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Title: Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante (vol. 2 of 3)
Author: Boccaccio, Giovanni
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante (vol. 2 of 3)" ***


generously made available by Editore Laterza and the
Biblioteca Italiana at
http://www.bibliotecaitaliana.it/ScrittoriItalia)



                        NOTE DEL TRASCRITTORE:

—Corretti gli ovvii errori tipografici e di punteggiatura.

—Sono state estrapolate dallʼindice generale dei nomi le voci
 riguardanti il presente volume; lʼindice completo (senza link) è stato
 mantenuto nel terzo volume.



                          SCRITTORI DʼITALIA

                             G. BOCCACCIO

                             OPERE VOLGARI

                                 XIII


                          GIOVANNI BOCCACCIO



                    IL COMENTO ALLA DIVINA COMMEDIA

                  E GLI ALTRI SCRITTI INTORNO A DANTE


                               A CURA DI

                            DOMENICO GUERRI


                            VOLUME SECONDO


                                 BARI

                         GIUS. LATERZA & FIGLI

                       TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI

                                 1918

                         PROPRIETÁ LETTERARIA

                        GIUGNO MCMXVIII—49327

                                  III

                             CONTINUAZIONE

                                  DEL

                    COMENTO ALLA "DIVINA COMMEDIA"



CANTO QUARTO



I

SENSO LETTERALE

[Nota: Lez. XI]

«Ruppemi lʼalto sonno nella testa», ecc. Nel principio del presente
canto, sí come usato è lʼautore, alle cose dette nella fine del
precedente si continua. Dissesi nella fine del precedente canto come un
vento balenò una luce vermiglia, la quale, toltogli ogni sentimento,
il fece cadere, come lʼuomo il quale è preso dal sonno; per che, nel
principio di questo, dimostra come questo suo sonno gli fosse rotto.
E dividesi questo canto in due parti: nella prima dimostra come rotto
gli fosse il sonno e come nello ʼnferno si ritrovasse; nella seconda,
procedendo dietro a Virgilio, racconta sé avere molti spiriti veduti,
pieni di gravi e cocenti sospiri, senza alcuna altra visibile pena. E
questa seconda comincia quivi: «Or discendiam quaggiú nel cieco mondo».

Dice adunque nella prima parte cosí: «Ruppemi». Questo vocabolo suona
violenza, volendo in ciò dimostrare che ogni atto, che in inferno si
fa, sia violento e non naturale. La qual cosa non è senza cagione,
la quale è questa: giusta cosa è che chi, peccando, fece violenza aʼ
comandamenti e aʼ piaceri di Dio in questa vita, violentemente sia daʼ
ministri della giustizia punito nellʼaltra.

«Lʼalto sonno». Il sonno, secondo che ad alcuno pare, è un
costrignimento del caldo interiore e una quiete diffusa per li membri
indeboliti dalla fatica; altri dicono il sonno essere un riposo delle
virtú animali, con una intensione delle virtú naturali. Del qual,
volendo i suoi effetti mostrare, scrive Ovidio cosí:

  _Somne, quies rerum, placidissime somne deorum,
  pax animi, quem cura fugit, qui corpora duris
  fessa ministeriis mulces, reparasque labori, ecc._

E, appresso costui, assai piú pienamente ne scrive Seneca tragedo, _in
tragedia Herculis furentis_, dove dice:

  _.....tuque o domitor,_
  _somne, malorum, requies animi,
  pars humanae melior vitae,
  volucer, matris genus Astreae,
  frater durae languidae Mortis,
  veris miscens falsa, futuri
  certus et idem pessimus auctor:
  pater o rerum, portus vitae,
  lucis requies noctisque comes,
  qui par regi famuloque venis,
  placidus, fessum lenisque fovens:
  pavidum Leti genus humanum
  cogis longam discere mortem, ecc._

Di costui ancora Ovidio nel suo maggior volume discrive la casa, la
camera e il letto e la sua famiglia, se quella per avventura alcun
disiderasse.

«Nella testa». La testa è alcuna volta posta per quella parte del viso,
la qual noi chiamiamo «fronte», e alcuna volta per tutto il capo;
e cosí in questo luogo intende lʼautore, percioché nel capo dimora
il sonno causato daʼ vapori surgenti dallo stomaco e saglienti per
lʼarterie al cerebro.

«Un greve tuono». È il tuono quel suono il quale nasce daʼ nuvoli,
quando sono per violenza rotti; e causasi il tuono da esalazioni
della terra fredde e umide e da esalazioni calde e secche, sí come
Aristotile mostra nel terzo libro della sua _Meteora_; percioché,
essendo lʼesalazioni calde e secche dalle fredde e umide circundate,
sforzandosi quelle dʼuscir fuori e queste di ritenerle, avviene che,
per lo violento moto delle calde e secche, elle sʼaccendono, e, per
quella virtú aumentata, assottiglian tanto la spessezza della umiditá,
chʼella si rompe, ed in quel rompere fa il suono, il qual noi udiamo.
Il quale è tanto maggiore e piú ponderoso, quanto la materia della
esalazione umida si truova esser piú spessa quando si rompe. La qual
cosa intervenir non può in quello luogo dove lʼautore disegna che
era, percioché in quello non possono esalazioni surgere che possano
tuono causare: per che assai chiaro puote apparere lʼautore per questo
«tuono» intendere altro che quello che la lettera suona, sí come giá è
stato mostrato nellʼallegoria del precedente canto.

«Sí, chʼio mi riscossi, Come persona chʼè per forza desta». E in queste
parole mostra ancor lʼautore gli atti infernali tutti essere violenti.
«E lʼocchio riposato». Dice «riposato» percioché prima invano si
faticherebbe di guardare chi è desto per forza, se prima alquanto non
fosse lo stupore dello essere stato desto, cessato; conciosiacosaché
non solamente lʼocchio, ma ciascun altro senso nʼè incerto di sé
divenuto. «Intorno mossi, Dritto levato»: in questo dimostra lʼautore
il suo reducere i sensi nelli loro debiti ufici; «e fiso riguardai», le
parti circustanti: ed a questo segue la cagione perché ciò fece, cioè
«Per conoscer lo loco, dovʼio fossi», percioché quello non gli pareva
dove il sonno lʼavea preso.

«Vero è»: qui dimostra dʼaver conosciuto il luogo nel quale era,
e dimostra qual fosse, dicendo «che in sulla proda io mi trovai»,
cosí desto, «Della valle dʼabisso dolorosa», sopra la quale come
esso pervenisse è nella fine del senso allegorico del precedente
canto mostrato: «Che tuono accoglie dʼinfiniti guai», cioè un romore
tumultuoso ed orribile simile a un tuono. «Oscura», allʼapparenza,
«profonda era», allʼesistenza, «e nebulosa», per la qual cosa, oltre
allʼoscuritá, era noiosa agli occhi; «Tanto che per ficcare», cioè
agutamente mandare, «il viso», cioè il senso visivo, «a fondo», cioè
verso il fondo, «Io non vi discerneva alcuna cosa». Pur dunque alcuna
cosa vi vedea, ma quello che fosse non discerneva, per la grossezza
delle tenebre e della nebbia.

—«Or discendiam quaggiú nel cieco mondo». In questa seconda parte
del presente canto dimostra lʼautore per una medesima colpa, cioè per
non avere avuto battesimo, tre maniere di genti essere dannate; e
questa si divide in due parti: nella prima dichiara delle due maniere
deʼ predetti; nella seconda scrive della terza. E comincia la seconda
quivi: «Non lasciavam lʼandar», ecc. Nella prima parte lʼautore fa
due cose: primieramente discrive la pena delle tre maniere di genti
di sopra dette, e pone delle due, delle quali lʼuna dice essere stati
infanti, cioè piccioli fanciulli, lʼaltra dice essere stati uomini e
femmine. Nella seconda muove un dubbio a Virgilio, il quale Virgilio
gli solve. E comincia questa seconda quivi:—«Dimmi maestro mio», ecc.

Dice adunque cosí:—«Or discendiam», percioché in quel luogo sempre
infino al centro si diclina; «quaggiú nel cieco mondo»,—cioè in
inferno, il qual pertanto dice esser «cieco», percioché alcuna natural
luce non vʼè: «Cominciò il maestro», cioè Virgilio, «tutto smorto»,
cioè pallido oltre lʼusato. È il vero che lʼuomo impallidisce per lʼuna
delle tre cagioni, o per infermitá di corpo (nella quale intervengono
le diminuzioni del sangue, le diete e lʼaltre evacuazioni, le quali
vanno a tôrre il vivido colore), o per paura, o per compassione. E
qui, come appresso si dirá, Virgilio, discendendo giú, impallidí
per compassione.—«Io sarò primo», cioè andrò avanti, «e tu sarai
secondo»,—cioè mi seguirai; volendo, per questo ordine dellʼandare,
renderlo piú sicuro, in quanto colui, che va davanti, trova prima ogni
ostacolo, il quale lʼandare impedisce, e quello rimuove, se egli è
buono e valoroso duca.

«Ed io, che del color», pallido di Virgilio, «mi fui accorto»,
riguardandolo nel viso, «Dissi:—Come verrò», io appresso, «se tu», che
vai avanti ed haʼ mi fatto vedere di menarmi salvamente, «paventi»,
cioè hai paura, «Che suogli al mio dubbiare esser conforto»? sí come
nel primo canto appare, dove tu mi levasti dinanzi a quella lupa, e nel
secondo canto, dove tu dellʼanimo cacciasti la viltá sopravvenutavi.—

«Ed egli», cioè Virgilio, «a me», disse:—«Lʼangoscia delle genti»,
onorevoli e dʼalta fama, «Che son quaggiú», in questo primo cerchio
dello ʼnferno, «nel viso mi dipigne», cioè colora, «Quella pietá», cioè
compassione, «che tu per téma», cioè per paura, «senti», cioè estimi
che sia per paura. Altri vogliono che il senso di questa lettera sia
questo: percioché tu senti te pauroso, tu estimi da questo mio colore
che io similmente abbia paura; ma non è cosí: io son pallido per
compassione, ecc. La prima esposizione mi piace piú.

«Andiam», confortalo ad andare, e dimostragli la cagione dicendo: «ché
la via lunga ne sospigne»—a dover andare. «Cosí si mise», procedendo,
«e cosí mi feʼ entrare», seguendolo io, «Nel primo cerchio», cioè nel
limbo, «che lʼAbisso», cioè inferno, «cigne», cioè attornia.

«Quivi», in quel primo cerchio, «secondo che per ascoltare», potea
comprendere, «Non avea pianto mai», cioè dʼaltro, «che di sospiri». È
il sospiro una esalazione che muove dal cuore, da alcuna noia faticato,
il quale il detto cuore, per agevolamento di sé, manda fuori; e, se
cosí non facesse, potrebbe lʼangoscia, ritenuta dentro, tanto ampliarsi
e tanto gonfiare dʼintorno a lui, che ella potrebbe interchiuder sí
lo spirito vitale, che il cuore perirebbe; e, percioché la quantitá
dellʼangoscia di quelle anime, che eran laggiú, era molta, pare i
sospiri dovere essere molti, e con impeto mandati fuori. Per la qual
cosa convien che segua quello che appresso dice, cioè: «Che lʼaura
eterna», in quanto non si muta la qualitá di quella aura (ed è «aura»
un soave movimento dʼaere: per questa cagione non credo voglia dire il
testo «aura», percioché alcuna soavitá non ha in inferno, anzi vʼè ogni
moto impetuoso e noioso; e quinci credo voglia dire «aere eterno»),
«facevan», glʼimpeti deʼ sospiri, «tremare», cioè avere un movimento
non maggiore che il tremare.

«E ciò avvenía», cioè questo sospirare, «da duol senza martiri». Non
eran dunque quelle anime, che quivi erano, da alcuna pena estrinseca
stimolate, ma solamente da affanno intrinseco, il quale si causava
dal conoscimento della lor miseria, vedendosi private della presenza
di Dio, non per loro colpa o peccato commesso, ma per lo non avere
avuto battesimo, come appresso si dice. «Che avean le turbe», cioè
moltitudini, «chʼeran grandi, Dʼinfanti», cioè di pargoli, li quali
«infanti» si chiamano, percioché ancora non eran venuti ad etá che
perfettamente potesson parlare (e questa è lʼuna delle due maniere di
genti, delle quali dissi che lʼautor trattava in questa parte), «e di
femmine e di viri», cioè dʼuomini (e questa è lʼaltra maniera, in tanto
dalla prima differenti, in quanto i primi morirono infanti, come detto
è, e questi secondi morirono non battezzati in etá perfetta). [Li quali
una medesima cosa direi loro essere e glʼinfanti, se quella copula,
la quale vi pone quando dice: «Dʼinfanti e di femmine e di viri», non
mi togliesse da questa opinione. E la ragion che mi moverebbe sarebbe
questa; percioché io non estimo che da creder sia, quantunque nella
presente vita glʼinfanti in tenerissima etá morissono, che essi sieno,
al supplicio, in quella etá, cioè in quello poco o nullo conoscimento;
anzi credo sia da credere loro essere in quello intero conoscimento che
è qualunque degli altri, che piú attempati morirono: la qual perfezione
del conoscimento credo sia lor data in tormento e in noia, e non in
alcuna consolazione, come a noi mortali, quando bene usare il vogliamo,
è conceduto.]

«Lo buon maestro», cioè Virgilio (il quale in questa parte, per
ammaestrarlo che domandar dovesse quando alcuna cosa vedesse nuova e da
doverne meritamente addomandare, o forse per assicurarlo al domandare;
percioché nel precedente canto, perché non gli parve che Virgilio tanto
pienamente al suo domando gli rispondesse, vergognandosi sospicò non
grave fosse a Virgilio lʼessere domandato, per che poi dʼalcuna cosa
domandato non lʼavea) «a me» disse:—«Tu non dimandi, Che spiriti
son questi, che tu vedi»? qui che sospirando si dolgono. Ed appresso
fa come il buon maestro dee fare, il quale, vedendo quello di che
meritamente può dubitare il suo auditore, gli si fa incontro, col
farlo chiaro di ciò che lʼuditore addomandar dovea, e dice: «Or voʼ
che sappi, avanti che piú andi, Chʼeʼ non peccâro», questi spiriti che
tu vedi qui; «e sʼegli hanno mercedi», cioè se essi adoperarono alcun
bene il quale meritasse guiderdone, «Non basta», cioè non è questo
bene avere adoperato sufficiente alla loro salvazione: e la cagione
è, «perchʼeʼ non ebber battesmo». E questo nʼè assai manifesto per lo
Evangelio, dove Cristo parlando a Nicodemo dice: «_Amen, amen, dico
tibi, nisi quis renatus fuerit ex aqua et Spiritu sancto, non potest
intrare in regnum Dei_». È adunque il battesimo una regenerazion nuova,
per la quale si toglie via il peccato originale, del quale tutti,
nascendo, siamo maculati, e divegnamo per quello figliuoli di Dio,
dove davanti eravamo figliuoli delle tenebre; e fa questo sacramento
valevoli le nostre buone operazioni alla nostra salute, dove senza
esso son tutte perdute, sí come qui afferma lʼautore. «Chʼè parte
della fede, che tu credi», cioè della fede cattolica; e però dice che
è «parte» di quella, percioché gli articoli della fede son dodici, deʼ
quali dodici è il battesimo uno.

Appresso questo risponde Virgilio ad una questione, la quale esso
medesimo muove, dicendo: «E se pur fûr», costoro deʼ quali noi
parliamo, «dinanzi al cristianesmo», cioè avanti che Cristo per le
sue opere e per li suoi ammaestramenti introducesse questa fede, e
mostrasse il battesimo essere necessario a volere aver vita eterna;
perciò son perduti, perché «Non adorar debitamente Iddio». E in tanto
non lʼadoraron debitamente, in quanto non dirittamente sentivano di
Dio, cioè lui essere una deitá in tre persone, lui dover venire a
prendere carne per la nostra redenzione; non sentirono deʼ comandamenti
dati da lui al popol suo, neʼ quali, ben intesi, stava la salute di
coloro, li quali avanti alla sua incarnazione furono suoi buoni e
fedeli servidori; ma adoravano Iddio secondo loro riti, del tutto
deformi al modo nel quale Iddio voleva essere adorato e onorato. «E
di questi cotai», cioè che dinanzi al cristianesimo furono, «son io
medesmo»: percioché Virgilio, si come in _libro Temporum_ dʼEusebio
si comprende, avanti la predicazion di Cristo e il battesimo da lui
introdotto morí, nel torno di quarantacinque anni; [né della venuta
di Cristo nella Vergine, per quello che comprender si possa, sentí
alcuna cosa: come che santo Augustino, in un sermone _Della nativitá
di Cristo_, scriva lui avere la venuta di Cristo profetata neʼ versi
scritti nella quarta egloga della sua _Buccolica_, dove dice:

  _Ultima Cumaei venit iam carminis aetas:
  magnus ab integro saeclorum nascitur ordo.
  Iam redit et virgo, redeunt Saturnia regna:
  iam nova progenies caelo delabitur alto._

Deʼ quali versi alcun santo non sente quello che forse vuole pretendere
santo Augustino; e, se pure son di quegli che ʼl sentono (e per
avventura santo Augustino medesimo), non credono lui avere inteso
quello che esso medesimo disse, se non come fece Caifas, quando al
popolo giudaico disse, per Cristo giá preso da loro, che «bisognava che
uno morisse per lo popolo, accioché tutta la gente non perisse». Non
adunque sentí Virgilio di Dio, come sentir si volea a chi volea avanti
al cristianesmo salvarsi.]

«Per tai difetti», cioè per cose omesse, non per cose commesse, o
vogliam dire per non avere avuto battesimo e per non aver debitamente
adorato Iddio; «e non per altro rio», cioè per avere contro alle morali
o naturali leggi commesso; «Semo perduti», cioè dannati a non dovere
in perpetuo vedere Iddio; «e sol di tanto offesi, Che senza speme
vivemo in disio»:—il quale disio non è altro che di vedere Iddio,
nel quale consiste la gloria deʼ beati. E come che molto faticosa
cosa sia il ferventemente disiderare, è, oltre a ciò, quasi fatica e
noia importabile lʼardentemente disiderare e non conoscere né avere
speranza alcuna di dover potere quello, che si disidera, ottenere: e
perciò, quantunque _prima facie_ paia non molto gravosa pena essere il
disiderare senza sperare, io credo chʼella sia gravissima; e ancora
piú se le aggiugne di pena, in quanto questo disiderio è senza alcuna
intermissione. «Gran duol mi prese al cuor quando lʼintesi», sí per
Virgilio, e sí ancora «Peroché gente di molto valore», stati intorno
agli esercizi temporali, «Conobbi», non qui, ma nel processo, quando
coʼ cinque savi entrò nel castello sette volte cerchiato dʼalte
mura, «che in quel limbo», cioè in quello cerchio superiore, vicino
alla superficie della terra (chiamano gli astrologi un cerchio dello
astrolabio, contiguo alla circunferenza di quello, e nel quale sono
segnati i segni del zodiaco e i gradi di quegli, «limbo»; dal quale
per avventura gli antichi dinominarono questo cerchio, percioché quasi
immediatamente è posto sotto la circunferenza della terra), «eran
sospesi», dallʼardore del lor desiderio.

—«Dimmi, maestro mio». Qui, dissi, cominciava la seconda particella
della prima parte della seconda division principale, nella quale
lʼautore muove una questione a Virgilio, ed esso gliele solve. Dice
adunque: «Dimmi, maestro mio, dimmi, signore».—Assai lʼonora lʼautore
per farselo benivolo, accioché egli piú pienamente gli risponda, che
fatto non avea alla dimanda fattagli nel precedente canto: dopo la
quale alcuna altra, che questa, infino a qui fatta non gli avea. [Ed
intende, in questa domanda, non di voler sapere deʼ santi padri che da
Cristo ne furon tratti, che dobbiam credere il sapea, ma per ciò fa la
domanda, per sapere se in altra guisa che in questa, cioè che fatta
fu per la venuta di Cristo, alcun altro nʼuscí mai: quasi per questo
voglia farsi benivolo Virgilio, dandogli intenzione occultamente che,
se alcuna altra via che quella che da Cristo tenuta fu, vi fosse, egli
sʼingegnerebbe dʼadoperare di farne uscir lui e di farlo pervenire a
salute.] «Cominciaʼ io, per volere esser certo Di quella fede, che
vince ogni errore», cioè per sapere se quello era stato che per la
nostra fede nʼè porto, cioè che Cristo scendesse nel limbo e traessene
i santi padri. [Il che, quantunque creder si debba senza testimonio
ciò che nella divina Scrittura nʼè scritto, son nondimeno di quegli
che stimano potersi delle cose preterite domandare. Ma io per me non
credo che senza colpa far si possa, percioché pare un derogare alla
fede debita alle Scritture; e però cosí le cose passate, come quelle
che venir debbono, senza cercarne testimonianza dʼalcuno, si vogliono
fermamente credere e semplicemente confessare].—«Uscicci mai», di
questo luogo, «alcuno, o per suo merto», cioè per lʼavere con intera
pazienza lungamente sostenuta questa pena, o per lʼavere sí nella
mortal vita adoperato, che egli dopo alcuno spazio di tempo meritasse
salute: «O per lʼaltrui», opera, [o fatta o che far si possa per
lʼavvenire,] «che poi fosse beato?»—uscendo di qui e sagliendo in vita
eterna.

«Ed eʼ», cioè Virgilio, «che ʼntese il mio parlar coverto», cioè
intorno a quella parte, per la quale io, tacitamente intendendo, faceva
la domanda generale, «Rispose:—Io era nuovo in questo stato». Dice
«nuovo» per rispetto a quegli che forse migliaia dʼanni vʼerano stati,
dovʼegli stato non vʼera oltre a quarantotto anni; percioché tanti anni
erano passati dopo la morte di Virgilio, infino alla passion di Cristo,
nel qual tempo quello avvenne che esso dee dire, cioè «Quando ei vidi
venire», in questo luogo, «un possente», cioè Cristo, il quale Virgilio
non nomina percioché nol conobbe. E meritamente dice «possente»,
percioché egli per propria potenza aveva quel potuto fare, che alcun
altro non poté mai, cioè vincere la morte e risuscitare; avea vinta la
potenza del diavolo, oppostasi alla sua entrata in quel luogo. Ed era,
questo possente, «Con segno di vittoria incoronato». Non mi ricorda
dʼavere né udito né letto che segno di vittoria Cristo si portasse al
limbo, altro che lo splendore della sua divinitá; il quale fu tanto,
che il luogo di sua natura oscurissimo egli riempiè tutto di luce:
donde si scrive che «_habitantibus in umbra mortis lux orta est eis_».

«Trasseci lʼombra del primo parente», cioè dʼAdamo. [Adamo fu, sí come
noi leggiamo nel principio quasi del Genesi, il primiero uomo il sesto
di creato da Dio, e fu creato del limo della terra in quella parte
del mondo, secondo che tengono i santi, che poi chiamata fu il «campo
damasceno». Ed essendo da Dio la statura sua fatta di terra, gli soffiò
nel viso, e in quel soffiare mise nel petto suo lʼanima dotata di
libero arbitrio e di ragione, per la quale egli, il quale ancora era
immobile ed insensibile, divenne sensibile e mobile per se medesimo; e
secondo che i santi credono, egli fu creato in etá perfetta, la quale
tengono esser quella nella quale Cristo morí, cioè di trentatré anni.
E lui cosí creato e fatto alla immagine di Dio, in quanto avea in sé
intelletto, volontá e memoria, il trasportò nel paradiso terrestro,
dove essendosi addormentato, nostro Signore non del capo né deʼ piedi,
ma del costato gli trasse Eva, nostra prima madre, similemente di
perfetta etá. La quale come Adamo desto vide, disse:—Questa è osso
dellʼossa mie, e per costei lascerá lʼuomo il padre e la madre, ed
accosterassi alla moglie.—La qualʼè tratta dal suo costato, per darne
ad intendere che per compagna, non per donna né per serva dellʼuomo,
lʼavea prodotta Iddio; e ad Adamo non per sollecitudine perpetua e
guerra senza pace e senza triegua, come lʼodierne mogli odo che sono,
ma per sollazzo e consolazione a lui la diede. E comandò loro che tutte
le cose, le quali nel paradiso erano, usassero, si come produtte al
lor piacere, ma del frutto dʼuno albero solo, il qual vʼera, cioè di
quello «della scienza del bene e del male», sʼastenessero, percioché,
se di quello gustassero, morrebbero: e quindi in cosí bello e cosí
dilettevale luogo gli lasciò nelle lor mani. Ma lʼantico nostro
nimico, invidioso che costoro prodotti fossero a dover riempiere
quelle sedie, le quali per la ruina sua e deʼ suoi compagni evacuate
erano, presa forma di serpente, disse ad Eva che, sʼella mangiasse
del frutto proibito, ella non morrebbe, ma sʼaprirebbero gli occhi
suoi e saprebbe il bene e il male e sarebbe simile a Dio. Per la
qual cosa Eva, mangiato del frutto proibito, e datone ad Adamo,
incontanente sʼapersero gli occhi loro, e cognobbero che essi erano
ignudi: e fattesi alcune coperture di foglie di fico davanti, si
nascosero per vergogna; e quindi, ripresi da Dio, furono cacciati di
paradiso, e, nelle fatiche del lavorio della terra divenuti, ebbero piú
figliuoli e figliuole. Ultimamente Adamo, divenuto vecchio, dʼetá di
novecentotrenta anni si morí.]

[Ma qui son certo si moverá un dubbio, e dirá alcuno:—Tu hai detto
davanti che ciò, che Iddio crea senza alcun mezzo, è perpetuo; Adam
fu creato da Dio senza alcun mezzo; come dunque non fu immortale?—A
questo si può in questa forma rispondere: egli è vero che ciò, che
Iddio senza mezzo crea, è perpetuo; ma è questo da intendere delle
creature semplici, sí come furono e sono gli angioli, li quali sono
semplicemente spiriti, come sono i cieli, le stelle, gli elementi, li
quali tutti sono di semplice materia creati: ma lʼuomo non fu cosí;
anzi fu creato di materia composta, sí come è dʼanima e di corpo,
e perciò non è perpetuo come sono le predette creature.—Ma quinci
può sorgere unʼaltra obiezione, e dirsi: egli è vero che lʼuomo è
composto dʼanima e di corpo, e queste due cose amendue furon create
da Dio; perchʼè dunque lʼanima perpetua, e ʼl corpo mortale? Dirò
allora lʼanima essere stata da Dio composta di materia semplice, come
furon gli angioli, ma il corpo non cosí; percioché non fu composto del
semplice elemento della terra, senza alcuna mistura dʼaltro elemento,
sí come dʼacqua: percioché della terra semplice non si sarebbe potuta
fare la statura dellʼuomo, fu adunque fatta del limo della terra,
avente alcuna mistura dʼacqua. Non che io non creda che a Dio fosse
stato possibile averlo fatto di terra semplice, il quale di nulla cosa
fece tutte le cose, ma la commistione deʼ corpi ne mostra quegli essere
stati fatti di materia composta: e perciò, quantunque in perpetuo viva
lʼanima, non séguita il corpo dovere essere perpetuo. Sarebbon di
quegli che alla obiezione prima risponderebbono: Adamo aversi questa
corruzione e morte deʼ corpi con la inobbedienza acquistata, avendolo
Domeneddio, avanti il peccato, fatto accorto. Ma potrebbe qui dire
alcuno: Adam peccò, e di perpetuo divenne mortale; gli angioli che
peccarono, perché non divenner mortali? Alla quale obiezione è assai
risposto di sopra: percioché, di semplice materia creati, non posson
morire, se non come lʼanima nostra, la quale, quantunque peccasse col
corpo dʼAdamo, non però la sua perpetuitá perdé, ma perdella il corpo,
al quale, sí come a cosa atta a ricevere la morte, ella era stata
minacciata da Dio. Ma questa è materia da molto piú sublime ingegno
che il mio non è, e perciò, per la vera soluzione di tanto dubbio,
si vuole ricorrere, aʼ teologi ed aʼ sufficientissimi litterati, la
scienza deʼ quali propriamente dintorno a cosí fatte quistioni si
distende.]

«DʼAbél, suo figlio», cioè dʼAdam. Questi si crede che fosse il
primiero uomo che morí, ucciso da Cain suo fratello per invidia.
Leggesi nel _Genesi_ Caino, il quale fu il primo figliuolo dʼAdam,
essersi dato allʼagricoltura, e Abél, similmente figliuol dʼAdam e che
appresso a Cain nacque, essere divenuto pastore: ed avendo questi due
cominciato a far, prima che alcuni altri, deʼ frutti delle loro fatiche
sacrificio a Dio, era costume di Cain, per avarizia, quando eran per
far sacrificio, dʼeleggere le piú cattive biade, o che avessero le
spighe vòte, o che fossero per altro accidente guaste, e di quelle
sacrificare. Per la qual cosa non essendo il suo sacrificio accetto a
Dio, come in quelle il fuoco acceso avea, incontanente il fummo di quel
fuoco non andava diritto verso il cielo, ma si piegava e andavagli nel
viso. Abél in contrario, quando a fare il sacrificio veniva, sempre
eleggeva il migliore e il piú grasso agnello delle greggi sue, e quello
sacrificava: di che seguiva che, essendo il sacrificio dʼAbél accetto
a Dio, il fummo dello olocausto saliva dirittamente verso il ciclo. La
qual cosa vedendo Caino, c avendone invidia, cominciò a portare odio al
fratello; e un dí, con lui insieme discendendo in un loro campo, non
prendendosene Abél guardia, Caino il ferí in su la testa dʼun bastone
ed ucciselo.

«E quella di Noé». Dispiacendo a Domeneddio lʼopere degli uomini
sopra la terra, e per questo essendo disposto a mandare il diluvio,
conoscendo Noé essere buono uomo, diliberò di riservar lui, e tre
suoi figliuoli e le lor mogli, e ordinògli in che maniera facesse
unʼarca e come dentro vʼentrasse, e similemente quanti e quali animali
vi mettesse; e, ciò fatto, mandò il diluvio, il quale fu universale
sopra ogni altezza di monte, e tra ʼl crescere e scemare perseverò nel
torno di dieci mesi. Ed essendo pervenuta lʼarca, la qual notava sopra
lʼacque, sopra le montagne dʼErmenia, e non movendosi piú per lʼacque
che scemavano, aperta una finestra, la quale era sopra lʼarca, mandò
fuori il corvo: il qual non tornando, mandò la colomba, e quella tornò
con un ramo dʼulivo in becco: per la qual cosa Noé conobbe che il
diluvio era cessato, e, uscito fuori dellʼarca, fece sacrificio a Dio.
E appresso piantò la vigna, della qual poi nel tempo debito ricolto
del vino, inebriò, e, addormentato nel tabernacolo suo, fu da Cam suo
figliuolo trovato scoperto. Il quale, di lui beffatosi, il disse aʼ
fratelli, a Sem e a Iafet, li quali, portato un mantello, ricopersero
il padre; ed egli poscia, desto e risaputo questo, maladisse Cam. Ed
essendo vivuto novecentocinquanta anni nella grazia di Dio, passò di
questa vita.

«Di Moisé, legista ed ubbidiente». Moisé nacque in Egitto; ed essendo
stato per lo re dʼEgitto comandato che tutti i figliuoli degli ebrei
maschi fossero uccisi, e le femmine servate, avvenne che, percioché
bello figliuolo era paruto alla madre, non lʼuccise, ma servollo
tre mesi occultamente; ma poi, non potendolo piú occultare, fatto
un picciolo vasello di giunchi e quello imbiutato di bitume, sí che
passarvi lʼacqua dentro non poteva, il mise nel fiume; e lʼacqua
menandolo giú, la sorella di lui seguitava il vasello per vedere che
divenisse. Ed essendo per ventura la figliuola di Faraone con le
sue femmine discesa al fiume per bagnarsi, vide questo vasello, e,
fattolo prendere ad una delle sue femmine, lʼaperse, e, trovatovi
dentro il picciol fanciullo che piangea, disse:—Questi dee essere
deʼ figliuoli delle ebree.—Allora la fanciulla, che il vasello
seguiva, disse:—Madonna, vuogli che io vada e truovi una ebrea che
il balisca?—A cui la donna disse:—Vaʼ.—Ed ella andò e menò la
madre medesima, la quale, come cresciuto lʼebbe, il rendé alla donna,
la quale il nominò Moisé, quasi «tratto dallʼacqua», e a modo che
figliuolo se lʼadottò. Moisé crebbe, ed avendo un egizio, perciochʼegli
batteva un ebreo, ucciso, temendo del re, se nʼandò in Madian, e
quivi coʼ sacerdoti di Madian si mise a stare, e prese per moglie una
fanciulla chiamata Sefora: e dopo alcun tempo, secondo il piacer di
Dio, venne davanti a Faraone, e comandògli che liberasse il popolo
dʼIsrael della servitudine, nella quale il tenea. La qual cosa non
volendo far Faraone, piú segni, secondo il comandamento di Dio, gli
mostrò: ed ultimamente, comandato agli ebrei che quelle cose, che
accattar potessero dagli egizi, eʼ prendessero e seguitasserlo, ché
egli gli menerebbe nella terra di promissione: il che fatto, e con
loro messosi in via, e pervenuti al mare Rosso, quello percosse con la
sua verga in dodici parti, sí come gli ebrei erano dodici tribi, ed in
tante sʼaperse subitamente il mare, per le quali gli ebrei passarono
salvamente, e gli egizi, che dietro a loro seguitandogli per quelle
vie medesime si misero, rinchiuso, come passati furono gli ebrei, il
mare, tutti annegarono. Guidò adunque Moisé costoro per lo diserto,
e, per le sue orazioni, di manna furono nutricati in esso, e piovvero
loro dal cielo coturnici; e percossa da Moisé con la verga una pietra,
subitamente nʼuscí per divino miracolo un fiume dʼacqua di soavissimo
sapore, del quale gli ebrei saziaron la sete loro; e, oltre a questo,
esso ordinò loro il tabernacolo, nel quale dovessero sacrificare a Dio;
ordinò i sacerdoti e li loro vestimenti, e similemente le vittime e
gli olocausti; e diede loro i giudici, a udire e determinare le loro
quistioni; e, oltre a ciò, salito in sul monte Sinai, e quivi dimorato
in digiuni e penitenza quaranta dí, ebbe da Dio due tavole, nelle quali
erano scritti i comandamenti della legge, la quale esso, disceso del
monte, diede al popolo: e però il soprannomina lʼautore «legista».
Alfine, dopo molte fatiche, morí nella terra di Moab, essendo dʼetá
di centoventi anni, e fu seppellito nella valle della terra di Moab
di contra a Segor: né fu alcuno che conoscesse il luogo della sua
sepoltura.

«Abraam patriarca». Abraam fu figliuolo di Tara, e nacque in Ur cittá
deʼ caldei, lʼanno quarantatré del regno di Nino, re dʼAssiria.
Questi, per comandamento di Dio, insieme con Sara, sua moglie, venne
in Canaan, e qui, essendo giá dʼetá di novantanove anni, avendo prima
dʼAgar, serva egizia, avuto Ismael, generò in Sara giá vecchia, come
annunziato gli fu dai tre li quali gli apparvero nella valle di Mambre,
un figliuolo, il quale chiamò Isaac. E, avendogli comandato Iddio che
gli facesse sacrificio del detto Isaac, con lui insieme, portando
esso un fascio di legne in collo, e Abraam il fuoco e ʼl coltello in
mano, nʼandò sopra una montagna, e quivi, essendo per uccidere il
figliuolo, per immolarlo secondo il comandamento dʼIddio, gli fu preso
il braccio, e mostratogli un montone, il quale in una macchia di pruni
era, ritenuto da quegli per le corna: come Iddio volle, veduto la
sua obbedienza, lasciato il figliuolo, sacrificò il montone. Costui
fu quegli che, vinti i re di Sogdoma, e riscosso Lot suo nipote,
primieramente offerse per sacrificio pane e vino a Melchisedech, re
e sacerdote di Salem; a costui fece Iddio la promessione di dare aʼ
suoi discendenti la terra abbondante di latte e di miele. Il quale,
essendo giá dʼetá di centosettantacinque anni, morí, e fu daʼ figliuoli
seppellito nel campo dʼEfron deʼ figliuoli di Soar Itteo della regione
di Mambre, il quale avea comperato in quello uso, quando morí Sara,
sua moglie, daʼ figliuoli di Het. È costui chiamato «patriarca», da
«_pater_», che in latino viene a dir «padre», e «arcos», che viene a
dire «principe»: e cosí resulta «principe deʼ padri».

«E David re». Questi fu figliuolo di Iesse della tribú di Giuda; e
levato giovane da guardare le pecore del padre, percioché ammaestrato
era di sonare la cetera, venne al servigio di Saul re, il quale esso
col suo suono alquanto mitigava dalla noia che il dimonio alcuna volta
gli dava; ed essendo giovanetto andò a combattere con Golia filisteo,
il quale aveva statura di gigante, e lui con la fionda, la quale
ottimamente sapea adoperare, e con alquante pietre uccise: ondʼegli
meritò la grazia del popolo, ed ebbe Micol, figliuola di Saul, per
moglie. Racquistò lʼarca _foederis_, la quale al popolo dʼIsrael era
stata per forza di guerra tolta; e fu valoroso uomo in guerra, e lunga
persecuzione patí da Saul, al quale per invidia era venuto in odio;
ultimamente, essendo daʼ filistei stato sconfitto Saul eʼ figliuoli in
Gelboè, e quivi se medesimo avendo ucciso, fu in suo luogo coronato re.
E nelle sue opere fu grato a Dio; e, avuti di piú femmine figliuoli,
e invecchiato molto, si morí e lasciò in suo luogo re Salomone, suo
figliuolo.

«E Israel», cioè Iacob, il quale fu figliuolo di Isaac: ed essendo
prima del ventre della madre uscito Esaú, e per quello appartenendosi
a lui le primogeniture, quelle acquistò con una scodella di lenti, la
quale gli donò, tornando esso affamato da cacciare. E tornandosi esso
di Mesopotamia, dove, dopo la morte dʼIsaac, per paura dʼEsaú fuggito
sʼera, sí come nel _Genesi_ si legge, tutta una notte fece con un uomo
da lui non conosciuto alle braccia; e, non potendo da quellʼuomo esser
vinto, venendo lʼaurora, disse quellʼuomo:—Lasciami.—Al qual Giacob
rispose di non lasciarlo, se da lui benedetto non fosse; il quale colui
domandò come era il nome suo, a cui esso rispose:—Io son chiamato
Iacob.—E quellʼuomo disse:—Non fia cosí: il tuo nome sará Israel,
percioché, se tu seʼ forte contro Dio, pensa quello che tu potrai
contro agli altri uomini.—E, toccatogli il nervo dellʼanca, gliele
indebolí in sí fatta maniera, che sempre poi andò sciancato: per questa
cagione i giudei non mangiano di nervo.

«Col padre», cioè Isaac, il quale fu figliuolo dʼAbraam, «e coʼ suoi
nati», cioè di Iacob, li quali furono dodici, acquistati di quattro
femmine: e daʼ quali li dodici tribi dʼIsrael ebbero origine, e
ciascuna fu dinominata da uno di questi dodici, cioè da quello dal
quale aveva origine tratta.

«E con Rachele, per cui tanto feʼ». Iacob, il quale avendo per li
consigli di Rebecca, sua madre, ricevute tutte le benedizioni da Isaac,
suo padre, le quali Esaú, quantunque per una minestra di lenti vendute
gli avesse, come di sopra è detto, diceva che a lui appartenevano, sí
come a primogenito, per paura di lui se nʼandò in Mesopotamia a Laban,
fratello di Rebecca, sua madre. Il quale Laban avea due figliuole,
Lia e Rachel: e piacendogli Rachel, si convenne con Laban di servirlo
sette anni, ed esso, in luogo di guiderdone, fatto il servigio, gli
dovesse dare per moglie Rachel: e, avendo sette anni servito, ed
essendo celebrate le nozze, nelle quali credeva Rachel essergli data,
la mattina seguente trovò che gli era stata da Laban, messa la notte
preterita nel letto, in luogo di Rachel, Lia, la quale era cispa. Di
che dolendosi al suocero, gli fu risposto che lʼusanza della contrada
non pativa che la piú giovane si maritasse prima che colei che di piú
etá fosse; ma, se servire il volesse, gli darebbe, in capo del tempo,
similemente Rachel. Di che convenutisi insieme che esso servisse altri
sette anni, come serviti gli ebbe, gli fu da Laban conceduta Rachel.
E questo è quello che lʼautore intende, quando dice: «Rachele, per cui
tanto feʼ», cioè tanto tempo serví.

Fu questo Iacob buono uomo nel cospetto di Dio. E per fame fu
costretto egli eʼ figliuoli eʼ nipoti di partirsi del paese di Cananea
e dʼandarne in Egitto; lá dove Iosef, suo figliuolo, il quale esso
per inganno degli altri figliuoli lungo tempo davanti credeva morto,
era prefetto deʼ granai di Faraone; e quivi onoratamente ricevuto,
giá vecchio dʼetá di cento dieci anni, morí. E fu il corpo suo
con odorifere spezie seppellito in Egitto, avendo egli avanti la
morte scongiurati i figliuoli che, quando da Dio vicitati fossero e
nella terra di promissione tornassero, seco di quindi lʼossa sue ne
portassero.

«E altri molti», sí come Eva, Set, Sara, Rebecca, Isaia, Ieremia,
Ezechiel, Daniel, e gli altri profeti e Giovanni Batista, e simili a
questi; «e fecegli beati», menandonegli in vita eterna, nella quale è
vera e perpetua beatitudine. «E voʼ che sappi che dinanzi ad essi»,
cioè innanzi che costoro beatificati fossero, «Spiriti umani non eran
salvati;»—e ciò era per lo peccato del primo parente, il quale ancora
non era purgato: ma, tolta via quella colpa per la passione di Cristo,
furon quegli, che bene aveano adoperato, liberati dalla prigione del
diavolo, e aperta loro, e a coloro che appresso doveano venire e bene
adoperare, la porta del paradiso.

[Nota: Lez. XII]

«Non lasciavam lʼandar». Questa è la seconda parte principale della
seconda di questo canto, nella quale lʼautore dimostra come, procedendo
avanti, pervenisse a vedere la terza spezie degli spiriti che in quel
cerchio dimoravano. Ed in questa parte fa lʼautore quattro cose: nella
prima dice sé aver veduto in quel luogo un lume; nella seconda dice
come Virgilio da quattro poeti fu, tornando, ricevuto; nella terza dice
come con quegli cinque poeti entrasse in un castello, nel qual vide
i magnifichi spiriti; nella quarta dice come egli e Virgilio dagli
quattro poeti si partissero. La seconda comincia quivi: «Intanto voce»;
la terza quivi: «Cosí andammo infino»; la quarta quivi: «La sesta
compagnia».

Dice adunque: «Non lasciavam», Virgilio ed io, «lʼandar, perchʼei
dicessi», cioè ragionasse; «Ma passavam», andando, «la selva tuttavia»;
e, appresso questo, dichiara se medesimo qual selva voglia dire,
dicendo: «La selva, dico, di spiriti spessi»; volendo in questo dare ad
intendere quello luogo essere cosí spesso di spiriti come le selve sono
dʼalberi.

«Non era lunga ancor la nostra via», cioè non cʼeravam molto dilungati,
«Di qua dal sonno», il quale nel principio di questo canto mostra gli
fosse rotto. Alcuna lettera ha: «Di qua dal suono»; ed allora si dee
intendere questo «suono», per quello che fece il tuono il quale il
destò. Ed alcuna lettera ha: «Di qua dal tuono», il quale di sopra
dice che il destò. E ciascuna di queste lettere è buona, percioché per
alcuna di esse non si muta né vizia la sentenza dellʼautore. «Quando io
vidi un fuoco», un lume, «Che emisperio» (emisperio è la mezza parte
dʼuna spera, cioè dʼun corpo ritondo come è una palla, del quale alcun
lume, quantunque grande sia, non può piú vedere) «di tenebre vincía».
Qui non vuole altro dir lʼautore, se non che quel fuoco, ovver lume,
vinceva le tenebre, alluminandole della mezza parte di quello luogo
ritondo, a dimostrare che questo lume non toccava quelle altre due
maniere di genti, delle quali di sopra ha detto, percioché non furon
tali, che per gran cose conosciuti fossero.

«Di lungi nʼeravamo», da questo lume, «ancora un poco; Ma non sí»,
nʼeravamo lontani, «che io non discernessi», per lo splendore di quel
lume, «in parte», quasi dica non perciò appieno, «Che orrevol», cioè
onorevole, «gente possedea», cioè dimorando occupava, «quel loco», nel
quale eravamo.

