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Title: Trionfi di donna
Author: Panzini, Alfredo
Language: Italian
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TRIONFI DI DONNA



=NB.= Il primo titolo di questo libro era _Trionfi di Eva_, null'altro
intendendo l'Autore per questo nome se non indicare con voce generica la
Donna: ma considerando che talora il nome di Eva, e specialmente in
certa letteratura da trivio, suole usarsi con senso disonesto — la qual
cosa non era nell'intenzione dell'Autore — così per evitare ad ingenui e
malevoli erronee interpretazioni, è stato modificato il titolo: e se ciò
non fu possibile fare nel titolo ricorrente, se ne chiede venia al
lettore.



                           ALFREDO PANZINI


                           TRIONFI DI DONNA

                              (NOVELLE)



                               MILANO
                  SOCIETÀ EDITRICE “LA POLIGRAFICA„
                          VIA STELLA, NUM. 9
                                1903



                         PROPRIETÀ LETTERARIA

          Stab. Tip. della Società Editrice “LA POLIGRAFICA„



IL TRIONFO DEL MARITO DI CLODIO.


Tutte le notti, finchè le stelle dell'Orsa non piegavano sul mare, il
giovane dottor Bonòra, assistente alla cattedra di fisiologia
nell'Università di X***, mi intratteneva con ricca e geniale eloquenza
intorno ai più curiosi e riposti fenomeni dell'anima, ricavandone le
ragioni dai segni e dalle corrispondenze che sono nella materia: e la
sua dottrina era così fresca di giovanezza e tanto persuasiva che io in
quei tempi — in cui godevo di eccellente salute e bevevo copiosamente al
fresco — mi sentivo convertire, mal mio grado, al più deplorevole
materialismo.

Eppure — oh, contraddizione! — non mai come in quei giorni azzurri che
trascorsi vivendo in ozio e secondo natura sulla spiaggia di S***, al
mio spirito triste avvenne di pregare Iddio così sinceramente perchè
l'oggi non trapassasse tanto veloce. Questa la ragione: poche volte mi
era accaduto di vivere così bene nello spazio di ventiquattro ore da
dolermi che il giorno fosse finito.

Il sole, poco dopo che le stelle dell'Orsa erano cadute, radiava sul
campo del mare con tanta solenne magnificenza che l'anima mia triste
diceva: «O Signore, che non ti sveli, o solo ti sveli a chi ti comprende
e ti sente dalle tue meravigliose opere, grazie del giorno azzurro e
dell'aere pura che tu mi dai: fa che esso volga tardi e senza dolore al
tramonto!» Giacchè sono secoli che il buon Dio ci offre _gratis_ questi
spettacoli meravigliosi del sole, del mare, della luce ed è molto se
qualche poeta ogni tanto ringrazia in nome della rimanente umanità il
Donatore di tanta gioia.

Il mio amico dottore non ringraziava nessun Iddio, ma anche lui sentiva
il bisogno dì ringraziare alcun che, alcuna cosa.

Bisogna vivere secondo natura, in libertà completa, in ozio completo per
sentire tutta la felicità di esistere, tutta la riconoscenza al Donatore
della vita, tutto lo sprezzo per le infinite, faticose, tormentose opere
umane.

— Dottore, considerate se non fosse meglio per l'umanità virar di bordo:
abolire tutto, codici, leggi, convenienze, colletti, scarpe, orari,
libri e tornare allo stato naturale!

— E i figli dei vostri figli tornerebbero ancora a coprirsi di un
_tout-même_ di pelame come i progenitori di Eva, e a divorarsi
letteralmente a vicenda. Studiate le leggi dell'evoluzione!

Ma queste caotiche e inconcludenti questioni non si ponevano se non alla
sera, bevendo al fresco, con la luna che al confine del mare stava
preparando la sua _toilette_ di perle e di brillanti per uscire vaga ed
errante pel cielo.

Al giorno si trattavano argomenti più ovvii e della circostanza.

Perchè la spiaggia era popolata da molte femine, alcune vaghissime e
giovani: esse ambulavano per la spiaggia d'oro, coi capelli sciolti,
stillanti ancora dal bagno dell'onda marina: strane monache, coperte
solo del bianco sajo dell'accappatoio.

In mezzo a quelle donne trascinanti dietro a sè, e lor malgrado, imagini
impure, folleggiano schiere di bimbi che al respiro del mare e al bagno
del sole — purità meravigliose — domandavano la conferma della salute
per il domani della loro vita.

Uno spirito arcadico avrebbe trovato modo di paragonarli a numerosi
Cupidi fra molte Veneri.

Alcuni uomini, giunti al tempo quando cadono le foglie dall'albero della
vita, bevevano il Nirvana dell'azzurro senza confine e si affissavano
nel lento andar delle navi e delle vele bianche. Torsi ignudi di giovani
spingono lance e battelletti in mare o si rincorrono lunghesso il lido.
Ricordavano spesso negli atti il Discobulo ellenico di Mirone.

Tale la vita della spiaggia.

                                 ***

Ma la sera le signore dell'aristocrazia si coprivano di brillanti e
gareggiavano nella varietà delle vestimenta superbe.

Fra queste dame la più splendida era quella che tutti chiamavano il
marito di Clodio, il taciturno. Taciturno il marito per quanto la moglie
era loquacissima; taciturno per effetto della più inguaribile
imbecillità. Le donne, pur aborrendola, non potevano staccar gli occhi
da lei: e quando ella appariva, erano condannate a ragionare di lei. Gli
uomini, anche quelli che, o l'amore della virtù o il consumo della vita
o lo spreco fatto del vizio aveva resi indifferenti o aspri verso il
fascino della bellezza, al passaggio di lei s'accorgevano che i loro
ragionamenti erano sospesi da un misterioso comando, i loro occhi
distratti e, quello che era cosa più strana, non potevano dirne male:
era un potente e infiammato alito che passava con lei, e costringeva a
piegarsi.

Il Dottore mi chiosava per fisiologia, anzi per la più cruda fisiologia,
le ragioni di questo fascino: ragioni che io una ad una ammiravo e
approvavo. «Ma insomma e con tutto ciò, caro dottore, la vostra scienza
non possiede la forza sintetica della nostra ignoranza. Per noi, gente
volgare, cotesto fascino proviene da un _nescio quid_ mirabile e divino
che gli antichi resero superbamente nelle loro iperboli quando
imaginarono le Ninfe, le Diane, le Elene fatali e per cui Enea
all'apparire di Venere esclama:

      E di che nome
    chiamar ti deggio? che terreno aspetto
    non è già il tuo nè di mortale il suono.
    Dea sei tu veramente.»

E poichè la sua scienza e la mia poesia non volevano venire ad accordi,
così scherzavamo cercando per quella dama un paragone mitologico. Diana,
Venere, Ebe, beltà snelle e febee, erano state escluse di comune accordo
«Minerva?» «Ma Minerva, per quello che mi ricordo, suppone un'idea di
intelligenza che qui dobbiamo assolutamente escludere» «Allora Giunone!»
«Meno ancora; a Giunone, non so perchè, si associa prima l'idea di
pinguedine che qui non è il caso, e poi l'idea di una volontà, maligna
fin che si vuole, ma prepotente: ora costei non solo è abùlica, cioè
priva di forza di volontà, ma vi dirò di più: è un'ingenua!» «Con quegli
occhi, con quelle mosse, un'ingenua? Ditelo a tutti e nessuno vi
crederà! La vostra psicologia si beffa della mia ignoranza. Ma sia come
volete, ecco: Elena» «Ma Elena era un'adultera, e costei invece è una
moglie probabilmente fedele.»

— Ma voi, mio caro, vi compiacete a giuocare ad assurdi.

— Come vi pare. Non mi credete? Liberissimo. Io vi assicuro che noi ci
troviamo di fronte ad un temperamento sessualmente frigido. Non vi ho
detto che si tratti di coscienza, di fedeltà morale, di dovere o di
altro sentimento che passi sotto il nome commerciale di virtù. E per
questo ho affermato: _probabilmente fedele_. Quanto anzi a coscienza noi
siamo anzi nel caso opposto: la dama in questione non ha altra coscienza
che quella che riguarda la propria bellezza, in che consiste una tipica
forma dell'intelligenza muliebre, che meriterebbe di essere studiata di
più dalle pedagogiste e dai maestri. Ora, quando la consapevolezza di
tale fascino si congiunge ad un temperamento ardente, connaturato in un
organismo così fatto, allora abbiamo le Elene, le Messaline, ecc., ecc.:
ma qui manca uno degli elementi per costituire tale composizione chimica
anzi psichica, e perciò vi dico: Il giudizio del publico è erroneo su
questa dama, come è erroneo il vostro.

— Sia come più vi pare. Escludiamo Elena; voi per le ragioni testè
addotte, io perchè non posso pensare ad Elena, figlia di Leda e di
Giove, senza associarvi l'idea di una perfezione di linee insuperabile.

Ora la dama in discorso è classicamente imperfetta: uno statuario la
rifiuterebbe per modello.

— Quand'è così abbandoniamo la mitologia — disse il Dottore.

— No! perchè il tipo c'è — dissi io.

— Quale?

— Ippolita, regina delle Amazzoni.

— Egregiamente! voi mi ricordate memorie obliate della scuola. Ippolita
cavalcatrice di bianche pulledre indomite, coi crini che spazzano il
suolo, succinta ed arciera: senonchè i tempi non permettendo più alle
donne di questo raro tipo, tali esercizi, ella, il marito di Clodio, si
accontenta di fumare un numero incredibile di sigarette, di spingere
l'automobile a novanta chilometri all'ora, di far delle volate in
bicicletta, di avventurarsi al largo nuotando per più d'un chilometro,
di montare in barca quando il mare fa paura e le altre dame si
ricorderebbero del segno della croce se vi si dovessero arrischiare. Del
resto, osservate: il popolo ha avuto intuito esatto di questi istinti
virili così anormali quando ha creato il nome assurdo di _marito di
Clodio_.

Ed è appunto in questa maschilità rinchiusa in forme muliebri di rara
avvenenza, maestose e snelle nel tempo stesso, che sta il segreto del
fascino terribile che esercita sugli uomini e prima di tutti sul marito.
Per non so quale malignità nostra noi la vorremmo bacchica e scomposta,
e invece ogni sua movenza, ogni suo gesto rasenta sempre l'audacia, ma
non mai vi cade dentro.

                                 ***

Prima di tutto sul marito — giacchè questa dama aveva un marito; non
solo vivo, ma anche presente: anzi sempre pronto al suo ufficio quando
le convenienze della vita mondana esigevano la presenza del responsabile
titolare. Io lo conoscevo essendo noi dello stesso paese e coetanei: ma
la disparità dei natali, delle relazioni, del genere di vita, impedivano
ogni rapporto più intimo che non fosse il saluto e il complimento
cortese. Il marchese Clodio — tale era il nome — portava un casato
storico ed illustre. Dopo avere speso il decennio che va dai diciotto ai
vent'otto anni nel solito _sport_ del macao e dei cavalli corridori, si
era messo serio; era diventato un uomo posato. Di fatto stava
posatissimo. Magrolino, tristanzuolo, nel circolo dove la sua signora
parlava, rideva, squillava, egli sedeva posatissimo e correttissimo.
Quando non era chiamato direttamente in causa nel discorso, taceva,
lisciandosi e facendo scorrere le dita perlacee della mano inanellata
sulla barba: una barba nera appena segnata di qualche filo bianco,
aristocraticissima, che sarebbe riuscita assai dignitosa se il suo
proprietario avesse avuto un decimetro di più di statura. Quando lei si
decideva a dire: _Allons, mon chéri?_ egli allora si alzava e si
muoveva.

Ma che vale aver detto addio al _baccarat, al chemin de fer, al turf_, a
Monte-Carlo, avere smesso la scuderia dei cavalli da corsa, avere
rinnegato l'orgia notturna, lo _sport_ navale, equestre, quando si
coltiva il più pericoloso degli _sport_? quando ci si fa devoti alla più
legittima ma alla più perniciosa delle orgie? cioè quando l'uomo si fa
devoto delle follìe di una moglie?

Ma ciò che era più faceto si era il giudizio della platea, a cui questo
circolo aristocratico di forastieri e di bagnanti, porgea quotidiano
spettacolo e alimento di voci maligne.

Queste arrendevolezze del marito e alcune dicerie sui dissesti
finanziari nel patrimonio del marchese, davano credito alla voce che
egli vivesse sulle grazie della moglie: un americano che aveva preso in
affitto la più sontuosa delle ville sul mare, che aveva fatto venire
dall'estero un automobile mastodontico, più esotico del carro di Buddha,
che aveva impiantato nel suo giardino il _tennis_ ed il _croket_, che
lasciava il resto del franco per mancia al caffè, che aveva al suo
servizio un cuoco che nessuno capiva ma che sfiorava tutto il mercato
pagando a marenghi senza tirare un centesimo, passava per l'amante di
lei, il marito di Clodio.

Questo _jankee_, massiccio, rossiccio, brutale nella sua parvente
compitezza di gentiluomo, non parlava che il francese. Di italiano
sapeva solo queste parole: _io so, io capisco!_ Quando qualcosa lo
contrariava, quando i regolamenti, le leggi, il costume, ecc.,
sembravano opporsi alla sua sconfinata libertà di far tutto il suo
comodo, soleva dire: _io so, io capisco_: apriva il portafogli e tutti
lo capivano.

Proposizione elittica che voleva dire: «_Io so, io capisco_ che voi
siete un popolo di straccioni: io appartengo ad un popolo di miliardari:
troppo giusto: _io so, io capisco_ che bisogna pagare.»

La malignità e la maldicenza erano giunti a tal punto che correva la
voce avere ella detto che saltato che fosse l'ultimo biglietto da mille,
andrà a Parigi a cominciare una vita nuova di avventuriera. Lui andrà
come agente dell'americano a Nuova York.

I figli — giacchè hanno due piccini — li ritirerà la madre di lui fino
all'età di entrare in collegio. Come siano sorte tali voci nessuno lo
sa. Certo è che tutti compiangono i due piccoli, futuri derelitti di
questa famiglia in prossima liquidazione. Se la governante che li
accompagna conoscesse l'italiano, la interrogherebbero per sapere se ciò
è vero, o fino a qual punto, se riceve la paga alla fine del mese: non
potendo sapere ciò, si accontentano di compassionare i piccini come
fossero figli propri accarezzandoli quando li vedono.

Per mio conto sapevo che il patrimonio del marchese, vistosissimo un
tempo, era oberato da ipoteche, pessimamente amministrato, tutto quel
che si vuole, ma non giunto allo stato di liquidazione come quivi
correva voce. La sola galleria conteneva dei valori inestimabili; due
arazzi fiamminghi del cinquecento nel palazzo marchionale potevano
sempre esser venduti per cento e più mila lire. C'era da sorridere a
coteste dicerie. Confesso inoltre che l'animo mio repugnava di supporre
in tanta abbiezione caduto l'ultimo discendente di una famiglia virtuosa
ed illustre, e questa abbiezione ai piedi di quel paltoniere rosso di
_jankee_ milionario. Me ne sentivo pure offeso in non so quale
sopravvivenza di dignità nazionale, e volevo non credervi. «Imbecille
fin che si vuole, ma non colpevole!» E godevo che il dottore in cotesto
convenisse con me. Egli ammetteva che il marito si trovasse in uno stato
patologico di perfetto dominio della moglie. «Egli è un asceta, un
martire che gode del suo martirio pur di essere il possessore di quella
donna. E come un artista tutto sacrifica per la sua opera d'arte, come
uno scienziato muore per la sua scoperta così questo imbecille corre
lietamente alla sua ruina pur di adornare e rendere felice il suo idolo,
il suo meraviglioso feticcio che ride. Tutto il suo mondo è lì!»

— Soltanto — aggiungeva il dottore — una cotale specie di passione
potrebbe portare ad una specie di pervertimento: il desiderio di far
gustare al publico la propria opera d'arte. Accenno al caso in genere e
come supposizione, non ad un fatto specifico. La cosa vi può sembrare
mostruosa e in contraddizione con la gelosia: eppure avviene più di
sovente di quello che non si pensi, specie in cotesto ceto di gente a
cui il lusso, la ricchezza e l'ozio, l'eccesso del cibo e della bevanda
vanno lentamente formando un ambiente o mezzo morale incredibilmente
immorale in cui non è più possibile distinguere ciò che distinguiamo io
e voi e che in fondo distingue il popolo che lavora e che soffre. Il
giudizio del popolo non è altro che un'espressione falsa di una condanna
giusta ad una società e ad un genere di vita viziosa ed oziosa che deve
scomparire.

Qui cominciava il diverbio etico-sociale fra me ed il dottore: diverbio
che si protraeva finchè le stelle dell'Orsa non cadevano in mare.

Quello però che stupiva era l'osservare come nè l'uno nè l'altra pareva
che si avvedessero di questa atmosfera di obbrobrio e di ridicolo che li
ravvolgea.

Ella sa dell'ingiurioso nomignolo di _marito di Clodio_? ne soffre? ne
gode?

Le sue labbra ridono continuamente, le sue carni esultano in
un'esuberanza di salute magnifica. La sua epidermide ha dei bagliori
metallici di bronzo e d'oro: la sua chioma leonina si sparge come manto
oltre le reni dietro all'accappatoio. L'anca coperta ma nettamente
adombrata dal saio bianco dell'accappatoio, spiega movenze statuarie che
arrestano la gente: e con tutto questo quel granatiere-femina ha delle
estremità squisitamente modellate ed esposte al giudizio di chi le vuol
vedere, giacchè, dalle undici alle dodici, il famigerato marito di
Clodio passeggia fra elegante coorte lungo i rompenti del mare.

Che dice? che parla? di che ragiona?

Meravigliose sciocchezze, che le fanno risplendere i carbonchi degli
occhi iridati e pazzi, più splendenti dei due gran diamanti che le
adornano il piccolo lobo. Grandi risa urlanti come il mare, che le fanno
scintillare le gengive di corallo e le perle dei denti serrati, aguzzi,
ràbidi: giacchè ella ride sempre l'incosciente femina: ride sino a
scoprire tutta la gola.

Solo quando la governante viene alla spiaggia coi piccini — esangui,
delicati e belli come figli di re — ha degli scoppi orgiastici di gioia
lagrimosa, chè veramente ella piange. Allora li solleva, li bacia, li
soffoca, poi li cede alla governante per non ricordarsene che il giorno
seguente.

                                 ***

Singolar cosa! Le discussioni fra me ed il dottore, pur raggiungendo le
più eccelse e babeliche cime della fisica e della metafisica, partivano
sempre dallo studio di lei, la incosciente, il marito di Clodio.

— Il suo cervello — diceva egli una sera — se fosse possibile metterlo a
nudo, risulterebbe bianco e liscio come quello di un pulcino, di un
idiota. Finora si sono fatte e si fanno delle questioni astratte di
morale; quasi che la morale fosse un secondo infuso misterioso come
l'anima. Noi invece facciamo delle questioni semplicemente fisiologiche;
e quando lo studio del cervello sarà più avanzato, risulteranno
manifesti molti fatti che oggi a pena si intendono. Certo, anche il
profano, oggi, osservando due cervelli, quello poniamo di un semplice
lavoratore del muscolo e quello di un uomo geniale, vi scorgerebbe
differenze che non sospetta nè pur da lontano. Vi sono cervelli di
pensatori che stupiscono per il lavoro meraviglioso ed immane che devono
avere compiuto: macchine occulte e veramente divine che non conobbero il
riposo se non il dì della morte: rispetto alle quali la fatica degli
schiavi che elevarono le piramidi è un niente....

— Benissimo — ribattei io — vi ho colto in fallo, vi siete scoperto! _ex
ore tuo te judico_ e voi allora che in nome della fisiologia volete
abolito persino il vocabolo «Dio», come irrazionale ed assurdo, nel nome
della scienza non avete poi il coraggio di combattere apertamente
l'assurdo mostruoso della uguaglianza che è il terreno su cui il
socialismo viene edificando il monumento della nuova barbarie. Anzi fate
gli occhi di triglia, gli occhi languidi a questi tetri iconoclasti:
farisei, voi scienziati! preti senza tricorno!

Così dissi io.

Ma il dottore non era uomo da cader di sella anche ad un colpo violento.

La discussione si accalorò, conoscenti ed amici fecero, come di solito,
circolo attorno a noi, assistendo al duello oratorio: alcuni bicchierini
di _cognac_ attizzavano ogni tanto le fiamme della questione: ma la luna
già alta, con la sua gran faccia tonda e il suo viso beffardo che teneva
abbonito il mare, pareva dire: «Sciocchezze antiche come il prezzemolo,
ma di questo assai meno utili!»

Era già trascorsa la mezzanotte quando io ed il dottore ci avviammo
lungo il viale dei villini: il dottore stava a dozzina in una casa in
fondo al detto viale ed io solevo ogni sera accompagnarvelo: salvo caso
di accompagnare, dopo, lui me, e quindi io lui; e molte volte l'alba ci
sorprese in queste scambievoli cortesie.

Le ville in quella notte soave dormivano bianche al lume lunare dietro
le pareti delle betulle e le siepi dei tamarischi; quando ne attrasse un
vivo bagliore che proiettava fin sulla strada. Tutte le finestre a pian
terreno della magnifica villa affittata dall'americano, erano illuminate
sfarzosamente.

— Solita baldoria! — dicemmo all'unisono, quando d'improvviso la gran
vetrata di mezzo si spalancò con violenza e un uomo ne uscì: dietro, il
cameriere in marsina.

— Si metta il cappello almeno, signor marchese — disse la voce del
cameriere che giunse distinta sino a noi.

Era lui, il marchese Clodio.

Nel fascio della luce la sua figura in sparato bianco e giacchetto nero,
apparve distinta: rotolò gli scalini della villa; scomparve nella
macchia di alcuni alti arbusti. Poi più nulla! Il cameriere richiudeva
le vetrate tranquillamente.

Noi ci arrestammo.

Dopo qualche minuto lo vedemmo riapparire: attraversò, barcollando, il
giardino, varcò il cancello, uscì sulla strada dove eravamo noi,
barcollando pur tuttavia come persona ferita, che cerca ove posare. Ad
un certo punto, mentre noi meravigliati osservavamo la nuova scena, non
resse più e cadde di botto. Allora accorremmo.

Rantolava pietosamente.

Al tatto, sentimmo dal suo viso grondare un sudore gelato.

— Marchese — dissi io — che ha? sta male? è ferito?

Aperse gli occhi al richiamo, mi ravvisò, sorrise bonariamente:

— Oh, lei, caro? no ferito, ma mi sento male, molto male. Come? Non lo
so. Questo è il bello.

Lo sollevammo da terra reggendolo per le ascelle, il che ci riuscì assai
facile essendo noi due di aitante statura ed egli assai piccino ed
esile.

In questa grottesca posizione io presentai al marchese il dottore.

— Onoratissimo, caro signore, e.... e.... molto a proposito, molto a
proposito — fece il marchese piegandosi, per fare un inchino, sullo
sparato bianco; ma in quel punto gli spasimi cominciarono atroci.

— Caro amico — fece il dottore a me con quella nobile e pietosa calma
che distingue i seguaci di Esculapio quando v'è urgenza del loro
soccorso — favorite in cerca di una vettura, qualcuna ve ne deve ancor
essere di stazione nello spiazzale dello Stabilimento.

Partii di corsa.

Dieci minuti dopo li raggiunsi con una vettura da piazza.

— Come va?

— Meglio — rispose per lui il dottore; — ora si è un po' liberato e ne
scorgete le tracce anche sulla mia persona.

Il povero marchese, allibito, livido, gli occhi sbarrati, gli abiti
sordidi, stupefatto a quell'uragano che gli era scoppiato nel ventre,
avrebbe eccitato le più allegre risate se la pietà lo avesse permesso.
Nei momenti di tregua, fra uno spasimo e l'altro, ripeteva comicamente,
interrompendosi ad ogni nuovo dolore:

— Io sono mortificatissimo: eravamo tutti a cena allegramente dal nostro
buon amico, _mister_ Douglas, l'americano: si era mangiata la zuppa,
un'eccellente zuppa di gamberetti alla nuovajorkese, specialità del suo
cuoco, quando.... tutto ad un tratto.... Allora, per non disturbare gli
amici, mi sono assentato.... con un pretesto.... Chi non avrebbe fatto
così? Grazie a Dio, nessuno se n'è accorto. Ma chi poteva supporre un
disastro, una cosa simile? Un ciclone ha preso dimora nel mio ventre.

E a me poi diceva:

— Come esprimervi, caro amico, tutta intera la mia gratitudine? e a
questo degno gentiluomo di medico? Se la provvidenza non vi avesse messi
sui miei passi, io sarei rimasto in mezzo alla strada. In piedi non mi
ci reggo più! È deplorevole!

Evidentemente faceva sforzi erculei per sembrare superiore al male: ma
questo, come onda forte, lo spingeva, quasi fuori di sè, verso la
scogliera del dolore.

— Se ci fosse il colera, si direbbe un caso fulmineo di _cholera morbus_
— suggerii io piano al dottore.

Egli alzò impercettibilmente le spalle:

— Certo i sintomi sono questi — rispose.

— E allora che cosa può essere?

Allungò le labbra, come persona che non sa, e si accontentò di
rispondermi:

— Staremo a vedere.

Disse poi:

— Una colica di questa improvvisa violenza potrebbe essere indizio di
qualche grave sconcerto viscerale, cosa che non credo: ad ogni modo
prima di qualche ora ogni giudizio sarebbe prematuro; piuttosto
aiutatemi a tenerlo sollevato.

— Perchè ridete, dottore? — domandai poco dopo.

— Io rido? Mai più.

E pur un sorriso caustico errava sulle sue labbra. L'infermo giaceva
insensibile fra noi due, mentre la vettura correva lungo il viale.
Eravamo giunti in città: quivi il dottore diede il recapito di una
farmacia: come fummo giunti, balzò giù, premette il bottone di guardia e
mentre di dentro si apriva, facemmo scendere il marchese.

— Questo è per voi — disse il dottore al fiaccheraio allungando una
moneta da cinque lire — ma sarà molto bene che non fiatate nemmeno sulla
corsa di questa notte. Potreste avere delle noie anche voi.

— Perchè? — chiesi con cenno al dottore.

Il sorriso ironico gli riapparve ancora sulle labbra.

— Perchè è prudente. Ve lo spiegherò forse fra poco — rispose.

Il giovane di farmacia conosceva bene il dottore e si mostrò
servizievolissimo; accese il gaz e preparò quanto il dottore ordinava.

In breve tempo fu praticata la lavatura dello stomaco, gli fu
somministrata una forte dose di bismuto, e liberatolo delle vesti e
steso su di un divano, gli furono applicate delle compresse calde. Gli
accessi dopo alcun poco si susseguirono con minore violenza.

— Molto meglio, oh, molto meglio — mormorava l'infermo sorridendo
lievemente al piacere di sentirsi liberare dai tentacoli del dolore —
però è inconcepibile, sempre più inconcepibile! Eravamo fra buoni amici!
Una zuppa eccellente! Se avessi ecceduto nel mangiare, capirei....

— Ora riposi un poco, signor marchese — disse il dottore —, si metta in
calma e vedrà che fra un paio d'ore tutto è passato. Anzi, per far
meglio, chiudiamo la porta e lasciamolo al bujo.

Del resto la raccomandazione era vana. Adagiato in un divano del
retrobottega, i gemiti andavan cessando: l'infermo si assopiva
lentamente.

— Adesso pensiamo un poco a noi, caro amico, — mi disse il dottore —
giacchè anche voi sembrate uscito da una fogna.

Mi guardai le vesti inorridito.

— Eh, mio caro — diss'egli filosoficamente — la carità messa in pratica
sul serio non è tra le virtù più profumate!

Il farmacista, ridendo, lasciò scorrere molta acqua in alcune bacinelle;
ci fornì alcuni suoi abiti per ricambio e intanto noi, con gran spreco
di sapone e di spazzola, ci venivamo rimettendo all'onore della luce e
dell'olfatto.

— Bisognerà fare un bucato a posta — diceva il farmacista, un allegro e
gagliardo ragazzone, mentre raccattava, toccandoli a pena, gli abiti del
marchese e li buttava in un canto.

— Per me — diceva il dottore — sono incerti del mestiere, ma per l'amico
mio è un'avventura del tutto inaspettata; almeno dal suo bell'abito di
panama candido. Del resto, siccome lui fa professione di essere buon
cattolico, e c'è un articolo nel codice dei dieci comandamenti che
prescrive di aiutare gli infermi, così può mettere la sua fatica nella
partita di credito verso il buon Dio. Accumulate, amico, e fate fruttare
il capitale al banco di S. Pietro.

— To', ma questo cos'è? — fece all'improvviso il farmacista.

Teneva sciorinato davanti a sè il farsetto nero co' risvolti di raso del
marchese torcendo naso e bocca comicamente.

— Ma questo è odor....

— Vedete? se ne è accorto anche lui — esclamò il dottore sorridendo —
non lo volevo dire, ma vedo che ha capito da sè.

— _E che je venuto in mente a sto fesso de becco fotuto de' pijà la
gialappa?_ — scoppiò a dire nel natio dialetto il degno farmacopòla.

— La gialappa? — feci io con gran stupore — e sarebbe a dire?

— Sarebbe a dire — spiegò il dottore — che il vostro marchese ha preso
uno dei drastici o purganti, che dir vogliate, dei più formidabili.

— Inverosimile — dissi io —: se avesse preso un simile purgante, non
starebbe a domandare come è stato.

— E chi vi dice che abbia preso la gialappa, sapendolo?

— Allora come?

— Come? — spiegò il dottore — A sua insaputa. Supponete per un momento
che a _mister_ Douglas e a' suoi degni compagni la presenza
dell'inseparabile marito non riuscisse gradita questa notte e riuscisse
gradita invece quella della sola moglie, come fare? Dirgli: «Marchese,
vada a letto che per lei è tardi» non si poteva. E allora hanno
escogitato questo mezzo di guerra, questa astuzia degna di un paio
d'anni di galera, della loro malvagità e della dabbenaggine di questo
infelice. Fatta questa ipotesi, caro amico, ritenetela come cosa certa e
avrete la spiegazione di questa avventura notturna.

Il farmacista che stava tutto orecchi ad udire, poichè ebbe compreso,
scoppiò in una risata infrenabile.

Il dottore teneva fissi gli occhi verso di me come per avere la conferma
della sua induzione.

— Se così fosse — risposi io — questo non è uno scherzo, questo è un
delitto.

— Precisamente.

— E allora noi lo denuncieremo!

— Pensandoci prima un poco su — disse il dottore — giacchè il ridicolo
che deriverebbe da un processo di simile genere, sarebbe tale da
uccidere un elefante.

La parola calma del dottore gelò ogni mia risposta.

Il farmacista nella beata spensieratezza dei vent'anni si era scostato
da noi tenendosi il ventre per frenare le risa.

— Ma chi prende un purgante — volli obbiettare ancora — se ne avvede dal
sapore.

— Niente affatto — interloquì il farmacista che aveva sentito la mia
obbiezione e non voleva perdere la stupenda occasione di ridere — la
gialappa ha questo di speciale che è dolce e si maschera benissimo con
qualunque sapore. Se vuole provare, signore, ai suoi ordini.

— E dato pure che ciò sia come voi dite — chiesi al dottore non tenendo
conto della facezia del farmacista — voi credete connivente la marchesa?
Ciò sarebbe mostruoso.

— La connivenza della marchesa non è necessaria. Capirete bene che ella,
se vuole, non ha bisogno di ricorrere a simili espedienti. Aggiungete
che in questo caso la incoscienza o la spensieratezza non bastano per
commettere una simile azione. Ci vuole la brutalità fredda di un
_mister_ Douglas, il quale per la sola ragione che può comperare a peso
d'oro i prodotti più costosi e raffinati della civiltà, appare uomo
civile: nella sostanza un barbaro corrotto dalla stessa civiltà: caso
più che frequente.

— Ah, dunque — dissi io trionfante — lo ammettete senza volerlo che il
progresso o è una conquista morale eroica o non è? La verità è una bolla
d'acqua che appare da sè alla superficie se l'anima non è ottenebrata
dalla passione.

— Siamo alle solite? — fece il dottore di mal animo — Smettetela.

E benchè per il dottore il bene ed il male avessero valore nuovo, questa
volta pareva che egli sentisse l'azione vile di _mister_ Douglas nel
modo medesimo che l'avrebbe potuta considerare uno spiritualista, un
credente nell'anima e nel libero arbitrio di scegliere il bene ed il
male: contraddizione comica in cui cadono sovente molti filosofi
materialisti.

Ma sapendo che nulla offende gli uomini di ingegno come il porre in
raffronto e il coglierli sul fatto della loro contraddizione, così mi
tacqui sul cominciato proposito e chiesi in quella vece:

— Lo scopo, amico, di un'azione simile.

— Lo scopo? Ma è semplicissimo — interloquì il farmacista —: un'orgia da
disgradare le cene di Nerone che ho lette nel _Quo Vadis_.

Noi due tacemmo: il medesimo pensiero si era già formato nella nostra
mente.

— Lui — proseguiva trionfante il farmacista — si permette la libertà di
stare sempre alle costole di lei, sempre legato alle magnifiche colonne
delle sue gambe. Credete che ciò faccia piacere a tutti? No! e loro lo
hanno mandato a letto col mal di pancia. Uno stratagemma permesso nel
codice d'amore.

La facezia del giovanotto rimase senza risposta.

— Comunque sia, ciò non ne riguarda che molto mediocremente — concluse
il dottore —; fra poco quando si sveglia gli darà del _cognac_. Noi
bisognerà che andiamo a bussare a casa sua: il disgraziato non può mica
uscir di qui in camicia!

L'orologio segnava le tre del mattino.

— Fra mezz'ora saremo di ritorno.

Il farmacista, mentre noi ci muovevamo per uscire, ribatteva dolcemente
gli sportelli, esclamando:

— Ah, bellissima! chi l'ha imaginata è un genio! la gialappa usata come
artiglieria nelle guerre d'amore! Sono invenzioni che non vengono che
dall'America. Se non la mando ai giornali faccio una malattia!

                                 ***

Caminammo silenziosamente. Essendo la luna piena, un guardiano del gaz
correva di fanale in fanale a spegnere. Nessun altro nella via.

Infine io non potei a meno di esporre questo pensiero che mi si veniva
formando invincibilmente nell'animo:

— Noi due, io benchè credente o quasi, voi benchè positivista,
determinista o come più vi piace chiamarvi, ci accordiamo però in una
cosa suprema: combattere la violenza fra uomo ed uomo. Ebbene, eccoci
qui nel caso di invocare la riparazione di una violenza con un'altra
violenza, e quel che è peggio, noi dobbiamo convenire che se
quell'infelice d'un uomo avesse avuto solo l'opinione di prepotente e
violento, quella gente là un tale scherno non lo avrebbero nemmeno
imaginato, non che fatto. Dunque? Dunque la villania e la violenza sono
una virtù. Uno può coscientemente affaticarsi a spegnere in sè gli
istinti secolari della violenza per poi accorgersi un bel giorno che in
certi casi quel difetto sarebbe la più invocata delle virtù. Ora la mia
ragione mi dice: prendi un'arma e uccidi! ma sento che la mia mano, non
abituata alla violenza, si rifiuterebbe a simile atto. Quale confessione
penosa e umiliante!

Il dottore mi lasciò parlare a mio agio finchè giungemmo al palazzo dove
abitava il marchese. Egli era ospite di una casa patrizia della città, e
abitava al piano terreno. Battendo col bastone sulle persiane giungemmo
dopo replicati tentativi a farci aprire una finestra.

Apparve un cameriere.

— La marchesa è tornata a casa? — domandò per prima cosa il dottore.

— Non ancora, non sono ancora tornati, nessuno dei due: ma già è il
solito! Veramente questa notte è più tardi del solito.

— Bene, fate il piacere di aprire: il marchese si è sentito poco bene
questa notte; e abbiamo bisogno di abiti e di biancheria per cambiarlo.

Nessuna meraviglia, nessuna domanda da parte del domestico.

Ci venne ad aprire, ci fece lume senza disturbarsi nè anche a fare una
domanda: che male avesse il padrone e chi fossimo noi.

Precedendoci con la candela, passammo per una stanza dove dormivano i
due figli del marito di Clodio. Per il caldo avevano respinto le coperte
e i due corpicciuoli ignudi erano graziosamente atteggiati nel sonno: le
testoline d'oro sprofondavano nel guanciale. Un senso di pietà profonda
scese nell'animo nostro.

— Ma dormono soli questi poveri piccini? — non potei a meno di osservare
sottovoce al cameriere.

— La _bonne_ si è allontanata un momento, oh, ma non si svegliano: fanno
un sonno tutta la notte; se si svegliano, vada pur là che si sentono.

Vidi il dottore che crollava il capo pietosamente.

Io non risposi nè quegli disse parola. Abbassò il lume che avea alzato
sulle nostre teste affinchè contemplassimo i piccini. Sacra infanzia! di
te prende forma il Redentore del mondo: e il germe del male è sì piccolo
o latente tuttora in te, sacra infanzia, che le pupille del bimbo si
affissano attonite, soavi, sublimi perchè prive ancora del male.
Generata in un istante di oblio o di follia, tu grande pura pupilla
infantile riduci chi ti generò a meditare su le mirabili leggi che
sostengono la vita: dicono le pure pupille al padre, alla madre:
«Purificatevi, siate buoni, siate concordi, operate il bene secondo la
buona legge!» Dicono i corpi gracili a chi li generò: «Difendeteci,
alimentateci! allontanate il dolore e il male da noi perchè voi ci
generaste!» ed è questa la ragione perchè il pianto del bimbo penetra
nell'animo più acuto di una spada, più severo delle leggi dei codici!

I due corpicciuoli dei figli del marito di Clodio, buttati là sul letto
come se una mano brutale ve li avesse scagliati, dicevano a noi questa
querela mentre il padre e la madre correvano alla loro pazza ruina.

Il cameriere non doveva avere questi pensieri pel capo: esso ci diede
una muta di vestiario, la biancherìa richiesta, ci avrebbe data la casa
se la avessimo domandata. Che cosa importa ai camerieri? Giacchè il
cameriere è l'uomo a cui nulla importa. Rinchiuse la porta senza nè
anche domandare a chi avesse consegnato quella roba.

Ritornammo verso la farmacia, ma avevamo a pena svoltato l'angolo che il
giovanotto ci venne incontro:

— Ah, sono loro — fece da lontano — lo hanno incontrato?

— Chi incontrato?

— Quello della gialappa, il marchese.... Oh, bella!

— Ma il marchese non è qui?

— Macchè, è scappato via di corsa, io gli sono andato dietro per un
poco, l'ho chiamato, gli ho domandato se era diventato matto, eh sì!
correva come una bicicletta: «Va un po' a farti....» e sono tornato in
bottega.

Il dottore aggrottò le ciglia e domandò al giovanotto:

— Ma lei gli ha detto niente? Evidentemente lei deve aver commesso
qualche imprudenza....

— Che imprudenza vuole che abbia commessa? Ecco come sono andate le
cose: poco dopo che sono partiti loro due, mi ha chiamato e mi ha detto
che stava bene e che si voleva alzare. Allora io gli ho dato il _cognac_
secondo la sua prescrizione, e poi gli ho detto che lor signori erano
andati a prendere degli abiti....

— Ebbene?

— Bene, lui si è messo a sedere lì e beveva il _cognac_: «Gran
gentiluomini.... veri gentiluomini!» e poi dopo con quei suoi occhi
stupidi, mi guardava lisciandosi la barba da becco e andava ripetendo
ogni tanto: «Pare inconcepibile, pare inconcepibile una malattia
improvvisa così terribile! Perchè si era lì fra amici, una zuppa
eccellente di gamberetti alla nuovayorckese....» Allora mi scappò la
pazienza; a chi non sarebbe scappata? e ho detto: «Ma che zuppa
eccellente! Macchè gamberetti! Di gamberi ce n'era uno solo, ma questo
non era nella minestra: era fuori della minestra! Nella minestra c'era
soltanto la gialappa, di quella buona. Non ha capito ancora che lei ha
preso la gialappa?» Allora mi guarda con due occhi grandi così, e sarà
rimasto con la bocca aperta per un quarto d'ora. «Ma sì la gialappa, non
ha sentito che la zuppa era dolce?» È rimasto lì: e poi dalla bocca
aperta è venuto fuori un urlo che lo devon aver inteso anche al terzo
piano, e poi? poi chi lo ha visto? Credo che abbia preso il suo
_smoking-coat_ ed è scappato via.

