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Title: Mimi Bluette fiore del mio giardino
Author: Verona, Guido da
Language: Italian
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                             Mimi Bluette

                        fiore del mio giardino


                            GUIDO DA VERONA



                             Mimi Bluette

                        fiore del mio giardino



                                ROMANZO



              SETTIMA EDIZIONE—DAL 111º AL 160º MIGLIAIO


                 R. BEMPORAD & FIGLIO—EDITORI—FIRENZE

                                 MCMXX


                         PROPRIETÀ LETTERARIA

 I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per tutti i
                                 paesi



  Stab. Tipo–Litogr. FED. SACCHETTI & C.—MILANO—Via Zecca Vecchia, 7


_DELLO STESSO AUTORE:_

  Lʼamore che torna—1908
    _Ultima edizione—dal 100º al 150º migliaio_ _Romanzo_

  Colei che non si deve amare—1910
    _Ultima ediz.—dal 131º al 180º migliaio_    _Romanzo_

  La vita comincia domani—1912
    _Ultima ediz.—dal 105º al 155º migliaio_    _Romanzo_

  Il Cavaliere dello Spirito Santo—1914
    _dal 41º al 70º migliaio_    _Storia di una giornata_

  La donna che inventò lʼamore
    _Ultima ediz.—dal 96º al 145º migliaio_     _Romanzo_

  Mimi Bluette fiore del mio giardino—1916
    _Ultima ediz.—dal 111º al 160º migliaio_    _Romanzo_

  Il libro del mio sogno errante—1919
    _Ultima ediz.—dal 51º al 100º migliaio_

  Sciogli la treccia, Maria Maddalena—1920
    _Terza ediz,—dal 101º al 150º migliaio_    _Romanzo_


_Le altre opere sono esaurite o fuori commercio e lʼA. ne vieta la
ristampa._

  NOTA DEGLI EDITORI



[Illustrazione: DECORAZIONE]

Perdette la sua verginità, la prima volta, una sera del mese dʼAprile,
per uno di quei tanti casi accidentali che toccano alle vergini, le
quali sono per natura destinate a non esserlo più.

Quel giorno aveva circa diciottʼanni; era bella, fresca, e si voleva
bene. Si voleva tanto bene, che non le bastò la forza per impedire ad
un altro di volerle bene insieme con lei.

Questʼaltro fu per avventura uno Studente in medicina, giovine magro e
giallognolo, che portava occhiali. Portava inoltre una camicia quasi
mai di bucato, con i polsini che sfilacciavano e lo sparato gonfio
dʼamido male insaldato.

Presentava, così al primo vedersi, un aspetto confortevole dʼetisia.
Gli mancava un dente canino. Preparava la tesi di laurea in istile
dannunziano.

Questʼuomo, per lei, rappresentò lʼamore; la forza irresistibile del
primo amore.

Nel mese dʼAprile, verso lʼora in cui le stanze dei quarti piani
diventano buie guardando la primavera che tramonta sui tetti luminosi
delle stupende città, vʼè sempre qualche ragazza di diciottʼanni che
può innamorarsi dʼuno studente in medicina.

Sua madre non ne fu contenta.

Sua madre viveva con la pensione dʼun Banchiere stanco; regalava
cravatte ad un Maestro di scherma; era nota per avere un bel seno, e,
quando incontrava taluno che volesse pagarsi—anche a buon prezzo—il
capriccio di verificarlo, non diceva di no.

Sua madre aveva una sorella che aiutava le donne al termine del nono
mese: qualche volta anche prima.

Entrambe le consigliarono di rinverginire.

In quei giorni lo Studente in medicina prese la laurea; si fece mettere
un canino falso, e partì.

Gli amanti si dissero addio sul pianerottolo delle scale, con un
piccolo piccolo sorriso, come due persone pulite, fra le quali non
fosse accaduto niente.

Allora ella pensò dolcemente che sua madre aveva ragione.

Si recò dalla Zia Levatrice, a piccoli passi, portando un mazzolino
di mughetti nella fresca cintura, coprendosi lʼamabile viso con un
ombrellino da sole.

Il Banchiere stanco allora sentì rinascere, per la figliuola di una
tanta madre, lʼintiepidito fuoco dʼamore della sua passione giubilata.

Era un uomo dʼoltre cinquantʼanni e sapeva che il denaro è la poesia
della vita.

Emise un vaglia su la propria banca, le fece fare un bel corredo, venne
con un brillante in un astuccio, e si prese, con qualche fatica, la
seconda sua verginità.

Ma i banchieri talvolta fanno male i propri conti. Egli non aveva preso
nulla... e la ragazza tornò vergine per la terza volta.

Che brava bambina!

Questʼultima volta bisognava darsi ad un conoscitore; bisognava
scegliere un uomo che potesse con eleganza, e per tutta la vita,
rimanere «il suo primo amante».

Cʼera un Irresistibile.

Questo Irresistibile si vestiva, quasi certamente, a Londra. Possedeva
non meno di quattrocento cravatte; raccoglieva bastoni, bastoncini,
mazzarelle di tutte le specie: portava lʼocchialetto e si chiamava
Conte.

Non faceva nientʼaltro che fare lʼIrresistibile. Tutte le belle
cittadine avevano dormito con lui: qualcuna in verità, molte altre in
sogno.

Le ragazze da marito cercavano un fidanzato che somigliasse
allʼIresistibile.

Le mondane si davano per niente allʼIrresistibile.

Le signore attempate, quelle che frequentavano con assiduità
lʼIstituto di Bellezza, forse avrebbero pagate volentieri le grazie
dellʼIrresistibile.

Ma egli era un uomo illibato; non accettava neanche un soldo.
Anzi pagava sempre, con mazzi di fiori, E dava inoltre la propria
fotografia. Con dedica.

Nel cuore della donna lʼIrresistibile sapeva leggere a prima vista. Era
così esperto in materia di psicologia femminile, che, al suo cospetto,
ammutolivano i più fini conoscitori. Nel proprio inventario contava
ogni anno circa una mezza dozzina di vergini. E questo è un buon
numero, perchè ai tempi nostri le vergini sono difficili a trovarsi. Ma
lʼIrresistibile ne trovava, e—pare—con grande facilità.

Certa sera, in un teatro, al fianco della sua madre baldanzosa, ella
portava con modestia un bellʼabito regalatole dal Banchiere.

LʼIrresistibile, dopo averla saettata con la fiamma del suo terribile
occhialetto, si volse agli amici, per dir loro che la biondina di terza
fila era indiscutibilmente una magnifica ragazza.

Tutti furono dʼaccordo nel trovarla una magnifica ragazza.

LʼIrresistibile mandò la fioraia del teatro ad offrirle quel che aveva
di più leggiadro nel suo galeotto paniere.

Questa fioraia ben sapeva come si porgono mazzi di fiori alle signorine
con madre in cerca di marito. Alla fine dello spettacolo, presso
lʼuscita, lʼIrresistibile in cravatta bianca le invitò a cena.

La gentildonna dal seno classico dovette naturalmente rispondere:—«Ma
le pare?... Non è davvero possibile, gentilissimo signore!»

Tuttavia si lasciarono accompagnare sino al portone di casa. E ciò
che piacque molto alla vergine fu il saluto che lʼIrresistibile fece,
descrivendo nellʼaria un movimento perfetto con il suo guanto bianco ed
il suo cappello a tuba.

La saggia madre disse alla vergine, su per le scale:

—Con quei tipi, mia cara, bisogna stare attente a non scivolare sopra
un canapè.

La vergine, in risposta, non disse nulla. Perchè forse quel grande
pericolo non le incuteva una soverchia paura.

Allora, il primo giorno, fecero una passeggiata sentimentale.

Il secondo giorno, in vettura chiusa, ella si lasciò molestare.

Il terzo giorno, con molta cipria su la gola, si recò da lui per
confessargli chʼera vergine...

La sera dellʼultimo giorno, il consumato Irresistibile riuscì a
persuadersi, o beata innocenza!... che il fatto era innegabilmente
vero;—e per la terza volta le rubò quel fiore che i pedanti chiamano
verginità.

Sʼinnamorarono.

Questa luna di miele tramontò col volgere del secondo mese, quando
lʼIrresistibile, che aveva in quei tempi un soverchio lavoro, la
cedette con molte raccomandazioni ad un amico facoltoso.

Ella ne fu certamente un poco triste. Poichè lʼamico facoltoso, non
saprei quali difetti avesse, ma come uomo proprio non le piaceva.

Era un signore logico e serio, meticoloso come una dieresi, tetro di
abiti e con la barba ispida.

Ondʼella cominciò a fargli mansuetamente le corna con i suoi giovani
amici eleganti, scegliendo quelli che sapessero ballare con più grande
vertiginosità.

Poichʼella sentiva per la danza una passione da vera innamorata e la
musica dʼunʼorchestra le dava quella ebbrezza che il poeta cerca di
esprimere nel ritmo della poesia. Sua madre inoltre le consigliava di
andare qualchevolta, fra le quattro e le sei del pomeriggio, nelle case
di convegno.

Questo, perchè lʼuomo facoltoso, con barba ispida, era piuttosto avaro.

La casa di convegno è lʼultima eredità pagana che forse durerà perpetua
nelle città cattolicissime. In esse, per tutte le classi di cittadine,
come già fu nei templi di Babilonia e di Efeso, la prostituzione è
sacra. La tenitrice, in molti casi, è una brava madre di famiglia,
che si confessa parecchie volte allʼanno e frequenta i ritrovi della
piccola borghesia. Non di rado è più bella che le sue belle clienti; ma
non è cosa molto agevole farle commettere peccato. Suo marito è geloso,
e quando non cʼè il marito, vʼè un amante fiero ed energico, il quale
sorveglia la sua castità, ma sopra tutto i suoi incassi.

La casa di convegno è una scuola di filosofia: là sʼimpara che
la bellezza deve rassegnarsi al piacere del primo venuto, e che,
per godere le gioie del mondo, bisogna sempre lasciar lʼideale in
portineria.

[Illustrazione: DECORAZIONE]

Quella bella ragazza, che allo Stato Civile figurava sotto il nome di
Cecilia Malespano, un bel giorno, e non per sua colpa, divenne Mimi
Bluette.

Come cʼera un Irresistibile, così cʼera un Pittore. Uno di queʼ pittori
che giornalmente stemperano un poʼ di poltiglia colorata sopra una tela
cattolica od ortodossa, e per ciò solo divengon noti, qualche volta
celebri.

Questo pittore faceva il nudo a maraviglia. Era un maestro del nudo, e
lo faceva in un suo modo particolare; tanto particolare, che bisognava
nel caso dar torto alla natura, non a lui. Un critico dʼarte, fra
quelli che vanno per la maggiore, e sono stati anche in Francia, aveva
messo in voga il nudo, la tecnica del nudo, la pastosità del nudo,
che adoperava questo Pittore. Le famiglie cospicue si pagarono il
privilegio di mettere nella propria galleria uno scarabocchio di questo
Pittore.

Le attrici alla moda—quelle che hanno inventata una maniera
trascendentale per esprimere lʼinteriezione: Ah...—si recavano
soavemente nel suo studio e gli tendevan la mano sfiduciata,
chiamandolo: Maestro...

Le Americane, ragazze intraprendenti, noleggiavan transatlantici
apposta e riempivano le stive con sacchi di dollari per venire a farsi
mettere in cornice da lui.

Con le ragazze Americane faceva il seminudo.

Questo Pittore parlava bene di Raffaele Sanzio da Urbino.

Portava un cappello così eccentrico da non potersi confondere con
alcuno, e prendeva il bagno, una domenica sì, lʼaltra no, nella
celebre vasca di marmo del suo celeberrimo appartamento. Questa vasca
da bagno era fatta nientemeno che a somiglianza dʼuna cassa da morto.
Lʼappartamento conteneva parecchie altre maraviglie di questo genere.
Il Pittore si teneva in casa una trentenne arruffata, chʼera gelosa
come una Eumenide, ma che gli amministrava un purgante con farmaceutica
gioia tutte le volte che gli eccessi alcoolici gli sopprimevano
lʼappetito.

Il Pittore cercava modelle nei saloni patrizi, nelle case di tolleranza
e nelle bottiglierie.

Questo era il solo criterio giusto che governasse la sua pittura.

Per lʼEsposizione di Venezia egli stava preparando un certo quadro,
molto più complicato deʼ soliti e più grande a vero dire, poichè
misurava non meno di due metri per tre. Gli occorreva un certo seno
speciale, assolutamente inedito, un seno come intendeva lui, per la
figura della protagonista. Dopo aver visitato con benevolenza parecchie
dozzine di esemplari difettosi, una sera, bevendo il gin, gli fu
parlato in confidenza della eccellente struttura che avevano i seni di
Cecilia Malespano.

Glielo disse un nottambulo assonnacchiato, che succhiava la sua bibita
con un colore di febbre gialla, e che, dopo una tale confidenza, gli
propose di giocarsi la bibita ai dadi.

Il Pittore fece nove.

Il nottambulo tre. Perdette.

Ma il nottambulo condusse la bella ragazza il giorno appresso nello
studio del Pittore, che affettuosamente le consigliò di spogliarsi.

Era la più bella creatura nuda che il Pittore avesse ancor mai veduta.

Era perfettamente il seno come intendeva lui, quel seno di famiglia
della madre Malespano, la quale regalava cravatte su cravatte al suo
battagliero Maestro di scherma.

Queʼ seni le sbocciavano dal busto con impetuosa ertezza, lontanandosi
lʼun dallʼaltro, con una vasta e calma simmetrìa.

Guardavano da tutte le parti, con dolcezza ma con vigore.

La spalla tonda li portava, turgidi e limpidi, come due maravigliosi
grappoli dʼuva. Il Pittore si degnò concludere:—Va molto bene, mia cara
piccina...

E siccome, dopo aver guardato il seno, si accorse che più giù e più
su, di faccia e da tergo, si andava di bene in meglio, questo Pittore
scrupoloso rifece tutta la figura principale, bestemmiando come un
facchino perchè Cecilia non istava mai ferma.

Oltre il prezzo di modella, per qualcosa chʼegli si volle accordare
inoltre, le diede un bellissimo anello, che forse valeva poco, ma in
compenso era molto originale.

Pare avesse appartenuto nientemeno che ad un Papa del Seicento.

I pittori, nel dare un titolo ai propri quadri, talora incontrano
quelle medesime difficoltà che mettono in gravi angustie le ballerine,
le attrici e le divette, allorché stanno per scegliere un suggestivo
nome da teatro.

Il quadro doveva chiamarsi: «Lo Specchio della Felicità»—oppure: «La
felicità di guardarsi nello specchio»—oppure, semplicemente: «Lo
specchio».

Ma il Pittore leggeva per buona ventura tutte le novelle appassionanti
che si pubblican nei giornali ebdomadari e quotidiani. Così la sua
mente leonardesca tentava di abbracciare il movimento letterario
contemporaneo.

In una di queste novelle, a protagonista parigina, egli trovò per
avventura questo bel nome azzurro: Mimi Bluette.

Il nome gli piacque tanto, che, detto fatto, lʼappiccicò sul quadro.

Allʼapertura dellʼEsposizione, la ragazza ed il Pittore si recarono a
Venezia.

Non saprei dire se ricevette più elogi questi o più visite quella, ma
il fatto sicuro è il seguente: che tutti volevano Mimi Bluette.

Mimi Bluette non era Caterina Seconda, e poteva tuttʼal più ricevere
due volte al giorno, serbando il decoro necessario per non subire
troppe rimostranze dal morigerato Segretario dellʼalbergo.

Alle rimostranze trovò rimedio, lasciandosi cadere nelle braccia del
sullodato Segretario, chʼera un bel giovine, poliglotta, il quale
piaceva molto alle malinconiche forestiere.

Ma, quanto allʼaffluenza, non trovò che una via dʼuscita: far salire
strepitosamente il conteso prezzo deʼ suoi baci.

Questa risoluzione, che pare tanto semplice, non venne in mente alla
dolce Bluette. Era una brava ragazza, poco interessata, piena dʼanima
nascosta e di nascosta poesia. Non aveva in sè che un unico amore: la
danza, non viveva che per un grande sogno: lasciarsi portar via dalla
musica, diventare un giorno ballerina.

Chi le dette questo consiglio fu per avventura un certo bellimbusto
elegante, il quale proteggeva le ragazze inesperte nei casi difficili
della vita loro.

Mimi Bluette era una stordita. Non diede retta, se non in parte, ai
buoni consigli di questo Protettore. Alla chiusura dellʼEsposizione
di Venezia ella possedeva tuttavia molti bauli pieni dʼabiti costosi,
molte cappelliere piene di franceserie stravaganti e fiorite, qualche
gioiello ragguardevole, nonchè un bel gruzzolo, che doveva bastarle a
compiere gli studi per divenir ballerina.

Ma il Protettore non la perdeva dʼocchio, e si permise un giorno di
somministrarle due schiaffi stupefacenti, perchè, dopo essere stata
sua più di una volta, quella sera, con il pretesto dellʼemicrania, gli
disse di no.

Erano i primi due schiaffi che Bluette riceveva da un uomo; la cosa le
fece più maraviglia che dolore.

Poi eran dati bene, senza preamboli, prima col palmo, poi col rovescio
della mano, tanto chʼella vide ben due volte rifulgere il prisma del
brillante che il Protettore portava in dito.

Non seppe cosa rispondergli, povera Mimi Bluette.... ma si avvide, come
per miracolo, che lʼemicrania era passata. Si guardò nello specchio,
si mise molta cipria su le guance arrossate, poi dolcemente cominciò a
slacciarsi la camicetta.

Solo, quando fu in letto, vicino a lui, scoppiò in un dirotto pianto.

Il Protettore si commosse. Aveva i bei capelli neri che gli cadevano su
la faccia oscura. Spiegò a Bluette che le voleva bene, chʼera geloso di
lei, anzi la preferiva senza paragone a tutte lʼaltre donne della sua
vita.

Forse, in quel momento, non mentiva.

Incominciò a baciarla, ma in quel modo particolare che solo intendono i
maschi avvezzi a tutte le donne, i maschi avvezzi ad essere amati dalle
donne.

Bluette apriva gli occhi lucenti sotto le grandi lacrime; lo guardava
traverso il biondo vapore deʼ suoi capelli arruffati. Sentiva di essere
stata battuta, e questo le dava una passiva ebbrezza fisica, un dolore
di novità quasi riconoscente.

Non voleva essere donna, per quellʼamante bello e temibile; ma si
coricava, si coricava sempre più, con un turbamento insolito, sotto
quella bocca forte.

Egli le prese il piacere nel pianto;—ed infatti ella piangeva di
piacere.

Divenne curiosa di lui, come una ragazza che legga un libro dʼamore
proibito.

Si accorse della sua bellezza virile, che prima non aveva quasi neanche
osservata, e con gli occhi fermi ascoltava il suono della sua voce
ambigua, osservava il riso deʼ suoi bianchissimi denti. Era lì, con
lei, disteso come un cattivo leopardo vicino ad una piccola preda;
con lei sola, nella notte inoltrata; sentiva chʼera uomo forse da
ucciderla,—e questo le piaceva.

Le piaceva molto una specie di obliquità che, nel riso, prendevano i
suoi occhi, neri come perle nere; le piaceva molto la robusta magrezza
del suo corpo flessibile, quel braccio arido che si affondava, premendo
i suoi capelli sparsi, nel profondo cuscino.

Le parlava con vivacità, con evidenza, dʼaltre donne chʼerano state
sue, che si erano piegate per lui a molti sacrifizi, che si erano
contese, talvolta con acerbe gelosie, con piccole tragedie, il suo
capriccioso amore.

Le raccontava queste cose pianamente, con una specie di negligente
fatuità, saltando con brio di cosa in cosa, da un particolare
nellʼaltro, dal nome di una amante nobile a quello dʼuna ballerina, tra
i molti paesi ovʼera stato, fra le avventure più dissimili,—e tutto
questo con verità.

Bluette si accorse dʼimprovviso che gli altri maschi erano effeminati
al suo confronto, che a lui non si poteva disubbidire, chʼegli solo era
un uomo.

Non si moveva più; quella voce ambigua lʼaveva soggiogata; si
raffigurava ed invidiava le donne chʼerano state sue. Non aveva
profferito ancora una parola, si era lasciata prendere in silenzio,
nascondendo il suo piacere, facendo quasi uno sforzo per chiudere tutte
le sue vene a quellʼamore troppo forte che lʼassaliva... E poi sʼera
stretta fra le spalle bianche, sotto i capelli biondi, per ascoltarlo
mentre parlava. Ma dʼun tratto le parve dʼessere ubbriaca, di non avere
più memoria, le parve dʼessere una donna come le altre, innamorata e
gelosa di lui...

Di colpo gli serrò le braccia intorno al collo, fece un nodo con se
stessa, ed in silenzio, con tutte le sue vene, gli promise:—Anchʼio...

Cʼè una notte in cui la ragazza galante sʼaccorge dʼessere ancor
paurosa ed innocente come la fanciulla chʼesce da un educandato.

Il Protettore si chiamava Max.

Questʼuomo pieno di esperienza le spiegò che lʼItalia è un paese dove
le belle donne si sciupano senza trovare adeguata fortuna. Le insegnò
allora dieci vocaboli francesi, parlandole con molto buon senso della
gaia Repubblica Transalpina.

Una sera presero il treno del Sempione. Per iniziarla subito alla
galloria, le comprò dal giornalaio della stazione lʼultimo numero del
«Frou–Frou».

Parigi, per la donna italiana, è come il sogno voluttuoso dʼun fumatore
di hascisch. Tutte le donne del mondo possono, fino ad un certo segno,
diventar Parigine. Tranne la tedesca, donna implasmabile, che dirà sino
alla morte:—«Sceu suis un beu amoureuse de fous cet soir...»

[Illustrazione: DECORAZIONE]

       *       *       *       *       *

Mancavano dodici minuti alla seconda ora del pomeriggio, sul meridiano
di Greenwich, quando Max e Bluette discesero sul «quai de la Gare de
Lyon».

Bluette entrò nella Capitale in un tassametro giallo; al primo
quadrivio poco mancò non perdesse la dolce sua vita sotto un camione
gigantesco, il quale si muoveva per le strade anguste soffiando e
reboando come un ciclopico mammut.

Presero alloggio in una vecchia celebre locanda parigina, che si
affaccia verso una strada napoleonica, e dove i corridoi sembravano le
retroscene dʼun teatro di terzʼordine. Ma una cameriera dalla faccia
di pomo, come le donne di Picardia, garbatamente le domandò: «A quelle
heure faut–il envoyer un artiste pour onduler Madame?» Ella rispose:
«Merci, bonjour!»—e si sentì felice come una Parigina.

Col naso in aria cercava per tutte le strade la Tour Eiffel. Quando la
vide, capì finalmente che Parigi somigliava un poco alle sue cartoline
illustrate. Parigi era una città come tutte le altre, un poco più
grande, con la Tour Eiffel.

Quando Max le fece conoscere la famosa Rue de la Paix, ella si mise
a ridere, come se Max volesse farle uno scherzo. Nella Place de
lʼOpera il Protettore le disse che in quel momento ella si trovava
nel centro del mondo. Bluette si guardò intorno stupefatta, con
lʼaria di chi, stando su lʼEquatore, cerchi un segno qualsiasi che
lo renda visibile. Ma i boulevards, di sera, le scompigliarono
lʼimmaginazione. Dʼun tratto le parve dʼessere afferrata nel vortice
dʼun immenso carrosello, e di girare, di girare, sopra un circolo
senza fine, tra il carnovale dʼuna città ubbriaca, sopra veicoli di
montagne russe che volassero in mezzo a baldorie di lumi. Guardava le
donne, maravigliandosi che da vicino fossero alcune vecchie e brutte,
ineleganti e povere; guardava i soldati repubblicani dai calzoni di
porpora, pensando alle piume di gallo deʼ suoi bellissimi bersaglieri.
Osservava gli squallidi ronzini delle vetture di piazza ed i grembiuli
bianchi dei camerieri da caffè.

Si chiedeva per qual ragione illuminassero tutte le strade con
trofei di parole incomprensibili, scritte sui muri, sui balconi e
sui tetti; da un lato la testa dʼun cuoco, dallʼaltro il pancione
dʼun adulto che si fa pungere lʼumbilico dallʼindice dʼuna modistina;
e girandole di fiammelle, proiettori, cinematografi aerei, punti
esclamativi, punti dʼinterrogazione, parole in tutte le lingue: «Maxima
Maximum chez Dusausoy—Bouillons Maggi—le Matin sait tout—la Revue de
lʼAlhambra—Rouli Rouli... Crémieux... Luna Park... habille bien—Le
Matin... Michelin... Galeries... Polin... sait tout...»

Questa ridda le durò nel cervello per un paio di settimane; poi
cominciò a comprendere che in tutto quel disordine vʼera unʼassoluta
coerenza. Quale? Forse la più semplice: quella di essere Parigi.

Max in breve le fece conoscere tutte le persone più autorevoli della
Capitale: Mimyss dʼHouby, «qui avait perdu son gant», ossia che
aveva perduto i cinquemila franchi al mese del profumiere Houbigant;
Florina–Bey, che aveva credito presso lʼAmbasciata Turca; Jennie–Minnie
et Lélie, società in accomandita, della quale era gerente un
emulo di Max, le vicomte Jean Pinai–Kennedy, che si chiamava Jean
Kiki. Poi Boblikoff, ex–domatore dʼorsi, che adesso ammaestrava un
paio di minorenni; Micaello, creatore di una «valse chaloupée»;
Garcia Pois–lourd, o Garcia Poilu, boxeur deluso; Lucien–Lucienne e
Pʼtit–Béguin, maschi a doppio senso.

Queste onorate persone andavano a pranzare nel Bar de la Grande
Rouquine, donna che aveva un passato. Lì convenivano tutti, da Mimyss
a Pʼtit–Béguin, oltre un buon numero di clubmen amici del forestiere,
jokeys di cartello, che avevano qualche finish particolarmente
piacevole o per Florina o per Minnie, polledre di razza; bookmakers,
ballerini, dandys, nottambuli, disegnatori, spiritisti, compositori
di couplets; critici dʼarte affiliati alla sifilide; consumatori di
gin e di cocaina; adolescenti che parlavano con il senno della cassa
da morto; compratori e venditori di gioielli ambigui; spadaccini che
facevano il prestanome in tutte le faccende losche; principi del
Caucaso e decorazioni del Missisipì; ex–maîtres–dʼhôtel, che, smessa
lʼonorata marsina, campavano con molto garbo su lʼindustria del
forestiere; professori di bigliardo, scacchi, puzzles e pattinaggio;
poi tanti rimbecilliti quanti sia possibile trovare, per i quali,
durante il pranzo e la cena, lo scorbutico tzigane suona il pezzo
favorito.

Nel Bar della Grande Rouquine Mimi Bluette imparò molte cose. Prima di
tutto imparò qualche frase dʼargot.

Max le aveva insegnato il «suo» francese; ma pur troppo dovette
dimenticarlo.

Quando seppe lʼargot, Bluette comprese che ognuno di queʼ bizzarri
tipi era coerente con il bisogno di campare la sua vita. Così ella
perdette lʼidea provinciale che fosse quasi un furto, non il rubare, ma
il farsi regalare per forza tutto quello che cʼè nel portafogli dʼun
forestiero ubbriaco; lʼidea che Lucien–Lucienne o Pʼtit–Béguin fossero
stomachevoli per quel poʼ di belletto che si mettevano su le guance, o
Jean Kiki un farabutto perchè aveva una sessanta cavalli della marca
Jennie–Minnie et Lélie, o la Grande Rouquine una vendicativa e temibile
mezzana perchè aveva per amante un Commissario di Polizia.

Tutte sciocchezze!... Questa brava gente faceva prosperare il suo
piccolo commercio, pagando le tasse al Governo e deridendo lo stupore
dei buoni provinciali.

La Grande Rouquine, ogniqualvolta poteva parlare con Bluette a
quattrʼocchi, le diceva con insistenza, mordendo il bocchino della sua
lunga sigaretta russa: —Fi!... tʼes une gourde!

E questo: «Fi!... tʼes une gourde!» le sprizzava dalle sottilissime
labbra come il fischio velenoso dʼuna bella vipera.

Bluette non sapeva cosa volesse dire «une gourde». Quando glielo
spiegarono, guardò in faccia la Grande Rouquine con i suoi occhi
attoniti e rotondi. Perchè «une gourde?»

—Plaque–le ce macaroni qui fait tant dʼesbrouffe! Tʼes assez bien
fichue pour marcher sur tes pattes! Fi!... là!

Questo fu il consiglio della Grande Rouquine.

La Grande Rouquine era seccatissima di avere tanto seno quanto ne hanno
per solito le quindicenni tubercolose. Aveva due cosce così lunghe da
parere in piedi sovra due stampelle; una fisionomia di cera con due
grandi occhiacci da gatto, verdi; poi quel suo cespuglio di capelli
rossi che le ventava intorno alle tempie come un colore di malvagità.
Aveva una voce fioca e sonora, bruciacchiata dallʼarsura delle
sigarette russe. Dicevano che avesse tirato un paio di stilettate in
vita sua, come sʼinfila un ago da calza dentro un gomitolo di lana.

Ma la polizia, per riconoscenza, le aveva permesso di aprire il Bar.

Limka, violino di spalla dellʼorchestrina zingara, il famoso Limka,
tzeco delle Batignolles, era suo fratello; cioè figlio di sua madre.

Quanto al padre, nè Limka nè la Grande Rouquine nulla sapevano di
positivo.

Un cugino di Limka faceva il Régisseur a Montmartre.

Gli raccomandarono Bluette.

Il Régisseur le mise un dito sotto il mento:—Faut achalander, ma
poule!...

«Achalander? Achalander?» Neanche Max intendeva cosa volesse dire.

Garcia–Pois lourd, boxeur deluso, per quanto a sua volta non fosse un
aborigeno, diede tuttavia la spiegazione:—«Eh, bon Diô! ça vô dire
tirrer les cliannts! Achalandèrr, achalandèrr, quoi!...»

Micaello, creatore dʼuna valse chaloupée, si assunse lʼincarico di
farne in poche settimane «la premièrre dansôse de la Scalà.» Era un
bel ragazzo, agile come una pallottola, con occhi da Saraceno. «Et
tou me payeras quand tou auras plous de gallette!... Ze ne suis pas
compatriote pour rienn, ze ne suis pas!...»

Quando seppe il Cake–walk, la Sailorʼs–dance, la Chaloupée e tutto
il resto, Jennie–Minnie–et Lélie vennero a proporle di fare un
numero insieme: Micaello vestito da negro e lor quattro vestite col
bianco della loro pelle. Max e Jean Kiki avevano scoperta frattanto
unʼAmericana, ossigenata e robusta, che sfruttavano in società.

Il numero di bianco e nero mandò in visibilio quel rispettabile
pubblico, e, sebbene le altre avessero più scuola, quella che piacque
fu Bluette.

Il Régisseur la ficcò nella Rivista, indi la portò a cena.

Il Régisseur era un uomo scrupoloso, che pagava lo Sciampagna sei
franchi sotto il prezzo della lista e diceva al maggiordomo:—Voyons,
Ernest, ne mʼembête plus avec ta cousine! Si elle ne parvient pas à
relever son gros derrière, qui lui tombe sur les mollets, comment
veux–tu que jʼen fasse une Commère?

Quanto a Bluette, le disse:—Je ne te donne rien, ma petite, mais aussi
je ne te demande rien: ce qui est fort gentleman de ma part.

Bluette si mise a ridere, passandogli una mano leggera sul cocuzzolo
calvo.

Soltanto lo pregò di farle portare carta penna e calamaio, perchè
voleva scrivere due parole a sua madre.

  «Cara mammina.

Finalmente sono riuscita ad essere «une étoile»; fra poco diventerò
quello che a Parigi si chiama «une vedette», il che vorrebbe dire
una stella di primissimo ordine. Denari ne avrei molti, se non me li
avesse tutti sequestrati regolarmente il mio buon amico Max. Ma non
importa, perchè la settimana ventura entrerò neʼ miei mobili, come si
dice qui; ossia ho trovato un grande industriale che mi mette su casa
e mi compera lʼautomobile. Se hai voglia di venire a Parigi, avvertimi
súbito, che ordinerò al tappezziere una bella camera da letto, stile
Liberty, ove dormirai bene. Ma, ti prego, non condurmi anche il maestro
di scherma, perchè non saprei dove metterlo, e qui ne troverai di molto
più eleganti che il tuo. Il grande industriale è uno fra gli uomini
più ricchi di Parigi. Ha quarantasette anni; è vedovo; ha due figlie
da marito, una vecchia amante in pensione che gli costa un occhio
della testa; è ancora un bellʼuomo, tutto sbarbato, e pare un Inglese.
Questa sera mi ha mandato un filo di perle attorcigliate al manico dʼun
paniere dʼorchidee. Sono a cena col Direttore del mio teatro, un buon
diavolo, sempre allegro, che mi protegge e che mi vuol bene. Addio;
mammina; ti manda un bacio la tua

  BLUETTE»

[Illustrazione: DECORAZIONE]

[Illustrazione: DECORAZIONE]

Il filo di perle del Grande Industriale fu la causa definitiva della
rottura fra Max e Bluette.

In quella settimana di corse tutti i favoriti si facevan battere;
non cʼera più mezzo dʼavere una buona informazione; Max perdeva un
patrimonio ed era in debito con Jean Kiki. Voleva impegnare il suo
filo di perle, come già le aveva portato via tutto il resto. Accadde
fra loro una violenta scena domestica, ed alle tre di notte la videro
giungere concitata nel Bar de la Grande Roquine. Tutti le si misero
intorno. Bluette cominciò il racconto. Ma era prolissa.

—Enfin, ce collier?—diceva la Grande Rouquine, con la sua voce
cavernosa e combusta.

—Zut!... laisse–moi dire...—fece Bluette.

—Laisse–la dire, la Grande!—insistette Boblikoff, ex–domatore dʼorsi,
con la sua voce di fenomeno da fiera.—Tu vois bien quʼelle les a, ses
perles!... Sans quoi elle aurait gueulé comme une bécasse: il mʼa volé
mes perles!... il mʼa volé mes perles, ce grand salaud!

—Tais–toi, Koff. Tu mʼembêtes!—rispose Bluette.—Je ne suis plus une
gourde à lʼheure quʼil est! Mes perles, je les avais données a Lélie,
pour quʼelle me les garde.

—Si tu mʼavais choisi moi,—fece Boblikoff—tʼaurais pas eu tant de
déboires!

Pʼtit–Béguin era seduto quasi in braccio a Dorée dʼArnac, una fra le
più belle donne di Parigi, che gli carezzava i capelli brillanti,
color del mogano, forse innamorata di lui perchè faceva il suo stesso
mestiere.

Florina–Bey si bisticciava con un compare di rivista nominato Patrik
Audel.

Poco dopo entrò Max, torvo e coi denti serrati. Senza guardare nessuno
si mise in un angolo, coi due gomiti su la tavola.

Bluette gli andò vicino, con lʼintenzione visibile di riaccendere
la lite. Gli altri la seguirono, e stando lʼuno dietro la spalla
dellʼaltro, si tenevano pronti ad assumere le difese di Bluette.

—Eh bien, je te dis, moi, que tu peux faire ton sac et décamper quand
tu voudras!—gli espose Bluette con le mani sui fianchi.—Voilà quinze
mois que tu mʼexploites, et je nʼai rien dit parce que je suis douce...

Gli occhi obliqui di Max la fissarono con un cattivo riso. Poi squadrò
velocemente le fisionomie dei presenti, ma dovette accorgersi che gli
erano ostili.

—Oui, douce... et tout le monde peut le dire! Mais jʼen ai plein le
dos, mon bellâtre! Va–t–en chez ta momie américaine! Si elle a du goût
pour toi, quʼelle se le passe! Quant à moi, je te dis: La barbe! et
lorsque Bluette a dit: La barbe...—zut, mon pʼtit, cʼest pour toujours!

—Mordieu, ce quʼelle a raison, la tourterelle!—bassoprofondò Boblikoff.

—Penses–tu?—fece Max, cattivo come una cerasta. E balzato in piedi,
afferrò Bluette per un braccio, additando lʼuscio:—Vas–y tout droit, et
rentre!

Bluette cercò di sciogliersi dalla sua stretta conficcandogli nel polso
lʼunghie minute. Allora Max le misurò un tal manrovescio, che lʼavrebbe
di certo coricata per terra se non fossero intervenute al buon momento
le immense braccia di Boblikoff.

Successe un tramestìo. Le donne parteggiavano per Bluette, ma gli
uomini erano in parte impacciati a schierarsi contro Max, per ragioni
di principio. La Grande Rouquine, senza lasciar cadere la sigaretta,
gridava con la sua voce cauterizzata:

—Eh, toi, sale matamore! voix–tu me foutrʼ ʼl camp dʼici, ou bien je
siffle afin quʼon tʼ coffre!

Bluette piangeva contro la spalla di Boblikoff; Limka, battendo
lʼarchetto sulla cassa del violino, si faceva in quattro per riuscire a
metter pace. «Voyons, Messieurs, Dames, un peu de silence!» E sperando
che la musica potesse giovare, attaccava il tango malinconico della
«_Noche de Garufa_».

Del tutto inutile anche «_La Noche de Garufa_»! Max, torcendo fra le
sue dita ruvide un polso di Bluette, non dava più ascolto a nessuno.
Bluette, appesa con lʼaltra mano al collo di Boblikoff, si lasciava
tirare quel braccio come il cordone dʼun campanello.

—Sauve–moi Koff....—pregava Bluette sottovoce.

—Mince! laisse–la, je te dis!—ruggì Boblikoff, diventando bianco.

—Fous–moi la paix, cosaque!—bestemmiò Max. Allora, col braccio
sinistro, Boblikoff sollevò leggermente il peso di Bluette, e simile
ad un gigante che volesse mettere in salvo la sua bambina, se la
collocò dietro le spalle, per modo che ora le stava davanti come un
baluardo. Quasi contemporaneamente, col braccio destro, lanciò innanzi
un tal pugno, che il corpo di Max, piegato in due, sfondò tutta la
siepe delle persone che gli stavano a ridosso e andò a ruzzolare contro
il paravento che nascondeva lʼingresso del bar.

Rimase per terra qualche minuto, e pareva morto. Fra un silenzio quasi
tragico la Grande Roquine gli andò presso, e con la punta del piede lo
toccava per tentare di farlo muovere.

Max per lʼappunto si mosse. In un baleno cavò dalla tasca una piccola
rivoltella, e, sollevato sopra un gomito, sparò due colpi contro
Boblikoff.

Il gigante non ebbe che il tempo di chiudersi la testa fra le braccia,
poi si buttò avanti con un movimento che pareva quello dʼun uomo
colpito. Non lo era; e si rovesciò su Max come una catastrofe di carne.

Chissà quale via scelsero quelle due palle, ma non toccaron nessuno.
La prima scalcinò il muro, lʼaltra si conficcò nella mensola della
bottiglieria spaccando solamente una «Vieille Chartreuse».

Pʼtit–Béguin, con un coraggio imprevedibile, si lanciò egli pure
addosso a Max, per aiutare Boblikoff nel disarmarlo.

Frattanto la Grande Roquine era uscita nella contrada e fischiava con
una piccolissima sirena dʼoro, che portava in collana frammezzo ad
altri ciondoli.

Poi tornò dentro. «Tiens–le fort, Bob! Voilà les flics!»

«Les flics» erano già sullʼuscio, e questa volta il vederli diede a
tutti un lungo respiro di sollievo. Max non poteva stare in piedi; gli
pareva dʼavere lo stomaco fracassato.

Quando fu il momento di stendere il processo verbale:—Mais quel
procès–verbal!—celiò la Grande Rouquine.—Ce pauvre Max a tellement bu,
quʼil va rendre ses intestins! Fichtre!... et ma Vieille Chartreuse?
Oh, la, la... cʼquʼil est bath quand il est poivre!... Sʼpas Max, que
tʼen a bu un coup de trop? Ecoute bien ce que dit la Grande... Quand tu
seras degrisé, tu nʼauras quʼà répondre au Commissaire:—«Voyons! quelle
foutaise!... jʼen avais une telle pochetée!... le rigolo est parti tout
seul...»

E Limka, battendo lʼarchetto sul violino, piegato su la spalla il suo
ceffo da irresistibile roso dal vaiolo, riattaccava, per mettere le
cose al posto, il tango malinconico della «_Noche de Garufa_».

[Illustrazione: DECORAZIONE]

Avenue Kléber, fra la rue Villejust e la rue Boissière, il Grande
Industriale, sbarbato e vedovo, la mise neʼ suoi mobili.

Marthe dʼAussolles, lʼamante giubilata del Grande Industriale,
stava ella pure neʼ suoi mobili, ma dallʼaltra parte della Senna, e
precisamente in rue de Médicis, presso il giardino del Lussemburgo.

Quando, fra le due amanti dʼun Grande Industriale, scorre almeno un
fiume, cʼè speranza di vivere in pace.

Così fu.

Marthe dʼAussolles aveva cominciato la sua vita al Palais de Glace;
lʼavrebbe finita verisimilmente in rue de Médicis. Lo stabile nel quale
dimorava era di sua proprietà. Piccolo ma elegante. Al primo piano
abitava lei, al secondo un giudice, al terzo un ufficiale in ritiro. Su
la strada vʼerano tre negozi, che rendevan bene. Possedeva ugualmente
una modesta proprietà in Normandia, suo paese dʼorigine. Laggiù si
chiamava Thérèse Bouguereau, come suo padre. Manteneva, oltre il
vecchio Bouguereau, due fratelli, altrettante sorelle, tre zii, cinque
nipoti. Nella sua gioventù aveva esercitata la professione di piacere
al Grande Industriale; adesso praticava quella di dargli noia. E così
erano risolte cinque, più tre, più cinque, oltre ancora la sua propria:
in tutto quattordici vite.

Mimi Bluette non aveva certo il buon senso di Marthe dʼAussolles, e non
pensò allʼavvenire. Sebbene a quel tempo il Grande Industriale forse le
avrebbe regalato anche la Colonna Vendôme.

Per diventare Marthe dʼAussolles occorrono molte generazioni. Bluette,
povera piccola bella italiana, forse non era che lʼantenata.

Si lasciò regalare con molta gioia una «limousine» fosforescente, un
mucchio di pellicce siberiane, i costosi modelli di Béchoff–David e
di Suzanne Talbot, gli astucci serii di Lacloche e di Cartier. Nulla
chiese; trovò che tutto andava bene; fu riconoscente.

Marthe dʼAussolles avrebbe chiesto ancora il doppio, avrebbe trovato
che tutto andava male, non gli sarebbe stata riconoscente.

Bluette invece, con il suo limpido cuore di Transalpina, sperava solo
che arrivasse presto la sua mamma, colei dal seno celebre, per farle
vedere tutte quelle maraviglie.

Fra lʼaltre cose le avrebbe fatto conoscere Maurice, maître–dʼhôtel
impeccabile come un diplomatico, poi la sua Linette, cameriera dalle
calze di voilé, con le unghie imbrillantate, un grembiule tutto pizzo e
linon.

Adesso, lungo i boulevards serali, sʼincontravano a profusione le
scritte luminose:—«La Cigale—Mimi Bluette»;—«Gaumont–Palace—Mimi
Bluette dans ses danses».

I cinematografi murali proiettavano contro i teloni dei tetti opposti
la seminuda bellezza di Mimi Bluette.

Micaello era partito con Minnie, rompendo il famoso trio; Bluette aveva
ora un danzatore americano, taciturno, sobrio, quasi innamorato di lei,
quasi onesto. Si chiamava Jack Morrison. Le aveva detto con semplicità:
«Believe me, dear Friend... Micaello balla come un portalettere!»

Gli credette. Incominciò di nuovo i suoi corsi di danza, con Jack
Morrison, ammaestratore dʼoltre–oceano, che le impartì questa volta una
perfetta istruzione.

Quando seppe finalmente ballare con tutta lʼanima sua dʼirresistibile
danzatrice, Mimi Bluette si accorse che, imprigionato nelle sue fine
caviglie, nascosto in lei come il profumo in un fiore, anchʼella
portava un sogno di bellezza, e sentì che il ballo era la sua poesia.
La natura lʼaveva concepita in un tempo di musica, la sua maniera di
muoversi era come una danza innata.

Spesso invece danzano quelle che furono concepite in un tempo di
stonatura, come scrivono quelli che la natura partorì in un attimo di
desolazione.

Parigi è grande perchè sa conoscere i valori e perchè rende in gioia la
bellezza che riceve. Agli uomini come alle donne, ai santi come alle
prostitute.

Parigi non ha frontiera: è la basilica del mondo.

Forse da noi Mimi Bluette avrebbe servito a far vendere qualche gelato
misto e qualche sciroppo dʼamarene fra il pubblico dei teatri di
varietà, ove si gracchia in tutte le cadenze il perpetuo ritornello
napoletano; Parigi ne formò la sua più limpida, la sua più divina
danzatrice; le regalò tanto oro quanto ne raggiava dallo splendore deʼ
suoi capelli biondi, le sciorinò sotto i piedi leggeri un bel tappeto
di sole, per farla danzare sul palcoscenico della sua grande anima, sul
rumore della sua vasta gloria: poichè nessuno può regalare sè stesso
con pienezza e con delirio se non trova una gloria su cui mettere i
piedi.

Prima lʼaccolsero i suoi cosmopoliti ruffiani: ma dopo la guardò con
benevolenza qualcuno dei suoi uomini forse immortali.

E bisogna finalmente comprendere che dinanzi alla felicità della vita,
una vera danzatrice vale assai meglio dʼun accademico poeta.

[Illustrazione: DECORAZIONE]

—Sì, mamma, come vedi, questa «limousine» è mia, questi brillanti e
queste perle sono mie; ma non cominciare a stupirti per così poco,
altrimenti non la finiremo più!

Erano sul peristilio della stazione. Bluette portava un abito color di
primavera.

—Allez doucement aux carrefours, Robert,—disse al meccanico.—Et ce
bagage, fourrez–le moi quelque part; il encombre.

La macchina silenziosa scivolò via, guizzando fra i pericoli della
strada come un battello–mosca fra il grosso naviglio della Senna.
Vagamente Bluette si ricordava il suo primo ingresso nella Capitale,
un certo pomeriggio pien di rumore, che le pareva già distante nel
pensiero come la storia della sua prima verginità. Con occhi lontani
rivide al medesimo posto quellʼenorme campione fragoroso che a momenti
la investiva, e rivide Max, lʼartefice involontario della sua grande
fortuna. Da quel pomeriggio pieno di turbinìo erano passati ormai
venticinque mesi... E Max? Dovʼera Max?

Ripartito, scomparso; forse in prigione, forse in viaggio per il mondo
«avec sa momie Américaine...»

Al Bar della Grande Rouquine Bluette non andava quasi più.

Boblikoff aveva cercato con insistenza di farsi contraccambiare da
Bluette lʼenergica sua protezione. Bluette gli era stata riconoscente,
un paio di volte, per delicatezza, ma nulla più.

Povero Boblikoff... era così enorme, che, per una donnina come lei,
sarebbe stato un vero ingombro!

Caterina, la madre dal seno classico, era giunta con lʼintenzione
di trattenersi a Parigi un mese o poco più. Ma di settimana in
settimana la brava donna si sentiva talmente impariginire, che
perdette il profilo del Maestro di scherma e scrisse alla sorella
levatrice:—Figúrati che la mia piccola Cecilia non vuole assolutamente
più lasciarmi ripartire...

Questa era una sfrontata bugia, perchè Cecilia–Mimi se ne sarebbe anche
liberata volentieri, di quella sua madre importuna, che dopo averla
onorata e servita nei primi giorni con lo stupore dʼuna servetta, ora
non si faceva punto scrupolo dʼinalberare con arroganza certe arie da
padrona di casa che la impensierivano assai.

Questa florida e battagliera madre di Cecilia, non rispettava neanche
un tantino la sua dolce Bluette. Anzi la criticava.—«Oh, se avessi
avuta lʼispirazione di Parigi aʼ miei tempi!...»—soleva dire.

Chissà? Lʼavrebbero veduta magari Presidentessa della Repubblica.

Certo impiegò minor tempo di quanto ne aveva impiegato sua figlia per
acclimarsi a quellʼaria come se ci fosse nata. Si accorse che a Parigi
le donne di quarantaquattro anni riescono facilmente a supporre di
averne su per giù trenta.

A questa piacevole supposizione contribuisce in gran parte
lʼ«Institut de Beauté», vero Istituto Clinico della magìa moderna,
ove i seni flosci e le rughe indelebili si curano a maraviglia con
lʼauto–suggestione.

Siccome la bellezza consiste nella maniera di guardarsi nello specchio,
lʼuomo chʼebbe lʼidea del primo Institut de Beauté fu senza dubbio un
grande ironista.

Ma le donne dovrebbero fargli un monumento, e gli uomini pure, perchè,
se unʼamante sʼimmagina che può ancora sembrar giovine, per lo più
riesce anche ad esserlo.

Quello che fecero di Caterina allʼInstitut de Beauté, non è a dirsi.

La convinsero che bisognava tagliare due denti sanissimi, perchʼerano
un poʼ scuri, e metterne due di porcellana.

Ella ne mise due di porcellana.

La mandarono da una bustaia, che le fece un busto, il quale distribuiva
il seno, il ventre, i fianchi ed il resto, come unʼequazione di primo
grado.

Ella, in quel busto, ricontemplò le forme che il suo corpo aveva
durante il primo viaggio di nozze.

Le vendettero una maschera di caucciù, per reprimere il doppio mento.

Ella si mise ogni notte la maschera di caucciù.

Le consigliarono di farsi mezzo rossa e mezzo bionda.

Ella conobbe i miracoli dellʼacqua ossigenata e della tintura di henné.

Le dissero che poteva benissimo farsi crescere le ciglia e mettere in
allenamento la propria pelle con i massaggi più complicati.

Ella si lasciò pizzicare, flagellare, manipolare, spalmare, strofinare
in tal guisa, che la sua pelle, morbida per tradizione, divenne
addirittura quella dʼuna bambina.

E, quanto alle ciglia, le parve che si fossero allungate.

Oh, se avesse potuto vederla così rinfrescata il suo calamitoso
Maestro di scherma! Quellʼagile maestro di scherma, chʼera costato aʼ
suoi risparmi un così gran numero di svolazzanti cravatte! Quellʼuomo
indimenticabile, tutto punta e a fondo, che turbava i sogni della sua
canonica età!...

Povera Caterina Malespano, momentanea zitella di quarantaquattro anni,
tornata zitella isterica per opera dellʼInstitut de Beauté!...

Bisognava trovare un rimedio.

Lo trovò. Sebbene con scandalo di Bluette.

Maurice, maître–dʼhotel impeccabile come un diplomatico, aveva quasi
lʼaitanza dʼun maestro di scherma; era grigio su le tempie, ma nero e
ben pettinato sul cranio diviso da un filo rettilineo.

Tutte le sere Maurice le preparava una tazza di camomilla; vecchia
abitudine.

Una sera la camomilla si raffreddò sul tavolino.

Bluette in quel mentre ballava su la scena di Marigny, e, nella sua
bianca innocenza, mai avrebbe osato concepire un così grave sospetto.
Ma Linette, cameriera dalle calze di voilé, una sera, svestendola,
glielo disse con molto garbo:

—Madame votre mère souffre–t–elle de douleurs aux reins?

—Pourquoi, Linette?

—Chaque nuit Maurice est appelé pour lui faire des massages, qui
durent parfois très longtemps, Madame...

Interrogata il giorno appresso in modo repentino, la semibionda e
semirossa Caterina Malespano affermò semplicemente che Maurice era un
uomo di buona famiglia,—purtroppo decaduta.

E poi, cʼera forse un mezzo più gradevole per imparare il francese?

       *       *       *       *       *

Certo ve nʼera un altro, ma lento e faticoso: quello che il Grande
Industriale aveva con dolcezza fatto subire a Bluette.

Gli uomini di Francia raccolgono talvolta le loro amanti dalle
avventure della strada, ma spesso le abbandonano che già son perfette
come vere signore. Per essi è grande sofferenza vivere con una donna la
quale manchi di finezza nellʼintendere la vita e nel discorrere dʼogni
argomento con amabile brìo; e poichè si viene al mondo per ammaestrarsi
nellʼeleganza del vivere, trovano che lʼamore non impedisce di farsi
unʼeducazione.

Così le figlie di Montmartre o del Bois de Vincennes giungono a
conversare con gli Accademici.

Lʼaria stessa di Parigi è una scuola dʼimprovvisazione; ma le più
diligenti alunne trovano anche il tempo, tra il bagno e lʼora del tè,
fra lʼora del tè e quella del teatro, di ascoltare in vestaglia la voce
monotona di una vecchia professoressa che ama le caramelle, o dʼun
laureando provinciale che abita verso il Quartier Latino.

Così fece Bluette, che per istinto era di tutto curiosa, intellettiva e
docile come una vera donna.

Al Grande Industriale dava noia quel suo residuo dʼaccento transalpino,
e più ancora la tranquilla ignoranza chʼella rivelava in ogni materia
dello scibile quotidiano.

Era un uomo così persuasivo, che avrebbe indotta una monaca a ballare
il tango.

Mimi Bluette non sapeva resistere alla dolcezza.

E per lʼappunto egli fece venire una vecchia lunatica professoressa, la
quale amava dare aʼ suoi discepoli questo bel tema eroico–sentimentale:
«Il y avait la guerre en Algérie. Mademoiselle X. était fiancée à un
sous–lieutenant des spahis, qui tomba au champ dʼhonneur. Racontez....
etc.»

Era la sua storia.

Più tardi le fece impartir lezioni da un giovine laureato
incollocabile, erudito squallido e con molta forfora, che aveva la
manìa di far strada nella Capitale.

Questi le rammentò in modo singolare quello Studente in medicina, che
le dette il primo brivido.

Fu nel mese dʼAprile, verso lʼora in cui le stanze dei quarti piani
diventano buie, guardando la primavera che tramonta sui tetti luminosi
delle stupende città.

Come quel tempo era lontano!... Bluette rise. Le pareva un sogno.

E imparò che il verbo «sʼen aller», al soggiuntivo imperfetto, fa:
«que je mʼen allasse, que nous nous en allassions, que vous vous en
allassiez, quʼils sʼen allassent...»

E imparò che «Pépin le Bref fonda la dynastie des Carlovingiens...».

Lesse Chateaubriand, Renan, etc; il che la fece tornare con molto
gaudio alla letteratura dei coniugi Willy.

Se non si fosse fatta sorprendere con un certo Hubert Normand, giovine
commediografo di molto avvenire, il Grande Industriale lʼavrebbe
forsʼanche sposata.

Ma che triste fine per lei, seppellirsi, così bella e così giovine,
allʼombra di un vecchio marito... Per lei, povera Bluette, nel suo
lieve cuore azzurro, che pesante malinconia!...

[Illustrazione: DECORAZIONE]

No, certamente non lo amava. Era una sbadataggine della sua dolcezza,
una piega naturale della sua curiosità. Il futuro Accademico Hubert
Normand era in quellʼinverno lʼavventura di moda. E siccome Dorée
dʼArnac, una fra le più belle donne di Parigi, gli aveva buttate le
braccia al collo, una sera, in un cabaret, certamente non vʼera una
ragione al mondo perchè Mimi Bluette fosse con lui più severa della sua
emula ed amica Dorée dʼArnac.

Solo preferì che questo non avvenisse in un cabaret. E fu il suo torto.
Perchè il Grande Industriale avrebbe forse perdonato più facilmente.

Invece non perdonò.

Chi le rese il piccolo servizio di farglielo sapere fu colei dellʼaltra
riva, ossia Marthe dʼAussolles, che per gli svaghi del Grande
Industriale teneva in serbo, nel focolare di Normandia, una sua fresca
parente.

In tali circostanze il bravo Jack Morrison le fu di buon consiglio.

—Sʼil vous quitte, Bliouette, ce nʼest pas très grave,—disse con la
sua calma laconicità, chiamandola come sempre «Bliouette», in grazia
dellʼaccento americano.—Venez à Londres avec moi. Nous danserons à
lʼHippodrome. Cʼest la «Season».

—Eh bien, si tu veux, allons–y, mon brave Jack!

       *       *       *       *       *

Sette ore di viaggio. La Manica. John Bull che sʼinnamora e va in
delirio davanti alla scena dellʼHippodrome. Nel camerino di Bluette, le
pallide rose di Henley, i fiori soavi e calmi della primavera inglese.
Vengono, i bellissimi emuli di Lord Brummel, a carezzare con i lor
occhi dʼinnocenti la ballerina di Francia, Mimi Bluette. Jack Morrison
fa da interprete. Jack Morrison è un poʼ geloso. Allʼamericana, con
la pipa fra i denti, la bocca serrata. È un andirivieni dʼassidui nel
suo leggiadro salotto al Carlton Hotel. Un giorno, sopra un vassoio
forbito, vi entra il biglietto da visita di Lord G. A. M. F. B.—precede
il nome.

Il biglietto da visita dʼun Inglese qualchevolta sembra un manuale
semaforico.

Quello di un Tedesco è un diploma universitario.

Quello di un Americano del Sud è un tentativo di riconciliazione con la
madre patria.

Lord G. A. M. F. B.—precede il nome—era un uomo che su tutte le cose
aveva il suo punto di vista.

Così volle averne uno anche su Mimi Bluette. La quale frattanto aveva
imparato a far pagare molto caro i suoi punti di vista.

Jack Morrison minacciò di andarsene; e quel giorno, sebbene fosse
Americano, aveva le lacrime agli occhi.

Ma Bluette era certa che Jack si rassegnerebbe.

Così fu.

Lord Alfabeto usava una maniera ben diversa da quella del Grande
Industriale per fare le stesse cose. Poichè vʼera di mezzo la Manica.

Non apprezzò affatto la sua cultura, ma insistette con molto garbo
su varie sfumature, finchè giunse a persuaderla, per esempio, che le
ostriche del Colchester superano di gran lunga tanto les Ostende come
les Marennes. Le fece inoltre sapere che gli Americani son forse un
popolo rispettabile, ma non parlano affatto lʼidioma inglese. Perciò
non si fidasse troppo dellʼinterprete Jack. Lʼavvertì che il popolo di
Londra finge di coricarsi a mezzanotte e mezzo, perchè, dopo questʼora
proibitiva, la legge vuole che il popolo inglese finga di non amare più
il gin. E le fece scommettere molte lire sterline sopra cavalli che, in
media, vinsero due volte su tre.

Lord Alfabeto non era vedovo nè ammogliato; perciò mancava di prole. Si
era fatto molto ricco nelle Colonie. Adesso riposava. Cioè, questo Lord
in riposo, era dʼunʼattività sorprendente. Bellʼuomo, con una faccia
pura e nobile, aveva una sua maniera impassibile di prendere in giro
lʼuniverso.

Con Mimi Bluette spese un diluvio di sterline, delicatamente, ma la
prese in giro.

Ella ebbe lʼimpressione di fare altrettanto.

E rimasero buoni amici.

Soltanto, quandʼebbe ripassata la Manica, ella si accorse di portare
in sè, dallʼInghilterra, una intrusa vita nascente. Non ne fece parola
con alcuno e tanto meno con sua madre; rimase tre giorni a letto,
credendosi malata. Bluette si domandava con stupore perchè la cosa non
le fosse mai capitata prima. La sua maraviglia iniziale si mutò a poco
a poco in un singolare spavento.

Verso la sera del terzo giorno incominciò a chiedersi di chi poteva
essere il figlio. Era stata quattro mesi a Londra. Le parve dapprima
che dovesse avere nel grembo un giovine Lord Alfabeto. Poi si ricordò
che poteva essere anche un piccolo Jack. Il dubbio le fece quasi
piacere. Non era certo innamorata di Jack, ma gli voleva molto bene.

Mentre volgeva tra sè questi accorati pensieri, entrò nella camera la
bionda Caterina, per chiedere a sua figlia se volesse pranzare. Bluette
cacciò la testa sotto il lenzuolo e con irritazione rispose che la
pregava di non darle noia.

Mandò invece a chiamare il suo bravo laconico Jack.

—Assieds–toi là, Jack.

Là, voleva dire sul letto, vicino alle sue braccia nude, nel posto
vuoto che lasciava il suo corpo sollevato sopra un gomito. I suoi
bellissimi capelli mal pettinati si appigliavano alle trine dei due
guanciali. Accese una sigaretta e, dopo averne aspirato un paio di
boccate, la mise tra le labbra di Jack.

La lampadina elettrica saettava un circolo dʼoro sui capelli di Jack.
Le sue larghe spalle ben modellate sembravano assoggettarsi con fatica
al suo costante vizio di tenere le mani in tasca.

—Jack: pourquoi ne mʼembrasses–tu pas ce soir?

Egli la guardò senza rispondere, poi si carezzò la punta del naso,
infine riferì:

—Berton a dit que, si nous acceptons lʼengagement pour Genève, il nous
donnera cinquante louis par soirée.

—Au diable toi et Berton! Je demande pourquoi ne mʼembrasses–tu pas?

—Parce que je suis très irrité contre vous, Bliouette.

—Est–ce vrai, mon pauvre Jack?

Allora gli diede un bacio sovra un occhio e ridendo si rovesciò sui
cuscini. Con lui non aveva pudore; lʼarruffata sua camicia si apriva
come un guscio di castagna, ed appariva di qua, di là, sotto il lieve
schermo del lino colore di Bluette, la bella ertezza del seno ereditato.

—Tu es un boudeur, Jack!

—Cʼest vous qui êtes méchante, My Blu.

—Pourquoi méchante?

Jack si volse dʼacchito, con uno di queʼ suoi movimenti agili e
deliberati, da ballerino. Si appoggiò sul corpo disteso di Bluette, e
leggermente si mise a carezzarle i due seni, con una casta impudicizia,
come suol fare chi spartisce una bella criniera.

—Avez–vous la fièvre, My Blu?

—La fièvre? Mais jamais de la vie!

—Est–ce par hasard votre foulure à la cheville qui vous fait mal?

—Pas du tout. Voilà mon pied.

Lo trasse fuori dalla coltre disordinata, e lo muoveva con agilità,
come una piccola mano venata. Egli si volse, prese il piede per la sua
liscia incurvatura, e lo teneva nei due palmi come se ne provasse un
delicato piacere.

—Mais alors, pourquoi êtes–vous couchée?

—Viens plus près, Jack... baisse–toi... je dois tʼavouer un grand
secret, mais tout bas, à lʼoreille... Ou bien... ferme la porte
dʼabord, puis déshabille–toi et viens te coucher dans mon lit.

Jack guardò lʼorologio: erano le sei e tre quarti. Gli parve che lʼora
non fosse adatta; ma rimise lʼorologio nel taschino e andò a chiudere
la porta.

—Deux tours de clé, Jack. Sans ça on peut ouvrir quand même. Tu sais
que ma mère est très curieuse.

Jack si tolse la giacchetta, cercò dove posarla, ma infine la buttò per
terra. Jack era molto contento, ed i suoi occhi brillavano, poichè My
Blu non era spesso così gentile con lui. Glʼimportava ora pochissimo di
conoscere quel segreto misterioso. In genere le confidenze delle donne
gli parevan degne dʼun interesse molto limitato.

—My Blu, je suis en train dʼarranger une nouvelle danse. Vous allez
voir: des pas extraordinaires!

—Vrai? Encore une valse?

—Non pas; un Rag–Time.

—Oh, un Rag–Time!... Alors je me lève et tu vas me lʼapprendre.

—Oui, levez–vous, Bliouette.

Jack aveva ancora i calzoni, My Blu era in camicia. Mise un paio di
scarpette in pelle dʼantilope, senza nemmeno infilarsi le calze. Si
formò con le trecce un grosso nodo su la nuca. Per terra vʼerano gli
indumenti di Jack; non tutti: qualcuno era sul letto.

Comʼegli faceva sempre, per incominciare ad insegnarle una danza nuova,
lʼabbracciò fortemente, con una dolcissima brutalità. Poi la tenne fra
le sue braccia e prese a farla girare. Fischiettava, per segnare il
tempo, lʼaria di «How do You do, Miss Rag–Time?»