—«O tu», Virgilio; e domanda qui lʼautore chi coloro sieno, li
quali hanno luce, dove quegli, che passati sono, non lʼhanno: «che
onori», col ben sapere lʼuna e col bene esercitar lʼaltra, «ogni
scienza ed arte». [Capta qui lʼautore la benivolenza del suo maestro,
commendandolo, e dicendo lui essere onoratore di scienza e dʼarte. Dove
è da sapere che, secondo che scrive Alberto sopra il sesto dellʼ_Etica_
dʼAristotile, sapienza, scienza, arte, prudenza ed intelletto sono
in cotal maniera differenti, che la sapienza è delle cose divine,
le quali trascendono la natura delle cose inferiori; scienza è delle
cose inferiori, cioè della lor natura; arte è delle cose operate da
noi, e questa propriamente appartiene alle cose meccaniche, e, se per
avventura questa si prende per la scienza speculativa, impropriamente è
detta «arte», in quanto con le sue regole e dimostrazioni ne costringe
infra certi termini; prudenza è delle cose che deono essere considerate
da noi, onde noi diciamo colui esser prudente, il quale è buono
consigliatore; ma lʼintelletto si dee propriamente alle proposizioni
che si fanno, sí come «ogni tutto è maggiore che la sua parte». Estolle
adunque qui lʼautore Virgilio nelle due di queste cinque, dicendo che
egli onora «scienza ed arte», bene e maestrevolmente operandole, sí
come appare neʼ suoi libri, neʼ quali esso aglʼintelligenti si dimostra
ottimamente aver sentito in filosofia morale e in naturale, il che
aspetta alla scienza; ed oltre a ciò si dimostra mirabilmente avere
adoperato in ciò che alla composizione deʼ suoi poemi o alle parti di
quegli si richiede, usando in essi lʼartificio di qualunque liberale
arte, secondo che le opportunitá hanno richiesto; e questo appartiene
allʼarte non meccanica, ma speculativa. E perciò meritamente queste
lode dallʼautore attribuite gli sono.]

«Questi chi sono, cʼhanno tanta orranza», cioè onoranza: il qual
vocabolo per cagion del verso gli conviene assincopare, e dire, per
«onoranza», «orranza»; «Che dal modo degli altri», li quali per infino
a qui abbiam veduti, «gli diparte?»—in quanto hanno alcuna luce, dove
quegli, che passati sono, non hanno.

«E quegli», cioè Virgilio, disse «a me:—Lʼonrata», cioè lʼonorata,
«nominanza»; puossi qui «nominanza» intender per «fama»; «Che di lor
suona su nella tua vita», nella quale questi cotali, sí nelle scritture
degli antichi, e sí ancora neʼ ragionamenti deʼ moderni, raccordati
sono; «Grazia», singulare, «acquista nel ciel», da Dio, «che sí gli
avanza», oltre a quegli che senza luce lasciati abbiamo.—[Intorno
alla qual risposta dobbiamo sapere aver luogo quello che della divina
giustizia si dice, cioè che ella non lascia alcun male impunito, né
alcun bene inremunerato: percioché questi, deʼ quali lʼautor domanda,
sono genti, le quali tutte, virtuosamente ed in bene della republica
umana, quanto al moral vivere, adoperarono; ma, percioché non conobbero
Iddio, non fecero le loro buone operazioni per Dio, e per questo non
meritarono lʼeterna gloria, la quale Iddio concede per merito a coloro
che, avendo rispetto a lui, adoperan bene; ma nondimeno, percioché bene
adoperarono e dispiacquero loro i vizi e le mal fatte cose, quantunque
il rispetto per ignoranza non fosse buono, pur pare che essi di ciò
alcun premio meritino. Il qual è, secondo la ʼntenzion di Virgilio, che
la giustizia di Dio renda loro in sofferire che essi per fama vivano
nella presente vita; per che bene dice esso Virgilio, che la loro
onorata nominanza, delle operazioni ben fatte da loro, acquista grazia
nel cielo, la quale concede loro lume, dove agli altri nol concede.]

«Intanto voce fu». Dissi qui cominciare la seconda parte della seconda
principale, nella qual mostra Virgilio essere stato da quattro poeti
onoratamente ricevuto; e dice: «Intanto», cioè mentre Virgilio mi
rispondeva alla domanda fatta, come di sopra appare, «voce». A
differenza del suono, è la voce propriamente dellʼuomo, in quanto
esprime il concetto della mente, quando è prolata; ogni altra cosa
per la bocca dellʼuomo, o dʼalcun altro animale, o di qualunque altra
cosa, è [o] suono [o sufolo]: e questi suoni hanno diversi nomi,
secondo la diversitá delle cose dalle quali nascono. «Fu per me», cioè
da me, «udita», cosí fatta:—«Onorate lʼaltissimo poeta»; e questa,
per quello che poi segue, mostra che detta fosse, da chi che se la
dicesse, a quegli quattro poeti che poi incontro gli si fecero. Ed
assai onora qui Dante Virgilio in quanto dice «altissimo», il quale
adiettivo degnamente si confá a Virgilio, percioché egli di gran lunga
trapassò in iscienza ed in arte ogni latin poeta, stato davanti da
lui, o che poi per infino a questo tempo stato sia. «Lʼombra sua»,
cioè di Virgilio, «torna, chʼera dipartita»,—quando andò al soccorso
dellʼautore, come di sopra è dimostrato.

«Poi che la voce», giá detta, «fu ristata e queta, Vidi quattro
grandʼombre», non di statura, ma grandi per dignitá, «a noi venire»,
come lʼuno amico va a ricoglier lʼaltro, quando dʼalcuna parte torna:
«Sembianza avevan né trista né lieta». In questa discrizione della
sembianza di questi poeti, dimostra lʼautore la gravitá e la costanza
di questi solenni uomini; percioché costume laudevole è deʼ maturi
e savi uomini non mutar sembiante per cosa che avvegna o prospera
o avversa, ma con eguale e viso e animo le felicitá e le avversitá
sopravvegnenti ricevere; percioché chi altrimenti fa, mostra sé esser
di leggiere animo e di volubile.

«Lo buon maestro», Virgilio, «cominciò a dire:—Mira colui con quella
spada in mano». È la spada un istrumento bellico, e però per quella
vuol dare lʼautore ad intendere di che materia colui, che la portava,
cantasse: e però a lui, e non ad alcun degli altri, la discrive in
mano, percioché il primo fu che si creda in istilo metrico scrivesse di
guerre e di battaglie, e per conseguente pare che, chi dopo lui scritto
nʼha, lʼabbia avuto da lui. «Che vien dinanzi aʼ tre», poeti che ʼl
seguono, «sí come sire», cioè signore e maggiore.

«Egli è Omero poeta sovrano». Dellʼorigine, della vita e degli studi
dʼOmero, secondo che diceva Leon tessalo, scrisse un valente uomo
greco, chiamato Callimaco, piú pienamente che alcun altro: nelle
scritture del quale si legge che Omero fu dʼumile nazione; percioché
in Ismirna, in queʼ tempi nobile cittá dʼAsia, il padre di lui in
publica taverna fu venditore di vino a minuto, e la madre fu venditrice
dʼerbe nella piazza, come qui fra noi son le trecche; nondimeno, come
che in Ismirna i suoi parenti facessero i predetti esercizi, non si
sa certamente di qual cittá esso natio fosse. È il vero che, per
la sua singular sufficienza in poesi, sette nobili cittá di Grecia
insieme lungamente ebber quistione della sua origine, affermando
ciascuna dʼesse, e con alcune ragioni dimostrando, lui essere stato
suo cittadino; e le cittá furon queste: Samos, Smirne, Chios, Colofon,
Pilos, Argos, Atene. E alcune di queste furono, le quali gli feciono
onorevole e magnifica sepoltura, quantunque fittizia fosse; e ciò
fecero per rendere con quella a coloro, li quali non sapevano dove
stato si fosse seppellito, testimonianza lui essere stato suo
cittadino; e quegli di Smirne, non solamente sepoltura, ma gli fecero
un notabile tempio, nel quale non altrimenti che se del numero deʼ loro
iddii stato fosse, secondo il loro errore, onorarono la sua memoria per
molte centinaia dʼanni. Fu nondimeno dai piú reputato che egli fosse
ismirneo; o peroché, come detto è, in Smirne fu allevato, dimorandovi
il padre e la madre di lui, o che di ciò gli smirnei mostrassero piú
chiara testimonianza che gli altri dellʼaltre cittá; e cosí mostra di
credere Lucano dove dice:

  _Quantum Smirnaei durabunt vatis honores,_

dicendo dʼOmero.

Fu questo valente uomo, secondo Callimaco, nominato Omero per lo
vaticinio di lui detto da un matematico, il quale per avventura
intervenne, nascendo egli, il quale disse:—Colui che al presente
nasce morrá cieco;—e per questo fu dal padre nominato Omero. Il quale
nome è composto _ab_ «_o_», che in latino viene a dire «io», e «_mi_»,
che in latino viene a dire «non», ed «_ero_», che in latino viene a
dire «veggio»: e cosí tuttʼinsieme viene a dire «io non veggio»; e,
come nel processo apparirá, secondo il vaticinio morí cieco. Questi
dalla sua fanciullezza, aiutandolo come poteva la madre, si diede agli
studi; e, udite sotto diversi dottori le liberali arti, lungo tempo
udí sotto un poeta chiamato Pronapide, chiarissimo in quei tempi in
quella facultá; e appresso questo, partitosi di Grecia, seguendo i
famosi studi, se nʼandò in Egitto, dove sotto molti valenti uomini udí
poesia e filosofia e altre scienze, e massimamente sotto un filosofo
chiamato Falacro, in quegli tempi sopra ogni altro famoso; ed in Egitto
perseverò nel torno di venti anni, con maravigliosa sollecitudine; e
quindi poi se ne tornò in Arcadia, dove per infermitá perdé il vedere.
E cieco e povero si crede che componesse nel torno di tredici volumi
variamente titolati, e tutti in istilo eroico, deʼ quali si trovano
ancora alquanti, e massimamente la _Iliade_, distinta in ventiquattro
libri, nella quale tratta delle battaglie deʼ greci e deʼ troiani
infino alla morte dʼEttore, mirabilmente commendando Achille. Compose
similmente lʼ_Odissea_, in ventiquattro libri partita, nella quale
tratta gli errori dʼUlisse, li quali dieci anni perseverarono dopo
il disfacimento di Troia. Scrisse similmente un libro delle laude
deglʼiddii, il cui titolo non mi ricorda dʼaver udito. Scrisse ancora
un libro, distinto in due, nel quale scrisse una battaglia, ovvero
guerra, stata tra le rane eʼ topi, la qual non finse senza maravigliosa
e laudevole intenzione. Compose, oltre a ciò, un libro della generazion
deglʼiddii, e composene uno chiamato _Egam_, la materia del quale non
trovai mai qual fosse; e similmente piú altri infino in tredici, deʼ
quali il tempo ogni cosa divorante, e massimamente dove la negligenza
degli uomini il permetta, ha non solamente tolta la notizia delle
materie, ma ancora li loro nomi nascosi, e spezialmente a noi latini.
E, accioché questo non sia pretermesso, in tanto pregio fu la sua
_Iliade_ appo gli scienziati e valenti uomini, che, avendo Alessandro
macedonio vinto Dario re di Persia, e presa Persida reale cittá, trovò
in essa tanto tesoro che, vedendolo, obstupefece; ed essendo in quello
molti e carissimi gioielli, trovò tra essi una cassetta preziosissima
per maestero e carissima per ornamento di pietre e di perle; e coʼ suoi
baroni, sí come scrive Quinto Curzio, il quale in leggiadro e laudevole
stilo scrisse lʼopere del detto Alessandro, come cosa mirabile
riguardandola, domandò qual cosa di quelle, che essi sapessero, paresse
loro piú tosto che alcuna altra da servare in cosí caro vasello. Non
vʼebbe alcuno che la real corona o lo scettro o altro reale ornamento
dicesse; ma tutti con Alessandro insieme in una sentenza concorsono,
cioè che sí preziosa cassa cosa alcuna piú degnamente serbar non potea
che la _Iliada_ dʼOmero: e cosí a servar questo libro fu deputata.

[Fu Omero nel mangiare e nel bere moderatissimo, e non solamente fu
di breve e poco sonno, ma quello prese con gran disagio; percioché, o
povertá o astinenza che ne fosse cagione, il suo dormire era in su un
pezzo di rete di funi, alquanto sospeso da terra, senza alcuni altri
panni. Fu, oltre a ciò, poverissimo tanto, che, essendo cieco, non
aveva di che potesse dare le spese ad un fanticello che il guidasse
per la via, quando in parte alcuna andar volesse: e la sua povertá era
volontaria, percioché delle temporali sustanze niente si curava. Fu
di piccola statura, con poca barba e con pochi capelli; di mansueto
animo e dʼonesta vita e di poche parole. Fu, oltre a ciò, alcuna
volta fieramente infestato dalla fortuna, e, tra lʼaltre, essendo in
Atene ed avendo parte della sua _Iliade_ recitata, il vollero gli
ateniesi lapidare, percioché in essa, poeticamente parlando, aveva
scritto glʼiddii lʼun contro allʼaltro aver combattuto, non sentendo
gli ateniesi ancora quali fossero i velamenti poetici, né quello che
per quelle battaglie deglʼiddii Omero sʼintendesse: e per questo,
credendosi lui esser pazzo, il vollero uccidere; e, se stato non fosse
un valente uomo e potente nella cittá, chiamato Leontonio, il quale
dal furioso émpito degli ateniesi il liberò, senza dubbio lʼavrebbono
ucciso. La quale bestiale ingiuria il povero poeta non lasciò senza
vendetta passare, percioché, appresso questo, egli scrisse un libro
il cui titolo fu _De verbositate Atheniensium_, nel quale egli morse
fieramente i vizi degli ateniesi, mostrando nel vulgo di quegli nulla
altra cosa essere che parole. E altra fiata, essendo chiamato da
Ermolao, re ovvero tiranno dʼAtene, quasi sprezzandolo, disse che,
per lui né per tutto il suo regno, non vorrebbe perdere una menoma
sillaba dʼun suo verso, e che esso coʼ suoi versi possedeva maggior
regno che Ermolao non faceva con la sua gente dʼarme. Per la qual cosa,
turbato, Ermolao il fece prendere e crudelmente battere e poi metterlo
in pregione; nella quale avendolo otto mesi tenuto, né per questo
vedendolo piegarsi in parte alcuna dalla libertá dellʼanimo suo, il
fece lasciare; né poté fare che con lui volesse rimanere.]

[Della morte sua, secondo che scrive Callimaco, fu uno strano accidente
cagione; percioché, essendo egli in Arcadia ed andando solo su per lo
lito del mare, sentí pescatori, li quali sovra uno scoglio si stavano,
forse tendendo o racconciando lor reti: li quali esso domandò se
preso avessero, intendendo seco medesimo deʼ pesci. Costoro risposero
che quegli, che presi aveano, avean perduti, e quegli, che presi non
aveano, se ne portavano. Era stata fortuna in mare, e però, non avendo
i pescatori potuto pescare, come loro usanza è, sʼerano stati al sole,
e i vestimenti loro aveano cerchi e purgati di queʼ vermini che in
essi nascono: e quegli, che nel cercar trovati e presi aveano, gli
aveano uccisi, e quegli, che presi non aveano, essendosi neʼ vestimenti
rimasi, ne portavan seco. Omero, udita la risposta deʼ pescatori, ed
essendogli oscura, mentre al doverla intendere andava sospeso, per
caso percosse in una pietra, per la qual cosa cadde, e fieramente nel
cader percosse, e di quella percossa il terzo dí appresso si morí.
Alcuni voglion dire che, non potendo intender la risposta fattagli daʼ
pescatori, entrò in tanta maninconia, che una febbre il prese, della
quale in pochi dí si morí, e poveramente in Arcadia fu seppellito;
onde poi, portando gli ateniesi le sue ossa in Atene, in quella
onorevolmente il seppellirono].

Fu adunque costui estimato il piú solenne poeta che avesse Grecia,
né fu pure appo i greci in sommo pregio, ma ancora appo i latini in
tanta grazia, che per molti eccellenti uomini si trova essere stato
maravigliosamente commendato: e intra gli altri nel quinto delle sue
_Quistioni tusculane_ scrive Tullio cosí di lui: «_Traditum est etiam
Homerum caecum fuisse: at eius picturam, non poësin videmus. Quae
regio, quae ora, qui locus Graeciae, quae species formae, quae pugna
quaeque artes, quod remigium, qui motus hominum, qui ferarum non ita
expictus est, ut quae ipse non viderit, nos ut videremus effecerit?_»,
ecc. Né si sono vergognati i nostri poeti di seguire in molte cose le
sue vestigie, e massimamente Virgilio; per la qual cosa meritamente qui
il nostro autore il chiama «poeta sovrano».

[Fiorí adunque questo mirabile uomo, chiamato da Giustiniano cesare
padre dʼogni virtú, secondo lʼopinione dʼalcuni, neʼ tempi che Melanto
regnava in Atene, ed Enea Silvio regnava in Alba. Eratostene dice che
egli fu cento anni poi che Troia fu presa. Aristarco dice lui essere
stato dopo lʼemigrazion ionica cento anni, regnante Echestrato re di
Lacedemonia e Latino Silvio re dʼAlba. Altri voglion che fosse dopo
questo tempo detto, essendo Labot re di Lacedemonia ed Alba Silvio
re dʼAlba. Filocoro dice che egli fu aʼ tempi di Archippo, il quale
era appo gli ateniesi nel supremo maestrato, cioè centonovanta anni
dopo la presura di Troia. Archiloco dice che egli fu corrente la
ventitreesima olimpiade, cioè cinquecento anni dopo il disfacimento
di Troia. Apollodoro grammatico ed Euforbo istoriografo testimoniano
Omero essere stato avanti che Roma fosse fatta, centoventiquattro anni:
e, come dice Cornelio Nepote, avanti la prima olimpiade cento anni,
regnante appo i latini Agrippa Silvio ed in Lacedemonia Archelao. Del
quale per ciò cosí particulare investigazion del suo tempo ho fatta,
perché comprender si possa, poi tanti valenti uomini di lui scrissero,
quantunque concordi non fossero, ciò avvenuto non poter essere se non
per la sua preeminenza singulare].

[Nota: Lez. XIII]

«Lʼaltro è Orazio satira, che viene». Orazio Flacco fu di nazione assai
umile e depressa, percioché egli fu figliuolo dʼuomo libertino: e
«libertini» si dicevan quegli, li quali erano stati figliuoli dʼalcun
servo, il quale dal suo signore fosse stato in libertá ridotto, e
chiamavansi questi cotali «liberti»; e fu di Venosa, cittá di Puglia,
e nacque sedici anni avanti che Giulio Cesare fosse fatto dettatore
perpetuo. Dove si studiasse, e sotto cui, non lessi mai che io mi
ricordi; ma uomo dʼaltissima scienza e di profonda fu, e massimamente
in poesia fu espertissimo. La dimora sua, per quello che comprender si
possa nelle sue opere, fu il piú a Roma, dove venuto, meritò la grazia
dʼOttavian Cesare, e fugli conceduto dʼessere dellʼordine equestre,
il quale in Roma a queʼ tempi era venerabile assai. Fu, oltre a ciò,
fatto maestro della scena; e singularmente usò lʼamistá di Mecenate,
nobilissimo uomo di Roma ed in poesia ottimamente ammaestro. Usò
similmente quella di Virgilio e dʼalcuni altri eccellenti uomini; e
fu il primiero poeta che in Italia recò lo stile deʼ versi lirici, il
quale, come che in Roma conosciuto non fosse, era lungamente davanti
da altre nazioni avuto in pregio, e massimamente appo gli ebrei;
percioché, secondo che san Geronimo scrive nel proemio _libri Temporum_
dʼEusebio cesariense, il quale esso traslatò di greco in latino, in
versi lirici fu daʼ salmisti composto il salterio. E questo stile usò
Orazio in un suo libro, il quale è nominato _Ode_. Compose, oltre a
ciò, un libro chiamato _Poetria_, nel quale egli ammaestra coloro,
li quali a poesia vogliono attendere, di quello che operando seguir
debbono e di quello da che si debbon guardare, volendo laudevolmente
comporre. Negli altri suoi libri, sí come nelle _Pistole_ e nei
_Sermoni_, fu acerrimo riprenditore deʼ vizi; per la qual cosa meritò
dʼessere chiamato poeta «satiro». Altri libri deʼ suoi, che i quattro
predetti, non credo si truovino. Morí in Roma dʼetá di cinquantasette
anni, secondo Eusebio dice _in libro Temporum_, lʼanno trentasei dello
ʼmperio dʼOttaviano Augusto.

«Ovidio è il terzo». Publio Ovidio Nasone fu nativo della cittá di
Sulmona in Abruzzo, sí come egli medesimo in un suo libro, il quale si
chiama _De tristibus_, testimonia, dicendo:

  _Sulmo mihi patria est, gelidis uberrimus undis,
  milia qui decies distat ab Urbe novem._

E, secondo che Eusebio _in libro Temporum_ dice, egli nacque nella
patria sua il primo anno del triumvirato di Ottaviano Cesare: e fu
di famiglia assai onesta di quella cittá, e dalla sua fanciullezza
maravigliosamente fu il suo ingegno inchinevole agli studi della
scienza. Per la qual cosa, sí come esso mostra nel preallegato libro,
il padre piú volte si sforzò di farlo studiare in legge, sí come faceva
un suo fratello, il quale era di piú tempo di lui; ma, traendolo la sua
natura agli studi poetici, avveniva che, non che egli in legge potesse
studiare, ma, sforzandosi talvolta di volere alcuna cosa scrivere in
soluto stile, quasi senza avvedersene, gli venivano scritti versi; per
la qual cosa esso dice nel detto libro:

  _Quidquid conabar scribere, versus erat._

Della qual cosa il padre, dice, che piú volte il riprese, dicendo:

  _Saepe pater dixit:—Studium quid inutile temptas?
  Maeonides nullas ipse reliquit opes.—_

Per la qual cosa, eziandio contro al piacer del padre, si diede tutto
alla poesia; e, divenuto in ciò eruditissimo uomo, lasciata la patria,
se ne venne a Roma, giá imperando Ottaviano Augusto, dove singularmente
meritò la grazia e la familiaritá di lui; e per la sua opera fu
ascritto allʼordine equestre, il quale, per quello che io possa
comprendere, era quel medesimo che noi oggi chiamiamo «cavalleria»; e,
oltre a ciò, fu sommamente nellʼamore deʼ romani giovani.

Compose costui piú libri, essendo in Roma, deʼ quali fu il primo quello
che chiamiamo lʼ_Epistole_. Appresso ne compose uno, partito in tre, il
quale alcuno chiama _Liber amorum_, altri il chiamano _Sine titulo_: e
può lʼun titolo e lʼaltro avere, percioché dʼalcunʼaltra cosa non parla
che di suoi innamoramenti e di sue lascivie usate con una giovane amata
da lui, la quale egli nomina Corinna; e puossi dire similmente Sine
titulo, percioché dʼalcuna materia continuata, della quale si possa
intitolare, non favella, ma alquanti versi dʼuna e alquanti dʼunʼaltra,
e cosí possiamo dir di pezzi, dicendo, procede. Compose ancora un
libro, il quale egli intitolò _De fastis et nefastis_, cioè deʼ dí neʼ
quali era licito di fare alcuna cosa e di quegli che licito non era,
narrando in quello le feste eʼ dí solenni deglʼiddii deʼ romani, ed in
che tempo e giorno vengano, come appo noi fanno i nostri calendari;
e questo libro è partito in sei libri, nei quali tratta di sei mesi:
e per questo appare non esser compiuto, o che piú non ne facesse, o
che perduti sien gli altri. Fece, oltre a questo, un libro, il quale
è partito in tre, e chiamasi _De arte amandi_, dove egli insegna e
aʼ giovani ed alle fanciulle amare. E, oltre a questo, ne fece un
altro, il quale intitolò _De remedio_, dove egli sʼingegna dʼinsegnare
disamorare. E fece piú altri piccioli libretti, li quali tutti sono in
versi elegiati, nel quale stilo egli valse piú che alcun altro poeta.
Ultimamente compose il suo maggior volume in versi esametri, e questo
distinse in quindici libri; e secondo che esso medesimo scrive nel
libro _De tristibus_, convenendogli di Roma andare in esilio, non ebbe
spazio dʼemendarlo.

Appresso, qual che la cagion si fosse, venuto in indegnazione
dʼOttaviano, per comandamento di lui ne gli convenne, ogni sua cosa
lasciata, andare in una isola, la quale è nel Mar maggiore, chiamata
Tomitania: ed in quella relegato da Ottaviano, stette infino alla
morte. E questa isola nella piú lontana parte che sia nel Mar maggiore
nella foce dʼun fiume deʼ colchi, il quale si chiama _Phasis_. E in
questo esilio dimorando, compose alcuni libri, sí come fu quello _De
tristibus_, in tre libri partito. Composevi quello, il quale egli
intitolò _In Ibin_. Composevi quello che egli intitola _De Ponto_, e
tutti sono in versi elegiati, come quelli che di sopra dicemmo.

La cagione per la quale fu da Ottaviano in Tomitania rilegato, sí come
egli scrive nel libro _De tristibus_, mostra fosse lʼuna delle due o
amendue; e questo mostra scrivendo:

  _Perdiderunt me cum duo crimina, carmen et error._

La prima adunque dice che fu lʼaver veduta alcuna cosa dʼOttavian
Cesare, la quale esso Ottaviano non avrebbe voluto che alcuno veduta
avesse: e di questa si duol molto nel detto libro, dicendo:

  _Cur aliquid vidi, cur lumina noxia feci?_

Ma che cosa questa si fosse, in alcuna parte non iscrive, dicendo
convenirgliele tacere, quivi:

  _Alterius facti culpa silenda mihi est._

La seconda cagione dice che fu lʼavere composto il libro _De arte
amandi_, il quale pareva molto dover adoperare contro aʼ buon costumi
deʼ giovani e delle donne di Roma. E di questo nel detto libro si duol
molto, e quanto può sʼingegna di mostrare questo peccato non aver
meritata quella pena. Alcuni aggiungono una terza cagione, e vogliono
lui essersi inteso in Livia moglie dʼOttaviano, e lei esser quella
la quale esso sovente nomina Corinna; e di questo essendo nata in
Ottaviano alcuna sospezione, essere stata cagione dello esilio datogli.
Ultimamente, essendo giá dʼetá di cinquantotto anni, lʼanno quarto di
Tiberio Cesare, secondo che Eusebio _in libro Temporum_ scrive, nella
predetta isola Tomitania finí i giorni suoi, e quivi fu seppellito.

Sono nondimeno alcuni li quali mostrano credere lui essere stato
rivocato da Ottaviano a Roma: della qual tornata molti romani facendo
mirabil festa, e per questo a lui ritornante fattisi incontro, fu tanta
la moltitudine, la quale senza alcuno ordine, volendogli ciascun far
motto e festa, che nel mezzo di sé inconsideratamente stringendolo, il
costrinse a morire.

«E lʼultimo è Lucano». Il nome di costui, secondo che Eusebio _in libro
Temporum_ scrive, fu Marco Anneo Lucano. Dove nascesse, o in Corduba,
donde i suoi furono, o in Roma, non è assai chiaro. Fu figliuolo di
Lucio Anneo Mela e dʼAtilla sua moglie; il quale Anneo Mela fu fratel
carnale di Seneca morale, maestro di Nerone. Giovane uomo fu e di
laudevole ingegno molto, sí come nel libro _Delle guerre cittadine_
tra Cesare e Pompeo, da lui composto, appare. Fu alquanto presuntuoso
in estimare della sua sufficienza, oltre al convenevole; percioché
si legge che, avendo egli alcuna volta con gli amici suoi conferito,
leggendo, del suo libro, dovette una volta dire:—Che dite? mancaci
cosa alcuna ad essere equale al Culice?—Culice fu un libretto metrico,
il quale compose Virgilio, essendo ancora giovanetto: e posto che sia
laudevole e bello, non è però da comparare allʼ_Eneida_: e quantunque
Lucano il Culice nominasse, fu assai bene dagli amici compreso (in sí
fatta maniera il disse) che egli voleva che sʼintendesse se alcuna cosa
pareva loro che al suo lavoro mancasse ad essere equale allʼ_Eneida_;
della qual cosa esso maravigliosamente se medesimo ingannò. Appresso fu
costui, che cagion se ne fosse, assai male della grazia di Nerone, in
tanto che per Nerone fu proibito che i suoi versi non fossono da alcun
letti. Sono, oltre a ciò, e furono assai, li quali estimarono e stimano
costui non essere da mettere nel numero deʼ poeti, affermando essergli
stata negata la laurea dal senato, la quale come poeta addomandava: e
la cagione dicono essere stata, percioché nel collegio dei poeti fu
determinato costui non avere nella sua opera tenuto stilo poetico, ma
piú tosto di storiografo metrico: e questo assai leggermente si conosce
esser vero a chi riguarda lo stilo eroico dʼOmero o di Virgilio, o il
tragedo di Seneca poeta, o il comico di Plauto o di Terenzio, o il
satiro dʼOrazio o di Persio o di Giovenale, con quello deʼ quali quello
di Lucano non è in alcuna cosa conforme: ma come chʼeʼ si trattasse,
maravigliosa eccellenza dʼingegno dimostra. Esso, ancora assai giovane
uomo, fu da Nerone Cesare trovato essere in una congiurazione fatta
contro a lui da un nobile giovane romano chiamato Pisone, con molti
altri consenziente: e ritenuto per quella, avendo veduto, secondo che
Cornelio Tacito scrive, una femmina volgare chiamata Epicari, avere
tutti i tormenti vinti, e ultimamente uccisasi, avanti che alcun deʼ
congiurati nominar volesse; non solamente alcuno nʼaspettò per non
accusare se medesimo, ma eziandio non sofferse di vedere né i tormenti
né i tormentatori, ma, come domandato fu se in questa congiurazione era
colpevole, prestamente il confessò, e non solamente gli bastò dʼavere
accusato sè, ma con seco insieme accusò Atilla sua madre. Per la qual
cosa morto giá Lucio Anneo Seneca, suo zio, essendo a Marco Annenio
commesso da Nerone che morire il facesse, si fece in un bagno aprir le
vene; e, sentendo giá per lo diminuimento del sangue le parti inferiori
divenir fredde, secondo che scrive il predetto Cornelio, ricordatosi
di certi versi giá composti da lui dʼuno uom dʼarme, il quale per
perdimento di sangue morire si vedeva, quegli aʼ circustanti raccontò,
ed in quegli lʼultime sue parole e la vita finirono.

«Peroché ciascun», di questi quattro nominati, «meco si conviene»,
cioè si confá o è conforme, «nel nome che sonò la voce sola», cioè
quella che dice che udí: «Onorate lʼaltissimo poeta». Nella qual voce
«sola» non è alcun altro nome sustantivo se non «poeta»: nel qual nome
dice questi quattro convenirsi con lui, in quanto ciascun di questi
quattro è cosí chiamato poeta come Virgilio: ma in altro con lui non si
convengono; percioché le materie, delle quali ciascun di loro parlò,
non furono uniformi con quella di che scrisse Virgilio: in quanto
Omero scrisse delle battaglie fatte a Troia e degli errori dʼUlisse,
Orazio scrisse ode e satire, Ovidio epistole e trasformazioni, Lucano
le guerre cittadine di Cesare e di Pompeo, e Virgilio scrisse la
venuta dʼEnea in Italia e le guerre quivi fatte da lui con Turno re
deʼ rutoli. «Fannomi onore, e di ciò fanno bene». Convenevole cosa è
onorare ogni uomo, ma spezialmente quegli li quali sono dʼuna medesima
professione, come costoro erano con Virgilio.

«Cosí», come scritto è, «vidi adunar», cioè congregare, essendosi
Virgilio congiunto con loro, «la bella scuola». «Scuola» in greco viene
a dire «convocazione» in latino, percioché per essa son convocati
coloro li quali disiderano sotto lʼaudienza deʼ piú savi apprendere; il
qual vocabolo, conciosiacosaché sia alquanto discrepante da quello che
lʼautore mostra di voler sentire, cioè non adunarsi la convocazione, ma
i convocati, nondimeno tollerar si può per licenza poetica, ed intender
per la «convocazione» i «convocati». «Di queʼ signor», cioè maestri e
maggiori, «dellʼaltissimo canto», cioè del parlar poetico, il quale
senza alcun dubbio ogni altro stilo trapassa, sí come nelle parole
seguenti lʼautor medesimo dice. «Che sopra ogni altro come aquila
vola». Cioè, come lʼaquila vola sopra ogni altro uccello, cosí il
canto poetico, e massimamente quello di questi poeti, vola sopra ogni
altro canto, e ancora sopra quello che alcun altro poeta da costoro in
fuori avesse fatto: il che, posto che dʼalcuni, non credo di tutti si
verificasse.

«E poi chʼegli ebber ragionato alquanto». Puossi qui comprendere per
lʼatto seguitone, che dice si volson verso lui «con salutevol cenno»,
che essi ragionassero dellʼautore, domandando gli altri Virgilio chi
fosse colui il quale seco menava: ed esso dicendolo loro, e commendando
lʼautore molto (come i valenti uomini fanno, che sempre commendano
coloro deʼ quali parlano, se giá non fossono evidentemente uomini
infami); ne seguí ciò che appresso dice, cioè: «Volsonsi a me con
salutevol cenno, E ʼl mio maestro sorrise di tanto», cioè rallegrossi,
come colui al quale dilettava uomini di tanta autoritá aver prestata
fede alle sue parole, e per quelle onorar colui, il quale esso
commendato avea. È nondimeno qui da considerare la parola che dice,
«sorrise», la qual molti prenderebbono non per essersi rallegrato, ma
quasi schernendo quello aver fatto: la qual cosa del tutto non è da
credere, percioché lʼautore non lʼavrebbe scritto, né è verisimile il
dottore farsi beffe deʼ suoi uditori; conciosiacosaché nellʼingegno
deʼ buoni uditori consista gran parte dellʼonor del dottore; ma senza
alcun dubbio puose lʼautore quella parola «sorrise» avvedutamente,
e la ragione può esser questa. È il riso solamente allʼumana spezie
conceduto: alcun altro animale non è che rida. E questo mostra avere
la natura voluto, accioché lʼuomo, non solamente parlando, ma ancora
per quello mostri lʼintrinsica qualitá del cuore, la letizia del quale
prestamente, molto piú che per le parole, si dimostra per lo riso. È il
vero che questo riso non in una medesima maniera lʼusano gli stolti che
fanno i savi; percioché i poco avveduti uomini fanno le piú delle volte
un riso grasso e sonoro, il quale rende la faccia deforme e fa lagrimar
gli occhi e ampliar la gola e doler gli emuntori del cerebro e le parti
interiori del corpo vicine al polmone; e questo non è laudevole. Ma
i savi non ridono a questo modo, anzi, quando odono o veggono cosa
che piaccia loro, sorridono, e di questo scintilla per gli occhi una
letizia piacevole, la quale rende la faccia piú bella assai che non
è senza quello. Per che assai ben comprender si puote, lʼautore aver
detto Virgilio, come savio, aver sorriso di quello che a grado gli fu.
Sono nondimeno alcuni che par talvolta che sorridano quando alcuna cosa
scherniscono, o talvolta, sdegnando, si turbano. Questo non è da dir
«sorridere», anzi è «ghignare»; e procede non da letizia, ma da malizia
dʼanimo, per la qual ci sforziamo di volere frodolentemente mostrare
che ci piaccia quello che ci dispiace.

«E piú dʼonore ancora assai mi fenno», cioè feciono, non essendo
contenti solamente ad averlo salutato. E lʼonor che gli fecero fu
questo: «Che eʼ mi fecer della loro schiera», cioè mi dichiariron fra
loro esser poeta; e questo propriamente aspetta a coloro, li quali
conoscono e sanno che cosa sia poesia, sí come uomini che in quella
sono ammaestrati: e questo fu per certo solenne onore. «Sí chʼio fui
sesto tra cotanto senno», cioè traʼ cinque altri cosí notabili poeti,
io mi trovai essere stato sesto in numero; in sofficienza non dice,
percioché sarebbe paruto troppo superbo parlare. Molti nondimeno
redarguiscono per questa parola lʼautor di iattanza, dicendo ad alcuno
non star bene né esser dicevole il commendar se medesimo; la qual
cosa è vera: nondimeno il tacer di se medesimo la veritá alcuna volta
sarebbe dannoso; e perciò par di necessitá il commendarsi dʼalcun
suo laudevole merito alcuna fiata. E questo nʼè assai dichiarato per
Virgilio pel primo dellʼ_Eneida_, laddove esso discrive Enea essere
stato sospinto da tempestoso mare nel lito affricano, dove non sapendo
in che parte si fosse, e trovando la madre in forma di cacciatrice in
un bosco, e da lei domandato chi egli fosse, il fa rispondere:

  _Sum pius Aeneas, fama super aethera notus._

Direm noi qui Virgilio, uomo pieno di tanto avvedimento e intento a
dimostrare Enea essere stato in ciascuna sua operazione prudentissimo
uomo, aver fatto rispondere Enea contro al buon costume? Certo no: Né
è da credere lui senza gran cagione aver ciò fatto. Che dunque diremo?
Che, considerato il luogo nel quale Enea era, gli fu di necessitá,
rispondendo, di commendar se medesimo; percioché, se di sé quivi avesse
taciuta la veritá, ne gli potea assai sconcio seguire, in quanto non
sarebbe stato a cui caler di lui, che aveva bisogno, sí come naufrago,
della sovvenzione deʼ paesani: il quale non è dubbio niuno, che,
avendo di se medesimo detto il vero, cioè che egli non rubatore, non
di vil condizione, ma che pietoso uomo era, e ancora molto per fama
conosciuto, avrebbe molto piú tosto trovato che se questo avesse
taciuto. E, accioché a provare questa veritá aiutino i divini esempli,
mi piace di producere in mezzo quello che noi nello Evangelio leggiamo,
cioè che Cristo figliuol di Dio, avendo il dí della sua ultima cena in
terra lavati i piedi aʼ suoi discepoli, tra lʼaltre cose da lui dette
loro in ammaestramento, disse queste parole:—«Voi mi chiamate Maestro
e Signore, e fate bene, percioché io sono».—Direm noi in questo Cristo
aver peccato? o contro ad alcun buon costume avere adoperato? Certo
no, percioché né in questo né in altra cosa peccò giammai colui che
era toglitore deʼ peccati, e che col suo preziosissimo sangue lavò
le colpe nostre: anzi cosí questo come gli altri suoi atti tutti
ottimamente fece; percioché, se cosí fatto non avesse, non avrebbe dato
lʼesempio dellʼumiltá aʼ suoi discepoli, il quale lavando loro i piedi
aveva inteso di dare, se confessato non avesse, anzi detto, esser loro
maestro e signore, come il chiamavano. Il che assai si vede per le
parole seguenti dove dice:—«E se io, il quale voi chiamate Maestro e
Signore, e cosí sono, ho fatto questo di lavarvi i piedi: cosí dovrete
voi lʼuno allʼaltro lavare i piedi. Io vʼho dato lʼesempio. Come io ho
fatto a voi, e cosí similmente fate voi»,—ecc. Adunque è talvolta di
necessitá di parlar bene di se medesimo, senza incorrere nel disonesto
peccato della iattanza: e cosí si può dire che qui facesse lʼautore.

[Dissesi di sopra, nella esposizione del titolo generale della presente
opera, però convenirsi cognoscere e sapere chi stato fosse lʼautore
dʼalcun libro, per discernere se da prestar fosse fede alle cose
dette da lui, la qual molto pende dallʼautoritá dʼesso. E perciò qui
lʼautore, dovendo in questo suo trattato poeticamente scrivere dello
stato dellʼanime dopo la morte temporale, accioché prestata gli sia
fede, di necessitá confessa qui esser daʼ poeti dichiarato poeta.]

«Cosí andammo infino alla lumera». Questa è la terza parte della
seconda principale, nella quale esso dice come con quegli cinque poeti
entrasse in un castello, nel quale vide i magnifichi spiriti, e di
quegli alquanti nomina. Dice adunque: «Cosí andammo», questi cinque
poeti ed io, «infino alla lumera», cioè insino al luogo dimostrato di
sopra, dove disse sé aver veduto un fuoco, il quale vinceva emisperio
di tenebre; «Parlando», insieme, «cose, che il tacere è bello»,
cioè onesto, «Cosí come», era bello, «il parlar», di quelle cose,
«colá dovʼera». Intorno a queste parole sono alcuni che si sforzano
dʼindovinare quello che debbano poter aver ragionato questi savi: il
che mi par fatica superflua. Che abbiam noi a cercar che ciò si fosse,
poi che lʼautore il volle tacere? «Venimmo a piè dʼun nobile castello»,
cioè nobilmente edificato, «Sette volte cerchiato dʼalte mura, Difeso
intorno», cioè circundato, «dʼun bel fiumicello». «Questo», fiumicello,
«passammo come terra dura», cioè non altrimenti che se terra dura
stato fosse; «Per sette porti», le quali il castello avea, come sette
cerchi di mura, «entrai con questi savi», predetti; «Venimmo», passate
le sette porti, «in prato di fresca verdura». Allegoricamente è da
intendere il castello e la verdura, percioché né edificio alcun vʼè,
né alcunʼerba può nascere nel ventre della terra, dove né sole né aere
puote intrare.

«Genti vʼavea». Venuti al luogo dove i famosi sono, discrive lʼautor
primieramente alcuno deʼ lor costumi e modi, per li quali comprender
si puote loro esser persone di grande autoritá, e appresso ne nomina
una parte. Dice adunque: «Genti vʼavea», in quel luogo, «con occhi
tardi e gravi». Dimostrasi molto nel muover degli occhi della qualitá
dellʼanimo, percioché coloro, li quali muovono la luce dellʼocchio
soavemente o con tarditá, o con le palpebre quasi gravi in parte gli
cuoprono, dimostrano lʼanimo loro esser pesato neʼ consigli, e non
corrente nelle diliberazioni. «Di grande autoritá neʼ lor sembianti»,
in quanto sono nel viso modesti, guardandosi dal superchio e grasso
riso e dagli altri atti che abbiano a dimostrare levitá. «Parlavan
rado», percioché nel molto parlare, se necessitá non richiede, e ancora
nel troppo tosto e veloce parlare, non può esser gravitá; «con voci
soavi», percioché il gridare e lʼelevar la voce soperchio si manifesta
piú tosto abbondanza di cdldezza di cuore che modestia dʼanimo.
«Traemmoci cosí dallʼun deʼ canti», cioè dallʼuna delle parti di quel
luogo. E son prese queste parole dellʼautore da Virgilio nel sesto
dellʼ_Eneida_, ove dice:

  _Conventus trahit in medios, turbamque sonantem:
  et tumulum capit, unde omnes longo ordine possit
  adversos legere, et venientum discere vultus, ecc._

«In luogo aperto», cioè senza alcun ostacolo, «luminoso e alto»;
percioché, del pari, non si può vedere ogni cosa, «Sí che veder si
potean tutti quanti», quegli li quali quivi erano.

«Colá diritto, sopra ʼl verde smalto», cioè sopra il verde pavimento.
Il qual dice «verde», percioché di sopra ha detto: «Venimmo in prato di
fresca verdura», per che appare che il luogo era erboso; la qual cosa,
come poco avanti dissi, è contro a natura del luogo, e perciò si può
comprendere lui intendere altro sotto il velamento di questa verdura;
il che nella esposizione allegorica si dichiarerá. «Mi fûr mostrati»,
da quegli cinque poeti, «gli spiriti magni», cioè gli spiriti di coloro
li quali nella presente vita furono di grande animo, e furono nelle
loro operazioni magnifichi; «Che del vedere», cosí eccellenti spiriti,
«in me stesso nʼesalto», cioè me ne reputo in me medesimo esser
maggiore.

