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Title: Gli eretici d'Italia, vol. I
Author: Cantù, Cesare
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Gli eretici d'Italia, vol. I" ***


                                GLI
                          ERETICI D'ITALIA


                          DISCORSI STORICI
                                 DI
                            CESARE CANTÙ


                                    A Deo credita sunt illis eloquia
                                  Dei. Quid enim si quidam illorum
                                  non crediderunt? numquid
                                  incredulitas eorum fidem Dei
                                  evacuabit? Absit.

                                    _Ep._ B. PAULI _ad Romanos_, cap.
                                  III, 2, 3.

                                    Hæc omnia pertractantes, nihil
                                  aliud teneatis nisi quod vera fides
                                  per catholicam ecclesiam docet.

                                    S. GREGORII _L._ VI, _ep._ 15.



                            VOLUME PRIMO



                               TORINO
                    UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE
                Via Carlo Alberto, casa Pomba, Nº 33
                                1865



              _Diritti di riproduzione e di traduzione
                  riservati alla Società Editrice_.

     Depositate le copie volute dalla Legge, il 4 novembre 1865.



AI LETTORI SERJ.


Ne' lavori storici, che formarono l'occupazione, la compiacenza e lo
strazio della lunga mia carriera letteraria, sempre una gran parte ho
assegnato alle religioni, persuaso non possa acquistarsi intero concetto
dei tempi e degli uomini quando non si conosca ciò che essi credeano,
temeano, speravano intorno alle cose superne. Principalmente nella
_Storia degli Italiani_ accurai le vicende del cattolicesimo, che sempre
nel nostro paese ebbe trono e capo; e particolarmente il momento in cui
esso venne straziato dalla Riforma.

Gli storici nostri, preoccupati della politica, vi trasvolarono; e
accennato ch'ebbero l'appalto delle indulgenze, le diatribe di Lutero,
la scomunica di Leone X, il concilio di Trento, poc'altro si brigarono
di un fatto, che pure agitava la società fin nelle viscere. La vulgare
abitudine di dire una cosa perchè fu detta, fa ripetere tuttodì quel di
Voltaire, che l'italiano, popolo ingegnoso, occupato d'intrighi e di
piaceri, nessuna parte prese alle sovversioni di quel tempo.

All'opposto gli scrittori ecclesiastici, col tono querulo e desolato che
sembra in essi rituale, esagerano l'estensione del danno; e intenti solo
a difendere la Chiesa stabilita, negli eretici non riconoscono che anime
perdute, da esecrare piuttosto che da esaminare; e col non supporvi nè
buona fede, nè scusabile errore, giustificano i rigori usati contro di
essi, come contro malvagi e ribelli.

Nobili caratteri, limpide intelligenze, passionate persuasioni che
disputano per arrivare al possesso delle verità eterne; intere
generazioni moventisi sotto l'impero d'una legge morale, qual è il
bisogno di riformare le credenze e gli atti, parvero a me spettacolo
solenne; nè forse infruttuoso a tempi affogati negli interessi
materiali. Anzi, più lo contemplavo, più vi trovava somiglianze alla
situazione odierna.

Fattasi anche nel Cinquecento una subitanea effusione di cognizioni, gli
uomini si videro aperti nuovi orizzonti, e demolirono il diritto antico
senza riuscire a edificarne un nuovo. Anche allora le fazioni
calunniarsi a vicenda ne' costumi, nella fede, nell'intelligenza;
palleggiarsi que' titoli, che sono tanto più irreparabili quanto più
generici e mal definiti; sotto frasi simpatiche mascherare calcoli
egoistici; a parole inani arrogare l'autorità di fatti, e a formole il
valor di ragioni; anche allora gridarsi libertà di coscienza, come oggi
libertà politica, senza volerla lealmente, e fin senza intenderla; anche
allora sostituire la smania di repentine innovazioni al progressivo
emendamento delle consuetudini, le opinioni al diritto, la violenza alla
persuasione.

Qualche cosa più che spettatori d'una crisi consimile, siamo in grado di
meglio valutare quella d'allora, le accuse e i processi, le glorie e le
infamie sparnazzate a capriccio o a capopiede; e così da un nuovo punto
osservare la storia dell'Italia, e insieme la storia del pensiero
indipendente. Che se in questi anni si pubblicarono tante ricerche sulla
Riforma ne' diversi paesi, l'essere scritte da soli acattolici potrebbe
lasciar indurre che questo tema giovi soltanto alle negazioni
eterodosse[1].

Ben l'odierno orgoglio che ci fa negare tutto ciò che non comprendiamo,
e crederci disobbligati dal faticare a comprenderlo; la repugnanza da
ogni autorità e più dalla jeratica; il predestinato applauso ad ogni
sovvertimento; l'applauso domandato dallo scandalo e dall'echeggiare la
folla; il predominio dell'opinione sopra la coscienza; il disaccordo in
tutto fuorchè nell'abbattere la fede che non s'ha, nell'impugnar
dottrine che non si conoscono o male, fan presentire l'antipatia contro
la parte che in Italia prevalse; antipatia che si propagherà sul
narratore.

Poi una società che, idolatra di se stessa, si persuade che il suo
progresso consiste nel rinnegare e vilipendere il suo passato,
giudicherà non solo inopportuno, ma insensato il tornare alla teodicea
de' padri nostri, anticaglia da museo; e in un passato compassionevole
rivangar discussioni dimenticate.

Dimenticate! ma non è questa una lotta delle idee, come tutte quelle
grandiose che si mantellano sotto i nomi di Grecia e Persia, metropoli e
colonie, re e repubblica, papato e impero? Dimenticate! ma come dirlo or
che con tanta sollecitudine e spese si fomenta l'apostolato di dottrine
avverse alla cattolica? come dirlo or che si odono tutt'i giorni
agitare, ne' caffè come ne' parlamenti, punti supremi della fede e
dell'organamento della Chiesa, e l'efficacia di questa sopra la
convivenza sociale? Non è guari, un attacco contro il maggior ente che
vestisse l'umanità risvegliò le timorate non men che le temerarie
coscienze, e Gesù divenne quistione del giorno.

Vero è che di tutto ciò prendeasi ben maggiore pensiero quando gli
intelletti si occupavano principalmente di Dio, dell'anima, della
destinazione dell'uomo: riconosceano la santità non solo, ma la bellezza
della redenzione, del pentimento, dell'amore; in tal senso dirigevansi e
le azioni e le astinenze, sorgevano le sètte, incalorivansi i partiti; e
tutti gli studj, come tutte le meditazioni s'aggiravano sulle massime
eterne, misteriose quanto la coscienza.

Quell'età è tramontata, ma anche gli odierni, indifferenti alla analisi
delle anime, non possono negare che nell'uomo il bisogno di credere sia
forte quanto quello di ragionare. Poi, si può egli trattare nulla di
grande senza chiarire e assodare i principj? Che cos'è il diritto? in
qual connessione stanno gli individui fra loro e colla società? dove
termina il campo della ragione e comincia quello della fede? qual parte
deve farsi all'autonomia individuale, quale all'autorità? come venimmo e
per qual fine al mondo? come dobbiamo condurci od essere condotti, se
quest'ordine è voluto da un essere superiore?

Tali quistioni si tengono per mano; e il problema religioso siede al
fondo di tutti i problemi contemporanei, dove men pare; e si realizza
nell'ordine de' fatti in maniera, che la macchia originale è la
legittimazione de' governi, e i supplizj e gli eserciti sono autorati
dai reprobi istinti; la volontà libera, o la fatalità e la
predestinazione sono i poli fra cui oscilla eternamente la filosofia non
meno che la teologia.

Quando il sofista eloquente fantasticò uno stato di natura, diverso e
opposto al sociale, e disse «L'uomo è nato buono, e la società lo
pervertisce», sovvertendo l'ordine teologico sovvertì l'ordine politico,
e produsse la rivoluzione.

E più il fiotto di questa s'ingrossa, più flagella gli argini
dell'autorità: ma il sentimento rivela confusamente, l'intelligenza
chiarisce, l'esperienza intìma che occorrono o la fede o la forza;
attenuare le credenze è attenuare l'uomo, e sostituire all'imperio delle
coscienze il despotismo dei decreti, e con comminatorie, e carceri, e
soldati, e prestiti, e impiegati costringere a subire bestemmiando quel
che prima portavasi con spontaneità o rassegnazione.

Per verità, adesso, mentre la vita de' popoli si trasforma con tal
fatica, da non lasciar tempo al pensiero, l'uomo si storna dalle idee
elevate per strisciare fra le palpabili e giornaliere; e insaziabile di
esaltazione e di godimenti, invanito dei progressi materiali, vilipende
istituzioni che non si traducono in moneta o in piaceri. Per conseguenza
all'eresia che dissente e nega, sottentrò quella che ignora e non
distingue. Chi più oggi ha qualche esperienza della vita spirituale? chi
disputa se sieno le opere o la fede che salva, e se Cristo nel
sacramento si trova sostanzialmente o simbolicamente? Il dogma si
considera non come essenza della religione, ma come spiegazione, chiesta
dal raziocinio avido di essere chiarito su ciò che ognun sente, ponendo
però sempre superiore alle credenze l'indipendenza dell'intelletto
individuale. Sin pei buoni la fede è men tosto una qualità interna
soprannaturale, che la regola esterna della vita; pur tacendo coloro che
non solo eliminano dall'ordine naturale il soprasensibile, ma ne niegano
la possibilità.

Quante, anche fra le persone colte, possedono appena nozioni generiche,
mal accertate, oscure, irreverenti sopra le divergenze dottrinali fra
Cattolici e Protestanti! In parte n'è causa l'appartener noi a nazione
che, prima degli odierni sbrani, era tutta cattolica, e perciò scevra
dalle controversie; ma neppur quelli che l'hanno per dovere, coltivano
abbastanza questi studj, sia la scienza delle fonti letterali
(_filologia biblica, critica, ermeneutica_), sia quella de' principj
(_apologetica, dogmatica, catechesi, pedagogia, liturgia, arte, diritto,
morale_), sia quella dei fatti (_archeologia, storia_) o de' simboli.

E perchè i frivoli ne ciarlano tuttodì con sfacciataggine pari
all'ignoranza, i sapienti, non trovandosi a fronte antagonisti serj,
sdegnano venir con loro alle braccia, e con ciò lasciano a quelli, se
non l'onore, il vanto del trionfo. Di tal passo arrivasi a reputar
merito l'indifferenza, cioè non solo il diritto reciproco di pensare ciò
che si vuole, ma il ripudio d'ogni indagine severa, la beffa d'ogni
convinzione profonda. Eppure la sorgente dei sentimenti cristiani sono i
dogmi.

Si vuol incolpare i controversisti di sollevare più dubbj che non ne
dissipino.

Per verità, a chi non concepì mai, o mai non intese objezioni contro la
religione di sua madre, qualunque libro che gliene affacci diviene
pericoloso, qualunque confutazione lascia un'impressione pericolosa;
laonde molti vorrebbero che il debito del Cristiano si limitasse a
credere e venerare. Fortunato chi n'ha il dono! Ma dietro a Tertulliano
il quale diceva, che «la verità non arrossisce che del non essere
conosciuta», tutti i Padri tennero che la religione non ha a temere la
leale investigazione, bensì l'ignoranza e l'errore, e i maggiori santi
francamente rivelarono le opposizioni. Queste provocano spiegazioni e in
conseguenza luce. Che se è buono che i più credano ingenuamente perchè
bevvero coi primi insegnamenti la venerazione a ciò che la Chiesa
ingiunge, a molti corre obbligo di mostrare che ne esplorarono i
fondamenti con quell'ossequio ragionevole che l'Apostolo raccomandava,
associando scienza e discussione, esame e obbedienza.

Noi non crediamo v'abbia reale consorzio civile là dove si opina solo,
invece di credere; e il vilipendio delle idee religiose è sintomo
spaventoso per l'avvenire morale d'un paese; giacchè, obliterato il
senso dell'ideale, non restano che l'empirismo, e la cura di
soddisfazioni inferiori, precarie, servili. Or dove l'idea religiosa
illanguidì, il discuterla in pubblico al par degli affari comuni, la
ravviva; dove poi si declama in contrario, mal si temerebbe che riescano
di scandalo le verità dette da fedeli. Or dunque, che crescono i
contatti coi dissidenti, importa di non trovarsi sprovveduti sulle
differenze dogmatiche, nè credere che basti disprezzare l'attacco e
maledire l'assalitore: vuolsi conoscere e propugnare le grandi verità
quando l'insipienza le ingombra, la malizia le nega, la passione le
stravolge.

In tempi d'altre tirannie, quando non aveano valore sul mercato le voci
di libertà, patria, nazionalità, noi ci ostinammo a ripeterle finchè
divennero moda, e, com'è delle mode, se ne alterò, e fin capovolse il
senso. Così ora ci ricorreranno le parole di coscienza, fede, avvenire,
salute, giustificazione: che importa se le disappresero fin quelli che
più dovrebbero conoscerle e insegnarle?

Ma anche la verità ha le sue sètte, ed esse portano a
quell'esagerazione, dalla quale dovrebbero più rifuggire le cause che
hanno coscienza della propria forza. Quindi ci si rinfaccia che agli
ecclesiastici devono essere riservate disquisizioni, ov'è impossibile a
laici mantenersi in quell'esattezza, alla quale falliscono fin i maestri
in divinità, nè convenire ai figli d'Abinadab stendere la mano a
sorreggere l'arca barcollante.

Quando tanti secolari si fanno lecito di berteggiare i dogmi e i riti, e
dar consigli ai depositarj di essi, perchè sarebbe men conveniente a
laici l'assumerne la difesa? Tanto più imparziali essi appajono quanto
che niuna speranza terrena li lega al potere che sostengono, niuno
speciale carattere nè prefissa educazione gli obbliga o li trae a
professare sgradite verità e ad affrontare l'impopolarità; nè sono
stretti da quello spirito di corpo che i corpi ruina, perchè, colla
paura di screditarli, ne scusa o maschera le aberrazioni, e non ne
scevera gli elementi corrotti.

Quando il senatore Flaminio Cornaro mandò a Benedetto XIV la sua _Storia
delle chiese venete_, il papa ringraziandolo, non solo lo esortava a
continuare le dotte ricerche, ma desiderava che altri laici vi
s'applicassero, come in vecchi tempi ne han dato esempio san Giustino,
Atenagora, Arnobio, Didimo, Latanzio, Prospero d'Aquitania, Severino
Boezio, Cassiodoro, Evagrio, e ne' recenti il Fiorentini, il Buonarroti,
il Sigonio, il Masini, lo Zani, il Cappello, il procuratore Giustinian,
Diodo, Morosini, Loredano, Laura, Quirini, Secondini, Maffei ed altri
molti[2].

Dicasi pure che questa è una scusa che noi predisponiamo agli sbagli e
alle inesattezze nostre. E in quante incapperemo! Ma sempre cercammo
esporre con precisione la verità, quale è definita dalla Chiesa, alle
cui decisioni noi ci sommettiamo senza riserva, protestando che i nostri
dubbj non sono che interrogazioni rispettose, e pronti a ritrattare
qualunque errore o temerità, autorevolmente avvisataci.

Di essere ascetici ne rinasceva l'occasione ogni tratto, ma non ci
esporremmo alle risa d'una società che calcola e non sente? Nè tesseremo
lavoro apologetico ed encomiastico, ma procederemo colla sincerità che
ci è consueta. L'istituzione ecclesiastica è mescolata, e più era un
tempo, alle cose terrene, in modo, chè ne contrasse l'inquinazione; di
mezzi mondani dovette valersi per assicurare la propria indipendenza; fu
diretta e preseduta da uomini, ai quali Cristo promise l'infallibilità
nelle decisioni, non l'impeccabilità negli atti. E come, se impeccabili
non furono gli angeli in cielo, il primo uomo in paradiso, Pietro al
fianco di Gesù?

Poco disposti a dissimularne i traviamenti, quanto lontani
dall'esagerarli, noi sappiamo che ai papi è dovuto l'omaggio dell'intera
verità: e se molte volte leniremo colla spiegazione ciò che è moda
esacerbare col sarcasmo, siamo primi a deplorare gli abusi che diedero
occasione o vigore alle separazioni.

Credemmo obbligo nostro conoscere le capitali controversie odierne
sull'origine del cristianesimo e la pretesa formazione dei libri
canonici e dei dogmi; e oltre la _Vita di Gesù_ di Strauss e di Renan, e
gli _Evangeli_ di Eichthal, non abbiamo trascurato la _Storia dei tre
primi secoli della Chiesa_ di E. de Pressensé; la _Storia del Cristo_ di
Ewald; gli _Studj storici e critici sull'origine del cristianesimo_ di
A. Stop; la _Storia elementare e critica_ di Peyrat; abbiamo seguitato
gli studj esegetici della scuola di Tubinga, i _Saggi_ degli inglesi
seguaci di Colenso, e le tante disquisizioni di Jowel sulle _Epistole di
san Paolo_; di Milman sul _Cristianesimo latino_; di Witt sugli accordi
fra la dottrina cristiana e la scuola di Alessandria; di Baur sul
_Cristianesimo e la Chiesa cristiana_;..... ma ricondotto il
cristianesimo in faccia alla storia, alla ragione, alla coscienza,
interpretato con libertà di spirito, non trovammo ragioni per iscostarci
dalla tradizione cattolica. Anzi lo studio ci convinse che l'attuazione
ecclesiastica n'è eccellente, sia pel necessario contemperamento della
sovranità de' pochi colla soggezione delle moltitudini, sia per
procurare la maggior possibile felicità, quella cioè in cui le volontà
non alla coazione, ma s'adagino alla morale persuasiva; e che il
principato sacerdotale, com'è il più antico, così è il più venerabile e
generoso potere, la chiave della vòlta dell'edifizio sociale, la
salvaguardia della libertà nelle nazioni civili, perocchè alle
sovversioni oppone l'unica forza capace di resistervi, la coscienza.

La religione non tocca solo la parte sentimentale, ma abbraccia tutto
l'uomo, anzi tutta la società, e ne sono riflesso i costumi e la
legislazione, la vita domestica e la politica; insomma è l'espressione
più profonda della coscienza dell'umanità in un dato periodo. Ecco
perchè ogni religione è storia, e la nostra è delle più importanti alla
umanità, nè può comprendersi bene in un secolo se non rimontando al
precedente. Perciò dovemmo rifarci alla cuna del cristianesimo, non per
riconoscervi il principio divino della civiltà moderna, la garantigia
del diritto comune, la base delle nuove legislazioni, il legame sociale
de' popoli, la norma delle coscienze, ma solo per vedervi assodarsi e
svolgersi le verità tradizionali, e germogliare gli errori, che poi
ingrandirono nel XII secolo e nel XVI, sul quale di preferenza vi
indugeremo.

Dovendo parlare di persone e fatti già da noi esposti anche più d'una
volta, non ci si farà colpa d'usare talvolta le stesse parole; il
diverso scopo di questo lavoro n'ha però cambiata l'economia, e se
altrove prediligemmo le vedute sintetiche e comprensive, qui saremo
spesso biografi e aneddotici.

Rifuggendo dalla fraseologia di moda, che annichila la realità e
confonde le immagini, e mette anche nel libro il tono superficiale ed
evasivo del giornale, noi c'industrieremo di ritrarre gli uomini colle
passioni, colle virtù, coi vizj loro, nè angeli nè demonj. All'urbanità
che devonsi creature decadute e fallibili non mancheremo mai, sebbene
non la speriamo da coloro che dall'infanzia abituaronsi a non vedere la
verità che traverso ad occhiali comprati, e intitolare pregiudizio ciò
che urta i pregiudizj loro.

E fra questi pregiudizj è l'apporre a chi tratta materie religiose, le
taccie d'ignoranza, d'illiberalità, d'intolleranza. La prima ben ci sta,
e fu appunto per minorarla che faticammo tanti anni a raccoglier fatti e
notizie, parte nuovi, parte dispersi in libri di difficile accesso; e
invocammo i consigli di quelli, pochissimi in Italia, che prestano
sussidio e consigli a chi studia.

Se amiamo la libertà, lo dicano i nostri libri e la nostra vita, e il
non averla rinnegata neppure negli schifosi trionfi di coloro, che la
trascinarono al postribolo e al palco da ciarlatano.

D'intolleranza non fummo imputati mai, neppure dai nemici, bensì del
contrario; e l'affliggente spettacolo di ecclesiastici che portarono
fino a classificare l'odio teologico, ci renderà attenti a serbar la
dignità nostra rispettando quella degli avversarj, che la Chiesa
c'insegna a considerare come fratelli in Cristo, e ci dà speranza di
vederli qui in terra raccolti in un solo ovile, poi in cielo a
contemplar con noi la luce nella luce, e conoscere tutte le verità nel
centro loro, che è Colui che solo nè inganna, nè s'inganna.

  Rovato, ottobre 1865.


NOTE

[1] Delle opere recentemente pubblicate intorno ai riformati italiani
conosciamo le seguenti:

  TH. MAC CREE, _Storia della riforma in Italia, suoi progressi e
  sua estinzione_. Edimburgo 1827. Caloroso protestante scozzese,
  dice che «gli scrittori cattolici s'accordarono a dissimulare un
  soggetto penoso quanto delicato, o a mostrar que' movimenti come
  deboli e passeggeri, e di pochi sedotti da amor di novità». Può
  considerarsene continuazione fin ai giorni nostri LEOPOLD WITTE,
  _Das Evangelium in Italien_. Lipsia 1861. Molto se ne occupa anche
  D'AUBIGNÉ nella _Histoire de la Reformation_, fanaticamente e
  troppe cose ignorando; egli distingue i principj della riforma da
  quelli del protestantismo, che però ravvisa come conseguenza
  immediata.

  KERKER, _Die kirchliche Reform in Italien unmittelbar vor dem
  Tridentinum_; nella _Theologische Quartalschrift_ di Tubinga, anno
  XLI, 1859.

  M. YOUNG, _The life and times of Aonio Paleario, or a history of
  the italian reformers in the XVI century; illustrated by original
  letters and unedited documents_. London 1860. Due grossi volumi.

  F. C. SCHLOSSER, _Leben des Peter Martyr Vermili_. Heidelberg
  1809.

  EDV. BRIDGE, vicario di Manaccan nella Cornovaglia; _A voice from
  the tomb of P. Martyr against popery_, 1840.

  Dr. C. SCHMIDT, prof. di teologia a Strasburgo, _Peter Martyr
  Vermigli Leben und ausgewählte Schriften_. Elberfeld 1858.

  C. H. SIXT, _P. P. Vergerius päpstlicher Nuntius; eine Reformation
  geschichtliche Monografie, u. s. w_. Brunswich 1856.

  FERDINAND MEYER, _Die evangelische Gemeinde in Locarno; ihre
  Auswanderung nach Zürich, und ihre weitern Schicksale_, 2 vol.
  Zurigo 1836.

  EYNARD, _La reforme à Lucques et les Burlamaki_.

  GIBBING, _Trial and martyrdom of Carnesecchi_. Dublin 1856. Ebbe
  il processo originale in 70 fogli dal collegio della Trinità in
  Dublino, che l'ultimo duca di Manchester aveva acquistato a
  Parigi, dove, nell'occupazione di Napoleone I, moltissime cose
  furono portate da Roma concernenti l'inquisizione. Promette
  pubblicar anche il processo di frà Fulgenzio Manfredi, del tempo
  di Paolo Sarpi.

  G. HEYNE, _Ueber die Verbreitung der Reformation in Neapel_, con
  notizie tratte dall'archivio di Simanca. È nella _Zeitschrift für
  Geschichtswissenschaft_ del 1847, vol. VIII, p. 545.

  ROBERT TURNBULL, _The times, life and writings of O. Morata_.
  Boston 1846.

  JULES BONNET, _Vie d'Olympia Morata_; 3ª edit. Paris 1856.

  SEE, _Some memorials of Renée of France_. Londra 1859.

  C. SCHMIDT, _Celio Secondo Curione_, nella _Zeitschrift für die
  historische Theologie_ di C. W. RIEDNER, 1860: dove altre cose
  relative all'Italia.

  C. T. KIND, _Die Reformation in den Bisthümern Chur und Como,
  dargestellt nach den besten ältern und neuen Hülfsmitteln_. Coira
  1858.

  A questo può riferirsi un articolo di J. ANDR. VON SPRECHER negli
  «Archivj per la storia della Svizzera», _Päpstliche Instruction
  neu betreffend Veltlin aus der Zeit p. Gregors XV_. Zurigo 1858.

  NAPOLEON PEYRAT, _Les Réformateurs de la France et de l'Italie, au
  XII siècle_. Parigi 1860; a cui possono aggiungersi, per la
  connessione colle cose nostre.

  EUGÈNE HAAGE, _La France protestante_.

  C. J. TISSOT, _L'Eglise libre du canton de Vaud_.

  DE CASTRO, _Hist. de los protestantes españoles y de su
  persecucion por Felipe II_. Cadice 1851.

  TRECHSEL, _Die protestantischen Antitrinitarier vor Faustus
  Socin_. Heidelberg 1839, 2 vol.

  Inoltre molte cose pubblicate nei FOX'S _Acts and Monuments_
  (1838); nel _Taschenbuch_ di Stauber (Basilea 1851 e seg.); nella
  _Révue Chrétienne_ di GIULIO BONNET, e in HUGO LAEMMER, _Monumenta
  vaticana historiam ecclesiasticam sæculi XVI illustrantia_.
  Friburgo di Brisgovia 1861.

[2] Breve _Acceptissimum munus_ del 22 dicembre 1753.



DISCORSO I.

FONDAZIONE E STABILIMENTO DELLA CHIESA.


L'uomo era stato creato di retta intelligenza, e favorito di superne
comunicazioni, ma libero e però capace di errare[3]. In fatto, mutando
la coscienza del somigliar a Dio colla pretensione d'esser identico ad
esso, peccò di superbia e disobbedienza; e il reato di quella colpa,
trasmesso per generazione dal primo stipite a tutta la sua discendenza,
quasi al modo che ne' rami e ne' frutti della pianta trapassa il guasto
della radice, costituisce il più profondo mistero, non accettando il
quale si moltiplicherebbero altri misteri. Ottenebrata allora la verità
che l'uomo avea ricevuta coll'immediata intuizione di Dio e col
linguaggio; venuti in disaccordo l'intelletto, la volontà e la potenza,
la stirpe umana decadde dall'altezza in cui era stata costituita, e
perdette la piena conoscenza del vero e la pratica del bene. Pure a
queste non cessò d'esser destinato; ma, per ristabilire il rotto
accordo, non basta la ragione, e richiedesi la coscienza, appoggiata
sulla fede, la quale è data solo dalla rivelazione. Tale rivelazione era
conservata da un popolo eletto, per tradizione orale e in libri santi.
In questi promettevasi un redentore o mediatore, che ripristinerebbe la
comunicazione tra l'eterna giustizia e la creatura peccatrice. Chi
poteva far ciò altri che un Dio?

Giunta la pienezza de' tempi, vaticinata dai profeti, figurata in tanti
fatti e tanti simboli, deposti in libri conservati da coloro che lo
avrebbero più risolutamente osteggiato, Cristo figliuol di Dio nasceva
da una vergine, in paese colto e ricco, a due ore dalla città più famosa
d'Oriente[4], nell'età più splendida di Roma, l'età dell'oro della
letteratura. Così dal Dio esistente in se medesimo e nascosto passavasi
al Dio conoscibile, manifestato e conversante fra gli uomini;
all'Emanuele, cioè Iddio fra noi. Il dogma dell'incarnazione costituendo
l'unità personale della natura divina e dell'umana nell'uomo-dio,
additava come fine dell'uomo l'unione divina; passo essenziale
dell'umanità sulla strada che la riconduce a Dio.

Egli era luce nelle tenebre, e le tenebre non lo compresero; venne fra'
suoi, e i suoi non l'accolsero; gl'ipocriti e gl'intriganti lo
perseguitarono; mossero l'ira consueta dei depravati contro chi vuol
rigenerarli, e come riottoso e seduttore fattolo denunziare dalla
pubblica opinione, cioè dagli schiamazzatori di piazza, trionfarono del
vederlo messo legalmente a morte obbrobriosa, dalla quale resuscitò più
vigoroso.

Venuto a riordinar la scienza e l'amore, l'intelligenza e l'opera, che
il peccato avea sconnesse, recava la redenzione, e in conseguenza la
legislazione religiosa. Tutto era insegnato a tutti, e il mistero non
era una parte della credenza, arcana al volgo e riservata ai sapienti,
ma imponevasi egualmente a ognuno, perchè trascende l'umana ragione, sia
colta o ineducata[5].

Cristo conferì a' suoi ministri la facoltà di sciogliere e legare i
peccati tra l'effusione della grazia, e lo stupendo privilegio d'immolar
il Figlio al Padre, vittima incessante per le colpe, sotto le specie del
pane e del vino, sotto le quali si acchiude l'incarnata divinità (se
immagine umana può adombrare il mistero) come l'idea nella parola. Il
qual sacramento, assunto da' fedeli in commemorazione di lui, esprimesse
la debolezza degli uomini, e comunicasse la forza che viene da Dio.

Nulla scrisse egli, e il Cristo storico non ci è noto che per
tradizione, avendone raccolto le parole e gli atti alcuni di coloro che
l'udirono, e postane in iscritto parte, professando che molt'altro ne
tacevano.

Acciocchè la verità non tornasse più ad offuscarsi, Cristo fissava una
fiaccola viva e indefettibile, la Chiesa; la quale, avvivata dallo
Spirito Santo che sempre la inabita, come l'anima il corpo vivo, e
serbando intemerato il deposito delle verità rivelate, adempie
perennemente nel mondo una doppia missione.

La prima, di trasmettere infallibilmente, in coloro che rigenera di mano
in mano colle parole e co' sacramenti, la vital verità e quel medesimo
spirito di cui ella vive, presso a poco siccome la madre nel figliuolo
tramanda la sua stessa vita e natura umana, e l'allatta della sua
sostanza, e l'istruisce col linguaggio comune della società[6]: e come
niuno può darsi da se medesimo l'essere e la natura d'uomo, ma deve
riceverla dalla natura, e riceverla tal quale gli è data, prima d'ogni
suo giudizio, essendo assurdo che il bambino volesse giudicare il latte
della madre, e più ancora il germe da cui lo genera, così l'essere e
natura di cristiano fa duopo ricevere dalla Madre Chiesa senza previo
giudizio. Che se, per mantenere inalterata la schiatta umana, Iddio
ordinò leggi impreteribili alla natura, per tramandare inalterata la
vita cristiana alle ultime generazioni deve aver fatta infallibile la
Chiesa. Sotto questo primo aspetto si deve essa considerare qual madre
di tutti i viventi, con autorità che non grava o lega le coscienze,
bensì le forma e le genera, come la madre non è di aggravio al bambino,
nè la radice esercita violenza sui rami. Uno è il capo, da cui prende
vita tutto il corpo; una la radice che germina tutta la pianta; una la
madre di prole sì numerosa: dal suo seno nasciamo, del suo latte siamo
nodriti, del suo spirito animati[7], per modo che tutti i Cristiani son
germogli della radice apostolica e della Chiesa[8].

L'altra missione della Chiesa è di tenere nell'unità, coloro che
dall'arbitrio individuale sarebbero indotti alla varietà e al fallo. In
ciò la Chiesa fa sentire la sua potestà, costituita sopra le coscienze;
potestà, alla quale spetta di risolvere ogni dubbio, determinare le
credenze, non avendo altre arme se non la persuasione, la grazia
invocata e la infallibilità promessa da Colui che prega in cielo
affinchè la fede di Pietro non venga meno.

Così il vangelo, promulgato per testimonio divino, doveva esser
conservato e tramandato per testimonio indefettibile. Senza una tale
istituzione infallibile non si dà conservazione certa della verità
rivelata, nè quindi dogma fisso, o alcun dovere determinato, o
possibilità della vita cristiana. La Chiesa è la sintesi della
incarnazione, e svolgesi nell'esercizio d'una religione, i cui elementi
sono, per parte di Dio, la rivelazione; per parte dell'uomo, la fede.

Ascolta e guarda: ascolta la voce ch'è in te; guarda la bocca che ti
risponde. Non è necessario che tutti conoscano le dimostrazioni e le
confutazioni, cioè che abbiano ponderato la storia: basta guardino il
presente, i caratteri della Chiesa attuale, per esser certi del suo
passato e del suo avvenire, della sua storia e della sua destinazione. E
perciò Cristo disse alla sua Chiesa: «Chi ascolta voi ascolta me[9]
perchè io sono con voi[10], e chi resiste alla voce vostra resiste alla
mia»[11]. Cristo è così chiaramente colla Chiesa, che ella dee
considerarsi come una prova della rivelazione; e per lo splendore de'
suoi caratteri è il primo de' motivi di credibilità.

Ad ogni uomo di buona fede si può domandare: «Voi conoscete che tutti
han sete della felicità e della vita, orrore della morte: voi volete
vivere, felice, sempre: in fondo al cuor vostro c'è l'invincibile
inclinazione alla vita futura. Ma che cos'è questa vita futura? che
possono dirvene gli altri uomini? Lo sguardo dell'anima non vi penetra,
l'esperienza non ce ne dice nulla; intorno a Dio, alle cose invisibili
l'uomo non vuol ascoltare che Dio. In fatto di religione, la ragione
domanda la fede divina. E perciò la fede è un fatto generale quanto la
ragione: l'umanità credette sempre che Dio non l'ha gettata sulla terra
senza istruirla del suo fine e della legge con cui raggiungerlo. Questa
testimonianza divina la ragione umana non la cerca in una voce morta, in
un libro finito; non chiede un oggetto di studio, ma un maestro,
un'autorità viva e parlante. Or dove sta quest'autorità divina
insegnante? autorità distinta dalle umane, improntata del suggello
divino? Non può variare, questa non può insegnare ora il sì ora il no.
Deve dunque esser una, perpetua, universale, infallibile: tal la vuole
la coscienza umana; a tali caratteri la riconosce, appena le si mostri.
E la coscienza e la storia ci attestano che un'autorità divina è
manifestamente necessaria all'uomo e al mondo.»

Or la ricerca de' testi, il paragone de' sistemi non sono possibili alla
generalità: eppure l'uomo ha bisogno di tal certezza. Fuori del
cattolicismo, nessuna Chiesa pretende all'infallibilità nè
all'universalità.

Quei che raccomandano la Bibbia, la sola Bibbia, suppongono
l'infallibilità di tutti; il che è un evidente assurdo: i Protestanti
stessi nol credono: tant'è vero, che predicano. Per la missione che il
cristianesimo aveva di rintegrare l'unità religiosa e morale nel mondo,
bisognava l'autorità, mentre la ragione individuale è fonte e materia
eterna di scissura. Se al primo momento avesse potuto ognuno
interpretare a sua voglia le Scritture, e applicare i precetti
evangelici, ognuno avrebbe avuto un sistema proprio; non potea proferire
«Questo è l'errore», nè come san Paolo dire «Un solo Cristo, un solo
battesimo, una sola fede». Sin dall'origine sant'Ignazio raccomanda:
«Siate soggetti all'autorità stabilita da Cristo. Rimanete uniti a Dio,
a Gesù Cristo, ai vescovi, ai precetti degli apostoli».[12] E san
Clemente ai Corintj: «Cristo è venuto a stabilir la comunione de' cuori
come degli spiriti: in conseguenza bisogna l'unità. Ma l'unità,
l'ordine, l'armonia richiedono una sommessione assoluta alle leggi
divine: e senza umiltà non v'è sommessione. Il pontefice (vescovo) ha
incarichi particolari, particolari il prete, il levita; il laico è
tenuto solo ai precetti di laico».[13]

La Chiesa ha uno scopo soprannaturale, e però il potere di essa dovea
provenire dall'alto; e la forma di reggimento meglio appropriata doveva
essere la monarchica.[14] Da principio essa fu tale necessariamente
nella persona di Cristo. Morto, non potendo più sensibilmente
esercitarla, dovea sostituire chi ne facesse visibilmente le veci. Disse
dunque a Pietro, «Sopra te edificherò la mia Chiesa»; e agli Apostoli,
«Andate e predicate a tutto il mondo». Così Pietro pronunzierebbe la
verità; gli altri la propagherebbero: e la Chiesa visibile, vivificata
da invisibile virtù soprannaturale, otteneva l'unità di governo.[15]

Pietro stesso avea rinnegato Cristo: onde, nonchè esser superiore alle
debolezze umane, rappresenta l'umanità peccabile. Pietro pone dapprima
la sua cattedra in Antiochia, dove applica il nome di cristiani ai nuovi
credenti. Passa poi a Roma, e quivi la stabilisce: fatto che gli
eterodossi negherebbero volentieri, perchè così negherebbero
l'apostolica istituzione della sede romana, divenuta la primaria del
mondo cattolico; ma che è provato da abbondantissimi argomenti. I nostri
videro un miracolo provvidenziale nell'esser cadute le chiese di
Gerusalemme, d'Antiochia, d'Alessandria, fondate in origine, e di cui
conosceasi quando cominciarono; solo Roma offre una serie di vescovi,
non mai interrotta fra tanto avvicendare di accidenti.

Quando Pietro fu ucciso, potea credersi spento il cristianesimo, poichè
trovavasi di fronte il politeismo signoreggiante colla forza e
coll'ingegno, e il mosaismo coi miracoli e la legge; nessuna temporalità
sorreggeva il papato, e il mondo non vedeva in effetto che pochi
visionarj, sparpagliati per l'orbe. Eppure i raggi dalla stalla di
Betlem e dalle catacombe di Roma si diffondeano per tutta la terra, e
cominciava quella concatenazione di atti stupendi, ove incontra il
miracolo chi studia puramente la storia.

Paolo, da persecutore de' Cristiani divenutone l'apostolo, diffuse il
vangelo tra le genti colla parola e con epistole, ove discute le idee
degli Ebrei che pretendeano miracoli, e dei Gentili che pretendeano il
legame logico delle idee. Uomo della ragione, argomenta ed estende ai
varj membri le verità universali; mentre san Pietro, anche quando
scrive, è l'uomo dell'autorità che proclama il dovere e la sommissione.
Ma «non sia chi s'intitoli di Pietro o di Paolo, ma solo di Cristo»;
intima Paolo: «Solleciti di conservare l'unità dello spirito mediante il
vincolo della pace; un solo corpo, un solo spirito, una sola speranza,
un solo signore, una sola fede, un solo Dio padre di tutti e per tutte
le cose»[16].

Intanto san Matteo avea scritto pel primo la storia di Cristo, la più
abbondante di fatti, come palestino ch'egli era e testimonio diretto.
Marco, discepolo di Pietro, la espose in greco qual l'aveva udita, e
così Luca antiocheno, più colto e dignitoso, che appare anche autore
degli Atti degli Apostoli, narrazione sublime per semplicità.

Giovanni ebreo, che ebbe parte nelle scene della redenzione, e poi fu
vescovo e martire, vedendo diffondersi molti errori sulla natura divina
del Redentore, scrisse ultimo il suo vangelo, men curandosi di ripetere
i fatti già prodotti dagli altri, che di combattere le dottrine
gnostiche. Poi da narratore mutato in contemplatore, nell'_Apocalissi_
manifestò le visioni soprannaturali, in cui gli furono predette le
persecuzioni e i trionfi della Chiesa, la distruzione del mondo e i
gaudj della superna Gerusalemme.

Altri vangeli, epistole, costituzioni, la Chiesa o riprovò o non
riconobbe, ma per la loro antichità possono servir di testimonio; come
la tradizione costante che risulta da monumenti storici, prova
apostoliche alcune verità, sebbene non scritte[17].

Il simbolo detto apostolico, primo compendio della teologia cristiana,
non consta sia stato composto dagli apostoli avanti dividersi; tale però
lo vuole la tradizione costante: e forse vi furono fatte aggiunte
posteriori, sebbene non sembri probabile che a quella formola
battesimale si attaccasse qualche nuovo articolo man mano che una nuova
eresia rendeva necessaria una protesta. Certo è concepito in modo tanto
generale, che anche i maggiori dissidenti poterono conservarlo[18].

Ciò che distinse ben tosto il cristianesimo da tutte le altre religioni
e filosofie, è il pretender subito all'universalità. Fin allora non si
conoscevano che religioni nazionali o di Stato; ciascun popolo teneva le
sue divinità, i suoi culti; la religione serviva a discernere popolo da
popolo. Il cristianesimo pel primo, rotte queste barriere particolari,
dichiarò esser destinato a tutto il mondo, esser capace di abbracciare
tutte le nazioni, qualunque ne fosse la civiltà, di soddisfarne tutti i
bisogni religiosi, e fondare una chiesa dell'umanità, un regno di Dio
indipendente da frontiere geografiche o governative. In conseguenza non
presentasi come attuamento d'alcuna teorica particolare, non s'appoggia
a veruna scuola, nè cerca alcuna alleanza: oppone francamente la follia
della croce alle osservanze ebraiche come alla bellezza greca e alla
legalità romana, talchè subito è considerato come una empietà, una
ignoranza, una ribellione, la negazione di Dio, della scienza, della
legge, il nemico del genere umano[19].

L'opera del Cristianesimo era di preparare un nuovo mondo, assodandone
la base, cioè la fede: fede superiore a qualunque ostacolo. Pertanto il
primo secolo dovette essere più pratico che speculativo, più d'azione
che di parola: la dottrina era perpetuata da una tradizione orale e
viva; era concentrata in alcune parole gravi e semplici. La fede
provavasi colla testimonianza di quelli che aveano udito e veduto l'Uomo
Dio: le disparità che nascessero restavano appianate dal detto d'un
discepolo; la gran giustificazione consisteva nel rinovellarsi del
mondo, e la dichiarazione di fede nell'escludere dalla comunione d'una
Chiesa chi credesse altrimenti, cioè chi alla verità generale surrogasse
una restrizione di particolar suo giudizio.

E poichè quaggiù il bene e il male sono in perpetua lotta, il
cristianesimo dovè combattere, prima col martirio, dappoi colla ragione,
l'erudizione, l'eloquenza. E qui s'apre lo spettacolo della
controversia, dove gli apologisti che erano stati filosofi, cominciarono
quel conflitto dell'errore colla verità, che finirà solo coi secoli;
dove il cristianesimo, combattendo gli Ebrei e i Gentili, parla alla
ragione e all'intelletto; l'esegesi biblica è creata; una scuola
cristiana fondasi accanto alle altre dell'êra alessandrina.

San Giustino nell'_Apologia_ descrive le usanze, le assemblee, i riti
dei primi Cristiani. «Terminate le orazioni, al preside vien presentato
del pane e una coppa di vino e acqua. Presili, egli glorifica il Padre
nel nome del Figliuolo e dello Spirito Santo, e ringrazia dei doni, e i
diaconi distribuiscono quel pane e quel vino e acqua. Questo cibo da noi
chiamasi eucaristia, e non può assumerlo chi non creda la nostra
dottrina, e non sia stato terso de' suoi peccati, e non si conduca
giusta i precetti di Gesù Cristo. Imperciocchè questo non è da noi
mangiato come pane e bevanda comune; ma come per la parola di Dio si è
incarnato Gesù Cristo, così quel cibo, santificato per l'orazione del
suo Verbo, diviene la carne e il sangue del medesimo Gesù Cristo
incarnato, e diverrà carne e sangue nostro per la mutazione che accade
nel cibo».

Tennero dietro que' grandi che chiamiam Santi Padri, la più splendida
luce che sfolgori sul mondo, in tempo che vi si addensavano tutte le
sciagure.

Più attenti ad abbatter l'errore che a dichiarar sistematicamente la
verità, i Padri non ci lasciarono veruna sistematica esposizione della
fede, sino a san Gregorio taumaturgo e a Cirillo vescovo di Gerusalemme.
Origene dà una spiegazione metodica della dottrina rivelata, e una
teologia cristiana pone come corona della scienza enciclopedica; tutto
ciò nel mentre l'antica società si sfasciava. Il loro studio sarà sempre
la più solida confutazione di coloro che negano o l'esistenza o la
divinità di Cristo, o che attribuiscono a moderne intrusioni i dogmi e i
riti più sacri.

Ma non vi si cerchi l'espressione più precisa e sistematica de' dogmi;
la dottrina al pari che l'organamento si vanno svolgendo e assodando via
via che la disputa costringe alla definizione più esatta e al
chiarimento. Dapprima i dogmi sono, direi, fatti; è la parola di Cristo
che costituisce l'insegnamento degli apostoli, non allegando altra
autorità che la rivelazione divina: in appresso divien necessario
formolare le basi del cristianesimo, e imprimervi un carattere, che più
non possa alterarsi. A tal uopo Gesù Cristo avea promesso alla Chiesa
l'indefettibile assistenza dello Spirito Santo. Essa nel cenacolo ha la
stessa fede come quando è diffusa in 200 milioni di credenti: sicchè
bisogna ammettere o un miracolo permanente, o che Cristo non abbandonò
al capriccio della ragione individuale l'interpretare il senso delle
verità rivelate.

Se san Paolo avea fulminato la ragione umana[20], certamente intendeva
gli abusi che ne faceva allora la filosofia, come alcuni cattolici ai dì
nostri condannano la libertà, poichè di questo nome si ammanta l'abuso
del potere. Ma i Padri, e Giustino avanti a tutti, concilia la fede
colla ragione, il vangelo colla vera filosofia, mostrando che quanto
essa ha di vero e di buono l'ha dedotto _da noi_: assegnano i limiti
della ragione e della fede, senza confonderle.

De' quali insegnamenti una gran pruova si ha nel vedere come gli etnici
allora, cambiando sistema, togliessero a dimostrare che i Cristiani
aveano dedotto ogni cosa dalla filosofia gentile: fino artifizio di
colpirli appunto colle armi, di cui essi eransi muniti.

Ed è notevole come, nel valutare il lavoro spontaneo della ragione e i
soccorsi della tradizione, i Padri concordino con ciò che poco fa[21]
proclamò la più venerata autorità, cioè che fra la ragione e la fede non
può darsi antagonismo, perchè entrambi emanano dalla fonte stessa; che
la ragione può provar l'esistenza di Dio, la spiritualità dell'anima, la
libertà dell'uomo; che l'uso della ragione precede la fede e a questa
conduce: che della ragione non sono colpa gli errori in cui cadde la
scienza superba.

Cristo disse agli apostoli: «Io dispongo per voi del regno, come il
Padre ne dispose per me, in modo che mangiate e beviate alla mia mensa
nel regno mio e sediate in trono a giudicare delle dodici tribù
d'Israele». E a Pietro: «Simone, Simone, ecco Satana vi cercò per
vagliarvi come il grano. Ma io pregai per te acciocchè la fede tua non
venga meno; e tu rivolto conferma i fratelli tuoi[22]».

Qui evidentemente Cristo lasciava a' suoi apostoli il sacerdozio come
privilegio particolare; e dava a Pietro lo special dovere di assodare i
fratelli nella fede. Non è dunque il sacerdozio accomunato a tutti i
fedeli. Negli _Atti degli apostoli_, per l'elezione de' primi diaconi è
consultato il popolo, ma il ministero è conferito dagli apostoli. Sorge
contestazione sulla necessità o no de' riti giudaici? si fa appello agli
apostoli e agli anziani. Nel concilio di Gerusalemme gli apostoli e i
seniori non consultano tutti i fedeli sull'astinenza dalle carni
immolate e dalla fornicazione; san Paolo ingiungeva il da farsi, e
scrive ai Tessalonici: «Vi supplichiamo di riconoscere le cure di quei
che vegliano sopra di voi, e vi governano secondo il Signore».

Ecco la superiorità di diritto divino de' preti sopra i laici, ch'è
negata dai Protestanti quasi non vi fosse altra distinzione fra la plebe
credente e il governo della Chiesa, tranne quella di fatto e diritto
meramente umano, che corre fra il popolo mandante e i suoi mandatarj. La
superiorità della gerarchia sopra i fedeli somiglia alla superiorità de'
padri sui figliuoli, che non dipende da delegazione di questi, ma si
fonda s'un titolo anteriore, e da essi indipendente. I preti non sono
costituiti dal popolo suoi mediatori appo Dio, ma sono costituiti da Dio
suoi ministri sopra il popolo: l'autorità vien dall'alto al basso, non
il contrario. È dunque fuor di ragione il sostenere che, chiunque
conosce la verità, può annunziarla, senza bisogno di carattere o
missione speciale.

Ma gli acattolici dicono che i pastori della Chiesa perdettero la
missione dacchè insegnarono l'errore. E qual tribunale sentenziò tal
decadenza? e qual legge avea prefisso che, insegnando il falso,
perderebbero il carattere e la podestà, e i popoli avrebbero diritto di
rivoltarsi? Quei che li condannarono furono gli stessi che gli
accusarono; ammessa la colpa, li dichiararono decaduti; agli spossessati
surrogarono se stessi. Tre atti di eguale illegalità.

Ed oggi stesso, ampliando que' precedenti, si sostiene che i sacerdoti
sono semplici mandatarj del corpo de' fedeli; e che non ad essi, ma a
tutto quel corpo fu demandato l'insegnare e governare; che il potere de'
sacerdoti non essendo d'istituzione divina, non può obbligare i fedeli
in coscienza; e quindi le loro decisioni non hanno vigore se non
accettate dalla congregazione dei fedeli. Aggiungono che i sacerdoti non
possono avere autorità indipendente da quella del principe: sta ad essi
la decisione della fede, ma la pubblicità di questa e del ministero dee
dipendere dai governi; nè i sudditi possono essere legati che per
podestà dell'imperante.

Certo queste teoriche non le deducono dal vangelo, dove non appare mai
che Cristo domandasse dal principe licenza di predicar la redenzione; e
i primi apostoli annunziarono la verità a dispetto dello Stato, tanto
che legalmente furono uccisi.

Siffatto governo della Chiesa parrebbe dispotico, giacchè estendesi
sulle coscienze, impone quel che s'ha a credere, e proscrive il
dissenso. Sì: appunto come la stella polare inceppa l'azione del
nocchiero, additandogli il nord, e impedendogli di errare. E la
infallibilità deriva da un principio superiore all'uomo, di modo che la
ragione vi si acqueta. Tutto poi fa in pubblico, per lettere,
dibattimenti, assemblee diocesane, provinciali, nazionali, universali,
nulla determinando se non dopo deliberazione comune. L'obbedienza dunque
nasce dalla persuasione; e solo a Dio, vero e primo sovrano, ed al
Cristo suo si sottomettono il pensiero e la coscienza; i principi
cessano d'aver diritto su questa, e si limitano a tutelarla, e a
provvedere che la giustizia sia rettamente distribuita.

V'è chi nega obbedire, persiste nel peccato, scandalizza i fratelli? la
pena più severa sarà l'escluderlo dalla comunione della Chiesa, talchè
non partecipi alle preghiere e al convito de' buoni.

Uomini di nessun credito, di mediocre scienza, sprovisti di ricchezze e
di spade, fra un mondo ripieno di «opere della carne, dimenticanza di
Dio, incostanza di matrimonj, avvelenamenti, sangue e omicidj, furti e
inganni, orgie, sacrificj tenebrosi, persone uccise per gelosia, o
contaminate coll'adulterio, tutte le cose confuse, e una gran guerra
d'ignoranza che la follia degli uomini chiama pace»[23], deploravano la
perversità del secolo, senza per questo staccarsene ed abborrirlo, come
Cristo sedeva alla mensa de' banchieri; e vi opponevano la voce,
l'esempio, il martirio, colle aspirazioni della vita interiore, colle
virili gioje dell'astinenza e del sacrifizio, colla fratellanza della
preghiera e delle opere, «coi frutti dello spirito, che sono carità,
gioja, pace, pazienza, bontà, longanimità, dolcezza, fede, modestia,
temperanza, castità»[24]. Così la luce propagavasi con miracolosa
rapidità, di mezzo alla sfrenata potenza di quell'idolo senza viscere,
che si chiama lo Stato, alla febbre de' progressi materiali,
all'orgoglio degli Stoici, alla grossolanità de' Cinici, alla
depravazione degli Epicurei, allo scetticismo degli Accademici, alle
raffinate voluttà, allo spietato egoismo, all'indifferenza d'una
religione ove si appajano la superstizione e l'incredulità,
all'inebriamento della forza e della scienza, ai savj ed ai gaudenti
che, sdrajati in orgogliosa noncuranza, limitavansi a domandare «Che c'è
di nuovo?», e all'annunzio della buona novella rispondevano «Abbiam
altro da fare»; oppure «Vi ascolteremo domani». Quella dottrina, che
all'opinione, all'esitanza, al timore opponeva virtù ignote, la fede, la
speranza, la carità: al panteismo filosofico e al popolare la personale
spiritualità di Dio e l'individualità dell'uomo; alla disperazione la
providenza; all'amor proprio la carità: che rivelava l'inesplorabile
profondità della natura divina: che al gran mistero della vita porgea
spiegazione in ciò che la precedette o che la seguirà: che rimettea la
pietà del cuore nella religione dond'era partita: questa dottrina,
esposta in omelie e catechismi, forme diverse d'una fede sola e d'una
sola speranza, adattate alla capacità d'una plebe, bisognosa di ragione,
d'industria, di benevolenza, rendea comune la cognizione delle attinenze
dell'uomo con Dio per via del mediatore, i principj che importano
all'ordine sociale, e la scienza che è essenziale, quella de' proprj
doveri. Soddisfacendo ai bisogni intellettuali e morali, che la
tirannide o le sventure reprimono non spengono, e sottraendo alla
società la parte più eletta dell'uomo, asilo di Dio, responsale de'
proprj atti, piantava la libertà vera, generata dalla cognizione della
verità, dalla pratica della virtù, dalla fede in Colui pel quale regnano
i re.

Date le convinzioni, grandeggiano i caratteri; veggonsi fanciulli e
donne soffrire e morire per render testimonianza alla più sublime delle
cause, la verità; e gli Atti de' martiri sono il libro d'oro
dell'umanità rinobilitata; della coscienza che ripulsa gli attentati
della forza. I martiri rigenerarono il mondo per via dell'amore, quando
la persecuzione spingerebbe a sovvertirlo coll'ira; attestano la propria
vita col ricever la morte senza darla, e procedere al supplizio colla
croce in mano, e sul labbro la confessione del vero.

La Chiesa, non avendo regno in questo mondo, avvicinava più sempre gli
uomini al regno di Dio, il quale consiste nell'unità di credenze e
d'affetto. Quel governo spirituale, diritto di Dio introdotto fra gli
uomini, non metteasi in urto col temporale, anzi avea precetto
d'attribuire a Cesare quel ch'è di Cesare, serbando a Dio quel ch'è di
Dio. Ma a fronte del Cesare, adorato e trucidato a vicenda, ergeva
dottrine che innovavano la società, surrogando alla violenza il
consiglio, al castigo affliggente la penitenza emendatrice, insomma allo
Stato la Chiesa, al dominio d'uno o di pochi sopra moltitudini
asservite, l'eguaglianza di tutti davanti alla legge morale, che trae
forza unicamente dall'infallibilità di chi l'impone.

Da poco più d'un secolo era morto il discepolo prediletto, quando il
suffragio unanime della Chiesa portava a capo della cristianità uno
schiavo, che avea fatto girar la macina d'un molino, e che divenne uno
de' papi più insigni col nome di san Calisto. Qual rivoluzione! Tutto il
mondo era diviso, stando la potenza, la ricchezza, la libertà da un
lato, dall'altro la schiavitù, l'oppressione, la miseria; sol nella
famiglia cristiana tutte le classi e le posizioni s'avvicinano; essa
possiede la più alta autorità morale che mai comparisse sulla terra, e
la confida a uno schiavo. E questo schiavo divenuto pontefice, prosegue
l'opera dell'emancipazione e dell'affratellamento dei popoli: e mentre
le leggi Giulia e Papia dichiarano illegittimo il matrimonio d'un figlio
di famiglia senatoria con persone di classi inferiori, Calisto predica
che il patrizio e il servo ebbero da Dio gli stessi doveri, che Dio li
giudicherà coll'egual rigore, nè permetterà mai che l'orgoglio rompa
l'unione da lui consacrata. Papando Calisto, s'istituì che, nella nomina
dei vescovi convocassesi il popolo, non perchè eleggesse, ma perchè
dichiarasse se l'eletto pareagli degno o no del sublime suo ministero:
altra insigne modificazione della legge romana, ammirando la quale,
Alessandro Severo decretò che nelle varie provincie si facesse
altrettanto per l'elezione dei prefetti.

Gli estremi di fierezza e d'iniquità, che ad essi consentiva la legge,
furono fatti dagli imperatori per reprimere la nuova fede; ma ormai il
mondo divideasi in due gran parti, idolatri e cristiani. Costantino
sentì la nuova forza innovatrice[25], e le concesse parità di diritti; e
tanto bastò perchè presto divenisse prevalente. Alla nuova Chiesa egli
profuse doni ricchissimi[26]; e sebbene sia falsa la carta con cui a
papa Silvestro concedeva la sovranità di Roma e dell'Italia[27], parve
adempiere un decreto della Providenza quando egli trasferì a Bisanzio la
sede dell'impero, lasciando libera la metropoli del cristianesimo[28].
Alle chiese fu attribuito il diritto che già spettava alle congregazioni
pagane, di possedere beni sodi, e subito gliene furono profusi a segno,
che Valentiniano I vietò al clero d'accettare eredità: ove san Girolamo
riflette non esser deplorevole il divieto, ma il meritarlo.

Uscita dai nascondigli, la Chiesa manifestò e compì quell'organamento
esterno, che durò sempre colla stabilità che essa imprime alle opere
sue. Entrato nella vita civile, il clero adottò la magnificenza che
parea necessaria a colpire le immaginazioni e onorar le cose sacre.
Della religione bisognava ordinar l'arte, cioè il culto, moderandolo in
guisa che il sentimento non trascenda, determinandone l'oggetto e i
confini, acciocchè l'anima soddisfi al bisogno d'elevarsi a Dio, e di
svolgere la divina idea che crede. E pel culto aggiungendo alla fede e
alla scienza il sentimento, più che per la costituzione clericale, la
Chiesa esercita l'apostolato civile, e, pur mettendo Iddio come unico
fine, come verità da conoscere e bene da conseguire, opera tanto
sull'umana società.

Nella fanciullezza della vita morale, la Chiesa parlava men tosto col
linguaggio della speculazione dogmatica, che col merito e il demerito,
il premio e il castigo. Perciò bisognavano tipi, ed erano i santi, il
cui culto crebbe quello di Cristo, estendendolo a coloro che meglio a
lui si conformavano. Modelli di virtù parziali, variate, molteplici,
erano più accessibili che non la perfezione divina, erano quasi
decomposizioni dell'unico esemplare, altri tipi d'una bellezza
inarrivabile. Quel culto derivava dunque necessariamente dall'amore e
dalla devozione al Redentore; e ciascuno sceglievasi un protettore per
virtù o meriti ed uffizj speciali; e tutti vi trovavano un ideale
diverso, e lo atteggiavano artisticamente nella leggenda, nella poesia,
nel disegno.

A una dottrina, che è per essenza universale, tornava indispensabile
l'unità del sacerdozio, ordinato in guisa da perpetuare la rigorosa
conformità di credenza nell'infinita varietà di popoli, effettuando una
civiltà cattolica, cioè universale. Con questo introdusse una
distinzione, ignota a Greci e Romani, quella di ecclesiastici e laici. I
primi, destinati a speciale servizio divino, riceveano la missione e la
dignità dal vescovo. Ogni comunità aveva un vescovo eletto da essa, e
che agli altri vescovi annunziava la propria elezione con lettere
pastorali, in cui faceva la professione di sua fede; gli uni agli altri
partecipavansi la lista degli scomunicati, rilasciavano lettere di
raccomandazione _demissorie_ pei fedeli che dalla propria passassero in
un'altra diocesi.

E diocesi, con nome dedotto dalla nuova distribuzione dell'impero,
chiamavasi il territorio su cui un vescovo avea giurisdizione.

Al clero fu di buon'ora imposto il celibato, tantochè Nicolao
d'Antiochia, eletto dagli apostoli per sovvenire ai fedeli bisognosi, fu
incolpato perchè, anche dopo diacono, s'accostasse alla moglie[29]. Con
ciò formossi una milizia, pronta a lanciarsi ne' pericoli d'ogni guisa,
senz'esser rattenuta dai legami domestici, vie più forti quanto che
legittimi.

Ma il clero era poco numeroso: in ogni città per lo più un'unica chiesa
e una messa o due, fino a considerare scismatica l'adunanza di fedeli
dove non assistesse il vescovo: egli solo potea consacrare, sebbene
nelle città maggiori, come Roma, il pane da lui consacrato fosse
distribuito anche da qualch'altro prete, senza diritto però di assolvere
o di scomunicare. Entrante il Vº secolo, Roma gloriavasi di possedere
ventiquattro chiese e settantadue sacerdoti. Lo sconcio di mandare
attorno le sacre specie indusse poi a permettere anche ai plebani di
consacrare, e poi di amministrare pure gli altri sacramenti, eccetto
l'ordine e la cresima, riservati ai vescovi, come l'assoluzione d'alcuni
peccati.

I vescovi, depositarj dell'autorità, non doveano stare assenti più di
tre settimane dalla loro diocesi; e applicandovi le norme del
matrimonio, si proibì il divorzio, cioè d'abbandonar una chiesa per
un'altra, se non l'esigesse il bene universale. Abitualmente il vescovo
veniva scelto nella diocesi stessa, laico o sacerdote: ma poteva anche
essere uno straniero, come tanti dei primi papi; come i Milanesi vollero
vescovo il loro governatore Ambrogio da Treveri.

I vescovi sin dapprincipio furono subordinati al papa; ma alcuni si
sottoponeano anche a quello della città più illustre, o la cui sede
fosse fondata da qualche apostolo, formando così provincie, il capo
delle quali intitolavasi metropolita, arcivescovo, patriarca: non aveva
superiorità spirituale, ma convocava a concilio i vescovi della
provincia, perciò chiamati suffraganei: li consacrava prima che
entrassero in funzione; rivedeva le loro decisioni: vigilava sulla fede
e la disciplina di tutta la provincia.

Quando morisse un vescovo, il metropolita destinava un sacerdote che,
sede vacante, amministrasse la diocesi; e in presenza di questo, il
clero proponeva, e l'assemblea del popolo eleggeva il successore; ma la
nomina doveva essere approvata dagli altri suffraganei, e confermata dal
metropolita.

Una due volte l'anno accoglieansi i vescovi a concilio sotto il
metropolita, di cui erano quasi i consiglieri. Le decisioni (_canoni_),
invigorite dal consenso comune dei vescovi, sostenute dalla
rappresentanza del popolo e dal diritto divino, acquistavano forza di
leggi per tutta la provincia.

La Chiesa di Roma, oltrechè eretta nella maggior città d'allora, era
stata fondata prima d'ogni altra d'Occidente e dal maggiore degli
apostoli, e consacrata col sangue di esso e di san Paolo. Consideravasi
dunque come supremo gerarca il vescovo di essa, benchè gli altri
patriarchi talvolta competessero; e se questa supremazia non ebbe sulle
prime occasione di mostrarsi quale apparve secoli dopo, se rifulgea più
per dignità che per esercizio di potere, esisteva in genere; il papa in
radice aveva ragione di giurisdizione sopra gli altri vescovi, che nei
casi più gravi non mancò di manifestarsi, e più dacchè gl'imperatori
cristiani ingiunsero che ogni vescovo potesse dalle sentenze del
metropolita appellarsi al papa della città eterna.

Quando erano difficili le comunicazioni fra le varie chiese, frequenti
concilj si teneano presso le singole; pure ricorreasi sempre a Roma, e
sant'Ireneo diceva: _ad hanc ecclesiam propter potiorem principalitatem
necesse est omnem convenire ecclesiam_[30]; e già san Girolamo era
tutt'occupato nell'assistere papa Damaso a rispondere ai consulti che
gli venivano dall'Oriente e dall'Occidente[31]; il concilio di
Calcedonia chiese da san Leone la conferma de' suoi decreti; i vescovi
d'Oriente scrissero a papa Simmaco, riconoscendo che le pecore di Cristo
furono confidate al successore di Pietro «in tutto il mondo abitato»;
papa Ormisda nel 318 stese un formulario, che i vescovi doveano
trasmettere firmato ai metropoliti, e questi al pontefice, come simbolo
dell'unanimità colla sede apostolica «in cui risiede la verace e intera
solidità della religione cristiana».

Quella superiorità divenne anche legale nell'ordine civile quando
l'imperatore Giustiniano ordinò che tutte le Chiese fossero soggette
alla romana[32], _quum ea sit caput omnium sanctissimorum Dei
sacerdotum, vel eo maxime quod, quoties hæretici pullularunt, et
sententia et recto judicio illius venerabilis sedis coerciti sunt_; e a
papa Giovanni II scrivea: _Nec patimur quidquam quod ad ecclesiarum
statum pertinet, quamvis manifestum et indubitatum sit, ut non vestræ
innotescat sanctitati, quia caput est omnium sanctarum ecclesiarum_.

Pietro fu eletto da Cristo: i successori suoi da un senato
ecclesiastico, poi quando a quella dignità si unirono ricchezze che non
cercò, ma che non doveva ricusare, sicchè mescolò la sua vita alla
convivenza civile, all'elezione concorsero il clero e il popolo; quando
quel posto divenne ambito, gl'imperatori s'intromisero, a titolo
d'impedir le sedizioni; e anche di poi pretesero confermar l'elezione.
Odoacre, che spossessò l'ultimo imperatore d'Occidente, vietò di
eleggere il vescovo di Roma senza prima consultare il re o il prefetto
della città, ma il decreto non tenne (482). Gelasio, papa in quel tempo,
è notevole per avere, in concilio, distinti i libri canonici dagli
apocrifi, determinato a quali scrittori competesse il titolo di Padri
della Chiesa, e definiti ecumenici i quattro sinodi di Nicea,
Costantinopoli, Efeso e Calcedonia. Egli scriveva all'imperatore
Anastasio: «Il mondo è governato dall'autorità pontificia e dalla
podestà regia: la sacerdotale è più grave perchè dee render ragione a
Dio per l'anima dei re. Tu sovrasti a tutti per dignità, pure t'inchini
devoto ai capi delle cose divine, o da loro impetri i mezzi di salute, e
comprendi che, pei sacramenti e per l'ordine della religione, devi
sottometterti a loro, anzichè sovrastare; e in tali materie pendere dal
giudizio loro, anzichè ridurli alla tua volontà. Se nell'ordine della
pubblica disciplina, anche i capi della religione obbediscono alle leggi
tue perchè a te fu conferito l'imperio per disposizione suprema, con
quale affetto non dovete voi obbedire a coloro, che hanno incarico di
dispensare gli augusti misteri?»

I re barbari conquistatori s'ingerirono sempre più o meno nelle nomine
dei papi fino ad Adriano II nel 867, quando l'elezione fu restituita al
clero e al popolo; ma da Giovanni XII fin dopo l'antipapa Silvestro (dal
956 al 1102) i tirannelli e gli imperatori vi ebbero gran tresca; tornò
poi l'elezione al clero e al popolo fino all'antipapa Vittore nel 1138.
Allora il diritto elettorale fu ristretto ne' cardinali; poi
nell'elezione d'Innocenzo V (1276) si regolarizzò il conclave nella
forma prescritta poco prima dal suo predecessore Gregorio X, e che
tuttavia conserva. Oggi il papa è sempre scelto fra i cardinali, sicchè
uno di loro è predestinato ad avere l'infallibilità. Lo Spirito Santo
illumina gli altri a riconoscere il predestinato, che essi non
costituiscono propriamente, ma nominano, quasi come cosa che già
esisteva. Per tal modo connettonsi vescovi e papa.

Damaso, poi Gregorio Magno presero il titolo di _servo de' servi di
Dio_; Benedetto III quel di _vicario di san Pietro_; e dopo il secolo
XIII si adottò quello di _vicario di Gesù Cristo_.

Questa monarchia elettiva e rappresentativa, accoppiava l'obbedienza
perfetta dovuta al capo, benchè tolto dal popolo, colla libertà e
l'eguaglianza; una gerarchia, indipendente da ogni eredità, poteva
svilupparsi indefinitamente, eppure sottostava a una magistratura
suprema infallibile, e tutti erano sottoposti, ma unicamente alla legge
di Dio, promulgata e interpretata dalla Chiesa, alla quale Iddio disse,
«Chi ascolta voi, ascolta me; pascete le mie pecore; ciò che voi
sciorrete sarà sciolto, ciò che legherete sarà legato».

L'infallibilità del pontefice s'induce dalle espressioni con cui Cristo
costituì Pietro fondamento della Chiesa: benchè altri opini che dalle
espressioni stesse non traggasi a rigore l'infallibilità dogmatica.
Questa è interpretazione di passo scritturale, e perciò non dipende da
criterio privato, bensì da decisione della Chiesa; e poichè la Chiesa
non la proferì, nessuna delle due parti può sentenziare d'eretica
l'altra; e viviamo tutti nello stesso vincolo della carità. Se mai
potesse fallare il vescovo di Roma, come parrebbe avvenisse nel caso di
Onorio e di Liberio, la sua definizione non resterebbe accettata dal
corpo dell'episcopato, il quale è infallibile, come infallibile chi
definisce qual capo di esso.

Infallibili, i papi non sono però impeccabili. E il severo Tertulliano
dicea: «Che m'importa qual sia la condotta dei prelati, purchè insegnino
la verità? La verità della fede non dipende dalle persone; bensì dalla
fede noi argomentiamo l'autorità delle persone».

E sant'Agostino: «Giuda predicò il vangelo al par degli altri, e chi lo
rigettò, rigettò Cristo medesimo, che disse, _Chi sprezza voi sprezza
me_[33]. Quand'anche tutti i prelati e vescovi fossero uomini viziosi,
tu non devi staccarti dalla cattedra di Pietro, colla quale tutti sono
congiunti per l'unità della dottrina»[34].

Quasi compimento all'esterna attuazione della Chiesa vennero i monaci,
vittoria del soprasensibile sul sensibile, perfezione del cristianesimo,
del quale vogliono adempire non solo i precetti, ma anche i consigli.
Già durante l'Impero, alcuni ritraevansi nella solitudine, stomacati del
mondo e con eccessi di ascetiche penitenze colpivano l'immaginazione de'
Barbari. Ma se in Oriente il monachismo parve solo un'avversione ai
sensi, evangelizzatore di civiltà nuova mostrossi in Occidente, dove si
preferì unirsi in comunità di preghiere, di studio, d'operosità. In
questo senso dettò una regola di condotta permanente e uniforme san
Benedetto. Da Norcia nella Sabina, dond'era nativo e signore, ritiratosi
a Subiaco, poi a Monte Cassino, formò dodici conventi (529), ove
sperimentò quella sua legislazione, la quale operò per più lungo tempo e
su maggior numero d'individui che qualunque altra principesca; ammirata
anche da grandi statisti, che aveano sperimentato quanto sia difficile
sistemare una società. Tutto v'è democratico ed elettivo, senz'altro
riguardo che alla dottrina, alla santità, all'abilità; ogni monaco
abbandona i titoli e sino il nome di famiglia, e accomuna i possessi,
come Cristo che, _cum esset dives, egenus factus est_: ma può esser
eletto fino alla suprema dignità. Nulla di aspro e di grave[35]; ma
uomini, cose, tempo, tutto v'è disciplinato; tutte le volontà sono
sottomesse a quella dell'abbate, che una volta eletto, esercita potere
assoluto, ma avvinto dalla regola e dalle consuetudini, le quali
determinano le più minute particolarità della vita, come vestire, quando
lavarsi o radersi; in che giorni alle fave e alle erbe aggiunger olio e
grasso, o il frugal desco rallegrare di ova, pesci, frutta.

Benedetto introdusse nella vita monastica la perpetuità di voti solenni.
Provata la vocazione in lungo noviziato, tra mortificazioni e prove, che
dirà vane e puerili sol chi non le conosca dirette a ottener la
sommessione della carne allo spirito, e quella libertà che consiste nel
padroneggiare le passioni, proferivano i voti di castità, obbedienza,
povertà, e così nel vilipendio d'ogni godimento materiale, davansi alla
ricerca esclusiva della vita superiore.

Associavansi in tal modo la prudenza e la semplicità, la libertà e la
sommessione, il coraggio e l'umiltà. Nell'uffizio di sottrarre lo
spirito alla materia concentrandolo, gli si dava un concetto
elevatissimo della sua natura, dell'alto principio e del fine suo; con
istraordinarj atti convinceasi che l'uomo, assistito dalla Grazia, può
vincere le passioni brutali, e viver da angelo in terra. Ricordando il
detto dell'Apostolo _Qui non vult operari nec manducet_, tutti
industriavansi a qualche arte; copiar libri, predicare, comporre, ovvero
domesticar selve all'agricoltura e alla civiltà, fondare conventi che
divenivano come stazioni al progresso dell'incivilimento, o nucleo di
villaggi e città che ancor ne serbano il nome; alimentavano anche il
sentimento delle bellezze naturali e artistiche, educando fiori, ornando
chiese e altari, avvivando le solitudini colla delizia del canto. In
questi centri d'attività e di studj, ricovero d'anime afflitte o
disingannate, di grandi decaduti, di violenti ammansiti, di innocenti
oppressi, di spose tradite, di vedove che col marito aveano perduto il
lustro di lor dignità, fondeansi i Romani coi Barbari, i vincitori coi
vinti nella uniformità della disciplina.

Fra i tumulti d'un'età robusta e di transizione, molti agognavano la
solitudine dello spirito, la pace della coscienza, le elevazioni del
cuore, voleano interporre uno spazio fra le procelle della vita e la
calma del sepolcro; e non entrava ne' chiostri soltanto chi fosse stanco
dell'attività o disilluso delle passioni e delle speranze; ma anime
infervorate, che accanto alla penitenza collocavano le virtù naturali e
le civili.

E i monaci sottentravano ai martiri, i quali spesso imitavano anche nel
coraggio e ne' tormenti; fra società mutevoli rappresentavano la
sapienza della durata colla volontà liberamente sottomessa alla fede e
coi mezzi che dà lo spirito di corpo, unito a severa disciplina; fra le
cupidigie ambiziose, essi soli per istinto rimanevano contenti alla loro
sorte, ma il torzone e il canepajo poteano diventar guardiani e priori,
e ottenere il cappello rosso e il triregno; il mondo ammirava in essi
una dottrina e una virtù, che considerava egualmente come sopranaturale.

Altri Ordini si fondarono poi[36], esercito volontario e attivo in favor
della Chiesa, ma con armi e ordinamenti diversi dalla comune società.
Alcuni erano contemplativi; e son quelli che, ne' momenti ove i popoli
operano e non pensano, pensan per essi, e adocchiano l'istante in cui
richiamare certe verità, che rimettano in equilibrio l'azione e la
riflessione, e far giudicare i fatti non dall'esito, ma da canoni
morali. Altri portavano il lavoro, la fecondità, la forza,
l'intelligenza umana nelle solitudini, dianzi invase dalle fiere, o
dalle paludi, o dalle sabbie; là introducevano la vite, i pomi, le
mandrie, le pecchie, l'irrigazione, la coltura del riso, la fabbrica de'
formaggi, e risedeano sui beni proprj costantemente, il che quanto
importi lo sanno i contadini del nostro secolo; il ricavo ne versavano
tutto a miglioramenti, cioè a crescere il capitale di cui vantaggiano i
poveri agricoltori; non esigeano da questi che tenui affitti o moderate
retribuzioni, a differenza de' piccoli possidenti che vi succedettero.
Il nostro secolo, glorioso d'averli distrutti, gl'incolpa che non
ricavavano dai terreni tutto quel che si poteva; al qual biasimo non so
quanto applauda la plebe, che vivendo giorno per giorno, non si trova
più nulla nel passato, nulla nell'avvenire.

Il povero, del quale in oggi tanto si ciancia e per cui così poco si fa,
trovavasi onorato e consolato quando vedeva la povertà eletta
volontariamente e considerata come meritoria. Le loro sollicitudini
agricole insegnavano il rispetto alla proprietà. Il grande avea sgomento
di questi cucullati, che senza speranze, senza timori, venivano al suo
castello o alla sua reggia a rimproverarne le prepotenze, a chieder la
riparazione d'un'ingiustizia, a intimare castighi da cui non li
salverebbero nè i torrioni nè i bravi.

Carlomagno dicea loro: _Optamus vos, sicut decet ecclesiæ milites,
interius devotos et exterius doctos esse_, e in fatti è da loro soli che
ci vennero conservati i libri e le cognizioni di tutta l'antichità.
Uomini di preghiera e di penitenza, pure non si credeano estrani alla
politica, anzi parlavano alto ai re, teneano i conti e le casse delle
città, ripristinavano le paci, tesseano le leghe de' popoli, dettavano
nelle Università, raccoglievano gli artisti.

Ma della missione civile li lodano anche i profani e gl'increduli; nè
questa era la loro speciale, bensì il purificar il mondo colla carità,
domarlo colla rassegnazione, edificarlo con quella sublime vocazione,
che lungi dall'invidiosa povertà d'un amore esclusivo, fa che l'uomo si
dia tutto a tutti, nei doveri consultando unicamente l'interesse
spirituale: e nell'amor di Dio portato all'eroismo, cerca un rimedio
supremo all'amor delle creature; sforzandosi a domare i bassi istinti,
resistere alla natura corrotta, ed accostarsi alla perfezione cristiana.
Mentre disputavano ne' concilj, dettavano nelle Università,
maneggiavansi ne' congressi, tu li trovavi al focolare casalingo, senza
rumore, senza apparato, in opere di misericordia, in oscuri sacrifizj,
purificando i costumi, arrivando fino agli abissi della colpa o della
virtù, rigenerando colla fede, colla carità, col dovere,
coll'abnegazione. Questa suprema forma del sentimento cristiano tirava i
Barbari a civiltà mediante il sentimento; l'umiliazione, la carità
universale, l'eroismo di penitenza, divenivano esempj a gente calda
d'ire e di concupiscenza; la intera sommessione a un capo, a una regola
infondea la coscienza del diritto.

La preghiera, che attestando la debolezza dell'uomo, è potente sino ad
espugnare il cielo, e l'ardente confidenza negli effetti di essa, erano
carattere del medioevo, quanto divengono incomprensibili all'età nostra,
dacchè in tanti luoghi essa ammutolì. Tutti inoltre riconoscevano la
solidarietà de' peccati e dell'espiazione, considerando la vita come un
castigo, una prova, una preparazione; anche il peccatore domandava la
preghiera, la domandava come un'elemosina, ed in ispecialità ai frati,
potenza mediatrice presso Dio sdegnato.

Tali ce li dà la storia: e per quanto esecri la verità, il secolo dee
rassegnarsi a sentirlo ripetere da chi n'ha il coraggio. L'esservene
sempre stati attesta come s'annettano strettamente colla Chiesa, benchè
non essenziali ad essa. In fatti, chiunque volle intaccarla cominciò
sempre dallo screditare questa sua milizia, che rappresenta la guerra
che l'ideale fa al reale.

Non sono essenziali alla religione, dicono. Verissimo; ma è uno de'
sofismi più usitati e più speciosi il rispondere alle objezioni con una
proposizione vera in sè, ma che non ha a fare con quella di cui si
tratta; stornando così l'attenzione, e mettendo per conclusione quel che
è soltanto un divagamento. Verissimo; non sono essenziali, ma neppur lo
sono e la chiesa e la predica, e tant'altre cerimonie, introdotte in una
religione di spirito e di verità: ma forse alla società civile sono
indispensabili i re, gli eserciti, le monete, anzi nè tampoco il
vestire? Non sono essenziali alla Chiesa, perchè nessuna cosa
contingente è essenziale a ciò che è eterno; ma son necessarj a
mantenere l'alito ecclesiastico.

Più accortamente si dice che poterono esser buoni un tempo, ma
perdettero opportunità. I frati son pianta repubblicana, e per intendere
san Francesco ci vuole il popolo, non società principesche e costumi
cortigiani e pensare aristocratico quali oggidì, nè l'abdicazione
dell'attività, della volontà, delle opinioni di ciascuno in man d'un
governo o d'un giornalista: ci vorrebbe quell'Italia alla vecchia, tutta
democrazia, e forze distinte, e fede, e municipj. Il materialismo d'oggi
che ha mai a vedere in questi sacrifizj di spirito, fatti in vista di
premj che non sono denari, nè godimenti? Eppure anche tra le beatitudini
odierne, tra questo ammirato incremento dell'industria e degli interessi
materiali, il cuore ha de' bisogni che non restano appagati dal teatro,
dalla borsa, dal telegrafo; anela a qualcosa di più alto e più grande,
che i padri nostri chiamavano Dio. Trascinati nel vertiginoso progresso,
noi variamo ogni giorno pensamenti, convinzioni, bandiera, modo di
pensare e d'operare, di nulla stabilmente convenendo; sino la
beneficenza riducesi a un'istituzione civile, a soscrizioni, lotterie,
amministrazione. Ma giacchè si vanta come conquista del tempo la
tolleranza, vogliasi consentirla anche a chi pensa che, in tale
sfasciamento, non abbiano a riuscire superflui questi Ordini; che tra
l'indifferenza eretta in teoria, e i pregiudizj malevoli, e il vitupero
chiassoso, e l'avido urtare di tutti contro tutti, possano svolgere e
applicare le istituzioni caritatevoli, educare la classe più numerosa,
non foss'altro, a sopportare una disuguaglianza, della quale non vede la
ragione, non conosce i compensi; a risparmiare i gendarmi, unica
salvaguardia quando è tolta la difesa morale; a pregare per coloro che
li maledicono.

Ecco per quali guise la Chiesa svolgeva il benefizio della redenzione
nella società civile, adoprando continui strumenti l'autorità, la
ragione, il sentimento; non usurpava, ma raccoglieva i poteri che
cascavan di mano alle antiche autorità; alla violenza de' nuovi padroni
opponeva la ragione, la santità, la scienza, e il diritto che avea di
giovare alla plebe cristiana; ristabiliva i dogmi della responsalità
personale e dell'autorità, scassinati dall'accentramento romano;
mediante un potere ammesso e consentito dalle anime, costituiva una
repubblica morale, dove la moltitudine non diveniva confusione perchè
ridotta a unità, nè l'unità diveniva tirannide perchè era moltitudine, e
la cieca sommessione era mutata in ragionevole obbedienza.


NOTE

[3] _Hoc inveni quod fecerit Deus hominem rectum; et ipse se infinitis
miscuerit quæstionibus_. Eccles. VII, 30. _Deus constituit ab initio
hominem, et reliquit illum in manu consilii sui... Ante hominem vita et
mors, bonum et malum, quod placuerit ei dabitur_. Eccli. XV, 14-18.

[4] _Longe clarissima urbium Orientis, non Judeæ modo_. PLINIO, _Naturæ
hist._, v. 14.

[5] Il soprannaturale trascende la natura, non però vi ripugna,
altrimenti sarebbe falso. Il dire che Dio può fare che una cosa sia e
non sia nel tempo stesso, sarebbe una repugnanza alla natura; il dire
che tre Dei sono un Dio solo, sarebbe l'assurdo.

[6] _Quam fidem ab Ecclesia perceptam custodimus, et quæ semper a
Spiritu Dei quasi in vase bono eximium quoddam depositum juvenescens et
juvenescere faciens ipsum vas in quo est. Hoc enim Ecclesiæ Dei creditum
est munus, quemadmodum ad inspirationem plasmationi, ad hoc ut omnia
membra Ecclesiæ vivificentur... Ubi enim Ecclesia, ibi et Spiritus Dei;
et ubi Spiritus Dei, illic Ecclesia et omnis gratia: Spiritus autem
veritas. Quapropter qui non participant eum, neque a mammillis matris
nutriuntur in vitam, nequaquam percipiunt de corpore Christi procedentem
nitidissimum fontem, sed effodiunt sibi lacus detritos de fossis
terrenis, etc_. IRENEO, III, 24.

[7] _Unum caput est, et origo una, et una mater fæcunditatis successibus
gloriosa. Illius fœtu nascimur, illius lacte nutrimur, illius spiritu
animamur... Hæc nos Deo servat, hæc filios regno quos generavit
assignat... Habere jam non potest Deum patrem qui Ecclesiam non habet
matrem_. CIPRIANO, _De Unit. Eccles._

[8] _Cum toto sacramento, cum propagine nominis, cum traduce Spiritus
Sancti, in nos quoque spectat persecutionis obeundæ disciplina, ut in
hæreditarios discipulos et apostolici seminis frutices_. TERTULLIANO,
_Scorpiace_, cap. 9.

[9] LUCA X, 16.

[10] MATT. XXVII, 20.

[11] LUCA, _ib._, MATT. XVIII, 17.

[12] _Ut unitatem manifestaret, unitatis ejusdem originem ab uno
incipientem sua auctoritate (Christus) disposuit_. CIPRIAN., _De Unit.
Eccles._

[13] _Epist. I ad Chorint._, cap. XL.

[14] _Quamvis apostolis omnibus post resurrectionem suam parem
potestatem tribuat, et dicat. Sicut misit me Pater et ego mitto vos;
accipite Spiritum Sanctum; si cujus remiseritis peccata remittentur
illi, si cujus teneritis, tenebuntur; tamen, ut unitatem manifestarent,
unitatis ejusdem originem ab uno incipientem sua auctoritate disposuit.
Hoc erant utique et cæteri apostoli quod fuit Petrus, pari consortio
præditi et honoris et potestatis, sed exordium ab unitate proficiscitur,
et primatus Petro datur ut una Christi ecclesia, et cathedra una
monstretur_. CIPR. _ib._

[15] _Ad hanc enim ecclesiam propter potiorem principalitatem necesse
est omnem convenire ecclesiam, hoc est eos qui sunt undique fideles, in
qua semper ab his qui sunt undique conservata est ea quæ ab Apostolis
est traditio_. IRENEO, III, 43, 2.

[16] _Ad Ephes._, IV, 4.

[17] Sopra la letteratura cristiana ci siamo diffusi nella nostra
_Storia Universale_, libro V, cap. 32, 33. Qui diamo solo ciò che verrà
in uso nel procedere di quest'opera. Così non intendiamo far una piena
esposizione della fede nè de' traviamenti, ma accennar solamente i
punti, sui quali cadranno le dissensioni che verremo a raccontare.

I dogmi possono disporsi in

1. Teologia propria, cioè di Dio, e suoi attributi, creazione,
providenza, e appendice di quella la creazione dell'uomo, e di angeli o
démoni;

2. Antropologia teologica, innocenza primitiva, peccato originale;

3. Cristologia, sulla persona e le opere del Salvatore;

4. Caritologia, o teorica della Chiesa e dei mezzi di salute;

5. Escatologia, cioè della morte, immortalità, purgatorio, resurrezione,
giudizio finale, paradiso, inferno, fine del mondo.

[18] Il simbolo non fu scritto nè fatto scrivere dagli Apostoli, ma
tramandato oralmente: e da sant'Agostino (_De tradit. symboli_) si
raccoglie fosse proibito a' catecumeni scriverlo, ma imparavasi a mente.
Da ciò le varianti; oltrechè a ciascun vescovo era lecito farvi
cambiamenti. P. es. Rufino ci reca il simbolo qual recitavasi dalla
Chiesa romana, più incontaminato, e quale dall'aquilejese, a cui esso
prete apparteneva. Eccoli a confronto:

  Romano. _Credo in Deum patrem omnipotentem_.

  Aquilejese. _Credo in Deo patre omnipotente invisibili et
  impassibili_.

  Romano. _Et in Christum Jesum unicum filium ejus, dominum
  nostrum_.

  Aquilejese. _Et in Christo Jesu, unico filio ejus, domino nostro_.

  Rom. e Aq. _Qui natus est de Spiritu Sancto ex Maria Virgine_.

  Romano. _Crucifixus sub Pontio Pilato et sepultus, tertia die
  resurrexit a mortuis_.

  Aquilejese. _Crucifixus sub Pontio Pilato et sepultus, descendit
  ad inferna, tertia die resurrexit e mortuis_.

  Rom. e Aq. _Ascendit in cœlos, sedet ad dexteram Patris: inde
  venturus est judicare vivos et mortuos_.

  Romano. _Et in Spiritum Sanctum. Sanctam Ecclesiam. Remissionem
  peccatorum. Carnis resurrectionem_.

  Aquilejese. _Et in Spiritu Sancto. Sancta Ecclesia. Remissione
  peccatorum. Hujus carnis resurrectione_.

Dalle catechesi di Massimo vescovo di Torino (_Homil. in traditione
symboli_), di san Pietro Crisologo vescovo di Ravenna (_in Symb.
apost_.) e da altri raccogliamo i simboli delle diverse Chiese, dove
trovansi introdotte le parole _conceptus, passus, mortuus, catholicam,
sanctorum communionem, vitam æternam_, dappoi addottate nel simbolo
comune, qual già si trova ne' sermoni 240, 241, 242, posti in appendice
ai sermoni genuini di sant'Agostino nell'edizione dei Padri Maurini.

Alcune di quelle aggiunte pajono arbitrarie e quasi futili; ma tendevano
a confutare alcuni errori divulgati. Così nel surriferito simbolo
aquilejese, il _descendit ad inferna_ si oppone agli Apollinaristi ed
Ariani, che negavano l'anima a Cristo, quasi ne facesse vece la
divinità; l'_invisibili et impassibili_ è contro i Noeziani e
Sabelliani, che diceano esser nato e aver patito il Padre Eterno:
l'_hujus carnis_ contrasta a chi teneva che dovessimo risorgere con un
corpo aereo e celeste.

Gli esegeti tedeschi danno pel più antico simbolo che si conosca, quello
della Chiesa copta, usato nella Chiesa d'Alessandria. Eccolo:

«Il vescovo o il prete dirà al catecumeno: Credi al solo vero Dio, padre
onnipotente, ed al suo figlio unigenito signor nostro e salvatore, e
allo Spirito Santo vivificatore, trinità consustanziale, una sovranità,
un regno, una fede, un battesimo; alla santa Chiesa cattolica,
apostolica, alla vita eterna?» Il catecumeno risponderà: «Credo».

Poi il vescovo od il prete gli domanderà: «Credi tu nel N. S. G. Cristo,
figlio unigenito di Dio Padre? Credi che egli si è fatto uomo come noi
per azione miracolosa dello Spirito Santo sopra la Vergine Maria; che fu
crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, e morto per la nostra
redenzione; risuscitò il terzo giorno rompendo le catene; che siede alla
destra del suo Padre nel cielo, e che verrà a giudicar i vivi ed i morti
quando apparirà esso e il suo regno?

«E credi nel Santo Spirito vivificatore, che purifica tutto nella santa
Chiesa?» e il catecumeno risponderà: «Credo».

Vedasi uno studio del protestante Michele Nicolas nella _Revue moderne_
1865, giugno.

[19] Vedi GRUNER, _De odio humani generis, Christianis a Romanis
objecto_. Coburgo 1755.

[20] Nelle epistole _passim_.

[21] Decreto 11 giugno 1855 della S. Congregazione dell'Indice.

[22] LUCA XXII, 29.

[23] _Sap._ XIV, 22 e seg.

[24] S. PAOLO _ad Galat._ v. 19.

[25] Secondo Eusebio (_Vita di Costantino_, II, 65), l'imperatore
scrisse ad Ario: «Son persuaso che, se io fossi tanto fortunato da recar
gli uomini ad adorare tutti lo stesso Dio, questo cambiamento di
religione ne produrrebbe un altro nel governo»: e soggiunge che
s'adopera a questo scopo «senza far troppo rumore». Avea dunque chiaro
concetto della rivoluzione ch'egli operava.

[26] Anastasio Bibliotecario trasse dagli archivj del Vaticano il
catalogo degli arredi donati da Costantino alla basilica di san Giovan
Laterano; baldacchini, statue, vasi, croci, candelabri, lumiere, altari,
patene, coppe, urne, incensieri, d'oro, d'argento, con pietre fine;
tanto da sommare a 683 libbre d'oro e 12,943 d'argento, oltre la
doratura di tutta la volta della basilica; sicchè varrebbero quasi 2
milioni di lire. Costantino vi aggiunse beni fondi da rendere L. 230,000
l'anno, e l'annuo tributo di 130 libbre d'aromi. Critici serj e prudenti
sostennero l'autenticità di questo catalogo.

[27] Farebbe concedere da Costantino al papa la sovranità su Roma,
l'Italia e le provincie d'Occidente. Forse fu inventata nell'VIII
secolo, ed inserita nelle Decretali del falso Isidoro. Ma già nel XII
secolo l'autenticità ne era impugnata: poi Lorenzo Valla la repudiò con
ragioni, a cui aderirono anche i più caldi difensori della Santa Sede.

[28] Il concetto di tutto il medioevo fu appunto che gl'imperatori
abbandonassero Roma perchè era destinata providenzialmente a divenire e
restar metropoli della cristianità. Lo cantò Dante in una delle più
belle parti del divino poema.

[29] Da ciò chiamaronsi Nicolaiti i concubinarj, eretici dell'XI secolo.

[30] Lib. III, _Adversus hæres._, c. 3.

[31] Ep. 91, nell'anno 382.

[32] Leg. 7. Cod. _de Summa Trinitate_.

[33] _Contra Parm._, L. II.

[34] _Contra Petil._, L. II, c. 57.

[35] _Nihil asperum, nihil grave nos constituros speramus_. Prologo di
san Benedetto.

[36] A quattro regole principali possono ridursi tutti: 1º quella di san
Basilio, che prevalse in Oriente; 2º quella di sant'Agostino, adottata
dai canonici regolari, dai Premonstratesi, dai Domenicani e dagli Ordini
militari; 3º questa di san Benedetto a cui si annettono Cistercensi,
Camaldolesi, Vallombrosiani, Certosini; 4º quella di san Francesco con
cui cominciano gli Ordini mendicanti.

Leone XII avea divisato di riformar le regole e il vestire de' frati,
riducendoli a tre soli Ordini; uno di regolari, poveri, di scienza
discreta e gran carità, che servissero al popolo sussidiando i parroci,
e prestandosi agli spedali. Il secondo tutto all'educazione e istruzione
della gioventù, e a sostenere gl'interessi della religione e del buon
costume. Il terzo di contemplativi che predicassero, salmeggiassero, e
aspirassero all'evangelica perfezione.



DISCORSO II.

PRIME ERESIE. CONSOLIDAMENTO DELLA PRIMAZIA PAPALE. GLI ICONOCLASTI.


Il sangue dei martiri non aveva ancora finito d'irrigare la pianta
immortale del cristianesimo, e già in seno a questo alcuni, come
l'antico serpente, valeansi della parola per diffondere l'errore, o
restringere a concetti particolari le verità generalissime enunciate
dalla Chiesa, creando scismi ed eresie[37]. Già al tempo degli apostoli,
alcuni ebraizzanti, pur riconoscendo la divina missione di Cristo,
voleano conservare il mosaismo, che, come troppo ristretto e nazionale,
era ripudiato dai nostri, aspiranti ad una religione universale[38]. San
Paolo si duole delle dissensioni nella nascente Chiesa; san Pietro venne
a Roma per oppugnare Simon Mago, il quale aveagli esibito denaro per
ottenerne la facoltà di conferire lo Spirito Santo: onde da lui è
denominata la prima e quella che sarà ultima delle eresie, la vendita
delle cose spirituali. E quel santo scriveva agli Ebrei: «Pascete il
gregge a voi affidato, senza sforzare, ma spontaneamente secondo Dio;
non per cupidigia di lucro, ma volontariamente». E ne' canoni apostolici
è registrato: «Se alcun vescovo o prete a denaro abbia conseguito la
dignità, venga deposto esso e chi l'ordinò; e dalla comunione affatto
escluso, come Simon Mago da me Pietro». Ecco la colpa, ecco il castigo.

Più il cristianesimo cresceva e illustravasi, l'orgoglio s'ingegnava a
trovarne qualche lato debole, e scalzarne le basi. Alcuni negavano
ricisamente il Cristo, mentre, mediante il platonismo, appuravano le
teoriche gentilesche. Altri ringiovanivano le ebraiche, massime colla
cabala: i Gnostici dicevano che Cristo fosse un mero simulacro, e
pretendevano a una scienza superiore ai culti pagani, alla religione
mosaica, alla cristiana, eppure indipendente dalla rivelazione,
togliendo alla Chiesa l'autorità infallibile per ridurla a un sistema,
da perfezionare coi sistemi imperfetti della filosofia, agognando di
raggiungere colle forze proprie un'altezza inaccessibile alla ragione;
eresia che tratto tratto rinacque coi mistici, credenti alla intuizione
immediata, e aspiranti ad una perfezione più che umana. Manete spiegava
l'esistenza del mal morale e del fisico col supporre una divinità
benefica ed una maligna. Gli spiriti forti diceano fin d'allora che le
differenti maniere d'intendere e adorar Dio fossero, non essenziali
forme di dottrina, solo varianti vedute dell'intelligenza cristiana.

Giustino martire, autore dell'_Apologia_, avea composto un libro contro
tutte le eresie e sètte, e lo esibiva all'imperatore Antonino[39]. Anche
Ippolito scrisse la Confutazione delle eresie; un Catalogo delle eresie
san Filastro vescovo di Brescia; e Tertulliano nelle _Prescrizioni_
sostiene che le eresie non sono strade ad appurare il cristianesimo,
perchè ciascuna è nuova in paragone della verità che esistea fin dal
principio: perchè l'eretico non ha regola nè fine nel disputar contro la
Chiesa, abbandonato com'è al proprio giudizio: perchè quelle opinioni
contraddicono una all'altra, e ciascuna pretende essere la verità.
Inoltre ciascuno si crede in diritto di cangiare e di modificare per
proprio talento ciò che ha ricevuto, come per proprio talento l'autor
della sètta lo ha composto. L'eresia ritiene sempre la propria indole
col non cessar d'innovare, e il progresso è simile all'origine; ciò che
fu permesso a Valentino, lo è pure ai Valentiniani; i Marcioniti hanno
la stessa facoltà che Marcione, nè agli autori d'un'eresia compete
maggiore diritto d'innovare che ai loro seguaci; tutto cangia in esse, e
quando se ne cerca il fondo si trovano nel loro seguito differire in
molti punti da quel ch'erano alla loro nascita[40].

Origene, volendo acconciare il platonismo col cristianesimo, indagava
nelle storie evangeliche un triplice senso: mistico, storico, morale: in
modo che una narrazione biblica poteva esser non vera letteralmente;
teoria di alcuni recenti esegeti tedeschi. Combattè molte eresie, ma
v'inciampò egli stesso o ne gettò i germi, forse solo perchè mancavagli
quella precisione del linguaggio, che derivò da distinzioni raffinate
nei dibattimenti.

Perocchè, nel silenzio e nell'isolamento cui li costringeva la
persecuzione, molti aveano concepito e insegnato in buona fede idee, che
poi si scopersero erronee allorchè la Chiesa parlò alto e d'accordo. Ma
questa non aveva definito molti punti; sicchè v'ebbe erranti fra' più
grandi maestri, quali Tertulliano, Eusebio da Cesarea e questo Origene;
o fra austeri monaci, e fin tra martiri. Talvolta anche il proposito di
sfuggir un errore traeva nell'opposto; perchè Origene sottilizzava i
corpi fino a spiritualizzarli, Audio ed Epifane abbassavano la divinità
sino alla figura umana; poi restavano le traccie del paganesimo
nell'insegnamento e nei costumi: poi intromettevansi gl'imperatori,
volendo coi decreti modificare la più libera delle facoltà, la
coscienza.

I Pagani, incapaci di discernere la linea sottilissima che il vero
disgiunge dal falso, voltavano in beffa quell'ostinarsi sopra inezie
cavillose e in quistioni di parole, e dichiararono semenzajo di garruli
litigi questa religione, che vantava d'essere una di fede, di spirito,
di culto. Ma erano ben altro che di parole le quistioni che doveano
assicurar le nozioni sull'essenza di Dio, contro il misto di idee
platoniche e cabalistiche colle evangeliche, insinuato da falsi dottori.

Adunque, dopo che i martiri ebbero mostrata la forza e la virtù, vennero
i Padri a sostenere la purezza e l'unità della fede, combattendo
l'orgoglio dell'intelletto e l'indocilità del cuore. San Girolamo
scriveva: «Restate nella Chiesa fondata dagli apostoli e sempre
sussistente. Se udite alcuni designati con altro nome che quel di Gesù
Cristo, sappiate che non sono la Chiesa di Cristo: e l'essere istituiti
posteriormente convince che son di quelli, di cui l'Apostolo predisse la
venuta. Nè vi lusinghi il sembrare che s'appoggino alle Scritture: anche
il demonio disse cose conformi alla Scrittura, nè basta leggere questa,
ma vuolsi intenderla. Che se non ci atteniamo che alla lettera, possiam
noi pure formare un dogma nuovo, e pretendere d'escluder dalla Chiesa
coloro che vanno calzati e che hanno due tuniche»[41]. San Cipriano, che
contribuì forse più che altri de' primitivi Padri a separare i due
ordini di fede e di esame, di rivelazione e di concetto, la cui
mescolanza produce o la schiavitù o il traviamento dell'intelletto,
mentre la distinzione schiude le barriere dell'infinito, traendolo dal
simbolo nella realtà; dopo avere nella Vanità dell'idolatria combattuto
il vecchio culto, nella Unità della Chiesa dissipava gli scismi,
stabilendo l'unità della fede nell'unità della cattedra romana. «Come
non v'ha che un solo Cristo, così non v'ha che una Chiesa sola, una sola
cattedra fondata sopra san Pietro per voce di Gesù Cristo; dunque un
solo altare, un solo sacerdote: nè può esservene due, nè un altro
differente, se non per rea demenza e sacrilega empietà. V'è un solo
episcopato, una parte del quale è tenuta in solido da ciascun vescovo:
in conseguenza una Chiesa sola, diffusa nella moltitudine de' membri
componenti. Così dal sole partono molti raggi, ma un solo n'è il
focolare; un albero ha molti rami, ma rampollano da un tronco solo,
profondamente radicato; da una fonte molti rivi defluiscono, ma unica è
la sorgente. Nè può un raggio separarsi dal sole, nè un ramo divelto più
rampolla; e un ruscello deviato dalla sorgente inaridisce»[42].

In Italia avea trovato molti seguaci Ario. Questo prete d'Alessandria
d'Egitto pretese spiegare chi fosse Cristo, e mentre la Chiesa lo tiene
come la conoscibilità divina, il pensiero eterno di Dio, coesistente
coll'eterna sua attività, e della sostanza medesima (ὁμούσιος), Ario
riconosceva in esso la forza, la verità, l'avvenire, ma ne formava un
essere distinto da Dio, benchè di sostanza analoga (ὁμοιούσιος), il tipo
che Dio creò per servir di modello alle creature. Alle donne domandava:
«Avete voi avuto figliuoli prima di partorire? Così Dio non potette
averne uno prima che il generasse». Gli uomini, che, fatti cristiani per
l'esempio o per comando della Corte, non aveano studiato abbastanza per
discernere il Cristo da uno di que' profeti che di tempo in tempo recano
qualche nuovo schiarimento all'insolubile problema dell'umanità,
gustavano le spiegazioni di Ario, che, pur mostrando conservare integro
il valore dogmatico, levavano via la nube che la trinità delle persone
recava all'unità di Dio. Non s'accorgeano che, se l'autor del
cristianesimo non è dio, eguale e consustanziale coll'autor
dell'universo, l'adorarlo è idolatria; più non esiste il mediatore
divino che colmi l'abisso fra l'uom peccatore e Dio: e in conseguenza
può ingannarsi quell'autorità suprema, sulla cui unità e infallibilità
fondasi il cristianesimo.

Da questo intaccare la persona di Cristo, cioè i fondamenti della fede,
il mondo fu commosso, e l'imperatore Costantino convocò un concilio
universale, nel quale la Chiesa, rappresentante dell'umanità divinamente
rintegrata nell'unità, si mostrasse una, riconoscesse qual era il comune
consenso, e definisse che cosa credere sopra la natura del Verbo.

Era la prima volta che tutti i popoli conosciuti, diversi di leggi,
d'usi, di civiltà, uniti in una fede, eppure indipendenti, inviassero
deputati popolari a trattar del come credere, come adorare, come
operare; e dove si proclamasse un simbolo d'unità universale.
Trecendiciotto vescovi raccolti a Nicea (an. 325), dopo lungo contendere
cogli avversarj, condannarono Ario, e compilarono il simbolo che
precisasse la vera fede.

Ario non si diè vinto, e con sottigliezze argutissime e variate sedusse
altri vescovi, e gl'imperatori. La tenue differenza tra ὁμούσιος e
ὁμοιούσιος sfuggiva ai nostri, più positivi de' Greci, e meno eruditi e
arguti nelle distinzioni; un simbolo in senso ariano fu sottoscritto da
quattrocento vescovi (an. 358), e lo stesso papa Liberio, o ingannato o
fiaccato dalla prigionia, parve aderirvi, ma appena fattone accorto si
ritrattò. Bandi imperiali e carceri intervennero contro la parola
_consustanziale_, e pretendeasi impor la fede co' soldati, «cattivi
apostoli della verità, la quale non conosce altr'arme che la
persuasione», come diceva sant'Atanasio, campione dei Cattolici in quel
diuturno conflitto.

Teodosio, imperatore d'Oriente, decretò poi che tutti aderissero alla
religione insegnata da san Pietro ai Romani, quale allora veniva
professata da papa Damaso e da Pietro vescovo d'Alessandria; i seguaci
di essa s'intitolassero Cristiani Cattolici; i dissidenti infamava col
nome di eretici, e minacciava di castighi[43]. Invece l'imperatore
d'Occidente Valentiniano II e sua madre favorivano l'arianismo, fino a
pretendere che sant'Ambrogio vescovo di Milano cedesse a questi una
delle due chiese, che eran allora in quella città. S'oppose egli con
fermezza, e vinse, e finalmente nel concilio d'Aquileja potè asserirsi
che più non esistevano Ariani fino all'Oceano.

Per sciagura i primi che apostolarono i Barbari settentrionali erano
stati ariani, sicchè con essi quell'eresia tornò in Italia coi Goti di
Teodorico e i Longobardi d'Alboino.

Vero è che il genio positivo degli Occidentali non sottilizzava tanto
come gli Orientali; e i Padri latini cercavano piuttosto la legalità,
senza artifizio di retorica nè raffinamenti di logica esponendo il
dogma, ed appellandosi alla lettera scritta e all'autorità. Le eresie
concernenti la natura dell'ente primo e necessario (Gnostici), o il
Verbo (Ariani), o lo Spirito Santo (Macedoniani), o la maniera ond'è
unita la divinità coll'umanità in Cristo (Nestoriani, Eutichiani,
Monofisiti, Monoteliti) agitaronsi di preferenza in Oriente; mentre da
noi discuteasi piuttosto sulla natura dell'uomo, perchè soffra tanti
mali sotto un Dio buono; quanto negli atti suoi sia ajutato dalla
Grazia, senza che questa ne inceppi la libertà. Sant'Agostino, ch'era
stato valorosissimo oppugnatore de' Manichei, rifletteva che le
quistioni relative alla creazione, all'origine dell'anima, agitate fra
san Girolamo e Rufino in proposito di Origene, riguardano solo il
passato, nè importano tanto come quelle della Grazia e della Redenzione,
che conducono alla salute. Ma il problema della Grazia implica quello
del generale sistema dell'universo, e può sollevare dubbj fin sulla
personalità del creatore e sulla suprema misericordia, qualora nel
libero arbitrio delle creature non si trovi il motivo delle miserie
umane. E fu sant'Agostino che più di tutti penetrò nell'incomunicabile
perfezione di Dio, nella sovranità assoluta e onnipotenza di esso:
posando una vera teologia, cioè la conoscenza della natura divina.

La Chiesa assisteva nella sua maestà a quei dibattimenti, attenta a non
imporre limiti alle credenze se non dove necessarj, nè volendo reprimere
la discussione finchè si attenesse ai dogmi sanzionati; frenando i
proprj difensori, anzichè spingere sulla via pericolosa delle teoriche,
persuasa che il suo sposo la condurrebbe alla meta. Per conservare e
consolidare l'unità eransi raccolti altri concilj ecumenici, cioè
universali; il II a Costantinopoli (381), il III a Efeso (431), il IV a
Calcedonia (451), importantissimi per la dogmatica cristiana e la
gravità dei punti ivi discussi e definiti: in quello di Costantinopoli
la divinità e consostanzialità dello Spirito Santo contro i Macedoniani;
in quello di Efeso l'unità di persona in Gesù Cristo, avente ad un tempo
due nature l'umana e la divina, cioè vero Dio Uomo, Verbo incarnato,
contro Nestorio che del figlio di Dio e del figlio di Maria faceva due
persone, fra loro amiche ma distinte; in quello di Calcedonia la
distinzione delle due nature in Gesù Cristo e la verità e interezza
dell'umana natura in Lui, contro Eutiche, il quale, dando nell'eccesso
opposto a quello di Nestorio che l'unica persona di Gesù Cristo scindeva
in due, le due nature di Lui confondeva in una, volatilizzando l'umanità
del Redentore, e facendola assorta e consunta dalla divinità.
Quest'ultimo concilio essendo stato tenuto contro gli Eutichiani, lasciò
correre come alieni dal suo proposito tre punti che pareano favorevoli
ai Nestoriani: cioè non proferì sentenza contro la memoria e gli scritti
di Teodoro di Mopsuesta, già maestro di Nestorio ed infetto della stessa
eresia e di pelagianismo; nè riprovò una lettera di Iba vescovo di
Edessa, nella quale era lodato esso Teodoro, e vituperati san Cirillo e
il concilio di Efeso tenuto contro l'errore di Nestorio; nè finalmente
condannò gli scritti di Teodoreto, nei quali parimenti trovavansi cose
contrarie a san Cirillo e al concilio di Efeso, e puzzanti di
nestorianismo. Che anzi il suddetto concilio di Calcedonia assolse Iba e
Teodoreto dacchè ebbero detto anatema contro Nestorio. Ora gli
Eutichiani, per prendere una rivincita contro esso concilio che aveali
condannati, misero in campo la causa di questi _tre capitoli_, e
l'imperatore Giustiniano, lasciatosi persuadere che colla
disapprovazione di que' tre punti avrebbe ridotto all'unità i nemici del
concilio calcedonese, convocò un altro concilio ecumenico a
Costantinopoli, e ve li fece condannare (542). I nostri non sapeano
molto di greco, nè aveano letto Teodoro e Iba; sapevano solo che non
erano stati condannati dal concilio di Calcedonia, del quale
s'infirmerebbe l'autorità col riprovarli per secondare una prepotenza
dell'imperatore. Incalzato dal quale, papa Vigilio li condannò, salva
l'autorità del concilio di Calcedonia, e purchè non se ne discutesse in
iscritto nè a voce. Questo partito era in se stesso ragionevole, perchè
da un lato que' capitoli erano riprovevoli, dall'altro era rea
l'intenzione di coloro che ne promoveano la condanna per iscreditare il
concilio di Calcedonia; pure sulle prime disgustò tutti: i Cattolici per
la condanna, i nemici dei capitoli per la riserva; e dal papa si
segregarono (553) i vescovi dell'Istria, della Venezia, della Liguria,
prendendosi a capo Paolino patriarca d'Aquileja, che in un sinodo
provinciale (556) ripudiò il concilio di Costantinopoli come contrario a
quello di Calcedonia, già ricevuto come ecumenico: onde comprometteasi
l'infallibilità della Chiesa. Da principio i nostri sono scusabili:
parendo s'intaccasse l'infallibilità de' primi concilj coll'aggiungervi
o togliervi, personaggi di virtù e dottrina grandissima rifiutarono il
quinto, e fra altri il celebre Cassiodoro, segretario di re Teodorico, e
i vescovi santi Onorato da Milano, Massimiano di Ravenna; i papi stessi
blandamente procedettero col patriarca e coi vescovi, discutendo con
ardore le ragioni del loro operare. Ogni scusa cessa quando si separano
dalla Chiesa universale, e condannano i propugnatori dell'opinione
opposta[44]. Fatto è che questo sciagurato scisma durò fino
al 698, quando un altro sinodo d'Aquileja accettò il concilio
costantinopolitano, e ripristinò queste chiese nell'unità.

Però tutte le eresie, o concernessero Cristo, o la potenza divina, o la
libertà umana, o la costituzione ecclesiastica, aveano faccie diverse,
ma le code legate insieme[45], secondo una frase ripetuta dai papi,
giacchè riduceansi a sottomettere la fede al raziocinio, la universale
credenza a particolari opinioni. Gregorio Magno, che vide terminato lo
scisma dei _tre capitoli_, e che vietava d'affliggere verun cattolico
sotto pretesto d'eresia, nè di usar violenza a scismatici, diede forma
definitiva alla Messa, all'Offizio e a tutta la liturgia; e al canto
impresse quel carattere solenne, al quale pur si ritorna dopo i
traviamenti della moda e le frivolezze profane. Il popolo, che più volte
egli avea nutrito col tesoro della Chiesa, dopo morto lo oltraggiò come
prodigo, e volea distruggerne gli scritti: poi lo venerò come santo;
consuete alternative; e fu messo quarto dottore della Chiesa con
Ambrogio, Agostino, Girolamo.

Era egli riuscito a trarre al cattolicismo Teodolinda regina de'
Longobardi, sul cui esempio tutta la nazione si convertì. Ciò non tolse
che quei re, ambiziosi di formare un gran regno d'Italia, non
minacciassero ed assalissero Roma. Questa città dipendeva sempre dagli
imperatori d'Oriente, sicchè i papi non vi aveano sovranità principesca,
bensì di dignità, sostenuta da immensi possessi non solo nella Sabina,
ma in Sicilia, in Calabria, in Puglia, in Campania, in Dalmazia, in
Illiria, in Sardegna, fra le Alpi Cozie e nella Gallia; possessi,
all'antica coltivati per mezzo di coloni, sui quali il pontefice
esercitava anche giurisdizione.

Oltre il governo di Roma e de' paesi meridionali, gli imperatori
d'Oriente dominavano la Pentapoli di Ravenna (Ancona, Rimini, Pesaro,
Fano, Sinigaglia) e l'esarcato, cioè il litorale della Venezia e il
paese che poi si disse la Romagna e le Marche. Come gli altri alla
violenza de' Barbari, così questi paesi erano esposti alla dotta
oppressione di que' Cesari, che turbavano le coscienze ora col _tipo_,
ora coll'_ectesi_, ora coll'_enoticon_, infine col proibire il culto
delle immagini.

Questo culto era stato vietato dal legislatore degli Ebrei sia per la
costoro proclività all'idolatria, sia per sceverarli viepiù dai Gentili,
che confondendo la copia coll'originale, adoravano le effigie di Dio o
dell'eroe. Ma i Cristiani, ricchi di spirito e aborrenti d'ogni
idolatria, ben presto cercarono quelle del Redentore e dei cooperatori
suoi, e se qualche Padre, per considerazioni particolari, ciò
disapprovava, la Chiesa trovò inutile il divieto, ogniqualvolta non
cadesse timore d'idolatria. Moltiplicaronsi dunque le figure de' santi e
del Salvatore, le storie del nuovo e vecchio Testamento, opportune sì a
dare alle arti belle il pascolo che aveano tratto fino allora dal
gentilesimo, sì ad allettare gli occhi de' Barbari, che talvolta da una
rappresentazione erano condotti a conoscere le morali verità del
vangelo. Avendo un vescovo di Marsiglia spezzato alcune statue di santi
perchè non fossero occasione d'idolatria, Gregorio Magno il rimproverò,
mostrando come da tutta l'antichità le storie de' santi furono
rappresentate in pittura, la quale all'ignorante serve come lo scritto a
chi sa leggere[46].

Si sarà abusato di questo, come d'ogni cosa umana, e prestato adorazione
alla figura, destinata ad elevare verso l'ente supremo; ma un tale
errore non potè divenire comune nei Cristiani: laonde i Maomettani che
lor rinfacciavano d'essere idolatri, non aveano maggior ragione che
quando li tacciavano di politeisti a causa della Trinità. Leone
Isaurico, da pastore divenuto imperatore d'Oriente (717), pensò levar
appiglio a quest'accusa col vietare le effigie devote, e mandò per tutto
l'impero ad abbattere o bruciare quanto prima erasi venerato. Il popolo
pronunziossi contro questo re teologo, l'intitolò spezza-immagini
(_Iconoclaste_), repulsò la violenza colla violenza, onde l'imperatore
fu costretto a moltiplicar ingiustizie e violenze, come chiunque tocca
alla religione con potere profano.

Nello scompiglio cagionato dall'invasione dei Barbari, dove si
schiantarono tutti i vincoli civili, unica la società cristiana era
rimasta immobile, perchè fondata non su contingenze, ma su idee
perpetue; alla forza opponeva freni di giustizia, d'amore, e consolidava
l'unità e l'indipendenza propria, non coll'eccitare le antipatie, ma col
connettere le nazioni tutte; e al governo de' Barbari, che, più o meno,
era uno stato d'assedio imposto ai vinti da un esercito vincitore,
affacciava esempj d'ordine, di pace, di personale dignità.

Le miserie del despotismo e la immoralità dei magistrati, regj o
municipali, spingeano a ricoverarsi agli ecclesiastici, che seppero
mantenersi indipendenti e onorati nelle relazioni civili e nella opinion
pubblica. Già nella prammatica dell'imperatore Giustiniano è stabilito:
«I giudici delle provincie vogliamo siano eletti dai vescovi e dai
primati di ciascuna regione, idonei e sufficienti all'amministrazione
locale, e tolti dalle provincie stesse che dovranno amministrare senza
donativi: la conferma ne è data dai giudici competenti». Teodorico,
benchè ariano, faceva scrivere a papa Giovanni II: «Voi siete guardiano
del popolo cristiano: voi col nome di padre ogni cosa dirigete; a voi la
sicurezza del popolo è dal cielo affidata; a noi spetta sorvegliare
alcune cose, a voi tutto; spiritualmente pascete il gregge affidatovi,
nè però potete trascurare ciò che riguarda il corpo, attesochè, doppia
essendo la natura dell'uomo, un buon padre le deve entrambe favorire»
(a. 534).

Pertanto gli ecclesiastici non usurpavano un potere, giacchè nol
toglievano a nessuno; ma lo raccoglievano dal fango dove era caduto pe'
suoi eccessi: acquistavano la superiorità naturale a chi è migliore.

Quando il regime sociale annetteva la giurisdizione ai possessi di
terre, dovette la Chiesa studiar di accrescere i proprj, e così
collocarsi colla più alta gerarchia anche umanamente. E infatto acquistò
smisurate ricchezze, sì perchè sola ordinata fra il disordine
universale, sì perchè coltivava i campi meglio che nol potessero i
secolari, e li garantiva coll'immunità concessa ai possessi
ecclesiastici: sia perchè la devozione, e l'idea allora dominante,
dell'espiazione, induceva molti a lasciare i proprj beni alla Chiesa:
altri ad essa li donavano per sottrarli alla rapina signorile,
ricevendoli poi da essa come livelli, o feudi, o benefizj, protetti
dall'immunità ecclesiastica.

I popoli nel pontefice non veneravano solo il vicario di Cristo, il
depositario dell'eterna verità, ma il tutore universale, il freno de'
prepotenti, l'oracolo della giustizia; i nuovi convertiti piegavansi a
questo, dal quale eran venuti ad essi i missionarj, e deferivangli le
cause più controverse. E a lui ricorsero nella persecuzione iconoclasta.

Gregorio II, invocato anche dai vescovi greci[47], esponeva
all'imperatore la dottrina della Chiesa cattolica su quel punto: e «se
aveste interrogato persone intelligenti v'avrebbero chiarito che, se
l'ignoranza può far credere che noi adoriamo pietre e muraglie o tavole,
noi vogliam con esse unicamente commemorare coloro di cui esse portano
il nome e le sembianze, ed innalzare il nostro spirito, torpido e
grossolano. Tolga il cielo che le teniamo per Dei, nè poniamo in essi
fiducia. Ma posti dinanzi a quella di Nostro Signore diciamo: _Signor
Gesù, soccorreteci e salvateci_; a quella della sua Santa Madre: _Santa
Maria, pregate il figliuol vostro che salvi le anime nostre_; ad un
martire: _Santo Stefano, che spargeste il sangue per Gesù Cristo, e
presso lui tanta grazia avete, pregate per noi_».

L'iconoclasta non usò altra risposta che quella usata da' prepotenti,
obbedissero, o guai: e, «Manderò a Roma a sfrantumar le immagini di san
Pietro, e il papa portar via carico di catene». Tutta Italia si mise in
fuoco; Ravennati e Napoletani insorti uccisero l'esarca, i Romani
trucidarono il duca Esilarato, venuto per arrestar il papa; e armati per
difendersi, rifiutando il peccato e il tributo, gl'Italiani gridano non
voler più il dominio di questi Greci, sprezzati come deboli, abborriti
come eretici, ed eleggono magistrati proprj, invece di quelli venuti da
Costantinopoli.

Qui sia lecito agli esageranti o vantare i papi d'aver voluto emancipar
l'Italia dagli stranieri, o bestemmiarli d'aver voluto crearsi un
dominio. Il vero è che Gregorio s'interpose fra il popolo e l'imperatore
onde riconciliarli, e ne rintegrò l'autorità a Napoli e a Roma; ma nella
sommossa gli ordini municipali aveano ricuperato i naturali poteri;
popolo, consoli, nobili s'adunarono per condannar l'opinione che
l'imperatore imponeva, e Gregorio si trovò naturalmente a capo d'una
federazione di città, le quali non voleano nè sopportare il giogo
bisantino, nè sottomettersi al longobardo, ma come simboli di libertà e
nazionalità sostenevano Roma e il papa.

Gregorio III (731) ripudiò gli editti iconoclastici, e raccolti
novantatre vescovi d'Italia, dichiarò anatema chi distruggesse,
profanasse, bestemmiasse le immagini. Leone Isaurico s'accinse a
ripristinar l'obbedienza colla forza, ma provò come feriscano le armi
impugnate per la patria e per la religione.

Di questi dissensi pensarono trar profitto i Longobardi, che già,
possedendo tanta parte d'Italia, miravano a ridurla tutta in loro
servitù, acquistando anche Roma, Venezia e la Liguria: e violentemente
invasero la Pentapoli e minacciarono Roma. I papi, vedendo pericolare
l'indipendenza della Chiesa, e con essa i resti della civiltà latina,
fecero quel che si è sempre usato da Narsete fino a Cavour; dapprima
strinsero alleanza col re de' Franchi[48], da poi l'invitarono a venir a
reprimere gli oppressori d'Italia.

Gli Italiani dalla parte de' Greci vedevano decreti tirannici, avida
burocrazia, teologastri armati; dalla parte de' Longobardi, barbari
senza fede nè costumi, devastatori che spropriavano i possidenti,
spopolavano le città a vantaggio di orde armate e di capitani sbuffanti;
re che patteggiavano e mentivano, minacciavano e tremavano; a fronte a
loro vecchi sacerdoti mansueti, venerandi pel carattere, per la pietà,
per la scienza, che faceano processioni onde placar Dio e gli uomini,
pregavano, esortavano, consigliavano, e rendevano ancora riverito al
mondo quel nome di romano, che per altrui cagione sonava vilipendio.

Pertanto il pubblico voto si pronunziava pei papi, e pei Franchi, da
essi invocati. In fatto Pipino, poi Carlomagno, sostenuti dalle simpatie
nazionali, facilmente abbatterono i Longobardi, e ne distrussero il
regno, e _restituirono_ al pontefice quel che già era signoria de'
Greci: sicchè i papi vi ebbero non soltanto il dominio utile, ma
veramente la sovranità, e dissero, «La nostra città di Roma, o di
Ravenna, o di Comacchio; il nostro popolo romano», e collocaronsi fra i
principi della terra.

Questa tanto bersagliata sovranità temporale de' papi non è consacrata
nè nella necessità, nè nel principio, nè dentro, nè fuori da verun
dogma. La fede non dice che il poter temporale sia indispensabile
all'esercizio dello spirituale: pure determina questo in modo che, date
certe circostanze, non può venire esercitato se non da un capo che non
sia suddito di altro re; laonde, senza che facciasi luogo ad eresia, la
quistione implica la necessità di scegliere tra lo spirito della Chiesa
e lo spirito della rivoluzione.

Volendo i papi rintegrare la grandezza romana, sicchè non restasse più
l'Italia a dominazione di Barbari, ridestarono l'impero abbattuto, da
questi, e Adriano papa incoronò Carlo Magno per imperatore d'Occidente.

Così originava quella sistemazione del mondo cristiano che durò tutto il
medioevo. Secondo questa, ogni autorità deriva da Dio. E Dio l'affidò al
suo vicario in terra, che virtualmente rimaneva capo dell'intera
umanità, raccolta nella chiesa universale, e avea dal cielo la potenza
spirituale e la temporale. La spirituale partecipa egli coi vescovi, che
la esercitano sotto la sua supremazia; la temporale egli affida
all'imperatore da lui consacrato, che, sotto la direzione del pontefice,
dopo unto da lui, e giuratogli d'osservare la legge di Dio e le
costituzioni de' popoli, diviene capo visibile della cristianità negli
interessi terreni. Come tale, primeggia sopra tutti gli altri re: giusta
il costume ecclesiastico, non è ereditario, ma scelto ogni volta, ogni
volta coronato. Le due podestà s'appoggiano l'una l'altra, onde non
possono separarsi; neppure possono distruggersi fra loro, diversa
essendo la natura della loro giurisdizione. L'imperatore qualche volta
pretenderà aver mano nell'elezione dei papi, ma questi zeleranno sempre
l'indipendenza della Chiesa e de' suoi capi. Se l'imperatore viola la
legge di Dio e i patti col popolo che lo elesse, il papa lo pronunzia
decaduto, e lo separa anche dalla congregazione dei fedeli mediante la
scomunica. Nei litigi fra l'imperatore e il popolo o i re, il papa
proferisce come arbitro supremo, e con una sanzione spirituale[49].

Un sacerdote, senz'armi, senza interessi domestici o dinastici, senza
pregiudizj di nazionalità, che decide le contese fra' regnanti, intima
l'onestà, la giustizia, la carità a quelli che non conoscono se non il
capriccio e la forza; e gli obbliga a obbedire in nome di Dio; è un tipo
sublime, che forse non fu mai attuato pienamente: ma esercitò ben
maggiore efficacia che non i tanti altri sistemi, fantasticati per
mantenere una libera alleanza fra i popoli civili.

Roma, dopo convertita, avea tenuta la Chiesa in dipendenza, come già
soleva la religione nazionale: tal dipendenza ora cessava. Fra i popoli
germanici antichi però i diritti e le funzioni ecclesiastiche erano
mescolati col potere civile; sicchè, dopo fatti cristiani, ammettevano i
vescovi ne' consigli del regno, come duchi e conti e re assistevano ai
sinodi ecclesiastici, intrecciandosi lo Stato e la Chiesa, il
cristianesimo e la nazionalità. I regni che formavansi di nuovo
cercavano una sanzione col fare omaggio al pontefice e dichiararsene
vassalli. Quando sol dalla scimitarra d'un soldato o dalla tracotanza
d'un feudatario erano decise le controversie, la Chiesa conservava forme
legali, esame di testimonj, scritture, contratti; sicchè fu un grande
acquisto di libertà pei popoli e un gran ritegno ai principi
l'estendersi del diritto canonico, complesso di ordinanze emanate
dall'autorità più disinteressata.

I vescovi, in nome di questo diritto e pel carattere che rivestivano,
come anche per la potenza cui erano saliti come grandi baroni ed
elettori dei re, ammonivano i potenti qualora sviassero dalla giustizia;
proteggeano la donna dagli arbitrj brutali; colla tregua di Dio e
coll'asilo ne' luoghi sacri rimediavano alle guerre, incessanti ove
vigeva il diritto del pugno, cioè della vendetta privata.

Qual meraviglia se il capo de' vescovi crebbe tanto di potenza? Questa
non è nell'essenza della sua missione, ma non vi ripugna, e diveniva
occasione di svolgere ed ampliare l'incivilimento. Roma provedeva anche
ai più lontani popoli, ricevendo reclami, scrivendo, citando, mandando
nunzj e istituendo tribunali di nunziatura ove nessun altro ve
n'avea[50]; ponendosi arbitra nelle contese dei principi, o di questi
coi popoli; dettando leggi comuni, fondate sulla giustizia eterna, e
delle quali, anche in circostanze sì mutate, possono alcune trovarsi
inopportune, nessuna ingiusta.

Se dunque l'autorità pontifizia giganteggiò, non fu un'ambizione,
tramandata per mille anni da un all'altro de' papi, così diversi di
origine, di patria, di regola, di costumi, di scienza, di partito, di
umori, di passioni, eppure consenzienti infallibilmente nell'ordine
delle cose superne; non un palmo di terra s'aggiunsero essi per via di
conquista, durante il medioevo; variarono di politica nelle vicende
terrene, or cacciati, or prigionieri, ora schiaffeggiati da que'
potenti, sui quali imperavano assolutamente nelle materie religiose, e
ai quali impedivano di rendersi tiranni.

Da questa mescolanza di diritti e d'interessi nascevano frequenti cozzi,
che costituiscono una gran parte della storia del medioevo, e diedero
origine alle eresie politiche, delle quali dovremo occuparci. E per ciò
giova chiarire la natura di questo _sacro romano impero_, che col titolo
stesso mostrava aspirare ad un primato morale, a modellare il consorzio
laico sulla gerarchia ecclesiastica, introdurre ordine legale fra i
popoli scomunati; lo che era pure l'intento de' pontefici. Quel primato
non vuolsi confondere colla monarchia universale; bensì unificava la
podestà laica per disciplinarla sotto la podestà di Dio: rendendosi
venerabile non per soldati e forza muscolare, ma pel diritto e per
l'idea del dovere, costituiva una gran federazione, dove, sotto un capo
elettivo, poteva sussistere qualunque forma di governo; superiorità, non
dominio, che rispettava le individualità delle nazioni, pur mettendole
d'accordo nello sviluppare ciascuna la propria, e tutte la generale
civiltà.


NOTE

[37] Sant'Agostino definisce lo scisma _scissio charitatis_; l'eresia
_scissura fidei; hæreticus est qui non sequitur catholicam veritatem;
schismaticus est qui non amplectitur catholicam pacem; apostasia est
totius fidei omnimoda abnegatio_.

[38] Lo dice san Gerolamo, _De script. eccl._

[39] _Est nobis liber contra hæreses et sectas omnes compositus quem si
legere volueritis, damus_.

[40] _De præscriptione_, c. 42.

[41] _Mescolanze_, p. 221, 269.

[42] _De unitate, epist. ad plebem._

[43] _Cod. Theod._, libro XVI, titolo I, legge 2.

[44] Queste scuse non so quanto possano applicarsi ad Agrippino vescovo
di Como, del quale parlando nella mia _Storia della città e diocesi di
Como_, mostrai il traviamento, e con ciò parvi ad alcuno mancar di
riverenza a chi era onorato del titolo di santo. Ma la verità anzi
tutto: poi non è detto che Agrippino non si ravvedesse. La mia
asserzione, oltre una lettera di san Colombano a Bonifacio IV,
appoggiasi a un bellissimo titolo, che or serve di mensa all'altar
maggiore della chiesa di Isola nella Comacina, ed è siffatta:

    _Degere quisquis amat ullo sine crimine vitam_
    _Ante diem semper lumina mortis habet_.
    _Illius adventu suspectus rite dicatus_
    _Agripinus præsul hoc fabricavit opus_.
    _Hic patriam linquens propriam, karosque parentes_
    _Pro sancta studuit pereger esse fide_.
    _Hic pro dogma patrum tantos tollerare labores_
    _Noscitur, ut nullus ore referre queat_.
    _Hic humilis militare Deo devote cupivit_
    _Cum potuit mundi celsos habere grados_.
    _Hic terrenas opes maluit contemnere cunctas_
    _Ut sumat melius præmia digna...._ (polo? sibi?).
    _Hic semel exosum sæclum decrevit habere_
    _Et solum diliget mentis amore Deo_.
    _Hic quoque jussa sequens Domini legemque Tonantis_
    _Proximum ut sesse gaudet amare suum_.
    _Hunc etenim quem tanta virum documenta decorant_
    _Ornat et primæ nobilitatis honor_.
    _His Aquileja ducem illum destinavit in oris_
    _Ut gerat invictus prœlia magna Dei_.
    _His caput est factus summus patriarcha Johannes_
    _Qui prædicta tenet primus in orbe sedem_.
    _Quis laudare valet clerum populumque comensem_
    _Rectorem tantum qui petiere sibi?_
    _Hi sinodus cuncti venerantur quatuor almas,_
    _Concilium quintum postposuere malum_.
    _Hi bellum ob ipsas multos gessere per annos_
    _Sed semper mansit insuperata fides_.

[45] Alludendosi più volte in questi discorsi a opinioni de' primi
eretici, sarà bene accennarne il significato.

Paolinisti e Fotiniani credeano Gesù Cristo semplice uomo, non
preesistente alla sua concezione.

Simoniaci, derivanti da Simon Mago che a san Pietro offriva denari per
ottenerne la facoltà di comunicar lo Spirito Santo, chiamansi quelli che
fan mercimonio delle cose sacre, e più solitamente de' benefizj.

Gli Ariani negano la divinità di Cristo, e i Macedoniani la divinità
dello Spirito Santo.

I Nestoriani dividevano la persona di Gesù Cristo, negando che in lui
Dio e l'uomo fossero una persona sola; in conseguenza Maria non era
madre di Dio.

Gli Eutichiani confondevano le due nature di Cristo, dicendo che una
sola erasene fatta dalla natura sua divina e dall'umana.

Manichei e Marcioniti credeano a due principj indipendenti, l'uno del
bene, l'altro del male; l'uno creatore dell'anima, l'altro del corpo;
l'uno del nuovo, l'altro del vecchio Testamento.

Novaziano negava alla Chiesa l'autorità di rimettere i peccati. I
Donatisti invalidavano il battesimo conferito dagli eretici. Aerio
rigettava l'episcopato, il pregare pei morti, i digiuni stabiliti, e
altre osservanze ecclesiastiche; Vigilanzio il culto delle reliquie e
l'invocazione dei santi; gli Iconoclasti tutte le immagini.

I Pelagiani negavano il peccato originale e la necessità della grazia
interiore.

I Semipelagiani ammettevano il peccato originale, e non negavano la
necessità della grazia interna per compire la nostra salute, ma diceano
ch'essa davasi per meriti precedenti, e che l'uomo comincia la salute
sua da se medesimo, senza la grazia.

Più tardi Berengario negò la presenza reale e la transustanziazione: gli
Albigesi rinnovarono le credenze de' Manichei, e i Valdesi quelle di
Aerio e Vigilanzio.

Questi sono i principali eretici, ma l'enumerazione de' singoli è
lunghissima, e può vedersi nel _Dizionario delle eresie_ di Pluquet, e
nella traduzione francese del Commonitorio di san Vincenzo di Lerins,
fatta dall'abate Pavy, il quale ne annovera settantuna nel IV secolo.

[46] _Ep._ XI, 13.

[47] Nelle opere inedite che il cardinale Mai trasse dalla biblioteca
Vaticana, si trova un'importante confessione della supremazia del
vescovo di Roma, fatta da un patriarca greco, anteriore di mezzo secolo
allo scisma. Difendendo esso le immagini sacre, allora combattute da
Costantino Copronimo, dice che l'errore degli Iconoclasti poteva essere
scusato per ignoranza solo avanti il secondo sinodo niceno. «Fu questo
radunato convenientissimamente e con tutta legittimità; poichè, secondo
le antiche stabilite regole divine, vi teneva il posto più degno, e
presedeva una notabile parte del supremo clero occidentale, cioè
dell'antica Roma; senza del quale, niun dogma che nella Chiesa si
esamini, quantunque già ammesso per decreti canonici e per consuetudini
ecclesiastiche, non si riguarderà mai come approvato e dedotto ad
assoluta definizione e pratica. Imperocchè quella Chiesa gode il primato
del sacerdozio, e ritiene tal dignità come trasmessale dai due corifei
degli apostoli». Συγκεκροήτο γὰρ τοῦτο μάλιστα ενδικῶς, και εννομώτατα
επειπερ ἤδη, κατὰ τοὺς ὰρχήθεν τετυπωμένους θειους θεσμοὺς προῆγη
κατ’αυτὴν, καὶ προήδρευεν, όσον τε τῆς έσπεριας λήξεως, ἤτοι τῆς
πρεσβυτερος Ρώμης, μέρος οὺκ ἄσημον ῷν ἄνευ, ουδὲν δόγμα κατὰ τὴν
ηκκλησιαν κινουμενον, θεσμοῖς κανονικοῖς καὶ ιερατικοῖς έθεσι
νενομισμενον άνωθεν, τὴν δοκιμασιαν οὺ σκοιὲ, ὴ δεξαιτ’ άν ποτε τὴν
περαιωσιν, ώς δὲ λαχόντον κατὰ τὴν ιερωσυνεν εξάρκειν, καὶ τῶν κσρυφαιων
ὲξ αποστόλοις ὲγκεχειριδμένον τὸ ὰξιομα.

[48] Stefano II alla dieta di Quiersy 14 aprile 754 statuisce con Pepino
un'alleanza.

_Statuimus cum consensu et clamore omnium, ut tertio kalendas majarum
(_29 aprile_) in Christi nomine hostiliter Longobardiam adissemus; sub
hoc, quod pro pactionis fœdere per quod pollicimus et spondemus tibi,
beatissimo Petro clavigero regni cœlestis et principi apostolorum, et
pro te huic almo vicario tuo Stephano egregio papæ summoque pontifici,
ejusque successoribus usque in finem sæculi, per consensum et voluntatem
omnium infrascriptorum abatum, ducum, comitum Francorum, quod si Dominus
Deus noster pro suis meritis sacrisque precibus, victores nos in gente
et regno Longobardorum esse constituerit, omnes civitates atque ducata
seu castra, sicque insimul cum exarcatu Ravennatum, nec non et omnia quæ
pridem tuæ per imperatorum largitionem subsistebant ditioni, quod
specialiter inferius per adnotatos fines fuerit declaratum, omnia quæ
infra ipsos fines fuerint ullo modo constituta vel reperta, quæ
iniquissima Longobardorum generatione devastata, invasa, subtracta,
ullatenus alienata sunt, tibi, tuisque vicariis sub omne integritate
æternaliter concedimus, nullam nobis nostrisque successoribus infra
ipsas terminationes potestatem reservatam, nisi solummodo ut orationibus
et animæ requiem profiteamur, et a vobis populoque vestro patritii
Romanorum vocemur_. Seguono i confini.

Sull'autenticità di questo documento vedi il Troya, e BRUNENGO, _Le
origini della sovranità temporale dei papi_. Roma 1862.

[49] Nell'elezione dell'imperatore, l'arcivescovo di Colonia gli
domandava:

Vuoi mantenere con tutte le forze la santa fede cattolica?

Vuoi esser difensore e protettore alle sante chiese e ai ministri di
esse?

Vuoi al santo padre il pontefice romano riverentemente prestare
soggezione e la fede dovuta; non violare la libertà ecclesiastica;
mostrarti a tutti benigno, mansueto, affabile secondo la regia dignità;
e condurti in modo da regnar a utilità non tua, ma del popolo tutto; ed
aspettar il premio de' tuoi benefizj non in terra ma in cielo?

Dopo coronato, l'imperatore giurava: «Professo e prometto in faccia a
Dio e agli angeli suoi, di osservare le leggi, far giustizia, confermar
i diritti del regno, prestare il dovuto onore al pontefice romano e agli
altri vescovi e vassalli; conservare le cose donate alla Chiesa».

Queste idee sulla distribuzione del potere non le deduco da teologi o
romanisti; ma nello _Specchio di Svevia_, costituzione della Germania
antichissima, è detto che Cristo, principe della pace, lasciò in terra
due spade per difesa della cristianità; ed affidolle a san Pietro, una
pel giudizio secolare, l'altra per l'ecclesiastico: la prima è dal papa
_imprestata_ all'imperatore (_des weltichen Gerichtes Schwert darlihet
der Papst dem Kaiser_); l'altra rimane al papa affinchè giudichi stando
s'un palafreno bianco, e l'imperatore dee tenergli la staffa acciocchè
la sella non si scomponga; significando così che, se alcuno resiste
ostinatamente al papa, l'imperatore e gli altri principi devono
costringervelo colla proscrizione. Nessuno può scomunicar l'imperatore
fuorchè il papa, e questo per tre sole cause: se dubita della fede vera;
se ripudia la moglie; se turba le chiese e le case di Dio. Quando si
scoprono eretici bisogna procedere contro di essi ai tribunali
ecclesiastico e secolare; la pena è il fuoco. Ogni principe che non
punisce gli eretici è scomunicato. E se fra un anno non venga a
resipiscenza, il papa lo priverà dell'uffizio principesco e di tutte le
sue dignità. SCHILTER, _Antiq. Teuton._, T. III.

[50] Vedi CELESTINO MASETTI, _Dei vantaggi arrecati alle nazioni
cristiane dai Romani Pontefici per mezzo delle nunziature apostoliche_.
Roma 1842.



DISCORSO III.

ETÀ FERREA DEL PONTIFICATO. I CONCUBINARJ. LE INVESTITURE. GUERRA FRA IL
PASTORALE E LA SPADA.


La nostra religione è inalterabile nella essenza; ma nella sua
attuazione esterna toccando alle cose umane, trovasi esposta alla
contaminazione degli interessi e delle passioni terrene. Nuove irruzioni
di Saraceni ed Ungheri, e orrida sequela di sventure aveano colpito
l'Italia; lo stesso rinnovamento che i papi aveano sperato ricostruendo
l'impero d'Occidente riuscì a nuovi disastri, causati dal disordine
feudale, che annetteva la giurisdizione al possesso, cioè tramutava ogni
possidente in principe, con diritto di giustizia e di guerra. Ne seguiva
uno stato di perpetui e personali conflitti, e la depravazione che
accompagna la guerra permanente.

I principi e i baroni invidiando le vaste ricchezze e il conseguente
potere acquistato dalla Chiesa, ne voleano almen qualche porzione. Ogni
vacanza di vescovadi e del papato apriva l'arena a brogli, a corruzioni,
a violenze; disputandosi la mitra e la tiara, siccome un tempo la corona
imperiale. Gli imperatori, quali tutori della Chiesa, credettero
rimediarvi col presedere alle elezioni e confermarle: ma ciò che prima
era una protezione, un rimedio a deplorabili abusi, divenne un'arroganza
e un peso quand'essi non tennero per legittima l'elezione d'un papa se
non fosse approvata da loro. Secondo le norme feudali, ogni dovere
veniva da un impegno personale; il possesso medesimo era una
concessione, simboleggiata con atti materiali e solenni, e condizionata
a patti espressi. Tale natura aveano anche i possessi, di cui gli
imperanti o i baroni investivano le chiese e gli ecclesiastici, a titolo
di regalie. In conseguenza essi pretendevano di godere di quei beni,
duranti le vacanze (_regalia utile_), e conferire i benefizj mentre i
vescovadi vacassero (_regalia onoraria_): pel qual modo l'imperatore e
gli alti signori investivano i prelati non solo dei beni, ma della
dignità, cioè non solo collo scettro e la spada che significavano il
possesso temporale, ma anche coll'anello e il pastorale che esprimevano
la podestà spirituale, e ne riceveano l'omaggio e la promessa di
soggezione. Era un mettere in ceppi la Chiesa, e stornarne lo spirito;
imperocchè, le fazioni portando imperatore ora un Franco, ora un
Italiano, ora un Tedesco, a capriccio di questi modellavasi la scelta
de' papi; la tiara acquistavasi per intrighi di donne, cabale di
politicanti, violenza di bravi; papa Formoso, forse perchè mostratosi
avverso alla fazione italiana, era fatto disseppellire dal suo
successore, e giudicare, e condannare ad avere mozzo il capo e le tre
dita con cui benediceva, poi gittato nel Tevere, disacrando quelli che
da lui aveano ricevuto l'ordinazione; Teodora e Marozia portavano al
supremo seggio i loro favoriti e parenti; la fazione di Albano o quella
di Tusculo, l'italiana o la tedesca ergeano, deponeano, richiamavano i
papi, fino a crearne uno di 18 anni (Giovanni XII). Questi disordini[51]
sono raccontati colle esagerazioni consuete ai partiti, fino a dire che
sedesse papa una Giovanna, la quale poi, nella solennità d'una
processione, fu côlta dal travaglio del parto[52].

Quasi non trovasse in se stessa gli elementi della propria
rigenerazione, la Chiesa li domandava all'autorità secolare. Ottone
Magno di Sassonia, ottenuta a Roma la corona imperiale, prestò omaggio
ligio a papa Giovanni XII, confermandogli le donazioni di Pepino, di
Carlomagno, e di Lodovico il Pio; poi informato de' turpi portamenti del
pontefice, lo depose, e fece decretare dai prelati che spetta agli
imperatori dar l'istituzione ai papi e l'investitura ai vescovi (964).
Così il romano impero, rinnovellato ai tempi di Carlomagno come
principio d'equilibrio politico e tutela della sociale giustizia, per le
mal determinate attribuzioni veniva a collidersi coll'autorità
pontifizia, e tra le violenze e la vigliaccheria, capitali nemici della
libertà, l'uno perdea del carattere sacro, l'altra dell'indipendenza.

Badie e parrocchie _commendavansi_ a qualche secolare, cioè se gliene
attribuivano i frutti, i pesi negligendo o affidando a qualche frate.
Gli uomini di retta coscienza rifuggivano dai turpi maneggi, sicchè le
sedi rimanevano a persone o basse o perverse; che entrate nel gregge o
colla violenza di lupi o collo strisciar di serpenti, come poteano
esserne vigili custodi? I vescovi che aveano ricevuta la dignità ed
altre ne speravano dal principe, favorivano gl'interessi di questo;
cercavano oro in ogni modo per poter con questo comprarsele, poi se ne
rifaceano col trafficare delle cose sacre; doveano andar in guerra o
mandare i loro uomini, e sostenere viaggi, e alla Corte sfoggiare di
fasto profano; non di rado le dignità venivano in premio di umili e
vergognosi servigi e fin del peccato; canoniche e monasteri, più che di
cantici e litanie, risonavano di trombe, latrati e nitriti; anteposta la
spada alla virtù e alla scienza, alla religione la superstizione che n'è
la peggiore avversaria, come i prelati poteano più riprendere e
correggere vizj, ne' quali essi erano tuffati?

Ridotti usufrutto secolare anche i benefizj ecclesiastici, restava solo
che il clero ai tanti vantaggi aggiungesse quello di trasmetterli
ereditariamente. A ciò tendeva l'eresia de' Nicolaiti, che fondandosi su
condiscendenze antiche, più o meno accertate, domandavano il matrimonio
dei preti. Così nella Chiesa introducendo le dignità ereditarie,
assurdità ch'essa avea sempre rejetta, sarebbero divenuti retaggio
domestico i beni ch'eranle attribuiti qual patrimonio universale de'
poveretti.

Se mai fu momento in cui potesse dubitarsi della promessa di Cristo
sull'eterna conservazione della sua Chiesa fu allora; tanto pareva
spento lo spirito di santità e carità. Pure non mancarono i rimedj ad
essa consueti; decreti di morale e di disciplina per parte de' concilj,
riforma degli Ordini monastici antichi e introduzione di nuovi, come
furono quelli de' Camaldolesi, de' Cluniacesi e de' Certosini, donde
uscirono modelli di meravigliosa santità e carità, quali san Pier
Damiani, san Giovan Gualberto, il beato Andrea da Vallombrosa, san
Romoaldo, san Nilo, e ben presto Gregorio VII.

Questi era Ildebrando, di Soana nel Sanese, di profonda erudizione, di
costume integerrimo, di cuor retto e ponderato giudizio nell'ideare, di
ferma prudenza nell'eseguire. Per tali meriti salito ad alte dignità
ecclesiastiche, e stomacato dell'universal corruttela, si propose di
correggere il mondo, correggendo la Chiesa che n'è il capo. Sinchè
vendevansi le sedi pastorali, sinchè le dignità vi si ottenevano per
moneta e brighe, sinchè il libertinaggio facea propendere ai principi
venditori più che ai pontefici emendatori, potea sperarsi che i vescovi
recuperassero l'indipendenza d'autorità, della quale avean fatto gitto
per acquistare indipendenza di costumi? Ildebrando deliberò di rompere
il triplice vincolo che incatenava il clero alla società, cioè i
terreni, la famiglia, la podestà. A tal fine bisognava cozzare coi re
che ne scapitavano di potenza, coi preti che perdeano comodità alle
passioni, colle perverse abitudini e la cupidigia de' godimenti. A
imprese sì gravi richiedesi un uomo straordinario; e uomini tali non
vanno misurati col metro comune.

Accostatosi ai papi eletti dagli imperatori, li persuadeva a rinunziare,
e farsi legittimamente rieleggere dal clero e dal popolo; e perchè vi
brigavano le fazioni, indusse ad affidare l'elezione ad un'accolta di
cardinali vescovi e cardinali cherici[53], «salvo l'approvazione del
clero e l'onore dovuto all'imperatore».

Spiacque ai grandi il perdere un privilegio da cui traevano e lucro e
influenza, e ricorsero all'imperatore Enrico IV (1061) perchè desse egli
un papa, scegliendolo a preferenza nel «paradiso d'Italia»; voleano dire
nella dissoluta Lombardia, acciocchè avesse viscere da compatire la
fragilità umana. Ed egli scelse Cadolao vescovo di Parma, che sostenuto
dalle armi imperiali e dalla fazione di Tusculo, s'insediò; ma
Ildebrando fece dai cardinali proclamare il rigoroso milanese Anselmo da
Baggio, che s'intitolò Alessandro II. Ne derivò guerra civile, finchè
Cadolao restò vinto, e Alessandro confermato dal concilio di Mantova.

Com'egli morì (1073), il popolo tumultuariamente gridò papa quel che da
molto tempo faceva i papi, cioè Ildebrando, che assunse il nome di
Gregorio VII. Munitosi anche dell'assenso dell'imperatore, affronta a
viso aperto la simonìa e l'incontinenza, cerca che alla forza prevalga
il pensiero, che all'oltrepotenza dell'impero sovrasti l'efficacia del
sacerdozio, come al corpo l'anima, come il talento alle braccia.

Non è del nostro quadro il divisare le cure che in tal senso diede a
tutto il mondo. Fermandoci all'Italia e alle eresie di qua, diremo come
in Lombardia sopratutto si fossero estesi fra gli ecclesiastici il
concubinato e la simonìa[54]. A Milano principalmente pretendevasi che
il vescovo sant'Ambrogio avesse concesso la moglie al clero[55]: il
quale, della propria ricchezza insuperbito, asseriva che sant'Ambrogio
non fosse inferiore a san Pietro, e rinegando i papi, appoggiavasi a re
e imperatori, dai quali comprava per rivendere. Il clero minore e il
popolo scandolezzavansi di que' disordini, viepiù pel confronto colle
austerità de' monaci; e quando i prelati dicevano messa, la plebe li
piantava soli sull'altare. Anselmo da Baggio stava a capo de' zelanti
anche dopo che fu vescovo di Lucca, e s'intese con Landolfo Cotta e
Arialdo d'Alzate, caporioni degli ortodossi, affine di opporsi
all'arcivescovo Guido da Velate e alle sue creature. Videsi così partita
la diocesi; da un lato i Nicolaiti, dall'altra i devoti, che chiamavano
Patarini. Roma sostenne questi: i sinodi provinciali li favorirono; le
armi gli oppressero invano; ma Anselmo e Pier Damiani riuscirono a
ridurre la Chiesa milanese in obbedienza del papa; sicchè in un sinodo a
Roma l'arcivescovo tenne il primo posto dopo il pontefice, e ricevette
da questo l'anello, col quale prima lo investivano i re d'Italia: ai
colpevoli s'imposero penitenze, cioè ai meno rei il digiuno in pane e
acqua per cinque anni due giorni la settimana e tre nelle quaresime di
Pasqua e di san Giovanni; ai più gravati, sette anni, oltre il digiuno
d'ogni venerdì lor vita durante; all'arcivescovo per cento anni, con
facoltà di _redimersi a prezzo_, e promessa di mandare tutti i cherici
colpevoli in pellegrinaggio alle soglie degli apostoli e a Terrasanta.

In tale pellegrinaggio aveva attinto nuovo fervore il cavaliere
Erlembaldo, che si pose alla testa de' Patarini, e sembrandogli che i
Nicolaiti avessero fatto sommessione unicamente per ipocrisia, tolse a
incalzarli (1066). Benedetto da Anselmo di Baggio, ch'era divenuto papa,
strappava dagli altari i preti ammogliati, faceva popolo per respingere
i nobili, che colle armi proteggevano i prelati loro parenti. Questi
fanno trucidare Arialdo; e invocano l'imperatore, che intrude un altro
arcivescovo; Erlembaldo repulsa gli attacchi fin col saccheggio e
coll'incendio, ed eretto in Milano un altro governo, confisca i beni de'
preti concubinarj, e domina, malgrado le armi e le beffe avversarie,
sinchè dai nobili è ucciso, e dal popolo onorato come martire (1075);
culto riconosciuto dalla Chiesa[56].

Il messo dell'imperatore lodò l'assassinio, proscrisse i Patarini,
elesse nuovo arcivescovo; ma il popolo non sapea darsi pace che i beni
della Chiesa e le limosine andassero a pro de' ricchi e delle famiglie
de' preti, e prevalse, e volle osservato il decreto del papa che
imponeva il celibato. Così sciolti dai legami di famiglia, i sacerdoti
restarono una milizia dedicata interamente al servizio della Chiesa e al
vantaggio del popolo.

Torino apparteneva allora alla provincia ecclesiastica di Milano, e a
Cuniberto vescovo di quella città, san Pier Damiani diresse una lettera
in otto capitoli _Contra clericos intemperantes_, ove lo rimprovera
d'aver mostrato troppa connivenza verso i preti che tenevansi donne a
modo di mogli: del che tanto più si meraviglia, perchè sa che è austero
ne' proprj costumi, mentre chiude gli occhi sugli altrui; e perchè i
suoi preti sono del rimanente onesti e dati agli studj, e quando
andarono a lui pareano un coro di angeli luminosi[57].

Anche il patriarca d'Aquileja, che dicemmo da un pezzo essersi sottratto
a Roma, allora vi si sottomise (1079), e nel ricevere il pallio prestò
un giuramento, che poi fu esteso a tutti i metropoliti e vescovi
nominati direttamente da Roma. In esso si obbligavano, come i vassalli
verso i loro signori, a serbare fedeltà al pontefice; non tramare contro
di lui; difendere la primazia della Chiesa romana e le giustizie di san
Pietro; assistere ai sinodi convocati dal papa, riceverne orrevolmente i
legati; dappoi vi si aggiunse di visitare ogni tre anni le soglie degli
apostoli, e mandare a render conto dell'amministrazione della diocesi;
osservare le costituzioni apostoliche, non alienare verun possesso della
mensa.

Quest'autorità della Chiesa, recuperata colle abnegazioni del clero e
col suo sottomettersi a un capo, bisognava saldarla col togliere il
diritto che i signori laici arrogavansi d'investire i prelati, e di
esigerne soggezione e servigi. Se la Chiesa per sottrarsene avesse
rinunziato alle temporalità, rimanea destituita d'ogni considerazione e
d'ogni giurisdizione, quando questa era innestata al possesso delle
terre. Se le conservasse senza formalità d'investitura, i beni, che
erano forse un terzo di quelli della cristianità, si troverebbero
sottratti all'autorità principesca, e sottomessi alla pontificia, la
quale sarebbesi ingagliardita a segno, da predominare ai re. Gregorio
non indietreggiava da quest'ultima conseguenza[58], come il potrebbe
fare l'età nostra, annichilatasi in fatto davanti ai monarchi, mentre in
parole ostenta di contradirli e avversarli. Allora la libertà
intendevasi in un senso molto più pieno e positivo, e questa lotta del
sacerdozio coll'impero, delle usurpazioni dei governi colle naturali
libertà, generò l'idea moderna dello Stato. Se fonte del potere è Dio, e
Dio è rappresentato in terra dal papa, questo è superiore ai re. Se la
società corrotta non può rigenerarsi che dalla Chiesa, è necessario che
questa sovrasti ai troni. E come superiore, già Gregorio VII provedeva
agli interessi anche temporali dei popoli; agli uni vietava il
trafficare di schiavi, ad altri rinfacciava i vizj, scomunicava re
contumaci; obbligò altri a continuar alla Chiesa l'omaggio con cui i
predecessori ne aveano compensata la tutela; volea ridurre uomini quei
che i baroni teneano schiavi; tanto più efficace perchè nulla faceva per
vantaggio o ambizione sua personale, e sempre irremovibile come chi
s'appoggia a dettati che non ammettono dubbio e non consentono paure.

Da ciò quel che i moderni, inneggiatori d'un imperatore che insultò ad
un papa supplichevole, rinfacciano come la maggior tracotanza: il
rappresentante dei diritti del popolo e della morale, che umilia un
tiranno depravato. L'imperatore Enrico IV, oltre le turpitudini
personali, avea violato la costituzione giurata ai Sassoni. Questi ne
portarono reclamo al papa, e il papa ne ammonì ripetutamente Enrico. E
perchè questi promise e mancò, citollo a Roma onde giustificarsi,
altrimenti lo dichiarava decaduto, e scioglieva i popoli dall'obbedirlo
(1076). Oggigiorno in simili emergenti si fan rivoluzioni, barricate,
sangue; allora i re erano eletti colla sottintesa condizione che
regnavano perchè meritevoli, cioè conforme a una moralità, che non era
diversa per essi che per tutti. Questa era sottoposta al giudizio di un
arbitro supremo; quand'egli proferisse ch'era violata, i popoli
cessavano dall'obbedire, e il re indegno era colpito da una pena tutta
morale, la scomunica, che mettea fuor delle comuni orazioni lui e le
persone o le provincie che gli continuassero la devozione. Nel paese
scomunicato cessavano quelle cerimonie religiose che consacrano tutti
gli atti solenni della vita, e consolano e rinfrancano l'anima nelle
battaglie della vita. Chiuso il tempio, immagine della città di Dio; non
letizia d'organi, non richiamo di campane; non più l'assoluzione per
tranquillar le coscienze; non la santa cena per refiziare lo spirito;
non quelle feste ove il barone e il villano trovavansi uniti e pari
nella medesima preghiera: spente le lampade, velati i crocifissi e le
immagini edificanti; veruna solennità accompagnava l'entrare e l'uscir
dalla vita: insomma pareva non esistesse più mediatore fra il peccatore
e Dio. In secoli credenti questa pena era spaventosa, come sarebbe ai
nostri gaudenti il chiuder i teatri od i caffè; e il re colpito,
abbandonato da tutti, era costretto a sottomettersi.

Non è raro che la città di Roma imprechi a' suoi pontefici per favorire
altri re. Anche allora Cencio, prefetto della città, in nome di Enrico
IV contrariò Gregorio, lo aggredì tra le affettuose cerimonie della
notte di Natale, e afferratolo pei capelli, lo trasse al proprio
palazzo. Il popolo, levatosi a rumore, lo liberò, e a fatica il perdono
di Gregorio salvò l'offensore.

Enrico imperatore, incapricciato in tali ostilità, v'era incalorito dal
favore de' prelati lombardi, lieti di veder umiliato quel che li
frenava; ma quando il papa lo scomunicò, Sassoni e Turingi ritiraronsi
dall'ubbidirlo, e tutta Germania applause al papa, che rappresentava la
volontà e i diritti del popolo; onde l'imperatore fu costretto venir a
piedi di qua dell'Alpi, ed egli, re delle spade, umiliarsi al re della
giustizia, che, nel castello di Canossa presso Reggio, lo fece aspettare
tre giorni in abito di penitente (1077), poi gli perdonò e l'ammise alla
comunione. Presa l'ostia consacrata, Gregorio lo assolse, e appellando
al giudizio di Dio se mai fosse reo d'alcuno dei misfatti che erangli
imputati dagli imperiali, ne inghiottì una metà; l'altra porse ad Enrico
perchè facesse altrettanto se si sentiva incolpevole. Potere della
coscienza! Enrico non ardì un atto che avrebbe risolta ogni questione, e
paventò il giudizio di Dio.

Indispettito, non compunto, tese insidie al papa, e reluttò, sicchè i
suoi lo deposero, e Gregorio, riconoscendo il surrogatogli Rodolfo di
Svevia, ideò di far un regno dell'Italia settentrionale e media, che
fosse vassallo della sede romana, come già l'erano i Normanni
dell'Italia meridionale, e a questo regno restasse subalterna la
Germania, invece di sovraneggiarlo com'essa allora faceva. Ma Enrico
venne con buone armi, elesse un antipapa, e Gregorio VII, profugo dalla
sua città, come tante volte i suoi antecessori e successori, morì a
Salerno esclamando: «Amai la giustizia e odiai l'iniquità; perciò
finisco in esiglio» (1089).

Matilde, contessa di Toscana, il personaggio più potente allora in
Italia, ed uno de' più insigni del medioevo, aveva sostenuto Gregorio, e
così sostenne i suoi successori nella quistione sopravvissuta, e morendo
lasciò alla santa sede l'eredità de' suoi possessi, che, oltre la
Toscana, il ducato di Lucca e immensi territorj, comprendeano Parma,
Modena, Reggio, Cremona, Spoleto, Mantova, Ferrara ed altre città. In
questi trovandosi mal distinti i beni allodiali dai feudali, nuove
quistioni ne originarono cogli imperatori, ai quali ricadeano i feudi
vacanti, e che col diritto del forte occupavano anche la proprietà, e
trovavano sempre fautori in Italia e nel clero[59].

Pasquale papa, volendo appianar ad ogni costo le differenze, si spinse
sino all'estrema concessione; cioè che gli ecclesiastici rinunziassero a
tutti i possessi temporali, coi castelli e i vassalli avuti dagli
imperatori, purchè gl'imperatori rinunziassero all'immorale diritto
delle investiture. Nel suo desiderio di pace non s'accorgeva ch'era
impossibile spogliar i signori ecclesiastici, tanto potenti, nè togliere
ai nobili laici l'aspettativa di tanti benefizj. In fatti sorse
un'opposizione universale, e s'incalorì la guerra, dove la città di Roma
per lo più osteggiava il papa sinchè non l'avesse cacciato; cacciatolo,
tornava a volerlo.

A quel litigio, dove Voltaire non vide che una questione di cerimoniale,
mentre invece implicava la libertà umana, quattro soluzioni poteano
darsi. O annichilar il potere morale e l'elemento spirituale
surrogandovi la forza sfrenata, come voleano gl'imperatori. O
annichilare l'ordine politico, sublimando il papa come voleva Gregorio
VII, ma vi repugnavano le costituzioni nazionali. O come propose
Pasquale II, separare affatto i due ordini, isolandoli in modo che lo
Stato non sorreggesse la Chiesa, nè questa illuminasse lo Stato; al che
si opponevano e i costumi e gl'interessi. Non restava se non che il capo
politico smettesse la nomina diretta dei vescovi e degli abbati,
vigilando però sulle elezioni; e investendoli delle temporalità, in modo
che fossero preti insieme e vassalli, come il tempo portava. Tal fu la
transazione Calistina (23 settembre 1122), ove l'imperatore rinunziava
ad investire i prelati coll'anello e col pastorale, lasciando libera
l'elezione alle chiese; mentre Calisto II assentiva all'imperatore che
le elezioni de' vescovi e abbati del regno tedesco si facessero
coll'assenso imperiale, purchè senza simonia o violenza; l'eletto, prima
d'essere consacrato, bacierebbe lo scettro col quale eragli conferita
dall'imperatore l'investitura per tutti i beni e le regalie. In Italia e
nelle altre parti dell'impero, l'eletto, fra sei mesi dopo consacrato,
riceverebbe l'investitura.

È la prima di quelle transazioni fra il potere spirituale e il
temporale, che si chiamano Concordati; e il concilio lateranese (1123),
ch'è il primo universale in Occidente, la confermò; poi il secondo
lateranese (1139) rinnovò la scomunica contro chi ricevesse
l'investitura laicale.

In tale accordo il vantaggio restava tutto al poter secolare, perocchè
l'imperatore non recedeva da alcuna delle sue pretensioni, vedevasi
confermato l'alto dominio, e dirigeva le scelte. Ma la Chiesa
sacrificava le eventualità temporali al desiderio di far indipendente lo
spirituale[60]. Dappoi l'imperatore Lotario II rinunziò al diritto di
assistere alle elezioni; e fu rimesso al papa il decidere delle
differenze che in tal fatto si suscitassero; come poco a poco fu tolto
ai principi il goder de' frutti de' benefizj vacanti, e dello spoglio
de' vescovi e abbati defunti.

Duranti questi fatti, l'autorità ecclesiastica dei papi erasi viepiù
ingrandita col restringere quella de' metropoliti, revocare a Roma la
collazione di molti benefizj; riservarsene le annate; sottrarre ai
vescovi la giurisdizione sui conventi e sui beni parrocchiali. Queste
prerogative furono convalidate dalle decretali del falso Isidoro. Così
chiamossi una raccolta di leggi, che non erano state realmente
pubblicate dai papi, ma dove l'autore, tutt'altro che ignorante e
inetto, pare raccogliesse titoli antichi, trasformando in decreti alcune
allusioni del pontificale romano, o relazioni storiche, o brani di
lettere dei papi, dei codici di Teodosio e d'Alarico, della regola di
san Benedetto, del _Liber pontificalis_ e d'altre autorità. Qualche
volta adottò titoli spurj; qualche volta alterò, pure quelle norme
doveano esser conformi alle istituzioni vigenti nella Chiesa, perocchè
furono accolte senza ostacolo, e sinodi e papi le citarono, e altri
compilatori fondaronsi su di esse, finchè al rinascere della critica i
Cattolici le posero in dubbio, ben prima dei Protestanti[61].

Un grave colpo al cristianesimo avea dato l'arabo Maometto, predicando
una religione, desunta dalle credenze ebraiche e cristiane, e colla
pretenzione di semplificarle; asserendo l'assoluta unità di Dio, cioè
escludendo la trinità delle persone[62]; non vedendo perciò in Cristo
che un profeta come Mosè, come Maometto; proibendo ogni rappresentazione
della divinità; indulgendo alla poligamia e alle inclinazioni della
carne, e propagando la sua religione colla spada. Così conquistata gran
parte dell'Asia e dell'Africa, la dinastia degli Aglabiti di Cairoan
venne a invadere la Sicilia (827), e vi piantò lo stendardo del profeta,
che ben presto passò anche sul continente d'Italia.

I Cristiani dovettero allora soffrire persecuzioni dall'intollerante
apostolato musulmano, e probabilmente alcuni avranno abbracciata la
religione de' vincitori. I pontefici ebbero dunque l'impresa e di
salvare i dominj loro da questi nuovi invasori, che minacciavano fin
Roma, e di impedire la diffusione delle loro dottrine e de' loro
costumi. E poichè essi aveano occupato la Terrasanta, teatro della
redenzione e meta di devoti pellegrinaggi da tutto il mondo, i papi
eccitarono l'Europa a muoversi per liberarla, come fecesi nelle
crociate. Queste imprese, ch'erano un indirizzo dato dalla Chiesa alla
forza e al sentimento esuberanti, verso uno scopo religioso e civile,
dovettero ingrandire il potere de' papi che le intimavano, le
benedivano, le dirigevano, e che investivano i principi e i vescovi de'
paesi recuperati.

Di rimpatto la potenza degli imperatori in Italia era stata attenuata
dal costituirsi de' Comuni. Questi aveano poco a poco recuperato i
diritti civili, sostenuti sempre dagli ecclesiastici, e massime dai
vescovi, i quali, ottenendo che le città di loro residenza restassero
immuni dalla giurisdizione dei conti, e sottoposte alla loro propria,
aveano agevolato la costituzione de' municipj. Sempre più rinforzandosi,
questi fondavano l'eguaglianza popolare, eleggevano magistrati proprj,
rendevano giustizia secondo leggi fatte dai loro parlamenti, o
ripristinavano le romane, e faceansi guerra dall'uno all'altro,
deplorabile conseguenza ma pur sintomo di libertà. Gli imperatori o
doveano combattere in Germania per le disputate elezioni, o
campeggiavano in Terrasanta, o cozzavano coi papi per le investiture;
laonde nè potevano sostenere colle loro armi i baroni, nè opprimer i
Comuni, che assodavansi collo spossessare i dinasti vicini.

Quel movimento repubblicano, sebbene originato e favorito dal clero,
riusciva però nulla meno che favorevole all'autorità temporale de'
pontefici. In Francia Abelardo (1079-1142), noto ancor più pe' suoi
malincontrati amori che per l'ardimento filosofico, accoppiando la
dialettica colla teologia, avea voluto far precedere la scienza alla
fede, anzichè considerar quella come uno sviluppo di questa, e la
sottoponeva al giudizio individuale, quasi coll'esame e col dubbio si
progredisse. Lo aveva udito un bresciano di nome Arnaldo, mutatosi dal
mestier delle armi alla cocolla, e ne portò le idee in Italia. Bel
parlatore, cominciò come tutti i novatori dal rimbrottare i costumi del
clero; donde passò a battere la potenza ecclesiastica; repugnare al buon
diritto e al vangelo che il clero possedesse beni, i vescovi regalie; ma
dovrebbero restituire ai principi i possessi che ne aveano ricevuto, e
ridursi all'apostolica, a viver di decime e di spontanee oblazioni. Non
intendendo la libertà nuova, vagheggiava quella che apparivagli ne'
libri classici, blandendo idee che sempre diedero per lo genio al popol
nostro. Piaceva a questo pel dolce suono di repubblica: piaceva ai
signori laici, che teneano feudi dagli ecclesiastici, e speravano
emanciparsene; e formò una fazione detta de' Politici, che dal dir
ingiurie al pontefice passava a negargli obbedienza.

