo facilitargliela, e
procurare che qualche zelante stoltamente non lo arrestasse una seconda
volta.

X. Tale era il concetto di Guglielmo: e la destrezza e fermezza con
che lo mandò ad esecuzione offre uno strano contrasto con la demenza e
codardia dellʼuomo con cui egli aveva da fare. Tosto gli si presentò
il destro dʼiniziare un sistema dʼintimidazione. Feversham giunse a
Windsor portatore della lettera di Giacomo. Il messaggiero non era
stato giudiciosamente scelto. Egli era quel desso che aveva disciolto
lo esercito regio. A lui principalmente imputavano la confusione
e il terrore della Notte Irlandese. Il pubblico ad alta voce lo
biasimava. Guglielmo, provocato, aveva profferito poche parole di
minaccia; e poche parole di minaccia uscite dalle labbra di Guglielmo
sempre significavano qualcosa. A Feversham fu detto mostrasse il
salvocondotto. Non ne aveva. Venendo senza esso framezzo a un campo
ostile, secondo le leggi della guerra, sʼera reso meritevol dʼessere
trattato con estrema severità. Guglielmo non volle vederlo, e comandò
che venisse arrestato.[592] Zulestein fu tostamente spedito a riferire
a Giacomo che Guglielmo non consentiva il proposto colloquio, e
desiderava che la Maestà Sua rimanesse in Rochester.

Ma non era più tempo. Giacomo era già in Londra. Aveva esitato circa al
viaggio, e una volta si era nuovamente provato a fuggire dallʼisola.
Ma infine cedè alle esortazioni degli amici chʼerano più savi di lui,
e partì alla volta di Whitehall. Vi arrivò il pomeriggio di domenica,
16 dicembre. Temeva che la plebe, la quale nella sua assenza aveva
dato tanti segni della avversione che sentiva contro il Papismo, gli
facesse qualche affronto. Ma la stessa violenza dellʼira popolare erasi
calmata; la tempesta abbonacciata. Gaiezza e compassione avevano
succeduto al furore. Nessuno mostravasi inchinevole a insultare il
Re; qualche acclamazione fu udita mentre il suo cocchio traversava la
Città. Le campane di alcune chiese suonarono a festa; furono accesi
pochi fuochi di gioia a onorare il suo ritorno.[593] La sua debole
mente pur dianzi oppressa dallo scoraggiamento dètte in istravaganze
a cotesti inattesi segni di bontà e compassione mostrati dal popolo.
Giacomo entrò rinfrancato nel proprio palazzo, il quale subitamente
riprese il suo antico aspetto. I preti cattolici romani, che neʼ
decorsi giorni sʼerano frettolosamente nascosti neʼ sotterranei e
nelle soffitte per scansare il furore della plebe, uscirono dai loro
luridi nascondigli chiedendo i loro antichi appartamenti in palazzo.
Un Gesuita recitava il rendimento di grazie alla mensa del Re. Il
vernacolo irlandese, allora il più odioso di tutti i suoni alle
orecchie inglesi, udivasi per tutti i cortili e le sale. Il Re stesso
aveva ripresa la sua vecchia alterigia. Tenne un Consiglio—lʼultimo
deʼ suoi Consigli—ed anche negli estremi cui era ridotto convocò
individui privi deʼ requisiti legali ad intervenirvi. Si mostrò
gravemente indignato contro quei Lordi, che nella sua assenza avevano
osato assumere il governo dello Stato. Era loro dovere lasciare che la
società si dissolvesse, le case degli Ambasciatori venissero distrutte,
Londra arsa, più presto che assumere le funzioni chʼegli aveva creduto
giusto abbandonare. Fra coloro che ei così gravemente riprendeva, erano
alcuni Nobili e Prelati, i quali a dispetto di tutti i suoi errori
gli erano rimasti costantemente fedeli, e anche dopo questa altra
provocazione non seppero, per timore o speranza, indursi a prestare
obbedienza ad altro sovrano.[594]

Ma tale coraggio presto gli venne meno. Era egli appena entrato
in palazzo allorquando gli fu detto che Zulestein era pur giunto
messaggiero del Principe. Zulestein espose la fredda e severa
ambasciata di Guglielmo. Il Re insisteva per avere un colloquio col
nepote. «Non mi sarei partito da Rochester» disse egli «se avessi
saputo tale essere il suo volere: ma da che qui mi ritrovo, spero chʼei
voglia venire al palazzo di San Giacomo.»—«Debbo dire chiaramente alla
Maestà Vostra» rispose Zulestein «che Sua Altezza non verrà a Londra
finchè vi rimarranno soldati che non siano sotto gli ordini suoi.»
Il Re confuso a siffatta risposta, ammutolì. Zulestein andonne via;
e tosto entrò in camera un gentiluomo recando la nuova dello arresto
di Feversham.[595] Giacomo ne rimase grandemente conturbato. Pure
la rimembranza deʼ plausi con che era pur dianzi stato accolto, gli
confortava lʼanimo. Gli sorse in cuore una stolta speranza. Pensò che
Londra, la quale da tanto tempo era stata il baluardo della religione
protestante e delle opinioni Whig, fosse pronta a prendere le armi
in difesa di lui. Mandò a chiedere al Municipio, se sʼimpegnerebbe a
difenderlo contro il Principe, qualora Giacomo si recasse ad abitare
nella Città. Ma il Municipio, che non aveva posto in oblio la confisca
deʼ suoi privilegi e lo assassinio giuridico di Cornish, ricusò di dare
la promessa richiesta. Allora il Re si sentì nuovamente scorato. In
qual luogo, diceva egli, troverebbe protezione? Valeva lo stesso essere
circondato dalle truppe olandesi che dalle sue Guardie del Corpo.
Quanto ai cittadini, adesso egli comprese quanto valessero i plausi e
le luminarie. Altro partito non gli rimaneva che fuggire; e nondimeno
vedeva bene che nessuna cosa potevano tanto desiderare i suoi nemici,
quanto la sua fuga.[596]

XI. Mentre egli siffattamente trepidava, in Windsor deliberavasi intorno
al suo fato. Adesso la corte di Guglielmo era strabocchevolmente affollata
di uomini illustri di tutti i partiti.Vʼerano giunti la più parte deʼ capi
della insurrezione delle contrade settentrionali. Vari Lordi, i
quali nellʼanarchia deʼ giorni precedenti si erano costituiti da sè
in Governo provvisorio, appena ritornato il Re, lasciata Londra,
se nʼerano andati al quartier generale. Fra loro era anco Halifax.
Guglielmo lo aveva accolto con gran satisfazione, ma non aveva potuto
frenare un ironico sorriso vedendo lo ingegnoso e compìto uomo
politico, il quale aveva ambito a farsi arbitro in quella grande
contesa, essere costretto ad abbandonare ogni via di mezzo e prendere
un partito deciso. Fra coloro che in questa congiuntura arrivarono a
Windsor erano alcuni che avevano con ignominiosi servigi comperata la
grazia di Giacomo, e adesso erano bramosi di scontare, tradendo il
loro signore, il delitto dʼavere tradita la patria. Tale era Titus,
che aveva seduto in Consiglio in onta alle leggi, e sʼera affaticato a
stringere i puritani coʼ Gesuiti in una lega contro la costituzione.
Tale era Williams, il quale, per cupidigia di guadagno, di demagogo
sʼera fatto campione della regia prerogativa, e adesso era prontissimo
a commettere una seconda apostasia. Il Principe con giusto dispregio
lasciò che cotesti uomini si stessero vanamente aspettando unʼudienza
alla porta del suo appartamento.[597]

Il lunedì, 17 dicembre, tutti i Pari che erano in Windsor furono
convocati a una solenne consulta da tenersi nel castello. Il subietto
delle loro deliberazioni era ciò che fosse da farsi del Re: Guglielmo
non reputò savio partito trovarsi presente alla discussione. Ei
si ritirò; ed Halifax fu posto sul seggio presidenziale. I Lordi
concordavano in una cosa sola, cioè non doversi permettere che il Re
rimanesse dove era. Unanimemente estimavano dannoso che lʼun principe
si fortificasse in Whitehall, e lʼaltro nel palazzo di San Giacomo, e
che vi fossero due guarnigioni nemiche in uno spazio di cento acri. Un
tale provvedimento non poteva mancare di far nascere sospetti, insulti,
e battibecchi che finirebbero forse col sangue. Per le quali ragioni
i Lordi ingannati crederono necessario mandar via Giacomo di Londra.
Proposero qual luogo convenevole Ham, che Lauderdale lungo la riva
del Tamigi aveva edificato con le ricchezze rubate in Iscozia e con
la pecunia datagli dalla Francia a corromperlo, e che era considerato
come la più magnifica delle ville. I Lordi, venuti a tale conclusione,
invitarono il Principe a recarsi fra loro. Halifax gli comunicò la
deliberazione. Guglielmo approvò. Fu scritto un breve messaggio da
spedirsi al Re. «E per chi glielo manderemo?» domandò Guglielmo.
«Non dovrebbe essergli recato» disse Halifax «da uno degli ufficiali
di Vostra Altezza?»—«No, milord,» rispose il principe; «con vostra
licenza, il messaggio è spedito per consiglio delle Signorie Vostre;
dovrebbe quindi recarglielo alcuno di voi.» Allora senza far sosta,
onde non si desse luogo a rimostranze, ei nominò messaggieri Halifax,
Shrewsbury e Delamere.[598]

Sembra che la deliberazione deʼ Lordi fosse unanime. Ma nellʼassemblea
erano alcuni, che non approvavano affatto il provvedimento chʼessi
affettavano di approvare, e che desideravano vedere usata verso il
Re una severità che non rischiavansi a manifestare. È cosa notevole
che capo di questo partito era un Pari, già stato Tory esagerato, che
poscia non volle prestare giuramento a Guglielmo: questo Pari era
Clarendon. La rapidità onde in cotesta crisi ei passò da uno allʼaltro
estremo, parrebbe incredibile a coloro che vivono in tempi di pace,
ma non ne maraviglieranno coloro i quali hanno avuto occasione di
osservare il corso delle rivoluzioni. Si avvide che lʼasprezza con cui
egli al regio cospetto aveva censurato lo intero sistema del governo,
aveva mortalmente offeso il suo antico signore. Dallʼaltra parte, come
zio delle Principesse, poteva sperare dʼingrandirsi e arricchire nel
nuovo ordine di cose che già sʼiniziava. La colonia inglese in Irlanda
lo teneva come amico e patrono; ed ei pensava che assai parte della
propria importanza riposava sulla fiducia e lo affetto di quella. A
tali considerazioni cederono i principii da lui con tanta ostentazione
per tutta la sua vita professati. Si recò dunque alle secrete stanze
del Principe e gli appresentò il pericolo di lasciare il Re in libertà.
I protestanti dʼIrlanda essere in estremo periglio. Uno solo il
mezzo ad assicurare loro la roba e la vita, tenere, cioè, Sua Maestà
in istretta prigionia. Non essere prudente rinchiuderlo in uno deʼ
castelli della Inghilterra: ma potersi mandarlo di là dal mare e
chiuderlo nella fortezza di Breda finchè fossero pienamente ricomposte
le cose delle Isole Britanniche. Se tanto ostaggio rimanesse nelle
mani del Principe, Tyrconnel probabilmente porrebbe giù la spada del
comando, e senza strepito la preponderanza inglese verrebbe ristabilita
in Irlanda. Se dallʼaltro canto Giacomo fuggisse in Francia, e
si mostrasse a Dublino accompagnato da un esercito straniero, ne
nascerebbero gli effetti più disastrosi. Guglielmo riconobbe la gravità
di cotesti ragionamenti: ma ciò non poteva farsi. Ei conosceva lʼindole
di sua moglie, e sapeva bene chʼella non avrebbe mai consentito. E
veramente non sarebbe stata per lui onorevole cosa trattare con tanto
rigore il vinto suocero. Nè poteva affermarsi come certo la generosità
non essere la più sana politica. Chi avrebbe potuto prevedere lo
effetto che la severità suggerita da Clarendon produrrebbe nella
opinione pubblica della Inghilterra? Era forse impossibile che quello
entusiasmo di lealtà, che il Re aveva prostrato con la propria malvagia
condotta, risorgesse appena si sapesse egli essere entro le mura di una
fortezza straniera? Per queste ragioni Guglielmo si tenne fermissimo a
non privare della libertà il proprio suocero; e non è dubbio che ciò
fosse savio partito.[599]

Giacomo, mentre si discuteva intorno alla sua sorte, rimase in
Whitehall, affascinato, a quanto sembra, dalla grandezza e imminenza
del pericolo, e inetto a lottare o a fuggire. La sera giunse la
nuova che gli Olandesi avevano occupato Chelsea e Kensington. Il Re
nondimeno si apparecchiò a riposarsi secondo il consueto. Le guardie
dette Coldstream erano di servizio in palazzo. Le comandava Guglielmo
Conte di Craven, uomo vecchio, che cinquanta e più anni prima si era
reso famoso nelle armi e negli amori, aveva sostenuto a Creutznach con
tanto coraggio la disperata battaglia, che vuolsi il gran Gustavo
battendogli la spalla gli dicesse: Bravo!—e credevasi che sopra mille
rivali avesse conquistato il cuore della sventurata Regina di Boemia.
Craven adesso aveva ottantʼanni, ma il suo spirito non era per anche
domo dal tempo.[600]

XII. Erano battute le ore dieci allorquando gli fu annunziato che tre
battaglioni di fanteria del Principe con alcune legioni di cavalleria
venivano giù pel lungo viale del Parco di San Giacomo con micce accese,
e prontissimi ad agire. Il Conte Solmes che comandava gli stranieri
disse avere ordine dʼimpossessarsi militarmente dei posti attorno
a Whitehall, ed esortò Craven a ritirarsi in pace. Craven giurò di
lasciarsi piuttosto tagliare a pezzi: ma come il Re, che stavasi
spogliando, seppe ciò che seguiva, vietò al valoroso veterano di fare
una resistenza che non poteva essere che vana. Verso le ore undici le
guardie Coldstream sʼerano ritirate, e a guardia di ogni angolo del
palazzo vedevansi le sentinelle olandesi. Alcuni deʼ servitori del Re
chiesero se sarebbesi rischiato a dormire circondato daglʼinimici.
Rispose che essi non potevano trattarlo peggio di quel che avevano
fatto i suoi propri sudditi, e con lʼapatia di un uomo istupidito dalle
sciagure andossene a letto e si pose a dormire.[601]

XIII. Appena erasi fatto silenzio in palazzo quando esso fu nuovamente
interrotto. Poco dopo mezzanotte i tre Lordi giunsero da Windsor.
Middleton fu chiamato a riceverli. Gli dissero chʼerano portatori dʼun
messaggio che non poteva differirsi. Il Re fu destato dal suo primo
sonno; ed essi furono introdotti nella sua camera da letto. Gli posero
nelle mani la lettera loro affidata, e gli dissero che il Principe tra
poche ore arriverebbe a Westminster, e che Sua Maestà farebbe bene
a partire per Ham avanti le ore dieci della mattina. Giacomo fece
qualche obiezione. Disse non piacergli Ham, essere luogo gradevole in
estate, ma freddo e privo di comodi a Natale; oltre di che era senza
mobilia. Halifax rispose che sullʼistante verrebbe ammobiliato. I tre
messaggieri ritiraronsi, ma furono subitamente seguiti da Middleton,
il quale disse loro che il Re preferirebbe Rochester ad Ham. Risposero
non avere potestà di consentire al desiderio della Maestà Sua, ma
manderebbero tosto un messo al Principe, il quale quella notte doveva
alloggiare in Sion House. Il messo partì immediatamente, e tornò
innanzi lʼalba recando il consenso di Guglielmo; il quale lo diede
di gran cuore: imperciocchè non era dubbio che il Re avesse scelto
Rochester come luogo che offriva agevolezza a fuggire, e chʼegli
fuggisse era ciò che desiderava il suo genero.[602]

XIV. La mattina del dì 18 dicembre, giorno di pioggia e di procella,
il bargio del Re a buonʼora aspettava dinanzi le scale di Whitehall,
ed era circondato da otto o dieci barche ripiene di soldati olandesi.
Vari Nobili e gentiluomini accompagnarono il Re fino alla riva.
Dicesi, e può ben credersi, che piangessero: imperciocchè anche i più
zelanti amici della libertà non potevano vedere senza commuoversi la
trista e ignominiosa fine dʼuna dinastia che avrebbe potuto essere
sì grande. Shrewsbury fece quanto più potè per consolare il caduto
Sovrano. Perfino lʼaspro ed esagerato Delamere era intenerito. Ma fu
notato che Halifax, che aveva sempre mostrata tenerezza verso i vinti,
in quel caso era meno compassionevole deʼ suoi due colleghi. Aveva
tuttavia lʼanima invelenita dalla rimembranza dʼessere stato spedito
ambasciatore da scherno a Hungerford.[603]

Mentre il bargio reale lentamente procedeva su per le agitate onde
del fiume, lo esercito del Principe dallʼoccidente veniva arrivando a
Londra. Era stato saviamente ordinato che il servigio della metropoli
fosse fatto dai soldati britannici al soldo degli Stati Generali. I tre
reggimenti inglesi furono acquartierati dentro e attorno alla Torre, i
tre scozzesi in Southwark.[604]

XV. Malgrado il cattivo tempo una gran folla di popolo sʼera raccolta
fra Albemarle House e il palazzo di San Giacomo per plaudire al
Principe. Tutti i cappelli e i bastoni erano ornati dʼun nastro colore
di melarancia. Le campane suonavano per tutta Londra. Le finestre erano
tutte piene di candele per la luminara. Nelle strade vedevansi cataste
di legna e fascine per accendere fuochi di gioia. Guglielmo nondimeno
cui non garbava lo affollarsi e il rumoreggiare della gente, passò
traverso al Parco. Avanti notte giunse al palazzo di San Giacomo in un
cocchio leggiero, accompagnato da Schomberg. In breve tutte le stanze
e le scale del palazzo furono popolate da coloro che erano accorsi a
corteggiarlo. E la folla era tanta, che personaggi dʼaltissimo grado
non poterono penetrare nella sala dove stavasi il Principe.[605]

Mentre Westminster era in cotesto concitamento, il Municipio
in Guildhall apparecchiava un indirizzo di ringraziamenti e
congratulazioni. Il Lord Gonfaloniere non potè presedere. Non aveva
mai più alzato il capo da letto sino dal giorno in cui il Cancelliere
travestito da carbonaio era stato trascinato alla sala della giustizia.
Ma gli Aldermanni e gli altri ufficiali del corpo municipale erano
ai loro posti. Il dì seguente i magistrati della città recaronsi
solennemente a complire il liberatore. La gratitudine loro fu con
eloquenti parole espressa dal cancelliere Sir Giorgio Treby. Disse che
alcuni Principi della Casa di Nassau erano stati principali ufficiali
dʼuna grande repubblica. Altri avevano portata la corona imperiale.
Ma il titolo peculiare di questa illustre famiglia alla pubblica
venerazione era che Dio lʼaveva eletta e consacrata allʼalto ufficio
di difendere il vero e la libertà contro i tiranni di generazione in
generazione. Il dì stesso tutti i prelati che trovavansi in città,
tranne Sancroft, andarono in corpo al cospetto del Principe; quindi il
clero di Londra, cioè gli uomini più cospicui del ceto ecclesiastico
per dottrina, facondia e influenza, aventi a capo il loro Vescovo.
Erano fra loro alcuni illustri ministri dissenzienti, i quali
Compton, a suo sommo onore, trattò con segnalata cortesia. Pochi mesi
avanti o dopo, simigliante cortesia sarebbe stata da molti anglicani
considerata come tradigione verso la Chiesa. Anche allora un occhio
veggente poteva bene accorgersi che la tregua, alla quale le sètte
protestanti erano state costrette, non sarebbe lungamente sopravvissuta
al pericolo che lʼaveva fatta nascere. Circa cento teologi non
conformisti, residenti nella capitale, presentarono un indirizzo a
parte. Furono introdotti da Devonshire ed accolti con ogni segno di
gentilezza e rispetto. Il ceto legale andò anchʼesso a fare omaggio; lo
conduceva Maynard, il quale a novanta anni dʼetà era forte di mente e
di corpo come quando in Westminster Hall sorse accusatore di Strafford.
«Signore Avvocato» disse il Principe «voi dovete avere sopravvissuto a
tutti i legali vostri coetanei.»—«Sì, Altezza,» rispose il vegliardo
«e se non venivate voi sopravvivevo anco alle leggi.»[606]

Ma comechè glʼindirizzi fossero molti e pieni di elogi, le acclamazioni
alte, le illuminazioni splendide, il palazzo di San Giacomo troppo
angusto per la folla deʼ corteggiatori, i teatri ogni notte dalla
platea al soffitto adorni di nastri colore di melarancia, Guglielmo
sentiva che le difficoltà della sua intrapresa cominciavano allora.
Aveva rovesciato un Governo, ma adesso doveva compiere lʼassai più
difficile lavoro di ricostruirne un altro. Da quando sbarcò a Torbay
finchè giunse a Londra, aveva esercitata lʼautorità, che per le leggi
della guerra, riconosciute da tutto il mondo incivilito, appartiene
al comandante dʼun esercito nel campo. Adesso era necessario mutare
il suo carattere di generale in quello di magistrato; e questa non
era agevole impresa. Un solo passo falso poteva esser fatale; ed era
impossibile fare un solo passo senza offendere pregiudicii e svegliare
acri passioni.

XVI. Alcuni deʼ consiglieri del Principe lo incitavano a prendere a
un tratto la corona per diritto di conquista; e poi in qualità di
Re spedire muniti del proprio Gran Sigillo i decreti a convocare il
Parlamento. Molti insigni giureconsulti lo confortavano ad appigliarsi
a tale partito, dicendo essere quella la via più breve di giungere
dove, andandovi altrimenti, sʼincontrerebbero innumerevoli ostacoli e
contese. Ciò era strettamente conforme al felice esempio dato da Enrico
VII dopo la battaglia di Bosworth. Farebbe ad un tempo cessare gli
scrupoli che molti spettabili uomini sentivano quanto alla legalità di
trasferire il giuramento di fedeltà da un sovrano ad un altro. Nè la
legge civile nè quella della Chiesa Anglicana riconoscevano neʼ sudditi
il diritto di detronizzare il Sovrano. Ma nessun giureconsulto, nessun
teologo negò mai che una nazione vinta in guerra, potesse senza peccato
sobbarcarsi al volere del Dio degli eserciti. Difatti dopo la conquista
caldea, i più pii e patriottici degli Ebrei non crederono di mancare al
proprio debito verso il Re loro, servendo lealmente il nuovo signore
dato loro dalla Provvidenza. I tre confessori, che erano rimasti
miracolosamente illesi nellʼardente fornace, tennero altri uffici nella
provincia di Babilonia. Daniele fu ministro dello Assiro che soggiogò
Giuda, e del Persiano che soggiogò lʼAssiria. Che anzi lo stesso Gesù,
il quale secondo la carne era Principe della Casa di David, comandando
ai suoi concittadini di pagare il tributo a Cesare, aveva voluto
significare che la conquista straniera annulla il diritto ereditario ed
è titolo legittimo di dominio. Era quindi probabile che un gran numero
di Tory, quantunque non potessero con sicura coscienza eleggersi un
Re, accetterebbero senza esitazione quello che gli eventi della guerra
avevano dato loro.[607]

Dallʼaltra parte, nondimeno, vʼerano ragioni di grave momento. Il
Principe non poteva pretendere dʼavere guadagnata la corona con la
propria spada senza bruttamente rompere la fede data. Nel suo Manifesto
aveva protestato contro ogni pensiero di conquistare la Inghilterra;
aveva asserito che coloro i quali gli attribuivano siffatto disegno,
calunniavano iniquamente non solo lui, ma tutti quei Nobili e
gentiluomini patriotti che lo avevano invitato; che le forze da lui
condotte erano evidentemente inadequate ad una impresa così ardua; e
che era fermamente deliberato di portare innanzi a un libero Parlamento
tutte le pubbliche doglianze e le sue proprie pretese. Non era equo
nè saggio chʼei per qualsiasi cosa terrena rompesse la sua parola
solennemente impegnata al cospetto di tutta la Europa. Nè era certo
che, chiamandosi conquistatore, chetasse quegli scrupoli onde i rigidi
Anglicani ripugnavano a riconoscerlo Re. Imperocchè, in qualunque
modo egli si chiamasse, tutto il mondo sapeva chʼegli non era vero
conquistatore. Era manifestamente unʼaperta finzione il dire che questo
gran Regno, con una potente flotta in mare, con un esercito stanziale
di quarantamila uomini, e con una milizia civica di centotrentamila
uomini, fosse stato, senza un solo assedio o una sola battaglia,
ridotto a condizione di provincia da quindicimila invasori. Non era
verosimile che cosiffatta finzione rasserenasse le coscienze realmente
scrupolose, mentre non mancherebbe di ferire lʼorgoglio nazionale ormai
cotanto sensitivo e irritabile. I soldati inglesi erano in tali umori
che richiedevano dʼessere con somma accortezza governati. Sentivano che
nella recente campagna non avevano sostenuta una onorevolissima parte.
I capitani e i soldati comuni erano al pari impazienti di provare che
non avevano per difetto di coraggio ceduto a forze inferiori. Taluni
officiali olandesi erano stati tanto indiscreti da vantarsi, col
bicchiere in mano dentro una taverna, dʼavere rinculata lʼarmata regia.
Questo insulto aveva fra le truppe inglesi suscitato un fermento, che
ove non vi si fosse prontamente immischiato Guglielmo, sarebbe forse
finito in una terribile strage.[608] Quale, in tali circostanze, poteva
essere lo effetto di un proclama che avesse annunziato il comandante
degli stranieri considerare lʼisola intera come legittima preda di
guerra?

Era anche da ricordarsi che, pubblicando un simigliante proclama, il
Principe avrebbe a un tratto abrogati tutti quei diritti deʼ quali egli
sʼera dichiarato campione: perocchè lʼautorità di un conquistatore
straniero non è circoscritta dalle costumanze e dagli statuti della
nazione conquistata, ma è in sè stessa dispotica. E quindi Guglielmo o
non poteva dichiararsi Re, o poteva dichiarare nulle la _Magna Charta_
e la Petizione dei Diritti, abolire il processo dinanzi ai Giurati, e
imporre tasse senza il consenso del Parlamento. Poteva, a dir vero,
ristabilire lʼantica costituzione del reame. Ma, ciò facendo, era
provvedimento arbitrario. Quinci innanzi la libertà dellʼInghilterra
verrebbe fruita dai cittadini con umiliante possesso; nè sarebbe, quale
era stata fino allora, unʼantichissima eredità, ma un dono recente che
il generoso signore, da cui era stato ai suoi sudditi impartito, poteva
ripigliare a suo talento.

XVII. Guglielmo adunque dirittamente e con prudenza fece pensiero
dʼosservare le promesse contenute nel suo Manifesto, e lasciare alle
Camere lʼufficio di riordinare il governo. Con tanto studio egli
schivò tutto ciò che potesse sembrare usurpazione, che non volle,
senza una qualche sembianza dʼautorità parlamentare, avventurarsi a
convocare gli Stati del Regno, o dirigere il potere esecutivo nel
tempo in cui si facevano le elezioni. Nello Stato non vʼera autorità
strettamente parlamentare: ma potevasi in poche ore mettere insieme una
assemblea alla quale la nazione portasse gran parte della riverenza
dovuta a un Parlamento. Poteva formarsi una Camera deʼ numerosi Lordi
spirituali e secolari che allora si trovavano in Londra, e lʼaltra
degli antichi membri della Camera deʼ Comuni e deʼ Magistrati della
Città. Tale disegno era ingegnoso e venne prontamente mandato ad
effetto. Fu intimato ai Pari di trovarsi pel dì 21 dicembre al Palazzo
di San Giacomo. Vi accorsero circa settanta. Il Principe gli esortò
considerassero le condizioni del paese, e presentassero a lui il
resultato delle loro deliberazioni. Poco dopo comparve un annunzio, col
quale invitavansi tutti i gentiluomini che erano stati membri della
Camera deʼ Comuni sotto il regno di Carlo II, a presentarsi a Sua
Altezza la mattina del dì 26. Furono anche chiamati gli Aldermanni di
Londra, e al Municipio fu richiesto di mandare una deputazione.[609]

Taluni hanno spesso richiesto, in tono di rimprovero, il perchè lo
invito non fu mandato anche ai membri del Parlamento che lʼanno
precedente era stato disciolto. La risposta è chiara. Uno deʼ precipui
aggravi deʼ quali la nazione querelavasi era il modo onde era stato
eletto quel Parlamento. La maggior parte deʼ rappresentanti i borghi
erano stati eletti da collegi elettorali ordinati in un modo che
veniva universalmente considerato illegale, ed era stato biasimato
dal Principe nel suo Manifesto. Lo stesso Giacomo, poco innanzi la sua
caduta, aveva assentito a rendere aʼ Municipi le antiche franchigie.
Guglielmo adunque sarebbe stato incoerentissimo a sè stesso, qualora,
dopo dʼavere prese le armi col fine di ricuperare i ritolti privilegi
municipali, avesse riconosciuto come legittimi rappresentanti delle
città dʼInghilterra individui eletti in onta a quei privilegi.

Sabato, il dì 22, i Lordi ragunaronsi nella consueta sala. Spesero quel
giorno a stabilire il modo di procedere. Elessero un segretario; e
non potendosi avere fiducia di nessuno deʼ dodici giudici, invitarono
alcuni deʼ più reputati avvocati per giovarsi del loro consiglio nelle
questioni legali. Deliberarono che nel prossimo lunedì lo stato del
Regno verrebbe preso in considerazione.[610]

Lo intervallo fra la tornata del sabato e quella del lunedì fu tempo
dʼansietà e pieno dʼavvenimenti. Un forte partito fraʼ Pari vagheggiava
tuttavia la speranza che la Costituzione e la religione del Regno
si potessero assicurare senza deporre il Re dal trono. Costoro
determinarono di mandargli un indirizzo supplicandolo consentisse
termini tali da far cessare il malcontento e i timori suscitati dalla
sua passata condotta. Sancroft, il quale, dopo il ritorno del Re da
Kent a Whitehall, non sʼera più immischiato neʼ pubblici affari, in
questa occasione uscì fuori del suo ritiro onde porsi a capo dei
realisti. Parecchi messaggieri furono spediti a Rochester con lettere
pel Re. Lo assicuravano che i suoi interessi sarebbero strenuamente
difesi, solo chʼegli in questo estremo momento si persuadesse a
rinunziare ai disegni cotanto dal suo popolo aborriti. Alcuni
spettabili Cattolici Romani gli tennero dietro onde scongiurarlo, per
amore della comune religione, non si ostinasse in una vana contesa.[611]

Il consiglio era salutare; ma Giacomo non era in condizione da
seguirlo. Comunque avesse avuto sempre debole e tardo intendimento,
le donnesche paure e le puerili fantasie che gli agitavano lʼanima,
glielo rendevano affatto inutile. Accorgevasi bene la sua fuga
essere la cosa che sopra tutto temevano gli amici e desideravano
glʼinimici suoi. E quando anco avesse corso pericolo di vita a
rimanere, lʼoccasione era tale chʼegli avrebbe dovuto reputare infame
il ritirarsi: imperocchè trattavasi di sapere se egli e i posteri
suoi dovessero regnare assisi sul trono avito, o andare raminghi
ed accattando in terra straniera. Ma nellʼanima sua ogni altro
sentimento aveva ceduto al vigliacco timore di perdere la vita. Alle
calde preghiere e alle incontrastabili ragioni degli agenti mandati
a Rochester dagli amici suoi, egli dava una sola risposta: la sua
testa essere in pericolo. Invano gli assicuravano tale sospetto essere
privo di fondamento; il buon senso, ove non fosse la virtù, dovere
dissuadere il Principe dʼOrange dalla colpa e vergogna del regicidio
e del parricidio, e molti, i quali non consentirebbero a detronizzare
il loro Sovrano mentre rimaneva nellʼisola, reputarsi per la sua
diserzione sciolti dal loro debito di fedeltà. Ma la paura vinse ogni
altro sentimento. Giacomo risolvè di partirsi; e gli era agevole farlo.
Era trascuratamente guardato: tutti avevano a lui libero accesso; navi
pronte a far vela trovavansi poco da lui distanti, e le barche potevano
spingersi fino al giardino della casa dove egli alloggiava. Se fosse
stato savio, le cure che davansi i suoi custodi a facilitargli la
fuga, sarebbero state sufficenti a convincerlo chʼegli avrebbe dovuto
rimanere colà dove era. E veramente la rete era così apertamente tesa
da non ingannare altri che uno stolto reso insano dal terrore.

XVIII. Il Re sollecitamente apparecchiò tutto per eseguire il proprio
disegno. La sera del sabato 22 assicurò alcuni deʼ gentiluomini, i
quali erano stati spediti da Londra portatori di nuove e di consigli,
che li avrebbe veduti la dimane. Andonne a letto, levossi sul cadere
della notte, e accompagnato da Berwick per un uscio secreto scese, e
andò, traversando il giardino, alla spiaggia del Medway. Una piccola
gondola stavasi ad aspettarlo. La domenica allʼalba i fuggenti erano
sopra una barca da pescare che scendeva giù pel Tamigi.[612]

Il pomeriggio la nuova della fuga giunse a Londra. I fautori del
Re rimasero confusi. I Whig non poterono frenare la gioia loro. La
fausta notizia incoraggiò il Principe a fare un ardito ed importante
passo. Sapeva esservi comunicazioni tra la Legazione Francese e il
partito ostile a lui. Era ben noto che quella Legazione sʼintendeva
maravigliosamente di tutte le arti della corruzione; e mal poteva
dubitarsi che in tanta congiuntura non aborrirebbero di adoperare le
pistole e ogni sorta dʼintrighi. Barillon sommamente desiderava di
rimanere per pochi altri giorni in Londra, e a tale scopo non aveva
trascurata arte alcuna a blandire i vincitori. Nelle strade abboniva
il popolaccio, che lo guardava in cagnesco, gettandogli dal cocchio
pugni di monete. A mensa beveva pubblicamente alla salute del Principe
dʼOrange. Ma Guglielmo non era uomo da lasciarsi prendere allʼamo da
tali moine. A dir vero, non erasi arrogato lo esercizio della regia
autorità; ma era Generale, e come tale non era tenuto a tollerare nel
territorio da lui militarmente occupato la presenza di un uomo chʼegli
credeva spione. Innanzi sera a Barillon fu intimato di partirsi dalla
Inghilterra entro ventiquattro ore. Pregò caldamente gli si concedesse
un breve indugio: ma i momenti erano preziosi; lʼordine fu ripetuto in
modo più perentorio, ed ei di mala voglia partì per Dover. E perchè
non vi mancasse nessuna dimostrazione di spregio e di sfida, venne
scortato fino alla costa da uno deʼ suoi concittadini protestanti dalla
persecuzione cacciati in esilio. Era tanto il risentimento che nel
cuore di tutti avevano suscitato lʼambizione e lʼarroganza francese,
che perfino quegli Inglesi i quali generalmente non inchinavano a
guardare di buon occhio la condotta di Guglielmo, altamente plaudirono
allorchè lo videro ritorcere con tanta energia la insolenza con che
Luigi per tanti anni aveva trattato ogni corte dʼEuropa.[613]

XIX. Il lunedì i Lordi adunaronsi di nuovo. Halifax venne eletto a
presiedere. Il Primate era assente, i realisti afflitti e scuorati,
i Whig ardenti ed animosissimi. Sapevasi che Giacomo partendo aveva
lasciata una lettera. Alcuni degli amici suoi proposero che fosse
deposta sul banco, vanamente sperando che contenesse cose tali da
apprestare la base ad un prospero accomodamento. A tale proposta fu
fatta e vinta la questione pregiudiciale. Godolphin, che era tenuto per
bene affetto al suo antico signore, profferì poche parole che furono
decisive. «Ho veduto lo scritto,» disse egli «e mi duole il dirvi
che non contiene nulla che possa minimamente satisfare le Signorie
Vostre.» E veramente non conteneva una sola parola di pentimento deʼ
passati errori, non speranza di non più ricadervi in futuro, e di
ciò che era accaduto dava la colpa alla malizia di Guglielmo e alla
cecità dʼuna nazione ingannata dagli speciosi nomi di proprietà e
religione. Nessuno tentò di proporre di aprire pratiche dʼaccordo con
un Principe che pareva reso più ostinato nel male dalla rigorosa scuola
dellʼavversità. Si disse qualcosa sul fare inchieste intorno alla
nascita del Principe di Galles; ma i Pari Whig trattarono la cosa con
isdegno. «Non mi aspettava, Milordi,» esclamò Filippo Lord Wharton,
vecchia Testarotonda che aveva comandato un reggimento contro Carlo
I in Edgehill, «non mi aspettava di udire alcuno in questo giorno
rammentare il fanciullo cui fu dato il nome di Principe di Galles;
e spero che ormai sia rammentato per lʼultima volta.» Dopo lungo
discutere fu deliberato di presentare due indirizzi a Guglielmo. In
uno lo pregavano di assumersi provvisoriamente lʼamministrazione del
governo; nellʼaltro lo esortavano a invitare con lettere circolari
munite della sua propria firma tutti i collegi elettorali del Regno a
inviare i loro rappresentanti a Westminster. Nel tempo stesso i Pari
assumevano lo incarico di emanare un ordine perchè tutti i Papisti,
salvo pochi individui privilegiati, fossero banditi da Londra e dalle
vicinanze.[614]

I Lordi presentarono i loro indirizzi al Principe il dì susseguente,
senza attendere lʼesito delle deliberazioni deʼ Comuni da lui
convocati. Eʼ sembra che i Nobili ereditari in questo momento fossero
ansiosissimi di far mostra della dignità loro, e non erano inchinevoli
a riconoscere uguale autorità in una assemblea non riconosciuta
dalla legge. Pensavano dʼessere una vera Camera di Lordi; lʼaltra
disprezzavano come illusoria Camera di Comuni. Guglielmo, nondimeno,
saviamente disse di non volere nulla decidere finchè non conoscesse
lʼopinione deʼ gentiluomini, i quali per lʼinnanzi erano stati onorati
della fiducia delle Contee e delle città dʼInghilterra.[615]

XX. I Comuni chʼerano stati chiamati adunaronsi nella Cappella di
Santo Stefano e formarono unʼassemblea numerosa. Posero sul seggio
presidenziale Enrico Powle, già rappresentante di Cirencester in vari
Parlamenti, e deʼ principali propugnatori della Legge dʼEsclusione.

