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Title: Il Nemico, vol. II
Author: Oriani, Alfredo
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Il Nemico, vol. II" ***


              ALFREDO ORIANI


                Il Nemico


           Per non perdere l'intelletto in
           certe cose bisogna non averlo.

                                LESSING.



              QUARTO MIGLIAJO
                   1894
         L. OMODEI ZORINI, EDITORE
        _Portici Settentrionali, 23_
                  MILANO



            PROPRIETÀ LETTERARIA

  Milano, 1894 — Tip. Wilmant di L. Rusconi.



PARTE SECONDA



I.


Quando giunsero al castello di Ourikow, a cent'ottanta verste da Mosca,
era circa mezzogiorno.

Per la vasta campagna la neve si stendeva alta e bianca, senza che una
sola ondulazione del terreno potesse un istante arrestare lo sguardo.
Avevano viaggiato tre giorni su quel bianco, sotto un cielo plumbeo,
tormentati da un vento leggero, che sferzava loro la faccia congelandovi
l'alito. I cavalli, colla coda e la criniera sonanti di diacciuoli,
sembravano avanzare fra una nuvola di fumo vaporante dal loro lungo
pelo, sul quale si sarebbe mutata in brina al primo allentare del
trotto. Alti pali, a enormi distanze, segnavano la direzione della
strada; passavano poche vetture. La campanella ondulante sul dorso del
cavallo di mezzo, gettando il proprio appello monotono nell'abbandono
gelido del paesaggio, vi destava una invincibile malinconia. Loris
guidava con mano sicura i tre cavalli e non parlava col principe,
sepolto dentro la pelliccia e sotto l'enorme berrettone, se non per
chiedergli qualche indicazione sulla strada; davanti ad essi nessun
punto, che potesse somigliare ad una meta. La neve, abbacinando i loro
sguardi, raddoppiava col proprio candore l'immensità di quel silenzio
non paragonabile nemmeno a quello del mare, ove le acque si muovono, e
l'occhio va lontano sopra una mobile gamma di colori sino all'altro lido
del cielo.

I villaggi si distinguevano solo entrandovi, perchè gli occhi, stanchi
di quella bianchezza, non potevano cogliere da lungi il rialzo dei loro
tetti. Le loro isbe circolari, a distanza l'una dall'altra, cinte da un
alto stecconato nereggiante fra la neve, lasciavano sfuggire qualche
pennacchio leggero di fumo, e tacevano. Gli abitanti vi dormicchiavano
intorno alla stufa nel caldo; tutte le immondizie s'accumulavano
diacciate e nauseanti agli usci per putrefarsi, quando i primi venti
della primavera scioglierebbero la neve, ma ora testimoniavano sole
della presenza degli uomini. In quell'inverno e per quelle steppe
nessuna idea era possibile. Come radunare il popolo in quella stagione?
Come deciderlo a uscire dalle isbe, mettendogli in cuore una passione,
che il gelo e il bianco dell'aria aperta non facessero vanire?

Sopra ogni villaggio torreggiavano la chiesa e il castello; la cupola
colorata dell'una, e le mura dell'altro dominavano nella pianura, mentre
le isbe si acquattavano loro sotto in una quiete di tane. Solo il
castello e la chiesa scrollavano talora colle campane quel silenzio, che
nessun'altra voce sarebbe bastata a rompere oltre il breve raggio dello
sguardo abbarbagliato. Il solco delle slitte e delle ruote tracciava la
strada, i fiumi gelati e scomparsi sotto la neve s'indovinavano appena
in un avvallamento del terreno, mentre alcune foreste lunghe, ma di
bassissimo fusto, troppo cariche di neve per disegnare abbastanza
visibilmente la loro intricata barriera, parevano poco più di un rialzo
bucherellato, dietro il quale il pensiero non sapeva che cosa
immaginare.

Viaggiarono tre giorni, fermandosi nei più grossi villaggi per riposare
i cavalli. Gli alberghi ove scendevano, erano poco più di un'isba, e ne
avevano la forma. Pochi mugiks e mercanti vi bevevano intorno alla
stufa, aggravando il proprio torpore iemale di tutto il peso di una
sbornia, sotto la quale sensazioni e sentimenti affondavano; ma,
riconoscendo nei due viaggiatori la razza dei padroni, si levavano per
fare loro grandi inchini sino a terra. Qualcuno fra i più spregiudicati,
radunando tutto il proprio coraggio di servo emancipato da ieri e non
ancora libero, perchè forse in mora col pagamento della terra ricevuta,
arrivava sino a chiedere loro da bere, poi se ne vantava collo sguardo
verso gli altri, se la scroccheria riusciva. E quando i signori
ripartivano freddi e compassati, tutto il crocchio di quella gente si
affollava entro lo steccato della stalla, augurando il buon viaggio a
capo scoperto, umili nell'ammirazione del ricco equipaggio.

Il secondo giorno, essendo discesi ad un traktir pieno di mugiks, che vi
tenevano, come al solito, una delle loro assemblee per discutere un
affare del mir, il principe si volse a Loris:

— Provate dunque a parlare con loro.

Egli sentì tutta l'ironia di quell'allusione all'invincibile diffidenza
dei mugiks pei signori, e non rispose.

Allorchè giunsero in vista del castello, il principe si scosse. Il
villaggio vi sorgeva davanti a non molta distanza; sull'ingresso del
villaggio la piccola chiesa arrotondava la propria cupola verde
bizzarramente incappellata dalla neve. La giornata era fosca. Un vento,
levatosi da poco, faceva stridere sommessamente i grandi alberi a fianco
del castello, staccando dalle loro cime, che si rialzavano di un crollo,
qualche groppo di neve. Si udì il latrato di un cane. Il castello non
era nè grande nè ricco, ma costrutto in muratura, a due piani, dominava
tutte le isbe dall'altezza delle proprie finestre.

Traversando il villaggio, la campanella attrasse sugli usci alcuni
mugiks, che s'inchinarono sino a terra. Quindi la notizia dell'arrivo si
sparse così rapidamente, che la maggior parte degli abitanti erano già
usciti nel mezzo dell'unica strada, prima che la droiska avesse
oltrepassato la grossa cancellata di ferro, che interrompeva il muro di
cinta dinanzi alla porta del castello. Molti servi si affrettarono
intorno al padrone. Nel vestibolo, l'alta temperatura dei caloriferi
diede ai due viaggiatori come il senso di una soffocazione; il principe
aveva già chiesto a Tikone, il vecchio intendente, notizie della
signora.

— Sua Alta Nobiltà sta benissimo, aveva risposto questi guardando negli
occhi del padrone.

— È inutile avvertirla subito del nostro arrivo. Venite, Loris, gli si
rivolse, ora siete in casa vostra.

L'intendente li precedeva sullo scalone in legno, coperto di un modesto
tappeto; molti vasi di piante verdi erano disposti sui pianerottoli.

Traversarono un'anticamera, due sale, un salone, sino ad un gabinetto
arredato senza pretesa. La temperatura, sempre così alta, scioglieva
loro in acqua sul viso i diacciuoli dei capelli e dei baffi. Si
sentivano stanchi, tutte le membra intorpidite; il principe sembrava
anche più ammalato, colle spalle più curve. Tratto tratto qualche colpo
di tosse gli scuoteva il petto. Loris aveva perduto la bella freschezza
del volto; gli occhi gli si erano appannati, aveva la bocca amara.

Dall'ampia finestra a doppia vetriata si vedeva, attraverso l'opacità
dei cristalli, sui quali il ghiaccio aveva ricamato i propri fiori
fantastici, un bianco torbido. Dalla parete opposta il ritratto di un
maresciallo del secolo passato attirò l'attenzione di Loris.

Poco dopo, entrò l'intendente con due domestici recanti il samovar, e
chiese gli ordini.

Loris aveva acceso confidenzialmente uno sigaro e, non potendo star
seduto per la irritazione del lungo viaggio, camminava davanti alla
finestra. Il principe preparava il the.

Quando ebbero bevuta la prima tazza, questi gli disse:

— Vi presenterò a mia moglie.

Loris gli si volse osservandolo.

— La giudicherete. Il suo carattere è dei più difficili, forse anco per
la malattia, che la tormenta. Questo inverno ha detto di volerlo passare
in campagna, fuori del mondo; non ha nemmeno una dama di compagnia per
ammazzare il tempo. Ma Loris lo interruppe:

— Quando ricevete i giornali qui?

— Due volte la settimana, talvolta anche più tardi, secondo il tempo.

— A questa ora forse tutto è già scoperto; io non posso restare in casa
vostra.

Il principe ebbe un gesto, ma l'altro seguitò:

— Non si tratta di compromettersi inutilmente: scoperti, saremmo
entrambi ridicoli. La nostra traccia forse ora è perduta, ma la vostra
uscita dal teatro può essere stata notata.

Quindi improvvisamente;

— E gli altri due che cosa avranno fatto? Vedete bene che il mio luogo
non è qui.

— Aspettate, arriveranno i giornali. Posso mandare alla stazione di
Waila un telegramma. E se nulla fosse ancora scoperto?

— Impossibile....

Ma il principe tornò sul discorso della moglie.

— Tatiana è intelligentissima, potrebbe indovinarvi.

L'altro alzò villanamente le spalle.

Allora, mentre si ammaniva la colazione, il principe accompagnò Loris
nelle due stanze, che intendeva assegnargli, un salottino ed una camera
da letto. L'arredo vi era più ricco, ma siccome Loris, fuggendo, aveva
lasciato tutto a Mosca, il principe dovette offrirgli la propria
biancheria e una veste da camera.

Il salotto era così pieno di ritratti e di gingilli, che evidentemente
doveva aver servito ad una signora. Una ricca paniera in filigrana
d'argento vi conservava ancora tutti i piccoli arnesi da ricamo; due
aquerelli alle pareti, alcune rose e un lupo colla bocca sanguinolenta,
vagante sulla neve, sembravano disegni da educanda all'ingenua
pedanteria del tocco e del colore. Un'altra moltitudine di fotografie
copriva i tavolini, fra molti vasi di porcellana, e statuette di
Sassonia di un lusso minuscolo e raffinato. L'altra camera invece aveva
un grande letto di quercia intagliata, sullo stile di Luigi XIV. Un
padiglione di damasco a fiorami leggermente sbiaditi ne copriva la
testiera; la coperta era di un rosso appannato, colla frangia a ghiande
e a cordonetto, non senza qualche sfilacciatura, mentre sul tavolino da
notte una bottiglia e un bicchiere di cristallo antico, presso un
candelliere d'argento, luccicavano vivamente. Gironzando per la camera
Loris trovò in un angolo, sopra uno sgabello ricamato, una vecchia
blonda di Malines.

Siccome il principe aveva detto, che lo attenderebbe nel salone, Loris
vi tornò appena compita una rapida toeletta.

Il salone, nel mezzo del castello, non era molto più vasto di una sala;
dalle stanze di Loris bisognava giungervi attraverso un corridoio quasi
buio, perchè il principe gliele aveva appunto assegnate in fondo all'ala
sinistra, per lasciarlo più libero.

Entrando nel salone Loris si senti commosso senza sapere di che; lo
aveva già intravvisto passandovi, ma ora gli sembrava più ricco e
severo. Alcuni mobili erano dorati, altri di quercia; notò subito un
immenso lampadario di bronzo, mostruoso capolavoro cinese, poi in un
angolo un grande piano-forte nero, intarsiato di avorio, sulla cassa del
quale biancheggiava una piccola copia del centauro greco. Le tende scure
cadevano pesantemente sul tappeto azzurro-cupo, la vôlta era a
cassettoni intagliati, ma l'ombra ne velava il disegno.

Poco lungi dal piano-forte uno sgabello, formato con corna di renna, di
una rusticità polare, e una poltroncina di un cilestro soavissimo,
squisitamente parigina, si toccavano ancora chi sa dopo quale
conversazione. Loris attratto dalla loro antitesi si avvicinò. Gli parve
che la poltrona esalasse un tenue profumo, e che la sua imbottitura
fosse pesta.

Quindi molte voci gli giunsero dal di fuori. Un gruppo di mugiks
aspettava alla porta del castello, col capo scoperto, di essere
introdotto per salutare il padrone.

Questa abitudine servile, rimasta anche dopo l'emancipazione, gli trasse
sulle labbra un amaro sorriso; ma la porta a vetri stridè, e tutti i
mugiks s'inchinarono, alcuni sino a toccare colla fronte la neve. Il
principe si era presentato sulla soglia a ringraziarli, preferendo
evidentemente di non riceverli per non ammorbare la casa col puzzo delle
loro pelli. Quella scena durò a lungo. Forse i mugiks avevano qualche
cosa da chiedere all'antico padrone, e v'insistevano colla loro
tradizionale tenacità, seguitando ad inchinarsi dopo ogni parola, come
in chiesa, durante la messa. Colle figure tozze, coperte di pelliccie di
montone, la chapka in mano, i lunghi capelli sulle spalle e le barbe
anche più lunghe, piantati sulle scarpe larghe di vimini, fra
l'abbacinante candore della neve formavano un quadro di un vigore
straordinario. Stavano ordinati su tre file, ma non parlavano che quelli
davanti.

Loris si ricordò il quadro di Gerôme «_Ave, Cæsar, morituri te
salutant_.» Quindi indietreggiarono, curvandosi ancora di più, parlando
tutti in una volta, e la porta tornò a stridere sui cardini.

Allora Loris vide una signora vestita di bianco, sotto il lampadario,
nel mezzo del salone, che lo guardava. Da quanto tempo? Così nell'ombra
non potè discernere la sua fisonomia; egli pure volgendo le spalle alla
finestra restava colla faccia al buio, ma indovinando in lei la moglie
del principe abbassò lievemente la testa ad un inchino.

La signora era alta, bionda, coi capelli rialzati sulla fronte; la vesta
amplissima le cadeva intorno a pieghe grosse e rigide, quasi ieratiche.

Loris seguitò ad inoltrarsi, ma nel passare dinnanzi alla finestra la
sua fisonomia s'illuminò.

La signora gettò un grido, rinculando con un gesto di spavento:

— Voi! esclamò con voce strozzata.

Non intesero un passo nell'anticamera.

La signora lo guardava fiso, colla bocca convulsa, arretrando
lentamente; ne' suoi occhi sbarrati brillava una luce insopportabile.
Loris la riconobbe; era lei, sempre così bella, diventata più alta e più
magra. Le trovò subito quell'impercettibile neo all'angolo sinistro
della bocca, ma egli stesso era sconvolto, si sentiva sommergere.

Ella indietreggiava verso il piano-forte, strisciando sul tappeto, con
una mano protesa e la testa gettata indietro attirandolo.

Poi si volse all'uscio, di cui la maniglia aveva girato, e cadde
svenuta.

Il principe si slanciò per sostenerla.

Loris era rimasto al proprio posto.

Il principe sollevò la signora con una forza che, a vederlo così
emaciato, non gli si sarebbe supposta; la distese sopra un divano, le
mise un cuscino sotto la testa, le ravviò la veste sui piedi, che
penzolavano ancora sul tappeto, e curvo su lei, più smorto di lei, la
contemplava. La signora aveva rimasto gli occhi aperti, i denti le
tremavano.

— Non le avete parlato? chiese a Loris.

— Mi sono voltato dalla finestra udendola passare; l'ho vista cadere nel
momento, che siete entrato.

— Una delle sue crisi! rispose il principe, che si era già rivoltato:
questa volta non sarà forte. V'intendete di medicina?

— Ne ho letto qualche libro.

— La principessa è nevropatica; ma si torse ancora, studiandola colla
acutezza di un medico; vedete: sono sicuro che c'intende, ma non può
muoversi.

Loris rimase impassibile. Il principe aveva preso il polso
dell'ammalata, e lo stringeva fra le proprie mani. Ella pareva una
statua; i suoi occhi appannati erano divenuti come due turchesi.

Il principe s'irritò; quel riserbo di Loris gli parve affettato.

— Vorreste avere la bontà, gli disse con un certo stridore nella voce,
di scendere ad avvisare il primo servo che incontrerete, di mandare qui
Sonia, la vecchia cameriera della principessa?

Loris, s'inchinò senza gettare uno sguardo alla signora.


Loris era figlio di un pope.

Come tutte le famiglie sacerdotali della Russia, quella di suo padre e
di sua madre si perdevano nella stessa antichità dell'altare che
servivano, in un esilio dal mondo senza speranza di potervi rientrare.
Nessun pope infatti poteva, sino al 1864, uscire dalla propria casta che
degradato da una condanna in Siberia, o nell'esercito; a nessun pope,
perchè ammogliato, era permesso di salire nell'alta gerarchia della
chiesa, riserbata al clero nero dei monaci.

Il padre di Loris, figlio di un povero curato di Kourlak, nel governo di
Voronege, era cresciuto nella triste infanzia di tutti i suoi pari; la
parrocchia, vasta quanto una diocesi italiana, non aveva che pochi
villaggi composti di alcune isbe, abbandonati a grandi distanze, e
rendeva assai poco. Il vecchio pope, magnifico esemplare dell'antico
stampo tutt'ora comunissimo in Russia, buono ed ignorante, s'ingegnava a
munger danaro ai contadini disimpegnando le proprie funzioni, come un
qualunque altro impiegato, colla massima negligenza e con tutta la
corruzione possibile; ma, contento di vivere, lasciava vivere gli altri
alla meglio. Se pregava poco e non pensava affatto, beveva quasi più del
possibile, e per unico orgoglio aveva la magnifica voce da basso del
proprio diacono. Sua moglie invece, troppo cagionevole di salute, non
poteva nemmeno partecipare alle loro lautezze brutali ed intermittenti.
Quando venne l'unico figlio, dopo tre figlie morte successivamente a
poca distanza dalla nascita, egli lo chiamò per devozione Nicola,
mettendolo così sotto la protezione del massimo santo ortodosso, di
quello che, secondo la leggenda russa, deve ereditare da Dio, divenuto
finalmente troppo vecchio, l'impero del cielo.

Ma il bambino si sviluppava così malaticcio da inspirare continui timori
di morte. Il padre, robusto e colossale, non poteva persuadersi di tale
mingherlina struttura, prodotta forse dai proprii eccessi alcoolici. Poi
Nicola cominciò a mostrare molto ingegno, e il padre se ne compiaceva,
come di un elemento amabile di conversazione, senza un sospetto dei
pericoli, che tale superiorità potesse attirare sopra un pope, legato
all'altare come un servo alla gleba, nel più orribile degli isolamenti.

A sedici anni Nicola, avendo compiuto il corso del seminario diocesano,
entrò nell'accademia di Kief, una delle quattro maggiori, e vi si fece
tosto notare sfavorevolmente per la energia indomabile dello spirito. In
quella vita tumultuosa di collegio egli fu uno dei più calmi e, nel
medesimo tempo, dei più insubordinati; invece di abbandonarsi, come
tutti i suoi compagni, a quegli scandali col vino e colle donne,
divenuti popolari in Russia dopo le novelle di Pomialovsky, un figlio di
pope morto a trent'anni di miseria e di stravizî, egli divenne il
precettore della loro incredulità e il capitano delle loro rivolte. Tale
iattanza di indisciplina, troppo frequente nei seminari russi per
mettere pensiero ai superiori, perchè tutti quei chierici mal'educati
andrebbero poi ad esaurirsi nella solitudine delle parrocchie senza
poterne alterare la vita tradizionale, assunse allora per opera di
Nicola proporzioni più gravi. Si dovettero adoperare più spesso le
verghe, benchè da poco tempo abolite; Nicola stesso vi passò più di una
volta. Naturalmente il supplizio, da lui sopportato con stoicismo
feroce, mutò il suo disprezzo per la religione in odio, e la sua
miscredenza in pessimismo. Di ribelle crebbe a nemico. Quindi raddoppiò
di ardore negli studi, leggendo di straforo tutte le opere di esegesi
ecclesiastica, distruggitrici della verità cristiana, che allora
uscivano dalle grandi università tedesche. Poi a scuola le sue
obbiezioni, presentate sempre colla più sottile ironia, impacciavano
spesso il professore, sino ad impedirgli la risposta fra lo scherno
della scolaresca, mentre la sua empietà, più profonda degli stessi
misteri cristiani, trovava sempre un dubbio dopo qualunque prova, o
inventava una avvilente interpretazione umana pei dogmi più divini.

A poco a poco s'impose ai professori.

Era piccolo, magro, con una fisionomia quasi di donna, che avrebbe
potuto essere bella, se un avvizzimento precoce non l'avesse sciupata.
Aveva la fronte alta e ripida del combattente, la bocca un po' storta,
quasi dolorosa, specialmente dopo aver parlato, e allora i suoi occhi
stranamente neri lanciavano spesso occhiate, che parevano bestemmie. Nè
al seminario, nè all'accademia aveva contratto vere amicizie; i suoi
compagni più invidiosi lo dicevano senza cuore, ma allorchè un vecchio
maestro di storia ecclesiastica, ammirato del suo ingegno, gli consigliò
di entrare nei monaci per avere così l'adito ai più alti gradi della
chiesa, egli rispose freddamente che non poteva abbandonare i genitori.

— Non desideri piuttosto di prender moglie?

— Credete la fornicazione dei monaci meno voluttuosa del matrimonio?
ribattè Nicola.

Infatti, accettando la propria condizione, sposò per essere ordinato
pope la figlia di un curato vicino, e tornò nella propria parrocchia a
sostituirvi il padre, reso impotente dalla continua ubbriachezza. Ma in
questa decisione l'amore di famiglia era entrato ben poco; era stato
piuttosto uno scoramento disperato a rigettarlo entro l'orbita
infrangibile della chiesuola paterna, mentre la religione non gli parerà
che una volgare commedia, doppiamente necessaria all'ignoranza dei
mugiks e all'autocrazia dello Stato. Egli avrebbe dovuto egualmente
servire dovunque; anzi, salendo nella gerarchia, la necessità di mentire
sarebbe cresciuta ad ogni scalino, consolata solamente dalla crudele
comodità di poter tiranneggiare qualche povero curato.

Non ne valeva la pena.

Allora ogni rivoluzione era impossibile. Non restava che vivere da sè
stesso, scorazzando come un cosacco a cavallo pei campi della fede,
divertendosi a saltare gli ostacoli, davanti ai quali tutti
s'inginocchiavano. Nessuno ne avrebbe mai sospettato, ma che importavano
gli altri? Sapere per sapere era la divisa del suo giovane orgoglio.
Laonde organizzò la propria piccola vita. Era povero; sua moglie, Maria
Alexewna, non gli aveva portato che trecento rubli di dote; la chiesa
non possedeva che dodici desiatine in terreno, poco più che dodici
ettari, ma la metà solo era devoluta al pope. Tre desiatine andavano al
diacono, il resto si divideva in parti eguali fra il cantore e il
sagrestano. Poi le terre erano tutt'altro che di prima qualità. Con sì
magre risorse la famiglia stentava dolorosamente la vita. I contadini,
che avrebbero dovuto lavorare gratuitamente i campi della chiesa,
gettandosi l'un l'altro la soma, finivano spesso coll'evitare
quest'obbligo e lasciare il curato nella più crudele perplessità,
giacchè al tempo dei lavori la scarsezza delle braccia rendeva difficile
il trovarne, quand'anche, e il caso era piuttosto raro, egli ne avesse
avuto il danaro sufficiente. Negli ultimi anni, il vecchio pope era
stato costretto più di una volta a condurre da sè il proprio aratro.

La miglior rendita era sempre il casuale; ma anche di questa una grossa
parte era riserbata alle case della diocesi e del Santo Sinodo, così che
al pope non rimaneva che l'incasso dei battesimi, dei matrimoni, delle
confessioni, dei funerali, perchè in Russia tutti i sacramenti si
pagano, e tre o quattro giri annui pei campi, benedicendo le messi o
maledicendo agli insetti, che le guastavano. Ma anche quest'ultimo
ricolto bisognava contenderlo agli stregoni, spesso più creduti dei pope
dai contadini.

Il noviziato fu duro.

Per quanto figlio di pope ed allevato in una famiglia, ove l'abitudine
secolare aveva tolto ogni ripugnanza a tali mercati rendendone come
incosciente l'ipocrisia necessaria, Nicola, nella propria nuova superbia
di libero pensatore, ne soffriva. Il suo profondo disprezzo per la
ortodossia diventava passione, quando doveva servirsene fatalmente per
carpire a quei poveri mugiks tanto da vivere; quindi ogni discussione
sul prezzo di un sacramento con loro, usi a difendere sino agli estremi
i propri scarsi kopeks, lo esasperava oltre ogni prudenza. Avrebbe
voluto cacciarli di casa a pedate, gridando loro che la religione era la
più stupida delle truffe, e Dio il più malvagio dei fantasmi; ma le
strettezze della famiglia glielo vietavano. I suoi vecchi genitori erano
ammalati, il diacono, il cantore e il sagrestano instavano per la
riscossione di questi piccoli emolumenti, sui quali era loro devoluta
una quota, e venivano a parlare con lui delle funzioni necessarie,
abbandonandosi a tutti i calcoli del mestiere coll'ingenuo impudore di
una ignoranza non priva di fede. Egli solo, ateo, s'irritava talora alla
poca meraviglia, che essi facevano del suo ateismo; nemmeno sua moglie
Maria Alexewna se ne commuoveva.

Ella pareva non occuparsi apparentemente di nulla. Era una bella donna
dalla fisonomia calma, con una meravigliosa capigliatura bionda, che le
si ammassava sulla testa come un cimiero. Il suo volto ovale si
appesantiva leggermente nella parte inferiore, mentre le guancie le
sfumavano nel collo, tondo e grasso, di un bianco quasi troppo puro.
Camminava lentamente, cogli occhi grandi intontiti, e un'aria di
stanchezza, che la faceva sembrare più bella, irritando gli stessi
desideri, che ispirava. Aveva gli occhi cilestri, le mani paffute e
affusolate, i piedi piatti, le orecchie piuttosto grosse; ma la sua
bocca larga, senza essere sensuale, mostrava i denti grandi, di una
bianchezza lucente dietro il rosso umido delle labbra. Cantava con voce
di soprano, gelida e pura.

Il marito la trattava bene senza amarla; Maria Alexewna invece lo
adorava.

Da principio le era appena piaciuto. Poi quell'uomo, sempre in orgasmo,
violento ed infelice, che parlava a scatti, nel quale il pensiero aveva
dei riflessi di incendio e la parola dei murmuri di tempesta, l'aveva
affascinata. Ella aveva subìto la sua prima foga maschile in uno
stordimento, dal quale non era ancora del tutto rinvenuta, e nel quale
s'immergeva volta per volta come in un bagno di vapore. Presso a lui si
sentiva fiorire, ma non glielo diceva, non sapendo nemmeno come
mostrarglielo, mentre egli la credeva fredda e di una intelligenza meno
che mediocre. Talvolta quella calma lo esasperava: ella invece lo
involgeva nel proprio sguardo limpido, dominandolo colla sicurezza di un
amore sano e tranquillo.

Perfino le sue continue bestemmie non la turbavano. Ella considerava la
religione come un mestiere di famiglia, non troppo buono, perchè tutte
le sue memorie e i discorsi intesi dalla gente della sua casta erano di
lagnanze; però in fondo alla religione v'era un'altra cosa, che tutti i
pope ammettevano, per la quale talora officiando sembravano
trasfigurarsi. Quando Nicola, avventandosi contro l'idea di Dio,
ricadeva sopra sè stesso, nello spasimo inconsolabile di sentirsi prete
e di non potere essere altro, ella non vi dava più importanza che ai
tanti sfoghi, spesso consimili, uditi nella propria famiglia.

— Tu credi in Dio, tu!? egli le gridò una volta.

— Non lo vuoi?

— E che m'importa?

— Farò come desideri.

Questa sublime semplicità lo scosse.

Ma invece di rassegnarsi a quella vita, egli se ne crucciava ogni giorno
più. Poi gli morirono il padre e la madre; dovette prendere un altro
diacono, mutare il sagrestano. Quando tutti questi cangiamenti furono
compiti, egli avvallò nella più desolata misantropia. Aveva esaurito
ogni eventualità della vita; d'ora innanzi che cosa potrebbe più
accadergli in quell'esilio dal mondo? La morte della moglie? I canoni
gli impedirebbero allora di prenderne un'altra; solamente per una
benigna e recente interpretazione gli si permetterebbe di seguitare
nell'esercizio della parrocchia. Ma egli se ne andrebbe piuttosto, non
sapeva dove, ma fuori della Russia, a morire almeno non prete, libero
come tutti gli altri uomini.

Col nuovo diacono si vedevano il meno possibile. E siccome in Russia il
sacerdozio è interdetto ai diaconi come il vescovado ai pope, quegli era
al solito un chierico non passato agli esami, e condannato quindi tutta
la vita al servizio subalterno dell'altare. Era di piccola statura e di
poca voce, coi capelli crespi e la faccia terrea; si chiamava Popiel.
Nicola fiutando in lui un nemico, n'ebbe quasi piacere, per battagliare
almeno con qualcuno, ma l'altro si mostrò quasi servile, e rimase
scapolo.

Nicola viveva nella piccola casa, rifabbricata dal padre coi propri
danari, a fianco della chiesa. La casa in legno aveva una stalla per la
vacca, della quale il latte era un gran sollievo per la famiglia; ma,
segno di vera miseria, Nicola non teneva cavallo. Quindi, allontanandosi
dalla chiesa, doveva chiederne uno a qualche contadino.

Quanto al padrone del villaggio, assente da molti anni, Nicola si
ricordava di averlo visto solo due volte da fanciullo; era un signore,
il principe Khovanski, discendente di Guidemino, dell'antica casa di
Lituania nota in Europa sotto il nome dei Iagelloni, nobiltà di primo
ordine, la sola capace di lottare con quella dei discendenti di Rurik.
Era celibe e ricchissimo. Possedeva nel paese quarantamila ettari, così,
che per ispezionare tutte le proprie terre, doveva più volte mutare di
cavalli; ma non vi aveva soggiornato che a grandi intervalli. Il vecchio
pope si era sempre lagnato de' suoi modi soldatescamente aristocratici.
Giammai era stato ricevuto al castello, nemmeno per pasqua, quando
faceva il giro di tutte le case benedicendo; non gli si lasciava
oltrepassare il vestibolo, ove i servitori sguaiati gli offrivano la
vodka, gettandogli nel paniere l'elemosina.

Nullameno il vecchio pope non aveva mai smesso quella pratica, e perchè
l'elemosina del principe era la più abbondante, e per non attirarsi con
un atto di ribellione la sua inimicizia. Nicola invece, profittando
dell'assenza del padrone, si era contentato di mandare solamente il
diacono a benedire il castello, sebbene se ne fosse mormorato nel
villaggio; ma l'intendente non glie ne aveva detto parola.

Nell'immenso fermento ideale suscitato in Russia dalle dottrine di
Hegel, questi sembrava esservisi sostituito a Napoleone, spostandola
nuovamente dalla sua base storica. Un inconsolabile dolore occupava
allora l'anima russa. Dopo che Napoleone aveva sommosso colle proprie
legioni tutta la terra russa, Hegel ne aveva, col proprio pensiero,
mutato il cielo. Nei circoli intellettuali non si poteva più essere
russi che negando ogni valore al passato per scagliarsi attraverso
l'Europa, ad un avvenire ancora troppo lontano per l'Europa stessa.

Nicola si era slanciato sull'hegelianismo come un areonauta, che
abbandonando la terra vi getta appena uno sguardo per misurare tutta la
distanza già percorsa; ma se nel fervore del primo entusiasmo aveva
creduto alla nuova dottrina colla fede di un neofita, presto il freddo
di tutte quelle astrazioni lo sorprese. Il suo pensiero russo soccombeva
al giuoco di quella dialettica, insopportabile a forza di essere
invincibile, e che dissolveva ogni realtà della vita in una serie di
controposizioni teoriche. Siccome per Hegel il dolore era un'ombra,
attraverso la quale l'anima doveva passare per essere più bianca, Nicola
sentiva così degradati tutti i propri patimenti. Perchè soffriva egli
dunque tanto, se ogni punto della vita non era che un passaggio, e la
verità e la felicità erano solo nella coscienza intellettuale di tutti
questi trapassi? Egli si ribellò. Come un areonauta assalito nell'etere
più puro dalla nostalgia della terra, lacerò il proprio pallone per
ricadervi almeno cadavere.

Quindi da Hegel precipitò su Schopenhauer, concependo il mondo come una
demenza della volontà divina, che il pensiero poteva interrompere colla
propria morte. Questo nuovo sistema, allora nella massima voga, lo
ubbriacò di dolore e di vanità. La sua prima ribellione al
cristianesimo, dietro le critiche di Feuerbach e di Strauss, non gli
parve più che ben piccola; altre rivolte gli si accesero in cuore, altri
odi lo sollevarono terribilmente in alto contro tutte le autorità della
terra. Se la vita era naturalmente infelice, tanto peggio per essa; ma
perchè era anche socialmente sventurato? Perchè alcuni profittavano di
tutti i suoi pochi beni, spingendo la miseria degli altri fino alla
morte? Quantunque segregato dal mondo, col quale comunicava mediante
libri e giornali, e gli uni e gli altri gli erano prestati da un
condiscepolo d'Accademia, divenutovi professore, egli sentì la nuova
tormenta. Qualche gran cosa si preparava nella storia. Mentre il volgo
innumerevole dei mugiks seguitava a vivere nella stessa brutalità
millenaria, quanti in Russia pensavano erano in preda agli spasimi della
concezione. L'incredulità, già secolare nell'aristocrazia, era discesa
nella classe dei mercanti; nessuno credeva più a nulla. Il governo era
appena un'amministrazione, nella quale si entrava per la paga,
l'ortodossia non serviva più che alla superstizione delle plebi
rusticane, la filosofia stessa si sgretolava sotto i colpi della
scienza. Darwin, alla testa di tutti i grandi naturalisti, dissipava i
vecchi sistemi ideali; bisognava vivere nella natura, profittando di
ogni sua risorsa, cancellando nella sua eguaglianza tutte le differenze
sociali. I poeti cantavano già dinanzi alla rivoluzione, come gli
alcioni prima della tempesta: Ogareff e Negrassof gettavano sospiri ed
imprecazioni, Lermontoff era morto tragicamente, Hertzen da Londra col
suo Kolokol, la campana, suonava i vespri della vecchia società;
Tcherniscevskj, maggiore di tutti, povero figlio di pope, riunendo la
scienza di Proudhon all'eloquenza di Lassalle, scrollava i cardini
dell'impero e di tutta la vecchia economia. Il suo romanzo «_Che fare?_»
in risposta a quello di Hertzen «_Di chi la colpa?_» era diventato il
vangelo della nuova generazione. E Tcherniscevskj era stato deportato in
Siberia: tanto meglio! I martiri abituano i timidi alla morte.

In preda al delirio di una rivincita, della quale gli sfuggiva la
formula, egli declamava seco stesso dal fondo del proprio villaggio,
paragonandosi a Tcherniscevskj. Ah! era tempo di rovesciare questo
barocco edificio cristiano, e di riaprire il tribunale della coscienza
umana per citarvi tutte le istituzioni sociali. Spesso il giudice
s'addormenta e la ghigliottina s'irrugginisce, mentre quanto è falso
trionfa nell'orgoglio dell'impunità: ma basta un colpo, talvolta lieve
come un alïare di farfalla, per destare il giudice, e una terribile
giustizia ricomincia. Allora nessuna pietà a quelli che non ne ebbero,
perchè ogni misericordia ricondurrebbe il passato; o giustiziare e
procedere, o graziare e cadere a mezzo il cammino.

In questo tempo gli nacque Loris.

Erano gli anni dell'emancipazione dei servi: Loris nacque nel 1862,
d'estate, quando tutta la natura era in festa. Il padre ne delirò.
Quella nuova vita, che rampollava dalla sua, fu per lui una
riconciliazione.

Profittando di un'assenza del diacono, non battezzò il bambino, e disse
poi di averlo fatto, perchè non crescesse col peccato originale della
religione. La moglie non lo seppe mai; d'altronde Loris figurava sul
registro della parrocchia. Ma la miseria in casa era cresciuta da tutte
quelle idee ribelli. Da molto tempo egli non domandava più ai mugiks il
prezzo dei sacramenti, e questi, invece di essergliene grati, ne lo
disistimavano maggiormente. Quando soppresse l'uso di dare loro un
bicchiere di vino caldo, subito dopo la comunione, ricevendone il prezzo
come un'elemosina sopra un bacile, il malumore crebbe spaventosamente;
però una circolare del Santo Sinodo venne per caso a sostenere questa
sua arbitraria riforma. Poi nella confessione non faceva più ai
penitenti la domanda sacramentale: hai tu peccato? Ma li assolveva
gratuitamente prima che avessero parlato. Non potendo abolire le feste
dei santi, vi attese con negligenza, nel dire la messa alle domeniche
talora parve più che distratto. Però una volta gliene incolse male
durante una siccità. Avendo sulle prime ricusato di far le solite
preghiere, e poi benedetti i campi invocandovi indarno la pioggia, i
contadini, già sospettosi della sua fede e sobillati dal diacono, lo
afferrarono e lo tuffarono nel fiume per ottenere così la pioggia con
questo nuovo battesimo inflitto al curato.

Egli ne ammalò.

Il suo odio ai mugiks crebbe per la ingratitudine, che opponevano a
tutti i sacrifici delle sue riforme, e per la cocciutaggine, colla quale
passavano agli stregoni il danaro loro risparmiato nei sacramenti.
Eppure egli tollerava anche gli stregoni, dicendo che non valevano meno
di lui.

Un'altra volta fu redarguito severamente dal protopope, ispettore del
clero; ma fu prudente, e tacque pensando a Loris.

Il fanciullo cresceva bello ed intelligente; aveva il volto del padre e
il corpo della mamma. Era biondo, agile e robusto come un lupetto. Il
padre guardandolo si sentiva spinto verso lui da impeti di ammirazione;
la madre invece, Maria Alexena, non pareva sorpassare l'affetto
ordinario delle donne pei bambini. Tutta la sua passione era per il
marito, del quale subiva ogni più stravagante volontà, come quelle
riforme che si risolvevano in tanti disastri domestici.

Nicola si era fatto l'istitutore di Loris per educarlo, come James Mill
aveva fatto col proprio figlio Stuart, divenuto poi il più illustre
economista dell'Inghilterra. Quindi, invece di insegnargli il russo, gli
parlava greco leggendogli Omero in luogo della bibbia. I primi libri,
che gli pose in mano, furono di scienze naturali, poi gli raccontò la
storia come una trama di delitti commessi dai potenti sugli umili,
attraverso la frode di tutte le religioni ingannanti i miseri con una
speranza ultramondana. Egli, che detestava i mugiks, s'inteneriva
talvolta, parlando con Loris, della loro condizione; ma i nemici erano i
ricchi, coloro che governavano a Pietroburgo, i nobili, i funzionari, i
soldati, tutti. A ogni strettezza economica, quando in cucina mancava il
pane, o Loris aveva freddo, ed egli faceva dalla moglie disfare uno dei
proprii abiti per riadattarlo al fanciullo, la sua passione scoppiava in
un delirio di parole.

— Tientelo a mente, figlio mio!

Una volta, il giorno prima della festa di S. Elia, lo condusse in
chiesa; il ragazzo aveva già passati i dieci anni.

Tutto era pronto. La chiesa piccola, in quell'ora e in quella luce,
sembrava più solenne; dinanzi all'iconostase bruciavano alcuni ceri.
Loris, che per la propria età era fin troppo sviluppato, e in quella
violenta educazione aveva perduto la gaiezza primaverile, s'accorse dal
viso del padre che stava per dirgli qualche cosa d'importante. Infatti
questi gli aperse le porte dell'iconostase, che solamente lo Czar può
varcare il giorno dell'incoronazione, mostrandogli il tavolo, sul quale
durante la messa, invisibile agli occhi dei fedeli, avveniva la
consacrazione. Poi gli spiegò nuovamente tutti i santi, le loro immagini
comprate sui mercati, incoronate da diamanti finti, rilevate sopra un
fondo di oro falso; gli ridisse con poche frasi tutta la propria vita,
l'umiliazione di quel mestiere di pope, la miseria di quell'esistenza
priva di scampo, assicurandolo che lo avrebbe allevato per tutt'altra
carriera. Egli lo lascierebbe libero nella scelta, ma doveva essere una
carriera di rivincita; quando Loris sarebbe uomo, o la rivoluzione
sarebbe già scoppiata, o starebbe per scoppiare.

— Io sarò vecchio allora, se pure sarò vivo, perchè mi uccido per te.
Non importa, ma dovrai vendicarmi. Guarda, questa è la chiesa. Gli
uomini l'hanno costrutta per alloggiarvi Dio, come si fabbrica una
stalla per la vacca; davanti a questi muri vengono a pregar Dio, che non
c'è, e che dovrebbero odiare, se ci fosse. Nullameno, e la voce gli
tremava, questo è il luogo che gli uomini credono più sacro sulla terra;
se non è il tempio di Dio, è il cimitero di tutte le loro speranze. Tu
sei ora in stato di comprendere: devi giurarmi di vendicare un giorno
tutto ciò, che il mondo ci avrà fatto soffrire.

Il ragazzo aveva impallidito.

Il padre lo lasciò un istante per andare dietro l'iconostase, e ne
ritornò con una pisside.

— Ecco il Dio degli uomini! Essi credono di nutrire le loro anime con
queste ostie, mentre non hanno spesso abbastanza della medesima farina
per satollare il loro stomaco.

Loris sollevò in faccia al padre i begli occhi verdi.

— Perchè ti sei fatto pope? esclamò cacciando fanciullescamente la mano
dentro il vaso, e traendone alcune ostie, che si sgretolarono.

— Dovessi tu essere stritolato del pari, giurami che combatterai.

— Sì, babbo, rispose il ragazzo, lanciando in aria tutte le briciole
sacre, che ricaddero lentamente come tante farfalle bianche.

Quando uscirono dalla chiesa, il padre gli disse a bassa voce:

— Non dirai niente alla mamma.

Quella scena, della quale Loris conservò uno indelebile ricordo, agì
potentemente sulla sua immaginazione. Il giorno stesso il padre aveva
ricevuto dal vescovo una lettera di avviso, che la sua parrocchia non
sarebbe compresa nell'elenco di quelle soccorse dal bilancio dei culti;
quindi sospettò di cattivi rapporti mandati sul conto suo al vescovado.
Il diacono Popiel, recandogli la lettera, pareva infatti più ilare.
Questi, avendo fatto una piccola eredità e conoscendo le orribili
condizioni del pope, sperava di poterlo dominare, se la miseria gli
crescesse ancora; ma in fondo covava una lubrica passione per Maria
Alexewna, alla quale non aveva mai osato rivolgere la più piccola parola
di confidenza. Ora tutto cospirava in suo favore; i contadini non
avevano lavorato le terre della chiesa, e avevano giurato di non farlo
per punire il pope della sua irreligione. Nicola, troppo altero per
raccomandarsi, aveva messo il colmo alla loro esasperazione, mandando
solamente il diacono a benedire le case nel giro di pasqua. Poi gli era
morta la vacca; e di debito in debito aveva dovuto scendere a contrarne
uno col maggiore degli stregoni, che abitava nel villaggio vicino.
Questi se ne era vantato, moltiplicando lo scandalo.

Nicola vi opponeva il più nervoso disprezzo, ma la posizione della
famiglia l'angosciava. Come vivere? Come educare Loris? A chiedere per
lui una borsa in un seminario, espediente cui ricorrevano quasi tutti i
pope, magari col proposito di sottrarre poi i figli al sacerdozio,
Nicola non ci pensava nemmeno. Nel suo concetto Loris doveva crescere
mondo di quella scabbia, che a lui aveva per sempre guastata la vita.
Egli si sentiva abbastanza dotto per proseguire la sua educazione, ma
capiva che a Loris occorreva sopratutto la vita del mondo, fra gli
uomini, che avrebbe un giorno dovuto dominare, perchè l'ingegno del
ragazzo si rivelava ogni giorno maggiormente. La sua serietà precoce, il
suo coraggio, l'alterezza che gli faceva già ripudiare la mamma, e non
piegava più che dinanzi alla dottrina del padre, lo rendevano
stranamente singolare. Popiel lo temeva; i mugiks invece si erano
innamorati della sua bellezza e del suo contegno signorile.

Ma il ragazzo, affettando una indifferenza spartana per ogni genere di
pasto, provava già nell'anima un dolore spasmodico per la miseria dei
propri abiti.

Quel giorno, essendo a caso entrato nella camera del padre, lo vide
abbandonato sullo scrittoio piangendo; poi sopravvenne la mamma, che
pianse anche lei.

— Quest'inverno non ci sarà più nulla in casa.

— Ci faremo cosacchi, disse Loris; prenderemo i due cavalli a Ivano
Serguevich (era questi il più ricco contadino) uno fra i mangiatori del
mir, e ci metteremo in campagna ad assaltare i ricchi.