Per Mimi Bluette ballare un nuovo ballo era come per certe donne
prendersi un amante nuovo. Lo capiva súbito. Di questo Rag–Time
impazziva. Lo trovò «foolish and sweet», pazzo e dolce, secondo la
definizione di Jack.

Come tutte le danze, questo passo andò a finire sul letto.

       *       *       *       *       *

—Jack, mon petit...—disse una mezzʼora più tardi My Blu, passando
le dita fra i capelli dʼoro dellʼAmericano,—une chose pourtant
mʼintrigue... Ce gosse, est–il un petit sujet du Président Roosevelt ou
bien du Roi dʼAngleterre? Y–a–t il en toi ce quʼon appelle la voix du
sang?

—Question très grave,—rispose Jack. Poi si mise a riflettere. In ultimo
affermò:—Sʼil était de moi, jʼen serais bien aise.

—Moi aussi. Au fond je préfère.

—Comme cʼest gentil de votre part, My Blu!

—Mais, vois–tu, il nʼy a guère de contrôle possible, et je serai
toujours hantée par ce doute.

—Yes, très grave,—ripetè, per la seconda volta, il laconico Jack. My
Blu si fece dare una sigaretta. Ne accendeva quaranta o cinquanta al
giorno senza fumarne che un paio di boccate.

—Voyons, Jack: penses–tu que je doive le laisser naître?

—Ça dépend, My Blu. Si vous acceptez ma proposition oui; autrement pas.

—Cʼest–a–dire? Vous épouser. Jack?

—Quite right, My Blu!—egli rispose con una brevità quasi arrabbiata.
Bluette lo guardò negli occhi, per un attimo, in silenzio, poi disse:

—Je nʼen ai pas envie, Jack.

LʼAmericano si strinse nelle spalle.

—Très bien. Alors cʼest un fils de Lord.

—Sans doute... un petit Lord! Mais toi, sois gentil, Jack: lève–toi,
prends la plume et écris ce que je vais te dire.

Siccome Jack indugiava, lo spinse fuori dal letto.

Allora sʼintesero le nocche della madre Malespano battere discretamente
allʼuscio. Bluette sʼirritò; le rispose in malo modo:

—Mi fai questo santo piacere di lasciarmi stare, che sto imparando un
passo di Rag–Time?...

La santa donna se ne andò via dolcemente.

—Ecris, Jack. Bien ou mal, peu importe; avec ou sans tes prodigieuses
fautes dʼorthographe, peu importe. Je recopierai la lettre quand même.
Ecris:

  «Cher ami,

Jʼai quelque chose à vous dire...—Non, efface!—«Cher ami, jʼaime autant
vous le dire sans trop de détours...»

—Doucement, doucement...—pregò Jack, il quale ballava meglio che non
scrivesse.

—«...détours—deux points, majuscule:—Je suis enceinte de vos œuvres, et
cela interrompt ma carrière, sans compter...»

—Pooh! indeed!—bestemmiò Jack, buttando via la penna.—Comment faire, à
present que vous ne pourrez plus danser?

—On ne dansera pas, cʼest très simple,—disse Bluette in modo
affabile.—As–tu écrit?

—Je nʼai rien écrit, Bliouette. Je change dʼavis. Ce gosse, il ne sera
ni un danseur ni un Lord. Ce gosse, nʼétant pas encore né, il peut très
bien...

—Chut... Ecris et laisse–moi faire.

Jack ripetè:

—«...ma carrière, sans compter...»

—«...sans compter que, avoir un gosse»—virgule—«pour une femme
sans mari»—virgule—«cʼest le plus grand malheur qui puisse lui
arriver!»—Point dʼexclamation! Non: points de suspension.... Non:
dʼexclamation! Enfin, comme tu voudras.

—Je comprends,—disse Jack, mettendo lʼuno dopo lʼaltro tutti quei punti
che gli eran ordinati.—Vous désirez que le Lord vous épouse.

—Tu es un âne. Jack! Ecris et tais–toi:—«Une fausse–couche me serait
impossible, parce que...» Non cʼest un peu brutal... Ecris:—«Que faire?
Je ne voudrais pas te causer dʼennuis, et je suis pourtant hors de
moi–même... Le médecin mʼa dit»—virgule—«quʼayant un défaut dans la
matrice»—virgule—«je le porterai bien difficilement jusquʼau bout;
mais, quʼessayer nʼimporte quelle manœuvre, serait fatal pour moi.»

—Quei est le médecin qui a dit ces bêtises?

—Tu es un âne, Jack! Il vaut toujours mieux avoir un défaut dans la
matrice.

—Ah...

—Et pourquoi te sers–tu dʼun «âh» si ouvert, avec une voix si
nasillarde? Nʼavons–nous pas été à Londres? Il me semble que tu pouvais
au moins corriger ton accent transatlantique.

Adesso My Blu sʼintendeva di pronunzie. Ma Jack alzò le spalle. Ripetè,
con il suo francese yankee:

—«...serait fetell pour moi.»

—Point.—«Tu me connais, chéri, et tu sais très bien quʼà Londres
jʼai envoyé promener tous tes amis. Aussitôt rentrée à Paris je
devais avoir...»—Points de suspension... «... et rien!» Point
dʼexclamation!—«Je nʼai pas voulu tʼécrire avant dʼen être sûre. Enfin,
je suis affolée, je ne sais à quoi me résoudre, je ne quitte pas le lit
depuis sept jours...»

—Trois jours.

—La barbe! Jʼai dit sept!—«... et si tu ne viens pas de suite, cʼest
moi qui viendrai à Londres, aussitôt que le médecin me le permettra. Tu
es un gentleman, je le sais; et puis, peut être que tu aimes un peu ta
pauvre petite

  Bluette»

A présent relis ce que tu as écrit, Jack.

Questi ubbidì. Bluette si carezzava il mento.

—Relis encore une fois, Jack.

Egli ubbidì nuovamente. Allora Bluette buttò per aria i lenzuoli.

—En as–tu écrit des bêtises, mon pauvre Jack! Déchire vite ce
chef–dʼœuvre et passe–moi la plume. Je vais tout simplement lui envoyer
une dépêche.

—Pourquoi la déchirer? Cette lettre est excellente.

—Encore une fois. Jack, tu es un âne. Le Rag–Time est un affaire,
la littérature en est une autre. Donne–moi une feuille de papier et
rhabille–toi vite: je vais tʼenvoyer au Bureau de Télégraphe.

Lʼinventore dʼun passò di Rag–Time docilmente ubbidì.

[Illustrazione: DECORAZIONE]

Ma quando arrivò a Parigi quel puro gentiluomo chʼera Lord Alfabeto, le
cose complicate si accomodaron come per incanto.

Egli le fece una sontuosa rendita vitalizia, disse con amabilità che
i figli sono molto spesso una indimostrabile opinione materna, pregò
di dare al nascituro, se fosse un maschio il nome di Patrick, se
una femmina quello di Eleanor, poi, con un soprabito quasi giallo,
ritraversò la Manica.

La Manica è quel canale che impedisce agli Inglesi di essere
nevrastenici come i popoli continentali.

Ed allora il Forse–Patrick, nel terzo mese dʼincubazione, risolse di
non venire al mondo. Sparì, per non dar noia a sua madre, con un atto
dʼabnegazione del quale soltanto fu testimone un giovine allievo di
Doyen.

Il Forse–Patrick era una creatura splenética, la quale decise di
andarsene via dal mondo senza nemmeno darsi la pena di scegliere un
sesso, per uggia della vita.

E fece bene. Poichè aveva capito che tutto si riduce in fondo a
scegliersi un posto nel cimitero.

My Blu frattanto era divenuta molto ricca. Possedeva «i suoi mobili»,
anzi un leggiadro palazzo verso i Campi Elisei, molti gioielli, uno
sterminio dʼabiti, un tesoro di pizzi antichi e di tutte le maraviglie
femminili che producono i gloriosi atelieri di Parigi; possedeva le
sue rendite professionali ed infine la rendita vitalizia datale in
premio della sua faticosa maternità.

Era una piccola creatura felice. Sembrava unʼorchidea coltivata in
una serra calda; per di più mandava profumo. Cʼera in lei, cosparsa
nelle vene della sua pelle bionda, una luce dʼanima che irradiava buon
odore. Parigi la Magnifica le aveva regalato un soffio dellʼanima sua
transitoria e splendente, lʼaveva circonfusa con le stelle deʼ suoi
fugaci paradisi.

Ve nʼeran altre forse più belle, più intelligenti forse di Bluette; ma
Bluette era di moda, e la moda è una gloria che non si può esaminare
a lume di critica. La moda è la vera potenza che decretano le folle,
per un caso plebiscitario, per una specie di curiosità collettiva,
che talora, dal nulla, fa scaturire persino lʼingegno. La moda è il
caso fortuito che governa il pensiero, lʼarte, la bellezza, insomma la
vita. Non sempre fu di moda quello che fu grande, ma sempre una certa
grandezza brillò e sʼavvolse intorno ai capricci di questa universale
divinità.

Forse lo stesso capolavoro nullʼaltro è che il figurino più espressivo
dʼuna moda oltrepassata, le religioni stesse nullʼaltro sono che una
maniera illogica e mutevole di vestire con una stoffa decente la nudità
pericolosa dellʼanima.

E Bluette, che non vagheggiava sogni di conquista, chʼera nata per
danzare con poesia e per inflettere le sue dolci reni sotto il peso
dʼun amante, Bluette che non moveva un dito per guidare la propria
sorte, aveva con sè, in modo bizzarro, il favore di quella divinità.

Le cose avvennero a grado a grado, con ordine sapiente. Se Bluette
lʼavesse fatto apposta, non vi sarebbe riuscita mai.

Così a Parigi erano senza dubbio in gran numero queʼ finanzieri di
alta maestrìa che tramavano affari loschi ed ammaestravano il denaro
ad esiliarsi dalle tasche altrui. Ma ella fu amata proprio da quello,
che, oltre a circondarla dʼun lusso vanderbildiano, le regalò anche
uno scandalo clamoroso, uno di quegli scandali periodici che alla
divina Parigi sono necessari come il Gran Prix de Longchamps. Poichè
la Corte dʼAssisi è il primo teatro della Metropoli ed i giudici della
Senna sono artisti non meno ammirevoli dellʼammirevole M.ͬ Le Bargy.
In Francia si è riusciti a trovare nel crimine un elemento di utilità
sociale. Altri paesi cercano di fare la stessa cosa, ma i loro scandali
mancano di saggezza e dʼallegria. Così altri paesi cercano di creare
Mimi Bluette, ma per essi è fatica perduta. Mimi Bluette è un fiore
dellʼaria parigina, se pur talvolta vien dʼoltralpe o dʼoltremare.

Il Finanziere dunque rubò, poichè i suoi affari probabilmente non
gli consentivano di farne a meno; ma ognuno disse che aveva rubato
per alimentare lo sfarzo di Bluette. Un bel giorno ella vide la
propria fotografia esposta nelle vetrine fosforescenti, proiettata
nei cinematografi, pubblicata nelle riviste e nelle prime pagine dei
giornali di Francia.

Sciami di giornalisti vennero ad intervistare la famosa My Blu, ed
alcuni si dettero anche la pena dʼinventarle straordinarie biografie,
che il mattino dopo, seduta sul letto, ella si mise a leggere con
molto stupore. I giornalisti, al giorno dʼoggi, sanno trarre dal nulla
biografie così verosimili, che gli stessi protagonisti a poco a poco
si convincono dʼaverle vissute.

Dunque Bluette stava tranquillamente aspettando che si trovasse il
mezzo di mandarla per qualche mese a vivere nel ben frequentato
romitorio di Saint–Lazare; ma i sullodati giudici della Senna
preferirono lasciarle portare a piede libero i deliziosi modelli della
Rue de la Paix.

Libero per così dire, poichè veniva il tempo della gonna con lʼimpaccio
e le donne si vedevano costrette, almeno per le strade, ad aprire le
gambe assai meno del necessario.

Il Finanziere ladro ebbe la compiacenza di lasciarsi mettere in
prigione. Ma poco dopo un Guardasigilli scrupoloso ordinò la revisione
del processo, e, come al solito, venne in luce che il poveretto era il
più probo cittadino della Repubblica, ed anzi ci aveva perduto del suo.

Dopo questa faccenda non era più lecito a Bluette ballare le danze che
inventavano gli altri; un Impresario le fece comprendere che aʼ suoi
piedi ora si domandava lʼoriginalità.

Era giusto; e Bluette ne convenne. Tanto più che i suoi leggeri piedi
non mancavano di facoltà inventiva. Ma ora si dolse di aver lasciato
partire, con un broncio rannuvolato ed in compagnia dʼuna elastica
ballerina irlandese, il suo bravo laconico Jack.

—Poco male,—pensò lʼimpresario, persona che avrebbe scritturato anche
il Generale dellʼEsercito della Salute, con tutta la sua «troupe», se
il pubblico ne avesse avuto il desiderio.—Poco male, My Blu. Andremo in
cerca dʼun altro inventore.

Si recò al domicilio dʼun Fabbricante di Balli e lo pregò di volergli
mostrare quel che aveva in negozio. Vʼeran balli dʼogni sorta, fatti e
su misura.

—Su misura,—preferì lʼImpresario.—Non solo, ma bisogna poi distruggere
il figurino.

—Benissimo. Allora portatela qui, che la veda.

E le tagliarono addosso cinque o sei balli che le calzavano come guanti.

Ma quello che fece risplendere la sua gloria fu lʼindimenticabile My
Blu.

Allora tutta Parigi si mise a ballare il My Blu.

Il My Blu era un ballo antichissimo; pare fosse di provenienza
caldaica; molti opinavano invece che avesse appartenuto alle antiche
civiltà messicane. Furon stampati volumi su questo glorioso My
Blu. Il Delegato Apostolico ne informò la Santa Sede. Si disse che
verrebbe unʼEnciclica «De My Blu». E frattanto se ne tenne un discorso
allʼAccademia degli Immortali.

Bluette si stupiva che i suoi piedi avessero una simile potenza. Vero
è che il My Blu si ballava con tutto il corpo e tanto più era efficace
quanto più il corpo si mostrava nudo.

Per questo particolare, anche la rimbiondita madre Malespano voleva
imparare il My Blu. La sera, in camera, ne faceva prove assidue davanti
alla specchiera, col maggiordomo impeccabile, Maurice. Questi la
torturava con scene di gelosia, perchè la insaziabile madre Malespano
frivoleggiava nel contempo con altra gioventù.

Lʼamore dʼun maggiordomo è quellʼamore che ha il vantaggio dʼessere a
portata di mano; ma purtroppo manca di lirismo e, col tempo, anche di
energia. Lʼamore dei maestri di scherma è infinitamente più combattivo.

Questa bionda madre Malespano era diventata frattanto la donna più
pettegola di tutto il vicinato. In casa non dava pace a nessuno;
le persone di servizio preferivano andarsene che ubbidire aʼ suoi
capricci. Tranne Linette, cameriera dalle calze di voilé, che, vantando
la protezione di Bluette, spesso non tralasciava di risponderle per le
rime.

Questa Linette aveva un fratello, bel giovine, pieno dʼintraprendenza,
che si era fatto conoscere nella metropoli vincendo una famosa corsa di
motociclette. Ma questa era storia passata. Honoré Messanges, fratello
di Linette, con lʼandare del tempo aveva cambiato sport. Era diventato
nobile di provincia e portava sul biglietto da visita la corona della
sua contea. Cioè si faceva chiamare Honoré Messanges, comte dʼOlonzac.

Quando nessuno provvede a far conte un uomo che ha bisogno di portare
uno stemma, è naturale che il povero diavolo faccia uno sforzo per
nobilitarsi da sè. Ad ogni modo questʼamabile Honoré Messanges, comte
dʼOlonzac, se non era nato proprio di lombi gentilizi, certo viveva la
medesima vita di quelli che possiedono, fra lʼaltre dovizie, anche un
albero genealogico; e di sembianze, di maniere, dʼabitudini, certamente
appariva un autentico dʼOlonzac. Non era molto alto di statura,—forse
un palmo più di Linette—ed aveva come Linette, nei capelli ben
spartiti, unʼincrespatura luccicante. Fino e morbido in tutta la
persona, possedeva neʼ suoi movimenti quella medesima grazia un poʼ
femminile della procace Linette; ma i suoi occhi nerissimi brillavano
invece di una maschilità veemente.

Il signore dʼOlonzac teneva in mano la fortuna per le corna, come il
manubrio della sua famosa motocicletta; e poichè la contea non gli
mandava redditi, sapeva trarne senza scrupoli da molti altri canonicati.

Egli non guadagnava il pane con il sudore della sua fronte; ma qualche
bella donnina sudava certamente per lui. Il signore dʼOlonzac si
vestiva da un sarto inglese, fumava i grossi «Favoritos» del Principe
di Galles, faceva colazione in pigiama nel suo rez–de–chaussée,
prendeva il tè allʼHôtel Ritz e pranzava da Paillard. Ogni tanto
possedeva unʼautomobile, ogni tanto la vendeva; per qualche mese aveva
unʼamante, poi si lasciava rapire da unʼaltra; in genere tutta la
sua vita dipendeva dai capricci e dalle fortune delle sue variabili
ammiratrici.

Nondimeno sarebbe caduto in gravissimo errore chi lo avesse confuso,
per esempio, con un qualsiasi Boblikoff, Max, Jean Kiki. Questi
mantenuti e protettori di basso lignaggio non godevano affatto la stima
del prossimo; invece il signore dʼOlonzac era un elegante ruffiano
il quale godeva sino ad un certo punto la stima del prossimo. Ve ne
son poi altri, di più elevato grado, i quali, non soltanto godono
stima incondizionata, ma sono anzi chiamati a giudicare in questioni
dʼonorabilità.

La vita è senza dubbio il più divertente vaudeville al quale possano
assistere gli uomini.

Dunque, un bel giorno, il signore dʼOlonzac salì per le scale della
palazzina ove abitava Mimi Bluette. Sul pianerottolo si allacciò i
bottoni deʼ suoi perfetti guanti color canarino, buttò via la sigaretta
e suonò il campanello.

Quando Linette venne ad aprirgli, ella portava un grembiulino chʼera
tutto una maraviglia di pizzo e di linon. Vedendo una simile cameriera,
ogni gentleman di buon gusto si sarebbe senzʼaltro fermato in
anticamera. Ma il signore dʼOlonzac, forse perchè faceva quasi buio,
varcò il limitare senza guardarla.

—Monsieur désire?—fece Linette.

—Passez ma carte à Madame,—rispose il conte, porgendo il suo biglietto
stemmato fra il pollice e lʼindice del suo perfetto guanto color
canarino. Fu allora che Linette lo riconobbe:

—Mais, voyons, est–ce bien toi, Roré?

—Hein?....—fece il conte, squadrandola. Poi riconobbe Linette e si
mise a ridere:—Ben, oui, cʼest moi. Tout à fait moi, Linette! Oh, là,
là, que tu as lʼair ahuri! Ben, vrai! moi aussi, vois–tu, ça me paraît
drôle!

—Et à moi!...—fece Linette. Poi arricciò il suo nasino petulante:—Mais,
ce qui mʼintrigue, cʼest plutôt la raison qui tʼamène chez nous.

—Chez nous? Tiens, comme tu dis ça!

—Chez nous, ça veut dire dans la maison de Madame. Car tu vois bien que
je suis établie chez elle.

—Cʼest ce que je ne savais pas. En tout cas, Linette, faut pas souffler
mot, hein?

—Tu dis?

—Quʼil faut faire comme si rien nʼétait, parce que je suis le comte
dʼOlonzac et toi tu nʼes que Linette.

—Tout court?

—Mais, pardi!

Linette si cacciò le mani nelle due tasche del grembiulino, e si mise a
guardarlo con ammirazione.

—Pour de lʼaplomb, Roré, cʼest pas ce qui te manque!

—Bien sûr, ma chérie.—– Poi borbottò, in modo abbastanza
intelligibile:—Il fallait encore que jʼaïe la guigne de rencontrer ma
soeur chez My Blu!

—Pauvrʼ pʼtit, que tu es à plaindre!... Enfin, voyons: si tu as des
vues sur ma patronne, rien à faire ici!

—Linette, ma mignonne, voilà bien cinq minutes que tu me fais poser
dans lʼantichambre! Cela nʼarrive pas chaque jour au comte dʼOlonzac.
Assez causé; passe ma carte à Madame Bluette, je tʼen prie.

Linette volle ribattere, ma il conte soggiunse con un tono breve:

—Sans ça, je raconterai à Madame certaine petite histoire, qui ne te
fera pas trop dʼhonneur. Car tu sais que le pauvre Godineau...

Le pauvre Godineau, Michel Anselme, agé de 33 ans, de profession
dresseur de chiens savants, era stato il primo fallo di Linette.
Ora stava scontando in un reclusorio la sua troppo grande abilità
nellʼaddomesticare i cani, le ragazze, e le serrature altrui.

Linette divenne rossa al pensiero del pauvre Godineau.

—Alors, tu prétends réellement que je tʼintroduise chez Madame...

—Quant à mʼintroduire, je verrai ça moi–même,—corresse il conte con
molto garbo.—Tu nʼas quʼà passer ma carte, comme je tʼai dit.

Linette esitava.

—Et tu iras au moins voir maman, si je te rends ce petit
service?—domandò, con la sua voce piena di filiale rimprovero, la
graziosa Linette.—Voilà six mois quʼon ne te revoit plus à la maison.
Il Conte dʼOlonzac fece una smorfia.

—Jʼirai sans doute... oui, sans doute... un jour que jʼaurai le
temps!—Poi alzò le spalle:—Ah, mon Dieu, que cʼest embêtant, lorsquʼon
est le comte dʼOlonzac, dʼavoir une soeur femme de chambre!

—Sale fripouille!—gli rispose Linette, andando via, leggera, col suo
biglietto da visita.

My Blu in quel momento era molto occupata a studiare un sistema per
la roulette, vendutole al prezzo di venticinque luigi da un certo
Filipescu, grafologo, spiritista, e professore laureato in non so quale
Università rumena. My Blu aveva sul tavolino una piccola roulette e tre
o quattro fogli pieni zeppi di cifre complicate. La pallina girava, il
sistema guadagnava somme ingentissime, sicchè My Blu era di eccellente
umore.

—Madame, il y a quelquʼun qui se dit le comte dʼOlonzac... Voilà sa
carte.

E mise il biglietto sul tavolino con un certo disprezzo.

—Comment «qui se dit»?... Est–ce la manière dʼannoncer quelquʼun?

—Ah... je nʼen sais rien. Madame! Il mʼa lʼair dʼun... Mais il peut se
faire que je me trompe. Si Madame veut, je le ferai passer.

—Sans doute que oui, puisque je le connais.

—Est–ce que Madame le connait bien, ce comte dʼOlonzac?

—Mais quʼest ce que cela peut bien te faire, Linette?

—A moi?... Rien du tout, Madame!

—Et alors?

—Alors je vais lui dire que Madame lʼattend.

Se ne tornò via di malumore, con un passo veloce. Gli andò fin sotto il
naso, e recitò:

—Madame fait dire a Monsieur le comte dʼOlonzac Que Madama attend
Monsieur le Comte.

—A la bonne heure, ma mignonne! La prochaine fois, je tʼen prie, sois
plus sommaire!...

Ed entrò.

Era diventato veramente il signore dʼOlonzac. Non cʼera più nè un
particolare della fisionomia nè una piega dellʼabito che ricordasse
lʼex corridore di motociclette; parlava persino con una pronunzia
squisitamente affettata e sembrava disceso fresco fresco, non dal
quarto piano della madre di Linette, ma da una indiscussa pagina
dellʼAlmanacco di Gotha.

Soltanto i suoi cattivi bellissimi occhi rimanevano quelli di Roré;
e questi, più che tutto, andavano a genio della capricciosa My Blu.
Ella si lasciava scherzosamente fare la corte dal signore dʼOlonzac
e sottomettere dagli occhi di Roré. Sapeva benissimo chi era costui:
lʼamante di Pinna, lʼamante di Léa la Roseraie, lʼamante di Fred
Chinchilla... Ma ciò che solamente la interessava erano per lʼappunto
gli occhi di Roré.

Il signore dʼOlonzac le fece una visita breve, compita, elegante; le
diede uno strisciante bacio su la mano quasi azzurra ed uscì dalla sala
con il suo passo da gatto.

Bluette suonò più volte il campanello per farlo riaccompagnare. Ma
lʼimpeccabile maggiordomo era uscito a far compere per la madre
Malespano, e fu Linette che lo ricondusse nellʼanticamera.

—Si tu ne vas pas chez notrʼ mère, je te jouerai un sale tour,—gli
sibilò, cattiva cattiva.

—Nʼessaye pas, mignonne,—rispose con dolcezza il soddisfatto Roré.

Linette vide sparire dietro lʼuscio il molteplice riflesso della sua
bella tuba.

E My Blu pensava:—Lʼimbécile! Il nʼa pas compris que jʼétais dans une
de mes journées à béguin! Ces hommes–là, Dieu sait ce quʼils ont dans
la caboche! Enfin... essayons toujours cette martingale de Filipescu!

E fece correre la pallina,—che diede, in quel frangente, il numero 27.

Il numero 27—come tutti sanno—è «rouge, impair et passe».

[Illustrazione: DECORAZIONE]

Quando Fred Chinchilla seppe che Roré dʼOlonzac erasi recato a visitare
My Blu, si conficcò nei palmi le piccole unghie rosse come il sangue,
digrignò i suoi dentini da martora e disse fra sè, con un gergo
esplicito: «Nous allons enfin voir si cette gueuse de Bluette va me
souffler ce salaud de Roré!»

Fred Chinchilla faceva sapere dʼesser nata in Norvegia, ed era venuta
di moda un anno che si portava molto la pelliccia del suo nome.
Aveva per lʼappunto gli occhi cinerini–azzurri, con riflessi di bigio
e di piombo come il cincilla, e, per essere in carattere, si faceva
pubblicamente mantenere dal proprietario di una grande pellicceria,
chevalier de la Légion dʼHonneur, ammogliato, divorziato, riammogliato,
e con prole. Tutti gli anni, allʼavvicinarsi dellʼinverno. Fred
Chinchilla dava lʼaìre alla pelliccia di moda. Quellʼanno aveva messa
in voga «la fourrure de singe». E nonpertanto rimaneva Fred Chinchilla.

Era ben fatta, con un leggero pericolo di pinguedine, i capelli colore
di stoppa dorata, le ciglia dʼuna lunghezza e foltezza esagerate, su
gli occhi norvegesi, morbidi come pellicceria.

Roré per sei mesi era stato il suo amore. Ma in quel semestre Fred
Chinchilla aveva tanto speso, che il ricchissimo pellicciaio fu
nondimeno costretto a dirle: «—Ce dʼOlonzac, ma chérie, il faudra
bientôt le congédier... Il ne se doute pas, le cher comte, que les
fourrures se vendent très mal cette année!»

E Fred Chinchilla stava per dargli retta, quando Roré, visto che le
pellicce andavan male, pensò di avvicinare Mimi Bluette, la quale
invece amministrava—per mezzo del suo più forte azionista—una casa di
pneumatici venuta in molto favore.

Le donne, salvo casi molto rari, non amano lʼuomo per sè stesso,—e
fin qui hanno forse ragione. Ma lo amano inquantochè un uomo piace o
piacque ad unʼaltra,—e qui senza dubbio hanno torto. Poichè lʼerrore
di una sola produce lʼerrore di tutte. Ogni donna cerca in primo luogo
di soverchiare, nei sensi e nella memoria dʼun amante, il prestigio
di quelle che lʼhanno preceduta. La gelosia, che tanto lusinga lʼuomo,
è veramente una gelosia dʼindole femminile, ossia una questione dʼamor
proprio fra donna e donna.

Roré, quando vinse la famosa corsa di motociclette, trovò probabilmente
una incapricciata che gli fece buon viso; da quel giorno lʼamore lo
portò via su le braccia, e piano piano lo sospinse fino alla soglia di
Mimi Bluette.

Mimi Bluette gli avrebbe tuttʼal più dedicata, come diceva, una delle
sue «journées à béguin»; ma capitò frammezzo la gelosia di Fred
Chinchilla, e, naturalmente, le cose mutaron piega. Fred Chinchilla si
era lasciata prendere per colpa di Léa la Roseraie, questa per colpa di
Finna, e Finna perchè Mary Dhjynn, la pazza Mary Dhjynn, si era tirata
un colpo di rivoltella, nelle balene del busto, il giorno che Roré non
volle più saperne di lei.

Così vanno le buone pecorelle lʼuna dietro lʼaltra in fila, come diceva
sin dal trecento lʼinseppellibile Dante, che trova sempre il mezzo per
tornare dʼattualità.

Il signore dʼOlonzac si permise frattanto dʼinviare ogni giorno alla
bella My Blu grandi mazzi e profumatissimi canestri di fiori loquaci;
poi la condusse a prendere il tè, poi la condusse a teatro, poi la
condusse a cena, ed infine la condusse nellʼirresistibile talamo che
vide gli amori norvegesi di Fred Chinchilla.

My Blu era una donnina di nervi ultrasensibili, che non sapeva troppo
resistere al fuoco della tentazione; perciò prendeva con filosofia
lʼamore di sè stessa e lʼaltrui. Si lasciava conquidere, per lo più,
da un particolare che le andasse a genio; ma dimenticava súbito,
con una leggera ombra di malinconia. Era un poco inerte, un poco
sbadata, un poʼ ironica forse, nellʼattribuire un senso ed un valore
agli avvenimenti che intessevano la sua vita. Non aveva mai cercata
la fortuna, e la fortuna si divertiva di lei come dʼun trastullo
innocente; non aveva mai cercato lʼamore, e lʼamore le ronzava intorno,
continuamente, non serio, non grave, non pericoloso, ma simile quasi ad
un rivolo di continuata voluttà. La sua carne bella sentiva la gioia
naturalmente, come un rosaio sente la primavera. Poi, subito, la sua
memoria se ne scordava... era stato un gran soffio di vento, una rossa
nube di polvere, che finiva, moriva, più in là, portandosi via qualche
spolvero del suo pólline profumato. Era una donna venduta, eppure non
chiedeva mai nulla, non faceva mai un vero calcolo, nemmeno rispetto a
quegli amanti cui non si dava per piacere. La ricchezza, lo sperpero,
il lusso, eran diventate abitudini giornaliere della sua vita, e
qualche uomo sʼera puranche rovinato per lei, senza che Bluette nemmeno
se ne avvedesse. Non poteva più desiderare cosa alcuna la quale non
costasse un prezzo irragionevole; ma vʼera sempre chi pagava per lei,
purchè si degnasse far vedere i conti a qualche suo ricco innamorato.
Possedeva tesori nel suo piccolo palazzo, e molto spesso non ricordava
nemmeno con esattezza i nomi di quelli che avevano gareggiato nel darle
prova di amore e di munificenza.

Un vecchio amministratore, M. Bollot, rimastole più fedele dellʼamante
che glielo aveva messo in carica, veniva ogni fin di mese a pagarle i
redditi e spiegarle quale nuovo impiego di capitale fosse utile fare.
M. Bollot beveva regolarmente due bicchierini di Kümmel, le carezzava
i capelli biondi con il buon sorriso dʼun vecchio papà, riponeva gli
scartafacci nella sua logora cartella di cuoio, e, mezzo curvo per il
mal di reni, le diceva prima dʼandarsene:

—Alors, ma chère enfant, si vous avez besoin de moi, vous savez où
jʼhabite: rue Taibout 47, au deuxième. Il nʼy a pas dʼascenseur.

E se nʼandava, mettendosi allʼocchiello un fiore dei vasi di Bluette.

Se non avesse avuta fortuna, questa bella ragazza, certo sarebbe stato
molto facile per lei capitare nelle mani dʼun furfante, che lʼavrebbe
di nuovo ridotta sul lastrico, senza lasciarle nemmeno comprendere,
povera Bluette, quel che significa unʼamministrazione. Ma invece M.
Bollot era di sana pianta un galantuomo; vigilava su questo patrimonio
come se fosse roba sua propria, ed era capace di bisticciarsi un paio
dʼore, con la sua cocciutaggine da vecchio reumatizzato, per aumentare
dʼun magro scudo il capitale di Bluette.

Ed a Bluette tutti volevano bene; questa era la sua fortuna. Cʼera in
lei qualcosa che pareva dire alla gente: «Io son nata per far piacere a
chi mi guarda». Parlare con lei, o vederla vivere, significava provare
una di quelle sensazioni primaverili che soltanto i bei fiori e le
belle creature dànno. La sua voce, il sorriso che aveva in tutta la
persona, i colori che portava nella sua materia, la semplice grazia
che metteva neʼ suoi movimenti, e non so quale profonda ma dolce
sensualità, profusa, intessuta in ogni spazio della sua vita, e quel
suo carattere di fanciulla, che pareva trasparire dalla sua gioventù
come il color del sole da un limpido bicchiere dʼacqua, tutto insomma
di lei era composto in guisa che ogni creatura, nello starle accanto,
provava una freschissima gioia.

Aveva camminato fra il vizio, ed era il vizio, ma pareva che nulla di
tutto ciò le fosse giunto sino al cuore.

Molti uomini erano passati nella sua giovinezza, e forse non aveva
amato ancor nessuno. Max lʼaveva stordita; gli altri le avevan dato
appena qualche torbida e complicata ora di piacere; soltanto il bravo
Jack, lʼinventore dʼun passo di Rag–Time, era stato per lei qualcosa
più dʼun amante: quasi un piccolo, sbadato, inconscio e ridicolo amore.
Povero Jack Morrison! Ella si ricordava ogni tanto chʼera stato buono
con lei, chʼera stato per lei una specie di burbero e dolce fratello,
che si era talvolta rasciugata in fretta una lacrima col rovescio
della manica, ed infine che nessun altro danzatore sapeva ballare come
Jack!... Adesso ne conservava qualche ritratto sparso per la casa, ed
uno in camera, sopra una mensola, dovʼerano sempre alcuni ramoscelli di
freschi fiori. Qualchevolta, nellʼandarsi a coricare, gli diceva come
per ischerzo:—Good night, mon vieil imbécile de Jack!...

Era stato il solo che le avesse voluto bene per lei sola, e quasi le
pareva che anche di là dal mare, traverso lʼinfinita solitudine, quel
ballerino biondo le mandasse un profumo di poesia.

Dunque il signore dʼOlonzac la condusse nel talamo di Fred Chinchilla,
ed usò maniere tanto affettuose, che Bluette, ripensando alla sua fama
orribile, si convinse che il gagliardo e bel signore doveva essere, per
ragion dʼinvidia, un uomo terribilmente calunniato.

—Vois–tu,—ella dichiarò a Linette, sua confidente,—ce dʼOlonzac il me
plaît, parce que cʼest un homme qui connaît les femmes. Avec lui on est
bien vite à son aise...

Linette le teneva il broncio. Quella sera non volle, come invece usava
di consueto, darle consigli nè chiederle schiarimenti. Ma poichè
Bluette insisteva, enunziò nondimeno il suo parere:

—A moi, Madame, il mʼest antipathique.

—Fichtre! tʼes pas facile, toi! Queʼest–ce que tu lui trouves
dʼantipathique?

—Tout et rien, Madame. Ce nʼest pas mon type... voilà tout! Et puis je
vous dis, Madame, quʼil a une tête dont il faudrait se méfier.

Bluette si mise a ridere. Stavano entrambe davanti alla specchiera.
Bluette seduta, menare Linette la pettinava.

—Il a tes yeux et ton front, Linette. Je découvre, en te regardant dans
la glace, que tu lui ressembles dʼune façon frappante... Aïe! diable!
mais tu mʼarraches les cheveux!...

Linette si fece rossa come una educanda, e, per nascondere il viso
avvampato, lasciò cadere a bella posta un gran mazzo di forcine.

[Illustrazione: DECORAZIONE]

Allora, in un giorno di corse, Fred Chinchilla ebbe la ventura
dʼincontrarsi viso a viso con Mimi Bluette. Si dissero dapprima un
mucchio di cortesie, lodandosi la foggia dellʼabito, il modello del
cappellino, e passeggiarono un poco insieme, poichè, sebben rivali,
sapevano di figurare molto bene accanto. Finalmente si accordarono per
scommettere sul medesimo cavallo. Ma dopo aver discussa con minuzia la
monta, il peso, le condizioni del terreno, quando suonò il buttasella,
Fred Chinchilla disse di punto in bianco:

—Pourtant je ne te fais pas mes compliments, Bluette!

—Quoi donc, Fred?

—Tu sais bien que jʼai fait de gros sacrifices pour cet homme, et toi...

—Quel homme?

—Mais Roré, voyons!

—Ah, Roré, Roré... Bien, vois–tu, moi, il mʼindiffère....

—Ce nʼest pas ce quʼon raconte, ni ce quʼ«il» raconte!

—Plaît–il?

—Je dis que Roré te promène un peu partout, en disant quʼil a dû céder
à tes avances.

Bluette si appoggiò su lʼombrellino, con tanta nervosità che quasi lo
spezzava.

—Tu ne vas pas me faire croire ces balivernes!... Sʼil y a quelquʼun
qui me débine, ma chère, ce quelquʼun cʼest précisément toi!

—Moi, Bluette?

—Oui, je te dis. Mais puisque lʼoccasion se présente, il faut tʼavouer,
Fred, que «moi» je ne lui ai point fait dʼavances, parce que je nʼai
pas lʼhabitude, «moi», de ces gros sacrifices dont tu parles.... Et
puis... zut! Bien le bonjour, Fred.

Girò sui talloni, e, per farle rabbia, se ne andò in cerca di Roré.

In quel momento il signore dʼOlonzac le stava osservando ambedue con il
canocchiale, ma di lontano. E compiaciutosi di quella separazione un
poʼ brusca, si volse a discutere dʼelezioni con la moglie liberalissima
di un deputato clericale.

Allora, come tutte le donne che devono prendere una grave risoluzione,
Fred Chinchilla si recò al lavatoio, per mettersi, davanti allo
specchio, un poʼ di rosso ai labbri e di fina cipria su le guance.
Accomodò anche lʼappinzatura di cinque o sei spilli, e frattanto la
matrona del luogo, una gioviale femmina panciuta, le confidò sottovoce:

—Aujourdʼhui, Madame Fred, jʼai un bon tuyau pour la sixième course...

—Fiche–moi la paix, Judith! Voilà trente louis que tu me fais perdre
avec tes maudits tuyaux!

—Nous allons nous rattraper aujourdʼhui, Madame Fred! Voyez donc: ces
deux écus, je vais les miser moi–même. Faut–il que je sois sûre, hein?

—Ton tuyau, je le connais. Tu vas jouer Bib Lalo, parce quʼil y a
dessus Head.

—Oh, que non, que non, Madame Fred! Bib Lalo, je vous le donne moi–même
à cinq contre un, car cʼest trop long pour lui, sans compter que Head
et Bib Lalo nʼont jamais pu sʼentendre.

—Ça, tu as raison. Ce Head il me fiche une guigne!...

—Et, alors il faut jouer Maid Marian, aussi vrai que je suis dame de
propreté. Et si Maid Marian ne vous rapporte pas dix contre un, vous ne
me donnerez plus un sou de pourboire, Madame Fred.

—Maid Marian? Cette vieille rosse?

—Vous allez la voir aujourdʼhui la vieille rosse! Bob, lʼentraîneur,
a joué lui–même cent louis chez le book Cliffton. Enfin, Madame Fred,
nʼoubliez pas que je vous ai donné Roule–ta–bosse, et maintenant je
vous donne Maid Marian... Faites donc à ma guise et vous nʼaurez quʼà
me dire merci.

—Eh bien, Judith, je vais tʼécouter une fois de plus. Mais, si tu me
fais perdre encore ces dix louis, qui feront quarante, ma foi, je
tʼôterai lʼenvie de me donner des tuyaux!

—Cʼest ça, Madame Fred.

—Et si Bib Lalo gagne, je viens tʼarracher ta perruque!

—Bon, Madame Fred. Vous êtes jolie à ravir aujourdʼhui! Est–il de Worth
ce joli tailleur?

—Pas du tout; il est de Green. Et le chapeau est de Lewis. Quoique les
tailleurs, en général, me grossissent un peu...

—Oh, quelle idée, Madame Fred! Aimeriez–vous par hasard être un
cure–dents stérilisé comme la petite Estelle? Attendez: encore une
épingle, et puis ça sera parfait.

Allora Fred Chinchilla si mise in cerca dʼuna persona che le premeva
incontrare. Questi era il figlio del Fabbricante di Pneumatici,
ossia del ricco e decorato patrono di Mimi Bluette. Non era difficile
riconoscerlo anche di lontano, per la sua lunga statura ed il suo
profilo aquilino. Da un padre tarchiato e da una madre gallinacea era
venuto fuori così, lungo e sparuto, con una costituzione da sanatorio,
su due gambe sproporzionate. Mostrava poco ingegno per lʼindustria del
pneumatico, ma era invece un provetto giocatore di «chemin de fer»,
aveva libero accesso a tutti i palcoscenici, guidava una cento–cavalli,
faceva debiti con una serietà da probiviro e si regalava tutte le
primizie che venivano a sbocciare negli stabilimenti di Montmartre.

—Eh, Victor!—chiamò Fred Chinchilla, tirandolo per la manica,
poichʼegli stava discorrendo con altri.

—Cʼest vous, Fred?

—Cʼest moi.

—Toute en couleur scarabée?

—Il paraît que ça porte veine...

—Ravissante!

—Ecoutez, Victor. Jʼai un tuyau des plus sûrs, mais il ne faut pas me
demander de qui je le tiens. Cʼest un secret.

—Oh, oh!

—Je vous le donne, pour vous remercier des cent louis gagnés dans votre
main, avant–hier soir, au Cercle. Et puis, vous savez que je suis bonne
camarade.

—Je nʼen doute pas, Fred,—rispose con amicizia il lungo principe
ereditario del caucciù.

—Eh bien, voilà. Dans la sixième course pariez sur Maid Marian. Misez
tout ce que vous avez dans votre poche. Vous nʼaurez quʼà me dire
merci.

—Maid Marian? Uhm?... Crois pas!

—Comme vous voudrez, Victor. Bonjour, Victor. Je suis très pressée.

Fece due passi per andarsene, ma tornò indietro e lo riprese per la
manica.

—Encore un mot, Victor... en toute confiance. Vous savez bien que
dʼOlonzac, cette fripouille de dʼOlonzac, ce fameux cochon pour lequel
jʼai eu aussi des faiblesses...

—Et alors?

—Ma foi, dites à votre père quʼil devient absolument ridicule!

—Oh, quant à mon père, vous savez bien que nous sommes brouillés. Mais,
ridicule en quoi, sʼil vous plaît?

—Ah, mon cher, il a beau vendre ses pneus! Si dʼOlonzac sʼy met...

—DʼOlonzac?... Mais de quoi sʼagit–il? Je nʼy comprends goutte!

—Vraiment? Oh, alors, excusez–moi... Cʼest une gaffe! Je vous croyais
au courant...

—Au courant de quoi?

—Mais de la nouvelle dont tout le monde parle... cʼest–à–dire que
Bluette...

—Bluette? Qua–t–elle–fait? Divorce–t–elle dʼavec mon père? Mon cher
père lʼa–t–il enfin plaquée?

—Pas encore, mon pauvre Victor! Mais, tant pis! puisque jʼai commencé,
faut bien que je finisse. Roré sʼest mis avec Bluette. Bluette en est
folle. Ce qui fait en somme que votre père entretient Roré...

Lʼelastico principe ereditario del caucciù fece allora un piccolo
salto, che lo allontanò dʼun paio di metri da Fred Chinchilla. Poi
diede principio ad una stura di pittoresche bestemmie.

—Oui, mon pauvre Victor!... Il vous chicane à vous, qui êtes son fils
légitime, les vingt–cinq louis, tandis que Bluette le ruine et que Roré
les ruinera tous les deux!

Poi aperse lʼombrellino e andò via dicendogli:

—En tout cas nʼoubliez pas Maid Marian, puisque cʼest de lʼargent sûr...

[Illustrazione: DECORAZIONE]

Roré, sdraiato sopra un divano, con la testa su le ginocchia di
Bluette, la pettinatura in disordine per colpa di ciò che avevano poco
dianzi compiuto, le stava spiegando con volubilità chʼegli era nato
per essere un uomo dʼaffari. Secondo lui Mimi era male amministrata.
Quel vecchio Monsieur Bollot, se non era proprio un ladro, per lo meno
era un imbecille. Del resto lui, dʼOlonzac, si era preso il gusto
di appurare un poco le cose; lui, dʼOlonzac, sapeva che il vecchio
Bollot, qualche mese innanzi, aveva maritata una nipote facendole una
dote di quasi centomila franchi. Ora, siccome il vecchio Bollot, del
proprio, non possedeva che una magra pensione governativa ed i suoi
piccoli redditi professionali, era evidente che la bellissima dote
proveniva dal denaro di Bluette. Non solo; ma lui, dʼOlonzac, sapeva
che il patrimonio di Bluette rendeva pressʼa poco un quarto di ciò che
avrebbe dovuto rendere, perchè il bravo Monsieur Bollot si divertiva,
non avendo nessun controllo, a fare prestiti grossi o piccoli aʼ suoi
propri amici, su ipoteche meno che sicure; anzi arrivava persino
ad esercitare lʼusura per conto proprio,—come aveva saputo per via
dʼinformazioni secrete, lui stesso, il benemerito signore dʼOlonzac...

Se Bluette gli avesse data una piccola procura!... due righe,
nientʼaltro che due righe davanti a notaio, lui, dʼOlonzac, avrebbe
facilmente provveduto a raddoppiarle il reddito in sei mesi, e
triplicarlo in séguito; lui, dʼOlonzac, che aveva ereditato solo debiti
e gravezze dal conte suo padre, adesso aveva un patrimonio fiorente...
lui, dʼOlonzac, era nato con il bernóccolo dellʼuomo dʼaffari.

Bluette, un poʼ stordita per quello che avevano fatto poco dianzi, lì
su la vasta e morbida pelliccia dʼorso del Canadà, lo ascoltava con un
sorriso negligente, senza dargli torto nè ragione, poichè la donna, per
istinto, ha sempre una fiducia molto limitata in coloro che maneggiano
il suo denaro. Non era del tutto certa che Monsieur Bollot fosse un
galantuomo; bensì era schiettamente persuasa che il signore dʼOlonzac
fosse un piacevole furfante. Piacevole senza dubbio, sopra tutto
quandʼera coricato su le pellicce dʼorso del Canadà.

Ma la negligenza di Bluette era compensata invece dallʼattenzione di
Linette, la quale, come tutte le cameriere di stile, traguardava ed
origliava dietro gli usci, senza perdere un gesto nè una sillaba di
quelle pomeridiane intimità.

Se non facessero così, queste povere cameriere, in qual modo
apprenderebbero esse a conoscere, quindi a secondare, il carattere
delle bisbettiche loro padrone?

Poi entrò anche la madre Malespano. La quale vide per terra la
pelliccia scompigliata, e la rimise a posto col piede. Quel giorno
portava un bellʼabito, color cilestrino, che la faceva sembrare una
biondina folle, grazie allʼossigeno dellʼInstitut del Beauté. La madre
Malespano aveva una simpatia svenevole per il signore dʼOlonzac; nel
respirare davanti a lui gonfiava in modo inverecondo il suo bellissimo
seno.

Egli non si mosse. Bluette neppure. La bionda Caterina sedette,
accavallando le gambe, vicino al loro canapè.

Allora si vide ancor meglio che Maurice, maggiordomo impeccabile, non
era persona di cattivo gusto. La bionda Caterina dava tutte le ragioni
al signore dʼOlonzac. Secondo lei era la Provvidenza che mandava in
casa loro quel bel giovine per sorvegliare un poco le mene del vecchio
Bollot...

Ma invece Mimi non poteva tollerare che la bionda Caterina venisse a
mettere il becco negli affari suoi. Le urtava un poʼ i nervi, questa
madre scandalosa e pettegola, che ormai non si contentava nemmeno più
del maggiordomo, ed aveva incominciato a commettere, proprio lì nel
quartiere, un certo numero di spudorate infedeltà.

Sicchè, non appena la madre volle darle un consiglio, Bluette la
rimbeccò:

—Tu, mamma, te lʼho già detto: se vuoi che andiamo dʼaccordo, non
tʼimmischiare nei fatti miei.

—«Ah, bon Diô, bon Diô, quel mauditt caractère!»—rispose la bionda
Caterina, con il suo francese adorno di pittoresche licenze lombarde.

Roré, cambiando guancia su le ginocchia di Bluette, stese una mano,
sorridendo, verso la madre Malespano; e frattanto ripeteva:

—Chère amie... très chère amie!...

La bionda Caterina prodigò a quelle magre dita una carezza quasi
viscida, e tanto si gonfiò, che il suo bellissimo petto più non
ridiscendeva.

—Tu, mamma,—riprese Bluette—non so davvero perchè ti ostini a rimanere
qui. Non sei riuscita nè ad imparare il francese nè a passare una
settimana senza far nascere qualche malanno.

—«Lʼécoutez–vous, lʼécoutez–vous monsié le conte di Lonzac?... Et dire
che ze lʼadore comme la prounelle de mes yeux!»

—Chère Madame, vous êtes encore trop jolie pour que Bluette vous
obéisse!...—rispose con una subdola galanteria il signore dʼOlonzac,
strizzando lʼocchio a Bluette, che sorrise.

E la bionda Caterina intanto arrossiva di piacere.

—«Que voulez–vous, monsié le conte? Nʼest pas ma fotte si ze resiste
encore un pé!...»

—Anzi, mamma, dovresti proprio fare quello che ti ho consigliato io:
preparare i tuoi bauli piano piano, mettervi dentro tutto quello che ti
abbisogna, e tornartene tranquillamente a casa tua.

—Casa mia? Sai bene che non lʼho più.

—Voglio dire da tua sorella, per intanto. Poi ti rifaresti una casa
nuova, bella, comoda: in città, in campagna, come preferisci. Io ti
manderei mese per mese tutto il denaro che possa occorrerti; se vuoi ti
manderò anche Maurice, per farti servire a puntino... E questo, vedi, è
lʼunico mezzo con il quale potremo essere felici tuttʼe due.

—Figlia ingrata!—esclamò la bionda Caterina, toccandosi un ricciolo
delle sue trecce finte.

—Perchè ingrata, mamma? Tu verresti a Parigi qualche mese allʼanno,
durante la primavera, per esempio, ed io ti spedirei per pacco postale
tutti quei regali che mi tocca farti quando abiti qui.—Così parlando
ella carezzava la bocca e gli occhi di Roré; fumava, distratta, con il
capo rovesciato su la spalliera del divano.

—Senza contare,—seguitò—che tu, mamma, sei ancora una bella donna, e,
se ti annoi, potresti anche riprendere marito.

—Certamente non sono vecchia e non son neanche da buttar
via...—confessò la madre Malespano, sogguardando il suo bel corpo.—Ma,
vedi, sposare un uomo è una faccenda seria, perchè gli uomini al giorno
dʼoggi, o di riffe o di raffe, quasi tutti cercano di farsi mantenere...

Il delicato signore dʼOlonzac di nuovo cambiò guancia su le ginocchia
di Bluette, e sorrise tranquillamente.

—Però, però,—concluse la bionda Caterina—quello che mi consigli non
è del tutto stupido, e forse, uno di questi giorni, prenderò la mia
risoluzione.

—Brava, mammina! E decíditi presto, perchè sai bene che fra un mese
deve incominciare la mia tournée.

[Illustrazione: DECORAZIONE]

Allora, non appena il signor dʼOlonzac fu andato via, Linette, che
aveva origliato scrupolosamente, prese tutto il suo coraggio a due
mani, entrò nella stanza dovʼera la sua padrona e si mise a piangere
dirottamente, perchè aveva il cuore così gonfio da non poterne più.

Bluette dapprima la guardò stupefatta, poi lʼafferrò per i due polsi,
che Linette si premeva contro la faccia, e commossa non ristava
dal chiederle cosa mai fosse capitato. Le lacrime cadevano sul bel
grembiule di lino. fitte, veloci, e rotolavano giù come perle. Questa
povera Bluette, che aveva un cuore di bambina, vedendola piangere, e
non riuscendo a cavarle una parola, quasi quasi provava il bisogno di
mettersi a piangere insieme con lei. Sʼimmaginò che le fosse accaduta
una disgrazia di famiglia, oppure che avesse un amore infelice,
oppure che si fosse trovata incinta, come capita qualchevolta contro
tutte le previsioni, o che le avesser rubato i suoi risparmi, o che
avesse lasciato prender fuoco a qualche scatola di Valenciennes... Ma
davanti a ciascuna sua domanda, Linette scuoteva il capo in silenzio
e piangeva sempre più. Allora la fece sedere sul divano, come se la
padrona fosse lei, e piano piano le carezzava i capelli.

—Dis–moi tout, Linette... Nʼaie pas peur. Si tu as commis une faute, je
te pardonne, et si tu as quelque chagrin, je tʼaiderai de tout mon cœur.

Linette allora balbettò:

—Cʼest à cause de vous, Madame, que je pleure...

—A cause de moi, Linette?

—Mais si... parce quʼil fallait vous le dire tout de suite... et ne pas
attendre si longtemps...

—Me dire quoi, Linette?

—Mais oui, mais oui... parce que vous êtes si bonne, Madame, et je
vous aime si fort, Madame... tandis que lui il nʼest quʼun vaurien
quelconque, un gredin quelconque... Oui, Madame! Et mon devoir était de
vous le dire avant que vous ne soyez amoureuse de lui...

—Mais de qui parles–tu, Linette?

—Vous le savez bien. Madame... Je parie de ce faux Comte dʼOlonzac,
lequel nʼest autre chose que...

—Que quoi, Linette?

—Eh bien, nʼest autre chose que mon frère!... Oui Madame! oui,
Madame!... mon propre frère, le désespoir de ma vieille maman, un sale
type, Madame!

Bluette fece due passi indietro, e con un gesto nervoso intrecciò
le dita. Linette sʼera levata in piedi, ma oscillava come se avesse
perduto lʼequilibrio. Dopo una pausa, che durò qualche momento,
Bluette, con un senso dʼimprovvisa vergogna, si andò a guardare in uno
specchio, e disse:

—Ben, vrai! Ce nʼest pas mal ce que tu me racontes, Linette!

Poi soggiunse, come a sè stessa:—Après tout, sʼil est ton frère, ça
ne change pas grandʼ chose... Je savais bien quʼil nʼest pas comte...
pourtant je le croyais dʼOlonzac.

—Il nʼest pas dʼOlonzac, Madame.

—Quʼest ce quʼil est donc?

—Il est Messanges, comme moi, Honoré Messanges, et pas un brin de plus.
Il était mécanicien dans le temps; plus tard ils sʼest fait coureur de
motocyclettes. Il vit, paraît–il, sur le dos des femmes...

—Tiens!...—fece Mimi con simulazione.—Tu le sais pour sûr, Linette?

—Mais tout le monde le sait, Madame! Seulement, avec son titre de comte
on le gobe, et il se fait recevoir partout. Cʼest une fine crapule,
Madame! Et, dʼailleurs, je vous avais mise sur vos gardes.

—Tu mʼas dit en effet quʼil nʼétait pas ton type... Mais cela nʼavait
pas trop dʼimportance, puisque, pour le moment, il était le mien.

—Voilà le danger. Madame. Et comme jʼai entendu quʼil veut se mêler de
vos affaires, coûte que coûte, et même au prix de sa vengeance, je vous
lʼait dit, et jʼai cru bien faire. Sans doute Madame ne voudra plus de
moi à présent...

Bluette si stava incipriando, ma buttò per terra il piumino con un
gesto improvviso dʼira.

—Ecoute, Linette! Sors dʼici pour le moment. Parce que tu mʼas rendue
nerveuse, et tu mʼembêtes! Je nʼaime pas quʼon sʼoccupe de mes
affaires; car je ne suis pas une enfant et je sais à quoi mʼen tenir.
Ramasse vite la houppe frotte tes yeux, et va–t–en!

Quando già Linette era su lʼuscio, e stava per andarsene a fronte
china, Bluette soggiunse:

—Et gare à toi si tu souffles mot à ton frère de ce que tu mʼas dit!

—Bien, Madame.

—Ni à ton frère, ni à personne.

—Bien, Madame.

—Et si on voit que tu as pleuré, tu diras que tu as des peines de
cœur...

—Bien, Madame.

Era già nel corridoio, quando Bluette la richiamò:

—Viens ici, Linette! Jʼai tort de te rudoyer; car tu es une brave
fille, et je te remercie. Bien que tu aies tort de me croire si sotte.
Car, dʼOlonzac ou Messanges, ton frère ou non, il en faut dix comme lui
pour mettre en danger le cœur de Mimi Bluette!

—Jʼen suis bien aise, Madame.

—Je parais écervelée parce que cʼest plus commode; je ne le suis pas,
je te lʼaffirme.

Linette le prese un braccio nudo e lo baciò con effusione.

—Si dʼailleurs le jeune comte a été le bienvenu chez moi, cʼest que
jʼen ai assez du vieux fabricant de pneus!... Mais jʼai trouvé mieux
que ça, Linette! Je voulais seulement faire enrager Fred Chinchilla...
Et puis, et puis... ça ne te regarde pas, Linette, mais je tʼassure
quʼil est rudemente bien quand il nʼa sur lui ni son veston ni son
dʼOlonzac!...

[Illustrazione: DECORAZIONE]

«Mieux–que–ça» era uomo politico, aspirante in pectore ad una futura
presidenza della Repubblica. Lʼex–avvocato «Mieux–que–ça» era nato
in un angolo di provincia, come tutti quelli che riescono a farsi
prendere sul serio dalla Capitale. Parigi è terreno di conquista, ove
difficilmente incontra fortuna la gente che si fa troppi scrupoli e
quella che, per star ferma neʼ suoi principii, finisce con mancare
dʼogni malleabilità.

Quanto a principii, lʼex–avvocato «Mieux–que–ça» non ne aveva manco
lʼombra.

Quanto a scrupoli, aveva quelli che possono andare dʼaccordo con la
transigenza dʼun uomo di spirito.

Le cose che fece in trentʼanni di carriera furono le seguenti:

  cambiò partito cinque o sei volte;
  moglie, due volte sole;
  amanti, ne cambiò assai.
  Come segretario, imbrogliò il suo principale,
  come avvocato, imbrogliò i suoi clienti,
  come speculatore, i suoi azionisti,
  come uomo politico, i suoi elettori,
  come uomo di governo, la Repubblica.

Ma la sua grande astuzia fece sì che i varii partiti ai quali
appartenne gli mantennero il voto.

  Le due mogli divorziate lo rimpiansero.
  Le amanti abbandonate non gli serbarono rancore.
  Il suo principale divenne suo segretario.
  I clienti affluirono vieppiù numerosi.
  Gli azionisti gli versaron nuovi capitali.
  Le due Camere lo vollero Ministro.
  La Repubblica gli promise di eleggerlo Presidente.

Era un uomo agile, abile, malleabile, che aveva semplicemente saputo
compiere la sua strada.

       *       *       *       *       *

Ordunque il signore dʼOlonzac ebbe la delusione di vedere che Mimi
Bluette, nonostante i fatti gravissimi recati a sua conoscenza,
manteneva unʼassoluta fiducia nellʼamministrazione del vecchio Monsieur
Bollot.

Questo fatto persuase lʼaccorto signore dʼOlonzac a ricercare di
bel nuovo le grazie della puntigliosa Fred Chinchilla. Nello stesso
tempo il Mercante di Pneumatici, che naturalmente non poteva mettersi
a lottare con un Ministro dʼIndustria e Commercio, ritirò le sue
credenziali. Ma, per consolarsi dellʼabbandono, fece tappezzare i
muri della Capitale con un cartello di pubblicità, nel quale i suoi
pneumatici erano fatti preferire al pubblico dal sorriso dʼuna donna
che somigliava spudoratamente a Mimi Bluette.

E Linette, cameriera dalle calze di voilé, rimase il domestico angelo
guardiano della Ministressa Mimi Bluette.

Ormai dunque le si apriva dinanzi ciò che si usa chiamare «un orizzonte
politico». Dalle sue piccole mani quasi azzurre poteva essere gettato
qualche dado nel bossolo della sorte repubblicana; sui Dipartimenti
e su le Colonie aleggiava il profumo della sua nascosta e leggera
sovranità. Se avesse avuto quel bernoccolo del governo che rese
illustri tante Ninfe Egerie della politica francese, la prodigiosa
Mimi Bluette, inventrice del My Blu, avrebbe forse potuto tramandarsi
alla storia insieme con lʼamante del generale Boulanger, od almeno
in compagnia di quellʼammirevole ispiratrice, od aspiratrice, che fu
Madame Steinheil.

Ma ella di governo ben poco sʼintendeva, ed il Ministro non riuscì a
svegliare in lei nessun amore per la politica, nè per gli uomini che
si contendono il potere. Ella sopportava questa Eccellenza, come aveva
sopportato il Mercante di Pneumatici, come aveva sopportato il Grande
Industriale, nonchè tutti gli altri che si erano presi cura di lei,
studiandosi di fare quel che poteva per il bene del paese; poichè gli
affari dʼun Ministero dipendono spesso dal modo come Sua Eccellenza il
Ministro ha passata la notte.

Ora, lʼIndustria ed il Commercio della Repubblica non poterono che
lodarsi di lei.

Nella sua qualità di Ministressa ella fu delegata in quei tempi a
rappresentare la Repubblica nelle coltri borboniche di un giovine Re
Cattolicissimo, che Parigi festeggiava.

Più tardi un Granduca nevrastenico disannoiò nelle sue morbide braccia
le imperiali malinconie dellʼanima slava.

E rimase in carica fin quando il Gabinetto fu rovesciato. Poi uscì
dalla politica per entrare nellʼamore.

[Illustrazione: DECORAZIONE]

Fu dʼinverno, in una bianca sera dʼinverno, che allʼimprovviso, e col
suo cuore di vergine, la divina Bluette sʼinnamorò.

Talvolta ella tornava nel Bar della Grande Rouquine, per ritrovare i
suoi compagni, le sue compagne dʼun tempo, e spesso vi pranzava con
grande allegria, nelle sere di libertà, quando non doveva danzare o
quando S. E. il Ministro le usava la cortesia di lasciarla in pace.
Laggiù, nel piccolo Bar, lʼaccoglievano come una reginetta, e non
appena Bluette vi entrava, tutti quanti erano sossopra. La Grande
Rouquine, col suo cespuglio di capelli rossi, con i suoi occhiacci da
gatta selvatica, la voce sonora e fioca, bruciacchiata dallʼarsura
delle sigarette russe, la Grande Rouquine, donna che aveva un
passato, era sempre là, dietro il suo banco, a tenere in briglia
quella famigerata clientela. Vedendola entrare, scattava su come un
pagliaccio a molla da una scatola chiusa, le correva incontro, le dava
due terribili baci, serrandola fra le sue braccia di befana.

Limka, violino di spalla, tzeco delle Batignolles, attaccava il My Blu.

E siccome, in fondo, Bluette non era nata per frequentare Ministri nè
per gustar le freddure di qualche socio della Rue Royale, Mimi Bluette,
che vʼera passata frammezzo, ancora si trovava molto bene fra quelle
canaglie simpatiche, fra queʼ sinceri e briosi farabutti, che forse
valevano poco meno di certi gesuiti rispettabili, affiliati a leghe di
pubblica moralità.

Per lei quel Bar della Grande Rouquine rappresentava uno svago ed
in certo senso un riposo dalla sua vita di necessaria commediante,
quasi quasi un angolo di antica indimenticata famiglia, ove nondimeno
avrebbe trovato un rifugio nellʼora del pericolo, quando per avventura
il mutevole giuoco della sorte avesse provveduto a punirla della sua
troppo facile prosperità. Quella Grande Rouquine, lunga di cosce,
priva di seni, con la fisionomia di cera, le voleva bene a modo suo,
chissà mai perchè, ma le voleva bene. Se un giorno per avventura le
fosse mancato un luigi, Limka, tzeco delle Batignolles, certamente
glielʼavrebbe dato a prestito. Florina–Bey, sebbene si vestisse da una
sartina di Billancourt, aveva certo più spirito che Fred Chinchilla,
e Boblikoff, il terribile Boblikoff, ex–domatore dʼorsi, lʼamava pur
sempre dʼuna sua rassegnata umile passione.