[Nota: Lez. XIV]

«Iʼ vidi Elettra». Elettra, questa della quale qui si dee credere
che lʼautore intenda, fu figliuola di Atalante e di Pleione; ma di
quale Atalante non so, percioché di due si legge che furono. Deʼ
quali lʼuno è questi, e piú famoso: fu re di Mauritania in ponente di
contro alla Spagna, ed il cui nome ancora tiene una gran montagna, la
quale, dal mare oceano Atalantiaco andando verso levante, persevera
molte giornate. Lʼaltro fu greco, e questi nondimeno fu famoso uomo.
Ragionasi, oltre a questi, esserne stato un terzo, e quello essere
stato toscano ed edificatore della cittá di Fiesole, del quale in
autentico libro non lessi giammai. Sono nondimeno di quegli che credono
lui essere stato il padre dʼElettra, né altro ne sanno mostrare, se
non la vicinanza del luogo dove maritata fu, cioè in Corito, cittá,
ovvero castello, non guari lontano a Roma. [Ebbe costei sei sirocchie,
chiamate con lei insieme Pliade, dal nome della madre, chiamata, come
detto è, Pleione: le quali sette sirocchie, secondo le favole deʼ
poeti, percioché nutricaron Bacco, meritarono essere trasportate in
cielo, ed in forma di stelle poste nel ginocchio del segno chiamato
Tauro. Delle quali scrive Ovidio nel suo _De fastis_ cosí:

  _Pliades incipiunt humeros relevare paternos:
    quae septem dici, sex tamen esse solent,_
  _Seu quod in amplexum sex hinc venere Deorum:
    nam Steropen Marti concubuisse ferunt,_
  _Neptuno Halcyonen, et te, formosea Celaeno:
    Maian et Electron Taygetenque lovi:_
  _septima mortali Merope tibi, Sisyphe, nupsit.
    Poenitet: et facti sola pudore latet._
  _Sive quod Electra Troiae spectare ruinas
    non tulit, ante oculos opposuitque manum._

Secondo gli astrologi, lʼuna di queste sette stelle è nebulosa, e
però come lʼaltre non apparisce. Chiamanle quelle stelle i latini
«virgiliane». Anselmo, _in libro De imagine mundi_, dice che queste
stelle non si chiamano Pliade dal nome della madre loro, ma dalla
quantitá, percioché «_plion_» in greco viene a dire «moltitudine» in
latino. «Virgilie» son chiamate, percioché in quelli tempi, che i
virgulti cominciano a nascere, si cominciano a levare, cioè allʼentrata
di marzo. Il numero loro, che son sette, puote aver data cagione
alla favola, percioché, essendo simili in numero alle predette sette
stelle, furon cominciate a chiamare dalla gente per lo nome di quelle
stelle; e, perseverando eziandio dopo la morte loro questo nome,
furon dal vulgo stolto credute essere state trasportate in cielo.
Lʼavere nutricato Bacco può essere preso da questo: quando il sole
è in Vergine, queste stelle dopo alquanto di notte si levano, e con
la loro umiditá riconfortano le vigne, le quali per lo calor del dí
sono faticate, avendo patito mancamento dʼumido. Che esse abbiano
nutrito Giove si dice per questa cagione: Giove alcuna volta sʼintende
per lo elemento del fuoco e dellʼaere, e se nellʼaere umiditá non
fosse, per la quale il calor del fuoco a lei vicino si temperasse,
lʼaere non potrebbe i suoi effetti adoperare, sí sarebbe affocata:
adunque lʼumiditá di queste stelle, che è molta, è cagione di questa
sustentazione, e per conseguente di nutrimento.] E fu costei moglie di
Corito, re della sopra detta cittá di Corito, la quale estimo da lui
denominata fosse. E sono di quegli che vogliono questo Corito essere
quella terra la qual noi oggi chiamiamo Corneto; e a questa intenzione
forse agevolmente sʼadatterebbe il nome, percioché, aggiunta una «n»
al nome di Corito, fará Cornito: e queste addizioni, diminuizioni
e permutazioni di lettere essere neʼ nomi antichi fatte sovente si
truovano.

Essendo adunqe costei, come detto è, moglie di Corito re, gli partorí
tre figliuoli, Dardano e Iasio e Italo: né altro di lei mi ricorda aver
letto giammai che memorabile sia. Credo adunque per questo saranno
di quegli che si maraviglieranno perché tra gli spiriti magni non
solamente dallʼautor posta sia, ma ancora perché la prima nominata:
della qual cosa può essere la cagion questa. Volle, per quello che io
estimo, lʼautore porre qui il fondamento primo della troiana progenie
(e per conseguente deʼ discendenti dʼEnea) e della famiglia deʼ Iulii,
le quali, o vogliam dir la quale, piú che alcunʼaltra è stata reputata
splendida per nobiltá di sangue, e, oltre a questo, quella che in
piú secoli è perseverata neʼ suoi successori: percioché, come assai
manifestamente per autentichi libri si comprende, per quattro o per
cinque mezzi discendendo, per diritta linea si pervenne da Dardano,
figliuolo dʼElettra, ad Anchise, e da Anchise, per diciasette o forse
diciotto, si pervenne in Numitore, padre dʼIlia, madre di Romolo,
edificatore di Roma; e per Giulio Proculo, figliuolo dʼAgrippa Silvio,
che deʼ discendenti dʼEnea fu, si fondò in Roma la famiglia Iulia,
parte della quale furono i Cesari, li quali perseverarono infino in
Neron Cesare. E dʼaltra parte, secondo che alcuni si fanno a credere,
essendo per piú mezzi Ettor disceso di Dardano, dicono che, dopo il
disfacimento dʼIlione, certi figliuoli dʼEttore essersene andati in
Trazia, e quivi aver fatta una cittá chiamata Sicambria; e deʼ lor
discendenti, dopo lungo tempo, esserne andati su per lo Danubio e
pervenuti infino sopra il Reno, il quale Germania divide daʼ Galli;
e appresso, dopo piú centinaia dʼanni, dietro a due giovani reali di
quella schiatta discesi, deʼ quali lʼun dicono essere stato chiamato
Francone e lʼaltro Marcomanno, essere passati in Gallia, e quivi aver
data origine e principio alla progenie deʼ reali di Francia: e cosí
infino aʼ nostri di voglion dire che pervenuta sia.

Ma potrebbe nondimeno dire alcuno: se lʼautore voleva il principio di
cosí nobile e cosí antica schiatta porre, perché non poneva egli Corito
il marito di questa Elettra? A che si può cosí rispondere: perché,
conciosiacosaché di questa origine fosse Dardano, figliuolo dʼElettra,
cominciamento, per gli errori degli antichi si dubitò di cui Dardano
fosse stato figliuolo, o di Corito o di Giove: e però, non avendo
questo certo, volle porre lʼautore inizio di questa progenie colei di
cui era certo Dardano essere stato figliuolo. E il credere che Dardano
fosse stato figliuol di Giove nacque da questo: che, essendo morto
Corito, e per la successione del regno nata quistione tra Dardano e
Iasio, avvenne che Dardano uccise Iasio; di che vedendo egli i sudditi
turbati, prese navi e parte del popolo suo, e, da Corito partitosi,
dopo alcune altre stanzie, pervenne in Frigia, provincia della minore
Asia, dove un re chiamato Tantalo regnava: dal quale in parte del
reggimento ricevuto, fece una cittá la quale nominò Dardania; aʼ suoi
cittadini diede ottime e laudevoli leggi: ed essendo umano e benigno
uomo e giustissimo, estimarono quegli cotali lui non essere stato
figliuolo dʼuomo, ma di Giove: e questo, percioché le sue operazioni
erano molto conformi agli effetti di quel pianeto, il quale noi
chiamiamo Giove. [E regnò questo Dardano, secondo che scrive Eusebio
_in libro Temporum_, aʼ tempi di Moisé, regnando in Argo Steleno: e in
Frigia pervenne lʼanno del mondo tremila settecentotrentasette]. Cosí
adunque quello che prima era certo, cioè lui essere stato figliuolo di
Corito, si convertí in dubbio, e però non il padre, ma la madre, come
detto è, puose in questo luogo primiera.

«Con molti compagni.» Questi estimo erano deʼ discesi di lei, traʼ
quali ne furono alquanti, piú che gli altri famosi e laudevoli uomini.
Deʼ quali compagni ne nomina lʼautore alcuno, dicendo:

«Traʼ quai conobbi», per fama, «Ettore», figliuol di Priamo, re di
Troia, e dʼEcuba. Costui si crede che fosse in fatti dʼarme e forza
corporale tra tutti i mortali maravigliosissimo uomo, e cosí appare
nella _Iliada_ dʼOmero per tutto. Ultimamente, avendo molte vittorie
avute deʼ greci, avvenne che, avendo Achille, ad istanzia deʼ prieghi
di Nestore, non volendo combattere egli, conceduto a Patrocolo,
suo singulare amico, che egli per un dí si vestisse lʼarmi sue, e
Patrocolo con esse in dosso essendo disceso nella battaglia, come da
Ettor fu veduto, fu da lui estimato esso essere Achille: per la qual
cosa dirizzatosi verso lui, senza troppo affanno vintolo, lʼuccise,
e spogliògli quelle armi, e, quasi dʼAchille tronfando, se ne tornò
con esse nella cittá. La qual cosa avendo Achille sentita, pianta
amaramente la morte del suo amico, e altre armi trovate, discese
fieramente animoso contro ad Ettore nella battaglia. Avvenutosi ad
Ettore, con lui combatté e, ultimamente vintolo, lʼuccise. E tanto
poté in lui lʼodio, il quale gli portava per la morte di Patrocolo,
che, spogliatogli lʼarmi, e legato il morto corpo dietro al carro
suo, tre volte intorno intorno alla cittá dʼIlione lo strascinò: e
quindi alla tenda sua ritornato, il guardò dodici dí senza sepoltura,
infino a tanto che Priamo, di notte e nascostamente venuto alla sua
tenda, quello con grandissimo tesoro e molte care gioie ricomperò, e,
portatonelo nella cittá, con molte sue lacrime e degli altri suoi e di
tutti i troiani, onorevolmente il seppellí.

«Ed Enea». Questi fu figliuolo, secondo che i poeti scrivono, dʼAnchise
troiano e di Venere, e nacque sopra il fiume chiamato Simoente,
non guari lontano ad Ilione, al quale poi Priamo, re di Troia,
splendidissimo signore, diede Creusa, sua figliuola, per moglie,
e di lei ebbe un figliuolo chiamato Ascanio. Fu in arme valoroso
uomo, e tra gli altri nobili troiani andò in Grecia con Paris quando
egli rapí Elena: la qual cosa mostrò sempre che gli spiacesse. Non
pertanto valorosamente contro aʼ greci combatté molte volte per la
salute della patria, e tra lʼaltre si mise una volta a combattere con
Achille, non senza suo gran pericolo. In Troia fu sempre ricevitore
degli ambasciatori greci: per le quali cose, essendo Ilion preso dai
greci, in luogo di guiderdone gli fu conceduto di potersi, con quella
quantitá dʼuomini che gli piacesse, del paese di Troia partirsi e
andare dove piú gli piacesse. Per la qual concessione prese le venti
navi, con le quali Paris era primieramente andato in Grecia, e in
quelle messi quegli troiani alli quali piacque di venir con lui, e
similemente il padre di lui ed il figliuolo, e, secondo che ad alcuni
piace, uccisa Creusa, lasciato il troiano lito, primieramente trapassò
in Trazia, e quivi fece una cittá, la quale del suo nome nominò Enea,
nella qual poi esso lungamente fu adorato e onorato di sacrifici come
Iddio, sí come Tito Livio nel quarantesimo libro scrive. E quindi poi,
sospettando di Polinestore re, il quale dislealmente per avarizia
aveva ucciso Polidoro, figliuol di Priamo, si partí, e andonne con la
sua compagnia in Creti, donde, costretto da pestilenza del cielo, si
partí e vennene in Cicilia, dove Anchise morí appo la cittá di Trapani.
Ed esso poi per passare in Italia rimontato coʼ suoi amici sopra le
navi, e lasciata ad Aceste, nato del sangue troiano, una cittá da lui
fatta, chiamata Acesta, in servigio di coloro li quali seguir nol
poteano, secondo che Virgilio dice, da tempestoso tempo trasportato in
Affrica, e quivi da Didone, reina di Cartagine, ricevuto ed onorato,
per alcuno spazio di tempo dimorò. Poi da essa partendosi, essendo giá
sette anni errato, pervenne in Italia, e nel seno Baiano, non guari
lontano a Napoli, smontato, quivi per arte nigromantica, appo il lago
dʼAverno, ebbe con gli spiriti immondi, di quello che per innanzi far
dovesse, consiglio; e quindi partitosi, lá dove è oggi la cittá di
Gaeta perdé la nutrice sua, il cui nome era Gaeta, e sopra le sue ossa
fondò quella cittá, e dal nome di lei la dinominò; e quindi venuto
nella foce del Tevero, ed essendogli, secondo che dice Servio, venuto
meno il lume dʼuna stella, la quale dice essere stata Venere, estimò
dovere esser quivi il fine del suo cammino. Ed entrato nella foce, e
su per lo fiume salito con le sue navi, lá dove è oggi Roma, fu da
Evandro re ricevuto e onorato; e in compagnia di lui essendo, da Latino
re deʼ laurenti gli fu data per moglie la figliuola, chiamata Lavina,
la quale primieramente aveva promessa a Turno, figliuolo di Dauno, re
deʼ rutoli. Per la qual cosa nacque guerra tra Turno e lui, e molte
battaglie vi furono, e, secondo che scrive Virgilio, egli uccise Turno.
Ma alcuni altri sentono altrimenti.

Della morte sua non è una medesima opinione in tutti. Scrive Servio
che Caton dice che, andando i compagni dʼEnea predando appo Lauro
Lavinio, sʼincominciò a combattere, ed in quella battaglia fu ucciso
Latino re da Enea, il quale Enea poi non fu riveduto. Altri dicono che,
avendo Enea avuta vittoria deʼ rutoli, e sacrificando sopra il fiume
chiamato Numico, che esso cadde nel detto fiume e in quello annegò, né
mai si poté il suo corpo ritrovare: e questo assai elegantemente tocca
Virgilio nel quarto dellʼ_Eneida_, dove pone le bestemmie mandategli da
Didone, dicendo:

  _At bello audacis populi vexatus, et armis,
  finibus extorris, complexu avulsus Iuli,
  auxilium imploret, videatque indigna suorum
  funera: nec, cum se sub lege pacis iniquae
  tradiderit, regno aut optata luce fruatur:
  sed cadat ante diem, mediaque inhumatus arena.
  Hoc precor,_ ecc.

E Virgilio medesimo mostra lui essere stato ucciso da Turno, dove nel
libro decimo dellʼ_Eneida_ finge che Giunone, sollecita di Turno, nel
mezzo ardore della battaglia prende la forma dʼEnea, e, seguitata da
Turno, fugge alle navi dʼEnea, e infino in su le navi essere stata
seguitata da Turno, e quindi sparitagli dinanzi: la qual fuga si tiene
che non fosse fittizia, ma vera fuga dʼEnea, e che, quivi morto, esso
cadesse nel fiume. Ma, come che egli morisse, fu da quegli della
contrada deificato e chiamato Giove indigete.

«Cesare armato». Gaio Giulio Cesare fu figliuol di Lucio Giulio Cesare,
disceso dʼEnea, come di sopra è dimostrato, e dʼAurelia, discesa
della schiatta dʼAnco Marcio, re deʼ romani. Né fu, come si dice,
denominato Cesare, percioché del ventre della madre tagliato, fosse
tratto avanti il tempo del suo nascimento, percioché, sí come Svetonio
_in libro Duodecim Caesarum_ dice, quando egli uscí candidato di casa
sua, egli lasciò la madre, e dissele:—Io non tornerò a te se non
pontefice massimo;—e cosí fu che egli tornò a lei disegnato pontefice
massimo; ma perciò fu cognominato Cesare, percioché ad un deʼ suoi
passati quello addivenne, che molti credono che a lui addivenisse: e
da quel cotale cognominato Cesare _ab caesura_, cioè dalla tagliatura
stata fatta della madre, quello lato deʼ Giuli, che di lui discesero,
tutti furon cognominati Cesari. Fu adunque e per padre e per madre
nobilissimo uomo, e variamente fu dalla fortuna impulso: e parte
della sua adolescenzia fece in Bittinia appresso al re Nicomede con
poco laudevole fama. Militò sotto diversi imperadori, e divenne nella
disciplina militare ammaestratissimo: e gli onorevoli uffici di Roma
tutti ebbe ed esercitò, e, tra gli altri, due consolati, li quali esso
quivi governò. Ma, essendo egli questore, ed essendogli in provincia
venuta la Spagna ulteriore, ed essendo pervenuto in Gades, e quivi nel
tempio dʼErcole avendo veduta la statua dʼAlessandro macedonio, seco
si dolse, dicendo: Alessandro giá in quella etá nella quale esso era,
avere gran parte del mondo sottomessasi, ed esso, da cattivitá e da
pigrizia occupato, non avere alcuna cosa memorabile fatta; e quinci si
crede lui aver preso animo alle gran cose, le quali poi molte adoperò:
e con astuzia e con sollecitudine sempre sʼingegnò dʼesser preposto ad
alcuna provincia e ad eserciti, e a farsi grande dʼamici in Roma. Ed
essendogli, dopo molte altre cose fatte, venuta in provincia Gallia,
ed in quella andato, per dieci anni fu in continue guerre con queʼ
popoli; e fatto un ponte sopra il Reno, trapassò in Germania, e con
loro combatté e vinsegli; e similemente trapassato in Inghilterra, dopo
piú battaglie gli soggiogò. E quindi, tornando in Italia, e domandando
il trionfo ed il consolato, per una legge fatta da Pompeo, gli fu
negato lʼun deʼ due. Per la qual cosa esso, partitosi da Ravenna, ne
venne in Italia e seguitò Pompeo, il quale col senato di Roma partito
sʼera, infino a Brandizio, e di quindi in Epiro; e, rotte le forze sue
in Tessaglia, il seguitò in Egitto, dove da Tolomeo, re dʼEgitto, gli
fu presentata la testa; e quivi fatte con gli egiziaci certe battaglie,
e vintigli, a Cleopatra, nella cui amicizia congiunto sʼera, concedette
il reame, quasi in guiderdone dellʼadulterio commesso. Quindi nʼandò
in Ponto, e sconfitto Farnace, re di Ponto, si volse in Affrica, dove
Giuba, re di Numidia, e Scipione, suocero di Pompeo, vinti, trapassò in
Ispagna contro a Gneo Pompeo, figliuolo di Pompeo magno. Quivi alquanto
stette in pendulo la sua fortuna. Combattendo esso eʼ suoi contro aʼ
pompeiani, eʼ fu in pericolo tanto, che esso, di voler morire disposto,
di quale spezie di morte si volesse uccidere pensava. Respirò la sua
fortuna e rimase vincitore: e quindi si tornò in Roma, dove trionfò
deʼ galli e degli egiziaci e di Farnace in tre diversi dí. Scrisse
Plinio, in libro _De naturali historia_, che egli personalmente fu in
cinquanta battaglie ordinate, che ad alcun altro romano non avvenne
dʼessere in tante: solo Marco Marcello, secondo che Plinio predetto
dice, fu in quaranta. E di queste cinquanta, le piú fece in Gallia e in
Brettagna ed in Germania, né, fuorché in una, si trovò esser perdente:
e di questo poté esser cagione la sua mirabile industria, e la fidanza
che di lui aveano coloro li quali il seguivano, li quali non potevano
credere, sotto la sua condotta, in alcuno quantunque gran pericolo
poter perire. E dice il predetto Plinio, sotto la sua capitaneria, in
diverse parti combattendo, essere stati uccisi deʼ nemici dalla sua
gente un milione e cento novanta due [centinaia di] migliaia dʼuomini:
né si pongono in questo numero quegli che uccisi furono nelle guerre né
nelle battaglie cittadine, le quali tra lui e Pompeo eʼ suoi seguaci
furono. Per la qual cosa meritamente dice lʼautore: «Cesare armato».

Fu, oltre a ciò, costui grandissimo oratore, sí come Tullio, quantunque
suo amico non fosse, in alcuna parte testimonia. Fu solenne poeta, e
leggesi lui nel maggior fervore della guerra cittadina aver due libri
metrici composti, li quali da lui furono intitolati Anticatoni. Fu
grandissimo perdonatore delle ingiurie, intanto che non solamente
a chi di quelle gli chiese perdono le rimise, ma a molti, senza
addomandarlo, di sua spontanea volontá perdonò. Pazientissimo fu
delle ingiurie in opere od in parole fattegli. Fu lussurioso molto;
percioché, secondo che scrive Svetonio, egli nella sua concupiscenzia
trasse piú nobili femmine romane, sí come Postumia di Servio Sulpizio,
Lollia dʼAulo Gabinio, Tertullia di Marco Crasso, Muzia di Gneo Pompeo;
ma, oltre a tutte lʼaltre, amò Servilia, madre di Marco Bruto, la
figliuola della quale, chiamata Terzia, si crede che egli avesse.
Usò ancora lʼamicizie dʼalcune altre forestiere, sí come quella
della figliuola di Nicomede, re di Bitinia, e Eunoe Maura, moglie di
Bogade re deʼ mauri, e Cleopatra, reina dʼEgitto, e altre. Né furon
questi suoi adultèri taciuti in parte daʼ suoi militi, triunfando
egli, percioché nel triunfo gallico fu da molti cantato:—Cesare si
sottomise Gallia, e Nicomede Cesare;—ed altri dicevano:—Ecco Cesare,
che al presente triunfa di Gallia, e Nicomede non triunfa, che si
sottomise Cesare.—Ed, oltre a questo, in questo medesimo triunfo fu
detto da molti:—Romani, guardate le vostre donne, noi vi rimeniamo il
calvo adultero.—E nella persona di lui proprio furon gittate queste
parole:—Tu comperasti per oro lo stupro in Gallia, e qui lʼhai preso
in prestanza.—

Costui adunque, tornato in Roma, ed avendo triunfato, occupò la
republica, e fecesi fare, contro alle leggi romane, dittatore perpetuo,
dove, secondo le leggi, non si poteva piú oltre che sei mesi stendere
lʼuficio del dettatore. Ed appartenendo allʼautoritá del senato il
conceder lʼuso della laurea, da esso ottenne di poterla portare
continuo, accioché con quella ricoprisse la testa sua calva; la quale
lungamente a suo potere avea ricoperta col tirarsi i capelli didietro
dinanzi. Ed in questa dignitá perseverando, ed essendo a molti deʼ
senatori gravissimo, intanto che gran parte del senato avea contro a
lui congiurato, si riscaldò nel disiderio, lungamente portato, dʼesser
re; per la qual cosa, essendosi a vendicare la morte di Crasso, stato
con piú legioni romane ucciso daʼ parti, ferocissimi popoli, subornò
Lucio Cotta, al quale con quattordici altri uomini apparteneva il
procurare i libri sibillini, di quello che voleva rapportasse; e Cotta
poi in senato disse neʼ libri sibillini trovarsi: «li parti non poter
esser vinti né soggiogati, se non da re»; e però convenirsi che Cesare
si facesse re. La qual cosa parve gravissima aʼ senatori ad udire.
E, come che essi servassero occulta la loro intenzione, fu nondimeno
questo un avacciare a dare opera a quello che parte di loro aveano fra
sé ragionato: e perciò glʼidi di marzo, cioè dí quindici di marzo,
Giulio Cesare, sollecitato molto da Bruto, non potendolo Calfurnia,
sua moglie, per un sogno da lei veduto la notte precedente, ritenere,
né ancora alcuni altri segni da lui veduti, pretendenti quello che poi
seguí, in su la quinta ora del dí, uscito di casa, ne venne nella corte
di Pompeo, dove quel dí era ragunato il senato: dove, non dopo lunga
dimora, fu da Gaio Cassio e da Marco Bruto e da Decio Bruto, principi
della congiurazione, e da piú altri senatori, assalito e fedito di
ventitré punte di stili. La qual cosa vedendo esso, e conoscendo la
morte sua, recatisi e compostisi, come meglio poté, i panni dinanzi,
accioché disonestamente non cadesse, senza far alcun romore di voce o
di pianto cadde. Ed essendone stato portato da alquanti suoi servi a
casa, e vedute da Antistio medico le piaghe di lui ancora spirante,
disse di tutte quelle una sola esservene mortale: e quella si crede
fosse quella che da Marco Bruto ricevette. Appresso, fuggitisi i
congiurati, ed egli essendo morto, disfatte le sedie giudiciali della
corte, le quali si chiamavano «rostri», gliene fu fatto, secondo
lʼantico costume, un rogo, e con grandissimo onore fu il corpo suo
arso; e le ceneri, raccolte diligentemente, furon messe in quel
vaso ritondo di bronzo, il quale ancora si vede sopra quella pietra
quadrangula acuta ed alta, che è oggi dietro alla chiesa di San Piero
in Roma, la quale il vulgo chiama «Aguglia», come che il suo vero nome
sia «Giulia».

[Nota: Lez. XV]

«Con gli occhi grifagni». Non mi ricorda aver letta la qualitá degli
occhi di Giulio Cesare; ma, percioché gli occhi grifagni, se da
«grifone» vien questo nome, sono riposti nella fronte sotto ciglia
aguzzate, e piccoli per rispetto agli altri, e per questo hanno a
significare astuzia e fierezza dʼanimo dovere essere in colui che gli
ha; e queste cose furono in Cesare: e però credere dobbiamo lʼautore,
o colui da cui lʼebbe, dovere o dire il vero, o estimare dagli effetti
veri Cesare dovergli cosí avere avuti fatti ragionevolmente.

«Vidi Cammilla». Chi costei fosse distesamente è scritto sopra il primo
canto del presente libro; e però qui non bisogna di replicare. Ponla
nondimeno qui lʼautore per la sua virginitá e per la sua costante
perseveranza in quella, e, oltre a ciò, per lo suo virile animo, per lo
quale non femminilmente, ma virilmente adoperò e morí.

«E la Pantasilea». La Pantasilea fu reina dellʼamazzone, cioè di quelle
donne, le quali, senza volere o compagnia o signoria dʼuomini, per
se medesime in Asia, allato al Mar maggiore, sotto piú reine lungo
tempo signoreggiarono parte dʼAsia e talora dʼEuropa. La origine delle
quali fu questa, secondo che Giustino, abbreviatore di Trogo Pompeo,
scrive nel libro terzo della sua Storia. Essendo cacciati di Scizia,
quasi neʼ tempi di Nino, re dʼAssiria, Silisio e Scolopico, giovani
di reale schiatta, per divisione la quale era traʼ nobili uomini di
Scizia, grandissima quantitá di giovani scizi avendone seco menata
insieme con le lor mogli eʼ figliuoli, nelle contrade di Cappadocia,
allato ad un fiume chiamato Termodonte si posero; e quivi occupati
i campi chiamati Cirii, usati per molti anni di vivere di ratto, e
per questo rubare e spogliare ed infestare i vicini popoli da torno:
avvenne che, per occulto trattato deʼ popoli, noiati da loro, essi
furon quasi tutti uccisi. Le mogli deʼ quali, veggendo essere aggiunto
al loro esilio lʼesser private deʼ mariti, preson lʼarmi, e con fiero
animo andarono incontro a coloro che li loro mariti uccisi aveano, e
quegli cacciarono fuori del loro terreno: e, oltre a ciò, continuando
la guerra animosamente per alcun tempo, da ogni nemico il difesero.
Poi, congiugnendosi per matrimonio coʼ popoli circustanti, posero
giú alquanto la ferocitá dellʼanimo: ma poi ripresala, e intra sé
ragionando, estimarono il maritarsi a coloro, aʼ quali si maritavano,
non esser matrimonio, ma piú tosto un sottomettersi a servitudine. Per
la qual cosa deliberarono di fare, e fecero, cosa mai piú non udita:
e questa fu, che tutti quegli uomini, li quali con loro erano a casa
rimasi, uccisono, e, quasi risurgendo vendicatrici delle morti degli
uccisi loro mariti, nella morte degli altri da torno tutte dʼuno animo
cospirarono. E per forza dʼarme, con quegli che rimasi erano, avuta
pace, accioché per non aver figliuoli non perisse la lor gente, presero
questo modo, che a parte a parte andavano a giacere coʼ vicini uomini,
e come gravide si sentivano, si tornavano a casa; e quegli figliuoli
maschi che elle facevano, tutti gli uccidevano, e le femmine guardavano
e con diligenza allevavano. Le quali non a stare oziose, o a filare o
a cucire, né ad alcuno altro femminile uficio adusavano, ma in domare
cavalli, in cacce, in saettare ed in fatica continua lʼesercitavano.
E, accioché esse potessero nutricare quelle figliuole che di loro
nascessero, essendo loro le poppe agli esercizi delle armi noiose,
lasciavano loro la destra, e della sinistra le privavano: ed il modo
era, che quando eran piccole, tirata alquanto la carne in alto, quella
con alcun filo strettissimamente legavano: di che seguiva che la parte
legata, non potendo avere lo scorso del sangue, si secava, e cosí poi,
venendo in piú matura etá, non vʼingrossava la poppa. E da questa
privazione dellʼuna delle poppe nacque loro il nome, per lo quale poi
chiamate furono, cioè «Amazzone», il qual tanto vuol dire, quanto
«senza poppa». E, cosí perseverando piú tempo, quando sotto una reina
e quando sotto due si governavano, continuamente ampliando il loro
imperio. E, essendo in processo di tempo morta una loro reina, la quale
fu chiamata Orizia, fu fatta reina la Pantasilea. Costei fu valorosa
donna e governò bene il suo regno. Ed avendo udito il valor di Ettore,
figliuolo del re Priamo, disiderò dʼaver alcuna figliuola di lui, e,
per accattare lʼamore e la benivolenza sua, con gran moltitudine delle
sue femmine, contro aʼ greci venne in aiuto deʼ troiani. Ma non poté
quello, che desiderava, adempiere, percioché trovò, quando giunse,
Ettore essere giá morto; ma nondimeno mirabilmente piú volte per la
salute di Troia combatté; alfine combattendo fu uccisa. E, secondo che
alcuni scrivono, costei fu che prima trovò la scure: vero è che quella,
che da lei fu trovata, aveva due tagli, dove le nostre nʼhanno un solo.

«Dallʼaltra parte», forse a rincontro aʼ nominati, «vidi il re Latino».
Latino fu re deʼ laurenti e figliuolo di Fauno re, deʼ discendenti di
Saturno, e dʼuna ninfa laurente, chiamata Marica, sí come Virgilio
nellʼ_Eneida_ dice:

  _...Rex arva Latinus et urbes
  iam senior longa placidas in pace regebat.
  Hunc Fauno et nympha genitum laurente Marica
  accepimus._

Ma Giustino non dice cosí, anzi dice che egli fu nepote di Fauno,
cioè figliuolo della figliuola, in questa forma: che, tornando
Ercule di Spagna, avendo vinto Gerione, e pervenendo nella contrada
di Fauno, egli giacque con la figliuola, e di quello congiugnimento
nacque Latino. E cosí non di Fauno, ma dʼErcule sarebbe Latino stato
figliuolo. Ma Servio _Sopra Virgilio_ dice che, secondo Esiodo, in
quello libro il quale egli compose chiamato _Aspidopia_, che Latino
fu figliuolo dʼUlisse e di Circe, la quale alcuni chiamaron Marica; e
però dice il detto Servio, Virgilio aver detto di lui, cioè di Latino,
«_Solis avi specimen_», percioché Circe fu figliuola del Sole. Ma dice
il detto Servio (percioché la ragione deʼ tempi non procede, percioché
Latino era giá vecchio, quando Ulisse ebbe la dimestichezza di Circe)
essere da prendere quello che Iginio dice, cioè essere stati piú
Latini. Oltre a questo, cosí come del padre di Latino sono opinioni
varie, cosí similmente sono gli antichi scrittori discordanti della
madre: percioché Servio dice Marica essere dea del lito deʼ minturnesi,
allato al fiume chiamato Liri: laonde Orazio dice:

  _...et innantem Maricae_
  _littoribus tenuisse Lirim;_

e però, se noi vorrem dire Marica essere stata moglie di Fauno, non
procederá; percioché glʼiddii locali, secondo lʼerronea opinion degli
antichi, non trapassano ad altre regioni. Alcuni dicono Marica esser
Venere, percioché ella ebbe un tempio allato alla Marica, nel quale era
scritto «Pontina Venere»; ma di costei anche si può dire quello che di
sopra dicemmo di Latino, potere essere state piú Mariche. Ma di cui che
egli si fosse figliuolo, egli fu re deʼ laurenti, neʼ tempi che Troia
fu disfatta, ed ebbe per moglie Amata, sirocchia di Dauno, re dʼArdea
e zia di Turno, sí come per Virgilio appare. Ma Varrone, in quel libro
il quale egli scrive _De origine linguae latinae_, dice che Pallanzia,
figliuola dʼEvandro re, fu sua moglie. Costui, secondo che vogliono
alcuni, ricevette Enea fuggito da Troia, ed avendo avuto un responso da
quegli loro iddii, che egli ad un forestiere, del quale dovea mirabile
succession nascere, désse Lavina sua figliuola per moglie; avendola giá
promessa a Turno, la diede ad Enea: di che gran guerra nacque, nella
quale, secondo che dice Servio, questo Latino morí quasi nella prima
battaglia.

«Che con Lavina, sua figlia, sedea». Lavina, come detto è, fu figliuola
di Latino e dʼAmata e moglie dʼEnea, del quale ella rimase gravida; e
temendo la superbia di Ascanio figliuolo di Enea, il quale era rimaso
vincitore della guerra di Turno, si fuggí in una selva; e appo un
pastore, secondo che dice Servio, chiamato Tiro, dimorò nascosamente:
e partorí al tempo debito un figliuolo, il quale nominò Giulio Silvio
Postumo, percioché nato era, dopo la morte del padre, nella selva. Ma
poi fu costei da Ascanio rivocata nel suo regno, avendo egli giá fatta
la cittá di Alba ed in quella andatosene. La quale non essendo dalle
cose avverse rotta, tanto reale animo servò nel petto femminile, che
senza alcuna diminuzione guardò il regno al figliuolo, tanto che egli
fu in etá da sapere e da potere regnare. Ma Eusebio _in libro Temporum_
dice che costei dopo la morte dʼEnea si rimaritò ad uno il quale ebbe
nome Melampo, e di lui concepette un figliuolo, il quale fu chiamato
Latino Silvio: né piú di lei mi ricorda aver trovato.

«Vidi quel Bruto, che cacciò Tarquino». Bruto fu per legnaggio nobile
uomo di Roma, percioché egli fu dʼuna famiglia chiamata i Giuni, ed il
suo nome fu Caio Giunio Bruto, e la madre di lui fu sorella di Tarquino
Superbo, re deʼ romani. E percioché egli vedeva Tarquino incrudelire
contro aʼ congiunti, temendo di sé, avendo sana mente, si mostrò pazzo:
e cosí visse buona pezza, portando vilissimi vestimenti, e ingegnandosi
di fare alcune cose piacevoli, come talvolta fanno i matti, accioché
facesse ridere altrui, ed ancora per acquistare la benivolenza di chi
il vedesse, e con questo fuggisse la crudeltá del zio. E percioché poco
nettamente vivea, fu cognominato Bruto: il quale, per aver festa di
lui, tenevano volentieri appresso di sé i figliuoli di Tarquino. Ora
avvenne che, essendo Tarquino Superbo intorno ad Ardea ad assedio, e
i figliuoli del re con altri lor compagni avendo cenato, entrarono in
ragionamento delle lor mogli, e ciascuno, come far si suole, in virtú e
in costumi preponeva la sua a tutte lʼaltre femmine; e, non finendosi
la quistione per parole, presero per partito dʼandarne alle lor case
con questi patti: che quale delle lor donne trovassero in piú laudevole
esercizio, quella fosse meritamente da commendar piú che alcunʼaltra;
e cosí, montati a cavallo, subitamente fecero. E pervenuti a Roma,
trovarono le nuore del re ballare e far festa con le lor vicine, non
ostante che i lor mariti fossero in fatti dʼarme e a campo; e di
quindi nʼandarono a un castello chiamato Collazio, dove un giovane
chiamato Collatino, loro zio, teneva la donna sua, chiamata Lucrezia,
e trovarono costei in mezzo delle sue femmine vegghiare, e con loro
insieme filare e far quello che a buona donna e valente sʼapparteneva
di fare: per che fu reputato che costei fosse piú da lodare che alcuna
dellʼaltre e che Collatino avesse miglior moglie che alcun degli altri.
Era tra questi giovani Sesto Tarquino, giovane scellerato e lascivo, il
quale, veduta Lucrezia e seco medesimo commendatala molto, entratagli
nellʼanima la bellezza e lʼonestá di lei, seco medesimo dispuose di
voler del tutto giacer con lei: e dopo alquanti dí, senza farne sentire
alcuna cosa ad alcuno, preso tempo, solo ritornò a Collazio, dove da
lei parentevolmente ricevuto ed onorato, considerato la condizione
della casa, la notte, come silenzio sentí per tutto, estimando che
tutti dormissero, levatosi, col coltello ignudo in mano, tacitamente
nʼandò lá dove Lucrezia dormiva, e postale la mano in sul petto,
disse:—Io sono Sesto, e tengo in mano il coltello ignudo; se tu farai
motto alcuno, pensa chʼio tʼucciderò di presente.—Ma per questo non
tacendo Lucrezia, la quale in guisa alcuna al suo desiderio acconsentir
non voleva, le disse:—Se tu non farai il piacer mio, io tʼucciderò,
e appresso di te ucciderò uno deʼ tuoi servi, e a tutti dirò che
io tʼabbia uccisa, percioché col tuo servo in adulterio tʼabbia
trovata.—Queste parole spaventarono la donna, seco pensando che, se in
tal guisa uccisa fosse trovata, leggermente creduto sarebbe lei essere
stata adultera, né sarebbe chi la sua innocenza difendesse: e però,
quantunque malvolentieri si consentisse a Sesto, nondimeno, avendo
pensato come cotal peccato purgherebbe, gli si consentí.

Sesto, quando tempo gli parve, se ne tornò ad Ardea; ed essa piena
di dolore e dʼamaritudine, come il giorno apparí, si fece chiamare
Lucrezio Tricipitino, suo padre, e Collatino, suo marito, e Bruto:
li quali essendo venuti, e trovandola cosí dolorosa nellʼaspetto, la
domandò Collatino:—Che è questo, Lucrezia? non sono assai salve le
cose nostre?—A cui Lucrezia rispose:—Che salvezza può esser nella
donna, la cui pudicizia è violata? nel tuo letto è orma dʼaltro uomo
che di te.—E quinci aperse distesamente ciò che per Sesto Tarquino
era stato la passata notte adoperato. Il che udendo Collatino e gli
altri, quantunque dellʼaccidente forte turbati fossero, nondimeno
la cominciarono a confortare, dicendo la pudicizia non potere esser
contaminata, dove la mente a ciò non avesse consentito. Ma Lucrezia,
ferma nel suo proposito, trattosi di sotto aʼ vestimenti un coltello,
disse:—Questa colpa, in quanto a me appartiene, non trapasserá
impunita; né alcuna mai sará, che per esempio di Lucrezia diventi
impudica.—E detto questo, e posto il petto sopra la punta del
coltello, su vi si lasciò cadere, e cosí senza poter essere atata,
entratole il coltello nel petto, si morí. Tricipitino e Bruto e
Collatino, vedendo questo, non potendo piú nascondere lʼindegnitá del
fatto, ne portarono il corpo morto nella piazza, predicando lʼiniquitá
di Sesto Tarquino, e di molte ingiurie accusando il re eʼ figliuoli.
Il pianto fu grande, e il rammarichio per tutto: ma Bruto, estimando
che tempo fosse a por giuso la simulata pazzia, tratto il coltello
del petto alla morta Lucrezia, con una gran brigata deʼ collazi
nʼandò a Roma, lasciando che lʼun deʼ due rimasi andassero nel campo
a nunziare questa iniquitá: e in Roma pervenuto, per dovunque egli
andava, piangendo e dolendosi, convocava la moltitudine a compassione
dellʼinnocente donna e ad odio deʼ Tarquini. Per la qual cosa furono
incontanente le porte di Roma serrate, e per tutto gridata la morte e
il disfacimento del re e deʼ figliuoli: e il simile era avvenuto nel
campo ad Ardea. E come fu sentita la scellerata operazione di Sesto
Tarquino, e tutti, lasciato il re eʼ figliuoli, a Roma venutisene, e
ricevuti dentro, in una medesima volontá con gli altri divenuti, al
re Tarquino, che minacciando tornava da Ardea, del tutto negarono il
ritornare in Roma: e subitamente in luogo del re fecero due consoli,
appo i quali fosse la dignitá e la signoria del re, sí veramente che
piú dʼuno anno durar non dovesse: e di questi due primi consoli fu
lʼuno Bruto e lʼaltro Collatino. E, sentendo, in processo di tempo,
Bruto due suoi figliuoli tenere alcun trattato di dovere rimettere
il re eʼ figliuoli suoi a Roma, fattigli spogliare e legare ad un
palo, prima agramente batter gli fece con verghe di ferro, e poi
in sua presenza ferire con la scure e cosí morire. Cotanto adunque
mostrò essergli cara la libertá racquistata. Ma poi, avendo Tarquino
invano tentato di ritornare per trattato in Roma, ragunata da una
parte e dʼaltra gente dʼarme, ad assediare Roma venne. Incontro al
quale uscirono col popolo di Roma armati i consoli; ed essendosi traʼ
due eserciti cominciata la battaglia, avvenne che Arruns, lʼuno deʼ
figliuoli di Tarquino, combattendo, vide Bruto; per che, lasciata
la battaglia degli altri, gridò:—Questi è colui che mʼha del regno
cacciato;—e drizzato il cavallo e la lancia verso lui, e punto degli
sproni il cavallo, quanto correr potea piú forte nʼandò verso lui.
Il quale veggendo Bruto venire, e conosciutolo, non schifò punto il
colpo, ma verso lui dirizzatosi con la lancia e col cavallo, avvenne
che con tanto odio delle punte delle lance si ferirono, che amenduni
morti caddero del cavallo. E poi, avendo i romani avuta vittoria deʼ
nemici, con grandissimo pianto ne recarono in Roma il corpo di Bruto,
lá dove egli da tutte le donne di Roma, sí come padre e ricuperatore
della loro libertá e vendicatore e guidatore della loro pudicizia,
fu amarissimamente pianto, e poi, secondo lʼuso di queʼ tempi,
onorevolmente fu seppellito.

«Lucrezia». Di questa donna è narrata la storia.

«Marzia». Marzia non so di che famiglia romana si fosse, né alcune
storie sono, le quali io abbia vedute, che guari menzione faccian di
lei. Par nondimeno, per antica fama, tenersi lei essere stata onesta e
venerabile donna; e per tutti si tiene, e Lucano ancora il testimonia,
lei essere stata moglie, non una sola volta, ma due, di Catone
uticense. Il quale avendola la prima volta menata a casa, generò in
lei tre figliuoli; poi, dispostosi del tutto di volere nel futuro
servar vita celibe e fuggire ogni congiugnimento di femmina, secondo
che alcuni dicono, glielo disse; ed, oltre a ciò, immaginando non
dovere per lʼetá essere a lei questa astinenza possibile, la licenziò
di potersi maritare, se a grado le fosse, ad un altro uomo. Per la
qual cosa essa si rimaritò ad Ortensio (a quale non so, percioché piú
ne furono), e di lui concepette alcuni figliuoli. Poi, essendosi morto
Ortensio, e sopravvenuto il tempo delle guerre cittadine tra Cesare
e Pompeo, una mattina in su lʼaurora picchiò allʼuscio di Catone,
e, entrata da lui, il pregò che gli piacesse di doverla ritôrre per
moglie; che di questo matrimonio essa non intendeva di volerne altro
che solamente il nome dʼesser moglie di Catone, e sotto lʼombra di
questo titolo vivere, e, quando alla morte venisse, morire moglie di
Catone. Alli cui prieghi Catone condiscese; e, con quella condizione
ritoltala, senza alcuna altra solennitá osservare, e mentre visse
servando il suo proponimento, per sua moglie la tenne, ed ella lui per
suo marito.

«Giulia». Giulia fu figliuola di Giulio Cesare, acquistata in Cornelia
figliuola di Cinna, giá quattro volte stato consolo; la quale, lasciata
Consuzia che davanti sposata avea, prese per moglie. E fu costei
moglie di Pompeo Magno, il quale ella amò mirabilmente, intanto che,
essendo delle comizie edilizie riportati a casa i vestimenti di Pompeo,
suo marito, rispersi di sangue (il che, secondo che alcuni scrivono,
era avvenuto, che sacrificando egli, ed essendogli lʼanimale, che
sacrificar dovea, giá ferito, delle mani scappato, e cosí del suo
sangue macchiatolo); come prima Giulia gli vide, temendo non alcuna
violenza fosse a Pompeo stata fatta, subitamente cadde, e da grave
dolore fu costretta, essendo gravida, di gittar fuori il figliuolo che
nel ventre avea, e quindi morirsi.