Maria Alexewna si mise le mani nei capelli con un gesto di orrore, ma il
ragazzo, che si attendeva un bravo dal padre, vedendolo tacere, uscì
indispettito. Poi la miseria crebbe ancora. Tornò l'inverno e la neve
ricoperse tutta la steppa. I mugiks, sepolti dentro le isbe, non ne
uscivano più che alla domenica per venire alla parrocchia; essi
conoscevano la miseria del curato, così dolorosa che a certi giorni gli
mancava la legna per la stufa e non aveva da mangiare; ma che importava
loro? Era la pena della sua empietà. Perchè qualcuno del clero non
soffrirebbe, almeno una volta, la loro miseria? Diacono, cantore e
sagrestano non andavano più da lui che per ragioni di ufficio,
aumentando colle insinuazioni il suo discredito nel popolo. Egli taceva
con loro, ma si sfogava in casa colla moglie e con Loris. Da un viaggio
a piedi sino a Voronege, per domandare soccorsi ad un antico compagno di
scuola, non n'era tornato che con pochi rubli ed alcuni libri per Loris.
Quindi, per disperazione, si diede alla caccia nella foresta dipendente
dal castello, lontana dalla chiesa dieci verste, tirando su tutto, anche
sui lupi, che portava a casa a pezzi, scuoiati, per ingannare la moglie
e il ragazzo. Loris studiava i libri, che già conosceva; dopo il greco
aveva imparato il latino, poi il tedesco, sapeva i classici; era passato
attraverso la bibbia, e la sera il padre lo istruiva nella teologia,
rivoltandone tutto il significato. Ma Loris non parlava quasi mai colla
mamma. Finalmente un giorno volle accompagnare il padre a caccia,
armandosi di una accetta, perchè in casa v'era un solo fucile.

Quella nuova vita nella foresta, piena di caverne abbandonate, ove si
riposavano per cuocere sulle bracie la carne degli animali uccisi, gli
fece bene. Partivano la mattina e non tornavano che a notte; un mugik
settario del Raskol, Andrea Arsenief, col quale Nicola era sempre stato
cortese iscrivendolo senza compensi sul libro di coloro, che
frequentavano la chiesa, regalò a Loris un grosso veltro capace di
affrontare il lupo. L'intendente del principe Kovanski gli diede una
cagna da caccia, piccola ed intelligente. Allora Loris fu felice quando
la sera, offrendo alla mamma un pezzo di carne, gli sembrava di
presentarle un trofeo; ella accettava con un sorriso, ma ne mangiava di
rado.

Vi erano nullameno i giorni tristi, nei quali era impossibile
sorprendere alcun animale. Allora per la foresta il freddo cresceva, e
li coglieva la paura d'incontrare una banda di lupi. Infatti una volta,
che dovettero battersi contro cinque o sei di essi, la cagnina rimase
sul terreno. Loris era stato meraviglioso di coraggio. Invece di
mettersi dietro al padre, come questi gli ordinava, si era slanciato
contro quelle piccole ma terribili belve, roteando la scure per
difendere Aiace, l'altro grosso cane. Nicola, non osando far fuoco pel
timore di colpire il ragazzo, si era precipitato col fucile brandito a
mazza. Tre lupi erano rimasti morti, gli altri erano fuggiti.

Loris aveva ricevuto un morso in una gamba, ad Aiace penzolava un
orecchio, ma armato di un grosso collare di ferro a punte, si era difeso
eroicamente. L'indomani Nicola volle proibire a Loris d'accompagnarlo.

— Perchè hai tu paura per me, se mi dici sempre che non dovrò aver paura
di alcuno?

Il padre lo abbracciò.

Ma il guaio peggiore era la mancanza di legna. A casa la povera Maria
Alexewna non aveva come scaldarsi, mentre il termometro segnava
venticinque gradi sotto lo zero, e quindi stava la maggior parte del
tempo a letto. Cucina in casa non se ne faceva. Una sera Loris tenne
tanto a bada il padre nella foresta, che questi si impazientì; ma allora
il ragazzo, invece di rispondere, si mise coll'accetta a tagliare della
legna e ne fece due fasci, che portarono a casa trafelando, meno ancora
per la fatica che per la paura di essere visti. Nullameno la mamma si
ammalò gravemente. La disperazione li sorprese; nella parrocchia non
c'erano medici, nemmeno un felschéry, uno di quei flebotomi, che li
sostituiscono. Per far venire un dottore da Voronege sarebbe occorsa una
somma impossibile a raggranellare, anche vendendo le poche ultime
masserizie. In quei giorni padre e figlio non si parlarono più.
Vegliavano insieme l'inferma, che non mangiava e non beveva passando da
una dormiveglia ad un coma profondo. I denti le erano diventati neri e
gli occhi vitrei. Alcuni mugiks portarono un po' di vodka con un paio
d'oche per fare il brodo; dopo due settimane l'intendente mandò una
mezza bottiglia di cognac. Non vi furono altri soccorsi. Loris si era
offerto di andare a piedi sino a Voronege per cercare un medico, che
venisse gratuitamente, ma il padre a questa sua generosa inesperienza
rispose con un sorriso straziante. Nullameno egli doveva soffrire un più
insopportabile tormento, quando fra la messa della domenica era
costretto a cantare coi mugiks una preghiera a Dio per la guarigione di
lei.

Finalmente dovette ricorrere per danaro a Popiel, che lo desiderava da
lungo tempo. Nicola lo odiava come la propria spia; ma egli solo poteva
in quel momento soccorrerlo. Infatti gli diede venti rubli, mostrando
molto desiderio di vedere l'ammalata. Nella camera di Maria Alexewna
sempre chiusa per la paura del freddo, il fetore si era fatto così
acuto, che il diacono entrandovi si senti come respingere dalla soglia.
Loris, pallido e disfatto, stava al capezzale, asciugando il sudore
dell'ammalata con un fazzoletto sudicio; ella pareva già morta. Popiel
uscì, ancora più nauseato che atterrito, rimpiangendo i propri venti
rubli.

La malattia durò quattro mesi; poi coll'inverno la miseria crebbe
ancora. La convalescente avrebbe avuto bisogno di cibi cari e
sostanziosi, mentre in casa non si mangiava che pane di segala, e
qualche volta un po' di pesce salato. Ella pareva intontita, li
riconosceva appena. L'appetito le tornava lentamente fra mezzo a nausee
e a inappetenze nervose. Un giorno Loris le presentò un pezzo di
merluzzo fresco, che imponendo silenzio al proprio orgoglio, era andato
a chiedere ad Andrea Arsenief, il settario del Raskol; ella lo respinse
con un gesto di disgusto.

Loris si morse le labbra a sangue per frenare una imprecazione.

Ma ella non guarì più. Rimase sempre così magra, di un bianco
giallognolo, con una piccola tosse, che ogni tanto le scuoteva il petto.
La miseria l'uccideva. Finalmente anche Nicola ammalò, quantunque non
volesse porsi a letto. Che cosa sarebbe stato di Loris in questo caso?

Il ragazzo, oramai di quattordici anni, ne mostrava molti di più; il suo
volto era di uomo, sul quale la vita ha già impresso le proprie stimmate
dolorose. Adesso Nicola avrebbe voluto farsi pagare i sacramenti dai
mugiks, ma questi, abituati a riceverli gratis, gli promettevano
furbescamente il danaro senza darglielo. Allora minacciò che
all'Epifania non avrebbe mandato nemmeno il diacono a benedire le loro
isbe; ma Popiel si ribellò, dicendo che avviserebbe il vescovo, o
farebbe magari di propria iniziativa il giro delle benedizioni. Ne
nacque una scena.

Un mese dopo il vescovo di Voronege, Dmitri Telivanof, venne in visita
al villaggio con una vettura a quattro cavalli, un arciprete e due
chierici. Nicola, che avrebbe dovuto andargli incontro oltre il
villaggio ed ospitarlo nella propria casa, trattandolo lautamente per
deferenza al grado e per decoro proprio, invece lo attese nella camera
della moglie, che in quei giorni stava peggio.

Il vescovo già male prevenuto, si mostrò più severo. Nicola, che si era
imposto la massima prudenza, tacque a tutte le sue critiche, ma quando
con villana ironia Dmitri Telivanof alluse a quel ricevimento troppo
magro, invitandosi da sè stesso in casa di Popiel, scoppiò:

— Sono undici mesi che io, mia moglie e mio figlio soffriamo la fame.

Il vescovo gli offerse allora un biglietto da venticinque rubli.

— La mia parrocchia aveva il diritto di essere inscritta sul bilancio
dei culti, io non ho il dovere di ricevere la vostra elemosina.

L'altro divorò l'ingiuria, partendo subito accompagnato umilmente sino
alla carrozza da Popiel, dal cantore e dal sagrestano. Nicola finse di
non poter abbandonare nemmeno per un momento la moglie, ma da quel
giorno si senti perduto. Nullameno ebbe ancora una soddisfazione. Il
vescovo, nell'andarsene, si era fermato al castello, ma il principe
Kovanski, ritornatovi da poche settimane, anzichè riceverlo, sapendo
della fiera risposta toccatagli alla parrocchia, aveva mandato al pope
un paniere di bottiglie e molta selvaggina.

Questa volta Nicola aveva accettato.

Ma quella lotta insensata contro la propria condizione lo esauriva; sua
moglie decadeva ogni giorno più, egli stesso si sentiva morire senza che
nessuna delle sue idee avesse avuto nemmeno l'onore di una vera
battaglia. Che cosa sarebbe di Loris, quando la parrocchia toccherebbe
ad un altro pope? Egli non possedeva che quella casetta, insufficiente
per pagare i debiti più vergognosi; Loris, fanciullo senza parenti,
senza amici, senza educazione, senza danaro, come e dove vivrebbe? Ora
si pentiva amaramente di essere padre. I tremendi sillogismi di
Schopenhauer contro la vita gli tornavano nella memoria. Perchè essere
padre, quando non si può nemmeno assicurare il sostentamento al proprio
figlio? A certi momenti guardava Loris con umiltà.

— Forse l'anno venturo sarai solo, gli disse con voce spenta,
stringendogli la mano.

Il ragazzo trasalì.

— Non dubitate; ho sofferto abbastanza.

Nicola scosse il capo.

— Sarai solo! ripetè, e il suo sguardo malinconico sembrava perdersi
nell'avvenire del figlio, come quello del pellegrino sulla steppa,
quando annotta.

Malgrado tutte quelle minaccie ai mugiks, Nicola si decise per
l'Epifania a fare benedicendo il giro delle isbe per raccogliere dalle
offerte di che sostentare sè stesso e la famiglia per qualche settimana.
Loris, indovinando quel supremo sacrificio, partì per la foresta; Maria
Alexewna si rimise a letto. Nicola, costretto a bere la vodka in tutte
le isbe, cadde svenuto a mezzo il giro così che i mugiks lo riportarono
a casa in branco, sghignazzando e cantando il solito proverbio: «_La
croce è di legno e il pope è ubbriaco_». Siccome in casa non c'erano
domestici, e il diacono col cantore e il sagrestano avevano seguitato il
giro. Maria Alexewna dovette alzarsi per mettere il marito a letto.
Nicola rinvenne, dopo due ore, sotto l'azione della febbre.

Alla sera Popiel mandò il raccolto delle offerte, che non era mai stato
così magro. Evidentemente diacono, cantore e sagrestano lo avevano
decimato, ma, siccome il principe non era al castello, mancava
l'elemosina principale. L'indomani Nicola era già in piedi; non voleva
ammalarsi. Anche Maria Alexewna parve rimettersi, però Loris s'accorgeva
che i due genitori s'ingannavano reciprocamente sulla loro tristissima
condizione. In quei giorni Nicola ricevette gli ultimi scritti di
Bakounine, l'implacabile monomane della rivolta, e li passò a Loris
senza leggerli.

La propaganda nichilista, allora nella prima fase, stava per chiudersi
coll'enorme processo detto dei 193, iniziando quel periodo di
terrorismo, che costò poi la vita ad Alessandro II. Ma se nelle città se
ne parlava con molto fermento, nelle campagne se ne sapeva ben poco, e
nel villaggio di Kourlak la notizia della prima rivolta produsse la più
stupida meraviglia. Solo Nicola v'indovinò, tremando, un segno dei
tempi. Temeva che Loris, ancora fanciullo, gettandosi nel partito
rivoluzionario, vi soccombesse subito miseramente. Qualche volta lo
assalivano persino rimorsi di averlo educato così.

Poi, un venerdì, ricevette dal vladika Dmitri Telivanof una circolare,
che gli imponeva di tenere qualche sermone ai mugiks nelle domeniche,
per inculcare la devozione all'ortodossia e allo Czar, presi di mira
dall'empietà rivoluzionaria. Quest'ordine lo esasperò; una conversazione
con Popiel, che affettava il più religioso orrore per le idee
nichiliste, qualificando di assassini tutti i ribelli, finì di perderlo.
Alla prima domenica, durante la messa, al momento di spiegare un passo
del vangelo arringò i mugiks; era pallido, si sentiva la febbre, ma
dinanzi a quella piccola folla tutta in piedi, e che seguitava a
ripetere i soliti interminabili inchini all'altare, gli parve di
crescere gigante. Finalmente era venuto il tempo di parlare. Le sue
parole, prima rade e fioche, s'affrettarono a grado a grado, salendo di
tono e di pensiero; invece d'invocare Dio, evocò tutti i dolori della
storia, riassunse la tragedia della vita, si commosse piangendo sul
popolo, ed incuorandolo alla speranza. Nè Loris, nè Maria Alexewna erano
in chiesa; quegli errava per la campagna, questa non s'alzava da una
settimana. Egli li cercò istintivamente collo sguardo, perchè avrebbe
voluto essere udito da loro per l'ultima volta.

Popiel lo guardava in sospetto.

Allora tutta la sua ira traboccò. Invece di ubbidire alla circolare del
vladika, l'attaccò furiosamente accusando lo Czar, la chiesa e sè stesso
della miseria popolare; tutto derivava dalla menzogna dei potenti, e
tutto era menzogna in essi. Perchè sperare in un'altra vita la
giustizia, che è il primo dovere di questa?

Ma i mugiks, incapaci di comprendere quel discorso, guatavano credendolo
impazzito; Popiel cercava di rattenerlo con gesti.

Poi tutto quel bollore gli venne meno all'improvviso così che dovette
appoggiarsi con una mano all'altare per non cadere. Il suo pensiero
aveva invano esploso in quella chiesa; si mirò attorno come strabiliato.
Perchè aveva dunque parlato? Adesso tutto era perduto.

Disse ancora con voce strozzata queste parole:

— Lo Czar è sopra di voi, Dio contro di voi.

Una settimana dopo la carrozza del vladika venne a prenderlo alla
parrocchia.

Maria Alexewna dormiva. Egli non andò nemmeno nella camera a vederla;
abbracciò Loris, mostrandosi calmo.

— Temi qualche cosa? questi gli disse, alludendo al discorso della
domenica.

— No; bada bene alla mamma fino a sabato, quando tornerò.

Sopraggiunse Popiel, che pareva agitato. Nicola lo guardò senza rancore,
l'altro non seppe che cosa dire; ma siccome Loris cominciava ad
impazientirsi, Nicola invece di baciarlo gli strinse con uno sforzo
supremo la mano.

Non ritornò più.

Si seppe che Nicola, quantunque ammalato, aveva dovuto fare tre ore
d'anticamera fra i domestici del vescovado; quindi il vladika lo aveva
ricevuto con terribile severità rinfacciandogli tutto, la sua vita, le
tendenze rivoluzionarie, l'ultimo discorso in chiesa, minacciando
finalmente di sconsacrarlo.

— Fate, gli aveva risposto freddamente Nicola.

Dopo queste parole era stato gettato nelle carceri del vescovado;
l'indomani nel secondo interrogatorio, Nicola aveva sputato in faccia al
vescovo. Era la fine. Il mese seguente partiva per la Siberia,
condannato a dieci anni nelle mine, e moriva in viaggio.

Nel villaggio di Kourlak la notizia di questo processo, divulgata da
Popiel, aveva prodotto un'altra catastrofe; Maria Alexewna, prevedendo
la condanna del marito, aveva tentato di dar fuoco alla chiesa, e si era
suicidata gettandosi dalla finestra a capofitto nella neve.



II.


Il principe Anatolio Lukitch Kovanski si era ritirato nel proprio
castello di Kourlak per un dispetto di corte. Malgrado una vita di
grandi dissipazioni aveva conservato, caso abbastanza raro in Russia,
quasi tutte le proprie ricchezze; ma disinganni di ogni fatta, il
celibato e la vecchiaia, gli avevano sciupato il carattere, già bizzarro
di per sè stesso. Adesso non gli rimaneva più che una nipote, Tatiana
Paulowna Neginski, unica figlia di una sua unica sorella, morta vedova
qualche anno prima.

Egli aveva raccolto con piacere la fanciullina, finendo naturalmente per
innamorarsene. Tatiana cagionevole di salute, era già troppo alta per i
suoi tredici anni, magra, quasi cerea; aveva i capelli di un biondo
ardente e gli occhi di un cilestro pallidissimo. Con Tatiana erano
venute al castello due vecchie cameriere e una istitutrice francese; al
resto dell'istruzione il principe pensava di provvedere da sè.

Cresciuto sotto il regno di Nicolò, egli se ne ricordava ancora come di
un lungo inverno politico, che avesse congelato la vita russa. Tutte le
speranze suscitate dal misticismo di Alessandro I, il sentimentale amico
di Madama Krudener, erano state a poco a poco distrutte dal ghiaccio di
una politica, che concepiva l'ordine nell'immobilità, e l'adesione dei
sudditi nel silenzio. Ma appunto allora era cominciato nella coscienza
russa quel fermento ideale, che doveva rinnovellare l'impero secondo lo
spirito dell'Occidente. Poi Nicolò era morto, e con Alessandro II le
idee riformiste avevano ripreso il sopravvento. Il principe Kovanski,
tenutosi sino allora in disparte, sperò una rapida ed illustre carriera
politica. Anzitutto conosceva abbastanza bene la Russia, e si sentiva
così onestamente liberale da meritare il potere nell'interesse di tutti;
ma combattuto dal Santo Sinodo e dalla Terza Sezione rispose troppo
imprudentemente, aumentando il numero dei proprii nemici. Alessandro II,
sul carattere del quale calcolava, titubò al solito nel sostenerlo.
Allora, gettandosi all'opposizione temperata, divenne amico di Milutine,
di Samarine e più specialmente del principe Tcherkvassky, il grande
terzetto, che doveva dopo infinite lotte imporre a tutta la Russia
l'emancipazione dei servi.

Ma il principe Kovanski non vi ottenne la parte che desiderava; già le
sue idee non combinavano con quelle dei triumviri, essendo al tempo
stesso più rivoluzionarie e più conservatrici. Egli avrebbe voluto
concedere subito ai contadini minore quantità di terre, ma senza
riscatto, ed organizzare per la borghesia mercantile, e per la
aristocrazia a mezzo spodestata, una costituzione con un parlamento ed
un senato elettivi. Il popolo, siccome analfabeta, non vi avrebbe
partecipato. Senza tale costituzione ogni riforma conchiuderebbe
fatalmente ad una lustra, mentre la concessione delle terre ai
contadini, coll'obbligo di pagarle in comune, li avrebbe resi più
schiavi del mir, che non lo fossero prima dei padroni.

Poi si lusingò di essere assunto, come generale di divisione, al
ministero della guerra per la riforma dell'esercito e dell'armata,
chiaritisi così male in arnese alla guerra di Crimea. Egli, slavofilo
ardente, che sognava per la Russia un primato storico, ben maggiore di
quello dei romani e degli inglesi, per iniziare l'ultima grande epoca
del vecchio mondo contro la minacciosa rivalità del nuovo, credeva una
tale riforma la più urgente fra tutte. Senza una forza guerresca, pari
all'estensione dell'impero e al numero de' suoi abitanti, la Russia non
potrebbe compiere la doppia missione di conglomerare nel proprio governo
tutti gli slavi d'Europa, e d'insignorirsi nell'Asia di tutte le genti
maomettane sino all'India. L'Inghilterra, potenza marittima,
esclusivamente mercantile, aveva provato in quasi due secoli la propria
insufficienza a risolvere il problema asiatico, riallacciando alla
civiltà europea i popoli indiani, che ne erano stati i lontanissimi
padri. Solo una potenza continentale, così grande da riassumere tutta la
vita europea e così vergine da non trovare ostacoli nel proprio passato,
poteva colla creatrice energia dei propri immensi contatti rinnovellare
l'impero braminico. Così il principe Kovanski comprendeva la Russia.

Ma il principe non arrivò nemmeno al ministero della guerra; si dubitò
del suo ingegno, si credette troppo alla sua onestà. Le riforme di
Alessandro II, più piccole e più leggiere, scorrevano invece sulla
superfice dell'impero senza fecondarlo. Egli già ritirato da qualche
tempo all'estero, in una lettera al principe Tcherkvassky, definiva così
lo Czar:

«Alessandro I era il dubbio nell'intenzione, Alessandro II è
l'indecisione nel processo, solo Nicolò in mezzo a loro aveva potuto
rappresentare la sicurezza della reazione.»

A poco a poco il suo spirito si falsò, mutandosi di slavofilo in
pessimista. Nulla era più vero nella Russia, ne il governo, nè la
rivoluzione, nè l'ortodossia, nè l'incredulità. L'emancipazione dei
contadini, alla quale non aveva potuto cooperare, l'irritò. Durante
l'estimo delle terre e le trattative del loro riscatto coi comuni, che
componevano il suo vasto patrimonio, i mugiks gli apparvero anche più
ignobili di prima. Non un orgoglio in essi, non un ideale anche lontano.

Adesso si occupava tratto tratto di agricoltura, inspirandosi ai modelli
inglesi, senza poterli applicare per l'insufficienza degli uomini, ai
quali era costretto di ricorrere.

Quando venne a stabilirsi nel castello, anche per consiglio dei medici,
che credevano la vita dei campi più utile a Tatiana, avvenne appunto la
catastrofe del povero pope e di sua moglie; il principe mandò Andrea
Ivanovich, il vecchio intendente a prendere Loris, che fu trovato nella
casa, accanto alla stufa spenta, col cadavere gelato della madre sulle
ginocchia.

Tutto il villaggio era sossopra.

In poche parole Loris disse tutto al principe, le idee e la vita di suo
padre, e quanto sapeva della sua morte. Il principe si commosse;
Tatiana, sopravvenuta a mezzo il racconto, si rifugiò sbigottita fra le
braccia dello zio, guardando Loris ancora così vestito di pelli di lupo,
qua e là spelacchiate. Il ragazzo nullameno era bello.

Tatiana sussurrò all'orecchio del principe:

— Tienlo con te.

Questi, mostrandosi più affettuoso del solito, gli offerse tutta la
propria protezione.

— Potrete aiutarmi a vendicarmi?

— Ma contro chi?

Due lagrime caddero lentamente per le guancie del ragazzo. Allora il
principe gli propose di restare al castello; Tatiana gli sorrideva con
simpatia. Egli in quel salotto sontuoso, il primo che vedesse, si
sentiva già ammollire dal caldo.

Non pertanto reagì.

— Non farò mai il domestico.

— Eh! ragazzo mio, esclamò il principe con impazienza, avrai dei padroni
ugualmente. Tu qui sarai libero, ti prendo per compagno di mia nipote:
lo accetti, Tatiana?

Essa gli rispose con un bacio.

— Allora portalo via, e fallo vestire. Ho sempre avuti molti cani in
casa, ma non intendo di tenervi dei lupi.

L'amicizia fra i due ragazzi si strinse presto.

Il principe divenne il loro professore.

Ma la dottrina di Loris da principio l'imbarazzò. Loris sapeva molte
cose più di lui, il greco, l'antichità classica, conosceva quanto lui il
tedesco, era già iniziato alla teologia. Il principe, volteriano, anche
dopo che Voltaire era passato di moda, doveva talvolta retrocedere
davanti alle terribili negazioni del ragazzo; quindi una mattina lo
chiamò nel proprio gabinetto:

— Tu non credi in Dio, Loris?

— No.

— Già! tu sei quasi di casa con lui, essendo figlio di pope; nemmeno
Andrea Ivanovich, il mio intendente, crederà in me. Però Dio è una delle
più indispensabili invenzioni umane, dacchè nessun popolo ha saputo
ancora farne a meno; mi permetterai dunque di dirti, che in faccia a
Tatiana devi astenerti da ogni discorso ateo. Essa è donna, e senza Dio
non potrebbe comprendere nè sè medesima, nè il mondo.

Loris non rispose.

— Capisco il tuo silenzio: vuoi dirmi che siccome anch'io ci credo poco
in Dio, ho torto di allevare Tatiana nella menzogna. Ma tu non conosci
la società: ora non posso in poche parole dartene la quintessenza. È
necessario che una donna creda in Dio; mi farai dunque il favore di non
parlarne con Tatiana. Non t'impongo nessuna ipocrisia, ma se assisterai
alla messa, te ne sarò grato. Conto sulla tua parola.

Loris ne convenne.

Le lezioni del principe non andavano più in là di una stravaganza. Côlto
nelle lettere e nella storia, non sapendo trovar modo d'insegnarla a
loro, finiva quasi sempre col lasciare Loris e Tatiana leggere e
commentare gli autori alla loro maniera; d'altronde nel suo grande
disprezzo per la letteratura nazionale accettava appena Soloviev come
storico, e Tolstoi come romanziere. Per imparare la Russia non v'erano
secondo lui che i libri esteri di Vallace e di Ralston, di Légèr e di
Rambaud, di Haxthausen e di Le Play; tutte le opere degli slavofili, da
Komiakof ad Aksakof, da Kostomarof a Katkof, sembravano scritte da
maggiordomi dimentichi dell'imbecille tirannia del padrone nel fare
l'elogio delle sue tenute.

Laonde tornava sempre alle matematiche, che aveva imparato seriamente da
giovane all'Accademia militare. Loris vi si prestava di buon grado,
ignorandole quasi del tutto, mentre Tatiana finiva coll'attirarsi per
punizione qualche problema, che l'altro le risolveva.

Tatiana aveva già fatto perdere a Loris quanto gli rimaneva di
selvatico, apprendendogli come stare elegantemente a tavola, e
presentarsi, salutare, tacere, tutti quei piccoli usi mondani, che
compongono la grande educazione signorile, e hanno tanta importanza
nella fortuna della vita. Poi Loris aveva presto compito la propria
educazione. Il principe stesso gli aveva insegnato a tirare di spada e
di pistola; il primo cocchiere, un cosacco che aveva fatto il jockey, lo
aveva messo a cavallo. Sulle prime Loris si sentiva umiliato dalle loro
rudi osservazioni, ma presto il suo coraggio e la sua agilità gli
meritarono elogi. Allora gli si sviluppò la passione delle armi e dei
cavalli. Tatiana, alla quale giovandosi della reciproca simpatia, era
riuscito a persuadere i medesimi esercizi, ne migliorava in salute; essa
dal canto proprio gli insegnava invano la musica. L'istitutrice, vecchia
dama francese di nobile famiglia, era scandalizzata dell'insensibilità
di Loris, mentre il principe, sempre più affettuoso verso il ragazzo, ne
sorrideva.

— Sarà più uomo: la musica non serve che alle donne, per consolare la
loro impotenza.

Madama d'Aubrivilliers punta da questa massima, nella quale sentiva
un'allusione, ripeteva invariabilmente che la musica ingentilisce gli
animi.

— Perchè dunque, esclamò una volta il principe impazientito, le donne
così gentili non hanno mai saputo scrivere un pezzo di musica, che si
possa ascoltare?

Neppure Tatiana vi faceva molti progressi per la troppa nervosità, che
la rendeva spesso bisbetica e sgarbata con tutti. In quella vita al
castello la noia diventava sovente assai greve; il principe, dopo
essersi occupato de' suoi disegni agricoli, non sapendo più che cosa
fare rimpiangeva la vita di Pietroburgo. Talvolta andava alle assemblee
del zemstwo, ma ne ritornava sempre di malumore, perchè tutta quella
gente non aveva un'idea in testa. Nell'inverno la nobiltà dei dintorni
emigrava a Mosca o a Pietroburgo. Appena qualche volta un generale o un
governatore passavano dal castello per presentare i proprî omaggi al
principe, ma non essendovi altra donna che Tatiana, cui fare la corte,
se ne andavano presto. Loris studiava nella biblioteca, Tatiana errava
per le sale senza trovar modo di animarne il silenzio. La miglior
distrazione erano le passeggiate a quattro cavalli nella slitta, con due
altre slitte dietro, piene di domestici armati; ella faceva tenere le
redini a Loris, e lanciavano i cavalli al più sfrenato galoppo. Poi a
casa parlavano della neve bianca, infinita, del freddo e del silenzio. A
giorni faceva ballare i numerosi servitori, accompagnando ella stessa
sul pianoforte un cocchiere, che pizzicava la balaika. I domestici
ballavano, cantando dei cori secondo il costume russo, ma erano danze
lente e fredde quanto quel clima, con grandi inchini come nei saloni
dell'alta società. Altre volte metteva madama d'Aubrivilliers al piano
per ballare con Loris qualche valtzer, mentre il viso pallido le si
colorava, e il suo naso fino ed imperioso batteva voluttuosamente.

Loris e Tatiana cominciavano a farsi grandi. Ma la posizione di Loris al
castello era troppo buona momentaneamente per non destare invidia, e
troppo indefinibile per non prestarsi ad umilianti interpretazioni. Egli
si ribellava orgogliosamente a questa evidenza senza opporvi ancora
alcuna risoluzione. Quanto resterebbe al castello? Come vendicherebbe
suo padre? Ora tutte le sue idee ribelli parevano così assopite che
nemmeno i giornali, tutti pieni di notizie sulle ultime imprese
nichiliste, bastavano a ridestarle. Quella vita e quel lusso signorile
lo compensavano di quanto aveva sofferto, lusingando tutti i suoi
istinti. Il suo odio contro i ricchi si ammansava dinanzi a quel
principe buono, che tutti i domestici amavano sinceramente, sebbene li
facesse talvolta frustare malgrado la proibizione della legge; ma in
questa crudeltà vi era piuttosto l'uso antico di una correzione
corporale che una malvagità verso gli inferiori.

Tatiana ne rideva senza cattiveria.

Il vecchio principe, preso dalla manìa di fabbricare colle proprie mani
modelli in legno di case agricole, aveva fatto venire da Veronege due
falegnami, coi quali si chiudeva buona parte del giorno in uno stanzone
al pianterreno. Madama d'Aubrivilliers, finite le lezioni di pianoforte
e di francese con Tatiana, passava il tempo a leggere vecchi romanzi di
cavalleria, che la facevano rivivere nel passato della propria famiglia
feudale, lasciando la fanciulla a discutere di mode colle cameriere
sartrici.

Ma intanto Tatiana diventava donna. Il primo abito lungo le fece
un'impressione, della quale stentò a rinvenire, parendole di non essere
più la medesima. Quindi corse da Loris a farsi vedere, girandosi e
rigirandosi davanti a lui come una trottola.

— Ti piaccio più così, o come prima?

L'altro rimase pensieroso.

Le loro relazioni cangiavano insensibilmente di tono; ella tentava
ancora tratto tratto di scherzare come pel passato, ma non era più
possibile.

— Lo voglio, lo voglio, gli gridò un giorno stizzosamente: dovete
ubbidirmi.

Questa volta Loris impallidì.

Ella cresceva di civetteria ogni giorno, quasi sollecitando quella
bellezza femminile, ancora troppo lenta a rivelarsi nel suo corpo,
sebbene le mettesse già nel sorriso della bocca e nelle grazie nascenti
del petto una seduzione indefinibile. Il vecchio principe, nel vederla
così inorgoglire, le prometteva a certi momenti di buon umore di
fabbricarle colle proprie mani un castello di fata, in legno dorato, per
sottrarla alle importunità di madama d'Aubrivilliers, sempre intenta a
darle sulla voce e a proibirle metà di quanto faceva. Ma in tanto
orgasmo Tatiana non sapeva più con che cosa divertirsi. Poi soccombeva
ad improvvise malinconie, come se tutti la contraddicessero per astio.

Da qualche tempo Loris era passato con lei dai tu confidenziale al voi,
abbassandosi involontariamente nell'inferiorità della propria posizione.
Ma se quella vita al castello gli riusciva sempre più incompatibile
colla dignità di uomo, nullameno si sorprendeva spesso a sognare
l'impossibile fortuna di sposare Tatiana, diventando così milionario,
principe, e fors'anco ministro per grazia dello Czar. La sua onestà
giovanile, non al tutto corrotta dall'empietà dell'educazione paterna,
gli diceva invano, che sarebbe la più vile delle ingratitudini
ricambiare tutte le bontà del principe col sedurgli la nipote; giacchè
subito dopo l'orgoglio satanico del suo carattere rispondeva, che egli
valeva bene qualunque altro, e che Tatiana, sposando un principe,
sceglierebbe probabilmente un uomo a lui inferiore.

Poi Tatiana era bella. Qualche cosa di puro e al tempo stesso di
voluttuoso esalava dalla sua fresca personcina di quindici anni, come
uno di quei vapori di primavera, lievi e penetranti, che salgono dalle
zolle umide ai primi tepori del sole. Ella stessa sembrava inebbriarsene
a certe lunghe occhiate di Loris, nelle quali s'abbandonava come
nuotando inconsciamente verso di lui malgrado i sospetti, che già la
vigilavano. Senonchè madama d'Aubrivilliers avendola ripresa un giorno
seccamente, Tatiana non trovò che un sorriso stentato. Loris invece
stette più sull'avviso. Quindi cominciò ad assentarsi dal castello,
stringendo più intima relazione con Andrea Arsenief, quel settario del
Raskol, che gli aveva regalato Aiace. La sua isba, non diversa dalle
altre, sebbene Arsenief fosse meno povero de' suoi compagni, sorgeva
all'estremità del villaggio. Andrea Arsenief era un uomo di cinquanta
anni, corto e grosso, dagli occhi dolci; sua moglie, una brutta donna
ancor giovane, non aveva mai avuto figli, quindi vivevano ritirati con
una grande modestia. Ma quantunque per gratitudine dei servigi ricevuti
dal vecchio pope Arsenief si mostrasse molto devoto a Loris, non aveva
mai voluto rivelargli nulla sul Raskol, o diffidasse della sua età o,
vedendolo così innanzi nella grazia del principe, credesse
coll'ingenuità di un villano, che finirebbe collo sposare la
principessina e diventare il padrone del villaggio.

— _Batouska_, voi sarete un giorno il nostro _barine_; gli diceva
talvolta, strizzando l'occhio.

E Loris, pure irritandosene, sentiva una sottile vanità salirgli al
cervello dalla supposizione di così immensa fortuna.

Nell'estate capitò al castello il principe Nesvitskj, maresciallo della
nobiltà di Veronege; egli si ricordava confusamente il processo del pope
Nicola, ma non fece più attenzione a Loris che agli altri servitori.
Madama d'Aubrivilliers, che detestava il ragazzo, se ne compiacque
vivamente vedendolo malgrado la protervia del carattere perdere
improvvisamente ogni spirito.

Appena finito il pranzo, Loris si ritirò. Tatiana nel traversare il
grande salone con un fascio di musica nelle mani lo trovò poco dopo
appoggiato alla finestra.

— Loris! gli disse con voce tremula, indovinando il suo dolore e
prendendogli una mano, che l'altro ritirò. Ma la fanciulla, indispettita
dell'inefficacia della propria carezza, gettò tutta quella musica in
mezzo al salone, e fuggi nelle proprie stanze.

Il principe Kovanskj dovette andare egli stesso a cercarla.

— È troppo brutto il tuo maresciallo, guaì per tutta risposta la
fanciulla; non suono, non suono. Fagli suonare quello che vuole da
madama d'Aubrivilliers; egli potrebbe anche sposarla, perchè è nobile
quanto lui, e quasi altrettanto brutta.

L'indomani Tatiana, che s'aspettava da Loris una grande effusione di
riconoscenza, rimase così piccata del suo contegno, che madama
d'Aubrivilliers potè profondersi in elogi maligni al maresciallo senza
trovare contraddizione. Tatiana guardava Loris, sentendo crescere fra
loro due una indefinibile distanza. Chi era Loris? Quale sarebbe il suo
avvenire? Ella non sapeva che il proprio, un avvenire di splendori, nel
quale Loris non aveva posto. Però quel destino oscuro di lui l'attraeva
come certe profondità misteriose della foresta, ove qualche volta erano
andati a cavallo seguiti da Vaska.

Quell'estate Tatiana andò a molte feste dei castelli vicini col
principe, ma Loris, dopo l'umiliazione inflittagli dal maresciallo della
nobiltà, evitò di accompagnarla colla scusa di nuovi studi nella
biblioteca. Ella comprese, poi dimenticò. Quelle piccole riunioni
aristocratiche erano come uno spiraglio aperto sul gran mondo; tutti
l'accoglievano con premura, mentre le giovinette della sua età,
compiangendola per quella vita d'inverno, sola col vecchio principe, la
consigliavano ad usare di tutta la sua influenza per ritornare a
Pietroburgo. Anche madama d'Aubrivilliers era della stessa opinione, e
Tatiana cullata da tutte quelle promesse pregustava già i trionfi dei
saloni, ove brillerebbe come una stella di primo ordine fra le dame più
corteggiate.

Alcuni giovanotti la fecero ballare, ma essendo ancora troppo bambina
non ricevette dichiarazioni d'amore.

Solo Giulia Mikailowna Touchine, una baronessina sua amica, che aveva
già l'amante, le chiese improvvisamente fra un crocchio di compagne:

— E il tuo bel seminarista?

Era stata Fedora Dmitriewna a raccontare la storia di Loris, dicendo di
averlo visto. Tatiana si vergognò; in quel momento ricominciava il
valtzer, e le ragazze si dispersero per la sala.

— Dovresti sposarlo quel povero figlio di pope, insistè Giulia
malignamente. Sarebbe bello da parte tua, tu che sarai così ricca.

Ritornando al castello Tatiana pensava a queste parole. L'indomani a
pranzo Loris non l'interrogò sulla festa; Tatiana, che già si pentiva di
non averlo difeso con Giulia, si mise a particolareggiare col principe
tutti i piaceri di quella serata.

— Andremo a Pietroburgo quest'inverno? domandò al principe senza
guardare Loris.

Il principe volse bruscamente la testa.

— A Pietroburgo, signorina, non ci andrete per un pezzo; io non ci
rimetterò più il piede.

— Vorrete dunque farmi morire qui?

— Spero che potrete andarci prima, quando sarete in grado di scegliervi
un marito. Allora potrete abbandonarmi, se sarò ancora vivo. Ecco quello
che tocca a noi, dopo che ci siamo sacrificati. Siete tutti ingrati.

Il principe cominciava ad indebolirsi, la vista gli era scemata
improvvisamente così che doveva usare sempre gli occhiali; poi quella
manìa delle casine in legno lo aveva stancato. Quando leggeva i giornali
della capitale, a certe notizie politiche andava in bestia pentendosi
segretamente di vivere così fuori del mondo, e di non avervi mai avuto
importanza. Un cordoglio pieno di segreti rancori lo irritava perfino
contro la giovinezza di Tatiana e di Loris.

Nell'inverno una bronchite l'obbligò per quattro mesi a non uscire dalle
proprie stanze; Loris andava a leggergli i volumi dell'inchiesta
agraria, e doveva lasciarsi strapazzare per tutte quelle leggi e quei
fatti contrari alle sue idee. Poi madama d'Aubrivilliers gli leggeva i
giornali, e Tatiana veniva a suonargli il pianoforte, che aveva fatto
portare nella sua camera di malato. Così riuniti passavano le sere.
Spesso il principe dormigliava; allora nessuno parlava più per non
svegliarlo, ma bisognava rimanere nella camera.

Il principe non aveva voluto nessun medico.

— Non ho bisogno che mi si aiuti a morire, aveva risposto a Tatiana: tu
sei una sciocca, che vorresti ereditare troppo presto.

La fanciulla era scoppiata in lagrime.

Adesso il principe pareva prediligere Loris.

— Hai pensato ad abbandonarmi? gli chiese una volta bruscamente; e
siccome Loris tardava a rispondere: è inutile che tu mi dica una bugia,
t'avvertirò io, quando sarà tempo.

— Perchè mentirei con voi?

— Perchè invece non saresti ingrato anche tu? Vattene piuttosto fuori;
qui ti annoi senza divertirmi.

Ma una volta, per l'attentato di Solovieff contro lo Czar, le parole
furono più aspre. Loris, che non aveva mai parlato delle proprie idee
nichiliste, sentendo il principe inveire contro la politica
dell'imperatore, si permise un elogio dei rivoluzionari. Il principe
s'irritò, Loris insisteva; allora l'altro lo coperse d'ingiurie, e finì
dicendo:

— Per te i nichilisti non dovrebbero essere che assassini: io solo sono
abbastanza vecchio per giudicare se dal canto loro ci possa essere
qualche scusa. Vorresti darti anche tu delle arie nichiliste? per un
figlio di pope...

— Principe, esclamò Loris fremendo, rispettate mio padre; egli aveva
quelle idee...

— E ha saputo anche morirne: tu non sei che un inutile chiaccherone.

Una risata fresca di Tatiana troncò la disputa.

Vivendo così molti mesi in quella stanza, Loris e Tatiana avevano potuto
riavvicinarsi fondendo il proprio orgoglio, lentamente, nella dolcezza
intima di quelle cure affettuose per il principe, che li strapazzava
egualmente ambedue. Sebbene non se lo fossero detto, sentivano troppo
che quella loro esistenza dipendeva dalla sua per non gareggiare di
premure verso di lui. Loris affettava un contegno freddo verso Tatiana,
ma quando il principe s'addormentava, e nelle lunghe sere anche madama
d'Aubrivilliers si lasciava cadere il libro di mano, essi si mostravano
involontariamente con un sorriso quei due dormienti. Nell'aria calda
pesava una nausea. Il principe in fondo all'alcova, sotto le cortine di
damasco, sedeva quasi sui cuscini, ravvolto entro un bornous ovattato,
respirando faticosamente; e pareva più secco e malandato alla luce
incerta, che riverberava su lui dall'armadio delle sacre iconi. Madama
d'Aubrivilliers russava lievemente colla testa abbandonata sulla
spalliera della larga poltrona rossa, e gli occhiali penzoloni sul naso;
passavano così delle ore.

Tatiana leggeva dei romanzi, Loris generalmente non leggeva.

A poco a poco parlavano. Poi vennero le confidenze; Loris le narrò tutto
quello che le aveva sino allora nascosto della sua vita passata coi
particolari più atroci, frenandosi a stento per velare le proprie
opinioni più atee. Tatiana ne fu commossa. Anch'essa aveva dei dolori da
raccontare, un mondo di futilità, perchè non aveva conosciuto abbastanza
nè il padre nè la madre per soffrire della loro morte; ma ella pure era
sola nel mondo. Loris tornava subito grave. Egli sapeva ora che non gli
restava più gran tempo da vivere nel castello, il principe guarisse o
morisse.

Lo disse a Tatiana; ella protestò. Perchè andarsene? Ma Loris, diventato
uomo, non poteva profittare più a lungo di quell'ospitalità; era già
troppo, se avesse dovuto andarsene alla morte del principe. Tutti
avrebbero creduto allora ad una cacciata.

— E chi vi scaccierebbe?

— Voi per la prima.

Tatiana scosse le spalle. Il principe fece un movimento, Loris corse
tosto al letto, ma il principe dormiva. Tatiana, che si era levata
anch'essa, curvandosi sul volto dello zio sfiorò col proprio quello di
Loris.

— Dorme, disse cercando di nascondere il proprio rossore.

Ma quando il principe cominciò a star meglio, Loris gli chiese
improvvisamente:

— Quando mi avvertirete dunque?

Egli lo guardò senza comprendere.

— Ma di andarmene. Dopo aver fatto di me un uomo, non vorrete
distruggere l'opera vostra.

Tatiana dietro la poltrona del principe gli faceva cenno di tacere;
sembrava sorridere dolorosamente.

Il principe si girò sui bracciuoli.

— Ah! vi credete un uomo? Infatti parlate come un imbecille: leggetemi
piuttosto il _Golos_, a meno che, aggiunse tossendo, io non vi sia
diventato insopportabile. In questo caso non pretendo di sacrificarvi,
non sono egoista io.

Tatiana applaudì scherzosamente dietro la testa dello zio, ma questi
rimasto di malumore, a mezzo della lettura, li cacciò via tutti due.

Madama d'Aubrivilliers sembrava non sospettare più di alcuna relazione
fra loro dal momento che Loris aveva detto di andarsene dal castello;
mentre invece i due fanciulli avevano già in comune il segreto di una
passione, contro la quale non cercavano nemmeno di lottare. Una
indefinibile dolcezza li sorprendeva appena si trovavano soli per
qualche minuto; pareva che l'aria si riscaldasse intorno, e le camere
stesse diventassero più grandi. Egli sempre più addolorato della propria
inferiorità dinanzi a quell'ereditiera di uno dei più illustri nomi e
dei più grossi patrimoni della Russia, riparlava sempre di andarsene con
un accento, nel quale un fino osservatore avrebbe notato una certa
smanceria. Tatiana, più nervosa, s'indispettiva dicendo che lo zio
stesso non lo avrebbe permesso, giacchè sino dal primo giorno lo aveva
ceduto a lei.