Roma era allora circondata da baroni e da Comuni, che aspiravano del
pari all'indipendenza; dentro era straziata da due fazioni, guidate dai
Frangipani e da Pier di Leone, che pretendeano usurpar i beni delle
chiese, ed eleggere a voglia papi e antipapi. Con costoro ebbe capiglie
Innocenzo II (1130), che costretto andar fuggiasco in Germania, in
Francia, in Inghilterra, ebbe sostegno l'eloquenza di san Bernardo,
fondatore dell'ordine de' Cistercensi. Dall'imperator Lotario ricondotto
a Roma, il papa doveva tenersi munito in Laterano, mentre l'antipapa
Anacleto fortificavasi in Vaticano (1133). Ma ben presto i Normanni che,
colla solita facilità, aveano acquistato le due Sicilie, fecero di
queste omaggio al papa, chiedendogliene l'investitura; poi radunato in
Laterano l'XI concilio ecumenico, ai 2000 prelati raccolti il papa
diceva: «Sapete che Roma è metropoli del mondo; che le dignità
ecclesiastiche si ricevono per concessione del sommo pontefice siccome
feudo; nè altrimenti possono legittimamente possedersi».

Malgrado l'opposizione di san Bernardo, Arnaldo riuscì a ribellare la
città (1141), che gridò la repubblica, e pose un senato di 56 membri,
decretando in nome di questo e del popolo. E un amico di Arnaldo fu
scelto per nuovo papa col nome di Celestino II, ma questi cessò ben
presto dal favorirlo; ed anche il popolo recosselo in sinistro,
dimodochè dovette fuggire, e ricoverarsi a Zurigo. Quivi anticipate le
declamazioni di Zuinglio contro la Chiesa, passò in Francia e in
Germania, sempre inseguito dall'occhio e dalla voce di san Bernardo.

Coi sussidj, che mai non mancano a chi guerreggia la Chiesa, soldò 2000
Svizzeri, e con questa forza venale tornato a Roma, ripristinò la
magistratura repubblicana; e invasato da reminiscenze di libri, rinnovò
i consoli e i tribuni; ideava un ordine equestre, che fosse medio fra il
popolare e il senatorio; al papa non lasciava che i giudizj
ecclesiastici, mentre l'autorità imperiale supremava.

Bastano le più vicine memorie per ricordarci come il popolo romano
s'inebbrii di siffatte idee; e come all'entusiasmo dell'applauso si
accoppii l'entusiasmo dell'ira. Mentre osannavano quell'intempestiva
restaurazione, i Romani gettavansi a furia sulle torri dei baroni, sui
palazzi degli avversi e de' cardinali, e anche sulle loro persone;
abolivano il prefetto della città; negavano obbedienza al nuovo papa
Eugenio III (1145), il quale dovette coll'armi domar quella gente che
san Bernardo qualificava proterva e fastosa, disavvezza dalla pace,
avvezza solo al tumulto; immite, intrattabile, non sottomessa se non
quando le manchi forza di resistere. E questa prevalse, e cacciò il papa
che andò esule in Francia, sicchè Bernardo scriveva: «Ecco l'erede di
Pietro, per opera vostra espulso dalla sede e dalla città di san Pietro;
ecco per le vostre mani spogliati de' beni e delle case loro i cardinali
e i vescovi ministri del Signore. O popolo stolto e disennato! I padri
vostri resero Roma donna del mondo; voi v'industriate di renderla favola
delle genti. Or ch'è divenuta Roma? miratela; un corpo informe senza
testa, una fronte incavata senz'occhi, un volto privo di luce. Apri,
infelice popolo, apri una volta gli occhi, e guarda la desolazione che
ti sovrasta. Come in brev'ora lo splendore di tua gloria s'è offuscato!
fatta sei come vedova, tu ch'eri la signora delle nazioni, la regina dei
regni. Eppur questi non sono che principj de' mali; più gravi calamità
ti minacciano, se più ti ostini nella fellonia» [63].

Intanto i repubblicani invitavano l'imperatore Corrado III, vantando
d'avere operato solo per restituire a Roma l'ecclissato splendore; e
secondo la storia, le prediche d'Arnaldo e il voto de' giureconsulti
classici, voleano riformare lo statuto, assicurando illimitata autorità
al principe. Ma ai nobili premea di conservar le loro prerogative, a
fronte dell'imperatore come del papa; e quando il popolo trucidò il
cardinale di santa Prudenziana (1154), il nuovo papa Adriano IV diede
l'insolito esempio di metter all'interdetto la capitale del
cristianesimo, finchè non ne fosse espulso Arnaldo. Commosso dal vedersi
negati i sacramenti all'avvicinar della Pasqua, il popolo cacciò
Arnaldo, che rifuggì presso un conte di Campania.

Intanto era venuto imperatore di Germania Federico Barbarossa, risoluto
di ripristinar l'autorità imperiale, scassinata in Italia dal
costituirsi de' Comuni, riformare il sistema ecclesiastico, il feudale,
il municipale. Son divulgatissime le costui imprese in Lombardia; nè noi
dobbiamo ricordare se non che, mentre Milano gli resisteva, egli mosse a
Roma per esser coronato.

Quivi trovò in piedi la repubblica istituita da Arnaldo, la quale,
ristretto il papa nella città Leonina, gl'intimava rinunziasse ad ogni
podestà temporale, e s'accontentasse del regno che non è di questo
mondo. I repubblicani speravano prevarrebbe in Federico l'antica
nimicizia contro i papi; ma egli, uom dell'ordine, astiava le
rivoluzioni, e questo slancio della gran città verso la forma che fu
sempre prediletta in Italia, ma che ridurrebbe al nulla la prerogativa
imperiale. Pertanto (1153) avuto nelle mani Arnaldo, lo consegnò al
prefetto imperiale della città. A questo l'esser presente l'imperatore
conferiva pieni poteri, elidendo ogni contrasto de' preti; sicchè egli
fece, come eretico e ribelle, strangolare Arnaldo, ardere in piazza del
Popolo, e gettarne le ceneri nel Tevere. La turba accorse come ad ogni
spettacolo; gli scrittori applaudirono; Goffredo di Viterbo canta:

    _Dogmata cujus erant quasi pervertentia mundum_
      _Strangulat hunc laqueus, ignis et unda vehunt_[64]:

Gunter nel _Ligurino_ dice s'era fatto reo contro ambedue le maestà:

                    _sic læsus stultus utraque_
    _Majestate reum geminæ se fecerat aulæ_;

nè alcun contemporaneo lo compiange, o nega gli aberramenti suoi. Solo
nel secolo passato si cominciò a presentarlo come una vittima della
tirannide papale, come un precursore de' riformatori del cinquecento, o
dei Giansenisti del seicento[65].

Nelle avventure di lui, come in tutto il conflitto che descriviamo, non
fu abbastanza distinta la lotta dei laici coi cherici, da quella
dell'autorità imperiale coll'autorità pontifizia: differenza troppo
notevole. In fondo gl'imperatori, sebbene con maggior misura,
sostenevano quel che oggi la rivoluzione: la Chiesa, congregazione
spirituale, non aver bisogno di temporalità; queste metter ostacolo ai
principi, e però dover cessare, necessaria essendo l'unità del comando,
nè esser vero principe chi ha un superiore. Rispondeasi: la Chiesa
sovrasta a tutti i diritti, perchè è la fonte di questi; nè si dà
diritto quando essa nol voglia riconoscere; esistendo divinamente, e
assolutamente essa non tien conto che di se medesima. La legge,
l'ubbidienza derivano da Dio: dacchè il principe le rompe, perde,
quant'è da lui, il diritto di comandare, e la coscienza il dover di
obbedire. La giustizia è il bene armato, la legge morale armata, sicchè
bisogna rimanga in mani morali e legittime. Più si restringe la Chiesa,
più fa duopo estender la forza che la surroga.

I fautori della Chiesa nominavansi Guelfi; Ghibellini i sostenitori
dell'impero, ma entrambi i partiti riconoscevano un principio superiore
a tutte le rivoluzioni, la distinzione del potere temporale
dall'ecclesiastico, dello spirito dalla legge, della fede dal diritto,
della coscienza dell'individuo dal vigore della società, dell'unità
umana dall'unità civile. Il prevalere d'una di queste tesi porta
necessariamente l'antitesi dell'altra: se la Chiesa si fa democratica
col popolo, l'impero si fa democratico colla plebe: se i Guelfi
stabiliscono l'eguaglianza, i Ghibellini vogliono tutelarla colla legge;
se prevale l'idea della libertà individuale, bisogna frenarla colla
potenza sociale.

Questi partiti si spiegarono massimamente sotto i due Federichi di
Svevia. Il primo credette potere nella gagliarda mano schiacciare le
libertà comunali e la Chiesa: ma a Venezia dovette piegar il collo sotto
al piede del papa, che esclamò, _Super aspidem et basiliscum
ambulabis_[66], e per sua mediazione pacificato colle città lombarde,
riconobbe l'indipendenza di queste, e andò a morire in Terrasanta.

La sua discendenza rinnovò il cozzo coi papi, anche per l'eredità della
contessa Matilde, sicchè essi favorirono l'elezione di Ottone di
Baviera. E questi, davanti a tre legati pontifizj prestò questo
giuramento (1201):

«Io Ottone, per la grazia di Dio, prometto e giuro proteggere con ogni
mia forza e di buona fede il signor papa Innocenzo, i suoi successori e
la Chiesa romana in tutti i dominj loro, feudi, diritti, quali sono
definiti dagli atti di molti imperatori, da Lodovico Pio sino a noi; non
turbarli in quel che già hanno acquistato; ajutarli in quel che lor
resta ad acquistare, se il papa me lo ordini quando sarò chiamato alla
sedia apostolica per la corona. Inoltre presterò il braccio alla Chiesa
romana per difendere il regno di Sicilia, mostrando al signore papa
Innocenzo obbedienza e onore, come costumarono i pii imperatori
cattolici fino a quest'oggi. Quanto all'assicurare i diritti e le
consuetudini del popolo romano, e delle leghe Lombarda e Toscana,
m'atterrò ai consigli e alle intenzioni della santa Sede, e così in ciò
che concerne la pace col re di Francia. Se la Chiesa romana venisse in
guerra per cagion mia, le somministrerò denaro secondo i miei mezzi. Il
presente giuramento sarà rinnovato a voce e in iscritto quando otterrò
la corona imperiale».

Ai Tedeschi spiacque siffatta sommessione; altrettanto sarebbe dovuta
gradire agli Italiani, de' quali assicurava l'indipendenza come della
Chiesa; ma ben presto Ottone, venuto qua co' suoi Tedeschi, disgustò i
nostri e il papa, che lo scomunicò, e gli eresse incontro Federico II,
nipote del Barbarossa. Questo allievo e favorito dei papi, ben presto
divenne il più dichiarato loro avversario, e ravvivò la lotta delle
investiture, colle vicende che in altri lavori noi divisammo più che non
occorra in questo speciale.

Innocenzo III, uno de' pontefici più insigni per scienza e virtù,
convocò il XII concilio ecumenico lateranense (1215), dove assisteano
quattrocendodici vescovi, ottocento abati, ambasciadori di tutta
cristianità; vi fu letto un discorso sulle prerogative del papa, e
acciocchè anche i laici lo comprendessero, venne ripetuto in spagnuolo,
francese, tedesco; fu esposta la dottrina cattolica contro Albigesi e
Valdesi ed altri eretici, scomunicando il signore che non purga il suo
paese da questi: colla parola _transustanziazione_ si espresse il
cambiamento operato nell'eucaristia: fu imposto a tutti i fedeli di
confessarsi e comunicarsi almeno alla Pasqua.

Innocenzo attese a riformar la costituzione interna della Chiesa
mediante lo spirito mistico con cui i Francescani operavano sulle classi
basse, e i mezzi legali con cui i Domenicani difendeano la società
feudale e religiosa. Onde far che le istituzioni civili non si
togliessero dall'ombra del trono papale, e impedire che la società laica
invadesse la ecclesiastica, volle ridurre in atto i concetti di Gregorio
VII intorno alla supremazia del papa. Era allora dottrina comune ai
canonisti e ai politici che tutta la cristianità gravita attorno a due
centri: il papa e l'imperatore, delegati da Dio a governar le cose
spirituali e temporali. Nessun altro ideale conosceasi in fatto di
governo, e se ne valeano i due poteri per impedir sia le usurpazioni
dell'uno sull'altro, sia le pretensioni de' baroni o de' cittadini;
l'eresia al par della ribellione: due mali (dice Pier dalle Vigne) cui
la Provvidenza preparò non due rimedj ma un solo sotto duplice forma: il
balsamo della potenza sacerdotale e la forza della spada imperiale.

Tale era dottrinalmente la quistione: ma nel fatto ciascuno di questi
due fanali della via sociale aspirava a splender unico; e si
osteggiavano colle armi e colle scomuniche. Ma due podestà, diverse
eppure non opposte, con idee e linguaggio differenti, non possono
intendersi, sicchè nè la violenza riesce nè la discussione.

Federico II, ricco delle doti più belle e più ammirate, dotto, poeta,
guerriero, legislatore, a guisa dei re moderni abborriva le libertà
municipali, e la religione voleva ridurre a ramo dell'amministrazione.
Pel primo scopo lungamente contese colle repubbliche dell'Italia
superiore, e se non riuscì a spegnerle, impedì si estendessero anche al
resto d'Italia, e costituissero l'intera penisola in un sistema, che
potea divenir modello all'Europa e cambiarne i destini.

Uomo d'ordine, vide negli eretici dei disobbedienti e ribelli, e
condannò senza esame le sêtte dualiste, ridestando le più severe leggi
imperiali. Fece il solenne trasporto delle reliquie di _san_ Carlomagno:
onorò quelle della _buona santa_ Elisabetta d'Ungheria, sul cui capo
posò una corona d'oro, attestandone pubblicamente i miracoli. Pure dai
papi è tacciato di eresie; ma quali fossero non è precisato.

Veneratore della civiltà pagana, usava e abusava dei titoli divini che
l'adulazione del basso impero aveva attribuiti agli imperatori. A suo
figlio Corrado diceva «stirpe divina del sangue de' Cesari», e _diva
mater nostra_ alla regina Costanza; i suoi cortigiani applicavano a lui
frasi scritturali: Terra promessa, Betlem della marca d'Ancona la città
di Jesi ove nacque: egli il giusto disceso dalle nubi, e su cui i cieli
versano la rugiada; egli il Signore a cui avviarsi camminando sulle
acque; egli _antistite_, cooperatore e vicario di Dio, immagine visibile
dell'intelligenza celeste. Pier dalle Vigne suo segretario era
denominato suo primo apostolo, nuovo Pietro, destinato a confermar la
fede altrui, dacchè l'imperatore gli disse: «Pietro, poichè tu mi ami,
pasci le mie pecorelle»; eretto a fronte al falso vicario di Cristo, per
esser vicario vero governando secondo la giustizia, istruendo,
riformando per mezzo della fede; su questa pietra angolare fondasi la
nuova Chiesa imperiale (_in cujus petra fundatur imperialis ecclesia_);
su lui riposò Augusto quando celebrò la cena co' suoi apostoli; ciò
ch'egli chiude nessun altro apre; nessun chiude ciò ch'egli aperse:
Pietro di Galilea rinegò tre volte il suo maestro, Pietro di Capua non
v'è pericolo che neghi il suo, neppur una volta[67].

Così da un lato profanavansi le memorie sante, dall'altro tornavasi
verso quell'antichità, a cui non repugnava la pretensione di governar le
coscienze non meno che i corpi, e Federico fantasticava una supremazia
religiosa, simile a quella degli imperatori greci e dei musulmani, che
congiungevano i due poteri; e invidiava Vatace imperator d'Oriente, che
nulla aveva a temere dalla indipendenza de' preti, e lo persuadeva a non
acconsentire alla riunione della Chiesa greca colla romana che era
scismatica. E poichè sentiva di non bastare a lottar col papa, divisava
spartire la cristianità in tante Chiese nazionali, dove il re fosse
anche pontefice, e così il conflitto divenisse impossibile.

Tutto ciò sembra costituirlo quel che oggi diremmo un materialista
incredulo, o se vogliasi, un politico indifferente; difetto ben raro in
quei secoli. Raccontano che, traversando un campo spigato, dicesse ai
suoi seguaci: «Badate a non far guasto, giacchè quei grani potrebbero
divenire corpo di Cristo». E veduta la Palestina, esclamò: «Se Dio
avesse conosciuto Napoli, certo non sceglieva questa per terra
prediletta». E metteva in burla il parto della Vergine, il viatico ed
altri dogmi, quasi repugnassero alla ragione e alla natura.
Scandolezzava poi col tener a tavola ambasciadori musulmani insieme coi
vescovi; guardie arabe custodivano il suo corpo e le sue fortezze;
odalische allietavano i suoi riposi abbelliti da rarità orientali e
dalle voluttà che avea vedute presso gli emiri di Sicilia e gli sceichi
dell'Asia; i Musulmani stessi lo consideravano come un loro credente,
_perchè educato in Sicilia_, e un d'essi avendo, in presenza di lui,
proferito un versetto del Corano che nega la divinità di Cristo, egli
vietò di infliggergli alcun castigo.

Si disse che egli avesse chiamato Mosè, Cristo e Maometto tre impostori,
e l'asseriva Gregorio IX scomunicandolo. Nell'abitudine del medioevo di
atteggiare ogni idea in un fatto, il motto trasformossi in un libro _Dei
tre impostori_. Quest'opuscolo venne attribuito a chiunque voleasi
denigrare: ad Averroé, a Federico II, a Pier dalle Vigne, ad Arnaldo di
Villanuova, a Bonifazio VIII, al Boccaccio, al Poggio, all'Aretino, al
Machiavello, al Pomponazio, al Cardano, all'Ochino, al Campanella, a
Giordano Bruno, al Vanino, per non dir che dei nostri, ma da nessuno fu
veduto. Veramente perirono anche i libri de' Gnostici, de' Manichei,
degli Albigesi: distruzione non difficile quando mancava la stampa;
anche dopo inventata questa perirono alcune opere, come quella del
_Sacrifizio di Cristo_ di cui appena testè si fece lo scoprimento: pure
il libro _Dei tre impostori_ noi crediamo non esistesse mai, ma
simboleggiasse l'incredulità materiale, derivata dagli Arabi.

L'origine stessa della costoro religione era un'eresia; prendeano a
edificare una terza Chiesa accanto alla giudaica e alla cristiana; molti
filosofi di quella gente consideravano le tre siccome pari, e siccome
sviluppo l'una dell'altra; di tutte con egual libertà discutevano, e con
maggiore il _gran commentatore_ Averroé, che tratta di ciarlieri i
teologi, e di fantasie le dispute su qualsiasi religione.

Tormentato dalla febbre del sapere, Federico lo cercava interrogando
anche i sapienti musulmani. Ad essi nel 1240 presentò varie quistioni,
sull'eternità del mondo, il valore e numero delle categorie, la natura
dell'anima, il metodo che conviene alla metafisica e alla teologia. Non
soddisfatto da alcuno, s'indirizzò al califo almoade Rascid per sapere
ove dimorasse Ibn Sabin di Murcia, e saputolo, mandògli quelle dimande.
Il dotto arabo rispose come un pedante che vuol mostrare più scienza che
non abbia, e finge esser costretto a dissimulare il troppo più che sa; a
tu per tu coll'imperatore, o con sapienti da lui mandati, direbbe altre
cose secrete, perocchè, soggiunge, se i dottori fossero certi che io
risposi a certi punti, mi guarderebbero con orrore, e non so se Dio
colla sua bontà e sapienza mi camperebbe dalle loro mani[68].

L'eresia di Federico era più pratica, e consisteva nel voler sostituire
se stesso al papa, usurpare le funzioni del sacerdozio, far moneta coi
vasi sacri, deporre e istituir prelati, e da questi pretendere segni di
sommessione e quasi d'adorazione; e mentre sprezzava la Chiesa perchè
non fa più miracoli, voleva ricondurla alla semplicità primitiva.

Per ciò, e per aver giurato di andare alla crociata, poi mentito;
andatovi poi, aver patteggiato co' Musulmani, anzichè sterminarli,
Gregorio IX lo scomunicò. Federico s'appella a un concilio generale, e
Gregorio lo convoca a Roma (1241), poi Innocenzo IV un altro a Lione
(1245), ove la Chiesa riunita, e per essa il vicario di Cristo,
dichiarano Federico convinto di sacrilegio ed eresia, scaduto
dall'impero, dispensati i sudditi dall'obbedirgli. Pier dalle Vigne avea
composto un trattato _De consolatione_, uno _De potestate imperiali_, e
credesi il libello _Paro figuralis_, ove nel pavone raffigura Innocenzo
IV al concilio di Lione, circondato di colombe, tortore, oche, anitre,
passeri, rondini, figuranti i cardinali, i vescovi, gli abati d'ogni
colore, i cittadini, i mendicanti; il gallo rappresenta il re di
Francia, la pica i Guelfi, il corvo i Ghibellini; l'aquila l'imperatore;
gli uccelli grifagni Tedeschi, Siciliani, Spagnuoli. Il libercolo non
trae valore che dall'opportunità, ma mostra come le nazioni d'Europa non
fossero così estranie fra loro, come darebbe a supporre la asserita
barbarie; e che già la letteratura militante elaborava l'opinione
pubblica. In fatti Federico le proprie discolpe diramò ai principi,
mostrandosi eretico appunto nell'atto che voleva scolparsene, poichè gli
incitava contro il papa: «Come mai soffrite d'obbedire a figli di vostri
sudditi? La Chiesa è divenuta affatto mondana; i suoi ministri,
inebriati delle delizie terrestri, non badano guari al Signore;
uniamoci, e vigiliamo insieme, affinchè, privati d'ogni superfluo,
costoro servano all'Altissimo, contenti di poco... Assisteteci contro la
superbia di questi prelati, acciocchè possiamo rassodar la Chiesa
dandole le guide più degne, e riformare pel suo bene e per la gloria di
Dio, com'è nostro dovere. Ve' come essi impinguano di limosine! Gonfi
d'ambizione, aspettano che tutto il Giordano coli nelle loro bocche.
Quanto denaro risparmiereste sbrattandovi da codesti scribi e farisei!
ai quali se tendete la mano, essi pigliano tutto il braccio; e voi
somigliate all'uccello preso nella ragna che, più cerca fuggire, più
s'accalappia. Intenzion mia fu sempre ricondurre gli ecclesiastici, e
principalmente i più grandi, a tale stato che perseverino sin al fine
nelle vie che furono quelle della Chiesa primitiva, menando una vita
apostolica, e mostrandosi umili come Gesù Cristo[69]. Noi crediamo far
opera di carità togliendo a costoro i tesori di cui sono satolli per
loro eterna dannazione».

Ipocrito! se tanto ti sta a cuore la loro salute, perchè non ne lasci a
loro stessi la cura? perchè inviti a spogliarli, come poi farà Lutero?
Questi pure griderà di tornar la Chiesa alla purità primitiva, e con ciò
provocherà tre secoli di guerre e dissidj. E come lui, Federico seminava
il concetto di nazionalizzar le Chiese in tutta Europa; e già in
Germania, sia per favorire al loro tedesco, sia per l'antica avversione
alle cose italiane, varj vescovi e capitoli più non badavano alle
ordinanze pontifizie, e persone senza nome giravano liberamente dicendo:
«Che scomuniche? che papa? Egli è così tristo, che neppur s'ha da
parlarne; piuttosto predicate per Federico imperatore e suo figlio
Corrado; essi perfetti; essi re galantuomini».

Di sottomettere la Chiesa allo Stato fece Federico il tentativo nel
regno delle Sicilie, ove già la dominazione de' Greci e degli Arabi
aveva abituato a una tal condizione di cose. I Normanni eransi provati a
delimitare i mutui poteri mediante que' concordati, che il nostro secolo
bestemmia senza pur conoscerli, e a cui vuol sostituire la formola
assurda della assoluta indipendenza delle due potestà. I trattati
conchiusi coi due Guglielmi, con Tancredi, con Costanza imperatrice
emanciparono più o meno la società civile; ma Federico, infatuato della
propria persona e della propria autorità, cercò sottrarnela affatto;
negò al papa l'omaggio che doveagli come re di Sicilia; vi mutò leggi,
crebbe tributi, levò soldati senza consenso del pontefice. Per ricolpo
Innocenzo IV pubblicò più tardi la famosa bolla 8 dicembre 1248, che
tendeva ad assorbir lo Stato nella Chiesa, escludendo ogni intervenzione
laica dalla nomina de' prelati, dispensando questi dal giuramento al
sovrano e dalla giurisdizione laica, civile o criminale; autorizzando i
possessori di beni ecclesiastici a fortificar i castelli, rialzare le
ville, ripopolare le distrutte, senza bisogno di regia placitazione.

L'imperatore rispose con supplizj, paragonando ad eretici i fautori del
papa, e sè stesso al profeta Elia che purgò Israele dai sacerdoti di
Baal; e così sotto pena di morte si dovette riconoscere che solo capo
della Chiesa è il capo dello Stato.

Il popolo non aveva mezzo d'esprimere le sue proteste, e i cortigiani,
che soli scrissero, ci dicono come fosse lietamente obbedito
l'imperatore, rappresentante del Dio vivo; e dalle stesse loro
adulazioni traspare come, senza innovar il dogma, Federico II tendesse a
render il papa cappellano dell'imperatore. Se fosse riuscito, l'aquila
tedesca avrebbe surrogata la croce italiana, e tutta Europa avrebbe
presentato il tristo spettacolo che scorgesi a Costantinopoli e a Mosca;
la podestà spirituale serva alla temporale; il papa ridotto a registrare
i decreti di Cesare; il quale, come il czar o come il sultano, avrebbe
avuto impero assoluto sul clero e sui laici. Un papa che obbediva a un
imperatore avrebbe cessato d'ispirare fiducia o d'imporre riverenza ai
paesi estremi: Toledo e Reims, Cantorbery e Vienna avrebber preso per sè
porzione dell'autorità di esso; tutti i patriarchi, tutti i principi
ecclesiastici di Germania avrebbero voluto dirsi pari al pontefice; il
quale si sarebbe trovato ridotto a null'altro che figurare in qualche
cerimonia, e disputare sulla consustanzialità e sul _filioque_.

Roma lo vide: vide come quest'esempio sarebbe funesto in tutto
l'Occidente, e sostenne la lotta dei Lombardi, di Venezia, di Genova
contro Federico. Persuaso egli che bisognava colpir la testa, si diresse
sopra Roma, ma il popolo la difese, e salvò il poter temporale e con
esso l'indipendenza del papa, e respinse Federico anche quando due altre
volte vi si accostò.

Vinto sul terreno politico, invase il religioso, cercando sottrarre al
papa il governo delle anime; cercò tirar dalla sua i frati mendicanti,
carezzando il loro generale frate Elia, ma non riuscì: fomentò gli
eretici, sol perchè avversi a Roma, e così propagavasi anche in Italia
la negazione. Pure il popolo ascoltava al papa, suo rappresentante; e ai
frati e ai preti, immediati suoi consiglieri e amici, e a sant'Ambrogio
Sansedone, a santa Rosa da Viterbo, a sant'Antonio da Padova, al beato
Giordano Forzaté, ad altri che Federico perseguitava con armi, legulei e
carceri. Poi Dio mandò al superbo il flagello dei re, il sospetto; e
credendosi tradito da amici e parenti, mandò al supplizio molti e lo
stesso Pier dalle Vigne: e benchè fosse un de' più insigni talenti del
medioevo, e durasse trentadue anni d'impero, nulla compì di grande,
perchè, com'ebbe a dire il contemporaneo san Luigi di Francia, «fe
guerra a Dio coi doni suoi»: e al suo sepolcro il popolo guardava tra
meraviglia e spavento, riflettendo che sarebbe stato senza pari sulla
terra «se avesse amato l'anima sua».

Sulla sua discendenza parve pesare l'anatema, trovandosi a guerra coi
popoli e tra loro. Manfredi, bastardo di Federico, usurpato il regno di
Sicilia, periva nella battaglia di Benevento; Corradino, ultimo di quel
sangue, moriva sul patibolo di Napoli. Il nome di Federico II restò fra
gli antesignani della riforma: nel secolo seguente un cronista svizzero
ne invocava e prediceva la resurrezione per riformar la Chiesa; i primi
apostoli del protestantismo si giovarono degli argomenti di lui e di
Pier dalle Vigne. Un riscontro moderno possiamo trovargli in Enrico
VIII, che al luogo di Pier dalle Vigne ebbe Tommaso Cromwel, e che, al
par di Federigo, proclamava lo scisma da una parte, dall'altra bruciava
gli eretici: ma l'opinione al tempo di Federico era volta
tutt'altrimenti, e ne vennero infiniti mali al suo secolo e lo sterminio
della sua famiglia. Il patetico fine di questa dee compatirsi da tutti,
può deplorarsi dagli avvocati della monarchia assoluta e del diritto
divino dei re, ma i liberali dovran riconoscere che essa fu osteggiata
per la libertà del popolo, per l'indipendenza delle varie nazioni, la
quale sarebbe dovuta soccombere a un impero che avesse assorbito anche
la potestà spirituale. Che i papi trascendessero lo credette fin il pio
re san Luigi, ma furono stromenti della Provvidenza a un grande scopo,
il progresso civile, e la costituzione delle nazionalità[70].

Spenta la famiglia di Svevia, al concilio ecumenico IV di Lione (1274)
comparve un messo di Rodolfo d'Habsburg, povero conte dell'Argovia che
era stato eletto imperatore, e che non avendo puntigli ereditarj,
sentiva l'opportunità di terminar questo litigio, ripullulante da 70
anni. Giurò dunque adempier le promesse d'Ottone IV e Federico II;
confermava al papa le antiche donazioni del paese da Radicofani a
Ceprano, oltre l'Emilia, la Marca d'Ancona, la Pentapoli, l'eredità
della contessa Matilde e l'alto dominio sulla Sicilia, la Corsica, la
Sardegna, rinunziando alle terre disputate fra l'impero e la Chiesa; non
accetterebbe tenute ecclesiastiche nè cariche nello Stato Romano se non
assenziente il papa.

La Chiesa assicuravasi dunque l'indipendenza, e sugli imperatori
riportava una vittoria ben più vistosa che l'altra volta, ma non più
profittevole. Attesochè cessava l'importanza che i papi traevano
dall'opporsi al dominio tedesco, e i Guelfi divennero un partito, non
propugnatore dell'indipendenza nazionale, ma di certe idee o certe
persone, e facilmente stromento de' prepotenti e degli scaltriti.
Aggiungi che, nella contesa, le reciproche ragioni si eran portate al
tribunale del pubblico, che ormai pretenderebbe giudicarne.


NOTE

[51] _Quam fœdissima ecclesiæ romanæ facies, cum Romæ dominarentur
potentissimæ æque ac sordidissimæ meretrices, quarum arbitrio mutarentur
sedes, darentur episcopi, et, quod auditu horrendum et infandum est,
intruderentur in sedem Petri earum amasii pseudo pontifices, qui non
sunt nisi ad signanda tantum tempora in catalogo romanorum pontificum
scripti_. (_Ad ann_. 912, n. XII) Così dice il Baronio, che era
cardinale, scriveva per impulso di san Filippo Neri, e per sostenere il
papato contro le storie che dettavano i Protestanti, e massime le
Centurie Magdeburgesi. Eppure vedasi come riprova i disordini della
Chiesa. Nel che anzi eccedette, come l'accusa perfino il Muratori, sì
poco papale; e come il provano altri documenti intorno a quell'età.

[52] Questa favola della papessa Giovanna, su cui vedremo trastullarsi i
satirici e protestanti, si collocherebbe all'855; non è accennata che da
Mariano Scoto, cronista dell'XI secolo, poi narrata a disteso da Martin
Polacco, che dettò una storia de' papi fino al 1277. Oltre ch'egli è
tardivo, il passo sembra interpolato, mancando in alcuni codici, com'è
intruso nella _Storia de' pontefici_ di Anastasio Bibliotecario, il
quale altrove a Leone IV fa succedere Benedetto III, non già questo
supposto Giovanni VII, e dice che l'elezione fu notificata a Lotario
imperatore, il quale si sa che morì nel settembre del 855; sicchè non vi
saria bastante intervallo per frammettervi un altro papa. Produssero
ultimamente una medaglia del 855, che porta il conio e di Lotario e di
Benedetto III; locchè conferma l'immediata successione di questo. Si
noti che Leone IX, scrivendo a Michele Cellulario patriarca di
Costantinopoli, gli dice come in Occidente era sparso che una donna
fosse stata fatta patriarca di Costantinopoli. Il fatto sarebbe men
improbabile per una sede, cui dicesi ottenessero anche eunuchi; ma il
papa non avrebbe accennato questa diceria, nè il Cellulario avrebbe
lasciato di rimbeccarnelo se fosse stata anche solo bisbigliata la
storia della papessa Giovanna. Ed è pure da valutarsi che, nei contrasti
che allora la sede romana avea colla greca, fra tante ingiurie che il
patriarca Fozio lancia contro i Papi, non fa la minima allusione a
questa papessa. Lasciam dunque in siffatte cloache l'abate Casti,
Bianchi Giovini e simili sozzure.

[53] Cardinali vescovi eran quelli di Ostia, Porto, santa Rufina, Alba,
Sabina, Tusculo, Preneste, vicarj del papa qual parroco di san Giovan
Laterano. Cardinali cherici erano i parroci dipendenti da quattro altre
chiese patriarcali di Roma. I cardinali diaconi presedevano agli
istituti di carità.

[54] Già sotto i Longobardi, Paolo Diacono si lamentava che nessuno
frequentasse la chiesa di san Giovanni di Monza, perchè i suoi preti
erano concubinarj e simoniaci. Nel 790 girò attorno a Brescia un monaco,
annunziando vicina la fine del mondo, in grazia della depravazione de'
religiosi: spacciatosi profeta, distribuì i suoi proseliti in cori di
angeli, guidati da arcangeli, e maltrattò i frati sinchè egli stesso
venne mandato a morte. RODULPHI NOTARII _Hist. rerum brixian._, p. 17.

[55] Il passo fu accertato essere stato intruso. Ad ogni modo si sa non
essere questo divieto a' preti di aver moglie che una disciplina, e la
Chiesa l'adottò per alte convenienze, pur tollerando in alcun luogo,
come fra i Greci. Che a Napoli il matrimonio de' preti e sin quello de'
frati fosse riconosciuto vorrebbero indurlo da documenti autentici, ove
trovansi soscrizioni, _Ego Petrus, filius domini Stephani monachi: Ego
Sergius, filius domini Johannis monachi: Ego Joannes, filius domini
Petri monachi..._. (alle pagine 10, 21, 40, 46 della _Sylloge de'
Monumenti_ del grande archivio di Napoli). Ma ciò può riferirsi a
persone monacatesi dopo vedovate. Il concilio di Melfi nel 1059 limitò
il matrimonio de' preti: dopo il concilio romano del 1072 fu proibito.
Nelle consacrazioni dei vescovi prescriveansi norme intorno all'ordinare
conjugati: e l'arcivescovo Alfano nel 1066, consacrando il primo vescovo
di Sarno, gli indiceva _ne bigamum, aut qui virginem sortitus non est
uxorem, ad sacrum ordinem permittat accedere: et si quos hujusmodi forte
reperit, non audeat promovere_. UGHELLI, _Italia sacra_, tom. VII, p.
571. Barbato arcivescovo di Sorrento, nel 1110 ordinando Gregorio
vescovo di Castellamare, dicea: _eique dedimus in mandatis ne nunquam
ordinationem præsumat facere illicitam, nec bigamum, aut qui virginem
non est sortitus uxorem, neque illiteratum.... ad sacrum ordinem
permittat ascendere_. Id., tom. VI, p. 609, ediz. Venezia 1721. Tutto
ciò poteva riferirsi a vedovi, e tale disciplina è seguita oggi pure,
non ordinandosi chi fosse stato bigamo vero, cioè marito successivo di
due donne, o bigamo similitudinario, cioè marito d'una vedova.

[56] Il cronista Arnolfo da principio mostrasi caldissimo
dell'indipendenza della Chiesa milanese dalla romana, disapprovando
altamente la plebe che tumultuava contro gli eretici. Ma dopochè nel
1077 intervenne all'ambasceria con cui i Milanesi implorarono perdono da
Gregorio VII, cangiò stile, protestando «non dissentire punto da quelli
che riprovavano le consacrazioni simoniache e l'incontinenza de' preti»
(Lib. IV, 12); oggimai vedere ben altrimenti di prima, e confrontando il
presente col passato, arrossire non già pei barbarismi del suo stile, ma
d'avere sventatamente riferito i fatti e i detti altrui: _cumque
præteritis præsentia scriptis scribenda conferret, rubore perfusum
fideliter erubescere, nec barbarismos in verbis egisse, sed aliorum
quælibet dicta vel facta temere indicasse confundi_ (IV, 43). Col che
veramente indica piuttosto aver imprudentemente recato fatti e detti,
che non mentito alla verità.

Landolfo Seniore invece, parteggiando affatto per l'indipendenza della
Chiesa milanese, non solo svisa i fatti contemporanei, ma anche i
precedenti, volendo sempre esporli come tipo e specchio de' presenti;
esalta tutti i vescovi precedenti, e massime Eriberto da Cantù; trova le
virtù e i meriti tutti ne' concubinarj, asserendo con leggerezza e
mentendo con impudenza, come avviene de' settarj.

[57] _Permittis ut ecclesiæ tuæ clerici, cujuscumque sint ordinis, velut
jure matrimonii confœderentur uxoribus. Quid est, pater, quod tibi soli
vigilas, et his pro quibus priorem exigendus es rationem, tam inerti
securitate dormitas?... Præsertim, cum et ipsi clerici tui, quidem satis
honesti et literarum studii sint decenter instructi. Qui dum ad me
confluerent, tamquam chorus angelicus et velut conspicuus ecclesiæ
videbantur eniteres_.

Ottocento anni dopo, Royer Collard in Francia diceva: «Nel 1793 le
persone della mia età videro la filosofia del tempo, sostenuta dal
terrore, ammogliar alcuni preti. Che preti erano? che donne sposavano? I
pochi che restano ancora di tali vergognosi matrimonj stanno sotto la
riprovazione universale. La pruova non si rinnoverà; ma se fosse, non
esito affermare che il prete ammogliato salendo all'altare desterebbe
orrore al nostro popolo cattolico, e l'indignazione pubblica lo
dichiarerebbe incapace e indegno del sacerdozio».

[58] Gregorio VII, nella famosa lettera al vescovo di Metz, non esita a
mettere il papa di sopra dei re. «Questa dignità di monarca, inventata
da' pagani, non dev'essere soggetta all'eterna autorità di san Pietro,
che la misericordia di Dio ha depositata in mano dell'uomo per salute
de' redenti? Re, principi, duchi, imperatori hanno ereditato questi nomi
pomposi da uomini dannati eternamente, i quali con rapine, perfidie,
violenze, assassinj, esercitarono sopra i loro simili l'esecrando
diritto del forte, e fatti despoti dominavano con tirannico orgoglio.
Chi può dubitare che i ministri della Chiesa, i sacerdoti di Cristo, i
successori di Pietro devano esser venerati per padri e maestri dei re,
dei popoli, del genere umano?... Un semplice esorcista è rivestito
d'un'autorità superiore a qualunque principe, perchè discaccia gli
spiriti maligni. Il pio sacerdote governa i suoi simili a salute
dell'anime loro, ad onore e gloria di Dio: mentre i potenti del mondo
non regnano che per soddisfar all'orgoglio ed a materiali passioni. Un
monarca cristiano, quando giace sul letto di morte, implora l'assistenza
del prete che gli rimetta i peccati, e salvi da Satana, e lo guidi dalle
tenebre agl'eterni splendori: vedeste mai un prete o un laico in agonia
rivolgersi al suo re? Qual principe della terra si arroga di riscattare
un'anima dall'inferno in virtù del santo battesimo? E ciò che forma la
sublimità della religione cattolica, il mistero che gli angeli
contemplano e le potenze infernali paventano, dov'è il monarca che possa
con una sola parola creare il corpo e il sangue di Cristo? Chi dunque
dubiterà che l'autorità del pontefice non sovrasti a quella del re?
Quegli non cerca che le cose di Dio, e vive austero fra le vanità della
terra; questi si occupa solo del proprio interesse, e opprime i fratelli
a danno della propria salute. Quegli è membro del corpo di Cristo;
questi dell'angelo della menzogna. Quegli rinnega i suoi appetiti,
macera il corpo per regnar un giorno con Dio: questi regna quaggiù per
esser in eterno schiavo di Satana. Appena qualcuno ne troviamo che sia
stato virtuoso e prudente. Chi di loro ebbe il dono de' miracoli come
Antonio, Benedetto, Martino? Ma la santa sede conta da Pietro in poi
cento vescovi ascritti alla milizia celeste, ecc.». [59] L'agosto 1098
tenevasi un concilio a Roma, e 8 cardinali, 4 vescovi, 4 preti, fautori
dell'antipapa, firmarono una lettera sinodale «a tutti quelli che temono
Dio ed amano la salute della repubblica», per premunirli contro le
eresie introdotte o rinnovate da Ildebrando; le quali erano il celibato
de' cherici e il divieto delle investiture laicali.

[60] La condizione a cui si sarebbe ridotta l'Europa se la spada fosse
prevalsa al pastorale, può argomentarsi da quella d'un paese che ora fa
molto parlare, per la speranza di riunirla alla Chiesa nostra, la
Bulgaria. Il Turco lascia eleggere il clero ai Cattolici, ma vende le
più alte dignità. Il patriarca che comprò per 400,000 lire l'alto suo
seggio, rivende i vescovati fin per 50,000; questi fan mercato coi
papassi o curati, che possono accumulare fin 15 o 20 cure. Così tutto va
all'incanto, e quello cui meno si bada è il merito o il servizio delle
anime. Chi compra cerca rimborsarsi con tutti i mezzi. Uno de' mezzi è
il divorzio, pel quale richiedesi una dispensa costosa, onde non
l'ottengono che i ricchi. Pei poveri ci son altri ricavi. Se per qualche
sopruso si fa appello al patriarca, il vescovo ne compra la connivenza;
se le plebi minacciano diventar cattoliche, il patriarca punisce, cioè
cambia di posto il vescovo: e così la tirannia del sultano vien a pesare
fin sugli infimi: e i vescovi, invece di rivelare al popolo i diritti
che acquistò cogli ultimi atti del Tanzimat, del Hatti-Scerif, del
Hatti-Humayum, glieli nascondono attentamente.

[61] Quelle false decretali, che per lungo tempo si dissero inventate a
Roma, diffuse in Ispagna, e di là nel mondo, introducendo nuovi canoni e
diritto nuovo per consolidare l'autorità dei papi a scapito di quella
dei vescovi, apparvero tutt'altro a leali cercatori, protestanti e
cattolici. La prima indagine avrebbe dovuto cadere sul corpo del
delitto, e si provò che tutti aveano discorso senza conoscerle sia nei
testi, sia nell'unica informe edizione fattane da Merlin nel 1530.
Un'esatta descrizione ne porse il dottore Philipps: poi l'abate Migne le
stampò nel vol. CXXX della sua _Patrologia_, con una dissertazione del
dottore Denzinger professore a Wurtzburg.

Risulta di là che la Spagna non le conobbe mai; che fino al secolo XI
uscente non ebbero mai autorità in Italia: a tal segno che nel 1085 il
cardinale Otto, il quale fu poi Urbano II, incontrandone primamente
alcune in un concilio tedesco, le ripudiò con disprezzo: che l'opera fu
compilata in Germania, probabilmente da Benedetto Levita, cherico
dell'arcivescovo di Magonza Autcario, verso l'834.

Quanto al fondo, le decretali non toccano pur un punto che già non fosse
stabilito; e scopo loro è di sorreggere i diritti de' prelati a fronte
de' metropoliti, cioè sostenere l'indipendenza de' vescovi, anzichè
ringrandire il potere pontifizio.

[62] Al contrario de' nostri, la quistione eterna della libertà e della
predestinazione fu la prima che i teologi maomettani dibattessero: e i
Kadariti, sostenitori della libertà, e i Giabariti, o Predestinaziani,
precedettero le discussioni sugli attributi di Dio.

[63] _Epistola_ 243.

[64] _Pantheon_ 464.

[65] Arnaldo è diventato un mito, e in conseguenza la storia di lui fu
oscurata peggio che mai, principalmente a' nostri tempi: e chi lo
difendesse viene stampato eretico dagli esagerati d'una parte,
gesuitante dagli esagerati dell'altra chi l'incolpasse: arti abituali
colle quali il secolo nostro pretende arrivare alla verità. Metter nè un
Lutero nè un Ciciruacchio al XII secolo è anacronismo, quanto il metter
all'età nostra un san Pietro o un san Francesco d'Assisi. I nostri
Ghibellini che volevano umiliare il papa, non per questo erano ligi
all'imperatore germanico; che se a questo si attaccavano i tirannelli
per prepotere nelle città e per uccidere la libertà comunale, i
pensatori volevano, o almeno ideavano, un imperatore romano che stesse
in Italia. Lo dice chiaro anche Dante, che pure si appassionò per Enrico
VII; perchè sempre gli Italiani, da Narsete sino a Felice Orsini,
sperarono liberarsi dagli stranieri per mezzo degli stranieri. Forse i
Romani, e Arnaldo con essi, avevano sperato di sbalzar il papa
coll'opera di Federico, il quale, come se ne vanta il suo cugino e
storico Ottone di Frisinga, qui portò _pro auro arabico teutonicum
ferrum; sic emitur a Francis imperium_: ma il prefetto della città, che
in occasione delle prediche di Arnaldo era stato insultato e peggio, fe
prendere questo bresciano, e giustiziare.

Il contemporaneo Geroldo di Reichersperg (nel libro I _De investigat.
Antichrist. ap._ GRETSER, _Prolegomena ad scriptores adversus
Waldenses_, _cap._ 4) dice: _Quam ego vellem pro tali doctrina sua,
quamvis prava, vel exilio vel carcere, aut alia pœna præter mortem
punitum esse, vel saltem taliter occisum, ut romana Ecclesia sive curia
ejus necis quæstione careret! Nam, ut ajunt, absque ipsorum scientia et
consensu a præfecto urbis Romæ, de eorum custodia in qua tenebatur
ereptus, ac pro speciali causa occisus ab ejus servis est. Maximam
siquidem cladem ex occasione ejusdem doctrinæ idem præfectus a romanis
civibus perpessus fuerat; quare non saltem ab occisi crematione et
submersione ejus occisores metuerunt quatenus a domo sacerdotali quæstio
sanguinis remota esset. Sed de his ipsi viderint, sane de doctrina et
nece Arnaldi idcirco inserere præsenti loco volui, ne vel doctrinæ ejus
pravæ, etsi zelo forte bono, sed minori scientia prolata est, vel ejus
necis perperam actæ videar assensum prœbere_.

Del resto, in quei giorni il papa ed i cardinali erano affatto in
arbitrio del Barbarossa, che giunse fin a portarli via: e il suddetto
Ottone di Frisinga dice: _Mane facto, quia victualia nobis defecerant,
assumpto papa et cardinalibus cum triumpho victoriæ læti discessimus_
(p. 989 dell'edizione del Muratori).

Meglio del Tamburini e d'altre meschinità dei Giansenisti del secolo
passato, vedi H. FRANKE, _Arnold von Brescia und seine Zeit_. Zurigo
1852.

[66] Questo fatto è vero? Lo negano i più, quasi un'insolenza, a torto
imputata al papa: sì poco conoscono i tempi! lo sostenne il benedettino
Fortunato Olmo in un curioso opuscolo: _Historia della venuta a Venetia
occultamente nel 1177 del papa Alessandro III e della vittoria ottenuta
da Sebastiano Ziani doge_. 1629. Ripigliò questo assunto Carlo Lodovico
Ring nel _Saggio storico per illustrare un fatto finora messo in dubbio,
della vita di due contemporanei, entrambi aspiranti alla Signoria del
mondo_ (tedesco). Stuttgard 1835.

[67] Son passi dei documenti raccolti da Huillard Bréolles nella _Vie et
correspondance de Pierre de la Vigne, avec une étude sur le mouvement
reformiste du XIII siècle_, Parigi 1865. E per non citare i cattolici,
vedasi _History of Frederick the second_, by T. L. KINGTON. Londra 1862,
2 vol.

[68] Col nome di _Questioni siciliane_ furono trovati nella biblioteca
di Oxford, e li pubblicò Michele Amari nel _Journal Asiatique_, 1853, p.
240.

[69] _Semper fuit nostræ voluntatis intentio, clericos cujusque ordinis,
præcipue maximos, ad illum statum reducere quales fuerunt in Ecclesia
primitiva, apostolicam vitam ducentes et humilitatem dominicam
imitantes_.

[70] Brunetto Latini dice di Federico II: «Les cuers ne hacit à autre
chose fors que a estre sires et souverains de tout le monde. Il cuidoit
bien par lui et par ses filz sousprendre tot l'empire et la terre tote,
en tel manière que ele n'issist jamais de leur subjection. _Tesoro_». L.
i.



DISCORSO IV.

I PATARINI. GLI ORDINI MENDICANTI. LA SCOLASTICA.


Sebbene i nostri non s'ingolfassero in tante sottigliezze e sofisterie
intorno alla divinità, alla natura sua, a' suoi attributi, quanto gli
Orientali, più vicini a quell'India dove pajono naturali l'ascetismo, la
contemplazione e l'idealità, pure, dall'impero greco, ove sempre vivea,
trasmetteasi anche in Italia l'eresia, proveniente dall'antica Gnosi, e
a guisa d'un vulcano dava fumo di tratto in tratto, come sentimento
però, anzichè come idea pura. Claudio, di nazione spagnuolo, in Francia
diresse la scuola istituita poco prima da Carlomagno, e predicava, e
commentava le divine scritture, onde Lodovico il Pio lo propose a
vescovo di Torino verso l'820. Quivi cominciò dal solito titolo di
correggere abusi e superstizioni; e dicendo non dover le immagini
usurpare il culto che a Dio solo è dovuto, le toglieva; spezzava le
croci; non più feste di santi; non più lampade nelle funzioni, non
pellegrinaggi a Roma; dal che passò anche a sostenere errori intorno
alla divinità del Verbo. Il popolo suo ed i vicini gliene vollero male;
Pasquale I lo disapprovò; molti scrissero sin dalle Gallie e
dall'Irlanda, per difendere l'antica consuetudine, distinguendo il culto
reso ai santi e agli angeli da quello alla divinità; adunatosi un
sinodo, Claudio ricusò intervenirvi, chiamandolo _congregationem
asinorum_. Morì del 830, e quanto riprovata dai Cattolici, tanto la sua
memoria fu poi esaltata dai Protestanti, che, per la smania di darsi
antenati, pretesero vedervi il fondatore della Chiesa valdese. Dalle
confutazioni fattene allora non appare ch'egli negasse la presenza
reale, o la transustanziazione, nè alcuno de' sacramenti, nè la primazia
de' pontefici, nè asserisse la privata interpretazione delle sacre
scritture, che sono i fondamenti del protestantismo.

A mezzo il secolo IX, Pietro vescovo di Padova scoprì nella sua diocesi
una setta che ghiribizzava sulla Redenzione, e che solo cinquant'anni
dopo fu dissipata dal vescovo Gozzelino. Nel mille, a Ravenna un
Vilgardo sosteneva che la verità sta nei detti di Orazio, Virgilio,
Giovenale, e si hanno a preferire ai dogmi cattolici[71].

Eriberto da Cantù, operosissimo arcivescovo di Milano dal 1018 al 1045,
seppe che alcuni eretici tenevano convegni nel castello di Monforte
presso Asti, e citatone uno di nome Gerardo, l'esaminò sulla loro fede.
La risposta fu: «Crediamo nel Padre, nel Figliuolo e nello Spirito
Santo, che soli hanno la facoltà di sciogliere e legare; e il Padre è
l'eterno, in cui e per cui tutte le cose sono; il Figliuolo è lo spirito
dell'uomo, cui Dio amò; lo Spirito Santo è l'intelletto delle scienze
divine, dal quale tutte le cose sono regolate: non riconosciamo il
vescovo di Roma o verun altro, fuori d'un solo che quotidianamente
visita i nostri fratelli per tutto il mondo, e gli illumina; e quand'è
mandato da Dio, presso lui si trova il perdono dei peccati. Osserviamo
la castità, benchè ammogliati; non mangiamo carne; digiuniamo
strettamente; leggiamo ogni giorno la Bibbia; molto preghiamo, e i
nostri _maggiori_ s'alternano dì e notte nella orazione. I beni teniamo
comuni; e il morir ne' tormenti ci è dolce per isfuggire i castighi
eterni».

Di quest'eresia conobbe i pericoli l'arcivescovo, tanto che menò contro
Asti i suoi vassalli, e presi per forza i miscredenti, nè potendo tutti
indurli a ritrattarsi, non potè impedire che la nobiltà milanese li
mandasse al fuoco, ch'essi subirono come un martirio. Ciò è riferito da
Landolfo Seniore[72], specie di spirito forte, al quale, come dicemmo,
non possiamo concedere troppa fede; e certamente è fantasia di lui
questo discorso.

Nella lotta fra gl'imperatori e i pontefici, l'opposizione a questi o
risolvevasi in eresia, o almeno scassinava l'autorità pontificia. Tra
quelle feconde contese ridestosi, il popolo veniva ad accampare
gl'interessi e i diritti proprj là dove prima non discuteano che baroni,
capitani e re. Allora, nel punto di smarrirsi, vie meglio si pronunzia
il carattere di quel medioevo, cui i gran savj credono poter dispensarsi
dallo studiare col dichiararnelo immeritevole. E davvero questa nostra
età, tutta regia, tutta sistemazione legale, tutta decreti e volontà
generale, dove l'inchinarsi agli impiegati disavvezza dall'inchinarsi a
Dio, mal può comprendere quella ove dominava la più grande e la più
libera varietà; un'aristocrazia affissa a titoli storici, e una
democrazia con tutti i problemi e gli sperimenti moderni; insofferente
di dipendenza, eppur venerabonda del valore; passioni energiche ad
intraprendere con audacia e compire con mezzi violenti, poi
tranquillantisi in un convento, fieramente espiando i fieri delitti, o
frapponendo un intervallo fra le tempeste della vita e il riposo eterno;
un'ignoranza alimentata da spettacoli strani, da credenze bizzarre,
eppure avida di sapere, entusiasta per tutto ciò che avesse nome
scienza; e che non conoscendo se stessa, e bramando di trovare
un'armonia fra le istituzioni sociali, sentiva bisogno di lasciarsi
guidare, se non potea farsi illuminare. Quindi affollarsi alle
università per udire i gran sapienti; quindi accettare il miracolo come
un fenomeno ordinario; rigide pratiche e penitenze esagerate, insieme
con licenza gigantesca; pratiche empie e sordide, insieme con affettuose
devozioni; mania del nuovo, con attaccamento al vecchio; ingenuità
selvaggia di popoli nuovi, con raffinata corruzione di rimbambiti.

Il cristianesimo, dettando precetti morali purissimi in contraddizione
all'indole e allo stato di quella società, e con istituzioni robuste
ingiungendone l'osservanza, produceva quelle posizioni tanto strane, e
que' contrasti tanto drammatici; ordine ed anarchia, santità e
scostumatezza, carità e ferocia, nobilissimi concetti attuati
selvaggiamente, come nelle crociate; insomma la barbarie temperata dal
cristianesimo, e il cristianesimo contaminato dalla barbarie.

La moltitudine vivacchiava senza riflettervi; i più si sgomentavano o
sbalordivano, ma altri ragionavano: e troppo scostansi dal vero coloro,
i quali figurano che nessun dubbio siasi elevato contro la fede, dal
perire del razionalismo antico fin al mostrarsi del moderno. Già nel
XIII SECOLO, parlando di Federico II, trovammo il pensiero incredulo,
che ripudia il fondamento stesso dei dogmi, e crede tutte le religioni
sieno invenzioni umane, e l'una valga l'altra; donde l'indifferenza e il
naturalismo, derivanti dalla scienza araba, ed espressi nel libro dei
Tre Impostori.

Pietro Valdo, mercante di Lione, verso il 1180, venduti gli averi suoi,
predicò che la Chiesa aveva traviato, e bisognava richiamarla alla
semplicità evangelica, sbandendo il lusso del culto, la ricchezza de'
preti, la potenza temporale de' papi. I suoi seguaci si dissero _Poveri
di Lione_ o _Catari_, cioè puri, e tanto erano persuasi di tener tutto
quanto tiene la Chiesa cattolica[73], e di non uscire dal vero, che
chiesero al pontefice la permissione di predicare[74]: ma bentosto
negarono l'autorità del papa, e dietro a ciò altri dogmi cardinali, e
pretesero libera anche ai laici la predicazione.

Si vorrebbe da loro derivassero i Valdesi[75], sopravissuti fino ad
oggi, e dei quali avremo a dir molto in appresso: ma non che i loro
laudatori, anche Bossuet vuole distinguerli affatto dai Catari, che
inclinavano alle dottrine manichee.

Il problema che tormentò i pensatori d'ogni generazione, cioè «Come mai,
sotto un Dio buono, tanti mali?» ne' primi tempi della Chiesa dai
Manichei veniva sciolto trivialmente, supponendo due divinità, l'una
autrice del bene, l'altra del male[76]. Vinti sin dai tempi di
sant'Agostino, sopravvissero in Oriente, donde si propagarono
all'Europa. Mescolandosi ai dogmi le leggende, favoleggiavasi esser Dio
e il demonio coeterni, ed eguali in potenza. A Dio toccarono il cielo e
gli angeli: al demonio la terra e le femmine. Attorno al muro, di cui
Dio avea cinta la sua creazione, ronzava invidioso il demonio, e dopo
centinaja di secoli accortosi d'una screpolatura in quello, mise per
essa il capo, e lusingò gli angeli ad affacciarvisi, ed osservare le
bellezze delle donne. Ottenne l'intento, e a frotte gli angeli ne
sbucarono, e dai loro abbracciamenti vennero gli uomini, mescolanza di
bene divino e di male diabolico. Iddio sdegnato sentenziò che nessuno
più di quegli angeli penetrerebbe nella cerchia celeste, ma vagherebbero
sulla terra, abitando corpi d'uomini e di bruti, fin al giorno del
giudizio. Se non che anime elette scopersero certe formole di preghiere,
certi atti, per cui le anime ottenevano di recuperare il paradiso:
formole e atti custoditi appunto dalla setta de' Catari.

Queste credenze vissero sempre in segreto, e massime nella Tracia e
nella Bulgaria. Di là, di tempo in tempo inviavansi missionarj di qua
dell'Alpi, i quali vivamente ritraevano la purezza della Chiesa
orientale, derivante (diceano) senza interruzione dagli apostoli; e
recavano libri apocrifi e fantastici, profezie e vangeli, riferendosi a
un pontefice supremo, successore di quello che san Paolo aveva istituito
in queste contrade; santo come tutti i suoi, aborrente dalle sensualità,
dalle ricchezze, dalle cure mondane.

E appunto dalla Bulgaria un tal Marco venne come vescovo a presedere
alla Chiesa di Lombardia, della Marca e di Toscana. Ma un altro papa
sopraggiunto, di nome Niceta, riprovò l'ordine della Bulgaria, e Marco
ricevette quello della Drungaria, cioè di Traù in Croazia[77]. A Milano
distingueano i Catari vecchi, venuti di Dalmazia, Croazia e Bulgaria,
cresciuti singolarmente quando il Barbarossa li favoriva per far
dispetto a papa Alessandro; e i nuovi, usciti circa il 1176 di Francia,
che potrebbero essere gli Albigesi.

Perocchè nella Linguadoca, fra il Rodano, la Garonna e il Mediterraneo,
ove le città aveano conservato gli avanzi delle istituzioni romane,
opportune a nuovi incrementi della civiltà, s'erano svolti e grazia
d'immaginazione e gusto delle arti e dei piaceri dilicati: ivi
s'intesero i primi versi nelle lingue nuove, cantati sulla mandòla
dell'elegante trobadore, che errava pei castelli celebrando l'amore e le
prodezze, o satireggiando magnati e preti. Insieme eransi propagati
alcuni errori, e perchè nella città di Alby, primamente furono tolti a
condannare, quegli eretici vennero intitolati Albigesi. Pare tenessero
alle opinioni manichee, ma impugnata l'autorità per appellarsi alla
ragione individuale, doveano necessariamente variare in infinito: e frà
Stefano di Bellavilla racconta, che sette vescovi si adunarono in una
cattedrale di Lombardia, per accordarsi sugli articoli di loro fede; ma
non che riuscire, si separarono scomunicandosi reciprocamente. Un libro
depositario di loro credenze non ebbero: in coloro che li confutano e
negli storici che raccolsero dal vulgo, li troviamo imputati di colpe le
più contraddittorie; or proclamando creatore Iddio, ora il demonio; ora
facendo Iddio materiale, ora riducendo Cristo stesso a null'altro che
ombra; chi fa ammettere alla salute tutti i mortali, chi escludere le
donne dall'eterna felicità; chi semplificare il culto, chi ordinare
cento genuflessioni il giorno; chi licenziare alle voluttà più
grossolane, chi riprovare persino il matrimonio[78].

Quanto alla Lombardia, tre sètte primeggiavano: Catari, Concorezj,
Bagnolesi. I Catari (si dicevano anche Albanesi, vulgare corruzione
probabilmente di Albigesi) venivano suddivisi in due parzialità; alla
prima era vescovo Balansinanza veronese, all'altra Giovanni di Lugio
bergamasco. I primi dicevano eterno il mondo; i patriarchi ministri del
demonio; un angelo aver portato il corpo di Gesù Cristo nell'utero di
Maria, senza che ella v'avesse parte; solo in apparenza egli esser nato,
vissuto, morto, risorto. Gli altri tenevano che le creature fossero
state formate quali dal buono, quali dal tristo principio, ma ab eterno;
la creazione, la redenzione, i miracoli erano accaduti in un mondo
diverso dal nostro; Dio non essere onnipotente, perchè nelle opere sue
può venir contrariato dal principio a sè opposto; Cristo aver potuto
peccare.

I Concorezj ammetteano Iddio aver creato gli angeli e gli elementi; ma
l'angelo ribellato e divenuto demonio, formò l'uomo e quest'universo
visibile; Cristo fu di natura angelica.

I Bagnolesi facevano le anime create da Dio prima del mondo, e allora
avessero peccato; la beata Vergine esser un angelo; e Cristo avere bensì
assunto corpo umano per patire, ma non glorificatolo, anzi depostolo
all'ascensione. A tutti costoro opponevasi la sètta de' Passaggini o
Circoncisi, e poichè i Catari repudiavano il vecchio Testamento, essi
pretendeano avessero validità fin le leggi penali di Mosè: poichè quelli
supponeano che Cristo si fosse incarnato solo in apparenza
(_docetismo_), essi lo riduceano ad uomo, siccome gli antichi Ario ed
Ebione.

Frà Ranerio Saccone, che, dopo essere stato diciasette anni coi Catari,
li confutò e perseguitò, sicchè poteva averne buona conoscenza[79] li
distingue affatto dai Valdesi, padri degli Albigesi. Sedici loro chiese
annovera, delle quali sei in Lombardia; degli Albanesi, che stanno
principalmente a Verona, e sono cinquecento; de' Concorezj, che fra
tutta Lombardia sommeranno a un migliajo e mezzo; de' Bagnolesi, non più
di ducento, sparsi a Mantova, a Milano, nella Romagnola; cento nella
chiesa della Marca; aggiungansi altrettanti in quelle di Toscana e di
Spoleto; un cencinquanta della chiesa di Francia, dimorano a Verona e
per la Lombardia; ducento delle chiese di Tolosa, di Alby, di
Carcassona; cinquanta di quelle di Latini e Greci a Costantinopoli; e
cinquecento delle altre di Schiavonia, Romania, Filadelfia, Bulgaria.
Questi quattromila (avverte l'autore) sono da intendere per uomini
perfetti; giacchè di credenti ve n'ha senza numero.

Patarini furono detti da _pati_, perchè ostentavano penitenza; o dal
_pater_, che era la loro preghiera[80], ed infiniti nomi indicavano le
varie sètte, de' _Gazari_, _Arnaldisti_, _Giuseppini_, _Insavattati_,
_Leonisti_, _Bulgari_[81], _Circoncisi_, _Publicani_, _Comisti_[82],
_Credenti di Milano_, _di Bagnolo_, _di Concorezzo_, _Vanni_, _Fursci_,
_Romulari_, _Carantani_, e non so che altri.

Fra tante varietà come orientarsi? Sembra avessero comune la credenza
nei due principj[83], ed al malvagio essere dovuto il mondo e il vecchio
Testamento. Appoggiati all'_Obedire oportet magis Deo quam hominibus_,
si emancipavano d'ogni autorità terrena; non papa, non vescovi, non
canoni o decretali, non dominio dei preti; i magistrati non possono
imporre il giuramento nè alcuna punizione corporale; la Chiesa romana è
una congrega di malignanti; non si dà risurrezione della carne; è
ridevole la distinzione de' peccati in veniali e mortali; sono prestigi
del diavolo i miracoli; non devesi adorare la croce, simbolo
d'obbrobrio. Repudiavano l'estrema unzione, il purgatorio, e di
conseguenza i suffragi pei morti, l'intercessione dei santi e l'_Ave
Maria_: il battesimo conferito agli infanti non vale; i sacramenti non
sono istituiti da Cristo, ma inventati dall'uomo; la loro validità
dipende dal merito dell'operante, e possono essere amministrati anche da
laici. Pel matrimonio basta il consenso de' contraenti, senza uopo di
benedizione, e il Saccone dice condannavano chi ne usasse per altro fine
che per aver figliuoli; il che è conforme alla superbia del mostrarsi
superiori all'umana debolezza, alla quale risponde l'altro fine di
calmare la concupiscenza.

Del sacramento dell'Ordine teneva luogo l'elezione dei loro gerarchi,
che erano disposti in quattro gradi; il vescovo, il figliuolo maggiore,
il figliuolo minore e il diacono. Al vescovo spettava l'imporre le mani,
frangere il pane, dir l'orazione: mancando lui, suppliva il figliuolo
maggiore, se no il minore o il diacono: e in difetto, un semplice
credente e fin anche una catara. I due figliuoli coadjuvavano al
vescovo, visitavano i fedeli. In ogni città aveasi un diacono per
ascoltare i peccati leggeri una volta al mese; il che dai Lombardi (i
quali appare da ciò ritenessero la distinzione dei peccati veniali)
dicevasi _caregare servitium_. Il vescovo, avanti morire, inaugurava a
succedergli il figliuolo maggiore, imponendogli le mani.

Quotidianamente, allorchè sedevano a mangiar di brigata, il maggiore fra
i convitati sorgeva, e recatosi in mano il pane e il calice, proferiva:
_Gratia Domini nostri Jesu Christi sit semper cum omnibus vobis_;
spezzava quel pane, lo distribuiva, e quest'era la loro eucaristia. Il
giorno della cena del Signore imbandivano più solennemente; e il
ministro, postosi ad un tavoliere, su cui erano una coppa di vino ed una
focaccia d'azimo, diceva: «Preghiamo Dio ci perdoni i peccati per sua
misericordia, ed esaudisca le nostre petizioni; e recitiamo sette volte
il _Pater noster_ a onore di Dio e della santissima Trinità». Tutti
s'inginocchiano; orato, sorgono; esso benedice il pane e il vino, frange
quello, dà mangiare e bere, e così è compiuto il sacrifizio. Di presenza
reale o transustanziazione, non parola.

Al confessore non rendevano minuto conto della loro coscienza, ma uno
recitava a nome di tutti la formola: «Confessiamo innanzi a Dio ed a
voi, che molto peccammo in opere, in parole, colla vista, col pensiero,
ecc.». In casi più solenni il peccatore, presentandosi al cospetto di
molti col vangelo sul petto, proferiva: «Eccomi avanti a Dio ed a voi,
per confessarmi e chiamarmi in colpa de' peccati che ho fin ora
commessi, e ricevere da voi la perdonanza». Era assolto col posargli il
vangelo sopra il capo. Se un credente ricadesse, doveva confessarsene, e
ricevere di nuovo l'imposizione delle mani in privato. I peccati leggeri
confessavansi ogni mese, e si espiavano con astinenze.

Quest'imposizione, o _consolamento_, o battesimo di Spirito Santo, vero
punto cardinale delle credenze e del culto loro, era necessario per
rimettere il peccato mortale, e comunicare lo spirito consolatore; e fu
per opporsi al consolamento de' Patarini che il concilio Lateranese IV
ingiunse ai Cattolici di confessarsi almeno una volta l'anno.

I semplici _credenti_ poteano menar tutta la vita senza astinenze o
mortificazioni, e in piena licenza di costumi, nessun altro dovere
religioso tenendo fuorchè il contribuire al mantenimento de'
_Consolati_, riservandosi poi a cancellare ogni colpa in punto di morte
col ricevere il consolamento. Perocchè, se uno dei _perfetti_ imponga le
mani a un moribondo, e proferisca l'orazione dominicale, quello va
sicuro a salvazione.

Frà Ranerio aggiunge che, data la consolazione al moribondo, gli
chiedevano: «Vuoi in cielo andare tra i martiri o tra i confessori?»
Eleggeva i primi? lo facevano strangolare da un sicario a ciò
stipendiato; eleggeva i confessori? più non gli davano bere nè mangiare.

Questa _endura_ riscontrasi già prima in altri settarj, fondata
sull'idea che una morte volontaria e violenta fosse meritoria: e poichè
i risanati che, dopo ricevuto il consolamento, si fossero buttati al
vizio, avrebbero dimostrato la poca virtù de' ministri di quel
sacramento, forse voleasi evitarne il pericolo col sacrificare il
consolato.

Vero è che siffatte atrocità gratuite sogliono apporsi dall'ignoranza o
dalla malignità a tutte le congreghe secrete. E non c'è misfatto di cui
non siansi tacciati i Patarini; essi ladri, essi usuraj, essi sovratutto
carnali, adulteri e incestuosi in qualsiasi grado; con connubj promiscui
e contro natura; non poter l'uomo peccare dall'umbilico in giù, perchè
il peccato origina dal cuore. Finita l'assemblea spegneansi i lumi: e
ciascuno abbracciava la prima donna che gli capitasse[84]. Ma come
credere questa bacchica santificazione del libertinaggio, quando
altrove, e ne' libri de' loro stessi nemici, troviamo che con penose
astinenze reprimeano la carne, ribelle alla volontà ed opera del
principio maligno; tre quaresime l'anno, perpetua astinenza da carni e
latte, replicati digiuni, iterate preghiere?

Il Ranerio suddetto narra come, per l'iniziazione, adunati i credenti,
il vescovo interrogasse il neofito: «Vuoi tu renderti alla fede nostra?»
Questo afferma, s'inginocchia, e pronuncia il _Benedicite_; al che il
ministro ripete tre volte «Dio ti benedica», ad ogni volta più
discostandosi dall'iniziato. Il quale soggiunge: «Pregate Iddio mi
faccia buon cristiano»; e il ministro replica: «Sia pregato Iddio a
farti buon cristiano».

L'interroga poi: «Ti rendi a Dio ed al vangelo?» — _Sì_.

«Prometti non mangiar carne, ova, formaggio, nè d'altra cosa se non
d'acqua o di legno? (cioè pesci e frutte)» — _Sì_.

«Non mentirai? non giurerai? non ammazzerai, neppure vitelli? non farai
libidini nel tuo corpo? non andrai scompagnato quando puoi avere
compagna? non mangerai da solo potendo aver commensali? non ti
coricherai senza brache e camicia? non lascerai la fede per timore di
fuoco, d'acqua o d'altro supplizio?»

Risposto che avesse il neofito secondo ciascuna domanda, l'universa
assemblea mettevasi ginocchione; il sacerdote posava sopra il novizio il
volume dei vangeli, e leggeva l'inizio di quello di san Giovanni, poi lo
baciava tre volte: così facevano tutti gli altri, che egualmente si
davano l'uno all'altro la pace: indi veniva messo al collo dell'iniziato
un fil di lana e di lino, ch'egli non doveva levarsi giammai[85].

Qui non v'è ombra delle sistematiche ribalderie, che trovansi in alcune
professioni di fede, esibiteci da' loro antagonisti, secondo le quali
gl'iniziati rinunziavano, non solo a tutte le sane credenze della
religione, ma ad ogni costume, pudore, virtù. San Bernardo, implacabile
indagatore di loro colpe, dice: «Non v'era cosa in apparenza più
cristiana che i loro discorsi, nè più lontana da ogni taccia che i
costumi loro». Il domenicano Sandrini, che potè a sua posta indagare gli
archivj del Sant'Uffizio in Toscana, scrive: «Per quanto io abbia
cercato ne' processi eretti da' nostri frati, non ho trovato che gli
eretici Consolati in Toscana passassero ad atti enormi, e che si
commettesse mai da loro, massime tra uomini e donne, eccesso di senso;
onde, se i frati non si tacquero per modestia, il che non mi par
credibile in uomini che abbadavano a tutto, i loro errori erano, più che
di sensualità, d'intelletto».

Eppure contro tale asserzione starebbero alcuni processi, e recentemente
fu pubblicato il formulario delle interrogazioni da farsi loro[86],
donde appajono quali ne fossero le opinioni più consuete. Dice:

Ai Lionesi può domandarsi: se sia povero di Lione, o lombardo, o
oltramontano — se la romana sia la Chiesa di Cristo o meretrice — se il
papa è nel luogo del beato Pietro, e se può perdonare più che altr'uomo
— se alcuno è buono, e può salvarsi seguendo la fede della Chiesa romana
— se avvi altri in terra in luogo di san Pietro che possa sciogliere e
legare, e chi sia — se ogni uomo buono può consacrare anche non ordinato
e da chi — se il cattivo sacerdote possa consacrare, e conferire gli
altri sacramenti della Chiesa — se i bambini si salvano senza il
battesimo della Chiesa romana — se la Chiesa di Dio venne meno dal tempo
di san Silvestro, e chi la riparò — se papa Silvestro fu l'anticristo —
chi successe a san Pietro nella potestà di sciogliere e legare — se i
Poveri Valdesi, lombardi od oltramontani sieno la Chiesa di Dio — se la
congregazione de' Catari sia la Chiesa di Cristo — se nella Chiesa di
Dio vi debbano essere gli ordini e l'unzione. — Delle indulgenze e dei
pellegrinaggi che fa la Chiesa, delle pitture, della croce, del viaggio
in Terrasanta. — Delle contribuzioni della Chiesa romana, e del mangiar
carni in quaresima. — Se san Lorenzo è santo. — Chi diede a te
l'autorità di predicare? — Se è peccato mortale sposar una parente — se
giova dir mille messe e dar mille lire pei defunti che sono in
purgatorio — se alcuno, fabbricando a spese sue mille chiese,
meriterebbe presso Dio — se alcuno peccherebbe mortalmente distruggendo
tutte le chiese materiali, e bruciando tutte le croci. — Della
giustizia, e chi t'insegna a dire che la giustizia è male. — Del
giuramento per salvar la vita d'un uomo. — Se imparasti la credenza dei
Poveri di Lione — se vuoi rinunziare, e stare ai precetti della Chiesa.

Le risposte possiam raccorle da un processo, formato il 1387, e tratto
dalla stessa fonte, nel quale uno de' molti inquisiti confessa, che
nell'assemblea de' Valdesi, insegnavasi che la loro setta è ottima,
cattiva quella de' Cristiani, e che niuno si salva se non nella setta
loro; che il sommo pontefice della loro setta, dimora nella Puglia, e
che la Chiesa romana è Chiesa de' malignanti e congregazione di
peccatori, dal tempo di san Silvestro in poi, e in lui essa fallì, sin
quando essi la riformarono; che ogni giuramento è peccato mortale; che
due sole vie ci sono, cioè paradiso e inferno; e purgatorio non è che in
questa vita; limosine e pellegrinaggi non giovano ai defunti: Cristo non
fu vero Dio, perchè Dio non può morire; chiunque della loro setta può
consacrare il corpo di Cristo; non devono celebrarsi feste di santi,
perchè nessuno entrò in paradiso, ma aspettano fino al giorno del
giudizio, ecc.

Come avviene in quasi tutti i processi, vi fu un di cotesti ciarleri,
che rinvesciano quel che sanno e che non sanno, e che, se pajono
rivelare molti fatti, lasciano troppi dubbj sulla veracità di essi o
sulla fedeltà della loro memoria. Qui fu un frate Antonio Galosna del
Monte San Rafaele diocesi torinese, che, davanti al vescovo di Torino e
a frate Antonio di Setto di Savigliano inquisitore, seppe enumerar tutte
le moltissime persone che in varj paesi intervennero a quelle ch'ivi
sono chiamate sinagoghe dei Patarini o Valdesi. Troppe sarebbero le
interrogazioni e le objezioni che una processura odierna gli vorrebbe
fare, ma noi dobbiamo tenerci alle sue risposte.

Da tredici anni dunque era terziario francescano, vestitone l'abito
davanti l'altare di san Francesco in Chiari. Più d'una volta fu in casa
di Martino del Prete di Vico (Ponte Vico?); il quale stando presso il
fuoco, gli disse che in un libro avea trovato che la prima grazia ed il
primo sacramento fatto da Dio fu ed è il pane; e questo è superiore ai
sacramenti tutti. Allestita la cena, prese un pane, se lo pose sulle
ginocchia, poi ne staccò tre bocconi, e ne diede uno ad esso rivelante,
uno a un altro frate Antonio, uno alla moglie sua; ne staccò due altri,
e un lo diede alla fante, uno lo prese egli stesso, facendovi prima il
segno della santa Croce: essi lo riceveano a ginocchio, poi tutti
bevvero. Tra il cenare, Martino cominciò a dire che gli ecclesiastici di
fuori sono Dei, dentro son lupi rapaci: e narrò come egli e un frate
Jacobo Bech di Chiari avessero concertato di far quivi una cappella per
le preghiere e discipline loro: e in fatti questo Jacobo stette con
Martino tutto l'inverno facendo penitenza, e camminando scalzo nella
neve. Altra volta invitò questo frate Antonio a far vita seco, e che
dovean adorare il demonio (_draconem_), ch'è più forte d'ogni cosa,
combatte contro Dio e padroneggia il mondo. E cenando, Martino tenevasi
accanto un gatto (_murelegium_) grosso come un agnello, e gli dava
mangiare, e diceva che era il miglior suo amico in questo mondo. Esso
Martino gli diede la facoltà di ascoltare le confessioni, quanto
qualsiasi sacerdote, e gliela rinnovava d'anno in anno.

Lo condussero poi al luogo delle Macchie due uomini, che gli toccarono
il dito auricolare come sogliono i Valdesi, (le donne invece toccano due
dita) e il menarono in una casa ov'erano diverse persone, e una gli pose
in mano un pane di frumento ch'esso benedisse e distribuì ai presenti,
che lo baciarono, poi mangiarono; indi una vecchia mescè da bere a
tutti.

In Avigliana molti conobbe, e vi predicò un lavoratore di pelli di
pecora (_pergamenos_), dicendo che la grazia del pane è superiore a ogni
grazia, al battesimo, alla fede cattolica: mangiarono il pane,
bevettero, poi spensero i lumi dicendo: «Ognuno faccia quello per cui è
qui: chi avrà tenga».

A Focardo assistette a una sinagoga, ove si disse che Dio non è
nell'eucaristia, ma sta in cielo; che la Chiesa romana è casa di
menzogna, riprovata da Dio; che nè papa, nè sacerdote può assolvere se
non sia della loro setta; che due sole vie ci ha, paradiso e inferno, e
non il purgatorio, e che non si devono fare esequie pei morti. Non
essere peccato il dare a interesse dieci fiorini per undici o dodici;
che nessun sacramento ha efficacia, salvo il battesimo; gli altri furono
inventati per avidità de' preti. I santi non devono venerarsi nè
accendervi candele, giacchè Dio solo può giovare. Frate Antonio promise
a quel Martino del Prete di credere tuttociò, e d'adorare per Iddio il
dragone che combatte con Dio e cogli angeli, ed è più forte.

A Susa fu due volte nella sinagoga, con osti, panattieri, calzolaj,
sartori, fabbricanti di candele di sego, e donne merciaje,
fruttivendole, ostiere.

Ben venticinque volte in un anno assistette alle adunanze in Andezzeno,
e vi facea da portinaio, e quando la gente del paese erano iti a
dormire, si accoglievano a mangiare e bere, poi spegnevano i lumi e «chi
abbia tenga», e vi stavano fino a giorno. Bilia la Castagna dava a tutti
una bevanda di brutta apparenza, e chi n'avesse bevuta di molto
gonfiava: e se ne prendeva un centellino al principio dell'adunanza, ed
era di tale efficacia, che, chi una volta n'avesse gustato, non potea
più lasciar quella congrega: e correa fama che ella tenesse un grosso
rospo sotto il letto, cui nutriva di carne, pane e cacio, per far questa
bibita collo sterco di esso, mescolandovi capelli bruciati: e la facea
nella notte avanti l'epifania, e la comunicava il primo di marzo. Altre
donne sapean fare quell'ampolla. Da trenta persone, oltre le donne,
s'accoglievano, ch'egli nomina, e a capo loro Lorenzo di Ormea, nelle
cui mani esso rinnegò specialmente l'incarnazione di Cristo, la
passione, risurrezione, ascensione, non potendo darsi che Iddio si
umiliasse a tal segno: i sacramenti non giovare nulla alla salute. Ed
esso Lorenzo diceva che Dio padre era creatore del cielo, ma della terra
fu il dragone, signore di questo mondo, ov'è più potente di Dio.

Frate Antonio avea data la consolazione a moribondi della loro setta,
fra cui Alassona la Lauriana di Andezzeno. Vittore di Andezzeno prese un
boccone di pane, e le disse: «Credi che questo sia il più gran
sacramento, e che questo pane è superiore all'eucaristia e agli altri
sacramenti amministrati dai preti?» Essa rispose di sì, poi giunte le
mani, prese con devozione, baciò e si pose in bocca quel pane. Essi le
tirarono sopra il capo le coltri, in cui giaceva, e il domani fu trovata
morta.

Ad altre congreghe assistette in Chieri, in casa di Berardo Rascherio,
il quale diceva le stesse cose, e che Dio non nacque, nè morì, nè fu
sepolto; che Maria non restò vergine; che, morto il corpo, è morta
l'anima; poi seguivano il pane, la bevanda, il giuramento del secreto, e
lo spegner dei lumi, e il mescolarsi per un'ora o due.

Da venti volte egli fu in Moncalieri, in casa di Elena scarpolina, ed
erano moltissimi i settarj, ch'esso enumera, e che andavano a pochi per
volta. Così a Candiolo, a Podrovarino, a Trana, a Sangano, ove Giacomo
Doo ripeteva il pane essere il maggior sacramento, e doversi adorare il
dragone ch'è più potente di Dio; purgatorio non v'è che in questo mondo;
poi s'estinguevano i lumi e «chi ha tenga». A Giaveno, Ciaberto
predicava le solite cose, e Cristo non essere stato concetto di Spirito
Santo; e i precetti della Chiesa non legano le anime nè obbligano di
colpa o pena qualunque, nè è peccato lavorare la festa, mangiar carni in
vigilia o in sabato; Dio non può essere nel sacramento dell'altare;
tutte le cose visibili sono create dal demonio; e così via. Supponeva
che tutti quelli del vicino Balangero sono Valdesi e di siffatta
credenza, come udì più volte rinfacciarglielo quei di Giaveno.

Il mirabile è l'esattezza con cui frate Antonio nomina non solo, ma
descrive le varie persone de' varj luoghi, e così di Coazze, di
Piossasco, di Pinerolo, ove l'adunanza teneasi in casa d'una beghina
Coleta, e il pane era distribuito da Pietro di Belmonte di Pragelato.
Tutto ciò diceva d'aver confessato appena gli fu minacciata la tortura,
e d'averlo poi spontaneamente riconfermato, benchè i suoi settarj gli
largheggiassero promesse onde negasse; e lo sostenne anche sotto nuova
tortura, consistente nel metterlo supino, e sederglisi sul petto. Ma
condotto davanti al principe del paese, cioè del Delfinato, professò che
quanto avea detto era stato per le minaccie dell'inquisitore. Poi tornò
a confessar tutto, dicendo lo avea negato per istigazione del carceriere
e d'un foriero, che diceangli sarebbe stato condannato a morte se
confessava.

Simili cose di eresia e valdesia depose di Feruzasco (?), di Castagnole,
di Scalenghe, di Pianezza, di Alpignano: e in Germagnano della Val di
Lanzo, in Avigliana, in Paglirino (_Paglieres?_), in Villar Almese, in
Bubiana (Bobbio Pellice?), Porte, Caburro (Cavour), Campiglione[87].

Fu poi, davanti all'arcivescovo di Torino e all'inquisitore Antonio di
Setto di Savigliano, esaminato Giacomo Bech di Chieri; il quale dice
essere secolare e ammogliato, non tenere veruna eresia, benchè abbia
praticato con Martin del Prete e altri che poi intese colpevoli; nega
aver fatto intelligenze con esso Martino, e da dieci anni non averne
saputo più nulla. Interrogato su altre particolarità, or afferma or
nega. Interrogato se crede che papa Urbano V coi cardinali, vescovi e
preti sia la vera Chiesa cattolica; esservi il purgatorio; poter il
sacerdote anche in peccato assolvere il penitente, e consacrare; che sia
peccato l'usura; che deva adorarsi la croce, e venerare i santi,
risponde di sì. Se fu in alcuna congrega di Valdesi, dice di no. Ma un
mese dopo, senza tortura, confessa avere spergiurato; e che un trenta
anni prima avea preso l'abito di quei che diconsi apostoli, o della
povera vita, a Pontolino (?) nel contado di Firenze, dalla mano di
Giovanni di Pronassio della riviera di Genova: e visse un anno coi
fratelli, e ogni mattina davansi il bacio di pace, e faceano la
confessione generale al modo loro, e baciavansi ogni volta che uscissero
o rientrassero. Bisticciatosi, andò a stare a Perugia con altri che
faceano la stessa vita, poi fu a Roma, tornò a Chieri, rivide Roma e
Assisi, ed a Perugia trovò Pietro Garigh con dieci compagni, il quale
gli narrò d'essere figlio di Dio, e costoro gli apostoli suoi. Egli non
volle aggregarvisi: e anche a Chieri sollecitato da altri, rispose il
farebbe se la loro dottrina fosse migliore di quella della Chiesa
romana. Avendo giurato il secreto, essi gli esposero non aver Dio creato
le cose visibili, bensì il diavolo, che n'era padrone, e che facea
penitenza in questo mondo, finchè ritornerebbe in cielo: che l'uomo non
consta d'anima razionale e di corpo, ma uno dei demonj peccatori si
unisce col corpo, e lo anima; e quei che si salveranno riempiranno il
vuoto degli angeli caduti. Il papa non è papa, nè la romana è la vera
Chiesa; bensì la loro, e il loro maggiore; non s'ha a credere ai dodici
articoli, nè ai sette sacramenti; non adorare la croce; non è peccato
lavorare la festa; non vale l'assoluzione se non da chi è della loro
setta; non v'è purgatorio o inferno se non in questo mondo; nè altri
diavoli che gli uomini e le donne di qui. La donna gravida ha in corpo
un diavolo, nè può salvarsi se non entri nella loro setta, il che fanno
solo a ventiquattro anni; e prima restano a governo del diavolo; e il
battesimo nulla giova se si muoja avanti. Chi della loro setta non
riceve il consolamento in morte, il suo spirito rientra in un corpo
dell'uomo o della bestia che prima ritrovi, finchè in morte non riceva
la benedizione dal loro padre spirituale. Questo padre spirituale
benedice il pane, di cui tutti i credenti mangiano ogni giorno almeno
una bricciola. Non è peccato usare colla madre, la sorella, la figlia,
nè il dare a usura, nè lo spergiurare avanti al vescovo o
all'inquisitore, anzi è peccato irremissibile il discoprire sè o i suoi
maestri. Pellegrinaggi, elemosine, indulgenze nulla approdano ai morti.
Il diavolo fece Adamo ed Eva; profeti, patriarchi e fino san Giovanni
Battista sono dannati; Mosè fu il maggior peccatore che fosse mai, e la
legge ricevette dal diavolo. Non s'ha a credere la resurrezione della
carne, nè il giudizio.

Ed egli, davanti a Giocerino dei Balbi di Chieri, a Pietro Patrizio, e
ad uno Schiavone giurò credere tutto ciò sopra un grosso volume che
chiamavano _Libro della Città di Dio_, nel quale registravano chiunque
facesse tale professione. Poi da esso Patrizio fu mandato in Schiavonia
onde perfezionarsi in questa dottrina in un luogo che dicesi Boxena
(Bosnia?), sottoposto a un signore che chiamasi Albano di Boxena,
dipendente dal re di Rascia: e colà andarono molt'altri Chieresi ch'e'
nomina.

Oltre questa setta, nel Delfinato conobbe di quelli che chiamansi Poveri
di Lione, e credette quel ch'essi.

Aggiungeva che, quando essi eretici di Chieri vedono alcuno de' loro
maestri, e siano in luogo appartato, genuflettono dicendo: «Benedite,
perdonate a noi bon christian», e il maestro risponde «Vi perdono»: ma
se siano in pubblico, fan solo riverenza col capo. Anche costui declinò
una lunga lista di eretici. In che consista il consolamento degl'infermi
non sa, bensì che, prima di darlo, si fanno promettere dal malato, se
campi, di non mentire mai, non mangiare che cibi quaresimali, non
toccare mai persona d'altro sesso, morire piuttosto chè negare la fede,
portare guanti per non toccare nessuno nè essere toccati. Dopo ricevuta
la consolazione, il maestro gli domanda: «Vuoi essere martire o
confessore?» Se dice martire mettongli l'origliere sopra la bocca, e vel
tengono buona pezza mentre recitano certe preghiere, e se rimane
soffocato lo dichiarano martire; se campa, chiamasi perfetto, ed ha
autorità di dare ad altri la consolazione.

Se poi dica volere essere confessore, dura tre giorni dopo la
consolazione senza cibo o bevanda, e osserva le predette regole, ed ha
la stessa autorità: e viva o muoja, lascia tutti i suoi beni a quel che
gli diede il consolamento. Il maestro che chiamano perfetto non deve
peccare mai, nè toccare cosa immonda, lo perchè portano sempre guanti, e
usano vasi apposta per mangiare e bere, lavati nove volte.

E scaltriva l'inquisitore che, negli esami di quei che chiamansi Gazari,
non interroghi direttamente «Se' tu bene de' Gazari?» Il perfetto gli
risponderebbe sì, poi null'altro più. Onde bisogna prima esortarlo, pel
Dio in cui crede, a narrare la sua vita distintamente, e allora egli
racconterà tutto senza mentire.

Tutto ciò egli ratificava ripetutamente e ad intervalli, senza minaccia
di tormenti, protestando volere tornare alla verità. E allora pare gli
fosse perdonato, ma postille in margine accennano ch'egli fu bruciato, e
così Giovanni Bergezio e Martino del Prete.

La provenienza di questo processo rimuove i dubbj che suggerirebbe la
critica sulla sua autenticità, e può rivelarci la parte vulgare di
quella setta.

A più risolute opinioni trascorreano taluni, denominati La sètta dello
spirito di libertà, che negavano eterna la dannazione; le anime purgarsi
in questa vita, poi nell'altra, se alcuna macchia vi restasse, fino alla
totale soddisfazione: Dio non poter venire offeso dalle creature, ma i
peccati essere una purgazione dell'anima, inflitta da Dio: e peccati e
vizj essere necessarj alla salute dell'anima, come la grazia, le virtù e
le opere buone: nulla serve il libero arbitrio: le penitenze non sono
necessarie nè utili se non ai perfetti, e così i sacramenti, eccetto il
corpo del Signore; demonj sono i vizj e le passioni che ci affliggono;
l'anima purgata ha presente Iddio, ne' diletti spirituali o carnali come
nelle virtù e nelle buone azioni; la passione di Cristo non fu
necessaria per evitare la dannazione, ma per provocare al bene.

Ma la colpa, onde più concordemente sono rinfacciati i Patarini, è
l'ostinazione. Fra strazj e tormenti, al cospetto di morte obbrobriosa,
non che convertirsi, più s'induravano, protestavansi innocenti,
spiravano cantando lodi al Signore, colla speranza di presto
congiungersi nel suo abbraccio. In Lombardia serbarono memoria d'una
fanciulla, di cui la bellezza e l'età mettevano in tutti compassione e
desiderio di salvarla. Perciò vollero assistesse, mentre padre, madre,
fratelli venivano consunti dalle fiamme, sperando si sarebbe pel terrore
convertita: ma no; poi ch'ebbe durato alquanto lo spettacolo, si
svincola dalle braccia de' suoi manigoldi, e corre a precipitarsi nelle
fiamme, e confondere l'ultimo suo coll'anelito de' parenti.

Questo ci è raccontato dal cremonese Moneta, il quale era patarino, e
sentendo predicare in Bologna Reginaldo d'Orleans, si ravvide, ed
entrato nell'Ordine prima della morte di san Domenico e fatto
inquisitore della fede a Milano il 1220, _tamquam leo rugiens_ si
scagliò contro le eresie, e scrisse una _Summa theologica_[88] contro i
Catari e Valdesi, che dice nati a' suoi giorni.

Oltre scassinare i dogmi inerenti all'unità del sacerdozio per
costituire società religiose speciali, gli eretici facevano guerra
accannita alla Chiesa esterna, e pur troppo trovavano appiglio nello
scompigliato vivere del clero, di cui e amici e avversarj si accordano
ad attestare la depravazione.

Agli errori la Chiesa oppose da principio i rimedj che a lei convengono;
riformare i suoi, ammonire o scomunicare i dissenzienti, crescere
devozione alle cose che da quelli erano conculcate. La compagnia de'
Laudesi, che s'univano per cantar pie canzoni, dalla Toscana erasi
propagata nella Lombardia. Giovanni da Schio, il famoso paciere,
instituì il saluto del _Sia lodato Gesù Cristo_. La venerazione verso il
Sacramento fu cresciuta da miracoli che allora si narrarono: Urbano IV
estese a tutta la Chiesa la festa del _Corpus Domini_, e Tommaso
d'Aquino ne compose la magnifica uffiziatura.

A Maria poi si tributò l'entusiasmo, col quale i cavalieri veneravano le
donne loro, e il dogma dell'immacolata sua concezione fu sostenuto
fervorosamente dai Francescani; ad onore di lei si formò un salterio,
sulla foggia del davidico; di lei parlarono san Pier Damiani, san
Bernardo, san Bonaventura, con un ardore che rimembra quel dello sposo
de' cantici; e fu una gara di circondarla colla poesia del perdono e con
fiori di tenerezza. L'_Ave Maria_ si rese generale verso il 1240[89].
San Domenico introdusse, o piuttosto propagò il rosario; divozione cui
fu poi connessa la ricordanza della vittoria di Lèpanto (1573), quella
in cui fu decisa la superiorità dei Cristiani sopra i Turchi, nell'ora
appunto che in tutto l'orbe cattolico recitavasi quella semplice formola
di saluto, di congratulazione, di condoglianza, di preghiera. Maria
ispira le opere d'arte d'allora: il suo scapolare, propagato dai monaci
del Carmelo, orna il petto di tutti come una divisa di combattenti
contro le passioni; ai tre ordini del Carmelo, dei Serviti, della
Mercede sotto gli auspizj di lei, quello s'aggiunge dei Gaudenti, da
Linguadoca passati in Italia, ove singolarmente si resero memorabili, e
che continuavano a vivere nel mondo e nel matrimonio, «solo imposto
(come scrive frà Guittone) odiare e fuggire il vizio, desiare e seguir
la virtù, ed alcuna soave, soavissima regola, data in segno d'onestà, in
remissione d'ogni peccato, ed in premio d'eterna vita».

Contro le eresie la Chiesa drizzò pure la santità e lo zelo dei frati.
Questi, anche fra i disordini correnti, aveano sempre mantenuto fervore
più operoso e rigidezza più esemplare. Di nuovi ne furono in quel tempo
istituiti; gli austeri Certosini, i mistici Carmelitani, i pietosi
Trinitarj del riscatto; gli operosi Cistercensi, opera di san Bernardo,
introdussero o migliorarono la coltivazione in luoghi malsani; gli
Umiliati arricchironsi coll'industria dei panni; aggiungansi i Servi di
Maria in Toscana, i Silvestrini di Monte Fano nelle Marche, ed altre
società, le quali eccitano le lepidezze e la compassione di un secolo e
di giornali, che ammirano Federico II, Manfredi, Salinguerra, gli
Estensi, i Da Camino ed altri ammazza uomini.

E già in tanti rami erasi esteso il viver monastico secondo la varietà
degli intenti e dei mezzi, che Innocenzo III decretò non se ne
introducessero altri; eppure sotto di lui nacquero due Ordini
efficacissimi. In visione parvegli la basilica di San Giovanni Laterano
crollasse, e la sorreggessero due persone, allora a lui ignote, e in cui
poi riconobbe Francesco e Domenico. Il figlio di un agiato negoziante
d'Assisi, condotto in Francia da suo padre, s'addestrò sì bene in quella
lingua, che ne trasse il sopranome di Francesco. Balioso, vivace,
compagnone, poeta, a venticinque anni sentesi chiamato da Dio, e
rinunziato a tutto, fin alla famiglia, fa adottarsi da un pitocco, e non
serbando che una tunica col cappuccio e una corda a cintura, nel mondo
inebriato di ricchezze e di piaceri, esce a predicare la povertà; la
pace nel mondo dell'ira, delle superbie, delle guerre; e con undici
compagni si sottomette a così rigorosa abnegazione, da non considerare
suo nè l'abito tampoco e i libri. Così fonda l'ordine de' _Frati
Minori_, e il suo statuto comincia: «La regola de' Frati Minori è
d'osservare il vangelo, vivendo in obbedienza senza nulla di proprio, e
in castità». Chi v'entrasse dovea vendere ogni aver suo a profitto de'
poveri, e subire un anno di pruove rigorose, prima di proferire i voti.
Tutti essendo _frati minori_, gareggiavano d'umiltà, e lavavansi i piedi
uno all'altro; i superiori chiamavansi servi; chi sa un mestiere può
esercitarlo per guadagnare il vitto; chi no, vada alla busca, ma non di
denaro. Neppur l'Ordine può possedere di là dal puro necessario.
Prendano in ispecial cura gli esuli, i mendicanti, i lebbrosi. Chi
malato s'impazienta o sollecita medicine, è indegno del titolo di frate,
perchè mostra maggior cura del corpo che dell'anima. Non vedano femmine,
e a queste predichino sempre la penitenza: che se alcuno pecca in esse,
venga tosto espulso. In viaggio, null'altro che l'abito, nè tampoco il
bastone; e se diano ne' ladri, si lascino spogliare. Non predichi chi
non vi sia autorizzato; e prometta insegnare la dottrina della Chiesa
senza formole di scienza profana, senza ambire suffragi. Un generale
eletto da tutti i membri risiede a Roma, assistito da un consiglio, e da
esso dipendono i provinciali e i priori. Ai capitoli generali prendono
parte i capi di ciascuna provincia, i priori e i deputati dei monaci di
ciascun convento. Ogni comunità tiene capitolo una volta l'anno: i
superiori d'Italia si congregano ogni anno, e ogni tre quelli di là
dall'Alpe e dal mare.

Allorquando Francesco si presentò al papa chiedendo riconoscesse il suo
Ordine, cioè gli concedesse di pregare e mendicare e non posseder nulla,
Innocenzo III esitava, parendogli che questi propositi trascendessero le
forze umane; infine approvò solennemente questi Mendicanti (1215).
Membri d'una repubblica che avea per sede il mondo, per cittadino
chiunque ne adottava le rigide virtù: scalzi, col vestire dei poveri
d'allora, coll'idioma dei vulghi, diffondeansi per tutto. Avendo per
unica retorica una fede inconcussa e universale, e accettando tutto ciò
che servisse all'edificazione, andavano a diffondere la pace, e spandere
la rugiada della Grazia sovra le moltitudini, in prediche incolte, ma
animatissime, e dirette a un uditorio che non vi portava la critica, ma
la convinzione; al popolo parlando come esso vuol gli si parli, con
forza, con drammatica, fino con vulgarità, destando al pianto e al riso
col ridere e piangere essi medesimi; affrontando e provocando sia i
tormenti sia le beffe. Egli stesso, il santo fondatore, se mai talvolta
rompesse il digiuno, volea lo strascinassero per le vie, battendolo, e
gridando al ghiottone. A Natale predicava in una vera stalla, e nel
pronunziare _Betlemme_ belava come un pecorino; e nel nominare Gesù
leccavasi le labbra, quasi ne sentisse dolcezza. Poi alla sera di sua
vita, portava le stigmate delle piaghe di Cristo, impresse sul proprio
corpo.

Rinfrescatore mirabile del vangelo, a' suoi che inviava a predicare,
diceva: «In nome del Signore camminate due a due con umiltà e modestia;
in particolare con esattissimo silenzio dal mattino fino a terza,
pregando Dio nel vostro cuore. Fra voi non parole oziose e inutili: ed
anche per via comportatevi umili e modesti, come foste in un eremo o
nella vostra cella; imperocchè in qualunque parte siamo, è sempre con
noi la nostra cella, che è il corpo nostro fratello, essendo l'anima
nostra l'eremita che dimora in questa cella per pregare e pensare a Dio.
Perciò se l'anima non istà in riposo in questa cella, la cella esteriore
nulla serve ai religiosi. Sia tale la vostra condotta in mezzo alla
gente, che qualunque vi vedrà o ascolterà, lodi il celeste Padre.
Annunziate la pace a tutti; ma abbiatela voi nel cuore non men che nella
bocca, anzi più. Non porgete occasione di collera o di scandalo, ma
colla vostra mansuetudine fate che ognuno inclini alla bontà, alla pace,
alla concordia. Noi siamo chiamati per guarire i feriti e richiamare gli
erranti; e molti vi sembreranno figli del diavolo, che saranno un giorno
discepoli di Gesù».

E come i suoi frati, egli correva dovunque intendesse che v'era una
bizza, una discordia, e cominciava: _La pace sia con voi_, e predicava
l'amore, e intonava canzoni. All'amor suo non bastando l'abbracciare
tutti gli uomini, lo estende ad ogni creatura, e vaga per le foreste
cantando, e invitando gli uccelli, _fratelli suoi_, a celebrare il
Creatore; prega le rondini, _sue sorelle_, a cessare il pigolio mentre
predica; e sorelle son le mosche, e sorella la cenere. Una cicala canta?
gli è stimolo a lodare Iddio; le formiche rimprovera di mostrarsi troppo
sollecite dell'avvenire; storna dalla strada il verme che può esservi
calpestato; porta miele alle api nell'inverno; campa le lepri e le
tortore inseguite; vende il mantello per riscattare una pecora dal
macellajo; il giorno di Natale voleva si porgesse miglior nutrimento
all'asino e al bue; anche biade, vigne, sassi, selve, quanto hanno di
bello i campi e gli elementi songli stimoli, ad amar Dio[90];
nell'orticello d'ogni convento de' suoi doveva riservarsi un'ajuola a'
più bei fiori, per lodarne il Signore.

L'esuberanza di quest'affetto espandea Francesco in poesie, originali
come lui stesso, ove niuna reminiscenza d'antichità, ma viva effusione
di cuore, impeti d'amore illimitato: fu de' primi ad usar nelle laudi la
lingua vulgare; e frà Pacifico, suo allievo, meritò la laurea poetica da
Federico II. Così il _padre serafico_ seguitò, finchè a quarantaquattro
anni morì nel 1226. Per la sua Porziuncola aveva invocata dal cielo e
dal pontefice un'indulgenza, a lucrar la quale non fosse mestieri di
veruna offerta; e quando, al secondo giorno d'agosto, essa è proclamata
nell'ora solenne dell'apparizione di Maria, una folla innumerevole
accorre tuttora da quei fortunati contorni ad implorare l'effusione
della grazia gratuita.

Quattro anni dopo l'approvazione, Francesco radunò il primo capitolo,
detto _delle stuoje_, perchè tenuto in campo aperto sotto trabacche, ove
cinquemila frati della sola Italia, e cinquecento novizj si
presentarono; poi crebbero tanto, che, malgrado mezz'Europa perduta per
la Riforma, dicono alla rivoluzione francese sommassero a
cenquindicimila, in settemila conventi, suddivisi fra molte riforme.

L'altro apparso in visione a Innocenzo III era Domenico Gusman, illustre
castigliano, assetato di amore e di patimenti, che introdusse l'Ordine
de' Predicatori (1216), obbligato esso pure alla povertà, con cariche
tutte elettive, e destinato specialmente alla scienza divina e
all'apostolato. Mentre i Frati Minori preferivano la campagna e
situazioni meravigliosamente belle, i Domenicani, diffusi rapidamente,
nelle primarie città d'Italia ebbero grandiosi monasteri e templi
magnifici[91], prodigi dell'arte.

Onorio III diede poi ai Domenicani un'esistenza canonica, istituendo il
maestro del sacro palazzo, gran dignitario della Corte, mentre è il
ministro della giustizia papale per l'universo, da cui vengono a
dipendere tutti quelli istituiti in ciascuna diocesi, in quanto non vi
si oppongano gli anteriori diritti de' singoli vescovi. E la giustizia e
l'istruzione erano gli attributi de' Domenicani che non doveano tanto
tirar nella chiesa neofiti, come poi i Gesuiti, quanto conservare chi
v'era. Essi diedero alla predicazione una forma più animata e dotta;
tolsero al clero secolare il privilegio dell'alto insegnamento e la
direzione delle coscienze; rappresentavano la regola stretta, il
formalismo della lettera, la rigida repressione. I Francescani invece
tendeano al misticismo, alla libera interpretazione del testo sacro, a
dirigere gli spiriti verso l'ideale, fuor delle forme prestabilite.

Non sono dunque più i monaci ascetici, stiliti, anacoreti dell'Asia e
dell'Africa; non gli studiosi e faticanti di san Benedetto o di san
Bernardo; ma poveri mendicanti, viepiù potenti sul popolo, il quale
venera un'indipendenza acquistata con sacrifizj volontarj: onde li
consultava, divideva con essi il pane, dalla Providenza compartito; e in
quegli atti di astinenza e di abnegazione riconoscea l'amore, e
nell'amore la virtù. Diffusi pel mondo, nella reggia come nella capanna,
senza domicilio fisso, seminando dietro di sè la parola che salva, alle
eresie oppongono la predica, l'associazione; inoltre l'esempio del
massimo disinteresse e della maggior costumatezza. Deperisce il
sentimento dell'autorità? e i frati rinnegano la propria per far la
volontà d'un altro, ch'esso pure dipende da un superiore, e questo da un
altro, finchè s'arriva al pontefice, da cui tutto e tutti rilevano. Quel
rinunziare volontariamente al creato per amor del Creatore, esprimeva
non solo lo spogliamento, ma l'amore dello spogliamento. Così ridotto,
l'uomo non è più esposto a quella comune tentazione, per la quale,
allorchè abbia detto «Ciò è mio», facilmente passa a dire «Ciò son io, è
l'esser mio, ingrandito e nobilitato»; non trovasi grande per nascita,
per eredità o posti, ma per la sola grandezza vera dell'uomo, quella
dell'anima. Oggi che, in un'esistenza laboriosa, avvelenata dalle cure
materiali, non possiam intendere quella guerra dichiarata ai sensi, si
ripete che il denaro produce indipendenza. Ebbene, questi frati la
godeano perchè, non avendo cosa da perdere, sfidavano i potenti o i
rapaci a far loro paura.

Non incardinati a una chiesa come i preti, non appartenenti a una
provincia ad un reame, assumevano tutti i pesi del clero senza i
vantaggi; anzi, coll'umiltà e povertà correggevano di quello l'orgoglio,
che era uno de' più forti appigli per gli eretici. Poveri, penitenti,
assistendo al popolo nelle tribolazioni e benedicendone il tripudio,
contrastando ai tiranni, specchi di bontà e di dottrina, ecco perchè gli
Ordini dei Minori e de' Predicatori tanto poterono, e divennero il più
valido sostegno della Santa Sede; e per ciò li troveremo i più
osteggiati dagli avversarj della Chiesa.

A chi nella storia riconosce qualcosa di più nobile e liberale che non
l'accidente o la fatalità, non isfuggirà come quest'istituzione, tanto
favorevole al potere dei papi, e che forse ritardò di tre secoli il
distacco luterano, al pari d'altre istituzioni a pro del pontificato,
venne da persone estranie e private, non già dai papi, non da ambizione
nè calcolo loro, siccome sogliono gli ordimenti che i re e i ministri
fanno per ampliarsi in potenza.

E subito destarono meraviglia e simpatia nei migliori[92], e in folla
attrassero pii ed illustri proseliti, professori, architetti, medici,
filosofi, tra i quali il maggior mistico san Bonaventura, il maggior
ragionatore san Tommaso, il ravvivator delle scienze sperimentali
Ruggero Bacone, e cardinali, e principi, e re, e regine. Ciò chiuda la
bocca al frivolo beffardo, provando ch'erano in armonia col tempo,
soddisfaceano a bisogni veri delle anime, e profittavano alla società
quale allora si trovava. E i chiostri erano allora l'asilo de' maggiori
filosofi, i quali, ammiratori di Dio mentre il mondo dilagava di sangue,
passavano la vita nella contemplazione del bello, nella ricerca del
vero, nella pratica del bene; e dai chiostri uscirono i più vigorosi
campioni della verità, e ampliatori della civiltà, quali furono i
teologi.

Nella teologia dogmatica bisogna distinguere l'elemento _immutabile e
sostanziale_, cioè il vero rivelato e quel che ad esso s'attiene: e
l'elemento _mutabile_, quasi accessorio, che è lo sviluppo scientifico
d'esso vero rivelato, la forma di esso. Il primo nè scema nè
progredisce; il secondo varia col tempo e cogli uomini. Quello è oggi
qual fu al tempo di Cristo e degli apostoli, coi quali fu compito e
suggellato; l'altro si modifica e si modificherà sotto l'azione
permanente dello Spirito Santo, e per cagioni diverse. In quello il
semplice credente e il più profondo teologo sono eguali; per l'altro
differiscono grandemente. Questo sviluppo scientifico ebbe due periodi
ben distinti eppur connessi: quello dei Santi Padri e quello degli
scolastici.

Il medioevo avrebbe potuto produr teologi sì grandi come i primi secoli?
era assai tener viva la face della civiltà e delle credenze fra il
turbine della barbarie. I teologi studiavano nella Scrittura e ne'
Padri, con poca invenzione e poca filosofia, contentandosi di compilare
o copiare. Pur v'ebbe taluni che tentarono qualche sistema; poi nel XI
secolo ricompajono i grandi teologi. Tal fu Lanfranco di Pavia
(1005-89), divenuto abate di Bec in Normandia, poi arcivescovo di
Cantorbery, che, dagli affari pubblici non distolto, risuscitò l'arte
critica, applicandola ai testi che l'eretico Berengario aveva falsati
per negare la presenza reale nell'eucaristia; riprovando la sottigliezza
dei tropi e dei sillogismi e l'_inane fallacia_ della dialettica di
Aristotele, chiama sapiente chi conosce e glorifica Dio, e pienezza
della dottrina l'intenderne il mistero e la sapienza.

Discepolo suo e successore, Anselmo d'Aosta (1033-1109), con dolce calma
e fermezza, intelletto elevato, cuor puro, carattere amabile, per
sagacia e pietà fu chiamato un secondo Agostino, e sulle traccie di
questo diede dimostrazioni ancora venerate sopra l'essenza divina, la
trinità, l'incarnazione, la creazione, l'accordo del libero arbitrio
colla Grazia. Mettendo in iscena un ignorante che cerca la verità colla
scorta dell'intelletto puro, vuol mostrare che la ragione non prova, ma
comprova le verità rivelate; e protestando insieme che la fede non cerca
comprendere, ma pur movendo dal credere, tende all'intelligenza,
chiaramente determina i confini della filosofia e della teologia.

Lo stolto che dice _Non v'è Dio_, bisogna abbia l'idea d'un essere a
tutti superiore, anche quando afferma che non esiste. Ma l'affermare che
non esista quello che si chiarisce, è assurdo; è poi contradditorio ne'
termini, atteso che quest'ente, presupposto superiore a tutti,
resterebbe inferiore a un altro, che a tutte le perfezioni congiungesse
l'esistenza. Voi riconoscete l'argomento svolto poi da Cartesio; sicchè
un monaco del XI secolo trovava, e preciso esponeva la prova più
compiuta e soddisfacente dell'esistenza di Dio, cioè elevava la
coscienza fino alla nozione dell'essere, e sopra un concetto della
ragione edificava una teologia dottrinale.

Altri si volgeano ad enucleare credenze particolari di mezzo alla
generale, seguendo lo spirito di controversia introdotto dalla
scolastica.

Da Boezio, ultimo filosofo latino, era stata resuscitata la stretta
dialettica, che l'italioto Zenone d'Elea aveva insegnata. Di essa erasi
giovata assai la sapienza greca; ma se si restringe a pure forme e
categorie, impaccia la ragione mentre intende soccorrerla. Entrata poi e
divenuta dominante nelle scuole d'Occidente, ne prese il nome di
_scolastica_, che esprime ad un tempo e l'uso il più poderoso, e il più
inane abuso che siasi fatto mai dell'umano raziocinio.

Questa geometria della ragione mette innanzi, precisamente formolato, il
suo teorema, da principj inconcussi deduce illazioni con raziocinio
serrato, senza abbellimenti nè svaghi, valendosi solo di parole
chiaramente definite, eliminando le idee vaghe e i termini equivoci, e
procedendo sempre dal noto all'ignoto. Tali principj non potea darli che
la rivelazione. Movendo da questi, la scolastica limitavasi a difendere
e chiarire dogmi parziali, a vedere in che modo accettar la rivelazione
e conoscere il sentimento comune; esercitandosi sulle due nozioni
fondamentali del creatore e della creatura, per trovarne e chiarirne la
relazione, ch'è la fonte d'ogni morale, e conciliare la fede rivelata
colla ragion pura e coi fenomeni della vita esterna; sospendendo ogni
disputa non appena la Chiesa avesse sentenziato.

Ma mentre sant'Anselmo sosteneva doversi credere ai misteri prima di
analizzarli colla ragione, Roscelino prendeva le mosse da un ordine
puramente logico, e distruggeva i misteri della fede col pretesto di
spiegarli. Era Aristotele che prevaleva a sant'Agostino; e la scolastica
più non si propose soltanto di rendersi conto dei dogmi riguardati come
incontestabili, di elevarsi dalla fede all'intelligenza, come ne'
migliori tempi; ma prendea le mosse dall'ordine logico e psicologico,
dalla coscienza, da una specie d'esperienza, non impugnando i dogmi,
anzi cercando metterli in armonia colle teoriche razionali, pure non
prendendoli per base e termine delle sue speculazioni, e formando una
filosofia umana.

La Chiesa non vi si era opposta; solo avvertì che v'ha dei limiti
insuperabili, e vigilava che l'orgoglio non urtasse il dogma. Alcuni
vollero trascenderli, e ne nacquero gli errori de' Nominalisti e de'
Realisti, lo scetticismo d'Abelardo, il panteismo di Amalrico di
Chartres. La Chiesa condannò questi abusi della dialettica, eppure
lasciolla applicare alla teologia.

Allora rinacquero gli abusi della sofistica greca. Il minuzioso
speculare, disgiunto dall'applicazione, dalla sperienza,
dall'erudizione, da ogni bellezza; il sillogizzare non tanto per
raggiungere la verità, quanto per uniformarsi a certe regole, o per
avviluppare gli avversarj; il puntigliarsi in frivole distinzioni fin di
sillabe, congiunzioni, preposizioni, e innestare alla logica quanto di
vano comprendevano la grammatica e la geometria, colla presunzione di
dimostrare ogni cosa, perfino i contrarj; insomma l'assumere la disputa
per iscopo, non per mezzo, e confondere il metodo colla sostanza, faceva
invanire e delirare nella presunta onnipotenza della dialettica, e
separava la teologia speculativa dalla pratica, l'argomentatrice dalla
mistica. La Bibbia diveniva un arringo di disputazioni, secondo che gli
uni vi rintracciavano il senso letterale, altri l'allegorico, altri il
mistico. Che cosa faceva, e dove stava Iddio prima di creare? se nulla
avesse creato, qual sarebbe la sua prescienza? v'ha tempo in cui egli
conosca più cose che in un altro? potè egli fare le cose in altro modo
da quel che le fece? e che non sia ciò che è? e, per esempio, che una
meretrice sia vergine? Iddio, incarnandosi, si unì all'individuo od alla
specie? il corpo di Cristo alla destra del Padre sta seduto o in piedi?
e le vesti con cui comparve agli apostoli dopo risorto erano realtà od
apparenza? e le assunse con sè in cielo? e ve le tiene ancora? e
nell'eucaristia sta nudo o vestito? che divengono le specie eucaristiche
dopo mangiate? in qual maniera s'operò l'incarnazione nel seno di Maria?
san Paolo fu rapito al terzo cielo nel corpo o senza? il pontefice
potrebbe cassare i decreti degli apostoli, e formare un articolo di
fede? o abolire il purgatorio? è semplice mortale, o una specie di
divinità?

Ricondurre le quistioni teologiche al punto ove i Padri le aveano
lasciate fu l'assunto di Pietro Lombardo (1160), povero fanciullo
novarese, divenuto vescovo di Parigi. Nei quattro libri _Sententiarum_
raccolse in un ordine alquanto arbitrario le proposizioni de' santi
Padri intorno ai dogmi, sicchè non rimanesse che d'applicarle nelle
varie quistioni. Ma poichè delle difficoltà esposte non porgeva la
soluzione, apriva campo a troppe sottigliezze, per quanto egli
richiamasse continuo verso gli studj positivi e i monumenti della prisca
filosofia cristiana. Inoltre dava egli stesso in certe speculazioni che
noi possiamo dire curiose: «Iddio padre generando suo figlio, generò se
medesimo o un altro Dio? generò di necessità o di volontà? è Dio
spontaneamente o necessariamente? Gesù Cristo potea nascere d'una specie
d'uomini differente dalla stirpe d'Adamo? potea prendere il sesso
femminile?» Quando la logica gli paresse condurre a conclusioni diverse
dalla fede, conchiudeva: «Su questo punto amo meglio udire altri, che
non parlare io stesso». Fu intitolato il _Maestro delle sentenze_,
divenne testo delle scuole, ebbe replicate edizioni ne' primi tempi
della stampa, e forse quattrocento commentatori, e fin a mezzo il secolo
passato l'università di Parigi ne celebrava l'anniversario con esequie
assistite da tutti i bacellieri licenziati.

Censurare la scolastica per gli abusi che ne derivarono, è ingiustizia
come di chi condannasse la letteratura odierna per la prostituzione de'
giornali. È vero che tali ginnastiche sono pericolose, nè impunemente
s'irritano i dilicati muscoli della credenza, e difficilmente si ha la
debita riverenza per un dogma che fu maneggiato con troppa famigliarità;
ma è vero altresì che gli scolastici successero ai santi Padri
nell'ufficio di conservare, trasmettere, propugnare la fede; ed è loro
merito l'aver raccolte in un sol corpo di dottrina tutte le verità
rivelate, sparse in tanti volumi quanti sono i monumenti della
tradizione; ridottele in pochi, ordinate con sistema scientifico,
espresse con preciso e chiaro linguaggio. Insomma la scolastica, nella
parte sua viva, fu il trionfo della ragione applicata alla rivelazione.

In ciò il maggior merito va a quel che può asserirsi il maggior filosofo
del medioevo, e fors'anche dell'evo moderno, san Tommaso (1227-74). Nato
dai conti d'Aquino, pronipote di Federico Barbarossa, cugino di Enrico
VI e di Federico II, discendente per madre dai principi normanni,
abbandona delizie e speranze per vestirsi domenicano, e ben presto
mostrò intelletto filosofico s'altri mai, erudizione estesissima,
passione de' grandi risultamenti. A quarantun anno si propose, coi
materiali sparsi della scienza, coordinare in sistema compiuto la
teologia e la filosofia, compendiando in un volume i conflitti che da
dodici secoli la Chiesa sosteneva intorno ai cardini della fede, e
quanto aveano insegnato, approvato, riprovato i Padri, i dottori, i
papi, i concilj, in maestosa sintesi tendendo a riprodurre l'ordine
assoluto delle cose. Dio uno, la Trinità, la creazione, le leggi del
mondo, l'uomo e l'angelo, la natura e la grazia; e opporre la verità
agli errori moltiformi del Corano[93], del Talmud, del manicheismo.
All'ispirazione ed elevazione dei primi Padri non assurge egli, ma
fedele al sillogismo, porge formole dotte e profonde distinzioni.
Vastissimo il concetto generale, finissime le particolarità; non c'è
massima nella Scrittura e nella tradizione, non idea nella coscienza,
non errore nelle menti ch'egli non abbia discusso, sopra ciascuno
recando le opinioni antiche e moderne, vere e false, la tesi e
l'antitesi; e con un buon senso calmo, imparziale, senza sistematiche
esclusioni, adottando tutto ciò ch'è vero, approvando tutto ciò ch'è
buono. Mentre d'Aristotele repudia la metafisica, ne adopra la
dialettica e il potente argomentare sillogistico, tanto opportuno a
dissipare il sofisma.

Ecco con qual metodo procede. Enuncia, per lo più in forma di quistione,
il teorema che intende dimostrare; poi espone e sillogizza tutte le
opposizioni filosofiche con tal franchezza e lealtà, che poterono da lui
attingere eresie ed objezioni quanti ebbero la mala fede di sopprimere
le risposte. Vi contrappone (_sed contra_) passi d'Aristotele, della
Bibbia, dei Padri, principalmente di sant'Agostino: quindi (_conclusio_)
pronunzia la sua decisione in termini concisi, enucleandoli poi
dialetticamente, e non di rado con poche parole d'inarrivabile
precisione snodando avviluppatissimi problemi; donde passa a sciogliere
per ultimo con facilità le opposizioni che avea messe innanzi sul
principio della quistione.

Ch'egli si occupasse di scienze al tempo suo non esistenti, o usasse un
linguaggio che l'età sua non gli dava, chi lo pretenderebbe? mentre
eccitano meraviglia la chiarezza, la brevità nervosa, la schietta
indagine della verità, che con bella e profonda definizione egli fa
consistere in un'equazione tra l'asserto e il suo oggetto[94].

Scienza di Dio, dell'uomo, della natura, la teologia risale a Dio per
contemplarlo, e col raggio che ne attinge discende la scala del creato,
illuminando le sfere inferiori. Tra i corpi assolutamente materiali e il
mondo delle pure intelligenze, riflesso della vita e delle perfezioni di
Dio, sta l'umanità, partecipe degli uni e degli altri; tre mondi,
connessi da legami infiniti, donde risultano l'ordine naturale e il
soprannaturale, e in seno all'opera di Dio nasce l'opera dell'uomo,
mediante la libertà creata. Di qui la mescolanza di bene e di male, di
verità e d'errore, che costituisce la storia umana. Delle creature,
alcune sono assolutamente immateriali, altre materiali, altre miste, e
nel formarle Iddio si propose il bene, cioè d'assimilarle a sè. Del qual
bene partecipano anche i corpi, in quanto possedono l'essere, e sono
l'effetto della bontà divina; e concorrono alla perfezione
dell'universo, che deve contenere una gradazione d'esseri, gli uni
subordinati agli altri, secondo che sono più o meno perfetti. Chi li
consideri uno ad uno, non vede che l'inanità: ben altrimenti da chi li
guardi come istromenti degli spiriti: avvegnachè tutto ciò che si
riferisce all'ordine spirituale, mostrasi più grande quanto più viene
conosciuto.

Centro e compendio della creazione è l'uomo, il cui spirito vive di
triplice vita, la sensiva, la vegetativa e la razionale, la qual ultima
ancora si divide in intelligente e volitiva. Alla volitiva san Tommaso
assegna norme rettissime, giacchè fondate sugli insegnamenti della
Chiesa: e canoni della società, che i più sodi e i più liberali non
furono forse mai dati da altri[95].

Ciò sia detto per coloro, che non vogliono considerar tampoco la
scolastica come il maggior tentativo fatto di sostenere il dogma col
raziocinio, costruendo sistemi di metafisica trascendente, che non
provano ricchezza di scienza storica e filologica, ma suprema
sottigliezza d'ingegno[96].


NOTE

[71] RAD. GLABER.

[72] LANDULFI SENIORIS _Historia Mediolani_, II, 27. Vedi qui sopra, a
pag, 71.

[73] La confessione di fede dei Valdesi delle valli subalpine del 1120
porta: _Fermament tenèn tot quant se contèn en li doze articles del
symbolo, lo qual ès dict de gli apostol; tenèn esser heresia tota cosa
la qual se discorda e non ès convenient à li doze articles_.

[74] _Multa petebant instantia prædicationis auctoritatem sibi
confirmari_. San Stefano di Borbon ap. GIESLER, pag. 510.

[75] Però in un manoscritto di Cambridge della _Nobla leçon_, che
vorrebbero supporre del 1100, cioè anteriore ad esso Valdo, leggesi:

    _Que non volìa maudire, ni jurar, ni mentire,_
    _Ni ahountar, ni ancire, ni prenre de l'autrui,_
    _Ni venjar se de li sio ennemie,_
    _Illi disent quel ès Vaudès e degne de meurir._

Giulio Perticari (_Dell'amor patrio di Dante_, c. XII), dice la _Nobla
leçon_ «scoperta non ha guari a Venezia», mentre fin nel 1669 ne dà
degli estratti Giovanni Leger.

Nella parola _valdese_ alcuno vorrebbe sentire il tedesco _Wald_,
foresta.

Cataro in greco vuol dire _puro_, e forse presero tal nome per la
pretesa innocente vita. Sant'Agostino già denomina _Cataristi_ i
Manichei. _De hær. Manich_. I Tedeschi chiamano ancora _Ketzer_ gli
eretici.

[76] Fra molt'altre ragioni, diceasi loro: L'uomo vuole ora il bene, ora
il male. Se è creatura del Dio benefico, come mai propende al male? se
del malefico, come mai opera il bene?

[77] Così il Vignerio, reputato dai Protestanti il restauratore della
storia ecclesiastica. _Bibliotheca historica_, addiz. alla parte II,
pag. 313. Anche frà Ranerio Saccone dà le Chiese di Francia e d'Italia
originate da quelle di Bulgaria e Drungaria. Bossuet non potè indovinare
dove fosse questa Drungaria: noi crediamo apporci dicendola _Tragurium_,
cioè _Traù_.

[78] _Die Waldenser in Mittelalter_, opuscolo di A. W. DIECKHOFF, in
risposta a quello di HERZOG sul soggetto medesimo.

M. C. SCHMIDT, _Hist. des Cathares ou Albigeois_.

J. VENEDEY, _Die Pataria im XI und XIX Jahrhundert_. Parigi 1854.

[79] Del Saccone, vissuto verso il 1230, la _Summa de Catharis et
Leonistis, sive Pauperibus de Lugduno_ fu inserita nel _Thesaurus novus
anedoctorum_ dei PP. Martene e Durand. Parigi 1717, tom. V. In questa
_Summa_ trovo menzionato un volume di dieci quaderni, in cui Giovanni di
Lugio avea deposti i suoi errori. Buonaccorso, già vescovo dei Catari in
Milano, li confutò nella _Manifestatio hæreseos Catharorum_, che sta
nello _Spicilegio_ del padre D'Achery, tom. I, p. 208 del 1723. Nel
suddetto THESAURUS (v. 1703) vedasi pure una _Dissertatio inter
Catholicum et Patarinum_; e l'opera di frà Stefano di Bellavilla
inquisitore; e così i sermoni di Ecberto (verso il 1165) contro i
Catari, stampati a Colonia il 1530; l'opera di Alano, insigne teologo
(morto il 1202) contro gli eretici e valdesi, stampata a Parigi il 1612.

[80] In una costituzione di Federico II leggesi: _In exemplum martyrum,
qui pro fide catholica martyria subierunt, Patarinos se nominant, veluti
expositos passioni_. Ed anche le _Assise_ di Carlo I portano nel
francese d'allora: _Li vice de ceans son coneu par leur anciens nons, et
ne veulent mie qu'il soient apelé par les propres nons, mais s'apellent
Patalins par aucune excellence, et entendent que Patalins vaut autant
comme chose abandonnée à soufrir passion en l'essemble des martyrs, qui
souffrirent torment pour la sainte foy_.

È da notare che anticamente i Druidi chiamavansi _Pataru o Pateri_,
forma di _patres_.

[81] Da cui il _Bougre_ de' Francesi, il _Bolgiron_ de' Lombardi.

[82] Da Como? Anche Concorezzo è borgata vicina a Monza: come Bagnolo si
ha nella Lombardia, in Piemonte, nel Napoletano e in Provenza.

[83] Alcuni pretendono (p. e. Döllinger) distinguere i dualisti dai
monarchi: e fra questi ultimi metterebbero i Concorezj e i Bagnolesi.

[84] Ne' loro riti trovansi certe formole popolari e ritmiche. Così al
fine della predica il maestro spegnendo il lume, diceva: _Quis habet
teneat_; o in piemontese: _Quel qu'eseguirè con lume de la lanterna
gagnerè la vita eterna_; e in italiano: _Alleluja alleluja segua chi ha
la suja_.

[85] AP. LANZI, _Lezioni di antichità toscane_, XVII.

[86] Da un codice della biblioteca Casanatense di Roma. A. III, 34. Vedi
_Archivio storico_, nº 38.

[87] Sono singolarissime le particolarità che dà quasi di ciascuna
persona e luogo. _Donna Johanna de Francia que tingit filum, induta de
camelino, et moratur in plano versus portam qua itur ad monasterium —
Forneria de Ulmo, pinguis et grossa — Quedam juvenis de Ast, magna que
moratur in plano juxta quendam virum qui non potest se moveri de lecto —
Quidam macellarius, qui habet macellum in plano versus apothecas
pannorum in penultima banca — Quedam masceria dominorum satis colorata —
In quadam cassina cujusdam tabernarii grassi et pinguis, qui moratur
prope plateam castri in quodam palacio seu domo magna — Due mulieres que
morantur ultra Dariam, una prope aliam; quedam alia que moratur veniendo
de ecclesia sancti Martini a manu sinistra in domo coperta paleæ —
Quedam alia vetula grossa et colorata moratur in summitate ville —
Quedam tabernaria que moratur in introitu porte veniendo de sancto Petro
et vendit sal, pulcra est, et ex oppositu ipsius moratur quidam
tabernarius — Quedam alia testrix que vendit drapellos et est
lentigiosa_.

[88] Grosso volume in-folio, edito a Roma il 1743 dal padre Tommaso
Agostino Richino, col titolo _Venerabilis patris Monetæ cremonensis
ordinis Prædicatorum, sancto patri Dominico æqualis, adversus Catharos
et Valdenses libri quinque_.

[89] Dicono che la seconda parte dell'_Ave Maria_ fu aggiunta solo al
cominciar del protestantesimo, e il Mabillon non ne troverebbe vestigio
prima del 1508. Ma il breviario della Chiesa d'Ivrea, che fu usato fino
al 1545, in una copia del 1488 riporta anche la _Sancta Maria_, ecc.

[90] «E tutte le creature appellava fratelli e sirocchie, dicendo che
tutti aveano uno cominciamento da un medesimo creatore e padre». _Vite
de' Santi Padri_. — _Fratres mei aves, multum debetis laudare
Creatorem.... Sorores meæ hirundines.... Segetes, vineas, lapides et
silvas, et omnia speciosa camporum, terramque et ignem, aerem et ventum,
ad divinum movebat amorem... Omnes creaturas fratris nomine nuncupabat
frater cinis, soror musca_. TOMMASO CELANO suo discepolo. _Acta SS.
octobris_. Vedi _i Fioretti_ di san Francesco, uno de' più ingenui libri
del nostro Trecento, e dei più beffati dai riformatori del Cinquecento.

[91] Santa Maria Novella in Firenze, santa Maria sopra Minerva in Roma,
san Giovanni e Paolo in Venezia, san Nicolò in Treviso, san Domenico a
Napoli, a Perugia, a Prato, a Bologna, coll'arca stupenda del fondatore;
santa Caterina a Pisa, sant'Eustorgio e le Grazie a Milano, ed altre
chiese, segnalate per ricca semplicità, e per lo più architettate da
frati.

[92] Guitton d'Arezzo scriveva di san Francesco:

    Cieco era il mondo, tu failo visare (_vedere_);
    Lebbroso, hailo mondato;
    Morto, l'hai suscitato;
    Sceso ad inferno, failo al ciel montare.

Dante pone un magnifico elogio dei due patriarchi in bocca a san Tommaso
e a san Bonaventura nei canti X e XI del _Paradiso_. Di san Francesco
conchiude:

    Pensa oramai qual fu colui, che degno
      Collega fu a mantener la barca
      Di Pietro in alto mar per dritto segno.
    E questi fu il nostro patriarca:
      Perchè, qual segue lui com'ei comanda,
      Discerner puoi che buona merce carca.

E a san Bonaventura, lodando san Domenico, fa dire:

    L'esercito di Cristo...
                            dietro all'insegna
      Si movea tardo, sospettoso e raro,
    Quando lo imperador che sempre regna
      Provvide alla milizia, ch'era in forse
      ..... A sua sposa soccorse
      Con due campioni, al cui fare, al cui dire
      Lo popol disviato si raccolse.

[93] Che il concetto di san Tommaso vincitore delle eresie, e
specialmente di quelle di Averroè, fosse affatto popolare, si prova dal
vederlo atteggiato dai pittori. In Santa Caterina di Pisa, ove tenne
scuola, Francesco Traini, discepolo dell'Orgagna, dipinse Tommaso, sul
quale piovono raggi splendidissimi da Dio e dagli angeli e santi, e
altri meno vivi da Platone e Aristotele: esso li riflette tutti sopra i
dottori della Chiesa, fuorchè uno il quale percuote Averroè che sta
rovesciato a' suoi piedi, e passa fuor fuori il libro del gran commento.
Anche Taddeo Gaddi ritrasse l'Angelico sopra un'eccelsa cattedra,
circondato da personaggi dei due Testamenti e dalle quattordici scienze,
ognuna di esse sormontata dal sapiente che n'è tipo: e a' piedi stanno
Ario, Sabellio, Averroè. E costui si scorge in molti altri dipinti,
cruciato dai demonj, stracciantesi le chiome, ecc.

Sulle dottrine di Averroè dovremo tornare, onde giova notare come
Guglielmo di Tocco, autore della vita di san Tommaso, enumerando le
eresie vinte da questo, pone in primo luogo quella di Averroè «che
insegnava esservi un intelletto solo: errore sovversivo del merito de'
santi, giacchè allora non v'avrebbe differenza tra gli uomini». E
prosegue: _Mirum est quam copiose sanctus Thomas in illam vanissimam
sententiam semper inveheretur. Captabat ubique tempora: quærebat
occasiones unde ipsam traheret in disputationem: pertractam vero
torquebat, exagitabat, monstrabatque non a christiano solum, sed ab omni
quoque alia, peripateticaque præcipue philosophia dissentire_. BOLLAND.,
_Acta Sanctorum Martii_.

[94] _Veritas intellectus est adœquatio intellectus et rei, secundum
quod intellectus dicit esse quod est, vel non esse quod non est_. Adv.
gent. I, 49, I.

[95] «Legge è un ordinamento della ragione, promulgato da chi
sovrintende al Comune pel bene di tutti». I della 2ª _quest._ 95, art.
4.

«Due cose devono avvertirsi intorno al buon ordinamento del principato
in qualunque città e nazione: la prima, che tutti ottengano qualche
parte nel principato, lo che mantiene in pace il popolo, e fa che tutti
amino e difendano l'ordinamento. L'altra riguarda la forma del
reggimento. Ottimo principato è dove uno presiede a tutti secondo il
merito, e dopo lui governano altri secondo il merito; il qual principato
è di tutti, perchè tutti possono essere eletti, e tutti partecipano
all'elezione». _Quest._ 105, I della 2ª, art. 1.

Ottima è la sua osservazione intorno allo svilimento de' caratteri,
prodotto dall'assolutismo: sotto il quale, dic'egli, gli uomini _in
servilem degenerant animum et pusillanimes fiunt ad omne virile opus et
strenuum_. De reg. pr. L. I. 3.

[96] Pietro Tamburini, che abituò i Lombardi al servilismo ufficiale, è
accannito contro la scolastica. _De fontibus sacræ theologiæ_. Pavia
1790, vol. III, diss. 10. La difese Gerdil nel _Saggio d'istruzione
teologica_, art. _Scolastici_, tom. X.



DISCORSO V.

ORIGINE DELL'INQUISIZIONE. SEGUE DE' PATARINI. LA GUGLIELMINA.


La verità non sarebbe verità se ciò che se ne scosta non fosse errore:
nè l'errore sarebbe errore se non cagionasse disordine. In conseguenza
l'autorità tutrice dell'ordine sociale deve reprimerlo. In tempo che
tutto avea per meta il cielo, sicchè chi mettesse impacci all'arrivarvi
era il gran nemico della società, bisognava collocare sotto la guardia
delle leggi la fede, come la vita, la roba, l'onore.

Che la società pagana non tollerasse le religioni diverse dalla legale,
è attestato non meno dal supplizio di Diagora e Socrate, che dalle
migliaja di martiri. I Padri della Chiesa proclamarono la libertà delle
credenze, finchè la loro fu perseguitata; ma come prevalse, e gli
eretici sorsero a turbarla, argomentarono che il reprimere gli errori
fosse diritto e difesa legittima contro della persecuzione e della
seduzione. Se la Chiesa è unica depositaria e interprete della verità, e
soltanto in essa vi è salute, non dovrà ella con ogni modo opporsi alla
propagazione dell'errore? Gl'imperatori di Roma cristiani, memori di
quando univano i due poteri di capi dello Stato e supremi pontefici,
moltiplicarono decreti in tal proposito; due Costantino, uno
Valentiniano I, due Graziano, quindici Teodosio I, tre Valentiniano II,
dodici Arcadio, diciotto Onorio, dieci Teodosio II, tre Valentiniano
III, tutti inseriti nel codice Giustinianeo. Diverse pene comminavano
agli eretici, di rado la morte, perchè i vescovi professavansi
avversissimi al sangue: a questi era affidato il decidere se un'opinione
fosse ereticale; al magistrato secolare l'avverar il fatto, e dare la
sentenza.

Così procedette la cosa nel declino dell'impero occidentale; così
continuò in Oriente. Ma fra noi, dopo l'invasione, se accadeva di punire
un violamento di leggi ecclesiastiche, i vescovi usavano quell'autorità
mista di sacro e di secolare, che ad essi era stata attribuita, e
talvolta ancora, considerando l'eresia come politica disobbedienza, la
reprimevano colla forza, siccome dicemmo aver fatto Eriberto arcivescovo
di Milano.

Ridesto il diritto romano, come alla tirannia, così vi si trovò appoggio
alle persecuzioni contro i miscredenti, poco ricordando che la legge
d'amore aveva abolita quella fiera legalità. L'imperatore Ottone III
poneva Gazari e Patarini al bando dell'impero e a gravi castighi.
Federico Barbarossa, tenuto congresso a Verona con papa Lucio III nel
1184, ordinò ai vescovi[97] d'informarsi per sè o pei loro delegati
delle persone accusate d'eresia, distinguendo i convinti, i pentiti, i
ricaduti; quelli convinti sieno spogliati dei benefizj se religiosi, e
abbandonati al braccio secolare; i sospetti si purghino, ma se ricadano,
vengano puniti senz'altro. Federico II, al tempo della sua coronazione
fulminò pene temporali contro gli eretici, e le ripetè da Padova con
quattro editti, ove, «usando la spada che Dio gli ha concesso contro i
nemici della fede», vuole che i molti eretici ond'è singolarmente
infetta la Lombardia, sieno presi dai vescovi e dati alle fiamme
ultrici, o privati dell'organo della lingua.

È questa la prima legge moderna di morte contro i miscredenti: e veniva
da un re accusato di enormi eresie dai contemporanei, e dai moderni
offerto modello di liberalismo antiecclesiastico. Egli stesso fece da
papa Onorio III rimproverare le città lombarde per averlo impedito di
procedere, come si era proposto, contro l'eresia[98]: all'arcivescovo di
Magdeburgo, legato in Lombardia, impose di usar il massimo rigore[99]; e
l'ordinò nelle _Costituzioni del regno di Sicilia_, dolendosi, che dalla
Lombardia, ove n'era il semenzajo, i Patarini fossero largamente
penetrati in Roma e perfino nella Sicilia[100] e a perseguitarli spedì
l'arcivescovo di Reggio e il maresciallo Ricardo di Principato. Nè men
severi editti fece Ottone IV[101]; da cui Giacomo vescovo di Torino,
sgomentato dell'aumentarsi de' Valdesi fra le Alpi, ottenne ampia
facoltà di espellerli dalla sua diocesi[102]. Sull'esempio e
coll'autorità dei decreti imperiali, le varie città emanarono statuti
contro gli eretici.

Questi aveano per centro Tolosa; e già potemmo vedere come impugnassero
la giustizia, la proprietà, la famiglia, la facoltà di punire, insomma i
fondamenti della società. Come nemici della società consideravansi
dunque, e Federico II, nella succennata costituzione, che passò nel
diritto comune per quasi tutta Italia, ordina a' suoi uffiziali
d'investigare contro gli eretici, anche senza denunzia e sopra sospetti
per quanto leggieri, ponendo l'eresia fra i delitti pubblici (_inter
cætera publica crimina_); anzi lo giudica più orribile che la lesa
maestà: e fin agli ecclesiastici comanda di esaminare se vi avesse
offesa anche contro un solo articolo di fede: _a viris ecclesiasticis et
prælatis examinari jubemus_.

Eresia era titolo che applicavasi a qualunque errore. Si sa che, nella
dieta di Roncaglia, Martin Gosia definì che l'imperatore è non solo
signore di tutto il mondo, ma anche di tutte le cose de' particolari. Or
bene, il famoso Bartolo non solo adottò quella sentenza, ma dichiarò
eretico chi credesse altrimenti.

L'eresia era dunque civilmente delitto: e Luca di Penna, per dirne uno
dei cento, dichiara «il misfatto d'eresia esser massimo e pubblico, per
offendere la maestà divina, e conturbare l'unità della Chiesa: aversi in
esso a procedere per inquisizione, e quelli che da' giudici
ecclesiastici son dichiarati rei, se non s'accusano e ritornano in seno
della Chiesa, siano dichiarati eretici, e consegnati al giudice
secolare, che deve bruciarli e incamerarne i beni, come nel misfatto di
maestà».

Da questi mali volendo Innocenzo III sbrattare la vigna di Cristo, spedì
monaci a predicare, esortando i principi a secondarli; e quando Ranerio
e Guido inquisitori avessero scomunicato uno, i signori doveano
confiscargli i beni e sbandirlo, e far peggio a chi resistesse. Di qui
cominciò la crociata contro gli Albigesi, che non è da questo luogo il
raccontare, ma dove la religiosa serviva di mantello alla quistione di
nazionalità. La Francia, smaniando ottenere quell'unità, che molti
agognano oggi a qualsiasi costo anche per l'Italia, voleva sottomettere
la Provenza e la Linguadoca, che avvezze alle romane, repugnavano dalle
ordinanze germaniche del paese settentrionale, e quell'occasione sembrò
opportuna. La spedizione fu segnalata dagli orrori delle guerre civili e
dello stato d'assedio, ma solo gli adulatori dei re potrebbero
riversarne ogni colpa sul papa e sulla religione. Oggimai la storia
accertò che Innocenzo, mal informato delle iniquità commesse da ambe le
parti, non avea mai cessato di predicar pace e moderazione, e dopo che i
crociati ottennero vittoria, spedì legato _a latere_ il cardinale Pietro
di Benevento, affinchè riconciliasse colla Chiesa gli scomunicati, e
riducesse Tolosa a repubblica indipendente, purchè convertita dagli
errori anticristiani e antisociali; assolse i capi dell'insurrezione, e
al figlio di quel Raimondo da Tolosa ch'era stato principale capo della
guerra, prodigò consolazioni, assegnò il contado Venesino, Beaucaire e
la Provenza, e ripeteva: «Abbi pazienza fin al nuovo concilio».

Sotto i papi succeduti, la guerra fu proseguita colla ferocia delle
nazionali, finchè la Provenza restò sottoposta affatto al re di Francia.
Questo re era san Luigi, e al nuovo acquisto volle accomunare i
provedimenti che vegliavano in Francia, dove l'eresia, secondo il
diritto comune, era considerata delitto contro lo Stato, e punita del
fuoco. Romano, cardinale di Sant'Angelo, raccolse un concilio, dove si
stabilì che i vescovi nominerebbero in ciascuna parrocchia un sacerdote
con due o tre laici, per _inquisire_ gli eretici, e farli noti ai
magistrati; punito chi ne celasse alcuno; distrutta la casa dove uno
fosse côlto.

Sono i fieri ordinamenti coi quali si svelle la ribellione, e pur troppo
li vediamo e li deploriamo oggi stesso minacciati e applicati, nel
meriggio dell'ostentata civiltà, e per cause assai meno certe, in questa
povera Italia.

Il tribunale dell'inquisizione fu dunque una corte speciale in paese
sovvertito da lunga guerra e da rinascenti sollevazioni. Invece delle
precedenti stragi armata mano, e dei consigli di guerra senza diritto di
grazia, l'Inquisizione era esercitata da ecclesiastici, gente più
addottrinata e meno fiera; ammoniva due volte prima di procedere; solo
gli ostinati e recidivi arrestava; riceveva al pentimento chiunque
abjurasse, e spesso contentavasi di castighi morali; col che salvò
moltissimi, che i tribunali secolari avrebbero condannati. Gregorio IX
poi, ad istanza del famoso teologo Rajmondo de Pegnaforte, la sistemò
col togliere ai vescovi la processura, e riservarla ai frati, che così
all'uffizio di combattere colla parola gli eretici unirono quello di
farli ricredenti o castigarli. Al priore de' Domenicani in Lombardia il
papa dirigeva la bolla _Ille humani generis pervicax inimicus_,
costituendolo esecutore contro gli eretici[103]. Dappoi Innocenzo IV,
con editto del 1251 da Brescia, ripartì le provincie fra Domenicani e
Francescani, a questi la Toscana, a quelli la Lombardia, la Marca
Trevisana, la Romagna, dando ai provinciali podestà d'istituire
inquisitori apostolici dapertutto, fuor della Sicilia ove n'aveano
privilegio i re: il vescovo dovea aver parte nel giudizio; le comunità
pagare le spese: e in XXXI capitoli, dappoi modificati perchè trovarono
reluttanza ne' magistrati, si diedero norme a tutti i rettori, i
consigli, i comuni per consolidar esso tribunale.

I frati costituivano una specie di giurati, circolanti al modo delle
assisie, e che aveano giurisdizione su tutti i laici, non esclusi i
dominanti, ed anche sul basso clero. Arrivato in una città,
l'inquisitore convocava i magistrati; e li facea giurare d'eseguire i
decreti contro gli eretici, ed ajutare a scoprirli e coglierli; se
alcuno renuisse, poteva sospenderlo e scomunicarlo, e mettere
all'interdetto la città. Le denunzie, che non poteano essere anonime,
aveano effetto soltanto quando il reo non si presentasse di voglia;
scorso il termine, era citato; e i testimonj interrogavansi
coll'assistenza dell'attuaro e di due ecclesiastici. L'istruzione
preparatoria riusciva sfavorevole? gl'inquisitori ordinavano d'arrestar
l'accusato, più non protetto da privilegi od asili. Cólto che fosse,
nessuno più comunicava con esso, faceasi la visita della sua casa, e il
sequestro de' beni.

Appoggiavasi l'inquisizione al diritto civile: e nella _Maestruzza_[104]
è definito: «Secondo la legge, indovinatori e malefici dee essere a loro
mozzo il capo, s'ei vi caggiono: e se eglino vanno a casa altrui; debbon
essere arsi: e i loro beni debbono essere messi in comune. Ma secondo la
Chiesa, gli è tolta la comunione, se egli è notorio; ma se egli è
occulto, imponsegli penitenza di quaranta dì» (cap. 42). Degli
indovinatori e sortilegi gl'inquisitori non possono e non debbono
intromettersi, se già manifestamente non temessero alcuna resia. Coloro
che ricaggiono nella resia di prima, la quale avevano negata, si debbono
mettere nelle mani della signoria secolare (cap. 91).

La colpa dunque era civile, la Chiesa non facea che mitigar la pena,
poichè i pentiti assolveva, anche i recidivi procurava riguadagnare.
L'inquisitore dovea dichiarare che l'accusato fosse veramente eretico, e
quindi non più appartenente alla Chiesa: da quel punto diveniva reo di
Stato: e lo Stato non eseguiva la sentenza dell'inquisizione, ma
applicava la pena stabilita dalla legge.

Una costituzione di Celestino III e d'Innocenzo III, accolta nel
_Diritto Canonico_[105], distingue le procedure per accusa secondo il
codice romano, quelle per denunzia, quelle per inquisizione; ma in tutte
sono pubblicate le testimonianze, ammesse le difese e il dibattimento.
Gli eretici dunque, giudicati secondo la legge canonica, poteano
conoscere i testimonj e l'accusatore, aver un consiglio, e pubblico
dibattimento. Solo quando lo stabilirsi dei principati sminuiva la
pubblicità, propria del medioevo, Bonifazio VIII dispensò gl'inquisitori
da tante formalità qualunque volta ne derivasse pericolo ai
testimonj[106]: Innocenzo VI, dichiarando che tal pericolo può
presumersi sempre, generalizzò la riserva, e di qui venne la procedura
secreta, per quanto vi ostassero i legisti e la nobiltà e gli uomini
comuni, che si trovavano esposti all'arbitrio. Piantato un tribunale,
potea sperarsi disforme dagli altri del suo tempo? onde vi si videro
rinnovate tutte le sevizie de' processi di Roma pagana, e il cavillo, e
la tortura, e supplizj esacerbati. San Tommaso trova legittima in tali
casi fin la pena capitale[107]. Ma la Chiesa, sebbene siasene valsa come
d'una legittima difesa e d'una prevenzione contro mali gravissimi, non
approvò mai, almeno in concilio, un'istituzione siffatta.

Fin dal nascere non mancò da fare all'Inquisizione in Italia. La
vicinanza del papa, e l'esservi egli anche principe temporale, incitava
a resistergli; e ne' conflitti di Guelfi e Ghibellini vedemmo mettersi
in discussione l'autorità di lui, passando, come troppo è facile, dalla
mondana alla spirituale. I Comuni aveano acquistato la libertà
strappandola ai vescovi, sicchè restava sminuita la riverenza a questi,
e in molte lettere i pontefici ne muovono querela alle nostre
repubbliche, le quali anche non di rado violarono e i possessi e le
persone degli ecclesiastici.

Uscente il XII secolo, Orvieto formicolava di Manichei, introdotti dal
fiorentino Diotisalvi, e da un Girardo di Marsano; e diceano che il
sacramento dell'eucaristia nulla rappresenta, il battesimo non occorre
alla salvezza; non giovasi ai morti con limosine ed orazioni. Espulsi
costoro dal vescovo, comparvero Melita e Giulita, uomini e donne
seducendo con aspetto di santità, finchè il vescovo, col consiglio di
canonici, giudici ed altri, ne esigliò ed uccise molti. Un Pier Lombardo
vi capitò poi da Viterbo, contro del quale Innocenzo III deputò Pietro
da Parenzo, nobile romano, che ricevuto fra ulivi e palme, proibì i
combattimenti carnevaleschi che finivano in sangue; ma poichè gli
eretici stimolarono a disobbedire, il primo giorno di quaresima si
mischiò fiera zuffa, e Pietro fece abbattere le torri, donde i grandi
aveano tirato sul popolo, ed emanò buoni provvedimenti. A Pietro
tornato, il papa domandò: — Come hai bene eseguiti gli ordini nostri?

— Così bene, che gli eretici mi cercano a morte.

— Dunque va, persevera a combatterli, chè non possono uccidere se non il
corpo; e se t'ammazzeranno, io ti assolvo d'ogni peccato.

E Pietro, fatto testamento e congedatosi dalla desolata famiglia,
ritornò[108].

Contro i molti Manichei di Viterbo Innocenzo mosse in persona, rimbrottò
i cittadini che tra quelli sceglievano i consoli, ed ordinò che,
qualunque fosse trovato sul patrimonio di san Pietro, fosse consegnato
al braccio secolare per castigarlo, e i beni divisi fra il delatore, il
comune e il tribunale giudicante[109]. D'altri abbiamo ricordo in
Volterra, dove gl'inquisitori, a malgrado del vescovo, atterrarono
alcune case d'eretici in Montieri[110].

Bandi severissimi contro Catari e Patarini e d'altro nome novatori,
pubblicò Gregorio IX, in qualità di sovrano di Roma e ad istanza di
questa città, volendo fossero mandati al fuoco, o, se si convertivano, a
carcere perpetuo; e guai a chi li raccogliesse o non li denunziasse.
Molti in fatto furono arsi, molti chiusi a penitenza nei monasteri di
Montecassino e della Cava[111]. Dei rimanenti si fece diligente
inquisizione, per cura di Annibaldo, capo del senato[112]; in presenza
del quale e del popolo, molti preti e cherici e laici, affetti di questa
lebbra, furono condannati; sopra testimonj e confessione propria.
L'editto di Gregorio IX fu poi ampliato da Innocenzo IV e Alessandro IV,
infine da Nicola III contro tutti gli eretici, e inserito nel diritto
canonico[113]. Il senato romano pubblicò varj capitoli, pei quali il
senatore doveva ogni anno diffidare i Catari, Patarini, Poveri di Lione,
Passagini, Giosefini, Arnaldisti, Speronisti e d'altro nome, e i loro
ricettatori, e fautori, e difensori: gli eretici côlti si devano
detenere, e otto giorni dopo condannati dalla Chiesa, punire: i loro
beni pubblicare, dandone una parte a chi li prese o rivelò, una al
senatore, una per restaurare le mura: dove teneano le congreghe facciasi
un mondezzajo; siano distrutte in perpetuo le loro case e di coloro che
da essi ricevettero l'imposizione delle mani; quegli che conoscendoli
non li riveli, sia multato in venti libbre; quei che loro diano ricetto,
perdano la terza parte dei beni, e la seconda volta siano espulsi di
città, nè possano citar alcuno in giudizio, nè esser assunti ad
impieghi, o ad atto legittimo qualsia.

In Milano fu posto _che qualunque persona a sua libera volontà potesse
prendere ciascun eretico; le case ove eran ritrovati si dovessero
rovinare, e i beni che in esse si trovavano fossero pubblicati_[114].
Enrico di Settala, arcivescovo di essa città, allora istituito
inquisitore, _jugulavit hæreses_, come lo loda il suo epitaffio; ma i
cittadini lo discacciarono. Vedesi ancora in Milano la statua equestre
di Oldrado da Trezzeno podestà, encomiato nell'iscrizione perchè
_Catharos ut debuit uxit_[115]. Nel 1303, al 1 novembre, i popolani di
Sesto Calende si univano, e nominavano due sindaci o procuratori, i
quali ricevessero le abjure di qualunque eresia o credenza, favore o
asilo o difesa prestata a eretici di qualunque sètta; e a giurar
sull'anima loro e di tutti quei del paese d'osservare la fede cattolica,
e perseguitare gli eretici credenti e i loro fautori[116].

Come ricettatore d'eretici fu assalito il conte Egidio di Cortenova nel
Bergamasco, e smantellatone il castello per istanza d'Innocenzo IV.

A Brescia operavano così sfacciati, che dissacravano chiese, e dalle
torri fortificate scagliando fiaccole ardenti, scomunicavano la Chiesa
romana e chi ne seguisse le dottrine. Contro di loro, papa Onorio III
inviò il vescovo di Rimini, il quale abbattè molte chiese da essi
contaminate, e le torri dei Gàmbara, degli Ugoni, degli Oriani, dei
Bottazzi, ch'erano stati i più violenti, con ordine che rimanessero
sempre mucchi di rovine, a ricordanza del fatto: le torri di quelli che
aveano infellonito in minor grado, fossero diroccate fino a metà o ad un
terzo, nè più si elevassero se non col consenso della Chiesa apostolica:
gli scomunicati per tali azioni, eretici fossero o loro fautori, non
venissero assolti se non presentandosi alla sede apostolica, salvo che
in articolo di morte[117].

Altri in Piacenza bruciò il podestà Raimondo Zoccola; sessanta a Verona
frà Giovanni da Schio in tre giorni, subito dopo aver riconciliate le
osteggianti città italiane nella famosa pace di Paquàra.

Nè il Napoletano mancava d'eretici, ed è probabilmente come protesta
contro le costoro predicazioni che un eremita calabrese andava attorno
gridando nel dialetto patrio: _Benedittu, laudatu e santificatu lu
Patre; benedittu, laudatu e santificatu lu Filiu; benedittu, laudatu e
santificatu lu Spiritu Santu_[118]. Dal registro angioino a Napoli si
trassero dianzi due diplomi: coll'uno del 1269, dato da Orvieto il
penultimo di maggio, Carlo d'Anjou scrive ai conti, marchesi, baroni,
podestà, consoli, conti, e chiunque abbia potere e giurisdizione,
esortandoli che, venendo i frati Predicatori di Francia come inquisitori
in Lombardia e in altre parti d'Italia, per investigare gli eretici e
quelli che per eresia dalle terre di Francia fuoruscirono, vogliano
ajutarli in tal ricerca, e renderli sicuri.

Coll'altro ai giustizieri, balii, giudici, maestri giurati ed altri
ufficiali e fedeli nel regno di Sicilia annunzia che frà Benvenuto
dell'ordine de' Minori, inquisitore, mandava i familiari suoi Regebato e
Jacobuccio a prendere alcuni eretici dimoranti nel suo regno: perciò a
loro requisizione vogliano coglierli, coi beni stabili e mobili, e
custodirli in luogo sicuro; i beni fedelmente conservino a utile della
curia reale; e di quanto staggiranno facciano fare quattro istromenti
simili, di cui uno terranno essi, uno daranno al depositario, un terzo
alla camera reale, il quarto ai ragionieri della gran curia. Seguono i
nomi degli eretici: Marco Pietro Neri, Regale de Monte, Gilia di
Montesano, Giovanni Bictari, Bigoroso, Bonadio del Regno, Bencivenga di
Vecchialana, Verde figlia di Guido Versati, Fiore di Colle Casale,
Benvenuto Malyen d'Acquapendente, Migliorata sua moglie, Sabbatina detta
Bona, maestro Matteo tessitore e Alda sua moglie, Giovanni Orso, Angelo
Orso di Guardia Lombarda, Vitale Maria sua moglie, Bernarda e Bernardo
suo marito, Gualterio provinciale, Bernardo calzolajo, Bernarda sua
moglie, Raimondo di Napoli, Pietro di Majo di San Germano, Benedetto
calderario, Pietro Malanotte e Maria sua moglie, e Maria loro figlia,
Salvia e Nicolao figlio di lei, Benedetto fratello di Salvia, Bona sua
figlia, Salvia di Rocca magnifico, Giudice Rainaldo, Giudice Guarino,
Bojano Capocia, Pietro Giannini e Guglielmo suo fratello, Giraldo Bonomo
di Odoriso, Giacobo Gerardone, Giovanni Mundi, Tommaso di Giovanni
Guarnaldi di Ferrara, Pietro Bictari nipote di Giovanni Bictari,
Margarita moglie del fu Zoclofo, Domino di Ferrara, Sibilla sua cognata
di Melfi, mastro Matteo tessitore, Alda sua moglie, mastro Mauro
mercante di Casalvere, Matteo Giovanni Golie, Giovanni e Gemma suoi
figli, Soriana, Matteo Maratono, Gemma sua donna, Binago di Alifia,
maestro Manneto di Venafro, Nicola fratello di Jacobo, Maria madre sua
di Bojano, Guglielmo d'Isernia, Sergio, Margarita sua moglie di San
Massimo, Viatrice sua figlia, Roberto figlio di Ugone suddetto, Giacomo
Ricco, mastro Rainaldo Scriba, Canapadula di Rieti figlio, Samuele di
San Sibato, Corrado Tetinico che dicesi stia a Foggia, Benvenuto Jazeo e
sua moglie che dimora presso San Martino, e stavano in Alifia.

Il decreto è dato nell'assedio di Lucera, il 12 agosto 1269.

Ivone da Narbona scriveva a Gerardo arcivescovo di Bordeaux, come,
viaggiando in Italia, e' si finse Cataro, lo perchè in tutte le città
ebbe lietissime accoglienze; e «a Clemona, città celebratissima del
Friuli, ebbi squisiti vini da' Patarini, robiole, ceratia ed altri
lachezzi»[119]. Costoro aveano per vescovo un tal Pietro Gallo, che
scoperto di fornicazione, fu cacciato di seggio e dalla società.

Contraddisse vivamente all'errore Antonio da Lisbona, il taumaturgo di
Padova, che a nome della religione e dell'umana libertà protestò contro
Ezelino, il quale professava aver più paura de' frati Minori che di
qualsiasi persona al mondo. Singolarmente in Rimini sant'Antonio
combattè gli eretici, non solo colla parola, ma coi miracoli. Perocchè
una volta, dice la legenda, non badandogli gli uomini, furono veduti i
pesci venir su per la Marecchia, e a bocca aperta collocarsi ad
ascoltarlo; un'altra, un giumento, da lungo tempo digiuno, si prostrò
davanti all'ostia consacrata, benchè il padrone patarino gli porgesse il
truogolo dell'avena.

Martello degli eretici fu detto san Tommaso d'Aquino, che nella _Summa
theologica_ espose tutti gli argomenti contro gli errori di essi, come
dicemmo: nè men fervoroso apparve san Bonaventura. Contro gli eretici di
Prato aveva proferito sentenza il vescovo di Worms, legato
dell'imperatore Enrico VI nel 1194[120], confiscandone i beni, ordinando
di disajutarli in ogni modo, e vietando di dar loro consiglio od ajuto,
nè di mettere ostacolo a lui quando li facesse carcerare. Nel resto
della Toscana troviam pure nominati fra gli eretici Guido da Cacciaconte
di Cascia in Valdarno; il prete del Ponte a Nieve, Migliore da Prato,
uno di Poggibonzi, due donne di Poppi, Andrea di Fede, una Meliorata con
suo padre Albese, un'altra fiorentina. Gherardo, dottore e cavaliere di
Firenze, fu scoperto eretico solo allorchè, morendo, non volle attorno a
sè che Patarini.

A Firenze, come negli altri Comuni, v'erano statuti _de hæreticis
diffidandis et baniendis; omnes hæreticos cujuscumque hæresis diffidare
et exhaurire debeant rectores civitatis, etc_. La prima e la seconda
domenica dell'avvento, il vescovo, celebrando in Santa Reparata, solea
richiedere i rettori della città che perseguitassero e sbandissero gli
eretici. E vescovo dal 1205 al 1230 vi fu Giovanni da Velletri, il
quale, vedendo propagarsi l'eresia, pensò ripararvi seriamente, e fece
catturare alcuni che si tenevano celati. Costoro vescovo era Filippo
Paternon, che avea fatto di molti proseliti. Gregorio IX papa, nel 1227,
ordinò a frà Giovanni da Salerno, compagno di san Domenico e priore di
Santa Maria Novella, che procurasse l'arresto del Paternon: il quale
côlto, abjurò i suoi errori, ma ben presto tornò ai conciliaboli, e la
potenza de' suoi settarj lo assicurava d'impunità. Quando la prudenza il
consigliò a mutar paese, gli furono surrogati nel ministerio Torsello,
indi Brunetto, infine Jacopo da Montefiascone, che, con un Marchisiano e
con un Farnese, da prima gli servivano di ministri. Farnese predicava
cogli occhi chiusi come chi dorme, ed asseriva che egli e i compagni
suoi talvolta in abiti preziosissimi assistevano alla maestà divina.
Contemporaneamente a frà Giovanni, il vescovo di Siena Bonfili ricercava
gli eretici nella sua diocesi, ajutato da altri Domenicani.

Il nuovo vescovo di Firenze Ardingo Feraboschi fece contro i Patarini,
varj decreti confermati da Gregorio IX, e vide stabilita regolarmente
nella sua città l'Inquisizione, con tribunale nel convento di Santa
Maria Novella, e pubblici notari. Frà Ruggero de' Calcagni, uscito da
famiglia di mercanti in Vachereccia, ne fu primo inquisitore, ed eresse
processo nel 1243, per trovare l'origine, il seguito e l'estensione di
tanto male, e servendosi dei processi fatti già prima in convento,
principiò cause terribilissime, e fin allora non più sentite nella
città. Il tribunale per lo più si teneva in quel monastero, e alle volte
nel luogo di Santa Reparata, assistendovi sempre l'inquisitore, il
priore di Santa Maria Novella, e due o tre altri frati de' principali.
Citavano i rei a comparire, sotto intimazione, prima di pena pecuniaria,
poi di censure: ed un'infinità d'eretici sì uomini come donne bisognò
venissero ad esibirsi, perchè i signori di palazzo da lettere papali
erano stati obbligati a dare i rei nelle mani degli ecclesiastici, onde
non v'era campo di poter esentarsene[121]. In fatto, Pietro e Andrea
furono mandati a Roma, ove abjurarono.

Non per questo cessavano gli eretici, e Gherardo di Ranieri Cavriani,
figlio d'eretico, davasi attorno apostolando, e spesso tornava in
Lombardia, e andava nelle case a dar la consolazione ai morenti. Altri
caporioni erano Baron del Barone e Pulce di Pulce, famiglia calabrese,
appoggiati dalla fazione imperiale, e secondati dai Cavriani, da Chiaro
di Manetto, da Cante di Lingraccio, da Uguccione di Cavalcante, dalle
famiglie Saracini e Malapresa, e da molte signore, fra cui Teodora
moglie del Pulce, un'Aldobrandesca, una Contrelda, un'Ubaldina erano
sempre le prime a dar impulso alle collette apertesi a favore de' poveri
e de' predicanti.

I quali insegnavano che Maria non era donna, ma un angelo: che Cristo
non prese carne da lei; che non si trovano il corpo e il sangue sacro
nell'eucaristia. Teneano loro adunanze in Firenze nella casa del
Manetto, del Lingraccio, e massime de' Baroni, che, come rilevanti
dall'impero, rimanevano esenti dalla giurisdizione comunale, e che
edificarono una torre a San Gaggio, fuor di città, apposta per ricettare
gli eretici; oltrechè aveano conciliaboli in una villa sul Mugnone. Frà
Ruggero, unito a frate Aldobrandino Cavalcanti, ne fe carcerare
alquanti; ma i Baroni, gelosi delle loro immunità, per forza li
rimessero in libertà. Con ciò venne la città a dividersi in due fazioni,
una avversa, l'altra favorevole all'Inquisizione, e bande prezzolate
insultavano per la via i fautori di questa e i Domenicani.

I Serviti, ordine allor allora istituito sul monte Senario, che prima
per la straordinaria pietà erano sospettati eretici, vennero ad
obbedienza dell'inquisitore, faticandosi a ribattere gli eretici; al che
valse pure il miracolo che allora si divulgò, d'Uguccione prete di
Sant'Ambrogio presso Firenze, il quale, detta messa, non asciugò bene il
calice, e al domani vi si trovò sangue vivo.

De' processi allora eretti, alcuna cosa fu pubblicata dal Lami, e parte
si conserva nell'archivio di Stato fra le carte di Santa Maria Novella,
e di là traemmo le notizie che precedono[122]. Le deposizioni sono la
maggior parte di donne, e principalmente di Lamandina Pulce, avversa
agli eretici quanto v'erano propense le sue consanguinee. Non appare vi
si usasse tortura, e quando l'esortazione uscisse inutile, i rei
venivano abbandonati al braccio secolare.

Il papa, che aveva confortato la Signoria a conservar forza alle leggi,
per appoggio inviò frà Pietro da Verona. Questi era nato da genitori
patarini, e resosi domenicano, spiegò zelo straordinario contro gli
eretici in Lombardia. Di là trasferitosi a Firenze nel 1244, predicava
nella piazza di Santa Maria Novella, la quale trovandosi angusta alla
folla accorrente per udirlo, ad istanza di lui fu fatta ampliare dalla
Signoria. Istituì egli la società de' Laudesi, che cantava Maria e il
Sacramento, quasi a sconto degli oltraggi dei Patarini.

Ma questi, non che rimanessero allibiti, opponevano la forza; lo perchè
Pietro sistemò alquanti nobili, che volonterosi si esibivano per guardia
al convento dei Domenicani, ed altri che eseguissero i decreti di
questi: donde originò la «sacra milizia dei capitani di Santa Maria».

Sulla facciata dell'uffizio del Bigallo, rimpetto a San Giovanni, due
sbiaditi affreschi di Taddeo Gaddi figurano il miracolo di quando un
cavallo infuriato si lanciò contro le turbe che ascoltavano la predica,
ma passò sovra le loro teste senza nuocere ad alcuno; ed esso Pietro,
quando a dodici nobili fiorentini consegna lo stendardo bianco colla
croce rossa per tutela della fede: il quale stendardo conservasi in
Santa Maria Novella, e si spiega nel giorno di quel santo.