Furono proposti e approvati indirizzi simili a quelli dei Lordi. Non
vi fu differenza dʼopinioni sopra alcuna questione di grave momento;
ed alcuni deboli tentativi fatti a suscitare discussioni sopra materie
di forma, incontrarono universale disprezzo. Sir Roberto Sawyer disse
di non potere intendere in che modo il Principe potesse amministrare
il governo senza alcun titolo speciale, come sarebbe Reggente o
Protettore. Il vecchio Maynard il quale, come giureconsulto, non aveva
chi gli stesse a fronte, e che anche aveva somma pratica della tattica
delle rivoluzioni, non ebbe cura di frenare il proprio sdegno contro
una obiezione così puerile, fatta in un momento in cui la concordia
e la prontezza erano della più alta importanza. «Noi staremo qui un
secolo» disse egli «se rimarremo finchè Sir Roberto intenda come la
cosa sia possibile.» Lʼassemblea reputò la risposta degna del cavillo
che lʼavea provocata.[616]

XXI. Le deliberazioni dellʼadunanza furono comunicate al Principe; il
quale annunziò che oramai cederebbe alla richiesta delle due Camere, e
spedirebbe lettere di convocazione per ragunare una Convenzione degli
Stati del Reame, e finchè non fosse ragunata, eserciterebbe egli il
potere esecutivo.[617]

Ei sʼera accinto a non lieve impresa. Il Governo era onninamente
sossopra. I Giudici di Pace avevano abbandonate le loro funzioni.
Gli ufficiali della pubblica rendita avevano cessato di riscuotere
le tasse. Lʼarmata disciolta da Feversham era ancora in confusione e
pronta ad ammutinarsi. La flotta non era in meno tristi condizioni.
Gli ufficiali militari e civili della Corona erano creditori di grosse
somme per paghe arretrate; e nello Scacchiere altro non era che
quarantamila lire sterline. Il Principe con somma energia si pose a
rifare lʼordine. Pubblicò un proclama che esortava tutti i magistrati a
continuare neʼ loro uffici, e un altro in cui ordinava la riscossione
delle imposte.[618]

Il nuovo riordinamento dello esercito con rapidità procedeva. Molti deʼ
Nobili e gentiluomini cui Giacomo aveva tolto il comando deʼ reggimenti
inglesi furono richiamati. Fu trovato modo a impiegare le migliaia di
soldati irlandesi da Giacomo fatti venire in Inghilterra. Non potevano
in sicurtà rimanere in un paese dove essi erano segno alla animosità
nazionale e religiosa. Non potevano con sicurtà mandarsi a casa loro
per afforzare lʼarmata di Tyrconnel. Fu quindi provveduto di spedirli
sul continente, dove, sotto il vessillo di Casa dʼAustria, potevano
riuscire dʼindiretta ma efficace utilità alla causa della costituzione
inglese e della religione protestante. Dartmouth fu destituito; e
promettendo ad ogni marinaio prontamente la paga dovutagli, la flotta
riconciliossi a Guglielmo. La città di Londra imprese ad appianargli
le difficoltà di finanza. Il Consiglio Municipale, con voto unanime,
sʼimpegnò a procurargli duecento mila lire sterline. E fu considerato
come gran prova della opulenza e del patriottismo dei mercatanti
della metropoli il trovare in quarantotto ore la intera somma senza
altra guarentigia che la parola del Principe. Poche settimane innanzi
Giacomo non aveva potuto procurarsi una somma assai minore, ancorchè
avesse offerto di pagare frutti più alti, e dare in pegno beni di molto
pregio.[619]

XXII. In pochissimi giorni lo sconvolgimento prodotto dalla invasione,
dalla insurrezione, dalla fuga di Giacomo e dalla sospensione dʼogni
regolare governo, era finito, e il paese aveva ripreso il consueto
aspetto. Regnava universale sentimento di sicurezza. Anche le classi
maggiormente esposte allʼodio pubblico, e che avevano maggiore ragione
a temere una persecuzione, furono protette dalla accorta clemenza
del vincitore. Individui profondamente implicati negli illegali atti
dello antecedente regno, non solo passeggiavano sicuri per le vie,
ma profferivansi candidati alla Convenzione. Mulgrave non fu accolto
di mala grazia al palazzo di San Giacomo. A Feversham, sprigionato,
fu permesso di riprendere lʼunico ufficio pel quale aveva i debiti
requisiti, cioè quello di tenere la banca al giuoco della bassetta
in casa della Regina vedova. Ma non vi fu classe del popolo che
avesse tanta cagione di sentire gratitudine per Guglielmo al pari deʼ
Cattolici Romani. Non sarebbe stato savio partito abrogare formalmente
i severi provvedimenti fatti daʼ Pari contro i credenti dʼuna religione
generalmente aborrita dalla nazione: ma tali provvedimenti vennero
praticamente annullati mercè la prudenza ed umanità del Principe.
Marciando da Torbay alla volta di Londra aveva dato ordine di non
recar danno alle persone e alle abitazioni deʼ papisti. Adesso
rinnovò tali ordini, e ingiunse a Burnet gli facesse rigorosamente
eseguire. Non poteva fare migliore scelta, imperciocchè Burnet era
uomo di tanta generosità e buona indole, che il suo cuore era sempre
aperto aglʼinfelici; e nel tempo medesimo il suo ben noto odio contro
il papismo era pei più fervidi protestanti sufficiente sicurtà che
glʼinteressi della religione loro non correrebbero il minimo rischio
nelle mani di lui. Ascoltava cortesemente le querele deʼ Cattolici
Romani, procurava il passaporto a tutti coloro che amavano meglio
andarsene di là dal mare, e si recò da sè a Newgate per visitare i
prelati ivi rinchiusi. Ordinò che venissero trasferiti in più comode
stanze, e serviti con ogni riguardo. Gli assicurò solennemente che
non verrebbe loro torto un capello, ed appena il Principe fosse in
condizione da agire secondo che desiderava, gli avrebbe posti in
libertà. Il Ministro di Spagna riferì al proprio Governo, e per mezzo
di questo al Papa, che nessun Cattolico poteva sentire scrupolo di
coscienza a cagione della recente rivoluzione della Inghilterra; che
deʼ pericoli, ai quali i credenti nella vera Chiesa trovavansi esposti,
il solo Giacomo era responsabile, e che il solo Guglielmo li aveva
salvati da una sanguinosa persecuzione.[620]

XXIII. E però con quasi piena soddisfazione i Principi della Casa
dʼAustria e il Sommo Pontefice sentirono che il lungo vassallaggio
della Inghilterra era finito. Come si seppe in Madrid che Guglielmo
andava a vele gonfie nella sua intrapresa, un solo nel consiglio di
Stato di Spagna osò esprimere il proprio rincrescimento al vedere come
un fatto, che politicamente considerato era faustissimo, sarebbe stato
dannoso aglʼinteressi della vera Chiesa.[621]

Ma la tollerante politica del Principe prestamente quietò tutti gli
scrupoli, e il suo inalzamento non fu veduto con minore satisfazione
dai bacchettoni Grandi di Spagna, che dai Whig inglesi.

Con assai diverso sentimento la nuova di questa grande rivoluzione fu
accolta in Francia. In un solo giorno la politica dʼun regno lungo,
pieno di vicissitudini e glorioso, restò sconcertata. Inghilterra era
di nuovo la Inghilterra dʼElisabetta e di Cromwell; e le relazioni
di tutti gli Stati della Cristianità furono pienamente cangiate
dalla repentina intromissione di questo nuovo potentato nel sistema
europeo. I Parigini non sapevano dʼaltro discorrere se non di ciò che
seguiva in Londra. Il sentimento nazionale e religioso spingevali
a parteggiare per Giacomo. Non sapevano un jota della costituzione
inglese. Abbominavano la Chiesa Anglicana. La nostra rivoluzione
pareva loro non il trionfo della libertà sopra la tirannide, ma una
orrenda tragedia domestica, nella quale un venerabile e pio Servio
veniva tratto giù dal trono da un Tarquinio, e schiacciato dalle ruote
del cocchio dʼuna Tullia. Gridavano vergogna ai capitani traditori,
esecravano le snaturate figliuole, e sentivano per Guglielmo profondo
disgusto, comecchè temperato dal rispetto che il valore, la capacità, e
i prosperi successi sogliono ispirare.[622] La Regina, sotto la sferza
del notturno vento e della pioggia, stringendo al petto il parvolo
erede di tre corone, il Re arrestato, derubato, e oltraggiato da uomini
ribaldi, erano cose che destavano commiserazione e romanzesco interesse
nel cuore di tutti i Francesi. Ma Luigi fu quegli che provò particolari
emozioni vedendo le calamità della Casa Stuarda. Si sentì ridestare
nellʼanima lo egoismo e la generosità tutta dellʼindole sua. Dopo molti
anni di prosperità egli aveva finalmente dato in un grave inciampo.
Aveva calcolato sopra lo aiuto o la neutralità della Inghilterra; e
adesso non poteva altro da quella aspettarsi che energica e pertinace
ostilità. Parecchi giorni innanzi avrebbe non senza ragione potuto
sperare di soggiogare le Fiandre e dettare la legge alla Germania; e
adesso si reputerebbe fortunato ove potesse difendere i confini del
Regno contro una lega da lunghissimi anni non più veduta in Europa. Da
questa cotanto nuova, impacciosa e pericolosa posizione, nullʼaltro
che una controrivoluzione o una guerra civile nelle Isole britanniche
poteva liberarlo. Per le quali cose ambizione e paura lo spingevano ad
abbracciare la causa della caduta dinastia. Ed è giusto il dire che a
ciò fare lo movevano anche sentimenti più nobili che lʼambizione e il
timore non fossero. Il suo cuore era naturalmente compassionevole, e
le sciagure di Giacomo erano tali da svegliare tutta la compassione
di Luigi. Le circostanze in cui egli erasi trovato avevano impedito
il libero corso ai suoi buoni sentimenti. La simpatia rade volte è
vigorosa dove è grande ineguaglianza di condizioni; ed egli sʼera
tanto alto levato sopra gli altri uomini, che le loro miserie gli
destavano in cuore una tepida pietà, quale sarebbe quella che noi
proviamo ai patimenti degli animali inferiori, dʼun pettirosso affamato
o dʼun spedato cavallo da posta. La devastazione del Palatinato e la
persecuzione degli Ugonotti non gli avevano quindi turbato lʼanimo
in guisa, che tosto non glielo mettessero in calma lʼorgoglio e la
bacchettoneria. Ma si sentì destare nellʼanima tutta la tenerezza di
cui egli era capace, vedendo la miseria di un gran Re, che pochi giorni
innanzi era stato servito in ginocchio da grandi Signori, e che adesso
era esule e mendico. A questo sentimento di tenerezza era commista una
vanità non ignobile. Voleva dare al mondo un esempio di munificenza
e cortesia. Voleva mostrare allʼumanità quale dovrebbe essere il
contegno di un perfetto gentiluomo in altissimo stato e in una solenne
congiuntura; e, a vero dire, ei si condusse da uomo cavallerescamente
urbano e generoso, sì che di altro esempio non si onoravano gli annali
della Europa dal tempo in cui il Principe Nero si stette in piedi
dietro la sedia del Re Giovanni a cena nel campo di Poitiers.

XXIV. Appena si seppe in Versailles che la Regina dʼInghilterra era
approdata in Francia, le venne apparecchiato un palazzo. Furono spediti
cocchi e compagnie di Guardie por istarsi agli ordini di lei. Perchè
ella potesse comodamente viaggiare, si feʼ racconciare la strada di
Calais. A Lauzun non solo fu, a riguardo di lei, concesso perdono
delle colpe passate, ma egli ebbe lʼonore dʼuna lettera amichevole
scritta di mano di Luigi. Maria faceva cammino alla volta della
corte francese, allorquando giunse la nuova che il suo marito, dopo
un procelloso viaggio, era sbarcato a salvamento presso il piccolo
villaggio dʼAmbleteuse. Personaggi dʼalto grado furono tosto spediti
da Versailles a compirlo e servirgli di scorta. Frattanto Luigi,
accompagnato dalla sua famiglia e daʼ suoi Nobili, uscì in solenne
corteo a ricevere lʼesule Regina. Il suo cocchio sontuoso era preceduto
dagli alabardieri svizzeri. Lo fiancheggiava di qua o di là il corpo
delle Guardie a cavallo sonando i cimbali e le trombe. Dietro il Re
in cento carrozze, ciascuna tirata da sei cavalli, veniva la più
splendida aristocrazia che fosse in Europa, tutta piume, nastri,
gioie e ricami. La processione non aveva fatto molto cammino quando
fu annunziato che Maria appressavasi. Luigi scese dal cocchio, e
a piedi le andò incontro. Ella diede in uno scoppio di passionate
espressioni di gratitudine. «Madama,» disse il Re di Francia «egli è
un tristo servigio quello che oggi vi rendo. Spero che in futuro io
possa rendervene di maggiori e più piacevoli.» Così dicendo, baciò il
pargoletto Principe di Galles, e fece sedere alla sua destra la Regina
nel cocchio reale. Allora la cavalcata si volse verso Saint–Germain.

Quivi nella estremità dʼuna foresta popolata di belve da caccia, e in
cima a un colle che sovrasta al tortuoso corso della Senna, Francesco
I aveva edificato un castello, ed Enrico IV una magnifica terrazza.
Di tutte le magioni deʼ Re di Francia, in nessuna si respirava aria
più salubre e godevasi un più ameno spettacolo. La grandezza e vetustà
veneranda degli alberi, la beltà deʼ giardini, lʼabbondanza delle
acque erano in gran fama. Ivi Luigi XIV era nato, e nei suoi giovani
anni ivi avea tenuta la sua corte, aveva aggiunti vari padiglioni alla
magione di Francesco, e finita la terrazza di Enrico. Nonostante,
presto il Re provò inesplicabile disgusto pel luogo dove era nato.
Ei lasciò Saint–Germain per trasferirsi a Versailles, e spese somme
pressochè favolose nel vano sforzo di creare un paradiso in un luogo
singolarmente sterile e insalubre, tutto sabbia e fango, senza boschi,
senza acqua e senza caccia. Saint–Germain adunque fu scelto per
abitazione della reale famiglia dʼInghilterra. Vi era stata in fretta
trasportata sontuosa mobilia. Le stanze pel Principe di Galles erano
state provvedute dʼogni cosa necessaria ai bisogni dʼun pargolo. Uno
deʼ servi presentò alla Regina la chiave di un ricco scrigno che
trovavasi nello appartamento di lei. Ella lo aprì, e vi trovò dentro
seimila luigi dʼoro.

XXV. Il dì susseguente Giacomo arrivò a Saint–Germain. Vi era Luigi
a riceverlo. Lo sventurato esule gli fece un sì profondo inchino che
pareva volesse abbracciare le ginocchia del suo protettore. Luigi
sollevatolo, abbracciollo con fraterna tenerezza. I due Re entrarono
in camera della Regina. «Ecco qui un gentiluomo» le disse Luigi «che
voi gradirete di vedere.» Quindi dopo avere pregato il suo ospite a
volere pel dì prossimo visitare Versailles, e concedergli il piacere di
mostrargli gli edificii, le pitture, e le piantagioni, prese commiato,
senza cerimonie, quasi fossero vecchi amici.

Dopo poche ore agli sposi reali venne annunziato che per tutto il
tempo chʼessi farebbero al Re di Francia il favore di accettarne
lʼospitalità, verrebbe loro pagata dal suo tesoro lʼannua somma di
quarantacinquemila lire sterline. Diecimila ne furono subito date loro
per le spese dʼinstallazione.

La liberalità di Luigi fu non per tanto molto meno rara e ammirevole
della squisita delicatezza con che ei si affaticò ad addolcire le
amarezze deʼ suoi ospiti ed alleggiare il quasi intollerabile peso
degli obblighi che addossava loro. Egli, che fino allora nelle
questioni di precedenza era stato fastidioso, litigioso, insolente,
che sʼera più volte mostrato pronto a gettare la Europa in guerra
più presto che cedere nel più frivolo punto dʼ_etichetta_, adesso fu
puntiglioso contro sè stesso, ma puntiglioso per i suoi sventurati
amici. Ordinò che Maria fosse trattata con tutti i segni di rispetto
onde era stata trattata la defunta sua moglie. Fu discusso se i
Principi della Casa di Borbone avessero diritto di sedersi in presenza
della Regina. Simiglianti inezie erano cose gravi nellʼantica Corte
di Francia. Vʼerano esempi pro e contra: ma Luigi decise la questione
contro il proprio sangue. Alcune dame dʼaltissimo grado trascurarono
la cerimonia di baciare il lembo della veste di Maria. Luigi notò la
omissione, e con voce tale e con tale sguardo, che tutte le dame di
corte da quel giorno mostraronsi sempre pronte a baciarle il piede.
Allorquando lʼEster, pur allora scritta da Racine, venne rappresentata
in Saint–Cyr, Maria occupò il seggio dʼonore. Giacomo le sedeva a
destra. Luigi modestamente le si assise a sinistra. Anzi ei consentì
che nel suo proprio palazzo un esule, il quale viveva della sua
generosità, assumesse il titolo di Re di Francia, e come Re di Francia
inquartasse i gigli coʼ lioni inglesi, e come Re di Francia neʼ giorni
in che la corte prendeva il lutto, vestisse abito di colore violetto.

Il contegno deʼ Nobili francesi in pubblico prendeva norma dal Sovrano,
ma non era possibile impedire che essi liberamente pensassero ed
esprimessero i loro pensieri nelle conversazioni private, con la
pungente e delicata arguzia che forma il carattere della nazione e del
ceto loro. Di Maria pensavano favorevolmente. La trovavano piacente
di persona e dignitosa nel portamento. Ne veneravano il coraggio
e lo affetto di madre, e ne commiseravano la sinistra fortuna. Ma
per Giacomo sentivano estremo dispregio. Non potevano patire la sua
insensibilità, il modo freddo onde egli discorreva con chi che si fosse
della propria rovina, e il fanciullesco diletto che prendeva della
pompa e del lusso di Versailles. Attribuivano questa strana apatia,
non a filosofia o religione, ma a stupidità e abiettezza dʼanimo,
e notarono come nessuno che aveva avuto lʼ onore dʼascoltare dalla
bocca di Sua Maestà Britannica il racconto dello proprie vicissitudini
si maravigliasse di vedere lui in Saint–Germain e il suo genero nel
palazzo di San Giacomo.[623]

XXVI. Nelle Province Unite la commozione prodotta dalle nuove giunte
dʼInghilterra era anche maggiore che in Francia. Era quello il tempo
in cui la Batava Federazione era pervenuta al più alto fastigio di
gloria e potenza. Dal giorno in cui la spedizione fece vela tutta
la nazione olandese era stata in preda a somma ansietà. Le chiese
non erano mai state come allora popolate di gente. I predicatori non
avevano mai arringato con maggiore veemenza. Gli abitanti dellʼAja
non poterono frenarsi dallo insultare Albeville. La sua casa era
giorno e notte sì strettamente circondata dalla plebaglia, che nessuno
rischiavasi a visitarlo; ed egli temeva non appiccassero fuoco alla
sua cappella.[624] Ad ogni corriere che giungeva recando nuove dello
avanzarsi del Principe, i suoi concittadini si sentivano rincuorati; e
allorquando si seppe chʼegli, cedendo allo invito fattogli dai Lordi
e dallʼAssemblea deʼ Comuni, aveva assunto il potere esecutivo, tutte
le fazioni olandesi proruppero in un grido universale di gioia e
dʼorgoglio. Sollecitamente fu spedita unʼambasceria straordinaria a
recargli le congratulazioni della madre patria. Uno degli ambasciatori
era Dykvelt, uomo in quella occasione di non poca utilità per la
destrezza, e per la profonda scienza chʼegli aveva della politica
inglese; e gli fu dato per collega Niccola Witsen, Borgomastro
dʼAmsterdam, il quale sembra essere stato scelto a fine di provare
a tutta Europa che la lunga contesa tra la Casa dʼOrange e la città
principale della Olanda era cessata. Il dì 8 gennaio Dykwelt e Witsen
si presentarono a Westminster. Guglielmo favellò loro con franchezza e
cordialità tali che rare volte ei mostrava conversando con glʼInglesi.
Le sue prime parole furono queste: «Bene! e che cosa dicono ora gli
amici a casa nostra?» E veramente il solo plauso che parve forte
commuovere la stoica indole di lui, fu quello della terra natia.
Della immensa popolarità chʼegli godeva in Inghilterra, parlò con
freddo sdegno, e predisse con troppa verità la reazione che ne sarebbe
seguita. «Qui» disse egli «oggi dappertutto si grida _Osanna_, e forse
domani si griderà _Crucifige_».[625]

XXVII. Il dì appresso furono eletti i primi membri della Convenzione.
La città di Londra diede lo esempio, e senza contesa elesse quattro
ricchi mercatanti caldissimi Whig. Il Re e i suoi fautori avevano
sperato che molti ufficiali deʼ collegi elettorali considererebbero
come nulla la lettera del Principe; ma fu vana speranza. Le elezioni
procederono rapidamente e senza intoppo. Non vi fu quasi ombra di
contesa: imperocchè la nazione per più dʼun anno aveva sempre aspettato
lʼapertura delle Camere. I decreti di convocazione erano stati due
volte emessi e due revocati. Alcuni collegi elettorali, per virtù di
tali decreti, avevano già eletto i loro rappresentanti. Non vʼera
Contea nella quale i gentiluomini e i borghesi non avessero, molti mesi
prima, posto lʼocchio sopra candidati buoni protestanti, ad eleggere i
quali dovevasi fare ogni sforzo in onta ai voleri del Re e ai raggiri
del Lord Luogotenente; e questi candidati ora vennero generalmente
eletti senza opposizione.

Il Principe diede rigorosi ordini che nessuno ufficiale pubblico in
questa occasione adoperasse quelle arti che avevano recato tanto
disonore al cessato Governo. Comandò in ispecie che nessun soldato
osasse mostrarsi nelle città nelle quali facevansi le elezioni.[626] I
suoi ammiratori poterono vantare, e i suoi nemici sembra non potessero
negare, che gli elettori esprimessero liberamente la propria opinione.
Vero è chʼegli rischiava poco. Il partito a lui bene affetto era
trionfante e pieno dʼentusiasmo, di vita e dʼenergia. Quello da cui
poteva aspettarsi seria opposizione era disunito e scorato, stizzito
con sè stesso, e anco più stizzito col proprio capo. La maggior parte,
quindi, delle Contee e deʼ borghi elessero rappresentanti Whig.

XXVIII. Eʼ non fu sopra la sola Inghilterra che Guglielmo estese la sua
tutela. La Scozia era insorta contro i suoi tiranni. Tutti i soldati
regolari, i quali lʼavevano lungamente tenuta in freno, erano stati
richiamati da Giacomo per soccorrerlo contro glʼinvasori olandesi,
tranne un piccolo presidio, che sotto il comando del Duca di Gordon,
gran signore cattolico, stavasi nel castello dʼEdimburgo. Ogni corriere
che era andato nelle contrade settentrionali nel mese di novembre,
mese così pieno di vicende, aveva recato nuove che concitavano le
passioni degli oppressi Scozzesi. Finchè era ancor dubbio lʼesito
delle operazioni militari, in Edimburgo accaddero subugli e clamori
che si fecero più minacciosi dopo la ritirata di Giacomo da Salisbury.
Gran torme di gente ragunavansi primamente di notte, poi di giorno.
Bruciavano le immagini del papa; chiedevano clamorosamente un libero
Parlamento: si videro attaccati ai muri deʼ cartelli dove le teste
deʼ ministri della Corona erano messe a prezzo. Fra costoro il più
detestato era Perth, come colui chʼera Cancelliere, godeva altamente il
regio favore, era apostata della fede riformata, e il primo che aveva
nelle leggi penali della patria introdotto il ferreo strumento per
macerare le dita. Era uomo privo di vigore, e dʼanimo abietto; e il
solo coraggio chʼegli avesse era la sfrontatezza che sfida la infamia,
e assiste senza commuoversi agli altrui tormenti. In quel tempo era
capo del Consiglio; ma, venutogli meno lʼanimo, abbandonò il proprio
posto, e a fuggire ogni pericolo,—secondo che giudicava dagli sguardi
e dalle grida del feroce popolaccio,—di Edimburgo,—ritirossi a una
sua villa che sorgeva non lontana dalla città. Si fece accompagnare a
Castle Drummond da una numerosa guardia; ma, appena partito lui, la
città insorse. Pochi soldati provaronsi di reprimere la insurrezione,
ma furono vinti. Il palazzo di Holyrood, che era stato trasformato
in seminario e tipografia cattolica romana, fu preso dʼassalto e
saccheggiato. Libri papalini, rosari, crocifissi e pitture furono
accatastati e arsi in High Street. Framezzo a tanta agitazione giunse
la nuova della fuga del Re. I membri del Governo deposero ogni pensiero
di contendere col furore popolare, e mutarono partito con quella
prontezza allora comune fra i politici scozzesi. Il Consiglio Privato
con un proclama ordinò il disarmo di tutti i papisti, e con un altro
invitò i protestanti a collegarsi per la difesa della religione pura.
La nazione non aveva aspettato lo invito. Città e campagna erano già
in arme a favore del Principe dʼOrange. Nithisdale e Clydesdale erano
le sole regioni in cui fosse ombra di speranza che i cattolici romani
farebbero testa; ed entrambe furono occupate da bande di presbiteriani
armati. Fra glʼinsorti erano alcuni cupi e feroci uomini, i quali,
già stati infidi ad Argyle, ora erano egualmente pronti ad esserlo a
Guglielmo. Dicevano Sua Altezza essere uomo maligno; non una parola
della Convenzione nel suo Manifesto; gli Olandesi, gente con la
quale nessun vero servo di Dio poteva concordare, essere in lega coʼ
Luterani, e un Luterano, al pari dʼun Gesuita, essere figlio del
demonio. Ma la voce universale di tutto il Regno vinse lo sconcio
gracidare di cotesta odiata fazione.[627]

Il concitamento in breve giunse fino alle vicinanze di Castle Drummond.
Perth conobbe di non essere sicuro nè anche fraʼ suoi propri servi e
fittajuoli. Si abbandonò a quel disperato dolore in cui la sua cruda
tirannia aveva spesso gettato uomini migliori di lui. Si provò di
cercare conforto neʼ riti della sua novella Chiesa. Importunava i
preti a confortarlo, pregava, si confessava, si comunicava: ma la
sua fede era sì debole chʼegli affermò che, malgrado tutte le sue
divozioni, era straziato dal terrore della morte. Intanto seppe che
potea fuggire sopra un vascello che stavasi di faccia a Brentisland.
Travestitosi come meglio potè, dopo un lungo e difficile cammino per
non frequentati sentieri su per i monti dʼOchill, che allora erano
coperti di neve, gli venne fatto dʼimbarcarsi: ma, non ostante tutte le
sue cautele, era stato riconosciuto, e il grido della scoperta sʼera in
un baleno propalato. Come si seppe che il crudo rinnegato era in mare
ed aveva seco dellʼoro, taluni incitati dallʼodio e dalla cupidigia
si posero ad inseguirlo. Un legno comandato da un antico cacciatore
di buoi raggiunse il fuggente vascello e lo prese allʼabbordaggio.
Perth travestito da donna dal fondo in cui sʼera nascosto fu tratto
sul ponte, dove fu spogliato, frugato e saccheggiato. Gli aggressori
appuntarongli le baionette al petto. E mentre ei con abiette strida
supplicava gli lasciassero la vita, fu condotto a terra e gettato nella
prigione comune di Kirkaldy. Di là, per ordine del Consiglio da lui
dianzi presieduto, e che era composto dʼuomini partecipi delle sue
colpe, fu trasferito al Castello di Stirling. Era giorno di domenica,
e lʼora degli uffici divini, allorquando egli, cinto da guardie, fu
menato alla sua prigione; ma perfino i rigidi Puritani dimenticarono
la santità del giorno e del servizio. La gente erompeva fuori dalle
chiese per vedere passare quel carnefice, e il frastuono delle minacce,
maledizioni e urli dʼira lo accompagnò fino alla porta del carcere.[628]

Vari egregi Scozzesi trovavansi in Londra quando vi arrivò il Principe;
e molti altri vi accorsero a corteggiarlo. Il dì 7 gennaio li chiamò a
Whitehall. La congrega fu grande e rispettabile: al Duca di Hamilton
e al Conte di Arran suo primogenito, capi dʼuna casa quasi regale,
tenevano dietro trenta Lordi e circa ottanta gentiluomini di gran
conto. Guglielmo gli esortò a consultare fra loro, e fargli sapere il
miglior modo di promuovere il bene del loro paese. Quindi ritirossi
perchè deliberassero liberamente senza lo impaccio della presenza
di lui. Andati alla sala del Consiglio, posero Hamilton sul seggio.
Ancorchè sembri che ci fosse poca differenza dʼopinione, le discussioni
loro durarono tre giorni, fatto che si spiega pensando che Sir Patrizio
Hume era uno degli oratori. Arran rischiossi a proporre sʼaprissero
col Re pratiche dʼaccordo. Ma tale proposta, male accolta da suo padre
e dalla intera assemblea, non trovò nessuno che la secondasse. Alla
perfine vennero a deliberazioni strettamente somiglievoli a quelle
che, pochi giorni innanzi, i Lordi e i Comuni dʼInghilterra avevano
presentate al Principe. Lo pregavano di convocare una Convenzione degli
Stati di Scozia, stabilire il dì 14 marzo per giorno dellʼAdunanza, e
fino a quel giorno assumersi egli lʼamministrazione civile e militare.
Il Principe assentì alla richiesta; e quindi il governo di tutta
lʼisola si ridusse nelle sue mani.[629]

XXIX. Avvicinavasi il momento decisivo, e si accrebbe lʼagitazione nel
pubblico. In ogni dove vedevansi gli uomini politici far capannelli
e discutere. Le botteghe da caffè fervevano; le tipografie della
metropoli lavoravano senza posa. Deʼ fogli stampati a quel tempo, anche
oggi se ne possono raccogliere tanti da formare vari volumi; e non è
difficile, leggendo tali scritture, farsi una idea delle condizioni in
cui trovavansi i partiti.

Era una piccolissima fazione che voleva richiamare Giacomo senza alcuna
stipulazione. Altra fazione anchʼessa piccolissima voleva istituire una
repubblica, e affidare il governo ad un Consiglio di Stato sotto la
presidenza del Principe dʼOrange. Ma entrambe queste estreme opinioni
erano a tutti in aborrimento. Diciannove ventesimi della nazione erano
gente in cui lo affetto alla monarchia ereditaria era congiunto,
benchè ove più ove meno, con lo affetto alla libertà costituzionale, e
che era egualmente avversa allʼabolizione della dignità regia e alla
restaurazione incondizionata del Re.

Ma nel vasto spazio che divideva i bacchettoni che seguitavano ad
attenersi alle dottrine di Filmer, dagli entusiasti che tuttavia
sognavano i sogni di Harrington, vʼera luogo per molte varietà
dʼopinioni. Se poniamo da parte le minute suddivisioni, vedremo che la
massima parte della nazione e della Convenzione era partita in quattro
corpi: tre erano Tory, il quarto era Whig.

Lʼaccordo tra i Whig e i Tory non era rimaso superstite al pericolo
che lʼaveva fatto nascere. In varie occasioni mentre che il Principe
marciava alla volta di Londra, la dissensione era scoppiata fraʼ suoi
fautori. Mentre era ancor dubbio lʼesito della impresa, egli con
isquisito accorgimento aveva di leggieri chetato ogni dissenso. Ma
dal dì in cui egli entrò trionfante nel palazzo di San Giacomo, ogni
suo accorgimento tornò inefficace. La vittoria, liberando la nazione
dalla paura della tirannide papale, gli aveva rapita di mano mezza
la sua influenza. Vecchie antipatie, che sedaronsi mentre i Vescovi
erano nella Torre, i Gesuiti in consiglio, i leali ecclesiastici
a torme privati del loro pane, i leali gentiluomini a centinaia
scacciati dalle Commissioni di pace, si ridestarono forti ed operose.
Il realista raccapricciava pensando di trovarsi in lega con coloro
chʼegli fino dalla sua giovinezza mortalmente odiava, coi vecchi
capitani parlamentari che gli avevano devastate le ville, coi vecchi
commissari parlamentari che gli avevano sequestrati i beni, con
uomini che avevano in Rye House tramato il macello e capitanata la
insurrezione delle contrade occidentali. Inoltre quella diletta Chiesa,
per amore della quale egli, dopo una penosa lotta, aveva rotto il suo
debito dʼobbedienza verso il trono, era ella veramente salva? O lʼaveva
egli redenta da un nemico perchè rimanesse in preda ad un altro? I
preti papisti, a dir vero, erano in esilio, nascosti, o imprigionati.
Nessun Gesuita o Benedettino che avesse cara la vita osava mostrarsi
vestito degli abiti dellʼordine suo. Ma i dottori presbiteriani e
glʼIndipendenti andavano in processione a riverire il capo del governo,
e venivano da lui accolti di buona grazia come i veri successori
degli apostoli. Alcuni scismatici apertamente dicevano sperare che
tosto sarebbe tolto via ogni ostacolo che gli escludeva daʼ beneficii
ecclesiastici; che gli Articoli verrebbero mitigati, riformata la
liturgia; non più festa il dì di Natale, non più digiuno il venerdì
santo; canonici consacrati dal Vescovo, senza le bianche vestimenta,
ministrerebbero nei cori delle cattedrali il pane e il vino eucaristico
ai fedeli comodamente assisi neʼ loro banchi. Il Principe certamente
non era presbiteriano fanatico; ma per lo meno era Latitudinario: non
aveva scrupolo di comunicarsi secondo il rito anglicano; ma non si
dava pensiero intorno alla forma secondo la quale altri si comunicava.
Era anco da temersi che la moglie fosse troppo imbevuta deʼ principii
di lui. La coscienza della Principessa era diretta da Burnet. Ella
aveva ascoltato predicatori appartenenti a diverse sètte protestanti.
Aveva dianzi detto di non discernere differenza veruna tra la Chiesa
anglicana e le altre Chiese riformate.[630] Era quindi necessario che i
Cavalieri in cosiffatte circostanze seguissero lo esempio dato nel 1641
dai padri loro, si separassero dalle Testerotonde e dai settarii, e,
nonostante tutti i falli del monarca ereditario, sostenessero la causa
della ereditaria monarchia.

La parte animata da questi sentimenti era numerosa e rispettabile.
Comprendeva circa mezza la Camera deʼ Lordi, circa un terzo di quella
deʼ Comuni, la maggior parte deʼ gentiluomini rurali, e almeno nove
decimi del clero; ma era lacerata dalle dissensioni, e per ogni lato
cinta di ostacoli.

XXX. Una frazione di questo gran partito, frazione che era specialmente
forte fra gli ecclesiastici, e della quale Sherlock era lʼorgano
principale, voleva si aprissero pratiche dʼaccordo con Giacomo,
che fosse invitato a ritornare a Whitehall a condizioni tali che
pienamente rimanesse assicurata la costituzione civile ed ecclesiastica
del Regno.[631] Egli è evidente che questo disegno, benchè fosse
vigorosamente propugnato dal clero, era al tutto incompatibile con
le dottrine per lunghi anni da esso insegnate. Veramente era un
tentativo di aprire una via di mezzo dove non era spazio ad aprirla, di
effettuare una concordia tra due cose che concordia non ammettevano,
cioè tra la resistenza e la non resistenza. I Tory dapprima sʼerano
appoggiati al principio della non resistenza; ma la più parte di loro
avevano abbandonato quel principio e non inchinavano a riabbracciarlo.
I Cavalieri dʼInghilterra, come classe, erano stati così, direttamente
o indirettamente, implicati nella ultima insurrezione contro il Re,
che non potevano per vergogna parlare del sacro debito di obbedire a
Nerone; nè volevano richiamare il Principe sotto il cui pessimo governo
avevano cotanto sofferto, senza esigere da lui condizioni tali da
rendergli impossibile ogni abuso di potere. Trovavansi quindi in falsa
posizione. La loro antica teoria, vera o falsa che fosse, almeno era
completa e coerente. Se era vera, dovevano immediatamente invitare il
Re a tornare indietro e permettergli, ove così gli piacesse, di punire
nel capo come rei di crimenlese Seymour e Danby, il Vescovo di Londra e
quello di Bristol, ristabilire la Commissione ecclesiastica, riempiere
la Chiesa di dignitari papisti, e porre lo esercito sotto il comando
di ufficiali papisti. Ma se, come gli stessi Tory allora sembravano
confessare, quella teoria era falsa, a che aprire pratiche dʼaccordo
col Re? Se ammettevano chʼegli potesse legalmente essere privato
del trono finchè non desse soddisfacenti guarentigie per la sicurtà
della costituzione della Chiesa e dello Stato, non era agevole negare
chʼegli potesse legalmente esserne privato per sempre. Imperocchè
quale soddisfacente guarentigia poteva egli dare? Come era possibile
formulare un Atto di Parlamento in termini più chiari di quelli in
che erano espressi gli atti parlamentari, i quali ingiungevano che
il Decano della Chiesa di Cristo fosse un protestante? Come era egli
possibile esprimere una qualunque promessa con parole più energiche di
quelle con le quali Giacomo aveva più volte dichiarato di rigorosamente
rispettare i diritti del Clero Anglicano? Se legge od onore fossero
stati bastevoli a vincolarlo, ei non sarebbe mai stato costretto a
fuggire dal suo Regno. E non valendo onore o legge a vincolarlo, era
savio provvedimento permettergli che ritornasse.

XXXI. È possibile, non pertanto, che, malgrado i predetti argomenti,
una proposta di aprire pratiche con Giacomo sarebbe stata fatta
nella Convenzione e sostenuta daʼ Tory, ove egli in questa, come in
qualsivoglia altra occasione, non fosse stato il peggiore nemico di sè
stesso. Ogni corriere postale che giungeva a Londra da Saint–Germain,
recava nuove tali da intiepidire lo ardore deʼ suoi partigiani. Ei
non credeva valesse lo incomodo simulare rincrescimento deʼ passati
errori o promessa di emendarsi. Pubblicò un Manifesto, nel quale diceva
avere sempre posto ogni cura a governare con giustizia e moderazione
i suoi popoli, e che essi ingannati da immaginari aggravi erano corsi
da sè alla rovina.[632] La sua demenza ed ostinazione fece sì che
coloro i quali più ardentemente desideravano riporlo sul trono ad eque
condizioni, comprendessero che, proponendo in quel momento dʼaprire
pratiche con lui, danneggerebbero la causa che volevano propugnare.
Deliberarono quindi di collegarsi con unʼaltra fazione di Tory
capitanata da Sancroft. Questi credè avere trovato modo di provvedere
al governo del paese senza richiamare Giacomo, non privandolo ad
un tempo della sua Corona. Questo modo altro non era che istituire
una Reggenza. I più ostinati di queʼ teologi che avevano inculcata
la dottrina della obbedienza passiva non avevano mai sostenuto che
siffatta obbedienza si dovesse prestare ad un bambino o a un demente.
Era universalmente riconosciuto che, quando il legittimo Sovrano fosse
intellettualmente incapace di esercitare il proprio ufficio, poteva
deputarsi alcuno ad agire in sua vece, e che chiunque resistesse a
cotesto deputato, e per iscusa allegasse il comando di un principe in
fasce o demente, incorrerebbe giustamente nelle pene della ribellione.
La stupidità, lʼostinatezza, e la superstizione—in questa guisa
ragionava il Primate—avevano reso Giacomo inetto a reggere i propri
dominii come un fanciullo in fasce, o un pazzo che nel Manicomio di
Bedlam si giaccia sulla paglia digrignando i denti e dicendo scempie
parole. Era dunque mestieri appigliarsi al provvedimento preso allorchè
Enrico VI era infante, e una seconda volta abbracciato allorchè fu
colpito da letargia. Giacomo non poteva esercitare lʼufficio di Re; ma
doveva seguitare ad avere sembianza di Re. I decreti dovevano portare
il suo nome, le monete e il Gran Sigillo essere segnati della immagine
ed epigrafe di lui; gli Atti del Parlamento portare gli anni del suo
regno. Ma il potere esecutivo doveva essergli tolto, ed affidato a
un Reggente eletto dagli Stati del Reame. In questa guisa, sosteneva
con gravità Sancroft, il popolo non mancherebbe al proprio debito,
strettamente manterrebbe il giuramento di fedeltà prestato al suo Re;
e i più ortodossi anglicani, senza il minimo scrupolo di coscienza,
potrebbero esercitare gli uffici sotto il Reggente.[633]

La opinione di Sancroft era di gran peso nel partito Tory e
segnatamente nel clero. Una settimana innanzi il giorno stabilito al
ragunarsi della Convenzione, una congrega di gravissimi uomini nel
palazzo Lambeth, assistè alle preci nella cappella, desinò col Primate,
e finalmente si strinse a consulta intorno alle pubbliche faccende.
Vʼerano presenti cinque suffraganei dello Arcivescovo, i quali nella
decorsa estate avevano secolui diviso i perigli e la gloria. I Conti
di Clarendon e di Ailesbury rappresentavano i Tory secolari. Parve che
unanimemente lʼassemblea opinasse che coloro i quali avevano prestato
a Giacomo il giuramento di fedeltà, potevano lecitamente negargli
obbedienza; ma non potevano con sicurtà di coscienza chiamare chiunque
altri si fosse col nome di Re.[634]

XXXII. In tal modo due frazioni del partito Tory, lʼuna che desiderava
un accomodamento con Giacomo, lʼaltra che avversava tale accomodamento,
concordarono a propugnare il disegno dʼinstituire una Reggenza. Ma una
terza frazione, la quale comechè non fosse numerosa aveva gran peso e
influenza, proponeva un assai diverso provvedimento. I capi di questa
piccola schiera erano Danby e il Vescovo di Londra nella Camera deʼ
Lordi, e Sir Roberto Sawyer in quella deʼ Comuni. Crederono dʼavere
trovato modo di fare una compiuta rivoluzione sotto forme rigorosamente
legali. Dicevano essere contrario ad ogni principio che il Re venisse
detronizzato daʼ suoi sudditi; nè vʼera necessità di farlo. Fuggendo,
egli aveva abdicato il suo potere e la sua dignità. Il trono doveva
considerarsi come vacante; e tutti i giureconsulti costituzionali
sostenevano che il trono dʼInghilterra non poteva esserlo nè anche un
momento. E però il più prossimo erede era da reputarsi Sovrano. Ma chi
era cotesto prossimo erede? Quanto al pargolo che era stato condotto in
Francia, la sua venuta al mondo era accompagnata da molti sospetti. Era
dovere verso gli altri membri della regale famiglia e verso la nazione
che si rimovesse ogni dubbio. Guglielmo, a nome della Principessa
dʼOrange sua consorte, aveva solennemente dimandata una inchiesta, la
quale sarebbe stata instituita se gli accusati di frode non si fossero
appigliati ad un partito, che in qualunque caso ordinario sarebbe stato
considerato come prova decisiva della colpa. Senza aspettare lʼesito
di un solenne processo parlamentare, se nʼerano fuggiti in paese
straniero, secoloro conducendo lo infante, e le cameriste francesi e
italiane, le quali, ove ci fosse stato frode, avrebbero dovuto saperla,
e quindi sarebbero state sottoposte a rigoroso contro–esame. Era
impossibile ammettere il diritto del fanciullo senza avere compita la
inchiesta; e coloro che si dicevano suoi genitori avevano resa ogni
inchiesta impossibile. Era quindi mestieri reputarlo condannato in
contumacia. Se ei pativa ingiustizia, ne avea colpa non la nazione,
ma coloro la cui strana condotta al tempo della nascita di lui aveva
giustificato la nazione a domandare una inchiesta, alla quale si
sottrassero con la fuga. Per le quali cose poteva a buon diritto
considerarsi come pretendente; e in tal modo la Corona rimaneva
devoluta alla Principessa dʼOrange. Essa era adunque di fatto Regina
regnante. Alle Camere altro non rimaneva a fare che proclamarla. Ella
poteva, se così le piacesse, nominare primo ministro il marito, e
anche, assenziente il Parlamento, conferirgli il titolo di Re.