— Allora mi prendeste per giuocare; adesso non potrei essere che uno dei
vostri domestici.

— Vi dispiacerebbe tanto di servirmi? Ma sotto la gaiezza dell'accento
si sentiva la nota imperiosa.

— Potrei amare, non servire, egli rispose con durezza.

Erano nella piccola sala rossa dai mobili dorati; Tatiana vestita di
bianco si baloccava con una lunga treccia di capelli.

— Amare chi?

— Forse chi non potrà mai capirlo.

Un sorriso di trionfo illuminò il volto della fanciulla.

— Addio! esclamò Loris con accento teatrale.

L'indomani nel giardino s'abbracciarono giurando d'amarsi, ma la
fanciulla rimase al di sopra di lui, meno per quella adorazione che
l'uomo tributa sempre alla donna nel primo amore, che per l'altezza
della sua posizione sociale. Involontariamente Loris si sottometteva
alla signora, credendo di ubbidire deliziosamente alla fanciulla.
Siccome non avevano parlato che d'amore, ella non vi trovava ostacoli;
la società era scomparsa lasciandoli soli fra la scena bella di quel
giardino primaverile. Non vi erano più che fiori, gli uccelli cantavano
nell'aria, e le nuvole passavano nel cielo come tende leggiere, che il
vento avesse involato ad immensi palazzi di altri mondi.

Allora cominciarono i loro convegni dappertutto; si parlavano alla
sfuggita gettandosi un bacio, quando non potevano darselo. Ma le fiamme
avvampavano nel loro sangue troppo giovane. Senza accorgersene non
facevano che cercarsi; la notte sognavano l'uno dell'altro, il giorno
avevano bisogno di scriversi. Tatiana si abbandonava con passione a
questo torneo epistolare, cercando di farvi dello stile colle frasi più
pazze dei romanzi, mentre tutte le loro scene le s'imbrogliavano dentro
la testa attraverso una stravaganza di combinazioni, dalle quali l'amore
usciva sempre vittorioso. Però non osava nemmeno seco stessa discutere
la soluzione più semplice, che Loris domandasse al principe la sua mano.
Sapeva bene che il principe non avrebbe potuto concederla, e in fondo
all'anima ella stessa si rafforzava di questa sicurezza. Il suo amore
non era che effervescenza di sensi e di fantasia; Loris, bello e
sventurato, aveva la solita eccentricità di tutti gli eroi da romanzo.
Egli invece l'amava con tutta la passione, di cui era capace. Quella
fanciulla gracile ed aristocratica, posta così in alto nella scala del
mondo, era l'ideale di tutte le sue sofferenze. Il fascino di quella sua
fresca giovinezza gli faceva dimenticare tutti i propositi di vendetta
nella speranza di una felicità semplice e profonda, amare ed essere
amato.

Ma questo idillio primaverile non era possibile che nella solitudine
delle loro stanze; appena ne uscivano, la realtà li separava
rigettandoli brutalmente all'immensa distanza, posta fra loro dalla
società. Loris, rinvenendo pel primo, le parlò seriamente del futuro;
l'altra s'imbronciò, quindi si bisticciarono. Tatiana cansava
istintivamente il problema, contenta se avesse potuto tornare
nell'inverno a Pietroburgo con lui, perchè l'amore dell'uomo le
svegliava l'amore del mondo.

— Tu non mi ami.

— Cattivo!

— Come faremo dunque?

— Così, e gli diede un bacio.

Loris l'abbracciò stretta. Tatiana sentiva una paura inesprimibilmente
deliziosa, tremando fra le sue braccia. Per un momento Loris perdette la
testa; si chinò, la morse al collo, la sollevò robustamente correndo
verso un divano. Allora Tatiana gettò un grido respingendolo, non le
pareva più Loris.

Questi arretrò pallido, senza parlare, ella aveva abbassato la testa,
sorpresa come da una improvvisa ripulsione per lui.

Poco dopo Loris l'intese suonare nella sua camera la delirante
dichiarazione d'amore della Traviata: «amami, Alfredo, amami quanto io
t'amo».

Un'altra volta che Loris era nella camera del principe, dietro la sua
poltrona, Tatiana entrando inavvertita gli si sospese al collo,
coprendolo di baci. Ella provava una perfida delizia nel comprometterlo
così; ma quel giorno accadde un'altra brutta scena. Siccome Loris aveva
finito pel principe un lungo rapporto sull'inchiesta agraria, questi per
ricompensa gli offerse un biglietto da cinquanta rubli.

Tatiana sorrise a Loris, tutta contenta del regalo.

Questi invece ricusò di riceverlo; il principe andò in bestia.

— Tu credi che con questi cinquanta rubli intenda pagarti il tuo
scritto; anzitutto tu lo stimi troppo, perchè non li vale. Te li do, mi
piace di darteli. Bada, gridò alzandosi, se non li prendi, sono capace
di sbatterteli sul muso. Sarebbe bella che non potessi fare del mio
danaro quello che mi pare!

— Del danaro sì, ma non di me.

Il principe cominciò a passeggiare per la stanza.

— Sei qui anche tu! esclamò scorgendo Tatiana, che si era appressata
allo scrittoio. Lo vedi? Ricusa questo regalo per superbia: siete un
imbecille. Se aveste davvero della superbia, avreste accettato questi
cinquanta rubli, e me li avreste restituiti in acconto di quanto mi
dovete pei quattro anni, che vi ho tenuto qui. Questa sarebbe stata
superbia; non siete che un imbecille. Se aveste almeno saputo far
questo, vi avrei fatto frustare, ma vi avrei stimato un uomo. Tatiana,
conducilo via.

Durante questa scarica d'ingiurie, Loris era diventato livido; poi
Tatiana volle ammonirlo. Loris la guardava meravigliato di non essere
compreso, l'accento di Tatiana diventava sempre più freddo.

Stettero impermaliti parecchi giorni. A tavola il principe affettava di
non vedere Loris, questi perdeva il coraggio di mangiare. Tatiana non
sapeva che dire, madama d'Aubrivilliers tentando di annodare una qualche
conversazione si attirava dal principe certe occhiate, che parevano
schiaffi. Allora Loris si chiuse nella propria camera. Si sentiva più
abbandonato della mattina, nella quale era rimasto solo, nella casa
deserta, col cadavere della mamma sulle ginocchia accanto alla stufa
spenta. Bisognava partire; i milionari non possono amare i poveri,
nemmeno volendo.

Ma Loris amava Tatiana; avrebbe voluto abbracciarla, stritolarla sul
proprio petto, commettendo magari un delitto per uscire da quella
condizione in faccia al principe. Tutti gl'istinti malvagi della sua
natura rifermentavano, mentre la ragione più terribilmente limpida ora
gli rivelava la falsità di quei quattro anni. Il principe non era che un
vecchio bisbetico, generoso del proprio danaro, non sapendo che farsene;
se lo aveva raccolto per carità, fors'anche per un dispetto al vladika,
non aveva e non poteva avere nessuna affezione per lui. Perchè dunque
Loris avrebbe dovuto essergli grato? Tatiana era una civetta, che
giuocava all'amore con lui, come quattro anni prima a mosca cieca. Egli
invece l'amava perdutamente: perchè? Perchè si era egli abbandonato a
questa passione, che lo ratteneva ancora nel castello a ricevere simili
affronti?

Il passato lo riprendeva. Tornava a rivivere gli anni dell'infanzia,
quando soffriva la fame, e la mamma era malata e il padre ruggiva
bestemmiando per la casa. Allora tutto era vero intorno a lui. Egli
rimpiangeva quella miseria, della quale gli rimaneva almeno l'orgoglio
di non aver mai piegato dinanzi a nessun altro uomo. Ora invece era un
giullare due volte vile e ridicolo.

Evitò Tatiana per tre giorni; il quarto ella gli scrisse un biglietto,
ma invece di risponderle Loris cercò d'incontrarla nella sala rossa.

Era un giorno d'estate. Il sole, passando attraverso le tende rosse,
riempiva la sala di una luce quasi sanguigna. Loris, che si era
finalmente deciso, le offerse di fuggire con lui o di permettergli di
andare dal principe a chiedere la sua mano; Tatiana, di umore più
chiassoso quel giorno, si mise a ridere. Allora egli la prese per mano,
la condusse al canapè, e con tutto l'impeto della giovinezza le rinnovò
per la centesima volta la solita dichiarazione di amore. Il mondo era
sparito; non pensava al come avrebbero vissuto, se Tatiana lo seguisse
nella fuga e il principe non li riprendesse a qualche versta dal
villaggio; non vedeva più che il volto di lei pensieroso, più pallido,
col seno che le ansava, e un sorriso tremulo sulla bocca. L'abbracciò.
Tatiana invece, sentendo l'impossibilità di quella scena, ne soffriva
senza osare di opporsi alla passione di Loris; quindi con abilità
istintiva si fece scherzosa per evitare di rispondere alle sue pressanti
domande, ma segretamente irritata seco stessa di quella momentanea
soggezione.

Loris voleva domandare la sua mano al principe.

Tatiana ebbe un cattivo sorriso:

— Non l'oserai.

— Io!

Pareva che ella si compiacesse d'irritarlo.

— Vorrei essere presente, quando gli farai la domanda. E dopo una pausa:
è impossibile, non puoi averne il coraggio.

— Lo avresti tu?

Ella si turbò, ma la sua faccia esprimeva una sfiducia così ingenua, che
Loris non ripetè la domanda.

Poi tacque; egli era in preda alla più viva agitazione. Tatiana, mutando
discorso, gli parlò di un abito, che doveva arrivare da Pietroburgo:
nella settimana ci sarebbe festa al castello di Viasma. Ella ci andrebbe
collo zio. Loris l'ascoltava ricevendo a una a una le sue parole sul
cuore come goccie gelate; poi fece un gran gesto drammatico. Tatiana
tornò a sorridere.

— Vuoi che ci vada adesso? e scattò in piedi.

Tatiana corse salterellando nel mezzo della stanza, si rivolse, e gli
gettò dall'uscio beffardamente:

— Povero Loris!

Sotto questa scudisciata egli s'avviò precipitosamente verso le stanze
del principe, a pianterreno; traversando il cortile vide Tatiana alla
finestra, che rideva. Evidentemente la fanciulla, non credendo a questa
smargiassata, lo beffava colla monelleria dei primi giorni, quando si
erano conosciuti. Loris si arrestò: forse a lei parve irresoluto, e gli
fece un gran cenno per aria, rinchiudendo la finestra.

Egli era già presso il piccolo uscio a vetri, che dava nell'appartamento
del principe.

Nell'anticamera trovò Andrea Ivanovich e Vaska.

— Andate dal principe, _batouska_? gli chiese colla sua voce buona il
vecchio intendente: ci vado anch'io. Vaska vorrebbe domare i due
morelli, figli di Gourko e di Letounia.

— Bisognerebbe aver già cominciato, intervenne Vaska battendosi con un
grosso frustino sugli stivaloni molli, che gli strozzavano le corte
gambe muscolose: ma il principe, non so perchè, teme che si sciupino.

Loris ebbe un'impressione di ghiaccio a questo discorso così semplice:
Andrea Ivanovich notò il suo turbamento.

— Che cosa avete, _batouska_?

Ma stavano già sull'uscio del gabinetto; era impossibile indietreggiare.

— Avanti, rispose il principe alla piccola battuta di Vaska.

Il gabinetto era vivamente illuminato.

— Che cosa vuoi? si volse il principe a Loris, vedendolo dietro i due
servi. Era seduto allo scrittoio ingombro di carte; la sua sottile veste
da camera, di seta azzurro cupa, era aperta sul petto lasciando vedere
il bianco della camicia. Stava senza berretta.

— Vieni dunque avanti: che cosa vuoi?

Egli si avanzò automaticamente, pallido come un morto, ma non tremava.

Il principe l'osservava meravigliato, e stava per ripetergli la domanda,
quando Loris lo prevenne:

— Vengo a chiedervi la mano di Tatiana.

— Che?

Loris non replicò; i servi non avevano bene inteso, ma il principe
appoggiando le mani sullo scrittoio, si era chinato verso la sua faccia.
Allora Loris ripetè come in sogno:

— La mano di Tatiana...

La cosa parve così enorme al principe che sulle prime non ne rinvenne:
guardava Loris con curiosità non scevra di apprensione. Lo credette
impazzito.

— Loris...

Ma questi, avendo finalmente ritrovato tutto il proprio coraggio, si
raddrizzò:

— Sono venuto a chiedervi la mano di Tatiana. Non ignoro nè la mia, nè
la sua posizione, ella mi ama.

— Tu menti, miserabile! gridò il principe con voce strozzata. Tu,
ridicolo figlio di pope, che ho raccolto per carità come un cucciolo,
cui fosse morta la cagna...

Loris tentò di rispondere, ma il principe non glie ne lasciò il tempo.

— Ah! ti ama, vigliacco bugiardo! Tatiana, mia nipote, ama un pari
tuo... almeno avessi cominciato col dire che l'amavi tu. Tatiana?

— Perchè no? ribattè Loris livido di umiliazione.

— Perchè, perchè? Vaska, si rivolse con un gran gesto al cocchiere; tu
Andrea... Ah! Perchè? e respingendo la sedia, che cadde, uscì dallo
scrittoio. Si avvicinò a Loris coi pugni chiusi, poi, voltandosi, prese
Vaska per una spalla e lo cacciò contro di lui.

— Gettami in terra quel miserabile; in terra, figlio di pope! Tu sposare
Tatiana? così, eccoti: è la tua posizione, quella dei pari tuoi. Tienilo
dunque anche tu, vecchio Andrea...

Ma non potè seguitare, la collera lo soffocava.

Vaska alla spinta datagli dal principe si era scagliato su Loris, e lo
aveva istantaneamente atterrato con uno sgambetto, cadendogli con ambe
le ginocchia sulla schiena e una mano sul collo, prima che il vecchio
Andrea, spaventato della scena, avesse pensato a muoversi. Loris nello
stramazzare aveva battuto duramente la faccia; tentò istintivamente di
liberarsi, ma era come dentro una morsa. Mise un grido, poi più nulla.

— Muoviti dunque, vecchio! gridò il principe spingendo Andrea Ivanovich
su Loris: e tu frustami questo miserabile.

Loris, colla faccia schiacciata sul tappeto, non diè un tremito; un
mutamento improvviso era avvenuto nel suo spirito, una calma più
orribile di qualunque sforzo. Avevano ragione di frustarlo: era il suo
pensiero di quel momento, il solo pensiero limpido, indiscutibile.

Ma vi fu un istante d'indecisione negli altri; il vecchio Andrea non
sapeva come piegarsi per tenere Loris, e tremava per l'affezione posta a
quel ragazzo, e per paura del principe. Vaska, tenendolo così stretto,
non poteva maneggiare il frustino, poi non aveva ancora capito bene di
che si trattasse. Questa incertezza degli altri rattenne il principe,
che si appoggiò con una mano allo scrittoio ansando. Sembrava attendere
una parola di Loris.

— Miserabile! tornò a gridare esasperato dal suo silenzio.

— Debbo spogliarlo? chiese Vaska.

— Frusta sulla schiena così; e dopo una pausa: due colpi soli.

Vaska s'alzò. La sua faccia non esprimeva alcun sentimento; teneva gli
occhi su Loris, pronto a scagliarsi se avesse tentato il più piccolo
moto. Il vecchio Andrea aveva fatto un passo addietro, Vaska si voltò
verso il principe, quasi per attendere un altro ordine, poi girò
sapientemente il frustino su Loris, e lo sferzò sulla schiena.

Loris rimase insensibile.

Vi fu un momento d'immobilità, quindi il principe rientrò dietro lo
scrittoio. Loris si alzò sulle ginocchia, lentamente; una polvere bianca
gli era rimasta, davanti, sul vestito, si drizzò e guardò il principe.
Vaska fece un movimento per rattenerlo, ma Loris pareva calmo, solamente
la bianchezza della sua faccia non somigliava più a nulla. Andò verso lo
scrittoio, fissando il principe.

Questi sostenne fieramente il suo sguardo; Loris abbassò il proprio, si
spolverò colla mano una macchia bianca sopra la manica, parve tardare.
Poi appoggiandosi allo scrittoio, così che il suo volto toccava quasi
quello del principe, gli disse:

— Non vi debbo più nulla.... Auguratevi di essere morto il giorno, che
mi vendicherò su quell'altra.

Gli voltò le spalle, raccolse il berretto, ed uscì senza guardare nè
Vaska nè il vecchio Andrea. Ma appena fuori del gabinetto le forze
l'abbandonarono, e i muscoli della sua faccia si distesero.

Passando pel cortile il rumore di una finestra gli fece alzare gli
occhi; comparve il viso ridente di Tatiana, che gli fece cenno di salire
per raccontarle la scena. Ella rideva sempre.

Loris si fermò. Tatiana, spaventata dall'espressione del volto di lui si
gettò indietro.

Quella sera Loris dormì nell'isba di Andrea Arsenief; l'indomani ne
partì per sempre, e il mugik gli disse salutando colla sua voce buona:

— Dio ci abbandona qualche volta, perchè vuole che noi lo cerchiamo.



III.


Per tre anni Loris condusse la vita più vagabonda.

Egli stesso più tardi non avrebbe osato raccontarla tutta, malgrado la
crudità dell'orgoglio, col quale metteva come una sfida in ognuno dei
propri eccessi; ma pellegrinando dai toundras gelati del nord ai deserti
ardenti del mar Caspio, dai laghi a vasche di granito della Finlandia
alle tepenti terrazze di Crimea, dalle steppe immense come il pensiero
alle foreste più lunghe di ogni pazienza, e nelle quali i tronchi
bianchi delle betulle e le colonne ramee dei pini sembravano soffrire
quanto gli uomini per la inclemenza del cielo; discendendo i fiumi, pei
quali la storia passò come per una grande strada, e che alimentano
ancora colla propria pesca tanta parte del vasto impero; mescolandosi ai
pellegrinaggi dei mugiks verso le catacombe dei santi più gloriosi, o
associandosi ai banditi percorrenti malgrado la sorveglianza spietata
della polizia ogni provincia colla falsità di tutti i mestieri e la
facilità di qualunque delitto, viaggiò come Rakhmetof, l'eroe prediletto
di Tchernicewsky, attraverso tutta l'anima russa.

La sua cultura aiutata da una meditazione, che quell'esilio spirituale
rendeva più intensa, gli scopri molti segreti della vita e della storia
nazionale. Indovinò dall'opposizione delle steppe colle foreste la lotta
secolare fra le due metà della Russia, il nord sedentario e il sud
nomade, tra il russo ed il tartaro; sentì la fatalità del primo stato
moscovita, cinto da una barriera naturale di selve e di là straripante
sulla steppa, ove pastori ed agricoltori vagavano nel primo inconscio
atomismo sociale; comprese il lento procedere della civiltà per questo
impero, di cui ogni provincia è un regno, e nel quale le città sorgono
ad immense distanze sulle campagne sommerse dalla propria immensità, ma
sopratutto sofferse e vide soffrire ogni varietà di miseria con quella
rassegnazione russa, che nè il clima potè mai vincere, nè il dispotismo
stancare. Il popolo, preoccupato solo di vivere, accettava qualunque
condizione naturale e politica; il suo socialismo agricolo, anzi che da
un'idea sociale, derivava dal sentimento del primo gruppo domestico reso
inscindibile dalla necessità della guerra incessante alla natura; la sua
religione, bizzarro miscuglio di tutti i paganesimi, aveva tuttavia una
idealità inestinguibile di giustizia terrena. Il popolo viveva
mestamente. Le sue canzoni cadevano come lagrime sonore lungi per le
steppe nel silenzio dei tramonti, quando il sole invece di sparire
sembrava allontanarsi per l'infinito della pianura, come la lucerna di
un pellegrino, e le ombre della notte precipitavano compatte dal cielo.
Il popolo non aveva nè un'idea politica, nè un presentimento sociale. La
facile isba fabbricata colla scure, e che il fuoco deve divorare
inevitabilmente dopo pochi anni, era come una tenda piantata nella
steppa, dalla quale gli giungevano sul soffio silenzioso del vento
gl'inviti di un viaggio senza meta e senza scopo. Perchè restare come un
punto immobile nello spazio? Ma lo Czar delle foreste moscovite aveva
con un ordine incatenati i mugiks alla gleba, servendosi delle loro
abitudini socialiste nel comune per ribadire loro la catena. Adesso solo
i cosacchi erano nomadi, mentre i contadini attendevano colla pazienza
dei prigionieri di essere vecchi, e quindi liberi da tutti i debiti
comunali, per abbandonare il villaggio e partire pellegrini col bordone
e la bisaccia magari verso Terra Santa, ove era morto un redentore senza
poterli redimere. Liberi come il vento sui prati ed instabili del pari,
i cosacchi vivevano in piccole repubbliche senz'altro statuto che il
cavallo; questo era per loro l'ozio e la libertà, il coraggio nella
battaglia e l'ebbrezza continua nella pace. Correre, sfuggire persino a
sè stesso, sul piano ove il verde è infinito come l'azzurro del cielo,
non avendo altro padrone che il capriccio e altra virtù che
l'indipendenza, ecco la vita! Essi accettavano lo Czar come il maggiore
degli Etmani, il generalissimo della loro cavalleria. Ma nemmeno essi
pensavano. Perchè diventerebbero civili, se la civiltà costringe l'uomo
a sedersi per sempre, lavorando colle mani o colla testa, per crearsi
prima un bisogno e poi un comodo, sino a soccombere sotto uno sciame di
problemi pungenti e velenosi quanto i calabroni della steppa?
Nell'immenso impero russo i cosacchi erano adesso l'estrema poesia
selvaggia, mutata dalla raffinata barbarie del dispotismo czaristico in
una bestiale prosodia, giacchè gli ultimi manipoli della loro orda
antica, ridotti nelle città a gendarmeria, riscattavano dal governo il
privilegio della propria indipendenza col servire agli abusi della sua
forza.

Oggi i cosacchi, una volta così efficaci nella storia russa, non sono
più che una varietà della sua vita; altri popoli più selvatici di loro
furono aggregati all'impero, e vi accampano come prigionieri, che
l'impossibilità della rivincita mutò gradatamente in servi o in coloni.
Interi regni turchi sono ora provincie russe; Kirghiz Mussulmani e
Kalmouks buddisti macchiano della propria presenza l'ortodossia russa,
conglomerati nel governo imperiale, di cui sentono solamente la forza. E
l'impero dilaga nell'Asia. Tutte le religioni, le civiltà, le barbarie e
i climi hanno la propria zona nell'impero russo; gli ebrei addensati
nella Polonia vi soffrono di una schiavitù più atroce della polacca;
sulle altezze impervie del Caucaso, ove l'umanità trovò la sua massima
bellezza, gli antichi villaggi indipendenti ripensano ancora nel
silenzio dell'oppressione le gesta di Schiamil, il loro ultimo eroe;
sulle sponde del mar Bianco, nel regno eterno dell'inverno, gli uomini
passano come fantasmi, e vivono sotterra come animali. La Russia è più
che metà dell'Europa, la Siberia è quasi metà dell'Asia.

Loris errò tre anni senza scopo e senza meta: voleva tutto vedere e
conoscere.

Coll'invidiabile facilità della propria razza potè adattarsi rapidamente
a tutti gli ambienti, associandosi alle carovane, unendosi ai
pellegrinaggi, o errando solo e fermandosi ovunque era possibile, colla
curiosità di un dotto e la passione indefinibile di un predestinato, che
credesse così di compiere la propria preparazione. Era diventato più
alto e più robusto. In quella vita, dalla quale bisognava conquistare
giorno per giorno il pane, egli si era fatto a tutti i rischi e a tutti
gli usi; poteva soffrire lungamente la fame, e dormire sulla steppa o
nei boschi, mendicare o rubare secondo i compagni del momento.

La terribile empietà della sua prima educazione gli era scoppiata
nell'anima, polverizzando la fragile crosta dei sentimenti più civili
assorbiti in quella vita al castello. Una sinistra poesia raddoppiava
l'energia della sua volontà in quella lotta insensata di un'esistenza,
concepita oltre ogni ordine legale; nessuna morale inceppava la logica
implacabile del suo pensiero. Attraverso le sofferenze di tutti quegli
oppressi, egli non raccoglieva che il grido soffocato della vendetta o
il rantolo dell'odio impotente, e quando capitava tra una festa di
popolo, quella allegria in tanta abbiezione di miseria gli faceva male.

I suoi compagni, quasi sempre malandrini o mendicanti, non gl'ispiravano
che disprezzo; i più vivevano così, perchè preferivano quell'ozio
avventuroso alla fatica di una qualunque altra esistenza regolata.

La sua prima compagnia fu una banda di zingari, che traversavano la
steppa verso l'Asia; visse a lungo con essi, imparandone il gergo e i
mestieri, ma senza innamorarsi di quella loro libertà fraudolenta, che
li rende così enigmatici nella storia e seducenti nella poesia. Poi dai
pescatori del Volga, l'immenso fiume, apprese a reggere una barca e a
frequentare i mercati. Quella rude operosità lo stancò presto. Percorse
i conventi più celebri, fingendosi pellegrino, iniziandosi a più di una
setta religiosa; stette coi cosacchi, guardiano di puledri, guidò le
greggie dei pastori, che le contano a migliaia e migliaia.

Come i romei non possedeva che una scodella, una bisaccia e un bastone.
I suoi abiti cadevano a lembi, parlava sempre in dialetto colla più
aspra volgarità. I suoi capelli e la sua barba, incolti, gli davano
un'aria strana e malgrado tutto signorile, che gli attirò spesso
l'attenzione pericolosa della polizia: tre o quattro volte fu gettato
nelle carceri con altri vagabondi, ma potè sempre uscirne grazie alla
prontezza del suo spirito e all'arbitrio capriccioso della polizia
stessa. Si serviva di un passaporto rubato nelle più tristi circostanze
ad un vagabondo, che gli somigliava. Nei più rigidi inverni si arrestava
dove poteva. In un convento, ove i frati lo accolsero ingannati dalla
sua devozione e dal racconto fantastico della sua miseria, rimase tre
mesi copiando antichi manoscritti greci. Poi fece parte di una banda di
ladri da cavalli, che nascondevano i puledri rubati entro una foresta, e
da essa li avviavano a mandre verso un altro governo. In questo
esercizio pericolosissimo, perchè i mugiks si associano in truppa per
dare la caccia ai rapitori, e li uccidono senza pietà ovunque li
sorprendono, il suo coraggio e il suo ingegno gli assicurarono presto
un'autorità indiscussa sui compagni. Egli rubava indifferentemente ai
mugiks e ai signori, ma divideva il guadagno colla banda largheggiando
verso di essa con modi da capitano. Però una volta furono colti; egli e
due altri solamente poterono salvarsi nel bosco.

Era stata la stagione più bella della sua vita, dopo la quale si mise in
un'associazione di giuocatori di frodo, che si recavano alle fiere
suonando varî istrumenti. Avendo accumulato qualche danaro in tutti
questi mestieri, lo portava cucito nelle vesti, ma viveva sempre colla
più avara frugalità.

Alla grande fiera di Ninhny Nowgord s'incontrò con uno strannik, un
errante, personaggio bizzarro di una fra le più stravaganti sette russe.
Era un ometto di bassa statura, tarchiato, di una incredibile forza
muscolare. Sebbene non avesse più di quarant'anni ne mostrava cinquanta,
e vestiva di pelli di montone anche nell'estate, coi sandali ai piedi,
fasciandosi le gambe di cenci immondi. I capelli lunghi e crespi, di un
colore incerto fra il rosso ed il castano, gli crescevano a cespuglio
dalla testa, sulla quale non portava berretto di sorta. Sotto la barba
lunga un lupus gli divorava l'angolo sinistro della bocca. I suoi occhi
piccoli e bianchi sotto la fronte bassa, quasi sorretta da due enormi
sopracigli villosi, parevano spenti: e rideva spesso scoprendo una
rastrelliera di denti corrosi, attraverso i quali passava un alito
fetido. Si chiamava Topine.

Loris l'incontrò col proprio gruppo sull'imbrunire a non molta distanza
dalla città. Cadeva il tramonto, dalla campagna venivano soffii
profumati, che ammollivano l'aria troppo calda. Loris, che aveva fatto
anche lo stregone e sapeva dire la buona ventura, lasciò andare innanzi
i compagni per strologare un crocchio di ragazze tornanti dalla
falciatura dei prati. In quella passò Topine a passo rapido, trascinando
faticosamente una gamba, che gli doleva. Le ragazze se lo mostrarono con
un grido di orrore, egli rispose loro con un gesto osceno.

Quando Loris le ebbe contentate, ricevendone pochi kopeks per le solite
fandonie profetiche, allungò indarno il passo per raggiungere gli altri;
ma conoscendo la bettola, ove andrebbero ad alloggiare, cedette
insensibilmente alla blandizie della sera. D'un tratto, alla svolta
della strada, udì uno strepito di voci, e scoperse un gruppo di mugiks
schiamazzanti intorno a qualcuno, che bestemmiava con voce più aspra.
Quando fu loro presso, Loris s'accorse che avevano circuito Topine e,
dileggiandolo, volevano costringerlo a ballare. Uno fra essi aveva già
cominciato a scuoterlo, ma Topine rivoltandosi ferocemente lo aveva
atterrato con un pugno. Naturalmente s'impegnò una rissa. Topine faceva
sforzi sovrumani per saltare fuori dal loro gruppo, ma stretto da ogni
parte, malgrado tutta la sua robustezza, non poteva riuscirvi. Un pugno
gli aveva scrostato i grumi del lupus, così che un sangue giallastro gli
colava per la barba. Loris, ubbidendo ad un irriflessivo istinto
generoso, si slanciò al suo soccorso, rovesciò un mugik, pervenne nella
sorpresa sino a Topine e lo liberò dalle mani, che lo tenevano
avvinghiato. Quindi si postò fieramente dinanzi a lui, senza parlare,
brandendo un lungo coltello.

L'effetto ne fu irresistibile, gli altri arretrarono. Loris ordinò a
Topine di andare innanzi, e rimase in faccia a tutti, guardandoli così
terribilmente che non osarono attaccarlo. Ma Topine si era fermato a
poca distanza per sostenerlo in un nuovo assalto.

Quando ripresero la via insieme erano già amici.

Loris gli confessò di andare a Ninhny con una compagnia di suonatori
ambulanti, l'altro gli rivelò la propria setta. Era un errante, di
coloro che come gli antichi profeti si erano ritirati nella solitudine,
in fondo alle foreste, nelle quali non penetravano ancora i servitori
dell'Anticristo, lo Czar. Aveva abbandonato moglie, figli e comune per
non avere più alcun rapporto colla società legale; portava al collo una
croce benedetta a Gerusalemme sul sepolcro del Redentore, e la mostrava
ai gendarmi dicendo loro: Ecco il mio passaporto vidimato dal Re dei
Cieli. Naturalmente i gendarmi lo arrestavano, ma egli s'ingegnava per
evitarli. Nel suo delirio settario affermava che l'epoca dell'Anticristo
era già incominciata, e che lo Czar era il nemico di Dio, come i ricchi
lo erano dei poveri, mentre egli non voleva aver nulla di comune con
essi. Vivendo solo nel pensiero di Dio, girava da dieci anni per tutto
l'impero russo, alloggiato e nutrito segretamente da quei
correligionari, che imperfetti nella fede restavano ancora nel mondo
comunicando di nascosto coi perfetti, gli erranti. Loris conosceva già
confusamente quella setta. Poi Topine gli chiese con accento cupo:

— Sei tu un credente?

Loris alzò le spalle.

Presso la città si separarono.

— Giacchè rimarrai parecchi giorni a Ninhny, ti rivedrò, disse Topine.

Due giorni dopo, sull'imbrunire, Loris fu fermato da Topine in un vicolo
già oscuro della città.

— Vuoi venire con me? gli mormorò misteriosamente: ti condurrò da
Ouliana, la Boghiniia.

— Boghiniia, una madre di Dio! esclamò Loris meravigliato.

— Sì, la Boghiniia, replicò Topine con accento ispirato: essa è l'ultima
nipote di Ivan Timofewich Souslof. Sotto il regno di Pietro I, Dio Padre
discese frammezzo a nuvole di fuoco sul monte Gorodine, nel governo di
Vladimir, e vi si fece uomo sotto la forma di Daniele Philippovich.
Quindi generò da una donna vecchia di cento anni un contadino per nome
Ivan Timofewich Souslof, e lo riconobbe per proprio Cristo prima di
risalire al cielo. Iwan Timofewich Souslof scelse dodici apostoli, coi
quali predicò sulle rive dell'Oka i dodici comandamenti del suo padre
Sabaoth; poi lo Czar lo fece imprigionare, flagellare, torturare, e
finalmente crocifiggere presso la porta santa del Kremlino. Fu
seppellito il Venerdì, ma risuscitò a confusione degli infedeli nella
notte dal sabato alla domenica. Allora lo arrestarono di nuovo e lo
crocifissero. Questa volta lo scorticarono e, perchè non potesse più
risorgere, la sua pelle fu ridotta in cenere. Ma una donna avendo
ottenuto di gettare un lenzuolo sul suo cadavere, Ivan Timofewich
Souslof risuscitò ancora. Adesso la sua pelle è formata di quel
lenzuolo, e Ivan Timofewich si è ritirato sul monte Gorodine, dal quale
ritornerà nella pienezza dei tempi.

La sua voce gutturale si era fatta a mano a mano più stridente durante
la lunga filastrocca. Loris lo ascoltava curiosamente.

— Vuoi tu venire dalla Boghiniia? Io sono un suo servo; le porto
l'elemosina dei credenti di Jaroslavt, disse traendo di sotto la pelle
di montone un sacchetto, e battendovi colle dita orgogliosamente.

— Oro?

— Tutto.

— E perchè non te lo tieni?

— E scritto nei dodici comandamenti «non rubare. Se qualcuno ha rubato
solamente un kopek, gli si metterà nel giorno del giudizio finale quel
kopek sulla testa, e il peccato non gli sarà rimesso, che quando il
kopek si sarà fuso al calore del fuoco.»

— È bella la Boghiniia?

— Più di te, e Topine lo guardò con ammirazione.

Loris sapeva qualche cosa della setta dei Klysty e sulla loro adorazione
della donna, ma non aveva mai potuto accertarsi della verità dei loro
riti pazzi e licenziosi. Quell'incontro con Topine cominciava a
divertirlo. Quindi tentò d'interrogarlo, ma Topine rispondeva di
ignorare i loro segreti, tradendo involontariamente un grande terrore.

— La Boghiniia è bella ma terribile, una sua parola basta a dare la
morte.

— Perchè dunque mi conduci da lei?

— Tu sei bello, rispose sottovoce; se ella vuole, può farti diventare
come lei. Non mi hai tu salvato la vita? esclamò con orgoglio selvaggio,
sentendo di rendergli un beneficio anche maggiore.

Erano usciti dalla città, annottava.

Loris, all'idea di un abboccamento con una donna bella e potente, aveva
sentito rinfocolarsi tutto il suo odio ripensando a Tatiana. Da tre anni
la ferita del suo cuore sanguinava come il primo giorno, sebbene non
amasse più quella fanciulla, della quale l'immagine gli stava confitta
nella memoria come una placca rovente. Ma da tre anni ruminava la
propria vendetta, preparandosi in quella peregrinazione ad impadronirsi
dell'anima popolare. Sotto i suoi cenci qualche volta si sentiva più
potente dello Czar prigioniero dei propri funzionari, in fondo ad un
palazzo di marmo, nel quale non giungeva dal di fuori alcuna voce. Ma
prima di scendere nella lotta dovrebbe ancora entrare nel mondo dei
signori per impararne i segreti come di quello dei poveri. Quindi a
forza di meditare la propria vita si era convinto di essere un
predestinato. Tutto era stato strano e terribile nella sua fanciullezza;
la sua educazione, la morte del padre, il suicidio della madre,
l'accoglienza e poi la cacciata dal castello. Egli aveva dovuto amare
Tatiana per spremersi dal cuore l'unica goccia d'amore, diventando
invulnerabile a questo sentimento, che perde tutti gl'individui.

Chi era quest'altra donna, contro la quale lo gettava il destino?

Con rapidità spaventevole concepì tosto il disegno di sopraffarla. Il
fanatismo istintivo di Topine non poteva ingannarsi se, malgrado il
terrore che di lei provava solo nominandola, osava così senza
preparazione alcuna condurre lui vagabondo e cencioso da una boghiniia.
L'anima semplice di quello strannik aveva dunque sentito che egli era un
predestinato?

Camminavano in silenzio, la strada era deserta.

Si fermarono davanti ad una casa in muratura, chiusa da un altissimo
stecconato nero interrotto da un cancello a grosse sbarre di ferro
foderate da lamiera per togliere ogni vista ai curiosi; pareva una
fortezza. Alti pini le coprivano quasi interamente il tetto coi rami; si
distingueva poco più lungi un altro caseggiato.

Topine rattenne Loris per una mano, poi improvvisamente, a più riprese,
imitò il fischio della vaporiera.

Il cancello si aperse, e comparve un vecchio in caffetano rosso, tutto
raso. Topine gli pronunciò all'orecchio una parola, quegli squadrò
Loris, e li accompagnò fino alla porta. La casa aveva i muri a scarpa,
colle finestre piccole e nere.

Topine disse a Loris:

— Resta qui.

— Alla porta? E invece lo spinse avanti così vivamente che l'altro non
osò resistere.

Il servo accese una piccola lanterna, quindi li condusse per una scala
di legno attraverso alcune stanze sino ad un gabinetto tutto giallo. I
suoi mobili erano dorati, le pareti rivestite di damasco.

Loris si guardava attorno meravigliato, Topine tremava.

Poco dopo entrò una donna vestita di rosso, con una lunga veste a coda:
era alta, bianchissima, con un'immensa capellatura nera. Topine le si
gettò ai piedi, baciandole le pantofole rosse ricamate d'oro, e senza
far motto, le pose innanzi sul tappeto il sacchetto.

Ma ella esaminava Loris, rimasto ritto col berretto spelacchiato sulla
testa; in quella camera, così stracciato ed altero, pareva anche più
bello.

— Chi è il tuo compagno? chiese a Topine, percuotendogli con una
pantofola la fronte per farlo alzare; ma egli rimase nullameno bocconi.

— Il mio salvatore: senza di lui mi avrebbero ucciso e rubato il
sacchetto.

Ella pareva perplessa; la sua fisonomia diventò terribilmente severa.
Tornò a guardare Loris, poi riabbassando su Topine un'occhiata d'un
disprezzo infinito si torse verso l'uscio, donde era entrata.

Allora Loris s'avanzò.

— Grazie! mormorò Topine con voce soffocata.

— Alzati, Topine, gli disse Loris: la commedia è più breve di quanto
supponevo. Per sdebitarti della vita, che mi devi, bai creduto nella tua
semplicità di farmi conoscere una Boghiniia! L'ho vista, è abbastanza
bella per fare da madre di Dio.

E il suo accento aveva una ironia così signorile, che la donna si voltò.

— Perchè, fu pronto Loris a seguitare, componendosi nell'eleganza di un
gentiluomo, non potrei io stesso quantunque così vestito essere un
personaggio come voi? Se il mio presentatore, aggiunse con fine sorriso,
non mi ha presentato, la colpa è ancora più mia che sua, giacchè non gli
ho ancora detto il mio nome. Ma nemmeno vi chiederò il vostro. Chiunque
io mi sia....

— Ma, signore, riprese la donna, che cominciava a subire l'ascendente di
quella disinvoltura, la vostra presenza in questa casa....

— La casa non è dunque vostra? Che cosa potete temere da me? Quel
sacchetto è pieno d'oro, non avrei potuto prenderlo a Topine? Forse
consentiste a divenire pei vostri credenti una madre di Dio per l'oro?
Topine mi disse che eravate bella con accento di così mistico terrore
che desiderai di vedervi. Volevo giudicare le facoltà estetiche del
nostro popolo. La Russia ha ancora abbastanza fede, se può adorare Dio
nella manifestazione della vostra bellezza.

L'imbarazzo della donna cresceva visibilmente; l'alterigia fredda del
suo classico viso di statua era scomparsa. Loris si accorse che la
signorilità di quella conversazione gli dava un vantaggio enorme.

— Voi non saprete mai chi io mi sia. Se mi supponete un funzionario del
governo, così travestito per sorprendere i riti della vostra setta,
stimereste troppo il governo. Chi può ancora servirlo e per uno scopo
così basso, per impedire a uomini, che nulla più consola, l'estasi di
adorare una bellezza di donna, che pare loro un anticipo sul paradiso?
Voi, che non credete in Dio, giacchè rappresentate la parte di sua
madre, potete comprendere come non tutti gli erranti debbano somigliare
a Topine, e la bellezza non sia il solo sintomo di un'altra
predestinazione. La vostra è una setta di deboli, i quali obliano il
proprio dolore nella contemplazione della bellezza; ma il loro dolore,
passando nella vostra vita, vi ha reso così tragicamente bella. Il
dolore, seguitò con accento cupo, è presso a trionfare nella Russia;
presto avrà il suo eroe. Vi pensaste mai nella solitudine divina, che i
vostri adoratori vi hanno fatto?

Loris aveva parlato con modi aristocratici, ma il suo sguardo
sfavillava.

— Chi siete voi, signore? ella esclamò finalmente.

— Quando una donna è curiosa, il suo cuore è ancora muto, altrimenti
ella avrebbe già indovinato. Andiamo, Topine.

E si voltò verso di lui tuttora ginocchioni, cogli occhi spalancati,
senza intendere verbo. Topine ubbidì macchinalmente.

Ella era sempre così incerta. Topine le si rigettò ai piedi baciandoli.

— Andiamo, ripetè Loris con voce imperiosa. L'altro lo seguì.

Quando furono nella strada, Loris gli disse:

— Domani tornerai dalla Boghiniia, e se ti dice di cercarmi, mi troverai
alla stalla dei tre Magi tutta la giornata.

La bellezza della Boghiniia aveva riacceso gli ardori del suo sangue
giovane, mutandogli quel disegno di conquistarla nella necessità di un
trionfo improvviso. Con quella donna sperimenterebbe per la prima volta
la propria potenza. Ella doveva essere senza dubbio un forte carattere
per imporsi così all'adorazione di numerosi fanatici. L'imponenza del
suo volto, lo splendore ardente de' suoi grandi occhi, e sopratutto
quella indefinibile alterigia, che nullameno si era scomposta sotto la
fredda lusingatrice violenza del suo attacco, rivelavano una natura
superiore. In quella setta misteriosa dei Klysty, derivata da un ritorno
puerile al vangelo primitivo, e discesa grado grado nel più demente e
lascivo misticismo, l'adorazione della donna non poteva essere che
l'ultima sconfitta della virilità. Come la loro ragione si era prima
smarrita sulla traccia di Dio per chiedergli la spiegazione della vita,
il loro sentimento si perdeva nel senso dinnanzi alla donna. L'estasi
della rivelazione, ottenuta coll'ebbrezza dell'amore sensuale, era per
quei fanatici la soluzione del problema umano e divino; quindi la donna,
nella quale si elabora la generazione, questo mistero dei misteri,
doveva essere per loro il maggiore dei simboli.

Loris si domandava per quale strano processo quella donna aveva potuto
elevarsi tanto alto. Evidentemente la Boghiniia era ricca, e poichè
Topine lo aveva condotto da lei, giudicandolo bello, questa vivente
divinità si permetteva i capricci di tutte le altre donne. Diventando
l'amante della Boghiniia arriverebbe dunque alla ricchezza. Loris sapeva
che i capi di tutte le sette religiose nella Russia sfruttavano con pari
destrezza la credulità dei loro adepti.

I suoi compagni erano ritornati malconci alla stalla dopo aver giuocato
in una stamberga, ove erano stati scoperti e bastonati così da dover
scampare, abbandonando anche quel poco danaro, che possedevano prima.

Quindi destarono Loris per chiedergli qualche rublo.

Egli rispose con male parole di non averne, e si riaddormentò.
L'indomani non uscì di casa aspettando Topine, che venne solo a sera.

Pareva più misterioso, ma Loris s'accorse che era anche più allegro.

— Ella stessa m'invita? Che cosa ti ha detto di me quando ti ha
richiamato?

— La Borghiniia non confida i propri segreti ad un povero verme come me,
ma può fare di un verme un angelo.

L'appuntamento era alle dieci della notte.

— E tu dove abiti?

— Nel suo canile. Verrai solo, io stesso ti aprirò il cancello.

— Ma chi è la Borghiniia? chiese Loris con impazienza.

Topine se ne andò senza rispondere.

Alle dieci Loris si fermava dinanzi al cancello di quella casa, e Topine
lo introduceva nello steccato. Appena dentro gli parve d'intendere uno
strano ronzio di voci. Invece di dirigersi alla porta girarono dietro la
casa verso un enorme capannone bruno, del quale era impossibile
indovinare l'uso. A Loris sembrò che le voci crescessero; poi entrarono
per una porticina, al buio, in una specie di andito pieno di un forte
odore di terriccio. Adesso non poteva più dubitare, il capannone era
pieno di gente ed illuminato; la luce filtrava dalle fessure
dell'assito. Più innanzi v'era un uscio a vetri.