Lì, nel Bar equivoco ed elegante, ove bazzicavan tanti ladri e tanti
sperduti, ove la miseria e la nobiltà bevevano le stesse droghe neʼ
medesimi bicchieri, dove la prostituzione vecchia e quella non ancora
deflorata cenavano su lo stesso tavolino alla musica di My Blu, dove,
nelle tarde ore della notte, quando i clienti serii, cioè quelli che
pagano, se nʼerano andati, Garcia Pois–Lourd, boxeur deluso, si giocava
unʼorzata al picchetto con lʼefebo Jean Kiki, mentre la Grande Rouquine
faceva i conti di cassa,—lì, forse, il mondo era peggiore dʼapparenza
che in verità, mentre molto spesso altrove il mondo è peggiore in
verità che dʼapparenza.

Or quella sera per lʼappunto il Ministro erasi recato a rappresentare
il Governo della Repubblica in non so quale Dipartimento; le aveva
mandato un ultimo bacio per telefono, ed ossequiato, affabile,
ammiratissimo, era partito alle 9 precise dalla Gare de Lyon.

La sola che non ammirasse questʼuomo era proprio Mimi Bluette. Gli è
che Bluette, lo conosceva intimamente.

Il Ministro è lʼuomo forse meno amato che si conosca su la terra.
Non è più giovane, ha sempre un tono declamatorio, certe maniere
burocratiche, non è libero, non è spensierato, non può essere geloso,
è troppo autorevole per essere considerato un passatempo e troppo in
vista per essere temuto. Paga di solito con denari dello Stato e scrive
lettere dʼamore che sembrano protocolli di cancelleria.

Quello poi dʼIndustria e Commercio è un Ministro che non esercita
prestigio alcuno su la donna, perchè il suo dicastero manca di
attributi speciosi e di cerimonie teatrali. Di più disadorno che il
Ministro dʼIndustria e Commercio vʼè soltanto il Ministro delle Poste e
Telegrafi; quello poi di Belle Arti e Culti non si capisce bene cosa
faccia.

Ma in generale non si capisce bene cosa facciano tutti i Ministri.

Ad ogni modo, per le ragioni sopra citate, Mimi Bluette era molto più
allegra quando Sua Eccellenza viaggiava per i Dipartimenti; e quella
sera, nonostante la neve, pensò di andarsene al Bar della Grande
Rouquine.

Non volle nemmeno servirsi della propria automobile; fece chiamare
invece un tassametro sgangherato, per concedersi meglio lʼillusione
dʼessere ancora una piccola Parigina in libertà.

Quando la sorte ci ha sollevati al culmine delle più alte fortune, la
perfetta gioia consiste nel ritornare verso lʼorigine. E poichè siamo
assurdi, se la vita per avventura ci riconduce allʼumiltà passata,
quel bene che fu perduto assume ai nostri occhi un lontano colore di
felicità.

Bluette, nel veicolo traballante, rivedeva con esattezza il remoto
pomeriggio, allorchè, povera e trasognata, giunse nella stupenda
Capitale. Si ricordò quella ridda che le apparve sui Grandi Boulevards,
la prima sera: «Crémieux.... Luna Park... habille bien... Le Matin...
Michelin... Galeries... Polin... sait tout...»

E Max? dovʼera Max?

Forse in galera, forse in giro per il mondo, forse diventato un
galantuomo... chissà?

Frattanto la neve senza vento cadeva giù fiocco a fiocco, prendendo
il colore dei lampioni, la forma delle case, buona, bianca, lieve.
Una specie di silenzio candido si avvolgeva intorno al rumore della
Capitale. Povere vecchie pedine trottavano sui marciapiedi, sgominate.

Il suo piccolo cuore si strinse. Aveva quasi pietà, in quella sera di
neve, dʼogni creatura che non fosse tepida, bella, felice come lei.

Mimi Bluette!... si chiamava Mimi Bluette!... e pronunziare a se stessa
il proprio nome le dava quasi una sottile intima gioia.

Traverso i vetri appannati vedeva le case brillare, le strade
avventarsi come corridoi di luce nei dedali dei quartieri bui; vedeva
le piazze deserte, i cumuli di sedie accatastate con le gambe allʼaria
su le terrazze dei caffè, i lunghi funerali immobili delle vetture di
piazza, i cinematografi, che lanciavan su la neve iridi violette, gli
edifici pubblici, solenni e tetri come prigioni, gli spazzaturai simili
a file di deportati, che ammucchiavano la neve, i grandi vestiboli
dei teatri, pieni di fiamma,—e tutto questo era un poʼ suo, era un
lembo dellʼanima sua; chiunque avesse fatto male ad una delle cose che
vedeva, in quella bianca sera dʼinverno, avrebbe fatto male anche a lei.

Nel Bar della Grande Rouquine fu ricevuta come al solito con tripudio e
con rumore.

Pʼtit–Béguin, il quale pranzava in tête–à–tête con un forestiero
dallʼaria di Pascià, si alzò appositamente per venirle a baciare la
mano. Questo, anche nel caso di Pʼtit–Béguin, era certo una galanteria.

Jennie–Minnie–et Lélie, che sebbene alquanto invecchiate costituivano
sempre un inseparabile trio, le fecero grandi accoglienze, anche nella
previsione che Mimi volesse pagar loro la cena. Il bookmaker Cliffton
interruppe la lettura del _Paris–Sport_ per mandarle un asciutto
complimento inglese, che voleva probabilmente essere un invito. Ma ella
si mise allʼultimo tavolino, presso il banco, perchè in tal modo poteva
meglio discorrere con la Grande Rouquine.

Frattanto Limka suonava il My Blu.

Adesso, di My Blu, ve nʼeran centinaia; ogni grattacorde, o
picchiatasti, cercava di mettere in voga il proprio. Ma Limka, tzeco
delle Batignolles, suonava il My Blu classico, il primo, quello chʼera
stato creato per la divina Bluette.

Quella sera la Grande Rouquine era vestita di verde, dʼun verde
verdissimo, ed aveva intorno al collo un boa nero, dʼun nero nerissimo,
che le faceva star bene il volto, freddo come lʼelettricità.

Vʼera molta gente quella sera, e la Grande Rouquine governava tutto il
servizio con la fiamma deʼ suoi occhiacci verdi. Ai tempi di Bluette
il Bar non aveva che quellʼunica sala, e qualche ammezzato ove si
giocava dʼazzardo; ma ora le sale a pianterreno si erano moltiplicate,
sebbene conservassero una disposizione ambigua da labirinto e ci
fosse ancora, presso lʼentrata, quel famoso paravento contro il quale
ruzzolò Max quando ricevette il formidabile pugno di Boblikoff. E
cʼera il medesimo Boblikoff, che ormai doveva essere divenuto qualcosa
nellʼamministrazione del locale, pur conservandosi una rispettabile
aria da cliente.

Buona cucina, belle donne, bei ragazzi, atmosfera di malavita elegante,
spaccio clandestino di afrodisiaci e di stupefacenti, ecco forse alcuni
fra i mezzi chʼerano serviti alla Grande Rouquine per mettere di moda
il suo ritrovo.

In primo luogo Mimi ebbe voglia di mangiare certe «moules–marinière»,
che vide passare fumanti nella zuppiera di terracotta.

—Attention! elles sont très lourdes le soir...—lʼavvertì amabilmente
Sanderini, personaggio in redingote, grande consumatore di paglie
Négri–Pipoz, che doveva probabilmente esercitare qualche altro
mestiere, oltre quello di passare sei o sette ore, su le ventiquattro,
nel Bar della Grande Rouquine.

Questo Sanderini era magro come il tifo e luccicante come lo smeriglio,
per colpa della sua marsina. La faccia gli rientrava nella bocca,
lasciando fuori solamente un naso ridicolo ed un mento che pareva il
naso capovolto. Sanderini faceva tutto quello che chicchessia volesse
far fare a Sanderini: dal condurre i curiosi a veder i quadri viventi,
sino a provvedere mazzi di carte preparate o combinare unʼudienza
con lʼArcivescovo di Parigi. Se lʼinvitavano a cena, mangiava molto
volentieri; se lʼinvitavano a bere, beveva più che volentieri; per
conto suo lʼamabile Sanderini faceva un gran consumo di paglie
Négri–Pipoz.

Ora, nonostante il suo consiglio, Bluette, ingorda, mangiò «les
moules–marinière». Sanderini, seduto sopra uno sgabello, presso il
banco, si limitò a provarne cinque o sei. Le trovò salate, perchè aveva
lo spirito critico, ed anche perchè, avendo fatto il giro del mondo, in
nessuna cosa egli mancava di esperienza.

Intanto Boblikoff venne a farle un poʼ di corte; per lei fece portar
su dalla cantina un Barsac memorabile, che andava molto bene con «les
moules–marinière».

Mimi era distratta.

Il Jokey Perry, che insanguinava il piatto con la sua costata
fiammeggiante, le dava noia, parlandole con la bocca piena dalla tavola
del bookmaker Cliffton.

—Tu vas voir,—disse la Grande Rouquine, con la sua voce riarsa,—ils
vont foutrʼ de la Worcester Sauce même dans lʼomelette–confitures!

Mimi sorrise. Ma Sanderini fece una tal risata che minacciò di
precipitare dallo sgabello. Questa risata condusse alla tavola di
Bluette anche Florina Bey, che incominciò a raccontare una lunghissima
storia, la quale a Mimi non importava niente,—perchè Mimi era distratta.

Entrò Lucien–Lucienne, che per affettazione vestiva in abito da
mattina, con quella eccentricità particolare dei prostituti. Era ben
dipinto, e si mise un poʼ di cipria sotto il mento, un poʼ di saliva
sui forti sopraccigli; e questo fece senza nascondersi, anzi davanti
allo specchio chʼera nel fondo. Poi si avanzò, camminando su le uova,
in guisa da parere più dolce che poteva.

—Povero Lucien–Lucienne!—pensò Bluette;—è ormai sullo sfiorire.
Gli viene un poco di pancia; poi si vede súbito che porta un mezzo
parrucchino per nascondere la calvizie...

Le colonel Pistafer, clubman di cartapecora, che tutti chiamavano «mon
Colonel», pranzava con due minorenni, le quali per ora possedevan
solo un braccialetto dʼargento per ciascuna e portavano le trecce
ancora sciolte su le spalle. Pistafer non avrebbe certo impedito a
quelle brave ragazze di restar vergini finchè a loro piacesse; inoltre
Pistafer soffriva di vescica, e cinque sei volte almeno durante il
pranzo era costretto ad abbandonare la mensa, «per andarsi a lavare le
mani», comʼegli diceva con molta serietà. Ma súbito Limka, tzeco delle
Batignolles, attaccava «le refrain du Colonel», mentre i suoi musicisti
cantavano in coro:

    «Mon Colono, mon Coloni,
  mon Colonel va faire pipi!»

Ryff esponeva i suoi schizzi contro il paravento; Gorgonel improvvisava
quartine per un bicchiere di Sciampagna; lʼindiana Sit, vestita di
serpenti fosforici, danzava la danza dellʼoppio; il giornalista Linnée
Ledoux, fra una bottiglia di Whisky ed un mucchio di patate fritte,
meditava certo il suo ricatto settimanale; Minnie, la più bellina
del famoso trio, sperava di sedurre un piccolo tedesco impariginito;
Mohammed preparava il caffè turco per una compagnia di belle Americane.

La grande Lison, tribade impenitente, nutriva con cibi sostanziosi
la sua piccola ed anemica Loulou. Pranzavano insieme, ad un tavolino
appartato, mostrando chiaramente che il vecchio Adamo era stato un
personaggio inutile nella storia del genere umano.

—Cette pauvre Loulou,—disse la Grande Rouquine,—comme elle a lʼair
vanné! Un jour ou lʼautre Lison va lui faire rendre lʼâme...

—Cʼest une affaire de goûts, rispose Bluette.—A moi, par exemple, leur
vice ne me dit rien.

—Cʼest que vous êtes une vraie femme, vous!—esclamò Sanderini, che
frattanto spilluzzicava senzʼaverne lʼaria tutto il pranzo della
indulgente Mimi.

—Vous croyez, Sanderini, vous croyez?...

—Pardi si je le crois! Et je vous en félicite, chère Madame!

—Tais–toi, vieille chandelle!—fece la Grande Rouquine.

—Jʼai mes principes, la Grande! Et je nʼaime guère celles qui nʼont pas
de goût pour notre sexe.

—Est–ce que tu as seulement un sexe, toi?—rimbeccò la Grande Rouquine,
con dispregio.

—Eh bien, la Grande, je suis toujours là, si jamais le cœur vous en dit!

Mimi sorrideva con gli angoli della bocca; ma quella sera Mimi sembrava
quasi trasognata, e sebbene sorseggiasse continuamente il suo bicchiere
di Sciampagna, non vi trovava nel fondo che una specie di nervosa e
distratta irrequietudine.

Cʼera qualcosa che visibilmente le dava noia, le dava turbamento, le
dava una specie di malessere o dʼinspiegabile perplessità.

Finalmente si protese verso il banco della Grande Rouquine per
domandarle:

—Mais qui est–il donc cet homme, assis en face de moi, près de
Cliffton, et qui a une figure si étrange?

Dal suo posto la Grande Rouquine non poteva ben vederlo, perchè aveva
davanti a sè una colonna di scatole dʼAvana; ma levatasi ritta,
e veduto lʼuomo del quale parlava Bluette, le rispose, anchʼella
sottovoce:

—Eh bien, cʼest quelquʼun, ma foi, qui mʼintrigue fort moi–même. Il a
réellement une tête extraordinaire!

—Est–ce que tu le connais?

—Pas du tout. Je le vois par intervalles. Il vient, il dine, il lit les
journaux étrangers, ou bien il observe tout ce qui se passe, avec ses
yeux de magnétiseur et son air dʼégarement qui le rend si agréable. Le
maître–dʼhôtel mʼa dit quʼil sʼappelle Castillo.

—Un Espagnol?

—Que sais–je? Il parle le français comme moi. Il parle dʼailleurs
toutes les langues, car, un soir, je lʼai entendu causer avec un Russe,
et lorsque Mohammed lui sert son café ils se disent des amabilités en
turc.

—Il est bel homme, tu sais!

—Ma foi... si tu trouves que les hommes gagnent quelque chose à être
beaux!...

Bluette prese unʼaria di capriccio, unʼaria quasi timida, quasi
furtiva, unʼaria di bambina, e sottovoce disse alla Grande Rouquine:

—Jʼaimerais bien le connaître!

Si vede che lʼillustre Sanderini possedeva un udito finissimo, perchè
rispose con la bocca piena:

—Il nʼy a rien qui soit impossible, lorsquʼon peut compter au nombre de
ses amis le nommé Sanderini, suceur de pailles.

—Mouche–toi, vieille bronchite!—lo insolentì la Grande Rouquine.

Ma Bluette si mostrò confusa, come se le tornasse negli occhi tutto
il pudore di una dimenticata e quasi lontana castità. Bevve un lungo
sorso, poi rispose allʼamabile Sanderini:

—Quel vilain homme vous êtes! Rien ne vous empêcherait de me rendre
même ridicule! Et puis, jʼai dit cela pour rire, Sanderini... Je vous
en prie, nʼen faites rien.

—Cʼest entendu, cʼest entendu! Mais quoi? Vous laisserez donc rentrer
à la cuisine, presque intacte, une pareille gélinotte, si dodue et si
blanche? Ce serait une grave indélicatesse!

—Permettez–moi de vous en servir une aile, cher Sanderini.

—Jʼen goûterai, par gourmandise et par complaisance, car mon estomac
est tout détraqué. Demain matin, dʼailleurs, je me purge.

—Très bien, cher ami, En attendant versez–moi du Champagne. Car,
voyez–vous, jʼai envie de devenir très gaie... très gaie!... Mais, où
est allée Florina?

—Florina doit jouer son numéro tout à lʼheure. Elle est allée se
déguiser en femme nue. Un costume qui lui sied très bien, parce quʼelle
est bien faite.

Ma quei discorsi di Sanderini la interessavan molto poco; e
lʼonestʼuomo comprese chʼera meglio rispettare la sua distrazione.

Mimi allora fece una cosa molto leggiadra.

Quello straniero la guardava ed ella guardava quello straniero. In
un momento che nessuno la vide, alzò il bicchiere di Sciampagna, il
bicchiere che brillava come un fiore di cristallo fra le sue minuscole
dita,—e questa fu la cosa molto leggiadra chʼella fece per quello
straniero: gli mandò, prima un sorriso, poi si portò il bicchiere
vicino alla bocca, rovesciò indietro la fronte, chiuse gli occhi, bevve
per lui...

In quel mentre Florina–Bey stava per cominciare il suo numero.

Egli rispose facendo a sua volta la stessa cosa, ma lentamente,
naturalmente, senza il più piccolo stupore. Il sorriso nasceva nella
sua faccia senza muovere i lineamenti; nasceva neʼ suoi fermi occhi,
splendenti come lʼacciaio delle rivoltelle ossidate.

Non era più giovine; doveva esser quasi vicino ai quarantʼanni,
sebbene la sua pelle abbronzata conservasse un liscio colore di
gioventù. Robusto, arido, agile, mostrava un singolare aspetto fra
il gentleman ed il cowboy. Qualche riflesso bianco gli correva tra i
capelli nerissimi; i baffi aspri, tagliati a filo su lʼorlo del labbro,
mettevan un segno di ruvidezza nella sua faccia quasi delicata.

La divina Bluette provò subitamente la gioia di possedere, nellʼanima e
nei sensi, un piccolo secreto. Provò quella gioia sottile, irritante,
esilarante, quella gioia fresca e pungente come la spuma dello
Sciampagna, che ubbriaca lʼessere al pari dʼun afrodisiaco, allorchè si
riceve il primo sorriso dʼuna creatura che piace.

Lʼamore non è mai altro che una prolungata memoria di questo momento.

Allora ella godè perfettamente il piacere di sentirsi bella, di mandar
luce da ogni fibra del suo corpo giovine, di contenere in ogni vena,
come un dormente brivido, la sua profumata e calda femminilità.

Aveva quasi ventisette anni, la divina Bluette, e non si era mai, se
non per ischerzo, innamorata. Nel suo profondo essere qualcosa parlò,
che fino allora non aveva mai detto parola; e dʼun tratto si accorse
chʼella pure avrebbe saputo darsi ad un uomo, ad un amante immaginario,
come fino allora la divina Bluette non si era data mai. Lo guardava,
soggiogata, un poʼ confusa, come se in lei fosse ancora un non so che
della fanciulla, e provava nel medesimo tempo una sorda irritazione
contro sè stessa, una sorda gelosia di quellʼuomo chʼera semplicemente
uno sconosciuto,—una bella fugace ombra che passava davanti al suo
bicchiere di Sciampagna.

Tuttavia, sʼegli fosse venuto a prenderla, per condurla fuori,
ella, senza rispondere, sarebbe andata con lui. Sarebbe andata con
lui traverso la neve, per le vie scure della Parigi addormentata,
senza parlargli, ma serrando il suo braccio, affondando le scarpine
scollate nella soffice neve, nascondendo il mento freddo nel bavero
della pelliccia cosparsa di brina. E sarebbe andata con lui, dovunque
la conducesse, tacendo, senza guardarlo, come una timida bambina
ubbidiente, solo perchè non poteva resistere al piacere di stargli
vicino, solo perchè nessun uomo aveva mai saputo farla pensare
allʼamore come la faceva pensare allʼamore la faccia indefinibile di
quello sconosciuto...

E Sanderini diceva:

—Ma foi, la Grande, si Florina avait autant dʼesprit quʼelle a de
belles fesses, Florina–Bey serait au moins Florina–Pacha! Mais la
pauvre nʼa jamais su ni faire des dettes ni se les faire payer: ce qui,
pour une femme, équivant à manquer sa carrière.

—Tu me rases, vieux coquillage!—dichiarò senzʼaltro la Grande Rouquine,
con la sua voce bruciacchiata.

E Mimi frattanto sorseggiava il suo bicchiere di Sciampagna, piano
piano, con delizia, fissando gli occhi nel calice per osservare il
liquido biondo che spariva.

Immaginazioni distanti rinascevano con felicità nel suo confuso
pensiero; lembi di desiderio, staccatisi da lei come petali da una
rosa, tornavano con profumo a ravvolgere le sue vene; pagine dʼamore,
scorse con voluttuoso ma incredulo piacere, passavano con sembianze di
verità nella sua memoria sovraeccitata, e come sotto il potere dʼun
afrodisiaco sottile, sʼimmaginava nel suo letto caldo, fra le braccia
di quellʼamante sconosciuto. Lo guardava con insidia, e quasi temeva,
nel guardarlo, chʼegli potesse indovinare il suo recondito pensiero.

Ma dʼun tratto egli medesimo sʼalzò; venne a scegliere un sigaro vicino
al banco della Grande Rouquine. Sanderini, amabilmente, gli cedette il
suo proprio sgabello e non mancò di attaccare discorso dandogli un buon
suggerimento:

—Le savant fumeur que je suis, cher Monsieur, me pousse à vous
recommander ces grands Corona y Corona,—Claro—dont la feuille est
satinée comme la peau voluptueuse des Créoles... Jamais vous ne
trouverez de meilleur cigare dans tout Paris. Lorsque jʼétais à la
Havane...

E narrò così belle storie sul paese del sigaro Avana, che lo straniero,
per compensarlo, finì con offrirgliene uno.

Tutto questo accadeva presso la tavola di Bluette, mentre Bluette,
confusa, guardava nel mezzo della sala. Dopo il numero di Florina–Bey,
un piccolo negro in marsina rossa ballava suonava e faceva un poʼ di
humour con le doppie suole delle sue scarpe indiavolate. Il piccolo
negro scivolava e tamburinava coi piedi su lʼassito cosparso di sabbia,
facendo acrobazie mirabili, senza mai perdere il tempo. Le belle
Americane, diventando irrequiete al suono di quelle musiche nazionali,
battevan le mani con entusiasmo e gli lanciavano marenghi dʼoro.

In quel momento Sanderini diceva:

—En effet, Monsieur, je suis dʼorigine italienne; mais suis né a
Chartres et jʼai fait mes études à Genève...

—Toi, mon vieux,—interruppe la Grande Rouquine,—tu dois avoir fait tes
études à la Nouvelle, car il suffit de te regarder pour comprendre que
tu viens du bagne.

—Elle a le caractère un peu vif, la Grande...—osservò con dolcezza
lʼottimo Sanderini.—En tout cas je suis bel et bien dʼorigine
italienne, ainsi que mon nom lʼindique, et licencié en droit, si Madame
le veut bien.

—Ce qui est certain cʼest que tu as passé à travers le Code Pénal comme
le fil à travers lʼaiguille. Et, quant à lʼorigine, les fripouilles
comme toi nʼen ont aucune. Tu es né Sanderini et tu vas crever
Sanderini, un de ces jours, je lʼespère.

—Elle me taquine, cher Monsieur, elle me taquine! Et savez–vous
pourquoi? Parce quʼelle a un béguin pour moi, sans doute!

La Grande Rouquine si mise a ridere.

—Tu en as du toupet, vieille camelote!

—En tout cas, Monsieur,—fece Sanderini,—si vous désirez connaître
une vraie Italienne de naissance, quoiquʼelle soit aujourdʼhui la
plus délicieuse de nos Parisiennes, je vais vous présenter à Madame
Mimi Bluette, qui aime les gens dʼesprit. Ecoutez un instant, Madame
Bluette. Je vous présente ce Monsieur, dont le nom est Castillo, et
qui, depuis cinq minutes, mʼhonore de son amitié.

Mimi si volse rapidamente, non seppe che rispondere, divenne
leggermente rossa e fece un piccolo saluto.

Allora lʼottimo Sanderini, dopo esser rimasto accanto a loro quel
tanto che gli parve necessario per aiutarli a vincere lʼintoppo delle
prime conversazioni, pensò che ormai, come premio della sua fatica,
poteva certo fare assegnamento sovra un paio di marenghi da estorcere
in modo garbato alla generosa Bluette; e, per intanto la sua naturale
compiacenza gli suggerì di lasciarli scrupolosamente soli.

Questo pensiero ebbe anche la Grande Rouquine, che, senza dir nulla e
con lʼaria più naturale del mondo, traslocò il suo ufficio di cassiera
proprio allʼopposto angolo del banco. Frattanto lʼottimo Sanderini
andava dappertutto scrutando con occhi di lince, per decidere qual
fosse il miglior tavolino sul quale stendere di bel nuovo le sue
caute reti. E poichè gli parve che le clienti più munifiche della
serata fossero per lʼappunto quelle rumorose Americane, fece una buona
provvista di paglie Négri–Pipoz, e con il sigaro del bel Castillo fra i
denti se ne andò ad occupare un posticino libero, presso la tavola dove
sʼallineavano in file numerose le vuote bottiglie di Pommery, drapeau
Américain.

Senza dubbio lʼottimo Sanderini aveva una singolare predilezione per le
tavolate allegre, dalle quali volano con facilità i bei marenghi dʼoro.

Ed allora quei due rimasero lì, vicini e muti, con la bocca su lʼorlo
del bicchiere di Sciampagna.

Qualche volta la solitudine improvvisa diventa una vera fatica, una
vera difficoltà. Bluette, per far qualcosa, rigirava intorno al polso,
guardandoli con attenzione, i suoi braccialetti pesanti. Castillo, da
buon fumatore, osservava con insistenza la cenere del suo Corona y
Corona—Claro—eccellente sigaro in verità.

E frattanto non le diceva nulla.

Bluette, la divina Bluette così piena di spirito, per fare come lui,
non trovava neanche una parola.

Forse temevano entrambi di potersi dire, per prima cosa, una
sciocchezza.

Ma Bluette lo guardava.

Egli no.

Egli era fierissimo, con la fronte china; i fili bianchi deʼ suoi
capelli brillavano fra le ondate nere. Aveva nel dito anulare un solo
anello, chʼera uno smeraldo intenso come un brillante verde; al bottone
della camicia una piccola perla nera; tra il pollice e lʼindice della
mano destra una profonda cicatrice, che gli saliva sino alla giuntura
del polso.

Bluette lo guardava minutamente, come una donna guarda lʼuomo che vuol
conoscere. Qualcosa dʼambiguo, dʼinspiegabile, si muoveva intorno a
quella fisionomia, quasi fosse lʼatmosfera visibile del suo spirito, il
colore della sua nascosta volontà.

Finalmente egli disse questa cosa importante:

—Je sais quʼon vous appelle My Blu.

—En effet on mʼappelle My Blu... Oui, Monsieur, on mʼappelle My Blu. On
mʼappelle aussi Bluette, et Mimi Bluette si lʼon veut être pédant. Oui,
Monsieur! Ce qui est drôle cʼest quʼon écrit My Blu et on prononce My
Blou... Il y a partout des gens qui ne savent pas la grammaire!

—Cʼest très gentil My Blu...

—Vous trouvez? Moi je nʼy trouve rien dʼextraordinarie. Et vous,
comment vous appelle–t–on, si ce nʼest pas indiscret?

—Est ce que vous me demandez mon «vrai» nom?

—Mais... pas du tout!

—Eh bien, on mʼappelle Hilaire Castillo.

—Hilaire? Hilaire?... Mais il y a quelque chose de trop dans ce nom de
vieux moine! Tenez: moi, par exemple, jʼaimerais mieux vous appeler
tout simplement Laire...

—Jʼaccepte.

—Merci. Et alors versez moi du Champagne monsieur Laire!

—Voilà: votre coupe dʼabord, la mienne ensuite, et je vais boire à
votre santé, My Blu! Parce que vous êtes depuis longtemps la seule
femme qui me plaise...

Bluette guardò nella spuma del bicchiere; gli occhi le brillarono;
vʼimmerse la bocca, e ridendo si abbandonò allʼindietro, contro la
spalliera, con una specie di sottile vertigine.

—Vous me dites une chose qui me fait extrêmement plaisir... Je ne sais
pas qui vous êtes... mais enfin cʼest très gentil quand même!

Cosʼaccadeva in lei? Non lo seppe, non lo pensò, non lo volle pensare;
ma qualcosa certo accadeva di somigliante allʼebbrezza che dà la musica
di una danza nuova, in quelle sere piene di follìa quando la felicità
chiusa nellʼanima sembra che abbia un sapore su lʼorlo dei calici, un
trillo su gli archetti dei violini...

Ecco: poichè non sʼera innamorata mai, era bella di tutta la sua
bellezza e sapeva innamorarsi in una sera.

Così egli la teneva ravvolta nel suo sguardo immobile, così la sua voce
turbata le dava unʼimpressione di stordimento.

Erano due desiderii, nullʼaltro, davanti allʼilarità, nullʼaltro,
che manda un bicchiere di Sciampagna; la poesia che cʼè nella vita,
che cʼè nellʼamore: musica dei sensi nellʼanima, dellʼanima nei
sensi—nullʼaltro.

Ella era passata, quasi come una vergine, fra il piacere di sè stessa
e la fatica del piacere altrui; egli veniva chissà mai da qual vita,
solo, con gli occhi giovini che splendevano dʼun passato buio.

Lʼaveva guardata per la prima volta, così, dal tavolino della sua
cena, frammezzo alle chiacchiere di Sanderini ed al cicaleccio di
Florina–Bey; lʼaveva guardata in silenzio, con i suoi occhi fermi,
come si guarda con un piacere quasi lascivo la rosa rorida, gonfia di
pólline, che manda profumo....

E dʼimprovviso a lei era sembrato che un lungo bacio dʼamante
percorresse la sua viva nudità.

In silenzio si era nascosta dietro il velo delle sue lunghe ciglia,
quasi per racchiudere in sè stessa, per celare in sè stessa,
quellʼinvolontario piacere.

Aveva sentito nascere nel suo pudore unʼirresistibile voglia dʼessere
sfacciata.

Su lʼorlo del bicchiere aveva tentato reprimere la tentazione di parere
una femmina.

Gli aveva sorriso.

Ed ora gli parlava stordita, protesa un poco verso di lui, coinvolta
nel suo potere: già sua. Gli parlava senza dirgli nulla, muovendo le
parole come gesti della mano che volessero carezzarlo.

Similmente, anzi più turbato, forse più irritato, egli parlava con lei.
Per dirle cose non ben definite, per chiarire, per nascondere, forse
per distruggere tutto quello che sentiva.

—Oui, je vous ai vue la première fois au Théâtre Michel; je venais de
très loin ce soir–là... Il y avait dans vos mouvements quelque chose
que je nʼai jamais pu oublier! Et puis, Bluette, certains soirs, la
beauté dʼune femme engourdit tout lʼêtre comme une fumée dʼopium.
Ce soir–là, vous dansiez des danses lascives, ou bien, que sais–je?
cʼétait vous qui étiez lascive... Ma vie est de celles qui nʼadmettent
pas la beauté. Jʼai passé à travers mille tempêtes et jʼai vu le soleil
se coucher sur tous les océans de la terre... mon cœur est fait pour la
distance comme la proue dʼun grand voilier... Mais vous aviez quelque
chose de si doux pour moi, et vous étiez si belle, si naïvement belle,
si fraîche pour mes yeux, que jʼai senti una espèce dʼénivrement
soudain me pénétrer jusquʼà lʼâme... Rien ne pourrait vous expliquer
combien ce trouble en moi était absurde! Mais quand vous quittiez la
scène, il me semblait que des rideaux noirs étouffaient soudainement
la joie dans mon être... Vous avez changé au moins dix costumes ce
soir–là, et chacune de vos étoffes me communiquait la joie dʼune
caresse, mʼinspirait une volupté différente... Pour désenchantés que
nous soyons, il y a toujours une femme qui peut nous rendre, avec sa
beauté, notre première jeunesse. Pour moi, vous étiez cette femme. Vous
mʼavez plu tellement, que je nʼosais pas chercher à vous connaître.
Mais, depuis ce soir, vous êtes devenue ma folie... oui, cʼest le mot.
Bluette.... ma véritable folie!...

Ellʼascoltava senza sorridere, un poco smorta, come se tutto ciò le
facesse profondamente male. Ascoltava con le mani congiunte, premute su
la bocca, fissandolo senza batter ciglio. Lo ascoltava maravigliata e
ferma, con lʼanima tutta radunata su lʼorlo di quel felice stupore.

Poi lasciò cadere le due mani, e disse lentamente, con una specie di
vertigine:

—Cʼest le premier soir de ma vie où je me sens heureuse dʼêtre belle...

E su lʼabito scuro che portava, più azzurri che unʼalba del mese di
Maggio, profumati con un profumo di Coty, le stavano bene, quasi presso
la spalla, sotto il rovescio dʼun grande collo di zibellino, quei fiori
del sole nei campi, quei fiori che andavano sempre insieme con lei,
per somigliare quasi al colore deʼ suoi occhi, al colore della sua
fragrante anima... i fiordalisi di Mimi Bluette.

Allora, su quelle due mani protese verso lui, traverso la tovaglia che
brillava, egli posò leggermente una sua mano, e sentì per tutta la
persona il fascio dei nervi contrarsi, con un dolore intenso, pieno di
gioia, come se avesse per la prima volta sentito nascere il tremore del
suo grembo dʼamante, il femminile gaudio che si tradiva dal principio
della sua bianca nudità.

La mano di Bluette era semplice come il suo spirito, aveva una forma
quasi trasparente, portava nel suo colore senza ombra un senso azzurro
di verginità. Quelle sottili unghie troppo lucide, troppo rosse, davano
alla sua mano quasi unʼespressione di peccato, che ne accresceva
lʼinnocenza, come un soverchio belletto messo per celia sul viso dʼun
bambina. Quelle mani avevano in sè la tepida gioia bionda dʼun raggio
di sole.

I braccialetti si rovesciarono sui polsi come catene pesanti; li
oppressero, fecero rumore, tacquero. E le due mani rimasero così,
ferme, sotto il peso della sua carezza, felici di potersi dare a lui
con apparente castità, come avrebbero insieme voluto le sue lunghe
braccia seminude, le spalle tepide, il seno dolce che aveva la forma
dʼun lungo respiro, e la sua calda bocca umida, e lʼintero suo corpo
quasi nudo, in un pensiero dʼinvincibile dedizione.

Lʼamava. Era la prima volta che amava. Quasi per miracolo era divenuta
un amore. Le pareva una cosa del tutto naturale stare accanto a quel
forestiero, lasciarsi carezzare così. Lʼamava dʼimprovviso, per il
piacere aspro che le veniva da lui, per la sua faccia calma e stanca,
per la sua voce diversa da tutte quelle che udì.

Le aveva detto con ebbrezza, come nessuno le aveva detto
ancora:—«Depuis ce soir, Bluette, vous êtes devenue ma folie, ma
véritable folie...» E questa parola stessa, nel calore della sua voce,
pareva chiudere in sè lʼinfinito, le comunicava una specie di paura, un
brivido fisico dʼesaltazione spirituale. «Ma folie...»—un breve leggero
suono di tre sillabe, che venivano a lei da una bocca sconosciuta, e
venivano da lontano, dallʼavventura fortuita che sʼincontra nelle città
notturne, chissà, forse dalla tragedia, chissà, forse da un labbro che
non le aveva pronunziate ancor mai...

Tacquero.

La musica dei violini accompagnava una svergognata canzone pederastica
dellʼefebo Jean Kiki.

Le Americane, inorridite, si premevano i larghi ventagli contro le
bocche ridenti. Mon Colonel pizzicava le semi–vergini sedutegli a
fianco.

—Et alors, Bluette?

—Et alors, monsieur Laire?

—Si on sʼen allait dʼici?

—Où donc?

—Nʼimporte.

—Allons–y!

Ritrasse le mani e chiamò il maggiordomo.

—Vite, ma fourrure et lʼaddition, Hector.—Poi soggiunse:—Vous mʼavez
servi ce soir un dîner assez illogique.

—Oh, Madame!...

Il suo dîner costava una bazzecola: 132 franchi—«avec deux
louis,—spiegò sottovoce lo scrupoloso Hector—que Monsieur Sanderini me
doit depuis quatre semaines. Il mʼa dit de vous demander si cela vous
serait égal...»

—Oui, ça mʼest égal... Mais, toutefois, dites–lui que je préfère donner
moi–même, sans quʼon me tape,—rispose Bluette, avvolgendosi nella
pelliccia che le portava il piccolo turco Mohammed.

Uscirono insieme, tra i commiati rumorosi di tutta quella onorevole
compagnia.

—Fi!...—sibilava la Grande Rouquine,—Bluette va faire une sottise!

E Limka, tzeco delle Batignolles, strizzando lʼocchio aʼ suoi zingari
dalle giubbe scarlatte, suonava con maestrìa, con impeto, le note
capziose dellʼantico My Blu.

       *       *       *       *       *

Dopo un centinaio di metri Castillo abbassò un vetro, per dire al
meccanico:

—Allez au Bois de Boulogne et marchez très doucement.

Questi lo guardò come si guardano i clienti esecrabili, poi alzò il
bavero della sua casacca e rispose:

—Bien, mʼsieu!

La neve senza vento cadeva su la città in calme strisce verticali, che
sembravano propagare un tremito nella bianchezza dellʼelettricità; si
accumulava sui davanzali delle finestre come per chiuderle, costruiva
lunghe dighe invarcabili su lʼorlo dei marciapiedi. E lʼautomobile
camminava senza urto nel dedalo dei quartieri deserti, per i bianchi
anfiteatri delle piazze, andando via, lieve, quasi tacita, su
quellʼelemento agevole che i fari avvolgevano dʼun largo alone scialbo
nelle zone dʼoscurità.

—Monsieur Laire, jʼai presque froid... cette fourrure me glace...

Allora egli si mise più vicino a lei, spalla contro spalla, piegando la
bocca vicino al suo respiro, quasi per odorarla come un fiore.

Intorno ai lumi delle Tuileries la neve ilare turbinava come bianca
fuliggine, riddava, simile a sciami di farfalle notturne sul vortice
dʼun falò. Le sagome ampie degli edifici incastellavano di bianco
la notte invernale; pesanti zattere di nebbia nuotavano su la Senna
invisibile; di là, su lʼaltra riva, lunghi rettilinei di globi
elettrici assalivano con fatica lʼimmensa remota nuvola. I palazzi di
neve, i giardini squallidi, vegliavano la tomba eccelsa del grande
Imperatore; lʼArco di Trionfo segnava un limite confuso nella distanza
dei Campi Elisei.

—Je crois que nous sommes fous, monsieur Laire! A onze heures du
soir, au mois de Janvier, faire une promenade au Bois... Quelle idée,
nʼest–ce pas, monsieur Laire?

La tepidezza dellʼaria interna faceva nascere sui vetri una specie
di sottile smeriglio, tutto a fiori di ghiaccio e tortuosi rivoli di
gocciole, che si fermavano assiderate.

—Est–ce que vous habitez Paris, monsieur Laire?

—Presque jamais.

—Etes–vous français?

—Ma mère était française, moi... je ne suis plus rien.

Lʼaria che respiravano era già piena del profumo di Bluette.

—Quel est votre hôtel, monsieur Laire?

—Jʼai un petit appartement, presque toujours fermé, très vide, là bas,
dans le quartier du Luxembourg.

—Oh, comme cʼest drôle!

—Quʼest–ce qui est drôle, My Blu?

—Ce que vous dites...

E fuori, traverso lo smeriglio dei vetri, passavano alberi morti sotto
il peso bianco dei mantelli di neve. Lontano apparvero le barriere del
Bosco.

—Vous ne me racontez plus rien, monsieur Laire?

—Oui, en effet, je ne vous raconte plus rien... cʼest bête!

—Moi je mʼétonne dʼêtre ici... et vous?

—Je ne mʼen étonne pas; seulement je pense quʼil vaudrait mieux ne pas
y être.

—Oh!... je ne suis pas de votre avis, monsieur Laire!

—Que voulez–vous, Bluette? Le bonheur est la seule chose à craindre
dans la vie. Quant au malheur, quʼimporte?... cʼest ce qui arrive tous
les jours... on sʼy fait, on sʼen fiche! Mais aimer ce quʼon aime,
voilà un luxe que certains hommes ne devraient pas se permettre.

—Vrai? Alors cʼest de la philosophie sans doute, car je nʼy comprends
rien. Vous allez peut–être vous imaginer que je suis une femme très
facile, mais...

—Oh, non, Bluette! Je sais très bien que ce soir... oui, enfin, que ce
soir vous êtes peut–être imperceptiblement émue...

—Je le suis même très fort... aussi fort que jamais... Cʼest la
première fois, je vous lʼaffirme, que Mimi Bluette se promène la nuit
avec un inconnu.

Egli tacque un attimo, poi disse, mutando voce:

—Mais oui, je sais très bien que vous avez un amant, Bluette.

—Un amant?... Oui, jʼai un amant. Cela nʼest un mystère pour personne.

—Est–ce que vous lʼaimez?

—Voilà une question inutile, par exemple!

—Est–ce que vous lʼaimez. Bluette?

—Mais, pas du tout, monsieur Laire! pas du tout!

Egli afferrò involontariamente la sua mano, e tacendo la strinse.
Allora ella soggiunse, con una voce affabile:

—Quoi quʼil soit un très grand Ministre, à ce quʼil paraît, je puis
vous dire, monsieur Laire, que, malgré son talent, il mʼassomme!

Si lasciò pesare contro di lui con una turbata pigrizia, e le parve
necessario affermare una seconda volta:

—Oui, il mʼénerve! Il y a des choses quʼon ne sʼexplique pas.

Egli rise con un empito quasi crudele di felicità. Nella penombra della
vettura i suoi denti bianchi scintillarono. Lʼavvolse, la circondò,
la chiuse nelle sue braccia ruvide. Chinandosi nel cerchio del suo
respiro, con ebbrezza la chiamava:—My Blu...

—Laire... monsieur Laire...

—Je me sens ivre... cʼest une folie qui me hante... Depuis ce soir–là,
depuis ce soir de vertige, vos danses voluptueuses ont ensorcelé tout
mon être. Je me dis quʼil ne faut pas vous aimer, Bluette, et pourtant
je vous aime! Quelle folie!... jʼai besoin de vous... chaque nuit je
vous caresse dans mes rêves... quelle folie! Vous êtes pour moi une
créature de soleil et de musique... vous êtes ma dernière coupe de
Champagne, mon dernier bouquet de roses... quelle folie!...

Ella non fece altro che piegare il capo allʼindietro, stordita, come
nel momento in cui le vene provano la più forte voluttà; e così
rovesciata, supina, con la rossa bocca umida cercava il suo caldo
respiro.

Ed egli le diceva:

—Je suis de ceux auxquels la beauté ne donne pas trop dʼinquiétude;
rien au monde ne me paraît aujourdʼhui très sérieux, et même lʼesprit,
et même le talent, parfois me découragent ou mʼirritent... Pourtant,
lorsque je vous ai vue, Bluette, jʼai senti que vous étiez la beauté,
ma beauté, ce qui pour moi sʼappelle vraiment la beauté. Jʼai parcouru
toute la terre sans jamais voir de femme qui pour moi fut aussi belle.
Que voulez–vous. Bluette?... lorsque mes yeux vous regardent, vous
mʼenvoyez du printemps dans lʼâme...

Bluette non rispose: alzò le braccia, sperduta, lʼavvolse nel tepore
del suo corpo, e lo baciò.

Nella grande foresta bianca gli scheletri giganteschi degli alberi
sopportavano valanghe di neve; lʼiride lontana dei fari accendeva
stelle bianchissime sui ghiaccioli delle fontane.

Soltanto la fatica del motore interrompeva lʼassiderato silenzio del
Bosco; passavano, come scenarii dʼuna fiaba nordica, i laghi pieni di
nuvole, gli ippodromi vuoti come steppe, le fattorie chiuse, le cascate
immobili, divenute un solo ghiaccio, e pareva che, frammezzo a tanto
inverno, mai più non dovesse rinascere la primavera. La primavera del
Bosco indimenticabile, odorosa di mammole, di resina e dʼacacie, ove
ogni filo dʼerba diventa quasi un fiore, quando, nelle sere di Maggio,
in larghi frastagli di serenità il cielo vi scende a profumarsi e il
Bosco turgido si gonfia di voluttà primaverile, sopraffacendo la Parigi
dorata, su cui lancia in fontane di musica il fiume del suo grande
respiro...

[Illustrazione: DECORAZIONE]

E questa era poesia.

Poesia fortuita, che nasceva dal vizio notturno di una grande
metropoli, poesia libera da tutte le falsità, nuda come lʼamore,
assurda e semplice comʼè lʼamore.

Un uomo ed una donna: due vere anime, due vere lussurie, che andavano
in cerca dʼun letto nella Parigi bianca, addormentata.

Non avevano altra storia che un sorriso nascosto dietro lʼorlo del
bicchiere di Sciampagna.

Questa era poesia.

Poichè, fra le mille creature che ci passano davanti agli occhi nelle
avventure della vita, è sempre una sola, ed è sempre una sconosciuta,
quella che al nostro desiderio innamoratamente piace.

Quando noi traversiamo una strada, quando i nostri occhi disattenti
vagano su la moltitudine, i sensi protesi come una vedetta cercano
la donna che il nostro amore ama. Quando si arriva in una città
forestiera, quando si entra in una cosa sconosciuta, quando si passa
lungo la muraglia dʼun monastero, quando ci si addentra in un quartiere
di prostituzione, i sensi protesi come una vedetta cercano la donna che
il nostro amore ama. Così nei cimiteri e nei teatri, su le prore dei
navigli che partono e dietro le finestre chiuse.

Ma non credete allʼamore logico, allʼamore che manca di follìa, nè a
quello che osserva nascere i propri germogli come fili dʼerba tenera
dalle zolle dʼun seminato.

Questo è un fiore di serra calda, perfetto, ma senza profumo.

Non credete allʼamore lento, allʼamore casto, allʼamore che si dipana
come un gomitolo, che si arruffa come una matassa, che gira intorno a
sè medesimo come un topolino intorno alla sua coda.

Questo è ciò che i letterati si ostinano a chiamare psicologia.

Non credete ai romanzi dʼamore che impiegano trecento pagine per
condurre a letto i loro protagonisti, e nemmeno agli scrittori
eucaristici che hanno il buon costume di non condurveli mai. Non
credete alle donne straordinarie, che si divertono a parer complicate
come il teorema di Pitagora, nè a quelle terribilmente fastidiose che
ogni e qualsiasi volta rallentano i loro perfidi ginocchi suppongono di
essere diventate una seconda Madame Bovary.

Queste certamente son donne cui piace far perdere il tempo.

E non credete agli amanti che possiedono teorie su lʼamore nè a quelli
che in gelosi diarii vanno registrando le intemperie del proprio
spirito come oscillazioni barometriche; non credete allʼamore paziente,
allʼamore che resiste, allʼamore che non può innamorarsi in una sera;
non credete, vi prego, alle analisi chimiche del sentimento nè alle
fredde ipocrisie degli amanti che adoprano lʼideale come una cintura di
castità.

Poichè tutto questo ha forse una musica, ma veramente non è poesia.

Soltanto ciò che la vita fa nascere in voi come una rosa nella
primavera e tutto lʼesser naturalmente vi trasmuta in profumo, quando
per voi, con voi, turbina di voluttà lʼinfinito, questo, nellʼamore
degli uomini, è veramente poesia.

[Illustrazione: DECORAZIONE]

Per due giorni e due notti a casa non la videro tornare. Solamente
aveva telefonato a Linette:

—Si on me demande, Linette, il faudra dire que je suis absente.

—Oh!... cʼest vous, Madame?! Allô! Allô! Ecoutez, Madame...

—Zut!

E la povera Linette, cameriera dalle calze di voilé, si era messa a
piangere davanti allʼapparecchio maleducato, che dʼimprovviso taceva.

Per due giorni e due notti era stata con lui, perdutamente con lui,
nella sua casa nascosta, baciandolo fino ad uccidersi, come si fa
quando lʼamore diventa una follìa.

Su la neve del mese dʼinverno si era levato nei due pomeriggi un
pallido sole.

Quella casa era nascosta in una piccola strada, calma, vecchia, di
quelle che gli edili ragionevoli vanno cancellando a poco a poco.

Si vedeva, lontana, la Colonna di Luglio sorgere dalla piazza della
Bastiglia.

Ma pranzavan ancora più distante, negli alberghi di barriera, nelle
vecchie trattorie di Montrouge e Malakoff.

Tornavano a piedi, per lʼombra, di sera, parlandosi piano. Bluette
vedeva nei cinematografi splendere a caratteri di fiamma lʼannunzio
luminoso del suo nome ilare—Mimi Bluette—od apparire su le muraglie,
nei molteplici cartelli dei teatri, la sua fisionomia sorridente fra i
mazzi di fiordalisi—Mimi Bluette.

Ecco, e lo amava. Era con lui piccina, modesta, umile, come una ragazza
del quartiere.

Le guardava talvolta con simpatia, queste belle ragazze del quartiere,
quando passavano a fianco del loro innamorato, e le pareva di
comprenderne la poesia, di amarle con un affetto improvviso, quelle
svelte ragazze, umili e ben pettinate, che affrettavano sotto la balza
delle gonne dimesse il piede leggero.

Mimi Bluette, la rosa delle rose, il fiore dei fiori!... Tutta quella
Città immensurabile, quella delirante Città del miracolo aveva
pronunziato il suo nome!... Ora, nellʼandarsene al braccio del suo
amante, lʼimmenso rumore di Parigi le pareva una musica lontana, e
quasi le stringeva il cuore una modesta paura, un umile desiderio di
non esser riconosciuta.

Mimi Bluette, la ballerina che aveva i più dolci capelli ed il piede
più gentile di Francia, Mimi Bluette, la danzatrice che aveva lʼanima e
gli occhi azzurri come i suoi fiordalisi, Mimi Bluette, la creatura che
pareva nata in un tempo di musica, la forestiera venuta dʼoltrʼalpe con
il suo limpido cuore di Transalpina, sentiva improvvisamente la gioia
di non essere più nulla, di non guardare in faccia più nessuno, di non
amare che lui.

Per due giorni e due notti gli diede il suo corpo inesaustamente, lo
avviluppò neʼ suoi capelli arruffati, lo strinse nelle sue braccia
tenaci, si contorse in lui fino al delirio, con disperata felicità, e
le parve che ogni respiro di gioia dovesse lasciare nelle sue fattezze
una traccia di perpetuo godimento.

Gli diede la sua fragranza rorida e violenta, lo impregnò di sè stessa
come un fiore impólvera del suo pólline il tremante cálice che feconda.

Gli fece sentire con le labbra, con il grembo e con lʼintera sua
bellezza, che una donna veramente innamorata è la più ebbra forza
dellʼinfinito.

Lo stordì come un veleno soavissimo che accende negli occhi angoli di
paradiso.

Poi tornò a casa, un mattino che le strade oscillavano davanti aʼ suoi
occhi appassiti.

Era un mattino freddissimo, limpido, quasi tremolante. La città
prendeva un colore di ghiaccio; le forme delle cose, degli uomini,
pareva che avessero un contorno di gelo.

Quando i suoi specchi familiari la guardarono in faccia, ella si trovò
mutata. Povera Bluette, che sonno aveva quel mattino! Comʼera stanca
e felice, povera Bluette! Avrebbe dormito fino a sera, nel suo letto
grande, poi sarebbe tornata con lui, di nuovo con lui, perdutamente,
laggiù, nella strada lontana. Ma un solo pensiero la irritava, quello
di dover rispondere a chi le domandasse:—Dove sei stata?

Era stata nella felicità, nullʼaltro. E questa era una cosa da non
potersi esprimere con parole.

Ma Linette, cameriera dalle calze di voilé, non troppo severa, e
giovine lei pure, fu la sola che per istinto la capì.

Vide i suoi occhi appassiti, e non disse nulla.

Vide i suoi abiti sciupati, e non disse nulla.

Vide che nel suo corpo stanco era piena di una insolita felicità, e
mutamente le sorrise, poichʼella pure, nel suo cuore di ventʼanni,
sapeva comprendere la poesia di tornare un mattino, sciupata e bella,
dopo due giorni dʼamore.

Quando furono entrambe nello spogliatoio, Bluette le mise una mano su
la spalla, poi la guardò negli occhi e le disse:

—Oh, ma petite Linette, si tu savais comme jʼai été heureuse!...

Allora due grosse lacrime caddero dagli occhi di Linette.

—Quoi donc? Tu pleures?

—Oui, Madame, je pleure... Jʼai été si inquiète à cause de vous! Je ne
savais plus que faire. Vous mʼavez répondu: «Zut!»

—Cʼest vrai; jʼai dit: «Zut!» parce que je nʼavais pas le temps de
mʼexpliquer mieux. Essuie tes yeux, Linette, et déshabille–moi.

Stava per incominciare a confidarle il suo secreto, mentre Linette le
toglieva e la slacciava le scarpe, quando la bionda Caterina entrò, in
vestaglia di lana, spettinata e litigiosa come sono le donne mature
prima di sottomettersi al restauro mattutino.

—Ah, perdinci! se Dio vuole, eccoti qui!

Bluette fece un lungo voluttuoso complicato sbadiglio, al termine del
quale disse con naturalezza:

—Buongiorno, mammina! Fammi preparare, ti prego, un bel caffelatte con
le brioches calde, perchè ho molta fame.

—Te le dò io le brioches! Si può sapere dove sei stata in questi giorni?

—Sono stata via, mammina, via... via...

—Davvero? E adesso, cara, starai fresca!

—Io fresca? Perchè?

—Ti avverto che Sua Eccellenza è tornata ieri, anzi è tornata
iermattina. Sarà venuta qui cinque o sei volte per lo meno. E domanda
un poʼ a Linette che ira di Dio è stata con quel suo telefono! Sino
alle due di notte, mi capisci? Lui, così garbato, aveva perduta la
testa e quasi mʼinsolentiva. «Bluette?... Bluette?...» Cosa ne sappiamo
noi di Bluette! Insomma voleva perfino chiamare il Capo di Polizia.

Bluette si mise a ridere più forte, mentre la cameriera lʼaveva
spogliata sino alla camicia.

—E ridi anche? Bella insolenza! È una storia che finirà male.

—Senti, mammina, fammi portare le brioches! Oppure vámmele a prendere
tu, Linette. Ho una fame che muoio.

—Già, naturalmente!... quando si fanno le porcherie che fai tu!...

—Sei un poʼ matta, cara mammina...

—Sì? ti pare?... Adesso, quando verrà Sua Eccellenza, te ne accorgerai.

—Quando verrà Sua Eccellenza gli dirai che dormo ed ho bisogno di non
essere svegliata.

—Eh?... un accidente! Fargli dire che dormi ed hai bisogno...

—Sì, di non essere svegliata; fino alle cinque per lo meno; perchè sono
stanca, molto stanca, e me nʼinfischio di tutto il Ministero!

—Ah, ma se te ne infischi tu, non me ne infischio io, per bacco! Ed a
me non accomoda niente affatto che per i tuoi brutti vizi debba andarci
di mezzo anche il decoro della casa!

—Nientemeno!

—Si proprio: il decoro, la situazione ufficiale che occupiamo e
la rendita mensile che ti dà. Io non ci voglio perdere per le tue
sporcizie, hai capito? E quando verrà Sua Eccellenza mi farai il santo
piacere di alzarti súbito, o meglio di riceverlo in letto, spiegandogli
con un motivo plausibile questa bella idea di nasconderti per due
giorni senza dir niente a nessuno.

Mimi, pettinando con un largo pettine i suoi capelli arruffati, si mise
dolcemente a cantarellare:

  «Les mains des femmes,
  je le proclame,
  sont des bijoux
  dont je suis fou!»

—Hai capito. Mimi?—seguitava la madre.—Non farmi andare in collera!

—...je le proclame...

—Ma dove sei stata? Si può sapere dove sei stata?

—...dont je suis fou!... oouu!...

—Canta, canta! Ma io posso dirti che una scriteriata della tua specie
non riuscirà mai a far carriera!

Bluette lasciò cadere indietro il grande mazzo deʼ suoi capelli, che le
discesero fino alla piegatura delle ginocchia, ed incominciò a togliere
dal pettine quelli che sʼera strappati.

Allora venne Linette con il vassoio del caffelatte, recando insieme
le tepide brioches. Bluette ne rubò una, prima che Linette avesse
apparecchiato, e con la bocca piena rideva, guardando sua madre.

—Veʼ, che bella ciera!—disse la bionda Caterina.—I sottocchi ti
arrivano in bocca e sei lì che mi sembri di ritorno da una messa nera!
Voglio vederti allʼetà mia, bambina, se vai avanti di questo passo!

—Mi trovi brutta, mammina? Sai cosʼho fatto? Niente... Sono stata,
brava brava, in una strada che tu non conosci, in una casa che tu non
conosci, con un uomo che tu non conosci... Ma che squisite brioches!
Próvale anche tu, mammina.

Ella ubbidì. Si mise docilmente a sedere davanti alla sua bella figlia,
che divorava le brioches tepide spalmandole di burro. Frattanto
Linette, con le sue mani agili, raccoglieva dietro la spalliera della
poltrona tutto quel disordine di capelli biondi e leggermente li
pettinava.

—Tieni, mammina!—Le dette una mezza brioche, lucida, ben preparata.—Non
è vero che son buone?

—Bella novità! Le brioches sono brioches, il burro è burro, e tu sei
una stupida! Cosa cʼè di straordinario nel mangiare quello che mangiamo
tutte le mattine?

—Eh! dis donc, Linette, fais plus doucement! Ce nʼest pas une raison,
parce que jʼai beaucoup de cheveux, pour mʼen arracher des touffes!

—Cʼest quʼils sont très embrouillés, Madame!

—Te lʼho detto mille volte, Bluette: sii meno civetta e fa la treccia
se anche non vai a letto sola. Perchè vi sono certi uomini i quali non
sanno muoversi senza mettere i gomiti sui nostri capelli.

—Però tu li hai conservati, mammina.

—Io non ho mai fatto le sciocchezze che fai tu. Perdere un Ministro per
stare qualche ora di più con un amante... è ridicolo!

—Diʼ, mammina!... fammi una confidenza, ma proprio una confidenza
sincera... Qualʼè lʼuomo del quale sei stata veramente innamorata?
quello che ti ha presa, anima e corpo, non appena lʼhai veduto?

—Io? Ma che sciocca! Ne ho avuti molti.

—No: uno, il più forte... quello che, se ci pensi, tremi ancora.

La biondissima Caterina sospirò, chiuse gli occhi per raccapezzarsi,
poi divenne seria.

—È stato, se vuoi che te lo dica, quel poco di buono al quale ho
permesso di diventare tuo padre. Gli volevo tanto bene, che quando sono
rimasta incinta di lui non ho avuto nemmeno il coraggio di dirglielo,
per non dargli una seccatura, e nemmeno quello di andare da mia
sorella, che fa, se ti ricordi, la levatrice.

—Ah, sì?...—fece Bluette, guardandola con gli occhi divenuti grandi.

—Sì, precisamente. Ma cosa tʼimporta ora di saperlo?

—Nulla, mammina. Era una semplice curiosità.

In quel momento si udì squillare la scampanellata lunga ed imperiosa
con la quale il portinaio soleva distinguere le visite di Sua
Eccellenza.

La bionda Caterina, impaurita, si rifugiò nella propria camera;
Linette, per lo spavento, rimase col pettine affondato nella treccia
della sua padrona.

—Voyons, Linette, est–ce que tu perds la tête à présent? Passe–moi ma
robe de chambre, et file!

Subito «Egli» entrò. Aveva una faccia da dittatore accigliato.

—Bonjour, «Excellence!» Je vous croyais au Ministère... vous voilà!
Cʼest de la chance!

—Pas de plaisanteries, Bluette! Je viens pour savoir où vous avez été
ces deux jours et quel était le personnage avec qui vous avez quitté,
dimanche soir, à 11 heures, le Bar de la Grande Rouquine.

—Tiens! On vous a déjà renseigné? Cʼest parfait!

—Jʼattends une réponse, Bluette.

—Oui? Et bien, jʼai été avec ce «personnage», évidemment!

—Petite coquine!—esclamò il Ministro, andandole presso con aria
minacciosa.

—Plaît–il?

—Vous avez lʼair de vous ficher de moi, si je ne me trompe!

—Mais, pas du tout... Jʼai lʼair de vous dire la vérité, puisque vous
me posez des questions. Préférez–vous que je vous mente?

—Je veux savoir quel est cet homme. Quant au reste... je mʼen moque!

—Cela ne vous regarde pas, Monsieur le Ministre. Cʼest quelquʼun, sans
doute, qui nʼest pas grossier comme vous lʼêtes.

—Hein? vous dites?

—Je dis, «Excellence», que je vous prie de me ficher la paix!

—Mais... vous plaisantez, jʼespère!

—Non, je ne plaisante pas du tout. A partir de ce matin je donne ma
démission du Ministère et je rentre dans la vie privée.

—Est–ce bien sérieux ce que vous dites?

—Forcément... puisque je vous ai trompé. Ce qui serait encore
pardonnable, si je nʼavais pas lʼintention de vous tromper derechef,
tous les jours, et même deux fois par jour.

—Et cʼest tout ce que vous me dites pour vous justifier?

—Cʼest tout...

—Ma foi, ce nʼest pas ainsi que je lʼentends!

—Tant pis pour vous, «Excellence!» Moi, jʼai tellement sommeil, que
jʼen tombe, et je vous serais bien reconnaissante si vous me permettiez
de me coucher.

—Nous réglerons cette affaire–là, Bluette!

—Quand vous voudrez, «Excellence!...»

Era un uomo di Stato, non volle insistere, partì.

[Illustrazione: DECORAZIONE]

Giorni dʼamore.

Solitudine perduta e stupenda in mezzo alla Città piena di strepito,
nel potere di questʼuomo, che non sapeva chi fosse; lei, con il suo
mazzo di fiordalisi, ma che non era più Bluette.

Era una luce fedele su lʼombra della sua via.

La neve se ne andò; vennero, per il cielo trasparente, le nuvole
azzurre dei mesi di primavera. Gli alberi dei giardini si orlavano al
crepuscolo dʼuna trasparenza dʼoro; i vasi della povera gente mettevano
già qualche fiore sui davanzali dei quarti piani, sotto le grondaie.
Nel fiume che traversa la metropoli, ogni tanto, unʼondata quasi
azzurra passava; i frettolosi battelli, sotto i ponti, correvano con
ilarità. Le più belle ragazze dʼogni quartiere andavano per istrada con
il collo nudo.

E così fu primavera.

Su la Città grande, rumorosa, che le aveva data la gloria, il suo nome
di etera giovine tramontò.

Non la videro più i teatri splendere alle ribalte, sui tappeti sparsi
di fiordalisi, ove la danzatrice inimitabile danzava.

Non la videro più le strade consuete, gli ippodromi fioriti nei giorni
di primavera, i viali mattutini del Bosco, i ritrovi pomeridiani che si
affollano verso lʼora del tè.

Scomparve dalle case di mode, ove i più rari gioielli dellʼingegno
parigino a lei gelosamente serbavano i maestri dʼeleganze; scomparve
dalle sale degli spettacoli notturni, ove il suo giungere sollevava
ondate dʼallegria, battaglie di fiori, e, sui trillanti violini, le
cadenze dellʼantico My Blu.

Nulla riuscì a vincere la sua volontaria solitudine; sparì comʼera
venuta, simile ad un raggio di sole. Sparì come i fiori cadono dal
maturo albero, in una sola notte, lasciando ancora nellʼaria il loro
inestinguibile profumo.

Questa creatura limpida, chʼera stata così bella da innamorare una
città, seppe divenir bella per un amante solo. Per lui sentì che ogni
donna, quando sʼinnamora, dissuggella e perde veramente la sua più
nascosta verginità.

Era stata una femmina di gioia, splendida e libera, che si dava con la
fredda passione, con la fredda mimica delle sue danze; qualchevolta
si dava con una specie dʼinebbriata illusione, quasi ubbidendo alla
prepotenza della sua gioventù. Ma ora, dʼimprovviso, dopo tanti anni di
vizio, conosceva il pudore.

Sì, conosceva il pudore. Voleva mettere un velo sopra il suo corpo
divino, che i talami ed i teatri avevano posseduto.