Crebbero allora processi ed esecuzioni, e varie donne di Poppi furono
messe a morte. Frà Ruggero citò al suo tribunale i Baroni, i quali,
dichiarando quelle esecuzioni inumane ed illegali, s'appellarono
all'impero: e il podestà Pace da Pesannola, bergamasco, li tolse in
tutela, protestando contro le sentenze, e intimando si rilasciassero i
detenuti. Perciò dagli inquisitori fu messo con solennità
all'interdetto, onde ne nacque parte e tumulto: una domenica nel 1245,
mentre i fedeli ascoltavano la predica nella cattedrale, gli eretici gli
assalgono e feriscono: Pietro si pone alla testa de' suoi; sono di
sangue contaminate piazza Santa Felicita e il Trebbio, finchè i
Cattolici riescono superiori. La croce del Trebbio rammenta anche oggi
quel macello; e vuolsi che allora cominciasse l'uso di porre croci e
madonne sui crocicchi, onde tosto vedere chi le dileggiasse o riverisse.

Segnalato per tanto zelo, Pietro muove a farne prova sui Cremonesi e sui
Milanesi, i quali, esacerbati dalle battaglie mal riuscite contro
Federico II, bestemmiavano il Cielo, insultavano ai riti, e sospendevano
capovolti i crocifissi. Cominciò egli le processure; e predicando a
Milano sulla piazza di Sant'Eustorgio diceva: «So che gli eretici hanno
tramato la mia morte; che è già depositata la somma onde retribuire il
sicario. Sia quel che vogliono, s'accorgeranno ch'io farò contro loro
dopo morte più che non facessi da vivo». In fatto Stefano de'
Confalonieri di Agliate e Manfredi da Olirone congiurarono, e lo fecero
uccidere mentre il sabato _in albis_ passava da Milano a Como. Egli
trafitto intrise il dito nel proprio sangue, scrisse per terra _credo_,
e spirò[123]. Subito venerato col nome di Pietro Martire, ebbe un tempio
sul luogo dove cadde, e in Sant'Eustorgio a Milano una magnifica arca,
ch'è uno dei primi monumenti della scultura, con epitafio scritto da san
Tommaso:

    _Præco, lucerna, pugil Christi, populi, fideique_
    _Hic silet, hic tegitur, jacet hic mactatus inique_
    _Vox ovibus dulcis, gratissima lux animorum,_
    _Et verbi gladius, gladio cecidit Catharorum, etc._

D'egual moneta aveano i Patarini pagato frà Rolando da Cremona, mentre
sulla piazza di Piacenza predicava: Pietro d'Arcagnago, frate Minore,
scannato in Milano presso Brera per opera di Manfredo da Sesto,
caporione de' Patarini lombardi, con Roberto Patta da Giussano; frà
Pagano da Lecco, trucidato coi compagni mentre andava a stabilire
l'Inquisizione in Valtellina, e così altri. Nel 1279, avendo
gl'inquisitori condannata al fuoco una tedesca in Parma, i cittadini
insorsero, saccheggiando il convento de' Domenicani, alcuni anche
ferendone, talchè essi a croce alzata partirono. Ma il podestà e gli
anziani e i canonici li seguirono, e gl'indussero a tornare, promettendo
rifarli dei danni e punire gli offensori[124].

A san Pietro Martire successe come inquisitore in Lombardia frà Ranerio
Saccone, che più volte menzionammo, il quale spianò la Gatta, ritrovo
degli eretici, e fece bruciare i cadaveri di due loro vescovi, Desiderio
e Nazario, tenuti in venerazione; nè si rallentò finchè Martin Torriano,
signore del popolo, nol fe cacciare.

A Milano poco dopo comparve una Guglielmina, che diceasi oriunda di
Boemia e di stirpe regia, e che, a guisa de' Montanisti, non ammetteva
Cristo come ultimo termine del progresso morale e religioso, ma come un
progresso, che doveva essere sorpassato da una nuova missione: in lei lo
Spirito Santo essersi incarnato per redimere Giudei, Saracini e mali
Cristiani: averla Rafaele arcangelo annunziata a sua madre Costanza,
moglie del re di Boemia, il dì della Pentecoste: nata un anno dopo
quell'annunciazione: era vero Dio e vero uomo nel sesso femminile, come
Cristo nel maschile, e dal sacrosanto suo sangue resterebbero salvati i
miscredenti: come Cristo, secondo la natura umana, non secondo la
divina, dovea morire, risorgere, e alla presenza de' discepoli e dei
devoti salire al cielo per elevare l'umanità femminile. Quanto visse, il
popolo la venerò; morta nel 1282, fu tumulata splendidamente a
Chiaravalle, casa de' Cistercensi presso Milano, e tenuta in conto di
santa, e il suo sepolcro frequentato da devoti, illuminato giorno e
notte da ceri e lampade, e vi si celebravano tre feste annue, a san
Bartolomeo, all'Ognisanti e a Pentecoste, distribuendosi da que' monaci
pane e vino in commemorazione di lei, della quale si enumeravano la
virtù e i miracoli: e ceri ardevano davanti alla effigie di essa,
dipinta in Santa Maria Maggiore, in Santa Eufemia, alla Canonica e
altrove.

Come Cristo lasciò in terra san Pietro per suo vicario, affidandogli da
reggere la Chiesa, così la Guglielmina lasciò vicaria sua nel mondo
Mainfreda, monaca dell'ordine delle Umiliate di Santa Caterina in Brera.
Essa teneva adunanze de' fedeli, predicava, componeva litanie; e la
Pasqua del 1299, vestitasi d'abiti pontificali come altre compagne,
celebrò una messa in casa di Jacopo da Ferno, ove Albertone da Novate
recitò l'epistola, e Andrea Saramita una lezione di vangelo da lui
composto. Tempo verrebbe ch'essa Mainfreda più solennemente celebrerebbe
sul sepolcro dello Spirito Santo incarnato; indi nel duomo di Milano,
poi in Roma predicherebbe dalla sede apostolica; diverrebbe vera
papessa, colle autorità del pontefice odierno, il quale sarebbe abolito
e surrogato dalla Mainfreda, che battezzerebbe le genti ancor sedute
nelle tenebre. I quattro vangeli darebbero luogo a quattro altri, stesi
per ordine della Guglielmina. Il visitar la tomba di questa era
meritorio come il visitar quella di Cristo, onde da tutte le plaghe
s'accorrerebbe a Chiaravalle, ma i seguaci di essa sarebbero esposti a
tormenti e supplizj; non mancherebbe qualche Giuda che li tradisse, e li
desse nelle mani de' nemici, cioè dell'Inquisizione.

Tali opinioni vulgari apparvero dai loro processi[125], dai quali non
risultano però le turpitudini di che sono imputate queste deliranti; che
la Guglielmina rompesse a vergognoso commercio con Andrea Saramita; che
la Mainfreda, al termine delle congreghe, comandasse di spegnere i lumi,
e abbandonarsi senza distinzione di persone o di sesso. Fatto è che,
sparsesi tali voci, il vulgo, colla consueta versatilità, mutò il culto
in esecrazione, gl'inni in bestemmia, e l'Inquisizione colse la
Mainfreda, il Saramita, Jacopo da Ferno ed altri (20 luglio 1300), e ne
cominciò il processo. Jacopo abjurò; la Mainfreda e il Saramita furono
mandati al rogo sulla piazza della Vetra, il 6 d'agosto, insieme colle
reliquie della Guglielmina.

In Milano si formò poi un Ordine che pretendeva esser equestre,
intitolato della fede di Gesù Cristo, o della croce di san Pietro
martire: portavano una croce inquartata di nero e bianco; obbligavansi
ad esporre anche la vita per la diffusione della fede e la distruzione
dell'eresia, e realmente non erano che familiari della santa
Inquisizione. Forma eguale adopravasi da altri nelle diocesi d'Ivrea e
di Vercelli; e v'aveva indulgenze e privilegi a quei che crociavansi tra
costoro[126].

Inquisizione è una delle tante parole, attorno a cui suol levarsi tale
rumore, da impedire s'oda la voce del tempo; ma anche spogliata delle
esagerazioni, desta giusto raccapriccio o rammarico ad ogni buon
cristiano. Quanto narrammo non ci lascia dire cogli scrittori
dell'Enciclopedia francese, che l'Inquisizione di Spagna trascese
«nell'esercizio d'una giurisdizione, in cui gl'Italiani suoi inventori
usarono tanta dolcezza». Vero è che, oltre essere all'unisono co' tempi,
ed assai meno orribile, che non si sparnazzi dai soliti organi
passionati e di malafede, essa proponevasi un fine morale, a differenza
della Polizia moderna che sottentrò nelle sue veci, dalla quale si
procede e castiga spesso nell'interesse d'un principe, o per mantenere
un dominio costituito sulla forza o sull'intrigo: se restringeva il
pensiero, facealo, o credea farlo, per salvezza delle anime, non per
mero vantaggio d'un potere, d'un ministero, d'una consorteria dominante:
nè quegli spaventi tolsero che sorgessero grandi e robusti pensatori.
Noi avremo a riparlarne quand'essa diventerà un organo importante delle
società nuove: intanto avvertiamo come oggi di nuovo si risveglino
quelle antiche dottrine a proclamare la comunanza de' possessi,
l'abolizione della proprietà e dell'organamento civile: e la società
costituita arma tre milioni d'uomini in Europa contro siffatte teoriche,
le quali allora denominavansi eresie. Domandiamo se ciò deva
qualificarsi intolleranza; e se il secolo che così adopera possa
maledire a quelli che fecero altrettanto: e non comprendere che
l'odierna libertà della bestemmia non potè acquistarsi che
coll'introdurre altre feroci repressioni, eserciti innumerevoli,
tirannesche Polizie.

L'intolleranza è per avventura inseparabile dalle profonde credenze; e
la fede suppone l'esclusione di ciò che da essa differisce. Quando poi
la fede è considerata come il necessario legame fra i cittadini, chi la
intacca lede la società. L'Inquisizione proferì la pena di morte: ma la
proferiscono anche i nostri giurati. Le pene odierne sono destinate a
far rispettare istituzioni stabilite: e così era per quelle
dell'Inquisizione, verso istituzioni che la coscienza avea consacrate, e
che difendeansi pel diritto che alla società non si negò giammai. Forse
la repressione ci desta fremito perchè il delitto era religioso? Ma il
diritto positivo è meramente convenzionale; la sua autorità dipende
dalla confidenza che ispira. Oggi si puniscono colpe differenti; ma ciò
prova solo che gl'interessi sociali non sono sempre identici: quelli
d'oggi hanno il vantaggio d'esser attuali; quelli d'allora lo svantaggio
d'esser passati. Benediciamo Iddio d'averci fatti vivere in tempi,
quando ogni vero cattolico professa altamente la tolleranza, che non è
la parificazione della verità coll'errore, bensì l'applicazione della
carità nel mondo del pensiero, e che esclude l'intervenzione della forza
nell'ordine spirituale, neppure a servizio della verità.


NOTE

[97] _Ad abolendam diversarum hæresum pravitatem quæ in plerisque mundi
partibus modernis cœpit temporibus pullulare, vigor debet ecclesiasticus
excitari, etc_. LABBE, _Concilia_, tom. X, pag. 1737.

[98] Ap. RAYNALDI _ad ann._ 1226, n. 26.

[99] _Fredericus Magdeburgensi archiepiscopo, comiti Romaniolæ, et
totius Lombardiæ legato, dilecto principi suo gratiam suam, et omne
bonum_.

_Cum ad conservandum pariter, et fovendum Ecclesiasticæ tranquillitatis
statum ex commisso nobis imperii regimine defensores simus a Domino
constituti, non absque justa cordis admiratione perpendimus, quod
hostilis invaleat hæresis, proh pudor! in partibus Lombardiæ, quæ plures
inficiat. Eritne igitur dissimulandum a nobis, aut sic negligenter
agemus, ut contra Christum, et fidem catholicam ore blasphemo insultent
impii, et nos sub silentio transeamus? Certe ingratitudinis et
negligentiæ nos arguet Dominus, qui contra inimicos suæ fidei nobis
gladium materialem indulsit, et plenitudinem contulit potestatis.
Quapropter in exterminium, et vindictam actorum sceleris tam nefandi,
complicum et sequacium hæreticæ pravitatis, quocumque nomine censeantur,
utriusque juris auctoritate moniti, dignos motus nostri animi
exercentes, præsenti edictali constitutione nostra, in tota Lombardia
inviolabiter de cætero valitura, duximus faciendum, ut quicumque per
civitatis antistitem vel diœcesanum, in qua degit, post condignam
examinationem fuerit de hæresi manifeste convictus, et hæreticus
judicatus per potestatem, consilium et catholicos viros civitatis, et
diœcesis earundem, ad requisitionem antistitis illico capiatur,
auctoritate nostra ignis judicio concremandus, ut vel ultricibus flammis
pereat, aut, si miserabili vitæ ad coercitionem aliorum elegerint
reservandum, eum linguæ plectro deprivent, quo non est veritus contra
ecclesiasticam fidem invehi, et nomen Domini blasphemare. Ut autem
præsens hæc edictalis constitutio nostra debeat in hæreticorum
exterminium firmiter observari, circumspectioni tuæ committimus,
quatenus hanc constitutionem nostram per totam Lombardiam facias
publicari, amodo per imperialis banni censuram ab omnibus universaliter
observandam. Dat. Cathaniæ, anno Dominicæ Incarnationis MCCXXIV, mense
martii, undecimæ indictionis_.

[100] Constitutio _Inconsutilem_: Const. _de receptoribus_, Lib. I. Il
professore Höffler a Monaco pubblicò (_Kaiser Friedrich II, ein Beytrag
u. s. w._ 1844) alcune nuove lettere di Federico II, fra cui la seguente
a papa Gregorio IX, relativa all'inquisizione ereticale:

_Celestis altitudo consilii, que mirabiliter in sua sapientia cuncta
disposuit, non immerito sacerdotii dignitatem et regni fastigium ad
mundi regimen sublimavit, uni spiritualis et alteri materialis conferens
gladii potestatem, ut hominum hac dierum excrescente malitia, et humanis
mentibus diversarum superstitionum erroribus inquinatis, uterque
justitie gladius ad correctionem errorum in medio surgeret, et dignam
pro meritis in auctores scelerum exerceret ultionem... Quia igitur ex
apostolice provisionis instantia, qua tenemini ad extirpandam hereticam
pravitatem, potentiam nostram ad ejusdem heresis exterminium precibus et
monitionibus excitatis; ecce ad vocem virtutis vestre, zelo fidei quo
tenemur ad fovendam ecclesiasticam unitatem gratanter assurgimus,
beneplacitis vestris devotis affectibus concurrentes; illam diligentiam
et sollicitudinem impensuri ad evellendum et dissipandum de predictis
civitatibus pestem heretice pravitatis, ut, auctore Deo, cui gratum inde
obsequium prestare confidimus, ac vestris coadjuvantibus meritis, nullum
in eis vestigium supersit erroris, ac finitimas et remotas quascumque
fama partes attigerit, inflicta pena perterreat, et omnibus innotescat
nos ardenti voto zelare pacem Ecclesie, et adversus hostes fidei ad
gloriam et honorem matris Ecclesie ultore gladio potenter accingi. Dat.
Tarenti XXVIII febr. indict. IV_.

In un'altra lettera, esso Federico insiste con nuovo fervore per la
repressione degli eretici. _Ut regi regum, de cujus nutu feliciter
imperamus, quanto per eum hominibus majora recipimus, tanto
magnificentius et devotius obsequamur, et obedientis filii mater
Ecclesia videat devotionem ex opere pro statu fidei christiane, cujus
sumus, tamquam catholicus imperator, precipui defensores, novum opus
assumpsimus ad extirpandam de regno nostro hereticam pravitatem, que
latenter irrepsit tacite contra fidem. Cum enim ad nostram audientiam
pervenisset, quod, sicut multorum tenet manifesta suspicio, partes
aliquas regni nostri contagium heretice pestis invaserit, et in locis
quibusdam occulte latitant erroris hujusmodi semina rediviva, quorum
credidimus per penas debitas extirpasse radices, INCENDIO TRADITIS quos
evidens criminis participium arguebat; providimus ut per singulas
regiones justitiarias cum aliquo venerabili prelato de talium statu
diligenter inquirant, et presertim in locis, in quibus suspicio sit
hereticos latitare omni sollicitudine discutiant veritatem. Quidquid
autem invenerint, fideliter redactum in scriptis, sub amborum
testimonio, serenitati nostre significent, ut per eos instructi, ne
processu temporis illic hereticorum germina pullulent, ubi fundare
studemus fidei firmamentum, contra hereticos, et fautores eorum, si qui
fuerint, animadversione debita insurgamus. Quia vero supradicta vellemus
per Italiam et Imperium exequi, ut sub felicibus temporibus nostris
exaltetur status fidei christiane, et ut principes alii super his
Cesarem imitentur; rogamus beatitudinem vestram quatenus ad vos, quem
spectat relevare christiane religionis incommodum, ad tam pium opus et
officii vestri debitum exequendum diligentem operam assumatis, nostrum
si placet efficaciter coadjuvandum propositum, ut de utriusque sententia
gladii, quorum de celesti provisione vobis ac nobis est collata
potentia, subsidium non dedignatur alternum, hereticorum insania
feriatur, qui in contemtum divine potentie extra matrem Ecclesiam de
perverso dogmate sibi gloriam arroganter assumunt. Messine XV jul.
indict. VI_.

[101] _Item statuimus et perpetuo sancimus, quod omnia eorum mobilia et
immobilia publicentur; et domus quæ nunc destructæ sunt, et eorum domus
in quibus steterint vel ante recepti fuerint, vel se congregaverint,
destruantur et ulterius non liceat alicui eas reædificare_.

[102] _Late patet Dei clementia, qui, pulso infidelitatis errore,
veritatem fidei suis fidelibus patefecit: justus enim ex fide vivit, qui
vero non credit, jam judicatus est. Nos igitur, qui gratiam fidei in
vanum non recipimus, omnes non recte credentes, qui lumen fidei
catholicæ hæretica pravitate in imperio nostro conantur extinguere,
imperiali volumus severitate punivi, et a consortio fidelium per totum
imperium separari; præsentium tibi auctoritate mandantes, quatenus
hæreticos Valdenses et omnes qui in Taurinensi diœcesi zizaniam seminant
falsitatis, et fidem catholicam alicujus erroris seu pravitatis doctrina
impugnant, a toto Taurinensi episcopatu imperiali auctoritate expellas;
licentiam enim, auctoritatem omnimodum, et plenam tibi conferimus
potestatem, ut, per tuæ studium sollicitudinis, Taurinensis episcopatus
area ventiletur, et omnis pravitas, quæ fidei catholicæ contradicit,
penitus expurgetur_. Ap. GIOFFREDO, Storia delle Alpi Marittime al 1229.

[103] LABBE, T. XI, p. 334, 335.

[104] La _Maestruzza_ è una _Somma_, detta anche _Pisanella_ perchè
fatta da frà Bartolomeo da San Concordio, che serviva ad uso dei
Domenicani, e tratta de' sacramenti e de' comandamenti. La volgarizzò D.
Giovanni dalle Celle.

[105] Cap. XXXI _De Simonia_; cap. XXIV _De Accusationibus_.

[106] Cap. fin. _De Hæreticis_.

[107] _Multo gravius est corrumpere fidem, per quam est animæ vita, quam
falsare pecuniam, per quam temporali vitæ subvenitur. Unde, si falsarii
pecuniæ vel alii malefactores statim per sæculares principes justæ morti
traduntur, multo magis hæretici statim ex quo de hæresi convincuntur,
possunt non solum excommunicari, sed et juste occidi_. S. THOMAS, _Summa
theologica_, 2ª, quaestio XI, art. 3.

[108] BOLLAND., tom. X, _Vita S. Petri Parens_.

[109] _Regesta_, num. 123, 124, e pag. 130, lib. X.

[110] GIACHI, _App. alle ricerche storiche di Volterra_.

[111] RICHARDUS, _Chron. ad 1231_. RAYNALDI, _ad ann. n. 13_.

[112] _Capitula Annibaldi senatoris et Populi Romani edita contra
Patarenos_. Nel c. 123 si comanda che _Hæretici, videlicet Cathari,
Patareni, Pauperes de Lugduno, Passagni, Josephini, Arnaldistes,
Speronistæ et alii cujuscumque hæresis nomine censeantur, singulis annis
a senatore diffidentur_.

Nella vita di Cola Rienzi: «Gridavano come se fao, ha, ha, ha, a lo
Patarino». Dappoi il legato scomunica Cola, appellandolo patarino e
fantastico.

Anche gli Spoletini in guerra coi Fulignati, gridavano: _Moriantur
Patareni, Gibellini_. MURATORI, _Antiquitates Italicæ_, T. III, p. 499,
507, 143, ecc.

[113] _Noverit Universitas vestra, quod nos excommunicamus et
anathematizamus universos hæreticos Catharos, Patarenos, Pauperes de
Lugduno, Passaginos, Josephinos, Arnaldistas, Speronistas, et alios
quibuscumque nominibus censeantur, facies quidem habentes diversas, sed
caudas ad invicem colligatas, qua de vanitate conveniunt in idipsum.
Damnati vero per Ecclesiam, sæculari judicio relinquantur,
animadversione debita puniendi, clericis prius a suis ordinibus
degradatis. Si qui autem de prædictis, postquam fuerint deprehensi,
redire voluerint ad agendam condignam pœnitentiam, in perpetuo carcere
detrudantur. Credentes autem eorum erroribus, similiter hæreticos
judicamus. Item receptatores, defensores, et fautores hæreticorum
excommunicationis sententiæ decernimus subjacere. Similiter statuentes,
ut si, postquam quilibet talium fuerit excommunicatione notatus, si
satisfacere contempserit infra annum, ex tunc ipso jure sit factus
infamis; nec ad publica officia, seu consilia, nec ad eligendos aliquos
ad hujusmodi, nec ad testimonium admittatur. Sit etiam intestabilis, nec
testamenti habeat factionem, nec ad hæreditatis successionem accedat.
Nullus præterea ipsi super quocumque negotio, sed ipse aliis respondere
cogatur. Quod si forte judex extiterit, ejus sententia nullam obtineat
firmitatem: nec causæ aliquæ ad ejus audientiam perferantur. Si fuerit
advocatus, ejus patrocinium nullatenus admittatur. Si tabellio,
instrumenta confecta per ipsum nullius penitus sint momenti, sed cum
auctore damnato damnentur, et in similibus idem præcipimus observari. Si
vero clericus fuerit, ab omni officio, et beneficio deponatur. Si qui
autem tales, postquam ab Ecclesia fuerint denotati, evitare
contempserint, excommunicationis sententia percellantur, alias
animadversione debita puniendi. Qui autem inventi fuerint sola
suspicione notabiles, nisi juxta considerationem suspicionis,
qualitatemque personæ, propriam innocentiam congrua purgatione
monstraverint, anathematis gladio feriantur, et usque ad satisfactionem
condignam ab omnibus evitentur; ita quod, si per annum in
excommunicatione perstiterint, tunc velut hæretici condemnentur. Item
proclamationes, aut appellationes hujusmodi personarum minime audiantur.
Item judices, advocati et notarii, nulli eorum officium suum impendant,
alioquin eodem officio perpetuo sint privati. Item Clerici non exibeant
hujusmodi pestilentibus ecclesiastica sacramenta: nec eleemosynas, aut
oblationes eorum recipiant: similiter Hospitalarii, aut Templarii, aut
quilibet regulares; alioquin suo priventur officio, ad quod nunquam
restituantur absque indulto Sedis Apostolicæ speciali. Item quicumque
tales præsumpserint ecclesiasticæ tradere sepulturæ, usque ad
satisfactionem idoneam excommunicationis sententiæ se noverint
subjacere, nec absolutionis beneficium mereantur, nisi propriis manibus
publice extumulent, et projiciant hujusmodi corpora damnatorum, et locus
ille perpetuo careat sepultura. Item firmiter inhibemus, ne cuiquam
laicæ personæ liceat publice vel privatim de fide catholica disputare:
qui vero contra fecerit, excommunicationis laqueo innodetur. Item si
quis hæreticos sciverit, vel aliquos occulta conventicula celebrantes,
seu a communi conversatione fidelium vita et moribus dissidentes, eos
studeat indicare confessori suo, vel alii, quem credat ad prælati sui et
inquisitorum hæreticæ pravitatis notitiam pervenire: alioquin
excommunicationis sententia percellatur. Hæretici autem, et
receptatores, defensores et fautores eorum, ipsorumque filii usque ad
secundam generationem, ad nullum ecclesiasticum beneficium, seu officium
admittantur; quod si secus actum fuerit, decernimus irritum et inane.
Nos enim prædictos ex nunc privamus beneficiis acquisitis, volentes ut
tales et habitis perpetuo careant, et ad alia similia nequaquam in
posterum admittantur. Illorum autem filiorum emancipationem hujusmodi,
ad invium superstitionis hæreticæ, a via declinasse constiterit
veritatis.

Datum Viterbii, pontificatus nostri anno IX_.

[114] RAYNALDI, ad 1231. — CORIO, _Storia di Milano_, part. II, f. 72.

[115] Per _ussit_: è in piazza de' Mercanti. Ma Galvano Flamma, frate e
cronista di retto senso, dice: _In marmore super equum residens sculptus
fuit, quod magnum vituperium fuit_. Il Frisi, nelle _Memorie di Monza_,
vol. II, 101, reca gli statuti dell'arcivescovo Leon da Perego e
dell'arciprete di Monza contro gli eretici.

[116] Documenti diplomatici degli Archivj milanesi.

[117] _Quia in civitate Brixiæ, quasi quodam hæreticorum domicilio, ipsi
hæretici et eorum fautores nuper in tantam vesaniam proruperunt, ut
armatis turribus contra catholicos, non solum ecclesias quasdam
destruxerint incendiis et ruinis, verum etiam, jactatis facibus
ardentibus ex eisdem, ore blasphemo latrare præsumserint quod
excommunicabant romanam ecclesiam et sequentes doctrinam ejusdem;
volumus et mandamus ut turris dominorum de Gambara, et turris Ugonum,
turris quoque Orianorum, et turris filiorum quondam Botatii, de quibus
specialius et vehementius ad insanias hujusmodi est processum, diruantur
omnino, et usque ad terræ pulverem detrahantur; non reædificandæ de
cætero absque Sedis Apostolicæ licentia speciali, sed in acervos lapidum
ad memoriam et testimonium pœnæ tantæ vesaniæ tantique criminis
permansuræ: atque in eadem damnatione sint turres quæ sunt ob causam
hujusmodi jam destructæ. Aliæ vero turres, quarum domini, etsi ad tanti
furoris rabiem non processerint, eas tamen contra catholicos munierunt,
usque ad tertiam partem, vel usque ad mediam, pensatis excessuum
quantitatibus, diruantur, nec eleventur de cætero, nisi, etc. Nullus
autem eorum qui nominatim excommunicati sunt hac de causa, sive sint
hæretici, sive ipsorum fautores, absolutionis beneficium assequatur,
nisi personaliter ad apostolorum sedem accesserit, excepto mortis
articulo, etc_. HONOR., lib. IX, ep. 146.

[118] RICARDI S. GERMANI _Chron. ad ann. 1232_.

[119] Ap. MATTIA PARIS _ad 1243_.

[120] _Venientes Pratum, pro facto D. Imperatoris, bona Paterinorum et
Paterinarum ibi morantium fecimus publicari, et domos eorum fecimus
subverti et destrui, ponentes firmum bandum et mandatum ex parte D.
Imperatoris, quicumque pratensium vel de districtu aliquid Paterinorum
vel Pater Plinarum in domo sua receperit, consilium vel auxilium in
verbo vel in facto eis dederit, et si potuerit eum capere et non
ceperit, et si nuntio D. Imperatoris in hac parte aliquo modo
contradixerit, vel et pro posse non obediverit, condemnamus eum in
centum libras pisanorum, etc_.

[121] P. DOMENICO MARIA SANDRINI, _Vita di frà R. Calcagni_, ms.

[122] Convien dire che le carte del Sant'Uffizio siano andate nel
vescovado o a Roma, perocchè l'archivio di Stato contiene soltanto poche
tra quelle che furono di Santa Maria Novella e di Santa Croce. Di Santa
Maria Novella, del 1245 ve n'ha diciannove, dove varj Consolati
confessano avere a bella posta disturbato le prediche de' frati:
esistono pure le sentenze contro Pace e Barone, pronunziate in piazza di
Santa Maria Novella, e fra i testimonj incontrasi Pietro da Verona.

[123] A Forlì si venera il beato Marcolino, che pretendesi sia stato
l'uccisore di Pietro da Verona, e che dappoi si convertì. Pochi anni
dopo, frà Tommaso domenicano, facendone il panegirico, disse che san
Francesco avea ricevuto le stimmate da Dio morto; ma san Pietro da Dio
vivo. Tal proposizione mise in subbuglio i Francescani contro i
Domenicani, e fu riprovata da papa Nicolò IV.

[124] _Chronicon Parmense_, nei _Rerum It. Scriptores_ IX.

[125] Esistono nella Biblioteca Ambrosiana, e il Puricelli ne formò una
dissertazione, che mai non fu pubblicata.

[126] Vedi P. GIOVANNI MARIA CANEPANO domenicano, _Scudo inespugnabile
de' cavalieri di Santa Fede_.



DISCORSO VI.

MISTICI. L'EVANGELIO ETERNO.


Mentre costoro traviavano per abuso della ragione, e alla rivelazione e
all'autorità opponeano la negativa e l'indagine, altri erravano per
abuso del sentimento, col che accenniamo alle sètte mistiche e
comuniste. Il misticismo, cioè l'apprezzar la natura delle cose divine e
dei loro rapporti colle umane piuttosto secondo il sentimento che
secondo la ragione, fino a presumere di mettersi in diretta relazione
col mondo soprasensibile, senza tener conto della materia e dei mezzi
ordinarj di conoscere, deriva da uno degli elementi della natura umana,
la fede; che non trovandosi soddisfatta da argomenti, maledice e tenta
annichilare il corpo e il pensiero, per cercare riposo nella
contemplazione delle cose superne; stornasi dalla terra, ch'è nostro
asilo d'un giorno, per attendere la morte, svolgendo intanto le pagine
del libro de' cieli.

Di siffatte aspirazioni è nido e sede l'Oriente, e massime l'India, ove
Dio è il riposo, mentre per noi è l'attività (_actus purissimus_); è un
principio, sovrastante agli esseri che governa con azione continua; idea
conforme agli istinti d'una gente, ove la volontà dirige perfino
l'intelligenza.

Il cristianesimo che diede il concetto del Dio personale, e nel culto
sostituì le idee alle passioni e ai loro emblemi fisici, non restò però
sempre immune dagli eccessi del misticismo, e la religione di Budda
v'influì forse ne' suoi primordj, e viepiù nelle crociate, in tempo
delle quali sorgono e i Templari e san Francesco[127], nel quale si
riscontrano tante somiglianze coi pii solitarj dell'India, nobilitate è
vero da un amore disinteressato e operoso.

E mistici ebbe in ogni tempo il cattolicismo, ma all'età appunto delle
crociate si segnalò sopra tutti Gioachimo da Cosenza in Calabria.
Educato alla corte di Ruggero duca di Puglia, pellegrinato in
Terrasanta, ivi passò un'intera quaresima fra gli anacoreti del Monte
Tabor, con fervorosissima pietà. Rimpatriato (1183), si vestì
cistercense nel monastero di Corazzo, poi ottenne dispensa dall'uffizio
per poter darsi tutto alla meditazione della Bibbia, e ad istanza dei
papi scrisse varie opere teologiche. Aspirando a maggior rigore di vita,
a Flora, fra l'Albula e il Neto nei recessi della Sila, fondò una
celebre badia, alla quale diede una regola più austera, approvata da
Celestino IV, ed estesa a molti conventi. Udendo da lontano le vicende
del mondo, intendendole e spiegandole a suo modo e coll'esaltazione
causata dal digiuno e dalle discipline, esponeva concetti profetici nel
tono dell'Apocalissi, i quali erano raccolti dal monaco Ranieri, unico
suo compagno, e in forma di salmi erano mandati pel mondo, accolti
coll'avidità, onde ne' momenti critici si aspira a prevedere una
decisione[128]. Per queste profezie, che san Tommaso comprendea derivar
piuttosto da acuto discernimento che da lume soprannaturale, fu venerato
e creduto; Riccardo Cuor di leone, movendo per la crociata, andò a
consultarlo; Costanza imperatrice volle confessarsi da lui; persin
Federico II colmò di beni la sua badia, dove visse sino al 1201. Fu
censurato dal concilio lateranese del 1215 per alcune opinioni sulla
Trinità in opposizione a Pietro Lombardo[129], ma egli avea chiesto un
esame di tutti i suoi scritti, e dichiarò ritrattare quanto se ne
disapprovasse.

E molti sono questi scritti: la _Concordia del nuovo coll'antico
Testamento_; _sulla Sibilla Eritrea e sul profeta Merlino_; il _Salterio
delle dieci corde_, o _commento a Geremia, Isaia ed altri profeti_.
Carattere di questi lavori era la giustificazione non solo, ma la
glorificazione della vita monastica, alla quale dava il sembiante d'una
rinnovazione sociale, preordinata dalla Providenza. E diceva: «Iddio
divise il mondo in tre epoche successive; nella prima, il Padre opera
per mezzo de' patriarchi e profeti; nella seconda, il Figlio opera per
mezzo degli apostoli e discepoli; nella terza, lo Spirito Santo opererà
per mezzo dei frati».

Era naturale che que' libri fossero accolti passionatamente dai
Minoriti; ricopiati, interpretati, esagerati, discuteansi in pubblico;
ebbero apostoli di grido, come Ugo di Montpellier, Rodolfo di Sassonia,
e si giunse a dichiarare che il Nuovo Testamento non avea condotto alla
perfezione; che Gesù Cristo non era imitabile quando fuggì o si nascose,
quando bevve vino e mangiò carni, quando possedette denaro; primo dovere
dell'uomo spirituale essere la povertà volontaria.

Ciò veniva a condannare i possessi ecclesiastici, dal che facilmente si
passava ad abolire la gerarchia e le funzioni sacerdotali. Monaci non
ascritti ad alcun ordine, vagavano per Italia predicando l'umiltà e la
povertà, come fossero sufficienti a costituir l'uomo in una santità,
quale basta per conferire i sacramenti, e sciogliere e legare.

Sebbene l'abate Gioachimo non avesse prefisso tempo all'adempimento
delle sue profezie, da' suoi testi, stiracchiati ad applicazioni
attuali, si dedusse che il 1260 sarebbe predestinato pel nuovo regno di
Dio; Federico II morrebbe; l'anticristo comparirebbe, immediato
predecessore della nuova epoca religiosa. Federico anticipò di dieci
anni la morte, ma l'inadempimento delle profezie non basta a
disingannare; più tardi esse servirono ai necromanti, e alcune corrono
finora, credute da coloro che ne aspettano l'adempimento. Gioachimo, chi
lo fa santo, e «di spirito profetico dotato», chi impostore, chi
mentecatto; ma dee figurare nella storia come capo del misticismo, sceso
poi a Giovanni da Parma, a Gerardo da san Donnino, a Ubertino da Casale,
a frà Dolcino, e ai mistici tedeschi.

A questa scuola molti Francescani furono tratti dal disprezzo delle cose
terrene e dall'amor delle soprasensibili, ch'appariva tanto pronunziato
nel loro fondatore. La regola del quale imponeva tali austerità, che
alcuni la sentenziarono d'impossibile e micidiale. Guglielmo di
Sant'Amore e Sigerio, dottissimi scolastici di Parigi, scrissero e
sporsero a papa Clemente IV un libello contro la povertà dei Mendicanti;
ed egli lo trasmise al maestro Giovanni da Vercelli perchè, ponderatolo,
vi facesse rispondere da Tommaso d'Aquino. Dalla confutazione di questo
appare che ai frati già s'imputavano le colpe che più tardi: colpe che
costituivano il merito loro in faccia al popolo; come il vestir
grossolano, le opere di carità, il predicar vulgare, lo stretto accordo
dei membri fra loro, l'opporsi ai settarj e sostenere il proprio Ordine;
oltre che all'intero Ordine s'attribuivano i difetti di qualcuno.

Dappoi papa Nicolò III, che personalmente aveva conosciuto san
Francesco, e da cui eragli stata vaticinata la tiara, credette dovere
spiegare che i frati Minori erano tenuti osservare il vangelo, vivendo
in obbedienza, in castità, in povertà: lo spossessamento totale per Dio
esser meritorio; averlo Cristo insegnato colla parola, confermato
coll'esempio, e gli apostoli ridotto in pratica: ciò facendo, i
Francescani non rendeansi suicidi, nè tentavano Dio, giacchè, pur
confidando nella Providenza, non ripudiavano i mezzi suggeriti dalla
prudenza umana[130].

Alla pontifizia decisione si chetarono gli avversarj, ma tra i Minoriti
alcuni ne trassero motivo d'un misticismo fanatico, da una parte
asserendo che la regola di san Francesco fosse il vero vangelo,
dall'altra che la spropriazione doveva essere così totale, che fin delle
cose necessarie alla vita non avessero che il mero uso.

Pier Giovanni d'Oliva, di Serignan in Linguadoca, fatto francescano a 12
anni, predicò siffatta dottrina, per disapprovare le condiscendenze di
frà Matteo d'Aquasparta, generale de' Francescani, che aveali lasciati
rilassare, e per raffaccio alla Chiesa, ricca e mondana, cui i Minoriti
erano destinati a rigenerare[131]. Gli avversarj lo tacciarono d'esser,
nel suo zelo, trascorso in eresie: di che il Wadding, annalista dei
Minori, vuol purgarlo: ma Giovanni XXII condannò come pregne d'eresie le
sue chiose all'Apocalisse, scritte verso il 1278. Pure ottenne
venerazione come santo da molti proseliti, che professavano poter l'uomo
giungere a tale perfezione da ridursi impeccabile, e conseguire la
beatitudine in questa vita come nell'eterna.

Federico II, sempre malvolto alla Santa Sede, accolse i costui seguaci
perseguitati, che in Sicilia presero a capo Enrico di Ceva, professando
sempre che la Chiesa era divenuta una sinagoga, lupo il suo pastore, e
sovrastare una riforma.

Tra i dibattimenti avendo alcuno asserito che Gesù Cristo nè i suoi
apostoli, via di perfezione seguitando, nulla aveano in proprietà, la
proposizione fu rejetta dai Domenicani e da altri, e invece sostenuta
dai Francescani, e nominatamente in un capitolo generale a Perugia. E
poichè la costoro regola diceasi vera applicazione del vangelo, tornava
sott'altra apparenza il medesimo concetto dell'assoluta spropriazione.
Non era che un eccesso d'ascetismo, ma gli avversarj ne profittavano per
impugnare i possessi della Chiesa; onde la proposizione fu condannata da
papa Nicola IV. I Minori spedirono frà Bonagrazia di Bergamo per
dimostrarla al papa, con lettera di frà Michelino da Cesena, maestro
generale dell'Ordine, e si ostinarono nella loro opinione anche dopo che
il papa proferì contro di essi. Michele, chiamato ad Avignone, ove
allora il papa risedeva, esitò ad andarvi, poi subito ne fuggì, e
apostatando ricovrossi all'imperatore. Questi era Lodovico il Bavaro,
che era venuto in rotta con papa Giovanni XXII perchè negava
riconoscerlo, e dichiarava l'Italia sottratta dall'imperiale
giurisdizione, in modo che non potesse essere incorporata nè infeudata
all'impero (1324). A vicenda l'imperatore proferiva scaduto il
pontefice, chiamandolo con titoli ingiuriosissimi, e invitando giuristi
e teologi a scatenarsi contro la Corte pontifizia. I frati Minori
restarono dunque avversissimi alla facoltà teologica di Parigi e al
papa, che in un capitolo tenuto a Perugia il 1322 dichiararono eretico.
Frà Michelino contro il papa scrisse libercoli, e commentò beffardamente
le bolle di esso in un libro, che poi, per divulgarlo, compendiò ad
istanza di Lodovico il Bavaro, dove sosteneva potersi, anche senza
decisione del Concilio, dichiarare il papa scaduto ed eretico. Fu egli
scomunicato da' suoi frati e dal papa: ma colla protezione imperiale,
alcuni suoi seguaci erano penetrati in Firenze, e vi teneano segrete
adunanze notturne: onde si fece uno statuto contro quella «pessima
generazione che volea condire la falsa dottrina col mele di nomi in
apparenza favorevoli e religiosi, per ingannare meglio i semplici»[132].

Il famoso pittore Giotto scrisse contro di loro una canzone, che
comincia,

    Molti son già che lodan povertade;

Guido Cavalcanti, filosofo e poeta, amico di Dante, ne toccò in una
canzone, dicendo:

    O povertà, come tu sei un manto
    D'ira, d'invidia e di cosa diversa!

e Antonio Pucci, in due sonetti ne punse l'ipocrisia:

    Vera cosa è che non toccan denari,
    E 'nsaccherebber con le cinque dita.
                        Non mangian carne
    Sopra il taglier, perchè non sia veduta,
    Se fosse in torta o in tondo battuta,
    Sicuramente allor posson mangiarne;

e il beato Giovanni da Catignano scriveva a Guido di Neri fiorentino:
«Altro non dico ora se non che ti guardi da questi membri d'anticristo,
cioè questi Fraticelli eretici, i quali già molta gente hanno ingannata
e ingannano tuttodì».

A papa Celestino V, che inclinava al viver cenobitico, mandarono
Liberato e Pietro da Macerata, chiedendogli licenza di vivere con tutto
il rigore e dove volessero senza contraddizione, ed esso gli autorizzò a
costituirsi in nuova congregazione, detta degli Eremiti Celestini. Poi
riconosciuti per esagerati, presero abito e capi particolari, quali
Pietro da Macerata e Pietro da Fossombrone, cui s'unì il rifiuto di
tutti i conventi: e massime per la diocesi di Pisa e tra i monti del
Vecchiano e di Calci, seguivano vita rigorosissima, alla Chiesa
visibile, ricca, carnale, peccaminosa, contrapponendone una frugale,
povera, virtuosa; e dicendo che neppure il papa potrebbe concedere ai
Francescani di possedere granajo e cantina[133]. Seguirono quelle
dottrine Corrado da Offida, Pietro da Monticolo, Tommaso da Treviso,
Corrado da Spoleto.

Tali quistioni insinuarono ne' Minoriti uno spirito di sottigliezza,
contrario all'intento tutto pratico del loro fondatore; e ne pullulavano
altre quistioni, a dir poco, oziose: se la regola astringesse sotto pena
di peccato mortale o soltanto veniale; se obbligasse ai consigli del
vangelo quanto ai precetti; se alle ammonizioni quanto ai comandi: dal
che facilmente si passò a sofisticare sul decalogo e sul vangelo; ed
oltre la disputa sempre accesa sull'immacolata concezione di Maria,
un'altra ne ebbero coi Domenicani, se il sangue di Cristo, uscito nella
passione, restasse non per tanto ipostaticamente unito al Verbo.

Il papa aveva concesso ai Francescani conventuali di possedere; ed ecco
i Fraticelli negano ch'esso abbia diritto di interpretare la regola di
san Francesco, e che il vero sacerdozio essi soli possedevano; ad essi
l'autorità di sciogliere e legare, e d'impor le mani per infondere lo
Spirito Santo; Dio solo doversi venerare; la preghiera esser più
efficace quando facciasi in assoluta nudità; condannavano il lavorar per
vivere, prendendo per fondamento la _libertà dello spirito_, diceano,
unito questo a Dio, non si può più peccare, come neppur crescere nelle
virtù: le quali massime conduceano al quietismo.

Tutti costoro e le Beghine, e i Beguardi o Bizzoccheri, e gli Zelanti, e
i Fanciulli del vangelo van compresi nella sètta dei Fraticelli della
povera vita, Frati spirituali, che ebbe per canone il Vangelo Eterno, e
considerava per suo istitutore l'abate di Flora Gioachimo. Si elessero
anche un papa, e non v'è scelleraggine che a costoro non trovisi
imputata. In fatto intaccavano i cardini della fede e della giustizia, e
sono una forma antica del comunismo, e il resistere e la superbia che
facilmente nasce dall'austerità eccessiva, li portarono a farsi
accanniti detrattori della Santa Sede. Sta nella Biblioteca Palatina di
Firenze un manoscritto senza titolo, opera d'un seguace de' Fraticelli,
certo posteriore a Giovanni XXII, dov'è esposta la costoro dottrina.
«Quella di che nell'articolo della fede si dice: _Io credo nella santa
Chiesa Cattolica_, nota bene che dice _santa_, a differenza di quella
che non vive santamente, anzi viziosamente. _Cattolica_ dice, a
differenza di quella che erra nella fede e buoni costumi. _Una_ dice, a
differenza della Chiesa de' malignanti ed eretici..... La fede innanzi a
tutte le altre cose si debbe cercare. Nella quale Chiesa, o Cristo ci è
abitatore o no. Se Cristo ci abita, quella debb'essere eletta per
abitazione: se non ci abita, o che il popolo fosse perfido ed iniquo,
ovvero che lo comandatore, cioè il prelato, fosse eretico, o che
deformasse o guastasse l'abitazione della Chiesa di Cristo, allora
debb'essere schifata, e come partecipazione di eretici, come sinagoga di
satanasso si debbe fuggire». E dopo rimproverato Giovanni XXII «falso
papa che aprì il pozzo dell'abisso di molte eresie», conchiude di
«cercare ed entrar nell'arca di Noè, cioè seguitare e cercare quelli
pochi di san Francesco, e la sua dottrina evangelica, a ciò che possiate
campare da siffatto diluvio di questi falsi religiosi, perseguitatori e
distruttori della vita evangelica». Potrebbe farsi un bel libro notando
gli errori sociali che, in ogni tempo e paese, si mescolarono agli
errori religiosi: il che darebbe il motivo di molte persecuzioni, che
realmente colpivano l'errore sociale, più che il dogmatico.

Papa Giovanni XXII condannò i Fraticelli, riflettendo che «Così va la
cosa, che primamente gonfiasi l'infelice animo per superbia; quindi,
nella disputa, dalla disputa nello scisma, dallo scisma nell'eresia,
dall'eresia nella bestemmia con infelice progresso, anzi precipizio si
cada». Per tal ragione egli attirossi le diatribe di molti scrittori,
che vollero sin farlo passare per eretico; e saviamente egli rifletteva
che «gran cosa è la povertà, più grande la castità, ma superiore
l'obbedienza[134]». Bonifazio VIII li combattè vigorosamente, e perchè
poco poi furono anche aboliti i Templari, giudicò taluno che ai papi
dessero ombra gli Ordini monastici che aspiravano a dominazione
spirituale o temporale. È però forza dire che Bonifazio favoriva i
Francescani; li sottrasse alla giurisdizione dei vescovi, per sottoporli
ai loro priori, i quali poteano giudicarne senza stare alle prescrizioni
del diritto, ma secondo le costituzioni dell'Ordine: e confermò la Bolla
_Mare Magnum_, in cui eransi compendiati tutti i loro privilegi, e diede
ad essi autorità di predicare dapertutto, anche senza permissione del
vescovo. Ciò poco piaceva a vescovi e parroci.

Quanto ai Fraticelli, proferitili eretici nella famosa bolla _Nuper ad
audientiam_, dichiarando che il papa ha autorità di sciogliere e legare,
li fece processare e perseguitare da frà Matteo di Chieti,
principalmente negli Abruzzi e nella Marca d'Ancona. Da ciò l'odio
mortale ch'essi posero a quel papa, e se alcuni limitaronsi a dirne
tutto quel male che poi la storia pedestre adottò e che fu immortalato
da Dante, altri passarono fino ad eleggere un altro papa: e cinque
Fraticelli sacerdoti e tredici Beghine elessero un Dedodicis, frate
provenzale, aizzando il popolo contro Bonifazio come eletto
illegalmente, attesochè l'abdicazione di papa Celestino non valeva. Essi
ricovrarono in un'isola dell'Arcipelago e in Grecia e in Sicilia,
cantando un inno che cominciava: _Godi o Chiesa meretrice_, aggregando a
sè chiunque tra i Francescani voleva mettersi a regola più austera; cari
al vulgo per l'aspetto di maggior perfezione, e avendo per generale il
mistico Ubertino da Casale, sotto cui si tenne un capitolo generale a
Genova nel 1310.

Gerardo Segarella, frate Minore di Parma, dedito alla contemplazione, e
fissando un quadro ov'erano rappresentati gli apostoli avvolti in
mantelli, cogli zoccoli e la barba, credette doverli imitare in quel
vestimento, e fin nel circoncidersi; faceasi fasciare come un bambino, e
adagiare in un presepio al modo di Cristo; dichiarava tutto dover essere
comune, anche le mogli; l'uomo non poter possedere nulla in proprio, non
far da magistrato; e che le anime salvate non godono la beatifica
visione di Dio prima del giudizio universale. Formò seguaci che si
dissero Apostolici; vendette quanto possedeva, e dalla ringhiera di
Parma gittò il denaro a una ciurmaglia che giocava; ed iva predicando,
da chi creduto santo, da chi sentina di vizj. Opisone vescovo il fe
cogliere (1280) e tener in prigione cortese nel vescovado, dove
impazzito o fintosi, divenne ludibrio del servidorame, poi sbandito, e
al fine richiamato e processato da frà Manfredi, fu arso il 18 luglio
1300.

Ermanno Pungilupo ferrarese, condannato più volte dagli inquisitori, si
ritrattò, e fu sepolto ecclesiasticamente, ma dopo trentun anno levato
di terra sacra, e dispersene le ossa, per ordine di Bonifazio VIII.

Frà Jacobone, de' Benedettini di Todi, valente nel diritto e nella
poesia, godea della fama e de' piaceri del mondo, quando in una festa
cadendo un palco, vi restò morta la dilettissima e bellissima moglie di
lui: e sul corpo le si trovò un aspro cilicio, ch'ella sotto alle
pompose vesti celava per ripararsi dai pericoli, cui la volontà del
mondano marito l'esponeva. Colpito da quella morte e da quella
penitenza, diedesi tutto a Dio, rinunziando ad ogni avere ed anche alla
gloria col fingersi imbecille e attirarsi gli scherni plebei, comparendo
seminudo, carpone, or colla cavezza a guisa di giumento, ora unto di
mele e voltolato tra piume a guisa d'uccello. Metteasi come servigiale
sulle piazze, ed uno avendogli dato de' polli da recar a _casa sua_, e'
va, e li getta nel sepolcro di lui, come vera casa. Una volta compra
interiora di capretto per farsene cibo, poi pentitosene, le appicca
all'uscio della sua cella, e ne fiuta il fetore, e quando gli altri
frati lo scoprono al puzzo, confessa la sua ghiottornia perchè lo
riprovino[135].

Passava dunque per pazzo; ma per esser accolto nei Francescani dimostrò
non esserlo con un bel trattato sul disprezzo del mondo; e scrisse prose
e versi di stile squisitamente plebeo, che sono de' primi dell'italiana
favella, sebbene lo zelo e il mistico vedere lo facessero talvolta
oscuro, talvolta irriverente. Tra le rozzezze sue è a cernire molto oro,
se qui ne fosse il luogo.

    Chi Gesù vuol amare
      Con noi venga a far festa,
      Ed in quella foresta
      Sì gli potrà parlare.

    Chi vuol esser salvato
      Da Gesù Salvadore,
      Pianga con gran dolore
      Ogni colpa e peccato,

    Pianga con gran dolore
      Ogni suo fallimento,
      Il qual egli ha commesso:
      E con contrito core

    Chiegga perdonamento,
      Pentuto e ben confesso.
      E con lacrime spesso
      Dica: Signore mio,
      Mercè t'addimand'io
      Ch'io t'ho molto fallato.

    Deh peccator, moveratti tu mai
      A seguir me che ti ricomperai?

    Io ti ricomperai del sangue mio
      In sulla croce con crudel tormento....

A lui è dovuto lo _Stabat Mater_, prosa senza pari per profondità di
dolore, e che cantata popolarmente da tutte le plebi nostre per ormai
cinque secoli, fu vestita di numeri musicali dai maggiori maestri
moderni, Palestrina, Hayden, Gluck, Händel; Pergolesi lo puntò
nell'ultima sua malattia, Rossini dopo i più magnifici trionfi[136].

Mal rassegnandosi alla sentenza di Bonifazio VIII, ne parlò con ira:
compassionò i Colonnesi come perseguitati, e compose un cantico che
comincia: _Piange la Chiesa, piange e dolora_, e un altro: _O papa
Bonifazio, quant'hai giocato al mondo_.

Allora dunque ch'ebbe presa Palestrina, Bonifazio lo fece metter in
ferri a pane e acqua (1278), in fetido carcere, dove fe un cantico: _O
giubilo del core che fai cantar d'amore_; e dicono che, avendogli esso
papa domandato, «Quando uscirai di prigione?» rispondesse: «Quando
c'entrerai tu». Liberatone infatti alla cattura di Bonifazio, visse sino
al 1306. Venuto in fin di morte, i suoi fratelli, l'esortavano a
ricevere i sacramenti, ed egli ripeteva non essere giunta l'ora: e
poichè insistevano che non morisse come un Giudeo, egli raccoltosi,
disse:

    Io credo in Dio padre onnipotente,
      E tre persone in un essere solo,
      E che fe l'universo dal nïente,
      E credo in Gesù Cristo suo figliuolo
      E nato di Maria e crocifisso.
      Morto e sepolto con tormento e duolo.

I frati gli soggiunsero non bastava il credere; doversi anche ricevere i
sacramenti: ed egli replicava voler aspettare frà Giovanni d'Alvernia.
Or questi era ben lontano da Collazzone, e nulla sapeva: ond'essi viepiù
stimolavano frà Jacopone. Il quale allora disse un cantico, di cui
produciamo qualche cosa:

    Anima benedetta
      Dall'alto Creatore,
      Risguarda il tuo Signore
      Che confitto ti aspetta.
    Risguarda i piè forati
      Confitti d'un chiavello,
      Sì forte tormentati
      Di così gran flagello!
      Pensa ch'egli era bello
      Sovr'ogni creatura,
      E la sua carne pura
      Era più che perfetta.
    Vedil tutto piagoso
      Per te in sul duro legno
      Pagando il tuo peccato!
      Morì il Signor benigno
      Per menarti al suo regno
      Volse esser crocifisso
      Anima, guardal fisso
      Ed in lui ti diletta.

Allora pure compose un delizioso cantico alla Vergine:

    Maria Vergine bella
      Scala che ascendi e guidi all'alto cielo,
      Da me leva quel velo
      Che fa sì cieca l'alma tapinella.
    Vergine sacra, del tuo Padre sposa,
      Di Dio sei madre e figlia.
      O casa piccolina, in cui si posa
      Colui che il Ciel non piglia,
      Or m'ajuta e consiglia
      Contro i mondani ascosi e molti lacci.
      Pregoti che ti spacci
      Nanzi ch'io muoja, o verginetta bella.
    Donami fede, speme e caritate,
      Notizia di me stesso.
      Fammi ch'io pianga ed abbia in Dio pietate
      Del peccato commesso.
      Stammi ognora da presso
      Ch'io più non caschi nel profondo e basso.
      Poi nell'estremo passo
      Guidami sue a la superna cella.

Si perdoni se ci badiamo tra fiori poetici: non sarà l'ultima volta. Chè
dove si vuol rinnegare una porzione dell'ente umano per ridurlo alla
pura ragione, noi faremo rivalere i titoli del sentimento, e appelleremo
al bello, non contro il vero, ma in sussidio al vero.

L'Ordine dei Minori veniva osteggiato principalmente (fenomeno
ordinario) da altri Ordini e dal restante clero, e se vediamo le accuse
lanciate contro l'uno o l'altro, ci pajono tornati allora que' tempi di
universale delazione, che si videro al decader dell'impero romano, e che
ripete il giornalismo odierno. Veramente san Francesco avea distolto i
suoi frati dall'imparare: _non curent, nescientes literas, literas
discere_; ma essi ben presto attesero agli studj, stabilirono scuole,
gareggiarono in sapienza teologica co' Domenicani, ed ebbero cattedre
nell'Università di Parigi. Se n'adombrarono i vecchi maestri, come
suole, e per parte de' professori di quell'Università nacque un fiero
litigio, al quale presero parte san Luigi, e i papi Innocenzo IV e
Alessandro IV; e non passò senza tumulti di piazza e sangue. I
Francescani proclamarono la libertà dell'insegnamento e ne conservarono
il diritto, ma ne rimasero odiati dai vinti, che trovarono a sfogarsene
quando apparve l'_Evangelium æternum_.

Quest'opera che, levò tanto rumore, non l'abbiamo noi, e poco si può far
conto dell'estratto che ne dà il cronico di Ermanno Cornero, domenicano
e perciò nemico[137]. Vollero attribuirlo all'abate Gioachimo, perchè,
come divisammo di lui, vi si asseriva la perfettibilità successiva anche
delle dottrine rivelate, e l'_Evangelio Eterno_ essere superiore al
vecchio e al nuovo Testamento: questo finirebbe nel 1260, per
surrogarvisi l'altro tutto spirito: al pontefice non è affidata la
cognizione spirituale della Santa Scrittura, ma solo la letterale. Iddio
colmerà di benefizj anche gli Ebrei perseveranti nell'errore: è
scusabile lo scisma de' Greci, i quali camminano secondo lo spirito più
che i Latini, e come il Figlio opera la salute di questi, così di quelli
il Padre. Cristo e gli apostoli non raggiunsero la perfezione della vita
contemplativa. La vita attiva giovò sino al tempo di Gioachimo, ma di
poi fu resa inutile, fruttuosa restando solo la contemplativa. I
predicatori del nuovo stato, perseguitati dal clero, passeranno agli
infedeli, ed è a temere non eccitino questi a guerra contro la Chiesa
romana. Gli Ordini mendicanti sono predestinati alla religiosa
trasformazione del mondo, surrogandosi al clero secolare, e riformando
la vita de' Cristiani.

Questa aspirazione alla supremazia, per mezzo degli argomenti che soli
allora aveano valore, i teologici, adombrò i dottori dell'Università
parigina: e Guglielmo di Santamore, già nemicissimo dei Mendicanti,
scrisse _De periculis novissimorum temporum_, denigrando quegli Ordini,
fino a negare che in essi potesse giungersi a salvazione.

Eccessi provocati da eccessi: sempre così; e l'Evangelio Eterno fu
denunziato al pontefice come riboccante d'empietà e bestemmie.

Giovan da Parma, generale de' Minori, e che da molti ne fu creduto
autore, e che mostrò sempre gran venerazione per l'abate Gioachimo,
locchè tolse venisse beatificato, si portò a Parigi a difendere davanti
all'Università i suoi frati; e facendo atto di sommessione, conchiudeva:
«Voi siete signori e maestri nostri: noi vostri servi, figliuoli e
scolari: e se qualche scienza abbiamo, la vogliamo riconoscere da voi.
Io espongo me stesso, e i fratelli che dipendono da me, alla disciplina
e correzione vostra; siamo nelle vostre mani; fate di noi quello che vi
parrà meglio».

Alessandro IV condannò entrambi i libri; e Guglielmo di Santamore, _quod
in electis maculam imponere voluit_, fu sbandito in perpetuo da Parigi.

Nessuno accerta l'autore dell'_Evangelium Æternum_, neppur il breve di
censura; ma frà Salimbene di Parma l'attribuisce a frà Gherardino da
Borgo San Donnino, minorita, lettore di teologia a Parigi, e
appassionato dietro alle dottrine dell'abate Gioachimo calabrese; e dice
ch'egli il conobbe pieno di capacità e di virtù, finchè con quegli
errori non elise tutti i suoi meriti. Impedito di più insegnare nè
predicare, fu posto dai Minoriti in carcere, sostentato dal pane della
tribolazione e dall'acqua dell'angustia; ma per quanto ammonito da san
Bonaventura, non volle recedere dall'errore, e morto in carcere, fu
sepolto in un canto dell'orto[138].

Angelo, plebeo senza lettere, della vallata di Spoleto, avea radunati
molti Fraticelli. Frà Dolcino e Margherita da Trento sua donna
predicavano attorno a Novara, inveendo contro ogni autorità
ecclesiastica, togliendo ogni restrizione fra i sessi, e permettendo lo
spergiuro in materie d'inquisizione, e il furto ogniqualvolta fosse
negata la limosina; traevansi dietro migliaja di proseliti, sinchè per
ordine di Clemente V, furono cerchiati e presi, ed egli fatto a pezzi,
ella bruciata con sessanta discepoli[139].

Clemente V esortava Rainero vescovo di Cremona ad estirpare questo mal
seme, e li fulminò nel concilio di Vienna. Ne seguirono persino sommosse
a Narbona, in Sicilia, in Toscana; pure i Fraticelli durarono contumaci
appellando al futuro concilio, onde ebbero definitiva condanna.

Lo statuto di Firenze, libro III, rubrica XXXXI, è contro i Fraticelli.
Dei quali gran numero restava a Siena ai tempi di santa Caterina, che li
vide sconfitti dai Domenicani, e dove moltissimi fecero abjura la
pentecoste 26 maggio 1315[140]. Nell'archivio di Stato a Firenze, tra le
pergamene di Santa Croce vedemmo un'epistola del 5 febbrajo 1322,
diretta dal vicario generale di Lucca al pontefice, per assicurarlo che
colà il terz'ordine visse sempre secondo la fede cattolica, lontano
affatto dall'eretica pravità dei Beghini di Narbona.

Conosciamo maestro Francesco da Pistoja, arso a Venezia il 1337 come uno
de' Fraticelli più insolenti: frà Lorenzo Gherardi, Bartolomeo Greco,
Bartolomeo da Buggiano, Antonio d'Acquacanina ed altri mandati al
supplizio. Frà Michele della Marca, che predicava a Firenze la quaresima
del 1389 accusato e processato, fu ucciso, e n'abbiamo una vita scritta
da un suo compagno, tutta ira contro i persecutori e ammirazione al
_santo_[141]. «Mentre che stette in prigione, tutto il suo studio era o
in confortare il compagno, o in leggere in un breviario d'un prete,
ch'era in quella prigione, o in istarsi in orazione. E diceva: «Io ho
udito dire a li poveri, che molto è grande rischio d'apostasia,
quand'altri è in prigione, il troppo dormire, o vero dilettarsi in
pigliare del cibo corporale, o veramente l'oziositade». E così non si
curava di niuna sua fatica corporale, pensando pure ne l'onore di Dio
spendere il suo tempo».

Consegnatone il processo ai Signori, il frate raffermò le deposizioni
alla stanga: «che Cristo, in quanto uomo viatore e mortale, via di
perfezione mostrando, non era stato re temporale per ragione civile e
mondana: e che esso Cristo e gli apostoli suoi, stando nello stato di
perfezione, non poterono avere niuna cosa per ragione civile e mondana:
e delle cose avute non ebbero se non il semplice uso del fatto, senza
niuna ragione civile e mondana: e che papa Giovanni XXII era eretico
perchè diceva il contrario». Rimesso in carcere, gli si diede penna e
calamajo, e fra tre giorni potesse scrivere quel che voleva, e se si
ritrattasse sarebbegli perdonato, se no si consegnerebbe alla Signoria
secolare. Continuaronsi e variaronsi un pezzo le pratiche per farlo
ricredere; confessava essere peccatore sì, ma cattolico, eretico no:
eretico invece dichiarava il papa e l'arcivescovo, dal quale fu
sconsacrato, poi consegnato al capitano, dov'ebbe molte ingiurie perchè
non credeva al papa, ed egli dovea soffrire «le bestianze del popolo, il
quale, sotto atto di grandissima compassione, tormentava l'anima del
santo il dì e la notte». Fino agli ultimi istanti gli si continuarono
esortazioni, ed egli persisteva a dire che Cristo non possedette nulla:
che Giovanni XXII fu eretico perchè lo negava: eretici i suoi successori
che nol riprovarono, e nulli i loro atti, non quanto a giurisdizione, ma
quanto a sacramenti. Mentre era tratto al supplizio a tutti
rincrescendone, «diceangli: _Deh non voler morire_. Ed esso rispondeva:
_Io voglio morire per Cristo_. E dicendogli: _O tu non muori per
Cristo_, esso diceva: _Per la verità_. E alcuno gli dicea, _Tu non credi
in Dio_, ed esso rispondeva, _Io credo in Dio e nella vergine Maria e
nella santa Chiesa_.... E ai fondamenti di santa Reparata dicendogli
alcuno, _Sciocco che tu sei! credi nel papa_, que' disse alzando il
capo: _Questi vostri paperi v'hanno ben conci_.... E giungendo in
Mercato Nuovo, essendogli detto _Pèntiti, pèntiti_, e' rispondeva
_Pentitevi di peccati, pentitevi dell'usure, delle false mercatanzie_».

«E alla piazza del Grano, uno cominciò a dire: _Voce di popolo voce di
Dio_, ed e' disse: _La voce del popolo fece crocifiggere Cristo, fe
morire san Pietro_. E qui gli fu data molta briga, e dicevano, _Egli ha
il diavolo addosso_.... Ed essendovi alcuni de' fedeli che riprendeano
coloro che diceano che negasse, alcun birro e altra gente si cominciò
avvedere del fatto, dicendo: _Questi sono de' suoi discepoli_: onde un
poco se ne scostò alcuno.»

Abbreviammo assai questa turpe scena di un popolo che insulta al
suppliziato; pure la riferimmo qual anticipazione di quella del
Savonarola. Già chiuso nel cappannuccio, si cercava svolgerlo col
fingere di mettere fuoco, col mostrare un giovane de' priori, venuto per
rimenarlo salvo se si convertisse; ed egli durò: e bruciò; e chi dicea
_Egli è martire_, chi _Egli è santo_, chi il contrario: e n'è stato
maggiore rumore in Firenze che fosse mai.

Gli inquisitori dovettero pure fare disepellire le ossa d'Ermanno da
Ferrara, e abbattere un altare erettogli, e così d'una inglese, che
spacciavasi lo spirito santo incarnato per redimere il sesso femminile.

Domenico Savi di Ascoli, uomo di gran pietà, in patria eresse un
ospedale e un oratorio sul monte Pelesio, dove vivea modestissimo con
alquanti begardi e beghine, ma inebbriatosi di confidenza in sè, asserì
molti degli errori correnti; non esservi colpa nella lussuria; i bambini
anche senza battesimo salvarsi per la fede de' parenti; la flagellazione
in pubblico a corpo nudo valere meglio che la confessione. Condannato
dapprima, si ravvide, poi ricaduto fu dato al supplizio in Ascoli nel
1344.

Il Garampi, nelle _Memorie ecclesiastiche_, dice trovarsi a Bologna un
processo fatto dall'inquisizione di Napoli il 1362 contro Lodovico di
Durazzo, frà Pietro da Novara, frà Bernardo di Sicilia, frà Tommaso
vescovo d'Aquino, Francesco Marchesino arcidiacono di Salerno poi
vescovo di Trivento, donde appajono tre maniere di Fraticelli, cioè
frati della povera vita, frati del ministro, frati di frate Angelo.

Nel 1421 altri ne comparvero, detti Fraticelli dell'Opinione perchè
opinavano che Giovanni XXII fosse punito da Dio per le sue costituzioni
sulla povertà di Cristo e degli apostoli, e Martino V deputò due
cardinali a ricercarli e punirli, massime a Fabriano. Nel 1466 Paolo II
li vedeva ripullulare nel Piceno e in Poli presso Tivoli nella Sabina,
esecrando il papa romano, dichiarando non essere vero vicario di Cristo
se non chi ne imita la povertà. Il pontefice, (adopriamo le insulse
parole del Bernino) «convinseli maravigliosamente bene tutti, non a
forza di dispute ma a forza di battiture, e fattine legare quattordici
da' sbirri, li fece poi esporre sopra un alto palco nella sommità di
quella parte di Ara _Cœli_ che volge verso il Campidoglio, con una
mitera di cartone in capo per uno, all'improperio delle genti e alle
fischiate del popolo. Dopo le quali, confessato il loro inganno avanti
il pontificio vicario di Roma, che colà comparve con cinque vescovi a
riceverne l'abjura, furono essi assoluti, e per marco di professata
penitenza vestiti con una lunga veste di lana con croce bianca al petto
e alla schiena, dinotante il loro ravvedimento ed eresia[142]».

D'altri eretici troviamo menzione in quei tempi. Nicola V ordina
all'arcivescovo di Milano, che vegli con maggiore attenzione
sull'eretico Amedeo recidivo, che di false bolle si prevaleva onde
accreditare alcune sue eresie[143]. Calisto VII udiva che nelle città e
diocesi di Bergamo e Brescia laici ed ecclesiastici spacciavano errori
intorno a Gesù Cristo, alla sua madre, alla Chiesa militante, molti
traendo a perdizione: e raccomanda d'insistere per isvellerli di là come
dal Veronese, Cremasco, Piacentino, Lodigiano, Cremonese[144].

Andrea Papadopulo Vretò pubblicò ad Atene nel 1864 un _Catalogo de'
libri stampati in greco moderno o in greco antico da Greci, dalla caduta
dell'impero bisantino sino alla fondazione del regno ellenico_. Ivi è
nominato Barlaam da Seminara, cioè uno de' Greci della Calabria, che
verso la metà del XIV secolo scrisse, fra altre cose, un libro contro il
primato e il temporale del papa e il purgatorio; pel quale perseguitato,
dovè fuggire a Costantinopoli. Il raccoglitore dice che questo libro fu
stampato la prima volta in Olanda, e divenne quasi irreperibile: ma egli
avutone un esemplare, l'applicò alla biblioteca d'Atene.

Questo libro non ci riuscì di vedere, onde nulla possiam dire nè della
sua autenticità nè del suo contenuto.


NOTE

[127] Una delle legende più divulgate è quella di Barlam e Giosafat,
della quale si ha pure una traduzione o imitazione del buon secolo della
lingua. Felice Liebrecht provò ch'essa è una contraffazione cristiana
della vita di Budda Sakia Muni, qual è offerta nel racconto del _Lalita
vastara_ in indiano. Nè già trattasi solo del concetto, delle linee
fondamentali, ma di passi interi. Anche là Sakia Muni è un figlio di re,
che tocco dalle miserie umane, si ritira nel deserto, malgrado la
famiglia sua, a vita religiosa, convertito da un solitario. Un qualche
monaco siro tradusse questa legenda, inserendovi le lodi del
cristianesimo, e valendosi dell'ascetismo monastico, ch'è comune alle
due religioni. Più tardi vi si aggiunsero satire contro la corrutela del
tempo e la depravazione del clero.

[128] La sua vita sta negli _Acta Sanctorum_ al 29 maggio.

[129] Pietro Lombardo, Maestro delle sentenze, avea detto (_Lib_. I,
_dist_. 5) coi trattatisti, che nè il Padre generò la divina essenza, nè
la divina essenza generò il Figlio, nè la divina essenza generò
l'essenza: «col qual nome di essenza intendiamo la divina natura, che è
comune alle tre persone, e tutta in ciascuna».

Parve a Gioachimo, che Pietro portasse la Trinità a quaternità,
asserendo le tre persone, e inoltre l'essenza comune, distinta da esse.
Molto se ne disputò, finchè Innocenzo III condannò il costui libro. Vedi
MATTIA PARIS al 1179, e ci serva di prova de' cavilli allora usitati.

Le profezie di esso furono difese da Gregorio di Lauro, abate
cistercense, nell'opera _B. Joannis Joachim abatis apologetica, sive
mirabilium veritas defensa_. Napoli 1560. L'esame delle dottrine di esso
vedasi in Natale Alessandro, _Historia ecclesiastica_, Tom. VI, pag.
287.

[130] Costituzione _Exiit quid seminat_, nel VI delle Decretali, _tit.
de verbor. significatione_.

[131] A torto dunque Alessandro Natale comincia l'articolo sui
Fraticelli con queste parole: _Fraticellorum sectæ initium dedere Petrus
de Macerata et Petrus de Forosempronio, Ordinis Minorum apostatæ, etc_.
Vol. VI, pag. 83.

[132] BORGHINI, _Trattato della Chiesa e vescovi fiorentini_.

[133] Fra la _Scelta di curiosità letterarie_, che stampasi a Bologna,
nel 1865 si pubblicò una _lettera dei Fraticelli a tutti i Cristiani_,
nella quale rendono ragione del loro scisma. A rinforzo di testi della
Scrittura e del Decreto mostrano essersi «separati dal papa e da li
altri prelati», credendoli rei per eresia, per simonia, per pubblica
fornicazione. Papa Giovanni XXII esser morto pertinace eretico provano
dalle dottrine sue, e principalmente dall'aver condannata la
proposizione che «il nostro Signor Jhesu Christo et li apostoli suoi non
avessero proprio nè in speciale nè in comune». La sua simonia deducono
dall'essere nel Decreto severamente vietato di ricevere denari pel
battesimo, per la cresima, per la comunione, per la sepoltura, ecc.,
«dovendo li doni di Cristo essere dispensati e donati di grazia. Li
fornicatori pure sono scomunicati». E però essi prelati e papi sono
scomunicati, mentre per scomunicati dichiarano i Fraticelli, che
niun'altra colpa hanno se non di non stare alla loro obbedienza. E
«posto che li Catholici non possano avere la sacra comunione di Christo
visibilmente e corporalmente per li heretici che soprastanno, nondimeno,
mentre che colla mente sono congiunti ad Christo, anno la sacra
comunione di Christo invisibilmente».

[134] Bolla _Quorum exigit_ nelle Estravaganti, tit. _De verborum
significatione_.

[135] Vedasi WADINGO, _Ann. Minor._ T. V ad 1298. nº XXIV: e 1306, nº
VIII.

[136] Bonifazio VIII passa per gran nemico di frà Jacopone, eppure a lui
s'attribuisce un canto, che non può se non tenersi come traduzione dello
_Stabat Mater_:

    Stava la Vergin sotto della croce
      Vedea patir Jesù, la vera luce.
      Madre del re di tutto l'universo.
    Vedeva il capo che stava inchinato
      E tutto il corpo ch'era tormentato,
      Per riscattar questo mondo perverso, ecc.

Altri versi di frà Jacopone arieggiano al _Dies iræ_:

    Chi è questo gran sire
      Rege di grande altura?
      Sotterra i' vorria gire,
      Tal mi mette paura.
      Ove potria fuggire
      Dalla sua faccia dura?
      Terra, fa copritura
      Ch'io nol veggia adirato.

E altrove:

    Non trovo loco dove mi nasconda
      Monte nè piano, nè grotta o foresta
      Chè la veduta di Dio mi circonda.

[137] Sta in ECCARD, _Corp. hist_. Tom. II, pag. 849.

[138] Chronica FR. SALIMBENE; Parma 1857, pag. 233 e seg. Esso frà
Salimbeni, che nella cronaca distesamente parla de' Fraticelli, all'anno
1280 racconta che, avendo i Domenicani fatto bruciar donna Alina per
eretica, il popolo di Parma si levò a rumore, e li cacciò, nè, malgrado
le scomuniche lanciate dal cardinale Latini, poterono tornarvi fino al
1287.

[139] FR. CHRIST. SCHLOSSER, _Abelardo e Dolcino; vita ed opinioni d'un
entusiasta e d'un filosofo_. Gota 1807. — G. BAGGIOLINI, _Dolcino e i
Patareni_. Novara 1838. — JULIUS KRONE, _Frà Dolcino und die Patarener,
historische Episode auf den piemontesischen Religionskriegen_. Leipzig
1844.

Questa ostentata povertà stava forse in mente all'autore
dell'_Imitazione di Cristo_, allorchè scriveva (Lib. II, c. 11): «Dove
si troverà chi a Dio voglia servire gratuitamente? Di rado si trova
alcuno, tanto spirituale, che d'ogni cosa sia denudato. Un vero povero
di spirito e spoglio d'ogni cosa creata, chi lo troverà? se l'uomo abbia
dato ogni sostanza sua, non è ancor nulla. Se abbia fatto gran penitenza
è ancor poco. Se abbia imparato ogni scienza, n'è ancor ben lontano. Se
abbia gran virtù e fervorosa devozione, molto ancora gli manca; quello
cioè che sommamente gli è necessario. E che cos'è? Che, lasciato tutto,
lasci se stesso ed esca affatto da sè, e nulla ritenga d'affezione
privata. Fatto che abbia tutto, senta d'aver fatto nulla, e si riconosca
servo inutile. Allora veramente povero e nudo di spirito potrai essere,
e dir col profeta: _Umile e povero son io_».

[140] La sentenza trovasi in PUCCI, _Storia del vescovado di Siena_,
pag. 253.

[141] Edita nella _Scelta di curiosità letterarie_.

[142] _Hist. di tutte l'heresie_. Vol. IV, pag. 198. Quest'autore,
declamatorio quanto il Gioberti, par sempre armato dello staffile di
pedante per flagellar l'avversario, empio, frodolento, degno d'inferno,
bestemmiatore, scismatico, ecc.

[143] Ep. NICOLAI V, Lib. XXII, pag. 53.

[144] Ep. CALIXTI, Lib. XIV, pag. 255.



DISCORSO VII.

CROLLO ALL'ONNIPOTENZA PONTIFICIA. BONIFAZIO VIII E DANTE. CECCO
D'ASCOLI.


Quanto narrammo ci dà la ragione delle tante declamazioni che si fecero
contro Bonifazio VIII, e che la posterità raccolse alla cieca, e ripete
oggi ancora, malgrado un potente e sincero apologista[145]. Questo
pontefice assistette al crollo che al potere papale diede la prevalenza
dei re, non più solo per cessare la primazia che quello avea pretesa
sopra tutti i dominanti della terra, ma per restringerlo ne' singoli
paesi coll'astuzia, scassinando la base prima dell'autorità, il
rispetto.

La Chiesa ebbe un essere assoluto ed immutabile, come la fede su cui era
fondata; ma come unione visibile de' fedeli, era retta da un potere
visibile, il quale, concernendo la formale esistenza di essa, non poteva
essere che potenziale e progressivo. La predicazione e la fede furono
sempre quali sempre saranno: la podestà ne variò insieme colla società
dei fedeli, pur sempre attenendosi al cardine della fede, e mercè la
visibilità della Chiesa. Il potere di chi governa una società si
esercita a misura di ciò che tende a distruggerla: crescendo gli
attacchi devono crescere le leggi e le pratiche riparatrici. Nessuno
attentando al patrimonio della Chiesa primitiva, nessuna legge occorreva
per proteggerlo: il che non vuol dire che in san Pietro non esistesse la
facoltà di farla, nè che trascendessero i suoi successori col farne.
Dicasi altrettanto delle leggi e altri mezzi temporali, coi quali via
via la Santa Sede dovette tutelarsi, e che variò a misura de' bisogni,
fino a restringersi nella monarchia.

Forse che questa era dell'essenza sua? No, nè mai i romanisti lo
asserirono: ma lo svolgimento della società la portava; come l'ignoranza
comune e la comune barbarie portarono i pontefici a capo del civile
organamento, per la gran legge che attribuisce il governo ai migliori.
Qual vantaggio non fu quello di erigere, in mezzo alle potenze armate,
una che potesse obbligare senz'armi ad osservare la giustizia,
rispettare il matrimonio, mantenere i patti conchiusi coi popoli! Ciò
faceasi senz'armi, quasi senza possessi, perchè si credeva, e la
coscienza reggeva il mondo; mentre nell'età moderna, ridotta ogni cosa
alla materialità degli Stati forti, della coscrizione, dei tributi,
l'autorità pontifizia fu pur essa ridotta a ricoverare la sua
indipendenza dietro a un trono materiale, ad un esercito, al
riconoscimento degli altri Stati. Deporre i re perfidianti, sciogliere i
popoli dalla fedeltà verso il principe infedele, erano la vera e solida
costituzione d'allora; diritti che oggi si trasferirono alle società
segrete e alla ribellione[146]. Se queste non ne abusarono, imputino la
Corte pontificia d'averne abusato. Certo è bene che coll'eccesso spuntò
ella medesima le sue armi. Gli avversarj ben s'avvidero che il mezzo di
scassinare quell'autorità morale era lo scemarle il rispetto, e a ciò
contribuirono grandemente i Fraticelli, persone popolarissime, diffuse
tra la plebe, in grand'aspetto di moralità, di povertà, di
mortificazioni, e che poteano ripetere: «Ecco come ci maledice una Corte
ricca, disonesta, gaudente».

Bonifazio VIII comparve al tempo che la società del medioevo, la quale
della fanciullezza serbava tuttavia le ingenuità, veniva tratta nella
malizia, non ancora dalla dottrina e dal ragionamento, ma dai principi,
che le insegnavano a ricalcitrare contro quella tutela. Vedemmo come i
Federichi avessero tentato surrogare la loro alla primazia pontifizia:
quel tentativo spiacque ai re, che non voleano cambiar padrone, e perciò
fallì. Or ecco i re farsi innanzi a voler rendersi indipendenti dal papa
non men che dall'imperatore. Gli ajutò il disordine del _grande
interregno_, succeduto alla deplorata fine degli Hohenstauffen.

Per resistere a questi, i papi aveano dovuto appoggiarsi al perpetuo
antagonismo della Francia colla Germania; ma la Francia ne divenne
incomoda patrona, e i suoi re, dacchè sentironsi ingagliarditi,
rinegarono l'antica devozione per cui erano stati intitolati
cristianissimi, e massime dacchè quella corona venne a Filippo il Bello,
arguto in tutti i cavilli, a cui sa ricorrere chi vuol riuscire senza
esser rattenuto da moralità.

Lo ajutava la posizione del pontefice, piccolo principe in mezzo a
baroni ed a Comuni, che o colle prepotenze o coi privilegi impacciavano
l'esercizio della sua sovranità; e che trovavasi in contrasto con Carlo
di Napoli, il quale chiamato a salvar Roma e l'Italia dalla tirannide
degli Hohenstauffen, presto da vassallo era divenuto tiranno della Santa
Sede; sicchè, fra le petulanze aristocratiche dei dinasti, e la
democratica della plebe, era impacciato nella sua podestà, e i conclavi
stessi riuscivano tumultuosi. La Chiesa, che, nel conferimento delle
dignità, ripudiò sempre ogni riguardo a distinzione di natali,
attenendosi unicamente ai meriti personali, gemeva di vedere il
cardinalato e le nunziature affidarsi a taluni, cui unico titolo era
l'essere degli Orsini o dei Colonna o dei Savelli; case prevalenti in
Roma per armi e per clientele. Esse, con emulazioni prorompenti spesso
in guerra civile e in criminosi attentati, s'insinuavano nel concistoro
e nel conclave: trescavano a voglia anche nel santuario, e prepotevano
nelle cose ecclesiastiche, con tirannide peggiore di quella degli
imperatori del secolo precedente, perchè più immediata, e toglievano al
pontificato e al sacerdozio quella dignità che traggono dal rimanere
superiori alle mondane rivolture.

Dopo un di questi tempestosi conclavi fu eletto pontefice uno, cui la
rigida austerità rendea somigliante ai Fraticelli, Pietro Morone che,
sulla Majella, alto monte presso Sulmona, erasi proposto d'imitare i
solitarj della Tebaide; e che inventò un nuovo Ordine, detto de'
Celestini quando, col nome di Celestino V, egli fu portato papa. Ignaro
delle rinvolture di questa sciagurata prole d'Adamo, Celestino lasciava
deperire il papato fra gl'intrugli de' suoi e le prepotenze degli
avversarj, onde egli stesso abdicò, e gli fu surrogato Bonifazio VIII
(1294). N'ebbero gran dispiacere quelli che della santa debolezza di
Celestino traevano profitto, e non solo dichiararono illegittima
l'abdicazione sua e quindi l'elezione di Bonifazio, ma procurarono indur
Celestino a tornare sul soglio, e alzare tiara contro tiara. Fu dunque
forza circondarlo di cautele e rigori; ed allora eccolo dichiarato
martire, e persecutore questo Bonifazio VIII, già tiranno de' poveri
Fraticelli.

Bonifazio, de' Cajetani d'Anagno, da' suoi studj e dalla sua devozione
avea dedotto un elevato concetto dell'autorità pontifizia e della
santità del ministero. A tacere tante istituzioni che non si rannodano
al nostro tema, ordinò si celebrasse con rito più solenne la festa de'
quattro massimi dottori della Chiesa, Gregorio, Ambrogio, Agostino,
Gerolamo, «perocchè i lucidissimi salutari insegnamenti loro
illustrarono la Chiesa, la decorarono di virtù, l'educarono ne' costumi;
quai splendidi lumi sui candelabri nella Casa di Dio, dissiparono le
tenebre degli errori; la loro faconda favella, ispirata dalla grazia
celeste, schiude gli enimmi della Scrittura, scioglie i nodi, illumina
le oscurità, chiarisce i dubbj; e dai profondi e belli loro sermoni il
vasto edifizio della Chiesa sfavilla di gemme primaverili, e
dell'eleganza delle parole più gloriosa risplende»[147].

Vedendo ormai i re sottrarsi alla supremazia papale, e costituire i
regni indipendenti, e di rimpatto i popoli cercare contro la tirannide
altre garanzie che la tutela pontifizia, Bonifazio procurò da una parte
consolidare il diritto ecclesiastico, pubblicando un sesto libro di
Decretali (1298), e dall'altra rinfervorare la fede e la devozione
mediante l'istituzione del giubileo, che dovesse ogni cento anni
rinnovare l'affratellamento della cristianità alle soglie de' santi
apostoli. I cronisti non rifinano di stupire dell'immensa folla,
accorrente a Roma per quell'indulgenza, tanto che nuove porte dovettero
aprirsi nelle mura: parve miracolo che, fra genti così diverse, nessun
disordine nascesse, e che si potesse provederle di vitto e di ricoveri.
Se i calcolatori meravigliarono al vedere, nella basilica di san Paolo,
cherici che notte e giorno co' rastelli raccoglievano i gittati denari,
bisogna non tacere che ducentomila pellegrini ciascun giorno aveano cibo
dalla providenza del pontefice, il quale pure sfoggiava tutta la pompa
delle cattoliche feste, e invitava Giotto, Oderisi di Gubio ed altri
nuovi pittori ad abbellire la sua basilica di pitture, mentre vi
s'ispiravano Dante e Giovan Villani.

Quanto più la supremazia papale era impugnata, Bonifazio più fortemente
la asseriva, come si può vedere sia in quel VI delle Decretali, sia
nella Bolla con cui riconobbe imperatore di Germania Alberto d'Austria,
sia nell'altra tanto rinfacciatagli _Clericis laicos_ (1296), dove,
lagnandosi che i principi invadessero i beni ecclesiastici, scomunicò
qualunque ecclesiastico pagasse, qualunque laico ne esigesse tributi,
prestito, donativo senza licenza della Santa Sede: dottrina affatto
conforme al diritto canonico, allora generalmente accettato, e più
specialmente al canone 44 del concilio IV Lateranense[148].

Ora Filippo il Bello, volendo dal lato suo attestare la indipendenza
regia, tassava gli ecclesiastici, gl'imprigionava, e dal suo clero fece
dichiarare quelle che poi intitolaronsi libertà gallicane, cioè
l'obbligo di quella chiesa di obbedire interamente al re, senza che il
papa potesse mettervi impedimenti[149].

Bonifazio VIII si oppose, e come protesta pubblicò l'altra famosa Bolla
_Unam sanctam_ (1302), ove pronunzia che la Chiesa, una, santa,
cattolica, apostolica, ha per capo Cristo e il suo vicario in terra; la
potenza spirituale, benchè conferita ad un uomo, pure è divina, e chi ad
essa resiste, resiste a Dio; la potenza temporale è inferiore
all'ecclesiastica, e dee lasciarsi da questa guidare come dall'anima il
corpo, e quando i re trascorrono gravemente, li può ammonire e ravviare;
ogni creatura umana rimane sottoposta al pontefice, nè ottiene salute
chi creda altrimenti. E decretava che imperatori e re dovessero
comparire all'udienza apostolica ogni qualvolta fossero citati, «tale
essendo la volontà di Noi che, Dio permettente, imperiamo a tutto
l'universo».

Era il grido di sbigottimento di un'autorità che civilmente vacillava. E
ne nacque lungo conflitto di cavilli, di villanie, infine di violenze.
Quel re appoggiossi ai baroni romani, a malcontenti, a fuorusciti, e
dicea loro: «Fate me senatore di Roma: io lascerò libera la Chiesa:
terrò il patrimonio di San Pietro, incaricandomi d'esigerne le imposte e
pagarne i pesi, e darò al papa un lauto assegno, qual basti al
rappresentante di Cristo». Indi procedendo mandò un suo cavaliere, il
quale a Bonifazio, ch'e' chiamava Malifazio, intimò un libello,
dichiarandolo falso, intruso, ladrone, nemico di Dio e degli uomini; e,
secondo lo spirito de' tempi, gli rinfacciava un cumulo di eresie,
ricalcate sul materialismo incredulo di Federico II. Quando e' l'ebbe
esposto al disprezzo, Sciarra Colonna concitò la turba a gridargli
morte; lo ingiuriò nella persona, lo schiaffeggiò; — il re di Francia
facea schiaffeggiare lui papa di ottantasei anni, e la plebe sedotta e
gli avvocati seduttori applaudivangli del tenerlo prigione: finchè il
popolo ravveduto lo liberò; e presto pianse sul venerato sepolcro di
esso (1303).

Nè però l'ira de' nemici si spense, e vituperò la memoria di lui, col
quale in fatto cessò il montare della potenza pontifizia; lo schiaffo
datogli segnò il discendere del papato civile; e perchè questo in lui
apparve personeggiato, Bonifazio trovasi più percosso, come avviene
all'ultimo ritegno d'ogni rivoluzione.

Il re di Francia comprese quanto vantaggerebbe di denaro e d'influenza
se rimovesse la santa sede da Roma per trasferirla nel suo paese, come
ai dì nostri divisava Napoleone. Nè ebbe troppa difficoltà a indurre il
nuovo pontefice Clemente V a collocarsi in Francia (1309), e da quel
punto cominciano quelli che gli Italiani qualificarono settantadue anni
di cattività di Babilonia.

Re Filippo era lieto, ma non pago della sua vendetta; insultato in vita
e spinto alla morte Bonifazio, anche dopo la tomba lo voleva disonorare,
piuttosto disonorare la potestà pontifizia, che in lui avea voluta
prostrare. A Clemente, sbigottito dai martirj del predecessore, mise
attorno tale assedio, che l'indusse ad abolir l'Ordine dei Templari, e
lasciargliene carpire le facoltà. Poi volle processasse Bonifazio di
eresia: e fu veramente dato questo scandalo da un papa che non risedeva
più in terra propria; e Clemente 13 settembre 1309 da Avignone
notificava ai presenti e ai futuri, qualmente re Filippo, per zelo di
fede e di pietà e per giovare alla Chiesa, avesselo pregato d'ascoltare
alcuni signori, che asserivano Bonifazio esser morto eretico, e
doversene condannare la memoria: per quanto gli pesasse il credere ciò,
pure, essendo l'eresia il peggiore dei delitti, viepiù detestabile per
la persona che n'era accagionata, nè dovendosi lasciarlo senza esame,
assegnava il tempo a quei testimonj di comparire e deporre.

Se si fosse dichiarato eretico un papa, cioè interrotta la successione
apostolica, Filippo avrebbe assicurato il trionfo della forza sul
pensiero, dei governi sulla Chiesa, talchè ormai i re avrebbero potuto
quel che voleano. Adunque la cristianità indipendente reclamò contro la
scandalosa procedura: eppure in pieno concistoro disputarono accusatori
e difensori, imputando Bonifazio d'essersi mostrato avverso a re Filippo
in tutte le sue costituzioni, e inoltre ateo, e contaminato di tutte le
conseguenze di tale dottrina; in occasione del giubileo avere detto agli
ambasciadori di Lucca, di Firenze, di Bologna non doversi credere
l'immortalità dell'anima, nè la futura distruzione del mondo, nè la
divinità di Cristo. L'enormità stessa delle accuse le palesa false: e
l'avere trovato chi le sosteneva attesta con quali arti le appoggiasse
re Filippo. Il quale, se lasciò per allora mandare l'accusa agli
archivj, ottenne una Bolla ove egli era dichiarato egregio difensore
della Chiesa in quanto aveva operato contro Bonifazio; resigli tutti i
privilegi tolti; ordinato che dai registri papali si cancellassero le
lettere pontificie avverse a lui; a Bonifazio non restò neppure la
pietà, che suole accompagnare le vittime della tirannide.

L'accenno che abbiamo fatto de' Templari, ci mena ad altra qualità di
eretici. Era quello un Ordine cavalleresco e religioso, istituito per
proteggere i pellegrini che visitavano il tempio di Gerusalemme. Vi
entravano i cadetti di grandi famiglie; ed arricchitisi d'eredità e di
commende, si diffusero per tutta Europa. Perduta Terrasanta, mancò il
principale esercizio di loro attività, e abbandonaronsi alle tentazioni
della giovinezza ricca ed oziante. Allora fu detto si costituissero in
società di eresia e di peccato; e poichè secretissime tenevansi le loro
iniziazioni, il vulgo vi suppose qualcosa di straordinariamente
scellerato. Fomentò l'opinione Filippo il Bello, e fingendosi zelatore
del buon costume per mettere gli artigli sulle immense loro ricchezze,
domandò al papa abolisse quell'Ordine. Arrestati a un tratto tutti i
cavalieri, processati colla durezza allora consueta, furono la più parte
messi a morte.

Le variissime accuse a loro apposte si possono ridurre a queste: che
rinnegassero la fede, bestemmiassero Cristo, Maria e i Santi;
calpestassero e deturpassero le croci; nel consacrare tacessero la
formola sacramentale; il maestro assolvesse i peccati, sebbene laico;
adorassero la testa di Bafomet, idolo sopra il quale assai si
fantasticò; e portassero cingoli benedetti dal contatto di esso:
usassero fra loro baci indecenti; peccassero contro natura; tutto
facessero con gran segretezza. Quest'ultimo fatto almeno era vero. È
abbastanza noto quel processo, condotto colla passione e in gran parte
coi modi, che nel secolo scorso fecero abolire un altr'Ordine ancor più
famoso e riviviscente; e duole che Clemente V e il XV concilio
ecumenico, tenuto a Vienna delle Gallie il 1311, vi assentissero.

In Italia si operò con maggiore umanità. Molti tribunali, come a Bologna
e Ravenna[150], li dichiararono incolpevoli. In Toscana aveano numerose
case, ed è vero che il papa nel 1307 scriveva agli arcivescovi di Pisa,
Ravenna ed altri che assumessero informazioni sui Templari, ma non che
s'adunasse per ciò un concilio a Pisa, come asserì il Tronci, dal 20
settembre al 23 ottobre 1308. Il processo contro i Templari di Lombardia
e Toscana fu fatto in Firenze e in Lucca da frà Giovanni arcivescovo di
Pisa, Antonio vescovo di Firenze, Pietro de' Giudici di Roma canonico di
Verona, i quali nel 1312 ne diedero al papa un ragguaglio, che
conservasi nella Vaticana, legalizzato da nodaro e testimonj[151]. Il
papa avea trasmesso cenventiquattro e più articoli, sui quali
esaminarli: e gl'inquisiti erano cinque a Firenze, uno a Lucca. Furono
esaminati senza le torture consuete in Francia, non perchè i tribunali
ecclesiastici non le usassero, che anzi in quel processo parlasi delle
deposizioni di sette altri fratelli di minor conto, le quali non pareano
attendibili, _licet, debito modo servato, eosdem exposuerimus
coactionibus et tormentis_. Inoltre gli accusati non doveano temere,
confessando, di andare al rogo siccome in Francia, atteso che qui li
giudicava un tribunale ecclesiastico, le cui pene erano il pentimento e
la ritrattazione. Ciò cresce credito alla loro deposizione, che giurano
aver fatta _non odio vel amore, parte, pretio vel timore, sed pro
veritate tantum_.

Delle accuse alcune ammettonsi generalmente; altre solo da alcuni, o per
casi e persone speciali, o soltanto come d'udita, o come d'uso di là dal
mare; sopratutto convengono quanto alla gelosissima secretezza dei
capitoli e alla bestemmia miscredente.

Se dunque gli scellerati processi fatti loro in Francia invitano a
crederli innocenti e vittime dell'avidità di Filippo il Bello, la calma
con cui procedette la Chiesa, i processi istituiti regolarmente in
Italia come in altri paesi, nel volger di molti anni, senza violenze,
lasciano supporre che molti de' Templari fossero rei, e che col re di
Francia mal si metta a fascio Clemente V, il quale, col sopprimere
l'ordine _non de jure sed per viam provisionis_, salvò individui
innocenti, e ne sottrasse i beni dalla principesca avidità, applicandoli
alla difesa di Terrasanta.

A ogni modo quest'era un sagrifizio ch'egli faceva alla paura di vedere
la memoria di Bonifazio VIII chiamata a un processo capzioso di che
Filippo era maestro: processo al quale predisponeva l'opinione Dante,
esecrando quel pontefice ben nove volte nella _Divina Commedia_.

Questo nome del grande che ritrae l'austera fisionomia del medioevo, e
irradia i crepuscoli della rinascenza, ci porta a indicare coloro che il
poeta teologo, che il verseggiatore della scolastica vollero noverare
fra gli eretici, fosse per denigrarlo, fosse per trovare precursori ai
Protestanti del secolo XVI. Ed è vero che Dante rimprovera acremente i
pontefici; più d'uno ne relega nel suo Inferno, e nominatamente
Bonifazio VIII, non ancora morto. Quella collera che spesso invade i
grand'uomini allorchè si trovano sconosciuti o perseguitati, ispirò
l'esule ghibellino. E come tale, persuaso che la pace fra i piccoli
potentati non possa assodarsi se non quando tutti obbediscano a un
signore supremo, s'inviperiva contro coloro che reluttavano alla
dominazione dell'imperatore, come Pisa, Pistoja, Genova, la Lombardia;
Bruto e Cassio tormenta nel peggiore fondo dell'inferno con Giuda; in
paradiso vede preparato un trono per l'imperatore Enrico VII; la serva
Italia è ostello di dolore perchè non lascia che Alberto Tedesco
inforchi gli arcioni di essa; e a questo impreca perchè non viene a
vedere la _sua_ Roma che piange.

Col sentimento stesso avventasi contro i papi, benchè allora fossero
sconfitti e raminghi: e Bonifazio VIII che, favorendo Carlo di Valois
(1301), avea cagionato la cacciata dei Bianchi da Firenze, è preso ogni
tratto a bersaglio dall'iracondo fuoruscito.

In libri lodatissimi venne difesa la memoria di questo pontefice contro
le declamazioni del poeta[152]. Il vero è che Dante non combatteva tanto
la Corte romana quanto la democrazia; svelenivasi contro i nuovi tiranni
che aveano abbattuto i vecchi baroni, contro la gente nuova e di
guadagno ch'era prevalsa alla semenza santa delle stirpi conquistatrici;
combatteva insomma pel passato che crollava, sempre nell'intento di
surrogare alla delirante plebe il dominio de' migliori, de' sapienti.

E le sue invettive contro i pontefici, quando non siano da spirito di
partito e di vendetta, sono dettate dal desiderio di vedere la santa
sede così pura e splendida come meritava il posto di Cristo e di san
Pietro; doleasi che tuttodì si mercasse Cristo; che lupi rapaci, in
veste di pastori, si facessero Dio dell'oro e dell'argento; che
coll'abuso delle scomuniche si togliesse or quinci or quindi il pane che
il pio padre non serra a nessuno: che Caorsini e Guaschi s'inebriassero
del sangue di Cristo; benediva san Francesco d'avere ajutato a rimettere
la barca di Pietro sulla retta via[153]; sempre professa «riverenza alle
somme chiavi»: sa che al cielo non si va se non accogliendosi «dove
l'acqua di Tevere s'insala»: crede che Troja ed Enea e Roma fossero
preparazioni del «luogo santo ove siede il successore del maggior
Piero»[154]: e all'insulto che il re di Francia reca a Bonifazio VIII
freme perchè sia «Cristo catturato nel vicario suo, e rinnovellati
l'aceto e il fiele»[155]. Morto Clemente V, dirige una lettera ai
cardinali adunati in Carpentrasso, acciocchè eleggano un papa italiano
che ritorni a quella Roma, di cui perfino i sassi pareangli
venerabili[156].

Ed è comune agli Italiani d'allora questo sentimento d'indignazione
contro i papi che, trasferendosi in Francia, aveano legato la Chiesa
allo sgabello d'un re: note sono le invettive del Petrarca e i gemebondi
viaggi di Caterina da Siena: pare v'alludesse anche il Boccaccio[157]:
Cola di Rienzo non voleva abbattere il papato, anzi restaurarlo, e dal
carcere di Boemia scriveva ad Ernesto di Parbubitz arcivescovo di Praga,
com'egli non si tenesse che investito del potere legittimo dal pastore
supremo; avere assunta la podestà tribunicia per odio alla senatoria
oppressiva del popolo, e per cercare d'abbattere i baroni romani, e
ridur la città santa, ch'è capo del mondo e fondamento della fede
cristiana, in pacifica e sicura stanza dei papi. E Dante volea riforme,
ma capiva sarebbero sterili senza l'unità, sia teocratica, sia
imperiale; e l'uomo e il cittadino sottoponeva a un capo. Riprovava
insomma i pontefici perchè erano o li supponeva traviati; mancando, se
vogliasi, di rispetto, non di fede.

L'opinione di Dante poeta si accorda col suo concetto della monarchia,
da noi altrove indicato, e ch'egli espose in un'opera apposita[158].
Impero e Chiesa pretendevano essere istituzioni divine e necessarie: le
loro supreme funzioni sono accessibili a chiunque, purchè cristiano, nè
il papato, nè l'impero essendo ereditarj; e tutt'e due debbono le loro
cure all'intero mondo.

L'ordine religioso dunque e il politico costituivano due società,
entrambe universali, distinte ma non separate; e Dante, che, nel vedere
quegli incessanti cozzi dei piccoli Stati, era venuto nella persuasione
non potessero aver pace se non ridotti all'unità, cerca accordare i due
ordini per compiere l'opera sociale del cristianesimo: voleva ci fosse
un padrone supremo delle società umane, ma per dirigerle al progresso,
per tirare le conseguenze pratiche dai principj cristiani. L'imperatore,
nel concetto di Dante, doveva avere predominio sopra tutti i re, dunque
anche sopra il re di Roma: mentre allora Bonifazio VIII, e più Giovanni
XXII pretendeano a se medesimi l'autorità imperatoria, massime allorchè
fosse disputata.

Oh come dunque immiseriscono la quistione que' controversisti d'oggi,
che suppongono Dante contendesse al pontefice quel piccolo territorio
ch'è patrimonio suo temporale! Esclama egli contro Costantino, non
perchè lasciasse le Romagne al papa, ma perchè gli trasmettesse la
dignità imperiale, secondo asserivano le favole giuridiche del suo tempo
e le pretensioni guelfe; e più chiaramente nel libro III, capo 10 della
_Monarchia_ riprende esso Costantino d'aver lasciata ai papi la podestà
imperiale, questa non potendosi dividere: col che confuta i Guelfi, i
quali ne arguivano che le dignità non potessero riceversi se non dal
papa. Del resto egli esalta Carlomagno che, quando il dente longobardo
attentò alla Chiesa, la raccolse sotto le sue ale vincendo: e ognun sa
che Carlomagno fu l'assertore della sovranità temporale dei papi: esalta
la contessa Matilde, la più larga donatrice di beni ai papi. Non volea
dunque privarneli esso, bensì che gli adoprassero per Terrasanta e per
l'Italia, anzichè sciuparli con Caorsini e Guaschi, e intanto lasciare
deserto dai papi il giardino dell'impero. Pure per quel suo libro della
_Monarchia_, dove sostiene che l'imperatore non dipende dal papa se non
nelle cose spettanti al Foro interiore, Dante venne tacciato d'eretico,
non solo da qualche inquisitore, ma dal famoso giurista Bartolo[159]; da
cui lo difese sant'Antonino. Altri dappoi vollero farlo credere non solo
seguace, ma corifeo di opinioni ereticali. Duplessis Mornai, detto il
papa de' Calvinisti, ne addusse molte opinioni[160] non conformi al
cattolicismo, ma Coeffetau rispondendogli rifletteva che Dante riprovò
alcuni papi, non la dignità stessa. Il cardinal Bellarmino confutava un
libello, che nel secolo XVI erasi pubblicato da un Protestante col
titolo d'_Avviso piacevole dato alla bella Italia da un nobile giovane
francese_, ove Dante era dipinto come avverso alle istituzioni
cattoliche, o almeno all'autorità dei papi. Il famoso paradossista padre
Hardouin nel 1727 asserì che l'autore della _Divina Commedia_ fosse un
impostore, mascherato seguace di dogmi eterodossi. Il secolo nostro,
destinato a resuscitare tutte le stravaganze dei passati, ripetè quella
bizzarria, prima per bocca d'un erudito, poi di Ugo Foscolo[161] e di
Gabriele Rossetti[162], i quali, rifuggiti in Inghilterra, vollero
ingrazianirsi quegli ospiti, sostenendo che Dante volesse «riordinare
per mezzo di celesti rivelazioni la religione di Cristo e l'Italia», e
così additando un ascendente illustre alla gran negazione. Dietro loro
con multiforme erudizione e logica serrata Eugenio Aroux assunse che
tutte le opere di Dante sono un'esposizione ereticale, ed aspirazioni
rivoluzionarie e socialiste[163].

Il costoro concetto sarebbe che le scuole patarine non fossero mai
spente in Italia, ma vivessero in congreghe secrete, in una specie di
framassoneria, dove tramandavansi arcanamente certe dottrine, tendenti
alla libertà del pensiero e degli atti, a scassinare l'autorità della
Chiesa e de' governi. Il Rossetti gli aveva intitolati _Misteri
dell'amor platonico_.

La Chiesa cristiana era (a dir loro) divisa in due, allora appunto che
più integra ne pareva l'unità: il genio protestante passò di generazione
in generazione fino a coloro che altamente lo proclamarono nel secolo
XVI, quando non fu novità, ma manifestazione delle persuasioni de'
secoli precedenti. Anzi il _Veltro_ di Dante era una profezia, dove fin
le lettere stravolte esprimono il nome di Lutero. Doversi pertanto in
questo senso intendere tutta la poesia nostra, elevata così a
significazione sociale. E poichè non v'ha bizzarria che coll'ingegno non
possa sostenersi, il Rossetti fe un curioso pellegrinaggio traverso alla
letteratura patria con questo intendimento, in cinque volumi d'improba
fatica pretendendo mostrare che i poeti nostri non si perdevano dietro
la vanità di amori, siccome pare dalle loro rime, ma sotto
quell'apparenza celavano la ricerca di verità superne, e la donna che
fingeano vagheggiare non era Beatrice o Laura, ma la libera Chiesa: e
tutto ravvicinò ai riti massonici, che ormai non sono più un mistero
neppure ai profani.

Senza scendere a particolarità, la minima nozione d'estetica fa
repudiare un sistema, ove la poesia non sarebbe più ispirazione, ma
allusione; ove si celebrerebbero persone e vezzi mancanti d'ogni verità.
E ciò a qual fine? La moltitudine, cioè quella per cui si poeteggia, non
poteva intenderne nulla; gli iniziati soli gustavano queste allegorie;
ma a che pro, se già aveano ricevuta la rivelazione dell'arcano? E se
così profondamente coprivano il loro odio contro Roma, perchè poi volta
a volta lo rivelavano con aperte invettive? Sta bene che Dante chiami i
sani intelletti a mirar la dottrina che asconde sotto il velame de' suoi
versi; ma perchè dare fumo di queste allusioni se doveano restare
arcane? E se non osava proclamare il vero, come vantavasi poi d'avere
voce che «percoteva le più alte cime», e d'essere «non timido amico del
vero», e di sperare per ciò di conservare fama presso coloro che il
tempo suo chiamerebbero antico? Non meriterebbe invece di stare o coi
pigri «a Dio spiacenti ed ai nemici sui»[164] o cogli ipocriti che
stanno «nella Chiesa coi santi, ed in taverna coi ghiottoni?»[165].

Il signor Aroux ampliò il tema, supponendo di quell'eresia intaccata
tutta la cavalleria d'allora, e specialmente coloro che sopravvissero
dei Templari, i quali, attraverso ai secoli, giunsero ad istituire ai dì
nostri una nuova categoria di franchimuratori. Dalle fonti più varie
l'Aroux trae argomenti per sostenere che Dante volesse mostrare la
supremazia papale essere il regno visibile di Satana, in quella che è
_commedia del cattolicismo_. Per esempio, quando Dante dice che si dee,
per salvarsi, seguire il _pastore della Chiesa_, intendeva il capo di
quell'arcana religione, di cui era non solo adepto, ma apostolo[166].
Era cioè dell'Ordine dei Templari, e volea vendicare sui papi la
crociata contro gli Albigesi e la distruzione del Tempio. Ove si noti
che i Templari aveano ricevuto la regola loro da san Bernardo[167], e
Dante li nomina o accenna allora soltanto quando bestemmia Filippo il
Bello d'avere cacciato le mani avide nel Tempio senza decreto[168].

La parola _amore_ è la chiave di tutti que' misteri: Francesca non è più
l'amante di Paolo, bensì la chiesa protestante di Rimini, uno de'
focolaj dell'eresia. Il poeta, vinto da pietà per le dame antiche e i
cavalieri, i quali eransi dipartiti dalla vita ghibellina per inclinare
al cattolicismo, vede Paolo e Francesca, fedeli d'amore, leggeri al
vento per la facilità nel cambiare al vento guelfo, che li spinse a
seguire la Semiramide pontificia: il _re dell'universo_ è Alberto
tedesco, che, _se fosse amico_, darebbe _pace_ a Dante; il qual Dante si
fa _tristo e pio_, cioè ipocrita di papismo, per non esporsi ai
_martirj_ de' due amanti; il _disiato riso_ di Francesca — intelligenza,
baciata da Paolo — volontà, non significa che l'avidità con cui
l'iniziato raccoglie la dottrina dalla bocca della filosofia
razionale.....

Il sistema del signore Aroux non trovò assenso negli studiosi; in Italia
poi egli si lagna che nessuno vi avesse fatto mente, eccettuato me, che
gli diressi a stampa una lettera, dov'egli riconosce non solo
un'amichevole cortesia nella contraddizione, ma qualche argomento cui
non valeva a ribattere. E a chiunque abbia senso del bello domandiamo se
sia possibile mai formare un poema, e così sublime, ove dovesse sempre
intendersi diverso da quel che si legge. Dante scrive _donare_, e deve
leggersi _dona re_; le verità più austere sulla Trinità, le confessioni
più esplicite dell'autorità del papa, _vere clariger regni cœlorum_, che
_secundum revelata, humanum genus perducit ad vitam æternam_; le lodi a
san Bernardo, a san Domenico, sono finzioni e ironie: i commenti fatti
nel _Convivio_ alle canzoni vanno applicati alla _Divina Commedia_; la
distinzione de' linguaggi nel _Vulgare Eloquio_ esprime distinzione di
partiti e credenze, e con queste chiavi Dante commentò se stesso in
modo, che i Guelfi intendessero una cosa, i Ghibellini l'opposta. E
tutto ciò nel poeta che vantavasi.

      Io mi son un che, quando
    Amore spira, noto, ed in quel modo
    Ch'ei detta dentro, vo significando.

Certamente l'Alighieri serba quella scienza moderata che non presume
spiegare tutto; non dubita della teologia, come neppure della filosofia;
crede alla forza del sillogismo, agli artifizj della scolastica per
raggiungere la verità; ammira la sapienza di Dio e la provvidenza,
anzichè abbandonarsi alla scienza stanca e disillusa che, non credendo
più nulla, a nulla conduce. Rimproverato ai Cristiani di non acquetarsi
alle ragioni, giacchè, se avessero potuto sapere tutto, non era mestieri
della rivelazione[169], fa la più esplicita professione di fede davanti
a san Pietro prima d'entrare nell'empireo[170], e sa che per giungere
alla salute ci vuol di credere al vecchio e al nuovo Testamento, e
all'interpretazione che ne dà la Chiesa[171].

V'è di più: egli riprova esplicitamente l'eresia: a «quei che presumono
contro la nostra fede parlare», grida: «Maledetti siate voi, e la vostra
presunzione e chi a voi crede»[172]: inneggia san Domenico «che negli
sterpi eretici percosse»: nell'inferno vede le arche infocate piene di
eretici. Forse erano gente che, in opposto della vita penitente e
ascetica d'allora, cercavano i godimenti e l'oblio: ed erano intitolati
Epicurei. La loro sètta era molto diffusa in Firenze nel 1115 e 1117,
sotto i quali anni Ricordano Malaspini e Giovan Villani attribuiscono i
ricorrenti incendj a giudizio di Dio contro la serpeggiante eresia: e il
Villani dice altrove che i Patarini erano «epicurei per vizio di
lussuria e di gola, che con armata mano difendevano l'eresia contro i
buoni e cattolici cristiani».

Dante colloca Federico II nell'inferno tra gli eretici con _più di
mille_, e tra essi Farinata sommo cittadino e Cavalcante Cavalcanti gran
dotto, e padre del suo amicissimo[173]. Del primo, il commentatore
Benvenuto da Imola riferisce che credeva il paradiso non doversi cercare
se non in questo mondo; l'altro asseriva che uomini e bestie finiscono
al modo eguale (_unus est interitus hominis et jumentorum_), e anche il
Boccaccio ce lo dipinge che «alcuna volta speculando molto astratto
dagli uomini diveniva; e si diceva tra la gente vulgare, che queste sue
speculazioni erano solo in cercare se trovarsi potesse che Iddio non
fosse».

Al tempo di Dante erasi così lontani dal supporlo eretico, che
l'intitolavano _Theologus Dantes, nullius dogmatis expers_: dopochè morì
avvolto nel sajo di san Francesco, non che un legato pontifizio avesse
_intenzione_ di disperderne le ossa, queste riposarono benedette in
chiesa, dove un legato pontifizio gli eresse un mausoleo, più benigno a
lui che non la patria: subito si istituirono cattedre per ispiegarlo, e
spesso in chiesa: ed era spiegato al concilio di Costanza, e frà
Giovanni da Serravalle, minorita, a istanza de' prelati ivi raccolti, lo
tradusse in prosa latina con commenti: nelle Logge Vaticane fu dipinto
tra i padri della Chiesa; la sua effigie pendette a Firenze in Santa
Maria del Fiore, come ai dì nostri vi fu messo sulla facciata di Santa
Croce. Quando nel 1865 la radunata Italia volle celebrare il VI
centenario della nascita di esso, l'iracondia da cui è ossessa la
rivoluzione nostra volle palesarsi col celebrare l'inimicizia di Dante
pei papi e per la religione. Ma mentre il vulgo ufficiale e
scribacchiante diguazzava tra quel fango, i meglio pensatori e scrittori
d'Italia s'elevarono a rivendicare il vero, e a presentare in Dante il
poeta iracondo, accannito contro Bonifazio VIII personale nemico della
sua fazione, indignato contro gli abusi della Corte pontifizia, allora
oppressa dalla demagogia e dai re, ma pur sempre riverente alle somme
chiavi, e attaccato a quella fede, che in Roma ha il centro e
gl'interpreti legittimi.

In relazione a quanto sponemmo nel capitolo precedente, noteremo come
l'inclinazione al misticismo fosse comune a Dante e a' suoi amici,
malgrado lo studio della filosofia e delle scienze naturali e della
politica: Dante sta a meditare sul sasso rimpetto a Santa Riparata:
Cavalcante fra gli avelli di Santa Maria Novella cerca se si trovasse
modo di negare Dio. Per Dante la filosofia era una scienza che vede
tutto in Dio, tutto da lui deriva e a lui riferisce; indaga il volere e
la parola di Dio; nella natura egli vede simboli del soprannaturale:
sotto tale aspetto guardò Beatrice «vestita di gentilezza, d'amore e di
fede»[174], col che seguiva l'andazzo del suo tempo, l'educazione
ricevuta, la complessiva tendenza della mente e dell'animo. Giovane,
pensa farsi frate, e muore con la cocolla di frate: al par de'
Fraticelli rimprovera i papi che si danno al lusso e alle cure mondane.
E già nella _Vita Nuova_ vedesi la trasformazione di Beatrice in
simbolo, finchè nella _Commedia_ quest'amor suo è convertito in
desiderio beatifico della somma verità che lo conduce a Dio, attraverso
la contemplazione de' tormenti e dell'espiazione.

Avversissimo a Dante si mostrò Cecco Stabili di Ascoli, che fu astrologo
di Firenze, e compose un poema intitolato _L'Acerba_, volendo indicare
un acervo o mucchio di cognizioni umane varie; poema filosofico nè bello
di poesia, nè ricco di dottrina, ove in cinque rubriche o libri, parlato
della scienza, nel sesto parla della rivelazione. La scienza ha secondo
i tempi, ma ripetutamente batte Averroè e la sua scuola: nella
rivelazione accetta affatto quel che la Chiesa, se non che qui pure
mescola ciò che predomina nelle altre parti, la magia e l'astrologia;
chiama «cieca gente e storpi intelletti» quelli che non conoscono il
linguaggio de' corpi celesti, nè sanno indovinare il futuro, che
sprezzavano l'astrologia, parlando «secondo il tempo antico»; credeva a
un genio familiare, detto Florone, a' cui responsi sostenea doversi aver
fede, sebbene talvolta inganni cogli oracoli suoi, come quando a re
Manfredi rispose, _Vincerai non morrai_.

Le quali e ben più estese follie espone a lungo non solo, ma pretende
persuaderle altrui; e lo fece a Bologna commentando la _Sfera_ del
Sacrobosco, e a Firenze mediante l'_Acerba_. Nel proemio all'esposizione
del Sacrobosco dice che «molti si promettono giudicare della vita e
della morte, e delle cose future mediante arti magiche, le quali sono da
santa Madre Chiesa riprovate vituperevolmente (_vituperabiliter
improbata_): e alle cinque scienze magiche, mantica, matematica,
sortilegio, prestigio, maleficio prevale l'astronomia, cioè la
rivelazione delle intelligenze mediante il cielo, al quale son note
tutte le cose». Dalla magia anzi deduce pruove della divinità di Cristo,
scrivendo: «Che Cristo fosse veramente figliuol di Dio ci è manifestato
da molte cose, e primamente per i tre magi, i quali furono i maggiori
astrologi che avesse il mondo, e seppero tutti i segni della natura».
Ciò nel trattato della Sfera, dove pone ancora generarsi ne' cieli
alcuni spiriti maligni, i quali, sotto l'influenza di certe
costellazioni, valevano ad operar cose meravigliose: sotto una di tali
costellazioni esser nato Cristo, perciò rimasto povero; mentre sotto
un'altra verrebbe l'anticristo, la quale lo farebbe ricco. E tutta
l'esposizione, come tutta l'_Acerba_, è un esaltamento delle varie guise
di magia.

Eppure Guglielmo Libri, grand'encomiatore di chiunque fu censurato dalla
Chiesa e viceversa, osa vantar quel poema come _una vera enciclopedia_,
e che «l'autore fu uomo dotto non solo, ma di elevati sensi, e sarebbe
omai tempo che gl'Italiani cominciassero a venerar la sua memoria,
vittima non della sola inquisizione»[175]. Eppure basta scorrer l'opera
di Cecco per convincersi come a torto e' gli dia merito di molte verità,
le quali esso o accenna confusamente o confuta. Tra quest'ultime è, che
la terra sia sostenuta da due forze, una che la tira, una che la
respinge, e che noi ora chiamiamo centripeta e centrifuga; ma Cecco
riprova altamente alcuni ascolitani e fiorentini che ciò sostenevano, e
che probabilmente erano Guido Cavalcanti e Dino del Garbo famoso medico,
i quali esso bersaglia. E se veramente Cecco fu medico, il merito
principale di quest'arte riponeva nel conoscere, per via delle stelle,
quali infermità sieno mortali, e quali no: altro motivo per cui esso
Dino gli si palesò avversissimo.

E contro Dante si svelenisce più volte Cecco, asserendo che andò
all'inferno e più non risalì, anzi _rimase nel basso centro, ove il
condusse la sua fede poca_; e confutandone le dottrine più rette intorno
al libero arbitrio dell'uomo, e accusandolo d'aver amato con desio una
donna, e lodato le virtù di un sesso, del quale egli non rifina di dir
ogni male, non eccettuando nessuna. Di rimpatto, esso pretende innovar
lo scibile, e per esso la vita umana nell'attuazione intellettuale,
morale, religiosa, professando il materialismo e il comunismo;
l'astrologia, le scienze occulte, con mille superstizioni e
fanciullaggini; insegnando, anzi esortando agli incantesimi; inveendo
contro chi non gli ammette[176].

Le magie e i sortilegi non erano spettanza dell'Inquisizione, siccome
leggemmo nella _Maestrazza_, se già manifestamente non tenessero alcuna
resia[177].

Tale appunto era il caso di Cecco. Giovanni Villani narra[178] che, nel
trattato sopra la Sfera, avea messo che per incantamenti sotto certe
costellazioni possono costringersi gli spiriti maligni a far cose
meravigliose; che l'influenze delle stelle portano necessità, ed altre
cose contro la fede. L'inquisitore lo riprovò, e gli fe giurare di non
adoprar più questo libro, ma esso l'usò di nuovo a Firenze, onde fu
preso dal cancelliere del duca d'Atene, allora dominante.

E un libretto contemporaneo, conservato in più biblioteche,
particolareggia come frà Lamberto da Cingoli, inquisitore in Bologna, a'
16 dicembre 1324 lo condannò perchè avesse scompostamente parlato della
fede, e obbligatolo a una confessione generale e a certe penitenze, gli
tolse tutti i suoi libri d'astrologia, e gli proibì di più leggere
questa scienza, e privollo dell'onor del dottorato e di qualunque
magistrato. Quel processo fu mandato a frate Acursio fiorentino de'
Minori Osservanti, a 17 luglio 1327, il quale citatolo, lo pronunciò
eretico, e lo rimise al braccio secolare, onde il dì medesimo fu fatto
bruciare. Della sentenza ecco le parti principali:

  Precedente la fama pubblica sparsa da molte persone degne di fede,
  ci venne all'orecchio che maestro Cecco, figliuolo
  dell'illustrissimo Simone Stabili da Ascoli, andava spargendo per
  la città di Firenze molte eresie; e quello ch'è cosa più brutta,
  dava a leggere per le scuole pubbliche un certo suo eretico
  libretto, fatto da lui sopra la sfera celeste, contro al
  giuramento altre volte da lui dato. Facemmo alla presenza nostra
  venire il detto Cecco: e nella esamina, ricevendo prima il
  giuramento di dire la verità, senz'altra strettezza o forza, ma di
  sua libera e spontanea volontà, disse e confessò:

  1º Come, essendo già stato citato e richiesto da frate Lamberto di
  Cingula, inquisitore nella provincia della Lombardia, confessò
  com'egli aveva insegnato per le scuole, che l'uomo poteva nascere
  sotto tale costellazione, che necessariamente sarebbe o ricco o
  povero, e simile: se Dio già non mutasse l'ordine di natura. 2º
  Che aveva con giuramento promesso al detto frate Lamberto di
  lasciare ogni eresia e credenza, e ogni favore degli eretici,
  massime degli astrologi, e osservare la fede cattolica, e che
  ricevette la penitenza. E che, dopo dato il giuramento e fatto la
  penitenza, poi che venne a Firenze gli fu domandato se, per
  scienza astrologica, si potea sapere la fortuna o disgrazia di un
  esercito o di un principe, e rispose che sì: perchè una cosa che è
  possibile, disse, si può comprendere per mezzo di una scienza. E
  confessò aver consigliato i signori non esser bene per ora
  combattere coi nostri soldati contro il Bavaro; ma che se li
  concedesse il passo, infino a tanto che, con vera scienza di
  astrologia si potesse pigliare il tempo e il giorno atto alla
  guerra. E disse credere che le predette cose si possono sapere per
  scienza di astrologia, e che non crede esser questo contro la
  fede. 3º Asserì che aveva fatto più profitto nell'astrologia, che
  alcun altro, da Tolomeo in qua. 4º Confessò, che, domandato da un
  Fiorentino che gli dichiarasse il libro dell'Alcabizzo, che tratta
  de' segni e cognizione de' segni, della natività degli uomini, e
  dello eleggere i tempi del comprare, del vendere, e degli altri
  atti ed esercizj umani, gli disse che aveva fatto un comento sopra
  detto libro, e che perciò procurasse di averlo. 5º Disse aver
  composto un libro sopra la sfera. Ora, le cose che si contengono
  in detto libro, non viste per detto inquisitore, sono contrarie
  alla natura e nimiche alla verità cattolica. Che cosa più eretica,
  e più a Dio e agli uomini infesta che dire, per la necessità de'
  corpi superiori e virtù delle costellazioni, come dice un tal
  libro, Gesù Cristo nascesse povero? Che Anticristo abbia a nascere
  da una vergine, e che abbia a venire duemila anni dopo Gesù
  Cristo, in forma di soldato valente, accompagnato da nobili, e non
  come poltrone accompagnato da poltroni? Qual maggiore eretica
  falsità che il porre l'ora, il luogo, la qualità della morte, le
  quali cose sono al tutto incognite al genere umano? E nelle azioni
  umane, col giudicare secondo la disposizione e operazione de'
  corpi celesti si toglie al tutto il libero arbitrio, e per
  conseguenza il merito e il demerito. E benchè egli al presente
  preponesse la divina potenza e il libero arbitrio, nondimeno è
  stato convinto per testimonj che hanno deposto contro di lui. E
  quando si avesse a oprare con tale supposizione, che cosa si
  potrebbe fare col libero arbitrio? Nè vengono scusati tali errori
  dicendo, che queste cose non procedono di necessità, dicendo. La
  scienza dimostra quello che tu pensi, che porti chiuso in mano.
  Perchè così in fatto suppone, e con le parole nega. Nè scusato
  debb'essere dicendo che crede non essere contro la fede pigliare
  il tempo, eleggere guerra, e simile; che sarebbe una ignoranza
  molto grossa, anzi un'opinione eretica. Il dire ancora i suoi
  scritti essere stati corretti per il detto inquisitore di Bologna,
  questo non è vero nè verosimile, anzi contrario, come apparisce
  per le proprie lettere dello stesso inquisitore. E posto che
  fussino corretti, egli se n'è servito ne' casi dove sono i
  maggiori errori. Nè debbe scusare che in fine delli detti scritti
  esprime che, se in quelli fossero alcune cose non ben dette, di
  rimettersi alla cognizione della santa Madre Chiesa; perchè in
  quella si sono trovate espresse eresie, scritte dopo aver giurato;
  e basta che una sola volta abbia ingannato la Chiesa; perchè
  questa protestazione è indirettamente contraria al fatto stesso, e
  l'aggrava maggiormente. E siccome non possiamo nè dobbiamo passare
  tali e tante cose fatte per lo detto maestro delli errori, in
  dispregio dell'Eterna Maestà e per lesione della fede cristiana,
  considerata la sentenza data per frate Lamberto contro di lui, e
  il giuramento ch'esso fece, e la penitenza che ricevè, della quale
  non si curando, dice non si ricordare; e viste le altre cose che
  dal medesimo inquisitore abbiamo ricevuto, e udito i testimonj e
  le sue confessioni, e datoli il termine per finirle, e scusarsi; e
  poichè nè fece alcuna scusa, nè fare procurò, e, nel giorno che
  seguiva detto termine, quelle raffermò di sua spontanea volontà, e
  disse di nuovo essere vere; conferita la cosa con prelati, e molte
  altre persone e dottori di legge, e consigliandoci doversi
  procedere alla sentenza, come cascato nella pena dell'inosservanza
  del giuramento dato di non attendere più all'eresia, e avuto sopra
  le predette cose nuovo parlamento con più e diverse persone,
  religiosi teologi, e con altri tanto chierici che laici,
  pronunziamo il detto maestro Cecco, eretico costituito in nostra
  presenza, essere cascato nell'eresia, nella quale con giuramento
  aveva già promesso di non cascare, e pertanto doversi dare e
  concedere al giudizio secolare. E così lo concediamo al nobile
  milite messer Jacopo di Brescia, con onore ducale vicario
  fiorentino, presente e accettante dell'ill.mo Cecco, per punirlo
  con la debita pena. E ancora il libro composto sopra la sfera,
  pieno di eresie e d'inganni; e un altro libro in volgare nominato
  l'_Acerba_ (dal qual nome ne segue, che non contiene in sè
  maturità alcuna, presupponendovi che molte cose che appartengono
  alla virtù e ai costumi nascono dalle stelle, e a quelle ritornano
  come a loro cause) e riprovando tutti i suoi ammaestramenti, senza
  dottrina composti, e dannando diversi, ordiniamo di abbruciare con
  detto Cecco. E così ordiniamo e comandiamo.

La condanna di Cecco non fu dunque per magia e astrologia: del che
troppe persone erano macchiate allora, eppur teneansi a servizio da
Comuni, da principi, da prelati. Bensì per eresie, e per esservi
ricaduto dopo la promessa. E per verità, studiando l'opera di Cecco,
vedesi ch'egli mirava a un innovamento della scienza, e per mezzo di
questa, a un innovamento della vita nell'intelletto, nella morale, nella
religione, e a ciò adoprava l'insegnamento, la conversazione, i libri.
La scienza sua nuova consisteva nella necessità universale e
nell'antivedere; le intelligenze erano le cagioni; loro organi le
stelle; ogni cosa sotto la luna aver effetti necessarj; tutto esser
fatato. L'uomo però, mediante la scienza, può costringere le
intelligenze a palesargli il futuro. Perchè questa nuova scienza
prevalesse, bisognava aver distrutta la verità razionale e la rivelata;
e Cecco lo faceva con una fermezza, che non si smentì neppur davanti al
rogo.

Insomma egli rappresenta la scienza naturale, contro la scienza
cristiana di Dante: e potrebbe anch'essere che i Fiorentini, i quali
vivo aveano cacciato Dante, morto il volessero vendicare perseguitando
Cecco suo detrattore: il che viepiù ci si rende probabile vedendo
principale avversario di lui Dino del Garbo. Anche l'Orgagna, nel
Camposanto di Pisa, lo dipinse nell'inferno. Pure il suo poema nel
principio del cinquecento fu ristampato ben diciannove volte; e il
gesuita Appiani ne fece un'insulsa difesa, pretendendo fosse
d'inappuntabile dottrina. Speriamo non si qualifichi egualmente quella
che noi stendemmo del poeta teologo d'Italia, contro o uno zelo
intemperante, o un'arguta miscredenza.


NOTE

[145] Nella bella _Storia di Bonifazio VIII e de' suoi tempi_ del padre
Luigi Tosti (1847), leggesi che «quest'uomo, vituperato da molti, non
può non ammirarsi da tutti, come ultimo sostegno di quel magnifico
pontificato civile, in cui questo, sponendo a luce nel seno dell'Italia
una civiltà forbita e gentile, sconosciuto, calunniato da' suoi figli,
stanco e doloroso si ritraeva a posare ne' penetrali santi ed
inviolabili della religione che informava». Libro V, in principio.

[146] Giuseppe Ferrari, nelle Lezioni sugli scrittori politici, riflette
che, cinque secoli più «tardi, un'altra dottrina s'impossessava della
Francia, e a nome della ragione reclamava pure il diritto di procedere
col terrore, di bandir la crociata, e di spodestare tutti i re della
terra».

[147] Ap. RAYNALDI al 1293, n. 55.

[148] Vedansene le prove in PHILIPPS, _Diritto ecclesiastico_, vol. III,
lib. I, § 138.

[149] Il Sismondi, caloroso protestante e accannito contro Bonifazio,
scrive che i Francesi «avidi di servitù, chiamarono libertà il diritto
di sacrificare persino le coscienze ai capricci dei loro padroni,
respingendo la protezione che contro la tirannide offriva loro un capo
straniero e indipendente.... I popoli dovrebbero desiderare che i
sovrani dispotici riconoscessero al di sopra di loro un potere venuto
dal Cielo, che li fermasse sulla strada del delitto.» _Storia delle
Repubbliche italiane_, c. 24.

[150] DE RUBEIS, _Storia di Ravenna_, lib. VI.

[151] De' processi in Toscana discorse ripetutamente all'Accademia
Lucchese monsignor Telesforo Bini, com'è a vedersi negli Atti del 1838 e
1845. I molti documenti, da cui raccolgonsi nomi di centosette Templari,
spargono gran luce s'un punto storico, molto dibattuto dopo la tragedia
del Raynouard.

[152] Oltre il Tosti suddetto 1847, vedansi varj scritti pubblicati pel
VI centenario di Dante.

[153] _Paradiso_ XI.

[154] _Inferno_ II.

[155] _Purgatorio_ XX.

[156] «E certo sono di ferma opinione che le pietre che nelle mura sue
(di Roma) stanno, sieno degne di reverenza, ed il suolo dove ella siede,
sia degno oltre quello che per li uomini è predicato e provato».
_Convivio_.

[157] Il chiarissimo filologo Bartolomeo Sorio lesse quest'anno
all'Istituto Veneto una memoria sopra il _Filicopo_ di Giovanni
Boccaccio, ove pretende mostrare che scopo di questo romanzo storico era
di esortare i principi Angioini al dovere che come feudatarj aveano di
accorrer a difesa del papa, ch'era stato costretto uscir di Roma ed
esulare ad Avignone; sicchè, com'ebbe dire nel Decamerone, Roma, già
capo del mondo, allora era coda.

Con quello stravagante e fin empio infrascamento di sacro e profano, ivi
racconta l'incarnazione del figlio di Giove, e come subì l'iniqua
percossa di Atropos, poi ritornato al padre, dopo spogliata di molti
prigioni l'antica città di Dite, mandò a' principi de' suoi cavalieri il
promesso dono del santo ardore. Segue la predicazione del vangelo nella
Spagna per opera del possente _Dio occidentale_, ch'è san Giacomo. «E in
te, o alma città, o reverendissima Roma, la quale egualmente a tutto il
mondo ponesti il tuo signoril giogo sopra gl'indomiti colli, tu sola
permanendo vera donna, molto più che in altra parte risuona, siccome
degno luogo della cattedral sede dei successori di Cefas. E tu di ciò
dentro a te non poco ti rallegra, ricordando te essere quasi la prima
predatrice delle sante armi; perciocchè conosci te in esse dover tanto
divenir valorosa, quanto per addietro in quelle di Marte pervenisti, e
molto più. Onde contentati, o Roma, che, siccome per l'antiche vittorie
più volte la tua lucente fronte ornata fu delle belle frondi di Penea,
così di quest'ultima battaglia (_religiosa_) con le nuove armi
trionfando, tu vittoriosamente meriterai d'esser ornata d'eternal
corona. E dopo i lunghi affanni la tua immagine fra le stelle sarà
allogata, tra le quali co' tuoi antichi figliuoli e padri, beata ti
troverai». Lib. I, num. 25 e seg.

[158] Lo studio della natura dell'impero e delle sue relazioni colla
Chiesa è di suprema importanza per intendere la storia del medioevo.
Perciò noi v'insistiamo. Su ciò versa un'opera recente dell'inglese
James Bryce, _The holy Roman Empire_. Oxford 1864.

[159] _Lege I de requir. reis_.

[160] _Mystéres d'iniquité_, pag. 419.

[161] Foscolo, _Discorso sulla D. C._ Londra 1823.

[162] _Sullo spirito antipapale che produsse la riforma_. Londra 1832, 3
vol. Già l'Aconzio (_Stratagematum Satanæ_, Lib. VIII) avea supposto
negli autori un linguaggio a due sensi. Il famoso scettico Bayle
conchiudeva: «Badate che Dante offre pruove e a quei che lo dicono buon
cattolico, e a quei che il negano».

[163] _Dante hérétique, revolutionnaire et socialiste, revélations d'un
catholique sur le moyen age_. Paris 1834.

_La Comédie de Dante traduite en vers selon la lettre, et commenté selon
l'esprit, suivie de la clef ou langage symbolique des fidèles d'Amour_.
Tomi 2. Paris 1856.

_Le Paradis de Dante illuminé_ a giorno; _dénouement tout maçonnique de
sa Comédie albigeoise_. 1855.

_Preuve de l'hérésie de Dante, notamment au sujet d'une fusion opérée
vers 1312 entre la Massènie albigeoise, le Temple et les Gibelins pour
constituer la Franc Maçonnerie, ib._

_Clef de la Comédie anticatholique de Dante_.

_L'Hérésie de Dante démontrée par Francesca da Rimini_.

_Les mystéres de la chevalerie et de l'amour platonique au moyen age_.
1858.

In senso opposto vedasi _Dante revolutionnaire et socialiste, non
hérétique_, par FERJUS BOISSARD, 1850.

[164] _Inferno_ III.

[165] _Inferno_ XXII.

[166] Come terrà questa regola quando Dante chiama i prelati _in veste
di pastor lupi rapaci_? e quando intima che _di voi, pastor, s'accorse
il vangelista_? e quando si lamenta sia usurpata _per colpa del pastor_
la giustizia di Firenze?

[167] Per esser conseguente, Lenoix (_Origine de la Francmaçonnerie_, p.
235) sostiene che san Bernardo era francomuratore.

[168]

    Veggio il nuovo Pilato sì crudele
      Che... senza decreto
      Porta nel Tempio le cupide vele.

[169]

    State contenti, umana gente, al quia;
      Che se potuto aveste veder tutto,
      Mestier non era partorir Maria.

[170] Beatrice dice a san Pietro.

          O luce eterna del gran viro
      A cui nostro Signor lasciò le chiavi
      Ch'ei portò giù di questo gaudio miro,
    Tenta costui de' punti lievi e gravi
      Come ti piace, intorno della fede
      Per la qual tu su per lo mare andavi. _Paradiso_ 24.

[171]

    Avete il vecchio e il nuovo Testamento,
      E il pastor della Chiesa che vi guida
      Questo vi basti a vostro salvamento. _Paradiso_ V.

[172] _Convivio_, Tratt. IV, c. 5. «Oh istoltissime e vilissime
bestiole, che a guisa d'uomo vi pascete, che presumete contro a nostra
fede parlare, e volete sapere, filando e zappando, ciò che Dio con tanta
prudenza ha ordinato. Maledetti siate voi e la vostra presunzione, e chi
vi crede».

[173] _Inferno_, c. VIII.

[174] Sonetti della _Vita Nuova_.

[175] _Hist. des sciences matem. en Italie_, tom. II, pag. 195 e 200.

[176] Vedi PALERMO nel Catalogo dei manoscritti della Palatina di
Firenze.

[177] Capo 91. Vedi qui sopra, a pag. 109.

[178] Lib. X, c. 41.



DISCORSO VIII.

L'ESIGLIO D'AVIGNONE. IL GRANDE SCISMA. CONCILJ DI COSTANZA, DI BASILEA,
DI FIRENZE.


Intanto nell'esiglio avignonese i papi succedevansi, sempre col
proposito di ritornare all'antica sede, ma sempre permanendone lontani.
Avignone, città libera del contado di Provenza, che poi fu comperata dal
papa, era preferita dai cardinali, perchè non si trovavano a fronte
d'una plebe riottosa come la romana, nè di tracotanti baroni: adagiatisi
colà come in domicilio stabile, ornarono di palazzi suntuosi la piccola
città, e al papa persuadevano dover lui preferire la Francia, centro
dell'Europa, meglio governata e quieta che l'Italia, più santa di Roma
perchè religiosissima la chiamava già Cesare, e i Druidi vi esistevano
prima del cristianesimo. Ma la prolungata assenza disgustava
gl'Italiani, soliti a bersagliare i papi finchè li possedono, ribramarli
appena perduti. E tanto più che, cessando i vantaggi, non cessavano gli
sconci; e i papi continuavano guerre per sottomettere popoletti riottosi
o signorotti ribellanti. Mentre le spese della Corte aumentavano, le
rendite d'Italia andavano facilmente distratte: i regni stranieri
ricusavano pagare i censi che sarebbero caduti a vantaggio della
Francia; sicchè la curia per ripiegare si riservava benefizj e annate,
moltiplicava commende e aspettative, e gli altri artifizj di fare
denaro. La cattolicità poi non riguardava come abbastanza tutelata la
necessaria indipendenza del suo Capo, dacchè esso viveva in una città,
libera sì, ma chiusa fra dominj altrui.

Roma principalmente non sapea darsi pace di tale vedovanza; sossoprata a
vicenda da una plebe irrequieta e da una faziosa feudalità, più non
aveva amministrazione, non giustizia; i palagi cadeano in ruina; le
chiese deserte si sfasciavano; il culto isquallidiva. I Romani volgean
dunque la memoria e il desiderio alle antiche magnificenze, e Cola di
Rienzo, fattosi tribuno del popolo, si propose di richiamare i papi a
Roma, e ripor questa a capo del mondo civile. Sono note le scene sue,
tra fiere e buffe; ripetute poi tante volte e in sì varj toni, che non
si osa nè riderne, nè vituperarle. Fatto è che, elevato un momento
dall'aura popolare, e con altrettanta prestezza abbandonatone (1347),
dopo repressi i nobili, citati i re e fino l'imperatore a venire a
ricevere i decreti del popolo romano, a stento fuggì a cercare ricovero
tra i Fraticelli di Monte Majella.

Il papa, rintegrata la sua autorità, mandò il cardinale Egidio Albornos
spagnuolo (1353) per «ispegnere l'eresia, reprimere la licenza,
procurare la salute delle anime, e rintegrare l'autorità della Chiesa
colla pace e colla guerra». In fatti egli si sottopose i varj Comuni, in
ciascuno de' quali avea fatto nido un tirannello; e raccolti a Roma i
deputati di tutti essi Comuni (1357), d'accordo con loro dettò una
costituzione.

Il dominio temporale non ha che vedere colla fede, e in conseguenza non
è soggetto di eresia, e noi già indicammo come avesse un'origine più
antica e più popolare di qualunque altro, e qual concetto se ne portasse
allora. Qui però ci cade di osservare come i papi, conforme alle idee
del medioevo, tanto diverse dall'assolutismo dello Stato, introdotto dai
moderni, esercitassero il dominio in unione col popolo, cioè colla
repubblica romana. Allorchè essi stettero lontani, questa prevalse a tal
segno, che Cola citava l'imperatore e gli elettori di Germania a
giustificare i loro titoli davanti al popolo romano.

Fu il cardinale Egidio Albornos che tolse a stabilirvi una vera
sovranità, a quel modo che allora diveniva generale: distrusse i
signorotti, recuperò le città, ben liete d'obbedire al pontefice
piuttosto che a tirannelli; e colle _Constitutiones Ægidianæ_ garantiva
molti privilegi, pure procurando, massime nella Marca d'Ancona,
assicurare il libero esercizio della sovranità mediante l'unità delle
provincie. Quelle costituzioni rimasero il vero diritto pubblico della
Romagna, furono stampate nel 1472, e dipoi con aggiunte varie: la Santa
Sede, uniformandosi alle idee principesche le quali andavano prevalendo,
s'ingegnava d'ampliare le sue prerogative, mentre le provincie
attenevansi gelose ai proprj statuti: sicchè la sovranità pontifizia
rimaneva piuttosto nominale al modo antico, anzichè dispotica.

Così s'andò fino alla rivoluzione del 1797, che spossessò i papi; poi la
restaurazione del 1814 li ripristinò. Gli avversarj del dominio
temporale si sforzano di provare che questo dominio esercitavano essi
sempre in dipendenza della supremazia imperiale. Rinneghiamo tutta la
storia, e concediamo ai realisti questo fatto. Ma il sacro romano impero
nel 1804 era cessato, e tutte le dominazioni da quello dipendenti
restavano dichiarate di piena autorità; ne' congressi del 1815 si
convenne che ogni signoria mediata cessasse, e la sovranità fosse piena
in ciascuno e indipendente. Anche i papi dunque rimanevano padroni
assoluti del loro Stato, a fronte ai re. A fronte ai popoli avrebbero
dovuto osservare i privilegi, che loro aveano conceduti e mantenuti da
antico. Ma questi erano stati cancellati dalle illimitate signorie degli
usurpatori, che avevano avvezzati all'incondizionato despotismo. I
restauratori poi non voleano, e massime in Italia, che esistessero
costituzioni e diritti scritti di popoli: nemici alla storia, come
chiunque vuole tiranneggiare. Imposero dunque al papa di farsi re
assoluto, come essi erano, e fu allora che il cardinale Consalvi, non
abborrente dalle idee nuove, fece dettare dal papa il _motu proprio_,
che sistemava l'amministrazione pubblica con aspetto di legge generale,
invece delle antiche molteplici e parziali; dal centro doveano partire
le nomine de' magistrati, gli editti, le leggi finanziarie; solo delle
moderne avanie non si volle imporre la coscrizione, che pure è
indispensabile per sostenere le altre.

Novissimo dunque era l'assolutismo in terra di papa, e quando Pio IX
iniziava e benediva il moto italiano, nella costituzione 14 marzo 1848
protestò di non fare che «riprodurre alcune istituzioni antiche, le
quali furono lungamente lo specchio della sapienza degli augusti nostri
predecessori»; e che «ebbero in antico i nostri Comuni il privilegio di
governarsi ciascuno con leggi scelte da loro medesimi, sotto la sanzione
sovrana».

Ecco una delle mille prove che la libertà è antica, e nuovo il
despotismo; se non che, perduto ogni senso morale e politico, oggi si
applica all'uno il nome dell'altra.

Quest'esiglio d'Avignone viene allegato, nelle odierne controversie, per
indicare la possibilità di assidere il papa altrove che a Roma. Chi ciò
desidera, non potrebbe scegliere nella storia esempio più sfavorevole,
tutti essendo d'accordo nel deplorare quell'età, e mostrar che i papi
non devono essere cittadini di paese altrui. Inoltre si avverta che il
papa era sempre il vescovo di Roma, non mai il vescovo d'Avignone o di
Peniscola, e teneasi fuori della sua sede per circostanze sciagurate.
Già sant'Ireneo diceva che «la Chiesa di Roma ha un primato, pel quale
tutte le altre devono accordarsi con essa nella fede». Talchè, anche
data al problema l'unica soluzione possibile, l'espulsione forzata del
papa da Roma, neppure d'un passo s'avanzerebbe la soluzione.

Ma tenendoci ai tempi di quell'esiglio, Roma altalenò sempre fra insania
demagogica e oligarchica arroganza, or ribelle al pontefice per
bizzarria, or sottomessagli per paura. Le baruffe invelenivano ancora
più dacchè i papi, non risentendone gl'incomodi, poco curavano sopirle.
I papi stessi sentivansi fuori di posto in una terra dove vestivano
aspetto d'un esule ricoverato, piuttosto che di sovrano dei re; e dove
prelati quasi tutti francesi davano alla Corte un'aria nazionale, ben
diversa da quella cosmopolitica che soleva in Roma. Più volte dunque
proposero di ritornare, ma o nol fecero, o per breve, e solo dopo
settantun anno e tre mesi la santa sede fu restituita di Francia in
Italia.

Queste miserie diedero nuova scossa alla maestosa unità cattolica,
preponderante nel medioevo. Se gl'Italiani favorivano alla Santa Sede
pel vantaggio che ne traeva il loro paese, eransene intepiditi dacchè
quella esulava; e gli stranieri trovavano più oneroso questo migrare di
tanto loro denaro a paese che non era considerato seconda patria di
tutti come Roma. I vescovi dall'assenza del papa pigliavano esempio per
allontanarsi dalle loro diocesi. La contesa coi frati Minori aveva resa
ostile alla Santa Sede la milizia sua più devota; e al vedere condannate
persone pie, cui sola colpa dicevasi l'eccesso della povertà, si
richiamavano le declamazioni d'Arnaldo di Brescia contro i possessi
ecclesiastici e la corruttela derivatane. Le nazioni eransi formate
attorno ai vescovi, donde l'assoluto potere ecclesiastico, come di padre
sopra i figliuoli. Costituitesi, ingrandite, vollero svilupparsi dalle
fasce della Chiesa per vivere di vita propria, compresero che il
temporale potea sussistere disgiunto dallo spirituale: onde alla società
senza limite di spazio surrogavano società parziali e distinte,
all'andamento generale le particolari destinazioni.

I tentativi di Bonifazio VIII per rintegrare la supremazia richiamando
in vigore le precedenti decisioni canoniche, destarono ne' principi
quella gelosia, che proviene mentosto da usurpazioni reali che da
temute. Alle immunità attribuite ai beni ed alle persone degli
ecclesiastici, i Comuni più non aveano rispetto, e proferivano decreti
sopra di essi, in onta agli anatemi del pontefice e de' vescovi. Quando
l'edificio sociale era impiantato sulla fede, ogni opposizione si
risolveva in eresia, e il pontefice per le sue prerogative, il clero per
le immunità offese lanciavano scomuniche e interdizioni. Ma se queste
aveano fiaccato l'orgoglio e la possa degli imperatori Sassoni e Svevi,
perdeano efficacia dacchè venivano prodigate per intenti mondani; i
Siciliani durarono ottant'anni in rotta colla Chiesa; i Visconti di
Milano se ne vendicavano col pesare viepeggio sugli ecclesiastici; gli
avvocati ergeano la fronte contro i papi, ai quali dianzi erasi
incurvata quella dei re.

Non per questo si rinnegava la Chiesa: i Patarini erano scomparsi
d'Italia o nascosti; il popolo amava le splendidezze del culto, se anche
non ne venerava l'austerità, e compiaceasi del papa e della Corte
pontifizia. Ma dacchè questa erasi trasportata in Avignone, i Guelfi non
meno che i Ghibellini la bersagliavano, quasi cessasse d'essere
cattolica cessando d'essere romana. Franco Sacchetti mercante
fiorentino, il Petrarca canonico, il Pecorone frate, e persone di grande
scienza e di celebrata santità avventavansi contro la Babilonia: i
malcontenti del governo temporale vituperavano i papi spirituali: di
Clemente V non è male che non si dicesse: Giovanni XXII fu tacciato
d'eretico sì pel suo litigio che dicemmo coi Fraticelli, sì per sue
dubitazioni sulla beatifica visione: cioè se le anime elette vedano Dio
nella sua maestà subito staccate dal corpo, o solo dopo il giudizio
finale.

Lodovico il Bavaro, eletto imperatore di Germania, era venuto in Italia
per la corona (1324), e poichè Giovanni XXII gliela ricusava, egli
ostentò non aver bisogno dell'autorità di esso. Il papa allora dichiarò
l'Italia sottratta alla giurisdizione imperiale, in modo che non potesse
mai più essere incorporata coll'impero nè infeudata. Di ripicchio il
Bavaro s'appella al Concilio, e prodiga le solite ingiurie al papa; il
papa dichiara lui scomunicato, e interdetti i paesi che gli obbedissero;
onde Lodovico, che, sostenuto dai Ghibellini, si era fatto coronare a
Roma, e avea nominato un antipapa, presto si trova isolato e decaduto.

Per sostenersi aveva egli adoprato non solo le armi, ma le dottrine.
Guglielmo Occam, scolastico nominatissimo, contendeva l'infallibilità
non solo al papa, ma anche al concilio universale e al clero; ai laici
in corpo competere il decidere definitivamente; contro il papa potersi
all'uopo usare anche la forza, o stabilirne diversi, un dall'altro
indipendenti. Marsilio di Mainardino da Padova, eloquente professore
all'Università di Parigi, insinuò a Lodovico che a lui spettasse
riformare gli abusi della Chiesa, giacchè questa è sottomessa
all'impero; «Ho visto (egli diceva) prelati, abati, sacerdoti, così
sprovvisti di dottrina, che non sapeano tampoco parlare secondo
grammatica. Quei che hanno visitato la Corte di Roma, la conobbero casa
di traffico, spelonca di ladroni; quei che non l'hanno veduta udirono
ch'è fatta ricettacolo di quasi tutti i ribaldi, e trafficanti nello
spirituale come nel temporale; non v'è che malvagità; nessuna premura di
acquistare le anime»[179].

Col mistico Ubertino da Casale egli pubblicò il _Defensor pacis_, ove
già s'incontrano le negazioni di Calvino rispetto all'autorità e
costituzione della Chiesa; la potestà legislativa ed esecutiva di questa
fondarsi sul popolo, che la trasmise al clero; i gradi della gerarchia
essere invenzione posteriore; Gesù non lasciò alla sua Chiesa verun capo
visibile, e Pietro avea preminenza tra gli apostoli soltanto per
l'anzianità; il primato consistere unicamente nel convocare concilj
ecumenici e dirigerli, purchè il papa vi sia autorizzato dal legislatore
supremo, cioè da tutti i fedeli o dall'imperatore che li rappresenta;
eguali essendo i vescovi, l'imperatore solo può elevarne uno sopra gli
altri, e a grado suo abbassarlo: a lui solo spetta l'istituire i
prelati, eleggere il papa, giudicare i vescovi, al modo che Pilato
giudicò Cristo; convocare i concilj e regolarne le deliberazioni: nè la
Chiesa può infliggere alcuna pena coattiva se l'imperatore non assente.
Altrettanto sosteneva Giovanni Gianduno di Perugia; sì poco sono moderne
le dottrine che subordinano la Chiesa ai governi[180].

Giovanni XXII in una Bolla riprova tali errori, e avendo citato invano i
due autori, li condannò coi libri loro. Teoriche altrettanto assolute vi
opponeano i curialisti; e col VI e VII libro delle _Decretali_ e colle
_Estravaganti_ erasi estesa per modo la competenza del fôro
ecclesiastico, che qualsivoglia lite poteva anche in prima istanza
essere portata al pontefice.

Agostino Trionfo d'Ancona, agostiniano, che dettò a Parigi, poi a
Napoli, dedicò a Giovanni XXII una _Somma della podestà ecclesiastica_,
dove, elevando la potenza papale colla Bibbia, il vangelo, i miracoli,
le leggende, da Dio immediatamente la deriva; superiore ad ogni altra
perchè giudica tutti, da nessuno è giudicata; come spirituale, così è
temporale, perchè chi può il più può anche il meno: è assurdo appellarsi
al concilio, giacchè questo non trae autorità che dal pontefice, il
quale unico può proferire sui punti di fede, nè altri può investigare
dell'eresia senz'ordine di esso. Come sposo della Chiesa universale,
tiene immediata giurisdizione sopra le singole diocesi. Al papa devono
obbedienza Cristiani, Ebrei e Gentili; egli, e non i vescovi, può
scomunicare; egli punire i tiranni e gli eretici anche con pene
temporali; di là della tomba estende il potere per via delle indulgenze.
Potrebbe scegliere di qualsiasi paese l'imperatore, senza ministero
degli elettori, o renderlo ereditario: l'eletto dev'essere da lui
confermato e professarsegli ligio, e può da lui essere deposto: tutti i
re sono tenuti obbedire al pontefice, dal quale traggono la potestà
temporale: a lui può appellarsi chiunque si sente gravato dal principe:
e i principi egli può correggere per peccati pubblici, deporli anche,
istituire un re di qualsiasi regno: gli imperadori non donarono il
dominio ai papi, ma lo restituirono: Gesù Cristo dicendo che il suo
regno non è di questo mondo, intendeva del mondo vecchio, non del
rigenerato: il potere temporale deve stare unito allo spirituale perchè
l'uno serve di mezzo all'altro: rendere a Cesare ciò ch'è di Cesare vuol
dire permettere che l'imperatore eserciti la giurisdizione, sempre in
dipendenza dal papa: quanto alla povertà, Gesù Cristo possedea vesti,
viveri, denaro, con cui pagava il tributo[181].

Così procedendo, non c'è atto, non c'è abuso che non giustifichi.

L'esagerazione è sintomo di autorità minacciata; ma realmente declinava
ne' popoli lo spirito di soggezione. Di intromettersi nelle cose
ecclesiastiche avea troppi pretesti l'autorità secolare, quando la santa
sede, fatta ligia ai re, non valeva a frenare la corruzione fastosa de'
prelati, i quali sotto la stola mantenevano le abitudini dell'educazione
secolaresca e il lusso sfrenato delle famiglie signorili. Ned altro
testimonio ne voglio che il concilio Lateranense III, il quale,
avvisando i prelati quanto disdica il camminare con treno sì numeroso, e
il consumare in un pranzo l'intera annata della Chiesa che visitano,
impone ai cardinali s'accontentino di quaranta o cinquanta vetture, gli
arcivescovi di trenta o quaranta, i vescovi di venticinque, gli
arcidiaconi di cinque o sette, di due cavalli i decani; tutti poi vadano
senza cani da caccia nè uccelli. Per mantenere questo fasto profano
accumulavansi fin quaranta o cinquanta benefizj in una sola mano; e
vuolsi che Benedetto XII proponesse ai cardinali, se rinunziassero
all'averne più d'uno, assegnare loro centomila fiorini d'oro di rendita
e metà delle entrate dello Stato pontifizio; e ad essi non parvero
abbastanza.

La corruzione scendeva grossolana nel clero minore, dove ignoranza,
venalità de' sacramenti, comune l'ubbriachezza, sfacciata la libidine:
nelle chiese e ne' conventi si stabilivano bettole e giuochi; le monache
uscivano a volontà dai monasteri: trafficavasi di grazie, dispense,
perdoni. Degli antichi Ordini religiosi rilassavasi la disciplina, e
perfino in quel Monte Cassino, che già allora avea dato ventiquattro
papi, ducento cardinali, milleseicento arcivescovi, ottomila vescovi,
molti santi, i monaci vestivano sfoggiato, abitavano comodi,
riservavansi peculj particolari, anzi riceveano dal convento una
prebenda, colla quale vivere in case secolari.

Ai conforti del pio Marco, parroco in Padova, Luigi Barbo tolse a dare a
quell'Ordine regole più severe, che presto si estesero a Pavia, Milano e
più da lungi.

Il beato Giovanni Dominici fiorentino, oratore famosissimo, restaurò la
vita regolare in Italia e in Sicilia fra i Domenicani, infervorato da
Chiara de' Gambacurti, e ajutato da Raimondo da Capua, dal beato
Marconino di Forlì e da altri. A Siena Bernardo Tolomei fondava gli
Olivetani; Giovanni Colombino i Gesuati; Pietro Gambacurti di Pisa gli
Eremiti di san Girolamo, gli Eremiti di Fiesole il beato Carlo dei conti
Guidi.

Diedero odore di gran santità sant'Andrea Orsini, Bernardino da Siena,
Vincenzo Ferreri. Giovanni da Capistrano napoletano, convertitosi in
carcere, ispirava compunzione, scrisse dell'autorità del papa, e fu
apostolo d'una crociata contro Maometto. In tutti questi e in altri si
fanno sentire gemiti per la depravazione della Chiesa.

Urbano VI avventatosi a riformarla di colpo, vietò ai prelati d'usare a
tavola più d'una pietanza, egli stesso dandone l'esempio; minacciò non
solo i simoniaci, ma chiunque accettasse doni, e fe credere di volere
fermamente rimettere a Roma la Corte. Di ciò indispettiti, la più parte
de' cardinali separaronsi da lui e protestarono non era stato eletto
liberamente, ma sotto la costrizione del popolo romano tumultuante, e
gli sostituirono Clemente VII ginevrino. Parte della cristianità accettò
l'uno, parte l'altro papa; donde comincia il grande scisma, con una
doppia serie di pontefici paralleli.

Qual era il vero?

Personaggi di senno e santità grande parteggiarono per l'uno e per
l'altro; pruove in favore addussero questi e quelli, per modo che può
sostenersi la buona fede d'entrambe le parti. Ma per mezzo secolo fu
scissa la cristianità fra due campi ostili, fra pontefici che
rimbalzavansi accuse e taccia d'intruso e d'eretico. Ne restavano divise
le nazioni; divisi i cittadini; divisi gli scolari d'ogni Università, i
monaci d'ogni convento, i membri d'ogni famiglia; e da per tutto dispute
e collisioni fino al sangue; due vescovi, eletti dall'uno o dall'altro
pontefice, si contendevano la medesima sede; abborrivansi le messe degli
uni o degli altri. I due papi per procacciarsi partigiani riconoscevano
un re diverso, scialacquavano privilegi, connivevano a traviamenti e
usurpazioni, spoverivano il basso clero col lasciare trascendere l'alto;
questo riservavasi le migliori grazie e le commende e i benefizj,
dandole in appalto a persone dappoco, mentre i curati erano fino ridotti
a mendicare. Ciascuno insomma era ricorso a mezzi dissonanti da quelli
dell'apostolato: Bonifazio IX lasciò trafficare delle indulgenze e del
suffragio ai morti, pretendeva le annate dei vescovi eletti, a denaro
permetteva di accumular benefizj; Giovanni XXIII ebbe accusa di cavare
oro dalle medesime miniere, e moltiplicarlo colle usure.

Le piaghe del papato, come il cadavere di Cesare, furono allora esposte
agli occhi di tutti, invelenite dalla collera de' nemici non meno che
dalle ingiurie palleggiatesi fra' cardinali e pontefici rivali, che, per
non disgustare la loro fazione, erano costretti rassegnarsi a minacce, a
importunità, dissimulare e simulare, intrigare, congiurare, promettere,
concedere; infine guadagnare tempo fingendo di desiderare una
riconciliazione, di cui aveano in mano il mezzo; e compromettendo
un'autorità che si fonda interamente sulla virtù e sull'opinione.

Questo scapitare della santa sede nella venerazione, cresceva baldanza
a' principi di sminuirne l'autorità, ai dotti di chiamarla a severo e
passionato esame: le satire acquistavano peso quando uscivano dalla
bocca de' pontefici stessi, e portavano ad immediata applicazione.

Pertanto il dubbio filtrava nei cuori più sinceri; l'indifferenza ne'
più generosi, la disperazione ne' più robusti: e principi, Università,
giureconsulti, teologi, disputavano sui mezzi di ripristinare l'unità.
Il più ovvio sarebbe stato un concilio generale: ma poichè il convocarlo
attribuivasi da secoli al papa, a qual dei due competeva? Si dovette
ripiegare con sinodi particolari; ma che? oltre i due papi, v'ebbe fin
tre concilj.

Intanto che nel mondo cristiano perdevasi l'unità che n'è l'essenza,
Bajazet granturco stringeva Costantinopoli, aveva invaso l'Ungheria, e
la Polonia; e i Tartari, sotto il terribile Tamerlano, minacciavano
all'Europa le devastazioni che aveano recate all'Asia.

Gli animi, sgomentati fino alla disperazione, si volgeano a Dio, da lui
solo aspettando il termine a tanti guai. Già nel 1260, in occasione di
gravi sventure, s'eran diffusi per Italia i Flagellanti: compagnie
devote che, dietro a un crocifisso, passavano di paese in paese,
gridando misericordia e pace e penitenza, e traendo infinita gente,
intere città e provincie. Pare fossero primi i Perugini: trentamila
Bolognesi arrivarono così a Modena; alcuna volta crebbero fino a
centomila; e cercavano por rimedio agli scandali, alle discordie, alle
usure colla preghiera, la macerazione, la predica. Era una grande pietà
come quella de' frati Minori; erano innamorati della penitenza, come
questi della povertà, e come questi trascesero. Perocchè, oltre i
disordini inseparabili da tanto aglomeramento di persone, convertironsi
in setta ereticale, predicando che la remissione de' peccati non
otteneasi se non coll'appartenere un mese almeno alla loro compagnia;
confessavansi tra loro, sebbene laici; vantavansi d'operare miracoli e
cacciare demonj. Mentre dunque al cominciamento i principi e i prelati
li favorivano, dappoi li vietarono; i Torriani non meno che gli Estensi,
Manfredi di Sicilia al par dei Comuni, eressero forche se osassero
avvicinarsi[182].

Non per questo cessarono: e nel 1334 frà Venturino da Bergamo menavasi
dietro più di diecimila Lombardi, ricevuto a guisa d'uomo divino; e con
grandi limosine. Cresciuto a forse trentamila seguaci, e vaticinando
mali futuri, passò a Roma, poi anche alla Corte d'Avignone sperando
ottenerne grandi indulgenze; ma al papa sembrò scorgervi ambizione o
leggerezza, e frà Venturino fu messo al tormento e in carcere: donde poi
mosse colla crociata, e morì a Smirne.

Quella divozione rinfervorò nel 1399, d'Irlanda varcando in Inghilterra,
in Francia, poi in Piemonte; e i Flagellanti da una parte per Lombardia,
dall'altra per Genova voltarono su Roma. Erano donne, fanciulli, vecchi,
cenciosi, ricchi, dotti, imbecilli alla mescolata, con abiti strani come
suole la folla; giunti in una terra, intonavano lo _Stabat Mater_, il
_Miserere_, le _Litanie_, visitavano le chiese, riceveano alloggio e
cibo dalla carità, poi lasciati gli stanchi, e assunta nuova turba,
ripigliavano il pellegrinaggio[183].

Chi non vede quali disordini potesse addurre questa incondita pietà,
mentre non riparava a quelli cagionati dalla scissura della Chiesa?

Mentre i pii gemevano e pregavano, i diversi dal disordine esterno
passavano a criticare l'intima verità della Chiesa; si spargeano libri e
sermoni critici, anche in lingua vulgare[184]; Bartolino da Piacenza
verso il 1385 pubblicò alquante tesi legali sul modo di trattare il papa
qualora apparisse negligente, inetto a governare, o capriccioso in modo
da ricusare il consiglio dei cardinali (com'era il caso di Urbano VI); e
conchiudeva potere quelli mettergli de' curatori, al cui parere
foss'egli obbligato attenersi nello spacciare gli affari della Chiesa. I
roghi non bastavano a reprimere gli eretici in Francia; i Valdesi
pigliavano ardimento fra le Alpi, e Gregorio XI movea lamento perchè
dalle valli subalpine si propagassero, e discesi in Piemonte, avessero
trucidato un inquisitore a Bricherasio, uno a Susa[185].

Profittando di questa depressione, Carlo IV emancipò l'impero dalla
dipendenza papale, e i Francesi, colla prammatica sanzione di Bourges,
restrinsero i diritti pontifizj. In Inghilterra Giovanni Wicleff aveva
impugnato le indulgenze, la transustanziazione, la confessione
auricolare, domandato la secolarizzazione degli Ordini regolari e la
povertà del clero. Girolamo da Praga portò i libri di esso in Boemia,
dov'ebbero effetti più gravi, perocchè Giovanni Huss, che già aveva colà
alzato la voce contro la depravazione del clero, vi attinse argomenti
teologici e ardimento a proclamarli. Essendo poi venuti alcuni monaci a
spacciarvi indulgenze, e avendo l'imperatore proibito il sacrilego
traffico, si pigliò baldanza a declamare, in prima contro l'abuso, poi
contro le indulgenze medesime. Il popolo ascoltava avidamente; gli
studenti boemi se n'infervoravano; le quistioni religiose prendevano
colore politico d'aborrimento ai Tedeschi e d'aspirazioni repubblicane;
lo sparlare dei papi pareva indizio di ragione più elevata e di
carattere più franco, e se ne faceva argomento da piazza non meno che da
scuola, dove i professori fra la gioventù inesperta seminavano un vago
desiderio di sottrarsi ad ogni autorità.

Tante passioni, tanti errori, eppure fu ancora alla Chiesa una che la
cristianità si ricoverò; e sotto al manto del pontificato. Di questo non
erasi mai impugnata l'unità; benchè restasse incerto chi ne fosse
l'investito; disputavasi del possesso e dell'esercizio dell'autorità; ma
non dell'autorità stessa. E più erano ulcerate le piaghe, più speravasi
ne' rimedj che v'apporrebbe un concilio, che inoltre rannoderebbe i
principi cristiani per respingere la sempre crescente minaccia degli
Ottomani.

L'imperatore Sigismondo, fisso in animo di ricondur la Chiesa all'unità,
ottenne si convocasse il concilio a Costanza, città imperiale sulla riva
occidentale del bel lago che divide la Svevia dalla Svizzera. Assai
principi, signori e conti v'intervennero; si numerarono fino
cencinquantamila forestieri, fra cui diciottomila ecclesiastici e
ducento dottori dell'Università di Parigi: ma insieme trecenquarantasei
commedianti e giullari, settecento cortigiane, trentamila cavalli; e fra
lusso e tornei e sfide i gaudenti menavano baldorie, mentre i pii
oravano, i dotti preparavansi a lizze dialettiche.

Ma un'assemblea di tanta importanza, fino dal principio reluttò ai modi
sagaci, con cui gl'Italiani e il papa tentavano dominarla[186]. Mentre
la Chiesa nella sua universalità non distingue popoli, ed estima ciascun
uomo pel proprio valore, qui divisero il concilio in camera tedesca,
italiana, francese, inglese, spagnuola, le quali deliberassero
distintamente; mirando con ciò ad elidere la superiorità degli Italiani.

Tre papi sedeano allora; Giovanni XXIII, Benedetto XIII, Gregorio XII, e
vennero indotti a rinunziare (1417) terminando così uno scisma, che fu
la maggiore prova a cui la Chiesa andasse esposta[187].

Bisognava surrogare un pontefice degno. Sigismondo voleva che, prima
d'eleggerlo, si riformasse la Chiesa, per timore che il nuovo non
fallisse alla promessa; ma gl'Italiani incalzarono perchè prontamente si
eleggesse: e la scelta cadde su Ottone Colonna, che nominossi Martino V.
Sigismondo aveva preveduto giusto; poichè Martino trovò modo di rinviare
d'oggi in domani le chieste riforme, logorando il tempo in divisamenti o
in condiscendenze secondarie.

Il concilio, ancor prima della creazione di Martino V, avea condannato
le seguenti proposizioni:

«È contro la sacra scrittura che persone ecclesiastiche abbiano
possessi.