— Mettiti lì, gli disse Topine e scomparve.

L'uscio, chiuso dal di dentro e bipartito, aveva nel mezzo di ogni
battente un largo vetro tenuemente colorato in rosa.

Quel capannone era un'immensa sala, tutta parata di bianco in mussolina
indiana sapientemente panneggiata e frangiata d'argento; la sua vôlta
scompariva sotto un tulle candido e cilestro, come un cielo che si
vedesse tra nuvole lattee. Egli n'ebbe una grande impressione di
soavità, attraverso quel vetro rosa, che toglieva a tutto quel bianco la
inevitabile crudezza dei toni opachi. Trenta o quaranta persone, vestite
di lunghi accappatoi bianchi, strette nel mezzo a circolo intorno ad una
lunga tinozza bianca, posta sopra un tripode acceso, giravano lentamente
tenendosi per mano e salmodiando. Le loro teste gittate indietro, così
che i colli ne divenivano gonfi violentemente, guardavano al cielo. Un
alito leggero di vapore saliva dall'acqua bollente della tinozza,
perdendosi nell'aria.

Loris osservava estatico. Tra quella gente v'erano fanciulli e vecchi,
donne dai capelli bianchi spioventi sulle faccie grinzose, e giovinette
dal viso fresco di primavera, che parevano impallidite per una dolorosa
emozione. Tutti gli accappatoi erano uguali, tutte le teste e i piedi
nudi; un tappeto bruno sul pavimento imitava la terra. Molte lampade
dorate, sospese a cordoni bianchi, penzolavano dalla vôlta, spandendo
colle incerte fiammelle una luce misteriosa; dinnanzi alla tinozza,
coperto di un drappo nero, saliva per tre gradini una specie di trono,
agli angoli del quale ardevano quattro alti candelabri. E il circolo
girava sempre lentamente, mormorando, strisciando sul tappeto i lunghi
accappatoi; si sentiva già lo sforzo di qualche respiro, alcuni si
portavano le mani al collo come per sottrarsi allo spasimo di una
soffocazione. Poi si fermarono, e una voce declamò questo versetto:

«E accadrà negli ultimi giorni, dice il Signore, che spanderò il mio
spirito in ogni carne, e i vostri figli e le vostre figlie
profetizzeranno, e i vostri giovani vedranno delle visioni e i vostri
vecchi sogneranno dei sogni.»

Il circolo ricominciò a girare, prima adagio alternando ritmicamente i
piedi e scuotendo le teste, poi crescendo a grado a grado di velocità.
Era la danza sacra dei dervischi, la ronda stordente, che prelude alla
frenesia della rivelazione. Cominciavano i rantoli e le grida. Quindi
d'un tratto il circolo si spezzò; gli uomini scaraventarono lungi le
donne per restringersi in un cerchio più piccolo e più rapido, ma esse
si riattaccarono fra loro a grandi urla, e si scagliarono in una ridda
inversa circuendoli. Allora la visione s'intorbidò; non si distinsero
più che due pareti bianche, formate dagli accappatoi, sui quali
ondeggiavano penzoloni le teste coi capelli svolazzanti, due pareti
circolari, aggirantisi come sopra un perno segreto, rapite da una bufera
insensibile. Non si poteva sorprendere una fisonomia, afferrare una
forma, nel volo di quel bianco abbacinante. Loris ne risenti
l'impressione angosciosa.

Essi giravano sempre più rapidi, trasportati dal reciproco impulso,
nell'impossibilità di arrestarsi. Si udiva il fischio rantoloso del loro
respiro, s'indovinavano nei tremiti di una impossibile caduta gli
spasimi di un deliquio, che l'energia dei più forti ritardava.

Loris si tolse da quel vetro per ritornare nel buio dell'andito. Una
collera profonda ruggiva nel suo spirito allo spettacolo di quell'ultima
degradazione della preghiera umana. Avrebbe voluto essere già fuori da
quel corridoio, ma nelle tenebre non trovava più la porta, per la quale
era entrato. Perchè dunque era venuto a questa suprema imbecillità
religiosa? Attraverso l'assito gli giungeva ancora il rumore turbinoso
della danza come un sordo murmure di acqua, che s'inabissi nelle bocche
di un molino. Involontariamente tornò ad ascoltare. Così nell'ombra
contemplava ancora quelle due pareti umane, bianche e rigirantisi sopra
sè stesse, colle teste che trabalzavano cadavericamente; vedeva certi
sorrisi tormentati, certe occhiate livide, certi denti balenanti dalle
bocche spalancate, come gli era parso di osservare dianzi. Ma essi
turbinavano sempre; se li sentiva intorno, quasi al di dentro, colla
vertigine di un vortice. Poi un urlo immenso, lacerante, lo colpì.

Tornò a spiare dal vetro. La ronda era finita, tutti giacevano in un
alto mucchio bianco, palpitante e semivivo, come sepolti sotto la neve
negli ultimi conati dell'agonia. Le lampade sacre agitavano leggermente
gli azzurri lucignoli come stelle tremolanti nel cielo lontano; dalla
tinozza il vapore dell'acqua s'alzava in una nuvola sempre più densa,
ondeggiante nell'aria al pari di un incenso.

Loris tentò di aprire l'uscio per accostarsi a quell'ammasso di caduti,
che subitamente si rialzarono come sferzati da uno scudiscio invisibile,
mettendosi a saltare soli, dimenandosi nelle più incredibili
contorsioni. Dopo la preparazione collettiva di quella ridda cominciava
il tormento singolo dell'attesa in ognuno, l'estremo sforzo verso
l'estasi col sommovimento di tutte le fibre. Qualcuno preso da un
tremito convulsivo sembrava oscillare come una canna, colle ginocchia
piegate e la faccia cinerea; altri balzava furioso come un cavallo
slanciandosi nell'aria, chi si dondolava in una specie di valtzer; un
vecchio roteava sopra sè stesso, colle mani in croce e gli occhi chiusi,
insensibile a tutto. Loris vide una giovinetta bella, dal volto
marmoreo, che colle braccia abbandonate e la bocca aperta protendeva il
ventre in un conato mostruoso, che le spezzava le reni e la faceva
singhiozzare. Poi coppie di uomini e di donne saltellavano prendendosi
per le mani, urtandosi rabbiosamente coi petti, e cantavano. Una donna,
coll'accappatoio rigettato sui lombi sino alla cintura, scopriva un seno
grasso, dondolante, di una carne stanca; verso di lei veniva un'altra
donna colle braccia tese e l'occhio fisso come dietro un fantasma, che
si fosse involato dal vapore ondulante sulla tinozza. Molti caduti in
ginocchio si percuotevano le mammelle, o si rotolavano sul tappeto.

Uno gridava monotonamente: oh! oh! spiccando balzi prodigiosi per
ghermire una lampada sospesa troppo in alto; una vecchia, dopo aver
corso pazzamente intorno alla sala, venne a cadere moribonda sul primo
gradino del trono.

Quello scoppio di demenze individuali era anche più insopportabile della
prima ridda. Invano Loris si richiamava alla memoria quanto aveva letto
su questi riti orientali, e le spiegazioni nevropatiche che ne dava la
scienza moderna; la scomparsa totale della personalità umana in quei
bianchi fantasmi, grottescamente saltellanti come per forza magnetica,
sconvolgeva la sua stessa ragione. Non solo non poteva comprendere quale
stato intellettuale si formasse in essi con quella voluta agonia di
tutte le forze fisiche, ma egli stesso si sentiva cogliere da qualcuno
di quegli spasimi così intensi, che nessuna crisi della vita vera,
malgrado tutte le sue tragedie, avrebbe potuto provocare.

Essi saltavano sempre con una energia inesauribile. Le loro faccie,
sudicie di sudore e bianche come la calce, esprimevano un tormento senza
nome; dai loro occhi, nei quali lo sguardo si era spento, uscivano lampi
vitrei, mentre le loro bocche incapaci di formulare più una parola si
stiravano nell'avidità febbrile della sete.

— Oh! oh! oh!

Qualcuno mormorava ancora torcendosi nelle ultime convulsioni; quella
vecchia caduta sui gradini del trono li saliva leccandovi come delle
orme invisibili, e colle mani incrociate dietro la schiena chiamava
tutti gli altri.

Allora da una porta laterale apparve un'alta figura di donna.

Loris palpitò.

La Borghiniia aveva i capelli sciolti come un immenso manto nero, che
toccava quasi il terreno; sulla fronte le tremolava una grossa stella di
brillanti. Era vestita di un accappatoio azzurro, stellato d'argento. Si
fermò sull'uscio colle braccia alte, guardando al cielo. Il suo volto
statuario, insopportabilmente bianco, pareva quello di una Niobe, tanto
era il dolore che ne gelava i lineamenti; ma le sue labbra erano più
rosse di una ferita, e i suoi occhi ingranditi dalle occhiaie livide
nuotavano in una fiamma azzurrognola. Lentamente salì al trono. Tutti
erano caduti ginocchioni, colle mani tese; alcuni piangevano.

Ella li guardò con una inesprimibile passione d'amore, incrociandosi le
braccia dietro la nuca, e arrovesciando la testa così che i capelli le
si confusero sul velluto nero del trono. Nel largo manto aperto si
scoprì nuda alla adorazione dei credenti.

Loris dal proprio uscio la vedeva di fronte, atteggiata scultoriamente
sul fondo turchino dell'accappatoio come dentro una nuvola; il suo seno
pareva di vergine, coi capezzoli rosei, e il suo ventre di madre. La
linea ondulante delle anche si piegava ai ginocchi di un'estrema
finezza, interrompendosi agli stinchi, chiusi da due monili di
brillanti; mentre le coscie, leggermente divaricate in quella violenza
del ventre proteso, mostravano ai fedeli la gloria della sua maternità
in un divino impudore.

Sorrideva. Brividi luminosi le scendevano dalla fronte per tutte le
carni, spegnendosi sul velluto del tappeto.

L'adorazione cominciava.

Tutti i volti di quei fanatici s'illuminavano della sua bellezza come
fiori ai primi raggi del sole. La tinozza le innalzava ai piedi una
nuvola molle e vorticosa, e le lampade intorno al trono impallidivano ai
bagliori della stella brillantata, che le tremolava sul capo.

Quella vecchia, rannicchiata sui gradini del trono, le si nascose sotto
il manto accovacciandovisi come una scimia e salendole colle lunghe mani
grinzose lungo le reni, mentre il viso incartapecorito le sorrideva
animalescamente al contatto aromatico di quelle carni brinate e
marmoree. Poi una giovinetta montò tremando gli scalini per abbandonarsi
sul corpo della dea, e cadde colla bocca sulla sua bocca. Ambedue
oscillarono; ma la dea si scosse rovesciando la giovinetta svenuta ai
propri piedi. Allora un hurrà fece palpitare i veli della vôlta. Tutti i
fedeli si rialzarono stringendo un'altra ronda furiosa intorno al trono.
La diva, insensibile, con quel cadavere ai piedi e quella bestia fra le
gambe, quasi sostenuta da quel manto azzurro, e pura come il marmo,
pareva sfidare coll'enigma del proprio sorriso dolentemente voluttuoso
la loro passione. Un fascino divino emanava dal suo corpo potente di
tutte le forze della maternità e fulgido di tutti gli splendori
virginei; il suo ventre palpitava più del suo seno, il sorriso le errava
come una fiamma sulla bocca rossa. Essi cantavano, urlavano
sgambettando, stirandosi, stracciandosi quasi le membra, mentre i loro
accappatoi sollevati dal vento li nascondevano quasi, e la frenesia del
loro entusiasmo scoppiava in gesti e grida cannibalesche.

Quindi la catena si spezzò in tanti anelli, che rotolarono sul
pavimento, rimbalzando intorno al trono.

La dea si raddrizzò. La sua testa olimpicamente altera conservò sulla
bocca quell'espressione dolorosa, le mani le caddero lungo i fianchi, e
le sue coscie le si allargarono ancora, mentre il ventre palpitando più
violentemente sembrava soffrire quasi le angoscie del parto.

Tutti si avventarono simultaneamente al trono per salirne i gradini,
schiacciandosi con trasporto frenetico. Erano grida rauche, urli e lotte
disperate, nelle quali l'oblìo del sesso e dell'età permetteva ogni
trionfo della forza. Ma sulla piattaforma, presso la dea, ridiventavano
improvvisamente immobili. Poi s'inginocchiavano, la baciavano ai piedi,
sui ginocchi, sotto al ventre; quindi si rialzavano barcollando, gli
uomini le baciavano il seno per memoria del latte succhiato alla
nutrice, e le donne invece si stendevano sulla sua bocca.

Ella rimaneva immota. I suoi occhi fisi sopra una lampada non avevano un
tremito, il suo ventre solo tremava sempre. Un effluvio di amore e di
terrore saliva intorno a lei coll'alito ardente di tutti i fedeli;
qualcuno dimentico delle prescrizioni terribili le errava un istante
colle mani tremule sulle carni, altri stringeva il suo manto. Una
fanciulla le era caduta bocconi ai piedi, e si lasciava schiacciare dai
sorvenienti, piuttosto che muoversi. Solo la vecchia accovacciata, sotto
il manto, sorrideva nell'orgoglio del proprio privilegio, e sfidando il
loro riserbo spaventato accarezzava colle dita il dorso della dea.

Loris si era obliato nell'incanto.

Improvvisamente la dea vibrò, tutti si ritrassero; ella, spiccando un
salto, giunse all'uscio di Loris, l'aperse e scomparve.

Loris si trovò stretto fra le sue braccia prima di aver tempo di
muoversi.

Ella lo aveva sollevato e lo portava correndo; traversarono il prato,
salirono nella casa, al buio, sino a quel gabinetto. Loris si sentì
gettato sul divano.

Poco dopo ella ritornava vestita modestamente di bruno, e si metteva ai
suoi piedi guardandolo.

Quindi gli abbandonò la testa sui ginocchi.

Loris rimase in quella casa oltre un mese. Ouliana, innamorata sino alla
sommissione, avrebbe voluto abdicare al grado di Boghiniia per andare a
vivere con lui a Mosca; ma non era abbastanza ricca per questo. In
danaro contante non possedeva allora che trentamila rubli, il resto lo
aveva profuso in gioielli e nel lusso dell'appartamento. Loris non le
aveva nemmeno detto il proprio nome, contentandosi di cangiare i vecchi
cenci in un modesto abbigliamento di gentiluomo campagnuolo.

Topine rintanato nel canile, con due grossi veltri, che lo amavano,
viveva inorgoglito di quel trionfo di Loris come di un successo
personale. Nella demenza delle proprie idee settarie egli ammetteva
solamente l'amore vagabondo per non riconoscere nel matrimonio un patto
sociale; e non diversa era l'opinione dei Klysty e della Boghiniia, che
ogni tanto prescieglieva qualcuno fra i propri adoratori. Però in quella
casa, malgrado l'intimità di una vecchia serva, colla quale s'amavano
nel più sozzo libertinaggio, Topine fu presto ripreso dal proprio umore
randagio. Una mattina ne parlò a Loris, che passeggiava meditabondo
entro lo steccato.

— Dove vai? questi gli chiese.

— A Voronege.

— Conosci il villaggio di Kourlak?

— Ho vissuto molti mesi nelle tane della sua foresta. Nel villaggio
vicino di Twer vi sono quattro _imperfetti_.

Loris si oscurò nel volto.

— Aspettami laggiù, nella foresta, fra un mese: lo voglio.

Allora Topine gli spiegò in quale tana era solito ad abitare, ma Loris
non la conosceva. Convennero quindi che Loris si sarebbe presentato a
Sevastianucko, lo stregone di Twer.

Topine partì.

Venti giorni dopo Loris rientrando nella camera di Ouliana le disse
freddamente:

— Mi occorrono ventimila rubli.

Ella balzò radiante dal letto: era la prima volta che Loris le chiedeva
qualche cosa. Aprì uno stipetto e gli presentò in un pacco tutti i buoni
di banca, che possedeva. Loris era sempre così cupo.

— Chiudili in una busta da lettera, e mettili sul tavolo da notte della
mia camera.

Ma siccome la busta vi rimase intatta quindici giorni, Ouliana finì col
credere che Loris avesse voluto fare un'esperienza su lei, domandandole
quella somma.

Poi Loris scomparve lasciandole questo biglietto laconico:

«Un giorno sarete superba per l'impiego del vostro danaro».

Nessuna firma.

Loris era partito in ferrovia per Voronege; di là venne a Twer, e seppe
da Sevastianucko che Topine doveva ritornare la sera stessa dal
villaggio di Zeutko. Quindi si avviarono insieme verso la foresta per
incontrarlo a mezza strada.

Era il plenilunio, una di quelle notti russe, quando il sole discende
appena sotto l'orizzonte, delle quali nessuna parola e nessun pennello
potrebbe esprimere la divina trasparenza e la delicatezza delle
sfumature. La luce pallida aveva al tempo stesso qualche cosa di etereo
e di vivente; si sarebbe detto che i due crepuscoli si fossero fusi
nella stessa trepidazione. Traversando quei luoghi Loris non potè
difendersi dalla tristezza delle memorie; camminava a testa bassa, in
silenzio, senza avvertire la bellezza della sera. Quando entrarono nella
foresta senza aver incontrato Topine, lo stregone prese un sentiero a
destra; dopo quindici minuti si fermarono dinanzi ad un albero, intorno
al quale densi ed alti cespugli facevano macchia. Lo stregone v'entrò.
L'albero, vacuo al piede, dava accesso ad una grotta abbastanza ampia,
nella quale Topine dormiva sopra un grosso mucchio di fieno.
Riconoscendo Loris, diè un grido.

Lo stregone aveva acceso una piccola lanterna da tasca.

— Lascia questa e vattene, gli disse Loris.

L'altro parti senza rispondere. Allora Loris uscì dalla grotta per
esaminare se la luce di quella lanternina fosse visibile fra i cespugli;
s'accorse di no.

— Sono venuto a dormire con te, dammi metà del tuo fieno.

Il suo disegno, non ancora ben chiaro, era d'impadronirsi di Tatiana.
L'indomani mandò Topine dallo stregone per sapere notizie del castello.
Questi, che vi aveva qualche aderenza nel servidorame, fu largo
d'informazioni: il vecchio principe, declinando sempre più, non usciva
che di rado in carrozza con madama di Aubrivilliers e Andrea
l'intendente. Tatiana era stata lungamente ammalata, e proprio uno
stregone, non egli, l'aveva guarita. Ora brillava di salute e di
bellezza.

Dal principio della primavera si era data a percorrere le campagne con
Vaska, cacciando e correndo sempre a cavallo. Era l'ammirazione di
tutti. Qualche volta usciva sola sopra un alto baio, incredibilmente
secco e leggero, un cavallo inglese, del quale lo stregone parlava con
disprezzo.

Adesso erano in visita al castello le contessine Oglobine.

Lo stregone promise di andare al castello; tre giorni dopo recò altre
notizie. L'indomani, nel pomeriggio, le signorine attraverserebbero la
foresta per recarsi allo stagno di Asok; Tatiana monterebbe il suo
cavallo inglese, le contessine la seguirebbero su due morelli russi. Ma
Tatiana aveva detto segretamente con Vaska, che le perderebbe a mezzo la
foresta, prendendo il sentiero degli androni per giungere prima allo
stagno.

Loris da tre giorni nascosto in quella tana, ove Topine gli portava i
viveri dal villaggio per mezzo di Sevastianucko, concepì tosto
l'agguato. Era sicuro di Topine. Lo Strannik non aveva che due vizî, la
vodka e le donne; pel resto si poteva fidarsene a tutta prova. La notte
usciva spesso dalla tana per andare al villaggio di Twer, dove aveva più
di un'amica, e ne ritornava quasi sempre ubbriaco. Loris l'interpellò
bruscamente:

— Andrai subito a Kourlak da Elia Mitolka, il fabbro; comprerai dieci
metri di filo di ferro del numero cinque. Se torni ubbriaco ti spacco la
testa, gli disse mostrandogli una piccola rivoltella.

La faccia di Loris era fosca.

— Che c'è, _barine_?

— Domani tenteremo la prima vendetta; ne va della nostra vita.

Topine eseguì puntualmente la commissione.

In tutto il resto della giornata Loris studiò la foresta per indovinare
da qual punto entrerebbe la comitiva, e come si dividerebbe pei
sentieri. Quasi tutti conducevano allo stagno di Asok, famoso nei
dintorni per la pesca delle anguille; ma il più breve ed insieme il più
pericoloso era appunto quello degli androni, attraverso un'avvallamento
del suolo dovuto ad antico lavorìo delle acque, abbastanza bello di
selvaggia orridezza. Loris sapeva che fra quelle anfrattuosità v'era una
caverna, nella quale più di una volta aveva riposato da fanciullo col
babbo. La rinvenne. Un folto di pruni selvatici, fra cui i cani stessi
avrebbero stentato a cacciarsi, la nascondeva ad ogni sguardo. Ordinò a
Topine di portarvi la lucernina, provò se dal di fuori la sua luce si
scorgesse, e vi fece disporre due grossi fasci di fieno. Uno avrebbe
servito da letto, l'altro per otturare ermeticamente l'ingresso.

— Di chi ti vendicherai, _barine_?

— Di una principessa.

— Oh! esclamò Topine passandosi con atto goloso una mano sulla barba
sempre impegolata di marcia: pane bianco! Come faremo?

— Te lo dirò domani.

Quella notte Loris avrebbe scommesso di avere la febbre. Gli pareva di
vedere Tatiana in mille modi, ascoltava la sua voce fra un murmure
lontano di applausi e di fischi per quest'opera di vendetta, nella quale
una principessa bella e vergine avrebbe pagato per tutta l'aristocrazia.
Poi, a certi momenti, temeva di venir meno nella stretta suprema, e si
sferzava colle ingiurie per esasperare il proprio odio.

Prima ancora che l'alba sorgesse vagava già per la foresta. Tutto era
incanto. Le macchie splendevano di fiori, l'erba mormorava; gli uccelli
vagavano a stormi o cantavano solitari, gli insetti ronzavano a nuvole
entro le pezze di sole distese fino a terra dai rami degli alberi. Una
freschezza innocente saliva dagli antri più cupi della foresta, dove
l'ombra ed il freddo, in altra stagione, soffiavano indefinibili
terrori.

Ma Loris s'irritò di quella pace. Nella caverna trovò Topine attaccato
al fiasco della vodka.

— Non voglio che t'ubbriachi quest'oggi, gli gridò strappandoglielo.

Poi uscirono assieme. Loris credeva di non ingannarsi sul punto, ove
entrerebbe la comitiva: sarebbe nello spiazzo della grande betulla di
Sant'Elia, perchè un'immagine del santo era confitta nel suo tronco
biancastro. Topine sollevava difficoltà per ostentare la propria
conoscenza della foresta; finalmente convennero di tutto.

— Ma se pigliano invece dallo sbocco della Cerva? obbiettò ancora
Topine.

Loris gli rispose con una bestemmia, e andò a mettersi in agguato.
Fumava. Topine, che non poteva ammettere questo per le proprie idee
settarie, gli chiese un mozzicone di sigaro per farne una cicca.

Attesero lungamente. L'aria era snervante malgrado il vento odoroso, che
susurrava fra gli alberi. Tratto tratto minimi rumori sembravano
ingigantirsi e vanire; qualche animale invisibile passava stornendo fra
i cespugli. Loris s'incantò a guardare un ramarro, che lo spiava. Poi
udirono delle voci e dei passi frettolosi; erano due servi del castello,
e due mugiks carichi di attrezzi da pesca, che si affrettavano verso lo
stagno. Avevano preso per quel sentiero degli androni.

Passò ancora del tempo. Loris e Topine erano sdraiati a poca distanza,
questi pareva sonnecchiare; sulla faccia di Loris passavano a quando a
quando delle nuvole. Era vestito elegantemente di un panno cenerino, due
stivali molli e giallognoli gli arrivavano alle ginocchia; una camicia
di seta a fiorelli su fondo paglino, aperta sul collo e rattenuta da una
cravatta svolazzante, gli scopriva la sommità del petto bianco come
quello di una donna. La barba tagliata a punta dava un'aria marziale al
suo viso, rimasto ancora delicato malgrado il sole e il freddo della
steppa. Aveva gettato sull'erba il cappello bianco a larga tesa.

— Eccola! esclamò.

S'udiva da lungi il latrato di un cane. Loris e Topine s'alzarono a
disporre l'agguato, nascondendosi reciprocamente dentro la macchia, per
la quale passava il sentiero e tendendovi il filo. Ne avevano piegato i
capi a cerchio, tenendoli stretti in pugno con un fazzoletto per non
farsi tagliare le dita dallo strappo, quando il cavallo vi avrebbe
urtato. Se non fosse stata Tatiana, bastava abbassare il filo sino a
terra, che niuno se ne sarebbe accorto.

Loris si sentiva battere furiosamente il cuore, non poteva star fermo.
Ogni tanto sporgeva la testa dai cespugli, non capiva quasi più, e si
pentiva bestemmiando ferocemente per affrettare la catastrofe. Distinse
il fremito di un uccello fra le fronde.

Poi un galoppo poderoso risuonò, le piante stormivano; una voce
femminile gridò:

— Ohep!

Loris alzando imprudentemente il capo vide a poca distanza una figura di
donna con un lungo velo bianco svolazzante dal cappello a cilindro,
curva sul collo di un gran cavallo baio lanciato alla carriera.

— Topine! gridò.

Fu un attimo. Forse la donna aveva udito, ma non avrebbe potuto frenare
il cavallo; poi un impeto come di valanga rovesciò tutto, e Loris e
Topine si trovarono addosso al cavallo caduto, colla faccia graffiata
dagli stecchi, travolti, quasi schiacciati, perchè il filo non si era
rotto. Il cavallo pareva tramortito, la donna, sbalzata di sella a
cinque passi, si rialzava. Ci fu un minuto d'incertezza.

Ella si rivolse.

— Topine! urlò Loris già in piedi. L'altro si levò pesantemente, ma
scorta la donna si slanciò; parve un lupo, la rovesciò, le gettò le
sottane sul capo, gliele fasciò strettamente, e con quel fardello,
tutt'altro che leggero sulle braccia, si mise a correre rapidamente.
Quel latrato si perdeva in lontananza.

Il cavallo, che si era rotta una gamba, gettò un nitrito doloroso
tentando di rizzarsi.

Loris si voltò involontariamente a guardarlo dalla svolta del sentiero,
precipitandosi dietro Topine.

Fu una corsa di pochi minuti, penetrarono nella macchia quasi
contemporaneamente. Nella caverna la lanternina agitava una luce fioca.
Topine gettò la donna sul mucchio di fieno, appoggiandosi per non cadere
alla parete, e cercando cogli occhi il fiasco della vodka.

La donna balzò in piedi; le vesti le si abbassarono sugli stivali, si
tastò istintivamente il cappellino a cilindro, di felpa nera, tutto
ammaccato. Era rossa dalla soffocazione delle vesti. I suoi occhi gonfi
sulle prime non discernerono nulla, poi vide Loris senza riconoscerlo;
Topine restava dietro di lei. Tatiana travide la sua figura mostruosa,
colla barba, così vestito di pelli, e rinculò guardando l'altro.

Allora le sfuggì un grido.

Loris spinse l'altro fascio di fieno all'imboccatura della caverna.

Quando si rivoltò, Tatiana non si era ancora riavuta. Adesso la poca
luce della lucerna bastava a tutti e tre per esaminarsi minutamente.
Nessuno parlava, si sentiva il rantolo di Topine diminuire a poco a
poco.

Loris incrociò teatralmente le braccia. Gli era caduto il cappello, la
sua bella testa aveva un'espressione satanica di trionfo, guardandola
cogli occhi fissi.

Ella levò il capo.

— Un agguato! esclamò con voce tremula.

L'altro non rispose.

Tre persone erano troppe in quella caverna, nella quale si sarebbero
toccate al più piccolo gesto. L'amazzone verde di Tatiana, diventata
nera nella penombra, era rimasta colla coda sul fieno; ella se ne avvide
e con un moto di pudore istintivo se la ravvicinò ai piedi. Il loro
imbarazzo cresceva.

— Perchè mi avete rapita? gridò finalmente Tatiana con tutta l'alterigia
del proprio carattere.

— Credo che vi sarà difficile indovinarlo.

— Infatti se avete sperato, che cederei così alla vostra violenza, vi
siete ingannato grossolanamente.

— Meno di voi, principessa, che vi credete ancora tanto amata che vi si
rubi per possedervi, ribattè Loris con gelida ironia.

Tatiana vacillò, non comprendeva più.

Egli parve contemplarla con ammirazione. Infatti così vestita, con
quell'amazzone che le guantava mirabilmente il busto, un grande mazzo di
capelli biondi rialzato sulla nuca sotto il cappellino, cui le
ammaccature sembravano dare un'aria biricchina, pareva anche più bella.
Il velo bianco le era caduto sul ventre come una falda di neve.

— Eppure, seguitò Loris lentamente, siete diventata più bella. Ti piace,
Topine?

— Vieni qui, esclamò improvvisamente.

Topine gli si accostò.

— Ti piace? Guardala bene, è una principessa.

Topine aveva sbarrato gli occhi, e guatava estatico quell'incantevole
figura di giovanetta tremante, col seno che le palpitava perdutamente.
Ma guardandola un luccichìo gli si accendeva negli occhi bianchi, poi
sbirciava il padrone come un cane.

— E bella, non è vero? Nella tua miseria non ne hai avuto mai un'altra
come questa. Solo le donne dei signori sono così belle, ma sono anche
più vili delle altre donne. Sono capaci di far frustare un povero che le
ami, e di riderne.

Tatiana fremè; avrebbe voluto rispondere, ma un terrore inesplicabile la
dominava. Le sue labbra tremavano, chiuse gli occhi. Loris attese che li
riaprisse.

Tatiana si sentiva girare quella caverna intorno, un brivido freddo le
scendeva lungo il dorso sino ai piedi. Un tremito della lucerna le parve
l'ultimo incomprensibile schianto. Balzò indietro spaurita, urtando nel
fieno, quasi vi cadde.

Loris ebbe ancora un sorriso.

— Ti piace? mormorò posando una mano sulla spalla di Topine e
carezzandolo come un animale: da migliaia d'anni i pari tuoi soffrono
tutte le fami.

Sulla faccia di Topine apparve un sogghigno bestiale.

— Mangia, disse Loris spingendolo violentemente su Tatiana.

Allora avvenne una scena orribile. Topine traballando cadde quasi su di
lei, e l'abbracciò così che si rovesciarono entrambi sul fieno. Ella si
dibatteva furiosamente, quasi soffocata dalla stretta erculea di
quell'uomo, che non sapeva ancora tutto quanto voleva, e le pesava
addosso con tutto il corpo. Topine le stava sopra alla bocca colla vasta
ulcera del lupus, schiacciandole quasi il petto, mentre ella faceva
sforzi prodigiosi per scostare la faccia, cercando cogli speroni di
ferirgli le gambe.

— Ah! mordi, gridò ad una speronata, che gli ferì il polpaccio. Quindi
sollevandola robustamente la conficcò con una mano nel fieno e le calcò
un ginocchio sul ventre.

Tatiana rantolò.

Ma al contatto di quel corpo Topine si sentiva infiammare. Un calore
spasmodico gli serpeggiava nelle vene e sulla pelle, facendogli come
scottare i cenci che la coprivano. Era diventato scarlatto, cogli occhi
bianchi pieni di sangue, la bocca aperta famelicamente; una riga di
marcia gli colava adagio per la barba. Egli contemplava Tatiana, quasi
svenuta sotto la sua mano, sentendo col ginocchio il palpito molle del
suo ventre.

Un urlo sordo sfuggì al petto di Topine, che ritirò vivamente la mano
dal collo di Tatiana per portarsela sotto la casacca. A quell'atto Loris
si sentì come uno schiaffo sul volto. Ma fu un attimo. La mano di Topine
era già scomparsa sotto le gonnelle di Tatiana, raspando ferocemente.
Ella tentò ancora di sollevarsi, ma Topine più rapido le entrò tutto fra
le ginocchia slargandole, e le traboccò sul collo.

La lotta ricominciò più atroce e più pazza. Ella si divincolava cercando
di sfuggire sul fieno, egli le aveva messo un gomito sul collo e la
soffocava tenendole sempre la mano sotto le sottane, oscillando alle
scosse, che ella gli imprimeva, e perdendo spesso l'equilibrio.

Rantolavano. Il cappellino di Tatiana rotolò sul fieno e cadde
dall'altro lato con suono sordo; ella si volse macchinalmente a
guardarlo. Topine ne profittò per spingersi oltre, ritirando un istante
la mano e ricacciandogliela subito dopo sotto il ventre.

Tatiana gettò un urlo insopportabile.

— Loris... Loris!...

Con una suprema convulsione di vergine fece arco della testa sul fieno
e, puntando ambo i pugni al volto di Topine, lo respinse.

Loris vide Topine staccarsi dal suo grembo, ove le sottane lo
nascondevano a mezzo. Tatiana rimase scoperta fino a mezzo le coscie; i
suoi stivali alla scudiera parevano stravaganti in quel momento. Ma
Topine le si riavventò addosso mormorando fra i denti, lottarono ancora;
Loris intese un'altra volta il proprio nome, poi Topine furibondo
scagliò un pugno sulla testa di Tatiana, che gettò un sordo gemito, e
sollevandole tutte in pugno le sottane le si distese rabbiosamente
sopra.

Ella tremava ancora. La sua testa semisvenuta si muoveva spasmodicamente
sul fieno, mentre il petto le si sollevava spaventosamente.

— Ah! le sfuggi in un gridò straziante, cui ne segui un altro selvaggio
di Topine, che si squassava su lei.

Loris incontrando lo sguardo agonizzante di Tatiana dovette abbassare il
proprio.

Tatiana si senti morire.

Quando rinvenne, si trovò sotto Topine assopito sulla sua faccia; la
marcia del lupus le aveva macchiato tutto il mento. Ebbe uno sguardo
vago, poi vide Loris colle braccia incrociate, che la contemplava,
pallido come un morto.

Allora con un balzo respinse Topine, e cadde dall'altro lato del fieno
raggomitolata alle pareti. Si sentiva ferita, sanguinante. Tutto un
mondo era crollato dentro di lei; Topine stava rovesciato per terra,
laidamente sozzo di sangue e di bava.

Loris volse le spalle a Tatiana afferrando Topine per un braccio.

— Vattene.

L'altro si riassettava istintivamente con una mano, cercando Tatiana
collo sguardo.

— Vattene, gli ripetè con voce piena di fremiti Loris, spingendolo verso
rimboccatura, e spostandone con un piede il fascio, che l'otturava.

Topine esitava.

Ma Loris si cacciò vivamente la mano in tasca, ne trasse la rivoltella,
e a denti stretti gli susurrò:

— Vattene o ti uccido.

Topine uscì.

Loris non si rivolse, voleva dar tempo a Tatiana di rimettersi. Quei
minuti gli parvero un secolo. Non poteva più respirare in quella
caverna, nè ritrovare il proprio equilibrio; finalmente intendendo un
moto di Tatiana si voltò.

Ella aveva già raccolto il cappellino, era disfatta, incredibilmente più
bella. Si vedeva che non poteva camminare; una vergogna inconsolabile
trapelava dal suo stupore di ammalata.

Loris s'intese prendere alla gola da una pietà quasi egualmente
desolata, ma facendo un ultimo sforzo raccolse il proprio cappello
bianco a larga tesa, e si avanzò d'un passo.

Temeva quasi di non poter parlare: Tatiana lo guardava intontita, come
interrogandolo sul perchè di quell'assassinio con tale tragica
incoscienza che Loris indietreggiò.

Perchè aveva egli fatto così?

Allora Loris, che non voleva perdere dopo la vittoria, trovò nella
perfidia della propria vanità una suprema ingiuria:

— Ora, principessa, vi sfido a denunziarmi.

Ed uscì.



IV.


Loris era all'università di Kazan, l'antica capitale mussulmana, quando
il 13 marzo 1881 Alessandro II soccombette al grande attentato diretto
da Sofia Perowskaia. L'impressione ne fu immensa per tutto l'impero;
all'università gli studenti radicali ne delirarono. I nomi di Sofia
Perowskaia, di Jeliabof, Kibalchich e Rissakof s'involavano dalle loro
labbra fra gli inni più ardenti. La grossa borghesia rimase atterrita,
il popolo minuto compianse lo Czar, i mugiks invece lo credettero
assassinato dai signori per tema di una seconda ripartizione di terre, e
sarebbero insorti massacrando tutta la classe intelligente ad una sola
parola di Alessandro III. Nessun acido rivoluzionario aveva potuto
intaccare la loro massa rurale; fra la plebe senza numero delle campagne
e lo scarso patriziato individuale delle scuole, anzi che contatto ed
influenza reciproca, v'erano sfiducia ed ostilità aperta.

La passione d'apostolato, conducendo nel popolo tanti rivoluzionari, non
aveva servito che a svegliarvi sospetti; e se qualche missionario era
parso più avventurato nel comporre alcune drouynes di contadini,
gettandone i più temerari in qualche processo politico, questa lustra di
propaganda era tosto vanita. I mugiks nel partecipare a quei moti
avevano presi i nichilisti per emissari segreti dello Czar.

Loris era a Kazan dal principio dell'inverno. Non aveva nemmeno tentato
d'inscriversi all'università per difetto dei titoli necessari, e per
ripugnanza alla tirannica disciplina imposta dal terrore del governo
agli studenti. Si era presentato come un figlio di pope, orfano, venuto
per frequentare solamente la biblioteca. Un passaporto falso, in piena
regola, comprato al solito da un agente della polizia per cinquanta
rubli, lo metteva al sicuro delle prime sorprese col nome di Loris
Vassilich Orobine.

Viveva con certa modesta eleganza affettando una grande austerità di
costumi, e non concedendo la propria intimità che a pochi sicuri. Il suo
disegno era di penetrare nello spirito del giovane radicalismo per
valutarne le forze e studiarne le passioni. Mentre la negazione
anarchica era nel suo spirito diventata manomania, per una facoltà
abbastanza comune nell'ingegno russo una tendenza critica, sostenuta da
forti qualità realiste, lo rendeva poco incline all'ammirazione di quel
moto terrorista.

Fra tutti quegli studenti, che il principe di Bismark doveva definire
benissimo un proletariato di baccellieri, non sentì che dolori personali
provocati dall'indigenza e consolabili da un qualunque impiego.
Moltissimi vivevano su borse istituite dal governo o dai privati; gli
stessi ultimi czaricidi erano borsieri nutriti e educati a spese dello
Czar. Gli studenti, per la maggior parte usciti dalle ultime file
popolane, non avevano alcuna educazione nè morale nè intellettuale; ma
spinti in alto dall'istinto delle loro famiglie, che sognavano così un
avanzamento sociale, recavano negli studi colla passione di un guadagno
immediato la mortificazione di una nuova superbia spirituale.

Poi la polizia, invitandoli a scuola, li sottoponeva alle più
insopportabili precauzioni di sempre nuovi regolamenti, mentre
l'amministrazione, anche più ostile, chiudeva loro dopo il corso
dell'università quello degli impieghi.

Quindi gli studenti vivevano nella più squallida povertà, così derisi
dal popolo che molti dovettero smettere l'uniforme per sottrarsi alle
ingiurie nei quartieri più bassi della città. Alcuni erano alloggiati
presso famiglie di artigiani o di piccoli mercanti, cui davano la magra
pensione in cambio di più magri alimenti; altri s'ammassavano in case
grandi come falansteri, uomini e donne in una promiscuità di miseria,
nella quale i sogni politici ed amorosi nascevano colla stessa facilità.
Pochi erano davvero nichilisti, allora che dopo il piccolo congresso di
Lipetsk i terroristi avevano cominciato quel terribile duello a colpi di
attentati e di patiboli. I più sguazzavano ancora nel radicalismo
negativo, senza originalità di pensiero o di passione, che aveva
ispirato gli eroi da romanzo a Tchernicewski a Tourgnenief e a Pisemski.
Nemmeno lo scoppio della Comune di Parigi era bastato a dare un
indirizzo più pratico alla logica del loro malessere coll'esempio della
guerra civile. Gli ebrei, per l'indole dello spirito assolutista e una
più dolorosa persecuzione nelle parti più delicate della vita, meglio
atti a fornire un contingente rivoluzionario, erano presso che esclusi
dalle università, e non potevano soggiornare nelle capitali senza
diploma professionista o permesso speciale della polizia. Fra la
studentesca e le alte classi nessun rapposto amichevole: gli studenti
formavano una corporazione più spregiata che temuta, ora che il governo
aggravava sovr'essi la mano. Poi la mendicità toglieva ogni poesia alle
loro aspirazioni liberali, giacchè che appena fuori della scuola si
sarebbero venduti al più miserabile degli impieghi. D'altronde la
borghesia dei mercanti, quasi la sola, era troppo ignorante per
indovinare il mondo ideale, che si apriva in quegli studi. Nullameno le
scuole e per i bisogni fomentati, e il gusto acuito dell'investigazione,
e la confidenza ispirata nel diritto, e le curiosità svegliate, e i
confronti suggeriti creavano una minoranza eletta di studenti capaci
d'interpretare i propri patimenti colle idee di una nuova civiltà e i
dolori di tutto un popolo.

La morte dello Czar produsse nel loro piccolo cenacolo una esplosione;
tutti i pareri erano unanimi. Slotkin e Kriloff, più anziani, perchè
passavano di poco i vent'anni, tempestavano ferocemente; due studentesse
ritornate a mezzo il corso da Zurigo s'abbandonavano ad una sorta di
cannibalismo sul cadavere di Alessandro II. Si sarebbe voluto
festeggiare quella strage con un banchetto e una luminaria, se la
polizia avesse potuto permetterlo. Gli amori, oramai noti, di Sofia
Perowskaia con Jelabof infiammavano quei giovani cuori, sebbene l'orrore
di quella morte sulla forca gittasse molto freddo sul loro entusiasmo.
Una colletta iniziata segretamente per coniare una medaglia
commemorativa, colle due teste di Sofia Perowskaia e Jelabof da un lato
e di Alessandro II dall'altro, fallì; pochi avevano danari, pochissimi
osarono contribuire. Attraverso tale tumulto di frasi Loris constatava
in essi una gran gioia di non essere coinvolti in quel dramma per
poterlo meglio vantare a distanza. La morte dello Czar veniva
considerata colle norme del classicismo, già abolito nelle scuole per
timore del repubblicanesimo greco-romano, poi sostituito colle scienze
naturali, e da capo reintegrato dopo che le teoriche positive delle
nuove scuole erano sembrate dare frutti anche più pericolosi. Lo Czar
era la vittima antica offerta in olocausto pei dolori del popolo; quella
folla di studenti straccioni si vergognava momentaneamente meno dei
propri cenci, pensando che un imperatore era caduto per strada sotto i
colpi di miserabili pari a loro, e che pochi risoluti avevano potuto
trionfare così del più potente governo del mondo.

Slotkin, incontrando Loris fermo dinanzi ad un bazar turco nella
contemplazione di un magnifico tappeto persiano, gli disse:

— È arrivato Dmitri Orchanski, segretamente, uno studente di
Pietroburgo.

Entrando in casa di Kriloff non vi trovarono alcuno. Per prudenza il
convegno era stato mutato. La sera si riunirono fuori di Kazan in una
strada deserta; erano pochi. Orchanski, giovane d'aspetto, povero, dava
particolari su particolari dell'attentato colla vanteria ingenua di
avervi partecipato almeno indirettamente; quindi raccontò lo scavo di
Mosca, la mina al Palazzo d'Inverno, l'attentato fallito di Odessa. Una
veemenza rettorica dava una grande efficacia di persuasione alle sue
parole.

— Che ne dici dunque? si rivolse Slotkin a Loris.

— Aspetto la conclusione.

Orchanski offeso di quella freddezza guardò gli altri, come
interrogandoli sulla fiducia, che si poteva avere in Loris, ma questi
soggiunse:

— Naturalmente voi concluderete proponendo di metterci sotto il Comitato
Esecutivo.

— Perchè no?

— Perchè sì piuttosto? Hanno ucciso lo Czar, sta bene: e poi? Perchè non
tentare un colpo di mano sul governo? Se non miravano a questo, a che
serve aver ucciso lo Czar?

— Siamo pochi ancora.

— Anche Catilina aveva pochi congiurati, ma costretto a fuggire formò un
esercito, si battè e fu vinto. Egli era un grand'uomo.

— La storia romana adesso!...

— La storia è uguale in tutti i tempi.

L'accento delle loro repliche diventava sempre più aspro. Gli studenti
tacevano; qualcuno s'andava voltando per assicurarsi di essere soli, ma
in cuor loro propendevano per Loris. La giustezza delle sue critiche
coincideva colla loro paura istintiva. La discussione proseguì ancora.

— Finora siete andati a predicare nel popolo: io lo conosco tutto,
seguitò Loris con superbia, esso non vi ha creduto. Siccome eravate per
lui scienziati borghesi, vi ha sospettato imbroglioni: il popolo è
ancora per lo Czar. Dovevate sedurre l'esercito. Volete fare una guerra
senz'armi? Avete voluto uccidere uno czar, ma il suo cadavere ve ne
costa parecchie centinaia. È stato un duello ridicolo.