Ed era piena di malinconia quandʼegli le diceva una parola che potesse
alludere al suo passato. Poichè lʼuomo non riesce mai a comprendere
questo rinverginire dellʼanima, che forse rappresenta la più vera e
forse lʼunica purità.

Era piena dʼirritazione quando, in un modo qualsiasi, nei loro discorsi
ripassava la storia di Mimi Bluette.

Non era mai stata fanciulla, ora lo diventava. Ora capiva perfettamente
il velo bianco delle spose che sʼinginocchiano davanti allʼaltare.
Sopra lo splendore deʼ suoi capelli biondi non avrebbe voluto portare
il peso di quella bianca trasparenza; nondimeno la intendeva come una
poesia, come un candore di quel sentimento che aveva incominciato a
nascere anche nellʼanima sua.

Dopo aver avuto aʼ suoi piedi la Città più temibile, ora le piaceva
immensamente rendersi una piccola schiava. Nascondersi le piaceva,
trafugare agli occhi della gente la sua timida felicità, perdersi nella
moltitudine sconosciuta, ove non si levasse neppure un bisbiglio dietro
il solco di profumo che lasciava, passando, Mimi Bluette.

Il suo corpo, nel danzare, nel muoversi, aveva rappresentato il
piacere, aveva comunicata la voluttà, per gli occhi, ai molteplici
amori che lʼinseguivano; era stata paganamente la bellezza, la rea
ma sacra nudità ove ogni desiderio può attingere; il suo corpo era
stato quasi una viva opera dʼarte, una fugace gloria della Città
voluttuosa;—ed ecco, ella pensava che non avrebbe danzato mai più,
che non avrebbe sentito mai più salire dalle platee tumultuose il
torbido impudico bacio della folla, che inebbria ed esaspera, il bacio
tentacolare della moltitudine, che avviluppa ed esaurisce...

I fiordalisi di Mimi Bluette ritornavano ad essere quel che sono:—fiori
di semplicità, nascosti nel grano.

[Illustrazione: DECORAZIONE]

Ed ella non sapeva nemmeno chi fosse questʼuomo. Glielʼaveva regalato
la terribile Città splendente, in una sera dʼebbrezza e di musica. Le
sue braccia lo avevano serrato con impeto, senza domandargli: «Chi sei?»

Chi era? Nulla, quasi nulla; una cosa davvero indefinibile, davvero
semplice: lʼamore.

Parigi le aveva data la sua vera bellezza, Parigi le aveva insegnato
a danzare, le aveva prodigate ricchezze, lʼaveva immersa come un
limpido calice nella sua grande fontana di piacere; Parigi le aveva
naturalmente regalata lʼapoteosi, ed ora naturalmente le infliggeva
lʼamore.

Le città stupende non regalano mai nulla per nulla; neanche agli
imperatori.

Questʼuomo aveva traversato il mondo, portava nel suo cuore di errante
la polvere di tutte le strade. Per la terra piena di miracoli aveva
trascinato alla ventura la sua nomade anima pesante.

Chi fosse questʼuomo, nessuno in verità sapeva. Egli medesimo forse
non se ne rammentava più. Aveva perduta la sua patria e perdute quelle
indefinibili apparenze che rendono gli uomini somiglianti alla terra
ove son nati. La marea di tutti i mari gli aveva pietrificata unʼonda
nel cuore; il sole aveva brillato neʼ suoi occhi fermi con il colore di
tutti gli arcobaleni.

Era stanco; aveva unʼoscura coscienza dʼessere giunto al termine del
suo cammino. In lui si vedeva il tramonto dellʼanima, come nella conca
dʼuna fontana si vede sorgere lʼoscurità.

Era venuto a lei traverso una vita forse tragica, forse ambigua, forse
irritata; questʼuomo portava in sè qualche secreto, che nemmeno lʼamore
avrebbe saputo vincere.

Su lui correvano molte confuse dicerie; poichè, dovunque passi, lʼuomo
non può venir meno allʼobbligo di sopportare una definizione. Anche
intorno allo straniero, vʼè un prossimo vigilante che ha bisogno
di conoscere la sua storia. Se un uomo non ha storia, o non vuol
dirla, questo prossimo lʼinventa. Si raccontava di lui che fosse un
avventuriero ed un esiliato; che una donna tragica lo avesse anni
addietro coinvolto in un processo clamoroso. La grande folla parigina,
che pure non dimentica nessuno, si ricordava di averlo veduto altre
volte apparire, sparire, nei burrascosi dedali della sua vita.

Ma era fra quegli uomini che hanno per contorno lʼombra.

Era passato di là, per quelle strade, con una donna straordinariamente
bella, più incognita e più misteriosa di lui; forse una sorella od una
complice, forse una vittima, una padrona od unʼamante. Si era detto
pure che egli fosse una spia politica, un agente secreto di comitati
rivoluzionari; si era detto persino che fosse un ufficiale di palazzo
perseguitato da imperiali gelosie. Di voce in voce, gli avevano fatto
esercitare tutte quelle professioni che non è lecito inscrivere sul
proprio biglietto da visita.

Egli forse nulla era di tutto ciò. Solamente veniva da lontano. Questa
lontananza era in lui, contenuta neʼ suoi movimenti, espressa nel
colore deʼ suoi occhi, ferma nelle risonanze della sua voce.

Veniva da tutto ciò che nel mondo si chiama: «lontano».

Era un disperso dalla grande moltitudine che si affolla intorno alle
società costituite, un esule dai sentimenti che sono la storia di
tutti, uno stanco e taciturno avventuriero, che portava in sè, come
sola memoria, la polvere del grande cammino.

Forse aveva una casa in qualche terra lontana, ed una sua donna
paziente, che ogni sera lʼaspettava in qualche lontana città.

Forse, nelle sere profonde, piangeva egli pure di rimorso e di
malinconia, pensando alla distanza invarcabile che lo separava dalla
sua vita.

Era un uomo bellissimo, arido, rapido, forte. Nella sua faccia vigile
si vedeva che una volta cʼera stata la serenità. Ora il sorriso non
trovava più le sue pieghe fra i lineamenti restii, e, nascendo, pareva
li forzasse ad una insolita fatica. La sua vita era modesta, quasi
povera, con improvvise liberalità. Non giudicava mai di nulla, non
diceva mai: «Questo è bene, questo è male»;—invece parlava dʼogni cosa
come uno spettatore freddo e stanco. Si capiva che in lui cʼera una
specie di collera contenuta, una specie di opaco dolore, dʼimmobile
ribellione, che non lo tormentava neanche più.

La sola cosa che paresse ridargli unʼanima, era veramente Bluette.
Forse le aveva detto la verità, quella prima sera, dicendole: «... vous
êtes ma dernière coupe de Champagne, mon dernier bouquet de roses...
quelle folie!...»

Che follìa veramente, questa bella creatura giovine, profumata,
inebbriante, nel suo cuore terribile di uomo che non aveva più
strada... Che follìa veramente, per lui e per lei, questo amore che
li stringeva in una specie di funesta gioia, di torbida e paurosa
felicità, come se andassero insieme verso il gorgo e la vertigine di un
pericolo distante...

Qualchevolta, nellʼudirlo parlare, con la sua voce sonora e profonda,
egli dava quasi lʼimpressione di un uomo che avesse legata in un sacco
la propria anima e andasse in cerca di offrirla per due quattrini al
primo rigattiere della contrada. Era forse un tale che aveva ben
valutato il senso della parola:—vivere.

Perciò era un uomo perduto.

Quando per gli altri, da ogni fossa e da ogni letamaio nascevano
aurore, per lui, su la terra infinita, su le infinite illusioni degli
uomini, era tramontata per sempre, per sempre, la poesia.

Parlava di solito con una quieta e fredda ilarità; guardava gli uomini
senzʼamarli, senza odiarli; ascoltava con indulgenza le loro enormi
tragedie futili, perdonava senza bontà i loro miserabili peccati.
Forse non aveva più voglia nemmeno dʼavere ingegno, e considerava come
un dannoso gioco di pazienza lʼenorme fatica mentale che gli uomini
spendono per dare un senso importante a questa vita che non ne ha.

Chissà dove, chissà quando, aveva ricevuto in pieno cuore dagli uomini,
o dalla fortuita bufera degli avvenimenti, un urto brutale come una
stilettata; e poi sʼera messo a camminare, a camminare per la terra
grande, nascosto in una equivoca ombra, in un ambiguo mistero che
incuriosiva la gente.

Vide, nellʼaria densa dei crepuscoli, quando le città stupende
sʼinnalzano come isole dellʼinfinito, le vaporiere avvolte di nuvole
cacciarsi urlando sotto le tettoie fuligginose delle stazioni;
vide, nei limpidi mattini, quando la terra che sta per avvicinarsi
al navigante non è che una striscia di fumo nel tremolìo del sole,
dʼimprovviso il porto risplendere sotto la montagna trasparente, la
terra venire incontro alla prua come unʼapoteosi dellʼinfinito.

E vide nascere i fiumi, i tumultuosi fiumi barbari, che rimbalzano
giù dal granito inaccessibile, gonfi del lontano estuario; e vide
le gigantesche alpi correre sui continenti come ondate di macigno,
poi, lentamente, a poco a poco, estenuando la loro forza ciclopica,
digradare in vaste zone montuose, abitate dagli alberi, abitate dagli
uomini, e pigre adagiarsi quasi dormendo su la terra incollinata, ove
crescono messi fiammeggianti e lʼuna dietro lʼaltra sʼinseguono, sul
pendìo dellʼalpe caduta, le città vittoriose...

Veniva da tutto ciò che nel mondo ha nome: «lontano».

Come il navigatore dʼoceani, portava nellʼanima piena di spazio lʼamore
della stella più lontana.

Era un uomo dappertutto in esilio, un nomade che non aveva più strada.

[Illustrazione: DECORAZIONE]

Sua Eccellenza entrò nel proprio gabinetto con un passo da Primo
Console vittorioso, e tre o quattro volte di séguito premette lʼindice
sul bottone del campanello da scrivania. La squillante furia del
piccolo batacchio non si era puranco dispersa fra le quattro pareti,
che già la barbuta e panciuta sagoma di un decorato segretario
sʼincastrava con obesità nellʼinquadratura dellʼuscio.

—Voyons, monsieur Pétimel!... Vous pourriez bien être là lorsque je
rentre!

—Les coups de sonnette marchent toujours plus vite que des pieds
dʼhomme, Monsieur le Ministre!

—Et vous êtes toujours un implacable sophiste, monsieur Pétimel!
Faites–moi grâce de votre verbiage et donnez un coup de téléphone à
cet idiot de Chef de la Sûreté, pour lui demander sʼil veut avoir
lʼobligeance de venir chez moi im–mé–dia–te–ment! Mʼentendez–vous,
monsieur Pétimel? dites–lui quʼil vienne à fond de train!

—Le chef de la Sûreté Parisienne attend depuis bientôt une demi–heure.
Il était sur le point de sʼen aller, lorsque jʼai reconnu à travers la
place la corne ministérielle de votre limousine...

—En effet, monsieur Pétimel, je suis venu a pied et pas du tout par
la place! Mais cessez donc de me corner aux oreilles avec votre voix
horripilante, et faites passer, je vous en prie, cet aimable monsieur
Ardouin.

—Dans ce cas il faut conclure quʼil y a des trompes dʼauto qui se
ressemblent comme des sosies... Et, quant à monsieur Ardouin, jʼai très
bien fait de le retenir.

—Vous avez très bien fait, monsieur Pétimel... que le diable vous
emporte!

Questo era il commiato che per lo più riceveva il metaforico segretario
Pétimel, decorato con la Legion dʼOnore.

Poco dopo entrò il Capo di Polizia, chʼera un uomo dallʼaspetto
segaligno e nevrastenico, il quale si faceva continuamente passeggiare
fra le labbra un residuo di stuzzicadenti e nel sorridere arricciava
le grinze del viso con una smorfia particolare, come se patisse di
prurito agli zigomi.

—Bonjour, monsieur Ardouin. Très aimable dʼêtre venu,—disse il Ministro
con un tono affabile.—Asseyez–vous, je vous prie.

—Malheureusement, Monsieur le Ministre, je nʼai rien dʼimportant à vous
signaler.

—Ah, ah... pas encore?

—Pas encore.

Naturalmente, come Capo di Polizia, lʼirritabile monsieur Ardouin non
si occupava neanche per sogno dellʼordine, del buon costume nè della
pubblica sicurezza parigina. Ladri, malfattori, satiri, biscazzieri,
spalleggiatori di prostitute, eran quelli appunto che fornivano la
ragion dʼessere alla sua funzione di Capo della Polizia; quindi egli si
guardava bene dal muover un dito per impedire a queste brave persone di
dedicarsi con tutto comodo ai loro innocenti e svariati commerci.

Per il Capo della Polizia—come in genere per ogni altro Funzionario
dello Stato—il cittadino che ha minore importanza, quello che non
serve a niente, e del quale non si parla nemmeno, è precisamente il
galantuomo. Sembra quasi unʼingiustizia; ma quando si pensa che i
galantuomini saranno sì e no in proporzione dellʼuno per mille, si
capisce come non sia possibile sacrificare la comunità a beneficio
dʼuna tanto esigua minoranza.

Ordunque il Capo di Polizia ha ben altro da fare che mettersi alle
calcagna dei malfattori o dipanare con troppa celerità i romanzeschi
enigmi dei delitti passionali, che frattanto servono mirabilmente
a riempire le timorate colonne dei giornali quotidiani. Di queste
bazzecole, se mai, si occupa nei ritagli di tempo.

Ma quello che deve anzitutto fare un buon Capo della Polizia
è ubbidire ciecamente agli ordini politici che riceve dal suo
Ministero; poi assumere informazioni secrete per conto dei grandi
istituti bancari, essere in ottimi rapporti coi caporioni delle leghe
proletarie, secondare la giustizia nel modo e nella misura che alla
giustizia conviene, impedire o provocare un dato scandalo, una data
manifestazione della volontà popolare, far coincidere le risultanze
dʼuna inchiesta con lʼesito già prima stabilito, fare in modo che la
legge venga rispettata da chi deve rispettarla o presa in giro da
chi ha licenza di prenderla in giro, ed in ultimo luogo provvedere
affinchè i ladri, gli assassini e gli offensori della morale pubblica
non eccedan quel numero medio che le tabelle statistiche accordano al
consumo di una grande città.

Poichè a tutti è noto che lʼuso del calcolo statistico va ora
diventando la pietra filosofale della scienza moderna.

Non è dunque un mestiere facile quello del Capo di Polizia. Si noti per
di più che anche lʼamore dei Ministri, Granduchi, Principi del sangue,
Parlamentari ed Ospiti ragguardevoli, è per lo più affidato alla
solerte vigilanza del Capo di Polizia.

Non farà dunque maraviglia a nessuno se, fra tanti grattacapi
accessori, pochissimo tempo gli rimanga per occuparsi del suo mestiere.

Questo era precisamente il caso dellʼirascibile Monsieur Ardouin, che
Sua Eccellenza aveva precipitosamente fatto chiamare nel suo gabinetto,
la famosa mattina che Bluette gli aveva presentate le proprie
dimissioni dal Ministero.

—Voulez–vous me rendre service, monsieur Ardouin?—gli aveva detto il
Ministro con insolita cortesia.

—A vos ordres, Monsieur le Ministre!

—Il sʼagit dʼune affaire privée, mais qui peut indirectement avoir
rapport aux intérêts de la République.

Quando un Ministro gli parlava «de la République», Monsieur Ardouin
sapeva senzʼaltro cosa pensare. Rispose, con la sua voce piena di
rispettoso malumore:

—Je ferai tout ce qui peut vous être agréable, Monsieur le Ministre.

—Eh bien, mon ami, cʼest très simple. Un certain monsieur, aux allures
très suspectes, respire en ce moment lʼair de Paris. Vous trouverez un
moyen pour quʼil décampe.

—Je le coffre!—disse con eloquenza catilinaria il Capo di Polizia.

—Doucement,—corresse con sussiego diplomatico il glorioso Ministro
dʼAgricoltura e Commercio.—Doucement, mon cher Monsieur Ardouin! La
mesure ne doit être prise que selon la Justice, car tout abus est
toujours préjudiciable.

—Cela va de soi, Monsieur le Ministre. Veuillez me dire le nom de ce
personnage.

—Voilà ce que jʼignore, pour le moment.

—Dans ce cas cʼest moi qui vous le dirai. Il sʼappelle, ou se fait
appeler, Hilaire Castillo, et il vient de plaire pendant trois jours et
trois nuits à la bellissime danseuse, M.ᵐᵉ Mimi Bluette.

Era un modo garbato ma energico per far notare al Ministro la sua
condizione di Eccellenza cornuta. In verità, come Capo della Polizia,
non faceva nientʼaltro che il suo preciso dovere.

—Castillo, vous dites?... Oui, oui, cʼest ça, Castillo... cʼest bien
ça!—ripeteva il Ministro, non sapendo bene che atteggiamento prendere.
Poi concluse, da uomo di spirito:—Enfin... je ne serai ni le premier ni
le dernier, nʼest–ce–pas, Monsieur Ardouin?

—Cʼest la règle, Monsieur le Ministre.

—Bon; je vous confie cette affaire, mais je tiens à ce que cela soit
fait dʼune façon légale, et en douceur, pour éviter quʼon lʼébruite.

—Comptez sur moi, Monsieur le Ministre.

Ma nonostante la congiura dʼun Ministro e dʼun Capo di Polizia, il
nominato Castillo seguitava a mantenere i suoi penati nella grande
libera Parigi. Anzi era la terza volta ormai che il lunatico M.
Ardouin, presentandosi nel gabinetto di Sua Eccellenza, gli dichiarava
con una specie di maligna soddisfazione che gli estremi richiesti
mancavano per sfrattare legalmente lʼ «undesirable» Castillo.

—Que voulez–vous, Monsieur le Ministre? Nous avons dans les archives
un dossier des plus romanesques autour de ce personnage, mais je me
trouverais fort embarassé de vous dire qui il est et ce quʼil fait au
juste.

—Est–ce possible?

—Comme je vous le dis, Monsieur le Ministre. Il est signalé à toutes
les Polices de la terre, mais rien de positif nʼexiste contre lui, et
Scotland Yard nʼen sait pas plus long sur son compte que la Polizei
de Berlin ou que la Questura de Rome. On le surveille depuis des
années, mais, vous savez bien, Monsieur le Ministre: nul nʼest aussi
irréprochable quʼun homme surveillé.

—Voyons, Monsieur Ardouin, vous plaisantez, jʼespère!

—Je ne me le permettrais pas, Monsieur le Ministre.

—Parbleu! vous êtes bien censé savoir qui il est, dʼoù il vient, quel
est son métier et dʼoù il tire ses ressources.

—Dussé–je y perdre ma place, je ne pourrais répondre à aucune de ces
questions. Voilà une dizaine dʼannées quʼil se promène à travers la
terre, en faisant à peu près partout ce quʼil fait à Paris.

—Cʼest–à–dire?

—Cʼest–à–dire, rien du tout. Il flaire... on dirait quʼil flaire
lʼambiance. Mais ses actes, ses fréquentations, sa correspondance,
tout cela nʼa rien de compromettant. Je lʼai fait filer pendant des
semaines; pour le moment je puis vous dire quʼil ne sʼoccupe que de
Madame Bluette.

—Ah?...

—Il a touché un chèque de 3.725 francs au Crédit Lyonnais, il y a
quatre jours. Cet argent lui venait de Varsovie, de la part dʼun
certain Monsieur Louwoievich. Ce Louwoievich est un marchand de
meubles; donc vous voyez que ce nʼest pas une piste importante.

—Et cʼest tout ce que vous avez à mʼapprendre sur son compte?

—Cʼest tout, hélas!... bien malgré moi. Je vous ai déjà dit que, il y
a cinq ans, on lʼa cru lʼâme damnée du procès de la baronne dʼElsoën;
mais il fut dʼailleurs promptement acquitté, et, depuis, cet homme a
fait des voyages sur mer.

—Très bien!—disse il Ministro con una voce tetra.

—Jʼai même essayé dʼavoir les confidences de Madame Bluette. Jʼai
envoyé auprès dʼelle une dentellière qui est très habile dans cette
sorte de sondages; mais je vous affirme que Madame Bluette nʼen sait
pas un mot de plus que nous.

—Très bien!—disse il ministro con una voce ancor più tetra.

—Et, à la fin des fins,—concluse il Capo di Polizia,—je vous repète ce
qui fut mon premier avis: Si vous voulez, je le coffre, et je lʼexpulse
pour raison dʼEtat.

Cʼera una sottilissima ironia, quasi un opaco sarcasmo, nella voce
burocratica dello scrupoloso Monsieur Ardouin.

—Non!—rispose fieramente il Ministro dʼAgricoltura e Commercio.—Que
Monsieur Castillo aille se faire pendre où il voudra! Et Bluette aussi!
Pour mon compte je nʼaime que le droit chemin. La légalité avant tout!

—Fort bien, Monsieur le Ministre. Toutefois, quand cela vous fera
plaisir, je le coffrerai.

—Eh bien, Monsieur Ardouin, voulez–vous mʼen croire? Il se passe en
moi un phénomène psychologique. Depuis que nous nous occupons de ce
Monsieur Castillo, il mʼest devenu sympathique, et jʼaurais presque
envie de le nommer chef de quelque chose au Ministère.

—Ne le nommez toujours pas chef de la Police, car jʼy perdrai ma place,
et cela me mettrait dʼassez mauvaise humeur, «Excellence!...»—disse,
con uno strale realista, il Capo della Polizia repubblicana.

In quel momento la Francia democratica pagava con scrupolosa regolarità
le sue tasse governative.

[Illustrazione: DECORAZIONE]

—Si vous faites semblant de ne pas me reconnaître, Bliouette, that is
not right!

Bluette, la quale accellerava il passo credendo di aver a che fare con
un inseguitore da marciapiede, si fermò contro una vetrina e rimase
qualche attimo a guardarlo bene in faccia.

—Tiens! cʼest toi?

—Yes, cʼest moi.

Dʼun tratto le vennero quasi le lagrime agli occhi.

—Oh, mon brave Jack!...

—My dear Bliouette!...

E rimasero qualche istante con la mano stretta nella mano, senza
parlare. Poi ella ritrovò la voce per domandargli:

—Quʼest–ce que tu fais ici, Jack?

—Je danse à Marigny, avec deux camarades Américaines.

—Tiens! Je ne le savais pas.

—Yes. On mʼa dit que vous avez quitté le théâtre et que vous êtes
devenue un peu foolish, paraît–il....

—Oui, je suis un peu folle sans doute... Mais ça me fait plaisir de
lʼêtre. Viens, marchons.

Gli prese il braccio, come tanti anni prima, e andarono.

Sul marciapiede serale di Parigi lʼimmensa moltitudine ondeggiava con
un frastuono ilare; la nuvola dʼelettricità sospesa nellʼaria traeva
dalle facce dei passanti una specie di bianco fulgore, simile quasi al
balenìo fosforescente che mandano le vetrine di perle false.

—Mon brave Jack, tu ne pourras jamais te figurer combien ça me fait
plaisir de te revoir!

—Et moi donc! I have never forgotten My Blu.

—My Blu, à présent, elle est morte,—disse Bluette con una leggera
sorridente malinconia.

—Alors cʼest vrai que vous ne dansez plus?

—Oui, cʼest vrai, Jack. Cela me fait de la peine tout de même.

—Oui? ça vous fait de la peine?... Très bien! Jʼespère, Bliouette, que
ce ne sera pas pour longtemps.

—Dieu sait!... A présent il me semble que ce sera pour toujours.

—Quelle bêtise!—interruppe lʼAmericano, scrollando le sue larghe
spalle.—Ce nʼest jamais pour toujours!

Dietro una siepe di folla dovettero fermarsi. Una quadruplice fila
dʼautomobili sbarrava il quadrivio. Sciami di giornalai correvano
frammezzo ai motori gridando le notizie dei giornali appena usciti.
Nella profonda raggiera delle contrade opposte si vedevano a perdita
dʼocchio splendere, come lunghissimi canali di fiamme, le vetrine
scintillanti.

Bluette gli teneva il braccio e camminava silenziosa, raccolta in
sè medesima, come se il rumore della strada fosse la musica dʼuno
dei balli che avevano danzato insieme. Vicino a quel semplice, a
quellʼonesto Americano, le sembrava di sentirsi ridiventare come una
volta la ballerina di Parigi, Mimi Bluette.

Finalmente riuscirono a traversare la strada. Ella disse:

—Vois–tu Jack? On se retrouve, mais on nʼest plus les mêmes...

—Quʼy a–t–il de changé?

—Tout, mon brave Jack; les yeux et le cœur.

—On mʼa dit que vous avez eu beaucoup de chance depuis que nous nous
sommes quittés.

—Oui, beaucoup de chance. Je suis devenue très riche. Et toi?

—Moi je gagne passablement. Jʼai acheté aux Etats Unis une petite
propriété pour ma vieille mère.

—Tu es un brave garçon, Jack! un très brave garçon.

—Oh... mais cʼest très simple! Les danseurs Américains sont parfois des
gens bien élevés.

—Ce nʼest pas tellement simple; jʼen ai connu qui étaient des
fripouilles.

—All right; moi aussi.

—Et bien, vois–tu, Jack? Quand je suis avec toi, il me semble être avec
un frère. Ça me fait du bien au cœur.

—A moi aussi.

—Alors, la prochaine fois, je te raconterai beaucoup de choses, que je
ne raconte à personne.

—Comme vous voudrez, My Blu.

—Oui; car, si je te les disais toute de suite, jʼaurais lʼair de ne
mʼoccuper que de moi même; ce qui nʼest pas très correct. Je ne te
demanderai quʼune chose: Est–ce que tu me trouves toujours jolie?

—Yes, très jolie.

—Comme autrefois?

—Pas moins. Seulement on ne dirait plus de vous au premier abord: Voilà
une danseuse!—Et cʼest bien triste.

—Diable!... Mais comment se fait–il que tu parles le français moins
sauvagement quʼautrefois?

—Vous vous mouquez toujours de moi, Bliouette!

—Mais pas du tout! Je constate.

—Bien, oui. Cʼest une Miss du Canada qui me lʼa appris.

—Fichtre! Une Miss danseuse?

—Bien entendu.

—Très chic! Alors tu étais amoureux?

—Moi amoureux?

—Oui; cela peut arriver à tout le monde.

—Cela mʼest arrivé aussi, une fois... Mais vous savez bien quʼon a
trouvé cela ridicule. Si vous nʼaviez pas trouvé cela ridicule, vous et
moi nous aurions aujourdʼhui notre «home» aux Etats Unis, près de ma
vieille mère. Et nous danserions quand même, puisque cʼest notre nature
de danser.

—Tu crois, Jack?... tu crois vraiment que cʼest notre nature de danser?
la mienne aussi?

—Absolument, Bliouette. Votre corps de danseuse nʼest fait que pour
suivre une musique, et tout ce que vous essayerez dʼautre ne pourra
jamais vous réussir.

—Toi, mon brave Jack, je te lʼai toujours dit: Tu as beaucoup de cœur,
mas tu nʼes pas intelligent. Aussi, quand tu fais un discours, tu dis
toujours des sottises.

—Quite right. Voilà My Blu!

—Oui, des sottises. Et tu ne dois tʼexprimer que par monosyllabes.
Alors tu es parfait.

Jack si mise a ridere; i suoi bellissimi denti scintillarono.

—Jack...

—My Blu?

—Je me sens très à mon aise à côté de toi.

—Cʼest parce que jʼétais votre danseur; je vous ai donné «mon temps».
Et, ce temps, est une espèce de complicité mécanique fort difficile à
oublier.

—Cʼest peut–être bien à cause de cela, Jack. Tu dis parfois des choses
profondes. Cela vient tout seul quand on nʼest pas intelligent. Enfin,
dis–mois: est–ce que tu as de nouvelles danses?

—Oui, jʼen ai.

—Jʼaimerais bien que tu me les apprennes.

—Si vous voulez.

—Viens chez moi demain, à quatre heures. Nous causerons. A présent je
te quitte.

—Vous me quittez? Oh!... vous me quittez déjà?

—Mais, sans doute. Nous nʼallons pas tout de même faire la traversée de
Paris, par le train où nos allons depuis une bonne demi–heure!...

—Je vois.

—Quʼest–ce que tu vois? Quʼest–ce que tu vois, Jack, avec tes yeux de
poisson frit?

—Je vois, Bliouette, quʼon mʼa dit la verité lorsquʼon mʼa dit: «Elle
est amoureuse comme une vraie folle... Quant à nous autres, nous sommes
tout morts et enterrès dans son cœur!»

—Il y a de lʼexagération dans lʼaffaire de lʼenterrement... Mais, ce
qui est bien vrai, cʼest que je lʼaime.

—Vous lʼaimez?... oui? dʼamour?—egli domandò, fissandole in viso gli
occhi divenuti grandi.

—Plus que dʼamour, Jack... de folie je lʼaime! Je suis devenue pour lui
ce que la femme nʼest quʼune fois dans la vie: sa chose... Tu es mon
frère, Jack; il faut bien que je te dise la vérité.

Egli abbassò la faccia e non rispose parola. Sembrò che il suo profilo
rettilineo si scolpisse in un dolore immobile, in una specie di
rassegnata malinconia.

La strada camminava scintillando incontro alle nuvole del cielo
abbassato. Sopra il dedalo del suo movimento, lʼanima elettrica della
folla scoccava e bruciava come un corto circuito.

Ella di nuovo si serrò al suo braccio, che aveva lasciato, e ripetè con
dolcezza:

—Oui, tu es mon frère, Jack... tu ne dois pas mʼen vouloir si je
lʼaime...

—Il faut être heureux, Bliouette. Cela est lʼimportant!... Le reste
nʼest quʼune farce.

—Oui, tu as raison: le reste nʼest quʼune farce. Mais moi, je ne suis
même pas heureuse... Et, vois–tu, je te le dis à toi, Jack, parce que
tu es mon frère...

[Illustrazione: DECORAZIONE]

La bionda Caterina, da qualche tempo, soffriva la nostalgia di rifare
un assalto con quellʼottima lama chʼera il suo Maestro di scherma.
Insieme bruciava dal desiderio di tornare per qualche mese in Italia a
fare la Parigina.

I suoi teneri legami con Maurice, maggiordomo impeccabile, si erano
gradatamente allentati, per la sola ragione che il solerte maestro di
casa, già molto grigio quando aveva cominciato a prepararle quelle
famose tazze di camomilla, ormai si era fatto quasi del tutto bianco.

Ella, che invece rimaneva rosso–bionda con pertinacia, grazie ai
miracoli dellʼAccademia di Bellezza, non poteva indulgere a quella
nevicata, e la capigliatura da saraceno del suo gagliardo Maestro di
scherma le rifolgorava più che mai nel riscaldato pensiero. Lʼidea
di tornarsene fra le sue conoscenze lombarde, impariginita come una
canzonetta napoletana messa in voga dai violini di Montmartre, lʼidea
di sbalordire tutta la clientela di sua sorella, integerrima Levatrice
Diplomata, coi doviziosi abiti, coi mantelli e con le pellicce che
le aveva regalati Bluette, la tentazione dʼinframmettere, parlando
con queʼ provinciali, qualche spízzico di francese fra i dialetti che
si parlano con lente cantilene per la dolcissima valle del Po, tutto
questo insieme, le diede così grande impazienza di rivarcare le Alpi,
che Parigi ormai la disamorava di sè quanto il maggiordomo incanutito.

Inoltre, da buona madre, non voleva più assistere alle follìe di
Bluette. Pazza da mettere in un manicomio, secondo lei!... E, per di
più, con un caratteraccio tale, che ormai non era possibile farle
neanche la più piccola osservazione.

Da quando sʼera impastoiata con quel maledetto Castillo, geloso come un
turco e più furfante senza dubbio che lʼamabile signore dʼOlonzac, non
cʼera verso di farle intender ragione.

Bene: facesse pure di sua testa, la scioccherella sentimentale! Ma,
quanto a lei, per non assistere a queʼ malanni, chiudeva i suoi bauli e
se nʼandava. Lasciare un Ministro per innamorarsi di quellʼindividuo,
che non le aveva mandato finora neanche un mazzolino di garofani, era
unʼidea così balorda, che, per metterla in pratica, bisognava proprio
chiamarsi Mimi Bluette! Ma lo mandasse un poʼ al diavolo, benedetta
figliola! lui e le sue pretese da gran Turco! Lʼamore?... Macchè amore!
«Quello lì—vuoi che te lo dica io?—quello lì ti riduce sul lastrico e
poi riparte per il giro del mondo lasciandoti con un palmo di naso!»

A tali discorsi Bluette la fissava, bianca di furore. Voleva
dirle unʼinsolenza, grande, grande, come quelle che si usano sui
palcoscenici... Poi non osava, perchè era la sua mamma.

—Senti,—le rispondeva;—io ti prego dʼuna sola cosa: non ti occupare
dei fatti miei. Comanda, spadroneggia, mettimi sossopra tutta la casa,
ordina e disordina come ti piace: solo, non occuparti deʼ fatti miei.

—Ma non capisci che ti rovini, figliuola?

—Se mi rovino, tanto peggio per me. Vuol dire che il mio piacere
consiste nel rovinarmi. Tu non cʼentri.

—Benissimo. Ed allora me ne vado.

—Ti ho pregata io forse di rimanere? Non credo. Anzi ti ho detto: Fa un
bel viaggio in Italia, mammina! Io ti mando laggiù tutto il denaro che
ti occorre, tutti i mobili che ti piacciono... Se vuoi portare con te
anche Maurice, te lo regalo... Dunque perchè non te ne vai?

—Ti giuro, Mimi, che se tu avessi ancora il tuo Ministro, cioè se
tutto fosse in ordine comʼera prima, non aspetterei neanche domani per
andarmene. Sii buona, Mimi, fagli una telefonata... Vedrai che torna
súbito.

—Non ci pensare! Ministri ve ne sono tanti; quando volessi partecipare
al governo della Francia non avrei che riaffacciarmi alla vita politica.

—Ecco lʼingenua! lei crede...

—Non credo niente! Ma ti prego, ti supplico, di lasciarmi stare. Se no,
sai cosa faccio? Vado a vivere addirittura con il mio amante, nella sua
casa, e qui non mi lascio più vedere.

—Oh... per quello che ci stai! Vieni a cambiarti e scappi. È una bella
maniera di stare a casa tua!

—Forse. Ma è la maniera che mi piace. Così rimani tu la padrona. E te
ne lamenti?

—Capirai che mi annoio, ragazza mia! Non cʼè niente a fare, dal mattino
alla sera, in questa benedetta Parigi! Ecco la ragione per la quale
voialtre vʼinnamorate come stupide.

Bluette sorrise di quella straordinaria opinione.

—E di cosa vʼinnamorate poi?—si chiedeva la bionda Caterina.—Del più
rifiutabile fra tutti quelli che vi sono capitati fra i piedi! E cosa
ci trovate mai di così fatale?... Dio lo sa!

Fece una pausa, e inumidendo sul labbro inferiore i due polpastrelli
deʼ medii, si lisciò accuratamente i lunghi archi dei sopraccigli. Poi
trasse fuori dal classico seno un sospiro grande come lʼesperienza di
tutta una vita, e concluse:

—Ah, figliuola!... è un vero peccato che tu non possa prestarmi per
quindici giorni la tua età... Ti farei veder io come la si adopera e
cosa vuol dire chiamarsi Mimi Bluette!

—Perchè sei stata forse tu, non è vero, a farmi diventare quel che sono?

—È stata la fortuna, piccola mia, nientʼaltro che la fortuna. E
tu la sciupi. Tu, il giorno che sei arrivata a Parigi, potevi con
indifferenza finire nelle case di Montmartre o diventare Mimi Bluette.
Sei stata Mimi Bluette: ma non credere di averlo fatto apposta. È la
fortuna, mia piccola, nientʼaltro che la fortuna!

—E allora?—domandò Bluette, senzʼalcuna protesta.

—E allora, siccome non ti è costato nessuna fatica ottenere i suoi
favori, spendine almeno un poco per impedirle chʼessa ti abbandoni.

—Sai cosa faccio per intanto?

—Non so cosa, ma certamente una sciocchezza.

—Ora esco, vado da Cock, ti compero un biglietto, fisso il tuo posto
nello «sleeping» e fra un paio di giorni tu, mammina, te ne vai. Siamo
dʼaccordo?

Gli occhi lontani del Maestro di scherma vinsero lʼamor materno e le
fecero rispondere di sì. Ma poi le venne un soprappensiero e soggiunse:

—Vedi, Bluette? Se tu fossi una ragazza ragionevole prenderesti due
biglietti, due posti nello «sleeping», e fra un paio di giorni verresti
con me in Italia. Non sai quanto bene ti farebbe allo spirito una
boccata dʼaria del tuo paese.

—Il mio paese? Ma è questo il mio paese! Non mi ricordo nemmeno di
averne avuto un altro.

—Che orrore! Tu credi ormai di somigliare a questa gente, ma in fondo
hai lʼanima della Parigina come ce lʼho io. Ed ecco perchè ho paura
quando mi dici: «Sono innamorata.» Me lo dicesse una di loro... peuh!
nulla di grave! Quelle sono più intelligenti, più ragionevoli, ed è
sempre unʼaltra cosa.

—Unʼaltra cosa? cioè?

—Niente... Sarà un amore, ma un altro amore. Più forte, se vuoi, più
importante, se vuoi, ma è sempre un amore di Parigi, ossia qualcosa
dove cʼè dentro un poʼ di tutto, come nella «bouillabaisse».

Bluette si mise a ridere; ma la bionda Caterina seguitava:

—Io ti dico la verità, Bluette: ora che hai fatta fortuna, ora che hai
spremuto come un limone questa città pericolosa, e le hai preso tutto
il piacere che poteva darti, ora che si ricordano ancora di te come
dʼun raggio di sole, io, neʼ tuoi panni, farei una cosa molto semplice,
molto furba: scomparirei.

—Davvero?

—Sì, davvero. È una città che un bel giorno si vendica. Tu hai
avuta fortuna: ringraziala e torniamo a casa nostra. Io sono quasi
unʼignorante, ma ti assicuro che non mʼinganno. Qui lʼaria è
avvelenata; per noi almeno, è avvelenata. La fortuna di Parigi è come
il denaro vinto alla roulette; non si riesce mai a portarlo fuori dalla
porta.

—Ma che stramberie vai dicendo, mammina?

—Stramberie?... Fa come vuoi. Solo ricórdati che tua madre te lo ha
detto. Per me sono felicissima di tornarmene a casa, e ti prego, se
vuoi prenotarmi uno «sleeping», di sceglierlo in modo che si trovi a
pianterreno, perchè mi ricordo che nel venire in su mi avevano cacciata
contro il soffitto, e non ho mai potuto chiudere occhio dal Sempione
fino qui...

[Illustrazione: DECORAZIONE]

—Oui, Jack, il mʼaime et il nʼa jamais voulu mettre les pieds chez moi;
il mʼaime et je ne connais pas son vrai nom; il mʼaime et jamais il ne
mʼa dit ce que nous deviendrions dans une semaine!

—Pauvre Bliouette! vous me faites de la peine...

—Tu as tort, Jack. Moi, au contraire, je lui suis reconnaissante. Il
mʼenivre. Il est mon flacon dʼéther, ma morphine. Si demain il me
proposait par exemple de me tuer avec lui, dans sa petite chambre... eh
bien, je le ferais, Jack! je le ferais, presque souriante, sans que mon
cœur tremble...

—All right, Bliouette! Cela sʼappelle de lʼabrutissement.

—Appelle–le comme tu voudras, Jack. Cʼest de lʼamour tout de même.
Cʼest quelque chose que je ne connaissais pas avant lui.

—On mʼa dit que vous lʼavez rencontré au Bar de la Grande Rouquine.

—Oui, au Bar de la Grande Rouquine, un soir de neige.

—Ahô!... un soir de neige... It must have been very splendid!

—Pourquoi dis–tu; ahô?... Dʼabord ça nʼexiste pas dans la grammaire;
puis cʼest tellement yankee que ça mʼhorripile! Est–ce que ça te gêne
que çʼait été un soir de neige?

—Ça me gêne que ma danseuse dʼautrefois perde la tête pour des inconnus
qui traînent chez la Grande Rouquine.

—Mince!... oh, pardon... je voulais dire: flûte!

—Flûte ou pas flûte, ce monsieur nʼétait pas celui quʼil fallait pour
vous, même si vous aviez envie de devenir amoureuse.

—Ecoute, Jack... Dʼabord je te prie de ne pas mettre tes semelles sur
mes velours, parce que tu les fripes; et ne tourmente pas ce coussin
qui ne tʼa rien fait de mal... Je préfère en ce cas que tu fumes ta
pipe. Ensuite...

—Yes? You permit?

—Oui, je «permit». Empeste ma maison tant que tu voudras: je «permit».
Ensuite je te prie de me dire quels sont tes griefs contre «ce
monsieur».

—Moi, dʼabord, je ne le connais pas.

—Et alors?

—Et alors je pense quʼil doit y avoir une raison pour que tout le monde
me dise:—«Cette pauvre Bliouette... quelle triste fin!»

—Qui est–ce qui tʼa dit ça?

—Tous.

—Très bien. Tu peux leur répondre, à ces «tous», que je mʼen moque de
leurs condoléances! Tu viens chez moi, soi–disant pour mʼapprendre de
nouvelles danses, mais je crois que tu viens tout juste pour me faire
pleurer.

—Puisquʼil nʼy a pas le tapeur...

—Il tarde, en effet. Cʼest quʼil habite loin, le pauvre. Rue des
Fermiers... Je ne sais même pas où ça se trouve! Est ce que tu le sais,
toi, où se trouve la rue des Fermiers?

—Ce nʼest pas mon affaire. Je ne suis pas cocher de fiacre. Moi, je
suis danseur.

—Oh... excuse–me! Indeed! Et comment sʼappelle ta nouvelle danse?

—Byrigo–step.

—Où est–ce que cela se danse?

—Nullepart. Cʼest une création.

—Difficile?

—Pour vous pas.

—Pourquoi pas?

—Parce que vous êtes danseuse, bonne danseuse.

—Merci. Alors tu prétends quʼils disent: «Cette pauvre Bliouette!...»

—Oui: quelle triste fin!

—Ils disent: fin?

—Yes: fin.

—Les femmes?

—Les hommes aussi. Tous.

—Et pourquoi donc? Est–ce quʼune femme est finie lorsquʼelle devient
amoureuse?

—Des fois oui.

—Tu le penses toi aussi, Jack?

—Oui, un peu.

—A cause de quoi?

—On nʼest pas forcé de savoir la raison de ses propres idées.

—Eh bien, continue.

—Mais je nʼai plus rien à dire.

—Alors montre–moi le Byrigo, sans musique.

—Si vous voulez.

—Non, attends. Quand tu recauseras avec ces gens, il faudra que tu leur
dises:—«Jʼai vu Bluette; elle est tout à fait heureuse.»

—Pourquoi dire des mensonges? Ce nʼest pas indispensable. On peut se
taire.

—Mais enfin... je tʼavoue, Jack, que mon seul chagrin est de ne plus
danser.

—Et pourquoi ne dansez–vous pas?

—Ça lui ferait de la peine... Il est très jaloux.

—Cʼest ridicule.

—Non, cʼest juste. Il y a des choses que tu ne peux pas comprendre.
Parce que ton cerveau à toi, Jack, on te lʼa fourré dans les pieds. Il
te sert à bien danser, mais non pas à être un psychologue.

—Il faut voir si cʼest la psychologie ou bien la danse qui a le plus de
valeur. Ecoutez, Bliouette; jʼai une question à vous poser.

—Pose–la.

—Vous mʼavez dit quʼil nʼa jamais voulu mettre les pieds chez vous...
Pourquoi?

—Pourquoi?... Mais cʼest très simple! Il mʼa dit quʼil préfère mʼavoir
chez lui, quoique son petit appartement soit beaucoup plus modeste que
le mien.

—Oui; et la raison?

—Mais je viens de te la dire la raison! Est–ce que tu es sourd?

—Vous mʼavez dit que chez lui cʼest plus modeste; vous ne mʼavez pas
expliqué la raison qui lʼempêche de venir ici.

—Dieu, que tu mʼénerves, mon petit!... Mais la raison est très simple!
Cʼest parce que, chez moi, il faut croire quʼil ne se trouverait pas à
son aise. Toi, chez moi, tu te trouves à ton aise... et la preuve cʼest
que tu mʼécrases mes velours, tu mʼempestes lʼair, tu vas me brûler
quelque chose tout à lʼheure... Lui, au contraire, pas. Est ce que tu
comprends?

—Ahô... je ne comprends rien.

—Zut alors! Et cʼest pourtant si simple! Ecoute–moi, Jack. Tâche dʼêtre
aussi intelligent que possible; je vais tʼexpliquer. Lui, dʼabord,
nʼest pas un homme comme tous les autres...

—Non? Quʼest–ce quʼil est? A–t–il quelque chose qui lui manque?

—Ne fais pas de lʼesprit, Jack? Toi, qui es si adorablement stupide,
nʼessaye pas dʼêtre un homme spirituel, pour lʼamour de Dieu!
Dʼailleurs je te préviens quʼil est très beau, dʼune beauté vraiment
noble; cʼest un de ces hommes qui forcent le monde à retourner la tête
lorsquʼils passent.

—On me lʼa dit.

—Tiens! On te lʼa dit? Jʼen suis très satisfaite. Et, avec ça, il nʼest
pas comme tout le monde; il a ses idées. Quand il dit:—Je ne veux
pas telle chose,—il ne la veut pas. Cʼest très simple... Me suis–je
expliquée?

—Peut–être.

—Mais comment peut–être? Attends... Ne siffle pas. Est–ce la musique du
Byrigo, ce que tu siffles?

—Yes: Byrigo–step.

—Très joli. Je devine par là comment tu le danses... Mais, avant tout,
je tiens à te faire comprendre la raison qui lʼempêche de venir ici. Ma
maison, et tout ce quʼil y a dedans, mʼa été donne par des amants... Tu
saisis?

—Ahô... ce sont des admirateurs de vos danses.

—Parfaitement. Mais lui, comme il est très fier, comme il est dʼune
fierté aveugle, ça le gêne, ça lʼénerve... en somme il nʼy vient pas!

—Et cʼest lui qui vous a raconté cette bonne blague?

—Tu mʼembêtes, Jack! Oui, tu mʼembêtes prodigieusement!

—Votre caractère est devenu très mauvais, Bliouette.

—Eh bien, je tʼavoue que ce nʼest pas lui... non, ce nʼest pas lui qui
a trouvé ces prétextes, car, en somme, nous parlons très peu de ces
choses.

—Alors cʼest votre imagination?

—Voilà, mon imagination. Mieux encore: ma certitude. Je me suis dit:
«Comme il ne doit pas être riche, et que moi je suis très riche, comme
il ne doit pas être heureux et que moi je suis très heureuse, comme...»
Oh, mais, après tout, à quoi bon gaspiller tant de mots pour te faire
comprendre une chose si claire?

—Jʼai compris.

—Tu as compris?

—Yes.

—Alors tu es plus intelligent que moi; car moi, je te lʼavoue, jamais
je nʼai pu rien comprendre à toute cette affaire!

—Bravo Bliouette! Vous nʼavez jamais été logique, et cʼest là votre
charme!

—Ne ris pas, Jack. Ce ne sont pas des choses dont on puisse rire. Sache
bien que toute logique nʼest en générale que de lʼartifice. Moi je me
contredis parce que je suis sincère. Il nʼy a rien de plus illogique,
de plus contradictoire, que la sincérité. Lui il mʼaime et moi je
lʼaime; cela est vrai. Tout le reste nʼa pas dʼimportance... Quoi? Tu
siffles toujours?

—Yes: Byrigo–step!

[Illustrazione: DECORAZIONE]

Byrigo–step.

Una maniera nuova di mettere i piedi sul pavimento e di musicare il
proprio equilibrio facendo un poco di poesia con la suola delle scarpe.

Questa non è soltanto la definizione dʼun ballo; è anche la definizione
di tutti quei tentativi che lʼuomo fa per andare a tempo con la vita.

Il ballo diverte, perchè si crede vi sia qualche importanza nel
concordare un movimento con un suono, come si crede vi sia qualche
verità quando si ottiene che le lettere dellʼalfabeto sembrino andare a
tempo con lʼinconoscibile.

Certamente nel pensiero dellʼuomo vʼè un desiderio di musica, un
desiderio di poesia; e questo bisogno, in fondo, non è che tendenza
verso il limite. Ma nella vita reale cʼè soltanto quella musica, quella
poesia, che tale può essere per le forme inferiori del pensiero.

Lʼuomo di vera intelligenza perde la strada e sorpassa lʼumana poesia.

Quando è giunto a possedere la conoscenza, lʼuomo vede con elementare
chiarezza come lʼinvenzione di un nuovo ballo e quella dʼuna
metafisica nuova rappresentino pressʼa poco la stessa incongruenza.
In questʼultima è il pensiero che cerca nuovi equilibrii, nellʼaltra
è lo scheletro: ma in ogni caso, per dar valore allʼuna ed allʼaltra,
bisogna cominciare con ammetterne lʼimportanza intrinseca, ossia
dimenticare in entrambe la loro fondamentale comicità.

È difficile ritenere che un sistema filosofico, un libro di
giurisprudenza od un poema epico siano cose molto più serie che il
Byrigo–step.

Questo a noi «sembra», perchè siamo impigliati ancora dentro i nostri
sistemi, i quali non son altro che piramidi e labirinti e circoli di
lettere dellʼalfabeto.

Lʼápice dei sensi, che lʼuomo propaga fuori di sè, ha nome fantasia.

Ma per alcuni uomini viene un momento in cui la fantasia stessa, come
un decrepito albero, sʼinaridisce. È stanca dʼinventare la bellezza
delle cose che non ne hanno alcuna, è stanca di ammettere con dogmatica
fede lʼimportanza di tutto quello che non è.

Si spegne.

Il colore vola via, dal mondo, come da unʼacqua morta il colore del
sole che tramonta. Lʼinfinito si rabbuia e si ferma: è il crepuscolo,
muore la fantasia.

Allora, sui nervi saturi, non hanno più vigore gli afrodisiaci
spirituali che servono per propinare allʼuomo le innumerevoli
menzogne della vita; e soltanto la comprensione dòmina su tutte le
facoltà dellʼessere, la comprensione arida e sarcastica, il riso buio
dellʼintelletto che ha sorpassato lʼideale.

Ma riesce assai difficile spiegare, a chi non lo provi, questo senso
di fredda ilarità che allora comunica lo spettacolo del mondo. Riesce
difficile, poichè, per intenderlo, bisogna disubbriacarsi, bisogna
liberare il proprio cervello, i propri sensi, dal fumo di tutte le
droghe artificiali che impediscono allʼuomo di essere formidabilmente
semplice.

Il senso critico distrugge la vita.

Byrigo–step.

[Illustrazione: DECORAZIONE]

Il giorno 31 del mese, alle ore cinque precise, come di consueto
apparve il cronometrico Monsieur Bollot. Soffiava un poco dʼasma senile
quando, su la mensola dellʼanticamera, depose la venusta cartella di
cuoio sbiadito. Quella sua bella faccia da notaro della Reggenza, con i
baffi ed il pizzo da vecchio moschettiere, una capigliatura dʼargento
che si gonfiava sotto lʼantiquata solennità del cappello a mezza tuba,
la sua faccia piena di grinze, ma dove ancora brillavano i colori della
gioventù, sorrise familiarmente alla bionda leggiadria di Linette,
cameriera dalle calze di voilé, che si affaccendava per liberarlo dal
soprabito.

—Bonjour, ma petite! Un vent dʼAvril qui aigrit mes rhumatismes! A la
bonne heure, Linette!... si je nʼétais pas si vieux, jʼaimerais encore
bien vous conter fleurette..

—Mais vous nʼêtes pas si vieux, Monsieur Bollot! Au contraire, vous
avez une mine superbe aujourdʼhui.

—Des compliments! toujours des compliments! Ça fait plaisir quand même.
Enfin!... comment va Madame?

—Madame est en ville. Mais je suis sûre quʼelle rentrera bientôt.
Elle est sortie après le déjeûner, en me disant:—Aujourdʼhui, à 5 h.,
Monsieur Bollot viendra. Si par hasard je tarde, il faudra le prier de
mʼattendre.

—Cʼest ça; nos attendrons. Pour abréger lʼattente nous allons faire un
bout de causette, à nous deux, dans le salon.

—Avec plaisir, Monsieur Bollot. Jʼai même bien envie de vous dire
quelque chose.

—Oui? Dépêchons–nous alors...

Prese la cartella, i guanti, e camminò a piccoli passi, con quella
particolare oscillazione dʼequilibrio che hanno i vecchi ed i bambini.

Un sole dʼoro fiammeggiava sui mobili della sala di Bluette.

—Dʼabord, voici: ce sont vos gages,—disse il vecchio amministratore,
frugando nelle tasche della sua rigonfia cartella.—Vous y trouverez
aussi vos étrennes pour Pâques: cʼest un petit cadeau que je vous fais
personellement, et cela nʼa rien à voir avec les étrennes que vous
recevrez de Madame.

—Je vous remercie infiniment, Monsieur Bollot.

—Il nʼy a pas à me remercier. Cʼest pris sur les économies de
lʼadministration, et, puisque vous êtes si fidèle, cʼest bien juste.

—Vous me faites rougir, Monsieur Bollot!—esclamò lʼincipriata Linette,
nascondendo il denaro nella tasca del suo fino grembiule di pizzo.

—A présent nʼoubliez pas que jʼaime boire un petit verre de Kümmel en
arrivant, un autre en mʼen allant. Versez–le moi, Linette, et causons.

Con le sue dita color dei gelsomini, Linette gli pose accanto il lieve
calice del suo liquore preferito. Mentre girava intorno a quella
sorridente canizie, lei coʼ suoi capelli biondi, lui con il suo pizzo
da bianco moschettiere, apparivano entrambi così gentili, così onesti,
che il vederli faceva ripensare a quelle buone vecchie stampe di cento
anni fa, che illustrano con tanto garbo le indiscrete pagine dei
galanti novellieri francesi.

—Ce que jʼai à vous dire, Monsieur Bollot, est très court. Vous savez
que jʼaime Madame plus que moi–même...

—Oui, je le sais, Linette.

—Eh bien, Monsieur Bollot, vous êtes le seul homme quʼelle respecte et
que parfois elle écoute. Je vous en prie, faites quelque chose pour lui
ouvrir les yeux, pour lui rendre sa raison... car je vous assure que
Madame est devenue folle!

Il vecchio amministratore impiegò qualche tempo prima di rispondere;
poi depose il bicchierino di néttare, asciugandosi con accuratezza le
labbra inumidite.

—Nous le savons, Linette. Et tu penses bien que nous lui avons déjà
dit notre avis. Quoique, pour être juste, cet homme nʼentame pas sa
fortune. Cet homme,

—Cʼest beaucoup, en tout cas, Linette. Car cela est indéniable.

—Peut–être, bien, Monsieur Bollot. Mais lʼéconomie nʼest pas tout en ce
monde.

—Cʼest beaucoup, en tout cas, Linette. Car cela montre quʼon a de
lʼordre dans lʼâme. Mais pourquoi tʼaffliges–tu tellement? Que ce soit
lui ou un autre, est–ce que ce nʼest pas la même chose?

—Du tout, du tout, Monsieur Bollot! Et je vous affirme quʼun de ces
jours il va se passer quelque chose de très grave. Jʼen suis certaine.
Voyez vous, Monsieur Bollot: les autres étaient presque toujours des
gens très comme il faut; il étaient, parfois ses caprices, parfois ses
habitudes ou ses devoirs: jamais rien de sérieux en tout cas; ce que
chaque femme comme elle doit avoir... des amants, en somme! Elle ne les
aimait pas du tout, cʼétaient eux qui lʼaimaient. Tandis quʼelle est
folle de celui–ci. Je vous dis, Monsieur Bollot, quʼelle en est folle!
Et pas du tout heureuse par dessus le marché!

Il bicchierino di Kümmel tremava leggermente fra le dita bianche di
Monsieur Bollot.

—Est–il peut–être méchant avec elle?

—Que sais–je? Depuis que Madame fréquente ce Monsieur, je puis vous
dire quʼelle nʼest plus la même femme. Arrachez–la de cet homme,
Monsieur Bollot! Faites–lui violence, vous qui le pouvez, mais
emportez–la très loin, très loin, car un de ces jours il va se passer,
jʼen suis certaine, quelque chose de très grave...

—Quoi, par exemple?

—Que sais–je? Un malheur sans doute. Cet homme, je ne lʼai vu que de
loin, et en cachette, puisque vous savez peut–être que jamais il ne
vient ici. Sa figure ne me dit rien de bon. Cʼest une de ces têtes,
Monsieur Bollot, qui ont quelque chose de beau et de redoutable. Moi,
voyez–vous, ça ne mʼétonnerait guère si un matin je voyais paraître
cette tête–là dans les journaux, à la place où lʼon fait le récit des
crimes...

—Oh, oh, comme tu y vas, Linette!

—Cʼest mon avis. En tout cas je nʼexagère pas en vous disant que Madame
y perd sa santé et sa carrière. Quant à lʼargent, Monsieur Bollot, il
peut se faire quʼil file aussi, comme tout le reste.

—Nous lui parlerons... nous lui parlerons... calme–toi, Linette!

—Tenez, Monsieur Bollot: depuis que cet étranger à pris place dans
notre vie, la maison nʼexiste plus. Toujours vide, toujours morne.
Madame passe avec lui toutes ses journées; elle ne rentre que pour se
changer de robe, et sʼen va de nouveau jusquʼau matin. Elle a maigri
terriblement, Monsieur Bollot, et quand je lui fais son bain, ce
nʼest plus elle. Madame Catherine aussi prépare ses malles tous les
trois jours, puis elle les défait. Pauvre femme! Elle non plus nʼa pas
le cœur tranquille. Personne à présent nʼose mettre les pieds chez
nous. Le seul qui vient encore de temps à autre, et qui lʼattend de
longues heures, cʼest ce pauvre Jack... vous savez bien, son danseur
dʼautrefois. Nous causons, nous causons, lui et moi, dans la garde–robe
ou dans la véranda, parce que lui il fume dans sa pipe un tabac qui
sent très fort. Ce pauvre Monsieur Jack!... Si vous saviez comme il est
gentil. Des fois nous en avons tous les deux les larmes aux yeux...

Il vecchio Monsieur Bollot, preso lui pure dalla commozione, guardava
con fissità le ultime gocce del liquore nel lieve calice di fino
cristallo. Poi si raschiò la gola, e disse unʼaltra volta:

—Nous lui parlerons, Linette, sois tranquille.

Questo «nous», chʼegli adoperava con pompa nella sua dolce umiltà, era
una specie di abitudine professionale, che sembrava ravvolgere il suo
cuore di padre nella toga del giurisperito.

—Il ne suffit pas de lui parler, Monsieur Bollot. Car elle vous ferait,
avec plus de politesse, la même réponse quʼà moi: «Fiche–moi la paix,
Linette!» Alors cʼest de lʼénergie quʼil faut avec elle, ou bien de la
ruse... oui, Monsieur Bollot, de la ruse! Vous, qui êtes si instruit
et si bon, faites–lui comprendre sa folie, trouvez un moyen quelconque
pour la remettre dans le droit chemin.

—Par exemple?

—Eh bien, dʼabord, vous pourriez essayer de la raisonner, comme vous
le faites parfois, dʼun ton paternel. Je lʼai vue souvent devenir un
peu pâle et se mordre la lèvre quand vous lui donniez des conseils.
Vous, elle vous écoute. Parfois elle se rebiffe, parfois elle se met
à crier: «Mon Dieu! mon Dieu! que vous avez des idées arriérées, père
Bollot!...» Mais, vous parti, le soir même, ou le jour après, pendant
que je lʼhabille, voilà que tout à coup Madame se prend à me dire: «Il
avait tout de même raison, ce brave Monsieur Bollot. Il a des idées
anciennes, mais elles sont justes. Je ferai comme il a dit.»

—En effet, en effet, chère Linette, jʼai de lʼexpérience et je ne parle
que pour son bien.

—Oui, et alors vous devriez lui donner un ordre, voyez–vous, Monsieur
Bollot: un ordre! Par exemple: «Tel jour, vous, moi et Linette,—vous,
moi, Linette et Monsieur Jack—nous partons tous pour tel endroit». Pour
nʼimporte où, pourvu que ce soit très loin.

—Parfait, Linette. Seulement cʼest beaucoup plus facile à dire quʼà
obtenir.

—Lʼidée, je vous lʼavoue, nʼest pas de moi. Elle est de Monsieur Jack.
Il a lʼabitude, lui, dʼaller et venir dʼAmérique; il trouve très
commode quʼon ait à se trimbaler dʼun point à lʼautre de la terre.
Quant à moi, mon idée serait bien différente.

—Et quelle est ton idée, voyons?

—Moi, si jʼétais vous, jʼirais tout droit chez ce Monsieur; je lui
dirais: «Monsieur Castillo,..»—cʼest son nom,—«Monsieur Castillo...»
enfin je ne sais pas au juste ce que je lui dirais, mais sûrement des
choses qui toucheraient son cœur, sʼil est un honnête homme.

—Et sʼil ne lʼest pas?

—Je lui en dirais dʼautres, mieux faites pour lʼeffrayer. Car nous
sommes trois, après tout,—vous, Monsieur Jack et moi—qui sommes prêts
à défendre Madame de toutes nos forces. Mais, voulez–vous que je vous
dise, Monsieur Bollot?... Cʼest drôle, cʼest absolument drôle, et
pourtant je suis persuadée que lui aussi, malgré tout, il lʼaime...

—Veux–tu que je te dise, Linette? Je suis presque du même avis...

—Et alors?

—Alors, ma fille, tâche de comprendre que tout serait en vain.
Ecoute ce que te dit un vieillard, dont la vie toute entière fut
lente et monotone comme le tic–tac dʼune pendule. Sache, mon enfant,
quʼentre toutes les illusions de la terre une seule est vraie, une
seule parvient à griser merveilleusement notre âme: cʼest quand deux
créatures sʼaiment, et que tout le reste devient pâle comme si le
soleil ne le touchait plus...

—Oh, que vous dites de belles choses, Monsieur Bollot!...

—Ces sont mes cheveux blancs qui les disent... Allons! verse–moi un
autre petit verre de cet excellent Kümmel, et, puisque Madame tarde
outre mesure, je vais commencer par payer leurs gages aux gens de la
maison. Pour toi, dʼabord, cʼest réglé. Va donc dire aux autres que
Monsieur Bollot les attend.

E mentre se nʼandava, rapida e seria, coʼ suoi piedini ben calzati, che
luccicavano sul tappeto, il vecchio notaro, alzandosi con un poʼ di
stento, incominciò a toglier fuori dalla voluminosa cartella i fogli
amministrativi, cosparsi dʼuna grave scrittura simmetrica, poi, ad una
ad una, le buste gialle in cui suonavano i marenghi, gli scudi e il
rame degli stipendi mensili.

Mentre aspettava, si mise a fare unʼultima verifica, brontolando:

—Maurice... Maurice, maître–dʼhôtel—125—cent vingt–cinq... Voilà du
gaspillage, nom dʼune pipe! Je ne comprendrai jamais pourquoi on doit
jeter six louis et cent sous par mois, pour se payer le luxe dʼun
maître dʼhôtel, qui ne fiche rien du matin au soir, et qui nʼest même
pas là lorsquʼil sʼagit de mʼouvrir la porte...

[Illustrazione: DECORAZIONE]

Un giorno sparì.

Senza dirle una parola dʼaddio, senza guardarla nel colore degli occhi,
dʼimprovviso, con lʼanima forse in delirio, un mattino di gran luce
sparì.

Prima che lʼafferrassero, prima che lʼoscura tragedia della sua vita
giungesse ad un epilogo apparente, in silenzio, a cuore perduto,
sopraffece il suo delirio e partì.

Era venuto dal lontano mondo: ripartiva per il lontano mondo, per la
strada morta ove camminano gli uomini che portano in sè, come tenebra,
un dolore definitivo.