«E Corniglia». Il vero nome di costei fu Cornelia: ma, sforzato
lʼautore dalla consonanza dei futuri versi, alcune lettere permutate,
la nomina «Corniglia». Cornelia fu nobile donna di Roma della famiglia
deʼ Corneli, del lato degli Scipioni: e fu figliuola di quello
Scipione, il quale con Giuba, re deʼ numidi, seguendo le parti di
Pompeo, fu da Cesare sconfitto in Numidia. E fu costei primieramente
moglie di Lucio Crasso, il quale fu ucciso daʼ parti e a cui fu lʼoro
fondato messo giú per la gola; e poi, come Lucio morí, divenne moglie
di Pompeo magno: il quale ella, come valente donna dee fare, non
solamente amò nella sua felicitá, ma, veggendo che la fortuna con le
guerre cittadine forte il suo stato dicrollava, non dubitò di volere
essergli, come nella grandezza sua era stata, neʼ pericoli e negli
affanni delle guerre compagna: e ultimamente, secondo che Lucano
manifesta, con lui dellʼisola di Lesbo partitasi, nʼandò in Egitto,
dove miserabilmente agli assassini di Tolomeo, discendendo in terra, il
vide uccidere. Quello che poi di lei si fosse, non so; ma dʼintera fede
e di laudabile amore puote debitamente essere pregiata.

«E solo in parte vidi ʼl Saladino». Il Saladino fu soldano di
Babillonia, uomo di nazione assai umile per quello mi paia avere piú
addietro sentito, ma di grande e altissimo animo e ammaestratissimo in
fatti di guerra, sí come in piú sue operazioni dimostrò. Fu vago di
vedere e di cognoscere li gran principi del mondo e di sapere i lor
costumi: né in ciò fu contento solamente alle relazioni degli uomini,
ma credesi che, trasformatosi, gran parte del mondo personalmente
cercasse, e massimamente intraʼ cristiani, li quali, per la Terra santa
da lui occupata, gli erano capitali nemici. E fu per setta deʼ seguaci
di Macometto, quantunque, per quello che alcuni voglion dire, poco le
sue leggi e i suoi comandamenti prezzasse. Fu in donare magnifico,
e delle sue magnificenze se ne raccontano assai. Fu pietoso signore
e maravigliosamente amò e onorò i valenti uomini. E, percioché egli
non fu gentile, come quegli li quali nominati sono e che appresso si
nomineranno, estimo che «in parte» starsi «solo» il discriva lʼautore.

«Poi chʼio alzai un poco piú le ciglia», cioè gli occhi per vedere
piú avanti, «Vidi il maestro», cioè Aristotile, «di color che sanno,
Seder», cioè usare e stare, e quegli atti fare che a filosofo
appartengono, ammaestrare, operare e disputare, «tra filosofica
famiglia».

Aristotile fu di Macedonia, figliuolo di Nicomaco, medico dʼAminta, re
di Macedonia, e poi di Filippo, suo figliuolo e padre dʼAlessandro; la
madre del quale fu chiamata Efestide: li quali Nicomaco ed Efestide
vogliono alcuni esser discesi di Macaone e dʼAsclepiade, discendenti
dʼEsculapio, il quale gli antichi, percioché grandissimo medico fu,
dicono essere stato figliuolo dʼApollo, iddio della medicina. E dicono
alcuni lui essere stato dʼuna cittá chiamata Stagira, la quale, se io
ho bene a memoria, ho giá letto o udito che è non in Macedonia, ma
in Trazia: le quali due province è vero che insieme confinano, per
che, essendo in su i confini la cittá, forse agevolmente sʼè potuto
errare a dinominarla piú dellʼuna provincia che dellʼaltra. Fu costui
primieramente, dopo lʼavere apprese le liberali arti, ammaestrato neʼ
libri poetici. E credesi che il primo libro, che da lui fu composto,
fosse uno scritto, ovvero comento, sopra li due maggior libri dʼOmero,
e che, per questo, ancora giovanetto fosse dato da Filippo per maestro
ad Alessandro. Poi vogliono lui essere andato ad Atene ad udire
filosofia, dove udí tre anni sotto Socrate, in queʼ tempi famosissimo
filosofo; e, lui morto, sʼaccostò a Platone, il quale le scuole di
Socrate ritenne, e sotto lui udí nel torno di venti anni. Per che, sí
per lʼeccellenza del dottore, e sí ancora per lo perseverato studio
con vigilanza, divenne maraviglioso filosofo; intanto che, andando
alcuna volta Platone alla sua casa e non trovando lui, con alta voce
alcuna volta disse:—Lʼintelletto non cʼè, sordo è lʼauditorio.—Visse
appresso la morte di Platone, suo maestro, anni ventitré, deʼ quali
parte ammaestrò Alessandro, e parte con lui circuí Asia, e parte di
quegli scrisse e compose molti libri. Egli la dialettica, ancora non
conosciuta pienamente prima, in altissimo colmo recò, e ad istruzione
di quella scrisse piú volumi. Scrisse similmente in rettorica, né
meno in quella apparve facondo, che fosse alcun altro rettorico,
quantunque famoso stato davanti a lui. Similmente intorno agli atti
morali, ciò che veder se ne puote per uomo, scrisse in tre volumi:
_Etica, Politica_ ed _Iconomica_; né delle cose naturali alcuna ne
lasciò indiscussa, sí come in molti suoi libri appare; ed, oltre a
ciò, trapassò a quelle che sono sopra natura, con profondissimo
intendimento, sí come nella sua _Metafisica_ appare. E, brevemente,
egli fu il principio e ʼl fondamento di quella setta di filosofi, i
quali si chiamano peripatetici. E non è vero quello che alcuni si
sforzano dʼapporgli, cioè che egli facesse ardere i libri di Platone:
la qual cosa credo, volendo, non avrebbe potuta fare, in tanto pregio
e grazia degli ateniesi fu Platone e la sua memoria e li suoi libri.
Li quali non ha molto tempo che io vidi, o tutti o la maggior parte,
o almeno i piú notabili, scritti in lettera e grammatica greca in un
grandissimo volume, appresso il mio venerabile maestro messer Francesco
Petrarca. È il vero che la scienza di questo famosissimo poeta filosofo
lungo tempo sotto il velamento dʼuna nuvola dʼinvidia di fortuna stette
nascosa, in maraviglioso prezzo continuandosi appo i valenti uomini
la scienza di Platone; né è assai certo, se a venire ancora fosse
Averrois, se ella sotto quella medesima si dimorasse. Costui adunque,
se vero è quello che io ho talvolta udito, fu colui che prima, rotta
la nuvola, fece apparir la sua luce e venirla in pregio; intanto che,
oggi, quasi altra filosofia che la sua non è daglʼintendenti seguita.
Ma ultimamente pervenuto questo singulare uomo allʼetá di sessantatré
anni, finío la vita sua; e, secondo che alcuni dicono, per infermitá di
stomaco. «Tutti lo miran», per singular maraviglia, quegli che in quel
luogo erano; e similmente credo facciano tutti quegli che aʼ nostri
dí in filosofia studiano: «tutti onor gli fanno», sí come a maestro e
maggior di tutti.

«Quivi vidʼio», appresso dʼAristotile, «Socrate».

Socrate originalmente si crede fosse ateniese, ma di bassissima
condizione di parenti disceso, percioché, sí come scrive Valerio
Massimo nel terzo suo libro sotto la rubrica _De patientia_, il padre
suo fu chiamato Sofronisco intagliator di marmi, e la sua madre ebbe
nome Fenarete, il cui uficio era aiutare le donne neʼ parti loro, e
quelle per prezzo servire; ed esso medesimo, secondo che dice Papia,
alquanto tempo sʼesercitò nellʼarte del padre. Poi, lasciata lʼarte
paterna, divenne discepolo dʼuna femmina chiamata Diutima, secondo che
si legge nel libro _De vitis philosophorum_; ma santo Agostino, nel
libro ottavo _De civitate Dei_, scrive che egli fu uditore dʼArchelao,
il quale era stato auditore di Anassagora. E, poiché alquanto
tempo ebbe udito sotto Archelao, per divenire pienamente esperto
deglʼintrinseci effetti della natura, in piú parti del mondo gli
ammaestramenti deʼ piú savi andò cercando, secondo che scrive Tullio
nel libro secondo delle _Quistioni tusculane_: e in tanta sublimitá di
scienza pervenne, che egli, secondo che scrive Valerio, fu reputato
quasi un terrestre oracolo dellʼumana sapienza. E secondo che mostra di
tenere Apulegio, e similmente Calcidio _Sopra il primo libro del Timeo
di Platone_, e come Agostino nel libro ottavo della _Cittá di Dio_,
egli ebbe seco infino dalla sua puerizia un dimonio, il quale Apulegio
predetto chiama «iddio di Socrate» in un libro che di ciò compose: il
quale molte cose glʼinsegnò e in ciò che egli aveva a fare lʼammaestrò.
Ma chi che di ciò gli fosse il dimostratore, egli fu non solamente
dagli uomini, ma eziandio da Apolline, il quale gli antichi neʼ loro
errori credettero essere iddio della sapienza, giudicato sapientissimo.
Della qual cosa non è molto da maravigliarsi, conciosiacosaché egli
fosse nelli studi della filosofia assiduo; e tanto nelle meditazioni
perseverante, che Aulo Gellio scrive, nel libro secondo _Noctium
Atticarum_, lui essere usato di stare dal cominciamento dʼun dí infino
al principio del seguente, in piede, senza mutarsi poco o molto col
corpo, e senza volgere gli occhi o ʼl viso dal luogo al quale nel
principio della meditazione gli poneva.

Fu costui di maravigliosa e laudevole umiltá, percioché, quantunque
in iscienza continuamente divenisse maggiore, tanto minore nel suo
parlare si faceva; e da lui, secondo che Girolamo scrive nella sua
trentacinquesima pistola, e, oltre a ciò, nel proemio della Bibbia,
nacque quel proverbio, il quale poi per molti sʼè detto, cioè «_hoc
scio, quod nescio_». E, oltre a questo, essendo tanto e sí venerabile
filosofo, non solamente in parole, ma in opera la sua umiltá dimostrò.
Esso, tra lʼaltre volte, secondo che negli studi è usanza, facendo la
colletta dagli uditori suoi, ed essi tutti dandogli volentieri non
solamente il debito, secondo lʼuso, ma ancora piú; Eschilo, poverissimo
giovane ma dʼalto ingegno, lasciò andar ognʼuomo a pagar questo debito,
e non andandone piú alcuno, esso, levatosi, andò alla cattedra di
Socrate e disse:—Maestro, io non ho al mondo cosa alcuna che ti dare
per questo debito, se non me medesimo, e io me ti do; e ricordoti che
io ti do piú che dato non tʼha alcun altro che qui sia; percioché non
ce nʼè alcuno che tanto donato tʼabbia, che alcuna cosa rimasa non gli
sia, ma a me, che me tʼho dato, cosa alcuna non è rimasa.—Al quale
Socrate umilmente rispose:—Eschilo, il tuo dono mʼè molto piú caro che
alcuno altro che da costoro mi sia stato dato, e la ragione è questa:
io non ho alcuna cosa la quale io possa assai degna donare a costoro
che a me hanno donato, ma io ho da potere rendere a te guiderdone del
dono che fatto mʼhai, e quello sono io medesimo; e cosí io me ti do;
e perciò quanto tu vuogli che io abbia te per mio, tanto faʼ che tu
abbi me per tuo.—Fu di sua natura pazientissimo, e con egual animo
portò le cose liete e le avverse, intanto che molti voglion dire non
essergli stato mai veduto piú che un viso. Il che maravigliosamente
mostrò vivendo, e sostenendo i fieri costumi dellʼuna delle due
mogli che avea, chiamata Santippe: la quale, senza interporre, il
dí e la notte egualmente, con perturbazioni e con romori era da lei
stimolato; la qual tanto piú nella sua ira sʼaccendeva, quanto lui
piú paziente vedeva. Ed essendo alcuna volta stato addomandato da
Alcibiade, nobilissimo giovane dʼAtene, secondo che scrive Aula Gellio
_in libro undecimo Noctium Atticarum_, perché egli non la mandava via,
conciofossecosaché per la legge lecito gli fosse, rispose che per
la continuazione dellʼingiurie dimestiche fattegli da Santippe egli
aveva apparato a sofferire con non turbato animo le disoneste cose, le
quali egli vedeva e udiva di fuori. Oltre a questo, tenendosi Santippe
ingiuriata da lui, un dí, preso luogo e tempo, dalla finestra della
casa gli versò sopra la testa un vaso dʼacqua putrida e brutta; il
quale sapendo donde venuto era, rasciuttasi la testa, nullʼaltra cosa
disse:—Io sapeva bene che dopo tanti tuoni doveva piovere.—

Furono le sue risposte di mirabile sentimento. Era in Atene un giovane
uomo dipintore, assai conosciuto, il quale subitamente divenne medico;
il che detto a Socrate, disse:—Questi può esser savio uomo dʼaver
lasciata lʼarte, i difetti della quale sempre stanno dinanzi agli occhi
degli uomini, e presa quella li cui errori la terra ricuopre.—Era,
oltre a ciò, usato di prender piacere di vedere le due sue mogli
per lui talvolta non solamente gridare, ma azzuffarsi insieme, e
massimamente sé considerando, il quale era del corpo piccolo, e avea il
naso camuso, le spalle pelose e le gambe storte, e appresso la viltá
dellʼanimo loro; e il farle venire a zuffa insieme era qualora egli
volea, sol che un poco dʼamore piú allʼuna che allʼaltra mostrasse;
di che esse una volta accortesi, e rivoltesi sopra lui, fieramente il
batterono, e lui fuggente seguirono, tanto che la loro indegnazione
sfogarono. Fu in costumi sopra ogni altro venerabile uomo, in tanto che
solamente nel riguardarlo prendevano maraviglioso frutto gli uditori
suoi, sí come Seneca nella sesta pistola a Lucillo, dicendo: «Platone
e Aristotile, e lʼaltra turba tutta deʼ savi uomini, piú daʼ costumi
di Socrate trassero di sapienza che dalle sue parole». Fu nel cibo
e nel bere temperatissimo, intanto che di lui si legge che, essendo
una mortale e universale pestilenza in Atene, né mai si partí, né mai
infermò, né parte dʼalcuna infermitá sentí. Sostenne con grandissimo
animo la povertá, intanto che, non che egli mai alcun richiedesse per
bisogno il quale avesse, ma ancora i doni daʼ grandi uomini offertigli
ricusò. Ed essendo giá vecchio, volle apprendere a sonare gli stromenti
musici di corda: di che alcuno maravigliandosi gli disse:—Maestro, che
è questo? aver veduti gli alti effetti della natura, e ora discendere
alle menome cose musicali?—Al quale egli dimostrò sé estimare esser
meglio dʼavere tardi apparata quella arte che morire senza averla
saputa. Né in alcuna etá poté sofferire dʼessere ozioso; percioché,
secondo scrive Tullio nel libro _De senectute_, egli era giá dʼetá
di novantaquattro anni, quando egli scrisse il libro, il quale egli
appellò _Panaletico_.

Una cosa ebbe questo singulare uomo, la quale a certi ateniesi fu
grave, ed ultimamente cagione della morte sua: egli non poté mai essere
indotto ad avere in alcuna reverenza glʼiddii li quali gli ateniesi
adoravano, affermando un cane, un asino o qualunque altro piú vile
animale esser degno di molta maggior venerazione che glʼiddii degli
ateniesi. E la ragione, che di ciò assegnava, era che gli animali
erano opera della natura, glʼiddii degli ateniesi erano opera delle
mani degli uomini. Per la qual cosa essendo stati fatti, ovvero eletti
trenta uomini in Atene a dover riformare lo stato della cittá e
servarlo, ve ne furono alcuni, li quali, forse da alcuna altra occulta
cagion mossi, sotto spezie di religione, vollero che esso confessasse
li loro iddii essere da onorare e che Atene dalla lor deitá e custodia
servata fosse. La qual cosa non volendo esso fare, essendo giá dʼetá di
novantanove anni, fu fatto mettere in prigione, e in quella tenuto da
un mese. Alla fine, vedendo coloro, che tener vel facevano, non potersi
a ciò lʼanimo suo inducere, gli mandarono in un nappo un beveraggio
avvelenato, il quale egli, sprezzati gli umili rimedi mostratigli da
Lisia alla sua salute, amando piú di finire la vita che di diminuire
la sua gravitá, con grandissimo animo, e con quel viso il quale
sempre in ogni cosa occorrente fermo servava, il prese. E piangendo
Santippe, e dolendosi chʼegli era fatto morire a torto, fieramente la
riprese dicendo:—Dunque vorresti tu, stolta femmina, che io fossi
morto a ragione? Tolgalo Iddio via che egli possa essere avvenuto o
avvenga che io giustamente condannato sia.—E, bevuto la venenata
composizione, molte cose aʼ suoi amici, che dʼintorno gli erano, parlò
dellʼeternitá dellʼanima. Ma, appressandosi giá lʼora della morte, per
la forza del veleno che al cuore sʼavvicinava, il dimandò uno deʼ suoi
discepoli, chiamato Trifone, quello che esso voleva che del suo corpo
si facesse, poiché morto fosse. Per che Socrate, rivolto agli altri,
disse:—Lungamente mʼha invano ascoltato Trifone.—E poi disse:—Se,
poi che lʼanima mia sará dal corpo partita, voi alcuna cosa che mia sia
ci trovate, fatene quello che da fare estimerete; ma cosí vi dico, che,
partendomi io, alcun di voi non mi potrá seguire.—Né guari stette che
egli morí. In onor del quale, secondo che scrive Tertullio, fecero poi
gli ateniesi in memoria e in sembianza di lui fare una statua dʼoro,
e quella fecero porre ad un tempio. Nacque Socrate, secondo che nelle
Istorie _scolastiche_ si legge, al tempo di Serse, re di Persia, e
morí regnante il re Assuero.

[Nota: Lez. XVI]

«E Platone». Platone fu per origine nobilissimo ateniese. Egli fu
figliuolo dʼAristone, uomo di chiara fama, e di Perissione sua moglie;
e, secondo che alcuni affermano, esso fu deʼ discendenti del chiaro
legnaggio di Solone, il quale ornò di santissime leggi la cittá di
Atene. E volendo Speusippo, figliuolo della sorella, e che dopo la
sua morte le scuole sue ritenne insieme con Clearco e con Anassalide,
stati suoi uditori, nobilitare la sua origine, sí come essi nel secondo
libro della _Filosofia_ scrivono, finsero Perissione, madre di lui,
essere stata oppressa da una sembianza dʼ Apolline; volendo che per
questo sʼintendesse, lui per opera del padre, il quale gli antichi
estimarono essere iddio della sapienza, avere avuta la divina scienza,
la quale in lui uomo mortale fu conosciuta. Fu costui, oltre ad ogni
altro suo contemporaneo, eloquentissimo; e fu tanta dolcezza e tanta
soavitá nella sua prolazione, che quasi pareva piú celestial cosa che
umana, parlando. La qual cosa per due assai evidenti segni, avanti che
a quella perfezion divenisse, fu dimostrata. Primieramente, essendo
egli ancora picciolissimo fanciullo e nella culla dormendo, furono
trovate api, le quali sollecitamente studiandosi, non altrimenti
che in uno loro fiaro, gli portavano mèle, senza dʼalcuna cosa
offenderlo. Secondariamente, quella notte che precedente fu al dí che
Aristone lui giovanetto menò a Socrate, accioché della sua dottrina
lʼammaestrasse, parve nel sonno a Socrate vedere di cielo discendere
un cigno, e porglisi sopra le ginocchia, e pascersi di quello che da
esso Socrate gli era dato. Per che, come Socrate vide Platone il dí
seguente, cosí estimò lui esser quel cigno che nel sonno veduto avea.
E il cigno, secondo che questi fisiologi scrivono, è uccello, il quale
soavissimamente canta: per la qual dolcezza di canto assai bene si
può comprendere essere stata dimostrata la dolcezza della sua futura
eloquenza.

Fu costui nominato Plato, secondo che Aristotile afferma, dalla
ampiezza del petto suo. Esso, poiché piú anni ebbe udito Socrate,
secondo che Agostino racconta nel quarto della _Cittá di Dio_, navicò
in Egitto, e quivi apprese ciò che per gli egiziaci si poteva mostrare.
E quindi, tirato dalla fama della dottrina pittagorica, venutosene in
Italia, da quegli dottori, li quali allora in essa fiorivano, assai
agevolmente apprese ciò che per loro si tenea. Della sua scienza fu
fatta, [ed è ancora], maravigliosa stima quasi da tutti quegli che aʼ
tempi chʼeʼ romani erano nel colmo del lor principato, eran famosi
uomini; e ancora ne la fanno i cattolici filosofi, affermando in molte
cose la sua dottrina esser conforme alla veritá cristiana. Fu, oltre a
ciò, in costumi splendido e nel cibo temperatissimo. Fu oltremodo dalla
concupiscenza della carne stimolato, intanto che, per poterla alquanto
domare, e vita solitaria disiderando, potendo in altre parti assai
eleggere la sua solitudine, alcuna altra non ne volle che una villetta,
chiamata Accademia, la qual non solamente rimota era da ogni umano
consorzio, ma ella era per pessimo aere pestilente: e questa ad ogni
altra prepose, estimando la sua infezione dovere poter porre modo a
domare la libidine sua. Quivi di ricchezze né dʼumana pompa curandosi,
visse infino nellʼetá di anni ottantuno, secondo che scrive Seneca a
Lucillo nella sessantunesima epistola; avendo molti libri scritti e
scrivendo continuamente, si morí, lasciati appresso di sé molti deʼ
suoi uditori solennissimi filosofi.

«Che innanzi agli altri», sí come piú degni filosafi, «piú presso gli
stanno».

«Democrito» (_supple_) vidi. Democrito fu ateniese, e fu il padre suo
sí abbondante di ricchezze, che si legge lui aver dato un pasto al
re Serse, quando venne in Grecia, e con lui a tutto il suo esercito,
che scrive Giustino fosse un milione dʼuomini dʼarme. Dopo la morte
del quale, Democrito, dato tutto aʼ filosofici studi, riserbatasi di
sí gran ricchezza una piccola quantitá, tutto il rimanente donò al
popolo dʼAtene, dicendo quella essere impedimento al suo studio. Esso,
secondo che Giovenale scrive, essendo nella piazza, era usato di ridere
di ciò che esso vedeva agli uomini fare; e, domandato alcuna volta
della cagione, rispose:—Io rido della sciocchezza di tutti quegli li
quali io veggio, percioché io mʼaccorgo che con lʼanimo e col corpo
tutti faticano intorno a cose, che né onor né fama lor posson recare,
né con loro, oltre a ciò, far lunga dimora.—Costui, percioché estimò
il vedere esser nimico delle meditazioni, e grandissimo impedimento
degli studi per poter liberamente a questi vacare, si fece cavar gli
occhi della testa. Altri dicono lui aver ciò fatto, perché il vedere
le femmine gli era troppo grande stimolo e incitamento inespugnabile
al vizio della carne. E, domandato alcuna volta che utilitá si vedesse
dʼaverlo fatto, nulla altro rispose, se non che, per quello, era
dʼuno piú che lʼusato accompagnato, e questo era un fanciul che ʼl
guidava: benché Tullio, nel quinto delle _Quistioni tusculane_, dice
questa essere stata risposta dʼAsclepiade, il quale fu assai chiaro
filosofo e similmente cieco. Fu nondimeno uomo di grande studio
e di sottile ingegno, quantunque deʼ principi delle cose tenesse
unʼopinione strana e varia da tutte quelle degli altri filosofi. Esso
estimava tutte le cose procedere dallʼuno deʼ due principi, o da odio
o da amore: e poneva una materia mista essere, nella quale i semi di
tutte le cose fossero, e quella diceva chiamarsi «caos», il che tanto
suona quanto «confusione»; e di questa affermava che a caso, non
secondo la diliberazione dʼalcuna cosa, ogni animale, ogni pianta,
ogni cosa che noi veggiamo, nascere. E questo chiamava «odio», in
quanto le cose che nascevano, dal lor principio, sí come da nimico,
si separavano; poi, dopo certo spazio di tempo corrompendosi, tutte
si ritornavano in questa materia chiamata «caos», e questo appellava
«tempo dʼamore e dʼamistá». E cosí teneva questi esser due principi
formali, essendo questo caos principio materiale. Fu, oltre a questo,
costui grandissimo magico, e dopo Zoroaste, re deʼ batriani, trovatore
di questa iniqua arte, molto lʼaumentò e insegnò. Dice adunque per
le predette opinioni lʼautor di lui «cheʼl mondo a caso pone» esser
creato e fatto, e senza alcuna movente cagione: del quale Tullio nel
quinto libro delle _Quistioni tusculane_ dice: «_Democritus, luminibus
amissis, alba scilicet discernere et atra non poterat: at vero bona,
mala, aequa, iniqua, honesta, turpia, utilia, inutilia, magna, parva
poterat; et sine varietate colorum licebat vivere beate, sine notione
rerum non licebat; atque hic vir impediri animi aciem aspectu
oculorum arbitrabatur: et cum alii persaepe quod ante pedes esset non
viderent, ille infinitatem omnem pervagabatur, ut nulla in extremitate
consisteret_».

«Diogene». Diogene cui figliuol fosse, o di qual cittá, non mi ricorda
aver letto, ma lui essere stato solenne filosofo, e uditore di
Anassimandro, molti il testimoniano: e similmente lui essere rimaso di
ricchissimo padre erede. Il quale, come la veritá filosofica cominciò
a conoscere, cosí tutte le sue gran ricchezze donò agli amici, senza
altra cosa serbarsi che un bastone per sostegno della sua vecchiezza e
una scodella per poter bere con essa: la qual poco tempo appresso gittò
via, veggendo un fanciullo bere con mano ad una fonte. E cosí, ogni
cosa donata, primieramente cominciò ad abitare sotto i portici delle
case e deʼ templi; poi, trovato un doglio di terra, abitò in quello; e
diceva che esso meglio che alcun altro abitava, percioché egli aveva
una casa volubile, la quale niuno altro ateniese aveva: e quella nel
tempo estivo e caldo volgeva a tramontana, e cosí avea lʼaere fresco
senza punto di sole; e il verno il volgeva a mezzogiorno, e cosí aveva
tutto ʼl dí i raggi del sole che ʼl riscaldavano. Fu negli studi
continuo e sollecito mostratore agli uditori suoi. Tenne una opinione
istrana dagli altri filosofi, cioè che ogni cosa onesta si doveva fare
in publico; ed eziandio i congiungimenti deʼ matrimoni, percioché erano
onesti, doversi fare nelle piazze e nelle vie: il quale perché atto di
cani pareva, fu cognominato «cinico» e principe della setta deʼ cinici.

Di costui si raccontano cose assai, e non men piacevoli che laudevoli;
per che non sará altro che utile lʼaverne alcuna raccontata. Dice
Seneca, nel libro quinto deʼ _Benefici_, che Alessandro, re di
Macedonia, sʼingegnò molto di poterlo avere appresso di sé, e con
grandissimi doni e profferte molte volte il fece sollicitare: le
quali tutte ricusò, alcuna volta dicendo che egli era molto maggior
signore che Alessandro, in quanto egli era troppo piú quello che
egli poteva rifiutare, che quello che Alessandro gli avesse potuto
donare. E dice Valerio Massimo che, essendo un dí Alessandro venuto
alla casa di Diogene, e per avventura postosegli davanti al sole,
e offerendosi a lui se alcuna cosa volesse, gli rispose che quello,
che egli voleva da lui, era che egli si levasse dal sole e non gli
togliesse quello che dare non gli potea. Similmente aveva Dionisio,
tiranno di Siragusa, molto cercato dʼaverlo, né mai venir fatto gli
era potuto; per che, essendo Diogene andato in Cecilia a considerare
lʼincendio di Mongibello, avvenne che, lavando lattughe salvatiche ad
una fonte presso a Siragusa per mangiarlesi, passò un filosofo chiamato
Aristippo, al quale Dionisio facea molto onore, e, veggendo Diogene gli
disse:—Se tu volessi, Diogene, credere a Dionisio, non ti bisognerebbe
al presente lavare coteste lattughe;—quasi volesse dire:—Tu averesti
deʼ fanti e deʼ servidori, che te le laverebbono.—A cui Diogene
subitamente rispose:—Aristippo, se tu volessi lavar delle lattughe
come fo io, non ti bisognerebbe di lusingar Dionisio.—Altra volta,
essendo per avventura menato da un ricchissimo uomo, il quale aveva il
viso turpissimo, a vedere una sua bella casa, la quale era ornatissima
di dipinture e dʼoro e dʼaltre care cose, e non che le mura eʼ palchi,
ma eziandio il pavimento di quella; volendo Diogene sputare, sʼaccostò
a colui che menato lʼaveva e sputògli nel viso. Per che quegli, che
presenti erano, dissero:—Perché hai tu fatto cosí, Diogene?—Aʼ quali
Diogene prestamente rispose:—Percioché io non vedeva in questa casa
parte alcuna cosí vile, come quella nella quale sputato ho.—Oltre a
ciò, secondo che Seneca racconta nel terzo libro dellʼ_Ira_, avvenne
che, leggendo Diogene del vizio dellʼira, un giovane gli sputò nel
viso. Di che Diogene prudentemente e con pazienza portando lʼingiuria,
niunʼaltra cosa disse, se non:—Io non mʼadiro, ma io dubito se sará
bisogno o no dʼadirarsi.—Di che questo medesimo, tiratosi in bocca uno
sputo ben grasso, nel mezzo della fronte da capo gliele sputò. Il quale
sputo poi che Diogene ebbe forbito, disse: —Per certo coloro, che
dicono che tu non hai bocca, sono fieramente ingannati.—Fu, secondo
che Aulo Gellio scrive _in primo libro Noctium Atticarum_, Diogene
una volta preso: e, volendolo colui, che preso lʼaveva, vendere,
venne un per comperarlo e dimandollo di che cosa sapeva servire. Al
quale Diogene rispose:—Io so comandare agli uomini liberi.—E,
accioché noi trapassiamo da queste laudevoli sue opere al fine della
vita sua, secondo che scrive Tullio nel primo libro delle _Quistioni
tusculane_, essendo Diogene infermo di quella infermitá della quale
si morí, fu domandato da alcuno deʼ discepoli suoi, quello che voleva
si facesse, poi che egli fosse morto, del corpo suo. Subitamente
rispose:—Gittatelo al fosso.—Alla qual risposta colui, che domandato
avea, seguí:—Come, Diogene? vuoi tu che i cani e le fiere salvatiche
e gli uccelli ti manuchino?—Al quale Diogene rispose:—Pommi allato
il baston mio, sí che io abbia con che cacciargli.—A cui questo
addimandante disse:—O come gli caccerai, che non gli sentirai?—Disse
allora Diogene:—Se io non gli debbo sentire, che fa quello a me perché
eʼ mi mangino?—E cosí si morí: il dove non so.

«Anassagora». Anassagora fu nobile uomo ateniese, e fu uditore
di Anassimene e famoso filosofo. Percioché sostener non poteva i
costumi e le maniere deʼ trenta tiranni, li quali in Atene erano, si
fuggí dʼAtene e seguí gli studi pellegrini tanto tempo, quanto la
signoria deʼ predetti durò. Poi, tornando ad Atene, e vedendo le sue
possessioni, che erano assai, tutte guaste e occupate daʼ pruni e da
malvage piante, disse:—Se io avessi voluto guardar queste, io avrei
perduto me.—Questi nella morte dʼun suo figliuolo, assai della sua
fortezza dʼanimo e della sua scienza mostrò; percioché essendogli
nunziata, niuna altra cosa disse a colui che gliele palesò:—Niuna
cosa nuova o da me non aspettata mi racconti, percioché io sapeva
che colui, che di me era nato, era mortale.—Ed essendo infermo di
quella infermitá della quale egli morí, e giacendo lontano alla
cittá, fu domandato se gli piacesse dʼessere portato a morire nella
cittá. Rispose che di ciò egli non curava, percioché egli sapeva che
altrettanta via era dal luogo dove giaceva in inferno, quanta dalla
cittá in inferno.

«E Tale». Tale fu asiano, figliuolo dʼuno che si chiamò Essamite,
sí come Eusebio scrive _in libro Temporum_; e, secondo che Pomponio
Mela dice nel primo libro della _Cosmografia_, egli fu dʼuna cittá
chiamata Mileto, la quale fu in una provincia dʼAsia, chiamata Ionia:
e, sí come santo Agostino dice nel libro ottavo della _Cittá di Dio_,
egli fu prencipe deʼ filosofi ioni, e fu massimamente ammirabile in
quanto, essendo da lui compresi i numeri delle regole astrologiche,
non solamente conobbe i diffetti del sole e della luna, ma ancora gli
predisse. E, secondo che alcuni vogliono, essa fu il primo che conobbe
la immobilitá, o brevissimo circúito di moto della stella la qual noi
chiamiamo «tramontana», e che da essa preso dimostrò lʼordine, il quale
ancora servano i marinari nel navicare, quel segno seguendo. Fu sua
opinione che lʼacqua fosse principio di tutte le cose, e da essa tutti
gli elementi ed esso mondo tutto e quelle cose che in esso si generano
procedessono, sí come santo Agostino nel preallegato libro dimostra.
E, percioché esso fu deʼ primi filosofi di Grecia e, avanti che il
nome del filosofo si divulgasse, fosse chiamato «savio», come sei
altri suoi contemporanei e valenti uomini furono; avvenne che, essendo
daʼ pescatori presa pescando, e tratta di mare, una tavola dʼoro, ed
essendo diliberato che al piú savio mandata fosse, e per conseguente
mandata a lui; fu di tanta e sì discreta umiltá, che ricevere non la
volle, ma la mandò ad uno degli altri sei. Recusò, secondo che alcuni
scrivono, dʼaver moglie, e ciò dice che faceva per non avere ad amare
i figliuoli. Credomi che questo fuggiva, percioché troppo intenso e
forse non molto ordinato amor gli parea. Ultimamente assai utili libri
lasciando, essendo giá dʼetá di settantotto anni, morí. Ma, secondo
che scrive Eusebio _in libro Temporum_, pare che egli vivesse anni
novantadue. Fiorí neʼ tempi che Ciro re per forza trasportò in Persia
lʼimperio deʼ medi.

«Empedocles». Empedocles fu ateniese, secondo Boezio, del quale, credo
piú per difetto del tempo, che ogni cosa consuma, e della trascutaggine
degli uomini, che negligentemente servano le scritture, che perché egli
solenne filosofo degno di laude non fosse, alcuna cosa non si truova
che istorialmente di lui raccontar si possa; quantunque alcuni dicano
lui essere stato ottimo cantatore, ed il suo canto avere avuta tanta
di melodia che, correndo impetuosamente un giovane appresso ad un suo
nemico per ucciderlo, udendo la dolcezza del canto di costui, il quale
per avventura allora in quella parte cantava, per la quale il giovane
seguiva il suo nemico, dimenticato lʼodio, si ritenne ad ascoltarlo.
Costui, secondo che scrive Papia, investigando il luogo della montagna
di Mongibello in Cicilia, disavvedutamente cadde in una fossa di fuoco,
e in quella, non potendosi aiutare, fu ucciso dal fuoco. Fiorí regnante
Artaserse.

«Eraclito». Eraclito è assai appo gli antichi filosofi famoso; ma di
lui altro nella mente non ho, se non che quegli libri, li quali egli
compose, furono con tanta oscuritá di parole e di sentenze scritti
da lui, che pochi eran coloro li quali potessero deʼ suoi testi trar
frutto; per la qual cosa fu cognominato «tenebroso». Dove vivesse, o
quello che egli adoperasse, o di che etá morisse, o dove, non trovai
mai; quantunque alcuni dicono lui essere stato contemporaneo di
Democrito.

E «Zenone». Furono due eccellenti filosofi, deʼ quali ciascuno fu
nominato Zenone; ma, percioché qui non si può comprendere di quale
lʼautor si voglia dire, brievemente diremo dʼamenduni. Fu adunque
lʼuno di questi chiamato Zenone eracleate. Costui, potendosi in pace
e in quiete riposare in Eraclea, sua cittá, e in sicura libertá
vivere, avendo allʼaltrui miseria compassione, se ne andò a Girgenti
in Cicilia, in queʼ tempi da miserabile servitudine oppressa,
soprastantele la crudel tirannia di Falaris, volendo quivi esperienza
prendere del frutto che dar potesse la sua scienza. Ed essendosi
accorto il tiranno piú per consuetudine di signoreggiare che per
salutevol consiglio, tenere il dominio, con maravigliose esortazioni
i nobili giovani della citta infiammò in disiderio di libertá. La
qual cosa pervenuta agli orecchi di Falaris, fece di presente prender
Zenone, e lui nel mezzo della corte posto al martorio, il domandò quali
fossero coloro che del suo consiglio eran partefici. Deʼ quali Zenone
alcuno non ne nominò; ma in luogo di essi nominò tutti quegli che piú
col tiranno eran congiunti, e neʼ quali esso piú si fidava: e in tal
guisa renduti gli amici suoi sospetti a Falaris, fieramente cominciò
a mordere e a riprendere la tristizia e la timiditá deʼ giovani
circustanti: e quantunque dʼetá vecchio fosse, riscaldò sí con le sue
parole i cuori deʼ giovani di Gergenti, che, mosso il popolo a romore,
uccisero con le pietre il tiranno e la perduta libertá racquistâro. E
questo ho, senza piú, che poter dire del primo Zenone.

Lʼaltro Zenone chi si fosse altrimenti né donde non so; ma quasi una
medesima costanza di animo alla precedente nʼ ho che raccontare.
Essendo adunque questo Zenone, secondo che Valerio Massimo scrive nel
terzo libro, fieramente tormentato da un tiranno chiamato Clearco, il
quale, per forza di tormenti, sʼingegnava di sapere chi fossero quegli
che con lui congiurati fossero nella sua morte, della quale Zenone
tenuto avea consiglio; dopo alquanto, senza averne alcuni nominati,
disse sé essere disposto a manifestargli quello che esso addomandava,
ma essere di necessitá che alquanto in disparte si traessero. Per che,
cosí da parte tiratisi, Zenone prese Clearco per lʼorecchio coʼ denti,
né mai il lasciò, prima che tronca gliele avesse, come che egli daʼ
circustanti amici del tiranno ucciso fosse.

«E vidi ʼl buon accoglitor del quale», cioè della qualitá dellʼerbe; e
che esso intenda dellʼerbe, si manifesta per lo filosofo nominato, il
quale intorno a quelle fu maravigliosamente ammaestrato: «Dioscoride
dico». Dioscoride né di che parenti né di qual cittá natio fosse,
non lessi giammai; e di lui niunʼaltra cosa ho che dire, se non che
esso compuose un libro, nel quale ordinatamente discrisse la forma di
ciascuna erba, cioè come fossero fatte le frondi di quelle, come fosser
fatte le loro radici, come fosse fatto il gambo e come i fiori e come i
frutti di ciascuna e come il nome, e similmente la virtú di quelle.

«E vidi Orfeo». Orfeo, secondo che Lattanzio, _in libro Divinarum
institutionum in gentiles_ scrive, fu figliuolo dʼApolline e di
Calliope musa, e a costui scrive Rabano, _in libro Originum_, che
Mercurio donò la cetera, la quale poco avanti per suo ingegno avea
composta: la quale esso Orfeo si dolcemente sonò, secondo che i poeti
scrivono, che egli faceva muovere le selve deʼ luoghi loro, e faceva
fermare il corso deʼ fiumi, faceva le fiere salvatiche e crudeli
diventar mansuete. Di costui, nel quarto della _Georgica_, racconta
Virgilio questa favola, cioè lui avere amata una ninfa, chiamata
Euridice, ed avendola con la dolcezza del canto suo nel suo amore
tirata, la prese per moglie. La quale un pastore, chiamato Aristeo,
cominciò ad amare: e un giorno, andandosi ella diportando insieme con
certe fanciulle su per la riva dʼun fiume chiamato Ebro, Aristeo la
volle pigliare; per la qual cosa essa cominciò a fuggire, e, fuggendo,
pose il piè sopra un serpente, il quale era nascoso nellʼerba; per
che, sentendosi il serpente priemere, rivoltosi, lei con un velenoso
morso trafisse, di che ella si morí. Per la qual cosa Orfeo piangendo
discese in inferno, e con la cetera sua cominciò dolcissimamente a
cantare, pregando nel canto suo che Euridice gli fosse renduta. E
conciofossecosaché esso non solamente i ministri infernali traesse in
compassione di sé, ma ancora facesse allʼanime deʼ dannati dimenticare
la pena deʼ lor tormenti, Proserpina, reina dʼinferno, mossasi, gli
rendé Euridice, ma con questa legge: che egli non si dovesse indietro
rivolgere a riguardarla, infino a tanto che egli non fosse pervenuto
sopra la terra; percioché, se egli si rivolgesse, egli la perderebbe,
senza mai poterla piú riavere. Ma esso, con essa venendone, da tanto
disiderio di vederla fu tratto, che, essendo giá vicino al pervenire
sopra la terra, non si poté tenere che non si volgesse a vederla.
Per la qual cosa, senza speranza di riaverla, subitamente la perdé;
laonde egli lungamente pianse, e del tutto si dispose, poiché lei
perduta avea, di mai piú non volerne alcunʼaltra, ma di menar vita
celibe, mentre vivesse. Per la qual cosa, si come dice Ovidio, avendo
il matrimonio di moltʼaltre, che il domandavano, ricusato, cominciò a
confortare gli altri uomini che casta vita menassero. Il che sapendo le
femmine, il cominciarono fieramente ad avere in odio; e multiplicò in
tanto questo odio, che, celebrando le femmine quel sacrificio a Bacco,
che si chiama «orgia», allato al fiume chiamato Ebro, coʼ marroni e
coʼ rastri e con altri stromenti da lavorar la terra lʼuccisono e
isbranaron tutto, e il capo suo e la cetera gittate nellʼEbro, infino
nellʼisola di Lesbo furono dallʼacque menate: e, volendo un serpente
divorare la testa, da Apolline fu convertito in pietra: e la sua
cetra, secondo che dice Rabano, fu assunta in cielo e posta tra lʼaltre
imagini celestiali.

Ma, lasciando le fizioni poetiche da parte, certa cosa è costui essere
stato di Tracia, e nato dʼuna gente chiamata «cicona»: e secondo che
Solino, _De mirabilibus mundi_, afferma, questi cotali ciconi infino
nel tempo suo in sublime gloria si reputavano Orfeo esser nato di
loro. E fu costui, secondo che molti stimano, di queʼ primi sacerdoti
che furono ordinati in queʼ tempi, che prima si cominciò in Grecia
a conoscere Iddio, a dovere quelle parole esquisite comporre, dalle
quali nacque il nome del poeta. E furono le forze della sua eloquenza
grandissime in tanto, che in qual parte esso voleva, aveva forza di
volgere le menti degli uomini. E, secondo che scrive Stazio nel suo
Tebaida, egli fu di queʼ nobili uomini, li quali furono chiamati
argonauti, che passarono con Giasone al Colco: e fu trovatore di certi
sacrifici, infino al suo tempo non usati, e massimamente di quei di
Bacco, secondo che Lattanzio scrive nel preallegato libro, dicendo
Orfeo fu il primo, il quale introdusse in Grecia i sacrifici di Libero
padre, cioè di Bacco; e fu il primo che quegli celebrò sopra un monte
di Beozia, vicino a Tebe dove Bacco nacque: il qual monte è chiamato
Citerone, per la frequenza del canto della cetera, il quale in quello
faceva Orfeo. E sono quegli sacrifici ancora chiamati «orfichi», neʼ
quali esso Orfeo fu poi morto ed isbranato. Della cui morte dice
Teodonzio che, avendo Orfeo primieramente trovati i sacrifici di Bacco,
e appo quegli di Tracia avendo comandato questi sacrifici farsi daʼ
cori delle Menade, cioè delle femmine, le quali quel natural difetto
patissono, del quale esse ogni mese sono, almeno una volta, impedite:
e questo aveva fatto a fine di torle in quel tempo dalle commistioni
degli uomini, conciosiacosaché non solamente sia abominabile, ma ancora
dannoso agli uomini; ed esse, di ciò essendosi accorte: estimando
questo essere stato trovato per far palese agli uomini la turpitudine
loro, turbate, congiurarono contro ad Orfeo, e lui, che di ciò non si
prendeva guardia, coʼ marroni uccisono e gittaronlo nel fiume Ebro.
Fiorì costui in maravigliosa fama, regnando appo i troiani Laomedonte,
e appo i latini Fauno, padre di Latino. Nondimeno Leone tessalo diceva
esserne stato un altro molto più antico di costui, il quale, essendo
grandissimo musico, aveva trovato insieme con Museo quel modo esquisito
di parlare, il quale di sopra dicemmo; avvegnaché Eusebio _in libro
Temporum_ scriva questo Museo, figliuolo di Eumolpo, essere stato
discepolo dʼOrfeo.