A questa violenza tutti protestarono.

— Ridicola Sofia Perowskaia! esclamò Kriloff.

— Anche lei. Che importa il valore personale in una rivoluzione, che
solo l'idea e il metodo possono far trionfare?

Orchanski era diventato rosso dalla collera.

— Chi siete voi per permettervi tali ingiurie sull'unica gloria rimasta
alla Russia?

Loris sogghignò, l'altro rispose concitato:

— Non vi conosco.

— Io invece potrei sospettarvi.

Li separarono. Orchanski predicava sempre, gli altri tornavano ad
infiammarsi. Quando furono presso la città, siccome Loris accennava a
separarsi, gliene chiesero il perchè. Egli si limitò ad alzare le
spalle. Orchanski, che non aveva ancora digerito la prima ingiuria,
intervenne daccapo. Questa volta Loris si mantenne più calmo.

— So già quello, che egli seguiterà a dire, e ciò che voi altri farete:
non vi iscriverete al partito.

— Ci credi vigliacchi?

— No, ma non vi inscriverete. Questo signore non potrà vantarsi a
Pietroburgo di aver fatto proseliti, ecco tutto.

— Potrei vantarmi d'avervi data una lezione.

— Vorreste battervi meco? Perchè fra tanto romanticismo politico, non
avreste anche questo romanticismo borghese! Consultatevi con questi
signori; se saranno del vostro avviso, vi consentirò.

Quella scena acquistò a Loris grande autorità, ma gli diminuì le
simpatie.

L'ascendente del suo carattere e della sua posizione, relativamente
agiata, gli avevano conquistato una vera superiorità. Egli non parlava
mai come gli altri del come si sarebbe poi guadagnata la vita, e mentre
tutti farneticavano sempre dell'ultimo volume letto, Loris affettava il
più grande disprezzo pei libri. Il suo scetticismo sembrava ridere di
tutte le forme passionate della rivoluzione; ogni precursore era per lui
un sognatore, e ogni scrittore un parolaio, perchè la rivoluzione
bisognava farla colla guerra, e la guerra colle battaglie. Ma, caso
strano, egli non pareva loro un prudente, che parlasse così per evitare
i pericoli delle congiure. Quando trasportati dall'impeto della
giovinezza essi dimenticavano gli ideali rivoluzionari per smarrirsi in
facili amori, egli rimaneva svogliatamente cinico e superbo.

Qualcuno propose fra loro una società segreta, questo fascino
irresistibile per tutte le giovani immaginazioni, ma Loris s'oppose.
Allora sarebbe valso meglio il dispotismo del Comitato Esecutivo, che
disponeva almeno di qualche mezzo; però secondo lui il Comitato
Esecutivo non si sarebbe più mosso per lungo tempo. Gli altri credevano
invece fermamente ad un nuovo attentato per l'incoronazione di
Alessandro III, dopo la dichiarazione stampata sulla _Norodonia Volia_.
Loris invece lo dichiarava altrettanto inutile che impossibile.

— Allora?

— Una insurrezione. Sareste pronti ad arruolarvi sotto un capitano?
disse loro squadrandoli così penetrantemente, che molti titubarono. Il
capitano verrà forse più presto che non si pensi, forse non potrà
vincere subito, ma anche sconfitto avrà fatto avanzare di un passo la
rivoluzione. I martiri servono solo alle religioni, che possono venderne
le reliquie.

Ma nell'alterezza di quest'idea non sapeva mescersi agli altri,
simpatizzando coi loro difetti e attirando le loro forze. Il suo odio,
troppo profondo contro la società, lo rendeva inabile alla vera
politica, che sarà sempre la conquista delle adesioni incoscienti della
folla. Un orgoglio smisurato gli impediva di agire, perchè ogni inizio
essendo fatalmente piccolo gli pareva indegno di sè; i dispareri lo
irritavano, talvolta s'impermaliva alla contraddizione. Nel suo sogno di
vendetta si vedeva gigante sul mondo, al di sopra di tutti, senza amici,
come Maometto e Napoleone. Così giungeva all'adorazione di sè stesso,
triste pania di tutti gli ingegni, che si isolano, e di tutti i
caratteri, che non operano.

Non leggeva e non scriveva. Poi lo riprendevano i desideri della gran
vita mondana, facendogli sentire spasmodicamente l'indifferenza delle
dame e dei signori, che nemmeno avvertivano la sua presenza. Allora gli
pareva bella la posizione dello Czar, minacciato di morte da tutti i
rivoluzionari, e nullameno fermo a non concedere nulla alle loro
recriminazioni.

Benchè dicesse di essere venuto a Kazan per la biblioteca, non vi aveva
ancora posto il piede, dacchè viveva in una famiglia di piccoli mercanti
di grano, che gli avevano affittato una stanza. Il suo riserbo, la sua
educazione, la sua stessa bellezza lo avevano reso l'idolo della casa,
mentre la padrona, donna grassa sui quarant'anni, si era invano
innamorata di lui, e i bambini invece lo sfuggivano istintivamente.

Nelle lunghe sere che gli studenti venivano a trovarlo, offriva loro la
vodka; si leggevano i giornali clandestini, il _Vpered_, _Zemlia_ e
_Volia_, le opere di Marx, assurdamente permesse mentre quelle dello
Spencer erano proibite. Quindi s'accendevano discussioni letterarie,
nelle quali egli si manteneva indifferente. Allora uno degli scrittori
prediletti era Ernesto Renan; Loris, che ne aveva letto poco, lo giudicò
succintamente:

— Un musicista!

Non accettava nemmeno Zola, perchè il suo naturalismo gli pareva più
falso di qualunque altro idealismo. Quei personaggi, viventi solo di
sensazioni sensuali, erano manichini; il popolo non poteva essere così
nemmeno in Francia. Una volta disse che i casuisti della morale
ortodossa conoscevano l'uomo meglio di lui.

— Zola non ha mai dipinto un grand'uomo: gli sfugge dunque la parte più
importante della vita. I mugiks non furono finora che candidati
all'umanità.

Stimava più utile alla rivoluzione l'impianto di un opificio che un
attentato; nel 1861 la Russia era senza grande industria, in quel
momento possedeva già 85000 manifatture, dentro le quali si veniva
elaborando il proletariato operaio. Ma la Russia non farebbe mai che una
rivoluzione rurale. Questa secchezza di giudizi non piaceva. Egli non
toccava mai le tesi predilette del radicalismo, la soppressione
dell'eredità, l'abolizione della proprietà individuale, il libero amore,
il collettivismo, il comunismo, tutti i sogni dei falansteri e l'utopie
bonarie di una felicità futura nell'uguaglianza dei diritti e delle
funzioni. Il solo libro, che si era degnato ultimamente di leggere, il
_Capitale_ di Marx, diventato la bibbia di tutti i rivoluzionari, non
gli era piaciuto; trovava anzi ridicolo che gli economisti borghesi non
avessero saputo rispondergli. Carlo Marx giudicava assurdo il sistema
capitalista, senza aver saputo scoprire per quale vera ragione organica
aveva potuto durare migliaia d'anni nella storia.

A che pro' la critica? Essa non migliorava l'arte e non distruggeva i
fatti. Chi si sentiva capace d'insorgere doveva tentarlo, non fosse che
per conquistare un posto migliore.

— Tu sei dunque individualista?

— Potrei diventare un ribelle se non lo fossi?

Poi una malinconia cupa s'impadronì del suo spirito. Qualche volta
l'immagine di Tatiana, sanguinante e piangente sotto l'orribile figura
di Topine, gli tornava all'immaginazione. Era essa davvero colpevole
delle frustate di Vaska? Ridendo l'ultima volta a quella finestra,
sapeva veramente del suo supplizio? Certo Loris allora non amava più; ma
questa fredda superiorità di cuore, mettendolo al di sopra dei compagni,
glieli faceva spesso invidiare, quando li vedeva felici nell'ebbrezza
dei loro labili amori.

Come tutti i rivoluzionari, subiva inconsciamente il fascino dell'antica
idea messianica. Se ogni fantastica ricostituzione della società finiva
anche per lui alla ricostruzione di forme viete fra il convento e la
caserma, l'azione storica gli si presentava ancora come opera
individuale. Solamente un grande, sconosciuto ed inconoscibile da
principio, potrebbe organizzare entro la propria superiorità i concetti
amorfi della massa, dando coscienza alle sue vaghe aspirazioni. La
predestinazione del grand'uomo era un dogma oscuro ed orgoglioso del suo
pensiero; tutto gli sarebbe stato possibile tranne il considerarsi pari
al popolo.

Gli mancava l'oblio di sè stesso, così necessario per trovare l'anima
della moltitudine, e quella passione ardente dei minuti particolari, che
forma davvero la caratteristica degli uomini d'azione. Non vi sono
grandi fatti nella vita, ma grandi risultati spesso non visibili che a
grandi distanze. I maggiori artefici della storia cominciarono sempre
inconsapevolmente; le loro passioni coincisero col sentimento delle
masse, mentre l'egoismo della loro carriera li salvò dall'incertezza
dialettica dei sistemi. Credendo operare nel proprio vantaggio
ubbidirono alle impulsioni popolari, finchè si ruppe l'impercettibile
accordo del loro individuo colla moltitudine, e morirono abbandonati.

Loris, sentendo in Proudhon, in Lassalle e in Marx tre delle nature più
vanitosamente aristocratiche del secolo, credeva di somigliare loro; e
si scordava che questi oligarchi rivoluzionari, capaci di spregiare
tutto nel nome del popolo senza credergli, dovevano pure per una
antitesi forse inintelligibile a loro stessi avere coll'anima popolare
qualche profonda affinità.

Ma nella studentesca era già scoppiato un dualismo nel giudizio su
Loris; alcuni, offendendosi che non fosse studente, gli negavano ogni
valore. Chi era? Che cosa faceva a Kazan? A sentirlo non v'era in tutta
l'Università un professore decente, sebbene non avesse mai intesa una
loro lezione; nessun autore aveva per lui abbastanza autorità. Ma gli
altri insorgevano: perchè domandare ad un uomo chi è, quando il suo
valore è manifesto? Non si sapeva forse che le Università russe erano le
ultime del mondo? Se Loris non credeva a nulla, era questa la
caratteristica del secolo, la sua superiorità sugli altri, che avevano
ubbidito a idee riconosciute oggi false. I più rivoluzionari
intervenivano allora: egli insultava i martiri senza avere ancora fatto
nulla. Quali erano le sue idee? Parlava di guerra senza provare che la
guerra fosse possibile. Il suo ingegno era ancora un enigma; però lo
conoscevano coraggioso. In parecchie risse di studenti o fra studenti e
popolani Loris si era sempre gittato in mezzo con una temerità superiore
ad ogni complimento. Era questa la base della sua autorità, poi non
faceva debiti; qualche volta prestava danaro. Nessuno lo aveva mai visto
ubbriaco.

L'opposizione maggiore veniva da un piccolo gruppo, che si vantava
nichilista; essi lo chiamavano per dileggio Catilina da quella sua
frase.

— Catilina era amico di Cesare, ecco perchè Loris non odia lo Czar.

Una sera in un tractir s'accese fra studenti una grossa lite. Loris
aveva parlato male di Tchernicewski, il martire sepolto vivo nella
Siberia, analizzandone succintamente tutte le opere: la sua risposta a
Stuart Mill, poco scientifica e meno filosofica, quasi sempre combatteva
un testo capito al rovescio; il suo romanzo «_Che fare?_» diventava
ridicolo come arte dopo quelli di Dostoievski e di Tolstoi; la sua
stessa prigionia in Siberia, non abbellita da alcun tentativo di fuga,
perdeva ogni interesse.

— Non vale più del suo partito, che non ha osato nemmeno il rischio di
farlo evadere.

I più violenti s'alzarono in piedi, parlavano tutti in una volta. Loris
li lasciò dire, poi volgendosi al gruppo nichilista, che fomentava gli
odî contro di lui:

— Se voi amaste Tchernicewski, esclamò, invece di essere qui a Kazan,
vantandole sue opere, sareste in Siberia per salvarlo.

Fu una doccia fredda.

— Occorrerebbero denari.

— In Siberia? basta il coraggio; io ho girato tutta la Russia per tre
anni senza un kopek.

— Vanteria!

Scoppiò una collutazione fra i nemici e gli amici di Loris; egli vi
assistè impassibile.

L'indomani era chiamato in polizia, una settimana dopo aveva passata la
frontiera.

Rimase cinque anni all'estero viaggiando per l'Europa. Quando giunse a
Parigi non gli rimanevano che poche migliaia di rubli; ma il suo disegno
era fisso irrevocabilmente. Piuttosto che sottomettersi lavorando a
qualcuno, avrebbe rubato sino al giorno, nel quale potrebbe iniziare la
lotta. Su questo non aveva alcun dubbio morale nella coscienza. Con
perfetta lucidezza comprese subito che di tutti i furti il più facile e
il più proficuo è quello del giuoco. Da Parigi venne ad Aix-les-Bains,
ove era sicuro di trovare dei maestri, avendo già scelto come giuoco più
propizio l'_écarté_. Dopo un mese aveva stretta relazione con alcuni
bari e ricevute tutte le lezioni; allora scomparve. Per sei mesi, con
una pazienza da prigioniero, si addestrò nella propria camera a togliere
dal mazzo delle carte il re con tale disinvolta rapidità, che fosse
impossibile accorgersene; egli poi lo avrebbe tentato solamente nei
momenti più opportuni, a seconda del carattere dell'avversario e del
luogo. Quando credette di essere perfetto, si vestì da operaio e si mise
a frequentare le bettole per tentare in basso le prime armi, e giudicare
della propria forza. L'esperimento andò bene; allora ridivenne un
elegante, e andò a Nizza. Si faceva chiamare come a Kazan Loris Orobine,
spacciandosi per un emigrato politico; ma la sua cultura e i suoi modi
squisitamente signorili dovevano ottenergli dappertutto la stessa
simpatica considerazione.

Viveva solo, in un riserbo quasi troppo aristocratico, non concedendosi
alcun vizio. Alcune relazioni con veri signori russi a Cannes gli
valsero l'ingresso nella buona società.

Non giuocava che all'_écarté_ dopo aver misurato il valore
dell'avversario, affettando pochissima passione al giuoco, e non rubando
che nel momento più favorevole. In quella vita mondana gli si era
attaccata una così grande vanità signorile, che avrebbe profondamente
sofferto di un qualunque scandalo proprio; quindi sulle prime vinceva
appena di che intrattenere quella appariscente eleganza. Evitava colla
massima cura le grandi cortigiane e gli avventurieri; per quattro mesi
divenne il compagno indivisibile, quasi l'infermiere, di un vecchio lord
spinitico, che aveva comprato sulla spiaggia di Cannes una villa
incantevole. In questa continua tensione obliava quasi lo scopo
rivoluzionario della propria vita. Finalmente un'estate, ai bagni di
Trouville, potè vincere ad un americano quarantamila franchi. Ciò gli
permise di arrischiare più grosse partite ogni qualvolta lo stimasse
opportuno; dopo tre anni sebbene possedesse trecentomila lire non ne
spendeva più di mille al mese. L'anno seguente ad Amburgo vinse un altro
centinaio di migliaia di lire. Si era proposta la somma di mezzo
milione.

Poi venne nella Svizzera per mettersi in rapporto coi rivoluzionari.

A Zurigo si mescolò fra la folla degli studenti e delle studentesse
russe, a Ginevra conobbe i maggiorenti della rivoluzione, ma non vi fu
bene accolto. Poi informazioni giunte forse dalla Russia gli
rassicurarono la fama. Allora si vide circuito perchè s'inscrivesse nel
partito, ma questo era già diviso in sette, che si combattevano fra
loro. I compagni di Bakounine e gli scolari di Marx si facevano una
guerra mortale. Nelle riunioni si agitavano più questioni accademiche
che non si allestissero complotti; sopratutto mancavano i danari,
quantunque l'Europa supponesse molto ricco il partito nichilista. Loris
avrebbe voluto acquistarvi grande importanza senza farvi prima il
gregario; ma i modi patrizi e il carattere altero glie lo impedirono. I
più lo giudicavano un dilettante, di coloro che simpatizzavano
platonicamente colla rivoluzione senza volervisi compromettere; però la
fredda violenza delle sue idee e la inesorabile perspicacia delle sue
critiche lo facevano sospettare di ben altra natura. Allora fu
sorvegliato. Si seppe che era un giuocatore, si dubitò della sua onestà;
fra i rivoluzionari si affollavano avventurieri di ogni sorta, troppo
addestrati in tutti i giuochi per non sorprendere quello di Loris.
Infatti una sera, in un caffè, Loris, avendo fatto in una partita di
cento lire saltare il re, un baro se ne accorse.

Questo difetto non gli avrebbe molto nuociuto in tale ambiente, se si
fosse gettato a capo fitto nel partito, ma la sua indipendenza da ogni
legame e la poca stima, che mostrava pei maggiori uomini e le massime
imprese nichiliste, gli attirarono molti odî. In un duello rimase
ferito.

Ma ogni giorno si sentiva più scontento di sè stesso. Una sete di gloria
gli bruciava il sangue facendolo sognare di un gran colpo, che lo
mettesse alla testa della rivoluzione, e gettasse il suo nome a tutti
gli echi d'Europa. Visitò la Germania, l'Inghilterra, per fermarsi da
capo a Parigi. Era tornato allo studio nella solitudine delle proprie
ore.

Un vuoto freddo e buio gli si allargava nell'anima, incapace di più
amare, ora che quella fortuna al giuoco lo aveva sottratto alle più
pungenti umiliazioni della miseria. In che dunque consisteva la sua
preparazione? Fino a quando avrebbe durato? Napoleone a venticinque anni
era già generalissimo d'Italia. Nelle più cupe malinconie qualche volta
pensava al suicidio, dicendosi che i tempi non erano maturi, e forse
nemmeno egli possedeva le qualità indispensabili al futuro grand'uomo.

Quell'isolamento morale, da cui non avrebbe potuto uscire nemmeno
scendendo all'azione, lo condannava ad immolarsi per una grande idea o a
suicidarsi, perchè nessuno può resistere nel vuoto. Egli vi si dibatteva
da cinque anni. Un'amara svogliatezza dava un'aria romantica al suo
volto rigido, mentre una maggiore esperienza della vita gli rendeva
egualmente antipatici i gentiluomini mondani e gli emigrati politici, le
cortigiane e i giornalisti, gli avventurieri e i politicanti, fra i
quali era costretto a vivere. I giorni gli sfuggivano a uno a uno come a
quei malati, che sanno di non poter più guarire.

E a poco a poco la Russia l'attirava, col suo popolo vergine e colla sua
estensione di continente metà europeo e metà asiatico, solcata da tutte
le tradizioni, agitata da tutti gli istinti, terrorizzata da un gruppo
di studenti, che aveva potuto dichiarare guerra all'impero, uccidendo
uno czar e tenendo l'altro prigioniero nel suo palazzo. Là tutto era
ancora possibile. La Russia autocratica e piena di piccole repubbliche
cosacche, col comune socialista e un governo senza libertà, si avanzava
lentamente come una inondazione nell'Asia, tentando di arrestare
contemporaneamente in sè medesima il progresso della civiltà. Solo nella
Russia l'incredulità pessimista rinnovava ancora i miracoli delle fedi
religiose, e il dolore del popolo poteva essere il prognostico più
sicuro della sua grandezza.

L'inverno seguente Loris ritornava a Pietroburgo.



V.


Tatiana rimase sola nella caverna; a quell'ora le contessine Oglobine e
Vaska dovevano essere sulle sue traccie, spaventati da quell'assenza.
Uscì tentando di correre malgrado le fitte, che l'arrestavano, mentre la
foresta le oscillava intorno come squassata da un uragano.

Da lungi risuonava un galoppo.

Il suo bel cavallo, sempre così sdraiato, aveva la gamba destra
anteriore spezzata; ella ebbe appena il tempo di sdraiarglisi accanto e
di prendergli la testa sulle ginocchia, che Vaska arrivava a tutta
carriera. Sebbene fosse disfatta, nessuno sospettò dell'accaduto; la
disgrazia di Giaour spiegava tutto.

Tatiana ammalò, ma imitando lo zio non voile medici. Per lunghe
settimane rimase a letto, poi si chiuse nella propria camera in un
silenzio di malaugurio, che nemmeno lo zio vivamente impressionato di
quel mutamento osava rompere. Il suo volto dimagrito, illuminato dai
grandi occhi cilestri, esprimeva tratto tratto uno di quei grandi
dolori, che cangiano le epoche della vita, e d'una fanciulla fanno una
donna, o di questa una vecchia. Aveva perduto ogni brio, non strapazzava
più nemmeno i servi. Questi la credevano toccata dalla grazia del
Signore, avendola più di una volta sorpresa in ginocchio davanti alle
iconi nel fervore della preghiera. Infatti Tatiana, resa quasi pazza dal
terrore di essere incinta, si prosternava dinanzi ai santi, chiedendo
loro la grazia di farla piuttosto morire. Furono quattro mesi di una
tortura inesprimibile, poi un altro spavento la colpì. Agli angoli della
bocca le comparvero alcune granulazioni: sarebbe mai l'ulcera del mento
di Topine?

Avrebbe voluto consultare un medico, ma una paura anche maggiore glielo
impediva; e se questi avesse indovinato tutto?

Non dormiva quasi più. Malgrado ogni sforzo si vedeva sempre in quella
caverna, soffocata sotto la stretta di Topine, mentre Loris la guardava
con quella faccia di marmo, che ella non potrebbe più dimenticare. Quei
due uomini la possedevano ancora, la possederebbero sempre; li sentiva
dentro di sè come un ferro, che le fosse rimasto nella ferita, o una
demenza, che le si allargasse consciamente nel pensiero. Perchè Loris le
aveva fatto così, a lei sola? Ella si ricordava il suo volto diventato
più bello; le era persino sembrato in un momento d'indovinarvi un
dolore.

Tatiana avrebbe voluto morire di quella prostituzione inguaribile.

Le si era manifestato una malattia uterina. Quindi dopo lungo titubare
se ne aperse colla vecchia cameriera, che le suggerì dei bagnuoli con
alcuni succhi d'erbe altrettanti innocui che misteriosi. Cominciava a
soffrire di vertigini; poi colla nevrosi vennero le convulsioni. Allora
lo zio fece venire da Veronese il migliore medico, ma Tatiana si chiuse
nella propria camera in preda ad una crisi così spaventosa, che lo zio
dovette rimandarlo senza nemmeno averglielo presentato. Quantunque
dimagrasse le sue forme acquistavano una afflitta grazia femminile, che
la rendeva più bella; gli occhi le brillavano di iridi, ingranditi da un
cerchio nero, che le scavava le orbite mentre la bocca le si appassiva,
e il collo, allungandosele, si piegava teneramente sopra la spalla
sinistra.

Non suonava più. Invece si era data alla lettura del romanzi di Zola,
facendoli comprare segretamente dalla vecchia cameriera. Era quella la
passione? Quello l'ideale? Eppure Loris, amandola, non era stato così:
perchè si era poi mutato? Se lo zio aveva potuto frustarlo per la
richiesta della sua mano, quale colpa ne aveva ella? E rivedendosi da
capo in quella caverna, si sentiva ancora l'alito fetido ed oleoso di
Topine sulla bocca, si vedeva seminuda, colle gambe scoperte, gli
stivali in aria, tutte le sottane sul ventre bruciato come da un ferro
rovente, mentre Topine la schiacciava con un gomito sul collo, e Loris
pallido come un morto si curvava su lei contemplandola.

Allora impeti d'odio la facevano urlare; avrebbe voluto tenere Loris
sotto i piedi per ucciderlo o farlo uccidere col più feroce dei
supplizi, ma non avrebbe osato rivedere Topine. Il suo aspetto solo
l'avrebbe uccisa. Come vivrebbe ella in appresso? A qual uomo potrebbe
raccontare quello che le era accaduto? Quale uomo lo crederebbe? Tutto
era dunque finito: la sua vita non sarebbe più che l'indomani di quella
catastrofe, un indomani atrocemente monotono, senza una speranza, nella
solitudine di un rimpianto inconsolabile, colla sensazione inesauribile
di quel momento infernale.

Poi lentamente migliorò.

L'anno seguente, nel Novembre, lo zio fu contentissimo di accompagnarla
a Pietroburgo, malgrado tutti i vecchi giuramenti di non rivedere più la
grande capitale. Egli sperava che il mondo guarirebbe Tatiana di quella
ipocondria incomprensibile, sentendosi egli stesso molto invecchiato,
mentre madama d'Aubrivilliers invece pareva sempre la stessa, sebbene
non occupandosi più di Tatiana. Quindi si era fatta prendere da molte
piccole manie, annusava tabacco e coltivava i cagnolini: poi guadagnando
sempre più autorità nella casa cominciava ad assumere arie di padrona,
esigendo la più meticolosa pulizia nell'appartamento. Oramai tutta la
sua attività si consumava nel sorvegliare la spolveratura dei mobili e
la compitezza dell'arredo, così che una macchia o un ragnatelo le
avrebbero dato il senso di una rovina.

A Pietroburgo Tatiana dovette riannodare almeno le più alte relazioni
della propria famiglia. Il suo nome, la sua gioventù, la sua bellezza e
sopratutto l'immenso patrimonio le attirarono ogni sorta di
corteggiamenti; il suo spirito un po' selvatico parve originalità, la
sua malinconia una tendenza sentimentale. Ma considerandosi dopo quella
degradazione come morta al mondo, ne indovinò facilmente sotto
l'eleganza dei modi la volgarità dei calcoli e la bassezza delle
intenzioni. Tutte quelle dame si disputavano l'attenzione della folla
come in una fiera di vanità, i vecchi, non avendo rimasto che dei vizi,
cercavano di collocare le figliuole o di fare avanzare i figli in una
qualunque carriera; la sola passione segreta, ma universale, era il
danaro. Nessuno amava o stimava un altro. Le sue compagne, ingelosite di
già, l'aspreggiavano con ogni maniera di calunnie sotto una rugiada di
carezze; coloro, che aspiravano alla sua mano, ed erano troppi, non vi
scorgevano che un magnifico affare.

Laonde la sua anima s'innalzava istintivamente ad un mondo, ove gli
uomini potessero inspirare il sacrificio e comprendere la sventura. Se
lo zio fosse stato in grado d'accompagnarla, sarebbe partita per un
lungo viaggio. Forse lontana, sotto altro cielo, incognita fra
incogniti, avrebbe potuto dimenticare e trovare un uomo, cui dir tutto,
così grande da purificarla col proprio amore. Una dolcezza umida ed
ombrosa come nelle incantevoli sere dell'autunno russo le scendeva da
questo sogno, quando rientrava stanca dalle veglie, e lasciandosi
spogliare dalle cameriere non voleva pensare alla solitudine, che
l'attendeva nella notte. Allora cominciò a fumare sigarette e a bere
qualche fine rosolio per scaldarsi il sangue. Erano piccole ebbrezze,
che le richiamavano intorno i fantasmi di tutte le gioventù come la sua,
rimettendole nei sensi ancora vergini le bramosie della donna. Quindi
ribellandosi alla propria condizione si diceva colla scienza dello
scetticismo mondano che nulla era ancora perduto, perchè molte altre
ragazze erano anche meno immacolate, e nonpertanto disposte al
matrimonio: che quello era stato un caso, come ne aveva letti tanti nei
racconti dei viaggiatori attraverso i continenti misteriosi. Perchè la
brutalità mostruosa di Topine avrebbe mutata la sua natura di donna e di
principessa? Il mondo non sapeva quella infame vendetta, e non l'avrebbe
creduta a Loris, neppure se questi la raccontasse. Nullameno sotto ogni
sorriso ironico di uomo ella pensava a Loris, tremando d'essere
sospettata. Loris la dominava ancora dall'alto del proprio rifiuto; egli
non aveva voluto violarla, e dopo due anni Tatiana doveva ancora
indovinarne la ragione. Come mai un uomo volendo violare una fanciulla
anche troppo bella, faceva compiere questo delitto da un altro, invece
d'inebbriarsene lui stesso? Ma Loris, amandola, e Tatiana ne era sicura,
aveva potuto nullameno gittarla a Topine, come si getta un tozzo di pane
immondo al proprio cane. Che cosa era avvenuto di Loris dopo quel
giorno? A Pietroburgo ella non aveva ancora trovato un giovane che lo
valesse; erano tutti eleganti frivoli, o diplomatici già ridicolmente
inamidati nella gloriola del proprio grado, che le vantavano la sua
bellezza, non pensando che al suo patrimonio, mentre Loris aveva tenuto
in pugno quella bellezza senza degnarsi di delibarla. Questa ingiuria
misteriosa le diventava ogni giorno più cocente, perchè nessun uomo si
era ancora innamorato così pazzamente di lei da riconfermarle la fede
nella sua superiorità di donna.

— Mi farai morire nel dolore di lasciarti abbandonata, le diceva lo zio.

— Voi non morrete così presto, perchè io non lo voglio: non vi sarebbe
garbatezza dal canto vostro, ella rispondeva con giocondità simulata.

— Perchè non vuoi maritarti? Nessuno di quei giovani ti piace; forse non
hai torto, ma in fatto di mariti la nostra società non offre molto di
meglio. Se tu sogni un vero uomo, sarà difficile trovarlo: la gioventù
studiosa è rivoluzionaria, quella aristocratica incretinisce nei saloni,
o si corrompe nel governo.

— Allora lasciatemi attendere; c'è sempre tempo a rovinarsi.

Nell'estate Tatiana andò alle acque di Ems, che dovevano giovare anche
allo zio; il viaggio invece le nocque così che dovettero rimpatriare
accompagnati dal principe Vladimiro Gregorevich Tewceff, un uomo sulla
cinquantina, già amico dello zio, venuto egli stesso a quelle acque per
rinfrancarsi di una lunga convalescenza. Era un signore di grande
educazione, coltissimo, dallo spinto severo e mordente, che piacque a
Tatiana malgrado tutti gli svantaggi fisici dell'età e della figura.
Egli passò una settimana al castello di Kourlak, che parve a Tatiana e
allo zio una delle migliori dopo molti anni.

Poi questi essendo ricaduto sotto un secondo attacco di bronchite,
nell'autunno Tatiana lo ricondusse a Pietroburgo per costringerlo a
curarsi malgrado tutta la sua caparbietà di vecchio. Tatiana gli si era
attaccata colla disperazione del naufrago, che sente sfuggirsi in mezzo
alla tempesta l'ultima tavola. Con chi vivrebbe dopo la morte dello zio?
Madama d'Aubrivilliers le era diventata così insopportabile, che l'aveva
lasciata al castello con autorità di sovraintendenza. Tatiana non
abbandonava più la camera dello zio, il principe Tewceff veniva spesso a
trovarli; a poco a poco la loro intimità si strinse.

Un giorno lo zio le disse:

— Peccato che Vladimiro Gregorevich non sia più giovane: era l'uomo per
te. Non approvo le sue segrete idee rivoluzionarie, ma val meglio averne
di queste che non averne affatto.

Tatiana sorrise.

Il principe Vladimiro Gregorevich veniva tutte le sere, e spesso restava
a pranzo. Tatiana, conscia della sua passione, gli era grata del riserbo
che s'imponeva, quasi egli stesso sembrasse riconoscere per primo
l'impossibilità di quell'amore attraverso tanta differenza di bellezza e
di età. Ma il principe Vladimiro Gregorevich era forse il solo uomo a
Pietroburgo che pensando a Tatiana avesse dimenticate le sue ricchezze.
Questa sincerità di passione dava a Tatiana una sensazione dolcissima di
nuovo orgoglio.

Finalmente lo zio le rivelò il grande segreto: il principe Vladimiro gli
aveva confessato tutto. Naturalmente non aveva nemmeno pensato a
chiedere la sua mano, ma il suo amore era arrivato a tanto, che non si
sentiva più la forza di seguitare quelle visite; non potendo essere
amato voleva almeno evitare di essere ridicolo. Lo zio diceva tutto
questo lentamente, come giudicando egli stesso il caso troppo assurdo.
Tatiana rimase pensierosa. Quella sera, quando venne il principe, ella
fu più grave con lui; egli parve diventare più timido. Lo zio si
lagnava.

— E il principio della fine, rispose al principe Vladimiro: sono come
gli dei della vecchia Russia, me ne vado.

Questa parola sconsolata gelò la camera.

Infatti non era possibile farsi molte illusioni. Il vecchio tossiva e
dimagrava a vista d'occhio; l'infiammazione dai bronchi era scesa ai
polmoni allargandosi alla pleura. Il respiro gli diventava tratto tratto
difficile.

Dopo altri discorsi insignificanti egli disse improvvisamente con voce
stentata:

— Vladimiro Gregorevich, quando sarò morto, tu sarai il protettore di
mia nipote in questo mondo di banditi eleganti, che sono peggiori degli
altri.

— Mio buon amico, questa sera tu hai più malinconia che spirito.
Signorina, dite dunque a vostro zio che domandare certi favori a vecchi
amici, e la voce gli tremava guardando Tatiana, è quasi un supporli
incapaci di farli.

— Tatiana resterà sola; non si può star soli.

Ella senti inumidirsi gli occhi: tutta la sua sventura le si addensò al
cuore.

— Si è sempre soli nella vita....

— Credete che le fanciulle della vostra età, maritandosi, rimangano
egualmente sole? intervenne il principe Vladimiro Gregorevich.

— Forse più di prima.

— Anche diventando madri?

Il principe Vladimiro si era già pentito della risposta; si alzò per
andarsene. Il vecchio ebbe un accesso di tosse, e sputò dolorosamente
sopra una pezzuola. Tatiana corse al comò per prendere una bottiglia;
quando l'accesso fu passato, il il principe Vladimiro gli stese con
dolcezza la mano:

— Dovresti riposare di più; non è vero, signorina?

— Partirai domani? domandò l'infermo.

Il principe Vladimiro tardò a rispondere, la sua faccia giallastra era
diventata pallidissima; pareva lui stesso più ammalato dell'altro, ma lo
zio, intento a guardare Tatiana, non se ne accorse. Ella era turbata.

— Allora, esclamò lo zio, dico tutto: già è il mio dovere.

Tatiana e il principe si guardarono istintivamente; ella arrossì,
l'altro attese senza un gesto, ma lo zio non sapeva più come esprimersi.

— Ecco, disse finalmente: non ha chiesto la tua mano.

La formula era così bizzarra che Tatiana non potè schermirsi dal
sorridere.

— Non ha chiesto la tua mano, perchè neanche lui può farlo: ora pensaci
tu, e si rigettò sui cuscini chiudendo gli occhi, felice di essere
finalmente riuscito a porre quel problema. Ma un imbarazzo si era
aggravato istantaneamente sugli altri due, inchiodandoli sul tappeto
presso il letto di quel morente. Tatiana si sentiva come dentro un suono
diffuso e confuso.

Poi intese la voce del principe Vladimiro. Questi aveva rialzato il
capo; il suo volto, sempre così malaticcio, era divenuto potente
d'espressione, i suoi occhi brillavano.

— Signorina.... vorreste essere la mia vedova? Pensateci bene. Se amate
qualcun altro degno di voi, io sarò sempre egualmente ai vostri ordini;
vi basterà volere una cosa, perchè io non viva più che per ottenervela.
Forse io sono più potente che la mia posizione sociale non lasci
supporre: tenetevi pur sicura che nessuno potrà nuocervi impunemente,
finchè sarò vivo.

Queste ultime parole, che parevano sfuggirgli in una esaltazione
generosa d'orgoglio, furono pronunciate con un suono così terribile di
minaccia, che Tatiana stessa ne tremò.

— Ebbene, principe, Tatiana ti risponderà; bisogna lasciare tempo alle
ragazze. Io non ho più diritto nemmeno di dare consigli, ma la mia
opinione potrò esprimerla. Tatiana è in grado di giudicare da sè. Tu,
amico mio, ti sei espresso benissimo; sciaguratamente bisognerebbe che
tu fossi un po' meno vecchio... anch'io lo sono troppo. Ecco il perchè.

Il principe Vladimiro, per quanto uomo di salone, non trovava il modo di
andarsene; avrebbe voluto attendere una risposta, che allora capiva
impossibile. Finalmente s'inchinò a Tatiana, che si lasciò stringere la
mano, ed uscì come potette.

Due mesi dopo Tatiana aveva sposato il principe Vladimiro Gregorevich
Tewceff senza pompa e senza seguirlo nel suo palazzo. Tale matrimonio
confuse tutti i calcoli della grande società mondana, incapace
d'indovinare la profondità di certi sentimenti.

Tatiana, fredda e riservata, non aveva voluto mutare nulla alle proprie
abitudini di ragazza; era uscita un momento per la cerimonia, ed era
ritornata al capezzale dello zio, che non lasciava più il letto. Il
principe Vladimiro, quella sera, non osò chiederle che un bacio,
tornando al proprio palazzo; ella gli offerse la fronte. La devozione di
Tatiana per il malato era l'ammirazione di tutti; quando morì, ella fu
ripresa da grandi convulsioni, che la compromisero seriamente, e volle
ritornare al castello di Kourlak.

Dopo tre mesi di matrimonio si trovava col principe come alla vigilia;
egli adorandola non si era permesso nè un lamento nè una allusione, ma
Tatiana tratto tratto leggeva ne' suoi occhi una passione così intensa,
che le faceva paura.

Infatti il principe era più temuto che amato nella stessa propria
società, per la quale non aveva mai nascosto il disprezzo; ma lo si
credeva generalmente un dotto, che vivesse di studi, quantunque non
avesse mai stampato un libro, e nascondesse la propria vasta erudizione.

All'epoca dell'emancipazione dei servi aveva sostenuto il partito più
liberale, attirandosi molti sospetti di appartenere a quello
rivoluzionario; poi impegnatosi in una lotta colla polizia per difendere
un cugino nichilista aveva corso nuovi pericoli. Però la sua vita
aristocratica, la sua apparente devozione ortodossa allo Czar, e
sopratutto il suo grado e la sua parentela lo rendevano invulnerabile.
Quindi di commissione in commissione era entrato nel senato come uno dei
membri più giovani. Reggeva allora il ministero dell'interno il conte
Tolstoi, spirito mediocre e violentemente reazionario, che divenne
presto l'uomo più impopolare della Russia; fra questi e il principe
s'accese una rivalità al ministero, nelle commissioni, a corte, da per
tutto. Il principe Vladimiro pareva un originale, cui la dura onestà del
carattere permettesse molti atteggiamenti ribelli. In tutti i rami
dell'amministrazione, ove l'avevano messo, n'era uscito promuovendo
grossi scandali ma con così fine abilità da non dar presa ad alcuno dei
propri nemici.

Una volta per allontanarlo da Pietroburgo gli fu offerta l'ambasciata di
Danimarca; ricusò

Poi malgrado lo splendore del nome e la molte ricchezze non aveva mai
voluto prender moglie, vivendo quasi sino ai cinquant'anni con una
sorella, vedova senza figli, alla quale aveva testimoniato la più nobile
affezione, ma che non avrebbe nemmeno essa potuto dare molti particolari
sulla sua vita segreta. Non ostante quella vita a parte, passava però
per un uomo di grande autorità, capace di rendere eminenti servigi allo
stato, se i caratteri della sua tempra avessero potuto davvero trovarvi
posto.

Segretamente era un rivoluzionario.

Come molti signori della sua classe, egli aveva cominciato a
simpatizzare colla rivoluzione per il liberalismo della propria
educazione occidentale. Già l'ardore del temperamento e la vivacità
dell'ingegno lo avevano messo da giovinetto fra i più caldi ammiratori
di Hertzen; quindi l'esperienza sempre più vasta della corruzione
imperiale, cui nessuna riforma poteva nemmeno arrestare, aveva tenuta in
lui viva la passione dell'ideale. I primi drammi nichilisti, dei quali
tutte le migliori anime russe si esaltarono, quelle deportazioni in
massa, la persecuzione a tutti gli scrittori abbastanza coraggiosi per
dire la verità, lo esasperarono profondamente. Alcuni suoi compagni di
scuola furono condannati alla Siberia; un suo cugino, giovane focoso e
da lui sinceramente amato per la dolcezza del suo carattere, fu cacciato
nelle mine, e vi morì. Questi non era stato più colpevole di molti
altri, ma la Terza Sezione volle ostinatamente farne una vittima. In
tale lotta per salvarlo il principe Vladimiro scese a contatti coi veri
rivoluzionari, rimanendo vivamente impressionato della loro grandezza
morale. Essi invece lo circuirono, lusingando i suoi più nobili istinti.
Presto corsero aiuti in danaro e di ogni altra maniera. Il principe
comprò una casipola a Pietroburgo per tenervi nascosto il cugino,
affittandola ad altri nichilisti; quando tutti furono arrestati, la
Terza Sezione sospettò di lui, ma il principe era ancora troppo ben
visto a corte per poter essere travolto in simile processo.

Poi il principe, costretto dal proprio disprezzo pel governo e
dall'impossibilità di impiegare in modo migliore la propria attività ad
entrare nel partito, divenne pei rivoluzionari uno dei più sicuri
ukrivateli, nasconditori. Molti trovarono rifugio nelle sue
terre lontane; la sua posizione a corte e la sua conoscenza
nell'amministrazione lo posero in grado di fornire notizie e passaporti,
sventando spesso i disegni della Terza Sezione. Laonde a questa caccia
dovette presto farsi cacciatore per non diventare selvaggina.

Allora tutte le forti qualità del suo carattere apparvero
improvvisamente. Il suo grado sociale lo rendeva già capitano fra quei
rivoluzionari, usciti quasi tutti dalle file della plebe e, malgrado
ogni negazione sistematica, ancora sensibili alle vanità della
gerarchia. Poi il suo ingegno e il suo coraggio gli conquistarono
un'alta autorità. Quando si allargò il moto terrorista, egli si schierò
col gruppo più moderato senza contrastarvi, perchè la sua fatalità
s'imponeva oramai a tutti.

La sua vita si riempì così di una immensa ambizione: essere il
presidente di quella segreta repubblica di minatori, che volevano far
saltare il trono più grande del mondo. Ma, diplomatico cresciuto nei
circoli del governo, affettò il maggiore riserbo in faccia al Comitato,
che allora dirigeva quella guerra.

La morte di Alessandro II, disorganizzando il nucleo terrorista, lo mise
fra i membri del nuovo Comitato esecutivo, ove recò la terribile
prudenza di quell'odio signorile, così diverso dal rancore dei
rivoluzionari di piazza. Nessuno conosceva come lui la cancrena delle
alte classi, e sentiva più profondamente la necessità di togliere loro
il potere a qualunque costo; nessuno forse metteva in tale passione
rivoluzionaria una più acuta sete di rivincita, dacchè respinto da tutte
le carriere politiche e libero da ogni vincolo di affetti domestici, in
sul declinare di una vita malaticcia, non gli restava più che una
suprema ambizione di sovrastare a tutti coloro, dai quali era stato
sconfitto.

Per opera sua il Comitato mutò subito di tattica, sospendendo gli
attentati contro Alessandro III. Il principe, che conosceva bene le
campagne e sapeva come tutti i contadini tenessero nella propria isba al
di sopra delle sacre immagini il ritratto di Alessandro I, lo Czar
martire, temeva una rivolta rurale, che avrebbe fatto indietreggiare la
rivoluzione di forse un secolo. Tutta la sua attività si rivolse ad una
riorganizzazione dei gruppi per una nuova forma di propaganda: bisognava
penetrare in tutte le recenti assemblee della vita provinciale, ed
insinuarsi nell'amministrazione per cessare di temerla.

In quel tempo s'innamorò di Tatiana coll'ardore di un uomo rimasto sino
allora, per l'indole del carattere e la povertà della salute, quasi
casto.

Le donne non avevano mai avuto significato nella sua vita, tranne una
amata molti anni addietro, mentre era già fidanzata ad un altro, e che
credeva di aver reso madre. Ma quest'amore troppo breve gli si era
mutato in una tenerezza poetica per quella bambina, della quale riceveva
notizie, pressochè ogni settimana, senza che gli fosse mai permesso di
vederla, perchè quell'altro suo padre era stato uno di coloro da lui
denunciati negli scandali delle amministrazioni.

Nella solitudine di quella vita il suo carattere era divenuto sempre più
cupo, impregnandosi di quell'inesprimibile odio rivoluzionario, che
faceva delirare anche le teste più forti. I medesimi eccessi del governo
nella propria difesa contro i rivoluzionari lo costrinsero grado a grado
a mutare ogni tradizionale idea di giustizia, perchè nessuna onestà
sarebbe stata logica in questa lotta contro di esso, che padrone di
tutte le forze violava egualmente tutte le leggi. Il suo lungo disprezzo
per l'aristocrazia, ligia al governo per viltà ed ostile al progresso
per avarizia di privilegi, gli faceva persino invocare una strage, nella
quale sparisse per sempre lasciando libero il campo ad una nuova classe
più moderna di idee e sana di cuore.

Ma, innamorandosi di Tatiana, tutti i suoi istinti di uomo si
ridestarono come una reazione a quell'assorbimento settario, che lo
aveva a poco a poco isolato dalla vita. Al pari dei caratteri troppo
duri si spezzò.