Coloro, che preferivano questo disegno a qualunque altro, erano pochi;
ed era sicuro che verrebbe avversato da tutti quei che tuttavia
serbavano qualche affetto per Giacomo, e da tutti i partigiani di
Guglielmo. Pure Danby, fidando nella pratica chʼegli aveva della
tattica parlamentare, e sapendo quanto possa, ogniqualvolta i grandi
partiti trovinsi a un dipresso bilanciati, una piccola schiera di
dissenzienti, non disperava di tenere sospeso il resultato della
contesa, finchè entrambi, Whig e Tory, non avendo più speranza di
piena vittoria, e tementi gli effetti dello indugiare, lo lasciassero
agire come arbitro. E non era impossibile che gli riuscisse, se i suoi
sforzi fossero stati secondati, anzi non fossero stati frustrati da
colei chʼegli desiderava inalzare al fastigio della umana grandezza.
Per quanto egli avesse occhio veggente e pratica negli affari, ignorava
affatto la indole di Maria e lo affetto chʼella nutriva pel suo
consorte; nè Compton antico precettore di lei era meglio informato.
Guglielmo aveva modi secchi e freddi, inferma salute, indole punto
blanda; non era uomo da fare supporre che potesse ispirare una violenta
passione ad una giovane di ventisei anni. Sapevasi chʼegli non era
stato sempre rigorosamente fedele alla propria moglie; e i ciarlieri
andavano dicendo chʼella non menava felice la vita in compagnia di lui.
I più sottili politici, perciò, non sospettarono mai che con tutti
i suoi falli egli regnasse sul cuore di lei con un impero che non
ottennero mai sul cuore di nessuna donna principi rinomatissimi pei
loro successi nelle faccende dʼamore, come a modo dʼesempio Francesco I
ed Enrico IV, Luigi XIV e Carlo II, e che i tre regni aviti non fossero
principalmente dʼalcun valore agli occhi di lei, se non perchè, nel
concederli allo sposo, poteva provargli quanto intenso e disinteressato
era lo affetto chʼella gli portava. Danby, affatto ignaro di coteste
cose, le assicurò che egli avrebbe difesi i diritti di lei, e che, ove
ella lo secondasse, sperava di porla sola sul trono.[635]

XXXIII. La condotta deʼ Whig era semplice e ragionevole. Professavano
il principio che il nostro Governo era essenzialmente un contratto
formato per una parte dal giuramento di fedeltà, e per unʼaltra
dal giuramento della incoronazione, e che i doveri imposti da tale
contratto erano scambievoli. Credevano che un Sovrano il quale abusasse
gravemente deʼ propri poteri, potesse essere legittimamente avversato
dal suo popolo e privato del trono. Ciò posto, nessuno negava che
Giacomo avesse fatto grave abuso del proprio potere; e tutto il partito
Whig era pronto a dichiararlo decaduto. Se il Principe di Galles fosse
o non fosse legittimo, non era subietto meritevole dʼessere discusso.
Per escluderlo dal trono ora esistevano ragioni più forti di quelle
che si potessero dedurre dalla qualità di sua nascita. Un bambino
introdotto di soppiatto nel regio talamo poteva forse riuscire buon Re
dʼInghilterra. Ma non era possibile sperarlo trattandosi dʼun bambino
cresciuto e educato da un padre chʼera il più stupido ed ostinato
dei tiranni, in un paese straniero, sede del dispotismo e della
superstizione; in un paese dove gli ultimi vestigi della libertà erano
scomparsi; dove gli Stati Generali avevano cessato di ragunarsi; dove i
Parlamenti da lungo tempo registravano senza la più lieve rimostranza
i più oppressivi editti del Sovrano; dove il valore, lo ingegno, la
dottrina sembravano esistere solamente a fine dʼingrandire un solo
uomo; dove lʼadulazione era precipuo subietto alla stampa, al pulpito,
alla scena; e dove uno deʼ precipui subietti della adulazione era la
barbara persecuzione della Chiesa Riformata. Era egli verosimile che
sotto cosiffatta tutela e in quella cotale situazione il fanciullo
imparasse rispetto verso le istituzioni della sua terra natia? Poteva
egli dubitarsi che crescerebbe per essere lo schiavo deʼ Gesuiti e
deʼ Borboni, che avrebbe più sinistri pregiudicii—se pure ciò era
possibile—che qualunque altro deʼ precedenti Stuardi contro le leggi
della Inghilterra?

I Whig inoltre non pensavano, che, avuto riguardo alle attuali
condizioni della patria, fosse opera in sè stessa inconvenevole
dipartirsi dalla ordinaria regola della successione. Opinavano che
finchè tale regola rimaneva in vigore, le dottrine dellʼindestruttibile
diritto ereditario e della obbedienza passiva piacerebbero alla Corte,
verrebbero inculcate dal clero, e rimarrebbero abbarbicate nelle
menti del popolo. Seguiterebbe a prevalere la idea che la dignità
regia è ordinamento di Dio con significato diverso da quello che
sʼintende dicendo ogni altra specie di Governo essere ordinamento di
Dio. Era chiaro che finchè questa superstizione non fosse spenta,
la Costituzione non avrebbe mai sicurtà: imperocchè una monarchia
veramente limitata non può lungo tempo durare in una società che
consideri la monarchia come cosa divina, e le limitazioni come trovati
umani. Perchè il principato esista in perfetta armonia con le libertà
nostre, è mestieri che esso non possa mostrare un titolo più alto
e venerando di quello onde noi possediamo le nostre libertà. Il Re
va quinci innanzi considerato come magistrato, alto magistrato, a
dir vero, e degno di somma onoranza, ma, al pari di tutti gli altri
magistrati, soggetto alla legge, e derivante la potestà sua dal cielo
in senso non diverso da quello che potrebbe intendersi dicendo che
le Camere deʼ Lordi e dei Comuni derivano la potestà loro dal cielo.
Il modo migliore a conseguire un così salutare cangiamento sarebbe
quello dʼinterrompere il corso della successione. Sotto sovrani i
quali reputassero a un dipresso alto tradimento il predicare la
non resistenza e la teoria del governo patriarcale, sotto sovrani
la cui autorità derivando dalle deliberazioni delle due Camere non
sʼinalzasse di sopra alla sua sorgente, vi sarebbe poco pericolo di
patire oppressione simile a quella che aveva per due generazioni
costretti glʼInglesi a correre alle armi contro gli Stuardi. Per cotali
ragionamenti i Whig erano apparecchiati a dichiarare vacante il trono,
a provvedervi per mezzo della elezione, e imporre al Principe da loro
scelto condizioni tali che fermamente tutelassero il paese contro il
pessimo Governo.

E oramai era arrivato il tempo di risolvere queste grandi questioni.
Allʼalba del dì 22 gennaio la Camera deʼ Comuni era affollata di
rappresentanti delle Contee e deʼ borghi. Sui banchi vedevansi molti
visi ben noti in quel luogo sotto il regno di Carlo II, ma che non vi
sʼerano più veduti sotto il suo successore. Molti di quegli scudieri
Tory, e di queʼ bisognosi dipendenti dalla Corte i quali erano stati
eletti deputati al Parlamento del 1685, avevano dato luogo ad uomini
dello antico partito patriottico, a coloro che avevano strappato di
mano alla Cabala il potere, votato lʼAtto dellʼ_Habeas Corpus_, e
mandato alla Camera deʼ Lordi la Legge dʼEsclusione. Fra essi era
Powle, uomo profondamente versato nella storia e nelle leggi del
Parlamento, e dotato di quella specie di eloquenza che si richiede
ogni qualvolta gravi questioni si agitano dinanzi a un Senato; e Sir
Tommaso Littleton, versato nella politica europea e dotato di forte e
sottile logica, con la quale sovente, dopo una lunga seduta, accesi
i lumi, aveva ridesta la stanca camera, e deciso dellʼesito della
discussione. Eravi anco Guglielmo Sacheverell, oratore, la cui somma
abilità parlamentare molti anni dipoi era tema prediletto ai discorsi
di quei vecchi che vissero tanto da vedere i conflitti di Walpole e
di Pulteney.[636] Con questi illustri uomini vedevasi Sir Roberto
Clayton, il più ricco mercatante di Londra, il cui palazzo nel Ghetto
Vecchio vinceva per magnificenza le magioni aristocratiche di Lincolnʼs
Inn Fields e di Covent Garden, la cui villa sorgente tra i colli di
Surrey veniva descritta come un Eden, i cui banchetti gareggiavano
con quelli deʼ Re, e la cui giudiciosa munificenza, della quale fanno
tuttora testimonio molti pubblici monumenti, lo avevano reso degno di
occupare negli annali della Città un posto secondo solamente a quello
di Gresham. Nel Parlamento che nel 1681 si tenne in Oxford, Clayton,
come rappresentante la metropoli e ad istanza deʼ suoi elettori, aveva
chiesto licenza di presentare la Legge dʼEsclusione, ed era stato
secondato da Lord Russell.

Nel 1685, la Città privata delle sue franchigie e governata dalle
creature della Corte, aveva eletto quattro rappresentanti Tory. Ma ora
le erano stati resi i perduti privilegi, ed aveva nuovamente eletto
Clayton per acclamazione.[637] Nè deve tacersi di Giovanni Birch. Aveva
incominciata la vita facendo il carrettiere, ma nelle guerre civili,
lasciato il suo baroccio, si era fatto soldato, e inalzato al grado
di Colonnello nello esercito della repubblica, aveva in alti uffici
fiscali mostrato grande ingegno per gli affari, e comechè serbasse
fino allo estremo suo dì i ruvidi modi del dialetto plebeo della sua
giovinezza, mercè il suo vigoroso buon senso e il suo naturale acume,
erasi acquistato tanta reputazione nella Camera deʼ Comuni da essere
considerato qual formidabile avversario daʼ più compiti oratori del suo
tempo.[638] Questi erano i più cospicui fraʼ veterani, i quali dopo
un lungo ritiro ritornavano alla vita pubblica. Ma tosto furono vinti
da due giovani Whig, i quali in cotesto solenne giorno sedevano per
la prima volta nella Camera; inalzaronsi poi ai più alti onori dello
Stato, fecero fronte alle più feroci procelle delle fazioni, ed avendo
per lungo tempo goduta somma rinomanza di statisti, dʼoratori, e di
magnifici protettori deglʼingegni e del sapere, morirono nello spazio
di pochi mesi, tosto dopo che la Casa di Brunswick ascese al trono
dʼInghilterra. Costoro chiamavansi Carlo Montague e Giovanni Somers.

È dʼuopo fare menzione dʼun altro nome, dʼun nome allora noto a un
piccolo drappello di filosofi, ma adesso pronunciato di là dal Gange e
dal Mississipì con riverenza maggiore di quella che il mondo tributa
alla memoria dei grandissimi guerrieri e regnatori. Fra la folla dei
rappresentanti che stavansi in silenzio vedevasi la maestosa e pensosa
fronte dʼIsacco Newton. La famosa Università sulla quale il genio di
lui aveva già incominciato ad imprimere un carattere peculiare, tuttora
chiaramente visibile dopo lo spazio di centosessanta anni, lo aveva
mandato suo rappresentante alla Convenzione; ed egli vi sedeva nella
sua modesta grandezza, discreto ma incrollabile amico della libertà
civile e religiosa.

XXXIV. Il primo atto della Convenzione fu quello di eleggere un
Presidente; e la elezione da essa fatta indicò manifestissimamente
la opinione che aveva rispetto alle grandi questioni che doveva
risolvere. Fino alla vigilia dellʼapertura delle Camere era bene
inteso che Seymour sarebbe chiamato al seggio presidenziale. Ei lo
aveva già per vari anni occupato, aveva titoli insigni e diversi a
quella onorificenza, nobiltà di sangue, opulenza, sapere, esperienza,
facondia. Aveva da lunghi anni capitanato una potente schiera di
rappresentanti delle Contee occidentali. Benchè fosse Tory, nellʼultimo
Parlamento sʼera messo con notevole abilità e coraggio, a capo della
opposizione contro il papismo e la tirannide. Era uno deʼ gentiluomini
che primi accorsero al quartiere generale degli Olandesi in Exeter,
e aveva formata quella lega, per vigore della quale i fautori del
Principe sʼerano vicendevolmente vincolati a vincere o morire insieme.
Ma poche ore innanzi lʼapertura delle Camere, corse la voce che
Seymour era avverso a dichiarare vacante il trono. Appena, quindi,
i banchi furono ripieni, il Conte di Wiltshire, che rappresentava
la Contea di Hamp, levossi e propose Powle a presidente. Sir Vere
Fane, rappresentante di Kent, secondò la proposta. Poteva farsi una
ragionevole obiezione, perocchè si sapeva che una petizione doveva
essere presentata contro la elezione di Powle; ma il grido generale
della Camera lo chiamò al seggio; e i Tory reputarono prudente
assentire.[639] Il bastone fu quindi posto sul banco; si lesse la lista
deʼ rappresentanti, e i nomi di coloro che mancavano furono notati.

Intanto i Pari, in numero di circa cento, sʼerano adunati, avevano
eletto Halifax a presidente, e nominato vari reputati giureconsulti a
fare lʼufficio che negli ordinari Parlamenti spetta ai Giudici. Per
tutto quel giorno vi fu frequente comunicazione tra le due Camere.
Furono dʼaccordo a pregare il Principe seguitasse ad amministrare
il governo finchè gli farebbero sapere le deliberazioni loro, a
significargli la loro gratitudine dʼavere egli, con lʼaiuto di Dio,
liberata la nazione, e a stabilire che il 31 gennaio si osservasse come
giorno di ringraziamento per la liberazione.[640]

Fin qui non era differenza alcuna di opinione: ma ambedue le parti
apparecchiavansi alla lotta. I Tory erano forti nella Camera Alta, e
deboli nella Bassa; e sʼaccorgevano che in quella congiuntura la Camera
che fosse prima a prendere una risoluzione avrebbe gran vantaggio sopra
lʼaltra. Non vʼera la più lieve probabilità che i Comuni mandassero ai
Lordi un voto a favore del disegno dʼistituire una Reggenza: ma ove tal
voto dai Lordi fosse mandato ai Comuni, non era onninamente impossibile
che molti rappresentanti, anco Whig, inchinassero ad assentire più
presto che incorrere nella grave responsabilità di far nascere
discordia e indugio in una crisi che richiedeva unione e prestezza.
I Comuni avevano deliberato che lunedì 28 di gennaio prenderebbero
in considerazione le condizioni del paese. I Lordi Tory, perciò,
proposero di discutere, nel venerdì 25, intorno al grande affare pel
quale erano stati convocati. Ma le cagioni che a ciò li movevano furono
chiaramente conosciute, e la loro tattica frustrata da Halifax, il
quale dopo il suo ritorno da Hungerford aveva sempre veduto che il
governo poteva riordinarsi solo a seconda deʼ principii deʼ Whig, e
però sʼera temporaneamente con costoro collegato. Devonshire propose
che il martedì 29 fosse il giorno stabilito. «Allora» disse egli con
più verità che discernimento «potrebbe venirci dalla Camera Bassa
qualche lume che ci servisse di guida.» La proposta fu approvata: ma le
sue parole vennero severamente censurate da alcuni deʼ suoi confratelli
come offensive alla dignità dellʼordine loro.[641]

XXXV. Il dì 28 i Comuni si formarono in Comitato generale. Un
rappresentante, il quale trenta e più anni innanzi era stato uno deʼ
Lordi di Cromwell, voglio dire Riccardo Hampden figlio dello illustre
condottiero delle Testerotonde e padre dello sventurato gentiluomo, il
quale con dispendiosi donativi ed abiette sommissioni aveva a mala pena
campata la vita dalla vendetta di Giacomo, fu posto nel seggio; e il
grande dibattimento ebbe principio.

In breve ora si vide che da una immensa maggioranza Giacomo non era
più considerato come Re. Gilberto Dolben, figlio dello Arcivescovo
di York, fu il primo a dichiarare la propria opinione. Fu sostenuto
da molti, e in ispecie dallo audace e virulento Wharton; da Sawyer,
il quale, facendo vigorosa opposizione alla potestà di dispensare,
aveva in alcun modo scontato le antiche colpe; da Maynard, la cui
voce, quantunque fosse cotanto fievole per la età da non giungere ai
banchi distanti, imponeva tuttavia riverenza a tutti i partiti, e da
Somers, che nella Sala del Parlamento mostrò per la prima volta in
quel giorno luminosa eloquenza e svariata erudizione. Sir Guglielmo
Williams con la sua fronte di bronzo e la sua lingua volubile sosteneva
la predetta opinione. Era già stato profondamente implicato in tutti
gli eccessi dʼuna pessima opposizione e dʼun pessimo governo. Aveva
perseguitati glʼinnocenti papisti e i protestanti innocenti; era stato
protettore dʼOates e strumento di Petre. Il suo nome era associato con
una sediziosa violenza che tutti i rispettabili Whig con rincrescimento
e vergogna ricordavano, e con gli eccessi del dispotismo aborriti
dai Tory rispettabili. Non è facile intendere in che modo gli uomini
possano vivere sotto il pondo di cotanta infamia: ma anche tanta
infamia non bastava ad opprimere Williams. Non arrossì di vituperare
il caduto padrone, al quale erasi venduto per far cose tali che nessun
uomo onesto del ceto legale avrebbe mai fatte, e dal quale dopo
sei mesi aveva ricevuta la dignità di baronetto come ricompensa di
servilità.

Tre soli si rischiarono di opporsi a quella che evidentemente era
opinione universale di tutta lʼassemblea. Sir Cristoforo Musgrave,
gentiluomo Tory di gran conto ed abilità, espresse alcuni dubbi.
Heneage Finch si lasciò uscire di bocca alcune parole, le quali erano
intese a insinuare si aprissero pratiche col Re. Questo suggerimento fu
così male accolto, chʼegli fu costretto a spiegarsi. Protestò dʼessere
stato franteso, esser convinto che sotto un tale Principe non sarebbero
sicure la religione, la libertà, le sostanze; richiamare Re Giacomo
e secolui trattare, essere un fatale provvedimento; ma molti che non
consentivano chʼegli esercitasse la potestà regia, scrupoleggiare nel
volerlo privare del regio titolo. Lʼunico espediente che poteva far
cessare ogni difficoltà era lʼistituire una Reggenza. La proposta
piacque sì poco che Finch non ebbe animo di chiedere si ponesse
ai voti. Riccardo Fanshaw, Visconte Fanshaw del Regno dʼIrlanda,
disse poche parole a favore di Giacomo e propose la discussione
si aggiornasse; ma la proposta provocò universale riprovazione. I
rappresentanti, lʼuno dopo lʼaltro, affaccendavansi a mostrare la
importanza del far presto. Dicevano i momenti essere preziosi, intensa
la pubblica ansietà, sospeso il commercio. La minoranza con tristo
animo si sobbarcò, lasciando che il partito predominante procedesse per
la intrapresa via.

XXXVI. Quale sarebbe stata questa via non si poteva chiaramente
conoscere: avvegnachè la maggioranza si componesse di due classi
dʼuomini. Gli uni erano ardenti e virulenti Whig, i quali ove fossero
lasciati liberi dʼogni intoppo avrebbero dato ai procedimenti della
Convenzione un carattere affatto rivoluzionario. Gli altri ammettevano
la necessità dʼuna rivoluzione, ma la consideravano come un necessario
male, e desideravano mascherarla, per quanto fosse possibile, con la
sembianza della legittimità. I primi richiedevano si riconoscesse
distintamente nei sudditi il diritto di detronizzare i principi; i
secondi desideravano di liberare la patria da un cattivo principe
senza promulgare alcun principio di cui si potesse fare abuso a fine
di indebolire la giusta e salutare autorità deʼ futuri monarchi. Gli
uni discorrevano principalmente del mal governo del Re; gli altri della
sua fuga. Quegli lo consideravano come decaduto; questi pensavano
chʼegli avesse abdicato. Non era agevole formulare un pensiero in
modo da essere approvato da coloro il cui assenso era importante; ma
in fine dei molti suggerimenti che si facevano da tutte le parti,
formarono una deliberazione che riuscì a tutti soddisfacente. Fu
proposto si dichiarasse, che il Re Giacomo II, intento a distruggere
la Costituzione del Regno, rompendo il primitivo contratto tra Re e
popolo, e pei consigli deʼ Gesuiti e di altri malvagi uomini avendo
violato le leggi fondamentali, ed essendo fuggito dal Regno, aveva
abdicato il governo, per la quale cosa il trono era divenuto vacante.

Questa deliberazione è stata spesso sottoposta a critica sottile
e severa quanto non lo fu mai sentenza alcuna scritta dalla mano
dellʼuomo: e forse non vi fu mai sentenza umana che sia meno meritevole
di siffatta critica. Che un Re facendo grave abuso del proprio potere
possa perderlo, è vero. Che un Re che fugga senza provvedere al
Governo e lasci i suoi popoli in istato dʼanarchia, possa senza molta
stiracchiatura di parole considerarsi come colui che ha abdicato anche
il suo ufficio, è pur vero. Ma nessuno scrittore accurato affermerebbe
che il tristo governo lungamente continuato e la diserzione, congiunti
insieme, costituiscano un atto dʼabdicazione. È del pari evidente che
il rammentare i Gesuiti e gli altri sinistri consiglieri di Giacomo
indebolisce, invece di afforzare, il caso contro lui. Perciocchè certo
eʼ si deve maggiore indulgenza ad un uomo traviato da perniciosi
consigli, che ad un uomo il quale per semplice tendenza di sua indole
commetta il male. Non importa ciò nonostante esaminare coteste
memorande parole come esamineremmo un capitolo dʼAristotele o di
Hobbes; esse vanno considerate non come parole, ma come fatti. Se
producono ciò che devono, sono ragionevoli ancorchè possano sembrare
contradittorie. Se falliscono al fine loro, sono assurde quando anche
avessero la evidenza dʼuna dimostrazione. La logica non transige. La
politica consiste essenzialmente nella transazione. Non è quindi cosa
strana che alcuni deʼ più importanti e utili documenti del mondo si
annoverino fra i componimenti più illogici che sieno stati mai scritti.
Lo scopo di Somers, di Maynard e degli altri cospicui uomini che
formularono quella celebre proposta, fu non di lasciare alla posterità
un modello di definizione e di partizione, ma di rendere impossibile la
ristaurazione dʼun tiranno, e porre sul trono un Sovrano sotto il quale
le leggi e la libertà non pericolassero. Questo scopo conseguirono
adoperando un linguaggio che in un trattato filosofico verrebbe
equamente tacciato di inesattezza e confusione. Poco badavano se la
maggiore concordasse con la conclusione, mentre lʼuna procacciava loro
duecento voti, e la conclusione altrettanti. Infatti la sola bellezza
di quella deliberazione consiste nella sua incoerenza. Conteneva una
frase atta a satisfare ogni frazione della maggioranza. Il rammentare
il primitivo contratto piaceva ai discepoli di Sidney. La parola
abdicazione appagava i politici dʼuna più timida scuola. Erano senza
dubbio molti fervidi protestanti i quali rimanevano soddisfatti della
censura gettata suʼ Gesuiti. Pel vero uomo di Stato la sola clausula
importante era quella che dichiarava vacante il trono; e ove ei potesse
farla abbracciare, poco glʼimportava il preambolo. La forza che in tal
modo trovossi raccolta rese disperata ogni resistenza. La proposta
venne adottata senza voto dalla Commissione. Fu ordinato di farne in
sullʼistante la relazione. Powle ritornò al seggio; il bastone fu posto
sul banco: Hampden lesse, la Camera assentì alla relazione, e gli
ordinò la portasse alla Camera deʼ Lordi.[642]

La dimane i Lordi ragunaronsi a buonʼora. I banchi deʼ Pari sì
spirituali che secolari erano affollati. Hampden comparve alla sbarra e
pose la deliberazione deʼ Comuni nelle mani di Halifax. La Camera Alta
si formò in Comitato, e Danby fu fatto presidente.

La discussione fu poco dopo interrotta da Hampden che ritornava con
un altro messaggio. La Camera riprese la seduta: fu annunziato che
i Comuni avevano reputato incompatibile con la sicurezza e col bene
di questa nazione protestante lʼessere governata da un Re papista. A
questa deliberazione, evidentemente inconciliabile con la dottrina
dello indestruttibile diritto ereditario, i Pari dettero immediato e
unanime assenso. Questo principio in tal guisa affermato, da allora
fino ad oggi è stato tenuto sacro da tutti gli statisti protestanti,
e da tutti i cattolici ragionevoli non è stato creduto soggetto ad
obiezioni. Se i nostri sovrani fossero al pari del presidente degli
Stati Uniti, semplici ufficiali civili, non sarebbe facile difendere
tale restrizione. Ma dacchè alla Corona inglese è annessa la qualità
di capo della Chiesa Anglicana, non vʼè intolleranza nel dire che una
Chiesa non dovrebbe essere soggetta ad un capo che la consideri come
scismatica ed eretica.[643]

Dopo questa breve interruzione i Lordi nuovamente formaronsi in
Comitato. I Tory insistevano perchè il loro disegno si discutesse prima
che venisse preso in considerazione il voto dei Comuni che dichiarava
vacante il trono. Ciò fu loro concesso; e fu posta la questione se una
Reggenza, esercitando il regio potere, vita durante di Giacomo, ed
in suo nome, sarebbe il migliore espediente a salvare le leggi e la
libertà della nazione.

La disputa fu lunga ed animata. I principali propugnatori della
Reggenza erano Rochester e Nottingham. Halifax e Danby difendevano
la contraria opinione. Il Primate—strano a dirsi!—non comparve,
quantunque i Tory vivamente lo importunassero perchè si ponesse a capo
loro. La sua assenza gli provocò contro molte aspre censure; e gli
stessi suoi apologisti non hanno potuto addurre alcuna ragione che lo
purghi del biasimo.[644] Era egli lʼautore del disegno dʼistituire una
Reggenza. Pochi giorni innanzi in un foglio scritto di sua mano aveva
asserito quel disegno essere manifestamente il migliore che si potesse
trovare. Le deliberazioni dei Lordi i quali lo sostenevano avevano
avuto luogo in casa di lui. Era suo debito dichiarare in pubblico i
propri intendimenti. Nessuno potrebbe tenerlo in sospetto di codardia
o di volgare cupidigia. Eʼ fu probabilmente per paura di far male in
cosa di tanto momento chʼegli non fece nulla; ma avrebbe dovuto sapere
che un uomo nella sua posizione, non facendo nulla, faceva male. Un
uomo che abbia scrupolo di assumere grave responsabilità in una solenne
crisi, dovrebbe averlo parimenti ad accettare lʼufficio di primo
ministro della Chiesa e primo Pari del Regno.

Non è strana cosa, nondimeno, che la mente di Sancroft non fosse
tranquilla; imperocchè egli non poteva essere tanto cieco da non
vedere che il disegno da lui agli amici suoi proposto era estremamente
incompatibile con tutto ciò che egli e i suoi confratelli avevano per
molti anni insegnato. Che il Re avesse diritto divino e indistruttibile
al potere regio, e che al potere regio, anche quando ne venga fatto
enorme abuso, non si potesse senza peccato opporre resistenza, era
dottrina della quale la Chiesa Anglicana andava da lunghi anni
orgogliosa. Questa dottrina significava ella in queʼ tempi che il
Re aveva un divino e indistruttibile diritto ad avere la effigie e
il nome suo intagliati sopra un sigillo, che doveva quotidianamente
adoperarsi, suo malgrado, onde apprestare ai suoi nemici i mezzi di
fargli la guerra, e mandare gli amici di lui alle forche come rei di
avergli obbedito? Tutto il debito di un buon suddito consisteva egli
nellʼusare il vocabolo Re? Così essendo, Fairfax in Naseby e Bradshau
nellʼAlta Corte di Giustizia avevano adempito tutti i doveri di buoni
sudditi: imperciocchè Carlo dai Generali che gli guerreggiavano contro,
ed anche daʼ giudici che lo condannarono, veniva chiamato Re. Nulla
nella condotta del Lungo Parlamento era stato più severamente biasimato
dalla Chiesa che lʼingegnoso artificio di usare il nome di Carlo contro
Carlo stesso. A ciascuno deʼ ministri della Chiesa era stato imposto di
firmare una dichiarazione che condannava come proditoria la finzione
onde lʼautorità del Sovrano veniva separata dalla sua persona.[645]
Eppure cotesta proditoria finzione era adesso considerata dal Primate
e daʼ suoi suffraganei come la sola base sopra la quale, in stretta
uniformità ai principii del Cristianesimo, si potesse erigere un
governo.

La distinzione che Sancroft aveva preso dalle Testerotonde della
precedente generazione, sovvertiva dalle fondamenta il sistema politico
che la Chiesa e le Università pretendevano avere imparato daʼ libri di
San Paolo. Lo Spirito Santo—era stato le mille volte ridetto—aveva
comandato ai Romani dʼobbedire a Nerone. Ed ora parea che tale precetto
significasse che i Romani dovessero chiamare Nerone Augusto. Erano
perfettamente liberi di cacciarlo oltre lʼEufrate, mandarlo a mendicare
fraʼ Parti, opporgli la forza ove avesse tentato di ritornare, punire
tutti coloro che osassero aiutarlo e tenere con lui corrispondenza,
e concedere la potestà tribunizia e la consolare, la presidenza del
Senato e il comando delle Legioni a Galba o a Vespasiano.

Lʼanalogia che lo Arcivescovo immaginò dʼavere scoperta tra il caso
di un Re perverso e quello di un Re maniaco non è degna del più lieve
esame. Era chiaro non trovarsi Giacomo in quello stato di mente in
cui, ove egli fosse stato un gentiluomo rurale o un mercatante,
qualunque tribunale lo avrebbe dichiarato inetto a fare un contratto
o un testamento. Egli era dissennato nel modo che lo sono tutti
i Re malvagi; come era Carlo I quando andò ad arrestare i cinque
rappresentanti deʼ Comuni; Carlo II quando concluse il trattato di
Dover. Se questa sorte dʼinfermità mentale non giustifica i sudditi
che negano dʼobbedire ai principi, il disegno dʼistituire una Reggenza
era evidentemente inammissibile; se giustifica i sudditi che negano
dʼobbedire ai principi, la dottrina della non resistenza era pienamente
rovesciata; e tutto ciò per cui ogni moderato Whig aveva lottato
trovavasi pienamente ammesso.

Quanto al giuramento di fedeltà, pel quale Sancroft e i suoi discepoli
provavano tanta ansietà, una cosa almeno è chiara, cioè che, chiunque
avesse ragione, essi avevano torto. I Whig pensavano che nel giuramento
dʼobbedienza erano sottintese certe condizioni, che il Re le aveva
violate, e quindi il giuramento era divenuto nullo. Ma se la dottrina
deʼ Whig era falsa, se il giuramento seguitava ad essere obbligatorio,
potevano veramente credere gli uomini assennati che votando la Reggenza
scanserebbero la colpa di spergiuri? Potevano essi affermare che
rimanevano veramente fidi a Giacomo mentre, in onta alle proteste
chʼegli faceva al cospetto di tutta Europa, essi davano ad altri la
potestà di riscuotere la pubblica pecunia, convocare e prorogare il
Parlamento, creare Duchi e Conti, nominare Vescovi e Giudici, graziare
i rei, comandare le forze dello Stato, e concludere trattati con le
Potenze straniere? Aveva egli il Pascal potuto trovare, in tutte le
frenesie deʼ casisti gesuiti, un sofisma più spregevole di quello che
adesso, a quanto parea, bastava a calmare le coscienze deʼ Padri della
Chiesa Anglicana?

Era evidentissimo che il disegno dʼinstituire una Reggenza non si
poteva difendere che coi principii dei Whig. Tra i ragionatori che
sostenevano quel disegno e la maggioranza della Camera deʼ Comuni
non vi poteva essere disputa circa la questione del diritto. Eʼ non
rimaneva altro che la questione dellʼutilità. E poteva un grave uomo
di Stato pretendere essere utile costituire un governo con due capi,
dando ad uno il regio potere senza la dignità regia, e allʼaltro
la dignità regia senza il regio potere? Era chiaro che un simile
ordinamento, anche reso necessario dalla infanzia o dalla demenza del
Principe, recava seco gravissimi inconvenienti. Che i tempi di Reggenza
fossero tempi di debolezza, di perturbamenti e di disastri, era verità
provata dalla intera storia dʼInghilterra, di Francia, e di Scozia, ed
era quasi divenuta proverbio. Pure, in un caso dʼinfanzia o di demenza,
il Re per lo meno era passivo. Non poteva di fatto controbilanciare il
Reggente. Ciò che ora proponevasi era che la Inghilterra avesse due
primi magistrati dʼetà matura e di mente sana, che vicendevolmente
si facessero implacabile guerra. Era assurdo discorrere di lasciare
a Giacomo il nudo nome di Re e privarlo al tutto del potere regio;
perocchè il nome era parte di quel potere; il vocabolo Re era parola
di prestigio. Nella mente di molti Inglesi era congiunto con la idea
di un carattere misterioso derivato dal cielo, e nella mente di quasi
tutti glʼInglesi con la idea di autorità legittima e veneranda. Certo
se il titolo aveva tanto potere, coloro i quali sostenevano che Giacomo
dovesse essere privato dʼogni potere, non potevano negare chʼegli
dovesse essere privato del titolo.

E fino a quando doveva egli durare lo strano governo proposto da
Sancroft? Tutti gli argomenti che potevano addursi per istituirlo, si
potevano con uguale forza addurre per mantenerlo sino alla fine deʼ
secoli. Se il pargoletto trasportato in Francia era veramente nato
dalla Regina, doveva ereditare il divino e inalienabile diritto di
essere chiamato Re. Il medesimo diritto probabilmente sarebbe stato
trasmesso di papista in papista per glʼinteri secoli decimottavo e
decimonono. Ambo le Camere avevano ad unanimità deliberato non dovere
la Inghilterra essere governata da un papista. Poteva quindi darsi
che di generazione in generazione il governo seguitasse ad essere
amministrato da Reggenti a nome di Re raminghi e mendicanti. Non era
dubbio che i Reggenti dovessero essere eletti dal Parlamento. Lo
effetto, dunque, di questo disegno, trovato a serbare intatto il sacro
principio della monarchia ereditaria, sarebbe stato quello di rendere
elettiva la monarchia.