«I signori temporali possono ad arbitrio togliere i beni temporali alla
Chiesa, quando i possessori pecchino abitualmente, non solo attualmente.

«È contro la regola di Cristo l'arricchire il clero.

«Silvestro papa e Costantino imperatore errarono coll'impinguare la
Chiesa.

«Il papa con tutti i cherici sono eretici perchè possedono, e così quei
che glielo consentono.

«L'imperatore e i signori secolari furono sedotti dal diavolo perchè
dotassero di temporalità la Chiesa».

Ma già il concilio stesso era uscito dalla suprema sua missione, e nel
proposito di tôr via lo scisma, e considerando incerto il papa, si
credette autorizzato a comandare anche a questo, fino a decretare nella
V sezione che, qualunque siasi e di qualsivoglia condizione anche
papale, il quale sprezzi di obbedire a questo sacro sinodo o a qualunque
altro concilio generale, sia assoggettato a condegna penitenza.

A questo lo traeva l'essere la Chiesa scissa: anzi andò tant'oltre che
nella XXIII sezione, dichiarò potersi dal papa appellare al concilio.
Cessò allora d'essere tenuto per ecumenico; e papa Martino, proferitolo
sciolto, andossene a Roma.

I Padri, vedendosi sprezzati dal popolo per le capiglie e i baccani a
cui prorompeano, e divenuti sospetti nella fede dacchè eransi segregati
dal papa, vollero ostentare zelo della fede col perseguitare l'eresia, e
condannarono Giovanni Huss e Girolamo da Praga, i quali, malgrado il
salvocondotto dell'imperatore[188], furono dati al braccio secolare e
posti sul rogo. Tristo rimedio la violenza! La Boemia divampò d'un
incendio, a spegnere il quale non bastarono torrenti di sangue[189].

Eugenio IV, pontefice d'animo elevato, ma senza misura in nessuna cosa,
fece aprire un nuovo concilio a Basilea (1431), onde estirpare l'eresia,
ridurre in pace le nazioni cristiane, togliere il lungo scisma de'
Greci, e riformare la Chiesa. I Padri s'accinsero a quest'ultim'opera
senza preciso concetto di quel che volessero operare, nè de' limiti
dell'autorità propria e di quella che pensavano restringere;
denunziarono un dopo l'altro gli abusi parziali, senza proporre un
rimedio radicale. Da principio, non che attenuare la sovranità papale,
sanzionossi il Decreto di Graziano che la sublimava, i cinque libri
delle _Decretali_ di Gregorio IX, forse anche il sesto di Bonifazio;
solo si tolsero ai papi le riserve, il diritto di provvisione, e quello
di mettere imposte sulle chiese. Ma poi guidato a passione, il concilio
pensò non solo scemare la potenza papale come quel di Costanza, ma
sostituirvi la propria.

Vedendolo condursi con quella precipitazione, che sgomenta ogni autorità
dirigente, Eugenio sospende il concilio. I Padri, non gli badando,
citano lui pontefice, incolpandolo di disobbedienza; poi calata la
visiera, dichiaransi ad esso superiori, nè potere esso scioglierli, nè
traslocarli[190].

Allora, accannitisi alla riforma della Chiesa, mozzano assai diritti
curiali; determinano le forme dell'elezione del papa, e il giuramento
che deve prestare; restringono le concessioni ch'e' può fare ai parenti;
limitano i cardinali a ventiquattro, e ne escludono i nipoti.

Quel che di buono vi si trovava indubbiamente, era guasto
dall'incompetenza e dalla smoderatezza; del che rimproverandoli, Eugenio
trasferiva il concilio a Ferrara (1438). Ma dei Padri solo due ed il
legato si mossero, gli altri continuarono a cincischiare la
giurisdizione di Roma; anzi dichiararono scismatica l'assemblea di
Ferrara, Eugenio eretico e decaduto, surrogandogli Amedeo VIII duca di
Savoja, il quale accettò l'uffizio d'antipapa col nome di Felice V
(1439). Così rinnovavasi lo scisma.

Il concilio di Ferrara, trasferito a Firenze, restò memorabile per la
riconciliazione della Chiesa greca, allora fatta sotto la paura dei
Turchi[191]. Oltre i punti controversi con quella Chiesa, vi è
riconosciuto il primato del pontefice romano, vero successore di san
Pietro, vicario di Cristo, e padre e dittatore di tutte le chiese[192].
Ma appena i Padri greci rimpatriarono, le dimostrazioni di piazza
proruppero contro la riconciliazione: fu duopo disdirla: e si gridò
dapertutto «Piuttosto il turco che il papa». Furono esauditi; e nel 1453
il Turco impossessavasi di Costantinopoli e di tutta la Grecia, che
finora non ha abbandonata.

Il nuovo papa Nicola V (1447) mostrossi tutto disposto ad accordi,
talchè il sinodo di Basilea più non si resse; Felice V abdicò; la pace
fu restituita alla Chiesa; e il giubileo, celebrato l'anno appresso,
parve solennizzare il trionfo di Roma.

I due concilj di Costanza e Basilea sono di autorità disputata, e non
figurano nella serie di quelli dipinti in Vaticano. Se avessero con
prudenza e carità provveduto alla riforma della Chiesa, potevano
prevenire i disastri del secolo seguente. Ma rottosi l'accordo, mancata
la saviezza pratica degli affari e il cauto indugiare, una critica
indiscreta rischiò di surrogare agli abusi altri peggiori: come accade
nelle eccedenze, la podestà minacciata riuscì superiore senza neppure le
concessioni a cui mostravasi disposta. Laonde ne' popoli rimase
indebolita la certezza dell'assistenza divina; sottentrata al sentimento
la ragione, e alla fede lo spirito privato, i teologi sottilizzavano sui
diritti, e la cattolicità si trovò divisa in papali ed episcopali, gli
uni e gli altri esagerando. Mancata ne' vescovi l'assoluta soggezione,
essi divennero negligenti dei doveri non solo, ma anche dei diritti veri
per rinforzare i contestati, blandirono il potere laicale per averlo in
appoggio contro i papi, e fantasticavano chiese nazionali. Ne' papi
vacillò la coscienza della propria supremazia, sicchè per consolidarla
gettaronsi nella politica, cioè si fecero ligi agli interessi; e proni
ad una morale d'opportunità; a fronte dei sistemi allora introdotti
d'equilibrio locale e di convenienze meramente politiche, non diressero
più gl'interessi comuni della cristianità; mentre, lusingati
dall'apparente vittoria, svogliaronsi fino delle riforme sentite
necessarie, e s'assopirono in una sicurezza che doveva riuscire
funestissima.


NOTE

[179] _Defensor pacis_, p. II, c. 20.

[180] Sul tempo di Lodovico il Bavaro fu pubblicata ultimamente un'opera
tedesca di Guglielmo Schreiber, _Die politischen und religiosen
Doctrinen unter Ludwig dem Bayern_: Landshut 1838, dove si espongono le
quistioni d'allora intorno ai limiti dell'autorità papale e imperiale,
mettendo principalmente in vista Dante, Marsilio da Padova, Occam e
Leopoldo di Siebenburg. Il primo rivela la morale nella _Divina
Comedia_, la politica nella _Monarchia_, sostenendo la monarchia
universale, giusta la Bibbia e la storia. Marsilio, aristotelico,
sostiene la suprema autorità del Concilio, convocato dall'imperatore,
come mezzo di riconciliar il pastorale colla spada. Il vescovo di
Bamberg nega al papa il diritto di trasferir ad altri l'impero. Occam,
nel _Compendium errorum_, fu il più vivo oppugnatore della Santa Sede a
favore del principato. Tutto è ben esaminato dal punto di vista del
medioevo.

[181] AUGUSTINI DE ANCONA, _Summa de ecclesiastica potestate_ fu edita
ai primordj della stampa in Roma da Fr. de' Cinquinis, 1479, in 4º
gotico.

[182] Nello Statuto di Ferrara del 1270, la rubrica XII è _quod nullus
se scovet_, e in margine v'è il flagello a nodi, di cui si servivano
costoro. E lo Statuto dice: _Quia per inimicos Sancte Matris Ecclesie
cum magna cautela tractatum fuit, et inventum fuit batimentum, annis
preteritis, in offensionem et periculum amicorum partis ecclesie, et in
aliquibus partibus oportunum fuit quod amici ecclesie sibi in tali
periculo providerent: quia enim dicitur quod tractatur simili modo
batimentum de novo: idcirco vir nobilis dominus Obizo Estensis
marchio... statuunt et bannum imponunt, secundum quod inferius
declaratur_. E qui impongono pene corporali a chi introducesse la
flagellazione, o si flagellasse, o non denunziasse chi si flagella.

[183] La Dissertazione XVIII del Lami tratta _Della setta de'
Flagellanti in Toscana_.

[184] Gregorio XI nel 1372 ordina _inquisitoribus ut faciant comburi
quosdam libros sermonum hæreticorum, pro majori parte in vulgari
scriptos_.

[185] RAYNALDI, al 1376, n. 26.

[186] L'opera _De modis uniendi et reformandi ecclesiam in concilio
universali_, si attribuisce a Gerson, ma forse a torto, giacchè, a
tacere le ragioni estrinseche, parla con tale violenza contro di
Giovanni XXIII, e con tale disamore e tanti errori sulla costituzione
ecclesiastica, da parer piuttosto lavoro d'un wiclefita.

[187] Riflettono che, quantunque Giovanni XXIII fosse papa dubbio, pure
il concilio di Costanza temette trascendere la sua autorità col deporlo;
sicchè negli atti è espresso che il re de' Romani, i cardinali, i
deputati proposero che «il papa assentisse alla propria deposizione,
promettesse ratificarla, e, in quanto era bisogno, egli medesimo
rinunziasse». Furono in fatto spediti cardinali che persuadessero
Giovanni XXIII, il quale confermò egli stesso la sentenza di
deposizione.

[188] Così è generalmente asserito; pure si ha una lettera di Huss, che
dice: _Exeo_ (da Praga) _sine salvoconductu_; e in un'altra: _Venimus_
(a Costanza) _sine salvoconductu_. Ap. ROHRBACHER, _Hist. eccles_., tom.
XXI, p. 191.

[189] Il fondatore degli Ussiti sosteneva, dacchè un principe cadeva in
grave colpa, si era disobbligati dall'obbedirgli. I suoi seguaci
spinsero tanto avanti l'intolleranza, da volere puniti di morte gli
eccessi nel bere e nel mangiare, l'usura, l'incontinenza, lo spergiuro,
il ricever mercede per messe o assoluzioni, e ogni altro peccato
mortale; e ciò metteano per condizione al loro ritorno alla Chiesa
Cattolica, la quale ricusò tale fierezza. I Fratelli Boemi, come
condizione per riunirsi ai cattolici metteano l'abbattere tutti gli
istituti di letteratura o di scienze; professare che i maestri d'arti
belle sono pagani e pubblicani.

[190] Il concilio di Basilea trovasi difeso da Nicolò Tedeschi
arcivescovo di Palermo, contro del quale il cardinale Torrecremata
pubblicò la grande ed ingegnosa _Summa de ecclesia_.

[191] «Venne il pontefice con tutta la Corte di Roma, e collo 'mperadore
de' Greci, e tutti i vescovi e prelati latini, in Santa Maria del Fiore,
dove era fatto un degno apparato, ed ordinato il modo ch'avevano a
istare a sedere i prelati dell'una Chiesa e dell'altra. Istava il papa
dal luogo dove si diceva il vangelo, e cardinali e prelati della Chiesa
romana; dall'altro lato istava lo 'mperadore di Costantinopoli con tutti
i vescovi e arcivescovi greci: il papa era parato in pontificale, e
tutti i cardinali co' piviali, e i vescovi cardinali colle mitere di
damaschino bianco, e tutti i vescovi così greci come latini coi piviali,
i greci con abiti di seta al modo greco molto ricchi; e la maniera degli
abiti greci pareva assai più grave e più degna che quella de' prelati
latini..... Il luogo dello 'mperadore era in questa solennità dove si
canta la Epistola all'altare maggiore; ed in quello medesimo luogo, come
è detto, erano tutti i prelati greci. Era concorso tutto il mondo in
Firenze per vedere quell'atto sì degno. Era una sedia dirimpetto a
quella del papa dall'altro lato, ornata di drappo di seta, e lo
'mperadore con una veste alla greca di broccato damaschino molto ricca,
con uno cappelletto alla greca, che v'era in sulla punta una bellissima
gioja: era uno bellissimo uomo, colla barba al modo greco. E d'intorno
alla sedia sua erano molti gentili uomini che aveva in sua compagnia,
vestiti pure alla greca molto riccamente, sendo gli abiti loro pieni di
gravità, così quegli de' prelati, come de' secolari. Mirabile cosa era a
vedere ben molte degne cerimonie, e i vangeli che si dicevano in tutte
dua le lingue, greca e latina, come s'usa la notte di Pasqua di Natale
in Corte di Roma. Non passerò che io non dica qui una singulare loda de'
Greci. I Greci, in anni millecinquecento o più, non hanno mai mutato
abito: quello medesimo abito avevano in quello tempo, ch'eglino avevano
avuto nel tempo detto; come si vede ancora in Grecia nel luogo che si
chiama i Campi Filippi, dove sono molte storie di marmo, dentrovi uomini
vestiti alla greca nel modo che erano allora». VESPASIANO FIORENTINO,
_Vita di Eugenio IV_.

Dopo i molti cattolici che scrissero del concilio di Firenze, comparve
nel 1861 una memoria di Basilio Popoff, studente di teologia a Mosca,
che descrive quell'ultimo tentativo di unione fra le due Chiese dal
punto d'aspetto greco e con gran lodi ai membri della greca.

[192] La copia più intera di quell'atto sta nella Laurenziana a Firenze.
Alle altre manca la firma del gran sincello. Una ne è nell'archivio di
Stato d'essa città. Nell'archivio capitolare di Milano se ne conserva un
esemplare autentico, scritto in latino e greco, e colle firme originali
di papa Eugenio IV e di otto prelati latini, e dell'imperatore Paleologo
in cinabro, e colla bolla imperiale. Nell'_Archivio storico_ del 1857 fu
pubblicato l'atto d'unione, che comincia così: _Eugenius ecc.
Consentiente carissimo filio nostro Johanne Paleologo Romeorum
imperatore illustri et... orientalem ecclesiam representantibus.
Letentur celi et exultet terra; sublatus est enim de medio paries qui
occidentalem orientalemque dividebat Ecclesiam, et pax atque concordia
rediit: illo angulari lapide Christo, qui fuit utraque unum, vinculo
fortissimo caritatis et pacis utrumque jungente parietem, et perpetue
unitatis fœdere copulante ac continente; postque longam meroris nebulam,
et dissidii diuturni atram ingratamque caliginem, serenum omnibus
unionis optate jubar illuxit. Gaudeat et mater Ecclesia, que filios
suos, hactenus invicem dissidentes, jam videt in unitatem pacemque
rediisse: et que antea in eorum separatione amarissime flebat, ex
ipsorum modo mira concordia cum ineffabili gaudio, omnipotenti Deo
gratias referat. Cuncti gratulentur fideles ubique per orbem, et qui
christiano censentur nomine matri catholice Ecclesie colletentur. Ecce
enim occidentales orientalesque Patres, post longissimum dissensionis
atque discordie tempus, se maris ac terre periculis exponentes,
omnibusque superatis laboribus, ad hoc sacrum ycumenicum concilium
desiderio sacratissime unionis, et antique caritatis reintegrande
gratia, leti alacresque convenerunt, et intentione sua nequaquam
frustrati sunt. Post longam enim laboriosamque indaginem, tandem
Spiritus Sancti clementia ipsam optatissimam sanctissimamque unionem
consecuti sunt. Quis igitur dignas omnipotentis Dei beneficiis gratias
referre sufficiat? quis tante divine miserationis divitias non
obstupescat? cujus vel ferreum pectus tanta superne pietatis magnitudo
non molliat? Sunt ista prorsus divina opera, non humane fragilitatis
inventa; atque ideo eximia cum veneratione suscipienda, et divinis
laudibus prosequenda. Tibi laus, tibi gloria, tibi gratiarum actio,
Christe, fons misericordiarum, qui tantum boni sponse tue catholice
Ecclesie contulisti, atque in generatione nostra tue pietatis miracula
demonstrasti, ut enarrent omnes mirabilia tua. Magnum siquidem
divinumque munus nobis Deus largitus est: oculisque vidimus quod ante
nos multi, cum valde cupierint, adspicere nequiverunt. Convenientes enim
Latini ac Greci in hac sacrosancta synodo ycumenica, magno studio
invicem usi sunt, ut, inter alia, etiam articulus ille de divina
Spiritus Sancti processione summa cum diligentia et assidua inquisitione
discuteretur_.

_Item diffinimus Sanctam Apostolicam sedem, et Romanum Pontificem in
universum orbem tenere primatum, et ipsum Pontificem Romanum successorem
esse beati Petri principis Apostolorum, et rerum Christi vicarium,
totiusque Ecclesie caput, et omnium Christianorum patrem et doctorem
existere; et ipsi in beato Petro pascendi, regendi, ac gubernandi
universalem Ecclesiam a Domino nostro Jesu Christo plenam potestatem
traditam esse; quemadmodum etiam in gestis ycumenicorum conciliorum, et
in sacris canonibus continetur, Renovantes insuper ordinem traditum in
canonibus ceterorum venerabilium Patriarcharum, ut Patriarcha
Constantinopolitanus secundus sit post sanctissimum Romanum Pontificem,
tertius vero Alexandrinus, quartus autem Antiochenus, et quintus
Hierosolymitanus, salvis videlicet privilegiis omnibus et juribus
eorum_.



DISCORSO IX.

ERESIA SCIENTIFICA E LETTERARIA. PAGANIZZAMENTO DELL'ARTE, DELLA VITA.
ERESIA POLITICA.


Fra i tanti pregiudizj letterarj, con cui offuscano gl'intelletti le
deplorabili scuole odierne, v'è questo, che il medioevo fosse un'età
trista, melanconica, di penitenze e digiuni, di pellegrinaggi e
flagellazioni, di demonj e fatucchiere; ove le minaccie dell'altra vita
conturbavano questa, deserto arido, esiglio espiatore, tremebondo
dinanzi a potenze arcane, avide del dolore e non esorabili che col
dolore. Eppure, chi vi guarda, troverà che i sentimenti affettuosi vi
aveano ricevuto sviluppo, fino a scapito della ragione; la cavalleria
fondavasi tutta sulle simpatie, e di là vennero i racconti che più
sorrisero alle fantasie moderne: in capo a tutte le devozioni stava la
madre del Bell'Amore: il misticismo era un eccesso dell'amor di Dio,
come molti Ordini monastici portavano all'eccesso l'amor del prossimo:
lo spiritualismo era austeramente dolce, sino in que' frati, che non
solo nelle novelle ma ben anco nelle storie ci sono esibiti come
bontemponi, motteggiatori, burleschi, che le prediche stesse
drammatizzavano, che ogni funzione cominciavano e finivano coi canti,
che composero tutte le laude e molte delle rappresentazioni, colle quali
edificavano insieme e ricreavano la plebe di Cristo. Il vulgo vivea
contento, perchè non concepiva soddisfazioni maggiori, e perchè i
sofferimenti, inseparabili dalla vita, considerava quale conseguenza
inevitabile del peccato, ma espiatrice e meritoria. Le cronache parlano
continuo delle feste che ripetevansi ad ogni occasione; devote, o
popolesche, od aristocratiche, ma sempre accomunate a tutto il paese. La
casa del contadino non era molestata dall'esattore; non la sua chiassosa
allegria dal gendarme; non la sua figliolanza dalla coscrizione; e se
fosse possibile spogliarci dell'intirizzente raziocinio e dell'egoismo
odierno, ben altra ci si presenterebbe la vita d'allora.

Altrettanto dobbiamo abbandonar alle scuole e alla plebe degli scrittori
l'asserire che il medioevo non sapesse nulla, e colpa ne fosse il clero.
Il medioevo serbò tutte, dico tutte, le cognizioni dell'antichità, e
n'aggiunse moltissime. Il clero, sol che l'avesse voluto, potea spegnere
l'antica face della civiltà, giacchè egli solo l'aveva in mano; e in
quella vece la tenne viva ed alzata, e faticò a propagarla per quanto
era fattibile tra le inenarrabili sventure di quell'età.

Dove conservaronsi tutti i manuscritti dell'antichità? chi li
trascrisse? Dicono che il clero ne abbia lasciato perire alcuno per
ignoranza o per usar quella carta a scrivervi lavori che ad esso più
importavano. Foss'anche colpa l'usar mezzi proprj a proprio utile, è
ampiamente riscattata dal merito de' tanti tramandatici, e ne loda il
buon gusto il vedere che questi sono i capolavori del genio classico.

Nè è da trascurare che i paesi più istruiti d'allora erano l'Italia e la
Spagna; e sono appunto quelli che respinsero il protestantismo. Qui da
noi in generale, discutendo l'applicazione, non s'impugnava il
principio; l'Inquisizione, nel secolo XV, ebbe poc'altro che a
perseguitare maliardi e superstiziosi anzichè eretici, nè conosco quali
fossero quelli che combattè il famoso Giovanni da Capistrano, nè quelli
che dalla Francia e dalla Lombardia si erano ricoverati fra i monti
della Valtellina, e alla cui conversione andò il beato Andrea Grego di
Peschiera, domenicano di San Marco in Firenze, che morì il 1455, dopo
dimorato quarantacinque anni fra que' pastori e carbonari alpini. Neppur
potemmo accertare che cosa fosse la _setta pitagorica_, diffusa in tutta
Italia, alla quale diceasi appartenere Arnaldo di Villanuova; oppure la
società segreta che avea giurato la distruzione del cristianesimo, e
della quale parla con sbigottimento la _discesa di san Paolo
all'inferno_[193]. Il cronista Ser Cambi, al 1453, scrive che Giovanni
Decani, medico, il quale non credeva la resurrezione de' morti, fu
condannato alla forca a Firenze; e in quel anno morì Carlo d'Arezzo
cancelliere della signoria, ed ebbe grandissime doti: «Dio l'abbia
onorato in cielo, se l'ha meritato; non che si stimi, perchè morì senza
confessione e comunione, e non come cristiano». Lodovico Cortusio
giureconsulto, morendo a Padova il 17 luglio 1418 lasciò per testamento
che amici nè parenti nol piangessero; se no, rimanessero diseredati,
mentre suo legatario universale sarebbe quello che ridesse di miglior
cuore: non parare a bruno la casa e la chiesa, ma fiori e fronde; musica
invece delle campane funebri; e cinquanta sonatori e cantanti procedano
insieme col clero, cantando _alleluja_ tra viole, trombe, liuti,
tamburi, ricevendo ciascuno un mezzo scudo. Il suo cadavere, entro una
bara a panni di varj colori gai e sfoggiati, sia portato da dodici
donzelle vestite di verde, che cantino arie allegre, e ricevano una
dote. Non rechino candele, ma ulivi e palme e ghirlande di fiori; non lo
seguano monaci che abbiano la tonaca nera. Così piuttosto in guisa di
nozze che di funerale fu sepolto in Santa Sofia. Il nostro secolo, che
tanto s'intende di libertà, lo chiamerebbe un libero pensatore.

Ma intanto il mondo si era trasformato, fissate le genti sul suolo che
diverrebbe lor patria; e restauratasi l'antica coltura, si
moltiplicavano le scoperte, si sentivano nuovi bisogni.

Non limitandosi a dirozzare la società nuova, la letteratura pretendeva
modificarne le credenze e gli atti, ritornando nelle teoriche e nella
pratica verso il paganesimo. Le scienze, allattate nel santuario e
disciplinate dagli scolastici come un esercito sotto al Verbo di Dio, or
disertavano, e dilatandosi mediante la stampa, mordeano il seno che le
avea nudrite. Passando dal periodo credente al pensante, l'uomo
s'appropriava col raziocinio le verità, che fin là avea ricevute dalla
fede, e mentre fin allora la religione era, quale Grozio la definì,
unico principio dell'universale giustizia, or non più soltanto dalla
Chiesa domandavasi in che modo servire meglio a Dio e al prossimo.
Platone avea detto: «Filosofia è imparare a conoscer Dio: filosofare è
amar Dio: filosofare è imitar Dio»[194], onde fu preferito dai primi
Cristiani, ma condusse facilmente nell'idealismo. La filosofia
scolastica, tutta armata di logica, avea preso per oracolo Aristotele,
in verità maestro eccellente, poichè in esso trovasi anche la critica
degli altri sistemi, mentre Platone non dà che il proprio dogma.
Aristotele anch'esso proclama e dimostra il Dio supremo, la legge
morale, l'anima immortale: ma al Cristiano che attende tutto da Dio,
poteva essere fedel maestro questo, che esagera la potenza della natura
e l'efficacia dell'umana volontà? Egli che erige in principio supremo la
natura, poteva rimanere l'oracolo d'una scienza tutta religiosa? Poi
esso giungeva in Europa nelle versioni e nei commenti de' Musulmani, che
gli aveano prestato sentimenti assurdi e sofisterie; che traducendo
teosofizzavano l'autore, e in modo fantastico osservando il mondo,
applicavano l'astronomia all'astrologia, l'astrologia alla medicina. I
nostri, nel tradurre quelle traduzioni, nuovi errori vi sovrapposero; nè
la critica sapeva riconoscervi l'alterazione, mentre l'idolatria
professata ad Aristotele impediva di supporlo in fallo; donde una
miscela d'arabo, di scolastico, di cristiano, bastardume sterile, e
indicifrabile a quei che voleano conciliarlo colla teologia dogmatica.

Al movimento razionale repugna assolutamente l'islam, avverso ad ogni
cultura civile e profana; pure un istante la protezione de' califfi gli
diè tale impulso, da sorgerne un'età dell'oro della coltura musulmana,
sebbene esagerata da coloro che imputano ai Cristiani d'averla respinta.
Quegli italiani che il fanno, e che deridono o riprovano le crociate
pensino che l'islam stabiliva il despotismo teocratico, dove non
famiglia, non ceti, non liberi possessi, non gerarchia; bensì
un'eguaglianza assoluta, ove tutto può la volontà d'un solo. Un tale
despotismo, più robustamente attuatosi nei Turchi, represse la coltura
degli Arabi a tal segno, che più non ne serbano nè impronta nè ricordo i
Musulmani. Nella cristianità invece si riverirono e usufruttarono i loro
dotti e pensatori, e massime Averroè, vissuto verso il 1180, e che fece
quel Gran Commento, pel quale si disse essere stata la natura pienamente
interpretata da Aristotele; Aristotele pienamente da Averroè.

Gli Arabi, dopo ricevuta la rivelazione di Maometto, aveano cominciato
le dissensioni teologiche dall'eterna quistione del libero arbitrio e
della predestinazione (_Kadariti_ e _Giabariti_), donde passarono a
quella sugli attributi di Dio. Ma anche fra loro v'avea degli scettici;
v'avea degli increduli; vacillavasi tra l'entusiasmo religioso e il
libero pensare: e quel che fra noi la Scolastica, fu fra essi il Kaläm,
discussioni razionali sia per esaminare, sia per difendere colla
dialettica i dogmi attaccati. In tali esercizj la filosofia araba ampliò
i problemi de' Peripatetici, e accolse l'eternità della materia e la
teorica dell'unicità dell'intelletto.

E appunto la filosofia di Averroè s'appoggia sul panteismo; una sola
essere l'anima, e Dio essere il mondo. La generazione (secondo lui) non
è che un movimento. Ogni movimento suppone un soggetto. Questo soggetto
unico, questa possibilità universale è la materia prima. Essa è dotata
di ricettività, ma di nessun'altra qualità positiva, cioè può ricevere
le più opposte modificazioni; materia prima, senza nome nè definizione;
semplice possibilità. Ogni sostanza è dunque eterna per la sua materia,
cioè perchè può essere. Chi dicesse che una cosa passa dal non essere
all'essere le attribuirebbe una disposizione che mai non ebbe. La
materia non fu generata e non può corrompersi. La serie delle
generazioni è infinita da entrambi gli estremi: tutto quanto è possibile
passerà in atto, altrimenti v'avrebbe alcun che di ozioso nell'universo:
e nell'eternità non v'è divario tra il possibile e l'esistente. L'ordine
non precedette il disordine, nè questo quello: nè il movimento il riposo
o viceversa. Il movimento è continuo; ogni movimento è causato da un
moto precedente. Se il moto dell'universo si fermasse, cesseremmo di
misurare il tempo, cioè perderemmo il sentimento della vita successiva e
dell'essere[195].

Quest'unità degli spiriti fu trionfalmente confutata da san
Tommaso[196], e, nel XIV secolo, da Egidio di Roma, le cui opere
troviamo pubblicate ai primordj della stampa[197], dipoi da Gerardo di
Siena e Raimondo Lullo. Essi non fanno che esecrare quest'empio, il
quale identifica l'anima di Giuda e quella di san Pietro, nega la
creazione, la rivelazione, la Trinità, l'efficacia della preghiera,
della limosina, delle litanie, la risurrezione e l'immortalità, e
colloca il supremo bene nei godimenti. Egidio di Roma nel trattato _De
erroribus philosophorum_, lo taccia d'aver rinnovellato tutti gli errori
d'Aristotele, vie meno scusabile perchè direttamente intacca la fede
nostra; biasima tutte le religioni, non meno quella de' Musulmani che
quella de' Cristiani, perchè ammettono la creazione dal nulla: chiama
fantasie le opinioni de' teologi, e sostiene che nessuna legge è vera,
benchè possa esser utile.

E appunto una delle accuse principali contro Averroè si è la
comparazione delle leggi di Mosè, di Cristo, di Maometto. Aveano dovuto
istituirla i Musulmani per sostener la loro religione, ma Averroè più di
spesso e dogmaticamente accenna ai _tres loquentes trium legum_[198],
donde il crederlo autore del libro dei _Tre Impostori_, divenne arma per
colpire chiunque si volea screditare.

E veramente gli scolastici del secolo XIII vanno d'accordo nel riprovare
Averroè, ma ciò stesso mostra che v'avea dottori e scuole dov'era
riverito e insegnato; nè forse mal s'apporrebbe chi ciò attribuisse
principalmente a' Francescani, per opposizione ai Domenicani e ai
Tomisti. Certo ne parla con rispetto Roggero Bacone.

E qui è luogo a ripudiar due altri pregiudizj da scuola contro il
medioevo, opponendovi due meraviglie. La prima è la rapidità con cui,
senza stampa nè poste, si difondeano i pochi libri. Le poesie de'
Trovadori, appena prodotte, conosceansi in tutta Europa. Abelardo aveva
appena pubblicato le sue scettiche teorie a Parigi, e subito le si
possedeano in fondo all'Italia. I versi del Petrarca, lui vivo, gli
davano una gloria estesa quanto a qualsiasi poeta de' giorni nostri; e
meglio che a' giorni nostri s'aveva a Padova o a Bologna notizia di
opere prodotte a Marocco o al Cairo. Più che all'attività degli Ebrei,
io inclino ad ascrivere questo fatto alla grande e compatta società dei
monaci.

L'altra meraviglia è che, in secoli vituperati per intolleranza, non
s'avesse scrupolo di farsi scolari d'Ebrei e di Musulmani, tenendo le
scienze come un campo neutro, e salvo a condannarne gli abusi. Coi
Musulmani comunicavasi da un lato per la Spagna, dall'altro per la
Sicilia, oltre i viaggi d'Oriente: onde ben presto venne dai nostri
conosciuto Averroè. Ma il primo ad introdurne le opere nelle scuole fu
Michele Scoto nel 1230, e per queste fu ben accolto nella Corte degli
Hohenstaufen avversa ai papi; e Federico II, come re Manfredi, ebbe in
corte Ermanno tedesco traduttore[199].

Non si tardò a conoscere il pericolo delle dottrine d'Averroè, e la
Chiesa ne vietò la pubblica lettura, ma presto si sentì l'influenza del
peripatismo arabo sui filosofi nostri, e principalmente su Alberto
Magno, che nel 1255, per ordine di papa Alessandro IV compose a Roma un
trattato contro l'unità dell'intelletto, nel quale già si trova la
distinzione di verità filosofiche e verità teologiche[200]. Alberto
adduce 30 argomenti che sostengono quell'asserto, 36 che lo ribattono,
onde l'immoralità individuale gli sa numericamente più forte. Certamente
nel secolo XIV Averroè era riverito come il migliore fra i commentatori
d'Aristotele: Dante lo collocava coi più famosi antichi, e le sue opere
spandeano dubbj sulla vita futura.

Il rinascimento che allora seguì fu piuttosto letterario che filosofico,
e mentre stavasi ancora fedeli al sillogismo, il quale esclude le
gradazioni e modificazioni, introduceasi quell'espressione colta sotto
cui si palliano le divergenze d'opinioni. Di tale risorgimento
letterario è rappresentante Francesco Petrarca, il quale vuolsi noverare
fra' più efficaci sulla coltura europea pel tanto che adoprò a ravvivare
la tradizione classica, non tanto nella forma esterna, quanto nello
spirito intimo e libero, per cui considerava come barbarie il medioevo,
e come ignoranza tuttociò che derivasse da altro fonte che da' classici.
Pertanto egli sprezza affatto gli Arabi, e specialmente la loro
medicina, a cui s'innestavano l'astrologia e l'incredulità, ed esortava
a schivar tutto quanto derivasse da quella nazione[201]. E poichè alcuni
diceano che noi potremmo eguagliare, e forse sorpassare i Greci e tutte
le nazioni, eccetto gli Arabi, esclamava: _O infamis exceptio! o vertigo
rerum admirabilis! o italica vel sopita ingenia, vel extincta!_

Per questo sentimento e pel religioso egli professavasi ostilissimo ad
Averroè, e si piangeva che non ottenesse nome di dotto e filosofo chi
non aguzza la lingua e la penna contro la religione; chi non va per le
strade e per le piazze disputando sugli animali, e così mostrandosi
animale. Più uno accannisce contro la religione, più a' costoro occhi è
ingegnoso e dotto: ignorante chi la difende. «Per me (soggiunge) più
sento denigrare la fede di Cristo, più amo Cristo e mi confermo nella
sua dottrina, come un figliuolo, di cui la tenerezza filiale si fosse
raffreddata, la riscalda se ode attentarsi all'onor di sua madre».
Soleano essi (dice altrove) porre in mezzo qualche problema
aristotelico, o sulle anime; ed io tacere, o celiare, o avviar
tutt'altro discorso, o sorridendo chiedere come mai Aristotele avesse
potuto saper cose, dove non val la ragione, dov'è impossibile
l'esperienza. Essi stupivano, e in silenzio indispettivansi, e
guardavanmi come un bestemmiatore.

Uno di costoro, «i quali pensano esser da nulla se non abbajano contro
di Cristo e della sovrumana sua dottrina», andò a trovare esso poeta a
Venezia, e lo cuculiava perchè avesse citato quel detto dell'apostolo
delle genti: _Io ho il mio maestro, e so a chi credo_; e, «Tienti il tuo
cristianesimo, io non ne credo acca; il tuo Paolo, il tuo Agostino e
cotest'altri ebber ciarle e nulla più; e deh! volessi tu legger Averroè,
che vedresti quanto ei sorvola a cotesti tuoi buffoni». Il Petrarca se
ne stomacò, e tutto dolce ch'egli era, prese pel mantello e mise fuor di
casa il temerario[202].

Anche altri quattro[203] faticarono per trarlo al loro pensare,
indispettendosi che prendesse sul serio la religione, e citasse Mosè e
san Paolo, e conchiusero ch'egli era un uomo dabbene, ma senza cultura.
E «se costoro (soggiunge) non temessero i supplizj degli uomini più che
quelli di Dio, impugnerebbero non solo la creazione del mondo secondo
Timeo, ma la genesi e il dogma di Cristo. Quando paura non li rattiene,
combattono direttamente la verità; nelle loro conventicole ridonsi di
Cristo, e adorano Aristotele senza capirlo. Disputando, in pubblico
protestano di far astrazione dalla fede, cioè di indagare la verità
ripudiando la verità, cercar la luce volgendo le spalle al sole. E come
non tratterebbero d'illetterati noi, poichè chiamano idiota Gesù?»

Non sentendosi abile a confutarli, il Petrarca esortava Luigi Marsigli
agostiniano a farlo, e «ribattere quel can rabbioso d'Averroè, che non
cessa d'abbajare contro Cristo e la religione cattolica»[204].

Pietro d'Abano (1250-1316) aveva introdotto Averroè nell'Università di
Padova, e con esso l'incredulo materialismo, e il considerar tutte le
religioni come eguali, supponendole nate sotto certi influssi di
stelle[205]; la qual fantasia dell'oroscopo delle religioni, più tardi
vedremo ripigliata da Pomponazio e da Pico della Mirandola. Pietro fu
accusato anche d'eresia, ma così vagamente, che alcuni lo imputano di
non credere ai demonj, altri di averne alcuni famigliari, che teneva in
un'ampolla. Dall'Inquisizione si salvò una volta; presone un'altra, morì
mentre gli si faceva il processo; il quale finì col dichiararlo eretico,
e ordinare ne fosse dissepolto il cadavere.

Giovanni di Gianduno, che con Marsiglio di Padova sostenne Lodovico il
Bavaro contro il papa, imparò o insegnò in quest'Università
l'averroismo. Dove pure Paolo da Venezia e frate Urbano da Bologna, che
nel 1334 ne stese un commento, ed altri, prima di Gaetano Tiene
(1387-1465), reputatone fondatore dal Facciolati e dal Tommasino; mentre
solo per l'alta sua nascita e per la scienza contribuì grandemente a
diffondere tal dottrina con un corso che in numerosissime copie fu
diffuso, ed ebbe credito nelle scuole italiche in tutto il secolo
seguente. Paolo di Venezia ( — 1429) agostiniano, soprannomato
_excellentissimus philosophorum monarcha_, ammettea francamente
l'unicità dell'intelletto secondo Averroè, benchè non ne deducesse
l'unicità delle anime. Anzi a Bologna ciò sostenne in pubblica disputa
avanti al capitolo generale del suo Ordine contro Nicolò Fava. Ma per
quanto si schermisse con tutta l'abilità dialettica, Ugo Benzi da Siena
gli gridò: «Fava ha ragione, e tu hai torto». Il Benzi era nemico del
Fava, onde Paolo esclamò: «In quel giorno divennero amici Erode e
Pilato», e così risolse in riso l'adunanza.

Onofrio da Sulmona, Paolo della Pergola, Giovanni da Lendinara, Nicola
da Foligno, Marsilio da Santa Sofia, Giacomo da Forlì, per nominar solo
i nostri, parteggiavano in quel tempo pel peripatismo d'Averroè nella
scuola di Padova. Nella quale, e all'abadia di San Giovanni in Verdara a
Bologna, Averroè godette venerazione; Michele Savonarola nel 1440 lo
chiama _ingenio divinus homo_, e affrettaronsi a commentarlo Claudio
Betti, Tiberio Cancellieri di Bologna, il Zimara, lo Zaccaria, Lorenzo
Molino di Rovigo, Apollinare Offredi, Bartolomeo Spina, Gerolamo
Sabbioneta, Tommaso da Vio; la famosa Cassandra Fedele veneziana ottenne
la laurea nel 1480, sostenendo tesi averroiste: Nicoletto Vernia, che
professava a Padova sin al 1499, era imputato d'aver diffuso quel veleno
per tutta Italia[206], e da lui imparò il Nifo: ma buoni amici
l'indussero a ritrattarsi. E chi cercasse negli archivj di quelle
Università, troverebbe ne' quinternetti le pruove de' molti studj
fattisi colà intorno all'averroismo, che regnava nelle scuole venete,
come il platonismo nelle toscane. Pertanto Francesco Patrizio illirico,
che presunse fondare una filosofia nuova, esortava il papa a sbandir
Aristotele come ripugnante al cristianesimo, a cui in quarantatre punti
aderiva Platone.

Ma se quello al materialismo, questo conduceva al misticismo; ed
entrambi all'incredulità. Gemistio Pletone di Costantinopoli
(1355-1452), venuto a Firenze per contrariare l'unione della Chiesa
greca colla latina, diffuse fantasie neoplatoniche, ed asseriva fra poco
la religione di Maometto e quella di Cristo perirebbero, per far luogo
ad una più vera, non diversa dalla pagana. Nel _Sunto dei dogmi di
Zoroastro e Pitagora_ contrappone la teologia gentilesca alla
ecclesiastica; e sebbene procedesse con cautela, il patriarca Gennadio
gl'interruppe l'apostolato. Restò inedito il suo _Trattato delle
leggi_[207], apologia del politeismo, i cui dogmi connette in un sistema
filosofico regolare, con organamento e leggi e culto, feste, inni e
preci per ciascun Dio. Insomma appare degno maestro di quel Pomponio
Leto, che davanti ai papi professava di voler annichilare l'opera di
Gesù Cristo.

Più erano coloro che bilanciavansi fra Aristotele e Platone, fra
paganesimo e cristianesimo: e in religione l'eccletismo striscia
all'eresia, se non è. Già nominammo Egidio da Roma, della nobilissima
famiglia Colonna, scolaro di san Tommaso, generale degli Eremitani, poi
arcivescovo di Bourges, eruditissimo nelle sacre scritture e nella
filosofia aristotelica, e fra i dottori cognominato il Fondatissimo. Or
egli dichiarava esserci cose che sono vere secondo il filosofo, non
secondo la fede cattolica: quasi due verità contrarie possano
sussistere. Tale proposizione venne condannata sotto Giovanni XXII, ed
egli si ritrattò; ma questa _eresia_ divenne comune nel secolo XV, e si
sosteneano pretti errori, come la mortalità dell'anima, l'unicità
dell'intelligenza, l'ispirazione individuale, salvandosi col dire che
erano illazioni dalle premesse di Platone e d'Aristotele, ma non
pregiudicavano ai dogmi di Cristo. Così le due opposte scuole
s'accordavano contro la rivelazione, non combattendola, ma affettando di
non tenerne conto, quasi la non fosse mai avvenuta; eliminando la fede e
ogni forza o sussidio soprannaturale, per seguire solo le vedute proprie
in problemi di spettanza religiosa, la cui soluzione importa alla morale
come al benessere della società.

A Platone prestava culto Marsilio Ficino, sino ad accendergli una
lampada; nol discompagnava da Mosè, vi trovava l'intuizione de' misteri
più profondi; il _Critone_ pareggiava ad un secondo vangelo, piovuto dal
cielo; e servendo a due padroni, usava espressioni scritturali a
spiegare il filosofo. Loda Giovanni de' Medici con queste parole: _Est
homo Florentiæ missus a Deo cui nomen est Johannes: hic venit ut de
summa patris sui Laurentii apud omnes authoritate testimonium
perhibeat_. E da Plotino fa dire sopra Platone: _Hic est filius meus
dilectus in quo mihi undique placeo: ipsum audite_[208]. Nel trattato
_De religione Christiana_ (1474) prova la divina missione di Cristo
dall'esser egli stato predetto da Platone, dalle Sibille, da Virgilio; e
dall'avere dato gli Dei _molto benigna testimonianza_ di esso: i preti
sieno dotti, i dotti preti; e la vera scienza è il platonismo. Tutte le
religioni son buone, e Dio le preferisce all'irreligione; la cristiana è
più pura, ma v'è profeti e sacerdoti in ogni nazione, quali Orfeo,
Virgilio, il Trismegisto, i Magi, ecc.: e il Ficino tradusse libri da
ciascuno, senza investigarne l'autenticità: le Enneadi di Plotino, i
libri d'Ermete, i misteri degli Egizj di Giamblico, le opere di Dionigi
Areopagita, i Versi Dorati di Pitagora, opuscoli di Proclo, Senocrate,
Sinesio, Teofrasto, Alcinoo, Zoroastro. Nel trattato _De vita cœlitus
comparanda_, sull'astrologia erige un sistema della vita del mondo, ove
tutte le forze solidariamente e le idee e i costumi si trovano messi in
corrispondenza coi movimenti e le sistemazioni degli astri. Nella
_Theologia platonica de immortalitate animæ_ (1488) adduce moltissime
pruove di questa, ma fa preponderare la dottrina dell'emanazione; e
assimila l'intelligenza e il bene alla luce, la materia e il male alle
tenebre. In questo sincretismo, ciò che gli manca sempre è lo spirito
cristiano, la carità.

Michele Mercato, suo prediletto discepolo, non sapea cacciare di testa i
dubbj sull'immortalità dell'anima. Ed ecco una mattina è svegliato dallo
scalpitare d'un cavallo e da una voce che il chiama a nome. Si affaccia,
e il cavaliere gli grida: «Mercato! è vero». Egli avea pattuito col
Ficino che, qual dei due morisse primo, darebbe all'altro notizie
d'oltre la tomba; e il Ficino era appunto spirato in quell'istante.

Nè già faceansi quistioni generali sopra Aristotele e Averroè ed
Alessandro Afrodisio; ma tutto s'era ristretto in pochi punti capitali:
l'immortalità è un bel trovato de' legislatori; il primo uomo provenne
da cause naturali: i miracoli sono illusioni o imposture: le preghiere,
l'invocazione de' santi non hanno efficacia alcuna, e la dottrina dei
tre impostori rinasceva quando Pomponazio contro la Providenza lanciava
questo dilemma: se le tre religioni son false, tutto il mondo è
ingannato: se delle tre, una sola è vera, ecco ancora ingannata la
maggioranza.

Questo Pietro Pomponazio mantovano (1473-1525), brutta figura, cattivo
filologo e debole logico, ma arguto, sonoro e vivace parlatore,
tormentato dall'incertezza del vero a segno da perderne il sonno, e
soffrir la febbre e vertigini[209], accorgendosi d'altra parte che il
ricercarlo provoca beffe dal vulgo, persecuzioni dagli inquisitori[210],
pone ogni studio a conciliare la ragione colla fede. Gli resta qualche
dubbio; e promovendo discussioni senza riguardo al dogma e alla
disciplina cattolica, vi risponde facilmente: ma altri dubbj gli
rampollano, e da ciascuna soluzione ritrae nuove incertezze, sempre
allontanandosi d'un passo, finchè riesce fuor del cristianesimo, anzi
d'ogni credenza positiva: dubita fin della Providenza e
dell'individualità dell'anima[211], fa inventate dagli uomini le idee
morali e le postume retribuzioni[212]; conchiude riferendosi interamente
alla Chiesa, pur professando ch'ella non dà nessuna soddisfacente
soluzione.

Volete vedere com'egli o vacilli fra le autorità, o se ne rida?
Trattando della destinazione delle anime, repudia il panteismo,
_monstrum ab Averrhoe excogitatum_; ma (dice) se fosse vero, come molti
Domenicani asseriscono, che san Tommaso avesse ricevuto, realmente e
davanti testimonj, tutta la sua dottrina filosofica da Gesù Cristo, non
oserei muover dubbio su veruna delle sue asserzioni, per quanto mi
sappiano di _false e assurde_, e ch'io ci veda illusioni e decezioni
piuttosto che soluzioni; perocchè, a detta di Platone, è empietà il non
credere agli Dei o ai figli degli Dei, quando anche sembrino rivelar
cose impossibili. Vero o no che sia il racconto, io citerò di lui su tal
soggetto cose che ispirano gravi dubbj, de' quali attendo soluzione
dagli infiniti uomini illustri della sua _setta_».

E qui, schierate le argomentazioni più speciose contro l'immortalità,
conchiude che questo problema, come quello dell'eternità del mondo, da
nessuna ragion naturale può essere risolto; onde s'ha da seguire
Platone, ove _de legibus_ dice: «Quando molti dubitano d'una cosa, è
solo di Dio l'assicurarla». Vuolsi dunque esaminare quello che viene
stabilito nella sacra scrittura; e poichè ivi è asserita l'immortalità,
non è lecito dubitarne; repugna essa ai principj naturali, ma il voler
adoprare questi sarebbe un oltraggiar la fede[213].

Può darsi più strano modo d'accettare la tradizione religiosa?

Il Bayle trova cento discolpe al Pomponazio, e ben si comprende, giacchè
in lui difendea se stesso. Chi però volesse scusarlo dovrebbe allegare
che incertissime dottrine correano sull'anima, quando i Platonici ne
ammetteano tre, la vegetativa, la sensitiva, la razionale; e de'
Peripatetici alcuni sosteneano l'unicità delle intelligenze, altri la
moltiplicità, pur facendole mortali. Il Pomponazio volle scostarsi da
tutte le dottrine d'allora; dimostrò che nessuna, e tanto meno quella
d'Aristotele, bastava a provare l'immortalità, ma che, neppur negando
questa, ne soffrirebbe la morale privata o la pubblica, anzi ne
vantaggerebbe.

Altrettanto egli usa intorno al libero arbitrio. «Se c'è una volontà
superiore alla mia, una legge imposta al mondo, come dovrei io
rispondere del mio pensiero, de' miei movimenti? Ora, una volontà, un
ordine superiore esiste: dunque tutto ciò che si opera non può farsi che
secondo una via già tracciata: operi bene o male, non ne ho merito nè
colpa». Su questo motivo acconcia mille variazioni, poi conchiude col
rifuggire alla fede, e sottomettersi alle decisioni della Chiesa.

Poich'ebbe così tolto a dimostrare che la teologia dovea lasciar libera
la parola alla filosofia, procedette avanti, sino a pretendere che la
Chiesa non dovesse impacciar più gli ardimenti della filosofia, giacchè
il dominio di essa, per evidenti segni, volgeva al declino. Nel trattato
_delle Incantagioni_ professa tenersi alla natura qualvolta le
argomentazioni bastano a dar ragione di fenomeni, per quanto
straordinarj, ma nega assolutamente il miracolo; non darsi alcun fatto
nella storia sacra o nella profana che esca dal naturale; se eccettua i
fatti scritturali è mera precauzione oratoria; secondo lui, ogni cosa è
concatenata in natura; di guisa che i rivolgimenti degli imperi e delle
religioni dipendono da quelli degli astri; i taumaturghi sono fisici
squisiti, che prevedono i portenti naturali e le occulte rispondenze del
cielo colla terra, e profittano della sospensione delle leggi fisiche
ordinarie per fondare nuove credenze; cessata l'influenza, cessano i
prodigi: le religioni decadono, e non lascerebbero che l'incredulità, se
nuove costellazioni non conducessero prodigi e taumaturghi nuovi; le
stelle, le costellazioni, le intelligenze celesti determinano
l'applicazione anche straordinaria di leggi fisse: per essi nascono le
religioni e muojono, via via che l'umanità si perfeziona, tutte avendo
un'origine, una stasi, una decadenza, neppur eccettuandone la
cristiana[214].

In tutto ciò mostrava ingegno robusto, superiore ai tempi, precursore di
molte novità; ma era ateo o ipocrita? Le sue proteste di fede non
salvano l'arguzia e la sofisteria de' suoi ragionamenti.

Per tali guise la filosofia era messa in contrasto assoluto colla
religione, sotto pretesto d'accordarla. Anche Cartesio presunse aquetare
l'eterno conflitto tra la fede e il raziocinio, col dire che la ragione
ha un regno suo proprio, ove la tradizione non dee penetrare; e così la
fede ha terre riservate, chiuse al libero pensiero; la religione è una
cosa, la filosofia un'altra; esse devono trovar pace nel reciproco
isolamento; non è necessario scegliere; basta far a ciascuna il suo
spazio legittimo; e se ben si guardi, tutte le insigni opere dell'età di
Cartesio s'impiantano su questa base. Di certo la filosofia ha alcune
parti diverse dalla teologia, per esempio la logica e la psicologia
sperimentale; ma su punti essenziali, quali il principio e il fine delle
cose, Dio e la nostra destinazione, potrebbe mai un uomo aver due
opinioni contrarie? come operare fra due scienze, l'una che dice sì,
l'altra che dice no?[215]

L'opera del Pomponazio fu bruciata pubblicamente a Venezia; tolta a
confutare da Alessandro Achillini averroista scolastico[216], dal Nifo,
e da Ambrogio arcivescovo di Napoli, contro i quali la difese l'autore;
poi dal Contarini che fu cardinale, da tre frati, Bartolomeo da Pisa,
Girolamo Bacelliere, Silvestro Prieira.

Perocchè i frati vigilavano su questi aberramenti, e studiavano a
combatterli; i filosofi si lagnano sempre dell'opposizione dei
cucullati: il Pomponazio querelasi d'un eremita di sant'Agostino
napoletano, che, predicando a Mantova, l'avea proferito eretico ed
empio, mentre in vece il cardinal Bembo l'avea difeso alla Corte papale,
e non trovato nel suo _De immortalitate_ nulla di contrario alla verità,
e che egual opinione tenne il maestro del sacro palazzo. In fatto,
mediante le continue proteste di sommessione e la condotta intemerata,
egli potè seguitar a professare impunemente; dopo morte fu onorato d'una
statua, e deposto nella sepoltura d'un cardinale; ma allora divulgossi
un epitafio che diceva: «Qui giacio sepolto. — Perchè? — Nol so, nè mi
curo sapere se tu il sappi o no. Se stai bene ne godo. Io vivendo stetti
bene. Sto bene ora? se sì o no non posso dirlo».

Poichè da noi facilmente ogni sentimento diviene passione, non piccola
efficacia ebbe egli sul suo tempo; e qualora un professore cominciasse
le solite dissertazioni, i giovani interrompevano gridando: «Parlateci
delle anime», per conoscer di primo achito come vedesse nelle quistioni
fondamentali.

A que' pensamenti aderirono Simone Porta, Lazzaro Bonamico, Giulio
Cesare Scaligero, Giacomo Zabarella, Daniele Barbaro che diceva: «Se non
fossi cristiano seguirei in tutto Aristotele»[217]; Simone Porzio, la
cui opera sull'anima è detta dal Gessner «più degna d'un porco che d'un
uomo», eppure non gli partorì disturbi. Andrea Cesalpino, illustre
naturalista, fa generar le cose spontaneamente dalla putredine, allorchè
più intenso era il calore celeste. Galeotto Marzio di Narni, nelle
dissertazioni _De incognitis vulgo_, avendo posto molti errori, e
asserito che, chiunque vive secondo i lumi della ragione e della legge
naturale, otterrà l'eterna salute, e posto in bilancia i dogmi nostri
coi pagani nell'evidente intenzione di mostrarli del pari credibili, fu
côlto dall'inquisizione a Venezia, e s'un palco, colla mitera di carta
dipinta a diavoli, obbligato a ritrattarsi; da maggior castigo salvato
da Sisto IV, ch'era suo allievo[218], tornato in Boemia e in Ungheria,
dove già prima era vissuto come bibliotecario e educatore del figlio di
Mattia Corvino, ne uscì per seguitare Carlo VIII in Italia; cascando di
cavallo si ruppe la pingue persona. Matteo Palmieri di Pisa, noto autore
della _Vita civile_ (1483), cui Marsilio Ficino diresse una lettera come
_poetæ theologico_, scrisse un poema in terzine a imitazione di Dante,
intitolato _Città di vita_, nel quale sosteneva che le anime nostre sono
quegli angeli che, nella ribellione, non furono per Dio nè contro Dio,
ma rimasero neutri. L'Inquisizione disapprovò tal sentenza, onde il
poema non fu mai pubblicato, nè il merita. I soliti parabolani dissero
che l'autore fu bruciato col suo libro, mentre consta che ebbe funerali
a Firenze per pubblico decreto; il Rinuccini ne recitò l'orazione
funebre, e additava appunto posato sul suo cadavere, durante le esequie,
quel libro, dove cantava che l'anima, sciolta dalla terrena soma, per
varj luoghi s'aggira, finchè giunga alla superna patria.

Nicoletto Vernia da Padova propagò altrove l'unità dell'intelletto con
tal calore, che diceasi l'avesse persuaso a tutta Italia[219]. Pietro
Barozzi, vescovo di Padova, seppe indurlo a fare un libro (1499), ove
disdicendo quel che avea sostenuto per trent'anni, dimostra tante essere
le anime quanti i corpi, e conchiude col preferir il titolo di canonico
a quello di soprafilosofo.

Fu suo scolaro Agostino Nifo calabrese, che sosteneva (_De intellectu et
dæmonibus_, 1492), non esservi altra sostanza separata dalla materia se
non le intelligenze che muovono i cieli; un'anima sola ed
un'intelligenza sparsa nell'universo, vivifica e modifica gli esseri a
sua voglia. Lo confutarono i monaci, e mal gli sarebbe avvenuto se esso
vescovo di Padova non lo avesse scampato e indotto a modificar l'opera
sua, come modificò l'insegnamento. Pure Leone X il favorì, lo fece conte
palatino, e pagollo affinchè, contro il Pomponazio (1518), mostrasse che
Aristotele sostiene l'immortalità dell'anima.

E lungamente regnò il realismo nella scuola di Padova. Regiomontano vi
dava lezioni sopra Al-Fargani, e ben avanti nel secolo XVII vi si
insegnavano tali dottrine, che noi non giudicheremo un progresso dello
spirito umano, bensì un regresso verso la scolastica del medioevo e il
peripatismo arabo; ma che, staccando dalle tradizioni, avviavano al
pensare indipendente e alla scienza laica e razionale.

Gismondo Malatesta, che, essendo feudatario della Chiesa le defraudava i
dovuti soccorsi, fu da Pio II scomunicato nel 1461, fra gli altri
delitti apponendogli di non credere alla risurrezione dei corpi e
all'immortalità dell'anima, e fu arso in effigie[220]. Paolo Mattia
Doria napoletano, avea preparato l'_Idea d'una perfetta repubblica_, ma
ne fu sospesa la stampa, e fu arsa come fetida d'immoralità e di
panteismo. Speron Speroni, a Pio IV che gli dicea: «Corre voce in Roma
che voi crediate assai poco», rispose: «Ho dunque vantaggiato col
venirci da Padova, ove dicono che non credo nulla»; e poco prima di
morire esclamò: «Fra mezz'ora sarò chiarito se l'anima sia peribile o
immortale»[221].

Di quel misto di cabala, gnosticismo, neoplatonismo, giudaismo, che
univasi colla letteratura classica, coi filosofemi d'Aristotele,
d'Epicuro, d'Averroè, per gettare gli spiriti nel dubbio e in quel che
ora intitoleremmo razionalismo, erasi nella corte di Lorenzo de' Medici
imbevuto Giovanni Pico della Mirandola, ricco signore e portentoso
intelletto. Ebbe a maestro Elia del Medico, ebreo averroista che per lui
compose varj trattati filosofici, fra cui uno sull'Intelletto e la
Profezia (1492) e un commento sul libro _Della scienza del mondo_
(1485): a Venezia stamparonsi più volte (1506, 1544, 1598) le sue
annotazioni sopra Averroè, le quistioni sulla creazione, sul primo
motore, l'ente, l'essenza e l'uno. Uscendo da tale scuola, Pico
professavasi educato, a non giurar nella parola di nessuno, ma
diffondersi su tutti i maestri di filosofia, vagliarne tutte le carte,
conoscerne tutte le famiglie; anzi, l'indipendenza spingea fino a
credere che l'oro puro, sebbene sotto forma tedesca, valesse meglio che
il falso coll'eleganza romana[222].

A ventiquattro anni (1486) mandava per Europa una sfida, pronto a
sostenere in Roma novecento tesi, dialettiche, morali, fisiche, ecc.;
quattrocento delle quali avea dedotte da filosofi egizj, caldaici,
arabi, alessandrini, latini, le altre erano opinioni sue. Alla sfida
nessuno comparve, benchè Pico si assumesse di rifondere le spese del
viaggio: ma il suo ardimento irritò l'amor proprio dei dotti; e in
quella farragine ripescarono tredici proposizioni, che deferirono al
papa come ereticali. Tra esse erano: Gesù Cristo non esser disceso
personalmente agl'inferni, ma sol quanto all'effetto: non poteva essere
dovuta una pena infinita al peccato d'un essere finito; non esser certo
se Dio potesse ipostaticamente unirsi anche a creatura non ragionevole;
la scienza che più ci rende certi della dottrina di Cristo è la magia e
la cabala; come non dipende dalla volontà l'aver un sentimento, così
neppure il credere; i miracoli di Gesù Cristo non sono prova evidente
della sua divinità per l'operazione, ma per la maniera con cui gli ha
operati; l'anima non conosce veruna cosa distintamente come se stessa.

Il pontefice, dopo maturo esame, le disapprovò (1487), e Pico le difese
in un'apologia, poi nell'_Heptaptus de septiformi sex dierum geneseos
enarratione,_ e nel _De Ente et Uno_. Da quel gergo scolastico non è
agevole, almeno a me, ricavare un chiaro concetto; riducesi però ad
appaciare Platone con Aristotele, la teologia pagana colla mosaica e
colla cristiana.

Vantavasi d'aver egli primo in Italia reso ragione dell'aritmo teologico
di Pitagora; l'unità numerica fondarsi sull'unità metafisica, la quale è
al di sopra dell'ente. Allegorici credeva i libri di Virgilio, di
Platone, di Omero; e lo stesso metodo applicava ai libri santi. A gran
prezzo avea comprati certi libri di Esdra, che davano spiegazione della
dottrina mosaica e dei misteri, e supponendoli genuini, con essi e colla
cabalistica interpretava liberamente Mosè.

E quale allegoria, nell'_Heptameron_ espose il genesi mosaico,
trattandolo come i Neoplatonici avrebbero potuto trattare la mitologia,
sfoggiandovi sapienza orientale e occidentale. «Mosè e i profeti, Cristo
e gli apostoli, Pitagora e Plutarco (dic'egli), e in generale i
sacerdoti e filosofi del mondo antico velarono la loro sapienza sotto
immagini, perchè la folla non era capace di gustare quel cibo della
verità, e intesero tutt'altro da quel che suonino le parole. È fuor di
dubbio che Mosè, nell'enumerazione delle sei giornate, non volle parlare
della creazione del mondo visibile; ed a prima vista sembra grossolano,
attesa la legge degli antichi savj di adombrare le cose sublimi.
Altrettanto fece Cristo parlando per parabola al vulgo, e perciò san
Giovanni, che fu più degli altri istrutto negli arcani, scrisse solo
tardissimo, e san Paolo ricusava il vital nutrimento ai Corintj, ancora
carnali, e Dionigi Areopagita esortava a non mettere in carta i dogmi
più reconditi; Cristo confidò arcanamente alcune verità a' discepoli
suoi, che le tramandarono a voce; e il conoscerle è fondamento
grandissimo della fede nostra». Non vi si giunge che per mezzo della
cabala, dalla quale, per esempio, s'impara perchè Cristo dicesse
d'esistere prima d'Abramo, e che dopo di sè manderebbe il Paracleto, e
che egli veniva coll'acqua del battesimo e lo Spirito Santo col fuoco.

Chi non vede ove potesse portare un tale eccletismo? Che se veniva
applaudito dalle accademie e dalla Corte de' Medici ove tale era la
moda, non potea piacere a Roma: e per quanto egli si schermisse dietro a
ripetute proteste di soggezione alla Chiesa, realmente alla Chiesa volea
sostituir se stesso nel definire e spiegare il dogma per mezzo della
cabala e dell'ebraico. Innocenzo VIII diceva: «Costui vuol finir male,
ed essere un giorno arso, poi vituperato in eterno, come qualchedun
altro. Le cose della fede sono troppo delicate, e non posso tollerarlo:
scriva opere di poesia, saranno più da' suoi denti»; malgrado le
raccomandazioni del magnifico Lorenzo[223], mai non volle ritirarne la
condanna, benchè schermisse da ogni molestia l'autore. Il quale, sempre
più ingolfato negli studj, per quanto contento di sua sorte a segno, che
diceva non vedrebbe di che mormorare contro la Providenza, se pure non
perdesse lo scrignetto de' suoi scritti, non sapea darsi pace di essere
incorso nella disapprovazione papale, si riprotestava di sentimento
cattolico, e intanto non voleva confessare d'avere sbagliato nel
sostenere certe proposizioni, anche dopo che furono condannate dalla
bolla pontifizia.

Non mancavano persone che lo istigassero a buttar giù la buffa, romper
con Roma, ed eccitare un grande scandalo: ma egli, assaggiata la vanità
della scienza, tornò al cuore di Cristo e alla carità, ripetendo la
sentenza di san Francesco, «Tanto sa l'uomo quanto opera». Allora contro
gli Ebrei difese la fedeltà di san Girolamo nella versione dei salmi;
voleva anche scrivere una grande opera per confutare i sette nemici
della Chiesa; ma non compì che la parte contro gli astrologi; macerava
il corpo; recitava l'uffizio come i preti, consumava «giorno e notte in
leggere le sacre carte, nelle quali è insita una certa forza celeste,
viva, efficace che con meraviglioso potere converte l'animo del
leggitore all'amore divino», e pensava pigliarsi una croce e andar a piè
scalzi predicando Gesù Cristo. Alfine da Alessandro VI ottenne una
bolla, ove dichiaravasi che mai, per le tesi riprovate, non era incorso
in veruna censura o sinistra nota, o da queste veniva assolto; e morì
piamente nel 1494 in mano de' Domenicani, l'abito de' quali voleva
vestire.

Ma la filosofia ponevasi sempre più in urto colla fede, e «non pareva
fosse gentiluomo e buon cortigiano colui che de' dogmi non aveva qualche
opinione erronea od eretica». I moderati credevano prestar omaggio alla
fede col non riflettervi, accettare i dogmi senza esame, con
quell'accidia voluttuosa che, in tempi a noi vicini, chiamava spirito
forte l'indifferenza, e lo sdrajarsi col bicchiere in mano e spegnere i
lumi. Già viveasi per l'intelletto più che per la coscienza;
irrobustendo la ragione, lasciavasi ammutir la coscienza, guastare il
cuore, e mescersi a tutto una superstizione puerile; e come conseguenza
un materialismo semplice e pratico, un'accidia voluttuosa, talchè può
dirsi che tutta l'Italia fosse trasformata in un gran Decamerone.

Quel beffardo sincretismo manifestavasi, come avvien nelle mode, anche
con frivolezze, e alla Corte de' Medici si teneano spesso dispute
filosofiche e teologiche in questo senso. Nicola de Mirabilibus,
domenicano, racconta come, _post convivium magnifice ac splendide
factum_ nel palazzo di Lorenzo de' Medici, si pose in disputa una tesi,
affissa nel tempio di Santa Riparata dai frati Minori, che il peccato di
Adamo non è il maggiore di tutti i peccati. Frà Nicola divisa gli
argomenti addotti dai varj interlocutori, e massime dal magnifico
Lorenzo.

Da per tutto, ma forse peggio in Italia, la buffoneria si esercita col
bersagliare le convinzioni, e mettere in canzonella le quistioni più
serie, quando vengono agitate. Per tale spirito Luigi Pulci, nel
bizzarro poema del _Morgante_, volgeva in baja tali disquisizioni:

    Costor che fan sì gran disputazione
    Dell'anima ond'ell'entri ed ond'ell'esca
    O come il nocciol si stia nella pesca
    Hanno studiato in su n'un gran mellone.

Fin sul teatro recavansi, e sta manoscritta alla Biblioteca già Palatina
di Firenze una rappresentazione del XV secolo, intitolala _I Sette
Dormienti_, ove Tiburzio e Cirillo sostengono che, secondo Aristotele,
la resurrezione dei morti è contro natura; Faustino cristiano disputa in
contrario e conchiude:

    Se Aristotel nol crede lo credo io,
    Se non lo fa natura lo fa Dio.

Faustino racconta all'imperatore Teodosio le ingiurie dettegli dai
filosofi, e l'imperatore chiama teologi e filosofi a disputare in sua
presenza, ma poichè non giungono a una conclusione, l'imperatore li
congeda, si veste di cilizio, e prega Dio a palesare la verità. Qui
interviene il noto miracolo de' sette dormienti.

V'ebbe qualche filosofo che accendeva il lumicino all'immagine di
Platone; qualche accademia celebrava feste all'antica, sagrificando un
capro; e molti cambiavansi il nome di battesimo, quasi vergognosi di
portare quel d'un santo; e d'Antonio, Giovanni, Pietro, Luca, faceano
Aonio, Gianni, Pierio, Lucio; e mutavano Vittore in Vittorio o Nicio,
Marino in Glauco, Marco in Callimaco, Martino in Marzio, e così via.

Si sgomentò di questo paganizzamento Paolo II, e fece processare alcuni,
tra' quali Pomponio Leto e Bartolomeo Sacchi, detto il Platina da
Piadena ove nacque il 1421. L'accusa era che latinizzassero i nomi, e
coi Platonici mettessero in dubbio l'anima e Dio. Rispondeano che,
quanto al venerare Platone, imitavano sant'Agostino; che filosofi e
teologi tutti allora disputavano su questi punti, affine di giungere
alla verità; che del resto essi non disobbedivano alla Chiesa, anzi ne
seguivano le pratiche[224], e mai non aveano lasciato di confessarsi e
comunicarsi ogni anno.

È da bello spirito il lodare uno perchè perseguitato dai papi, e fargli
merito di quel che i papi non poteano che riprovare. Ma dalla lettera
ove il Platina, stando in carcere, racconta al cardinale Bessarione il
suo processo, appare come l'accademia istituita da Pomponio Leto
tendesse a trasformare il paganizzamento letterario in religioso;
avvegnachè vi si celebrava il giorno della fondazione di Roma con
sacrifizj; e Pomponio ogni giorno s'inginocchiava ad un altare dedicato
a Romolo[225], e non volea leggere libro posteriore alla decadenza
dell'impero, quindi neppure la Bibbia e i Padri. Fosse stato anche
soltanto letterario, non v'è retto pensatore che non iscorga quanto
pregiudicasse alla logica, alla morale, all'estetica il volere che
Cristo e la redenzione cedessero il luogo alla voluttà pagana e al
lepido bersagliamento contro le virtù domestiche e sociali.

Per estendere gli atti in colto stile, Pio II aveva attaccato alla sua
cancelleria un collegio di sessanta abbreviatori, tutti letterati.
Abusarono del loro posto per far traffico de' rescritti; onde Paolo II,
volendo tutto fosse gratuito, li soppresse, senza riguardo alle somme
con cui aveano compro que' posti. Si pensi quanti nemici si fece! ed
erano scrittori. Fra essi il Platina, il quale credette sgomentare il
papa minacciando scrivere contro di lui, e indurre i principi a radunare
un concilio per riparare a tale ingiustizia. Ciò parve colpa di
stato[226]; e aggiungendosi il sospetto d'una congiura contro il papa;
con altri il Platina fu arrestato e torturato, prima per accusa di
fellonia, poi di eresia, entrambi non provate. Tenuto in carcere quattro
mesi e senza fuoco, siccome egli si lamenta, il Platina si vendicò col
dettare una storia de' papi ostilissima, dalla quale i Protestanti
ripescarono molti fatterelli contro la Corte romana, perciò noverando
lui fra gli anticipati testimonj della verità. Qui noi non abbiamo che a
notare la pochissima critica di questo abborracciatore passionato. Per
esempio, di Paolo II egli fa un nemico di tutti i letterati,
giudicandoli tutti eretici, e sconsigliando i padri dallo sciupare
denari e tempo nell'istruzione dei figliuoli, bastando sapessero leggere
e scrivere. Se non avessimo altre testimonianze, basti il dire come,
sotto quel pontefice, s'introducesse la stampa a Roma, e i primi libri
uscissero dedicati ad esso, con larghe lodi della sua munifica
protezione; e il Platina stesso narra ch'e' cercava d'ogni parte statue
antiche per ornar il suo palazzo[227].

Che se quanto noi esponemmo basta a smentire gli storici plebei, che
cianciano fosse servile la fede, assoluta l'ignoranza, giustifica quelli
che, al vedere la scienza staccarsi dall'appoggio della fede,
spaventavansi che la salute delle anime si facesse dipendere dalle
vicende del sapere. E questo paganizzamento, ancor più che nella
scienza, rendeasi appariscente nelle arti belle e nella letteratura,
dove al convenzionale tipico surrogavasi la plastica raffinatezza; e
l'appassionamento per l'antichità diede a credere non si potesse
compiere il risorgimento se non ripristinandola, fino a rimettere in
culto le idee che il vangelo aveva dissipate, e rialzare le ruine della
Roma pagana sopra gli edifizj della Roma cristiana.

Sugli altari si correva ad ammirare pitturate le amasie de' pittori, e
belle di divulgata cortesia nella Vergine della casta dilezione.
Alessandro VI fu dipinto dal Pinturicchio in Vaticano sotto forma d'un
re magio, prostrato avanti una Madonna ch'era la Giulia Farnese, come il
Pordenone fece Alfonso I di Ferrara inginocchiato a una santa Giustina,
la quale era Laura Dianti, druda di lui. Tutto gentilesco si mostrò il
Ligorio nella villa Pia, eretta per ricreazione de' papi. Il Tiziano per
santa Caterina fece il ritratto della regina Cornaro, pompeggiante di
dovizie e bellezze. Nell'adorazione de' Magi spesso si ritrassero i
Medici, per aver pretesto di porvi in testa quella corona a cui
aspiravano. Nel quartiere della badessa di San Paolo a Parma il
Correggio eseguì scene più che mondane: nella sacristia di Siena si
collocarono le tre Grazie ignude; e ignudi turbavano l'austerità delle
tombe principesche, e fin le cappelle pontifizie. A Isotta, amasia poi
moglie di Pandolfo Malatesta signore di Rimini, fu su medaglie e sul
sepolcro dato il titolo di _diva_; e Carlo Pinti nell'epitafio la
dichiarava «onor e gloria delle concubine». S'un sepolcro in San Daniele
a Venezia leggesi: _Fata vicit impia_; come la divisa di monsignor Paolo
Giovio dicea: _Fato prudentia minor_. Sotto Giulio II esortavasi alla
crociata perchè darebbe occasione d'acquistare manoscritti.

L'eloquenza sacra deduceva non solo le forme, ma e le autorità e gli
esempj dei classici. Nei funerali di Guidobaldo da Montefeltro, l'Odasio
ne recitò il panegirico nel duomo d'Urbino, più volte esclamando agli
Dei immortali, dicendo come il vescovo di Fossombrone coi sacramenti
amministratigli avesse placato gli Dei e i Mani; _Deos illos superos et
Manes placavit_. Il cardinale Bessarione, compiangendo la morte di
Gemistio Pletone, dice: «Intesi che il nostro padre e maestro, essendosi
spogliato di quanto avea di terrestre, volò verso i cieli in un luogo
purissimo, dove può ballare coi celesti la mistica danza di Bacco». Il
Poliziano, scrivendo a Lorenzo de' Medici al 6 aprile 1479, lagnasi che
sua moglie avesse messo il figlio Giovanni (che fu poi Leone X) a
leggere i salmi, invece de' libri nostri: _transtulit jam illum mater ad
psalterii lectionem, atque a nobis abduxit_[228].

Nel 1526 essendo presa Siena da' fuorusciti, un buon canonico, memore di
ciò ch'è narrato nel terzo libro di Macrobio, recitò la messa, e proferì
la formola imprecatoria che ivi è indicata contro i nemici; se non che,
invece di _Tellus mater, teque Jupiter obtestor_, disse _Tellus, teque
Christe Deus obtestor_.

Oscenamente scriveano il Panormita nell'Ermafrodito, Giovian Pontano,
Francesco Filelfo, Poggio Bracciolini, il Landino, il Poliziano, Lorenzo
de' Medici, Giovanni Della Casa monsignore, Angelo Firenzuola frate, ed
altre persone gravi, non solo porgendo manifestazioni, ma apologie del
vizio, e scherzando su quanto ha di più sacro la società e la famiglia.
Nell'esaltazione di Alessandro VI le iscrizioni alludevano sempre al
nome eroico:

    _Cæsare magna fuit, nunc Roma est maxima: sextus_
        _Regnat Alexander, ille vir, iste Deus;_

e un'altra:

    _Scit venisse suum patria grata Jovem_.

Per Leone X si fece quest'epigramma:

    _Olim habuit Cypris sua tempora, tempora Mavors_
        _Olim habuit; sua nunc tempora Pallas habet._

Esso Leone X eccitava Francesco I contro i Turchi _per Deos atque
homines_. V'è chi chiama Olimpo il paradiso, Erebo l'inferno,
lectisternia le maggiori solennità, _arciflamini_ i vescovi, _infula
romulea_ la tiara, _senatus Latii_ il sacro concistoro, ambrosia e
nettare le sacrosante specie; _sacra Deorum_ la messa, _simulacra sancta
Deorum_ le immagini de' santi.

Le allusioni gentilesche del Bembo strisciano all'empietà; partendo per
la Sicilia, invoca gli Dei propizj al suo viaggio, _quod velim Dii
approbent_; fa Leone X assunto al pontificato _per decreto degli Dei
immortali_; parla dei doni alla _dea lauretana_, dello _zefiro celeste_,
del _collegio degli auguri_, per indicare lo Spirito santo e i
cardinali; chiama _persuasionem_ la fede, la scomunica _aqua et igni
interdictionem_; fa dal veneto senato esortare il papa _uti fidat diis
immortalibus, quorum vices in terra gerit_; e così _litare diis manibus_
è la messa dei morti; san Francesco in _numerum deorum receptus est_.
Ne' versi poi anteponeva il piacere di vedere la sua donna a quello
degli eletti in cielo:

    E s'io potessi un dì per mia ventura
    Queste due luci desiose in lei
    Fermar quant'io vorrei,
    Su nel cielo non è spirto beato
    Con ch'io cangiassi il mio felice stato.

Negli _Asolani_ conforta i giovani ad amare; e al cardinale Sadoleto
scriveva: «Non leggete le epistole di san Paolo, chè quel barbaro stile
non vi corrompa il gusto; lasciate da canto coteste baje, indegne d'uom
grave. _Omitte has nugas, non enim decent gravem virum tales ineptiæ_».

Nell'epitafio pel famoso letterato Filippo Beroaldo egli ne loda la
pietà, per la quale suppone che canti in cielo:

    _Quæ pietas, Beroalde, fuit tua, credere verum est_
        _Carmina nunc cœli te canere ad cytharam:_

eppure i costui versi ostentano gli amori colla famosa Imperia, e con
un'Albina, una Lucia, una Bona, una Violetta, una Ghiera, una Cesarina,
una Merimna, una Giulia, le quali appaja a quella cortigiana; ed era
prelato.

Ma il Bembo, come gli altri del suo tempo, credeva il risorgimento
consistere nelle forme; doversi abbattere la scolastica per mezzo di
Cicerone, e mediante l'espressione materiale giungere allo spirito;
abborriva dagli umanisti, che dicean il latino moderno dovere essere di
vario colore; e piacevagli meglio parlare come Cicerone che essere papa.

Egli recitava a memoria molti passi dello scorrettissimo Battista
Mantovano: ma ciò ch'è maggiore meraviglia, altrettanto faceva il
Sadoleto, un de' più pii di quel secolo. Il quale ha una consolatoria a
Giovanni Camerario per la perdita di sua madre, che tutta volge sulla
intrepidezza e magnanimità pagana, senza toccare agli argomenti ben più
efficaci della religione. Jacobo Sannazaro, per cantare il parto della
Vergine, invoca le Muse, scusandosi se le adduce a celebrare un infante
nato in un presepio, e non mai nomina _Jesus_ perchè non è latino;
perchè non è latino _propheta_, fa dal Giordano personificato narrare
l'ascensione di Cristo qual la udì vaticinare da Proteo: Maria _spes
fida deorum_, è dall'angelo Gabriele trovata intenta a leggere le
Sibille (_illi veteres de more Sibyllæ in manibus_); e quand'ella
assente a divenire madre, le ombre de' patriarchi esultano _quod tristia
linquant Tartara, et erectis fugiant Acheronta tenebris, Immanemque
ululatum tergemini canis_. Dapertutto insomma arte pagana in soggetto
sacro, alla guisa che sul suo sepolcro in una chiesa sorgono Apollo e
Minerva, fauni e ninfe.

Girolamo Vida, dotto e santo vescovo di Cremona, che digiunava spesso a
sole radici, nella _Poetica_ non parla che di Muse e Febo e Parnaso,
come i classici di cui raccozzava gli emistichi, e ai quali,
principalmente a Virgilio, prestava un culto da Dio:

    _Te colimus, tibi serta damus, tibi thura, tibi aras_
    _Et tibi rite sacrum semper dicemus honorem._
        _Nos aspice præsens,_
    _Pectoribusque tuos castis infunde calores_
    _Adveniens pater, atque animis te te insere nostris._

Come in un poema sul giuoco degli scacchi, alle nozze dell'Oceano colla
Terra fa gareggiare Apollo e Mercurio; così usa nella _Cristiade_, dove
applica a Dio Padre tutti i nomi di Giove, _regnator Olympi, superum
pater, nimbipotens_; del Figlio fa un eroe, sul tipo di Enea; _multis
comitantibus heros — immobilis heros orabat — curis confectus tristibus
heros — ipse etiam_ (il cattivo ladrone) _verbis morientem heroa
superbis stringebat_: Gorgone, Erinni, Arpie, Idre, Centauri, Chimere,
spingono gli Ebrei al deicidio: all'ultima cena viene consacrato fior di
Cerere: sulla croce al morente è porto tristo umor di Bacco (_sinceram
Cererem — corrupti pocula Bacchi_). L'uomo soffrente sul Calvario non è
il Dio riparatore, e allo spirare suo, non che l'alito d'amore si
difonda sulle ire procaci, gli angeli vorrebbero farne vendette: sempre
insomma dal Cristo, redentore dello spirito immortale, volgea gli occhi
all'Apollo, tipo di bellezza corporea.

Vero è che, sin quando il sentimento religioso predomina, esercita sulla
forma la sua forza riparatrice; pure il ravvivato splendore
dell'antichità abbagliava per modo, da adombrare il cristianesimo;
ammirando unicamente il bello della società classica, non vedeasi il
buono della moderna, e le teoriche di quella si applicavano agli affari
pubblici.

La fede nella sua integrità era stata fino allora la fonte unica d'ogni
diritto, d'ogni ordine. Tutto il mondo civile riconosceva una religione,
cioè una dottrina generale sulle relazioni fra il cielo e la terra, uno
scopo alla vita dell'umanità, cioè compiere il disegno divino; una
l'origine degli Stati, cioè la volontà di Dio; conformità di credenze,
che costituiva un legame tra le varie società.

Da questa fonte unicamente traevasi il diritto di governare e di punire;
gli Stati prendeano il nome del loro patrono, dicendosi patrimonio di
san Pietro, come repubblica di san Marco o di san Giovanni; e
sant'Ambrogio, san Geminiano, san Petronio, san Siro indicavano Milano,
Modena, Bologna, Pavia; il nome e l'effigie del santo metteasi sulle
monete e sugli stendardi: perfino le date storiche riferivansi al
calendario ecclesiastico, dicendo che il giorno della candelara erano
state rapite le spose veneziane, alla sant'Agnese sconfitti i Torriani
dai Visconti; al san Sisino si vinse il Barbarossa a Legnano; a san
Cosmo e Damiano fu preso Ezelino.

Gli stessi pensatori non cercavano altro che rendersi ragione di quel
che credevano. Cattolici prima che filosofi, volenti godere della
tradizione che aveano ricevuta coll'intelligenza, studiavano
comprendere, ma in fondo credevano, portando l'offerta della loro
scienza e ragione al tempio del Signore; e non pretendeano riformare il
mondo e la società col pensiero loro proprio, senza tenere conto de'
loro simili, nè de' fratelli e dei canoni trasmessi dai vecchi.

Così per quindici secoli non si era avuto che un idioma per favellare a
Dio, una sola autorità morale, una sola convinzione; tutta Europa alla
stess'ora, il giorno stesso, colle stesse parole supplicava, aspirava,
esultava.

Ora invece scomponevasi l'intima società col surrogare alla fede il
raziocinio, alla credenza assoluta le religioni comparate; inoculando il
dubbio corrompevansi i costumi, e i costumi riagivano sopra le credenze.
Ciò appare in tutti gli scrittori, e principalmente in Nicolò
Macchiavello e Francesco Guicciardini. Quest'ultimo guarda all'esito,
non mai alla giustizia d'una causa: le peggiori iniquità racconta colla
freddezza d'un anatomico; vede o arguisce sottofini e cattive intenzioni
dapertutto, nè mai riconosce virtù, religione, coscienza, bensì calcolo,
invidia, ambizione; fatto ironico, forse per dispetto degli uomini e
degli eventi, affetta un'imparzialità che in fondo è indifferenza tra
l'onestà e la ribalderia. I papi non solo esamina e giudica al modo
degli altri principi, ma sempre li trova in torto, gli accagiona di
tutti i mali d'allora; eppure li servì; e diceva: «Il grado che ho avuto
con più pontefici m'ha necessitato ad amare per il particolare mio la
grandezza loro; se non fosse questo rispetto, avrei amato Lutero quanto
me medesimo, non per liberarmi dalle leggi indotte dalla religione
cristiana nel modo ch'è interpretata e intesa comunemente, ma per veder
ridurre questa caterva di scellerati a' termini debiti, cioè a restare o
senza vizj o senza autorità»[229].

Altrove consigliava: «Non combattete mai con la religione, nè con le
cose che pare che dipendano da Dio, perchè questo objetto ha troppa
forza nella mente degli sciocchi»[230].

Non decidendosi fra Mosè e Numa, fra Giove e Cristo, ammette i miracoli
ma d'ogni religione «in modo che della verità di una fede più che di
un'altra è debole pruova il miracolo»[231]; in ogni nazione, e quasi in
ogni città sono devozioni che fanno i medesimi miracoli, segno manifesto
che le grazie di Dio soccorrono ognuno[232]. Egli tiensi certo anche per
esperienza propria che v'ha spiriti aerei, i quali domesticamente
parlano colle persone[233].

Dopo di ciò, non è più un fenomeno stravagante e un mito il
Macchiavello, il quale sull'idolatrato tipo de' Greci e Romani foggia la
nuova civiltà, cancellandone Cristo e il Vangelo. Secondo lui, natura
creò gli uomini colla facoltà di desiderare tutto e l'impotenza di tutto
ottenere, sicchè dirigendo essi il desiderio sopra gli stessi oggetti,
trovansi condannati a odiarsi gli uni gli altri. Per togliersi a questa
guerra di tutti contro tutti, è permessa ogni cosa, e di violare
qualunque diritto e dovere; e la società fu istituita per comprimere
l'anarchia mediante la forza organizzata.

In somma la sua è la dottrina dello Stato ateo, il quale non teme
d'andar all'inferno, ed è a se stesso fine e legge. Niente v'ha di
superiore ai sensi; l'idea della giustizia nacque dal vedere come
tornasse utile il bene e nocivo il male; al bene gli uomini s'inducono
solo per necessità; il principe dee farsi temere anzi che amare; scopo
dei governi è il conservarsi, nè questo si può che coll'incrudelire,
«perchè gli uomini sono generalmente ingrati, simulatori, riottosi,
talchè conviene ritenerli colla paura della pena». Suppone dunque l'uomo
cattivo, come fa la Chiesa, non però in grazia del peccato originale, nè
ammettendo un mediatore; non cerca il regno dello spirito, ma quello
della forza. Dio è sempre coi forti; e a chi ha dà ancora; a chi ha
poco, toglie anche quello che ha. È sventura che alla religione feroce
antica, coi gladiatori, col culto degli eroi, coll'apoteosi de'
conquistatori, e che mescolava le battaglie colle preghiere, il sangue
colle feste, sia succeduta questa, tutta umiltà ed abjezione[234],
negligente dei proprj interessi; e se può sperarsi alcun bene
all'umanità consiste nel rivolgimento delle sfere, che potranno far
rinascere qualche culto simile all'antico.

Roma egli ammira per «la potenza delle esecuzioni sue», perchè conquistò
tanti popoli, e per guerra o per frodi rapì ad essi ricchezze, leggi,
libertà, indipendenza. Le crociate sono un mero scaltrimento di Urbano
II; di frà Savonarola era stato entusiasta in gioventù, ma come ne vide
la politica fallire, dovette credere non potesse riuscire se non la
frodosa o violenta, scurante di ciò che sta sopra il tetto. Del maestro
non ritenne più che l'amor della patria, e questa volea vedere forte e
unita: «sian pur iniqui i mezzi, ma son passeggeri, e ne seguiranno il
dominio supremo della legge, l'eguaglianza e la libertà di tutti, e si
farà della cittadinanza un medesimo corpo, ove tutti riconoscano un solo
sovrano»[235].

Adoratore della forza, e da quella sola sperando l'aquietamento delle
fazioni, il Machiavelli fantasticava una monarchia italiana. Non già
ch'egli pensasse mai a un signore, il quale soggiogasse le fiorentissime
repubbliche di Venezia, di Genova, di Lucca, nè tanto meno Roma; ma un
principe robusto che imponesse la sua politica a tutte. Eppure sarebbe
stata questa, nelle idee d'allora, una vera servitù, una conquista, un
uccidere l'autonomia a cui aspiravano i singoli popoletti; lo perchè
tale politica era detestata dai migliori italiani. E sempre vi si erano
opposti i pontefici, vedendo come il rinnovare un regno d'Italia al modo
dei Goti e dei Longobardi non solo avrebbe mozza la loro sovranità, ma
avvilita tutta Italia. Dell'essere stati operosissimi a impedir questa
tirannide comune sopra l'Italia, il Machiavello imputava i pontefici. Ma
non che altri, lo riprovava Francesco Guicciardini, riflettendo che
l'Italia fu corsa a lor posta dai Barbari quando era sotto al dominio
unico degli imperatori; che dalle sue divisioni trasse forse gravi mali,
ma n'ebbe in compenso una straordinaria floridezza; che gl'Italiani, per
abbondanza d'ingegno e di forze furono sempre difficilissimi a ridursi a
unità anche quando Chiesa non v'era; che col conservare l'Italia in quel
tenore di vita che s'addice alla sua natura e alla sua antichissima
consuetudine, anzichè male, avea fatto bene la Chiesa romana[236].

Per far l'Italia il Machiavelli ricorreva, al solito, agli stranieri;
non accorgendosi come i papi fossero la sola potenza che valesse a
salvarne l'indipendenza, desiderava che i Francesi gli umiliassero,
sollevando i baroni contro di essi in modo che o gl'insultassero come
sotto Filippo il Bello, o li chiudessero in Castel Sant'Angelo; nè esser
quelli «così spenti che non si potesse trovar modo a raccenderli»[237];
e a' suoi Fiorentini scriveva come si pensasse dai Francesi invadere
Roma, il che «sarebbe da desiderare, acciocchè ancora a codesti nostri
preti toccasse di questo mondo qualche boccone amaro»[238]. Ma della
riforma religiosa non ebbe verun concetto; trattò il cristianesimo non
altrimenti che il paganesimo, adattandolo a religione civile, siccome
leggeva in un frammento di Varrone; col che giustificava l'intolleranza.

E dappertutto non mostrasi egli novatore, ma sempre ripete idee
classiche, con qualche aggiunta e qualche applicazione. Nell'esporre «le
verità effettuate delle cose», non inculca espresso l'ingiustizia, ma
toglie per unica norma l'utilità; non come Satana dice al male, _Tu sei
il mio bene_, ma, _Tu mi sei utile_; se l'utile deva posporsi all'onesto
è disputa da frati.

I tradimenti altrui e le proprie empietà espone in tono d'assioma, senza
passione, come evenienze naturali, con freddo computo di mezzi e di
fine, con un'indifferenza che somiglia a complicità. Con questa scienza
senza Dio, che eleva l'ordine politico di sopra del morale, la ragione
di Stato sopra l'umanità, che suppone unica meta delle azioni il
soddisfare gl'istinti egoistici e interessati, assolve la menzogna, il
perfidiare la parola e i trattati, il conculcare il diritto delle genti,
la cospirazione, l'assassinio, purchè si raggiunga lo scopo, si soddisfi
l'ambizione, qualunque siasi: la vittoria arreca gloria, non il modo con
cui la si ottiene. Perciò il Machiavello ammira chiunque riesce, sia
pure a fini opposti, eccetto Giulio Cesare che spense le libertà
classiche, e Gesù Cristo che abjettì gli uomini predicando l'umiltà.
Ammira _la virtù_ dello scellerato Cesare Borgia, e fatto inorridire
colle costui scelleratezze, conchiude: «Io non saprei quali precetti
dare migliori ad un principe nuovo che l'esempio delle azioni del
duca... Raccoltele, non saprei riprenderlo, anzi mi pare di proporlo ad
imitazione a tutti coloro che per fortuna e con le armi d'altri sono
saliti all'impero». L'appassionata sua vista non gli lasciava scorgere
su quanto labile fondamento poggiasse la potenza di quel fortunato
ribaldo; e quando egli cade, lo pronunzia «truculento e fraudolento
uomo, e meritevole della pena che i cieli gli avevano serbata».

Armonizzar la natura col soprannaturale, la scienza colla fede, la
rivelazione colla ragione, la filosofia colla teologia, era stato lo
scopo degli Scolastici, e ormai erano beffati e posposti alle dottrine
gentilesche[239]. Cambiata la bilancia degli atti, qual meraviglia se
non veneravansi più i santi del paradiso, ma si applaudiva agli eroi
dell'inferno? Virtù è la forza intelligente; mezzo di governo una
dominazione unica e incondizionata. Invano Cristo avrà detto, «Perisca
il mondo, ma facciasi la giustizia»; il Machiavello torna al pagano
«Suprema legge è la salute dello Stato», e dice che «quando una città
pecca contro uno Stato, per esempio agli altri e securtà di sè un
principe non ha altro rimedio che spegnerla, altrimenti è tenuto o
ignorante o vile: dove si delibera della salute della patria, non vi
debbe cadere alcuna considerazione di giusto nè d'ingiusto, nè di
pietoso nè di crudele; nè di laudabile nè d'ignominioso». E segue che
«un uomo il quale voglia fare in tutto professione di buono, conviene
che rovini in fra i tanti che non sono buoni»: nelle esecuzioni non v'è
pericolo alcuno, perchè chi è morto non può pensare alla vendetta.

Altrettanto dicevano i Terroristi di Francia. Ed io non vedo in che cosa
Machiavello sia migliore di Hobbes, se non che egli pone in capo di
tutto la politica; e con voti contradditorj, contrasti inattesi,
sentimenti generosi in mezzo a mostruose teoriche, scompiglia la
critica, mentre Hobbes s'attiene alla morale, e tutto riduce ad unità
inflessibile, non commovendosi per veruna passione: del resto entrambi
confondono l'anima col corpo, l'onesto coll'utile, la ragione col
calcolo, Iddio col nulla. Machiavello esprime l'egoismo del principe,
come il Contratto Sociale di Rousseau espresse l'egoismo del suddito;
entrambi del pari repugnanti alla carità cristiana, e ponendo fondamento
alla sistemazione degli Stati non più l'ordine voluto da Dio, ma la
volontà dell'uomo; traendo ogni podestà non da Dio ma dall'uomo;
riducendo l'attività sociale non a compiere un disegno divino
providenziale, ma ad emancipare l'umanità.

Non potevamo trascurare questa eresia politica, che trionfò e durò più
delle altre; che, quando assassinava l'italica indipendenza, voleva
uccidere anche il diritto e la giustizia: e indebolita l'autorità
spirituale, preparava quel despotismo che non insinua la bontà, ma
reprime colla forza, usata accortamente sopra la torma de' bipedi, che
la loro stupidità condanna all'obbedienza.

Se questa sfacciataggine di politica anticristiana attesta come fossero
mutati i tempi e aggravati i pericoli, fu gran sintomo della lamentata
trascuraggine il non avere Leone X notato que' libri fra i proibiti,
anzi all'autore dato commissione d'un'opera analoga, sul governo da
porsi a Firenze; neppure Adriano VI, così onestamente rigoroso, li
toccò; Clemente VII diede privilegio al Blado per istampar le opere del
Machiavello, nel quale non vedeva se non l'illustre concittadino,
perseguitato dalla sua casa, che narrava la storia di Firenze, e la
dedicava a lui papa, il quale tenne il _Principe_ per una bizzarria di
spirito, una leggerezza come altre del segretario. Nè fino a Clemente
VIII veruna condanna officiale gli fu inflitta[240]. Oggi è, come
dicono, riabilitato, e onorato di statue come i pigmei suoi imitatori.


NOTE

[193] OZANAM, _Filosofia di Dante_. Al qual proposito giovi soggiungere
che Benvenuto da Imola, commentando Dante ove dice esser più di mille
gli eretici, riflette che _chussi poteano dire plus de centomillia
migliara_: e che i siffatti _son generalmente huomini magnifici_.

[194] Almeno lo asserisce sant'Agostino _De Civitate Dei_, VIII, 8.

[195] Vedi RENAN, _Averoè et l'averoisme_, 2 édit., p. 112.

[196] Vedi qui sopra, a pag. 97, e alla nota 23 del Discorso IV.

[197] _De materia cœli contra Averroem_. Padova 1493. _De intellectu
possibili, quæstio aurea contra Averroym_. Venezia 1500.

[198] Il testo dice _mot callemin_.

[199] _Hermannus Alemannus translator Manfredi, nuper a D. rege Carolo
devicti_, dice Rogero Bacone.

[200] _Defensores hujus hæresis dicunt quod aliquod secundum
philosophiam est, licet fides aliud ponat secundum theologiam_. Ed egli
stesso confutandolo professa che _in hac disputatione nihil secundum
legem nostram dicemus, sed omnia secundum philosophiam... tantum ea
accipientes quæ per syllogismum accipiunt demonstrationem_. Opp. Tom. V,
pag. 218, 226, 380.

[201] _Unum te obsecro ut ab omni consilio mearum rerum tui isti Arabes
arceantur atque exulent: odi genus universum... Vix mihi persuadebitur
ab Arabia posse aliquid boni esse_. Contra medicum quemdam.

[202] _Ad hæc ille nauseabundus risit, et «Tu (inquit) esto christianus
bonus: ego horum omnium nihil credo. Et Paulus et Augustinus tuus, hique
omnes alii quos prædicas, loquacissimi homines fuere. Utinam tu Averroim
pati posses, ut videres quanto ille tuis istis nugatoribus major sit».
Exarsi, fateor, et vix manum ab illo impuro et blasphemo continui_.
Senil. L. V, ep. 3.

[203] In un manoscritto della biblioteca di San Giovanni e Paolo a
Venezia si trova fossero Leonardo Dandolo milite, Tommaso Talento
mercante, Zaccaria Contarino nobile, veneziani, e il medico Guido di
Bagnolo da Reggio. La lor conversazione è il soggetto del trattato _De
sui ipsius et multorum ignorantia_.

[204] _Canem illum rabidum Averroem, qui furore actus infando, contra
Dominum suum Christum, contraque catholicam fidem latrat_. Ep. sine
titulo 656.

[205] Nel _Conciliator differentiarum_ f. 15 dell'edizione di Venezia,
scrive: _Ex conjunctione Saturni et Jovis in principio arietis, quod
quidem circa finem 960 contigit annorum, totus mundus inferior
commutatur, ita quod non solum regna, sed et _leges et prophetæ_
consurgunt in mundo... sicut apparuit in adventu Nabuchodonosor, Moysis,
Alexandri Magni, Nazarei, Machometi_. _Lex_ nelle traduzioni d'Averroè
equivale sempre all'arabo _Scharié_, che esprime e legge e religione.

[206] RICCOBONI, _De Gymn. Patav._, p. 134.

[207] Molta parte fu stampata nel 1858 da M. Alexandre a Parigi.

[208] Dedica del Giamblico, e proemio al Proclo.

[209] _Ista sunt quæ me premunt, quæ me angustiant, quæ me insomnem et
insanum reddunt... Perpetuis curis et cogitationibus rodi, non sitire,
non famescere, non dormire, non comedere, non expuere, ab omnibus
irrideri_. De fato, Lib. III. c. 8.

[210] _De fato_ III, 7.

[211] Quanto all'opinione dell'unità delle anime, _quamvis tempestate
nostra sit multum celebrata et fere ab omnibus pro constanti habeatur
eam esse Aristotelis_, asserisce non trovarsi che in Averroè, il quale
fu talmente sconfitto in tal proposito da san Tommaso, che non lasciò
più alcun appiglio se non di vomitar ingiurie contro di esso. _De
immortalitate animæ_, p. 8 e 9.

[212] _Respiciens legislator pronitatem viarum ad malum, intendens
communi bono, sanxit animam esse immortalem, non curans de veritate sed
tantum de probitate, ut inducat homines ad virtutem; neque accusandus
est politicus_. De immortalitate animæ.

Matter (_Hist. des découvertes morales et politiques des trois derniers
siècles_) alzò a cielo il Pomponazio come avesse stabilito la legge
della perfettibilità umana, il progresso delle istituzioni e delle
scienze, e la dottrina d'indipendenza dei tempi moderni. Sono sofismi
degni di chi chiama _barbara_ l'Italia al tempo di Leon X.

Le opere del Pomponazio furono raccolte e ristampate a Basilea nel 1567
con una prefazione di Guglielmo Gratarola, medico che troveremo fra i
riformati, e che pure stampò le opere proprie con testimonianze del Beza
e d'altri personaggi che lo lodano di gran pietà. Egli difende il
Pomponazio e asserisce che morì piamente secondo i tempi, cioè da
cattolico: se negò l'immortalità dell'anima secondo Aristotele, ciò non
può essergli imputato se non si pruovi che voleva con ciò insinuare
l'ateismo.

[213] _His ita se habentibus, mihi (salva saniori sententia) in hac
materia dicendum videtur quod quæstio de immortalitate animæ est neutrum
problema, sicut etiam de mundi æternitate: mihi autem videtur quod nullæ
rationes naturales adduci possunt cogentes animam esse immortalem,
minusque probantes animam esse mortalem, sicut quam plures doctores
declarant: quapropter dicemus sicut Plato, de legibus, certificare de
aliquo cum multi ambigunt, solius est Dei; cum itaque tam illustres viri
inter se ambigant, nisi per Deum hoc certificari posse existimo_. De
immortalitate animæ, pag. 124. _Animam esse immortalem articulum est
fidei, ut patet per symbolum apostolorum et Athanasii. Si quæ rationes
probare videntur mortalitatem animæ, sunt falsæ et apparentes, cum prima
lux et veritas ostendant oppositum; si quæ videntur probare ejus
immortalitatem, veræ quidem sunt et lucidæ, sed non lux et veritas;
quare hæc sola via inconcussa et stabilis est, cæteræ vero sunt
fluctuantes_. _Ib._ p. 128.

[214] _Hujusmodi legislatores, qui Dei filii merito nuncupari possunt,
procurantur ab ipsis corporibus cœlestibus_. De incant., Lib. XII.

[215] Che v'abbia cose vere secondo la teologia, false secondo la
filosofia, è proposizione condannata dalla Chiesa. _Cumque verum vero
minime contradicat, omnem assertionem veritati illuminatæ fidei
contrariam, omnino falsam esse definimus_. Leon X, bolla _Apostolici
regiminis_, edita nel concilio Lateranense V, 19 dicembre 1512. A ciò
conformossi Pio IX nella enciclica ai vescovi, 9 novembre 1846: _Etsi
fides sit super rationem, nulla tamen vera dissensio, nullumque
dissidium inter ipsas inveniri unquam potest, cum ambæ ab uno eodemque
immutabilis æternæque veritatis fonte Deo O. M. oriantur_.

[216] L'epitafio che l'Achillini si fece porre in San Martino di Bologna
è un altro testimonio della pendenza alle idee pagane.

    _Hospes Achillinum tumulo qui quæris in isto_
      _Falleris: ille suo junctus Aristoteli,_
    _Elisium colit, et quas rerum hic discere causas_
      _Vix potuit, plenis nunc videt ille oculis._
    _Tu modo, per campos dum nobilis umbra beatos_
      _Errat, die longum perpetuumque vale._

[217] DE THOU, _Mém._, p. 235.

[218] Racconta il fatto il Sanudo, _Rerum Ital. Scr._ XXII, p. 1206, e
dice il Marzio fosse di Montagnana.

[219] NAUDÉE _in Judicio de A. Nipho_.

[220] Commentarj di Pio II.

[221] Lo racconta lo Zilioli, manoscritto della Biblioteca Marciana.

[222] _Non est qui purum aurum non malit habere sub Teutonum nota, quam
sub romano symbolo factitium_. Lett. ad Ermolao Barbaro.

[223] Il costui carteggio in proposito con Giovanni Lanfredini fu
pubblicato dal Berti nella _Rivista Contemporanea_, con ricche notizie.
Dianzi Sigwart volle mostrare la relazione tra le dottrine di Zuinglio e
quelle di Pico della Mirandola. _Ulrich Zwingli, die Karakter seiner
Theologie mit besonderer Rücksicht auf Pic von Mirandula durgestellt_.
Stuttgard 1855.

[224] _Quid ad vos et Paulum si mihi fœniculi nomen indo, modo id sine
dolo ac fraude fiat? Amore namque vetustatis, antiquorum præclara nomina
repetebam, quasi quædam calcaria, quæ nostram juventutem æmulatione ad
virtutem incitarent_. PLATINA _in Paulo_ II.

[225] Vero è che andava anche spesso co' suoi scolari a una Beata
Vergine sul Quirinale, e morì piissimamente. È poi singolare che, nelle
recenti indagini del De Rossi per entro le catacombe di San Sebastiano a
Roma, fra i nomi di quelli che le visitarono nel secolo XV trovasi
notato _Regnante Pom. pont. max_.: e _Pomponius pont. max_. e
_Pantagathus sacerdos academiæ romanæ_; titoli che farebbero credere una
gerarchia stabilita, e risospettar di quello, di cui pareva essersi con
sincerità discolpato il Leto.

[226] Se il ricorrere a principe forestiero contro il proprio sia
fellonia, lo dica il lettore. Platina stesso ci riferisce la lettera da
lui scritta, ove conchiude: _Rejecti a te, ac tam insigni contumelia
affecti, dilabemur passim ad reges, ad principes, eosque adhortabimur ut
tibi concilium indicant, in quo potissimam rationem reddere cogaris cur
nos legitima possessione spoliaveris_.

[227] Si avverta che Sisto IV fece suo bibliotecario il Platina, e gli
diede egli stesso la commissione di scriver le vite dei papi: _mandasti
ut res gestas pontificum scriberem_, dice egli nella prefazione.

[228] Qui alcuno aspetterà ch'io metta anche i lamenti attribuiti a
Poliziano pel tempo buttato via nel dir l'uffizio, riportati dal Bayle e
copiati da tanti. Ebbene, tutt'al contrario, nell'epistola 9 del libro
II a Donato, egli si querela che le frequenti visite lo obblighino a
interrompere sin l'uffizio. _Adeo mihi nullus inter hæc scribendi restat
aut commentandi locus, ut ipsum quoque horarium sacerdotis officium
pene, quod vix expiabile credo, minutatim concidatur_. Melancton e Vives
dissero che il Poliziano avea letto una volta sola la sacra scrittura, e
si lagnava del tempo perdutovi. Son forestieri e non allegano pruova del
loro asserto. Noi al contrario sappiamo da lui stesso che, ne'
quattordici anni che fu benefiziato nella metropolitana di Firenze,
spiegava al popolo la Bibbia: _cum per hos quadragesimæ proximos dies
enarrandis populi sacris libris essem occupatus_.

[229] _Ricordi politici_, XXVIII e CCCXLVI.

[230] _Ricordi politici_, CCLIII.

[231] _Ricordi politici_, CXXIII.

[232] _Ricordi politici_, CXXIV.

[233] _Ricordi politici_, CCXI.

[234] Anche quelle stranezze trovarono plagiarj ai dì nostri. Göthe
diceva di collocarsi la testa del Giove Olimpico in faccia al letto, per
potere, allo svegliarsi, indirizzargli la preghiera: e imprecava alla
rivoluzione cristiana, che alla Venere Gnidia sostituì la Vergine
pallida e ascetica; e la scarna effigie d'uno, penzolone da quattro
chiodi, alla perfezione estetica del corpo umano, rappresentata dai
simulacri della Grecia.

[235] Lettera al Vettori.

[236] «Credo sia vero che la grandezza della Chiesa sia stata causa che
Italia non sia caduta in una monarchia; ma non so se il non venire in
una monarchia sia stata felicità o infelicità di questa provincia.
Sebbene Italia, divisa in molti dominj, abbia in varj tempi patite molte
calamità, che forse in un dominio solo non avrebbe patito (benchè le
inondazioni de' Barbari furono più a tempo dell'impero romano che
altrimenti), nondimeno ha avuto a rincontro le tante floride città, che
io reputo che una monarchia le sarebbe stata più infelice che felice. O
sia per qualche fato d'Italia, o per la complessione degli uomini,
temperati in modo che hanno ingegno e forza, non è mai questa provincia
stato facile ridurla sotto un impero, eziandio quando non vi era la
Chiesa, anzi sempre naturalmente ha appetito la libertà. Però, se la
Chiesa romana si è opposta alla monarchia, io non concorro facilmente
essere stata infelicità di questa provincia; poichè l'ha conservata in
quel modo di vivere, ch'è più secondo l'antichissima consuetudine e
inclinazione sua». _Considerazioni al Machiavelli_, I, 12.

[237] Legazione IX alla corte di Francia. Blois 9 agosto 1510.

[238] Legazione XII. 18 agosto 1510.

[239] Nel sillabo del 1864 al nº XIII è riprovato il dire che «il metodo
e i principj, con cui i dottori scolastici coltivarono la teologia, non
rimangono più colle necessità dei tempi nostri e col progresso delle
scienze».

Come questa filosofia e teologia venissero messe in onore ai giorni
nostri e qua, lo sanno quanti conoscono il padre Ventura, il Rosmini, il
Liberatore, il canonico Sanseverino, il Perrone, ecc.

[240] Un grande avversario dei papi e de' preti, l'ex-prete Luigi Bossi,
nelle note alla traduzione della _vita di Leon X_ del Rosoe riflette
che, l'abitudine che Machiavello aveva di scrivere in certo qual modo
all'azzardo e senza un disegno ed un fine preciso, poteva
ragionevolmente far nascere qualche dubbio, e questo ancora nella Corte
romana, sulla sincerità delle sue intenzioni. Tom. X, pag. 49.

A torto si suol attribuire al Possevino l'aver nella _Bibliotheca_
gridato primo all'arme contro il Machiavello, _sceleratum Satanæ
organum_. Il cardinal Polo, nella sua _Apologia a Carlo V_, narra come
gli venisse alla mano il _Principe_, e subito lo riconoscesse scritto da
un nemico del genere umano, dove religione, pietà, tutte le maniere di
virtù sono sovvertite, e veramente scritte col dito del demonio,
spargendo orribili massime fra principi e fra popoli. E fin d'allora
alcuno gli avea detto, per iscusa dell'autore, che egli odiava
grandemente i Medici, e consigliandoli a que' delitti, volea prepararne
la ruina col colmarli di odio. _Iste Satanæ filius, inter multos Dei
filios edoctus omni malitia, ex illa nobili civitate prodiit, et
nonnulla scripsit, quæ omnem malitiam Satanæ redolent_. E vien via
analizzandolo, in modo da non potersegli imputare quel che al Possevino,
cioè che l'abbia confutato senza leggerlo.

Lo combatterono pure frà Caterino Politi, e il Muzio, e il Bosio _De
ruinis gentium_, e quasi tutti i teologi politici.



DISCORSO X.

SCANDALI NELLA CHIESA. RIMPROVERI FATTILE E TOLLERATI.


Chi non ravvisa in tutto ciò come il mondo civile s'innovasse? Pensieri
elevati, bisogni meglio che materiali attestano come vi fosse tutt'altro
che torpore e negligenza nella società d'allora; nè supina indifferenza
pei diritti e i doveri, quale vorrebbero farci credere coloro, che dalla
patria di Hutten e di Goetz von Berlichingen giudicano quella di Ficino
e Pico, di Savonarola e Machiavello.

I re si venivano assodando coll'abbattere la feudalità; e le plebi
restringeansi ai troni come ad asilo di ordine e di giustizia, come
rimedio alle ineguaglianze oppressive ed offensive; la monarchia, benchè
non avesse ancora schiacciato l'aristocrazia e la democrazia, crescea le
ingerenze sue fin sulle cose ecclesiastiche: tra i varj governi s'erano
stabilite relazioni più intime e frequenti, donde una specie di politica
generale. Pertanto scemava il bisogno di domandare agli ecclesiastici
regole per gli atti, protezione per gli interessi; il risorto diritto
romano facea vagheggiare il coordinato accentramento degli antichi, in
luogo delle istituzioni paterne, delle franchigie locali, e della
personale indipendenza, introdotte dai Germani. La repressione della
feudalità chiamava un maggior numero a partecipare ai diritti
universali. Sopravviveva però lo spirito delle antiche repubbliche,
concitato anzi dal resistere a coloro che le spegnevano; lo slancio
cavalleresco non era ammortito dalla fredda ragione: metteasi passione
nell'erudizione come nella filosofia, calore e amore nella luce. Rotti i
ceppi del medioevo, non ancora assunti quelli delle convenienze, l'uomo
seguiva gli istinti, la fantasia, la coscienza, virtuoso o ribaldo ma
francamente, senza nè insuperbirne, nè vergognarne; donde una originale
varietà di atti come di componimenti; epicureismo sfacciato a fianco
d'una devozione fin mistica; serenità delle arti in mezzo alla
devastazione di eserciti brutali, che strappavano alla patria nostra
l'indipendenza; violazioni d'ogni diritto, e pregiudizj inumani e
servili, mentre grandeggiava la giurisprudenza, e poneansi i fondamenti
al diritto pubblico.

Nobili intelligenze elevavansi, guidate dalla critica a riprovare la
filosofia scolastica, l'architettura gotica, il latino chiesastico, la
servile riverenza all'autorità, richiamando ai modelli classici nella
letteratura e nelle arti, ai sommi filosofi, all'esame, all'esperienza;
ma con un'esuberanza di forze, un entusiastico trasmodare, una
indipendenza arrischiata, un'imitazione imprudente, un fervore pel
bello, separato dal buono. E a vero dire, la riforma protestante, se si
consideri come un ritorno verso l'antichità, era cominciata dai nostri
umanisti: perocchè anch'essi voleano annichilare quattordici secoli di
progresso, non per tornare ai primordj della Chiesa come poi Lutero, ma
per riaccreditare la civiltà pagana, sovvertita dal cristianesimo: non
già solo per distruggere come esso Lutero, ma per ripristinare gli
ordinamenti antichi, e far che la materia rivalesse ancora sopra la
morale. Come i re aveano trovato la polvere e i cannoni, così il popolo
avea trovato la stampa: e Roma la accolse, la favorì, non avendo paura
di nessun progresso: i primi libri si pubblicarono in badie, e dedicati
a papi, che li proteggeano a diffondere non solo la verità, ma anche la
civiltà pagana, e che presto doveano divenire i maggiori propagatori
della tentazione protestante. Ma quando annunziavasi che il mondo non
consisteva nelle sole tre parti antiche; che in America si trovava una
differente vita animale e vegetale, e uomini e civiltà d'altra specie;
che la terra gira e il sole sta; che ne' libri talmudici e nella cabala
era riposta profonda scienza; che l'India possedeva una lingua, madre
delle altre; che il Turco non era più barbaro dell'Ungherese; poteva la
mente tenersi queta e soddisfatta ne' canoni che avea sin là venerati
tacendo? Non doveano colle nuove idee destarsi bisogni nuovi e lo
spirito d'esame?

Non va mai senza inconvenienti un improvviso effondersi di cognizioni.
Stampa, scoperte di paesi nuovi e di codici antichi, secolo d'oro della
letteratura, aumento di comodità e dilicature, fomentavano la vita
sensuale, e per ricolpo le declamazioni contro il rilassato rigore
cristiano ed ecclesiastico.

Per verità a sì grandi mutazioni bisognerebbe si trovassero pari coloro
che guidano il mondo. I principi pretesero farlo col rendersi forti,
accentrarsi ne' proprj possessi, ritrarre allo Stato le prerogative, in
prima sparpagliate fra i possessori del suolo. La Chiesa videsi
costretta fare altrettanto, e poichè principalmente l'esiglio avignonese
(dov'era parso che il pontificato suddito comunicasse la sua servitù a
tutto il mondo, come altre volte ne tutelava le libertà) avea mostrato
l'indipendenza temporale essere necessaria garanzia della spirituale,
dovette essa pure assettarsi a guisa di principato, fino a negligere
quella che è essenza sua, la virtù, e il continuo migliorare di atti
nella persistenza delle dottrine.

Molti dell'alto clero, assorti in cure secolaresche, investiti
feudalmente di obblighi militari e fors'anche di diritti osceni[241], a
nulla pensavano meno che ad istruirsi in quella fede, che per ufficio
avrebbero dovuto tenere immacolata e diffondere. Fra le guerre
incessanti del medioevo, ad alcune chiese non provedeano quelli a cui
spettava canonicamente di eleggere i successori: onde i prelati, affine
di non lasciarle scoperte, le _raccomandavano_ a qualche prete; oppure
esse medesime, per sottrarsi a prepotenze, raccomandavansi a qualche
signore. I protettori ne vollero un compenso: e fossero laici o prelati,
teneansi parte della rendita, mentre del resto investivano amici o
parenti. L'abuso dapprima fu corretto con editti; ma come è trista
natura dell'uomo il facilmente abituarsi alle ingiustizie, i pontefici
stessi conferirono commende, anche a vita, e concedendo gl'interi frutti
al commendatario come al titolare; e mentre prima raccomandavasi la tal
chiesa acciocchè _intanto_ fosse governata, dappoi si disse: «Ti
raccomandiamo la tal chiesa acciocchè tu possa con maggior decenza
sostentarti». E poichè costoro erano instituiti dal pontefice, i vescovi
locali non potevano frammettersi al governo che facessero di quella
chiesa i commendatori, che vedendovi unicamente una fonte di guadagno,
trascuravano e le anime e le temporalità[242].

Alcun vescovo rinunziava alla sede, riservandosi la collazione de'
benefizj e certe propine; altri a denaro faceansi destinare de'
coadjutori, ch'era uno spediente per trasmettere il vescovado ai così
detti nipoti; fin arcidiocesi importantissime lasciavansi quasi retaggio
a famiglie principesche, come la milanese agli Estensi; poco importando
se l'investito fosse illetterato o fanciullo. Filippo, figliuolo del
duca Lodovico di Savoja, da bimbo era vescovo di Ginevra, e fatto
maggiore, depose l'abito clericale; come fece più tardi Emanuele
Filiberto, eletto cardinale di due anni. Giovan Giorgio Paleologo
vescovo di Casale, nel 1518 depose la tonaca, e menò moglie, e così nel
1515 Ranuzio Farnese, vescovo di Montefiascone a nove anni: a quindici
nel 1520 Giovan Filippo di Giolea era vescovo di Tarantasia.

Ne derivò l'ubiquità, cioè di poter godere i frutti delle prebende
dovunque si dimorasse, talchè uno poteva essere cardinale d'una chiesa
di Roma, vescovo di Cipro, arcivescovo di Glocester, primate di Reims,
priore di Polonia, e intanto alla Corte del cristianissimo trattava
forse gli affari dell'imperatore. Giovanni de' Medici, che fu poi Leone
X, appena adolescente si trovava canonico delle cattedrali di Firenze,
di Fiesole, d'Arezzo; rettore di Carmignano, di Giogoli, di San
Casciano, di San Giovanni in Valdarno, di San Pier di Casale, di San
Marcellino di Cacchiano; priore di Montevarchi, cantore di sant'Antonio
di Firenze, prevosto di Prato, abbate di Monte Cassino, di San Giovanni
di Passignano, di Miransù in Valdarno, di Santa Maria di Morimondo, di
San Martino, di Fontedolce, di San Salvatore, di Vajano, di San
Bartolomeo d'Anghiari, di San Lorenzo di Coltibuono, di Santa Maria di
Montepiano, di San Giuliano di Tours, di San Giusto e di San Clemente di
Volterra, di Santo Stefano di Bologna, di San Michele d'Arezzo, di
Chiaravalle presso Milano, del Pin nel Poitou, della Chaise-Dieu
presso Clermont. Il cardinale Innocente Cibo suo nipote tenne
contemporaneamente otto vescovadi, quattro arcivescovadi, le legazioni
di Romagna e di Bologna, le abbazie di san Vittore a Marsiglia e di san
Ovano a Rouen. Il cardinale Ippolito d'Este, a sette anni era primate
d'Ungheria, poi vescovo di Modena, Novara, Narbona, arcivescovo di Capua
e di Milano, la qual ultima dignità rinunziò a un nipote di dieci anni
riservandosene l'entrata: e questo nipote fu pure vescovo di Ferrara,
amministratore dei vescovadi di Narbona, di Lione, d'Orleans, di Autun,
di Morienne, a tacere un'infinità di badie. Il patriarcato d'Aquileja
stette ne' Grimani dal 1457 al 1593: il vescovado di Vercelli da forse
un secolo poteva dirsi ereditario nelle famiglie Rovere e Ferreria;
Giuliano Della Rovere, divenendo papa, ne investì il cardinale Ferrerio,
benchè già tenesse la sede di Bologna, e molte ricche badie. Al concilio
tridentino il vescovo di Pamplona manifestò che, quand'egli salì a
questa sede, da ottant'anni non vi risiedeva alcun vescovo, perchè erano
cardinali.

Adunque i signori nella vigna di Cristo trovavano desiderabilissimi
appanaggi ai loro cadetti; la curia romana, che male si confonde colla
Chiesa, ne faceva pingui ricompense a' suoi devoti, conferendole meno
per merito di scienza ed esemplarità, che per servigi resi in curia, o
ancora peggio per raccomandazioni di principi; con molteplici serie di
promozioni mirava a lucrare dalla vacanza e dalle collazioni de'
benefizj, e moltiplicare le tasse di cancelleria. I vescovi, educati nel
fasto spensierato anzichè a studj teologici, puntigliosi sul decoro
della famiglia ed emuli del lusso fraterno, amanti del ben vivere più
che del vivere bene, per trescare nelle Corti, o sollecitare posti a
Roma, abbandonavano le diocesi a vicarj spirituali, e per economia
preferivano sceglierli tra' frati mendicanti, i quali non esigevano
mercede. I cardinali, dice il piissimo Bellarmino, non divenivano santi
perchè aspiravano a divenire santissimi: le chiavi di san Pietro erano
desiderate, non perchè aprono il cielo, ma perchè erano d'oro[243].

Gli inferiori sogliono foggiarsi sull'esempio dei capi. Recitavasi la
messa con indifferenza meccanica, per abitudine, non altrimenti d'un
rito qualunque, senza spirito nè unzione, senza conoscere come
storicamente le sue cerimonie s'annettano a quelle della primitiva
Chiesa. Molti possedeano il titolo di dottori in teologia, ma non la
teologia; e come adesso non si leggono più libri serj e profondi, ma
enciclopedie e giornali e compendj, così allora, invece dei Padri e
della Scrittura, si stava alle _Somme_, ai _Fiori_, ai _Manuali_.
Innocenzo VIII dovette rinnovare la costituzione di Pio II, che ai preti
vietava di tenere macello, albergo, bettola, casa di giuoco, postribolo,
o di fare da mediatori per denaro; e se _dopo tre ammonizioni_
persistessero, non godrebbero più l'esenzione del fôro[244]. Silingardo
vescovo di Modena, dirigendo la sua _Somma di teologia morale_ al
cardinale Morene, diceva avere «nella visita di quella diocesi trovata
tanta ignoranza della lingua latina nella maggiore parte de' sacerdoti
curati, accompagnata da così poca pratica della cura delle anime, che
verisimilmente si può temere una gran ruina e precipizio del gregge». I
tre stati di Savoja, raccolti a Ciamberì nel febbrajo 1528, faceano
istanza a quel duca perchè fossero frenati e moderati gli ecclesiastici,
che trascendono in abiti e pompe mondane, ed esercitano l'usura con gran
danno del popolo minuto, e che godono pingui benefizj senza adempirne
gli obblighi di limosine e messe[245]. Insomma il sacerdozio
consideravasi come uno stato, non una vocazione; le penitenze, lo
studio, il predicare rimanevano incombenza de' frati.

Ma in questi pure appariva come sia pessima la corruzione dell'ottimo.
Commendate le badie ad uno che mai non le vedeva, o vi compariva con
treno secolaresco di cani, donne, cortigiani per raccorvi i frutti e far
caccia nelle selve, chi più curava la disciplina de' monaci? E qual
meraviglia se i conventi, già centri all'attività del pensiero, delle
arti, della devozione, intepidivano nella rilassatezza dell'opulenza, o
gareggiavano solo nella profana gelosia d'un Ordine coll'altro?

Mentre nell'Aretino e pari suoi si perdonava non solo ma si applaudiva
la scostumatezza, la perfezione a cui devono aspirare i monaci rendeva
rigorosi verso di loro; che d'altra parte obbligati per professione a
sopportare e umiliarsi, non davano timore di ripicchio. Eccoli pertanto
bersaglio alle leggerezze e alle arguzie. Lelio Capilupo di Mantova,
famoso pei lubrici centoni, ne fece uno _inimitabile_ contro i monaci,
ch'è inserito in fine del _Regnum papisticum_ di Naogeorgus. Chi non
conosce i nostri novellieri?

Non è men vero che i monaci venivano rimproverati anche dagli austeri;
se non che questi il facevano con carità, con esagerazione i depravati:
questi pel maligno gusto di rivelare spettacoli stomacanti, quelli collo
scopo di rimediarvi. Ambrogio abate generale de' Camaldolesi, dotto e
pio, adoprato da Eugenio IV nelle controversie e nella carità, nel 1431
e 1432 visitando i varj conventi d'Italia trovò disordini, ch'egli, nel
suo _Hodœporicon_, per prudenza dinota con voci greche; monache ch'erano
vere εταιριδα; altrove _omnes ferme_ πορνας ειναι; un'abadessa gli
confessò τεκνον ποιησαι: d'un'altra un prete geloso pubblicò lettere
oscene. Noi ci siamo tanto compiaciuti in lodare i frati, che non saremo
imputati di malevolenza se deploriamo con pari franchezza che le
istituzioni umane, al par che le verità, si disgradano quando sieno
esposte al vento e alla pioggia del mondo. Chi ignora con qual buon
senso stizzoso san Girolamo rivelasse i disordini de' monaci fin dal suo
tempo? Vedemmo come, a riformarli, s'istituissero gli Ordini mendicanti,
ma la costoro degenerazione fu tanto prossima all'istituzione, che san
Bonaventura, generale de' Francescani, già nel 1257 querelavasi co'
provinciali e guardiani, perchè, sotto veste di carità, i fratelli
s'impacciassero d'affari pubblici e privati, di testamenti, di segreti
domestici; sprezzando il lavoro, cadono nell'infingardaggine; e mentre
pregano a ginocchi e meditano nelle celle, sbadigliano, dormono, si
danno a vanità, o dai libri che composero traggono un orgoglio, qual non
prenderebbero col tessere stuoje o fiscelle come i primi romiti;
vagando, riescono d'aggravio agli ospiti o di scandalo; per rifarsi
della stanchezza mangiano e dormono oltre il prefisso; scompigliano le
regole del vivere; domandano con tale importunità da farsi schivare come
ladri. E segue a dire che la vastità dei conventi incomoda gli amici, ed
espone a sinistri giudizj; ai parroci spiacciono perchè si danno attorno
a funerali e a testamenti. Così un loro amorevole; che non doveano dirne
Pier delle Vigne e Mattia Paris loro avversissimi?

L'Ordine francescano nel secolo XIV avea già dato cinque papi,
quarantatrè cardinali, più di cento canonizzati. Venerandoli per
santità, disinteresse, acume, le città chiamavano que' frati a compor
litigi, ad amministrare finanze, a riformare statuti; i papi li
deputavano a dilicate missioni, perchè nè costavano spesa, nè
accampavano pretensioni; il Sant'Uffizio li riduceva a una specie di
magistrati criminali, con bidelli, famigli armati, carceri e imperio
sovra il magistrato secolare; essi che erano stati istituiti a profonda
umiltà, a povertà assoluta. Allorquando nel 1457 se ne celebrò il
_capitolo generalissimo_ in San Francesco di Milano, con indulgenza pari
a quella di Santa Maria degli Angeli d'Assisi, immenso numero ne
concorse, pel cui sostentamento si raccolsero meglio di diecimila scudi
di limosine: il duca Francesco Sforza prodigò ad essi trattamento e
onorificenze, e sedette al loro pranzo frugale, mentre centomila curiosi
affluirono a vederli.

Ricchi di privilegi, tra cui invidiatissimo quello di confessare, e
predicare dovunque si trovassero, e farsi cedere il pulpito da ogni
curato, ne ottenner di nuovi da Sisto IV, epilogati nella famosa Bolla
dell'agosto 1474, fratescamente qualificata _mare magnum_, che
minacciava sino di destituzione i parroci che non obbedissero ad essi. I
vantaggi che traevano dall'opinione di santità tornarono a danno di
questa; e resi mondani, con mille brighe cercavano le dignità; e (dice
il cardinale Caraffa) «si veniva ad omicidj non solo con veneno, ma
apertamente col coltello e colla spada, per non dire con schioppetti».
Le gravissime controversie tra i più o meno rigidi Osservanti, procedute
fino all'eresia de' Fraticelli, da molti papi si tentò invano toglierle
di mezzo, finchè Leone X nel 1517 gli obbligò ad eleggere un solo
generale, nè portar altro titolo che di Minori Osservanti.

Che dirò delle smancerie usate per sostenere un santo speciale, una
speciale divozione, ciascun Ordine, ciascun villaggio, ciascuna chiesa?
Ne' panegirici si trascendea fino alle assurdità, per dabbenaggine più
che per frode moltiplicando i miracoli, le grazie, le reliquie, e
attirando al santo prediletto un culto vulgare, che rasentava
all'idolatria. Il fervore, non sempre disinteressato, per certe
devozioni nuove, come il rosario de' Domenicani e lo scapolare dei
Carmeliti, faceva proclamarle quale espiazione sufficiente a tutti i
peccati, che perdevano l'orrore quando annunziavasi così facile il
redimerli, e ne veniva presunzione a chi le osservasse, e confidenza
d'una buona morte dopo vita ribalda.

Altri frati, che s'occupavano nel trascrivere libri, si trovarono
ridotti all'ozio dalla stampa. Non che cessare, cresceva il mal vezzo di
gettarsi a quistioni di poca arte e molti cavilli, a dubbj curiosi e
controversie puntigliose, facendo schermaglia di sillogismi, surrogando
le sottigliezze scolastiche al vangelo, e alla logica attribuendo i
diritti della ragione, come oggi all'audacia: aggiugnendovi un ingombro
di indigeste autorità.

Se la beatissima vergine fu concepita anch'essa nel peccato originale;
se i Monti di pietà sono un'istituzione opportuna, o un'usura riprovata
dal vangelo, furono causa di lunghi abbaruffamenti fra Domenicani e
Francescani. Jacopo delle Marche minorita, predicando a Brescia nel
1462, affermò che il sangue, da Gesù Cristo versato nella sua passione,
era separato dalla divinità, e perciò non gli si doveva l'adorazione. Se
ne levò tanto rumore, che Pio II volle fosse messo in disputa alla sua
presenza da famosi teologi; i quali si bilanciarono in modo, che esso
papa non potè se non imporre silenzio su tal quistione[246].

Al concilio di Basilea fu condannata un'opera teologica di Agostino
Favaroni da Roma, composta di tre trattati; uno del sagramento
dell'unità di Cristo, e della Chiesa; l'altro di Cristo e del suo
principato; l'altro della carità e dell'amore infinito di Cristo verso
gli eletti; dove si trovavano proposizioni ereticali: per esempio, che
Cristo pecca ne' suoi membri, cioè nei fedeli; che la natura umana in
Gesù Cristo è veramente Cristo. L'autore le spiegava in senso cattolico,
e si sottopose al giudizio della Chiesa.

Sul pulpito la più parte non recavano studj profondi e dogmatica
precisione, ma zelo e modi popoleschi, con improvida applicazione alle
evenienze giornaliere. Di quegli aridi tessuti di scolastica e di
morale, rinzeppati di brani e brandelli d'autori sacri e profani, con
dipinture ridicole o misticismo trasmodato, non ci spiegheremmo i grandi
effetti che la storia ci ricorda, se non attribuendoli al gesto, alla
voce, allo spettacolo, e più alla persuasione della santità. E non il
talento, bensì la fede e l'amore fanno i grandi predicatori, quali
furono Bernardino da Siena, Michele da Carcano, Alberto da Sarzana ed
altri, famosi per conversioni e per pacificamenti. Una novità aveva
cercato introdurre Ambrogio Spiera, trevisano, servita e famoso teologo,
i cui sermoni, stampati nel 1476, poi nel 1510, sono piuttosto trattati
teologici, divisi in varie conclusioni, dove raccoglie tutto quanto in
proposito dissero le sante scritture, i Padri ed altri dottori. Così
evitava le opinioni particolari, ma quell'aridità sconveniva
all'eloquenza del pulpito.

Mescolando sacro e profano, serio e burlesco, col nuovo, col bizzarro,
col sorprendente attiravasi l'attenzione, ponendo i mezzi sopra lo
scopo. Paolo Attavanti ogni tratto cita Dante e Petrarca, e se ne gloria
nella prefazione. Mariano da Genazzano, levato a cielo da Pico della
Mirandola e dal Poliziano, «predicava attraendo con l'eloquenza sua
molto popolo, perciocchè a sua posta aveva le lagrime, le quali
cadendogli dagli occhi per il viso, le raccoglieva talvolta e gittavale
al popolo»[247].

Non è raro il trovare una pietà sincera e un'ingenuità profonda
associate senza gusto col buffo e col teatrale; e a riso anzichè a
compunzione eccitano i sermoni di Roberto Caracciolo da Lecce, dai
contemporanei supremato nell'eloquenza. Sale in pergamo a predicare la
crociata? traendosi la tonaca, rivelasi in abito da generale, come
pronto a guidare egli stesso l'impresa. Un'altra volta esclama:
«Dicetemi, dicetemi un poco, o signori; donde nascono tante e diverse
infermitadi in gli corpi umani, gotte, doglie di fianchi, febre,
catarri? Non d'altro se non da troppo cibo ed essere molto delicato. Tu
hai pane, vino, carne, pesce, e non te basta; ma cerchi a toi conviti
vino bianco, vino negro, malvagìe, vino de tiro, rosto, lesso, zeladia,
fritto, frittole, capari, mandorle, fichi, uva passa, confetione, et
empi questo tuo sacco di fecce. Émpite, sgónfiate, allargate la
bottonatura, et dopo el mangiare va, et bòttati a dormire come un
porco»[248]. E a costui fioccavano e brevi in lode, et onorevoli
commissioni, e mitre, e titolo di nuovo san Paolo.

Giacomo, arcivescovo di Téramo, poi di Firenze, fra varie opere, scrisse
una specie di romanzo col titolo _Consolatio peccatorum_ o _Belial_,
dove immagina che i demonj, indispettiti del trionfo di Cristo sopra
Lucifero, eleggano procuratore Belial per chiedere giustizia a Dio
contro le usurpazioni di Cristo; Dio commette la decisione a Salomone; e
Cristo citato, manda per rappresentante Mosè, il quale adduce a
testimonj giurati Abramo, Isacco, Giacobbe, Davide, Virgilio, Ippocrate,
Aristotele, il Battista. Belial li scarta tutti, eccetto l'ultimo,
sostiene la sua causa con finezza diabolica, pure la decisione esce a
lui contraria. Si appella, e Dio demanda la causa a Giuseppe; se non che
Belial preferisce comprometterla in arbitri; e sono Aristotele ed Isaia
per Mosè, per Belial Augusto e Geremia. I testi più venerabili sono
stiracchiati beffardamente; e dopo tutti i garbugli della
giurisprudenza, ove Belial imbarazza sovente Mosè men versato ne'
cavilli, gli arbitri danno di quelle vaghe decisioni, che lasciano ad
ambe le parti cantare trionfo.

_Nescit prædicare qui nescit barlettare_, dicevasi in onore di Gabriele
Barletta, i cui discorsi ebbero moltissime edizioni nel secolo di Leon
X[249], e pajono burlette. Per Pasqua racconta che molte persone
offrironsi a Cristo onde annunziare la sua risurrezione alla madre: egli
non volle Adamo, perchè, goloso dei pomi, non si indugiasse per istrada;
non Abele, perchè andando non fosse ucciso da Caino; non Noè, perchè
correvole al vino; non il Battista pel suo vestire troppo distinto; non
il buon ladrone, perchè aveva rotte le gambe; bensì donne per la
popolosa loquacità. Ma ben doveva esser applaudito quando, blandendo un
sentimento troppo vulgare, predicava: «O voi, donne di questi signori e
usuraj, se si mettessero le vostre vestimenta sotto il pressojo, ne
scolerebbe il sangue de' poveri».

Sempre poi conchiudevasi coll'accattare: e uno diceva: «Voi mi chiedete,
fratelli carissimi, come si vada in paradiso. Le campane del monastero
ve l'insegnano col loro suono: dan-do, dan-do, dan-do».

Il vizio non era nuovo, che già avea tonato l'Alighieri:

    Ora si va con motti e con iscede
    A predicare; e pur che ben si rida,
    Gonfia il cappuccio, e più non si richiede.

I quali versi commentando, Benvenuto da Imola adduce alquante
scempiaggini di Andrea vescovo di Firenze, che mostrava dal pulpito un
granello di seme, poi si traeva di sotto la tonaca una grossissima rapa,
e diceva: «Ecco quanto è mirabile la potenza di Dio, che da sì picciol
grano trae sì gran frutto». Poi: _O domini et dominæ, sit vobis
raccomandata monna Tessa cognata mea, quæ vadit Romam; nam in veritate,
si fuit per tempus ullum satis vaga et placibilis, nunc est bene
emendata; ideo vadit ad indulgentiam_[250].

A dir vero, questi modi, se men dignitosi, erano più efficaci che non le
esanimi generalità, le perifrasi schizzinose, e i consigli senza
coraggio dei secoli d'oro. Ma se a persone semplici e credenti recavano
edificazione, se doveva poi con sciagurata efficacia imitarli Lutero,
nel nascere della critica e della negazione davano appiglio ad accuse,
alla loro volta esagerate. Della tecnica compagine stomacavansi gli
schizzinosi letterati, e il Bembo, chiesto perchè non andasse a predica,
rispose: «Che ci ho a veder io? Mai altro non s'ode che garrire il
dottore Sottile contro il dottore Angelico, poi venirsene Aristotele per
terzo e terminare la quistione proposta»[251].

E l'erudito Bracciolini fa dire da Cincio in un suo dialogo: «Parmi che
tanto frà Bernardino da Siena, come altri troppi vadano errati per
istudio di brillare più che di giovare; non vôlti a curar le infermità
dell'animo delle quali si annunziano medici, quanto a ottenere gli
applausi del vulgo, trattano qualche volta recondite e ardue materie,
riprendono i vizj in modo che pare gl'insegnino, e per desiderio di
piacere trascurano il vero scopo di loro missione, quello di render
migliori gli uomini».

Alcuni non mancavano di merito letterario, quali frà Cavalca, il
Passavanti, frà Giordano di Rivalta. Come quest'ultimo distinguesse le
devozioni dagli abusi, giova mostrarlo a coloro, che in que' tempi e in
que' frati non ritrovano che superstizione: «Viene (diceva egli) viene
l'uomo, ed andrà a santo Jacopo in pellegrinaggio, ed anzi ch'egli sia
là, cadrà in un peccato mortale, e forse in due, e talora in tre, e
forse più. Or che pellegrinaggio è questo, o stolti? Che rileva questa
andata? Dovete sapere che, chi vuole ricevere le indulgenzie, conviene
che ci vada puro, come s'egli andasse a ricevere il corpo di Cristo. Or
chi le riceve così puramente? E però le genti ne sono ingannate. Di
queste andate e di questi pellegrinaggi io non ne consiglio persona,
perch'io ci trovo più danno che pro. Vanno le genti qua e là, e credonsi
pigliare Iddio per li piedi: siete ingannati, non è questa la via;
meglio è raccoglierti un poco in te medesimo e pensare del Creatore, o
piangere i peccati tuoi o la miseria del prossimo, che tutte le andate
che tu fai».

Parole altrettanto libere aveva proferite l'anno innanzi in Santa Maria
Novella a Firenze. «Molti si credono fare grandi opere a Dio; tra noi ce
ne facciamo grandi beffe. Verrà una femmina, e porrà sull'altare una
gugliata di refe e tre fave, e parralle avere fatto un grande fatto: or
ecco opera. Simigliantemente de' pellegrinaggi. Oh come pare grande
opera questa, e di gran fatica cotal viaggio! E vanterassi, e dirà: _tre
volte sono ito a Roma due volte ito a santo Jacopo, e cotanti viaggi ho
fatto_. E se vedesse in Roma le femmine a girar cinque volte e sei
all'altare, e' par loro avere fatto un grande deposito, e rimproveranlo
a Dio, come quel Fariseo che dicea, _Io digiuno due dì della settimana_,
or ecco grande fatto! e mangi, il dì che tu digiuni, una volta, e quella
mangi bene e bello. Questo andare ne' viaggi io l'ho per niente, e poche
persone ne consiglierei, e radissime volte; chè l'uomo cade molte volte
in peccato, ed hacci molti pericoli; trovano molti scandoli nella via, e
non hanno pazienza; e tra loro molte volte si tenzonano e adirano, e con
l'oste e co' compagni; e talora fanno micidio ed inganni e fornicazioni;
e caggiono in peccato mortale»[252].

Altri, massime dopo il Savonarola[253], stuzzicava l'attenzione col
mescere ai discorsi allusioni di politica; chi predicando pei Guelfi,
chi pei Ghibellini, chi pei Medici o per lo Sforza; talora erompendo in
aperti attacchi contro principi non solo, ma contro prelati e papi.

Non rimestiamo più a lungo questo fango senza ricordare come la
discordanza della teorica dalla pratica sia cosa umana, generale, e che
non si tratta di riformare il precetto, bensì di cercarne l'adempimento.
Infatti, se gli scandali erano vecchi, vecchio era pure il
disapprovarli; anzi è degna di nota la franchezza con cui, da per tutto
ma viepiù in Italia, si censuravano gli abusi degli ecclesiastici. Dante
rimproverò i pontefici con una franchezza, che parve ereticale ai nostri
secoli, adulatori de' principi e del vulgo. Francesco Petrarca ne'
sonetti invocò «fiamma del cielo sulle treccie dell'avara Babilonia,
scuola d'errori, tempio d'eresia», e peggio nelle lettere; eppure egli
viveva alla Corte pontifizia, e in lui come in Dante i rimbrotti
venivano da riverenza e dal desiderio di correzione.

Dopo di loro, sminuendosi le idee repubblicane e popolari col crescere
delle principesche, la letteratura credette far pompa di non pericolosa
libertà col volgere le spalle al dogma, invece di esso cantando armi ed
amori. Allora allo sdegno di zelo e di ragione di Dante contro i vizj
nella Chiesa, Giovanni Boccaccio sostituì lo scherno plateale e
l'epigramma delle società gaudenti; ridendo fra i disastri dell'umanità,
e dei mali della patria consolandosi coll'egoismo, fa cominciare in
chiesa l'osceno suo Decamerone, dove i vizj e i disordini de' monasteri
sono il tema prediletto; e papi, santi, devozioni, misteri vi vengono
trascinati, non per correggere il male, ma per celiarne. Che se in frà
Cipolla non fa che canzonare gli spacciatori di reliquie, e in ser
Ciappelletto le bugiarde conversioni, precipita affatto al razionalismo
nella famosa storiella dell'anello, certamente d'origine musulmana e
dalla scuola d'Averroè.

Gli altri novellieri, imitandolo, affastellarono arguzie ed avventure a
carico dei monaci, e nessuno peggio del Novellino di Masuccio
salernitano. Del quale ci viene specialmente al balzo la novella X, il
cui argomento è, «Come un vecchio penitenziere, non in villa o in luogo
rustico, che l'ignoranza il potesse in parte iscusare, ma nell'alma
città di Roma e nel mezzo di San Pietro, per somma cattività e malizia
vendea a chi comperare il volea come cosa propria il paradiso, sì come
da persona degna di fede mi è stato per verissimo raccontato».

Non osando avventarsi contro l'impero e contro i tiranni, la satira si
trastullò dunque contro la lassa disciplina. Il Poggio, che fu
segretario di tre papi, descrivendo in lettera a Leonardo Bruno il
supplizio di Giovanni Huss e Girolamo da Praga, li compassiona inveendo
contro Roma: nelle invereconde sue _Facezie_, raccolta degli aneddoti
che correano per le anticamere della cancelleria romana, insieme col
vulgo e cogli aristocratici, cogli eruditi e coi parlatori, berteggia
insolentemente gli ecclesiastici e la Corte pontifizia: eppure si
stamparono in Roma stessa il 1469. Battista Spagnuoli, dalla patria
detto il Mantovano, dettò satire virulente contro il clero. Giovian
Pontano satirico, che aveva sempre un calcio pei vinti, pronto a
carezzarli quando tornassero vincitori, spesso bersaglia gli
ecclesiastici, e nel dialogo _Caronte_ introduce vescovi, cardinali,
monaci a far confessioni spudorate. Antonio Vinciguerra, segretario
della repubblica fiorentina, verseggiò contro i peccati capitali che
infestavano la Chiesa e l'Italia.

Leonardo Aretino (_Libellum contra hypocritas_) dice ai frati: «Tra i
vostri grandi e deformi vizj, primeggiano l'orgoglio, l'avarizia,
l'ambizione. Volete ricoprirli colle lunghe cappe e coi cappucci; perciò
avviluppate i corpi onde asconder l'orgoglio sotto l'abito dimesso,
l'avarizia e l'ambizione sotto apparenza di povertà..... Ma se
desiderate esser persone dabbene, quali vorreste sembrare, bisognerebbe
cacciar i vizj dalle anime vostre, e non asconderli sotto le
tonache..... A tali ostentazioni io non credo; io non credo neppur a te,
o ipocrita, perchè sospetto che sotto quei panni s'asconda qualcosa. Chi
potesse guardarvi per entro, vedrebbe una cloaca di vizj turpi, e il
lupo rapace sotto le vestimenta d'agnello. E come l'esca serve a
pigliare i pesci, così le tonache grossolane coprono le vostre malvagità
per ingannare gli uomini. A questo travestimento è congiunta la
emaciazione del volto e lo sbattimento, che son pure grandi stromenti
d'ostentazione e di ciurmeria. Ipocrito, perchè sì tristo? che vuol dire
cotesto collo torto? che cotesti occhi abbassati, coteste finte di
integrità e di innocenza? Potete tenervi dal ridere quando vedete un
altro dello stesso mestiere?»

Questi libri erano lo stillato delle conversazioni: e piaggiavano
l'opinione pubblica, come suol chiamarsi l'opinione vulgare; ma quello
scandolezzarsi della costumatezza del clero sa di strano in iscritti
d'un libertinaggio perfin teorico, che rivelavano una depravatezza ben
più profonda nella società laica. Non erano dunque frutti d'una
filosofia indipendente: seguitavasi l'istinto, non la riflessione; lo
scetticismo usufruttavasi, non per iscassinare la fede, ma per
solleticare l'arte, la quale gavazzava in licenza sfrenata, eppure
arrestavasi davanti all'albero proibito, senza formolare veruna dottrina
eterodossa; indipendenti nell'oggetto, sommettevansi cattolicamente
nello spirito; e nessuno metteva in discussione seria, cogli altri nè
con se stesso, quei punti che sono il mistero della società, della
credenza, della vita.

Vanno dunque a gran pezza dal vero quelli che raccolsero tali satire o
declamazioni per designare de' precursori alla protesta religiosa.
Abbastanza ci fu veduto come tutte le eresie, dal mille in poi,
chiedessero la riforma, ben prima che si passasse dalle sètte entusiaste
alla forma sintetica e scientifica del protestantismo. E sempre piissimi
uomini e vescovi in prediche e in pastorali gemevano de' traviamenti
curiali ed ecclesiastici, e reclamavano un rimedio. Già al suo tempo san
Bernardo esclamava: «Chi mi darà che, avanti morire, io possa vedere la
Chiesa di Dio qual era ne' primi giorni?» Eppure con forza ineluttabile
si oppose ad Abelardo e ad Arnaldo, appena li vide intaccare la Chiesa.
Crebbe tale libertà nel grande scisma, allorchè non ben determinavasi
qual fosse la Chiesa vera, e Clemengis faceva a Gerson una pittura
orribile della Corte di Roma, da pura e santa mutata in bottega
d'ambizione e rapina, dove tutto si vende, dispense, ordini, sacerdozio,
peccati, sacramenti, messe; per denaro si elevano al sacerdozio
imbecilli che neppure sanno quel che leggono e cantano. Evvi un
fannullone, inetto al lavorare? Si fa ecclesiastico per vivere in
voluttuoso ozio. Talmente è convenuto che dai preti non si osserva la
castità, che i laici non vogliono un curato se non ha la concubina, per
così garantire il letto maritale[254].

Ed Enea Silvio Piccolomini, che poi fu papa: «La corte di Roma non dà
nulla senza denaro: vi si vende fin la imposizione delle mani e i doni
dello Spirito Santo; non vi si dà perdonanza de' peccati che a quelli
che han denaro»[255].

Nella città, ove tante radici mise poi l'eresia, Caterina da Siena
scriveva al suo confessore: «Il nostro dolce Cristo in terra crede, e
così pare nel cospetto di Dio, sarebbero a levare via due cose
singolari, per le quali la sposa di Cristo si guasta. L'una si è la
troppa tenerezza e sollecitudine di parenti; l'altra si è la troppa
misericordia. Oimè, oimè! questa è la cagione che i membri diventano
putridi pel non correggere. E singolarmente ha per male Cristo tre
perversi vizj, cioè la immondizia, l'avarizia e la superbia, la quale
regna nella sposa di Cristo, cioè ne' prelati, che non attendono ad
altro che a delizie, e stati, e grandissime ricchezze. Veggono i demonj
infernali portare le anime de' sudditi loro, e non se ne curano, perchè
son fatti lupi, e rivenditori della divina grazia. Quand'io vi dissi che
v'affaticaste nella Chiesa santa, non intesi solamente delle fatiche che
voi pigliate sopra le cose temporali; ma principalmente vi dovete
affaticare insiememente col padre santo, e fare ciò che voi potete in
trarre li lupi e li demonj incarnati dei pastori, che a veruna cosa
attendono se non in mangiare, e in belli palazzi, e in grossi cavalli.
Oimè, che quello che acquistò Cristo in sul legno della Croce, si spende
con le meretrici. Pregovi, se ne doveste morire, che voi ne diciate al
padre santo che ponga rimedio a tante iniquitadi. E quando verrà il
tempo di fare li pastori e' cardinali, che non si facciano per lusinghe,
nè per denari, nè per simonia; ma pregatelo quanto potete, che egli
attenda e miri se trova la virtù e la buona e santa fama nell'uomo, e
non miri più a gentile che a mercenario, perocchè la virtù è quella cosa
che fa l'uomo gentile e piacevole».

Brigida, nobile svedese, che reduce da Terrasanta, morì a Roma il 1373,
ebbe e scrisse rivelazioni, riprovate dall'insigne Gerson, approvate dal
cardinale Torquemada, e tradotte in tutte le lingue; fu canonizzata da
Bonifazio IX; eppure si era avventata gagliardissima contro la Corte
pontifizia sino a dire, «Il papa è l'assassino delle anime; disperde e
strazia il gregge di Cristo; più crudele che Giuda, più ingiusto che
Pilato, più abbominevole che gli Ebrei, peggiore dello stesso Lucifero.
Convertì i dieci comandamenti in un solo, _portate denaro_. Roma è un
baratto d'inferno, e il diavolo vi presiede, e vende il bene che Cristo
acquistò colla sua passione, onde passa in proverbio:

    _Curia romana non petit ovem sine lana;_
    _Dantes exaudit, non dantibus ostia claudit;_

invece di convocare tutti, dicendo, _Venite e troverete il riposo delle
anime_, il papa esclama: _Venite alla mia Corte, vedetemi nella mia
magnificenza maggiore di Salomone; venite, vuotate le vostre borse, e
troverete la perdita delle vostre anime_». Revelatio S. Brigitæ, l. 1,
c. 41, ed. Romæ 1628.

Ben però discernete come questi zelanti non risparmiassero l'individuo,
foss'anche il papa, perchè anelavano la purezza della Chiesa; anzi
l'affiggere ciascun fatto particolare ai depositarj dell'autorità
spogliava questa dalla scoria, lasciando intatta la persona morale.
Imitavano Cristo, che aveva insegnato a rispettare la cattedra di Mosè
malgrado le cattive opere degli Scribi e Farisei, sedutisi in quella:
mentre da poi detestaronsi i dottori, e per essi anche la dottrina che
insegnavano, e l'autorità che teneano da Dio d'insegnarla.

Il cardinale Giuliano rappresentava ad Eugenio IV i disordini del clero,
principalmente tedesco; donde l'odio che il popolo gli portava, fino a
temere che i laici gli s'avventino al modo degli Ussiti: «Gli accorti
tengono l'occhio a quel che faremo, e pare deva nascerne qualcosa di
tragico: il veleno che nutrono contro noi si manifesta: bentosto
crederanno fare opera accetta a Dio maltrattando e spogliando gli
ecclesiastici, come esosi a Dio e agli uomini; la poca devozione che
ancora sopravvive verso l'ordine sacro si perderà: si riverserà la colpa
di tutti questi sconci sopra la Corte romana, considerandola come causa
di tutti mali».

Gian Francesco Pico, principe della Mirandola, noto per la tragica sua
fine (1533), scrisse un opuscolo[256], che i riformati ristamparono a
Würtenberg nel 1521 per fare onta al papa, e per noverar fra i loro
precursori quel principe, di cui ristamparono pure l'orazione _De
reformandis moribus_, che egli recitò nel concilio lateranense, dove
pone al pallio l'ambizione, l'avarizia, la scostumatezza del clero. E la
recitava in un concilio, e la dedicava a Leone X, al quale pure dedicò
quattro libri dell'Amor Divino; e tutto è pietà nel suo _De morte
Christi, et de studio divinæ et humanæ philosophiæ_ (1497); e nella
dedica che Aldo pose all'opera di lui _De immaginatione_, accenna a
commenti de' Salmi, che aveva lasciati incompiuti, e che si allestivano
per la stampa: come ha pure tre inni eroici alla Trinità, a Cristo, alla
Beata Vergine.

Lorenzo Valla, uno de' più battaglieri fra quegli eruditi che nel secolo
XV empivano di risse la repubblica letteraria, nella prima giovinezza
avendo invano domandato di succedere a suo zio come segretario
apostolico, si vendicò con epigrammi contro la Corte romana: scrisse
_del Piacere_ anteponendo Epicuro allo stoicismo, contraddicendo a
Boezio, come fece pure in un dialogo _De libero arbitrio_[257]; giostrò
poi contro gli Aristotelici nelle _Disputazioni dialettiche_; nelle
_Eleganze della lingua latina_ mostrò molte improprietà nella traduzione
vulgata della Bibbia e ne' padri della Chiesa. Francamente esercitò
costui la critica con annotazioni al _Nuovo Testamento_, ponendo la
vulgata in paragone coll'originale[258]; dimostrò spuria la lettera di
Cristo al re Abgaro; falsa la donazione di Costantino a papa
Silvestro[259]; nè che gli apostoli componessero ciascuno uno degli
articoli del _credo_, e la dissertazione terminava esortando principi e
popoli a frenare l'indebito imperio del papa, e avvertirlo che
spontaneamente si tenga in porto, e rimanga soltanto vicario di Cristo.
«O romani pontefici, esempio d'ogni ribalderia agli altri pontefici; o
malvagi Scribi e Farisei che sedete sulla cattedra di Mosè, e fate
l'opera di Natan e Abiron, si conviene egli al vicario di Cristo celesta
pompa, e il vestire e le cavalcate? Non s'oda _partito della Chiesa, la
Chiesa guerreggia contro i Perugini, contro Bologna_. Non è la Chiesa
che combatte i Cristiani, ma il papa. Allora il papa si dirà e sarà
padre santo, padre di tutti, padre della Chiesa: nè ecciterà guerra fra'
Cristiani, anzi le eccitate da altri accheterà colla censura apostolica
e colla maestà del papato».

I declamatori, e massime gli odierni, ammirano il _gran coraggio_ del
Valla, ma noi diremmo piuttosto la _violenza_, con cui satireggia
prelati e papi e grandi che gli tardassero qualche favore. Nel dialogo
dell'avarizia e della lussuria flagella i cattivi predicatori, e
specialmente i Minori Osservanti, e in quello sull'ipocrisia tutti i
frati, e il clero in generale: eppure accusato al Sant'Uffizio, andò a
Roma a giustificarsi, e ad Eugenio IV scrisse bassamente, confessando
aver ingiuriato lui e il concilio: e se da questo non ottenne grazia, il
nuovo papa Nicolò V lo accolse come scrittore apostolico, gli diede
incarichi letterarj, benchè il Poggio, altro critico maligno, dal Valla
provocato, cavasse da' costui scritti una sequela di proposizioni
ereticali: Calisto III lo elevò anzi a segretario apostolico, e morto
tranquillamente nel 1465 fu sepolto nella basilica lateranense. Il suo
libro fu poi messo all'Indice dal concilio di Trento.

Tutto ciò pruova, non che si inclinasse già alla negazione protestante,
bensì che si confessavano gli abusi, e che senza pericolo li
denunciavano quelli che riferivansi alla forma, non mai alla sostanza.

E vaglia il vero, quando un potere non è contestato, e agli occhi di
tutti serba il carattere sacro, si può giudicarlo severamente eppur
riverirlo, nè reca scandalo il biasimo che sia portato sugli abusi non
sull'essenza, e al quale non affigge concetto distruttivo nè chi lo fa,
nè chi lo riceve. Ben altrimenti di quando, mancato il rispetto
irriflessivo, si sottilizza il raziocinio, e s'insinuano non solo il
dubbio erudito o la incredula beffa, ma la risoluta negazione.


NOTE

[241] Si vuole che, qualche prelato, come feudatario, esercitasse, o
almeno possedesse l'osceno diritto delle prime notti; e il Lancellotto,
nel bizzarro suo libro _L'Hoggidì, ovvero il mondo non peggiora_, dice:
«Cotal costume, dai Pagani e dai Gentili praticato, fu già in Piemonte;
ed il cardinale illustrissimo Geronimo della Rovere mi diceva aver egli
stesso abbruciato il privilegio che aveva di ciò la sua casa». Se mai
esistette un tal diritto di _fodero_ o di _marcheta_, bisogna dire che
n'abbiano ben accuratamente distrutti gli atti, giacchè nè da me nè da
altri cercatori mai nessuno ne fu trovato. Probabilmente non era che una
tassa imposta sulle nozze, forse colla simbolica rappresentazione del
metter una gamba nel letto; e come tale, n'ebbero il diritto perfino
alcune badesse.

[242] Oltre i novellieri, sul teatro pure si pungeva l'avarizia e
l'ignoranza degli ecclesiastici. Nel _San Giovanni Gualberto_,
rappresentazione del secolo XV, dovendosi eleggere il piovano d'una
chiesa, il cappellano esamina gli aspiranti, e riferisce al vescovo:

        Messere, io l'ho saputo, e me l'han detto:
        Quello a chi 'l popol la vorrebbe dare,
        È un buon prete, ma gli è poveretto,
        E non potrebbe un cieco far cantare.
        Quell'altro mi mostrò un pien sacchetto,
        E son ducati, secondo il sonare,
        E dice ve gli arreca, e son dugento.
    _Monsignore_. Costui ha ben ragion! mettili drento.

Alcuni monaci s'accordano per far eleggere abate un di loro, il qual
promette nominar l'uno priore, l'altro spenditore, l'altro camerlingo: e
vanno al vescovo, e gli offrono cento ducati perchè nomini quell'abate.

    _Monsignore_. E molto volentieri i' ho ben inteso;
        Ma ditemi, figliuol, sono di peso?
    _Monaco_. Monsignor, e' son nuovi tutti quanti.
        Non fa bisogno che voi li pesiate.
    _Monsignore_. Da voi in fuora, io vorrei duo tanti,
        Ma io vo' ben che voi mi ristoriate
        Ogni anno per la pasqua e l'ognisanti
        L'oca, il cavretto e' cappon mi rechiate.
    _Monaco_. Noi siam contenti, e' cappon fien duo paja,
        E le candele per la candellaja.

[243] Ma chi si scandalizza delle ricchezze del clero cattolico d'allora
non si dimentichi quante ne abbia il clero protestante d'oggi in
Inghilterra. I vescovi vi percepiscono da 4200 a 10000 sterline, cioè da
105 a 230 mila franchi, oltre un palazzo in città e uno in campagna: ai
due arcivescovi di York e di Cantorbery aggiungonsi per la
rappresentanza una gratificazione di quasi 273 fr. Nel settembre 1865
morì Roberto Moore, che godeva sei benefizi senza far nulla, e si
calcola che durante la sua vita ne traesse 753 mila sterline, cioè più
di 18 milioni.

[244] RAYNALDI, al 7 aprile 1488, § 21.

[245] CIBRARIO, _Istituzioni della Monarchia di Savoja_, pag. 127.

[246] Alfonso Tostat, famoso teologo spagnuolo, reputato il maggior
ingegno del suo secolo, a Siena sostenne, in presenza d'Eugenio IV,
ventuna tesi teologiche, alcune delle quali non vennero approvate dal
pontefice. Questi destinò l'altro famoso teologo cardinale Torquemada a
confutar queste due: che, sebbene non v'abbia peccato che non possa
esser rimesso, pure Iddio non rimette nè la pena nè la colpa, e nessun
prete può dare l'assoluzione; e che Gesù Cristo sofferse la passione al
3 d'aprile, non al 25 marzo. Le due proposizioni furono riprovate, ma il
Tostat pubblicò la _Difesa delle tre conclusioni_, e parve mostrare non
bastante deferenza per la decisione pontifizia.

[247] BURLAMACCHI, _Vita del Savonarola_.

[248] Predica I, ediz. di Venezia 1530.

[249] A Lione 1502, 1505, 1507, 1536, 1571, 1573, 1577, 1594; a Agen
1508, 1510, 1514, 1578; a Parigi 1518, 1521; ad Argentina e Rouen 1515;
a Brescia 1521; a Venezia 1585.

[250] È a vedere anche BARBERINO, _Documenti d'amore_, part. VIII, d. 2.

[251] LANDI, _Paradossi_.

[252] _Ed. del Moreni 1831_, I, 187, 232. Declamò novamente (II, 50)
contro l'andare al perdono di Roma e altri santi luoghi, predicando
sotto la loggia d'Or San Michele nel 21 settembre 1309, cioè parecchi
anni più tardi. Forse questi passi delle prediche di frà Giordano furono
presenti al beato Giovanni delle Celle quando dissuadea Domitilla dal
pellegrinaggio di Terrasanta, nella IXª delle sue lettere.

[253] Questi pure si lamentava che

    Ogni predicator buffoneggiava
    Nè quasi si credea dal tetto in su.

_Cedrus Libani_. Nella Magliabecchiana è manoscritto del quattrocento un
_Promptuarium prædicatorum_, dove, sopra argomenti che possono esser
soggetto di predica, si adunano le autorità della santa scrittura,
affinchè le prediche riescano _non subtilia magis quam utilia_.

[254] _Contra prælatos simoniacos, qui ordines sacros cœteraque
spiritualia publice vendunt_.

[255] _Epist._ Lib. I, c. 66.

[256] _Opusculum de sententia excommunicationis injusta pro H.
Savonarolæ innocentia_. Firenze 1497.

[257] Antonio Floribello, nell'orazione sopra l'autorità della Chiesa,
scrive: _Quod vero Lutherus et quidam ejus discipuli, omnia fato et
necessitate fieri, nihil in potestate nostra situm esse, agi nos, non
agere a principio dixerunt, cum idem senserunt quod nonnulli veteres
philosophi, tum Viclefi illius sui, Laurentiique Vallensis opinionem
impiam et humano generi perniciosam revocarunt_. SADOLETI, Opera II, p.
401.

[258] _De collatione novi Testamenti_. Fu pubblicata solo cinquant'anni
dopo morto l'autore, da Erasmo. Per tacere i vecchi, il Maj, il Rank, il
Vercellone, il Cavedoni notarono della versione itala molte voci non
usate dai classici, come _abintus_, _ascella_, _maletracto_, _prendo_,
_regalia_, _satullus_, _retia_ per rete, _advenit_ per accade,
_martulus_ per martello, _manna_ per manata, _altarium_ per altare,
_glorio_ e _combino_ per lodo e congiungo, _scamellum_ per scannello, e
forme grammaticali errate, come _odiet_, _odiant_, _odivi_, _plaudisti_,
_avertuit_, _sepellibit_, _eregit_, _prodiet_, _exiam_, _exies_,
_perient_, _scrutaberis_, _abstulitum est_, _prævarico_ e _demolient_
per prævaricor e demolientur, _lignum viridem_ ecc. Il conchiuderne che
la traduzione della Bibbia è barbara è un'assurdità ove si pensi che,
massime l'itala, fu fatta ne' floridi tempi dell'impero, essendo
vivissima la lingua latina. Fu dunque buon consiglio quello del De Vit,
di raccoglierne le voci nella ristampa che ora fa del Lexicon totius
latinitatis. Di ciò discorro io distesamente in una _Dissertazione
sull'origine della Lingua Italiana_. Napoli 1866.

[259] _De falso credita et ementita Constantini donatione, declamatio_.
È però a notare che la falsità dell'atto di donazione di Costantino era
già stata sostenuta da Pio II, ancora privato, dal cardinale di Cusa,
dal Pocock vescovo di Chicester. Dico dell'atto, perocchè su questa
donazione tanto controversa han discorso i migliori moderni in ben altro
senso dal vulgare, dietro al De Maistre, che avea scritto: «Una medesima
mura non potea contenere l'imperatore e il pontefice. Costantino cedette
Roma al papa. La coscienza del genere umano l'intese a questo modo, e ne
nacque la _favola_ della donazione, che è verissima. L'antichità, cupida
di vedere e toccar tutto, tramutò l'abbandono in una donazione formale;
la vide scritta su pergamena, deposta sull'altare di San Pietro. I
moderni gridano _falsità_; ed era l'innocenza che raccontava le sue
idee. Non c'è cosa sì vera quanto la donazione di Costantino».

Eppure Stefano Dumont, professore parigino, sostenne l'autenticità anche
dell'atto; autenticità simile a quella che dicemmo dell'altre Decretali,
che Graziano o il falso Isidoro non inventarono, bensì mutilarono o
cangiarono per ridurle opportune a una collezione legale.



DISCORSO XI.

I PAPI POLITICI. ALESSANDRO VI. IL SAVONAROLA.


A mali siffatti, pur beato quando si trova ad opporre fervido zelo, soda
pietà, scienza matura! Nessun vorrà credere che lo spirito di verità e
di santità, immorante colla Chiesa in eterno, non apparisse allora.
Principalmente negli Ordini religiosi sorgeva chi ravvivasse il
sentimento religioso, e tutti, a chi cercasse, offrirebbero personaggi
insigni per virtù e per scienza. Bernardino da Siena per tutta Italia
menava su' suoi passi la pace e la limosina, e moltiplicò chiese,
conventi, spedali, missionarj che spedì in ogni parte del mondo.
Bernardino da Feltre allettava il popolo coll'eloquenza e la virtù, e
col raccogliere i gemiti delle vedove e de' pupilli; propagò i monti di
pietà, allora appena introdotti da un Barnaba francescano a Perugia, per
salvare i bisognosi dagli usuraj (1494). Giacomo di Mombrandone,
patriarca delle Marche; Pier da Moliano e Antonio da Stroconio
nell'Umbria; Pacifico da Ceredano nel Novarese, Angelo da Chivasso,
riverito principalmente a Cuneo; Giacomo d'Illiria, frate presso Bari;
Vincenzo d'Aquila dedito a stupende austerità, e altri assai
Francescani, ottennero culto. De' Domenicani cercarono la riforma
Antonio de' Marchesi di Roddi, vercellese, e sant'Antonino, che eletto
arcivescovo di Firenze, conservò la frugale regolarità monastica, d'una
mula accontentandosi per tutti i servigi, mentre il palazzo, la borsa, i
granaj teneva aperti a chiunque; e profondea nelle pesti e ne' tremuoti;
«contro a molti che dicono i prelati usare le pompe per essere stimati,
giunto a Roma con una cappa da semplice frate, con un mulettino vile,
con poca famiglia, era in tanta reputazione, che quando passava per la
via s'inginocchiava ognuno a onorare lui, assai più che i prelati con le
belle mule e con gli ornamenti de' cavalli e de' famigli»[260]. Fondò a
Firenze il ricovero delle orfane e vedove decadute, ed altre istituzioni
che durano fin oggi, o fin jeri, come i provveditori dei poveri
vergognosi, anticipazione de' Paolotti: e lasciò una _Summa theologica_
di temperate conclusioni, che passa ancora per delle meglio ordinate; e
ch'egli stesso compendiò in italiano ad uso de' confessori. Matteo
Carrieri da Mantova, portentoso per richiamare al cuore famose
peccatrici, e coltivare nascenti virtù: catturato da un corsaro e
ottenutane la libertà, la esibì a riscatto d'una signora, presa
anch'essa colla figlia; onde il pirata commosso rilasciò tutti i
prigionieri (1450). Era domenicano, come Costante da Fabriano, diviso
fra lo studio, la preghiera e le macerazioni, e che già vivo ottenne,
direi, culto; Giovanni Licci da Palermo che edificò quell'Ordine in
cenquindici anni di vita; Sebastiano de' Maggi di Brescia, che alle lodi
di letterato rinunziò per attendere alla conversione de' peccatori ed al
rappacificamento de' nemici, massime a Genova, ove morì nel 1494.