Tatiana fu per lui il ritorno alla vita, non ancora veramente vissuta.

Ma quel riserbo di lei, dopo il matrimonio, gli fece presentire un
dramma. Quindi diventò più guardingo, affettando quasi le maniere di un
padre, ed aspettando da una inevitabile crisi la soluzione. Egli aveva
di sè stesso, fisicamente, una opinione così desolata, che non avrebbe
mai osato pretendere dalla moglie i diritti coniugali per timore di
leggergliene sul volto il disgusto. Era questo il suo martirio
quotidiano.

Tatiana con donnesca furberia ne aveva approfittato. Il principe, non
avendole lasciato trapelare nulla della propria posizione politica,
doveva assentarsi spesso dal castello, quantunque si sforzasse con ogni
espediente di diminuire il numero di quelle assenze o di renderle più
brevi.

E ogni volta Tatiana gli porgeva la fronte da baciare con languida
cortesia come ad un padrino.

Una sera d'estate il principe, tornato improvvisamente, entrò nelle sue
stanze e la sorprese, sola alla finestra, immersa in un raggio di luna.
Tatiana, oramai rimessa, era diventata più bella. La notte era piena di
soffi e di aromi.

— Ebbene, mia cara, le disse dopo averla baciata in fronte, sedendole
vicino e prendendole risolutamente una mano nelle mani: sei contenta
della tua vedovanza?

Ella si levò bruscamente, l'altro credendo di averla offesa scostò la
sedia. Tatiana si rimise alla finestra, ma si volse poco dopo. Anche lei
aveva presa una risoluzione.

— Sedete, gli disse con accento grave.

La sua voce tremava.

— Voi volete che io sia vostra moglie.

— Non lo siete forse?

Ella l'interruppe.

— Pensateci prima... Certamente ho avuto torto verso di voi; non avrei
dovuto sposarvi. È inutile rinfacciarmelo, perchè non ne ho bisogno per
pentirmene. No, no... non interpretate così le mie parole, esclamò ad un
suo gesto: non è di voi che mi pento, ma di me. Voi avevate diritto ad
un'altra donna. Ora il male è fatto.

Ella si torse sulla sedia verso di lui, che la guardava immobile, e
seguitò:

— Ma tutto è ancora riparabile. Voi potete divorziare; sono pronta ad
accettare tutti i pretesti che si converranno, perchè sono io che ho
torto.

Un singhiozzo invano frenato le tagliò la voce; il principe allungò
istintivamente la mano per soccorrerla, ma ella lo respinse.

— Ecco la mia condizione, perchè ne pongo una. Voi mi crederete sulla
parola: se un dubbio solo vi passa nell'anima, e lo nascondete, sarete
più vile di me. Io me ne andrò, e non mi vedrete più.

Il principe non parlava. La passione di Tatiana era così sincera che si
sentì preso, tutta la sua anima era sospesa nel terrore. Tatiana si
levò. La sua alta figura parve crescere nella penombra, erse il capo.

— Principe, vi ho ingannato... non sono una fanciulla. Non mi chiedete
di più. Se volevate una fanciulla... Ah! io sono stata violata da un
mostro.

Egli aveva indietreggiato.

— Badate! proruppe Tatiana avanzandosi quasi minacciosamente contro di
lui. Se credete questa una scena, colla quale io voglia ingannarvi, non
parliamone più. Non posso dirvi come fui violata, ne morrei.
Immaginatevi quanto di più turpe una donna, sorpresa in un bosco, possa
sopportare da uno sconosciuto più immondo di qualunque animale, e non
arriverete alla verità. Mi volete così per vostra moglie?

Tatiana gli si era chinata sul volto per leggerne l'espressione; era
pallida, non respirava. Il principe parve sospeso un attimo, poi le
aperse le braccia, la cinse senza quasi toccarla, e travolto dalla
passione l'abbracciò, baciandola sul collo. Egli traballava.

Quando si furono rimessi, il principe sedè sopra una poltrona, traendosi
Tatiana sui ginocchi.

— Mi ami... un poco? le sussurrò timidamente.

— No, ella disse con dolcezza, volendo essere sincera fino in fondo, ma
vi stimo.

Il principe provò al cuore un morso lancinante di serpente, ma non
allentò le braccia, che le teneva sulla cintura. Aveva troppo la
coscienza della propria bruttezza per non indovinare il sentimento di
Tatiana, e le fu quasi grato della franchezza. Il corpo di Tatiana lo
bruciava entro quel raggio di luna, che sembrava dare una purezza eterea
al candore del suo bel volto desolato.

— Tatiana! esclamò, stringendosela furiosamente sul petto: non mi vorrai
dunque?...

Tatiana chiuse gli occhi abbassando languidamente la testa.

Dopo quella scena rimasero dolorosamente imbarazzati. Il principe
avrebbe voluto sapere come Tatiana era stata violata, perchè un dubbio
sottile gli era penetrato in fondo al cuore attraverso l'irresistibile
sincerità di quella confessione, mentre Tatiana stessa se ne accorgeva
fra il disgusto insormontabile di quel primo contatto maritale. Non
poteva amare il principe. Tutta la riconoscenza per le sue maniere e la
stima del suo ingegno non bastavano a riempire l'orribile lacuna
rimastale in cuore; quell'uomo le richiamava Topine. Nei momenti più
convulsi dell'amore ella non vedeva che la sua faccia gialla di malato
diventare più brutta, mentre alla veemenza di certi suoi scatti le
pareva quasi di essere preda di un animale. Quindi il sangue, invece
d'infiammarsi, le si gelava; il principe lo sentiva, mordendosi le
labbra e chiudendo gli occhi per nasconderne il lampo di dolore.

L'indomani ella dovette rimanere a letto; il principe ne fu così
vergognoso che non osò nemmeno restare a lungo nella sua camera. Ella
invece si concentrava in lunghe meditazioni, provando ancora quella
stessa angoscia nauseata, che l'aveva sorpresa dopo la violenza di
Topine. Che il principe fosse suo marito, il fatto ne diveniva anche
peggiore, giacchè con Topine aveva potuto resistere sino a non
soccombere che quasi morta. Adesso si rimproverava acerbamente quel
matrimonio, accettato per paura della solitudine e per la vergogna di
presentarsi così ad un giovane, che sposandola per il danaro non le
avrebbe certamente creduto. E il suo pensiero tornava a Loris,
terribilmente bello in quella caverna, quando le aveva gettato addosso
Topine, e più terribilmente cattivo dopo con quel sorriso di scherno. Se
egli sapesse ora il suo matrimonio col principe, sarebbe capace di
credere che Topine le avesse inoculato il gusto dei mostri. Quell'uomo,
certamente superbo della propria bellezza, si sarebbe sentito anche più
bello immaginando lei fra le braccia del principe, e rammentandosi di
avere già un'altra volta ricusato di possederla.

Quando Tatiana lasciò il letto, dopo una settimana, al principe stesso
parve di guarire; ma non osò per lungo tempo parlarle d'amore. Tatiana
affettava una tale aria di sacrificio nel proprio languore di
convalescente, che una straziante vergogna qualche volta gl'impediva
persino di guardarla. Ma la sua passione così repressa raddoppiava di
violenza; egli amava quella donna col delirio di tutta la propria carne,
e lo spasimo inconsolabile di non poter essere amato. Tutta in lei
tradiva questa impossibilità. Dandogli la mano o fissandolo negli occhi,
non aveva mai la più fugace di quelle intimità della donna coll'uomo, al
quale ha conceduto sè medesima; mentre al tornarle dei colori sulla
faccia, quando pareva riaprirsi alle gioie della giovinezza, il principe
indovinava nella voluttà di certe sue pose un desiderio femminile, che
lo oltrepassava forse sulla traccia di un altro uomo.

Chi era colui, che aveva violato Tatiana?

Il principe non voleva dubitare di quella sua confessione, ma una
gelosia, resa più dolorosa dal sentimento della propria inferiorità
fisica, gli faceva spesso pensare ad un amante, cui Tatiana avesse
ceduto. Benchè non fosse mai stato donnaiuolo, conosceva troppo le donne
per poter essere senza dubbi. Chi era colui? Nullameno il carattere di
Tatiana, così forte nella propria dolorosa franchezza, s'imponeva alla
sua ammirazione, mentre un abisso s'allargava continuamente fra loro.
Tatiana non lo interrogava mai, non si preoccupava di nulla, pareva
estranea alla sua vita; nella stima, che gli mostrava, v'era una
indifferenza micidiale. Egli pensò perfino di rivelarle la propria vita
politica per apparirle così sotto un aspetto migliore. Chi sa se la
grandezza del pericolo, al quale era sempre esposto, non l'avesse
commossa; ma la voce rauca dell'esperienza gli diceva che anche questo
sarebbe indarno. L'amore è anzitutto una frenesia fisica, che nessuna
ammirazione morale o intellettuale può produrre. Sciaguratamente Tatiana
nell'ingenuità del proprio sentimento aristocratico stimava i nichilisti
una setta di assassini, e parlando della tragica morte di Alessandro II
se ne commuoveva come per una sventura domestica. Nell'inverno a
Pietroburgo Tatiana, profittando finalmente della propria condizione di
moglie, si sottopose alla cura di uno specialista, dal quale si fece
naturalmente proibire ogni contatto maritale. Poi tornò ai saloni
sfoggiando un'eleganza fine come l'incanto, che le veniva dalla stessa
malattia. I suoi occhi umidi d'isterismo avevano uno splendore di
poesia, alla quale le donne stesse rimanevano prese; i suoi languori, le
sue debolezze improvvise, mentre alle volte ballava colla foga più
pazza, il tono amaro della sua conversazione originale le diedero per
una stagione l'impero della moda. I giornali la citavano nei loro
articoli mondani; a tutte le feste ella compariva come una gloria,
davanti alla quale tutte le altre s'inchinavano.

Troppi s'innamorarono di lei, ma affettando molto scetticismo galante
nei discorsi ella respinse ogni omaggio. Nessuno le aveva tocco il
cuore. Allora una segreta opposizione le si formò intorno, alimentata
dal rancore delle donne meno belle e degli uomini respinti; si cominciò
a ridere della sua originalità trovandola ostentata, del suo matrimonio
col principe Vladimiro, della sua onestà senza ragione dal momento, che
mostrava tanta indifferenza pel marito e tanto dispregio per la virtù
coniugale. La sua malattia servì di pretesto alle più immonde invenzioni
femminili; alcune signore parlando di lei sfoggiavano ignobili nozioni
mediche.

Ella se ne offese.

Intanto un bisogno, lentamente cresciuto, le occupava tutto il cuore.
Voleva l'amore come tutte le altre donne, ma un amore, che la
purificasse dalla sozzura, lasciatale da quel mostro nell'animo. Quindi
in preda alle fantasie di una testa giovane e disoccupata tesseva
romanzi su romanzi, senza nemmeno guardarsi attorno per cercare l'uomo,
che potesse amarla davvero. Se qualcuno le avesse chiesto di quell'uomo,
come doveva essere, non avrebbe forse saputo rispondere. Lo sognava
bello e grande, nello splendore della gioventù e nell'onnipotenza della
forza: il suo amore per lei, che il mondo avrebbe certamente conosciuto,
doveva essere una di quelle glorie della passione egualmente ammesse dai
più umili e dai più illustri — Byron o Napoleone, un re dell'idea o un
re della guerra. Solo così avrebbe potuto ripensare senza vergogna a
Topine, come ad una espiazione anticipata del trionfo, perchè tutto si
paga nella vita, e non s'arriva sulle sue alte cime che passando per le
valli profonde.

Ad un ballo dell'ambasciata inglese fu presentata alla principessa
Dolgorouki, amante, poi sposa morganatica, ora vedova di Alessandro II.
La principessa ancora bella e corteggiata, quantunque decaduta da quella
potenza, che per tanti anni l'aveva resa arbitra di tutte le Russie, si
mostrò tenerissima per Tatiana, colla quale non avrebbe potuto
rivaleggiare.

Tatiana riportò di lei un'impressione così gradevole, che nei giorni
seguenti si fece raccontare tutti gli aneddoti più contradittori sul
conto suo, al tempo de' suoi amori imperiali. Quella donna aveva potuto
credersi grande, vedendo talvolta l'Europa intera sospesa ad un suo
capriccio.

Involontariamente pensò ad Alessandro III, all'amore dello Czar,
minacciato di morte come Alessandro II e fermo contro tutti i pericoli,
buono e colossale come un guerriero dei tempi eroici.

Da principio non fu che una fantasia, quindi le si mutò in un desiderio
ancora oscuro, nel quale lo Czar era piuttosto l'ultimo termine di un
problema ideale che un uomo. Tatiana non aveva la più piccola idea sulla
vera vita della principessa Dolgorouki fra tutti quegli intrighi di
palazzo, e la lotta incessante per conquistare o conservare una
influenza equivoca ed effimera; avrebbe voluto solo che lo Czar
s'innamorasse perdutamente di lei vedendola.

Laonde, non essendo ancora andata ad una festa di corte, quell'inverno
volle esservi presentata solo per parlare allo Czar. Ne rimase
abbagliata; l'imperatore, che le aveva diretto appena alcuni complimenti
insignificanti, le parve un semidio.

Tornata a casa non pensò più che a lui. Il principe Vladimiro, che si
permise una osservazione sprezzante sullo Czar, fu vivamente colpito del
calore, col quale ella lo difese.

— Non siete principe voi?

Questa volta egli s'ostinò.

— Non è che robusto, può alzare un quintale d'acciaio con una mano; è un
po' più facile che sollevare un'idea.

Tatiana non s'arrese; il principe finì col sorridere del suo fervore
monarchico. Ma siccome quella sera ella sembrava anche più fresca,
arrischiò un motto d'amore. Da sei mesi ne aspettava il momento. Era
ridiventato timido. Tatiana lo guardò quasi meravigliata, confrontandolo
colla gigantesca figura di Alessandro III, come le era rimasto
nell'immaginazione.

Allora una collera fredda irrigidì la faccia del principe, che nullameno
con uno sforzo incredibile potè ancora frenarsi.

Ella gli aveva già letto nell'anima, ed alzò duramente la testa.

— Siete cattiva meco, mormorò con accento insinuante.

— Non intendo di ammalarmi.

Ma egli la fissò in modo da farle comprendere che quella scusa non
poteva ingannarlo: Tatiana arrossì. Il principe le prese una mano fra le
sue ardenti dalla febbre.

— Non diverrete dunque mai mia moglie?

— Volete dunque prostituirmi, dacchè il medico vi ha pur detto tutto!
gridò volgendogli le spalle sdegnosamente.

Il principe rimase atterrato.

Qualche tempo dopo dovette andare a Sebastopoli per coordinarvi alcuni
circoli nichilisti, nei quali pericolosi dissensi minacciavano di
produrre una catastrofe. Partì colla morte nell'anima. Si credeva sicuro
che Tatiana non lo ingannerebbe con alcun uomo, ma quel suo ultimo
rifiuto irrevocabile gli toglieva l'estrema ragione della vita. A che
pro lottare ancora? La passione rivoluzionaria veniva languendo nel
partito, scompaginato dall'ultimo sforzo terrorista; era quindi
impossibile sognare una prossima rivincita, colla quale giungere
simultaneamente alla gloria e al potere. Egli stesso si sentiva troppo
vecchio.

A Sebastopoli il partito si sfasciava. Egli si informò appena delle sue
condizioni, dimenticando persino quella prudenza, che aveva sempre usato
per nascondere i propri rapporti coi rivoluzionari; molti lo credettero
malato. Ma una mattina ricevette per la posta questo biglietto:

  «Vostra moglie è stata ricevuta dallo Czar: guardatevene.»

Invece della firma v'era la sigla del Comitato Esecutivo.

Il principe riconobbe il carattere di colui che l'aveva scritto; era il
suo rivale, ma appunto per questo non potè dubitare della sua sincerità.
Fu uno schianto di morte. Ripartì subito col primo treno, scordandosi
persino le valigie. Il viaggio lunghissimo gli parve eterno, sebbene non
vi pigliasse alcuna decisione. Viaggiava in uno scompartimento di prima
classe, affagottato nella pelliccia, nascondendovi il volto, così che
gli altri viaggiatori credevano sempre dormisse, e parendogli in quel
rullìo incessante del vagone di essere sopra una nave abbandonata alla
tempesta in alto mare. Non sapeva raffigurarsi nemmeno chiaramente
Tatiana. Quando bisognava scendere per mutare treno, sembrava smarrito;
non mangiò e non bevve.

Ma arrivando a Pietroburgo si sentì nell'animo come un colpo di vento
gelido, che ne spazzò tutte le nebbie. Si gettò nel primo fiacre e si
fece condurre al palazzo. Erano le undici del mattino, Tatiana doveva
essere alzata. Entrando nel suo gabinetto passò dinanzi ad uno specchio,
e vi si vide talmente disfatto che rabbrividì di sè stesso.

Il suo volto era terribilmente livido; ella balzò in piedi arretrando e
questo atto la tradì. Una luce quasi fumida ondeggiò sugli occhi del
principe.

Era impossibile dubitare. Rimasero così qualche secondo, squadrandosi,
quasi egualmente pietrificati da quella confessione.

Tatiana vacillò.

Allora il principe abbassò gli occhi e, traendosi dalla tasca interna
della giacca nera il biglietto, glielo porse. Tatiana in quell'attimo lo
aveva già osservato. Il principe aveva gli abiti spiegazzati, il
colletto della camicia sudicio e pesto; il giallore cinereo del suo
volto, in quell'insonnia disperata di due giorni senza riposo e senza
cibo, era diventato spaventevole, ma i suoi occhi sprofondati nelle
borse, che gli penzolavano floscie sulle gote, brillavano come due
carboni.

Ella gittò macchinalmente uno sguardo al biglietto, e lo lasciò cadere
sul tavolo mirabilmente incrostato di madreperla. Il principe fece un
passo, lo riprese gualcendolo furiosamente, e se lo rimise nella tasca
dei calzoni.

— Vero!? stridè a denti stretti.

La sua voce parve a Tatiana di agonizzante, ma la sua bocca tremava di
una tale minaccia, che davanti al pericolo ella ritrovò tutto il proprio
coraggio.

L'altro ripetè quella parola con un gesto.

— Se lo credete, perchè chiedermelo?

— Confessate?...

— Che cosa?

Il principe sentì di perdersi nell'uragano, che lo squassava; la donna,
come sempre in questi casi, aveva già riacquistata la propria
superiorità. Ma il principe nella confusione di un dolore anche più
violento della collera non capì quello, che stava per dire; gli rimaneva
solo la coscienza di uno strazio inesplicabile, e come un fanciullo
gridò singhiozzando:

— Perchè dunque?

Ansava. Si vedeva che non poteva piangere e nemmeno pensare. Tatiana lo
contemplava, accumulando inconsciamente le energie della resistenza;
l'egoismo vitale le toglieva di partecipare a quell'angoscia.

Ma quando il principe potè parlare, le loro volontà si cozzarono come
due montagne di ghiaccio. Erano troppo forti per minacciarsi
scambievolmente, e tuttavia le loro spiegazioni avevano la terribilità
della morte.

— Mi avete tradito.

— Non fui mai vostra moglie.

— Sia, ma la vostra parola...

— Adesso avete la mia vita.

— La vostra vita! esclamò con uno scoppio di rimpianti, che la fece
fremere: la mia vita eravate voi, ora non ho più nulla. Un assassino non
potrebbe offrire la propria vita ad una mamma dopo averle ucciso il
figlio. Allora, perchè ucciderlo prima? Ma vi è un mistero qui...

Ella non rispose.

— Voi non amate lo Czar; è un facchino, mentre io....

Un sorriso tagliente passò sulle labbra di Tatiana; egli lo colse, e
fremette di un nuovo spasimo.

— Una donna si rivela nell'uomo che sceglie.

— Infatti io vi ho sposato, e avrei per amante lo Czar.

— Lo confessate?

— Accetto la vostra affermazione. Dal momento che mi accusate sulla fede
di una lettera anonima, non posso difendermi scendendo più basso di chi
la scrisse. Aspetto la vostra decisione. Quando ebbi qualche cosa a
confessarvi, lo feci non richiesta. Avete tutto il tempo per riflettere,
aggiunse con calma ironica: lo Czar non mi difenderà.

— Non lo potrebbe, nemmeno volendo, perchè sua potenza non arriva sino
alle anime! Noi siamo qui dinanzi al problema della nostra vita. Io non
ho amato che voi; perchè? Voi potete saperlo forse, io no. Quando una
passione mette così una persona umana nella dipendenza di un'altra,
questo tremendo mistero non può rivelarsi alla creatura, che vi
soccombe. Io vi ho amata inevitabilmente, così come vi veggo, perchè ho
gli occhi. Quando mi diceste di essere stata violata fanciulla da un
mostro, lo credetti: se mi diceste ora di non esservi abbandonata allo
Czar, lo crederei ancora. Ma voi non amate lo Czar, non avete ceduto che
al suo grado: ecco il vostro mistero. La vanità non può essere una
passione, è troppo piccola.

— Avete ragione.

Il principe a poco a poco si ricomponeva: una severità solenne gli
apparve sul viso. Aspettò qualche momento, poi le si volse:

— Ditemi ora quello che intendete di fare. Io appartengo a qualche cosa
di così alto, che debbo sempre sapere dove sia la mia vita. In Russia
l'amante dello Czar potrebbe, anche involontariamente, riuscire fatale a
molti.

A questo discorso Tatiana tremò; il principe proseguì:

— Il vostro potere finisce in me: al di là vi è un'altra ragione, che
nessuna passione può travolgere. Ecco perchè devo chiedervi che cosa
intendiate di fare. L'amante dello Czar può chiamarsi principessa
Dolgorouki come principessa Tewceff, ma il mondo ha diritto di
conoscerla. Volete restare nel mio palazzo come portate il mio nome?
Ditemelo, è il mio diritto di uomo, non di marito, poichè non avete
voluto mai essere mia moglie. Volete divorziare? Ditelo, è il vostro
diritto di donna. Non chieggo altro: regolerete i vostri rapporti, come
vi piacerà, e mi farete apparentemente nel mondo la posizione, che
vorrete. Che importa? La vanità è troppo piccola per essere una
passione.

— Si può diventar vani anche per disperazione, ella ribattè con una
allusione egualmente torbida.

Ma il principe la richiamò alla realtà di quella strana situazione.

Tatiana si sentiva travolta, nullameno potè ancora dirgli:

— Decidete voi stesso se dovrò restare presso di voi o divorziare.

Non vi era più che una parola da dire.

Allora il principe provò come un altro improvviso avvallamento. Quella
terribile scena era finita troppo presto, e quasi volgarmente
nell'apparenza, malgrado la tensione dei sentimenti e delle idee, che vi
si appiattavano. La fatalità della decisione lo sorprese.

Tatiana, tuttora vibrante della prima emozione, gli parve in quel
momento più bella di purezza. Un lampo lo abbagliò; e se quel membro del
Comitato Esecutivo si fosse ingannato per un caso inesplicabile? Tatiana
era tal donna da lasciarsi accusare di adulterio, subendone tutte le
conseguenze, piuttosto che scendere a difendersi. Infatti la sua bocca
era rimasta contratta in un sorriso doloroso, mentre la fronte le
splendeva superbamente, e negli occhi limpidi e cilestri come il cielo
delle albe più vivide le s'allargava una divina trasparenza. Simile
all'incredulo, nel quale rimase il bisogno della preghiera, egli sentiva
la fede in quella donna invadergli nuovamente l'anima, contemplando la
sua immagine sempre più lontana, quasi immobile sul filo luminoso del
proprio sguardo, come l'ultimo fantasma della vita, quando le onde della
morte stanno per sommergerla.

— Restate.



PARTE TERZA



I.


Quella notte sulle dieci Loris dovette cenare col principe nel salotto
azzurro di Tatiana; ella li aveva fatti invitare dal maggiordomo, e il
principe si era affrettato a parlarne con Loris. Questi, ridivenuto
padrone di sè medesimo, ascoltò colla massima freddezza le sue
spiegazioni.

— Non sareste malcontento, gli si rivolse, che qualcuno l'umiliasse.

Il principe titubò.

— Quella donna è la fine della vostra vita. Adesso, nell'impossibilità
di farvi amare da lei, non vi resta che l'amore di un altro, il quale la
spezzi, per possederla almeno in frantumi. Ma voi non l'amate abbastanza
per aspettare di ottenerla così.

Il volto del principe esprimeva un'angoscia umiliata.

— Vi ho indovinato come la prima volta. Avreste dovuto soggiogarla,
perchè la donna è nata schiava; può preferire un amante, ma soggiacerà
sempre ad un padrone.

— Voi non avete dunque le idee correnti sull'emancipazione della donna?

Loris alzò le spalle.

— Ogni vittoria è maschile. Se avessimo ucciso lo Czar, ne avreste
rivelato il segreto a vostra moglie per ingigantirvi nella sua fantasia;
non è vero? Ebbene, ella vi avrebbe invece creduto un vile assassino, e
vi avrebbe denunciato.

— Voi non conoscete l'alterezza del suo carattere.

Il principe si era alzato nervosamente guardando Loris. Tutta la segreta
ambizione della sua vita si era infranta nella volontà di quel giovane,
che sembrava sfuggire alle crudeli necessità delle passioni, nelle quali
si consumano le anime più forti.

— Ella vi subirà, mormorò il principe.

Loris aspettò.

— A voi non sfuggirà quello che le manchi. Lasciate che mi confessi con
voi, seguitò con voce quasi umile, voi siete qui il mio superiore,
l'unico uomo, al quale possa dire un segreto, di cui tutti riderebbero.
Voi, che non amate e non volete essere amato, potrete facilmente
scoprire nell'imbroglio di una passione il suo segreto micidiale, come
un medico legge fra i sintomi di una malattia quale ne sia la causa.

— E quando pure lo indovinassi?

— Mi aiuterete. Io sono vecchio, anche più di quanto lo sembri. Vi farò
entrare nel Comitato Esecutivo, del quale v'impadronirete in pochi
giorni, mentre io non vi sono riuscito in cinque anni. Avete ragione: la
politica non sopporta altre passioni, bisogna amarla per sè stessa
rinunciando a tutto per mettersi al disopra di tutti. Io non lo posso;
sento che per Tatiana sarei pronto a dimenticare tutto. Vedete; da che
sono ritornato, non mi riconosco più lo stesso uomo. Quando poco fa la
stringevo svenuta fra le braccia, mi è sembrato per un momento che
morisse, e ho provato l'angoscia del vuoto eterno.

— Non odiate più nemmeno lo Czar?

Gli occhi del principe rifiammeggiarono.

— Quell'uomo, esclamò, ha potuto non amarla! La sua profondità di bruto
supera quella stessa dello spirito.

— L'avreste ucciso, se ella lo avesse amato?

— Sì, ma non si amarono: ecco il mistero. Potevo uccidere lo Czar; e
poi? Gli ha ella ceduto in quel colloquio? Vi ho pensato spesso,
spogliandomi di ogni qualità di marito, e non sono giunto a decidermi
per alcuna soluzione. Odio istintivamente quell'uomo; eppure non sono
certo di credere che sia stato l'amante di mia moglie. Ella da quel
giorno fu impenetrabile d'indifferenza; se ha voluto lo Czar ai propri
piedi, o non le riuscì o non le basterebbe più. Adesso la vita di
Tatiana è spezzata come la mia. Nulla al mondo l'interessa; la
solitudine del suo orgoglio è l'ultimo impero, che le rimane.

Loris si era fatto pensieroso. Quella confessione del principe, così
nobilmente umile davanti a lui, gli mostrava un nuovo aspetto della
natura umana, mettendogli nell'anima un sottile senso di paura. Che cosa
era dunque questa passione di amore, che riempiva tutta la vita di un
vecchio, al quale la fatalità della rivoluzione si era pure rivelata da
molti anni? Quanti uomini avevano in cuore altre passioni individuali, e
dimenticavano quindi, o dimenticherebbero poi, le supreme esigenze della
rivoluzione? Dopo quell'attentato fallito, nel quale tutte le Russie
avrebbero potuto rinnovarsi, ecco che ritrovava da capo la vita
ordinaria colle sue passioni effimere ed assolute, perchè gl'individui
devono inevitabilmente preferire sè stessi a tutto il resto.

Il principe sembrava ricaduto in una meditazione.

Tatiana entrò nel salotto, ove l'attendevano da mezz'ora. Era vestita di
un casimiro nero, senza nè ricami nè sbuffi; il corsetto attilato
rivelava tutta la superba bellezza del suo busto, dandole col solino
dritto e rigido un'aria anche più imperiosa alla testa. Era pettinata
alla greca, bizzarramente, coi capelli attorcigliati sulla nuca, e gonfi
a riccioli sulla fronte. Dal collo alto e sottile le scendevano tre o
quattro fila di coralli ardentemente rossi su tutto quel nero, e un
grosso brillante le sfolgorava all'anulare della mano destra, lunga,
sottile e bianca.

Accettò la presentazione di Loris senza notare la falsità del suo
cognome; quindi sedette invitandoli col gesto. Il tavolo era rotondo.
Loris le stava quasi di fronte, per qualche momento la conversazione non
fu possibile. Malgrado la propria freddezza Loris non poteva a meno di
trasalire guardando il volto bianco di Tatiana, che si dorava ai
riverberi dei capelli, mentre negli occhi ingranditi dalla malattia le
tremolava un dolore indefinibile. Con quell'abito nero, sotto al quale
il seno piuttosto basso, forse libero da ogni busto, le disegnava una
curva molle, resa più voluttuosa dagli angoli acuti delle spalle, pareva
anche più magra. Le maniche strette le modellavano le braccia esili,
animate tratto tratto dalla nervosità delle mani.

Stava seduta rigidamente, colla testa inclinata a sinistra.

Il principe la serviva con attenzioni affettuose di padrino.

Ella guardava Loris, ma questi, deciso a non parlare pel primo,
affettava il contegno riservato di un gentiluomo alla tavola rotonda di
un grande albergo.

Finalmente il principe potè annodare la conversazione sui soliti
nonnulla. Parlarono di Mosca, di Pietroburgo, della vita russa in
campagna, di tutte quelle notizie volgari, che riempiono i giornali e i
salotti delle signore.

Il principe raccontava le proprie impressioni della neve in quell'ultimo
viaggio.

— È una rivelazione dell'infinito, disse Tatiana, quel bianco, che nulla
può macchiare o esaurire nelle nostre steppe. L'anima russa vi ha
attinto forse la sua massima virtù.

— Quale? chiese Loris.

— La pazienza.

— Forse per ciò nessun poeta russo ha saputo cantare l'inverno: la
pazienza non può essere che del popolo.

— Se il popolo rimase paziente nella forza del proprio numero, perchè un
individuo non lo diventerebbe nella grandezza della propria passione?

Il principe aspettava la risposta, Loris sorrise.

— La passione, aspettando, confessa a sè medesima la propria debolezza,
e soccombe generalmente a questa rivelazione. Quando l'orso è davvero
affamato, lascia l'agguato per rimettersi in caccia.

— Questa potrebbe riuscirgli molto meno sicura, osservò il principe.
Avete mai cacciato l'orso, Loris?

— Non ebbi che fanciullo uno scontro coi lupi nella foresta di Kourlak.

— Quella del tuo castello, Tatiana: la conoscete bene, Loris?

— Me ne rammento ancora, ma la principessa avrà seguitato a cacciarvi, e
la ricorderà meglio di me.

— Non la dimenticherò mai, ribatto Tatiana portandosi la mano al seno, e
fingendo di accarezzarsi i coralli rossi per dissimulare il tremito
delle mani. Vi sono certe prime impressioni, che rimangono
indimenticabili come un delitto.

— Infatti solo i grandi delinquenti sanno scordarsi dei propri crimini,
e questo loro oblìo è forse la sfida più temeraria, che un uomo possa
gittare a tutte le leggi. Voi, principe, che siete senatore, ne avrete
forse conosciuto qualcuno di questi grandi uomini, che fanno della
propria galera una Sant'Elena, o salgono al patibolo come ad un trono.
Qualunque sia il giudizio, che la società è costretta a portare sovra di
essi, bisogna confessare che la ribellione della loro volontà è una
delle glorie più altere del carattere umano.

— Non credete ai loro rimorsi? replicò Tatiana prevenendo il principe e
scrutando il volto di Loris, che si nascondeva dietro il velo sottile di
una allegria da tavola.

Quella battaglia di allusioni al passato, inintelligibile al principe,
le aveva già messo nell'anima un orgasmo pieno di trepidazione.

— Almeno non ne mostrano, ma è difficile sapere se il delinquente creda
di aver torto. Le nostre idee del bene e del male secondo i codici non
sono quelle di tutti gli uomini; fra cento delitti, forse almeno in
novanta, colui che li commise, giudicò allora di aver ragione, o se li
permise come un compenso alle proprie sofferenze. Naturalmente la
società non può accettare questi conti, e costretta a difendersi
immobilizza o sopprime il delinquente, che in questo caso si considera
piuttosto vinto che colpevole. Ecco perchè la maggior parte dei
delinquenti mostrano davanti alla morte il medesimo coraggio degli eroi.

— Così voi togliete alle vittime l'estrema consolazione di credere che
la loro superiorità morale si riveli agli assassini più umiliante di
tutte le condanne.

In quel momento un servo recava entro un vassoio d'argento un gelato a
piramide, sul quale era piantata una larga paletta d'oro dal manico
attorcigliato.

— Dite dunque alla principessa, voi magistrato, che le vittime hanno
sempre torto di essere tali, o perchè la natura le gettò sul sentiero
dei più forti, o perchè nella loro ingenua vanità pretesero di
combatterli. Guardate questa verità nella zona più frivola della vita:
chiunque, non sapendo farsi amare, fu respinto o tradito malgrado tutta
la sincerità della propria passione, non potrà mai ottenere compensi
alle proprie pene se non innamorando con una seconda trasformazione il
proprio avversario.

Il principe a questa allusione ironica sussultò; Tatiana aveva perduta
la prima disinvoltura, e teneva gli occhi bassi, ma sentendosi quelli
del principe sopra li alzò macchinalmente. Una contrazione quasi
invisibile di dolore le animava la bocca, mentre l'altro la guardava,
trepidando sotto quello scherno di Loris, che li riavvicinava. Ma
Tatiana in questa nuova umiliazione sentiva come una dolcezza
inesprimibile evaporare da tutto il suo essere di donna, e confondersi
coll'amore del principe. Una bianchezza luminosa le passò sulla faccia,
allorchè alzando gli occhi verso Loris coll'indefinibile umiltà degli
innocenti, che soffrono, gli rispose in un murmure:

— L'amore reietto diventa così nella creatura amore divino.

Poi la conversazione cadde.

Quando Tatiana si levò da tavola per passare nell'altro salotto, Loris
tardò abbastanza perchè il principe dovesse offrirle il braccio.
L'accento sottomesso di Tatiana in quel primo scontro gli aveva dato un
compiacimento di superbia, nel quale vibravano già alcune note
voluttuose. Malgrado tutti i propositi non aveva potuto schermirsi da un
senso di viva ammirazione contemplando quella fragile ed altera bellezza
di Tatiana, così dissimile dalla fanciulletta di un giorno, ora che una
malattia forse inguaribile, isolandola tratto tratto nell'impotenza del
sesso, aveva dato alla sua fisonomia una spiritualità dolorosa. Quella
malattia era forse l'orma lasciata sovr'essa da Topine; Loris non potè
dubitarne nemmeno un istante, e la sua stessa brutalità ne fu scossa.
Quel martirio di tutta la vita era troppo per un fallo, che la
storditezza della gioventù avrebbe dovuto scusare.

Ma la sventura, innalzando Tatiana sulle cime più pure dell'essere
femminile, aveva raffinata la sua anima collo stesso esercizio dei
santi, che lungi dai contatti del mondo cercano la vita nelle indicibili
rivelazioni dell'ideale.

Un ricchissimo samovar d'argento fumava tenuamente sopra un tavolino. Il
salotto era piccolo, tutto in legno come una cabina; molte pelli di orsi
e di leoni pendevano alle pareti da grandi chiodi neri; sul pavimento di
quercia a quadrelli un breve tappeto persiano dai colori smaglianti
sembrava una fiorata. Nessun specchio. Un lume enorme a petrolio, in
bronzo verde, sostenuto da una catena ardeva come un braciere;
nell'angolo un pianoforte verticale nero, in quella chiarezza di tutto
l'altro legno, diventava cupo come l'abito di Tatiana. Sedie e poltrone
erano di modello americano a bastoni ricurvi, piegati a vapore, con una
tela rada e fine di scorza.

La canzone del samovar saliva gorgogliando.

Loris si guardò attorno; se il salottino avesse oscillato si sarebbe
creduto in alto mare.

Mentre Tatiana preparava il the, il principe fumava cogli occhi
socchiusi; Loris imbarazzato da quella loro disattenzione cercò sulle
pareti qualche oggetto, cui interessarsi. Non vide che il ritratto di un
cavallo. Nell'aria caldissima passava il soffio continuo della bocca del
calorifero cerchiata di ottone. Quando il the fu pronto, Tatiana ne
portò la prima tazza al principe, trattandolo così piuttosto da padre
che da marito; poi venne coll'altra verso Loris colla fredda
disinvoltura di una gran dama. Gli porse la tazza, e andò a sedersi
presso il principe.

Un silenzio si appesantì nel salotto. In quel momento Loris pensava che
se il principe Kovanski gli avesse concessa la mano di Tatiana, egli
l'avrebbe amata forse per sempre, e la sua vita si sarebbe svolta
signorilmente in un castello, fra l'amore di una famiglia e il rispetto
di tutto il mondo. Ma subito un amaro orgoglio gli fece disprezzare
quella visione di pace; il suo sguardo cadde su loro come una
scudisciata.

— Quanto contate di restare al castello, principe? gli chiese con voce
quasi imperiosa.

— Non lo chiederete già per lasciarci troppo presto: non è vero,
Tatiana? Questa è forse la prima visita, che ricevi nell'anno.

— La principessa ne riceverà ancora; le grandi dame non fanno altro.

— Invece io sono sempre sola.

— Voi sola ne saprete la ragione. Generalmente il mondo lo si evita
quando non si seppe conquistarlo; ma vi sono, aggiunse ironicamente,
oltre i re decaduti quelli che ricusarono la corona.

— E gli uni e gli altri sono egualmente incomprensibili alla satira del
volgo, osservò il principe.

— Il volgo satireggiando un re non s'abbandona ancora che al proprio
corruccio di schiavo incapace di distruggere ciò che gli nuoce. Se ho
consentito ad accompagnarvi qui, caro principe, speravo che non vi ci
fermereste troppo a lungo: m'accorgo ora che avrei torto di togliervi
alla felicità di questa solitudine.

— Perchè non riposereste qui voi stesso qualche tempo? La vostra grande
opera non ne soffrirà; siete ancora nell'età, che permette le vacanze.

— Potrei chiedervi, signore, domandò Tatiana con voce aggressiva, quale
è l'opera, cui vi siete votato?

— Perchè ve lo direi, principessa? A voi sembrerebbe assurda poichè
l'amore non vi entra.

— Sareste per caso un nichilista? Oggi, aggiunse sorridendo, si trovano
anche nella migliore società.

— Infatti, anche lo czarevich è sospettato di nichilismo: ma voi,
principessa, rassicuratevi, io non credo abbastanza alla rettorica per
essere un nichilista.

— Credete rettorica una setta, che ha ucciso uno czar?

— Forse appunto per questo. Alessandro II era così bello, che tutte le
signore lo venerano oggi come un martire. Infatti lo è stato. La sua
morte fu inutile anche a coloro che la vollero; credevano di uccidere un
tiranno, e non ammazzarono che l'amante della principessa Dolgorouki.

— Voi sembrate scherzare su quell'orribile delitto.

— Ne trovo ridicoli gli autori, mentre voi giudicate un santo la
vittima. Vedete bene che in due forniamo di quello czaricidio il
giudizio più ortodosso.

Loris pronunziò queste parole con così sprezzante ironia, che Tatiana
fremè. Da qualche momento ella ritrovava in lui gli accenti e gli atti
imperiosi del fanciullo, quando improvvisamente si ribellava alla
tirannia de' suoi capricci.

— La principessa Dolgorouki, sposata da Alessandro II, avrebbe dato alla
Russia quella costituzione, per la quale si sono commessi tanti delitti;
ne aveva già persuaso lo czar.

— Sciaguratamente le donne possono dominare gli imperatori, non gli
imperi. Ora la principessa Dolgorouki è vedova, e la Russia, aspetta
ancora la costituzione. Chi sa se un'altra donna, innamorando Alessandro
III, non possa compiere il voto di Alessandro II?

Una fiamma di rossore sali al volto di Tatiana.

— Se non credete all'influenza delle donne, negherete anche quella di
Sofia Perowskaia nell'attentato contro Alessandro II.

— Sofia Perowskaia vi morì come lo Czar. Essa amava Jeliaboff, forse più
che Alessandro II non amasse la principessa Dolgorouki: ma essendo
egualmente principessa non potè sottrarsi alla fatalità dell'amore
romantico in un'impresa storica. Adesso le grandi dame la ripudiano; un
giorno i poeti, svisando tutto al solito, la confonderanno forse colla
principessa Dolgorouki.

— Avete conosciuta la principessa Dolgorouki?

— L'ho vista a Pietroburgo. Una donna, che si deve essere creduta
onnipotente per avere innamorato un uomo!

— Vi è forse qualche cosa più potente dell'amore? domandò Tatiana,
guardandolo ansiosamente.

— Non credo che Colombo sia andato la prima volta in America per
cercarvi un'amante.

— Così, replicò con un sorriso, che avrebbe voluto essere di scherno ed
invece era doloroso, chiunque non ami può stimarsi un Colombo?

Loris si voltò al principe.

— Certo, non amando, un uomo può facilmente dominare gli altri.

— Voi non amaste mai? gli chiese insidiosamente il principe.

— Da fanciullo, come si crede da fanciullo.

— Chi ha amato amerà, replicò il principe. Tatiana andò al pianoforte
aperto. Il principe si affrettò a raggiungerla, fingendo di volerle
porgere la musica da una cassetta nascosta nell'angolo dietro il
pianoforte.

— Confessa, mia cara Tatiana, che vuoi rispondere alle desolanti
opinioni del signor Loris con qualche pezzo del tuo Schumann.

— Non amate la musica? gli si rivolse Tatiana.

— Ho questo di comune coi veri poeti, l'antipatia per un linguaggio, che
non può nulla precisare.

Tatiana, già seduta sullo sgabello, si torse verso di lui; Loris si
raddrizzò in tutta l'alterigia del proprio portamento. Era bello, ma la
durezza dei suoi lineamenti doveva in quel momento renderlo antipatico.

— Voi stesso sapete suonare, esclamò ricordandosi imprudentemente di
avergli ella stessa insegnato la musica.

— Da fanciullo.... come amavo, come credevo.

Il principe si accorse che Tatiana era battuta, ma leggendo ne' suoi
occhi una angosciosa ripulsione per Loris si abbandonò istantaneamente
alla più pazza speranza. Convinto di aver ben compreso il carattere di
Loris, lo giudicava incapace di attardarsi in un amore, specialmente
allora colla responsabilità di un attentato fallito e col frenetico
proposito di una rivincita. I suoi modi freddi e dominatori avevano
offeso naturalmente in Tatiana le fibre più delicate del sentimento
femminile. Per un momento pensò d'intervenire gettando una frase
melanconica ed affettuosa nel loro diverbio, ma vedendo Loris pronto a
riprendere l'offensiva stava maliziosamente per lasciarlo fare, quando
Tatiana impallidì.

— Ti senti male? gridò il principe con voce spaventata, lanciandosi
verso di lei.

Loris rimase impassibile.

Tatiana, che realmente si era sentita salire nel cervello come, una
nebbia, ebbe un gesto elegantissimo di smarrimento; poi si rinfrancò, e
reagendo con bruscheria sopra sè stessa tornò a sdraiarsi sulla lunga
poltrona presso il principe.

Loris non aveva ancora fumato, il principe gli offerse l'astuccio delle
sigarette.

— La principessa potrebbe soffrirne, e la sua voce era sempre così dura.

Tatiana abbassò il capo, ma riprendendo dalle mani del marito l'astuccio
glielo presentò aperto colla più squisita cortesia.

— Fumate pure, la mia malattia non può più inasprirsi pel fumo di una
sigaretta.

— Siete davvero ammalata?

Ella lo guardò con una attonitaggine quasi spaventata, tanto le pareva
insultante quel dubbio in bocca sua.

— Le signore sanno ammalarsi con così poco e così a tempo, che spesso
esigono di non essere credute.

— Lo sono, mormorò con un accento di lontano rimpianto.

— Ma guarirai, mia cara, solo che tu lo voglia, tornando a Pietroburgo.
Qui non hai nemmeno medici, disse il principe con voce intenerita.

Ella scosse tristamente il capo.

— No, amico mio, non si guarisce più: è troppo tardi.

Loris era diventato pensieroso. Nella profondità de' suoi occhi verdi
tremava un sentimento di pietà, ma Tatiana non se ne accorse.

— Credete, signor Loris, gli chiese, che potrei guarire?