Unʼaltra invincibile ragione fu addotta contro il disegno di Sancroft.
Era nel libro degli Statuti una legge fatta tosto dopo la lunga e
sanguinosa contesa tra la Casa di York e quella di Lancaster, a fine
dʼevitare che si rinnovassero le calamità che le vicendevoli vittorie
delle predette Case avevano cagionato ai Nobili e gentiluomini del
reame. Questa legge provvedeva che niuno, aderendo al Re in possesso
del trono, incorrerebbe nelle pene di tradigione. Allorquando i
regicidi furono processati dopo la Restaurazione, taluni di loro
insisterono per essere giudicati secondo quella legge. Dicevano dʼavere
obbedito al governo esistente di fatto, e però non essere traditori. I
giudici ammisero che tale difesa sarebbe stata buona ove gli accusati
avessero agito sotto lʼautorità di un usurpatore, il quale, come
Enrico IV e Riccardo III, portasse il titolo di Re, ma dichiararono
che non poteva giovare ad uomini i quali accusarono, condannarono e
giustiziarono uno che nellʼatto dellʼaccusa, della sentenza e della
esecuzione, era designato col nome di Re. Ne seguiva quindi che
chiunque sostenesse un Reggente in opposizione a Giacomo, correrebbe
gran rischio di essere impiccato, trascinato e squartato, ove Giacomo
ricuperasse il potere sovrano; ma nessuno, senza violare la legge
in modo tale che forse nè anche Jeffreys si rischierebbe ad usare,
potrebbe essere punito aderendo ad un Re che regnava, quantunque contro
ogni diritto, in Whitehall contro un Re legittimo il quale era esule in
Saint–Germain.[646]

Eʼ pare che i sopra esposti argomenti non ammettessero risposta; e
furono energicamente addotti da Danby il quale aveva arte maravigliosa
a rendere chiara alla più torpida mente ogni cosa chʼei prendeva
a dimostrare, e da Halifax il quale per abbondanza di concetti e
splendore di locuzione non era pareggiato da nessuno fra gli oratori di
quella età. Nondimeno erano così potenti e numerosi i Tory nella Camera
Alta, che, nonostante la debolezza della causa loro, la diserzione del
loro capo, e lʼabilità deʼ loro oppositori, furono presso a trionfare
in quel giorno. I votanti erano cento. Quarantanove votarono per la
Reggenza, cinquantuno contro. Colla minoranza erano i figli naturali
di Carlo, i cognati di Giacomo, i Duchi di Somerset e dʼOrmond, lo
Arcivescovo di York e undici vescovi. Nessuno deʼ prelati, salvo
Compton e Trelawney, votò con la maggioranza.[647]

Erano vicine le ore nove della sera quando fu levata la seduta nella
Camera deʼ Lordi. Il dì che seguiva era il 30 gennaio, anniversario
della morte di Carlo I. Il clero anglicano per molti anni aveva
reputato debito sacro inculcare in quel giorno le dottrine della non
resistenza e della obbedienza passiva. Ora i suoi vecchi sermoni
giovavano poco; e molti teologi perfino dubitavano se potessero
rischiarsi a leggere per intero la liturgia. La Camera Bassa aveva
dichiarato vacante il trono. LʼAlta non aveva per anche espressa alcuna
opinione. Non era quindi facile cosa decidere se si dovessero recitare
le preci pel Sovrano. Ogni ministro nel compiere i divini uffici seguì
il proprio talento. Nella più parte delle chiese della metropoli le
preghiere per Giacomo furono omesse: ma in Santa Margherita, Sharp
Decano di Norwich, richiesto di predicare dinanzi ai Comuni, non solo
lesse in faccia a loro lʼintero servizio come era scritto nel libro,
ma prima di incominciare il sermone invocò con sue proprie parole
il cielo perchè benedicesse il Re, e verso la fine del suo discorso
declamò contro la dottrina gesuitica che insegnava potere i principi
essere legalmente detronizzati dai loro sudditi. Quel dì stesso il
Presidente alla Camera mosse querela di tal affronto dicendo: «Voi un
giorno votate un provvedimento, e il dì dopo viene contraddetto dal
pulpito al cospetto vostro.» Sharp fu energicamente difeso dai Tory, e
trovò amici anche fraʼ Whig: imperocchè rammentavano tuttavia chʼegli
aveva corso gravissimo pericolo allorquando nei tristi tempi ebbe il
coraggio, malgrado il divieto del Re, di predicare contro il papismo.
Sir Cristoforo Musgrave ingegnosissimamente notò non avere la Camera
ordinato la pubblicazione della deliberazione che dichiarava vacante
il trono. Sharp adunque non solo non era tenuto a saperla, ma non ne
avrebbe potuto parlare senza violare i privilegi parlamentari, pel
quale attentato avrebbe corso rischio di essere chiamato alla sbarra
e prostrato sulle proprie ginocchia sostenere una riprensione. La
maggioranza conobbe non essere savio partito in quel momento attaccar
lite col clero; e troncò la questione.[648]

Mentre i Comuni discutevano intorno al sermone di Sharp, i Lordi si
erano di nuovo costituiti in Comitato per considerare le condizioni del
paese, ed avevano ordinato che venisse paragrafo per paragrafo letta la
deliberazione che dichiarava vacante il trono.

La prima espressione che fece nascere una disputa era dove si ammetteva
il contratto originale tra Re e popolo. Non era da aspettarsi che i
Pari Tory lasciassero passare una frase che conteneva la quintessenza
delle opinioni deʼ Whig. Si venne ai voti; e risultò con cinquantatre
favorevoli sopra quarantasei contrari che le controverse parole
rimarrebbero.

Presero poscia in considerazione il severo biasimo che i Comuni avevano
dato al governo di Giacomo e fu unanimemente approvato. Sorse qualche
obiezione verbale contro la proposizione in cui si affermava che
Giacomo aveva abdicato. Fu proposto si correggesse con dire chʼegli
aveva abbandonato il Governo. Questa emenda fu abbracciata, a quanto
sembra, quasi senza dibattimento nè votazione. Essendo già tardi, i
Lordi aggiornarono la tornata.[649]

XXXVII. Fin qui la piccola schiera dei Pari, guidati da Danby, aveva
agito dʼaccordo con Halifax e coi Whig. Tale unione aveva fatto sì
che il disegno dʼinstituire una Reggenza era stato rigettato, ed
abbracciata la dottrina del contratto originale. La proposizione che
Giacomo aveva cessato dʼessere Re era stata il punto di congiunzione
deʼ due partiti che formavano la maggioranza. Ma da quel punto lʼuno
dallʼaltro divergeva. La questione che doveva poscia risolversi era,
se il trono fosse da considerarsi vacante; questione non di semplici
parole, ma di grave importanza pratica. Se il trono era vacante, gli
Stati del reame potevano darlo a Guglielmo. Se non era vacante, ei
poteva succedere soltanto dopo la sua consorte, la Principessa Anna e i
discendenti di lei.

Secondo i seguaci di Danby era massima stabilita non potere la patria
nostra nemmeno per un istante trovarsi senza legittimo Principe. Lʼuomo
poteva morire; ma il magistrato era immortale. Lʼuomo poteva abdicare;
ma il magistrato era irremovibile. Se noi—ragionavano essi—una
volta ammettiamo il trono essere vacante, ammettiamo che la nostra
monarchia è elettiva. Il monarca che vi poniamo diventa un Sovrano non
secondo la forma dʼInghilterra, ma secondo quella di Polonia. Quando
anche scegliessimo lʼindividuo stesso destinato a regnare per diritto
di nascita, quellʼindividuo tuttavia regnerebbe non per diritto di
nascita, ma per virtù della nostra elezione, e prenderebbe come dono
ciò che dovrebbe considerarsi retaggio. La salutare riverenza tributata
finora al sangue regio e allʼordine della primogenitura verrebbe
grandemente scemata. Il male si farebbe anco maggiore se noi non solo
dessimo il trono per elezione; ma lo dessimo a un principe il quale
indubitatamente avesse i requisiti di un grande ed ottimo regnatore, e
il quale ci avesse maravigliosamente liberati, ma non fosse primo e nè
anco secondo nellʼordine della successione. Se una volta diciamo che
il merito, ancorchè eminente, è un diritto per acquistare la Corona,
distruggiamo i fondamenti del nostro ordinamento politico, e stabiliamo
un esempio, del quale ogni guerriero o statista ambizioso che avesse
reso grandi servigi al pubblico sarebbe tentato a giovarsi. Questo
pericolo scansiamo seguendo logicamente i principii della Costituzione
fino alle ultime conseguenze loro. Lo accesso alla Corona era aperto
come alla morte del principe regnante: da quel momento medesimo il più
prossimo erede diventò nostro legittimo Sovrano. Noi consideriamo la
Principessa dʼOrange come la più prossima erede, sosteniamo quindi che
si debba senza il minimo indugio proclamare, quale è difatto, nostra
Regina.

I Whig rispondevano essere scempiezza applicare le regole ordinarie
ad un paese in istato di rivoluzione, la gran questione non doversi
decidere coi dettati deʼ pedanti curiali, e dovendosi a quel modo
decidere, quei dettati potersi da ambe le parti addurre. Se era
massima di legge che il trono non poteva essere giammai vacante, era
parimente massima di legge che un uomo non poteva avere un erede, che,
lui vivente, succeda. Giacomo era vivente. In che modo adunque la
Principessa dʼOrange poteva ella succedergli? Vero era che le leggi
dellʼInghilterra avevano pienamente provveduto alla successione nel
caso in cui il potere dʼun sovrano e la sua vita naturale finissero
ad un tempo, ma non avevano provveduto peʼ casi in cui il suo potere
cessasse innanzi chʼegli finisse di vivere; e la Convenzione ora doveva
risolvere uno di questi rarissimi casi. Che Giacomo non possedeva
più il trono, ambedue le Camere avevano dichiarato. Nè il diritto
comune nè gli statuti designavano individuo alcuno che avesse diritto
ad ascendere sul trono nel tempo che intercedeva tra la decadenza
del Re e la sua morte. Ne seguiva dunque che il trono era vacante, e
che le Camere potevano invitare il Principe dʼOrange ad ascendervi.
Chʼegli non fosse il più prossimo erede nellʼordine della discendenza,
era vero: ma ciò non nuoceva punto, anzi era un positivo vantaggio.
La monarchia ereditaria era una buona istituzione politica, ma non
era in nulla più sacra delle altre buone istituzioni politiche.
Sventuratamente i bacchettoni e servili teologi lʼavevano fatta
diventare mistero religioso, imponente e incomprensibile quasi al pari
della transustanzazione. Primissimo scopo degli statisti inglesi doveva
essere quello di mantenere la istituzione e a un tempo distrigarla
dalle abiette e malefiche superstizioni fra le quali dianzi era stata
involta, sì che invece di essere un bene riusciva dannosa alla società;
e a cotesto scopo si giungerebbe meglio, pria deviando alquanto e
per un tempo dalla regola generale della discendenza, per poscia
ritornarvi.

XXXVIII. Molti sforzi furono fatti per impedire ogni aperta rottura
tra i partigiani dei Principe e quei della Principessa. Si tenne
unʼadunanza in casa del Conte di Devonshire, e vi fu caldo contendere.
Halifax era il precipuo propugnatore di Guglielmo, Danby lo era di
Maria. Danby non conosceva punto lo intendimento di Maria. Da qualche
tempo era aspettata in Londra, ma lʼavevano trattenuta in Olanda prima
i massi di ghiaccio che impedivano il corso deʼ fiumi, e, strutto
il ghiaccio, i venti che spiravano forte da ponente. Se ella fosse
giunta più presto, la contesa probabilmente si sarebbe a un tratto
calmata. Halifax dallʼaltro canto non aveva potestà di dire alcuna
cosa in nome di Guglielmo. Il Principe, fedele alla promessa di
lasciare alla Convenzione lʼincarico di riordinare il governo, sʼera
tenuto in impenetrabile riserbo e non sʼera lasciato sfuggire parola,
sguardo o gesto, che esprimesse satisfazione o dispiacere. Uno degli
Olandesi fidatissimo del Principe, invitato allʼadunanza, fu dai Pari
istantemente sollecitato desse loro qualche informazione. Ei si scusò
lungamente. Infine cedè alle loro istanze sino a dire: «Io altro non
posso che indovinare lo intendimento di Sua Altezza. Se desiderate
sapere ciò che io ne indovino, credo che egli non amerà mai dʼessere il
ciamberlano di sua moglie: del resto non so nulla.»—«E non per tanto
adesso io ne so qualcosa» disse Danby, «ne so abbastanza, ne so molto.»
Quindi si partì, e lʼassemblea si disciolse.[650]

Il dì 31 gennaio la disputa che privatamente era finita nella sopra
narrata guisa, fu pubblicamente rinnovata nella Camera deʼ Pari. Quel
giorno era stato stabilito come solennità di rendimento di grazie. Vari
vescovi, fraʼ quali erano Ken e Sprat, avevano composta una forma di
preghiera adatta alla circostanza. È al tutto libera dalla adulazione
e dalla malignità onde spesso in quella età erano deturpati simili
componimenti; e meglio di qualunque altra forma di preghiera fatta per
occasione speciale nello spazio di due secoli, sostiene il paragone con
quel gran modello di casta, alta e patetica eloquenza, cioè col Libro
delle Preghiere Comuni. I Lordi la mattina si condussero allʼabadia di
Westminster. I Comuni avevano desiderato che Burnet predicasse in Santa
Margherita. Non era verosimile chʼegli cadesse nel medesimo errore che
il dì precedente in quello stesso luogo altri aveva commesso. Non è
dubbio che il suo vigoroso ed animato discorso ponesse in commovimento
gli uditori. Non solo fu stampato per ordine della Camera, ma tradotto
in francese per edificazione dei protestanti stranieri.[651] Il giorno
si chiuse con le feste consuete in simili solennità. Tutta la città
risplendeva con fuochi di gioia e luminarie: il rimbombo deʼ cannoni e
il suono delle campane durò fino a notte inoltrata: ma innanzi che i
lumi fossero spenti e le strade in silenzio, era seguito un evento che
raffreddò la pubblica esultanza.

XXXIX. I Pari dallʼAbadia andati alla Camera avevano ripresa la
discussione sopra le condizioni della nazione. Le ultime parole
della deliberazione deʼ Comuni vennero prese in considerazione; e
tosto chiaramente si vide che la maggioranza non era inchinevole ad
approvarle. Ai circa cinquanta Lordi i quali sostenevano che il titolo
di Re apparteneva sempre a Giacomo si aggiunsero altri sette o otto i
quali dianzi volevano che fosse già devoluto a Maria. I Whig vedendosi
vinti di numero, si provarono di venire a patti. Proposero di levare
le parole che dichiaravano vacante il trono, e di semplicemente
proclamare Re e Regina il Principe e la Principessa. Era evidente che
tale dichiarazione comprendeva, benchè non lo affermasse espressamente,
tutto ciò che i Tory repugnavano a concedere: imperocchè nessuno poteva
pretendere che Guglielmo fosse succeduto alla dignità regia per diritto
di nascita. Approvare quindi una deliberazione che lo riconoscesse
era un atto dʼelezione; e in che guisa poteva esservi elezione senza
vacanza? La proposta deʼ Lordi Whig fu rigettata con cinquantadue voti
contro quarantasette. Allora posero la questione se il trono fosse
vacante. Gli approvanti furono quarantuno, i neganti cinquantacinque.
Della minoranza trentasei protestarono.[652]

XL. Nei due giorni susseguenti Londra era piena di ansietà e
inquietudine. I Tory cominciarono a sperare di potere nuovamente con
migliore esito mettere innanzi il loro prediletto disegno dʼinstituire
una Reggenza. Forse lo stesso Principe, vedendo perduta ogni speranza
di acquistare la Corona, preferirebbe il progetto di Sancroft a quello
di Danby. Certo era meglio essere Re che Reggente; ma era anche meglio
essere Reggente che Ciamberlano. Dallʼaltro canto la più bassa e
feroce classe deʼ Whig, i vecchi emissari di Shaftesbury, e i vecchi
complici di College, cominciarono ad affaccendarsi nella città. Si
videro turbe affollarsi in Palace Yard, e prorompere in parole di
minacce. Lord Lovelace il quale era in sospetto di avere suscitato il
tafferuglio, annunziò ai Pari chʼegli aveva lo incarico di presentare
una petizione nella quale si domandava che in sullʼistante il Principe
e la Principessa dʼOrange venissero dichiarati Re e Regina. Gli fu
domandato chi fossero coloro che avevano firmata la petizione. «Nessuno
finora vi ha posto la mano» rispose egli, «ma quando ve la porterò, vi
saranno mani tante che bastino.» Tale minaccia impaurì e disgustò il
suo proprio partito. E veramente i più cospicui Whig avevano, anche
più deʼ Tory, bramosia che le deliberazioni della Convenzione fossero
perfettamente libere, e che nessuno dei fautori di Giacomo potesse
allegare che alcuna delle Camere fosse stata costretta dalla forza.
Una petizione simile a quella affidata a Lovelace fu presentata alla
Camera dei Comuni, ma venne sprezzantemente respinta. Maynard fu primo
a protestare contro la canaglia delle strade che tentava dʼintimorire
gli Stati del reame. Guglielmo chiamò a sè Lovelace, lo rimproverò
severamente, e ordinò che i magistrati agissero con vigore contro
glʼilleciti assembramenti.[653] Non è cosa nella storia della nostra
rivoluzione che meriti dʼessere ammirata e tolta ad esempio, quanto
il modo onde i due partiti della Convenzione, nel momento in cui
più fervevano le loro contese, si congiunsero come un solo uomo per
resistere alla dittatura della plebaglia di Londra.

XLI. Ma quantunque i Whig fossero pienamente deliberati di mantenere
lʼordine e rispettare la libertà deʼ dibattimenti, erano parimente
determinati di non fare alcuna concessione. Il sabato, 2 febbraio, i
Comuni senza votazione decisero di starsi fermi nella forma primitiva
della loro deliberazione. Giacomo, come sempre, venne in aiuto deʼ suoi
nemici. Era pur allora arrivata a Londra una lettera di lui diretta
alla Convenzione. Era stata trasmessa a Preston dallo apostata Melfort,
il quale era grandemente favorito in Saint–Germain. Il nome di Melfort
era in abominio ad ogni Anglicano. Lʼessere egli ministro confidente
di Giacomo bastava a dimostrare che la costui demenza ed ostinatezza
erano infermità incurabili. Nessun membro dellʼuna o dellʼaltra Camera
si rischiò a proporre la lettura di un foglio che veniva da quelle
cotali mani. Non per tanto il contenuto era ben noto alla città tutta.
La Maestà Sua esortava i Lordi e i Comuni a non disperare della sua
clemenza, e benevolmente prometteva di perdonare coloro che lo avevano
tradito, tranne pochi chʼegli non nominava. Come era egli possibile
fare alcuna cosa a pro dʼun Principe, il quale, vinto, abbandonato,
bandito, vivente di limosine, diceva a coloro che erano arbitri delle
sue sorti, che ove lo ponessero nuovamente sul trono, non impiccherebbe
che pochi di loro?

XLII. La contesa tra le due Camere durò alcuni altri giorni. Il lunedì
4 di febbraio i Pari deliberarono dʼinsistere sulle loro modificazioni:
ma fu messa nel processo verbale una proteste firmata da trentanove
membri.[654]

Il giorno dopo i Tory pensarono di far prova della forza loro nella
Camera Bassa; vi concorsero assai numerosi, e fecero la proposta di
assentire alle modificazioni deʼ Lordi. Coloro che erano pel progetto
di Sancroft e coloro che erano pel progetto di Danby votarono insieme:
ma furono vinti da duecentottantadue voti contro centocinquantuno. La
Camera allora deliberò di avere un libero colloquio coi Lordi.[655]

Nello stesso tempo potenti sforzi facevansi fuori le mura del
Parlamento affine che la contesa fra le due Camere cessasse. Burnet si
reputò dalla importanza della crisi giustificato a divulgare le mire
secrete confidategli dalla Principessa. Disse sapere dalle labbra di
lei, chʼera da lungo tempo pienamente deliberata, anche se il trono
le venisse pel corso regolare della discendenza, a porre il potere,
assenziente il Parlamento, nelle mani del suo consorte. Danby ricevè
da lei una viva e quasi sdegnosa riprensione. Gli scrisse chʼella
era la moglie del Principe, che altro non desiderava, se non essere
a lui sottoposta; la più crudele ingiuria che le si potesse fare era
il controporta a lui come competitrice; e chiunque ciò facesse non
verrebbe mai considerato da lei come vero amico.[656]

XLIII. Ai Tory rimaneva ancora una speranza. Era possibile che Anna
ponesse innanzi i propri diritti e quelli deʼ figli suoi. Provaronsi
in tutte le guise a incitare lʼambizione e atterrire la coscienza
di lei. Suo zio Clarendon si mostrò a ciò fare operosissimo. Solo
poche settimane erano corse da che la speranza della opulenza e della
grandezza lo aveva spinto a rinnegare i principii da lui ostentatamente
professati per tutta la vita, abbandonare la causa del Re, collegarsi
coi Wildman e coi Ferguson, anzi proporre che il Re fosse condotto
prigione in terra straniera e rinchiuso in una fortezza cinta di
pestilenti maremme. Era stato indotto a tale strana trasformazione
dalla brama di essere fatto Vicerè dʼIrlanda. Nonostante, presto si
vide che il proselite aveva poca speranza di ottenere il magnifico
premio al quale era intento il suo cuore: perocchè intorno agli affari
di quellʼisola ad altri chiedevasi consiglio; allʼincontro, quando egli
importunamente lʼoffriva, era accolto freddamente. Andò molte volte
al palazzo di San Giacomo, ma appena potè ottenere il favore di una
parola o dʼuno sguardo. Ora il Principe scriveva; ora aveva mestieri
dʼaria e doveva cavalcare pel parco; ora stavasi rinchiuso con gli
ufficiali ragionando di faccende militari e non poteva dare ascolto
a nessuno. Clarendon si accôrse non essere verosimile di guadagnar
nulla col sacrificio deʼ suoi principii e pensò di ripigliarli. In
dicembre lʼambizione lo aveva reso ribelle. In gennaio il disinganno
lo aveva fatto nuovamente diventare realista. Il rimorso che sentiva
nella coscienza di non essere stato Tory costante, diede una speciale
acrimonia al suo Torysmo.[657] Nella Camera dei Lordi aveva fatto il
possibile a impedire ogni accomodamento. Adesso pel medesimo fine fece
prova di tutta la sua influenza sullo spirito della Principessa Anna.
Ma cotesta influenza era poca in paragone di quella dei Churchill, i
quali accortamente chiamarono in aiuto due potenti collegati, cioè
Tillotson, il quale come direttore spirituale aveva in queʼ tempi
immensa autorità, e Lady Russell, le cui nobili e care virtù, esposte a
crudelissime prove, le avevano acquistata reputazione di santa. Tosto
si seppe che la Principessa di Danimarca desiderava che Guglielmo
regnasse a vita; e quindi fu chiaro che difendere la causa delle figlie
di Giacomo contro loro stesse era disperata impresa.[658]

XLIV. Guglielmo intanto giudicò arrivato il tempo di dichiarare
lʼanimo suo. Chiamò a sè Halifax, Danby, Shrewsbury e alcuni altri
notevolissimi capi politici, e con quellʼaria di stoica apatia, sotto
la quale fino da fanciullo sʼera avvezzo a nascondere le più forti
emozioni, favellò loro poche parole profondamente meditate e di gran
peso.

Disse che egli fino allora aveva taciuto; non adoperato sollecitazioni
nè minacce, nè anche fatta la minima allusione alle opinioni e ai
desiderii suoi: ma ormai il caso era sì critico chʼei reputava
necessario dichiarare il proprio intendimento. Non aveva nè diritto nè
volontà di dettare alla Convenzione. Tutto ciò che egli pretendeva,
altro non era che il privilegio di rifiutare ogni ufficio chʼegli non
potesse occupare con onore per sè, ed a beneficio del pubblico.

Un forte partito voleva instituire una Reggenza. Spettava alle Camere
giudicare se tale provvedimento sarebbe utile alla nazione. In quel
subietto egli aveva le sue ferme opinioni; e credeva giusto dire
chiaramente chʼegli non voleva essere Reggente.

Un altro partito voleva porre la Principessa sul trono, e a lui, vita
durante, concedere il titolo di Re e tanta parte nel Governo quanta
piacesse alla consorte dargliene. Ei non si abbasserebbe a tanto.
Stimava la Principessa quanto era possibile che lʼuomo stimi la donna;
ma neanche da lei egli accetterebbe un posto subordinato e precario
nel Governo. Era così fatto da non potere starsi legato al grembiule
della migliore delle mogli. Non desiderava immischiarsi negli affari
della Inghilterra; ma consentendo a prendervi parte, non vʼera che una
sola parte chʼegli potesse utilmente ed onorevolmente prendere. Se gli
Stati gli offrissero la Corona a vita, ei lʼaccetterebbe. Se no, egli,
senza dolersi, ritornerebbe alla terra natia. Concluse dicendo reputare
ragionevole che la Principessa Anna e i suoi discendenti, nella
successione al trono, venissero preferiti a qualunque figlio ei potesse
avere da altra moglie che dalla Principessa Maria.[659]

E sciolse la congrega. Le cose dette dal Principe in poche ore furono
note a tutta Londra. Era chiaro che doveva essere Re. Lʼunica questione
era sapere sʼegli dovesse tenere la dignità regia solo, o insieme
con la Principessa. Halifax e pochi altri politici uomini, i quali
manifestamente discernevano il pericolo di partire la sovrana potestà
esecutiva, desideravano che finchè vivesse Guglielmo, Maria fosse
soltanto Regina Consorte e suddita. Ma questo ordinamento, comechè
potesse con molte ragioni propugnarsi, urtava il sentimento universale,
anche di quegli Inglesi che portavano maggiore affetto al Principe.
La sua moglie aveva dato non mai vista prova di sommissione ed amore
coniugale; ed il meno che potesse farsi per ricambiarla era conferirle
la dignità di Regina Regnante. Guglielmo Herbert, uno deʼ più ardenti
fautori del Principe, ne fu tanto esasperato che saltò fuori dal letto,
dove egli si stava infermo di podagra, ed energicamente dichiarò che
non avrebbe mai snudata la spada se avesse preveduto un sì vergognoso
ordinamento. Nessuno quanto Burnet prese la faccenda sul serio.
Sentì ribollirsi il sangue nelle vene pensando al torto che volevano
fare alla sua diletta protettrice. Rimproverò acremente Bentinck, e
chiese licenza di rinunciare allʼufficio di cappellano. «Finchè io
sarò servo di Sua Altezza» disse il valoroso ed onesto teologo, «sarà
per me inconvenevole avversare alcuna cosa che sia da lui secondata.
Desidero quindi dʼessere libero perchè io possa combattere per la
Principessa con tutti i mezzi che Dio mi ha dato.» Bentinck persuase
Burnet a differire la dichiarazione delle ostilità fino a quando fosse
chiaramente nota la risoluzione di Guglielmo. In poche ore il disegno
che aveva suscitato tanto risentimento fu abbandonato; e tutti coloro
i quali non più consideravano Giacomo come Re, concordarono intorno al
modo di provvedere al trono. Era dʼuopo che Guglielmo e Maria fossero
Re e Regina; le effigie di ambedue si vedessero congiunte sulle monete;
i decreti corressero in nome di entrambi; entrambi godessero tutti gli
onori e le immunità personali della sovranità: ma il potere esecutivo,
che non poteva senza pericolo partirsi, doveva appartenere al solo
Guglielmo.[660]

XLV. Giunto il tempo stabilito al libero colloquio fra le due Camere, i
Commissari dei Lordi, indossando lʼabito del loro ufficio si assisero
da un lato attorno la tavola nella Sala dipinta: ma dallʼaltro
lato la folla deʼ membri della Camera deʼ Comuni era sì grande
che i gentiluomini i quali dovevano discutere intorno al subietto
controverso, invano provaronsi di ottenere posto. Non senza difficoltà
e lungo indugio il Sergente dʼArmi potè farsi passare.[661]

Finalmente incominciò la discussione. È giunta sino a noi una copiosa
relazione deʼ discorsi dʼambe le parti. Pochi sono gli studiosi
della storia i quali non abbiano svolta con ardente curiosità tale
relazione e non lʼabbiano gettata via disillusi. La questione tra
le due Camere fu discussa da ambo le parti come questione di legge.
Le obiezioni fatte daʼ Lordi alla deliberazione dei Comuni furono
in materia di vocaboli e di punti tecnici, ed ebbero risposte della
medesima sorta. Somers difese lʼuso della parola _abdicazione_ citando
Grozio e Brissonio, Spigelio e Bartolo. Sfidato ad addurre qualche
autorità per sostenere la proposizione che la Inghilterra poteva
essere senza sovrano, ei produsse un documento parlamentare del 1399
in cui stabilivasi espressamente che il trono era rimasto vacante
dalla abdicazione di Riccardo II fino allʼinalzamento di Enrico IV. I
Lordi risposero adducendo un documento parlamentare dellʼanno primo
dʼEduardo IV, dal quale appariva, che lo strumento del 1399 era stato
solennemente annullato. Sostenevano quindi che lo esempio recato da
Somers non poteva applicarsi al caso. Surse allora Treby in soccorso di
Somers, e produsse il documento parlamentare dellʼanno primo di Enrico
VII, che revocava lʼatto dʼEduardo IV, e per conseguenza ristabiliva
la validità del documento del 1399. Dopo parecchie ore il colloquio fu
sciolto.[662] I Lordi si congregarono nella sala loro. Ben vedevasi
che essi stavano quasi per cedere, e che il colloquio era stato per
semplice forma. I fautori di Maria sʼerano accorti che ponendola sul
trono come rivale del marito, le avevano recato grave dispiacere.
Taluni dei Pari che dianzi avevano votato per instituire una Reggenza
avevano fatto pensiero o di assentarsi o di secondare la deliberazione
della Camera Bassa. Affermavano non avere cangiato opinione; ma qual si
fosse governo esser meglio che nessun governo; il paese non poter più a
lungo sopportare cotesta angosciosa sospensione. Lo stesso Nottingham,
il quale nella Sala dipinta aveva diretta la discussione contro i
Comuni, dichiarò che, quantunque la coscienza non gli consentisse
di cedere, ei godeva vedendo le coscienze degli altri essere meno
fastidiose. Vari Lordi i quali non avevano fino allora votato nella
Convenzione erano stati indotti a recarvisi: Lord Lexington il quale
era pur allora giunto dal Continente; il Conte di Lincoln che era
mezzo maniaco; il Conte di Carlisle che si trascinava sulle grucce;
e il Vescovo di Durham, il quale sʼera tenuto nascosto e intendeva
fuggire oltre mare; ma gli era stato annunziato che ove egli votasse
pel riordinamento del Governo, non si farebbe mai più parola della sua
condotta nella Commissione Ecclesiastica. Danby, desideroso di spengere
lo scisma da lui cagionato, esortò la Camera, con un discorso superiore
anche alla sua ordinaria valentia, a non perseverare in una contesa che
poteva riuscire fatale allo Stato. Fu caldamente secondato da Halifax.
Il partito avverso si perdè dʼanimo. Posta la questione se Giacomo
avesse abdicato il governo, solo tre Lordi dettero il voto negativo.
Nella questione se il trono fosse vacante, gli approvanti furono
sessantadue, i neganti quarantasette. Fu immediatamente approvata senza
votazione la proposta che il Principe e la Principessa dʼOrange fossero
dichiarati Re e Regina dʼInghilterra.[663]

XLVI. Nottingham allora propose che la formula deʼ giuramenti di
fedeltà e di supremazia si variasse in modo da potersi con sicura
coscienza prestare da coloro i quali al pari di lui disapprovavano ciò
che la Convenzione aveva fatto, e non per tanto volevano schiettamente
essere leali e rispettosi sudditi deʼ nuovi sovrani. A tale
proposizione nessuno obiettò. Non è dubbio che intorno a ciò vi fosse
intelligenza tra i capi deʼ Whig e quei Lordi Tory i cui voti avevano
fatto traboccare la bilancia nellʼultima tornata. Le nuove formole di
giuramento furono mandate ai Comuni insieme con la deliberazione che il
Principe e la Principessa venissero dichiarati Re e Regina.[664]

XLVII. Ormai era noto a chi doveva darsi la Corona. Rimaneva a
decidersi a quali condizioni si dovesse darla. I Comuni avevano eletto
un Comitato per discutere e riferire i provvedimenti da farsi onde
assicurare la legge e la libertà contro le aggressioni deʼ futuri
sovrani; e il Comitato aveva già fatta la relazione.[665] La quale
proponeva primamente che quei grandi principii della Costituzione
che erano stati violati dal deposto Re, fossero solennemente
rivendicati: e in secondo luogo che si facessero molte nuove leggi a
fine dʼinfrenare la regia prerogativa e purificare lʼamministrazione
della giustizia. La maggior parte deʼ suggerimenti del Comitato erano
eccellenti; ma era affatto impossibile che le Camere nello spazio
di un mese, e anche di un anno, potessero debitamente trattare così
numerose, varie e importanti materie. Fra le altre cose fu proposto
di riformare la milizia civica; restringere la potestà che i sovrani
avevano di prorogare e sciogliere il Parlamento; limitare la durata deʼ
Parlamenti; impedire che si opponesse la grazia del Re ad unʼaccusa
parlamentare; concedere tolleranza ai protestanti dissenzienti;
definire con maggior precisione il delitto dʼalto tradimento; condurre
i processi di crimenlese in modo più favorevole allʼinnocenza;
rendere duraturo a vita lʼufficio di giudice; variare il modo di
nominare gli sceriffi; nominare i giurati in guisa da impedire la
parzialità e la corruzione; abolire lʼuso di fare i processi criminali
nella Corte del Banco del Re; riformare la Corte della Cancelleria;
stabilire lʼonorario deʼ pubblici ufficiali; ed emendare la legge
di _Quo Warranto_. Era chiaro che a far leggi savie e profondamente
pensate sopra tali materie bisognava più dʼuna laboriosa sessione;
ed era parimente chiaro che leggi fatte in fretta e mal digerite
sopra materie sì gravi non potevano che produrre nuovi mali peggiori
di quelli che avrebbero potuto spegnere. Se il Comitato intendeva
dare una lista di tutte le riforme che il Parlamento avrebbe dovuto
fare in tempo proprio, la lista era stranamente imperfetta. Letta
appena la relazione, i rappresentanti, lʼuno dopo lʼaltro, sorsero
suggerendo aggiunzioni. Fu proposto e approvato che si proibisse la
rendita deglʼimpieghi, che si rendesse più efficace lʼAtto dellʼ_Habeas
Corpus_, e che si rivedesse la legge di _Mandamus_. Un tale si scagliò
contro glʼimpiegati della imposta sui fuochi, un altro contro quei
dellʼ_Excise_: e la Camera deliberò di reprimere gli abusi dʼentrambi.
È cosa notevolissima che, mentre lo intero sistema politico, militare,
giudiciario e fiscale del Regno nella sopradetta guisa passavasi a
rassegna, nè anche uno deʼ rappresentanti del popolo proponesse la
revoca della legge che sottoponeva la stampa alla censura. Gli stessi
uomini intelligenti non ancora intendevano che la libertà della
discussione è il precipuo baluardo di tutte le altre libertà.[666]

XLVIII. La camera era in grave imbarazzo. Alcuni oratori calorosamente
dicevano essersi già perduto assai tempo; doversi stabilire il Governo
senza nemmeno un giorno dʼindugio; la società inquieta; languente
il commercio; la colonia inglese dʼIrlanda in imminente pericolo di
perire; sovrastare una guerra straniera; essere possibile che in pochi
giorni lʼesule Re approdasse con unʼarmata francese a Dublino, e da
Dublino in breve tempo trapassasse a Chester. Non era ella insania in
un caso tanto critico lasciare il trono vacante, e, mentre la esistenza
stessa del Parlamento era in pericolo, consumare il tempo a discutere
se i Parlamenti dovessero prorogarsi dal Sovrano o da sè? Dallʼaltra
parte chiedevasi se la Convenzione credesse dʼavere adempito il proprio
debito col solo rovesciare un Principe per inalzare un altro. Certo
ora, o mai, era il momento di assicurare la libertà pubblica con difese
tali da potere efficacemente impedire le usurpazioni della regia
prerogativa.[667] Senza alcun dubbio gravi erano le ragioni allegate
da ambe le parti. Gli esperti capi dei Whig, fra i quali Somers andava
sempre acquistando maggiore riputazione, proposero una via di mezzo.
Dicevano la Camera avere in mira due cose chʼerano da considerarsi
lʼuna dallʼaltra distinte; assicurare, cioè, lʼantico ordinamento
politico del reame contro le illegali aggressioni; e migliorare tale
politico ordinamento con riforme legali. La prima poteva conseguirsi
facendo nella deliberazione che chiamava i nuovi sovrani al trono,
solenne ricordo del diritto che aveva la Nazione inglese alle sue
vetuste franchigie, in guisa che il Re possedesse la sua Corona, e
il popolo i suoi privilegi in forza di un solo e medesimo titolo. Ad
ottenere la seconda era mestieri un intero volume di leggi elaborate.
Lʼuna poteva conseguirsi in un solo giorno; lʼaltra appena in cinque
anni. Quanto alla prima tutti i partiti erano dʼaccordo; quanto alla
seconda vʼera innumerevole varietà dʼopinioni. Nessun membro dellʼuna e
dellʼaltra Camera esiterebbe un istante a votare che il Re non potesse
imporre tasse senza consenso del Parlamento; ma non sarebbe possibile
fare alcuna nuova legge di procedura nei casi dʼalto tradimento, senza
far nascere lunga discussione, ed essere da questi riprovata come
ingiusta verso lo accusato, e da quelli come ingiusta verso la Corona.
Lo scopo dʼuna straordinaria Convenzione degli Stati del reame non
era di trattare le faccende che ordinariamente trattano i Parlamenti,
stabilire lʼonorario dei Maestri in Cancelleria, e fare provvisioni
contro le esazioni degli ufficiali dellʼExcise, ma di regolare la gran
macchina del Governo. Fatto ciò, sarebbe tempo di ricercare quali
miglioramenti le nostre istituzioni richiedessero; nè nello indugio
sarebbe rischio; imperocchè un Sovrano che regnasse semplicemente
mercè la elezione del popolo non potrebbe lungo tempo ricusare il suo
assenso a quei provvedimenti che il popolo, parlando per mezzo deʼ suoi
rappresentanti, chiedesse.

Per tali ragioni i Comuni saggiamente sʼindussero a differire ogni
riforma finchè fosse ristaurata in tutte le sue parti lʼantica
Costituzione del Regno, e per allora pensare di provvedere al trono
senza imporre a Guglielmo ed a Maria altro obbligo che quello di
governare secondo le leggi esistenti dʼInghilterra. Affinchè le
questioni controverse tra gli Stuardi e la nazione più oltre non
risorgessero, eʼ fu deliberato che lʼAtto in forza del quale il
Principe e la Principessa dʼOrange erano chiamati al trono contenesse
espressi in distintissima e solenne forma i principii fondamentali
della Costituzione. Questo documento che chiamasi Dichiarazione dei
Diritti fu compilato da un Comitato preseduto da Somers. Per un giovine
giureconsulto che soltanto dieci giorni innanzi aveva per la prima
volta favellato nella Camera deʼ Comuni, lʼessere stato eletto ad un
ufficio di tanto onore e tanta importanza nel Parlamento, è sufficiente
prova della superiorità del suo ingegno. In poche ore la Dichiarazione
fu finita e approvata dai Comuni. I Lordi vi assentirono con qualche
modificazione di poco momento.[668]

XLIX. La Dichiarazione incominciava riepilogando gli errori e i
delitti che avevano resa necessaria la rivoluzione. Giacomo aveva
invaso il campo del Corpo Legislativo, trattato come delitto una
modesta petizione, oppresso la Chiesa per mezzo di un tribunale
illegale, senza consenso del Parlamento imposto tasse e mantenuto
in tempo di pace un esercito stanziale, violato la libertà delle
elezioni, e pervertito il corso della giustizia. Questioni che poteva
legittimamente discutere il solo Parlamento erano state subietto di
persecuzione nel Banco del Re. Erano stati eletti Giurati parziali
e corrotti; estorti ai prigioni eccessivi riscatti; imposte multe
eccessive; inflitte barbare e insolite pene; le sostanze degli accusati
tolte a questi, e innanzi che fossero dichiarati rei convinti, date
ad altrui. Colui, per autorità del quale sʼerano fatte tali cose,
aveva abdicato il Governo. Il Principe dʼOrange, fatto da Dio glorioso
strumento a liberare il paese dalla superstizione e dalla tirannide,
aveva invitato gli Stati del reame a ragunarsi e consultare intorno
al modo di assicurare la religione, la legge e la libertà. I Lordi e
i Comuni dopo matura deliberazione aveano innanzi tutto, secondo lo
esempio degli avi, rivendicato i vetusti diritti e le libertà della
Inghilterra. Avevano quindi dichiarato che la potestà di dispensare
dianzi usurpata ed esercitata da Giacomo non aveva esistenza legale;
che senza lʼautorizzazione del Parlamento il Sovrano non poteva
esigere danaro dal suddito; che senza il consenso del Parlamento non
poteva mantenersi esercito stanziale in tempo di pace. Il diritto
deʼ sudditi a far petizioni, il diritto degli elettori a scegliere
liberamente i loro rappresentanti, il diritto deʼ Parlamenti alla
libertà della discussione, il diritto della Nazione ad una pura e
mite amministrazione della giustizia secondo lo spirito mite delle
sue leggi, tutte queste cose vennero solennemente espresse, e dalla
Convenzione, a nome del popolo, reclamate come incontrastabile
eredità deglʼInglesi. Rivendicati in cosiffatta guisa i principii
della Costituzione, i Lordi e i Comuni, pienamente confidando che il
liberatore reputasse sacre le leggi e le libertà da lui già salvate,
determinavano che Guglielmo e Maria, Principe e Principessa dʼOrange,
venissero dichiarati Re e Regina dʼInghilterra, loro vita durante, e
che, viventi entrambi, il potere esecutivo fosse nelle mani del solo
Principe. Dopo la morte loro, al trono succederebbero i discendenti di
Maria, poi la Principessa Anna e suoi discendenti, poi i discendenti di
Guglielmo.