Era giunto sino a lei ravvolto in una storia buia; lʼaveva imprigionata
nella sua ombra, si era lasciato per lʼultima volta ubbriacare dal
profumo della sua bocca, dal profumo deʼ suoi fiordalisi... poi, senza
nemmeno guardarla nel colore degli occhi, silenzioso e folle come i
nomadi, ripartiva per la strada infinita.

Era un mattino di Maggio, quandʼegli uscì per lʼultima volta dalla sua
casa deserta.

Quella casa era nascosta in una piccola strada, calma, vecchia,—di
quelle che gli edili ragionevoli vanno cancellando a poco a poco.

Si vedeva, lontana, la Colonna di Luglio sorgere dalla piazza della
Bastiglia.

Barcollò.

Tutte le finestre di Parigi brillavano, come se avessero nelle raggiere
dei vetri una felicità di fuoco.

Lʼamava, lʼamava!...

Sì, ma era troppo tardi... troppo tardi!...

Bisognava partire, partire.

La terribile Città Stupenda lanciava in alto, nel mattino di primavera,
la potenza dellʼinfernale suo paradiso.

Tutte quelle case, quelle finestre, quei lembi di cielo, per lui
sembravano sereni come gli occhi di Mimi Bluette. Mimi Bluette!...
Questo nome cantava nel rumore di Parigi, era la bellezza di tutte le
cose che i suoi occhi vedevano, la sorridente anima della vita.

Sì, addio!... addio per sempre, inesorabilmente, con terribilità, con
disperazione, addio...

Barcollò. Fece due passi... tre passi... la strada camminava. La
distanza era una fuga. Mimi Bluette... Mimi Bluette!... I rumori
vertiginosi della Città Babelica pareva lanciassero in alto, per lʼaria
bionda, questo nome felice. Le strade sollevate sʼimpennavano contro il
cielo; turbini di folla giravano con fragore nella bianca immensità.

Era stata il suo bicchiere ultimo di Sciampagna, lʼultimo suo canestro
di rose... che follìa!...

Parigi la Magnifica, tempio e sepolcro dellʼideale, Parigi fiore della
terra, in quel mattino del mese di Maggio era bella come una donna
giovine, che innamorata si guarda nello specchio, appena levata. Le
sue piazze gremite, piene di tumulto, ridevano come se fosse un giorno
di festa. I più rugginosi tetti, carichi di gloria, cercavano di
riaccendere nello sfarzo del sole di Maggio lʼantica loro novità.

Ed egli si sentiva il cuore pesante come una macina da mulino.

Mimi Bluette!... Mimi Bluette!... Era stata bionda come il grano,
quandʼesso lampeggia maturo nella fulgida estate. Aveva unʼanima
limpida e profumata, comʼerano i suoi dolci capelli, quando con impeto
li scioglieva per coricarvi la sua perfetta nudità.

Camminare, camminare, per strade che non tornano più...

Parigi cantava; Parigi la Grande aveva un fiore a tutte le finestre. Il
fiume più maraviglioso della terra, con acque gialle di fango baciava
la Basilica di Francia.

Udì suonare a stormo le campane invisibili di Notre–Dame. Le cento
basiliche della Senna risposero, nel mattino di primavera. Le campane
a stormo cantavano: Mimi Bluette!... Mimi Bluette!...

Sì, era stata lʼultimo paradiso...

Camminare, camminare, per strade che non tornano più.

[Illustrazione: DECORAZIONE]

Ella trovò la porta chiusa, e, prima di suonare il campanello, battè
allʼuscio col manico dellʼombrellino. Battè ripetute volte, poi guardò
il fragile parasole con il timore di averlo spezzato. Allora suonò
il campanello. Intese distintamente correre per le stanze interne la
velocissima biscia elettrica della scampanellata. E attese.

Attese.

Allora suonò tre volte, quattro volte ancora. Ma non udiva il suo passo
rapido giungere dallʼinterno, sul tappeto.

—«Il est sorti. Pourquoi est–il sorti?»

Nulla di molto singolare in questo fatto; nondimeno era la prima volta
che ciò accadeva.

Per scrupolo di coscienza diede unʼultima scampanellata. Guardò in
alto, per le scale vuote; guardò in basso, verso il primo pianerottolo
deserto, e, con il cuore inquieto, ridiscese in cerca della portinaia.

La portinaia di quella casa era una persona pressochè introvabile. Dio
sa quali faccende avesse, o lì o nel vicinato, ma dentro la sua loggia
mal rischiarata non vʼera mai altri che un lucido gattone immobile,
seduto alla maniera dei cani e che somigliava singolarmente ad una
bestia impagliata.

Bluette guardò se ci fossero le chiavi dellʼappartamento.

Non vʼerano.

Il gatto si mise a fissarla con una immobilità sinistra, che le fece
paura.

Suonarono le tre. I rintocchi del bronzo si allargavano come ondate di
sole nel brillante spazio. Lʼora pomeridiana mandava ronzìo. La casa,
la strada, le ultime porte, il lontano quartiere, lavoravano in sordina.

Dʼun tratto le pervase lʼanima un grande presentimento di sciagura.
Le parve chʼegli, non solo fosse distante, ma non ci fosse più. Volle
sedersi e attendere; ma ebbe una sottile, inspiegabile paura. Uscì,
chiuse lʼuscio a vetri della portineria, ed irresoluta non seppe che
fare.

Il gatto lucido la fissava coʼ suoi magnetici occhi rotondi, colore di
solfo.

Allora si mise a camminare per la corte. Finalmente incontrò la
portinaia, che aveva in mano un ferro da stirare. La interpellò:

—Madame Greuze! Dites–moi, Madame Greuze, où sont les clés?

—Les clés de lʼentresol? Je nʼen sais rien. Avez–vous regardé dans la
loge?

—Elles nʼy sont pas.

—Alors cʼest que Monsieur Castillo les aura gardées dans sa poche.

—A quelle heure est–il sorti?

—Ma foi, je ne saurais vous dire., Il y avait pour lui des lettres ce
matin; je les ai casées moi–même. A 9 h. elles nʼy étaient plus.

—Des lettres? Mais il nʼen reçoit jamais!

—Il y en avait bien deux ce matin, jʼen suis sûre. Excusez–moi, Madame,
sans ça mon fer se refroidit.

Ella rimase ferma nella corte, a guardare la propria ombra che si
disegnava nel sole.

Poi sollevò gli occhi verso lʼammezzato, quasi per interrogare quelle
tre finestre che davano su la corte. Ma erano deserte, piene di
silenzio, piene dʼimmobilità, e si riscaldavano al sole.

Tornò indietro, con una grande angoscia, verso la loggia della
portinaia, che stirava.

—Ces lettres. Madame, dʼoù venaient elles? Vous lʼavez remarqué
peut–être.

—Parfaitement. Elles venaient de Paris. Lʼune dʼelles au moins, était
une de ces grandes enveloppes à entête quʼemploient les Bureaux de la
Mairie ou des Ministères.

—Quel entête?

—Je nʼai pas lu, Madame... Je regrette. Jʼai énormément à faire, vous
pensez bien!

—Merci.

—A votre service, Madame.

Bluette uscì nella strada e cominciò a camminare. Faceva dieci passi da
una parte, dieci dallʼaltra, ossia percorreva rasente il muro tutta la
lunghezza della casa.

Di fronte, su lʼaltro marciapiede, il sole batteva con veemenza nella
piccola vetrina dʼun orologiaio. La strada calma cullava i suoi radi
passanti.

E camminò per mezzʼora, per unʼora, in su, in giù, lungo il muro, con
gli occhi fissi or ad un capo or allʼaltro della contrada. Il suo
tremante cuore dʼinnamorata non le batteva nemmeno più; non sentiva in
sè che un principio di vertigine, anzi una piccola, intima, profonda
ferita.

Poi, macchinalmente, risalì per le scale fino al pianerottolo
dellʼammezzato, e benchè sapesse chʼera inutile, tuttavia si provò a
suonare unʼultima volta.

Lo stesso rumore deserto ripercorse con velocità le stanze mute.

Scese, faticosamente. Uscì. Un timore illogico e tuttavia profondo
assaliva il suo timido cuore.

Pensò: «Adesso torna.» E riprese a camminare lungo il marciapiede. Ma
una stanchezza pesante imprigionava le sue caviglie da ballerina, come
se, in tutte le giunture, avesse dʼimprovviso perduto il suo naturale
miracolo dʼequilibrio e dʼagilità.

Quellʼassenza non poteva essere fortuita. Egli era uscito verso le nove
del mattino, portando con sè le chiavi; adesso cadeva il tramonto; si
vedevano i commessi arruffati, le sottili dattilografe dagli occhi
stanchi rincasare con un senso di libertà lungo i marciapiedi che
brillavano.

Ma dovʼera mai? Quale strada lo portava? Come ritrovare uno scomparso
nel turbine di quella immensa Città, che aveva strade burrascose
come fiumi, piazze babeliche ove la folla si avventava come lʼondata
nellʼestuario, e che, dal cerchio dellʼinfinita sua forza, dappertutto
sollevava un pesante fragore dʼoceano?

Ella, in fondo, non conosceva nessun particolare della sua vita
impenetrabile.

Senza bene comprendere perchè avesse questa certezza, pure una voce
profonda nel suo spirito le diceva che non sarebbe ritornato mai più.

Ad ogni fragore di ruote che venisse dal capo della strada, sentiva il
cuore darle un battito così forte, chʼella, per un lungo istante, ne
perdeva il respiro. Ma ogni volta erano viandanti ben dissimili da lui;
non la sua fronte alta e buia, non la sua ruvida gentilezza di persona,
i suoi luminosi occhi di nomade, che lʼavevano tanto innamorata.

Povera Mimi Bluette!... povera, piccola, bionda Mimi Bluette!...

Si faceva quasi tardi; la fatica del crepuscolo pesava su la Città
scintillante. Non vʼera più sole nella piccola vetrina dellʼorologiaio,
ed ora si potevan leggere a distanza i nitidi cartelli appesi contro
lʼinvetriata:

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E guardando e camminando pensava:—«Ai–je été assez aveugle? Pendant
ces derniers jours il y avait bien dans ses yeux quelque chose de très
sombre... Hier soir il mʼa dit: «Je tʼaime, Bluette...» Jʼai baissé la
tête, et nous avons pleuré. Avant hier jʼai vu quʼil fouillait dans ses
malles. Ses malles autrefois étaient pleines; les derniers jours elles
étaient presque vides. Mais je nʼosais pas être curieuse, parce quʼavec
lui jʼai toujours été si timide...»

La strada ora si popolava di gente più veloce; un operaio, passando,
le bisbigliò quasi allʼorecchio:—«La belle fille!»

Pensava:—«Est–ce possible quʼil nʼait pas laissé un mot pour moi? Comme
je suis bête! Sans doute, sans doute il mʼa envoyé une lettre chez moi!»

E si mise a camminar così rapida, che quasi correva. Dʼun tratto era
piena di speranza; la gioia della vita rifluiva in lei.

Prese una vettura, ma questa camminava con un passo infinitamente
troppo lento per la sua concitazione. Non appena scorse unʼautomobile,
si mise ad agitar lʼombrellino; il guidatore si fermò. Balzatavi
dentro, si affacciò al finestrino, quasi per accelerare con la sua
folle impazienza i battiti del motore. Nessuna distanza di Parigi le
parve mai così lunga.

—Vite! vite! vite!...—diceva continuamente al meccanico, battendo con
gli anelli contro il vetro.

E la videro entrare nella sua portineria come se fosse inseguita. Non
prese lʼascensore, volò su per le scale.

—Linette! Linette, dis–moi!... où est la lettre, Linette?...

—Quelle lettre, Madame? Mon Dieu, que vous êtes pâle! Quʼy a–t–il,
Madame?

—La lettre, je te dis! Il nʼy a pas une lettre, un billet pour moi?

—Non, Madame.

—Et personne nʼa rien téléphoné?

—Personne.

Cadde sovra una seggiola, piegò la faccia; tacque.

—Madame,—disse Linette, prendendole un polso,—quʼest–ce qui est arrivé?
Quʼest–ce qui se passe?

Ma non rispondeva.

Dopo qualche tempo le sollevò nel viso gli occhi folli e disse
opacamente:

—Il est parti.

—Comment parti? Sans rien vous dire?

Ella si appoggiò le mani sul cuore, scosse indietro il peso dei
capelli, rispose unʼaltra volta:

—Parti.

Ma, dopo qualche attimo, sorse in piedi con unʼenergia convulsa:

—Non, ce nʼest pas possible!—disse duramente.—Ce nʼest pas possible.
Vite, vite, Linette! Envoie chercher un serrurier, et que mon auto soit
prêt de suite.

—Pourquoi faire un serrurier?

—Pour ouvrir une porte. Vas–y toi–même, avec lʼauto, sans tʼhabiller...
vite! vite!

—Mais, Madame...

—Ne demande rien, je tʼen prie! Tu vois bien que je meurs dʼangoisse...

Un quarto dʼora dopo il fabbro giungeva sotto lʼatrio. Lo fece salire
nellʼautomobile, a fianco del meccanico.

—Viens avec moi, Linette; ne me laisse pas seule...

—Je vais donc mettre mon chapeau, ma jaquette...

—Oui, mais dépêche–toi!

In quel momento la bionda Caterina rientrava dalla sua passeggiata
crepuscolare, fresca e giovanile quanto è lecito essere ad una donna
della sua età. Siccome nel medesimo tempo Linette scendeva già dallo
scalone, sua figlia non le permise nemmeno di avvicinarsi allo
sportello:

—Dopo, dopo, ti spiegherò, mammina... ora ho fretta!

E la lasciaron lì nel sottoportico, mentre i due pettegoli bambini
del portinaio la tiravano per la bella sottana e le chiedevano
sfacciatamente:

—Est–ce que ce soir il nʼy a pas de chocolats pour nous, madame
Catherine?

Non ne aveva. Ma restò per circa una mezzʼora, lì, sotto il portico,
a far congetture su lʼaccaduto con quel personaggio gallonato e
protocollare, che possedeva il senno proverbiale di tutti portieri.

Laggiù frattanto, nella strada calma e lontana, le poche botteghe si
erano accese di una pallida elettricità. Qualche gente vi discorreva su
lʼorlo dei marciapiedi; qualche altra, stanca della giornata, passava
senza volgere il capo, lungo i muri.

Dietro la porta vetrata il lucido gattone di Madame Greuze guardava con
immobilità bollire una pentola sul fuoco.

Salirono.

Prima ella suonò ancora il campanello; poi, rapidamente, il fabbro fece
saltare la serratura.

Bluette osservava con occhi fermi le mani callose dellʼoperaio. Gli
disse:

—Partez avec mon auto. Faites tout de suite une nouvelle clé; donnez–la
au chauffeur. Je lʼattends.

Ed ascoltò il suo passo pesante scendere per le scale scuotendo il
mazzo dei grimaldelli.

Non osava entrare.

Linette le stava così presso che i loro gomiti si toccavano.

—Je nʼai plus de courage, Linette... Il sʼest tué peut–être... je vais
voir son cadavre...

—Appelons quelquʼun, Madame... moi aussi jʼai très peur...

—Non, tais–toi. Ce nʼest pas possibile... il est parti... parti...

Entrarono, chiusero lʼuscio. Nellʼanticamera faceva buio. Ma un raggio
batteva nel vetro dʼun piccolo quadro. La casa deserta sembrava
infinitamente profonda.

Bluette cercò, lungo la cornice dello stipite, lʼinterruttore della
luce elettrica, ma in quel grande smarrimento la sua mano incerta non
lo ritrovava.

Infine Linette riuscì ad accendere. Videro che lʼattaccapanni era vuoto.

Tre stampe di cacce inglesi pendevano dalla parete; vʼeran su la tavola
un bacile di rame, un vaso di cristallo, con qualche fiore appassito
che aveva portato Bluette.

Dʼun tratto, come una pazza, ella si mise a correre per la casa...
Guardò, frugò... Nulla, nulla, nulla...

Sì, era partito per sempre, partito come un vero nomade, partito senza
dirle addio.

In quel momento venne su la portinaia.

—Je ne sais pas si cʼest bien juste ce que vous avez fait, Madame.
Cʼest vrai que vous êtes presque la patronne ici... Pourtant, sʼil a
fermé, cʼest quʼil ne voulait pas quʼon fasse sauter la serrure.

—Oui, oui, Madame Greuze... Oui, oui, Madame Greuze...

—Il faudra lui écrire que vous lʼavez fait sans notre permission.
Car cʼest nous, cʼest–à–dire mon mari et moi, qui sommes chargés de
lʼappartement.

—Lui écrire? Mais où?

—Vous le saurez peut–être. Moi, pour sûr, je nʼen sais rien. Dʼailleurs
il ne faut pas vous étonner: cʼest presque toujours ainsi quʼil sʼen
va.

—Reviendra–t–il, Madame Greuze?

—Que sais–je? Il reste souvent plusieurs mois sans revenir; une fois
son absence dura plus de deux ans. Nous recevions toujours son loyer,
avec nos gages, très exactement. Cette fois–ci, ni gages, ni terme;
rien. Il nʼa rien payé. Et puis ses malles sont là. Venez voir, Madame.
Trois malles, qui ont fait le tour de la terre... Voyez combien
dʼétiquettes! Cʼest vrai que parfois on vient les prendre même huit
jours après son départ.

—Et qui est–ce qui vient les prendre?

—Un monsieur âge, qui sʼappelle Dmitrieff.

—Où est–ce quʼil habite?

—Je nʼen sais rien. Monsieur Castillo mʼa dit une fois: «Vous ouvrirez
toujours à ce Monsieur Dmitrieff,»—qui était avec lui. Un étranger sans
doute.

—Sʼil vient cette fois–ci, il ne faudra pas le laisser partir avant de
mʼavoir donné un coup de téléphone. Voici pour vous, Madame Greuze.

—Deux louis? Mais cʼest trop, Madame!

—Je vous en donnerai bien dʼautres, si seulement vous mʼapporterez un
renseignement quelconque. Aussi dites–mois tout ce que vous savez,
tout, les moindres détails. Je me souviens par exemple quʼil avait
aussi deux grands sacs; il nʼy sont plus. Quand les a–t–il emportés?

—Pendant la nuit peut–être, car je suis bien sûre de ne pas lʼavoir vu
passer.

—Jʼai été ici moi–même jusquʼà deux heures du matin; puis il mʼa
reconduit. Oh, je vous en prie, essayez dʼen savoir quelque chose,
Madame Greuze!...

—Bien sûr, bien sûr; jʼintérrogerai tout le monde.

Seulement, ne pleurez pas, Madame... Il va revenir, soyez–en
certaine... vous êtes si belle!

Ma ella era bianca e ferma, e le lacrime cadevano daʼ suoi occhi, senza
un tremore delle ciglia; cadevano come se perdesse tutta lʼanima, a
poco a poco, in ogni gocciola di pianto.

—Je nʼai quʼune chose à vous dire; mais vous la savez sans
doute,—concluse M.ᵐᵉ Greuze.—Il y a un mois environ, des agents de
police en civil sont venus et mʼont posé beaucoup de questions sur lui,
sur sa vie, sur ses mœurs... Jʼen ai dʼailleurs prévenu M. Castillo,
qui sʼest mis à rire et a haussé les épaules. Il vous lʼaura dit, je
suppose.

—Non, Madame Greuze.

—Ah?... Ils sont venus deux fois. Et hier, dans lʼaprès–midi il a reçu
la visite dʼun gros monsieur à longues moustaches et pardessus beige,
qui a prétendu monter malgré la consigne. Un monsieur très désagréable
et très arrogant. Un Parisien celui–là, cʼest sûr.

—Donnez–moi des détails, Madame Greuze. Il faut que je le retrouve.

—Des détails? Je nʼen ai pas. Sʼil revient par hasard, je téléphonerai
chez vous. Pour mon compte, dʼaprès son allure, jʼai fait une
réflexion, quoiquʼun peu risquée...

—Laquelle?

—Je me suis dit: «Voilà un créancier de Monsieur Castillo.» Car il
marchait comme les gens qui viennent pour réclamer de lʼargent.

E Linette era seduta su lʼorlo dʼuna seggiola, tutta bianca, tenendosi
con una mano lʼaltra mano, che non sapeva dove stare.

[Illustrazione: DECORAZIONE]

Così passarono tre giorni. La barbara Città Splendente le aveva
rubato il suo amore. Quel dono che le fece in una sera di musica, le
ritoglieva in un giorno di sole. Per vendicarsi dʼaverla resa bella
ed innamorata, ora, dʼun tratto—senza nemmeno dirle: «Preparati!» le
uccideva nel cuore la felicità. Mandava un repentino soffio di tragedia
ad investire i suoi capelli biondi, sciupava, sfogliava con adirata
violenza i semplici fiori del campo, i fiordalisi di Mimi Bluette.

Ella si accorse che Parigi la Grande cantava brillava roteava intorno
al suo fermo spavento come il carrosello di una terribile fiera.

Si chiamava Mimi Bluette, ed era più disperata che le ragazze
vagabonde, le camminatrici delle vie notturne, quando lʼospizio le
rifiuta e dormono sotto i ponti.

Si chiamava Mimi Bluette, e non aveva più nellʼanima neanche un fiore.

Fece tutto quello che potè per ricercare lo scomparso, ma inutilmente.
La distanza era implacabile; dal lontano silenzio non veniva neanche
una parola.

Ed ella visse in quellʼappartamento, per lunghi giorni, da mattino
a sera; cercò, frugò, mise ogni mobile sossopra, nella speranza di
trovare un indizio che potesse ricondurla fino a lui.

Nulla. Tutto quanto vʼera, non faceva che accrescere lʼombra. Solo di
un fatto si accorse: chʼegli era estremamente povero, poichè aveva
tutto venduto.

Allora pensò con desolazione alla propria ricchezza, che gli avrebbe
offerta come si offre, a chiunque lo domandi, un bicchiere dʼacqua
pura; la sua ricchezza vuota e pesante, che ormai non servirebbe a
nessuno.

Capì che forse la miseria, forse la vergogna dʼuna fierissima povertà,
lo aveva costretto a riprendere il cammino dellʼesilio.

Chissà? Forse non era nemmeno questa la ragione. Nel vasto mondo egli
era un disperso, un camminante, uno di quegli uomini senza storia dei
quali non è possibile incatenare la fuggente vita.

Ma un soffocante pensiero la strinse. Ritrovarlo!... dirgli:—«Prendi!
questo oro è tuo; questa ricchezza che mi pesa è tua». Perchè mai non
ho saputo indovinare la tua povertà io stessa? Perchè non me lʼhai
confessato, Laire? Hai avuto forse paura di piegare quella tua fronte
così alta? Ebbene, dovevi dirmi:—«Sii povera tu pure. Lascia ogni cosa,
vieni con me; lavoreremo.»

Una soffocante gioia dʼun attimo... e più tardi pensò:—«Bisogna,
bisogna chʼio lo ritrovi!»

Era Mimi Bluette, aveva la bellezza e la ricchezza, la libertà ed il
fascino: questa sua leggiadra potenza doveva pur bastarle per ritrovare
un uomo.

[Illustrazione: DECORAZIONE]

—Madame désire?—le domandò con arrogante urbanità lʼimbronciato
Monsieur Pétimel.

—Veuillez faire passer ma carte à M.ͬ le Ministre.

—Oh!... je vous préviens, chère Madame, que vous nʼaurez pas moins
dʼune heure dʼantichambre à faire... Il y a douze personnes avant vous.

—Vous avez lʼair de ne pas me reconnaître, M.ͬ Pétimel!

—Excusez–moi, Madame, je nʼai quʼune paire de lunettes et il fait assez
sombre. Attendez un peu, attendez un peu...

Così dicendo sʼinforcò sul naso, già carico degli occhiali a
stanghetta, un paio di grosse lenti convesse, dallʼorlo di tartaruga,
e si mise a guardarla da vicino, mentre la sua vasta faccia naufragata
nella pinguedine sembrava che venisse a galla per illuminarsi di
stupore.

—Oh, mais cʼest bien vous que je revois? Nʼy a–t–il pas dʼerreur?
Est–ce vous? madame Bluette?

—Jʼen suis presque sûre... Toutefois regardez mieux, M.ͬ Pétimel!

—Enfin!... après si longtemps! Quelle bonne surprise! Je me figure bien
la tête que va faire M.ͬ le Ministre!

—Voulez–vous lui passer ma carte à présent?

—Mais certainement, Madame Bluette! Et, puisque cʼest vous, je peux
bien vous dire que les douze personnes se réduisent à un Délégué de
province, fort négligeable et fort assommant, dont M.ͬ le Ministre
va se débarrasser en quelques secondes, aussitôt quʼil aura lu votre
carte. Jʼy cours. Vous êtes toujours la plus jolie femme de Paris, M.ᵐᵉ
Bluette!... quoique un peu maigrie... Jʼy cours!

—Eh bien courez, M.ͬ Pétimel, car je suis très pressée.

—Oh, ce que nous vous avons regrettée dans ces bureaux, M.ᵐᵉ Bluette!
Il y a eu de bien mauvais jours au moment de votre retraite! Et puis,
un Ministère tombé, un Ministère refait... hélas!... la politique!

—Mais courez donc, M.ͬ Pétimel!

—Parfaitement; jʼy cours.

Finse di allungare il passo quanto poteva, ma, prima di battere
allʼuscio del Ministro, volle compiere il giro di tutti gli uffici per
diffondere la straordinaria notizia.

—Crise de cabinet!... Crise de cabinet!—sussurrava presso tutte le
scrivanie, soffocando un gorgolio di riso nella sua grassa pappagorgia.

Infine si presentò nello studio del Ministro, e vedendolo accalorato
a ragionare di riforme agrarie con il Delegato provinciale, questo
adorabile M.ͬ Pétimel si chinò allʼorecchio di Sua Eccellenza, ma disse
con voce che avrebbe udita pure un sordo:

—Monsieur le Ministre! Il y a M.ᵐᵉ Mimi Bluette, revenue comme par
miracle, qui vous prie de la recevoir tout de suite, pour affaire
urgente.—Poi soggiunse con una voce da filodrammatico:—On voit à ses
yeux quʼelle doit avoir pleuré...

Sua Eccellenza diventò bianco, rosso, purpureo; si dimenò, guardò in
faccia il Delegato, il segretario, e per ultimo, non sapendo che dire,
si carezzò la rotonda calvizie.

Per fortuna il Delegato era un uomo di spirito, e visto lʼimbarazzo nel
quale si trovava il Ministro, cercò di abbreviarglielo per quanto stava
in suo potere.

Cinque minuti dopo il nervoso campanello di Sua Eccellenza invitava M.ͬ
Pétimel ad introdurre nel suo gabinetto lʼimpaziente supplicatrice.

Sua Eccellenza lʼattendeva in piedi, contro la scrivania, ritto e
fermo, con una certa magnanimità. Era turbato, si mordicchiava un
labbro con lʼorlo dei denti.

—Fermez la porte, M.ͬ Pétimel. Je nʼy suis pour personne. Allez.

Mimi Bluette gli venne incontro con le due mani tese, chʼegli non toccò.

—Asseyez–vous, Madame,—disse il Ministro, con un gesto à la Marquis de
Priola.

—Ne mʼen veuillez pas, je vous en prie...—intercesse Bluette.—Je suis
désormais si malheureuse, si malheureuse...

Egli la guardò senza dir nulla, mentre Bluette sedeva nella poltrona
con una specie di abbandonata e stanca umiltà.

Forse quellʼuomo le aveva sinceramente voluto bene; forse,
quellʼambizioso giocoliere, quel tenace politicante ormai quasi
vecchio, aveva perduto con lei, non solamente la più bella danzatrice
di Parigi, ma una bionda creatura giovine che gli mandava nellʼanima
qualche soffio di primavera.

—Ne mʼen veuillez pas...—ripetè Bluette con pianissima voce.

—Cela nʼa aucune importance!—egli rispose con un tono sarcastico.—Vous
est–il–arrivé quelque malheur?

—Oui: jʼai été amoureuse comme une folle dʼun homme qui a disparu.

E gli occhi di Bluette lo guardavan nel viso, fermi, disperati, con una
grande luce.

Egli rimase qualche attimo sopra pensiero, indi fece una smorfia e si
ristrinse nelle spalle.

—Cela peut bien être, puisque vous le dites. Mais je ne découvre dans
cette éclipse rien qui me concerne. Je ne suis point responsable des
gens qui disparaissent.

—Si! vous lʼêtes! vous lʼêtes! Ne jouons pas sur les mots, je vous en
prie. Je ne suis quʼune pauvre femme après tout... Ayez un peu de pitié!

—Que signifient ces paroles? Ma foi, il mʼest impossible de vous suivre
sur ce terrain. Est–ce que vous croiriez peut–être...

—Je ne sais pas si je dois le croire, mais il est indéniable quʼon me
lʼa dit.

Egli ebbe un sussulto rapido, visibile, contenuto. Le rispose:

—Jamais je nʼai été un lâche, Bluette!—Poi soggiunse:—Même pas lorsque
jʼai eu la tentation de lʼêtre.

Ella guardò i suoi occhi, poi tacque.

—Je vous donne ma parole dʼhonneur, Bluette; ce nʼest pas moi qui lʼai
fait partir.

—Merci...

—Vous ne devez pas me remercier, parce que, en effet, jʼai été
dʼabord sur le point de le faire. Il y a presque longtemps de cela.
Et pourtant, vous avez été bien rude, bien cruelle avec moi, Bluette!
Mais, au moment où il fallait dire oui, où je nʼavais quʼà faire un
signe... eh bien, jʼai senti que je pouvais me battre sans merci avec
un adversaire de ma taille, mais quʼil était bien lâche de sévir contre
vous. Et je ne lʼai pas fait. Non, je ne lʼai pas fait, Bluette! Vous
en aurez des preuves, si vous ne me croyez pas.

—Merci, merci. Je suis bien sûre de vous à présent. Jʼen étais sûre
dʼavance, puisque jʼai osé frapper à votre porte. Il me semble que,
malgré tout, vous êtes encore pour moi un véritable ami.

—Non, Bluette, cela non. Pour vous je ne suis désormais quʼun étranger.
Jʼaimerais mieux sans doute vous voir heureuse que triste, mais je
suis un homme comme tous les autres et il y a des blessures dont les
cicatrices sont toujours très sensibles...

—Soyez bon, nʼajoutez pas à ma peine. Si vous saviez ce qui se passe
en moi, si vous saviez ce que je souffre!... Voilà une semaine que
je cours comme une folle à travers Paris, faisant mille démarches,
questionnant à droite et à gauche, prodiguant lʼor à pleines mains....
Jʼai lancé un peu partout des meutes de détectives; jʼai couru les
Bureaux de Police, les gares, les agences de voyage... Voulez–vous
me croire? jʼai été à la Morgue voir les noyés et le suicidés... Mais
rien! Rien nulle part. Cet homme a disparu sans laisser de trace. Et
voilà, je suis à bout de forces, jʼen perds la tête; il faut à tout
prix, à tout prix, que quelquʼun mʼaide... Et je suis venue chez vous,
sans réfléchir, mais aveuglément sûre que mon désarroi vous ferait de
la peine.

—Je vous affirme, Bluette, que lʼon pourrait voir de lʼironie dans le
choix de ma personne en pareille circonstance!

—Dʼautres peut–être; mais pas vous ni moi.

—Passons! Que dois–je faire pour vous, Bluette?

—Mʼaider.

—Vous aider? Moi? Et comment?

—Vous êtes un homme tout–puissant, je le sais bien. Si vous aviez
intérêt à savoir où cet homme est parti, vous le sauriez au plus vite;
vous le sauriez demain peut–être, et il ne vous en coûterait quʼun
ordre donné par téléphone à ceux qui doivent vous obéir.

—Nʼen croyez rien. Je ne suis pas un bureau de renseignements, chère
amie! Je vous dis cela, en passant sur le reste.

—Comme cʼest triste! Vous mettez de lʼamour propre où il y va de ma vie.

—Mais non, mais non... Et dʼabord ne dites pas des phrases si tragiques!

—Elles ne sont pas tragiques du tout. Je suis blessée a mort dans mon
orgueil, oui, surtout dans mon orgueil, et je vous demande une petite
grâce, pour vous bien indifferente. Mais vous refusez... Tant pis! Je
vous dis au revoir «Excellence!...»

—Cʼest très gentil comme vous le dites ce: «Au revoir, Excellence!...»
Mais enfin, puisque vous y tenez si fort, et puisque je vous aime
toujours un peu, ma pauvre Bluette, je vais être ridicule autant quʼil
vous plaira, et nous allons téléphoner ensemble au Chef de la Sûreté,
pour quʼil déchaîne ses plus fins limiers sur les traces de votre
fugitif, qui sʼappelle... comment sʼappelle–t–il au juste?

—Hilaire Castillo, Monsieur le Ministre.

—Cʼest un faux nom, évidemment.

—Croyez–vous, Monsieur le Ministre? En tout cas je ne lui en ai jamais
connu dʼautre.

Ed il Ministro dʼAgricoltura sperò sinceramente che il bisbetico
Prefetto di Polizia riuscisse a pescargli quel cadavere dai vortici
della Senna.

[Illustrazione: DECORAZIONE]

—Voilà encore un embêtement qui nʼest pas ordinaire!—bestemmiò con
una voce fegatosa lʼirascibile M.ͬ Ardouin, non appena ebbe risposto
al messaggio telefonico del Ministro dʼAgricoltura e Commercio. La
sua piccola persona era sepolta dietro lʼenorme scrivania, fra una
montagna dʼincartamenti burocratici ed un mare di ordinanze che
giornalmente gli affluivano dal Ministero della Giustizia.

La fisionomia punto cesarea del supremo Capo–Ufficio repubblicano lo
contemplava dalla parete opposta, con un sorriso dittatorio ma scevro
di ogni deprecabile regalità.

Lʼuno e lʼaltro parevano infischiarsi del proprio mestiere.

—«Je lui souhaite de ne jamais tomber sous mes griffes, à ce vaurien de
Castillo! Sans quoi je lui ferais payer assez cher tous les déboires
quʼil me cause. Charmante journée! Comme si je nʼavais rien à faire
pour tuer le temps, voilà encore cette gourde ministérielle qui me
régale dʼune enquête sur lʼex–amant de son ex–maîtresse!... Charmante
journée!»

Al colmo del malumore si tolse di bocca e gettò via lʼinseparabile
stuzzicadenti.

Ma poichè il Prefetto di Polizia non può esimersi dallʼubbidire al
Ministro di qualsivoglia dicastero, lʼinacidito M.ͬ Ardouin andò a
pescare nellʼarchivio lʼincartamento del nominato Hilaire Castillo.
Ne ricavò una confusa noticina, redatta con la sua scrittura
illeggibile, poi diede ordine che fosse diramata senza indugio per
tutti i Commissariati cittadini e forensi, nonchè nei capoluoghi dei
Dipartimenti.

Allora si trasse un altro stecco dal taschino, incominciò a
rosicchiarlo piano piano, e concluse:

—«Après tout il a bien raison, ce Castillo du diable! Grâce à la
profession de fantôme quʼil exerce, il nʼa personne qui lʼembête, même
pas le Chef de la Sûreté!»

[Illustrazione: DECORAZIONE]

Occorsero parecchi giorni di laboriose ricerche, al termine delle quali
M.ͬ Ardouin potè avvertire il Ministro che una traccia dello scomparso
Castillo era finalmente ritrovata e poche ore gli abbisognavano ancora
per sottomettere ad un esame rigoroso le informazioni ricevute. Nel
medesimo tempo si fece consegnare da Mimi Bluette le fotografie chʼella
possedeva dello scomparso, e le diede appuntamento per il pomeriggio
nel gabinetto del Ministro dʼAgricoltura.

Puntuale come un funzionario, allʼora prestabilita M.ͬ Ardouin
comparve. Un risolino di compiacenza gli orlava la bocca sardonica, ed
il suo primo inchino fu per la bella donna, il secondo per il Ministro.
Poi si tolse i guanti e cominciò:

—M.ͬ Hilaire Castillo jouit dʼune santé parfaite. Il est en ce moment
en route pour lʼintérieur de lʼAlgérie, après avoir fait la traversée
sur un paquebot des Messageries Maritimes.

Mimi Bluette lo guardava con due vasti e fermi occhi da ipnotizzata;
ma non trovò respiro che bastasse per rivolgergli una parola. E M.ͬ
Ardouin riprese:

—Hier, Monsieur le Ministre, jʼallais vous déclarer mon impuissance à
retrouver cet homme, lorsquʼune idée soudaine a jailli de mon cerveau.
Cette idée me vint au souvenir dʼun fameux Norvégien, disparu dans
des circonstances à peu près analogues, il y a une dizaine dʼannées.
La Police eut beau le rechercher aux quatre vents de la terre: ce fut
toujours en vain. Il demeurait insaisissable. Certain jour un gros
scandale éclata à la Légion Etrangère. Il sʼensuivit une enquête,
que le Garde des Sceaux eut la bonne grâce de me confier. Bref: je
découvris mon homme sous la tunique bleue du légionnaire, portant
les galons de sergent et décoré de plusieurs médailles. Cʼétait,
entre nous, un homme très cultivé, très aventureux, et pas du tout
malhonnête; car la Légion est une pépinière où vous trouvez des
galériens et des idéalistes, des princes et des rôdeurs, pêle–mêle.

—Jʼai toujours été plutôt sceptique au sujet de ces légendes, mon cher
Monsieur Ardouin!...

—Cʼest la pure vérité, Monsieur le Ministre. Et, ce qui est indéniable,
cʼest que là–bas ils deviennent tous des héros. Ces hommes, qui
sʼengagent le plus souvent sous un nom dʼemprunt, ces hommes qui nʼont
plus de patrie ni dʼétat civil bien défini, sont des soldats superbes,
et vous y trouvez des gens qui se feraient tuer dix fois plutôt que de
vous avouer leur véritable nom de famille. Mais enfin, peu importe.
Cʼétait pour vous dire que lʼhistoire du Norvégien a tout à coup
ouvert une éclaircie dans mon esprit. Puisque nulle part on ne pouvait
découvrir trace de son passage, et puisque les hommes ne disparaissent
pas comme les brouillards, pourquoi, me suis–je dit, nʼaurait–il
pas signé un engagement à la Légion Etrangère? Sans perdre de temps
je me rends sur place, et, au troisième Bureau dʼenrôlement, celui
de Belleville, je constate que le 17 Mai, à 9 h. du matin, un nommé
Laire...

—Cʼest lui! cʼest lui!...—si mise a gridare Bluette, che un invincibile
tremito scuoteva per tutta la persona.

—Oui, Madame. Sur ce point, je nʼai plus le moindre doute. Cʼétait bel
et bien la personne qui vous intéresse. Il sʼest engagé sous le nom de
Laire, sujet galicien, âgé de 39 ans, ne possédant aucun papier... Il a
signé pour cinq ans et a voulu partir le jour même...

[Illustrazione: DECORAZIONE]

«Sidi–bel–Abbès, 1.ͤ ͬ Régiment Etranger...»

La strada cantava. Parigi era per lei nuovamente la città maravigliosa
del suo regno. Le rifluiva gioia ed ilarità, musica e profumo dal
rumore della vita.

«Sidi–bel–Abbès... Sidi–bel–Abbès...» Camminava rapida e leggera,
lasciandosi quasi trascinare dalla potenza rumorosa della folla,
stordita e pur felice nella confusione ilare delle vie, nella ressa
dei quadrivi, lucidi ancora di tramonto. E le pareva di vedere laggiù,
nella distanza imprecisabile, nel sogno deʼ suoi chiari occhi pieni
di cielo, splendere sotto lʼoasi dʼAlgeria le vaste caserme arabe
dalle calcine sfavillanti. Camminava con una specie di lievità, libera
dallʼangoscia dei giorni trascorsi come dallʼoppressione di una
orribile malattia; camminava portando il suo cuore giovine come si
porta verso la finestra, verso il raggio del sole di primavera, una
pianticella fiorita. Ora lo aveva ritrovato, conosceva il suo distante
rifugio, immaginava la strada luminosa per andare fino a lui.

«Sidi–bel–Abbès... Sidi–bel–Abbès...» LʼAffrica barbara dormiva senza
ombra negli uragani di sole, devastata e scintillante, laggiù, dove
tutto brucia.

Come ridevano, come splendevano le vie di Parigi quella sera! Quanta
gente, nel passarle vicino, bisbigliava quasi volesse darle una
carezza: «Tien, cʼest Mimi Bluette...»

Mimi Bluette!... Era stata per loro, per tutti, un fiore voluttuoso nel
giardino di Parigi; aveva regalato ad ognuno qualche rara memoria di
sè, quasi un immaginario contatto con la sua bianca nudità... Era stata
per loro, per tutti, un piacere, una bellezza della vita; e quando
passava Bluette per quelle strade gonfie di moltitudine, pareva che
ognuno sentisse muoversi nellʼaria il profumo selvatico degli azzurri
suoi fiordalisi.

Camminò. Si accendevano tra la chiarezza del tramonto le fosforiche
vetrine dei gioiellieri. Una lancia di sole, invisibile per lʼalto
infinito, spezzava in arcobaleni di fiamme le vetrate dellʼOpéra.

Ecco, era giunta. Una fuga profonda, innumerevole, di lampadine
elettriche illuminava gli Uffici di Thos. Cook and Son. Ella si mise a
leggere con pazienza, lʼuna dopo lʼaltra, le insegne dei vari sportelli:

  _«Billets—Chèques—Excursions—Change—Nile
  Flottilla—Coupons dʼhôtel—Renseignements...»_

Depose la borsetta su la mensola dello sportello, vi appoggiò i gomiti,
e si rivolse con un timido sorriso al biondo elegante britanno, che
dallʼinterno si affacciava sopra un mucchio dʼorari e di cedole, pronto
a soddisfare la sua legittima curiosità.

—Monsieur, voulez–vous me dire, sʼil vous plaît, le chemin quʼil faut
prendre pour aller jusquʼà Sidi–bel–Abbès?...

[Illustrazione: DECORAZIONE]

Il cammino era distante, lungo, pieno di sole, pieno di vertigine, come
tutte le strade che vanno incontro alla felicità. Eppure, con il suo
piede leggero, avrebbe camminato per lʼintero mondo, e camminato senza
mai fermarsi, per rivivere un solo giorno di poesia.

Adesso le pareva di comprendere tutto quello chʼera stato
incomprensibile fra loro. Non avrebbe saputo spiegare a nessuno il
perchè di quella fuga, eppure nellʼintimo le pareva di «sentirne» la
ragione. Le pareva quasi che un infinito amore di lei, troppo altero
per umiliarsi, troppo in discordia con altre lontane bufere della sua
vita, lo avesse travolto in quel rifugio dʼuomini finiti, forse alla
ricerca dʼun sepolcro anonimo, laggiù, fra quei soldati di ventura.

Sì, le aveva detto la verità quella prima sera, dicendole: «... vous
êtes ma dernière coupe de Champagne, mon dernier bouquet de roses...
quelle folie!...»

Ora finalmente comprendeva, nella sua tragica e nuda semplicità, il
fierissimo dolore di quellʼanima, il suo disperato esilio nella vita,
il suo terribile cuore di nomade che non aveva più strada.

Negli ultimi tempi, quasi ubbidisse ad un oscuro presagio, le ripeteva
ogni sera prima dʼabbandonarla:

—Bonne nuit, ma Bluette... souviens–toi que je tʼaime!... que je
tʼaime...

E le diceva queste parole con la voce dʼun uomo che fosse già distante,
con la voce dʼun uomo che non dovesse tornare mai più.

Povera, piccola, bionda Mimi Bluette!... Come gli voleva bene! Che
profondo mutamento in lei, da quella prima sera, quando lo vide nel Bar
della Grande Rouquine e la sua bocca gli sorrise, umida, sopra lʼorlo
del bicchiere di Sciampagna!... Quanta bufera, quanto strepito nel suo
piccolo cuore di danzatrice, nella sua dolce anima colore deʼ suoi
fiordalisi!...

Non si pentiva dʼessere stata bella, e desiderata, e posseduta, eppure
gli aveva dato il suo amore di vergine, a piene vene, con un senso di
paurosa novità. In lui solo aveva trovato lʼamante, con lui solo aveva
potuto conoscere quella totale fusione dei sensi e dello spirito,
quella intima ebbrezza creatrice, piena di tremito e di purificazione,
in cui la donna che fu dʼaltri sente nascere dalle sue colpe il senso
dellʼamore infinito.

Quandʼera più inebbriata e più femmina tra le sue braccia dʼamante,
sentiva persino la tentazione oscura di suggellare nel suo grembo
innamorato, con un dolore materno, la fuggente voluttà.

[Illustrazione: DECORAZIONE]

—Monsieur Bollot, ce nʼest vraiment pas la peine que vous me fassiez
la morale... Je partirai quand même. Donnez–moi lʼargent que je vous
demande, faites–moi un joli sourire, et attendez patiemment que je
revienne.

—Mais vous me demandez une somme absurde, ma fille! Cent mille francs
pour aller en Algérie, cʼest du gaspillage, croyez–moi, cʼest du
gaspillage!

—Et encore je les veux en espèces, des billets les uns sur les autres.
Pas de chèques, pas de lettres de crédit. Je ne veux point avoir
affaire aux banques africaines. Dépêchez–vous, Monsieur Bollot, car
dans trois jours nous partons.

—Nous, vous dites? Et qui donc? Partez–vous en caravane par hasard?

—Nous, cʼest ma mère, Linette et moi. Ma mère ne vieni que jusquʼà
Marseille, dʼoù elle rentre en Italie. Moi et Linette nous allons aux
bords du Sahara, une plage où la vie est très chère.

—Mais vous plaisantez, ma fille! Croyez–vous quʼon tienne cent mille
francs dans son tiroir comme de la petite monnaie?

—Eh bien, vendez, hypothéquez, faites un emprunt, faites ce que bon
vous semble; mais dans trois jours vous aurez lʼobligeance de me
procurer cette somme, pas un sou de moins. Et, à présent, je vous dis
au revoir, cher Monsieur Bollot, parce que, vous voyez cette liste?...
ce sont des commissions que jʼai à faire.

Se ne andò. Jack lʼaspettava con pazienza davanti alla portineria
di Monsieur Bollot. In quegli ultimi giorni la sua poca loquacità
era quasi divenuta un assoluto silenzio. Bluette invece non aveva
nemmeno il tempo di badare alla sua tristezza. Gli parlava come ad un
fratello, raccontandogli tutto quanto passava nel suo tremante cuore.
Jack lʼascoltava con una pazienza irritata, senza guardarla, senza
interromperla; in ultimo concludeva:

—Quand une femme aime un homme, cʼest du temps perdu.

—Quʼest–ce que tu veux dire avec cette remarque très intelligente?

—Je veux dire, Bliouette, que cʼest du temps perdu.

—Tu es un grand philosophe, Jack, un très grand philosophe!

Ma una sera, che stavano come una volta nella sua camera da letto
e, senza pudore verso di lui, Bluette non portava che una sbadata
vestaglia, Jack, dʼimprovviso, tacendo, la rovesciò sui cuscini, e
con la bocca premuta nel tepore del suo collo fece un tentativo quasi
brutale per impadronirsi di lei.

Erano passati lunghi anni, ed egli lʼamava sempre come quando ella
danzava il My Blu, come quando neʼ suoi occhi di Transalpina vʼera
tutta la bellezza disonesta e docile della femmina da piacere.

Ma ora, da lunghissimi giorni, la sua calda gioventù era piena di
solitudine; un vuoto e profondo malessere le correva nel cerchio
delle vene. Sotto quella repentina violenza, da prima ella non capì.
Solamente provava una stordita felicità fisica nellʼessere sopra una
coltre, supina, con un peso dʼuomo che le opprimeva il cuore, il
grembo, il seno, e quasi le chiudeva il respiro al sommo della gola.

Ma poi si ricordò con un brivido che non era il suo amante, anzi
era quasi un fratello, che cercava di offendere la sua rinnovata
castità. Un brusco dolore soverchiò nelle sue vene quella involontaria
tentazione di gioia, e lʼurto fu così ruvido che le parve di ricevere
una ferita, mentre il suo docile corpo di femmina era già immerso in un
principio di voluttà.

Non seppe ribellarsi, non gridò; volse la faccia da un lato, e
supplicava con la voce spenta:

—Ne me fais pas de mal, Jack... tu es mon frère, Jack... tu es mon
frère...

Poi le scoppiò nella gola una convulsione di singhiozzi, e dagli occhi
fermi, quasi morti, le cadevano lacrime brillanti su la spalla denudata.

Egli allora la guardò. La guardò, pallidissimo, con gli occhi bui,
perdendo il coraggio di offenderla. Poichè neʼ suoi chiari occhi aveva
egli pure unʼanima, e non poteva impadronirsi dʼuna donna che piangesse.

Anzi una orribile vergogna lo sopraffece: mormorò a fior di labbro:

—«Excuse–me. Bliouette...»—E scomparve.

Scomparve.

Ella rimase a lungo su quel letto, fra il disordine deʼ suoi capelli,
supina e tramortita.

[Illustrazione: DECORAZIONE]

In certi casi la bionda Caterina mancava di riconoscenza.

Quando Maurice, maggiordomo impeccabile, terminò di far passare
attraverso il finestrino lʼultima borsa del suo numeroso bagaglio,
mentre al segnale della partenza, il bianco treno della Riviera
stiracchiava le sue lunghe vetture gremite, la sola cosa chʼella seppe
dirgli furono queste parole insufficienti:

—«Ne plôrez pas, mon pôvre Maurice, pour la raison que ze mʼen vais...
Qui sait quʼun zour ou lʼautre ze ne retourne!... Et puis, dans ce
monde, il faut tout prendre avec un pé de philosophie!»

Maurice non piangeva: ma era veramente commosso e non poteva
dimenticarsi lì per lì dʼavere calmati così a lungo i suoi nervi
generosi col servirle in camera ogni sera una tazza di camomilla
profumata.

Il treno frattanto sʼincamminava senza urto su le rotaie luccicanti.
Allora la bionda Caterina incastrò nel finestrino la gagliarda
ricchezza del suo seno classico e sorridendo allʼimpassibile
maggiordomo gli mandò con la punta delle dita un ultimo bacio dʼaddio.
Poi si ritrasse nello scompartimento con un grande respiro di sollievo,
mentre i gentili occhi di Linette la guardavano trasecolati.

—«Tu as un pé de malinconie dans lʼâme, pôvre Bluette!... Et moi
viceversa ze me sens tout–à–fait heureuse de quitter cette ville tant
riche et tant déchantée, qui est, selon ma manière de voir, un immense
bordel...»

Bluette sorrise, tranquilla, sotto il suo buio velo di viaggiatrice. Ma
Linette, che non amava il frasario della bionda Caterina, e sopra tutto
non amava sentir offendere la sua bella Città, con una sottil voce
piena dʼirritazione le rispose:

—Pardon, Madame, je suis Parisienne, moi, et ça me fait de la peine
de vous entendre débiner ma ville, qui demeure sans contredit la plus
belle ville du monde!

—«Oh, la, la!... oh, la, la!... toi tu parles parce que tu as la
bouche, Linetta mia! Quʼest–ce que ça veut dire «la plous belle
ville du monde»? Est–ce que tu as vu les ôtres avant de parler? Non,
natourellement! Tu es une zeune fille sans expérience et tu veux mettre
ta langue un pé partout! Moi, qui pourrais être ta mère, ze dis que
cʼest un bordel! Donc tu peux te fier, parce que ze vois les choses
claires et ze nʼai pas comme qui dirait les tranches de saucisson sur
les yeux!»

—Oui, Madame,—rispose Linette, con una remissività beffarda.

—«Parce que tu dois savoir,—ricominciò la bionda Caterina—que chez
nous, par exemple, il y a moins de belles choses dans le magasins, et
on peut traverser le rues sans risquer dʼy perdre une zambe; mais la
vie dans notre pays est beaucoup plous natourelle, et on nʼest pas
frustes comme de vieilles savates à lʼâge de trente ans! Paris, si
tu regardes bien, cʼest lʼetiquette: mais le bon vin se trouve dans
dʼôtres bouteilles. Cʼest ainsi, Linetta mia! Et souviens–toi que te
lʼa dit Caterina.»

—Oui, Madame,—rispose Linette con un impercettibile sbadiglio.

—«Et toi, par exemple, tu nʼas quʼà regarder ma fille. Quand elle
est venue à Paris, cʼétait un bouton de rose, mais un de ces boutons
de rose quʼon ne cultive pas au Zardin des Plantes, ni pas même à
Saint–Zermain!... Or, tu peux la voir, si elle ne ressemble pas à ces
têtes de cire qui tournent dans les vitrines des coiffeurs. Et puis,
quʼest–ce quʼelle a eu de bon, après avoir été la reine de Paris? Un
pé de galette? Oh, mais diable! les belles femmes en trouvent partout.
Et encore, quoi? Une poignée de mouches!... Viens voir un pé dans
nos villes dʼItalie, toi qui chantes: Ze suis Parisienne! ze suis
Parisienne!...»

—Pour le moment nous allons en Afrique, Madame, et cʼest aussi très
intéressant.

—«Eh, voilà la belle histoire!» Si ma fille en retourne, zʼallumerai
trois chandelles à la Madone! Cʼest encore un cadô de Paris ce mal de
ventre dont elle est amoureuse! Car, si elle lʼavait trouvé chez nous,
ze parie ma tête quʼelle lʼaurait envoyé se promener, lui et sa Lésion
Etranzère! Mais à Paris cʼest très chic dʼavoir des béguins pour des
gigolos qui ne valent même pas un sou troué du Pape!

Bluette, con gli occhi affascinati, guardava la veloce campagna sparire.

Adesso Parigi la Stupenda era già dileguata nel suo vortice di
balenante atmosfera; incominciava senza confine il verde miracolo della
terra di Francia.

[Illustrazione: DECORAZIONE]

—Addio, addio mammina...—ella gridò ancora una volta, sporgendosi
dallʼalto parapetto, mentre il piroscafo partiva.

E le mandò quel saluto con la sua voce che più non poteva essere udita,
con gli occhi suoi di fanciulla chʼeran pieni di lacrime, con la sua
lunga sciarpa di velo che il vento sbatteva in ogni senso come una
fragile bandiera.

E la bionda Caterina rimase lì, sul molo de la Joliette, sperduta,
immobile, quasi brutta, quasi vecchia, mentre vedeva lʼunica sua
figlia perdersi, confondersi, nelle azzurre distanze del mare.

In quel momento si ricordò più che mai dʼaverla portata nel grembo,
dʼaverle dato queʼ suoi dolcissimi capelli biondi.

Il pomeriggio assaliva con fulgori pieni di veemenza il marmo e
le cupole della trionfale Marsiglia. La città rapace, straricca e
splendida, pareva che tenesse alla catena il suo folto naviglio come
una dormente muta di cani da preda, velocissimi.

Il grande piroscafo della «C.ͥ ͤ Transatlantique», descrivendo unʼagile
curva sotto i lunghi vortici di fumo delle due ciminiere, usciva nel
mare libero cantando a sibili di sirena. Ma la buona madre non poteva
muoversi da quellʼasfalto luminoso e nero, in cui le pareva di sentir
giungere il movimento ritmico del mare. Intorno a lei si pigiava la
folla irrequieta, si accatastavano mucchi enormi di mercanzie; le
bestemmie dei facchini scandivano il tuffo di qualche remo; lʼacqua
sudicia gorgogliava contro le fondamenta, senza rumore dʼonda. Si
alzavano grosse nuvole torbide, come per lo scoppio dʼuna mina, laggiù,
presso i doks, ove i bastimenti fuligginosi rovesciavano valanghe di
carbone.

Ma questa povera bionda Caterina, che si era creata con le malizie di
Parigi una canonicale gioventù, non vedeva che il lontano piroscafo di
Bluette camminare nellʼinfinito con una scìa di sole.

Un trattenuto singhiozzo le gonfiava il suo classico seno, e con gli
occhi fermi, coʼ labbri chiusi, piangeva solitariamente.

Le grosse zanzare di Marsiglia fecero intorno a lei tanto rumore, che
dʼun tratto la destarono.

—«Zout!—esclamò ella, con un oltraggio estremo alla favella
repubblicana;—zʼai le mal de mer à force de plôrer... Couraze,
Caterina!»

E tornò indietro passo passo, con la fronte china, finchè si risolse a
prendere una carrozzella.

Il suo treno partiva qualche ora dopo; non le rimase nemmeno il tempo
di conoscere la galanteria dei Marsigliesi.

E fu certamente un grande peccato.

[Illustrazione: DECORAZIONE]

Ora il piroscafo andava tra stelle, solcando la chiara notte
mediterranea con un calmo rumore di velocità.

Bluette guardava quel mare, chʼegli pure aveva guardato.

Così curvo era il firmamento che non si poteva nemmeno discernere
quali stelle fossero nel cielo e quali navigassero nella cosparsa onda
lontana. LʼAffrica invisibile mandava già il suo profumo di terra calda
e barbara nel tremante spazio. Si sentiva il deserto respirare nella
notte piena di fertilità.

Le azzurre isole Baleari galleggiavano come grandi giardini marittimi,
gonfie di vegetazione, ravvolte in nuvole dʼoscurità e di profumo.
Palma di Maiorca, ubbriaca delle sue rose, dormiva nel profondo
semicerchio della sua baia notturna, tra un fantastico brulichìo di
luci tremule, che si appendevano alla costa come leggere ghirlande.

Era già il mattino, quando apparvero, confuse nei vapori distanti,
le cime della Grande Kabylia, nuvolosi vertici della baia di Algeri.
Poi, lentamente, questo grande anfiteatro apparve, sotto le raggiere
del sole nascente, chiuso allʼestremo confine dalla barriera ciclopica
della Kabylia e dellʼAtlante.

Bluette guardò con gli occhi pieni dʼaurora, e guardando baciò con
lʼanima sua dʼinnamorata quella terra stupenda che appariva.

Le montagne di Buzarea scagliavano alta nellʼazzurrità la cattedrale
di Notre–Dame dʼAfrique. Laggiù, con i suoi mille vertici, brillava
la capitale moresca del Mediterraneo, lʼantica emula di Cesarea, la
schiava di Pedro Navarra, quella per cui pianse il Doria le sue belle
armate, Algeri la sempre invincibile, Algeri la stupenda corsara.

Simile ad una immensa gradinata di marmo bianco, si sciorinava e
scendeva in un delirio di luce verso il mare indolente. Sul più alto
gradino, la Kasba fanatica dei vecchi sovrani Berberi scintillava
traverso la lontananza come un incendiato palazzo di cristallo. E
Bluette vide, su le ovali colline di Mustafà, stendersi la pigra
dominazione della città europea, che uccise ormai per sempre il vecchio
labirinto, il leggendario mistero della città mauritana. La neve
dellʼalto Djurjura pareva dʼuna bianchezza inverosimile in quel colore
di deserto.

Era un sogno, e Bluette sentì con lʼanima sua dʼinnamorata che stava
per entrare nellʼincantesimo di una grande poesia.

Era la piccola ballerina di Parigi, che andava in cerca del suo amante,
laggiù, verso le montagne azzurre della Grande Kabylia, nel sole del
continente vertiginoso, nel rosso delirio dellʼAffrica satura di
malefizio e di voluttà.

Essa lʼaccoglieva, le veniva incontro con una sua città sfavillante,
che pareva il giardino estremo di Parigi; eppure lì, davanti a quel
porto, sul limitare di quel mondo, la vita cambiava colore.

Vʼerano ancora i sontuosi edifici dʼEuropa, le formicolanti corsìe,
i viali percorsi da filari dʼalberi, gettati come larghi nastri
sul pendìo delle colline; vʼerano ancora, di là dai sobborghi, le
rotaie luccicanti, percorse dal fumo delle vaporiere. Ma ella sentì
con lʼanima sua dʼinnamorata che in questa indomabile terra, in
questʼAffrica ove cʼè ancora la distanza, ogni strada poteva chiamarsi
veramente una strada, poichè tutte camminando si perdevano, svanivano,
parevano andare non verso un luogo ma verso lʼinfinito, verso quel
pericolo chʼè il solo confine delle strade:—la Distanza.

Bluette sʼincamminò dietro la gente che a lunghe ondate sʼincanalava
per la scala montatoia. I suoi grandi occhi azzurri guardavano lo
spettacolo della Jetée Kheïr–ed–Dine con una specie di cosciente sogno.
Di là il mare continuava, con lampi di sole, verso lʼAffrica più
lontana.

Ed era verso quellʼAffrica più lontana che la piccola ballerina di
Parigi doveva inoltrarsi, portando il suo cuore lieve, ma intenso e
profumato come la musica del My Blu. Era nel sole della grande Affrica
barbara chʼella doveva immergere, come in un bagno estenuante, la sua
carne incipriata. Ella pure, la piccola ballerina di Parigi, aveva un
errante sogno da portare nel deserto, verso le montagne azzurre della
Grande Kabylia, verso i fermi uragani di sole che devastano il Tropico
senza tramonto.

Algeri, sollevata nel tremolio del grande incendio pomeridiano,
sciorinava il suo bianco splendore su lʼanfiteatro del golfo, dalle
cave del Marmo di Bab–el–Oued sino agli ulivi antichi dei giardini
di Mustafà. Quasi verticale nello spazio, Fort–lʼEmpereur vegliava
inespugnabile su quellʼimmenso ventaglio di edifici; la moschea
di Djama–Djedid, lʼ antichissima di Djama–Kebira, le zauie di
Mohammed–ech–Chérif, di Safir e di Sidi–Ramdane, raccoglievano in sè
tutta la luce di quellʼaria maomettana, ove usurpavano cielo senza
mandare un lampo le obese cupole cristiane di San Filippo e di Santa
Croce.

Bluette guardò con lʼanima sua dʼinnamorata quel prodigio nuovo per
i suoi occhi, mentre, un poʼ stordita, un poʼ ebbra, si lasciava
portare dalle ondate di gente, fra cui suonavano le sillabe aspre
del linguaggio arabo, le orientali cadenze, le sonorità impure del
francese dʼAlgeria. Davanti aʼ suoi occhi ferveva con una specie di
trepidazione solare lʼintensa vita marittima della capitale dʼAffrica,
mentre, percorsa in ogni senso dalle fiumane di tutti i boulevards,
la grande piazza del Governo, pavimentata di fiamma, brulicava,
squillante, scintillante, sollevando nel rettangolo degli edifici ad
archi la statua equestre del Duca dʼOrléans. Da un lato sʼalzavano
come ruderi dʼuna fortezza di macigno i dirupi turchi del vecchio
porto dʼAlgeri, gli spalti e le darsene che scoscendono lʼaspra isola
dellʼAmmiragliato; di là correva, leggero come un nastro galleggiante,
il molo di Kheïr–ed–Dine.

Egli pure aveva camminato su quellʼasfalto lampeggiante, aveva guardato
Algeri splendere in una intensa nuvola di sole. Come lei aveva quasi
rasentato gli scafi degli enormi transatlantici, le prore dei navigli
da guerra, per scendere verso la stazione dellʼAgha, ove il treno di
Orano attende lʼora di avventarsi, lungo i giardini dei sobborghi,
nella grande Algeria.

E partì.

Partì con lʼanima sua dʼinnamorata verso lʼimmobile Affrica rossa,
piena di silenzio e di vertigine, ove anche lʼanima sʼincendia in un
terribile delirio di sole.

Partì.

Era un giorno gagliardo e scintillante: su tutte le cose immerse
nellʼaria pareva che tremasse una invisibile maglia dʼoro. I giardini
dei sobborghi bruciavano come incensieri, mandando larghe vampe di
profumi tropicali. La città si dibatteva con fragore sotto la potenza
incendiaria del sole. I cantieri dʼEuropa, le ciclopiche officine degli
uomini bianchi, depredavano, pazze di fatica e dʼavidità, la ricchezza
barbara del continente affricano.

Poi Algeri scomparve. Su la pianura immensa della Mitidja la velocità
silenziosa del treno spargeva un insostenibile tremolìo. La piana di
Algeri camminava, come un mare prosciugato, verso lʼazzurro Atlante di
Blida. Il sole bruciava da venti secoli sul leggendario Sepolcro della
Cristiana.