Questa domanda lo colse sprovveduto; gli parve di sentirvi un appello,
un grido, come quando Tatiana, dibattendosi sotto la stretta di Topine,
lo chiamava per nome: Loris.... Loris!

Ma cangiando ancora fisonomia ella esclamò:

— Perchè infine, non potrei guarire? Anche l'inverno è una malattia,
della quale la terra guarisce in primavera. Chi è, signor Loris, il
primo medico di Pietroburgo, ma il primo davvero?

— Lo ignoro.

— Avete conosciuto a Parigi Charcot?

— No.

— Mi avevano consigliata di consultarlo, lo dicono un grand'uomo; però,
se avesse amato, non potrebbe esserlo secondo voi, insistè con malizia.

— I grandi medici non sono quasi mai grandi scienziati; come Amerigo
Vespucci, non descrivono che terre già scoperte.

Ella ebbe una moina di sdegno.

— Principe, mi accompagnerete a Parigi, se vorrò andarci?

— Lo volessi tu davvero!

— Partite dunque presto, principessa, disse Loris indovinando il segreto
di quella mossa: il principe ha diritto alla vostra salute.

Ella s'accorse di non poter lottare. Allora dinanzi a Loris, bello ed
implacabile, senti riavvampare la fiamma di quell'amore, che l'aveva
gettata per disperazione nelle braccia del principe, facendole indarno
sognare l'impero sullo Czar come un compenso al proprio cuore ammalato.
E Loris, superbo in quell'eleganza signorile, che per lei era una
condizione essenziale, stava presso il principe, piccolo e giallo come
Topine. Una nausea le salì dal fondo della coscienza a quel ricordo, che
le tornava sempre, ad ogni minuto di quella malattia inguaribile, colla
quale Loris si era impadronito di lei.

Egli solo avrebbe ora potuto salvarla.

Improvvisamente non potè reggere alla sua presenza. Aveva bisogno di
essere sola per rivedere Loris ed avvicinarglisi maggiormente, perchè il
suo contegno verso di lei non le permetteva di avanzare.

Ma sotto le sue parole dure, attraverso quelle teoriche disperanti, per
le quali passavano come dei soffi polari, aveva ritrovato Loris
fanciullo, quando l'amava nell'ingenuità della propria primavera, prima
che il principe Kovanski, spezzandolo brutalmente con due colpi di
scudiscio, lo gettasse lungi dal castello dei loro giuochi nell'ignoto
della vita, ove l'aveva creduto per sempre perduto.

S'alzò.

La sua faccia bianca pareva brillare di una luce interna come una
lampada di alabastro.

— Vuoi ritirarti? le chiese premurosamente il principe afferrandole la
mano sinistra.

Ella in piedi, così vestita di nero, coi coralli che le grondavano dal
collo come goccie di sangue, e la testa leggermente gettata indietro per
salutare il principe, stese l'altra mano a Loris, offrendoglisi nella
curva sapiente di uno scorcio, che era come un abbandono di tutte le
proprie bellezze.

Loris, stringendo quella mano palpitante, credette di sentirsela salire
lungo il braccio, sotto le carni, sino al cuore.

Tatiana la ritirò vivamente, salutò il principe, ripetè un cenno cortese
a Loris, ed uscì.

I due uomini rimasero alquanto in silenzio. Il principe osservava Loris
già ridivenuto freddo come al solito; poi si voltò a guardare l'uscio,
dal quale Tatiana era scomparsa. Sul suo volto passò un grande
rammarico.

— E così?

— Seguitela dunque, ribattè Loris con quella brutalità signorile, che
era tanto offensiva nelle sue maniere.



II.


Passarono alcuni giorni.

Una mattina il principe recò a Loris i giornali di Mosca e di
Pietroburgo: tutto era scoperto, ma degli autori dell'attentato solo
Lemm era noto. Il suo vecchio soldato era stato arrestato col dwornik
della casa, e poco dopo l'orefice che aveva affittato a Loris
l'appartamento, Matrona e l'altro dwornik. La Gazzetta di Mosca dava i
più minuti particolari del nuovo attentato, domandandosi con un senso di
paurosa ammirazione come mai non fosse riuscito. Il filo caduto entro la
doccia della casa era stato tagliato; perchè? Le congetture del giornale
si moltiplicavano a perdita di vista senza trovare una conclusione. La
polizia doveva quindi essere in moto da molto tempo cercando
febbrilmente gli czaricidi. Loris lesse freddamente i giornali, ma
scorrendoli si era già posto tutti i problemi: dov'erano Olga e Lemm?
Evidentemente Olga non era stata uccisa, se il piccolo ebreo aveva
potuto salvarla; ma sfuggirebbero ancora alla caccia della Terza
Sezione? Quel gruppo di studenti, al quale aveva proposto la guerra
civile, indovinerebbe in questo attentato l'opera sua, e tradirebbe o si
tradirebbe involontariamente coll'imprudenza della giovinezza?

Loris non aveva conservato molta stima del loro carattere dopo quel
rifiuto alla cena del conte Ogareff, però non osava concludere alla
necessità di una delazione. Un profondo disgusto gli era rimasto
nell'anima da quell'insuccesso: egli medesimo non vi aveva agito con
tutto il rigore della logica, associandosi Olga senza valutare
esattamente la debolezza del suo carattere femminile. Dov'erano adesso
Olga e Lemm? Questi doveva aver conservato qualche danaro, quindi il
colmo dell'abilità sarebbe per loro di fuggirsene all'estero coi falsi
passaporti. Ma Lemm, essendo già scoperto, consentirebbe ad imbarazzarsi
di Olga?

Quel colpo di pistola, sotto al quale Olga era caduta come morta, era
stata l'ultima scempiaggine di quell'impresa fallita, giacchè avrebbe
potuto attirare i vicini, impedendo ogni ritirata. Se Loris nella
frenesia del primo sdegno non avesse perso al tutto la testa, avrebbe
dovuto restare a Mosca qualche giorno per mettere in salvo i propri
complici; invece coll'impeto cieco di un fanciullo aveva tutto
compromesso.

— Ho scritto al Comitato per avere informazioni su Olga e su Lemm;
posdomani forse riceveremo un telegramma in gergo, disse il principe
osservando Loris.

Questi era impassibile.

— E voi siete sicuro di non essere già sospettato?

— Io.....

— Se vi avessero riconosciuto nella mia drioska!

Il principe sorrise intrepidamente.

— Ho nella Terza Sezione due alti funzionari, che mi debbono tutto: mi
avrebbero già avvisato.

Appena rientrato nella battaglia, Loris aveva già ritrovato tutta la
propria terribile elasticità.

— Nullameno la mia presenza qui è un errore. Non fate pompa inutile di
coraggio, seguitò duramente tagliandogli la parola con un gesto: il
compromettersi sarebbe per voi, che non voleste mai davvero la
battaglia, un'imprudenza senza merito. Se Olga e Lemm saranno presi,
Lemm forse confesserà: credo più al carattere di Olga. Essa è una di
quelle sentimentali, che gustano nella morte la poesia del sacrificio.
Quanto agli studenti, sono fanciulli chiacchieroni, che si salveranno
forse per la loro poca importanza. È d'uopo provvedere; domani partirò
per Pietroburgo.

— A che fare?

— Bisogna ritirare il deposito dal mio banchiere; è tutto il nerbo di
guerra che ci rimane.

— Correreste un rischio inutile. Firmate uno _chéque_ per un altro
banchiere, farò io ritirare la somma.

— Siete sicuro di non arrischiare alcuno?

Il principe non rispose nemmeno: Loris seguitò:

— Conducete con voi Tatiana a Pietroburgo, non è bene restar qui.
Tornerete nel Comitato e vi agirete potentemente per deciderlo; io mi
metterò subito in campagna. Bisogna cancellare ai più presto il ridicolo
dell'ultimo smacco; verrò ad un'altra seduta, appena disposte le prime
file.

Ma arrestandosi bruscamente, considerò il principe, che pareva di una
grande svogliatezza.

— Voi non credete più a nulla!

— Avete indovinato.

— Separiamoci dunque. Voi sperate di vivere, almeno gli ultimi giorni,
coll'amore di vostra moglie. Quella donna, ve l'ho già detto, è la
vostra fine. Io comincerò la guerra.

A questo punto intese il fruscio di una veste nel corridoio.

— Silenzio! fece con un gesto al principe, che non aveva udito nulla.

Comparve Tatiana in veste da camera, salutò leggermente Loris.

— Vi ho cercato per tutto il castello, disse al principe, finalmente ho
pensato che foste qui: mi perdonerete, se vi ho disturbato, si volse a
Loris.

— Che cosa vuoi, mia cara?

— Non lo so. Ero sola nel mio gabinetto, ho dovuto fuggirne.

Il principe le prese premurosamente le mani, che essa ritirò.

— Desideri che ti teniamo compagnia?

— Impossibile, giacchè dovreste desiderarlo voi stessi. Avevo persino
pensato di fare una lunga corsa sulla neve in slitta: mi
accompagnereste, signori?

— Ma con tutto il cuore! esclamò il principe.

Loris s'inchinò cortesemente scusandosi.

— Perchè non venite? gli chiese il principe.

— Sapete pure quante lettere urgenti debbo scrivere: la principessa
comprenderà che si possono avere dei doveri superiori alla cortesia.

Tatiana strinse impercettibilmente le labbra per nascondere il dispetto,
e prendendo il braccio del marito uscì dalla stanza. Però sull'uscio
potè rivolgersi, senza che questi se ne accorgesse, guardando Loris.

Appena rimasto solo, Loris s'abbandonò a una collera furiosa. Dacchè era
fuggito da Mosca, il suo spirito non aveva potuto sfogarsi in nessuna
violenza liberandosi dall'ammasso di passioni, che vi stavano compresse
sotto da un ultimo sforzo della volontà. Tutto era crollato intorno a
lui; si trovava ancora solo, già vinto prima di aver combattuto.
Quell'attentato, che doveva dargli in mano tutta la Russia, era riuscito
al più spregevole insuccesso, con una pistolettata ad Olga. Adesso
questa stava nascosta o fuggiva con Lemm, forse egualmente pentiti
entrambi di avere partecipato per un momento a tanta impresa, e parlando
di lui come di un pazzo presuntuoso. Secondo la moda delle ultime
teoriche psicologiche, tutte la eccezioni erano stimate pazzie,
l'eroismo e il delitto, il genio e la santità. Ma la sua stessa ragione,
ritorcendosi contro di lui, gli struggeva quella confidenza, che fino
allora aveva avuto in sè medesimo. Perchè volendo impadronirsi della
politica era rimasto sempre così solo nell'orgoglio di una superiorità
inintellegibile agli altri? Per non aver mai voluto ubbidire, non aveva
adesso a chi comandare. Tutta la terribilità logica del suo sistema
rivoluzionario non aveva concluso che allo stupro di Tatiana, brutalità
meschina ed inutile, che un politico vero avrebbe saputo risparmiare;
poi a costeggiare dappertutto le forze politiche senza saperle
afferrare. Gli rimaneva solo il tentativo di sollevare qualche
villaggio, ma anche questo sarebbe impossibile senza l'aiuto dei vecchi
nichilisti.

Nell'amarezza disperata di quel bilancio della propria vita arrivava
freddamente al problema del suicidio.

Per essere forte aveva voluto essere solo. Non aveva genitori, amici,
amanti; non era nemmeno sicuro di amare il popolo, questo individuo
immenso, del quale il numero distrugge la personalità. Se altra volta
gli era sembrato di sentirsi in cuore tutti i suoi dolori e la sua fede,
ora gli pareva di averli perduti nell'immensità del vuoto.

La vita normale, che nessun individuo può frangere, era più forte di
lui, riconducendolo attraverso tutti i sogni rivoluzionari dinanzi a
quella donna abbandonata lontanamente sul margine della prima
giovinezza. Senza avere ancora fatto nulla, si trovava come tutti gli
uomini volgari preso tuttavia nel problema del primo amore. Che cos'era
dunque la sua predestinazione, quell'orgoglio inaccettabile, col quale
respingeva tutti inebriandosi segretamente della propria grandezza,
quasi fosse un altro Napoleone intento a studiare incognito i campi
delle proprie future battaglie? Come Cesare a trent'anni aveva pianto la
prima volta dinanzi al ritratto di Alessandro, egli piangeva ora
silenziosamente davanti al grande fantasma di sè stesso.

La vita lo respingeva, la vita, che non vuole tiranni capaci di
dominarla.

Da quattro giorni la tranquillità di quell'esistenza al castello gli
faceva la stessa impressione del mare ad un naufrago; nessuno di quella
gente pensava o sentiva come lui, nessuno avrebbe potuto comprenderlo.
Egli si ritraeva istintivamente in sè medesimo, provando nei brividi di
un freddo sempre più intenso le prime emozioni della morte.

Poi Tatiana gli era ricomparsa nell'amore del principe, mentre anche
questi si ritraeva sfinito dalla lotta, coll'esperienza inconsolabile
della sua inutilità; ma il principe, rimasto uomo, poteva ancora amare
Tatiana, rientrando nell'oblio della piccola vita individuale. Forse
Tatiana non lo amerebbe mai; e che importa? La felicità è piuttosto
nell'amare che nell'essere amato.

Loris pensava a tutto questo colla furia di chi, presentendo già la
sconfitta, la ricusa doppiamente; sentiva di avere avuto torto, ma nella
intatta potenza delle proprie forze non s'arrendeva ancora. Che cosa
avevano fatto i più illustri alla sua età? Malgrado le recriminazioni
implacabili della ragione, era certo di essere diverso da coloro, il cui
solo ufficio è di riprodursi nella serie delle generazioni: perchè come
tutti non vi sarebbe allora già entrato. Non avrebbe già potuto amare
Tatiana? Tatiana non l'amava ancora?

Il principe solo, nella cecità della propria passione, non se n'era
accorto.

Tatiana ondeggiava agli occhi di Loris come una di quelle immagini, che
a certi momenti affascinano la memoria esaurendola nella loro
contemplazione. La rivedeva fanciullina al castello nei primi mesi del
loro amore, poi più grandicella, quasi donna, sino al giorno che gli
aveva sorriso da quella finestra sul cortile, mentre lo attraversava
agonizzante nell'angoscia di quelle due frustate; quindi a tutte le
stazioni del suo lungo pellegrinaggio, di notte e di giorno, fra le
vampe della luce e nelle oscillazioni dell'ombra, a Zurigo, a Parigi,
Tatiana gli era riapparsa, sempre, più alta dell'orgoglio dei suoi
istessi sogni, più bella della vanità delle sue speranze. Egli, vissuto
casto, non aveva avuto che un rimpianto sensuale, negato indarno a sè
medesimo, il rimpianto di quello stupro, l'invidia delirante di Topine,
al quale aveva gettato Tatiana in un impeto di follia. Si era sentito
ben grande in quell'ora; ma dopo aveva capito di non essere più uomo, e
che nessuna donna potrebbe mai più accettarlo. Egli aveva rotto il ponte
fra le due parti dell'umanità, rilegandosi per sempre nel campo degli
uomini, isolato fra essi dall'impossibilità d'amare. Quindi Tatiana gli
saliva nel cielo dell'immaginazione come i santi nelle risurrezioni dei
vecchi quadri, fiammeggiante e serena dopo il martirio, guardando ancora
verso di lui, dall'alto, come guardano le stelle.

Nullameno a che pro amare? La sua vita era diversa da ogni altra;
l'umanità in tutti i tempi aveva imposto ad alcuni individui di non
amare, perchè potessero concedere tutti sè medesimi ad un'idea. Il
monachismo, comune a tutte le religioni, non aveva altre origini ed
altro ufficio. Egli non amerebbe quindi ora, che stava per cominciare
una guerra civile senza pietà e forse senza fine.

La sera era già calata. Dagli alti vetri si travedeva ancora la campagna
in una nebbia malinconica, alcune isbe fumavano. A quell'ora tutti nel
villaggio erano raccolti intorno alle immense stufe per la veglia; le
sacre iconi sogguardavano dall'alto alla tremula fiammella di un
lumicino, acceso sui loro piedi; la gente andava e veniva nella
penombra, gli angoli dei vasti stanzoni si perdevano nel buio. Tutti
quei poveri, felici nella loro abbiettezza, s'amavano spesso
promiscuamente, trovando l'amore nell'irritazione della fame o nel
gorgoglio dell'ebbrezza.

Loris guardava dalla finestra. Egli conosceva quelle isbe, che sognava
di trasformare in casematte. La neve s'allontanava nell'infinito della
sera, sotto il cielo plumbeo, bianca e fredda senza una macchia. Così
per duecento giorni, in tutti gli inverni; quindi la primavera scoppiava
improvvisa come un petardo, poi l'estate avvampava come un incendio e
non molto più lungo, e da capo l'autunno coi presentimenti lividi
dell'inverno, e i giorni che sembrano cadere anzi tempo nella notte;
finalmente l'inverno, candido, gelido, uniforme, col silenzio di ogni
attività, ricacciava tutta la gente nelle isole, costringendola a
rannicchiarsi in sè medesima e a perdere col ricordo dell'ultima estate
anche la speranza della futura primavera.

Nella Russia il vero Czar, il tiranno, era l'inverno, che vi arrestava
la vita rallentando la storia.

Loris si tolse dalla finestra, udendo battere alla porta. Era un servo,
che veniva a pregarlo da parte del principe di passare nel gabinetto
della principessa.

Loris sorprese il primo sguardo di Tatiana, che lo spiava ansiosamente.

— Avete avuto torto di non accompagnarci, disse il principe con allegria
forzata: ci avreste tenuto caldo solo colla vostra presenza.

Ma il calore del gabinetto era quasi insopportabile, Loris ne fece
l'osservazione.

Tatiana sembrava di buon umore.

Si mise al pianoforte e suonò un valtzer di Chopin. Era una di quelle
fantasticherie piene di singulti e di appelli, che il grande infermo
aveva ritmato sul tempo di un ballo quasi per schernirne dolorosamente
l'idealità; e vi si sentiva una angoscia profonda, mentre alcune frasi
luminose vi si increspavano sopra, come acque lucenti di un gorgo, nel
quale molti fossero periti. Tatiana suonava mollemente.

Il principe si era disteso sopra una poltrona, voltandole quasi le
spalle.

Improvvisamente ella s'interruppe per cercare nella cassetta della
musica.

— Non me lo ricordo più.

Quando lo ebbe ritrovato, lo spiegò sul leggìo e lo ricominciò. Loris,
che si era accostato per aiutarla nella ricerca, rimase addossato al
pianoforte.

Questa volta ella suonava vivacemente, guardandogli nel volto con un
impudore dolente; pareva chiedergli perchè quella volta avesse voluto
farla stuprare da un mostro come Topine. Il suo occhio azzurro aveva una
fissazione interrogatrice, che l'altro non seppe sostenere; ma allora,
leggendogli nell'anima tutto quanto egli stesso aveva sofferto suo
malgrado in quella vendetta, sorrise trionfalmente. Il suo sguardo lo
respingeva sempre con quella fissità inquisitoriale, ma la sua bocca
tremava già dolcemente nell'invito del perdono.

Poi strinse il tempo del valtzer, quasi cedendo ad una rapina interiore,
nella quale anche a Loris parve di essere travolto.

Quando Tatiana tornò presso il principe, si strinse nuovamente
nell'abito come ripresa dal freddo.

Loris accese una sigaretta per darsi un contegno.

— Avete finito quelle lettere? gli domandò il principe con accento
sornione.

— Quante? chiese infantilmente Tatiana.

— Nessuna.

— Allora era un pretesto.

— Non me ne servo mai, replicò duramente, ma accorgendosi di essere
stato villano soggiunse: non lo so, ma mi sarebbe stato impossibile
accompagnarvi, avevo bisogno di rimanere solo.

— La vostra opera forse...., ella lo punse gaiamente.

— Forse.

E il suo accento parve pesante a Tatiana.

Quindi cominciò un dialogo, scintillante di arguzie da parte di Tatiana;
il principe sorrideva a quella sua pretesa di una rivincita con Loris,
che le opponeva il più freddo riserbo, rispondendo ai suoi frizzi
leggieri con gelide formule pessimiste. Ma Tatiana, usa al volteggio dei
saloni, finiva qualche volta per avere il sopravvento.

— Voi siete un ambizioso, signor Loris.

— In questo caso, principessa, non ve ne sareste accorta: le donne
ignorano l'ambizione costretta a dimenticarle.

— Anche gli ambiziosi secondo voi non possono amare?

— Infatti, non sono amabili.

Poi la conversazione deviò, parlarono delle campagne russe.
Involontariamente Loris s'abbandonò al racconto di quanto aveva veduto
in quei tre anni di pellegrinaggio, sfoggiando tanta ricchezza
d'osservazioni, che il principe stesso lo ascoltò ammirando. Tatiana
ignara di tutto pendeva dal suo labbro. Quel mondo segreto le pareva di
una grande bellezza attraverso il racconto di Loris, quantunque egli non
facesse la più piccola allusione alla propria vita di quel tempo; ma
ella credeva di indovinarla colla fantasia, sentendosi in cuore un
rammarico profondo di non averla divisa. Perchè non era fuggita con lui?
Come era egli diventato ricco, poichè il principe glielo aveva
presentato per tale? Avrebbe voluto saperlo a qualunque costo; quindi
guardava Loris coll'insistenza di una vecchia intimità, che finì col
turbarlo.

— Lo Czar può dormire tranquillo, concluse il principe: non si farà una
rivoluzione per molto tempo.

— Perchè una rivoluzione? chiese Tatiana.

— Per farvi almeno sentire, minacciandoli, la grandezza dei vantaggi,
che vi sono toccati, ribattè Loris.

— Essere principessa.... è questo il vantaggio?

E ridivenne malinconica.

Poco dopo un servo venne ad annunziare il pranzo: questa volta Loris
dovette dare il braccio a Tatiana. Egli divenne più rigido, ella invece
vi si sospese mollemente; passando dinanzi un uscio, mentre il principe
restava loro dietro, mormorò in un soffio:

— Loris....

A tavola Tatiana si mostrò di nuovo vivace, Loris invece si ostinava a
parlare di politica col principe, esaminando le probabilità di una
alleanza tra la Francia e la Russia per resistere alla nuova coalizione
europea capitanata dalla Prussia. Tatiana tentava indarno di
scompigliare quella grave conversazione, ma agitandosi sulla scranna, il
suo piede finì sotto la tavola per urtare in quello di Loris. Ella
trasalì guardandolo, Loris era rimasto impassibile; allora ella non lo
ritirò più, provando una gioia profonda ed infantile a tenerlo così
presso il suo, senza rompere la riserva del pudore. Nè Tatiana, nè il
principe, nè Loris bevevano secondo il costume russo; quindi il pranzo,
malgrado la sontuosità del servizio, restava parco.

Un servo in caffettano rosso recò la posta sopra un vassoio di lacca
cinese. V'erano molti giornali; Tatiana cercò vivamente fra essi il
_Vestinik Evropy_, ma il principe le disse berteggiando:

— Aspetti un articolo di madama Blavatsky? Sapete, Loris, Tatiana è
spiritista. Madama Blavatsky è per lei la più grande incarnazione dello
spirito nel nostro secolo.

— È più facile negare che distruggere le prove spiritiste, ella rispose
gravemente.

Loris sorrise.

— Nemmeno voi, signor Loris, ci credete?

— Non sono abbastanza ateo per avere questa fede.

A questa profonda risposta il principe, che aveva già lacerato la busta
di una lettera, si volse; Tatiana rimase col giornale in mano.

— Non vi pare, principessa, un'ingiuria verso Dio pretendere di dominare
i suoi spiriti, richiamandoli dopo morte nel nostro mondo per rivolgere
loro domande, che esprimono solo la nostra curiosità?

— Ed essi poi risponderebbero facendo battere i piedi di un tavolo!
Confessa, mia cara Tatiana, che questo plagio dell'alfabeto telegrafico
non fa molto onore allo spirito de' tuoi spiriti. Ho conosciuto madama
Blavatsky a Pietroburgo in una seduta, che essa diede in casa del
principe Karaguine. Se tu la vedessi, perderesti subito almeno la metà
della tua fede in lei; è una donna orribilmente brutta, pare un uomo.

— Dio non è generalmente meglio rappresentato del popolo, replicò Loris.

Tatiana, come una bambina ostinata, scosse la testa sfogliando il
giornale.

— Sentite, Loris, esclamò poco dopo il principe, che scorreva una
lettera, ammiccando: quei due sono già ad Amburgo, lo studente, che mi
mostraste con quella bella ballerina.

Loris frenò un sospiro di soddisfazione.

— Si sposeranno certamente, rispose in tono allegro.

Tatiana si era sprofondata nella lettura di un articolo.

Allora i due uomini la punsero sulla sua credulità; il principe
raccontava la seduta in casa Karaguine, mettendo in burla quegli
esperimenti, e la nuova società psicologica fondata a Londra. I suoi
motti di spirito esprimevano idee di una mirabile giustezza. Quella sera
passò più gaiamente. Loris, alleggerito di un gran peso, dopo quella
notizia si mostrava più amabile; Tatiana sfavillava accettando la corte
del marito così trasfigurato da tale fortuna, che l'altro stentava a
riconoscere in lui il vecchio congiurato.

Poi Loris si ritirò per primo.

Tatiana, leggendogli nello sguardo, ebbe un sorriso di trionfo.

Appena nella propria camera, della quale non chiudeva mai l'uscio, Loris
si mise a letto. Oramai la sua risoluzione era presa; fra due giorni
partirebbe, poichè restando in quella casa sentiva diminuire le proprie
forze. Adesso Tatiana l'amava più che egli non l'avesse amata un giorno,
ma colla pretesa inevitabile di una rivincita pari all'atrocità della
tragedia patita; mentre Loris, quasi pentito di quella vendetta, pensava
involontariamente che avrebbe ancora avuto tempo di riprendere Tatiana,
e di possederla. Forse così avrebbe esaurito in sè stesso l'amore come
tutti gli altri uomini, accettando e soggiogando la natura invece di
respingerla. Ma oramai era tardi! Un amore, in quel momento, sarebbe
stato l'abbandono di ogni disegno, l'abdicazione di tutti i propositi,
che lo avevano condotto dal furto dell'_ecarté_ all'omicidio di quella
spia e all'attentato contro lo Czar.

Nella camera calda Loris stava col busto fuori dalle coperte; una
candela di stearica entro una bugia di argento agitava larghe ombre
leggiere.

Erano passate due ore.

D'un tratto si volse. Tatiana era entrata silenziosamente, avvolta in
una veste scura da camera a risvolti sanguigni, ampia che le nascondeva
ogni linea del corpo. Nullameno Loris travide le sue pianelline trapunte
d'oro.

Non aveva lume in mano, s'avvicinò al letto. Era più pallida; i capelli
biondi, pettinati per la notte, le cadevano bipartiti sulle orecchie,
dandole un'aria di madonna; egli notò che un merletto della camicia le
usciva al collo dall'incrociatura della veste.

Tatiana s'avanzò sino al letto senza alcuna civetteria nel passo. Loris
aveva gettato istintivamente un'occhiata alle coperte, appoggiando un
gomito sul cuscino.

Poi ella lo guardò con una grande sincerità negli occhi, e gli disse:

— Non lo sapevo.

Loris comprese. Tatiana toccava col grembo il letto, le mani le cadevano
inerti lungo i fianchi; ma, siccome egli tardava a rispondere, ripetè
semplicemente:

— Non lo sapevo.

Allora Loris abbassò gli occhi; quella donna, da lui assassinata col più
turpe dei delitti attribuendole una qualunque complicità nelle due
scudisciate, era innocente. Gli parve di vacillare nella rivelazione di
una mostruosità, che quel perdono rendeva anche più inintelligibile.

Ella seguitò a bassa voce, col volto intenerito e sofferente:

— L'ho capito solamente molto dopo: voi avevate creduto che io ridessi,
sapendo tutto anche prima. Il principe se ne pentì amaramente, benchè
non indovinasse il resto.

La sua voce tremò.

— Tatiana! esclamò Loris.

Ella aveva inconsciamente posata una mano bianca e sottile sulle
coperte.

— Foste ben crudele.... mormorò, scoppiando in un singhiozzo.

Era rimasta a testa bassa, in un atteggiamento puro, inconsapevole della
propria posizione in quel momento. Loris invece si sentiva tremare sotto
la superiorità di quella donna, che gli parlava così semplicemente.

Il suo corpo si agitò sotto le coperte, ma Tatiana quasi scossa da quel
brivido risollevò il capo.

— Ho voluto parlarvene per non rimanere dei torti verso di voi. Quando
vi ho visto la prima volta nel salone, sono svenuta; l'impressione era
troppo forte. Da un pezzo lo desideravo, perchè avevo bisogno di essere
almeno creduta innocente. Quello, che ho sofferto, adesso lo posso
sopportare.

— Credete di essere stata sola a soffrire? ribattè Loris finalmente,
cercando di sottrarsi all'umiliazione di quella grandezza col parlare di
sè.

Ella attese.

— Sia pure, m'ingannai, seguitò con voce dura e concitata, ma ella
s'accorse dello sforzo: era impossibile non ingannarsi.

Tatiana scosse leggermente il capo.

— Voi eravate principessa, io ero un ragazzo raccolto per carità o per
vanità, poco importa. I poveri hanno torto di accettare simili
condizioni. Il principe fece benissimo a frustarmi, e di lui non mi
sarei mai vendicato.

— Egli vi amava.

— Non si amano coloro, cui si fa l'elemosina; ebbi torto di scordarmene.
Ma nessuna donna, anche czarina, ha diritto d'umiliare un uomo. Se lo
sono diventato, lo debbo forse in parte al vostro disprezzo.

Ella negò.

— Voi non riuscite comprenderlo nemmeno adesso, ma quello che poteva
parervi scherzo, diventava per me, nella differenza della nostra
posizione sociale, oltraggio: ecco perchè doveva finire così. Non vi è
conciliazione possibile fra le due classi, e tutti coloro, che la
tentano, debbono in un modo o nell'altro soccombervi. Se il principe non
mi avesse frustato, avrei dovuto diventare il vostro giocattolo agli
occhi del mondo e ai miei. Non mi conoscevate.

Tatiana si accorse di smarrirsi dal momento che Loris era rientrato sui
proprio terreno; ella rivedeva già il suo volto ridivenuto lapideo
nell'orgoglio. Allora un grande avvilimento la prese, di essere così
venuta in camera sua, a quell'ora, in veste da camera, mentre egli
sembrava non accorgersene nemmeno, immobile nella rigidezza del loro
passato. Tutto il suo spirito l'abbandonò, non si ricordò più quello che
si era detta prima di prendere quella grande risoluzione.

— Oh! Loris....

Egli le appressò vivamente il volto, Tatiana indietreggiò.

— Aspetta, gridò Loris.

— No, adesso lo sapete: non mi disprezzerete più. Volevo questo.

— Perchè vi disprezzerei? Il destino lo ha voluto. Non avete sofferto
sola; ma la vostra vita di donna non è senza compensi.

— Quali?

Egli titubò, Tatiana si avvicinò d'un passo.

— Perchè siete venuta? le chiese Loris cogli occhi scintillanti.

— Ve l'ho detto.

— Solamente?...

Ella si torse, ma Loris tornò a gridare sommessamente:

— Aspettate, è l'ultima volta forse che ci parliamo. Domani partirò:
perchè avete sposato il principe?

— Ma, non avevo altri....

— Non lo amate?

Ella rispose cogli occhi.

— Il principe vi adora: forse non sarà il solo.

Tatiana alzò la testa; il suo viso divenne nobilmente imperioso.

— Vi ha egli detto che sono stata l'amante dello Czar?

— E se lo avessi indovinato?

— Vi sareste ingannato; a voi posso dirlo, a lui no.

Loris si sentì vinto da capo.

— Come mi avete ridotta, non posso più amare: ecco perchè volevo dirvi
che ero innocente. Voi siete l'unico uomo, che abbia il dovere di
saperlo; tutti gli altri sono così lontani dalla mia vita, che non li
incontrerò mai. Il principe crede di amarmi, sa il mio segreto, perchè
ho dovuto dirglielo per la mia dignità, e non ha capito nulla. Il suo
amore sarebbe l'ultima degradazione; egli pure è infelice.

Loris, colla fronte aggrottata, rivedeva in quel momento Topine, il
solo, che in quella tragedia avesse avuto un istante di felicità
bestiale, e si pentiva di non averlo ucciso. Se quell'uomo ricomparisse
per caso agli occhi di Tatiana, ella malata ne morrebbe forse di orrore.
Una immensa pietà gli strinse il cuore. Quindi con un gesto rapido e
disperato si portò le mani alla fronte. Tatiana si appressò ancora,
toccava nuovamente il letto; la candela, agitando sulla sua faccia
bianca la propria luce, vi aumentava il turbamento. Quando Loris la
guardò, ella aveva già ripreso quell'aspetto dolcissimo, e gli stese
amichevolmente la mano.

— Adesso conosciamo tutto.

— Non partite.

Ella sorrise ritraendosi.

— Qualunque sia il mio torto, la mia vita ha uno scopo anche più alto.

— Addio, Loris, ella ripetè languidamente dal mezzo della camera.

Loris sentiva ardere delle fiamme sotto le coperte; avrebbe voluto
slanciarsi giù dal letto, ma un pudore stravagante lo ratteneva dal
mostrarsi a lei, la prima volta, in quell'atteggiamento, mentre il suo
orgoglio ricalcitrava ancora dinanzi a quella donna così tranquilla
nella propria superiorità.

Tatiana scomparve silenziosamente dall'uscio.



III.


L'indomani Loris non partì; voleva un altro abboccamento con Tatiana.

Ella invece si mostrava di una cortesia impenetrabile. Pareva che sicura
di averlo umiliato colla rivelazione della propria innocenza non si
curasse più di lui, solamente di quando in quando Loris si sentirà i
suoi occhi addosso, e ne provava al cuore come il vellico di una fiamma.

In un momento, che rimasero soli nel salone, Loris le disse
imperiosamente:

— Ho da parlarvi.

L'altra aperse gli occhi con grande meraviglia.

Loris frenò a stento un impeto di sdegno, accorgendosi di essere
giuocato.

Con suprema abilità femminile, invece di rinfacciargli l'infamia di
quello stupro, di cui porterebbe il lutto per tutta la vita e dal quale
le era venuta quell'affascinante fisonomia di martire, Tatiana gli aveva
lasciato travedere qualche resto di passione per lui; quindi era
rientrata nella sicurezza di una castità ancora più garantita dalla
malattia che dall'offesa sofferta.

Per la prima volta Loris trovava un ostacolo più forte della propria
volontà.

— Verrete stanotte in camera mia?

E già l'interrogazione era quasi un comando.

Ella si levò per andarsene.

Loris la seguì fino all'uscio fermandola brutalmente per un braccio.
Tremava; Tatiana a quel contatto sussultò, lasciando trasparire sul
volto una gioia così soave che a Loris cadde la mano.

— Tatiana...

— Che cosa volete? mormorò, rannicchiandosi voluttuosamente sotto il suo
sguardo.

— Debbo parlarvi a lungo, non qui.

— Perchè?

— Ve lo dirò.

— È impossibile. Volevo che mi conosceste innocente, ora lo sapete: mi
basta.

— Tutto è finito?

— Voi distruggeste tutto.

Loris indietreggiò, ma la passione lo risospinse ancora, e dimenticando
ogni pudore le chiese con voce tremula e una grande sfacciataggine negli
occhi:

— Siete ammalata così?...

Tatiana uscì, Loris rimase in preda ad una collera pazza. Sentiva di
essersi nuovamente innamorato di Tatiana, ora che colla rivelazione
della propria innocenza ella aveva umiliato la superbia del suo delitto,
lasciandogliene nell'anima il più irritante rammarico. Loris non avrebbe
potuto più vincerla che innamorandosi così perdutamente da apprenderle
il contagio della propria passione. Ma anche allora la donna avrebbe
trionfato di lui.

Per calmarsi uscì a piedi dal castello, nel freddo della campagna, ma
rientrò poco dopo. Tatiana canticchiava nel gabinetto di legno la grande
romanza del Tannhauser; quando vide Loris smise.

— Disturbo?

— No, ma non voglio darvi il diritto di ridere della mia voce. Scommetto
che non ammettete nemmeno il nostro grande Bortniansky, voi che non
amate la musica.

— Perchè non citate piuttosto l'autore dell'inno imperiale, l'illustre
Alexis Lvof, ribattè sottolineando sardonicamente le ultime parole.

Ma appena fatta quella villana allusione se ne pentì.

Tatiana lasciò cadere su lui uno sguardo di disprezzo. Loris di malumore
andò a gettarsi sopra una sedia; il principe gli si accostò per dirgli
di aver già mandato a Pietroburgo lo _chèque_, e che sarebbe riscosso
entro la settimana. Questo semplice discorso parve a Loris una spinta a
partire. Infatti perchè restare ancora dopo quelle dichiarazioni al
principe, mentre la sua presenza poteva attirare su quella casa pericoli
altrettanto enormi che inutili. Bisognava ricominciare il pellegrinaggio
forse verso la morte, senza quella consolatrice poesia della prima
giovinezza.

Un freddo lo colse in quel gabinetto, ove si respirava quasi a stento
per l'eccessivo calore. La sera s'avvicinava nuovamente, gettandogli le
proprie ombre sul cuore. Decise di partire.

Tatiana rideva col principe.

— Mostratemelo.

— No, no, voi siete troppo intelligente; lo trovereste ridicolo.

— Badate, Tatiana, con tutte queste riserve finirete col darvi davvero
l'aria di un pittore.

— Allora ve lo mostro.

Ella aveva in un acquerello tentato di riprodurre un effetto di neve
sopra un albero del parco, dipingendolo dalla finestra della propria
camera, chiusa per non prendere freddo. Evidentemente era stata una
fanciullaggine, ma al principe sembrava di ringiovanire in quegli
scherzi con Tatiana.

— Venite anche voi, signor Loris; forse v'intendete d'arte meno del
principe, e mi difenderete dalle sue critiche.

Prese il suo braccio, conducendolo nel proprio appartamento. In quella
luce degradante della sera passavano di camera in camera talora avvolti
nell'ombra di un cortinaggio più denso; Tatiana, sospesa al braccio di
Loris, gli sfiorava col seno il gomito; egli la stringeva furiosamente
sino a farle male, camminando a testa alta.

Quando furono nella camera alta e vasta, la luce vi era già così scarsa
che non si sarebbe potuto esaminare l'acquerello, posto sopra un piccolo
telaio da ricamo. Tatiana si sciolse ridendo dal braccio di Loris e,
mentre il principe cercava sulla parete un bottone del campanello
elettrico per chiamare un servo ad accendere i lumi:

— No, gli disse, accendo io; e vispa, leggera, corse al letto, che si
vedeva largo e bassissimo biancheggiare sul tappeto scuro. Quindi tornò
subito con una candela rosea e trasparente entro una piccola bugia
d'oro. A quella fiamma apparve la stanza molle ed elegantissima, coi
mobili biancastri di acero, sui quali il tremolio della luce accendeva
improvvise iridescenze di madreperla. Il letto nascosto da un'immensa
coperta bianca, lattiginosa, s'allargava sotto un padiglione di merletti
rialzati da cordoni più scuri, che forse di giorno erano cilestri.
Intorno al letto cinque o sei poltroncine, disposte quasi a circolo,
parevano rivelare che Tatiana ricevesse qualche volta in letto. Ma la
camera aveva pochi mobili; nello specchio di un piccolo armadio balenava
a quando a quando una lucentezza di gorgo, le pareti erano piene di
quadri, di borsine, di lavori femminili, irreconoscibili in quel
momento.

Un odore vago di fieno riempiva tutta la camera; nell'angolo sinistro,
presso al letto, l'iconostase incrostato di pietre preziose gettava
qualche bagliore.

Tatiana avvicinò la candela all'acquerello.

— Confessate, esclamò gaiamente, che a questa luce pare un albero.

— E la neve, mia cara?

— La neve è fuori, qui si scioglierebbe. Difendetemi dunque, signor
Loris, gli si rivolse vedendolo assorto nella contemplazione della
camera.

— Aspetto il giudizio del principe.

Tatiana l'aveva forse condotto in quella camera per insegnargliene la
strada?

Egli ne respirava l'aroma con un senso malinconico di amore, che gli
toglieva ogni forza. Tatiana in piedi, vicino a lui, fingendo di tenere
occupato il principe, gli rispondeva con ogni atto del corpo e con ogni
inflessione della voce.

Il principe depose sorridendo l'acquerello sul telaio.

— E così? ella si volse improvvisamente a Loris.

— Non potrei, rispose Loris, difendere il vostro quadro, che il principe
non si è degnato di chiedervi, se non pregandovi di regalarmelo come un
ricordo.

— Vorreste il mio albero? Principe, vedete, non siete stato gentile.

— Intendevo di aspettare che vi dipingeste sopra la neve.

— La vostra freddura è anche più gelida.

Ritornando, Loris nel passaggio di un uscio, baciò improvvisamente
Tatiana sui capelli; ella quasi svenne.

Quindi discorsero di Pietroburgo. Tatiana acconsentiva già al disegno
del principe, che andava arrischiando qualche parola di cura. Veramente
il governo russo era mostruoso d'incuria; nelle campagne mancava ancora
ogni servizio sanitario. Il principe con accento grave si abbandonava a
critiche, delle quali Tatiana non poteva malgrado la propria
intelligenza cogliere tutta l'importanza. Ella pensava già a
Pietroburgo, ripresa dal bisogno di vivere e di brillare dopo quella
lunga solitudine nel castello, ove si era terribilmente annoiata.

— Quando tornerete a Pietroburgo, signor Loris?

— Non saprei dirvelo, probabilmente passeranno molti anni.

— Sempre la vostra opera! Io vi ho mostrato il mio acquerello, non
potreste essere altrettanto cortese dicendo il vostro segreto? Si può
almeno domandarvi dove andrete?

— Forse in Polonia.

— Il ghetto degli ebrei.

— Potevate anche dire l'accampamento degli ultimi patriotti e la patria
dei poeti.

Tatiana, alla quale il vecchio principe aveva inspirato un grande
disprezzo per i polacchi, non insistette, ma avrebbe voluto sapere a che
cosa Loris attendesse; era già gelosa di quel mistero. Quindi ricominciò
a punzecchiarlo. Il discorso cadde naturalmente sull'amore; Tatiana
ostentava di parlarne accademicamente, come di cosa che non l'avesse mai
riguardata, domandandone notizie a Loris e al principe, i quali per aver
molto vissuto dovevano saperne qualche cosa. Loris senza confessare
alcuno dei propri sentimenti pareva non accordargli più importanza che a
tutte le altre passioni della giovinezza; il principe invece lanciandosi
nella metafisica vi scorgeva il principio essenziale e la forza più viva
della vita.

— Si crede scioccamente che oggi si ami meno. Anche sotto la stessa
corruttela elegante, troppo analizzata dai romanzieri, l'amore persiste
in tutta la propria interezza, giacchè senza di esso la sensualità non
potrebbe arrivare al delirio di tutti i sacrifici per donne, che la
coscienza non può accettare. D'altronde l'amore è sempre una
trasfigurazione di colui che si ama: perchè la bruttezza morale potrebbe
impedirla più della bruttezza fisica? Si ama non ciò che è, ma ciò che
si vede.

— Voi, Loris che cosa ne pensate? gli chiese il principe.

— Che non si ama. Il dolore umano depone contro l'amore di Dio per
l'umanità, la storia depone contro l'amore dell'umanità per sè medesima.

— Adesso comprendo che siete un nichilista, ella disse.

— V'ingannate ancora; i nichilisti pretendono di sacrificarsi per
l'amore del popolo, che non li ama.

— Chi siete voi dunque? esclamò gaiamente come non avendo capito la
profondità di quelle risposte.

Ma ella voleva ottenere da lui, con caparbietà imprudente di donna, in
faccia al principe una parola di amore; il suo bel volto si rannuvolò.

Uscì e non ricomparve che a pranzo.

Ma quella sera si mostrò in una grazia irresistibile di bambineria,
facendosi più piccola e più sciocca quasi per sentir meglio la loro
superiorità; la sua voce trovava dei trilli argentini, mentre le sue
movenze, qualche volta petulanti, lasciavano perfino dubitare della sua
sincerità.

Loris tentò di premerle il piede sotto la tavola, ma Tatiana lo ritirò.

Ella mangiò di tutto, beccando nel piatto come un uccellino; bevve anche
un bicchiere di Portho. Il principe, che la sorvegliava inquieto, le
portò via il piatto delle frutta candite.

— Ti faranno male.

— Volete esser voi il mio medico?

— Ti guarirei senza dubbio, solo che tu volessi dar retta.

— Così diventereste il mio padrone, ribattè con un adorabile sorriso.

Ma poco dopo divenne malinconica, un pallore perlaceo le si diffuse
dalla fronte. Invece di passare nel gabinetto, presero il thè a tavola;
Tatiana lo fece preparare dal cameriere.

Il principe, mostrandola a Loris con un'occhiata, parve dirgli: glielo
avevo pur detto!