Francesco di Paola, istitutore de' Minimi, assunse per divisa la parola
CHARITAS; non tacque il vero ai regnanti di Napoli; a Luigi XI di
Francia, che mandò a cercarlo nell'ultima sua malattia, annunziò che la
vita dei re sta come le altre in man di Dio e a questo si preparasse a
renderla. A quella Corte lo chiamavano _il buon uomo_, titolo che colà
rimase a' suoi frati, e ad una qualità di pere, di cui egli aveva
portato l'innesto.

Francesca di Busso fu esempio delle matrone romane, massime ne'
patimenti per l'invasione di re Ladislao e nella peste; per trent'anni
servendo ai malati negli ospedali senza negligere le cure domestiche;
infine istituì le Oblate. Caterina da Pallanza, udendo a Milano il beato
Alberto da Sarzana predicare la passione di Cristo, a questo dedicò la
sua verginità, e altre fanciulle raccolse sul monte di Varese ad
ascetica perfezione. Veronica, di poveri parenti milanesi, costretta al
lavoro continuo anche dopo entrata agostiniana, la notte imparava da sè
a leggere e scrivere, e fu da Dio graziata d'insigni favori. Caterina,
figlia d'un Fiesco di Genova vicerè di Napoli, costretta a sposare un
Adorno qual pegno di riconciliazione fra le due emule famiglie, dopo
dieci anni di paziente martirio, riuscì a convertire il marito; servì i
poveri nello spedale, e nelle pesti del 1497 e del 1501; consolata da
superne illustrazioni, lasciò opere, che per elevatezza e fervore
emulano quelle della sua contemporanea santa Teresa.

Luigia d'Albertone romana, Caterina Mattei di Racconigi, Maddalena
Panatieri di Trino, Caterina da Bologna, autrice delle _Sette armi
spirituali_, la carmelitana Giovanna Scopello di Reggio; Serafina,
figlia di Guid'Antonio conte d'Urbino, e moglie malarrivata di
Alessandro Sforza signore di Pesaro; Eustochia dei signori di Calafato a
Messina, fondatrice del Monte delle Vergini; Margherita di Ravenna,
provata da Dio con penosissime infermità, fondatrice della confraternita
del Buon Gesù; Stefania Quinzani d'Orzinovi, che le città s'invidiavano,
e a cui il senato veneto e il duca di Mantova e quel di Milano chiedeano
direzione; Margherita di Savoja, vedova del marchese di Monferrato che,
offertole da Cristo d'essere provata colla calunnia o la malattia o la
persecuzione, tolse di subirle tutte,... sono un piccolo saggio delle
donne che infioravano il giardino di Cristo.

Ma la pietà di questi e de' troppi che ommettiamo non bastava a quella
riforma, che sarebbe dovuta venire dall'alto; come già vedemmo dal fondo
della corruzione essere cavato il mondo per la forza di Gregorio VII, e
per lo zelo e gli esempj de' santi Francesco e Domenico.

All'alito di Dio e sotto l'ale del cristianesimo era sbocciata la
società moderna; e Dio, unica fonte d'ogni potestà, credevasi avere
commesso l'esercizio della temporale non meno che della spirituale al
suo vicario in terra; il quale, occupato delle anime, e di conservare
integro il dogma e pura la morale, aveva affidato una delle due spade
all'imperatore; l'imperatore, unto dal Cristo in terra, consideravasi
come capo dei re, come rappresentante il potere temporale della Chiesa
in quella grande unità, la quale nell'ordine religioso chiamavasi
_cattolicismo_, e nell'ordine temporale _sacro romano impero_. Concetto
sublime, che sottraeva il mondo all'arbitrio della forza per porlo in
tutela della fede, piantava dominj non per conquista o per nascita, ma
per riverenza ed opinione; preveniva spesso le guerre mediante
l'arbitrato supremo, appoggiato alla minaccia delle scomuniche; sempre
le rendeva meno micidiali; garantiva i re e i popoli dai mutui attentati
col chiamare gli uni e gli altri a rendere ragione di loro condotta
avanti ad un tribunale, inerme eppure potentissimo perchè fondato sulla
coscienza de' popoli, e resistendo ai forti non in nome della rivolta,
ma della sommessione che si deve a Dio più che agli uomini.

Al sublime divisamento vedemmo quali ostacoli s'attraversassero, sicchè
rimasero male determinati i confini delle due autorità. I papi, per
tutelarsi in un'età guerresca e quando ogni potenza derivava dal
possesso de' terreni, dovettero procacciarsi un dominio temporale, ma
tristo il guadagno che n'ebbero, avvegnachè li mise più d'una fiata in
punto di scambiare per supremazia principesca quel ch'era tutela e
arbitramento, affidato dalle coscienze, e fondato in un regno che non è
di quaggiù. Di rimpatto gl'imperatori pretendevano dominare sopra i re,
fare da tutori ai papi più che non fosse compatibile coll'indipendenza
de' primi e colla dignità del padre comune dei fedeli. Di qui la
diuturna contesa fra il pastorale e la spada, solo temporariamente
sospesa mediante transazioni che all'uno e all'altra impedivano di
trascendere, ma toglievano di spiegare intera la loro efficacia. Dopo le
deplorate scissure di Basilea e di Costanza, ove ambedue i partiti
ebbero bisogno del braccio dei re, questi, che aspiravano a concentrare
in sè la pubblica potestà, colsero quel destro, e reluttando alle
antiche prerogative di Roma dissero: «Noi conosciamo e sappiamo far il
bene, meglio della Chiesa; noi non dobbiamo dipendere da nessuno;
nessuno vi dev'essere nei nostri Stati, che da noi non dipenda».

Nella comune propensione di quel secolo a consolidare i principati sulle
rovine delle repubbliche e dei Comuni, anche i papi procacciarono più
solertemente negl'interessi temporali, o condotti dalla carne e dal
sangue s'affissero a dare opulenza e stato alle proprie famiglie, da un
lato accarezzando i potentati per averli conniventi alle loro
aspirazioni, dall'altro spremendo i deboli. Al concilio di Basilea un
oratore, quel desso che valse a fare eleggere l'antipapa Felice, diceva:
«Tempo già fu che io pensava sarebbe utile separare affatto la podestà
temporale dalla spirituale: ora mi convinco che la virtù senza la forza
è ridicola, che il papa romano senza il patrimonio della Chiesa non
rappresenta che un servo dei re e dei principi».

Ed uno de' politici meglio accorti, Lorenzo de' Medici, scriveva a
Innocenzo VIII esortandolo a rendersi forte coll'impinguare i suoi
parenti. «Non solo Vostra Santità è dispensata dalla modestia e dalla
riserva in faccia a Dio e agli uomini, ma potrebbesi biasimarla di non
farlo, e attribuirlo ad altri motivi. Lo zelo e il mio dovere obbligano
la mia coscienza a rammentare a Vostra Santità che nessuno è immortale;
che un papa ha tanta importanza quanta vuole averne, e poichè non può
rendere ereditaria la sua dignità, non può dire suoi se non gli onori e
i benefizj che fa ai suoi»[261].

Lorenzo era ispirato da interesse personale, ma avrebbe fatta
dichiarazione così esplicita se tale non fosse stata l'opinione comune?
Era il tempo che si ergevano tutti i principati sulle ruine delle
tarlate repubbliche, e il papa seguiva l'andazzo col rinvigorirsi
anch'esso. Inoltre le potenze fissavano cupidi occhi sullo Stato romano;
onde fattone quistione non di diritto, ma di forza, i papi poteano
adoprarsi ad acquistarlo come gli altri, e contro gli altri proteggerlo.

L'esiglio avignonese avea fatto sentire più che mai la necessità che il
papa stesse in terra indipendente, e quindi il bisogno di convalidare e
crescere il suo dominio. Martino V ed Eugenio IV si valsero del modo di
guerra allora usitato, cioè de' condottieri, per sottomettere le città
rivoltose. Nicolò V tentò un tratto confederar tutti gli Stati d'Italia
per opporli ai Turchi, che aveano presa Costantinopoli il 29 maggio
1453, e riuscì a conchiudere la pace di Lodi; ma questa assicurava i
varj dominanti, non li federava per l'offesa e la difesa. Internamente
la congiura del Porcari aveva offerto pretesto ai papi d'integrare il
proprio dominio su Roma, annullando l'autorità popolare dei capi di
rioni.

Quest'assoggettamento bisognava estenderlo a tutto lo Stato, reprimendo
l'anarchico arbitrio de' signorotti che se lo divideano, e a ciò
mirarono tutti i papi successivi, annaspando una politica non immune di
violenze e di frodi, a cui dà risalto il carattere ond'erano rivestiti.
Nella congiura de' Pazzi, prelati cospirarono ad assassinare i Medici in
chiesa, e il popolo in vendetta appiccava fino un arcivescovo; pruova di
deperita religiosità, ancor più della violenta diatriba, in
quell'occasione avventata a Sisto IV, credesi da Gentile de' Becchi
vescovo d'Urbino. Sebbene non crediamo che questo pontefice partecipasse
a tale assassinio, nè i tant'altri gravami contro la sua memoria, forza
è dire che esercitò trista politica; a titolo di mettere in pace
l'Italia per armarla contro i Turchi, sparnazzò scomuniche, massime
contro i Veneziani; sostenne la cadente libertà fiorentina contro
l'usurpazione dei Medici, ed aspirò all'indipendenza italiana, ma
mostrandosi ambizioso e corrotto, disgustò anche i repubblicani, e
mentre non attutì le irrequietudini intestine, lasciò che i rigori
dell'Inquisizione si trapiantassero dalla Spagna nel paese nostro: per
fare denari non abborrì da strani mezzi; creò nuovi uffizj da vendere,
impose l'esoso dazio sul macinato, decime sui prelati: elevò
impudentemente i parenti suoi, concesse perfino ad Alfonso, bastardo di
re Fernando d'Aragona, appena di sei anni, l'arcivescovado di Saragozza.

Nè più saviamente si maneggiarono i suoi successori, l'andamento delle
fortune d'Italia alterando per collocare, stabilire, dotare i loro
figliuoli o nipoti; e guardandosi come capi dello Stato, più che capi
della Chiesa. Non riscossi dalle minaccie di Basilea e Costanza
addormentavansi nella sicurezza del possesso, e lasciavano nella stessa
metropoli del cattolicismo preponderare lo spirito secolaresco. I
cardinali aveano facoltà di imporre condizioni nel conclave al futuro
pontefice, ma Innocenzo VI avea dichiarato che nessun giuramento
anteriore all'elezione può restringere l'autorità pontifizia, atteso
che, sede vacante, alla Chiesa non compete altro diritto che di eleggere
il successore. Morto Sisto IV, i cardinali stesero una costituzione, ma
tutta a loro mero vantaggio; non avessero meno di quattromila zecchini
d'entrata; non rimanessero colpiti da censure o scomuniche o giudizj
criminali, se non colla sanzione di due terzi del sacro collegio; non
oltrepassassero il numero di ventiquattro, un solo de' quali potesse
essere della famiglia del papa.

Siamo contenti di non esser obbligati a raccontare il regno di Innocenzo
VIII, salito papa col promettere, e connivendo a indegni favoriti che di
tutto faceano bottega.

Allorchè questi morì nel 1492, si manifestò più che mai nella
cristianità il bisogno di riformare la Chiesa; «Lionello vescovo di
Concordia n'espresse davanti ai cardinali il voto nel giorno che
entrarono in conclave, in un magnifico discorso rappresentando come la
romana, madre e radice della Chiesa universale, cadesse di giorno in
giorno in maggiore dispregio; estremo il lusso del clero; i principi
cristiani accanniti gli uni agli altri fino a distruggersi. Il dolore
della figlia di Sionne è grande come il mare. Rimedio sia l'eleggere un
pontefice santo, istruito, valente. Tutta la Chiesa ha gli occhi sopra
di voi; ne aspetta un capo che, col buon odore del suo nome, attiri i
fedeli alla salute; fedele come san Giacomo, ortodosso come san Paolo,
che dalla Babilonia dell'apocalisse spinga la Chiesa verso i testimonj
dell'Eterno»[262].

L'eletto fu Alessandro VI[263]; e il nome basterà per quelli che
accettano bell'e fatte le opinioni. Trovava egli ancora il paese
sovvertito dagli Orsini e dai Colonna, coprenti l'ambizione personale
sotto i titoli di Guelfi e Ghibellini; ed egli vi mosse guerra risoluta,
come ai Varani e Fogliani che possedeano le Marche: ai Della Rovere,
signori di Sinigaglia, ai Montefeltri di Urbino e di Gubio, ai Vitelli
di Civita di Castello, ai Baglioni di Perugia, agli Sforza di Pesaro, ai
Malatesta di Rimini, ai Riario di Imola, ai Manfredi di Faenza, ai
Bentivoglio di Bologna; tutti in gara di violenze e di tradimento, e che
promossero o favorirono la funesta calata de' Francesi con Carlo VIII, a
cui Alessandro si opponea. Che se come uomo rimase tipo d'una più
romanzesca che storica scelleraggine, egli salito pontefice a sessantun
anno; se, mentre da capitano andava a combattere i Savelli, gli Orsini,
i Colonna, lasciava il governo a sua figlia Lucrezia Borgia, fin
coll'arbitrio d'aprire le sue lettere: se Cesare Borgia, eroe del
delitto, infamato dalle lodi attribuitegli dal Machiavello, chiarì
quanto potesse osare un figlio di papa, e in conseguenza quanto fosse
opportuno il celibato de' preti: Alessandro come pontefice emanò savie
costituzioni; colla sì ingiustamente beffata delimitazione delle terre
scoperte prevenne i conflitti della Spagna col Portogallo nel nuovo
mondo; i contemporanei s'accordano a lodarlo d'avere tarpate le minute
tirannidi, e molti confessano, come fu detto di Tiberio, che in lui
andavano pari i vizj e le virtù. Dove non veglino i tirannici
ordinamenti che la cristianità sconosce, neppure l'inettitudine o la
malvagità d'un capo abolisce la bontà delle istituzioni e la consistenza
degli intenti[264].

Rinunziando a discolpe, che potrebbero scambiarsi per
giustificazioni[265], torciamo dal genio delle tenebre verso un angelo
di luce.

Qual Italia abbiamo? Le idee pagane sono in piena rifioritura: si
rovistano gli avanzi di libri, di statue, di fabbriche; sulle antiche si
modellano le opere nuove, a scapito dell'originalità e della
naturalezza; l'autorità d'un filosofo o d'un poeta reggesi in bilancia
con quella della Scrittura e d'un santo padre, fino a insegnare, Cristo
dice così, Aristotele e Platone dice colà; la sottigliezza scolastica
offusca la ragione col pretesto di illuminarla; la sublimità platonica
invanisce in delirj teosofici; si magnificano solo le virtù pagane, e i
nomi di greci e romani surrogansi a quelli ricevuti nel battesimo.

In quella civiltà cresciuto e fattosene adoratore, Lorenzo De' Medici
cantò inni sacri per compiacere sua madre, e osceni carnascialeschi per
compiacere alle brigate; e moriva circondato da tutto il fasto d'una
Corte popolana, fra capi d'arte antichi, o moderni che gli emulavano;
fra libri cercati di lontanissimo; fra olezzi di fiori, tratti
dall'India; fra delicature tributategli da tutto il mondo. Ma i suoi
sguardi su che si fissavano in quel memore punto? Sopra un crocifisso di
legno rusticamente intagliato, stretto fra le mani d'un frate. Era frà
Girolamo Savonarola. Nato di buona gente a Ferrara, già da fanciullo
amava la solitudine; nelle campagne fin colle lacrime esalava la piena
dell'affetto, e al Signore diceva: _Notam fac mihi viam in qua ambulem,
quia ad te levavi animam meam_. Educato all'aristotelica, a Firenze
verge ai Platonici e al misticismo, ma da' traviamenti lo rattiene
l'ammirazione sua verso san Tommaso, per omaggio al quale entrò
nell'Ordine dei Domenicani, adottandone il vero spirito nell'astinenza,
nell'obbedire, nell'adempiere a' più umili uffizj. Abbandonato fin ciò
che prediligeva, alcuni libri e immagini, portava abitualmente un
piccolo cranio d'avorio, che gli rammentasse il nulla delle onorificenze
umane, e passava di città in città predicando, esortando, commentando,
consigliando, confessando. Venuto nell'alta Italia, queste eccelse
montagne coronate di ghiacci, quasi bastite erette da Dio a difesa di
paese prediletto, e i colli degradanti in limpidi laghi o in pianure
sconfinate l'incantavano; sicchè fermandosi dalla pedestre
peregrinazione, sedeva sotto qualche albero guardando, e cercava nella
memoria alcun versetto di salmo che esprimesse gli affetti onde
sentivasi inondato. Nei dubbj del pensiero, nelle fiacchezze della
volontà pregava, pregava. Fatto nel 1488 priore del convento di san
Marco in Firenze, poc'anzi riformato dal santo arcivescovo Antonino, si
mostrò severo coi traviati quanto mite coi ravveduti; e parendogli che
da Dio gli fosse ispirato il modo con cui dovesse favellare, tonava
contro l'universale pervertimento. Predicava egli sotto un gran rosajo
damasceno, e malgrado la debile voce e l'accento lombardo, l'uditorio
gli crebbe tanto, che dovette trasferirsi in Duomo.

Oratori avidi d'applausi, con iscolastiche argomentazioni, scienza
profana, frasi armoniose, blandivano a que' popoli, fortunati di soavi
aure, piene di vita, d'una civiltà sviluppata ne' materiali godimenti,
sotto principi senza pari nel fasto e nel buon gusto, onorati e cerchi
da re lontani, cantati dai poeti, inneggiati dal popolo.

Chi oserebbe rompere quel concerto di encomj e di gioja? Il Savonarola,
che non conosce civiltà senza della virtù, e che, unendo la persuasa e
fino entusiastica devozione di frate alla franchezza di tribuno,
comincia a gridare, Sventura, sventura: e a declamare contro i viluppi
d'una politica subdola, le profanità degli artisti, l'abominazione
introdottasi nel santuario. Ed esclamava: «Tristo chi si vende al mondo!
guai ai padri che allevano alla peggio i loro figliuoli! guai ai
governanti che opprimono i popoli e ne fomentano le dissensioni, e
gl'istinti malevoli e l'odio alla verità! guai ai cittadini e mercanti
che non considerano se non il guadagno, come le donne agognano alle
futilità, i villani al furto, i soldati alle bestemmie! guai ai prelati
che, invece di menare il loro gregge a pastura intemerata e fresca,
l'avviano seco alle fonti avvelenate! guai ai preti che scialacquano i
beni della Chiesa, destinati ai poveri! guai ai sapienti che ignorano le
verità della fede o si stomacano della semplicità del catechismo! guai
agli artisti che, per amore dell'arte, perdono la fede, sagrificano il
costume! guai ai maestri che spiegando autori pericolosi, avvezzano alla
lubricità, prima che nelle Università si divaghino in una logica
petulante, nella arroganza dell'argomentazione, surrogata al buon senso
e al vangelo!»

Non sapeva egli perdonarla a que' predicatori, che fanno gemere e
piangere e stupire, ma non correggono nè emendano, ed eccitano emozione
femminea, anzichè salutare fervore; invece del vangelo annunziano baje,
spacciano pruriginose novità, volendo emulare la poesia di Virgilio o la
scienza di Platone, la soavità d'Isocrate o l'impeto di Demostene;
avviluppano Cristo nelle passioni umane; tolgono le distinzioni fra il
cristianesimo e il paganesimo: delle futilità de' filosofi e della sacra
scrittura fanno un miscuglio, e questo vendono su pei pergami, mentre le
cose di Dio e della fede lasciano da banda.

«Questa pecora smarrita (diceva) Cristo l'ha perduta: il buon prete la
ritruova, e deve renderla a Cristo; ma il malvagio la blandisce e la
scusa, e le dice: So che non si può sempre vivere castamente e astenersi
dal peccato; e così l'allontana più sempre da Cristo, e le fa perdere la
testa e la tiene per sè. Io non nomino alcuno, ma la verità bisogna
dirla. Se sapeste quel ch'io so! cose schifose, cose orribili; e ne
fremereste, ed io non so frenare le lacrime pensando che i cattivi
pastori si fanno mezzani per condurre l'agnella in bocca del lupo. Non
serve che preti e frati vadano ogni giorno a piazzeggiare, e fare visita
alle comari, ma che studiino la Bibbia. Dopo notti passate nel vizio,
che vuoi tu fare della messa?»

«Le scienze (diceva ancora) bisogna adoprarle per dimostrare la fede, ma
prendere la fede in semplicità, non dissiparsi in dissertazioni e
ciancie, ma studiare la Bibbia e i Padri». Ed egli infatto alla Bibbia
si appoggia continuamente; in nome e colle espressioni di quella,
minaccia o loda, esalta fulmina; e crede che, nel senso mistico, si
applichi non solo ai fatti generali della storia, ma anche ai
particolari di ciascun tempo, qualora la Grazia ajuti a combinare i
testi.

E più che al dogma, nella predicazione bada egli alla pratica; e tanto
fino politico, quanto poco lo fu Lutero, vede gli imminenti pericoli, sa
le notizie, vuole stabilire la repubblica evangelica, l'eguaglianza di
ricchi e poveri. A differenza del Machiavello, sa che forza ed armi non
bastano dove così profonda è la depravazione: il male sta nell'anima;
questa bisogna rigenerare, e il miracolo sarà fatto. E professando la
virtù essere necessario fondamento d'ogni libertà, e arte della tirannia
pervertire i costumi, doleasi che per questa via le antiche repubbliche
italiane «sobrie e pudiche», s'andassero precipitando nella tirannide; e
proclamava che buon governo e moralità vanno inseparabili.

Perciò, quando Lorenzo de' Medici lo chiamò al letto della sua agonia,
dicono che il frate gli ponesse come patto dell'assoluzione il
restituire a Firenze la proprietà migliore, la libertà.

Come altri pretesi redentori d'Italia, mirò con compiacenza l'invasione
di Carlo VIII, salutando i Francesi quai liberatori, e godette che per
opera loro fossero cacciati i tiranni di Firenze: ma quando essi
abusavano della vittoria, affacciossi a Carlo, e gli indirizzò quel che
più sgarba ai potenti, la verità; e perchè quel re s'inchinava a lui
davanti, e' gli mostrò un crocifisso dicendo: «Non venerare me, ma
questo, che ha fatto il cielo e la terra, ch'è re dei re, e manderà a
rovina te con tutto il tuo esercito se non desisti dalla crudeltà». Come
Carlo partì, fece stabilire a Firenze il regno di Cristo, cioè il
governo a popolo, e parve l'idolo della città, alla vigilia di divenirne
l'esecrazione.

Noi non abbiamo a qui discorrere de' suoi fatti politici e governativi,
benchè fossero tanta cagione delle sue ultime vicende. Solo diciamo come
le sue prediche fossero benedette di frutto stupendo; e per un momento
parve che la Firenze del Pulci, delle giostre, de' carri
carnascialeschi, fosse mutata in una città di santi. Dalle ville che
popolano il Val d'Arno e le pendici dell'Apennino, affluivano contadini;
e appena le porte si schiudessero, precipitavansi nella città, dove
trovavano accoglienza e nutrimento dalla eccitata carità. Giovani,
donne, fanciulli, vecchi, d'ogni classe, con giubilo devoto affollavansi
ad aspettare le prediche del frate, ognuno queto al suo posto, con un
lumicino per leggere l'uffizio o libri devoti; e non s'udiva uno zitto;
se non che a tempo a tempo alcuno sorgeva ad intonare una laude, alla
quale rispondeasi a vicenda: e le tre, le quattr'ore attendevano sinchè
il frate venisse a spargere la parola or minacciosa, or confortante.
Pareva proprio una primitiva Chiesa, dice un contemporaneo; dapertutto
un conversare pieno di carità, un guardarsi, incontrandosi, con letizia
inestimabile, fossero pure forestieri, bastando ch'erano figliuoli di
quel gran padre: per le vie e pel contado non più canzoni e vanità, ma
cantici spirituali, e per le strade vedeansi le madri andar recitando
l'uffizio co' figliuoli, a modo de' religiosi; alle mense, fatta la
benedizione, si leggeva qualche libro devoto; non si vendea più carne i
giorni proibiti: la sera i giovani accoglievansi al focolare paterno a
recitare il rosario; le donne ripresero la modestia nel vestire; sino i
fanciulli chiesero dal magistrato regolamenti per proteggere il buon
costume. Gli uomini viziosi s'asteneano, per paura d'essere additati dai
fanciulli, come le donne addobbate in foggie disoneste. Voleano
divertirsi? Adunavansi a brigatelle di venti o trenta, in qualche
deliziosa postura; e comunicatisi, consumavano la giornata cantando
salmi, o in pii sermoni, o recando in processione la Madonna e il
Bambino: e le domeniche, côlti rami d'ulivi, uscivano sui prati e
ripeteano laudi che il frate avea composte, adattandovi arie dedicate
già alla frivolezza e all'immoralità.

Più si abbondava nelle opere di carità; faceasi venire grano a sollievo
della carestia dominante; si eresse un monte di pietà per riparare alle
usure; moltiplicaronsi altri atti che attiravano lo scherno de'
gaudenti, i quali chiamavano costoro stroppiccioni, piagnoni, frati.

Al Savonarola doleva che la letteratura e le arti avessero preferito le
vie di Betsabea a quelle di Betlem; lo studio della natura e dell'antico
al sentimento intimo; e si ostentassero nudità fino sugli altari, come
ne' versi le divinità e i sensi pagani usurpavano il luogo a Cristo e
alla pensierosa severità, quasi volesse farsi rivivere ciò che è
defunto, e per sempre. Perocchè le belle arti, rinnovellatesi non a nome
dell'idea, ma della pratica e del bello plastico, si erano rivoltate
contro il medioevo a nome dell'antichità; prima vagheggiando i prestigi
classici, poi dimenticando la sostanza per la veste, e surrogando il
gusto all'entusiasmo. Il Savonarola cercò istituire scuole o
congregazioni, onde ricondurle nel santuario, dove erano sbocciate; e a
quell'anima entusiasta, sotto il bel cielo d'Italia, nella città altrice
delle arti, come dovea sorridere il pensiero di rigenerarle, e di
ricollocare la bellezza in grembo all'Eterno, dal quale essa deriva!
Molti artisti convertironsi a lui, non già per distruggere e abolire il
bello, come fecero i Protestanti, ma per consacrare il pennello, lo
scalpello, il bulino a soggetti edificanti.

Anzi il Savonarola osò per amore un fatto, che troppo fu ripetuto per
ira in altri paesi. I giovinetti, ch'egli educava nella pia austerità
mandò attorno per la città a farsi dare libri sconci o di sorte, laide
immagini, tessuti lascivi, canzoni amatorie, ritratti di bellezze
divulgate, e di tutte queste _vanità_[266] il giorno di berlingaccio del
1498 fu fatta una gran catasta in piazza e postovi fuoco a suon di
trombe e di canzoni. I savj secondo il secolo ne presero scandalo, e
dicevano sarebbonsi potute vendere, e col denaro fare limosina; «come
dissero già (riflette il Nardi) i mormoratori del prezioso unguento
sparso da quella devota donna sopra i piedi di Cristo; non considerando
che i filosofi pagani e gli ordinatori delle polizie, e Platone
specialmente, scacciavano tutte quelle cose che oggi sono vietate più
severamente dalla cristiana filosofia».

Del clero massimamente rimproverava frà Girolamo l'indegno vivere, e il
non credere che nel sacramento sia Cristo, cioè l'accostarvisi
indegnamente. «Fatti in qua, ribalda Chiesa, dice il Signore; io ti avea
dato le belle vestimenta, e tu ne hai fatto idolo: i vasi desti alla
superbia, i sacramenti alla simonia; nella lussuria sei fatta meretrice
sfacciata; tu sei peggio che bestia; tu sei un mostro abbominevole. Una
volta ti vergognavi de' tuoi peccati, ma ora non più. Una volta i
sacerdoti chiamavano nipoti i loro figliuoli; ora non più nipoti ma
figliuoli, figliuoli per tutto. Tu hai fatto un luogo pubblico, hai
edificato un postribolo per tutto. Che fa la meretrice? Ella siede in
sulla sedia di Salomone, e provoca ognuno; chi ha denari passa, e fa
quel che vuole; chi cerca il bene è scacciato via. O Signore, Signore,
non vogliono che si faccia il bene. E così, o meretrice Chiesa, tu hai
fatto vedere la tua bruttezza a tutto il mondo, e il tuo fetore è salito
al cielo. Tu hai moltiplicato le tue fornicazioni in Italia, in Francia,
in Ispagna, per tutto. Ecco che io stenderò le mie mani, dice il
Signore; io ne vengo a te, ribalda, scellerata: la mia spada sarà sopra
i tuoi figli, sopra il tuo postribolo, sopra le tue meretrici, sopra i
tuoi palazzi: e sarà conosciuta la mia giustizia. Il cielo, la terra,
gli angeli, i buoni, i cattivi ti accuseranno, e non vi sarà persona per
te, io ti darò in mano di chi ti odia»[267].

E altre volte: «Quand'io penso alla vita dei sacerdoti, mi bisogna
piangere. O fratelli e figliuoli miei, piangete sopra questi mali della
Chiesa, acciò il Signore chiami a penitenza i sacerdoti. La chierica
mantiene ogni scelleratezza. Comincia pure da Roma: e' si fanno beffe di
Cristo e dei santi: sono peggio che Turchi, peggio che bovi. Non
solamente non vogliono patire per Dio, ma vendono perfino i sacramenti.
Oggi vi sono sensali sopra i benefizj, e si vendono a chi più ne dà.
Credete che Dio voglia più sopportarlo? Guai, guai all'Italia e a Roma!
venite, venite, sacerdoti; venite, frati miei: vediamo se possiamo
resuscitare un poco l'amore di Dio»[268].

E vi applicava quel che Amos diceva contro i sacerdoti ebrei: «La nostra
Chiesa ha di fuori molte belle cerimonie in solennizzare gli ufficj
ecclesiastici, con belli paramenti, drappelloni e candellieri d'oro e
d'argento, e tanti bei calici che è una maestà. Tu vedi là quei prelati
con mitre d'oro e di gemme preziose in capo, con pastorali d'argento e
piviali di broccato, cantare bei vespri e messe, con tante cerimonie e
organi e cantori, che tu stai stupefatto; e pajonti costoro uomini di
grande gravità e santimonia, e non credi ch'e' possano errare, ma ciò
che dicono e fanno s'abbia a osservare come l'evangelo. Gli uomini si
pascono di queste frasche, e rallegransi in queste cerimonie, e dicono
che la Chiesa di Cristo Gesù non fiorì mai così bene, e che il culto
divino non fu mai sì bene esercitato quanto al presente, e un gran
prelato disse che la Chiesa non fu mai in tanto onore, nè i prelati in
tanta reputazione; e che i primi erano prelatuzzi, perchè umili e
poverelli, e non avevano tanti grassi vescovadi nè tante ricche badie,
come i nostri moderni. Erano prelatuzzi quanto alle cose temporali, ma
erano prelati grandi, cioè di gran virtù e santimonia, grande autorità e
reverenza ne' popoli, sì per la virtù, sì pei miracoli che facevano.
Oggidì i Cristiani che sono in questo tempio, non si gloriano se non di
frasche; in queste esultano, di queste fanno festa e tripudiano; ma
interverrà loro quello ch'io vidi, che il tetto rovinerà loro addosso,
cioè la gravità de' peccati delle persone ecclesiastiche e de' principi
secolari cadrà sul loro capo, e ammazzeralli tutti in sul bello della
festa, perchè si confidano troppo sotto questo tetto.

«I demonj ed i prelati grandi, perchè hanno paura che i popoli non
escano loro dalle mani e non si sottraggano dall'obbedienza, hanno fatto
come fanno i tiranni delle città: ammazzano tutti i buoni uomini che
temono Dio, o li confinano, o li abbassano che e' non hanno uffizj nella
città; e perchè non abbiano a pensare a qualche novità, introducono
nuove feste e nuovi spettacoli. Questo medesimo è intervenuto alla
Chiesa di Cristo: primo, essi hanno levato via i buoni uomini, i buoni
prelati e predicatori, e non vogliono che questi governino: secondo,
hanno rimosso tutte le buone leggi, tutte le buone consuetudini che avea
la Chiesa, nè vogliono pure ch'elle si nominino. Va, leggi il Decreto;
quanti belli statuti, quante belle ordinazioni circa l'onestà de'
cherici, circa le vergini sacre, circa il santo matrimonio, circa i re e
i principi come e' s'hanno a portare; circa l'obbedienza de' pastori;
va, leggi, e troverai che non s'osserva cosa che vi sia scritta; si può
abbruciare il Decreto, che gli è come se non ci fosse. Terzo, hanno
introdotto loro feste e solennità per guastare e mandare a terra le
solennità di Dio e de' santi.

«Se tu vai a questi prelati cerimoniosi, essi hanno le migliori paroline
che tu udissi mai; se ti conduoli con essoloro dello stato della Chiesa
presente, subito e' dicono: _Padre, voi dite il vero, non si può più
vivere se Dio non ci ripara_. Ma dentro poi hanno la malizia, e dicono:
_Facciamo le feste e le solennità di Dio feste e solennità del diavolo,
introduciamo queste coll'autorità nostra, col nostro esempio, acciocchè
cessino e manchino le feste di Dio, e sieno onorate le feste del
diavolo_. E dicono l'uno all'altro: _Che credi tu di questa nostra fede?
Che opinione n'hai tu?_ Risponde quell'altro: _Tu mi sembri un pazzo; è
un sogno, è cosa da femminucce e da frati. Hai tu mai visto miracoli?
Questi frati tutto il dì minacciano, e dicono, e' verrà, e' sarà; e
tutto il dì ci tolgono il capo con questo loro profetizzare. Vedi che
non sono venute le cose che predisse colui. Dio non manda più profeti, e
non parla con gli uomini; s'è dimenticato de' fatti nostri, e però gli è
meglio che la vada così, e che governiamo la Chiesa come abbiamo
cominciato_. Che fai tu dunque, Signore? Perchè dormi tu? Levati su,
vieni a liberare la Chiesa tua dalle mani dei diavoli, dalle mani de'
tiranni, dalle mani de' cattivi prelati; non vedi tu che la è piena
d'animali, piena di leoni, orsi e lupi, che l'hanno tutta guasta? Non
vedi tu la nostra tribolazione? Ti se' dimenticato della tua Chiesa, non
l'hai tu cara? ell'è pure la sposa tua! non la conosci tu? È quella
medesima, per la quale discendesti nel ventre di Maria; per la quale
patisti tanti obbrobrj; per la quale volesti versare il sangue in croce.
Vieni, e punisci questi cattivi, confondili, umiliali, acciocchè noi più
quietamente ti possiamo servire»[269].

Nè già disapprovava egli i possessi temporali degli ecclesiastici, ma il
tristo uso che faceano delle ricchezze[270]; e violento diveniva quando
toccasse i vizj di Roma, sicchè per verità poco divario corre fra quel
suo linguaggio e quel di Lutero; anzi, alcuni di coloro che guastano il
bene coll'esagerarlo, coniarono allora medaglie, ove a Roma vedeasi
soprastare una mano col pugnale e la legenda _Gladius Domini super
terram cito et velociter_[271].

Intanto coi libri de' letterati e colle corrispondenze dei mercanti di
Firenze divulgavasi il nome del Savonarola; «perfino d'Alemagna (diceva
esso) ci vengono lettere dei seguaci che va acquistando la _nuova_
dottrina». Riconosceva dunque egli stesso una nuova dottrina, la quale
porse titolo d'accusarlo al pontefice, ch'era Alessandro VI. Questi,
pauroso d'uno scisma, più volte l'ammonì, poi gli attaccò processo
d'eresia, e gli interdisse di predicare. Il Savonarola non pensava
staccarsi dalla Chiesa, e scrisse al papa: «La Santità Vostra si degni
indicarmi quale tra le cose che dissi e scrissi io deva ritrattare, e
subitissimo il farò». Non impugnava dunque l'autorità delle somme
chiavi, ma poichè allora le teneva un pontefice, che coi costumi proprj
e de' suoi deturpava una cattedra, onorata da tanti sapienti e tanti
virtuosi, il Savonarola sostenne fosse stato eletto iniquamente, e
braveggiò la scomunica, dicendo, che se ingiusta non obbliga[272], che
il papa potè essersi ingannato.

Scrisse ai principi, testificando «_in verbo Domini_, che questo
Alessandro non è papa, nè può esser ritenuto tale; imperciocchè,
lasciando da parte il suo scelleratissimo peccato della simonia, con cui
ha comperato la sedia papale, ed ogni dì a chi più ne ha vende i
benefizj ecclesiastici, e lasciando gli altri suoi manifesti vizj, io
affermo ch'egli non è cristiano, e non crede esservi alcun Dio», ed
esortava i principi a raccoglier il concilio in luogo _atto e libero_,
dov'egli tutto ciò proverebbe.

Alessandro VI volle ancora scorgervi piuttosto trascendenza di zelo che
vera malizia: e per lasciargli aperta la via al pentimento, non lo
dichiarò eretico, bensì _sospetto d'eresia_, e cercò che la Signoria lo
inducesse a chiedere l'assoluzione, la quale esso non gli negherebbe,
come in appresso gli renderebbe anche il predicare[273].

Ma frà Girolamo, fin nell'ultimo suo discorso esclamava: «Bisogna
rivolgersi a Cristo che è la causa prima, e dire: _Tu sei il mio
confessore, vescovo e papa: provvedi tu alla Chiesa che rovina_. — O
frate, tu debiliti la podestà ecclesiastica. — Questo non è vero: io mi
sono sempre sottoposto e mi sottopongo anche ora alla correzione della
romana Chiesa: non la debilito punto, anzi l'aumento. Ma io non voglio
stare sotto la potestà infernale; ed ogni potestà che va contro al bene
non è da Dio, ma dal diavolo».

E spesso ripeteva che un giorno _darebbe volta alla chiavetta_, e
griderebbe, _Lazare, veni foras_; accennando al concilio, a cui
s'appellava, e che non da lui solo, ma da molti era considerato come
unico rimedio ai disordini della Chiesa. E questo chiedere la riforma
per mezzo del concilio era tanto più comune dacchè in quel di Costanza
erasi stabilito di radunar la Chiesa ogni dieci anni. Nel processo del
Savonarola v'è l'esamina di un Giovanni Combi, che dice: «Sono giorni
circa quaranta, che, trovandomi a casa ozioso, mi venne in animo di
mandar allo imperatore il libro del _Trionfo della fede_ fatto da frà
Girolamo, avendo inteso ch'era bello libro, e mandavalo allo imperatore
come a uomo dotto e che si diletta di cose simili. E così feci una
lettera a S. M. nella quale narravo come il detto frà Girolamo era gran
profeta, e prediceva cose future, massime la conversione de' Turchi, la
ruina d'Italia e la renovazione della Chiesa. E che non era dubbio la
Chiesa stava male, come S. M. può ben sapere, e che a S. M. prefata
s'apparterrebbe remediare, come si faceva pei tempi passati, per mezzo
de' concilj. Di poi andai con tal mia lettera a San Marco, non per
trovare frà Girolamo, ma per fare scrivere tal mia lettera in latino: e
trovati frà Silvestro e Girolamo Benivieni, la lessi loro. Di poi la
lasciai a Girolamo Benivieni perchè la facesse latina; e lui così mi
promise di fare. Di poi a tre giorni andai a San Marco, e mi ha detto
che io facessi motto a frà Girolamo che mi voleva parlare. E così andai
a lui, ed inginocchiatomegli dinanzi, e' mi disse: «Io ho visto la bozza
della tua lettera allo imperatore: sia contento non l'avere per male».
Poi soggiunse: «La sta secondo il gusto mio e poco manca». E che voleva
aggiungere alcune parole, e darmi copia di una lettera che aveva scritto
al papa, perchè ve la inchiudessi. Ed io risposi essere contento a
tutto, ecc.».

Ma poichè il frate procedea più sempre fino a non voler riconoscere
altre autorità che di Dio e della propria coscienza, stimolato dalle
nimistà cittadine, dalla gelosia d'altri monaci, e massime di frà
Mariano da Genazzano, che in predica intitolava il Savonarola ebreone,
ribaldone, ladrone, il papa rinnovò la scomunica «perchè alle
apostoliche ammonizioni e comandamenti non ha obbedito», e vietava di
ajutarlo, frequentarlo e lodarlo «siccome scomunicato e sospetto
d'eresia».

I suoi discepoli, anche colla pruova del fuoco, si profersero a
sostenere contro frati Francescani[274], 1º che la Chiesa di Dio ha
bisogno d'esser rinnovata; 2º ch'essa verrà percossa; 3º dopo i flagelli
essa e Firenze saran rinnovate e prospere; 4º gl'infedeli si
convertiranno in Cristo; 5º queste cose si compiranno ai giorni nostri;
6º la scomunica contro frà Girolamo è nulla; 7º nè peccano quelli che
non ne tengono conto.

Deponiamo l'entusiasmo che simpaticamente è eccitato dagli entusiasti, e
viepiù dalla nobile e austera sembianza del Savonarola, e che cosa vi
vediamo in somma? Il frate sostenere che la giustizia è perita, e in
conseguenza restano esautorati il governo temporale e lo spirituale. Ma
con ciò egli ergeva se stesso in giudice di tutti: non sarebbe stata
giudice meglio competente la santa sede? No (egli risponde) perchè non è
più santa, mentre santi sono i Piagnoni, i quali induce ad astinenze, ad
austerità, a indietreggiare ai tempi di san Francesco e de'
Fraticelli[275].

Per dimostrare che la sua missione era superiore agli altri,
abbisognavano profezie e miracoli; or le profezie sue democratiche
fallirono; quanto ai miracoli, uno gliene chiedeva Carlo VIII[276] come
la gentuccia; esibitagli la pruova del fuoco, non potè cansarla, e non
gli riuscì; donde scredito, e quel facile mutare degli amori fanatici in
fanatiche esecrazioni.

La plebe, secondando i menapopolo, domanda una vittima; assale il
convento di San Marco, ferendo, uccidendo: arresta frà Girolamo; ed essa
che dianzi l'adorava, ora ebra di furore lo schiaffeggia, e sputacchia,
dicendo: «Profetizza chi ti ha percosso», e «Salvati con un
miracoluccio». E frà Girolamo se ne va, ripetendo ai suoi frati:
«Rammentatevi di non dubitare: l'opera del Signore andrà sempre innanzi,
e la mia morte non farà che accelerarla».

Esultarono i tristi preti del cessato attacco; esultarono i Compagnacci
che la voce di rimprovero fosse soffogata; esultarono i patrioti d'aver
tolto di mezzo il turbatore della pace pubblica; avversarj fatti giudici
lo esaminano, e perchè non trovano titolo a condannarlo, v'è chi
esclama: «Un frate più o meno, che cosa importa?» Stirato e squassato
alla fune, egli debole e affranto di corpo, confessa quel che vogliono,
essere stato eretico, aver negato Cristo, finto profezie e rivelazioni;
poi subito nega, e «Non ho mai detto di credermi ispirato; bensì di
appoggiarmi solo alle scritture sante. Non cupidità delle glorie del
mondo mi mosse, e desideravo che per opera mia si congregasse il
concilio, nel quale speravo fossero deposti molti prelati e il papa, e i
costumi si riformassero, a modello de' tempi apostolici. Circa alla
scomunica, benchè a molti paresse che la fosse nulla, niente di meno io
credevo ch'ella fosse vera, e la osservai un pezzo: ma poi parendomi che
l'opera mia andasse in rovina, presi partito di non la osservar più,
anzi manifestamente contraddirla e con ragioni e con fatti, per onore e
per riputazione».

Rimesso alla tortura, confessava di ricapo quel che volevano, e meritar
mille morti[277]. Ma interrogato se avesse voluto scinder la Chiesa di
Cristo: «Giammai! (rispondeva risolutamente) se pur non si voglia
intender d'alcune cerimonie, colle quali restrinsi la vita de' miei
frati. Vero è che non ebbi mai paura delle scomuniche».

Ma la sua morte era un sacrifizio domandato da quella tiranna che,
allora come adesso, s'intitolava opinion pubblica, e che dianzi ne
chiedea l'apoteosi: sempre vulgo. Quando se ne discuteva nella Pratica,
fra i minacciosi tremanti ardì alzarsi un Agnolo Pandolfini, e dire che
pareagli esorbitanza il porre a morte un uomo, di sì eccellenti qualità
che appena se ne vedeva uno in un secolo; e che potrebbe non solamente
rimettere la fede nel mondo quando fosse mancata, ma ancora le scienze.
Perciò proponeva di tenerlo prigione, e dargli modo di scrivere, acciò
il mondo non perdesse i frutti del suo ingegno.

La Pratica accolse male la proposta, e gli si objettò non era a fidarsi
nei magistrati futuri, che rinnovavansi ogni due mesi; talchè il frate
sarebbe potuto tornar libero, e metter la città di nuovo a soqquadro.
Nemico morto non fa più guerra: l'insegnò il Machiavello, e lo praticò
Saint-Just.

E morte gli decretarono i concittadini, e l'assentirono i commissarj
apostolici; e fu posto vivo sul rogo con due compagni, davanti al
Palazzo Vecchio, dove sta ancora la lapide col decreto, pel quale egli
avea fatto dichiarare unico re de' Fiorentini Gesù Cristo. Ai condannati
il papa avea mandata l'assoluzione, onde l'assistente disse: «Piacque a
sua santità liberarvi dalle pene del purgatorio, e concedervi
l'indulgenza plenaria dei vostri peccati. L'accettate voi?»

Tutti tre chinarono il capo, e dissero sì. Così ai 23 maggio 1498 moriva
frà Girolamo tra gl'insulti della plebe, che struggeasi di metter fuoco
alla pira, come un tempo di cogliere i fiori del rosajo ov'egli
predicava; tra gli osceni strappazzi del boja, che schiaffeggiandolo
attiravasi pubblici applausi: e la Signoria informava i principi «quei
tre frati aver avuto fine condegna alle loro pestifere sedizioni». Ma
che? Subito il Savonarola fu decorato del titolo di santo, di martire; i
tizzoni del suo rogo, qualche avanzo di ossa, le ceneri si conservarono,
e mostravansi a' suoi devoti, come adesso ai curiosi; e ad ogni
anniversario la gioventù ne espiava il supplizio con ispargere fiori sul
luogo ov'egli perì.

Il Savonarola fu eretico? I Protestanti lo dipinsero qual loro
precursore, e che avesse insegnato la giustificazione operarsi per la
fede senza bisogno d'opere, e l'uomo esser uno strumento passivo in mano
di Dio, il quale lo elegge e lo ripruova, senza ch'egli possa
contribuire alla propria salvezza. Ultimamente Meyer e Rudelbach[278]
con molta scienza ne scrissero gli atti in tale intento, ma con quel
sistema di modificazioni e reticenze, per cui fu facile allineare coi
Protestanti gl'ingegni più ortodossi. Perocchè analizzandone le opere,
le mutilano, le scontorcono così, da esprimere quel che essi
prestabilirono, e principalmente sopprimono quel che vi ripugna. Per un
esempio, delle tre prime parti del _Trionfo della Croce_, le dottrine
sono comuni ai Protestanti e a noi: onde il Rudelbach le divisa con
diligenza, industriandosi volta a volta di estrarne qualche senso
protestante. Ma trasvola al IV libro ove frà Girolamo tratta dei
sacramenti da perfetto cattolico. Il Meyer asserirà che il frate parla
ben poco della Beata Vergine, quasi mai del purgatorio: ma non tien
conto che in qualche luogo spinge il culto della madre di Dio fino ai
limiti della superstizione, e raccomanda ai fedeli di suffragare pei
defunti; e conchiude che «chi si parte dalla dottrina della Chiesa
romana, si parte da Cristo».

E in quel famoso mistico carro, del quale più fiate egli ragiona, figura
Cristo vittorioso, piagato, coi due Testamenti in una mano, nell'altra
la croce e i segni della passione; a' piedi il calice, l'ostia, i
simboli de' sacramenti; poi la Vergine Maria colle urne de' martiri; il
carro è tirato da apostoli, predicatori, profeti; è seguito dalla
moltitudine de' fedeli e de' martiri. E da quel carro dicea doversi
dedurre una nuova filosofia, i cui canoni supremi sono che Cristo è
stato crocifisso, adorato, e ha convertito il mondo; e la Vergine, i
martiri, la Santissima Trinità sono _adorati_ dai Cristiani. Nè di rado
il Savonarola ritorna sulla necessità delle opere, sul libero arbitrio,
sulla cooperazione dell'uomo alla Grazia; che se l'espressione non è
sempre esattissima come dopo le definizioni tridentine, abbastanza
rivela di pensar come la Chiesa cattolica; quantunque la Grazia diasi
gratuitamente, noi dobbiamo apparecchiarci a riceverla forzandoci di
credere, pregando, operando[279]. «Vuoi tu ricevere l'amor di Gesù
Cristo? fa di consentire alla divina chiamata; il Signore ti chiama, fa
tu pure qualche cosa»[280]. Aveva anzi in gioventù addottato questo
motto: «Tanto sa ciascuno quanto opera»: talmente era lontano dalla
passiva aspettazione della Grazia.

Ma nella meditazione sul _Miserere_ fatta in prigione, poneva: «Spererò
nel Signore, e presto sarò liberato da ogni tribolazione. E per quali
meriti? Pe' miei non già, ma per i tuoi, o Signore. Io non offerisco la
mia giustizia, ma cerco la tua misericordia. I Farisei si gloriarono
nella loro giustizia; onde non hanno quella di Dio, la quale si ha solo
per grazia; e nessuno sarà mai giusto innanzi a Dio, solo per aver fatto
le opere della legge.

«O cavaliere di Cristo: di che animo sei tu in queste battaglie? Hai tu
fede o no?

«Sì, la ho.

«Ben sappi che questa è una grande grazia di Dio, perchè la fede è suo
dono, e non per nostre opere: acciò nessuno si possa gloriare».

Queste parole parvero asserire la giustificazione indipendente dalle
opere; sicchè quell'opuscolo fu diffuso in Germania da Lutero nel 1523,
con una prefazione, ove dichiarava il Savonarola suo precursore,
«sebbene ai piedi di questo sant'uomo sia ancora attaccato del fango
teologico»[281], e aver lui sostenuto «la giustificazione per mezzo
della sola fede, e PERCIÒ venne bruciato dal papa»; e soggiungeva:
«Cristo lo canonizzò perchè non appoggiossi sui voti o sul cappuccio,
sulle messe o sulla regola, ma sulla meditazione del vangelo della pace;
e rivestito della corazza della giustizia, armato dello scudo della
fede, dell'elmo della salute, si arrolò non all'ordine de' Predicatori,
ma alla milizia della Chiesa cristiana».

Noi sappiamo che non dal papa fu bruciato, e non per questo motivo; ma
il libro stesso a cui Lutero s'appoggiava lo smentisce, poichè,
primamente, che la fede sia dono gratuito di Dio è sentenza comune di
tutti i teologi e del concilio di Trento: poi in esso libro il
Savonarola continua: «Chi addurrà un peccatore, sia pur grandissimo, il
quale, rivoltosi e convertitosi a Dio, non sia stato accetto e
giustificato?... Or non hai tu udito il Signore, che dice, _Qualunque
volta piangerà il peccatore, e si dorrà de' suoi peccati, io non mi
ricorderò delle sue iniquità?.._. Cadesti? lèvati, e la misericordia ti
riceverà. Rovinasti? grida, e la misericordia verrà».

Poi sollecitato dal carceriere a lasciargli qualche ricordo, frà
Girolamo sulla coperta di un libro scriveva una _Regola del ben vivere_,
più volte ristampata, ove dice: «Il ben vivere dipende tutto dalla
Grazia; onde bisogna SFORZARSI D'ACQUISTARLA, e quando s'è avuta,
d'accrescerla... Essa è certamente un dono gratuito di Dio; ma
l'esaminar i nostri peccati, il meditare sulla vanità delle cose
mondane, c'indirizza alla Grazia; la confessione e la comunione ci
dispongono a riceverla... Il perseverare nelle buone opere, nella
confessione[282], e in tutto quello che ci ha avvicinato alla Grazia è
il vero e sicuro modo d'accrescerla».

Il Savonarola era piuttosto un mistico; e a indicarlo tale, se non
bastassero alcuni passi da noi addotti, ben altri potrebbero adunarsi, e
per darne uno, quello ove definisce, «L'amore di Gesù Cristo è quel vivo
affetto, per cui il fedele desidera che la sua anima diventi quasi parte
di quella di Cristo, e che la vita del Signore si riproduca in lui, non
per esterna imitazione, ma per interna e divina ispirazione.
Vorrebb'egli che la dottrina di Gesù Cristo fosse in lui cosa viva,
patir il suo martirio, salir con lui misticamente sulla croce. Amore
onnipotente, che non può aversi senza la Grazia, perchè eleva l'uomo
sopra se stesso, e la creatura finita congiunge al Creatore
infinito»[283].

Ne' processi nega d'essersi spacciato mai come ispirato; pur realmente
davasene l'aria, forse come artifizio a cattivar una plebe, che vuol
sempre essere illusa[284]. Una volta salì in pulpito, ed: «Ho a
rivelarvi un secreto celeste, che ancora non ho voluto manifestare ad
alcuno, perchè non ne ero finora ben certo. Voi conoscete tutti il conte
Pico della Mirandola, morto testè. Dicovi che l'anima sua, per le
orazioni de' nostri frati, ed anche per alcune sue buone opere che fece
in questa vita, e per altre orazioni, è nel purgatorio. _Orate pro eo_».
Di tratti consimili è sparsa la sua vita, e ne' discorsi accenna spesso
a rivelazioni speciali, o ad interpretazioni nuove di passi scritturali.

Uom di fede, di superstizione, di genio, abbondò di carità; credette
all'ispirazione personale, all'opposto di Lutero che tutto affidavasi al
raziocinio; e argomenti in favore e contro di lui possono raccogliersi
nelle sue opere, dal cui complesso risulta come abbia cercato l'armonia
della ragione colla fede, della religione cattolica colle franchigie
politiche.

In ogni modo non impugnò l'autorità della Santa Sede, benchè reluttasse
a colui che egli credeva tenerla illegittimamente, e contro di questo
invocasse il concilio che doveva riformar la Chiesa legittimamente: la
superbia degli applausi, il puntiglio delle contraddizioni lo fecero
trascendere, ma operava con coscienza pura, senza ambizioni personali:
non cercò propagar le sue persuasioni colla forza, sibbene coll'esempio,
cioè credeva alla potenza del vero. E diceva: «Entrai nel chiostro per
imparar a patire, e quando i patimenti vennero a visitarmi, gli ho
studiati, ed essi m'insegnarono ad amar sempre, a sempre perdonare». Ma
interposto Iddio fra il pensier suo e la sua persona, sottomise la
prudenza umana all'ispirazione; credette guidar il popolo per mezzo
della passione e delle grida di piazza, e a queste soccombette, come
sempre avviene. Eretico non è se non chi si ostina in un'opinione
contraria ad un punto di fede definito. La sua fama restò bilanciata tra
il cielo e l'inferno, ma la sua fine fu deplorata da tutti, e forse
primi quelli che l'aveano provocata. In Santa Maria Novella e in San
Marco è dipinto in figura di santo, e da Raffaello nelle logge vaticane
fra i dottori della Chiesa; ritratti e medaglie sue si tennero e
venerarono, non solo fra que' pii che in Firenze continuarono ad opporsi
alla depravazione e alla servitù che ne deriva, ma anche da gran santi.

Nel 1548, il severo Ambrogio Catarino stampò a Venezia un _Discorso
contro la dottrina e le profezie di frà Girolamo Savonarola_, dedicato
al cardinale Del Monte, dove ne raduna molte proposizioni, che crede
repugnanti al dogma cattolico: ma «dichiara di oppugnar in questa opera
non il Savonarola, giudicato piuttosto degno di compassione che di
vituperio, bensì la dottrina e gli errori di lui, che ancora viveano
nella riputazione di coloro che, non senza scandalo e pericolo delle
loro anime, a lui prestarono fede».

Forse in conseguenza di tale denunzia quegli insegnamenti furono presi
in esame sotto Paolo IV, e quando la commissione ne leggeva dinanzi a
questo alcuni brani, egli esclamava: «Ma questo è Martin Lutero! cotesta
è dottrina pestifera»; maturato però l'esame, non furono che _sospese_
quindici prediche e il dialogo della _Verità profetica_: il padre
Paolino Bernardini lucchese, fondatore della congregazione di Santa
Caterina da Siena, compose _Narrazione e discorso circa la
contraddizione grande fatta contro le opere del r. p. frà Girolamo_,
sostenendo che la dottrina di esso «non poteva esser dichiarata nè
eretica, nè scismatica, nemmanco erronea e scandalosa», e nell'indice
del Concilio di Trento que' libri figurano solo _donec emendati
prodeant_, cioè come intaccati solo d'errori accidentali. Dicevasi che
Clemente VIII, nel 1598, avesse fatto voto, se riusciva ad acquistare
Ferrara, santificare il Savonarola. Serafino Razzi, domenicano
fiorentino, infervorato di frà Girolamo, v'esortò più volte il papa,
scrisse anche una vita del frate, poi vedendo menarsi la cosa in lungo,
comperò un asinello, e settuagenario com'era, l'anno santo recossi a
Roma. Ma il papa «temendo dei tanti contraddittori», non volle tampoco
vederlo, nè gli permise di stampare quella vita; e invano i Domenicani
aveano preparato un'uffiziatura propria del Savonarola[285]. Se il
filosofico Naudet lo intitolava Ario e Maometto moderno, il devoto padre
Touron lo intitolava inviato da Dio; san Filippo Neri e santa Caterina
de' Ricci lo veneravano per beato, e Benedetto XIV lo disse degno di
santificazione. Al raccogliere de' conti fu un credente del medioevo,
non un ragionatore del cinquecento: un'elegia del passato, piuttosto che
una tromba dell'avvenire; ma quanto al voler associare la morale colla
politica, vivono oggi ancora discepoli suoi, e combattono buona guerra.

Nessuno dei seguaci di frà Girolamo figurò fra i discepoli di Lutero, nè
fra i traditori della patria libertà: Michelangelo, che edificava
bastioni per la patria e il maggior tempio del Cristianesimo, l'ebbe
sempre in venerazione; il Machiavello, che non s'avventurava ad opinioni
contrarie alle correnti, dapprincipio ammirò il Savonarola; lo prese in
beffe allorchè ebbe spiegata intera quella sua politica senza Dio, senza
providenza, senza moralità; un'innata malvagità senza peccato originale
e senza redentore; e la speranza del rigeneramento d'Italia volle non
solo senza la Chiesa, ma a dispetto della Chiesa: insomma il preciso
contrario del Savonarola.


NOTE

[260] VESPASIANO, _Vite_, ecc.

[261] FABRONI, _Vita di Lorenzo_, II, 390.

[262] RAYNALDI, ad 1492.

[263] Le inclinazioni di Alessandro VI erano conosciute precedentemente,
sicchè quando fu eletto, Pietro martire d'Angera scriveva al cardinale
Sforza: _Hoc habeto, princeps illustrissime, non placuisse meis regibus_
(Fernando e Isabella di Spagna) _pontificatum ad Alexandrum, quamvis
eorum ditionarium, pervenisse; verentur namque ne illius cupiditas, ne
ambitio, ne (quod gravius) mollities filialis christianam religionem in
præceps trahat_. Epist. 119 dell'ediz. di Amsterdam 1670.

[264] Nelle carte di Urbino nell'archivio centrale di Firenze è una
lettera del 21 luglio 1494 di Alessandro VI a Lucrezia Borgia sua
figlia, che finisce: «E per questa volta null'altro se non che attendi a
star sana, et a esser devota de nostra donna gloriosa». Si sa ch'egli
portava sempre in dosso una palla, contenente l'ostia consacrata.

[265] Il signor Chantrel, nella _Storia popolare dei papi_, tolse or ora
a discolpare Alessandro VI, mostrando come la vita sua non fu
scandalosa, neppur mentre era privato; sempre poi edificante nel papato;
e ch'egli fu gran re e gran pontefice; le accuse prodigategli mancar di
fondamento, e ricader sopra gli storici, bugiardi, maligni, ostili ad
esso papa, o alla cattedra su cui sedette.

Sono a vedersi per lo stesso assunto la _Storia d'Alessandro VI_
dell'abate Jorry, e un articolo della _Rivista_ di Dublino, del gennajo
1859. Un amico ci fa avvertire che nelle lettere inedite dell'Alberoni,
trovasi un giudizio sopra Alessandro VI, che s'accorda sostanzialmente
col da me espresso. Benedetto XIV, nel carteggio confidenziale
coll'Alberoni, suo legato di Bologna nel 1740, gli manifestò
l'intenzione di correggere varj abusi, e sovratutto di riformare il
paese, _rovinato da dieci anni di allegria e di conversazioni_ (_Lettera
da Castelgandolfo_ li 18 ottobre di quell'anno). L'Alberoni pur
desiderando non ci fosse occasione _di venire a que' rimedii troppo
repugnanti al naturale della Santità sua_, non potè di meno, da
quell'uomo schietto qual era, di _secondare un sì santo pensiero_,
aggiugnendo che il bisogno di tale riforma era universalmente sentito da
tutti i buoni e dentro e fuori di Roma (_Lettera dell'Alberoni di
Bologna_, 25 ottobre 1741). Il papa lesse, forse con poca riflessione,
la lettera dell'Alberoni nella sua conversazione, dove saranno stati
probabilmente alcuni bisognosi di tale riforma, e levossi uno schiamazzo
contro l'impudenza del legato di Bologna, che avea avuto l'ardimento di
scrivere tali cose ad un tal papa, quasichè il suo pontificato fosse
quello di Alessandro VI. Non è qui luogo di trascrivere la lunga e
veemente risposta dell'Alberoni allo stesso Benedetto XIV, degli 8
novembre: ma sul punto toccato s'esprime così: «Non so come costoro
possino far entrare nel mio discorso Alessandro VI. Se si avesse a
parlare del di lui pontificato si potrebbe dire che fu un misto di vizj
e di virtù: che i primi furono mancanze d'un uomo privato, ma che le
seconde furono qualità eminenti d'un principe di gran mente. Tale lo
fanno conoscere le di lui famose Bolle e non Pataffie, che saranno di
eterna memoria e venerazione, e fra tante altre azioni eroiche del sue
pontificato, una sarà la restituzione della Romagna fatta dai Tiranni
alla Santa Sede; opera che tutta si deve al coraggio e alla prudenza e
sagace condotta di Alessandro VI».

[266] Anche san Paolo ad Efeso si fe cedere gli amuleti e talismani
della Dea colà adorata, e i libri de' misteri, e quantunque di carissimo
costo, valendo cinquantamila denari, li fe bruciare. _Act. apost. cap.
XIX_.

[267] Prediche sopra Ezechiele. Predica XXII.

[268] Prediche sopra l'Esodo.

[269] Sermone sopra Amos.

[270] «O frate, tu vuoi dire che la Chiesa non possa tenere beni
temporali. QUESTO SARIA ERESIA. Non dico questo io, perchè non è da
credere, se non si potesse tenere, che san Silvestro li avesse
accettati, e san Gregorio li avesse confermati. Però noi ci sommettiamo
alla Chiesa romana, o che valga meglio che ne abbia o no. Questa è una
gran quistione, perchè vediamo che ha pur fatto male per avere queste
ricchezze, e non bisogna che io lo pruovi. Rispondiamo dunque, non però
assolutamente, come il marinaro che non vuol gittare le ricchezze in
mare, ma fuggire il pericolo; e diciamo che la Chiesa staria meglio
senza ricchezze, perchè sarebbe in unione con Dio». _Sopra Ezechiele_.

«Il papa è Dio in terra, ed è vicario di Cristo. Ciò è vero, ma Dio e
Cristo comandano che si ami il proprio fratello, che si faccia il bene.
Adunque se il papa ti comandasse cosa contraria alla carità, e tu la
facessi, tu allora vuoi che il papa facci più che non fa Dio. Il papa
può errare, non solo per false informazioni, ma qualche volta ancora
perchè ha in odio la carità. Ciò che tanto ha corrotto la Chiesa è la
potestà temporale. Quando la Chiesa era povera, allora era santa: ma
quando le fu data la potestà temporale, cadde nella polvere delle
ricchezze e delle cose terrene, e cominciò a sentire la sua superbia...
Concilio vuol dir congregare la Chiesa, idest tutti li buoni abbati,
prelati e secolari di essa. Ma nota che non si domanda propriamente
Chiesa se non dove è la grazia dello Spirito Santo. Ed oggi dove si
trova essa? forse solamente in qualche buon omiciattolo... Nel concilio
s'hanno a far riformatori che riformino le cose giuste. Nel concilio si
castigano li cattivi cherici; si depone il vescovo che è stato simoniaco
o scismatico. Oh quanti ne sarebbero deposti! forse non ne rimarrebbe
nessuno. Pregate il Signore, che si possa finalmente congregare una
volta, per favorire ed ajutare chi vuol far bene e per combattere i
tristi». _Prediche del 1498, sopra l'Esodo_.

[271] JACOBO PITTI, _Storie_, lib. I, cap. 51.

[272] «Oh non hai tu paura? Non io che mi vogliano scomunicare perchè
non faccio male. Portatela in s'una lancia questa scomunica, e apritele
le porte. Io voglio rispondere; e se non ti fo meravigliare, di' poi
quel che ti pare. Io farò impallidire tanti visi là e qua, che ti
parranno ben molti; e manderò fuori una voce che farà tremare e
commuovere il mondo... Se io volessi andare adulando, non sarei oggi a
Firenze, nè avrei la cappa stracciata, e mi saprei cavar fuori di questo
pericolo. Ma, o Signore, io non voglio queste cose; io voglio solamente
la tua croce: fammi perseguitare, io ti domando questa grazia che tu non
mi lasci morire in sul letto, ma che io ti renda il sangue mio, come tu
hai fatto per me.» _Sopra Ezechiele, pred._ XXVIII.

[273] Il papa diceva al Bonsi, oratore di Firenze: «Io ho letto le
prediche del vostro frate, e parlato con chi le ha udite. Egli ardisce
dire che il papa è ferro rotto; che è eretico chi crede alla scomunica,
e che egli, piuttosto che chiedere assoluzione, vorrebbe andar
all'inferno. È scomunicato non per alcuna istigazione o per false
insinuazioni, ma per la sua disobbedienza al nostro comando di unirsi
alla nuova congregazione tosco-romana. Noi non lo condanniamo delle sue
buone opere, ma vogliamo che venga a chieder perdono della sua petulante
superbia, e volentieri gliela concederemo quando si sarà umiliato a'
nostri piedi».

[274] _Anno Domini MCCCCIIC. — Dilectis filiis guardiano et fratribus D.
Francisci ad Sanctum Miniatum extra muros Florentinorum Ordinis Fratrum
Minorum de observantia nuncupatorum, Alexander Papa sextus_.

_Dilecti filii, salutem et apostolicam benedictionem. Relatum nobis fuit
quod apostolico zelo veritatis et justitiæ accensi, ac pro nostro, et
hujus sanctæ sedis honore contra perniciosum dogma falsamque doctrinam
perditionis filii Hieronimi Savonarolæ ordinis fratrum predicatorum, ac
populi seductionem multis ac veris conclusionibus et argumentis sæpius
publice ac privatim predicaveritis, ac eo fervoris et studii
processeritis ut, pro sustinendis vestris veris rectisque
argumentationibus, et ipsius Hieronimi pertinacia convincenda, non
defuerit ex vobis qui etiam se in ignem projicere proposuerit; Laudamus
certe devotionem vestram ac tam pium tamquam religiosum ac venerandum
opus quod procul dubio nulla poterit oblivione deleri: Nobis vero et
ipsi sedi ita gratum et acceptum ut gratius et acceptius esse non
possit. Hortamur et monemus vos in Domino, ut eodem tenore pergentes
adversus ipsius errorum reliquias, si quæ supersint, et complicem
perseverare velitis, ut exinde a Deo et hac sancta sede merita condigna
consegui possitis. Dat. Romæ apud S. Petrum sub annulo Piscatoris XI die
aprilis 1498, Pontificatus nostri anno sexto_.


_Dilecto filio Francisco Apuliensi, Ordinis fratrum Minorum de
observantia nuncupatorum professori, Alexander Papa sextus.

Dilecte fili, salutem et apostolicam benedictionem. Intelleximus quanto
fervore pro veritate et justitia, proque nostro ac huius sanctæ sedis
honore nuper predicaveris verbum divinum in civitate ista florentina
adversus falsum et perniciosum dogma iniquitatis filii Hieronimæ
Savonarole, qui prius suis demeritis excommunicatus, ausu sacrilego quam
plurima scandalosa et heresim sapientia tam diu disseminare tam publice
non erubuerat. Fecisti profecto opus valde meritorium, ac maxima laude
dignum, ac quale religiosum virum decebat, quod nobis et toti sacro
venerabilium fratrum nostrorum Sanctæ Romanæ Ecclesiæ cardinalium
collegio mirifice complacuit. De qua devotione te plurimum commendamus,
monentes et exhortantes ut, si quid forsitan reliquarum deinceps tanti
ac nepharii erroris supersit, in tam bono ac pio instituto perseverare,
ac illud eodem veritatis mucrone retundere cures, ita ut majores in dies
ac uberiores fructus in agro dominico producens, nostram et ipsius sedis
benedictionem et gratiam valeas promereri. Datæ Romæ apud S. Petrum
1498, XI aprilis, Pontificatus nostri anno sexto_.

[275] I Fraticelli non erano forse del tutto spenti in Firenze. Nella
Magliabecchiana (MSS. G. 3. 368) si ha una lunga lettera di don Giovanni
delle Celle contro di essi, e una loro risposta assai sviluppata, ma che
in fondo accusa la Chiesa di aver traviato, come poi disse Lutero; essi
pochi custodire la verità: la via del paradiso essere stretta, onde non
è meraviglia se essi sono pochi in numero: peccar contro la carità
quelli che gli accusano.

Il codice XI della classe XXXIV de' manoscritti d'essa biblioteca ha
molte scritture contro i Fraticelli dell'opinione e singolarmente del
vescovo Ortano, che dice essere stato deputato coll'arcivescovo di
Milano ed altri vescovi a discutere contro costoro, sorti principalmente
intorno ad Asisi, e che aveano preso per capo un tal Nicolao di Marano,
nell'Agro Piceno.

[276] _Faites moi un petit miracle_.

[277] Non ha bisogno di commenti questo passo del processo: «_Jussus
expoliari_. Orsù uditemi. Iddio, tu mi hai côlto (_inginocchiasi_). Io
confesso che ho negato Cristo. Io ho detto le bugie. Signori Fiorentini,
io l'ho negato per paura de' tormenti. Siatemi testimonj. Se io ho a
patire, voglio patire per la verità. Ciò che io ho detto l'ho avuto da
Dio. Dio, tu mi hai dato la penitenza per averti negato. Io lo merito.
Io ti ho negato. Io ti ho negato. Io ti ho negato per paura di tormenti,
per paura di tormenti (_erasi inginocchiato e mostrava il braccio manco
quasi guasto_). Gesù ajutami. Questa volta tu mi hai côlto».

[278] FR. KARL MEYER, _G. Savonarola aus grossen Theils
handschriftlichen Quellen dargestellt_. Berlino 1836. Contiene molti
atti sconosciuti, e che più tardi furono riprodotti da altri biografi
come nuovi.

RUDELBACH, _H. Savonarola und seine Zeit, aus den Quellen dargestellt_.
Amburgo 1835. Questi riconosce per profeti della Riforma l'abate
Gioachino, santa Brigida, santa Caterina da Siena, ed altri.

[279] Predica IV, p. 237. Pr. V, p. 246. Pr. XII, p. 373.

[280] Predica XVI, 443.

[281] _Vorrede über Savonarola's Auslegung des LI psalms_.

[282] Suole dirsi che sol dopo san Carlo e dopo l'istituzione de'
cherici regolari si estese l'uso del frequente confessarsi e de'
confessionali in chiesa, ecc. Nel processo, frà Girolamo diceva: «Circa
a' confessori, io ne mettevo molti in San Marco, confortandoli che
confessassino assai: non per intendere da loro le confessioni, perchè
non l'avrebbero fatto per la pena grande, et anche per conservarmi la
reputatione appresso di loro: perchè, se io li havessi richiesti di
simile cosa, mi sarei al tutto scoperto maligno: ma io lo facevo per
havere più concorso, et per tenere gli amici nostri confortati all'opera
nostra: et anchora perchè fossino più uniti».

[283] _Trattato dell'amor di Gesù Cristo_. Firenze 1492.

[284] Talora disse: «Se un angelo di Dio venisse un giorno a
contraddirmi, non gli credete, perchè è Dio medesimo che parlò. _Predica
17 febbraio 1497_.

E nella _Verità profetica_ leggiamo:

_Savonarola_. Atqui io son profeta. Poichè ragionevolmente mi sforzi,
non senza verecondia e umiltà confesso essermi stato da Dio, per suo
dono e non per alcuno mio precedente merito, conferito.

_Uria_. Guarda che questo sia detto non per umiltà, ma più presto per
arroganza.

_Savonarola_. Io non m'attribuisco il falso, ma non mi vergogno già di
confessare di averlo ricevuto a laude di Dio e per salute de' prossimi».

[285] _L'officio proprio per frà Gerolamo Savonarola e i suoi compagni,
scritto nel secolo XVI, e ora per la prima volta pubblicato per cura del
conte C. Capponi, con un proemio di Cesare Guasti_. Prato 1860.

Il codice 34 della classe XXXIV dei manoscritti della Biblioteca
Magliabechiana contiene una raccolta di giudizj di varj sopra la vita e
le dottrine del Savonarola. Quanta traccia di sè abbia lasciato il frate
appare dall'infinità di scritture a lui relative, che si trovano in
tutte le biblioteche di Firenze. Fra le centinaja citerò il codice 7
della classe XXXIV manoscritto nella Magliabecchiana, che contiene
_Vulnera diligentis_ di Benedetto da Firenze, ch'è un'apoteosi del
Savonarola. Nella prima pagina ordina, _hoc non publicetur volumen nisi
post mortem illius decimi_ (cioè Leon X), _de quo scriptum est_ Leo in
quinto rugitu morietur, _filius Sodomæ_ ecc.... _Detur Adriano VI P. M.
ad ciò sia conservata questa cristiana opera dalle mani de' combustori
et persecutori della verità_.

Nella _Storia degli Italiani_ io mi son diffuso intorno al Savonarola,
esaminando se fu un martire della verità anticipata, se profeta, se un
gran patrioto, un gran democratico, o un allucinato, o un impostore.
Furono pubblicate di recente molte opere intorno a lui, e massime la
_Storia di Girolamo Savonarola_ del Villari (1859), e la _Storia del
convento di San Marco_ del p. Marchese.



DISCORSO XII.

GIULIO II. CONCILJ DI PISA E LATERANO.


Alessandro VI moriva, non colle circostanze date da diarj d'allora e da
romanzi d'oggi[286], pure inaspettatamente, nel rimestìo delle
ambizioni, colle quali preparavasi a fare suo figlio principe della
Romagna, delle Marche e dell'Umbria, assicurare i dominj della Chiesa
dai tirannelli che gli aveano usurpati, e introdurvi quiete e
regolarità. Il Valentino, che sperò, anche dopo morto il padre,
continuare coi delitti e le prodezze a fare l'Italia, fidando nelle
truppe come un re moderno, circondò il conclave per imporre la sua
volontà: ma il popolo sollevatosi lo cacciò; e i cardinali adunati
presero accordo che il nuovo papa convocherebbe tra due anni un
concilio. Pio III, de' Piccolomini di Siena, elettogli successore
(1513), s'affrettò di concertarsi all'uopo colle potenze, nell'intento
di riformare la Chiesa, incominciando (apertamente il professava) dalla
curia romana. Ma dopo ventisette giorni morì e gli succedeva Giulio II
genovese, che come cardinale Della Rovere era stato gran nemico di
Alessandro VI, e durante il costui papato erasi sempre tenuto in armi e
in difesa. Saliva papa, persuaso che la podestà pontifizia non potesse
assodarsi se non assodandone il dominio temporale; laonde, se Sisto IV e
Alessandro VI aveano mirato a fare grandi i loro figliuoli, esso volle
far grande la Chiesa, in modo da stare arbitra fra la Spagna e Francia,
e logorarle entrambe finchè le snidasse d'Italia. Fa arrestare il
terribile Valentino, e l'obbliga a cedere alla Chiesa i paesi ch'egli ed
altri n'aveano sottratti; ritoglie Bologna ai Bentivoglio, Perugia ai
Baglioni; da Venezia si fa restituire Rimini, Ravenna, Faenza, Cervia;
senza violenze procacciasi Urbino, e pone la Chiesa nella maggior forza
che mai fosse. Alle città sottoposte lasciava gli antichi o concedea
privilegi nuovi, formandone municipj indipendenti siccome nel Veneto; e
dove corporazioni di nobili, di borghesi, d'artieri si teneano in
reciproco rispetto. In Roma erano quotidiane le aggressioni e gli
omicidj, e non rare le vere battaglie, e Giulio le terminò coll'imporre
e volere il disarmo generale. La nobiltà romana stava divisa in guelfa e
ghibellina, per lo più tenendo bandiera guelfa gli Orsini, i Savelli e
il popolo; ghibellina i Colonna, i Conti, i prefetti di Vico. Ora
convennero tutti in Campidoglio, e giurarono concordia, stabilendo che
«in perpetua e memorosa dannazione et infamia, sia licito le immagini
de' contravenienti dipingere sottosopra al modo de' perfidi e crudeli
traditori, in faccia del Campidoglio et in altri luoghi pubblici dal
popolo frequentati, in perpetua commemorazione e testificazione di loro
scellerata vita»[287]. Battagliero come un prelato del Mille, e padre
de' suoi soldati, violento di natura, non dissimula le passioni, pure
non se ne lascia conturbare; ardito ai progetti, cauto nello scegliere i
mezzi, paziente nelle traversie, intrepido nei pericoli, ricevuto il
paese in pieno scompiglio, Giulio rimise al freno i baroni; compresse la
plebe; eroe se l'armadura e la fierezza non disconvenissero al
successore del pacifico pescatore di Galilea. Luigi XII scende a
vendicare Carlo VIII, e Giulio riesce a respingere i Francesi, e difende
anche una volta l'indipendenza italiana. Dicea voler «riunire la comune
patria sotto un solo padrone, e questi debbe essere perpetuamente il
pontefice romano. Ma mi affanna il pensiero che non potrò arrivarvi per
i gravi anni che mi ritrovo; e mi strazia l'idea di non poter compiere
tanto per la gloria d'Italia, quanto ne sente il mio cuore»[288].

Ma quando il vediamo obbligato ad accampare egli stesso sotto al tiro
del cannone, comprendiamo di versare in un'età troppo differente da
quando una parola di Gregorio VII bastava a trarre i re umiliati, dal
cuore della Sassonia, a baciare scalzi il suo piede nel castello di
Canossa. E di Giulio non è male che non dicano il Guicciardini, il
Budeo, Erasmo, Hutten[289] e la turma seguace. Ma chi al pari di lui
suntuoso nello spendere? Abbellisce la chiesa de' Santi Apostoli;
fabbrica un palazzo presso San Pietro in Vincoli; ingrandisce il Museo,
collocandovi capolavori e una stamperia; fa la via Giulia e la via de'
Banchi colla fontana iscritta «Italia liberata», e colà la zecca ove si
battono i giulj. Dell'antica ricchezza di fontane a Roma non restando
che l'Acqua Vergine, egli ne conduce un'altra al giardino del Vaticano,
e su quel colle mette le fondamenta della più vasta chiesa del mondo,
abbattendo l'antica basilica piena di sacre memorie[290] per eriger la
nuova con inarrivabile magnificenza. Michelangelo presume a centomila
scudi il valore della sua tomba, «Te ne darò dugentomila» dic'egli, e la
vuole la più insigne opera del mondo; rifabbrica e munisce Civitavecchia
ed Ostia, il castello ornandone con nobili pitture, come l'altro di
Grottaferrata. Insomma, Carlo Fea potè sostenere che da lui più che da
Leone X dovesse intitolarsi quel secolo.

Quanto all'ecclesiastico, non fece cardinali di case ricche, e pubblicò
una famosa costituzione contro le elezioni simoniache. Nel conclave
anch'egli avea preso impegno d'unire un concilio fra due anni, ma poichè
altre occupazioni il distraevano, i cardinali Borgia, Carvajal e
Briçonnet, stuzzicarono il re di Francia a raccoglierlo. Strano scambio
di parti si offerse allora: il capo della Chiesa combattere colle armi
mondane; il re di Francia torcer contro di lui le armi spirituali.
Convocati a Orleans poi a Tours (1510) i prelati del suo regno, Luigi
XII posò loro delle domande, a cui risposero che il papa non avea
diritto di fare guerra a principi stranieri; che questi, per riparare
un'ingiusta aggressione, poteano anche invadere per qualche tempo le
terre della Chiesa, e ricusare obbedienza al papa nemico, per difendere
i loro diritti temporali; che negli affari ecclesiastici bastava
attenersi al vecchio gius canonico, e non fare caso delle censure
pontifizie (settembre 1511).

Accordatisi anche con Massimiliano, imperatore eletto di Germania, i
cardinali indissero un concilio a Pisa, come necessario a reprimere
questo papa sfrenato, contro le cui censure protestavano
anticipatamente. Si pensi in quali furie ne montò Giulio II! e manifestò
al mondo che solo le contingenze politiche aveanlo impedito dal
convocare il sinodo, ma l'aprirebbe a Roma il 1 aprile 1512. I prelati
di Francia s'accorgeano d'essere meri stromenti alla politica ed
animosità del re; pure, sempre ligi al potere, il secondavano, ma
trovaronsi quasi soli allorchè a Pisa fu aperto il concilio ai 5
novembre, protestando non separarsi finchè non fosse compiuta la riforma
della Chiesa nel capo e nelle membra, e ristabilita la pace in Europa.
Intanto, calcando le orme del concilio di Basilea, cercavasi
ripristinare nella Chiesa il governo aristocratico, e si confermava il
decreto di Costanza che riconosceva superiore il concilio al papa.

Così, pur professando riverenza al pontefice, minacciavano di rinnovare
il grande scisma. Ma scarso assenso trovavano. De' prelati di Germania
nessuno venne, malgrado le istanze di Massimiliano, il quale mandava
circolari querelando che dalla nazione germanica ogni anno si
smungessero ingenti grosse somme per alimentare il lusso della Corte di
Roma, e che il concilio avrebbe, come il potere, così la volontà di
porvi rimedio. I più consideravano il sinodo come un conciliabolo; il
popolo pisano accoglieva a fischi i prelati; i Fiorentini mal soffrivano
di tenersi in paese quel seme di zizzania, onde si dovette trasferirlo a
Milano. Qui pure l'opinione popolare lo avversava; se que' prelati
entrassero in una chiesa, sospendeansi i sacri riti; ed essendo in quel
tempo, alla battaglia di Ravenna, caduto prigioniero de' Francesi il
cardinale De' Medici, che poi fu papa Leone X, gli uffiziali
affollavansi a implorare gli assolvesse d'avere guerreggiato il papa, e
lasciasse dare sepoltura ecclesiastica ai loro camerata, cascati
combattendo.

Fra ciò le sorti della guerra mutavansi; l'esercito pontifizio,
sostenuto dagli Svizzeri, snidava i Francesi dalla Romagna e gli
assaliva in Lombardia, sicchè i prelati migrarono da Milano ad Asti, poi
a Lione, e sebbene continuassero a intitolarsi concilio ecumenico, altro
non fecero che domandare sussidj al clero francese.

Giulio II non solo avea rejetto ogni accordo col conciliabolo, ma depose
e scomunicò i cardinali disobbedienti, e pose all'interdetto tutta la
Francia, e particolarmente Lione. Poi al 10 maggio aperse il concilio in
Laterano, ove convennero dapprincipio quindici cardinali e settantanove
vescovi, cresciuti poi a cenventi, quasi tutti italiani. Le cinque
sessioni tenutesi da vivo Giulio II, limitaronsi a riprovare il
conciliabolo.

Leone X, appena succeduto papa, fece allestire appartamenti in Laterano
volendo egli stesso assistere alle discussioni del concilio, e quando,
al 6 aprile 1513, aperse quivi la sesta sessione, esortò sovratutto a
rimettere pace fra i principi cristiani, e promise non chiuderlo finchè
l'opera non fosse compiuta. Anche Luigi XII, che per astio contro Giulio
II aveva accolto gli errabondi padri del conciliabolo di Pisa, ora
«vinto dall'importunità di sua moglie e dalle rimostranze de' sudditi
ch'essa suscitava d'ogni lato», cessò di favorirli, e aderì al sinodo
lateranense, al quale i capi dello scisma vennero a chiedere perdono e
l'ottennero.

Come in ogni concilio, così in questo, eravi una commissione per la
riforma, e si propose espresso di correggere molti abusi, e ricondurre
alla primitiva osservanza de' canoni[291]. Nell'apertura, frate Egidio
Canisio da Viterbo, famoso predicatore, esclamava: «Chi può vedere senza
lacrime la corruttela e i disordini del secolo malvagio nel quale
viviamo, il mostruoso sregolamento che regna ne' costumi, l'ambizione,
l'impudicizia, il libertinaggio, l'empietà trionfare nel luogo santo, da
cui questi vizj dovrebbero essere sbanditi per sempre?»

Nella nona sessione, Antonio Pucci magnificava l'eccellenza della
Chiesa, perchè maggiore apparisse il dovere di ridurla alla pristina
purezza; e tutti, ma egli maggiormente deplorare che a ciò si
opponessero le nimicizie de' principi cristiani: i quali rigurgitanti di
denaro, di popolazione, d'armi, di vigore, di genio, non sapeano
adoprarli che a sovvertire il mondo con ostilità reciproche, invasioni,
correrie, saccheggi, incendj, uccisioni d'innumerevoli adoratori di
Cristo. «O cuori affamati dei re, non mai satolli delle innocenti
viscere de' popoli! o terra sitibonda, abbeverata da un rivo fumante di
cristiano sangue! o cieca rabbia dei demonj, non calmata dagli
innumerevoli micidj umani! Da vent'anni, cinquecentomila cristiani
furono sgozzati di spada e ancor n'avete fame? e ancor sitite sangue?»
Male ben peggiore dichiarava l'essersi provocata la collera di Dio con
tante colpe; nè potere sopirsi la guerra esterna finchè non fosse tolta
l'interiore de' vizj: «Vedete il secolo, vedete i chiostri, vedete il
santuario; quali enormi abusi a correggere! Dalla casa di Dio bisogna
cominciare, ma non fermarsi là»[292].

I decreti di quel concilio furono tanto prudenti quanto rigorosi. Non
elevare al sacerdozio se non persone d'età piena, di costumi esemplari,
e studiose. Il concilio, risoluto a una riforma universale e a smorbare
il campo del Signore e promuoverne la coltura, non dissimula che ogni
giorno riceve lamentanze contro le estorsioni degli offiziali della
curia romana, e perciò vuole si moderino le tasse, gli emolumenti, le
regalie, i proventi, rimettendosi alle antiche consuetudini e alla
istituzione primeva degli uffizj[293].

Domandato venissero tolti agli Ordini mendicanti i privilegi accumulati
nella bolla _Mare Magnum_, non si osò, ma fu imposto che neppure essi
potessero predicare se non esaminati prima dal loro superiore con tutta
coscienza, e trovati idonei per costumatezza, età, dottrina, probità,
prudenza ed esemplarità[294]. Non si predichino superstizioni o
rivelazioni; non si dipingano fatti immaginarj, ma l'evangelica verità e
la sacra scrittura giusta la interpretazione dei dottori, approvata
dalla Chiesa o dall'uso diuturno, senza aggiungere cosa contraria o
dissonante[295]. I maestri non insegnino solo i classici, ma anche i
precetti divini, gli articoli di fede, gli inni, i salmi e le vite dei
santi.

Furono condannati i filosofi, che dicono l'anima esser mortale e una
sola in tutti gli uomini, mentre Clemente V nel concilio di Vienna
proferì che «l'anima è veramente ed essenzialmente la forma del corpo
umano; che essa è immortale e molteplice secondo il numero de' corpi ne'
quali è infusa». Pertanto il pontefice esortava i professori a non
agitare vane quistioni sulla natura dell'anima, e dimostrarne
l'immortalità anche secondo i principj scientifici; più della filosofia
platonica, si studii la teologia; solo chi questa conosca entrerà nel
sacerdozio, ove poi si deve vivere sobrj, casti, pii, astenendosi non
solo dal male, ma dalle apparenze. La casa de' cardinali sarà un porto e
un ospizio a tutti gli uomini dotti e probi, a' nobili e onesti poveri:
semplice, frugale la loro tavola; non lusso nè avarizia; pochi servi e
vigilati, castigandone i disordini, ricompensandone la morigeratezza. I
sacerdoti in servizio non s'adoprino a ministeri abjetti. A quei che
vengono a sollecitare impieghi non badino, bensì a quei che chiedono
giustizia; sempre disposti a sostenere la causa del povero e
dell'orfano. Hanno parenti bisognosi? È giusto soccorrerli, ma non a
spese della Chiesa. I vescovi facciano eseguire gli ordini del concilio,
e almeno ogni tre anni tengano sinodi diocesani per decidere de' casi di
coscienza e delle controversie. Risiedano nella loro diocesi, o se ne
affidarono l'amministrazione a persone probe, la visitino almeno ogni
anno per riconoscerne i bisogni e sindacare i costumi del clero. Morendo
non dimentichino che la Chiesa da essi amministrata ha diritto alla loro
riconoscenza: e vogliano modesti funerali, giacchè il bene che lasciano
appartiene ai poveri[296].

Fra altri punti vi si trattò di uno, tanto nuovo quanto importante, la
stampa; la forza più potente e lo stromento più formidabile, dopo la
parola, che Dio ponesse a disposizione dell'uomo. I papi ne aveano
favorito la diffusione, come dicemmo, e Alessandro VI (_Inter
multiplices_) riconosceva «sommamente utile che quanto concerne le sane
cognizioni e la sana morale sia messo in luce mediante caratteri e
lettere che fissano la verità in modo da porla sotto gli occhi degli
uomini più lontani nel tempo e nello spazio». Ma presto e letterati e
principi si accorsero che, quanta edificazione, tanto pericolo potea
venirne alla fede, al costume, all'onoratezza. Pertanto il concilio
decretò: «La stampa, per favore divino perfezionatasi ai nostri giorni,
è opportunissima a esercitare gl'intelletti, e formare eruditi, de'
quali godiamo che abbondi la Chiesa. Pure udiamo lamentare che molti
imprimano opere, contenenti errori e dogmi perniciosi, e ingiurie a
persone anche elevate in dignità; di modo che i libri, invece di
edificare, guastano e la fede e i costumi. Affine dunque che un'arte
felicemente trovata a gloria di Dio, a incremento della fede ed a
propagazione delle scienze utili, non divenga pietra d'inciampo ai
fedeli, e volendo che essa prosperi tanto più, quanto più vigilanza vi
si apporterà, stabiliamo che nessuna opera si pubblichi se prima non sia
riveduta dal maestro del sacro palazzo o dai vescovi, che vi metteranno
la propria firma gratuitamente e senza indugio». Erano ripari che una
barbarie mascherata doveva poi spezzare, per lasciar le verità più
venerabili come i diritti più sacri in balìa alle codarde speculazioni
d'una ciurma vilissima, sicchè un pontefice dovesse esclamare: «Siam
compresi d'orrore nel vedere da quali mostruose dottrine, anzi da quali
portentosi errori ci troviamo inondati per quel diluvio di libri,
d'opuscoli, di ogni genere scritti, la cui deplorabile eruzione sparse
l'abominazione sulla faccia della terra» [297].

Intanto Leone X a Bologna (1515) con Francesco I conchiudeva un
concordato, che derogava molti privilegi che la Corte francese
pretendeva nelle elezioni de' prelati secondo la prammatica sanzione;
concordato che, come nuovo trionfo della Chiesa romana, subito venne
approvato dal concilio Lateranese.

Parve dunque avere questo ottenuto il suo intento, difatto lo scisma,
regolata l'obbedienza della Francia, promosse molte riforme, talchè si
sciolse il 16 marzo 1517. Ma il cardinale De Vio generale de' Domenicani
sentiva il turbine in aria, onde insisteva perchè i prelati non si
separassero.

Chi non potrà negare questi fatti ripeterà quella poltrona frase de'
nostri giorni, «Troppo tardi».


NOTE

[286] Perfino Voltaire, il calunniatore per eccellenza, rimprovera il
Guicciardini d'avere _ingannato_ l'Europa intorno alla morte di
Alessandro VI, e d'aver _troppo creduto all'odio suo_. Così nella
_Dissertazione sulla morte di Enrico IV_, dove alle, non asserzioni, ma
insinuazioni del Bembo, del Giovio, del Tommasi, del Guicciardini oppone
le ragioni del buon senso; l'aver il papa 87 anni, l'esser ricchissimo,
il convenirgli di tenersi amici i cardinali, anzichè inimicarseli con un
avvelenamento clamoroso: infine il non farne parola quel ciarlatano di
Burcardo.

[287] Ratti, _Della famiglia Sforza_, 283.

[288] Giornale di Paride Grassi, nº 48.

[289] Eccitarono la bile di Ulrico di Hutten le imprese di Giulio II.

    _Hoc mens illa hominum, partim sortita Deorum,_
    _Et pars ipsa Dei patitur se errore teneri?_
    _Ut scelere iste latro pollutus Julius omni,_
    _Cui velit occludat cælum, rursusque recludat_
    _Cui velit, et possit momento quemque beatum_
    _Efficere aut contra, quantum quiscumque bene egit,_
    _Et vixit bene, si lubeat, detrudere possit_
    _Ad stygias pœnas, et Averni Tartara ditis,_
    _Et quod non habet ipse, aliis divendere cælum..._
    _Et nunc ille vagus sparsit promissa per orbem_
    _Qui cedem et furias, scelerataque castra sequantur_
    _Se duce, ut his cælum pateat. Qua fraude, tot urbes_
    _Et tot perdidit ille duces, tot millia morti_
    _Tradidit, et pulsa induxit bella acria pace,_
    _Tranquillumque diu discordibus induit armis_
    _El scelere implevit mundum, fas omne nefasque_
    _Miscuit. . . . . . . . . . . . . . . . . . . ._
    _Naufraga direpti finxit matrimonia Petri_
    _Vindice se bello asserere, atque ulciscier armis._

[290] N'ebbero dispiacere tutti i pii. _Qua in re adversos pene habuit
cunctorum ordinum homines, et præsertim cardinales, non quod novam non
cuperent basilicam magnificentissimam extrui, sed quia antiquam toto
terrarum orbe venerabilem, tot sanctorum sepulcris augustissimam, tot
celeberrimis in ea gestis insignem, funditus deleri ingemiscant_.
Panvinio ap. FEA, Nota intorno a Raffaello, 41.

[291] _Cupientes, quatenus nobis ex alto promittitur, ea jam nimium
invalentia mala corrigere, ac pleraque in pristinam sacrorum canonum
observantiam reducere_. Sessio X, bulla reformationis.

[292] LABBE, _Concil_., tom. XIV, 232.

[293] Sessione VII.

[294] Sessione XI.

[295] _Mandantes omnibus ut evangelicam veritatem et sanctam scripturam,
juxta declarationem, interpretationem et ampliationem doctorum, quos
ecclesia vel usus diuturnus approbavit, legendosque hactenus recepit, et
in posterum recipiet, prædicent, explanent: nec quidquam ejus proprio
sensui contrarium aut dissonum adjiciant, sed illis semper insistant quæ
ab ipsius sanctæ scripturæ verbis et præfatorum doctorum
interpretationibus, rite et sane intellectis, non discordant_.

[296] Vedasi tutta la Sessione IX.

[297] Enciclica _Mirari vis_ di Gregorio XVI. Queste precauzioni non
erano ignote all'antichità pagana. Valerio Massimo (Lib. VI, cap. 3)
dice che, avendo Archiloco pubblicato poemi che offendeano il pudore,
gli Spartani li fecer portar lontano dalla città, per impedire una
lettura più atta a corrompere i costumi che ad ornar gli intelletti.
Cicerone diceva di certi poeti: «Vedete quai mali cagionano?
Ammolliscono le anime; spengono ogni impulso alla virtù». Lo stesso
Ovidio dissuadeva dal leggere i libri osceni: _Eloquar invitus; teneros
ne tange poetas_. M. Ulpiano poi è detto che, quando in un legato
testamentario si trovino libri pericolosi, il giudice deve, sopra il
parere d'uom prudente e onesto, far disparire ciò che diverrebbe
sorgente di corruzione. Altri esempj sono a vedere in GRETSER, _De jure
et more prohibendi libros malos_. E vedasi pure F. A. ZACCARIA, _Storia
polemica della proibizione dei libri_. Roma 1797.



DISCORSO XIII.

LEONE X. MAGNIFICENZA PROFANA DEL PAPATO.


Al congresso che or dicemmo di Bologna tra Leon X e Francesco I, oltre i
consueti omaggi del baciare i piedi, tenere la staffa, condurre a
briglia il cavallo del papa, e fin sostenergli lo strascico, il re di
Francia stette inginocchiato per terra tutto il tempo della messa, nella
quale Leon X amministrò il sacrosanto pane ai francesi gentiluomini di
esso. E poichè di questi la folla era soverchia, un uffiziale esclamò:
«Santo Padre, giacchè non posso nè confessarmi al vostro orecchio, nè
comunicarmi dalle vostre mani, m'accuserò in pubblico d'avere combattuto
di tutta possa contro Giulio II». Il re soggiunse di trovarsi nel
medesimo caso, scusandosene perchè quel pontefice era il più avverso che
mai fosse stato alla loro nazione. Tutti i Francesi gridaronsi colpevoli
di altrettanto, e il papa gli assolse tutti.

Quel re cavalleresco, per cui combattevano i cavallereschi Gastone di
Foix e Bajardo senza paura e senza rimproveri, avea rese al papa Modena
volontariamente, Parma e Piacenza per forza; di modo che il dominio
temporale comprendeva le legazioni di Perugia (Umbria), Romagna,
Bologna, Spoleto colla marca d'Ancona, e il ducato di Benevento chiuso
nel napoletano; insomma le più belle contrade d'Italia dal Po a
Terracina; contrade pingui, benchè alcune infette dalla malaria;
schermite da attacchi stranieri, arricchite per la produzione dei
terreni, delle miniere, dell'allume; pel traffico, principalmente ad
Ancona; per l'aurea affluenza di forestieri. Il papa traeva da' suoi
Stati non più di diciottomila scudi d'oro, eppure potea levarvi
cinquemila pedoni e quattromila cavalli, oltre quelli dovutigli dai
vassalli, e dodici galee: e l'autorità, ormai organizzata col reprimere
i feudatarj e i tirannelli delle varie città, non sentivasi nè
impacciata, nè invisa, perchè lasciava la libera attività ai Comuni.

È ben vero che Alessandro VI, volendo sottomettere i tirannelli della
Romagna, avea di ciascun di costoro fatto un nemico, che nel principe
della Romagna bestemmiava il capo della Chiesa: poi Giulio II colle
superbe pretensioni aveva eccitato e serj e beffardi contrasti: ma
impacciavano poco più che le opposizioni de' moderni nostri parlamenti.
Inoltre il papa possedeva il Contado Venesino in Provenza e la città di
Avignone; i re di Napoli e Sicilia faceangli omaggio della loro corona,
ch'egli impediva fosse unita all'impero per non mettere a repentaglio
l'indipendenza italiana. Chi potrà poi calcolare il denaro che a Roma
proveniva da tutto il mondo per dispense, spogli, riserve, aspettative,
annate di benefizj[298], spedizioni di bolle e investiture, elezione di
quasi tutti i prelati?

E qual Roma fosse quando stava al vertice della società cristiana colle
sue memorie e le sue grandezze; e quasi la seconda patria di tutti, il
punto di partenza della storia d'ogni paese, si argomenti dal veder
come, anche adesso che rimase indietro dalla civiltà convenzionale
d'altre contrade, mostri originalità di costumanze e di caratteri,
alterezza nel popolo, dignità fin nel depravamento, e insieme devozione,
amor di famiglia, ingenuità; un complesso inesplicabile, per cui un
esercito vincitore o la rivoluzione demolitrice s'arrestano davanti alle
eterne sue mura. Che doveva essere allora, quando vigeano le idee del
medioevo? Sapeasi che da Roma erano partiti i missionarj per conquistare
al cristianesimo e alla civiltà tutta Europa e il nuovo mondo; di là i
decreti che fransero la schiavitù; di là elemosine per ogni bisogno,
rese possibili dal colarvi rendite d'ogni paese.

L'anno santo del 1500 fu celebrato con una pompa, che mai la maggiore;
il papa di propria mano smurò la porta santa, dopo che per tre giorni
erano sonate a festa tutte le campane: di Francia, di Germania, di
Boemia innumerevoli vennero a domandare l'assoluzione dalle censure
incorse per avere adottato le eresie degli Ussiti ed altre; per bastare
ai devoti che accorreano alla basilica Vaticana dovette aprirsi la via
che ancor si chiama Borgonuovo; e il continuato concorso indusse ad
allungare il tempo delle indulgenze. Derivano da quella occasione le
maggiori solennità che tutt'ora accompagnano quel rito, e la
consuetudine di concederlo l'anno seguente a tutto l'orbe cattolico.

Scoprivansi intanto un nuovo varco all'estremo Oriente e l'America e le
isole Oceanine; e il primo oro che se ne trasse veniva, quasi primizia
della divinità, mandato a Roma che l'adoprava a indorare la soffitta
della basilica Liberiana: col secondo viaggio di Cristoforo Colombo
spedivasi una colonia di Benedettini, che annunziassero la fede ai
popoli nuovi; ben presto Alessandro Giraldini d'Amelia era inviato primo
vescovo a San Domingo, e alle popolazioni scoperte facevasi
un'intimazione ove, dichiarata la fratellanza delle genti come uscite da
un solo ceppo, esponevasi che Dio aveva costituito san Pietro qual capo
della stirpe umana, «sottoposto l'intero mondo alla giurisdizione di
lui, ordinatogli di piantare sua sede a Roma, e datogli podestà di
estendere l'autorità sua su tutte le altre parti del mondo, e governare
e giudicare tutti i Cristiani, Ebrei, Mori, Gentili e di qualunque fede;
ed è chiamato papa, che vuol dire gran padre, tutore, ammirabile, il che
durerà per tutti i secoli de' secoli».

E perchè tra le due nazioni scopritrici potea nascere conflitto sul dove
cominciassero i dominj dell'una e finissero quelli dell'altra ne' paesi
trovati, fu deferita la gran quistione al papa, ed egli di propria mano
sulla mappa tracciò una linea meridiana, assegnando alla Spagna i dominj
a ponente, e al Portogallo quelli a levante di essa[299]. Sublime
immagine, il pontefice che divide il mondo per impedire la guerra, o
che, dietro agli audaci scopritori, agli avidi trafficanti, ai
sanguinarj conquistatori invia una milizia inerme che missiona,
converte, battezza, incivilisce. E al tempo di Leon X venivano a Roma
poveri Domenicani per denunziare al padre de' fedeli i barbari
trattamenti che i conquistatori faceano soffrire agli Indiani,
reclamando per questi i diritti di fratelli di Cristo.

Rinnovatrice del sacro romano impero, che, nella comune soggezione alla
legge divina, dovea combinare le due potestà; antemurale all'invasione
dell'Islam; cultrice della morale eterna, la santa sede avea potuto
salvare dalle regie libidini l'inviolabilità del matrimonio e la dignità
della famiglia; consolidare la sacerdotale disciplina, sdruscita dal
contatto e dalla mistura coi signorili interessi, derivante dalla
feudalità: ma dal costituire sovra base solida e riconosciuta le
relazioni fra Stato e Stato, e fra lo Stato e la Chiesa fu impedita
dalla gerarchia feudale, dalle comunali oligarchie, dalle consuetudini
nordiche dominanti. Restava dunque nell'attuazione esterna difettivo
quel cristianesimo applicato, onnipossente nella vita, profondamente
umano, fautore dell'arte, affettuosamente comunicabile, amico della
povertà, dell'obbedienza, della fedeltà, che nel mondo riconosce il
governo della providenza, ispira agli uomini fiducia degli uni negli
altri e in Dio, credendo che il cibo mortale possa convertirsi in pane e
vino d'eterna vita.

La Chiesa non soffogava l'attività del pensiero e l'esercizio della
ragione, ma tutelava i dogmi, e ben presto si conobbe che con quelli
tutelava la verità e il diritto. Però di tutte le istituzioni è nemica
inevitabile la diuturnità: dell'antica civiltà che il cristianesimo avea
sanata, dimenticaronsi gli sconci, e parve bello il ritornarvi; il dogma
tenne saldo, ma l'autorità non bastò a impedire le evoluzioni sociali, e
dall'età credente si passò all'età politica, per quanto Roma avesse
cercato ostarvi coll'accentrare i suoi poteri.

Ora sulla cattedra di san Pietro sedeva Leon X, rampollo di famiglia
mercadante, ricchissima, abituata allo spendere largo, alle
splendidezze, a proteggere le scienze, le lettere, egli stesso, scolaro
del Poliziano, del Calcondila, del Bolzani, nel fiore degli anni, colto,
amabile, agognante alle voluttà dello spirito, e a vedersi attorno
faccie contente, e udire da tutti acclamare la beatitudine del suo
tempo. Pel suo ingresso si spendono centomila scudi in addobbare le vie;
altrettanti in sussidj ai poveri. Avvezzato alle Corti e ai campi, male
si rassegna al contegno ecclesiastico: sconcerta il suo cerimoniere
uscendo senza rocchetto e talvolta fino in stivali; Cervetri e la villa
Magliana sul Tevere lo vedono a cavallo cacciare per giornate intere, a
pescare Bolsena; ogni anno chiama da Siena la compagnia comica dei Rozzi
per rappresentare commedie; fa musica, e accompagna a mezza voce le
arie: tiene per convivi abituali un figliuolo del Poggio, un cavaliere
Brandini, un frà Mariano che in un boccone inghiotte un colombo, e sorbe
fino quaranta ova: altri buontemponi che inventano celie e piatti
bizzarri, e che sopportano qualunque tiro dal papa e dai suoi: ad un
fiorentino de' Nobili, detto il Moro, «gran buffone e ghiotto e
mangiatore più che tutti gli altri uomini, per questo suo mangiare e
cicalare il papa avea dato d'entrata d'uffizj per ducento scudi l'anno»
(SER CAMBI). Sopra cena, tratteneva sei o sette cardinali dei più
intimi, coi quali giocare alle carte, e guadagnasse o perdesse, gettava
manciate di fiorini agli spettatori.

Ama le lettere, ma invece di rispettarle come matrone, le accarezza come
bagasce; dichiara arcipoeta Camillo Querno improvisatore, gran
mangiatore, gran bevitore, che gli si era presentato col poema
dell'_Alessiade_ di ventimila versi, e di sue lepidezze gli ricreava la
mensa. Vede alcuno preso da vanità? Esso gliela gonfia con onori e
dimostrazioni, finchè divenga il balocco universale, come avvenne col
Tarascon suo vecchio secretario, cui fece persuaso fosse improvisamente
divenuto gran musicante, onde si pose a stabilire teoriche stravaganti,
e finì pazzo. Così il Baraballo abbate di Gaeta a forza di encomj fu
indotto a credersi un nuovo Petrarca, e Leone volle incoronarlo; e
fattolo mettere s'un elefante donato da Emanuele di Portogallo, con la
toga palmata e il laticlavio de' trionfanti, lo mandò per Roma, tutta in
festa e parati, e non guardossi a spese acciocchè il poetastro salisse
in Campidoglio ad onori che l'Ariosto non ottenne. Altre beffe usava a
Giovanni Gazzoldo, a Girolamo Britonio poeti, all'ultimo de' quali fece
applicare solennemente la bastonata per avere fatto de' versi cattivi.

Questi e simili spassi del papa sono descritti da Paolo Giovio vescovo
di Nocera, con un'ilarità, che anch'essa è caratteristica in un prelato;
com'è notevole la conchiusione a cui riesce, cioè ch'essi sono degni di
principe _nobile e ben creato_, sebbene gli austeri li disapprovino in
un papa.

A quel tipo informavasi la Corte. Il cardinale Bibiena si fece
fabbricare sul Vaticano una villetta, dipinta voluttuosamente da
Raffaello; sovrantendeva alle splendidezze della Corte, ai carnasciali,
alle mascherate; persuase il papa a fare rappresentare la _Mandragora_
del Machiavelli e la propria _Calandra_, alle cui scene da postribolo
assistevano Leone in palco distinto[300], Isabella d'Este e dame delle
più eleganti d'Italia. Chi pari a costui per trarre a far pazzie i
meglio assennati?[301]. Si congratulava che Giuliano De' Medici menasse
a Roma la principessa sua moglie, e «la città tutta (dice) or lodato sia
Dio, che qui non mancava se non una Corte di madonne, e questa signora
ce ne terrà una, e farà la Corte romana perfetta»[302].

Accanto a loro, monsignore Giovanni Della Casa componeva capitoli di
mostruosa lubricità, e domandava il cappel rosso non per le virtù
proprie, ma «in mercè della perpetua fede e della sincera ed unica
servitù che avea sempre dimostrata ai Farnesi». E questi, e il
Bembo[303], e il cardinale Ippolito d'Este, e tropp'altri ostentavano
figliuoli.

Così la società ecclesiastica scherzava coll'irruente scetticismo, nè
accorgevasi di scavare l'abisso sotto i proprj piedi; non volevasi che
nessuna apprensione turbasse le feste dell'arte, siccome i Coribanti
attorno a Giove danzavano perchè non se n'udissero i vagiti; e
l'autorità credeva attingere forza dalla bellezza, appoggiandosi a
Rafaello e Michelangelo, all'Ariosto e al Bembo.

Tipo di quel raffinato epicureismo e di quel paganizzamento della
coltura, che altrove imputammo al suo tempo, Leone X nel fulgore del
bello offuscava il sentimento del giusto. «Avendo l'Ariosto fatto libri
in lingua e verso vulgari, col titolo d'_Orlando Furioso_, in maniera
scherzevole, ma con lungo studio e riflessione e molte veglie attesa la
splendidezza del suo ingegno, e la devozione verso la sua famiglia»,
trova bene ch'e' se n'assicuri il guadagno, e possa altre volte
pubblicarlo migliorato[304]: sicchè minaccia di scomunica chi
ristampasse quel poema, del quale accetta la dedica, come
dell'_Itinerario_ di Rutilio Numaziano, uno degli ultimi pagani
accanniti contro il nascente cristianesimo; aggradisce le annotazioni
d'Erasmo al Testamento Nuovo, che poi furono messe all'Indice, e la
dedica del libro di Hutten sulla donazione di Costantino, dal quale
Lutero disse avere attinto tutto il suo coraggio; e concede ad Aldo
Manuzio il privilegio per la stampa delle costui insolenti _Epistolæ
obscurorum virorum_.

Quell'idolatria pel bello e per una letteratura tutta di sensi non di
spirito, era secondata da tutta la Corte. Quando recitava versi
l'_unico_ Accolti, chiudeansi le botteghe di Roma: quando nel giardino
di Tito si disotterrò un gruppo, che il Sadoleto riconobbe tosto pel
Laocoonte, descritto da Plinio, sonarono tutte le campane, e fu tratto
per Roma con cerimonie serbate ad auguste reliquie, fra ghirlande e
musiche e canti di poeti. Guerrieri e artisti, prelati e principi,
cortigiane e santi concorreano a porgere occasione di feste. Giovanni
Coriccio, ogni giorno di sant'Anna teneva in sua casa una gara di poeti,
in lode di questa santa, di sua figlia e di Cristo. L'Ariosto si
rallegrava perchè in quella Corte

                al Bembo, al Sadoleto, al dotto
    Giovio, al Cavallo, al Blosio, al Molza, al Vida
    Potrà ogni giorno e al Tibaldeo far motto[305].

Ivi Paolo Giovio, bugiardo gazzettiere de' fatti contemporanei, e il
Valeriano indagatore de' fasti egizj: ivi il Castiglione e il Della
Casa, precettori di belle creanze. Celio Calcagnino scriveva latino e
greco, leggeva nell'originale Omero e i profeti, e sosteneva che il
cielo è fermo e la terra si muove. Teseo Ambrogio dei conti d'Albonese,
canonico di San Giovanni Laterano, parlava il greco come Musuro di Creta
e il latino come Erasmo, oltre che da solo apprese tutte le altre
lingue, e seppe servirsene cogli accorsi al concilio di Laterano;
insegnò il caldeo a Bologna, e da quella lingua tradusse la liturgia
orientale; meditava una grammatica poliglotta, e preparò molti lavori,
che andarono poi dispersi nel sacco di Roma.

Leone manda Fausto Sabeo, detto cacciatore di libri, a rintracciarne
nelle badie di Francia, di Germania, di Grecia, al qual uopo spedisce
pure in Germania e in Danimarca Giovanni Heytmers, e nelle provincie
venete il Beazzano: lodi e privilegi dà a Francesco de Rossi ravennate,
che andò a raccoglierne di greci ed arabi in Oriente e specialmente
nella Siria[306]: paga cinquecento zecchini un manuscritto di Tacito,
più completo di altro ch'erasi stampato a Milano, e promette larga
cortesia a chi gli porterà opere antiche inedite: fonda un collegio
greco coll'opera di Demetrio Lascari, Benedetto Lampridio e Favorino.

Sono ricordate ricche biblioteche dei cardinali Sadoleto, Bembo, Pio da
Carpi, dov'era il Virgilio riveduto nel secolo V dal console Rufo; del
Grimani, il cui breviario oggi è il giojello della Marciana di Venezia.
Il Chigi, appaltatore delle miniere d'alume e protettore di Rafaello,
aveva montato una stamperia, preseduta dal Lascari, donde uscirono le
tragedie di Sofocle, gli Scolj d'Omero, gli opuscoli di Porfirio, il
Tolomeo, il Pindaro, il Teocrito, ed altre edizioni oggi ancora
apprezzatissime.

L'italiano ormai s'adoprava generalmente invece d'un latino, che
stomacava i bongustai, dacchè eransi studiati i classici. Personaggi
abili alle meditazioni filosofiche quanto alle fantasie poetiche,
maneggiavano l'analisi e il calcolo come il dibattimento e gli affari; e
a tutte le conquiste della filologia e delle scienze univano un gusto
squisito. Roma era insomma il centro della civiltà, e a buon dritto lo
Zanchi poteva cantare:

    _Omnia romanæ cedunt miracula terræ,_
      _Natura hic posuit quidquid ubique fuit._

Vero è bene che gli studj ecclesiastici erano assai meno careggiati che
i letterarj; e lo stesso cardinale Pallavicini imputa Leone X d'averli
negletti; pure nel ruolo dell'archiginnasio romano, pubblicato da
monsignore Gaetano Marini, bella parte tiene la teologia con professori
illustri e ben retribuiti; da Leone fu fatto stampare il Pagnini; a lui
è dedicata la Bibbia poliglotta del cardinale Ximenes; a lui la
grammatica ebraica di Guidacerio calabrese, a lui la traduzione
dall'arabo della filosofia mistica d'Aristotele per Francesco Rosi
ravennate; a lui tre opere di Paolo di Middleburg, di Basilio Lapi, di
Antonio Dulciati sulla riforma del calendario: nella reggia stessa di
Leon X troviamo un cardinale Cajetano, teologo de' più profondi; un
Egidio, ch'egli andò a cercare in una selva di Viterbo per decorarlo
della porpora, un Paolo Emilio Cesio, che diceva essere meglio mancare
del necessario che lasciare soffrire gli altri; un Bonifazio Ferreri di
Vercelli, che eresse a sue spese un collegio a Bologna; il Sadoleto che
spesso loderemo; il Giberti, sornomato padre de' poveri e de' letterati.

Che se Leone bacia l'Ariosto e festeggia il Bibbiena, indica però al
vescovo Vida il soggetto della _Cristiade_; col Sannazzaro, cantore del
_Parto della Vergine_, si congratula perchè possa riuscire un David che
colpirà Golia; riconosce l'attitudine del veronese Flaminio, e lo fa
studiare, sicchè poi verseggiò in latino i salmi ben meglio del francese
Marot.

Anche i sommi artisti venivano adoprati a fare santi e madonne, erigere
ed ornare chiese. Michelangelo, vigorosa individualità, gemente sulle
miserie del suo tempo, e voglioso di «non vedere, non udire finchè
duravano il danno e la vergogna», ribellasi alle tradizioni accademiche,
e vuol ogn'opera sua riesca singolare, originale; nudi che affrontano il
pudore, sibille virili, profeti ideali, la maggiore cupola del mondo, la
sublimità della scultura nel Mosè. Sebastiano del Piombo ritraeva
sentitamente la santità; a un punto inarrivabile d'espressione e di
bellezza era sorta la pittura con frate Angelico, e con Raffaello, che,
per ordine di Giulio II, nella stanza della segnatura dipinse un
grandioso poema, la vita intellettuale nelle sue quattro manifestazioni
di teologia, filosofia, poesia, giurisprudenza; nella prima sovratutto
esprimendo l'apoteosi del Corpo di Cristo, circondato da quanti furono
più insigni conoscitori e maestri della scienza divina; e fu Leone X
stesso che gli commise il giudizio di Leone III, la coronazione di Carlo
Magno, la rotta dei Saraceni a Ostia, il miracolo di Bolsena, l'incendio
di Borgo. Avesse voluto divenire cardinale, avesse voluto sposare una
nipote di cardinale, Rafaello il poteva: ma in verde età morì, e nel
testamento lasciava mille scudi onde celebrare dodici messe l'anno per
l'anima sua; lascito assicurato sopra una casa in via de' Catinari, che
esistette fino al 1805, quando, nelle vicende consumato il capitale,
essa fu ricostruita.

Oltre che questi artisti erano solenne protesta contro la riforma
iconoclasta de' Tedeschi, ci provano che non mancavano nè studj serj, nè
sentimento religioso. Di Leon X vedemmo le cure date al concilio e alla
riforma della Chiesa: s'applicò a spegnere gli avanzi degli Ussiti in
Boemia; propagava il cristianesimo fra gli ancor barbari Moscoviti;
cercava revocare dallo scisma i Maroniti e gli Abissini; fondava nuove
chiese in America; il lungo e indecoroso litigio sui Monti di Pietà, se
fossero usura od opere di misericordia, terminò dichiarando non vedervi
nulla d'illecito od usurario; introdusse la commovente liturgia della
settimana santa nel palazzo pontifizio. Con limpida integrità conferiva
i benefizj, raccomandando a' suoi favoriti non lo inducessero a
concedere grazie di cui dovesse pentire e vergognare, e piuttosto ai
supplicanti soddisfaceva colla propria borsa. Sobrio sempre fra tante
squisitezze, fra poeti e naturalisti che celebravano, e cuochi che
raffinavano le leccornie della sua mensa, astenevasi da carni il
mercordì, al venerdì mangiava solo legumi e verdura, al sabato lasciava
la cena, sempre beveva solo acqua. Ce lo attesta il Giovio, che nel
lodarlo ne infamò i costumi[307], mentre Lutero, suo gran denigratore,
non trovava da appuntarli.

Quando si crede vivamente, confondesi la pietà coll'entusiasmo del
bello; ma più non si era a quelle credenze ingenue, e Leone, abbagliato
dallo splendore del bello, credette che l'immaginazione e il cuore
abbiano tanta parte nell'intelligenza umana quanto la ragione: pensò
forse quel che altri sostennero, che la poesia e l'arte in teodicea
valgano più che la filosofia; colle dignità ecclesiastiche retribuiva
non insigne zelo ed esemplare bontà, ma spesso l'ingegno, comunque
applicato. S'avventurò ad una politica di capriccio, senza concetti
elevati; come un nuovo ricco sprecò nella pace i tesori accumulati da
Giulio II in mezzo alle guerre, ne cercò di nuovi col vendere
indulgenze, o coll'imporre tasse gravose; impegnò le gioje di San
Pietro, vendette le statue dei dodici apostoli regalategli dall'Ordine
teutonico: nominò ad un tratto trentun cardinali, fra cui due figli
delle sue sorelle Orsini e Colonna, mentre da un pezzo si avea cura di
non crescere con dignità la potenza pericolosa di quelle famiglie;
inventò tante cariche da vendere, che a quarantamila zecchini elevò le
spese annue della Chiesa; e tutto avea consumato quando morì.

E morì in fresca età, e corse un epigramma che diceva lui non avere
presi in quell'estremo i sacramenti, perchè gli avea venduti[308]. Non
esageriamo coi detrattori, ma neppure accettiamo certe apologie[309], di
cui troppo si compiacquero alcuni nostri contemporanei per ricolpo al
calunnioso vilipendio dei padri nostri. Buon signore, papa e principe
non lodevole, potea stare su qualunque trono più competentemente che su
quello di Roma; potea succedere al magnifico Lorenzo, non a Pietro
Bariona; vedendo nella santa sede non una cattedra ma un trono, non un
faro per illuminar il mondo, ma un piedistallo alla personale grandezza;
meno pronto a richiamare i traviati al Calvario, che ad invitare le
divinità dell'Olimpo ad esilarare il Vaticano.

E questa reviviscenza del paganesimo cercò realizzarsi durante la
vacanza. Scoppiata peste furiosa, la più parte de' cardinali fuggirono
di Roma, dove il guasto era cresciuto dal disordine che suol gittarsi
durante l'interregno: e il popolo sbigottito rompeva alle violenze. Un
tale Demetrio spartano volle rinnovare cerimonie della superstizione
antica, e coronato un bove, e legatogli un sottile filo alle corna, lo
condusse per Roma, poi nell'anfiteatro lo sagrificò. Non era che una
delle ciarlatanerie, ripullulanti ne' grandi disastri, e costui
secondava l'andazzo col ridestare memorie gentilesche; ma altri vollero
vederci operazioni magiche e culto ai demonj; sicchè il popolo, temendo
non ne restasse aggravato il male pubblico, volle solenni espiazioni: e
a folla uomini e fanciulli mezzo nudi passavano in processione da Chiesa
a Chiesa flagellandosi e gridando misericordia, seguiti da lunghissime
file di matrone, con ceri alla mano, anch'esse piangenti e supplicanti.

Quasi per contrapposto ai colti epicedj de' suoi cortigiani, uno di quei
predicatori popolari e grotteschi che dicemmo, frà Callisto da Piacenza,
ch'era de' meglio lodati, sermonando a Mantova il 1537 sul testo
_Seminastis multum et intulistis parum_, prorompeva: «Povero papa Leone,
che s'aveva congregato tante dignitadi, tanti tesori, tanti palazzi,
tanti amici, tanti servitori; e in quell'ultimo passaggio del pertugio
del sacco, ogni cosa ne cadde fuori, e solo vi rimase frate Mariano, il
quale per essere leggero (ch'egli era buffone) come una festuca, rimase
attaccato al sacco. Arrivato quel povero papa al punto di morte, di
quanto e' s'avesse in questo mondo nulla ne rimase, eccetto frate
Mariano, che solo l'anima gli raccomandava dicendo, _Ricordatevi di Dio,
santo padre_; e il povero papa, in agonia constituto, a meglio che potea
replicando dicea, _Dio buono, o Dio buono!_ e così l'anima rese al suo
Signore. Vedi se egli è vero che _qui congregat merces, ponit eas in
sacculum pertusum_».


NOTE

[298] Le annate sono usanza tanto antica, che nel codice Giustinianeo,
Nov. CXXIII, c. 16, si legge: _Neque clericum cujuscumque gradus dare
aliquid ei a quo ordinatur, aut alii cuilibet personæ permittimus; solas
autem præbere eum consuetudines iis qui ordinantium ministrantes sunt,
ex consuetudine accipientibus, unius anni emolumenta non
transcendentem_.

[299] Nel Museo Borgiano conservasi quella carta geografica, colla
_linea vaticana_ tirata di mano propria d'Alessandro VI.

[300] Fu tratta ultimamente dagli archivj di Modena una lettera del
segretario ducale Paulucci, che agli 8 marzo 1519 da Roma scriveva al
duca di Ferrara, descrivendogli una comedia datasi giorni prima alla
Corte papale. Leon X stava egli stesso alla porta, colla sua benedizione
indicando quei che poteano entrare. Dappoi si collocò sopra un'alta
sedia fra un anfiteatro di spettatori, e si recitarono i _Suppositi_
dell'Ariosto. I Francesi ne restarono scandolezzati: il nunzio Spinola
«si dolea che alla presenza di tanta maestà si recitassero parole che
non fossero oneste»: ma il papa guardava col suo occhialetto, e molto
rideva. Vi furono concerti, moresche, cena: caccia di tori, ove tre
uomini rimasero morti e quattro feriti. Un frate espose un'altra
comedia, ma essendo spiaciuta, il papa fece balzar quel frate sopra una
coltre, e dar un gran colpo sul tavolato della scena; poi gli fece
tagliar i sostegni de' calzoni e calarli fin a' calcagni, e così montar
a cavallo, dove fu battuto in modo, che dovette star molto a letto.
Questa «moresca fece assai ben ridere il papa». Vedi _Atti e memorie
della Deputazione di storia patria per le provincie Modenesi e
Parmensi_. Vol. I, p. 128.

[301] _Accesserat et Bibienæ cardinalis ingenium, cum ad arduas res
tractandas peracre, tum maxime ad movendos jocos accomodatum. Poeticæ
enim et etruscæ linguæ studiosus, comœdias multo sale, multisque
facetiis refertas componebat, ingenuos juvenes ad histrionicam
hortabatur, et scenas in Vaticano spatiosis in conclavibus instituebat.
Propterea, quum forte_ Calandram _a mollibus argutisque leporibus
perjucundam per nobiles comœdos agere statuisset, precibus impetravit ut
ipse pontifex e conspicuo loco despectaret. Erat enim Bibiena mirus
artifex hominibus ætate vel professione gravibus ad insaniam
impellendis, quo genere hominum pontifex adeo oblectabatur, ut laudando,
ac mira eis persuadendo donandoque, plures ex stolidis stultissimos et
maxime ridiculos efficere consuevisset_. GIOVIO.

[302] Lett. di Principi a Principi, vol. I, 16.

[303] Nella _Raccolta d'opuscoli scientifici e filologici_ del Calogerà,
tomo XXIX, Venezia 1743, si trova un'_apologia del cardinale D. Bembo_,
fatta dall'abate G. B. Parisotti, principalmente difendendolo dal
Lansio, che nella _Orazione contra Italiam_ (Amsterdam 1637) avea detto
che _epistolas omnes Pauli palam condemnavit, easque, deflexo in
contumeliam vocabulo,_ epistolaccias _est ausus appellare_.

[304] _Cum libros vernaculo sermone et carmine, quos_ Orlandi Furiosi
_titulo inscripsisti, ludicro more, longo tamen studio et cogitatione,
multisque vigiliis confeceris, easque conductis abs te impressoribus ac
librariis edere cupias, cum ut cura diligentiaque tua emendationes
exeant, tum ut si quis fructus ea de causa percipi possit, is ad te
potius, qui conficiendi laborem tulisti, quam ad alienos deferatur,
volumus et mandamus ne quis, te vivente, eos tuos libros imprimere aut
imprimi facere, aut impressos venundare, vendendosve tradere ullis in
locis audeat, sine tuo jussu et concessione_.

[305] Sat. VII.

[306] SADOLETI, ep. 22 del lib. XVII.

[307] _Vita Leonis X_. Ci mancano le relazioni degli ambasciadori veneti
a Roma fino al 1533, ma ne' diarj di Marin Sanuto si dà il sunto di
esse. Leon X v'è sempre indicato come buono e pio, ma gaudente. «È
amator delle lèttere, dotto in umanità e giure canonico, e sopratutto
musico eccellentissimo: e quando canta con qualcuno, gli fa donare cento
e più ducati» (pag. 86 _Relazioni_; Firenze) «È dotto e amator di dotti,
buon religioso, ma vuol vivere e star sui piaceri, massimamente su
quelli della caccia» p. 64. «Dormiva molto tardi... andava alla messa,
dava udienza, stava a tavola e giocava volontieri a primiera. Digiunava
tre volte la settimana, mangiava una volta al giorno, a ore 21; il
mercore e il sabato mangiava cose quadragesimali... Si serviva molto di
domandar denaro a prestito; vendeva poi gli ufficj, impegnava le gioje,
gli arazzi del papato, e fino gli apostoli (i busti) per aver denari».

Curiose sono le particolarità che vi si esibiscono intorno ai cardinali,
tutte profane, e alcune anche peggio.

[308]

    _Sacra sub extrema si forte requiritis hora_
      _Cur Leo non potuit sumere, vendiderat_.

L'attribuirono al Sannazzaro.

[309] AUDIN, _Vie de Leon X_.



DISCORSO XIV.

I TEDESCHI A ROMA. ERASMO.


Ad ammirare questa splendida Roma, questo magnifico pontefice, questo
secolo d'oro, questa terra prediletta dalla natura[310], venivano
persone d'ogni paese; vi venivano dotti e curiosi, suntuosi e devoti;
chi aspirava a benefizj o ad onorificenze; chi volesse venerare le
reliquie di libere civiltà antiche, o quelle de' martiri; chi inebriarsi
de' godimenti, od ottenere perdonanza di gravi peccati. Nessuno
considerava compiti i suoi studj, se non li coronava con un viaggio in
Italia, dove assisteva alla restaurazione delle arti per mezzo
dell'imitazione, agli incrementi della scienza per opera del Mattioli,
del Cesalpino, dell'Aldrovandi, esploratori della creazione materiale,
del Fracastoro, del Falopio, dell'Eustachio, creatori dell'anatomia, fra
i concittadini del Colombo, del Cabotto, di Americo Vespucci. E tutti,
ma principalmente i Tedeschi, stupivano di quella libertà nella
discussione, dello scherzo, del dubbio su punti, altrove venerati in
silenzio; del vedere in vulgare insegnata la scienza, e fino tradotti i
libri santi.

La Germania colla sua conversione aveva contribuito grandemente a
consolidare il primato papale: indi col rivoltarsi contro Enrico IV
aveva ajutato ad effettuare il robusto concetto di Gregorio VII. Ma poi,
dal continuo mescolarsi di essa nelle vicende italiane era stata acuita
la naturale antipatia delle istituzioni e delle nature germaniche contro
le latine; e i nostri odiavano i Tedeschi come prepotenti, essi
disprezzavano noi come fiacchi, e nella superiorità dell'ingegno non
voleano riconoscere altro che furberia e mala fede.

La Germania strillava che tanto suo denaro fluisse a Roma[311], e viepiù
dacchè questa, postasi a capo della resistenza contro i Turchi, di nuove
imposte e decime doveva gravare per imprese che poi non sempre si
assumevano, non riuscivano a prospero fine. Enea Silvio Piccolomini, che
fu poi papa, ebbe a vergare molte lettere in proposito scusando i papi
per questa necessità di tener fronte al nemico comune: ma la dieta
d'Augusta nel 1510 levò alte querele sopra le esigenze pontifizie,
minacciando una generale rivolta contro il clero, se non vi si
riparasse.

Lo spirito latino che riunisce, e il germanico che separa, aveano
lottato incessantemente: e mentre quello avviava all'unità giuridica,
politica, religiosa, attuata anche nell'istituzione dell'Impero, questo
tendeva a separare, sia nei feudi, o nei Comuni, o nelle minute
signorie; e già pensava farlo nella religione, reluttando alla primazia
papale e all'accentramento romano. Che se l'opposizione religiosa in
Italia era ironica, beffarda, scettica, negava ma sottometteasi; in
Germania all'incontro procedea positiva, credente, collerica, e non
proponevasi solo di restaurare, ma di demolire per rifabbricare. Ai
nostri spettava il merito d'aver disonnato la ragione col pensiero,
colla libertà dell'arte, collo studio dei classici; ma la Germania,
dotata della curiosità scientifica, non del sentimento della bellezza
formale, apponeva ai nostri di cercare il risorgimento letterario, non
il filosofico; sprezzava l'arte italica, quanto gl'Italiani
vilipendevano la scienza tedesca: infelice divorzio, per cui questa
inarridì a segno da parere destituita d'ogni applicazione vitale, mentre
la letteratura nostra riducevasi a un trastullo, a uno svago dello
spirito. Nè aveano torto i Tedeschi quando la appuntavano di scostumata,
e Puyherbault diceva[312]: «A che buoni cotesti scribacchianti d'Italia?
Ad alimentare il vizio e la mollezza di cortigiani azzimati e di donne
lascive; a stimolare le voluttà, infiammare i sensi cancellare dalle
anime quanto v'ha di virile. Di molto siamo debitori agli Italiani, ma
da loro togliemmo anche troppe cose deplorabili. I costumi di colà
sentono d'ambra e di profumo; le anime vi sono ammollite come i corpi; i
libri loro nulla contengono di gagliardo, nulla di degno e potente, e
piacesse a Dio avessero tenute per sè le opere loro e i loro profumi!
chi non conosce Giovan Bocaccio, Angelo Poliziano, il Poggio, tutti
pagani piuttosto che cristiani? A Roma Rabelais immaginò il suo
_Pantagruele_, vera peste de' mortali. Che fa costui? Qual vita mena?
Tutto il giorno a bere, fare all'amore, socratizzare; trae al fiuto
delle cucine, lorda d'infami scritti la miserabile sua carta, vomita un
veleno che lontano si diffonde in ogni paese, sparge maldicenze e
ingiurie su ogni ordine di persone, calunnia i buoni, dilania i savj; e
il santo padre riceve alla sua tavola cotesto sconcio, cotesto pubblico
nemico, schiuma del genere umano, tanto ricco di facondia quanto scarso
di senno»[313].

E a Roma erano venuti a scuola quei che in Germania restaurarono gli
studj classici; Rodolfo Agricola di Friesland, professore ad Eidelberga,
che volle finir sua vita in un convento di Francescani; Lodovico Vives,
vantato per acuto giudizio, come il Buddeo per ingegno. Ma molti vi
moveano guerra arguta all'ignoranza de' monaci, o fossero umanisti come
Erasmo, o cavalieri come Hutten.

Questo Ulrico di Hutten, tutto entusiasmo pel suo paese, fece suoi studj
a Pavia; poi messosi soldato, qui scese con Massimiliano imperatore, fra
le orde che passavano le Alpi ustolando agli ori de' nostri palazzi,
agli argenti delle nostre chiese. Poeta e guerriero, portava sopra del
morione l'alloro, di cui l'imperatore avealo donato con seicento
zecchini; e indispettivasi contro quest'Italia, che ricusava d'essere
tutta dell'imperatore tedesco. Mosso con questo per distruggere Venezia,
lo aizzava contro quel _popolo di rane_, cui bersagliò in due poesie
_Marcus_ e _De piscatura Venetorum_, oltre una _Epistola Italiæ ad
Maximilianum_. In un epigramma introduce l'Italia a dire ad Apollo: «Tre
mi fanno la corte; uno pien di mala fede, l'altro di vino, il terzo
d'orgoglio. Poichè m'è forza sottomettermi, dimmi qual giogo sia meno
grave. — Il veneziano è perfido sempre, rispose Apollo: sempre
orgoglioso il francese; il tedesco non è sempre ubriaco: a te la
scelta».

Combattendo, cantando, amorazzando scorre l'Italia, cogliendo un morbo
che gli costò spasimi e denaro. Fra Roma e Viterbo assalito da sei
Francesi, li pose tutti in fuga benchè ferito, sul che scrisse un
epigramma _In quinque Gallos a se profligatos_; sentendo a Roma beffare
la Germania da sette giovani, li sfida tutti; fa un trattato storico
sulla continua reluttanza dei papi verso gli Imperatori: nella _Trinità
romana_ per rendere odiosa la Corte pontifizia, sostiene che da Roma si
riportano tre cose; mala coscienza, stomaco guastato, borsa smunta; che
tre cose ivi non si credono, l'immortalità dell'anima, la risurrezione
dei morti, l'inferno; che di tre cose vi si traffica, grazia di Cristo,
dignità ecclesiastiche e donne.

Attaccò lite con Erasmo da Rotterdam, che rispose _Spongia Erasmi
adversus aspergines Hutteni_: fece una _Oratio ad Christum pro Julio II
ligure pontifice_; scrisse pure gli _Apophtegmata Vadisci et Pasquilli
de depravato ecclesiæ statu_; ripubblicò il trattato del Valla contro la
donazione di Costantino, e più tardi la bolla di Leone X contro Lutero
con glosse interlineari e marginali mettendola in ridicolo, e fu detto
il Demostene tedesco per le sue filippiche contro il papa. Più si
divulgarono le sue _Epistolæ obscurorum virorum_, ove imprestava il
linguaggio dell'ignoranza e i sofismi della malizia ai monaci con
tant'arte, che molti non s'accorsero fosse ironia.

Giulio II, pontefice armato, non gli parve solo un'anomalia, ma un
tiranno, un sarmato di folta barba, di capelli arruffati, di occhio
fiero, di labbra incollerite; invoca un Bruto che ne liberi Roma[314];
ogni città che il papa prende, è un usurpazione ai diritti di Cesare; a
Cesare spetta la dotta Bologna; a Cesare la città de' sette colli; a
Cesare Parma e Piacenza, dove i suoi antecessori resero giustizia; a
Cesare il governo temporale, lo spirituale a Cristo, a' suoi apostoli ed
ai predicanti evangelici, che annunziano la dottrina di Cristo[315]. A
Roma, centro del sapere e delle arti belle, asilo de' profughi di
Grecia, palestra de' sapienti di tutto il mondo, ove dipingeasi la
Sistina, ove adunavansi la biblioteca e il museo vaticano, non iscorge
che una folata d'avvocati, di giuristi, di procuratori, di bollisti, che
succhiano il sangue della Germania[316]: fra tanti cardinali e prelati
non vede una figura tedesca, bensì fra' mulattieri, portacqua, mozzi di
stalla: attorno alla fabbrica di San Pietro non trova a lavorare che due
operaj, un de' quali zoppo[317]. Tant'è vero che ognun vede quel solo
che vuol vedere. Ma egli se ne indigna, ed esclama: «Spezziamo i nostri
ceppi, gettiamo via il costoro giogo», e la parola collerica, formulata
in bei versi, tuona nella Germania, che risponde: «Spezziamo i ferri,
sottraiamo il collo all'Italia, degenere, avvilita»[318] e gloriandosi
di tale guerra, egli adotta per motto _Lo osai_ (_Jch hab's gewagt_).

Di maggiore attenzione vuolsi onorare Erasmo di Rotterdam (1467-1536).
Talento universale; non devoto ad alcuna teorica filosofica, pure di
spirito filosofico, a questo accoppiava lo spirito comico, che adoprò a
osteggiare di tutta forza la scolastica, ancora dominante in Germania,
in contraddizione dell'altro insigne filologo Reuclin[319] volendo
fondare una teologia ampia e illuminata. Coll'edizione de' Padri e della
Bibbia e coi commenti a questa diede impulso all'interpretazione
razionale delle sante scritture secondo il senso letterale; e se, per
fare onta ai teologanti, dava importanza alla erudizione, questa diresse
a intento pratico con libera indagine.

Più solita lode gli si dà di buon umanista. Talmente invaghito de'
classici, che non avrebbe voluto altro parlare che il latino e il greco,
trovando barbari tutti gli altri linguaggi; in Italia si astenne
dall'imparare nemmanco le frasi più famigliari, tanto che ne corse
pericolo della vita; disapprovava che ai fanciulli s'insegnasse il
francese, idioma barbaro e strano, che scrive diverso da quel che
pronunzia; rinunciò una cura in Inghilterra per non parlare inglese;
neppure mai capì la favella di Basilea, dove fece sì lunga dimora.

A tacere le edizioni e i commenti di tanti autori, fra le opere
precettive scrisse il _Ciceroniano_, per ribattere que' saccenti
italiani, che non tolleravano nessuna parola se non usata da Cicerone; e
mette in caricatura un di costoro, che da sett'anni non avea letto altro
che Cicerone; nel suo studio teneva unicamente il busto di Cicerone;
sigillava coll'effigie di Cicerone; in quattro enormi volumi avea
registrate tutte le parole adoprate da Cicerone, tutte le diverse
accettazioni di ciascuna, tutti i piedi e le cadenze con cui cominciano
e finiscono i periodi di Cicerone; conchiude col lepido racconto
dell'iniziazione d'un cittadino romano in un circolo di ciceroniani a
Roma[320].

Enumerando i tanti dotti che conobbe in ogni parte di quest'Italia, dove
Lutero non imbatteva che ignoranti e briaconi, dice avere, davanti a
Giulio II, inteso un oratore fare una predica, in cui nominava Giove
ottimo massimo che tutto muove colle sopraciglia, e paragonava il papa a
Decio, a Curzio, ad altri che per la patria furono prodighi della vita;
il meno che parlò fu della morte di Cristo, e le parole e i sentimenti
applicò solo sull'autorità di Cicerone, e l'uditorio ammirò costui
d'avere parlato così romanamente e ciceronianamente[321].

Già illustre in Germania, in Francia, in Inghilterra, Erasmo era venuto
in Italia nel 1506: a Torino ottenne la laurea dottorale; rimase un anno
a Bologna, dove ha potuto conoscere Alessandro Farnese, Ottone Tuchses,
Stanislao Oslo, Cristoforo Madruzzi, Ugo Buoncompagni, scolari circa
quel tempo, e dappoi cardinali e l'ultimo anche papa; cacciatone dalla
peste, vide Padova, piena di tanti eletti ingegni, che voleva
intitolarla l'Italia dell'Italia; e nella cui Università si usava piena
licenza nell'interpretare Aristotele e i suoi commentatori. Eccitava
Ambrogio Leone professore a Napoli a pubblicare la sua grand'opera
contro Averroè[322].

Alle bellezze del nostro cielo, all'ubertà del suolo, alla squisitezza
delle arti belle non sentesi preso; dell'entusiasmo, dei dotti non solo,
ma dell'intera città quando si scoperse il Laocoonte, neppure un motto
egli fa in lettere, dove avverte attento la quantità fallata d'una
sillaba, o l'interpretazione mal côlta d'un versetto. Pure onorava i
nostri ingegni, sino a fare sinonimo italiano e dotto: _mihi Italus est
quisquis probe doctus est, etiam si apud Ibernas_[323]. Di qua delle
Alpi riconosceva già infranto il giogo dei Tomisti, degli Scotisti,
degli Aristotelici; che se nelle moltitudini e nell'insegnamento
ufficiale abbondavano pregiudizj, errori, superstizioni, era concesso
combatterli sul serio o voltarli in beffa.

E a quest'ultimo partito s'appigliò Erasmo, con quel genio burlevole che
è tanto micidiale alla verità, quanto opportuno per demolire. E come i
beffardi, poco bada alla verità.

Egli accerta che a Roma pretesero dimostrargli, non corra divario tra
l'anima delle bestie e degli uomini; avere udito colle proprie orecchie
bestemmiare Cristo impunemente, e detti orrendi pronunziarsi fino da
ministri della reggia pontificia, e proprio nella messa e ad alta
voce[324]: accuse generiche, e che il buon senso repudia.

Ma mentre credea trovare qui la tranquilla sede delle arti e della
dottrina, s'imbattè nella guerra recata dalla turpe lega di Cambrai;
Bologna assediata da Giulio II che poi vi fa ingresso trionfale; pel
quale anche in Roma festeggiasi il marziale pontefice. A glorie sì poco
dicevoli dava poi Erasmo risoluta disapprovazione negli _Adagia_, con
eloquenza risentita esponendo i danni della guerra, e viepeggio tra
Cristiani, e la stoltezza degli uomini che affiggono merito all'uccidere
e farsi uccidere; e vi raffaccia Leone X, agnello a nuocere, leone
contro gli empj, e tutto occupato a rimettere in concordia i
principi[325]. A Roma lo accolsero i cardinali, principalmente quelli di
San Giorgio e di Viterbo, e Matteo Langio vescovo d'Albano, e il De
Medici che presto divenne Leone X; il cardinale Campeggi gli regalò un
anello con diamanti, pel quale Erasmo gli scriveva: «Il fuoco dell'oro
mi sarà sempre simbolo della tua presenza cardinalizia, e la gratissima
luce del diamante mi rappresenterà sempre la gloria del tuo nome». Il
cardinale Domenico Grimani, che aveva una biblioteca di ottomila
volumi[326], lo considerava come un luminare della Chiesa di Cristo, e
non che prodigargli cortesie, pareva prendersi soggezione del povero
frate; gli esaltava i begli orizzonti nostri, il dolce clima; e che il
suo posto doveva essere fra i grecisti, i poeti, i pittori che
attorniavano Giulio II.

Roma, che affaticavasi a rigenerare gli spiriti mediante la forma, nel
marmo scolpito ammirava la natura idealizzata; Erasmo, come Hutten, come
Lutero e gli altri tedeschi, cercava Dio nell'uomo, non nelle opere
d'arte; sapeagli d'idolatria l'ammirazione plastica, e che nocesse al
movimento spiritualista il volgersi al marmo anzichè alla scrittura.

Questi disdegni erano rimbalzati dagli Italiani, che consideravano per
barbari que' Tedeschi, i quali non faceano dipinture sì belle, non
verseggiavano così squisito, non usavano il latino ciceroniano. Pure
Giulio II offrì ad Erasmo una carica in corte; ed egli in fatti
desiderava pigliare stanza nella gran città, per godervi i vantaggi
della biblioteca papale, mentre «fra noi (dicea) si penuria di libri
sacri greci: la stamperia Aldina non ci diede quasi altro che autori
profani: a Roma i buoni studj han non solo tranquillità, ma anche
onorificenze»[327].

Malgrado di ciò; malgrado che si deliziasse di que' facili costumi, e a
Fausto Anderlini descrivesse le voluttà, «per le quali (diceva) non gli
rincrescerebbe rimanere dieci anni fuori del tetto paterno»[328], fra
breve mosse per l'Inghilterra, traversando il Comasco, le Alpi Retiche e
Coira. Lungo il viaggio sbozzò il suo _Elogio della Pazzia_, dove
schizza veleno contro gli ecclesiastici; e, quel che parrà strano a chi
non intende i tempi, lo finì in casa di Tommaso Moro gran cancelliere
d'Inghilterra, il quale perì martire del cattolicismo, e sotto la
protezione del famoso cardinale Wolsey, del vescovo di Rochester, di
altri prelati, irremovibili cattolici.

In quell'_Elogio_ pajono oggi triviali, a forza d'essere ripetuti, ma
allora sonavano arguti e nuovi i motti contro il traffico delle
indulgenze, le espiazioni per l'anime purganti, l'efficacia di certe
formole, il culto di certi santi, ove si trasformò Polifemo in
Cristoforo, Ippolito o Ercole in Giorgio: burlava quelli che, se han
visto un san Cristoforo, credono che quel giorno non morranno di mala
morte; che torneranno salvi dalla guerra se recitino certe preci
all'effigie di santa Barbara; che accendono candelette a sant'Erasmo per
far guadagni. Così berteggia le insulse quistioni de' teologi, le
sottili loro distinzioni, le dispute di parole, l'intolleranza d'ogni
dissenso, quasichè nè il battesimo, nè l'evangelo, nè Pietro e Paolo, o
Girolamo e Agostino, nè l'aristotelicissimo Tommaso renda cristiano,
bensì l'assenso di costoro, i quali altrimenti sentenziano una
proposizione di scandalosa, o poco riverenziale, o eretica. E per tali
sofisterie si disistimano; han professata l'apostolica carità, e si
odiano pel differente colore della tonaca, o il differente modo di
cingerla. E qui sul vario vestire e sull'interminabile nomenclatura
degli Ordini, sulle salmodie, sui digiuni, sul sudiciume, sulla
moltiplicità delle regole, e il predicare a sottigliezze o a sillogismi,
e con mescolanze strane, egli s'abbandona a celie tanto facili quanto
insulse. Meglio attacca quelli che, sulla fiducia delle indulgenze,
addormentano la coscienza, e quasi con l'oriuolo misurano la durata del
purgatorio, calcolandone a minuto i secoli, gli anni, i giorni. Non v'è
mercante, o soldato, o giudice che, rubati migliaja di scudi,
coll'offrirne uno non creda tergere «ogni labe dell'alma ed ogni ruga».

Rincalza questo bersagliare ne' _Colloquj_. Dall'Eco fa dichiarare i
monaci sciocchi (_monachos_-αχος), che cercano il sacerdozio per l'ozio;
beffa i Domenicani di intitolarsi cherubici e i Francescani serafici, e
contro questi si scaglia irreposatamente. Nelle _Esequie Francescane_
favoleggia la loro storia, con poca riverenza al fondatore dell'Ordine e
alle sue stimmate, e alla liberazione di tante anime dal purgatorio nel
suo giorno, e veemente inveisce contro l'avarizia e ricchezza di que'
suoi, i più mendichi fra' mendicanti. E quando uno degli interlocutori
domanda all'altro se non s'accôrse che taluni ridessero a quelle scene,
risponde, s'accôrse, ma supponeva fossero «di quegli eretici, di cui
oggi formicola il mondo»[329]. Nel _Pellegrinaggio_ volta in canzone le
visite ai santuarj non solo, ma il culto de' santi e di Maria. Nei
_Funerali_ atteggia le esequie di un soldato, arricchito con mezzi
illeciti, che in punto di morte chiama i cinque Ordini mendicanti e il
curato, i quali s'abbaruffano finchè rimangano soli due Ordini, dai
quali il morto viene sepolto solennissimamente, dopo avere obbligato la
moglie e i figliuoli a fare i voti, e dividere l'immenso retaggio tra
Francescani e Domenicani. Nell'_Ictiofagia_ un penitente non vuole
gustare carne nè ova, sebbene gliene prescriva il medico, e intanto non
si fa scrupolo di eludere un creditore con falso giuramento.
Nell'_Inquisizione_ giunge fino ad asserire che pel cristiano basta il
credere al simbolo apostolico, al quale molti non credono a Roma; e a
chi abbia questa fede, la scomunica non reca pregiudizio, quand'anche
mangiasse diverse carni al venerdì. Nel _Naufragio_, mentre sulla nave
tempestata tutti urlano di terrore, e si votano a quanti han santi le
litanie, un solo non prega che Dio, non attende salute che da Dio. E
negli _Adagia_ e nel _Ciceroniano_ e nella _Bibbia_ greca non v'è male
che non dica contro i monaci, come rappresentanti l'ignoranza, la
ghiottornia, il libertinaggio; ed empì la letteratura e il mondo di
aneddoti bizzarri contro queste degenerate società, i quali accolti
senza disamina, ne crebbero lo scredito, e li posero senz'armi e senza
fiducia di fronte ai prossimi attacchi.

Gœtz di Berlichingen, nel quale Göthe personeggiò il medioevo cadente,
con cuor d'acciaio e mano di ferro difende contro il diritto nuovo la
feudalità, combattuta dall'esercito imperiale e dall'insurrezione de'
villani, e si crede ancor potente a fiaccarlo. Ma come vede in man di
suo figlio un libro, questo prodotto della neonata stampa lo getta nella
disperazione, sentendo perito l'antico mondo da che un figliuolo di
barone preferisce alla spada il libro, forza nuova che tutto invaderà. E
questa forza, benedetta e cullata dai papi, or si voltava contro di loro
efficacissima. Perocchè, se scherzi di petulanza eguale a quella
d'Erasmo erano stati usati dai nostri novellieri e satirici, i costoro
libri sfogliavansi da pochi, mentre adesso vi veniva ausiliaria la
stampa, e dei _Colloquj_ si diffusero ventiquattromila esemplari,
milleottocento dell'_Elogio della Pazzia_ la prima volta; poi ben
trentuna edizione e i graziosi intagli dell'Holbein lo resero popolare.

Per conseguenza in Erasmo personificavasi il nemico de' frati, e a lui
si dirizzavano quanti aneddoti e fatti comparissero in proposito, come
testè faceasi al Gioberti di quelli contro Gesuiti. Il giureconsulto
milanese Andrea Alciato, che, essendo professore a Bourges, aveva avuto
scolaro Calvino, e che, al leggere la _Diatriba_ di Lutero contro la
Sorbona smascellavasi dalle risa, asserendo che nulla di più arguto
erasi inteso da Aristofane in poi, al Mallio, che mostrava intenzione di
farsi francescano, diresse una lettera ove snudava gli abusi della vita
monastica, con libertà non minore di Erasmo. Francesco Calvi di
Menaggio, che col nome di _Minicius_ vendeva libri a Pavia, e che anfanò
per diffondervi quelli di Lutero, spedì subito quella lettera ad Erasmo,
e pensava farla pubblicare dal Frobenio di Basilea, editore delle opere
eretiche. Del che fra corrucciato e scherzoso, l'Alciato gli scriveva:
«Ah tristo di Calvi! ah capital nemico mio se ciò farai! Che mi varranno
le veglie e i tanti studj? Se tu mi propini questo veleno, vorrei
piuttosto esser morto. Lutero, i Piccardi, gli Ussiti e gli altri nomi
d'eretici non saranno così infami come il mio, se tanto avvenga. Non
sai, o fingi non sapere la potenza di questi cucullati, l'arabbattarsi,
il declamar dal pulpito, l'esecrazione fra il popolo, le detestazioni e
gl'infiniti guaj che (gli Dei me ne scampino) ricadran sul mio capo?
Intenterò processo d'ingiuria, prima a te come corifeo, poi ad Erasmo,
poi al Frobenio; invocherò uomini e Dei; moverò ogni pietra per
iscagionar me, e imputare voi soli»[330].

Erasmo feriva anche i vescovi, che, dimentichi del nome, affidano il
gregge di Cristo a frati; e i papi, che «tanto avrebbero a operare se
pensassero ad esser vicarj di Cristo, cioè emularne la povertà, gli
stenti, la dottrina, la croce, lo sprezzo della vita; invece non si dà
viver più soave e men cruccioso del loro: e credono aver soddisfatto a
Cristo quando, in mezzo a scenico apparato e cerimonie fastosissime, coi
titoli di beatitudine, di riverenza, di santità, trinciano benedizioni o
scagliano anatemi. Padri santissimi, a nessuno mostransi tanto rigorosi
come a chi intacca il patrimonio di san Pietro: con tal nome chiamano i
campi, le borgate, i dazj, le giurisdizioni, e per esse guerreggiano,
spargono il sangue; e mentre la Chiesa fu fondata, confermata, cresciuta
col sangue, or la sostengono col ferro».

Ci fu chi rispose ad Erasmo: la Sorbona lo imputò d'eretico per molte
proposizioni, ed egli se ne difese con un'_Apologia_ ai teologi di
Lovanio, dicendo che lo scopo de' _Colloquj_ era di porgere le formole
colle quali dir latinamente che che si fosse; ed essendo dialoghi,
bisognava serbasse il costume della persona introdotta. Venendo poi ai
particolari, cerca scagionarsi di proposizioni, in verità più che
ardite; per esempio, che la confessione sia un trovato de' caporioni
della Chiesa; che sia indifferente il mangiar qualsiasi cibo; e del
celiare sulle indulgenze, e più sui voti, e deridere l'intercessione di
Maria e de' santi. Aveva anche a contrapporvi altri passi, ove lodava
tutto ciò: riflette che il criticare gli abusi equivale ad approvar
l'uso: dice d'aver ammonito contro le false vocazioni, non contro
l'entrar monaca[331]; nella _Pietà puerile_ insegnato a ben udire la
messa, ben confessarsi; aver esortato a conservare le usanze de'
maggiori, quand'anche men lodevoli, e fin tollerare la tirannide,
piuttosto che avventarsi nelle rivoluzioni[332]. Non tace che certi
punti non erano ancora stati chiaramente definiti dalla bolla di Leon X,
e molti si discuteano liberamente prima dell'editto di Carlo V.

Nell'edizione del Nuovo Testamento diede esempio di sagace critica, di
grand'accuratezza nel confronto de' manuscritti; tanto più che la famosa
Bibbia Complutense era ancora in lavoro. Certo restò lontano dalla
critica odierna, dal culto letterale delle Scritture e dall'esegesi
audace che discute l'autenticità dei testi sacri, ma osava impugnare
l'impeccabilità della vulgata, sicchè sgomentò molti timorati, e trovò
gran contraddittori. Poi nelle note e nelle parafrasi cercò il senso e
lo spirito del libro santo, e desiderava fosse diffuso. «Il sole
illumina tutto il mondo. Perchè non altrettanto dee fare la dottrina di
Cristo? Io non la penso come quelli che non vorrebbero che la sacra
scrittura in vulgare si leggesse da' privati; quasi gl'insegnamenti di
Cristo fossero tanto astrusi da rimanerne solo capaci pochi teologi; o
quasi la sicurezza delle scritture dipendesse dall'ignorarle gli uomini.
Celino i re al popolo i misteri de' lor gabinetti; ma Cristo volle che i
suoi misteri ricevessero la maggior pubblicità. Vorrei vedere anche le
femminelle leggere l'evangelo e l'epistole di san Paolo, e che la
Scrittura venisse tradotta in tutte le lingue, e corresse nelle mani non
solo di Scozzesi e Irlandesi, ma fin di Turchi e Saracini»[333].

Ebbene, tutto ciò nol toglieva dalla grazia dei papi. Il cardinale De'
Medici l'avea sempre difeso quando i prelati sentivano punti e sè e la
religione: e mostrava lettere dove lodava la scienza e la virtù di
ciascuno. E quando divenne papa, Erasmo scriveva, da lui sperare
restituiti i tre precipui beni dell'umanità: la pietà cristiana, le
ottime lettere, la concordia del mondo cristiano, fonte e generatrice
della pietà e dell'erudizione[334]. Che se Leon X non gli attenne tutto
quello che aveagli fatto intravedere da cardinale, raccomandollo a
Enrico VIII, scrivendo che l'amore innato delle lettere eragli cresciuto
cogli anni, perchè osservò che quei che le coltivano sono attaccati di
cuore ai dogmi della fede, e ch'esse formano l'ornamento e la gloria
della Chiesa cristiana (10 luglio 1515). Di più fece coll'accettarne la
dedica della tradizione del Nuovo Testamento[335], col che lo pose a
schermo dalle accuse d'eterodossia, appostegli da Stunica, da
Hoogstraten, da Lee, da Carenza, da Egmont, da altri. Adriano VI gli
offrì un decanato: Clemente VII gli fece altre esibizioni e il dono di
ducento fiorini: Paolo III pensò elevarlo cardinale[336]; e ben lo
meritava egli se si badasse non al suo pensare e scrivere, bensì
all'esser egli promotore benemerito del gusto classico e degli studj
umanistici, benchè al severo gusto de' nostri il suo latino paresse di
lega men pura[337].

Il pio e dotto vescovo Sadoleto fin dal 1524 gli scriveva ringraziandolo
di avere scritto lettere piene di pietà e d'osservanza verso un papa
veramente sommo ed ottimo, la cui liberalità verso di lui sarebbe ancor
più grande se non si trovasse alle strette di tempi difficilissimi e fra
ingenti spese, ma cercherà luogo d'onorarlo e ingrandirlo. Si congratula
de' libri suoi, pei quali vivrà presso i posteri. E poichè scriveva che
lui già sul declino (_jam deficientem_) Dio solo potea beare, ravvisava
in ciò la pietà sua, ma non potea credere in calo l'uomo, di cui i
secoli celebrerebbero la memoria; frutto che non è da sprezzare, sebben
inferiore ai premj celesti[338]. Più tardi, lodandolo, l'esortava a
cessar dalle contese, e ommettere le cose che, sebbene non aliene dalla
vera pietà, contraddicono però alle inveterate opinioni popolari.
Entrambi piuttosto (soggiungeva) per quanto valiamo, ajutiam virilmente
l'afflitta fede cristiana. E altrove torna pregarlo a desistere dalle
contumelie, ed ammonire con affetto paterno, nè opporsi a certi popolari
culti d'immagini e di santi, che vengono da pietà, benchè sia meglio
fissar il pensiero in Cristo solo. E gli ricorda d'aver un tempo animato
il papa a concedergli un insigne sacerdozio in Germania, e questi
l'avrebbe fatto se non l'avessero distolto calunnie: e d'aver dissuaso
lo Stunica dallo scriver contro di esso[339].

Fatto è che ogni scritto di Erasmo era un avvenimento; e gli procacciava
come grandi amici, così grandi avversarj; ed egli ingrazianivasi prelati
e principi colle cortigianerie, e col metter sempre una frase che
medicasse la audace o pungente. Era re dell'ironia[340], ma per usarla
contro un privato si richiede o il coraggio del virtuoso, o la codardia
del calunniatore. Al carattere di Erasmo si affà meglio la satira
generale, a cui nessuno può contraddire, e da cui nessuno in particolare
rimarrà ferito; e dove non si potrà snudare la menzogna, perchè è
generica l'accusa. Taccerà d'ignoranza i frati di Germania, stando in
Inghilterra; di scostumatezza i frati d'Italia, dopo che d'Italia uscì;
questi ingiurierà in generale, ma lodando ciascuno in particolare; dirà
male de' papi, ma benissimo di Leon X e d'Adriano VI. Quando levò rumore
il _Dialogo tra Giulio II e san Pietro alle porte del paradiso_, ove
quello è accusato di briacone, omicida, scellerato, simoniaco, venefico,
spergiuro, rapace, lascivo, Erasmo protestò non esserne l'autore[341]. A
ciò è condotto chi sagrifica la verità all'opinione.

In effetto, egli prende i sette peccati capitali, e gli affigge come
abituali e comuni a chiunque porta cocolla, e sbizzarrisce in
istorielle, motti, quolibetti, in quegli aneddoti che il ricco, il dotto
ed il patrizio vulgo accetta senza esame, ripete senza discrezione, e
che il tempo tramanda alla non meno futile posterità.

Così, intanto che a Roma erano in favore i retorici, quando di
tutt'altro era bisogno, i teologi in Germania erano messi in burla da
Erasmo[342]. Ne' cui scritti e negli atti appare quanta fosse
l'oscillazione degli spiriti prima del concilio di Trento, e quanta la
confidenza nella ragione individuale. Erasmo poi professava non esser
disposto a morire martire della verità; e che, indotto in tentazione,
crede avrebbe imitato san Pietro. E in realtà egli non va catalogato fra
gli eresiarchi, come volle taluno; bensì fra que' malcontenti, che non
si prefiggono di distruggere, ma scalzano, danno impaccio al sistema
prevalente, senza averne uno da francamente sostituire. Abborrendo dalla
lotta, pareagli che anche il trionfo della verità saria compro troppo
caro col sangue; confida sempre ne' progressi della civiltà, e come
tanti altri, opina che la rivoluzione possa compiersi sulla carta o nel
gabinetto, senza che se ne intrometta il popolo; — il popolo, che invece
n'è il solo attore effettivo.


NOTE

[310]

    Tu l'as vu ce ciel enchanté
    Qui montre avec tant de clarté
                Le grand mystère,

    Si pur qu'un soupir monte à Dieu
    Plus librement qu'en aucun lieu
                Qui soit sur terre.

                      ALFRED DE MUSSET.

[311] Il cardinale De Luca (_De locis montium_), Giovanni Marchetti
(_Del denaro straniero che viene a Roma e se ne va per cause
ecclesiastiche; calcolo ragionato_. Roma 1800) asseriscono che, pei
bisogni della sola Germania, da Paolo III a Paolo V, il tesoro
pontifizio spese 16 milioni di scudi; dovendo per ciò non solo erogare
quanto ne riceveva, ma creare i debiti, noti col nome di _Luoghi di
monte_.

[312] _Teotimus, de tollendis malis libris_, 1549.

[313] Rabelais francese, che non so bene se si facesse buffone per
abbattere, od abbattesse per far il buffone sapendo che in Francia si
ride sempre del partito vinto, sparnazzò celie col vaglio, adorava la
_divina bottiglia_, e domandava di legger in cattedra sopra la
ubbriachezza lucida. Passato a Roma, facea rider di sè il papa e i
cardinali, mentre raccoglieva onde rider di loro nel suo _Pantagruele_,
libro stranamente audace, dove non la perdona tampoco a Cristo. Eppure
morì curato, fra il clero a cui tanto avea nociuto.

[314]

    _Julius est Romæ; quis abest? date, numina, Brutum:_
      _Nam quoties Romæ est Julius, illa perit._

Vedi _Klag und Vermahnung gegen die übermässige, unchricstliche Gewalt
des Pabst in Rom_.

[315] _Das weltiche Regiment gehört dem Kaiser zu, das geistlich
Christo, seinen Apostolen, und allen evangelischen Predigern, welche
predigern Christi Lehren_. HUTTENI _Conquæstiones ad Carolum imperatorem
et principes Germaniæ_.

[316]

    _Manch Advocat und Auditor_
    _Notarius, Procurator,_
    _Die Bullen geben, sprechen Recht_
    _Dero jeder hat sein G'sind und Knecht_
      _Und nehmen täglich ein_
    _Von Teutschen unser Schweiss und Blut;_
    _Ist das leiden, und ists gut?_

[317] _Lapides noctu migrant, nihil hic fingo. Principes romani imperii,
imo orbis totius cuncti sollicitantur pro æde Petri, in qua duo tantum
opifices operantur, et alter claudus_.

[318] _Dirumpamus vincula eorum, et projiciamus a nobis jugum ipsorum_.

[319] Reuclin aveva studiato il greco a Firenze e a Milano sotto il
Calcondila.

[320] Com'è stile de' polemici, qui Erasmo prende per tipo qualche
esagerato. Il famoso ed elegante teologo Paolo Cortese da Modena, avendo
detto in una lettera al Poliziano che bisogna seguire per esemplare
Cicerone; il Poliziano, con gran forme di stima lo confuta; e quegli
risponde non aver voluto dire altro se non che devesi imitare il modello
più perfetto, non già contraffarlo. _Quæ stultitia esset, cum tam varia
sint hominum ingenia, tam multiplices naturæ, tam diversæ inter se
voluntates, eas velle unius ingenii angustiis astringi et tamquam
præfiniri?_ Ep. POLITIANI, L. VIII, 16, 17.

[321] Probabilmente era Tommaso Fedro Inghirami, custode della
biblioteca Vaticana, _dictus sui sæculi Cicero_; nel quale riconosceva
_mira in dicendo tum copia tum auctoritas_ (Ep. 4, lib. XXIII), e che
tanti manuscritti avea disepolti dalla libreria di Bobbio.

[322] _Utinam prodisset ingens illud opus adversum Averroem, impium_ καὶ
τρὶς κατάρατον. Epistola del 15 novembre 1519.

[323] Ep. Latimerio.

[324] _Ego Romæ his auribus audivi quosdam, abominandis blasphemis
debaccantes in Christum et in illius apostolos; idque multis mecum
audientibus, et quidem impune. Ibidem multos novi, qui commemorabant se
dicta horrenda audisse a quibusdam sacerdotibus aulæ pontificiæ
ministris, idque in ipsa missa, tam clare, ut ea vox ad multorum aures
pervenerit_. Ep. XX, lib. 35.

[325] «Rimanga a Giulio la gloria della guerra; abbiasi egli le sue
vittorie, abbiasi i magnifici trionfi, che io non dirò quanto s'addicano
a pontefice. Ben dirò che la gloria di lui, qual ella si fosse, andò
unita all'eccidio e al dolore di moltissimi; gloria più vera partorirà a
Leone la pace restituita al mondo, che non a Giulio tante guerre,
dappertutto suscitate gagliardamente o felicemente condotte». _Dulce
bellum inexpertis_. Esagerazione di biasimo e di lode, per deficenza nel
sentimento della verità.

[326] Suo padre, ammiraglio veneto, essendo mal riuscito nella guerra
contro i Turchi, fu accusato e messo in carcere a Venezia. Il figlio
cardinale ve l'accompagnò, sorreggendone la persona e le catene, e
supplicava i senatori a ricever lui in prigione in sua vece, almeno
permettergli di starvi con esso. Non l'ottenne: il padre per allora ebbe
l'esiglio, e poi anni dopo, rimesso in onore, fu doge. Il cardinale avea
tradotto varie omelie di san Giovanni Grisostomo.

[327] Epistol., pag. 357.

[328] Ep. 5, lib. X. Un altro famoso erudito visitò allora l'Italia,
Guglielmo Budeo di Parigi, mandato da Francesco I al papa. Egli stesso
racconta: «Due volte fui a Roma, e le insigni città d'Italia e i dotti
uomini di colà vidi di passaggio più che non gli udissi; e i professori
delle migliori lettere salutai quasi dal limitare, cioè per quanto fu
possibile ad uomo che scorreva l'Italia in fretta, e non per libera
missione» (_Epist_. ERASMI 30, lib. II). Il Varillas (_Hist. de Francois
I_) racconta che «l'accademia di Roma, che mai non era stata così pulita
dal secolo d'Augusto in poi», gli fece accoglienza straordinaria, ed
egli acquistò bentosto la famigliarità del papa, perchè era eccellente
sovrattutto nella cognizione delle antichità greche di cui sua santità
si piccava di conoscere. E soggiunge che gli faceva objezioni, dond'egli
aveva occasione di sfoggiar dottrina; il che garbava al papa, desideroso
di tirar in lungo i negozj e di nulla conchiudere. Ne' suoi scritti,
principalmente _De asse_, si avventa contro la sregolatezza del clero,
ma fu sempre avversissimo ai novatori, e nel libro _De transitu
hellenismi_ (1535) esorta Francesco I a conservarsi fedele cattolico, e
loda la famosa processione, nella quale al re fu dato lo spettacolo di
molti eretici bruciati.