Bluette non parlava. Una tristezza grande, inesprimibile, un senso
luminoso di sperdimento, pesava su la sua dolce anima.

Qui la distanza era veramente la Distanza. Qui le strade potevano anche
non arrivare mai.

E si sentiva da lui più lontana che non le fosse mai sembrato nelle vie
di Parigi, quando sʼincamminò. Il fascino dellʼAffrica la tormentava,
le penetrava nellʼessere come una terribile magìa.

Poi cominciò a cadere il giorno. Fu per tutto lʼinfinito una veemente
sollevazione di colori. Lʼanima delle cose rutilava; tutto splendeva;
splendevano perfino i rumori.

Abbandonò il capo allʼindietro, chiuse gli occhi, sognò. Adesso era
perduta; una irremissibile velocità la portava per lʼAtlante azzurro,
fra tempeste di luce, verso il deserto disperato. Adesso non era più
lʼinnamorata ballerina di Parigi, ma una piccola nomade in balìa
dellʼinfinito, che andrebbe dove andavano le strade, senza potere forse
mai più, mai più, giungere alla sua meta.

Ogni tanto, quasi per riafferrarsi alla realtà, metteva una mano fra
le mani di Linette, che le stava presso, ed in silenzio lasciavano
entrambe che il treno portasse nellʼesilio, nel grande pericolo della
strada, la loro indifesa gioventù.

Ora la montagna dʼAtlante saliva in ripide petraie deserte, con qualche
profumo dʼaranceto intorno ai gourbis degli indigeni.

La voce montmartrese dello sbarbato maggiordomo passava per la terza
volta nel corridoio, ripetendo a tutti gli sportelli:—«Messieurs,
Dames, le dîner est servi!... Messieurs, Dames, le dîner est servi!...»

E nellʼAffrica della Terza Repubblica saltavano, sotto lʼunghia dʼun
arabo, tra i fuochi della incendiata notte mauritana, i vivi turaccioli
del vino di Sciampagna.

[Illustrazione: DECORAZIONE]

—Eh bien, Linette, puisque nous sommes tout près dʼOran, il ne nous
reste plus quʼune heure et demie environ de chemin de fer jusquʼà
Sidi–bel–Abbès. Pense donc, ma Linette, si nous sommes près de lui! Mon
cœur tremble comme lʼamorce dʼun pêcheur à la ligne. Quʼest–ce que tu
en dis, Linette?

—Que dire, Madame? Je croyais qui il y avait des chameaux et des
caravanes, en Afrique... Mais je vois quʼil y a des trains de luxe
comme sur la Côte–dʼAzur. Alors, voyez–vous, jʼen suis tout de même
désappointée.

—Cela vient de ton ignorance, Linette. Car, si tu avais étudié un peu
de géographie, tu saurais que lʼAlgérie nʼest plus un pays nègre et que
Oran est un des ports les plus commerçants de la Méditerranée. On mʼa
dit que cʼest très chic dʼaller prendre les bains de mer sur la plage
de Sainte–Thérèse. Et réellement on a collé partout les réclames de
cette plage.

—En fait de réclame, ce Felix Potin est extraordinaire! Jʼai vu
son boniment dans plusieurs petites gares, où il nʼy avait que des
charbonniers.

—Quʼy a–t–il dʼextraordinaire, Linette? Cʼest sa façon à lui de
coloniser les gourbis. Mais regarde donc! Cette grande ville toute
ensoleillée, qui se deploie comme un large manteau fauve, cʼest bien
Oran, si je ne me trompe. Nous y serons dans quelques minutes. Dieu,
quʼil fait chaud! Assieds–toi, Linette, et prends mon nécessaire sur
tes genoux. Je vais me passer un peu dʼEau de Cologne sur les tempes,
un peu de poudre sur la figure, car je me sens horrible!

—Vous devez être bien fatiguée, Madame, si jʼen juge par moi–même.

—Fatiguée, Linette? En bien, non! Ce nʼest pas le mot. Je me sens
grise... tout à fait grise... et pourtant je pourrais aller bien plus
loin encore, sʼil le fallait. Tu viendrais aussi, nʼest–ce pas, Linette?

—Sans doute, Madame.

—Pense donc! Une heure et demie de chemin de fer, puis cʼest
Sidi–bel–Abbès, cʼest sa caserne, cʼest lui!... Je le verrai ce soir,
Linette... Ah, mon Dieu, quand jʼy pense, il me semble que mon cœur
étouffé nʼaura plus la force de battre...

—Assez de poudre, Madame! Par cette chaleur, il ne faut pas en mettre
tant que ça.

—Suis–je très décoiffée?

—Ça dépend; pour lʼAfrique cʼest tout ce quʼil faut.

—Et, dʼailleurs, je me voile. Je me sens déjà très musulmane... Comme
cʼest bête de traverser un si beau pays et de ne rien voir. Mais, au
retour, puisque nous serons avec Laire, nous prendrons notre revanche.
On ira partout voir les mosquées et les danseuses arabes. Je suis très
curieuse de ces femmes, qui doivent être savoureuses et imprégnées de
soleil comme des dattes mûres. Je tʼen prie, Linette, ne perds pas le
sac où nous avons toute notre fortune. Que deviendrions–nous, si, aux
bords du Sahara, nous restions sans galette?

—Je parie que Madame saurait très bien se tirer dʼaffaire même en
Afrique.

—Crois–tu?

—Mais, oui. Madame! Cette Algérie, après tout, nʼa lʼair que dʼun
faubourg parisien, et il y aurait toujours pas mal de messieurs qui
vous trouveraient belle...

—Cʼest que tu ne te doutes pas combien jʼai peu envie de lʼêtre,
ma petite Linette! Et tu ignores sans doute quʼen disant cela tu
me froisses... Je ne suis plus celle dʼautrefois, et je deviens
étrangement pudique...

—Mais vous nʼavez pas remarqué, Madame, ces trois ou quatre voyageurs
qui nʼont cessé de se promener dans le corridor en fumant de gros
cigares?

—Tu leur plaisais, Linette! Voilà ce que je suppose.

—Oh, oui, cʼest bien la peine que vous vous moquiez de moi, Madame!

—En tout cas prépare les cent sous que nous donnerons à lʼemployé du
wagon–lit, car nous serons bientôt en gare.

—Hélas, Madame!... cʼest très ennuyeux de se remettre tout de suite
dans un train, par cette canicule.

—Sais–tu ce quʼon pourrait faire? Une heure et demie de chemin de fer,
cela fait à peu près soixante–dix ou quatre–vingt kilomètres ce nʼest
pas beaucoup plus loin que la Forêt de Fontainebleau... nʼest–ce pas?

—Moi, Madame, je mʼy perds avec les distances. Je sais que pour y aller
il faut bien disposer de tout son Dimanche.

—Eh bien, je suis certaine quʼil nʼy a pas plus de 80 km. jusquʼà
Sidi–bel–Abbès. On me lʼa dʼailleurs dit chez Cook.

—Très bien. Mais quelle importance cela a–t–il, Madame, quʼil y en ait
quatre–vingt plutôt que cent?

—Une très grande importance, Linette. Car, sais–tu ce que nous allons
faire? Au lieu de nous remettre dans un train asphyxiant, nous allons
descendre dans un bon hôtel, prendre un bain tiède et parfumé, dont
je raffole;—toi aussi, Linette, tu vas prendre un bain à lʼEau de
Lavande,—puis on se reposera, on se rhabillera avec du linge frais, on
déjeunera au restaurant pour voir les têtes de ces Français dʼAfrique,
et pendant ce temps le portier se chargera de nous louer un auto
dans un garage, afin quʼil nous mène à Sidi–bel–Abbès par la route
nationale. On prendra lʼair et on verra le paysage. Quʼen dis–tu,
Linette?

—Je dis que ce serait fort joli. Mais, dʼabord, est–ce quʼil y a
seulement une route?

—Que tu es étourdie, Linette! Comment veux–tu quʼil nʼy ait pas de
route où il y a un chemin de fer?

—On ne sait jamais, en Afrique... Et puis, ça doit coûter bigrement
cher! Puisque nous avons nos billets jusquʼà Sidi–bel–Abbès...

—Voyons, ce sera comme partout: un franc le kilomètre. Quatre–vingt
et quatre–vingt ça fait cent soixante; il faut compter en plus la
sortie du garage et le pourboire du chauffeur. Si le portier nʼest pas
un voleur, on doit sʼen tirer moyennant une dixaine de louis. Jʼen
donnerais bien cinquante pour le revoir un quart dʼheure plus tôt!

—Je vous dis, Madame, que nous sommes en terre noire et quʼil ne faut
pas gaspiller lʼargent. Je serai tout de même heureuse comme un poisson
en me plongeant dans la baignoire!

—Donc, cʼest tout décidé. Dites–moi, monsieur le contrôleur, quel est
le meilleur hôtel dʼOran?

—Le Continental, Madame. Quoique le Victor et le Royal ne lui cèdent en
rien.

—Merci. Jʼirai au Continental. Mais, diable! vous avez des moustiques
effroyables dans ce beau pays!

—Eh, oui, Madame!... Sans compter quʼils sont très malins; rien ne les
attire comme le parfum dʼune Parisienne!...

[Illustrazione: DECORAZIONE]

Ed ora la strada volava, arida e libera, impetuosa come la felicità.
Orano moriva distanziata, in una grande burrasca di nuvole dʼoro, sotto
la erta sottile montagna di Santa Cruz, che pareva simile ad un albero
di prua.

Imbevute, sature di splendore, passavano le vigne rossastre del
Tlelat, i lauri–rosa che fioriscono su le pendici del Téssala, gli
sbarramenti agili che ritardano il mare ai leggeri e veloci fiumi
discesi dallʼAtlante. Passava, iridata e sfarzosa come la stoffa dʼun
telaio arabo, la bella campagna dʼAlgeria, che il sole impregna dʼuna
rutilante fecondità. Passava, sollevata e quasi tremula nello sfarzo
dellʼestremo pomeriggio, lʼanima della terra interna, che si avventa
bruciando verso la disperazione, laggiù, nellʼinfinito oceano di sole,
dove le strade bianche dellʼuomo, come riviere morte, si disperdono
sotto il furore della vampa, nella perduta vastità.

Ed ella respirava con una specie di ubbriacamento quellʼaria un poʼ
drogata, che la terra calda mandava ogni tratto contro le sue narici
avide. Rannicchiata nel profondo sedile di cuoio, si lasciava portare
dalla velocità come da una potenza gioiosa che le carezzasse tutta
la persona. I semicerchi dʼoro delle sue lunghe ciglia tremavano di
leggerezza e di piacere, mentre, nellʼurto dellʼaria, come in un sogno
estatico vedeva la celere campagna e lʼincendiato orizzonte sparire.

Nella disperata serenità il sole pericolava su lʼinvisibile deserto;
le case arabe scomparivano, quasi cancellate nel furore della luce: le
palme sembravano ravvolte sino al vertice nella spirale di una nuvola
bionda. Si sentivano le ruote sobbalzare, volando, su la terra battuta.

Un non so che di rosso, di angoscioso, di barbaro, entrava nello
spirito azzurro della piccola ballerina di Parigi: era il delirio
dellʼAffrica, il vertiginoso malefizio della terra lampeggiante.

Mimi Bluette! Mimi Bluette!... Era stata la bellezza e la musica sui
palcoscenici della Capitale; aveva regalato la sua nudità cosparsa
di brillanti ai teatri della città notturna, ove una danza impudica
diventa lʼafrodisiaco di tutti gli amplessi. Ed ora portava la sua
trasparente anima di ballerina verso la calamitosa bellezza del
tropico, mesceva nel respiro della terra interna il suo leggero e
tenace profumo di Coty.

Quanta poesia nellʼanima di questa lieve creatura, che andava per la
terra dʼAffrica cercando un amante perduto!... Quanto sole vedrebbe con
i suoi occhi dʼinnamorata, la bellissima creatura!...

Ed ecco apparvero con acque repentine lungo la strada balenante i fiumi
della terra interna, lʼOued Sarno e la Mekerra, che si mescevano senza
fragore sotto agili ponti. Ed ecco apparve la piana di Bel–Abbès,
rosata e fertile nel luminoso vespero come una opulenta campagna della
Provenza felice. La Mekerra disegnava traverso le biade fiammeggianti
e gli ulivi azzurri una lunghissima scìa dʼargento. La bianca lontana
diga della città barricava lʼorizzonte.

Ella sentì dʼun tratto il cuore venirle meno. Prese una mano di
Linette, e la strinse, la strinse... Poi con lʼápice della sua fredda
mano toccò lʼómero del meccanico, disse in fretta qualche parola, che
il vento portò via...

Ma egli capì; si volse:

—Oui, Madame, nous arrivons à Bel–Abbès.

Allora ella si rovesciò contro la spalliera, e giacque stupefatta,
immobile, come se non avesse più vita.

Nellʼaria dolce navigava il profumo degli ulivi di Máscara; la porta di
Orano splendeva, incorniciando un corridoio di sole.

—Madame, ne soyez pas si pâle...—disse con un tremante coraggio la
turbata Linette, cameriera dalle calze di voilé.

[Illustrazione: DECORAZIONE]

Fosse in grazia della sua natura premurosa, fosse per la profonda
simpatia che glʼispiravano le trasparenze di Linette, quel meccanico
non volle abbandonare le due viaggiatrici su la soglia dellʼalbergo;
ma quando ebbe sciolto il complicato, se pur succinto, bagaglio della
Parigina, volle aiutare i facchini dellʼalbergo nel portarlo al pian di
sopra e slacciarne le fodere impolverate. Le due camere non mancavano
di un certo «comfort» coloniale; con le zanzariere di bucato e coʼ lor
vecchi mobili di noce, rammentavano la buona locanda francese di mezzo
secolo fa.

Questo arrivo produsse un notevole movimento nel quieto albergo
«dʼOrient et Continental». Il portiere, tedesco naturalmente, perciò
refrattario ad ogni sfumatura, immaginò senzʼaltro che si trattasse
di una sontuosa e ricchissima «cocotte». Il Direttore, francese della
riva di Provenza, un poʼ tinto di sangue levantino, andò subito
col pensiero verso qualche scapestrato ufficiale della caserma di
Cavalleria. Il maggiordomo, che aveva una certa grande aria da Casino
di Deauville, non tardò molto a presentarsi con urbanità su la soglia
della camera, per ricevere il nome della viaggiatrice nel bollettino
dei forestieri. Ella si sciolse il velo, si tolse i guanti, e scrisse
in fretta con la matita:

—Mimi Bluette—Paris.

Questi lesse, poi rilesse, guardò lungamente la bellissima Parigina, ed
in ultimo non seppe frenare la sua naturale stupefazione.

—Pardon, Madame... Est–ce bien Mimi Bluette quʼil faut lire?

—Sans doute. Et pourquoi?

—Mais alors... seriez vous par hasard la vraie, la célèbre M.ᵐᵉ Mimi
Bluette?

—Je ne sais pas si je suis la célèbre, mais en tout cas je suis bien la
seule Mimi Bluette que je connaisse. Faites–moi du thè frappé, si cʼest
possible; et, puisque le chauffeur doit avoir soif, donnez–lui de la
bière, sʼil en veut.

—Merci, Madame, jʼen boirai volontiers,—rispose il meccanico, tutto
intento a disporre le valige sui vari sgabelli.

—Connaissez–vous la ville?—gli domandò allora Bluette, che stava
riannodando il suo lungo velo.

—Ça va sans dire, Madame.

—Vous savez donc où se trouve la caserne du 1ͤ ͬ Régiment Etranger.

—Rue de Tlemcen, Madame. Pas loin dʼici.

—Voulez–vous mʼy conduire?

—A vos ordres, Madame.

—Descendez, je vous prie; nous venons de suite.

Non appena egli uscì, e furono rimaste sole, Bluette con le due mani si
compresse il cuore che le batteva.

—Je le verrai, Linette! Je le verrai tout à lʼheure... Oh, Linette, ma
Linette!...

E con un moto subitaneo dʼintima sopraffazione lʼabbracciò come una
piccola sorella.

—Viens, descendons. Je nʼai le temps ni de me rafraîchir, ni de me
peigner. Sonne pour dire quʼon nous serve ce thè en bas, et très vite.
Le cœur me bat. Chaque parole me coûte un effort; je suffoque. Sois à
côté de moi quand je le reverrai, Linette!... Quand je le reverrai, ce
sera terrible... Oh, tu ne sais pas, tu ne sais pas comme je lʼaime!

A pianterreno tutti gli impiegati dellʼalbergo fecero capolino per
vedere Mimi Bluette. Il Direttore lʼassalì di premure, mentre il
dissetato meccanico di Orano riaccendeva davanti allʼalbergo il suo
fragoroso motore.

Due belle donne, chʼeran visibilmente le dive di qualche provvido
caffè–concerto, prendevano il tè con alcuni ufficiali e con un paio di
notabili del Montmartre algerino. Un giovine arabo, dagli occhi simili
a grosse agate, la pelle color di bulgaro, esibiva le costose inezie
del suo bazar ambulante. Quattro europei discutevano dʼaffari in un
gergo fatto dʼarabo e di spagnuolo.

Senza indugio Bluette uscì. La diritta via Prudhon, fra la porta di
Orano e quella di Daya, aveva lʼaspetto comune ad ogni Sotto–Prefettura
di Francia durante lʼimpero frigio della Terza Repubblica. Qualche
gruppo di legionari camminava su lʼorlo dei marciapiedi, con
lʼaria sfaccendata, stanchi del clima pesante, le mani conficcate
nelle saccocce, adocchiando le ragazze che passavano, aspirando con
ingordigia il fumo soave che produce la bionda foglia del tabacco
dʼAlgeria.

Cadeva sul rettilineo delle case unʼazzurra oscurità; la vita
provinciale del grande accampamento europeo molestava col suo rumore
pomeridiano il profumato silenzio del cielo dʼAffrica. E lʼindigeno
passava, tra quella folla dʼinvasori e di meticci, come un intruso che
ne fosse il recondito padrone.

Quando giunsero davanti alla caserma, tutta la rue de Tlemcen era piena
di soldati. La musica militare camminava tra uno stormo di monelli,
verso il Giardino Pubblico.

Le balie dʼEuropa non si sarebbero dunque annoiate nemmeno a
Sidi–bel–Abbès. La Francia di Mimi Bluette amministra le sue Colonie
come può, ma non trascura in ogni caso di allietarle con musiche
militari. Questa è senza dubbio una ottima determinazione.

Allora ella scese dallʼautomobile con il suo piede leggero, e passò
davanti alla sentinella. Siccome avrebbe camminato chissà fin dove,
tanto era stordita, il caporale di guardia la fermò. Le si mise davanti
con le sue larghe spalle quadrate, portandosi la mano alla visiera:

—On nʼentre pas, Madame. Cʼest défendu.

—Ah...

Le pareva impossibile. Ferma sotto il portico, affondava lo sguardo nel
cortile inazzurrato.

—Est–ce pour voir un officier, Madame? Cʼest quʼil est très tard à
présent...

—Non, un légionnaire.

—Un légionnaire?

—Oui.

—Comment sʼappelle–t–il?

—Laire.

—Laire?... Connais pas.

—Pas possible! Est–ce que ce nʼest pas–ici le 1.ͤ ͬ Régiment Etranger?

—Cʼest bien le 1.ͤ ͬ Etranger, comme vous dites. Mais jʼarrive de
lʼintérieur, moi, et je ne les connais pas tous. Attendez voir, la
dame; nous allons vous faire parler avec lʼofficier de garde.

—Merci, mon brave.

Il caporale si volse, chiamò un legionario:

—Eh, toi, Gouin! va donc appeler le lieutenant Silles. Tu le trouveras
au mess. Y a des dames qui le cherchent. Dépêche–toi, Gouin!—Poi si
rivolse amabilmente alle due visitatrici:—On ne peut pas vous dire de
vous asseoir, car nous manquons de fauteuils, comme vous voyez... mais
nous regrettons. Dʼailleurs le lieutenant Silles a de longues jambes!

In verità il caporale di guardia non aveva esagerato: quel tenente
Silles presentava una strana rassomiglianza con il dromedario da corsa,
e dello stesso animale aveva, nella barba, nei capelli e nel colore del
viso, la rossastra biondezza.

Si presentò con un rigido saluto militare, pronunciando un «Mesdames?»
asciutto e lunatico, mentre non cessava dal masticare con la mandibola
ossuta il boccone del suo pranzo, che aveva interrotto malvolentieri.

Considerò quelle due donne, dallʼaspetto molto singolare per una
caserma di Sidi–bel–Abbès, poi, con un gesto quasi gentile, disse loro
brevemente che si compiacessero di seguirlo. Entrò in una piccola
stanza, dove cʼeran un paio di seggiole, un tavolino ed una specie di
ottomana. Era probabilmente la sala dellʼufficiale di guardia. Puzzava
di rinchiuso e di aspro tabacco.

Egli avanzò due sedie, le invitò a prendervi posto, accese una
sigaretta, e, scovertosi il capo tutto selvoso dʼuna ispida cotenna,
gettò con destrezza il berretto sul pomello dʼun attaccapanni.

—A vos ordres, Mesdames,—disse con una voce rapida e ruvida, che al
pari di tutta la sua persona pareva essa pure combusta dal sole.

—Je suis M.ᵐᵉ Mimi Bluette, et voilà ma femme de chambre. Nous venons
de France, de Paris...—disse Bluette con una timida esitazione.

Egli non mostrò alcuna maraviglia, nè del nome nè della provenienza.

Linette pensava intanto:—«Voilà un grand diable qui doit aimer les
négresses...»

—Eh bien, lieutenant,—concluse Bluette, ritrovando la sua
spigliatezza;—jʼai fait ce long voyage pour revoir un homme que jʼaime.

—Je nʼai pas lʼavantage de le connaître, mais, en tout cas, cʼest
admirable!

—Oui, cʼest admirable en effet, lieutenant. Car je suis Mimi Bluette,
celle qui a dansé pour des rois, et mon amant nʼest quʼun simple
légionnaire.

—Votre amant un simple légionnaire? Bigre! Cʼest tout à fait
kouss–kouss! Excusez, madame Bluette, mais cʼest ainsi quʼon sʼexprime
au Gharb.

—Ecoutez, lieutenant. Il sʼest engagé sous le nom de Laire; vous lʼavez
sans doute à vos ordres, il est probablement dans cette même caserne...
Donc je vous prie, je vous prie de toute mon âme... non? est–ce que
vous ne le connaissez pas?

—Laire? Laire?... Mais oui... attendez un moment. Cʼest quelquʼun de
nouvellement engagé... il y a deux mois peut–être?...

—Oui, oui, lieutenant!

—Attendez: un grand, pâle, aux yeux presque verts, trente huit ans,
quarante ans peut–être?...

—Cʼest lui! cʼest lui, lieutenant! Oh, mon Dieu, quelle émotion
affreuse!... Faites que je le voie sans plus de retard!

—Cʼest quʼil nʼest plus ici, Madame. Et il est même très loin... Je
regrette.

Si era levata, con le due mani protese verso di lui, con la voce
sospesa. Udendo quelle parole, barcollò indietro, piegando la faccia,
come se lʼavessero colpita nel cuore.

Il luogotenente Silles, molto impacciato, si cercò nelle tasche
unʼaltra sigaretta, e quando lʼebbe accesa incominciò a stiracchiarsi
la ruvida barba da stambecco.

—Oui, Madame, cʼest bien malheureux que vous ayez fait ce long voyage
pour rien. Si vous aviez télégraphié par exemple...

—Je ne pouvais pas le faire. Il y a des raisons... Et puis, quʼest–ce
que ça fait? Jʼai assez de courage pour aller nʼimporte où. Dites–moi
où il est, lieutenant, et cʼest tout ce quʼil me faut.

—Il est très loin, à lʼintérieur, tout à fait dans le Guébli, beaucoup
plus loin que Colomb–Béchar... Vous voyez bien que ce serait une folie.

—Pourquoi une folie? Jʼirai quand–même. Colomb–Béchar, vous dites? Où
est–ce que ça se trouve?

—Ah, ma pauvre dame! Je vois bien que cʼest la première fois que vous
mettez le pied en Afrique. Est–ce donc ainsi, avec vos chaussures et
vos jolies toilettes, que vous prétendez aller jusque dans le Gharb?

—Jʼirai, mon lieutenant; jʼirai! Il y a des moments Où une femme vaut
mieux quʼun soldat.

E disse queste parole con una semplicità così tranquilla, che
lʼufficiale dʼAffrica si mise a guardarla, e non seppe cosa rispondere,
poichè sʼaccorse dʼessere davanti ad un amore. Dopo una lunga pausa
domandò con una voce quasi gentile:

—Et vous avez fait ce voyage, et vous irez jusque là–bas pour voir cet
homme, vous, Mimi Bluette?

—Moi, Mimi Bluette, jʼirais au bout du monde pour le revoir une seule
fois de ma vie.

—Ah?... Cʼest quʼil y a des types qui ont de la chance!—borbottò il
luogotenente Silles con un incredibile malumore.—Moi, par exemple,
voilà bientôt neuf ans que je roule ma bosse dans ces bougres de
Colonies, et il nʼy a pas eu lʼombre dʼune Française qui mʼait envoyé
ni un oeuf de Pâques ni une paire de pantoufles brodées! Je mʼen passe
dʼailleurs, car je suis en rupture avec la société humaine.

—Vous aussi?—fece Bluette con stupore.—Cʼest bien ce que Laire
me disait parfois. Et il le disait même dʼune façon très
pittoresque:—«Jʼen ai soupé des hommes qui connaissent leur
cimetière!...»

—Cʼest bien ça, Madame. Cette opinion peut vous paraître obscure; mais
pour nous cʼest clair comme lʼEvangile. Dʼailleurs, je me souviens de
cet homme à présent. Il avait tout ce quʼil faut pour plaire à une
jolie femme telle que vous, mais il avait en même temps ces prunelles
fièvreuses et mornes des hommes qui vont combattre au Gharb Marocain.
Cʼest lui dʼailleurs qui a fait sa demande et qui a voulu sʼen aller au
plus vite. Nous autres, voyez–vous, nous sommes les vrais sans–patrie.
Tout de même on se bat comme si on allait faire la noce, car, à la
place de tout le reste, nous avons un drapeau.

—Chacun de vous est donc un mystère?—domandò Bluette, con una specie di
assorta maraviglia.

—Chacun de nous est un vrai homme, tandis que les autres ne sont que
des pantins dangereux. Bref: quand on est là–bas, cʼest quʼon doit y
être; quand on est là–bas, cʼest quʼon ne veut pas en revenir. Je vous
conseille, Madame, de rebrousser chemin.

—Lieutenant Silles,—dises Bluette con un sorriso,—je ne suis pas la
société humaine et je ne vous ai rien fait de mal. Vous devez être
dʼailleurs moins méchant que vous ne le dites. Je vous prie donc de
mʼaider autant que vous le pourrez, puisque je ne suis quʼune femme et
que je dois aller très loin. Vous aurez deviné, jʼespère, quʼil sʼagit
pour moi dʼune question très grave.

—Si cʼest pour quʼon le rappelle du Sud–Oranais, nʼy songez pas,
Madame. Le Colonel lui–même ne pourrait absolument rien faire.

—Aussi je ne désire pas quʼon le rappelle, ni quʼon le prévienne de
mon arrivée. Je vous demande une chose bien plus simple, lieutenant
Silles. Tracez–moi un itinéraire détaillé du chemin quʼil faut suivre
pour le rejoindre et adressez–moi aux personnes qui pourront mʼêtre
utiles dans cette longue route. Jʼai dʼailleurs un laissez–passer
du Ministère. Voulez–vous mʼaider, lieutenant? Je suis peut–être
indiscrète, mais je crois que nos meilleurs amis sont ceux que
lʼinconnu et le hasard nous présentent.

—Oh, Madame, si ce nʼest que ça, je le ferai de très bon cœur!
Seulement, puisquʼil faut que je vous écrive un petit mémoire, avec
nombre de détails, je vais mʼen occuper ce soir, et je vous remettrai
cela demain matin à votre hôtel, si vous en avez un.

—Oui, lieutenant: hôtel Continental. Et vous aurez pour toujours
lʼamitié de Mimi Bluette.

[Illustrazione: DECORAZIONE]

E ricominciò la strada.

La strada.

Bisognava tornare ad Orano, prendere la ferrovia di Colomb–Béchar.

Quel giorno il luogotenente Silles fece per lei una cosa molto
gentile. Dopo averla condotta alla stazione di Bel–Abbès e dopo
averla salutata con parole molto laconiche, dʼun tratto, quando già
il treno stava per muoversi, fece un salto sul predellino, entrò
nello scompartimento, non si diede nemmeno la pena di rispondere
allʼimpiegato che chiudeva lo sportello, e sedette fra loro con la
massima tranquillità.

—Après tout je nʼai rien à faire; je peux bien mʼen aller jusquʼà Oran
jeter un coup dʼœil sur la Méditerranée.

Bluette sorrise, come se trovasse ciò del tutto naturale. Invece alla
sospettosa Linette non garbavano affatto le maniere di quel bizzarro
tenente. Aveva detto alla sua padrona:

—Très bien: on va se faire au Sahara, et même au centre de lʼAfrique,
sʼil le faut; mais je crains, Madame, que vous ne soyez trop facile
dans vos liaisons avec ces coloniaux. Ils ont, ma foi, des têtes qui ne
me disent rien de bon.

—Toi, parce que tu tʼes imaginée que cʼest un homme à négresses, tu en
as peur comme de lʼOgre! Moi, au contraire, ce lieutenant Silles, me
fait beaucoup de peine.

Sì; ed a bene guardarlo in fondo agli occhi, nella dura e squallida
faccia, in lui si vedeva, sotto lʼabbronzatura del sole, un colore
dʼinfelicità. Era forse tra quegli uomini che la società respinge aʼ
suoi confini, come verso le rive di un mare deserto i rottami dei
sommersi velieri. Ed ormai Bluette conosceva queste calme tragedie,
anzi era penetrata ella stessa da quellʼatmosfera di pericolo e
dʼirrimediabilità che fascia queste anime dʼavventurieri. Ella stessa
ormai raccoglieva lʼultima sua fedeltà nellʼombra dʼuna lontana
bandiera.

Quando giunsero ad Orano, quandʼella fu nel treno che doveva portarla
verso lʼinterminabile sole, Bluette sʼaccorse che lʼufficiale dʼAffrica
la guardava come una sera lʼavevano guardata gli occhi del taciturno
forestiere, allorchè, per la prima volta, la sua bocca gli sorrise
dietro lʼorlo del bicchiere di Sciampagna.

Ed allora, con le pupille abbacinate nellʼinestinguibile sole di Orano,
ella rivide come in un sogno la remota strada parigina—una piccola
strada, calma, vecchia, di quelle che gli edili ragionevoli vanno
cancellando a poco a poco.

Si vedeva, lontana, la Colonna di Luglio sorgere dalla piazza della
Bastiglia.

In verità erano due fratelli, due terribili fratelli, due nomadi per la
grande strada, che lʼAffrica vertiginosa travolgeva nella sua perduta
vampa. Lʼamore che aveva per lʼuno, per quello chʼera più distante, le
diede un piccolo tremito nel volgere a questi che lʼaccompagnava una
parola di riconoscenza e dʼaddio.

Soli e fermi, su lʼasfalto bianchissimo della stazione, lʼufficiale
disse:

—Que Dieu vous garde, Madame Bluette. Avant de vous connaître jʼétais
presque persuadé quʼil nʼy avait pas dans la femme ce quʼon appelle une
âme.

Ella chinò la faccia e non rispose parola. E stette ferma, e sentì che
avrebbe voluto posare un bacio di sorella, un bacio quasi dʼinnamorata,
su quella ruvida fronte che immobilmente le sovrastava.

—Un jour ou lʼautre, Madame Bluette, ce terrible soleil blanchira
quelquepart ma carcasse. Je nʼaurai pas eu pour les hommes plus
dʼimportance quʼun de ces méharis qui ravitaillent le désert.
Pourtant, vous qui êtes si belle, et si fraîche, quand vous serez de
retour là–bas, sur lʼautre rive, au milieu des gens qui connaissent
leur cimetière, envoyez parfois un joli sourire de votre bouche à ce
lointain lieutenant Silles...

—Je vous assure que vous allez me faire pleurer...—disse Bluette con un
filo di voce.—Tenez, le train va bientôt partir; il faut que je monte.
Au revoir, lieutenant Silles! Gardez tout de même ce petit souvenir
de Mimi Bluette: il vous sauvera, là–bas, dans le Gharb... Au revoir,
lieutenant. Et merci, et merci!...

Si era tolto un piccolo anello dal dito e glielo aveva regalato, quasi
di nascosto, nello stringere la sua mano.

Egli guardò con gli occhi adusti quel fino gingillo che veniva dalla
Rue de la Paix; lo strinse fra le dita con avarizia, come lʼarabo
stringe nel palmo la buona moneta; non ebbe nè un sorriso nè una
parola; ma impassibilmente salutò quella donna come avrebbe salutato la
sua bandiera.

Poi si volse con rapidità, quasi per nascondere il suo turbamento; e lo
si vide a lunghi passi traversare lʼobliqua striscia di sole.

Fra poco sarebbe tornato laggiù, dove muoiono tutte le strade,
nellʼinfinito e calmo delirio della bufera di sole...

Anche a lui, su la via del cimitero, Bluette, passando, aveva regalato
un fiore.

[Illustrazione: DECORAZIONE]

Percorse lʼAlgeria. Respirò, traverso le paludi della Macta, quel
sapore di orrenda carneficina che lʼindomito Abd–el–Kader vi profuse.
Vide splendere gli aranci di fuoco lungo le rive dellʼHabra e pendere i
lucenti grappoli dalle robuste vigne del paese di Máscara. Per lunghe
ore lʼaccompagnarono le dorate immobili piantagioni di tabacco; poi,
su la dolce montagna, nellʼarcobaleno del tramonto, vide gonfiarsi di
crepuscolo gli ulivi azzurri di Saïda la felice.

E Saïda passò, con i suoi larghi giardini, con le sue limpide acque di
sorgente, che brillano come impetuosi rivoli fra i terrapieni delle
sue mura smantellate. Saïda passò, come lʼultima terra che feconda
il respiro del gentile Mediterraneo, splendente rocca e gioiello di
principi mauritani, sul limitare della sabbia invarcabile. Ma ora
venivan incontro altipiani aspri e disabitati, simili a sconfinate
petraie, dove soltanto cresce lo squallido albero Thuya. Qualche mazzo
dʼalfa spuntava tra i crepacci della pietra vampante.

Era il principio della terra interna, dellʼAffrica ove muoiono le
strade.

Ed ecco, passato Khalfallah, incominciava la steppa dʼalfa, il
desertico paese di miraggi. Si vedevano laghi e fiumi rutilanti; si
vedevano barriere di fortezze ciclopiche; oasi prodigiose; foreste
ferme, raggianti; lunghissime carovane; mandrie al pascolo su inclinate
praterie: tutto questo appariva, spariva, sul monotono scenario
dellʼorizzonte vuoto.

E la steppa dʼalfa continuava, come un oceano dʼerba che andasse alla
deriva, senza onda, verso la perduta immensità.

Che lunga, lunga strada... che infinita malinconia... —«Domani
sera—pensava il suo cuore,—domani sera si arriverà.»

Ecco, ed il treno correva per lʼarido avvallo del Chott Chergui, strano
paesaggio di sabbia e di limi dʼargilla, con le rive piatte, fangose,
ovali, che parevano camminanti.

La luna incendiava con un luccicore insostenibile i cristalli di sale
frammisti nellʼarena; pareva di correre in mezzo alla fosforescenza
dʼun mare. Il firmamento accerchiava lʼinfinito con un delirio di
stelle.

Rari e spenti villaggi sʼinseguivano a lunghe distanze, come sentinelle
dellʼuomo verso la terra nomade che non ha più focolari di pietra.

Unica ed altissima la montagna di Antar si alzava nella pianura
scintillante, ove incominciavano a correre le prime dune. Il deserto
invisibile prolungava nellʼOccidente, con lievi onde che appena si
muovevano, le sue maree di sabbia.

La notte era piena di uno spasimo fermo, di una magnetica intensità,
quasi di una polvere azzurra, che traversando lʼaria diventasse luce.
Nelle curve, le accese rotaie balenavano come spade infinite.

Al sorgere dellʼalba—di unʼalba striata, miracolosa, come se il mondo
fosse pieno di lapislazzuli e di berilli—Aïn–Sefra passò, fra i suoi
prati gonfi dʼalfa e di drinn, fra le sue boscaglie dʼalberi di
pistacchi. La stazione di Aïn–Sefra era una piccola fortezza; tutto
il borgo aveva lʼapparenza dʼun accampamento militare; si vedevano
caserme, bastioni, depositi, e dappertutto lʼuniforme dei soldati
coloniali, fra i pochi sud–oranesi dalla testa bella e feroce.

Si era già sui primi lembi della terra mobile, nelle vicinanze del
grande oceano di sabbia, che insidia e seppellisce tutte le opere
dellʼuomo. Lʼoasi artificiale di Aïn–Sefra tentava di opporre un argine
sotterraneo, fatto con i grovigli delle sue radici, al periodico
assalto delle dune. Ma queste correvano a perdita dʼocchio, sin verso
le pendici delle montagne di Ksour, disegnando con la lor forma una
specie dʼimmobilità veloce, che tutta balenava di sprazzi e di lampi
sotto lʼimplacabile fuoco del perpetuo mezzodì.

Sole, sole. Aveva già nellʼanima il barbaglio di questa enorme luce, il
peso di questa terribile materia solare, che in tutto si compénetra,
e può accendersi, come la fiamma che dorme nelle molecole dellʼesca.
Ora comprese chʼella veniva dai paesi dellʼombra, dalle terre
crepuscolari, dove lʼocchio dellʼuomo non è costrutto per vedere il
sole. Qui soltanto le creature sapevano cosʼè questa potenza magnifica
ed infernale, questa bufera immobile che incendia lʼinfinito, questa
luminosità insostenibile che distrugge le forme in un diluvio di
splendore.

Non guardava più, non ascoltava più; era una specie di sogno che la
portava, un rosso e faticoso delirio, nel quale sentiva battere più
forte, più forte, il suo timido cuore dʼinnamorata.

E passavano le belle oasi, le plaghe morte, le koube solitarie, i
profili di lente carovane lungo le tracce carovaniere, le dune rosse
come lʼoro che andavano allʼassalto dellʼAtlante Marocchino, i fiumi
senzʼacqua, i prodigiosi dirupi delle gole di Moghrar, le vallate
colore di solfo, tutte sabbia e macigno, dove soltanto cresce lo
squallido albero Thuya...

Che lunga, lunga strada... che infinita malinconia...

Sopraffatta, esausta, Linette sonnecchiava lamentandosi; le scendevan
lunghi rigagnoli di sudore dalla fronte spettinata. Il treno bruciava;
lʼaria quasi rossa produceva un senso dʼasfissìa. Da venti ore stavano
rinchiuse in quella prigione infiammata, e non vʼera più ghiaccio nella
dispensa, non era più possibile ristorarsi con un cálice appannato.
Pochi viaggiatori andavano sino al termine di Colomb–Béchar; quasi
tutti erano scesi prima di Aïn–Sefra. Scesero infine anche i notabili
ed i mercanti indigeni che si recavano al mercato di Figuig. Non
rimasero che pochi Europei, qualche soldato, e le due viaggiatrici.
Lʼora pomeridiana infieriva con tutta la sua vampa; il treno stesso
pareva compiere una fatica enorme per avventarsi dentro quel sole.
Verso lʼoccidente splendevano le azzurre montagne dellʼinfido Marocco;
un senso di pericolo e di ostilità gravitava su la regione barbara.
Le piccole stazioni sembravano bivacchi di truppa in un territorio
guerreggiato; alle soste, lʼufficiale di guardia saliva nel treno per
consegnare voluminosi plichi; si udivano i saluti ambigui delle truppe
accampate ai legionari partenti.

Andavano laggiù a combattere, probabilmente a morire, nella rossa terra
dei nomadi ove il sepolcro cammina.

E questa gente non tradiva il più piccolo segno di perplessità, non
volgeva nemmeno gli occhi a riguardare le alte muraglie dei giardini
tropicali, saturi di profumi ubbriacanti.

Era una gente buia, che aveva già perduta lʼanima, chissà dove, chissà
quando, nella precorsa via. La società umana li aveva respinti fuori
dal suo grembo, ed essi andavano, in silenzio, verso il perpetuo sole.
Andavano con gli occhi fermi, terribili soldati di ventura, numeri
prodigiosi nei battaglioni della morte, a conquistare nuovi territori,
a mietere nuove ricchezze, radunando lʼultimo ideale nellʼombra dʼuna
camminante bandiera. Aridi e sobri, taciturni e violenti, lʼodore
della polvere da schioppo era il solo profumo che li potesse veramente
ubbriacare.

A questi uomini la Francia doveva il suo magnifico impero coloniale.

Adesso era tempo di guerra; dalle misteriose zaouie marocchine sparse
per il non soggiogabile territorio del Gharb, i capi religiosi, gli
astuti rappresentanti del Sultano di Fez e gli obliqui emissari dʼaltri
governi dʼEuropa sobillavano ed armavano con ogni mezzo le battagliere
tribù marocchine, perchè si opponessero con insidie continue alla
sanguinosa e paziente fatica della penetrazione francese. Le
residenze militari di Talzaza, di Bou–Anane e di Bou–Denib, a ponente
di Colomb–Béchar, nellʼaspro cuore del territorio marocchino, si
trovavano sotto la minaccia continua dellʼaggressione, mentre, lungo la
valle dellʼoued Zousfana, che scorre a sud di Colomb–Béchar, i posti
militari avanzati di Taghit e di Beni–Abbès con sanguinosa fortuna
combattevano contro lʼinsidia marocchina.

E Bluette guardava con una specie di curiosità ipnotica lʼinsostenibile
tremolìo della terra micidiale, che il treno andava solcando con gli
ultimi rugghi del suo carbone. Guardava là in fondo, là in fondo,
la barriera di fuoco del mezzodì, quelle tremende nuvole solari che
soffocavano il bivacco di Laire...

Ogni tanto consultava le minuziose pagine del luogotenente Silles,
rileggeva le lettere di presentazione chʼegli le aveva date, contava
i chilometri, le ore, i minuti. Ciò che più tormentava quelle due
viaggiatrici era una orribile sete, una sete morbosa, un dolore di
tutte le vene. Lʼacqua minerale, tepida e guasta, non dava alcun
ristoro; gli occhi pesavano; le braccia non avevano più forza; la
opprimente fatica del respiro comunicava un senso di vertigine.

A tutte le fermate gli uomini di macchina, terribili a vedersi,
balzavano giù dal treno e si appendevano sitibondi ai becchi delle
fontanelle.

Nessun rumore più; nessun visibile segno di vita. Un silenzio nefasto
e lucido rotolava con le valanghe di sole per i contrafforti delle
montagne incendiate.

Era già verso lʼora del crepuscolo. Tutto lʼemisfero si andava
inclinando verso il terribile Gharb, la terra dʼOccidente.

Poi videro lʼacqua; lʼacqua viva, saltellante, limpida, rumorosa,—e la
piccola stazione di Colomb–Béchar, in fondo al palmeto.

[Illustrazione: DECORAZIONE]

Lʼarrivo delle due Parigine mise addirittura sossopra quel Comando
Militare e la poco numerosa colonia dʼEuropei. La notizia si sparse
con incredibile rapidità. Messo piede a terra, il capotreno fece le
sue confidenze al capo–stazione; questi ne parlò con il graduato
che ritirava la posta militare; mezzʼora dopo tutta la guarnigione
passeggiava curiosa e rumorosa davanti alla soglia del piccolo albergo
di Colomb.

Era Montmartre che arrivava su lʼorlo del deserto, la Rue de la Paix
che faceva una visita galante agli ambigui vicoli di Béchar.

Il luogotenente Silles le aveva date due lettere: una «pour M.ͬ Abel
Khan, commerçant en gros, qui sʼoccupera de vous former une caravane»;
lʼaltra «pour le capitaine Maylho de Forrest, qui essayera de vous
donner une escorte.»

Monsieur Abel Khan possedeva, nella strada principale di Colomb, un
emporio di mercanzie dʼogni genere, una specie di Louvre coloniale,
dove Mimi Bluette potè provvedersi di tutto quanto le mancava per
viaggiare in carovana. Sidi Abel, come usavano chiamarlo nella
regione, era un degno ebreo di Orano, carico dʼanni e di famiglia,
danaroso, furbo, servizievole. Non fece troppe difficoltà, mise in moto
un nugolo deʼ suoi figli, e promise che, per quanto lo concerneva, in
tre giorni la carovana sarebbe di tutto punto allestita. Quanto al
carovaniere, le parlò súbito di un tale Jossuf–el–Foukani, chʼera la
perla dei capitani di lunga strada.

Questi venne per lʼappunto a farsi conoscere il giorno appresso. Era
un Berbero color dʼoliva, che stando in piedi pareva mancare del
suo cavallo; asciutto, rigido come un albero maestro, bellissimo
uomo di tendini e di muscoli, con gli occhi tanto neri che mandavano
iridescenze come il dorso degli scarabei. Una barbetta rossastra
e ricciuta gli spuntava, simile a muffa, intorno alla mandibola
infossata. Ravvolto nelle pieghe del suo caftano azzurro, le fece un
vero saluto da Primo Console.

—Esselame halikoume, lalla! Que le salut soit sur toi, Madame! Esselame
halikoume, lalla!

Parlava una orrenda miscela di arabo, di berbero, di spagnolo e di
francese; la guardava impassibile, con una specie di rispettoso
dominio. Era stato centinaia di volte a Gourara, a Touat, a Tidi Kelt;
era stato più lontano ancora, di là dal Sahara interminabile, fino alle
grandi foreste sudanesi e fino alle remote carovaniere di Tombouctou.
Il viaggio dunque di Taghit e Beni–Abbès gli pareva una ben facile
impresa. Quanto al prezzo non voleva discutere...

—Sidi Abel, votre ami, fera prix juste, lalla!

Solamente pretendeva per i suoi uomini e per sè stesso una certa
indennità di cavalcatura, su la quale ad ogni modo Bluette non lesinò.

Il capitano Maylho de Forrest, nei quattro giorni chʼella rimase a
Colomb Béchar, fece per lei tutto quello che un gentiluomo francese
può fare per una bella e giovine donna. In primo luogo le fece
sapere che il suo legionario si trovava precisamente a Beni Abbès,
un posto militare a duecentosettanta chilometri di carovaniera oltre
Colomb–Béchar. Le disse che la regione da percorrersi per andare fin là
non era punto agevole nè sicura; le rappresentò i disagi ed i pericoli
ai quali andava incontro, tanto più chʼera cosa difficilissima poterle
dare una scorta. In quei giorni mancavano soldati; si aspettavano
rinforzi da Aïn–Sefra; ma non verrebbero, al più presto, che fra un
paio di settimane. Le consigliava di attenderli, per compiere il
viaggio in loro compagnia.

—Capitaine, quand on vient de si loin, cʼest quʼon ira jusquʼau bout,
coûte que coûte. Je suis prête à me mettre en chemin toute seule, même
sans lʼappui dʼun guide comme Jossuf–el–Foukani, sʼil le fallait. Et
dʼailleurs, ce soir, je vous raconterai mon histoire...

       *       *       *       *       *

Glielʼaveva raccontata, quella sera, camminando con lui per la frescura
del palmeto, mentre i carrubi nascosti mandavano vampe di buon
odore. Glielʼaveva raccontata con semplicità, con un soffio naturale
di poesia, facendogli sentire chʼella pure, come lui, come tutti
quegli uomini dei Battaglioni dʼAffrica, portava nel cuore la ferita
irremediabile, il destino di andare distante, laggiù, nel sole, ove
muoiono le strade...

Egli era un uomo tutto grigio, immaturamente vecchio, un esiliato nel
quale permaneva il segno gentile della razza. Nel sorriso, nel colore
degli occhi, nel suono della voce, aveva quasi la trasparenza di una
squallida e sciupata bontà.

—Eh bien, oui, capitaine... jʼai été une danseuse, une courtisane,
un bibelot de chair, précieux et fragile, que Paris mettait aux
enchères... Mais, ce soir–là, ce soir terribile, quand je me suis
affaisée sur une chaise dans sa maison vide, il mʼa semblé soudainement
que Mimi Bluette fut ma sœur morte, et pour la première fois de ma vie
jʼai su comprendre lʼamour de Marie Madeleine... Alors ne me dites
pas que la route est longue; dites–moi seulement, comme mon chef de
caravane: «Que le salut soit sur toi, lalla!...» Nous partirons demain,
au coucher du soleil...

[Illustrazione: DECORAZIONE]

—Balek! Rod balek!—tuonava con la sua voce stupenda il capitano di
lunga strada, mentre picchiava sodo, a colpi di randello, su la
ciurmaglia indigena che ostacolava lʼincedere della carovana.—Balek!
Bara balek!

I cammelli dʼavanguardia già dondolavano su la carovaniera, sorpassando
gli ultimi tugurii di Béchar.

Il Residente aveva concesso dieci uomini di scorta; il Caïd arabo ne
aveva provveduti altri sei. La carovana portava con sè provvigioni,
otri e bagagli numerosi, pieni di tutto ciò che il prudente Sidi Abel
aveva creduto necessario di vendere alla bella Parigina.

Tutto il villaggio era venuto a salutare la partenza di Mimi Bluette.
Gli ufficiali avevano adornato di fiori e di frasche il suo larghissimo
basto a portantina, ove la sollevarono a braccia e lungamente lʼ
acclamarono quando il suo cammello si levò. La stessa cosa fecero i
sergenti per dare animo alla impaurita Linette.

E mentre la carovana si avviava, lunga, lenta, per i tortuosi vicoli
del villaggio di Béchar, un trombettiere galante diede fiato alla
sua rauca tromba e fece risuonare nel cielo dʼAffrica le cadenze
dellʼantico My Blu.

Francia, Francia, divina e forte, che hai regalato al mondo le più
belle canzoni!...

       *       *       *       *       *

Ed ora la carovana si distendeva, lunga, oscillante, su la via di
Taghit. Dietro la barriera dellʼAlpe Atlantica scendeva negli abissi un
altro giorno di sole.

—«Toi, belle et courageuse, lalla!—diceva il capitano di lunga
strada.—Toi commander, moi serviteur, lalla! Toi jamais parler avec
hommes caravane; moi seul parler avec courbasc! Quand faim, quand
soif, quand fatigue, quand sommeil, toi dire Jossuf–el–Foukani.
Jossuf–el–Foukani veut tout bien pour lalla.»

E i grandi cammelli andavano su la carovaniera lenta. con il loro
dondolìo di animali fatti per la distanza e per il sole. Guardando con
occhi umani la pesta che non finiva mai, addormentavano con la loro
pazienza il ritmo della eterna camminata, simili a grandi velieri, per
la scintillante solitudine di un mare quieto. Seguendo gli ordini di
Jossuf–el–Foukani, la scorta si divise; otto cavalieri si allontanarono
di galoppo su la pesta battuta e guidarono la marcia, tenendosi a circa
un miglio dal primo cammelliere; gli altri seguivano la carovana.
Jossuf–el–Foukani era montato sopra un méhari velocissimo, di pelo
quasi falbo, con la testa bizzosa, caprigna, adunca, ed il collo simile
ad un lungo timone. Quando Jossuf voleva rimontar la carovana, emetteva
un suono gutturale per avvertire il suo méhari, e questi, con uno
strillo dispettoso, prendeva la rincorsa dʼinfilata, piegandosi tutto
in avanti, allungando lʼesile collo, sicchè dava lʼimpressione bizzarra
di un animale che corresse dietro al proprio muso.

A poco a poco la terra diveniva uno sconfinato braciere: ogni traccia
dʼabitazione, ogni vestigio dʼalbero spariva. Tutto, sino allo zenit,
era una immensa fiumana di sole. Il vento infuocato nulla trovava da
scuotere; si camminava in un mondo senza ombre; un silenzio peggiore
che la morte splendeva su quella vampa infinita.

La carovaniera diveniva incerta come un fiumiciattolo che man mano si
andasse disperdendo; qua e là cominciavano a saltare leggeri nugoli di
sabbia; dallʼoriente avanzavan dune cosparse di magnifici colori.

Ella pativa il male della strada, quella ubbriachezza dellʼanima e
dei sensi che nemmeno lʼoceano dà. Le pareva di sentirsi chiudere
nellʼinfinito più strettamente che in unʼangusta prigione. Sola, tra
quegli uomini selvaggi, non provava nemmeno il senso della paura. Si
era data in braccio alla strada, come la vergine ubbriaca se ne va col
primo venuto. Non gli domanda nemmeno:

«Dove mi porterai?..» Pensa che le farà male, stupendamente male;
questo è ciò che le importa.

Così per lei, che voleva solamente camminare.

Con lʼanima sua dʼinnamorata, una sera, nella Parigi Babelica, si era
detta senza un tremito:—Camminerò.

Aveva sempre il suo mazzo di fiordalisi nella cintura fragile di
ballerina, profumati con un profumo di Coty.

Ma era quasi un miracolo: aveva saputo comprendere lʼamore di Maria
Maddalena.

Che lunga, lunga strada...

Si ricordò la prima sera, quando Max la condusse per le vie di Parigi,
e come in sogno rivide splendere neʼ suoi lontani occhi di Transalpina
le girandole di fuoco:—«Maxima Maximum—la Revue de lʼAlhambra—Rouli
Rouli... Crémieux... Luna Park... habille bien...—Le Matin...
Michelin... Galeries... Polin... sait tout...»

Che lunga, lunga strada... che infinita malinconia...

Ed ora portavano il Sole. In sè, nella propria materia, nei propri
atomi viventi, gli uomini, le cavalcature, le distanze, tutte le cose
dellʼinfinito portavano il Sole. Anche il Tempo non era più che uno
spazio immobile, pieno di Sole.

Qui roteava lʼinfinità senza ombra.

Qui, nellʼincendio, morivano le strade.

—Bon chemin, bon chemin, lalla! Animaux forts, désert calme,
brigands Arabìs rien fusillade. Allah et mon bras droit toujours
protegé Jossuf–el–Foukani. Moi avoir dit: «Pas danger aller Taghit et
Beni–Abbès.» Sidi Abel aussis avoir dit: «Pas danger.» Sidi Abel bon
Yudi; vole un peu, mais très honnête. Officiers Colomb–Béchar très
magnifiques, mais connaître pas Guébli. Jossuf–el–Foukani connaître
Guébli et tous chefs oasis. Chefs oasis un peu brigands, mais très
honnêtes. Pas danger, lalla!

Portava, oltre la carabina le pistole ed il courbasc, anche un lungo
pezzo di fune, attorta e nodosa, che gli serviva per aizzare i cammelli
o per carezzare familiarmente il groppone deʼ cammellieri, quando
sʼaccapigliavan tra loro, picchiandosi ed ingiuriandosi con una serqua
di bestemmie, in liti che duravano per chilometri di strada.

E le diceva:

—«Toi malade, lalla. Jossuf préparer bon tasse thè vert avec menthe
et sucre. Thé marocain très magnifique. Toi goûter boisson Mahomet!
Vin danger, eau danger, whisky anglich très danger; thè marocain pas
danger, lalla! Moi préparer bon tasse thè vert. Boire ensemble avec
Jossuf–el–Foukani.»

E le ore passavano, i giorni passavano, solo interrotti a lunghissime
distanze dalla breve oasi di un magro palmeto. Quando appariva sul più
lontano cerchio dellʼorizzonte la fulva caotica ombra della foresta
che si delineava, gli uomini, oppressi dallʼenorme delirio del sole,
cominciavano ad urlare di gioia, ad urlare di sete, mentre pareva
che gli animali stessi, carichi dʼun mantello di mosche invelenite,
fiutassero nellʼaria morta il sentore dellʼacqua sotterranea.

—Sebala! Sebala!—gridavano i cavalieri della scorta.—La fontana! la
fontana!

E tra una furia di volanti criniere partivano verso lʼoasi, di galoppo.

Il grido liberatore correva, in giù, in giù, per il lungo nastro
della carovana, fino al più tardo mulattiere, che urlava egli pure,
dimenandosi e bastonando la sua logora cavalcatura:

—Aïne! Aïne! La sorgente! la sorgente!

Le scarse tribù che vivono di miseria nelle perdute oasi del Guébli si
adunavano fuori dal palmeto per veder giungere la carovana.

Dalla groppa del suo méhari falbo, Jossuf–el–Foukani, maestoso ed
affabile, parlamentava brevemente con i capi–tribù. Da quelle misere
genti si davano segni quasi di venerazione al potente Foukani, lʼuomo
che parlava il linguaggio dei roumi, il protetto francese, lʼamico del
Pascià di Beni–Ounif.

Le donne del Guébli, scure, con occhi a mandorla, già crespe di
vello sudanese, logore di selvaggia maternità, venivano a guardare
in silenzio la bella Cristiana. I marmocchi arabi le si premevano in
giro, nudi, oblunghi e lucidi come ghiande. Qualche negro spaventoso
rideva con la bocca sino alle orecchie, tenendo la mano incastrata
sotto lʼascella dellʼopposto braccio, e così facendosi croce al petto
cosparso dʼuna fuliggine ricciuta.

Il latte aromatico delle piccole mandrie si offriva da quella misera
gente in larghe ciotole di legno di palma.Le ragazze di nove anni
avevano i seni maturi e protuberanti come nespole. Nel rumore
dellʼacqua sorgente cantava la musica naturale della vita.

Poi le bestie si alzavano, pigre, lʼuna dietro lʼaltra, in fila. E via,
nel sole, nel delirio, nel sole, per lʼaccecante sabbia, verso lʼoasi
più lontana.

       *       *       *       *       *

Di tratto in tratto qualche carcassa di cammello divincolava dal tenace
deserto le sue costole incenerite; qualche cranio dʼuomo luccicava come
una sfera dʼavorio polito fra le dune ricamate con mille arabeschi dai
lontani turbini del Khâmsyn.

Un giorno, dʼimprovviso, quando i miraggi del Guébli salivano come
torce vorticose nellʼalto infinito, apparve una selva di padiglioni
dʼoro. E questa era, su lo scenario dellʼorizzonte, la confusa macchia
dei palmizi di Taghit.

Vi giunsero al cadere del giorno, quando su lʼalto palmeto
sʼimpigliavano strisce di vapori quasi violetti e nellʼoasi brillavano,
fra le tende sparpagliate, i fuochi serali del bivacco francese.

Non vʼerano che pochi uomini ed un ufficiale infermo; gli altri erano
andati a combattere verso il turbolento Gharb.

Lʼoasi di Taghit era vasta, fertile, felice. In quella orrenda
graticola di sabbia che per intorno lʼaccerchiava, i suoi palmeti
onusti sotto il peso dei datteri maturi, le sue gonfie boscaglie di
giuggioli selvatici, lʼerba soffice che nei pressi delle fontane
sbocciava tutta cosparsa di gocciole, davano allʼesausta fatica dei
nomadi camminatori un senso di beata ombra e di paradisiaca primavera.

La carovana vi riposò fino al crepuscolo del giorno appresso, poi
lentamente riprese la via.

Si entrava ora in un paesaggio di dune instabili, si camminava con
estrema lentezza nella bufera di sole. Verso lʼoccidente, verso il
terribile Gharb, lʼondata estrema del Sahara sʼimpaludava su le
propaggini dellʼaltipiano, seppelliva, soffocava nella sua morta marea
le radici ultime del macigno dʼAtlante. Ma dallʼaltro lato, verso il
Guébli ed il Chergui, sollevando burrasche di luce sotto il curvo
emisfero, si vedeva il deserto nomade avventare le sue procelle di
sabbia contro la diga cerulea dellʼantipodo scintillante. Nessuna
distanza poteva uguagliare, per lʼocchio dellʼuomo, quella sua
formidabile vastità. Su le criniere delle dune tumultuose qua e là si
accendevano i prismi dellʼarcobaleno. Il vento rosso infuriava nella
grande solitudine; la terra mandava ondate; il deserto camminava.

Lente, pavide, quasi respinte, le bestie avanzavano con fatica su la
carovaniera sparente. Sembrava di andare lungo lʼorlo dʼuna marea,
curvi sotto il pericolo del flutto che sta per sopraggiungere. Da
presso e da lontano, come rovesci di pioggia in un prato, la sabbia
vorticando saltava; un tenebrone rosso veniva contro il cielo di
tramontana, infiltrandosi negli occhi e nel respiro, simile quasi ad
una fuliggine di sole.

Si vedevan, nellʼestrema lontananza, in un chiarore obliquo di
cataclisma, le dune perdute andarsene alla deriva.

Ecco, era la via per il deserto, la via del Guébli calamitoso, la
via della terra che non beve mai. Gli animali, assaliti e paurosi,
prendevano terribilmente la forma del loro scheletro; gli uomini,
allucinati, non parlavano più. Si lasciavano portare, non dalla
pesta cancellata, non dalla propria volontà uccisa, ma da una specie
dʼistinto ulteriore: quello di cercare una strada ove non cʼè più
strada.

Camminarono per qualche giorno su lʼorlo di quel prodigioso inferno. Il
capo–carovana era il solo che non dormisse mai. Gli bastava quel suo
mantello bianco perchè la bufera di sabbia non gli facesse alcun male.

Aveva il deserto nellʼanima ed era nato per la via del sud.

Egli si mise a fianco di Bluette, prese la briglia del suo cammello, e
di giorno e di notte mai non lʼabbandonava.

Quandʼera più tramortita, le avvolgeva la fronte con un fazzoletto
umido; quando il vento assaliva con troppa veemenza le tende lacere del
suo baldacchino, egli prendeva la via del vento, e conosceva lʼaria
come se guidasse un veliero.

Tre giorni e tre notti andarono fra i turbini della bufera; poi una
infinita calma si adagiò su quel mondo infinito.

Qualche duna, più agile, ancora volava in lontananza sul brulichìo
della pianura morta; ma lʼoceano di sabbia e di sole andava ricuperando
a perdita dʼocchio la sua luccicante immobilità.

E finalmente ritrovarono la carovaniera; incerta, spesso cancellata,
che andava grado a grado piegando verso il Gharb, verso lʼaspra e
collinosa terra dʼoccidente. Già, lontanissime, riapparivano le
guglie azzurre della montagna dʼAtlante. Là dietro, i nomadi predoni
della Chaouia tendevano agguati e massacravano le colonne francesi,
come rifiutavano lʼimposta e lʼobbedienza militare agli esautorati
funzionari del sultano di Fez.

El Foukani mandò avanti la scorta e diede ordine di far fuoco sul primo
baraccano che fosse veduto strisciare od appiattarsi fra le dune. I
leggeri cavalli berberi, assetati e miserabili, ormai galoppavano senza
velocità. La carovana sprofondava e risaliva per le ondate ferme del
terreno, con un barcollare sfinito, come se le ginocchia degli animali
non reggessero più. I muli erano piagati sotto la greve soma; chiazze
nere di migliaia dʼinsetti li coprivano come croste brulicanti. Più
magri, più alti, più lugubri, solamente i cammelli andavano sempre, con
un passo di bestie perpetue, che possano morire camminando. Lʼuragano
infuocato aveva di quasi due giorni prolungata la marcia; lʼacqua negli
otri stava per venir meno. Il dromedario che portava gli ultimi sorsi
fu messo nel centro della carovana, sotto gli occhi di El–Foukani, che
non avrebbe certo esitato a spegnere con le sue pistole brillanti la
sete pazza dei minacciosi cammellieri.

E finalmente, un mattino, su lʼestrema via del sud, egli vide nascere
un confuso tenue disegno azzurro, come un fiocco di nebbia che
rasentasse la terra, come una rupe dʼaria nello sconfinato sole.
Guardò, guardò prima di parlare; poi disse alla donna che mai non
abbandonava:

«Toi regarder petit couleur ciel droit dans le Guébli; toi voir
Beni–Abbès, lalla! Beaucoup marcher, bessèfe marcher, lalla; puis
arriver Beni–Abbès, où toi désir, lalla...»

E giunsero dopo quindici ore nellʼoasi lontana, dove il suo grande
amore lʼaveva portata.