L. Verso questo tempo il vento aveva cessato di spirare da ponente. La
nave sulla quale la Principessa dʼOrange sʼera imbarcata, trovavasi
il dì 11 febbraio di faccia a Margate, la dimane gettò lʼàncora in
Greenwich.[669] Le furono fatte gioiose e affettuose accoglienze: ma il
suo contegno spiacque gravemente ai Tory, e daʼ Whig non fu reputato
scevro di biasimo. Una donna giovane, da un destino tristo e tremendo
come quello che pesava sulle favolose famiglie di Labdaco e di Pelope,
posta in condizioni da non potere, senza violare i propri doveri
verso Dio, il marito e la patria, ricusare dʼascendere al trono dal
quale il padre suo era stato dianzi rovesciato, avrebbe dovuto avere
aspetto tristo o almeno grave. E non per tanto Maria non solo era di
lieto ma di stravagante umore. Fu detto chʼella entrasse in Whitehall
col fanciullesco diletto di vedersi padrona di un sì bel palagio,
corresse per le stanze, facesse capolino negli stanzini, e si stesse
ad osservare gli arredi del letto di gala siffattamente, che sembrava
non rammentasse da chi quei magnifici appartamenti erano stati dianzi
occupati. Burnet, il quale fino allora lʼaveva reputata un angiolo in
forma umana, non potè in quella occasione astenersi dal biasimarla. E
ne era maggiormente attonito, perocchè nel togliere da lei commiato
allʼAja, lʼaveva veduta,—quantunque fosse pienamente persuasa di
procedere per la via del dovere,—profondamente accuorata. A lui, come
a direttore spirituale, ella poscia disse le ragioni della propria
condotta. Guglielmo le aveva scritto che taluni di coloro che sʼerano
provati a dividere i suoi interessi da quelli di lei, seguitavano a
tramare: andavano spargendo chʼessa si reputava lesa neʼ suoi diritti;
ed ove si mostrasse in melanconico aspetto, la ciarla toglierebbe
sembianza di verità. La supplicava quindi ad assumere nella sua prima
comparsa unʼaria di allegria. Il suo cuore—diceva ella—era ben lungi
dallʼessere lieto; ma aveva fatto ogni sforzo a parerlo; e temendo
di non rappresentare convenevolmente una parte chʼella non sentiva,
lʼaveva esagerata. Il suo contegno fu subietto a volumi di scurrilità
in prosa e in versi; le scemò reputazione presso taluni di coloro la
cui stima ella teneva in pregio; nè il mondo mai seppe, finchè ella non
fu in luogo dove nè lode nè biasimo poteva coglierla, che la condotta
la quale le aveva meritato il rimprovero di insensibilità e leggerezza,
era stupendo esempio di quella perfetta e disinteressata devozione di
cui lʼuomo sembra incapace, ma che talvolta si trova nella donna.[670]

LI. Il mercoledì mattina, 13 febbraio, la Corte di Whitehall e tutte
le vie circostanti erano accalcate di gente. La magnifica Sala del
banchetto, capolavoro dʼInigo, e adorna deʼ capolavori di Rubens, era
stata apparecchiata per una grande cerimonia. Lungo le pareti stavansi
in fila gli ufficiali delle Guardie. Presso la porta di tramontana, a
diritta, vedevasi un gran numero di Pari; vʼerano a sinistra i Comuni
col presidente loro accompagnato dal mazziere. Apertasi la porta di
mezzogiorno, il Principe e la Principessa dʼOrange lʼuno a fianco
dellʼaltra entrarono e presero posto sotto il baldacchino reale.

Ambedue le Camere si appressarono inchinandosi. Guglielmo e Maria si
fecero innanzi di pochi passi. Halifax a diritta e Powle a sinistra
avanzatisi, Halifax favellò. Disse la Convenzione avere fatta una
deliberazione chʼegli pregava le Altezze Loro dʼascoltare. Quelle
fecero cenno dʼassentimento, e il Cancelliere lesse ad alta voce la
Dichiarazione dei Diritti. E come egli ebbe finito, Halifax in nome
di tutti gli Stati del Reame, pregò il Principe e la Principessa
dʼaccettare la Corona.

LII. Guglielmo a nome suo e della moglie rispose che essi tenevano
in maggior pregio la Corona perchè era loro offerta come pegno della
fiducia della nazione. «Pieni di gratitudine noi accettiamo» disse egli
«il dono che ci avete offerto.» Poi, quanto a sè, gli assicurò che le
leggi della Inghilterra da lui ora rivendicate, sarebbero norma della
sua condotta; che egli si studierebbe di promuovere il bene del Regno,
e quanto ai mezzi di farlo, chiederebbe sempre consiglio alle Camere,
volendosi più volentieri fidare del giudicio loro che del suo.[671]
Queste parole furono accolte con uno scoppio di gioiose grida alle
quali in un baleno risposero dalle vie gli evviva di molte migliaia.
I Lordi e i Comuni quindi rispettosamente uscirono dalla Sala del
banchetto e andarono in processione alla maggior porta di Whitehall,
dove li attendevano gli Araldi coperti deʼ loro sontuosi mantelli.
Tutto quello spazio fino a Charing Cros rendeva immagine di un mare di
teste. I timpani suonarono, squillarono le trombe, e il Re dʼArmi ad
alta voce proclamò il Principe e la Principessa dʼOrange Re e Regina
dʼInghilterra, intimò a tutti glʼInglesi dʼessere, dʼallora innanzi,
sinceramente fedeli e ligi ai nuovi sovrani, e supplicò Dio, il quale
aveva con sì segnalato modo liberata la nostra Chiesa e la nostra
Nazione, benedicesse Guglielmo e Maria, concedendo loro lungo e felice
regno.[672]

LIII. In questa guisa fu consumata la Rivoluzione inglese. Ogni qual
volta la paragoniamo con quelle, che, negli ultimi sessanta anni, hanno
rovesciato tanti vetusti governi, non possiamo a meno di rimanere
maravigliati dellʼindole speciale di quella. Perchè la sua indole fosse
così speciale è bastevolmente chiaro, e non per tanto eʼ sembra che non
sia stata sempre intesa da coloro che lʼhanno commendata nè da coloro
che lʼhanno biasimata.

Le rivoluzioni del Continente successe nei secoli decimottavo e
decimonono ebbero luogo in paesi dove da lungo tempo più non rimaneva
vestigio della monarchia temperata del medio evo. Il diritto che
aveva il Principe di fare leggi, e imporre tasse, era rimasto per
molte generazioni incontrastato. Il suo trono era difeso da un grande
esercito stanziale. Il suo governo non poteva senza estremo pericolo
essere biasimato nè anche con moderatissime parole. I suoi sudditi
non godevano la libertà personale che a libito del Principe. Non
restava neppure una istituzione, a memoria deʼ più vecchi, la quale
prestasse al suddito sufficiente protezione contro le enormezze
della tirannide. Quelle grandi congreghe che un tempo avevano domata
la potestà regia erano cadute in oblio. La struttura e i privilegi
loro erano noti ai soli antiquari. Non possiamo quindi maravigliarci
che allorquando ad uomini siffattamente governati venne fatto di
strappare il supremo potere dalle mani di un governo che in cuor loro
da lungo tempo aborrivano, eglino fossero corrivi a demolire e inetti
a riedificare; che rimanessero sedotti da ogni novità, proscrivessero
ogni titolo, cerimonia, e frase che richiamava alla mente la idea del
vecchio sistema, e dilungandosi con disgusto dalle nazionali tradizioni
frugassero nei volumi deʼ politici filosofanti a trovarvi principii
di governo, o con ridicola e stolta affettazione scimmiottassero i
patriotti di Atene e di Roma. Non possiamo medesimamente maravigliarci
che la violenta azione dello spirito rivoluzionario fosse seguita
da una reazione al pari violenta, e che la confusione, poco dopo,
generasse un dispotismo più severo di quello donde essa era nata.

Se noi ci fossimo trovati nella medesima situazione; se a Strafford
fosse riuscito di mandare ad effetto la sua prediletta idea del
_Compiuto_, di formare un esercito numeroso e bene disciplinato, come
quello che, pochi anni dopo, Cromwell creò; se parecchie decisioni
giudiciali simili a quella che fu profferita dalla Camera dello
Scacchiere nel caso della imposta marittima, avessero trasferito nella
Corona il diritto di gravare il popolo di balzelli; se la Camera
Stellata e lʼAlta Commissione Ecclesiastica avessero seguitato a
multare, mutilare e porre in carcere chiunque osava alzare la voce
contro il Governo; se la stampa fosse stata pienamente inceppata come
in Vienna e in Napoli; se i nostri Re avessero gradatamente recato alle
loro mani tutto il potere legislativo; se pel corso di sei generazioni
non avessimo avuta nè anche una sessione di Parlamento; e se alla
perfine in qualche istante di fiero concitamento fossimo insorti contro
i nostri padroni; quale scoppio di furore popolare ne sarebbe seguito!
Con che fracasso, udito e sentito sino ai confini del mondo, il vasto
edificio sociale sarebbe caduto a terra! Quante migliaia dʼesuli,
un tempo i più felici e culti membri di questa grande cittadinanza,
sarebbero andati mendicando il pane loro per le terre del Continente,
o avrebbero cercato ricovero neʼ rozzi tugurii fra mezzo alle foreste
dellʼAmerica! Quante volte avremmo veduto sossopra i lastricati di
Londra per asserragliare le strade, crivellate di palle le case,
spumanti di sangue i rigagnoli! Quante volte saremmo furiosamente corsi
da un estremo allʼaltro, dallʼanarchia cercando rifugio nel dispotismo,
e a liberarci dal dispotismo ricadendo nellʼanarchia! Quanti anni di
sangue e di confusione ci sarebbe costato lo imparare i rudimenti primi
della sapienza politica! Da quante fanciullesche teorie saremmo stati
ingannati! Quante informi e mal ponderate Costituzioni avremmo inalzate
solo per vederle nuovamente cadere! Sarebbe stata insigne ventura per
noi se mezzo secolo di rigida disciplina fosse stato sufficiente a
educarci a godere della vera libertà.

Tali sciagure la nostra Rivoluzione scansava. Era vigorosamente
difensiva ed aveva seco prescrizione e legittimità. Tra noi, e solo
tra noi, una monarchia temperata dal secolo decimoterzo sʼera serbata
intatta fino al decimosettimo. Le nostre istituzioni parlamentari erano
in pieno vigore; eccellenti i più essenziali principii del Governo;
non formalmente nè esattamente compresi in un solo documento scritto,
ma sparsi nei nostri antichi e nobili statuti, e—cosa di somma
importanza—impressi da quattrocento anni in cuore a tutti glʼInglesi.
Che senza il consenso deʼ rappresentanti della Nazione non si potesse
fare atti legislativi, imporre tasse, mantenere esercito stanziale,
imprigionare nessuno nè anche per un giorno ad arbitrio del Sovrano;
che nessun satellite del Governo potesse allegare un ordine del Re
come scusa per violare qual si fosse diritto dellʼinfimo suddito;
tutte queste cose erano considerate tanto daʼ Whig che dai Tory quali
leggi fondamentali del reame. Un Regno in cui erano siffatte leggi
fondamentali non aveva mestieri dʼuna nuova Costituzione.

Ma comechè non vi fosse cotesto bisogno, era chiara la necessità di
riforme. Il pessimo governo degli Stuardi, e le perturbazioni da quello
suscitate, bastevolmente provavano che il nostro ordinamento politico
in alcuna sua parte difettava; ed era debito della Convenzione indagare
e supplire a tale difetto.

Varie questioni di grave momento lasciavano tuttavia aperto il campo
alle dispute. La nostra Costituzione era nata in tempi nei quali gli
uomini di Stato non erano cotanto assuefatti a fare definizioni esatte.
Ne erano quindi impercettibilmente surte anomalie incompatibili con
la Costituzione e pericolose alla sua stessa esistenza, e non avendo
nel corso di anni molti cagionato gravi inconvenienti, avevano a poco
a poco acquistato forza di prescrizione. Rimedio a questi mali era il
riconfermare i diritti del popolo con parole tali che eliminassero ogni
controversia, e dichiarare che nessuno esempio valesse a giustificare
qual si fosse violazione di questi diritti.

Ciò fatto, eʼ sarebbe stato impossibile ai nostri principi male
intendere la legge; ma non facendosi alcunʼaltra cosa di più, non era
al tutto improbabile che essi la potessero violare. Sventuratamente la
Chiesa aveva da lungo tempo insegnato alla Nazione che la monarchia
ereditaria, sola tra tutte le nostre istituzioni, era divina e
inviolabile; che il diritto che ha la Camera dei Comuni di partecipare
al potere legislativo, era semplicemente diritto umano, ma quello che
ha il Re alla obbedienza passiva del popolo era derivato dal Cielo; che
la _Magna Charta_ era uno statuto il quale poteva revocarsi da coloro
che lo avevano fatto, ma il principio, per virtù del quale i principi
di sangue regio venivano chiamati al trono per ordine di successione,
era dʼorigine divina, ed ogni atto parlamentare incompatibile con
quello era nullo. Egli è evidente che in una società nella quale tali
superstizioni prevalgono, la libertà costituzionale è dʼuopo sia mal
sicura. Una potestà che è considerata come ordinamento dellʼuomo non
vale ad infrenare una potestà che è creduta ordinamento di Dio. È
vano sperare che le leggi, per quanto siano eccellenti, infrenino
durevolmente un Re, il quale secondo chʼegli stesso e la maggior
parte deʼ suoi popoli credono, ha una autorità infinitamente più alta
di quella che spetta alle leggi. Privare la dignità regia di cotali
misteriosi attributi, e stabilire il principio che i Re regnino in
forza dʼun diritto che in nulla differisca da quello onde i liberi
possidenti eleggono i rappresentanti delle Contee, o dal diritto onde
i Giudici concedono un ordine di _Habeas Corpus_, era assolutamente
necessario alla sicurezza delle libertà nostre.

La Convenzione, dunque, aveva due grandi doveri da adempiere:
distrigare, cioè, da ogni ambiguità le leggi fondamentali del reame;
e sradicare dalle menti dei governanti e dei governati la falsa e
perniciosa idea che la regia prerogativa era più sublime, e più
sacra delle predette leggi fondamentali. Al primo scopo si giunse
con la esposizione solenne e la rivendicazione con che incomincia
la Dichiarazione dei Diritti; al secondo con la risoluzione onde il
trono fu giudicato vacante, e Guglielmo e Maria furono invitati ad
ascendervi.

Il mutamento sembra lieve. La Corona non fu privata nè anche dʼuno deʼ
suoi fiori; nessun nuovo diritto concesso al popolo. Le leggi inglesi
in tutto e per tutto, secondo il giudicio deʼ più grandi giureconsulti,
di Holt e di Treby, di Maynard e di Somers, dopo la Rivoluzione
rimasero le stesse di prima. Alcuni punti controversi furono risoluti
secondo la opinione deʼ migliori giuristi; e solo si deviò alquanto
dallʼordinaria linea di successione. Ciò fu tutto; e bastava.

Perchè la nostra Rivoluzione fu una rivendicazione degli antichi
diritti, fu condotta rigorosamente osservando le antiche formalità.
Quasi in ogni atto e in ogni parola manifesto si vede un profondo
rispetto pel passato. Gli Stati del reame deliberarono nelle vecchie
sale e giusta le vecchie regole. Powle fu condotto al seggio nella
consueta forma fra colui che lo aveva proposto e colui che aveva
secondata la proposta. Lʼusciere con la sua mazza guidò i messaggieri
dei Lordi al banco dei Comuni: e le tre riverenze furono debitamente
fatte. La conferenza dʼambedue le Camere ebbe luogo con tutte le
antiche cerimonie. Da un lato della tavola, nella Sala Dipinta, i
Commissari deʼ Lordi sedevano col capo coperto e vestiti dʼermellino
e dʼoro. Dallʼaltro lato i Commissari deʼ Comuni stavansi in piedi e
a capo scoperto. I discorsi fattivi paiono un contrapposto pressochè
ridicolo della eloquenza rivoluzionaria dʼogni altro paese. Ambidue i
partiti mostrarono la medesima riverenza verso le antiche tradizioni
costituzionali dello Stato. Solo disputavano in che senso quelle
tradizioni erano da intendersi. I propugnatori della libertà non fecero
pur motto dellʼuguaglianza naturale degli uomini e della inalienabile
sovranità del popolo, di Armodio o di Timoleone, di Bruto primo o di
Bruto secondo. Allorquando fu detto che in forza della legge della
Inghilterra la Corona rimaneva essenzialmente devoluta al più prossimo
erede, risposero che in forza della legge della Inghilterra, un uomo
ancora in vita non poteva avere erede. Allorquando fu detto non esservi
esempio a dichiarare vacante il trono, mostrarono una pergamena,
scritta circa trecento anni innanzi in bizzarro carattere e in barbaro
latino, e tratta dagli Archivi della Torre, nella quale facevasi
ricordo come gli Stati del reame avessero dichiarato vacante il trono
dʼun Plantageneto perfido e tiranno. In fine, composta ogni disputa,
i nuovi Sovrani vennero proclamati con lʼantica pompa. Vi fu tutto il
bizzarro apparato araldico: Clarencieux e Norroy, Portcullis, e Rouge
Dragon, le trombe, le bandiere, e le grottesche sopravvesti ricamate
a lioni e a gigli. Il titolo di Re di Francia preso dal vincitore di
Cressy non fu omesso nella lista dei titoli regi. A noi che siamo
vissuti nel 1848 parrà forse un abuso di vocabolo chiamare col
terribile nome di Rivoluzione un fatto consumato con tanta riflessione,
con tanta moderazione, e con tanto scrupolosa osservanza delle forme
prescritte.

E nulladimeno questa Rivoluzione, fra tutte la meno violenta, di tutte
la più benefica, sciolse diffinitivamente la grande questione di
sapere se lo elemento popolare, il quale fino dalla età di Fitzwalter
e di De Montfort era sempre esistito nellʼordinamento politico della
Inghilterra, verrebbe distrutto dallo elemento monarchico, o si
lascerebbe sviluppare liberamente e divenire predominante. La lotta
traʼ due principii era stata lunga, accanita, e dubbia. Era durata per
quattro regni. Aveva prodotto sedizioni, accuse, ribellioni, battaglie,
assedii, proscrizioni, stragi giudiciali. Tal volta la libertà, tal
altra il principato parvero sul punto di spegnersi. Per molti anni
la energia di metà della Inghilterra sʼera sforzata di frustrare
la energia dellʼaltra metà. Il potere esecutivo e il legislativo
sʼerano lʼun lʼaltro tanto efficacemente contrastati da rimanerne
entrambi impotenti, al segno che lo Stato era divenuto nulla nel
sistema politico dellʼEuropa. Il Re dʼArmi allorchè innanzi la porta
di Whitehall proclamò Guglielmo e Maria, annunziava finita la gran
lotta; perfetta lʼunione fra il trono e il Parlamento; la Inghilterra
da lungo tempo dipendente e caduta in abiezione, ridivenuta Potenza di
primo ordine; le antiche leggi che vincolavano la regia prerogativa
sarebbero per lo avvenire tenute sacre come la prerogativa stessa, e
produrrebbero tutti gli effetti loro; il potere esecutivo verrebbe
amministrato secondo il voto dei rappresentanti del popolo; qualunque
riforma proposta dopo matura deliberazione dalle due Camere, non
sarebbe ostinatamente avversata dal Sovrano. La Dichiarazione dei
Diritti, comechè non rendesse legge ciò che per lo innanzi legge non
era, conteneva i germi della legge che dètte la libertà religiosa ai
Dissenzienti, della legge che assicurò la indipendenza deʼ giudici;
della legge che limitò la durata deʼ Parlamenti, della legge che
pose la libertà della stampa sotto la protezione dei Giurati, della
legge che vietò il traffico degli schiavi, della legge che abolì il
giuramento religioso, della legge che liberò i Cattolici Romani dalle
incapacità civili, della legge che riformò il sistema rappresentativo,
dʼogni buona legge che è stata promulgata nello spazio di centosessanta
anni, dʼogni buona legge in fine che quinci innanzi verrà reputata
necessaria a promuovere il bene pubblico, e a soddisfare alle richieste
della pubblica opinione.

Il più grande encomio che possa farsi della Rivoluzione del 1688
sta nel dire che essa fu lʼultima delle nostre rivoluzioni. Ormai
sono trascorse varie generazioni senza che nessuno Inglese assennato
e animato di spirito patrio abbia fatto pensiero di resistere
al Governo stabilito. Ogni onesto e savio uomo è profondamente
convinto—convinzione ogni giorno riconfermata dalla esperienza—che
i mezzi di ottenere qual si voglia miglioramento richiesto dalla
Costituzione, si possano trovare nella Costituzione stessa.

Ora, o giammai, dovremmo estimare di quale importanza sia la resistenza
degli antichi nostri fatta alla Casa Stuarda. Dintorno a noi tutto
il mondo è travagliato dal travaglio delle grandi nazioni. Governi
che dianzi pareva dovessero durare deʼ secoli, sono stati, in un
subito, scossi e rovesciati. Le più orgogliose metropoli della Europa
occidentale sono state inondate di sangue cittadino. Tutte le sinistre
passioni, cupidigia di guadagno, sete di vendetta, vicendevole
aborrimento di classi, vicendevole aborrimento di razze, hanno rotto
il freno delle leggi divine e delle umane. Timore e ansietà hanno
annuvolato lo aspetto e contristato il cuore a milioni dʼuomini.
Sospeso il commercio; paralizzata la industria; diventato povero il
ricco, poverissimo il povero; predicate dalla tribuna e difese con
la spada dottrine ostili alle scienze, alle arti, alla industria,
alla carità di famiglia; dottrine tali che, se potessero mandarsi ad
effetto, disfarebbero, in trenta anni, tutto ciò che trenta secoli
hanno fatto a bene della umanità, e renderebbero le più belle province
di Francia e di Germania selvagge come il Congo e la Patagonia; la
Europa è stata minacciata di giogo da barbari, al paragone dei quali i
barbari seguaci dʼAttila e Alboino erano culti ed umani. I veri amici
del popolo con profondo dolore hanno confessato trovarsi in grave
pericolo interessi più preziosi di qualsiasi privilegio politico,
ed essere necessario sacrificare fino la libertà onde salvare lo
incivilimento. Frattanto nellʼisola nostra il corso regolare del
Governo non è stato mai interrotto nè anche per un giorno. I pochi
facinorosi arsi da libidine di licenza e di saccheggio, non hanno
avuto lʼanimo dʼaffrontare la forza dʼuna nazione leale, schierata
in ferma attitudine intorno a un trono paterno. E ove si chieda la
ragione onde le sorti nostre sono state tanto diverse dalle altrui,
è da rispondersi che noi non abbiamo mai perduto ciò che gli altri,
ciechi e forsennati, si studiano di riacquistare. Perchè noi avemmo
una rivoluzione conservatrice nel secolo decimosettimo, non ne abbiamo
avuta una distruggitrice nel decimonono. Perchè serbammo la libertà fra
mezzo al servaggio, noi abbiamo lʼordine fra mezzo allʼanarchia. Per
lʼautorità delle leggi, la sicurezza degli averi, la pace delle strade,
la felicità delle famiglie, noi dobbiamo essere grati, dopo Colui che
a suo arbitrio esalta ed umilia le nazioni, al Lungo Parlamento, alla
Convenzione, ed a Guglielmo dʼOrange.


                                 FINE.



                                 NOTE:

[1] Avaus, _Neg._, 6–16 agosto 1685; Dispaccio di Citters e deʼ suoi
colleghi, nel quale è incluso il trattato, 14–24 agosto; Luigi a
Barillon, 14–24 e 20–30 agosto.

[2] Avvertimenti intitolati: _Per mio figlio il Principe di Galles_;
nelle carte degli Stuardi.

[3] «Lʼ_Habeas Corpus_» diceva Johnson, che era il più bacchettone deʼ
Tory, a Boswell, «è il solo pregio che il nostro Governo abbia sopra
quelli degli altri paesi.»

[4] Vedi i _Ricordi Storici deʼ Reggimenti_, pubblicati sotto la
revisione dellʼAiutante Generale.

[5] Barillon, 3–13 dicembre 1685. Egli aveva studiato molto la materia:
«_Cʼest un détail_, diceva, _dont jʼai connoissance_.» Daʼ libri del
Tesoro si raccoglie, che la spesa dellʼarmata per lʼanno 1687, fu
stabilita il dì primo di gennaio a 623,104 lire sterline, 9 scellini e
undici soldi.

[6] Burnet, I, 447.

[7] Tillotson, _Sermone_ detto innanzi alla Camera deʼ Comuni, il dì 5
di novembre 1685.

[8] Locke, _Lettera prima intorno alla Tolleranza_.

[9] _Libro del Consiglio_. La destituzione di Halifax è in data del 21
ottobre 1685. Halifax a Chesterfield; Barillon, 19–29 ottobre.

[10] Barillon, 26 ottobre–5 novembre 1685; Luigi a Barillon, 27
ottobre–6 novembre; 6–16 novembre.

[11] Vi è un notevole racconto deʼ primi segni del malcontento fraʼ
Tory, in una lettera di Halifax a Chesterfield, scritta nellʼottobre
del 1685; Burnet, I, 684.

[12] Gli scritti di quel tempo, trattanti in varie lingue di cotesta
persecuzione, sono innumerevoli. Una narrazione chiara, tersa, vivace,
trovasi nel libro di Voltaire: _Siècle de Louis XIV_.

[13] «_Misionarios embotados_,» dice Ronquillo. «_Apostoli Armati_»
li chiama Innocenzo. Nella Collezione di Mackintosh vi è una notevole
lettera di Ronquillo intorno a questo subbietto, in data del 26 marzo–5
aprile 1687. Vedi Venier, _Relazione di Francia_, 1689, citata dal
Professore Ranke nella sua _Storia del Papato_, libro VIII.

[14] «Mi dicono che tutti questi parlamentarii ne hanno voluto copia;
il che assolutamente avrà causate pessime impressioni.»—Adda, 9–19
Novembre 1685. Vedi Evelyn, _Diario_, 3 novembre.

[15] _Giornali deʼ Lordi_, 9 novembre 1685. «Vengo assicurato (dice
Adda) che S. M. stessa abbia composto il discorso.»—Dispaccio del
16–26 novembre 1685.

[16] _Giornali deʼ Comuni_; Bramston, _Memorie_; Giacomo Von Leeuwen
agli Stati Generali, 10–20 novembre 1685. Leeuwen era segretario
dellʼAmbasciata Olandese, e nellʼassenza di Citters mantenne il
carteggio col proprio Governo. Intorno a Clarges. Vedi Burnet, I, 98.

[17] Barillon, 16–26 novembre, 1685.

[18] Dodd, _Storia della Chiesa_; Leeuven, 17–27 novembre 1685;
Barillon, 24 Dicembre 1685. Barillon dice intorno ad Adda: “_On lʼavoit
fait prévenir que la sûreté et lʼavantage des Catholiques consistoient
dans une réunìon entière de sa Majesté Britannique et de son
Parlement_.” Lettere dʼInnocenzio a Giacomo, in data del 27 luglio–6
agosto, e del 23 settembre–3 ottobre 1685, Dispacci dʼAdda, 8–19 e
16–26 novembre 1685. Lʼinteressantissimo Carteggio dʼAdda, copiato
dagli archivi papali, trovasi nel Museo Britannico; Mss. aggiunti, Mº
15395.

[19] Questo notevolissimo dispaccio ha la data del 9–19 novembre 1685,
ed è compreso nellʼAppendice alla _Storia_ di Fox.

[20] _Giornali deʼ Comuni_, 12 novembre 1685; Leeuwen, 13–23 novembre;
Barillon 16–26 novembre: Sir Giovanni Bramston, _Memorie_. La migliore
relazione delle discussioni deʼ Comuni nel Novembre 1685, è una
di quelle la cui storia è alquanto curiosa. Ve ne sono due copie
manoscritte nel Museo Brittannico, Ms. Harl, 7187; Ms. Lans, 253. In
queste copie, i nomi deʼ Presidenti sono interamente scritti. Lʼautore
della _Vita di Giacomo_, pubblicata nel 1702, ricopiò questa relazione,
ma diede solo le iniziali deʼ nomi deʼ Presidenti. Gli editori deʼ
_Dibattimenti_ di Chandler, e della _Storia Parlamentare_, si provarono
dʼindovinare i nomi da coteste iniziali, e talvolta non sʼapposero al
vero. Essi attribuiscono a Waller un pregevolissimo discorso, di cui
parlerò tra poco, e che fu certamente fatto da Windham, rappresentante
di Salisbury. Mi rincresce di vedermi forzato a smentire che le ultime
parole profferite in pubblico da Waller, fossero così onorevoli per lui.

[21] _Giornali deʼ Comuni_, 13 novembre 1685; Bramston, _Memorie_;
Barillon, 16–26 novembre; Leeuwen, 12–23 novembre; _Memorie_ di Sir
Stefano Fox, 1717; _La causa della Chiesa dʼInghilterra schiettamente
dichiarata_; Burnet, I, 666, e lʼannotazione del Presidente Onslow.

[22] _Giornali deʼ Comuni_, novembre 1685; Ms. Harl, 7187; Ms. Lans,
253.

[23] Intorno a questo subbietto, gli autori in modo straordinario
discordano; e dopo dʼavere lungamente esaminata la faccenda, debbo
confessare che i pareri si equilibrano. Nella _Vita di Giacomo_ (1702)
è detto, che la proposta venisse dalla Corte. Il che è confermato da
un luogo notevole nelle _Carte degli Stuardi_, il quale fu corretto
dallo stesso pretendente (Clarke, _Vita di Giacomo II_, vol. II;
55). Dallʼaltro canto, Reresby che era presente alla discussione,
e Barillon che avrebbe dovuto sapere il vero, fanno credere che
la proposta venisse dalla opposizione. I manoscritti Harleiano
e Lansdowniano differiscono nella sola parola da cui dipende la
questione. Sventuratamente, Bramston quel dì non era nella Camera.
(Giacomo Van Leeuwen rammenta la proposta e lo squittinio di divisione,
ma non aggiunge una parola che possa spargere la più piccola luce sulle
condizioni deʼ partiti.) Mi è forza confessare la mia impossibilità
a dedurre con sicurezza alcuna conseguenza daʼ nomi deʼ questori Sir
Giuseppe Williamson e Sir Francesco Russell per la maggioranza, Lord
Ancram e Sir Enrico Goodricke per la minoranza. Mi parrebbe probabile
che Lord Ancram si fosse posto dalla parte della Corte, e Sir Enrico
Goodricke da quella della opposizione.

[24] _Giornali deʼ Comuni_, 16 novembre 1685; Ms. Harl 7187; Ms. Lans.
235.

[25] _Giornali deʼ Comuni_, 17, 18 novembre 1685

[26] _Giornali deʼ Comuni_, 18 novembre 1685; Ms. Harl. 7187; Ms. Lans.
253; Burnet, I, 667.

[27] Lonsdale, _Memorie_. Burnet dice (I, 667) che nella Camera
deʼ Comuni seguì unʼacre discussione rispetto alle elezioni dopo
lʼimprigionamento di Coke. Ciò, quindi, dovette accadere il dì 19 di
novembre; perocchè Coke fu condotto alla Torre il dì 18, e il dì 20
il Parlamento fu prorogato. La narrazione di Burnet è confermata dai
_Giornali deʼ Comuni_, da cui si raccoglie che il dì 19 si discuteva di
varie elezioni.

[28] Burnet, I, 560; _Orazione funebre del duca di Devonshire_, detta
da Kennet, 1708; _Viaggi di Cosimo III in Inghilterra_.

[29] Bramston, _Memorie_. Burnet erra in quanto al tempo in cui fu
fatta questa osservazione, e in quanto alla persona che la fece. Nella
Lettera di Halifax ad un Dissenziente, trovasi una notevole allusione a
questa discussione.

[30] Wood, _Athenæ Oxonienses_; Gooch, _Orazione funebre del Vescovo
Compton_.

[31] Teonge, _Diario_.

[32] Barillon ci ha lasciata la migliore relazione di questo
dibattimento. Ne estrarrò ciò chʼei dice intorno al discorso di
Mordaunt. «_Milord Mordaunt, quoique jeune, parla avec eloquence et
force. Il dit que la question nʼétoit pas reduite, comme la Chambre
des Communes le prétendoit, à guerir des jalousies et défiances, qui
avoient lieu dans les choses incertaines; mais que ce qui se passoit
ne lʼétoit pas; quʼil y avoit une armée sur pied qui subsistoit,
et qui étoit remplie dʼofficiers catholiques; qui ne pouvoit être
conservée que pour le renversement des loix; et que la subsistance de
lʼarmée, quand il nʼy a aucune guerre ni au dedans ni au dehors, étoit
lʼètablissement du gouvernement arbitraire, pour le quel les Anglois
ont une adversion si bien fondée._»

[33] Gli riusciva facilissimo il piangere. «Non poteva» dice lʼautore
del _Panegirico_ «frenare le lacrime quando altri gli faceva fronte
arditamente.—Parlasi delle sue bravazzate e del suo orgoglioso
coraggio; ma vi può essere cosa alcuna di più umile in un uomo del
suo alto grado, che piangere e singhiozzare?» Nella risposta al
_Panegirico_ si dice «che il non aver saputo frenare le lacrime gli
toglieva di poter fare la parte dʼipocrita.»

[34] _Giornali deʼ Lordi_, 19 novembre 1685; Barillon, 23 novembre–3
dicembre; Dispaccio Olandese, 20–30 novembre; Luttrell, _Diario_, 19
Novembre; Burnet, I, 665. Il discorso di chiusura fatto da Halifax è
rammentato dal Nunzio nel suo dispaccio del 16–26 novembre. Adda, circa
un mese dopo, fa testimonianza del potente ingegno di Halifax:

«Da questo uomo, che ha gran credito nel Parlamento e grande eloquenza,
non si possono attendere che fiere contraddizioni; e nel partito regio
non vi è un uomo da contrapporsi.» 21–31 dicembre.

[35] _Giornali deʼ Lordi e deʼ Comuni_, 20 novembre 1685.

[36] _Giornali deʼ Lordi_, 11, 17, 18 novembre 1685.

[37] Burnet, I, 616.

[38] Bramston, _Memorie_; Luttrell, _Diario_.

[39] Il processo trovasi nella Collezione deʼ Processi di Stato;
Bramston, _Memorie_; Burnet, I, 647; _Giornali deʼ Lordi_, 20 dicembre
1689.

[40] _Giornali deʼ Lordi_, 9, 10, 16 Novembre 1685.

[41] _Discorso intorno alla corruzione deʼ Giudici_, nelle Opere di
Lord Delamere, 1694.

[42] “Fu una funzione piena di gravità, di ordine e di gran
speciosità.” Adda, 15–25 gennaio, 1686.

[43] Il processo trovasi nella _Collezione deʼ Processi di Stato_.
Leeuwen 15–25. 19–29 gennaio 1686.

[44] Lady Russell al Dottore Fitzwilliam, 15 gennaio 1686.

[45] Luigi a Barillon, 10–20 febbraio 1685.

[46] Evelyn, _Diario_, 2 ottobre, 1685.

[47] Clarke, _Vita di Giacomo II_, vol. II, 9; _Mem. Orig._

[48] Leeuwen, 1–11 e 12–22 gennaio 1686. La lettera di questa
giovinetta, quantunque fosse lunghissima ed assurda, fu reputata degna
dʼessere mandata agli Stati Generali, come espressione deʼ tempi.

[49] Vedi il suo processo nella _Collezione deʼ Processi di Stato_, e
il suo curioso Manifesto, stampato nel 1681.

[50] _Mémoires de Grammont_; Pepys, _Diario_, 19 agosto 1662; Bonrepaux
a Seignelay, 1–11 febbraio 1686.

[51] Bonrepaux a Seignelay, 1–11 febbraio 1686.

[52] _Mémoires de Grammont_; _Vita dʼEduardo, Conte di Clarendon;
Carteggio dʼEnrico, Conte di Clarendon, passim_, e in ispecie la
lettera in data del dì 29 dicembre 1685; Ms. di Sheridan, fra le Carte
degli Stuardi; _Carteggio di Ellis_, 12 gennaio 1686.

[53] Vedi il suo ultimo carteggio, _passim_; St. Evremond, _passim_;
le lettere di madama di Sévigné in principio del 1689. Vedi anche le
istruzioni a Tallard dopo la pace dì Ryswick, negli Archivi francesi.

[54] St. Simon, _Memorie_, 1697, 1719; St. Evremond; La Fontaine;
Bonrepaux a Seignelay, 28 gennaio–7 febbraio, 8–18 febbraio 1686.

[55] Adda, 16–26 novembre, 7–17, e 21–31 dicembre 1685. In questi
dispacci Adda adduce alcune ragioni per venire ad un compromesso,
abolendo le leggi penali, e lasciando lʼAtto di Prova. Egli chiama
il conflitto fra il Governo e il Parlamento “una gran disgrazia.”
Ripetutamente accenna che il Re, per mezzo dʼuna politica conforme alla
Costituzione, avrebbe potuto ottenere molto a favore dei Cattolici
Romani, e che gli sforzi chʼegli faceva a volerli illegalmente
alleggiare, avrebbero probabilmente fatto nascere grandi calamità.

[56] Fra Paolo Sarpi, libro VIII; Pallavicino, libro XVIII, cap. 15.

[57] Tale era il costume della sua figlia Anna; e Marlborough diceva
chʼella lo aveva imparato dal padre.—_Difesa della Duchessa di
Marlborough_.

[58] Fino al tempo del processo deʼ Vescovi, Giacomo andava sempre
dicendo ad Adda, che tutte le calamità di Carlo I seguirono «per la
troppa indulgenza.» Dispaccio del 29 giugno–9 luglio 1688.

[59] Barillon 16–26 novembre 1685; Luigi a Barillon, 26 novembre–6
dicembre. In una scrittura del 1687, molto curiosa, quasi senza alcun
dubbio di mano di Bonrepaux, e che ora trovasi negli archivi di
Francia, Sunderland è dipinto con queste parole: “_La passion quʼil a
pour le jeu, et les pertes considérables quʼil y a faites, incommodent
fort ses affaires. Il nʼaime pas le vin; et il hait les femmes_.”

[60] Si ricava dal libro del Consiglio, chʼegli entrò nellʼufficio di
presidente il dì 4 dicembre 1685.

[61] Bonrepaux non si lasciò così agevolmente ingannare come Giacomo.
“_En son particulier, il_ (Sunderland) _nʼen professe aucune_
(religion), _et en parle fort librement. Ces sortes de discours
seroient en exécration en France. Ici ils sont ordinaires parmi un
certain nombre de gens du pays_.”—Bonrepaux a Seignelay, 25 maggio–4
giugno 1687.

[62] Clarke, _Vita di Giacomo II_, vol. II, 74, 77; _Mem. Orig_.; Ms.
di Sheridan; Barillon, 19–29 marzo 1686.

[63] Beresby, _Memorie_; Luttrell, _Diario_, 2 febbraio 1685–86;
Barillon 4–14 febbraio; Bonrepaux, 25 gennaio–4 febbraio.

[64] Dartmouth, annotazione a Burnet, I, 621. In una satira di quel
tempo è notato che Godolphin “Batte il tempo colla testa politica, e
approva tutto, satisfatto dellʼincarico di portare il manicotto e i
guanti della Regina.”