— Imprudente — fece il dottore.

— Perchè imprudente? Sarà andato a casa.

— Se veniamo noi da casa e non l'abbiamo incontrato!

— Avrà preso un'altra strada, di notte non ci si vede.

— Che imprudenza — ripetè il dottore — Quel disgraziato ha capito tutto.

— Quel cretino? Ma che vuole che abbia capito mai? Anche se gliela fanno
sotto gli occhi non capisce.

Non c'era altro da dire nè da recriminare.

Uscimmo dalla farmacia, dolenti entrambi dell'accaduto e ci avviammo
alle nostre case presso la riva del mare.

E dopo che eravamo andati alquanto in silenzio, io chiesi:

— Quali induzioni voi ricavate, amico, da questa fuga repentina? un
risveglio della sua dignità d'uomo e di gentiluomo? o una fuga per
isfuggire la presenza d'un testimonio della propria vergogna?

— L'ora per le induzioni — rispose il dottore — non è la più adatta,
amico; fra poco sarà giorno. D'altronde accontentiamoci di soccorrere i
mali degli altri, come abbiamo fatto questa notte, ma non di più; non
condividiamo la sventura altrui benchè si dica ogni giorno questa trita
frase: «io partecipo alla vostra sventura.» Fra le altre cose non è
pratico: trasmettiamo a noi l'infezione terribile della sventura senza
liberare l'infermo. Credete a me!

— Eppure — replicai io — Platone e Socrate prima di Cristo dissero e
scrissero: «bisogna dare altrui parte delle proprie gravezze.»

— Visionari, mio caro, non tanto Socrate e Platone e Cristo quanto voi.
Essi avevano un gran tempo da perdere e davanti una vita eterna, o
almeno erano convinti di averne, il che fa lo stesso. Quindi potevano
sacrificare in oziose ricerche questa vita reale per l'acquisto
dell'altra vita ideale. Noi no, assolutamente. Noi abbiamo i nostri
affari, limitati a breve scadenza di tempo. E poi a quest'ora in cui le
cellule del cervello dovrebbero riposare, è terribile cosa affaticarsi
intorno a queste vane questioni. Più tosto affrettate il passo giacchè
il letto quando il sole si alza non è ospite così benigno come quando il
sole tramonta.

Il cielo infatti schiudeva la sua palpebra grande in oriente, sul mare,
e una luce gialla era sospesa nell'aria. Andavamo lunghesso il viale. In
fondo il mare era d'una bianchezza lattiginosa. Le betulle e i
tamarischi erano ancora addormentati chè il fremito dell'alba non li
aveva destati ancora.

Il nostro passo suonava chiaro in quel silenzio, lungo la minuta ghiaia
del viale che conduce al mare, quando un suono stridulo e pazzo ci
percosse, e da presso: e quasi nel tempo medesimo apparve un gruppo di
gente, e avanti al gruppo, il rosso, il magnifico rosso dell'abito
serico di lei, il marito di Clodio: una gran macchia di porpora in quel
giallo sbiadito dell'alba, un gran scroscio di risa e canti impuri in
quel silenzio, quasi raccolto e sacro dell'alba.

Il marito di Clodio avanzava su tutti per conto suo con le preziose
penne del cappello a sghimbescio, con le mani si teneva su le grevi
trine delle gonne, e sollevandole a modo delle cantatrici, avanzava
cantando la sconcia canzone:

    Ciribibì, che bel piedin!

Il gruppo che seguiva non pareva partecipare a quel canto orgiastico.

— A terra! — ebbe appena tempo di suggerire il dottore che egli già si
era nascosto dietro la siepe dei tamarischi — io lo imitai così che
coloro non ci scorsero.

Procedevano lentamente, fermandosi ogni tanto, e perchè erano soli
parlavano forte e le loro parole nell'aria immota giungevano ogni tanto
al nostro orecchio. Non si comprendeva bene, ma erano recriminazioni
reciproche fra gli uomini: le donne tacevano. Perchè c'era _mister_
Douglas con due suoi accoliti e due dame di gran vita mondana e di turpe
reputazione. Quegli abiti da luce elettrica stridevano nel chiaro
giorno, nella purità dell'alba solenne, come una bestemmia nel
raccoglimento di una preghiera.

Quando furono presso di noi, udimmo uno degli accoliti dire a _mister_
Douglas:

— Caro Douglas, le cose non sono andate, perfettamente, secondo i vostri
programmi....

— Io, conte — disse freddamente una delle dame — ve lo avevo preavvisato
ieri? Fate, ma guardate che vien fuori uno scandalo. So come è fatta
quella donna, credetelo a me! Pare, ma vi sbagliate. E voi, no! Bisogna
accenderla! dicevate. L'avete accesa e cosa avete guadagnato? guardate
lì....

Si erano fermati davanti a noi: guardammo lì dove indicava il dito della
dama: esso segnava il volto di _mister_ Douglas che prima, non avevamo
osservato.

L'uomo camminava cupo e preoccupato: teneva sul volto un fazzoletto,
rosso di sangue. Il volto era striato di lividure e di solchi sanguigni.

I due uomini scoppiarono in una risata, ma era un riso acido e forzato.
Disse uno dei due:

— Una lotta indimenticabile, uno spettacolo unico: tutta la cristalleria
per terra faceva l'effetto d'una scarica di wetterli. _Mister_ Douglas,
se voi conservate ancora gli occhi porgete i dovuti ringraziamenti ai
due sottoscritti. La marchesa tirava alla faccia, disperatamente. Ma
sapete che ce n'è voluto per distaccarla?

— _Fi des betises, fi des bêtises, mes amis_ — muggiva _mister_ Douglas
— _plutôt tâchez d'apaiser ce diable de femme_.

— Io? — disse l'altra dama che non aveva parlato — io no! Già che dice
che sono stata io.... mai più...!

— Scusate — le disse in tuono insinuante e persuasivo il secondo
accolito — l'idea dell'ètere è balenata veramente a voi....

La dama scattò: — Ma l'etere _volatilisé.... un petit peu_ — per dare
_de la spiritualité à l'ivresse_. Ma l'etere liquido nel _cognac_
l'avete versato voi.... proprio voi!

— Caspita, voleva andar via per seguire il marito....

— Ebbene, e allora _mister_ Douglas — replicò la dama — doveva capire
che era inutile tentare più in là. Siete stati _grossiers_, molto
_grossiers_ tutti e tre.

— Dovevate, dirlo allora.

La dama alzò le spalle.

— Andrò io — disse l'altra dama — qui bisogna finirla, bisogna calmarla.
Oramai vien gente. È uno scandalo e dei peggiori.

Si staccò dal gruppo e si accostò alla marchesa.

— Marchesa! — disse umilmente. — Marchesa! — e le toccò l'abito.

Allora ella si voltò: la vedemmo di fronte. Gli occhi erano pazzi e
vitrei.

— _Mister_ Douglas è pentito — insinuò la dama — è stato un equivoco,
assolutamente un equivoco: domanda perdono. Un momento di follìa
provocato dalla passione! Mettetevi composta, viene gente. Andiamo a far
la pace. Suvvia!

Il marito di Clodio cessò di cantare ciribibì; fissò gli occhi in volto
alla dama, poi, come un organetto a cui è stato mutato il registro,
riprese su altro tuono:

    Pace non voglio fare
    Sono ostinata...!

La dama ritornò con un gesto di rabbia ai suoi.

— È inutile! Ha cominciato con le canzonette e non la finisce più!

— _Tout finit par des chansons!_ — filosofò l'uno degli accoliti.

Consultavano fermi davanti a noi sul modo come frenare quella pazza
ubbriaca.

E consultando indugiavano ad avanzare come se quello star fermi avesse
ritardato l'avanzar della luce. Ma il sole oramai saettava strali vivi
nel cielo; le piante si destavano, un fragor di ruote annunciava la
gente e il nuovo giorno.

Ventilavano il progetto di una carrozza, di un farmaco, di lasciarla
sola e così discutendo si erano mossi alquanto.

Un fremito di rabbia scuoteva i miei nervi e se il polso fermo del
dottore non mi avesse trattenuto, confesso che mi sarei lanciato fra
quella gente.

— Caro mio — sussurrò il dottore quando ci potemmo levare in piedi —
pensate: se dovessimo reagire contro tutte le viltà che si commettono,
bisognerebbe prima di tutto domandare al buon Dio un sistema muscolare e
un sistema nervoso fatto con cura privilegiata. Lasciate passare!

In piedi, io fremente, egli col polso fermo su me osservavamo il gruppo
che si allontanava, quando accadde un fatto inatteso, o almeno a cui più
non pensavamo.

Un piccolo uomo sbucò dal viale di fianco e si lanciava contro _mister_
Douglas con un grido di guerra già preparato nel petto: «Vigliacco,
vigliacco!»

Era il marchese Clodio.

Successe un parapiglia e una mischia oscena di tutte quelle figure: la
voce _vigliacco!_ che squillava sempre, si spense ad un tratto. Il
gruppo cadde a terra. Clodio giù: sopra, la mole feroce dell'americano.

Di comune e tacito consenso accorremmo gridando noi pure forte:
«Vigliacchi!»

Al rumore de' nostri passi quella gente sostò, atterrita; si volsero, ci
fissarono. Fu un attimo. Poi scapparono di fuga: e noi ci trovammo sopra
il gruppo di Clodio disteso a terra col sangue che gli grondava dalla
fronte e lei, disperata e lagrimante, che diceva ripetendo: — Oh, mio
povero Clodio, mio piccolo Clodio! I nostri poveri piccini dormono a
quest'ora e non lo sanno!

                                 ***

La sera di quel giorno si sparse la notizia che il marchese Clodio e
_mister_ Douglas si sarebbero battuti alla pistola: noi veramente lo
sapemmo prima degli altri perchè due signori, rappresentanti del
marchese Clodio, vennero a richiedere l'amico dell'opera sua come
medico: ma egli si rifiutò decisamente, sdegnosamente dicendo: — Per un
uomo in quelle condizioni fisiche e morali battersi a duello vuol dire
suicidarsi. No! Piuttosto una cosa: Date un mio consiglio al marchese:
carichi la rivoltella e quando incontra l'americano gliela scarichi
contro. Il consiglio gliel'ho dato io.

                                 ***

Ma fu vano consiglio.

Il duello ebbe luogo la mattina seguente e il marchese Clodio ebbe la
fortuna di cavarsela con una spalla fracassata da un colpo di pistola.

Fu per espressa volontà del marchese che il dottore ed io venimmo
chiamati al letto del ferito.

V'era la marchesa.

Trovandoci per la prima volta al cospetto di lei, io, ed il dottore
pure, fummo presi da turbamento. Arrossivamo per lei.

Ella era impassibile. Parlò della ferita, della cura dei bimbi, di tutto
fuor che un accenno alla causa di quella ferita. Pareva che si fosse
trattato di un'altra persona.

A qualunque ora del giorno e della notte noi ci fossimo recati a
visitare l'infermo, la marchesa era immobile, calma, al capezzale.

Ora, la febbre altissima richiedendo una sorveglianza notturna, disse il
dottore:

— Signora, sarà necessario provvedere una infermiera per la notte.

— La infermiera sono io.

Ogni obbiezione fu inutile. Infermiera volle essere il giorno e la
notte.

Si trasmutava di giorno in giorno: pallida per le lunghe veglie, ma
composta, ma non una traccia di pianto: anzi una specie di ilarità
interna che appariva in una dolcezza e in una signorilità sorprendenti.

Quando la febbre decadde e cominciò la convalescenza di Clodio, ci
intratteneva spesso ad un tavolino da tè, presso il letto dell'infermo.
Ragionava con molto buon senso dei bambini, dell'educazione da dare, e
ogni consiglio del dottore era accolto con vivi segni di riconoscenza.
Pareva che imparasse una lezione preziosa, che si addentrasse in un
giardino meraviglioso di purità dove ella, donna, metteva il piede per
la prima volta. E ne era beata!

In verità noi assistemmo in quei giorni ad un fenomeno inesplicabile
quanto meraviglioso anche pel mio amico dottore: cioè allo sviluppo
della cellula della coscienza nel cervello di colei che fu chiamata il
marito di Clodio.

Come siano fatte queste cellule e dove abbiano sede il dottore non sa
ancora, ma egli assicura che si tratta di uno speciale gruppo
protoplasmatico che può essere eccitato da una speciale commozione
morale o anche da cause traumatiche.

Comunque si voglia credere su tale proposito, il fatto vero e provato è
questo che la marchesa divenne da allora in poi moglie e madre
esemplare.

Questo lo imparai dalla conoscenza del marchese col quale divenni ottimo
amico, non dalla cronaca. Anzi la cronaca cessò di occuparsi di lei: il
suo nome non suonò più sulle labbra del publico, le sue _toilettes_ non
furono più argomento di descrizione nei rendiconti dei giornali, giacchè
questa è la sorte che tocca alle donne virtuose: il più completo
silenzio sul conto loro.



IL TRIONFO DELLA PENNA D'AIRONE.


La gioventù di Leo era stata triste.

La rosa non era voluta fiorire sul margine della sua nova vita.

Ed è per questa ragione che egli, in sui vent'anni, cioè prima del
tempo, era uno spirito meditante ed austero, e altresì un refrattario
all'amore.

Questo suo naturale, fra le molte centinaia di giovani dell'Università,
rendeva Leo altrettanto noto quanto lo rendevano i suoi calzoni, i quali
non arrivavano mai a nascondere i legacci delle mutande e i due tiranti
delle scarpe.

E i suoi calzoni non arrivavano alla lunghezza normale della moda per la
stessa iniqua ragione per cui il suo pranzo si ostinava a non
oltrepassare il limite di soldi venti, e la cena si manteneva alla
virtuosa sobrietà di un pezzetto di cacio salato o di salame.

Spirito meditante e refrattario, adunque, all'amore!

Ma anche in questo bisogna intenderci per non dir cose che siano troppo
fuori dal vero: il vero sacro ed occulto.

A vent'anni non c'è austerità che tenga e non c'è meditazione dolente
che vi smorzi questa bella convinzione della giovinezza: «cioè che il
signor Iddio, quando creò tutto il vasto mondo, lo abbia creato con uno
speciale riguardo per voi, proprio per voi e per il vostro bellissimo
volto.»

La luna, al tempo della giovinezza, vi manda un garbato sorriso: gli
occhi dei fiori e dei passerotti contemplano proprio voi, i vostri
propri consimili vi sembrano animali graziosi e benigni. Per far piacere
a questi animali e far loro servizio, le stelle si rotolano lassù in
cielo, il vapore sbuffa, il sole compie il suo orario regolare, il mare
— docile bestione — fa da facchino e porta i bastimenti gravi sulla
schiena: e, se hanno un torto i vostri simili, questo consiste solamente
nel non riconoscere compiutamente i vostri meriti e i vostri diritti.

Oh, più tardi, molto più tardi la luna non avrà più complimenti per voi;
e allora, quando la luna non vi fa più complimenti, quando vi avvedete
che il sole compie i suoi giri con una rapidità spaventosa ed
inesorabile (mentre prima spiegava in pace le vele d'oro al blando
favonio del tempo) quando il vostro spirito critico trova che le cose
del mondo vanno irrimediabilmente male e che i vostri consimili non sono
più graziosi, ma sono una macchia sporca nel paesaggio del mare e della
selva, quando in voi si viene radicando la convinzione che esiste una
legge dello spirito immutabile come quella della materia e che, con
tutto cotesto, voi fra i milioni de' vostri simili non avete altro
diritto che quello di essere tollerato per il posto che occupate, pel
pane che mangiate, per l'ossigeno che respirate, oh, allora sì
l'austerità è paurosa!

Dove è la verità? prima o poi? Eh, chi lo sa! Non lo sapeva nè meno
Pilato, uomo positivo e proconsolo di Roma presso Giuda: anche egli si
chiese: «Che cosa è la verità?»

La verità che io so in proposito è questa: Prima vuol dire che voi siete
giovane e poi vuol dire che la morte si è allacciato le coreggiole dei
suoi sandali per venire a farvi una visita.

Questo io so. Il resto lo sanno i filosofi patentati.

                                 ***

Refrattario all'amore!

Oh, altra cosa è la superba castità del maschio, giovane e bello intento
al pensiero, e altra cosa la castità dell'uomo il quale un bel giorno si
avvede come le donne non abbiano più in suo onore quelle due qualità
seducentissime che sono la Civetteria ed il Pudore. E se ancora elle vi
ascoltano, o serie o pietose, ridono di voi sotto la gonna!

Forse è per quest'unica ragione che i passerotti hanno smesso di cantare
in vostro onore; e i fiori del maggio non hanno più tinte inebrianti.

                                 ***

Lo spirito critico di Leo, in sui vent'anni, trovava che il mondo e le
istituzioni degli uomini erano bensì andate male dal tempo della
creazione sino allora, anzi molto male! ma è presumibile che in lui
fosse la convinzione profonda che per l'avvenire le cose dovessero
modificarsi compiutamente: passare, cioè, dallo stato empirico e del
sentimento a quello della ragione pura e della luce scientifica. In
somma il mondo aveva avuto la delicata attenzione di aspettare a mutar
la strada vecchia per la nuova proprio finchè egli, Leo, non fosse
venuto all'onore della vita; e questo fenomeno che accadeva a Leo,
giovane di alta intelligenza, accade anche a molti imbecilli.

Bellissimo fenomeno anche questo di rifrazione ottica, prodotto
dall'effetto dei venti anni sulla intelligenza, e che ha in sè il
beneficio di spingere l'uomo verso l'attività e verso la fede nella
vita.

Giacchè uno spirito attivo e credente era Leo: credente negli enunciati
della scienza come già le genti credevano nel dogma della Immacolata
Concezione, nella Comunione del pane del vino, nel simbolo degli
Apostoli, ecc.

Leo non credeva più in S. Isaia, in S. Paolo, in S. Matteo, in S.
Giovanni; ma credeva in Darwin, in Carlo Marx, in Haeckel e in altri
profeti minori ed apostoli della civiltà moderna. Perchè, a ben
pensarci, tutta la questione sta qui: nell'avere cioè una fede e sopra
tutto la fede del proprio tempo.

Mettete questa fede in una intelligenza sveglia e in una volontà
risoluta come era quella di Leo, e avrete un giovane che, se fortuna
l'assiste, si farà largo e poi finirà col camminare sulla testa dei suoi
compagni con gran dolore del dogma modernissimo dell'uguaglianza.

E come la delicata e sensibile bontà è la calamita più forte delle
disgrazie o per lo meno delle seccature: laddove la presunzione di
risoluta violenza ha fra gli uomini la virtù di spazzare gl'impacci e le
difficoltà (come il maestrale spazza le nubi e rimena il buon tempo)
così Leo un po' per istinto della sua generosa natura, un po' per
esperienza della dolorosa sua giovanezza, aveva imparato a tener difeso
il meccanismo delicatissimo della Bontà sotto un certo suo buon
impermeabile di indifferenza e di risolutezza insieme, così che lagrima
o pioggia, grandine o fango, bestemmia od urto vi rimbalzavano
superbamente nè arrestavano il vittorioso procedere del bell'automobile
della Vita.

E per tutto cotesto avrete la spiegazione del perchè i visi scialbi, i
capelli lucidi, gli impeccabili colletti alti degli studenti
aristocratici ed esteti — i quali facevano corte d'onore a Regina — non
si voltassero nè meno quando passavano davanti agli occhi vivi ed ai
calzoni corti di Leo, sulla soglia dell'Università. Pareva indifferenza
o disprezzo, ed era invece rispetto e timore!

Ma Regina, invece, salutava per tutti questi altezzosi, e ben gaiamente,
dicendo:

— Buon giorno, signor Leo!

E Leo era obbligato a rispondere: ma dopo diceva ai suoi: «Stupida! non
ha altro luogo per andare a spargere il suo muschio?» Regina la
giovanetta liberista e feminista, adorava le supreme eleganze, i rari
profumi e perciò stava con gli esteti e con i borghesi dal colletto
alto.

E i compagni — poichè si convinsero che Leo non s'infingeva — ridevano e
lo beffavano di questo suo spregio per le donne in genere, e per Regina
in ispecie.

Sì, per mettere a posto le cose del mondo bisognava redimere —
emancipare — restaurare la donna: di questo Leo era più che convinto. Se
non che la fisiologia e la psicologia muliebre, studiate da Leo assai
bene sulla tavola anatomica, gli presentavano delle difficoltà di primo
ordine.

Molto più facile, oh molto! nazionalizzare le terre e le macchine della
borghesia parassitaria che rifare il tipo della donna!

                                 ***

Era Regina una studentessa di lettere, altrettanto prudente e silenziosa
— anche se interrogata — durante le lezioni di greco e di filologia
quanto loquace e gaia negli ambulatori dello Studio.

Il cappello di feltro e la penna d'airone dominavano sulle teste degli
studenti e il suo riso era come un raggio di sole in quella austerità
grigia delle aule e dei corridoi.

Era Regina una giovane altrettanto povera quanto baldanzosa e piacente;
e la penna d'airone poteva essere il suo stemma: nessuna penna di
struzzo languida e accartocciata vezzosamente la sostituì: neve,
pioggia, nevischio non l'abbatterono! Quando veniva il maggio, la penna
d'airone trasportava il nido dal largo feltro ad una graziosa
_maggiostrina_, molto primaverile, molto eretta sulla bella chioma. La
sua penna d'airone ferì molti cuori e indusse a molte e audaci speranze.
Ma l'umile colazione che ella portava nella borsetta, testimoniava
troppo eloquentemente della sua onestà e della sua povertà e induceva al
rispetto. Uno stecco di mandorle tostate, due datteri canditi erano i
soli omaggi che ella accettava dai suoi camerati, alla luce del sole e
al prezzo di cinque centesimi dal vassoio piramidale di ottone che il
venditore di _caramellati!_ ostentava sulla porta dell'Università.

                                 ***

Un giorno vi fu una gran notizia fra gli studenti.

La Reginella ha gettato il suo fazzoletto: la Reginella s'è innamorata.

Da due mesi gli amici le andavano ripetendo:

«Signorina, Torri le fa una corte spietata.»

«Davvero?» e rideva.

«Signorina, Torri non mangia più, non ride più; è pazzamente
innamorato.»

«Davvero? gli ordineremo una cura ricostituente» e rideva.

Ma un bel giorno — dico — Regina dichiarò lei stessa che, ebbene sì, lei
era innamorata del Torri.

La Reginella allora licenziò la sua corte.

                                 ***

Da quel giorno la penna d'airone fece rare e rapide comparse nei
corridoi: pareva mortificata.

Platone e Tucidide vennero provvisoriamente abbandonati.

Il professore di filologia classica non vide più al primo banco gli
occhi di Regina, impassibilmente stupefatti all'udire tutta la roba che
egli poteva tirar fuori da una semplice e nuda radice di sanscritto.

L'eco del suo gaio riso si spense fra i corridoi clamorosi.

                                 ***

Questo piccolo incidente di cronaca studentesca sarebbe passato del
tutto inavvertito da Leo, se gli amici non glielo avessero detto:

— Va là che ha scelto proprio bene, quel clericale in mala fede, quel
famulo del Santo Uffizio, quell'ignobile referendario della Sacrestia!
Evidentemente l'amore fa delle combinazioni chimiche non contemplate in
alcun testo — si accontentò di chiosare Leo. Perchè Torri, l'amante di
Regina, passava per clericale.

Del resto cotesto Torri era bel giovane, alto, molto fine, molto
elegante, occhi splendidi: godeva inoltre reputazione di gran serietà
fra gli studenti di filologia. Quanto al _clericale_ le cose dovevano
essere andate così: povero in canna anche lui, Torri, senza appoggi e
invece con buone dose di ambizione e di voglie, si era buttato con chi
gli era capitato prima. Gli erano capitate prima delle buone lezioni
private in alcune famiglie dell'aristocrazia nera, e lui diventò
clericale e godeva di alcuna notorietà come critico d'arte in un
giornale cattolico.

Già; o nero, o rosso, o verde, un giovane intelligente bisogna che lo
scelga un partito, come una ragazza bella è bene che si decida fra i
suoi corteggiatori.

Se no, questa rischia di restar zitella, e quegli non metterà da parte
altro capitale che la propria indipendenza: capitale assolutamente
infruttifero anzi passivo, non quotato presso alcuna Borsa! Prima,
dunque, si sceglie quello che capita e dopo si muta, se torna o se
piace.

E proprio Leo non ci pensò più a Regina: se non che, nel corso dei mesi,
gli capitò due o tre volte di leggere nei giornali che l'esimia
studentessa, Regina, avrebbe tenuto una conferenza sulla _Donna
cattolica_, un'altra volta _Contro il divorzio_ o qual cosa di simile.
Leo rideva: «La signorina libera pensatrice, divenuta fervente cattolica
sotto l'influsso della stella di Venere!» Proprio vero: la fisiologia
della donna non ha altro commentatore sicuro che Eros.

Se non che, dopo più tempo ancora, se la vide proprio faccia a faccia in
un tavolino della sala riservata della Biblioteca.

                                 ***

In quel tempo Leo attraversava una di quelle meravigliose crisi dopo le
quali il giovane, lasciate le spoglie antiche, appare ad un tratto uomo
alle genti. Un'ebrezza di sapere gli innondava, più che il cervello, il
cuore. Egli avanzava, egli sospingeva la nave verso l'ignoto; alla
scoperta del Sapere.

Esiste la voluttà di giungere al confine del Sapere, come esiste la
voluttà mortale di scoprire l'ignoto punto del polo e le terre
inesplorate. Meraviglioso e benefico anelito in cui si rivela tutta la
divinità che è nell'uomo, ancorchè ciò sia cosa vana: giacchè l'uomo non
avanzerà se non per la via che è, che fu, che sarà!

Leo povero, Leo solo, Leo coi calzoni corti sentiva questa ebbrezza
della conquista e la gioventù del cuore gli diceva:

«Domani la gloria, figliuolo!»

(Di fatto l'invidia, segno di alte latitudini, vento che spira soltanto
lungi dalla riva, già gli sibilava d'attorno).

Perciò egli consumava il giorno e gli occhi sui libri della Biblioteca e
perciò se in tale stato d'animo Leo appena ravvisò Regina, non deve far
meraviglia.

Fu lei che chinò il capo davanti a lui, salutando.

Aveva anche lei di gran libri davanti a sè: libri che pesavano più di
lei, e quelle sue belle braccia e quelle sue perfette mani facevano gran
fatica a smuoverli ed a rivoltarli! Tutto parea raccolto ed austero in
lei, ma il seno, presso quei gravi libri, palpitava d'amore.

Quando suonava la campana del fine, Regina si levava dai suoi libri, si
metteva il lungo mantello nero, si inchinava con un «buona sera»
passando davanti a Leo e se ne andava per ritornare il dì seguente.
Spesso Leo, uscendo poco dopo, scopriva nei vicoli reconditi presso la
Biblioteca una coppia che si attardava sotto i fanali.

Erano il Torri e Regina.

                                 ***

Passarono frattanto due anni.

La Fortuna — questa Divinità antica e stravagante che sopravive alla
morte delle altre divinità — avea assistito Leo.

L'onorevole X***, professore di Università, uomo politico di primo
ordine, uno di quei personaggi che col trionfo dei partiti popolari era
divenuto arbitro del governo e della città, aveva preso a ben volere
Leo: infine lo aveva imposto. Lui, l'onorevole, occupatissimo di
politica, più di due o tre lezioni all'anno non poteva fare: le altre le
faceva Leo. Sono colpi di fortuna, o calci nel sedere, come dice
l'invido vulgo, che capitano qualche volta: se non capitano, anche con
tutto l'ingegno e lo studio di Leo si rischia di rimanere coi calzoni
corti e con la cena di pane e formaggio per molto tempo, anche battendo
la corrente democratica, anche credendo nei nuovi apostoli, Carlo Marx,
Haeckel, ecc., ecc.

                                 ***

Un giorno Regina bussò all'uscio di Leo.

La sorpresa che si dipinse sul volto di Leo fu tanta che la penna
d'airone non ebbe il coraggio di venire avanti e si fermò sulla soglia.

— Già vedo bene che lei mi dà della seccatura — disse la proprietaria
della penna d'airone — e può darsi, ma lei ha parlato così bene ieri
all'Università che ho detto proprio a me stessa: «Io vado da lui! Sarà
quel che sarà!»

Leo sorrise.

E Regina proseguì:

— Lei, ieri, alla sua lezione...

— Lei perde il tempo a venire alle mie lezioni? — si credette in dovere
di chiedere Leo — ma questo è un onore!

Non sapea perchè, ma a Leo, l'austero, veniva la voglia di prenderla in
giro, la penna d'airone.

— Non le faccio elogi — proseguì ancora Regina — perchè non è più mia
abitudine fare complimenti agli uomini. Ma devo dire che lei parla molto
bene: giuste quelle cose dette ieri! Io che la credevo un demolitore
arrabbiato, un partigiano, un giacobino feroce mi sono dovuta ricredere:
già, demolire è facile, demoliamo pure: ma si tratta anche di formare
delle nuove coscienze, e non di parata, ma di sostanza. Allora sì il
nuovo edificio sociale sarà fondato sulla pietra e non sulle mobili
arene. Lei ha detto così _à peu près_? non è vero? Io, però, non ci
credo niente, perchè oramai io sono completamente scettica: cattolici e
socialisti, monarchici e anarchici tutti uguali, tutti fatti a sembianza
d'un solo, tutti figli d'un solo egoista..., ma mi sono commossa.

Poi m'han detto che lei è tutto di casa coll'onorevole X*** e allora mi
sono decisa, ed eccomi qui!

— Allora è una cosa lunga quella che lei mi vuol dire — chiese Leo.

— Un pochino!

— Allora s'accomodi: fra questi libri una sedia libera la troveremo. Il
mio appartamento non ha maggior estensione di questo studiolo, molto
amico alle rondini, e di un bugigattolo per dormire.

Trovata la sedia, seduta Regina sotto la luce, Leo non dovette far
grande studio per iscorgere che, se la penna d'airone era tuttavia ben
eretta, tutto il resto dovea essere passato attraverso la crisi di
qualche battaglia, tra le sirti di qualche tempesta.

Ma interrogare una donna vuol dire, per lo meno, esporsi ad una orazione
ciceroniana. Leo perciò ebbe il delicato e prudente intuito di lasciar
parlare e nulla interrogare, e Regina parlò.

Si trattava di questo: in un collegio feminile era vacante il posto
d'insegnante di storia: molte erano le concorrenti, molti gli intrighi:
ora che del Municipio era arbitro l'onorevole X***, domandava il suo
valido appoggio perchè il nome di lei venisse prescelto.

Esposto questo, venne la perorazione in questi termini: «Capisce che
sono disoccupata e non ho voglia di scioperare? che per vivere faccio
l'assistente in una scuola privata dove una negriera di
direttrice-proprietaria mi tiene lì fissa dalla mattina alla sera, per
un franco e mezzo al giorno? L'anno scorso quando comandavano le sottane
nere e le malve c'era libero un posto di professoressa d'italiano.

Era proprio quello che ci voleva per me! Comincio a far il giro di tutti
quei signori, cavalieri, commendatori, senatori. Cascavano, poverini,
dalle nuvole alla notizia che c'era un posto vacante. Cominciavano con
un «Ah, sì!... Mi pare.... Ma veda.... Ma ecco! Veramente!...» ecco un
corno! Mi guardavano come avessi avuto un marchio d'infamia sulla
fronte. Quale marchio? Forse perchè ho amato in piena luce di sole una
persona — che per giunta era uno dei loro — e questa mi ha indegnamente
tradita? (Anche qui Leo si guardò bene dall'interrogare). E dire che per
il loro partito io ho abdicato persino alle mie convinzioni più solide,
ho tenuto persino delle conferenze contro il divorzio: cose da ridere,
però, sa? trovarsi in mezzo a dei pii giovincelli baliosi, a fremebonde
vergini pulzelle che brandiscono la spada di Giovanna d'Arco contro il
divorzio! Tutta roba dove han diritto di interloquire solo quei poveri
cristi e quelle povere diavole che hanno provato! E sa perchè mi hanno
negato quel posto? Non mica perchè io avevo avuto un amante notorio; in
sacrestia loro fanno ben altro! ma perchè sanno, indovinano che io sono
un carattere fiero, indipendente, che non mi lascio mettere i piedi sul
collo da nessuno. E loro invece vogliono il mondo sotto i loro piedi.
Pigliala, adesso! E poi sa anche perchè? perchè non straluno gli occhi,
non torco la bocca alle nequizie del mondo reo, perchè porto i ricci,
come se fosse mia colpa se la natura mi ha fatto i capelli ricci, la
bocca così, il piedino slanciato, le mani aristocratiche! ah!
dimenticavo il più grave: perchè porto l'abito maschilizzante! Gran
delitto! un abito comodo, eccolo qui! Ma a loro il mio abito fa venire
il mal di mare. Il guaio è che io me ne sono accorta troppo tardi! pensi
che anche quando servivo la causa del legittimismo cattolico, nessuna di
quelle pie dame ebbe per caso la felice idea di farmi guadagnare quattro
soldi offrendomi delle lezioni per qualcuna di quelle spuzzette delle
loro figliuole. Che! che!

Per entrare nelle grazie di certa gente bisogna presentarsi vestite a
gramaglie come una vecchia; senza ricci, la fronte rasa d'ogni baldanza,
come dice Dante, il collo torto come una monaca del Sacro Cuore, far
atto di umiltà, di contrizione, di penitenza, strisciare, ungere.
Capisce che io non sono buona di far certe parti, che io ci ho la mia
dignità, il mio orgoglio? Adesso, anzi, mi farò i _bandeaux à la
vierge_, sacrificherò la mia chioma sull'altare della loro prepotenza!
Questo non sarà mai!

«Mai» — confermò la penna d'airone ergendosi anche più fieramente sul
capo.

— Del resto non stia a credere che io creda che i rossi valgano più dei
neri, i gialli più dei verdi. Il mondo, sotto ogni latitudine, sotto
ogni clima storico, sarà sempre proprietà esclusiva del prete. Il prete!
Capisce lei? Ecco il vero, l'unico dominatore del mondo _per omnia
sæcula_! Lei, caro signore, è ancora molto giovane, molto immerso nei
suoi studi e nelle sue teorie e certe cose non le può capire. «Bisogna
aver fatto l'esperienza che abbiamo fatto noi! — commentò agitandosi la
penna d'airone — per convincersi di una tale filosofia della vita!»

Leo anche qui fu cauto nel non interrogare sulla genesi di tali opinioni
filosofiche molto pessimiste.

Il pessimismo nella donna proviene di solito da un amore inacidito: e il
rimestare simili liquidi esplodenti non è da savio.

Promise che ne avrebbe parlato all'onorevole X***.

— Con molto entusiasmo altrimenti è inutile — avvertì Regina.

E la penna d'airone finalmente si decise a scendere i sessanta scalini
che portavano all'appartamento di Leo.

                                 ***

La cronaca non registra se Leo parlò con entusiasmo; registra solo che
Regina ebbe il posto desiderato, e siccome «bene a chi ci fa bene e male
a chi ci fa male» oramai è la massima pagana e pratica di Regina, così
ella manifestò la sua riconoscenza in maniera tale da far desiderare a
Leo che quell'ufficio non le fosse stato in alcun modo concesso.

E la prima manifestazione di riconoscenza consistette nel frequentare
assiduamente tutte le lezioni di economia politica, tenute da Leo.

Fra quel gran concorso di giovani che accorrevano ad udire la convinta e
dotta parola di Leo, la penna d'airone era la prima a comparire nel
primo banco dell'aula.

Come già un tempo s'accoglievano le turbe ad udire la buona novella dei
seguaci di Cristo, così oggi, per quel misterioso fascino che ha la
modernità della vita, accorrono le genti ad ascoltare chi loro parla di
rinnovata vita, di rinnovate coscienze nell'umanità nuova.

Con questa pietosa illusione il conquistato pane sembra più dolce, e, al
di là del velo del pianto e del sangue, si vede risplendere il prato
fiorito dell'Asfodelo! Vecchia istoria!

Se non che Regina guardava più specialmente il volto dell'oratore. Ella
inoltre era ignara del tutto di certe teorie, di certe voci e ne
chiedeva contezza, ed erano come dei supplementi di lezione che Leo era
obbligato ad impartire fuor dell'aula a questa troppo diligente scolara;
e una volta, d'aprile, Leo fu sorpreso di trovarsi sotto i tigli
suburbani in compagnia di Regina. Ma i tigli furono anche più sorpresi
di Leo. I tigli odono tutte le coppie che si attardano sotto le loro
ombre, ragionare di amore.

Quella coppia invece, di Leo e di Regina, in quel vespero d'aprile
parlava e dissertava di filosofia. Leo era ottimista. Regina pessimista
più che mai.

— Via, signorina, parliamoci chiaro — disse in fine Leo — per voi donne
l'umanità consiste e si compendia in un uomo solo: il mondo è buono o il
mondo è cattivo secondo che l'uomo con cui avete avuto a che fare vi ha
trattato bene o vi ha trattato male. Questo modo di giudicare è troppo
soggettivo: facciamo una cosa più semplice: parliamo in tal caso di voi.
Il vostro amante vi ha lasciata? Il vostro ex amante ha preso moglie? e
vi pare che tutta l'umanità si debba risentire di un fatto che riguarda
voi sola? Io posso essere dolente per voi, cara signorina, ma noi siamo
immuni da ogni colpa nella vostra questione personale.

— Ed è tutto qui lo sbaglio, caro signore, — disse Regina — sa lei quale
è la vera questione sociale? La donna! Un uomo mi ruba il capitale della
vita: un uomo, freddamente, un bel giorno viene e vi fa questo discorso
chiaro, come mi fece il Torri: «Tu mi ami, è vero? Ebbene, io ho bisogno
di un sacrificio dal tuo amore. Io voglio far carriera nella vita. Se io
sposo te, ecco quale è il nostro avvenire: un posto di ginnasio
inferiore in Sicilia od in Calabria per me: il mestiere di lavapiatti
per te: una mezza dozzina di figliuoli da sfamare per ambedue. Ora
questa prospettiva non va per me, e credo che tu pure avresti a
pentirtene in breve. Ora io voglio fare una carriera splendida e una
vita bella. Per tutto questo ci vuole una base economica.» Egli,
capisce, Leo, ragiona come voi socialisti: la base economica!

«Dunque — proseguì lui, l'infame — un giovane, anche d'ingegno, anche di
buona volontà, se non parte da una base economica di almeno cento mila
lire, lavorerà nel vuoto per tutta la vita, e finirà miserabile come ha
cominciato. Ora io ho trovato, non cento, ma cento cinquanta mila lire
sotto forma di una signorina che i suoi genitori sarebbero felicissimi
di darmi in isposa.» Questo in poche parole fu il ragionamento semplice,
positivo, pratico che mi tenne il Torri. Così disse e così fece: sposò
la sua signorina: un mostriciattolo dai capelli di stoppa e dalle linee
rette, e mi piantò come una bella carota. Ebbene, quest'uomo seguita ad
essere un galantuomo, un gentiluomo: finirà onorato, stimato,
accademico, cavaliere, commendatore. E io cosa sono? Una ragazza
vilipesa ed indicata a dito! Ora, finchè simili infamie sono permesse
nel mondo, il mondo sarà sempre in rivoluzione. Vi sono tribunali per
questi delitti? No! Che cosa rimane da fare ad una povera giovane? Darsi
alla mala vita? Uccidere il traditore? Veda — questo voi altri nella
vostra sconfinata presunzione maschile non la capite — per fare una di
queste due cose bisogna averci l'istinto.