[329] Fra le meraviglie che Cristo predisse a san Francesco, v'era la
promessa che, chi malvolesse all'Ordine serafico, non vivrebbe mezza
l'età sua: e ciò s'era avverato poc'anzi nel cardinale di Sion, quel
prelato guerresco che tanta sciagurata parte ebbe nelle guerre d'Italia.
Per principale opera di esso (narra il dialogante), quattro Domenicani
erano stati bruciati a Berna nel 1509, perchè con finte visioni aveano
indotto il sarto Jezer a professare come rivelatogli, che Maria Vergine
ebbe il peccato originale; e quando Jezer si avvide della frode, essi lo
avvelenarono nell'eucaristia. Riferisco questo fatto perchè, come in
troppi altri, s'imputerà il sant'Uffizio d'avere arso uomini per
un'impostura o per un mistero, tacendo che il fece per delitto comune,
aggravato da un'empietà che desterebbe orrore fino in quest'età nostra,
tollerantissima in fatto di colpe, quant'è intollerante in fatto di
sbagli o di dissensi.

[330] _Marquardi Gudii et doctorum virorum ad eum epistolæ_. Utrecht
1697.

[331] Nella Vergine Misogamo: _Quemadmodum nemini suadere velim ut, quæ
se in hoc vitæ genus conjecerit, luctetur emergere, ita non dubitem
hortari puellas omnes, præsertim indolis generosæ, ne se temere eo
præcipitent, unde post sese non possint explicare_.

[332] _Pugnent qui volent, ego censeo leges majorum reverenter
suscipiendas, et observandas religiose, velut a Deo profectas, nec esse
tutum, nec esse pium de potestate publica sinistram concipere aut serere
suspicionem. Et si quid est tyrannidis, quod tamen non cogat ad
impietatem, satius est ferre quam reditiose seluctari_. Ἰχθυοφαγία.

[333] _Paraclesis in Novum Testamentum_.

[334] Ep. 30, lib. I.

[335] Nelle note al c. 19, XII di san Matteo dice corna del celibato
monastico: al c. 6 di san Giovanni si avventa contro gli Ordini
mendicanti.

[336] _Quum Paulus III statuisset in futurum synodum aliquot eruditos in
cardinalium numero allegere, propositum est et de Erasmo. Sed
objiciebantur impedimenta; valetudo ad obeunda munia inutilis, ac census
tenuis. Ajunt enim esse senatusconsultum, quo submoventur ab ea
dignitate quibus annui reditus sunt infra tria ducatorum millia. Nunc
hoc agunt ut onerent præposituris me... reclamantem, ac manibus
pedibusque recusantem, ac perpetue etiam recusaturum_. Lib. XVII., epp.
28 e 25.

[337] Il Flaminio dice che «Lo scriver bene, massime nella lingua
latina, è tanto difficile, che dovremmo mirar quasi come cosa miracolosa
un buon scrittore, ma siamo tanto ignoranti che non sappiamo discernere
gli eccellenti da' plebei: e subito che l'uomo nelle sue composizioni
schifa i vocaboli barbari e frateschi, pensiamo ch'egli scriva bene
latino; e da qui nasce che, non solamente il vulgo, ma eziandio molti
che per le città hanno fama di buona dottrina e di buon giudizio,
ammirano lo stile di Erasmo, del Melantone, e di certi nostri italiani,
li quali non seppero mai, nè forse sapranno ciò che sia la bellezza,
l'eleganza, la purità e la copia della lingua latina». _Lettere
vulgari_.

[338] SADOLETI, Ep. 2. lib. XVII.

[339] Ep. 1 e 2, lib. IV.

[340] Fra le sue celie è notevole questa: _Deputatos appellant Galli,
opinor quod male putati sint, aut certe plus satis putati_. De
colloquiorum utilitate.

[341] _Dialogus cujuspiam eruditissimi festivus sane ac elegans, quomodo
Julius II pontifex maximus post mortem cœli fores pulsando, ab janitore
illo D. Petro intromitti nequierit_. Tutti però ne lo credettero autore,
sebbene altri lo attribuissero a Fausto Anderlino, e meglio a Hutten. È
certo una delle più argute satire. Giulio II s'infuria perchè san Pietro
non vuole introdurlo, ed enumera meriti, che tali non sono agli occhi
del santo, il quale gli chiede la ragione delle sue guerre contro
Bologna, contro Ferrara, contro i Veneziani, che aveano usurpato una
parte del patrimonio di san Pietro. Questa denominazione fa non poca
meraviglia all'apostolo, che ogni ben suo avea lasciato per seguire
Cristo. E si meraviglia ancora che la Chiesa adunata in concilio non
abbia deposto un tal papa. Giulio risponde, non poterlo essa nè per
omicidio, nè per fornicazione, nè per bestemmie, nè per simonie; e
soggiunge:

  Il concilio! fremereste d'orrore se sapeste cosa proponeva.

  _San Pietro_. Cioè?

  _Giulio_. Fremo ancora di rabbia. Questi scellerati voleano
  ricondur la Chiesa nostra, così florida e opulenta, ai giorni di
  sua miseria e delle frugali virtù. Voleano che i nostri cardinali,
  potenti e doviziosi come principi, ritornassero gli umili e poveri
  diaconi d'un tempo: che si spogliassero i vescovi dei loro
  palazzi, del fasto, delle carrozze, e si mettesse sul trono papale
  non il più ricco, ma il più degno.

  _San Pietro_. Questi scellerati parlavano come Quello di cui tu ti
  chiami vicario. Ma quai sono i nemici che tu volevi cacciar
  d'Italia?

  _Giulio_. I barbari.

  _San Pietro_. Che bestie sono coteste che chiami barbari?

  _Giulio_. Sono uomini.

  _San Pietro_. Uomini dunque; ma non cristiani.

  _Giulio_. Anche cristiani; ma cos'importa?

  _San Pietro_. E perchè li chiami barbari?

  _Giulio_. È il nome che noi italiani diamo agli stranieri.

  _San Pietro_. Eppure Cristo è morto per tutti gli uomini; la sua
  croce gli ha resi tutti eguali.

  _Giulio_. E' non è morto pei Francesi, che disprezzano i nostri
  fulmini, e ridonsi delle nostre bolle. Passi per gli Spagnuoli,
  che ci adorano in ginocchio, come noi mandiamo ad essi vasi d'oro,
  stocchi benedetti, bolle, ed essi ci ripagano con oro e soldati.

  _San Pietro_. Il tuo regno è di Satana, non di Cristo. Chi si fa
  vicario del mio maestro, dee attendere solo a seguire gli esempj
  di esso.

  _Giulio_. Nulla è più nobile che veder ingrandita la Chiesa.

  _San Pietro_. La Chiesa si compone di tutti i cristiani; e tu la
  scomponi soffiando guerre e discordie.

  _Giulio_. Che parli di popoli cristiani? noi chiamiam chiesa le
  basiliche, i preti, e principalmente la Corte di Roma, e me pel
  primo, che son capo della Chiesa.....

Segue un bizzarro confronto fra la Chiesa umile e povera de' tempi di
san Pietro, e la suntuosa e potente di Giulio; quello si gloria d'aver
guadagnato migliaja d'anime a Cristo; questo d'aver arricchito la
Chiesa. San Pietro lo manda a fabbricarsi con quelle ricchezze un
paradiso, chè in questo e' nol riceverà. Giulio minaccia por l'assedio
al paradiso, ed entrarvi di forza coi 60 mila uomini che perirono nelle
sue guerre; onde alfine san Pietro dice non meravigliarsi se, con tali
uomini a capo, sì pochi or giungano al paradiso.

[342] Avremo a parlarne di nuovo. Possono vedersi

AD. MUELLER, _Vita di Erasmo di Rotterdam_. Amburgo 1828.

LIEBERKUEN, _De Erasmi ingenio et doctrina_. Jena 1860.



DISCORSO XV.

LUTERO, LE INDULGENZE, LA BIBBIA.


Tutto era dunque non solo preparato, ma incamminato, sia l'attacco o il
riparo, sia la critica o lo scherno, sia la riforma amorevole o la
demolitrice, allorchè, come tant'altri tedeschi, a Roma capitò, mandato
per non so quale controversia insorta fra' suoi Agostiniani, frà Martin
Lutero. Nato ad Eisleben l'anno che il Savonarola cominciò a predicare a
Firenze, visto morire improvvisamente un amico, si spaventò di cascare
impreparato nelle mani di Dio; onde resosi monaco, e disgustato d'ogni
altra lettura a confronto della Bibbia, prega, digiuna, si mortifica; va
alla questua, adempie i bassi uffizj del convento. Quando fu ordinato
prete a Erfurt, diede la solita promessa di vivere e morire nel seno
della santa Chiesa cattolica e obbedirla come madre, e nel celebrare la
prima messa talmente si sentì compreso da quei misteri, che côlto da un
tremito universale, a stento terminò.

Presto venuto in fama di abile teologo e predicante, fu messo professore
di teologia alla recente università di Wittenberg, e delle arguzie di
Erasmo contro il papa indignavasi a segno, che diceva, recherebbe egli
stesso le fascine per bruciarlo. Ma l'orgoglio del proprio sapere e
l'idolatria di se stesso lo invade: e spedito di qua dell'Alpi, non ci
porta affetto ed entusiasmo, bensì dispetto, opposizione, censura. In
Lombardia trova dapertutto «ospedali ben fabbricati, ben provisti, con
buona dieta, servigiali attenti, medici esperti, letti e biancherie
pulite, l'interno degli edifizj ornato a pitture; appena un malato v'è
condotto, gli si tolgono gli abiti, tenendone nota per restituirli; è
vestito d'un palandrano bianco, messo in un buon letto; gli si menano
due medici; gli spedalinghi dangli a mangiare e bere in vetri limpidi,
che toccano appena colle dita. Poi signore e matrone onorevoli vengono
per servire i poveri, velate di modo che non si sa chi sieno». A Firenze
vede ricoveri, ove i gettatelli sono nutriti che meglio non si potrebbe,
allevati, istruiti, tutti in abito uniforme. Dapertutto poi eccellenti i
collegi, quanto erano male condotti altrove[343]. Ma l'anima sua,
sprovvista d'amore come d'umiltà, nulla comprende alla poesia del nostro
cielo, delle nostre arti, della nostra storia.

Già per viaggio, in luogo di quelle fontane, sgorganti rozzamente da un
tronco di abete forato, dei Cristi e delle grossolane Madonnine sugli
svolti de' trivj, incontrando architetture e sculture, marmi ed ori
nelle chiese, non che stupito, ne rimane uggiato: gli pare piovoso il
clima, disagiati gli alberghi, aspro il vino, micidiale l'acqua, l'aria
febbrile, meschina la natura quanto gli uomini. Dall'altura di
Montefiascone l'immensa campagna romana gli si mostra arida e sterile,
anzichè ridere d'ulivi e di rose qual se l'immaginava: e rimpiange la
scintillante verzura della Sassonia e le secolari sue foreste, e quella
pendice del Poltesberg, la quale, a dire suo, splende di più fiori che
non tutte le colline d'Italia.

Peggio gli uomini. Per lui chiunque porta una tonaca o dice messa, è un
ignorante che non capisce il latino, e nè tampoco la lingua materna. A
una taverna imbatte frati che sbevazzano, gesticolano, ciaramellano
cavallerescamente di cose sacre: dapertutto santi, pitturati sulle case
onde preservarle dal fuoco: dapertutto il matrimonio poco rispettato,
onde dichiara questi Italiani figliuoli del peccato; prende scandalo
d'un convento provisto di trentaseimila zecchini di rendita. Giunto alla
santa Roma (così la qualifica), Lutero visita tutte le cappelle, crede
tutte le legende, prostrasi a tutte le reliquie, sale ginocchione la
scala santa; si duole che i suoi genitori non siano ancora usciti di
vita, perchè potrebbe adoprarsi a riscattarli dal purgatorio con messe,
preghiere, indulgenze; stupisce di quella pulizia severa, per cui di
notte il capitano scorre la città con buone scolte, punisce chi coglie,
e se ha armi lo appicca e getta nel Tevere; ammira il concistoro, e il
tribunale della Sacra Rota, ove gli affari sono istruiti e giudicati con
tanta giustizia[344].

Ma per lui Roma non è la città donde i santi apostoli respingono Attila
flagello di Dio, dove imperatori e re fermansi venerabondi o sgomentati,
e che personeggia il dominio dell'intelligenza sopra la forza brutale;
la città che tiene i Turchi in apprensione, a cui si convertono gli
sguardi di tutta la cristianità, da cui partono i missionarj di tutto il
mondo, e dove da tutto il mondo si dirigono i reclami contro ogni
oppressione, ogni ingiustizia. Al vedere tanti capolavori d'antichi,
emulati dai nuovi colla penna, collo scalpello, coi colori, e sotto al
manto papale raccolti tanti sublimi ingegni, uno dei quali basterebbe ad
immortalare un paese, un'età: non uno dei raggi che partono dall'aureola
di Rafaello e di Michelangelo commuove il gelo dell'anima sua
razionatrice. Frate e tedesco, si scandolezza al lusso delle cerimonie,
senza comprendere come l'idea ha bisogno di trasformarsi in immagine.
Frate inosservato in tanta ricchezza, in tanto fasto, in tanta scienza,
s'inviperisce e medita vendetta. Fra le splendidezze del culto,
espressione mistica del rispetto e dell'amore verso Dio, fra la
magnificenza de' pontificali, non calcola se non quanto denaro costano,
e con che modi questo procacciavasi: si fa il segno di croce al
conoscere que' reprobi costumi, all'udire gli aneddoti spacciati sul
conto di Leone X, alla sbadataggine di que' preti che dicevano sette
messe nel tempo ch'egli una sola, «talchè i chierichetti gli ripetevano:
passa avanti, passa avanti»[345]: alla venalità della curia disposta a
dire come Giuda, «Quanto mi date ed io ve lo tradirò?» Crede tutte le
baje di piazza e di bettola: e perfino che in un monastero (non indica
quale) si disotterrarono da un giardino seimila cranj di neonati; che
Roma possiede veleni così squisiti da uccidere col solo guardare uno
specchio cospersone[346].

Altrettanto dispetto gli fanno le università e gli studj d'Italia,
perchè interpongono la ragione fra la scienza e la fede; perchè vi
s'insegna che la luce divina rischiara il lume naturale, come fa il sole
con una bella pittura; perchè l'attività del pensiero s'applica a idee
pagane, non alla dottrina di Cristo. Anzi, in quel suntuoso peripato di
Leone X non vuol vedere che ignoranza, brutalità, grossolanità, quasi
intendesse arrogarsi il vanto d'aver egli insegnato il latino, ridesti
gli studj filologici, rivelato la Bibbia.

Rimpatriato con tali sentimenti, s'ingolfa nella Bibbia in greco e in
ebraico, e fino dalle prime sue lettere, massime da quelle a Spalatino
del 1518, manifesta il livore contro i Romanisti, il vilipendio per la
teologia scolastica e pei maestri in essa più rinomati; la passione
della novità, comunque sia cercata e trovata; il dubbio sofistico, la
smania di togliersi dall'oscurità, e di dare una scossa al mondo.

A raccogliere in una fissa direzione i suoi pensamenti venne il dispetto
per la vendita delle indulgenze.

La Chiesa, fino da' suoi primordj, come prescrisse penitenze e
mortificazioni, così usò della facoltà di rimetterle o attenuarle,
sull'esempio degli apostoli; e massime ai martiri si concedea di dare
lettere d'indulto ai peccatori, cui per esse il vescovo alleviava la
penitenza; laonde, accanto alla dottrina che insegna la salvazione
venire da Cristo gratuitamente, stette quella della cooperazione
dell'uomo, del soddisfacimento penale, e della remissione parziale o
plenaria di questo, secondo le circostanze del penitente. E fino da que'
primi tempi indulgenza indicava un'abbreviamento di quelle penitenze,
che la Chiesa esigeva prima di assolvere, e che concedeasi al peccatore
quando desse segni di profonda contrizione e di sentimenti mutati. Fra
gli scolastici pigliò senso più ampio, fondato sopra ragioni valevoli
sì, ma non come articolo di fede. Le singole pene non oltrepassavano mai
i trent'anni, ma il loro cumulo formava talora più secoli. Essendo per
conseguenza impossibile conseguire l'assoluzione in vita, si permise di
commutarle, e farle eseguire da altri, e massime i monaci s'incaricavano
di preci, pellegrinaggi, mortificazioni, discipline, in surrogazione del
vero penitente. Domenico Loricato che ebbe questo titolo perchè portava
una corazza di ferro e catene attorno al corpo, talora assumevasi di
scontare penitenze di cento e di mille anni. Tremila sferzate
equivalevano ad un anno di penitenza: durante la recita dei cencinquanta
salmi poteansi dare quindicimila colpi; laonde, col recitare venti volte
il salterio sotto continua flagellazione, redimevasi la penitenza di
cento anni; e talora Domenico la compiva in sei giorni. Così nella vita
di esso attesta san Pier Damiani, vivente intorno al mille; e altrove
scrive d'avere imposto all'arcivescovo di Milano la penitenza di cento
anni, e tassata la redenzione in un annuo tributo[347]. Il Muratori
stampò un Penitenziale, ove si espongono tali scambj di penitenza: «se
uno non può digiunare, scelga un sacerdote giusto, o un monaco che vero
monaco sia e viva secondo la regola, il quale adempia per lui, e se ne
redima a prezzo conveniente. Una messa cantata speciale può riscattare
dodici giorni; dieci messe riscattano tre mesi; trenta messe dodici
mesi»[348]. Della messa il valore è infinito; onde venne adoperata più
che le altre commutazioni.

Indulgenze concedeansi anche per opere civili o pietose, come il fondare
un ospedale, erigere una chiesa, fino costruire un ponte o una via,
conforme l'indole de' tempi ove ogn'atto di questo mondo consideravasi
in relazione coll'altro; ovvero per visitare un santuario, guerreggiare
contro gl'infedeli. Eravi chi avesse recato un danno a persona, cui non
potesse risarcire? e' procuravasi l'assoluzione mediante una somma, che
pareva soddisfare mediante l'uso che se ne faceva. L'Inquisizione
avrebbe dovuto punire molti delinquenti, se non si fosse ad essi aperto
uno scampo mediante le indulgenze, convertendo il delitto in peccato, il
supplizio in penitenze.

I teologi si domandarono, come mai la Chiesa potè dirsi autorizzata a
tale condiscendenza? E poichè allora la scolastica presumeva dare
ragione di tutto, allegarono che il fondo inesauribile di misericordia
preparato dal sangue di Cristo, e i meriti soprarogatorj dei santi,
formano un tesoro, applicabile a chi pentito partecipi ai sacramenti. Ma
di che non abusa l'uomo? Le indulgenze furono talvolta profuse con
giubilei plenarj, e col concederle a chi sovvenisse a bisogni temporali
della Chiesa, e persino a fazioni politiche de' suoi capi.

Furono rivolte anche sulle pene postume[349], volendo che papi e vescovi
potessero applicarvi una parte di questo inesauribile tesoro di
misericordia. Perocchè quel sentimento così umano che ci lega a coloro
che ne precedettero in quest'esiglio e ci attendono nella patria, era
stato consacrato dalla fede, riconoscendo la comunione de' fedeli,
cominciata tra le pruove della vita, continuata nel luogo della
temporaria espiazione, compita nella città celeste; sicchè a sollievo
delle anime aspettanti, noi militanti possiamo applicare e le preghiere
e le buone opere: tradizione antichissima, chiaramente indicata da
Tertulliano e da sant'Agostino[350], nel quale già si trova cenno delle
messe per defunti. Ma esso pure fu implebejato coll'idea del guadagno, e
i suffragi si restrinsero quasi unicamente a messe ed uffizj, che troppo
facilmente prendevano aspetto di bottega, e offrivano appiglio alla
maldicenza.

La Chiesa dichiarava espresso che le indulgenze esigono da una parte un
merito soprabbondante, dall'altra buone opere e pia coscienza; e che
mancano d'ogni valore se non vadano congiunte alla sincera ed efficace
contrizione, rimettendosi la penitenza solo in quanto era satisfattoria
cioè punizione, non in quanto era medicinale, cioè diretta a tener sotto
gli occhi del peccatore l'orror della colpa commessa[351]. Anche i
catechismi più comuni insegnano che l'indulgenza è una remissione di
pene temporali, che rimarrebbero a scontare pei peccati già rimessi
quanto alla pena eterna. Non concedesi dunque se non a quello cui già
sia stata rimessa la colpa; vale a dire all'uomo in istato di grazia,
cioè di moralità soprannaturale; all'uomo che possieda amore di Dio e
de' suoi precetti, dolore de' peccati, e proposito di non più
commetterne; amore del prossimo, perdono delle ingiurie ricevute,
riparazione delle fatte, adempimento de' proprj doveri, insomma
conformità (per quanto all'uomo è possibile) alla legge divina. Solo a
queste condizioni si ottiene l'assoluzione e per ciò l'indulgenza, cioè
la soddisfazione della pena temporale che il peccatore deve alla
giustizia divina anche dopo rimessa la colpa. La qual pena temporale
sconta l'uomo con opere penitenziali, a cui la Chiesa applica i meriti
infiniti dell'Uomo Dio.

Pure gl'ignoranti facilmente sdrucciolavano in opinione erronea, e se la
fomentavano coloro che ne traevano guadagno, ne facea beffe il bel
mondo. «Come credere al purgatorio predicato da bocche barbose, che non
sanno tampoco declinare _Musa Musæ_?» diceva Reuclin. E gli arguti:
«Che? Sono dunque in mano dei preti le porte del purgatorio e del
paradiso?» Sul teatro rappresentavansi spesso de' monaci, che vendeano
l'assoluzione al ladro, il quale anche negli estremi momenti esitava fra
la sua coscienza e il buon senso; altri che alle comari computavano
quanti giorni un'anima resterebbe nel purgatorio, e quanto ci vorrebbe a
riscattarla.

Fatto è che lo spaccio delle bolle d'indulgenze divenne pingue entrata
della romana curia; v'ebbe persone che n'apersero bottega
falsificandole: il che tutto e screditava le indulgenze, e ne adulterava
il senso. Il vulgo facilmente recavasi a credere che quel denaro fosse
il prezzo della cosa santa; e i questori che mandavansi a riscuoterlo,
partecipando d'un tanto per cento al vantaggio, ne magnificavano
profanamente la virtù. Ammirato il Giovane racconta che, nel 1431, a
Firenze venne un cavaliere gerosolimitano con un Minorita; e quegli
annunziava aver dal papa autorità ampia per assolvere dalla dannazione:
questi stava a banco nelle chiese a scrivere e sigillare le lettere
delle indulgenze e assoluzioni _di colpa e di pena_, dispensando in
arduissimi casi chi portava non solo denari, ma vesti e panni. I
senatori, dubitandone, vollero vedere la carta dell'autorità del
cavaliere, e la trovarono minore di quella che annunziava; onde gli
proibirono di passar più avanti, ne scrissero al papa, e comminarono
pene a simil gentaccia. Qual v'ha mai cosa santa, di cui l'avarizia non
abusi?

Han levato gran rumore d'un libro intitolato _Tasse della cancelleria
romana_, che nella sua crudezza sa di stranamente empio. Vi si dice:
«Per l'assoluzione di chi abusa d'una fanciulla, sei carlini; per
l'assoluzione d'un prete concubinario, sette carlini; d'un laico, otto.
Per l'assoluzione a chi ammazza il padre, la madre, il fratello, la
sorella, o altro parente ma laico, cinque carlini; d'un laico che uccise
un abate o altro ecclesiastico inferiore al vescovo sette o otto o nove
carlini; d'un marito che battè la moglie in modo che abortisse, otto
carlini; di padre o madre o parente che abbia soffocato un fanciullo,
quattro tornesi, un ducato, otto carlini. L'assoluzione per atto
d'impurità qualunque commesso da un chierico, con dispensa di potere
prendere gli Ordini e tenere benefizj, trentasei tornesi; per mangiare
latticinj ne' tempi proibiti, sei tornesi». Fu stampato nel 1471 a Roma;
vero è che non ha nessuna autorizzazione della Chiesa, ma moltissime
volte fu riprodotto colà, e a Parigi, Venezia, Colonia, senza che
scandolezzasse, finchè i principi protestanti l'inserirono nei _Centum
gravamina_, e Antonio du Ginet lo riprodusse a Lione nel 1564 col titolo
_Taxe des parties casuelles de la boutique du pape, etc_. Non è ben
determinato quanto sia autentico e genuino: ma comunque esso urti il
senso dell'onestà e della morale, basta il senso comune per comprendere
come quella tassa non riguardi il perdono, bensì paghi la spedizione
della cedola assolutoria, nè mai esclude la necessità del pentimento e
della soddisfazione.

I concilj di Vienna, di Costanza, di Laterano aveano severamente vietato
questo traffico; ma Leone X credette sorpassarvi per nobile oggetto,
qual era di far concorrere tutta la cristianità a due grandi imprese, a
tutta la cristianità interessanti; la crociata contro Selim granturco, e
l'erezione d'un incomparabile tempio.

Perocchè, arrivati all'apogeo della loro grandezza, i pontefici vollero
esprimerla anche materialmente con un tempio maggiore di tutti.

La basilica del Vaticano offre la storia della Chiesa e delle arti, da
quando Proba nel IV secolo vi ergeva una cappella al defunto marito
Anicio, fino a Tenerani e Pio IX. Nicola V, che fece per le arti non
meno di Leone X, avea pensato riedificarla splendidissimamente, e
l'annesso palazzo pontifizio ridurre in modo, che v'abitassero tutti i
cardinali, quasi concilio permanente attorno al papa; ivi tutti gli
uffizj della curia; ivi grandioso ricinto pel conclave, immenso teatro
per la coronazione, suntuosi appartamenti pei principi ospiti; il colle
Vaticano, seminato di palagi, comunicherebbe colla città mediante lunghi
porticati a botteghe; attorno giardini, fontane, cappelle, biblioteca.

Il gigantesco divisamento gli fu tronco dalla morte: poi Giulio II, a
cui nulla parea troppo grande, pensò dare condegna occupazione ai sommi
artisti allora fiorenti col ricostruire la basilica. Messosi all'opera,
fece distruggere cappelle e monumenti, preziosi per antichità e per
sante tradizioni, con grave dolore di chi venera le memorie[352]: e
stabilì (1509) che tutti i legati pii, lasciati a luoghi incapaci
d'accettarli, o che non si soddisfacessero dagli eredi, venissero
applicati alla fabbrica di San Pietro; istituendo a tal fine un
tribunale, che li riscotesse in tutto l'orbe cattolico[353].

Leone X, volendo compiere quel che il predecessore avea cominciato,
pensò farvi contribuire tutta la cristianità, e concedette ampie
indulgenze a chi offrisse denaro per quell'edifizio.

Il medioevo non avrebbe trovato a ridirvi; ma le nazioni già prendeano
il volo fuori del nido in cui aveano messe le penne; i principi,
bisognosi di denaro, chiedeano partecipare a questo speciale genere
d'entrata, e voleano trafficare le indulgenze come trafficavano i voti
per la corona imperiale.

L'incarico di predicare queste indulgenze era officio lucroso, come quel
di ogni esattore. E poichè Alberto, arcivescovo di Magonza, dovea render
al papa quarantacinquemila talleri e non n'avea modo, Leon X conferì ad
esso il diritto di distribuire le indulgenze in Germania[354]; ed esso
l'appaltò ai Fugger, banchieri famosi di Augusta. Giovanni Arcimboldo,
diacono d'Arcisate, poi arcivescovo di Milano, che prima n'avea avuto
l'incarico, riservossi la Danimarca e la Svezia, e in pochi anni
raccolse abbondanti limosine, che l'infedeltà d'alcuni agenti mandò a
male, pur la reputazione di esso uscendone intatta. Non così quella
d'Alberto, che scelse a divulgarle Tetzel, domenicano di Pirna, oratore
famoso per immaginazione, ma scarso di prudenza e di buon senso. Se
dessimo fede a Lutero, purtroppo franco nel calunniare, Tetzel traversò
la Sassonia con casse di cedole di perdono, bell'e firmate, e dove
arrivasse alzava una croce in piazza, spacciava la sua merce nelle
taverne, e «Comprate, comprate (diceva), che al suon d'ogni moneta che
casca nella mia cassetta, un'anima immortale esce dal purgatorio»; e il
popolo a calca versava talleri in cambio delle perdonanze. Così Lutero:
ma i sermoni di Tetzel furono stampati, e da un Protestante, e vi si
legge a tutte lettere la necessità della confessione e contrizione:
_quicumque confessus et contritus eleemosynam ad capsam posuerit juxta
consilium confessoris, plenariam omnium peccatorum suorum remissionem
habebit_.

«Farò io un buco in questo tamburo», gridò Lutero, indignato a quella
profanità; ad alcuni che le aveano comprate, negò l'assoluzione se non
riparassero il mal fatto e si emendassero. «Vi dico che l'indulgenza non
è nè di precetto, nè di consiglio divino. Che le anime possono liberarsi
dal purgatorio mercè dell'indulgenza io nol so e nol credo. Hai tu
denaro? Danne a chi ha fame, e varrà ben meglio che darlo per
compaginare pietre. Quel che dico scompaginerà la costoro bottega: ma
che importa il loro brontolio? Teste vuote, che non han mai letto la
Bibbia; che non intendono acca delle dottrine di Cristo; non si
capiscono tampoco fra di loro». Così declamava: poi alla chiesa di
Wittenberg, nella solennità d'Ognissanti, affigge novantacinque tesi;
pronunziando maledizione e anatema contro chiunque negasse la verità
delle indulgenze pontifizie[355], ma esservi abuso in esse.

E abuso v'era; lo attestò il medesimo concilio di Trento: sarebbesi
potuto confessarlo e toglierlo senza rompere l'unità della Chiesa; i
vescovi di Meissen e di Costanza aveano proibito quelle vendite; ma la
materia era preparata di maniera, che poca favilla destasse
inestinguibile vampa.

La materia delle indulgenze non era stata molto discussa dai dottori,
non mai dalla Chiesa congregata. La bolla di Clemente VI pel giubileo
del 1350 le stabiliva, ma non quanto bastasse per confutare le ragioni
di frà Martino: laonde il Tetzel che, dialettico robusto al modo degli
scolastici, presumeva trionfare di tutto mediante le argomentazioni,
anzichè angustiarsi nella quistione speciale, affrontò la generale,
asserendo che il consenso de' dottori della scuola le confermava, che il
papa, infallibile in materia di fede, le approvava, e ne davano segno
col pubblicarle: laonde le indulgenze erano articolo di fede, e
bisognava credervi. Lutero anch'esso dilargasi dal suo tema, e toglie in
esame l'autorità pontifizia; e dietro a questa la remissione de'
peccati, la penitenza, il purgatorio, tutti punti che s'attengono
all'indulgenze. Altri sorsero contraddittori a Lutero; ma da una parte,
col sentenziare d'eresia ogni divergenza d'opinione, spingevansi molti
nel campo nemico; dall'altra le dispute faceano il solito uffizio di
approfondare viepiù il frapposto fosso; dal censurare gli abusi si
trascorreva ad intaccare i principj; dall'asserire che i prelati
trascendevano, al revocare in dubbio la legittima potestà del papa e
persino l'autorità sua in materia di fede; e quando appunto le minacce
dei Turchi rendevano necessaria una più compatta unione, la cristianità
spartivasi in due campi, dapprima avversi, ben presto ostili.

Gli studenti di Wittenberg colgono un frate che portava ottocento copie
delle controtesi di Tetzel, gliele tolgono, e invitano chiassosamente a
venir vedere bruciarle, e il fanno tra le grida di «Viva Lutero, morte a
Tetzel». Lutero professava sottomettersi alla decisione del papa, ma
intanto sbraveggiava in tono di sfida; e dall'applauso popolare fatto
confidente in sè e ne' testi letterali della Bibbia, conculca la
tradizione e la scuola, e richiamando ai primi tempi della Chiesa, apre
l'avvenire con un appello al passato.

Come già erasi fatto col Savonarola, Tetzel proponeva a Lutero la pruova
dell'acqua e del fuoco; e questi, men civile del Ferrarese, rispondeva:
«Io me n'impippo de' tuoi ragli. Invece d'acqua ti suggerisco il sugo
della vite; invece del fuoco, odora una buona oca arrosto».

I dotti di qua dalle Alpi mal si capacitavano che da un _barbaro_
potesse derivare nulla di straordinario: e quali, invaghiti del bello,
credeano bastasse opporre ai sillogismi la fabbrica del Vaticano o il
quadro della Trasfigurazione; quali prendeano spasso di quelle
controversie, e di scoprire a Lutero forza d'ingegno meravigliosa: e,
sebbene scrivesse alla carlona, l'applaudivano di prendere pei capelli
la screditata scolastica e i frati, ch'eran per loro l'ignoranza e la
pedanteria incarnata. Gli spiriti forti ridevano del papa, messo in sì
male acque, ridevano insieme dei riformatori, che davansi aria di
rigoristi entusiastici, e collo scetticismo allora di moda, stavano a
vedere chi prevarrebbe. Anime rette credettero in Lutero ravvisare
l'uomo suscitato da Dio, non per demolire il dogma, ma per correggere le
aberrazioni. Quei che s'ammantano col nome di moderati, deploravano
quella scissura, ma credeano meglio non opporvisi per non esacerbare,
per non impedire la riconciliazione, per non compromettersi: morrebbe di
morte naturale, come tant'altre, nate negli ozj ringhiosi de' conventi.
Tale la considerò dapprincipio Leone X: allettato da quelle arguzie,
diceva: «Frà Martino ha bellissimo ingegno, e coteste le sono invidie
fratesche»: poi messo in collera da insulti anche personali, scappava a
dire: «Gli è un tedesco ubriaco, e bisogna lasciargli digerire il
vino»[356]. Dopo nove mesi, per ribattere il novatore colla penna fu
scelto Silvestro Mazzolini, da Priero presso Mondovì, maestro del sacro
palazzo[357].

Facile trovare nel costui dialogo futilità e cattivo gusto[358]; e lo
beffò Erasmo, sempre in caccia di corbellerie de' frati; ma è ben
lontano dall'esser l'ignorante che i Riformati vogliono dipingerlo.

Lutero risponde (1518); quegli replica _De juridica et irrefragabili
veritate ecclesiæ, romanique pontificis_; dove stabilisce che la Chiesa
è un regno, e regno monarchico; e il papa superiore al Concilio, di cui
parla con disprezzo: ma perchè, abbagliato dalla grandezza papale,
trovava insoffribile ogni resistenza, ogni esame, e trascendea nelle
confutazioni, venne consigliato a tacere, pur costituendolo vescovo e
giudice di Lutero. E Lutero rispondeva: «Non abbiam noi corde e spade e
fuoco per castigare i ladri, gli assassini, gli eretici? Perchè non ce
ne varremmo a castigare il papa, i cardinali, i vescovi, e tutta la
schiuma della sodoma romana, avvelenatrice della Chiesa di Dio? Perchè
non bagneremo le mani nel loro sangue onde salvar noi e i nostri
nepoti?»[359]

Altri risposero al novatore tessendo argomenti in quelle forme
sillogistiche, di cui erasi abusato nelle dispute e fino ne' Concilj
precedenti[360]; e Lutero sguizzava loro di mano con una celia; diceva:
«Voi discutete se Cristo è figliuolo di Dio, se Maria è sua madre, e non
tollerate che noi mettiamo in dubbio le indulgenze?» Avea torto,
perocchè quelle quistioni agitavansi ne' conventi o in adunanze
ecclesiastiche per mera esercitazione scolastica, mentre ora egli le
portava in piazza, le sottoponeva al senso comune che non è competente;
coll'audacia propria ringalluzziva la scolaresca che moltiplicava
applausi a lui, fischiate ai contraddittori, perchè sempre la forza
anormale viene ammirata, e trascina chi ha bisogno di movimento, e chi
trova più comodo il pensare coll'altrui che colla propria testa.
Espiavasi così la tolleranza usata all'Aretino e al Berni; come la
profanità dell'arte era espiata dalle migliaja di figure del Papa Asino,
che si diffondevano per Germania.

Leon X, uscitegli invano le promesse e le minacce, non ottenuto dai
principi che gli consegnassero Lutero, emana una bolla del 9 novembre
1518, ove dichiara legittime le indulgenze; e che esso, come successore
di san Pietro e vicario di Cristo, aveva autorità di concederle. Lutero
se n'appella al Concilio, e ricorrendo a frasi simpatiche, parla della
schiavitù di Babilonia, della libertà cristiana: _vindicemus communem
libertatem, liberemus oppressam patriam_, è il motto che dà a' suoi
Tedeschi. I quali presero a riguardare la resistenza come una
liberazione dalla tirannide italiana, e ripeteano le invettive che
Hutten avventava al papa: «Sei tu che hai dilapidato la Germania: sempre
il vangelo a te spiacque, o tiranno; tu ingojasti la Germania, tu la
rivomiterai, coll'ajuto di Dio. Tu hai ciuffato, estorto il nostro
denaro: cos'è che tu chiami la libertà della Chiesa? La facoltà di
derubarci. Non v'ha che te di eretico, Leone X, tu divenisti vero leone
e vorresti divorarci; non dimenticarti che il mio paese nutrisce altri
leoni contro di te, se non bastano le tre aquile: Leone....»; il resto
la creanza ci interdice di trascriverlo.

In fatto, sotto la specie di libertà religiosa, intendevasi libertà
politica, del resto connesse fra loro. E gran bisogno sentivasene in
Germania, ove ancora l'imperatore dipendeva dal papa; i baroni
dipendeano dall'imperatore; gli uomini gregarj dipendeano dai baroni;
alla gleba era legata la gentuccia e a servizj di corpo; libertà,
libertà, ripeteasi dunque dapertutto, e tal voce era compresa anche
dalla plebe. La nazionale avversione contro quanto stava di qua
dall'Alpi trovava pascolo in questa guerra di nuovo conio, e che non
cagionava nè spese, nè pericoli, nè spostamento d'abitudini; laonde i
Tedeschi s'affezionano al nuovo Erminio che muove guerra implacabile
agli Italiani, abisso di vizj e culmine d'orgoglio; declamano contro
malignità e finezze a cui essi non arrivano; contro la gaja cultura, da
cui si trovano tanto lontani; contro questi Italiani da cui erano stati
impediti, di soggiogare l'intera Europa; e ai quali Lutero portava ora
colla penna tanti danni, quanti già i Barbari colle armi.

Inoltre Lutero parla tedesco, e il tedesco vulgare, quando il più de'
predicatori, e tutti quelli mandati da Roma usavano il latino; e
possedendo se alcun altri mai il linguaggio popolare e quel
dell'ingiuria e del riso, tanto efficace in tempi commossi, egli «va,
viene, spezza, brucia le siepi che non può oltrepassare, precipita come
un sasso dalla vetta, travalica monti e valli come il diavolo», che sì
spesso egli invocava e adoperava.

E nel suo proclama _alla nobiltà cristiana di Germania_, la ingelosiva
delle progressive usurpazioni del clero e di Roma contro la sua nazione,
e «Via i nunzj apostolici, che rubano il nostro denaro. Papa di Roma,
dammi ben ascolto: tu non sei il maggior santo, no, ma il maggior
peccatore; il tuo trono non è saldato al cielo, ma affisso alla porta
dell'inferno.... Imperatore, sii tu padrone; il potere di Roma fu rubato
a te; noi non siamo più che gli schiavi de' sacri tiranni; a te il
titolo, a te il nome, a te le armi dell'impero; al papa i tesori e la
potenza di esso; il papa pappa il grano, a noi la buccia».

Ma il potere che vien offerto dalla rivoluzione, non talenta a principi
che abbiano senno; e Massimiliano imperatore, più vicino all'incendio,
ne conobbe la gravezza, e sollecitò Leone a citar Lutero al suo soglio.
Lutero, mentre riprotestavasi sommesso al pontefice, erasi procacciato
appoggi terreni, e mercè dell'elettore di Sassonia impetrò che il papa
deputasse uno ad esaminarlo in Germania. La scelta cadde su Tommaso De
Vio, detto poi il cardinale Cajetano, perchè nato a Gaeta il 1469. Di
buon'ora s'era egli salvato dal mondo vestendosi domenicano; lesse arti
a Padova, e oltre sapere tutto a mente san Tommaso, ne imitava il modo
d'argomentare, unendo cioè la dialettica d'Aristotele coll'ispirazione
di Platone. Perciò correasi ad ascoltarlo, ma egli fuggiva i rumori, e
s'ascose per sottrarsi a un trionfo in quell'università. Pure spesso
interveniva alle dispute filosofiche e religiose, che molto costumavansi
allora, e singolarmente in una del capitolo generale del suo Ordine a
Ferrara, in presenza del duca e del senato, combattendo Giovanni Pico
della Mirandola. Al conciliabolo di Pisa dal pulpito sfolgorò il
cardinale Carvajal, e gli altri motori dello scisma, e compose un
trattato sull'autorità del papa, sostenendone la supremazia monarchica
sul concilio. Aveva anche pubblicato un'opera sulle indulgenze, lodata
da Erasmo come di quelle che _rem illustrant, non excitant tumultum_,
dove conferma l'efficacia di esse non solo nella remissione della pena
_ut est debita ex vinculo ecclesiæ_, ma anche della pena _ut est debita
ex vinculo divinæ justitiæ_: distinse i meriti di Gesù Cristo e de'
santi, e l'applicazione di essi per _modo di assoluzione e per modo di
suffragio_.

Fatto vescovo di Gaeta, poi cardinale da Leon X, si mostrò attivissimo
nell'eccitare la Germania, la Scandinavia, l'Ungheria contro i Turchi:
in Boemia represse le reliquie degli Ussiti; dimostrò come a torto si
tacciasse d'avarizia la Chiesa romana per le decime, atteso l'uso che ne
faceva; più tardi Clemente VII, udendo ch'egli era assalito dai
saccheggiatori di Roma, mandò a supplicare per lui, acciocchè non
s'estinguesse un tal lume della Chiesa. L'insigne teologo Michele Cano
dice: «Io l'ebbi sempre in gratissima stima, e altamente giovò alla
Chiesa, e poteva esser pari ai sommi edificatori di questa, se la
dottrina sua non avesse macchiata di certa qual lebbra, e o per
curiosità, o per sottigliezza d'ingegno non avesse esposte le sacre
lettere piuttosto ad arbitrio suo, quasi sempre felicissimamente, ma in
varj luoghi più acutamente che felicemente. Poco tenace dell'antica
tradizione, nè molto versato nella lettura dei santi Padri, non volle
apprender i misteri del libro suggellato da quelli che, non a proprio
senso, ma secondo la tradizione dei maggiori, cioè la vera, apersero la
chiave del verbo di Dio. Avendo scritto molte cose eccellenti, da ultimo
con alcune nuove sposizioni della Scrittura scemò autorità a ciò che
avea detto pensatissimamente»[361].

A torto dunque si imputa Leone X d'avere scelto un debole avversario a
Lutero. Questi propose una disputa pubblica in Augusta, ravvisando
quanto vantaggio trarrebbe dal chiamare le turbe a giudici in punti
positivi, fondati sull'autorità. Ricusato, Lutero tergiversa, vuol
discutere, ringrazia il Cajetano d'avere usata carità con lui, che pur
s'era mostrato violento, ostile, insolente verso il nome del papa, ma il
Cajetano riduce la quistione ai veri e finali suoi termini, cioè
l'obbedienza assoluta alla Chiesa come unica autorevole in materia di
fede: «Il papa ripruova le vostre proposizioni: voi dovete
sottomettervi. Il volete o no?» E Lutero ricusa l'incondizionata
sommessione, e sostiene che anche ad un laico armato di autorità devesi
credere più che al papa, che al Concilio, che alla Chiesa stessa.

Leone approvò l'operato dai distributori delle bolle d'indulgenze, e
dichiarò eretico Lutero. Il quale al papa scrisse in tono di canzonella,
compassionandolo come un agnello fra lupi, e ricantando tutte le
abominazioni che di Roma si dicevano. «Gran peccato, o buon Leone, che
tu sia divenuto papa in tempi ove nol potrebb'essere che il demonio. Deh
fossi tu vissuto su qualche benefizio o del paterno retaggio, anzichè
cercare un onore, solo degno di Giuda e de' pari suoi, da Dio rejetti».

Leone allora abbandonata la longanimità, scagliò la scomunica il 15
giugno 1520 in una Bolla studiosissimamente elaborata da Pietro Accolti
cardinale d'Ancona. Invocato Cristo a sorgere in ajuto della Chiesa sua
in tanto bisogno; e san Pietro a prendere cura di questa che gli era
stata affidata da Cristo; e san Paolo, che, sebbene avesse giudicato
necessarie le eresie per provare i buoni, trovasse conveniente
estinguerle al nascere; e tutti i santi e la Chiesa universale perchè
intercedessero appo Dio onde cessasse questa contaminazione, diceasi
come molti errori, già condannati ne' Greci e ne' Boemi, alcuni asserti
ereticali, altri falsi e scandalosi, si seminassero ora in quella
Germania, che sempre fu cara a' pontefici, i quali da essa, dopo la
traslazione dell'impero dall'Oriente in Occidente, sempre aveano chiesto
i difensori.

Qui recita quarantun articolo intorno al peccato originale, alla
penitenza, alla remissione de' peccati, alla comunione, alle indulgenze,
alla scomunica, alla potestà dei papi, all'autorità de' concilj, alle
buone opere, al libero arbitrio, al purgatorio, alla mendicità: tutti
opposti alla carità, alla riverenza dovuta alla romana Chiesa,
all'obbedienza che è nerbo della disciplina ecclesiastica. Dopo fattone
diligente scrutinio con cardinali e capi d'Ordini regolari, e teologi e
dottori, li condanna e ripruova come ereticali, scandalosi, falsi,
contrarj alla cattolica verità; proibisce sotto pena di scomunica il
tenerli, difenderli, favorirli, predicarli. E poichè quelli sono
asseriti ne' libri di frà Martino, condanna questi e chiunque li serba o
legge, volendo siano abbruciati. Martino, più volte ammonito e citato
con promessa di sicurezza, se fosse ito non avrebbe trovato nella Corte
tanti falli quanti spacciava, e il papa l'avrebbe chiarito che i suoi
predecessori mai non errarono nelle loro costituzioni. Ma avendo
sostenuto un anno intero le censure, e fatto appello al Concilio (locchè
era proibito da Pio II e Giulio II) poteva il papa procedere a
condannarlo; eppure, scordate le ingiurie, voleva ancora ammonirlo a
desistere dagli errori, e fra sessanta giorni revocarli e bruciare i
libri: altrimenti lui e suoi sostenitori dichiara pertinaci e notorj
eretici: deva ognuno prenderli e consegnarli, o almeno scacciarli,
dichiarando interdetti i luoghi ove dimorassero.

Questa bolla ammiravano alcuni come un modello di latinità, di scienza,
di diplomazia; altri la criticavano come soverchiamente lunga; e che vi
s'adoprasse stile di curia, anzichè i pronunziati scritturali; e che le
quarantuna proposizioni vi si dichiarassero cumulativamente ereticali o
scandalose o false, anzichè specificare le singole.

Lutero, imitando quel che il Savonarola avea fatto co' libri immorali,
davanti agli studenti di Wittenberg brucia le Decretali, la Somma di san
Tommaso, gli scritti avversi, e la Bolla, dicendo: «Oh potessi fare
altrettanto del papa, il quale conturbò il santo del Signore»; e gittata
la cocolla, sposa Caterina Bore smonacata, cangia forma al culto, e
mentre Leone persiste a chiamarlo a penitenza, pubblica il trattato
della _Libertà cristiana_.

Egli non aveva un programma prestabilito e compiuto, come non l'ha verun
novatore; procedeva a tentone, come chi fra il bujo si orizzonta a poco
a poco, e trae conseguenze dalla primaria quistione. E la quistione
suprema era: «L'uomo decaduto in qual maniera può mettersi in unione con
Cristo, e partecipare del frutto della redenzione?» Svolgendolo, arriva
al suo canone fondamentale, la giustificazione pei soli meriti di
Cristo; donde qual corollario derivano il servo arbitrio e la
predestinazione.

Tutto l'edifizio sacerdotale si compagina sulla credenza che le buone
opere ci meritino la salute; Lutero, volendo demolirlo, nega che l'uomo
possa cooperare alla propria salvezza; _sola la fede ci salva_, è
scritto nel Vangelo; noi siamo corruzione e peccato, sicchè nulla
possiamo se non quel che ci è _dato dal nostro divin Salvatore_, nè
merito avvi o giustizia se non in esso; onde sono inutili, anzi nocevoli
alla salute le buone opere dell'uomo, il quale non è libero della sua
volontà più che nol sia la sega in man del legnajuolo; è pelagianismo il
credere che l'uomo meriti la Salute, mentre la merita il solo Gesù
Cristo. Che penitenze? Che sacramenti? Che suffragi pei morti, o altre
opere satisfattorie? Il male è condizione d'ogni uomo finito; cioè il
sentimento del peccato non può essere divelto da nessuna coscienza
finita. Il cristiano non può raggiungere la pace se non coll'elevare lo
spirito all'infinito, alla considerazione della bontà di Dio. Allora
alla libertà morale annichilata si surroga la libertà cristiana; questa
significa affrancamento dalla legge morale, che non si riferisce se non
al mondo finito; nè ammette applicazioni a ciò che è perpetuo.

Se la fede è non solo un dono gratuito, ma una specie di forza che
costringe l'assenso, mentre l'uomo, corrotto radicalmente, è incapace di
ogni libertà, fino quella di desiderare e scegliere il bene, egli non
coopera a un atto di fede, e la Grazia opera in esso non solo avanti, ma
senza della libertà; laonde fede e libertà si escludono. Pe' Cattolici
invece il libero arbitrio suppone la facoltà non di meritare la Grazia
divina, ma di assentirvi o no, sicchè l'atto di fede è un atto di
volontà: _credere in voluntate credentium consistit_, dice san Tommaso:
si conoscono grazie che provocano, che eccitano, che attraggono la
libertà, ma nessuna che la costringa o la sopprima.

Colla giustificazione al modo di Lutero, cioè se l'uomo diviene giusto
pei soli meriti di Cristo, a lui applicati per mezzo della fede, è tolto
via tutto quanto s'interpone fra Cristo giustificatore e il fedele
giustificato; cioè tutta l'azione intermedia della Chiesa sull'uomo. Per
tal modo, dalla negazione della libertà metafisica egli deduce la
libertà ecclesiastica.

Se ogni uomo è guidato da Dio, che bisogno ha più d'autorità umana? Che
bisogno di espiazione se i fedeli divengono di colpo perfetti mediante i
meriti di Cristo? Basta eccitare la fede mediante la predicazione del
vangelo; se i Cristiani credono, eccoli santi; se no, vanno perduti
senza avere subìto la noja di confessioni, di digiuni, di scomuniche. Il
culto esterno è inutile, bastando la fiducia in Dio; sicchè ogni
Cristiano è sacerdote, e la gerarchia fu costituita solo per ambizione
d'alcuni, per ignoranza servile dei più, a scapito della libertà dei
figliuoli di Dio. Manca la ragione della progressiva educazione di esso
alla santità; e la Chiesa, coi vescovi, col papa, coi sacramenti
inalterabili non solo, ma cogli Ordini monastici, colle penitenze, le
indulgenze e tutto l'organamento esteriore, modificabile secondo i
tempi, diviene un assurdo, un effetto di pregiudizj e di cupidigie.

Ma se ci manca il libero arbitrio, per qual fine Iddio ci ha dato i suoi
comandamenti? Lutero non esita a rispondere, che fu per provare agli
uomini l'impotenza della loro volontà, beffandoli coll'ingiungere cose,
ad osservare le quali non hanno forza[362]. Pecchiamo pure, pecchiamo
fortemente; uccidessimo, fornicassimo cento volte il giorno; non serve,
purchè crediamo alle dovizie dell'agnello di Dio, che toglie i peccati
del mondo[363]. Questa negazione del cooperamento dell'uomo fu
intitolato Vangelo, e nemico al Vangelo si disse chiunque sosteneva il
contrario.

Noi insistiamo sopra Lutero perchè una dottrina religiosa dev'essere
giudicata alla sua sorgente e in ciò che ha di originale e primitivo: e
perchè egli è il vero fondatore del protestantismo, avendo aperto una
via propria coll'eriger la ragione individuale al posto di Cristo, che
solo rappresenta l'umanità redenta e che non comunicò tal privilegio se
non alla sua Chiesa. Le ragioni speciali che lo condussero a formulare
il suo sistema, le prospettive generali del suo edifizio, le sue pruove
dedotte dalla ragione e dalle opinioni, si riproducono nella
interminabile figliolanza, per quanto sembri discorde; nè le passioni
dell'anima sua possono separarsi dalle sue credenze.

Come si disse che Dio è l'unico autore della nostra santificazione,
così, abolendo ancora ogni intervento della Chiesa fra il credente e la
sacra scrittura, si disse che questa è unica sorgente, unica regola e
giudice della fede. Nè l'intelligenza del santo libro è studio solo di
filologia e storia, ma ispirazione divina; giacchè lo spirito pone la
verità ne' nostri cuori. Confondeasi così il lettore della Bibbia colla
Bibbia stessa, quasi non sia diverso il leggere uno scritto infallibile,
ed essere infallibile nell'interpretarlo. Con ciò Lutero rendeva
superfluo un magistero per l'istruzione cristiana e per conservare la
tradizione. La Chiesa non è infallibile, e può discordare dalla parola
divina. Questa vuole essere interpretata dai singoli con sincerità e
invocando lo Spirito Santo; solo in quella vuolsi avere fede, non
badando a Padri o ai Concilj, ma al testo qual è da ciascuno
interpretato.

Con questo criterio, Lutero vi leggeva, che Iddio è unico autore del
bene come del male; che i sacramenti dispongono alla salute, ma non la
conferiscono; che nella santa cena è presente Cristo, ma non
transustanziato; che il ministro è un uomo in nulla diverso dagli altri,
e in conseguenza non può assolvere i fratelli, nè deve distinguersene
per voti e rigori; che la giurisdizione religiosa spetta intera ai
vescovi, eguali tra loro sotto Cristo, che n'è il capo, e scelti dai
principi. Nei due Testamenti, e nei quattro primi Concilj non si parla
di purgatorio, d'indulgenze, di voti monastici, d'invocazione de' santi,
di suffragi: dunque non si devono accettare. L'Ordine non è sacramento:
Dio consacra interiormente l'intelligenza di tutti.

Insomma per abbattere l'autorità ecclesiastica prevalsa, per inaridire
la fonte delle ricchezze e della potestà del papa e dei preti, togliea
la distinzione di spirituale e temporale, d'ogni laico faceva un
sacerdote, dandogli la Bibbia e «Interpretala come Dio t'ispira».

Bisogna dunque vulgarizzarla. Fin nel primo secolo essa erasi voltata
dall'ebraico e dal greco in latino[364], e sant'Agostino dice che ne
correvano innumerevoli traduzioni, perchè, chiunque sapesse di greco,
metteasi a farne una; onde s'aveano, a detta di san Girolamo, _tot
exemplaria quot codices_; ma da noi preferivasi la itala. Era anche
discussa, e Tertulliano scriveva nel libro delle Prescrizioni: «Gli
eretici ripudiano i libri della Scrittura che a loro sconvengono; gli
altri interpretano a loro fantasia; non si fanno scrupolo di cambiare il
senso nelle loro versioni: per acquistare un proselito gli annunziano
ch'è necessità esaminare tutto, cercare la verità in se stessa:
acquistato che l'abbiano, non soffrono più ch'e' li contraddica:
lusingano le donne e gl'ignoranti col farli credere che ben presto ne
sapranno meglio dei dottori; declamano contro la corruzione del clero e
della Chiesa; hanno discorsi vani, arroganti, pieni di fiele: camminano
dietro a tutte le passioni umane».

Questo scriveasi avanti il secolo II, non nel XV o nel XIX: tant'è vero
che l'età nostra ci pare talvolta straordinaria sol perchè viviamo in
quella, non nelle altre. Ulfila tradusse la Bibbia pei Goti, altri per
gli altri popoli che si convertivano, nè forse v'è lingua che non ne
possedesse versioni anteriori alla Riforma. La Biblioteca Imperiale di
Parigi possiede ottomila ottocenventitrè Bibbie in sesto grande;
novemila trecentottanta in medio; diecimila quattrocendicianove in
piccolo; oltre trentasettemila quattrocentottantaquattro codici di
alcune parti; e tutti, o la massima parte anteriori alla stampa. Nella
Germania stessa noverano almeno sedici traduzioni nella lingua
letteraria e cinque nella popolare, anteriori a Lutero[365].

Restringendoci all'Italia, il latino vi era conosciuto da chiunque
sapesse leggere: pure Giambattista Tavelli di Fusignano avea fatto una
traduzione vulgare della Bibbia a istanza d'una sorella di Eugenio IV;
un'altra Jacopo da Varagine vescovo di Genova; quella di Nicolò Malermi
o Manerbi frate camaldolese fu stampata a Venezia nel 1471, _in kalende
agosto_. _In kalende octobrio_ è iscritta un'altra che pare dell'anno
stesso, e alcuno dubitò essere quella del Varagine, ma certamente è
lavoro più antico, e di veneziano, malgrado i toscanesimi[366]. Esso
Malermi nel prologo dice che «già per passati tempi è stato traducto
esso magno volume della Bibbia in volgare et in lingua materna», ma con
grandi errori e mancamenti, atteso i quali egli ripigliò il lavoro. E fu
stampato trentatrè volte, di cui nove innanzi la fine del secolo, e
cinque di esse a Venezia[367]. Nel 1472 si stamparono pure a Venezia per
Cristoforo Arnoldo _Le epistole e gli evangeli che si leggono in tutto
l'anno nella messa_, vulgarizzamento toscano, più volte riprodotto in
quel secolo, il che attesta come si leggessero dal pubblico; nel 1486 si
produssero _Li quattro volumini degli evangeli, volgarizzati da frate
Guido, con le loro esposizioni facte per frate Simone da Cascia_. Ora
appunto si stampa una Bibbia che credesi tradotta dal Cavalca[368].

È una delle rarità bibliografiche l'opera in-folio stampata a Venezia il
1512, per Zuane Antonio e fradeli da Sabio, col titolo _Epistole,
evangelii volgari historiadi_, di cui alcune tavole sono intagliate in
legno da Marcantonio Raimondi.

La biblioteca di Siena possiede un Vecchio Testamento in italiano,
appartenuto ad una confraternita, che nelle adunanze festive ne leggeva
alcuni brani. Altre versioni intere o di parti ha la Magliabecchiana di
Firenze, che già furono di Santa Maria Novella, altre la Ricardiana, la
Laurenziana, e due la imperiale di Parigi.

Anzi Jacobo Passavanti, nello _Specchio di penitenza_, si lagna che i
traduttori della sacra scrittura «la avviliscono in molte maniere, e
quali con parlar mozzo la troncano, come i Francesi e i Provenzali;
quali con lo scuro linguaggio l'offuscano, come i Tedeschi, Ungheri e
Inglesi; quali col vulgare bazzesco e crojo la incrudiscono, come sono i
Lombardi; quali con vocaboli ambigui e dubbiosi dimezzandola la
dividono, come Napoletani e Regnicoli; quali con l'accento aspro
l'irruginiscono, come sono i Romani; alquanti altri con favella
maremmana, rusticana, alpigiana l'arrozziscono; e alquanti, meno male
degli altri come sono i Toscani, malmenandola troppo la insucidano e
abbruniscono, tra' quali i Fiorentini con vocaboli squarciati e
smaniosi, e col loro parlare fiorentinesco stendendola e facendola
rincrescevole, la intorbidano e rimescolano, con _occi e poscia, aguale,
pur dianzi, mai, pur sì e berretteggiate_».

Censuravasi dunque il modo, non si condannava il fatto. L'ascetico
autore dell'_Imitazione di Cristo_ non vieta di leggere la Scrittura, ma
vuole «vi si cerchi la verità, non la dicitura; leggasi collo spirito
con cui fu fatta». Alfonso d'Aragona re di Sicilia avea letto
quattordici volte la Bibbia coi commenti di Nicolò da Lira, e la citava
ogni tratto.

E lettura assidua ne faceva il Savonarola, come appare dalle postille
che caricano le Bibbie che gli appartennero, o che (noi supponiamo) gli
erano date da' suoi devoti perchè le impreziosisse con sue annotazioni.
Egli poi ne' sermoni e negli opuscoli, ne faceva l'interpretazione
spirituale, la morale, l'allegorica, l'anagogica. A cagion d'esempio,
«Dio creò il cielo e la terra», oltre il senso letterale, ha il senso
spirituale di creazione dell'anima e del corpo; il senso morale vorrà
indicare la ragione e l'istinto; il senso allegorico o riguarda la
Chiesa ebraica, e cielo e terra significheranno Adamo ed Eva, sole e
terra significheranno il gran sacerdote e il re; o risguarda la Chiesa
cattolica, e significheranno il popolo eletto e i Gentili, il papa e
l'imperatore. Il senso anagogico si riporta alla Chiesa trionfante,
sicchè cielo, terra, sole, luna, stelle significheranno gli angeli, gli
uomini, Cristo, la Vergine, i beati, e così via[369].

Egli vedeva però che per tal uopo occorre conoscere bene la lingua e la
storia, avere molta famigliarità colla Bibbia, non urtare le opinioni
della Chiesa romana, non trascinare i sensi a fini nostri particolari,
per non mettere il nostro intelletto in luogo della parola divina, e
lasciarsi guidare dalla Grazia divina, meritandola colla purità del
cuore, col lungo esercizio della carità, coll'elevarsi sopra le cose
terrene. Buoni avvertimenti, ch'egli ripeteva ogni tratto a se stesso
onde tenersi in guardia; pure in fatto nella Bibbia trovava spesso i
pensieri suoi, le sue speranze, l'allusione alle cose pubbliche e
private, grandi e piccole, e le sue visioni e profezie.

Non per questo vogliamo negare che lo studio della sacra scrittura fosse
negletto. Un frate esemplarissimo e d'eccellenti intenzioni, al
Savonarola ancora novizio dimandava che servisse leggere il Testamento
Vecchio, e qual frutto si raccolga da avvenimenti di tanti secoli
fa[370]. In fatti il paese nostro e il tempo erano cattolici, nè
occorrevano controversie con eterodossi; laonde la Bibbia era piuttosto
serbata come un repertorio pei predicatori. Tutte le feste della Chiesa
si riferiscono ai fasti di Cristo e alla ricordanza delle persone che
più rifulgono nella storia di essa: onde il parroco, spiegando il
vangelo, non ha bisogno di discutere verità, che non sono poste in
controversia. La scarsità dei libri facea volgere più volentieri a
catene, a compendj, a concordanze di autori che aveano scritto sulla
Bibbia, e delle cui asserzioni si fiancheggiavano: e come per la
medicina adopravasi la _Somma_ di Taddeo e per la giurisprudenza quella
di Azzone, così per la teologia si ricorreva alle _Sentenze_ di Pietro
Lombardo, alla _Somma_ di san Tommaso e ad altre, prestandovi fiducia
illimitata, come avviene delle materie non discusse, e tenendosi
dispensati dall'esaminare nè la natura per le materie fisiche, nè i
testi per le morali, limitandosi ad applicarli con argomentazione
sottile; affare di logica e nulla più. I predicatori, allora come
oggidì, spesso ne alteravano il senso, e per trarne edificazione
amplificavano, esageravano i testi, oltrepassando i limiti del vero; o
per lo meno obbligati a fare un discorso a tempi fissi, non han tempo di
stare a esaminare colla filologia e coll'esegesi la lezione del vangelo
corrente; l'accettano come i più, o come essi stessi lo presero, fino
violentando la lettera per acconciarla al loro intento morale.

Pure non mancava chi la Bibbia commentasse. Pantaleone Giustiniani, che
fu frate Agostino da Genova, poi vescovo di Nebbio in Corsica, e
intervenne al Concilio lateranese, e sapea greco, ebraico, arabo,
caldeo, e fu adoprato da Francesco I a stabilire nell'università di
Parigi l'insegnamento delle lingue orientali, deliberato a pubblicare la
Bibbia in latino, greco, ebraico, arabo e caldeo, cominciò dal Salterio,
dedicato a Leone X il 1516, in otto colonne, una col testo ebraico, le
altre con sei interpretazioni e colle note; ma di duemila esemplari in
carta e cinquanta in pergamena, appena un quarto trovò compratori; il
resto naufragò con lui. L'università di Alcala in Spagna, fondata dal
cardinale Ximenes, pubblicò la prima Bibbia poliglotta, dedicata a Leone
X. Sante Pagnini lucchese, autore del _Thesaurus linguæ sanctæ_, opera
mirabile per tempi sì scarsi di mezzi, e che neppure oggi troverebbe chi
osasse rifarla, compì una nuova traduzione latina della Bibbia; Leone X
ne pagò la stampa, che, morto lui, fu pubblicata a Lione nel 1527. Il
padre Spirito Rotier, inquisitore a Tolosa, passava da Lione nell'agosto
1541, e sentendo sonare a morto tutte le compane, e vedendo trecento
uomini abbrunati accompagnare una bara fra tutto il popolo accorso,
domandò chi fosse morto, e gli fu detto, Sante Pagnini, un buon
domenicano da Lucca, di settantun anno, la cui voce e l'esempio avea
tenuto lontane le innovazioni luterane; che aveva istituito un ricovero
pei facchini, e indotto la città a fondare una leproseria, massime coi
doni dei ricchi mercanti fiorentini, e ogni giorno facea questue a
favore de' poveri[371]. La sua Bibbia, lodatissima da Huet e Touron, è
criticata acerbamente da Richard Simon; ma qui non è quistione del
merito, bensì del fatto. Il cardinale Adriano di Corneto, adoprato in
nunziature ed alti uffizj, sbandito da Giulio II e da Leone X, dirige a
Carlo V un trattato _De sermone latino_, nella cui prefazione racconta
come egli erasi accinto a voltare dall'ebraico in latino il Vecchio
Testamento; ma avendo dovuto, dallo sdegno del papa, rifuggire fra le
Alpi trentine, dove nessun ebreo ardisce venire per l'antica uccisione
del fanciullo Simone, erasi applicato a questi studj.

E solo per l'intelligenza della Bibbia si studiava l'ebraico; e il
Concilio di Vienna del 1311 stabilì che nelle Università di Oxford,
Parigi, Bologna, Salamanca, e dove siede la curia romana, v'avesse due
professori di lingue orientali; ordine inserito nel _Corpus juris
canonici_[372]. Il primo cristiano che ne desse lezioni in Italia, pare
Felice da Prato, israelita convertito, che nel 1515 pubblicò la versione
latina dei Salmi, e da Leone X fu invitato a Roma nel 1518. In quel
tempo lo insegnava anche Agatia Guidacerio di Catania, chiamato poi da
Francesco I nel collegio delle tre lingue, dove gli succedette Paolo
Paradisi di Canossa. L'Italia fu la prima che stampasse ebraico: nel
1475 a Reggio di Calabria e a Pieve di Sacco nel Padovano n'erano
tipografie, e subito dopo a Mantova, Ferrara, Bologna. Le sole edizioni
della Bibbia ebraica in quel secolo furono: 1ª quella di Soncino
cremonese nel 1488; 2ª quella del 1491 dai tipografi stessi di Soncino
trasferitisi a Napoli; 3ª quella del 1494 a Brescia. Nel 1482 stampossi
a Bologna il _Targum di Onkelos_, ch'è la migliore e più antica versione
caldaica del Pentateuco.

I migliori codici della versione dei LXX gli abbiam in Italia, e valga
per tutti il vaticano[373]. Nel secolo XV si fecero tre edizioni del
_Salterio greco_: a Milano nel 1481, a Venezia nel 1486; poi da Aldo nel
1497 e 98. In Italia è la maggior raccolta di codici biblici, e la sola
di Bernardo De-Rossi a Parma ne possiede settecendodici del testo
ebraico: cioè più che non ne siano in tutto il resto del mondo. Meglio
di cento edizioni della _Vulgata_ si fecero in Italia. A Fano si stampò
nel 1514 una raccolta di preghiere in arabo, nella stamperia fondata da
Giulio II[374]. Il suddetto Pagnini cominciò a Venezia l'edizione
originale del Corano[375]. Nel 1513 erasi pubblicato a Roma il Salterio
in etiope[376]; poi nel 48 il Nuovo Testamento per cura di Mariano
Vittorio di Rieti, che quattro anni più tardi diede la prima grammatica
abissina[377]; Teseo Ambrogio dei conti d'Albonese insegnò a Bologna le
lingue caldaica, siriaca, armena, delle quali e di dieci altre diede
un'introduzione (Pavia, 1539) coi caratteri di quaranta alfabeti.

Risorta la filologia, la critica, addestrata sopra autori profani,
volgeasi ai testi sacri; e nella baldanza d'un nuovo acquisto, ciascuno
volea cercarvi interpretazioni a suo senno. L'illustre tedesco Reuclin
fece molte emende alla Vulgata; e se le menti anguste ne riceveano
scandalo, Roma lo difese, tollerante fin dove non ne pericolasse l'unità
della fede. Dicemmo come la traduzione di Erasmo fosse da Leone X
francheggiata contro i censori. È dunque ciancia che soltanto dopo
Lutero venisse divulgata la Bibbia; anzi son tanti i lavori d'esegesi
sacra a quel tempo, che il protestante Mac Crie ammira la Provvidenza,
la quale faceva dai Cattolici stessi affilare le armi che doveano
trafiggerli.

Ma si ha da questo a indurre che la lettura della Bibbia abbia a
diffondersi tra il vulgo?

I Protestanti, per togliere importanza al clero, proclamarono il diritto
che ha ciascuno d'interpretarla; e asserirono che essa è facile,
accessibile a tutti. E così? Ma tutto fra noi è autorità e tradizione,
cominciando dal parlare, col quale riceviamo un'infinità di idee e di
giudizj. Persino le verità fondamentali di fisica, di matematica, di
giurisprudenza, di medicina pochi le attinsero alle prime sorgenti: e la
pluralità non trae la scienza che dalla asserzione altrui. Che sarà poi
d'una storia che in poche pagine compendia gli avvenimenti di
quattromila anni, che espone l'origine e la destinazione del mondo e
dell'uomo, le profezie e il loro adempimento, le costumanze pastorali e
lo sfarzo delle reggie, la predica dell'apostolo, la disputa del
dottore, le sentenze del savio, l'osanna della vittoria e il gemito
della schiavitù? Un libro scritto la più parte in una lingua conosciuta
da pochi, fedeli a una religione caduta; in uno stile che va dal più
semplice racconto fin alla più sublime lirica; collo spirito di
lontanissimi tempi e di civiltà diversissima, con allusioni, idiotismi,
sarà egli spiegabile da qualunque lettore?

La verità divina v'è espressa colle forme del pensiero umano, colle
condizioni dell'umano linguaggio, e però con tutte le condizioni di
questo, coll'arte dello scrivente, le figure, l'iperbole; ora s'annunzia
col mistero, ora per allusione e parabola; dirigesi all'immaginazione,
al cuore, alla coscienza, non soltanto all'intelletto, a convincere il
quale potrebbe dare una formola più precisa.

Quindi la varietà nell'intender le Scritture, e perciò nelle differenti
versioni la Bibbia fu alterata, a seconda de' traduttori. La più antica,
quella dei Settanta, è avvivata di spirito neoplatonico, e discosta
dalla parafrasi caldaica, fatta per tutt'altri lettori. Differisce da
entrambe la versione latina, fatta da san Girolamo, e che divenne la
base di quella che la Chiesa cattolica adottò poi come vulgata. Lutero
la repudiò e fece una versione tedesca pel comodo della nuova Chiesa;
gli altri riformatori lo imitarono, sicchè v'ebbe Bibbia calvinista,
metodista, sociniana, e via discorrete.

Più variate ancora sono le induzioni de' commentatori. Ogni errore vi
trova appoggio; ogni sistema, anche filosofico. Quanti dottori, quanti
libri disputarono sul vero senso di alcuni passi! Prendansi due de'
principali: «Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue»: e «Tu sei
Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa»[378]. Quanto
discuterne e fuori e dentro del cattolicismo! or come mai un semplice
fedele pretenderà averne raggiunta la vera significazione? Un passo di
san Paolo a Timoteo eccita un'infinità di discussioni; e dà fondamento
alla moderna quistione intorno alla natura della theopneustia[379].
Quella risposta tanto precisa di Cristo al giovane, _Se vuoi entrare
alla vita osserva i miei comandamenti_[380], Lutero la dichiara non
compresa da nessuno, perchè reca impaccio al suo sistema, e porge buon
appoggio all'edifizio cattolico. Anzi, chi assicurerà che la Bibbia è
ispirata, se non ce lo dica la Chiesa? Lutero stesso parte accettava,
parte repudiava del testo sacro. Per esempio, l'epistola di san Giacomo
sulle relazioni tra la fede e gli atti del Cristiano contrariava le
opinioni sue, ed egli la dichiarò falsa, indegna, _straminea_; così
d'altri libri, che dappoi i suoi seguaci hanno ammessi.

Come dunque trovarvi quella solidità incrollabile ch'è necessaria alla
fede? come trarne lume al credere e all'operare? Per la sapiente
distribuzione della Scrittura, molti passi di essa non possono
intendersi se non confrontati con altri e col complesso; lavoro a cui
non possono essere capaci se non menti profondamente esercitate. In un
luogo leggiamo, _Qui credit in me habet vitam æternam_, ma in un altro,
_Fides sine operibus mortua est_. Alcuni possono fin riuscire di
scandalo, per esempio il Cantico de' Cantici, o le dispute di san Paolo
nella epistola ai Romani sovra il prepuzio e la circoncisione e alcuni
de' Proverbj[381].

Per interpretare giusto bisognerebbe sapere tutto, giacchè chi ignorasse
una cosa sola può dubitare che il conoscerla modificherebbe l'opinione
sua sopra le conosciute. Ora l'ortodosso non sa tutto; ma sa che quel
che sa è vero, perchè glielo dice la Chiesa che tutto esaminò[382].

Fu dunque prudenza il non divulgare la Bibbia, quand'anche non sapessimo
che tale era pure la sorte di tutti i libri prima che la stampa li
moltiplicasse. Divulgata che fu, ognuno v'attinse quel che alla passione
sua giovava: Mattia Harlem e Muncer vi trovarono il comunismo; Giovanni
de Leida il rimpasto della società; Fox feroci delirj; chi la bigamia,
chi l'entusiasmo, chi l'annichilamento, e tutti la fierezza dei mezzi
nell'attuare i loro delirj[383]. A fronte ai quali, l'intelligenza,
posta tutta sola in presenza della rivelazione biblica, mai non può
tenersi sicura, e precipiterà nello scetticismo. Ma la Chiesa destina un
interprete, se stessa, o vogliasi dire ispirata continuamente, o
vogliasi infallibile custode della primitiva tradizione, che non
dimenticò, nè falsò giammai.

Perocchè la Chiesa è anteriore al vangelo, avendola Cristo fondata, e
istituito i sacramenti, dato i precetti, fissato la gerarchia, insegnato
l'orazione, prima che tutto ciò fosse scritto. E agli apostoli non
disse, «Eccovi il libro che dev'essere norma del vostro credere: questo
mandate attorno»: bensì «Andate e predicate a tutti». La Chiesa dunque,
incarnazione permanente e continuazione dell'Uom Dio, ha certezza
immediata de' suoi insegnamenti: e ne' primi Concilj non allegò verun
passo scritturale in appoggio delle sue decisioni, giacchè esponeva le
verità ricevute immediatamente dalla bocca di Cristo, il quale «sarà con
essa fino alla consumazione de' secoli».

V'è di più: non ogni cosa fu scritta nel Testamento; san Giovanni
professa aperto essere innumerevoli i fatti che non pose nel suo
vangelo: san Paolo ripete nelle epistole d'avere parlato come ad uomini
carnali, e sottratto un cibo di cui non erano peranco capaci[384]. V'è
dunque una tradizione orale, di cui è parimenti depositaria la Chiesa, e
che viepiù le conferma l'autorità di unica interprete de' libri santi.

Questo titolo però non implica quel che i Protestanti asseriscono, che
fra i Cattolici non rimanga campo all'esegesi, e anzichè confondere la
fede colla disciplina, le opinioni d'un teologo col dogma, bisogna
discernere la fede dalla teologia, che è scienza umana, e non ha
promesse d'infallibilità. La Chiesa espone le sue decisioni sul dogma e
la morale, non altro: nè si cura dell'interpretazione filologica delle
parole e de' versetti singoli, delle particolarità archeologiche,
dell'ordine cronologico, del perchè san Giovanni, abbia pubblicato il
suo vangelo, o san Paolo indirizzato un'epistola anche ai Romani, nè chi
sia l'autore del libro di Giobbe, di che patria, di che tempo, a quale
scopo: nè tante altre quistioni, palestra scientifica. La Chiesa proferì
e approvò: di là da quei limiti l'arringo è schiuso; non si può pensare
contro le decisioni di essa, bensì di là da quelle. Ma la Chiesa non può
essere tale, eppure permettere che ogni individuo si formi un proprio
simbolo, o che si affermi e si neghi la stessa dottrina, che s'intenda
in modo differente il Cristo, che variino i modi di conseguire la
salute. Chi ad essa obbedisca quanto alla fede e alla morale, al di là è
sciolto da vincoli, e può svolgere il talento e l'erudizione, applicare
la cognizione crescente delle lingue e delle usanze, e il Concilio
tridentino vietò solo di «interpretare la Scrittura contro l'unanime
consenso de' Padri». Ora i Padri professano la stessa fede, la stessa
morale, ma differiscono grandemente nel commentarle e svolgerle, secondo
il genio particolare, nè la Chiesa ammise mai come proprie le opinioni
di alcuno di essi per quanto grande[385]; e si riporta alla _dottrina
de' Padri_ quando rappresentano le opinioni dell'antichità, cioè
testimoniano la fede della Chiesa.

A questo modo la Chiesa cattolica, volendo non solo l'unione, ma
l'unità, esclude tutto ciò che non è lei, eppure è universale; mentre
l'eresia unisce tutto a sè, eppure rimane locale. Si credette agevolar
il progresso col sopprimere ogni intermedio fra la ragione individuale e
la parola di Dio, e invece si crebbe la confusione.


NOTE

[343] Quali fossero i collegi di là dell'Alpi lo raccogliamo, per tacere
altri, da due che avemmo occasione di nominare. Erasmo racconta che, nel
collegio di Montaguto a Parigi, avea per direttore un Giovanni Staudin,
non cattivo, ma privo di giudizio; non dava che letti duri, cibo
insufficiente, veglie penose, lavori stanchevoli. Molti giovani di belle
speranze ne morirono, o divennero ciechi, o furon presi dalla lebbra o
da follia. E non solo maltrattava i poveri, ma anche giovani di ricche
famiglie. Di fitto verno non dava che un tozzo di pan duro, e mandavali
alla fontana attinger un'acqua fetida, malsana, gelata. I dormitorj
erano al pianpiede, presso a latrine puzzolenti, e con muri coperti di
muffa (_Colloquia: Ichthyophagia_). Rabelais fa dire a Ponocrate,
intorno al collegio stesso: «Seigneur (Grandgonfier), ne pensez pas que
je l'aye mis au collège de pouillerie qu'on nomme Montaigu; mieux
l'eusse voulu mettre entre les genoulx de saint-Innocent, pour l'énorme
cruaulté et villenie que j'y ai cognue: car trop mieulx sont traicté les
forcés entre les Maures et Tartares, les meurtriers en la prison
criminelle, voyre certes les chiens en votre maison, que sont ces
malautrus au dit collège».

[344] _Opere di Lutero_, ediz. di Walch, tom. XXII, pag. 786 e seg.

[345] _Opere di Lutero_, tom. XIX, pag. 1509, si legge espresso: «Prima
ch'io finissi il vangelo, il mio vicino avea finito la messa, e mi si
diceva, _passa, passa_». I biografi posteriori esagerarono questo
racconto per tramutare una celia in una bestemmia, e più rilevare la
corruzione de' preti. Selneccer (_Oratio de divo Lutero_, pag. 31),
traduce: «Passa, passa, _idest, festina et matri filium remitte_».
Mathesius lo copia, se pure non fu lui che l'inventò. E i biografi
moderni si fecero belli di quest'empio scherzo contro la dottrina della
transustanziazione.

[346] _Tischreden_, pag. 464, 607. Dopo le tante vite di Lutero, uscì or
ora _Leben und ausgewählte Schriften der Väter und Begründer der
luterischen Kirche, eingeleitet von_ K. J. NITSCH. Elberfeld 1860 e
seguenti.

[347] _Opere_, T. I, op. 5.

[348] Nelle regole di san Bonifazio, Michelet (_Hist. de France_, T. I,
p. 286) lesse che «se un monaco peccò con una donna, digiuni due giorni
in pane e acqua». Ora il testo dice: _Si quis monachus dormierit in una
domo cum muliere, tres dies in pane et acqua: si nescivit quod non
debet, uno die_. Del resto in quel Penitenziale, ducento colpi, che è il
massimo delle sferzate, equivalgono a due giorni in pane e acqua.

[349] Il concilio di Firenze definì intorno allo stato delle anime dopo
morte, «che quelle de' veri penitenti, morti nella carità di Dio prima
di aver fatto frutti degni di penitenza in espiazione dei loro peccati
di commissione e di ommissione, sono purificate dopo morte colle pene
del purgatorio, e sollevate da queste per suffragi de' fedeli viventi,
come il sacrifizio della messa, le preghiere, le limosine e altre opere
di pietà, che i fedeli fanno per gli altri fedeli, secondo le regole
della Chiesa. Le anime di quelli che hanno peccato dopo il battesimo, o
che, caduti in peccato, ne furono purificati in vita prima d'uscirne,
entrano subito in cielo, e vedono puramente la Trinità, gli uni più
perfettamente degli altri, secondo la differenza de' meriti loro. Le
anime di quelli che son morti in peccato mortale attuale o nel solo
originale, precipitano nell'inferno per esservi puniti, quantunque
inegualmente».

[350] Essendo morta Monica sua madre, Agostino racconta come Evodio
prese il Salterio e cominciò a cantare un salmo, a cui tutta la casa
rispondeva: _Misericordiam et judicium cantabo tibi, Domine_. E molti
fratelli e religiose donne accorsero, mentre egli cercava reprimere
l'intenso dolore. «Quando il corpo fu portato via, andai e tornai senza
lagrime; e neppur nelle preghiere che a te, o Signore, porgiamo mentre
ti si offriva per essa il sagrifizio del Salvator nostro (_Cum tibi
offerretur pro ea sacrificium pretii nostri_), posto il cadavere vicino
al sepolcro, come colà si usa, io non piansi» (_Confessioni_, lib. IX,
cap. 12). Pure si accusa di averla troppo deplorata, e guarito
dall'eccesso, prega Dio per essa colle lacrime che vengono dal
riflettere ai pericoli d'ogni anima che muore in Adamo. Perocchè, sebben
essa fosse vissuta santamente, pure non era certo che non le fosse
uscita qualche parola contro il precetto divino: e guai alla vita più
lodevole se venga scrutata senza misericordia! E però lo esortava pei
peccati di sua madre, non allegando i meriti di essa, ma pel redentore
che pendette in croce, e che sedendo alla destra di Dio implora per noi.
«E poichè operò essa misericordiosamente, e perdonò ai debitori, perdona
ad essa pure i suoi debiti. Se contrasse alcuna macchia in tanti anni
dopo il lavacro di salute, perdonale, o Signore, te ne prego, e non
entrar in giudizio con essa. Nè essa desiderò monumento o aromi, o il
sepolcro patrio. Non questo ella ci raccomandò, ma di commemorarla
all'altare tuo, al quale s'era prostrata ogni giorno infallantemente,
dove sapeva dispensarsi la vittima santa dalla quale fu cancellato il
chirografo a nostro carico; O Signore Dio mio, a' tuoi servi, ai
fratelli miei, a chiunque leggerà queste carte, ispira che all'altare
tuo si ricordino di Monica e di Patrizio che fu suo marito» (cap. 13).
Inoltre nel sermone XVI, _de verbis apostoli_, dice: _Injuria est pro
martyre orare, cujus debemus orationibus commendari_. Boezio, _Della
consolazione della filosofia_, lib. IV, 4, scrive: _Nullane animarum
supplitia post defunctum morte corpus relinquis? Et magna quidem, quorum
alia pœnali acerbitate, alia vero purgatoria clementia exerceri puto_.

Il Muratori, nella Dissertazione LVI delle _Antiquitates medii ævi_,
reca molti lasciti, anteriori all'800, per far dire messe anche
quotidiane.

[351] Gian Galeazzo Visconti desiderando evitare i pericoli causati
dall'esser in guerra coi Fiorentini, e ammassar denaro per la fabbrica
del duomo di Milano, impetrò da Bonifazio IX che i suoi sudditi
potessero acquistar il giubileo senza andare a Roma, ma visitando
quattro basiliche di Milano. Il Corio asserisce che la bolla portava
che, «se anche non fosse contrito nè confesso, fosse assolto da ogni
peccato in questa città, dimorando dieci giorni continui». Or noi
possediamo tal bolla, del 12 febbraio 1391, e dice espresso che sieno
_vere pœnitentes et confessi_.

[352] Vedi la nota 5 del Discorso XII.

[353] Da ciò nacque il tribunale della reverenda fabbrica di San Pietro,
che esiste tuttora.

[354] Il Guicciardini scrive avere il papa assegnato il prodotto delle
indulgenze di Germania a sua sorella madonna Cibo. Esiste la bolla
pontifizia che gli dà la mentita.

[355] Proposizione 71.

[356] _Ein wohl betrunkener Deutscher_. LUTERO, Opere, tom. XXII p.
1337.

[357] San Domenico ottenne da papa Onorio III il convento di Santa
Sabina in Roma nel 1218, e parte del palazzo pontifizio per collocarvi i
suoi religiosi. Consigliò al papa di deputar alcuno che istruisse nella
morale e nella religione gli addetti a questo palazzo, e il papa ne
affidò l'incarico allo stesso san Domenico, che tolse a spiegar le
epistole di san Paolo. Piacque a Onorio perpetuar tale istituzione,
affidandola sempre a un domenicano, col titolo di maestro del sacro
palazzo. Così si succedettero settantasei maestri, i quali ora,
l'avvento e la quaresima, predicano ai famigliari palatini, e tengono
tre giorni di catechismo avanti ciascuna delle quattro comunioni
generali annue che si fanno nel palazzo apostolico. Al maestro venne poi
commessa la censura de' libri. Vedi ANNIO DA VITERBO, _De dignitate
officii magistri sacri palatii_: CATALANI, _De magistro S. P.
apostolici, libri duo_. Roma 1751.

[358] _In præsuntuosas M. Luteri conclusiones de potestate papæ
dialogus_. Ho alla mano _Replica fratris Silvestri Prieiratis ad fratrem
Martinum Lutherum_, senza data, in dieci carte, ove difende sè dalle
dategli incolpazioni.

[359] _Luteri Opp_. Jena, tom. I, pag. 60.

[360] Per esempio, al Concilio di Basilea erasi argomentato: «Per
presedere alla Chiesa universale bisognerebbe che il papa presedesse ai
capi e ai membri di tutte le Chiese stabilite nell'universo. Ora il papa
non presiede al capo della Chiesa romana, perchè non può presedere a se
stesso. Dunque non presiede a tutte le Chiese che costituiscono la
Chiesa universale».

[361] Federico Borromeo racconta che il duca Lodovico il Moro, recatosi
nel convento de' Domenicani a Milano per conversare, come soleva, con
que' frati, vide il padre Vio, di piccola e spregevole statura, e
domandò al priore perchè tenesse omicciatoli siffatti. Il priore
rispose: _Ipse fecit nos et non ipsi nos_: e introdotto a ragionar con
esso il Vio, lo chiarì quanta ne fosse la sapienza e la virtù, sicchè
dappoi il duca l'ebbe in maggior credito che gli altri frati.

[362] _De servo arbitrio_. Invano gli si nega un insegnamento così
repugnante all'intimo senso morale e alla sana ragione. Nelle sue opere
dell'edizione di Wittenberg, 1572, tom. VII, fol. 18, si legge:
«Un'opera buona, compita il meglio possibile, è un peccato quotidiano
davanti la misericordia di Dio, e un peccato mortale davanti la sua
stretta giustizia». Nella _Cattività di Babilonia_: «Ve' quanto un
cristiano è ricco! non può perdere la sua salute neppure volendolo.
Commetta peccati gravi quanto vuole, finchè non è scredente nessun
peccato può dannarlo. Finchè la fede sussiste, gli altri peccati sono
cancellati in un istante dalla fede». E nella _Libertà Cristiana_: «Di
qui si vede come il Cristiano è libero in tutto e sovra tutto; giacchè
per esser giustificato non ha mestieri di veruna specie di opere, e la
fede gli dà tutto a sovrabbondanza. Se alcuno fosse tanto stolto da
credere ch'e' può giustificarsi e salvarsi mediante le opere buone,
perderebbe subito la fede con tutti i beni che l'accompagnano». Quando
nel 1541 a Ratisbona Melantone cercò accordarsi coi Cattolici, dicendo
che per la fede che giustifica doveva intendersi una fede operante per
la carità, Lutero dichiarò ch'era un misero ripiego, una toppa nuova
s'un abito vecchio, che lo straccia di più.

[363] _Esto peccator et pecca fortiter: sed fortius fide et gaude in
Christo, qui victor est peccati, mortis et mundi — Peccandum est quamdiu
hic sumus — Sufficit quod agnovimus per divitias Dei Agnum qui tollit
peccata mundi; ab hoc non avellet nos peccatum, etiamsi millies, millies
uno die fornicemur aut occidamus_. Lettere di Lutero, raccolte da
Giovanni Aurifabro. Jena 1556, Tom. I, pag. 545.

[364] Sull'uso primitivo della liturgia nelle varie lingue delle
provincie convertite, può, senza ricorrere a opere pesanti, consultarsi
MARTIGNY, _Dict. des Antiquités chrétiennes_. Parigi 1865,
principalmente all'articolo _Langues liturgiques_. Sol quando le antiche
lingue si mutarono nelle nuove, non parve prudenza il mutar la liturgia.
Nulla però vieta di farlo, e, per esempio, ai Cinesi fu conceduto l'uso
della lingua loro.

[365] PANZER, Not. lett. delle Bibbie tedesche anticamente stampate.

[366] Le legende del reverendo Jacobo da Varagine furono riprovate da
Melchior Cano e da Lodovico Vives; ma fin nel secolo XIV eransi
riconosciute favolose, e frà Bernardo Guidone domenicano fu spinto dal
suo superiore ad opporvi un legendario attinto a migliori fonti. Altri
modernamente il difese, mostrando ch'egli non dà per accertato quel ch'è
mera tradizione; talvolta ripudia certi fatti; giova poi immensamente
come testimonio delle credenze del tempo, e a spiegare passi di poeti e
opere d'artisti del medioevo.

Il Malermi nel 1475 volgarizzò il legendario del Varagine, e dice che
chiamò a sè «il dilecto Hieronymo clarissimo citadino fiorentino, non
meno erudito nelle sacre lettere quanto di virtù adornato, adciochè qui
rivedesse e ad arbitrio suo emendasse quello ritroverebbe da essere
correcto».

Il Fontanini dimostrò che non esiste una versione della Bibbia del
Varagine, vissuto a metà del XIII secolo. Ben si conosce una traduzione
dell'Apocalissi, con sposizione continua, fatta in rozzo veneziano da
frà Federico de Renoldo, che visse nel 1300, e fu stampata dal Paganini
a Venezia nel 1515 col titolo «Apocalypsis J. C. hoc est revelatione
fatta a sancto Giohanni Evangelista con nova espositione in lingua
volgare composta per el Reverendo Theologo et angelico spirito Frate
Federico Veneto ordinis Predicatorum, cum chiara dilucidatione a tutti
soi passi».

Aldo Manuzio, nella lettera premessa al salterio greco del 1495
prometteva pubblicare l'intera Bibbia in latino, greco, ebraico, e aver
già preparato i caratteri ebraici, de' quali in fatto trovasi un saggio
alla biblioteca della Sorbona (vedi FOSCARINI, _Della letteratura
veneziana_, lib. IV). La Bibbia dei LXX comparve per gli Aldi sotto la
direzione di Andrea Asolo nel 1518, e il paragone colla vulgata diede
esercizio alla critica.

[367] Haym porge l'edizione del Malermi per Vindelino da Spira a
Venezia, 1471: un'altra dell'anno stesso senza nome nè luogo: una Bibbia
italiana, Pinerolo per Giovanni de' Rossi, 1475: altra del Malermi,
Venezia per Antonio Bolognese, 1477: e dell'anno e luogo stesso per
Pietro Trevisano: e del 1484 per Andrea Paltafichio di Cataro, e del
1494 per Giovanni Rosso vercellese ad istanza di Luc'Antonio Giunta. Le
epistole, vangeli e lezioni di tutto l'anno: Bologna 1473: Venezia 1483,
poi 1487 per Annibale da Parma: Roma 1483: Venezia 1507 e 1522, senza
nome del traduttore.

[368] Sarebbe quella del Genson del 1471. La Crusca si valse d'un testo
manuscritto, senza ben comprendere che cosa fosse; e lo citò come
_annotazioni evangeliche_; poi nella stampa che or fa del _Vocabolario_,
come volgarizzamento di pistole e di vangeli.

[369] Nella Bibbia edita a Basilea nel 1491, ch'è nella Magliabecchiana,
oltre le postille in margine, ha molti fogli in principio e in fine,
scritti così minuto, che vuolsi la lente a leggerli. Nell'altra edizione
di Venezia 1492, or nella Ricardiana, le note son molto più chiare; vi
si dan notizie storiche e geografiche, il senso d'alcune parole ebraiche
per trarne poi le varie interpretazioni, ma ben di rado entra in
discussioni meramente teologiche, e non si ferma ai passi che viepiù
furono discussi dai Riformati.

Consimile lavoro faceasi anche da altri frati, come può vedersi in varie
Bibbie, e senza scostarsi da Firenze, in due che stanno a San Marco, in
pergamena, e che erroneamente si attribuiscono al Savonarola stesso. V.
VILLARI, _La storia di Girolamo Savonarola_, 1859.

[370] SAVONAROLA, _Sermone per la V domenica di quaresima_.

[371] QUETIF et ECHARD, _Script. Ord. Prædic_., tom. II, pag. 114, 115.

[372] Clementine, lib. V, tit. _De magistris_.

[373] Il cardinale Ximenes per la sua Bibbia ebbe molti ajuti dalla
Biblioteca Vaticana, e nella dedica a Leon X dice: _In ipsis
exemplaribus græca sanctitati tuæ debemus, qui ex ista apostolica
bibliotheca antiquissimas tum veteris, tum Novi Testamenti codices
perquam humane ad nos misisti_.

Erasmo, esaminando qualche varianti del codice vaticano del Nuovo
Testamento, si stupì della conformità di esso colla vulgata latina, ove
questa discorda dai codici greci, e pensò fosse corretto sulla versione
latina. Ma più saviamente il cardinale Cervini da Trento scriveva a Roma
a monsignor Maffei: «Li testi delle due lingue (greca ed ebraica) sono
spesso più scorretti che li latini: anzi, quanto più sono di esemplari
antichi e fedeli, tanto più si trovano conformi alla nostra vulgata».
Così i legali del cardinale Farnese scriveano: «Quanto più li testi
greci et hebrei sono migliori, tanto più comprovano la lettione di
questa vulgata». Vedansi le dissertazioni del Vercelloni. Ed oggi in
fatto i migliori critici vorrebbero si possa valersi della traduzione
detta _Itala_ per correggere il testo greco del Nuovo Testamento e la
versione dei LXX.

Il _Prayer Book_, o Libro di preghiere adottato dalla Chiesa Anglicana,
si valse, per tutti i passi biblici, della nostra vulgata. Ristampandolo
testè, si conservò il medesimo sistema, del che menarono gran rumore i
rigoristi. Ma si mostrò che Routh, preside del collegio di Oxford,
raccomandava a' suoi scolari la vulgata come eccellentissimo commento
sulla Scrittura.

[374] SCHNURRER, _Bibl. Arabica_, pag. 231-34.

[375] Id. pag. 402.

[376] LE LONG, _Ediz. Masch._, vol. I.

[377] COLOMESII, _Ital. oratores_, ad nomen.

[378] Eck racconta che Lutero diceva che Cristo disse a Pietro: «Tu sei
pietra», poi toccando se stesso, soggiunse: «E su questa pietra sarà
edificata la Chiesa». Il dottore Thiess (_Incompatibilità della potestà
spirituale colla profana_, p. 17) annovera ottantacinque diversi
commenti della parabola del castaldo infedele, e centocinquanta di quel
testo, _Mediator autem unius non est: Deus autem unus est_. Ad Gal. III,
20.

[379] Cioè, _Dell'ispirazione divina delle sacre scritture_. È il
versetto 16 del c. II, ep. II _ad Timoth_.

[380] SAN MATTEO XIX, 17.

[381] Nelle regole per l'Indice è detto esser manifesto che, se la
Bibbia in vulgare _passim sine discrimine permittatur_, ne vien più
pericolo che utilità; si stia dunque al giudizio del vescovo o
dell'inquisitore per concederla a quelli che possano trarne non danno,
ma aumento di fede e pietà. _Regola IV_.

[382] Pietro Nicole, famoso avversario de' Gesuiti, nei _Préjugéz
légitimes contre les Calvinistes_ (1671), toglie a mostrare che «la via
proposta dai Calvinisti per istruir della verità è ridicola e
impossibile». E vuol provare che giovarsi di questa via non è possibile
se non assicurandosi, 1º se i passi allegati son veramente tratti da un
libro canonico; 2º se son conformi all'originale; 3º se non v'è maniera
differente di leggerli, la quale ne affievolisca la pruova. Ne trae la
conseguenza che quei che nel XVI secolo uscirono dalla comunione romana
nol poterono che con eccesso di temerità; salvo che avessero esatta
conoscenza delle ragioni che la favoriscono, di quelle che la
combattono, e di tutte le objezioni che possono farsi sui passi
scritturali addotti da una parte e dall'altra.

Claudius pretese confutarlo mostrando che altrettanti studj occorrono
per essere accertati delle verità cattoliche. Non parmi. Ammesso che la
Chiesa possa dire «Chi ascolta voi ascolta me», tutte le dubbiezze sono
tolte dalla decisione di quest'autorità vivente. Vedi sopra ciò la
Conferenza collo stesso Claude _sur la matière de l'Eglise_.

[383] Bartolomeo Caranza, arcivescovo di Toledo, che vedremo vittima
dell'inquisizione spagnuola, così discorreva delle Bibbie in vulgare.
«Prima che le eresie di Lutero sbucassero dall'inferno, non so che in
nessun paese siasi proibita la Bibbia in vulgare; se ne fecero versioni
in Ispagna, d'ordine del re cattolico al tempo che Ebrei e Mori poteano
viver tra' Cristiani, governandosi a leggi proprie. Cacciati che gli
Ebrei furono di Spagna, i presidi alla religione s'avvidero che alcuni
convertiti istruivano i figliuoli nel giudaismo, avezzandoli alle
cerimonie mosaiche mediante queste Bibbie vulgari, che poi si stamparono
a Ferrara in Italia. Per questo motivo giustissimo proibironle in
Ispagna: pure si fece eccezione ai collegi, ai monasteri, a persone
superiori al sospetto, dandosi loro licenza di tenerle e leggerle».
Segue narrando tali proibizioni in altri paesi, e conchiude: «In
Ispagna, dove, per grazia di Dio, si dura immuni dalla zizzania, si
vietò ogni traduzione vulgare della Bibbia per toglier occasione ai
forestieri di trattar delle loro quistioni con persone semplici e
illetterate, e anche perchè si ha pruova di casi particolari e di
errori, che rampollavano in Ispagna, nati dall'aver letto qualche passo
scritturale senza capirlo. Così sta il fatto, e per ciò si proibirono le
Bibbie volgarizzate». _Commenti al Catechismo cristiano_.

[384] _Et ego, fratres, non potui vobis loqui quasi spiritualibus, sed
quasi carnalibus, tamquam parvulis in Christo lac vobis potum dedi non
escam, nondum enim poteatis: sed nec nunc quidem potestis, adhuc enim,
carnales estis_. _I ad Corinthios_ III. 1, 2.

[385] Basta citar ad esempio alcune vedute proprie di sant'Agostino
sulla Grazia e sul peccato originale che non furono mai adottate dalla
Chiesa come dottrina universale.



DISCORSO XVI.

INCREMENTO E SUDDIVISIONE DE' PROTESTANTI.


Il protestantesimo non fu dunque un avvenimento straordinario, un
fenomeno isolato nella storia. Cominciando dal discorso di san Paolo
all'Areopago, la Chiesa dovette colla parola sostenere le verità che
suggellava col sangue, e stretta attorno al successore di Pietro,
discutere dogmi, e, secondo lo Spirito Santo, reprimere la superbia
della ragione, la quale, uscendo dalla via degli umili, ch'è la sicura
via dello spirito, a guisa dell'antico tentatore dice all'uomo, _Tu sei
Dio_. Come sempre ci fu contrasto fra il diritto sociale e
l'indipendenza individuale, così fu tra l'opinione personale e la
credenza universale. Dietro ai Gnostici, fra i quali troviamo già tutti
gli errori e intellettuali e morali[386], Valdesi, Catari, Ussiti e
l'interminabile varietà de' novatori diceano che la tradizione, parola
umana, va soggetta ad errare; e sola rimane integra la lettera di fuoco
della Scrittura: la libertà del senso individuale era stata
l'aspirazione di ciascun eresiarca; e sulla grazia, sulla
giustificazione, sul purgatorio non v'ha opinione che non fosse stata
messa in dibattimento. Da secoli desideravasi la riforma della Chiesa;
chiedendola gli uni dall'autorità, gli altri contro l'autorità, quelli
abborrendo, questi esagerando gli impulsi individuali. Voleasi tornar il
papato verso le sue origini, o per la via monarchica o per la
aristocratica; e già a Basilea e Costanza erasi proclamato che il potere
spirituale non ha a che vedere col temporale, e il papa non è capo
costitutivo, ma ministeriale; e Tommaso, vescovo di Bologna, che fu poi
Nicola V, diceva sapientemente: «I romani pontefici han senza dubbio
allargato di troppo le braccia, fin quasi a non lasciare podestà alcuna
agli altri vescovi: ma alla lor volta i Padri di Basilea strinsero
troppo la mano al principe degli apostoli. Nè è meraviglia: chi abusa
del suo potere deve aspettare che altri faccia altrettanto; chi vuol
dirizzare un albero incurvato, lo incurva dal lato opposto. Fermo mio
proposito è di non usurpar i diritti de' vescovi, che vengono chiamati
ad assistermi nella direzione della Chiesa»[387].

La protesta fu dunque un fatto comune a tutte le età; se non che
anteriormente limitavasi a punti speciali; questa volta si fe generale,
per modo che tutte le susseguenti vi son comprese: prima erano
ammutinamenti, allora rivoluzione.

Lutero stesso dichiara non avere inventato nulla, e solo disposte in
corpo dottrinale opinioni correnti, innovazioni già introdotte o
invocate. Nè realmente egli ebbe un sistema preconcetto; ma via via
raggranellava traverso ai secoli i dubbj, sostituendo alla costanza
della tradizione la volubilità di spiegazioni esoteriche; e colla
intrepidezza che non si briga di metterle d'accordo, gettolle in un
mondo, ove tutte le potenze dell'errore cospiravano contro la verità,
offuscata dall'indifferenza e dalle prevaricazioni.

Il primo anno di Leone X, un frà Bonaventura predicava a Roma d'essere
il salvatore del mondo[388], eletto da Dio, la cui Chiesa avrebbe capo
in Sionne; e più di ventimila persone accorsero baciandogli i piedi come
a vicario di Dio; scrisse un libro «Della apostatrice cacciata e
maledetta da Dio meretrice Chiesa romana», ove scomunica papa,
cardinali, prelati; predica che egli battezzerà l'impero romano, eccita
i re cristiani ad accingersi d'armi e assisterlo, e massime esorta i
Veneziani a tenersi in accordo col re di Francia, il quale è scelto da
Dio ministro onde trasferire la Chiesa di Dio in Sionne, e convertire i
Turchi. Nel 1516 fu arrestato e messo in castel Sant'Angelo.

«A Milano il dì vigesimoprimo d'agosto del 1515, venne un uomo secolare,
di forma grande, sottile e oltremodo selvaggio, scalzo, senza camicia,
col capo nudo, e capelli aggricciati e barba irsuta, e di magrezza quasi
un altro Giuliano romita; solo avendo una vesta di grosso panno lionato;
e il vivere suo era pane di miglio, acqua, radici e simili cose; e a
dormire solo un desco, o vero la nuda terra gli bastava. Andò dal
vicario dell'arcivescovo per intercedere licenza di potere predicare; ma
esso non gliela volle concedere; non pertanto egli il dì seguente
cominciò nel Duomo a predicare il verbo di Dio, e continuò sino a mezzo
settembre, con tanta grazia di lingua, che tutta Milano vi concorreva. E
dopo che avea finito il predicare se ne andava all'altare della Madonna,
e a terra gittandosi, vi stava per un gran pezzo (credo) in orazione; e
ogni sera poi alle ventitrè ore faceva sonare la campana di esso Duomo,
donde molta gente vi concorrea con i lumi accesi a dire la _Salve
Regina_; ma prima che la dicesse, stava circa mezz'ora in terra carpone.
Denari in elemosina per modo alcuno non volea; e chi glieli offeriva, li
facea donare all'altare della Madonna. Ma troppo era nemico de' preti, e
molto più de' frati; e a ogni predica rimproverava loro grandemente,
dicendo che la loro professione, la quale dovria essere povertà, castità
e obbedienza, solamente era di rinunciare la fame e il freddo e le
fatiche, e d'ingrassarsi nelle buone pietanze per amor di Dio; e quegli
i quali non devono toccare denari, non solamente possedono de' suoi, ma
e dell'avere d'altrui divengono guardatori.

«Era costui di età d'anni trenta, di nazione toscano, e disse lui avere
nome Geronimo; e, per quanto ho potuto comprendere nel ragionare seco,
una fantasma mi parea e non un uomo; e molte volte mi vacillava di
proposito; ma era di parlare soave, e nella scrittura sacra credo fosse
assai dotto. Esso da chi era invitato non volea ospizio, ma secondo che
nell'animo li cadea, ora in uno ora in un altro loco andava, e di lui
molte meraviglie mi è riferito; ma perciocchè io non le credo, non
voglio nè anche perdere tempo inscriverle»[389].

Questi vaneggiamenti palesano come si sentisse anche popolarmente e la
prevaricazione degli ecclesiastici, e lo scandalo della loro impunità, e
il bisogno di riformarli. Il piissimo cardinale Sadoleto ripete
incessante la necessità di correggere la Chiesa[390], e, secondo
Girolamo Negro, «aveva in animo di scrivere un libro _De repubblica_,
dove crivellare tutte le repubbliche del nostro tempo, _præcipue_
quella, non della Chiesa ma dei preti».

Nello stesso Concilio di Trento il cardinale di Lorena, dipinti gli
orribili mali a cui cadeva preda la Francia, invocava come rimedio
principale la riforma della Chiesa, e doversi applicare al clero quello
di Giona, «Per colpa nostra accadde questa procella: buttate noi in
mare».

Il cardinale Zabarella, anima e talvolta capo di quel Concilio, nel
_Tractatus de hujus temporis schismate_ rimprovera acremente i disordini
della Chiesa romana; e se è messo all'Indice fu solo l'edizione che ne
eseguirono i Protestanti ad Argentina con prefazione in senso ereticale.

Per non allungarla, uno de' più zelanti difensori della fede non solo ma
della curia scrive: «Annis aliquot antequam lutherana et calviniana
hæresis oriretur, nulla ferme erat, ut ii testantur qui tum vivebant,
nulla prope erat in judiciis ecclesiasticis severitas, nulla in moribus
disciplina, nulla in sacris literis eruditio, nulla in rebus divinis
reverentia, nulla jam propemodum erat religio. Eximius ille cleri et
sacri ordinis decor perierat; gravi diuturnaque laborabant infamia
sacerdotes, quod panum et piscium, hoc est proventuum, majorem quam
animarum curam haberent»[391].

Erasi dunque d'accordo sul bisogno d'una riforma. Ma una riforma
conciliativa sarebb'ella stata possibile? Poteva un'alta e sincera
volontà ricondurre a chiaro e cristiano scioglimento la sciagurata
discrepanza delle idee pratiche e l'implicazione degli interessi
ecclesiastici e religiosi coi politici e secolari, e ringiovanire la
Chiesa, consolidando l'unità, anzichè distruggerla? Fu sperato dai
buoni, ed è sempre difficile l'argomentare quel che sarebbe potuto
accadere in circostanze ipotetiche.

Per verità, quanto ai dogmi, dapprincipio Lutero deviava sì poco, che fa
meraviglia potesse suscitare tanta tempesta. Alcune delle sue tesi che
allora levarono maggior rumore aveano buona parte di verità, come il
definire la Chiesa assemblea de' santi, divinamente istituita, e dovere
la fede avere una base soprannaturale. «Sua santità (scriveva il
Muscetola) ha fatto esaminare da varj teologi nostri le confessioni
stese da' Luterani, e n'ebbe in risposta che molte delle cose ivi
contenute erano del tutto cattoliche; altre capaci d'un'interpretazione
non contraria alla fede, se i Luterani volessero prestarsi a un
accomodamento, il quale per altri rispetti ancora non sarebbe
impossibile»[392].

Sul punto così controverso delle indulgenze, il Concilio definì soltanto
ch'esse sono utili, e che la Chiesa ha autorità di concederle, ma vuolsi
farlo con moderazione, per non isnervare la disciplina ecclesiastica.
Desiderando poi emendare gli abusi, per occasione dei quali dagli
eretici sono bestemmiate, abolisce in generale qualunque guadagno per
conseguirle; agli altri disordini che vennero da superstizione,
ignoranza, irriverenza provedano i vescovi.

Lutero dapprincipio accettava sino il purgatorio e le applicate
espiazioni, e nelle tesi del 1517 poneva: «Se alcuno nega la verità
delle indulgenze del papa, sia anatema»[393]. Nessuno è certo della
verità della sua contrizione, e tanto meno della pienezza del
perdono[394]. E anche più tardi conveniva della eccellenza della Chiesa
romana e della sua autorità[395].

La confessione auricolare, che è uno degli atti più repugnanti alla
umana superbia, ed una delle primarie cagioni per cui alla Chiesa si
ribellò tanta parte del mondo[396], aveva l'approvazione de' primi
riformati. L'uso del calice era stato abbandonato per convenienze
disciplinari che potrebbero scomparire[397]; e già coi Greci e cogli
Ussiti erasi condisceso in molti riti.

Le spiegazioni a cui si venne posteriormente per tentar di rannodare le
varie Chiese acattoliche, o per condannare quelle che si scostavano
dalla così detta ortodossia protestante, chiarirono come i dogmi
cattolici in proposito de' sacramenti e della giustificazione[398]
fossero osteggiati in un senso meramente arbitrario.

Melantone, il solo contro cui non inveiscano i nostri, spirito mite che
cercava conciliare le due Chiese, e che contano variasse quattordici
volte d'opinione intorno al peccato originale e alla predestinazione,
diceva: _Dogma nullum habemus diversum ab ecclesia romana_; e in Augusta
asseriva al legato Valdes che la controversia riduceasi a tre punti:
comunione sotto le due specie; matrimonio de' preti; abolizione delle
messe private[399].

Pertanto non manca chi si persuade che, se, immediatamente e innanzi
tutto corretta la disciplina, la Corte romana avesse receduto dalle
pretensioni meramente curiali, non trasformate in dogmatiche le
quistioni giurisdizionali, non tenuto troppo tenacemente a temporalità e
privilegi, che col tempo le furono tolti senza scisma, ceduto insomma di
buona voglia quel che poi dovette per necessità, avrebbe almeno tolto di
mezzo il principale pretesto della Riforma.

Ma questa trasse importanza e carattere dal tempo; una di quelle epoche
ove si manifesta il lavoro lento e graduale dei secoli, e sviluppansi i
fecondati semi di miglioramento, di civiltà, di coltura. Il manto papale
avea perduto il suo splendore a forza d'esser baciato, e l'autorità
mozza ai pontefici lasciava facoltà a conventi e a capitoli di traviare.
Le scienze, munite della stampa, credeansi capaci di edificare da sè; la
politica di governare da sè e con intenti nazionali; le arti di
esercitarsi da sè; la filosofia credeva sua propria la certezza ch'erale
stata comunicata dalla rivelazione, onde non sentiva più bisogno di
ausiliarj contro il dubbio sistematico; l'opinione ruzzava contro
l'irresponsalità che di fatto sottraeva gli atti del clero, al
sindacato; la sovranità, consacrata dal cristianesimo e sostenuta dai
progressi della tattica, non temea più reluttanza di sudditi; ed, al par
della forza e dell'ingegno, sottraevasi alle leggi dell'ordine imposto
da un'autorità superiore in nome di Dio e per l'organo del suo vicario
in terra.

Quanto ai particolari, non è della natura umana che le discussioni
portino ad una conciliazione; anzi approfondano la fossa che divide due
opinioni. La rivoluzione d'allora differisce, è vero, dalla odierna,
perchè, se la beffa e lo scetticismo del secolo XVIII che traeva a negar
tutto, non poteano produr che calcolo, naturalismo, deismo, allora si
usciva ancor religiosi, serbavasi gran parte del cristianesimo, per
quanto si scemasse il timor di Dio, a misura che cresceva il timore dei
governi. Ma i dissidenti sformavano a loro talento le dottrine che ci
attribuivano; i nostri o esageravano le vere o difendeano
imprudentemente anche errori, abusi, pretensioni curiali, e
battagliavano del pari per la rivelazione infallibile come per
opinamenti di scuola o d'alcuni dottori; entratovi il puntiglio, non
voleasi confessare d'aver operato per bizza e spirito di contraddizione,
senza seriamente riflettere alle conseguenze; pretendeansi dai Cattolici
concessioni, ch'essi ricusavano, talora perchè sentivansi saldi nella
verità, tal altra perchè aveanle negate dapprima.

È però più consueto spacciare che i papi sbagliarono nella condotta, che
si ostinarono a torto, a torto esitarono; che non ebbero buoni campioni.
Facile è il rimproverare dopo l'esito; facile e vulgare.

Entrante il luglio 1528, taluno da Parigi scriveva a Roma come avesse
destato colà meraviglia «una Bolla, per la quale a giudici nella causa
della fede si deputano tali, che Lutero non gli avrebbe saputo domandare
più al suo proposito e favorevoli a' suoi seguaci». Non so che nuovo
modo (seguiva) sia cotesto di commettere la causa della fede a giudici
secolari e maritati, ed ignari della materia, escludendo tutti li
teologi d'una Università, qual è la parigina, in cui sono più di cento
maestri presenti, che hanno sempre pugnato accerrimi contro gli eretici
per mantenere l'integrità della fede e l'obbedienza alla sede
apostolica; che rimarrebbero nel loro dovere se anche tutti i Cristiani
si voltassero a predicare le cose luterane: e se non fosse stato lo zelo
e studio dei giudici precedenti, sarebbe talmente infetto questo regno
dalla eresia luterana, che ne avreste visto il frutto molto tempo fa. Or
eccoli revocati perchè hanno condannato un Brachino, che ha qualche
favore d'alcuni: ecco commesse tutte le cause della fede a secolari, e
_utinam_ tutti almen buoni cattolici, mentre parte di loro sono
signiferi de' Luterani...... Due Italiani sono fra essi, uno de' quali
so io disse _palam_, quando intese la rovina di Roma. _Ora è pur
distrutta l'alchimia della Corte romana_: l'altro non disputa mai altro
che Lutero essere stato un arcangelo mandato dal Cielo; e son secolari,
li quali, insieme con gli altri che non sono che poeti o meri
giureconsulti, non han altra cognizione delle cose della fede, se non in
quanto hanno udito qualche volta la santa messa, e cantare vespro. È
possibile che tanta negligenza si sia usata in cosa di così grande
importanza?.... Se nostro signore dirà, gli ambasciadori della maestà
del re avergliene parlato, e avere fatto detta bolla a loro istanza, io
rispondo che se il re medesimo, e tutti quelli del mondo instassero a
che sua santità facesse giudici in le cose della fede persone che non
fossero idonee o sospette, dovrebbe soffrire più presto il martirio che
consentire. Ma vi dico che la maestà del re e madama sono di ottima e
pia mente, e hanno altri pensieri che di instare e domandare tali
giudici: ma sono cose fatte ad intercessione e per opera di
qualch'altro: e vi so dire ancora che tutti questi eretici si intendono
insieme, e si ajutano l'un l'altro più che non fanno i Giudei, e sono
studiosissimi in disseminare le loro eresie.... In questa materia della
fede bisogna zelo, fervore, studio, diligenza e cognizione; nè vogliono
essere tanti giudici a castigare gli eretici; chè mal si accorda una
moltitudine, se ben fossero tutti buoni e intelligenti.... I teologi
(dell'Università di Parigi) essendo stati esclusi dal giudicio in
materia della fede, se gli potrà commettere da qui innanzi la materia
culinaria. Non so se tanto poco rispetto si dovea avere a
quell'Università, che è la prima de' Cristiani, e che sempre pugna per
la sede apostolica, con farle un tale sfregio sul volto, e massime in
questi tempi, che se ne dovrebbe accrescere l'autorità perchè fossero
più muniti ed armati in combattere contro gli eretici. In Alemagna, per
essere stato maltrattato e sdegnato un fratuzzo dal cardinale della
Minerva, vedete quello è seguito....»[400].

Anche da qui trapela uno de' motori della Riforma, l'odio al papa non
solo, ma all'Italia. Lutero avea profetizzato

    _Pestis eram vivens, moriens tua mors ero, papa:_

vedendo la irreconciliabile lotta de' pontefici coll'imperatore, volle
abbatter quelli pel trionfo di questi, e così rese possibile la
grandezza di Carlo V e di Casa d'Austria: vedendo nascere la libertà
politica, divertì l'attenzione sopra la libertà religiosa, e assodò il
despotismo monarchico e amministrativo per distruggere l'ecclesiastico:
dipinse gli Italiani, i _Wahlen_, come abisso d'ogni vizio e culmine
dell'orgoglio; rinnegando la maternità e supremazia dell'italica
civiltà, rinnovò col pensiero quel che i Barbari ci avean fatto colla
forza: all'universalità surrogava le chiese nazionali, come prima del
cristianesimo, e perciò era adorato da' suoi Tedeschi come fautore
dell'indipendenza.

Ov'è bene notare come i principi avversi ai papi carezzassero sempre gli
eterodossi: così vedemmo di Federico II, così di Lodovico il Bavaro;
Carlo VIII blandì il Savonarola; Luigi XII favorì il conciliabolo di
Pisa; sicchè adesso i papi dovettero modificar la loro politica secondo
la paura che l'imperatore parteggiasse cogli eretici.

Allorchè Leone X scagliò la condanna definitiva, Carlo V imperatore, che
del papa aveva bisogno in quel momento, proscrisse Lutero e i suoi
aderenti. Ma la Riforma erasi ingrandita col promettere ai principi gli
ostensorj d'argento, ai frati la moglie, alle popolazioni la libertà.
L'attrattiva d'unioni clandestine; l'abolirsi della confessione, del
digiuno, delle riverenze, d'altre pratiche che mortificano la nostra
superbia e i nostri sensi; l'austerità ostentata da coloro che chiedeano
riforme, traevano tanti nelle nuove negazioni, da poter resistere
all'imperatore. Alla dieta d'Augusta nel 1530 sporsero la loro
professione di fede, perciò detta Augustana, compilata da moderati, che
speravano vederla adottare anche dalla Chiesa cattolica. Questa non può
accettare transazioni dov'è certa di possedere la verità; pure non
perdette la speranza di conciliazione, e alla Germania deputaronsi
prelati di gran sapere e grande prudenza.

Già abbiamo accennato del Priero e del cardinale Cajetano,
eccessivamente sprezzati dagli avversi. Girolamo Aleandro, della Motta
trevisana, lodatissimo da Aldo e da Erasmo per conoscenza del greco e
dell'ebraico, da Alessandro VI dato secretario al duca Valentino, poi
spedito per affari in Ungheria, chiesto da Luigi XII professore
all'Università di Parigi, da Leone X tenuto al fianco in alti impieghi,
quando fu deputato in Germania contro i Luterani parve esorbitare di
zelo: eppure egli riprova alcuni per questo difetto. Da Spira il 16
ottobre 1531 scrive al Salviati: «Il Fabri dette fuora un libro _De
contradictionibus Lutheri_, buono ma _intempestive editur in ipso puncto
concordiæ ineundæ_. Similmente Ecchio quel medesimo giorno dette fuora
un libretto _sub titulo Cathalogi hæreticorum_, dove nomina _præcipue
Melancthon_; diceva il vero, _sed non erat id tempus_. Io certo siate
sicuri che interterrò l'una parte e l'altra con dolci parole, _ut malos
lucrifaciam_»[401].

Dalle lettere sue raccogliesi a che scompiglio fosse la Germania: e da
Brusselle, il 26 ottobre 1531, scriveva al segretario Sanga[402]:

«Fummo invitati io e li precipui oratori di principi ed infiniti baroni
e nobili di questa Corte ad un banchetto πρεσβ. τῆς Λυσιτανὶας, il quale
διὰ τον πρωτὸτοκον τοῦ Βασιλέως αὑτοῦ ha fatto feste inaudite... dove fu
recitata, _præsente mundo_, una comedia ἰβεριστὶ καὶ λυσιτανιστὶ di una
mala sorte, che sotto nome d'un giubileo d'amore, era manifesta satira
contro di Roma: sempre nominando apertamente ogni cosa; che da Roma e
dal papa non veniva se non vendizione di indulgenzie, e chi non dava
denari non solo non era assoluto, ma scomunicato di bel nuovo: e così
cominciò, e perseverò e finì la comedia. Ed era uno principale che
parlava, vestito con un rochetto da vescovo, e fingeasi vescovo, ed
aveva una berretta cardinalesca in testa, avuta da casa del
reverendissimo legato, datagli però senza che li nostri sapessero per
che fine. Ed era tanto il riso di tutti, che parea tutto il mondo
giubilasse. A me veramente crepava il cuore, parendomi essere in mezzo a
Sassonia ad udir Lutero, ovver esser nelle pene del sacco di Roma; e non
potei far che _con sommessa voce_ non ne facessi cenno di querela con
Bari, e di poi eziandio l'ho detto ad alcuni de' precipui _con bel
modo_, che questi non son atti da far in luogo di Cristiani, e tanto
meno nella Corte d'un tanto e tam virtuoso e cattolico imperatore, ecc.
Mi è stato risposto che certo non è cosa fatta ora, ma comedia d'altri
tempi, della quale, per non aver altro, si servirono... Veda mo V. S.
come va il secolo!»

Di troppo egli lusingavasi allorchè da Roma scriveva al Salviati[403]:

«Par pur che la Germania sia stanca de la tanta varietà di queste
eresie. E se non fosse la aversione che acceca molti principi e private
persone, così cattolici come eretici, che tengono li beni altrui, e
præsertim della povera Chiesa, mi par che non saria molto difficile cosa
mettervi qualche ordine con la assistenza de' detti principi ed altri
divoratori delli beni ecclesiastici, che pochi vi sono ora in questa
Germania netti da questa macchia».

Esso cardinale Aleandro alla dieta di Germania chiariva quanto si
esagerasse intorno alle ricchezze, che dalla spedizione delle bolle,
dalle annate, dall'altre grazie affluivano a Roma. Basterebbero appena a
mantenere un principe mediocre; e il papa, che pure spende meno d'alcuni
non grandissimi principi, v'adopera quel che gli è dato dai proprj
dominj. E quel mediocre ricavo gli viene da tutti i regni cattolici:
tant'è poco quel che i singoli contribuiscono. — Una volta non aveano
neppure questo. — Oh sì: ma ritornate gli uomini a pascersi di ghiande,
i principi a stare senza anticamere nè guardie o corte; le figliuole dei
re a rasciuttare i panni, come una volta leggiamo si facesse. Siccome
ne' corpi umani si mutano le complessioni e i bisogni secondo l'età,
così accade de' corpi politici. Posto che, per l'unità e la maestà, vi
debba essere un capo supremo della Chiesa, per non dare diffidenza ad
alcuno è necessario non abiti nello Stato d'altri, ma nel proprio, con
Corte e ministri proprj. Or chi gliene somministrerà i mezzi? Ogni terra
ne dà al suo piovano, ogni diocesi al suo vescovo, ogni popolo al suo
signore. Nè si considera aggravio che da un paese vada in altro il
denaro, se con questo si procura la merce più di tutte preziosa, cioè la
legge e la conservazione della giustizia. Direte che sta bene nutrir la
reggia del cristianesimo per la necessità, ma non per le pompe. Se
intendete le pompe per la struttura e gli addobbi de' tempj, questi
certo mancavano alla Chiesa primitiva, ma per malignità del secolo. Del
resto e Dio nell'antichità e i Gentili vollero i tempj ornati, affinchè
i popoli se ne invaghiscano, confortando la ragione coi sensi, la
devozione col diletto. E anche voi, o principi, volete pompa di corte, e
il popolo vuol teatri. Quanto alle pompe private, a Roma si commenda la
vita povera, si venerano gl'istitutori della mendicità volontaria, ma
tal perfezione può desiderarsi più che sperarsi. Ma se vogliamo che la
reggia spirituale del cristianesimo, sia frequentata da persone
d'ingegno, di nobiltà, di lettere, le quali abbandonino le patrie per
sottoporsi al celibato o ad altri scomodi della vita ecclesiastica,
bisogna possano sperare onori e stipendj. Perocchè Roma non è Corte di
Romani natii, bensì d'ecclesiastici congregativi per elezione da varj
paesi del cristianesimo. I giudici de' tribunali, i magistrati, i
governatori, i nunzj sono scelti da tutti i paesi, sicchè a tutti sono
comuni gli onori, le ricchezze, i vantaggi della Corte pontifizia».

Troppo ci darà a dire Pietro Paolo Vergerio vescovo di Capodistria,
mandato nunzio in Germania. Nel 1536 vi andava il cardinale Morone
milanese, e il papa gli raccomandava di pagare tutto e non lasciare
debiti alle osterie, non isfoggiare lusso, visitare le chiese senza
fasto nè ipocrisia, presentare nella sua persona la riforma romana:
prevedeva che Lutero e Melantone non vorrebbero mai fare una
ritrattazione: pure manderebbe una formola che non gli offendesse, stesa
da persone savie e rispettabili.

Ma Lutero di buon'ora rese impossibile ogni accordo, proclamando
ricisamente la condanna d'ogni tradizione ecclesiastica, d'ogni autorità
della Chiesa; e sulle attinenze dell'uomo con Dio piantando un dogma,
ch'egli stesso diceva sconosciuto alla Chiesa dagli apostoli in poi. Non
chiedevasi dunque, come nelle licenziosità precedenti, che la Chiesa si
riformasse nel capo e nelle membra, ma che s'annichilasse da sè;
all'adorazione e al sacrifizio surrogasse la predica; sfasciasse
l'organamento che teneva riuniti tutti i popoli[404]. Anche allora il
papa dovea rispondere la parola più grande che siasi udita nel secolo di
universale vacillamento, qual è il nostro: _Non possumus_; ma quella
negazione potea formularsi colle parole che il De Maistre scriveva ad
una Ginevrina: «Noi non possiamo fare un passo verso di voi; ma se
volete venire a noi, noi spianeremo la via a nostre spese».

E già da particolari negazioni si era asceso a canoni generali: e
principalmente al dogma della giustificazione. Nel Vangelo, Cristo dice
all'adultera: «Va in pace e non peccar più»; dice al giovane: «Se vuoi
conseguire la vita eterna, osserva i miei precetti»; Cristo accettò
l'amore e il pentimento della Maddalena; accettò la buona volontà
dell'operajo che arrivò all'ultima ora. Sempre insomma si vede che,
nell'effettuare la giustificazione del peccatore, la volontà dell'uomo
coopera alla Grazia, e ne conseguita una nuova vita, giusta l'osservanza
della legge divina, e il produrre opere meritorie. Che se Paolo, nella
lettera ai Romani, insiste che l'uomo viene giustificato non per le
opere della legge, ma per la fede, intende degli Ebrei, i quali, per
repudiare la necessità d'un redentore, asserivano che, mediante la legge
e le opere da questa prescritte, uno possa colle sole forze umane
divenire giusto e accetto a Dio. Contro di essi pertanto scrive che
l'uomo viene giustificato non dalle opere della legge mosaica, ma dalla
fede, cioè dalla credenza in Cristo. In niun luogo però dice che la
_sola_ fede giustifichi senza le opere[405]: bensì valere in Cristo
quella fede che opera per la carità[406].

Da ciò i Cattolici dedussero che della giustificazione (la quale è
inerente all'anima, la tramuta, e porta il rinnovamento dell'uomo
interiore) sono costitutivi necessarj la fede e le opere, e che si può
perderla con nuovi peccati. I Protestanti all'incontro insegnano che
essa non è se non la giustizia di Cristo, applicata a noi in modo, che
le colpe, pur durando nell'anima, non ci possono essere imputate: ad
ottenerla basta si creda che, pei meriti di Cristo, ci sono rimessi i
peccati; non vi si richiedono opere buone, conciliabili con sentimenti
cattivi, e non si può perderla più.

Da entrambe le parti i disputanti fondavansi su quel passo di san Paolo
ed altri consimili; neppure tutti i Padri del Concilio tridentino
caddero d'accordo sulla differenza tra la fede che giustifica, e le
opere che non giustificano ma sono effetti della giustizia; e solo vi fu
proferito che «la fede è il principio della umana salute, il fondamento
e la radice della giustificazione, nè senza di essa è possibile piacere
a Dio, ed entrare nel consorzio de' suoi figliuoli»[407]. E spiegossi
poi che, non la legge de' Giudei nè le opere dei Pagani han valore,
bensì la fede, che opera per la carità, che è informata dall'amore;
giacchè senza le opere la fede è morta[408].

Lutero prorompeva: «Quando questi pazzi sofisti insegnano che la fede
dee ricevere dalla carità il suo modo, la sua forma, delirano
mostruosamente: la fede giustificante è la fiducia d'essere rientrati
nella grazia di Dio, e aver ottenuto il perdono de' peccati pei meriti
del Salvatore». E Melantone definisce più preciso: «La fede è
un'assoluta confidenza nella divina misericordia, senza riguardo alle
nostre azioni buone o malvagie».

Dunque l'uomo non può perdere la salute per qualsiasi peccato, e nemmeno
volendolo, purchè non gli venga meno la fede nelle promesse di Dio[409].

Alla negazione della vera dottrina intorno alla giustificazione tenne
dappresso quella del Sagrifizio; e come per la prima i Protestanti
misuravano della lettera di Paolo ai Romani, così per la seconda
appoggiaronsi alla lettera di lui intitolata agli Ebrei.

In questa vuol egli insegnarci che i peccatori non potevano evitare la
morte se non surrogando chi morisse per loro. Finchè sostituirono
sagrifizj d'animali, non faceano che attestare di meritar la morte: e
poichè la giustizia divina non potea rimanerne soddisfatta,
ricominciavasi ogni giorno l'olocausto inadeguato. Dopo che Gesù Cristo
morì pei peccatori, Dio soddisfatto non aveva più ad esigere altro
prezzo del nostro riscatto. Non occorre dunque sacrificare altre vittime
dopo Cristo, e Cristo medesimo non dev'essere sagrificato che una sola
volta.

I Protestanti inducevano da ciò l'inutilità di ripetere il sagrifizio
della Messa. Ma la Chiesa non ritrae il suo linguaggio da un passo
isolato, e in quell'epistola san Paolo intende soltanto spiegare la
perfezione del sagrifizio della Croce, e non già escludere i varj mezzi
che Dio ci ha dati per applicarlo. Or la parola _offrire_ spesso nelle
sacre scritture indica presentare; onde la Chiesa non dice che Gesù
Cristo si rifaccia vittima attuale nell'eucaristia, ma che si offre a
Dio, comparendo per noi al suo cospetto[410]. Gesù Cristo una volta si
immolò vittima della giustizia di Dio; ma non cessa d'offrirsi per noi;
e la perfezione di quel sagrifizio consiste in ciò, che ad esso si
riferisce tutto quanto lo precede come preparamento, o lo segue come
consumazione e applicazione. Il prezzo del nostro riscatto non si
ripete, essendo perfetto la prima volta; ma continua ciò che applica a
noi quella redenzione.

Ora il sacramento dell'altare è centro di tutto il culto, è la comunione
intima dell'uomo con Dio: onde il mistero della fede completa la
ragione; l'ordine sopranaturale serve di pienezza all'ordine naturale.
Il nostro intelletto debole li distingue; in realtà si continuano l'un
l'altro; objettivamente si confondono nello stesso vero: ed anzichè
esser contradditorj, nè tampoco diversi sono. Al Cristiano bisogna
sempre combattere, e perciò bisogna rinnovar sempre le forze alla fonte
eterna del vero, del bello, del buono.

E fu attorno a quest'epistola e a quella ai Romani che si moltiplicarono
spiegazioni e quistioni esegetiche sulla fede, sulle buone opere, sulla
grazia, sul libero arbitrio, sulla predestinazione, sulla vocazione,
sulla glorificazione: e i punti non essendo a quel tempo ancora decisi,
molti fermaronsi in giudizj diversi da quelli che poi furono sanzionati.

Pure al tirare de' conti tutto riduceasi alla suprema quistione
dell'autorità della Chiesa, o dell'esame individuale.

Chi legge in san Paolo che _l'ossequio nostro dev'essere ragionevole_,
capisce ch'è una trivialità il ripetere che i Cattolici escludono
l'esame in materia di religione. Cristo disse: «Scrutate le Scritture, e
vedete come rendono testimonianza di me»; cioè impose un esame
d'adesione. Unico è il motivo della fede; moltissimi i motivi di
credibilità; e v'è tante dimostrazioni della verità della fede, quanti
motivi di credibilità. Non vi è dono di Dio che l'uomo non deva attuare
colle proprie forze, e da sant'Agostino fino a noi si chiamò prodromo
della fede l'esposizione delle pruove della rivelazione e dell'autorità
della Chiesa. La qual fede ha per motivo immediato la veracità di Dio, e
per regola l'autorità della Chiesa, ma suppone titoli ragionevoli.
Quando so che Dio ha parlato, che stabilì per sua interprete la Chiesa,
più non posso discutere la parola di Dio contrariamente alle definizioni
di quella, nè darle il senso che voglio; bensì posso rendermi conto
della fede che professo o, per quei che non credono, ponderare secondo
la critica e l'argomentazione se realmente Iddio ci rivelò la sua legge,
e se stabilì un'autorità regolatrice della fede. Queste pajonmi dottrine
elementari e universalissime, lontane così dalla fede ciecamente passiva
come dal razionalismo, che esagera i diritti della ragione costituendola
giudice della parola di Dio, e confonde la luce soprannaturale della
rivelazione colla naturale dell'intelligenza umana.

Il problema dell'umana destinazione, della riunione misteriosa della
natura umana che espia e della divina che perdona, è supremo; eppure la
ragione è incompetente a darne soluzione adeguata, e perciò si richiedea
la rivelazione divina: la parola umana è insufficiente a trasmettere la
fede, e per ciò si richiede la Chiesa viva che la interpreti. Ne' suoi
dettati non troviamo nè assurdità, nè contraddizione: il cristianesimo è
fuor del dominio della semplice ragione: le verità d'ordine geometrico
mal vorrebbonsi applicare ai dati del sentimento e dell'immaginazione,
che pur sono legittimi quanto quelli dell'intelletto: vi manca la
evidenza matematica, perocchè allora non sarebbe più fede nè dono di
Dio.

Il Cattolico sa che la Chiesa, istituita per applicare i meriti
dell'Uomo Dio all'umanità in generale e a ciascun uomo in particolare,
operar la santificazione del genere umano, che in essa e per essa
unicamente è possibile, ha sola il dono sopranaturale di conoscere
infallibilmente la verità rivelata, e perciò china la sua intelligenza
per adottare ciò che è prescritto come bontà e verità. Sa che la libertà
è la potenza d'eseguire le proprie leggi: e che per farle abbisogna
ch'essa possieda la certezza di queste, nè tale certezza può darsi senza
l'infallibilità. Le decisioni della Chiesa vincolano la nostra libertà,
come la stella polare vincola il pilota. O forse l'uomo cessa d'esser
libero perchè è credente, perchè virtuoso? Se c'è libertà nell'uomo,
vale a dire facoltà di far il bene e compier la sua destinazione, mentre
ha la possibilità di far il male, dev'esserci un'infallibilità che lo
renda sicuro nel suo operare.

L'uomo può accettare le affermazioni divine semplicemente, e allora egli
non è che un credente; può chiarire le relazioni fra esse e i fatti
interni ed esterni dell'universo, e allora la sua fede diviene
scientifica. La certezza in materia di fede va distinta dalla scienza
delle cose della fede: ciò che pruova la verità della rivelazione, da
ciò che la difende dalle accuse. E appunto la teologia è la scienza che
discorre di Dio e delle cose secondo le verità rivelate, proposte dalla
Chiesa; la scienza degli sforzi fatti per isnodare il problema divino.
Due oggetti distinti essa ha. L'uno, esporre la verità e i dogmi dati
dalla Scrittura e dalla tradizione, e rigorosamente definiti dalla
Chiesa, parte invariabile: perocchè, accanto ai principj necessarj della
ragione v'ha dottrine elevatissime, non semplicemente razionali,
invariabili come il vero, e la cui invariabilità attesta esserne divina
la sorgente. Sopra questa base divina elevasi l'edifizio della ragione,
secondo oggetto della teologia, sottoposto alle condizioni d'ogni opera
umana, svolgimento, mutazione, successione, progresso, regresso, a
proporzione del sapere e delle attitudini dell'uomo e della società: e
però anch'essa non si restringe nella categoria dell'essere, ma passa in
quella del divenire; essendovi un solo modo di credere, ma molti di
dimostrare e appoggiar la verità.

Tale l'assunsero i Padri, cercando con essa la rigenerazione
intellettuale, identificata colla rigenerazione morale, poichè si
proponeva la salute delle anime, primo, collo svellere il dubbio, che
col sottile argomentare avea scosso le credenze più vitali; secondo, col
riordinare le scarmigliate idee del dovere. Atteso che si attaccano i
misteri in apparenza, in realtà si rinnegano i comandamenti.

Emancipare la coscienza individuale dalla tutela ecclesiastica, tenere
ciascuno responsale delle proprie credenze come de' proprj atti, ed
obbligato ad acquistare coll'esame convinzioni proprie, a seguire la
coscienza propria, anzi che obbedire alla Chiesa o ascoltare il prete,
costituisce il gran divario fra i Protestanti e noi.

Ma una generazione di rado s'accorge dell'opera che essa intraprende e
compisce; nè i riformatori d'allora aspirarono a quel che, al cospetto
dei moderni, ne costituisce il merito, la libertà di esame. Contro di
questa impennavasi Lutero, ed esclamava: «Non v'è angelo in cielo, e
molto meno uom sulla terra che possa ed osi giudicar la mia dottrina;
chi non l'adotta non può andar salvo; chi crede ad altri che a me, è
destinato all'inferno. Al Vangelo che io ho predicato devono
sottomettersi papa, vescovi, preti, monaci, re, principi, il diavolo, la
morte, il peccato, e tutto ciò che non è Cristo. La mia parola è parola
di Gesù Cristo, la mia bocca è la bocca di Gesù Cristo»[411].

Anche enunciandosi principj malvagi di filosofia o di politica,
l'esister la dottrina cattolica impediva gli eccessi e le storte
applicazioni. Ora, scosse le credenze, invocavasi, come dopo ogni
rivoluzione, il rassettamento; in parte l'abitudine antica, in parte
l'indole delle moltitudini faceano sentito il bisogno di conservare la
libertà, eppure costituirsi in comunità, formare una Chiesa, aver
concistori che autorizzino a predicare[412]. Vero è bene che, sostenendo
la giustificazione per mezzo della fede, venivasi ad accampare la
coscienza individuale contro la tradizione secolare; ma direttamente
all'autorità della Chiesa sostituivasi l'autorità della Bibbia.

Eppure questa da chi era trasmessa? da quella tradizione che essi
rinnegavano. L'interpretarla poi rimettevasi al sentimento individuale,
sicchè alla perfine si ritornava al libero assenso della coscienza. Così
il Protestante aveva il testo della Scrittura colla mescolanza di verità
di fede e verità di ragione, senza la certezza del senso che contiene;
il Cattolico ha il senso indefettibilmente conservato di un testo, in
cui stanno tutti i dogmi di fede. Ma la fede è l'adesione dello spirito
umano alla testimonianza di Dio. Essa non dà solo il presentimento della
verità, ne dà la certezza. Libero esame è il diritto dello spirito umano
di non ammettere in qualsiasi ordine di cose se non ciò che riconosce
per verità. Dunque, prima di credere i misteri _rivelati_, dee aver
certezza che sono rivelati: s'ha da adoprare la ragione fino al punto
ov'essa ci conduce a riconoscere la Chiesa. Ecco l'esame previo alla
fede, il quale non è punto interdetto ai Cattolici.

Ma il protestantismo disgrega tutto ciò che Dio aveva unito; la società
spirituale dall'autorità su cui si fonda; la parola scritta dalla
tradizione vivente che ne scopre l'origine e il senso; il sacrifizio
unico della redenzione dalla perpetua sua offerta sugli altari del nuovo
patto; la Grazia dai sacramenti che ne sono le grandi e divine arterie;
la fede dalle buone opere che la mostrano viva; l'amore dal culto che
n'è l'espressione; la preghiera dai gradi per cui ascende a Dio mediante
gli angeli, i santi, la madre di Cristo: e per tal modo prepara il
distacco totale della ragione dalla fede, della natura dalla Grazia, di
Dio dall'uomo coll'ateismo o il panteismo, col deismo o il naturalismo.

E non meno di eresia religiosa fu eresia politica, combattendo la
religione e la civiltà cristiana come nel pensiero così nell'azione:
ergendo a principio supremo del vero e del bene l'io umano, in contrasto
all'unificazione pontifizia: ergendo lo Stato in divinità; posponendo
gli interessi di Dio che fin allora aveano primeggiato, sicchè, dopo
aver gridato «Date a Cesare quel ch'è di Cesare», si dimenticherebbe di
dar a Dio quel ch'è di Dio.

Così rinnegato il primato nell'ordine religioso, intaccavasi pure nel
civile, mentre parevasi assodarlo. Le conseguenze non si conobbero che
tardi, e ai nostri giorni, quando ormai a un'apparenza di unità non si
arriva se non a spese della fede, e la fede non si produce che in
contrasto coll'unità: ma subito si sentì il disordine.

Gaspare Contarini, veneziano (1483-1562), entrato ne' Pregadi della sua
patria, appena l'età gliel permise, non sapea mai risolversi a prendere
la parola, sebbene, quando il faceva, parlasse alla semplice, ma con
profondità. Eruditissimo di filosofia e matematica, versatissimo in
gravi maneggi politici, essendo stato savio grande del Consiglio, capo
dei Dieci, riformatore dello studio, Paolo III lo elesse cardinale con
altri sette di gran virtù e dottrina, benchè ancora laico e lontanissimo
dal pensarvi: fu ambasciadore della Serenissima presso Clemente VII, col
quale s'adoprò di tutta forza per isviarlo dalla politica tentennante,
mostrandogli come recasse a precipizio l'Italia. Colla filosofia aveva
egli studiato la teologia, propendendo per san Tommaso ma conoscendo
tutti i santi Padri, e ancor giovane aveva scritto contro il Pomponazio
suo maestro, poi due libri _De Ufficio Episcopi_ (1516) e un altro
sull'origine divina della podestà del papa, con semplice gravità e meno
triche di scuola che non solessero i teologanti: e di lui diceva il
cardinale Polo, non essergli sconosciuto nulla di ciò che lo spirito
umano scoprì colle sue ricerche e la divina grazia ha rivelato; e
v'aggiungea l'ornamento della virtù.

Gaspare sedeva in consiglio quando gli giunse la notizia del
cardinalato, e tutti ad applaudire; solo Alvise Mocenigo, costante
avversario di lui e degli ecclesiastici, brontolò: «Codesti preti ci
hanno rubato il miglior gentiluomo che la città avesse»[413]. Solo alle
calde preghiere e all'idea del dovere egli rassegnossi ad accettare quel
gravoso onore, e «non accortigianato nelle cose di Roma», insisteva
sulle riforme: e scrisse, fra le altre, due lettere a Paolo III, intorno
alle composizioni e alla potestà pontificia. «Il dispensiero (diceva),
non può vendere ciò che non è suo ma di Dio, foss'anche il lucro
destinato a far guerra al Turco o a riscattare schiavi, o qual altro
siasi scopo; tutti convenendo nella sentenza di san Paolo che non può
farsi il male per conseguire il bene, nè acconciare la verità di Dio
agli esempj e alle costumanze nostre. Coloro che ampliarono in ciò
l'autorità del pontefice sino ad affermare non abbia altra regola che la
particolare sua volontà, porsero occasione agli avversarj di negarla del
tutto. Qual cosa potrebbe immaginarsi tanto repugnante alla legge di
Cristo che è legge di libertà, quanto il sottomettere i Cristiani a un
capo, al quale sia attribuito l'ordinare leggi, il derogarle, il
dispensarne a capriccio, anzichè a regola di dovere? Ogni potestà è
potenza di ragione, ed ha per iscopo di condurre con retti mezzi alla
felicità. Così anche l'autorità pontificia, conferita da Dio al
beatissimo Pietro ed a' suoi successori sopra uomini liberi, vuol essere
usata secondo la regola della ragione, dei precetti divini e della
carità. Santo Padre, voi che soprastate agli altri in dottrina, senno
naturale e sperienza delle cose, esaminate se dalla contraria dottrina
non abbiano pigliato baldanza i Luterani a comporre i loro libri della
cattività di Babilonia. E davvero, qual cattività peggiore di questa,
professata da alcuni esuberanti sostenitori della podestà pontificia?
Abbia la S. V. a cuore quella suprema potenza e libertà del volere, che
viene dall'ossequio alla grazia divina e alla ragione; non pieghi
all'impotenza della volontà, che sceglie il peggio, e alla servitù che
mena al peccato; perocchè solo allorquando quella vera facoltà del
volere sarà congiunta alla podestà pontificia conferitavi da Cristo,
sarete potentissimo, affatto libero, e vera vita della repubblica
cristiana»[414].

E trattando della giustificazione nelle epistole stesse, dichiara aperto
che «l'uomo propende al male, in grazia dell'impotenza della volontà;
dalla qual malattia, che è servitù dell'animo, non può liberarsi per le
virtù morali acquistate coll'abito delle opere buone, ma solo per la
grazia di Dio e la fede nel sangue di Gesù Cristo». Tale dottrina
enucleò nel _Tractatus seu epistola de justificatione_, lodato
immensamente dal cardinale Polo, dal cardinale Sadoleto e da altri, che
ammiravano come quell'arduo punto egli avesse sì ben chiarito, e con
verità inaspettate, che pur erano nella sacra scrittura[415]. Onde può
dirsi che il Contarini esibisse il vero programma di ciò che poi compì
il Concilio di Trento, sia quanto alla riforma, sia quanto alla
definizione dogmatica di quel punto scabrosissimo.

Insisteva egli presso papa Paolo acciocchè attuasse le riforme; e da
Ostia l'11 novembre 1538 scriveva al cardinale Polo: «Il papa mi menò
seco in carrozza a Ostia. Tra via, il nostro buon vecchio si intertenne
meco sopra la riforma delle composizioni. Diceva d'aver sopra di sè il
trattatello da me scritto in proposito, e d'averlo letto la mattina. Io
avea perduto ogni speranza: ma ora mi ragionò in modo sì cristiano, che
concepii di nuovo la speranza che Dio gli farà compiere qualcosa di
grande, e non permetterà che le porte dell'inferno prevalgano nel suo
spirito».

Ma il papa era intricato in idee politiche; quando il Contarini gli
faceva objezioni sul nominare cardinali che a lui non pareano dover
riuscire di onore alla Chiesa, gli diede sulla voce: «Già siamo stati
cardinali anche noi, e sappiamo come ripugnino che altri abbian lo
stesso onore». Al che il Contarini non potè trattenersi dal replicare:
«Io non reputo che il maggior mio onore sia il cappello».

Spedito alla dieta di Ratisbona del 1541 per tentare la conciliazione
fra Luterani e Cattolici, e almeno indur quelli a riconoscere i principj
fondamentali, cioè il primato della santa sede, i sacramenti, e altri
punti appoggiati alla Scrittura e all'uso costante, domandò al papa che,
se mai da articoli indifferenti alla fede dipendesse la riconciliazione,
potesse condiscendere sul celibato dei preti, sulla comunione d'ambe le
specie ed altri simili; sempre coll'autorità del pontefice: ma non pare
n'avesse il consenso[416]. Bensì è meraviglioso come riuscisse ad
accordare i congregati in quattro articoli essenziali, della natura
umana, del peccato originale, della redenzione, della giustificazione
per mezzo della fede viva e operosa. «Quand'io vidi questa concordia
d'opinioni (scriveva al cardinale Polo) sentii riempiermi di supremo
gaudio, non tanto pel buon fondamento gettato alla pace, quanto perchè
qui consiste tutta la dottrina cristiana».

Anzi l'elettore di Brandeburgo assentiva al primato del pontefice,
trovandolo necessario colà dove una era la fede, una la chiesa[417]:
Bucero stesso confessava che la disciplina dei Protestanti era molto
scadente, e convenire che i vescovi esercitassero il loro potere
spirituale in ordine gerarchico, benchè pensasse che il celibato, i
digiuni, le penitenze non potessero affarsi coi tempi[418].

Ma le conciliazioni mal possono sperarsi in tempi turbinosi: e Lutero
protestò che era la coda del diavolo che conduceva questo tentativo di
pace[419]; le Corti mal gradivano la concordia; i principi di Germania
temeano che coll'unità religiosa non s'aumentasse la potenza
dell'imperatore; gli entusiasti voltavano in beffa la moderazione; il re
di Francia, con ipocrito zelo pel papa e per la Chiesa, biasimava il
Contarini come freddo e ligio all'imperatore. Ne restò questi
scoraggiato, secondo scrive Girolamo Negro che l'accompagnava, vedendo
«il corpo, infermo talmente e indebolito, che nè dieta, nè medicina gli
può giovare...... e intertenimenti secreti di principi, li quali non
vorrebbero vedere che Cesare con questa unione si facesse patrono di
queste provincie..... e i Protestanti far grande istanza contro le messe
private, il celibato, i voti monastici, le invocazioni de' santi ed
altre ordinazioni nostre non istituite da Cristo nè dagli
apostoli»[420], e così l'opera fu mandata in fumo. Gli Italiani, al
solito, ne versarono la colpa sul Contarini, il quale, se si dolse che
«di tal moneta pagassero le sue fatiche», più dovette piangere
dell'imminente disastro della Chiesa. La solita genìa dei buffoni facea
scene a suo carico, e il Beccatelli racconta che, mentre tornava in
Italia, un vecchio amico a Brescia domandogli: «Come stanno, monsignor
reverendissimo, que' capitoli che ai Luterani avete sottoscritto tanto
esorbitanti?» E avendo il Contarini risposto che le erano baje da
Pasquino, l'amico gli mostrò lettere da Roma ove se ne parlava. Sicchè
il Contarini dovette scrivere al papa di sospendere il suo giudizio
finchè gli avesse chiarito il vero, come poi fece così splendidamente,
che il papa stesso l'esortò a non vi badare, citandogli quel d'Ovidio,
_Summa petit livor, perflant altissima venti_[421].

Colla _concordia_ di Ratisbona sarebbesi conservata l'unità nella
nazione germanica, senza temere le usurpazioni di Roma; ma Lutero
ripudiò ogni conciliazione; non potere l'opera di Dio ravvicinarsi a
quella di Satana. Anche a Roma se ne prese scandalo; temendo che
l'imperatore, capo di tutta Germania, divenisse onnipossente, Francesco
I di Francia si oppose: e il Contarini scrive al cardinale Farnese che
Granuella, ministro di Carlo V, «mi affermò con giuramento avere in mano
lettere del re cristianissimo, il quale scrive a questi principi
protestanti che non si accordino in alcun modo, e che lui avea voluto
vedere l'opinioni loro, le quali non gli spiacevano»[422].

Ai 15 giugno 1540 Nicolò Ardinghelli, a nome del papa scriveva ad esso
cardinale Contarini[423] come fosse ormai impossibile la tolleranza,
«essendo gli articoli che restano controversi tanto essenziali alla
fede, che, senza procura di Gesù Cristo Nostro Signore, noi quaggiù non
possiamo pigliarne sicurtà; anzi abbiamo la legge che non _sunt facienda
mala ut veniant bona_; perchè essendo la fede indivisibile, non la può
accettare in parte chi non l'accetta in tutto, quanto al potersi dire
cristiano e fare un corpo medesimo nella Chiesa. E però nostro signore
con tutto il collegio, _nemine discrepante_, ha risoluto di non poter
dare orecchio in alcun modo a quella tolleranza che si domanda, nè, per
quel che toccherà a sua beatitudine, macolare quella sincerità della
fede, che i suoi predecessori hanno fin qui conservata, comprovando con
segni che questa è la cattedra di san Pietro, per la fede del quale
pregò Gesù Cristo Nostro Signore».

Ciò che v'avea di troppo reale era il disordine gettatosi nelle
intelligenze come nella vita, al moltiplicarsi di tanti discepoli,
ognuno dei quali era un dissidente. Nella _Confessione_ d'Augusta gli
eterodossi aveano preteso raccogliere ciò che di comune aveano la loro e
la cattolica fede, a tal uopo ricorrendo a termini ambigui, che la
Chiesa non accettava perchè poteano, come esprimere la verità, così
ratificar l'errore. Carlo V nel 1548 decretò l'_interim_, pel quale
convenivasi che «interinalmente gli Stati erano liberi in religione,
salvo a renderne conto a Dio e all'imperatore»: ma nulla attribuivasi
alla Chiesa cattolica, la quale, oltre che emanato dall'autorità
secolare incompetente, trovava lesivo quell'atto, dacchè ella erasi già
pronunziata sui capitali dissensi. Fra' Protestanti medesimi fu chi lo
disgradiva, e designavano gli accettanti col nome di _rilassati,
adiaforisti, indifferenti_.

Ed ecco, al rumore della nuova dottrina, all'annunzio che i predicanti
rompono la catena storica della tradizione, e ognuno può a suo senno
interpretare la Scrittura, sorgono veggenti in ogni parte; i meno atti
al ministero pretendono avervi più evidente vocazione; la Bibbia diviene
stromento alle passioni; e i villani, lettovi che gli uomini sono
eguali, scatenano l'irreconciliabile ira del povero contro il ricco,
bandendo guerra all'ordine come tirannia, alla proprietà come
usurpazione, alle scienze come distruggitrici dell'eguaglianza, alle
arti belle come idolatria.

Ne gemeva Lutero, e diceva: «Appena cominciammo a predicare il nostro
vangelo, fu nel paese uno spaventevole stravolgimento; si videro scismi
e sêtte, e dapertutto la rovina dell'onestà, della morale, dell'ordine:
la licenza e tutti i vizj e le turpitudini trascorrono, peggio che non
facessero sotto il papismo: il popolo, dianzi tenuto in dovere, non
conosce più legge, e vive come un cavallo sfrenato senza pudore nè
freno, a grado di materiali desiderj. Dacchè noi predichiamo, il mondo
diventa più tristo, più empio, più svergognato: i demonj s'avventano a
legioni sugli uomini, che alla pura luce del Vangelo mostransi avidi,
impudichi, detestabili peggio che non fossero sotto il papato: dal più
grande al più piccolo non v'è dapertutto che avarizia, disordini
vergognosi, passioni abbominevoli. Io stesso son più negligente che non
fossi sotto il papismo, e vengo meno alla disciplina e allo zelo che
dovrei avere più che mai. Se Dio non m'avesse celato l'avvenire, non
avrei mai osato propagare una dottrina, da cui doveano conseguir tante
calamità, tanto scandalo»[424].

Per verità, abbattuta l'autorità ecclesiastica, per non abbattere anche
tutto l'ordine sociale si richiedeva un'incoerenza, un rifuggire dalle
conseguenze necessarie; sicchè, più non dirigendo i venti che avea
scatenati, Lutero rinnega il proprio canone della ragione individuale, e
agli esagerati oppone la sacra scrittura e i libri simbolici[425]: poi
scostandosi dal popolo, di cui s'era fatto un appoggio, tende a
ingagliardire il principato: e di qui comincia l'azione politica della
Riforma, qual fu d'attribuire ai principi l'autorità anche in materie
ecclesiastiche, talchè ogni suddito dovesse credere e adorare come
voleva il sovrano; _cujus regio ejus religio_; e i principi più non
conobbero ritegno da che diressero anche le coscienze[426].

E d'una direzione queste aveano bisogno, quando i fratelli uterini della
Riforma pugnavano tra loro. Indarno Lutero s'arrovella contro ogni fede
diversa dalla sua[427]: Melantone, Carlostadio, Ecolampadio, Engelhard,
Brenzio modificano i dogmi, ciascuno a suo senno o a norma della
costituzione del proprio paese; sbranamento inevitabile là dove a
ciascuno è libero l'interpretare.

Contemporaneamente a Lutero, e senza sapere di lui, Ulrico Zuinglio, che
aveva militato in Italia come cappellano di Svizzeri assoldati, insorse
(1518) a Zurigo contro le indulgenze, che ivi erano predicate da
Francesco Licetto bresciano, generale dei Minori, poi da frà Bernardo
Sansone milanese, e dietro a ciò sostenne che bisogna fondare la fede
sulla sacra scrittura, non su dettati clericali, e repudiando i quindici
secoli della Chiesa per ricorrere alle fonti, studiò il greco, si mise a
mente le epistole di san Paolo, riprovò i pellegrinaggi che al santuario
di Einsideln si faceano; il pane e il vino della Cena essere meri
simboli del sacrosanto corpo e sangue, e altri asserti che furono
accolti in molta parte della Svizzera. Mentre sosteneva che il dogma
della libertà conduce al panteismo, perchè facendo gli uomini
indipendenti li pareggia a Dio, egli rendeasi vero panteista, asserendo
che unica essenza è quella di Dio; tutto ciò che è, è Dio e proprio Dio.

Veramente egli ha un'importanza storica piuttosto che dottrinale, non
avendo lasciato opere di rilievo; e fu assorbito nell'azione di Giovanni
Calvino, francese. Questi, a Bourges studiando sotto il famoso nostro
leggista Alciato, deplorò i disordini derivati dalla Riforma, e pensò
emendarli coll'andare più innanzi, venire a un assoluto distacco. Ancora
si conservavano altari e crocifissi: pregavasi in ginocchio; si facea la
lavanda dei piedi. Calvino proclama un antagonismo perpetuo alle
tradizioni stabilite. Così nella dogmatica parte da un'idea preconcetta,
da un partito preso: perfin Zuinglio erasi piegato alla sacra scrittura;
Calvino si ispira da essa, ma la fonde nel suo pensiero. Zuinglio oppone
la Scrittura alla tradizione; Calvino si spinge più avanti, non è solo
esegetico, ma dogmatico: in faccia alla tradizione non vuol solo
appurarla, ma distruggerla.

Ginevra avea cominciato il suo risorgimento dal rivoltarsi contro al
duca di Savoja, che la supremazia feudale volea ridurre a signoria
assoluta. N'era seguita la solita disordinata prepotenza dei riottosi,
per rimediare alla quale Calvino ricorse al despotismo. Lutero aveva
abbattuto la monarchia cattolica per favorire i vescovi tedeschi,
Calvino sagrifica questa aristocrazia luterana alle idee repubblicane di
Ginevra; e se i Luterani alzavano il principato per opporlo al papa,
egli lo deprime per sottoporlo ai rivoluzionarj[428]. Posta la scure
alla radice, impugna il mistero, colloca la certezza nella rivelazione
individuale: l'arbitrio non è libero, e per iscegliere il bene fa duopo
d'una Grazia necessitante, e questa sola produce la giustificazione,
senza che v'abbia parte la volontà dall'uomo; Iddio è padrone assoluto
delle sue creature, e _ab eterno_ ha destinato queste al paradiso,
quelle dell'inferno, qualunque siano le loro azioni. Il fedele dee
mirare principalmente a tenere per sicura la propria salute: e per
acquistare una tale sicurezza, crederla non fondata su opere od elezioni
umane, ma sulla volontà suprema ed eterna.

Niuna efficacia dunque rimane al battesimo, i figli degli eletti
appartenendo per nascita alla società redenta; niuna alla penitenza,
poichè chi una volta fu eletto non può ricadere; nella santa cena non
sono transustanziate le specie, ma sotto que' simboli il Signore
comunica Cristo, per nutrire la vita spirituale. Abolito l'episcopato,
le comunità religiose scelgonsi un ministro, distinto dagli altri
soltanto per l'abito nero; ne' tempj nudi null'altro che il pulpito e
una tavola su cui esporre il pane e il vino; allontanato tutto ciò che
era proprio de' Cattolici, il culto resta non solo semplice ma nullo.
Con quest'odio Calvino rendesi onnipotente, e stabilisce un ordinamento
vigoroso, sotto il governo de' pastori, ma uniti cogli anziani; tolta
ogni separazione fra ecclesiastici e laici, fra la Chiesa e il coro.

Questi dogmi austeri, dove erano negate la bontà e la libertà dell'uomo,
sosteneva egli con inesorabile intolleranza, non presentando la sua come
una dottrina che ammette la discussione, o cerca accordo con altre
credenze. I Calvinisti, come eletti di Dio, sono autorizzati a
schiacciare tutto ciò che si oppone alla loro esclusività; come
ispirati, abborrono il ragionamento. Calvino ha il rigore del Vecchio
Testamento, più che la mitezza del Nuovo: esigente, dittatorio,
all'amministrazione ecclesiastica subordina la civile; moltiplica
regolamenti fin sul vestito e sulla mensa, proscrivendo il lusso, gli
ori, ogni squisitezza d'arti, per raffaccio alle frivolezze di Parigi e
alle magnificenze di Roma. Divieto di sposare papisti; stampatori e
libraj non si prestino a questi, nè pittori e scultori, vetraj, orefici,
avvocati; non tengansi a fitto beni di Chiesa, per cui si devono offrire
cera o incenso, che favorirebbero l'idolatria. Una fanciulla che si
vestì da uomo; un proprietario che maltrattò i suoi lavoranti, lenti
all'aratro; fanciulli che all'Epifania giocarono alla fava; uno che avea
letto le Facezie del Poggio...... erano puniti, e più chi dicea male de'
fuorusciti, martiri della verità. Così profondato l'abisso fra il credo
antico e il nuovo, Calvino sbigottì le anime timide, e disingannò coloro
che ancora fantasticavano un accordo; e quella risolutezza, quel
sarcasmo, quell'irosa eloquenza contro Roma e la Sorbona e tutto il
clero, trascinava, come tutto ciò che è violento. Allora parve la
protesta avesse trovato l'ultimo suo termine; colla predestinazione
rimetteasi tutto agli ineluttabili decreti di Dio; annichilamento
dell'uomo, che causava una contentezza austera; che formava dei martiri,
e che dovea piacere a coloro che si trovavano perseguitati.

Novatore così radicale, pure Calvino volea conservare molti articoli
primitivi; anzi spiegava fierezza contro chi li intaccasse; quasi che la
trinità, la rivelazione, l'incarnazione, il peccato originale,
l'espiazione di Cristo non si fondassero sulle stesse basi che gli altri
dogmi cattolici.

Più tardi la critica, nata dalla filologia, dovea scassinare le idee
tradizionali sopra l'origine e l'autorità dei libri sacri. Ma già allora
gli Anabattisti gl'impugnarono; gli Unitarj, che vedremo prevalenti in
Italia, escludeano la Trinità; insomma si ripudiava il cristianesimo,
riducendosi a negazione sistematica dei dogmi della Chiesa.

Alcuni Protestanti si vergognavano di tanti disaccordi, e voleano
negarli o attenuarli; altri invece faceansi belli delle variazioni[429],
e diceano: «Noi non abbiamo unità di credenze: ma questo è vanto;
perocchè la ragione individuale esercita così il proprio uffizio, e
procediamo a seconda dei tempi. Le continue variazioni sono naturali al
nostro principio: avvegnachè, mentre i Cattolici si ancorano
nell'autorità, noi ci atteniamo al giudizio de' singoli, al che ripugna
la dogmatica immobilità.

Le moltitudini però non erano venute alla Riforma per argomentazioni
teologiche, bensì alcuni per ismania di libertà, altri per bisogno di
coscienza e pietà; sicchè adottavano, senza troppo analizzarli, i
simboli e le confessioni, in cui i novatori formularono le loro
dottrine. E furono due principali; la Confessione Augustana o de'
Protestanti, a cui aderì la Germania; la Confessione Elvetica o degli
Evangelici, nella quale si confusero gli Zuingliani. Al 1550 le credenze
già eransi costituite decisamente ostili, e ciò ch'è notevole, nei
limiti geografici che press'a poco conservarono, restando la principale
divisione de' riformati in Luterani e Calvinisti: i primi che accettano
il senso letterale delle parole della Cena, gli altri il figurato.

Fuvvi un nostro pittore che formò un quadro in tre piani. Sul più basso,
Calvino distribuiva il pane benedetto, e pronunziava: «Questa è la
figura del mio corpo». Nel successivo, Lutero nell'atto medesimo,
diceva: «Questo contiene il mio corpo». Di sopra era il Salvatore che,
comunicando i suoi apostoli, diceva: «Questo è il corpo mio».

Vi sottopose la domanda: «A quale dei tre crederemo?» Il quadro piacque,
e dicono che molti convertisse; forse impedì si pervertissero.


NOTE

[386] Sant'Epifanio descrive le più turpi sporcizie de' Gnostici, tali
che neppur in latino oseremmo produrle. Asserisce che _uxores habuerunt
communes.... impudica fœminarum et virorum contractatio nota fuit
ejusdem professionis in religione.... Synaxim ipsam turpitudine
multiplicis coitus polluerunt, comedentes ac contingentes tum humanas
carnes, tum immunditias.... Vir quidem concedens alteri uxorem, Surge,
dixit, fac dilectionem cum fratre... Voluptatis gratia tantum, non
generationis coierunt: hanc enim aversati sunt... Si quæ prægnans facta
fuit mulier, detractum fœtum in mortario pistillo contuderunt, et
admixto melle ac pipere et aliis quibusdam aromatis ac unguentis ad
avertendam nauseam, sic congregati omnes porcorum et canum horum sodales
participes facti sunt pueri contusi... Animam dixerunt esse virtutem
menstrui sanguinis et genitalis seminis; quam colligentes et edentes,
sive carnes, sive olera, sive panem, sive aliud quod vorarent,
gratificare se creaturas dixerunt, animam ab omnibus colligentes, et ad
cælestia secum transferentes. Animam enim et in animalibus et in plantis
et in hominibus eandem esse docuerunt... Exarsere etiam in seipsos, viri
in viros, fœminæ in fœminas...._. (Hæres. XXVI). Eusebio di Cesarea
asserisce che usavano anche l'arte magica: _magicas Simonis præstigias
non clam ut ille, sed palam ac publice tradendas esse censebant_.

[387] KOCH, _Sanctio pragmatica Germaniæ illustrata_. Cap. II, § 45.

[388] A Piacenza un frate fanatico annunziò, nel 1420, che da tre anni
era nato l'anticristo in Babilonia, col che costernò i cittadini, finchè
lo confutò il vescovo Alessio da Seregno.

[389] PRATO, _Cronaca di Milano_.

[390] JACOBI SADOLETI _cardinalis, De Christiana Ecclesia, Ad Johannem
Salviatum cardinalem_.

... _Majores nostri sapientissimi homines, optimis illis temporibus,
quibus ecclesiastica vigebat disciplina, quæ nunc tota pæne nobis e
manibus elapsa est, tales eligebant et consacrabant sacerdotes, quos
doctrina vitaque eximios, egregie et posse et velle intelligerent docere
populum publice, habere conciones, præcipere plebibus quæ facienda
cuique essent.., Solis tum presbyteris et sacerdotibus Dei hæc
concionandi et dicendi provincia in templis et sacris locis erat
demandata; reliquis omnibus de populo, etiam ex ea vita quam monasticam
vocamus, quamvis doctis et prudentibus ab hoc omni munere penitus
exclusis_.

[391] BELLARMINO, _Concio XXVIII_ in dom. _Lætare_.

[392] Lettera 19 agosto 1532 nelle _Cartas al emperador Carlo V escritas
por su confesor_. Berlino 1848.

[393] Proposizione 71.

[394] Proposizione 31.