[65] Pepys, 4 ottobre 1664.

[66] Pepys, 1 luglio 1663.

[67] Vedi i versi satirici che Dorset le scrisse contro.

[68] Le fonti principali pel racconto di questo intrigo, sono i
dispacci di Barillon e di Bonrepaux, del principio dellʼanno 1686. Vedi
Barillon, 25 gennaio, 4 febbraio; 28 gennaio–7 febbraio, 1–11, 8–18,
19–29 febbraio, e Bonrepaux sotto le stesse prime quattro date; Evelyn,
Diario, 19 gennaio; Reresby, Memorie; Burnet, I, 682; Ms. Sheridan;
Ms. Chaillot; Dispacci dʼAdda, 22 gennaio–1 febbraio, e 29 gennaio–8
febbraio 1686. Adda scrive da uomo pio, ma debole e ignorante. Sembra
che non conoscesse nulla della vita anteriore di Giacomo.

[69] La meditazione ha la data 25 gennaio–4 febbraio. Bonrepaux,
nel suo dispaccio del medesimo giorno, dice: “_Lʼintrigue avait été
conduite par Milord Rochester et sa femme.... Leur projet étoit de
faire gouverner le Roy dʼAngleterre par la nouvelle comtesse; ils
sʼétoient assurés dʼelle_.” Mentre Bonrepaux riferiva queste cose al
suo Governo, Rochester scriveva: “O mio Dio, insegnami a numerare
i miei giorni, onde io possa dedicare il mio cuore alla saviezza.
Insegnami a contare i giorni da me spesi nella vanità e nellʼozio, ed
insegnami a contare quelli che io ho spesi nel peccato e nelle male
opere. O Dio, insegnami anche a numerare i giorni della mia afflizione,
e a renderti grazie per tutto ciò che è venuto dalle tue mani.
Insegnami parimente a numerare i giorni di questa grandezza mondana di
cui io ho tanta parte, e insegnami a considerarli come giorni di vanità
e di tribolazione di spirito.”

[70] «_Je vis Milord Rochester, comme il sortoit du conseil, fort
chagrin; et sur la fin du souper, il lui en échappe quelque chose_.»
Bonrepaux, 18–28 febbraio 1686. Vedi anche Barillon, 1–14, 4–11 marzo.

[71] Barillon, 22 marzo–1 aprile, 12–22 aprile 1686.

[72] Gazzetta di Londra, 15 febbraio 1685–86; Luttrell, _Diario_, 8
febbraio; Leeuwen, 9–19 febbraio; Clarke, _Vita di Giacomo II_, vol.
Il, 75; _Mem. Orig_.

[73] Leeuwen, 23 febbraio–5 marzo 1686.

[74] Barillon, 26 aprile–6 maggio, 3–13 maggio 1656; Citters 7–17
maggio; Evelyn, _Diario_, 5 maggio; Luttrell, Diario della stessa data;
Libro del Consiglio Privato, 2 maggio.

[75] Lady Russel al dottore Fitzwilliams, 22 gennaio 1686; Barillon,
15–25 febbraio, 22 febbraio–4 marzo 1686. «_Ce prince témoigne_» dice
Barillon «_une grande aversion pour eux, et auroit bien voulu se
dispenser de la collecte, qui est ordonnée en leur faveur; mais il nʼa
pas cru que cela fût possible_.»

[76] Barillon, 22 febbraio–4 marzo 1686.

[77] Relazione della Commissione, in data del 15 marzo 1688.

[78] «_Le roi dʼAngleterre connoît bien que les gens mal intentionnés
pour lui sont les plus prompts et les plus disposés à donner
considérablement... Sa Majesté Britannique connoît bien quʼil auroit
été à propos de ne point ordonner de colecte, et que les gens mal
intentionnés contre la religion catholique et contre lui, se servent de
cette occasion pour témoigner leur zèle_.» Barillon. 19–29 aprile 1686.

[79] Barillon, 15–25 febbraio, 22 febbraio–4 marzo, 19–29 aprile 1686;
Luigi a Barillon, 5–15 marzo.

[80] Barillon, 19–29 aprile; Lady Russell al dottore Fitzwilliams, 14
aprile. “Ne mandò via molti” ella dice “coʼ cuori contristati.”

[81] _Gazzetta di Londra_ del 13 maggio 1686.

[82] Raresby, _Memorie_; Eachard, III, 797; Kennet, III, 451.

[83] _Gazzetta di Londra_, 22 e 29 aprile 1686; Barillon, 19–29 aprile;
Evelyn, _Diario, 2 giugno_; Luttrell, 8 giugno; Dodd, _Storia della
Chiesa_.

[84] North, _Vita di Guildford_, 288.

[85] Raresby, _Memorie_.

[86] Vedi la relazione di questo caso nella _Collezione deʼ Processi
di Stato_; Citters, 4–14 maggio, 22 giugno 2 luglio 1686; Evelyn,
_Diario_, 27 giugno; Luttrell, _Diario_, 21 giugno. In quanto a Street,
vedi il _Diario_ di Clarendon, 27 dicembre 1688.

[87] _Gazzetta di Londra_, 19 luglio 1686.

[88] Vedi le lettere patenti presso Gutch, _Collectanea curiosa_. La
loro data è del 3 maggio 1686. Sclater, _Consensus Veterum_; Gee,
_Veteres Vindicati_, che è una risposta al libro di Sclater; il dottore
Antonio Horneck, _Relazione dellʼabjura di Sclater degli errori del
papismo, il dì 5 maggio 1689_; Dodd, _Storia della Chiesa_, Parte VIII,
libro II, articolo 3.

[89] Gutch, _Collectanea curiosa_; Dodd, VIII, II, 3; Wood, _Athenæ
Oxonienses_; Ellis, _Carteggio_, 27 febbraio 1686; _Giornali deʼ
Comuni_, 26 ottobre 1689.

[90] Gutch, _Collectanea curiosa_; Wood, _Athenæ Oxonienses_; _Dialogo
tra uno della Chiesa Anglicana e un Dissenziente_, 1689.

[91] Adda, 9–19 luglio 1686.

[92] Adda, 30 luglio–9 agosto 1686.

[93] “_Ce prince mʼa dit que Dieu avoit permis que toutes les loix
qui ont été faites pour établir la religion protestante, et détruire
la religion catholique, servent présentement de fondement à ce quʼil
veut faire pour lʼétablissement de la vraie religion, et le mettent en
droit dʼexercer un pouvoir encore plus grand que celui quʼont les rois
catholiques sur les affaires ecclésiastiques dans les autres pays._”
Barillon, 12–22 luglio 1686.—Ad Adda, Sua Maestà, pochi giorni dopo,
disse: “Che lʼautorità concessale dal Parlamento sopra lʼecclesiastico
senza alcun limite, con fine contrario, fosse adesso per servire al
vantaggio deʼ medesimi Cattolici.” 23 luglio–2 agosto.

[94] Tutta la questione è lucidamente e vittoriosamente discussa in
un breve trattato di queʼ tempi, che ha per titolo: _La potestà del
Re nelle materie ecclesiastiche, chiaramente esposta_. Vedi anche il
conciso ma forte ragionamento dellʼArcivescovo Sancroft. Doyly, _Vita
di Sancroft_, I, 229.

[95] Lettera di Giacomo a Clarendon, 18 febbraio 1685–86.

[96] La migliore narrazione di questi fatti trovasi nella _Vita di
Sharp_, scritta da suo figlio. Citters, 29 giugno–9 luglio 1686.

[97] Barillon, 21 luglio–1 agosto 1686; Citters, 16–26 luglio; Libro
del Consiglio Privato, 17 luglio; Ellis, _Carteggio_, 17 luglio;
Evelyn, _Diario_, 14 luglio; Luttrell, _Diario_, 5–6 agosto.

[98] Il segno era una rosa ed una corona. Innanzi il segno erano le
lettere iniziali del nome del sovrano, e dopo esso la lettera R.
Attorno il suggello leggevasi questa epigrafe: _Sigillum commissariorum
regiæ majestatis ad causas ecclesiasticas_.

[99] Appendice al _Diario_ di Clarendon; Citters, 8–18 ottobre;
Barillon, 11–21 ottobre; Doyly, _Vita di Sancroft_.

[100] Burnet, I, 676.

[101] Burnet, I, 675, II, 629; Sprat, _Lettere a Dorset_.

[102] Burnet, I, 677; Barillon, 6–16 settembre 1686. Gli atti pubblici
si trovano nella _Collezione deʼ Processi di Stato_.

[103] 27. Elisab, c. 2; 2. Giac, I, c. 4; 3. Giac. I, c. 5.

[104] Clarke, _Vita di Giacomo II_, vol. II, 79, 80; _Mem. Orig._

[105] De Augumentis, I, VI, 4.

[106] Citters, 14–24 maggio 1686.

[107] Citters, 18–28 maggio 1656; Adda, 19–29 maggio.

[108] Ellis, _Carteggio_, 27 aprile 1686; Barillon, 19–29 aprile;
Citters, 20–30 aprile; Libro del Consiglio Privato, 27 marzo; Luttrel,
_Diario_; Adda, 26 febbraio–8 marzo, 26 marzo–5 aprile, 2–12 aprile, 23
aprile–3 maggio.

[109] Burnet, _Viaggi_.

[110] Barillon, 27 maggio–6 giugno 1686.

[111] Citters, 25 maggio–4 giugno 1686.

[112] Ellis, _Carteggio_, 25 giugno 1686; Citters, 2–12 luglio;
Luttrell, _Diario_, 19 luglio.

[113] Vedi le poesie di queʼ tempi intitolate: _Hounslow Heath_, e _Lo
Spettro di Cesare_; Evelyn, _Diario_, 2 giugno 1686. Una ballata, nella
Biblioteca di Pepys, contiene il tratto seguente:

«Io amava il luogo oltre ogni credere: non vidi mai un campo così
bello: nessuna donna che non fosse convenevolmente vestita, poteva
gustare un bicchiere di vino.»

[114] Luttrell, Diario, 18 giugno 1686.

[115] Vedi le _Memorie_ di Johnson premesse alla edizione _in folio_
della sua vita, il suo Giuliano, e le risposte ai suoi avversari. Vedi
anche il _Gioviano_ dʼHickes.

[116] _Vita di Johnson_, premessa alle sue opere; _Storia segreta della
felice Rivoluzione_ di Ugo Speke; _Processi di Stato_; Citters, 23
novembre–3 dicembre 1686. Il miglior racconto del processo di Johnson è
quello di Citters. Ho veduto un foglio volante che lo conferma.

[117] Vedi la prefazione ai _Sermoni postumi_ dʼEnrico Wharton.

[118] Lo affermo per esperienza. Ve nʼè unʼinsigne raccolta nel Museo
Britannico. Birch dice, nella _Vita di Tillotson_, che lo Arcivescovo
Wake non potè formare un esatto catalogo di tutti gli scritti
pubblicati intorno a questa controversia.

[119] Il cardinale Howard parlò fortemente a Burnet in Roma intorno a
ciò. Burnet, I, 662. Vi è anche un curioso tratto, che si riferisce a
tale subietto, in un dispaccio di Barillon: ma ho smarrita la citazione.

Uno deʼ Cattolici Romani disputanti in questa controversia, cioè il
gesuita Andrea Patton, che Oliver, nella Biografia della Società di
Gesù, giudica uomo dʼinsigne abilità, confessa francamente i propri
difetti. «A. P. avendo dimorato per lo spazio di anni diciotto fuori
della terra natia, non pretende ancora di sapere parlare e scrivere
perfettamente la lingua inglese.» La sua ortografia veramente fa
pietà. In una lettera scrive _wright_ invece di _write_, _woed_ invece
di _would_. Sfidò Tenison a disputare in latino, perchè potessero
combattere con armi uguali. In una satira di quel tempo, intitolata il
_Consiglio_, si leggono le seguenti parole: «Manda Pulton ad essere
sferzato alla scuola di Bushy, acciocchè, stampando, non più si mostri
sciocco.» Un altro Cattolico Romano, chiamato Guglielmo Clench, scrisse
un trattato intorno alla Supremazia del Papa, e vi appose una dedica
italiana alla Regina. Ad esempio del suo stile serva il seguente
saggio: «O del sagro marito fortunata consorte! O dolce alleviamento
dʼaffari alti! O grato ristoro di pensieri noiosi, nel cui petto
latteo, lucente specchio dʼillibata matronal pudicizia, nel cui seno
odorato, come in porto dʼamor si ritira il Giacomo! O beata regia
coppia! O felice inserto tra lʼinvincibil leone e le candide aquile!»

Lo stile inglese di Clench è dello stesso conio del suo toscano. A modo
dʼesempio: «Pietro significa una rocca inespugnabile, che può evacuare
tutte le congiure del divano dellʼinferno, e naufragare tutti i luridi
disegni deglʼinveleniti eretici.»

Un altro trattato cattolico romano, che ha per titolo _La Chiesa
dʼInghilterra fedelmente descritta_, incomincia dicendo: “Il fuoco
fatuo della Riforma, che è diventato una cometa per molti atti di
spoliazioni e di rapine, è stato introdotto in Inghilterra, purificato
delle lordure che aveva contratte fra i laghi delle Alpi.”

[120] Barillon, 19–29 luglio 1686.

[121] Att. Parlam., 24 agosto 1560; 15 dicembre 1567.

[122] Att. Parlam., 8 maggio 1685.

[123] Att. Parlam., 31 agosto 1681.

[124] Burnet, I, 584.

[125] Burnet, I, 652, 653.

[126] Ibid., I, 678.

[127] Ibid., I, 653.

[128] Fountainhall, 28 gennaio 1685–86.

[129] Fountainhall, 11 gennaio 1685–86.

[130] Fountainhall, 31 gennaio e 1 febbraio 1685–86; Burnet, I, 678;
Processi di David Mowbray ed Alessandro Keith, nella _Collezione deʼ
Processi di Stato_: Bonrepaux, 11–21 febbraio.

[131] Luigi a Barillon, 18–28 febbraio 1686.

[132] Fountainhall, 16 febbraio; Woodrow, libro III, cap. X, sez. 4.
“Vogliamo” scriveva graziosamente Sua Maestà “che non risparmiate
nessun mezzo legale di prova, infliggendo anche la tortura ec.”

[133] Bonrepaux, 18–28 febbraio 1686.

[134] Fountainhall, 11 marzo 1686; Adda, 1–11 marzo.

[135] Questa lettera ha la data del 4 marzo 1686.

[136] Barillon, 19–29 aprile 1686; Burnet, I, 370.

[137] Queste parole si trovano in una lettera di Johnstone di Waristoun.

[138] Alcune parole di Barillon meritano dʼessere qui riferite.
Basterebbero esse sole a sciogliere una questione che lʼignoranza e
lo spirito di parte hanno grandemente resa dubbiosa. «_Cette liberté
accordée aux Non–Conformistes a fait une grande difficulté, et a été
débattue pendant plusieurs jours. Le Roy dʼAngleterre avoit fort envie
que les Catholiques eussent seuls la liberté de lʼexercice de leur
religion_.» 19–29 aprile 1686.

[139] Barillon, 19–29 aprile 1686; Citters, 13–23, 20–30 aprile, 9–19
maggio.

[140] Fountainhall, 6 maggio 1686.

[141] Ibid., 15 giugno 1656.

[142] Citters, 11–21 maggio 1686. Citters scrisse agli Stati, che lo
sapeva da buona fonte. Ricopio una parte della sua narrazione. E un
piacevole saggio dello impasticciato dialetto che usavano a queʼ tempi
i Diplomatici Olandesi.

«_Des Konigs missive, boven en behalven den Hoog Commissaris aensprake,
aen et parlement afgesonden, gelyck dat altoos gebruyckebyck is, waerby
Syne Majestayt nu in genere versocht hieft de mitigatie der rigoureuse
ofte sanglante wetten van het Ryck jegens het Pausdom, in het Generale
Comitée des Articles (500 men het daer naemt) na ordre gestelt en
gelesen synde inʼt voteren, der Hertog van Hamilton onder anderen Klaer
nyt seyde dat hy daertoe nient sonde verstaen, dat hy anders genegen
was den konig in allen voorval getroou te dienen volgens het dictamen
syner conscientie: ʼt gene reden gof aen de Lord Cancellier de Grave
Perts te seggen dat hei woort conscientie niets en beduyde, en alleen
een, individuum vagum was, waerop dev Cavalier Locquard dan verder
gingh; wit man niet verstaen de betyckenis van het woordt conscientie,
soo sal ik in fortioribus seggen dat wy meynen volgens de fondamentale
wetten van het ryck_.»

Nel Villano sfrenato vi è un tratto curioso, al quale, senza il
riferito dispaccio di Citters, non avrei prestata fede. «Non possono
sentire a nominare la coscienza. Uno che, rispetto a ciò, conosceva
bene gli umori del Consiglio, disse ad un gentiluomo che vi andava: Vi
scongiuro, in qualunque cosa facciate, a non parlar mai di coscienza
innanzi ai Lordi, perocchè non possono patire nè anche di udirne il
nome.»

[143] Fountainhall, 17 maggio 1686.

[144] Woodrow, III, X, 3.

[145] Citters, 28 maggio–7 giugno, 1–11 giugno, 4–11 giugno 1686;
Fountainhall, 15 giugno; Luttrell, _Diario_, 2–16 giugno.

[146] Fountainhall, 21 giugno 1686.

[147] Ibid., 16 settembre 1686.

[148] Fountainhall, 16 settembre; Woodrow, III, X, 3.

[149] Le provvisioni dellʼAtto Irlandese di Supremazia, 2 Elis., cap.
1, sono sostanzialmente le stesse dellʼAtto Inglese di Supremazia, 1
Elis., cap. 1; ma lʼAtto Inglese tosto fu trovato difettivo: al che fu
provveduto con altro alto più vigoroso, 5 Elis., cap. 1. In Irlanda
non si fece mai un somigliante atto supplementare. Lʼarcivescovo King,
_Stato dellʼIrlanda_, cap. II, sez. 9, riferisce che la costruzione
usata in quel testo fu messa nellʼAtto Irlandese di Supremazia. Egli
chiama siffatta costruzione gesuitica; ma a me non sembra tale.

[150] _Anatomia politica dellʼIrlanda_.

[151] _Anatomia politica dellʼIrlanda_, 1672; Hudibras Irlandese, 1689;
Giovanni Dunton, _Relazione dellʼIrlanda_, 1699.

[152] Clarendon a Rochester, 4 maggio 1686.

[153] Lettera del vescovo Malony al vescovo Tyrrel, 8 marzo 1689.

[154] Statuto 10 e 11 di Carlo II, cap. 16; King, _Condizioni deʼ
Protestanti dʼIrlanda_, cap. II, sez. 8.

[155] King, cap. II, sez. 8. Il _King Corny_ di Miss Edgeworth
appartiene ad una più tarda e più incivilita generazione; ma chi abbia
studiato quella mirabile pittura, può farsi unʼidea di ciò che il
bisavo di _King Corny_ doveva essere.

[156] King, cap. III, sez. 2.

[157] MS. Sheridan; Prefazione al volume 1 della _Hibernia Anglicana_,
1690. _Consulte secrete del Partito papista in Irlanda_. 1689.

[158] «Eravi libertà di coscienza per connivenza, quantunque non vi
fosse per legge.» King, cap. III, sez. 1.

[159] In una lettera a Giacomo, trovatasi tra le carte del vescovo
Tyrrel, e che ha la data del 14 agosto 1686, sʼincontrano alcune
notevoli espressioni: «Pochi o nessuni sono i Protestanti in quel
paese, i quali non siano collegati coi Whig contro il nemico comune.»
E più sotto: «Coloro che qui (cioè in Inghilterra) passavano per
Tory, pubblicamente parteggiano pei Whig in Irlanda.» Swift diceva le
medesime cose pochi anni dopo al re Guglielmo: «Mi rammento dʼaver
detto al re, trovandomi in Inghilterra, che i più rigorosi Tory che
siano tra noi, ivi sarebbero Whig moderati.»—Lettera intorno alla
Prova Sacramentale.

[160] La ricchezza e la negligenza del clero anglicano dʼIrlanda sono
ricordate con fortissime parole dal Lord Luogotenente Clarendon,
testimone degno di tutta fede.

[161] Clarendon rammenta ciò al re in una lettera in data del 14 marzo
1685–86, ed aggiunge chʼera cosa verissima.

[162] Clarendon propose caldamente questa misura, ed opinava che il
Parlamento Irlandese avrebbe fatta la parte sua. Vedi la lettera di lui
ad Ormond, 28 agosto 1686.

[163] Fu un OʼNeill, uomo di grande importanza, colui che disse non
essere convenevole per lui storcere la bocca a balbettare lʼinglese.
Prefazione al vol. I della _Hibernia Anglicana_.

[164] Ms. Sheridan, tra le carte degli Stuardi. Debbo confessarmi grato
alla cortesia con cui il sig. Glover mi ha aiutato a cercare quel
pregevole manoscritto. Dagli ammonimenti che Giacomo, nel 1692, scrisse
per suo figlio, pare chʼegli sempre pensasse che la Irlanda non si
potesse senza pericolo affidare ad un Lord Luogotenente Irlandese.

[165] Ms. Sheridan.

[166] Clarendon a Rochester, 17 gennaio 1685–86; _Consulte segrete del
Partito papista_ in Irlanda, 1690.

[167] Clarendon a Rochester, 27 febbraio 1685–86.

[168] Clarendon a Rochester e a Sunderland, 2 marzo 1685–86; ed a
Rochester, 14 marzo.

[169] Clarendon a Sunderland, 26 febbraio 1685–86.

[170] Sunderland a Clarendon, 11 marzo 1685–86

[171] Clarendon a Rochester, 14 marzo 1685–86.

[172] Clarendon a Giacomo, 4 marzo 1685–86.

[173] Giacomo a Clarendon, 6 aprile 1685–86.

[174] Sunderland a Clarendon, Clarendon a Sunderland, 6–11 luglio–22
maggio 1686; Clarendon ad Ormond, 30 maggio.

[175] Clarendon a Rochester e a Sunderland, 1 giugno 1686; a Rochester,
12 giugno; King, _Condizioni deʼ Protestanti dʼIrlanda_, cap. II, sez.
6 e 7; _Apologia dei Protestanti dʼIrlanda_, 1689.

[176] Clarendon a Rochester, 15 maggio 1686.

[177] Clarendon a Rochester, 11 maggio 1686.

[178] Ibid., 8 giugno 1686.

[179] _Consulte secrete del Partito papista in Irlanda._

[180] Clarendon a Rochester, 26 giugno, e 4 luglio 1686; _Apologia deʼ
Protestanti dʼIrlanda_, 1689.

[181] Clarendon a Rochester, 4–22 luglio 1686; a Sunderland, 6 luglio;
al re, 14 agosto.

[182] Clarendon a Rochester, 19 giugno 1686.

[183] Ibid., 22 giugno 1686.

[184] MS. Sheridan; King, _Condizioni deʼ Protestanti dʼIrlanda_, cap.
III, sezione 3 e 8. Un notabilissimo saggio della impudente mendacità
di Tyrconnel trovasi nella lettera di Clarendon a Rochester, 22 luglio
1686.

[185] Clarendon a Rochester, 8 giugno 1686.

[186] Clarendon a Rochester, 23 settembre e 2 ottobre 1686; _Consulte
secrete del Partito papista in Irlanda_, 1690.

[187] Clarendon a Rochester, 6 ottobre 1686.

[188] Clarendon al re, ed a Rochester, 23 ottobre 1686.

[189] Clarendon a Rochester, 29, 30 ottobre 1686.

[190] Ibid, 27 novembre 1686.

[191] Barillon, 13–23 settembre 1686: Clarke, _Vita di Giacomo II_,
vol. II, 99.

[192] Ms. Sheridan.

[193] Clarke, _Vita di Giacomo II_, vol. II, 100.

[194] Barillon, 13–23 settembre 1686; Bonrepaux, 4 giugno 1687.

[195] Barillon, 2–12 dicembre 1686; Burnet, I, 684; Clarke, _Vita di
Giacomo II_, vol. II, 100; Dodd, Storia della Chiesa. Mi sono studiato
dʼintessere un racconto schietto da cotesti materiali che lottano tra
loro. Mi par chiaro, dagli stessi scritti di Rochester, che in questa
occasione egli non si mostrasse così tenace come è stato asserito da
Burnet, e dal biografo di Giacomo.

[196] Dalle carte di Rochester, in data del dì 3 dicembre 1686.

[197] Dalle carte di Rochester, 4 dicembre 1686.

[198] Barillon, 20–30 dicembre 1686.

[199] Burnet, I, 684.

[200] Bonrepaux, 25 maggio–4 giugno 1687.

[201] Carte di Rochester, 19 dicembre 1686; Barillon, 30 dicembre–9
gennaio 1686–87; Burnet, I, 685; Clarke, _Vita di Giacomo II_, II, 102.
Libro del Tesoro, 29 dicembre 1686.

[202] Il Vescovo Malony, in una lettera al vescovo Tyrrel, dice:
«Nessun Cattolico o qualunque altro Inglese penserà mai, o farà mai un
passo, o lascerà mai fare al re un passo pel vostro risorgimento; ma vi
lascerà quali siete stati finora; lascerà i vostri nemici pesare sulle
vostre teste: nè vi è Inglese, sia cattolico o no, di qualsivoglia
grado o qualità, che abborrisca di sacrificare tutta la Irlanda a
fine di salvare il suo più lieve interesse in Inghilterra: ei la
vedrebbe più volentieri abitata tutta quanta dagli Inglesi di qualunque
religione, che dagli Irlandesi.»

[203] Il migliore racconto di questi fatti trovasi nel Ms. Sheridan.

[204] Ms. Sheridan; Oldmixon, _Memorie sopra la Irlanda_; King,
_Condizioni dei Protestanti dellʼIrlanda_, e segnatamente il cap. III;
_Apologia deʼ Protestanti dellʼIrlanda_, 1689.

[205] _Consulte segrete del Partito papale in Irlanda_, 1690.

[206] Gazzetta di Londra, 6 gennaio e 14 marzo 1686–87; Evelyn,
_Diario_, 10 marzo; Etherege, Lettera a Dover, nel Museo Britannico.

[207] «Pare che gli animi sono inaspriti dalla voce che corre per il
popolo, dʼesser cacciato il detto ministro per non essere Cattolico:
perciò tirarsi allʼesterminio deʼ Protestanti.» Adda, 31 dicembre–10
gennaio 1687.

[208] Le fonti principali da cui ho ricavata la materia a ritrarre il
Principe dʼOrange, sono la _Storia_ di Burnet, le _Memorie_ di Temple e
Gourville, le _Legazioni_ deʼ Conti dʼEstrade e dʼAvaux, le _Lettere_
di Sir Giorgio Downing al Lord Cancelliere Clarendon, la voluminosa
_Storia_ di Wagenaar, lʼopera di Kamper intitolata _Karakterkunde der
Vaderlandsche Geschiendeis_; e sopra tutto lo Epistolario familiare
di Guglielmo, del quale carteggio il Duca di Portland concesse a Sir
Giacomo Mackintosh dʼestrarre una copia.

[209] Dopo la pace di Ryswick, Guglielmo fu caldamente pregato dagli
amici suoi a parlare severamente allo ambasciadore francese intorno
alle trame dʼassassinio che i Giacomiti di Saint–Germains meditavano
sempre. La fredda magnanimità ondʼegli accolse tali annunzi di pericolo
è singolarmente caratteristica. A Bentinck, che da Parigi aveva
trasmesso avvisi di grande sospetto, Guglielmo rispose in fine ad una
lunga lettera dʼaffari queste semplici parole:—«_Pour les assassins,
je ne luy en ay pas voulu parler, croiant que cʼétoit au dessous de
moy;_» 2–12 maggio 1698. Citando la riferita lettera, ho conservata la
ortografia originale, seppure meriti tal nome.

[210] Da Windsor scriveva a Bentinck, allora ambasciatore a Parigi:
«_Jʼay pris avant hier un cerf dans la foreste avec les chiains du Pr.
de Denm., et ay fait un assez jolie chasse, autant que ce vilain paiis
le permest_;» 20 marzo–1 Aprile 1698. Lʼortografia è cattiva, ma non
peggiore di quella di Napoleone. Guglielmo da Loo scrisse con più buon
umore:«_Nous avons pris deux gros cerfs, le premier dans Dorewaert, qui
est des plus gros que je sache avoir jamais pris. Il porte seize_.» 25
ottobre–4 novembre 1697.

[211] Marzo 1679.

[212] «_Voilà en peu de mot le détail de nostre St. Hubert. Et jʼay
eu soin que M. Woodstoc_ (era figlio maggiore di Bentinck) _nʼa point
esté à la chasse, bien moin au soupè; quoyquʼil fût icy. Vous pouvez
pourtant croire que de nʼavoir pas chassè lʼa un peu mortifiè, mais je
ne lʼay pas ausé prendre sur moy, puisque vous mʼaviez dit que vous ne
le souhaitiez pas_.» Da Loo, 4 novembre 1697.

[213] 15 giugno 1688.

[214] 6 settembre 1679.

[215] Vedi ciò che di lei scrive Swift, nel _Giornale a Stella_.

[216] Enrico Sidney, _Diario_, 31 marzo 1680, nella interessante
collezione di Blencowe.

[217] Il Presidente Onslow, Annotazione a Burnet, I, 596. Johnson,
_Vita di Spraf_.

[218] Niuno ha contraddetto a Burnet con maggior frequenza ed asprezza
di Dartmouth. Nondimeno Dartmouth scrisse: «Non credo chʼegli a disegno
abbia mai pubblicato cosa chʼegli credesse falsa.» Più tardi Dartmouth,
provocato da alcune osservazioni che lo concernevano nel secondo
volume della Storia di Burnet, disdisse la riferita lode: il che non
merita conto dʼoccuparsene. Anche Swift ebbe la giustizia di dire:
«Al postutto, egli era un uomo generoso e di buona indole.» _Brevi
osservazioni intorno la Storia del Vescovo Burnet_.

Suole riprendersi Burnet come storico molto trascurato; ma io reputo
affatto ingiusto cotale addebito. Ei pare singolarmente trascurato,
solo perchè la sua narrazione è stata sottoposta ad uno scrutinio
singolarmente severo ed ostile. Se qualcuno deʼ Whig avesse giudicato
valere lo incomodo di sottoporre le _Memorie_ di Reresby, lo _Esame_ di
North, il _Racconto della Rivoluzione_ fatto da Mulgrave, o la _Vita
di Giacomo II_ pubblicata da Clarke, ad un simile scrutinio, chiaro si
vedrebbe che Burnet è ben lungi dallʼessere il più inesatto scrittore
deʼ suoi tempi.

[219] Vedi la Narrazione ms. del Dr. Hooper, pubblicata nellʼAppendice
alla _Vita di Guglielmo_, scritta da Dungannon.

[220] Avaux, _Negoziazioni_, 10–20 Agosto, 14–24 Settembre–8 Ottobre,
7–17 dicembre 1682.

[221] Non posso ricusare a me stesso il piacere di citare la
descrizione che Massillon, con modo ostile, quantunque giudizioso e
nobile, fa di Guglielmo. «_Un prince profond dans ses vues; habile
à former des ligues et a réunir les esprits; plus heureux à exciter
les guerres quʼà combattre; plus à craindre encore dans le secret du
cabinet quʼà fa tête des armées; un ennemi que la haine du nom français
avoit rendu capable dʼimaginer de grandes choses et de les exécuter; un
de ces génies qui semblent être nés pour mouvoir à leur gré les peuples
et les souverains; un grand homme, sʼil nʼavoit jamais voulu être
roi._»_ Oraison funèbre de M. le Dauphin_.

[222] Per esempio: «_Je crois M. Feversham un très brave et honeste
homme. Mais je doute sʼil a assez dʼexpérience à diriger une si grande
affaire quʼil a sur les bras. Dieu lui donne un succès prompt et
heureux. Mais je ne suis pas hors dʼinquiétude_.» 7–17 luglio 1685.
Inoltre, dopo dʼaver ricevuta la nuova della battaglia di Sedgemoor,
egli scrive: «_Dieu soit loué du bon succès que les troupes du Roy
ont eu contre les rebelles. Je ne doute pas que cette affaire ne soit
entièrement assoupie, et que le règne du Roy soit heureux: ce que Dieu
veuille_.» 10–20 luglio.

[223] Questo trattato trovasi nel _Recueil des Traités_, IV, Nº 209.

[224] Burnet, I, 762.

[225] Temple, _Memorie_.

[226] Vedi le poesie intitolate: _I Convertiti_, e _LʼInganno_.

[227] Trovasi nella _Collezione delle Poesie Politiche_.

[228] Le notizie che abbiamo intorno a Wycherley, sono pochissime; ma
due cose sono certe: cioè, che negli ultimi anni di sua vita egli si
chiamava papista, e che ricevè danari da Giacomo. Dubito poco la sua
conversione non gli sia stata pagata.

[229] Vedi lo articolo intorno a lui nella _Biographia Britannica_.

[230] Vedi ciò che intorno a lui dice Giacomo Quin, nella _Miscellanea_
di Davies; Tommaso Brown, _Opere_; _Vite degli Scrocconi_; Dryden,
nellʼEpilogo del _Secular Masque_.

[231] Questo fatto, che sfuggì alle minute ricerche di Malone, si
raccoglie dal Copia–Lettere del Tesoro 1685.

[232] Leenwen, 25 dicembre–4 gennaio 1685–86.

[233] Barillon, 31 gennaio–10 febbraio 1686–87: _«Je crois que, dans
le fond, si on ne pouvoit laisser que la Religion Anglicane et la
Catholique établies par les loix, le Roy dʼAngleterre en seroit bien
plus content.»_

[234] Trovasi nellʼopera di Wodrow, Appendice, vol. II. Nº 129.

[235] Wodrow, Appendice, vol. II, Nº 128, 129, 132.

[236] Barillon, 28 febbraio–10 marzo 1686–87; Citters, 15–25 febbraio;
Reresby, _Memorie_; Bonrepaux, 25 maggio–4 giugno 1687.

[237] Barillon, 14–24 marzo 1687; Lady Russell al Dottore Fitzwilliam,
1 aprile; Burnet, I, 671, 772. Questo colloquio è riferito con qualche
differenza da Clarke nella _Vita di Giacomo_, II, 204. Ma quel brano
non è parte delle Memorie originali del Re.

[238] _Gazzetta di Londra_, 21 marzo 1686–87.

[239] _Gazzetta di Londra_, 7 aprile 1687.

[240] _Libro del tesoro_. Vedi, in ispecie, le istruzioni in data del
dì 8 marzo 1687–88; Burnet, I, 715; _Riflessioni intorno al Proclama di
sua Maestà sopra la Tolleranza in Iscozia_; _Lettere contenenti alcune
riflessioni sopra la Dichiarazione fatta da sua Maestà per la Libertà
di Coscienza_; _Apologia della Chiesa Anglicana rispetto allo spirito
di persecuzione del quale è accusata_, 1687–88. Mi riesce impossibile
citare tutti gli scritti da cui ho tratto i materiali per descrivere le
condizioni deʼ partiti a quel tempo.

[241] _Lettera ad un Dissenziente_.

[242] Wodrow, Appendice, vol. II, Nº 132, 134.

[243] _Gazzetta di Londra_, 21 aprile 1687; _Critica dʼuno scritto di
recente pubblicato col titolo: Lettera ad un Dissenziente_, per E. C.
(Enrico Care), 1687.

[244] Lestrange, _Risposta alla Lettera ad un Dissenziente_; Care,
_Critica della Lettera ad un Dissenziente_; _Dialogo tra Enrico e
Ruggiero_, cioè tra Enrico Care e Ruggiero Lestrange.

[245] La Lettera era firmata T. W. Care nella sua _Critica_, dice:
«Questo Messer Politico T. W., o W. T.; perocchè alcuni critici pensano
doversi leggere a questo modo.»

[246] Ellis, _Carteggio_, 15 marzo, 27 luglio 1686; Barillon, 28
febbraio–10 Marzo, 3–13 marzo, 6–16 marzo; Ronquillo, 9–19 marzo 1687,
nella collezione di Mackintosh.

[247] Wood, _Athenæ Oxonienses_; lʼ_Osservatore_; _Eraclitus Ridens_,
passim. Gli scritti di Care apprestano i migliori argomenti a conoscere
il suo carattere.

[248] Calamy, _Relazione intorno ai Ministri cacciati o fatti
tacere dopo la Restaurazione_, Contea di Northampton; Wood, _Athenæ
Oxonienses_; _Biographia Britannica_.

[249] _Processi di Stato_; Samuele Rosewell, _Vita di Tommaso
Rosewell_, 1718; Calamy, _Relazione_ ec.

[250] _Gazzetta di Londra_, 15 marzo 1685–86; Nichols, _Difesa della
Chiesa Anglicana_; Pierce, _Difesa dei Dissenzienti_.

[251] Questi indirizzi si trovano in vari numeri della _Gazzetta di
Londra_.

[252] Calamy, _Vita di Baxter_.

[253] Calamy, _Vita di Howe_. La parte che la famiglia Hampden ebbe in
quella faccenda, si conosce da una lettera di Johnstone a Waristoun, in
data del 13 giugno 1688.

[254] Bunyan

[255] Young mette al pari la prosa di Bunyan con la poesia di Durfey.
Le classi elevate, nel _Don Chisciotte Spirituale_, pongono il _Viaggio
del Pellegrino_ (_Pilgrimʼs Progress_) con _Jack lo Ammazza–giganti_.
Sul declinare del secolo decimottavo, Cooper appena si rischiò ad
alludere al grande allegorista, dicendo: “Io non ti nomino, perocchè un
nome così spregiato potrebbe muovere lʼaltrui scherno contro la fama
che ben meriti.”

[256] Vedi la _Continuazione della Vita di Bunyan_, aggiunta alla sua
_Grazia Abbondante_.

[257] Kiffin, _Memorie_; Luson, _Lettera a Brooke_, 11 maggio 1773, nel
_Carteggio_ di Hugues.

[258] Vedi, fra tutti gli altri libercoli di quei tempi, uno scritto
col titolo di _Esposizione deʼ Pericoli imminenti ai Protestanti_.

[259] Burnet, I. 693, 694.

[260] «_Le prince dʼOrange, qui avoit éludé jusquʼalors de faire une
réponse positive, dit..... quʼil ne consentira jamais à la suppression
de ces loix qui avoient été établies pour le maintien et la sureté de
la Religion protestante; et que sa conscience ne le lui permettoit
point, non seulement pour la succession du royaume dʼAngleterre, mais
même pour lʼempire du monde: en sorte que le Roi dʼAngleterre est plus
aigri contre lui quʼil nʼa jamais été._»—Bonrepaux, 11–21 giugno 1687.

[261] Burnet, I, 710; Bonrepaux, 24 maggio–4 giugno 1687.

[262] Johnstone, 13 gennaio 1689; Halifax, _Anatomia dʼun Equivalente_.

[263] Burnet, I, 726–731; _Risposta alle Lettere dʼAccusa emanate
contro il Dott. Burnet_; Avaux, _Negoziazioni_, 7–17, 14–24 luglio,
28 luglio–7 Agosto 1687, 19–29 gennaio 1688; Luigi a Barillon, 30
dicembre–9 gennaio 1687–88; Johnstone di Waristoun, 21 febbraio 1688;
Lady Russell al Dott. Fitzwilliam, 5 ottobre 1687. Poichè taluni hanno
sospettato che Burnet, il quale certo non aveva costume di far poco
valere la propria importanza, esagerasse il pericolo al quale trovavasi
esposto, riferirò le parole di Luigi e quelle di Johnstone: «_Qui
que ce soit_, dice Luigi, _qui entreprenne de lʼenlever en Hollande
trouvera non seulement une retraite assurée et une entière protection
dans mes états, mais aussi toute lʼassistance quʼil pourra désirer pour
faire conduire sûrement ce scélérat en Angleterre._»—«La faccenda
di Bamfield (_Burnet_) è certamente vera, dice Johnstone. Nessuno ne
dubita qui, e alcuni che vi sono mescolati non la negano. I suoi amici
dicono di sapere chʼegli si dà poco pensiero di sè, ma mosso da vanità,
a fine di mostrare il suo coraggio, mostra la sua follia; di guisa
che, se male glʼincorra, la gente ne farà le risate. Vi prego, ditegli
queste cose da parte di Jones (_Johnstone_). Se si potesse metter le
mani addosso a qualcuno nellʼatto di fare il _coup dʼessai_, servirebbe
ad atterrire gli altri perchè non attentino ad Ogle (_al Principe_).»