Gli occhi di Regina così parlando balenarono di pianto: e in omaggio
all'antico assioma che l'ira muliebre domanda sempre una vittima, prese
il guanto e se lo strappò.

Leo, il parsimonioso, Leo, lo spirito esatto, si chinò e raccolse il
guanto.

— Quando sarò deputato, signorina, giuro che sosterrò la legge americana
sulle promesse di matrimonio non mantenute. Contenta così? Intanto
prenda il suo guanto.

— Scherzi pure, caro signore, che ne val la pena! E non le ho detto
ancor tutto. Deve sapere che io per amore di lui non ho potuto prendere
la laurea, e adesso che son giù di studi, ho paura di non poterla
prendere più, e tutto questo perchè? Perchè in vece di studiare per me,
mi sono messa a lavorare per lui.

— Ma se io per quasi un anno la vedevo così assidua alla Biblioteca a
studiare! — disse Leo.

— Bravo! appunto quello! Sa, è vero, come fanno adesso i professori
giovani a far carriera? Fanno certi lavori che un tempo li eseguivano i
vecchi eruditi, quando avevano perso il vigore e non erano più buoni da
niente e non sapevano come impiegare gli ultimi anni. Si pigliano dei
codici, delle stampe rare e si comincia a fare uno spoglio di citazioni,
di varianti, di virgole. Con tutto questo materiale si compone un volume
che pare il catalogo di un farmacista; questi sono i lavori di carattere
scientifico coi quali si fa carriera. Oppure si trova che Dante ha usato
la parola _camicia_. Ebbene, si fa la storia della camicia del tempo in
cui Adamo ed Eva adoperarono per tale uso la foglia di fico sino alle
camicie di batista tagliate sulla linea del corpo come si costuma
adesso: e questo si chiama spiegar Dante. Ma per fare un lavoro simile
bisogna sfogliare una Biblioteca.

Se non che quel galantuomo di Torri non aveva nè voglia nè tempo di star
lì ad ammattire sui libri e mi faceva lavorare per lui. L'eterno
sfruttamento della povera donna!

«Quando però è innamorata, se no...» — sorrise pensando Leo nel suo vivo
core.

— Ogni sbaglio che fai — mi diceva — un giorno di più di ritardo nelle
nozze.

Si figuri come lavoravo!

— Aveva dunque promesso di sposarla?

— Certamente: anticipò anzi qualche schiaffo.

E Regina scagliò lungi da sè anche l'altro guanto!

                                 ***

E se Regina aveva fatto queste confidenze a Leo, cosa più sorprendente
fu quando Leo s'accorse d'aver confidato se stesso a Regina: la storia
della sua adolescenza: un segreto semplice e doloroso sepolto nel suo
cuore. Perchè lo aveva svelato a lei?

Perchè lei gli aveva chiesto:

— E perchè questo odio?

Ed egli le aveva detto perchè odiava.

Ciò era avvenuto dopo una lezione di Leo.

Nell'aula era passato un impeto d'uragano. Fuori delle gran finestre
gravi nubi immote, cariche di elettricità, toglievano il giorno:
l'uragano della materia: dentro l'aula l'uragano del suo spirito. L'aula
era stipata di uditori. Il bidello aveva acceso due candele sulla
cattedra. Come si accese, si agitò di tempesta la scientifica parola di
Leo? Si accese nel modo stesso che la nube nera e immota vien squarciata
dalla folgore. Aveva obliato la definizione e la statistica: aveva
parlato folgorando del diritto sacro alla vita, del dolore e del
patimento umano che dura da secoli e si rinnova sempre: dell'ingiustizia
e della frode che bisogna svellere in nome di una giustizia nuova ed
audace. «E chi ci si oppone sia schiacciato!» Sprigionavano scintille
d'odio dalle sue parole.

Quando la folla si dileguò, Leo taceva.

Col capo chino, pareva sorpreso egli stesso della sua violenza e parea
domandarsi:

«Perchè mi sono lasciato vincere? perchè ho parlato così?»

E fu allora sotto i portici solitari, mentre le nubi nere trascinavano
via il giorno e la pioggia, che Regina, toccandogli la mano ardente, gli
chiese:

— Ma perchè questo odio? lei cui la fortuna assiste e l'avvenire
sorride?

Era, vero: esistevano dei giacimenti di odio nell'anima sua, generata da
uomo e da donna. Poteva essere l'effetto dei calzoni corti e delle
invariabili colazioni di pane e salame che rimontavano nauseabonde alla
gola. Sì! Giacchè si ha un bel gridare: «Viva la sobrietà!» ma in fine
secca vedere della gente che mangia tartufi e fagiani sotto i vostri
occhi, impudentemente! Poteva essere il ricordo della sua avvilita e
dolorosa adolescenza in otto anni di collegio. Anzi, era! Ma sopra tutto
era l'orgogliaccio soffocato, l'ambizione spasmodica, erano tutte le
idre che fanno nido nell'animo dei nati dall'uomo e secernono e laborano
il rodente veleno dell'odio. Ciò che Cristo non volle! Se Leo fosse
stato uno dei tanti rimasti schiacciati nell'attrito della vita, idra e
veleno sarebbero periti insieme. La miseria cronica è il più terribile
degli anestetici! Ma oramai Leo avea cominciato a salire: il maledetto
salame cotto — ricovero di ogni rifiuto organico — era serbato ad altri:
ora lui era nutrito, vestito. La gente ascoltava la sua parola e perciò
le idre non spente dal gelo, ma animate dal sole, sibilavano. Ciò che
Cristo non volle!

Che rispondere alla donna che aveva indovinato?

La parola già animata e turbata di Leo discese allora, quasi con
voluttà, a parlare di sè. Poteva essere una giustificazione ed anche una
deviazione alla domanda: «Perchè questo odio?»

Come la nave sbattuta dalla tempesta, se può ricoverare in un porto o
nella rada, fende con la violenza impressa il nuovo tranquillo specchio
delle acque; così Leo agitava le memorie della adolescenza con il
fremito e con la passione di allora, ed ella ascoltava la parola
dell'uomo come se la trama della vita di lui s'intrecciasse con i fili
della sua vita.

Disse Leo:

— Voi, cara, che vi meravigliate della mia audacia, sappiate che io, a
undici anni, ero non timido, ma timidissimo. Pensate: io, figlio di un
modestissimo possidentuccio di campagna, trovarmi fra camerati di cui
uno era marchesino, l'altro contino, l'altro ricco bastardo, l'altro
figlio di un generale, di un capo divisione, di un banchiere, di un ex
ministro, di un milionario e via via! Avevo vinto un posto gratuito in
uno dei più reputati collegi nazionali del Regno: di quei collegi che
_hanno in proposito l'educazione morale, intellettuale ecc. congiunta
coi buoni abiti corporali._ Questa era l'etichetta che ho ancora in
memoria.

La borghesia e la plutocrazia vogliono fare sfoggio di una umanità che
non hanno, e sono punite alimentando i loro futuri becchini. _Sport_
imprudente! Questa almeno è la storia mia e della borsa di studio,
regalata a me, figlio di un umile lavoratore. Quando entrai in collegio,
il nome che mi fu dato subito dai compagni e che portai sino al liceo, e
anche dopo, fu quello di _Corame_: nome indegno e sudicio a cui non mi
rassegnai mai! E tanto più ne soffrivo in quanto non potevo vendicarmi.
Se ne potrebbe ricavare una buona massima di morale pratica: «non
offendete mai gratuitamente!»

Perchè questo sudicio nome? Ecco:

I miei aristocratici compagni avevano quasi tutti delle bellissime
mamme. Inutile dire a voi, che siete donna, quanto la perfetta e ricca
eleganza aiuti a formare il supremo bene per una abbondante metà del
genere umano: cioè la bellezza: la quale, in fondo, è una forma di
imperio! Ne convenite? Queste mammine nelle ore della visita avevano
delle frenesie, degli accessi di amore pei loro figliuoli, forse per
compenso dell'oblio in cui li lasciavano per tutta la settimana.

E nel parlatorio, dopo quell'ora mondana, rimaneva un profumo di essenze
e di muschio, insieme all'odor del cioccolatte, della vaniglia e delle
paste sfogliate di cui, insieme ai baci, rimpinzavano i loro figliuoli,
scialbi, slavati, dalla fisonomia viziosa e stupida di tanti S. Luigi
che prendono la comunione.

In quelle ore di visita, io, che non avevo nessuno che mi venisse a
trovare, rimanevo in camerata con altri due o tre disgraziati senza
famiglia.

Una volta chiamano anche me in parlatorio.

Figurarsi che festa: metto la tunica nuova, mi lucido le scarpe e scendo
giù.

C'erano in un canto mio babbo e mia mamma che mi venivano a fare una
sorpresa.

Ma cessata la confusione del primo incontro e del primo abbraccio, mi
avvidi che le parole di quella folla signorile erano sospese e gli occhi
malignamente rivolti su di noi tre.

Intuii, tacqui, mi irrigidii.

Mia madre e mio padre, invece, erano così felici che attorno a loro non
c'era nessuno.

Mia madre parlava ben forte e dava tutte le notizie di casa: mi avrebbe
voluto portare una ricottina, di quelle che mi piacevano tanto, ma
siccome i regolamenti proibivano di portar _roba mangereccia_, non aveva
voluto trasgredire alla legge. Mio padre, avendogli io scritto che
soffrivo di geloni ai piedi, liberò da un grosso involto e mi fece
ammirare un superbo paio di scarpettine da inverno.

Quando risalimmo in camerata — gli altri a gruppi rumorosi e con gli
scroscianti cartocci dei dolci — io, solo, tenendo in mano quelle povere
fatali scarpe, il mio sopranome era già formato.

Mia madre venne chiamata la _ricottara_, mio padre _Crispinus_ ed io
_Corame_.

La scoperta di questi tre nomi li divertì moltissimo per vari giorni: ma
io versai molte lagrime segrete che nessuno asciugò e perciò esse,
seccandosi, hanno formato quella durezza che si chiama odio. Per molte
notti pensai: io rividi il campo del grano nel sole, il pergolato,
l'orto ricco di maggiorana dove lavorava mio padre: rividi la fonte
dell'acqua viva, la siepe di spino bianco dove mia madre stendeva i lini
ad asciugare, cantando, e mi domandai: «Perchè mi strapparono
dall'amorosa terra? Perchè tutti questi libri?» Ma il mio
raccomandatario, umilissimo uomo anche lui, mi assicurò in segreto, come
fosse un mistero, che da quei libri bene ismossi, come già i figli del
vignaiuolo nella favola ellenica, avrei trovato il tesoro. Tesoro non
so, ma vendetta, certo! E inghiottii le lagrime e stetti attento sui
libri. E allora cominciò la persecuzione terribile e stolta: «Sporca il
libro a _Corame_! Butta la palla, intinta di inchiostro, sugli abiti di
Corame, così suo padre da _Crispinus_ diventerà anche _Sutor_ e gli
porterà un abito nuovo nel giorno di visita.» A me delle macchie e dei
castighi importava poco oramai: era l'idea che mio padre doveva lavorare
di più per farmi i calzoni o la giubba nuova, quella che mi faceva
fremere in segreto; sempre in segreto e mandare giù, e studiare, giacchè
_Corame_ studiava e vinceva con la rassegnazione e con la pazienza —
armi terribili — quella crudele protervia. Le vendette lasciarono il
posto alle imposizioni, alle prestazioni servili: «_Corame_, dammi il
lavoro di latino, dammi da copiare il problema» e così via, e Corame
ubbidiva.

Le sole varianti in questa vita uguale di otto anni erano le uscite col
detto raccomandatario. Buon diavolo di maestro, carico di figliolini
piccini e di compiti da correggere, che era una pietà.

Lui passava il mese d'agosto in campagna dai miei, e per compenso mi
veniva a prendere nei giorni dell'uscita, Pasqua, Natale, Statuto, ecc.
Il buon uomo, per pagare il debito di ospitalità, si credeva in obbligo
di riversarmi a dosso un supplemento di buoni precetti morali e
pedagogici. In verità io non ne aveva bisogno ma egli affermava che
_melius est abundare quam deficere_.

Insisteva poi con specialissime cure nell'estirpare un mio grave vizio,
quello di essere _republicano_. Già, in collegio io acquistai il titolo
di republicano. Perchè? Non lo so, nè mi ricordo di averlo mai detto, nè
di averlo pensato, ma i miei compagni lo ripetevano sempre e con tanta
convinzione che mi persuasi che proprio io dovevo essere tale veramente.

Dimostrava il mio ottimo raccomandatario che non è lecito ad un giovane
per bene essere republicano. «Republicano al tempo di Catone, di
Cicerone, di Muzio Scevola, di Collatino e di Bruto va bene: ma dopo,
no! il nome stesso republica si presta bensì all'esercizio di una
declinazione composta: nominativo _res publica_ e genitivo rei publicæ,
come _ius iurandum_, genitivo _iuris iurandi_. Ma questo è il solo
vantaggio che noi possiamo ricavare dalla parola _republica_.» Giacchè
il povero uomo scivolava per effetto della lunga abitudine sempre nelle
declinazioni.

Però era il solo che fosse sincero e mi volesse un po' di bene.

Egli, in quelle solennità, mi veniva a prendere verso mezzogiorno, dopo
colazione, quando già tutti i compagni erano usciti.

— Bondì, _putèlo_! oggi è un giorno che ci divertiremo — dicea — La
colazione l'hai già fatta? Sì? Tanto meglio; così avrai più appetito per
il pranzo. Intanto andiamo a comperare un bel dolce!

In quell'età, verso i quindici anni, io amoreggiavo letteralmente con
certi speciali dolci, come è a dire i canditi, i _fondants_, le creme,
le cioccolate, quei dolci siropposi che gemono icore e colore da tutti
le parti. Ci lasciavo gli occhi nelle passeggiate! Ma il mio
raccomandatario si accontentava di comperare una di quelle squallide
ciambelle come se ne mangiavano anche in collegio.

Giunti a casa, doveva giocare e far divertire i suoi molti figliuoli:
dalle tre alle cinque su e giù in piazza alla musica, dove mi vergognava
a fianco del soprabito ritinto del raccomandatario, che era appunto il
più umile e spregiato professore del ginnasio.

Alle cinque, pranzo col lesso di pollo, un piatto d'arrosto, dolci e
bottiglia di vino moscato, la cui stappatura era una cerimonia: tutto
ciò con la raccomandazione di bere e mangiare molto «perchè di questa
roba tu non ne mangerai in collegio di certo.»

Alle sette, a spasso con tutta la famiglia. Io avanti a dar la mano ai
piccini, dietro i coniugi, infine la nonna e la fantesca che in quelle
occasioni solenni otteneva di lavare i piatti al mattino. Io arrossivo e
fremevo di trovarmi in quella processione!

D'inverno, si andava a mangiare la panna montata con le cialde, d'estate
a sorbire il gelato.

Alle otto precise, ritorno in collegio.

Giunto alla presenza del rettore, venivo riconsegnato regolarmente.

In quelle occasioni il rettore si ricordava che anch'io ero uno dei
cento venti infelici, soggetti alla sua giurisdizione.

Levava il dito all'altezza della fronte, corrugava le ciglia e mi
scatenava senza motivo un'esortazione morale preceduta da un «_Macte
animo! Principiis obsta! Cursus in fine velocior! Obœdite prepositis
vestris!_ Seggendo in piume in fama non si vien nè sotto coltre ecc.!
Itala gente, se virtù suo scudo su voi non stende libertà vi nuoce!»

Il raccomandatario con la zucca pelata e scoperta, chiosava sorridendo e
sorbendo il dolce e la saggezza di quelle parole che evidentemente
formavano parte degli annessi e connessi all'ufficio di rettorato, per
rendersi meritevole del ventisette del mese.

Per mio conto, senza giungere allora tanto in là, sentivo un odio
implacabile quanto ingiusto contro Ovidio, Orazio, il Petrarca, contro
tutti questi poeti e filosofi, divenuti carabinieri ed aguzzini al
servizio del rettore. Il quale con uno schiaffetto episcopale mi
accomiatava.

«Attento alle cose dette!» ammoniva il raccomandatario con segreta
significazione, e si riferiva alla Republica, genitivo _rei publicæ_.

Con le dame che venivano poi in ritardo il _Principiis obsta_, e il
_Macte animo!_ erano detti con un tuono tale che tutta la colpa era di
Ovidio e di Orazio: gli inchini erano inoltre così profondi, le parole
di indulgenza così convinte che non si avvedeva degli enormi
contrabbandi di caramelle, cioccolatte, pasticci d'ogni maniera.

Si sentiva sino ad ora tarda in dormitorio sgretolare dolci, e ogni
tanto a me: «Ehi, _Corame_, ti sei divertito? era buona la panna? Con un
franco ne danno da riempire un pitale. E il pranzo era buono in casa di
_Gattina arrabbiata_! Per un republicano di Sparta basta la broda nera.»

_Gattina arrabbiata_ era il sopranome del raccomandatario.

E, a proposito di dolci, mi ricordo che una volta mio padre me ne
comperò una scatola, seguendo le mie precise ordinazioni. Il
contrabbando fu eseguito felicemente: chiuso nella mia stanzetta, dopo
essermi bene assicurato che nessuno mi vedesse, alzai devotamente i
quattro veli di carta ricamata che coprivano la scatola. Un tesoro! I
marroni canditi gemevano il loro rosolio sugli ananassi e su certe
meravigliose prugne verdi, grinzose, dense. I _fondants_, dal lilla
tenue al rosa ardente, erano allineati su di un letto di cioccolatte
finissima.

Povero babbo mio! mangiando quei dolci, io mi comunicavo con lui come i
credenti comunicano con Cristo quando sulle labbra loro si posa l'ostia
consacrata. Lagrimavo di commozione e di gioia.

Dove nascondere il meraviglioso dono? A quale angolo confidarlo? Il
tempo stringeva. La stanzetta povera, nuda, non offriva alcun
nascondiglio. Alzai il capezzale e sotto vi occultai la scatola.

Al mattino seguente in camerata, dalle sei alle otto, era tempo di
studio, a lume di gas.

Ma per capir bene, bisogna che sappiate come fra quei marchesini, fra
quei S. Luigi blasonati, esistesse una vera e perfetta camorra.

Date un ambiente sociale falso e viziato, e voi avrete naturale e
spontaneo il fenomeno della camorra, nel modo stesso che se non rifate
il letto e la stanza, vi si annideranno le cimici. Il linguaggio
simbolico, i segni di riconoscimento, l'astuzia e la violenza collegate
insieme, il segreto, la vendetta, l'_omertà_: non mancava niente! Mi
stanno ancora alla mente certi fenomeni di depravazione e di
raffinatezza del vizio che se li leggessi in un libro di patologia,
stenterei oggi a crederli. I prefetti stessi subivano, che v'ho a dire?
il fascino di quella corruzione: molte volte la alimentavano essi stessi
spiegando in segreto alle avide orecchie, ai viziosi sensi mal desti, le
oscenità dei sessi. Accumulate per anni questi adolescenti, questi
efebi, assieme; provocate la pubertà nella serra dell'inazione forzata;
nutriteli di ipocrisia obbligatoria; impedite il sano sviluppo organico
con una disciplina stupida ed inumana, e il fenomeno patologico e il
pervertimento scoppierà da ogni parte come uno sfogo voluttuoso. E dire
che sono cinquecento anni da che Rabelais scrisse un suo mirabile
trattato di pedagogia! Noi, i timidi, i pusilli, i lavoratori, formavamo
il campo di sfruttamento. Sempre così, dovunque: nel vasto mondo e nel
minuscolo collegio!

Dunque vi dicevo che al mattino c'erano due ore di studio a luce di gaz.

E una voce allora, beffardamente nasale, disse nel silenzio:

— Ho il piacere di annunciare ai compagni che abbiamo requisita, dopo
debite e diligenti ricerche, una mastodontica scatola di dolci. Eccola!

Tutti si erano voltati: un gelo mi corse al cuore; era la mia scatola!

Mi levai, corsi per afferrarla.

— È la mia! — gridai, e molte braccia mi trattennero.

La voce seguitò imperterrita e sarcastica:

— Noi potremmo, a norma degli statuti che ci reggono, punire con la
suprema pena dell'interdetto, come insegna la storia _magistra vitæ_,
l'audace ribelle, il prepotente soggetto, detentore e occultatore di
cose appartenenti alla proprietà comune.... Vero, signori?

— Sì, interdetto! — si alzò un coro di voci.

— Un momento, signori! Ma considerando la bontà eccezionale dei dolci e
d'altronde volendo dare saggio della nostra magnanimità, così non
terremo conto della grave ingiuria: _summa iniuria_! Unica pena sarà il
non partecipare al dolcissimo banchetto, _epulæ suavissimæ_, che ora sta
per incominciare; tanto più gradito in quanto che inaspettato. Alla
guardia!

«Alla guardia!» era l'ordine dato a coloro che dovevano spiare se il
censore o il rettore a caso passassero.

La scatola fu rovesciata sul biliardo, posto in mezzo alla camerata.

Un grido selvaggio di gioia accompagnò il cadere dei preziosi canditi.

— È mio, me li portò mio padre! — singhiozzai e feci per lanciarmi.

— Tacete Corame, figlio di _Sutor_ o di _Crispinus_ che dir si voglia! —
tuonò ancora la voce — Voi non avete diritto di parlare!

Fui preso, percosso, costretto al mio banco. Mi vennero meno le forze.
Piansi.

Dopo mezz'ora i dolci erano scomparsi. Una orgia famelica! la scatola,
fatta a pezzi, mi percosse ripetutamente sulla schiena e sulla testa.

Feci rapporto al prefetto, il quale mi disse:

«Ella sa bene che dolci in collegio non se ne possono portare. Dunque il
primo colpevole è proprio lei! In secondo luogo io le osservo che se i
compagni hanno fatto male a portar via i suoi dolci, lei pure ha fatto
male a volere egoisticamente tenerli tutti per sè. In fine non
dimentichi che lei, qui, ha il posto gratuito, e perciò il pane che
mangia è tolto in parte dalla pensione di quelli che pagano la retta
intera!»

— Povero piccino! — fece allora Regina — come se lei fosse stata una
mamma, e lui il giovanetto pauroso d'allora: e gli prese la mano.

Leo sentì la carezza di quelle due parole, e crollò le spalle come per
buttar via la commozione che l'aveva vinto nel raccontare.

                                 ***

Nel prolisso racconto si erano dilungati in luogo solitario, sotto i
tigli dove sul vespero vanno a spasso gli innamorati.

Il vento era calato; e le chiome dei tigli riposavano nella dolcezza
della notte primaverile.

E Leo fu sorpreso di trovarsi solo a quell'ora tarda con quella donna
presso di lui, che gli camminava a canto assai dolcemente, senza
interrogare: con quella parola materna, soave come un balsamo sopra una
ferita, con quella mano che fasciava di morbidezza pietosa la sua rozza
mano: «Povero piccino!»

Sentiva anch'egli il turbamento e la passione del suo dolore insieme
alla pietà per se stesso ora che con la parola aveva animate le memorie
delle piccole, irrevocabili cose.

Piccole sì, se la lunghezza della vita si misurasse alla stregua che il
geometra usa per la materia: e non fosse vero cioè il contrario, cioè
che il giorno, il mese e l'anno hanno valore di misura se non in quanto
tu li combini con le fasi del vivere, col piacere e col dolore: vere
misure della vita!

Come al mattino di estate, se ti levi quando rifulge ancora la Stella,
ti sorprende il lento procedere della luce, così è del salire degli anni
della giovinezza: e la materia stessa del cervello ritiene soave, come
in tabernacolo, solamente quelle memorie: il resto è cronaca che si
compone e si scompone ogni dì!

Così Leo rivide la camerata dei compagni crudeli sotto il gaz al
mattino, le sentenze del prete Rettore, le ricottine della mamma, le
scarpe del babbo, la scatola dei dolci del babbo, rivide anche le
speranze del babbo fiorite più del grappolo delle sue viti, più del
grano del suo campo amoroso!

Aveva richiamate queste memorie, ed esse erano vive davanti a lui.

Or dunque perchè odiare così gli uomini se essi sono fatti così? Tutto
al più sdegnarsi: ma il sole non tramonti sopra la nostra ira, ma i
fantasmi dell'odio non turbino il sonno e la notte; piuttosto cerchiamo
alcun bene.

«Alcun bene, riposto e lontano!» diceva il piccolo piede di Regina che
avanzava agile e sciolto, come a terra lontana. «E la purità delle opere
buone discenda sulla vita come l'olio scende sulle onde in procella e le
acqueta» diceva la mano di Regina che stringea la sua mano al modo che i
piccoli bambini si tengono e si sorreggono quando camminano avanti.

Ad un tratto la mano di lei si staccò da lui, e l'indice si tese
indicando davanti a sè: disse:

— Quello è il lumino di una bara!

Il viale dei tigli corre presso l'ospedale, da cui portano via i morti
di notte, che così quivi è costume.

Il viale dei tigli era buio: in fondo un lumicino si accostava.

Quando il lumino fu da presso, apparve quello che era realmente.

Cioè una bara.

I due becchini la reggevano e avanzavano con quel loro largo e greve
passo che oscilla or da una parte ora dall'altra.

Parve venire addosso la bara: Leo si tolse il cappello, Regina si segnò,
della croce di Cristo.

Nessuno avanti, nessuno dietro: il fanale era infisso sopra la bara. Il
lume si allontanò.

Quando il lume si fu allontanato, Regina disse:

— Sarà un pregiudizio, signor Leo, ma così senza croce, senza nessuno,
fa pena: pare che l'essere nato, che l'essere vissuto sia stata una
colpa; e gli uomini ne portino a seppellire le tracce come di un
delitto.

— Eppure otto anni or sono, così, per questo viale, qui, più tardi che
quest'ora, così fu sepolto mio padre che non ebbe colpe!

— Così senza croce? così orrendamente come di soppiatto? — chiese
Regina.

— Così orrendamente! — ripetè Leo confermando — No! via via! via! via,
dico! — e le mani di lui ferocemente, villanamente avevano ributtato le
mani di lei che lo avevano afferrato alle spalle, al collo, alle guance.

Un enorme singulto aveva gonfiato il petto dell'uomo ed era scoppiato in
orrido pianto.

Ella assistette al suo pianto: lì presso, immobile e la mano, levata per
appressarsi a lui, non osava e tremava dalla pietà di bagnarsi di quelle
lagrime disperate dell'uomo.

Egli si vinse però con uno sforzo supremo, ma bensì fremeva e ruggiva
della sua debolezza, della viltà con cui quella confessione era venuta
spontaneamente alle labbra, come un rigurgito.

Poco dopo si tranquillò: un esaurimento di forze che pareva dolcezza,
subentrò a quello spasimo e disse con voce calma:

— Vedete, è stato così: io faceva qui il primo anno di legge, quando, in
questo ospedale, venne mio padre per curarsi di un male che non perdona.

Ogni tanto usciva e mi aspettava qui di fronte all'ospedale, in un
sedile, sotto questi tigli. Io non avevo allora un'idea esatta del
perchè si muore, e come si muore e perchè muore il padre e la madre.

Non ero, dunque, molto preoccupato e seguitavo la solita vita.

Ma un giorno io lo attesi invano; non venne, e allora entrai con
angoscia nell'ospedale: i medici e gli infermieri mi dissero che sarebbe
morto presto. Passò la notte dell'agonia, eterna come una vita di
dolore: io era presso il letto, la sua mano era sulla mia: i suoi occhi
su me: egli si spegneva, io cadevo esausto ai piè del letto, come sotto
un letargo potente: mi scuoteva ogni tanto un lume, poi un infermiere,
poi un medico, poi un prete e molta luce, poi un gran silenzio finchè la
mano di mio padre si staccò dalla mia. Allora mi portarono via di lì.

Fuori era levato il giorno.

Io ero solo e ho dovuto provvedere a tutto.

Venne in cerca di me un mercante di bare che mi condusse nel suo
deposito, dove aveva molti suoi soprabiti dei morti, ed io volli
comperare la più bella, la più forte bara.

Io ho voluto provare la misura e mi sono disteso dentro, e lui mi
diceva: «Oh, ci sta benissimo!»

Allora io compii l'atto macabro con una grande indifferenza: ma da
allora qualcosa di quel soprabito dei morti rimase attaccato a me.

Dopo io andai ad un convento di frati e dissi che mio padre era morto e
che aveva desiderato una croce e un frate. Io pregavo uno di loro di
trovarsi con la croce la sera seguente davanti alla cella mortuaria
dell'ospedale. Mi pare che rispondessero di sì ed io quando fu sera
aspettai: ma non venne nessuno. I becchini avevano fretta.

I frati, dicendo che io ero studente, forse sospettarono una burla.
Avrei dovuto lasciare del danaro per caparra. Ma non sapevo che per
l'ufficio funebre di una croce ci volesse del denaro: comunque sia, il
fatto è che non vennero. Parliamo d'altro. Ora basta!

Nel ritorno parlarono d'altro e Regina chiese timidamente:

— Nessuna speranza di rivederli di là i nostri cari, quando che sia?

— Nessuna! oramai è deciso!

— Allora tutto qui? Tutto quello che c'è di bene e di male, tutto qui?
Ma sa che è poco, signor Leo? Anche tutta la nuova vita che lei disegna
dalla cattedra, sa che è poco?

— Mah! Quello che è. La morte è necessaria alla vita: questo è quanto
noi sappiamo di certo.

                                 ***

Poco dopo si erano lasciati.

Quella notte il sonno non scese sulle palpebre di Leo: un malessere come
di febbre, un senso di isolamento nel mondo lo tenne desto e agitato sul
letto. Come lunga la sua breve vita!

Il giorno venne, ed egli volle riprendere le sue occupazioni serene, ma
non gli riusciva: il mondo in una gran tristezza, in una stanchezza di
morte, si allontanava da lui.

Lo stesso come otto anni fa, dopo la morte del padre, quando gli pareva
che la gente attendendo alle opere della vita, fugisse, esulasse da lui!
Volle vincersi e non ci riuscì. Aperse i libri della scienza e della
esperienza, ma i periodi gli si disfacevano, come cosa ridicola e vana,
nella mente. Manca il cemento dell'amore ai libri della esperienza e
della scienza, e però talora essi franano. Vero è che a certe verità è
cosa prudente non accostarsi con il pensiero, e molto meno con la parola
concreta!

Ma quando venne la sera seguente e Leo rincasò e sollevò le coperte del
letto per coricarsi fu sorpreso nel trovarvi una cosa inaspettata e
strana.

                                 ***

Era un grosso involto finamente legato: sciolse i nodi di raso e ne
venne fuori una magnifica scatola di dolci.

Sollevò i quattro veli di carta e vide dei magnifici canditi che
posavano su di un letto di cioccolatte: delle enormi prugne che gemevano
il loro rosolio sugli ananassi. I _fondants_, dal tenue lilla e del
profumo di vaniglia, si allineavano in fila alternata coi più rari
confetti.

E mentre fissava, vide che c'era una lettera, con un carattere che gli
era nuovo, e diceva:

«Regina manda questi confetti a Leo. Il male che gli uomini fanno, gli
uomini possono riparare in qualche misura.»

E Leo contemplò a lungo quei dolci senza toccarli. E gliene veniva una
sensazione nuova e pietosa. Se il mondo pareva allontanarsi da lui, la
donna veniva a lui e bastava per tutto il mondo.

Una mano carezzevole si accostava senza ripugnanza e senza paura alla
piaga del suo dolore, ed era la mano di Regina timidamente levata nel
desiderio di bagnarsi del pianto di lui!

Ne sentiva pietà, confusione e gran dolcezza insieme.

«Domattina la rivedrò!» pensò con piacere come avesse pensato:
«Domattina rivedrò il padre mio!»

Manifestamente esisteva una comunione di spiriti tra quella viva e quel
caro morto: una voce era partita dalla bara e aveva parlato a lei, e
quella soavità senza nome che gli distillava nell'animo ebbe virtù di
calmare il pensiero e chiudere gli occhi nella dolcezza santa del sonno.

Era ben tardi: la candela, sibilando, si distruggeva nello spegnersi.

                                 ***

Rideva l'alba al mattino; le lagrime della notte splendevano come le
gocce della rugiada che la rosea aurora rinfranse.

Le rondini squillavano festose sotto la gronda.

Egli si destò: sorrise dei suoi fantasmi, si placò nella sua passione:
il sogno doloroso cedeva alla realtà ed alla ragione. Tuttavia la
scatola dei dolci rimaneva ed egli disse: «Povera ragazza! questo è
stato un pensiero gentile. Bisognerà andare per ringraziarla!»

E disse queste parole forte quasi per persuadersi al suono delle parole
che l'animo non diceva di più. Ma in verità, l'anima di Leo voleva dire
di più.

E Leo andò in casa di Regina. Se non che quando la signora di casa gli
aperse, egli si avvide che era troppo presto per una visita, e ne ebbe
pentimento e voleva ritornare. Ma gli fu risposto che a quell'ora Regina
era sempre levata.

Egli si sentiva assai turbato, assai impicciato. Le semplici parole: «Il
suo pensiero è stato molto gentile ed io vengo adesso per dirle grazie»
gli parevano poche. Bisognava dire qualche altra cosa. Anche il farsi
rivedere da lei lo turbava.

Ma lo tolse dall'impaccio Regina che gli venne ella stessa in contro
festosamente così come era.

— Così come sono, in un _déshabillé_ poco adatto per ricevere dei
professori di Università — e così gaiamente lo presentò alla sua padrona
di casa e gli fece strada nella sua stanzetta.

— Ha trovato buoni quei confetti? Non li ha assaggiati? Ingrato! Io, uno
ne mettevo nella cassettina, uno ne assaggiavo. Adesso perchè è uomo non
è più goloso come una volta? Peccato: un piacere di meno! Ma badi a me,
non stia a girar gli occhi per la stanza. Quello che c'è di meglio sono
io, guardi me, invece di guardare la penna d'airone, quella che fa
venire il mal di mare alle persone per bene.

E Leo guardò Regina: La guardò negli occhi buoni, nella fronte serena.

— Povera ragazza! — disse in fine Leo.

— Oh sì, molto povera e poco buona! — disse ancora celiando Regina.

Ma non ne ebbe più tempo di celiare perchè le mani di lui erano state
invincibilmente attratte da quella ricca chioma scomposta e ci si erano
immerse senza opposizione, facilmente sino alla nuca, con un senso
voluttuoso come di penetrare entro un'anima docile.

— Povera ragazza! — ripeteva, nè altro dicea e s'avvide che quelle due
parole avevano avuto la virtù di far tacere le vivaci espressioni di lei
e di far lagrimare quelle pupille: e come la testa di lei stringea sul
suo petto, così sentì il tepore ardente delle lagrime di lei gettare
alimento di nuova vita dentro il suo cuore maschile.

                                 ***

E fu così che Leo amò Regina.



IL TRIONFO DI NADINA.


Nella famiglia di Nadina, dopo la morte del padre, la colazione del
mezzodì venne un po' per volta a confondersi nel caffè e latte
mattutino, ma il decoro degli abiti non subì modificazioni visibili.

Il fruttivendolo dimenticò di portare il solito cestello di frutta; ma
il grazioso appartamentino che abitavano, vivo il padre, non fu
sostituito con altro di minor prezzo.

Mancò il vino in cantina, ma non mancò una tazza di tè per le amiche.

Con questi umili espedienti fu conservato il decoro esteriore: la qual
cosa pareva alla vedova quasi un dovere verso la memoria di quel povero
morto, così laborioso, così felice tra i suoi figliuoli, e portato via
così presto!

Ma le risorse del capitale erano pochine davvero: un rivoletto sottile e
intermittente, un lucignolo che vive perchè non muore: fosse almeno
bastato finchè i figliuoli avessero avuto un posto, e prima di tutti
Nadina! Perchè molte erano le speranze in Nadina.

La mamma, volgendosi indietro — se ella pure fosse mancata — vedeva
Nadina: i fratellini, guardando avanti, prima della mamma vedevano
Nadina.

— Guai se il babbo, in paradiso, sa che tu non sei stato buono, Giulio!
che tu, Rina, non hai fatto il compito, che tu, Righetto, non ti sei
lavata bene la faccia! — così ammoniva Nadina: ma non c'era bisogno di
ammonimenti. Erano così buoni quei tre cari, così pietosi con quegli
abitini neri! Il babbo? Un nome, un simbolo oramai per loro, avvertito
prima dall'abito nero, poi dal crespo nero al braccio che durò assai
tempo, e — talora — da una carezza della maestra che diceva:

— Poveri piccini!

Lo stomaco, tuttavia, avvertì una maggior dose di polenta e di fagiuoli
in luogo della frutta e dei dolci di una volta: ma lo stomaco quando il
cuore non palpita e la pupilla non lagrima è un organo che trova in sè
facili compensazioni.

Non così Nadina: non per effetto della polenta e de' fagiuoli, ma perchè
pensando al padre l'occhio avrebbe lagrimato spesso se non si fosse
fatta forza nell'animo.

Ma la forza spesso non bastava e cadevano le lagrime silenziose.

Tutte, dunque, le speranze erano in lei, in Nadina, e speranze fondate!

Nadina parlava spedito il francese, scriveva con sicurezza e con garbo,
apprendeva con facilità, disegnava benissimo. Sapeva inoltre
egregiamente tagliare e cucire, fare un rammendo, un ricamo, e — virtù
che le giovanette vanno perdendo di giorno in giorno — non disdegnava
sorvegliare i fornelli e con la cura dar sapore alle povere vivande e
variarle con arte. E benchè ella avesse un naturale talento per il bello
e per lo studio, pur tuttavia un dolce istinto muliebre la conduceva
spesso in un angolo caro per raccogliersi e lavorar d'ago, poichè
attorno a lei la stanzetta, da lei rassettata, splendea.

«Brava la mia Nadina!» diceva il ritratto del povero morto.

E gli occhi di Nadina non lagrimavano perchè era forte e fiera, ma il
piccolo vivo cuore, entro il petto di palpitante alabastro, mandava un
guizzo d'amore.

Nadina inoltre era bella.

Ella era allieva dell'ultima classe magistrale.

E se la signora professoressa di disegno che aveva studiato estetica e
anatomia, e se la signora professoressa di pedagogia che aveva studiato
psicologia e fisiologia, e se la signora professoressa di ginnastica che
aveva studiato anche lei qualche cosa in proposito si accordavano
nell'affermare che Nadina era bella — anzi una bellezza — bisogna
proprio credere che fosse tale veramente giacchè non è facile trovare
tre donne d'accordo sul valore di un'altra donna.

Testa classica su di un collo ammirevole! Amore — il buon statuario —
attendeva di dare luce e grazia a quel volto, fascino e risalto femineo
a quella persona ancora di snello efebo.

Giacchè la pubertà, da poco fiorita, essendosi — come vento con vento
contrario — abbattuta nel dolore, splendeva a pena nelle grandi pupille
sotto la fronte sottile.

Tutto al più la signora professoressa di italiano correggeva il giudizio
delle colleghe dicendo:

— Sì, ma una bellezza fredda! glaciale! insensibile! Non lo si vede dai
compiti?

Ora bisogna sapere, a giustificazione di Nadina, che quella signora
professoressa di italiano era un'ardente seguace della scuola estetica:
tanto più ardente in quanto che era in ritardo; e i preziosi anelli, gli
amuleti, le pietre, gli argenti che portava al collo, alla vita, alle
dita; i preziosi aggettivi, le rare parole di cui costellava il suo
dire; le supreme delicatezze, le audacie e i pudori non bastavano più a
renderla estetica. Ella, poveretta, si sforzava a veder simboli,
figurazioni, reconditi sensi e riposti colori in ogni cosa più semplice:
un frutto era per lei un omaggio religioso della Terra: il tovagliolo
della mensa si trasfigurava spesso in un Altare: bere un bicchier di
latte simboleggiava un olocausto alla Purità.

Il modo di allacciare le scarpe, di modellare il taglio dell'unghia
aveano un profondo significato per questa infelice. Ed era così commossa
di questa sua penetrazione sensibile nell'anima delle cose che, se anche
non sveniva, parlava sempre come persona che sta per svenire.