[395] Quando gli Anabattisti e gli altri fanatici spinsero all'eccesso
l'interpretazione individuale, Lutero sosteneva verità oppostissime a
quelle che tennero poi i suoi seguaci. «Il dogma della presenza reale
non fu inventato dagli uomini, ma è fondato sul vangelo e sulle precise
irrefragabili parole di Cristo, e fin dal principio fu uniformemente
predicato e creduto. In mancanza d'altre prove basterà la tradizione di
tutte le chiese per respingere i sofismi de' settarj: poichè è
pericoloso il dar ascolto a cosa alcuna contro la testimonianza unanime
della Chiesa e la dottrina ch'essa c'insegnò da quindici secoli. Chi
mette in dubbio questo dogma, nega la santa Chiesa cristiana. Ora negar
la Chiesa è condannar Gesù Cristo, gli apostoli e i profeti. Se Dio non
può mentire, la Chiesa non può errare». E prosegue a sviluppar le idee
stesse. Vedasi la sua lettera ad Alberto di Prussia. E dice anche: «Noi
riconosciamo che nel papismo vi è molto di buono, anzi tutto il buono
cristiano, il vero battesimo, il vero sacramento dell'altare, le vere
chiavi, il vero perdono de' peccati, la vera predicazione, il vero
catechismo. Io dico che sotto il papa vi è il vero cristianesimo, o a
meglio dire il fior del cristianesimo».

[396] Lo dice Pascal, ne' cui Pensieri se ne vede una stupenda
spiegazione e giustificazione.

E Lutero e Melantone riteneano anche l'assoluzione: perocchè il primo
nella disputa del 1518, e l'altro nell'apologia della Confessione
Augustana, sostennero, _absolutionis ministrum, etiamsi contra
prohibitionem superioris absolvat, vere nihilominus absolvere a culpa,
et coram Deo_. Lutero dice: _Occulta confessio, quæ modo celebratur,
etsi probari ex Scriptura non possit, miro modo tamen placet, et utilis,
imo necessaria est, nec vellem eam non esse; imo gaudeo eam esse in
ecclesia Christi_. De Captivitate Babylonis, tom. II, pag. 292.

E negli articoli smalcaldici, p. III, c. 8: _Nequaquam in ecclesia
confessio et absolutio abolenda est, præsertim propter teneras et
pavidas conscientias, et propter juventutem indomitam et petulantem, ut
audiatur, examinetur et instituatur in doctrina christiana_. La
confessione fu conservata lungo tempo dai Protestanti, e il famoso
Spener fondatore de' Pietisti, nel 1686 era confessore dell'elettor di
Sassonia: ma allora appunto Schaden trovò che quell'atto fosse fonte di
superstizione, ingannandosi i penitenti sull'effetto dell'assoluzione:
ne nacque gran disputa, e Spener riuscì ad acquetarla, facendo decidere
fosse libero ai fedeli premettere o no alla sacra cena la confessione.
Ciò la fece cadere in disuso.

[397] Möhler che, nella Simbolica, diede la più bella esposizione delle
contrarietà dogmatiche fra Cattolici e Protestanti, dice «vedrebbe con
piacere l'uso del calice lasciato all'arbitrio di ciascheduno: locchè
avverrà certo allorquando il voto generale in amore e unità si pronunzii
in favore di tal pratica con tanto vigore, con quanto la avversò dopo il
secolo XII». § XXXIV.

[398] Oggi la dottrina di Lutero sopra la giustificazione è ormai
abbandonata da tutti i Protestanti.

[399] Vedi la relazione di Spalato ap. SECKENDORF II, 165.

[400] _Lettere di Principi a Principi_, vol. III, pag. 16, senza
indicazione di nome.

[401] Vedi _Monumenta Vaticana_, Num. LXIII, pag. 84. E pag. 89 dove
torna più ampiamente su questo punto.

[402] _Monumenta Vaticana_, Num. LXVIII.

[403] 31 agosto 1532, nel vol. V, 224 delle lettere della legazione di
Germania nell'Archivio Vaticano.

[404] Döllinger (_La Chiesa e le Chiese_), per mostrare ch'è illusione
l'attender l'unione de' Cattolici coi Protestanti per mezzo della
Scrittura, fa osservare che la disputa fra Luterani e Riformati sulle
parole con cui Gesù Cristo istituì l'Eucaristia, dopo infiniti colloquj
e migliaja di libri per tre secoli, non ha fatto un passo.

[405] Al testo di san Paolo sulla efficacia della fede, Lutero aggiunge
la parola _sola_: e scrivendo a Link nel 1550, dice: «Se il papista vuol
seccarci per la parola _sola_, rispondetegli chiaro: Il dottor Martino
vuol così, e dice: Papista e asino è tutt'uno. _Sic volo, sic jubeo, sit
pro ratione voluntas_. Mi rincresce di non aver messo anche
senz'_alcun_'opera d'_alcuna_ legge, che esprimerebbe più netto il mio
pensiero. Perciò voglio che questa parola rimanga nel _mio_ nuovo
Testamento, e dovessero tutti questi asini di papisti impazzirne, non
riusciranno a levarla».

[406] _Ad Galatas_, V, 6.

[407] Sessione VI, cap. VIII.

[408] _Ibid_., cap. VII.

[409] _Homo christianus, etiam volens, non potest perdere salutem suam,
quantiscumque peccatis, nisi nolit credere. Nulla enim peccata eum
possunt damnare, nisi sola incredulitas_. Lutero, _De captiv. Babyl_.

[410] Nell'epistola stessa è detto che Gesù Cristo si offre a Dio
entrando nel mondo (10,5); che si mette al posto delle vittime che a lui
non piacquero (9,24); che continua a comparire per noi davanti a Dio
(9,26), e non cessa d'intercedere per noi (7,25); senza che con ciò
l'apostolo accusi d'insufficienza l'oblazione sulla croce e
l'intercessione fatta morendo.

[411] LUTHERI _Opp. ediz. Witenberg_. Tom. II, p. 44, T. VII, p. 56.

[412] L'istituzione de' concistori per autorizzar alla predicazione è in
aperta contraddizione colla missione che vien attribuita a ciascun
fedele. Fu sancita nella Confessione Augustana, art. XIV, e in
conseguenza si dovette imporre alle Chiese d'aver un ministro e di
mantenerlo. Ma il popolo non intendeva questa campana, e Lutero se ne
lagna spesso, e «Il popolo non vuol offrire niente: la sua ingratitudine
è tanto nauseante, che, se la coscienza non mi distogliesse, gli leverei
e curati e predicanti, perchè viva da bestia, qual è in fatto».

[413] Lettera di Daniel Barbaro a Domenico Venier nelle _Lettere
Vulgari_. Venezia 1542, pag. 94. Era egli a Siviglia nel 1522 quando
fece ritorno la nave _Vittoria_, che per la prima avea fatto il giro del
globo; e stupivano d'aver perduto un giorno, benchè esatto giornale
avessero tenuto. Nessuno sapeva darne ragione, ma il Contarini la
spiegò.

[414] _Bibliotheca maxima pontificia_. Roma 1698. _Ad Paulum III P. M.
de potestate pontificis in usu clavium et compositionibus, duæ
epistolæ_, pag. 179-183 del vol. XIII.

[415] Su tal punto tenne qualche opinione particolare; non accettò
pienamente quella di sant'Agostino, nè che pel peccato originale gli
uomini siano riprovati: ed esorta i predicatori a toccare con gran
riserbo tali quistioni.

[416] Il fondamento di tutto ciò è principalmente nella raccolta delle
epistole di Reginaldo Polo. Una vita del Contarini per monsignor
Lodovico Baccadelli, contemporaneo, fu stampata il 1827 a Venezia.

[417] Il Contarini scriveva al cardinale Farnese da Ratisbona, 28 aprile
1541: «Quanto al primato del pontefice, l'elettore di Brandeburgo non vi
fa una difficoltà al mondo; Imo dice che gli pare necessarissimo,
essendo fra cristiani una fede ed una Chiesa» _Ep. Reginaldi Poli_, tom.
III, pag. 254.

[418] Sua lettera del 19 gennajo 1541 al vescovo Nausea di Vienna, in
DOELLINGER, _die Reformation_. Ratisbona 1848, tom. II, pag. 49.

[419] Vedi la sua lettera all'elettore di Sassonia nella raccolta del De
Wette, tom. V, pag. 353, 377.

[420] _Lettere di Principi a Principi_, lib. III, pag. 169.

[421] Un'ampia apologia del Contarini trovasi nella diatriba del
cardinale Quirini alle epistole del cardinale Polo.

[422] QUIRINI, _Diatribæ_ III, CCLV. Le opere principali del Contarini
sono: _De immortalitate animæ_ contro il Pomponazio; _Conciliorum magis
illustrium summa_, compendio più volte ristampato e giudizioso, cui
spesso va unito il trattato _De potestate pontificis: Scolj sulle
epistole di san Paolo; Dei doveri de' vescovi;_ molte opere di
controversia.

[423] _Lettere di XIII uomini illustri_. Venezia 1564.

[424] Ediz. di Walch, V, 114. — IX, 1310. — X, 2666. — VI, 620. — VIII,
564 ecc.

[425] Libro simbolico è chiamato da' Protestanti una esposizione della
dottrina ricevuta in una Chiesa particolare, insieme coll'enunciazione
degli articoli su cui una dissente dalle altre sètte. Applicando tal
denominazione anche alla Chiesa cattolica, chiamano _primo libro
simbolico_ il Concilio di Trento, _secondo_ la professione di fede
tridentina, _terzo_ il catechismo romano.

[426] Non è fuor di tempo ricordare uno dei _Discorsi da Tavola_ di
Lutero: «Dice il proverbio che la roba dei preti va in crusca; e di
fatto quei che ghermirono i beni delle Chiese finirono per restare più
poveri. Burcardo Hund, consigliere di Stato dell'elettor di Sassonia,
soleva dire: «Noi nobili abbiamo aggiunto i beni de' conventi ai nostri,
e quelli mangiarono questi in modo, che nè gli uni ci restarono, nè gli
altri». E voglio raccontarvi una favoletta: «L'aquila rapì un pezzetto
di carne arrostita dall'altare di Giove, e lo portò agli aquilotti del
suo nido, e riprese il volo per cercare altra preda. Ma un carbone
ardente era rimaso attaccato alla carne; cadde nel nido: vi appiccò il
fuoco; e non sapendo gli aquilotti ancora volare, bruciarono col nido.
Così avviene a coloro che pigliano per sè i beni della Chiesa, i quali
furono dati per onorar Dio, o per sostenere la predicazione e il culto
divino: devono perdere il loro nido e i pulcini, e soffrire nei corpi e
nelle anime.» _Tischreden_, p. 292. Jena 1603.

[427] In modo differente argomentava il re d'Inghilterra Enrico VIII
contro Lutero: «Emilio Scauro, accusato da persona di niun conto al
popolo romano, rispondeva: Quiriti, Varo afferma ed io nego: a chi
crederete voi? E il popolo applause, e l'accusatore n'andò confuso.
Questo solo argomento opporrò io alla questione del potere delle chiavi.
Lutero dice che le parole d'istituzione s'applicano a' laici: Agostino
nega: a chi crederete? Lutero dice di sì: Beda di no: a chi crederete?
Lutero dice di sì, la Chiesa tutta levossi, e disse di no: a chi
crederete?»

Un'altra imitazione de' forestieri nel 1865 fu l'introduzione in Italia
de' Liberi Pensatori. Essi non appartengono agli eretici, perchè
ripudiano ogni religione positiva: pure, colla solita incoerenza,
impongono una fede. In fatto «Non ammettono altri veri che quelli
dimostrati dalla ragione, altra legge morale che quella sancita dalla
coscienza».

Qui è già supposto nell'uomo qualcosa d'innato, una morale naturale, una
coscienza anteriore e indipendente da ogni legge. Poi la ragione
potrebbe benissimo dimostrare che il cristianesimo o qualunque altra
religione è vera. Eppure i Liberi Pensatori soggiungono un dogma
esclusivo, che «considerano come negazione della coscienza e della
ragione umana le religioni dogmatiche e rivelate». Nè basta: come
conseguenza di questo loro dogmatismo impongono degli atti, con tanta
assolutezza con quanto lo farebbe il papa o il gran lama, volendo che i
loro associati professino di «vivere e morire fuori del seno di
qualsiasi Chiesa o credenza dogmatica, e di uniformare a questo morale
impegno tutti quegli atti che hanno rapporto alla nascita e morte de'
figli non ancora in istato di libero discernimento, ecc.».
L'intolleranza poi è spinta al segno di scomunicare quelli che, non solo
propaghino, ma _professino_ principj contrarj a quelli dalla società
affermati. Vi sarà pure un sant'Uffizio, perchè la scomunica verrà
proferita «da un giurì di nove socj, eletto nel seno della società». V'è
la sua propaganda: v'è la solidarietà: tutte insomma le forme della
servitù che rinfacciasi alla Chiesa costituita.

[428] Calvino commentando il capo VI di Daniele, dice: _Abdicant se
potestate terreni principes cum insurgunt contra Deum: indigni sunt qui
in numero hominum censeantur ideoque in capita potius eorum conspuere
oportet quam illis parere_.

[429] Melantone professava «doversi gli articoli di fede mutar sovente e
accomodarli ai tempi e alle circostanze». Infatto variò fin nelle
asserzioni più solenni, per esempio, intorno alla presenza reale. I
Luterani lo riprovarono, e in pieno sinodo (_Colloq. Altenburg_.)
dichiararono: Cambiando e ricambiando di continuo, apprestò armi ai
papisti, ridusse i fedeli a non conoscere più che cosa devono tenere per
vera dottrina. I suoi _Luoghi teologici_ son piuttosto a dire _Giuochi
teologici_.



DISCORSO XVII.

L'APOLOGIA CATTOLICA. CONSEGUENZE DELLA RIFORMA.


Continuando queste nostre escursioni, ci fermiamo un tratto per ripetere
che non intendiamo farne un soggetto o un'occasione di polemica; eppure
miriamo a combattere una grand'eresia de' giorni nostri, coll'ostinarci
alla storia, all'accertamento de' fatti: eresia intendiamo non tanto in
senso religioso, quanto nel senso che v'attaccavano i giureconsulti
delle età passate.

E in vero già lo Spinosa avea stabilito «Ciò che la mia ragione non
comprende, non può essere avvenuto»: i filosofi dell'età nostra si
spinsero più avanti dicendo: «Ciò che la mia ragione comprende come
possibile, deve essere». È la formola dell'uomo che crea tutto; è la
conseguenza della critica della ragion pura, dopo la quale tutta la
metafisica del panteismo piantasi sopra la teoria che tutto esiste
nell'uomo e per l'uomo, nella ragione e per la ragione.

Anche la storia dunque non sarà il racconto di quel che fu; bensì di
quel che la ragione riesce a trovare; e ne nasceranno quelle tante
mostruosità, che la superbia letteraria e la goffaggine governativa oggi
moltiplicano anche in Italia col titolo di filosofia della storia. La
indagine de' fatti, la verificazione, il confronto, son vecchiaggini;
ogni cosa si riduce a pretto empirismo, e l'empirismo è l'ultima
degradazione intellettuale.

La storia consiste dunque nell'affermare intrepidamente; non badando nè
alle tradizioni, nè ai libri, nè alle autorità, nè ai monumenti, nè al
senso comune. Enunciata un'idea, non si curi di provarla; basta
svilupparla, cioè offerirla sotto i più varj aspetti, come nel
caleidoscopio; tanto meglio quant'è più strana; se da un motto torrà
occasione ad abbattere una completa serie di avvenimenti; se con un
epigramma manderà in aria tutto un sistema: subordinare tutta la storia
alle leggi dell'automa umano s'intitola filosofia; come l'astrologia
dell'astronomia, così le religioni non sono che le precorritrici della
fisica, della quale è una continuazione l'ideologia.

Per verità da noi gli studj sono oggi così trascurati, che anche questi
delirj non ebbero che qualche meschino divulgatore, e non conseguirono
effetti durevoli neppure nell'opera del più applaudito fra' loro
predicatori. Ma intanto le menti leggiere si lasciano affascinare da
frasi, quanto più sono vaghe nel fondo ed assolute nella forma, e da
libri ove la storia deve assumere il dogmatismo e la leggerezza d'un
romanzo, e che studiata così, può appoggiare una teoria, non mai
raggiungere il vero.

Per esempio, ci diranno: È indubitabile che per sola espansione naturale
e spontanea delle sue facoltà, l'uomo un bel giorno improvvisò il
linguaggio: — L'opinione che la Genesi sia opera di Mosè è al disotto
d'ogni critica, nè noi dobbiamo discuterla: — Sono tre secoli che i
pensatori tengono che il tutto è Dio, o che da Dio emana il tutto e a
lui ritorna: — Il monoteismo non è idea propria che della stirpe
semitica: — Le nazioni latine mancano di senso morale e d'ogni
iniziativa religiosa: — La persecuzione è la prima delle voluttà
religiose; e la coscienza cristiana lo comprese inventando quelle
ammirabili legende, ove tante conversioni si operano per l'allettamento
del supplizio: — Un pendio insensibile condusse dal paganesimo al
cristianesimo, e la fede popolare salvò nel naufragio i simboli suoi più
familiari: — Tutti i critici della detta Germania ammettono che i
vangeli sono posteriori di almeno centrent'anni a Gesù Cristo, e sarebbe
un ignorante chi credesse fossero conosciuti nel primo secolo: — Non v'è
più chi dubiti che la dottrina di Cristo fu propagata arcanamente.....

Una volta libravansi gli attributi divini; i metafisici s'appigliavano
all'ontologia; i teologi alla Scrittura; i poeti alle armonie del
creato. Oggi la storia universale, che discute le origini e i progressi
della società, hassi per un quinto vangelo, mentre i razionalisti
ampliano i diritti e i limiti della ragione. Oggi la critica salta in
mezzo colle civilità comparate, e colla superiorità di quelle ove
esistono le credenze; e su queste posa il diritto, che altrove è
sottoposto al successo e nelle coscienze all'utile. In conseguenza si
confonde il soprannaturale col sopra intelligibile. Comprendere quello
non possiamo, ma non perciò esso supera l'intelligenza. Dio è
sovranamente intelligibile perchè sovranamente intelligente e base
dell'intelligenza nostra, eppure trascende questa nell'essenza sua: ma
ciò che in lui non comprendiamo non si discerne da ciò che comprendiamo.
Altrettanto è nelle opere sue. Il soprintelligibile non è
necessariamente sopranaturale, giacchè l'intelligenza nostra non è
adequata a tutta la natura.

Oggi poi il lato storico di Dio e del suo Cristo è divenuto il
principale studio della scuola teologica, e vedemmo di qual passo
procedano i filosofi odierni della storia: l'asserire costa sì poco!
Guai se il buon senso arresta queste indubitabilità, e dal vago
dogmatismo richiama alla discussione! La taccia d'ignorante, di
superstizioso è pronta: meravigliansi che costui non sappia che da non
più di cinquant'anni esiste la vera storia: che solo a pochi genj è dato
interpretare i documenti originali; genj abituati a svolgere l'eterno
controsenso, che è il fondo della storia. Che se all'avversario non
possono negare il merito d'erudito, gli rinfacciano che il troppo sapere
è un ostacolo al creare; che ben si assimila soltanto ciò che si sa a
mezzo; che le dottrine non si combinano se non coll'indovinare: gli
diranno che, immerso nel passato, ignora l'ultimo stato della scienza,
la _neue philosophie_, la quale ha diritto di sbeffeggiare tutte le
precedenti, finchè domani non venga una _neuste philosophie_ a
sbeffeggiare lei a vicenda.

E il vulgo, che prima sbigottiva davanti a quelle demolitrici
asserzioni, s'abitua ad accettarle, rinnega la propria ragione per
siffatte intrepide autorità. Così viensi a ridere del miracolo, non si
cerca se quella che ci danno è la storia dei fatti, o la storia della
mente dell'autore; se questi, invece dell'umanità, non ha davanti Carlo
o Giuseppe, e principalmente se stesso. In tempi dove nelle scuole più
non s'insegna su di che si fondi la certezza, e quanta autorità abbiano
i testimonj, e come si fili un raziocinio o si distrighi un sofisma e un
paradosso, e a tener conto del senso comune, e valutare quella sincerità
evangelica, che impone di dire sì al sì, e no al no, troppo è facile
ottengano corso le più assurde temerità dell'orgoglio umano.

Tutto opposto è il procedimento evangelico; e perciò gli apologisti
dovettero sempre usare la stessa arte, da Eusebio fino al Ghiringhello e
al Perrone; fedeli alla sana critica, cercando le testimonianze
storiche, chiarendo i fatti, accettando i soprannaturali che sorpassano
l'intelligenza umana _quoad modum, non quoad existentiam suam et per
divinam virtutem_; quanto cioè al modo con cui avvennero, non quanto
all'avvenimento stesso: citando in prima i testimonj de' fatti, dappoi
quelli che gli udirono dai testimonj, indi la storia; e l'esegesi
adoprando severamente a mostrare con ingegnosi ravvicinamenti l'assoluta
conformità dei vangeli colla storia, colle arti, coi monumenti.

Alle nostre ragioni, costoro dicono «Ma fate sempre le stesse risposte».
Sì, poichè le stesse sono le objezioni, cioè il prodotto d'un orgoglio
che non vuole accettare ciò che non intende. Dov'è a notare che i primi
avversarj del cristianesimo non negavano gli atti, e tanto meno
l'esistenza del Cristo, bensì quelli attribuivano a magia, a illusioni;
e gli apologisti confutano questa supposizione pagana, non mai l'ipotesi
mitica, che da nessuno era stata messa innanzi; e che il secolo nostro
doveva attendere da qualche tedesco o francese, discosto XVIII secoli da
que' casi.

Ma l'apologia cattolica a' giorni del luteranesimo, non procedeva così
maestosa, essendosi, come Dante si lamenta, derelitti l'evangelio e i
dottori magni, e più ai decretali studiandosi. Baldanzosi nei diritti
della ragione individuale, i predicanti dicevano al popolo: «Iddio ha
parlato: qual bisogno che altri venga a spiegarvi quel ch'egli disse?
Non è egli infallibile? Non vi diede il suo libro? e lume
dell'intelletto per comprenderlo? I Cattolici fecero alla legge di
Cristo quel che i Farisei aveano fatto alla giudaica, vi sostituirono le
loro opinioni; levarono l'autorità alla parola divina per attribuirla
all'uomo; il vaso conservò il nome, ma n'è svanito il profumo; il tempio
di Dio fu convertito in bottega e in tana di ladroni. Sfogliate il
Vangelo: dove trovate che comandi il celibato de' preti? o il digiuno, o
la confessione auricolare? Una fede inculcata senza l'assenso della
ragione, degenera presto in superstizione: la facilità dell'indulgenza e
dell'assoluzione affida al peccare».

Di rimpatto, sbigottiti fino di quell'esame, il cui bisogno eleva e
ingrandisce l'anima, ma che può inebriare nell'orgoglio del senso
individuale, i pii cattolici inculcavano che una religione scandagliata
e analizzata cessa di essere fede, e si lamentavano di vedere chiamate a
scrutinio le cose che devono guardarsi con umile meraviglia, e che Iddio
per occulti giudizj sottrasse all'uomo, ingiungendogli «Credi e adora».

Pertanto si rinserravano nel _credo vecchio_: pensavano vincere il
nemico col negarlo; o, se il dovere li conducesse a combatterlo,
com'avveniva degli ecclesiastici, usavano argomenti di senso comune. E
dicevano a' loro avversarj: «O voi, che volete mostrarci in errore; non
siete uomini voi pure? non siete voi pure all'errore soggetti? La
protesta è sempre posteriore alla verità ch'essa impugna. Noi seguitiamo
la tradizione di persone pie, e più vicine al tempo del Redentore: voi
nasceste jeri. Noi ci atteniamo ad un'autorità di origine divina, al
sentimento costante del genere umano: voi surrogate la più fredda delle
umane doti, la ragione; il più variabile appoggio, la particolare
persuasione. Voi ci apponete che santo abbiamo il precetto, cattivi i
ministri; noi vorremmo poter supporre che i vostri predicanti siano
migliori delle dottrine predicate. Eccoli annunziarci l'amor di Dio e
del prossimo: eppure da voi nascono la scissura e la desolazione delle
case e della patria. E che? l'augusto sacramento, di cui Cristo volle
fare un simbolo di pace e di concordia, e che, _assunto in sua
commemorazione ricordasse ai figli suoi il sangue versato a salute
comune_, diviene pretesto d'acerbe contese: e sembra che ciascuna parte
siasi proposto di mostrare colla condotta meno evangelica di possedere
il vero vangelo. Se la vostra fede è la vera, se viene da Dio, provatelo
col deporre questa rabbia anticristiana: la carità muove da Dio, la
discordia dall'inferno: il nostro non è il Dio delle contese, bensì il
Dio della pace e dell'amore[430]. Lo stesso Melantone, interrogato da
sua madre che cosa dovesse insomma credersi fra tanto discordare di
teologanti, le rispose: — Continuate a credere e adorare come sin qui;
la nuova religione foss'anche più plausibile, l'antica è più sicura. — E
voi, gregge nostro, non disertate gli altari, dove i padri vostri
cibaronsi col pane della vita: non lasciatevi rapire la consolazione de'
sacramenti, che mescono il gaudio e la sanzione del cielo alle più
solenni circostanze della vita, dalla culla al letto di morte. E dopo
morte su in paradiso, i padri vostri, che vi sono giunti credendo
all'antica, stanno ad aspettarvi. Quanto dolore se vi vedessero
precipitare coi nuovi alla perdizione!»

Non sempre così pacate procedevano le controversie sul pulpito e nelle
scuole. I Cattolici avevano il vantaggio che un capo solo dirigeva tutti
i movimenti, principe d'un bello Stato, colla potenza della tradizione e
l'abitudine dell'obbedienza: ma ai Protestanti apparteneva la forza di
chi attacca, di chi censura, di chi seconda gl'istinti umani, e vanta
quale progresso la distruzione del passato.

Come battagliassero i dissidenti lo vedemmo e il vedremo. Anche i
nostri, considerandosi unici custodi della verità e censori autorizzati
della giustizia, troppo spesso posavano la disputa non fra errore e
verità, ma fra santità e inferno, e tutte le objezioni dichiaravano
empie, immorali tutte i ragionamenti. La polemica e l'apologia
assumeranno sempre caratteri diversi ed evoluzioni conformi alle
aspirazioni del tempo; altrimenti mancherebbe alla Chiesa viva quel
progresso di lume e di certezza, che sempre i Padri e i fedeli
domandarono[431]. Ogni nuovo errore è una nuova riflessione, ed esige
scienza nuova, sicchè non bastano i vecchi metodi; le idee non si
cangiano che nel complesso e per sistema, nè si può persuadere un altro
se non facendogli accettare una delle proprie conseguenze.

Scarsi d'iniziativa, di larghezza, di sintesi, sopratutto di vivacità,
con un futile armeggio di sillogistica discutendo i singoli punti,
vedeano tutto da quell'aspetto solo, che nulla prova a quei che guardano
da un differente; filavano sillogismi, di cui era impugnata la maggiore;
davano come concesso dagli avversarj ciò che deve essere sentito solo da
chi crede come loro, e parea non propendessero che a raddormentar nella
tradizione. Durava poi il gergo tecnico, argomentazioni opponendo ad
argomentazioni col metodo geometrico, il cui apparente rigore stanca lo
spirito senza sostenerlo; sicchè i teologi sprezzavano i letterati come
gente da frasi, ed erano sprezzati da questi come pedestri scolastici.
Il sant'uomo Gregorio Cortese da Modena, dapoi cardinale, deplora la
scurrile polemica allora usitata, mentre d'una savia e dotta egli
porgeva ottimo modello[432]: e Melchior Cano domenicano spagnuolo
(-1560), i cui _Loci_ son la più bella introduzione alla dogmatica,
accusava i nostri di adoprare contra i nemici non armi di buona tempra,
ma _arundines longas_.

La vera eresia di Lutero consisteva nell'impugnare l'autorità, rompere
l'unificazione su cui è fondata l'indefettibilità della Chiesa,
disperdere quelli congregati attorno all'unica mensa, col dare all'uomo
la superbia di pensare da sè, e invece dell'umile acquiescenza alle
definizioni dogmatiche e disciplinari della Chiesa, volere la
comparazione tra l'infallibilità del vicario di Cristo, e la corruzione
del papa figlio d'Adamo. I nostri avrebbero dunque dovuto insistere nel
consolidare l'autorità della Chiesa, che conserva i comandamenti, le
dottrine, i sacramenti, cioè le regole della verità e i mezzi della
virtù. Ma non basta cogliere alcuni barlumi del vero, bisogna seguirlo
fermamente in tutto il labirinto, coordinarne le parti, mostrarne
l'insieme e la filiazione, evitare ogni soluzione di continuità,
convincere che tale teoria è una dimostrazione, che con essa tutto si
spiega, e niente v'è ad opporle. Religione inventata da uomini è
un'assurdità: non può essere tale se non data da Dio: e come tale non
può venire messa in discussione; ove compare il dubbio scomparisce la
fede.

E appunto i gran savj c'insegnavano che la Chiesa è società d'anime
legate innanzi a Dio da identiche credenze: e che, rappresentando la
natura umana prima del peccato, decide tra le contenzioni, senza
lasciare luogo a negare le sue asserzioni; mentre gli uomini, incapaci
di qualificare gli errori, vacillano nella libera discussione. Chi
dunque dice Chiesa, intende permanenza delle verità di fede; chi dice
cattolica, intende unione di persone, che sopra esse verità ritengono
quel che si ritenne sempre, da tutti, dapertutto. I nostri vescovi
derivano in linea retta dagli apostoli; insegnano quel che essi
insegnarono, sia ne' libri, sia a voce; e secondo la Chiesa lo
interpretò nel modo che piacque allo Spirito Santo. Una sola fede, un
solo battesimo, dice il Vangelo; adunque l'unità è carattere della vera
Chiesa, come l'immutabilità è solo propria della verità; e, siccome
Bossuet ben lo formolò, dice agli altri: «Tu cangi, e ciò che si cangia
non è la verità».

Qual sublime spettacolo quell'armonico movimento d'innumerevoli
intelligenze in ogni tempo e luogo, sicchè i popoli, discordi od anche
ostili per politica, per invidia, per interessi, per indole, aveano una
casa stessa dove, colle parole e coi sentimenti stessi, quasi all'ora
stessa cantavano al Signore, e supplicavano i santi suoi per ottenere
quella pace che il mondo non può rapire! E questa Chiesa è una, perchè
figlia dello stesso Redentore; come lui è vera, è visibile; e se fu
necessario un Dio presente per rigenerare il mondo, è necessaria la
permanenza di esso nella Chiesa per conservare e svolgere l'opera della
redenzione.

Ora quest'unità sarìa possibile ove a ciascuno fosse libero interpretare
la Scrittura a suo talento? Iddio ha imposta un'autorità, che l'uomo sia
obbligato riconoscere per conseguire il suo fine supremo? o lasciò che
la nostra stirpe barcolli fino al termine tra l'abuso dell'autorità e
l'abuso della libertà individuale?

I Cristiani credono il primo fatto: i Protestanti ritengono che tale
autorità sia il codice scritto. Dicono che il proferire «Noi crediamo
alla Chiesa mercè della Scrittura, e alla Scrittura mercè della Chiesa»
è un circolo vizioso. Eppure al modo stesso l'autorità delle leggi
deriva dal Parlamento, e il Parlamento esiste in forza della legge. Ma
realmente alla Chiesa crediamo per l'autorità di Cristo; è un'accidente
che quella fede sia deposta nella Scrittura; potrebb'essere in un altro
libro o nella tradizione. Anzi nel Nuovo Testamento non vi è parola che
mostri avere Cristo voluto diffondere la sua dottrina mediante la
Bibbia; parla d'ascoltare, di predicare, di parole; non mai di leggere o
di libro: non disse «Mandate un libro»: questo nè tampoco era scritto
quando ordinò, «Andate e predicate»: potrebbero essere guasti i
trentaquattromila suoi versetti: non vi si leggono gli articoli del
_Credo_, che pure sono adottati da tutta la Chiesa.

Male si confonde la lettera della Bibbia, cioè l'involucro, colle verità
divine che vi stanno: queste sole importa raggiungere; su queste sole
fondansi le convinzioni religiose. Ma se a ciò adopriamo il senso
personale, chi ci assicura che la nostra interpretazione sia conforme
alla verità? introduciamo in quel libro un pensiero, concepito senza
appoggio d'autorità superiore; e così non siamo certi di riposare sulle
verità divine. Laonde quei soli che udirono Cristo avrebbero potuto
erigere la loro fede su fondamento divino; gli altri divagarono, perfino
a dedurre dal libro stesso la negazione della divinità di Cristo.

In realtà la Scrittura è infallibile, ma fallibile l'uomo che la legge,
sicchè ha mestieri d'un'autorità che gliene ricavi la verità, e
null'altro che la verità. Ora la Chiesa si professa custode del vaso ove
fu deposta la dottrina di Cristo, e garante che lo spirito maligno non
v'introdusse alcun errore: e colloca la sua autorità suprema nel
ministero d'insegnamento, istituito da Cristo, nella parola vivente di
Dio, nella promessa ch'e' diede agli apostoli d'essere con loro fino
alla consumazione dei tempi, e «Chi ascolta voi ascolta me».

Pertanto l'autorità insegnante della Chiesa s'applica nel conservare
perpetuo il senso e lo spirito della viva parola di Dio, e nel
mantenerla pura e integra mediante un ajuto soprannaturale. Senza di
ciò, la credenza non sarebbe che umana e subjettiva.

Ora l'uomo non apre l'anima se non a ciò ch'è improntato di superiorità;
concede il suo assenso al pensiero, non alla forma; e questo pensiero
divino è il solo che faccia autorità pel pensiero umano; l'anima vi si
tranquilla; e l'autorità e la libertà si riconciliano.

La Chiesa è società governata da provvidenze sopranaturali. Il semplice
credente accetta e adora; il pensatore svolge la propria ragione sopra i
termini logici prodotti dall'analisi. Ma se in tale sviluppo analitico
si trascendono i confini del soprannaturale, ecco rotta l'armonia che
stabilisce la reciproca incolumità fra la ragione e la fede. Ripudiamo
l'autorità vivente per attenerci unicamente alla Scrittura? Infinito
stuolo d'opinioni umane pretendono impiantarsi su questa, quasi a
provare che la Scrittura ammette ogni senso, cioè non ne ha veruno. Se
ogni fedele può interpretarla a suo modo, bisognerà conchiudere che non
è rivelazione divina, giacchè ci lascia in dubbio su quel che contiene,
nè arriva a produrre fra' suoi seguaci un'intelligenza comune, durevole,
inconcussa; e quindi disordine nell'intelletto, anarchia nella dottrina,
dubbio e negazione nel pensiero. Ciò evita il Cattolico, credendo che la
Scrittura contenga un senso unico e preciso, e l'ufficio dell'intelletto
umano nella Chiesa consista nell'appropriarsi quel senso con sempre
maggior precisione e chiarezza, alleando l'argomentare umano colla fede
divina. Essenziale alla forza è l'unione; all'unione è necessaria
l'unità della dottrina; questa non si conserva che sottomettendo
l'individuale giudizio all'autorità, e vero cattolico non è chi non ha
prosternata la debole sua ragione davanti l'autorità infallibile.

Il Protestante invece, tolta ogni connessione fra la coscienza del
fedele e la direzione del sacerdote, pretende l'interpretazione privata,
sia per lume di ragione, sia per ispirazione superna; laonde la
religione, ridotta a mera opinione, non ha maggior valore che una scuola
filosofica; abbandonata a cieca sentimentalità o ad immaginazione
esaltata, oppure alle sottigliezze dell'argomentazione.

Ma o non v'è autorità superna che diriga la libertà degli uomini, o
quella si trova nella Chiesa cattolica. E questa autorità non si estende
che alle verità annunziate da Gesù Cristo: e non risiede in ciascun
vescovo, bensì nel corpo dei vescovi uniti col pontefice.

Ripudieremo la tradizione? Questa sussisteva già nella legge ebraica:
viepiù occorreva nella nuova, tanto meno particolareggiata. Fino dai
primi anni del cristianesimo gli apostoli si adunarono per decidere
intorno all'osservanza delle pratiche mosaiche, cioè intorno a punti,
sui quali il Redentore non si era espresso. San Paolo scriveva a
Timoteo: «Le cose che hai udite da me come testimonio, confidale a
uomini i quali sieno idonei ad insegnarle anche ad altri»[433]. E san
Giovanni: «Molte cose avrei a scrivere a voi, ma non l'ho voluto fare
con carta e inchiostro, perchè spero venire a voi, e parlarvi faccia a
faccia»[434]. Non tutto dunque si scriveva. Anche senza di ciò, come
credere al testo sacro se questo non ci fosse trasmesso da un'autorità
conservatrice, della cui infallibilità è garante Iddio? Ora
quest'infallibilità del testo sacro, e la conservazione sua traverso ai
tempi è ammessa anche dai Protestanti, come da noi l'infallibilità della
Chiesa. Alla quale noi attribuiamo pure il diritto d'interpretare le
sacre carte; e già san Pietro ne ammoniva: «Ponete mente che nessun
pronunziato della Scrittura è di privata interpretazione»[435]: e delle
epistole di Paolo diceva: «V'ha passi difficili, a intendersi che
gl'ignoranti stravolgono, come le altre Scritture, per propria
ruina»[436]. E san Paolo aggiungeva: «Fratelli state fermi, e tenete le
tradizioni che imparaste sia per le parole, sia per le lettere
nostre»[437].

La Chiesa, spiegando le parole apostoliche dovette usarne di differenti.
Anzi gli stessi evangelisti non hanno conservato l'identica forma della
parola del Salvatore: e uno la riferì a un modo, l'altro all'altro.
Viepiù bisognava farlo quando la Chiesa prendea di mira un dato errore,
il quale aveva una propria terminologia e tesi proprie, che doveansi
ribattere con antitesi convenienti. La dottrina sta invariabile: la
forma differisce secondo il transitorio e l'umano.

L'accusa dunque di predicare la dottrina della Chiesa, anzichè quella di
Cristo, quasi fra queste due soggetti v'avesse contrarietà, è assurda:
giacchè, come il verbo s'è fatto uomo, e l'uomo e Dio in Cristo sono un
solo figliuolo di Dio, così la parola divina s'è incorporata nella
parola e nella società sensibile della Chiesa, venendo trasmessa e
conservata per azione umana: non sono già due parole, ma la parola
divina, umanamente promulgata.

Nel deposito della fede ci sono verità, non ancora state avvertite, o
formolate, o esplicitamente insegnate. Fino dall'origine la Chiesa
credette la divinità di Cristo, e la procedenza dello Spirito Santo, e
la divina maternità di Maria, eppure questi dogmi formolò solo quando
furono impugnati. E sempre, nel repulsare nuovi errori, più viva e
decisa luce viene diffusa sopra quistioni supreme. Innanzi che san Paolo
ribattesse quei che difendeano il Mosaismo, nessuno avea sì ben espressa
l'eccellenza della fede evangelica. Col vagliare i dissensi nati tra i
fedeli di Corinto, egli chiarisce gli oracoli divini sulla costituzione
della Chiesa. Gli errori de' Gnostici e de' Manichei fanno porre in sodo
la natura e l'origine del male, il contrasto fra la natura e la libertà,
le relazioni della prima creazione coll'edifizio cristiano. Ario
costringe ad esplicare la divinità di Cristo e la sua natura. Disputando
co' Pelagiani si misura la debolezza e miseria umana coll'ajuto della
Grazia.

Volendo all'intelligenza umana mettere meno vincoli che sia possibile,
la Chiesa, finchè non si sollevi un errore patente e sostenuto da molti,
non viene a una decisione ponderata, la quale dilucidi e stabilisca la
verità. Possono dunque trovarsi espressioni poco esatte fino ne' più
cauti; ma opinioni e sistemi particolari, usi o discipline d'un tempo,
non sono la Chiesa, nè essa li consacra. Per quanto essa veneri
sant'Agostino, non fe sue tutte le sentenze di quel massimo fra i
dottori intorno al peccato originale e alla Grazia. Onde a torto gli
avversarj attaccano, come fossero dottrina della Chiesa, alcune opinioni
speciali, talvolta ripescandole in autori oscuri; ovvero usanze e riti
che la Chiesa non sanzionò mai; nè distinguono l'accidente dall'essenza,
dalle opinioni d'alcuni teologi i dogmi; vale a dire ciò, e ciò solo che
qual parola di Dio viene proposto dalla Chiesa[438]. Di questo ella è
custode, non giudice di opinioni subjettive, sinchè a quello non si
oppongono[439].

V'ha preghiere e riti che, indipendenti da fede intima, non racchiudendo
veruna santa emozione, non diffondendo nè unzione nè raccoglimento, pure
rispondono agl'indelebili istinti dell'uomo; esprimono l'amore di lui
per Dio in tutte le cose, e per tutte le cose in Dio; la penitenza d'un
fallo primitivo, origine d'ogni male in terra, il proposito di espiare
le colpe personali mediante la fede e le opere, queste essendo morte
senza di quella, e quella essendo vana senza di queste; la speranza in
un Dio vivo, e di possederlo nella beata eternità.

La poesia, l'entusiasmo hanno un linguaggio, che non pretende a
dogmatica precisione. Perchè cercare in un inno, in qualche legenda, nel
calore d'una predica, nell'immaginoso idioma del vulgo, espressioni che
non reggono al crogiuolo della rigorosa teologia? Il tenere le immagini
era proibito dalla legge mosaica. Che monta? non era proibito da quella
il lavorare al sabato o il mangiare majale, e ordinato il circoncidersi,
e tant'altre prescrizioni e divieti accidentali? Di rimpatto la Chiesa
adottò moltissime usanze che già erano de' Pagani, o che s'attengono
alla natura stessa dell'uomo nel fondo loro come nell'abuso; o convertì
a santa significazione quel ch'era profano, ergendo coi vasi tolti
all'Egitto un tabernacolo al Dio vivente. Già s'avea luoghi dedicati a
un dio speciale; divinità invocate per certe malattie, per certi eventi,
o scelte a patrocinio di alcuni mestieri o professioni; si faceano voti
e pellegrinaggi: si usava l'acqua lustrale; si feriava in certi tempi,
appunto come fa il cristiano. Che importa? il fedele, quand'anche nol
professi dottrinalmente, pone il debito divario fra Dio e i santi suoi;
non riconosce in questi se non speciali intercessori, quasi l'uomo,
sentendosi indegno di avvicinarsi immediatamente al trono supremo anche
dopochè gliene aprì l'accesso il Cristo, interponga altri che furono
sottoposti ai bisogni, alle debolezze, ai peccati suoi stessi; veneriamo
le ossa che aspettano la glorificazione; baciamo le reliquie per
attingerne una virtù benefica e proponimento e forza d'imitarli. E
Maria? culto pietoso e consolante, che presentando il tipo de'
sentimenti più dolci in natura, il pudore della vergine e l'amor della
madre, la rassegnazione dell'afflitta e il trionfo della martire,
immacolata fin dal concepimento, eppure avvocata de' peccatori; si
addatta alle miserie della vita porgendosi interceditrice innanzi al
giusto, qual madre dell'uomo e donna de' dolori, e realizzando fuor di
Dio tutte le qualità affettuose, di cui l'umanità non può far senza, sia
nel culto, sia al focolare[440].

Chiunque crede Dio, crede che nulla è a lui impossibile. In conseguenza
non ripugna da que' fatti che Dio compie indipendentemente dalle cause
seconde, e che si chiamano miracoli. Ciò non porta a credere tutto,
degradando le legittime ragioni della critica, nè ad accettare i delirj
della superstizione, le illusioni dell'ignoranza, i vezzi della
fantasia, costituenti una mitologia cristiana, che ogni credente
discerne dalla verità[441]. Filosoficamente ogni miracolo è un fenomeno;
teologicamente ogni fenomeno è un miracolo: quanto al finito, tutto è
opera di natura; tutto è opera di Dio quanto all'infinito.

Il miracolo, in tempi di credenza, diveniva una delle condizioni
ordinarie dell'azione di Dio sopra il mondo; il risultato naturale
dell'innocenza, restituita per mezzo del sagrifizio; e talvolta, a forza
di fissar l'attenzione nell'ordine della Grazia e del soprannaturale, si
perdè l'intelligenza della semplice natura e della giustizia umana.

Venuti secoli d'esame, si ripudiò una quantità di quelle legende; pure
sono registrate secondo le pie tradizioni di età abituate a vivere di
fede; registrate però e senza mettere limiti all'onnipotenza di Dio, il
quale ha ricchezze infinite pe' cuori semplici e fedeli; e senza
assegnare quanta certezza abbiano[442].

Tutto insomma si concorda, purchè si ami. Caddero abusi nella Chiesa?
Chi il nega? Scopriamoli, correggiamoli, ma è egli giusto ripudiare la
verità perchè se n'abusò?

Nella Chiesa accanto alla verità e ai precetti rivelati, stanno
l'insegnamento, la giurisdizione, il ministero. Il dogma eleva
l'intelligenza fin al soprannaturale. La morale segna chiaramente la
giustizia, e la inculca mediante la carità. Il ministero deve perpetuar
nella Chiesa sotto segni visibili la divina istituzione della
giustificazione pei meriti di Cristo, e del santificamento per la
comunicazione dello Spirito Santo.

Il dogma dev'essere annunziato e in parte spiegato: la morale dev'esser
ridotta a notizia de' fedeli; il ministero deve compiersi per provvedere
ai disegni della comunione de' Fedeli: laonde son elementi necessarj
della Chiesa il dogma, la legge, il sacerdozio.

Pertanto il clero non può separarsi dalla Chiesa cattolica, se vuolsi
ch'ella sia organata e vivente. Se venisse modificato nel triplice suo
cómpito, le relazioni colla Chiesa ne resterebbero lese. Ad esso venne
affidato il giudizio delle azioni umane in ordine alla vita eterna,
«Come il padre mandò me, così io mando voi»; ciò è detto agli apostoli e
legittimi successori, non ad altri; come agli apostoli fu detto di far
in commemorazione la santa Eucaristia, cioè i ministeri più elevati.

Nella costituzione storica e giuridica della Chiesa coesistono dunque,
1º i battezzati, semplici credenti: 2º gli apostoli, con prerogative
comuni a Pietro, quali sono la speciale vocazione[443], la podestà di
legare e sciogliere[444], il magistero dell'insegnare[445], la missione
di rigenerare e salvare i credenti[446], la facoltà di ordinare i
successori[447], l'indefettibilità dei doni e delle promesse[448]. 3º A
tutti sovrasta Pietro, fondamento singolare della Chiesa[449], a cui
sono affidate le chiavi del regno de' cieli[450], l'offizio di pascere e
di reggere gli agnelli e le pecore, cioè e i fedeli e i loro capi[451];
la stabilità della fede e l'uffizio di confermarvi i fratelli[452];
promettendogli l'indefettibilità, come fondamento della Chiesa[453].

Viene così a costituirsi un accordo di monarchia, aristocrazia,
democrazia, come tre elementi, non tre poteri. L'aristocrazia de'
vescovi partecipa di tutte le prerogative del capo, eccetto il primato:
ad essi soli Gesù Cristo impartì la gerarchia della giurisdizione: i
preti son loro cooperatori, con giurisdizione non ordinaria, ma delegata
e varia, che ricevono potenzialmente, non effettivamente coll'Ordine.

Sotto alla gerarchia sta la democrazia, l'universalità de' fedeli, la
_plebs_, tutti figli di Dio, fratelli di Cristo, senza distinzione di
classi o di nazioni, godendo la fratellanza, l'eguaglianza, la libertà.

Hanno essi diritto nel governo ecclesiastico?

La Chiesa è d'origine soprannaturale, sicchè opinioni o volontà umane
nulla valgono nello scopo suo, ch'è di effettuare e propagare il
sacramento di Dio per Gesù Cristo. E Cristo, il cui regno non era come
quelli del mondo, non la affidò a re o a popoli, ad assolutismo o a
suffragio universale, bensì all'ispirazione dello Spirito Santo. La
consacrazione ai pastori non è data dalla plebe: onde neppur la
giurisdizione; nè la sua forma può andare mutandosi, come ne' governi
umani. Però noi plebe de' Fedeli abbiamo diritto di essere ben
governati, con carità e riverenza, rettamente ammaestrati, fatti
partecipi de' sacramenti: la scienza ci dà diritto di rimostrare, come
abbiam veduto fare i più gran santi; la giustizia deve aver le sue
forme, i suoi gradi, i suoi appelli; se ne devono accettare le pene, e
il potere coattivo interno ed esterno secondo i tempi. Tal è la
costituzione ecclesiastica.

Siffatti press'a poco saranno stati gli argomenti addotti dai nostri
contro i novatori, e già indicammo i primi combattenti. Per toccare qui
solo de' nostri, il già lodato cardinale Contarini[454] scrive con garbo
e chiarezza, ma mostrasi filosofo arguto più che profondo teologo;
tradusse gli _Esercizj_ di sant'Ignazio, del quale era amico: poi
fallitagli la concordia di Ratisbona, si restrinse a cercare la riforma
morale dei vescovi di Germania. Messo legato a Bologna, potè spiegare e
zelo, e carità, e qui serva ricordare come, avendo saputo che un
gentiluomo parlava licenziosamente di Dio e della religione, lo prese
suo domestico, e coll'esempio e le ragioni lo vinse di modo, che anche
dopo la morte del suo benefattore egli ripeteva: «Di questi prelati ci
vorrebbero, che sapessero cavare le anime di mano al diavolo fin
sotterra».

Alvise Lippomano, pur di Venezia, vescovo di Modena, di Verona, di
Bergamo, versato nelle lingue, essendo nunzio in Germania cercò «sterpar
la mala erba luterana», compilò il catalogo degli antichi interpreti
greci e latini della Genesi, dell'Esodo, dei Salmi, e stese la
_Confermazione e stabilimento di tutti i dogmi cattolici, con la
subversione di tutti i fondamenti delli moderni eretici_ (Venezia 1553),
e in sei volumi le vite dei santi, con critica maggiore della consueta,
e conservando molti preziosi racconti di greci e latini. Possiamo
aggiungere il cardinale Marino Grimani vescovo di Ceneda e patriarca
d'Aquileja, che l'epistola ai Romani commentò in senso opposto ai
reluttanti; Girolamo Amedei, servita senese, spedito in Germania; il
domenicano Silvestri che fece _un'Apologia della convenienza degli
istituti cattolici colla evangelica libertà_; Ambrogio Fiandino da
Napoli, agostiniano, che già aveva confutato il Pomponazio, _senem
delirum, maledicum, patriæ vituperium_, e dettò contro Lutero tre opere
non mai stampate; Cristoforo Marcello veneziano, arcivescovo di Corfù, e
famoso per dottrina non meno che per disgrazie. Alla Magliabecchiana
conservansi in cinque grossi volumi manuscritti _Disputationes variæ v.
fr. Nichola Stufæ O. Pr. habitæ in variis locis Galliæ et Germaniæ
contra hæreticos calvinistas et luteranos_, ma non ci parvero di forza
sufficiente[455].

Spesso lo zelo dava ombra; e Andrea Bauria, ferrarese agostiniano,
vigorosissimo predicatore contro i vizj, fu messo in sospetto a Leone X,
il quale fece sospendere la stampa del suo _Defensorium apostolicæ
potestatis contra Martinum Lutherum_. Anche frà Girolamo da Fossano, che
abbondevoli frutti coglieva nelle valli subalpine dei Valdesi, fu
sospettato d'eresia e sospeso dal predicare finchè si provò innocente, e
scrisse una delle migliori difese della messa contro Lutero (Torino,
1554).

Maggior rumore levò Ambrogio Caterino. Nel secolo era stato Lancellotto
Politi senese, studioso delle leggi quanto solevasi nella sua patria,
della cui libertà fu fervoroso difensore. Studiò anche dieci anni a
Parigi, e di trenta resosi frate, mostrò elegante dicitura, chiarezza,
metodo, leale esposizione delle objezioni, ampio sviluppo degli
argomenti, estesa dottrina ma litigiosa, per la quale vedendo eresie
dapertutto, s'abbaruffò anche co' teologanti cattolici; e spirito
indipendente, non si chinava all'autorità di san Tommaso o di
sant'Agostino o d'altri. Benchè domenicano, asseriva l'immacolata
concezione di Maria; contro san Tommaso sosteneva che Gesù Cristo
sarebbe venuto al mondo, quand'anche Adamo non avesse peccato; nei
commenti sui primi capitoli della Genesi e sulle Epistole canoniche, non
esita a combattere spesso il cardinale Cajetano, imputandolo
d'interpretazioni umane e opinioni singolari; nel trattato della Grazia,
asseriva potersi esser certi della giustificazione, dottrina simile alla
luterana, che gli fu ribattuta; sulla predestinazione credeva che
_pochi_ fossero _eletti_ assolutamente, ma per un gran numero il decreto
fosse condizionale; che i bambini morti senza il battesimo godono una
felicità conveniente, e sopratutto non esser necessario che il ministro
de' sagramenti abbia l'intenzione di far cosa sacra, purchè ne adempia
le cerimonie. Lettere di gran lode gli scriveva il Sadoleto, e trovava
eccellente il libro suo sul peccato originale e sulla giustificazione,
materia tanto difficile, intorno alla quale erangli rimasti certi dubbj,
che a tempo più calmo intendeva comunicargli; pure assicurandolo non
aver letto nulla di più erudito e dove gran dottrina fosse accoppiata
con tanta prudenza e vera religione[456]. Oltre un _Discorso contro la
dottrina e le profezie di frà Girolamo Savonarola_ (Venezia 1548), dove
attacca i costui seguaci, scrisse _De cælibatu adversus impium Erasmum;
Quæstiones duæ de verbis quibus Christus SS. Eucharistiæ sacramentum
instituit_, opera che fu proibita; e un trattato _De libris a christiano
detestandis et a christianismo penitus eliminandis_, ove un capitolo è
intitolato: _Quam execrandi sunt Machiavelli discursus, et institutio
sui principis_. Osteggiò i varj eretici nel _Rimedio alla pestilente
dottrina di frà B. Ochino_ (Venezia 1544), nel _Compendio d'errori ed
inganni luterani_ (Firenze, 1520) dedicato a Carlo V. Nei _Libri V
adversus Lutherum_, egli diceva all'eresiarca: «Se la Chiesa non è che
in ispirito, come si potrà riconoscerla sulla terra?»

Lutero rispondea che la Chiesa è unicamente interiore, ma che i
caratteri ai quali distinguerla sono il battesimo, la cena e sopratutto
il Vangelo. Ma non sono questi appunto che fan della Chiesa una
istituzione visibile?

Il Caterino fu vescovo di Minore, poi arcivescovo di Consa ed uno dei
più operosi al Concilio di Trento, ove i suoi discorsi erano volontieri
ascoltati per una certa franchezza, per la quale pareva inchinar verso
gli eretici, mentre era soltanto vaghezza di farsi nominare colle
novità: uomo (dice il cardinale Pallavicini) di somma reputazione ne'
suoi atti, di minore nelle sue opere, forse non favorito in esse dalla
universale opinione altrui; ma nelle contese cogli eretici e nelle
funzioni del Concilio non inferiore d'applauso a veruno de' coetanei e
de' colleghi. Morì settuagenario nel 1553.

Altri potremmo cercare, e avremo occasione di nominare, ma una rigorosa
ed assoluta confutazione dell'errore, una sapiente e compita esposizione
della verità non apparve; nè tampoco sorse tra' nostri chi, come il
tedesco Erasmo e lo spagnuolo Melchior Cano, ristabilisse le vere
nozioni sulla teologia e le pruove di cui essa si vale. Confutavasi
dialetticamente, anzichè sistematicamente; dissertavasi sovra punti
particolari, e davanti al tribunale inferiore della ragione individuale,
anzichè incalzare gli avversarj entro barriere solidamente piantate, col
mostrare che l'individuale interpretazione distrugge l'essenza della
società spirituale, distruggendo la fede. Togli alla verità il carattere
obbligatorio, essa rimane indistinta da qualsivoglia errore, nè il
Protestante può condannare l'ebreo, il deista, l'ateo, se non
coll'opporre alla ragione di questi l'autorità.

Poi ad ogni quistione s'immischia una turba di bersaglieri, che vuol
venire alle braccia senza sapienza, nè gusto, nè modestia, e perciò
temeraria e trascendente. Nel procedere del racconto incontreremo
scritti di rabbia, ed esagerazione, e titoli beffardi. I Protestanti
chiamavano noi papisti, poi s'adontavano se noi li chiamavamo luterani;
quelli della Confusione Augustana; a troppi mancava quella salutare
diffidenza dei proprj giudizj, che si chiama umiltà.

Tipo di costoro fu Girolamo Nuzio, nome che mutò in Muzio (1496-1576),
aggiungendo _justinopolitano_ perchè, sebben nato a Padova, era oriundo
e cittadino di Capodistria; uno de' più fecondi scribacchianti del suo
tempo. Servì da segretario a varj personaggi, fra cui al marchese del
Vasto, a don Ferrante Gonzaga governator di Milano, al conte Claudio
Rangone, col quale passò in Francia; azzeccò risse con molti letterati,
e si segnalò nella _scienza cavalleresca_, come chiamavano allora la
teorica de' duelli; i quali vedendo non si potevano abolire, pensò
sistemare, dandovi un'infinità di regole minuziose, come interviene
ogniqualvolta s'introduce il casismo.

Il celebre Flaminio, scrivendo a messer Luigi Calino di Brescia intorno
al fiorire delle buone lettere dice: «Fra gli ingegni ho sempre numerato
quello del nostro messer Muzio, del quale avendo concetto una bellissima
speranza, come potrei fare che non mi dolesse sommamente vedendo che
così nobile pianta, per essere mal coltivata degeneri, e donde si
aspettavano frutti soavissimi ed eccellentissimi, si raccolgono
lambrusche e sorbe?»[457] Innumerevoli sono le opere sue, ed egli stesso
dà il titolo di quelle che uscirono «dalla penna ad uomo, che dal XXI
anno della sua età fino al LXXIV ha continuamente servito, ha
travagliato a tutte le Corti della cristianità, e vissuto fra gli armati
eserciti, e la maggior parte del suo tempo ha consumato a cavallo, e gli
è convenuto guadagnarsi il pane delle sue fatiche». In dieci canzoni
celebrò separatamente il viso, i capelli, la fronte, gli occhi, le
guance, la bocca, il collo, il seno, la mano, la persona della sua
amata; insieme traduceva i testi greci per comodo della storia
ecclesiastica del Baronio. Côlto da grave malattia nel 1552, protestò
voler «dare al servizio di Dio questo poco tempo che avanza,
rivolgendosi tutto agli studj sacri»: ma don Ferrante lo persuase a
rimanere a' suoi ordini. Morto che questo fu nel 1557, il Muzio passò
ajo del principe Francesco d'Urbino, cui diresse un _Trattato del
principe giovinetto_. Ne' viaggi avendo osservato i costumi de'
Protestanti, non gli parvero quali dai lodatori erano vantati, e la loro
dottrina confusione ed abusione; e accintosi a combattere la comunione
del calice a' laici, il matrimonio de' preti e le altre novità, sostenne
che non fosse necessario adunare un Concilio; dissuase Lucrezia Pia de'
Rangoni dall'abbracciare gli errori diffusi tra i Modenesi; ebbe
dall'Inquisizione romana l'incarico di far bruciare tutte le copie del
Talmud nel ducato d'Urbino, e d'informarla di quanto scoprisse di men
religioso, principalmente a Milano. Ove udendo predicare Celso
Martinengo, lo denunziò al Sant'Uffizio, e poichè questo non osava
prenderlo, citollo egli stesso ad esame, e lo incarcerava se non fosse
fuggito. Di ciò i Milanesi gli presero un male a morte qual a
persecutore, finchè non seppero che il Martinengo era stato assunto
pastore degli Evangelici in Ginevra, dove l'effigie del Muzio fu
chiassosamente bruciata. Del Vergerio, vescovo di Capodistria, era stato
amico d'infanzia; ma come questo sviò, non che lasciarsene sedurre, non
ommise alcun tentativo per richiamarlo al vero, e frustrati i consigli
amichevoli, scrisse contro di lui al popolo di Capodistria (1550), e più
dopo ch'ebbe apostatato.

Nei _Tre testimonj fedeli_, librando le dottrine de' santi Basilio,
Cipriano, Ireneo, convince di falsità Erasmo ed altri; a sostegno del
sinodo di Trento scrisse principalmente il _Bullingero riprovato_;
l'_Eretico infuriato_ contro Matteo Giudice professore di Jena; la
_Cattolica disciplina de' principi_ contro il Brenzio. L'_Antidoto
cristiano_, la _Selva odorifera_, la _Risposta a Proteo_, il _Coro
pontificale_, le _Mentite Ochiniane_, le _Malizie Bettine_ (1565), la
_Beata Vergine incoronata_, erano i bizzarri titoli d'opere sue, buttate
giù con violenza e scarsa critica, svelenendosi colle persone, anzichè
teologicamente incalzare l'errore; modo di farsi leggere dal vulgo, non
di vantaggiare la causa del vero.

Pio IV avealo favorito; viepiù Pio V, che l'usò ancora a scrivere contro
gli eretici, principalmente contro l'_Apologia per la chiesa anglicana_
del vescovo Jewel; poi contro le _Centurie Magdeburghesi_ che pretese
confutare in due libri di storia sacra (1571). La morte di quel papa
lasciò il Muzio sprovvisto, sicchè al duca Emanuele Filiberto di Savoja
scriveva qualmente, in cinquantaquattro anni di servizio, non avesse
saputo assicurarsi cinquanta quattro soldi di rendita. Fedele alle
pratiche, frequentava la messa e i sacramenti, recitava ogni giorno i
salmi penitenziali: eppure qualche sua egloga sente di carne, come
confessa che in fatto di continenza era «ancor atto più ad esser ripreso
che a riprendere».

L'Aleandro al Sanga scrive da Ratisbona il 14 marzo 1532 d'un Paolo
Riccio medico, da lui conosciuto in Italia trent'anni fa, dotto ebreo
convertito, passato poi a' servigi della Casa d'Austria, ed entrato
anche nel consiglio dell'imperatore, il quale scrisse libri in difesa
della fede, ma inserendovi cose che sentono di giudaismo. Allora essendo
ancora i tempi che tutto tiravasi a buona interpretazione, non vi si
badò. Nate poi le discussioni, il Riccio cercava convertire Luterani, ma
sempre mettendo avanti qualche dottrina men sana: poi fe stampare un
libro, ove, supponendo la Chiesa divisa in due parti quasi eguali,
mostrava volersene far mediatore. Cascò in molti errori, contro i quali
scrisse il Fabro; e il Riccio, convinto si ritrattò[458].

Alberto Pio signore di Carpi, che molto figurò nelle vicende del suo
tempo e come principe e come ambasciadore, studioso quanto devoto, in
mezzo a tanti affari coltivava l'amicizia dei dotti, e scrisse egli
medesimo varie opere, anche sulle controversie d'allora, e contro
Lutero. S'indispettiva egli degli incessanti frizzi da Erasmo lanciati
agli ecclesiastici; pareagli indebita la cortesia usatagli da papi e
prelati; e ne sparlava alla sbracciata in Roma. Erasmo, tenero in fatto
di lode, se ne lagnò con Celio Calcagnini, il quale interrogatone
Alberto (1525), n'ebbe una lettera lunghissima, dove, lodando l'ingegno
di Erasmo, l'imputa d'aver dato origine o fomento alle nuove eresie, ed
analizza molte opinioni di esso, trovandole o simili o identiche a
quelle di Lutero.

Intervenne in quel tempo il sacco di Roma, dal quale tanti letterati
ebbero a soffrire ed anche il Pio; il quale poi a Parigi stampò essa
lettera, cui Erasmo ne replicò un'altra, che ebbe postille dal Pio. Ivi
Erasmo gli risparmia le ingiurie, ma in epistole private lo malmena,
fino a supporre che quello fosse lavoro di Giovan Genesio Sepulveda di
Córdova. Il Pio stese poi un'opera ove censura le opinioni di Erasmo, e
confuta lui e i novatori del tempo, massime intorno al libero arbitrio,
schivando l'argomentazione scolastica, e procedendo con erudizione ed
eleganza, più che con forza. L'opera comparve postuma[459], sicchè
Erasmo potè con sicurezza attaccarla: anzi in un dialogo _De funebri
pompa Alberti Pii_ lo beffa dell'esser voluto morire in abito da
francescano[460].

Ma Erasmo stesso, eminentemente letterato, sicchè il principio
intellettuale lasciava prevalere al principio mistico, non potea gradire
la Riforma, che rinnegava il bello[461]. Come tant'altri avea sperato
che il progresso delle lettere e delle arti addolcirebbe i costumi, e
schiarirebbe gli spiriti, per modo da dissipare le superstizioni; lo
studio della Bibbia purificherebbe le credenze e raddrizzerebbe gli
errori; i monaci si restringerebbero nella propria sfera, facendo dei
conventi tanti ricoveri di studio, di pace, di pietà; Leone X, nè
avviluppato negli intrighi politici della sua famiglia, nè frenetico
d'armi come Giulio II, attuerebbe la riforma e il trionfo della verità
insieme e del bello: egli stesso credea contribuirvi col saettare i
disordini, gli eccessi, le abjezioni.

A queste illusioni lo strappavano le trasmodanze della Riforma, che
violentemente diroccava ciò ch'egli non volea se non rimpedulare.
Confessò che sulle prime aveva ammirato questo Lutero, il quale a testa
alta veniva flagellando i vizj del suo secolo e i vescovi imporporati,
nè chinavasi ad alcuna maestà, neppure all'antistite supremo; e con mano
santamente libertina svelava fino le nudità del padre[462]. Al cardinale
Campeggio scrive: «Non lessi dodici pagine di Lutero, e anche queste
fretta fretta: pure vi ho riscontrato di belle qualità naturali, e una
singolare attitudine a scoprire l'intimo senso delle Scritture. Ho
inteso persone savie, d'esemplare pietà, d'intera ortodossia compiacersi
d'averne letto i libri; anzi, quanto i suoi avversarj aveano maggior
virtù, e s'avvicinavano alia purezza evangelica, tanto erano meno ostili
a Lutero, e, pur non partecipando alle sue opinioni, ne lodavano
grandemente la vita». E meglio esclamava: «Piacesse a Dio che ne' libri
di Lutero s'incontrasse meno di buono, o che il bene non fosse corrotto
da tanta malizia!» Ma colla solita ironia, al priore degli Agostiniani
che gli chiedea «Finalmente che cos'ha fatto quel povero Lutero?»
rispose: «Ha fatto due grossi peccati: attentò alla tiara dei papi e al
ventre dei frati».

Leon X avea scritto ad Erasmo per tenerlo in fede, e perchè adoprasse il
suo ingegno a difesa della verità[463]. Ma per difendere la verità ci
vuol coraggio, e nulla lo toglie più che la smania della popolarità.

Celio Calcagnino, illustre filologo, pure non ciceroniano, che a Ferrara
aveva complimentato Erasmo in un latino sì puro e facondo da renderlo
mutolo e incapace di rispondere[464], spedì ad Erasmo un suo manuscritto
_De libero arbitrio_ in confutazione di Lutero: ed egli lo ammirava, e
«Per gloria del vostro nome lo farei stampare, se non fosse uno
sciagurato passo, ove mostrate credere che io mi compiaccia a questo
spettacolo di religiose capiglie, standomene a bocca badata e colle mani
in mano davanti al cinghiale che devasta la vigna del Signore».

Come cercò mitigare le escandescenze di Lutero contro il pontefice, così
disapprovava questo d'aver proceduto con rigore. Appena salì papa
Adriano VI, ch'era stato suo condiscepolo nella famosa scuola di
Deventer, Erasmo gli scrisse persuadendolo alla mansuetudine, ma presto
s'accertò che non era più a sperare una riconciliazione. E diceva: «Ciò
che mi colpisce di più in Lutero è che, qualunque cosa tolga a
sostenere, e' la spinge all'estremità. Avvertitone, non che mitigarsi,
cacciasi più avanti, e pare non voglia che passare ad eccessi maggiori.
È un Achille, la cui collera è indomita. Aggiungetevi la gran riuscita,
il favore dichiarato, i vivi applausi di tutta la scena, e c'è di che
guastare anche uno spirito modesto».

Incalzato a confutarlo, Erasmo rispondeva: _Nunc Luterus scribit in se
ipsum, videns rem alio verti quam putarat, et exoriri populum non
evangelicum sed diabolicum, cum interitu omnium bonorum studiorum_.

E nelle lettere: «Qual cosa più detestabile che l'esporre le ignoranti
popolazioni a udir trattare pubblicamente il papa d'anticristo, vescovi
e preti da ipocriti, la confessione da pratica abominevole; le
espressioni di merito, di buone opere, di buone risoluzioni da pure
eresie, e professare che la nostra volontà non è libera, che tutto
avviene fatalmente, e che poco monta di qual sorta siano o possano
essere le azioni degli uomini?»[465]

Dopo gli onori dell'attacco voleva dunque anche gli onori della
resistenza. Ma conservarsi neutrale fra partiti debaccanti era egli
possibile a personaggio sì in vista? Sospetto agli uni e agli altri,
troppo indipendente per Roma, ove Pasquino applicavagli il virgiliano
_Terras inter cœlumque volabat_; troppo esitante per Lutero: i
Protestanti, che, atteso il suo odio pei frati, s'erano immaginati
d'averlo per corifeo, perduta questa speranza, gli si avventarono,
attribuendogli occhio d'aquila, cuor di capretto; ed egli allora uscì a
combatterli sul punto vitalissimo del libero arbitrio. Non combatteva
però da avversario o da papista, e solo indignavasi di tanti o sbagli o
frodi nelle citazioni: ma se l'opera mancava di nervi, traeva autorità
dal nome: e Lutero, che prima celiava della costui pretensioni di
camminare sopra le ova senza schiacciarle, e ripeteagli che lo Spirito
Santo non è scettico, allora gli s'avventò con ingiurie, quali solevano
suggerirgliele i bicchieri. Anche l'insigne Girolamo Accolti, che poi fu
cardinale, da amico di Erasmo divenuto avversario, ne dipinse
sinistramente il carattere. Altrettanto fece il Sadoleto, che fu detto
il Fénélon italiano.

Primo Conti milanese, uno dei primieri discepoli di san Girolamo Miani,
andato in Germania per opporsi alla propagantesi eresia, si lusingò di
convertire Erasmo, al quale scrisse firmandosi _Primus Comes
mediolanensis_. Il dotto credette questo il titolo di qualche gran
signore, e gli si fece incontro con molta cerimonia; poi vistolo
arrivare senza nemmanco uno stalliere, rise dello sbaglio, pur
protestando veder più volentieri sì valente letterato che qualsifosse
grande. Ma il Conti non fece alcun profitto col tepido.

L'Aleandro da Brusselle, il 30 dicembre 1531, scrive al Sanga che
Ecolampadio a Basilea assicurò aver molti fautori in Fiandra,
Inghilterra, Francia, Italia: in Ispagna pochi per le diligenze
dell'Inquisizione; ma soggiunge che gli Ebrei s'industriano di farvi
penetrare il luteranismo, sol per danneggiare la fede nostra. E che
colà, non osandosi parlare liberamente di Lutero, perchè già condannato,
mettono in cielo Erasmo, e fanlo «adorare in quel paese, dove ci sono
de' suoi libri assai, già tradotti in quell'idioma; dico di quelli
pericolosi: di modo che, trattandosi là per la Inquisizione di
condannare le sue opere, per favori diversi fu fatta inibizione che non
procedessero. Ed ora che è condannato a Parigi, costoro impazziscono,
perchè ben vedono che la Chiesa universale seguiterà quella sentenza
parigina in questa parte. E già undici anni, io lo dissi ad Erasmo in
questa propria terra, pregandolo che mutasse alcune cose ne' suoi
scritti ed alcune altre mitigasse, altramente tenesse per certo che, lui
vivo o morto, sarieno condannati detti luoghi.... E ben si sa che, se
non fosse per irritarlo a far peggio, già la sede apostolica avria
condannato molte delle sue cose, non ostanti i favori che gli si usano
etiam per li nostri summati, e da quelli che fanno il santo, per essere
laudati da lui in un'epistola: e così _abnegat Christum minimæ gloriolæ
causa_»[466].

Erasmo vedea benissimo d'avere insegnato quanto or insegnava
Lutero[467]: diceasi proverbialmente, _aut Erasmus luterizat, aut
Lutherus erasmizat_; ma egli è un altro esempio del quanto potesse
spingersi innanzi la critica sopra la Chiesa, pur senza rompere il
legame della carità; e ci spiega la franchezza di quelli, che a torto i
Riformati vollero considerare come loro precursori, e la speranza che
lungamente si nutrì di riconciliare i dissidenti colla Chiesa
universale[468].

Disgustato da quel gran movimento, a cui avea dato di sprone, ma non
valeva a mettere il freno; aborrendo la scostumatezza e i disordini
soliti dei fuorusciti[469], incapace di essere capitano, insofferente di
servir da gregario; conculcato, come sogliono essere tutti i precursori,
dalla folla che li trascende; invano ricredendosi, e fin ritrattandosi
su molte parti di quel suo ghigno letterario, ch'era stato il lampo ai
tuoni della calunnia e della negazione, moriva in Basilea, dopo provato
quanto facilmente un popolo tramuti i suoi idoli dall'altare al
dimenticatojo. E un altro retore, capoameno, che aveva egli pure fatto
un elogio della pazzia, il bizzarro milanese Ortensio Lando, ne
canzonava la fine col _Dialogo lepidissimo_[470]. Così era beffato il
beffardo; il quale rimarrà tipo di quel torbido d'indifferenza, che
fattosi una gloria della propria perplessità, si attribuisce a merito il
risparmiare qualche tradizione; che posa principj, e non ardisce tirarne
le conseguenze; che non applaudisce all'errore ma lo titilla; che vede
la verità, ma non osa abbracciarla, come Pilato dondolandosi fra la
giustizia e la popolarità, fra Cristo e Barabba.

Pure Erasmo avea toccato un punto principalissimo della controversia
allorchè intimava: «Voi vi riferite tutti alla parola di Dio, e ve ne
credete gl'interpreti veraci; ebbene, mettetevi d'accordo tra voi, prima
di volere dar legge al mondo».

In quella vece il disordine dagli intelletti trasfondeasi alle volontà e
da queste alla vita e privata e sociale: e prima ne risentì la Germania,
volta tutta a capopiede. Le quistioni religiose, per quanto pajano
astratte, non può farsi che non penetrino nelle viscere della società, e
in un sistema teocratico quale avealo introdotto il medioevo, non si
tocca la fede senza scompaginare lo Stato. Il cristianesimo avea dato
soluzioni, non negative come la scienza d'oggi, ma positive alle
quistioni capitali dell'uomo e della società, e conduceva a conseguenze
effettive nella religione, nella morale, nella politica, nell'arte;
donde istituzioni e leggi certe e un andamento storico sociale. Ora il
protestantesimo lo sovvertiva, rivocando in dubbio i canoni
fondamentali. Tendendo esso non tanto a condur l'uomo alle azioni più
benefiche, quanto a trasformare i moventi dell'essere suo, ruppe
nell'economia religiosa e sociale dell'umanità i due legami a cui si
attiene la suprema nozione del diritto; il legame intimo che stringe
l'uomo a Dio nell'eternità, mediante la coscienza; e il legame imperioso
universale che lo sottomette ad una legge objettiva, ad una autorità
esteriore nel tempo; e presumendo sistemare la vita umana senza riflesso
al dogma, non surrogò all'antico un nuovo sovrano di diritto, ma
abbandonò la società alle potestà temporali, sovrane di fatto;
all'autorità che persuadeva surrogò il comando che costringe; trasferì
l'infallibilità dall'intelligenza e dalla rivelazione alla forza e ai
decreti. L'individuale interpretazione toglieva l'universalità dei
principj, e i canoni accettati come senso comune; non era più la Chiesa
che giudicasse gl'individui, ma essi lei; e l'individuo era nel bivio di
rinunziare a credere, di compaginarsi da sè la propria credenza. I figli
dunque dissentivano dal padre; i fratelli ai fratelli contraddicevano,
le mogli ai mariti; la scossa domestica si propagava alla società
civile, dove ciascuno pretendeva operare a proprio senno, dacchè a
proprio senno pensava; al diritto, alla morale, fin là unicamente
piantati sulla religione, mancava ogni appoggio al mancar di questa; e
ribellato il pensiero alla fede, gli uomini trovarono spento il faro che
gli avviava, allora appunto che imperversava la procella. Ognuno fonda
una Chiesa nuova, che domani cessa per mancanza d'accordo e d'autorità:
ogni predicante del minimo villaggio credesi autorizzato a divenire
fondatore di una religione, senza che alcuno valga a mettervi ordine. I
vulghi sorgevano domandando ai nuovi apostoli «Che cosa dobbiamo fare?»
Ma è appunto in tempi siffatti che i guidapopoli non sanno quel che
fare, e una mano scassina quel ch'è posato dall'altra.

Il fedele, trovatosi sacerdote e papa, volle anche esser re; possedendo
le doppie chiavi, ne' dubbj non ricorreva all'autorità, ma al proprio
giudizio; l'indagine dal sistema ecclesiastico si voltò sul laico,
ch'era tanto peggiore, e ne cominciarono rivoluzioni e il predominio
della forza. Erasi elevato il potere spirituale affine di impacciar il
temporale; ora si volle restituire ai re la dittatura pagana: sempre
l'eccesso.

Melantone, che tanto aveva procurato prevenirle, allora gemeva sulle
sconcordie, e ne presagiva di peggiori da quella sfrenatezza, da quel
rinnegamento d'ogni autorità, e «Tutte l'acque dell'Elba non mi
basterebbero a piangere le sventure della religione e del paese».

Il cardinale Sadoleto, nell'orazione ai principi tedeschi esclamava:
«Quest'anni passati vedemmo di voi quel che giammai avremmo creduto.
Dianzi vivevate in pace e concordia tra voi, ora siete nel dissenso più
atroce. Dio e i celesti tutti con somma pietà veneravate; ora, estinta
la pietà, gli studj della vera religione per la più parte abbandonaste;
stavate alle leggi, che per la sobrietà e l'astinenza dagli avi vostri,
santi personaggi, e dagli antichi padri erano state fatte, poi accettate
e comprovate dall'osservanza di tutti i secoli; ora, sovvertite le
leggi, tolta la distinzione delle cose, lentati i freni della
continenza, tutto voleste libero e sciolto».

E continua a deplorare questo scapestrarsi delle ire, questo togliere
ogni rispetto alle leggi divine e umane, ogni divario di superiori e
inferiori, non accordandosi che nel vituperare il sacerdozio e straziare
la romana Chiesa, che n'è capo. «Eppure in questa città di Roma, per
reprimere e moderare i vizj urbani, e principalmente l'avarizia di cui
più si pecca, e revocarla al costume antico, casto e modesto, furono dal
sapientissimo e ottimo pontefice invitati da ogni parte del mondo
personaggi, e posti nel sommo grado di onore, acciocchè con maggiore
autorità e diligenza attendano a quest'uopo»[471].

E ben tosto tutta Europa fu in fuoco, e un secolo e mezzo di fierissime
guerre minacciarono una nuova barbarie. E un'altra ne sovrastava.

I papi erano stati motori e centro della resistenza contro i Turchi.
Oggi, che vediam questo popolo in quell'ultima decadenza dove più non lo
sostiene che la volontà dei forti, l'Europa vanta la sua tolleranza nel
rispettare fino il Musulmano, la sua indifferenza fino a sorreggere un
governo che ha per canone politico il fratricidio, per canone domestico
la poligamia, per canone economico la pirateria. Ma ai giorni di Lutero
i Turchi minacciavano una conquista senza pietà, una preponderanza senza
freno: si trattava ancora di decidere se l'Europa sarebbe di Cristo o di
Maometto; se si progredirebbe col Vangelo fino al pieno trionfo della
democrazia, o si retrocederebbe fino ai serragli, agli eunuchi, alla
legge incarnata in un uomo. E appunto allora i Turchi, comandati da
principi eroi, avendo conquistate le coste dell'Adriatico e alcune
isole, minacciavano l'Italia, corseggiavano a baldanza le nostre marine,
tentarono fin sorprendere in una villeggiatura Leon X e la famosa Giulia
Gonzaga. Pio II aveva evocato tutta la cristianità a questa tardiva
crociata, ed egli stesso andava a porsene a capo, quando morì. I
successori proclamarono sempre la guerra santa, e fervorosamente Leon X.
Ma che? Ulrico di Hutten gridò alla sua Germania non gli si desse
ascolto: sotto quel pretesto il papa vuole squattrinare il popolo
ignorante, munger il latte delle genti, inebbriarsi alla mammella dei
re[472]. E Lutero argomentava: «Noi dobbiamo volere non solo quel che
Dio vuole che noi vogliamo, ma assolutamente tutto ciò ch'egli vuole.
Ora egli vuol visitarci col mandare i Turchi; il respingere questi è un
resistere alla sua volontà». E ripeteva: «No, Cristiani; tutti io vi
scongiuro a pregare per i nostri poveri principi tedeschi, acciocchè non
un soldato, non un soldo diano al papa contro i Turchi; meglio i Turchi
e i Tartari che la messa. La guerra, ve lo canto chiaro, mi spiace
contro il turco, non men che contro il cristiano[473]. I Turchi empiono
il cielo di beati: il papa empie l'inferno di Cristiani. Se il Turco
arrivasse a Roma, non sarei io che ne piangesse»[474].

I Cattolici, è vero, continuarono a tener testa ai Turchi; ma dacchè la
cristianità fu divisa in due campi, non bastò più a cacciarli[475]; le
forze doveano logorarsi nelle lotte interne, gl'ingegni s'aguzzavano
nello scassinare la fede romana. Anche per convertire i paesi infedeli
scemavano i mezzi: missionarj non partivano più che da Roma, e in mezza
Europa trovaronsi distrutti i frati, che n'erano i principali stromenti.


NOTE

[430] I _Ep. ad Corinthios_, XIV, 33.

[431] Già san Vincenzo di Lerino diceva: _Nullusne ergo in Ecclesia
Christi profectus habebitur intelligentiæ? Habebitur plane et maximus,
sed ita tamen ut vere profectus sit ille fidei, non permutatio_.
Commonitorium, c. 29.

[432] Vedi nel Discorso XI.

[433] _Ep._ 2, II, 2.

[434] _Ep._ 4, JOANN. II, v. 12, e III, v. 13.

[435] _Ep. B. Petri_ II, cap. I, 20.

[436] _E._ II, cap. III, v. 16.

[437] II _ad Thess._ v. 14.

[438] _Catholici tenent unum esse principium fidei: verbum Dei ab
Ecclesia propositum_ (WALLENBURG). _Illud omne et solum est de fide
catholica quod est revelatum in verbo Dei, et propositum omnibus ab
ecclesia catholica, fide divina credendum_ (VERONIUS, _Regula Fidei
cath._).

[439] Il parigino Francesco Véron (1575-1649), nella _Regula Fidei_, e
nel _Metodo di trattar le controversie_, espose con chiarezza e
precisione le verità di fede canonicamente decise, distinguendole da
altre che sono opinioni teologiche. È noto come ciò abbia pur fatto
Bossuet, a segno che i Protestanti di buona fede domandaronsi in che
cosa diversificassero essenzialmente dai Cattolici. Capitale in queste
senso è la _Esposizione delle antitesi dogmatiche fra Cattolici e
Protestanti_ di G. A. MOEHLER, 1840.

[440] A quanto dicemmo sulla cattolicità di Dante aggiungiamo ch'egli fe
di Maria Vergine il centro di tutta la sua visione: ritrasse in questa
tutto quanto la Chiesa crede, insegna o pratica ad onore di Colei che a
Cristo più s'assomiglia, e «in cui s'aduna quanto in creatura è di
bontade»: simboli, immagini, canti vi rappresentano il culto di lei
colla scienza del teologo e la legenda del popolo, e la figurano in
«cielo qual meridiana face di caritade, e giuso intra i mortali qual di
speranza fontana vivace». Sant'Antonino scrisse: _Qui petit sine ipsa
duce, sine pennis, sine alis tentat volare_. E Dante avea cantato:

    Donna, se' tanto grande e tanto vali,
      Che, qual vuol grazia e a te non ricorre,
      Sua desianza vuol volar senz'ali.

[441] Sulla mitologia cattolica, Giuseppe De Maistre scrive ad un amico
(_Lettres_, tom. I, 235).

«Sans doute toute religion pousse une mythologie. Mais n'oubliez pas que
celle de la religion chrétienne est toujours chaste, toujours utile, et
souvent sublime, sans que, par un privilège particulier, il soit jamais
possible de la confondre avec la religion même». Écoutez un exemple: «Un
saint eut une vision, pendant laquelle il vit Satan debout devant le
trône de Dieu, et ayant prêté l'oreille, il entendit l'esprit malin qui
disait: Pourquoi m'as-tu damné, moi qui ne t'ai offensé qu'une fois,
tandis que tu sauves des millières d'hommes qui t'ont offensé tant des
fois?» Dieu lui répondit: «M'as tu demandé pardon une fois?»

«Voilà la mythologie chrétienne. C'est la vérité dramatique, qui a sa
valeur et son effet indépendamment même de la vérité littérale, et qui
n'y gagnerait même rien. Que le Saint ait ou n'ait pas entendu le mot
sublime que je viens de citer, qu'importe? Le grand point est de savoir
que le pardon n'est refusé qu'à celui qui ne l'a pas demandé».

L'osservazione è argutissima; ma perchè fosse del tutto vera
bisognerebbe un fatto assolutamente contrario all'indole della
mitologia, cioè che esistesse qualche autorità, la quale scegliesse, tra
i mille parti delle fantasie e dell'ignoranza, le favole che sono caste,
morali, sublimi. Vero è che la più parte di quelle che furono foggiate
da Cristiani recano onore al genere umano e profitto alla virtù, e
attestano una vittoria della debolezza sopra la violenza, del bene sopra
il male.

[442] Bridgewater lasciò una grossa somma perchè si facessero otto
trattati in cui, secondo le varie scienze, si dimostrasse la verità
della rivelazione. Fra queste scienze non figurava la matematica, e dopo
che Chalmers ebbe trattato della morale natura dell'uomo, Buckland della
geologia, Whewell dell'astronomia ecc., Babbage volle far un _Nono
trattato_ per dimostrare che colla matematica e la meccanica pure si
potea dimostrarla ancor meglio. È facile capire come un intelletto che
si ribella a tutto ciò che non è algebra, e che fa dipender la
rivelazione tutt'affatto da testimonianze umane, cozzi spesso
coll'ortodossia, e confondasi con quelli, che, abbassando il Creatore
alla propria misura, pretendono nel sopranaturale ciò che sta solo nel
naturale. Ma è bello vederlo raccoglier tanti argomenti, da svergognare
coloro che ridono d'ogni miracolo. Nella famosa sua macchina da calcoli
mostrava potersi introdurre anche una legge arbitraria, per un periodo
più o men lungo, dopo il quale essa n'addotterebbe un'altra, impostagli
dall'inventore sin da principio: potersi anche disporne il meccanismo in
modo che, a un dato tempo, ricomparisse la prima o un'altra legge: o che
durante l'azione di una, questa potesse esser sospesa per far luogo a
un'altra che opererebbe solo in quell'occasione, o tornerebbe a
determinati intervalli.

Al modo stesso Iddio, nella creazione, prevedendo le necessità avvenire,
potè provedere a tutte le eventualità: imporre alla natura leggi che
operassero per un tempo, indi cedessero ad altre, o che bastassero per
deviazioni temporarie. Se il sole s'arrestò alla voce di Giosuè, tal
fatto poteva esser compreso nei disegni primitivi del Creatore, e
prodotto dall'azione transitoria d'alcuna legge acconcia. Se morti
resuscitarono, fu effetto d'una forza che opererebbe solo a rari
intervalli, benchè compresa nel piano primordiale del creato. Più facile
è l'applicar tale ragionamento alle epoche geologiche, segnate
dall'apparir di nuove specie animali e vegetali.

Secondo il nostro matematico, può dunque ammettersi che Dio previde
tutte le circostanze contingibili che potrebbero reclamar un'effimera o
durevole alterazione nell'economia del creato, e proveduto ai mezzi di
farle arrivare. Così chi facesse un oriuolo che andasse sempre, che
sospendesse i movimenti a un dato tempo per un minuto, che a un momento
assegnato tornasse indietro le lancette, attesterebbe un'abilità
stupenda, ma le variazioni sarebbero dovute a un disegno primitivo, a
una legge grande e unica: e l'intelletto capace di abbracciar d'un colpo
tutte le combinazioni possibili, è superiore a quello che intervenisse
periodicamente a cambiare meccanismo o a invertire le proprie regole.

Tutto ciò può ispirare a una mente colta un sublime concetto della
sapienza che presedette alla creazione, e sventa il sofisma di coloro
che trovan indegno dell'Ente Supremo l'interromper le proprie leggi e
cambiar il corso della natura per qualche bisogno dell'uomo, per qualche
preghiera: o per coloro che dicono che il venir d'un'altra età geologica
attesta l'imperfezione della precedente, e che il mondo fu fatto alla
bell'e meglio. Pure bisogna confessare che c'è qualcosa di arido in
questo mondo che va per puro meccanismo: lo spirito può contentarsene,
il cuore no. Direbbesi che all'Onnipotente costi il mantener il mondo in
buona condizione, il presedervi in persona, anzichè per mezzi secondarj,
il governare per atti diretti di volontà, anzichè rimettersi a leggi
inviolabili. L'Onnipotente può del pari e far un miracolo a dato tempo,
e averlo preparato centomila anni prima; perchè dunque c'invidieremmo la
consolazione di vederlo operar ad ogni caso direttamente, anzichè per un
prestabilito meccanismo?

Il cardinale De La Luzerne, nella dissertazione sui miracoli, li
stabilisce appunto sull'autorità dei testimonj umani e i fondamenti
della certezza; e sol dopo fissate le regole della critica storica ne fa
l'applicazione ai racconti evangelici. Anche Frayssinoux, volendo
difendere la verità de' miracoli evangelici, consacra un'intera
conferenza sull'autorità de' testimonj umani; stabilendo che un
miracolo, anzitutto, è un fatto; e bisogna provarlo o distruggerlo,
invece di costituir sistemi _a priori_.

[443] _Vocavit discipulos et elegit duodecim ex ipsis, quod et apostolos
nominavit_. MATT. X, MARC. III, LUCA VI.

[444] _Quæcumque ligaveritis super terram, erunt ligata et in cœlo,_
etc. MATT. XVIII.

[445] _Qui vos audit me audit: qui vos spernit me spernit_. MATT. X,
LUCA X, JOANN. XIII.

[446] _Data est mihi omnis potestas in cœlo et in terra. Euntes ergo
docete omnes gentes, baptizantes eos_, etc. MATT. XXIII. _Euntes in
mundum universum, prædicate evangelium omni creaturæ. Qui crederit et
baptizatus fuerit, salvus erit_, etc. MARC. XVI.

[447] _Accipite Spiritum Sanctum. Quorum remiseritis peccata,
remittuntur eis, et quorum retinueritis, retenta sunt_. JOANN. XX.

[448] _Ego vobiscum sum omnibus diebus, usque ad consummationem sæculi_.
MATT. XXVIII.

[449] _Tu es Petrus, et super hanc petram ædificabo Ecclesiam meam_.
MATT. XVI.

[450] _Tibi dabo claves regni cœlorum_. Ib.

[451] _Pasce agnos meos... pasce oves meas_. JOANN. XXI.

[452] _Ego rogavi pro te ne deficiat fides tua; et tu conversus confirma
fratres tuos_. LUCA XXII.

[453] _Portæ inferi non prævalebunt adversus Ecclesiam_. MATT. XVI.

[454] Vedi il Discorso XVI, pag. 314.

[455] Ne' manuscritti della Magliabecchiana, D. 743, è una raccolta di
sonetti contro le varie eresie. Per esempio

_Wittemberga ed in lei la setta luterana_.

    Qual Pentapoli in fiamme od in faville
      S'erghino l'alte torri e vasti campi:
      Nelle tue cieche vie piede non stampi,
      Ma l'onde sol di Stige a mille a mille....
    Fonte de' prischi e de' novelli errori.
      Che nel tuo sen disseminò Lutero
      Contro alla fede, all'opre, al maggior duce.

E a Ginevra:

    Crudele arpia che t'eleggesti in prova
      D'impietà asilo, acciò ch'ogni alma pera...
    Del tuo lago infernale il ciel commova
      L'onde sovra di te chi al tutto impèra...
    Geneva d'eresie l'eletto albergo
      Di Farello empia sede e di Calvino
      Ove Anticristo l'ampie vie disserra...
      D'ogni altra la peggior, Sodoma in terra.

E meglio in altro all'Eresia:

    Da chi vieni? da chi? rea, da qual banda
      Senza patente aver teco o missione?
      Se 'l tuo spirto privato n'è cagione
      Adunque non è Dio quel che ti manda.
    Più sfacciata di Flora e più nefanda,
      Se miracol non fai: dunque a ragione
      O vien da facoltà che ha successione,
     O di' che 'l diavol è quel che t'arranda, ecc.

[456] SADOLETI _Epp._ 11 e 12, lib. XIV.

[457] _Lettere vulgari_.

[458] _Monumenta Vaticana_, LXXXI, LXXXII.

[459] ALBERTI PII CARPORUM, _comitis illustrissimi et viri longe
doctissimi, præter præfationem et operis conclusionem, tres et viginti
libri in locos lucubrationum variarum D. Erasmi Roterodami quos censet
ab eo recognoscendos et retractandos_. Venezia 1531.

[460] Lo riprodusse poi ne' _Colloquj_ col titolo di _Exequiæ
seraphicæ_, cambiandone il nome in Eusebio, ma lasciando le allusioni a
colui, _ex principe privatum, e privato exulem, ex exule tantum non
mendicum, pene addideram sycophantem_.

[461] _Ubicumque regnat lutheranismus, ibi literarum est interitus_. Ep.
1101 del 1528. _Evangelicos istos, cum multis aliis tum hoc nomine
præcipue odi, quod per eos ubique languent bonæ literæ, sine quibus quid
est hominum vita? Amant viaticum et uxorem, cœtera pili faciunt. Hos
fucos longissime arcendos censeo a vestro contubernio_. Ep. 946
dell'anno stesso.

[462] Ep. 736.

[463]

                                            Roma, 15 gennajo 1521.

«Caro figlio, gratissima ci fu la tua lettera, poichè ci chiarì di
quello su cui ci davano a dubitare non solo l'asserzione di pie e
prudenti persone, ma alcuni tuoi scritti stessi, che tu conservi buona
volontà verso noi e la santa sede, e per la pace e concordia cristiana:
il che perfettamente conviensi e all'egregio ingegno che Dio ti ha
donato, e alla pietà che sempre professasti. E noi che, sebben lontano,
ti avevamo sempre in memoria, e pensavamo dar qualche premio alle esimie
tue virtù, se eravamo stati smossi da questo pensiero, lietamente ci
vedemmo dalla tua lettera restituiti alla primiera intenzione. E deh
come ora è certo a noi, fosse così agli altri, la benevolenza tua verso
questa sede apostolica e la comune fede di Dio! No, mai non vi fu tempo
più opportuno o causa più giusta di opporre l'ingegno e la dottrina agli
empj, nè alcuno sarebbe di te più adatto a tale offizio, al quale pur
s'adoprano molti in fama di pietà e scienza somma. Ma Iddio diresse i
loro cuori, e alla tua prudenza vuolsi ciò rimettere. Noi, contro le
contumelie degli uomini sediziosi, armati di pazienza e del soccorso
divino, siamo viepiù dolenti che colla zizania molta buona messe si
corrompa; ed ogni danno del gregge a noi commesso ne affligge, non
potendo non dolerci del veder le buone menti tratte in errore, mentre
desidereremmo salvi anche gli autori dell'empietà. Ma nè Dio mancherà a
noi, nè noi al nostro dovere. Quanto alla tua lettera, essa ci assicura
della tua ottima intenzione, e la tua venuta qui, quando ch'ella sia,
riceveremo volentierissimo.»

Nella _Biblioteca Vaticana, Nunziatura di Germania_. Vol. I, pag. 40.

[464] Sul suo epitafio fe scrivere: _Ex diuturno studio hoc didicit,
mortalia contemnere, et ignorantiam suam non ignorare_.

[465] _Ep._ 601.

[466] _Monumenta Vaticana_ LXIX.

[467] _Videor mihi fere omnia docuisse quæ docet Lutherus, nisi quod non
tam atrociter, quodque abstinui quibusdam ænigmatibus et paradoxis_. Ep.
a Zuinglio.

[468] Più tardi il nome di Erasmo sonò ereticale. Nella biblioteca di
San Salvadore a Bologna, l'inquisizione, sotto Paolo IV, ne portò via le
opere; e le traduzioni di Ecolampadio ch'erano postillate da Erasmo,
furono lavate con acqua di calce per farle scomparire; al qual modo fu
pure guasta un'edizione di san Girolamo, postillata dallo stesso, e
confiscato uno Svetonio che portava il nome di Erasmo.

[469] _Civitates aliquot Germaniæ implentur erroribus, desertoribus
monasteriorum, sacerdotibus conjugatis, plerisque famelicis ac nudis;
nec aliud quam saltatur, editur, bibitur ac cubatur, nec docent, nec
discunt; nulla vitæ sobrietas, nulla sinceritas. Ubicumque sunt, ibi
jacent omnes bonæ disciplinæ cum pietate_. ERASMI ep. 902 del 1527.

[470] _In Erasmi funus dialogus lepidissimus_. Basilea 1540.

[471] Anche il cardinale Comendone veneziano alla dieta germanica nel
1561 insisteva sui disordini d'intelletto e di fatti, venuti dietro alla
riforma. _In quos, Deus bone, et quam devios anfractus deflexistis!
quibus vos erroribus implicuistis! quibus mentes vestras tenebris
mersistis! at etiam iniquo animo ferri ad principibus vestris nuper
dicebatis quod nos varia ac multiplici religione agitari impellique
Germanos vobis adjecimus, idque inficias ire verecundia non fuit. An
potest clarius, an evidentius esse quidquam, vestris esse inter vos de
tota cœlestium rerum ac divinarum cæremoniarum ratione dissidiis et
concertationibus? Una est vestrum omnium consensio et conspiratio
adversus nos, Ecclesiamque a qua defecistis; cætera nihil dissimilius,
nihil disjunctius, nihil discrepantius. An vero id non testatum omnibus?
an non omnis referta libris Germania est, contraria et propugnantia
docentibus? an adeo hebetes nos ac rudes germanicarum rerum esse
putatis, ista ut ignoremus? at Lutherus quidem ipse, Paulus alter ut vos
vultis, qui præceps se ex Ecclesiæ navi in mare dejecit, a quo jactata a
vobis Augustana formula conflata est, quando sibi, aut in quo satis
constitit? an istam ipsam formulam non quotannis quamdiu vixit
commutatam, diversasque in sententias contortam edidit? An qui postea
ipsum secuti sunt, non æque licenter trahendo eam, quo cujusque libido
rapuit totam aliam fecerunt? Sed quod jam vixæ inter vos de dictis
sententiisque Lutheri? Et quotus quisque est, qui quæ placita illi sunt
probet? quot Melanchthon? quot Œcolampadius? quot Zuinglius? quot
denique Calvinus trahit? quot alii sexcenti, qui omnes de summis rebus a
Luthero, atque inter se dissentiunt? Non modo civitas, aut municipium,
sed ne domus quidem in Germania et ulla horum certaminum expers. Cum
viro uxor, cum parentibus liberi, de fide sacrorum, de divinarum
literarum intelligentia altercantur. Fœminæ, pueri in circulis, in
cauponis, inter pocula ludosque, quod miserandum est, de religione
constituunt. A vobis denique ipsis, hoc ipso in conventu, quanto
laboratum est opere ut aliquam uniusmodi mentis speciem præferre
possetis? Quod assequi tamen nequivistis; scilicet ut discrepare inter
se vera, ita conjungi et convenire falsa non possunt etc_. GRATIANI, _De
vita Johannis Fr. Commendoni card_. Parigi 1669, pag. 92.

[472] _Verum sub hoc prætextu, per hanc fictam pietatem, sub hoc umbrato
nomine expoliare imperitiorem populum, sugere lac gentium, inebriari
mamilla regum vult_. Oratio de non dandis decimis.

[473] _Ut libere animum meum aperiam, hoc aperte de me prædico, quod tam
invitus Turcam gladio impeterem quam christianum fratrem_. Confut.
determinat. doctorum Paris.

_Ich Martinus bitte alle Cristen wollten helfen Gott bitten, für solche
elende, vorblendte teutsche Fürsten, dass wir ja nit folgen wider den
Türcken zu ziehen, oder zu geben.

Ja viel lieber den Türchen und Tattern lèyden, dann dass die Mess solt
bleiben_. Tisch Reden.

[474] _Die Türck macht den Himmel voll heyligen. Der Papst aber füllet
die Höll mit eitel Christen... Würd der Türck auf Rom ziehen, so sehe
ichs nicht lugern_. Tisch Reden. Ultimamente Michelet, nella sua opera
sulla Riforma, mista di profondo e di buffo, con stile sempre a
sorprese, con un dubbio sistematico, trova che si avea torto di favorir
il papa contro l'eresia e contro il Turco. Sarebbe stato un male se il
Turco avesse occupato Napoli? Tutt'altro. Come nella Cina i Tartari
furono inciviliti dai conquistatori, così il Turco sarebbesi ridotto
europeo.

Di fatto, occupando la Grecia, hanno i Turchi migliorato di civiltà!
Tanto acceca l'odio contro il cattolicismo.

[475] Il solo cardinale Ippolito De' Medici, figliuolo naturale di
Giuliano, e uno de' migliori capitani del secolo, essendo legato a
latere di Carlo V in Germania, armò del suo ottomila Ungaresi e sette
compagnie di cavalleggieri, e contribuì non poco a respingere i Turchi
dall'Austria. Adriano VI, trovato esausto il tesoro, non potè che
mandare quarantamila ducati agli Ungaresi per sostenersi contro i
Musulmani; ma il cardinale Palmieri napoletano offrì denaro e truppe, e
di condurle egli stesso a Rodi, quando udì ch'era stata presa. Clemente
VII, nel 1526, creò luoghi di monti per dare armi e truppe a Carlo V
contro i Turchi. I Veneziani contavano imporre ai beni del loro clero un
decimo de' frutti per cinque anni: ma Paolo III nol consentì, esibendo
invece un milione di ducati del suo. Vuol dunque dire che il decimo da
levarsi doveva essere per lo meno altrettanto, cioè almeno ducentomila
ducati l'anno: il che porterebbe a due milioni di ducati la rendita
annua de' beni del clero veneto. Pio IV concesse al re di Spagna
settecentomila ducati sui benefizj di Spagna, e impose a' proprj sudditi
un tributo di quattrocentomila scudi d'oro per la guerra turca. Alla
battaglia di Lepanto assistevano dodici galee pontifizie, oltre legni
minori assai, con millecinquecento uomini.

Dal 1520 al 1620, Roma donò agli imperatori di Germania sedici milioni
di scudi e sei alla repubblica veneta per combattere i Turchi.



DISCORSO XVIII.

ADRIANO VI PAPA RIFORMATORE. CLEMENTE VII. SACCO DI ROMA. PRELUDJ D'UN
CONCILIO.


Il figlio d'un Florent, povero operajo d'Utrecht, meritò la predilezione
de' maestri perchè mostrava inclinazione allo studio; ottenuto un posto
gratuito in un collegio di Lovanio, vi apprese filosofia, matematica,
diritto canonico, latino e greco, oltre il tedesco. V'aggiungeva tanta
pietà, che non usciva mai di scuola senza entrare in una chiesa, e se
imbattesse un povero, dividea con esso la parca cibaria.
Acchiocciolatosi in una cameretta a tetto, fredda, malsana, la notte
andava a leggere al lume de' pubblici lampioni, finchè Margherita
d'Austria, vedova di Carlo il Temerario, allora governatrice dei Paesi
Bassi, avutone contezza, gli mandò legna e trecento fiorini per comprare
libri, e in appresso gli conferì una parrocchia, poi un canonicato a San
Pietro di Lovanio. In questo viveva egli ritiratissimo, fra autori
classici ed ecclesiastici e con qualche camerata; non lodato, neppure
troppo gradito pe' suoi modi da grossolano brabanzone; ma ben contento
quando dal vivere gli avanzasse tanto da soccorrere alcun poveretto.
Fatto decano, si applicò a riformare quel capitolo; oculato nel
conferire i benefizj; durante il pasto frugale faceva leggere le sante
scritture.

Stampò in quel tempo _Commentarium de rebus theologicis in quatuor
sententiarum questiones_[476], e il suo nome giunse fino all'imperatore
Massimiliano, che lo scelse per insegnar francese, spagnuolo e latino a
suo nipote. Questo divenne, col nome di Carlo V, imperatore di Germania
e re di Spagna, e poichè tanta parte ebbe negli affari d'Italia e della
religione, bene sta che ci badiamo alquanto a considerarlo. Erede de'
possessi austriaci per padre, de' Paesi Bassi e della Spagna per madre,
e in conseguenza de' dominj d'Italia e de' paesi testè scoperti in
America e nelle Indie, fu fortunato sino ad avere prigioniero alla
battaglia di Pavia il proprio emulo Francesco I di Francia, e con ciò
assicurata la sua preponderanza di qua dell'Alpi, mentre dal nuovo mondo
gli giungevano ogni giorno annunzj di altri imperj scoperti e
assoggettati, ch'egli mai non vedrebbe, di miniere d'oro e d'argento
scavate, di preziose spezierie, avviate dall'estremo Oriente e dai paesi
equatoriali a' suoi porti di Spagna. A contatto con tutti i paesi
d'Europa per dominj che estendevansi da Cadice a Bruxelles, da Messina
al Baltico, potè fantasticare la monarchia universale, non come
immediata dominazione, ma come supremazia; nè fu vana millanteria il
dire che il sole non tramontasse mai ne' regni suoi.

E veramente egli sta a capo de' re moderni. Uscendo dai secoli della
cavalleria per entrar in quelli del machiavellismo, fu vario come il suo
tempo, a vicenda cupo e generoso, tollerante e fanatico, ostinato ne'
proprj e ligio agli altrui pareri, intrepido e sfiduciato, ambizioso
fino a sognare l'alta direzione e dei regni e della Chiesa, e di
abbattere la costituzione germanica, sostituendovi la monarchia
ereditaria, poi umile sino a terminar la vita in un convento: non
fastoso, non cavalleresco, bensì politico, affettante il casalingo;
affettante il leale, mentre niuno lo pareggiava nell'ordire e tessere un
intrigo, nel promettere, corrompere, eludere, conciliare, soprattutto
temporeggiare, conforme alla divisa che aveva assunta, NONDUM[477]. Mai
non montava in collera: offeso, avvolgeasi nella dignità del silenzio:
la gratitudine non conobbe: la fiducia poco; mal soffriva la
contraddizione, e credeva che il lungo riflettere sia cauzione del buon
successo. Pari a lui nessuno in attività, ed ebbe ad esercitarla non
solo nell'amministrazione di sì varj Stati, ove le libertà e le forme
tutelari del medioevo dovea soffocare nell'assolutezza amministrativa
de' moderni, ma nelle guerre ostinate colla Francia, nelle civili colla
Spagna e col Belgio, nelle generose coi gran guerrieri dell'impero
turco; sempre con mezzi sproporzionati agli alti fini, e costretto a
ricorrer a disastrosi spedienti finanziarj, e trovare impediti i suoi
concetti da un frate, che colla parola arrestava o deviava l'immensa sua
potenza, e toglievagli di scioglier nessuna delle grandi quistioni che
eransi sollevate a que' giorni nel campo della politica come in quel del
pensiero e del sentimento.

Nella sua grandezza egli ricordò il suo maestro Adriano, e lo pose
vescovo di Toledo, e da Leone X gli ottenne la porpora. Erasmo, gran
nemico dei frati, non ha che blandizie per questo, ne ammira le virtù
non meno che le lezioni di teologia; Lutero stesso lo chiama di
splendida e lodata vita.

Qual migliore per opporre alla Roma paganizzante?

Su lui dunque si accolsero i voti del conclave[478]. Trovavasi egli
allora in Ispagna, e Carlo V gli mandò l'aspettasse, volendo
accompagnarlo a Roma; ma esso gli rispose: «Mi sarebbe caro assai vedere
V. M., ma sì calda è la stagione, che, se veniste a fretta, vi
nocerebbe; se altrimenti, dovrei differire di molto l'andata, lo che
tornerebbe in gran danno degli affari comuni nostri e della cristianità.
I dispacci, che ricevo da Roma, da Genova e da ogni parte d'Italia,
recano che le cose nostre vanno in ruina, e che non si può rimediarvi
senza la mia presenza: onde non ho cuore di indugiar più oltre»[479].

Per disposizione del regio alunno e pel decoro della Spagna, Adriano
salpò con numerosa flotta; duemila fra prelati e cortigiani, quattromila
soldati; sbarcato a Genova, «disse messa e racconsolò alquanto quella
povera città del sacco e de' danni ricevuti»[480]: approdato poi ad
Ostia, ricusò lo spendio e le baldorie che soleano accompagnare le
entrate in Roma; fe sospendere la costruzione d'un arco trionfale,
dicendo, «Le sono usanze da Gentili, non da cristiano e religioso».

Come il nome, così serbò i costumi primitivi; la fantesca che si menò
dietro, dovea servirlo nè più nè meno di prima; pel pranzo non assegnava
di là d'un ducato, che ogni sera dava di propria mano allo scalco,
dicendogli, «Ecco per la spesa di domani», nè a più di dieci ducati
doveva giungere quella della Corte. Leon X avea premiato gl'inventori di
buoni bocconi; Adriano mangiava merluzzo, invece dei pesci fini
celebrati dal Giovio, e s'impennò all'udire il costo di certe lucaniche,
fatte con polpe di pavoni. Suggeritogli di prendere dei servi, rispose
volere prima sdebitare la Chiesa; e udendo che Leon X teneva cento
palafrenieri, si fece il segno della croce, e pensò che quattro
sarebbero d'avanzo[481]. Avendo conferito un benefizio di sessanta scudi
a un suo nipote, che, vacatone un altro di cento, glielo chiese, rispose
con un gran rabbuffo che quello bastava a mantenerlo; e quando, vinto
dalle istanze, glielo concesse, volle rassegnasse il precedente.

Allorchè egli entrò, Bernardino Carvajal, cardinale ostiense, gli recitò
un'orazione, esponendogli sette ricordi, che sono: 1º eliminare le
tribolazioni antiche, cioè simonia, ignoranza, tirannide e gli altri
peccati; aderire a buoni consiglieri; reprimere la libertà de'
governanti; 2º riformare la Chiesa secondo le leggi canoniche, sicchè
più non somigli una congrega di peccatori; 3º i cardinali e gli altri
prelati amare d'amor reale, esaltando i buoni, e provedendo ai bisognosi
perciocchè in quell'altezza non s'avviliscano; 4º amministri la
giustizia senza differenze; 5º sostenti i fedeli, massimamente nobili, e
i monasteri nelle loro necessità, come usavano i papi buoni; 6º faccia
guerra ai Turchi, perciò procurando denaro, e tregue fra i principi
cristiani; 7º compia la basilica di san Pietro, parte a spesa sua, parte
de' principi e popoli[482].

Frate Egidio Canisio da Viterbo già mentovammo come il più famoso
predicatore d'allora, e il Sadoleto lo vanta per facilità del parlare
toscano, e profondi studj di teologia e filosofia, talchè sapea (dice)
nelle prediche piegar le menti, serenare le turbate, incalorire le
tepide all'amore della virtù, della giustizia, della temperanza, alla
venerazione di Dio e all'osservanza della religione; e senza divario di
giovani o vecchi, d'uomini o donne, di primati o vulgari, tutti scotea
con forza di ragionamento, fiume d'elettissime parole, d'eccellenti
sentenze[483]. Non v'era solennità cui non fosse invitato a predicare,
sicchè Giulio II riservò a sè il destinarlo: e sebbene il pochissimo
ch'e' ci lasciò non giustifichi tanti encomj, tutti sono d'accordo
nell'esaltarne la virtù e l'integrità, per le quali Leon X, che gli
scriveva con famigliarità d'amico, lo ornò della porpora.

Egli dirigeva ad Adriano VI un commento sulla corruzione della Chiesa e
le guise di ripararvi. A dir suo, la depravazione s'insinuò dacchè la
facoltà di sciogliere e legare fu adoprata a vantaggio degli uomini più
che a gloria di Dio. Conviene dunque limitarla, considerandola come uno
de' principali uffizj del pontefice, e quindi adoprarvi il consiglio
d'uomini, integri ed esperti; escludere le aspettative de' benefizj, che
fanno desiderare la morte, quand'anche non la procurino; evitare l'avaro
e ambizioso accumulamento di benefizj; reprimere l'ambizione dei monaci,
che sotto la giurisdizione de' loro conventi tengono infinite
parrocchie, affidandole a qualche prete amovibile e mal proveduto. La
turpe vendita di cose sacre, ammantata col titolo di composizioni,
repugna ai canoni, ispira invidia a' principi, e dà ansa agli eretici;
sicchè dovrebbe restringersi l'uffizio del datario, che smunge il sangue
dei poveri come dei ricchi. Nè le riserve di benefizj gli pajono oneste.
Prima di concedere le grazie, si facciano da persone savie esaminare
secondo la giustizia e l'equità; e così prima di promuovere a benefizj
vacanti. A tutti poi gli uffizj si scelgano quei che più buoni, abili e
fedeli, e si diano uomini alle dignità e alle amministrazioni, non
queste ad uomini: le concessioni, gl'indulti, i concordati con principi
si rivedano esattamente, acciocchè questi non usino e abusino verso
secolari e verso ecclesiastici. Indecoroso e imprudente modo si tenne in
maneggiare le indulgenze; sicchè voglionsi revocare le commissioni date
ai Minori Osservanti, per le quali riesce svilita l'autorità episcopale.
Nessuna cura paja soverchia nell'amministrare la giustizia; un cardinale
robusto e savio riveda le suppliche sporte al papa; scelgansi con somma
diligenza gli auditori di Rota, man destra del pontefice, ed abbiano un
soldo fisso, anzichè impinguare sulle sportule, le quali sono cresciute
a segno, che le cariche vendute un tempo a cinquecento ducati l'anno, or
si comperano a meglio di duemila; come quelle degli auditori di Camera
pagansi trentamila ducati, mentre dianzi valutavansi quattromila. Via
via determina gli uffizj della giustizia; se ne rivedano le
giurisdizioni e gli statuti, che buoni dapprima, poi depravaronsi; abbia
riforma il governo delle Legazioni, dove vorrebbe che i legati non
rimanessero oltre due anni, come pure i governatori e prefetti e gli
altri uffiziali; tutti lasciassero una garanzia del loro operato, finchè
subissero un sindacato; e a chi n'esce con lode, si attribuissero onori
e comodi. I debiti onde Leon X gravò la sede col creare tanti nuovi
uffizj che consumano l'anno centrentamila ducati delle rendite della
Chiesa, si cercasse redimerli, e se ne esaminassero attentamente i
titoli; non si surrogassero i vacanti, e gl'investiti medesimi si
compensassero con altri benefizj. Si potrebbe pure alleggerire il debito
col riservarsi una parte delle rendite di tutte le chiese ed un sussidio
caritativo massime dai monasteri[484].

E Adriano nulla desiderava meglio che di riformare. Avendo già scritto
sopra le indulgenze prima degli attacchi di Lutero, convinto per
argomenti scolastici delle verità rivelate, trattava le nuove dottrine
di insipide, pazze, irragionevoli[485]; non potea supporre buona fede
ne' Protestanti, sebbene deplorasse fossero stati spinti alla
disperazione col serrare loro in faccia le porte; e aveva esortato Carlo
V a mandare Lutero al papa, suo giudice vero, che lo punirebbe secondo
giustizia[486]. D'altro lato, venuto da contrade forestiere, restò
colpito dagli abusi della Corte romana. Mandando nunzio alla Dieta di
Norimberga Francesco Cheregato vescovo di Téramo, nelle istruzioni
conveniva dei disordini: «Dirai che ingenuamente confessiamo che Dio
permette questa persecuzione dei Luterani contro la Chiesa sua per li
peccati degli uomini, e massime de' sacerdoti e prelati. Le Scritture
gridano che i peccati del popolo derivano da quelli de' sacerdoti, e
perciò, come scrive il Grisostomo, il Salvator nostro volendo curare
l'inferma Gerusalemme, entrò prima nel tempio per castigare innanzi
tutto le colpe de' sacerdoti, come medico che il male cura dalla radice.
Sappiamo che in questa santa sede già da molti anni avvennero cose
abominande, abuso delle cose spirituali, eccesso ne' mandati, tutto
vôlto in peggio: nè è meraviglia se il morbo discende dal capo nelle
membra, dai sommi pontefici negli inferiori. Tutti e prelati ed
ecclesiastici deviammo dalle rette vie, nè vi fu chi facesse bene,
neppur uno»[487].

Egli si fece promettere dai cardinali che smetterebbero le armi, non
darebbero ricetto ne' loro palazzi a sbanditi e birbi, lascerebbero che
il bargello v'entrasse per eseguire la giustizia. «Se gli ecclesiastici
(scrive Giovanni Cambi) aveano barba grande alla soldatesca, o abito non
lecito a preti, ei riprendevali; perchè era tanto scorsa la cosa, che
portavano i prelati la spada a cavallo e cappa corta e barba. Ed io
scrittore vidi un nostro fiorentino che era arcivescovo di Pisa, d'anni
ventiquattro in circa, fattogli avere da papa Leone da un altro
arcivescovo di Pisa ch'era ancor vivo con dargli uffizj di Roma in
compenso e altri benefizj, in fatti comperato a dirlo in brevi parole,
vederlo andare per Firenze il giorno a spasso a cavallo con una cappa
nera alla spagnuola che gli dava al ginocchio, e la spada allato, e il
fornimento del cavallo o mula di velluto a onore di Dio e della santa
Chiesa: e il cardinale Giulio De' Medici sopportava tal cosa, e andava
sempre alla Chiesa col rocchetto scoperto senza mantello o cappello, con
una barba a mezzo il petto, e assai staffieri colle spade attorno, e
senza preti e cherici: e a questo era venuta la Chiesa, d'andar in
maschera cardinali e prelati, a conviti, a nozze e ballare».

Adriano, volendo correggere tutto e subito, consultava ora i Tedeschi
ora gli Italiani, e pareangli facili le riforme, messe in discussione;
ma quando volea ridurle in atto, riuscivangli impossibili. Perocchè v'ha
abusi antichi, i quali, col resistere alla pruova del tempo, mostrano
essere compatibili col bene, vi sono verità nuove che, avventando la
società sopra un calle diverso, le riescono micidiali: sicchè ogni
rivoluzione e per ciò che erige, e per ciò che demolisce, genera
perturbamenti e conflitti. V'ha abusi così profondamente radicati, da
far temere che colla zizzania si svelga anche il buon frumento, oltre
che gl'interessi personali impediscono i buoni e pronti effetti. Perciò
si lagnava egli della misera condizione dei pontefici, che, pur vedendo
il bene, nol poteano effettuare. Chiamò per ajutarlo in tal uopo
Giampietro Caraffa e Marcello Gaetano, austeri ecclesiastici; sgomentò
coll'annunzio di volere recidere di colpo i disordini della dateria e
della penitenzieria; col togliere le vendite simoniache, pregiudicava
quelli che in buona fede le aveano prese in appalto; turbò le
aspettative coll'abolire la sopravvivenza delle dignità ecclesiastiche:
cinquemila benefizj rimaneano così vacanti, ed eccitavano speranze
smisurate, che tutte trovavansi deluse; diffidando dei più come
corrotti, era costretto porre il capo in grembo ai pochi cui credeva, e
che lo tradivano; per togliere via le indulgenze voleva ripristinare le
antiche penitenze, ma gli fu fatto intendere che, per serbare la
Germania, mettevasi a rischio di perdere l'Italia. Ignoto alla Corte,
senza appoggi di famiglia come straniero, nè creandosene di nuovi perchè
esitava lungamente prima di conferire i benefizj e lasciavali scoperti
per paura di darli a indegni. Adriano dibattevasi invano tra
quell'inestricabile labirinto. Mentre si trovavano ora ingiuste, ora
impossibili le sue proposte da quegli stessi che più le aveano
reclamate, i Protestanti interpretavano in sinistro la sua candidezza,
menando trionfo delle sue confessioni sugli scompigli della curia. Gli
furono anche mandati _Cento gravami della nazione tedesca_, ove Roma era
rimproverata di sordidezza, d'indecenza l'uffiziatura della basilica
vaticana; negligersi gli ospedali e le altre opere pie: lasciare le
meretrici procedere con pompa matronale sopra le mule, e corteggiate
dalle famiglie di prelati; tollerarsi nimicizie aperte e sanguinose fra
i grandi[488].

Allora si sviluppò quell'oidio, che guastò e guasta tante promettenti
vendemmie: il malcontento. Quella sua semplicità, quel dire la messa e
l'uffizio tutti i giorni eccitarono le risa nel palazzo abituato con
Giulio II e con Leon X. Da un pezzo non v'erano papi forestieri; e di
questo, che neppure parlava la lingua italiana, facevano beffe o
fingeano sgomento i nostri letterati. La gente, avvezza a vivere dietro
ai prelati, ne sbertava la miseria. «Egli è un tedesco; povera Italia!
(dicevano); sente di luterano: povera religione! Certo e' si piglia i
cardinali, e ce li porta a un nuovo esiglio d'Avignone».

Giulio II era entrato nella scena del mondo da gran principe, scotendosi
dalle piccolezze de' predecessori, e col sentimento della propria forza
volea dominar gli eventi, muover principi e repubbliche secondo i suoi
intendimenti, respingere i tiranni, non per vantaggio suo, ma della
santa sede, e proclamò i diritti che i popoli hanno sul proprio suolo.
Dopo di lui, il papato si trovò immolato ai principi, l'Italia agli
stranieri; i pontefici cessarono di proteggere i deboli, e gettaronsi in
braccio ai forti, sentendo ch'era necessario un appoggio per tener in
rispetto i vicini, e garantire l'indipendenza spirituale, minacciata
dalla Riforma. Di qui l'anguillare di Leon X. Adriano VI struggeasi di
riparar ai torti de' predecessori, ma troppi interessi l'attraversarono;
l'austerità di papa comprometteva l'opera di sovrano: l'intempestiva sua
condiscendenza ai riottosi disgustava i depositarj della tradizione
papale: e barbaro era reputato perchè non comprendeva i bisogni
intellettuali ed artistici della città eterna[489].

Realmente egli non intese mai come negli intelletti italiani
s'elaborasse l'elemento pagano collo spirito indigeno; come colle arti,
fatte linguaggio della religione, i papi volessero mostrare quanta
ispirazione ci fosse nel cristianesimo, e capitanare i grandi ingegni, e
tenere a loro disposizione non soltanto la manifattura ma l'ispirazione,
e il mondo che ridiveniva greco, e che dalla fierezza germanica tornava
all'oscenità gentilesca. Mancante del sentimento dell'arte, Adriano
_suspecta habebat poetarum ingenia, utpote qui minus sincero animo de
christiana religione sentire et damnata falsissimorum deorum numina ad
veterum imitationem celebrare studiose dicerentur_[490]; essendogli
mostrato il Laocoonte, esclamò: «Idoli pagani»; e torse gli occhi dalle
classiche nudità.

In conseguenza egli che, oltr'Alpe era reputato protettore degl'ingegni,
e che aveva agevolata la fondazione del collegio trilingue a
Lovanio[491], fu reputato un barbaro da cotesti umanisti ch'e' più non
salariava, e che, dopo aver invano sperato che il suo zelo cessasse co'
primi momenti[492], levaronsi in fuga beffando e bestemmiando: prorompe
la sciagurata manìa delle satire e delle arguzie: tutti i Sesti (diceva
un epigramma) han rovinato Roma[493]; il Negri querelavasi che tutte le
persone per bene se ne partissero; il Berni avventava un capitolo
violento contro di lui e dei _quaranta poltroni_ cardinali che l'aveano
eletto; e Pasquino il dipinse in figura d'un pedagogo, che ai cardinali
applicava la disciplina come a scolaretti. Laonde fu inteso esclamare:
«Quale sciagura che v'abbia tempi, in cui il miglior uomo è costretto
soccombere!» In fatti egli pio e zelante fu reputato un flagello non
minore della peste che allora infieriva; la morte sua fu salutata con
pubblica esultanza, e alla porta del suo medico si sospesero corone
civiche _ob urbem servatam_. E sono di gran verità i due epitafj
destinatigli:

    _Hadrianus VI hic situs est, qui nihil sibi infelicius in vita quam
            quod imperaret duxit._
    _Proh dolor! quantum refert in quæ tempora vel optimi cujusque vita
            incidat._

Carlo V avea forse creduto che Adriano sarebbe tutta cosa sua, ma
questi, ignaro de' destreggiamenti politici, stette fermo contro le
pretensioni di esso e gl'intrugli de' suoi ministri e creati; non volle
allearsi con esso a danni altrui: e fra l'altre amarezze ebbe quella di
udir che Rodi era stata presa dai Turchi, e che questi minacciavano il
regno di Napoli e la Sicilia: cercò che i principi cristiani si
alleassero per resistere, ma Francesco I domandava innanzi tutto gli si
restituisse il toltogli milanese[494].

Appena morto Adriano, Carlo V scriveva al suo ambasciatore che facesse
riuscir il Medici, anche colla forza se i Francesi si opponessero[495];
e in fatti, per la solita altalena che ad un vigoroso fa surrogare un
lasso, a un ascetico un politico e viceversa, nel nuovo conclave
rivalsero i fautori de' Medici, e con arti che in allora furono
denunziate come turpi, venne data la tiara a Giulio, figliuolo naturale
di Giuliano De' Medici. Cavaliere gerosolimitano, destro in armi come in
trattative scabrose e in giravolte cortigianesche e diplomatiche, fatto
arcivescovo di Firenze e cardinale, era stato la mano dritta di Leon X
suo cugino; ed allora assunse il nome di Clemente VII (1523 18
novembre).

Vanno concordi i contemporanei nel dargli lode che non tollerava
simonia, non distribuiva i benefizj a capriccio, e in tutto esigeva la
regolarità; invece di musici e buffoni, amava intertenersi con
letterati, filosofi, teologi, ingegneri; generoso come tutta la sua
famiglia, non donava nè prometteva l'altrui; e poichè le sue limosine
non impinguavano i cortigiani, dispensieri della riputazione, passava
per avaro e misero[496].

Aggiungasi che, trovato l'erario esausto per lo spreco di Leon X e per
l'astinenza di Adriano VI, dovette mettere imposizioni e istituire
Monti, e principalmente il Monte della fede per soccorrere Carlo V
contro i Turchi.

Ma pretendeva all'infallibilità non meno nella politica che nella fede;
sicchè, se ascoltava tutti, faceva poi a proprio senno; e alla
conchiusione metteva la politica nell'irresolutezza, e l'abilità nel
variare. Subito mandò fuori lettere ove, coi treni consueti deplorando
le jatture della cristianità, ne accagionava le discordie de' principi e
lo sformamento dell'ordine ecclesiastico; la correzione doversi
cominciare dalla casa di Dio: egli emenderebbe se stesso; i cardinali
facessero altrettanto; visiterebbe in persona tutti i principi onde
concordare una pace; fatta la quale, celebrerebbe un concilio per
restituirla anche alla Chiesa. Persuaso però che innanzi tutto
bisognasse opporsi ai Turchi, e sopire l'incendio germanico,
rassegnavasi a transazioni coi novatori.

Si dirà, tale essere lo stile delle autorità minacciate, riservandosi
poi di eludere le promesse quando ripiglino fiato. Certo è che,
sgomentato dall'assalto mosso all'autorità spirituale, vacillò sempre
anche nel governo del temporale; ed anzichè accorgersi che questo non
era mai stato altrettanto esteso e solido, non ebbe sentimento che della
propria impotenza; sperò logorar Francia per mezzo dell'Impero, e
l'Impero per mezzo della Francia, onde ora all'uno ora all'altra
gettandosi, non amato da alcuno nè temuto, immensi mali trasse sopra
l'Italia e sopra se stesso.

Non è da questo luogo il narrare come allora si esacerbassero le
inimicizie fra Carlo V e Francesco I, il quale nella battaglia di Pavia
cadde prigioniero (1525, 24 febbrajo); comprata la libertà, ne violò i
patti, e ruppe nuova guerra, dove andarono a miserabile strazio la
Lombardia e il regno di Napoli. Il papa, impaurito dall'ingrandire degli
imperiali, e scontento di Carlo V anche perchè aveva ordinato che il
regio _exequatur_ fosse necessario alle bolle pontifizie in Ispagna,
s'unì in una lega, per lui detta santa, coi Francesi e cogli altri, che
pretessevano la solita maschera della indipendenza italiana. Lega a lui
funestissima: perocchè subito i vassalli più potenti, e massime i
Colonna, si rivoltarono contro Roma (1526), sopra la quale ben presto si
difilò l'esercito imperiale, guidato dal connestabile di Borbone,
francese traditore, messosi al servizio dell'imperatore.

Non era un esercito regolare, bensì un ammasso di quarantamila
venturieri, quali noi pure ne abbiamo veduti, che obbedivano
personalmente a un capo, purchè egli facesse quel che essi desideravano.
E il desiderio loro era saccheggiare Roma, tutti anelando all'oro di
essa, molti essendo Luterani, la più gran parte Tedeschi, avvezzi a
considerare i papi e gli Italiani come sanguisughe della loro nazione e
che aveano per unico grido _Nicht Papa_. Un d'essi, chiamato Verdesilva,
diceva: «Colla pelle di papa Clemente voglio far uno staffile, e lo
porterò a Lutero perchè veda com'è punito chi resiste alla parola di
Dio». Il Freundsberg, loro capitano, teneva appeso all'arcione un laccio
d'oro e un d'argento, proponendosi di strozzare con quello l'ultimo dei
pontefici, coll'altro i cardinali. Lo seguiva Jacopo Ziegler, che, in
una vita di Clemente VII, spacciò irosamente le colpe di questo e della
curia romana.

Cotali assalirono Roma (1527), ed essendosi ammalato il Freundsberg, e
ucciso nell'assalto il Borbone, inviperiti e sfrenati vi entrarono,
ciascuno non pensando che a sfogare i brutali istinti dell'avarizia,
della libidine, della rabbia. La capitale del mondo cristiano la sede
delle belle arti, l'asilo e la palestra di ogni letterato e artista, la
seconda patria d'ogni cristiano, restava preda a ladroni e miscredenti:
la vita d'ogni illustre di quel tempo ha una pagina dove si raccontano
nuovi orrori di questo sacco, che è uno di quei regj misfatti che
lasciano impronta indelebile nella storia; e dove la Germania si
vendicava della superiorità intellettuale e morale dell'Italia; così la
barbarie superba metteasi sotto i piedi quella civiltà che la
mortificava.

Di quel disastro, ove si calcolò che Roma perdesse per dieci milioni di
zecchini, noi non dobbiamo raccorre se non il particolare furore
spiegato contro le cose sacre. Violarono i sepolcri, e principalmente
quel di Giulio II, reo d'aver voluto sbrattare l'Italia da stranieri.
Chiese, monache, frati erano specialmente esposti alla brutalità di
costoro, che stallavano i loro cavalli in San Pietro, li stabbiavano
colle bolle papali, gli abbiadavano ne' battisteri, ungevansi gli
stivali co' sacri crismi; entro i calici s'ubbriacavano; nelle devote
capelle violavano le vergini devote, e parati cogli arredi delle
sacristie, celebravano orgie abbominevoli. Ai cardinali della Minerva e
di Siena al Ponceta, a Giovanni Maria del Monte che fu poi papa, al
Bartolini arcivescovo di Pisa, al Pucci vescovo di Pistoja, al Ghiberti
vescovo di Verona, a san Gaetano recarono invereconde e tormentose
contumelie, come a tutti quei moltissimi che dalla subitanea irruzione
non s'erano potuti campare. Altri mettono un cardinale su di un asino a
ritroso, nella sublime semplicità della porpora, e lo trascinano di
porta in porta a mendicare il riscatto. Chiamano un prete che accorra
col viatico, e il menano in una stalla, e vogliono costringerlo a
comunicarlo a un giumento, e perchè ricusa lo trucidano. Fecero beffarde
esequie al cardinale Aracœli; in un beffardo conclave deposero Clemente
VII, e gli surrogarono Martin Lutero, festeggiandolo in buffonesca
cavalcata. Gli archivj palatini sono bruciati: nella cappella Sistina
s'accendono fiammate che tutta l'affumicarono: è impiccata una donna per
aver dato delle lattughe a Clemente VII. Quanto insomma era venerato per
devozione, per senso artistico, per antichità, per tradizione, fu scopo
alla brutalità più ribalda e grossolana dei compatrioti di Lutero,
eccitati da questo a detestare e sprezzare gli Italiani.

Allora sarebbesi detto veramente perduto il cattolicismo colla sua
metropoli, e «infino da plebei uomini già si diceva che, non istando
bene il pastorale e la spada, il papa dovesse tornare in San Giovanni
Laterano a cantar la messa»[497]. Tutte le città del Patrimonio
insorgeano; tutti i vassalli accorreano a spogliare l'antico padrone. I
Piagnoni ne imputavano la corruzione cristiana e la persecuzione contro
chi l'avea rinfacciata, e ricordavano che, quarant'anni prima, frà
Savonarola aveva esclamato: «O Roma, te lo ripeto, fa penitenza. Dice il
Signore: quand'io verrò sopra l'Italia con la spada, a visitare i suoi
peccati, visiterò Roma: in San Pietro e sugli altari sederanno le
meretrici, e faranno stalla a cavalli e porci: vi si mangerà e berrà e
commetterassi ogni sporcizia. Taglierò, dice Dio, le corna dell'altare,
cioè le mitre e i cappelli; taglierò la potenza de' prelati: rovineranno
quelle belle case, que' bei palazzi; tante delizie, tanti ori saran
gittati per terra; saranno ammazzati gli uomini; andrà sossopra ogni
cosa». Altri romiti eran venuti predicando non solo la rovina d'Italia,
ma la fine del mondo, e che l'anticristo fosse o il Borbone o Clemente
VII. Brandano senese, prima del sacco, correva per Roma vaticinando
sventura, sventura; venissero a penitenza, placassero Dio. Nel
saccheggio avendo i lanzichenecchi percosso una Madonna, questa stillò
sangue; come a Treviglio un'altra pianse all'entrare de' Francesi, i
quali ne furono sì commossi, che risparmiarono l'incendio e il
saccheggio. Per egual occasione sudò la Madonna della Cintola a Prato, e
rivolse la faccia verso il Bambino, e gli pose la mano sul capo. Da per
tutto, come i miracoli, così moltiplicavansi digiuni e litanie: e a
Milano si menò una lunga processione, ove migliaja di devoti ad ogni
istante alternavano _Misericordia, Misericordia,_ tanto che il clero non
potè fra que' clamori intonare altre preghiere, e non era uomo o donna
che si tenesse dal piangere: e un predicatore, dipingendo a colori
nerissime le sventure d'allora, prometteva che da Milano avrebbe
principio la rinnovazione della Chiesa, la quale prima è mestieri che
venga afflitta e ridotta all'ultima ruina.

Questo i Cattolici: in senso contrario un frate Egidio Della Porta
comasco, scrivendo a Zuinglio, esclamava: «Dio ci vuol salvare: scrivete
al Borbone che liberi questi popoli, tolga il denaro alle teste rase, e
lo faccia distribuire al popolo famabondo; poi ciascuno predichi senza
paura la parola di Dio: la forza dell'anticristo è presso alla
fine»[498].

Così i partiti non discernono mai i mezzi, purchè conducano al loro
scopo. I Protestanti esultarono dell'orrido strazio fatto a Roma; altri,
quelle tribolazioni giudicando castigo di Dio contro le iniquità
pretine, si separarono dalla Chiesa, e «nelle case private in diverse
città, massime in Faenza, terra del papa, si predicava contro la Chiesa
romana, e cresceva ogni giorno il numero di quelli, che gli altri
dicevano Luterani, ed essi si chiamavano Evangelici».

Ma tutti gli uomini serj ne fremettero: Francia e Inghilterra intimarono
guerra a Carlo V, per ragione o pretesto adducendo la sua condotta verso
Roma; tale essendo la natura di questa città e di questo dominio, che
d'ogni attacco mossogli si risente tutta la cristianità. E veramente
quegli anni del secol d'oro furono peggiori all'Italia che qualunque
altri del secolo di ferro: «Mantova è tutta abbandonata di peste
(scriveva un contemporaneo da Piacenza): Ferrara, Padova, Cremona, tutto
il Bresciano: questa terra va peggiorando: Genova addio: non si vede che
cerei e frati ad accompagnar morti: e vi concludo ch'è il più grande
spavento che mai fosse veduto ad andare pel paese»[499]. Negli _State
papers_ che si pubblicano ora in Inghilterra, al tomo VII pagina 226 è
una lettera del 12 settembre 1529 degli ambasciadori di Enrico VIII, che
da Bologna scrivono: «Mai nella cristianità s'è visto desolazione pari a
quella di queste contrade. Le buone città distrutte e spopolate; in
molti luoghi non si trova carne di veruna sorte. Tra Vercelli e Pavia,
per cinquanta miglia del paese più ubertoso del mondo in vigne e grano,
tutto è deserto; nè uomo o donna vedemmo che lavorasse ai campi, nè
anima viva fuorchè tre povere donne che racimolavano l'uva rimasta:
giacchè non si seminò nè mietè, e le viti inselvatichirono, e i grappoli
infradiciano senza che alcuno li colga. Vigevano, buona terra con rôcca,
non è più che rottami e deserto. Pavia mette pietà: nelle strade i
bambini piagnucolando chiedono pane, e muojono di fame. Ci fu detto, e
il papa ce lo confermò, che la popolazione di quelli e d'altri molti
paesi d'Italia fu consunta dalla guerra, dalla fame, dalla peste, e
molti anni ci vorrà prima che l'Italia ritorni in buona condizione.
Quest'è opera de' Francesi non men che degli Imperiali».

Mentre Clemente VII stava prigioniero, re Ferdinando scriveva al
fratello Carlo V, non lasciasse uscir di mano il prigione senza aver
messo ordine nella cristianità: questo esser unico rimedio alle
maledette eresie[500]. Molti cardinali s'adunarono a Piacenza per
provedere a sì luttuosi frangenti[501], e per sicurezza della Chiesa
divisavano trasferire la Santa Sede ad Avignone, fuori di questa Italia,
divenuta campo alle battaglie degli stranieri. Fomentavanli a ciò i re
di Francia e d'Inghilterra, che n'avrebbero cavato vantaggio; e molti di
retta intenzione v'aderivano. Ma il cardinale Francesco Cibo, legato di
Bologna, che avea saputo tener in fede le Romagne, accorse a Piacenza, e
dissuase con validissime ragioni da un passo, che avrebbe recato
l'ultimo tracollo all'Italia e un urgente pericolo alla Chiesa.

Eppure, dopo che Roma ebbe sofferto per aggiunta la fame e la peste; che
Clemente VII durò lunga prigionia; che i Colonna e gli Orsini aizzavano
quelle discordie in cui gli Italiani più inviperiscono quando sono
percossi da peggiori flagelli; che amici e nemici s'impinguarono delle
dovizie nostre; che si ripeteva esser terminato il potere pontifizio, si
vide quel papa rifinito splendere di nuove glorie mondane. Perocchè
Carlo V volle essere coronato da Clemente VII; e mentre la Germania
erasi lusingata di mirare in quell'occasione il pontefice umiliato
davanti a quell'imperatore, che i predecessori di esso aveano tante
volte obbligato venire all'obbedienza, allora Carlo V professò dolersi
delle atrocità commesse a Roma in suo nome; domandò l'assoluzione per
chi v'aveva ecceduto; si obbligò di far restituire alla santa sede
Modena e Reggio, tolte dal duca di Ferrara, Cervia e Ravenna occupate
dai Veneziani; prender accordi con questi per le terre che aveano
sottratte al regno di Napoli nella Puglia, e col papa per rintegrare gli
Sforza nel ducato di Milano; pose se stesso e le sue armi a disposizione
del papa, facendolo arbitro di ordinargli quando snudare e quando
riporre la spada, e si fe da esso ornare cavaliere di San Pietro.

La solennità della coronazione fu delle più splendide che la storia
ricordi. Quel cencio di porpora, traforato dalle scomuniche papali, e
che i suoi antecessori eransi gittato da sè sulle spalle, ma che non
rappresentava più il centro laicale della cristianità, consacrato
dall'unzione sacerdotale, pensò Carlo V, col rimetterselo in dosso,
attirare ancora un raggio del diritto divino sul successore di Carlo
Magno. S'ebbe vergogna di farlo nella testè desolata metropoli del
cristianesimo, ma nella cattedrale di san Petronio a Bologna, ridotta a
imitazione della Lateranese. Non vi erano invitati gli elettori, nè
altro tedesco che Filippo di Baviera; e invece de' cavalieri germanici,
genti di ogni nazione capitanate da Anton de Leyva; paggi e araldi
spagnuoli aprivano il corteo; Bonifazio Paleologo marchese di Monferrato
portava lo scettro; il duca d'Urbino la spada; la corona Carlo di
Savoja, che a forza d'impegnare e imprestare erasi fatto un abito di
300,000 scudi[502]. All'imperatore servivano i maggiori nobili d'Italia,
Medici, Pio, del Carretto, Gonzaga, Pico, Trivulzio, Dal Verme, Doria,
Sanseverino. Colle rituali solennità unto del sacro crisma, Carlo
ricevette la corona di Carlo Magno, in segno d'universal dominio sopra
la cristianità, e giurò difendere i possessi, le dignità, i diritti del
papa e della Chiesa[503].

Sarebbesi detto rinnovato l'accordo fra lo scettro e il pastorale,
mentre invece questo soccombeva a quello; andava spezzata la monarchia
universale per dar luogo a principati nazionali, emuli astiantisi;
l'Italia cascava ancella degli stranieri, e per l'ultima volta
l'imperatore universale giurava lealtà e fede davanti all'universale
ministro della verità e della giustizia. L'unità, come nella Chiesa,
così era finita nel mondo; i principi sarebbero uomini, sostenuti
soltanto dalla forza, combattuti dall'esame e dall'insubordinatezza,
sbalzati da non più cessabili rivoluzioni, non fidenti che negli
eserciti, sinchè venga il giorno che anche gli eserciti ragionino e
discutano l'obbedienza, e si compia il trionfo dell'individuo, che
surroga se stesso al bene comune.

Fra le condizioni poste alla liberazione del papa fu il convocare un
Concilio generale.

Quel disordine degli spiriti, quel rinegare ogni autorità facea spavento
a Carlo V, che al cardinale Campeggi ripeteva, il Concilio essere
necessario non tanto per riformare gli ecclesiastici, quanto e molto più
per i laici, ch'erano declinati dalla vera via; e se nol si facesse,
pensava non debba, fra termine di dieci anni, esser uomo che possa sotto
obbedienza reggere dieci case, non che Stati, regni ed imperi[504].

Ma la fede cattolica trae sua forza dall'essere una, e conservarsi
inalterabile. Parlare dunque di riformare la fede era un rinegarla, era
non meno una contraddizione che un'empietà: un obbligare il mondo a
credere alla Chiesa mentre ella stessa repudiava la propria
infallibilità. Sonava dunque assurda la domanda che, in tal senso, ne
faceano i Riformati.

Repugnava poi Clemente VII a raccorre il Concilio, principalmente per la
controversia se questo sia o no soggetto al papa. Dagli ultimi convocati
erasi visto che, adunato che fosse, il Concilio si pretendea superiore
al papa; questo il negava; ne nascea scisma; eleggeasi un antipapa;
disordine che riuscirebbe d'immensa ruina nelle agitazioni
presenti[505]. Pure alfine Clemente aderì, e di propria mano scriveva a
Carlo V:

«_Carissime in Christo fili noster, salutem, et apostolicam
benedictionem_.

«Ho inteso per la man propria di Vostra Maestà, e per quello, che m'ha
referito l'oratore Majo, e m'ha ancor avisato il Legato, che il parer di
quella, e di quelli signori elettori, e principi che sentono bene nella
fede christiana, che sia necessario, per estirpare li errori che sono in
quella nazione, è assentire che si convochi il Concilio dimandato, ma
con condizione, che gli eretici desistano da' loro errori, e si
conformino a vivere cattolicamente nella fede e obbedienza della santa
madre ecclesia. Sopra la qual proposta avendo consultato con quelli
cardinali, che ho deputati nella causa della fede, siamo stati tutti
ardentissimi in questa sentenzia, che sia da condiscendere prontamente e
alla convocazione del Concilio e a tutte le provisioni che tendano ad
eradicare l'eresie, perchè così conviene al servizio di Dio e alla
salute universale della cristianità. Vero è che, molti di loro, ancorchè
desiderino sommamente questo fine, non risolvono totalmente che la
convocazione del Concilio sia mezzo sicuro, o conveniente a conseguirlo,
giudicando, che sia di grande imprudenza alla Chiesa di Dio il
consentire che si torni a disputare di quelle cose, le quali in altri
tempi sono state dichiarate da Concilj, e osservatesi lungamente da
tutti li Cristiani; perchè la sede apostolica è stata consueta concedere
i Concilj alli eretici quando l'opinioni loro, se bene erano erronee, o
contra il rito universale della Chiesa, non erano ancor state riprovate
o dannate. Ma il voler ora mettere in dubbio quello che hanno
determinato i Concilj, par loro cosa scandalosa, di mal esempio, e con
poca dignità di questa sede, nè sperano, che alla medicina di questi
errori abbi a conferire più l'autorità del futuro Concilio, che faccia
ora quella delli passati, celebrati da tanti santissimi e dottissimi
Padri, le sante determinazioni dei quali chi sprezza, non si può sperare
che non abbia a fare il medesimo di quello, che per l'avvenire si
determinasse, nè si possono persuadere che la dimanda, che essi fanno
del Concilio, tenda ad alcuno fine laudabile, anzi, che come sempre
sogliono fare gli eretici, abbia nascosto qualche pestifero pensiero,
che possa esser causa di maggior confusione e disordine. E tanto più
inclinano li cardinali predetti in questa opinione, quanto par loro che
il tempo di convocarlo non sia al presente molto opportuno, non tanto
per guerra che si potesse temere in tra Cristiani, circa la quale molto
prudentemente discorre la Maestà Vostra, quanto per il pericolo della
guerra del Turco, del quale, come sa ben Vostra Maestà, sono le minaccie
e apparati grandissimi di invadere l'anno futuro con ogni sforzo la
cristianità; al qual tempo essendo impossibile, che ancora sia
indrizzato il Concilio, pare da considerare bene quanto danno potria
generare, mentre si attendesse al Concilio, se urgesse nuova guerra
dagl'inimici della fede, perchè bisognerebbe, per attender al Concilio,
negligere le provisioni tanto necessarie per la difesa della
cristianità, che sarebbe cosa perniciosa, o per provedere alla guerra,
lasciare il Concilio imperfetto e questo si può più facilmente dire che
fare, perchè serrandolo senza la satisfazione delle nazioni, potria
facilmente partorire scisma, o qualche grave scandalo nella Chiesa di
Dio, la qual satisfazione universale delle nazioni, quanto la Maestà
Vostra e io ci possiamo poco promettere, lo dimostra, oltre alle altre
ragioni, l'esperienza delle difficoltà, che ora sente Vostra Maestà a
potere in cose tanto giuste disporre d'una minima parte di quella
nazione sola. Le quali difficoltà nel tempo d'un pericolo tale,
facilmente aumenterebbono; perchè gli eretici e maligni pigliarebbero le
necessità per occasione di ottenere qualche cosa perniciosa alla santa
fede cattolica. Alla corroborazione della quale nessuno rimedio è di più
autorità, più santo, e cagione di maggiori beni, che la convocazione del
Concilio, quando si fa per cause, con mezzo e in tempo convenienti, per
contrario nessuno più pericoloso, e per partorir maggiori mali, quando
non concorrono le circostanze debite, o vi nasca qualche accidente che
lo disordini. Le quali ragioni insieme con le altre allegate da
cardinali predetti, avrebbono forse tenuto dubbio l'animo mio, se in me
non avesse potuto più l'autorità di Vostra Maestà, la qual conoscendo io
religiosissima, veramente cattolica, e devotissima della sede
apostolica, e non meno prudentissima e circospetta, e considerando che,
per trovarsi presente in quella provincia, per sanità della quale si
propone questo rimedio, può facilmente intendere quello che li sia
necessario, più che non possono coloro, che ne sono lontani, mi rendo
certissimo che non desidererà, nè proporrà cosa che non sia utile al
servizio e al bene universale della cristianità. E però, pregatala prima
che esamini maturamente, e consideri molto bene quello che sia al
proposito de' fini sopradetti, dico a Vostra Maestà che io son contento,
che quella, in caso giudichi esser così necessario, offerisca, e
prometta la convocazione del Concilio, con condizione però, secondo che
scrive anco Vostra Maestà, che appartandosi da' loro errori, tornino
incontinente al vivere cattolicamente, e all'obbedienza della Santa
Madre Chiesa, e secondo i riti e dottrina di quella, infino a tanto che
dal Concilio fosse determinato in altro modo, all'obedienza e
determinazione del quale in tutto e per tutto si sottomettano; senza le
quali condizioni è notissimo quanto saria scandaloso e di pessimo
esempio a concedere il Concilio. E in questo è necessario che Vostra
Maestà avvertisca diligentemente, che queste condizioni si promettano e
eseguiscano in modo che possiamo esser sicuri, che gli eretici, ottenuta
la convocazione del Concilio, non tornino a' pristini errori, perchè
sarebbe cosa scandalosissima; e sarebbe manifesto ad ognuno, che dal
proseguir in tal caso più oltre, non si potrebbe aspettare la
reformazione degli errori, che desidera, ma non altro che frutti
pestiferi e venenosi; a che siamo certissimi che Vostra Maestà
avvertirà, dalla quale subito che avremo avviso che loro abbiano
accettato, e osservino questa condizione, si convocherà il Concilio per
quel tempo che sarà giudicato espediente. Il quale Vostra Maestà si
prometta che sarà con più brevità si possa, la quale son certo che, per
quello che sopra questa materia parlammo in Bologna, e per quanto
conosce dell'intenzion mia al bene universale, non dubiti, che da me non
sarà interposta dilazione alcuna. In che non mi estenderò altrimenti,
perchè in tutte le cose e pubbliche, e che concernono il particular mio,
io ho fede grandissima in Vostra Maestà non meno che in me proprio, e la
quale non è mai per mancare. Così mi persuado che Vostra Maestà si
confidi che io proceda sempre seco con tutta la libertà e sincerità che
sia possibile. E perchè io ho veduto li articoli proposti da quelli
eretici, giudicherei necessario che Vostra Maestà li ammonisse a
restringerli solo a quelli punti nei quali pretendono avere più causa da
dubitare, perchè si fugga la lunghezza, che sarebbe infinita, e si
moderi quanto si può l'inconveniente di avere a ritrattare le cose
stabilite nelli altri Concilj. Statuirassi ancora al medesimo tempo il
loco, nel quale si abbi a convocare, sopra che intenderei volentieri il
parere di Vostra Maestà, perchè a me nè per commodità propria, nè per
alcun particolar rispetto importa più un luogo, che un altro, avendo
massime ad intervenirvi Vostra Maestà. Ma per quanto mi occorre di
presente, essendo sommamente necessario che il Concilio non si celebri
altrove che in Italia, crederei che Roma dovessi satisfare a ciascuno
per l'opportunità grandissima che ha di sostener tanta moltitudine,
quanta vi concorrerà, e poichè questo Concilio non si convoca per causa
di scisma che sia nella Chiesa di Dio, nè per dissensione che sia tra
principi cristiani, che potriano dar cagione d'allegar la suspizione de'
luoghi, ma solo si propone per purgar la cristianità dall'eresie, e per
l'espedizione contra infideli, par molto conveniente che si convochi in
quella città, che è capo di tutta cristianità, e dove per il passato
sono stati celebrati tanti Concilj a che m'inclina ancor assai il
conoscere che, se dopo tante calamità che ha patito, se le aggiunge una
sì lunga assenza della Corte, saria quasi causa dell'ultima sua ruina.
Pur quando Roma non satisfacesse, che a mio parere dovria satisfare, e
si potria provedere che nessuno la recusasse per non sicura, ci è
Bologna, Piacenza, Mantova, tutte città capaci, come sa Vostra Maestà,
delle quali, o di qualch'altra che fusse a proposito, si farà
risoluzione.

«Circa gli abusi, aspetto risposta dal Legato, a cui feci scriver, alli
dì passati, che avvisasse sopra che si desidera riformazione, e venuta
che sia la risposta, si piglierà tal forma, che ognuno conoscerà che
l'intenzion mia è di corregger le cose che fossero inoneste, e di
satisfare in tutto ciò che si potrà, agli amorevoli e prudenti ricordi
di Vostra Maestà, con la quale, per non la tediar più, mi rimetto a
quanto sopra questa materia ho scritto anco al Legato, e parlato con M.
Majo suo oratore: pregando sempre Dio che le conceda quanto lei
desidera. Da Roma, all'ultimo di luglio 1530».

Ai 18 novembre tornava sul medesimo promettere, e soggiungeva: «Se
convenisse che io da me solo ne deliberassi, confido tanto nell'amore e
prudenza della M. V. che, senza aspettar altro, le direi assolutamente
di voler seguire in tutto il consiglio e voler suo. Ma per esser cosa
che tocca a tutta la Chiesa e la cristianità, prima che possa
risolutamente risponderle è conveniente che consulti con li cardinali, e
intenda bene l'inclinazione degli altri principi al Concilio»[506].

Intanto Clemente VII, che, come dice il Guicciardini, per troppa finezza
di vedere, scorgeva tutte le possibilità e in conseguenza vacillava,
cercavasi altri alleati. E prima sperò negli Svizzeri, e l'Aleandro al
Sanga da Brusselle il 14 novembre 1531 scriveva: «Si trova per le
istorie che le grandi eresie mai non si estinguono se non col sangue. Se
Dio vuol far così ancor di questa, niun modo pare potesse esser miglior
di questo, perchè, per esser gli Svizzeri vicini all'Italia, facilmente
con ogni piccola cosa si potrà soccorrerli, e puossi veder buon conto
dell'amministrazione del denaro, e andar porgendo ajuto alla giornata.
Il che non saria così se l'impresa si fesse in mezzo alla Germania, e
che più è, saremmo fuora di quel timore ch'era, se si faceva impresa
generale contro Luterani, che la Germania tutta si unisse contro
noi...... Quella parte di Svizzeri ch'avrà più archibusieri, ancor che
sia in minor numero di picche, sarà vittoriosa, perchè si sa ben quanto
gli altri Svizzeri temono e buttano giù le picche, visti gli
archibusi.....

«Molto mi meraviglio e dolgo ch'a questa tanto santa occasione, tutti li
re, principi e popoli non si muovano a contribuir qualche somma di
denari, e præsertim li signori Veneti, che sono confinanti per più bande
a' Luterani; che se Svizzeri cattolici perdono, la vigilia loro saria la
festa di questi»[507].

Clemente trescava pure con altri, e il Sanga ad esso Aleandro nunzio
apostolico scriveva da Roma il 12 settembre 1531, che il duca di Ferrara
cercava ogni modo di nuocere al papa, e avea fatto saper all'imperatore
d'aver intercette lettere, per le quali il papa a Inghilterra e Francia
prometteva tutto, purchè non si facesse il Concilio. «Il che quanto sia
lontano dal vero, nessuno lo sa meglio di vostra signoria, qual sa in
questo l'animo buono di Sua Santità». Il papa se ne duole
coll'imperatore stesso in iscritto, domandando sieno prodotte le lettere
stesse, e non voler aquetarsi benchè l'imperatore si mostri certissimo
della buona intenzione di Sua Santità. «E parli qui francamente, che mai
fu falsità più falsa di questa»[508].

Alfine Clemente si fissò colla Francia, a' cui dominatori sempre si
volsero i papi nelle loro angustie, chiaminsi Carlo Magno o Napoleone
III. Sperando dunque che Francia lo sorreggerebbe nelle sue ambizioni
domestiche, e rimarrebbe fedele all'antico simbolo, mosse egli stesso a
trovar Francesco I. Al colloquio erasi assegnata Nizza, ma il duca di
Savoja ebbe gelosia di lasciarla occupare da navi pontifizie, ond'egli
andò a Marsiglia (1533, 13 ottobre) col pretesto di condurvi sua nipote
Caterina, figlia di Lorenzo De' Medici duca d'Urbino e di Maddalena de
La Tour d'Auvergne, promessa sposa ad Enrico, secondogenito di Francesco
I. Quanto quello di Bologna coll'imperatore, solennissimo fu il ritrovo
davanti a' maggiori dignitarj di Roma e di Francia. Seduto in eccelso
trono, il pontefice ricevette il re, che davanti a lui piegò il
ginocchio, giurogli obbedienza, e gli baciò i piedi, la mano e la stola;
il primogenito del re fu ammesso al medesimo favore; i due più giovani
figli baciarongli la mano e i piedi; i soli piedi gli altri della Corte.
L'arcivescovo di Parigi a nome del suo signore professò che il re
cristianissimo, come primogenito della Chiesa, lo riconosceva in tutta
umiltà e devozione qual pontefice e vero vicario di nostro signor Gesù
Cristo; lo venerava come successore di san Pietro, e gli prestava
obbedienza e fedeltà; offrendosi a tutta sua possa per la difesa sua e
della santa sede apostolica, al modo che aveano fatto i suoi
predecessori.

Ma se il re, tornando da quel congresso, diede severi ordini per «far
processi contro chi fosse convinto del delitto d'eresia che pullula e
cresce nella buona città di Parigi» (10 dicembre 1533), seguitò per
altro i consigli della politica sostenendo la Lega Smalcadica de'
Protestanti tedeschi contro Carlo V imperatore di Germania: vale a dire,
puniva chi non andasse alla messa, favoriva coloro che la messa aveano
distrutta.

Questo buon re Francesco, il protettore delle lettere, che i palazzi
suoi facea costruire dal Primaticcio, dipingere da Leonardo, fregiare da
Benvenuto: che volle essere armato cavaliere da Bajardo senza paura e
senza taccia, al 21 gennajo 1535 assisteva in Parigi al supplizio di sei
Luterani. Venivano in solenne processione i vescovi, i dottori della
Sorbona, i dignitarj, poi il re a capo scoperto, con una torcia in mano,
e dietrogli principi e principesse e cortigiani. L'arcivescovo portava
il Santissimo, pel quale erano stati costruiti sei altari di riposo; e a
canto a ciascuno una forca e un rogo. Il popolo trasaliva d'insulti e
d'impazienza, volendo colle proprie mani straziare gli infelici
condannati; i quali erano avvinti a una trave in bilico, che calava per
tuffarli nella fiamma, e risaliva sinchè questa non consumasse le corde.
Cominciava l'orribile altalena allorchè il re avvicinavasi, ed egli,
giunto a quel posatojo, cedeva la torcia al cardinale di Lorena,
prosternavasi a fare l'adorazione, intanto che si compiva il supplizio
de' condannati; poi ripigliava la torcia e la via. Al termine della
quale tenne un discorso contro la perversa setta, protestando che, se ne
sapesse infetto uno de' proprj membri, lo taglierebbe; se un suo
figliuolo, lo sagrificherebbe egli stesso[509].

E le persecuzioni continuarono un pezzo; e il giugno 1540 un editto da
Fontainebleau ordinava ad ogni balìo o siniscalco, procuratori, avocati
del re di cercare i Luterani, per darli al giudizio delle Corti supreme,
altrimenti perderebbero l'uffizio.

Le nazioni non hanno dunque di che rinfacciare l'una l'altra; meglio è
che, disapprovando le violenze d'allora, imparino la tolleranza, tanto
predicata eppur tanto poco ottenuta in questo nostro tempo di sì caldi e
sì poco leali partiti. Noi siamo lieti di trovare che papa Paolo, saputo
di que' supplizj, altamente li disapprovò, benchè da buona intenzione:
rammemorando che Cristo usò più misericordia che rigorosa giustizia; nè
doversi con morte tormentosa far disperare un uomo, che pur potrebbe
mutare di credenze[510].


NOTE

[476] E. H. J. Reusens pubblicò nel 1862 a Bonn _La teologia di Adriano
VI_ con un apparato della vita e degli scritti di esso: e _Aneddoti_,
desunti parte dal codice autografo di Adriano, parte da apografi.

[477] Più tardi la cambiò col PLUS ULTRA, suggeritogli dal medico
milanese L. Marliano.

[478] Il Guicciardini, che in tutti questi affari della Chiesa e della
Riforma si mostra ancor più ignaro che maligno, dice che i cardinali
diedero il suffragio a quest'Adriano per chiasso, e tanto per consumar
quella mattinata; onde rimasero attoniti quando riuscì eletto. Di ciò lo
riprova il Pallavicino. Lo stesso Paolo Giovio dice tutt'altro.
Valeriano Pierio fece una satira violenta contro questa elezione,
dicendo appunto:

    _Nil tale patribus facere se putantibus,_
      _Nihil minus volentibus_
    _Quam quem eligebant; nil minus poscentibus_
      _Quam quem vocabant. O mare!_
    _O terra! votis Hadrianus omnibus_
      _Fit pontifex: sed omnibus,_
    _Quis credat? invitis. Deúm vis hæc: Deúm_
      _Deúm abditum hoc arbitrium est..._

[479] LANZ, _Correspondens des Kaisers Karl V_. Tom. I, p. 60. GACHARD,
_Corr. de Carles V et d'Andrien VI_, pag. 105, del 27 luglio e 5 agosto
1522.

[480] Girolamo Negro, canonico padovano, al Micheli, da Roma 15 agosto
1522.

[481] SANUTO, Diarj al 1523; presso il quale è un'epistola che dice:
_Vir est sui tenax, in concedendo parcissimus, in recipiendo nullus aut
rarissimus; in sacrificio quotidianus et matutinus est: quem amet aut si
quem amet, nulli exploratum. Ira non agitur, jocis non ducitur. Neque ob
pontificatum visus est exultasse: quinimo constat graviter illum, ad
ejus famam nuntii, ingemuisse_.

[482] Manuscritto nella Vallicelliana.

[483] _Epistole familiari_. Tom. I, pag. 18.

[484] Sta nella biblioteca di Monaco, e noi l'abbiamo inserito negli
schiarimenti al libro XV della _Storia Universale_.

[485] Adriano, ancor cardinale, di Lutero avea scritto: _Qui sane tam
rudes et palpabiles, hæreses mihi præseferre videtur, ut ne discipulus
quidem theologiæ, ac prima ejus limina ingressus, ita labi merito
potuisset... Miror valde quod homo tam manifeste tamque pertinaciter in
fide errans, et alios in perniciosissimos errores trahere impune
sinitur_. BURMANN, Analecta hist. de Hadriano VI.

[486] GACHARD, _ubi supra_, p. 245.

[487] Il Pallavicino disapprova le istruzioni date da Adriano al
Chieregato, dicendo che han fatto desiderare in lui maggior prudenza e
circospezione, e che non solo il regno del Vaticano, dominio composto di
spirituale e temporale, ma il governo di piccole religioni, quantunque
semplici e riformate, meglio si amministra da una bontà mediocre
accompagnata da senno grande, che da una santità fornita di piccolo
senno... «Chi svela tutto il suo cuore getta il dono che gli ha fatto
natura in darglielo imperscrutabile, e fa comuni tutte le sue armi
all'avversario».

Noi abbiamo sentito accuse consimili farsi a Pio IX.

[488] Si dissero spediti il 1522 dopo sciolta la dieta di Norimberga, ma
non si credono autentici.

[489] È noto con quanta cura gli antichi facessero giunger buone acque
sui colli di Roma. Gli acquedotti furono o spezzati o negletti dai
Barbari, e ciò fu gran ragione dello spopolarsi della città. Va notato
che Adriano VI fu il primo che pensasse a restaurarli, riconducendo
l'aqua Marcia, che poi tornò a guastarsi. E le acque e le fontane sono
uno de' maggiori meriti de' pontefici verso la città eterna.

[490] PAOLO GIOVIO _in ejus vita_.

[491] Erasmo, Ep. 1176, dice: _Vix nostra phalanx sustinuisset hostium
conjurationem, ni Adrianus, tum cardinalis, postea romanus pontifex, hoc
edidisset oraculum, Bonas literas non damno, hæreses et schismata
damno_. Anche il Negri, nelle lettere ove dipinge sì bene quel
pontificato, confessa: «Dilettasi sopratutto di lettere, massimamente
ecclesiastiche, nè può patire un prete indotto».

[492] «Dubito che, come beva di questo fiume Leteo, non mandi in
oblivione tutti questi santi pensieri, e massimamente perchè natura non
tollera _repentinas mutationes_; essendo la Corte più corrotta che fosse
mai, non vi vedo alcuna disposizione atta a ricever così tosto queste
buone intenzioni». NEGRI, 14 aprile 1522.

[493]

    _Sextus Tarquinius, Sextus Nero, Sextus et iste:_
        _Semper et a Sextis diruta Roma fuit_.

[494] Adriano fece lega con Carlo V per salvare l'indipendenza italiana
dai Francesi, unitamente a varj principi italiani e ai feudatarj della
santa sede, e il 5 agosto 1523 solennemente in Santa Maria Maggiore la
proclamò. Qui i panegiristi del papa si sforzano a mostrare come i
cherici devano astenersi dalle armi; ma pure, quando le spirituali non
bastino, può ricorrere alle temporali per difendere se stesso e i
Cristiani. E conchiudono che, come principe temporale, il papa deve
avere e milizia e fortezze al par degli altri, e chi gli negasse d'esser
principe, sovvertirebbe i principj di natura e di legislazione, che
legittimano i regni; e chi tenta abbatterlo piglia il coltello per la
punta. Vedi ORTIZ, _Descrizione del viaggio_, ecc. DE LAGUA suo
annotatore. BURMANNO, ecc.

[495] «Teniendo sempre respecto a que la eleccion se haga con toda
libertad, si ya por la parte francese no se intentasse hazer alguna
fuerza, que en este caso haveyos de mostrar reziamente por nuestra
parte; ayudandos para ello de los visorreyes de Napoles y Sicilia y de
nuestro esercito, y de todos los subsidios y otros medios que
pudieredes» scriveva Carlo V al duca di Sessa da Valladolid, il 13
giugno 1523, ap. GACHARD.

[496] Io spiego in questo senso il Guicciardini, ove dice che egli «era
reputato avaro, di poca fede, e alieno di natura dal beneficare gli
uomini».

[497] VARCHI, _Stor. fior_., tom. II, p. 43.

[498] HOTTINGER, _Ecclesia sæculi XVI_, tom. II, p. 61. Di rimpatto i
nostri notarono che il connestabile di Borbone morì nell'assalto: il
succedutogli principe d'Oranges, poco dopo, all'assedio di Firenze;
Lannoy della peste, Moncada poco sopravvisse: anzi, due anni dopo il
fatto, nessun più era vivo dei depredatori di Roma, e le ricchezze erano
passate in mani estranee. Notarono pure che, per salvar il cadavere del
Borbone dagl'insulti, fu portato in quella fortezza di Gaeta, ove nel
1849 ricoveravasi un altro papa, che colà da un generale francese
riceveva le chiavi della ricuperata Roma.

[499] Galeazzo Visconti, il 21 luglio 1528, _ap_. MOLINI, _Docum. di
Storia Italiana_.

[500] GEVAY, _Urkunden_ ecc., pag. 52.

[501] Esso Ferdinando scriveva a Carlo V: «La lunga guerra ha fatto
trascurare il guasto della religione e la necessità del rimedio. Per
essa avvenne la prigionia del pontefice e la devastazione di Roma, onde
pigliarono tanto scandalo i Cattolici, esempio di licenza i tristi,
baldanza e giubilo gli eretici, sicchè la infezione delle Sètte luterane
e le ambizioni de' principi fanno strazio della Germania».

GEVAY, _Urkunde_ ecc., p. 66-70. _Istruzione_, per Martino de Salinas,
dall'8 febbrajo 1529.

[502] _Il serche par tout à emprunter, voyre à pouvoir vendre pour fere
san voyage: et pour aller jusque a Bouloingne ou la environ, il espere
trouver moyen de soy equipper_. POUPET DE LA CHAUX, _An den Kaiser_.
Lione 23 settembre 1529.

[503] _Cronaca della venuta e dimora in Bologna di Clemente VII per
l'incoronazione di Carlo V_, per GAETANO GIORDANI, Bologna 1842. In
questa è a vedersi la quantità di letterati e altri illustri italiani,
convenuti a quella solennità.

[504] Lettere del Campeggi al Salviati nel 1520. _Monumenta Vaticana_
per H. LAEMMER, pag. 50-57.

[505] Vedi il carteggio del Campeggi nei _Monumenta Vaticana_, pag. 64.

[506] L'Aleandro al Sanga da Brusselle, il 19 novembre 1531, scriveva:
«Dio sia ringraziato che ci ha dato così cattolico principe (Carlo V).
Che se in questi pessimi tempi avessimo avuto imperatore un Federico
Barbarossa, un Lodovico Bavaro, o un Enrico IV o simili, già o poco o
nulla avressimo di gran parte della cristianità.