[264] Burnet, I, 708; Avaux, _Negoziazioni_, 3–13 gennaio, 6–16
febbraio 1687; Van Kampen, _Karakterkunde_ ec.

[265] Burnet, I, 711. I dispacci di Dykvelt agli Stati Generali non
contengono, per quanto io abbia veduto o possa sapere, una sola parola
allusiva al vero scopo della sua legazione. Il suo carteggio col
Principe di Orange era strettamente privato.

[266] Bonrepaux, 12–22 settembre 1687.

[267] Vedi la Vita che ne scrisse Campbell.

[268] Johnstone, _Carteggio_; Mackay, _Memorie_; Arbuthnot, _John
Bull_. Vedi anche gli scritti di Swift, _passim_, dal 1710 al 1714;
Whiston, _Lettera al Conte di Nottingham_, e la risposta del Conte.

[269] Kennet, _Orazione funebre del Duca di Devonshire_, e _Memorie
della famiglia di Cavendish_; _Processi di Stato_; _Libro del Consiglio
Privato_, 5 marzo 1685–86; Barillon 30 giugno–10 luglio 1687;
Johnstone, 8–18 dicembre 1687; _Giornali deʼ Lordi_, 6 maggio 1689.
«_Ses amis et ses proches_, dice Barillon, _lui conseillent de prendre
le bon parti, mais il persiste jusquʼà prèsent à ne se point soumettre.
Sʼil vouloit se bien conduire et renoncer a être populaire, il ne
payeroit pas lʼamende; mais sʼil sʼopiniâtre, il lui en coûtera trente
mille pièces, et il demeurera prisonnier jusquʼà lʼactuel payement._»

[270] La ragione della condotta di Churchill trovasi con chiarezza e
brevità dimostrata nella _Difesa della Duchessa di Marlborough_: “Era
manifesto a tutto il mondo, che nel modo onde Re Giacomo conduceva le
cose, ciascuno, o presto o tardi, sarebbe stato rovinato ricusando di
farsi Cattolico Romano. Ciò mi indusse a plaudire al Principe dʼOrange,
che imprese a liberarci da tanto servaggio.”

[271] Grammont, _Memorie_; Pepys, 21 febbraio 1684–85.

[272] Sarebbe infinito enumerare tutti i libri dai quali ho tratto le
materie a giudicare il carattere della Duchessa. Le lettere sue, la
difesa, le risposte che provocò, sono state le mie fonti precipue.

[273] La epistola formale che Dykvelt recò agli Stati, trovasi negli
Archivi dellʼAja. Le altre lettere sopra rammentate sono state
pubblicate da Dalrymple, Appendice al Libro V.

[274] Sunderland a Guglielmo, 24 agosto 1686; Guglielmo a Sunderland,
2–12 settembre 1686; Barillon, 6–16 maggio, 26 maggio–5 giugno,
3–13 ottobre, 28 novembre–8 dicembre 1687; Luigi a Barillon, 14–24
ottobre 1687; _Memoriale dʼAlbeville_, 15–25 dicembre 1687; Giacomo a
Guglielmo, 17 gennaio, 16 febbraio, 2, 13 marzo 1688; Avaux, _Negoz._,
1–11, 6–16, 8–18 marzo, 22 marzo–1 aprile 1688.

[275] Adda, 9–19 novembre 1686.

[276] Il Professore di lingua greca nel Collegio di Propaganda espresse
la sua ammirazione in certi detestabili distici, deʼ quali ecco un
esempio:

  _Ῥωγερίου δὴ σκεψόνος λαμπροῖο θρίαμβον
    ὦκα μάλ̓  ήϊσσεν και θέεν ὄχλος ἅπας._
  _Θαυμάζουσα δὲ τὴν πομπὴν παγχρυσεά τ̓  αὐτοῦ
    ἅρματα, τοὺς δ̓  ἵππους, τοιάδε ῾Ρώμη ἔφη_....

I versi latini sono poco migliori.

Nahum Tate rispose in inglese:

  _His glorious train and passing pomp to view,
  A pomp that even to Rome itself was new,
  Each age, each sex, the latian turrets filled,
  Each age and sex in tears of joy distilled._

[277] Carteggio di Giacomo e dʼInnocenzo nel Museo Britannico; Burnet,
I, 703–705; Welwood _Memorie_; _Giornali deʼ Comuni_, 28 ottobre
1689; _Relazione delta legazione di Sua Eccellenza Ruggiero Conte di
Castelmaine per Michele Wright, maestro di casa di Sua Eccellenza in
Roma_, 1685.

[278] Barillon, 2–12 maggio 1687.

[279] _Memorie del Duca di Somerset_; Citters, 5–15 luglio 1687;
Eachard, _Storia della Rivoluzione_; Clarke, _Vita di Giacomo II_, ii,
116, 117, 118; Lord Lonsdale, _Memorie_.

[280] _Gazzetta di Londra_, 7 luglio 1687; Citters, 7–17 luglio; Vedi
la Relazione della Ceremonia stampata fra gli scritti di Somers.

[281] _Gazzetta di Londra_, 4 luglio 1687.

[282] Vedi gli Statuti 18 Enr. 6, c. 19; 2 e 3, Ed. 6, c. 2; Eachard,
_Storia della Rivoluzione_; Kennet, III, 468; North, _Vita di
Guildford_, 247; _Gazzetta di Londra_, 18 aprile; 23 maggio 1687;
_Difesa del C. di R._ (Conte di Rochester).

[283] I Prologhi di Dryden e le _Memorie_ di Cibber contengono
abbondevoli prove della stima che i più grandi poeti ed attori facevano
del gusto degli Oxfordiani.

[284] Vedi la poesia intitolata: _Consiglio al Pittore intorno la
Sconfitta deʼ ribelli nelle Contrade Occidentali_. Vedi anche unʼaltra
poesia detestabilissima sul medesimo subietto, dettata da Stepney, che
allora era studente nel Collegio della Trinità.

[285] Vedi il carattere di Sheffield come lo descrive Mackay, e la nota
di Swift; la _Satira sopra i Deponenti_, 1688; _Vita di Giovanni Duca
della Contea di Buckingham_, 1729; Barillon, 30 agosto 1687. Serbo una
satira manoscritta contro Mulgrave con la data del 1690 Non è priva di
spirito; i più notevoli versi dicono così:

«Pietro (_Petre_) oggi e Burnet domani, egli (Mulgrave) lusinga i
farabutti di tutti i partiti e di tutte le religioni.»

[286] Vedi il processo contro la Università di Cambridge nella
_Collezione dei Processi di Stato_.

[287] Wood, _Athenæ Oxonienses; Apologia della vita di Colley Cibber_;
Citters, 2–12 marzo 1686.

[288] Burnet, I, 697; _Lettera di Lord Ailesbury_, pubblicata nel
_Magazzino Europeo_, aprile 1795.

[289] Wood, _Athenæ Oxonienses_; Walker, _Patimenti del Clero_.

[290] Burnet, I, 697; Tanner, _Notitia Monastica_. Dalla visita o
ispezione fatta nel ventesimosesto anno di Enrico VIII risultò che lʼ
annua rendita del Collegio del Re era lire sterline 751, del Collegio
Nuovo 487, e di quello della Maddalena 1076.

[291] _Relazione del Processo del Charterhouse_, 1689.

[292] Vedi la _Gazzetta di Londra_, dal 18 agosto fino al 1º settembre
1687; Barillon, 19–29 settembre.

[293] «_Penn chef des Quakers, quʼon sait être dans les intérêts du
Roi dʼAngleterre, est si fort décrié parmi ceux de son parti, quʼils
nʼont plus aucune confiance en lui_.» Bonrepaux a Seignelay, 12–22
settembre 1687. A queste parole risponde la testimonianza di Gherardo
Croese: «_Etiam Quakeri Pennum non amplius, ut ante, ita amabant
ac magnifaciebant, quidam aversabantur ac fugiebant_.» _Historia
Quakeriana_, lib. II, 1695.

[294] Cartwright, _Diario_, 30 agosto 1687. Clarkson, _Vita di
Guglielmo Penn_.

[295] _Gazzetta di Londra_, 5 settembre; Ms. Sheridan; Barillon, 6–16
settembre 1687. «_Le Roi son maître, dice Barillon, a témoigné une
grande satisfaction des mesures quʼil a prises, et a autorisé ce quʼil
a fait en faveur des Catholiques. Il les établit dans les emplois et
les charges, en sorte que lʼautorité se trouvera bientôt entre leurs
mains. Il reste encore beaucoup de choses à faire en ce pays–là pour
retirer les biens injustement ôtés aux Catholiques; mais cela ne peut
sʼexécuter quʼavec le temps et dans lʼassemblée dʼun parlement en
Irlande_.»

[296] _Gazzetta di Londra_, 5 e 8 settembre 1687.

[297] Vedi il _Processo contro il Collegio della Maddalena in Oxford,
per non avere eletto Antonio Farmer a Presidente del detto Collegio_,
nella _Collezione dei Processi di Stato_, edizione di Howell; Luttrell,
_Diario_, 15, 17, giugno, 24 ottobre, 10 dicembre 1687; Smith,
_Narrazione_; Lettera del dott. Riccardo Rawlinson in data del 31
ottobre 1687; Reresby, _Memorie_; Burnet, I, 699; Cartwright, _Diario_;
Citters, 23 ottobre–4 novembre, 28 ottobre–7 novembre, 8–18 novembre
1687.

[298] «_Quand on connoît le dedans de cette cour aussi intimement
que je la connois, on peut croire que sa Majesté Britannique donnera
volontiers dans ces sortes de projets_.» Bonrepaux a Seignelay, 18–28
marzo 1686.

[299] «_Que, quand pour établir la religion catholique, et pour
la confirmer icy, il (Giacomo) devroit se rendre en quelque façon
dépendant de la France, et mettre la décision de la succession à la
couronne entre les mains de ce monarque là, quʼil seroit obligé de le
faire, parce quʼil vaudroit mieux pour ses sujets quʼils devinssent
vassaux du Roy de France, étant catholique, que de demeurer comme
esclaves du Diable_.» Questo documento esiste e negli Archivi di
Francia e in quelli dʼOlanda.

[300] Citters, 6–16, 17–27 agosto 1686; Barillon, 19–29 agosto.

[301] Barillon, 13–23 settembre 1686. «_La succession est une matière
fort délicate à traiter. Je sais pourtant quʼon en parle au Roy
dʼAngleterre, et quʼon ne désespère pas avec le temps de trouver
des moyens pour faire passer la couronne sur la tête dʼun héritier
catholique._»

[302] Bonrepaux, 11–21 luglio 1687.

[303] Bonrepaux a Seignelay, 25 agosto–4 settembre 1687. Riferirò poche
parole di questo notevolissimo documento: «_Je sais bien certainement
que lʼintention du Roy dʼAngleterre est de faire perdre ce royaume
(la Irlanda) à son successeur, et de le fortifier en sorte que tous
ses sujets catholiques y puissent avoir un asyle assuré. Son projet
est de mettre les choses en cet estat dans le cours de cinq années_.»
Nelle _Consulte Secrete del Partito Papale in Irlanda_, stampate nel
1690, è un luogo che mostra come siffatte pratiche non fossero tenute
strettamente secrete. «Quantunque il Re tenesse questo disegno celato
alla più parte deʼ suoi Consiglieri, nondimeno è certo chʼegli aveva
promesso al Re di Francia la facoltà di disporre di quel governo e di
quel Regno quando le cose fossero apparecchiate in modo da potere far
ciò impunemente.»

[304] Citters, 28 ottobre–7 novembre, 22 novembre–2 dicembre 1687; la
Principessa Anna alla Principessa dʼOrange, 14 e 20 marzo 1687–88;
Barillon, 1–11 dicembre 1687; _Politica della Rivoluzione_; la Canzone
intitolata: _Two Toms and a Nat_; Johnstone, 4 aprile 1688; _Consulte
secrete del partito Papale in Irlanda_, 1690.

[305] Le inquietudini del Re intorno a questo negozio sono riferite
da Ronquillo, 12–22 dicembre 1687: «_Un Principe de Vales y un Duque
de York y otro de Lochaosterna_ (credo voglia dire Lancastro) _no
bastan a redimir la gente; porque el Rey tiene 54 annos, y vendrá a
morir, dejando los hijos pequeños, y que entonces el reyno se apoderará
dellos, y les nambrará tutor, y los educará en la religion protestante,
contra la disposicion que dejare el Rey, y la autoritad de la Reyna_.»

[306] Esistono tre liste di quel tempo; una negli Archivi francesi due
altre in quelli della famiglia Portland. In tali liste i Pari sono
classificati con le seguenti categorie: _Per lʼabrogazione dellʼAtto di
Prova.—Contro lʼabrogazione—Dubbi_. Secondo una delle predette liste
31 sono pro, 86 contra, 20 dubbi; secondo lʼaltra 33 pro, 87 contra,
19 dubbi; secondo la terza 35 pro, 92 contra, e 10 dubbi. Di questi
documenti trovansi le copie nei Mss. Mackintosh.

[307] Nel Museo Britannico esiste una lettera di Dryden ad Etherege
in data di febbraio 1688. Non mi ricordo dʼaverla veduta mai stampata
«Voglia il cielo, dice Dryden, che il nostro sovrano promuova con
lo esempio gli ozi beati, siccome fece il suo fratello di benedetta
memoria: imperocchè il cuore mi dice chʼegli non vantaggerà punto le
sue faccende col darsi moto.»

[308] Barillon, 20 agosto–8 settembre 1687.

[309] Lo riferì Lord Bradford, che vi si trovava presente, a Dartmouth;
Annotazione a Burnet, I, 755.

[310] _Gazzetta di Londra_, 12 dicembre 1687.

[311] Bonrepaux a Seignelay, 14–24 novembre; Citters, 15–25 novembre;
_Giornali dei Lordi_, 10 dicembre 1689.

[312] Citters, 28 ottobre–7 novembre 1687.

[313] Halstead, _Breve Genealogia della Famiglia De Vere_, 1685;
Collins, _Collezioni storiche_. Vedi neʼ _Giornali deʼ Lordi_, e nelle
_Relazioni_ di Jones i processi rispetto alla Contea di Oxford, marzo
e aprile 1625–26. Lo esordio del discorso del Lord Capo Giudice Crew
si annovera fra i più squisiti esempi dellʼantica eloquenza inglese.
Citters, 7–17 febbraio 1688.

[314] Coxe, _Carteggio di Shrewsbury_; Mackay, _Memorie; Vita di Carlo
Duca di Shrewsbury_, 1718; Burnet, I, 762; Birch, _Vita di Tillotson_,
dove il lettore troverà una lettera di Tillotson a Shrewsbury, la quale
mi sembra esempio di grave, amichevole e cortesissimo rimprovero.

[315] Norina chiamava Re Carlo il suo Carlo III. Si disputa se Dorset o
il Maggiore Hart fosse per lei il Carlo I. Ma a me sembra che in favore
di Dorset siano maggiori le testimonianze. Vedi il passo soppresso di
Burnet, I, 263, e Pepys, _Diario_, 26 ottobre 1667.

[316] Pepys, _Diario_; la dedica delle poesie di Prior al Duca di
Dorset; Johnson, _Vita di Dorset_; Dryden, _Saggio sopra la Satira_,
e la dedica del _Saggio sopra la Poesia Drammatica_. Lo affetto che
Dorset sentiva per la sua moglie e la rigorosa fedeltà che le serbò,
sono sprezzantemente rammentate dal dissoluto Sir Giorgio Etherege
nelle sue lettere da Ratisbona, 9–19 dicembre 1687, e 16–26 gennaio
1688; Shadwell, dedica dello _Scudiero dʼAlsazia_; Burnet, I, 264;
Mackay, _Caratteri_. Alcune delle specialità di Dorset sono ben
descritte nello epitaffio che di lui scrisse Pope: «Dolce era la sua
indole, quantunque fosse severo il suo canto.» E appresso: «Benedetto
cortigiano, il quale potè rendersi gradito al Re ed al paese, e
nondimeno tener sacre le sue amicizie e le sue agiatezze.»

[317] Barillon, 9–19 gennaio 1688; Citters, 31 gennaio–10 febbraio.

[318] Adda, 3–13, 10–20 febbraio 1688.

[319] Barillon, 5–15, 8–18, 12–22 dicembre 1687; Citters, 29 novembre–9
dicembre, 2–12 dicembre.

[320] Citters, 28 ottobre–7 novembre 1687; Lonsdale, _Memorie_.

[321] Citters, 22 novembre–2 dicembre 1687.

[322] Ibid., 27 dicembre–6 gennaio 1687–88.

[323] Ibid.

[324] Johnstone nota due volte la collera di Rochester in questa
occasione, 25 novembre, e 8 dicembre 1687. Della sua poca riuscita fa
menzione Citters, 6–16 dicembre.

[325] Citters, 6–16 dicembre 1687.

[326] Ibid., 20–30 dicembre 1687.

[327] Ibid., 30 marzo–9 aprile 1687.

[328] Ibid., 22 novembre–2 dicembre 1687.

[329] Citters, 15–25 novembre 1687.

[330] Citters, 10–20 aprile 1688.

[331] Deʼ timori che si avevano intorno alla Contea di Lancastro
parla Citters in un dispaccio in data del 18–28 novembre 1687; e del
risultato in un dispaccio scritto quattro giorni dopo.

[332] Bonrepaux, 11–21 luglio 1687.

[333] Citters, 3–13 febbraio 1688.

[334] Citters, 5–15 aprile 1688.

[335] _Gazzetta di Londra_, 5 dicembre 1687; Citters, 6–16 dicembre.

[336] Circa venti anni innanzi questa epoca un Gesuita aveva notato
la vita ritirata che menavano in Inghilterra i gentiluomini delle
campagne. «La nobiltà inglese, se non se legata in servigio di Corte,
o in opera di maestrato, vive, e gode il più dellʼanno alla campagna,
neʼ suoi palagi e poderi, dove son liberi e padroni; e ciò tanto
più sollecitamente i Cattolici, quanto più utilmente, sì come meno
osservati colà.» _LʼInghilterra descritta dal P. Daniello Bartoli_,
Roma 1667.

«Molti degli Sceriffi papisti, scriveva Johnstone, hanno possessioni
e dichiarano che chiunque sʼaspetti chʼessi falsino le elezioni, si
troverà ingannato. I gentiluomini papisti che vivono nelle loro case
di campagna sono molto diversi da coloro che abitano qui in città.
Parecchi di loro hanno ricusata la nomina di Sceriffi e Luogotenenti
Deputati.» 8 dicembre 1687.

Ronquillo dice le stesse cose: «_Algunos Catolicos que fueron nombrados
por sherifez se han excusado_.» 9–19 gennaio 1688. Alcuni mesi dopo
scrisse alla sua Corte che i gentiloomini cattolici delle campagne
avrebbero acconsentito a un accomodamento le cui condizioni sarebbero
state lʼabolizione delle leggi penali, e la conservazione dellʼAtto di
Prova. «_Estoy informado, dice egli que los Catolicos de las provincias
no lo repruebon; pues non pretendiendo oficios, y siendo solo algunos
de la Corte los provechosos, les parece que mejoran su estado, quedando
seguros ellos y sus descendientes en la religion, en la quietad, y en
la securitad de sus haciendas_.» 23 luglio–2 agosto 1688.

[337] _Libro del Consiglio Privato_, 25 settembre 1687; 21 febbraio
1687–88.

[338] Ricordi del Corpo Municipale, citati da Brand nella _Storia di
Newcastle_; Johnstone, 21 febbraio 1687–88.

[339] Johnstone, 21 febbraio 1687–88.

[340] Citters, 14–24 febbraio 1687–88.

[341] Ibid. 1–11 maggio 1688.

[342] Nel margine del libro del Consiglio Privato sono notate le
parole “Seconda Regolazione, e Terza Regolazione” sempre che un Corpo
Municipale era stato riformato più volte.

[343] Johnstone, 23 maggio 1688.

[344] Ibid., 21 febbraio 1688.

[345] Johnstone, 21 febbraio 1688.

[346] Citters, 20–30 marzo 1688.

[347] Ibid., 1–11 maggio 1688.

[348] Citters, 22 maggio–1 giugno 1688.

[349] Ibid., 1–11 maggio 1688.

[350] Ibid., 18–28 maggio 1688.

[351] Citters, 6–16 aprile 1688; Copialettere del Tesoro, 24 marzo
1687–88; Ronquillo, 16–26 aprile.

[352] Citters, 18–28 maggio 1688.

[353] Citters, 18–28 maggio 1688.

[354] _Gazzetta di Londra_, 1688. Vedi processo contro Williams nella
_Collezione dei Processi di Stato_. “_Ha hecho_, dice Ronquillo,
_grande susto el haber nombrado el abogado Williams que fue el orador
y el mas arrabiado de toda la casa de los comunes en los ultimos
terribles parlamentos del Rey difunto_.” 27 novembre–7 dicembre 1687.

[355] _Gazzetta di Londra_, 30 aprile 1688; Barillon, 26 aprile–6
maggio.

[356] Citters, 1–11 maggio 1688.

[357] _Gazzetta di Londra_, 7 maggio 1688.

[358] Johnstone, 27 maggio 1688.

[359] Io sospetto che Alessandro Knox, uomo insigne, del quale lo
eloquente conversare e le elaborate lettere ebbero grande influenza
sulle menti deʼ suoi coetanei, imparasse gran parte del suo sistema
teologico negli scritti di Fowler. Il libro di Fowler intorno allo
_Intendimento del Cristianesimo_ fu assalito da Giovanni Bunyam con
ferocia da non potersi giustificare, ma che può alquanto essere scusata
dalla nascita e dalla educazione dellʼonesto calderaio.

[360] Johnstone, 23 maggio 1688. Vi è una poesia satirica su questa
ragunanza, ed ha titolo _La Cabala Clericale_.

[361] Clarendon, _Diario_, 22 maggio 1688.

[362] Estratti dal Ms. Tanner neʼ _Processi di Stato_ di Howell; _Vita
di Prideaux_; Clarendon, _Diario_, 16 maggio 1688.

[363] Clarendon, _Diario_, 16 e 17 maggio 1688.

[364] Sancroft, Relazione del fatto, tratta dal Ms. di Tanner. Citters,
22 maggio–1 giugno 1688.

[365] Burnet, I, 741; _Politica della Rivoluzione_.

[366] Clarke, _Vita di Giacomo II_, ii, 155.

[367] Citters, 22 maggio–1 giugno 1688; Burnet, I, 740; e lʼannotazione
di Lord Dartmouth; Southey, _Vita di Wesley_.

[368] Citters, 22 maggio–1 giugno 1688.

[369] Citters, 29 maggio–8 giugno 1688.

[370] Citters, 29 maggio–8 giugno 1688.

[371] Barillon, 24 maggio–3 giugno, 31 maggio–10 giugno 1688; Citters,
1–11 luglio; Adda, 25 maggio–4 giugno, 30 maggio–9 giugno, 1–11 giugno;
Clarke, _Vita di Giacomo II_, ii, 158.

[372] Burnet, I, 740; Vita di Prideaux; Citters, 12–22, 15–25 giugno
1688, MS. Tanner; Vita e Carteggio di Pepys.

[373] Vedi la Relazione di Sancroft, stampata, e tratta dal MS. Tanner.

[374] Burnet, I, 741; Citters, 8–18, 12–22 giugno 1688; Luttrell,
Diario, 8 giugno; Evelyn, Diario; Lettera del dottore Nalson a sua
moglie, in data del 14 giugno, e tratta dal MS. Tanner; Reresby,
Memorie.

[375] Reresby, Memorie.

[376] Carteggio tra Anna e Maria in Darlymple; Clarendon, _Diario_, 31
ottobre 1688.

[377] Ciò chiaro si deduce dal _Diario_ di Clarendon, 31 ottobre 1688.

[378] Clarke, _Vita di Giacomo II_, ii, 159, 160.

[379] Clarendon, _Diario_, 10 giugno 1688.

[380] Johnstone in poche parole narra squisitamente il caso:
“Generalmente il popolo crede che tutto sia un inganno; perocchè
dicono: i calcoli sono cangiati, la principessa allontanata, la
famiglia Clarendon e lo Ambasciatore Olandese non invitati, la
instantaneità della cosa, le prediche, le assicurazioni deʼ preti, la
furia.” 13 giugno 1688.

[381] Ronquillo, 26 luglio–5 agosto. Ronquillo aggiunge che le cose
dette da Zulestein circa la pubblica opinione in Inghilterra, erano
esattamente vere.

[382] Citters, 12–22 giugno 1688; Luttrell, _Diario_, 18 giugno.

[383] Per le cose eseguite in questo giorno vedi i _Processi di
Stato_; Clarendon, _Diario_; Luttrell, Diario; Citters, 15–25 giugno;
Johnstone, 19 giugno; _Politica della Rivoluzione_.

[384] Johnstone, 18 giugno 1688; Evelyn, _Diario_, 29 giugno.

[385] Ms. Tanner.

[386] Questo fatto mi fu comunicato cortesissimamente dal Reverendo R.
S. Hawker di Morwenstow in Cornwall.

[387] Johnstone, 18 giugno 1688.

[388] Adda, 29 giugno–9 luglio 1688.

[389] Non è da fidarsi—già sʼintende—in ciò che lo stesso Sunderland
racconta. Ma egli chiama in testimonio Godolphin di ciò che seguì
rispetto allʼAtto di Stabilimento in Irlanda.

[390] Barillon, 24 giugno–1 luglio 1688; Adda, 29 giugno–9 luglio;
Citters, 26 giugno–6 luglio; Johnstone, 2 luglio 1688; _I Convertiti_,
poesia.

[391] Clarendon, _Diario_, 21 giugno 1688.

[392] Citters, 26 giugno–6 luglio 1688.

[393] Johnstone, 2 luglio 1688.

[394] Johnstone, 2 luglio 1688.

[395] Johnstone, 2 luglio 1688. Lo editore delle relazioni di Levinz
grandemente si maraviglia che, dopo la Rivoluzione, Levinz non fosse
rimesso nel suo ufficio. I fatti narrati da Johnstone varranno forse a
spiegare questa apparente ingiustizia.

[396] Lo deduco da una lettera di Compton a Sancroft, in data del 12
giugno.

[397] _Politica della Rivoluzione_.

[398] Sono le precise parole dʼun testimone oculare, e trovansi in una
lettera nella Collezione di Mackintosh.

[399] Vedi il processo nella _Collezione dei Processi di Stato_. Ho
tratto alcuni particolari da Johnstone ed alcuni altri da Van Citters.

[400] Johnstone, 2 luglio 1688; Lettera del signor Ince allo
Arcivescovo, in data delle ore sei antimeridiane; Ms. Tanner; _Politica
della Rivoluzione_.

[401] Johnstone, 2 luglio 1688.

[402] _Processi di Stato_; Oldmixon, 739; Clarendon, _Diario_, 25
giugno 1688; Johnstone, 2 luglio; Citters, 3–13 luglio; Adda, 6–16
luglio; Luttrell, _Diario_; Barillon, 2–12 luglio.

[403] Citters 3–13 luglio. La gravità con cui egli racconta il
fatto produce un effetto comico: “_Den Bisschop van Chester, wie
seer de partie van het hof houdt, om te voldoen aan syne gewoone
nieusgierigheit, hem op dien tyt in Westminster Hall mede hebbende
laten vinden, in het uitgaan doorgaans was nitgekreten voor een
grypende wolf in schaaps kleederen; en hy synde een heer van hooge
stature en vollyvig, spotsgewyse alomme geroepen was dat men woor hem
plaats moeste maken, om te laten passen, gelyck ook geschiede, om dat
soo sy uitschreouwden en hem in het aansigt seyden, hy deh Paas in syn
buych hadde_.”

[404] Luttrell; Citters, 3–13 luglio 1688. “_Soo syn integendeet
gedagtejurys met de uyterste acclamatie en alle teyckenen van
genegenheyt in danckbaarbeyt in het door passeren van de gemeente
ontvangen. Honderden vielen haar om den hals met alle bedenckelycke
wewensch van segen en geluck over hare persoonen on familien, om dat
sy haar so husch en eerlyck buyten verwagtinge als het ware in desen
gedragen hadden. Veele van de grouten en cleynen adel wierpen in het
wegryden handen vol gelt onder de armen luyden om op de gesontheyt van
den Coning, der Heeren Prelaten, en de Jurys te drincken_.”

[405] “_Mi trovava con Milord Sunderland la stessa mattina, quando
venne lʼAvvocato Generale a rendergli conto del successo, e disse che
mai più a memoria dʼuomini si era sentito un applauso, mescolato di
voci e lacrime di giubilo, eguale a quello che veniva egli di vedere in
questʼoccasione_.” Adda, 6–16 luglio 1688.

[406] Burnet, I, 74; Citters, 3–13 luglio 1688.

[407] Vedi una assai curiosa Relazione, pubblicata nel 1710 fra altre
scritture da Danby, allora Duca di Leeds. Un piacevole racconto di
cotesta cerimonia trovasi nello _Esame_ di North, 570. Vedi anche
lʼannotazione allo Epilogo dellʼ_Edipo_ nelle Opere di Dryden, edizione
di Gualtiero Scott.

[408] Reresby, _Memorie_; Citters, 3–13 luglio 1688; Adda, 6–16 luglio;
Barillon, 2–12 luglio; Luttrell, _Diario_; Lettera di notizie, 4
luglio; Oldmixon, 739, Carteggio di Ellis.

[409] Il _Fur Prædestinatus_.

[410] Questo documento trovasi nella prima delle dodici Collezioni
degli scritti relativi agli affari dʼInghilterra, stampati verso
la fine del 1688 e il principio del 1689. Fu pubblicato il dì 26
luglio, poco meno dʼun mese dopo il processo. Lloyd di Santo Asaph
intorno al medesimo tempo disse ad Enrico Wharton che i Vescovi si
proponevano di adottare una politica affatto nuova verso i Protestanti
Dissenzienti. “_Omni modo curaturos ut ecclesia sordibus et corruptelis
penitus exueretur; ut sectariis reformatis reditus in ecclesiæ sinum
exoptati occasio ac ratio concederetur, si qui sobrii et pii essent;
ut pertinacibus interim jugum levaretur, extinctis penitus legibus
mulctatoriis_.”—_Excerpta ex Vita H. Wharton_.

[411] Questo variare dʼopinioni nel partito Tory è assai bene esposto
in un libretto pubblicato nel principio del 1689, col titolo: _Dialogo
tra due Amici, nel quale la Chiesa Anglicana si difende dʼessersi
collegata col Principe dʼOrange_.

[412] «_Aut nunc, aut nunquam_.» Ms. Witsen citato da Wagenaar, lib. LX.

[413] Burnet, I, 763.

[414] Sidney, _Diario e Carteggio_, pubblicati da Blencowe; Mackay,
Memorie, e la nota di Swift: Burnet, I, 763.

[415] Burnet, I, 763; Lettera in cifra a Guglielmo in data del 18
giugno 1688 in Dalrymple.

[416] Burnet, I, 764; Lettera in cifra a Guglielmo, in data del 18
giugno 1688.

[417] Intorno a Montaigne, vedi la lettera di Halifax a Cotton. Credo
che la testa di Halifax che si vede nellʼAbbadia di Westminster porga
di lui migliore idea di quel che facciano tutte le pitture e incisioni
da me vedute.

[418] Burnet, I, 764; Sidney al principe dʼOrange, 30 giugno 1688, in
Dalrymple.

[419] Burnet, I, 763; Lumley a Guglielmo, 31 maggio 1688, in Dalrymple.

[420] Vedi cotesto invito distesamente riportato da Dalrymple.

[421] Lettera di Sidney a Guglielmo, 30 giugno 1688; Avaux, _Negoz._,
10–20, 12–22 luglio.

[422] Bonrepaux, 18–28 luglio 1687.

[423] Estratti di Birch, nel Museo Britannico.

[424] Avaux, _Negoz._, 28 ottobre–8 novembre 1683.

[425] Quanto alle relazioni che passavano tra lo Statoldero e la città
di Amsterdam, vedi Avaux, _passim_.

[426] Adda, 6–16 luglio 1688.

[427] Reresby, _Memorie_.

[428] Barillon, 2–12 luglio 1688.

[429] _Gazzetta di Londra_ del 16 luglio 1688. Lʼordine ha la data del
14 luglio.

[430] Sono parole di Barillon, 6–16 luglio 1688.

[431] Vedi una delle numerose ballate di quel tempo dove si fa
allusione aʼ due Bretoni, che sono Jeffreys e Williams, entrambi
naturali del paese di Galles.

[432] Gazzetta di Londra, 9 luglio 1688.

[433] Ellis, _Carteggio_, 10 luglio 1688; Clarendon, _Diario_, 3 agosto
1688.

[434] _Gazzetta di Londra_, 9 luglio 1688; Adda, 13–23 luglio; Evelyn,
_Diario_, 12 luglio; Johnstone, 8–18 dicembre 1687, 6–16 febbraio 1688.

[435] Lettere di Sprat al Conte di Dorset; _Gazzetta di Londra_, 23
agosto 1688.

[436] _Gazzetta di Londra_, 26 luglio 1688; Adda, 27 luglio–6 agosto;
Lettera di Notizie nella Collezione Mackintosh, 25 luglio; Ellis,
_Carteggio_, 28–31 luglio; Wood, _Fasti Oxonienses_.

[437] Wood, _Athenæ Oxonienses_; Luttrell, _Diario_, 23 agosto 1688.

[438] Ronquillo, 17–27 settembre 1688; Luttrell, _Diario_, 6 settembre.

[439] Ellis, _Carteggio_, 4, 7 agosto 1688; Sprat, Relazione della
Conferenza del 6 di novembre 1688.

[440] Luttrell, Diario, 8 agosto 1688.

[441] Ciò è riferito da tre scrittori, che potevano ben ricordarsi
delle cose seguite in queʼ tempi, Kennet, Eachard, e Oldmixon. Vedi
parimente lʼ_Avvertimento contro i Whig_.

[442] Barillon, 23 agosto–2 settembre 1688, 3–13, 6–16, 8–18 settembre.

[443] Luttrell, _Diario_, 27 agosto 1688.

[444] King; _Condizioni dei Protestanti Irlandesi; Consulte secrete del
Partito Papale in Irlanda_.

[445] _Consulte secrete del partito Papale in Irlanda_.

[446] _Storia della Diserzione_, 1689 (raffronta la prima con la
seconda edizione); Barillon, 8–18 settembre 1688; Citters, alla stessa
data; Clarke Vita di Giacomo II, ii, 168. Il compilatore di questa
opera afferma che Churchill mosse la Corte Marziale a condannare i sei
ufficiali a morte. Non sembra che tale storiella sia stata ricavata
dalle carte del re, io quindi la considero come una delle tante
menzogne inventate a San Germano a fine di denigrare un carattere già
bastevolmente nero. Che Churchill in questa occasione avesse potuto
simulare grande sdegno, onde nascondere il tradimento chʼei meditava, è
molto probabile. Ma è impossibile a credersi che un uomo sensato come
lui avesse spinto il Consiglio di Guerra ad infliggere una pena che era
al di là della sua competenza.

[447] La canzone di Lilliburello si trova nella Raccolta delle Poesie
politiche. La prima parte si trova nei _Resti_ di Percy, ma non la
seconda parte, la quale vi fu aggiunta dopo lo sbarco di Guglielmo.
Nello _Esaminatore_, e in varii libercoli del 1712 si afferma che
Wharton ne è lʼautore.

[448] Vedi le _Negoziazioni_ del Conte dʼAvaux. Mi sarebbe quasi
impossibile citare tutti i luoghi daʼ quali ho attinto le materie per
questa parte del mio racconto. I più importanti si trovano sotto le
seguenti date: 1685, 20, 24 settembre, 5 ottobre, 20 dicembre; 1686, 3
gennaio, 22 novembre; 1687, 2 ottobre, 6, 19 novembre; 1688, 29 luglio,
20 agosto. Lord Lonsdale nelle sue _Memorie_ giustamente nota che, se
Luigi fosse stato più savio, la città dʼAmsterdam avrebbe impedita la
Rivoluzione.

[449] Ranke, _Die Römischen Päpste_, lib. VIII; Burnet, I, 759.

[450] Burnet, I, 758. Lo scritto di Luigi ha la data del 28 agosto–6
settembre 1688, e trovasi nel _Recueil de Traités_, vol. IV, n. 219.

[451] Per la profonda destrezza con cui egli mostrò sotto due
diversi aspetti la sua politica a due diversi partiti fu acremente
rimproverato poscia nella Corte di San Germano: «_Licet federatis
publicus ille prædo haud aliud aperte proponat nisi ut Gallici Imperii
exuberans amputetur potestas, verumtamen sibi et suis ex hæretica fæce
complicibus, ut pro comperto habemus, longe aliud promittit, nempe ut,
exciso vel enervato Francorum regno, ubi Catholicarum partium summum
jam robur situm est, hæretica ipsorum pravitas per orbem Christianum
universum prævaleat_.»—Lettera di Giacomo al Papa, evidentemente
scritta nel 1689.

[452] Avaux, _Negoz._, 2–12, 10–20, 11–21, 14–24, 16–26, 17–27 agosto,
23 agosto–2 settembre 1688.

[453] Avaux, _Negoz._, 4–14 settembre 1688.

[454] Burnet, I, 765. La lettera di Churchill ha la data del 4 agosto
1688.

[455] Guglielmo a Bentinck, 17–27 agosto 1688.

[456] _Memorie del Duca di Shrewsbury_, 1718.

[457] _Gazzetta di Londra_, 25, 28 aprile 1687.

[458] _Consulte secrete del partito Papale in Irlanda_. Le cose
sopradette sono confermate da ciò che Bonrepaux scriveva a Seignelay,
12–22 settembre 1687. «_Il_ (Sunderland) _amassera beaucoup dʼargent,
le roi son maître lui donnant la plus grande partie de celui qui
provient des confiscations ou des accommodemens que ceux qui ont
encouru des peines font pour obtenir leur grace_.»

[459] Adda, dice che il terrore gli si leggeva chiaramente in viso; 26
ottobre–5 novembre 1688.

[460] Raffronta ciò che ne dice Evelyn con ciò che intorno a lei
scrisse allʼAja la principessa di Danimarca, e con le sue stesse
lettere ad Enrico Sidney.

[461] Bonrepaux a Seignelay, 11–21 luglio 1688.

[462] Vedi le sue lettere nel _Diario_ e Carteggio di Sidney di recente
pubblicati. Fox, nella sua copia deʼ Dispacci di Barillon, nota il dì
30 agosto N. S. 1688, come data del tempo in cui è certo che Sunderland
praticasse il tradimento.

[463] 19–29 agosto 1688.

[464] 4–14 settembre 1688.

[465] Avaux, 19–29 luglio, 31 luglio–10 agosto, 11–21 agosto 1688;
Luigi a Barillon, 2–12, 16–26 agosto.

[466] Barillon, 20–30 agosto. 23 agosto–2 settembre 1688; Adda, 24
agosto–3 settembre; Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 177. _Mem. Orig_.