— Non vedete? non intendete voi tutto codesto che non appare, ragazze
mie? — diceva alle scolare. — E quelle povere ragazze si dovevano
sforzare a vedere tutto codesto.

Nadina era quella che ci vedeva meno. Per Nadina un tramonto melanconico
di settembre era semplicemente un tramonto, ma per la professoressa era
invece «un lento dilagare di luce tranquilla, di colori blandi
evanescenti, di fluttuanti penombre morbide, indugianti nel pigro
crepuscolo vesperale».

Ma anche senza pietre, senza simboli, senza anelli, senza aggettivazioni
Nadina era estetica.

La egregia professoressa si faceva mangiare molto del suo stipendio
dalla sarta e trottava tutto il giorno e si sfiatava per la cuffiaia e
pel mercante di mode. Ma non riusciva a vestire come Nadina.

— Chi è la sua sarta? la sua cuffiaia, signorina? mi dica!

— Non lo so, signora, fa la mamma!

                                 ***

Il tempo passava dolcemente per Nadina, in quel dolce salire al vertice
dei venti anni, senza impazienza, senza risvegli, senza passione.

— Che cosa ne farò, signora, di questa mia figliuola, adesso che ha il
diploma? — domandò un giorno la madre alla Direttrice della scuola, che
era una savia signora — la maestrina? la commessa di negozio? o la farò
andare avanti negli studi?

— La commessa intanto no, cara signora; troppi pericoli, troppe
tentazioni, e poi una vita falsa per la donna. La maestra in campagna?
Ma chi è abituata in città mal vi si adatta. Ecco, tenti i concorsi del
Comune e intanto la faccia studiare. So che ha molta disposizione per il
disegno. Segua l'inclinazione, la mandi all'Accademia: dopo potrà
aspirare ad un posto più conveniente; e poi creda, la sua signorina
troverà di meglio prima ancora di avere il diploma. Così consigliò la
buona Direttrice.

Nadina esultò dalla gioia quando seppe la decisione materna. Studiar
pittura! Era il suo sogno segreto, la sua cara ambizione.

Per quattro anni visse felice all'Accademia, nella cara dimestichezza
dei maestri, delle liete compagne, dei condiscepoli sciamannati e
chiassosi.

Ma l'Aspettato non venne.

Vero è che ella non lo cercò nè lo attese: gli stessi condiscepoli
avevano per lei un rispetto superiore a quello che si potesse
richiedere. Quei poveri ragazzi le cui vanterie e le cui conquiste erano
di un'audacia incredibile, al passaggio di Nadina si toglievano la pipa
e salutavano abbassando l'ala dei gran cappellacci all'artista che sono
una specie di anticipazione sulla futura gloria dell'arte.

Quanto bene volevano alla loro avvenente e signorile compagna! quanta
festa il giorno in cui il professore di plastica volle modellare la
bella mano di lei!

Ma chi avrebbe osato farle la corte sul serio? chi rivolgerle una parola
d'amore? E ben sapevano che ella si occupava di amore! Un libriccino,
legato con antico cuoio, che ella leggeva talvolta da sola negli
ambulatori, era stato scoperto: «Le rime di Messer Francesco Petrarca»:
vecchio libro di casa, testimone di antiche gioie spirituali per qualche
antenato della sua famiglia.

Ma chi di quei poveri figliuoli, spesso in litigio crudele con lo
stomaco, avrebbe a quella pura a quella sicura vergine rivolto la parola
sublime? L'amavano tutti insieme. Ella dominava quella venerazione e
sentiva un'ebra lietezza nell'essere donna. Conobbe in quel tempo
rinomati artisti, ebbe dimestichezza con qualche canuto signore
dell'arte e del pensiero, ma da pari a pari, perchè l'aureola della
fiammeggiante e virtuosa bellezza era corona di nobiltà non inferiore
alla gloria.

                                 ***

I dolori vennero poi quando ella, già donna, dovette lasciare
l'accademia e guadagnarsi la vita. Quelle poche volte che si recò da
personaggi autorevoli per commendatizie e favori ne uscì disgustata e in
rivolta.

Gli occhi avidi la percorrevano tutta, scrutandola come per cercare
qualcosa che in lei fosse e non era, come per dire: «così bella e
cercate un posto da poco rame?» e non v'era offesa in queste parole: era
giusta meraviglia per il tesoro della non comune bellezza, cui Amore, il
buon statuario, già dava visibili rilievi.

Benchè vestisse con molta semplicità, tuttavia la sua persona avea
bisogno di alcune rare finezze: era inutile per lei il monile d'oro, il
profumo, la penna d'oriente; non inutile il guanto squisito, non inutili
i puri lini costosi.

E quella finitezza aristocratica del vestire avea parvenza di gran
dispendio e faceva dire alla gente: «Così riccamente vestita e cercate
un ufficio di poco rame?»

Ebbe tuttavia qualche scuola, qualche commissione di ritratti e di
quadri e qualche guadagno ne ritraeva, ma la sua femminilità domandava —
non sapea ella come — maggior servitù e dispendio, quasi come un nume
che si imponesse entro di lei e a cui ella stessa dovea rendere omaggio.

Conveniva cioè pagare l'opera d'Amore, il gran statuario, che al suo
servigio destina la bellezza muliebre.

S'accorgeva inoltre Nadina che il sogno dell'arte che sui diciotto anni
pareva facile, era invece difficile cosa e lontana. Così la montagna
pare di agevole ascesa quando è vista da lungi e, quando vi si è per
entro, atterisce e conturba.

Teste di bimbi, ritratti di donne, adorne tele, sì, il pennello di lei
compiva con precisa eleganza, ma dare anima ai fantasmi del bello,
impossibile!

Nadina lo sentiva, e il pennello cadea con tristezza dalla mano.

Il pennello dicea: «Fibra virile e di titano la mia arte strugge e pur
domanda, o fanciulla!»

Dicea lo specchio: «Non te ne avvedi? L'arte e la bellezza sei tu! Due
cose esser non puoi per la contraddizione che nol concede».

Talora un languore molle la possedeva e la tenea trasognata nel suo
studiolo a rammendare con sottile arte un suo guanto, un suo indumento,
a togliere una macchia dalle sue vesti.

«Povera figliuola!» diceva l'effigie del babbo.

                                 ***

— Mamma — disse un giorno Nadina — se questo ritratto lo pagheranno bene
sai che faremo? Andremo al mare, in qualche stazione modesta e di poca
spesa: anche lì dipingerò, farò degli studi dal vero. Una sposina vuole
ornare il suo salotto e accolse la mia proposta di due marine. Ma più
che altri è il medico che domanda per questi ragazzi un poco d'aria e di
sole. E un po' di sole, un po' di viaggio anche per me dopo tanto
inverno!

                                 ***

Fu così che in quell'estate la famiglia di Nadina si recò al mare.

Si recò in una spiaggia ignota non che ai manifesti ed ai _Baedekers_,
ma finanche alla comune geografia.

È un villaggio di pescatori in su le gran dune del mare.

Per due o tre ville signorili, vi sono cinquanta o sessanta casette o
meglio capanne con tanto ordine disposte che sembrano piovute dal cielo
su quella spiaggia; di ciò solo accorte, cioè di non cadere l'una
sull'altra: nessuna in fatti sale più in alto di un piano terreno.
Quando vien la state, i pescatori intonacano quelle loro casette, le
scopano, vi aggiungono un letto, una tavola, due sedie, alcuna
suppellettile. Così affittano pel luglio e per l'agosto. Essi poi
dormono o nelle loro barche o in certe capannette di _brulla_ e di
cannucce, o mandano l'asino a serenare e ne usurpano il posto. Ma se
misero è il luogo, grande è il sole, e, stillante tuttavia delle azzurre
acque del mare, batte in sull'aurora la diana alle chiuse imposte delle
capanne. Piccole betùlle, civettuole e canore, crescono liete: i
tamarischi pallidi e salsi, fanno sottili siepi e qualcuno ne cresce
arboreo, anzi gigantesco per la natura dell'umile pianta.

Bellissima poi e alquanto discosta dal villaggio si eleva una gioconda
selva di pini: il dolce pino italico, la snella pianta gentile e
secolare i cui fusti quasi purpurei e nudi e eccelsi sorreggono un
diadema di fronde di smeraldo.

Quei pini, cento e cento, parevano esser corsi per vedere il mare.

Sulla riva si erano arrestati.

I più audaci e i più giovinetti quasi si specchiavano nell'onda e
facevano festa e richiamo ai barchetti quando approdavano dal largo.

In quei mesi dell'estate due o tre bottegucce si riforniscono di olio,
di salumi, di paste.

Persino un barbiere vi pianta la insegna e affila i rasoi. I villani del
contado vi smerciano galletti, uova, frutta, verdura, latte con grande
festività di grida e di richiami.

Umile è il luogo, ma lieto e vario il costume, come quello di cenare
all'aperto. Quando viene la sera, le tavole sono imbandite davanti alle
capanne: si accendono i lumi da giardino, si ricambiano, di capanna in
capanna, saluti e parole gioconde.

Nadina aveva avuto notizia di tale angolo riposto in una descrizione di
un giornaletto letterario, la quale descrizione portava questo titolo
strano: «Il paradiso dei bimbi». Si informò se quella per avventura non
fosse stata un'invenzione di poeta. No! era cosa vera! Trovò il nome su
di una carta geografica, e un orario di ferrovia indicò come vi si
potesse arrivare.

Propose il luogo alla mamma, e vi trasportarono in sul finire del luglio
i Penati sotto forma di numerose valigie.

L'economia del luogo avrebbe compensato la spesa del lungo viaggio.

Nadina prese in affitto una capannetta come tutte le altre: muri
imbiancati di fresco, la porta che quando è aperta fa da finestra, tre
camerette e la cucina. Un pergolato di campanelle, arrampicanti sulle
cannucce intrecciate a losanghe, ride davanti la porta e veste quella
umiltà.

Come risero di gioia in quel giorno dell'arrivo i fratelli di Nadina
quando seppero che quel sole, quel mare, quella spiaggia era loro
proprietà: la proprietà del buon Dio! come si sbandarono per le dune del
mare a bere il sole!

— Ma il cappello, Giulio, ma tu, Rina, l'ombrellino — aveva detto Nadina
in sull'uscio e in gran faccende per mettere a sesto la dimora.

— Lasci andare, signorina, il sole presso il mare non nuoce.

Un uomo che passava aveva detto così, assai dolcemente.

— Ma un'insolazione, signore, è presto presa. Qui non c'è medico, non
c'è farmacia, siamo donne sole....

— Il sole vicino al mare — replicò l'uomo — è buono, buono come questa
spiaggia: non tema, li lasci correre liberamente.

E l'uomo si era allontanato togliendosi nel salutare un suo gran
cappello di paglia bianca.

Quell'uomo in ogni altro luogo fuorchè in quella spiaggia dove i bimbi e
anche le giovanette andavano scalze, molti giravano in semplice
accappatoio, le signore avevano abolito l'uso dei cappelli — sarebbe
parso assai strano.

Sandali francescani ai piedi nudi, un abito di rigatino, più che
semplice, negletto, bel profilo signorile e dolce, dolce sguardo, alta e
forte persona, barba bionda, virile, fiorente in pieno meriggio della
vita.

Quell'alta figura si allontanò lungo le dune lentamente.

Anche i pennelli e la tavolozza di Nadina furono lietissimi: le barche,
le vele latine, i pini snelli coronati di verde, i grandi sciami dei
bimbi, alcuni de' quali stupendi, formavano la messe di colore e di
linee che Nadina avrebbe raccolta.

Con tele adorne, con arazzi e altre fantasie, Nadina ricoprì la nudità
delle pareti e indulgendo al costume della spiaggia, anche lei alla sera
imbandiva la mensa sotto le campanelle all'aperto con la lampada da
giardino, contro cui le falene venivano in gran folla dolcemente a
morire.

Spesso in su le prime sere notò fra le molte ombre che passavano,
un'ombra che si arrestava e le parve quella dell'uomo dal gran cappello
di paglia bianca. Osava a pena fermarsi da lontano, e scompariva.

                                 ***

Ma oltre alla casetta, bisognava pensare al capanno di paglia in sulla
riva del mare per fare il bagno, e Nadina, nuova ancora a quella vita,
stava contrattando con alcuni pescatori per farne erigere uno, quando
una cameriera elegantissima, in cuffietta bianca e niente scalza benchè
sull'arena, le si accostò e disse: — La mia signora mi manda a dire che
se lei vuole approfittare della sua capanna, faccia pure! —

Nadina ringraziò, guardò a torno e osservò, meglio che prima non avesse
osservato, non lungi da sè sulla spiaggia un piccolo attendamento
signorile.

Da una gran sedia di vimini con frange e cupolino veniva fuori un volto
e una capigliatura color carota, e su quel volto si disegnava un sorriso
benigno con gli angoli delle labbra in su: e il sorriso e una mano che
sporgeva, dicevano: «Siamo noi che offriamo!»

Presso alla sedia era piantato un tavolino con giornali, sigarette,
cestello con ricamo: il tutto al riparo di un ombrello enorme
multicolore, fissato sulla spiaggia. Sedia, tavolo, ombrello riparati
alla lor volta da un elegantissimo camerino da bagno di fine e graziosa
fattura, inverniciato a colori vivaci.

Un compiuto attendamento alla cui guardia stava un terribile enorme cane
danese.

Nadina si accostò.

Il cane danese scoperse i denti e ringhiò.

— Approfittate mio capanno, io non potere più prender bagni. Orribile
gente ha sporcato il vostro bel mare. Accomodatevi!

La fantesca pose uno sgabelletto di vimini alla nuova venuta e la
signora accennò che si facesse più presso per evitare «vostro orribile
sole!».

La signora che così parlava a Nadina vestiva di bianco purissimo, tutto
merletti bianchi, fuorchè il volto e i capelli, color carota. Volto non
bello ma geniale, occhi fosforescenti; età, quarant'anni, dichiarati.
Non che li dichiarasse ella: li dichiaravano essi stessi.

Ella si dichiarò per _Mrs._ Evelyne Taylor di Boston, vedova! e dicendo
«vedova» sigillò subito col fazzoletto le due pupille che divennero
rosse — _Oh, yes!_

Nadina corrispose presentandosi per Nadina X*** di Torino.

— Torino _c'est presque la France_ — sclamò esultando l'esotica dama. —
Oh, finalmente trovata persona civile in questo orribile paese.
Bicchierino _cognac_ contro l'orribile sole? Noh? _Cigarette_? Noh?
Allora capanno! Sentir prima vostra madre? così avete detto? ah,
benissimo! Non potere signorina come voi spogliarsi in questi capanni di
paglia che vedete là, dove c'è _une salété_ rivoltante.

L'offerta era gentile, ma Nadina prima di accettare, volle avere alcuna
informazione su questa dama che parea eccentrica oltre al limite
concesso a chi è ricco e straniero; e siccome sulla spiaggia le
conoscenze sono facili e pronte, seppe quello che poteva sapere e che si
sapeva.

Era sbarcata quivi con gran treno di servitù; e locando la villa più
bella e più grande. Da principio tutto _splendid_, tutto buono, tutto
bello; adesso tutto orribile e tutto _sale_. «In ciò non ha torto:
questi pescatori sono sporchi, inguaribilmente sporchi. Ma non saranno
nè i saponi nè i disinfettanti di cui l'americana faceva da prima larga
distribuzione nè i sarcasmi di adesso che li correggeranno. Bisogna
supporre che il sudiciume per la povera gente che non ha sempre da
coprirsi e da ripararsi, costituisca una specie di impermeabile
naturale, un isolante agli agenti esterni altrimenti non si spiegherebbe
l'affetto che hanno per quelle loro incrostazioni.

Oh, avvenivano scene graziosissime! Da principio erano sciami di monelli
che le turbinavano d'intorno domandando la elemosina.

«Niente carità, mai dare carità: prendi invece questo: non vedi che tu
_es sale_? _oh, quelle saleté!_»

E distribuiva degli ottimi saponi. I monelli si allontanavano con degli
sgambetti di festa, e l'americana era felice di quell'entusiasmo per i
suoi saponi, e della sua pronta cura di incivilimento dei _petits
sauvages_. Ma l'illusione fu di breve durata. I saponi finivano nelle
botteghe e se ne faceva incetta. Del che ella fu indignatissima. Inoltre
quel continuo ripetere _sale_ e _saleté_ originò il nomignolo di signora
«Salina» che scandalizzò molto la dama.

Però più che tutto questo deve avere contribuito al suo malanimo
un'altra ragione meno confessabile: La signora avrebbe voluto essere qui
considerata come una regina da tutti, con omaggi, vassallaggi, ossequi,
baciamani.

Ma la gente vien qui per fare i bagni e godere la propria libertà, nè
d'altronde in questa provincia si conoscono quelle raffinatezze degli
usi, della moda, delle convenienze la cui violazione costituisce per lei
il supremo oltraggio. _La vertu c'est la politesse!_ Ma questo assioma
moderno qui è poco inteso. Quindi disgusti, malintesi, maldicenze. Ora
la dama ha messo le muraglie della Cina attorno a sè con la guardia del
cane danese. Piccole miserie, insomma!»

Queste le informazioni.

Esse però non erano tali da dover rifiutare l'offerta e Nadina accettò
più pei fratelli che per sè. Una saettia di legno di cedro, squisito
lavoro di perfezione e di grazia, già aveva attirate le voglie de' due
fratelli, giovinetti oramai fiorenti nella bella adolescenza.

Capanno, _yole_ o saettia, come meglio vi talenta chiamarla, servitù,
marinaio, tutto fu posto a disposizione di Nadina e de' suoi.

Quando poi _Mrs._ Evelyne seppe che Nadina dipingeva, che parlava il
francese, furono grandi _oh!_ grandi _Jesus!_ di ammirazione. Nadina
inoltre accettava volentieri una tazza di tè «mentre questi _sauvages_
non bevono che dell'orribile vino».

La compostezza rigida e signorile della bellissima fanciulla piaceva
molto alla ricca dama; e il complimento più ingenuo e più ammirativo era
questo: «Non parete nè meno italiana».

Non pari ammirazione aveva Nadina per la dama: pareva quasi studiosa che
la relazione non mutasse in intrinsichezza, come colei mostrava gran
desiderio.

La dama straniera rappresentava per la fanciulla un'eccellente sedia di
vimini all'ombra per la mamma, la saettia per i fratelli, e perciò aveva
cara la nuova conoscenza.

Nadina con occhio materno li vedeva per il meraviglioso, docile, dolce
mare correre rompendo co' remi il compatto cristallo dell'acqua. Rina la
sorella, quindicenne fra poco, reggeva le due corde del timone, e le
risa della loro festività giovane, nell'ebrezza del correre per l'onda
consumando la esuberanza dei muscoli, giungeva sino a lei.

— Come sono felici, come sono giovani! — diceva _Mrs._ Evelyne
osservandoli col suo occhiale. «Come sono giovani!» echeggiava nel cuore
di Nadina. Essi, giovani, in sui quindici anni, non più lei, oramai.

E il seno, cui Amore, il grande artefice, avea già ben modellato, si
elevava sospirando.

Breve del resto era il dimorar di Nadina sulla spiaggia e più la
dilettava il tentare in sulla tela di riprodurre un raggio di quella
luce e di quel mare.

— Non viene Nadina? — domandava _Mrs._ Evelyne alla madre.

— Credo che lavori.

— Oh! — e questo «oh» voleva dire: «Nè meno una parola di più! Noi
americani sappiamo tutta l'importanza e il rispetto che meritano il
lavoro!»

Più spesso dunque che alla spiaggia ella si stava in casa a dipingere e
più spesso ancora nella Pineta.

Alla spiaggia rimaneva la mamma la quale rispondendo sempre di «si» e
accettando sempre il tè, andava d'accordo benissimo con l'americana.

                                 ***

Fra la colonia de' bagnanti, gente assai allegra e provinciali alla
buona, Nadina godeva reputazione di aristocrazia.

Nè ella nè alcuno de' suoi avevano detto nè anche alla lontana che
fossero nobili e ricchi, ma non erano nemmeno in obbligo di esporre al
publico le loro condizioni finanziarie più che modeste. Onde la voce sul
conto loro suonava: aristocrazia e ricchezza. L'essere provenienti da
grande città, un certo riserbo, nessuna concessione all'andar scalzi e
alla buona, il saper di francese, certe raffinatezze nella vita e negli
usi avevano dato credito a queste voci.

La sola concessione che Nadina aveva fatta e ben volentieri agli usi del
luogo, era stata quella di non portare il cappello.

Cotesto riserbo, il non prendere che poca parte a gite, a balli, a feste
mettevano Nadina nella condizione di bellezza «fuori concorso» e la
risparmiavano dagli strali della maldicenza e della invidia.

Era poi singolare e commovente l'ammirazione di quell'umile popolo di
marinai e di villani per quella bellezza virtuosa e trionfale.

Quel popolo così orribilmente _sale_, — chi sa? — forse alcuni secoli
addietro era stato cavaliere tutto e assai latinamente gentile. Vestigia
ne apparivano manifeste: il rispetto alla donna!

Oh, non per nulla quivi, presso i progenitori di quei pini, fiorì la
nuova rima dolce d'amore!

Il rispetto alla donna!

Non una parola, non uno sguardo insistente da quel rozzissimo popolo! Se
stretto era il sentiero, si faceano da un lato perchè ella passasse, e
quanta cortesia di umane proferte fra quella plebe sfiorata a pena dal
sillabario! Nella sua città, ben culta, oh, come diverso il costume del
popolo!

Il solo complimento che ella si sentisse rivolgere fu una domenica in
chiesa.

Chiesa non propriamente, chè la parrocchia è lontana, ma una piccola
cappelletta ove si officia soltanto ne' mesi d'estate per comodo de'
forastieri.

Poche dozzine di persone essa può contenere; e la più parte del popolo
ascoltano la mirabile mistica storia della passione di Cristo sotto una
tenda che già fu antica vela e conobbe la tempesta del mare. Ora difende
quel popolo dal sole. La domenica quivi si officia e la leggenda del
sacrificio mirabile cade — stilla preziosa — nel cuore degli umani.

Fra quella folla silenziosa la figura di Nadina sopravanzava. Vestita di
bianco, uno zendado azzurro le fascia la testa e le passa come un
soggòlo monacale sotto il mento.

— Pare la Madonna!

Questa fu la parola, ed era stata detta da un pescatore nel momento che
ella, finita la messa, si facea largo per tornare a casa.

Ma allora un'altra voce si udì:

— Beatrice di Dante — ed ella volse l'occhio.

Era stato l'uomo dai sandali francescani.

Nadina fissò. Il complimento, retorico, le era parso uno scherno. Ma
vide l'uomo chinare il volto e arrossire vergognosamente d'essere stato
sorpreso.

Nadina ne fu turbata.

Il dì seguente, mentre dipingeva nella Pineta, sentì un passo dietro di
sè.

Si volse.

Era l'uomo dai sandali in attitudine rispettosa, col cappello in mano.

— Signorina — disse l'uomo arrossendo tuttavia — il luogo è male adatto
per parlare ad una donna; lo riconosco, ma il bisogno di giustificarmi è
anche più forte. A me, ieri in chiesa, è venuta fuor delle labbra una
parola banale. Ma io le giuro due cose: la prima che essa non era detta
con intenzione: e mi crederà considerando che un uomo, alla mia età e
come me, sarebbe da esporre al vituperio publico se osasse rivolgere a
lei un'espressione amorosa: la seconda è che io non avevo nessuna idea o
voglia che ella sentisse. Io solo sentii nascere entro di me quella
parola, eppure lei ha udito! Io ne sono mortificato dolorosamente e
vorrei che ella mi perdonasse.

Nadina sorrise a quel bizzarro discorso e sorridendo, guardava l'uomo
che così andava parlando. Se un'alta fronte — largo campo alle battaglie
del pensiero — non avesse parlato in favor suo, ella avrebbe così
giudicato di lui: «anima di fanciullo imprigionata in un corpo d'uomo.»
E fu per questo, cioè per la sincerità e la ingenuità che trasparivano
da quel volto, che Nadina disse schiettamente:

— Caro signore, una donna non può offendersi di una simile parola se non
quando la giudicasse irriverente o detta per beffa, il che non posso
credere per rispetto a me ed a lei.

                                 ***

Di questo singolare personaggio non fu difficile a Nadina sapere vita
morte e miracoli.

— Io sono un uomo relativamente felice, signorina — disse l'uomo —
perchè un certo benessere materiale mi ha dato e mi porge libertà di
seguire i miei istinti di osservatore e di filosofo. La mia vecchia ed
ottima madre provvede ad ogni mia minuta ed umile cosa personale, un mio
amorosissimo fratello, minore di me, è ragioniere e uomo d'affari. Egli
sorveglia l'azienda domestica, così che io non ho da pensare a nulla per
questo lato, inoltre — tranne la passione di viaggiare che mi prende di
quando in quando — io sono di così pochi bisogni com'ella può vedere
osservando la mia persona esteriore. Che cosa sarebbe stato di me se
avessi dovuto lottare per il pane quotidiano? Fremo al pensarci. Ma
forse la natura avrebbe provveduto e, chi sa? con mio beneficio. Mi
avrebbe distolto dalla via per la quale mi sono messo e dalla quale non
ho ricavato alcuna soddisfazione. Proprio nessuna!

È da molti anni che io mi affatico intorno a questo antico problema,
posto già nettamente da Aristotele, rinnovato in ogni tempo e
specialmente nel tempo nostro: vedere cioè per quale via si possa
assicurare all'uomo la maggior somma di felicità e di benessere, di
verità e di giustizia. Ma come il chimico non può separare alcune
sostanze se non col pensiero, così io dopo avere cercato di isolarmi, di
sterilizzarmi per così dire da tutti gli errori, le tradizioni, i
pregiudizi, mi sono accorto che nel laboratorio chimico del mio pensiero
non è possibile isolare nè la _felicità_ nè la _verità_. Esse vivono in
quanto sono mescolate all'errore!

Sono venuto sempre a questa conclusione: due e due fanno quattro, uno
meno uno forma zero: gli uni hanno ragione, ma anche gli altri non hanno
torto. Ha ragione l'anarchia, ma la legge non ha torto. Ha ragione lo
spiritualismo, come ha ragione il positivismo materialista: non hanno
torto le masse socialiste, e non hanno torto gli aristocratici del
blasone e del denaro: ottima la pace, ma necessaria la guerra.
Meravigliosa l'idea di un'unica umana famiglia, e pure santa l'idea
della patria. Si progredisce con una gamba e si va indietro con l'altra.

Ho scritto anche qualche cosa in proposito, ma la critica, pur lodando i
miei umani intendimenti, ha giustamente rilevato le mie innumerevoli
contraddizioni. La conseguenza quale è? Eccola: io non ho amici in
nessun partito o scuola filosofica. Nella vita sociale, intellettuale,
politica sono, ahimè, un _non valore_! Intanto eccomi qui, mandato per
cura dal medico e dai miei, con proibizione assoluta di leggere e di
scrivere. Mia madre, facendomi la valigia, non mi ha permesso altro
libro che l'orario delle ferrovie. Cammino, anzi per maggior agio ho
adottato questi sandali, faccio bagni di sole, di mare e cammino,
cammino come vuole il medico: una vita molto igenica che mi ha
migliorato d'assai. Ma che vale riposare il cervello dai libri se trovo
poi da discutere col piccolo insetto, col fiore, col cielo? L'umanità,
signorina, almeno in quanto è rappresentata a me da me, è
inguaribilmente infelice!

— E la donna — domandò sorridendo Nadina — la donna, questo meraviglioso
fiore delle cose create, non è stata presa in attento esame nel suo
laboratorio?

L'uomo aggrottò le ciglia.

— Mi permetta, signorina, di non rispondere a questa domanda.

— Perchè?

— Perchè la risposta non le piacerebbe.

— Le permetto ampia libertà di risposta.

— La donna — disse colui timidamente a gran fatica — io la considero
esclusa dalla umanità ancorchè sia esteriormente a noi molto conforme.
Non per pazzia! L'umanità è formata dall'uomo. La donna ne è
semplicemente il lievito.

— Protesto in nome del mio sesso! Io invece ho un'altissima opinione di
questo _lievito_ e mi glorio di appartenervi.

                                 ***

Il personaggio era grazioso e piacque a Nadina. Con esso era lecito
addentrarsi nei profondi recessi della Pineta, o andar lungo le dune del
mare.

Ma l'uomo dai sandali, che si vantava fine osservatore, quando camminava
insieme a Nadina era per lo meno un osservatore distratto od ingenuo. La
donna invece fiuta l'uomo con un senso di meravigliosa finezza e
precisione; e Nadina aveva senza intenzione ma per semplice istinto
fiutato l'uomo dai sandali e l'avea classificato fra la categoria dei
maschi innocui, in questo senso che egli era di quelli che rimangono
atterriti davanti alla Bellezza. Vedono una vetta eccelsa, la adorano,
credono che lassù non si possa salire, che vi abitino soltanto gli Dei,
e invece gli svizzeri hanno piantato sulla montagna persino un albergo a
prezzo fisso. Alpinisti ciabattoni! Un attentato adunque da parte sua
sarebbe stato impossibile, anche nel più denso della foresta. Era
inoltre cosa piacevole per Nadina vedere su quel bel volto umano
riflessi tutti gli effetti che la sua feminilità completa produceva in
lui. Pura acqua tranquilla non meglio riflette gli oggetti circostanti.

La artista e la donna ne erano in pari grado confortate.

L'uomo dai sandali era inoltre fornito di coltura larga, profonda. Egli
era un bello scrigno pieno di gemme, ma serrato. Era un bel vivaio di
preziose piante di sapienza e di esperienza, ma seminate in un terreno
profondamente sterile: la Bontà.

I bacilli del Male, meravigliosi agenti di fecondazione, non trovavano
l'ambiente adatto al loro sviluppo.

L'uomo, appunto per essere tale, vedeva le cose con un daltonismo morale
assai curioso e talora mescolava osservazioni profonde a vane
sciocchezze, come questa:

— Lei così bella, non teme di andare sola con un uomo? non teme quel che
ne può dire la gente?

Rispose Nadina:

    Noi siam fatte da Dio, sua mercè, tale
    Che la vostra miseria non mi tange

ed oltre che per la ragione espressa da Dante, sappia che io fui sempre
abituata ad una relativa libertà fin da ragazza, e più se ne avessi
voluta.

— Chissà quanti....

— «Quanti amanti» lei voleva dire. Ebbene, ecco che le è scappata di
bocca un'altra sciocchezza.

L'uomo arrossì, e si scusava dicendo che non voleva dire «amanti», che
non voleva usare questo vocabolo così volgare riferendosi a lei.

— Come si confonde per poco — e Nadina sorrideva lietamente — ma dica
pure «amanti», è una parola onestissima e che molto mi piace: soltanto
mi dispiace di non averne avuti.

L'uomo fece un atto di incredulità.

— Ma sa che lei dimostra ben poco spirito a non credere a quello che io
dico? «Le donne sono bugiarde» ecco, non lo dice, ma gli si legge in
fronte. Bugiarde quelle che non possono essere sincere, ma io perchè
dovrei nascondere se avessi avuto uno o due amanti?... La verità vera è
che non ne ho avuti: moltissime adorazioni....

— Molte proposte di matrimonio — suggerì timidamente l'uomo.

— Di quelle poi nè meno l'ombra con mio grande dispiacere.

— Inverosimile!

— Anzi, verissimo.

— Evidentemente la grande sua _bellezza_, mi conceda questa espressione
audace (e l'uomo pronunciò quella parola timidamente credendo che la
donna ne dovesse arrossire, ma la donna non arrossì) ha reso timidi i
suoi adoratori. E in verità chi dei mortali oserebbe sposare una Dea?

— Ed ecco detta una terza o quarta sciocchezza.

— Perchè signorina?

— Perchè contiene nella sua forma di complimento iperbolico una grave
offesa. Lei viene a dire in bel modo che io non sono una donna adatta
alla vita domestica, e invece io mi sento discretamente portata per la
vita di casa. Mi piace dipingere, scrivere, leggere, ma non disdegno
brandire la mestola o far saltare la casseruola. Uomo incredulo, non c'è
che il fatto che la possa persuadere?

                                 ***

L'uomo incredulo si era costituito una specie di servitore di Nadina.
Nella dimestichezza della vita del mare, in quel facile comporsi e
scomporsi delle relazioni, in quel vivere familiare di tutti, la cosa
non destava alcuna critica o maldicenza. Se non era l'uomo dai sandali,
erano altri signori e giovani e giovani donne che si accompagnavano a
Nadina nelle belle passeggiate o a veleggiare sul mare, giacchè la
riserbatezza non voleva dire stranezza, e stranezza sarebbe stato il
vivere troppo diversamente dalla vita che tutti facevano. Nadina stessa
era sorpresa della confidenza e della familiarità piacevole a cui la
induceva quell'uomo semplice e strano, ingenuo e sapiente. Una vena di
letizia fraterna le si apriva quando si trovava in sua compagnia.

                                 ***

— Uomo incredulo — disse un giorno Nadina (e il sole folgorava nel cielo
di mezzogiorno e le diafane campanelle del pergolato non avean la forza
nè meno di segnare un'ombra sul terreno) — uomo incredulo, si fermi qui
sulla porta e mi dica che profumo ella sente.

— Un profumo di intingolo delizioso.

— Ebbene allora si avanzi ed entri! — e lo guidò nella cucinetta presso
i fornelli. — Guardi quest'umido da cui emana un così eccitante profumo.

Non strabili: sono pomidori autentici: il tutto preparato con le mie
mani. È persuaso che anche le dee sanno far da cucina?

                                 ***

Ma _Mrs._ Evelyne non la pensava così. _Mrs._ Evelyne non potè a meno di
dire il suo pensiero a Nadina.

— Io avere dovere di mettere in guardia voi, signorina, così gentile,
contro un grave pericolo. Lei è molto amica con uomo dai sandali. Io
invece ho dovuto licenziarlo da mia casa.

— Perchè, signora?

— Perchè uomo scandalosissimo. Intanto è più _sale_ di tutti. Senza
calze, indecente! E poi bisogna sapere che cosa ha fatto a Venezia,
quando io era a Venezia. Io saper tutto.

— Che cosa ha fatto?

— Nientemeno che un libro su l'_affranchissement de la femme_, dove
sostiene spudoratamente l'amore libero: un libro da scandalizzare non
solo le signorine; ma anche le signore ne sono rimaste indignate. Un
uomo, dico, scandalosissimo. — E concluse con un _climax_ di
esclamazioni esotiche che in lei valevano ad esprimere il sommo dello
sdegno o della meraviglia, secondo i casi.

Nadina sapeva per esperienza che tutti gli _issimi_ della buona signora
erano dei pleonasmi: il sole d'Italia glieli faceva dire.

— Molto grave — disse tuttavia Nadina la quale, più che grave, trovava
strano che un uomo trattasse tanto risolutamente una materia di cui
pareva così poco esperto.

— Oh, gravissimo! — confermò la signora. — Il divorzio va bene. Tutti
noi dei paesi civili avere il divorzio; l'Italia non paese civile e
perciò non avere mai divorzio. Ma l'amore libero! Pfui!

— Ma come l'ha saputo lei?

— Quando era a _Venise_ è scoppiato questo scandalo: tutto il mondo ne
parlava!

                                 ***

— Ne sappiamo delle belle sul suo conto, caro signore — disse il dì
stesso Nadina all'uomo dai sandali.

Lei si è permesso di scrivere un libro così scandaloso che una fanciulla
per bene non potrebbe nè meno pronunciarne il titolo senza vergogna.
Questa non me la sarei mai aspettata da un uomo come lei.

L'uomo arrossì e disse:

— Questa viene dalla signora americana.

— Precisamente!

— Ora lei deve sapere che la signora americana ha un odio feroce contro
di me; sommi questo odio con le sue esagerazioni e capirà ciò che ci può
esser di vero in tutte le infamie che avrà dette sul conto mio.

— E perchè questo odio?

— Nient'altro che per questo perchè: nei primi tempi, prima che lei
venisse, eravamo intimi, ed io mi sono permesso di osservarle che
nell'insultare Italia e Italiani si poteva avere una onesta misura:
questa per esempio: insultare di proposito, direttamente. Non domandavo
molto, mi pare. Ma ella non riesce a formare un periodo anche sulle cose
più indifferenti e diverse senza innestarvi un'ingiuria atroce, villana,
satirica su questo disgraziato paese. La mia pazienza ha tollerato fin
che ha potuto, facendo finta di non udire, di non capire. Ma un giorno
non ne ho potuto più e le ho osservato che se è vero che la _politesse_
è la più importante delle virtù, la _politesse_ insegna ad avere un poco
di riguardo per il paese e per gli abitanti dei quali si è ospiti.

— Imaginiamoci!

— Oh, sì! credo che anche i crini della perrucca abbiano sibilato di
sdegno. E che risposta: Parlò in nome di tutti gli stranieri e di tutti
i possessori dei Baedekers con su scritto _Italy_: «Noi ospiti? Noi
padroni che veniamo qui a dare a voi nostro danaro.» Ma non se ne è
accorta anche lei, signorina, che pur di dir male dell'Italia, ella,
evangelica fanatica, si entusiasma persino del papa _ce pauvre grand
vieillard_, unico uomo (italiano, si intende) _respectable_?

Nadina sorrise.

— Già noi sorridiamo, ma talvolta l'animo si gonfia di sdegno.

— E il famoso libro? — chiese Nadina.

— Il famoso libro non è che una traduzione di un libretto francese il
quale mi è piaciuto per la sua limpidezza e sincerità, e sopratutto per
il coraggio con cui tagliava netto questa bizantina questione del
matrimonio e del divorzio.

Io non so se la questione dal lato storico e giuridico e, se vuole
anche, dal lato sociale sia tata trattata a fondo e bene, ma dal lato
naturale, cioè di assicurare all'uomo e alla donna la maggior somma di
felicità, era svolto così sicuramente e onestamente che tutte le
considerazioni di opportunità e di convenienza passarono in seconda
linea.

Certo sono convinto che la legge ferrea del matrimonio è ai dì nostri un
ben strano anacronismo storico e sociale. Veda quale immonda fioritura
di vizi, di delitti e di malsane passioni — delizia di una letteratura
pornografico-sociale — ci fiorisce d'attorno!

— Così che lei, caro signore, mettiamo il caso, pur amando una buona
fanciulla, in omaggio ai suoi principi, non domanderebbe mai la sua mano
di sposa? — chiese Nadina sorridendo.

Ma non avea nè meno proferite queste parole che vide l'uomo impallidire,
mettersi la mano sulla fronte, e poi?

E poi fuggì.

                                 ***

Nei giorni seguenti l'uomo dai sandali fu più tosto riservato e
contegnoso con Nadina.

— Si può sapere che cosa ha ella con me? sarei io che dovrei averla con
lei che ha scritto un libro compromettente.

— Che cosa ho? Ma scusi, ma perchè si piglia ella giuoco di me?

— Io giuoco di lei? Si spieghi.

— Non ha ella detto: «così che lei non domanderebbe mai la mano di sposa
ad una fanciulla amata?»

— Sì! e questa domanda è forse un'offesa?

— Non è un'offesa — affermò l'uomo — ma uno scherzo atroce.

— Perchè? Non crede degno ad una buona fanciulla di salire sino
all'altare, la vorrebbe sposare alla zingara come dice nel suo libro?

L'uomo fu lì lì per iscappare una seconda volta. Ma Nadina lo fermò:

— Via, si spieghi!

— Io non ho autorità, io non ho autorità — diceva l'uomo miseramente
crollando il capo — io finirò con l'impazzire sul serio: io non ho
autorità presso nessuno, nè uomini nè donne: tutti si prendono giuoco di
me: io potrei accumulare tutta la sapienza di Salomone e tutta la virtù
di Socrate, e gli uomini si prenderebbero lo stesso giuoco di me. Lo
scherno degli uomini lo sopporto ma quello di una donna bella no, mi
pare lo scherno di Dio.