«Nel breve a S. M. eravi posto espressamente _de celebratione
universalis concilii_. A queste parole S. M. con grande attenzione
aperse gli occhi e gli orecchi, dicendo: — Sia ringraziato Dio che Sua
Santità persevera in quello che altre fiate mi ha promesso, e fa
bugiardi costoro che dicono Sua Santità sutterfugere il Concilio —.
Allora diss'io: — Sire, Sua Santità non rifiuta il Concilio, purchè si
celebri secondo il debito di ragione, cioè che in primis V. M. sempre
sia assistente, come al Concilio Niceno Costantino, a Costantinopolitano
Marciano, e agli altri i seguenti imperatori. Poi, che si abbia evidente
speranza di tre cose: l'una di ridur veracemente i Luterani al grembo di
santa Chiesa, ed a questo bisogna che sufficientemente consentano,
perchè per questa principal causa si avria a far il Concilio. L'altra,
che non si partorisca uno scisma con le altre nazioni cattoliche che
restano, che saria quando Francia, Anglia e Scozia non volessero
convenire. La terza, che si facesse una buona e santa reformazione di
tutta la Chiesa di Dio in capite et in membris, da vero e da buon senno:
altramente, pensando a gabbar Dio, ne gabberemmo noi stessi: S. M.
rispose ecc.

«Finito questo colloquio, domandandomi se io sapea scrivere in ebreo,
dissegli che sì, ma che la non pensasse però ch'io fossi nato ebreo,
come fingono gli eretici, dicendo ch'è cosa ingiusta che un giudeo
difenda la Chiesa cristiana. Mi domandò dove io l'aveva appreso. Dissi
che da un Giudeo, non già di mia terra, dove mai poterono star Giudei,
ma spagnuolo, qual si fece poi cristiano in casa di mio padre».
_Monumenta Vatica_na, LXV.

[507] _Monumenta Vaticana_, LXXXV.

[508] Carteggio del Campeggi, _ib_. LXXVII.

[509] Et quant à moy qui suis vostre roy, si je sçavois l'un de mes
membres maculé ou infecte de cette détestable erreur, non seulement vous
le baillerois à couper, mais davantage, si j'aperçevois aucun de mes
enfants entachez, je le voudrois moy-mesme sacrifier. Vedi THÉOD. BEZA,
al 1534, e SISMONDI, Hist. des Français al 1535.

[510] _Est à scavoir que le bruit fut en juings 1535 que le pape Paul,
adverty de l'éxécrable justice et horrible que le Roy faisoit en son
royaume sur le Luthèriens, on dit qu'il manda au roy de France... qu'il
pensoit bien qu'il le fist en bonne part... néantmoins Dieu le crèateur,
luy estant en ce monde, a plus usé de miséricorde que de rigoureuse
justice: et qu'il ne faut aucunes fois user de rigeur, et que c'est une
cruelle mort de faire brusler vif un homme, dont par ce il pourroit plus
qu'autrement renoncer la foy et la loy. Parquoy le pape prioit et
requeroit le roy par ses lettres, vouloir appaiser sa fureur et rigeur
de justice, en leur faisant grâce et pardon_. Journal d'un Bourgeois,
pag. 458.



DISCORSO XIX.

IL VALDES.


Allorchè le bande di Carlo V saccheggiarono Roma, e l'Europa era piena
delle oltraggiose miserie ivi sofferte o recate, un giovane spagnuolo
dettava un dialogo, ove suppone che a Valladolid un soldato, reduce da
quel misfatto, s'incontri in un arcidiacono e nel cortigiano Lattanzio,
e gliene divisi le particolarità. Lattanzio non rifina di stupire che un
papa faccia guerra, e guerra contro l'imperatore: tutt'altro essere
l'uffizio del vicario di Cristo. Il soldato risponde che di ciò non
prendesi meraviglia in Italia, anzi v'è tenuto da nulla un papa che non
maneggi le armi. Descrivendo poi quell'atroce catastrofe, nelle
particolarità rilieva ciò che reca disonore al clero; il cortigiano ve
lo attizza colle sue suggestioni, e conchiude ammirando i giudizj di
Dio, il quale castigò in tal modo le ribalderie del papa e de'
suoi[511]. Perocchè della guerra attribuiva la colpa al papa e a
Francesco I, scagionandone Carlo V, lo che adempie pure in un precedente
dialogo fra Caronte e Mercurio, ove dalle anime che arrivano al tragitto
d'Acheronte fa raccontare molti abusi, l'opposizione fra la dottrina
cristiana e la pratica, e passando a scrutinio un teologo, un frate, un
vescovo, una donna e così via, mostra il peggiorarsi della razza umana.
Al gusto odierno dee sapere di strano l'udire Caronte e Mercurio
discutere del vangelo: ma le son licenze comuni a questi dialoghi de'
morti.

Autore n'era Giovanni Valdes, persona di alta nascita e di molto merito
alla Corte di Spagna.

Il tono di quei dialoghi, le accuse prodigate ai pontefici e alla Chiesa
indignarono molti, e il mantovano Baldassar Castiglione, famoso autore
del _Cortigiano_, che nel 1524 era ito nunzio del papa in Ispagna, e che
morì a Toledo il 1529, si credette in dovere di denunziar severamente il
Valdes al papa e all'imperatore. Lagnossene egli, quasi fosse venuto
meno alla cortesia mostratagli, e avesse condannato il libro senza
conoscerlo. Il Castiglione gli rispondeva una lunga lettera, professando
d'avere denunziato quel libro con piena conoscenza, e perchè vi côlse un
mar di errori e di calunnie contro le cerimonie, le reliquie, la
religione stessa. E qui ragionando punto per punto, non gli perdona il
dichiarare empietà che uno dica la messa in peccato. Se un prete è
malvagio, se celebra appena levatosi d'accanto a una donna, forse ciò
giustifica il rubare gli ostensorj e gl'incensieri? Le ricchezze sono
bene spese in onor di Dio, e lo credeano persino i Pagani: ond'è mal
gusto quel suo cuculiare le magnificenze del culto. Nè minor torto ha
quando scusa Lutero, e trova bisognasse, prima di condannarlo,
correggersi delle colpe ch'egli rinfacciava. Di rimpatto il Valdes non
v'è obbrobrio che risparmii a Clemente VII, e ciò per discolpare
l'imperatore; quell'imperatore che al papa professava affezione e
ossequio, al tempo stesso che lo lasciava depredare e oltraggiare in tal
guisa, che agli Spagnuoli stessi dolse di quella tragedia. Solo il
Valdes esortava Carlo V a tenere cattivo il papa, e giacchè l'aveva in
mano, non perdere sì propizia occasione di emancipare la cristianità.
«Voi dunque, nuovo riformatore degli ordini e delle cerimonie cristiane,
nuovo Licurgo, nuovo conditor di leggi, correttore de' santissimi
concilj approvati, nuovo censore de' costumi degli uomini, dite che
l'imperatore riformi la Chiesa con tener presi il papa e i cardinali? e
che facendolo, oltre al servizio di Dio acquisterà ancora nel mondo
gloria immortale? E volete indurlo a far così empia azione?....... Ah
impudente! ah sacrilego! ah furia infernale!..... E non temete che Dio
mandi il fuoco dal cielo che v'arda?» E qui, ritorcendo l'argomentazione
in invettiva, gli preconizza un san-benito.

Non erano materie dove si facesse a credenza; e il Valdes stimò prudente
abbandonare la Spagna, ricoverandosi a Napoli, ove il dominante era
ancora Carlo V, ma i privilegi nazionali teneano in freno il
Sant'Uffizio. Il Llorente, storico dell'Inquisizione parabolano e sempre
mal informato come mostreremo, dice abbandonasse la Spagna perchè
condannato d'eresia. Nol fu mai da vivo: sol dopo morto fu tenuto per
capo d'eretici, ma non si specifica di quali eresie peccasse, e ogni
Chiesa dissidente vorrebbe trarlo a sè, fin gli Antitrinitarj. Quest'è
certo ch'egli può stare alla testa de' riformati italiani. In Napoli fu
carezzato, stette segretario del vicerè Toledo, e scrisse varie opere,
fra cui i filologi lodano il dialogo sulle lingue, nel quale fa da due
Italiani e due Spagnuoli discorrerne sulla spiaggia di Napoli.

Quivi introdusse i libri di Lutero, di Bucer, degli Anabatisti che avea
conosciuti in Germania, e fece proseliti. Pubblicò un commento delle
Epistole di san Paolo (Venezia 1556) e riflessioni sopra san Matteo e
sopra alcuni salmi, dedicate a Giulia Gonzaga del ramo di Gazzuolo,
duchessa di Trajetto a Fondi, donna di sì famosa bellezza che Solimano
granturco desiderò vederla, e mandò il terribile Ariadeno Barbarossa per
rapirla, al che poco mancò riuscisse mentr'ella stava a Fondi con papa
Leone[512]. Dopo vedova del famoso Vespasiano, essa adottò per impresa
un amaranto e il motto _Non moritura_; e passata a Napoli nel 1537 per
certi litigi, in casa sua teneva un circolo, ove disputavasi di materie
religiose. Del Valdes citasi pure un «Avviso sopra gl'interpreti della
santa scrittura», ove sostiene che noi fummo giustificati per la
passione di Cristo, e che possiamo conoscere con certezza la nostra
santificazione.

Nel catalogo dei libri proibiti pubblicato da monsignor Della Casa è
notato _Il modo di tenere nell'insegnare e nel predicare al principio
della religione cristiana, libriccino il qual è solamente di tredici
carte in ottavo_; e il Vergerio, postillando esso catalogo, attribuisce
quell'opuscolo al Valdes, e non rifina di lodarlo, facendo le meraviglie
che si riprovi chi predica Cristo sinceramente e prudentemente, mentre
si tollerano e lodano le sguajatezze del Barletta, tutto buffonerie ed
empietà.

L'opera capitale del Valdes è quella stampata a Basilea nel 1550, col
titolo _Le cento et dieci divine considerationi del signor Giovanni
Valdessa; nelle quali si ragiona delle cose più utili, più necessarie et
più perfette della cristiana professione_. Nella prefazione, Celio
Secondo Curione «servo di Gesù Cristo, a tutti quelli i quali sono
santificati da Dio Padre, e salvati e chiamati da Gesù Cristo nostro
Signore» augura: «la misericordia, la pace et la carità di Dio vi sia
moltiplicata». E comincia: «Ecco fratelli, noi vi diamo non le Cento
novelle del Boccaccio, ma le _Cento e dieci considerazioni_ del
Valdesio, e di quanta importanza sieno vengo a dichiararvi».

E continua che «de' molti i quali scrisser delle cose cristiane, chi
meglio e più saldamente e più divinamente il fece è Giovanni Valdesio,
dopo gli apostoli ed evangelisti». Esaltandone i pregi, professa che di
questo grande e celeste tesoro siamo tutti debitori a monsignor Pietro
Vergerio, come stromento della divina provvidenza in farlo stampare,
acciò da tutti potesse essere veduto e posseduto. «Egli, venendo
d'Italia, e lasciando il finto vescovato per venire al vero apostolato,
al quale era chiamato da Cristo, portò seco di molte belle composizioni,
e fece come si suol fare quando, o per incendio della casa propria o per
sacco e sterminio di qualche città, dove ogni uno scampa le più care e
più preziose cose ch'egli si trova in casa: così il nostro Vergerio, non
avendo cosa più cara che la gloria del Signor Nostro Gesù Cristo, ne
recò seco di quelle cose le quali ad illustrarle ed allargarle servir
potevano». Soggiunge che fu dallo spagnuolo, da persona degna in lingua
italiana tradotto. Del Valdes racconta che «non seguitò molto la Corte
dopo che gli fu rivelato Cristo, ma se ne stette in Italia, e fece la
maggior parte della vita sua a Napoli, dove, con la soavità della
dottrina e con la santità della vita guadagnò molti discepoli a Cristo,
e massime fra gentiluomini e cavalieri, e alcune signore lodatissime.
Pareva che costui fosse da Dio dato per dottore e pastore di persone
nobili e illustri; ha dato lume ad alcuni de' più famosi predicatori
d'Italia..... Morse in Napoli circa l'anno 1540, lasciando altre belle e
pie composizioni, le quali per opera del Vergerio, com'io spero,
sarannovi comunicate».

Cominciò di quel tempo a correre per Italia un opuscolo, intitolato del
_Benefizio della morte di Cristo_, senza nome «acciocchè più la cosa vi
muova che l'autorità dell'autore». Sul qual autore faremo indagini
altrove; qui basti dire che a moltissimi fu attribuito; e ch'è uno de'
libri di più bizzarra fortuna, talchè potrebbe prendersi a simbolo delle
vicende della Riforma in Italia. Dato fuori nel 1542; stampato poco
dopo; diffuso, dicono, a quarantamila esemplari, si riuscì a sopprimerlo
a segno, da più non trovarsene esemplare; lo Schölhorn e il Gerdes,
tanto solleciti raccoglitori in questo genere, nol seppero rinvenire;
Mac Crie, Mac Aulay, Ranke lo dichiararono irreparabilmente perduto. Ma
nel 1774 un tal dottore Antonio Ferrario di Napoli ne avea deposto un
esemplare nel collegio di San Giovanni in Cambridge, con uno della
traduzione francese del 1552. Ivi testè fu ritrovato; indi un altro nel
1857 nel collegio medesimo, ch'era appartenuto a Laura Ubaldina, poi al
vescovo Moore, poi a re Giorgio I, il quale lo donò ad essa biblioteca.
Una traduzione in croato, edita il 1563, era stata dal celebre filologo
Kopitar donata alla biblioteca di Lubiana, dove giace pure un esemplare
dell'italiano. Se l'essersi distrutte tutte le copie dell'italiano può
darci argomento della potenza dell'Inquisizione, è inesplicabile che non
si facessero più ristampe nemmanco delle traduzioni, talchè d'esse pure
v'avea tanta rarità, finchè il reverendo Ayre riprodusse nel 1847 la
versione inglese, sulla quale si fece una versione italiana, stampata a
Pisa nel 1849, ed una migliore colla data di Firenze; poi scopertosi
l'originale, fu diffuso dalla società biblica e si venne così a
conoscerlo ed a parlarsene[513].

È un opuscolo in buon italiano, dove è asserito che, avendo Cristo
versato il sangue per la salvezza nostra, noi non dobbiamo dubitare di
questa, anzi conservare la massima tranquillità. S'appoggia ad autorità
antiche per affermare che coloro, i quali rivolgono le anime a Gesù
Crocifisso, e si affidano per mezzo di esso a Colui che non può
ingannare, sono liberati d'ogni male, e godono il perdono di tutte le
colpe.

Il peccato originale (insegna) fu causa de' nostri mali, ma non li
conoscevamo sin quando non fu data la legge. Il primo ufficio di questa
fu appunto far conoscere il peccato; il secondo ingrandire il peccato,
vietando la concupiscenza; il terzo dimostrare lo sdegno di Dio a coloro
che non osservano la legge; il quarto incutere timore all'uomo; il
quinto costringerlo a rivolgersi a Gesù Cristo, dal quale unicamente
dipendono la remissione de' peccati, la giustificazione e tutta la
salute nostra. Se il solo peccato d'Adamo bastò, senza colpa nostra, a
rendere peccatori noi tutti, a più forte ragione la giustizia di Cristo
avrà forza di renderci tutti giusti e figli della Grazia, senza
cooperazione nostra: la quale non può essere buona se prima noi stessi
non siamo divenuti buoni. Iddio avendo già punito ogni peccato nel
Figliuolo suo dilettissimo, ha conceduto al genere umano generale
perdono, e ne gode chiunque creda al Vangelo. Da Cristo solo deve dunque
ciascuno riconoscere la propria salvezza, in lui solo confidare, non
nelle opere proprie. Questa santa confidenza entra nei cuori nostri per
opera dello Spirito Santo, il quale ci si comunica mediante la fede; e
la fede non viene mai senza l'amore di Dio. Laonde ci sentiamo mossi da
lieto e operoso ardore a fare azioni buone, sentiamo forza di eseguirle,
e di soffrire tutto per amore e gloria del nostro Padre misericordioso.

«Per le cose dette (prosegue) si può intendere chiaramente che il pio
cristiano non ha da dubitare della remissione de' suoi peccati, nè della
grazia di Dio: nondimeno per maggior soddisfazione del lettore voglio
scrivere alcune autorità de' dottori santi, i quali confermano questa
verità». E qui adduce numerosissime autorità; indi ripiglia: «Nessuno
però creda coi falsi cristiani, i quali degradano di costumi, che la
vera fede consista nel credere la storia di Gesù Cristo come si crede
quella di Cesare e Alessandro, o come i Turchi credono al Corano. Fede
siffatta non rinnuova il cuore, nè lo riscalda dell'amor di Dio, nè
produce le buone opere e i cambiamenti di vita, che provengono solo
dalla fede vera, la quale è un'operazione di Dio entro di noi. La fede
giustificante è simile a fiamma che non può non tramandare luce; così
essa non può bruciare il peccato senza il concorso delle opere. E come,
vedendo una fiamma che non mandi luce, riconosciamo essere falsa e
dipinta, così quando in alcuno non vediamo la luce delle buone opere
diciamo che non ha quella vera fede ispirata da Dio[514].

«Che se ci prende diffidenza, ricorriamo al sangue di Gesù Cristo,
sparso per noi sulla croce, e distribuito nell'ultima cena sotto l'ombra
d'un sacramento augustissimo. Chi s'accosta a questo senza fede nè
carità, non credendo che quel corpo del Signore è vita e purgazione di
tutti i peccati, fa Gesù Cristo mentitore, calpesta il figliuolo di Dio,
e stima non essere nulla meglio che una cosa comune e terrena, il sangue
del Testamento, pel quale fu giustificato. E però il Cristiano, quando
comincia a dubitare se abbia o no ricevuto il perdono, quando lo rimorde
la dubbiosa coscienza, ricorra a questo divino sacramento, che gli
assicura il perdono di tutti i misfatti.

«Sant'Agostino costuma chiamare questo divinissimo sacramento vincolo di
carità e mistero d'unità, e dice che, chi riceve il mistero dell'unità,
e non conserva il vincolo della pace, non riceve il mistero per sè ma
una testimonianza contro di sè. Adunque abbiamo a sapere intendere che
il Signore ordinò questo sacramento, non solo per renderci sicuri della
remissione dei peccati, ma ancora per infiammarci alla pace, all'unione
e carità fraterna. Perocchè in questo sacramento il Signore ci fa
partecipare del suo corpo in modo, ch'e' diviene una cosa medesima con
noi, e noi con lui. E com'egli ha un solo corpo del quale ci fa
partecipi, così noi, per tale partecipazione, diveniamo un sol corpo fra
noi. Questa unione è raffigurata dal pane nel sacramento, formato di
molti grani, misti e impastati insieme in guisa, che l'uno non può
dall'altro discernersi. Parimenti noi tutti dobbiamo essere congiunti in
tale accordo di spirito, che niuna divisione possa insinuarsi tra noi.
Adunque, ricevendo la santissima comunione, dobbiamo ritenere nell'animo
che tutti siamo incorporati in Cristo, e tutti membri d'un medesimo
corpo; membri, dico, di Cristo, in maniera che non possiamo più
offendere, nè infamare, nè vilipendere alcuno de' nostri fratelli, senza
offendere, infamare, vilipendere il nostro capo Gesù Cristo; nè tenere
discordia con qualunque de' nostri fratelli, senza essere in opposizione
con lui. Così non possiamo amare lui se non amiamo i nostri fratelli.
Dobbiamo prepararci al divin sacramento eccitando gli animi nostri ad un
amor fervente riguardo al nostro prossimo. Qual maggiore stimolo ad
amarci che il vedere Gesù Cristo, non solo col dare se stesso a noi,
allettarci a dare noi stessi per gli altri, ma comunicandosi esso a
tutti noi, fare sì che noi diventiamo con lui tutt'una cosa?»

Conchiude raccomandando la comunione frequente, e così la preghiera, la
fiducia nella predestinazione, per quanto il demonio ci tenti per
levarcela, e per farci credere che, se per fragilità cadiamo in peccato,
noi diveniamo vasi d'ira e dimenticati dallo Spirito Santo.
Sant'Agostino dice: Niun de' santi è senza peccato; nè perciò cessa
d'essere santo se con affetto ritiene la santità. È gran cecità
l'accusare i Cristiani di presuntuosi se si vantano di possedere lo
Spirito Santo; anzi senza questo vanto non sarebbero veri cristiani. Il
timore servile sgomenta i reprobi; ma l'amore filiale conforta gli
eletti colla fiducia che Dio, per sua misericordia, li manterrà nello
stato felice ove gli ha posti, e che i suoi peccati gli furono
gratuitamente rimessi.

«Noi siam giunti al fine di questi nostri ragionamenti, ne' quali, il
nostro principale intento è stato di celebrare e magnificare, secondo le
nostre piccole forze, il beneficio stupendo che ha ricevuto il Cristiano
da Gesù Cristo crocifisso: e dimostrare che la fede per sè stessa
giustifica, cioè che Dio riceve per giusti tutti quelli che veramente
credono Gesù Cristo avere soddisfatto ai loro peccati: benchè, siccome
la luce non è separabile dalla fiamma che per se sola abbrucia, così le
buone opere non si possino separare dalla fede che per se sola
giustifica. Questa santissima dottrina, la quale esalta Gesù Cristo ed
abbassa la superbia umana, fu e sarà sempre oppugnata dalli Cristiani,
che hanno gli animi ebri. Ma beato colui il quale, imitando san Paolo
che si spoglia di tutte le sue proprie giustificazioni, nè vuole altra
giustizia che quella di Cristo, della quale vestito, potrà comparire
sicurissimamente nel cospetto di Dio, e riceverà da lui la benedizione e
l'eredità del cielo e della terra insieme col suo unigenito figliuolo
Gesù Cristo, nostro Signore, al quale sia gloria in sempiterno, amen».

L'opera fu da principio accettata come di retto sentire, e la sua tanta
diffusione attribuiscono a persone pie, al Flaminio, ai cardinali Morone
e Polo, a monsignor Carnesecchi. Poco si tardò ad avvertirne gli errori;
ma su quel punto della giustificazione non erano ben d'accordo neppure i
Cattolici, atteso che gran parte della disputa consisteva in parole, e,
come dice Bossuet, v'aveva una mala intelligenza, anzichè vi fosse
difficoltà in tal quistione..... Chi di noi (soggiunge) non ha sempre
creduto e insegnato che Gesù Cristo soddisfece soprabbondantemente per
gli uomini, e che il Padre eterno, contento di questa soddisfazione del
Figlio, ci tratterà favorevolmente come se noi medesimi avessimo
soddisfatto alla sua giustizia? Se vuol dirsi ciò solo quando si dice
che la giustizia di Gesù Cristo ci è imputata, è cosa fuori di dubbio, e
non valea la pena di turbare l'universo, nè chiamarsi riformatori per
una dottrina così nota e confessata»[515].

Or bene, questo libretto fu attribuito al Valdes, e più generalmente
alla scuola ch'egli formò a Napoli. Perocchè colà egli nella allegra e
pittoresca sua casa a Chiaja raccoglieva il fior della nobiltà
napoletana, persone distinte per talenti, e signore quali la Gonzaga ora
detta, donna Maria Brizeño, donna Costanza d'Avalos, donna Isabella
Manriquez; e da esso derivarono i principali promulgatori della riforma,
come l'Ochino, il Vermiglio, il Carnesecchi. Al qual ultimo, Jacobo
Bonfadio scriveva poi[516]: «Dove andremo noi, poichè il signor Valdes è
morto? È questa certo gran perdita e a noi e al mondo; perchè Valdes era
un de' rari uomini di Europa, e quei scritti ch'egli ha lasciato sopra
le epistole di san Paolo e i salmi di David ne faranno pienissima fede.
Era senza dubbio ne' fatti, nelle parole e in tutti i suoi consigli un
compiuto uomo: reggeva con una particella dell'animo il corpo suo debole
e magro: con la maggior parte e col puro intelletto quasi come fuor del
corpo stava sempre sollevato alla contemplazione della verità e delle
cose divine. Mi condoglio con monsignor Marcantonio Flaminio, perch'egli
più che ogni altro l'amava ed ammirava. A me pare sino, quando tanti
beni e tante lettere e virtù sono unite in un animo, che faccian guerra
al corpo, e cerchino quanto più tosto possano di salire, insieme con
l'animo, alla stanza ond'egli è sceso».

E generale fu il compianto per la morte di questo bel ingegno, del quale
un poeta cantava:

    _Valdesio ispanus scriptore superbiat orbis_[517].

Il Caracciolo, frate domenicano, che lasciò una vita manoscritta di
Paolo IV, di cui molto faremo uso, riferisce: «Accadde nel 1535 che con
Carlo V venne un detto Giovanni Valdes, nobile spagnuolo ma altrettanto
perfido eretico. Era costui (mi disse il cardinale Monreale che se lo
ricordava) di bell'aspetto e di dolcissime maniere, e di un parlare
soave e attrattivo: faceva professione di lingue e di sante scritture:
s'annidò in Napoli e in Terra di Lavoro. Di costui furono tre i
principali discepoli: frà Pietro Vermiglio, canonico regolare ed abate
di san Pietro d'Ara: frà Bernardino Ochino da Siena, e Marcantonio
Flaminio, tutti e tre letterati principalmente nelle lingue e nelle
lettere umane. Ora costoro, mentre furono in Napoli, per fare brigata
maggiore di discepoli s'erano divisi in diversi pulpiti di scrittura
santa: il Vermiglio in San Pietro d'Ara leggeva l'epistole di san
Paolo..... il Valdes leggeva in sua casa l'istesse epistole.... I nostri
Padri scoprirono l'eresie in Napoli, essendo il nostro ordine acerbo
persecutor dell'eresie, e che fa professione di difendere la fede
cattolica. Il modo con che furono dai nostri scoperti, s'ha da sapere
che Raniero Gualanda e Antonio Capponi, per la pratica che ebbero con
Valdes e Ochino furono a pericolo anch'essi incautamente di essere
macchiati un poco di quella pece. Ma perchè si confessavano dai Padri
nostri in San Paolo, però i nostri che ne stavano sospetti si fecero
riferire da loro tutto ciò che intendevano da quegli occulti eretici. In
questo modo vennero a conoscere i nostri il mal seme che coloro
seminavano, e le secrete conventicole d'uomini e di donne che facevano.
Le quali da loro scoperte, e scritte al cardinale Teatino (Caraffa) in
Roma, se ne fuggirono tutti di Napoli...... In Napoli se ne appestarono
tanti, e particolarmente molti maestri di scuola che arrivarono al
numero di tremila, come si riconobbe poi quando si ritrattarono.

«Il seme diffuso dall'Ochino fu coltivato da G. A. Mollio di Montalcino,
e da frate Angelo francescano, confessore del vicerè, e da Lorenzo
Romano, siciliano. Questi dapprima diffuse le sue opinioni sponendo i
salmi e l'epistole di san Paolo, e diffondendo il _Benefizio di Cristo_,
ma poi confessò i suoi falli al cardinale Caraffa, che l'indusse a
palesar molte persone, anche di gran qualità, e far ritrattazione
pubblica nelle cattedrali di Napoli e di Caserta».

Qual fosse la dottrina del Valdes non è ben chiaro: i Sociniani
vorrebbero trarlo a sè, ma pare avesse sulla Trinità opinioni sue
particolari. Nella biblioteca degli Antitrinitarj leggesi: _De Jo.
Valdesio quid dicendum? Qui scriptis publicis suæ eruditionis specimina
nobis relinquens, scribit se de Deo ejusque Filio nihil aliud scire,
quam quod unus sit Deus altissimus Christi Pater: et unus dominus noster
Jesus Christus ejus filius, qui conceptus est in utero virginis; unus et
amborum spiritus_. Nelle lettere di Teodoro Beza troviamo che un
ministro della Chiesa francese di Embden fu imputato d'aver fatto
tradurre le _Considerazioni_ del Valdes, folte di bestemmie contro la
parola di Dio, senza le note che v'erano apposte nell'edizione di Lione.
E avendo egli risposto che non v'avea bestemmie, e che la pietà del
Valdes dovea potersi lodare non meno ad Embden che a Zurigo, a Basilea,
a Ginevra, gli fu replicato che quest'opera avea fatto assai male alla
chiesa di Napoli; che di là l'Ochino aveva attinto le fantasie che lo
perdettero; e che molte persone, le quali prima aveano lodato le
_Considerazioni_, cambiaron opinione dopochè le ebbero meditate, e il
librajo che le stampò a Lione se ne pentì e ne chiese perdono a
Calvino[518].

Fatto è che molti diedero ascolto al Valdes, ma Nicola Balbani[519], che
fu ministro della chiesa italiana a Ginevra, riferisce che, dei
convertiti alla riforma in Napoli, la più parte s'accontentavano
d'accettare il dogma della giustificazione, riprovavano alcune
superstizioni, pure non lasciavano la messa e il resto: quando
perseguitati, abjurarono: alcuni furono uccisi come relapsi, fra cui il
Caserta che aveva convertito Galeazzo Caracciolo.

Di quest'ultimo, come degli altri nominati nel presente capitolo avremo
a dire ampiamente.


NOTE

[511] _Due dialoghi: l'uno di Mercurio e Caronte, nel quale, oltre molte
cose belle, gratiose et di buona dottrina, si racconta quel che accadde
nella guerra dopo l'anno MDXXI: l'altro di Lattanzio e di uno
arcidiacono nel quale puntualmente si trattano le cose avvenute in Roma
nell'anno MDXXVII. Di spagnuolo in italiano con molta accuratezza et
tradotti et rivisti. In Vinegia con gratia et privilegio per anni
dieci_. Senza anno, e si suppongono volgarizzati dal Bruccioli. Sono 148
fogli in-8º. Su questa traduzione fu fatta la francese del 1565.

[512] Le coste d'Italia erano molestate e depredate da corsari turchi, e
talvolta da armate. Singolarmente notevole è lo sbarco che, nel 1480,
fecero ad Otranto, ove ben ottocento cittadini furono rapiti: i quali,
piuttosto che rinnegare la fede avita, subirono la morte, e meritarono
d'essere venerati come beati martiri. Sul che or ora pubblicò
un'interessante relazione il canonico Giovanni Scherillo (Napoli 1865).

[513] _The benefit of Christ's death, reprinted in fac-simile from the
italian edition of 1543, together with a french translation printed in
1551, to which is added an english version made in 1548 by E. Courtenay
earl of Devonshire, with an introduction by Churchill Babington_. Londra
1853.

Conosciamo cinque edizioni in italiano fatte a Lipsia dopo il 1835, in
tedesco ad Amburgo e a Strasburgo nel 1856; a Vevey e Lausanne nel 1856,
ed a Parigi. A Torino nel 1860 se ne formò una stereotipa. Per trovare
l'originale bastava ricorrere ala biblioteca della Minerva in Roma,
fondata dal cardinale Torrecremata, poi riccamente dotata dal cardinale
Casanatta, che fu bibliotecario della Vaticana (1620-1700). I Domenicani
di quel convento aveano la licenza di leggere qualunque libro, per veder
quali proibire; locchè fa rinvenire in quella biblioteca una quantità di
libri, divenuti rarissimi, e fino unici. Clemente XI, nel 1701, avea
pubblicato regole per il modo di conservar essi libri separatamente, e
comunicarli solo a chi n'avesse formale licenza.

[514] Su questa necessità delle buone opere è famoso il discorso di
Lutero dopo uscito dal ritiro della Warzburg. In somma negavasi
efficienza a quelle sole opere che soleano profittare al clero
cattolico. Vedasi la nota 20 del nostro Discorso XV.

[515] _Histoire des variations_.

Quanto si vacillasse da principio sul punto della giustificazione appare
dalle accuse che il padre Spina diede al Caterino e dalle difese di
questo _contra schedulam Paulo III oblatam, in qua quinquaginta errorum
Catharinus insimulabatur_; e versano la più parte su ciò e sulla
predestinazione.

Fu uno de' teologi più reputati di quell'età frà Jacobo Nachiante
fiorentino, vescovo di Chioggia (-1569), carissimo a Paolo III, a Giulio
III; sentito assai nel Concilio di Trento, e scrittore di molte opere,
di cui fanno al caso nostro la _Enarratio maximi pontificatus, maximive
sacerdotii Jesu Christi; de primatu Petri: De auctoritate Papæ et
concilj. De actis concilj approbandis per papam. De sacrosanctis
indulgentiis. De expiatorio missæ sacrificio. De natura et sacramento
evangelici matrimonii_. Eppure vi fu chi lo tacciò di errori intorno
all'essenza della libertà; del che peraltro lo difende il Tomassino,
tom. III, tratt. IV _De gratia_, e il Reginaldo _De mente Conc.
trident_., P. II, cap. 77.

[516] _Lettere vulgari di diversi nobilissimi uomini_. Vinegia 1548.

[517] Vorrebbero distinguere due Valdes fratelli; Alfonso e Giovanni: il
primo fosse autor dei dialoghi e segretario dell'imperatore sotto al
Gattinara, col quale assistette alla coronazione di Carlo V a Bologna,
poi al convegno d'Augusta, ove si proclamò la Confessione luterana.
L'altro sarebbe l'eresiarca: ma non parmi evidente la distinzione.

Dalla Società biblica furono ristampate le opere del Valdes a Oxford nel
1845.

[518] BEZA, _Ep._ IV, pag. 200, tom. III, _Opp._

[519] Vita di Galeazzo Caracciolo. Nel processo del cardinale Morene,
fatto dopo il 1555, del quale molto avremo a occuparci in appresso, sta
questa deposizione d'un testimonio, il cui nome, secondo il solito, è
taciuto, come quelli delle altre persone, implicate subordinatamente:

«Volendo io confessar ingenuamente alle VV. SS. Reverendissime (i
cardinali inquisitori) tutti gli errori miei dal principio al fine, dico
che, essendo io a Napoli circa otto anni sono, pochi giorni prima che
andassi a Basignano col N N che era a Napoli; vedendo che io aveva
cominciato a lasciar la mala via del mondo, e con desiderio di ritornar
alla buona delle buone opere, incominciò a tentarmi sopra l'articolo
della giustificazione che siamo giusti pel sangue di Gesù, e non per le
opere nostre; mostrandomi molti lochi nel Testamento Nuovo, i quali par
chiaramente il dimostrino. E però gli dissi che ciò mi piaceva. Il che
detto esso al Valdesio, con cui spesso conversava, e con N ed N che
ancor essi erano a Napoli, il Valdes rispose all'N, secondo mi riferì,
che non si fidasse di me, sapendo che io era carnalissimo, e perciò il
detto Valdes non volle che mai io andassi coll'N a lui, nè che io
intervenissi o sapessi li lor ragionamenti. Pure il N mi andava dicendo
e confermando sopra l'articolo della giustificazione.

«Ritornato a Napoli in casa del N, andai a visitare l'N, e gli portai
certi scritti del N sopra due o tre capitoli dell'epistola di san Paolo
alli Romani, dove parlava ampiamente della giustificazione, conforme al
libretto del _Benefizio di Cristo_, e domandandomi se N gli avea letti,
gli dissi non saperlo, come era vero.

«Mi domandò ancora del signor cardinale Morone, quel che esso teneva
della giustificazione: gli risposi che io non sapeva, altro se non che
il N e il N grandemente il commendavano a Trento della bella mente e
bello animo suo, di esser innamorato di Dio e non delle cose del mondo;
che mostrava essere ben capace della giustificazione per Cristo, e che
sempre pareva loro che più fosse acceso nell'amor di Dio».



DISCORSO XX.

PRIMI RIFORMATI ITALIANI. PIETÀ SOSPETTA. MICHELANGELO. IL FLAMINIO. IL
CARDINAL POLO. VITTORIA COLONNA.


Di mezzo alle gravi sventure politiche, nelle quali perdeva
l'indipendenza e ad altre naturali che venivano ad esacerbarle[520],
l'Italia si sentì minacciata d'una ancor più grave, qual era di andar
divisa negli articoli di fede.

Ci siamo chiariti come qui prima che altrove si svolgesse il seme delle
protesta religiosa, tra per meditazione di pensanti, tra per arguzia di
letterati, tra per esagerazione di pietà. E appunto i nostri riformatori
potrebbero distinguersi in tre categorie. Gli uni che, per passione
degli studj e abbagliamento de' classici, attribuivano a questi
un'autorità eguale o simile a quella della Bibbia e de' santi padri;
volendo emancipata la ragione umana, non le tolleravano neppur i vincoli
della fede, o distinguevano un ordine di verità secondo la religione,
uno secondo la filosofia; o pretendevano questa con quella conciliare
mediante l'ecclettismo che, in fatto di fede, rasenta l'incredulità.

Altri, vedendo la depravazione insinuatasi nella Chiesa di Dio, e gli
ecclesiastici tuffarsi in cure secolaresche, dal riprovare l'abuso
passavano a censurare la Chiesa, fino a reluttare all'autorità di
questa, che unica ha il diritto di riformare.

Altri, ritirandosi dal mondo contaminato, si esaltavano nella penitenza,
e pregavano che Dio la infliggesse alla Chiesa tutta. Un'ortodossia
rigorosa, capace di tanto odio quanto amore, arriva a non comprendere
ciò che per poco si scosti dalla fede. Una esagerata preoccupazione
morale, la passionata credenza alla giustizia di Dio portano a una vita
cupamente austera, scevera d'ogni dilettamento, e tra mortificazioni
poco proprie della stirpe umana, e ancor meno della italiana. Di questi
già avemmo il tipo ne' discepoli del Savonarola, che, pur disapprovando
molto nella Chiesa, arrestavansi davanti alle decisioni e all'organica
venerazione di essa. Pietro Paolo Boscoli, uno de' siffatti, per
congiura di Stato condannato a morte in Firenze, ebbe a se Luca della
Robbia, grave letterato, e gli commise di dire ad un certo loro amico,
abbandonasse le umane lettere che gonfiano il cervello, e si convertisse
tutto agli studj e alla disciplina della cristiana filosofia. NARDI.

Dagli eccessi della pietà, o dagli ardimenti del pensiero che,
interpreta sì, ma accetta il dogma esposto dalla Chiesa, corre gran
distanza alla rivolta della ragione individuale e mutevole contro la
credenza universale ed inalterabile, nè i nostri spingeano il desiderio
di riformare sino al proposito di distruggere.

A dir vero, nella libertà con cui qui si disapprovava la romana curia,
svampavano quelle stizze, che represse ingagliardiscono; e la vicinanza
faceva che, coi traviamenti delle persone non si confondesse la santità
delle istituzioni. Mentre i Tedeschi invidiavano a noi il papato come
fonte di ricchezza e di potere, i nostri s'accorgevano che esso
conservava all'Italia quell'importanza, che sotto ogni altro conto
smarriva, e che qua attirava persone, affari, denaro. Tutti i principi,
tutte le case magnatizie tenevano uno o più de' lor membri nel Sacro
Collegio o nelle prelature, i quali e godevano pingui prebende,
considerate come appannaggi de' cadetti d'illustri famiglie, ed
esercitavano autorità come legati, nunzj, protettori de' regni, elettori
del papa. Gli artisti aveano dalla devozione i principali loro esercizj,
nelle chiese, ne' conventi. I letterati si chiamavano riconoscenti ai
papi e ai cardinali, che li prendevano per secretarj o clienti. Le
classi inferiori non erano state guaste dal rinato paganesimo, nè il
raziocinio, limitato fra gli scienziati, sovvertiva le coscienze
popolari. Poi, se Lutero avrebbe potuto sopra le profonde convinzioni di
Dante, qual presa poteva avere fra i contemporanei dell'Ariosto che ride
di tutto; ride dei dogmi come e più di Lutero?

Quante famiglie si onoravano d'aver dato prelati, e papi, e fino qualche
santo alla Chiesa! stando solo alla Toscana, di nobili case usciano i
sette fondatori dell'Ordine de' Serviti: Buonfigliuolo Monaldi,
Buonagiunta Manetti, Manetto dell'Antella, Amadio Amidei, Uguccione
Uguccioni, Sostegno Sostegni, Alessio Falconieri. I Ricci gloriavansi di
santa Caterina; gli Orsini di sant'Andrea; i Falconieri delle beate
Giuliana e Carissima; i Pazzi di santa Maddalena; i conti Guidi del
beato Carlo; i Soderini della beata Giovanna; i Vespignano del beato
Giovanni; del beato Ubaldo gli Adimari; i della Rena di Certaldo della
beata Giulia; i Gambacurta di Pisa del beato Pietro, e via discorrete.
Fuori di là, i Latiozi di Forlì aveano avuto il beato Pellegrino; i
Malatesta di Pesaro la beata Michelina; i Borromeo di Padova santa
Giustina; poi seguivano tutte le famiglie papali; poi, dove la storia
venisse meno, supplivasi con tradizioni e sino con favole, quasi non
s'avesse per casata insigne quella cui mancasse un santo. E per vero,
qual più bel titolo di nobiltà che il contare fra gli antenati eroi da
paradiso? e qual empietà il disperdere e profanare que' vanti e quegli
avanzi degli avi! Il culto delle memorie non si rinega dalle nazioni, se
non quando siano rese imbecilli dall'intrigo e dalla rivoluzione.

Ciò svogliava in generale gli Italiani dal buttarsi alla riforma. E
poichè la grandezza maggiore, la potenza, la ricchezza all'Italia è
sempre venuta dall'esser sede di que' pontefici, ai quali appunto si
intimava guerra, l'interesse che vi spingeva i forestieri ne disamorava
i nostri, che aveano anzi a indispettirsi contro questo Lutero, il quale
accanniva le genti germaniche contro l'Italia, maestra e vittima de'
compatrioti di lui.

Di queste ragioni umane si ammantò la grazia che Dio concedette al paese
nostro di non unire, a tant'altre organiche divisioni, anche quella
delle credenze e del culto.

Però l'Italia rimaneva ancora conquassata dalle intraprese dei
tirannelli contro i popoli, per le quali i principati quasi da per tutto
si erano sostituiti al governo dei più. La lotta non era finita allorchè
cominciò a predicarsi la Riforma; e pel consenso che hanno fra loro le
proteste contro l'autorità, poteva credersi che i reluttanti, e
sopratutto i profughi, si alleerebbero coi dissenzienti, e cercherebbero
introdurne le idee in patria. Viepiù poteano esservi spinti i Toscani, i
cui oppressori temporali erano pontefici e cardinali; e i Romani, troppo
spesso incapricciati di far dispetto al loro sovrano. Potevano così
complicarsi la religiosa colla quistione politica; e ricondurre que'
sciagurati momenti, ove un paese rimane governato da' suoi fuorusciti.

Nulla avvenne di ciò: e per quanto noi abbiam in altro luogo[521]
esaminato partitamente i maneggi de' rifuggiti, non incontrammo ombra di
quest'alleanza.

Ma se l'amore delle novità non invase nè le plebi, nè i principi, e se
quelli che si brigavano di regolare la propria fede erano pochissimi a
fronte di coloro che ne usavano e ne viveano senza punto analizzarla,
erra chi crede che la Riforma non abbia fra le Alpi avuto ed estensione,
e conseguenze civili e politiche.

Se non che, mentre in Germania fu partito de' principi, in Francia
partito de' nobili, in Italia fu principalmente da letterati. Dopo che
la protesta fu formulata in Germania, la estesa reputazione de' dotti
italiani fece che i novatori forestieri ne sollecitassero l'adesione, e
cercassero qui divulgare le loro scritture, mentre la vivacità degli
ingegni nostrali inuzzoliva delle nuove predicazioni. Alcuni di qua si
tenevano in corrispondenza coi dotti tedeschi; e i cardinali Bembo e
Sadoleto carteggiavano coll'erudito Melantone, il principale apostolo di
Lutero, amante la pace e mediatore, ma senza iniziativa. Gli studenti
tedeschi che qui, e principalmente a Padova e a Siena[522] venivano a
raffinarsi, e i nostri che s'addottrinavano nelle Università germaniche,
servivano a trasmettere le nuove dottrine.

Fin dal 1520 Burcardo Scenk, gentiluomo alemanno, scriveva a Spalatino,
cappellano dell'elettore di Sassonia, che Lutero godeva stima a Venezia
e ne correano i libri, malgrado il divieto del patriarca; che il senato
penò a permettere vi si pubblicasse dai pulpiti la scomunica contro
l'eresiarca, e solo dopo uscito di chiesa il popolo[523]. Lutero stesso
per lettere felicitavasi che tanti di quella città avessero accolto la
parola di Dio[524], e teneva corrispondenza col dotto Giacomo Ziegler,
che fervorosamente s'adoprava a diffondervi le innovazioni. Di là erano
diretti esortamenti a Melantone perchè non tentennasse nella fede, nè
tradisse l'aspettazione degli Italiani[525].

A Venezia si ristamparono la spiegazione del _Pater_ di Lutero, anonima;
i _Luoghi comuni_ di Melantone, col titolo di _Principj della teologia
di Ippolito da Terranegra_. Perocchè i falsi nomi erano un artifizio
d'eludere le ricerche; e il Commento sui salmi di Bucer apparve sotto il
nome d'Arezio Felino, le opere di Zuinglio sotto quello di Coritio
Pogelio, o di Abideno Corallo; così Postel s'intitolava Helia Pandoches:
Giulio da Milano trasformavasi in Girolamo Savonese: anzi il Commento di
Lutero sull'epistola ai Romani e il Trattato della giustificazione si
diedero per opere del cardinale Fregoso. Questi mascheramenti eludevano
la vigilanza; altre opere giungevano entro botti di vin di Borgogna o di
Tokai, o in balle di panni e cotonerie. Francesco Calvi, di Menaggio sul
lago di Como, donde il suo cognome di Minicius, e ch'era stato anche
tipografo apostolico, teneva bottega di libri a Pavia, e ito a cercare
dal Froben di Basilea le opere di Lutero, le propalò in Lombardia.

Che fin dalle prime fossero accolte in Italia le dottrine nuove ce n'è
altro testimonio Martino Bucer, il quale tradusse dal tedesco in latino
le postille di Lutero, e stampate nel 1526 a Basilea, le dedicò ai
fratelli italiani. Ma Bucer repudiava la consustanziazione, accettata da
Lutero, sicchè alterò varj passi: di che altamente irritato, Lutero
l'assalse con ogni peggiore ingiuria, talchè quel mite ristampò a parte
i passi genuini, e v'aggiunse esse lettere di Lutero.

Il qual Lutero scriveva a Baldassare Altieri, veneziano e secretario
dell'ambasciadore d'Inghilterra, si guardasse dalle dottrine di Bucer,
di Bullinger, di Pellicano, di altri intorno alla eucaristia, come da
pestilenziale eresia; e interrogato dai nostri sopra la presenza reale,
anatemizzava Zuinglio ed Ecolampadio, «dottori contagiosi e falsi
profeti». Bucer, inclinato alla pace, dirizzò una lunga lettera «agli
Italiani fratelli che invocano Cristo con pura fede a Bologna e a
Modena, venerandi e carissimi», congratulandosi che ogni giorno
avanzassero nella cognizione di Cristo, e a sempre nuovi la
partecipassero; gli duole siano nati dissensi fra loro intorno
all'eucaristia: stiano contenti di sapere che si pascono della carne e
del sangue di Cristo, cioè in Cristo vivono più pienamente, e in sè vivo
il sentono viepiù. E qui spiega la quistione nata su tal punto,
concludendo di ricevere quei simboli con pietà, non offenderli con
curiose e profane disquisizioni, dalle quali confida guariti anche i
Tedeschi[526].

Si ha una lettera, che alcuni nostri da Bologna, nel 1533, scrissero al
signor di Planitz, ambasciadore del duca di Sassonia all'imperatore,
attestando di approvare la Chiesa protestante, e d'insistere pel
Concilio[527]. L'anno stesso stampavasi in italiano il _libro_ di Lutero
dell'emendazione e correzione dello stato cristiano.

La bolla di Clemente VII, del 15 gennajo 1530, deplora che in diverse
parti d'Italia avesse attecchito la pestifera eresia di Lutero, non solo
tra persone secolari, ma anche ecclesiastiche e tra regolari, mendicanti
o no, a segno che alcuni con discorsi, e fino con pubbliche prediche
infettavano altri. Pertanto autorizza gli inquisitori domenicani a
procedere contro costoro, ed anche Carmelitani o d'altri Ordini
mendicanti: possano istituire vicarj e comissarj abili, purchè di
trent'anni; ed essi e questi possano assolvere i ravveduti. Maggiori
privilegi concede ai Crociati, che dagli inquisitori s'erano istituiti
ne' varj luoghi per averne ajuto e consiglio.

Paolo III, con bolla del 14 gennajo 1542, confermava questi provedimenti
informato che a Bologna, a Milano e in altri luoghi v'avea secolari e
religiosi, che allegavano indulti e privilegi per tenersi immuni dalla
giurisdizione degli inquisitori, e così proporre e disputare
pubblicamente proposizioni scandalose, erronee e talvolta ereticali, con
iscandalo e pericolo.

Già abbiamo veduto come il cardinale Sadoleto si lagnasse della
defezione degli spiriti: e il cardinale Caraffa dichiarasse a Paolo III
che l'eresia luterana aveva infettato l'Italia, e sedotto non solo
persone di Stato, ma molti del clero. Più ancora significano le
baldanzose speranze di alcuni apostati.

Egidio Della Porta, d'illustre famiglia comasca e frate agostiniano in
patria, l'11 dicembre 1525 a Zuinglio «egregio soldato di Cristo, e
venerando come padre», mandava: «Da un pezzo io desiderava scriverti, ma
n'ebbi vergogna. Or mi rimprovero questa pusillanimità, pensando che
Cristo istesso senza distinzione riceve anche i più umili. Come Paolo,
dopo percosso, udì il Signore comandargli di visitare Anania e ricevere
i consigli suoi, così, se io non sarò Paolo, sii tu a me Anania, e
dirizzami colla parola nella via della salute. Vanno quattordici anni
che, per zelo, com'io credo, pio, sebbene non secondo scienza, mi
sottrassi ai parenti, e mi feci agostiniano, credendo coi Pelagiani
poter procacciarmi la salute colle opere; e tanto feci che da sette anni
attendo a evangelizzare la parola di Dio, ma con quanta ignoranza delle
buone lettere! Perocchè nulla sapevo di Cristo, nulla della fede: tutto
alle opere attribuendo, insegnavo a confidare in queste. E chi sa quali
veleni ho io sparsi nel campo del Signore! Ma il buon Dio non volle che
il suo servo perisse in perpetuo, e mi prostrò sicchè io esclamai:
Signore, che vuoi ch'io faccia? E il cuor mio s'intese dire: Va ad
Ulrico Zuinglio, e te l'insegnerà..... Ormai non tu, ma Dio per te mi
camperà dai lacci: e spero addur meco alcuni fratelli. A noi non son
note la lingua greca e l'ebraica, poco la latina: vogliamo impararle, ma
più imparar Cristo. Tarderemo la venuta nostra fino a Pasqua, e durante
la quaresima predicheremo il verbo di Dio.... Scrivendomi, dirigi ad
Andrea Mondino, di qui....»

Poi al 15 dicembre 1526, di nuovo:

«Gran piacere mi recò la tua lettera. Prudentissimamente la venuta
nostra nè disconsigli, nè comandi. Non sai che io son povero
all'estremo. Potrai pregare nosco Iddio che al più presto si faccia la
volontà sua. Temo non abbiasi ad attendere a lungo il Testamento che
stiamo traducendo. Da mille faccende siamo distratti; ora spediti alla
questua, ora tenuti alle ore canoniche, or qua, or là pei paesi, per le
piazze, consumiamo gran tempo in faccende da nulla. Come poi si potrà
stampare non scorretto se non vi assista qualche italiano? Ma lasciamo
ciò. Il Signore suscitò in me lo spirito suo, che per tuo mezzo vuol
perfezionare. Milano e il suo territorio, per la guerra recente è
talmente spoverito, che molti benestanti giaciono in miseria: oltre
gl'innumerevoli che già prima erano mendici. Sono senza fine le
sciagurate che per la miseria si prostituiscono. Insomma la mano di Dio
s'è talmente gravata sul popolo, che gli uomini inveleniti credono
lecito l'affiggersi qualsiasi ingiuria.

«Queste sciagure Iddio curerà per tuo mezzo. Scrivi al duca di Milano
una lettera d'esortazione e, se non l'ascolti, di minaccia, perchè a'
suoi sudditi proveda il pascolo dell'anima e del corpo, togliendo il
denaro ai pingui frati, e distribuendolo fra il popolo; lasci a ognuno
predicare la pura parola di Dio, il che torrà, se rimanga alcuno
scrupolo nell'azione predetta. Che se egli diffidi, guardi ai Tedeschi
che fan altrettanto con avidità. Aggiungi che più facilmente fiaccherà
la possa dell'Anticristo, il quale confida nelle sue ricchezze, e se ne
vale a perdizione di molti. Varj fratelli, non isprovisti di pietà e
d'erudizione, mi incalzano acciocchè io te ne scongiuri per Dio. E che
scriva ai capi del nostro Ordine o setta, colle ragioni che più forti
saprai svellendoli da quella faragine di regole, ma bada di non
tacciarli d'ignoranza, perocchè sono vanitosissimi, e se
n'impennerebbero.... Ma che sto io ad insegnarti? La terza domenica dopo
Pasqua si raccoglieranno a capitolo per esaminare e deformare, volli
dire riformare. Tal lettera dirigi a noi. Con qualche esempio nelle
sante carte fa lor veduto com'è volere di Dio che si predichi la parola
sua con semplicità e senza fronzoli, e che peccano contro di lui quelli
che spacciano le proprie opinioni come responsi del cielo»[528].

Con apostolato più fiero la negazione era stata sparsa dai guerrieri,
qui calati a straziarci. Carlo V, mentre professavasi difensore della
Chiesa, aveva menata in giro una marmaglia di soldati, spesso cerniti
da' paesi più infetti della Germania, e che diffondeano, se non le
dottrine nuove, lo sprezzo delle vecchie, piacendosi di fare affronti
agli ecclesiastici, di gravarli di castighi o d'ingiurie. Giorgio
Frundsberg, inventore de' Lanzichinecchi, portava allato una soga d'oro,
colla quale vantavasi di volere strozzare in Clemente VII l'ultimo dei
papi, ed una d'argento pei cardinali. I papi stessi, come tutti gli
altri principi, chiamavano nelle nostre guerre soldati svizzeri e
germanici, che divenivano apostoli dell'eresia o colla parola o
coll'esempio.

Ha ben riflesso Bossuet che, oltre coloro che chiedono la Riforma da
rivoluzionarj, v'ha molti che il fanno senza asprezza nè violenza;
deplorano i mali, ma con rispetto propongono i rimedj, nè li vorrebbero
mai ottenere colla scissione, la quale considerano come il pessimo de'
mali; la dilazione sopportano senza dispetto, riflettendo che possono
sempre cominciare l'emenda in se stessi: sanno che Cristo insegnò ad
onorare la cattedra di Mosè, anche quando vi siedono peccatori; e la
riforma vogliono fatta secondo la divina istituzione della Chiesa, per
ripristinarla sulle sue basi, non per crollarle.

Qualche dotto prendea passione alla Bibbia come avrebbe fatto ad un
manuscritto recentemente scoperto. Coloro che aveano censurato gli abusi
della Chiesa, compiacevansi d'udirli ripetere dai Protestanti, e di
poter esclamare, «Anch'io l'avea detto e prima di loro; e se mi si fosse
dato ascolto, se ne sarebbe tolta l'occasione». Altri vagheggiava fama
di franco pensatore coll'assentire alla disapprovazione delle cose
antiche, a quegli epigrammi, o raziocinj poco migliori d'epigrammi, che
vengono facilissimi a chi è mal informato della soggetta materia.
Inoltre era divenuto moda l'asserire qualche proposizione condannabile,
e favorire qualche eretico, per l'irrefrenabile spirito di
ricalcitramento contro l'autorità. D'altro lato il disgusto causato
dalla politica romana infondeva desiderio di ravvicinarsi a Dio; e parea
che i primi riformatori tirassero a ciò o col misticismo che avvicina
immediatamente a Dio, o col togliere il clero di mezzo fra l'uomo e il
creatore; e i discorsi pieni di pensieri pii e di parole sante, e i
lamenti sulla depravazione, espressi con forza e libertà, mascheravano
di zelo lo spirito di rivolta. Massime chi era contemplativo più che
indagatore dovea restar commosso dai dubbj, allora gettati
nell'intelligenza e nella fede, donde il turbamento venutone alle
coscienze più pure.

Ma i delicati, se erano offesi dall'antica superstizione, restavano
scandolezzati dalla audacia presente; riprovavano il culto delle
immagini, l'invocazione dei santi, i segni materiali di credenza, come
la croce, i rosarj, gli scapolari: offendeansi sopratutto delle
ambizioni papali e dell'ingordigia curiale: pure sentivano il bisogno di
appoggiare la libertà all'autorità, per non rimanere perplessi sulle
grandi quistioni della presenza reale, della predestinazione, della
soddisfazione di Cristo. Dal dissipamento e dalla corruttela ritornavasi
quindi alla devozione, fino ad associarla col delitto, e per lo più
finivasi piamente una vita menata nelle colpe. Il duca Valentino, tipo
della scelleraggine meditata, caricavasi di reliquie; e Vitellozzo, che
era in guerra col papa e che cadeva vittima de' colui tradimenti,
supplicava in morte di ottenergliene l'assoluzione. Carlo VIII veniva
con molte reliquie alla spedizione d'Italia. Alessandro VI gloriavasi
d'avere acquistato la lancia con cui fu trafitto il Redentore in croce;
portava in collo una bulla contenente le sacre specie: alla sua Lucrezia
raccomandava la devozione a Maria. L'astuto Lodovico il Moro, il Cavour
di que' tempi, moltiplicava chiese, e la notte prima di fuggire da
Milano, vegliò nella Madonna delle Grazie sul sepolcro di sua moglie. Il
Machiavelli, un degli empj se ce n'ebbe, ha discorsi sacri, e una
predica sul _De Profundis_, ove esorta a «imitare san Francesco e san
Girolamo, i quali, per reprimere la carne e torle facoltà a sforzarli
alle inique tentazioni, l'uno si rivoltava su per i pruni, l'altro con
un sasso il petto si lacerava... Ma noi siamo ingannati dalla libidine,
incôlti negli errori, inviluppati nei lacci del peccato, e nelle mani
del diavolo ci troviamo: per ciò conviene, ad uscirne, ricorrere alla
penitenza, e gridare con David, _Miserere mei, Deus_, e con san Pietro
piangere amaramente»[529].

Non citerò l'infame Aretino, che colle più laide composizioni ne
alternava di sacre, vendereccio nelle une come nelle altre; ma e
l'Ariosto e i Cellini e tutti gli artisti sentivano il bisogno di
raccogliersi talvolta a Dio, e rinnovare quelle pratiche, in cui gli
aveva nodriti la loro madre. Giorgio Vasari più d'una volta risolse di
ritirarsi in solitudine devota, «e così offenderò meno Iddio, il
prossimo e me stesso, dove nella contemplazione di Dio, leggendo si
passerà il tempo senza peccato, e senza offendere il prossimo nella
maldicenza»; e ridottosi fra i monaci di Camaldoli, elevandosi a un
misticismo cui ben poco mostrasi propenso nelle sue pitture, scriveva a
Giovanni Pollastra:

«Siate voi benedetto da Dio mille volte, poichè sono per mezzo vostro
condotto all'ermo di Camaldoli, dove non potevo, per cognoscer me
stesso, capitare in luogo nessuno migliore; perchè, oltre che passo il
tempo con util mio in compagnia di questi santi religiosi, i quali hanno
in due giorni fatto un giovamento alla natura mia sì buono e sano, che
già comincio a conoscere la mia folle pazzia dove ella ciecamente mi
menava, scorgo qui in questo altissimo giogo dell'Alpe, fra questi
dritti abeti, la perfezione che si cava dalla quiete. Così come ogni
anno fanno essi intorno a loro un palco di rami a croce, andando dritti
al cielo; così questi romiti santi imitandoli, ed insieme chi dimora
qui, lassando la terra vana, con il fervore dello spirito elevato a Dio
alzandosi per la perfezione, del continuo se gli avvicina più; e così
come qui non curano le tentazioni nemiche e le vanità mondane, ancorchè
il crollare de' venti e la tempesta li batta e percuota del continuo,
nondimeno ridonsi di noi, poichè nel rasserenare dell'aria si fan più
dritti, più belli, più duri e più perfetti che fussero mai, che
certamente si conosce che 'l Cielo dona loro la costanza e la fede; così
a questi animi che in tutto servono a lui. Ho visto e parlato sino a ora
a cinque vecchi, di anni ottanta l'uno in circa, fortificati di
perfezione nel Signore, che m'è parso sentir parlare cinque angioli di
paradiso; e sono stupito a vederli di quell'età decrepita, la notte per
questi ghiacci levarsi come i giovani, e partirsi dalle lor celle,
sparse lontano cencinquanta passi per l'ermo, venire alla chiesa ai
mattutini ed a tutte l'ore diurne, con un'allegrezza e giocondità come
se andassero a nozze. Quivi il silenzio sta con quella muta loquela sua,
che uno ardisce appena sospirare, nè le foglie degli abeti ardiscono di
ragionar co' venti; e le acque, che vanno per certe docce di legno per
tutto l'ermo, portano dall'una all'altra cella de' romiti acque,
camminando sempre chiarissime, con un rispetto maraviglioso».

Viepiù sentiva questi bisogni dello spirito il Bonarroti, «Michel più
che mortale angel divino»: grand'intelligenza e gran cuore, che
idealizza anzichè esprimere, e che come artista figura l'armonia de'
contrasti. Era venuto su come gli altri in quel secolo fra il rinnovato
paganesimo: e ne' colloqui col magnifico Lorenzo nel giardino di San
Marco, o nel palazzo di via Larga, o nel suburbio di Careggi, s'imbevve
di quelle idee gentilesche, per le quali pareva assai se nell'Olimpo
faceasi un posto ospitale anche al Cristo. Ma per quel vigor suo che nol
lasciava servile a concetti altrui, s'addiede anche alla Bibbia, ed «ha
con grande studio ed attenzione lette le sante Scritture sì del
Testamento Vecchio come del nuovo, e chi sopra ciò s'è affaticato»,
scriveva il Condivi, lui vivo. Aveva ascoltato frà Girolamo, e ne trasse
l'amor della religione associato a quel della patria: ma come si volle
denigrare il suo patriotismo, così la sua fede. Il Grimm, in una vita
che recentemente ne scrisse,[530] volle porre anche questo tra coloro
che pensavano co' Protestanti; e che singolarmente non accettasse la
necessità de' sacramenti, nè il purgatorio, giacchè, deplorando la morte
di Giovansimone suo fratello, dice che poco importa se non abbia prima
ricevuto i sacramenti.

La frase è proprio di Michelangelo, ma se connettasi alle precedenti
significa tutt'altro. Perocchè scrive: «Lionardo; io ho, per l'ultima
tua, la morte di Giovansimone. Ne ho avuto grandissima passione, perchè
speravo, benchè vecchio sia, vederlo innanzi che morisse, e innanzi che
morissi io. È piaciuto così a Dio: pazienza! Avrei caro intendere
particolarmente che morte ha fatta; e se è morto confesso e comunicato
con tutte le cose ordinate dalla Chiesa: perchè, quando l'abbia avute, e
che io il sappi, n'avrò manco passione».

Che cosa gli fosse risposto appare da questa sua replica: «Mi scrivi
che, sebbene non ha avuto tutte le cose ordinate dalla Chiesa, pure ha
avuto buona contrizione: e questa per la salute sua basta, se così è».

Vedi, lettore, come lo staccare una frase ne sovverta il senso. E
Giorgio Vasari, suo veneratore, e che non facea legendarj, racconta che
con esso girava di chiesa in chiesa per guadagnare il giubileo, pur
tenendo ragionamenti dell'arte. E gli disse una volta: «Se queste
fatiche che io duro non mi giovano all'anima, io perdo 'l tempo e
l'opera». E altrove: «Non nasceva pensiero in lui che non vi fosse
scolpita la morte.... per il che si vedeva che andava ritirando verso
Dio.... Volentieri in questa sua vecchiezza si adoperava alle cose
sacre, che tornassino in onore di Dio..... Sovveniva molti poveri e
maritava secretamente buon numero di fanciulle».

Malatosi suo fratello, scrive al padre: «Non vi date passione, perchè
Dio non ci ha creati per abbandonarci». E quando stava per gittare in
Bologna la statua di Giulio II, «Pregate Dio che io abbia onore qua, e
che io contenti il papa; e ancora pregate Dio per lui». E riuscitovi:
«Io stimo le orazioni di qualche persona m'abbiano ajutato, e tenuto
sano, perchè era contro l'opinione di tutta Bologna che io la conducessi
mai»[531].

Ben è vero che, irato ai tempi e a Giulio II, uscì talvolta in rabbuffi,
fieri come ogni opera sua, e cantò:

    Qua si fa elmi di calici e spade
      E 'l sangue d' Cristo si vende a giumelle,
      E croce e spine son lance e rotelle
      E pur a Cristo pazïenza cade.
    Ma non arrivi più 'n queste contrade
      Chè n'andria 'l sangue suo fin alle stelle,
      Poscia ch'a Roma gli vendon la pelle
      Ed eci d'ogni ben chiuse le strade

Ma la sua fede non venne mai meno, anzi considerava beata la gente
rustica, che onora e ama e teme e prega Dio pel meglio de' suoi lavori,
de' suoi armenti, de' suoi campi; e non agitata dal dubbio, dal forse,
dal come, dal tristo perchè, adora e prega con fede semplice[532]. E
nelle sue rime molte suonano di preghiera e di pentimento; ricorre
spesso alla misericordia di Dio, e gli dice:

    Non mirin con giustizia i tuoi santi occhi
      Il mio passato, e 'l gastigato orecchio
      Non tenda a quello il tuo braccio severo:
    Tuo sangue sol mie colpe lavi e tocchi,
      E più abbondi quant'io son più vecchio
      Di pronta aita e di perdono intero

Fra le sue carte, non di suo pugno ma su foglio ov'è altro scritto di
lui, vedemmo questa preghiera:

«O Padre altissimo, che per tua benignità mi facesti cristiano solo per
darmi il regno tuo; di nulla l'anima mia creasti e incarcerasti quella
nel misero corpo mio; donami grazia che, tutto quanto il tempo ch'io
starò in questa carcere inimica dell'anima mia, nella quale tu solo mi
tieni, che io ti laudi: perchè, laudandoti tu mi darai grazia di
beneficare i prossimi miei, e di far bene in particolare agli inimici
miei, e quelli sempre a te raccomandare. Concedimi grazia ancora,
santissimo Dio, che avendo al partire passione corporale, io conosca che
quelle non offendono l'anima mia; rammentandomi del tuo Figliuolo
santissimo, che per l'umana salute morì tanto vituperosamente; e per
questo mi consolerò e sempre lauderò il tuo santo nome, amen».

Oh va, e fammene un protestante!

Ne' suoi versi, per una mescolanza troppo solita a' nostri, ve n'ha
molti d'amore: un amore alla petrarchesca, nel quale, vagheggiando il
bello effettivo, pur si vuole elevarlo con idee platoniche. E tale fu
quello ch'egli portò alla Vittoria Colonna; non scevero di passione
quant'altri presunse, elevato certamente, e sublimato poi dalla morte.
Da quella mirabil donna egli chiedeva consigli e sostegno, e dicevale:

    Ora in sul destro ora in sul manco piede
      Variando, cerco della mia salute;
      Fra 'l vizio e la virtute
      Il cor confuso mi travaglia e stanca;
      Come chi 'l ciel non vede
      Che per ogni sentier si perde e manca.
      Porgo la carta bianca
      A' vostri sacri inchiostri,
      Ch'amor mi sganni e pietà 'l ver ne scriva,
      Che l'alma da sè franca
      Non pieghi agli error nostri
      Mio breve resto, e che men cieco viva
      Chieggo a voi, alta e diva
      Donna, saper se 'n ciel men grado tiene
      L'umil peccato che 'l soperchio bene.

Poi quand'ella si spense, egli scriveva con sublime sconcordanza: «Morte
mi tolse uno grande amico»: e ne cantò a lungo, e diceva:

    Il mio rifugio e 'l mio ultimo scampo
    Qual più sicuro, e che non sia men forte
    Che 'l pianger e 'l PREGAR?

Baldanzoso com'era, e smaniato del nuovo, repente sentivasi talvolta
preso da scoraggiamento, e non leggeva più che la Bibbia e Dante, non
tratteggiava che soggetti sacri, e rifuggiva sotto l'ale della
misericordia eterna:

    Nè pinger nè scolpir fia più che queti
    L'anima, vôlta a quell'amor divino
    Ch'aperse a prender noi in croce le braccia.

Il Panizzi, nell'edizione inglese dell'_Orlando Innamorato_, ripubblicò
un opuscolo del vescovo apostata Vergerio[533] dov'è asserito che il
Berni a quel burlesco poema intarsiasse dottrine anticattoliche, le
quali poi furono espunte dopo morto l'autore, e allega diciotto stanze,
prologo al XX canto, di tenore riottoso: donde l'editore conchiude che
tali opinioni fossero comuni nella classe educata d'Italia, quanto oggi
le liberali. Prova incerta, ma non nuova; che già altri vollero noverare
tra i riformati il Manzolli pel _Zodiacus vitæ_, astiosissimo contro il
clero, l'Alamanni, il Trissino, altri ed altri, mal comparando chi
riprova gli abusi con chi proclama la fondamentale protesta della
ragione individuale, presa per unico interprete del codice sacro.

I Riformati ammetteano i dogmi primarj del cristianesimo, pretendeano
anzi richiamare a quelli la Chiesa traviata; ne negavano alcuni.
Pertanto è facilissimo, in detti e scritti di ottimi cattolici, trovare
espressioni consone a quelle de' Protestanti, o lo scopo di richiamare
le opinioni vulgari alle definizioni vere e alle interpretazioni
autentiche della Chiesa. Chi non ne esamini il complesso, li fa
assenzienti agli eretici. Ma dessero anche in fallo, era colpa
dell'intelletto più che della volontà; l'errore sincero non costituisce
eresia; e se anche ne dà le apparenze, vuolsi distinguerlo dalla
ribellione volontaria e meditata: e più erano scusabili quando il
Concilio di Trento non aveva ancora nè sì ben definiti, nè sì
popolarmente espressi i canoni della credenza.

La dottrina cattolica abbraccia e mette in armonia il divino elemento e
l'umano, il terrestre e il soprannaturale, ossia il principio mistico e
il principio intellettuale. Quell'armonia forma la meraviglia e la
venerazione de' contemplanti. Può anche succedervi squilibrio, nè per
questo uscire dal cattolicismo se non s'arrivi al disprezzo
dell'autorità ecclesiastica, e a rompere i vincoli della fraterna
carità.

Non è consueto nel nostro paese narrare la vita dello spirito, nè
dipingere i caratteri, come fecero principalmente i grandi secentisti di
Francia; onde non possiamo assistere alle lotte interne di quelle anime
elette, e a quelle ambasce di spirito, che non si comprendono più
nell'inintelligente età del dubbio. Ma oggi stesso, fra un popolo serio
perchè libero di realtà non solo di istituti, chi volesse vedere come le
quistioni religiose agitino profondamente i più gravi pensatori e i
cuori più sensitivi, legga in Neumann, in Pusey, in Manning gli spasimi
e le emozioni provate allorchè, nel 1851, si discuteva sulla necessità
del battesimo, sulla autenticità e divina ispirazione delle Scritture,
la colpa originale, le profezie, l'incarnazione dello Spirito Santo. Ed
era l'età del vapore e dei telegrafi elettrici.

Qualcosa di siffatto accadeva in Italia nel secolo XVI; laonde furono
confusi coi Riformati persone di gran pietà, che colla stessa austerità
loro, col congregarsi a ragionare di Dio, coll'occuparsi d'indagini
teologiche, protestavano contro l'indifferenza dei più. Molti della
predicazione luterana non vedeano che il lato morale; una pietà forse
inconsiderata, ma che vagheggiava la purezza perduta nella Chiesa; un
desiderio di diminuire importanza alle cerimonie esteriori e alle opere
suprarogatorie, d'altrettanto rialzando la pietà interiore; un deplorare
le persecuzioni che si faceano all'Ochino o a Pietro Martire, mentre si
tolleravano l'Aretino e il Franco; una profonda fiducia nei meriti di
Gesù Cristo, senza avvedersi che essa perdea lode col repudiare
l'autorità e i sacramenti da Lui istituiti: un gridare all'emendazione
del clero, al depuramento del culto, pur senza voler menomamente
distruggere i papi o i riti. Oltrechè ciò nulla ha a fare colla
quistione dogmatica dell'unità, quanti non sono in ogni età coloro che
adottano un principio, e non ne tirano le conseguenze?[534]

Di tali intenzioni noi crediamo Marcantonio Flaminio. Questo veronese,
buon medico ed elegante latinista, ridusse i salmi in odi latine, che
furono messe all'indice da Paolo IV: e stampò _In psalmis brevis
expositio_ (Aldo, 1515) dedicata a Paolo III, dicendo essere stato
indotto a farla dal vescovo Giberti, e a pubblicarla dal cardinale Polo.
Girolamo Muzio, annusatore di eresie, l'appuntò perchè, interpretando un
verso del salmo 45, dice che «dobbiamo cessare da tutte le opere nostre,
e la vera giustizia per nostra fatica non si può acquistare»; e altrove
ammonisce «che cautamente leggano gli scritti del Flaminio, anzi che non
li leggano quelli che al cristianesimo s'appartengono, perciocchè
maggior danno potranno conseguire dalle sue sentenze che diletto dalle
sue parole»[535]. I Protestanti danno per segno di sua apostasia
l'ardore suo per Cristo e per l'eucaristia, il non volgersi mai nelle
odi a Maria o ai santi, nè mentovare il purgatorio; il raccontare egli
stesso come, essendo malato, risanò per preghiere dirette dal Caraffa a
Dio, non a verun santo[536]. Vedasi se meritino peso tali presunzioni,
come la pietà che spira dalle sue lettere[537]; la conoscenza che mostra
delle Scritture è un'altra pruova che queste non erano inusate neppure
fra i Cattolici. Nel 1535 scriveva a Pietro Pamfilio d'aver detto addio
ad ogni studio, eccetto quello delle divine cose, e che proponeasi
dedicare il resto di sua vita a meditare la fede cristiana.

Nel _Giudizio sopra le lettere di tredici uomini illustri pubblicate da
M. Dionigi Atanagi_ (Venezia 1554), opera forse del sunnominato
Vergerio, si legge che il Flaminio «solo tra questi ebbe qualche gusto e
cognizione di Cristo e della verità, ma non in tutti gli articoli,
perocchè Dio non scopre e non rivela tutti i suoi tesori ad un tratto,
ma a parte a parte. Certa cosa è che, se il Flaminio intese la
giustificazione per la sola fede in Cristo e la certezza della salute
nostra, egli o non intese la materia dell'eucaristia, o non ebbe
ardimento di dirla come sta». E riferite le discrepanze, soggiunge:
«Questo guadagno almeno facciam noi di quella lettera flaminiana, che,
avendo esso dimostrato dissentire da noi in questi punti, e non detto di
dissentire ove noi neghiamo esservi la transustanziazione, e quella
oblazione doversi applicare per vivi e per morti, e dove anche neghiamo
la cena doversi dividere, il che fanno i papisti quando ai laici non
danno la spezie del vino, in questi tre punti almeno esso Flaminio ha
dimostrato di tenere che noi abbiamo ragione; e credo io che, se egli
fosse vivuto, sarebbe eziandio in tutti gli altri corso più avanti, ed
entrato nelle opinioni nostre; e credo di più che, chi avesse potuto
vedere il secreto del suo cuore, avrebbe veduto che già v'era entrato».
Induzione assurda, eppure abituale.

Ci tornerà occasione di parlarne nel processo del cardinale Moroni, e
qui basti indicare come fosse reputato autore del libro che analizzammo
sul _Benefizio di Cristo_, o (come dice il padre Laderchi, storico della
Chiesa più abbondante di pietà che di critica) d'un'apologia d'esso
_Benefizio_. Questo il Laderchi crede opera del Valdes, senza darne
pruove, ma è abbastanza noto che e il libro e le apologie ascrivevansi a
persone diverse, onde crescervi credito. Del resto il Flaminio
conservossi devoto alla messa; credeva la presenza reale; a monsignor
Carnesecchi scriveva da Trento, ricordandogli come «alli mesi passati
parlassero alcune volte insieme del santissimo sacramento dell'altare e
dell'uso della messa»: e si lagna di quelli che «stanno ostinatissimi
nelle loro immaginazioni, acciecati dalla superbia che si nasconde
facilmente sotto il falso zelo della religione, ove si mettono in
pericolo di perdere l'onore, la roba e la vita, perchè non si possono
immaginare di essere ingannati dalla carne e dal diavolo; e così ognora
più s'indurano nelle falsità, e diventano acerbissimi censori del
prossimo, condannando d'impietà l'universale senso e perpetuo uso della
Chiesa, e chiunque non si fa servo delle loro opinioni. Da questa
arroganza e da questi amari zeli li liberi Nostro Signore Iddio, e doni
loro carità e dolcezza di spirito, e tanta umiltà che s'astenghino dal
giudicare temerariamente i dogmi e usanze della Chiesa, condannando sì
rigidamente tutti quelli che con vera umiltà di cuore la riveriscono e
seguitano, e cominciano a credere che, molti di coloro che da essi sono
condannati e tenuti idolatri ed empj, perchè non credono quello che
credono essi, sono veramente religiosi, pii ed a Dio cari; e per
contrario nimico ed odiato da Dio chiunque seguita questa loro superba
presunzione. E noi, signor mio, se non vogliamo far naufragio in questi
pericolosissimi scogli, umiliamoci al cospetto di Dio, non ci lasciando
indurre da ragione alcuna, per verisimile ch'ella ne paresse, a
separarci dall'unione della Chiesa cattolica, dicendo con David: _Vias
tuas, Domine, demonstra mihi, et semitas tuas edoce me, quia tu es Deus
salvator meus_. E senza dubbio saremo esauditi, _nam bonus et rectus
Dominus, propterea diriget mansuetos in judicio, docebit mites vias
tuas_. Laddove, volendo giudicare le cose divine col discorso umano,
saremo abbandonati da Dio, e in questo secolo contenzioso talmente ci
accosteremo ad una delle parti ed odieremo l'altra, che perderemo del
tutto il giudizio e la carità, e dimanderemo la luce tenebre, e le
tenebre luce; o persuadendoci d'essere ricchi e beati, saremo poveri,
miseri e miserabili per non saper separare _pretiosum a vili_; la qual
scienza senza lo spirito di Cristo non si può imparare; al qual sia
gloria in sempiterno, amen».

V'è un prezioso libretto, capolavoro della mistica, come la Somma di san
Tommaso è il capolavoro della scolastica; produzione di quel medioevo
tanto vituperato, e di un monaco ignoto; libro ch'è il più letto dopo la
Bibbia, sicchè fu detto sarebbe il primo del mondo se questa non
esistesse; stampato almeno milleottocento volte, tradotto in ogni
lingua; e che, fatto pei solitarj, è tuttavia il conforto ed il sostegno
anche di persone tuffate negli affari. Parlo dell'_Imitazione di
Cristo_, eloquio d'un'anima che, senza intermedio di profeti o dottori,
eppure adoprando il loro linguaggio, s'intertiene con Dio e col
Mediatore. Non dunque dispute, non sottilità scolastiche, non decisioni
particolari, ma impeti di quel mistico amore che assorbisce la fede,
aspirazioni alla solitudine per sottrarsi all'infelicità dei tempi, e
ascoltare Dio che parla: affetto della croce, come salute, vita, schermo
dai nemici, come infusione di superna dolcezza, vigore alla mente,
gaudio allo spirito. «Nella croce sta tutto, nè alla vita e all'interna
pace v'è altra via che della croce; nessun'altra ve n'ha più alta di
sopra, o più sicura di sotto. La croce è sempre apparecchiata, e in ogni
luogo t'aspetta, nè la puoi cansare, dovunque tu corra. Se una croce tu
getti via, un'altra ne troverai forse più grave».

Così adduce a imitare Cristo, con un linguaggio tanto semplice, tanto
intimo, che i Riformati dovettero cercare di metterlo fra i loro
precursori, se non voleano confessare che nella Chiesa viveva sempre il
vero spirito evangelico. Ma quell'aureo libricino invoca i santi; e
l'iniziazione progressiva conduce per mezzo dell'astinenza,
dell'ascetismo, della comunione finchè si giunga all'unione; talchè nè
d'un punto scatta dalle ritualità della Chiesa nostra, la quale col
venerarlo mostrava abbastanza che tale era la costante sua pratica[538].

Il Flaminio lo esalta grandemente, e «non saprei proporvi libro alcuno
(non parlo della scrittura santa) che fosse più utile di quel libretto
_De imitatione Christi_, volendo voi leggere non per curiosità, nè per
saper ragionare e disputare delle cose cristiane, ma per edificare
l'anima vostra, e attendere alla pratica del vivere cristiano; nella
quale consiste tutta la somma, come l'uomo ha accettato la grazia del
vangelo, cioè la giustificazione per la fede. È ben vero che una cosa
desidero in detto libro, cioè che non approvo la via del timore, della
quale egli spesso si serve. Non già che io biasimi ogni sorta di timore,
ma biasimo il timore penale, il quale è segno d'infedeltà o di fede
debolissima; perocchè, se io credo daddovvero che Cristo abbia
soddisfatto per tutti i miei peccati, passati, presenti e futuri, non è
possibile che io tema di essere condannato nel giudizio di Dio; massime
se io credo che la giustizia e la santità di Cristo sia divenuta mia per
la fede, come debbo credere se voglio essere vero cristiano»[539].

Anche lo storico cardinale Sforza Pallavicino appunta il Flaminio di
«covare nella mente tali dottrine, per non dover combattere le quali
ricusò d'andare secretario al concilio di Trento»; e soggiunge che, in
fine degli anni suoi, la salutevole conversazione del cardinale Polo il
facesse ravvedere, e scrivere e morire cattolicamente. In fatto il
cardinale Polo invitò il Flaminio a venire da lui a Viterbo, e quando fu
eletto uno dei Legati al concilio di Trento, ve lo condusse. Il Flaminio
morì poi di cinquantadue anni, e Pier Vettori ne dava notizia ad esso
cardinale da Firenze il 13 aprile 1550, consolandosi che «santamente e
piamente fosse uscito di vita con tal costanza di mente e alacrità, qual
poteva aspettarsi da uomo che, come lui, era vissuto imbevuto della vera
religione». Il Polo curò fosse sepolto nella chiesa degli Inglesi.

Ma appunto nessuno più volentieri gli eterodossi ascriverebbero alla
loro coorte che il cardinale Reginaldo Polo (Pool). Nasceva in
Inghilterra dai duchi di Suffolck, ed uscito dal regno per non aver
voluto approvare il divorzio di Enrico VIII, scrisse poi contro di
questo a difesa dell'unità della Chiesa; laonde quel re dispotico fe
decapitare il fratello di esso, il nipote, la madre settuagenaria,
mentre gli altri parenti si salvarono colla fuga: bandì cinquantamila
scudi a chi uccidesse il cardinale, e infatto lo tentarono due inglesi e
tre italiani, fra i quali un bolognese confessò essersi trattenuto lunga
stagione a Trento con tale proposito.

Per lunga dimora e per tante relazioni e per la lingua che adoperò, il
Polo è degno d'essere contato fra' nostri, e può considerarsi
rappresentante dello introdottosi spirito di pietà, che ai Riformati
dovea parere una protesta contro la rilassatezza di cui imputavano i
Cattolici. Dal cardinale Cortese era stato invaghito degli studj
biblici; e mentre stette Legato pontificio a Liegi, vi s'intratteneva
nel modo ch'è descritto dal Priuli in lettera al Beccatelli del 28
giugno 1537[540]:

«La mattina ognuno si sta nella sua camera fino a un'ora e mezza innanzi
pranzo, nella qual ora convenimo in una chiesuola domestica, ed insieme
cantiamo le ore more theatinico senza canto. Monsignore di Verona è il
nostro maestro di cappella. Dette le ore, si ode messa, e poco dappoi si
disna: a parte della mensa si legge san Bernardo: poi si ragiona.
Postquam vero exempta fames epulis est, il vescovo legge ordinariamente
un capitolo di Eusebio _De Demonstratione evangelica_: si continua, e
ripiglia dappoi qualche onesto e grato ragionamento che dura fino a una
o doi ore dopo mezzo giorno; ed allora ognuno ritorna alla sua camera,
ove si sta fino a un'ora e mezza innanzi cena; a quell'ora cantiamo
vespero e compieta; e dappoi il reverendissimo legato si ha tandem
lasciato exorare di leggerci le epistole di san Paolo alternis diebus;
ed ha incominciato dalla prima a Timoteo, con somma soddisfazione del
vescovo e di tutti noi. Oh quanto desidero e voi ed il nostro
dabbenissimo vescovo di Fano a questa santissima lezione da questo
santissimo uomo con tanta riverenza ed umiltà, e con tanto giudizio
letta, che io non saprei certo desiderar meglio, nè credo che l'amor
m'inganni questa volta. Spero dalle miche ch'io ne raccoglierò potervene
dar buon saggio, quando al signor Dio piacerà che ci troviamo insieme.
Alquanto dopo la lezione si cena: si va per una o doi ore in barca per
il fiume, o in l'orto passeggiando, e ragionando sempre di cose
convenienti a questi signori; e spesso spesso, anzi cotidianamente
desideriamo, e chiamiamo il reverendissimo vostro, e la sua compagnia a
questo nostro onesto, e bel tempo ringraziando il Signor Dio di tanto
bene, che 'l si degna di concederne. O quante volte mi replica il signor
legato: _Certe deus nobis hæc otia fecit!_ O quanto gli siamo obbligati
etiam hoc nomine! ed aggiugne sempre: Oh perchè non è monsignor
Contarini con noi?»

E il Polo al Contarini da Carpentras scrive della cara compagnia del
Priuli e d'altri: «Noi per nostra consolazione mutua avemo cominciato a
conferire insieme li salmi di quel grande profeta e re, il quale Dio
aveva eletto secundum cor suum, e oggidì eramo arrivati a quel salmo che
comincia, Salvum me fac, Domine, quoniam defecit sanctus».

inoltre il cardinale Polo ringraziava esso Contarini a nome di tutta la
sua compagnia «per il gran dono di carità il quale risplende più in quel
santo negozio di Modena», alludendo certo al catechismo che il cardinal
Contarini avea steso per gli erranti di Modena, come avremo a divisare.
E infatto il Polo era tacciato di poco rigore verso gli eretici, ch'egli
considerava come infermi, i quali bisognasse risanare.

Dell'indole stessa erano le unioni che il Polo teneva mentre, come
Legato del patrimonio di san Pietro, sedeva a Viterbo; unioni che sono
presentate come convegno di miscredenti. Da varie lettere che ce le
dipingono leviamo qualche saggio, e prima da una del Polo al Contarini
il 9 dicembre 1541: «Il resto del giorno passo con questa santa ed utile
compagnia del signor Carnesecchi e monsignor Marcantonio Flaminio
nostro. Utile io la chiamo, perchè la sera monsignor Flaminio dà pasto a
me e alla miglior parte della famiglia de illo cibo qui non perit, in
tal maniera che io non so quando io abbia sentito maggior consolazione
nè maggiore edificazione: tanto che, a compimento di questo mio
comodissimo stato, non manca altro che la presenza di vostra signoria
reverendissima».

Frasi simili ripete in lettera del 23 dicembre, e in altra del 1 maggio
1542: «Quanto al loco di san Bernardo, notato da vostra signoria
reverendissima, dove parla così esplicitamente della giustizia di
Cristo, l'avemo trovato e letto insieme con questi nostri amici con
grandissima soddisfazione di tutti: e considerando da poi la dottrina di
questo santo uomo dove era fondata, e la vita insieme, non mi è parso
meraviglia se parla più chiaramente che gli altri, avendo tutta la sua
dottrina preparata e fondata sopra le scritture sante, le quali nel suo
interior senso non predicano altro che questa giustizia, ed appresso
avendo così bel commento per intendere quel che leggeva, com'era la
conformità della vita, la quale gli dava continua esperienza della
verità imparata, e per questo doveva esser risolutissimo. E se gli altri
avversarj di questa verità si mettessero per questa via a esaminare
com'ella sta, cioè per queste due regole delle scritture e
dell'esperienza, cesserieno senza dubbio tutte le controversie[541].
_Nunc enim ideo errant quia nesciunt scripturas et potentiam Dei, quæ
est abscondita in Christo_, il quale sia sempre laudato, che ha
cominciato rivelare questa santa verità, e tanto salutifera e necessaria
a sapere, usando per istromento vostra signoria reverendissima, per la
quale tutti siamo obbligati continuamente a pregare sua divina maestà
_ut confortet quod est operatus_ alla gloria sua e benefizio di tutta la
Chiesa, come femo tutti _et in primis_ la signora marchesa [_Vittoria
Colonna_], la quale senza fine si raccomanda a lei».

La pietà di quei colloqui appare viemeglio da quanto allora scriveva il
Flaminio, e singolarmente da questa lettera a Galeazzo Caracciolo, del
quale parleremo appresso:

«La felice nuova, che mi diedero della santa vocazione di vostra
signoria il signor Ferrante e il signor Giovan Francesco, diede
grandissima allegrezza non solamente a me, ma ancora al reverendissimo
Legato, e a questi altri signori, ed ora per confermare ed accrescere
questa nostra allegrezza, vostra signoria m'ha fatto degno d'una sua
lettera, la quale è quasi una ratificazione di quello che i predetti
signori m'aveano scritto. Signor mio colendissimo, considerando io
quelle parole di san Paolo, Voi vedete, fratelli, la vostra vocazione,
che fra voi non sono molti savj secondo la carne, non molti potenti, non
molti nobili, ma Dio ha eletto le cose stolte del mondo, per confonder
le savie, e le cose deboli per confonder le forti, e le cose ignobili
per confondere le nobili e quelle che non sono per distrugger quelle che
sono, dico che, considerando io queste notabili parole, mi pare di
vedere che 'l signor Dio abbia fatto un favor molto particolare a vostra
signoria, volendo che ella sia nel numero di quelli pochissimi nobili,
che egli orna di una nobiltà incomparabile, facendoli per la vera e viva
fede suoi figliuoli; e quanto è stato più particolare il favore, che
ella ha ricevuto da Dio, tanto la veggo più obbligata a vivere, come si
conviene ai figliuoli di Dio, guardando che le spine, cioè i piaceri e
gli inganni delle ricchezze e l'ambizione non soffochino il seme
dell'evangelo, che è stato seminato nel cuor suo: benchè mi rendo certo,
che il Signore, il quale ha cominciato a gloria sua l'opera buona in
voi, la condurrà a perfezione, a laude e gloria della grazia sua, la
quale creerà in voi un animo tanto generoso, che, siccome per lo
addietro ponevate tutto il vostro studio in conservare il decoro de'
cavalieri del mondo, così ora porrete tutta la vostra diligenza in
conservare il decoro de' figliuoli di Dio, a' quali convien imitare con
ogni studio la perfezione del loro celeste padre, esprimendo, e
rappresentando in terra quella vita santa e divina, la quale viveremo in
cielo.

«Signor mio osservandissimo, in tutti i vostri pensieri, in tutte le
vostre parole, e in tutte le vostre operazioni ricordatevi, che siamo
diventati per Gesù Cristo figliuoli di Dio, e questa memoria, generata e
conservata nell'anima nostra dallo spirito di Cristo, non ci lascierà di
leggieri nè fare, nè dire, nè pensare alcuna cosa indegna della
imitazione di Cristo, al quale se noi vogliamo piacere, è necessario che
ci disponiamo a dispiacere agli uomini, e a disprezzare la gloria del
mondo per esser gloriosi appresso a Dio; perciocchè, come dimostra Gesù
Cristo in san Giovanni, è impossibile, che alcuno possa credere
veramente in Dio, mentre che egli cerca la gloria degli uomini, i quali
come dice David, sono più vani della medesima vanità. Laonde è cosa
stoltissima e vilissima fare stima del loro giudicio, dovendo i
figliuoli di Dio aver sempre innanzi agli occhi il giudicio di Dio, il
quale vede non solamente tutte le nostre operazioni, ma tutti gli
occulti e profondi pensieri del nostro cuore.

«Essendo dunque impossibile piacere a Dio e agli uomini del mondo, che
furore sarebbe il nostro, se eleggessimo di dispiacere a Dio per piacere
al mondo? E se stimiamo cosa vergognosissima che una sposa voglia
piuttosto piacere altrui che al suo sposo, che biasimo meriterà l'anima
nostra, se ella vorrà più piacere ad altri che a Cristo suo dilettissimo
sposo? Se Cristo, unigenito e naturale figliuolo di Dio, ha voluto non
solamente patire per noi le infamie del mondo, ma il tormento
acerbissimo della croce, perchè non vorremmo noi per la gloria di Cristo
tollerare allegramente le derisioni degli inimici di Dio? Sicchè, signor
mio, contra le calunnie e derisioni del mondo armiamoci di una santa
superbia, ridendoci delle loro derisioni, anzi come veri membri di
Cristo abbiamo compassione alla loro cecità, pregando il nostro Dio, che
doni loro di quel suo santo lume che ha donato a noi, acciocchè,
diventando figliuoli della luce, sieno liberati dalla misera servitù del
principe delle tenebre, il quale con questi suoi ministri perseguita
Cristo e le membra di Cristo: la qual persecuzione, malgrado del demonio
e de' suoi ministri, ridonda finalmente in gloria di Cristo e in salute
de' membri suoi, i quali godono di patire per Cristo, essendo
predestinati a regnare con Cristo. Chiunque ha veramente questa fede,
resiste facilmente alle persecuzioni del demonio, del mondo e della
carne. Però, signor mio colendissimo, preghiamo giorno e notte il nostro
padre eterno che ci accresca la fede, e faccia produrre nell'anima
nostra quei dolcissimi e felicissimi frutti, che ella suol produrre
nella buona terra di tutti i predestinati a vita eterna; acciocchè,
essendo la nostra fede feconda di buone opere, siamo certi che ella non
è finta ma vera, non morta ma viva, non umana ma divina, e per
conseguenza pegno preziosissimo della nostra eterna felicità. Mostriamo
che noi siamo legittimi figliuoli di Dio, desiderando sempre che il suo
santissimo nome sia glorificato, e imitando la sua ineffabile benignità,
la qual fa nascere il sole sopra i buoni e sopra i rei, adoriamo la sua
divina maestà in spirito e verità, consacrandole il tempio del nostro
cuore, e offerendo in esso le vittime spirituali per Gesù Cristo nostro
Signore: anzi come veri membri di questo pontefice celeste, facciamo un
sacrificio della nostra carne, mortificandola e crucifiggendola con le
sue concupiscenze, acciò che, morendo noi, viva lo spirito di Cristo in
noi. Moriamo, signor mio, volentieri a noi medesimi e al mondo, acciò
che viviamo felicemente a Dio, e a Gesù Cristo. Anzi, se siamo vere
membra di Cristo, conosciamoci già morti con Cristo, e risuscitati, e
ascesi in cielo con esso lui, acciò che la nostra conversazione sia
tutta celeste, e si vegga in noi uno eccellentissimo ritratto di Cristo;
il qual ritratto sarà tanto più bello e più maraviglioso in voi, quanto
voi siete un signore nobilissimo, ricco e potente.

«O che giocondo insaziabile spettacolo agli occhi de' veri Cristiani,
anzi agli occhi di Dio e di tutti gli angeli, vedere un pari vostro, il
quale, considerando la fragilità della natura umana e la vanità di tutte
le cose temporali, dica con Cristo, _Ego sum vermis et non homo_; e con
David gridi _Respice me, et miserere mei quia unicus et pauper sum ego_.
Oh veramente ricco e beato colui, che per favor di Dio perviene a questa
povertà spirituale, renunziando con l'affetto tutte le cose che egli
possiede, cioè la prudenza mondana, le scienze secolari, le ricchezze,
le signorie, i piaceri della carne, la gloria degli uomini, i favori
delle creature, e ogni confidenza di se stesso! Costui, diventando per
Cristo stolto nel mondo, e in mezzo le ricchezze dicendo di cuore _Panem
nostrum quotidianum da nobis hodie_, e preponendo l'improperio di Cristo
e le tribulazioni e i piaceri ai favori del mondo, e non volendo nè
altra santità, nè altra giustizia che quella, che si acquista per
Cristo, entra nel regno di Dio; e sostentato, favorito e governato dallo
spirito di Dio, e tutto ripieno di gaudio, canta col profeta. Il signor
è mio pastore, niuna cosa mi mancherà; egli in luoghi ameni e erbosi mi
fa riposare, e lungo le acque del refrigerio mi conduce. E crescendo
tuttavia la diffidenza di se medesimo e di tutte le creature, e la
confidenza in Dio, nè volendo nè in cielo nè in terra altra sapienza,
altri tesori, altra potenza, altro piacere, altra gloria, altro favore
che quello del suo Dio, grida col medesimo profeta: Signor, chi ho io in
cielo oltre a te? Niuno io voglio teco sopra la terra: per lo desiderio
di te, la carne mia e il cuor mio si consuma; o fortezza del mio cuore.
Dio è la mia eredità in sempiterno.

«Considerate che colui, il quale dice queste dolcissime e umilissime
parole, congiunte con grandissima generosità, il quale non vuole nè in
cielo nè in terra, niuna cosa se non Dio, considerate dico, che costui
era un re potentissimo e ricchissimo. Ma egli non si lasciava offuscare
l'intelletto, nè corrompere l'affetto dalla sua potenza nè dalle sue
ricchezze, conoscendo per favor di Dio, che tutta la potenza, e tutte le
ricchezze sono di Dio, e come cosa di Dio le dobbiamo possedere e
dispensare a gloria di Dio: laonde si legge nel primo libro intitolato
Paralipomenon, ch'egli in presenza di tutto il popolo disse queste
divinissime parole: Benedetto signor Dio d'Israele, padre nostro ab
eterno: tua è, signor, la magnificenza e la potenza e la gloria e la
vittoria e la laude: perciocchè tutte le cose, le quali sono in cielo e
in terra sono tue, tuo è, signore, il regno, e tue sono le ricchezze,
tua è la gloria; tu sei signore di tutti; nella tua mano è la grandezza
e l'imperio di ciascuno: per la qual cosa ora, Dio nostro, ti
ringraziamo, e lodiamo il nome tuo inclito. Chi sono io, e chi è il
popolo mio, che ti possiamo promettere tutte queste cose? Tutte sono
tue, e quelle che dalla tua mano abbiamo ricevuto, ti abbiamo dato;
perciocchè siamo peregrini nella tua presenza, e forestieri, sì come
tutti i padri nostri: i giorni nostri sono come un'ombra sopra della
terra, e se ne fuggono senza alcuna dimora.

«O signore mio, pregate di continuo il signor Dio che, insieme con
questo gran re, vi umiliate da dovvero sotto la potente mano di sua
divina maestà, lasciando a Dio tutta la gloria, tutta la potenza, per
ricevere da Dio i beati doni della grazia sua, la quale egli comunica
solamente agli umili, lasciandone vacui i superbi. Queste parole dice il
Signore appresso Geremia: Non si glorii il savio nella sapienza sua, nè
si glorii il forte della sua fortezza, nè si glorii il ricco delle sue
ricchezze: ma chi si gloria, si glorii nel conoscermi; perciocchè io
sono il Signore, il quale esercito la misericordia e la giustizia in
terra; perciocchè queste cose a me piacciono, dice il Signore. Se dunque
vi volete gloriare, non vi gloriate, come fanno coloro che hanno gli
animi vili e plebei, nelle ricchezze e nella nobiltà carnale. Si glorii
in queste cose vilissime e vanissime colui che vive nel regno della
carne e del peccato; ma voi che siete entrato nel regno di Dio,
gloriatevi che il vostro Dio abbia usato con voi la sua misericordia,
illuminando le vostre tenebre, facendovi conoscere la sua bontà,
facendovi, di figliuolo di ira, figliuolo suo; di vilissimo servo del
peccato, nobilissimo cittadino del cielo; donandovi finalmente il suo
unigenito figliuolo Gesù Cristo, e ogni cosa con lui; di maniera che,
come dice san Paolo, il mondo, la vita, la carne, le cose presenti e le
future e ogni cosa, è vostra in Cristo, e per Cristo unica felicità
dell'anima vostra. Questa sorta di gloriazione si conviene ai Cristiani;
per la quale si esalta la misericordia di Dio, e si annichila la
superbia umana, la quale s'innalza contra la cognizione di Dio, volendo
gloriarsi di Dio e confidare in se medesima. Questa gloriazione ci fa
umili nelle grandezze, modesti nelle prosperità, pazienti nelle
avversità, forti ne' pericoli, benefici verso ognuno, stabili nella
speranza, ferventi nell'orazione, pieni dell'amor di Dio, vacui
dell'amor immoderato di noi medesimi e delle cose del mondo, e
finalmente veri imitatori di Cristo, nella quale imitazione dobbiamo
mettere tutto il nostro studio, riputando ogni altro studio, rispetto a
questo, superfluo e vano.

«Signor mio colendissimo, volendo io ubbidire alla lettera di vostra
signoria ho fatto contro al mio istituto, perciocchè conoscendo per
favor di Dio ogni ora più la mia grande imperfezione e la mia
insufficienza, conosco ancora che a me conviene udire e non parlare,
essere discepolo e non maestro. Ma per questa volta ho voluto che abbia
maggior forza il desiderio di vostra signoria, che la mia deliberazione.
Il reverendissimo legato ama vostra signoria come suo dilettissimo
fratello in Cristo, e avrà gratissima l'occasione, che gli manderà il
signor Dio di poter mostrare con gli effetti l'amor suo. Sua signoria
reverendissima, e l'illustrissima signora marchesa di Pescara salutano
quella, e questi altri gentiluomini con meco le baciano la mano,
pregando con tutto il cuore il nostro signor Dio, che la faccia
diventare con la grazia sua di gran lunga più povera di spirito che ella
non è ricca di castella e di beni temporali, acciò che la povertà
spirituale la faccia ricchissima de' beni divini, e sempiterni. — Di
Viterbo, il giorno 13 di febbrajo del XLIII».

Da per tutto ove andasse, il Polo amava tali adunanze; e venuto nel
monastero di Maguzzano presso Brescia, si trasse intorno monaci dotti e
pii, quali Teofilo Folengo, Alessio Ugoni, un degli Ottoni, un Bornato,
un Massato, che tutti invogliò a studiare la Bibbia.

Egli stesso dettò molte scritture in proposito dello scisma
d'Inghilterra e singolarmente _Della unità della Chiesa_. Eppure fu
sospettato d'eresia, e sotto il rigido Paolo IV messo prigione: là
dicono scrivesse un'apologia, col calore che suol mettervi chi si trova
incolpato a torto: poi rilettala a mente fredda, la giudicò troppo
pungente, e buttolla al fuoco dicendo: «Non denudare le vergogne del
padre tuo».

Era naturale che il Polo esercitasse molta efficienza sulle persone che
lo attorniavano[542]; e Pier Paolo Vergerio, colle solite insinuazioni,
dice che il Flaminio sarebbe entrato nelle opinioni luterane, se non
fosse stato rattenuto dal cardinale Polo. Il quale, a dir suo,
«intendeva o fingeva intendere la giustificazione per la sola fede di
Cristo e l'insegnava a molti che teneva in casa (fra' quali esso
Flaminio e messer Giovanni Morellio, morto ministro nella Chiesa de'
forestieri a Francoforte): ma intanto persuadeva a contentarsi di tal
cognizione secreta, e non tener conto degli abusi ed errori della
Chiesa; e che si può farsi avanti con la pura dottrina tacendo,
dissimulando e fuggendo». Gli amici di questo (egli continua) asserivano
non aspettasse che il tempo «di dirla in faccia al papa o fare un
qualche bel rumore in gloria di Dio»; ma invece richiamò al papismo
l'Inghilterra, «e vi ha introdotto tutte le feccie, tutti gli abusi, e
tutte le superstizioni e ribalderie papali, fino una statua di Tommaso
Cantuariense»[543].

In fatto la Riforma aveva operato sì poco sulle moltitudini in
Inghilterra, che bastò il salir regina Maria per restaurarvi il
cattolicismo. Giulio III vi mandò il Polo, che, come più intelligente e
tollerante, capì bisognava dar l'assoluzione pei beni ecclesiastici
venduti: ma Paolo IV stette fermo a negarla (rescissio alienationum), e
revocò il Polo; e subito dopo la nuova regina Elisabetta ripristinò la
chiesa scismatica. Allora Paolo IV esclamava: «Nelle guerre perdiam la
Germania: pel ritiro del cardinal Polo perdemmo l'Inghilterra: vogliam
il Concilio; vogliamo la riforma e la pace».

Nè è fuor di luogo notare come la Chiesa anglicana conservasse un
complesso di dogmi, di sacramenti, di riti, di prescrizioni,
d'osservanze, che, più d'ogni altra forma di protestantismo, la
avvicinano a noi; con un sacerdozio che si presume apostolico; colla
pretensione di purità, unità, perpetuità. Anche il suo Common Prayer
book, o libro di preghiere, nella maggior sua parte si scambierebbe per
cattolico; la nostra messa è, si può dire, tradotta: altrettanto avviene
nelle Omelie, ne' Formularj, nelle scritture di molti teologi de' primi
tempi dello scisma. Ciò poteva anche esser un artifizio per insinuar poi
le massime eterodosse, ravviluppate in tanto di vero. E da principio non
pochi cattolici ne restarono illusi, talchè la Chiesa dovette
intervenire per metterli sull'avviso: ma su queste conformità si fondano
i tentativi odierni de' Puseisti di accordar l'anglicana colla Chiesa
cattolica[544].

Tornando a que' pietosi, alla rinascenza quale s'ebbe in Italia, fondata
solo sull'arte e sul sentimento del bello, voleano surrogare quella
fondata sulla morale seria e sull'applicazione positiva; ricorreano alle
fonti della tradizione, e taluni, più infervorati del senso morale,
arrivavano a supporre che la parola interiore, vale a dire la coscienza
e la ragione, sieno superiori alla lettera biblica, e contentavansi di
sviluppar il sentimento religioso, men curandosi delle credenze
positive. A questo misticismo sono sempre più proclivi le donne, essendo
esso il grado più elevato dell'affetto, l'eccesso dell'abnegazione,
l'amor divino spinto talora fino alla passione; come si vide nel XIV
secolo in santa Caterina, nel XVI in santa Teresa, poi nella beata di
Chantal, nella Guyon, nella Bourguignon; e fino ai dì nostri nella
Krudner e nelle scolare del Saint-Martin, le marchese di Lusignan, di
Coislin, di Chabannais, di Clermont-Tonnerre, la marescialla di
Noailles, la duchessa di Bourbon.

Vi arieggiava Vittoria Colonna, che i Protestanti fanno dal Polo
convertita. Nata dall'illustre famiglia di Roma il 1490 in Marino, feudo
domestico, di cinque anni fu promessa sposa al marchese Francesco
Ferrante d'Avalos di Pescara, campione della Spagna in Italia: di
diciannove lo sposò, e vivea spesso in Pietralba alle falde del monte
Ermo, più spesso in Ischia. Quel suo marito si segnalò per valore e si
deturpò per spioneggio nel noto affare del cancelliere Morone, onde il
milanese Ripamonti scrive non essere stato in quei tempi alcuno nè più
infame in perfidia, nè più illustre nell'armi. Infatti contribuì
grandemente alle vittorie de' Francesi in Italia: restò ferito e
prigione alla battaglia di Ravenna del 11 aprile 1512, e giovane morì il
25 novembre 1525. Vittoria immortalò con poetici compianti le imprese di
lui e il proprio affetto, chiamandolo il suo bel sole: ritiratasi a Roma
fra le monache di San Silvestro in capite, soffrì delle sventure che
cagionarono i suoi Colonnesi; ricoverò a Marino, pregando e offrendo
riscatti pei tanti miseri nella terribile invasione; quando Paolo III
ruppe guerra ai Colonna[545], ella passò nel monastero di San Paolo
d'Orvieto, poi nel 1542 in quello di Santa Caterina a Viterbo.

Sette anni dopo ch'era vedova, venne a Napoli lo spagnuolo Valdes; ed a'
suoi discorsi infervoratasi del vangelo, ella non trovava pace e
consolazione che nella parola di Dio.

    Due modi abbiam da veder l'alte e care
      Grazie del ciel: l'uno è guardando spesso
      Le sacre carte, ov'è quel lume espresso
      Che all'occhio vivo sì lucente appare;
    L'altro è alzando dal cor le luci chiare
      Al libro della croce, ov'egli stesso
      Si mostra a noi sì vivo e sì dappresso,
      Che l'alma allor non può per l'occhio errare.

Altrove prorompe:

    Deh, potess'io veder per viva fede,
      Lassa! con quanto amor Dio n'ha creati.
      Con che pena riscossi, e come ingrati
      Semo a così benigna alta mercede:
    E come Ei ne sostien; come concede
      Con larga mano i suoi ricchi e pregiati
      Tesori; e come figli in Lui rinati
      Ne cura, e più quel che più l'ama e crede.
    E com'Ei nel suo grande eterno impero
      Di nuova carità l'arma ed accende,
      Quando un forte guerrier fregia e corona.
    Ma poi che, per mia colpa, non si stende
      A tanta altezza il mio basso pensiero,
      Provar potessi almen com'Ei perdona.

Dalla fiducia nel sacrifizio di Cristo è tutto ispirato il seguente
sonetto:

    Tra gelo e nebbia corro a Dio sovente
      Per foco e lume, onde i ghiacci disciolti
      Sieno, e gli ombrosi veli aperti e tolti
      Dalla divina luce e fiamma ardente.
    E se fredda ed oscura è ancor la mente,
      Pur son tutti i pensieri al ciel rivolti;
      E par che dentro il gran silenzio ascolti
      Un suon che sol nell'anima si sente.
    E dice: Non temer, chè venne al mondo
      Gesù, d'eterno ben largo ampio mare,
      Per far leggero ogni gravoso pondo.
    Sempre son l'onde sue più dolci e chiare
      A chi con umil barca in quel gran fondo
      Dell'alta sua bontà si lascia andare[546].

Le sue poesie spirituali, sebbene artefatte e dialettiche più che
immaginose e sentite, sono delle migliori d'allora, e rivelano una
profonda religione, qual doveva penetrare le anime virtuose, che
deplorando i mali della patria, gli attribuivano alla depravazione de'
Cristiani e alla negligenza de' prelati. Onde scriveva:

    Veggio d'alga e di fango omai sì carca,
      Pietro, la nave tua, che, se qualch'onda
      Di fuor l'assal, d'intorno la circonda,
      Potria spezzarsi e a rischio andar la barca.
    La qual, non come suol leggera e scarca
      Sovra 'l turbato mar corre a seconda,
      Ma in poppa e 'n prora, all'una e all'altra sponda
      È grave sì, ch'a gran periglio varca.
    Il tuo buon successor, ch'alta cagione
      Dirittamente elesse, e cor e mano
      Muove sovente per condurla a porto.
    Ma contro 'l voler suo ratto s'oppone
      L'altrui malizia; onde ciascun s'è accorto
      Ch'egli senza il tuo ajuto adopra invano.

Adduconsi principalmente il _Pianto della marchesa di Pescara sopra la
passione di Cristo_, e l'orazione sopra l'_Ave Maria_[547] onde provare
come ella aderisse alle dottrine nuove. Noi però osserveremo come ella
assoggetti la sua ragione alla cristiana umiltà:

    Parrà forse ad alcun che non ben sano
      Sia 'l mio parlar di quelle eterne cose,
      Tanto all'occhio mortal lontane e ascose,
      Che son sovra l'ingegno e il corso umano.
    Non han, credo, costor guardato 'l piano
      Dell'umiltade, e quante ella pompose
      Spoglie riporti, e che delle ventose
      Glorie del mondo ha l'uom diletto invano.
    La fe mostra al desio gli eterni e grandi
      Obblighi, che mi stanno in mille modi
      Altamente scolpiti in mezzo al core.
    Lui che solo il può far prego che mandi
      Virtù, che sciolga e spezzi i duri nodi
      Alla mia lingua onde gli renda onore.

E ancor meglio in quest'altro sonetto:

    Quel pietoso miracol grande, ond'io
      Sento per grazia le due parti estreme
      Il divino e l'uman, sì giunte insieme,
      Ch'è Dio vero uomo, e l'uomo è vero Dio,
    Erge tant'alto il mio basso desio
      E scalda in guisa la mia fredda speme,
      Che 'l cor libero e franco or più non geme
      Sotto l'incarco periglioso e rio.
    Con la piagata man dolce e soave
      Giogo m'ha posto al collo, e lieve il peso
      Sembrar mi face col suo lume chiaro.
    All'alme umili con secreta chiave
      Apre il tesoro suo, del quale è avaro
      Ad ogni cor d'altere voglie acceso.

Fu essa a Ferrara nel 1537 al tempo della duchessa Renata, che vedremo
calda fautrice di Calvino, e forse per mezzo di essa legò relazione con
Margherita regina di Navarra, corifea de' Riformati in Francia, e le
diresse una lettera di questo tenore:

«Le alte e religiose parole della umanissima lettera di vostra maestà mi
dovriano insegnare quel sacro silenzio, che invece di lode si offerisce
alle cose divine. Ma temendo che la mia Riverenza non si potesse
riputare ingratitudine, ardirò, non già di rispondere, ma di non tacere
in tutto, e solo quasi per inalzare i contrapesi del suo celeste
orologio, acciocchè, piacendole per sua bontà di risonare, a me
distingua ed ordini l'ore di questa mia confusa vita, fintantochè Dio mi
concederà di udire vostra maestà ragionare dell'altra con la sua voce
viva, come si degna di darmene speranza. E se tanta grazia l'infinita
bontà mi concederà, sarà compiuto un mio intenso desiderio, il quale è
stato gran tempo questo, che, avendo noi bisogno in questa lunga e
difficil via della vita, di guida che ne mostri il cammino, con la
dottrina e con le opere insieme ne inviti a superar la fatica. E
parendomi che gli esempj del suo proprio sesso a ciascuno siano più
proporzionati, ed il seguir l'un l'altro più lecito, mi rivoltai alle
donne grandi d'Italia per imparare da loro e imitarle; e benchè ne
vedessi molte virtuose, non però giudicava che giustamente l'altre tutte
quasi per norma se la ponessero. In una sola fuor d'Italia s'intendeva
esser congiunte le perfezioni della volontà, insieme con quelle
dell'intelletto..... Certo non mi sarà difficil viaggio per illuminare
l'intelletto mio e pacificare la mia coscienza; e a vostra maestà penso
che non sia discaro per aver dinanzi un subjetto ove possa esercitar le
due più rare virtù sue; cioè l'umiltà, perchè s'abbasserà molto a
insegnarmi, e la carità, perchè in me troverà resistenza a ricever le
sue grazie.... Potessi io almeno servire per quella voce che nel deserto
delle miserie nostre esclamasse a tutta Italia di preparar la strada
alla venuta di vostra maestà! Ma mentre sarà dalle alte e reali sue cure
differita, attenderò a ragionar di lei col reverendissimo di Ferrara, il
cui bel giudizio si dimostra in ogni cosa, particolarmente in riverir la
maestà vostra. E mi godo di vedere in questo signore le virtù in grado
tale che pajono di quelle antiche nell'eccellenza, ma molto nuove agli
occhi nostri, troppo omai al mal usati. Ne ragiono assai col
reverendissimo Polo, la cui conversazione è sempre in cielo, e solo per
l'altrui utilità riguarda e cura la terra: e spesso col reverendissimo
Bembo, tutto acceso di sì ben lavorare in questa vigna del
Signore»[548].

La regina Margherita rispondendo la ringrazia delle lodi datele,
protestando di ben poco meritarle. «Per il di dentro io mi sento sì
contraria alla vostra buona opinione, che io vorrei non aver vedute le
vostre lettere se non per la speranza che ho, che, mediante le vostre
buone preghiere, elle mi saranno uno sprone per uscire dal luogo ov'io
sono, e cominciare a correre appresso di voi.... alla qual cosa è
necessaria la continuanza delle vostre orazioni e le frequenti
visitazioni delle vostre utili scritture...... Vostre lettere più che
giammai desidero di avere, e ancor più di essere così avventurosa, che
in questo mondo possi da voi udir parlare della felicità dell'altro».

Le espressioni della devota marchesa sentono la cortigianeria d'allora,
più che un assenso ai pensamenti della regina. E nelle sue poesie
troviam invocati e Maria e gli Angeli e i Santi, nominatamente Caterina
e «Francesco, in cui, siccome in umil cera, con sigillo d'amor sì vivo
impresse Gesù l'aspre sue piaghe»: e manda in regalo un Redentore, e
altra volta:

    L'immagin di Colui v'invio che offerse
      Al ferro in croce il petto, onde in voi piove
      Dell'acqua sacra sua sì largo rivo.
    Ma sol perchè, signor, quaggiuso altrove
      Più dotto libro mai non vi s'aperse
      Per lassù farvi in sempiterno vivo.

Il Boverio, annalista de' Cappuccini, ci racconta come a Ferrara la
Colonna tolse a proteggere i Gesuiti, introdotti di fresco, e assistette
anche di denaro i Cappuccini, a favor de' quali (egli racconta) s'adoprò
acciocchè potesse raccogliersi il loro capitolo generale del 1535,
sollecitatavi da frà Bernardino Ochino, che poi apostatò; a tal uopo
essere ella andata anche al papa, ed espugnatone l'ordine di adunarlo.
Noi potremmo opporre che ad essa è dedicata _la Nice_ di Luca Contile,
opera tutt'altro che casta, sebben l'autore fosse secretario del
cardinal di Trento.

Ritirata, come dicemmo, nel convento di santa Caterina a Viterbo, la
Colonna v'avea frequenti colloqui col cardinale Polo ivi residente e col
Flaminio[549], col Carnesecchi ed altri amici di lui, studiosi della
Scrittura. Non è superfluo l'addur questa lettera di essa al cardinale
Cervini, che fu poi papa Marcello II:

                                    Da Viterbo il 4 dicembre 1542.

  «Illustrissimo e reverendissimo monsignore,

«Quanto più ho avuto modo di guardar le azioni del reverendissimo
monsignor d'Inghilterra, tanto più mi è parso veder che sia vero e
sincerissimo servo di Dio. Onde, quando per carità si degna risponder a
qualche mia domanda, mi par di esser sicura di non poter errare seguendo
il suo parere. E perchè mi disse che gli pareva che, se lettera o altro
di frà Bernardino (Ochino) mi venisse, la mandassi a vostra signoria
reverendissima, senza risponder altro se non mi fosse ordinato, avendo
avuto oggi la alligata col libretto che vedrà, ce le mando: e tutto era
in un plico dato alla posta qui da una staffetta che veniva da Bologna,
senza altro scritto dentro. E non ho voluto usar altri mezzi che
mandarle per un mio di servizio; sicchè perdoni vostra signoria questa
molestia, benchè, come vede, sia in stampa, e Nostro Signor Dio la sua
reverendissima persona guardi con quella felice vita di sua santità che
per tutti i suoi servi si desidera.

«PS. Mi duole assai che, quanto più pensa (_l'Ochino_) scusarsi, più si
accusa, e quanto più crede salvar altri da un naufragio, più gli espone
al diluvio, essendo lui fuor dell'arca che salva e assicura».

Così l'umiltà salvava da quegli eccessi, a cui talvolta trae la
soverchia concentrazione, sia pure ne' sentimenti più autorizzati. Molto
ella ammirava il cardinal Contarini, e quando morì a Bologna il 24
agosto 1542, compiangeva perchè

    Potean le grazie e le virtù profonde
      Dell'alma bella, di vil cose schiva
      Ch'or prese il volo a più sicura riva
      Vincendo queste irate e torbid'onde,
    Rendere al Tebro ogni sua gloria antica;
      E all'alma patria di trionfi ornata
      Recar quel tanto sospirato giorno
    Che, pareggiando il merto alla fatica,
      Facesse quest'età nostra beata
      Del gran manto di Pier coperta intorno.

Nella qual occasione a suor Serafina Contarini dirigeva condoglianze,
ricordandosi «delle sue pie e dolci lettere, quando convitava quello
amatissimo fratello a desiderar di ritrovarsi con lei alla vera patria
celeste, e della domanda che gli fe di esponer certi salmi, che dinotava
aver la morte, passione e resurrezione di Cristo sempre impressa nel
cuore». Ed enumera i meriti del defunto, e «l'ottimo e divino esempio
che dava a ciascuno, e la molto importante utilità alla Chiesa, alla
pace e al quieto viver nostro. Ma dovemo esser sicuri che l'infallibil
ordine de re, signore e capo di tutti noi, sa il migliore e più atto
tempo di tirare a sè le membra sue. Rimane solo la perdita della sua
dolcissima conversazione, e il profitto di santissimi documenti suoi...
Or altra spiritual servitù non mi resta che questa dell'illustrissimo e
reverendissimo monsignor d'Inghilterra (Polo), suo unico, intimo e
verissimo amico e più che fratello e figlio: qual sente tanto questa
perdita, che 'l suo pio e forte animo, in tante varie oppressioni
invittissimo, par l'abbia lasciata correre a dolersi più che in altro
caso che gli sia occorso giammai».

Ma il suo affetto principale restava pel cardinale Polo: e quand'esso
partì pel Concilio di Trento, minacciato sempre dagli assassini, essa il
raccomandò caldissimamente al cardinale Morone, e nel processo fatto poi
a questo trovammo varie lettere, per verità oscure e dubbie[550]. Eccone
una da Viterbo il 30 novembre:

«Con molti servizj etiam che da Dio mi fossero date potenti occasioni,
non potrei mostrare alla signoria vostra la mia volontà di servirla, nè
esplicarle le securtà che mi dette allorchè, umanamente e con tanta
cristiana affezione, mi disse che, in Cristo fondando ogni mia fede,
credessi che la signoria vostra reverendissima faria per monsignor
d'Inghilterra quel che gli fosse possibile, e che sperava andasse e
tornasse come si desiderava da tutti li servi del Signore. Ed avendo poi
inteso che continua in vostra signoria reverendissima questa
sollecitudine, dimostrandola ogni ora con evidentissimi segni, mi
allegra tanto e mi conferma sì nella presa speranza, che non ho potuto
lasciar di molestar vostra signoria con questa mia, ringraziando Dio in
Lei che si sia degnato legar in tanta unione col vincolo della vera pace
due suoi sì cari amici, e di costituirmele serva in modo, che, absente
da loro, senta consolazione della divina carità che si fanno insieme,
massime che la mia estrema indignità mi toglie l'impedimento che suol
dare l'invidia, ancora fosse santa e buona; e mi lascia umilmente godere
che Cristo, unico signore capo e ogni ben nostro, abbia voluto che
insieme conferiscano gli ampli tesori e inestimabili divizie sue, e gli
abbia eletti ad un tanto e sì importante effetto. E qui non si manca da
queste purissime spose di Cristo pregarlo che tolga ogni impedimento e
ogni dilazione a perficere le ottime aspirazioni delle signorie vostre,
sempre conformi, e rimesse alla sua suprema e rettissima volontà così in
man della signoria vostra di comandarmi al mezzo di monsignore, che per
troppa sua umiltà o per mia troppa indegnità non vuol che pensi pur di
servirla, sia da me servito in lei, che certo non potrà fare maggior
carità che essere occasione che io non mi alleviassi tanto peso di
obbligo che ho con vostra signoria reverendissima che è di prezzo tanto,
quanto per me vale l'anima mia quando la riguardo in Cristo, ove lui,
come suo istromento, me la fa vedere e sentire ogni momento la
grandissima verità che Iddio gli ha posto nel cuore, riguardato e
conosciuto da quel di vostra signoria reverendissima con altro lume che
non fo io. Piaccia al Signore di aumentarli in grazia sua, e favorirli
quanto per sua gloria gli bisogna».

«PS. Non lascerò di dire a vostra signoria questo a mia confusione, che,
quando il senso talor, imitando la madre del giovane Tobia, mormora de'
timori per le insidie fatte a monsignor, subito lo spirito gli risponde,
_Satis fidelis est vir ille cum quo dimisimus eum_. Sicchè vostra
signoria vede che fa l'officio dell'angelo».

Più tardi lo ringraziava di quanto fece per esso monsignor
d'Inghilterra, e «quando riguardo vostra signoria reverendissima e
monsignor Polo insieme in una medesima stanza, non mi ammiro se, da una
stessa virtù riscaldati, non si saziano d'accendersi l'uno l'altro: ed
io sola fredda ed inferma, scrivo consolata della certezza che pregano
il Signor nostro per me, e che vostra signoria si degni servirsene, che
certo più che mai si rinforzano qui da queste buone madri l'orazioni per
lei».

In altra lettera gli ha invidia della «sua molta umiltà, sapendo quanto
è differente il concetto che ne hanno quelli che in Cristo il conoscono;
e rimpiange la conversazione che avea con lui «massime quando le
ragionava di quel libro che sì bene apre spesso»[551]. Confesso a vostra
signoria che mai a persona fui più obbligata che al Polo, e ora in tanto
spirito che nelli suoi scritti non si degna nominare altro che Gesù,
come poi la signoria vostra vedrà con grazia di Dio, qual si degni
sempre mandarlo di consolazione in consolazione, finchè sia abbracciato
dalla vera e eterna in quella patria, dove solo guardando, si fa ogni
faticoso peregrinaggio felice».

Le tribulazioni che il Polo soffre, e fatiche e calunnie «niente mi
molestano, chè troppo saldo è il suo fondamento, e troppo ben compatto e
stagionato l'edifizio con mille ferme colonne di esperienza, in modo che
tutte le tribulazioni son sicuri testimonj della sua fede invittissima:
ed ogni vento contrario accende il lume della sua speranza: e quanta
opposizione gli può dar il mondo nelle opere che fa, vedo sempre al fine
che son della sua divina carità, arsa ed estinta di maniera, signor mio,
che ardisco dire che me ne ha presa, per Dio grazia, qualche scintilla,
sicchè non serbo la metà dell'amaritudine che sentirei in tutte le
difficoltà e molestie che mi occorsero: e con certi suoi amorosi e dolci
modi cristiani ha fatto che, in due anni, io non ho saputo dove mi tener
la testa... ma in questo caos mi fece sentire che doveva alzare gli
occhi in un altro modo a quel lume, che poteva illuminare lui secondo li
miei bisogni, e non secondo la mia volontà. E così fo, ogni cosa
reputando egualmente venir da Cristo, pigliando sommo piacere delle
consolazioni quando Dio per suo mezzo le manda a me.... Quando non
vengono, non quanto solevo mi doglio, ma mi umilio, o a dir meglio cerco
di umiliarmi».

«Sto bene in questo silenzio (di Viterbo) e quanto più, per grazia di
Dio, il gusto, più compassione ho alla signoria vostra reverendissima:
ma il Signore con tanta pace le parli dentro, che non senta li strepiti
di fuora, come la mia debilità li sentiva..... Considerando lo stato di
vostra signoria reverendissima, non so se più compassione gli debbo
avere o quando è con le turbe servendo Cristo nelli suoi fratelli, o
quando è solo con Cristo, vedendo i fratelli di lui: massime che,
essendo il corpo in fatica, e la mente desiderando la solitudine, mi fa
chiaro il copioso fonte d'ogni grazia non gli lascia tanta sete senza
dargli spesso qualche dolce poto, acciocchè o col desiderio o
coll'effetto sostenga la sua cristianissima vita».

«Avendomi detto che non lo laudi mai, mi bisogna tacere. Che se in
questa materia avessi potuto allargarmi, vostra signoria reverendissima
avria visto il caos d'ignoranza ove io era, e il labirinto di errori
ov'io passeggiava sicura, vestita di quell'oro di luce, che stride senza
star saldo al paragone della fede, nè affinarsi al fuoco della vera
carità: essendo continuo col corpo in moto per trovare quiete, e con la
mente in agitazione per aver pace. E Dio volle che da sua parte mi
dicesse _Fiat lux_, e che mi mostrasse esser io niente, e in Cristo
trovare ogni cosa».

«.....Sapendo io il credito che monsignor ha alla signoria vostra e la
reverenza che monsignor Luisi (_Priuli_) e monsignor Marcantonio
(_Flaminio_) le hanno, la supplico a tenerli spesso ricordati che
attendano con ogni possibil diligenza alla sua guardia, lasciando in
questo a sua signoria la guardia severissima della sua intrepida fede,
considerando che Dio gli ha eletti fra tanti altri suoi servi a
custodire questo membro suo, il qual a me pare che faccia sempre male,
come che si muova o a dextris secondo lo spirito suo, a sinistris
secondo la carne mia.....»

E al cardinale d'Inghilterra:

«Sa il Signor nostro che per altro non desidero eccessivamente di parlar
con vostra signoria se non perchè vedo in lui un ordine di spirito, che
solo lo spirito lo sente: e sempre mi tira in su a quell'amplitudine di
luce, che non mi lascia troppo fermare nella miseria propria: anzi con
sì alti sostanziosi concetti mi mostra la grandezza di lassù e la
bassezza e nichilità nostra, che, vedendo noi stessi e tutte le cose
create servirci a questa, bisogna trovarci soli in Colui che è ogni
cosa. E quanto più ho bisogno di parlare alla vostra signoria, non per
ansia nè dubbj nè molestia che abbia o tema d'avere per bontà di colui
che mi assicura, ma perchè ogni volta che la vostra signoria parli di
quel stupendissimo sacrificio, della eterna destinazione, dell'esser
preamati, e di quel pane ascondito trovato su quelli monti e fonti che
scrive....., fa star l'anima sull'ali, sicura di volar al desiderato
nido; sicchè tanto è per me parlare con vostra signoria come con un
intimo amico dello Sposo che mi parlerà per questo mezzo, e mi chiama a
lui, e vuol che ne ragioni per accendermi e consolarmi».

Chi ha letto santa Teresa e la beata di Chantal non istupirà
dell'affetto, che del resto, in donna, radamente si scompagna dalla
venerazione. E forse il Priuli ne faceva appunto a Vittoria, la quale
gli rispondeva: «La cosa è sì perfetta, l'affezione mia sì giusta,
debita e santa, così utile all'anima mia, sì cara e grata a Dio, che mi
andrei solo ritirando, come si suol ritirare la mente dalla troppo fissa
orazione e dolcezza dello spirito, acciò ritorni a servir gli altri
prossimi per esercitar la carità, perchè con monsignor esercito più la
fede, ricevendo assolutamente da Dio quanto lui fa: sicchè sempre sono
obbligatissima al dolcissimo mio e reverendissimo Morone, che in tutti i
modi mi fa consolata».

Chi poi, in questi ultimi anni, ha potuto assistere in Parigi ai
convegni della signora Swetchine, e attorno a questa intelligente russa
vedere raccolti Lacordaire, De Falloux, Montalembert, Dupanloup ed altri
caporioni della scuola cattolica, nell'intimo bisogno di dirsi un
all'altro il proprio pensiero sulle quistioni supreme, e di accomunar le
melanconie della gioja e l'istruzione dei dolori, nel penoso rispetto
del diritto e nel disgusto delle defezioni e delle debolezze; e
riconoscere che, per arrivare all'oasi, bisogna attraversare il deserto;
assicurarsi che, quando non si prenda la vita dal lato di Dio, non si
sbriga questa matassa arruffata; e scontenti del mondo e di sè, contenti
di Dio, con amabile semplicità accattare la solenne espiazione, e
sostenersi vicendevolmente a soffrire, nella persuasione superna che Dio
sa quel che fa, e nella mondana che, senza i colpi dell'avversità, ci
sarebbe ancora del ferro ma non dell'acciajo; chi gli ha veduti, dico,
gode immaginarsi che qualcosa di simile avvenisse attorno alla marchesa
poetessa, fra quelle pie persone, cupide di sottrarsi al doloroso
supplizio dell'incertezza. Deh, perchè in tanti studj di drammatizzar il
passato, nessuno toglie a ravvivar quelle sante e dotte confabulazioni,
che allora dovettero passare a Viterbo fra queste anime pie, nel mentre
in Germania straziavansi e a vicenda si bestemmiavano i predicatori del
disenso?

La Vittoria morì poi a Roma uscente il febbrajo 1547, e udimmo come la
compiangesse Michelangelo, il quale doleasi d'una cosa, di non averla
baciata quando la vide cadavere.

Proseguendo, noi avremo a indicare altri, per malizia o per leggerezza
imputati di eresia: oltrechè questa era divenuta l'accusa che
paleggiavasi fra avversarj, con troppo solita slealtà: onde il cardinale
di Ravenna scrive al cardinale Contarini: «Sendo questa città
parzialissima, nè vi rimanendo uomo alcuno non contaminato da questa
macchia delle fazioni, si van volentieri, dove l'occasion s'offerisce,
caricando l'un l'altro da nimici»[552].

Federico Fregoso genovese, dottissimo in greco ed ebraico, fu involto
nelle vicende della sua patria e della sua famiglia e nelle guerre
contro i Barbareschi, adoprato in negozj scabrosi, caro ai migliori
d'allora, riordinatore della diocesi di Gubbio, e autore del _Pio e
cristianissimo trattato dell'orazione_. Eppure i Protestanti lo
annoverano fra i loro[553], ma per frode, avendo fintamente apposto il
suo nome all'opuscolo _Della giustificazione e delle opere_, e alla
_Prefazione alla lettera di san Paolo ai Romani_.

Il Rucellaj, nelle _Api_, esponendo la dottrina di Pitagora che tutte le
cose sian avvivate da un'anima divina, le corporee come le incorporee,
le ragionevoli come le brute, e che da quella provengano le anime nostre
e a quella ritornino, continua:

    Questo sì bello e sì alto pensiero
    Tu primamente rivocasti in luce,
    Trissino, con tua chiara e viva voce:
    Tu primo i gran supplizj d'Acheronte
    Ponesti sotto i ben fondati piedi
    Scacciando la ignoranza de' mortali (698-704).

Da questi versi, che io lascio lodare ad altri, s'indurrebbe che il
poeta Giorgio Trissino insegnasse l'anima del mondo; ma invece di negare
ciò, come altri fece[554], poteasi vedervi l'abitudine, allora
abbastanza estesa, di discutere e sostenere le opinioni anche le più
lontane dall'ortodossia, come chiarimmo parlando della scuola di Padova,
dove appunto predicavasi la dottrina d'Averroè sull'universalità
dell'anima. Quanto all'altra parte, vorrebbe dire che il Trissino
togliesse la paura dell'inferno, disnebbiando gli intelletti; ma ognuno
vi riconosce un'infelice imitazione di Virgilio[555].

Il Trissino, placido ingegno, ch'ebbe onori e incarichi fin di
ambascerie da due papi, nell'_Italia Liberata_, poema che tutti
conoscono e nessuno legge, s'avventa contro i preti, i quali «spesse
volte han così l'animo alla roba, che per denari venderiano il mondo», e
da un angelo fa vaticinare a Belisario in quanta corruzione cadrebbe la
Corte romana, sicchè i papi non penserebbero che a rimpolpare i loro
sterponi con ducati, signorie, paesi; conferire sfacciatamente cappelli
ai loro mignoni e ai parenti delle loro bagasce; vendere vescovadi,
benefizj, privilegi, dignità, o collocarvi persone infami; per denaro
dispensare dalle leggi migliori, non serbare fede, trarre la vita in
mezzo a veleni e tradimenti, seminare guerre e scandali fra principi
cristiani, sicchè i Turchi e i nemici della fede se n'ingrandiscano: e
conchiude che il mondo ravvedutosi correggerà questo sciagurato governo
del popolo di Cristo.

Non era il concetto medesimo, per cui, nel secolo precedente, alcuni pii
aveano fantasticato la venuta d'un papa angelico? Del resto il dire che
la Corte romana era corrotta, venale la dateria, ribalda la sua
politica, non curare le scomuniche, ridere dei frati, disapprovare il
mercimonio delle indulgenze, impugnare le decretali, vedemmo
consuetissimo in Italia: e il Trissino non facea che seguitare la moda;
nè cotesta sua libertà pruova altro se non ciò che altrove mostrammo,
quanto fossero tollerate le declamazioni contro di abusi, che si
confessavano anche quando non si provedeva a correggerli.

E come oggi il liberalismo politico professa di volere la libertà, nel
mentre i conservatori pretendono combatterlo in nome anch'essi della
libertà, altrettanto accadeva allora del liberalismo religioso. Molti
potevano lealmente credere che, se il papato era stato necessario per
l'educazione de' Barbari, allora si poteva omai dispensarsene: che la
critica non farebbe se non appurare la Chiesa e consolidare il dogma;
non essendosi ancora veduto, come oggi vediamo, succedersi dottrine
tutte cangianti, tutte attaccabili, senza autorità nè coerenza, al punto
che gli spiriti non si inebriassero più che del dubbio. E in generale si
sapeva, o almen si sentiva, che riformare non è distruggere; che le
riforme opportune e durevoli debbono venire dall'amore non dalla
collera, dall'autorità che dirige, non dalla violenza che scompiglia.

Ma chi assiste alla turpitudine degli odierni pugillatori non si
meraviglierà che allora si accusassero di eresia i nemici. A tacere il
Muzio, l'Aretino, il Franco e simil ciurma, il Vasari imputa il Perugino
di miscredente, mentre l'indole sua e i suoi dipinti il mostrano così
diverso. Anche del gran Leonardo da Vinci egli scrive che «tanti furono
i suoi capricci, che filosofando delle cose naturali, attese a intendere
la proprietà d'elle, contemplando e osservando il moto del cielo, il
corpo della luna e gli andamenti del sole; per il che fece nell'anima un
concetto sì eretico, che non s'accostava a qualsivoglia religione,
stimando per avventura assai più l'essere filosofo che cristiano», e che
solo in punto di morte fosse istruito nella fede. In ciò il cortigiano
dei Medici non era informato nulla meglio di quando il fa spirare fra le
braccia di Francesco I; ed egli medesimo temperò quest'asserzione nella
ristampa; oltre che abbiamo il testamento, che Leonardo fece un anno
prima di morire, dove, tutto pietà, «raccomanda l'anima sua a Nostro
Signor messer Domenedio, alla gloriosa Vergine Maria, a monsignor san
Michele»: prescrive trenta messe basse e tre alte, da dirsi per l'anima
sua in tre chiese di regolari ad Amboise.

Gli stessi procedimenti della Riforma le diminuivano seguaci. Come
svegliar le coscienze addormentate con un _credo_ vago ed oscillante? La
Bibbia, la meditazione, il libero esame! Davvero mezzi opportuni per
condur a quella certezza che è suprema necessità per operare. Io uom del
popolo ho da lavorare sei giorni per settimana, quattordici ore per
giorno. Chi mi parla di Dio? della Grazia? della giustificazione? Su ciò
disputino il dotto, il ricco, la signora oziosa, e creino tanti sistemi
quante hanno teste; ma io povero, io ignorante, io nell'ospedale, io
nella manifattura! No: è impossibile che Dio abbia messa a tal prezzo la
mia salvezza. Egli non può che aver diretto moralmente e
intellettualmente l'umanità, costituendo una società istruita da lui
stesso, da lui governata, in cui un'autorità umana, esterna, visibile
sia partecipazione dell'autorità sua divina, e dove l'uomo appaja solo
stromento di Dio, annunziatore della parola del maestro eterno; sempre
intenta al cielo mentre soddisfa in noi il bisogno intellettuale della
verità, il bisogno morale del bene, il bisogno sensuale della felicità.

E il popolo nostro si tenne al credo vecchio. Oltre i pii che
riconosceanvi solo un'empietà, spiaceva il vedere sconvolto il mondo da
questa superbia del surrogare l'autorità dell'individuo a quella della
città eterna. Anche coloro che gridavano la Chiesa romana avere bisogno
di correzione, trovavano che i Protestanti la correggevano troppo male.

E che ogni giorno rivelava la moltiforme natura della Riforma: in
Germania assodatrice del principato, in Francia faziosa, in Inghilterra
dispotica e persecutrice, in Iscozia fanaticamente esagerata, regia
nella Scandinavia, repubblicana in Svizzera, deleterica in Polonia.
Intolleranti come e più di quelli da cui si erano staccati, e senza
avere come questi l'appoggio dell'autorità divina, ognuno presumeva con
eguali titoli trovarsi al possesso esclusivo della verità; un concistoro
scomunicava l'altro; l'un predicante espelleva l'altro; il Bullinger,
pastore supremo a Zurigo, querelavasi però altamente degl'Italiani,
rifuggiti in gran numero in quella città; Comander li chiamava
accattabrighe, insofferenti dell'istruzione altrui, della propria
opinione tenacissimi. Gli Italiani non si risolveano fra le varie
negazioni. Lutero, adorato dai Tedeschi pel suo odio contro l'Italia,
poco gradiva ai nostri[556], che spendevano piuttosto a Zuinglio, perchè
avea scritto in latino, e procedea più serio e più logico: e così fece
l'Altieri sunnominato dopo che visitò le Chiese elvetiche. Calvino, non
più riformator nazionale, ma vero eresiarca, trovava maggiori assensi,
ma i nostri mal sapeano acconciarsi a quel dogma che annichila la
libertà umana sotto la stretta del peccato, e rinserra la natura in un
dilemma fra il male e la grazia, offendendo e il moralista e il
filosofo. Molti, accettando la giustificazione pei soli meriti di
Cristo, continuavano però a frequentare la messa e gli altri riti. Ma
Luterani e Calvinisti sbigottivansi dell'audacia che i fuorusciti
italiani prendevano non appena avessero assaporata la libertà di
coscienza, e il Gerdes asserisce che i paradossi e le sentenze erano il
vizio di costoro. Persuasi del valore della parola, credono con essa
dare esistenza alle cose; compongono libri, anzichè preparare dei
martiri; non si fanno scrupolo di tenere una credenza interiore
differente dalla parola; nè si brigano molto di convertire il popolo,
quasi questo vada dietro ai pensanti. Olimpia Morata parafrasò i salmi
in greco, lavorò affatto letterario come quel del Flaminio che li
ridusse in versi latini; piantavano dispute, ma le trattavano
filosoficamente, donde l'accusa di cui li colpisce Melantone, di troppo
platonizzare. Ciò li distoglieva dall'essere persecutori, come gli altri
più convinti, e quindi d'aggiunger un altro stimolo ai miscredenti, il
rumore e la pubblicità della repressione. Anzi, abituati alla grande
unità cattolica, i nostri traviati stupivano nel vedere i Protestanti
così discordi fra loro, e s'affannavano a conciliarli con quelle
transazioni, che li faceano disgradire dagli uni e dagli altri.

Più d'uno dei nostri, oltre il Contarini, fu accusato di cercare questi
accordi, se non altro, col tollerare espressioni che repugnassero
all'esattezza cattolica. Sul qual proposito il famoso Echio esclama:
«Non è schietto figlio della Chiesa quel che volesse fare transazioni
con ingiuria della madre: nasca scandalo, piuttosto che lasciare la
verità, dice san Gregorio. E san Basilio, la Chiesa otterrebbe
facilmente pace dagli eretici se alla verità ceder volesse: ma non
l'otterranno mai. Se fosse, che farebbe tutta la Germania? che i
ricchissimi regni della Spagna? che l'Italia, madre della religione, e
la Francia col suo re cristianissimo? che il Portogallo, l'Ungheria, la
Polonia, la Scozia, l'Inghilterra, la Sicilia, Napoli, la Croazia, la
Navarra? che le maggiori potenze: Venezia col regno di Creta e Cipro;
Milano, Firenze, Genova, Siena, Lucca, e i fortissimi otto cantoni
Elvetici coi Valdesi? Consentiranno essi, e daransi vinti, e
confesseranno d'aver essi e i loro antecessori mutata l'istituzione di
Cristo? O temerità!».

Aggiungiamo che i nostri non vi portavano cognizioni profonde della
scienza di Dio, e di raro convinzioni tenaci. Liberi pensatori, amavano
rompere i ceppi che l'autorità cattolica imponeva loro, cessar le
pratiche o incomode o umilianti, e poter pensare di loro capo,
interpretare liberamente il sacro testo, se non altro negare. Nella
Riforma non vedeano che un'altra superstizione surrogata all'antica,
talchè la ragione o restava servile al passato, o, rotto ogni freno,
usciva sino dal cristianesimo; e fuor d'ogni fede positiva cercava il
Dio ignoto. Non Luterani o Calvinisti, _sunt ingenia ad contentionem
prona et ad placandum difficilia_, scrive uno. E Comander: _Nos exosos
habent magnates nostri propter italos: nam contentiosi sunt et inquieti:
ex quacumque re levissima rixam movent: nec doceri a quoquo sustinent,
nec a sua pervicacia remittunt; unde nobis sunt oneri_.

Gli storici fanno eco a tali accuse, e anche non è guari il Villers
asseriva che gli Italiani sono o teisti o papisti[557].

Vogliasi ammettere che nei nostri fuorusciti non si trova la bassa
piacenteria verso la plebe o verso i principi, che deturpa gli scritti
di Lutero, ma neppure il merito letterario. In molti paesi la Riforma
diede origine o cagione a costituire o sviluppare le lingue vulgari;
così fu del romancio fra' Grigioni, del boemo al tempo degli Ussiti, del
tedesco colla Bibbia di Lutero, e in gran parte anche del francese
coll'_Istituzione_ di Calvino e colle prediche de' suoi. In Italia la
lingua avea già raggiunto la sua maturanza; e dei tanti letterati che
aderirono alla Riforma nessuno scritto rimase fra i classici; nol
meritando neppur la Bibbia del Diodati, sebbene testè adottata dalla
Crusca: non avemmo alcuno che portasse lo splendore della rinascenza nel
seno della Riforma.


NOTE

[520] Nel 1530 la Lombardia ebbe i ricolti devastati dalle locuste; e
non c'è regione, di cui le cronache non attestino le desolazioni.

[521] _Spigolature negli Archivj di Toscana_.

[522] A Siena la chiesa di San Domenico è coperta d'epitafj di studenti
tedeschi.

[523] SECKENDORF, _Hist. Lutheranismi_, tom. I, pag. 415.

[524] LUTHER'S _sammtliche Schriften_, tom. XXI, p. 4092 (ediz. Walch).
MELANCTON, _Opp_. col. 598, 835 ecc.

[525] CELESTINI, _Acta comit. Aug_., tom. II, p. 274, tom. III, p. 18.

[526] Argentorati, 10 settembre 1541.

[527] SECKENDORF, _Hist. Lutheranismi_, lib. III, pag. 68.

[528] HOTTINGER, _Eccl. sæc. XVI_, tom. II, p. 611. DE PORTA, Ref.
_Eccl. ræticarum_, lib. II, 5.

[529] Il Machiavelli osserva che, se la religione «non fosse stata
ritirata verso il suo principio da san Francesco e san Domenico, sarebbe
al tutto spenta». Noi sappiamo che non sarà mai spenta, ma vedasi quanta
importanza egli attribuiva a questi riformatori.

[530] _Leben Michelangelo's_. E vedi tutto ciò illustrato nelle _Rime di
M. A. Bonarroti curate sugli autografi e pubblicate da_ C. GUASTI.
Firenze 1863.

[531] Di questo sentimento di pietà, svolgentesi ne' gran momenti degli
artisti, avemmo un esempio in questo gennajo 1866, quando il Papi a
Firenze fuse il David di Michelangelo. Al momento decisivo buttaronsi a
ginocchi l'artista e i fattorini, in prima pregando, poi ringraziando il
Signore e i santi suoi.

[532]

    Onora e ama e teme e prega Dio
    Pel pascol, per l'armento e pel lavoro,
    Con fede, con ispeme e con desio
    Per la gravida vacca e pel bel toro.
    E 'l dubio, e 'l forse, e 'l come e 'l perchè rio
    Nol può ma' far, chè non istà fra loro
    Se con semplice fede adora e prega
    Iddio e 'l Ciel, l'un lega e l'altro piega.

[533] _Stanze del Berni con tre sonetti del Petrarca, dove si parla
dell'Evangelio e della corte di Roma. Io vi dico che se costoro
taceranno, i sassi grideranno_. Basilea 1554. La stanza forse più forte
è questa:

    La parola di Dio s'è risentita,
      E va con destro piè per l'Alemagna,
      E tesse tuttavia la tela ordita,
      Scovrendo quell'occulta empia magagna,
      Che ha tenuta gran tempo sbigottita
      E fuor di sè la Francia, Italia e Spagna,
      Già per grazia di Dio fa intender bene
      Che cosa è chiesa, caritade e spene.

[534] Nel 1861, _l'Edimburg Review_ stampò un notevolissimo articolo di
Cartwright sul _Progresso della Riforma Cattolica in Italia_.
Prestabilito che la nostra Chiesa ripudii ogni movimento, ogni dissenso,
considera come avverso ad essa, o almen minaccioso, chiunque professa
idee liberali sia in fatto di governo, sia in fatto delle temporalità
della Chiesa. Pertanto a capo a questi riformatori starebbero il Rosmini
e tutto il suo Ordine, perciò osteggiati dai Gesuiti; poi i Domenicani,
poi i Benedettini, poi Cappuccini; ne' quali Ordini indica personaggi
favorevoli, anzi banditori d'idee molto avanzate.

La conseguenza potrebb'essere tutta opposta a quella ch'esso deduce;
vale a dire che la Chiesa cattolica, perfin ne' suoi membri più devoti
quali sono i monaci, non ripudia la discussione e anche la proclamazione
di dottrine, contrarie alle legali, ma che pur non intaccano il dogma e
il vincolo della carità. Un'argomentazione simile a cotesta facea che,
nel XVI secolo, i Riformati considerassero come loro fautori molti, che
con vivacità e fin con amarezza disapprovavano i disordini della Chiesa,
ma senza rinnegarla. Del resto ciò non fu fatto solo coi nostri. A
Dresda nel 1860 e seguenti, si pubblicò _Aurora, sive Bibliotheca
selecta ex scriptis eorum qui ante Lutherum ecclesiæ studuerunt
restituendæ. Ediderunt_ F. PISTOTH, SCHOEPFF, NEUMANN.

Vedi pure C. ULLMANN, _Reformators vor der Reformation, vornemlich in
Deutschland, und den Niederlanden_. Amburgo 1841. Sono teologi tedeschi,
Giovanni di Goch, Giovanni di Wesel, Cornelio Grapheus, Gregorio di
Heimburg, Giacomo di Jüterbock, Matteo di Cracovia.

BONNECHOSE, _Les Reformateurs avant la Reforme_. Parigi 1860.

SIMON GOULART, _Catalogus testium veritatis_.

[535] _I tre testimonj fedeli_, cap. 37.

[536]

    _Cum casum miseratus ille magnus_
    _Carapha, Italiæ decus Carapha,_
    _Ad cœlum geminas manus tetendit_
    _Multis cum lacrymis Deum salute_
    _Orans de mea: et ecce acerba fugit_
    _Febris, et lateris dolor, refectæ_
    _Vires, etc._

Nello SCHOELHORN, vol. II, è un trattato _De religione M. Antonii
Flaminii_, e vi si legge: _In ipsa Italia, veritati evangelicæ inimica,
et in medio pravi perversique generis hominum micabat tamquam splendidum
luminare, plenusque divinæ lucis radiis ita sensit, ita vixit, ut non
dubitemus virum optimum purioris religionis veræque pietatis studiosis
adscribere. In præcipuis fidei christianæ capitibus eum nobiscum
conspirasse evidentissime probatum dabunt loca, quæ deinde ex ipsis ejus
scriptis recitabimus piane egregia_.

[537] Vedansi nelle _Lettere Volgari del_ 1567.

[538] Si sa che, dell'_Imitazione_, un volgarizzamento del XIV secolo
trovò Antonio Parenti, il che lo proverebbe anteriore al Gerson e a
Tommaso da Kempen, credutine autori, e appoggerebbe chi lo aggiudica al
Gersen, abate di Sant'Andrea di Vercelli.

Bossuet chiama questo libro «epilogo del cristianesimo, dotto e
misterioso compendio di tutta la dottrina del vangelo, di tutte le
istituzioni de' santi padri, di tutti i consigli di perfezione; dove
compajono eminenti la prudenza e la semplicità, l'umiltà e il coraggio,
la severità e la dolcezza, la libertà e la dipendenza; dove la
correzione ha tutta la sua fermezza, la condiscendenza tutto il suo
vezzo, il comando tutto il suo vigore, la soggezione tutto il suo
riposo, il silenzio la sua gravità, la parola la sua grazia, la forza il
suo esercizio, la debolezza il suo sostegno».

Poichè i Protestanti vollero vedervi un loro precursore, giovi notare
come tutto il libro V tratti della comunione in senso affatto cattolico.

C. 2. «Mirabil cosa e degna di fede, e che pur trascende l'umano
intelletto, che tu, signor Dio mio, vero Dio e uomo, sotto piccola
specie di pane e vino, tutto sii contenuto, e senza consumazione sii
mangiato da chi lo prende».

Al c. 5 tratta della dignità del sacerdote «che consacra e maneggia
Cristo sacramentato, e prende in cibo il pan degli angeli»: e gli
raccomanda non intorpidisca dall'orazione finchè meriti impetrar la
grazia e la misericordia. Quando il sacerdote celebra, onora Iddio,
edifica la Chiesa, ajuta i vivi, _dà requie ai morti_, e si rende
partecipe di tutti i beni». Prima della comunione (dice il Diletto)
«esamina la tua coscienza, e con ogni potere, con vera contrizione ed
umile confessione mondala e chiarificala». E conforta a non tralasciar
di comunicarsi per qualche turbamento o avversione: «ma va tosto a
confessare, e perdona le offese altrui. Or che giova il tardar la
confessione e differir la comunione?»

_In Sacramento altaris, totus præsens es, Deus meus, homo Christus
Jesus... O invisibilis conditor mundi, quam mirabiliter agis nobiscum,
quibus semetipsum in sacramento sumendum proponis, etc_. Lib. IV, c. 1,
e tutto quel libro.

Il discepolo offre al Signore tutte le opere sue buone, per quanto poche
e imperfette; i pii desideri de' devoti, e quei che desiderarono dicesse
preghiere e messe per loro e pe' suoi, o vivano ancora o siano defunti.

Al libro III, c. 12: «Se dirai non poter te molte cose soffrire, e come
sosterrai il fuoco del _purgatorio_?

Al c. 6: «Sappi che all'antico nemico spiace l'umil _confessione_: e se
potesse, farebbe cessare dalla comunione».

«Oh quanto soave e giocondo convito istituisti quando te stesso desti in
cibo». Lib. IV, c. 2.

Quanto al sacerdozio:

«Oh com'è grande e onorevole l'uffizio de' sacerdoti, ai quali è dato il
signor della maestà consacrare con sacre parole, benedir colle labbra,
toccar colle mani, prender colla propria bocca, somministrarlo ad
altrui!» C. 11, lib. IV.

«Tu devi te stesso a me volontariamente in oblazione pura e santa, ogni
giorno nella messa con tutte le forze e gli affetti tuoi offerire». C.
8.

«Solo i sacerdoti, regolarmente ordinati nella Chiesa, hanno la podestà
di celebrare e di consacrar il corpo di Cristo». C. 5.

«È necessario a me, che sì spesso travaglio e pecco, m'intepidisco e
manco, che con frequenti orazioni e confessioni, e col prender il corpo
tuo, mi rinnovi, mi mondi, m'accenda». C. 3.

E quanto all'esame e a l'autorità:

«Guardati da inutili e curiose indagini su questo profondissimo
sacramento, se non vuoi sommergerti nel profondo del dubbio. Chi scruta
la maestà sarà oppresso dalla gloria. Beata la semplicità che lascia le
difficili vie delle questioni, e va pel piano e sodo cammino de'
comandamenti di Dio». Lib. IV, c. 18.

E sulla soddisfazione:

_Nunc labor tuus est fructuosus fletus acceptabilis, gemitus
exaudibilis, dolor satisfactorius et purgativus... Melius est modo
purgare peccata et vitia resecare, quam in futuro purganda reservare_.
Lib. I, c. 24.

[539] A Carlo Gualteruzzi, 28 febbrajo 1542.

[540] _Epistolarum R. Poli collectio II_, civ. pubblicata dal cardinale
Quirini.

[541] Il Polo scrive male l'italiano, e tratto tratto l'abbandona per
ripigliare il latino col quale ha maggior pratica. Ma del resto si sarà
potuto vedere dalle carte da noi addotte come tale fosse la consuetudine
generale allora: siccome oggi per molti si fa col francese.

[542] Il Caracciolo, autore della vita di Paolo IV manoscritta, ebbe a
mano il compendio de' processi dell'Inquisizione, e ne usa con poca
critica, non distinguendo il sospetto dalla colpa. Secondo lui, il
cardinale Polo era molto sospetto di eresia, della quale era infetta
tutta la sua Corte a Viterbo, estendendosi alle monache di colà:
«com'anche a Firenze i monasteri interi erano infetti».

Nel processo del cardinal Moroni, un testimonio racconta d'un prete che,
divenuto familiare del Polo, fu da questo convertito alle nuove
dottrine; talchè scrisse al Contarini, lagnandosi gli avesse insegnato
tanti errori, mentre ora aveva aperto gli occhi alla verità. Vuol pure
che il Moroni fosse stato pervertito da esso Polo.

[543] Il Polo morì nel 1558, ed oltre il citato _Pro unitate Ecclesiæ ad
Henricum VIII_, scrisse _De Concilio; De summo pontificis ufficio et
potestate; De justificatione; De baptismo Constantini_.

[544] Testè alcuni membri della chiesa alta inglese sperarono poter
profittare dell'inclinazione de' Puseisti verso il cattolicesimo, e
rimettere in unità la Chiesa anglicana e la russa colla romana. Il
cardinale Patrizzi, 18 novembre 1865, rispondeva loro, affettuosamente,
badassero non ingannarsi supponendo che la Chiesa, fondata sul solo
Pietro, possa transigere con altre; giacchè cesserebbe di diritto e di
fatto d'essere cattolica: nè potersi procurar un accordo se non
riconducendo le altre chiese ai principj su cui la nostra fu fondata da
Cristo, una, indivisibile, eguale in tutti i tempi e i luoghi, e
propagata dagli apostoli e loro successori. Per arrivare a
l'intercomunione ecumenica non basta deporre ogni ostilità ed ira contro
la Chiesa romana, ma vuolsi abbracciare compitamente la fede e la
comunione di essa.

Ciò serve di commento ai molti tentativi di riconciliazione, che
indicammo e indicheremo fatti al tempo che discorriamo e posteriormente,
fra cui vanno distinti i nobili sforzi del Leibniz, seguìti dalla
disperazione di riuscita. Nel qual senso il Grozio diceva «aver sempre
desideratissima la riconciliazione dei Cristiani in un sol corpo: ma
essergli dimostrata impossibile perchè gli animi di quasi tutti i
dissidenti ne sono alienissimi, e per non aver quelli alcun principio di
unità nel reggimento ecclesiastico. Per le quali ragioni (e' prosegue)
le antiche parti non si potranno ricongiungere, e di sempre nuove ne
sorgeranno. Onde penso non potersi rannodare i Protestanti se prima non
si rannodino colla sede romana: senza la quale nessun reggimento comune
si può sperare: ond'è desiderabile sia tolta la scissura, e le cagioni
che la produssero. Fra le quali cagioni non è dà noverare il primato del
vescovo romano, ch'è conforme ai canoni, per confession di Melantone, il
quale anzi lo stima necessario all'unità. Ciò non è un assoggettar la
Chiesa all'arbitrio del pontefice, bensì un riporla nell'ordine che la
sapienza le ha costituito». GROTII OPERA, t. IV, p. 744.

[545]

    Se l'imperio terren con mano armata
      Batte la mia Colonna entro e d'intorno,
      La notte in foco e in chiara nube il giorno
      Veggio quella celeste alta e beata,
    Sua mercè, colla mente: onde portata
      Sono in parte talor, che, se in me torno,
      Dal natural amor che fa soggiorno
      Dentr'al mio cor, ben spesso richiamata,
    Mi par per lungo spazio e queto e puro
      Quanto discerno e quanto sento caro.....

E al papa dirigea varj sonetti, fra cui questo:

    Veggio rilucer sol di armate squadre
      I miei sì larghi campi, ed odo il canto
      Rivolto in grido, e 'l dolce riso in pianto
      Là 've prima toccai l'antica madre.
    Deh mostrate con l'opre alte e leggiadre
      Le voglie umili, o pastor saggio e santo!
      Vestite il sacro glorioso manto
      Come buon successor del primo padre.
    Semo, se 'l vero in voi non copre o adombra
      Lo sdegno, pur di quei più antichi vostri
      Figli, e da' buoni per lungo uso amati!
    Sotto un sol cielo, entro un sol grembo nati
      Sono, e nudriti insieme alla dolce ombra
      D'una sola città gli avoli nostri.

[546] Altrettanta fiducia palesa in questo sonetto:

    Chi temerà giammai nell'estrem'ore
      Della sua vita il mortal colpo e fero
      S'ei con perfetta fede erge il pensiero
      A quel di Cristo in croce aspro dolore?
    Chi del suo vaneggiar vedrà l'orrore
      Che ci si avventa quasi oscuro e nero
      Nembo in quel punto, pur ch'al lume vero
      Volga la vista del contrito core?
    Con queste armi si può l'ultima guerra
      Vincer sicuro, e la celeste pace
      Lieto acquistar dopo 'l terrestre affanno.
    Non si dee con tal guida e sì verace,
      Che per guidarne al ciel discese in terra,
      Temer dell'antico oste nuovo danno.

[547] Venezia, Aldo 1561. Dalla vita di essa, stampatane da Lefevre
Derimier a Parigi il 1856 poco s'impara. Vedasi piuttosto _Rime e
lettere di Vittoria Colonna_. Firenze 1860, edizione tratta da quella
che erasi fatta a Roma da P. E. Visconti per uso privato.

[548] _Lettere volgari di nobilissime donne_ ecc. Grave difetto di
quella raccolta è il non mettere la data delle lettere.

[549] Il Flaminio dirige a un tal Ottavio Pantagato de' faleucj per
invitarlo alle acque di Viterbo.

    _Octavi pater, ad viterbiensem_
    _Secessum venias, rogamus omnes,_
    _Polus, Parpalias, Priulus, ipse_
    _Tuus Flaminius. . . . . . . ._
    _Cur ergo, pater, huc venire cessas?_
    _Num te illa innumerabilis librorum_
    _Tenet copia curiosum? habebis_
    _Et hic græca volumina ut latina,_
    _Quæ lassare valent decem otiosos_
    _Plinios, licet usque, et usque, et usque_
    _Noctes atque dies legas, et hercle_
    _Facis, etc. etc._

[550] Su quelle lettere fu molto escusso il cardinal Morone, e
rispondendo sul conto della marchesa, disse: «Io la conobbi in Napoli,
e, quando fui fatto vescovo, mi mandò certi rochetti e breviarj, e dopo
qualche anno, la vidi in Roma, e forse prima in Viterbo essendo per
passaggio, ce la conobbi molto affezionato (come mostrava
spiritualmente) del cardinal Polo, il quale allora era povero, e pativa
gran persecuzione dal re d'Inghilterra per un libro che avea scritto
contro detto re in favore del primato di Nostro Signore: e per quanto mi
fu riferito da diverse persone, mandarono qui uomini a posta per farlo
avvelenare, ed anche per farlo ammazzare, e credo che per questa causa
papa Paolo III gli mantenesse alla guardia un certo capitano con alcuni
soldati continuamente, e quando volse andar a Trento, Legato al
Concilio, la signora marchesa di Pescara mi raccomandò con ogni affetto
la salute di questo signore».

Quel che il Morone pensasse lo leggeremo nella difesa di questo.

[551] Troverem ragioni per credere fosse il _Benefizio di Cristo_.

[552] _Epistolæ card. Poli_, III, 208.

[553] GERDES, _Specimen Italiæ reformatæ_, pag. 262.

[554] Vedi _Lettera di Giovanni Checozzi vicentino_, nella edizione
delle _Api del Rucellaj_, fatta in Padova dal Comino, il 1718.

[555]

      _Felix qui....... ineluctabile fatum_
    _Subjecit pedibus, strepitumque Acherontis avari_.

[556] Moltissimi nostri scrissero contro Lutero. Qui accenniamo che
Bernardo di Lutzemburg (-1535) nel _Catalogus hæreticorum_ dice che a
Roma, l'11 giugno 1521, alle 10 ore secondo l'orologio _nostro, in campo
Agonis_, presente infinito popolo, fu eretta una macchina, ove da una
parte era dipinto Lutero in abito da frate, dall'altra era scritto _La
dottrina di M. L. è dichiarata eretica e riprovata_; vi si aggiunsero
libri di lui, fu recitato un discorso del padre Cipriano Beneto, lettore
di teologia nelle sapienze, indi vi fu messo il fuoco dagli sbirri.

Esso Bernardo ha un _Opusculum de jubilæo, sive peregrinatorium ad urbem
Romam in XXX dietas redactum, in quo miræ antiquitates et sacrorum
interpretum sententiæ referentur_: curioso viaggio da Colonia a Roma in
occasione del giubileo del 1525.

Un F. G. cremonese, probabilmente domenicano, nel 1520 stampò a Cremona
_Revocatio Martini Lutheri ad sanctam sedem_, libretto or rarissimo, ove
procura convertir Lutero con questi capi: 1, _Suadeat ratio_; 2,
_Hortetur ss. Patrum auctoritas_; 3, _Alliciant accepta munera_; 4,
_Premat divinæ justitiæ severitas_; 5, _Trahant in populis orta
schismata_; 6, _Preces tuæ professionis emolliant_; 7, _Excitet Germana
majestas_; 8, _Invitet heroum christianorum humilitas in primis
Francisci I_; 9, _Compellat S. R. E. medio caritatis fonte proluens
divina pietas_.

Frà Paolino Bernardini di Lucca (-1585), che fu uno de più ferventi
difensori del Savonarola, fra molte opere teologiche ha una _Concordia
Ecclesiastica_ contra tutti gli eretici, ove si dichiara qual sia
l'autorità della Chiesa, del concilio della sedia apostolica e de' santi
dottori, Firenze 1552, cui è soggiunto un _Discorso sopra lo stato,
dottrina e costumi de' Luterani_, tradotto dal latino di Giorgio
Vicellio.

[557] _Influence de la Réforme de Luthèr_.


                          FINE DEL VOLUME I

                           (_Aprile_ 1866)



INDICE DEL PRIMO VOLUME


  AI LETTORI SERJ                                      _Pag._    5

  Discorso I. Fondazione e stabilimento della Chiesa     »      15
          II. Prime eresie. Consolidamento della
                primazia papale. Gli Iconoclasti         »      37
         III. Età ferrea del pontificato. I
                concubinarj. Le investiture. Guerra
                fra il pastorale e la spada              »      52
          IV. I Patarini. Gli Ordini mendicanti.
                La scolastica                            »      75
           V. Origine dell'inquisizione. Segue de'
                Patarini. La Guglielmina                 »     103
          VI. Mistici. L'Evangelio eterno                »     121
         VII. Crollo all'onnipotenza pontificia.
                Bonifazio VIII e Dante. Cecco d'Ascoli   »     137
        VIII. L'esiglio d'Avignone. Il grande scisma.
                Concilj di Costanza, di Basilea,
                di Firenze                               »     156
          IX. Eresia scientifica e letteraria.
                Paganizzamento dell'arte, della vita.
                Eresia politica                          »     171
           X. Scandali della Chiesa. Rimproveri
                fattile e tollerati                      »     200
          XI. I papi politici. Alessandro VI.
                Il Savonarola                            »     217
         XII. Giulio II. Concilj di Pisa e Laterano      »     240
        XIII. Leone X. Magnificenza profana del papato   »     248
         XIV. I Tedeschi a Roma. Erasmo                  »     258
          XV. Lutero, le Indulgenze, la Bibbia           »     273
         XVI. Incremento e suddivisione de' Protestanti  »     301
        XVII. L'apologia cattolica. Conseguenze della
                Riforma                                  »     327
       XVIII. Adriano IV papa riformatore. Clemente
                VII. Sacco di Roma. Preludj d'un
                Concilio                                 »     355
         XIX. Il Valdes                                  »     375
          XX. Primi riformati italiani. Pietà sospetta.
                Michelangelo. Il Flaminio. Il Cardinale
                Polo. Vittoria Colonna                   »     387



ERRATA-CORRIGE


Pag. 16 lin. 23 _invece di_ rilevate _leggasi_ rivelate

Pag. 19 lin. 19 _invece di_ pare _leggasi_ appare

Pag. 34 lin. 5 e 13 _invece di_ Cyprian. _leggasi_ Ciprian.

Pag. 116 nota(9) _invece di_ _juxta_ _leggasi_ _justa_

Pag. 139 lin. 11 _invece di_ 1234 _leggasi_ 1294

Pag. 150 lin. 17 _invece di_ esso Dino potea gli _leggasi_ esso Dino gli

Pag. 155 nota(25) _i versi di Dante leggansi_

    Che se potuto aveste veder tutto
    Mestier non era partorir Maria

Pag. 158 lin. 24 _invece di_ S. Ireneo di Poitiers _leggasi_ S. Ireneo

Pag. 177 lin. 8 _invece di_ presene _leggasi_ presone

Pag. 177 lin. 27 _invece di_ Paola _leggasi_ Paolo

Pag. 182 lin. 9 _invece di_ achitto _leggasi_ achito

Pag. 197 lin. 12-14 _leggi_ probare videntur mortalitatem animæ......:
si quæ videntur probare ejus immortalitatem ecc.

Pag. 212 lin. 8 ult. _aggiungi in nota_ Revelatio S. Brigitæ, l. 1, c.
41, ed. Romæ 1628.

Pag. 212 lin. 6 ult. _invece di_ anelvano _leggi_ anelavano

Pag. 212 lin. 4 ult. _invece di_ scorie _leggi_ scoria



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le
grafie alternative (chierici/cherici, Lepanto/Lèpanto e simili),
correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Le correzioni
elencate a pag. 432 (Errata-Corrige) sono state riportate nel testo.





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