Però quel piccolo disturbo passò presto. Quando furono nel gabinetto di
legno, Tatiana mise il discorso sull'appartamento del principe: era
nell'ala opposta e, fra le altre meraviglie, conteneva una bellissima
sala d'armi, che Loris aveva già vista. L'appartamento di Tatiana ne
rimaneva diviso dall'altro di ricevimento, composto di due saloni e tre
gabinetti. Tatiana s'attardava in tutta questa topografia, parlando
della necessità di alcuni cambiamenti, perchè così non si sarebbe
nemmeno potuto dare una vera festa da ballo.

Loris ascoltava leggendo un giornale; a un momento alzò gli occhi.

Ella si ritirò presto.

Loris rimase nell'appartamento del principe sino oltre mezzanotte.
Benchè si mostrasse più infervorato che mai dell'impresa, lasciava
travedere un doloroso scetticismo sul suo risultato per
quell'invincibile indifferenza del popolo. Nullameno andrebbe a Varsavia
per accontarsi con qualche grosso mercante di grano, giacchè senza gli
ebrei nulla sarebbe stato possibile; quindi bisognava far centro lungo
uno dei grandi fiumi per il contrabbando delle armi e la facilità delle
comunicazioni, troppo pericolose per terra. Egli spiegava una grande
scienza di particolari, insistendo per un aiuto da alcune forze
nichiliste.

— Quando vi metterete in campagna? gli chiese il principe, scrutandolo
con un'occhiata.

— Entro la settimana.

Erano al mercoledì.

— E voi, quando tornerete a Pietroburgo colla principessa?

— Credete che verrà? Che cosa pensate di lei?

— Nulla.

— Le avete fatto una grande impressione.

— Può darsi.

E alzò le spalle con indifferenza così assoluta che il principe tacque.

— Voi non amerete mai, Loris? gli domandò dopo una pausa.

— Come mai pensate sempre all'amore, non avendo nemmeno il coraggio di
usare di vostra moglie? Perchè non andate questa notte stessa da lei, se
tutta la vostra vita è sospesa al filo di questa speranza?

Il principe si fece triste.

— Ecco quello che voi non potete capire.

Ma Loris si era alzato:

— Lo so, voi amate quella donna; prendetela dunque. Vi resisterà, ne
morrà, voi credete, io non lo credo; e quand'anche morisse? Potrete
morire con lei, poichè non sapete viverne senza, ma almeno vi sarete
cavato questa voglia, che vi consuma. Invece non l'osate, vorreste
essere amato. A che pro? Avreste di più in questo caso?

— Come siete forte! esclamò il principe.

Poi Loris si rimise ancora a parlare di rivoluzione, e non lo lasciò che
un'ora dopo mezzanotte.

Appena entrò nella propria camera, vi rimase in piedi dieci minuti
guardando fissamente la candela.

Il suo volto esprimeva una grave concentrazione. Risolutamente soffiò
sulla candela, ed uscì nel corridoio dirigendosi al buio verso
l'appartamento di Tatiana; per arrivarvi aveva visto di non dover
passare per la camera o dinanzi alla porta di alcun domestico. Nel
salone la finestra socchiusa lasciava filtrare un po' di luce, poi tutto
tornò buio. Ricordandosi meravigliosamente la posizione di ogni mobile
non vi fece rumore, ma nel traversare il gabinetto di legno urtò in uno
spigolo; quindi s'avviò alla camera di Tatiana, mentre la memoria
cominciava a tremargli. Si sentiva battere il cuore. Gli parve di
cogliere a volo quell'odore di fieno, e di seguirlo, senza quasi
camminare più, come trascinato in un viaggio, che gli si allungava
sempre dinanzi.

Finalmente scoperse una luce lontana sul pavimento; la porta di Tatiana
era socchiusa.

Tatiana avvolta in un immenso accappatoio bianco, tutto a merletti,
stava sdraiata sopra una lunga poltrona leggendo.

Evidentemente lo aspettava. Loris s'inoltrò senza chiudersi dietro la
porta e senza guardarsi attorno; oramai ogni prudenza sarebbe stata
inutile.

Si fermò dinanzi a lei; le tese le mani, ella le prese, e si alzò. La
sua testa bionda, bella ed imperiosa, sorgeva come da una nuvola bianca,
ma pareva anche più bianca, mentre gli occhi cerchiati di nero le
contrastavano vivamente colle labbra troppo rosse.

— Sono venuto a chiedere la vostra mano, disse Loris con un suono grave
nella voce; quindi, come pentito di avergliele già prese tutte due, le
abbandonò. Restarono l'uno in feccia all'altro in atteggiamento quasi
rigido.

Loris seguitò:

— Vostro zio mi fece frustare per questo la prima volta. Voi non lo
sapevate; la mia legittima vendetta non è più che un errore, di cui
siamo entrambi innocenti. Volete darmi la vostra mano?

Tatiana gliela porse, e Loris se la portò alle labbra con un gesto
compassato; ma come scrollato da quel contatto, respinse Tatiana sulla
poltrona, cadendole ai piedi. Se non che quell'atteggiamento gli ripugnò
ancora, ed afferrando uno sgabello, sedette così vicino a lei, che le
toccava coi ginocchi i ginocchi.

— Vi ho uccisa, non è vero? Dal giorno che non vi ho voluta, gittandovi
ad un mostro per infrangere la vostra anima di donna e di principessa,
vi domino. Voi non potevate comprenderne allora tutto il perchè, ma io
non ero solo in quella rivincita; milioni di uomini e di donne si
vendicavano su voi in tale momento. Siamo sopravissuti entrambi, eccomi
dinanzi a voi.

Tatiana lo ascoltava colle labbra frementi.

— Che vi resta ora della vita? Sapevo che questa notte mi avreste
atteso, perchè una spiegazione è necessaria: parlate.

Ma Tatiana non ne aveva la forza. Benchè preparata a quella scena, Loris
l'aveva presa così dall'alto, che ella non poteva ancora ritrovarvisi.

— Mi aspettavate, Tatiana?

— Sì.

— Io non volevo pensare più a voi dopo quel giorno, e nullameno eravate
sempre come una sbarra sulla mia strada. Adesso ci urtiamo ancora; sarò
io l'infranto questa volta? La vostra vita esige una rivincita, se la
mia idea non sarà ancora più forte della fatalità, che ci spinge
nuovamente l'uno sull'altro. A voi sta il decidere: quando m'avete poco
fa data la vostra mano, avete voluto prendermi? Qualunque siano le
conseguenze di quest'incontro, voi potete chiedermi tutto. Nessun uomo
potrebbe tenervi simile linguaggio.

Ella arrovesciò la testa sulla spalliera della poltrona, colle braccia
molli, sfinite lungo i fianchi, in una inesprimibile prostrazione
d'amore. Allora Loris tacque in preda ad una strana confusione di aver
saputo parlare così, mentre venendo in quella camera ignorava quello che
avrebbe detto; ma si sentiva l'anima inesprimibilmente alleggerita.

Una freschezza di primavera gli scendeva per le vene.

Tatiana si staccò languidamente dalla poltrona, gli prese una mano e,
stringendogliela affettuosamente, gli disse con accento di purezza
verginale:

— Lo sapevo che dovevate essere così: Dio è buono!

Quindi prosegui:

— Io vi ho amato dopo; prima, me ne sono accorta, non era amore. Ma dopo
eravate dentro di me. Non ho nemmeno tentato di reagire: avrei potuto
dimenticare anche attraverso la malattia il marchio, che mi avevate
impresso, ma non smuovervi di mezzo al cuore. La mia vita si svolgeva
intorno a voi. Ero sicura che ci saremmo ritrovati. Chi siete ora? Non
lo so.... siete qui dinanzi a me, come vi ho sempre visto nel mio
avvenire, ai miei ginocchi, voi, davanti ai quale io non sono nulla.

Loris infatti era scivolato involontariamente ai suoi piedi; Tatiana gli
buttò le braccia al collo.

— Voi mi amate, Loris: era impossibile che Dio vi permettesse di non
amarmi dopo quello, che tentaste contro di lui. La sua giustizia è
sempre migliore dei nostri cuori, che s'ingannano spesso senza mentire.
Ora sono felice.

Queste ultime parole passarono sulla bocca di Loris come un effluvio.
Cinse Tatiana colle braccia e, sollevandola robustamente come una
bambina, la portò sul letto. La vasta camera restava in una penombra
misteriosa, rischiarata appena dalla candela del tavolo, sul quale
Tatiana aveva deposto il giornale. Il letto bianco sembrava anche più
grande.

Tatiana vi si adagiò confidenzialmente sugli origlieri, tenendo sempre
per mano Loris, che si era seduto sulla coperta coi piedi sul tappeto.

Ella pareva in una calma così stravagante, quasi di moglie col marito
dopo una lunga abitudine di amore, che egli stesso ne subiva
l'irresistibile ascendente.

Poi Tatiana chiuse gli occhi nella felicità di quel sogno; al suo tenue
respiro si sarebbe creduto che dormisse.

A Loris parve di vaneggiare. Quella beatitudine appassionata ed
innocente, della quale non aveva nemmeno mai sospettato la possibilità,
lo rigenerava. Tatiana era la prima donna, che incontrava nella vita;
tutte le altre non erano state che femmine. Allora un lampo sinistro lo
abbarbagliò, e pensò al principe, che adorava Tatiana con una passione
inesprimibile a tutte le parole; quell'uomo era un altro Topine, il
secondo mostro del loro dramma, nel quale egli si spezzerebbe. La mano
della morte gli strinse il cuore così violentemente, che Tatiana, desta
da quel soprassalto, aperse gli occhi, e si sollevò sulle reni per
interrogarlo.

— Come sei bello, mio Loris! esclamò, accarezzandogli il volto come ad
un bambino. Adesso vattene: ho bisogno di riposarmi per questa felicità.
Non ne voglio morire.

E pigliandogli una mano lo fece alzare; egli ubbidì fanciullescamente.
Tatiana gli baciò la mano, quasi come avrebbe fatto con quella della
propria madre, ma tirandoselo leggermente contro, gli soffiò in un
orecchio:

— Te lo dirò....

E tranquilla, beata, bianca nella veste e sul letto bianco come la neve,
chiuse gli occhi.



IV.


— Ecco il vostro _chèque_ sulla banca Fitz di Varsavia, disse il
principe a Loris: ho già fatto attaccare la vostra droiska.

Era il sabbato, l'ultimo giorno della settimana, che Loris si era
assegnato per rimanere al castello. Il suo sguardo cadde imprudentemente
su Tatiana, che a quelle parole aveva impallidito aprendo smisuratamente
gli occhi, ma Loris per impedire al principe di accorgersene lo trasse
alla finestra, ponendosi fra lui e lei. Nullameno anche il suo volto era
agitato.

Il principe sembrava scrutarlo.

— Sono sospettato?

— Si.

— Avete notizie da Pietroburgo?

— Dal Comitato; gli studenti hanno parlato di voi.

Loris si sentiva internamente tornare di ghiaccio; un momento perdette
di vista il principe per rivolgersi tutto al nuovo pericolo, che veniva
a destarlo da quel breve sogno di amore. Non pensava già più a Tatiana.

Il principe seguitò a bassa voce:

— È stata notata la mia uscita dal teatro, non altro su me. Invece lo
stalliere, presso al quale tenevate la droiska, ha dato i vostri
connotati, e concordano colle indicazioni di coloro, che vi hanno
conosciuto a Mosca.

— Infatti deve essere così.

Parlavano così piano che ella non poteva intenderli.

— Partirò.

— Subito?

Loris alzò il capo.

— Vi pentireste già di avermi ospitato?

— Non mi perdonerei di farvi arrestare in casa mia.

— Il pericolo non può essere così urgente.

— Allora restate.

E un sorriso enigmatico commentò quella risposta troppo breve.

Un dubbio aveva ad un tratto illuminato la mente di Loris, che il
principe mentisse per cacciarlo di casa, sospettando de' suoi amori con
Tatiana. Involontariamente si voltò verso di lei, seduta sulla poltrona
ed in preda ad una visibile commozione; ma non ebbe nemmeno il tempo di
pentirsene, che il principe proseguì con voce fredda:

— Se intendete di restare ancora qui, manderò via Tatiana; ella è troppo
cagionevole di salute per potersi trovare impunemente alla scena
spiacevole di una fuga o di arresto. Credo che voi stesso sarete di
questa opinione.

Nessuna obbiezione era possibile; il principe gli voltò le spalle per
andarsene.

— Aspettate, disse Loris alzando la voce: parto.

Il principe si rivolse colla maniglia dell'uscio in mano, ma il suo
occhio atono non espresse nulla.

Tatiana, che aveva abbassato gli occhi, mentre egli le passava dinanzi,
ascoltò allontanarsi i suoi passi; poi scattando dalla poltrona si
slanciò ai collo di Loris.

— Bada! egli susurrò respingendola.

Ella aveva il viso sconvolto.

— Tatiana, disse Loris severamente per richiamarla all'impero di sè
stesso: parto.

— Perchè?

— È inevitabile.

— Perchè subito?

— È inevitabile.

Ella sentì in queste parole la fatalità.

— Vengo con te.

— È impossibile.

— Ebbene, verrò dopo.

Parve loro di udire un passo nell'altra camera,

Tatiana balbettò rapidamente:

— Torna a mezzanotte, verrò ad aprirti dalla porticina della serra.

— Sì.

Loris ebbe appena il tempo di ricomporsi, che il principe era già sulla
soglia del gabinetto; la sua faccia si conservava sempre così
impassibile.

— Ho ordinato a Dmitri Soudaieff, il secondo cocchiere, di accompagnarvi
sino a Wyasa.

Loris lo trasse di nuovo in disparte.

— Avete fatto male; nessuno dei vostri servi deve seguirmi. Sarà già
troppo che mi abbiano conosciuto qui per dieci giorni, se dovranno
essere interrogati. Lo credete probabile?

— Quanto voi.

Loris avvampava di collera davanti a quella freddezza impenetrabile,
dietro la quale indovinava un proposito geloso. Ma bisognava compiere
correttamente la ritirata per non mutarla in fuga; quindi cangiando tono
gli chiese:

— Dove mi scriverete?

— Voi stesso ora non sapreste indicarmelo: vi fermerete dove potrete,
assumendo il nome e la fisonomia che meglio vi converrà; poi mi
scriverete. Alterate la calligrafia, e non firmate nemmeno coll'ultimo
nome.

— È giusto, mormorò Loris accorgendosi di essere battuto.

— Farete anche benissimo disfacendovi dei cavalli e della droiska a una
delle prime tappe.

— Voi pensate a tutto.

— A tutto, ribattè il principe con strana inflessione di voce, anche a
quello, cui non si vorrebbe pensare.

Era impossibile resistere. Loris si volse a Tatiana domandandole con un
inchino il permesso di andare nella propria camera a mettersi la
pelliccia, per ritornare a salutarla. I due coniugi rimasero soli. A
Loris sembrava di agire sotto l'impulso di un sogno. Nessuna idea gli
rimaneva chiara nella mente, nemmeno quella che il principe conoscesse
il suo amore con Tatiana, e lo cacciasse di casa. Si mise rapidamente la
pelliccia e tornò nel gabinetto. Aveva bisogno di far presto, di essere
fuori, per non tradirsi.

Il principe e la principessa erano ancora nel medesimo atteggiamento,
come se non avessero parlato. Quando Loris entrò, Tatiana per frenare
uno scoppio di pianto s'irrigidì così duramente che non potè muoversi.
Loris invece andò verso il principe disinvoltamente: solo nella voce gli
restava un certo tremito.

— Ci rivedremo alla guerra, caro principe, gli susurrò a bassa voce con
accento quasi allegro.

— Forse.

— Ricusereste di battervi?

— Io non posso più dare che una battaglia, ma non la perderò.

Quindi andando verso Tatiana, le disse con voce meno cupa:

— Il signor Loris deve partire improvvisamente, mia cara.

Loris le tese la mano; ella gli mise negli occhi uno sguardo luminoso, e
levandosi con improvvisa energia gli prese il braccio.

— Venite dunque in camera mia a prendere quell'albero che vi ho
promesso, e fissò così alteramente il principe che questi capì di non
poterli seguire. Un pallore cinereo gli si diffuse sulla faccia, le
labbra diventate bianche gli tremarono; ma furono pochi istanti. Loris
tornava già sorridente col rotolo dell'acquerello in mano.

— Arrivederci, caro principe; non mi accompagnate, l'aria è troppo
rigida fuori.

Il principe gli allungò la mano.

— _À la guerre comme à la guerre_, esclamò Loris con gaiezza che
all'altro parve insultante.

Pochi minuti dopo il principe udiva tintinnire la campanella della
droiska lanciata vigorosamente a tutta carriera. Tatiana si ritirò nella
propria camera. Il pomeriggio era cominciato da poco; fuori, nel sereno
della giornata freddissima, la luce della neve abbarbagliava. Il
principe rimase lungamente alla finestra in una meditazione, che di
quando in quando gli traeva sul volto nuvole fosche. La sua veste da
camera di seta cinese, a larghi fiorami vividissimi, rendeva col
contrasto anche più malata la sua fisonomia di vecchio; portava in testa
un berretto ricamato, dono di Tatiana.

La voce di questa lo riscosse.

— Siete ancora lì.

Nel suo accento non v'era che una curiosità benevola. Aveva mutata la
veste per un abito di un rosso cupissimo a merletti neri, corto che le
lasciava scorgere le scarpine dal tacco alto, di pelle bronzata, e
scollate. Una sottile freccia color d'oro le saliva per le calze di seta
nera perdendosi sotto le gonnelle.

Sedette negligentemente e prese un giornale.

— Che avete dunque quest'oggi? gli domandò.

Il principe sentì l'agguato in questo attacco; invece di rispondere
venne a sedersele vicino, ma entrando così nel raggio della sua bellezza
tutta la sua risoluzione si sciolse. Non gli rimaneva più che un'idea
limpida ed irresistibile, la necessità di un'ultima spiegazione con
Tatiana, però ella stessa evidentemente vi si era preparata.

— Quando vorrete partire per Pietroburgo? le chiese scioccamente, non
sapendo come incominciare.

— Ma, non lo so; l'inverno non è che a mezzo, avremo sempre tempo di
arrivare agli ultimi balli. Resterete ancora al castello?

— Aspetto i vostri ordini.

— Sapete pure che per voi non posso averne, amico mio, e la sua voce era
dolce come nei momenti più buoni della loro pace.

Egli ne provò un'immensa amarezza.

— Non vorrete averne mai per me?

Tatiana meravigliata gli rispose con un sorriso. Allora il principe
proruppe: s'accorgeva di perdersi, ma la passione lo trascinava.

— Perchè finalmente? esclamò. Io vi ho amata sino dal primo giorno, come
nessuno potrà mai amarvi; voi siete sempre rimasta egualmente
insensibile, quasi fra noi vi fosse uno di quegli abissi, che solo il
delitto può scavare. Nessuna grandezza d'animo basta dunque per trovare
grazia ai vostri occhi?

— Vi credete grande? ella ribattè con calma irritante. Può darsi che
abbiate ragione, io non saprei giudicare della passione di cui parlate,
però confessate che grande non lo foste sempre. Per esempio, quando
veniste a dirmi che ero l'amante dello Czar, non mostraste in
quest'accusa molta grandezza.

— Non vi difendeste.

— Nè mi difenderò. Chiedendo la mia mano, mi offriste cortesemente di
diventare la vostra vedova; più tardi vi ho offerto, e ve lo offro
ancora, di divorziare: di che cosa vi lagnate? Se io sono l'amante dello
Czar...

— Non lo siete.

— Ora non lo credete più, e sia; probabilmente crederete fra non molto
che sono l'amante di un altro.

Il colpo era così diritto, che il principe barcollò.

— Se lo credessi....

— Sentiamo.

— Neghereste anche questa volta di difendervi?

— Provate ad accusarmi.

Tatiana si conservava calma, senza quella imperiosità abituale,
accorgendosi di avere il sopravvento; quindi colla temerità della donna
arrischiò tutto per tutto.

— Perchè è partito così improvvisamente il signor Loris? Voi, che siete
il suo amico, dovete saperlo.

Egli la guardò, quasi sbigottito; ma Tatiana precipitò l'ultimo attacco.

— Ah! è dunque il signor Loris, che io amo? Lo credete?

— Tatiana...

— Perchè questa volta non osate dirlo? Vi pare che sarei discesa troppo
bassa, avendo cominciato dallo Czar? Eppure potreste dirlo francamente,
perchè non siamo marito e moglie, e la sua voce era ritornata stridula.
Se non volete divorziare, non so per quali ragioni, siamo egualmente
liberi; nè io mi sono mai interessata alla vostra condotta, nè voi
potete sindacare la mia.

— Vi sentite libera, assolutamente?

— Assolutamente. In faccia a voi il mio onore di donna è salvo. Quando
dovetti farvi quell'orribile confessione, vi offersi prima il divorzio:
potevate accettarlo, e siccome mi sarei assunta qualunque torto vi fosse
meglio piaciuto, il vostro matrimonio di tre mesi con me, non sarebbe
stato per voi una grande disgrazia. Sposare la principessa Tatiana
Neginsky non poteva essere un disonore per alcuno, aggiunse con sovrana
alterigia.

Il principe ne convenne con un gesto, Tatiana parve fare uno sforzo.

— Allora vi cedetti; era lo scotto dell'inganno, nel quale vi avevo
tratto, poi avevate creduto nobilmente alla mia confessione.

— E ora? egli esclamò con voce dolorosa.

Ella finse di non comprendere, accomodandosi una piega dell'abito.

— Tatiana, non mi amerete mai?

— Mai.

— Ne amerete un altro?

— È possibile.

Il principe si alzò in piedi, fremendo.

— Voi scherzate con una passione che non conoscete. È vero, siete
libera: il nostro matrimonio è una apparenza, che non mi dà nessun
diritto; poi le donne, come voi, vanno conquistate. Ma la passione ha
dei misteri anche per chi ne è la vittima: badate! Io vivo da molti anni
nella vostra ombra, so tutto quello che soffrite, tutto quello che
desiderate, tutto quello che amate. Non s'inganna una passione come la
mia; non potete formare un pensiero nella mente, che io non lo senta
subito nel cuore.

— Diventereste anche voi spiritista?

— Non insultate, Tatiana: la mia passione merita almeno il vostro
rispetto. Io vi amo col delirio del naufrago; non voglio sapere nulla,
non voglio discutere. Sì, siete libera, potete aver amato lo Czar, se
egli ha potuto piacere alla vostra anima: in questo caso avrebbe
conquistato un impero migliore di tutte le Russie. Ma voi non lo avete
amato, lo so; egli non poteva comprendervi, non basta per questo essere
Czar. Sentite, Tatiana: io non amo che voi, voi sola, non vivo che di
voi: non ho più che questa speranza, la mia vita è vuota senza di voi.
Ecco come sono: non posso uccidermi perchè vi veggo, e non posso vivere
senza.

Le parole gli mancarono improvvisamente. La sua faccia convulsa era
diventata più brutta, uno schianto di tosse gli scrollò il corpo magro
entro quella lussuosa veste da camera. Egli se ne accorse e si avvilì,
ma nell'orgasmo di una risoluzione suprema non potè arrestarsi.

— Bisogna che me lo diciate subito. Vi lascierò poi tutto il tempo che
vorrete, perchè credo alla vostra parola. Tatiana, siate mia.

Ella si alzò.

— No, le gridò con nuovo impeto, ascoltatemi, sarà magari per l'ultima
volta. Possibile che non comprendiate il mio stato! Siate mia, vi
porterò più alto dello Czar, perchè vi è qualche cosa in Russia, davanti
alla quale lo Czar trema, e che può da un giorno all'altro rovesciare il
suo trono. Non ho bisogno che di voi. Non potete amarmi, ebbene lo
so.... Sì, aggiunse rabbiosamente: non sono amabile, avete ragione. Non
lo sono! Lasciatevi amare, siate l'elemosina che mantiene la mia vita, e
Dio, voi che ci credete, vi compenserà. No, no, ascoltatemi ancora. Non
ho nessun diritto, non chiedo nulla, non lo merito.... ma, solo quando
vorrete! Avrete i vostri giorni buoni: quando avrò molto sofferto,
sofferto come voi sola potete ricompensare, verrò ai vostri piedi; non
mi respingerete. È orribile quello che vi chiedo, orribile per voi che
non mi amate, per me che vi amo. Lo so, ma è così: non posso, non
posso....

Sotto quella bufera ardente Tatiana non provava che un freddo di orrore,
come quella volta nella caverna, quando aveva incontrato lo sguardo
bianco di Topine fisso sul proprio. Involontariamente indietreggiò; il
principe ebbe un gesto delirante.

— Ah! ella gridò con ribrezzo così vivo, che l'altro si arrestò
immobile.

Tatiana si mosse verso la porta.

— Una parola, mormorò il principe con voce strozzata.

Ella si rivolse.

— Dunque non volete.... badate di non avervene a pentire.

— Minacciate?

Egli era tremendamente cupo, Tatiana tornò indietro. I loro sguardi
s'incontrarono; ella sfavillava d'orgoglio, i capelli biondi sembravano
farle sulla testa un'aureola sulfurea.

Il principe chinò la fronte con un gemito.

— Le vostre ultime parole sono vili, se avete inteso con esse di
mettermi paura. Le donne, seguitò dopo una pausa con un sorriso
micidiale di disprezzo, non si conquistano così.

Egli la fissò con uno sguardo, che la fece rabbrividire.

— E voi avete torto di pretendere, che si possa vivere così.

Tatiana quel giorno si fece un dovere di comparire a pranzo, fingendo di
aver tutto dimenticato. Il principe, che vi sarebbe mancato volontieri,
dovette per imitare il suo contegno comprimere gli spasimi del cuore: in
un'ora era invecchiato di molti anni. Se Tatiana non fosse stata
innamorata, avrebbe avuto pietà di quella passione ma l'egoismo assoluto
dell'amore le toglieva perfino di comprenderla: però nessuno dei due,
malgrado ogni ostentazione di disinvoltura, potè mangiare.

Invece di ritirarsi subito dopo il pranzo, Tatiana passò con lui nel
gabinetto di legno e vi sostenne una lunga conversazione sullo
spiritismo.

Il principe non ostante la propria incredulità aveva anche su tale
questione, ridivenuta così ardente per tutta l'Europa in questi ultimi
anni, una vasta cultura, quindi ella con grazia squisitamente femminile
insisteva per farlo parlare. Sembrava voler sapere come la grande
filosofia considerasse quel problema, che la grande scienza aveva da un
pezzo cessato di sdegnare.

A poco a poco il principe cedeva ad un'altra speranza; forse Tatiana non
era al tutto inaccessibile, perchè le passioni vere finiscono per
diventare contagiose come tutte le verità.

Il suo sguardo espresse luminosamente questa fede, ma allora l'altra
tornò rigida.

Quindi s'alzò per ritirarsi.

— Andate a letto?

— Sì, sono stanca.

— Io non posso più dormire: voi avete ucciso in me il sonno, come ha
detto Shakespeare.

Appena nella propria camera Tatiana fu ripresa dall'emozione, ma
dominandosi si fece spogliare da Polemska, la vecchia cameriera, per
mettersi subito a letto. A rovescio di molte dame, ella non aveva mai
concessa alcuna intimità a quella donna, che l'aveva veduta nascere: e
non ne stimava il carattere, accettandone i servigi piuttosto per lunga
abitudine che per elezione. La vecchia temeva la padrona.

Quando Tatiana fu coricata, Polemska le accomodò il servizio da thè
presso il letto, sopra un piccolo tavolino intarsiato, e si ritirò
mutamente. Tatiana non aveva mai voluto domestici nel proprio
appartamento; d'altronde era tutto così pieno di bottoni elettrici, che
avrebbe potuto suonare comodamente in qualunque posizione si trovasse.
Tutti nel castello sapevano che di notte la porta del suo appartamento
non era mai chiusa a chiave: ma quella sera ella vi pensò con rammarico.
Quindi l'orgasmo la riprese poco dopo così vivamente che dovette
rivestirsi. Trasse dall'armadio la più elegante delle proprie vesti da
camera, in seta cilestra, marezzata, e foderata di raso bianco: davanti
e di dietro, dalla sommità del seno e delle spalle, ne cadeva come una
lunga stola, raddoppiata e trapunta di sottilissimi fili argentei. Le
maniche larghe e lievi lasciavano travedere le braccia fin sopra al
gomito.

Si mise calze e pianelle cilestrine. Voleva essere supremamente bella.
In quello studio paziente occupò più di un'ora; il suo volto pareva
tranquillo, ma tratto tratto le mani le tremavano.

Quando quella lunga acconciatura fu terminata, scoperse da un cofanetto
giapponese lo scrigno delle gioie, e si mise al collo un magnifico
cordone di perle nerastre; per un momento dubitò di insinuare fra i
capelli uno spillone incappellato di un grosso diamante, perchè vi
brillasse come una stella, poi si pentì. Invece si spruzzò col
polverizzatore i ricci sulla fronte di una tenue essenza di fieno.

Era pronta, il cuore cominciava a battere. Allora un senso di pudore la
sorprese; il letto disfatto le parve volgarmente sguaiato. Sorridendo
seco stessa si pose a rifarlo, forse per la prima volta in vita sua, ma
la cosa le riuscì meno facile che sulle prime non avesse immaginato; nel
mezzo vi restava sempre una piccola depressione, e l'immensa coperta,
ammassandosi sul tappeto, vi faceva molte pieghe antipatiche.

Poi sedette attendendo.

Mancava un'ora a mezzanotte, Loris non poteva mancare.

Ella lo amava perdutamente, giacchè nelle due notti, che Loris era
venuto a trovarla in quella camera, aveva finalmente provato l'amore
dell'uomo, quel mistero, cui la sua anima anelava da tanti anni
attraverso l'orrore della doppia violenza di Topine e del principe. Ella
ne rimaneva ancora vibrante. La malata sensibilità del suo temperamento,
che poche carezze bastavano a prostrare, le faceva riassaporare dopo,
lungamente, l'effimera violenza di quelle gioie, nelle quali le pareva
sempre di morire; mentre Loris, bello come un arcangelo, la stringeva
furiosamente fra le braccia, o allentava d'un tratto la stretta,
vedendola imbiancarsi nel volto colla fisonomia di un agonizzante.

Tatiana era felice; seguirebbe Loris dove e come vorrebbe. La sua
posizione col principe era nettissima, perchè anche non amandolo ella lo
stimava abbastanza per saperlo incapace di una volgarità e di negarle il
divorzio, qualora glielo avesse reclamato. Ma Tatiana non avrebbe mai
osato chiedere a Loris di sposarla. Sentiva nella sua anima un immenso
segreto, una grandezza, della quale non provava che il freddo anche nei
momenti più soavi del loro abbandono. Loris non s'obliava mai. Ella lo
credeva nichilista, la più terribile originalità allora conosciuta nella
Russia, inorgogliendo generosamente del proprio amore, che potrebbe un
giorno farla diventare sua complice.

Colla foga delle anime appassionate Tatiana aveva già rinunciato
nell'amore di Loris a tutti i pregiudizi e le abitudini della propria
classe per sposare quella rivolta, che aveva inspirato tanti martiri e
tanti eroi. L'eccesso medesimo della vendetta, praticata su lei da
Loris, le dava le vertigini dell'ammirazione, pensando di che cosa un
uomo simile potrebbe essere capace in una guerra. La sua fantasia lo
paragonava a Napoleone, alto sui popoli e sui re, con quel profilo di
aquila e quel pallore tragico, che nessuna emozione aveva mai potuto
alterare. Ella timida e malaticcia, cresciuta come un fiore di serra ed
ammirata sino allora come un fiore di salone, era colta alfine dal gran
vento della steppa, ed abbandonandovisi colla dolcezza di una paura
quasi confidente errava già sotto i cieli frigidi di serenità e sulle
pianure scintillanti di neve, mentre le città dileguavano all'orizzonte
come una macchia nerastra, e il sole riapparendo all'improvviso la
avvolgeva nella pompa dei propri raggi.

Poco prima della mezzanotte accese una candela entro una piccola
vaschetta di cristallo, si raccolse la veste in pugno, e discese
coraggiosamente.

Per la scaletta di legno, che dall'ultimo gabinetto del suo appartamento
comunicava col vestibolo presso le cucine, non incontrò alcuno; tutti i
servi erano ritirati, ma incontrandoli avrebbe risposto al loro inchino
ossequioso senza dire una parola e senza tremare. Dal vestibolo infilò
tre grandi sale, una volta occupate dall'amministrazione, adesso vuote
da parecchi anni, quasi senza mobili. Tatiana aveva detto più volte di
volerne fare tre saloni da ballo, poichè finivano alla serra, ma nemmeno
questa era gran cosa. Si componeva di un rettangolo a vetriate, pieno di
piante, senza disegno alcuno di architettura, addossato all'ala del
castello come un ripiego posticcio e non bello.

Quando Tatiana v'entrò, il calore della stufa e l'umidità aromatica
delle piante le tolse quasi il respiro; istintivamente, parendole per la
trasparenza delle vetriate di essere all'aperto, riparò sotto una manica
la vaschetta della candela. I sassolini dei viali, fra i vasi,
stridevano sotto il suo passo. Tatiana non degnò la serra nemmeno di uno
sguardo, non vide alcune piante mostruose, dai rami, che parevano
braccia stese verso di lei; non badò ai bagliori bianchi di certi fiori,
al silenzio anelante, che opprimeva tutta quella folla vegetale.

Arrivò difilata all'usciolo chiuso dall'interno, e l'aperse.

Loris, nascosto da due ore dietro un grosso abete, entrò con un buffo di
aria così rigida che quasi la rovesciò; egli stesso rinchiuse la
porticina. Tatiana, senza parlare, risalì alla propria camera. Quella
freddezza le era venuta da un subito senso di sconvenienza
aristocratica, ricevendo così, a quell'ora e a quel modo, colla viltà di
un sotterfugio l'uomo amato.

Ma appena nella propria camera la confidenza le tornò.

Loris aveva la faccia livida e chiazzata pel freddo sofferto; sul bavero
della pelliccia il suo alito si era congelato in sottili cristalli.
Tatiana gli si appressò, e umiliandosi colla inimitabile grazia della
gran dama a fargli da cameriera, gli trasse la pelliccia, che andò quasi
a nascondere sopra una sedia dietro l'armadio. Poi lo condusse ad una
poltrona, e gli si fermò dinnanzi per attendere un bacio.

L'altro sembrava accigliato.

— Hai chiuso a chiave l'appartamento?

Tatiana sembrò meravigliata.

— Perchè? non verrà, sono libera.

Loris la contemplò senza che lo spettacolo della sua voluttuosa eleganza
gli traesse un'onda di sangue al viso. Tatiana sedette, quasi
devotamente, davanti a lui.

Loris le prese la mano.

— Perchè sei partito mio Loris? gli domandò accostandogli sempre più la
fronte.

— Tu non puoi saperlo, d'altronde non lo capiresti.

— Ma io ti amo; capirò sempre tutto quello che vorrai.

— Adesso non voglio che tu capisca, egli rispose con un sorriso.

Ma Tatiana, che aveva un bisogno insopportabile di abbracciarlo, gli si
gettò al collo, quasi mordendolo a più riprese; così seduto egli
barcollò sulla poltrona, e per resistere dovette tirarsela sulle
ginocchia. Ella felice raggiò.

— Non ami che me, Loris? Non hai mai amato che me, mi amerai sempre?

— Quante cose, bimba mia!

— No, dimmelo subito.

Ma Loris restava aggrondato. Tatiana afflitta si levò dalle sue
ginocchia, e si rimise a sedere vicino a lui; una dolorosa umiliazione
gli apparve sul volto a quella sua impotenza di donna. Poi Loris
riprese:

— Tu credi che non verrà? Verrà.

— Qui! nel mio appartamento? ella replicò con quell'accento altero, che
era uno dei fascini della sua bellezza.

Loris accennò di sì col capo.

— No, sono libera. Oggi stesso, dopo che tu eri partito, ce lo siamo
reciprocamente ripetuto. Egli non è mio marito: abbiamo associato
inutilmente i nostri due nomi, domani possiamo dissociarli.

— Verrà, ti dico. Tu non comprendi la sua passione, egli ti ama sino
alla morte.

— Mi ama dunque più di te? ribattè con una interrogazione sfolgorante.
Vuoi che vada a chiudere la porta dell'appartamento?

— È inutile.

E ricadde in una meditazione.

La faccia di Loris diventava sempre più fredda. Pensava di aver fatto
male a tornare nel castello, dove il principe lo sorprenderebbe fra
poco, poichè sapeva già tutto indubbiamente. Forse lo aveva visto
entrare dalla porticina della serra; era impossibile che un uomo del suo
carattere, e con quella sua passione, si fermasse a mezzo. Quanto
tarderebbe a comparire? Loris se lo chiedeva con freddezza misteriosa
anche per lui stesso. Dal momento che aveva promesso a Tatiana di
ritornare nella notte, gli era parso di sentire come spaccarsi una frana
nella propria vita: non era più possibile andare avanti. Amava egli
Tatiana? Se non l'amava, era tornato solo per vanità, perchè ella non lo
credesse così pauroso da arrestarsi davanti a simile pericolo? Ma così
volgare amor proprio che cosa aveva di comune colle necessità politiche
di quel momento, e colla tremenda impossibilità, alla quale si era
educato da sè medesimo tanti anni per assorgere al tipo ideale di
capo-partito. Un rimorso amaro e velenoso gli zampillava dalla
coscienza. L'ora della debolezza era suonata anche per lui, come per
tutti gli uomini, anche i maggiori, quell'ora che li uguaglia ai più
piccoli, e sottomette i loro più alti disegni al capriccio del più
meschino fra la gente, o del più bestiale fra i piaceri. Adesso Tatiana
lo dominava. Ella lo aveva voluto in quella camera, sotto la vendetta
del principe, certo non credendovi, per una fantasia erotica di donna
nei primi giorni di un primo amore; ed egli era venuto come uno scolaro
vanaglorioso e ridicolo, invece di gettare quella donna ai pruni della
propria memoria per ritrovarne poi molti anni dopo qualche brandello.

— Loris, disse Tatiana, tu sei nichilista.

— No, è troppo poco.

L'altra tremò.

— Che cosa sei dunque?

— E tu che cosa hai voluto, facendomi ritornare qui?

— Te ne penti?

— Non mi pento mai.

— Volevo chiederti, ella mormorò finalmente, dove mi avresti aspettata.

— Sarebbe stato impossibile: egli rispose, come se tutto fosse già
finito, quello che stava per accadere.

Si levò, ma la sua fronte ridivenne minacciosa.

— Hai voluto che ti ami.... e sarà forse la legge comune! ma bada di non
avere voluto troppo. Al di sotto di questo amore, che ubbriaca tutti,
uomini ed animali, vi è un'altra legge, che sospinge le migliaia delle
generazioni ad una meta oscura, lasciando loro appena il tempo
necessario a riprodursi. Quella è la legge vera, che crea i popoli e li
distrugge a pro di una civiltà sempre più alta. In quella legge non si
ama, perchè ogni progresso si è ottenuto solo colla morte. Io volevo
essere l'uomo di quella legge: avevo raccolto tutti i dolori, mi ero
nutrito col sangue di tutte le piaghe. Tu hai voluto che io ami.

— Ma io ti amo, Loris.

— Il tuo amore non è che un riverbero di neve, che si squaglia nel sole:
domani non amerai più.

Ella si nascose il viso fra le mani.

— Tu non puoi nemmeno comprendere tutta l'ironia della tua vittoria di
donna.

— Se tu non sei nichilista, vorresti però fare una rivoluzione: io
posseggo tre milioni di rubli, prendili. Adesso non hai più il diritto
di ricusarmi. Poi saltandogli al collo dalla gioia esclamò: l'ho
trovata, l'ho trovata!

Così barcollando caddero sul letto. Tatiana aveva l'occhio morente,
Loris la baciava sul collo; ella lo teneva stretto con tutte le forze
senza lasciargli modo di muoversi, e parlandogli all'orecchio.

— Se no, no, mormorò Tatiana, alzando leggermente la voce.

Egli le rispose con una stretta più convulsa, ma rivolgendo
istintivamente il capo verso l'uscio, diede un balzo irresistibile.

Il principe era in piedi, dinanzi alla porta, con una rivoltella in
pugno. Da quanto tempo li spiava?

— Dio! urlò Tatiana inorridita.

A questo nome Loris si senti passare una tenebra sugli occhi:
l'espiazione lo sorprendeva nell'atteggiamento medesimo del delitto, da
lui commesso sopra Tatiana. Eppure lo sapeva, gli sembrava di averlo già
previsto. Quella vasta camera, annegata in una molle ombra femminile,
diventava l'arena del suo ultimo scontro, improvviso ed inevitabile
malgrado tutti i disegni della sua ragione. Si ricordò di aver lasciato
il revolver nella tasca interna della pelliccia, non aveva un'arma,
nulla intorno poteva diventarlo.

Il principe lo guatava.

Sotto la fissazione di quello sguardo mortale sentì scattare
violentemente tutte le proprie energie, quasi nella stessa suprema
emozione dei condannati all'apparire del patibolo. La sua immensa guerra
sociale si riassumeva in quel duello senz'armi.

Il principe s'inoltrò; Loris mosse verso di lui, ed incrociando le
braccia attese provocantemente.

L'altro, insensibile a quella sfida, camminava colla rigidità di uno
spettro.

— Ebbene! chiese Loris con accento di comando.

Tatiana dal fondo della stanza si slanciò innanzi a lui, gli cinse il
collo con un braccio, protendendo l'altra mano per respingere il
principe.

— Chi siete, che cosa volete?

Un riso stridulo, quasi meccanico, fu la risposta.

— Scostatevi, signora, non si tratta di voi; e l'atto di Loris fu così
violento, che Tatiana traballando si abbattè sopra una poltrona.

— Quest'uomo vuole uccidermi: vediamo.

— Ti ucciderò, rispose il principe con voce sorda.

— Mi assassinerete.... è il diritto dei deboli. In una lotta con me
sareste ucciso.

Il principe ebbe un sorriso di scheletro, ma Loris, invece di restargli
superbamente rigido dinanzi, indietreggiò di qualche passo, prese una
poltrona, e vi si sdraiò squadrandolo con aria dileggiatrice. Il
principe sorpreso da quella manovra si arrestò, nell'occhio di Loris
passò un lampo. Il principe non era che a tre passi, teneva la
rivoltella in pugno, puntata; la piccola canna pareva di cristallo.

— È dunque la mia morte che vi fa paura? gli chiese Loris con atto di
scherno, piegandosi sulle ginocchia e stropicciandosi nervosamente le
mani.

Il principe ebbe ancora un istante di agitazione, gettò un'occhiata di
sbieco a Tatiana.

Questo bastò a Loris. Con un balzo da tigre, così seduto, s'avventò
nelle gambe del principe e lo rovesciò; caddero entrambi sul tappeto,
abbrancolati, senza un grido, senza un soffio. Loris tentava di
afferrargli colla mano il pugno, nel quale teneva la rivoltella, mentre
coll'altro gli stringeva furiosamente il collo; ma il principe era
riuscito a scartare l'arma, e gli sparò nel fianco. Loris non provò che
un urto violento, si rialzò di scatto, lasciando la presa, e arretrò di
qualche passo.

Tatiana alla detonazione era svenuta.

Loris vide il principe raspare sul tappeto per rialzarsi; in un attimo
capì che aveva tempo per scagliarglisi nuovamente addosso e soffocarlo,
che avrebbe potuto correre a prendere la propria rivoltella nella
pelliccia. Fu un baleno; poi un'ombra immensa gli ondeggiò agli occhi, e
portandosi istintivamente la mano al cuore ricadde.

Il principe si era rialzato.

Loris aveva gli occhi socchiusi, col pallore della morte sul volto. La
sua bella testa pareva dentro una nebbia, che ne intorbidasse la potente
espressione; era caduto in una posa quasi elegante, come un gladiatore
antico.

Quindi aperse gli occhi, che non sembravano più quelli. Il loro verde,
diventato opaco, non aveva più fondo; si guardò attorno, tentando di
raddrizzarsi faticosamente sopra una mano.

Un filo sottile di sangue gli usciva dal fianco, rompendosi come a
goccie di coralli sul tappeto scuro.

Il principe lo contemplava, sempre coll'arma in pugno, senza che la sua
faccia avesse cangiato. Allora la ragione di Loris si schiarì
luminosamente, e l'opacità de' suoi occhi s'aperse lasciando passare un
raggio così vivo, che il principe non potè sostenerlo. Loris si guardò
attorno. La testa smorta di Tatiana penzolava dalla spalliera della
poltrona respirando a stento; una mano le toccava il tappeto. La mano
era diventata rossa.

Fu l'ultima sensazione.

Poi il suo sguardo si riportò sul principe, fisso, coll'immobilità
vampeggiante di un incendio lontano. Quell'uomo era la fine della sua
vita, l'ultima realtà del mondo, dal quale stava per sparire.

Una malinconia ineffabile gli calò sulla fronte.

— L'uomo che salverà la Russia non amerà: mormorò fiocamente.


Nè Tatiana nè il principe avevano inteso.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le
grafie alternative, correggendo senza annotazione minimi errori
tipografici.





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