— Ma dice sul serio? — chiese Nadina aggrottando le grandi ciglia.

— Sul serissimo.

— Allora lei deve essere veramente ammalato.

— Ammalatissimo, signorina.

— Pare anche a me, perchè io non ho nessuna intenzione di offenderla: il
mio affetto fraterno...

— Ah, ecco la parola! — fremette l'uomo quasi lagrimando — Io, perchè
sono un uomo onesto, retto, morale, non ho inspirato alla donna che
degli affetti fraterni: per me tutte le donne furono caste, pudiche,
virtuose. Io quando tradussi quel libro — ingenuo io e l'autore —
giudicai come un fatto universale il fatto che accadeva in me, ed ho
condannato la legge del matrimonio nel nome della felicità della donna.
Ma che legge! La donna anzi vuole la legge per avere la voluttà di
poterla infrangere: la donna combatterà sempre la libertà dell'amore
naturale per la medesima ragione che combatterebbe la nudità se una
legge la imponesse. La donna vuol essere vestita per il piacere di
potersi denudare. Eva ha creato la prima _toilette_! Tutti gli
impedimenti, i riti, le paure, i giuramenti, le ipocrisie, i veli sono i
meravigliosi afrodisiaci di cui dispone la donna per sè e per il
maschio. Infrangerli, profanarli i riti, ecco la suprema voluttà! Più
dolce è il pane furtivo, più soavi le acque nascoste!

Gli occhi dell'uomo che così parlava, avevano bagliori di pazzo
esaltato: ma l'occhio calmo e severo di Nadina, posato su di lui, lo
tranquillò un poco.

Erano nella pineta: il sole incendiava lo smeraldo dei gran diademi di
verdura.

Nadina, poichè lo vide più calmo, gli prese dolcemente la mano e disse:
— Non teniamo conto di tutte le brutte parolacce che le sono a sua
insaputa venute fuori di bocca. Mi cavi semplicemente la curiosità, mi
dica soltanto perchè lei non mi sposerebbe!

Strana cosa! A Nadina il caso generico si era mutato, così
all'improvviso, in un caso personale e, prima ancora di riflettere,
aveva detto «_mi_ sposerebbe»; appunto perchè questa idea era nel volto
e nelle parole dell'uomo. Se ne pentì; ma troppo tardi! La parola era
già pronunciata.

— Sposare! — gemette l'uomo. — Ma io celebrerei tutti i riti, non solo
quelli di Madre Chiesa, ma mi adatterei a tutte le consacrazioni
dell'amore stabilite dai più remoti popoli: ma ci pensi e troverà che è
un assurdo.

Le pare che un uomo di trentacinque anni, che non rappresenta nessun
valore sociale e politico, che è affetto dal _tædium philosophorum_
possa contrarre legami di nozze con lei? Lei bellissima, lei che ha così
profondo il senso della sua feminilità da farle dire come disse, si
ricorda quel giorno? «la donna è la più bella e perfetta cosa della
creazione, è la creazione stessa!» Ma per lei, in qualsiasi modo ella si
unisca, ci vuole un uomo che rappresenti uno splendido valore umano,
riconosciuto dagli altri uomini e che si riverberi poi su di lei. Io, se
anche fossi ricco, non le potrei offrire che uno stato umile, appunto
perchè umile è l'anima mia. Lei dice «io ho disposizione per la casa, io
mi compiaccio delle faccende domestiche.» Sarà anche. Dio tolga che io
dubiti della sua sincerità, ma è il fatto che ella non ha ancora la
percezione esatta, precisa delle sue potenze muliebri. Imagina lei che è
artista, Venere dea che prepara lo stufato in cucina, o concepisce
Aspasia ed Elena che fanno il bucatino del bimbo? Non sente
l'inverosimile?

Minerva non fa la calza, Cesare non fa il copista, e lei non può, non
deve nè meno essere donna di casa, o se lo diventasse sarebbe un
sacrificio così inumano da averne poi pentimento.

— Lei, caro signore — disse Nadina freddamente — è molto ammalato.

— Lo so anch'io, signorina, e ho piacere così morrò presto.

— Sì, ma lei non sa quale è la sua malattia. Glielo dirò io: Lei è
ammalato di grave esaltazione mentale: lei combina le domande e le
risposte tutte da per sè e in una volta e così può sostenere qualunque
paradosso perchè è sempre lei che ha tutte le parti nella commedia. Per
quel che riguarda la mia umile persona le dirò che nelle sue parole ci
può essere qualcosa di vero. Io non sono nata per il matrimonio. Ho
domandato così per dire.

                                 ***

— Sapete signorin Nadina grande novità di ier sera? — domandò il dì
seguente Mrs. Evelyne.

— Io non so niente.

— Allora dirò? io: Quell'orribile uomo è partito.

— Chi? il signor X***?

— Precisamente, partito autenticamente: visto io alla stazione con le
scarpe, con il colletto e con la valigia. Partito! _Nous en sommes
délivrées._

                                 ***

Partito veramente!

E la lettera di commiato fu recapitata a Nadina la sera stessa: lettera
assai strana. Confessava la sua passione per lei. Diceva avere ella
pieno diritto di tormentare, perchè essere questa una forma di rara e
squisita voluttà per la donna. Non poter però egli più resistere e
perciò fuggire. Del resto esser pronto ad esserle servitore e ubbidiente
ad ogni suo imperio se ella lo avesse richiesto.

                                 ***

Nadina non conservò: strappò lentamente questa lettera.

E nei dì seguenti la decisione di Nadina era presa.

Molte volte, prima incerta, da poi insistente, noiosa anche, la ricca e
bizzarra _Mrs._ Evelyne avea fatto questa proposta a Nadina, e poi che
Nadina non ci sentiva da quell'orecchio, alla madre di lei:

«Come sarei felice, mia cara, se vostra figlia volere venire con me,
come dama di compagnia.» Non le assegnava verun lavoro od ufficio che
avesse sembianza di servitù «basta leggere un poco; vostra bella voce,
deliziosa.» E, o fosse sicurezza che non avrebbe accettato o lusinga per
indurla al suo volere, aveva offerto una ricompensa vistosa, superiore a
tutti i guadagni fatti insino a quel dì col pennello.

— Si viaggerebbe?

— Oh, sì, viaggiare. Quando viaggio aver bisogno dama di compagnia,
molto gentile.

La signora soffriva di certi suoi terrori della morte e una dama di
compagnia le era o le pareva necessaria per allontanare questo macabro
fantasma: dama di compagnia prima di tutto, poi vivaci letture, poi
_cognac, tè, cigarettes_ in gran copia: ecco la cura!

Deplorevole! Anche offrendo i suoi cinque milioni (la signora non aveva
nessuna vergogna di far sapere che non possedeva di più; capitale
irrisorio per far la gran vita nella sua patria dalle stelle gloriose;
obbligata quindi per economia a viaggiar di continuo, fermandosi a pena
un paio di mesi, Aprile e Maggio, a Parigi, l'estate in qualche stazione
climatica), deplorevole, dico, che anche offrendo tutti i cinque milioni
non si possa arrestare la morte!

La signora però è convinta che un Edison americano qualsiasi arriverà a
tale scoperta.

Pur troppo per lei sarà tardi!

Come Nadina parve accogliere tale idea, la dama ne fu felice, anzi
entusiasta e volle in quel dì stesso tutto stabilire e determinare chè
tale prontezza è costume d'America.

Dolci terre d'Oriente e di riviera segnavano l'itinerario invernale
della signora. L'artista ne era sedotta e la sorella contenta giacchè
quel guadagno assicurava gli studi al fratello maggiore.

— Vi pare una stranezza passare sei mesi e più dell'anno viaggiando? Per
voi italiani forse, ma noi stranieri facciamo dell'_hôtel_, del
transatlantico, dello _sleeping-car_ una specie di abitazione normale,
un _home_ in movimento. È piacevolissimo. È un mondo che conoscerete
molto volentieri. Tutto dipende dal saper fare. I mezzi sono oggi così
perfezionati che saper viaggiare è una vera scienza.

Voi italiani, passata appena la frontiera, siete subito all'estero; noi
anglo-sassoni siamo da per tutto in casa nostra. In qualunque luogo del
mondo dove sbarchiamo ci attendono i nostri costumi. È un dovere di
ospitalità alla nostra razza!

Tali erano le idee se non le parole di _Mrs._ Evelyne nel preparar la
giovane compagna alle sue lunghe peregrinazioni.

Questo nuovo genere di vita incominciò per Nadina in sul finire del
Settembre: da prima stentò ad abituarsi, poi ne provò soddisfazione e
piacere.

                                 ***

Se invece di Nadina fosse stato l'uomo dai sandali — che soffriva del
grave male dell'osservazione cronica — a condurre quella splendida e
variatissima vita, avrebbe notato come essa costituisca una specie di
privilegio meraviglioso, appena intravisto dagli immani greggi degli
uomini lavoratori, incatenati all'ufficio, all'officina, alla
professione, al dovere; i quali, in parte, questa gran vita preparano,
elaborano con il mirabile complesso dell'opera singola. Privilegio non
condannato in nessun programma rivoluzionario o sociale appunto perchè
figlio della civiltà, del progresso e della scienza: vita della vita!
Privilegio dove vivono liberi e con speciali leggi i nuovi Re.

I Re anonimi dell'Oro.

L'impressione che ebbe Nadina fu di respirare in un'atmosfera nuova.

Un servizio meravigliosamente organizzato attendeva in qualunque parte
del mondo questi anonimi Re. Nessun re di Corona ebbe mai tante regge e
palagi, e sotto le palme e fra le lande gelate e fra gli eccelsi monti,
quanti attendevano _Mrs._ Evelyne e Nadina.

Navi meravigliose; alberghi splendenti come castelli incantati; eserciti
muti e pronti di servi; fiori preziosi nell'aspro inverno adornanti la
mensa del treno che fugge, attendevano Nadina e _Mrs._ Evelyne.

Quale enorme somma di umano e immane lavoro per rendere facile la vita a
questi privilegiati Re dell'Oro!

E come si otteneva questo privilegio? quale eroica preparazione, quale
veglia d'armi conveniva fare?

Nessuna veglia d'armi, nessun diploma o emblema: bastava fare
semplicemente, come faceva _Mrs._ Evelyne con molta grazia e pratica,
cioè mettere in movimento il massimo degli accumulatori umani —
accumulatore non contemplato nei testi di fisica: l'oro! e siccome l'oro
è pesante e ingombrante, esibire volta a volta alcuni esilissimi
foglietti di carta.

L'umanità che vive nei cupi sotterranei del lavoro e che mette in moto
tutta questa splendente macchina di piacere e di bellezza, ha qualche
volta delle convulsioni di ribellione e di odio.

Ma i Re anonimi, i Re inafferrabili dell'oro ridono, come potrebbe
ridere il micròbo a chi lo inseguisse con la spada. Buttano alquanto più
di oro nella bolgia sotterranea.

E l'oro, cadendo, stride e ride come olio su le fiamme.

L'umanità incatenata bestemmia, odia più e più, e lavora più che mai per
dar libertà e agevolezza di moto a questi pochi felici.

E l'oro, per fatal legge, ritorna nelle mani d'onde era partito!

Per qualche tempo a Nadina soccorse la memoria di questa _umile_ Italia
lontana, della sua stanzetta dove il ritratto del babbo pendeva dalla
parete, e le labbra di lui dicevano: «brava Nadina!»

Poi un po' per volta queste imagini perdettero di forza e finì per
trovar bello, anzi magnifico, trionfale quel genere di vita sempre in
moto, ma un moto che si compiva così dolcemente come quello di una cuna
che ninna o si muove sui tappeti silenziosi.

Avea appreso anch'ella a spregiare il minuscolo pane plebeo delle
vertiginose abbaglianti mense, a trovar logici i costumi esotici, a
trovar supremamente belli i pranzi ne' grandi alberghi, ne' suntuosi
piroscafi tra fasci di luce, scintillar di brillanti, spalle ignude.

Oh, semplici e lieti pini dell'Italia lontana, come eravate lontani
oramai dal cuore di Nadina!

Aveva finito per trovar naturale quello strano amalgama di audace e di
cauto, di inverecondo e di correttissimo che era nei costumi di quella
gente eterogenea. Eterogenea ed eteroclita, eppure uguale e alla pari.

Non dite che l'uguaglianza l'ha creata Prudhomme, che l'internazionale è
figlia della mente di Carlo Marx!

In quella gran vita che Nadina viveva, tutti erano uguali,
internazionali, cosmopoliti.

Il re delle carni porcine si trovava gomito a gomito alle splendenti
mense col re della Borsa e del tappeto verde. I brillanti della gran
mondana scintillavano all'unisono coi brillanti della _lady_
aristocraticissima.

Il fumo della sigaretta dell'avventuriero si intrecciava nella stessa
sala con le spire della sigaretta dell'erede di un trono.

La _politesse_, la suprema delle virtù, uguagliava e amalgamava quel
mondo eteroclito.

E così pure Nadina non provava più disgusto alle letture che doveva fare
a _Mrs._ Evelyne. Le subiva.

Letture bizzarre appartenenti ad un'arte così diversa da quella del
piccolo Petrarca che aveva portato con sè, letture di cui la strana
donna meravigliosamente si compiaceva. E a Nadina conveniva leggere!

Una sete insaziabile di godimento possedeva _Mrs._ Evelyne. Un
bell'abito, un bel colpo d'occhio, un bel gesto, uno scandalo del gran
mondo, un avvenimento fuor del normale la eccitavano come un liquore
prezioso. I casi più miserandi della vita erano da lei riguardati con
calma addirittura ieratica. Capace di profondere oro per un capriccio
puerile, incapace di spendere un centesimo per asciugare una lagrima.

In quella febbre di sensazioni anormali trovava nei libri il massimo
eccitamento. Una mostruosa passione la commoveva sino alle lagrime: gli
affetti comuni e santi la lasciavano indifferente. «Saltate — diceva
alla sua leggitrice — questi sentimentalismi europei». Ella, insomma,
apparteneva naturalmente a quel gran publico per cui esteti e psicologi
si affaticano ad elaborare la loro mostruosa arte novella.

No, Nadina non poteva essere così! E nel non essere più quello che era e
nel non poter divenire ciò che era _Mrs._ Evelyne consisteva il suo
martirio segreto.

Ma sempre e dovunque Nadina si trovasse, e nel vestire e negli atti,
faceva capire quale era la sua condizione: ella era e voleva essere
domestica, dama di compagnia, nulla più.

Ciò indispettiva la dama. — Fra noi va bene — costei dicea — ma davanti
al publico fate male: voi avete graziosissimi abiti, ma non avete
_toilettes_. Permettete che ve ne acquisti.

Nadina rifiutò sempre questa offerta.

— Non parete nè meno giovane italiana — concludeva _Mrs._ Evelyne.

                                 ***

Era il tempo in cui Amore, il buon statuario, ha compito l'opera sua.
Era il tempo che la donna sente il bisogno di far sè devota e sottomessa
all'imperio dell'uomo.

Se ciò non avviene cadono in breve le corolle della bellezza, chè questa
è la legge del buon statuario.

Ma vi era qualcosa per cui Nadina era invincibile e si irrigidiva.

Se una parola ardente di amore fosse in quel tempo caduta su lei, ella
sentiva che si sarebbe trovata miseramente indifesa.

Ma quella gente non amava. Tutte le sensazioni erano a loro possibili,
non l'Amore!

No! Mai nessuna parola d'amore, nessuna dolce, timida, cara parola
fremente, ma sempre quegli occhi dei re dell'oro fissi invariabilmente
su lei come a dire: «Vostro prezzo, _miss_, _mademoiselle_, _fräulein_?»
secondo i casi.

Oh, l'ossequio, la cerimonia, la _politesse_!

Un manto di ermellino intatto, ma quegli occhi grifagni e freddi
dicevano pur sempre «Vostro prezzo?» E ciò la irrigidiva.

                                 ***

Questa vita vertiginosa durò tutto l'inverno.

Quando venne l'aprile _Mrs._ Evelyne trasportò le sue tende a Parigi.

Legata come era alla dama, vi conveniva condurre la vita che a lei
piaceva e conoscere quello che ella gradiva di conoscere.

La mattina, in giro pei gran magazzini a provar vestiti e a fare
acquisti: dopo colazione la solita passeggiata ai Campi Elisi o al Bosco
di _Boulogne_ o talora alle Corse o visite a famiglie della colonia
americana: la sera al teatro e, di solito, alla _Comédie Française_.

Gran vita signorile insomma che colse Nadina in un periodo in cui
l'anima sua era presso che annientata, la molla della volontà, infranta.

_Mrs._ Evelyne invece era nel suo centro, nel colmo della sua gaiezza;
Nadina vinta da una melanconia senza nome.

— Cosa avete, amica mia? — domandava talora la dama — la vita di Parigi
vi annoia? — e cercava di distrarla quanto più poteva.

Un brivido, uno sconforto senza nome dominavano Nadina nel trovarsi al
contatto di quella enorme fiumana elegante, mentre la carrozza
s'incrociava, fendeva, vi s'aggirava per entro: dentro le fiamme di un
alito caldo, che non era quello del sole!

Ed era sopratutto oggetto del suo stupore quell'immane accozzaglia di
donne, splendenti di rara bellezza, adorne de' più strani abbigliamenti;
erano le deturpazioni provocanti del trucco, l'abbagliante scintillio di
tanto oro e di tanto orpello sotto quel bel sole di maggio; era quella
ridda infernale dei colori più strani, quegli atteggiamenti provocanti e
decorosi nel tempo stesso che offendevano voluttuosamente la sua vista,
sconvolgevano la sua mente, annichilivano il suo essere. E con gli occhi
incantati guardava ma non vedeva.

Chi erano quelle donne? L'Idolo. Perchè cercare o scoprire chi fossero:
la virtù o la colpa? il Bene o il Male? Era l'immane Idolo.

Cercava Nadina, con un ultimo sforzo, di frugare in fondo al suo animo
per ritrovarvi qualcosa di buono, di santo, di antico. Nulla! Tutto era
svanito, come un aroma prezioso di cui si è obliato di otturare il
coperchio.

E l'obbligo di rispondere al cicaleccio della compagna! La gran dama e
la gran mondana ottenevano da _Mrs._ Evelyne il medesimo tributo di
_oh!_ ammirativi.

Le une e le altre formavano una cronaca di vario ma non dispari
interesse: cronaca splendente al sole, che non offendeva più.

Ma di ciò che passava nell'animo di Nadina nulla balenò o comprese, nè
poteva ella comprendere.

Tutto al più osservava che era molto pallida: che gli uomini la
guardavano molto: che l'avrebbero guardata di più se avesse ceduto alle
sue esortazioni di vestire qualche abito più appariscente.

In altri tempi e in altre circostanze queste parole avrebbero provocato
lo sdegno di Nadina; ora non più! La molla dello sdegno era spezzata, e
poi la dama non avrebbe compreso il suo sdegno, e poi le parole di lei
erano senza intenzione, corrette, nel modo stesso che la sua vita
esteriore era di una correttezza compiuta: nulla che non fosse conforme
a dama e a gran dama ella aveva notato nella vita di _Mrs._ Evelyne, e
l'altezza delle relazioni che costei aveva in Parigi la confermava in
questo pensiero e le acquistava prestigio. Di che dunque sdegnarsi?

Ma nei pochi momenti di raccoglimento nella sua stanza d'albergo,
maggiore era il pallore, più orribile il vuoto.

E non solamente la voce della coscienza non reagiva più, ma quella vita
febbrile e pazza le parve un po' per volta la vera vita: necessari e
belli le parvero quei riti del lusso, e con terrore pensava che domani
quelle mille futili e preziose cose sarebbero per lei state altrettanti
bisogni.

Sapeva che fra poco avrebbe dovuto riprendere la vita umile, laboriosa,
parsimoniosa di prima, e non se ne sentiva più la forza.

Anzi la vita insino allora condotta, virtuosa ed attiva, le parve una
vita sciupata.

Sì, vita sciupata!

                                 ***

Fu in cotale stato dell'animo che _Mrs._ Evelyne disse a Nadina che
quella sera si sarebbe andati _au Gymnase_.

Cleo de Merode, l'_étoile belge_, questa splendida incarnazione della
bellezza muliebre, vi si produceva per una delle ultime sere.

Il _Gil Blas_ ne faceva una descrizione meravigliosamente estetica,
piena di affascinanti particolari.

Nadina protestò debolmente. Non le pareva conveniente che due signore
sole andassero ad una rappresentazione del _demi-monde_, e tentò di
dissuadere la signora.

Ma ella rispose con un americano e imperioso _io so_ che, tradotto,
voleva dire: _io conosco l'ambiente e non voglio osservazioni!_

Quella sera Nadina attendeva su di una poltroncina, presso il _bureau_
dell'Albergo, che _madame_ finisse una delle sue interminabili
toilettes.

Fissava, fra i molti giornali, il _Gil Blas_ che portava lo schizzo
della donna che in quei giorni affascinava Parigi.

Avventure di re, fiamme di brillanti turbinavano davanti agli occhi
della fanciulla.

E attendendo e guardando, questi versi di un poeta italiano le si
fissarono davanti:

    Per quella notte don Petro a corte
    Non ospitò
    E il giorno dopo, cangiando sorte,
    Di Spagna al trono Pachita andò.

— Voi andate questa sera _au Gymnase_, _mademoiselle_? — disse una voce
dietro di lei.

— Oh, no! — rispose Nadina arrossendo, — noi andiamo questa sera, come
il solito, alla _Comédie Française_, almeno io credo.

— Ah! _Madame_ mi avea assicurato il contrario.

Chi aveva interrogato così era un giovane e bellissimo signore, col
quale già aveva fatto il viaggio da Alessandria a Marsiglia. Si era
legato di amicizia con _Mrs._ Evelyne, anzi vantavano ragioni di
reciproca conoscenza e parentele comuni.

Nessuno più discreto e perfetto gentiluomo di costui, ma di nessuno gli
occhi avevano chiesto con maggior insistenza: «Insomma, quanto volete?»

Ventura od elezione avevano fatto trovare costui nel medesimo Hôtel dove
erano le due donne in Parigi.

L'ossequio del signore era tale che non si poteva essere con lui
scortese.

In quella scintillò e strascicò giù per la scalea l'abito di _Mrs._
Evelyne.

La carrozza era pronta.

In sul salire Nadina tentò un'ultima volta:

— Non si va proprio alla _Comédie_?

— Avere detto andare _au Gymnase_ — rispose la dama e in tuono così
esplicativo che voleva significare: «io pago e voi dovete seguirmi».

— _Vous verrez_ — diceva Mrs. Evelyne frattanto in tuono più dolce —
_elle est toute couverte de pierreries_. Galleria degli Uffici a
_Florence_ valere meno, oh molto!

Nadina non rispose: non avrebbe mai voluto arrivare _au Gymnase_, e
invece il trotto dei cavalli quella sera era più rapido che mai. Dai
tigli dei _boulevards_ vaporava un caldo profumo di primavera.

I suoi pennelli, la sua arte! Oh, miseria delle miserie! quando avrebbe
ella mai guadagnato altrettanto, pur lavorando tutta la vita? quando un
raggio di gloria avrebbe cinto la sua fronte come quella che splendeva
intorno al nome di Cleo de Merode?

Oh, miseria delle miserie!

Entrarono in un palchetto di primo ordine.

Bastò un'occhiata a Nadina per comprendere il luogo dove era piombata:
_Mrs._ Evelyne stessa parve a disagio e sfuggiva l'occhio della
fanciulla che nettamente la interrogava: «Signora, perchè avete voluto
condurmi qui?»

Evidentemente quell'«io so» era stato pronunciato con troppa fretta; e
quella platea splendente, zeppa, magnifica di cortigiane autentiche,
osservate nella libera manifestazione dell'arte propria e in casa
propria per giunta, offendevano il decoro anglo-sassone di _Mrs._
Evelyne: il color di carota del suo volto assunse una tinta pavonazza:
soffocava di bile.

Non di bile, ma di ultime fiamme si accese invece il volto di Nadina; e
per il pudore di parer pudica tra quella impudicizia trionfale che la
serrava da ogni lato, teneva gli occhi sul programma dello spettacolo,
quando uno scoppio di applausi, spontaneo, fragoroso, unanime le fece
levar la fronte.

Una prima cantatrice era apparsa, poi una seconda, poi un'altra ancora.

E allora un fatto strano si compì in Nadina.

Quell'applauso solenne, interminabile, da fare invidia alla persona più
grande della terra, quel bianco scintillare di nudità e di brillanti, il
raccoglimento religioso di quella folla parvero a Nadina come la
celebrazione di un rito: anzi del grande antico rito. Quello che prima
era sembrato mancanza di rispetto a se stessa, diventò quasi omaggio
reso a se stessa.

Breve la lotta tra l'ammirazione e lo sdegno: poi soggiogata, vinta,
incatenata al suo posto, con un fermento del sangue entro il corpo
immobile, fissò quelle splendenti femine, quasi serafiche e quasi beate
nella impudicizia sicura. Poi più nulla, poi null'altro che un'ansia che
il sipario si levasse ancora, un'avidità angosciosa di udire, di vedere
sempre di più: quando uno scroscio di nuovi applausi la scosse.

Salutavano Cleo de Merode.

Fra lo scintillio dei brillanti di cui era coperta, quasi vestita come
le imagini miracolose dei santuari, feriva uno scintillio più forte:
quello de' suoi occhi.

E intanto l'applauso, fragoroso, cresceva; saliva sino al delirio. Un
fremito, una febbre scuoteva il teatro. Inabissare parea dovesse il
teatro: uomini e donne lanciavano fiori, parole, grida: e lei,
ieraticamente composta, sorrideva a pena, e danzava.

Sorriso della vita, incarnazione della vera vita parve a Nadina la
meravigliosa femina.

Un'ombra proiettava su quella luce, ed era la sua esistenza umile e
occulta: e Nadina la maledisse nel cuore e sorrise a quella luce e a
quel trionfo: l'una palma della mano cadde sull'altra, inconsciamente.
Applaudì!

Era scomparsa Cleo de Merode: qualcosa di nuovo avveniva sulla scena,
qualcosa che Nadina non ben comprese: fissava e non comprendeva.

Ma uno scoppiare intorno a lei di risa; di lascive, di sguaiate risa la
fecero avvertita di quel che accadeva.

Guardò a torno, e vide la scena rispecchiarsi nel volto di tutte e di
tutti: ella solo non rideva, riguardò per un attimo il palcoscenico, e
comprese.

Una mima eseguiva laidamente una scena di ciò che «in camera si puote».

L'incanto fu rotto. Come nelle fole, il castello magico sfumava, la fata
si trasformava in serpe e in orrida strega. Non rito, non amore, non
sogno! Commercio anche qui: scienza del dare e dell'avere: domanda ed
offerta. Quanto valete, _miss_, _mademoiselle_, _fräulein_? Dite vostro
prezzo! E la nausea montò alla gola della fanciulla.

Nadina scattò in piedi: guardò nell'interno del palco. Vide _Mrs._
Evelyne pure in piedi e il cameriere che posava il mantello sulle spalle
di lei.

— Questo è _shocking_ — disse _Mrs._ Evelyne che qualche cosa doveva pur
dire.

Nadina non rispose; e in quel punto un più nutrito scoppiar di risa,
risa ironiche, sarcastiche si levò: balenarono volti, occhi, piume,
gioielli, volgendosi dalla lor parte.

Salutavano la fuga delle due donne.

Nell'atrio un uomo attendeva calmo, sorridente.

Era il giovane signore americano.

— Oh, _shocking_! — ripetè a costui la dama, facendo un gesto di orrore.

Il giovane rispose con un sorriso.

Ma Nadina non disse nulla: gli occhi di lui, pur nell'inchino, pur
nell'atto servile di aprire lo sportello della vettura, erano fissi su
lei, audacemente fissi, ed ella li senti penetrare come pugnali con
questa domanda: «Dunque?»

                                 ***

— Voi siete molto pallida, mia cara ragazza — disse _Mrs._ Evelyne
quando la vide comparire al mattino seguente — ma permettete che ve lo
dica: quel pallore e quell'aria truce da giustiziera vi danno un fascino
irresistibile. Ah! se fossi nata uomo non so quali follie avrei commesse
in vostro onore! (questo insieme all'altro «voi non sembrate nè meno
italiana» erano le due supreme espressioni di lode che _Mrs._ Evelyne
rivolgeva a Nadina — ambedue non bene accolte). Se non vi dispiace,
affrettatevi. Ho dato appuntamento alle undici da _Pasquin_. (Si
trattava di uno sfarzosissimo abito in grande scollato che Mrs. Evelyne
aveva commesso per una serata di gran ricevimento in casa di una
famiglia americana).

Nadina era ben pallida! E in verità solo al mattino aveva velato le
pupille. Un senso di nausea avea tenuto agitate le belle membra per
tutta la notte tra le insonni coltri. Nausea non per le imagini impure
viste la sera. «Impure?» parevano domandare brutalmente gli occhi
grifagni dell'uomo, «ma a quale altro ufficio vi ha consacrate Natura
quando rivestì di tanto fascino e di tanta bianchezza, di tanta deità le
carni miserabili destinate — ultimo tributo fatale — alla terra?»

Miserabili ipocrisie!

Nausea materiale piuttosto, nausea strana di quella vita artificiosa in
cui da mesi era trascinata, nausea presso a poco consimile a quella
provocata dai cibi che le erano ammaniti sulle splendenti mense, cibi
irriconoscibili, disfatti, putrefatti in salse eccitanti, che lasciavano
inerte il dente e lo stomaco: nausea per quegli uomini tuffati, sommersi
in una gelatina di convenzioni, di cerimonie, di lascivia insieme, senza
mai uno scoppio di passione, senza che un grido d'amore redimesse o
compensasse quel orribile, nauseabondo, continuo «quanto valete?».

Nausea sopratutto di sè, che pur ripudiando tutto il suo passato di
semplicità, di modestia e di lavoro, non avea il coraggio di tuffarsi
nel vortice di quella vita che da mesi e mesi le faceva irresistibile
invito: nausea del languore e del torpore che la possedeva come un lento
e voluttuoso narcotico.

                                 ***

Nadina era abituata a far la mula del medico durante le lunghe attese
ne' gran magazzini di mode, e talvolta attendendo o rispondendo
distrattamente alle domande di _Mrs._ Evelyne, che la consultava sulla
scelta de' colori e degli ornamenti degli abiti, scorreva quel suo
piccolo Petrarca. Erano le melodiose dolci parole italiche come un
richiamo, come un'evocazione che le risvegliava, per effetto dei suoni,
il pensiero, l'anima, il colore e il paesaggio d'Italia. Oh, quale voce
di inesausta trionfale passione si sprigionava dal riposato, mortificato
e sacro verso d'amore di quell'antico e meraviglioso poeta!

Ma Nadina in quel luminoso mattino, mentre il sole faceva scintillare
tutte le meraviglie lucenti e preziose, e gli specchi di una riposta
saletta di prova, sedeva inerte ed attonita, senza più pensiero.

Venne la commessa che depose sul tavolo la gran veste, con il rispetto
degli arredi sacri. Le sete, le trine, i merletti risuonarono nel posare
come metalli preziosi.

Con la commessa si accompagnava una di quelle mute e statuarie creature
che sono denominate _mannequins_, pupe o fantocci, perchè servono per la
prova delle vesti.

Costei già si accingeva a svestirsi, quando _Mrs._ Evelyne, rivolta a
Nadina, disse:

— Vi dispiacerebbe, ragazza mia, di provare voi questa _toilette_? la
vostra persona mi pare più adatta.

Quelle parole tolsero la giovane dal suo torpore.

Si levò e si appressò allo specchio docilmente.

Le due commesse allora si accinsero a toglierle gli abiti che a' suoi
piedi, come antiche spoglie, cadevano l'una dopo l'altra.

E allora l'abito fu sovraposto alle carni con la solennità di una
vestizione o di una consacrazione: per un po' le mani delle giovani
attesero, posando, adattando; poi si scostarono pianamente, in silenzio
per contemplare.

Lievi gridi di ammirazione sorgevano accanto a Nadina.

Passò qualche istante.

Un lampo passò folgorando negli occhi di Nadina.

Aveva visto sè trasfigurata, rinnovata, rinata nella grande specchiera,
più grande e, più che bella, terribile quasi in quel grande scollato,
con quell'enorme strascico che la ingigantiva sollevandola quasi, come
sopra un altare. Un sorriso le germogliava sul labbro.

Sorrideva, dunque!

Era l'anima nuova, di dentro, che rideva: era la calma per l'equilibrio
che si veniva alfine formando tra questa anima nuova e il mondo
circostante: era il piacere per la fine dell'angoscioso dissidio che
durava da mesi: era il bagliore del suo nudo seno, proteso allo
specchio, che le ricordava le carni ignude della sera prima, premiate
dal mondo con una cappa di diamanti: era la fine della dolorosa
coscienza antica, il principio della coscienza nuova. Era il piacere del
rinascere!

_Mrs._ Evelyne, l'esperta, aveva ragione: occorreva a Nadina una vesta
nuova, un nuovo involucro! E _Mrs._ Evelyne spiava intanto con occhio
attento il succedersi di quei sentimenti sul volto della fanciulla, come
il medico scruta nell'ammalato gli effetti del male. Quando il sorriso
apparve spiegato, disse:

— Quest'abito è per voi, Nadina! — giacchè quel sorriso voleva altresì
significare come risposta anticipata all'offerta: «sì, grazie, signora,
accetto».

                                 ***

Ma questa risposta non venne!

Uno strano cambiamento avvenne:

Un — No! — di paura e di angoscia risuonò nella saletta di prova.

E gli specchi rifletterono quell'angoscia e quella paura: e gli specchi
rifletterono le due commesse che accorrevano pronte a difendere la
meravigliosa veste perchè le mani di Nadina non la sgualcissero. Con
mani febbricitanti, convulse, cercava di togliersela di dosso.

— Ma perchè? ma cos'è questo? — chiese stupefatta a tal mutamento
improvviso _Mrs._ Evelyne.

— No! — urlò Nadina.

— Ma vi sta benissimo — insinuò la dama.

— Deliziosamente — dissero in coro le due commesse con voce accorata.

— No!

— Ma voi allora siete impazzita! — concluse _Mrs._ Evelyne.

— No!

Questo era avvenuto: Gli occhi di Nadina, volgendosi da quell'estatica
contemplazione, avevano scorto, reietto, buttato in un canto del
tappeto, da lei stessa buttato in un canto, il suo abitino nero che
portava sempre e, presso, il piccolo Petrarca.

Era l'involucro dell'anima sua, era l'anima sua!

E allora l'anima che doveva morire in Nadina, aveva supplicato: «no! non
farmi morire, fammi amare, fammi vivere nella purità a nella luce del
sole!»

Si chinò, raccolse quelle lievi vesti reiette che si stringevano in un
pugno; raccolse quel piccolo libro, ignoto a quelle genti barbariche,
ove tanta gentilezza antica, ove tanto adorno splendore di cieli e di
terre si raccoglieva, e tutto strinse in grembo, e se ne coperse il
seno.

Ne sentì il tepore, ne sentì la carezza, sentì una voce lontana che
partiva da una tomba: «brava Nadina!»

E non resse più, si piegò su di sè, sul divano, nascondendo fra le mani
la testa.

— Piange? — si chiedevano le commesse.

E _Mrs._ Evelyne disse sdegnata:

— È una fanciulla italiana: tutte le fanciulle italiane sono così, molto
sentimentali.

                                 ***

I signori portalettere assicurano che l'uomo più ragguardevole di una
città è colui che riceve maggior quantità di corrispondenza.

Ora l'uomo dai sandali doveva essere pochissimo ragguardevole perchè la
sua corrispondenza era così rara che il signor portalettere ignorava
persino la sua esistenza.

Grave, quando i portalettere ignorano l'esistenza di una persona! Ciò
vuol dire che l'uomo non è più allacciato alla vita!

Ma un giorno, sul finire del dolce maggio giunse all'uomo dai sandali
una lettera incognita con un suggello straniero.

Da molto tempo l'uomo dai sandali domandava a sè stesso che ne faceva
oramai della sua vita. Nulla! era la risposta.

Ma poichè ebbe scorsa quella ignota lettera, le fiamme della vita furono
per nuovo alimento in lui riaccese. Le pupille ritrovarono le lagrime,
le membra benedirono e invocarono la forza.

Nadina scriveva all'amico lontano e obliato.

                                 ***

Un uomo percorreva nella notte e nel furore di un treno diretto la lunga
strada che dall'Italia a Parigi conduce.

Era l'uomo dai sandali francescani a cui Nadina chiedeva, a grande voce,
disperatamente soccorso.



SENAPE INGLESE O SENAPE FRANCESE?


Per trovare la ragione per cui il comm. Fabrizi — autorevole magistrato,
uomo solidissimo, anzi una specie di cavallo della ditta Gondrand
attaccato al _forgone_ del più rigido dovere, uomo che morendo in pieno
esercizio delle sue funzioni, avrebbe avuto uno splendido funerale di
prima classe e avrebbe costituito uno spontaneo fatto di cronaca ne'
giornali — peccasse di pensiero e di azione, bisogna risalire al giorno
prima.

Un più sottile osservatore potrebbe eziandio ricercarne le cause nel
dolce aprile che blandamente, ma invincibilmente, risveglia le piante e
gli uomini senza alcun rispetto alla matura età, al senno maturo, al
loro grado sociale; ma accontentiamoci della prima spiegazione: cioè
quella del giorno prima.

Ora che cosa era saltato in mente il giorno prima al quasi illustre C***
C*** di fermarlo per la via così? Così, con queste parole:

«_Sapristi_, sapete voi, caro Fabrizi, che voi siete ancora un
bell'uomo, un imponente, un gagliardo uomo? I vostri occhi, sì, sono
_liebig_! Peccato che portiate quella barba, indizio e rivelatrice del
tempo, ahi, inesorabile ed edace!»

                                 ***

C*** C*** è un felice letterato mondano, il quale se non declinasse
oramai per la inesorabile curva degli anni, avrebbe buona speranza di
vedere avverato il suo lungo sogno di gloria. Ma la morte lo gabberà.
Egli intanto si oppone per quanto può a questa crudele discesa, e un suo
innocente artificio consiste nel ripetere alle dame le eterne, le
uguali, le romantiche parole; e siccome tanto elle che lui discendono
verso le rughe ed il grigio, così nè elle nè lui si avvedono del dolce
inganno.

E fu manifestamente per effetto di questa sua inveterata abitudine di
far complimenti che egli disse all'amico: «I vostri occhi sono
_liebig_!»

E quel _liebig_ voleva dire «sguardo concentrato come l'estratto
omonimo» ovvero «amabile» come _liebig_ significa in tedesco?

Il commendatore Fabrizi non si curò per allora di indagare, ma se ne
sentì lusingato: tanto più che l'altro aggiunse enfaticamente: «Noi
seguaci delle Muse, abbiamo un continuo ricambio di fosforo, laonde per
noi la vecchiezza non è che un involucro apparente. In voi, seguaci
della rigida Temi, avviene lo stesso, a quanto pare!»

Queste parole fermentarono nel sistema psiconervoso del commendator
Fabrizi, perchè se non si fosse più ricordato che avea gli occhi
_liebig_, non avrebbe risposto allo sguardo; se non avesse accettata per
buona l'affermazione del ricambio di fosforo e la teoria dell'«involucro
apparente», si sarebbe vergognato della sua debolezza, inconcepibile
dopo tanti anni di virtuosa astinenza e di nobile esempio della virtù.

Ma per Dio! Se uno deve cadere in tentazione dopo venti o trent'anni di
esercizio stoico dell'_abstine-sustine_, dopo tante rinunzie, tanto vale
che ci cada prima!

Il vero è che questo grave magistrato si era così assuefatto
all'_abstine-sustine_ che se avesse dovuto rispondere perchè Iddio ha
messo al mondo le belle, le folli, le amabili, le incoscienti, le
seducenti donnine, si sarebbe trovato assai impacciato. La donna è il
lievito primo delle passioni e dei delitti: ciò risultava evidentemente
al commendatore Fabrizi. Se dunque si potessero abolire le incoscienti e
seducenti donne come si potrebbero abolire le cartoline pornografiche,
sarebbe abolito anche il delitto. Questo pure risultava evidente.