«Tullio». Tullio, quantunque roman fosse, nondimeno la sua origine
fu dʼArpino, città non lontana da Aquino, anticamente stata di queʼ
popoli che si chiamarono volsci; e discese di nobili parenti, percioché
si legge li suoi passati essere stati re della lor città. Questi,
giovanetto, venne a Roma; e già in eloquenza valendo molto, avendo
lʼanimo gentile, sempre sʼaccostò aʼ più nobili uomini di Roma. I
suoi studi furon grandi e in ogni spezie di filosofia: e quantunque
in quegli fosse ammaestratissimo, nondimeno in eloquenza trapassò
ogni altro preterito, e, per quello che insino a questo di veder si
possa, si può dire e futuro. Costui compose molti e laudevoli libri.
Egli ancora giovinetto compose in rettorica lʼ_Arte vecchia_ e la
_Nuova_. Poi, più maturo, compose in questa medesima facultà un libro
chiamato _De oratore_, nel quale con artificioso stilo racchiuse ciò
che in retorica dir si puote. Scrisse, oltra a ciò, molti filosofici
libri, sì come quello _De officiis, Delle quistion tusculane, De
natura deorum, De divinatione, De laudibus philosophiae, De legibus,
De re publica, De re frumentaria, De re militari, De re agraria, De
amicitia, De senectute, De paradoxis, De topicis_ ed altri più: e
lasciò infinite orazioni fatte in senato ed altrove, degne di eterna
memoria: e, oltre a ciò, scrisse un gran volume di pistole familiari
e altre. Divenne per la sua industria in Roma splendido cittadino, in
tanto che non solamente fu assunto tra la gente patrizia, ma esso fu
fatto dellʼordine del senato, e insino al sommo grado del consolato
pervenne: nel quale avendo da Fulvia, amica di Quinto Curio, e da
certi ambasciatori degli allobrogi cautamente sentita la congiurazione
ordinata da Catellina, presi certi nobili giovani romani che a quella
tenevano, essendosi giá Catellina partito di Roma, di grandissimo
pericolo liberò la cittá. Fu, oltre a ciò, mandato in esilio daʼ
romani, e poi, finito lʼanno, rivocato e con mirabile onore ricevuto.
E, sopravvenute le guerre cittadine, seguí le parti di Pompeo; ed
essendo in ogni parte i pompeiani vinti da Giulio Cesare, fu rivocato
in Roma, né però fu privato dellʼordine senatorio. Ultimamente fu di
quegli li quali congiurarono contro a Cesare, e quivi si trovò dove
Cesare fu ucciso; per la qual cosa, come gli altri congiurati fuggitosi
di Roma, essendo il nome suo posto nella tavola deʼ proscritti da
Antonio triumviro, il quale fieramente lʼodiava, se nʼandò a Gaeta.
Dove pianamente dimorando, Gaio Popilio Lenate, il quale Tullio con la
sua eloquenza avea di capitale pericolo liberato, pregò Marco Antonio
che gli concedesse di perseguirlo e dʼucciderlo: ed ottenutolo, lui nel
campo Formiano, non lontano da Gaeta, uccise; e tagliatagli la testa e
la destra mano, con esse se ne tornò a Roma, quasi trionfasse di quella
testa che la sua avea liberata da morte.

«Lino» (_supple_) vidi. Lino fu tebano, uomo dʼaltissimo ingegno e in
musica ammaestrato molto; e insieme con Anfione e con Zeto, tebani e
nobilissimi musici, concorse. Credesi fosse uno di quegli primi poeti
teologi; e, secondo che scrive Eusebio, egli fu maestro dʼErcole; e fu
aʼ tempi di Bacco, chiamato Libero padre, regnante Pandione in Atena e
Steleno appo gli argivi; e perseverò insino al tempo che Atreo e Tieste
regnarono in Micena ed Egeo in Atene.

«E Seneca morale». È cognominato questo Seneca «morale», a differenza
dʼun altro Seneca, il quale, della sua famiglia medesima, fu poco tempo
appresso di lui, il quale (essendo il nome di questo «morale» Lucio
Anneo Seneca) fu chiamato Marco Anneo Seneca, e fu poeta tragedo;
percioché egli scrisse quelle tragedie, le quali molti credono che
Seneca morale scrivesse. Fu adunque, questo Seneca, spagnuolo, della
cittá di Corduba: ed egli con due suoi fratelli carnali (dei quali
lʼuno fu chiamato Iunio Anneo Gallio e lʼaltro Lucio Anneo Mela, padre
di Lucano) da Gneo Domizio, avolo di Neron Cesare, secondo che alcuni
dicono, furono menati a Roma, e quivi furono in onorevole stato; e
massimamente questo Seneca, il quale, qual che la cagione si fosse,
venuto in disgrazia di Claudio Cesare, il rilegò nellʼisola di Corsica,
nella quale egli stette parecchi anni. Poi, avendo Claudio fatta
uccidere Messalina, sua moglie, per gli manifesti suoi adultèri, e
presa in luogo di lei Agrippina, figliuola di Germanico e sorella di
Gaio Caligula imperadore e moglie di Domizio Nerone, padre di Nerone
Cesare; aʼ prieghi di lei fu da Claudio rivocato in Roma e restituito
neʼ suoi onori, e, oltre a ciò, dato per maestro a Nerone, ancora assai
giovanetto, col quale in grandissimo colmo divenne e massimamente
di ricchezze. Egli fu uditore dʼun famoso filosofo in queʼ tempi,
chiamato Focione, della setta degli stoici; e, quantunque in molte
facultá solennissimo divenisse, pure in filosofia morale, secondo la
setta stoica, divenne mirabile uomo, e in tanto piú commendabile, in
quanto i suoi costumi, quanto piú esser potessono, furon conformi
alla sua dottrina. E, perseverando in continuo esercizio, compose
molti e laudevoli libri, sí come il libro _De beneficiis_, quello
_De ira_, quello _De clementia_ a Nerone, quello _De tranquillitate
animi_, quello _De remediis fortuitorum_, quello _De quæstionibus
naturalibus_, quello _De quatuor virtutibus_, quello _De consolatione
ad Elviam_ e altri piú. Ma sopra tutti fu quello _Delle pistole a
Lucillo_, nel quale, senza alcun dubbio, ciò che scriver si può a
persuadere di virtuosamente vivere, in quel si contiene: e quello
ancora che si chiama _Le declamazioni_. Compose, oltre a questi, un
altro, secondo che alcuni vogliono, il quale è molto piú poetico che
morale, ed è in prosa e in versi, in forma di tragedia: e in quello
discrive come Claudio Cesare fosse cacciato di paradiso e menatone da
Mercurio in inferno. E che esso questo componesse, quantunque a me non
paia suo stilo, nondimeno alquanta fede vi presto, percioché egli ebbe
fieramente in odio Claudio, per la ingiuria dello esilio ricevuta da
lui; e quello libretto per tutto non è altro che far beffe di Claudio e
della sua poca laudevol vita.

Ma, poi che Claudio, per lo ʼnganno dʼAgrippina, sua moglie, fu morto
dal veleno, datogli mangiare neʼ boleti, e per lʼastuzia di lei
posposto Britannico, figliuolo legittimo e natural di Claudio; Nerone,
figliuolo adottivo del detto Claudio e dʼAgrippina e discepolo di
questo Seneca, fu fatto imperadore ancora assai giovane; e senza alcun
dubbio multiplicò molto la grandezza e la ricchezza di Seneca, la quale
men che felice uscita ebbe; percioché, avendo Nerone fatto morire
Britannico di veleno, e, oltre a ciò, avendo fatta uccidere Agrippina,
sua madre, e Ottavia, sirocchia carnale di Britannico e sua moglie,
rifiutata e mandata in esilio in una isola, molte cose falsamente
apponendole, e ultimamente fattala uccidere, e fattasi moglie una
gentildonna di Roma, chiamata Poppeia Sabina, la qual più anni aveva
per amica tenuta, e fatto morire uno Burrone, il quale era prefetto
dello esercito pretoriano e suo maestro insieme con Seneca, e in luogo
di Burrone, ad istanza di Poppeia, posto uno chiamato Tigillino; ed
avendo Poppeia e Tigillino sospetto Seneca non, coʼ suoi consigli,
lʼanimo di Nerone volgesse e loro gli facesse odiosi, cominciarono
sagacemente ad incitare Nerone contro di lui. La qual cosa sentendo
Seneca, per menomare la ʼnvidia portatagli, pregò Nerone che tutte
le sue ricchezze e gli onori prendesse, e lui lasciasse in povero e
in privato stato. Le quali Nerone non volle ricevere, ma, postogli
il braccio in collo, e lusingandolo, e quello nelle parole mostrando
che nellʼanimo non avea, ciò, che egli rifiutava, ritenere gli fece.
Nondimeno Seneca, suspicando sempre della poca fede di Nerone, cominciò
del tutto a rifiutare le visitazioni e le salutazioni degli amici, ed a
fuggire la lunga compagnia deʼ clientoli, e a dimorare il più del tempo
ad alcune sue possessioni, le quali fuora di Roma avea.

Ultimamente, essendosi scoperta una congiurazione fatta contro a Nerone
da molti deʼ senatori e da più altri dellʼordine equestre, e daʼ
centurioni e da altri cittadini, essendo di quella prencipe un nobile
giovane di Roma chiamato Pisone; venne in animo a Nerone di farlo
morire, non perché in quella colpevole il trovasse, ma per propria
malvagità e come uomo che era disideroso dʼadoperare crudelmente la
sua potenza coʼ ferri. Ed essendo per ventura di queʼ dí, secondo che
scrive Cornelio Tacito nel quindicesimo libro delle sue _Storie_,
tornato Seneca di campagna, sʼera rimaso in una sua villa, quattro
miglia vicino a Roma, alla quale Sillano, tribuno dʼuna coorte
pretoria, approssimandosi giá lʼora tarda, andò e quella intorniò
dʼuomini dʼarme, ed entrato in casa, trovò lui con Pompeia Paulina
sua moglie, e con due deʼ suoi amici mangiare. E mangiando egli,
gli manifestò il comandamento fattogli dallʼimperadore, cioè: uno,
chiamato Natale, essere stato mandato a lui per parte di Pisone, ed
esso essersi in nome di Pisone rammaricato perché da poterlo visitare
fosse proibito. Al quale Seneca rispuose: sé essersi da ciò scusato,
che fatto lʼavea per cagione della sua infermitá e per disiderio di
riposo; e che esso non avea avuta alcuna cagione per la quale la salute
del privato uomo avesse preposta alla sua sanitá; e che il suo ingegno
non era pronto né inchinevole a dover lusingare alcuno; e che di questo
non era alcuno piú consapevole che Nerone, il quale spessissimamente
avea provata piú la libertá di Seneca che il servigio. Le quali parole,
presente Poppeia e Tigillino, il tribuno rapportò a Nerone; il quale
Nerone domandò se Seneca sʼapprestava a volontaria morte. Rispose:
niuno segno di paura aver veduto in lui e niuna tristizia conosciuta
nelle parole e nel viso. Per la qual cosa Nerone gli comandò che
tornasse a Seneca, e gli comandasse che egli sʼeleggesse la morte. Il
quale tornatovi, non volle andare nella sua presenza, ma mandovvi uno
deʼ centurioni, che gli dicesse lʼultima necessitá: la quale Seneca
senza alcuna paura ascoltò, e domandò che portate gli fossero le tavole
del suo testamento. La qual cosa il centurione non sostenne. E perciò
Seneca, voltosi aʼ suoi amici, molte cose disse, e, poiché negato
gli era di poter render loro grazia secondo i lor meriti, testò sé
lasciar loro una di quelle cose le quali egli aveva piú bella, e ciò
era la immagine della vita sua, della quale se essi si ricordassono,
essi sempre seco porterebbono la fama delle buone e laudevoli arti e
della costante loro amistá. E, oltre a questo, ora con parole e ora
con piú intenta dimostrazione, cominciò le lor lacrime a rivocare in
fermezza dʼanimo: domandògli dove i comandamenti della sapienza, dove
per molti anni avesser lasciata andare la premeditata ragione intorno
alle cose sopravvegnenti, e da cui non esser saputa la crudeltá di
Nerone; e che niunʼaltra cosa gli restava a fare, avendo la madre e ʼl
fratello uccisi, se non dʼuccidere il suo maestro e colui che allevato
lʼavea. E quinci, abbracciata la moglie, la confortò e pregò che con
forte animo portasse questa ingiuria. E, avendo giá il centesimo anno
passato, si fece aprir le vene delle braccia, e appresso, percioché il
sangue lentamente usciva del corpo, similmente si fece aprir le vene
delle gambe e delle ginocchia; e, mentre lentamente mancava la vita
sua, infino che gli bastaron le forze di poter parlare, fatti venire
scrittori, piú cose degne di laude in sua fama e in bene di coloro che
dopo la sua morte le dovevan vedere, fece scrivere. Ma, prolungandosi
troppo la morte, pregò Stazio Anneo medico, lungamente stato suo fido
amico, che gli desse veleno, il quale egli lungamente davanti sʼaveva
apparecchiato. Il quale preso, né dʼalcuna cosa offendendolo, per li
membri, che erano giá freddi e niuna via davano donde il veleno potesse
al cuore trapassare; si fece alla fine mettere in un bagno dʼacqua
molto calda, nel quale entrando, con le mani, queʼ servi che piú
prossimani gli erano, presa dellʼacqua, risperse. Daʼ quali fu udita
questa voce: che esso quello liquore sacrificava a Giove liberatore.
E poco appresso dal vapore caldo dellʼacqua fu ucciso, e senza alcuna
pompa o solennitá di funebre ufficio fu, secondo il costume antico,
arso il corpo suo.

Fu nondimeno fama, secondo che il predetto Cornelio scrive, che Subrio
Flavio aveva coʼ centurioni avuto secreto consiglio, il quale Seneca
aveva saputo, che, poiché Nerone fosse stato per opera di Pisone
ucciso, che esso Pisone similmente ucciso fosse, e che lʼimperio fosse
dato a Seneca, quasi, come non colpevole, per ragione delle sue virtú
fosse stato eletto allʼaltezza del principato.

Ma, come che lʼautore in questo luogo il ponga come dannato, io non
sono perciò assai certo, se questa opinione sia da seguire o no:
conciosiacosaché si leggano piú epistole mandate da Seneca a san Paolo
e da san Paolo a Seneca, nelle quali appare tra loro essere stata
singulare amistá, quantunque occulta fosse; ed in quelle, o almeno
nellʼultima di quelle, essere parole scritte da san Paolo, le quali,
bene intese, assai chiaro mi pare dimostrino san Paolo lui aver per
cristiano. E se esso fu cristiano e di continentissima e santa vita,
perché traʼ dannati annoverar si debba non veggio: senza che, a
confermazion di questa mia pietosa opinione, vengono le parole scritte
di lui da san Girolamo _in libro Virorum illustrium_, nel quale scrive
cosí: «_Lucius Annaeus Seneca Cordubensis, Focionis stoici discipulus,
et patruus Lucani poëtae, continentissimae vitae fuit, quem non ponerem
in chatalogo sanctorum, nisi me illae epistolae provocarent, quae
leguntur a plurimis Pauli ad Senecam et Senecae ad Paulum, in quibus,
cum esset Neronis magister, et illius temporis potentissimus, optare se
dicit eius esse loci apud suos, cuius sit Paulus apud Christianos. Hic
ante biennium, quam Petrus et Paulus coronarentur martyrio, a Nerone
interfectus est_».

[E, oltre a questo, mi sospigne alquanto a sperar bene della sua
salute, quasi lʼultimo atto della vita sua, quando, entrando nel piú
caldo bagno, disse sé sacrificare quella acqua a Giove liberatore;
parendomi queste parole potersi con questo sentimento intendere: che
esso, il quale, quantunque il battesimo della fede avesse, il quale
i nostri santi chiamano «_flaminis_», non essendo rigenerato secondo
il comune uso deʼ cristiani nel battesimo dellʼacqua e dello Spirito
santo, quellʼacqua in fonte battesimale consegrasse a Giove liberatore,
cioè a Iesu Cristo, il quale veramente fu liberatore dellʼumana
generazione nella sua morte e nella resurrezione. Né osta il nome di
Giove, il quale altra volta è stato mostrato ottimamente convenirsi
a Dio: anzi a lui e non ad alcuna creatura. E cosí consecratala, in
questa essersi bagnato, e divenuto cristiano col sacramento visibile,
come con la mente era. Ora di questo è a ciascuno licito quello
crederne che gli pare.]

[Nota: Lez. XVII]

«Euclide geometra» (_supple_) vidi. Euclide geometra, onde si fosse, né
di che parenti disceso, non so; ma assai appare per Valerio Massimo,
nel suo ottavo libro, capitolo dodici, lui essere stato contemporaneo
di Platone, e, percioché insino neʼ nostri dí è perseverata la fama
sua, puote assai esser manifesto lui avere in geometria ogni altro
filosofo trapassato. Esso adunque compose il libro delle _Teoremate_
in geometria, il quale ancora consiste: sopra le quali fu da Boezio
ottimamente scritto.

«E Tolomeo». Tolomeo, cognominato da alcuno peludense, secondo che
opinione è di molti, fu egiziaco; ed alcuni estimano lui essere stato
di queʼ re dʼEgitto, percioché molti ve nʼebbe con questo nome; e altri
credono che esso non fosse re, ma nobile uomo del paese. E, percioché
alcuno scrive lui essere stato nel torno di centoventotto anni dopo la
incarnazione di nostro Signore, cioè aʼ tempi dʼAdriano imperadore,
sono io di quegli che credo lui non essere stato re; percioché in queʼ
tempi non si legge Egitto avere avuti re, conciofossecosaché esso
in forma di provincia romana si reggesse. Ma chi che egli si fosse,
o re o altro, certissimo appare lui essere stato eccellentissimo
astrolago. Nella quale arte, a dottrina e ammaestramento di coloro che
venir doveano, esso piú libri compose, traʼ quali fu lʼ_Almagesto_,
il _Quadripartito_, e ʼl _Centiloquio_, e molte tavole a dovere con
le lor dimostrazioni poter trovare i veri luoghi deʼ pianeti e i lor
movimenti. Fu allevato in Alessandria, e quivi abitò, e in Rodi; e, poi
che vivuto fu ottantotto anni, finío la vita sua.

«Ipocras». Ipocras, secondo che Rabano _in libro XVIII Originum_
scrive, fu figliuolo dʼAsclepio, e regnante Artaserse, re di Persia,
nacque nellʼisola di Coo; e per assiduo studio divenne gran filosofo
e solennissimo medico. E dicono di lui alcuni che, essendo egli da un
fisonomo veduto, dové il fisonomo dire a lui dovere essere di natura
lussurioso uomo, e, oltre a ciò, di grossissimo ingegno: la qual cosa
egli confessò esser vera, ma che lʼastinenza lʼavea fatto casto, e
lʼassiduitá dello studio lʼavea fatto ingegnoso. E veramente fu egli
ingegnoso, percioché esso fu colui il quale per forza dʼingegno ritrovò
la medicina, la qual del tutto era perduta. È adunque da sapere che
Apollo appo i greci fu il primiero uomo che trovò medicina, e costui,
investigate le virtú dellʼerbe, quelle sole nelle sue medicine adoperò;
appresso il quale fu Esculapio suo figliuolo, il quale, ammaestrato
dal padre, e poi per lo suo studio divenuto scienziatissimo, quella
ampliò molto; ed essendo avvenuto il caso dʼIppolito, figliuolo di
Teseo, re dʼAtene, che, fuggendo la sua ira, daʼ cavalli che il suo
carro tiravano, spaventati daʼ pesci chiamati «vecchi marini», li
quali di terra rifuggivano in mare, lui, rotte le ruote, peʼ luoghi
petrosi trascinando, aveano tutto lacerato, e in sí fatta maniera
concio che ciascuno giudicava lui morto: per lʼarte e sollecitudine di
questo Esculapio fu a sanitá ritornato. Ed avvenendo non guari poi che
Esculapio, percosso da una folgore, morisse, diceva ognʼuomo perciò
lui essere stato fulminato da Giove, percioché Giove sʼera turbato che
alcuno uomo avesse potuto un altro uomo morto rivocare in vita. Per la
quale universal fama degli sciocchi, fu del tutto interdetta lʼarte
della medicina; e, secondo che Plinio, nel libro ventinovesimo _De
historia naturali_, scrive, essendo la medicina sotto oscurissima notte
stata nascosa insino al tempo della guerra peloponensiaca, fu da questo
Ippocrate rivocata in luce e consecrata ad Esculapio. E dice Rabano,
nel libro preallegato, che ella stette nascosa nel torno di cinquecento
anni; e cosí costui, dʼarte cosí opportuna allʼumana generazione si può
dire essere stato prencipe ed autore. Scrive di costui san Geronimo
nelle _Questioni del Genesi_ che, avendo una femmina partorito un bel
figliuolo, il quale né lei né il padre somigliava, era per esser punita
sí come adultera; il che udendo Ippocrate, disse che era da riguardare,
non per avventura nella camera sua fosse alcuna dipintura simile; la
qual trovatavisi, liberò la innocente femmina dalla sospezione avuta
di lei. Egli fu piccolo di corpo e di forma fu bello: ebbe gran capo,
fu di movimento ed eziandio di parlar tardo e fu di molta meditazione
e di piccol cibo; e, quando si riposava, guardava la terra. Visse
novantacinque anni, e poi si morí.

[«Avicenna». Avicenna, secondo che io ho inteso, fu per nazione
nobilissimo uomo; anzi dicono alcuni lui essere stato chiarissimo
prencipe e dʼalta letteratura famoso, e massimamente in medicina. Altro
non ne so.]

«E Galieno». Galieno fu per origine di Pergamo in Asia, lá dove
primieramente fu trovato il fare delle pelli degli animali carte
da scrivere, le quali ancora servano il nome del luogo dove
primieramente fatte furono, e chiamansi «pergamene»; ed in medicina fu
scienziatissimo uomo, secondo che appare. Costui primieramente fiorí ad
Atene e poi in Alessandria fu di grandissimo nome; e quindi venutosene
a Roma, quivi fu di grandissima fama, per quello che alcuni dicano,
al tempo di Antonino pio imperadore. Altri il fanno piú antico, e
dicono che egli visse al tempo di Nerone e degli altri imperadori, che
appresso lui furono, infino a Domiziano. Esso, poi che finiti ebbe anni
ottantasette, finío la vita sua.

«Averrois». Averrois dicono alcuni che fu arabo ed abitò in Ispagna;
altri dicono che egli fu spagnuolo. Uomo dʼeccellente ingegno,
intanto che egli comentò ciò che Aristotile in filosofia naturale e
metafisica composto avea; e tanto chiara rendé la scienza sua, che
quasi apparve insino al suo tempo non essere stata intesa, e però non
seguita, dove dopo lui è stata in mirabile pregio, anzi a quella dʼogni
altro filosofo preposta. «Che ʼl gran comento feo»: sopra i libri dʼ
Aristotile. Ed è intra lo «scritto» e ʼl «comento», che sopra lʼopera
dʼalcuni autori si fanno, questa differenza: che lo scritto procede per
divisione, e particularmente ogni cosa del testo dichiara; il comento
prende solo le conclusioni, e, senza alcuna divisione, quelle apre e
dilucida: e cosi è fatto quello dʼAverrois.

Ma, poiché finite sono le storie, avanti che fine si faccia a questa
quarta particula, è da rimuovere un dubbio, il quale per cose in essa
raccontate si può muovere: e dico che in questo canto pare che lʼautore
a se medesimo contradica, in quanto di sopra, ragionandogli Virgilio
quali sieno quegli che in questo cerchio puniti sono, dice esser tali
che non peccâro: «e sʼegli hanno mercedi, Non basta», ecc. E poi ne
nomina lʼautore alquanti, che di questi cotali sono, sí come nelle
raccontate istorie è assai manifesto, li quali assai apertamente appare
loro essere stati peccatori, sí come Ovidio, il quale, quantunque assai
cose buone e utili componesse, nondimeno a chi legge il suo libro, il
quale è intitolato _Sine titulo_, assai chiaro può vedere lui essere
stato quasi piú che alcun altro effeminato e lascivo uomo. E, oltre a
questo, nel libro il quale egli compuose _De arte amandi_, dá egli
pessima e disonesta dottrina aʼ lettori. Appresso, è ancora di questi
Lucano, il quale, come mostrato è, fu nella congiurazione pisoniana
incontro a Nerone, il quale era suo signore: e, quantunque iniquo uom
fosse, e niuna, secondo che Seneca tragedo scrive in alcuna delle
sue tragedie, è piú accetta ostia a Dio che il sangue del tiranno,
nondimeno non aspettava a Lucano di volere esser punitore degli eccessi
del signor suo. E dentro al castello pone Enea, il quale, secondo che
Virgilio testimonia, con Didone alcun tempo poco laudevolmente visse,
e, oltre a ciò, credono i piú che egli sentisse con Antenore insieme il
tradimento dʼIlione sua cittá; il che, oltre alla turpe operazione, è
gravissimo peccato. Ponvi similmente Cesare, il quale, come mostrato è,
fu incestuoso uomo, e di piú donne vituperevolmente contaminò lʼonestá;
rubò e votò lʼerario publico deʼ romani, e, oltre a ciò, tirannicamente
occupò la libertá publica e quella, mentre visse, tenne occupata.
Appresso vi descrive Lucrezia, la quale, quantunque onestissima donna
fosse, nondimeno se medesima uccise, il che senza grandissimo peccato
non è licito di fare ad alcuno. Scrivevi ancora il Saladino, il quale,
come noi sappiamo, in quanto poté fu nemico del nome di Cristo,
adoperando e procacciando con ogni istanzia il disfacimento di quello.
E questi peccati, li quali io dico che neʼ predetti furono, mostra
lʼautore sotto intollerabili supplici e in dannazion perpetua essere
appresso puniti. Per la qual cosa appare, come davanti dissi, lʼautore
a se medesimo contradire.

Ma a questo dubbio mi pare si possa in cosí fatta maniera rispondere:
essere di necessitá i meriti e le colpe per gli autori di quelle
convenirsi discrivere, accioché piú pienamente si possan comprendere: e
queste non per ogni autore, percioché assai ne sono di sí piccola fama
che, non essendo conosciuti, non sarebbono intese; ma per eccellenti
e famosi uomini intorno a quelle cose le quali alcun vuole che intese
sieno; e perciò, e qui e per tutto il suo libro, lʼautore quasi altra
gente non pone, se non quegli cotali, per li quali crede piú essere
conosciuto e inteso quello che dir vuole. Quantunque egli per questo
non intenda che alcuno creda che egli alcun deʼ nominati vedesse, né
in inferno né altrove, ma vuole che, per gli nominati, sʼintenda essere
in quello luogo qualunque è stato colui in cui quelle medesime virtú o
vizi stati sono. E, oltre a ciò, quantunque Enea, Giulio e Lucrezia e
gli altri detti, stati peccatori, qui descritti dallʼautore, intende
esso autore questi cotali in questo luogo si prendan solamente per
virtuosi in quelle virtú che loro qui attribuite sono, e le colpe,
quasi non sute, si lascino stare. E cosí prenderemo qui essere chiunque
fu in opera simile a Giulio, in quanto virtuoso e non battezzato,
e cosí di Lucrezia e degli altri, e non in quanto in alcune cose
peccarono: e in questa maniera si convien sostener questo testo.

«Io non posso ritrar», cioè raccontare, «di tutti», quegli valenti
uomini che io vidi in quel luogo, «appieno», cioè pienamente; percioché
molti erano. E soggiugne la ragione perché di tutti ritrarre non può,
dicendo: «Percioché sí mi caccia», cioè sospigne a procedere avanti,
«il lungo tema», di voler discrivere lʼuniversale stato degli spiriti
dannati, di queʼ che si purgano e deʼ beati: «Che molte volte», non
solamente pur qui, ma ancora altrove, «al fatto», cioè alle cose che
vedute ho, le quali sono in fatto, «il dir», cioè il raccontare, «vien
meno». E ciò non è maraviglia, percioché, volendo appieno raccontare le
particularitá di qualunque nostra operazione, quantunque piccola sia,
si converrebbon dir tante parole, che quasi mai non verrebbon meno.

«La sesta compagnia». In questa quinta e ultima particella della
seconda parte principale della suddivisione del presente canto,
dimostra lʼautore come, partiti daʼ quattro poeti, procedettero avanti,
e dice: «La sesta compagnia», cioè deʼ sei poeti, dʼOmero e di Orazio
e degli altri, «in due», cioè poeti, in Virgilio e nellʼautore, «si
scema», cioè rimane scema. «Per altra via», che per quella per la quale
venuti eravamo, «mi mena ʼl savio duca», Virgilio, «Fuor della cheta»,
aura; percioché, come assai è nelle precedenti cose apparito, niun
tumulto, niun romore era in quel cerchio; «nellʼaura che trema», sí
come ripercossa da impetuoso spirito di vento e da pianti e da dolori.
«E vengo in luogo, ove non è», né sole, né stella, né lumiera «che
luca», cioè faccia lume.



II

SENSO ALLEGORICO


[«Ruppemi lʼalto sonno nella testa», ecc. La continuazione del senso
allegorico del precedente canto con quella di questo nella fine del
precedente, è dimostrata in quanto, avendo di sopra mostrato come
talvolta lʼuomo, ingannato dagli splendori mondani, mortalmente pecchi
e per conseguente diventi servo del peccato, nel principio di questo
dimostra come, per quello, nella prigione del diavolo si ritruovi; e
di questo essersi accorto per la visitazion di Dio, il quale ha in
lui mandata la grazia operante, per la quale egli è stato desto dal
mortal sonno, e fatto ravvedere lá dove per lo peccato è pervenuto,
cioè in luogo tenebroso, oscuro e pien di dolore e di pene. Delle
quali accioché egli abbia piena esperienza, e ammaestrato pervenga
con disiderio alla penitenza, seguendo la ragione, procede e vede,
dimostrandogliele ella, la prima colpa, che per la giustizia di Dio
è punita nel primo cerchio dello ʼnferno. E questa, come assai è
manifestato nel testo, dico che è il peccato originale, il quale, per
lo lavacro del battesimo, da quegli cotali, che in questo cerchio pena
ne sostengono, non fu levato via. Per questo peccato entrò la morte nel
mondo; per questo peccato fu lʼumana spezie cacciata di paradiso; per
questo peccato son sempre poi gli uomini stati e saranno, mentre durerá
il mondo, in angoscia e in tribulazione e in mala ventura; per questo
peccato Cristo figliuol di Dio ricevette passione e morte, e risurgendo
nʼaperse la porta del paradiso, lungamente stata serrata.]

[Dico adunque che, per lo non avere ricevuto il battesimo, al quale
sʼaspetta di tôr via il peccato originale, quelli, che in questo
cerchio si dolgono, sono dannati, quantunque per altro innocenti sieno,
e ancora, per le buone opere, di molti paiano degni di merito. Ed è
qui da sapere il battesimo essere di quattro maniere. La prima delle
quali è il battesimo della prefigurazione, nel quale insieme con Moisé
furon battezzati tutti i giudei passando il mar Rosso. E di questo
dice san Paolo: «_Patres nostri omnes sub nube fuerunt, et omnes mare
transierunt: et omnes in Moyse baptizati sunt, in nube et mare_». La
seconda è il battesimo del fiume, cioè quello il quale attualmente
neʼ suoi catecumeni usa la Chiesa di Dio, del quale Cristo dice
nellʼEvangelio aʼ suoi discepoli: «_Euntes ergo, docete omnes gentes,
et baptizate eos_», ecc. La terza maniera si chiama «_flaminis_», cioè
di spirito: e di questa parla lʼEvangelio dove dice: «_Super quem
videris Spiritum descendentem et manentem: hic est qui baptizat_». E
di questa spezie di battesimo credo esser battezzati quegli, se alcuni
ne sono, li quali battezzati non sono del battesimo della Chiesa
usitato, e non pertanto si credono essere, ed in ogni atto vivono come
cristiani veramente battezzati, né per alcuna cosa posson presumere
che battezzati non sieno. La quarta maniera si chiama «_sanguinis_»,
e di questa dice lʼEvangelio: «_Baptismo habeo baptizari, et quomodo
coarcor, usque dum perficiatur_?» E in questo credo esser battezzati
coloro li quali, disposti a ricevere il battesimo, sʼavacciano di
pervenire a colui che secondo il rito ecclesiastico li può battezzare,
e in questo avacciarsi, sopraprenderli alcuni nemici uomini che gli
uccidono, o altro caso, avanti che al luogo destinato possan venire.
Nel primo, come detto è, furon battezzati i giudei: _Esodo_: «_Divisa
est aqua, et ingressi sunt filii Israël per medium sicci maris_». Nel
secondo son battezzati quegli li quali noi chiamiamo rinati, deʼ quali
dice lʼEvangelio: «_Qui crediderit et baptizatus fuerit, salvus erit_».
Nel terzo son battezzati quegli li quali delle lor colpe pentuti sono,
e di questi dice lʼ Evangelio: «_Nisi quis renatus fuerit ex aqua et
Spiritu sancto, non intrabit in regnum caelorum_». Nel quarto sono
battezzati i martiri, deʼ quali similmente dice lʼEvangelio: «_Calicem
quidem meum bibetis_», ecc. E se in quegli, che in questo cerchio
dannati sono, ben si riguarda, alcuno non ve nʼè, se non fosse giá
Seneca, del quale è assai detto nella lettera, che dʼalcuno di questi
battesimi battezzato fosse.]

Sono adunque questi cotali solamente per continui sospiri e per
difetto di speranza puniti; la qual pena assai pare che si confaccia
al peccato. Fu il peccato originale con soavitá e dolcezza di gusto
commesso, e però qui per amaritudine di sospiri mandati dal cuor fuori
si punisce; cioè per dolorosa compunzione, in perpetuo, quegli, che
con esso in questo mondo muoiono, menano amara vita nellʼaltro: e come
i primi parenti per quello sperarono dovere simili a Dio divenire,
cosí qui sono i lor successori, che con esso peccato muoiono, privati
dʼogni speranza di mai doverlo vedere; e come la disonesta speranza gli
sospinse al peccato, dico i primi nostri parenti, cosí qui lʼonesta
nega loro il suo aiuto a dover con minor noia sofferire lʼafflizione
recata in loro dal martíre. E, oltre a ciò, come quello per noi non fu
commesso, ma, come spesse volte è detto, per li primi nostri parenti;
punito non è, in quegli neʼ quali la sua infezione persevera, per
alcuna pena impressa in loro per alcuno esteriore ministro della
giustizia di Dio. Né creda alcuno questa pena essere di piccola
gravezza o poco cocente, cioè il dolersi coʼ sospiri, senza speranza
dʼalcuno futuro o disiderato riposo; anzi, se ben riguarderemo, è
gravissima; e, se gli spiriti fossero mortali, essi la dimostrerebbono
intollerabile, sí come i mortali hanno spesse volte mostrato. Assai
ci puote essere manifesto alcuni essere stati che, ferventemente
disiderando alcuna cosa (come creder dobbiamo che questi spiriti, deʼ
quali parliamo, disiderano di veder Iddio), come conosciuto hanno
esser lor tolta ogni speranza di doverla ottenere, essere in tanto
dolor divenuti, che essi, stoltamente eleggendo per molto minor pena
la morte che la vita senza speranza, ad uccidersi, e crudelmente,
trascorsi sono. Per la qual cosa mi pare essere assai certo che, se
morir potessono gli spiriti, come non possono, assai in quella estrema
miseria incorrerebbono. [E questi cotali dico esser tutti quegli che
alcuno deʼ sopra detti battesimi avuto non hanno, li quali qui in tre
maniere distingue, cioè in pargoli e in uomini e femmine non famose, e
come son tutti coloro li quali esso nominatamente discrive.] [Intorno
alla qual discrizione, son certi eccellenti uomini aʼ quali non pare
che in questa parte lʼautore senta tanto bene, cioè in quanto mostra
opinare una medesima pena convenirsi per lo peccato originale a quegli
li quali ad etá perfetta pervennero, e a quegli, i quali avanti che a
quella pervenissero, morirono. E la ragione, che a questo gli muove,
par che sia questa: che i primi, cioè gli uomini, pare che, dalla
ragione naturale mossi, dovessero cercare della notizia del vero Iddio,
e cosí lavarsi della macchia del peccato originale; e peroché nol
fecero, non pare che la ignoranza gli scusi, come fa coloro li quali
anzi lʼetá perfetta morirono: e per conseguente, per la negligenza in
ciò avuta, meritano maggior pena. E perciò in ciò non pare che lʼautore
abbia tanto bene opinato.]

[Egli è assai manifesta cosa che la ignoranza, in coloro massimamente
neʼ quali dee essere intera cognizione, e per etá e per ingegno, non
scusa il peccato: conciosiacosaché noi leggiamo quella essere stata
redarguita da Dio in nostro ammaestramento, lá dove dice per Ieremia:
«_Milvus in caelo et hirundo et ciconia cognoverunt tempus suum; Israël
autem me non cognovit_». Per che meritamente segue aglʼignoranti quello
che san Paolo dice: «_Ignorans, ignorabitur_», e massimamente a quegli
deʼ quali pare che senta il salmista, dove dice: «_Noluit intelligere,
ut bonum ageret_». Per che senza alcun dubbio si dee credere che a
questi cotali, li quali di conoscere Iddio non si son curati, né
lʼhanno amato ed onorato secondo i suoi medesimi comandamenti, sará
nellʼestremo giudizio detto da Cristo: «_Non novi vos, discedite a me,
operarii iniquitatis_». La qual cosa accioché avvenir non possa, con
ogni studio, con ogni vigilanza si dee cercare di conoscere Iddio,
e credere che chi questo non fa, non potrá per ignoranza in alcuna
maniera scusarsi.]

[Ma nondimeno io non credo che ogni ignoranza igualmente sia
riprensibile: e dico «ogni ignoranza», percioché questi signori
giuristi e canonisti distinguono, e ottimamente al mio parere, tra
ignoranza e ignoranza, chiamandone alcuna «ignoranza _facti_» ed
alcunʼaltra «ignoranza _iuris_». E vogliono che ignoranza _facti_
sia quella dʼalcuna cosa, la quale verisimilmente non debbia esser
pervenuta alla notizia degli uomini: _verbi gratia_, il papa col
collegio deʼ suoi fratelli cardinali segretamente avranno per legge
fermato che, sotto pena di scomunicazione, alcun cristiano per alcuna
cagione non vada né mandi in alcuna terra dʼalcuno infedele; e, stante
questa legge ancor secreta, questo o quel mercatante vʼandranno o
vi manderanno: direm noi che per questa ignoranza, che è ignoranza
_facti_, questo cotal sia escomunicato? Certo no; ché ciò sarebbe
manifestamente fuor dʼogni ragione, percioché gli uomini non sanno
indovinare.]

[Adunque è questa ignoranza escusabile; percioché noi non possiam
sapere quello che il papa sʼabbia fatto, né prima dobbiamo il suo
secreto voler sapere, che esso medesimo nel voglia manifestare. Ma, poi
che esso avrá diliberato che questa legge si palesi, e promulgatala,
e per li suoi messaggieri mandatala per tutto, e fattala nunziare
e predicare; senza dubbio non può alcun dire che il non saperlo il
debbia rendere scusato: sí come talvolta fanno alcuni che, sospicando
non si dica cosa che essi non voglian sapere, si partono deʼ luoghi
dove ciò si pronunzia; ché fuggono, e poi credono essere scusati per
dire e per giurare:—Io non fui mai in parte dove questa proibizion
si facesse;—percioché a ciascun sʼappartiene di stare attento
dʼinvestigare e di sapere i comandamenti deʼ suoi maggiori, e quegli
con ogni reverenza ricevere e ubbidire. E perciò alla obbiezion fatta,
cioè che aʼ nominati dallʼautore, conciosiacosaché per ignoranza
iscusati non sieno, si convenga piú grieve pena che a quegli che per
la piccola etá cercar non poterono dʼavere la notizia di Dio, e di
seguire i suoi comandamenti; mi pare che, come poco avanti è detto, si
possa rispondere e mostrare in loro essere stata ignoranza _facti_, e
per conseguente dover da essa e potersi con ragione scusare. E che neʼ
nominati dallʼautore e neʼ simili fosse ignoranza _facti_, si può in
questa maniera comprendere.]

[Fu il mondo, sí come noi possiamo per lo testo della santa Scrittura
cognoscere, molte centinaia dʼanni prima lavato dal diluvio universale,
che Dio alcuna legge desse ad alcuno uomo. E la moltitudine della
gente da Noé procreata e daʼ figliuoli, era ampliata molto, e in
diversi popoli sʼera sparta sopra la faccia della terra: e non
solamente la terra continua, ma ancora molte isole aveva ripiene, e
ciascheduno secondo il suo arbitrio, o secondo il beneplacito di colui
il quale in prencipe avea sublimato, vivea: e cotal vita estimava
ottima e laudevole, quantunque molti pessimamente estimassono.
Nondimeno i piú lungamente seguitarono le leggi naturali: e alcuni,
che piú di sentimento cominciarono a prendere «_a naturali_», una
brieve legge aggiunsero, cioè:—Non far quello ad altrui, che tu non
volessi che fosse fatto a te.—E da questa nacque un modo di vivere
piú universale, il quale essi chiamarono «_ius gentium_»: per lo quale
assai oneste cose si servavano diligentemente tra lʼuniversitá deʼ
popoli. Poi cominciarono le genti a fare le leggi municipali, e secondo
quelle vivere e governarsi. E nondimeno sopra le leggi umane avevano
alcune divine leggi, per lʼammaestramento delle quali essi onoravano
e adoravano Iddio; e cosí perseverarono e ancora perseverano molte
nazioni.]

[Ma, poi che a nostro signore Iddio piacque volere le sue leggi ad
alcun popolo dare, dalle quali non solamente il popolo, al quale dare
le intendea, ma eziandio qualunque altro, volendo, potesse prender
regola e norma da piacere a Dio; primieramente fece Abraam degno della
sua amicizia, e a lui aperse parte del suo secreto, cioè di quello che
fare intendeva nel seme suo: né a lui perciò alcune singulari leggi
diede, se non in tanto che, a distinzione deʼ suoi discendenti dagli
altri popoli, gli comandò la circuncisione, la qual sempre perseverò
e persevera in quegli che deʼ suoi discendenti si dicono. E questa
medesima amicizia ritenne con Isaac e con Iacob, discendenti dʼAbraam.
Ma poi Iacob, con quegli che di lui eran nati, andatone in Egitto, e in
grandissima moltitudine cresciuti, per piú centinaia dʼanni servato il
rito della circuncisione, sotto le leggi e sotto la servitudine delli
re dʼEgitto furono; della quale Moisé per comandamento di Dio, carichi
delle piú care cose degli egiziaci, per lo mar Rosso gli trasse, e
menògli neʼ diserti dʼArabia: e quivi dimorando ancora senza legge, se
non quella che arbitrariamente in bene e in riposo di loro sʼusava;
Moisé, sí come loro duca e giudice, salito sopra il monte Senai, in due
tavole gli diede Iddio scritta la legge, la qual voleva servasse il
popol suo: e cosí cominciâro gli ebrei ad essere sotto propria legge,
che mai infino a quel tempo stato non vʼera. E questo fu, secondo
Eusebio _in libro Temporum_, regnante appo gli assiri Ascadis, lʼanno
del regno suo ottavo, e regnante Cecrope appo gli ateniesi, lʼanno
quarantacinquesimo del regno suo: il quale anno fu lʼanno del mondo
tremilaseicentottantadue, neʼ quali tempi nacque dʼIside Epafo in
Egitto, e il tempio dʼApollo Delio fu edificato da Cristone. Quindi,
morto Moisé, sotto il ducato di Giosué piú fattisi avanti, per forza
cacciaron delle lor sedie i cananei e il loro paese occuparon tutto,
e intra sé il divisono, e poi per certo tempo possederono: e secondo
la legge ricevuta, e sotto giudici e poi sotto re vivendo, in continue
guerre coʼ vicini da torno, or vincendo e or perdendo, e in grandissime
avversitá e tribulazioni divisi dimorando, quantunque alcun nome
acquistassero, non fu perciò di tanta fama, che guari per lo mondo si
dilatasse: e quanto essi erano daʼ riti degli altri uomini separati,
tanto dallʼaltre nazioni erano reputati da meno.]