[Illustrazione: DECORAZIONE]

Per niente.

Tutte le strade vanno a finire in questa parola che domina
lʼuniverso:—Niente.

Ed anche per lei, che aveva camminato con tanta bellezza dietro il suo
piccolo sogno, ed anche per lei, che si era elevata con lʼanima sua di
danzatrice fino a conoscere lʼamore di Maria Maddalena.

Per niente.

Le strade vanno; sono il principio della distanza, il colore dellʼanima
che si allontana: portano in sè molta polvere, molto sole, hanno tutte
una meta—e non arrivano mai.

Un piccolo cuore di ballerina, mandando un sorriso dietro lʼorlo del
bicchiere di Sciampagna, certa sera di neve, nella Parigi Babelica, si
era divinamente innamorato.

Per niente.

Mandò amore come un rosaio manda profumo: per niente.

Si avvolse di musica e di elevazione come un giardino addormentato, nel
chiaro plenilunio del Maggio, si gonfia di poesia.

Per niente.

Un giorno la barbara Città splendente camminò sovra il suo piccolo
cuore. Vasta e forte, con il suo peso tremendo, camminò sopra il suo
piccolo cuore. Parigi la Grande brillava e girava intorno al suo
fermo spavento come il carrossello di una terribile fiera. Mandava
un repentino soffio di tragedia ad investire i suoi capelli biondi;
sciupava, sfogliava con adirata violenza i semplici fiori del campo, i
fiordalisi di Mimi Bluette.

Allora partì.

Prese la via del mare, del mare nomade che oscilla fra le bionde rive
cariche di violenti giardini.

Per niente.

Sola camminò per lʼAffrica vertiginosa, nei delirii della terra
interna, verso i fermi uragani di sole. Camminò. Le fontane degli
erranti abbeveravano la sua torbida sete. Le sue bianche mani si
abbronzarono e lʼanima sua divenne colore dellʼesilio. Camminò. E pose
il piede nella desertica terra ubbriacante, ove, nella dannazione del
sole, nessuna eco più giunge del perduto mondo.

Le dissero chʼegli era più lontano; e più lontano lʼamore la portò.

Per niente.

Giunse dove guerreggiano e cadono, sotto le armi della Grande
Repubblica, i soldati senza patria, la carne da macello e da conquista,
gli esclusi per sempre dalle famiglie del mondo, che solo ridon nei
giorni di massacro, quando li ubbriaca lʼodore della polvere da
schioppo, le baionette brillano, e spiegata batte nel vento la bandiera
dellʼergastolo camminante.

Li guardò negli occhi, li guardò nello spirito, concavo e spento come
unʼorbita senza pupilla: e nella rossa vampa ove si agita la potenza
del delirio affricano le parve di essere divenuta una loro innamorata
sorella. Poichè nellʼanima portava ella pure il colore dellʼesilio, il
sogno dellʼultima stella che si accende su la strada più lontana.

Quanto sole!... quanti roghi accesi nello spazio... e dappertutto,
a perdita dʼocchio, nel cerchio del mondo visibile, che infinito
scintillìo!...

Per niente.

Come le strade, come il deserto e lʼoceano, come la vita e la morte,
così lʼanima sua, lʼamore dellʼanima sua, portava unʼazzurra fedeltà
nei turbini della distanza infinita.

Per niente.

Nelle oasi profumate si addormentò con la fronte posata sovra il
braccio bianco. Le donne del Guébli, scure, con occhi a mandorla, già
crespe di vello sudanese, logore di selvaggia maternità, venivano a
guardare in silenzio la bella cristiana.

Era la ballerina di Parigi, quella che aveva prostituito il suo corpo
divino sotto gli archi elettrici delle ribalte maravigliose nella
musica dellʼaffascinante My Blu; era un gioiello da principe, lʼetèra
per un vizio da re, lʼopera dʼarte umana che Parigi aveva messo
allʼincanto; era la rosa delle rose nei giardini dei Campi Elisei...

Ed ora la portavan le bufere di sole per la via senza ombra del
terribile Gharb.

Si fermava presso le tende bianche dei nomadi accampamenti, la sera,
quando il remoto Sahara trema di una elettrica oscurità ed un orribile
splene contorce le anime di questa gente che non conosce il suo
cimitero.

Li aveva qualche volta veduti partire in colonne agili e serrate,
dietro i méhari che portavano le belle mitragliatrici; qualche volta
rientrare in silenzio, a fronte china, come un gregge decimato nei
tradimenti della Chaouïa.

Li aveva qualche volta veduti nei giorni di «cafard», nellʼiracondia e
nellʼangoscia dellʼorribile splene, chiudersi con una tremenda gelosia,
con una cieca rabbia, sul proprio essere anteriore; starsene in
disparte, muti, avversi, obliqui, come bestie contagiate, quasichè li
assalisse una torbida memoria di quel mondo che avevano sepolto nel lor
cuore dʼuomini, o li stringesse fino alla gola, chissà mai per quale
urto, chissà mai per quale ombra, un subitaneo furore dellʼanima non
ancora sopita.

Era la ballerina di Parigi, quella che aveva regalato alla Città
Babelica il suo lieve cuore di danzatrice, la sua pura e scintillante
nudità... Ma ora chiudeva nellʼanima lʼamore di Maria Maddalena, ed
aveva traversato il deserto per recare allʼamante che amava, nel
trasparente cálice del suo palmo, un sorso fresco dʼacqua di fontana.

Ed ella non sapeva nemmeno chi fosse questʼuomo. Era venuto a lei da
una storia buia, da tutto ciò che nel mondo si chiama «lontano».

Forse aveva una casa in qualche terra straniera, ed una sua donna
paziente, che innamorata lʼaspettava in qualche lontana città.

Forse, nelle sere profonde, anchʼegli piangeva di rimorso e di
malinconia, pensando alla distanza invarcabile che lo separava dalla
sua vita.

E chissà mai quante volte, nella terra senza ombra, dove lʼacqua
nascosta non manda fiore, dove la bandiera dei Legionari sventola
come una fiamma nel sole del terribile Gharb, chissà mai quante volte
gli aveva ubbriacato lʼanima quel biondo profumo di poesia che dai
giardini delle terre crepuscolari mandavano al suo cuore morto i
fiordalisi di Mimi Bluette...

Le strade vanno, sono la forma della velocità, la musica dellʼesilio:
sono distanti perchè si avviano, sono ferme perchè non arrivano mai.
Le strade sono la polvere del Tempo:—nientʼaltro; la polvere di una
distanza che non è mai cominciata, che non finirà mai:—nientʼaltro.

Ecco; e forse quel Nomade lo sapeva.

Quando per gli altri, da ogni fossa e da ogni letamaio nascevano
aurore, per lui, su la terra infinita, su le infinite illusioni degli
uomini, era tramontata per sempre, per sempre, la poesia.

Ed allora forse quel Nomade pensò chʼera meglio fare come il sole;
volgere verso il Gharb, la terra dʼOccidente.

Camminare laggiù, nella vampa, dove tramontano le strade, con lʼanima
seppellita nellʼombra dʼuna fortuita bandiera.

E lasciò agli uomini saggi, agli uomini calmi, tutto quello che gli
avevano dato: qualcosa che si chiama una patria, qualcosa che si chiama
un focolare, qualcosa chʼegli portava sopra di sè come una veste
importuna: il suo nome; qualcosa infine che lo aveva innamorato troppo
tardi, troppo tardi... un amore.

Vivere o morire, questo non era importante; ma solamente voleva
dividersi dallʼuomo che fra gli uomini era stato. Voleva mettere
lʼinvarcabile fra il suo cuore e sè. Dovunque lʼandassero a
cercare, nei diligenti libri dello Stato Civile, di lui avrebbero
detto:—«Scomparso»—di lui avrebbero detto:—«Forse non cʼè più.»

Camminare inforno al formicaio degli uomini saggi, degli uomini
calmi, senzʼavere la propria esistenza inchiodata nelle caselle dʼun
passaporto. Nemmeno davanti al suo cadavere, nessuno che potesse dire
chi fu.

Non vʼera alcuna patria della terra che gli potesse dare questa orrenda
libertà, se non lʼesilio dei morti che vogliono ancor vivere, la truppa
dove al soldato non si domanda che di saper morire.

Chi era?

«Laire.»

Laire: il suono dʼuna sillaba, cinque veloci lettere dellʼalfabeto...
Era tutto, e bastava.

Così erano a decine, laggiù, nei reggimenti stranieri, nel delirio del
terribile Gharb.

La sera talvolta si udivano cantare.

Distesi allʼombra dei palmizi biondi, verso lʼora in cui sʼaccendono i
fuochi tremuli dei bivacchi, tra il fumo denso che immobilmente sale
verso lo zenit vertiginoso, cantavano a voce spiegata le afose nenie
delle tappe, le buie canzoni dʼAffrica dellʼergastolo camminante.

Era forse, per quegli uomini, lʼultima sera di vita, lʼultimo colore
di crepuscolo su la terra che non ha tombe nè focolari. E guardando
con fissa maledizione il disco enorme che affondava nellʼantipodo
scintillante, con ira e con oblìo cantava, prima di farsi uccidere, «la
gloriosa canaglia» della Legione Disperata.

Questa era la gente che non avrebbe mai sepoltura.

Là indietro, su le frontiere dellʼesilio, avevano lasciato agli uomini
saggi, agli uomini calmi, anche il cimitero.

Qui, nellʼoceano di sabbia, le bianche ossa dei morti perennemente
cambiano sepoltura.

Le strade vanno, sono il pendìo del sepolcro, la tappa della strada
che non cʼè; tramontano come le ore dʼun giorno, convergono tutte nel
deserto, laggiù, verso la terra folle, dove, negli uragani di sole, con
lʼiracondo nomade vento il sepolcro cammina...

[Illustrazione: DECORAZIONE]

—Eh bien. Madame, je suis désolé, désolé de ce que vous me dites, mais
je ne me sens pas le droit de vous mentir, ni de vous épargner cette
peine, pour cruelle quʼelle soit...

Nellʼoasi di Beni–Abbès, nella dorata penombra che riempiva la tenda
spaziosa del capitano–aggiunto Letellier, Mimi Bluette si portò
convulsamente le mani alla gola, e stette immobile a fissare lʼuomo che
le parlava; un ufficiale scarno, febbricitante, seduto quasi a terra
sovra il suo letto da campo, e che ogni tratto alzava la mano con un
moto meccanico, per toccarsi la fronte bendata.

Sovra due cassette vuote un legionario scriveva celeremente; un altro
riceveva i messaggi del telefono da campo. Lʼufficiale medico preparava
una fresca bevanda di cognac, di ghiaccio e di limone.

—Est–il–mort?...—disse infine Bluette, con una voce che appena si
udiva.

—Dans des circonstances particulièrement héroïques, Madame, le matin du
23 Septembre, face à lʼennemi.

Solamente i suoi occhi vissero quellʼattimo di vertiginoso dolore; ma
il suo corpo immobile nulla sentì. La ferita le passava il cuore senza
ucciderla; solo, da quel momento, i suoi dolci occhi azzurri non furono
mai più gli occhi di Mimi Bluette.

Poi, dʼun tratto, barcollò, aperse leggermente le braccia, il suo corpo
si piegò in due come una sciarpa, e cadde per terra di schianto, senza
far rumore. Lʼufficiale medico non ebbe nemmeno il tempo dʼallungare un
braccio per darle aiuto; lʼaltro, il capitano ferito, riuscì ad alzarsi
con estrema fatica, e, dopo averla sollevata, insieme la portarono a
sedere sovra il lettuccio da campo.

Ella riaperse gli occhi e li guardò con il suo cuore morto.

Allora il capitano sedette vicino a lei, con le ginocchia rialzate fin
presso il mento, le spalle raccolte nellʼangolo che la tenda formava
sopra un filo dʼacciaio, mentre il medico, un bel fanciullo biondo con
gli occhi di cortigiana, li guardava in silenzio muovendo le sue mani
pallide.

Si udiva in quel silenzio lo stridore veloce della penna sul ruvido
protocollo militare. Nella distanza dellʼoasi, ad intervalli, cantando,
un falegname picchiava. Le voci aspre dei cammellieri giungevano dal
profondo palmeto.

Allora il capitano disse:

—Le soldat Laire est tombé sous mes yeux pendant le combat que nos
troupes livrèrent le 23 Septembre aux insurgés de la harka marocaine.
Jʼy ai été blessé moi–même, comme vous voyez. Son nom a été porté sur
la liste des morts, bien que nous nʼayons pas pu recouvrer son corps.
Sur proposition de son chef de bataillon, on lui a décerné la Croix de
guerre. Sa médaille a été portée à la salle dʼhonneur du 1.ͤ ͬ Régiment
Etranger. Il fut un brave, Madame; soyez–en fière!—Donne–moi quelque
chose à boire, veux–tu, major? Jʼai horriblement soif.

Con la sua mano delicata il medico versò la bevanda, e gli sorresse la
nuca mentrʼegli beveva.

—Nous étions partis pendant la nuit avec les mitrailleuses. Nous
savions très bien quʼil nous attaqueraient. On nous les avait signalés
dans plusieurs directions du Gharb. Le Gharb, savez–vous, cʼest comme
le Bois de Boulogne pour les jeunes filles: il y a, paraît–il, des
satyres. Nous étions trois cent quatre–vingt, quatre cents, pas plus;
il sont, eux, comme les sauterelles; plus on en fauche, plus il en
vient. Mais nous avions des ordres, quoi!... il fallait obéir. Nous
avons obéi. Nous sommes revenus soixante–treize, et il fallait voir
en quel état! Oh, je sais bien, à Paris on ne sʼen doute guère!.. Les
Coloniaux? eh, quoi, la belle affaire! Cʼest leur métier à eux de se
faire «zigouiller!» Peste, Madame! Je vous dis que ces gros bourgeois
ne se doutent de rien. Du cinq pour cent et Monsieur Fallières: voilà
leur façon dʼentendre la patrie. Cʼest commode, hein? Oui, sûrement,
cʼest tout à fait kouss–kouss!—Major, approche la carafe, je tʼen
prie...

Bluette lo ascoltava immobile, piegata su lʼala che formavano le sue
lunghe ginocchia, sola, deserta, con gli occhi allucinati nel vapore
del lontano sole.

—Mais lui, ce brave Laire, il avait du définitif dans lʼâme, ce
matin–là. Il marchait dʼun pas allegre, à quelques rangs devant
moi, et sa haute taille était la plus belle du bataillon. Pour un
dernier venu, je vous assure quʼil était vieille–garde. Le sous–off
me disaient:—«Capitaine, voilà un dandy!» Ce Laire, il nʼavait pas
prononcé quarante mots depuis son arrivée. Il avait le cafard des
nobles, le cafards des gens qui se racontent à un brin dʼherbe, mais
qui jamais ne soufflent mot à leurs copains. Cʼest pour vous dire,
Madame, que nous lʼavions compris. Et moi, par exemple, je trouve assez
naturel que vous ayez fait pour lui ce long voyage.

Le strisce di fumo della sigaretta che aspirava il tenente medico
rimanevano sospese nellʼaria come larghi veli.

—Oui, cʼest bien sûr; pour nous tous, les Batt dʼAff, il vient un jour
où nous avons du définitif dans lʼâme. Il nʼy avait quʼà le regarder,
ce matin là, pour comprende que cʼétait «son jour». Lʼaube était rouge
comme ces paniers de cerises quʼexposent les fruitières du Faubourg
Saint–Honoré. Cela aide. Rien ne donne lʼenvie de devenir noir comme
cette lumière écarlate... La colonne marchait, mitrailleuses en tête,
essayant de glisser dans les plis du terrain. Le Gharb, au delà des
dernières dunes, miroitait comme une terre volcanique parsemée de
phosphore. Cʼest horrible! On sʼaperçoit, dans ce spasme aveuglant,
quʼon peut tuer lʼhomme à force dʼétincelles. La terre montait; à
lʼhorizon on voyait des collines. Ils pouvaient être partout, car
le terrain faisait de hautes vagues. A un moment donné, sans aucune
raison apparente, je sentis quʼils étaient là, quʼils rampaient comme
des couleuvres dans les pièges de cette terre morte, quʼils allaient
surgir de partout, avec leurs cris sauvages. Une sensation, Madame!...
cette sensation de lʼembuscade que nous avons très claire, nous, les
habitués de la harka. Quelques minutes plus tard, les voilà qui se
dressent comme des fantômes chaotiques au sommet des collines. Deux,
trois dʼabord, puis des centaines, des hordes... Le soleil naissant
du côté de Chergoui soulevait des nuées de sable; nous étions pris
en même temps dans la bataille et dans la tourmente de soleil. Nos
mitrailleuses, avec un bourdonnement de guêpes, sifflaient sur ces
moissons de sauvages. On en fauchait autant quʼil en venait, par
vagues. Mais ils étaient plus que nos balles, et ils approchaient
toujours. Leurs drapeaux verts tanguaient sur ces troupeaux humains.
Bref: quand nous fûmes entourés, quand nos mitrailleuses ensablées
ne fonctionnèrent plus, il fallut marcher à la baïonnette, et le
Commandant me cria: «Voilà du kouss–kouss pour toi, Letellier! Essaye
tout de même! Jʼy vais de mon côté.» On y alla... Zut! que jʼai soif,
Madame! Nʼen voulez–vous pas un verre? Ça fait du bien au cœur.

E bevve, bevve profondamente, con assetata febbre, un lungo sorso.

—Il y avait devant moi une borde composée de huit cent brutes au moins,
qui grouillaient sur une colline et sʼavançaient avec des oscillations
de montagne russe. Leur drapeau vert était la chose la plus agréable
à regarder dans cette atmosphère de pourpre. Je dis à mes hommes:
«Crédieu! si on pouvait leur arracher cette sale guenille!...»

—Jʼy vais tout–de–go, mon capitaine!—répondit une voix de bronze
derrière moi. Un homme sortis des rangs. Cʼétait le soldat Laire,
très calme, baïonnette au canon. Il se lança tout droit, tout seul,
faisant de temps à autre un geste comme pour écarter des rideaux.
Les autres le suivirent. Il courait, une cinquantaine de pas devant
nous. On arriva derrière une broussaille. A vrai dire on ne savait pas
si cʼétaient des arbres ou des pierres végétales. Ces chiens galeux
nʼétaient plus quʼà vingt mètres. Ils couraient aussi. Dans le choc,
il y eut une mêlée épouvantable. Cʼest quʼon devient fou, là bas, dans
le Gharb, Madame!... Ce nʼest pas du tout de lʼhéroïsme: on devient
fou. Ils tenaient leurs longs fusils par le canon et flanquaient des
coups de crosse; ils avaient aussi des couteaux, des poignards et des
larges sabres marocains; mais leur voix de fauves était encore plus
effrayante. Le Commandant avait affaire de lʼautre côté. Une partie de
nos hommes, groupés autour des mitrailleuses, tiraient sans relâche
pour aider nos baïonnettes. On voyait ces sauvages tomber comme des
épis dans la moisson, avec une espèce de rire terrible qui les clouait
par terre. Nous avions de leur sang jusquʼau poignet, jusquʼau coude;
mais il en venait toujours du pied de colline. Savez–vous combien ça
peut faire de cadavres le bras dʼun homme? Je ne le sais pas moi–même.
Plusieurs sans doute. Mais le poids des cadavres finit toujours par
vaincre la puissance dʼun bras. Dʼautant plus que nous étions presque
tous blessés, sans compter les morts. Jʼavais une balle au dessus de
la tempe, un coup de crosse à lʼépaule et une déchirure dans le côté.
Mais ça ne fait pas très mal, une blessure, tant quʼon est au Gharb...
Ce brave Laire était toujours devant nous; il livrait à lui tout seul
un combat merveilleux. Je crois même quʼà ce moment–là il nʼavait
plus sa raison, le pauvre, parce que je nʼai jamais vu un seul homme
faire un pareil massacre. Il était tout rouge, de son propre sang et
du leur, comme sʼil sʼétait plongé dans le ruisseau dʼune boucherie.
Ceux quʼil avait tués de sa propre main et ceux qui sʼabattaient sous
notre fusillade formaient autour de lui une espèce de rempart macabre.
Quelques pas en arrière de ce rempart flottait le drapeau vert du
Prophète. Il avançait toujours pour sʼen emparer, tombant sur les
genoux, se redressant encore, tout rouge, complètement fou. A un moment
donné je comptai mes hommes: nous étions restés trente–cinq; nous
reculions; le Gharb dansait comme une mer en tempête. Ce nʼétait pas le
courage, cʼétait lʼhaleine qui nous manquait. Jʼavais empoigné mes deux
pistolets pour en brûler les dernières cartouches, quand, tout à coup,
un miracle se produisit. Une de nos mitrailleuses, nettoyée à la hâte,
avait fait un bond sur lʼaile gauche et recommençait à chanter. Madame,
quelle ivresse! quelle ivresse!... Je nʼai jamais lancé vers une femme
le regard enivré dont jʼenveloppai en ce moment la belle mitrailleuse...

—Doucement...—gli consigliò il medico.—Vous aurez la fièvre.

—Ah, tant pis! Ce nʼest pas très important dʼavoir la fièvre! On en
guérit. Et puis on recommence... Après tout cʼest la chose la plus bête
que nous puissions faire, nous soigner dʼune blessure. Oh, ce besoin
imbécile de rester vivants!... Et pourquoi?... Pour crever demain, ou
après demain, dans le Gharb ou dans le Guébli, et toujours avec le
même délire... Ce nʼest même pas comique, ce nʼest rien du tout... De
la bêtise! Dis–donc, major, ta quinine a des qualités sans doute; mais
moi je puis te dire que jʼai appris quelque chose dans lʼhistoire du
soldat Laire. Dʼabord, vois–tu, il avait dans son cœur des yeux de
femme. Et cela ne lʼa pas empêché de vouloir la guenille du Prophète,
le chiffon vert que même ces brutes ont pris pour de lʼidéal brodé...
Oui, positivement, jʼai la fièvre; mais ça me fait bien plaisir quʼune
jolie femme soit assise sur mon lit de camp. Et puis, Dieu sait si elle
mʼécoute... Dans ses yeux calmes il y a un peu de nord...

—Je vous écoute, oui, capitaine,—ella rispose con voce tranquilla,
senza nemmeno far muovere il velo dʼombra che le fasciava la fronte.

—Et alors, quand la mitrailleuse chanta, la cohue de ces gueux sauvages
eut une espèce de long balancement, un arrêt tumultueux devant la
mort invisible, devant ces milliers de balles qui zigzaguaient dans
leurs rangs comme des lézards métalliques. Ce nʼétait pas continuel,
car elle devait aussi défendre cette partie de la colonne qui sʼétait
engagée sur lʼautre versant, aux ordres du Commandant. Mais elle nous
protégeait assez pour que nous puissions nous replier, tant dʼun côté
que de lʼautre, afin de nous réunir autour des mitrailleuses, quʼon
essayait de remettre en action. Le soldat Laire était toujours au
delà de la broussaille; il ne tournait même pas la tête. De temps en
temps la mitrailleuse faisait des ravages devant lui; les monceaux de
cadavres lʼempêchaient de mourir.

—«Soldat Laire!—lui criai–je.—En arrière! En arrière avec nous!» Il
hocha sa tête nue, quʼune large blessure coiffait de pourpre; il fit
un bond terrible, et plongea sa baïonnette dans le ventre du grand
diable noir qui portait le drapeau. Il sʼaccrocha des deux mains à
la hampe de lʼétendard, et lʼon vit une mêlée dʼhommes, presque nus,
gesticulants, hurlants, sʼécrouler sur lʼenorme cadavre de lʼenseigne
barbare. La mitrailleuse y darda pendant quelques minutes son éventail
de flèches, et presque personne de ce groupe ne releva la tête. Ils
avaient enseveli sous leurs cadavres la bannière du Prophète. Mais il
y eut un silence. Et lentement, comme quelquʼun qui sortirait à plat
ventre dʼune kouba effondrée, nous vîmes le soldat Laire se dégager du
poids de ces cadavres, surgir, et marcher vers nous en chancelant, les
mains crispées sur la bannière du Prophète. Ce nʼétait plus un homme,
Madame, mais un fou rouge, une loque humaine qui portait un drapeau. Il
lʼagitait, il lʼagitait, il riait peut–être... Nous entendîmes sa voix
ivre:

—Je lʼai! je lʼai, mon capitaine!...

Nous allions vers lui, mais la distance était encore assez grande.
On voyait des marocains, des nègres, courir en foule. Nous avions
peur de le tuer avec nos balles. De mes hommes, plus un seul ne
pouvait courir; eux, ils couraient comme des diables. Mais sa voix
était si épouvantable, que jʼen rêve, depuis, chaque fois que mes
yeux sʼassoupissent. Il criait:—«Bien le bonjour à vos bourgeoises,
nʼs pas!... Et quand jʼaurai ma médaille, fous–la au drapeau...
capitaine!... fous–la... au drapeau... ca... pitaine!...»

Ce fut sa dernière parole. On sʼempara de lui, malgré les
mitrailleuses, et il mourut les poings crispés sur la bannière du
Prophète.—Jʼoubliais de vous dire, Madame, que tout cela sʼest
passé au milieu dʼune tourmente rouge, et que nous sommes revenus
soixante–treize, dont vingt–quatre seulement nʼétaient pas blessés. En
voilà un, par exemple: cʼest le petit gaillard aux yeux de chamelle,
qui gribouille des paperasses pour expédier ma correspondance. Parce
que moi, voyez–vous, le Gharb mʼa joué un sale tour: je ne peux plus
écrire les mots sur une ligne, je vais tout de travers, et je saute des
voyelles...

—Ah, ces chiens galeux! ces chiens galeux!...—borbottava il piccolo
soldato, succhiandosi le falangi sporche dʼinchiostro bituminoso.

Là fuori, nellʼoasi bionda, la sera scendeva in larghe vampe di
tangibile profumo. Era quasi una lentissima pioggia di pólline dʼoro,
che pareva scuotersi dai carichi rami delle palme, bruciare, cadendo
nellʼombra, come un pulviscolo di sole. Si vedevano, sui fiori
tropicali, aprirsi le bocche ovali dei lucidi camaleonti. Due cadaveri
di traditori pendevano dalla forca della più alta palma. Erano là,
immobili, come due lunghi batacchi di campana, coi polsi legati dietro
la schiena, gli occhi marci, la lingua grossa come un tumore fra le
mandibole mummificate.

La carovana di Colomb–Béchar si era sdraiata intorno ai pozzi, fra il
disordine delle some; i cammelli masticavano la rugiadosa erba con una
lentissima voracità; in larghe pentole dʼargilla i cammellieri pazienti
facevano bollire il kouss–kouss.

Un vecchio negro, di membra gigantesche, dai lineamenti quasi europei,
fumando una lunghissima pipa che gli pendeva dalle labbra tumide,
faceva esaminare da Jossuf–el–Foukani i marenghi dʼoro, i franchi
dʼargento che i Francesi gli avevano dati. Molti legionari, seduti
fuori dalle tende, fra lʼattenzione delle piccole negre, giocavano a
carte oppure al tric–trac. Di esse, qualcuna era incinta; qualcuna
portava i corti capelli annodati su la tempia con un nastro di colore.
Avevano certe lunghe braccia da miss inglese, la bocca invereconda, e,
nelle spalle, una specie di rassegnata ma gentile povertà.

Mentre Bluette usciva dalla tenda del capitano, quei legionari si
misero a guardarla.

—Christi! Je te dis, Jacquelot, quʼelle est bougrement bien fichue, la
môme, et que, surtout de la voir pleurer, ça me fait quelque chose!

—Tʼen fais pas, Galitzine! Les femmes, ça pleure, ça rit... Pourvu
quʼon les mette à poil, cʼest à peu près tout ce quʼelles demandent!

—Pourtant, ce quʼil était bath, ce Laire! Hein? Quʼen dis–tu,
Jacquelot? Avoir tripoté des femmes pareilles, pour sʼengager à la
Légion... Fallait–il en avoir une couche?... Pas vrai, Jacquelot?

—Oui... mais ne triche pas en attendant! Je vois que tu es en train
de me monter le paquet. Tʼes propre, va, Galitzine!... Passe–moi les
cartes. Cʼest à moi la donne. Oui, mon prince! Et puis je te dis que ce
Laire, cʼétait peut–être un poseur, un aristo, une fiente à avoir une
particule devant son Laire, mais il avait des goûts fins... ça, y a pas
dʼerreur!

—Dis–donc, Jacquelot! Est–ce que tu ne marcherais pas ce soir, si elle
te faisat de lʼœil?

—De lʼœil à moi? Tu te payes ma tête, sale mec!

—Dis–donc, Galitzine.... Veux–tu mon avis? Cʼest le jeune major qui se
lʼenverra, ce soir, au clair de la cafarde...

—Ah, la chamelle!... Dʼailleurs, que veux–tu? ces salops dʼofficiers,
ils ont des aventures même au Gharb!...

[Illustrazione: DECORAZIONE]

E allora tornò.

Tornò, con lʼanima sua dʼinnamorata, verso Parigi la Babelica, verso il
mercato glorioso che vendeva, nella sua fiera di tutte le umane gioie,
la bellezza ed il piacere.

Tornò, silenziosa, con la fronte chinata, gli occhi accesi di quella
immobile vampa che bruciava nel remoto Gharb. Era divenuta ella pure
lontana, come i tetri volontari dellʼergastolo camminante. Aveva
lasciato cadere ad uno ad uno, su le carovaniere del Guébli, come
foglie della propria vita, i fiordalisi di Mimi Bluette. Ora il senso
dellʼesilio era entrato in lei, come nellʼanima di quei soldati nomadi
che solo avranno per tomba lʼemigrante bufera. E tornava per nasconder
nel frastuono della Parigi Babelica la sua tacente anima di Maddalena.

Vi giunse una fredda sera del mese di Novembre, quando il firmamento
dʼelettricità, che per lʼalta nuvola propagano i lumi delle strade, con
tremito si andava incurvando su la metropoli rannuvolata. Ella guardava
con occhi stupiti, aperti, fermi, quella molteplice vita, mentre
nellʼanima deserta le infuriava un lontanissimo rumore di sole.

Questa era la Città, questi erano gli Uomini, questa era la Vita...

Povera piccola bionda Mimi Bluette!...

Non afferrava più lʼesatto senso nè più sapeva ben distinguere gli
esatti contorni delle cose; nel suo profondo essere femminile si era
disseccata, sotto la fiamma del deserto, quella fertilità limpida e
giovine che ogni creatura porta in sè come una fontana.

Ora capiva quel che significa non avere più strada, essere giunti a
quellʼora di sconfinata e spaventosa libertà, oltre la quale finiscono
anche le distanze. «Gli altri», quei mille che si chiamano «gli altri»,
avevano per lei smarrito il senso di creature umane. Passavano; erano
cose poco più importanti che i paracarri di sasso, le colonne di
bronzo, le ruote lente, stupide, che ripetono fino a consumazione il
loro inutile perpetuo giro... «Gli altri» erano gli automi freddi e
meccanici che attraversano la vita. La vita: questo rumore, questo
colore—questo nulla.

E poi?

Le città? i parchi? le strade? le famiglie?... Tutta quellʼopera che
indefessi compivano? tutto quellʼurto che insieme producevano, il
giorno e la notte, ora per ora... Ma no! Ma no!... era pazzamente
inutile... Inutile. Cʼera un immenso deserto, che «gli altri» non
vedevano.

E, poi?

Essere bella? avere un nome gentile? potersi coprire fino alle
ginocchia deʼ propri capelli biondi?... Avere la carne profumata,
dolce, chiara, trasparente, come il più bel fiore coltivato nel
miracolo dʼun giardino; essere stata la gioia, essere ancora la
gioia... la ballerina di Parigi... Mimi Bluette... Ma no! Ma no!...
Cʼera un inganno!... Tutto questo non doveva essere mai avvenuto... La
storia della sua vita, il colore di sè stessa era un circolo grande,
remoto, interminabile, di sole...

E poi?

Cosa potevano darle ancora quelle finestre buie, che si aprivano verso
lʼinterna ombra nelle case degli uomini? Quelle finestre che nei
mattini di primavera si empivano di serenità e di sole; quelle grandi
finestre opache, morte, come gli occhi di una creatura che non respira
più... Cosa potevano darle ancora le strade magnifiche della Capitale,
i grandi negozi luccicanti, le canzoni delle orchestre chiuse nei
teatri saturi di nevrastenia?... Quanto rumore per nulla!... quanto
rumore per nulla, o Parigi la Babelica!...

E poi?

Non cʼera più. Qualcosa non cʼera più. Qualcosa nel mondo era
scomparso, distrutto, finito. Chi? Un essere? Non soltanto, non
soltanto... La poesia. Tutto ciò che nel mondo ha nome:—Vivere. Quella
grande ala invisibile che solleva il peso della materia nel colore
della felicità... Ecco: era finita la poesia.

Parigi la Babelica era per «gli altri». A lei rimanevano i suoi capelli
biondi, le sue mani bianche, i suoi veri occhi dʼinnamorata, pieni di
sole, pieni di sole...

Questa era la Città, erano le strade chʼella conosceva; queste le
fiumane di gente fra le quali era uscita una sera, portando in sè come
un fiore selvatico il suo timido cuore di Transalpina.... «Maxima
Maximum....

La Revue de lʼAlhambra... Le Matin... Michelin... Galeries... Polin...
sait tout...»

E poi?

Dove? quando? chi le ridarebbe un respiro?

Si ricordò le danze chʼella faceva, le belle danze a piedi nudi, sovra
un tappeto verde come lo smeraldo più puro... E le parve che la musica
non fosse ancora morta in lei; anzi le parve che la musica fosse
lʼultimo piacere, lʼultimo senso della vita... Era venuta al mondo
così:—per danzare.

No: per amare.

Quante canzoni!... Era Parigi che gliele rendeva, che stupendamente le
buttava come un laccio intorno al suo piede; intorno al suo piede, per
farla danzare...

Ma dove? ma quando? ma per chi?

Le musiche vanno; forse vanno più lontano di tutte le strade. Però
muoiono anchʼesse, trovano anchʼesse la loro distanza nel dolore
infinito.

Vestirsi, ridiventare la più bella danzatrice di Parigi, coprire di
perle fredde la incipriata sua nudità, mettere su le tenui dita gli
anelli vivi come il deserto, ridere, coprirsi di fiori, nascondere
un sorriso ebbro dietro lʼorlo del bicchiere di Sciampagna... dietro
lʼorlo del bicchiere di Sciampagna!... Oh, comʼera lontana per sempre
quella sera di stupenda poesia!...

Ed allora pensò alla voce dellʼamante, alla voce del nomade in quella
perduta sera. Pensò al profumo che aveva ogni soffio dʼaria nel respiro
della sua viva bocca, alla forza che aveva la palpitazione del mondo,
quandʼella era con lui, serrata come in un rifugio contro il suo
veemente cuore. La femmina, lʼamante chʼera in lei, tremò nelle sue
profonde vene, poichè Parigi dʼun tratto la risuscitava. E con pudore
quasi di vergine ella si meravigliò che non fosse ancor morta.

No: era come la musica; poteva giungere più lontano di tutte le strade.

La gioia dʼessere per quellʼamante una femmina viva ed invereconda,
come una rosa, quando nei giorni dʼestate, si gonfia e trema del
pólline che lʼubbriaca... la gioia di sciogliere con le mani un poʼ
contratte, con i polsi piegati, le sue belle trecce pesanti, ascoltando
il rumore insidioso che producono le forcelle cadendo, e poi nuda, e
poi trepida, coi seni erti, con il grembo già umido, che si muove,
attorcigliarsi con un piccolo vellutato grido a quella maschia forza
che di lei, fino allʼorlo dellʼanima, stupendamente sʼimpadronisce...
essere nuda...—ciò che forse vuol dire con felicità sentirsi
donna—essere il suo piacere, la sua bellezza, la forma femminile della
sua vita, essere la Maddalena e lʼamante, ciò che si chiama la colpa e
si chiama Dio...

No?... Mai più?...

Mai più.

Qual era il guanciale ove i suoi capelli disciolti vestirebbero la
bellezza del peccato? E lo specchio dovʼera, nel quale guarderebbe con
ilarità i suoi occhi appassiti? E dovʼera una bocca dʼuomo la quale
potesse non offendere le sue rinnovate labbra di vergine? potesse non
contorcere in una orrenda paura la indocile sua nudità?...

Mimi Bluette... Un nome; nientʼaltro che un nome; anzi un piccolo fiore
da mettere sui cappelli di paglia, nei mesi dʼestate.

Mimi Bluette... due parole troppo leggere...

Il vento la aveva portate via.

E i cimiteri?...

Sì, anche i cimiteri.

Di qua, di là, ve nʼerano molti. Respiravano, quella sera, il fumo
della nebbia inazzurrata che andava girando, pesando, su la Città
sfolgorantissima. Erano anchʼessi come i teatri: una rappresentazione
ferma della vita. Si ricordò la frase chʼegli le aveva detta, una
lontana sera di neve: «Jʼen ai soupé des gens qui connaissent leur
cimetière...»

I cimiteri? Sì, la più lunga strada; ma sempre una strada...

E poi?...

Ecco: bisognava gettare ancora una volta il suo piccolo nome su la
Città immensa, e poichè Parigi aveva rappresentata in lei qualche ora
della sua camminante bellezza, bisognava essere fino allʼultimo la
ballerina dellʼantico My Blu, bisognava danzare la danza del suo cuore
morto sul più luminoso teatro di Parigi la Babelica...

E poi?...

[Illustrazione: DECORAZIONE]

—Qui, Jack, jʼai été au delà de la mort, et je suis encore vivante...
Me voici revenue. Jʼai désiré te voir. Tu es le premier homme, tu es la
seule créature à qui je sente le besoin de serrer la main. Pourquoi me
regardes–tu, Jack? Suis–je bien changée?

Egli era commosso; non le parlava. Non le poteva parlare. Chinato sopra
il suo volto ancora giovine di ballerina, teneva una mano di Bluette
fra le sue, dolcemente, fortemente, con una specie di fraterna ed
innamorata paura.

—Oui, sans doute, je suis très changée, très enlaidie peut–être... Si
tu savais comme le désert brûle!... Si tu savais comme on y perd ses
yeux, là–bas, dans cette terre où tout miroite... Ça ne fait rien! ça
ne fait rien!... Parlons de toi, Jack. Est–ce que tu danses?

Con un moto repentino egli scosse il capo, serrò i labbri; una smorfia
contrasse la sua limpida fisionomia.

—Non? Est–ce que tu ne danses pas? Toi non plus, Jack? Cʼest drôle!
Quʼas–tu fait alors?

—Je vous ai attendue, Bliouette.

—Tu mʼas attendue... Est–ce possible? Quel enfant que tu es! Et puis,
ça ne vaut pas la peine dʼattendre Mimi Bluette... Mimi Bluette est
morte.

—What a pity! You are a very naughty Girl!

—Pas du tout méchante, pas du tout. Jack! Cʼest la vie qui fait ça...
Il ne faut pas mʼen vouloir. Et puis rions, Jack!... Si tu savais comme
cʼest triste de ne plus savoir rire!

—«Avez–vous donc fait un voyage très uncomfortable?»

—Tu appelles ça «uncomfortable»?... Oui, cʼest ça! tu as peut–être
raison, Jack... Pour moi ce nʼest pas seulement lʼAfrique, cʼest la vie
toute entière qui a perdu son comfort...

Egli si guardò le unghie, le belle unghie rosate, la sua mano calma,
onesta come il suo cuore. Pareva incerto se dirle quello che le voleva
dire. Poi domandò:

—«Etes–vous toujours une esclave, Bliouette?»

—Ne me demande rien. Jack... Tu dois savoir que je nʼai pas versé de
larmes...

—«Et vous étiez nécessaire de verser des larmes?»

—Oh, il faisait tant de soleil!... On ne pleure pas quand on est
aveugle... Tu as dit pourtant: «vous étiez nécessaire»... Cʼest une
grosse faute. Jack! Il vaudra mieux que tu dises à lʼavenir: «Etait–il
nécessaire... et cœtera.»

—All right! Mais je demande si votre ami...

—Ah, non, Jack!... Pas ça! Jamais, jamais un mot! Tu es mon danseur et
tu es mon brave Jack... mais ne demande jamais à Mimi Bluette ce qui
sʼest passe là–bas, dans la terre chaude...

—Oh, yes! Linette avait donc raison... Je suis très coupable.

—As–tu causé avec Linette?

—Non. Elle mʼa chuchoté en mʼouvrant la porte: «Parlez pas, Monsieur
Jack! Faut la guérir dʼabord.»

—Pauvre fille! Elle a été si douce, si douce... Mais pourquoi donc les
gens mʼaiment–ils toujours, moi, qui suis dʼune nature si horriblement
égoïste?... Enfin, si ça te fait plaisir, allume ta pipe, Jack.

—«Bon. Vous me direz après que je peste.»

—Ou que tu empestes... Mais ça ne fait rien. Allume.

Sedettero. Egli premeva il pollice con attenzione sovra il suo biondo
Navy Cut.

—Çʼa été très beau en Afrique. Tout le monde savait que jʼétais Mimi
Bluette. A Colomb–Béchar les militaires ont joué le My Blu.

—Quand on a bien dansé comme vous, Bliouette, cʼest naturel quʼon ait
sa réclame aussi en Afrique.

—Tu crois?

—Yes.

—Ecoute donc. Jʼavais un superbe chef de caravane qui mʼappelait:
«Lalla». Cʼétait très gentil.

—Question de goût. Moi ça me fait rire.

—Jack, tu ne mʼas pas encore dit si je suis devenue laide?

—«Oui, un très petit peu.»

—Parce que, sais–tu, jʼai un projet...

—Aïe!

—Tu dis aïe beaucoup trop tot. Cʼest ton vice.

—Jʼai toujours peur de vos projets, My Blu.

—Pas cette fois. Mon projet va te plaire.

—Par exemple?

—Par exemple... écoute–moi bien... Je vais danser!

—Oh!... My Blu!

Non seppe risponderle con altre parole. Ma i suoi occhi mandavano luce.
Dʼun tratto afferrò entrambe le sue mani, abbronzate ancora della
vampa, mise un ginocchio a terra e le baciò.

—Oui, je vais danser une danse que jʼai dans le cœur. Cʼest le
mouvement de la caravane qui me lʼa apprise. Et puis cʼest le soleil
du Gharb, le soleil de la terre où ils tombent... où il tombent, Jack,
mes frères!... Quand je portais en moi mon cœur comme une pierre, cette
danse montait dans mes veines, enveloppait mon être, dans une volupté
rouge comme le soleil... Vois–tu? Chacun doit parlar avec son propre
langage. Les poëtes font de la poesie; les peintres sʼoccupent de la
couleur; moi, qui étais née danseuse, je sentais le désert comme une
danse, et il y avait pour moi des orchestres dans la fureur du soleil...

—Oh, comme cʼest beau ce que vous avez dit, Bliouette!...

—Mais non, Jack, cʼest tout à fait simple... Nous avons marché des
jours et des jours, assoupis dans la somnolence de la caravane; il y
avait là–bas ce soleil que tu nʼas jamais vu; et le silence furieux
de cette atmosphère étourdissante mʼenvoyait des chansons qui étaient
vastes comme lʼinépuisable désert... Jʼai senti naître en moi une
musique de soleil, qui était nouvelle, sur laquelle personne, jamais,
nulle part, nʼa dansé... Je veux faire cadeau à cette ville de ma
danse; elle mʼa bien donne, Jack, mon amour...

—Vous attribuez ça à la caravane; moi je crois, Bliouette, que le
miracle est dans vos pieds.

—Si tu étais philosophe on tʼappellerait, je crois, un matérialiste.
Mais, puisque tu es danseur, on ne peut tʼappeler quʼun idiot. Enfin tu
seras mon impresario, Jack. Cʼest toi qui mʼarrangeras ce spectacle.
Et quand jʼaurai dansé ma danse, presque nue, sur des tapis rouges,
alors, pour te faire plaisir, je danserai aussi les tiennes, avec toi
Mais je veux que ce soit splendide! Un théâtre comme Paris sait en
faire aux actrices quʼil aime. Tu vas dʼabord mʼenvoyer un musicien. Je
danserai: il devinera la musique. Tu mʼenverras celui qui a écrit le My
Blu. Quoiquʼil ait à présent un peu de morgue, pour avoir été joué aux
quatre coins de la terre, grâce à Mimi Bluette, il se ressouviendra,
j ʼespère, quʼil était râpé comme une vieille culotte quand il vint
mʼoffrir sa pièce, pour le prix de trois louis... une vraie aubaine!
Maintenant il a un tarif de boxeur nègre. Mais tu peux lui dire que
Mimi Bluette nʼest pas à vingt–cinq louis près. Tu feras annoncer ce
spectacle le plus bruyamment et le plus loin que tu pourras. «La Danse
du Soleil... Mimi Bluette»—«Mimi Bluette... La Danse du Soleil»—Cʼest
joli, hein? la Danse du Soleil?... Ce Dieu terrible me possède, Jack,
et je danserai une danse furieusement ensoleillée... Aussi tu prieras
Sem de me faire une affiche. Je ne suis pas tout à fait certaine que
Sem soit un dessinateur extraordinaire, mais, quand cʼest de lui,
cʼest du Sem, et ça colle! Puis tu iras faire une visite da ma part
à Messieurs les Moucheurs de Chandelles, au Monsieur du Strapontin
et à ses collègues; tu trouveras moyen de souffler à Fred Chinchilla
que Bluette étalera sur son tapis rouge pour un million de bijoux...
Enfin tu iras au Bar de la Grande Rouquine—tu iras ce soir même—dire à
Sanderini quʼil sʼamène chez moi, car jʼai une faveur très delicate à
obtenir de sa vilaine gueule...

[Illustrazione: DECORAZIONE]

       *       *       *       *       *

E passò quei giorni ricinta nel suo dolore come in una fredda collana
di pietre scintillanti.

Mimi Bluette!... Un nome, nientʼaltro che un nome; anzi un piccolo
fiore da mettere sui cappelli di paglia, nei mesi dʼestate.

Parigi lʼaveva buttata in alto come il vertice luminoso dʼuna fontana,
ed ora che la sua lievità non poteva più essere trasparente, con
unʼestrema vertigine del suo chiarore Parigi la ricoricava.

Nella Danza del Sole, sul tappeto rosso come il Guébli, voleva
calpestare con magnificenza il suo cuore morto. Davanti alla Città
che lʼaveva stupendamente innalzata, voleva passare, splendere, come
rifulge dopo la tempesta il miracolo dellʼarcobaleno. Gridare a quei
milioni di uomini respiranti nella felice aria della vita: «Io che
danzo ancora su questa musica del mio delirio, seminuda perchè mandai
profumo, io sono Mimi Bluette!...» Gridare con la musica estrema dei
suoi movimenti allucinati: «Città Raggiante!... Città Vertiginosa come
il Guébli... Città barbara, dove il sole non tramonta mai!... guardami
ancora una volta! Questo è il profumo di carne che a te mandarono i
miei fiordalisi. Passai nella tua primavera come la musica dʼun raggio
di sole; fui, con tutto il mio corpo, la bellezza che ti è necessaria,
o Parigi etera dei secoli!... Sono venuta per le tue strade folli
un giorno della mia giovinezza, e nessuno mi guardava. Ero giovine
come la primavera, e nessuno mi guardava. Io non sapevo nemmeno che
lʼarcobaleno avesse un colore il quale si chiama la Gloria,—e tu me
lʼhai data. Mi hai detto: «Va nel mio giardino, piccola fiamma, e
scégliti un fiore.» Ho scelto i fiori del sole nei campi, questi
azzurri fiordalisi, di cui mi feci una ghirlanda perchè andavano bene
con me. Io non avevo altro che i miei capelli biondi e le mia caviglie
leggere; tu mi hai sollevata come una piuma nelle tue bufere di
sole... Guarda! Ora danzerò per sempre la danza del mio cuore morto,
calpesterò, sovra un tappeto rosso come il Guébli, su la morta erba del
mio giardino, i fiordalisi di Mimi Bluette...»

[Illustrazione: DECORAZIONE]

—Suis–je ou ne suis–je pas en présence de la divine Bluette?—disse per
celia lʼottimo Sanderini. Era, come sempre, agghindato nella stralucida
marsina e dondolava con una specie di sonno la sua vecchia testa
dʼavvoltoio domestico.

—Eh bien, mon vieux Sanderini! Ça va toujours cette gonzesse que nos
littérateurs appellent lʼexistence? Oui? ça va toujours? Tant mieux!
Voilà des siècles que je ne revoyais pas votre bonne tête! Comme ça
fait plaisir tout de même de se dire bonjour entre copains!

—Et moi je vous dis, madame Bluette, que nous étions tous bien tristes
chaque fois que nous entendions prononcer votre nom. On se regardait
dans les yeux, la Grande et moi, sans rien dire; puis la Grande
mʼenvovait une injure, car cʼest sa façon à elle dʼavoir du chagrin.
Pensez donc si jʼai bondi, hier soir, quand M. Jack est venu me dire
que vous étiez là, et que «Mimi Bliouette était nécessaire interview de
vous, mister Sanderini...»

—Ah, ce brave garçon! Il nʼest pas ce quʼon appelle un polyglotte, et
pourtant je lʼaime bien, mon vieux Sanderini; je lʼaime comme un frère.

—Hier soir il était rayonnant. Il a fait le tour des tables, et il
prenait tout le monde par les poignets: «Savez—vous? Mimi Bliouette
va danser! Mimi Bliouette in the Sun Dance! Yes: dans la Dance du
Soleil!...» Oh, quʼil en était aux anges, le pauvre petit!

—Et bien, oui, nous allons voir une fois de plus si ça colle, mon vieux
Sanderini!

—En douteriez–vous par hasard?

—Non, je nʼen doute guère... Seulement jʼai été bien éprouvée depuis
quelques mois, et, si les pieds restent agiles, des fois le cœur ne
lʼest plus.

—Voyons! Quelle blague!

—A la fin je me suis dit: «Sacrée Bluette, si cʼest vrai que tu es née
danseuse, il faut bien que tu recommences!»

—Voilà qui est bien pensé, madame Bluette. Cʼest ce que je dis
toujours, moi, quand je vois des figures mornes: «Faut pas sʼen
faire!... Faut pas sʼen faire!...» A la fin des fins, madame Bluette,
qui est–ce qui vous en dira merci?

—En effet, Sanderini...

—Et alors, à quoi bon? Faut pas sʼen faire! Le sac est déjà très lourd
à porter, sans quʼon y ajoute soi–même des pierres. Et puis, un beau
jour, quand vous aurez le cœur libre et que vous ferez, comme une benne
ménagère, la révision de votre compte de semaine, en voyant tout ce
quʼil y a eu de cassé, de fripé, de perdu, sans le moindre bénéfice,
vous nʼaurez quʼune chose à vous dire, ma pauvre Bluette: «Dieu, que
jʼétais aveugle! que jʼétais aveugle!» Vous mʼexcusez, nʼest–ce pas, si
je vous parle avec tant de franchise?

—Je vous écoute sans protester, cher Sanderini. Vous êtes un homme
dʼexpérience, et rien ne mʼempêche de croire que vous avez positivement
raison...

—Mais, en tout cas, je ne suis point venu pour vous faire de la
morale. Un Sanderini moraliste, un Sanderini cautériseur dʼâmes, voilà
un métier pour lequel je ne me connais point dʼaptitudes! Jʼen fais
bien dʼautres, si vous voulez, et je mʼen tire dʼune façon décente,
quoiquʼon me tienne pour un larron des plus fieffés... Mais pour vous,
madame Bluette, pour vous je nʼai que de bons sentiments, et moi,
qui suis pourtant un égoïste, je saurais tout de même sacrifier mon
bien–être personnel pour le plaisir de vous rendre service.

—Mon Dieu, oui, Sanderini, il y a de braves gens! Il y a de braves
gens, surtout parmi ceux qui nʼont pas à chaque instant leur âme
au bout des lèvres et vous la collent sur vos blessures comme du
taffetas...

—A la bonne heure, ma toute belle! Vous commencez à apprendre la vie.

—Peut–être, mon vieux Sanderini... Ce quʼil y a de sûr cʼest que je
me sens moi–même...—oh, la phrase vous paraîtra bien drôle!—je me
sens moi–même en rupture avec la société... Ces gens comme il faut,
croyez–vous? ils mʼhorripilent!

—Et moi!... Fichtre! si seulement on me laissait faire!... Dans tout
homme résigné il y a toujours le sans–culotte qui roupille. Un jour
vient où il sʼéveille et veut ameuter les carrefours pour pendre les
aristos à la lanterne.

—Cʼest possible. En tout cas le mien aurait plutôt envie de se pendre
lui même...

—Et cʼest triste. Il ne faut jamais envoyer son cœur à la guillotine.
Vous avez le tort, ma toute belle, dʼavoir lu des poëtes. Moi, les
poëtes, je les laisse aux rafalés!

—Les rafalés, vous dites? Ah, le beau terme! Et comme il me va,
Sanderini! Car je ne suis désormais quʼune pauvre femme rafalée...
Oui, je ne mʼen cache guère: jʼ ai eu du chagrin, je suis éreintée,
jʼai besoin, vraiment besoin, de trouver autour de moi un appui
quelconque... Eh bien, ma foi, ce nʼest pas aux gros bonnets, aux
philanthropes, aux gens de bonne conduite, quʼil me prendrait jamais
la faiblesse dʼavouer ma peine! Pour ceux–là je vais danser ma Danse
Rouge; devant ceux–là je vais paraître implacablement heureuse, ayant
toujours aux lèvres mon sourire dʼautrefois... Mais cʼest ici, dans
les coulisses, où les feux de la rampe ne mʼembrasent pas dʼune lueur
artificielle, cʼest ici, où Mimi Bluette redevient la pauvre fille de
jadis, que je puis vous dire, Sanderini, combien mon âme est triste, et
combien je me sens vide, morne, solitaire, hantée par la frayeur de mes
nuits blanches...

—Mais non! mais non! Il faut chasser tout cela! Il faut venir souper
chez la Grande Rouquine, lever son verre plus haut que le front, et
puis rire, rire!... ne rentrer quʼà lʼaube, légèrement grise, lʼâme
gonflée comme une voile dans la vapeur du Champagne... Que diable!
Est–ce possible que ce Paris, où lʼon soigne des rois neurasthéniques,
ne parvienne pas à vous guérir, vous, qui êtes une créature de joie?

—Jʼai été amoureuse comme une folle, mon pauvre. Sanderini...

—Quoi donc? Il y en a bien dʼautres qui ont été amoureuses comme des
folles! Presque toutes lʼont été. Cʼest–à–dire quʼelles ont cru lʼêtre,
ce qui revient au même. Et avec ça? Faut pas croire que ce soit la fin
du monde. Petit à petit, jour par jour, comme cʼest venu, ça passe.
Eh, oui! Ne hochez pas la tête... Il en est de cela comme des robes à
paniers... ça passe!

—Jʼai été amoureuse comme une folle... je le suis, je le serai, comme
une folle...

—Bien sûr, bien sûr! Vous conjuguez à merveille... Mais cʼest toujours
de la conjugaison, ma divine!... Pas autre chose que de la grammaire
du sentiment. Allez plus loin: vous tomberez dans le crépuscule de
lʼimparfait, vous vous éloignerez dans lʼombre du prétérit indéfini...
Croyez–moi: la conjugaison des verbes nʼa dʼautre raison dʼêtre que
lʼinconstance du cœur humain. Sans cela vous pourriez toujours dire: a
«Jʼaime»—et ce serait vrai pour toute la vie.

—Sanderini, savez–vous quʼil est mort à la Légion Etrangère?

—Oui, je le sais.

—Comment le savez–vous?

—Quʼimporte, puisque je le sais?

—Mais... les détails?

—Oui, les détails aussi. Nous savons quʼil est mort en brave, criblé de
blessures, sur le drapeau ennemi. Dʼailleurs, il nʼy avait quʼà voir
sa tête pour être sûr quʼil marcherait tout droit. Moi, voyez vous,
jʼai toujours dit au nez des moqueurs: «Oui, elle lʼaime, cʼest bien
dommage... Pourtant je suis sûr que ce type–là nʼest pas un gangréné
comme vous.» Et la Grande qui se rebiffait: «Mouche–toi, vieille
chandelle! Tʼa–t–il fait cadeau dʼune épingle de cravate, que tu en
parles comme de ton cousin?» Bref, laissons tout ça, ma divine. Quand
on a eu un malheur... eh bien, cʼest dur, je le sais... Mais, tout de
même, on lʼaccepte, on le plie en quatre comme un joli mouchoir de
soie, on lʼenferme dans la petite boîte secrète que chacun porte en son
cœur, et puis on lui dit, à cette gueuse, oui, exactement ce que vous
avez dit: «Chienne de vie, drôlesse à quatrʼpattes, cʼest très dur,
cʼest très très lourd, mais il faut bien que je recommence!...» Pas
vrai?

—Sanderini, je vous ai fait venir parce que je sais que vous êtes un
homme à rendre de menus services...

—Cʼest mon devoir.

—Et parce que je sais que vous êtes un homme adroit, subtil, point
bavard, point farouche...

—On le dit.

—Que vous savez devenir indispensable aux moments graves...
indispensable et discret...

—Disons: comme une faiseuse dʼanges.

—Ou bien... comme un marchand de paradis!

—Ah, tiens, jʼy suis! Jʼy suis, ma divine. Cʼest de lʼoubli chimique,
de lʼivresse au milligramme quʼil vous faut...

—Oui, mon ami: de la morphine...

—Aïe!

—Car, je vous lʼavoue franchement, Sanderini; tous les soirs jʼai envie
de me tuer.

—Hum!

—Cʼest donc pour mʼaider à revivre.

—Jʼentends.

—Cʼest pour que je puisse rentrer vers lʼaube, lʼâme gonflée comme une
voile... Ne mʼen donnerez–vous pas?

—Jʼhésite.

—Pourquoi donc? Vous en donnez bien à...

—Chut! Ne disons pas à qui jʼen donne. Le cas est très différent.

—Sanderini, soyez gentil...

—Très différent, vous dis–je.

—En quoi?

—Vous allez rire. Ces femmes, voyez vous, ça mʼest à peu près égal
quʼelles sʼadonnent aux stupéfiants, aux aphrodisiaques délétères,
quʼelle prennent de la coco, de la morphine, ou quʼelles sʼéthérisent
à leur gré... Moi, ça me rapporte; et quʼelles soient plus ou moins
vannées, plus ou moins détraquées, pour Notre Dame de Pantruche il nʼy
aura rien de perdu! Mais, lorsquʼil sʼagit de Mimi Bluette, voyons, ce
nʼest plus la même chose!...

—Préférez–vous, Sanderini, que jʼaille mʼacheter mon coin de terre
dans un petit cimetière de banlieue? Je le ferai sans doute, ce soir
peut–être, ou le premier jour que jʼaurai la force de vaincre ce
petit frisson... Car là–bas, dans le Gharb, cʼest plus facile quʼici.
Je sais bien pourquoi ils se font tuer... Lʼair est tellement rouge!
Mais ici, quand on est sur le point de faire ce petit geste, cʼest une
sensation de froid qui vous arrête... Et puis on a toujours envie de ne
pas sʼenlaidir... Voyons, Sanderini, vous reviendrez ce soir, demain
peut–être; vous mʼapporterez ma vie dans un petit flacon très limpide...

—Fichtre! Mais cʼest que ça fait terriblement mal ces saloperies–là!

—Quʼimporte? Ça ne fera jamais si mal que dʼêtre morte... Et puis, si
vous refusez, mon brave Sanderini, qui est–ce qui mʼempêchera dʼen
prendre ailleurs?

—Tant pis! Je nʼaurai pas à me dire que cʼest «ma drogue».

—Mais elle me guérira, et vous nʼaurez pas non plus ma reconnaissance.

—Vous guérirez du noir, sans doute, mais non pas de la morphine.

—Croyez–vous?

—Hélas, ma divine, cʼest pire que lʼalcool, pire que le jeu, que
lʼamour, que le crime... Rien ne vous sauvera dʼelle, quand vous en
aurez pris le vice.

—Cʼest peut–être bien ce quʼil me faut, Sanderini!...

—Horrible!

—Et puis, vous ne savez pas quʼune petite femme comme moi peut avoir
une volonté surprenante. Jʼen guérirai, quand elle ne me sera plus
nécessaire. Ma parole dʼhonneur, Sanderini: jʼen guérirai.

—On le dit, Madame Bluette, on le dit...

—Je vous en donnerai deux fois, trois fois le prix habituel...

—Taisez–vous, de grâce! Je sais vendre, oui, mais pas à vous.

—Sanderini, votre main... Promettez!

—Mais pourquoi donc, ma Bluette? Voyez: je vous dis «ma Bluette», comme
si vous étiez ma fille...

—Ça mʼest égal. Je vais écrire un mot à Frédéric de la Rue Blanche...
Jʼen aurai ce soir même. Elle sera peut–être mauvaise, et, en plus, on
me débinera.

—Pour sûr.

—Donc, Sanderini? Vous seriez le premier homme qui ait refusé quelque
chose à Mimi Bluette... A Mimi Bluette!... Voyons, Sanderini! Vous ne
dites plus rien?... Vous vous taisez?... Parfait! Alors cʼest entendu.
Pour ce soir, ou pour demain... et silence!

[Illustrazione: DECORAZIONE]

Una mattina Parigi si destò, azzurra e traboccante di fiordalisi, come
un raccolto nei mesi dʼestate, quando il grano ha da essere mietuto.

«Mimi Bluette—La Danse du Soleil!...» Sui muri della immensa Capitale
brillava come una bionda frivolità il suo limpido sorriso. Dappertutto
ella camminava, coʼ piedi nudi, sul rosso tappeto che inazzurrava la
giuncatura deʼ suoi fiordalisi. Dietro la sua carne trasparente,
dietro i suoi capelli disciolti, si alzava, come la vampa del Gharb, un
vortice di fiamme. La Città Stupenda per lʼultima volta sʼimpadroniva
della sua bellezza; lʼanima dionisiaca di Parigi per lʼultima volta
splendeva nel miracolo della sua danzatrice. Lungo le strade, per ogni
quadrivio, nei sobborghi, lungo i moli della Senna, tra un colore di
fiamma e di giardino riappariva Mimi Bluette.

I milioni dʼuomini racchiusi nellʼanfiteatro dellʼimmensa Capitale
guardavano con un senso dʼamicizia e di piacere il sorriso della divina
Bluette.

Non tutti sarebbero andati a vederla, ma tutti ricevevan da quel nome
un senso di leggera e trasparente poesia. Era per tutti una cosa loro,
un nome che aveva danzato le più belle danze di Parigi, una musica
lieve in quellʼenorme tumulto,—anzi un piccolo fiore da mettere sui
cappelli di paglia, nei mesi dʼestate.

—«Mimi Bluette—La Danse du Soleil...»

Cʼera stato un ballo, propagatosi ai quattro angoli della terra, che
si chiamava My Blu; cʼera stata una maniera dʼesser belle che si
chiamava la maniera di Mimi Bluette; cʼera stato un fiore dellʼanno,
coltivato nelle vetrine fosforescenti e venduto a mazzi dalle fioraie
de la Madeleine, che si chiamava «bleuet»; cʼera stata la pelliccia, la
stoffa, la piuma, il quadro, il libro, lo scandalo, che si chiamavano
Mimi Bluette: ossia la musica e la bellezza di questa danzatrice non
erano state altro che una bellezza ed una musica della trionfale Parigi.

Le sue candide braccia nude si erano strette come un profumato capestro
intorno al collo cattolicissimo di un giovine Re; avevano distratta
con pazienza la noia siberiana di un folle Granduca; si erano infine
avviluppate con delirio allʼombra di un tragico avventuriero... Parigi
non ha mai domandato altro alle creature di sogno e di leggenda che
lʼanima di questa Città dionisiaca inghirlanda su gli altari della sua
folle paganità, per la gioia di vederle splendere.

«Mimi Bluette—La Danse du Soleil...»

Ora tornava dal Gharb vertiginoso, dai bivacchi dellʼergastolo
camminante; portava sul nudo suo corpo lʼombra dʼuna gloriosa bandiera.