Ma in questo caso anche i magistrati, lui compreso, sarebbero stati
aboliti: la vita stessa subirebbe un'abolizione! Manifestamente nel
mondo ci sono delle questioni complesse e il miglior modo per
comprenderle è di pensarci il meno possibile e lasciar da parte la
logica.

La verità, anzi tutta la verità, è che, proprio in quella mattina,
gliene capitò una seducentissima di donnine, di fronte a lui, in _tram_.

E, cosa inverosimile, costei guardava lui, proprio lui, negli occhi
_liebig_.

Ma era verosimile, ripeto, che una donna guardasse lui? Verosimile come
se il buon diavolo Asmodeo comparisse nel nostro studiolo e ci dicesse:
«Pronto, signore, a trasportarvi per l'aria!» così pareva verosimile al
commendatore Fabrizi di esser guardato a quel modo da una bella donna.

Il commendatore sbirciò a destra e a sinistra: nessuno! Dunque la causa
della fissazione di quelle due maliarde pupille non era che lui. Cosa
più che inverosimile!

La donna che lo guardava non era dama ma neanche cortigiana; non
crestaina vestita da festa; non di quelle femmine che imparano bensì per
istinto in poche prove l'arte dell'eleganza, ma, apriti o cielo se
schiudon la bocca! colei invece non solo la apriva e mostrava una
boccuccia fresca ed odorosa con una doppia fila di denti madidi e
perlacei, ma parlava vezzosamente, finamente alla sua compagna; sempre
però fissando lui negli occhi _liebig_.

Un feltro alla studentesca, due sbuffi di capelli castani in su le
tempie, un ovale di giovanetta ventenne, pallido e fresco che dava
l'idea della giunchiglia d'aprile! Ricordava quei tipi di ragazze che si
attaccano con predilezione ai seguaci di Minerva, cioè agli studenti, e
che erano in uso un trent'anni fa. Lui — il fiero magistrato — in
trent'anni era mutato moltissimo, ma quel tipo di ragazze, spensierate e
gaie, modeste di prezzo e di peso, rimaneva tuttora a conforto
dell'umana specie! Quella lì ne faceva fede.

Il solenne magistrato da prima si seccò di quello sguardo insistente,
poi si irrigidì in tutta la sua dignità, infine concentrò tutto il fuoco
di cui era capace negli occhi _liebig_, imponendo alla fanciulla di
smettere. Macchè! quegli occhi maliardi non subirono alcuna
perturbazione. Che fare? Il magistrato, di scatto, fece fermare il
_tram_ e scese.

Ma appunto, approfittando della fermata, scese anche lei con la
compagna.

Ciò era soverchio!

Il commendatore Fabrizi aveva gravi cure in quel dì. E non solo il
presidente della Corte d'Appello lo attendeva nel suo studio, ma si
trattava anche di conferire col senatore X*** e col marchese C*** e con
altri valentuomini intorno ad un fiero proclama da lanciare al paese
contro la nefasta propaganda del divorzio.

                                 ***

Perchè in quella mattina il commendator Fabrizi, sorbendo il caffè, in
veste da camera, si era sentito brillare la splendida idea di rivolgere
a tutte le persone, note e notorie, un formulario in proposito di questo
tenore:

«Crede Ella che in un popolo pervenuto ad un alto grado di civiltà, dove
è ammessa la indissolubilità del coniugio, l'introduzione del divorzio
rappresenti un progresso?

«Non teme Ella che dalla adozione del divorzio possa risultare un
crescente dissolversi della famiglia?» Queste le domande.

L'idea era bellissima e la trovata degna del suo amore per la
conservazione sociale. Bisogna cioè vincere l'Idra rivoluzionaria col
metodo suo stesso. _Ad referendum!_ e il commendatore Fabrizi volse il
passo verso la casa del senatore.

Ma proprio sull'angolo della via la giovinetta si era fermata per vedere
se era seguita, come a dire: «coraggio!»

Ciò oltrepassava i limiti della libertà e dell'audacia! E allora per
mostrare a sè, a colei, al manifesto che aveva in tasca, a tutto il
mondo, insomma, che egli non ubbidiva ad eccitamenti peccaminosi, si
fermò; anzi avendo a mezzo della via trovata una _buvette_, vi entrò, ed
egli, uomo astemio, fu indotto a bere un acerbo ed eccitante liquore.
Obbediva forse inconsciamente a quel motto della sapienza popolare:
«chiodo scaccia chiodo: un diavolo ne espelle un altro?»

Poichè ebbe bevuto, uscì fiducioso di aver libera la via, e proseguì il
cammino verso la casa del senatore. Il feltro chiaro era scomparso
dall'orizzonte. «Il divorzio — pensava — disgrega la cellula
protoplastica della famiglia. E allora....» ma mentre esaminava entro di
sè tutte le terribili conseguenze di questa premessa, proprio sotto il
voltone di un palazzo deserto, immobile, sola, lo aspettava al varco il
feltro bianco. Ciò si legge anche nelle rime di Francesco Petrarca:

    E fecesegli incontro
    A mezza via come nemico armato!

Era troppo! Il degno magistrato si fermò e si trovò nell'assoluto dovere
professionale di inquisire e domandò: «Chi siete voi? Come vi chiamate?
Quanti anni avete? Che professione esercitate? Donde venite? Quali sono
i vostri mezzi di sussistenza? Da quanto tempo dimorate in questa città?
e — finalmente — dove abitate?»

Tutte queste domande che avrebbero offeso qualunque persona, non
turbarono che mediocremente la giovinetta: la quale come imputata che
non ha nulla da nascondere, nulla da rimproverarsi, rispose a tutto con
soavissima voce; e infine da un minuscolo portafogli trasse e porse il
suo biglietto di visita con l'annesso recapito: «Sola, orfana, straniera
in quella città, anni ventidue, abbandonata dal tutore: commessa
viaggiatrice per la casa Band in articoli di mode.» Una vita tersa come
uno specchio!

— E allora — replicò il magistrato — che cosa fa lei, qui, sotto questo
portone?

— La mia amica — ella rispose — è salita al terzo piano per prendere il
suo piccino che oggi fa la prima comunione, ed io ne sono la madrina.

— Va bene: ho piacere di vedere che ella è di principî morali!

— Per fortuna, signore — confermò la giovinetta — in tante mie traversie
e vicissitudini infelici la religione non mi ha mai abbandonata. Guai se
la Madonna non mi avesse tenuto le sante mani sul capo! Chi sa che cosa
sarebbe avvenuto di me, in che abisso sarei caduta, sola, orfana,
abbandonata dal tutore, dopo avere egli abusato indegnamente della
fiducia che io, povera inesperta fanciulla, riponevo in lui!

Il signor magistrato a queste parole umili e dolenti, al commento che vi
facea il pallido volto, si sentì intenerire, onde domandò con voce più
mansueta: — Ebbene, cara ragazza, ditemi perchè quell'insistenza nel
fissarmi, come facevate in _tram_.

Il sorriso zampillò negli occhi e sulle labbra di lei: poi si confuse,
chinò con ritrosia il volto, in fine, col rapido trapasso dal pianto al
riso che è virtù della donna, disse:

— Perchè, o signore, i suoi amabili occhi azzurri mi hanno fatto
un'impressione sorprendente, strana. Ella, capisco, potrà pensar male di
me, ma avrà proprio torto.

(Evidentemente quel _liebig_ del giorno prima voleva dire _amabile_.
Oramai ne era sicuro: la spiegazione della signorina escludeva ogni
altra indagine filologica).

— Veniamo, veniamo a noi — disse più gravemente l'uomo della legge. —
Sono vere tutte le cose esposte, proprio vere?

— Verissime, signore, dall'_a_ alla _z_, e poi, dopo mezzogiorno, finita
la comunione, se ha la bontà di venire da me, potrà sincerarsene; vedrà
il campionario.

— Perchè no? Se le mie occupazioni me lo permetteranno.

— Come crede, signore. Per mio conto già tutt'oggi bisogna che rimanga
in casa.

                                 ***

Il degno magistrato salutò severamente, si allontanò e, riscontrando nel
suo cammino una seconda _buvette_, sentì il bisogno di entrarvi. La sua
gola, per le poche parole dette, era arsa come dopo un'intera concione.

Un raggio di sole faceva scintillare tutta la bottega e tutti i veleni
opalini, verdi, amaranto, che occhieggiavano nelle fiale.

Le commesse del collarino e dai polsini candidi, occhieggiavano
anch'elle: ed egli bevve e non provò affatto quel senso nobile di sdegno
che lo accompagnava da anni, e per cui tutti i luoghi in cui belle donne
fanno da richiamo, gli pareano turpissimi lenocini. Anzi, centellinando,
ebbe questa idea: «E se tali luoghi sono lenocinio, come chiameremmo noi
gli spettacoli di gala al teatro, i grandi balli ufficiali, ove noi
pure, uomini della legge, siamo chiamati ad intervenire? E pure ci
intervengono le compite dame, in grande scollato, che mi rivolgono
questa prudente e saggia domanda:

«Non teme Ella, commendatore, che dalla adozione del divorzio possa
risultare un crescente dissolversi della famiglia?»

«No, signora, non temo, non temo niente,» fu la risposta che allora
diede il commendatore.

La famiglia! Il papà al posto d'onore, la mamma di fronte col naso lungo
acerbo, la signorina e il signorino ai lati: la domestica ogni giorno
col solito piatto di bollito e la solita domanda: «La senape francese o
la senape inglese?»

Ciò evidentemente era troppo pel signor magistrato: era un rifare a
precipizio in un giorno solo il cammino lento e progressivo di
trent'anni per la via della virtù. Se ne accorse anche lui. «Certamente
— seguitava pensando — i confini del diritto sono incerti, esistono
delle conflagrazioni fra diritto e diritto: ma egli è pur vero che se si
dovesse chiudere questo negozio qui in nome della morale e dei santi
principî, bisognerebbe chiudere anche quello là: insomma chiudere tutto.
Insomma una clausura universale.

No! così la faccenda non va: i conti non vengono. Bisognerebbe
cominciare da capo: tutto libero, tutto aperto, tutto permesso! Qui
l'orizzonte gli si allargò in una visione mirabile _ancorchè fosse
tardi_, come disse Dante.

Ma poi sopravvenne un'idea che chiuse tutto quell'orizzonte sconfinato
di libertà perchè si ricordò del motto di quel famoso filosofo che
disse: Cosa disse? Se fosse stato un filosofo antico, un Aristotele, un
San Tommaso, un beato Lattanzio, il commendatore Fabrizi se ne sarebbe
riso davvero della sentenza di quel filosofo!

Ma si trattava di un filosofo moderno, positivista celebre: egli in quel
punto non si ricordava del nome, ma probabilmente si trattava di
parecchi filosofi che dissero tutti, press'a poco, la stessa cosa, cioè
questa: _La civiltà non è stata altro che una continua vittoria contro
gli impulsi del senso._

E allora?

Allora non rimane che un rimedio: «abbasso la civiltà e torniamo alla
barbarie!»

A questo punto il commendatore ebbe paura delle sue idee e retrocesse,
in altri termini uscì dal negozio ove occhieggiavano le fiale velenose
in fondo alle quali cova un Asmodeo, loico e demoniaco. Non però che
prima non consegnasse ad una di quelle banchiere tutto l'incartamento
sul divorzio, pel quale e sul quale doveva conferire col senatore X***.
Quell'incartamento anzi tutto gli usciva dalle tasche del soprabito e
stava male, inoltre lo sapeva tutto a memoria.

«_Crede Ella_ (domanda ottava) _che in un popolo pervenuto ad un alto
grado di civiltà dove è ammessa la indissolubilità del coniugio,
l'introduzione del divorzio rappresenti un progresso?_»

Cosa posso credere io? Io credo, io credo, io credo che far da salice
piangente sull'argine del fiume dove corre il torrente dell'umanità sia
professione infelice fra le infelicissime! Questo io fermamente credo: —
Tenga, signorina, questo pacco di carte: passerò a riprenderlo.

— Si figuri, signor commendatore! — rispose colei inchinando. — Ciò fu
un colpo di stile. Anche lì era conosciuto, lì, dovunque, lì come da per
tutto la sua barba e la sua dignità sono note: tutta gente che trema,
che allibisce davanti a lui: tutti lo riconoscono per il temuto, il
rigido custode della legge, a cui nessuno osa dire di _no_! Cioè, v'è
una persona che non solamente osa dire, ma dice sempre di no: La
marchesa sua moglie.

Il commendatore uscì molto avvilito.

                                 ***

Eppure tutto in quella magnifica mattinata di aprile scintillava
superbamente, allegramente, liberamente. E il commendatore Fabrizi pensò
che se gli occhi erano ancora _liebig_, la barba era fatalmente grigia.

Date le idee radicali che gli lampeggiavano in quella mattina, egli ebbe
questa prima e felice idea: recarsi dal barbiere e sopprimere
interamente il fatale grigio della barba. Ma dopo? No, non si poteva.
Tutt'al più si poteva correggerla, appuntirla, ringiovanirla, fare una
barba da cavaliere di grazia. E si recò dal suo barbiere. Ma poi, no! Lì
si incontrano i soliti gravi e benpensanti amici e conoscenti.

Egli, quella mattina, non era in vena di fare da tutore della
società....

«Andremo da un barbiere eccentrico, fuori dazio: dove non sono
conosciuto» pensò e salì in _tram_. Il _tram_ correva nel sole con
un'allegria insolita di movimento. Evidentemente le correnti elettriche
in quella mattina si risentivano della primavera.

Era appena salito che una mano piatta gli si posò sul panciotto e una
voce ben vibrata disse: — Caro Commendatore, che fortuna! — Allora
guardò: avea davanti a sè qualcosa di eccelso, di nero, di rosso, di
argenteo. Era il signor colonnello della legione dei carabinieri, il
quale con un gentiluomo suo amico ragionava calorosamente; e avea
interrotto vedendo salire lui.

Però anche lui, l'egregio colonnello, ragionava al vanvera quella
mattinata. Almeno così parve al commendatore Fabrizi.

— Avanti di questo passo, caro Commendatore — seguitava il detto
colonnello rivolgendo anche a lui l'interrotto discorso — si va a rotta
di collo. L'immoralità dilaga, le licenze della stampa e delle cartoline
pornografiche non conoscono più limiti; noi siamo in un treno lanciato a
tutto vapore senza più forza di freni. Se ne accorge lei di questo? Il
principio d'autorità è sconvolto! Qui bisogna provvedere, pensare il
rimedio...

— Già il rimedio... — ripetè balordamente il commendatore.

— Semplicissimo! Volere!

— Sarebbe a dire?

— Come? E me lo domanda? — Sì anche lui, il colonnello, ragionava a
vanvera. Si vede che avea fatto un'eccellente colazione e si era
attaccato ad un'idea fissa proprio come il sigaro verginia si era
attaccato ai folti baffi grigi.

— Volere! volere! — sentenziò il colonnello. — _Sic volo, sic jubeo,
stat pro ratione voluntas!_ Ecco la massima! Nel medio evo vi fu la
superstizione del diavolo; oggi c'è la superstizione della libertà! Come
si rimedia? Semplicissimo! Volere! Si stampa un avviso in cui si dice
che i signori deputati non saranno più eletti dal popolo sovrano, ma
dalla sorte. Si mettono i nomi in un bussolotto e si estraggono a sorte.
È questione, creda, di vincere il punto morto della superstizione, dopo
la ruota va da sè. Veda le nostre reclute! Ve n'è d'ogni sorta, buoni e
cattivi, docili e ribelli, _pelandroni_ e svelti, ascritti alle sette,
anarchici..., e pure quando vestono questa qui — indicava la lucente,
nero-rossa assisa — diventano uguali. I bisogni del popolo? Ma
certamente! Tutti hanno diritto di mangiar bene, vestir bene, lavorare
quel tanto che è giusto e basta: nessuno deve più fare da bestia da
soma. Crede che anche noi non siamo all'altezza dei tempi? È vero, amici
miei?

E pronunciando queste parole il signor colonnello si rivolse non al
commendatore, non al suo amico ma al conduttore del _tram_ e ad un altro
personaggio, tipo d'operaio e di sovversivo; i quali due stavano pur
essi ad ascoltare con tanto d'occhi fissi.

Il signor Commendatore paventò da parte di costoro una risposta
insolente. Macchè! Il colonnello battè allegramente sulle spalle del
conduttore e dell'operaio che si posero in posizione d'attenti. — Bravi
figliuoli! Il principio d'autorità, ecco tutto!

Disse allora lo scamiciato: — Non sono, signor colonnello, le giacchette
sporche quelle che fanno la ribellione; sono le giacchette pulite come
quelle di questi signori. Se le giacchette pulite si scalmanano per
domandare cento, come si fa? per forza noi dobbiamo domandare cento e
uno. Non è così? A noi, come noi, basterebbe quello che ha detto lei
prima, aver da mangiare, aver la giustizia in casa! Già che questo non
c'è, noi si va dietro l'onda sicuri di non sbagliare mai.

— Vedete — esclamò trionfante il colonnello volto ai due gentiluomini —
quale è il posto nostro! dobbiamo noi entrare in mezzo al popolo, vivere
con lui! altro che reprimere, reprimere, null'altro che reprimere,
null'altro che applicare gli articoli del codice!

E mentre quegli così dicea, al commendatore a cui le idee si
confondevano più che mai, parve sentire un peso nella tasca sinistra: il
codice. Vi mise la mano e, in quel punto, il colonnello senza far
fermare nè arrestare il _tram_, balzò giù, piombò dritto, risuonò con la
dragona, con la sciabola, con gli sproni come un corazziere della
guardia napoleonica. Ma il verginia non pencolò!

— Addio, cari! — e il _tram_ fuggiva fuor della barriera nello
scintillante mattino.

Il negozio del barbiere — un gran negozio del ventino — che lì si
apriva, prometteva alla vista la desiata garanzia dell'incognito.

Entrò, dunque, e quando il giovane gli ebbe fasciato il collo
coll'accappatoio, il comm. Fabrizi notò che gli altri giovani e alcuni
clienti pendevano dalla bocca di un narratore tranquillo ed acuto.

— Il signore desidera?

— Appuntire un poco questa barba, raggentilendola.

La domanda del barbiere era molto logica _attesochè_ il comm. Fabrizio
Fabrizi non offriva nel capo valida presa al pettine e molto meno alle
forbici: d'altronde la barba di color misto, quadrata come quella di
Enrico di Navarra, con tutti i peli per isquadra, una barba magistrale
in tutti i sensi, incuteva un giusto senso di rispetto anche alle
forbici di un parrucchiere. Da ciò la dubitosa domanda, a cui fu
aggiunto: — Solo un pochino, in fondo, è vero, signore?

— Oh, anche più che un pochino!

Il parrucchiere mise la sordina a questo pensiero: «che peccato
profanare una così bella barba!» e brandì l'arma.

E mentre i peli cadevano sotto il prudente taglio, non il savio pensiero
che in quei peli or dalla forbice recisi era molta parte della dignità
del suo ufficio, balenò alla mente: invece balenò alla mente questo
pensiero, degno di ogni biasimo:

«Come inutilmente la folta mia chioma è caduta, come inutilmente questa
barba si è fatta grigia, anzi bianca!»

E allora una nuova luce si formò nella sua mente, giacchè se il liquore
contiene nelle sue intime cellule un demonio, non è detto che cotestui
sia un demonio stupido e sonnolento: anzi è un demonio vigile, dalla
vista acuta, che ampiamente scopre le cose passate e le future, anche
là, dove il tempo, procedendo, opera nella memoria come il male della
cateratta nella pupilla: cioè chiude lento, ma inesorabile.

Ora ecco quello che egli scoprì: «Omero (ricordo di infanzia) Omero
immutabile ed alato (mentre il codice delle leggi è mutabile e pesante)
Omero dove fa parlare quel tale, o Ulisse o Agamennone o Achille
divino!... Certo qualcuno di costoro parla con alate parole e fa
giuramento per il suo scettro, e come è vero che fu strappato dalla
selva e più non metterà fiore nè fronda..., così... ah, così i suoi
capelli più non fioriranno sulla lucida, convessa superficie di quel
perfetto cranio che niuno appiglio dava oramai più alle forbici: nel
modo istesso che il suo esemplare e rotondissimo cranio nessuna presa
offriva nè meno alle sottili chiose degli antropologi criminalisti, suoi
ottimi amici, ed avversari, secondo i casi.

Non fiorirà più, mai più, inesorabilmente mai più!

— Che uso avete fatto dei miei doni? — domanda il diavolo.

Invece come di biscie nere, come di serpentelli accesi e di ceraste (il
diavolo gli ricordava anche Dante) fioriva il capo meraviglioso
dell'umile commessa in passamanterie, fatta diserta ed infelice per
l'abbandono del suo tutore. Ella, la giovanetta dal volto di perla era
ben umile; ma le sue gagliarde chiome ventenni erano ben orgogliose e
superbe! Sfidavano la miseria ed il mondo.

— O Fabrizio — disse a se stesso il commendatore Fabrizi — proverai tu
nel profondo del tuo cuore rimorso alcuno nel distruggere, come stai per
fare e come hai intendimento, una di quelle cellule del Consorzio Civile
che tu sei chiamato a difendere?

Ed attese la risposta della coscienza.

È cosa nota: i liquori eccitano e deprimono nel tempo stesso: ora la
coscienza del commendator Fabrizi, già fatta inferma per le libazioni
soverchie, dormiva di un profondo sonno come sogliono i tre giudici dei
tribunali, specie nelle udienze estive: invece i demoni erano desti ed
avanzarono superbamente con pifferi e trombette, ed uno gridò: «No!
Nessun rimorso, avanti!»

Quando il rumore dei tamburi e delle trombette dei demoni cessò, il
comm. Fabrizio Fabrizi potè porgere ascolto alle parole di quel cotal
narratore che non aveva ancor finito di parlare. A rigor di termini il
Commendatore avrebbe dovuto capir subito dalle prime parole perchè si
trattava di un delitto a lui bensì noto come fatto, del pari che ignoto
nelle sue vere cause.

Ecco di che si trattava: un terribile _lôcch_, o masnadiero cittadino,
di quelli che in Milano infestano quadrivi e sobborghi (e _lôcch_ deriva
da _loco_ spagnuolo che significa _stupido_: i quali _lôcch_ fioriscono
stupendamente sotto le nebbie di Milano come fiorivano stupendamente i
_bravi_ al tempo di Don Gonzalez Fernandez de Cordova) dunque un
terribile _lôcch_, anzi il più terribile fra i terribili, era stato
trovato fuori di via X*** steso morto a terra, morto sul serio — giacchè
i _lôcch_ — chi sa mai perchè? — quando anche ricevano un paio di
pallottole di rivoltella nei fianchi, ritornano dopo pochi giorni
d'ospedale sani e gagliardi alle loro occupazioni quasi che la divina
Angelica fosse passata con le sue erbe magiche come avvenne pel fante
Medoro — cosa che ai galantuomini feriti non accadrà mai.

La giustizia aveva fatto arresti sopra arresti, aveva smosso tutto il
sottosuolo putrido di Milano, ma non aveva scoperto nulla. Il giudice
istruttore aveva collegato con acutissima fantasia quell'omicidio ad
altri fatti altrettanto gravi quanto rimasti ignoti, e non aveva
scoperto niente.

La stampa eccitava il troppo lento passo burocratico della giustizia con
articoli giornalieri.

Ora quel narratore lì, nella bottega del barbiere, spiegava la cosa con
una semplicità stupenda; così: «Lui, il morto, con i suoi compagni erano
fermi all'appostamento per quando passano i _fittavoli_ che tornano alle
loro campagne.

Vengono costoro dal mercato ed hanno la borsa piena pe' traffici e pe'
baratti compiuti nel dì. Di questi colpi dieci vanno bene, uno va male:
questo era andato male. Il _fittavolo_, assalito nel buio, si vede che
aveva con sè il _revolver_ ed ha fatto fuoco a bruciapelo e lo ha
colpito nella nuca.» Se non lo colpiva lì, in modo da lasciarlo sul
colpo, garantisco — dicea il narratore — che colui non moriva: lui le
palle della questura che ha preso in corpo le ha sempre digerite, come
fossero state delle prugne, un po' acerbe, ma le ha digerite!

— All'Osteria _del Bianco_ — confermò uno degli ascoltatori con sincera
espressione di rimpianto e di rispetto — era capace di mangiarsi da solo
un tacchino, e sempre in piedi, povero diavolo, sempre con quella
benedetta paura di essere sorpreso dalla visita dalla questura.

Disse un terzo ammirando — E la forza che aveva? Per lui rompere un
mazzo di carte era conto di ridere! Una volta che gli avevano messo le
manette, non ebbe il coraggio di farle saltare spezzandole sopra un
paracarro? E quanti anni poteva avere?

— Ventidue, ventitrè anni! — disse il primo raccontatore — un fegato da
leone!

                                 ***

Al comm. Fabrizi quella gente faceva un effetto nuovo e curioso, in
questo senso: gli pareva cioè che in tutti coloro che lì erano, fosse
questo convincimento filosofico della vita, il quale può essere espresso
in queste brevi considerazioni:

I _lôcch_ quando rubano, percuotono, uccidono, non fanno altro che il
loro mestiere! nel che sta la ragione della loro esistenza.

Ma per la stessa causa fanno bene i questurini ed i carabinieri a
perseguitarli perchè tale è, alla lor volta, il loro mestiere e vivono
di quello.

Se le parti fossero invertite, i _lôcch_ sarebbero questurini e i
questurini sarebbero i _lôcch_. E così estendendo sempre, gli apparivano
di cotale strana natura formate tutte le azioni del mondo, e le basi del
diritto, del premio e della pena, gli apparivano sconvolte; giacchè il
demonio è un estensore meraviglioso di argomenti e basta dargli un grano
di sabbia perchè edifichi una casa, basta dargli un filo solo perchè
intessa una tela, basta fargli una concessione perchè vi annodi da capo
a piedi nella sua implacabile logica.

O buon angelo custode, e voi impotenti spiriti del bene, vigilate,
vigilate voi alle porte della abbandonata fortezza del mio cuore,
affinchè il demone non penetri! Nell'animo del commendator Fabrizi era
già penetrato e proseguiva estendendo e facendo sue chiose. Ecco: La
donna pudica preferisce morire che mostrar le sue carni. La donna
impudica esulta nel contemplare la sua statua fremente! L'uomo virtuoso,
ancorchè ragione gli consigli il male, ne teme il contatto peggio che
toccare il viscido colùbro: l'uomo invece, chiamato malvagio, soffre se
non può operare il male; e come l'assetato desidera l'acqua, come chi ha
freddo sospira la fiamma, così l'anima dell'uomo malvagio sospira il
male, la frode, il vizio, l'inversione, la degenerazione dove tuffarsi
come per entro un bagno delizioso. Oh, comm. Fabrizi, giudice
virtuosissimo, di' tu se così non è come io, demone saggio, affermo e
dico. Fra i molti casi, anzi moltissimi che passarono sotto il tuo
esame, ricordane uno recente, quello di Flavio Equini. A Flavio Equini
che cosa mancava per esser felice? A lui nobiltà di natali, a lui ricco
censo, bella moglie, acuto ingegno, eloquio piacevole e lieto, onori,
potenza, bellezza. Poteva non frodare. Ebbene, no! Quell'uomo aveva
bisogno di frodare, rovinare, distruggere, far del male! anche a se
stesso, se mancava l'opportunità di far male altrui! Nel modo medesimo
che ai buoni intenditori di arte culinaria e valenti gastronomi piace
assai la carne quando essa è sanguinolenta e sopra con grandissima cura
vi spargono alcune stille di acerbo limone, così a molti umani il piatto
della vita non piace nè altrimenti diletta se esso non è cosparso di
molto sangue e di molte rodenti lagrime. E mancando l'altrui, bevesi il
proprio sangue: bevonsi le proprie lagrime! E come vi è colui che fa
piangere, così vi è colui che dedica la sua vita alla missione di
asciugare le lagrime; nel modo medesimo che vi è chi insudicia la via e
chi la scopa: che vi è l'inventore dei proiettili avvelenati e vi è
l'inventore dell'antisepsi: che vi è il microbo infame che uccide e il
microbo che guarisce: e l'uno e l'altro hanno ragione, perchè l'uno e
l'altro fanno il loro dovere e mestiere, e dall'insieme risulta questa
che noi, in mancanza di una definizione più precisa e scientifica,
chiamiamo «Vita». E benchè paia contraddizione, non è: o almeno il
giorno in cui gli uomini si avvedessero di questa meravigliosa
contraddizione, essi cesserebbero dal vivere!

A queste sublimi considerazioni filosofiche si può arrivare tanto col
grande studio quanto con la grande ignoranza, come era il caso di quella
rozza gente in quella bottega.

Il comm. Fabrizi ci arrivava un po' in ritardo, ma ci era arrivato a
questa perfetta cognizione del meccanismo recondito della vita!

Tuttavia l'abito professionale per quel che riguardava la supposizione
che il terribile _lôcch_ fosse stato freddato da un estraneo, si
ribellò. Caspita, era tutto il suo lavoro che cadeva in frantumi! onde
volgendosi a pena (e prima richiamando l'attenzione con la mano) disse
in tuono insinuante e nel tempo stesso autorevole, rivolgendosi al
principal parlatore: — Ma scusate, signore, come fate voi ad asserire
con tanta certezza; come fanno gli altri qui presenti a credere ad una
cosa che si affaccia come inverosimile, cioè che sia avvenuta una
_grassazione_, e che un _fittavolo_, o fattore o fittaiuolo, o
commerciante che fosse, abbia fatto fuoco? Ma nessuna, dico nessuna
supposizione ci autorizza a credere ciò nemmeno lontanamente!

— La palla... — cominciò uno.

— Sì, capisco, la palla trovata nella ferita non corrisponde al calibro
delle armi degli altri arrestati come supposti rei — seguitò in tono
autorevole il comm. Fabrizi — ma questo è un argomento destituito di
ogni valore. L'arma che non s'è trovata, si può, quando che sia,
ritrovare. E d'altronde io domando e dico, signori miei, se fosse vero
quello che asserisce con tanta certezza quel signore, io domando e dico,
perchè quel _fittavolo_, o possidente o commerciante che sia, non si
presenta alle competenti autorità e non dice: «Sono stato io a sparare!»
Sapere lo deve sapere, perchè tutti i giornali ne parlano! Ora egli non
solo non andrebbe incontro a nessuna noia di carattere giudiziario, ma
avrebbe un bel ringraziamento per avere liberato la società da un
soggetto pericolosissimo. Vedono dunque, signori miei, che la loro
supposizione cade nell'inverosimile.

Ma il tuono autorevole del comm. Fabrizi, invece di acquistare di
autorità, si veniva di mano in mano smorzando e ciò avvenne per effetto
di suggestione, giacchè tutta quella gente, pur non interrompendo il
magnifico signore, lo veniva guardando col bianco dell'occhio e con un
sorriso di pietà.

«Dico forse delle sciocchezze?» — si domandò mentalmente il comm.
Fabrizi, ed avutane dalla coscienza risposta negativa assolutamente,
replicò: — Vedono dunque, signori miei...»

— _Ch'el scusa!_ — interruppe il maggior narratore con un tono tale di
voce che significava che solo la barba e l'aspetto grave del personaggio
lo inducevano ad espressione cortese — ma quando il _fittavolo_ è andato
a dire che è stato lui, quando tutti i giornali stampano il suo nome,
chi lo garantisce dalla vendetta degli altri _lôcch_? Quelli del
tribunale forse? Non sa lei che è tutta una rete? Il colpo al
_fittavolo_ è andato bene, salvo è salvo; conosciuto non è stato
conosciuto da nessuno perchè era notte; vendicato, s'è vendicato perchè
l'altro è morto. Se la sbrighi la giustizia a cercare l'autore del
delitto! È ben pagata per questo! Ma lui non si farà mai vivo, glielo
garantisco io: la pelle preme a tutti!

Il comm. Fabrizi a questo terribile ragionamento non ebbe la forza di
replicare: si sentì avvilito, molto avvilito nella sua dignità di
magistrato, cosa che in trenta anni del nobile ufficio mai gli era
avvenuto anche davanti alle orride bestemmie dei condannati
all'ergastolo. Anche l'immagine di Temi, effigiata nel gesso, era
afflitta.

E avvertendo nella tasca del pastrano un involto che gli dava peso e
deformava la linea, lo estrasse e disse al barbiere:

— Passerò a riprenderlo, ella intanto me lo tiene in custodia.

Era il codice delle leggi!

                                 ***

Quando il Commendatore uscì da quella bottega e si avviò al recapito che
la amorosa creatura gli aveva dato, era quasi mezzogiorno: le funzioni
della chiesa dovevano essere terminate.

Via X, N. 26, piano III, uscio secondo.

L'indicazione era facile: il salirvi era difficile. Perchè?

Per il rimorso? «Non ti rimorde il cuore, o Fabrizio, al pensiero di
quello che stai per fare, di sciogliere cioè una cellula di
quell'istituto del coniugio in sul quale riposa la santità della
famiglia e con essa e per essa tutto il civile consorzio?»

Doloroso a dirsi! La coscienza del comm. Fabrizi, pulsata ancora da
questa domanda, non rendeva più veruna risposta: anzi, cosa più dolorosa
e nequitosa che mai, la figura della marchesa consorte (simbolo vivo del
legame del coniugio) con l'adunco naso gli si ergeva innanzi
instillandogli un senso di disgusto presso che fisico, e che pareva aver
sede nell'epigastrio come avviene a chi si è gravato di cibo e di
bevanda più che misura non consenta.

Per ventitrè anni egli avea concesso alla marchesa consorte tutte le
attenuanti, tutte le giustificazioni che avea negato agli imputati di
cui la legge lo faceva giudice: ora non più, nessuna attenuante, nulla!
Un solo, vero giudice: Dracone! Ma che cellula! Egli aveva rimorso di
non averle disgregate prima ed in maggior numero, quando era in tempo!

E il Comitato, ed il senatore X***, celibe, anzi celibissimo e, a' suoi
tempi, scapestratissimo senatore X***, presidente del Comitato per la
salvezza della famiglia?

Al diavolo anche loro! No, non era il rimorso che gli gravava il passo e
lo rendeva pusillo al dolce ritrovo: era il peso della sua dignità,
della sua notorietà, della sua gravità professionale. Ah, potere andare
da un barbiere e dire: «toglietemi la mia dignità» come si dice:
«toglietemi la barba!»

                                 ***

La casa N. 26 si disegnò con i suoi tre piani: silenziosa, decorosa,
indecifrabile: piano terzo, scala seconda.

Un istante di turbamento lo vinse in sul varcar della soglia.

«Infine — pensò — un procuratore, un magistrato può per segrete ragioni
d'ufficio giustificarsi se monta certe scale e bussa a certo uscio» e
avanzò.

                                 ***

Ma in quel punto, sbucata non seppe egli da dove, si sentì prendere da
due mani soavissime e madide e una voce anelante e timorosa sussurare:

— Per carità, signore, non venga. Il mio tutore è tornato
all'improvviso. Sarà per un'altra volta, a migliore occasione! —

Era lei con i capelli sciolti, in ammirabile veste da camera, sbucata
non sapeva da dove.

Il povero Commendatore rimase per un istante immobile: fissò quella
testa gentile, quegli occhi spaventati e accorati come per leggere se
diceva il vero: — Va bene — disse poi e discese le scale. E non mai la
parola _bene_ volle appunto significare il contrario.

                                 ***

Mezz'ora dopo una carrozza da piazza lo sbarcava a casa sua.

La marchesa consorte venne ella stessa ad aprire:

— Finalmente! — disse — Il senatore X*** che vi attendeva per questa
mattina, è venuto egli stesso qui, ed ha aspettato per un'ora intera! In
certi casi la buona educazione vuole che si avvisi!

— Un affare urgentissimo!

                                 ***

Nel solito salotto da pranzo la colazione è imbandita: una colazione
igienica e semplice: zuppa e carne di manzo a lesso.

I figliuoli — poverini! — hanno una partita di _tennis_ di grande
impegno e non possono essere alla mensa paterna.

Così dice giustificando la marchesa consorte e coll'occhialino scopre e
scruta la nuova foggia della barba maritale.

Sotto quella silenziosa pupilla doppia, il bollito sembra più stopposo
ed insipido che mai! Ma la domestica, in grembiule bianco, domanda:
«Senape inglese o senape francese, signor Commendadore?»



IL TRIONFO DELLA MORALE.


La bicicletta è sempre stata una mia ardente passione.

I fisiologi hanno discusso se in bicicletta si possa pensare, anzi no
pensare, ma più scientificamente _cerebrare_: io non so codesto. So che
il pensiero o la cerebrazione più costante per me in bicicletta è la
seguente: «frègatene!» Verbo plebeo, ma espressivo.

Quando l'aria sibila e vi ossigena e vi penetra e vi rende brioso,
poroso, ilare, un unico pensiero, che è sintesi della più solida
filosofia, si forma nel cervello: «frègatene!»

                                 ***

Però se io entravo in biblioteca con visibili segni ciclistici, o
berretto a visiera, o calzoni rimboccati o l'aspetto franco e lieto di
uno che ha respirato bene, che può ricevere dei complimenti da Igea, che
è in riposo cerebrale tanto per istudiar sei ore filate come in tensione
di muscoli per liberare la strada da un paio di importuni, se — dico —
il prof. Gaudenzi mi scorgeva in simili condizioni, non solo non mi
faceva alcun complimento, ma non mi onorava più del suo saluto. Perchè
bisogna sapere che il prof. Gaudenzi mi onorava del suo benevolo saluto,
cosa che non accadeva a tutti, anche a persone di ben altro grado e
stato sociale che il mio.

                                 ***

Chi era il prof. Gaudenzi?

Il prof. Gaudenzio Gaudenzi era un modestissimo, umile grande uomo.

Egli era cioè uno di quei pochi sì, ma caratteristici grandi uomini,
indispensabili grandi uomini, destinati a sostenere la nazione e lo
Stato e, se la parola non spiace, la Patria. Ufficio non lieve, anzi
pesante, pieno di grandi responsabilità.

Io ho denominato questo illustre uomo con il titolo di «professore», che
è fra i più modesti e comuni, perchè egli è così generalmente indicato.
Del resto egli disponeva di una infinità di titoli; da quelli
cavallereschi a quelli che ogni tanto gli arrecava la posta: titoli
decretati da Assemblee, Istituti, Accademie, Consessi, Concilii etc.
etc. L'antico Briarèo mitologico non avea tante membra quanti il prof.
Gaudenzi aveva membri con cui uncinarsi socio a tutti i Consessi
intellettuali del vasto-piccolo mondo.

«E se io entro in biblioteca di questo passo è perchè io solo so il peso
che incombe sulle mie spalle; e se io invece di salutare mi limito a
stirare le labbra, è perchè c'è il suo perchè!»

Questo sottile ragionamento si leggeva su tutta la persona del prof.
Gaudenzi, quando entrava in biblioteca.

Giacchè il prof. Gaudenzi quando non era in ispezione per il paese,
capitava regolarmente in biblioteca. Entrava stirando le labbra e
dondolando il capo in modo che non era facile capire se si trattasse di
un saluto universale generico — come quello che fanno i gran prelati — o
di un moto asseverativo come per assicurare sempre più a se stesso: «Sì,
io sono un umile — è vero — ma grande uomo!» Egli è però più probabile
che quello stiramento e quel dondolamento dovessero costituire un saluto
perchè avevano la virtù di far levar su da sedere tutti gli studiosi
presso cui passava; e, una volta levati su, di far loro descrivere una
specie di angolo di quarantacinque gradi in avanti, con la schiena e con
la testa. Ma io — ripeto — godevo di uno speciale privilegio. Giacchè il
prof. Gaudenzi, al di là di quella specie di muraglia dei libri da cui
veniva circondato, mi sollevava, mi dondolava la mano, e infine mi
permetteva di stringerla: — Che cosa stai facendo di bello anche tu qui?
Oh, bravo, bravo, bravo! — il che tradotto in lingua semplice voleva
dire: «adesso vàttene!»