[Se adunque, avanti che la giudaica legge fosse, vissero i mortali
sotto lʼarbitrio loro, o sotto quelle leggi che essi medesimi si
dettavano; a cui direm noi che essi dovessero andar cercando per le
leggi divine, e di conoscere Iddio? E, oltre a ciò, pur dopo la legge
data a Moisé, qual maraviglia è se, abituati in quella maniera di
vivere che detta è, non sentirono, né si misono a sentire quello che
Iddio sʼavesse detto o fatto con Abraam, o coʼ suoi successori, o
con Moisé nelle solitudini del mondo, né poi ancora col popolo suo?
Conciofossecosaché quegli, aʼ quali deʼ fatti deʼ giudei pervenne
alcuna notizia, gli avessero per servi fuggitivi e per ladri, e Moisé
per uomo magico e seduttore. E se per cosí gli aveano, a che ora si
dee credere che a loro fossero andate le nazioni strane a consigliarsi
della divinitá e deʼ beneplaciti di quella? Se forse si dicesse sotto
queʼ furti e sotto i lor costumi Iddio sentiva altissimi misteri della
futura incarnazion del Figliuolo e della resurrezione: questo credo
io ottimamente, ma ciò non sapeano le nazioni gentili, e, come dice
Isaia: «_Quis enim cognoscit sensum Domini, aut quis consiliarius eius
fuit_?» E se quelle leggi e quelle operazioni di Dio, che noi tutto il
dí leggiamo, si piacque a Domeneddio con questi suoi singulari amici
dʼadoperare; come il dee aver saputo lʼindiano, come lo spagnuolo,
come lʼetiopo o il sauromata, aʼ quali per alcuno mai significato non
fu? E se essi nol deono aver potuto sapere, qual giustizia dannerá la
loro ignoranza in questo? Chi non vedrá questa essere stata ignoranza
facti, la qual davanti dicemmo doversi potere scusare? Appresso,
presupposto che alcuna altra nazione avesse voluto dagli ebrei sapere
questo secreto, il quale a loro solo Iddio avea dimostrato, lʼavrebbe
ella potuto credere, essendoci per le loro medesime lettere manifesto
che essi ebrei, essendo lungamente stati pasciuti di manna, e udendo
gli ammaestramenti di Moisé (il quale per la loro liberazione avean
veduto percuotere Faraone di dieci crudelissime piaghe, e veduto da lui
essere stato nel deserto elevato un serpente di rame, al quale mostrate
le lor piaghe, daʼ serpenti del luogo dove erano, ricevute, tutti
guerivano; avevangli veduto con la verga percuotere una pietra viva,
e di quella a saziar la sete loro uscire un fiume): non gli prestavan
però interamente fede, ma, or con una ritrosia, or con unʼaltra, non
facevano altro che mormorare e chiedere che nella servitudine, della
quale tratti gli avea, gli ritornasse? E ultimamente, elevato un toro
dʼariento, contro al comandamento suo quello adorarono, onorarono e
magnificarono per loro Iddio?]

[Non fu mai alcun messo di Dio mandato, che il suo piacere loro
annunziasse e chiamassegli ad obbidienza della sua legge. E chi dubita
che Domeneddio non conoscesse alcun da sé a ciò non dover venire non
chiamato, quando i chiamati con ostinata pertinacia recusavan dʼudire
i suoi comandamenti e dʼubbidirlo? Se forse volesse alcun dire:—Iona
fu mandato da Dio a Ninive;—ma esso non andò ad ammaestrargli della
legge di Dio, ma a nunziare che Ninive infra quaranta dí si disfarebbe.
E se gli ebrei furono in Babilonia lungamente in prigione, e vi furono
reputati bestie; estimando i caldei che se savi fossero stati, o fosser
sante le lor leggi, che Iddio non gli avrebbe lasciati venire in
quella miseria; e perciò creduti non erano: eʼ non pare che dubitar si
debba che non fossero i gentili molto piú prestamente venuti, che non
fecero gli ebrei. E questo pare si possa comprendere da ciò che seguí,
quando chiamati furono, poi che Cristo incarnato recò in terra quella
celeste luce della dottrina evangelica, la quale illumina ogni uomo che
viene in questo mondo, che illuminato voglia essere: la quale avendo
esso primieramente predicata, e poco dagli ebrei ascoltata, mandò per
lʼuniverso i suoi messaggieri a chiamare alle nozze reali di vita
eterna ogni nazione. Né furon chiamati neʼ diserti o nelle solitudini
arabiche, né da uomini paurosi o fiochi, ma, come dice di loro il
salmista; «_Non sunt linguae neque sermones, quorum non audiantur voces
eorum. In omnem terram exivit sonus eorum et in fines orbis terrae
verba eorum_». E queste nel cospetto deʼ re, deʼ prencipi, deʼ tiranni,
e nelle cittá grandissime, nelle piazze, neʼ templi, nelle convenzioni
e adunanze deʼ popoli: e a questa chiamata prestamente concorsono le
nazion gentili e con intera mente senza alcune ritrosie prestaron fede
alla dottrina deʼ chiamatori: e non solamente vi prestaron fede, ma per
quella se medesimi fecero incontro a tormenti senza la divina grazia
intollerabili, e alla morte temporale, senza alcuna paura e con ferma
speranza della futura gloria. E cosí si può credere avrebber fatto,
se alcuna altra volta fossero stati chiamati. E se essi chiamati non
furono, come altra volta è detto, essi non si dovevano né potevano
indovinare.]

[Seguirono adunque quello iddio o quegli iddii, quegli riti dʼadorargli
e dʼonorargli, che i lor padri, li loro amici, i loro vicini eʼ loro
sacerdoti mostravan loro, e a questo, credendosi bene adoperare,
eran contenti: conciosiacosaché alcun non sia che cerchi di quello
che egli non conosce. E, seguendo il predetto rito dʼadorare Iddio,
furono di quegli assai che il seguirono, virtuosamente e moralmente
vivendo; avendo in odio e dannando i disonesti guadagni, le violenze,
lʼozio, la concupiscenza carnale, le falsitá, i tradimenti e ogni
altra operazione meritamente biasimevole; esercitandosi ciascuno
di prevalere agli altri in iscienza, in disciplina militare, in ben
fare alla republica e in divenire glorioso tra gli uomini: e questo
con lunghe fatiche e con gran pericoli della propria vita. E cosí si
dee credere e ancora molto piú avrebbon fatto in onore del nome di
Cristo, per la vita celestiale e per lʼeterna gloria. Ma a doversi di
ciò informare non potevan salire in cielo: né in terra era chi lor ne
dicesse parole, né che a lor giudicio fosse degno di tanta fede.]

[Se forse volessero alcuni dire:—Cosí come per forza dʼingegno essi
adoperarono di conoscere i segreti riposti nel seno della natura e
la cagion delle cose, e per saper queste seguivan gli studi caldei,
gli egizi, glʼitalici e gli altri quantunque lontani; e cosí per
conoscere il vero Iddio si dovean faticare, e andar cercando quegli
che maestri e dottori erano della ebraica legge, accioché di ciò gli
ammaestrassero—potrebbesi consentire, i gentili dovere aver creduto
gli ebrei dover esser maestri di questa veritá. Ma essi non si vedevan
tra le nazioni del mondo dʼalcuna preeminenza, né onorato il popolo
ebreo, e massimamente a rispetto degli assiri, deʼ greci, degli
affricani e ultimamente deʼ romani; anzi si vedea un piccol popolo
pieno di vitupèri, di peccati e di scellerate operazioni, e ogni dí
essere daʼ caldei e dagli egiziaci presi e straziati e menati in
cattivitá e in servitudine, e essi e le lor femmine, e le loro cittá
rubate, e ad esse esser disfatte le mura e talvolta tutte abbattute e
desolate; per le quali cose assai di fede appo le nazioni strane alla
loro religion si toglieva, e per questo essendo avuti in derisione,
non era alcuno che mai a loro andato fosse. Erano, oltre a questo, gli
ebrei intra se medesimi divisi, ché altra maniera servavano i giudei
e altra maniera i sammaritani: e chi meglio di costor si facesse, non
potevano le nazioni lontane discernere. Né è da dubitare che molto di
fede non togliesse loro appo gli strani la divisione.]

[Che dunque si può dire della ignoranza di coloro che, avanti che
Cristo per li suoi messaggeri la legge, da lui data, essere stata data
manifestasse, se non quello che davanti è stato detto, cioè che la
loro ignoranza, sí come ignoranza _facti_, si debba potere scusare?
E perciò, se per altro ben vissero, non aver altra pena meritata, che
quella che semplicemente per lo peccato originale è data a coloro, li
quali morirono avanti che essi potesson peccare, e quello sentirne, che
par che san Paolo voglia, quando scrive: «_Servus nesciens vel ignorans
voluntatem Domini sui et non faciens, vapulabit paucis_»; e in altra
parte: «_Facilius consequutus sum veniam, quoniam ignorans feci_».]

[_De ignorantia iuris_ non dico cosí; percioché, come di sopra
dissi, come la legge, la quale a ciascuno appartiene, è promulgata
e manifestata, non puote alcuno con accettevole scusa allegar la
ignoranza: percioché tale ignoranza si può meritamente dire crassa e
supina, e apparire aperto, colui che ciò non sa, nol sa, perché non
lʼha voluto sapere. E però se, dopo la dottrina evangelica predicata
per tutto, è alcuno che quella seguita non abbia, quantunque per altro
virtuosamente vivuto sia, sí come degno di maggior supplicio per la
sua ignoranza, non dee a simil pena esser punito con glʼinnocenti, ma
a molto piú agra. E di questi cotali pone lʼautore alquanti, come è
Ovidio, Lucano, Seneca, Tolomeo, Avicenna, Galieno e Averrois; li quali
io confesso, tra gli altri dallʼautor nominati, non doversi debitamente
nominare, percioché di loro si può dir quello che scrive san Paolo:
«_A veritate auditum avertent, ad fabulas autem convertentur_», ecc. E
il salmista: «_Sicut aspides surdae et obturantes aures suas, ut non
exaudirent voces_», ecc. E di questi meritamente si dice quella parola,
che di sopra contro aglʼignoranti è allegata da san Paolo: «_ignorans
ignorabitur_», e similmente lʼaltre autoritá quivi poste. Nondimeno,
che che qui per me detto sia, io non intendo di derogare in alcuno atto
alla cattolica veritá, né alla sentenza deʼ piú savi.]

[Nota: Lez. XVIII]

Resta a vedere quello che lʼautore abbia voluto per lo castello difeso
da sette alte mura e da un bel fiumicello, e per lo prato della verdura
che dentro vi truova, poi che con quegli cinque poeti entrato vʼè. E,
secondo il mio giudicio, egli intende questo castello il real trono
della maestá della filosofia morale e naturale, fermato in su il limbo,
cioè in su la circunferenza della terra: conciosiacosaché queste due
spezie di filosofia, morale e naturale, non trascendano alle sedie
deʼ beati, ma solamente di terra speculino, conoscano e dimostrino i
naturali effetti deʼ cieli nella terra e gli atti degli uomini: per la
cognizion delle quali cose sta sempre verde la fama di quegli uomini
e di quelle donne le quali seguíti gli hanno. E, a volere a cosí
eccelsa e cosí nobile stanza divenire, si conviene tenere il cammino
il quale lʼautore ne divisa, cioè passar quel fiumicello, il quale
circunda questo luogo, dove la filosofia, maestra di tutte le cose,
dimora; e passarlo come terra dura, accioché nellʼacqua di quello non
si bagnino i piè nostri. E sono, avanti ad ogni altra cosa, per questo
bel fiumicello da intendere le sustanze temporali, cioè le ricchezze,
i mondani onori e le mondane preeminenze, le quali sono nella prima
apparenza splendide e belle, quantunque in esistenza oscure e tenebrose
si truovino: in quanto sono privatrici, e massimamente in coloro che
non debitamente lʼamano o guardano o spendono o esercitano. E come
lʼacqua spesse volte è aʼ nostri sensi dilettevole, cosí queste sono
aglʼingegni e aglʼintelletti nocevoli; e cosí sono flusse e labili
come è lʼacqua, la quale è in corso continuo; niun fermo stato hanno;
oggi sono, e doman non sono; oggi sono in questo luogo e doman in
quellʼaltro; oggi piacciono e domane spiacciono. E chiama lʼautor
questʼacqua «fiumicello», che è diminutivo di «fiume», per dare ad
intendere queste cose temporali e la lor luce e il lor comodo, a
rispetto delle cose eterne, esser piccole o niuna cosa. E perciò,
chi vuole pervenire allʼaltezza della fama filosofica, gli convien
passar questo fiumicello non con delicatezze, non con morbidezze, non
con conviti e artificiati cibi e esquisiti vini e con lunghi sonni
e dannosi ozi; ma tutte queste cose, e simiglianti, non solamente
scacciate e rimosse da sé, ma senza bagnarsi i piedi in questʼacqua,
cioè in alcun atto lasciarsi toccare, o muover lʼaffezione a quella,
e come terra dura passarlo, come il passaron per la temporal gloria
Cammillo, Cincinnato, Curzio, Fabbrizio e Scipione e simiglianti, e per
la filosofica eminenza Diogene, Democrito, Anassagora e i lor simili:
li quali, scalpitate coʼ piedi le ricchezze, ed avutele a vile e
disprezzatele, passarono con lieto e libero animo alle lunghe fatiche
degli studi, delle virtú e delle scienze: e, passato il fiumicello,
cioè le temporali delizie scalpitate, con cinque solenni poeti, cioè
con quegli dottori li quali sieno per sofficienza degni a dimostrar
quella via, [per la quale] alle filosofiche operazioni e perfezion si
perviene. E intendo per le sette porti, per le quali dice che entrò
con queʼ savi, le sette arti liberali: e non per quelle sette arti le
quali molti intendono esser quelle con le quali i demòni ingannano
gli sciocchi. E chiamansi «liberali», percioché in esse non osava,
al tempo che i romani signoreggiavano il mondo, studiare altri cheʼ
liberi uomini: o vogliam dire che liberali si chiamano, percioché elle
rendono liberi molti uomini da molti e vari dubbi, neʼ quali senza esse
intrigati sarebbono. E di queste arti ottimi dimostratori furono i
predetti poeti, se con intera mente si riguarderanno i libri loro, neʼ
quali, quantunque esplicitamente le regole, spettanti a dover dare la
dottrina di quelle, per avventura non vi si truovino, eʼ vi si truovano
le conclusioni vere e gli effetti certi delle regole, per le quali si
solvono i dubbi li quali intorno alle regole posson cadere. È nondimeno
da sapere non esser di necessitá, a colui che odierno filosofo vuol
divenire, sapere perfettamente ciascuna delle liberali arti. Saperne
alcuna perfettamente è del tutto opportuno, sí come al filosofo la
grammatica e la dialettica, al poeta e allʼoratore la grammatica e la
rettorica: poi sapere dellʼaltre i principi, e sapergli bene, è assai a
ciascuno.

Entrò adunque lʼautore, per gli effetti delle liberali arti, con questi
cinque dottori (coʼ quali si dee intendere ciascun altro entrare, il
qual degno si fa per suo studio, imitando i valenti uomini), nel prato
della verzicante fama della filosofia, dove da questi medesimi, cioè
daʼ valenti uomini, e massimamente daʼ poeti, gli son dimostrati coloro
che per le filosofiche operazioni meritarono la fama, la quale ancora è
verde. E dissi «massimamente daʼ poeti», percioché di queste cosí fatte
dimostrazioni niun altro par dover essere miglior maestro, che colui
il quale col suo artificio sa perpetuare i nomi deʼ valenti uomini,
e le glorie deglʼimperadori e deʼ popoli: e questi sono i poeti, deʼ
quali è oficio il producere in lunghissimi tempi i nomi e lʼopere
deʼ valenti uomini e delle valorose donne. La qual cosa quantunque
facciano ancora gli storiografi, percioché nol fanno con cosí fiorito,
con cosí rilevato, né con cosí ornato stilo, sono in ciò loro preposti
i poeti; li quali in questa parte lʼautore intende per la perseverante
dimostrazione, la qual sempre davanti da sé porta i nomi e lʼopere di
coloro che son degni di laude.

Ma puossi qui muovere un dubbio e dire: che hanno a fare gli uomini
dʼarme e le donne con coloro li quali per filosofia son famosi? Al
quale si può cosí rispondere: non essere alcun nostro atto laudevole,
che senza filosofica dimostrazione si possa adoperare. Stolta cosa
è a credere che alcuno imperadore possa il suo esercito guidare
ogni dí salvamente, senza prendere i luoghi da accamparsi, trovare
le vie per le quali aver con salvocondotto si possano le cose
opportune allʼeserciti, guardarsi dalle insidie, prender lʼordine o
dare al combattere una cittá, ad assalire i nemici, al venire alla
battaglia, se la disciplina militare, nella quale gli conviene essere
ammaestratissimo, non gliela dimostra; e questa disciplina militare
è fondata e stabilita sopra i discreti consigli della filosofia,
li quali, quantunque non paia a molti sillogizzando prestarsi,
nondimeno, se i ragionamenti, se i divisi, se i consigli si guarderanno
tritamente, tutti dal discreto filosofo in sillogistica forma si
riduceranno. E perciò se quegli, che ottimi maestri nella disciplina
militar furono, coʼ filosafi si ponghino e nominino; come filosafi in
quella spezie deʼ loro esercizi vi si pongono. Cosí ancora le donne,
le quali castamente e onestamente vivono, e i loro ofici domestici
discretamente e con ordine fanno, senza filosofica dimostrazione non
gli fanno. E dobbiamo credere non sempre nelle cattedre, non sempre
nelle scuole, non sempre nelle disputazioni leggersi e intendersi
filosofia. Ella si legge spessissimamente neʼ petti degli uomini e
delle donne. Sará la savia donna nella sua camera, e penserá al suo
stato, alla sua qualitá: e di questo pensiero trarrá lʼonor suo, oltre
ad ogni altra cosa, consistere nella pudicizia, nellʼamor del marito,
nella gravitá donnesca, nella parsimonia, nella cura famigliare;
trarrá ancora di questo pensiero appartenersi a lei di guardare e di
servare con ogni vigilanza quello che il marito, faticando di fuori,
acquisterá e recherá in casa; dʼallevare con diligenza i figliuoli,
dʼammaestrargli, costumargli; e similmente intorno alle cose opportune
dar ordine aʼ servi e allʼaltre cose simili. Che leggerá piú a costei
nella scuola, che nella sua etica, che nella politica, che nella
iconomica le dimostrerá niuna cosa? Dunque quelle, che cosí hanno
adoperato e adoperano, non indegnamente, secondo il grado loro, coʼ
filosafi sederanno di laude e di fama perpetua degne. Non dunque fece
lʼautor men che bene a discrivere i famosi uomini in arme e le valorose
donne in compagnia deʼ solenni filosafi.



CANTO QUINTO



I

SENSO LETTERALE


«Cosí discesi del cerchio primaio», ecc. Nel presente canto, sí come
negli altri superiori, si continua lʼautore alle precedenti cose:
e, avendo nella fine del precedente mostrato come Virgilio ed egli,
partitisi dagli altri quattro poeti, erano per altra via venuti fuori
di quel luogo luminoso, in parte dove alcuna luce non era; e quinci
nel principio di questo, continuandosi alle cose predette, ne mostra
come nel secondo cerchio dello ʼnferno discendesse. E fa lʼautore in
questo canto sei cose: esso primieramente, come detto è, si continua
alle precedenti cose, mostrando dove divenuto sia; nella seconda
parte dimostra aver trovato un demonio esaminatore delle colpe deʼ
peccatori; nella terza dice qual peccato in quel cerchio si punisca e
in che supplicio; nella quarta nomina alquanti deʼ peccatori in quella
pena puniti; nella quinta parla con alcuni di quegli spiriti che quivi
puniti sono; nella sesta ed ultima descrive quello che di quel ragionar
gli seguisse. La seconda comincia quivi: «Stavvi Minos»; la terza
quivi: «Ora incomincian»; la quarta quivi: «La prima di color»; la
quinta quivi: «Poscia chʼio ebbi»; la sesta e ultima quivi: «Mentre che
lʼuno spirto».

Comincia adunque in cotal guisa: «Cosí discesi», cioè partito da
queʼ quattro savi, seguitando per altra via Virgilio, «del cerchio
primaio», cioè del limbo, il quale è il primiero cerchio dello ʼnferno;
e mostra appresso dove discendesse, cioè «Giú nel secondo» cerchio,
«che men luoco cinghia», cioè gira. E davanti è mostrata la cagion
perché: la quale è percioché la forma dello ʼnferno è ritonda, e,
quanto piú in esso si discende, tanto viene piú ristrignendo, tanto che
ella diviene aguta in sul centro della terra. «E tanto ha piú dolor»,
in questo cerchio che nel precedente, «che pugne», cioè tormenta in
sí fatta maniera, che egli costrigne i tormentati «a guaio», cioè
a trar guai: quello che nel superior cerchio, come mostrato è, non
avvenia; per che, sʼegli è questo luogo minore di circunferenza che il
superiore, egli è molto maggior di pena.

«Stavvi Minos». Qui comincia la seconda parte, nella quale lʼautor
mostra aver trovato un demonio esaminatore delle colpe deʼ peccatori;
e in questo séguita lʼautore lo stilo incominciato di sopra, cioè di
trovare ad ogni entrata di cerchio alcun demonio. Di sopra allʼentrare
del primo cerchio trovò «Carón dimonio con occhi di bragia»; qui
trova Minos. E ciascuno con alcun atto o parola terribile spaventa i
peccatori che in quel luogo vengono, percioché Carón, di sopra, forte
quegli che alla sua nave vennero spaventò con parole, gridando:—«Guai
a voi, anime prave», ecc.;—nellʼentrata di questo cerchio, Minos gli
spaventa ringhiando, in quanto dice: «Stavvi Minos orribilmente, e
ringhia»; e cosí ancora neʼ cerchi seguenti troveremo. Dice adunque:
«Stavvi Minos», cioè in su lʼentrata di quel cerchio secondo. Questo
Minos dicono i poeti chʼegli fu figliuolo di Giove e dʼEuropa, e
ciò essere in tal maniera avvenuto che, essendo Europa, figliuola
dʼAgenore, re deʼ fenici, i quali abitarono il lito della Soría e
fu la loro cittá principale Tiro, piaciuta a Giove cretense; e con
operazion di Mercurio, secondo che da Giove gli era stato imposto,
fosse fatto che questa vergine, avendo egli gli armenti reali dalle
pasture della montagna vòlti e condotti alla marina, seguíti gli
avesse: quivi essendosi Giove trasformato in un tauro bianchissimo e
bello, e mescolatosi tra gli armenti reali, tanto benigno e mansueto si
mostrò a questa vergine, che essa, prendendo della sua mansuetudine
piacere, primieramente prese ardire di toccarlo con la mano e pigliarlo
per le corna e menarselo appresso; poi, cresciuto lʼardire in lei, dal
disiderio tratta, vi montò su. La qual cosa sentendo Giove, soavemente
portandola, a poco a poco si cominciò a recare in su il lito del mare,
e, quando tempo gli parve, si gittò in alto mare. Di che la vergine,
paurosa di non cader nellʼacqua, attenendosi forte alle corna, quanto
piú poteva lo strigneva con le ginocchia, e, in questa guisa notando,
il toro da quello lito di Soría ne la portò infino in Creti; e quivi,
ripresa la sua vera forma dʼuomo, giacque con lei, e in processo di
tempo nʼebbe tre figliuoli, Minos e Radamanto e Sarpedone. Minos,
divenuto a virile etá, prese per moglie una bellissima giovane chiamata
Pasife, figliuola del Sole, e di lei gerrerò figliuoli e figliuole,
intraʼ quali fu Androgeo, giovane di mirabile stificanza: il quale,
neʼ giuochi palestrici essendo artificioso molto, e di corporal forza
oltre ad ogni altro valoroso, percioché ogni uomo vincea, fu per
invidia dagli ateniesi e daʼ megaresi ucciso. Per la qual cosa Minos,
avendo fatto grande apparecchiamento di navilio e dʼuomini dʼarme per
andare a vendicarlo, e volendo, avanti che andasse, sagrificare al
padre, cioè a Giove, il quale il bestiale error degli antichi crede a
essere iddio del cielo, il pregò che alcuna ostia gli mandasse, la qual
fosse degna deʼ suoi altari. Per la qual cosa Giove gli mandò un toro
bianchissimo, e tanto bello quanto piú essere potesse. Il quale come
Minos vide, dilettatosi della sua bellezza, uscitogli di mente quello
per che ricevuto lʼavea, il volle piú tosto preporre aʼ suoi armenti,
per averne allievi, che ucciderlo per ostia; e, fatto il sacrificio
dʼun altro, andò a dare opera alla sua guerra. E, assaliti prima i
megaresi, e quegli per malvagitá di Scilla, figliuola di Niso, re
deʼ megaresi, avendosi sottomessi; fatta poi grandissima guerra agli
ateniesi, quegli similmente vinse, e alla sua signoria gli sottomise
e a detestabile servitudine gli si fece obbligati; tra lʼaltre cose
imponendo loro che ogni anno gli dovesson mandare in Creti sette
liberi e nobili garzoni, li quali esso donasse in guiderdone a colui
che vincitor fosse neʼ giuochi palestrici, li quali in anniversario
dʼAndrogeo avea constituiti. Ma, in questo mezzo tempo che esso gli
ateniesi guerreggiava, avvenne, e per lʼira conceputa da Giove contro
a Minos, e per lʼodio il quale Venere portava a tutta la schiatta del
Sole, il quale il suo adulterio e di Marte aveva fatto palese, che
Pasife sʼinnamorò del bel toro, il qual Minos sʼavea riservato, senza
averlo sacrificato al padre che mandato glielʼavea; e per opera ed
ingegno di Dedalo giacque con lui, in una vacca di legno contraffatta
ad una della quale il toro mostrava tra lʼaltre di dilettarsi molto; e
di lui concepette e poi partorí una creatura, la quale era mezzo uomo e
mezzo toro. Della quale ignominia fu fieramente contaminata la gloria
della vittoria acquistata da Minos. Nondimeno esso fece prendere Dedalo
ed Icaro, suo figliuolo, e fecegli rinchiudere nella prigione del
laberinto, la quale Dedalo medesimo aveva fatta. E questo laberinto non
fu fatto come disegnato lʼabbiamo, cioè di cerchi e di ravvolgimenti di
mura, per li quali andando senza volgersi, infallibilmente si perveniva
nel mezzo, e cosí, tornando senza volgersi, se ne sarebbe lʼuom senza
dubbio uscito fuori: ma egli fu, e ancora è, un monte tutto dentro
cavato, e tutto fatto ad abituri quadri a modo che camere, e ciascuna
di queste camere ha quattro usci, in ciascuna faccia uno, i quali vanno
ciascuno in camere simiglianti a queste, e cosí poco si puote avanti
andare, che lʼuomo vi si smarrisce entro senza saperne fuori uscire,
se per avventura non è. Poi ivi a certo tempo essendo ad Atene venuto
per sorte che Teseo, figliuolo del re Egeo, dovesse, con gli altri che
per tributo eran mandati, venire in Creti; e quivi venuto, secondo che
Ovidio scrive, con certe arti mostrategli da Adriana, figliuola di
Minos, vinse il Minotauro ed ucciselo, e da cosí vituperevol servigio
liberò gli ateniesi: e occultamente di Creti partendosi, seco ne menò
Adriana e Fedra, figliuole di Minos. E Dedalo dʼaltra parte, fatte
alie a sé e al figliuolo, di prigione uscendo se ne volò in Cicilia,
e di quindi a Baia: la qual cosa sentita da Minos, con armata mano
incontanente il seguitò: ma esso appo Camerino in Cicilia, secondo che
Aristotile scrive nella _Politica_, fu dalle figliuole di Crocalo
ucciso. Dopo la morte del quale, percioché esso avea leggi date aʼ
cretensi, e con giustizia ottimamente gli avea governati, i poeti,
fingendo, dissero lui essere giudice in inferno. E di lui scrive cosí
Virgilio:

_Quaesitor Minos urnam movet: ille silentum conciliumque vocat,
vitasque et crimina discit,_ ecc.

Ma, percioché non pare per le fizion sopra dette sʼabbia la veritá
dellʼistoria di Minos, par di necessitá di rimuover la corteccia di
quella, e lasciare nudo il senso allegorico, nel quale apparirá piú
della veritá della storia: dico piú, percioché tra le fizion medesime
nʼè parte mescolata.

Vogliono adunque i poeti sentir per Mercurio, mandato a far venire
gli armenti dʼAgenore dalla montagna alla marina, alcuna eloquente
persona mandata come mezzana da Giove ad Europa; e, per la forza della
eloquenza di questa cotal persona, essere Europa condotta alla marina,
dove Giove ciò occultamente aspettando, la prese e portonnela in su
una sua nave a ciò menata, la quale o era chiamata «tauro», o avea
per segno un tauro bianco, come noi veggiamo fare a questi navicanti,
li quali a ciascun lor legno pongono alcun nome, e similmente alcun
segno; e cosí ne fu trasportata in Creti, dove essa partorí i detti
figliuoli di Giove. Sono nondimeno alcuni che dicono che, essendo ella
in Creti divenuta, e alcun tempo con Giove dimorata, che Giove senza
avere avuto alcun figliuolo di lei, la lasciò: e Asterio, in queʼ tempi
re di Creti, secondo che scrive Eusebio _in libro Temporum_, la prese
per moglie, ed ébbene quegli figliuoli, deʼ quali di sopra è detto.
E, se cosí fu, possiam comprendere aver gli antichi ficto Minos esser
figliuolo di Giove, o per ampliar la gloria della sua progenie, o
perché nelle sue operazioni si mostrò simile a quel pianeto, il quale
noi chiamiamo Giove. Ed esso, tra lʼaltre sue condizioni, ebbe questa,
che esso fu aʼ sudditi equale e diritto uomo, e servò severissimamente
giustizia in tutti, e diede leggi aʼ cretensi, le quali mai piú avute
non aveano. E, accioché a rozzo popolo fossero piú accette, solo
se nʼandava in una spelunca, e in quella, poi che composto avea ciò
che immaginava esser bene e utilitá deʼ sudditi suoi, uscendo fuori,
mostrava al popolo sé, quello che scritto o composto avea, avere avuto
da Giove suo padre: donde per avventura seguí, per questa astuzia, che
esso fu reputato figliuolo di Giove e le leggi da lui composte furono
avute in grandissimo pregio. Ma lui essere stato figliuolo dʼAsterio
non pare che in alcun modo il conceda il tempo, conciosiacosaché egli
apparisca Asterio aver regnato in Creti neʼ tempi che Danao regnò in
Argo, che fu intorno degli anni del mondo tremilasettecentotré, e la
guerra, la quale ebbe Minos contro agli ateniesi, fu regnante Egeo in
Atene, che fu intorno agli anni del mondo tremilanovecentosessanta.
Ed è Minos per ciò stato detto daʼ poeti esser giudice in inferno,
percioché noi mortali, avendo rispetto aʼ corpi superiori, ci possiam
dire essere in inferno: ed esso, come detto è, appo i mortali compose
le leggi, e rendé ragione aʼ domandanti; nelle quali cose esso esercitò
uficio di giudice.

Le vestigie deʼ quali imitando lʼautore, qui per giudice ed esaminatore
delle colpe il pone appo quegli dʼinferno, dicendo che egli sta quivi
«orribilmente»; e, a dimostrare il suo orrore dice: «e ringhia».
Ringhiare suole essere atto dei cani, minaccianti alcuno che al suo
albergo sʼappressi. «Esamina le colpe» dellʼanime di coloro che laggiú
caggiono. E qui comincia lʼautore a discrivere lʼuficio di questo
Minos, in quanto dice che «esamina»: e cosí appare lui in questo luogo
esser posto per giudice, percioché aʼ giudici appartiene lʼesaminare
delle cose commesse. E séguita: «nellʼentrata». E qui discrive il
luogo conveniente a quellʼufizio, accioché alcuna non possa passare,
senza esser sottentrata alla sua esaminazione. «Giudica». Séguita
qui lʼautore lʼordine giudiciario; percioché primieramente conviene
che il discreto giudice esamini i meriti della quistione, e dopo la
esaminazione giudichi quello che la legge o talora lʼequitá vuole; e,
dopo il giudicio dato, quello mandi ad esecuzione che avrá giudicato.
E però segue: «e manda» ad esecuzione, o comanda che ad esecuzion sia
mandato. E qui discrive, a questo demonio posto per giudice, essere
una dimostrazione assai strana in dichiarare quello che vuole che
ad esecuzion si mandi, in quanto dice: «secondo chʼavvinghia», cioè
secondo il numero delle volte chʼegli dá dintorno alla persona la coda
sua.

Ora, percioché allʼautore pare aver molto succintamente discritto
lʼuficio di questo Minos, per farlo piú chiaro, reassume e dice:
«Dico», reassumendo, «che, quando lʼanima mal nata», cioè del peccator
dannato («_quia melius fuisset illi, si natus non fuisset homo ille_»),
«Gli vien dinanzi», a questo giudice, «tutta si confessa», cioè tutta
sʼapre, senza alcuna riservazion fare delle sue colpe. La qual cosa,
cioè riservarsi e nascondere delle sue colpe, eziandio volendo, non
potrebbe fare, percioché non veggiono i giudici spirituali con quegli
occhi che veggiam noi, ma prestamente e senza alcun velame veggion ciò
che al loro uficio appartiene. «E quel cognoscitor delle peccata», cioè
Minos; dimostrando in lui essere, tra lʼaltre, una delle condizioni
opportune a coloro che preposti sono al giudicio delle colpe dʼalcuno,
cioè che essi sieno discreti e cognoscano gli effetti e le qualitá
di quelle cose, le quali possono occorrere al suo giudicio; «Vede
qual luogo dʼinferno è da essa», cioè quale supplicio infernale sia
conveniente alla sua colpa.

«Cingesi con la coda tante volte, Quantunque gradi vuol che giú sia
messa». È qui da sapere lo ʼnferno, secondo che al nostro autor piace,
esser distinto in nove cerchi, e quanto piú si discende verso il
centro, cioè verso il profondo dellʼinferno, piú sono i cerchi stretti
e i tormenti maggiori. E, percioché la faccenda di costui è grande
intorno allʼesaminare e al giudicar che fa singularmente di ciascuna
anima; per dar piú spaccio alle sue sentenze, ha quel modo trovato di
doversi cingere con la coda tante volte, quanti gradi, cioè cerchi,
esso vuole che lʼanima da lui esaminata sia infra lʼinferno messa: e,
mentre fa con la coda questa dimostrazione, nondimeno con le parole
attende alla esaminazione.

«Sempre dinanzi a lui ne stanno molte»; peroché, come giá dimostrato è,
la quantitá di quegli che muoiono nellʼira di Dio è molta: e queste
cotali «Vanno a vicenda», cioè ordinatamente lʼuna appresso allʼaltra,
come venute sono, «ciascuna al giudizio», che di loro dee esser dato; e
quivi, «Dicono», le lor colpe, «e odono», la sentenza data di loro, «e
poi son giú vòlte», in inferno neʼ luoghi diterminati daʼ ministri di
questo giudice.

—«O tu che vieni». Qui dimostra lʼautore questo Minos, sotto spezie
di parole amichevoli, averlo voluto spaventare, dicendo: «O tu, che
vieni al doloroso ospizio» dello ʼnferno,—«Disse Minos a me, quando mi
vide», esser vivo, «Lasciando lʼatto», cioè lʼesercizio, «di cotanto
offizio», quanto è lʼavere ad esaminare e a giudicare tutte lʼanime
deʼ dannati:—«Guarda comʼentri», quasi voglia dire che chi entra
in questo luogo non ne può mai poi uscire, «e di cui tu ti fide»:
volendo che lʼautore per queste parole intenda non esser discrezione
il mettersi per sua salute dietro ad alcuno che se medesimo non abbia
saputo salvare. Quasi voglia dire:—Virgilio non ha saputo salvar sé,
dunque come credi tu che egli salvi te?—Sentiva giá questo dimonio
per la natura sua, la quale, come che per lo peccato da lui commesso
fosse di grazia privata, non fu però privata di scienza, che lʼautor
non doveva quel cammin far vivo se non per sua salute, dal quale esso
dimonio lʼavrebbe volentieri frastornato. «Non tʼinganni lʼampiezza
dellʼentrare»,—la quale è libera ed espedita a tutti quegli che dentro
entrar ci vogliono, ma lʼuscire non è cosí. E par qui che questo
dimonio amichevolmente e con fede consigli lʼautore; il che non suole
esser di lor natura, e nel vero non è. Non dico perciò che essi alcuna
volta non deano deʼ consigli che paiono buoni e utili; ma essi non
sono, né furon mai, né buoni né utili, percioché da loro non son dati a
salutevol fine, ma, per farsi piú ampio luogo, nella mente di chi crede
loro, a potere ingannare, gli dánno talvolta. E perciò è con somma
cautela da guardarsi daʼ consigli deʼ malvagi uomini, percioché, quanto
miglior paiono, piú è da suspicare non vi sia sotto nascosa fraude ed
inganno.

Poi séguita: «E ʼl duca mio a lui:—Perché pur gride?» Non poté
sostener Virgilio di lasciargli compiere lʼorazione, conoscendo che
egli non consigliava lʼautore a buon fine; ma sentendo lʼautore, forse
per ostupefazione, non aver pronto che rispondere, disse egli con
parole alquanto austere: O Minos, «perché pur gride», ingegnandoti di
spaventarlo? «Non impedire», con questo tuo sgridare, «il suo fatale
andare», cioè il suo andare da divina disposizion procedente.

E questo vocabolo «fatale» e come si debba intendere «fato», si
dichiarerá appresso nel nono canto sopra quelle parole: «Che giova
nelle fata dar di cozzo?» Ma nondimeno, brievemente alcuna cosa
dicendone, dico che è da sapere, secondo che Boezio _in libro De
consolatione_ ditermina, fato non è altro che disposizione della
divina mente intorno alle cose presenti e future. E questo medesimo
par sentire santo Agostino nel quinto _De civitate Dei_; il quale, poi
che in questa conclusione è venuto, dice queste parole: «_Sententiam
tene, linguam comprime_»; volendo che noi tegnamo la sentenza, ma
schifiamo il vocabolo, cioè di chiamar «fato» la divina disposizione.
E questo non fu neʼ suoi tempi senza cagione: la qual fu, percioché
allora venendo moltitudine di gentili alla fede cattolica, e però ancor
tenera surgendo la cristiana religione, accioché ogni cosa in quanto
si potesse si togliesse via (dico di quelle che alcuna forza paressero
avere in rivocare negli errori lasciati i gentili, ancora non molto
fermati nella cattolica veritá), e questo e molti altri vocaboli, li
quali i gentili usavano, si guardavano di usare nelle loro predicazioni
e nelle loro scritture. Ma oggi, per la grazia di Dio, è sí radicata e
sí ferma neʼ petti nostri la dottrina evangelica, che senza sospetto si
può traʼ savi ogni vocabolo usare.

«Vuolsi cosí», cioè che questi entri qua entro vivo, e vegga la miseria
di te e degli altri dannati. E dove si vuole? Vuolsi «colá dove si
puote Ciò che si vuole», cioè nella mente divina, la qual sola puote
ciò che ella vuole; «e piú non dimandare»;—quasi dica:—A te non
sʼappartiene di sapere che si muova la divinitá a voler questo.—

«Ora incomincian». Qui comincia la terza parte di questo canto, nella
qual dissi si conteneva qual peccato in questo secondo cerchio si
punisca e in qual supplicio; alla quale mostra lʼautore, avendo
Virgilio posto silenzio a Minos, dʼesser pervenuto. E, percioché infino
a questo luogo era venuto per tutto quasi il primo cerchio, senza
udire alcun rumore di pianti o di lamenti, dice: «Ora incomincian le
dolenti note A farmisi sentire», cioè le varietá deʼ pianti, le quali
si facevano al suo audito sentire; «or son venuto Lá dove molto pianto
mi percuote», gli orecchi. E dice «percuote», percioché, essendo lʼaere
percosso dalle voci dolenti deʼ tormentati, è di necessitá che egli si
muova, e col suo moto percuota quelle cose le quali movendosi truova,
delle quali era la sensualitá dellʼautore che quivi vivendo si trovava.

«Io venni in luogo dʼogni luce muto», cioè privato, «Che mugghia», cioè
risuona, questo luogo, per lo ravvolgimento delle strida e deʼ pianti,
il suono deʼ quali raccolto insieme, fa un rumore simile a quello che
noi diciamo che mugghia il mare neʼ tempi tempestosi, e però dice:
«come fa ʼl mar per tempesta, Se da contrari venti è combattuto»,
cioè infestato. Il che assai volte addiviene, che la contrarietá
deʼ venti, che alcuna volta spirano, son cagione delle tempeste del
mare. E chiamasi questo romore del mare impropriamente «mugghiare»:
e, percioché da sé non ha proprio vocabolo, è preso un vocabolo a
discriver quel romore che piú verisimilmente gli si confaccia, e questo
è «mugghiare», il quale è proprio deʼ buoi; ma percioché è un suono
confuso e orribile, par che assai convenientemente sʼadatti al romor
del mare.

«La bufera infernal». Bufera, se io ho ben compreso, nellʼusitato
parlar delle genti è un vento impetuoso, forte, il qual percuote e
rompe e abbatte ciò che dinanzi gli si para; e questo, se io comprendo
bene, chiama Aristotile nella _Meteora_ «_enephias_», il quale è
causato da esalazioni calde e secche levantesi dalla terra e saglienti
in alto; le quali, come tutte insieme pervengono in aere ad alcuna
nuvola, cacciate indietro dalla frigiditá della detta nuvola con
impeto, divengon vento, non solamente impetuoso, ma eziandio valido
e potente di tanta forza, che, per quella parte dove discorre, egli
abbatte case, egli divelle e schianta alberi, egli percuote e uccide
uomini e animali. È il vero che questo non è universale, né dura molto;
anzi vicino al luogo dove è creato, a guisa dʼuna striscia discorre, e
quanto piú dal suo principio si dilunga, piú divien debole, infino a
tanto che infra poco tempo si risolve tutto. Questo adunque mi pare che
lʼautor voglia sentire per questa «bufera»: e benché nella concavitá
della terra questo vento causar non si possa, deʼsi intendere in questo
luogo non causato, ma per divina giustizia essere posto e ordinato
perpetuo. Dice adunque: «che mai non resta», di soffiare, come fa
quello che quassú si genera, «Mena gli spiriti», dannati, «con la sua
rapina», cioè col suo rapinoso movimento; «Voltando e percotendo»:
per questi effetti si può comprendere, questa bufera esser quel vento
che detto è, cioè _enephias_; «gli molesta», cioè gli tormenta. E in
questo, che qui è dimostrato, si può comprendere qual sia il supplicio
dato allʼanime, le quali in questo cerchio per li lor meriti ricevon
pena.

Le quali anime, cosí menate e percosse insieme da questo cosí impetuoso
e forte vento, «Quando giungon», mandate da Minos, «davanti alla
ruina», che dallʼimpeto di questo vento procede, «Quivi le strida»,
comincian grandissime, «il compianto e ʼl lamento», deʼ miseri;
«Bestemmian quivi la virtú divina». In questo bestemmiare si dimostra
la quantitá grandissima e acerba dellʼafflizione deʼ dolenti che
questo tormento ricevono, la quale a tanta ira gli commuove che essi
bestemmiano Iddio.

«Intesi chʼa cosí fatto tormento». Qui, poi che lʼautore ha posta la
qualitá del tormento, dichiara quali sieno i peccatori aʼ quali questo
tormento è dato, e dice che intese, da Virgilio si dee credere, «che
a cosí fatto tormento», come disegnato è, «Eran dannati i peccator
carnali, Che la ragion sommettono al talento», cioè alla volontá. E,
come che questo si possa dʼogni peccatore intendere, percioché alcun
peccatore non è che non sottometta peccando la ragione alla volontá;
vuol nondimeno lʼautore che, per quel vocabolo «carnali», sʼintenda
singularmente per li lussuriosi.

Séguita dunque: «E come gli stornei». Qui intende lʼautore per una
comparazione discrivere in che maniera in questo luogo. sieno i
peccator carnali menati e percossi dalla sopradetta infernal bufera, e
dice che, come «lʼali», volando, «ne portan» gli stornelli, «Nel freddo
tempo», cioè nel mezzo dellʼautunno, nel qual tempo usano gli stornelli
e molti altri uccelli, secondo lor natura, di convenirsi insieme e di
passare dalle regioni fredde nelle piú calde per loro scampo, e in
quelle ne vanno, «a schiera larga e piena», cioè molti adunati insieme:
«Cosí quel fiato», cioè quella bufera, ne porta «gli spiriti mali»,
cioè dannati, li quali a grandi schiere per quel cerchio, «Di qua, di
lá, di giú, di su gli mena», senza servare alcun modo o ordine, lʼuno
contro allʼaltro nello scontrarsi crudelmente percotendo. E oltre a
questo cosí faticoso tormento, dice: «Nulla speranza gli conforta mai»,
questi cotali miseri e percossi, «Non che di posa», cioè dʼavere alcuna
volta riposo, «ma» ancora non gli conforta «di» dovere aver mai «minor
pena», che quella la quale hanno percotendosi insieme.