[Illustrazione: DECORAZIONE]

—Cher Monsieur Bollot, ne bougez pas de votre fauteuil! Je viens pour
une futilité... Vous allez rire.

—Oh, ma fille! Est–ce vous? Tiens! Je mʼétais assoupi depuis cinq
minutes, je suppose. Hélas!... avec lʼâge on devient roupilleur. Mais,
où sont–elles mes lunettes à présent?

—Les voilà vos lunettes. Elles ont glissé dans votre gilet. Lʼampleur
de votre cravate les a sauvées dʼune chute.

—Ah, cette fripouille de clerc!—Eh, là bas!... Justin! Mauvaise graine!
Est–ce que je ne tʼai pas donné lʼordre de frapper dans tes mains quand
tu vois que je mʼendors?—Ah, ma chère fille!... comme cʼest désespérant
dʼavoir affaire aux poëtes!... Car vous devez savoir que mons clerc
Justin se croit un émule de Mͬ Alfred de Musset!... Je nʼai quʼà fermer
lʼœil, et le voilà quʼil profite de mon somme pour composer des
sonnets dʼamour, quʼil envoie à des drôlesses!

—Je ne crois pas quʼil ait tort, ce jeune monsieur. Car moi aussi
jʼaimerais mieux être poëte que dʼavoir à recopier vos actes,
rébarbatifs et grincheux comme les roquets des vieilles rentières!

—Très bien, très bien! Venez me débaucher mon clerc à present! Déjà il
spécule sur mon encre, sur mes plumes, sur mon buvard et sur la cire
à cacheter; deux fois par mois, régulièrement, il souffre dʼune envie
de ne rien faire quʼil appelle cholérine; il fleurit sa boutonnière et
fume dans mon corridor. Jʼavais une bonne de 36 ans: il a fallu que
jʼen prenne une de 59... A présent il ne manque plus que vous, Madame
Bluette, pour approuver sa fainéantise! Mais venons à nos affaires.
Y a–t–il du nouveau depuis la semaine dernière? Avez–vous per hasard
lʼintention de me réclamer quelques centaines de mille pour faire un
plus long voyage?

—Ne vous alarmez pas si vite, père Bollot! Jʼai fini mon tourisme. Et
dʼailleurs vous savez quʼà présent je danse!...

—Oui, je vous ai vue partout en image. On ne rencontre que Mimi Bluette
en se promenant dans Paris. Ça mʼa fait grand plaisir! Vous allez donc
mʼapporter la forte somme. Jʼen ai grand besoin pour boucher les trous
dʼAfrique.

—Oui, père Bollot; le contrat est des plus avantageux. Pourvu que je
puisse danser jusquʼà la fin...

—Cʼest–à–dire?

—Mais, rien du tout, père Bollot! Je veux dire tout simplement: Pourvu
que ma santé reste bonne... pourvu que le soleil de là–bas ne mʼait pas
affaiblie... Car, vous savez, il brûle!...

—Très bien, très bien, ma fille! Donc, voyons: vous aviez quelque chose
à me dire...

—Renvoyez votre clerc, père Bollot. Ce nʼest rien de grave, mais jʼaime
autant être seule avec vous.

—Eh, là–bas, dis donc, Justin!...—Le voyez–vous ce polisson? Il fait la
sourde oreille.—Prends ton travail, Justin, et va–tʼen dans ma chambre
à coucher. Mais gare à toi si tu me fais une tache dʼencre sur mon
tapis!

—Non, père Bollot. Pour ce soir nous allons le congédier. Pas vrai,
monsieur Justin, quʼil vous faudrait une bonne heure de promenade pour
confier aux Tuileries les rimes de vos sonnets?

—Pour sûr que oui, Madame!

—Mais comment? Le congédier à lʼheure quʼil est? Quatre heures à
peine... Jamais de la vie!

—Je vous en prie, père Bollot. Quand on a un clerc qui est poëte...
Faites–le pour moi; quʼil sʼen aille.

—Oui, quʼil sʼen aille au diable, sʼil le peut! Le voilà en vacances un
jour de semaine! Toujours quelquʼun qui le protège, ce Zéphyr du papier
timbré! Dis donc merci à Madame, et décampe.

—Merci, Madame.

—Bon. Et ne vadrouille pas ce soir. Demain matin, à huit heures
précises! Si tu es en retard, je te mets à lʼamende.

—Bien, Monsieur. Bonsoir, Monsieur.

—Bonsoir.—Heureusement que vous nʼêtes pas venue à deux heures, ma
fille!

—Quʼimporte? Lui il sera heureux, au moins...

—Vous ne lʼêtes donc pas, vous?

—Je vais lʼêtre, père Bollot! Je le deviens chaque jour un peu plus...
Vous savez, ce nʼest pas si simple de guérir!

—Entendu. Mais cʼest toujours la raison qui doit lʼemporter. Les âmes
claires et honnêtes comme la votre ont toujours la force de vaincre un
cauchemar.

—Oui, père. Laissons ce sujet; il mʼattriste. Je peux faire maintenant
des choses que je croyais impossibles: danser, par exemple. Mais je
suis encore trop faible pour parler de ma douleur. Tout cela passera,
tout cela sʼévanouira... jʼen suis sûre.

—Bien dit, ma fille. Cʼest ainsi que parlent les âmes fortes. Venons au
fait; je vous écoute.

—Mais... vous allez rire... Mon Dieu comme vous allez rire, père Bollot!

—Pourvu quʼil nʼy ait pas dʼargent à débourser, ni à déplacer, ni à
jeter par la fenêtre, je vais rire sans doute. Car vos idées, ma fille,
ne sont jamais que de lʼespèce orageuse ou de lʼespèce comique.

—Eh bien, pour comique, elle est comique, celle–là!...

—Voyons: je hume ma prise et je vais rire en éternuant. Cʼest le
meilleur des rires.

—Mais il faut dʼabord que je vous raconte quelque chose... Oui,
lʼAfrique mʼa donné des idées un peu rouges... pour ne pas dire
noires... Elle mʼa fait songer à des choses, qui, auparavant, étaient
loin de mon âme comme les rafales du Gharb. LʼAfrique est un pays...
Nʼêtes–vous jamais allé en Afrique, père Bollot?

—Heureusement non, ma fille.

—Bien; lʼAfrique est un pays qui laisse une couleur de rouille aux
bords de lʼâme, un frisson de vieillesse dans la chaleur du sang. Après
être revenue de là–bas je me dis souvent, par exemple, quʼune femme
jeune et forte peut très bien devenir malade...

—Chaque Parisienne peut se dire la même chose.

—Oui, sans doute. Mais je me dis souvent quʼune femme jeune et forte
peut très bien, dʼun jour à lʼautre, devenir tellement malade...
attraper, que sais–je? une maladie infectieuse, avoir un accident
dʼauto... en somme quʼelle peut très bien mourir...

—Oh, alors... ma fille!... Vous avez dit que vous alliez me faire
rire...

—Oui, attendez. Ce nʼest quʼun préambule. Vous rirez tout à lʼheure.
Donc, après ces réflexions plutôt lugubres, jʼai trouvé naturel de me
faire une verte réprimande: «Toi, Bluette, tu es dʼune imprévoyance
extrême! Tu possèdes une belle fortune, une très belle fortune, et
jamais tu nʼas songé à établir ce que tu voudrais quʼon en fasse, si,
par un hasard quelconque...» Bref: je suis venue, père Bollot, pour
vous dicter mon testament.

—Mais que diable me chantez–vous là, ma fille! Votre testament? A votre
âge? Par le beau temps quʼil fait? Dois–je en entendre des bêtises?

—Si, si, père Bollot! Riez–en tant quʼil vous plaira, mais cʼest une
idée que je ramène dʼAfrique, et je suis très fidèle, vous le savez
bien, aux idées qui me viennent de là–bas.

—Je ne dis rien, ma fille. Si vous tenez absolument à faire votre
testament, je croirai quʼune mauvaise che vous a piquée, et nous
allons nous y mettre un de ce jours. Rien ne presse.

—Au contraire...

—Mais comment?

—Oui, vous avez raison: rien ne presse. Rien ne presse, en effet...
Mais je veux tout de même que ce soit fait au plus vite.

—Ah, ma chérie, cʼest un genre de gaîté à laquelle je ne mʼattendais
pas du tout. Tiens! Vous me faites penser au mien... qui est beaucoup
plus nécessaire, quoique très simple.

—Le mien aussi est très simple. Je lʼai écrit au courant de la
plume, sur du papier à lettres, hier soir, puisque je ne pouvais pas
mʼendormir...

—Mais, voyons, ma fille!... Je deviens de plus en plus inquiet su
lʼétat de votre raison.

—Du tout, père Bollot. Ce nʼest que du gribouillage. Vous allez me dire
comment il faut sʼy prendre pour en faire un véritable testament. Vous
êtes bien homme dʼaffaires, après tout! Nʼest–ce pas dans vos mains
quʼon dépose cette littérature–là?

—Moi, je refuse:

—Par simple méchanceté alors? Mais je suis très têtue; plus têtue
quʼune bourrique, père Bollot! Voilà des jours et des semaines que
cette idée me hante. Ce sera pour moi une mascotte que ce testament.
Jʼen aurai le cœur libéré, comme après un vœu accompli, et je ne
penserai plus quʼà vivre.

—Cʼest une affaire, nom dʼune pipe, dans laquelle je ne vois pas du
tout clair!

—Mais il nʼy a, là dedans, père Bollot, ni du clair ni du sombre.
Cʼest un testament; une feuille de papier à lettres... Vous ne me
forcerez pas tout de même à aller chez quelquʼun dʼautre! Et puis,
voyez comme cʼest simple, clair, net...

       *       *       *       *       *

«Moi, Mimi Bluette,—de mon nom Cecilia Malespano—je lègue toute ma
fortune, composée de...»— vous allez mettre de quoi, avec exactitude,
parce que je ne le sais pas en détail—«... je lègue toute ma fortune
aux soldats de la Légion Etrangère, pour que leur vie soit moins
dure, et pour quʼil y ait quelquʼun qui pleure lorsque le désert les
tue, Monsieur le Ministre de la Guerre aura la complaisance dʼétudier
comment et de quelle façon mon désir peut être le mieux accompli.

«Si jʼallais mourir avant vous, quoique plus jeune, vous seriez, père
Bollot, mon exécuteur testamentaire, et vous aurez jusquʼà la fin de
vos jours la gestion rémunérée de ma fortune. Dès à présent jʼaccorde
ma pleine confiance à celui que vous désignerez comme votre successeur.

«Tant que ma mère sera vivante, «lʼŒuvre pour la Légion Etrangère»
devra lui servir un tiers de mes rentes, plus une somme de deux cent
mille francs, mobilier, tapis, lingerie et tout ce qui se trouve dans
mon immeuble des Champs Elysées.

«Je fais cadeau à Linette Messanges, ma fidèle femme de chambre et
amie, dʼune somme de cinquante mille francs, pour quʼelle épouse un
homme honorable. Je lui permets de choisir parmi mes robes celles qui
ne sont pas trop riches pour elle; je veux quʼelle reçoive aussi un de
mes réticules en platine, et je lui souhaite dʼêtre toujours douce et
gentille comme elle lʼa été jusquʼici.

«Vous donnerez à mon danseur, Jack Morrison, le plus beau brillant de
mes bagues, mon grand portrait par La Gandara et une longue mèche de
mes cheveux. Quʼil me pardonne, ce brave Jack, sʼil mʼa été impossible
de faire son bonheur.

«De mon vivant jʼai été danseuse; mon nom était Mimi Bluette; jʼaimais
les belles robes, les danses et les fleurs; jʼai vu le soleil de la
tourmente africaine, et cʼest là–bas que mon cœur a péri.

«Nʼimporte quand, nʼimporte où que je meure, vous me ferez dormir
au seuil de cette Ville que jʼaime, et je veux quʼon mʼenterre en
danseuse, au joli cimetière de Boulogne, dans un petit jardin.

«Depuis lʼEglise jusquʼau cimetière, un tzigane,—peut–être Limka—suivra
mon cercueil en jouant le My Blu.

«Au printemps les bluets vont fleurir la douce terre qui me couvre...

«Il nʼy aura de grave sur ma pierre quʼun simple nom: celui dont je
signe, toute heureuse...

  MIMI BLUETTE»

[Illustrazione: DECORAZIONE]

       *       *       *       *       *

E danzò.

Bella come non era mai stata, piena di sogno come non era mai stata,
viva e nuda su la scena divampante, con lʼanima sua dʼinnamorata la
ballerina indimenticabile danzò.

Dal teatro curvo, gremito, con i suoi più belli e più profondi occhi
Parigi la guardava.

Ella sentiva battere, nella musica della sua danza, il cuore della
Stupenda Città.

Sentiva battere contro sè questa forza, come il palpito di una immensa
vela. Ma con lʼanima era lontana, camminava nel magnetico deserto, su
la via del perduto Gharb.

Il tappeto rosso copriva tutta la scena, cosparso dʼinestimabili
gioielli e di semplici fiordalisi. Un grande falò, anzi un immenso rogo
di vera fiamma, sbucava dal mezzo della scena, incendiava il teatro
come una vampa maravigliosa. Tutto era fuoco e fiori; fuoco, brillanti
e fiori.

Si vedeva il deserto rutilare, splendere la via senza ombra
dellʼinfinito Gharb...

Tutto il teatro barcollava in quella tragedia di luce; lʼorchestra
invisibile, su gli archi e sui címbali delle musiche mauritane, suonava
la Danza del Sole.

Era venuta la sera di gloria, la rossa ora di gloria per Mimi
Bluette!...

Quella danza era sua, quella musica era sua; lʼaveva dettata,
muovendosi, al musicista che la compose. Il suo corpo era il deserto,
era la fiamma, era il disperato balenìo della terra nomade, lungo le
carovaniere. Il suo corpo aveva in sè, come uno splendore divenuto
movimento, la musica del Sole.

Forse per una magìa di specchi, dovuta ai coreografi di quella scena,
ella passava con i suoi veli, coʼ suoi capelli disciolti, frammezzo
alle fiamme; ballava di là dal rogo; si vedevano le sue nude braccia
salire, contorcersi, fra le spirali della vampa; vi cadeva nel mezzo
tramortita; lʼorchestra la faceva risorgere; ella buttava i suoi
gioielli sul rogo, sʼinnamorava del bellissimo fuoco; nuda e posseduta
ne usciva.

Era il sogno della sua lunga strada per lʼarsa terra che non beve mai,
laggiù, dove il deserto assale coʼ suoi nomadi arcobaleni lʼantipodo
scintillante.

Come in quei giorni disperati, ora e per sempre, nella sua danza
intorno al falò, sul teatro della Città Babelica, ora e per sempre, la
ballerina di Parigi portava il Sole. In sè, nella propria materia, nei
propri atomi viventi, la ballerina di Parigi portava il Sole.

Invece di parlar con la sua voce, danzando raccontava il suo amore.

Lʼorchestra, sui címbali mauritani, suonava la Danza del Sole.

       *       *       *       *       *

«Che lunga, lunga strada... che infinita malinconia...

«Divenuta simile al suo carovaniere, aveva ella pure il deserto
nellʼanima ed era nata per la via del sud.

«Bon chemin, bon chemin, lalla...»

«A poco a poco la terra diveniva uno sconfinato braciere; ogni traccia
dʼabitazione, ogni vestigio dʼalbero spariva. E le ore passavano, i
giorni passavano, solo interrotti a lunghissime distanze dalla breve
oasi di un magro palmeto.

«Le donne del Guébli, scure, con occhi a mandorla, già crespe di
vello sudanese, logore di selvaggia maternità, venivano a guardare in
silenzio la bella Cristiana. Le ragazze di nove anni avevano i seni
maturi e protuberanti come nespole. Nel rumore dellʼacqua sorgente
cantava la musica primordiale della vita.

«Si vedevan nellʼestrema lontananza, in un chiarore obliquo di
cataclisma, le dune perdute andarsene alla deriva.

«I leggeri cavalli berberi, assetati e miserabili, ormai galoppavano
senza velocità. La carovana sprofondava e risaliva per le ondate ferme
del terreno, con un barcollare sfinito, come se le ginocchia degli
animali non reggessero più. I muli erano piagati sotto la greve soma;
chiazze nere di migliaia dʼinsetti li coprivano come croste brulicanti.
Più magri, più alti, più lugubri, solamente i cammelli andavano sempre,
con un passo di bestie perpetue, che possano morire camminando.

«E finalmente, un mattino, su lʼestrema via del sud, il capitano di
lunga strada vide nascere un confuso tenue disegno azzurro, come un
fiocco di nebbia che rasentasse la terra, come una rupe dʼaria nello
sconfinato sole. Guardò, guardò prima di parlare; poi disse alla donna
che mai non abbandonava...

«Disse alla donna:—Per niente.

«Per niente.

«Le strade vanno; sono il principio dʼuna distanza; il colore
dellʼanima che si allontana; portano in sè molta polvere, molto sole;
hanno tutte una meta, e non arrivano mai.

«Per niente.

«Un piccolo cuore di ballerina, mandando un sorriso dietro lʼorlo del
bicchiere di Sciampagna, una sera di neve, nella Parigi Babelica,
sʼera data in braccio al pallido forestiero, come la vergine ubbriaca
tremando si genuflette al primo tentatore.

«Adesso portava nellʼanima lʼamore di Maria Maddalena.

«Camminò.

Giunse dove guerreggiano e cadono, sotto le armi della Grande
Repubblica, i soldati senza patria, «la gloriosa canaglia» della
Legione Disperata.

«Questa era la gente che non avrebbe mai sepoltura.

«Là indietro, su le frontiere dellʼesilio, avevano lasciato agli uomini
saggi, agli uomini calmi, anche il cimitero.

«La sera talvolta si udivano cantare...

«Cantare allʼombra dei palmizi biondi, verso lʼora in cui sʼaccendono
i fuochi tremuli dei bivacchi, laggiù, per la terra folle, dove, negli
uragani di sole, con lʼiracondo nomade vento il sepolcro cammina...»

       *       *       *       *       *

Questa era la danza del Sole.

       *       *       *       *       *

Come danzò quella notte, povera piccola bionda Mimi Bluette!...

Nessuna poesia della terra fu mai piena di leggerezza e di palpito come
il suo corpo che mirabilmente si muoveva; nessun giardino del mese
dʼAprile sʼavvolse mai di primavera, come di musica il suo dolore,
nella Danza intorno al falò.

Sino alle ginocchia la vestivano i suoi capelli stupefacenti, ed era
così perfetta nella sua nudità, che ogni movimento mandava splendore.
Come le donne arabe aveva il palmo delle mani, le unghie, le narici ed
i vertici dei seni dipinti con la tintura di hénné. Un segno azzurro,
simile ad una profonda incisione, divideva i due lunghi e brillanti
archi dei sopraccigli; quel tatuaggio azzurro si ripeteva sotto lʼorlo
del labbro inferiore. I piedi, venati e quasi trasparenti come gioielli
di smalto, con le falangi ed i calcagni miniati allʼhénné, pareva che
avessero camminato sovra un grande mantello di porpora umida.

Veniva dalla sua bellezza, cristiana e barbara, una sacra inverecondia,
una evocazione religiosa dellʼamplesso primitivo. Il suo profilo si
tagliava nella fiamma, limpido, con una specie di crudeltà; per tutta
la sua luminosa criniera si annodavano, come oscure trecce, i riverberi
del fuoco.

Era sempre lei, Mimi Bluette, la ballerina di Parigi; lei, con i suoi
occhi di Maddalena, con la sua bocca di donna perduta; era sempre il
gioiello da principi, lʼetèra per un vizio da re...—ma ora danzava con
lʼanima, con lʼanima sua di Transalpina.

Sʼera innamorata come una donna semplice, del paese ove si ama lʼamore;
aveva conservato sino allʼultimo il suo piccolo mazzo di fiordalisi,
come una ghirlanda naturale di buon odore selvatico e di azzurra
semplicità.

Parigi aveva sciorinato per lei quel grande mantello di porpora sul
quale danzare a piedi nudi, con i capelli disciolti; Parigi aveva
sollevato sino al vertice della gloria lo splendore della sua nudità;
ma non aveva potuto soverchiare in lei, nè col fragore degli applausi
nè col fuoco dei brillanti, la sua fedele anima di Transalpina.

Ed allora il teatro sentì che passava davanti ai lumi della ribalta,
non solamente una di quelle maravigliose creature che son necessarie
a Parigi come il Duomo degli Invalidi o le cupole di Nostra Signora
nellʼIle de la Cité; ma passava unʼanima creatrice di bellezze, che
sapeva esprimere il sogno nelle forme del movimento, come, nel colore
o nella musica, nella parola o nella pietra, lʼanima di un artefice
rivelatore imprigiona la poesia.

Sentì che un amore passava davanti al rogo della vertigine affricana;
ed una specie di ebbrezza concorde sollevò, inginocchiò, lʼanima di
quel teatro, che acclamava con tutto il suo fervore la splendida
ballerina di Parigi, la creatura di musica e di sole, chʼera caduta su
la fiamma spenta, con le braccia neʼ suoi fiordalisi... Mimi Bluette!

Mimi Bluette... La Danza del Sole...

Un nome; nientʼaltro che un nome; anzi un piccolo fiore da mettere sui
capelli di paglia, nei mesi dʼestate.

[Illustrazione: DECORAZIONE]

       *       *       *       *       *

—Est–ce toi, Linette? Quʼy a–t–il encore?

—Madame a sonné...

—Mais pas du tout! Si tu entres toutes les demi–heures il y a peu de
chances que je mʼendorme! Quelle heure est–il?

—Onze heures dix, Madame, et il fait très clair.

—Tant pis! Je nʼai pas fermé lʼœil. Cette maudite sonnette, elle
mʼénerve! Fais dire au concierge que je nʼy suis pour personne. Pour
personne! Mais, d ʼabord, ouvre les volets. Doucement, petit à petit,
avec un peu de grâce...

—Bien, Madame; je vais ouvrir. Mais couvrez–vous dʼabord, parce quʼil
fait assez froid.

—Je nʼai pas fermé lʼœil de la nuit; mes bras ont la fièvre.

—Vous avez eu un trop grand triomphe, Madame. Le triomphe grise; il
empêche de dormir.

—Crois–tu, Linette?...

—Je sais que vous étiez merveilleuse, hier au soir... que tout était
merveilleux, hier au soir... Moi non plus je nʼai pas fermé lʼœil,
Madame. A six heures jʼétais debout.

—Pour quoi faire?

—Pour voir les journaux, diable!

—Ah, les journaux!... Sont–ils polis? Font–ils du tapage, Linette?

—Du tapage?... Mon Dieu! Cʼest de lʼapothéose! Il y en a qui vous
disent des choses pour lesquelles je voudrais les embrasser!

—Tu es une altruiste, Linette. Moi, je mʼen passe volontiers. Pourvu
quʼils ne viennent pas me faire des visites, avec leurs gants qui
ressemblent à leurs articles! Nʼas–tu jamais remarqué les gants des
journalistes? Il nʼy a quʼeux et les cabotins pour en avoir de pareils.
Je voudrais bien savoir où diable ils les achètent. Dieu!... que je
dois avoir une vilaine figure!

—Du tout, Madame. Un peu de fatigue. Je vous masserai tout à lʼheure et
ça passera.

—Est–ce que jʼai faim?... Il me semble que oui et que non. Je lʼignore.
En tout cas je vais prendre mon café au lait avec les brioches. Revoilà
cette horreur de sonnette! Flûte! Arrache le timbre! détruis les piles!
Et puis quʼil sonne, ce chameau dʼen bas, quʼil sonne!...

—On vous envoie des fleurs, des billets, des lettres... Jʼen ai déjà un
plateau qui déborde.

—Nous lirons demain, ou après demain, cette littérature...

—Il y a aussi des bouquets, des gerbes, des corbeilles en telle
quantité, que nous aurions de quoi installer un petit Jardin
dʼAcclimatation.

—Ecoute–moi bien, Linette. Les fleurs, tu les mettras ici, dans ma
chambre; tu les laisseras dans ma chambre, toutes.

—Mais vous étoufferez, Madame!

—Jʼétoufferai peut–être, mais tu feras comme je te dis.

—Bien, Madame. Puis il y a des bonbonnières; des bonbonnières en laque,
en étoffe, en carton peint. Il y en a même une en cristal, ornée de
bronze. Voilà de braves gens, Madame, qui ont pour moi des attentions
très appréciables!... Car vous me donnez toujours vos bonbonnières,
presque pleines, et moi je les collectionne.

—Tu les auras, Linette.

—Merci, Madame. Puis le Régisseur est venu, le metteur en scène est
venu, MM.ͬˢ Glimm, dʼHéricourt et Vilmière sont venus. Enfin il y a Mͬ
Jack, qui est là depuis neuf heures du matin. Mais ce pauvre M.ͬ Jack,
lui, Madame, il ne faudrait pas le renvoyer!

—Tu dis?

—Jʼose le dire. Car il saute de joie comme un moineau, ce bon M.ͬ Jack,
et, en attendant votre réveil, il voulait à tout prix mʼapprendre une
danse quʼon danse maintenant au Bal des Quatʼ Zigues, ou des Quatʼ
Flics, quʼil a dit.

—Quʼil vienne, donc, ce brave Jack, du moment que tu le protèges. Mais,
pour nʼimporte quelle autre personne, Madame dort. As–tu compris,
Linette? Matin et soir, pour tout le monde, Madame dort. Cʼest absolu,
et je ne veux plus entendre le carillon de la sonnette!

       *       *       *       *       *

Non appena la cameriera fu leggermente uscita, per recare il suo
passaporto al fedelissimo paziente Jack, la fisionomia di Mimi Bluette
si spense; le sue braccia ricaddero su la coltre; gli occhi lentamente
si volsero verso la finestra che inserenava.

Tutto il cielo era pieno dʼun chiarore di mattinata invernale, morbida
e quasi dorata; il sole orlava di ondeggianti vapori le compatte
nuvole, senza riuscire a penetrarle.

Mimi Bluette si distese con una pigra e dolorosa voluttà nel soave
tepore del suo letto; poi, osservando il proprio gesto, si raccolse
nel palmo dʼuna mano lʼaltro suo braccio, che vedeva trasparir dalla
camicia, dʼun tessuto fino come velo; si ravvolse il braccio, lo
percorse fino allʼombra dellʼascella,—e questo faceva con lentezza, con
paura, con dolore, quasi per ritrovare nel proprio corpo una smarrita
memoria di sè.

Forse pensava che, nel quadrato azzurro della finestra, vedrebbe il
sole ridere per lʼultima volta...

E forse il cuore intimamente giovine le doleva un poco, pensando alle
chiare nuvole che attraversano il cielo di Parigi, nei mattini di
primavera...

Aveva danzato; era stanca. Stanca per sempre.

Su la Città Stupenda il suo nome correva, come il fumo rosso del
vortice di fiamme, che le sue braccia nude avevano spento.

Era Mimi Bluette, la ballerina di Parigi, e non danzerebbe mai più...

Mai più.

Addio!... Così finivano tutte le belle ore della vita. La sua gloria,
in quel giorno dʼinverno, era una porta che si chiudeva. La Città non
porterebbe in alto che il suo nome lieve. Mimi Bluette.... un piccolo
fiore del grano, falciato per sempre... Addio!...

       *       *       *       *       *

Jack si era seduto famigliarmente su la bella coltre, teneva uno deʼ
suoi polsi, ed un poʼ curvo le parlava.

—«Pourquoi être si sauvagesse, Bliouette? Ne voir personne? Pas très
juste. Paris délire! On nʼa jamais vu de plus belle danse. Hier soir
tout le monde mʼembrassait. Je répondais très calme:—Je ne suis pas
Bliouette! Fichez–moi la paix!»

—Tu mʼappelles une sauvagesse, mon brave Jack!... Cʼest vrai quʼon a
voulu tʼembrasser à ma place, mais ce nʼest pas une raison pour que tu
mʼaffubles dʼun adjectif si ridicule!

—«Moi je parle pour quʼon me comprenne, et sauvagesse est très bien
dit. Vous verrez quel théâtre demain soir! Il nʼy a plus moyen dʼavoir
une place avant quinze jours.»

—Est–ce vrai, Jack? Il faudra donc que je me repose, la nuit
prochaine...

—«All right! Bien dormir, boire des œufs et du vieux Shérry. Cʼest très
tonique.»

—Oui, Jack. Seulement tu dois me promettre de ne pas venir chez moi,
sous aucun prétexte, ni ce soir ni demain...

—«Comment? Est–ce que vous ne sortirez pas, Bliouette? On voulait vous
offrir un grand souper, ce soir.»

—Pas ce soir, Jack. Jʼai la fièvre. Sens: mes doigts brûlent.

—«Yes, les nerfs.»

—Donc, si tu veux que je danse, il faut me laisser tranquille. Tu
viendras me chercher demain soir pour aller au théâtre... Cʼest
entendu, Jack?

—«Forcément, Bliouette.»

—Allons! ne boude pas, Jack. Montre–moi ta figure: tu deviens
extraordinairement beau! Tu as des yeux comme des saphirs dʼorient sur
une bague.

—«Oh! Oh! Mais, pour sûr, il y a des mômes...»

—«Qui tʼaiment?

—«Ou qui le disent.»

—Et toi?

—«Moi, je vous aime vous, Bliouette.»

—Oh, il ne faut pas, il ne faut pas!... Mais tu le dis comme une
vierge, mon pauvre Jack!...

—«Oui, parce que mon amour est très propre. Je vous aime vous,
Bliouette; je nʼai jamais aimé que vous, Bliouette.»

—Mon frère...

—«Ne dites pas frère. Cʼest très plus loin.»

—«Très plus loin» nʼest pas correct. Mais je comprends. Tais–toi. Nʼen
parlons plus. Ou bien il faut que je me couvre... Quoi? tu te lèves?

—«Yes; je me promène. Vous avez la fièvre: moi aussi.»

—Non, reste, Jack... Dis–moi: Si tu me voyais très laide, très laide...
est–ce que tu mʼaimerais toujours?

—«Quand on est si belle, vous ne pouvez pas être laide.»

—Erreur! Erreur de syntaxe et de concept! Quand on est belle, il y a
mille accidents qui peuvent tout de même vous enlaidir. Donc, je te
demande...

—«Il me semble que je vous aimerai toujours.»

—Ah...

—«Oui, toujours. Guérissez–vous, Bliouette! Vous pourriez être ma
femme, je serais votre bon camarade, la vie serait encore belle...»

—Non, Jack. Bluette est morte.

—«Oh!... si une rose dit: «Je ne suis plus une rose», qui est–ce qui
peut le croire?»

—En moi, Jack, cʼest le parfum qui nʼest plus.

—«Comme cʼest triste! Et alors, pourquoi danser?»

—Parce quʼil fallait que je danse! Oui, mon camarade, il fallait encore
une fois que je danse. Mais, voyons?... Quʼest–ce que tu fais avec tes
yeux? Tu pleures...

—Non, sûrement non!

—Oui, sûrement oui! Et cʼest bête... Car Mimi Bluette sera toujours
ta camarade; elle tʼaura aimé comme un frère, comme un vrai frère...
Ecoute, Jack: donne–moi tes mains, donne–moi tes lèvres, si tu veux....
embrasse–moi, essuie tes larmes dans ma belle chevelure...

—Vous étiez autrefois si différente!

—Oui... autrefois mon cœur était celui dʼune danseuse... On mʼavait
appris à être belle, et cʼest tout ce que je savais. Aujourdʼhui, quand
je songe à cette Bluette loin, jʼai lʼimpression dʼune grandʼmère qui
trouverait au fond dʼun tiroir son portrait de fiancée. Jʼai voulu
danser la plus belle danse que cette Ville puisse voir pendant de
longues années... Mais ce matin. Jack, si mes cheveux devenaient par
hasard tout blancs, il me semble que je nʼen aurais aucune tristesse.

—Vous avez lu, je crois, de mauvais livres. Ceux qui écrivent des
romans, moi je les méprise.

—En effet tu es dʼune adorable ignorance, mon brave Jack!

—«Mais je sais, Bliouette, que vous nʼavez rien gagné à devenir une
femme savante.»

—Savante?... Eh bien, comme tu voudras, Jack. Mais souris du coin des
lèvres! Tu as été mon danseur, mon camarade et mon frère: quand je
serai loin...—si par hasard je devais mʼen aller très loin,—pense
toujours que Bluette, au fond, très au fond dʼelle–même, nʼétait quʼune
égoïste...

—On ne parle jamais clairement quand on ne veut pas dire ce quʼon
pense. Nous exprimons toujours nos idées avec un langage bref, en
Amérique.

—Oui, en Amérique il y a moins de douleur... Ou aime, on pleure, là–bas
comme partout, mais vous avez des, âmes plus fraîches, peut–être plus
jeunes, et il y a chez vous moins de douleur. Vous restez presque
toujours ce que vous étiez à votre naissance; nous autres, la vie
nous change. Dans notre âme originaire il y a des étrangers. Moi, par
exemple, jʼai été plusieurs femmes.

—Et vous ne serez jamais la mienne, Bliouette?

—Ecoute, Jack.... Essaye de comprendre ce que veut dire cette phrase:
«Je nʼy suis plus.» Mon âme sʼen est allée je ne sais où; il ne reste
en moi quʼun cercle béant; la place où était sa douleur. Je te parle,
tu mʼécoutes; je suis Bluette, tu es Jack; hier soir jʼai dansé,
demain... je danserai encore!... Mais, vois–tu, en mon cœur il y a du
vide. Il y a un vide que tu ne sens pas, une sensation de la mort qui
nous sépare, quelque chose de fini, dont lʼirréparable gravite autour
de moi. Quand je regarde le soleil, je me souviens que cʼest lui qui a
brûlé mon âme.

—On appelle ça du spleen. Vous croyez me dire des choses très graves;
en Amérique nous appelons ça du spleen. Et il y a des moyens pour le
guérir.

—Tu es un définisseur, Jack... cʼest terrible! Jʼappellerai ça du
spleen, pour te faire plaisir. Oui, sans doute, il y a des médecins
très subtils, ou très naïfs. qui prétendent connaître aussi la
médecine de lʼâme. Quant a moi je ne veux pas les suivre, Jack. Ce
sont des fumistes. Je suis allée là–bas, aux Régiments Etrangers, où
le soleil est si rouge quʼil peut tuer à force de lumière... Il y en a
des centaines, là–bas, que ce spleen hante. Ils se guérissent bien, des
fois, même très souvent... lorsquʼils tombent...

—Oh, mais ce nʼest pas la même chose!

—Si, la même. Jack, la même. Et ne dis plus rien, mon frère... Il ne
faut pas que tu touches à ces pauvres cœurs. Ils sont là–bas, ils
marchent, le grand soleil les accable... Il ne faut rien dire, Jack; tu
ne les a pas vus.

—Ils y vont parce quʼils le veulent bien.

—Oui, sans doute. Cʼest ça qui est grave. Moi aussi je le veux...

—Quoi?

—Rien... Je veux danser, oublier, vivre... Mais il fallait pourtant
que tu saches combien je leur ressemble, car eux aussi ont perdu leur
âme, un jour, dans les rafales de la vie, tout à coup. Moi, ce fut à
la dernière étape, dans lʼoasis, sous la tente, lorsque ce capitaine
blessé me répondit dʼune voix militaire: «... le matin du 23 Septembre,
face à lʼennemi.» Il y a des moments au delà desquels on passe,
uniquement parce que la vie est très tenace. Or, Jack, avant que je te
prie de me laisser dormir, je veux que tu saches encore une chose. La
vie est très forte, si forte quʼon peut la vivre même sans cœur. Mais
il faut pourtant que chacun suive sa route... Jʼai perdu la moitié de
mon être le soir où je suis entrée dans sa maison vide; puis, jʼai
parcouru cette longue distance, jʼai pâti de cet énorme soleil, je
serais allée au bout de la terre, soutenue par la foi de le revoir,
de causer un instant avec lui... Mais je suis arrivée juste pour
apprendre quʼil avait sa médaille... Et les femmes, Jack, ne sont pas
un drapeau...

—Taisez–vous, Bliouette; je vois que ça vous fait très mal.

—Non, Jack; je voulais que tu comprennes comment je suis morte, et
pourquoi, mon frère, tu ne dois plus mʼaimer...

[Illustrazione: DECORAZIONE]

Verso il cadere del giorno, tranquillamente uscì.

Portava un mazzo di fiori dʼinverno, racchiusi nel tepore della sua
pelliccia di martora.

Camminava con una specie di lievità, con un sorriso fermo e continuo su
lʼorlo della bocca profumata.

Le strade crepuscolari salivano verso il cielo con un tremante pendìo.
La gente passava, ilare, per i selciati che mandavano raggiere; poi
lontana si confondeva fra una luce dʼacquaforte, brillando, sparendo,
in quello smerigliato balenìo.

Qualche vetrina, bianca dʼelettricità, sbucava con impeto nel colore
della strada.

La guardavano.

I suoi leggeri piedi erano calzati dʼantilope, con ricami dʼargento.

Qualcuno, dietro le sue spalle, talvolta ripeteva il suo nome
gentile:—Mimi Bluette.

Entrò in un ufficio telegrafico, tolse dal distributore un modulo
di telegramma, scelse con attenzione il luogo dove posare il suo
manicotto, e in piedi, contro il banco, velocemente scrisse queste
parole:

 «Addio Mammina. Sono felice.»

Rilesse; firmò con un sorriso; diede una moneta, che le cambiarono;
uscì.

La strada continuava.

Di qua, di là, nella nitida sera dʼinverno, al sommo delle case di
molti piani qualche finestra inserenava.

Camminò.

Quella casa era nascosta in una piccola strada, calma, vecchia, di
quelle che gli edili ragionevoli vanno cancellando a poco a poco.

Si vedeva, lontana, la Colonna di Luglio sorgere dalla piazza della
Bastiglia.

Camminò.

Per il groviglio dei quartieri di Parigi andava incontro a quella
strada perduta.

Con tutta lʼanima si ricordava la storia dʼuna lontana sera, quando
insieme uscirono dal Bar de la Grande Rouquine.

«... La neve senza vento cadeva su la città in calme striscie
verticali, che sembravano propagare un tremito nella bianchezza
dellʼelettricità. Lʼautomobile camminava senza urto, nel dedalo dei
quartieri deserti, per i bianchi anfiteatri delle piazze, andando via
lieve, quasi tacita, su quellʼelemento agevole che i fari avvolgevano
dʼun largo alone scialbo nelle zone di oscurità.

«Monsieur Laire... jʼai presque froid... cette fourrure me glace...

«Allora egli si mise più vicino a lei, spalla contro spalla, immergendo
la bocca nel profumo del suo respiro, quasi per odorarla come un fiore.

—«Que voulez–vous, Bluette? Le bonheur est la seule chose à craindre
dans la vie. Quant au malheur... quʼimporte?... cʼest ce qui arrive
tous les jours... On sʼy fait! on sʼen fiche! Mais aimer ce quʼon aime,
voilà un luxe que certains hommes ne devraient pas se permettre...

«Soltanto la fatica del motore interrompeva lʼassiderato silenzio del
Bosco; passavano, come scenari dʼuna fiaba nordica, i laghi pieni
di nuvole, gli ippodromi vuoti come steppe, le fattorie, le fontane
immobili, divenute un solo ghiaccio, e pareva che frammezzo a tanto
inverno mai più non potesse rinascere la primavera. La primavera del
bosco indimenticabile, odorosa di mammole, di resina e dʼacacie, ove
ogni filo dʼerba diventa quasi un fiore, quando, nelle sere di Maggio,
in larghi frastagli di serenità il cielo vi scende a profumarsi, e il
Bosco turgido si gonfia di voluttà primaverile, sopraffacendo la Parigi
dorata, su cui lancia in fontane di musica il fiume del suo grande
respiro...»

       *       *       *       *       *

Camminò.

La sua tesa veletta si cerchiava intorno ai labbri dʼun vapore
dʼargento.

Le pareva che nel dedalo di Parigi forse non avrebbe mai potuto
giungere a quella strada perduta.

Invece la trovò.

Si faceva quasi tardi; non vʼera più sole nella piccola vetrina
dellʼorologiaio, ed ora si potevan leggere a distanza i nitidi cartelli
appesi contro lʼinvetriata:

 _«Montre Oméga—Or garanti, 18 Carats—Chronomètres—Réparations»_

Pareva che, dopo tanti mesi, nessuno avesse toccato neanche una sfera.

Traverso il portone quasi obliquo si vedeva brillare li cortile. Una
ringhiera. Un poʼ di cielo. Qualche albero senza foglie. Un fulvo color
di crepuscolo su la ruggine dellʼopposto muro.

Entrò.

—Vous allez bien, Madame Greuze?

—Pas mal. On sʼéreinte. Et vous, Madame Bluette?

—Merci. Je monte une minute. Où sont les clés?

—Elles se rouillent. Madame Bluette. Et puis, jʼallais vous dire:—A qui
bon payer un loyer pour quelquʼun qui ne reviendra jamais?

Il gatto lucido la fissava coʼ suoi magnetici occhi rotondi, colore di
zolfo.

—Cʼest juste. Madame Greuze... Et toujours pas de lettres pour lui?

—Aucune.

Salì.

Per le vecchie scale dormiva con ambiguità un silenzio di edificio
deserto. Il congegno della serratura scricchiolò restìo, con una specie
di rugginoso dolore. Lʼuscio, nellʼaprirsi, urtò contro una resistenza
di tenebre.

Veniva dalle stanze profonde un rumore di buio, un peso di polvere
morta.

Bluette cercò lungo la cornice dello stipite lʼinterruttore della luce.
Ma nel suo smarrimento più non lo ritrovava.

Barcollando contro la parete, riuscì ad accendere. Vide lʼattaccapanni
vuoto.

Tre stampe di cacce inglesi pendevano dal muro. Su la tavola, un bacile
di rame, un vaso di cristallo, con lo scheletro di qualche fiore che
aveva portato Bluette.

Dʼun tratto, come una pazza, ella si mise a correre per la casa...
Guardò, frugò... Nulla, nulla, nulla!

Sì, era partito per sempre, partito come un vero nomade, partito senza
dirle addio...

Tremando si fermò vicino al letto, chʼera stato il lor caldo rifugio,
nel delirio e nel paradiso delle ultime notti dʼamore; vi buttò sopra
i fiori che teneva nella pelliccia di martora, si rovesciò su la
coltre, disperata, senza versare una lacrima, e chiusa nelle braccia
dellʼamante, ubbriaca del suo morto respiro, per lʼultima volta nel
mondo con tutto il suo piacere impallidì...

[Illustrazione: DECORAZIONE]

Quando fu rientrata, ed ebbe veduti nella sua propria camera tutti queʼ
fiori, si fermò per un istante a guardarli con poesia.

Fece un atto fervido con entrambe le mani, e leggermente sorrise, come
se volesse ringraziare quelle anime floreali, che le venivano incontro
quasi per regalarle un ultimo piacere.

Sebbene fossero fiori dʼinverno, eran nati su la riva mediterranea, il
loro profumo stordiva.

Li guardò attenta, con indugio, con malinconia, come se volesse
rammentare la bellezza di ognuno.

Le pareva necessario addormentarsi nel miracolo di una grande primavera.

Fece con lentezza il giro della camera; poi, fermatasi davanti alla
specchiera, si tolse i guanti, si disfece la veletta.

I due spilloni, che le appuntavano il cappello nella treccia rotolarono
sul marmo luccicante, con un rumore, chʼella osservò.

Per abitudine, prima di togliere il cappello, rimase un attimo a
guardarsi nello specchio; poi, quando ebbe sollevato quel leggero peso
dalla gonfia sua capigliatura, macchinalmente si mise a rigirarlo su
tre dita, come sogliono fare le donne quando ripensano alla gente che
le guardava per istrada.

Era un gioiello di Suzanne Talbot, una cosa da nulla, piena
dʼinvenzione, fatta con maestrìa per il suo viso e per il suo colore.
Lo appoggiò sul ripiano dellʼarmadio, fra i guanti e la veletta, poi
con le dita e coi palmi si ricompose le belle trecce, per ridare alla
sua pettinatura la leggerezza consueta.

I fiori empivano anche lo spogliatoio contiguo, pieno di specchi e
di cristalli, che rompevano in molte raggiere il balenìo della ferma
elettricità. Lo spogliatoio, che aveva lo zoccolo della parete in
marmo rosa, i mobili di un candido legno trasparente come lʼantico
avorio, pareva un cofano di madreperla foderato con le vecchie sete che
piacquero alla Marchesa di Pompadour.

Incominciò a spogliarsi lentamente, pigramente, con una specie di
delizia femminile. Sebbene la casa fosse addormentata, chiuse a chiave
alcuni usci, che la isolarono dallʼappartamento.

Quando fu in gonnella, con le braccia nude, mise un ferro sul fornello
a spirito e lungamente indugiò a contemplare la fiamma violastra.

Poi si disciolse i capelli. Quel peso, quel folto e biondo peso, le
fece piegare indietro la nuca. Li vedeva piovere nello specchio,
scendere, splendere, fino a poca distanza dal tappeto. Erano vivi,
ondeggianti, scintillanti, come la più bella criniera che mai donna
portò. Ella stessa, nel guardarli, nel passarvi le dita, provava di
quei voluttuosi capelli una timida gioia.

Mentre aspettava che il ferro diventasse caldo, andò a cercare
nellʼarmadio un paio di calze tessute come una trama di velo, poi certe
sue scarpine da ballo, arcate, leggerissime, simili a due piccole
guaìne ritagliate in una stoffa dʼoro.

Sollevò la gonnella di fresca seta e liberò dal morso delle
giarrettiere le calze che portava. Slacciò e si tolse lʼuna dopo
lʼaltra le scarpine da passeggio, intarsiate con ricami dʼargento.

Le sue belle aride caviglie, le sue lunghe snellissime gambe di
danzatrice, apparvero fuor dai pizzi della gonnella, così bianche da
parer modellate in un contorno di azzurrità. Le congiunse; appoggiò i
talloni fragili su la compatta foltezza del tappeto. I suoi malleoli
erano così snodati che poteva, con le ginocchia tese, appoggiare tutto
il piede. I fiossi arcati sʼ intramavano di minute vene. Tutta la
muscolatura della gamba usciva, in quella tensione, con un perfetto
rilievo. Sopra i due stinchi esilissimi la luce batteva con riflessi
dʼoro. Le ginocchia rotonde sʼinnervavano di robusti ed agili tendini
per tutta la lunghezza dei fianchi.

Incipriò lungamente la sua pelle nuda; mise le calze di velo, gli
scarpini da ballo, corti e ripidi, che scintillavano come filigrane
dʼoro.

Si alzò. Si tolse il copribusto; nascose la camicia nel basso elastico
di seta che fasciava lʼintatto splendore del suo calmo seno.

E così bella e così nuda fu, che, dagli occhi azzurri, ella medesima
con invidia si guardava.

Scelse nellʼarmadio la veste più bella che aveva; dolcemente la portò
sui due polsi, la distese, per non sciuparla, su la spalliera di un
lungo divano.

La fiamma violastra, in quel vento, si piegava sino a lambire il vetro.
Allora provò il calore del ferro in un pezzo di carta velina.

Bruciava, e lo depose.

Fece un grandissimo nodo con la stupenda sua criniera, vi mise poche
forcelle, prese uno specchio a mano, ed attentamente si guardò.

I più lievi suoi capelli, non ancora del tutto nati, brillavano sotto
la capigliatura come un velluto biondo.

Leggermente, col ferro venuto al giusto calore, ondulò i capelli che le
nascevano dalla fronte.

Ma prima di coprirsi con la veste, si guardò per unʼultima volta in
quel suo grande specchio scintillante. Si guardò, e chiuse gli occhi,
tanto le veniva un piacere sensuale dalla sua nuda e limpida bellezza,
che nessuno bacerebbe mai più.

Poi scelse una bella ghirlanda, fra quelle che soleva portare su la
scena, e baciandola con malinconia se la ricinse intorno alla fronte.

Era la sua corona di fiordalisi, profumati con un profumo di Coty.

Allora spense la fiamma, chiuse il fornello a spirito, rimise nella
scatola dʼoro il piumino per la cipria, e dopo aver compiuto con ordine
questi atti pieni di tranquillità, leggermente mise un piede appresso
lʼaltro nella sua bella veste, ammirandosi come una fidanzata. E con le
mani dietro la schiena, benchè fosse un poco difficile, speditamente se
lʼagganciava.

Dalla strada calma non veniva rumore; le finestre chiuse, nascoste
nei drappeggi delle tende invernali, per sempre la separavano dallo
spettacolo della immensa Città.

Il suo pensiero per un momento si allontanò verso i teatri notturni,
verso le orchestre che infurian di musica sotto le ribalte
meravigliose; per un momento pensò con con un tremito al suo leggero
nome di danzatrice, allʼazzurro innocente profumo dei fiordalisi di
Mimi Bluette...

Si mise una molteplice collana di perle, fredda e pesante, che le
scendeva sino al grembo.

Alzò le sue piccole mani, le guardò contro la fiamma elettrica, forse
per vedere in quella trasparenza il disegno delle azzurre sue vene.

Poi sorrise.

Capì che nel mondo non aveva più nulla da fare.

Più nulla da fare...

Sì, una cosa.

       *       *       *       *       *

In quel momento le passò davanti agli occhi la memoria di un giardino;
di un giardino barbaro e stupendo, che aveva rasentato, nella fuga del
treno, lungo i sobborghi di Algeri.

Prese un bicchiere, un bicchiere fino e senza piede; prese una
bottiglia chʼera sul lavabo, e versando lʼacqua, fissando lʼacqua, fin
quasi allʼorlo, adagio, attentamente, lo riempì.

In quel momento rivide la sua mamma; rivide la sua mamma comʼera prima
della ricchezza, quando gli artefici di Parigi non le avevano ancora
fatti nascere queʼ suoi fulgentissimi capelli biondi.

Aperse lʼarmadio. In un cassetto, in un piccolo scrigno, fra le innocue
medicine che si usan tenere con sè, vʼera la scatola di cartone,
piatta, scura, suggellata, chʼella aveva saputo carpire con molti
raggiri allʼequivoco ed onesto venditore di paradisi.

In quel momento rivide il banco della Grande Rouquine, la sua
fisionomia di cera, con due grandi occhiacci da gatto, verdi. Le parve
riudire quella voce fioca e sonora, bruciacchiata dallʼarsura delle
sigarette russe.

Con lʼunghia ruppe il suggello di ceralacca. Nellʼinterno della
scatola, bene ordinate, come nelle caselle dʼun alveare, trovò le
dodici minuscole ampolle di vetro, colme dʼun liquido che non aveva
colore.

Terminavano con un tubo filiforme, che si poteva spezzare come un
esile fuscello di paglia. Vʼera inoltre una piccola siringa, tersa
e fina, che brillava nella depressione dellʼastuccio di velluto. Ma
non la toccò. Rimase a guardare con occhi fermi quelle dodici ampolle
minuscole, non piene, dove il liquido incolore formava una specie di
occhio tremolante.

Erano sei e sei, lʼuna presso lʼaltra, nelle caselle di cartone, sovra
uno strato di bambagia. Non vʼera scritto nulla, non vʼera il più
piccolo segno che ne tradisse la micidiale potenza.

Col rovescio dʼunʼunghia le percorse tutte, come due piccole tastiere.

Poi le tolse ad una ad una dalle cellette ove stavano; le contò fino a
cinque; poi fino a sette; poi ne aggiunse ancor una.

Questa volta si dimenticò di riporre la scatola; non spinse nemmeno il
cassetto; non rinchiuse lʼarmadio.

Ma teneva quelle fialette nella sua dolce mano, piegando il palmo
affinchè non potessero cadere. Si muovevano, si urtavano, con un
sottilissimo rumore di vetro fino. Quegli occhi tremolanti prendevano
il colore della sua mano.

In quel momento, con il suo cuore di ballerina che moriva, ella pensò
tremantemente a Dio.

Sciorinò sul marmo del lavabo un asciugamano a spugna, e quando fu
certa che dal marmo non scivolasse a terra, con attenzione, con
tremito, ve le depose.

Udiva il rumore deʼ suoi braccialetti.

Il rumore, non calmo, del suo respiro.

Si guardò ancora nello specchio. Volle pensare alla sua faccia morta...

Ma non la vide.

Ruppe unʼampolla. Versò il poco liquore nel bicchiere. Lʼacqua non
parve mutata. Produsse qualche circolo,—che si fermò.

Udiva il rumore deʼ suoi braccialetti.

Pensò al cadavere del soldato Laire, che non trovava sepolcro nella
bufera di sole...

Con la bocca serrata immaginò il sapore di quellʼacqua innocente, che
le avrebbe regalato il paradiso...

Ruppe ancora due fialette, ancora tre...

Lʼacqua non parve mutata. Il veleno stupendo vi entrava con leggere
bolle dʼaria. Scoppiavano. La stanza immobile brillava nel vetro fino.

Le ruppe tutte, con deliberata velocità.

Udiva il rumore deʼ suoi braccialetti.

Prendendo il bicchiere nella mano, volle sorridere, volle dire che
moriva, ma non potè...

Bevve dʼun fiato.

Guardò i fiori, lo specchio, la vita...

Il bicchiere si ruppe.

       *       *       *       *       *

Camminò in circolo. Si guardò i palmi delle mani, le ginocchia, la
stoffa dʼoro degli scarpini da ballo che le calzavano i piedi.

Aspettava di sentir nascere in sè una profonda ubbriachezza...

Nulla: un bicchiere dʼacqua.

Rise.

Le passò davanti agli occhi, nel fumo di una vasta nuvola, quel biondo
vapore che dà lo Sciampagna, quando la mano dʼun amante alza il
bicchiere...

Nella Città lontanissima qualcuno suonava il My Blu...

Suonava il My Blu.

Udiva il rumore deʼ suoi braccialetti.

Traversò lo spogliatoio, la camera; si fermò con una specie di paura
estatica vicino al capezzale del letto.

Rimase immobile vicino al ietto.

Ebbe voglia di guardar lʼora; ma non vedeva bene le sfere...

Non vedeva bene le sfere.

Le sembrò di perdere lʼequilibrio; spinse le due mani su la coltre,
affondò nella seta piena di guizzi le falangi che non sentiva quasi
più... Alzò un ginocchio, poi lʼaltro; si mise carponi sul letto, poi
seduta, poi supina; immerse la nuca nel guanciale, distese le braccia
lungo i fianchi...

Dormì.

E rivide allora stupendamente le girandole di fuoco: «Maxima Maximum...
La Revue de lʼAlhambra...» nel vapore del primo sogno, nel colore di
Parigi la Babelica...

Mimi Bluette... Mimi Bluette!... Era stata la bellezza e la musica,
nuda, su le ribalte maravigliose... Aveva portato, nellʼanima
dionisiaca, il dolore della eterna poesia...

Nulla; un bicchiere dʼacqua.

E vedeva le perdute carovaniere avventarsi come turbini di fiamme verso
lʼantipodo scintillante, laggiù, per la terra senza ombra, dove, negli
uragani di sole, con lʼiracondo nomade vento il sepolcro cammina...

Il sepolcro cammina.

Era ferma, era lontana, sollevata nel grande miracolo, ravvolta in un
principio di paradiso...

Là indietro, nella Città lontanissima, quasi fuori dalla vita, qualcuno
suonava il My Blu...

Suonava il My Blu.

Le parve, a poco a poco, in una musica, di sentirsi divinamente
baciare...

Ma non poteva esser certa, nè rispondere, non poteva capire da chi.

E qualcuno, sul fiore dellʼanima, divinamente le diceva nellʼamore:
«... vous êtes ma dernière coupe de Champagne, mon dernier bouquet de
roses... quelle folie!...»



  FINE



  _Scritto lontano, con poesia. 1914–1915._

[Illustrazione: DECORAZIONE]

[Illustrazione: DECORAZIONE]

«....dove, negli uragani di sole, con lʼiracondo nomade vento il
sepolcro cammina...»

[Illustrazione: DECORAZIONE]

Bluette, il sole che dormiva neʼ tuoi capelli biondi, ora si è
spento. I leggeri fiordalisi che inazzurravano i tuoi profondi occhi
dʼinnamorata, ora son caduti e son dispersi nel lontano crepuscolo di
quel sole.

Tu, che fosti la musica nella mia vita,—e per lunghi anni la musica
dʼamore nella mia vita,—Bluette, mia primavera dʼuna volta, Bluette,
fiore del mio giardino, meravigliosamente ora te ne vai per la Città
Stupenda, e vai senza guardare la gente, immobile tu pure, definitiva
tu pure, come quei Nomadi che non hanno più strada.

Laggiù dormirai, nel profumo deʼ tuoi morti capelli biondi, vicino al
rumore del fiume che avviluppa la Basilica di Francia, laggiù, nel
piccolo cimitero parigino, al limitare della Città Stupenda, su cui
veglia, con la sua cupola dʼoro, il Duomo degli Invalidi.

       *       *       *       *       *

Sei stata la più limpida creatura che mai vidi con i miei occhi di
nomade, sei stata—comʼè la rosa—ciò che nel mondo ha nome poesia; ti ho
portata come un fiore di semplicità, presso e lontano, fino al grande
colore dellʼantipodo, nella mia vita camminante.

Le strade vanno; sono il pendìo del sepolcro, il colore dellʼanima che
si allontana, la tappa dʼun ideale che non cʼè... Le strade sono la
polvere del Tempo:—nientʼaltro. La polvere di una distanza che non è
mai cominciata, che non finirà mai...

Nientʼaltro.

       *       *       *       *       *

Così, Bluette, nel mio sogno, tu eri anche la strada.

[Illustrazione: DECORAZIONE]

Ora il tuo feretro se ne va per i quadrivi della Città Stupenda, e
muore un giorno di primavera su questa Basilica eterna della sovranità
mediterranea.

Tu passi, e non sei che un limpido fiore del mio giardino; tu passi e
non sei che la danzatrice per sempre addormentata nel rumore di Parigi
la Babelica.

Il violino dello zingaro Limka, piangendo, con sommesse musiche, ti
accompagna fino al cimitero.

È un sereno giorno di primavera, e la Città che ti diede la gloria, in
silenzio ti guarda passare.

Oggi la Grande Rouquine, donna che aveva un passato, per seguirti fino
a Boulogne si è messa un abito nero.

Boblikoff discorre piano con lʼefebo Jean Kiki.

Oh, il bel colore che mandano, in questa luce piena di natività, le
grondaie di Parigi!...

La povera Linette, cameriera dalle calze di voilé, ha la faccia tutta
logora di pianto; è stanca, e se ne va piano piano, dando il braccio al
vecchio amministratore, M.ͬ Bollot.

Dʼimprovviso attraversa il cielo un gran profumo di alberi che si
mettono in fiore. È il mese dei tigli; lʼaria crepuscolare si gonfia di
profumate vampe.

Jack ti guarda con i suoi chiari occhi pieni di Atlantico.

E Sanderini dice a Fred Chinchilla:—«Ah, ʼl beau truc! Voilà ʼl moulin
à café edʼ Pathé Frères!... Encore du cinéma... Ça biche! Sʼ pas,
Fred?... Mais, si cʼest pour un film, jʼai bien ʼl titre:—«Les bleuets
de Biribi.» Moi, comme bleuets, jʼ préfère ceux dʼ la Banque edʼ
France!... Sʼ pas, Fred?... Pis, vous allez voir: y aura sûr queʼque
rousto edʼ journalisse, qui, dans son paquelard à chantage, mʼ foutra
sur ʼl dos ʼl meurtre edʼ la divine Bluette...»

Ed ancora, tra questa lenta folla che ti accompagna verso il cimitero,
mi sembra quasi di riconoscere alcuna fra le sorelle tue più distanti.

Al pari della Grande Rouquine, anchʼesse portano lʼabito nero, e
tacendo aprono su te quegli occhi senza tramonto che hanno le vere
innamorate.

Vólgiti e guarda, Bluette:—In questo giorno di primavera cammina dietro
le tue belle ghirlande il sottile fruscìo pieno di grazia della
sottana di Manon Lescaut...

[Illustrazione: DECORAZIONE]

Non questa era, Bluette, lʼora calma e serena per disciogliere il tuo
mazzo di fiordalisi nella primavera della Città Stupenda.

Ora la gente si ferma sui crocicchi, e poi dice:

«Un nome: nientʼaltro che un nome: anzi un piccolo fiore da mettere sui
capelli di paglia, nei mesi dʼestate.»

Ma tu eri nata, e già tu eri, prima che gli Ulani del Vandalo
giungessero a bivaccare con turpitudine su lʼorlo della foresta di
Compiègne.

Questa Città così vasta e così multanime, che sapeva essere anche
il teatro della tua meravigliosa nudità, oggi è piena di un santo
silenzio; i suoi teatri sono chiusi, come chiusa è per sempre la danza
nelle tue caviglie, Bluette.

Oggi, nelle vie di Parigi, solitario ed umile passa il tuo funerale.

Tu, che rappresentavi nella Città Dionisiaca il suo divino e glorioso
piacere, oggi sei ferma, e giaci, e puoi traversare la Metropoli che
ti regalò tanta fiamma, perchè hai portato nellʼanima lʼamore di Maria
Maddalena.

Sei nata come un fiore selvatico nella dolcissima valle del Po; hai
traversato le bufere di sole che incendiano il terribile Gharb; hai
danzato, sovra un tappeto rosso come il Guébli, la danza del tuo cuore
morto...

Che lunga lunga strada... che infinita malinconia,...

       *       *       *       *       *

Oggi cantano le belle mitragliatrici.

       *       *       *       *       *

Hai cadenzato la musica di due loquele nel profumo deʼ tuoi fiordalisi;
hai saputo confondere il sogno nellʼarmonia deʼ tuoi movimenti, come il
poeta imprigiona la bellezza nelle musiche della eterna Poesia.

       *       *       *       *       *

Oggi cantano le belle mitragliatrici.

       *       *       *       *       *

E Parigi che ha sempre una canzone per la sua camminante bandiera,
Parigi che può sorridere anche nelle ore dʼimmortalità, sʼincurva su
quella che torna dal rosso delirio affricano, e posa la medaglia di
Laire sul feretro azzurro della Transalpina.

       *       *       *       *       *

Oggi cantano le belle mitragliatrici.

       *       *       *       *       *

[Illustrazione: DECORAZIONE]

Bluette, porterai qualche musica nella trincea che non dorme, dal giogo
bianco dello Stelvio allʼonda calma che rispecchia le tragiche finestre
di Miramare.

Vedrai quelli che assaltarono la rupe del Carso formidabile; quelli
che, guadato il fiume, terribilmente vissero nellʼinferno di Doberdò.

Vedrai quelli che salivano, di notte, senza luna, in gran silenzio, per
scolpire nel granito inaccessibile la storia degli Alpini di Monte Nero.

Forse nei bivacchi di linea, su la piegata erba dei nomadi
accampamenti, la notte, al lume delle torce, scioglierai, danzatrice,
la tua meravigliosa treccia bionda. Porterai, dʼinverno, su la neve
dellʼAltissimo, lʼazzurro profumo che trabocca daʼ tuoi semplici
fiordalisi...

       *       *       *       *       *

E ti sia perdonato, fra tanta guerra, quel tenue rumore di sciarpe che
produce la tua lievità.

       *       *       *       *       *

Questo è ancora ciò che rimane per ultima cosa negli occhi dellʼuomo
che non torna: la trasparenza dʼun velo sul colore indimenticabile
dʼuna treccia, gli occhi di unʼamante lontana, che innamorata si
addormenta nella musica di una lontana città...

Questo è ancora ciò che rimane, dietro le finestre chiuse, dopo i
grandi cimiteri: un profumo di grembo femminile che farà continuare la
vita, che piegherà lʼideale dei popoli verso le necessarie cune...

       *       *       *       *       *

Affinchè possa il mondo ricominciare ad uccidersi.

       *       *       *       *       *

Oggi cantano le belle mitragliatrici.

[Illustrazione: DECORAZIONE]

[Illustrazione: DECORAZIONE]

«...dove, negli uragani di sole, con lʼiracondo nomade vento il
sepolcro cammina...»



  _Maggio 1916_



  G. d. V.



                        NOTA DEL TRASCRITTORE:


--Corretti gli ovvii errori tipografici e di punteggiatura.





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