Ed io me ne andavo al mio posto.

Questa speciale benevolenza mi era in certo modo dovuta perchè a
quattordici anni io avevo avuto l'onore di sedere accanto a lui sui
banchi della scuola dove egli fin da allora faceva strabiliare persino
il maestro snodando a memoria tutta la filza dei verbi greci irregolari;
e da allora andò sempre più avanti, diventando sempre più brutto, sempre
più giallo, sempre più ostinato nella sua cocciuta volontà di riuscire
un grande uomo finchè diventò un vero grande uomo, uno di quei pochi,
sì, ma indispensabili grandi uomini destinati a sostenere la macchina
dello Stato: uno cioè (le mie parole non paiano malevole e sarcastica
iperbole) di quei grandi uomini a tipo regolare e mediocre, debitamente
sterilizzati ed enervati che sono un prodotto tipico, un
esponente-indice della civiltà contemporanea. Enervati e sterilizzati
delle qualità eroico-geniali come sarebbero l'_indignatio_, la
_magnanimitas_, la θεῖα μανὶα, il _furor sacer_, ed altre qualità
consimili le quali costituirebbero un tipo umano assolutamente inadatto
ed incompatibile col tempo nostro. Non è vero questo che io dico?
Osservate: gli uomini forniti di queste virtù eroico-geniali vengono
regolarmente ed istintivamente banditi dai consigli dello Stato, dalle
accademie ufficiali, dalla vita publica in generale, laddove i grandi
uomini di tipo regolare e mediocre ad uso prof. Gaudenzi, figli
legittimi dell'età presente, vengono destinati a molteplici usi nè
stanno mai fermi tanto è il bisogno che si sente della loro
indispensabile mediocrità.

Il prof. Gaudenzi apparteneva alla speciale categoria di quegli illustri
innocui personaggi i cui nomi sono tolti ogni tanto dal tabernacolo ed
esposti alla venerazione del popolo specialmente quando accade alcuna
publica calamità.

Essi allora, come i grandi clinici, sono chiamati a consulto: esaminano,
inquiriscono, giudicano, mandano. Ad esempio: una battaglia perduta, una
banca fallita, una corazzata che non camina, un'alluvione sterminatrice,
un campanile che crolla ecc., turbano la publica opinione. Si domandano
dal publico pene severe e giudizi esemplari come e più di quelli di Don
Gonzales Fernandez di Cordova, immortalato da quell'incompreso scrittore
che si chiama A. Manzoni. Troppo giusto! Allora vengono in moto cotesti
inquisitori i quali dimostrano che il campanile è caduto perchè non
poteva rimanere in piedi per legge statica, che la battaglia fu perduta
perchè i nemici non avevano studiato strategia e logistica, che le
alluvioni sono avvenute per legge idrostatica giacchè le acque tendono
al livello inferiore, che la banca è fallita perchè esiste una
matematica superiore applicata al denaro, la quale non è lecito spiegare
nemmeno nelle alte scuole di commercio, etc.

Queste ragioni, se anche per la loro sottigliezza poco soddisfacessero
la publica opinione, ecco sopraggiungere nuove calamità che fanno
obliare le prime, richiedono nuove e più interessanti inchieste e infine
permettono alle cose umane il loro naturale andamento ed oblio.

Al prof. Gaudenzi — venendo al caso particolare — era in ispeciale modo
affidata la conservazione del patrimonio artistico-intellettuale della
nazione del che egli teneva conto e ragguaglio minutissimo e prezioso in
un numero assolutamente innumerabile di schede, con cui dava alla luce
molte opere, opuscoli, relazioni.

                                 ***

Ma se io conoscevo tutti i suoi titoli accademici, ufficiali ecc.
ignoravo tuttavia gli altri _estremi_ della sua fortuna.

Della quale ebbi piena contezza un giorno, in sull'ora della chiusura
della biblioteca, chè mi scosse un profumo fresco di donna elegante e un
passo leggiero. L'egregio ed illustre uomo era condannato a non poter
sorridere se non stirando le labbra, ma questa volta, alla vista della
moglie, lo stiramento fu umile, sottomesso, voluttuoso come quello di un
buon cane che si accovaccia per farsi fare il solletico.

La signora aveva qualcosa da dire e da far valere e per quanto i molti
libri le imponessero un certo rispetto, non poterono far sì che
l'amabile voce non suonasse, distinta con un _erre_ di indimenticabile
vibrazione.

— Ma, mio caro, piove, piove a dirotto. Se non penso io alla tua salute,
tu non ci pensi davvero!

Aveva con sè il pastrano e l'ombrello.

— Me lo sarei fatto prestare....

— Sì, ma il _pardessous_, mio caro, tu che soffri di bronchi...!

La figura della signora, come potevo giudicare guardandola di sottecchi,
apparteneva al solito tipo fisso delle donne professionalmente eleganti,
ma di qualità superiore: solito ombrello aghiforme, borsellino oblungo
che occupava tutta l'attività di una mano; solita gonna disegnante e
rilevante con arte procace le sinuosità della vita, indi le conseguenti
sottoposte protuberanze; solito spazza-strade di merletti multicolori,
meritevole o di un premio o di un attestato di benemerenza da parte
dell'edile cittadino, deputato alla pulizia stradale. Ma se questi
_luoghi comuni_ del vestire potevano sembrare volgarucci di soverchio
oramai, cioè quali si incontrano in ogni figlia di portinaia, essi erano
compensati da una notevole signorilità e leggiadria di forme non comune,
le quali se dalla moda ricevevano alcun manifesto risalto, avevano
tuttavia nella natura il loro sostanziale fondamento. Inoltre la legge
uguale della moda aveva alcun particolare suggello in lei, di lei e
della sua feminilità. Io voglio dire che la dama in questione
nell'armonia delle tinte, nella ricca compitezza de' particolari, nella
sobrietà delle audacie aveva raggiunto quella linea difficilissima e
costosissima che costituisce il sommo buon gusto, differenzia la donna
elegante dalla donna galante, la donna della buona società dalla donna
da ventura.

Il volto pallido, dalle linee belle e forti, apparteneva a quello stadio
fisiologico della seconda gioventù che è sconosciuta alle donne del buon
popolo lavoratore; laddove è frequentissimo nelle signore di razza:
comincia dopo i trent'anni e si protrae spesso sin oltre i quaranta e in
alcuni organismi privilegiati sino verso i cinquanta, con una ben
singolare stabilità che non permette assolutamente di domandare:
«Signora, quanti anni avete?»

Fui dunque costretto a formulare questo giudizio sintetico: «Moglie
bella, giovane, premurosa, elegante.» Ma dopo questo primo giudizio mi
si presentò naturale la domanda: «Dove la è andata a pescare?» La
supposizione più semplice e conforme al vero fu la seguente: «Quando il
prof. Gaudenzi a quattordici anni era mio compagno di scuola, non aveva
altro capitale che la cupa e disperata tenacia di essere il primo a
costo di imparare a memoria tutti i logaritmi, tutti i verbi greci
irregolari. Ad una certa età egli deve aver avuto la fine accortezza di
mettere in batteria scoperta tutte le sue qualità di savio e grande uomo
in via di sviluppo, e così ha trovato moglie.»

Osserva, benevolo lettore: molti uomini che dettano legge nella vita
degli altri uomini hanno il lor fondamento in una donna-capitale, in una
donna-_coupon_, in una donna-pozzo di S. Patrizio da cui attingere. No!
non è possibile dettare legge agli altri uomini se le miserabili,
inconfessabili necessità della vita giornaliera non sono ampiamente
garantite!

Io stavo così fra me e me pensando e costruendo tali supposizioni quando
l'egregio uomo ebbe la cortese idea di farmi conoscere più compiutamente
l'estensione della sua felicità.

Essendo la sala presso che deserta, il prof. Gaudenzi si avvicinò a me:
— E vieni — mi disse — che ti presento alla mia signora.

Mi alzai, fu fatta la presentazione, furono scambiate le parole d'uso.

Sulla porta della biblioteca mi attendeva una nuova sorpresa: tre
bambini graduati in iscala d'organo ma di una medesima candidezza e
lucidezza, sotto la sorveglianza di una governante che si _avvistava_ a
distanza di nazione svizzera e di così compiuta goffagine che pareva
scelta ad arte per far risaltare la signora. I tre bambini salutarono
l'illustre uomo con l'appellativo soave di _Papà!_ — Furono tre squilli
argentini di vario tuono che illuminarono il volto del prof. Gaudenzi di
una espressione molto affine al sorriso propriamente detto.

— _Wie geht es dir?_

— _Wie geht es dir?_

Così aveva suggerito la governante: così avevano ripetuto i tre figli
dell'uomo a cui erano concessi in custodia i capitali artistici ed
intellettuali del Paese. Solo il più piccino si impaperò domandando al
babbo come stesse in lingua volgare: cosa che turbò molto l'amor proprio
della governante.

Fui presentato, o, meglio, mi furono presentati tutti i componenti la
famiglia.

— Lei è scapolo? — domandò allora la signora.

— Sì, signora.

— Male, ma è una diserzione sociale! Vero, amico mio, che è una
diserzione sociale?

Il professore assentì blandamente.

— Quando è così, venga a prendere il tè a casa nostra: il buon esempio
la aiuterà al gran passo.

Anche il professore insistette perchè mi recassi a prendere il tè a casa
sua, nè io, stretto da tante cortesie, potei rifiutare.

— Ho abituato mio marito assolutamente al tè — diceva la signora
nell'andare — ma ce n'è voluto!

— Non è esatto: mi sono abituato benissimo — corresse l'uomo.

— In casa mia i liquori sono stati aboliti assolutamente. Oramai la
igiene ha dimostrato che il liquore è un medicinale; e anche il vino,
veda, è in cantina aspettando gli ospiti e le occasioni di qualche
pranzo di carattere ufficiale, ma in famiglia sempre tè. _Mrs._ X***,
una dama inglese, mia buona amica, che risiede al Cairo da anni, me lo
fornisce direttamente: una vera combinazione. E veda: da che noi si fa
uso del tè abbiamo abolito medicine e ricostituenti: mio marito che si
risentiva di qualche indisposizione, ora sta benissimo. Gli _alcools_,
come lei sa, si trasmutano in sostanze grasse e mio marito non ha
veramente bisogno di ingrassare.

L'occhio del marito, perduto in quel momento dietro una qualche scheda,
si fissò sulla moglie con una tale espressione che ella virò di bordo.
Ma siccome non esiste in natura la possibilità che una donna tronchi di
botto un suo discorso, così ella filò ancora, ma insinuantemente:

— Concederai che un po' di moto ti farebbe bene!

— Devo girar tanto pel mio uffizio — disse a sua giusta ragione il prof.
Gaudenzi.

— Sì, ma quando il cervello è preoccupato, tu sai bene che l'azione
fisiologica dei muscoli rimane paralizzata. La bicicletta, ad esempio,
ti... farebbe benissimo.

L'uomo illustre fremette.

— Mio marito — proseguì quella elegantissima dama — ha una vera
_idiosincrasia_ per la bicicletta. Per me invece, che vuole? è estetica,
come trovo estetico l'automobile! Già io sono molto moderna.

Il marito sostenne che la bicicletta è antiestetica.

La signora sostenne che se il suo illustre compagno avesse potuto
scoprire in qualche codice che gli antichi avevano fatto uso della
bicicletta, la avrebbe senz'altro riconosciuta esteticissima.

Per mettere pace in questa divergenza di opinioni io, benchè
appassionato cultore della bicicletta, mi sforzai di ricondurre i due
coniugi sul terreno comune e concorde del tè. Ma in compenso della mia
opera pacificatrice l'illustre uomo mi colpì con questa insinuazione
beffarda:

— Io credo che tu anteponga il succo classico della vite!

Non ebbi tempo di correggere la malevole espressione che la signora
sollevò col guanto una esclamazione di orrore, e anche la governante o
_fräulein_ in omaggio alla natia cervogia, emise un _Pfui!_
significantissimo per suo conto.

Eravamo giunti.

Io fui presentato, per così dire, all'appartamento: fui presentato alla
luce elettrica che lo illuminò tutto all'improvviso: mi fu fatta fare la
conoscenza del salottino della signora, una rivelazione
estetico-floreale, dalle luci voluttuosamente intonate, della stanza da
pranzo — stile compiutamente svizzero — infine siamo entrati nello
studio dell'illustre uomo, sulla soglia del quale la signora osservò col
suo dolcissimo _erre_:

— Qui finisce il mio regno e comincia quello di mio marito: non si
meravigli se trova della polvere, ma qui tutto è _verboten_, guai a
muovere un foglio, guai spostare una scheda!

— Una scheda molte volte è l'opera di un mese di ricerche! — avvertì
l'insigne letterato; e siccome questa notizia doveva essere a perfetta
cognizione della signora, così debbo supporre che fosse rivolta a me.

Le due grandi scansie di noce non potendo più contenere libri, carte,
schede, ecc., avevano riversato il superfluo su di una grande tavola
dove raggiungevano altezze piramidali così da obbligare il mio naso a
volgersi in su.

Il chiaro uomo vide il mio naso rivolto in su e sospirò con tutta
confidenza: — Un lavoro enorme, mio caro!

— Ci vuole davvero tutta la memoria di mio marito per tener dietro a
tante cose — confermò la signora.

— Di' il metodo e la costanza, oltre che la memoria.

— Oh, certamente il metodo! mio marito alle sei del mattino è in piedi,
qui al lavoro, e allora comincia la mia opera di pazienza e di
sorveglianza; opera che non surge all'altezza della rinomanza nè
all'onore della gloria, ma come l'umile violetta sparge il suo profumo
d'intorno. Bisogna intanto sorvegliare che nessun rumore sia fatto
intorno allo studio, che tutti gli abiti siano pronti, che i bambini
siano puliti, che la colazione sia all'ordine, perchè mio marito è in
questo un tiranno assoluto e terribile....

Quel _tiranno_ e quel _terribile_ furono pronunciati con tanta amabilità
che la bocca del grande uomo, solleticata, si stirò di traverso in una
specie di dotto sorriso.

— Tiranno costituzionale, molto costituzionale — corresse.

— Costituzionale, ma sempre terribile!

— Ma tu stessa devi ammettere che se i miei ordini non fossero precisi,
se non assoluti, sarebbe impossibile attendere a tanta molteplicità di
cose.

— Verissimo, però devi concedere che una collaboratrice più perfetta del
tuo lavoro non l'avresti potuto trovare.

— Questo è verissimo! — disse il marito.

— Aggiunga poi che la nostra casa è spesso un porto di mare — rincarò la
signora — lettere, postulanti, raccomandazioni, circolari,
sollecitazioni, omaggi di libri e di opuscoli, dediche al _caro
maestro_, all'_illustre professore:_ un vero ufficio di selezione e di
corrispondenza che grava quasi interamente sulle mie spalle. La
celebrità è una gran cosa, ma sapesse quante noie si trascina dietro!
(Il grand'uomo taceva). A tutto questo poi aggiunga un'altra erculea
fatica, quella di mandare via la gente con bel modo anzi con la più
_exquise politesse_.

Ora mentre io facevo da fonografo a questo scambio di cortesie
coniugali, pensavo che fra tutti gli _articoli_ di proprietà del chiaro
uomo, quello che destava maggiormente la mia ammirazione era la sua
signora.

Intanto il tè fumante in un _samovar_ — Russia autentica — fu servito
con tutto il cerimoniale dovuto alla nobile bevanda nella sala da
pranzo. Quivi la signora mi domandò con molta compitezza delle mie
opinioni artistiche, letterarie, politiche, sociali.

Io volevo rispondere cercando di contemperare, come meglio sapevo,
l'omaggio alla verità e le convenienze alla casa e alla dama, ma non ne
ebbi tempo perchè l'uomo, facendo precedere le sue parole da un sorriso
che non lasciava sperare una gran lode, rispose per me:

— Il difetto del nostro buon amico è quello di seguire delle idee
alquanto eterodosse e in politica e in arte e in letteratura.
Intendiamoci: io non dico, mio caro (evidentemente il prof. Gaudenzi era
in vena di generosità grande: mi regalava un intero discorso) che non si
possano seguire anche le idee eterodosse; queste anzi oggi portano più
avanti, forse, che le idee ortodosse, benchè bisognerebbe anche qui
distinguere fra idee eterodosse e idee originali, ribelli, contro
corrente, contro onda, e tu mi hai l'aria di prediligere le idee di
questa ultima categoria, le quali non hanno mai recato fortuna ai loro
possessori. Il far parte «per se stesso» — come dice Dante — si deve
interpretare quale cosa spettante a lui solo, alla sua più che umana
natura, non come massima applicabile alla vita se non in qualità di
ornamento poetico. (La distinzione era sottile: io per esempio da quando
lo aveva dato in custodia al professore di greco perchè imparasse tutti
i verbi irregolari, non lo avrei mai creduto capace di tanta
sottigliezza: ma credi, o lettore, che nell'iniquo mondo l'abito del
dottore molto vale a formare il dottore! Poni il paltoniere in toga ed
ermellino e in meno che tu non supponga l'udrai pronunciare parole di
non sospettata saviezza). Però — proseguì l'illustre mio amico — anche
nell'essere eterodosso, originale, ribelle alle convenienze ed alle
convenzioni, ci vuole metodo, metodo, metodo: disciplina, disciplina,
disciplina; costanza, costanza, costanza! Per far fortuna come ribelle
bisogna essere un ribelle d'ordine. Pare un paradosso, e non l'è! E la
verità è questa che solo dall'ordine, dal metodo, dalla perseveranza
nasce quella sottile scienza della vita pratica in cui sta tanta parte
del segreto della riuscita. Tu permetti, è vero, che ti faccia questa
modesta osservazione...?

— Figuratevi, anzi vi sono grato.

— Le tue buone qualità, come l'ingegno, il buon cuore, un certo studio
che cosa ti hanno valso? Ben poco. Alla tua età sei ancora un uccello
sulla fronda!

— Ma bisogna prender moglie — disse la signora — bisogna prima formarsi
uno stato, e poi il resto verrà da sè. Il matrimonio per noi donne potrà
forse essere una rinuncia; ma per voi uomini è una condizione
indispensabile per riuscire, è un diploma di serietà sociale. Sa quando
mio marito cominciò a fare qualche cosa sul serio? Dopo che prese
moglie, dopo che fu sicuro della sua casa, e poi tu stesso l'hai detto,
è vero? «Una buona moglie, una casa ordinata formano l'oasi dove l'uomo
stanco si fornisce di forza e di fede per il cammino della vita!» e con
questa raccomandazione di prendere moglie al più presto possibile fui
accomiatato o mi accomiatai, del che non ho sicura memoria.

                                 ***

Io uscii di quella casa mortificato di troppo. Avevo preso una lezione o
ripetizione della vita non richiesta, e mi bruciava la pelle, appunto,
perchè vi era molto di vero nelle cose da me udite, viste, provate. Non
che io sentissi rimorso di non aver preso moglie, di non aver casa, di
essere uccel di frasca! sciocchezze! o che mi dolessi dei miei peccati o
dello scarso frutto che mi avea dato la vita a cagione della invincibile
mia refrattarietà. Se noi ci privassimo dell'esercizio dei nostri buoni
peccati, troppo sterili e grigi sarebbero questi giorni fuggitivi! Il
peccato che non nuoce altrui ma solo a se stesso, sarà molto perdonato
da Dio, ancorchè ciò non sia detto per espresso negli Evangeli! Dio! Sì
lo so, questo nome non ha valore scientifico, ma è comodo ed è stata una
gran melanconica idea l'aver decretata l'abolizione di Dio.

Non io, dunque, ero pentito _peccatorum meorum_, ma ero afflitto nel
vedere come anche la donna seguisse la fortuna e si aggiogasse docile e
lieta al carro del trionfatore. Degli onori, dei titoli, delle opere,
della sfera immensa d'azione del prof. Gaudenzi a me non importava un
bel niente. Ma ciò che mi dava amarezza era il vedere come costui fosse
arrivato sino alla conquista della donna, cioè di quel bene che, quando
è bene, è il maggiore dei beni; o almeno permette all'uomo di sprezzare
tutti gli altri beni: e donna bella, elegante, ricca, intelligente (per
quello che dà il sesso) graziosa, accorta, decorativa in sommo grado,
collaboratrice preziosissima della sua vita! A questa donna egli intanto
ha saputo offrire il fascino di un nome autorevole e riverito come
corrispettivo alla pecunia della dote, e col nome la dignità di
rappresentarlo, di sostituirlo, di reggere una casa grande, bella,
comoda, acquetando così la petulante irrequietezza muliebre in un cumulo
di lavoro che ne assorbe e soddisfa la congenita vanità.

Io? Io se volessi permettermi il lusso di una donna non avrei da
offrirle nemmeno un posto sulla mia bicicletta.

E mi ricordo che delle poche amanti che ebbi, se erano buone,
intelligenti o pietose, erano — per così esprimermi — antifisiologiche:
se erano belle e piacenti, erano stupide e vane come pàpere: se
accennavano appena di possedere le due qualità della bellezza e del
valore, mostravano così grandi pretese da togliermi ogni ardimento.

Ma è più probabile che io sia stato pessimo intenditore dì donne, e
invece di accusare esse è meglio che accusi me. Di ogni merce conviene
avere esperienza prima di giudicarne il valore e il mercato.

Comunque si consideri la cosa essa era pur sempre sconfortante, e spiega
la ragione perchè io me la pigliassi ancora con l'Arte, idolatrata e
perseguitata invano da me con così fremebondo amore. L'Arte, pura Iddia,
no, non porge come le femmine le mammelle alle labbra del prof. Gaudenzi
e de' suoi pari perchè se ne abbeverino, suggere egli non può per
difetto di Natura che non volle: ma il vibrione si è attaccato in
qualche parte e succhia sangue e impingue e ingrassa e ne fa adorna sè,
la moglie, la casa. Egli specula, egli sa trarre frutto dal cimitero
delle Muse!

O morto nella miseria e nella disperazione, tu, o Foscolo che rendesti
la spada alla Fortuna fra le britanniche nebbie grige; tu, Tasso, anima
di luce e di sole all'ombra perfida del cenobio; tu, Leopardi, sperso
nel sogno del verde prato dell'asfodèlo lontano; e voi tutti eroi del
pensiero, nobili api che formaste il miele della vita; rosignoli che
così dolcemente cantaste da far obliare ai tetri umani il dolore e il
mistero; viole e rose, che diffondeste senza mercede il profumo su
questo immane sepolcro della terra, voi.... voi pur giovate ai vivi
dell'età pratica, maledetta fra le età.

Il vostro cimitero dà frutti a costoro!

Costoro, gli squallidi alchimisti, fanno analisi e filtri del vostro
pensiero, del vostro cadavere: contano le parole che voi avete
adoperate, o nobili poeti: pesano e scompongono le vostre anime:
sottraggono, sommano e ne ricavano onori, reputazione, ricchezza.

Sì, sì! È vera la parola del fisiologo: la morte è necessaria alla vita,
ma è anche vero che io avevo ragione di essere seccatissimo.

E non avendo altro sfogo o conforto, bevevo aria pura e correvo in
bicicletta e mi confortavo col verbo plebeo ripetuto nel principio di
questo racconto.

Il bisogno di ossigenarmi con una velocità anormale di quindici
chilometri all'ora mi si presentava come rimedio eccellente. In cotesta
specie di frenesia ero giunto al punto da reputare inutilissimi tutti
gli studi, e la critica e la filosofia e la filologia e i romanzieri e i
bibliofili e gli archeologi, ogni dottrina insomma e ogni scienza. E
poichè l'uomo si compiace che altri approvi e lodi le proprie idee ed io
non trovavo nessuno che mi approvasse e lodasse, ma ero solo come l'uomo
maledetto della Bibbia, così mi rivolgevo alle cose e alla materia. E
correndo lungo la riva del sonante mare, buttavo al mare, al sole, al
cielo un nome di romanziere, di filosofo, di erudito, di critico, e le
opinioni loro e le loro fatiche. E il mare, il sole, me lo respingevano
sdegnosamente: «Sciocchezze!»

A questa prova resistevano solo alcuni pochi poeti, profeti e filosofi,
specialmente quelli che meno avevano scritto e più si erano astenuti dal
formare sistemi e teorie. Dante, ad esempio, era resistentissimo e, o
suggestione o realtà, il fatto era che quando io buttavo contro il mare
o contro il cielo un verso di Dante, esso si integrava con la infinita
natura come cosa che a lei appartenesse veracemente.

O meraviglioso, o portentoso effetto!

Il mare, il cielo, i fiori sapevano i versi di Dante con perfettissima
chiosa: essi tremavano nel vento, galoppavano sulle onde, seguivano la
bicicletta, palpitavano col canto degli innumeri musici della natura;
dal grillo al rosignolo. Oh, meraviglioso effetto che mi commoveva sino
alle lagrime!

Se il prof. Gaudenzi avesse sentito nel suo pensiero balenare qualcosa
di simile, lo avrebbe indubbiamente trasmutato in dieci mila schede:
tante quante i seguaci di Senofonte.

Così operando e pensando, io avevo trascurato la Biblioteca dove mi era
già un tempo argomento di conforto il conversare con le grandi anime
antiche. Ora io ricercavo invece ansiosamente le vive anime delle cose:
i campi fioriti, il mar risonante, il cielo sereno al bel tempo novo
della Primavera che, dopo il chiuso inverno, era finalmente venuta
rievocando nell'anima mia imagini adorne e sbiadite.

E per mio riposo in quelle lunghe scorribande avevo scoperto, poco
discosta dalla città, un'osteriuzza, obliata e ignorata, un grazioso
recesso di pampini verdi e a suo tempo di aiuole di fragole. Quivi non
solo c'era modo di fare una colazione rusticana eccellente ma anche di
aggiungervi una partita a scopa con l'oste col quale mi ero fatto amico.
Vi capitavo sovente e fra gli altri giorni in un limpidissimo venerdì di
giugno, un venerdì luminoso, caldo, pieno di vibrazioni e palpiti
procreatori nella natura. I recessi tranquilli dei campi erano pieni di
passeri che facevano la ruota e il minuetto alle loro dame; molte antère
delle piante sotto la forza del sole scoppiavano e nugolette di pòlline
erano librate nell'aria; gli insetti si aggiravano in così grande numero
da credere che quel giorno corrispondesse a qualche loro misterioso e
sacro rito. Nel cortile solitario dell'osteria era una vettura chiusa
come un enigma e l'ostessa era in molte faccende davanti ai fornelli.

— Avete forastieri? — domandai.

— Due signori di sopra — disse lei bonariamente.

— Sì, due signori, di cui uno porta le sottane — corresse il marito
rivolgendosi a me. Indi rivolto alla sua donna dicea: — Ed è tanto che
te la canto in musica che di questi giri in casa mia non ne voglio: dico
bene o dico male?

Io non potei che lodare il suo sentimento di moralità.

— Oh, dunque....

— Prima di tutto parliamo piano — disse l'ostessa. — Intanto nessuno ti
dice che sia un giro: per me, sino a prova contraria, sono due sposini.

— Già per lei son sempre due sposini — disse sarcasticamente il marito.

— Se non lo sono, meriterebbero di esserlo! Lei, bella! Ma lui? Un
cherubino. Cos'avrà? vent'anni! E vedere come ci è morto dietro, le
premure, le delicatezze, le grazie, i bei modi! come c'è innebriato!
sono cose che commuovono....

— Va là, vecchia carampana! — disse il marito.

— Bene so che un omaccio come te non ha più nessun sentimento. Oh, senta
— si rivolgeva a me — una di queste due costolette la voglio dare a lei.
Sentirà che bontà! L'altra la accomodo in due. Già loro non ci badano a
quello che porto sul piatto; se è molto, se è poco, se è buono, se è
cattivo. E poi tu, ehi, tu? dà retta: il signore è di famiglia e si può
parlar chiaro: se fossero i primi venuti capisco anche i tuoi scrupoli,
ma sono degli avventori che vengono ogni tanto, e avventori buoni. Se
non c'erano loro tutte quelle bottiglie di vino spumante a chi le
avresti vendute? e il _cognac_? Ne capitasse una al giorno di coppie
come quella lì!

L'uomo alzò le spalle e mi stendeva davanti il tovagliolo: — Dopo
facciamo la bottiglia a scopa?

— Ben volentieri, amico mio, oh, caspita, anche i tartufi!

La costoletta, sottratta all'agape amorosa e postami innanzi, era enorme
e ostentava sul suo frontispizio un'incrostazione gloriosa di tartufi,
come il petto di un uomo ufficialmente illustre, in un giorno solenne.

L'ostessa sorrise di compiacenza.

Ben tutti sanno che un cibo succolento ha virtù di eccitare il cervello
in alcune sue parti onde queste fanno secernere alle glandole a ciò
deputate maggior quantità di succo gastrico. Ne consegue che l'uomo, più
a lungo che non soglia, si indugia presso la mensa.

Così avvenne a me in quel dì chè l'oste attese più del consueto che io
fossi pronto per la partita a scopa.

La bottiglia fu posta fra noi due e ce la disputammo accanitamente.

Un rumore di sonagli e di finimenti già accennava ogni tanto che la
coppia amorosa si preparava alla partenza; il cavallo fu attaccato e la
carrozza andò a fermarsi bel bello davanti alla scala che era in
comunicazione con la cucina.

E il mio cuore era sospeso nell'attesa, nè sapevo il perchè.

Non molto dopo i due misteriosi amanti scendevano con grande cautela la
scaletta di legno: si sentiva un piede elegante scricchiolare: e il mio
cuore era sospeso.

— Non c'è anima viva — accertò l'ostessa.

E allora — fatta sicura — una voce a me ben nota, se non che
infinitamente umile e carezzevole di figlia d'Eva sottomessa, sussurrò
con un _erre_ che mi tolse alle gote ogni flusso di sangue: — Ma lo sai,
Gastone, che io ho dei doveri, dei sacrosanti doveri?

Palpitò un bacio e la voce con l'_erre_ tremò ridendo: — Bambino,
bambino mio!

Ebbi a pena tempo di voltarmi che uno strascico setoso e spumoso di
femina elegante scompariva nella vettura chiusa.

Le ruote scricchiolarono nello svoltare, accelerarono il moto: un rumore
che durò a lungo nell'ardente silenzio meridiano: più nulla.

L'oste tendendo tutto l'acume del suo cerèbro nel difficile calcolo
finale della scopa, io voglio dire delle carte dispari e delle pari, non
si era addato di nulla. E in fatti è calcolo acuto e richiede molta
attenzione.

— Se le carte sono mie, la bottiglia per quest'oggi la paga lei. — Contò
e — Ventidue! — disse con grande soddisfazione — Però se desidera far la
rivincita non mi rifiuto.

— Sarà per un altro giorno, amico, tanto più che oggi è tardi.

— Come le pare.

Saldai lo scotto senza dare a vedere alcuna sollecitudine, ma a pena
ebbi inforcata la bicicletta e l'ebbi avviata con due nervose mosse di
pedale, sclamai fra me: «Non sarà mai detto che una carrozza possa aver
ragione di una bicicletta!»

Ma il cavallo o non era di quelli comuni da piazza o la frusta doveva
essere caduta con forza sulla sua groppa perchè la vettura non appariva
a nessuna svolta della strada.

E io spingevo il pedale con rabbia crescente fra un nugolo di polvere
bianca.

                                 ***

Un pompiere che vede indizio di fuoco, un carabiniere che scorge il
malandrino, un soldato che ode il rombo del cannone, un ispettore dei
monumenti governativi che osserva un campanile che crolla, un _purus
grammaticus_ che s'abbatte in un errore, sono presi da un'agitazione
vivissima: i tre primi di solito accorrono, il terzo si affretta a
stendere un rapporto, il quarto brandisce il lapis azzurro, giacchè
ognuno è portato naturalmente alla conservazione di ciò che reputa
affidato alla sua custodia. Perciò io che avevo per il passato studiato
filosofia morale, mi sentii offeso da quel tradimento: io che avevo per
il passato avuto fortissimo il senso della conservazione sociale, fui
turbato da quella azione opposta e dissolvente della conservazione
sociale. È vero che dopo sono diventato scettico, ma tenete a mente: se
volete trovare ancora un'oncia di fede, andate da quelli che portano per
insegna: «Qui non si vende fede!» come se volete trovare ancora un
bricciolo di onestà, andate da quelli che dichiarano: «Io sono
disonesto!» giacchè gli onesti e i credenti si vergognano di avere i
magazzini pieni di una merce che non ha più molto corso in commercio.

E come il vigile del fuoco tira il campanello del proprietario della
dimora che arde, così io fui preso dal bisogno di avvertire il
proprietario che la sua moglie ardeva. Per dirgli che cosa? che la sua
moglie ardeva? No! ciò sarebbe stata cosa ridicola, ingenua e perfida:
bensì per avvertire quell'uomo savio e felice che una grande calamità,
un grandissimo incendio avveniva nell'artistico e sacro monumento della
Morale.

Cotale incendio e devastazione mi aveva profondamente turbato ed
afflitto. Avrebbe turbato ed afflitto anche l'uomo che avea per suo
ufficio la conservazione delle cose belle e buone? Quale peso dava egli
a questo gravissimo fatto?

Giacchè tutto il segreto del vivere è qui: possedere le bilance di
precisione per giudicare dei fatti umani e del loro valore alla stregua
della praticità.

Questo, adunque, era l'annuncio: «Amico, un grande fatto avviene:
crollano le torri, arde il monumento della Morale!»

Veramente avrei dovuto dire «era arso!»

Ma bastava poi la somiglianza di un ineffabile _erre_ per affermare che
era la casa di Ucalegonte quella che ardeva?

La più elementare prudenza consiglia in simili casi di usare le maggiori
cautele. Dunque anzi tutto era necessario esser sicuro che la dama fosse
lei e non altra.

Fui in vista della carrozza un chilometro prima della città. Finalmente!
Mi era nato persino il sospetto che avesse svoltato per qualche via di
traverso o si fosse fermata in qualche villa, perchè mi pareva
impossibile che un cavallo avesse potuto avanzare di tanto.

La carrozza eseguì una manovra abbastanza strana e misteriosa, ma però
senza alcuna incertezza, dalla qual cosa si poteva arguire che non era
la prima volta che faceva quel viaggio in simili condizioni.

Non entrò direttamente in città passando la barriera, ma prese per la
via di circonvallazione descrivendo un lungo arco finchè imboccò i
cancelli del giardino publico e cominciò ad aggirarsi rapidamente per i
viali tortuosi e densi di ombra.

Il cocchiere due o tre volte si era voltato indietro con sospetto e ciò
mi costrinse a deviare per un altro di quegli intricati viali.

Così perdei la traccia della carrozza per qualche minuto, quando ad un
certo punto fu la vettura stessa che si incrociò con la mia bicicletta,
ben lanciata.

Ebbi — confesso il mio pudore maschile — vergogna di spingere l'occhio
dentro la vettura: vergogna per lei.

«Le tendine sono abbassate!» ma non avea formato questo pensiero che la
bicicletta passò dinanzi alla vettura.

Le tendine non erano abbassate: in fondo era sdraiato un giovane, un bel
giovane biondo — come potei giudicare dall'attimo — uno di quei tanti
tipi di stereotipa eleganza e fisonomia che caratterizzano il ceto ricco
e mondano.

E la dama?

Scomparsa.

Un uomo meno preoccupato del gravissimo disastro nel monumento della
Morale, avrebbe ragionato così: la dama è scomparsa perchè è smontata
dalla vettura, è smontata dalla vettura privata per prendere un innocuo
calesse da piazza.

Se tu fai la posta davanti alla sua casa, la vedrai fra breve arrivare o
a piedi o in carrozza e così saprai per certo se è lei veramente.

Ma a mia giustificazione debbo dire che io dalla frase udita avevo
ricevuto convinzione piena che fosse lei, e perciò non tanto mi pungeva
curiosità di avere per gli occhi maggior conferma, quanto mi agitava la
passione, il dolore di veder crollate a terra le nobilissime torri del
più bello fra gli edifici: quello della moralità della famiglia!

E tutto questo perchè?

Per effetto di una inoculazione di virtù subìta nei primi anni
dell'adolescenza. È vero che dopo ho studiato filosofia morale, anzi ne
ebbi laurea di bacelliere. Ma non è stata tanto questa cresima
ufficiale, quanto il battesimo primo nell'antica casa paterna. Esso ha
influito in ben mirabile modo sull'animo mio e mi ha collocato in una
tale posizione di rettitudine morale da accorgermi e da addolorarmi
inguaribilmente della stortura morale de' miei fratelli in umanità.

_Semel abbas semper abbas_ dicevasi un tempo di chi ha portato il
collarino del prete; e colui che ha nell'organismo certi principi opera
pur sempre in modo impratico, inconsiderato, come accadde a me in quel
giorno.

Quando mi sono accorto di tale discrasia organica, ho cominciato una
cura ricostituente e depurativa, ma ohimè! con tutte le salsapariglie
della negazione, dello scetticismo, del cinismo, dell'ironia non sono
riuscito ad espellere dall'organismo il _virus_ della virtù.

O virtù, _virus_ meraviglioso!

Erano le quattro e in una volata fui alla Biblioteca dove penetrai con
impeto, con grandissimo stupore del portinaio e del solenne peristilio.

Di ciò che feci, del modo con cui diedi l'annuncio del grave disastro
non ho ricordo esatto: ricordo però benissimo che nell'entrare nell'aula
molte teste si levarono dai libri e concentrarono verso di me le luci
dei loro occhi e dei loro occhiali con intenzione punto benevola:
ricordo che, vedendo l'uomo, me gli sono accostato con certa foga così
da rovesciargli sul tavolo un piccolo baluardo di libri e da spargere
sul tappeto un certo numero di schede: e sopra tutto mi ricordo di avere
balbettato delle parole dolorose e di sdegno.

Fu la voce calma del professore che mi fece tornare in me. Egli aveva
deposto le schede e prese a parlare e diceva pianamente: — Va bene: tu
mi racconti che sei solito fare delle gite in bicicletta, che questa
mattina approfittando della favorevole stagione ti sei recato fuori in
campagna a fare la tua solita partita a scopa e che oggi invece sei
stato disturbato da una coppia di innamorati....

— Un amore illecito....

— E credi che ciò mi sorprenda? Ma sappilo che di mogli licenziose e di
gioventù mondana e scioperata pur troppo nè oggi nè mai si ebbe a patire
scarsezza. Anche il giocare a scopa è un piacevole esercizio non
eccedendo, benchè siano occupazioni poco conformi all'abito che tu
rivesti. Ma io ti domando se è il caso che tu scelga questo luogo e
questo momento per venirmi a raccontare....

— È che.... — balbettai io — si tratta di uno di quei fatti gravi che
sconvolgono le basi della morale e della famiglia e turbano così
profondamente che non si può tacere.

— Verissimo — rispose l'uomo savio e pacato — ma sono di quei casi che
quando non ci toccano in via personale, non si levano dalla importanza
di un semplice fatto di cronaca, dei quali io non sono punto curioso,
anche trattandosi di conoscenti come pare il caso a cui tu accenni così
poco opportunamente. A dispetto di questi fatti di cronaca che sono
sempre avvenuti, la famiglia è esistita ed esisterà sempre e l'edificio
della morale non crollerà, credilo.

— Ma quale morale? — chiesi io.

— Quella scritta sulle dodici tavole eterne del buon senso — rispose
l'uomo, e aggiunse in tuono di ammaestramento pacato — Fra la morale
scritta e la morale pratica, tra il paragrafo del codice e la realtà
esiste un tacito accordo che bisogna avere la fortuna di comprendere
subito a pena si entra nell'onore del mondo se si vuol vivere bene ed in
pace.