«E come i grú». Qui per unʼaltra comparazione ne discrive una
brigata di quegli spiriti dannati aver veduti venire verso quella
parte, dove esso e Virgilio erano; e dice quegli esser da quel vento
menati in quella forma che volano per aere i grú. «Van cantando lor
lai», cioè lor versi. Ed è questo vocabolo preso, cioè «lai», per
parlar francesco, nel quale si chiamano «lai» certi versi in forma
di lamentazione nel lor volgare composti. «Facendo in aer di sé»,
medesimi volando, «lunga riga», percioché stendono il collo, il quale
essi hanno lungo, innanzi, e le gambe, le quali similmente hanno
lunghe, e cosí fanno di sé lunga riga. «Cosí vidʼio venir» spirti, li
quali facevan lunga riga di sé, cioè di tutta la persona, «traendo
guai, Ombre portate dalla detta briga», cioè dalla detta bufera.
«Per chʼio dissi:—Maestro, chi son quelle Genti, che lʼaura nera sí
gastiga?»-cioè tormenta, impetuosamente portandole.

—«La prima di color». Qui comincia la quarta parte del presente canto,
nella qual dissi che lʼautore nominava alquanti degli spiriti dannati a
questa pena. Dice adunque:—«La prima di color», che cosí son portati,
e «di cui novelle Tu vuoʼ saper»—, cioè la condizione e la cagione
perché a questo supplicio dannata sia, «mi disse quegli allotta—Fu
imperadrice di molte favelle», cioè fu donna di molte nazioni, nelle
quali erano molti e diversi modi di parlare. «A vizio di lussuria fu sí
rotta», sí inchinevole «Che il libito», cioè il beneplacito, intorno
a ciò che a quel vizio apparteneva, «feʼ licito», cioè concedette che
lecito fosse in tutte le nazioni che ella signoreggiava; e questo fece
«in sua legge», cioè per sua legge. E appresso dice la cagione perché
questa legge cosí abominevole fece, cioè, «Per tôrre», per levar via
«il biasmo», la infamia «in che era condotta», per le sue disoneste
operazioni in quel peccato. «Ella è Semiramis» (poi che detto ha il
vizio nel quale condotta fu, la nomina: Semiramis), «di cui si legge»,
appo molti antichi istoriografi, «Che succedette a Nino», suo marito,
dopo la morte di lui nel regno, «e fu sua sposa», mentre esso Nino
visse.

Ma, accioché piú pienamente si comprenda chi costei fosse, e quali
fossero le sue operazioni, è da dire alquanto piú pienamente la sua
istoria. Dico adunque che, chi che Semiramis si fosse per nazione,
non si sa, quantunque alcuni poeti antichissimi fingano lei essere
stata figliuola di Nettuno; ma che essa fosse moglie di Nino, re degli
assiri, per lo testimonio di molti istoriografi appare. Concepette
costei di Nino, suo marito, un figliuolo, il quale nato nominaron
Ninia; ed avendosi giá Nino per forza dʼarme soggiogata quasi tutta
Asia, ed ultimamente ucciso Zoroastre eʼ battri, suoi sudditi, avvenne
che, fedito nella coscia dʼuna saetta, si morí. Per la qual cosa la
donna, temendo di sottomettere alla tenera etá del figliuolo cosí
grande imperio, e di tanta e cosí strana gente e nuovamente acquistato,
pensò una mirabile malizia, estimando con quella dover potere reggere
i popoli, li quali Nino, ferocissimo uomo, sʼaveva con armi sottomessi
e alla sua obbedienza costretti. E, avendo riguardo che essa in
alcune cose era simile al figliuolo, e massimamente in ciò che esso
ancora non avea barba, e che nella voce puerile era simile a lei, e
similmente nella lineatura del viso; estimò potere sé, in persona del
figliuolo, presentare agli eserciti del padre. E, per poter meglio
celare lʼeffigie giovanile, si coperse la testa con una mitra, la quale
essi chiamavan «tiara», e le braccia e le gambe si nascose con certi
velamenti. E, accioché la novitá dellʼabito non avesse a generare
alcuna ammirazione di lei in coloro che da torno le fossero, comandò a
tutti che quello medesimo abito usassero. E in questa forma, dicendo
sé esser Ninia, se medesima presentò agli eserciti; e cosí, avendo
acquistata real maestá, severissimamente servò la disciplina militare,
e con virile animo ardí non solamente di servare lo ʼmperio acquistato
da Nino, ma ancora dʼaccrescerlo; e a niuna fatica, che robusto uomo
debba poter sofferire, perdonando, si sottomise Etiopia, e assalí
India, nella quale alcun altro mortale, fuor che il marito, non era
stato insino a quel tempo ardito dʼentrar con arme. Ed essendole in
molte cose ben succeduto del suo ardire, non dubitò di manifestarsi
esser Semiramis, e non Ninia, aʼ suoi eserciti. Essa, oltre alle
predette cose, pervenuta in Babillonia, antichissima cittá da Nembrot
edificata, e veggendola in grandissima diminuzione divenuta, a quella
tutte le mura riedificò di mattoni, e quelle rifece di mirabile
grossezza, dʼaltezza e di circúito. E, parendole aver molto fatto, e
posto tutto il suo imperio in riposo, tutta si diede alla lascivia
carnale, ogni arte usando che usar possono le femmine per piacere.
E, tra lʼaltre volte, facendosi ella con grandissima diligenza le
trecce, avvenne che, avendo ella giá composta lʼuna, le fu raccontato
che Babillonia le sʼera ribellata e venuta nella signoria dʼun suo
figliastro. La qual cosa ella sí impazientemente ascoltò, che, lasciato
stare il componimento delle sue trecce, e i pettini e gli specchi
gittati via, prese subitamente lʼarmi, e, convocati i suoi eserciti,
con velocissimo corso nʼandò a Babillonia, e quella assediò; né mai
dallʼassedio si mosse, infino a tanto che presa lʼebbe e rivocata sotto
la sua signoria: ed allora si fece la treccia, la quale ancora fatta
non avea, quando la ribellione della cittá le fu detta. E questa cosí
animosa operazione, per molte centinaia dʼanni testimoniò una statua
grandissima fatta di bronzo, dʼuna femmina la quale dallʼun deʼ lati
avea i capelli sciolti, e dallʼaltro composti in una treccia, la quale
nella piazza di Babillonia fu elevata. E, oltre a questa cosí laudabile
operazione, molte altre ne fece degne di loda, le quali tutte bruttò e
disonestò con la sua libidine. La quale ancora, secondo che lʼantichitá
testimonia, crudelmente usò; percioché, come alquanti dicono, quegli
giovani, li quali essa eleggeva al suo disonesto servigio, poi che
quello aveva usato, accioché occulto fosse, quegli faceva uccidere.
Ma nondimeno, quantunque ella crudelmente occultasse gli adultèri,
i parti conceputi di loro non poté occultare. E sono di quegli che
affermano, lei in questo scellerato servigio aver tirato il figliuolo:
e, accioché alcuna delle sue femmine non gli potesse lui col suo
servigio sottrarre, dicono sua invenzione essere stata quel vestimento,
il quale gli uomini fra noi usano a ricoprire le parti inferiori, e
di quello aver le sue femmine vestite, e ancora con chiave fermatolo.
Dicono ultimamente alcuni che, avendo ella a questa disonestá richiesto
il figliuolo, che il figliuolo, avendo ella giá regnato trentadue anni,
lʼuccise. Alcuni altri dicono esser vero che il figliuolo lʼuccidesse,
ma non per questa cagione: anzi o perché esso se ne vergognasse, o
perché egli temesse non forse ella partorisse figliuolo, che con opera
di lei il privasse del regno.

Appresso, pur di lei seguendo, dice lʼautore: «Tenne la terra, che ʼl
soldan corregge», la quale è Egitto; e chiamasi soldano di Babillonia,
non da Babillonia di Caldea, la qual Semiramis fece restaurare, ma da
una Babillonia la quale è quasi nella estremitá meridionale dʼEgitto,
la quale edificò Cambise, re di Persia. Leggesi nondimeno che ella
assalí Egitto. Se ella lʼoccupò o no, non so.

«Lʼaltra», che segue nella predetta schiera Semiramis, «è colei che
sʼancise amorosa», cioè amando, «E ruppe fede», congiugnendosi con
altro uomo, «al cener di Sicheo», suo marito stato.

Vuole lʼautore per questa circunscrizione che noi sentiamo costei
essere Didone, figliuola che fu del re Belo di Tiro, la istoria della
quale si racconta in due maniere. Dido, il cui nome fu primieramente
Elisa, fu, secondo che Virgilio scrive, figliuola di Belo, re deʼ
fenici. Il quale Belo, venendo a morte, Pigmaleone suo fratello e
lei, ancora fanciulli, lasciò nelle mani deʼ suoi sudditi, li quali
in loro re sublimarono Pigmaleone; ed Elisa, cosí fanciulla come era,
diêro per moglie ad Acerba o Sicheo che si chiamasse, o vero Sicarba,
il quale era sacerdote dʼErcule, il quale sacerdozio era, dopo il
reale, il primo onore appo i tiri: li quali insieme santissimamente
sʼamarono. Era oltre ad ogni uomo avaro Pigmaleone; per la qual cosa
Sicheo, il quale era ricchissimo, temendo lʼavarizia del cognato, ogni
suo tesoro avea nascoso. Nondimeno, essendo ciò pervenuto allʼorecchie
di Pigmaleone, cominciò quelle ricchezze ferventemente a disiderare,
e, per averle, fraudolentemente uccise Sicheo. La qual cosa avendo
Elisa sentito, e dolorosamente pianta la morte del marito, temendo
di sé, tacitamente prese consiglio di fuggirsi; e, posta giú ogni
feminea tiepidezza e preso virile animo, di che ella fu poi chiamata
Didone, avendo tratti nella sua sentenza certi nobili uomini deʼ
fenici, li quali ella conoscea che odiavano Pigmaleone, presi certi
navili del fratello, e quegli senza alcuna dimora armati, come se del
luogo dove era andar se ne volesse al fratello, nascosamente in quegli
fece caricar tutti i tesori stati del suo marito, e, oltre ad essi,
quegli che aver poté del fratello; e palesamente fece mettere nelle
navi sacchi pieni di rena e guardarli bene. Ed essendo con coloro, li
quali sentivano il suo consiglio, salita sopra le navi, come in alto
mare si vide, comandò che questi sacchi pieni di rena tutti fossero
gittati in mare. E, come questo fu fatto, convenuti tutti insieme i
marinai e gli altri, lagrimando disse:—Io, facendo gittare in mare
tutti i tesori di mio marito, ho trovato modo alla mia morte, la quale
io ho lungamente disiderata. Ma io ho compassione a voi, carissimi
amici e compagni della mia colpa; percioché io non dubito punto, che,
come noi perverremo a Pigmaleone, il quale sapete è avarissimo, egli
fará crudelmente me e voi morire. Nondimeno, se vi piacesse con meco
insieme fuggirvi e lontanarvi dalla sua potenza, io vi prometto di
non venirvi mai meno ad alcun vostro bisogno.—La qual cosa udendo i
miseri marinai, quantunque loro paresse grave cosa lasciar la patria,
nondimeno, temendo forte la crudeltá di Pigmaleone, agevolmente
sʼaccordarono a doverla seguire in qualunque parte ella diliberasse
di fuggire. Dopo il quale diliberamento, piegate le prode delle navi
a ponente, pervennero in Cipri, dove quelle vergini che alla marina
trovarono, persolventi secondo il costume loro li primi gustamenti di
Venere, a sollazzo ed eziandio a procrear figliuoli deʼ giovani che con
lei erano, fece prendere e porre in su le navi; e, similmente, ammonito
nel sonno un sacerdote di Giove, che in quella contrada era, con tutta
la sua famiglia ne venne a lei, annunziando grandissime cose dover
seguire, in onore della loro successione, di questa fuga. Poi quindi
partitasi, e pervenuta nel lito affricano, costeggiando la marina deʼ
massuli, in quel seno del mare entrò con le sue navi, dove ella poco
appresso edificò la cittá di Cartagine. E quivi, estimando il luogo
esser sicuro alle navi, per dare alcun riposo aʼ marinai faticati,
prese terra: dove venendo quegli della contrada, quale per disiderio di
vedere i forestieri, e quale per guadagnare recando delle sue derrate,
cominciarono a contrarre insieme amistá. E, apparendo la dimora loro
essere a grado aʼ paesani, ed essendone ancora confortati da quegli
dʼUtica, li quali similmente quivi di Fenicia eran venuti, quantunque
Didone udisse per alcuni, che seguita lʼavevano, Pigmaleone fieramente
minacciarla; di niuna cosa spaventata, quivi diliberò di fermarsi. E,
accioché alcuno non sospicasse lei alcuna gran cosa voler fare, non
piú terreno che quanto potesse circundare una pelle di bue mercatò da
quegli della contrada, la quale in molte parti minutissimamente fatta
dividere, assai piú che alcuno estimato non avrebbe, occupò di terreno.
E, quivi fatti eʼ fondamenti, fece edificare la cittá, la quale chiamò
Cartagine. E, accioché piú animosamente e con maggior speranza i
compagni adoperassono, a tutti fece mostrare i tesori, li quali essi
credeano aver gittati in mare. Per la qual cosa subitamente le mura
della cittá, le torri eʼ templi, il porto e gli edifici cittadini
saliron su, e apparve non solamente la cittá esser bella, ma ancora
potente e a difendersi e a far guerra. Ed essa, date le leggi e il
modo del vivere al popol suo, onestamente vivendo, da tutti fu chiamata
reina. Ed essendo per Affrica sparta la fama della sua bellezza e
della sua onestá, e della prudenza e del valore, avvenne che il re deʼ
mussitani, non guari lontano da Cartagine, venne in disiderio dʼaverla
per moglie; e, fatti alcuno deʼ principi di Cartagine chiamare, la
dimandò loro per moglie, affermando, se data non gli fosse, esso
disfarebbe la cittá fatta e caccerebbe loro e lei. Li quali conoscendo
il fermo proposito di lei di sempre servar castitá, temetton forte
le minacce del re, e non ardiron di dire a Didone, domandantene, ciò
che dal re avevano avuto, ma dissero che il re disiderava di lasciare
la vita e i costumi barbari e dʼapprendere quegli deʼ fenici. Perciò
voleva alquanti di loro che in ciò lʼammaestrassero; e, dove questi
non avesse, minacciava di muover guerra loro e disfare la cittá. E
però, conciofossecosaché essi non sapessono chi di loro ad esser con
lui andar si volesse, temevan forte non quello avvenisse che il re
minacciava. Non sʼaccorse la reina dellʼastuzia, la quale usavano
coloro che le parlavano, e però, rivolta a loro, disse:—O nobili
cittadini, che miseria di cuore è la vostra? Non sapete voi che noi
nasciamo al padre e alla patria? né si può direttamente dire cittadino
colui, il quale non che altro pericolo, ma ancora, se il bisogno il
richiede, non si dispone con grande animo alla morte per la salute
della patria? Andate adunque, e lietamente con piccolo pericolo di voi
rimovete il minacciato incendio dalla vostra cittá.—Come i nobili
uomini udirono questa riprensione fatta loro dalla reina, cosí parve
loro avere da lei ottenuto quello che essi disideravano, e iscoperserle
la veritá di ciò che il re domandato avea. La qual cosa come la reina
ebbe udita, cosí sʼaccorse se medesima avere contro a sé data la
sentenzia e approvato il maritaggio; e seco medesima si dolse, né ardí
dʼopporsi allo ʼnganno che i suoi uomini aveano usato. Ma subitamente
seco prese quel consiglio che allʼonestá della sua pudicizia le parve
di bisogno, e rispose che, se termine le fosse dato, che ella andrebbe
volentieri al marito. Ed essendole certo termine conceduto a dovere
andare al marito, e quello appressandosi, nella piú alta parte della
cittá fece comporre un rogo, il quale estimarono i cittadini ella
facesse per dovere con alcun sacrificio rendersi benivola lʼanimo di
Sicheo, alla quale le parea romper fede. E compiuto il rogo, vestita di
vestimento bruno, e servate certe cerimonie e uccise, secondo la loro
consuetudine, certe ostie, montò sopra il rogo, e, aspettante tutta
la moltitudine deʼ cittadini quello che essa dovesse fare, si trasse
di sotto aʼ vestimenti un coltello, sel pose al petto, e, chiamato
Sicheo, disse:—O ottimi cittadini, cosí come voi volete, io vado al
mio marito.—E, appena finite le parole, vi si lasciò cader suso, con
grandissimo dolore di tutti coloro che la viddero: e invano aiutata,
versando il castissimo sangue, passò di questa vita.

Virgilio non dice cosí, ma scrive nello _Eneida_ che, avendo Pigmaleone
occultamente ucciso Sicheo, e tenendo la sua morte nascosa a Didone,
Sicheo lʼapparve una notte in sogno, e revelolle ciò che Pigmaleone
avea fatto; ed insegnatole dove i suoi tesori erano ascosi, la
confortò che ella si partisse di quel paese. Per la qual cosa ella
prese i tesori, e, fuggitasi, avvenne che, facendo ella far Cartagine,
Enea, dopo il disfacimento di Troia partitosi, per tempesta arrivò a
Cartagine, dove egli fu ricevuto e onorato da lei; e, con lei avuta
dimestichezza per alcun tempo, lasciatala malcontenta, si partí per
venire in Italia: di che ella per dolore sʼuccise. La quale opinione
per reverenza di Virgilio io approverei, se il tempo nol contrariasse.
Assai manifesta cosa è, Enea, il settimo anno dopo il disfacimento
di Troia, esser venuto, secondo Virgilio, a Didone: e Troia fu
distrutta lʼanno del mondo, secondo Eusebio, quattromilaventi. E il
detto Eusebio scrive essere opinione dʼalcuni, Cartagine essere stata
fatta da Carcedone tirio: e altri dicono, Tidadidone sua figliuola,
dopo Troia disfatta, centoquarantatrè anni, che fu lʼanno del mondo
quattromilacentosessantatré. E in altra parte scrive essere stata
fatta da Didone lʼanno del mondo quattromilacentoottantasei. E ancora
appresso, senza nominare alcun facitore, scrive alcun tenere Cartagine
essere stata fatta lʼanno del mondo quattromilatrecentoquarantasette.
Deʼ quali tempi, alcuno non è conveniente coʼ tempi dʼEnea: e perciò
non credo che mai Enea la vedesse. E Macrobio _in libro Saturnaliorum_
del tutto il contradice, mostrando la forza dellʼeloquenza esser tanta,
che ella aveva potuto far sospettar coloro che sapevano la storia certa
di Dido, e credere che ella fosse secondo che scrive Virgilio. Fu
adunque Dido onesta donna, e, per non romper fede al cener di Sicheo,
sʼuccise. Ma lʼautore séguita qui, come in assai cose fa, lʼopinion di
Virgilio, e per questo si convien sostenere.

«Poi è Cleopatras lussuriosa». Credo lʼautore aver posto questo
aggettivo a costei, a differenza di piú altre Cleopatre che furono,
delle quali alcuna non ne fu, per quel che si legge, cosí viziata di
questo vizio, come costei, della qual qui intende.

Cleopatras fu reina dʼEgitto e, per molti re medianti, trasse origine
da Tolomeo, figliuolo di Lagio di Macedonia: e piace ad alcuni lei
essere stata figliuola di Tolomeo Dionisio, re dʼEgitto. Altri dicono
il padre di lei essere stato Tolomeo Mineo, similmente re dʼEgitto,
il quale, essendo amicissimo del popolo di Roma, e avendo quattro
figliuoli, due maschi e due femmine, venendo a morte, lasciò, al
tempo del primo consolato di Giulio Cesare, per testamento che il
maggior deʼ figliuoli, il quale fu nominato Lisania, presa per moglie
Cleopatra, sua sirocchia, e di piú di che lʼaltra, insieme dopo la
morte regnassero: la qual cosa per li romani fu mandata ad esecuzione.
Ma, ardendo Cleopatra di disiderio di regnar sola, il suo marito e
fratello fece morir di veleno, e sola tenne il reame. Ma, avendo giá
Pompeo magno quasi tutta lʼAsia costretta ad ubbidire aʼ romani,
venendo in Egitto, privò Cleopatra del reame, e fecene re il minor
fratello, ancora assai giovinetto. Della qual cosa indegnata Cleopatra,
come piú tosto poté, gli mosse guerra; e, perseverando in essa, avvenne
che Pompeo, vinto da Cesare in Tessaglia, e dal giovane Tolomeo fatto
uccidere in Egitto, e seguitandolo Cesare, pervenuto in Alessandria,
e trovando Cleopatra in guerra contro al fratello, amenduni gli fece
davanti da sé chiamare per udir le ragioni di ciascuna parte. Davanti
al quale dovendo venir Cleopatra, avendo della sua formositá gran
fidanza, percioché bella femmina fu, ornata di reali vestimenti
comparí: e assai leggiermente le venne fatto di prender con gli
occhi e con gli atti suoi il libidinoso prencipe. Di che seguí che,
avendo Cesare piú notti comuni avute con lei, ed essendo giá il
giovane Tolomeo annegato a Delta, dove contro a Mitridate pergameno,
che in aiuto di Cesare veniva, andato era; Cesare le concedette il
reame dʼEgitto, menatane Arsinoe, sirocchia di Cleopatra, accioché
per lei alcuna novitá non fosse suscitata nel regno. Essendo dunque
Cleopatra reina, e in istato tranquillo, in tutte quelle lascivie si
diede che dar si possa disonesta femmina: e, disiderosa di ragunar
tesori e gioie, quasi di tutti i re orientali disonestamente divenne
amica. Né le fu questo assai, ma tutti i templi dʼEgitto e le sagre
case spogliò di vasellamenti, di statue e di tesori. Apresso questo,
essendo giá stato ucciso Cesare, e Bruto e Cassio vinti da Ottaviano e
da Antonio, al detto Antonio, vegnente in Siria, si fece incontro in
forma dʼonorario: e lui, non altrimenti che Cesare aveva fatto, prese
e inretí del suo amore, e lui indusse innanzi ad ogni altra cosa,
accioché senza alcuna suspizione del regno rimanesse, a fare uccidere
Arsinoe, sua sirocchia, non ostante che essa per sua salute rifuggita
fosse nel tempio di Diana efesia. E, avendo giá invescato nella sua
dilezione Antonio, ardí di chiedergli il reame di Siria e dʼArabia,
li quali col suo terminavano. La qual domanda parendo troppo grande
ad Antonio, non gliele diede, ma, per soddisfarla alquanto, le diede
di ciascuno alcuna particella. Poi, avendo ella accompagnato Antonio,
il quale andava in Partia, infino al fiume dʼEufrate, e tornandosene,
ne venne per Siria, dove magnificamente fu ricevuta da Erode, re poco
davanti per opera dʼAntonio stato coronato di quel reame: lá dove ella
non dubitò di fare per interposita persona tentare Erode della sua
dimestichezza, sperando, se a quella il potesse inducere, di dovergli
sottrarre il reame di Siria. Di che accorgendosi Erode, per levare
da dosso ad Antonio lʼignominia di costei, diliberò dʼucciderla; ma,
dagli amici da ciò ritratto, donatole grandissimi doni, la lasciò
tornare in Egitto. Dove dopo alquanto ricevuto Antonio, il quale in
fuga daʼ parti sʼera tornato, essendo in lei lʼardor cresciuto del
signoreggiare, fu di tanta presunzione, che ella gli chiese lo imperio
di Roma, e Antonio fu tanto bestiale che egli gliele promise. Ed
essendo giá alcuna cagione nata di guerra tra Antonio e Ottaviano, per
lʼavere egli repudiata Ottavia, sua moglie e sirocchia dʼOttaviano,
e presa per moglie Cleopatra, prepararono una grande armata navale,
ornata con vele di porpore e con altri assai arredi preziosissimi, e,
sú montátivi, nʼandarono in Epiro: dove venuto giá Ottaviano, e avendo
combattuto in terra e vinta la gente di Antonio, si recarono a volere
provare la fortuna del mare. Nel quale parendo giá Ottaviano dover
vincere, prima a tutti gli altri fuggí Cleopatra, la cui nave aveva
la vela dʼoro, e lei seguitarono sessanta delle sue navi. La quale
incontanente Antonio, gittati via della sua nave tutti gli ornamenti
pretoriani, seguitò: e, pervenuti in Alessandria, e ogni sforzo fatto a
dover resistere ad Ottaviano, lui vegnente aspettarono. Il quale avendo
molto le lor forze diminuite, domandò Antonio le condizioni della pace,
le quali non potendo avere, disperatosi entrò nel luogo dove erano
usati di seppellirsi i re, e quivi se medesimo uccise. Ed essendo poi
presa Alessandria, estimando Cleopatra con quelle medesime arti poter
pigliare Ottaviano, con che primieramente Cesare e Antonio presi avea,
e trovandosi del suo pensiero ingannata; udendo che servata era da
Ottaviano al triunfo, turbata e con difficultá dʼanimo sofferendo di
dover divenire spettaculo deʼ romani, vestendosi i reali ornamenti,
lá se nʼentrò dove il suo Antonio giaceva morto, e, postasi a giacere
allato a lui, e fattesi aprire le vene delle braccia, a quelle si pose
una spezie di serpenti, chiamati «ypnali», il veleno deʼ quali ha ad
inducer sonno, e a far dormendo morire il trafitto: e cosí addormentata
si morí, quantunque, avendo ciò udito Ottaviano, si sforzasse di
ritenerla in vita, fatti venir alcuni di queʼ popoli che si chiamano
«psilli», e fatto lor porre la bocca alle pugniture del braccio, e
tirar fuori lʼavvelenato sangue daʼ serpenti; ma ciò fu fatica perduta,
percioché la forza del veleno aveva giá ucciso il cuor di lei.

Sono nondimeno alcuni che dicono lei davanti a questo tempo morta,
e dʼaltra spezie di morte; dicendo che, avendo Antonio temuto non,
nellʼapparecchiamento della guerra contro ad Ottaviano, Cleopatra con
la morte di lui si facesse benivolo Ottaviano, niuna cosa era usato
di bere né di mangiare, che primieramente non facesse assaggiare ad
altrui: di che essendosi Cleopatra avveduta, a farlo chiaro della
sua fede verso di lui, avvelenò i fiori delle ghirlande le quali il
dí davanti portate aveano: e postesi quelle in capo, mise in festa e
in trastullo Antonio, e tanto procedette col trastullo della festa,
che ella lo ʼnvitò a dover bere le loro ghirlande, e messe i fiori di
quelle in un nappo, dove era quello, o vino o altro, che ber si dovea:
e, volendolo Antonio bere, ella il ritenne, e vietò che nol bevesse, e
disse:—Antonio amantissimo a me, io son quella Cleopatra, la quale con
queste tue disusate pregustazioni tu mostri dʼaver sospetta: e però, se
io potessi sofferire che tu bevessi quello di che tu hai paura, e tempo
nʼho, e tu me nʼhai data cagione;—e quindi mostratogli lo ʼnganno, il
quale adoperato avea neʼ fiori, dicono che Antonio la fece prendere e
guardare, e costrinsela a bere quel beveraggio, il quale ella aveva a
lui vietato che non bevesse; e cosí lei vogliono esser morta. La prima
opinione è piú vulgata: senza che, a quella sʼaggiugne che, avendo
Antonio ed ella cominciata una magnifica sepoltura per loro. Ottaviano
comandò che compiuta fosse e che amenduni in essa fossero seppelliti.

«Elena vidi», in questa schiera, «per cui», cioè per la quale, «tanto
reo Tempo si volse», cioè tanta lunga dimension di tempo, la quale
per le circunvoluzioni del cielo misurata passò: la quale lunga
dimension di tempo fu per ispazio di venti anni, cioè dal dí che Elena
fu rapita al dí che a Menelao fu restituita; percioché tanto stette
Elena in Troia, e alquanto piú, sí come Omero nellʼultimo libro della
sua _Iliade_ dimostra, là dove, lei piagnendo sopra il morto corpo di
Ettore, fa dire quasi queste parole, che, essendo ella stata venti anni
appo Priamo eʼ figliuoli, mai Ettore non le avea detta una ingiuriosa
parola. È il vero che di questi venti anni non fu lʼassedio continuato
intorno ad Ilione, se non i dieci ultimi anni: e però si può intendere
li dieci primi essersi consumati e nel raddomandare Elena, il che piú
volte per ambasceria fecero, e nel sommuovere tutta Grecia alla impresa
contro aʼ troiani, e nel dar ordine e nel fare lʼapparecchio delle cose
opportune a tanta guerra. E il vero che gli ultimi dieci furono molto
peggiori che i primi, percioché in essi furono dintorno ad Ilione fatte
molte battaglie, e in esse furono uccisi molti valenti uomini e popolo
assai.

Elena fingono i poeti essere stata figliuola di Giove e di Leda,
moglie di Tindaro, re dʼOebalia, e lui dicono in forma di cigno,
con lei bellissima donna e madre dʼElena, esser giaciuto, narrando
in questa forma la favola di Giove, ecc. Ma le istorie vogliono lei
essere stata figliuola di Tindaro, re dʼOebalia, e di Leda, e sirocchia
di Castore e di Polluce. Fu la bellezza di costei tanto oltre ad
ogni altra maravigliosa, che ella non solamente a discriversi con la
penna faticò il divino ingegno dʼOmero, ma ella ancora molti solenni
dipintori e piú intagliatori per maestero famosissimi stancò: e intra
gli altri, sí come Tullio nel secondo dellʼ_Arte vecchia_ scrive,
fu Zeusis eracleate, il quale per ingegno e per arte tutti i suoi
contemporanei e molti deʼ predecessori trapassò. Questi, condotto
con grandissimo prezzo daʼ croteniesi a dover la sua effigie col
pennello dimostrare, ogni vigilanza pose, premendo con gran fatica
dʼanimo tutte le forze dello ʼngegno suo; e, non avendo alcun altro
esemplo, a tanta operazione, che i versi dʼOmero e la fama universale
che della bellezza di costei correa, aggiunse a questi due un esempio
assai discreto: percioché primieramente si fece mostrare tutti i beʼ
fanciulli di Crotone, e poi le belle fanciulle, e di tutti questi
elesse cinque, e delle bellezze deʼ visi loro e della statura e
abitudine deʼ corpi, aiutato daʼ versi dʼOmero, formò nella mente sua
una vergine di perfetta bellezza, e quella, quanto lʼarte potè seguire
lʼingegno, dipinse, lasciandola, sí come celestiale simulacro, alla
posteritá per vera effigie dʼElena. Nel quale artificio, forse si poté
abbattere lʼindustrioso maestro alle lineature del viso, al colore e
alla statura del corpo: ma come possiam noi credere che il pennello e
lo scarpello possano effigiare la letizia degli occhi, la piacevolezza
di tutto il viso, e lʼaffabilitá, e il celeste riso, e i movimenti
vari della faccia, e la decenza delle parole, e la qualitá degli atti?
Il che adoperare è solamente oficio della natura. E, percioché queste
cose erano in lei esquisite, né vedeano i poeti a ciò poter bastare
la penna loro, la finsero figliuola di Giove, accioché per questa
divinitá ne desser cagione di meditare qual dovesse essere il fulgore
degli occhi suoi, quale il candore del mirabile viso, quanta e quale
la volantile e aurea chioma, da questa parte e da quella con vezzosi
cincinnuli sopra gli candidi ómeri ricadente; quanta fosse la soavitá
della dolce e sonora voce, e ancora certi atti della bocca vermiglia
e della splendida fronte e della gola dʼavorio, e le delizie del
virginal petto, con le altre parti nascose daʼ vestimenti. Da questa
tanto ragguardevole bellezza fu Teseo, figliuolo dʼEgeo, re dʼAtene,
tirato in Oebalia a doverla rapire: la quale esso trovata giucare,
secondo il lor costume, nella palestra con gli altri fanciulli di sua
etá, conosciutala la rapí, e portonnela ad Atene: e quantunque per la
troppo tenera etá altro che alcun bascio tôrre non le potesse, pure
alquanto maculò la virginale onestá. Qui si può muovere un dubbio,
conciosiacosaché tutti gli antichi scrittori a questo sʼaccordino, che
Teseo prima, e poi Paris, la rapissono. Come questo debba poter esser
stato, ecc. Fu nondimeno poi costei da Elettra, madre di Teseo, non
essendo Teseo in Atene, renduta a Castore e a Polluce, suoi fratelli,
raddomandantila. Altri dicono che Teseo lʼavea raccomandata a Proteo,
re dʼEgitto, e che esso in assenza di Teseo lʼaveva renduta aʼ
fratelli. Poi appresso, essendo pervenuta ad etá matura, fu maritata a
Menelao, re di Lacedemonia, e dopo alquanto tempo, essendo esso andato
in Creti, fu da Paris troiano rapita di Lacedemonia e portatane in
Troia, e, secondo che alcuni dicono, di consentimento di lei. Altri
dicono che ella fu dal detto Paris rapita dʼunʼisola chiamata Citerea,
dove ella ad un certo sacrificio che si faceva, secondo il costume
antico, vegghiava la notte nel tempio dello dio, al quale il sacrificio
faceano, con altre donne della contrada. E son di quegli che affermano
senza sua saputa o volontá questo essere stato fatto. [Qui del modo del
vegghiare, e come di qua il recarono i marsiliesi, e donde vennero le
vigilie.] In Troia dimorò venti anni, come di sopra dicemmo: ed essendo
stato ucciso Paris da Pirro, si rimaritò a Deifobo, suo fratello:
e, per quel che paia voler Virgilio, essendosi secondo lʼordine del
trattato i greci ritrattisi indietro da Ilione e fatto sembiante
dʼandarsene, ed ella sapendolo, ed essendo a ciò consenziente, quando
vide il tempo atto al disiderio deʼ greci, con un torchio acceso diede
lor segno al venire; di che essi tornati, e preso Ilione e disfatto, e
ricevuta lei, la restituirono a Menelao: il quale dicono che volentieri
la ricevette. E altri vogliono essere la cagione percioché non di sua
volontá fu rapita; altri percioché tenne al trattato, e diede il cenno
aʼ greci di ritornare. E, tornandosi costei con Menelao in Grecia, da
noiosa tempesta di mare ne furono portati in Egitto, e quivi da Polibo
re onorevolmente ricevuti; e, oltre a questo, essendo da diversi casi
ritenuti, lʼottavo anno dopo la distruzione dʼIlione, tornarono in
Lacedemonia. Dove scrive Omero, nella sua _Odissea_, che Telemaco,
figliuolo di Ulisse, essendo venuto per domandar Menelao se alcuna cosa
dir gli sapesse dʼUlisse, gli trovò far festa e nozze grandissime,
avendo Menelao dato moglie ad un suo figliuolo non legittimo, chiamato
Megapénti. E da questo tempo innanzi, mai che di lei si fosse non mi
ricorda aver trovato.

«E vidi ʼl grande Achille, Che con amore», cioè per amore, «al fine»,
della sua vita, «combatteo», contro a Paris e agli altri che nel tempio
dʼApollo timbreo lʼassalirono e uccisono; nel quale Ecuba lʼaveva
occultamente e falsamente fatto venire, avendogli promesso di dargli
per moglie Polissena.

[Nota: Lez. XIX]

Achille fu figliuolo di Peleo e di Tetide minore, nelle cui nozze,
ecc. non fu invitata la dea della discordia, ecc.; e fu dʼuna cittá
di Tessaglia, secondo che Omero scrive nella _Iliada_, chiamata Ptia:
il quale, secondo che i poeti scrivono, come nato fu, dalla madre fu
portato in inferno, e, accioché egli divenisse forte e paziente delle
fatiche, presolo per lo calcagno, tutto il tuffò nel fiume, ovvero
nellʼonde di Stige, palude infernale, fuori che il calcagno di lui, il
quale teneva con mano; e questo fatto, il diede a Chirón centauro, che
lo allevasse. Il quale il nutricò, non in quella forma che gli altri
tutti si sogliono nutricare, ma gli faceva apparecchiare il cibo suo
solamente di medolla dʼossa di bestie prese da lui; e questo faceva,
accioché egli, per continuo esercizio, si facesse forte e destro a
sostenere le fatiche. E per questo solea dir Leon Pilato lui essere
stato nominato Achille, ab «a», che tanto vuol dire quanto «senza», e
«_chilos_», che tanto vuol dire quanto «cibo», quasi «uomo nutricato
senza cibo». Insegnò Chirón a costui astrologia e medicina e sonare
certi istrumenti di corda. Ma, come la madre di lui sentí essere stata
rapita da Paride Elena, conoscendo per sue arti che gran guerra ne
seguirebbe, e che in quella sarebbe il figliuolo ucciso, sʼingegnò di
schifargli con consiglio questo male, se ella potesse: e lui dormente,
e ancora fanciullo senza barba, nascosamente della spelonca di Chirone
il trasse, e portonnelo in una isola chiamata Sciro, dove regnava un
re chiamato Licomede: e con vestimenti femminili, avendolo ammaestrato
che a niuna persona manifestasse sé esser maschio, quasi come fosse
una vergine, gliele diede che il guardasse tra le figliuole. Ma questo
non potè lungamente essere occulto a Deidamia, figliuola di Licomede,
cioè che egli fosse maschio: col quale essa, preso tempo atto a ciò,
si giacque; e per la comoditá, la quale avea di questo suo piacere, ad
alcuna persona non manifestava quello essere che essa avea conosciuto.
E tanto continovò la lor dimestichezza, che essa di lui concepette un
figliuolo, il quale poi chiamaron Pirro. Ma, poi che i greci ebbero
tutti fatta congiurazione contro aʼ troiani, avendo per risponso avuto
non potersi Troia prendere senza Achille, messisi ad investigare
di lui, con la sagacitá dʼUlisse fu trovato e menato a Troia: dove
andando, prese piú cittá di nemici e grandissima preda, e una figliuola
del sacerdote dʼApolline, la qual donò ad Agamennone, e unʼaltra, che
presa nʼavea, chiamata Briseida, guardò per sé. Ed essendo convenuto,
per risponsi deglʼiddii, che Agamennone avesse la sua restituita al
padre, tolse Briseida ad Achille: della qual cosa turbato Achille,
non si poteva fare, né per prieghi né per consiglio, che egli volesse
combattere contro aʼ troiani. Per che, essendo i greci un dí fieramente
malmenati daʼ troiani, avendo egli concedute le sue armi e il carro
a Patrocolo, e Patrocolo essendo stato ucciso da Ettore, turbato
sʼarmò: e, vinto e ucciso Ettore, e strascinatolo, e poi tenutolo
senza sepoltura dodici dí, e ultimamente rendutolo a Priamo, e poi
perseverando nel combattere, avendo ucciso Troilo, fratello di Ettore,
suspicò Ecuba costui non doverle alcuno deʼ figliuoli lasciare, per
che con lui tenne segreto trattato di dovergli dare Polissena, sua
figliuola, per moglie, dove egli le promettesse piú non prendere arme
contro aʼ troiani. Amava Achille Polissena meravigliosamente, percioché
neʼ tempi delle tregue veduta lʼavea, ed eragli oltre ad ogni altra
femmina paruta bella. Ed essendo dunque esso in convenzione con Ecuba,
secondo che ella gli mandò dicendo, solo e disarmato andò una notte nel
tempio dʼApollo timbreo, il quale era quasi allato alle mura dʼIlione,
credendosi quivi trovare Ecuba e Polissena; ma come egli fu in esso,
gli uscí sopra Paris con certi compagni; ed essendo Paris mirabilmente
ammaestrato nellʼarte del saettare, aperto lʼarco, il ferí dʼuna saetta
nel calcagno, percioché sapeva lui in altra parte non potere esser
ferito: per che Achille, fatta alcuna ma piccola difesa, cadde e fu
ucciso, e poi seppellito sopra lʼuno deʼ promontori di Troia, chiamato
Sigeo.

«Vidi Paris». Paris, il quale per altro nome fu chiamato Alessandro,
fu figliuolo di Priamo e di Ecuba, del quale Tullio _in libro De
divinatione_ scrive che, essendo Ecuba pregna di quella pregnezza della
quale ella partorí Paris, le parve una notte nel sonno partorire una
facellina, la quale ardeva tutta Troia. Il qual sonno essa raccontò a
Priamo: del significato del qual sogno Priamo fece domandare Apollo,
il quale rispose che per opera del figliuolo, il quale nascer dovea
di questa grossezza, perirebbe tutta Troia. Per la qual cosa Priamo
comandò che il figliuolo che nascesse, ella il facesse gittar via.
Ma, essendo venuto il tempo del parto, e avendo Ecuba partorito un
bel fanciullo, ebbe pietá di lui, e nol fece, secondo il comandamento
di Priamo, gittar via, ma il fece occultamente dare a certi pastori
del re, che lʼallevassero: e cosí da questi pastori fu allevato nella
selva chiamata Ida, non guari dilungi da Troia. Ed essendo divenuto
grande, quivi primieramente usò la dimestichezza dʼuna ninfa del luogo
chiamata Oenone, e di lei ebbe due figliuoli, deʼ quali chiamò lʼuno
Dafne e lʼaltro Ideo. E, dimorando in abito pastorale in quella selva,
addivenne un grande e famoso giudice, e ogni quistione tra qualunque
persona con maravigliosa equitá decideva. Per la qual cosa perduto
quasi il vero nome, cioè Alessandro, era da tutti chiamato Paris,
quasi «eguale». E in questo tempo che esso cosí dimorava, avvenne che
Peleo menò per moglie Teti, e alle sue nozze invitò Giunone, Pallade e
Venere. Di che gravandosi la dea della discordia, che essa non vʼera
stata chiamata, preso un pomo dʼoro, vi scrisse sú che fosse dato alla
piú degna, e gittollo sopra la mensa, alla quale esse sedevano. Di
che, lette le lettere, ciascuna delle tre dèe diceva a lei, sí come
a piú degna, doversi il detto pomo. Ed essendo tra loro la quistione
grande, andarono per lo giudicio a Giove, il quale Giove non volle
dare, ma disse loro:—Andate in Ida, e quivi è un giustissimo uomo
chiamato Paris; quegli giudicherá qual di voi ne sia piú degna.—Per
la qual cosa le tre dèe andarono nella selva, e trovarono Paris in una
parte di quella chiamata Mesaulon, e quivi proposero davanti a lui la
lor quistione, dicendo Giunone:—Io sono dea deʼ regni: se tu dirai
me piú degna di queste altre di questo pomo, io ti farò signore di
molti.—Dʼaltra parte diceva Pallade:—Io sono dea della sapienza: se
tu il dái a me, io ti farò tutte le cose cognoscere e sapere.—Venere
similemente diceva:—Io sono dea dʼamore: se tu dai, come a piú degna,
il pomo a me, io ti farò avere lʼamore e la grazia della piú bella
donna del mondo.—Le quali udite da Paris, dopo alcuna diliberazione,
egli diede il pomo a Venere, sí come a piú degna. Per la qual cosa,
come appresso si dirá, egli ebbe Elena. Fu costui, secondo che Servio
dice essere stato da Nerone raccontato nella sua _Troica_, fortissimo,
intanto che esso nelle contenzioni agonali, le quali si facevano a
Troia, esso vinceva ogni uomo, ed Ettore medesimo. Il quale, turbatosi
dʼessere da lui stato vinto, credendo lui essere un pastore, messo
mano ad un coltello, il volle uccidere, e arebbel fatto; se non che
Paris, che giá daʼ suoi nutritori saputo lʼavea, gridò forte:—Io son
tuo fratello;—che ciò fosse vero provò, mostrate le sue crepundie, le
quali Ecuba vedute riconobbe; e cosí fu riconosciuto e ricevuto nella
casa reale di Priamo, suo padre. Nella quale non guari di tempo dimorò,
che, essendo per mandato di Priamo composte [e fatte] venti navi, sotto
spezie dʼambasciadore a raddomandare Esiona fu mandato in Grecia; dove
alcuni vogliono, e tra questi è Ovidio nelle sue _Pistole_, che esso
fosse ricevuto e onorato da Menelao. Ma altri dicono lui essere in
Lacedemonia venuto, non essendovi Menelao, e di quindi alla fama della
bellezza dʼElena essere andato in Isparten, e quella avere combattuta
il primo anno del regno dʼAgamennone, non essendovi Castore né Polluce,
fratelli di Elena, li quali ad Agamennone erano andati, e seco aveano
menata Ermione, figliuola di Menelao e dʼElena. E cosí, avendo presa la
cittá, presene Elena, resistente quanto potea, e, oltre a ciò, tutti i
tesori di Menelao, e, ogni cosa posta sopra le navi, andò via: la qual
cosa assai elegantemente tôcca Virgilio, quando dice:

  _Me duce, Dardanius Spartam expugnavit adulter?_ ecc.