[467] Luigi a Barillon, 3–13, 8–18, 11–21 settembre 1688.

[468] Avaux, 23 agosto–2 settembre, 30 agosto–9 settembre 1688.

[469] «Che lʼadulazione e la vanità gli avevano tornato il capo» Adda,
31 agosto–10 settembre 1688.

[470] Citters, 11–21 settembre 1688; Avaux, 17–27 settembre, 27
settembre–7 ottobre; Barillon, 23 settembre–3 ottobre; Wagenaar,
libro LX; Sunderland, _Apologia_. Spesso è stato asserito che Giacomo
ricusò lo aiuto dʼun esercito francese. Vero è che tale offerta non
fu mai fatta. Le truppe francesi sarebbero state più utili a Giacomo
minacciando le frontiere dellʼOlanda, che traversando il Canale.

[471] Luigi a Barillon, 20–30 settembre 1688.

[472] Avaux, 27 settembre–7 ottobre, 4–14 ottobre 1688.

[473] Madame de Sévigné, 24 ottobre–3 novembre 1688.

[474] Ms Witsen citato da Wagenaar; lord Lonsdale, _Memorie_; Avaux,
4–14, 5–15 ottobre 1688. La dichiarazione formale degli Stati Generali,
in data del 18–28 ottobre, trovasi nel _Recueil des Traités_, vol. IV,
nº 225.

[475] _Abrégé de la Vie de Frédéric Duc de Schomberg_, 1690; Sidney a
Guglielmo, 30 giugno 1688; Burnet, I, 677.

[476] Burnet, I, 584; Mackay, _Memorie_.

[477] Burnet, I, 775, 780.

[478] Eachard, _Storia della Rivoluzione_, II, 2.

[479] Pepys, _Memorie relative alla Real Marina_, 1690; Clarke, _Vita
di Giacomo II_, ii, 186, _Memorie originali_; Adda, 21 settembre–1
ottobre; Citters, 21 settembre–4 ottobre.

[480] Clarke, _Vita di Giacomo II_, ii, 186, _Memorie originali_; Adda,
24 settembre–1 ottobre; Citters, 21 settembre–1 ottobre.

[481] Adda, 28 settembre–8 ottobre 1688. Da questo dispaccio si
raccoglie come Giacomo forte temesse una defezione universale neʼ suoi
sudditi.

[482] La poca luce che ci resta intorno a queste pratiche è derivata
dagli scritti di Reresby, il quale ne fu informato da una donna chʼegli
non nomina, e alla quale non potevasi prestare cieca credenza.

[483] _Gazzetta di Londra_, 24, 27 settembre, 1 ottobre 1688.

[484] Mss. Tanner; Burnet, I, 784. Credo che Burnet abbia confusa
questa udienza con unʼaltra che ebbe luogo parecchie settimane dopo.

[485] _Gazzetta di Londra_, 8 ottobre 1688.

[486] _Gazzetta di Londra_, 8 ottobre 1688.

[487] _Gazzetta di Londra_, 15 ottobre 1688; Adda, 12–22 ottobre.
Sembra che il Nunzio, comechè generalmente abborrisse dalle misure
violente, si fosse opposto alla riabilitazione di Hough, probabilmente
per favorire glʼinteressi di Giffard e degli altri Cattolici romani
che stanziavano nel Collegio della Maddalena. Leyburn disse dʼessere
«_nel sentimento che fosse stato uno sbaglio, e che il possesso in cui
si trovano ora li Cattolici fosse violento ed illegale, onde non era
privar questi di un dritto acquisito, ma rendere agli altri quello che
era stato levato con violenza._»

[488] _Gazzetta di Londra_, 18 ottobre 1688.

[489] “_Vento papista_,” dice Adda, 24 ottobre–3 novembre 1688. Sembra
che il vocabolo _protestante_ sia stato primamente applicato a quel
vento, che per qualche tempo impedì a Tyrconnel di prendere possesso
del governo dʼIrlanda. Vedi la prima parte del _Lillibullero_.

[490] Tutte le prove di questo fatto sono raccolte neʼ _Processi di
Stato_, edizione di Howell.

[491] Si trovano con molti altri particolari neʼ _Processi di Stato_,
edizione di Howell.

[492] Barillon. 8–18, 15–25, 18–28 ottobre, 23 ottobre–1 novembre, 27
ottobre–6 novembre, 29 ottobre–8 novembre 1688; Adda, 26 ottobre–5
novembre.

[493] _Gazzetta di Londra_, 29 ottobre 1688.

[494] _Registro degli Atti degli Stati dʼOlanda e della Frisia
Occidentale_; Burnet, I, 782.

[495] _Gazzetta di Londra_, 29 ottobre 1688; Burnet, I, 782; Bentinck
a sua moglie, 21–31 ottobre, 22 ottobre–1 novembre, 24 ottobre–3
novembre, 27 ottobre–6 novembre 1688.

[496] Citters, 2–12 novembre 1688; Adda; 2–12 novembre.

[497] Ronquillo, 12–22 novembre 1688. «_Estas respuestas_» dice
Ronquillo «_son ciertas, aunque mas las encubrian en la corte_.»

[498] _Gazzetta di Londra_, 5 novembre 1688. Il Proclama ha la data del
dì 2 novembre.

[499] Mss. Tanner.

[500] Burnet, I, 787; Rapin, Whittle, _Diario esatto; Spedizione del
principe dʼOrange in Inghilterra_, 1688; _Storia della Diserzione_,
1688; Dartmouth a Giacomo, 5 novembre 1688, in Dalrymple.

[501] Avaux, 12–22 luglio, 14–24 agosto 1688. Intorno a questo soggetto
il sig. De Jonge, il quale è parente deʼ discendenti dello Ammiraglio
olandese Evertsen, mi ha cortesemente comunicate alcune interessanti
notizie, tratte dalle carte di famiglia. In una lettera a Bentinck,
in data del 6–16 settembre 1688, Guglielmo insiste sulla importanza
dʼevitare un conflitto, e chiede che lo dica a Herbert: «_Ce nʼest pas
le tems de faire voir sa bravoure ni de se battre si on le peut éviter.
Je le luy ai déjà dit; mais il sera nécessaire que vous le répétiez, et
que vous le luy fassiez bien comprendre._»

[502] Rapin, _Storia_; Whittle, _Diario esatto_. Io ho veduto una carta
di queʼ tempi nella quale è disegnato lʼordine con cui veleggiava la
flotta olandese.

[503] Adda, 5–15 novembre 1688; Lettera di Notizie nella Collezione di
Mackintosh; Citters, 6–16 novembre.

[504] Burnet, I, 788; Estratti dalle Carte di Legge nella Collezione di
Mackintosh.

[505] Credo che nessuno, il quale paragoni il racconto che fa Burnet di
questo colloquio con ciò che ne dice Dartmouth, possa dubitare chʼio
abbia fedelmente riferito lo accaduto.

[506] Ho veduta una incisione, fatta a queʼ tempi in Olanda,
rappresentante lo sbarco. Vi si vedono alcuni uomini che portano il
letto del Principe nella trabacca in cima alla quale sventola la sua
bandiera.

[507] Burnet, I, 789. Legge, _Carte_.

[508] Il 9 novembre 1688, Giacomo scrisse a Dartmouth queste parole:
“Nessuno avrebbe potuto fare altrimenti da quello che avete fatto voi.
Io sono sicuro che tutti i più esperti uomini di mare debbono essere di
questa opinione.” Ma vedi Clarke, _Vita di Giacomo II_, 207, _Memorie
Originali_.

[509] Burnet, I, 790.

[510] Vedi Whittle, _Diario_, la _Spedizione di Sua Altezza_, e la
Lettera da Exon pubblicata in quel tempo. Io ho veduto manoscritte
due Lettere di notizie, dove e descritta la pompa dello ingresso
del Principe in Exeter. Pochi mesi dopo un cattivo poeta scrisse un
dramma, intitolato: _Lʼultima Rivoluzione_. Una delle scene è in
Exeter. Si vedono i battaglioni dellʼarmata del Principe marciare
verso la città con bandiere spiegate e tamburo battente, fra il plauso
deʼ cittadini. Un nobile chiamato Misopapa dice: “Potete voi, o mio
Signore, indovinare in quali terribili sembianti la colpa e la paura
hanno rappresentato la vostra armata alla Corte? Si esagera il numero
e la statura deʼ vostri soldati; si dice che ciascuno di loro sia alto
per lo meno sei piedi, tutti vestiti di pelle dʼorso, Svizzeri, Svedesi
e Brandenburgesi.” In una canzone composta subito dopo lo ingresso in
Exeter, glʼIrlandesi sono descritti come nani in paragone deʼ giganti
comandati da Guglielmo. «Povero Berwich, come le tue care gioie
potranno opporsi al famoso _viaggio_? I tuoi più alti giovani sono
fantocci dinanzi ai guerrieri di Brandenburgo e di Svezia. _Coraggio!
Coraggio!_» Addison nel _Freeholder_ allude allo effetto straordinario
che producevano queste romanzesche storielle.

[511] _Spedizione del principe dʼOrange_; Oldmixon, 755; Whittle,
_Diario_; Eachard, III, 911; _Gazzetta di Londra_, 15 novembre 1688.

[512] _Gazzetta di Londra_, 15 novembre 1688; _Spedizione del Principe
dʼOrange_.

[513] Clarke, _Vita di Giacomo_, II, 210, _Memor. Orig._; Sprat,
_Narrazione_; Citters, 6–16 novembre 1688.

[514] Luttrell, _Diario_; Lettera di notizie nella Collezione di
Mackintosh; Adda, 16–26 novembre 1688.

[515] Johnstone, 27 febbraio 1688; Citters, alla medesima data.

[516] Lysons, _Magna Britannia_, Berkshire.

[517] _Gazzetta di Londra_, 15 novembre 1688; Luttrell, _Diario_.

[518] Burnet, I, 790; _Vita di Guglielmo_, 1703.

[519] Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 215; _Memor. Orig._; Burnet, I,
790; Clarendon, _Diario_, 15 novembre 1688; _Gazzetta di Londra_, 17
novembre.

[520] Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 218; Clarendon, _Diario_, 15
novembre 1688; Citters, 16–26 novembre.

[521] Clarendon, _Diario_, 15,16, 17, 20 novembre 1688.

[522] Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 219, _Memorie Originali_.

[523] Clarendon, _Diario_, dallʼ8 al 17 novembre 1688.

[524] Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 212, _Memorie Originali_;
Clarendon, _Diario_, 17 novembre 1688; Citters, 20–30 novembre; Burnet,
I, 791; _Alcune riflessioni sopra la Umilissima Petizione presentata
allʼAugusta Maestà del Re_, 1688; _Modesta difesa della Petizione;
Prima Collezione delle Scritture concernenti gli Affari dʼInghilterra_,
1688.

[525] Adda, 19, 29 novembre 1688.

[526] Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 220, 221.

[527] Eachard, _Storia della Rivoluzione_.

[528] La risposta che Seymour diede al Principe è riferita da molti
scrittori. Somiglia molto a ciò che si racconta della famiglia
Manriquez. Dicesi che essa avesse per epigrafe nellʼarmi gentilizie
queste parole: “_Nos no descendemos de los Reyes, sino los Reyes
descienden de nos._”—Carpentariana.

[529] _Quarta Collezione di Scritture_, 1688; Lettera scritta da Exon;
Burnet, I, 792.

[530] Burnet, I, 792; _Storia della Diserzione; Seconda Collezione di
Scritture_, 1688.

[531] Lettera di Bath al Principe dʼOrange, 18 novembre 1688; Dalrymple.

[532] _Prima Collezione di Scritture_, 1688; _Gazzetta di Londra_, 22
novembre.

[533] Reresby, _Memorie_; Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 231, _Memorie
Originali_.

[534] Cibber, _Apologia_; _Storia della Diserzione_; Lutrell, _Diario_;
_Seconda Collezione di Scritture_, 1688.

[535] Whittle, _Diario_; _Storia della Diserzione_; Luttrell, _Diario_.

[536] Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 222, _Memorie Originali_;
Barillon, 21 novembre–1 dicembre 1688; Ms. Sheridan.

[537] _Prima Collezione di Scritture_, 1688.

[538] Lettera di Middleton a Preston, in data di Salisbury, 25
novembre. “Scelleraggine sopra scelleragine” dice Middleton, “e
lʼultima anche maggiore della prima.” Clarke, _Vita di Giacomo_, ii,
224, 225, _Memorie Originali_.

[539] _Storia della Diserzione_; Luttrell, _Diario_.

[540] Dartmouth, Annotazione a Burnet, I, 643.

[541] Clarendon, _Diario_, 26 novembre; Clarke, _Vita di Giacomo_, ii,
224. La lettera del Principe Giorgio al Re è stata più volte stampata.

[542] Questa lettera, in data del 18 novembre, trovasi in Dalrymple.

[543] Clarendon, _Diario_, 25, 26 novembre 1688; Citters, 26 novembre–6
dicembre; Ellis, Carteggio, 19 dicembre; _Difesa della Duchessa di
Marlbourough_; Burnet, 1, 792; Compton al Principe dʼOrange, 2 dicembre
1688 in Dalrymple. Lʼabito militare del Vescovo è rammentato in
innumerevoli scritti e satire di queʼ tempi.

[544] Dartmouth, Annotazione a Burnet, I, 792; Citters, 26 novembre–6
dicembre 1688; Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 226, _Memorie Originali_;
Clarendon _Diario_, 26 novembre, _Politica della Rivoluzione_.

[545] Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 236, _Mem. Orig._; Burnet, I, 794;
Luttrell, _Diario_; Clarendon, _Diario_, 27 novembre 1688; Citters, 27
novembre–7 dicembre, e 30 novembre–10 dicembre.

Citters evidentemente ne fu informato da uno deʼ Lordi che si trovarono
presenti. E poichè la cosa è importante, addurrò due brani deʼ suoi
dispacci. Il Re disse: «Dat het by na voor hem unmogelyck was te
pardoneren persoonen wie so hoog in syn reguarde schuldig stonden,
vooral seer nytvarende jegens den Lord Churchill, wien hy hadde groot
gemaakt en nogtans meyude de eenigste oorsake van alle dese desertie
en van de retraite van bare Coninglycke Hoogheden te wesen» (_uno dei
Lordi, probabilmente Halifax o Nottingham_) “Seer hadde geurgeet op de
securiteyt van de lords die nu met syn Hoogheyt geengageert staan. Soo
hoor ick” _dice Citters_ «dat syn Majesteyt onder anderen soude gesegt
hebben;—Men sprekt al voor de securiteyt voor andere, en nient voor
de myne.—Waar op een der Pairs resolut dan met groot respect soude
geantwoordt hebben dat, soo syne Majesteytʼs wapenen in staat waren on
hem te connen mainteneren, dat dan sulk syne securiteyte koude wesen;
son niet, en soo de difficulteyt dan nog te surmonteren was, dat het
den moeste geschieden door de meeste condescendance, en hoe meer die
was, en hy genegen orn aan de natie contentement de geven, dat syne
securiteyt ook des te grooter soude wesen.»

[546] Lettera del Vescovo di Santo Asaph al Principe dʼOrange, 17
dicembre 1688.

[547] _Gazzetta di Londra_, 29 novembre, 3 dicembre 1688; Clarendon,
_Diario_, 29, 30 novembre.

[548] Barillon, 1–11 dicembre 1688.

[549] Giacomo a Dartmouth, 25 novembre 1688. Le lettere si trovano in
Dalrymple.

[550] Giacomo a Dartmouth, 1 dicembre 1688.

[551] Luttrell, _Diario_.

[552] _Seconda Collezione di Scritture_, 1688; la lettera di Dartmouth
in data del dì 3 dicembre 1688, trovasi in Dalrymple; Clarke, _Vita
di Giacomo_, ii, 233, _Memorie Originali_. Giacomo accusa Dartmouth
di avere indotto la flotta a fare un indirizzo per chiedere la
convocazione del Parlamento. Ed è pretta calunnia. Lʼindirizzo contiene
solo ringraziamenti al Re per avere convocato il Parlamento, e fu
scritto prima che Dartmouth avesse il più lieve sospetto che Sua Maestà
stesse ingannando la nazione.

[553] Luttrell, _Diario_.

[554] Adda, 7–17 dicembre 1688.

[555] Il Nunzio dice: “_Se lo avesse fatto prima di ora, per il Re ne
sarebbe stato meglio._”

[556] Vedi la _Storia secreta della Rivoluzione_ di Ugo Speke, 1715.
Nella Biblioteca di Londra è un esemplare di questa opera rara, ed ha
una nota manoscritta che sembra di mano dello autore.

[557] Brand, _Storia di Newcastle_; Tickell, _Storia di Hull_.

[558] Il racconto di ciò che seguì in Norwich trovasi in un foglio
di quei tempi inserito in varie collezioni. Vedi anco la _Quarta
Collezione di Scritture_, 1688.

[559] Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 233; Memoria ms. della famiglia
Harley nella Collezione di Mackintosh.

[560] Citters, 9–19 dicembre 1688. Lettera del Vescovo di Bristol al
Principe dʼOrange, 5 dicembre 1688, in Dalrymple.

[561] Citters, 27 novembre–7 dicembre 1688; Clarendon, _Diario_, 11
dicembre; _Canzone sopra lo ingresso di Lord Lovelace in Oxford_, 1688;
Burnet, I, 793.

[562] Clarendon, _Diario_, 2, 3, 4, 5 dicembre 1688.

[563] Whittle, _Diario Esatto_; Eachard, _Storia della Rivoluzione_.

[564] Citters, 20–30 novembre, 9–19 dicembre 1688.

[565] Clarendon, _Diario_, 6, 7 dicembre 1688.

[566] Clarendon, _Diario_, 7 dicembre 1688.

[567] _Storia della Diserzione_; Citters, 9–19 dicembre 1688; _Diario
Esatto_; Oldmixon, 760.

[568] Vedi una interessantissima nota al canto V del _Rokeby_ di
Gualtiero Scott.

[569] La narrazione che ho fatta di ciò che successe in Hungerford
è presa dal _Diario_ di Clarendon, 8, 9 dicembre 1688; Burnet, I,
794; Proposta consegnata al Principe dai Commissarii, e Risposta del
Principe; Sir Patrizio Hume, _Diario_; Citters, 9–19 dicembre.

[570] Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 237. Burnet—strano a dirsi!—non
aveva udito, o dimenticò di notare, che il Principe era stato
ricondotto a Londra; I, 796.

[571] Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 246; Père dʼOrleans, _Révolutions
dʼAngleterre_; Madame de Sévigné, 14–24 dicembre; Dangeau, _Memorie_,
13–23 dicembre. Quanto a Lauzun vedi le _Memorie_ di Madamigella e del
Duca di Saint–Simon, e i _Caratteri_ di Labruyère.

[572] _Storia della Diserzione_; Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 251,
_Memorie Originali_; Mulgrave, _Racconto della Rivoluzione_; Burnet, I,
795.

[573] _Storia della Diserzione_; Mulgrave, _Racconto della
Rivoluzione_; Eachard, _Storia della Rivoluzione_.

[574] _Gazzetta di Londra_, 13 dicembre 1688.

[575] Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 259; Mulgrave, _Racconto della
Rivoluzione_; Legge, _Scritture_, nella Collezione di Mackintosh.

[576] _Gazzetta di Londra_, 13 dicembre 1688; Barillon, 14–24 dicembre;
Citters, alla medesima data; Luttrell, _Diario_; Clarke, _Vita di
Giacomo_, ii, 256, _Memorie Originali_; Ellis, _Carteggio_, 13
dicembre; _Consulta del Consiglio di Stato di Spagna_, 19–29 gennaio
1689. Eʼ sembra che Ronquillo amaramente si querelasse presso il suo
Governo per le perdite fatte; “_sirviendole solo de consuelo el haber
tenido prevencion de poder consumir el Santissimo._”

[577] _Gazzetta di Londra_, 13 dicembre 1688; Luttrell, _Diario_;
Mulgrave, _Racconto della Rivoluzione_; _Consulta del Consiglio di
Stato di Spagna_, 19–29 gennaio 1689. Nel Consiglio fu accennato
a rappresaglie, ma tale suggerimento fu trattato con dispregio.
“_Habiendo sido este echo por un furor de pueblo, sin consentimiento
dei gobierno, y antes contra su voluntad, como lo ha mostrado la
satisfaction che le han dado y le han prometido, parece que no hay
juicio humano que puede acconsejar que se pase a semejante remedio._”

[578] North, _Vita di Guildford_, 220; _Elegia di Jeffreys_; Luttrell,
_Diario_; Oldmixon, 762. Oldmixon trovavasi tra la folla, e non dubito
che fosse uno deʼ più furibondi. Egli racconta bene la cosa. Ellis,
_Carteggio_; Burnet, I, 797, e la annotazione di Onslon.

[579] Adda, 9–19 dicembre; Citters, 18–28 dicembre.

[580] Citters, 14–24 dicembre; Luttrell, _Diario_; Ellis, _Carteggio_;
Oldmizon, 761; Speke, _Storia Secreta della Rivoluzione_; Clarke, _Vita
di Giacomo_, ii, 257; Eachard, _Storia della Rivoluzione_; _Storia
della Diserzione_.

[581] Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 258.

[582] _Storia Secreta della Rivoluzione_.

[583] Clarendon, _Diario_, 13 dicembre 1688; Citters, 14–24 dicembre;
Eachard, _Storia della Rivoluzione_.

[584] Citters, 14–24 dicembre; Luttrell, _Diario_.

[585] Mulgrave, _Racconto della Rivoluzione_; Clarendon, _Diario_, 16
dicembre 1688.

[586] A Reresby fu detto da una dama, chʼegli non nomina, il Re non
avere avuta intenzione di fuggire finchè non ricevè una lettera
scrittagli da Halifax che allora trovavasi in Hungerford, la quale
lettera annunziava a Giacomo che rimanendo correva pericolo di vita.
Questa, senza dubbio, è pretta favola. Il Re, innanzi che i Commissarii
partissero da Londra, aveva detto a Barillon che la loro ambasceria
altro non era che finzione, e sʼera mostrato deliberatissimo a lasciare
lʼInghilterra. Chiaro si raccoglie dalla narrazione di Reresby che
Halifax si reputò trattato vergognosamente.

[587] Ms. Harl., 255.

[588] Ms. Halifax; Citters, 18–28 dicembre, 1688.

[589] Mulgrave, _Racconto della Rivoluzione_.

[590] Vedi il suo Proclama colla data di Saint–Germain, 20 aprile 1692.

[591] Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 261, _Mem. Orig._

[592] Clarendon, _Diario_, 16 dicembre 1688; Burnet, I, 800.

[593] Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 262, _Mem. Orig._; Burnet, I, 799.
Nella _Storia della Diserzione_ (1689) si afferma che le acclamazioni
vennero da alcuni sfaccendati ragazzi, e che la maggior parte del
popolo guardava in silenzio. Oldmixon, che trovavasi nella folla,
dice lo stesso; e Ralph, i cui pregiudizi erano diversissimi da quei
di Oldmixon, afferma la medesima cosa, e dice dʼaverlo saputo da un
testimonio oculare. Forse la verità si è che le dimostrazioni di gioia
furono piccolissime, ma sembrarono straordinarie perchè aspettavasi uno
scoppio di sdegno nel pubblico. Barillon parla di acclamazioni e fuochi
di gioia, ma aggiunge: _“Le peuple dans le fond est pour le Prince
dʼOrange.”_ 17–27 dicembre 1688.

[594] _Gazzetta di Londra_, 16 dicembre 1688; Mulgrave, _Racconto
della Rivoluzione_; _Storia della Diserzione_; Burnet, I, 799; Evelyn,
_Diario_, 13, 17 dicembre 1688

[595] Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 262, _Mem. Orig._

[596] Barillon, 17–27 dicembre 1688; Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 271.

[597] Mulgrave, _Racconto della Rivoluzione_; Clarendon, _Diario_, 16
dicembre 1688.

[598] Burnet, I, 800; Clarendon, _Diario_, 17 dicembre 1688; Citters,
18–28 dicembre 1688.

[599] Burnet, I, 800; _Condotta della Duchessa di Marlborough_,
Mulgrave, _Racconto della Rivoluzione_. Clarendon non dice nulla sotto
questa data; ma vedi il suo Diario, 19 agosto 1689.

[600] Harte, _Vita di Gustavo Adolfo_.

[601] Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 264, e segnatamente le _Memorie
Originali_; Mulgrave, _Racconto della Rivoluzione_; Rapin de Thoyras. È
dʼuopo rammentare che Rapin fu parte in questi avvenimenti.

[602] Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 265; _Mem. Orig._; Mulgrave,
_Racconto della Rivoluzione_; Burnet, I, 801; Citters, 18–28 dicembre
1688.

[603] Citters, 18–28 dicembre 1688; Evelyn, _Diario_, alla medesima
data; Clarke, _Vita di Giacomo_, ii, 266, 267, _Memorie Originali_.

[604] Citters, 18–28 dicembre 1688.

[605] Luttrell, _Diario_; Evelyn, _Diario_; Clarendon, Diario, 18
dicembre 1688; _Politica della Rivoluzione_.

[606] _Quarta Collezione di Scritture concernenti gli affari presenti
dellʼInghilterra_, 1688; Burnet, I, 802, 803; Calamy, _Vita e Tempi di
Baxter_, cap. XIV.

[607] Burnet, I, 803.

[608] _Gazzetta di Francia_, 26 gennaio–5 febbraio 1689.

[609] _Storia della Diserzione_; Clarendon, _Diario_, 21 dicembre 1688;
Burnet, I, 803, e la nota dʼOnslou.

[610] Clarendon, _Diario_, 21 dicembre 1688; Citters, alla medesima
data.

[611] Clarendon, _Diario_, 21, 22 dicembre 1688; Clarke, _Vita di
Giacomo_, II, 268, 270, _Memorie Originali_.

[612] Clarendon, 23 dicembre 1688; Clarke, _Vita di Giacomo_, II, 271,
273, 275, _Mem. Orig_.

[613] Citters, 1–11 gennaio 1689; Ms. Witsen citato da Wagenaar, libro
LX.

[614] Halifax, _Appunti_; Ms. Lansdowne, 255; Clarendon, _Diario_, 24
dicembre 1688; _Gazzetta di Londra_, 31 dicembre.

[615] Citters, 25 dicembre–4 gennaio 1688–89.

[616] Colui che fece la obiezione riferita nel testo, neʼ libri e nelle
scritture di queʼ tempi si trova indicato con le sole iniziali. Eachard
attribuisce il cavillo a Sir Roberto Southwell. Ma io non dubito che
Oldmixon dica il vero ponendolo nella bocca di Sawyer.

[617] _Storia della Diserzione; Vita di Guglielmo_, 1703; Citters, 28
dicembre–7 gennaio 1688–89.

[618] _Gazzetta di Londra_, 3, 7 gennaio 1689

[619] _Gazzetta di Londra_, 10, 17 gennaio 1689; Luttrell, _Diario_;
Legge, _Scritti_; Citters, 1–11, 4–14, 11–21 gennaio 1689; Ronquillo,
15–25 gennaio, 23 febbraio–5 Marzo; _Consulta del Consiglio di Stato di
Spagna_, 26 marzo–5 aprile.

[620] Burnet, I, 802; Ronquillo, 2–12 gennaio, 8–18 febbraio 1689. Gli
originali di questi dispacci mi furono affidati dalla cortesia della
defunta Lady Holland e dal vivente Lord Holland. Dellʼultimo dispaccio
citerò poche parole: “_La tema de S. M. Britanica à seguir imprudentes
consejos perdió á los Catolicos aquella quietud en que les dexó Carlos
Segundo. V. E. asegure à su Santidad que mas sacaré del Principe para
los Catolicos que pudiera sacar del Rey._”

[621] Il dì 13–23 dicembre 1688 lo Ammiraglio di Castiglia in questa
guisa espresse la propria opinione: “_Esta materia es de calidad que
non puede dexar de padecer nuestra sagrada religion ó el servicio de
V. M.; porque si el Principe de Orange tiene buenos succesos, nos
aseguraremos de Franceses, pero peligrarà la religion._” Il Consiglio
il dì 16–26 febbraio si mostrò assai soddisfatto dʼuna lettera del
Principe, nella quale questi prometteva “_que los Catolicos que
se portaren con prudencia no sean molestados, y gocen libertad de
conscientia, por ser contra su dictamen el forzar, ni castigár por esta
razon a nadie_...”

[622] Nel capitolo di La Bruyère intitolato “_Sur les Jugemens_”
trovasi un luogo che è degno di essere letto, come quello che mostra il
modo onde un Francese di merito insigne ravvisava la nostra Rivoluzione.

[623] La narrazione che ho fatta delle accoglienze chʼebbero in Francia
Giacomo e sua moglie, è desunta principalmente dalle lettere di Madama
di Sévigné, e dalle Memorie di Dangeau.

[624] Albeville a Preston, 23 novembre–3 dicembre 1688, nella
Collezione di Mackintosh.

[625] “_Tishier un Hosanna: maar ʼt zal veelligt haast Kruist hem
Kruist hem zin._” Ms. Witsen presso Wagenaar, lib. LXI. È pure strana
coincidenza che pochissimi anni avanti, Riccardo Duke, poeta Tory,
un tempo rinomato, ma adesso appena rammentato tranne nello schizzo
biografico fattone da Johnson, aveva, rispetto a Giacomo, adoperata la
medesima immagine. “Il grido della plebaglia giudaica deʼ tempi antichi
non era prima _Osanna_ e poi _Crucifige_?” _La Rivista._ Dispaccio
degli Ambasciatori straordinarii Olandesi, 8–18 gennaio 1689; Citters,
alla stessa data.

[626] _Gazzetta di Londra_, 7 gennaio 1688–89.

[627] _Sesta Collezione di Scritture_, 1689; Wodrow, III, xii, 4, App.
150, 151; Burnet, I, 801.

[628] Perth a Lady Errol, 29 dicembre 1688; a Melfort, 21 dicembre
1688; _Sesta Collezione di Scritture_, 1689.

[629] Burnet, I, 805; _Sesta Collezione di Scritture_, 1689.

[630] Albeville, 9–19 novembre 1688.

[631] Vedi lo scritto intitolato: _Lettera ad un membro della
Convenzione_, e la Risposta, 1689, Burnet, I, 809.

[632] Lettera ai Lordi del Consiglio, 4–14 gennaio 1688–89; Clarendon,
_Diario_, 9–19 gennaio.

[633] Eʼ pare incredibile che alcuno si potesse lasciare sedurre da
codeste stramberie. Però reputo opportuno citare le stesse parole di
Sancroft che sono fino a noi pervenute, scritte di sua propria mano.

“La capacità ed autorità politica del Re, e il suo nome nel Governo,
sono perfetti e non possono errare; ma la sua persona essendo umana
e mortale, e non privilegiata sopra le altre creature, è soggetta a
tutti i difetti e gli errori di quelle. Egli può quindi essere inetto a
dirigere il Governo, e spendere la pubblica pecunia ec., o per assenza,
infanzia, demenza, delirio, apatia, infermità casuale o naturale, o da
ultimo per invincibili pregiudicii di mente, contratti e raffermi dalla
educazione e dallʼabitudine, aggiuntovi inalterabili risoluzioni, in
materie affatto incompatibili con le leggi, la religione, la pace, e
la vera politica del Regno. In tutti questi casi—io dico—bisogna che
esistano uno o più individui deputati a supplire a tale difetto, e come
vicarii del Re, e per suo potere ed autorità dirigano la cosa pubblica.
Fatto questo, soggiungo che tutte le procedure, le autorizzazioni, le
commissioni, le concessioni ec., pubblicate come per lo innanzi, sono
legali e valide ad ogni effetto, e il debito di fedeltà nel popolo
rimane lo stesso, i suoi giuramenti ed obblighi non sono in nulla
impediti..... Finchè il Governo procede per autorità e in nome del Re,
tutti quei sacri vincoli e quelle forme di procedura stabilite sono
mantenute, e la coscienza di nessuno non sarà gravata di cosa alcuna
chʼegli avesse scrupolo ad intraprendere.”—MS Tanner; Doyly, _Vita
di Sancroft_. Non era al tutto irragionevole che lo stile del buon
Arcivescovo facesse ridere i cortigiani di Giacomo.

[634] Evelyn, 15 gennaio 1688–89.

[635] Clarendon, _Diario_, 24 dicembre 1688; Burnet, I, 819; _Proposte
umilmente offerte a pro della Principessa dʼOrange_, 28 gennaio,
1688–89.

[636] Burnet, I, 389, e le annotazioni del Presidente Onslow.

[637] Evelyn, _Diario_, 26 settembre 1672, 12 ottobre 1679, 13 luglio
1700; Seymour, _Sguardo su Londra_.

[638] Burnet, I, 388, e le annotazioni del Presidente Onslow.

[639] Citters, 22 gennaio–1 febbraio 1689; _Dibattimenti_ di Grey.

[640] _Giornali dei Comuni, e dei Lordi_, 22 gennaio 1688–89; Citters,
e Clarendon, _Diario_, alla medesima data.

[641] _Giornali dei Lordi_, 25 gennaio 1688–89; Clarendon, _Diario_,
23, 25 gennaio.

[642] _Giornali deʼ Comuni_, 28 gennaio 1688–89; Grey, _Dibattimenti_;
Citters, 29 gennaio–8 febbraio. Se la relazione che si vede nei
Dibattimenti di Grey è esatta, bisogna che Citters fosse male informato
rispetto al Discorso di Sawyer.

[643] _Giornali deʼ Lordi e deʼ Comuni_, 29 gennaio 1688–89.

[644] Clarendon, _Diario_, 21 gennaio 1688–89; Burnet, I, 810; Doyly,
_Vita di Sancroft_.

[645] Vedi lʼ_Atto di Uniformità_.

[646] Stat. 2 Hen. 7, c. 1: Lord Coke, _Instituta_, parte III, cap. 1;
_Processo di Cook accusato dʼalto tradimento_, nella _Collezione dei
Processi di Stato_; Burnet, I, 813, e lʼannotazione di Swift.

[647] _Giornali dei Lordi_, 29 gennaio 1688–89; Clarendon, _Diario_;
Evelyn, _Diario_; Citters; Eachard, _Storia della Rivoluzione_; Burnet,
I, 813; _Storia del ristabilimento del Governo_, 1689. Il numero deʼ
votanti pro e contra non è notato neʼ Giornali ed è variamente riferito
da varii scrittori. Ho seguito Clarendon il quale si diede lo incomodo
di fare le liste della maggioranza e della minoranza.

[648] Grey, _Dibattimenti_; Evelyn, _Diario_; _Vita dellʼArcivescovo
Sharp scritta da suo figlio_; _Apologia per la Nuova Separazione,
lettera al Dottore Giovanni Sharp Arcivescovo di York_, 1691.

[649] _Giornali dei Lordi_, 30 gennaio 1688–89; Clarendon, _Diario_.

[650] Dartmouth, annotazione a Burnet, I, 393. Dartmouth dice che
lʼOlandese rammentato nel testo era Fagel. È uno sbaglio di penna
perdonabilissimo in una postilla marginale notata in fretta; ma
Dalrymple ed altri non avrebbero dovuto ricopiare un errore così
palpabile. Fagel morì in Olanda il dì 5 dicembre 1688 mentre Guglielmo
era a Salisbury e Giacomo a Whitehall. Suppongo che lʼOlandese fosse o
Dykvelt, o Bentink, o Zulestein, e più probabilmente Dykvelt.

[651] Sì la preghiera che il sermone di Burnet si trovano tuttora nelle
nostre grandi Biblioteche, e compensano lo incomodo di leggerli.

[652] _Giornali dei Lordi_, 31 gennaio 1688–89.

[653] Citters, 5–15 febbraio 1689; Clarendon, _Diario_, 2 febbraio.
Questo fatto è grandemente esagerato nellʼopera intitolata: _Politica
della Rivoluzione_, libro assurdissimo, ma di qualche utilità come
ricordo delle stolte dicerie di queʼ tempi. Grey, _Dibattimenti_.

[654] La lettera di Giacomo in data del 24 gennaio–3 febbraio 1689,
si trova in Kennet. Clarke nella _Vita di Giacomo_ di malissima fede
lʼha smozzicata. Vedi Clarendon, _Diario_, 2, 4 febbraio; Grey,
_Dibattimenti_; Giornali dei Lordi, 2, 4 febbraio 1688–89.

[655] È stato asserito da varii scrittori, e fra gli altri da
Ralph e da M. Mazure che Danby firmò la protesta. Ciò è un errore.
Probabilmente alcuno che consultò i _Giornali_ prima che fossero
stampati lesse Danby invece di Derby; _Giornali dei Lordi_, 4 febbraio
1688–89. Evelyn, pochi giorni innanzi, scrisse per isbaglio Derby
invece di Danby. _Diario_, 29 gennaio 1688–89.

[656] Burnet, I, 819.

[657] Clarendon, _Diario_, 1, 4, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14 gennaio
1688–89. Burnet, I, 807.

[658] Clarendon, Diario, 5 febbraio 1688–89; _Difesa della Duchessa di
Marlborough_; Mulgrave, _Racconto della Rivoluzione_.

[659] Burnet, I, 820. Burnet afferma di non avere raccontati gli eventi
di questi torbidi tempi secondo lʼordine cronologico. Sono stato quindi
costretto a riordinarli indovinando; ma penso di male non mʼapporre
supponendo che la lettera della Principessa dʼOrange a Danby arrivasse,
e il Principe dichiarasse il proprio intendimento, tra il giovedì 31
gennaio, e il mercoledì 6 febbraio.

[660] Mulgrave, _Racconto della Rivoluzione_. Nelle tre prime edizioni
questo fatto fu da me narrato inesattamente. In gran parte la colpa fu
mia, ma in parte fu anche di Burnet, il quale usando trascuratamente la
parola _egli_ mʼindusse in inganno. Burnet, I, 818.

[661] _Giornali dei Comuni_, 6 febbraio 1688–89.

[662] Vedi i _Giornali deʼ Lordi_, e quei _deʼ Comuni_, 6 febbraio
1688–89, e la Relazione della Conferenza.

[663] _Giornali deʼ Lordi_, 6 febbraio 1688–89; Clarendon, _Diario_;
Burnet, I, 822, e lʼannotazione di Darmouth; Citters, 8–18 febbraio.
Quanto al numero mi sono attenuto a Clarendon. Alcuni scrittori dicono
la maggioranza essere stata più piccola, altri più grande.

[664] _Giornali deʼ Lordi_, 6, 7 febbraio 1688–89; Clarendon, _Diario_.

[665] _Giornali dei Comuni_, 29 gennaio, 2 febbraio 1688–89.

[666] _Giornali deʼ Comuni_, 2 febbraio 1688–89.

[667] Grey, _Dibattimenti_; Burnet, I, 822.

[668] _Giornali deʼ Comuni_, 4, 8, 11, 12 febbraio; _Giornali dei
Lordi_, 9, 11, 12 febbraio 1688–89.

[669] _Gazzetta di Londra_, 14 febbraio 1688–89; Citters, 12–22
febbraio.

[670] _Difesa della Duchessa di Marlborough_; _Rivista della Difesa_;
Burnet, I, 781, 825, e lʼannotazione di Dartmouth; Evelyn, _Diario_, 21
febbraio 1688–89.

[671] _Giornali dei Lordi_, e _dei Comuni_, 14 febbraio 1688–89;
Citters, 15–26 febbraio. Citters pone in bocca a Guglielmo più forti
espressioni di rispetto per lʼautorità del Parlamento di quelle che si
leggono nei _Giornali_; ma dal detto di Powle risulta che la relazione
contenuta nei _Giornali_ non era rigorosamente esatta.

[672] _Gazzetta di Londra_, 14 febbraio 1688–89; _Giornali dei Lordi e
dei Comuni_, 13 febbraio; Citters, 15–26 febbraio; Evelyn, 21 febbraio.





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