Ma sai tu che se fra le persone di buon senso non si comprendesse questo
tacito accordo, la vita sarebbe una tempesta, una pena, una battaglia
senza fine? E poi la donna che tu condanni, è essa veramente colpevole?
Tu che ti diletti di filosofia, non devi ignorare che i fatti umani sono
di così complessa natura, esiste un così delicato intreccio di forze
opposte che non sempre è prudente, spesso anche non è giusto condannare
anche nei casi dove la colpa appare manifesta.

Queste parole di ammaestramento cadevano sulla mia inguaribile ignoranza
e me ne stavo lì inchiodato sulla sedia a sentir la predica senza
risponder più verbo, tanto che non udii la campanella del fine nè vidi
la gente che andava via: ma quando un passo lieve e una voce carezzosa
con l'_erre_ si fece sentire presso di me, saltai in piedi come di
scatto.

— Ma che carattere impressionabile! — disse lui.

— Prego, stia comodo — mi disse la signora e rivolta al marito aggiunse:
— Guarda che sei proprio l'ultimo. Beata distrazione!

— Stavo facendo una ramanzina all'amico — disse il professore — e questa
volta proprio sul serio.

— Le ramanzine di mio marito sono terribili — disse la signora e
pronunciò quel «terribili» con quel suo _erre_ affascinante e
inimitabile che mi risuonava ancora nel cuore per la frase udita breve
ora innanzi. — Ma io — proseguì abbassando il _lorgnon_ sino a squadrare
la punta dei miei stivali — ma io indovino subito quale è la causa della
ramanzina di mio marito. Lei è ciclista, vero? Sappia che mio marito,
che pure è incapace di odiare, odia ferocemente il ciclismo.

— Elvira!

— Confessalo, tu lo odii....

— Io non ho mai detto simili leggerezze di odiare il ciclismo: ho detto
e affermo che questa frenesia per lo _sport_ eccede i limiti del buono e
normale esercizio fisico.

— E io invece — disse garbatamente la signora — sarei felicissima che tu
imparassi a montare in macchina; si farebbero delle gite in campagna,
con dei _tête-à-tête_ graziosissimi, specialmente in giorni così belli
come questo; e gioverebbe anche a diminuire quel certo _embonpoint_ che
non forma la tua qualità più spiccata. Consulta un medico e ti dirà se
io ho ragione.

                                 ***

E quando uscimmo dall'aula trovammo la solita fila dei tre bambini di
cui la signora in cinque anni di matrimonio avea onorato il signor
marito.



IL TRIONFO DELLE ROSE.


Il trionfo di Mimì che amava tanto le rose, è nella sua umiltà fra i più
gloriosi di cui io abbia ricordanza.

Come eravate magra! Tutta occhi, tutta capelli, tutta tristizia, tutta
bei denti bianchi! Diafana e preziosa anche allora come una perla!

Il mio amore per voi fu una di quelle febbri acute dei vent'anni che non
si dimenticano più!

La colpa di questo innamoramento, oltre che dell'età, fu un po' di
Giovanni Boccacci dove ragiona della rara bellezza delle donne Bolognesi
e un po' di Olindo Guerrini che aveva spiegato in un suo fresco idillio
il gran mistero de'

    bei piedini così ben calzati,

verso che pareva fatto con speciale deferenza verso di voi.

Comunque, o Giovanni Boccacci o Olindo Guerrini, la verità è che io mi
innamorai di voi in così pazzo modo che se voi m'aveste assicurato di
essere la Venere di Milo, Giovanna d'Arco, Isotta, Aspasia, Maria
Vergine, vi avrei creduto senz'altro su la parola.

In qualche libro francese avevate imparato a bere l'assenzio: e voi lo
insegnaste a bere a me.

Non dirò che io ci provassi una speciale soddisfazione a sentirmi
bruciare lo stomaco, ma voi dicevate che era molto piacevole e nobile
cosa bere e intossicarsi con l'assenzio, ed io figuratevi! bevevo.

Macchè! Voi non dicevate di essere nè Venere, nè Aspasia, nè Giovanna;
ma semplicemente la povera Mimì, cioè una piccola gracile creatura
dicevate voi di essere, destinata fra poco a morire etica. Etica! Una
cosa deliziosa; morire etica a vent'un anno (allora, scusate, avevate
due anni più di me)! Anzi questa vostra carriera dell'etisia vi
commoveva tanto che componeste persino uno stornello:

                    fiorin di rosa,
    me lo prometti, di' me lo prometti
    di portarmi dei fiori alla Certosa?

Allora, cioè più che tre lustri or sono, non era alla cognizione publica
nessuna cura sieroterapeutica contro la tubercolosi: i sanatori non
erano di moda e perciò gli etici, compresa Mimì, erano destinati a morte
lenta ma sicura, ed agli amanti non restava che di piangere amaramente
la perduta compagna. Pianto nel cuore se non pianto su gli occhi mi
germogliava vedendo (andavamo lenti, soli, obliosi dell'ora) sotto il
colle fiorito di S. Luca, biancheggiare la Certosa, la città dei morti!
Lì i vostri bei piedini sarebbero rimasti immobili! Oh, mi aveste
comandato di morire per voi! mi aveste comandato di farvi sposa
all'altare prima del sopraggiungere della morte! Certo se così aveste
comandato, io vi avrei risposto, come già Lancilotto alla regina
Ginevra: «Gran mercè, dama!»

No! Voi non domandavate così grandi sacrifici nè tanta prova d'amore
eroico: per il presente non domandavate che qualche umile colazione
nelle trattorie suburbane dove le sottili, patrie tagliatelle
pasticciate scomparivano sorbite a pena da' bei labbri a cuore di molle
corallo; e per l'avvenire molte, molte rose per la vostra prossima tomba
in cimitero. Voi mi tessevate frattanto tutta la mia futura vita;
felice, ricca, lunga! Non mi invidiavate, non ne eravate gelosa purchè
mi fossi ricordato del vostro stornello e della funerea promessa delle
rose.

                                 ***

Ebbene no, piccola Mimi! voi non siete morta etica nè in altro modo. O
non avete voluto o non avete potuto.

Me ne duole per le rose e pe' fiori, e ne godo per voi.

Io da quel tempo — e ne son passati degli anni — ho avuto tante cose da
fare che ho dimenticato le rose, i piedini così ben calzati, gli
stornelli, la tisi, l'assenzio (quello ne' calici, si intende, giacchè
dell'altro assenzio ne ho bevuto sino all'intossicazione) e avrei
dimenticato anche voi se voi non aveste pensato a far noto il vostro
nome. Esso dopo alcun tempo mi è corso sott'occhio in qualche manifesto
di commedia: un posto umile, ma comunque una posizione sociale ben
determinata, cosa che non accade a tutti e specialmente alle donne. Ma,
benchè mutate in meglio le sorti e datavi alla nobile arte del recitare,
siete rimasta fedele alle vostre antiche abitudini; alle tagliatelle in
ispecie.

Il cameriere del caffè X*** quando, o cara errante, ritornate in Bologna
dopo qualche peregrinazione artistica, presenta a voi, che sedete
placida fra i vostri compagni e compagne in _guitterìa_ — di cui quivi è
gran ritrovo — il piattellino delle tagliatelle _raccomandate_ invece
delle rose su la tomba. Capisco, era più igienico e nutriente. Avete
fatto bene, piccola Mimì, a preferire le tagliatelle. Ciò vi ha
conservato. Voi siete rimasta la stessa: magrolina, picciolina,
palliduccia, co' begli occhi tondi neri e i bei denti bianchi.

La morte per etisia non ne ha voluto sapere di voi. Il tempo vi ha
sfiorato a pena col piumino della cipria. Capelli bianchi? No! col
piumino della cipria che vi dà la parvenza e il profumo delicato d'un
mazzolino di violette, un po' languide. La tisi è stata interamente
fugata. E avete fatto bene. Finchè la tisi era una malattia per così
dire ideale, immateriale, si poteva anche essere etici favorevolmente:
ma dacchè la tisi si mutò in concreti orribili bacilli o vermiciattoli,
notoriamente infettivi, voi avete dato prova di senno a non volerne più
sapere.

Il signor Koch, co' suoi bactèri omonimi, ha contribuito a sconfiggere
le ultime trincee del romanticismo elegiaco più di ogni violenta
diatriba filosofica.

Con la vostra compagnia _guittesca_ attorno ad un felice istrione, vi
siete spinta sino a Parigi, cara Mimì, e in quella città dalle bellezze
famose e trionfali, voi avete ottenuto un successo, e non di stima
soltanto: ciò vi fa onore. Siete tornata in patria, fedele bensì alle
natie tagliatelle ed ai piacevoli conversari del Caffè X***, ma, senza
volerlo, la vostra abituale modestia ha subìto alcuna variazione di
tenue e pretensiosa dignità.

Piccola cosa che non vi nuoce punto, anzi vi torna a ben meritata lode.
Parigi vi ha convertita all'ultimo stile: prima erano timidi, vaghi
accenni, ma ora è sinfonia spiegata e piena. Oggi la vostra conversione
all'ultimo stile è completa. Siete florealmente stilizzata, piccola
Mimì, e non vi disconviene.

Ai miei tempi, quando fiorivano le violette sul colle di S. Luca o
quando venivate meco a S. Giovanni in Monte

        a sentir la tromba
    sonar la ritirata

voi non portavate che un anello al dito medio, fatto di un vile chiodo
di nero ferro ritorto. Allora usava così. Oggi le vostre dita sono
nascoste sotto una fila di anelli e di pietre di vario colore, splendore
e valore: avete imparato un fare languido, calmo (ricordate un tempo
come eravate nervosa e stramba?) e signorile: la vostra piccola figurina
si innalza sopra la liliale foggia di una gran gonna a strascico; e i
vostri magnifici turbolenti capelli neri si sono acconciati a quella
composta pettinatura che è detta verginale e che le gran mondane hanno,
con molto acuto senso di contrasto erotico, adottata.

Che più? Il buon genio che ha presieduto alla vostra vita, vi ha
concesso tanto di giovinezza dello spirito oltre che delle forme da
prendere sul serio tutti i _non forse_, tutti i _luminosi_ vocaboli che
oggi sono di moda. Oggi anche voi parlate raro con atti soavi.

Ma nel segreto del vostro cuore credetelo, piccola Mimì, senza avervene
a male, voi siete rimasta sempre quella buona e piacevole figliuola che
eravate prima, fedele in segreto alle vostre antiche abitudini e
specialmente alle tagliatelle pasticciate ed ai ciccioli caldi.

Cotesta cura, aiutata da uno stomaco eccellente, è stata sovrana contro
le rughe ed è valsa quanto il migliore _cold-cream_.

Io non so se ancora abbiate la melanconia di comporre versi, ma oserei
scommettere che vi permettete ancora il lusso di innamorare di voi
qualche imberbe ed ingenuo giovanetto a cui mormorate ancora, chi sa,
forse sul serio e ben persuasa voi stessa:

                    fiorin di rosa,
    me lo prometti, di' me lo prometti
    di portarmi dei fiori alla Certosa?

Giacchè la morte, anche se non di tisi, è pur sempre un'ottima droga
nella confezione dei colloqui d'amore!

Innocente e cara menzogna alla fin fine; e se sul vostro passivo non
avete altre colpe, Iddio si ricorderà benevolmente di voi quando vi
dovrà giudicare.

Nè credo proprio che abbiate altre colpe gravi! Avete violato la fede
giurata? Avete fatto saltare le cervella agli amanti? Avete distrutto
patrimoni? Avete tentato di impiccare alcuno con astuzie e pretese di
matrimonio? No, nulla di tutto questo e sì che lo potevate, anzi da
onesta e buona figliuola avete, per quello che io ho di memoria, sempre
consigliato agli amici di andare ad impiccarsi altrove.

Un gaio genio ha presieduto alla vostra vita e Iddio avrà molti riguardi
per voi come ne hanno tutti quelli che vi conoscono.

Non rabbrividite! Se quel giorno è inevitabile, se la morte che così di
sovente invocaste, è fatale — essa è pur molto lontana da voi: essa vi
lascierà ancora tanto di giovinezza che dopo lo stile floreale,
sopravenendo un nuovo stile, voi ne possiate assumere le parvenze e il
costume.

E infine?

Infine non mi meraviglierei che mi capitasse un bel giorno il vostro
avviso di nozze e che voi direste agli amici e alle amiche: «Ora basta.
Bisogna che mi metta proprio sul serio!»



IL TRIONFO DI PUCCÌN.


— Quanti figli avete?

— Due, cioè, veramente, ve ne sarebbe un terzo, anzi una terza — ma
questo _cioè_ con quel che segue, era oramai più pensato che espresso da
Almerigo Crosio.

                                 ***

Perchè avveniva questo fenomeno strano e doloroso: nel ricordare il
numero dei rampolli destinati a consegnare il proprio nome alla
posterità, Almerigo Crosio non provava nessuna di quelle vibrazioni di
gioia che la natura sente nell'atto in cui si estende e propaga.

Il concetto antico del favore di Giove e della benedizione del Signore
sotto la specie di una prole numerosa e sana, non penetrava gioiosamente
più nel cervello di Almerigo Crosio, cittadino moderno.

Non si nega anche oggi la benedizione del Signore. Si dice soltanto che
ai tempi che corrono questa benedizione si accompagna con troppo amore
del signor Agente delle imposte, il quale a sua volta ha un
interminabile corteo di impicci, di spese, di nuovi e costosi servizi.
Ecco perchè l'antica benedizione del Signore non è più accolta
gioiosamente, ed ecco la ragione per cui Puccìn, terza figlia di
Almerigo Crosio, a tre anni era ancora a balia.

                                 ***

Negli antichi tempi entrava, invece, soltanto la benedizione del
Signore.

L'incubatrice, il ginecologo, la pediatria, la pedagogia, i poppatoi
razionali non erano stati inventati.

In quegli antichi, anzi remotissimi tempi, il buon centauro Chirone,
benchè non avesse nessuna patente di scuola, forniva egregi precetti di
morale e di fisica applicata alla fisiologia, e, quel che è più, non
domandava stipendio, anzi faceva altresì da bambinaia reggendo sul bel
dorso equino i pargoletti: la qual cosa avvenne ad Achille che ebbe
tutta l'istruzione _gratis_ come si legge nell'Oda dell'abate Parini.

E se per caso mancava la balia, senza ricorrere ai poppatoi tedeschi, ci
pensava la lupa, come intervenne a Romolo e Remo; o pure ci pensavano le
nobilissime api d'oro a distillare il miele su le labbra degli infanti.

Ed è per queste ragioni che gli antichi raggiungevano nel procreare
delle epiche meraviglie.

Danao ebbe cinquanta figlie che diedero il primo esempio storico di
nequizia muliebre, uccidendo in una notte i loro cinquanta mariti.

Priamo procreò quasi tutto l'esercito combattente contro l'implacabile
Achille.

Giove dava il buon esempio nel mettere al mondo dei e dee, ninfe ed
eroi, cui non bastava la fecondità di Giunone — questa Zantippe celeste,
dalle bianche braccia e dall'iroso cuore.

Anche i patriarchi biblici non erano inferiori in gioia ed in facoltà
procreatrici.

Vero è che allora si trattava di propagare la specie su la superficie
della vasta e deserta terra, e perciò più figli si mettevano al mondo e
più grande era la benedizione.

Oggi invece il signor Agente delle imposte, fornito delle sue
implacabili misure, conta i metri cubi d'aria di cui è capace il vostro
appartamento, e tassa in proporzione.

                                 ***

Questa tassa, tradotta in buon volgare, vuol dire: «meno figliuoli fate
e meglio è: meno bocche respiranti e più benedizione!

Non la volete capire? siamo in troppi, anzi troppissimi e perciò tasse
da scorticare ai procreatori eccessivi e legali!»

Voi, ingenuo, rispondete: «ma dove se ne va allora la santità della
famiglia, che voi legislatori proclamate, senza figliuoli?»

Ma il signor Agente delle imposte col linguaggio pratico delle sue
bollette vi spiega che la santità della famiglia è sovente una frase
decorativa dei codici e dei testi della morale, un _epitheton ornans_
come dicono i rètori.

Il fatto è ben diverso.


Ed ecco la ragione perchè quando _Puccìn_ si presentò sull'orizzonte
della vita, entrò bensì nel bell'appartamento di Almerigo Crosio una
provetta levatrice con tutta l'antisepsi voluta dalla scienza; ma non
venne la fede, non venne l'esultanza.

Almerigo Crosio in quel giorno ricordò melanconicamente il tempo lontano
quando nella sua casa era comparso il primogenito, ed egli, nella notte
della natività, aveva scritto queste parole in un albo: «Il Signore è
venuto a visitarci. È un bambino!»

E lo strillo di quell'essere minuscolo che, appena strappato dalle
viscere materne alla luce, si era acceso alla vita ed alla luce, gli
suonò nel cuore come una benedizione: esso fece palpitare e fremere
tutte le sue viscere d'uomo e scrisse ancora:

«Sii buono, sii puro, sii bello! Iddio si manifesta con la bontà, con la
purità, con la bellezza. Ore tre di notte!»

Ed era una cupa notte d'inverno.

Nella stanza della natività la fiamma — vigile — cantava: i lini attorno
alla fiamma del focolare splendevano come il vessillo d'una idea pura e
buona! Almerigo Crosio benedisse la compagna della sua vita e invocò la
purità anche su di lei, su di sè, su tutto, purità come la neve che
cadeva in quella silenziosa, cupa notte d'inverno.

Fu cercato un nome venerato e fu imposto al pargoletto.

                                 ***

Il secondo nato capitò al mondo con tanta disinvoltura, con gli occhi
aperti e i pugni serrati, come se ci fosse stato altre volte. Reclamò
subito con uno strillo i suoi diritti in questi termini: «Non è pronta
la colazione?» Una attonita e ben fornita balia friulana, lì pronta,
offerse il caffè-latte caldo all'impaziente, nuovo abitatore del mondo.

Crosio non scrisse nulla nell'albo.

Molteplici possono essere le cause:

o il rapido progresso delle idee materialiste trovava non più razionale
l'invocazione di Dio;

o la purità invocata dal cielo era stata invocata invano (il
primogenito, già settenne, era un bambino terribilmente inclinato a
insudiciarsi e a insudiciare);

o l'attrito della vita aveva spente o congelate certe gentili fioriture
dell'animo da cui si ricava il prezioso elisire noto col nome di Fede,
che non è soltanto quella che si accende in chiesa.

Il fatto è che Almerigo Crosio non scrisse nulla nell'albo.

                                 ***

Ma quando comparve la terza creatura, Crosio pensò che la sua signora
provvedeva con troppo entusiasmo alla conservazione della sua stirpe,
una stirpe che non valeva troppo di più di quella di un altro, anzi che
avrebbe potuto anche non essere conservata senza danno della umanità.

Non che Crosio fosse filosofo di professione o desiderasse finire con
sè. Crosio era anzi uomo di affari.

Ma appunto l'abitudine di considerare le cose del mondo sempre come un
affare, può indurre talora alle stesse conclusioni pessimiste e
terribili come se si fosse filosofi.

Di queste considerazioni chi ne sofferse gli effetti fu Giuseppa, la
neonata, la innocente!

Con tanta abbondanza di bei nomi muliebri che oggi l'estetica regala
alle donne, fu imposto alla innocente questo volgarissimo nome di
Giuseppa, tolto al calendario nel dì della nascita.

Invano il piccolo essere, dai lini ove era stato posato, faceva capire
con due grandi occhi attoniti e aperti, che anche ella avea diritto al
caffè-latte in famiglia: invano protestava con acute strida che sarebbe
stata buona, ubbidiente, e non sarebbe cresciuta proterva, svogliata
come i suoi fratelli.

Le proteste non furono accolte.

Il fagottino di quattro chili fu portato via da una robusta balia
campagnuola, e non se ne parlò più.

                                 ***

Almerigo Crosio si ricordava di avere una figliuola quando scadeva il
baliatico alla fine del mese.

D'altronde la sua coscienza era tranquilla.

Non solo la balia era eccellente; ma il balio pure. Il quale, oltre che
benestante campagnuolo, era anche letterato.

Ogni mese costui elaborava una lettera invariabilmente di quattro pagine
con un carattere denso ed irto come quello di un palimsesto, firmata
Prosdocimi, nella quale lettera Crosio cercava una sola frase, cioè
questa: «la bambina sta bene».

Ma siccome questa frase richiedeva una ricerca ed uno studio di
interpretazione non breve e non facile, e d'altra parte la lettera
veniva per se stessa a significare «la bimba sta bene», e le occupazioni
e gli affari erano tanti, così Crosio finì con lo scorrere a pena quel
difficile documento.

Ma oltre che scrittore, il balio si rivelò un bel giorno eccellente
oratore.

Chè un giorno Crosio sentì nell'anticamera del suo studio la voce di un
tale che domandava udienza.

— Voi siete? — chiese Almerigo Crosio inquadrandosi duramente
sull'uscio.

— Io sono il balio, per servirla.

— Ah, Prosdocimi! Scusate, non vi ravvisavo!

— Sissignore, Piero Medici, o Medici Piero, come si dice adesso.

— Benissimo, accomodatevi, amico mio: io ho sempre letto «Prosdocimi»,
ma non importa.

E Piero Medici fu fatto entrare e adagiare in una poltrona.

— Dunque la bambina sta bene?

— _Puccìn_ adesso sta benone.

— E chi è questo _Puccìn_?

— La sua bambina. Noi l'abbiamo sempre chiamata così: _Puccìn_!

Così infatti: Da Giuseppa, Giuseppina: da Giuseppina, Beppa, Beppuccia,
Puccia, quindi maschilizzando come suole talora il popolo i nomi di
donna, era venuto fuori un villereccio _Puccìn_.

Tutto ciò adesso era chiarissimo, e spiegava ad Almerigo Crosio il
perchè e il vero significato di una parola ricorrente in quelle perfide
epistole, parola di cui aveva rinunciato a comprendere il senso, cioè
_Puccìn_.

— Benissimo, benissimo — fece Almerigo Crosio — oh, che forse è stata
ammalata?

— In fin di vita.

— E non mi avete scritto niente? — domandò Almerigo Crosio levandosi in
piedi con volto adirato.

— Come? Io non le ho scritto niente? Io ho scritto tutto — disse Piero
Medici liberandosi a fatica dalla poltrona, in piedi anche lui.

Il volto sbarbato di quel villano esprimeva una così schietta
indignazione che Crosio tacque.

— Noi abbiamo scritto tutto — ripetè Piero Medici con voce trionfale — e
li aspettavamo di giorno in giorno perchè venissero a vedere la loro
bambina. Abbiamo colpa noi se loro non sono venuti?

_Puccìn_ — proseguì con gran copia di mimica Piero Medici — era ridotta
bianca come quella carta, pesava come un passerino morto e non si
vedevano di vivo se non gli occhi: la sua pelle cascava come questa qui
(e Piero Medici fece saltare su la palma la borsa vuota del tabacco). Lo
sappiamo io e mia moglie quello che abbiam fatto per _Puccìn_! E il
medico due volte al giorno! La gente veniva per vedere il miracolo della
bambina che non moriva. Io per badarla e portarla (non voleva stare che
in braccio) ho perso un mese buono di lavoro; e la pazienza di ubbidire
agli ordini del medico la dice poco, lei? Perchè sa chi l'ha salvata? Il
medico. Lui ha detto:

«Se state alle mie ordinazioni _Puccìn_ vive, e se no _schiavo_!»

E ha ordinato una gran pulizia, un gran dare aria, lavare tutto, tutto
misurato, e stare attenti giorno e notte. La gente diceva che eravamo
matti a dar retta a tutte quelle sciocchezze del medico e che la bambina
sarebbe morta lo stesso. Ma ora che vedono _Puccìn_ rifatta, e che è un
fiore, un botton di rosa, un giglio puro, non dicono mica più così! La
Befana da un mese gli ha portato il regalo: _Puccìn_ si è staccata e
cammina da per sè.

Crosio ebbe la pazienza di ascoltare l'interminabile sproloquio a
proposito di un'innocua diarrea infantile; infine domandò: — Le vostre
spese saranno molte?

— Oh, molte, molte, molte! — disse il villano sornione dondolando il
capo.

— E avete fatto un conto approssimativo?

— Io, compreso il medico, comprese le medicine....

— Comprese le giornate di lavoro.... — aggiunse Crosio sardonicamente.

— Comprese le giornate di lavoro perdute — ripetè con imperturbabile
serietà Piero Medici — compresa la disgrazia di un vitello che mi è
morto in quella circostanza, perchè non ci ho potuto badare e se ci
badavo non moriva....

— Ebbene, compreso anche il vitello?

— Compreso il vitello, io ho tirato una somma di trecento lire, soldo
più soldo meno.

A questo punto ebbe fine il discorso di Piero Medici e a questo punto si
turbò, ma fu un istante. Crosio lo vide levarsi in piedi, prendere
un'aria risoluta, levar dalla tasca interna della giacchetta non la
distinta delle spese, ma una gran borsa piena d'argento che posò
fieramente sul tavolo.

— Senta — disse Piero Medici risolutamente — io le abbuono le trecento
lire, le abbuono il baliatico, le regalo questa qui e lei ci lascia
_Puccìn_!

Era detto!

Almerigo Crosio quando capì, scoppiò in una risata così allegra come da
anni non aveva mai riso.

E come rideva così il volto di Piero Medici si abbuiava e si confondeva:
l'uomo sentiva di diventar piccino e finì col rifugiarsi ancora nella
poltrona.

— Dunque lei non accetta? — chiese infine. — E noi che eravamo così
sicuri che lei avrebbe accettato!

— Ma volete che io venda i miei figliuoli? O che li pigliate voi per
capretti, per vitelli, per galline?

Ma non ebbe voglia di ridere ancora: Almerigo Crosio pensò e si
intenerì, prese l'aspra mano di Piero Medici e la strinse
affettuosamente.

— Ah, _Puccìn_! dover perdere _Puccìn_! — ripeteva il villano. — Me lo
lascino almeno per un altr'anno, povera _Puccìn_; tanto da vederla
grande!

                                 ***

E fu così che _Puccìn_ rimase a balia sino ai tre anni e da allora
Almerigo Crosio lesse le lettere di Piero Medici e qualche volta pensò
alla derelitta _Puccìn_.

                                 ***

Dopo un anno Almerigo Crosio si decise di andare a prendere cotesta sua
figliuola, e ricondurla a casa e farla pari nei diritti e negli agi di
cui godevano gli altri due fratelli: i quali è cosa dubbia se avrebbero
spontaneamente accettato di suddividere in tre quel caffè e latte
eccellente che prima era solamente per due.

Ben conveniva risolversi a questo passo chè tanto valeva in simile caso
accogliere la proposta venale di Piero Medici.

Il quale doveva essere un perfetto gentiluomo come si accorse Almerigo
Crosio quando notò il modo come era stata allevata _Puccìn_, e la moglie
di lui doveva essere una gentildonna, e di gran cuore ambedue, sì grande
fu la pena loro nello staccarsi da _Puccìn_!

È dolorosa cosa dovere constatare come si possa essere gentiluomini
autentici anche non essendo passati attraverso il costoso e complicato
macchinario che serve ad elaborare gli uomini civili.

Il dogma dell'alfabeto obbligatorio come ne soffrirebbe se il suo
orgoglio gli permettesse di riconoscere questa verità!

                                 ***

In un bel giorno d'aprile Almerigo Crosio si mosse per andare a prendere
questa sua abbandonata bambina.

Alla soglia della casa rustica Almerigo Crosio era atteso.

Piero Medici e sua moglie avevano in mezzo una bambina con i capelli
biondi, ben pettinati e spartiti, e con le sottanine ben rosse.

— Quello lì è il papà! — disse Piero Medici additando il sopraggiunto,
con un fremito nella voce.

— Quello lì il papà? — domandò dolcemente _Puccìn_.

— Sì, sono io il papà — confermò Crosio piegando le ginocchia per
mettersi all'altezza del volto di _Puccìn_.

_Puccìn_ a questa affermazione credette docilmente: congiunse e sporse i
labbruzzi.

— Le vuol dare un bacio — avvertì la balia — non vede?

Allora Almerigo Crosio accostò la dura pelle del suo volto e sentì
premere contro di sè, come un suggello di purità, la delicata freschezza
di quel volto di raso che vedea, si può dire, per la prima volta.

— Ma mi conosce? — domandò Almerigo Crosio levandosi in piedi e voleva
dire: «La bambina sa che ha un babbo e una mamma che non siete voi?»

— Sicuro, li conosce tutti! — rispose la balia — Vuol sentire? _Puccìn_,
dove è il papà?

— A Venezia!

— Dov'è la mamma?

— Di sopra.

— Perchè di sopra? — domandò Almerigo Crosio.

— Perchè c'è un ritratto della Madonna della Seggiola e le abbiamo dato
da intendere che quella è la mamma.

— E Pio e Mondino (erano i nomi dei fratelli) dove sono?

— Tutti a Venezia! — rispose con voce dolce e pacata _Puccìn_.

                                 ***

Avete voi mai posto mente alla voce dei bimbi fra i due ed i tre anni,
quando cominciano a far le prime prove dei suoni delle parole? quando le
loro movenze hanno grazie inaspettate e veramente meravigliose come se
dentro si agitasse una prima anima pura, la quale per non far morire il
nato dall'uomo e dalla donna, muore essa anima pura e lascia quindi il
posto a quell'anima seconda e diverse che è quella che maturerà con gli
anni?

Allora, in quei fuggitivi anni, la voce infantile contiene un'eco come —
per porgere alcun paragone — la voce del ventriloquo. Pare cioè che
provenga di lontano: e nella sua semplicità ha fioriture e vaghezze di
linguaggio simbolico.

                                 ***

Almerigo Crosio seguitando il discorso, domandò:

— E tu vuoi venire a Venezia?

— Non si dice «voglio» — corresse _Puccìn_ — ma si dice: «per piacere!»

I balii sorrisero e spiegarono che avevano insegnato a _Puccìn_ che non
si deve mai dire «voglio» ma sempre «per piacere!»

— Perchè non si deve dir «voglio?» — domandò il balio.

_Puccìn_ allargò le braccine con un gesto rassegnato e desolato e disse
(ora teneva i grandi occhi in su come per iscrutare quell'uomo nuovo a
cui andava connesso il nome venerando di padre):

— Perchè l'erba del «voglio» non cresce neanche nei giardini del Papa.

— Dunque hai piacere?

— Sì, piacere.

_Puccìn_ dopo questa risposta si era allontanata, e ritornò poco dopo.

Aveva un cestellino di giunco sotto il braccio: nel cestellino c'era un
pezzo di pane ed una bambola miserabile.

— Quando le si dice di andare a Venezia, lei corre a prendere il suo
cestino e la sua pupa — spiegò la balia.

Ma gli occhi si arrossarono alla donna, in grande pianto. Lagrimava in
segreto anche il balio, e _Puccìn_ intanto imitava con le labbra il
suono dei buffi del treno; e a quel suono il grosso cane balenava con le
pupille iridate e balzava come per avventarsi contro il treno, (la
ferrovia correva lì presso) ma nulla vedendo, s'era accosciato con le
gambe davanti ritte, gli occhi interrogativi, la lingua fuori, davanti a
_Puccìn_ come per dire: «Ma ti sbagli, cara amica, il treno ora non
passa!»

E _Puccìn_ pur seguitava ad imitare i buffi del fumo.

                                 ***

Era una di quelle dolci mattine che a chi ben guarda e sente, sembrano
un consiglio di pace che la terra e le piante danno agli uomini, quando
Almerigo Crosio e _Puccìn_ si trovarono soli nel treno.

— Vienci a trovare! — aveva detto la balia.

— Sì, vi verrò a trovare — aveva risposto gravemente _Puccìn_ in piedi
sul treno, come una reginella che rende omaggio ai vassalli.

Ma Piero Medici aveva scosso il capo e avea preso per mano la moglie: —
Andiamo, via, andiamo! — e si erano allontanati prima che il treno si
movesse.

Ora, fuggendo il treno, si videro per qualche istante i due balii che si
allontanavano curvi, lungo la via bianca, senza più voltarsi.

— Il zio Piero e la zia Nena — disse _Puccìn_ con l'abituale sua
placidezza, additando.

— Ci volevi bene?

— Oh sì, _Puccìn_ ci vuole tanto bene!

Ma _Puccìn_ in quell'istante era molto occupata ad osservare la nuova e
instabile dimora dove si trovava.

Le scosse del treno trasportavano _Puccìn_ da un punto del cuscino ad un
punto del cuscino opposto. Spesso le movenze erano comiche: il bianco
del grembiulino davanti, lo scarlatto della vestina di dietro, l'onda
dei capelli, agitati dalle scosse, apparivano ogni tanto, e ogni tanto
le pupille si rivolgevano attonite, più che interrogative, per
domandare:

«Ma, caro signor padre, come va tutto questo che qui non si sta mai
fermi? è così instabile ed inquieta la nuova dimora?»

Il padre, Almerigo Crosio, seduto in un angolo, guardava.

Guardava _Puccìn_, cui il treno faceva ballare una curiosa ridda, e
questo pensiero diabolico si delineò nella mente di Almerigo Crosio:
così, ecco: «lasciare aperto lo sportello opposto: attendere che
_Puccìn_ vi batta contro. Non avrebbe sentito neppure un grido: il
rosso, il bianco, l'oro dei capelli travolti un istante, poi nulla, più
nulla!»

«Che cosa è stato?» chiederà la vana legge degli uomini.

«Una disgrazia involontaria» risponderà Almerigo Crosio.

E la statistica degli uomini registrerà una disgrazia involontaria di
più.

                                 ***

Ma Almerigo Crosio al pensiero diabolico rabbrividì, si alzò, andò
all'altro sportello e si rassicurò che fosse ben chiuso, ma, nel
ritornare al suo angolo, prese _Puccìn_ per l'uno e per l'altro polso,
davanti a sè, stringendo a pena: poi nel premere andò sempre crescendo.
Voleva vedere gli imperturbabili occhi lagrimare, voleva udire la soave
voce tramutarsi nel pianto, voleva che _Puccìn_ provasse paura non
fiducia di trovarsi con lui. Qualche piccola cosa pur il Demonio domanda
di tributo anche gli uomini onesti! E stringeva!

E _Puccìn_ fissava attonita, l'ombra della paura già oscurava il volto,
le labbra fecero boccuccia brincia per il dolore, ma non per piangere,
bensì per offrire il solo omaggio che poteva offrire per il riscatto
della pena: un bacio!

Allora le mani di Almerigo Crosio si allentarono. Lasciò _Puccìn_.

_Puccìn_ tornò a palpare i cuscini instabili.

                                 ***

E Almerigo Crosio s'avvide che lo sigaro che stava fumando era pessimo,
anzi molto pessimo, perchè lo faceva stranamente lagrimare.

                                 ***

Ma no! _Puccìn_ mostrava di avere una fiducia illimitata in
quell'incognito che gli era stato presentato sotto il nome
autorevolissimo di padre: fiducia piena di grazia e di purità: da lui,
da lei venuta fuori quella purità mirabile: da lui, da lei, sui quali la
vita, la necessità del lucro, del lusso, delle convenienze sociali e via
e via, aveano — come tossine de' microbi patogeni — distillato il veleno
terribile dell'insensibilità. Sclerosi dell'Anima!

Eppure quella purità era nata, ed era fatta carne, voce, splendore di
rosee carni, di umide pupille, lì presso di lui! O mirabile potenza
ignota che così tutto rinnova e così dispone le vere leggi della Vita!

Almerigo Crosio prese presso di sè _Puccìn_, se la ricoverò fra le
braccia e la baciò a lungo, a lungo, e ripetutamente, provando come un
refrigerio delizioso nel contatto di quelle fresche carni che pareano
come un riflesso di una freschezza interiore.

Così il viandante arso dalla caldura, roso dalla polvere, fatto bruto
dalla fatica, guarda le chiare acque sorgive e sente la voluttà di
sommergervisi.

La riguardò a lungo, e da quel volto venivano fuori delle reminiscenze
di sè; anni molto lontani, quando egli, Crosio, sedeva in grembo della
madre sua!

Puro il mattino, soli nel treno: il treno correva con non so quale
festività leggiera.

E _Puccìn_ incominciò: cominciò una serie di domande complicate,
difficili, insistenti, strane, alcuna volta paurosamente profonde e
senza possibilità di risposta.

Tutti i bimbi quando nel fenomeno luminoso cominciano a distinguere il
sole, le piante, gli animali, fanno di simili paurose domande: paurose
perchè pare che un'immane anima filosofica si desti in sì gracile corpo!

Una sola domanda non venne, questa: «Perchè, caro padre e cara madre, mi
avete messa al mondo? ci avete pensato razionalmente, signori genitori?»

Ma questa dimanda non venne; e quando Almerigo Crosio comperò una bella
ciambella, fresca, dove _Puccìn_ immergeva i suoi dentini e il corallo
delle gengive, pareva ella dire: «Ottimo padre mio, io sto benissimo in
questo mondo e questa ciambella è squisita. Non vi date pensiero di me:
batterò la mia strada come tutte le donne, nè più nè meno!»

                                 ***

_Puccìn_ — come giunse a casa — fu accolta con grandi segni di giubilo
dalla mamma e dai fratelli.

Ma ella non ne parve eccessivamente turbata e commossa. In fin de' conti
ciò le era dovuto nè ella voleva accettare come grazia ciò che era suo
diritto. Caso mai, era in credito di tre anni.

Ai suoi signori fratelli fece poi sin dalle prime mattine comprendere
che ella, come era disposta ad osservare i suoi doveri, così intendeva
salvaguardare i suoi diritti e che, secondo i nuovi principi di
uguaglianza, la parte di Cenerentola non la voleva sostenere: laonde
divisione in tre parti uguali del caffè e latte!

Avrebbe fatto il possibile per dare il minor disturbo nella casa: e in
fatti in un angolo, presso una seggiolina, _Puccìn_ badava
silenziosamente alla sua bambola miserabile e spelata.

Di quando in quando — però — la coglievano dei frulli di bizzarria.
Correva di stanza in stanza spalancando gli usci e fermandosi in
attitudine di reginella imperiosa su le soglie.

La qual cosa si poteva interpretare, o come un bisogno di maggior spazio
o come un'affermazione della sua proprietà.

Così pure ogni tanto si affissava nel vuoto, cercando nelle chiuse
stanze ciò a cui la sua pupilla era abituata: il verde dei campi,
l'azzurro dei cieli.

«Bù! bù!» faceva ogni tanto, e forse chiamava per reminiscenze il buon
cane fedele; o imitava per suo conto i buffi della vaporiera che
sull'alto terrapieno fuggiva presso la villa di Piero Medici.

Ma poichè il cane più non appariva e la vaporiera non passava sbuffante
nel verde e nell'azzurro, così _Puccìn_ docilmente ritornava alla sua
misera bambola.

_Puccìn_, sì, per sempre _Puccìn_!

— Come ti chiami bella bambina? — le chiedevano quelli di casa facendole
intorno corona.

— _Puccìn_!

— No! il tuo nome è Giuseppina Crosio.

— No! _Puccìn_! — ed era solo per questo che _Puccìn_ diventava rossa di
rabbia come un galletto. Voleva che le fosse serbato il nome che Piero e
Nena, i buoni villani, le avevano imposto.

                                 ***

Quanto ad Almerigo Crosio, sentendo di giorno in giorno rinascere più
vivo l'affetto per questa già abbandonata, cara bambina, e rimembrando i
lunghi tre anni di indifferenza e di oblio e comparandoli con il
presente amore, dicea tra sè mestamente:

«È ben miserabile in fine questa nostra vita quando ogni volta,
ripensandoci attentamente, troviamo che la somma delle nostre azioni è
sbagliata sempre, e ci conviene ritornare da capo sempre!»



INDICE.


  Il trionfo del marito di Clodio         _pag._     7
  Il trionfo della penna d'Airone           »       49
  Il trionfo di Nadina                      »       99
  Senape inglese o senape francese?         »      167
  Il trionfo della morale                   »      201
  Il trionfo delle rose                     »      239
  Il trionfo di Puccìn                      »      249



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le
grafie alternative (follia/follìa e simili), correggendo senza
annotazione minimi errori tipografici.





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