E per questo vogliono molti, preso daʼ greci Ilione, Elena aver
meritato dʼessere stata ricevuta da Menelao. E cosí Paris ebbe la piú
bella donna di Grecia, secondo la promessa di Venere: la quale in Troia
menatane, vi portò quella facellina, la quale Ecuba, essendo gravida in
lui, avea nel sonno veduta che tutta Troia ardea. Adunque per questa
rapina congiurati i greci insieme, vennero ad assediare Ilione: nel
quale essendo prima stato ucciso Ettore, e poi Troilo, esso medesimo
Paris fu ucciso da Pirro, figliuolo dʼAchille.

Séguita poi: «Tristano».

Tristano, secondo i romanzi deʼ franceschi, fu figliuolo del re
Meliadus e nepote del re Marco di Cornovaglia, e fu, secondo i detti
romanzi, prode uomo della persona e valoroso cavaliere: e dʼamore men
che onesto amò la reina Isotta, moglie del re Marco, suo zio, per
la qual cosa fu fedito dal re Marco dʼun dardo avvelenato. Laonde
vedendosi morire, ed essendo la reina andata a visitarlo, lʼabbracciò,
e con tanta forza se la strinse al petto, che a lei e a lui scoppiò
il cuore, e cosí insieme morirono, e poi furono similmente seppelliti
insieme. Fu costui al tempo del re Artú e della Tavola ritonda, ed egli
ancora fu deʼ cavalieri di quella Tavola.

«E piú di mille Ombre mostrommi, e nominolle a dito», dice «mille»,
quasi molte, usando quella figura la qual noi chiamiamo «iperbole»;
«Chʼamor», cioè quella libidinosa passione, la qual noi volgarmente
chiamiamo «amore», «di nostra vita dipartille», con disonesta morte;
percioché, per quello morendo, onestamente morir non si puote.

«Poscia chʼio ebbi». Qui comincia la quinta parte del presente canto,
nella qual dissi che lʼautore con alcuni spiriti dannati a questa pena
parlava, e dice: «Poscia chʼio ebbi il mio dottore udito Nomar le donne
antiche e i cavalieri», che di sopra ha nominati; «Pietá mi vinse e fui
quasi smarrito». In queste parole intende lʼautore dʼammaestrarci che
noi non dobbiamo con la meditazione semplicemente visitar le pene deʼ
dannati; ma, visitandole e conoscendole, e conoscendo noi di quelle
medesime per le nostre colpe esser degni, non di loro, che dalla
giustizia son puniti, ma di noi medesimi dobbiamo aver pietá, e dover
temere di non dovere in quella dannazione pervenire, e compugnerci
ed affliggerci, accioché tal meditazione ci sospinga a quelle cose
adoperare, le quali di tal pericolo ne tragghino e dirizzinci in via
di salute. E usa lʼautore di mostrare di sentire alcuna passione,
quando maggiore e quando minore, in ciascun luogo: e quasi dove alcun
peccato si punisce, del quale esso conosca se medesimo peccatore. E,
avuta questa passione al suo difetto, sèguita: «Io cominciai:—Poeta,
volentieri Parlerei a queʼ due che ʼnsieme vanno», essendo da quella
bufera portati, «E» che «paiono sí al vento esser leggeri»,—cioè con
minor fatica volanti. «Ed egli a me:—Vedrai quando saranno», menati
dal vento, «Piú presso a noi, e tu allor gli prega, Per quellʼamor,
che i mena», qual che quello amor si sia, «ed eʼ verranno», qui, da
quellʼamor, per lo qual pregati fieno, costretti. «Sí tosto, come ʼl
vento a noi gli piega, Muovi la voce»—cioè priega come detto tʼho.

Per la qual cosa lʼautore, che verso di sé venir gli vide, cominciò a
dire in questa guisa:—«O anime affannate», dal tormento e dalla noia
di questo vento, «Venite a noi parlar, sʼaltri nol niega»,—cioè se voi
potete.

«Quali colombe». Qui lʼautore, per una comparazione, ne dichiara con
quanta affezione quelle due anime chiamate venissero a lui. «Quali
colombe dal desio», di rivedere i figliuoli, «chiamate», cioè incitate,
«Con lʼali alzate», volando, «e ferme», con lʼaffezione, «al dolce
nido», nel quale i figliuoli hanno lasciati, per dover cercar pastura
per li figliuoli e per loro; «Vengon per lʼaer», verso il nido, «dal
voler portate»; percioché gli animali non razionali non hanno altra
guida nelle loro affezioni che la volontá; «Cotali uscir», questi
due, «della schiera ovʼè Dido», la qual di sopra disse che andavano
per quello aere a guisa che volano i grú; «A noi venendo per lʼaer
maligno», quanto è a loro che quivi tormentati erano: «Sí forte», cioè
sí potente, «fu lʼaffettuoso grido», cioè priego (non si dee credere
che lʼautor gridasse). E venuti disson cosí:—«O animal grazioso e
benigno», chiamanlo per ciò «grazioso e benigno», perché benignamente
pregò; il che laggiú non suole avvenire, anzi vi si usa per li ministri
della divina giustizia rigidamente comandare: «Che visitando vai per
lʼaer perso», cioè oscuro, «Noi, che tignemmo ʼl mondo di sanguigno»,
quando uccisi fummo; percioché, versandosi il lor sangue, dovunque
toccò tinse di color sanguigno; «Se fosse amico», di noi, come egli è
nemico, «il Re dellʼuniverso», cioè Iddio, «Noi pregheremmo lui per la
tua pace», cioè che pace ti concedesse, «Poi cʼhai pietá del nostro
mal perverso», cioè al nostro tormento. «Di quel chʼudire» da noi, «e
che parlar ti piace» a noi, «Noi udiremo», parlando tu, «e parleremo a
vui», rispondendo a quelle cose delle quali domanderai, «Mentre che ʼl
vento», cioè quella bufera, «come fa», al presente, «ne tace», cioè non
cʼinfesta.

[Nota: Lez. XX]

«Siede la terra». Qui comincia costei a manifestare se medesima, senza
essere addomandata; e ciò fa per mostrarsi piú pronta aʼ suoi piaceri.
Ma, prima che piú avanti si proceda, è da raccontare chi costei fosse,
e perché morta, accioché piú agevolmente si comprenda quello che essa
nelle sue seguenti parole dimostrerá. È adunque da sapere che costei
fu figliuola di messer Guido vecchio da Polenta, signor di Ravenna e
di Cervia; ed essendo stata lunga guerra e dannosa tra lui e i signori
Malatesti da Rimino, addivenne che per certi mezzani fu trattata e
composta la pace tra loro. La quale accioché piú fermezza avesse,
piacque a ciascuna delle parti di volerla fortificare per parentado;
e ʼl parentado trattato fu che il detto messer Guido dovesse dare per
moglie una sua giovane e bella figliuola, chiamata madonna Francesca,
a Gianciotto, figliuolo di messer Malatesta. Ed essendo questo ad
alcuno degli amici di messer Guido giá manifesto, disse un di loro a
messer Guido:—Guardate come voi fate, percioché, se voi non prendete
modo ad alcuna parte, che in questo parentado egli ve ne potrá seguire
scandolo. Voi dovete sapere chi è vostra figliuola, e quanto ellʼè
dʼaltiero animo: e, se ella vede Gianciotto, avanti che il matrimonio
sia perfetto, né voi né altri potrá mai fare che ella il voglia per
marito. E perciò, quando vi paia, a me parrebbe di doverne tener
questo modo: che qui non venisse Gianciotto ad isposarla, ma venisseci
un deʼ frategli, il quale come suo procuratore la sposasse in nome
di Gianciotto.—Era Gianciotto uomo di gran sentimento, e speravasi
dover lui dopo la morte del padre rimanere signore; per la qual cosa,
quantunque sozzo della persona e sciancato fosse, il disiderava messer
Guido per genero piú tosto che alcuno deʼ suoi frategli. E, conoscendo
quello, che il suo amico gli ragionava, dover poter avvenire, ordinò
segretamente che cosí si facesse, come lʼamico suo lʼavea consigliato.
Per che, al tempo dato, venne in Ravenna Polo, fratello di Gianciotto,
con pieno mandato ad isposare madonna Francesca. Era Polo bello e
piacevole uomo e costumato molto; e, andando con altri gentiliuomini
per la corte dellʼabitazione di messer Guido, fu da una damigella di
lá entro, che il conoscea, dimostrato da un pertugio dʼuna finestra a
madonna Francesca, dicendole:—Madonna, quegli è colui che dee esser
vostro marito;—e cosí si credea la buona femmina; di che madonna
Francesca incontanente in lui pose lʼanimo e lʼamor suo. E fatto poi
artificiosamente il contratto delle sponsalizie, e andatane la donna
a Rimino, non sʼavvide prima dellʼinganno, che essa vide la mattina
seguente al dí delle nozze levare da lato a sé Gianciotto: di che
si dee credere che ella, vedendosi ingannata, sdegnasse, né perciò
rimovesse dellʼanimo suo lʼamore giá postovi verso Polo. Col quale
come ella poi si giugnesse, mai non udii dire, se non quello che
lʼautore ne scrive; il che possibile è che cosí fosse. Ma io credo
quello essere piú tosto fizione formata sopra quello che era possibile
ad essere avvenuto, ché io non credo che lʼautore sapesse che cosí
fosse. E perseverando Polo e madonna Francesca in questa dimestichezza,
ed essendo Gianciotto andato in alcuna terra vicina per podestá,
quasi senza alcun sospetto insieme cominciarono ad usare. Della qual
cosa avvedutosi un singulare servidore di Gianciotto, andò a lui,
e raccontògli ciò che della bisogna sapea, promettendogli, quando
volesse, di fargliele toccare e vedere. Di che Gianciotto fieramente
turbato, occultamente tornò a Rimino, e da questo cotale, avendo veduto
Polo entrare nella camera da madonna Francesca, fu in quel punto menato
allʼuscio della camera, nella quale non potendo entrare, ché serrata
era dentro, chiamò di fuora la donna, e dieʼ di petto nellʼuscio. Per
che da madonna Francesca e da Polo conosciuto, credendo Polo, per
fuggire subitamente per una cateratta, per la quale di quella camera si
scendea in unʼaltra, o in tutto o in parte potere ricoprire il fallo
suo; si gittò per quella cateratta, dicendo alla donna che gli andasse
ad aprire. Ma non avvenne come avvisato avea, percioché, gittandosi
giú, sʼappiccò una falda dʼun coretto, il quale egli avea indosso, ad
un ferro, il quale ad un legno di quella cateratta era; per che, avendo
giá la donna aperto a Gianciotto, credendosi ella, per lo non esservi
trovato Polo, scusare, ed entrato Gianciotto dentro, incontanente
sʼaccorse Polo esser ritenuto per la falda del coretto, e con uno
stacco in mano correndo lá per ucciderlo, e la donna accorgendosene,
accioché quello non avvenisse, corse oltre presta, e misesi in mezzo
tra Polo e Gianciotto, il quale avea giá alzato il braccio con lo
stocco in mano, e tutto si gravava sopra il colpo: avvenne quello che
egli non avrebbe voluto, cioè che prima passò lo stocco il petto della
donna, che egli aggiugnesse a Polo. Per lo quale accidente turbato
Gianciotto, sí come colui che piú che se medesimo amava la donna,
ritirato lo stocco da capo, ferí Polo e ucciselo: e cosí amenduni
lasciatigli morti, subitamente si partí e tornossi allʼuficio suo.
Furono poi li due amanti con molte lacrime, la mattina seguente,
seppelliti e in una medesima sepoltura.

Dice adunque la donna, dal luogo della sua origine
cominciando:—«Siede», cioè dimora, «la terra», cioè la cittá di
Ravenna, antichissima per quello che si crede, e fu colonia deʼ sabini,
quantunque i ravignani dicano che essa fosse posta ed edificata daʼ
nipoti di Noé; «dove nata fui, Su la marina», del mare Adriano, al
quale ella è vicina due miglia, e per alcune dimostrazioni appare che
essa giá fosse in sul mare; «dove ʼl Po discende». Nasce il Po nelle
montagne che dividono Italia dalla Provenza, e, discendendo giú verso
il mare Adriano, per trenta grossi fiumi, che da Appennino e dallʼAlpi
discendono, diventa grossissimo fiume, e tra Mantova e Ferrara si
divide in due parti, delle quali lʼuna ne va verso Ferrara, e lʼaltra
ad una villa di Ferrara chiamata Francolino: e pervenuto a Ferrara,
similemente si divide in due parti, delle quali lʼuna ne va verso
Ravenna, e diciotto miglia lontano ad essa, in luogo chiamato Primaro,
mette in mare. «Per aver pace coʼ seguaci sui», cioè coʼ fiumi che,
mettendo in esso, seguitano il corso suo, e, come esso con essi mette
in mare, hanno pace, in quanto piú non corrono.

«Amor, chʼal cor gentil»: dimostrato per le predette discrizioni
il luogo donde fu, comincia a mostrare la cagione della sua morte;
e primieramente dice Polo essersi innamorato di lei; poi sé dice
essersi innamorata di lui. E, quantunque questa materia dʼamore venga
pienamente a dovere essere trattata nel secondo libro di questo
volume, nel canto diciassettesimo; nondimeno, per alcuna piccola
dichiarazione alle parole che costei dice, alcuna cosa qui ne scriverò.
Piace ad Aristotile esser tre spezie dʼamore, cioè amore onesto, amore
dilettevole e amore utile: e quellʼamore, del quale qui si fa menzione,
è amor dilettevole. E perciò, lasciando star degli altri due, dico che
questo amor per diletto chiamano i poeti Cupido, e dicono che egli fu
figliuolo di Marte e di Venere, sí come Tullio nel libro _De natura
deorum_ testimonia: e a costui attribuiscono i poeti grandissime forze,
sí come per Seneca appare nella tragedia dʼ_Ipolito_, nella quale dice:

  _Et iubet caelo superos relicto
  vultibus falsis habitare terras.
  Thessali Phoebus pecoris magister
  egit armentum, positoque plectro
  impari tauros calamo vocavit.
  Induit formas quotiens minores,
  ipse, qui caelum nebulasque ducit?
  Candidas ales modo movit alas,_ ecc.

E, oltre a ciò, gli discrivono varie forme, alle quali voler recitare
sarebbe troppo lunga la storia. Ma, vegnendo a quello che alla nostra
materia appartiene, dico che questo Cupidine, o Amor che noi vogliam
dire, è una passion di mente delle cose esteriori, e, per li sensi
corporei portata in essa, è poi approvata dalle virtú intrinseche,
prestando i corpi superiori attitudine a doverla ricevere. Percioché,
secondo che gli astrologi vogliono (e cosí affermava il mio venerabile
precettore Andalò), quando egli avviene che, nella nativitá dʼalcuno,
Marte si trovi esser nella casa di Venere in Tauro o in Libra, e
trovisi esser significatore della nativitá di quel cotale che allora
nasce, ha a dimostrare questo cotale, che allora nasce, dovere
essere in ogni cosa venereo. E di questo dice Alí nel comento del
_Quadripartito_ che, qualunque ora nella nativitá dʼalcuno Venere
insieme con Marte participa, avere questa cotale participazione a
concedere a colui che nasce una disposizione atta aglʼinnamoramenti e
alle fornicazioni. La quale attitudine ha ad adoperare che, cosí tosto
come questo cotal vede alcuna femmina, la quale daʼ sensi esteriori
sia commendata, incontanente quello, che di questa femmina piace, è
portato alle virtú sensitive interiori, e questo primieramente diviene
alla fantasia, e da questa è mandato alla virtú cogitativa, e da quella
alla memorativa; e poi da queste virtú sensitive è trasportato a quella
spezie di virtú, la quale è piú nobile intra le virtú apprensive, cioè
allʼintelletto possibile; percioché questo è il ricettacolo delle
spezie, sí come Aristotile scrive _in libro De anima_. Quivi, cioè in
questo intelletto possibile, cognosciuto e inteso quello che, come di
sopra è detto, portato vʼè, se egli avviene che per volontá di colui,
nel quale è questa passione (conciosiaché in essa volontá sia libertá
di ritenere dentro questa cosa piaciuta e di mandarla fuori), questa
cotal cosa piaciuta sia ritenuta dentro, allora è fermata nella memoria
la passione di questa cosa piaciuta, la quale noi chiamiamo Amore
ovvero Cupido. E pone questa passione la sedia sua e la sua stanza
ferma nellʼappetito sensitivo, e quivi in varie cose adoperanti divien
sí grande, e fassi sí potente, che egli fatica gravemente il paziente e
a far cose, che laudevoli non sono, spesse volte il costrigne: e alcuna
volta, essendo meno approvata questa cotal cosa piaciuta, leggiermente
si risolve e torna in niente. E cosí non è da Marte e da Venere
generata questa passione come alcuni stimano; ma, secondo che di sopra
è detto, sono alcuni uomini prodotti atti a ricevere questa passione
secondo le disposizioni del corpo: la quale attitudine se non fosse,
questa passione non si genererebbe.

Appare adunque che questo Polo era atto nato ad amare; e però, come
vide colei, la quale esso, secondo lʼordine detto di sopra, approvò,
e dentro ritenne lʼapprobazione, subitamente fu da amor passionato
e preso. E deʼsi qui intendere quel che dice «al cor gentil», cioè
flessibile, sí come quello che era nato atto a ricevere quella
passione: «ratto sʼapprende», cioè prestamente vʼè dentro ricevuta e
ritenuta: «Prese costui», cioè Polo, il quale quivi mostra essere in
compagnia di lei; e dice che il prese «Della bella persona», la quale
io ebbi vivendo «Che mi fu tolta», quando uccisa fui: «e ʼl modo», nel
quale mi fu tolta, «ancor mʼoffende», cioè mi tormenta.

[Nota: Lez. XXI]

«Amor, chʼa nullʼamato amar perdona». Questo, salva sempre la reverenza
dellʼautore, non avviene di questa spezie dʼamore, ma avvien bene
dellʼamore onesto, come lʼautore medesimo mostra nel seguente libro nel
canto ventiduesimo, dicendo:

                               amore
  acceso da virtú, sempre altro accese,
  pur che la fiamma sua paresse fuore.

Ma puossi qui dire, questo talvolta avvenire, [conciosiacosaché rade
volte soglia lʼuomo molto strettamente legarsi dellʼamore di cosa, chʼè
a lui in tutto o in piú cose di natura conforme; il che quando avviene,
può quel seguitare che lʼautore dice,] conciosiacosaché naturalmente
ogni simile appetisca suo simile: e però, come la cosa amata sentirá
i costumi e le maniere dellʼamante conformi alle sue, incontanente si
dichinerá a doverlo cosí amare, come ella è amata da lui; cosí non
perdonerá lʼamore allʼamato, cioè chʼegli non faccia che questo amato
ami chi ama lui. «Mi prese del costui piacer», cioè del piacere di
costui, o del piacere a costui: in che generalmente si sforza ciascun
che ama di piacere alla cosa amata: «sí forte», cioè con tanta forza,
«Che, come vedi, ancor non mʼabbandona». Vuol dire: vedendomi, come tu
fai, andar continovo con lui, puoi comprendere che io lʼamo, come io
lʼamai mentre vivevamo. [Ma] in questo lʼautor séguita lʼopinion di
Virgilio, il qual mostra nel sesto dellʼ_Eneida_, Sicheo perseverare
nellʼamor di Didone, dove dice:

  _Tandem corripuit sese, atque inimica refugit
  in nemus umbriferum, coniux ubi pristinus illi
  respondet curis aequatque Sichaeus amorem_, ecc.

[Secondo la cattolica veritá, questo non si dee credere, percioché
la divina giustizia non permette che in alcuna guisa alcun dannato
abbia o possa avere cosa che al suo desiderio si conformi, o gli
porga consolazione o piacere alcuno: alla quale assai manifestamente
sarebbe contro, se questa donna, come vuol mostrare nelle sue parole,
a se medesima compiacesse dello stare in compagnia del suo amante.]
«Amor condusse noi ad una morte»: cioè ad essere uccisi insieme e in
un punto. «Caina attende»: Caina è una parte del nono cerchio del
presente libro, cosí chiamata da Caino figliuolo dʼAdamo, il quale
peroché uccise il fratello carnale, mostra di sentire lʼautore che egli
sia in quel cerchio dannato: e, percioché egli fu il primo che cotal
peccato commise, dinomina lʼautore quel cerchio da lui; e in quel si
puniscono tutti coloro che i fratelli o congiunti uccidono. E perciò
dice questa donna che quel cerchio aspetta Gianciotto, il quale uccise
lei, sua moglie, e Polo, suo fratello: «chi», cioè colui, «in vita ci
spense»,—cioè uccise; percioché morte non è altro che un privare, il
qual si può dire «spegner di vita».

«Queste parole», di sopra dette, «da lor ci fûr pòrte», cioè da madonna
Francesca, parlante per sé e per Polo.

«Da chʼio intesi questʼanime offense», sí dalla morte ricevuta e sí
dal presente tormento, «Chinai ʼl viso», come colui fa, il quale ha
udita cosa che gli grava, «e tanto il tenni basso, Fin che ʼl poeta
mi disse:—Che pense?»—quasi volesse dire: Eʼ si vuole attendere ad
altro.—

«Quando risposi», alla domanda di Virgilio, «cominciai», a dire:—«O
lasso! Quanti dolci sospir»: dolci sospiri paiono esser quegli che da
speranza certa muovono di dovere ottenere la cosa che sʼama: «quanto
disio», quasi dica molto, «Menò costoro», Francesca e Polo, «al
doloroso passo!»—della morte.

«Poi mi rivolsi a loro, e parlaʼ io, E cominciai:—Francesca, i tuoi
martíri», neʼ quali io ti veggio, «A lacrimar mi fanno tristo e pio»,
cioè dolente e pietoso. «Ma dimmi: al tempo deʼ dolci sospiri», cioè
quando tu ancora sospiravi, amando e sperando, «A che» segno, «e come»,
cioè in qual guisa, «concedette Amore», il quale suol rendere gli
amanti temorosi e non lasciar loro, per téma di non dispiacere, aprire
il disiderio loro, «Che conosceste», cioè tu di Polo, e Polo di te,
«i dubbiosi disiri?»—Chiámagli «dubbiosi» i disidèri degli amanti,
percioché, quantunque per molti atti appaia che lʼuno ami lʼaltro e
lʼaltro lʼuno, tuttavia suspicano non sia cosí come a lor pare, insino
a tanto che del tutto discoperti e conosciuti sono.

«Ed ella a me:—Nessun maggior dolore Che ricordarsi del tempo felice»:
chiama «felice» il tempo il quale aveva nella presente vita, per
rispetto a quello che ha nella dannazione perpetua, la qual chiama
«miseria», dicendo: «Nella miseria»; e veramente grandissimo dolore è:
e questo assai chiaro testimonia Boezio, _in libro De consolatione_,
dicendo: «_Summum infortunii genus est, fuisse felicem_»; «e ciò
sa ʼl tuo dottore», cioè Virgilio, il quale, e nel principio della
narrazion fatta da Enea deʼ casi troiani a Didone e ancora nel dolore
di Didone nella partita dʼEnea, assai chiaramente il dimostra. «Ma,
se a conoscer la prima radice», la qual prima radice del costoro
amore ha lʼautore mostrata di sopra quando dice: «Amar, chʼal cor
gentil», ecc., dove qui, secondo la sua domanda, cioè dellʼautore,
madonna Francesca gli dimostra come al frutto, il quale di quella
radice si disidera e sʼaspetta, essi pervenissero; e cosí vorrá qui
lʼautore che il principio sʼintenda per la fine: «Del nostro amor
tu hai cotanto affetto», cioè tanto disiderio, «Farò come colei
che piange e dice. Noi», cioè Polo ed io, «leggevamo un giorno per
diletto Di Lancellotto», del quale molte belle e laudevoli cose
raccontano i romanzi franceschi; cose, per quel chʼio creda, piú
composte a beneplacito che secondo la veritá: e leggevamo «come amor
lo strinse»; percioché neʼ detti romanzi si scrive Lancellotto essere
stato ferventissimamente innamorato della reina Ginevra, moglie del
re Artú. «Soli eravamo e senza alcun sospetto». Scrive lʼautore tre
cose, ciascuna per se medesima potente ad inducere a disonestamente
adoperare un uomo e una femmina che insieme sieno: cioè leggere
gli amori dʼalcuni, lʼesser soli e lʼesser senza sospetto dʼalcuno
impedimento. «Per piú fiate gli occhi ci sospinse», a riguardar lʼun
lʼaltro, «Quella lettura e scolorocci ʼl viso»: cioè fececi tal
volta venir palidi e tal rossi, come a quegli suole avvenire, che,
da alcuna cagion mossi, disiderano di dire alcuna cosa, e poi temono
e cosí impalidiscono, o si vergognano e cosí arrossiscono. «Ma solo
un punto fu quel che mi vinse», a dover pur mandar fuori il disiderio
mio; e questo fu «Quando leggemmo il disiato riso», cioè la disiderata
letizia, la qual fu alla reina Ginevra, «Esser baciata da cotanto
amante», quanto era Lancellotto, reputato in queʼ tempi il miglior
cavalier del mondo. «Questi», cioè Polo, «che mai da me non fia
diviso, La bocca mi baciò tutto tremante». Ottimamente discrive lʼatto
di quegli, li quali con alcun sentimento ferventemente amano, che,
quantunque offerito sia loro quello che essi appetiscono (come qui si
comprende che madonna Francesca offeresse a Polo), non senza tremore la
prima volta il prendono.

«Galeotto fu il libro, e chi lo scrisse». Scrivesi neʼ predetti romanzi
che un prencipe Galeotto, il quale dicono che fu di spezie di gigante,
sí era grande e grosso, sentí primo che alcuno altro lʼocculto amore
di Lancellotto e della reina Ginevra: il quale non essendo piú avanti
proceduto che per soli riguardi, ad istanza di Lancellotto, il quale
egli amava maravigliosamente, tratta un dí in una sala a ragionamento
seco la reina Ginevra, e a quello chiamato Lancellotto, ad aprire
questo amore con alcuno effetto fu il mezzano: e, quasi occupando
con la persona il poter questi due esser veduti da alcuno altro
della sala che da lui, fece che essi si baciarono insieme. E cosí
vuol questa donna dire che quello libro, il quale leggevano Polo ed
ella, quello uficio adoperasse tra lor due, che adoperò Galeotto tra
Lancellotto e la reina Ginevra: e quel medesimo dice essere stato colui
che lo scrisse; percioché, se scritto non lʼavesse, non ne potrebbe
esser seguito quello che ne seguí. «Quel giorno piú non vi leggemmo
avante»:—assai acconciamente mostra di volere che, senza dirlo essa,
i lettor comprendano quello che dellʼessere stata basciata da Polo
seguitasse.

«Mentre che lʼuno». Qui comincia la sesta e ultima particula del
presente canto, nella quale lʼautore discrive quello che di quel
ragionare gli seguisse, e dice: «Mentre che lʼuno spirto», cioè
madonna Francesca, «questo disse», che di sopra è detto, «Lʼaltro
piangeva», cioè Polo, «sí», cioè in tal maniera, «che di pietade»,
per compassione, «Io venni meno», cioè mancaronmi le forze, «sí comʼio
morisse, E caddi come corpo morto cade». Suole alcuna volta avere tanta
forza la compassione, che pare chʼella faccia cosí altrui struggere il
cuore, come si strugge la neve al fuoco; di che avviene che le forze
sensibili si dileguano, e lʼanimali rifuggono nelle piú intrinseche
parti del cuore, quasi abbandonato: e cosí il corpo, destituto dal
suo sostegno, impalidito cade. E questa compassione, come altra volta
di sopra è detto, non ha tanto lʼautore per gli spiriti uditi, quanto
per se medesimo, il quale, dalla coscienza rimorso, conosce sé in
quella dannazion dovere cadere, se di quello, che giá in tal colpa ha
commesso, non sodisfa con contrizione e penitenza a Colui, il quale
egli ha, peccando, offeso, cioè a Dio.



II

SENSO ALLEGORICO


«Cosí discesi del cerchio primaio», ecc. Mostrato che la ragione ha
il supplicio, il quale sostengono coloro, li quali senza essere stati
per lo lavacro del battesimo mondati dal peccato originale; procedendo
piú avanti con la meditazione, discende a dimostrargli la qualitá
delle colpe piú gravi, e quali sieno i tormenti, alli quali per la
divina giustizia dannati sieno coloro li quali in esse colpe morirono.
E fa due cose nel presente canto: primieramente in persona di Minos
gli dimostra la rigida e severa giustizia di Dio; appresso gli mostra
in questo cerchio secondo esser dannati queʼ peccatori, li quali,
oltre alla ragione, oltre ad ogni legge o buon costume, seguirono il
concupiscibile appetito nel vizio della lussuria, nominando di questi
cotali alquanti, accioché piú pienamente si comprenda la sua intenzione.

Dico adunque che primieramente la ragione ne dimostra qui, in persona
di Minos, la severitá della divina giustizia. Intorno alla qual
dimostrazione son da considerare due cose: la prima, perché piú in
questa parte, che piú su o piú giú, questa divina giustizia ne sia
dimostrata; la seconda, perché piú in persona di Minos che dʼun altro.

Dico che, perché la divina giustizia ne sia piú qui che in alcuna altra
parte dimostrata, può essere la ragion questa: è la giustizia virtú,
la quale, secondo i meriti, retribuisce a ciascheduno; e, quantunque
questa virtú strettamente usi il suo uficio intorno agli atti degli
uomini, nondimeno sono alcune cose operate per gli uomini, delle
quali ella del tutto è schifa dʼintramettersi, estimando ottimamente
fare il suo uficio quando quelle cotali cose pospone; in quanto non
le pare quelle cotali cose, o meritorie o non meritorie che sieno,
essere state causate da alcuna ordinata volontá, o da iniquitá di
malizia, o ancora da alcuna incontenenza, se non come sono le opere
degli animali, neʼ quali non è alcuna ragione. E queste cotali
operazioni son quelle deʼ furiosi e deʼ mentacatti e deʼ fanciulli
e deglʼignoranti; percioché in quelle cose, le quali questi cotali
fanno, non è potuta cadere alcuna debita elezione, come detto è: e,
dove elezione e volontá esser non può intorno allʼadoperare, non pare
che caggia né esaminazione né giudicio della giustizia. E di sopra a
questo luogo, se ben si riguarda, non sono puniti alcuni altri, se
non questi cotali, cioè mentacatti o furiosi o fanciulli o ignoranti,
come è dimostrato; intorno aʼ quali se la giustizia non sʼinterpone,
era di soperchio e mal conveniente averla tra loro, o di sopra a
loro, dimostrata, percioché, quanto a quegli, ella sarebbe stata
oziosa; il che la virtú non patisce. Ad averla piú giú che questo
luogo dimostrata, eʼ ne seguivano altri inconvenienti. Primieramente
pare che avessero potuto deʼ peccatori, che alle piú profonde parti
dello ʼnferno doveano discendere, sí come incerti di sé, rimanersi
nelle parti dellʼinferno che state fossero superiori al luogo dove
stata fosse posta la giustizia, e cosí non sarebbono stati secondo le
colpe commesse puniti; e, oltre a ciò, se vogliam dire essa medesima
giustizia, la quale gli fa pronti a trapassare la riviera dʼAcheronte,
similmente gli farebbe pronti a discendere infino lá dove ella fosse,
ne seguirebbe che quegli, che non son degni di scendere tanto giú
quanto ella fosse, vi scenderebbero alla esaminazione e al giudicio, e
cosí sentirebbono di quelle pene che essi non hanno meritate: il che è
contro agli effetti della giustizia. E però ottimamente in questa parte
la discrive lʼautore, nella quale niuna cosa deʼ superiori sʼimpaccia;
né hanno, quelli che neʼ cerchi piú alti esser debbono, a discender
giuso; né può alcuno stare in forse di sé; né ancora, sedendo ella in
su questa entrata, può trapassare alcuno o fuggirle degli occhi, che
non gli convenga venire alla sua esaminazione.

È nondimeno da intendere la giustizia di Dio essere in ogni parte, e
per tutto distribuire secondo che ciascuno ha meritato, né bisognarle
fare alcuna esaminazione o inquisizione deʼ nostri meriti o delle
nostre colpe, come alla giustizia deʼ mortali bisogna; percioché, nel
cospetto della giustizia di Dio, non solamente tutte le nostre opere
sono presenti e conosciute da lei, ma ella ancora vede e conosce e
discerne tutti i pensieri nostri, e da che cagion nascono, né gli si
possono per alcuna industria o sagacitá occultare: ma conviensi aʼ
nostri ingegni per alcuna sensata forma dimostrare gli spirituali
effetti della divinitá e di qualunque altra spiritual cosa.

Resta a vedere perché piú in persona di Minos che dʼalcun altro
ministro infernale ne sia dimostrata questa giustizia; [e con questo
è da vedere quello che lʼautore abbia voluto sentire in ciò che egli
fa a questo Minos, col ravvolgimento della coda dimostrare i suoi
giudíci. E avanti allʼaltre cose, pare,] richeggionsi neʼ ministri
della giustizia, e massimamente in questo luogo, cose assai, ma
singularmente tre, cioè prudenza, costanza e severitá. Conviene essere
prudente al ministro della giustizia, accioché egli per la prudenza
cognosca le qualitá delle persone, nelle quali ha a vedere quello che
di ragion si convenga; percioché altrimenti è da punire un uomo di
minore condizione che abbia offeso un principe, che un principe che
abbia offeso un uomo di minor condizione. Conviensi che egli conosca la
qualitá deʼ tempi; percioché altrimenti è da punire un uomo che muova o
susciti un romore neʼ tempi della guerra, quando gli stati delle cittá
stanno sospesi, che uno che quel medesimo commetta quando le cittá sono
in pace e in tranquillitá. Conviensi che egli conosca la qualitá deʼ
luoghi; percioché altrimenti pecca chi fa un eccesso in un tempio o
in una piazza comune, che chi fa quel medesimo in alcuna parte rimota
e non molto frequentata dallʼusanza degli uomini. Conviensi, per la
prudenza, che egli sappia discernere i movimenti di quegli che peccano,
di quegli che testificano, di quegli che accusano, e tutte simili
cose; e, dove queste cose non sapesse distinguere quel cotale che a
ciò posto fosse, non potrebbe essere idoneo esecutore della giustizia.
Conviengli, oltre a questo, esser costante, accioché da quello, che
conosciuto avrá convenirsi fare, nol rimuova alcuna affezione, non
priego, non amore, non odio, non prezzo, non lusinga o cose simili a
queste; percioché, dove da alcuna o da piú di queste mosso fosse, mai
giudicare non poría giustamente, e per conseguente non sarebbe atto
ministro della giustizia. Conviengli, oltre alle dette cose, esser
severo, e massimamente lá dove è tolto luogo alla gratificazione.
Puossi infraʼ processi, che usano nelle cose giudiciali i ministri
della giustizia, per diversi ma onesti accidenti, piú allʼuna parte
che allʼaltra esser grazioso; la qual cosa nelle cose e neʼ tempi
debiti non è vizio, ma è segno dʼequitá dʼanimo nel giudicante; fuori
deʼ tempi debiti, conviene nelle esecuzioni al giudice esser severo in
servare strettamente lʼordine della ragione, e di quello per cagione
alcuna non uscire; e massimamente neʼ giudici di Dio, il quale insino
allo estremo punto della nostra vita con le braccia aperte della sua
misericordia nʼaspetta, tempo prestandoci alla gratificazione, se
prender la vogliamo: ma, poi che a quella non ci siamo voluti volgere,
e, quasi a vile avendo la sua benignitá, ci siamo lasciati morire,
essendo la sua sentenza passata «in rem iudicatam», con ogni severitá
dee qui il ministro della sua giustizia quella mandare ad esecuzione.
Le quali tre cose essere pienamente state in Minos si possono conoscere
neʼ processi delle sue operazioni, e ancora nella oppenione avuta di
lui da coloro li quali qual fosse la sua vita conobbero. Che egli
fosse prudente, si può comprendere in ciò, che egli compose le leggi
aʼ popoli suoi, e quegli, che usi erano di vivere scapestratamente,
ridusse per sua industria a vivere sotto il giogo della giustizia. Che
egli fosse constante in non muoversi per alcuna affezione da quello
che la giustizia volesse, appare nella vittoria di Teseo, avuta del
Minotauro, al quale, quantunque nemico fosse, pienamente servò ciò
che giusto uomo dovesse servare, cioè di liberar lui e la sua cittá
della servitudine, sí come promesso avea. Oltre a ciò, apparve la sua
severitá in Scilla, figliuola di Niso, re deʼ megarensi, la quale, da
disonesta concupiscenza mossa, per venire nelle braccia sue, tradí il
padre, e fecel signor di Megara e a lui se nʼandò; per la qual cosa,
quantunque ella fosse nobile femmina e giovane e bella, e avesselo
fatto signore di Megara, da niuna di queste cose mosso, lei, sí come
ucciditrice del padre, fece gittare in mare, in quella forma che si
gettano i patricidi. E cosí li suoi comandamenti, come detto è, avendo
in leggi ridotti, quegli con tanta costanza e con tanta severitá servò,
che non solamente i suoi sudditi tenea contenti e in pace, ma egli
riempiè tutta Grecia della fama della sua giustizia; per la qual cosa,
dopo la sua morte, estimarono gli uomini, neʼ loro errori, lui essere
appo lʼanime dʼinferno eletto a quel medesimo ufficio esercitare tra
loro che in questa vita traʼ suoi esercitava, sí come nella esposizione
letterale si dimostrò.

Adunque assai convenientemente pare essere per la persona di Minos
in questo luogo figurata la divina giustizia. [Ma che questa divina
giustizia dimostri per lo ravvolgimento della coda di Minos, intorno
allʼesecuzione deʼ suoi giudíci, è da vedere. Certa cosa è la coda
essere lʼultimo membro e lʼultima parte del corpo di qualunque animale,
al quale la natura lʼha conceduta; e, quantunque ella serva a piú cose
gli animali che lʼhanno, alla presente materia non intende lʼautore
altro, secondo il mio giudicio, se non la strema e ultima parte della
vita nostra, secondo la qualitá della quale si forma il giudicio della
divina giustizia: percioché, quantunque lʼuomo sia scelleratamente
vivuto, se egli nello estremo della sua vita, pentendosi delle
malfatte cose, e con buona compunzione e con puro cuore, si rivolge
alla misericordia di Dio, senza alcun dubbio è ricevuto da essa e
giudicato degno di salvazione. Il che in molti esempli nʼè dimostrato
per la divina Scrittura, e massimamente in quello ladrone, il quale
col nostro signore Iesu Cristo fu crocifisso; il quale avendo tutti i
dí suoi menati male, e come peccatore riconosciuto poco avanti allʼora
della sua morte, con contrito cuore, non dicendo altro che:—«_Miserere
mei, Domine, cum veneris in regnum tuum_»,—il fece la misericordia
di Dio degno dʼudire dalla bocca di Cristo:—«Amen _dico tibi, hodie
mecum eris in Paradiso_»:—né è dubbio alcuno che a queste parole non
seguisse lʼeffetto; e cosí solamente allʼultima parte della vita,
cioè alla sua qualitá, fu dalla giustizia divina guardato. E cosí in
contrario, essendo Giuda Scariotto stato deʼ discepoli di Cristo, e
usato con lui, e avendo la sua dottrina udita, quantunque male poi
adoperato avesse vendendolo, nondimeno disperatosi della misericordia
di Dio, e col capestro messosi a finir la vita, col fine suo di se
medesimo dettò la sentenza alla divina giustizia, per la quale fu al
profondo dello ʼnferno a perpetue pene dannato. Ciascheduno adunque con
le colpe piú gravi, con le quali eʼ muore, del luogo il quale eʼ dee in
inferno avere, è dimostratore.]

[Nota: Lez. XXII]

Appresso le cose giá dette, resta a vedere la qualitá deʼ dannati
in questo secondo cerchio, e come alla qualitá della lor colpa sia
conforme il supplicio, il quale lʼautore ne dimostra essere lor dato
dalla divina giustizia.

Sono adunque dannati in questo cerchio, come assai fu dichiarato
leggendo la lettera, i lussuriosi. Intorno al vizio deʼ quali è da
sapere che la lussuria è vizio naturale, al quale la natura incita
ciascuno animale, il quale di maschio e femmina sí procrea; e ciò fa la
natura avvedutamente, accioché, per lʼatto del coito, ciascuno animale
generi simile a sé, e cosí si continui la spezie di quello; e, se
questa sollecitudine non fosse nella natura [delle cose], assai tosto
verrebber meno i generanti, e cosí rimarrebber vacui il cielo, la terra
e ʼl mare di possessori. È vero che ellʼha in ciascun altro animale,
che nellʼuomo, posto certo modo, accioché per lo soperchio coito non
perissono i maschi, li quali da alcun freno di ragione temperati né
raffrenati sono: e questo è non patire le femmine i congiugnimenti
deʼ maschi loro se non alcuna volta lʼanno, e questa non si prolunga
in molti dí, infraʼ quali le femmine si rendono benivole e amorevoli
alli loro maschi e loro si concedono; e, questo cotal tempo finito, o
come conoscono sé aver conceputo, piú lor dimestichezza non vogliono.
Ma negli uomini non pose la natura questa legge, percioché gli conobbe
animali razionali, e, per quello, dover conoscere quello e quando
e quanto sʼappartenesse di fare a dover ben vivere. Ma mai non mi
ricorda dʼaver letto che appo coloro, li quali mondanamente vivono,
alcuno, quello che la ragione vuole in questo atto, osservasse, che una
femmina: e questa fu una donna dʼArabia, reina deʼ palmireni, chiamata
Zenobia, della qual si legge mai ad Odenato, suo marito, essersi
voluta consentire per altro che per ingenerar figliuoli; servando in
ciò questo stile, che, essendo il marito giaciuto carnalmente con lei,
piú accostare nol si lasciava infino a tanto che ella non conosceva se
conceputo aveva o no: se conosceva non aver conceputo, gli si concedeva
unʼaltra volta; se conceputo aveva, mai infino alla purificazione dopo
ʼl parto, piú non gli si concedea. Ma come la laudevol contenenza di
questa reina, o come gli uomini in questo usino il giudicio della
ragione, gli occhi nostri medesimi ce ne son testimoni: percioché dove
essi, la ragion seguitando, dovrebber quel modo a se medesimi porre, il
quale essi veggiono la natura aver posto agli animali bruti, in ciò che
possono o sanno in contrario si sforzano.

Noi leggiamo che in Roma fu un giovane chiamato Spurima, il quale,
quantunque avesse tutta la persona bella, avea oltre ad ogni altro
mortale il viso bellissimo, in tanto che poche donne erano, che
di tanta costanza fossero, che, vedendolo, non si commovessono a
disiderare i suoi abbracciamenti: della qual cosa accorgendosi egli,
per non esser cagione che alcuna casta mente la sua onestá contaminasse
con appetito men che onesto, preso un coltello, tutto il bel viso si
guastò, rendendolo non meno con le fedite diforme che formoso fatto
lʼavessono le mani graziose della natura. In veritá laudevole cosa fu
questa e da doverla con perpetua commendazione gloriare. Ma i moderni
giovani fanno tutto il contrario: i costumi deʼ quali avere alquanto
morsi, non fia loro per avventura disutile, e potrá esser piacevole
ad altrui. E, accioché io non mi stenda troppo, mi piace di lasciare
stare la sollecitudine, la qual pongono gran parte del tempo perdendo
appo il barbiere in farsi pettinare la barba, in farla a forfecchina,
in levar questo peluzzo di quindi, in rivolger quellʼaltro altrove,
in far che alcuno del tutto non occupi la bocca, e in ispecchiarsi e
azzimarsi, allecchinarsi, scrinarsi i capelli, ora in forma barbarica
lasciandogli crescere, attrecciandogli, avvolgendosegli alla testa, e
talora soluti su per gli ómeri lasciandogli svolazzare, e ora in atto
chericile raccorciandogli. E similmente ristrignersi la persona, fare
epa del petto, non in suʼ lombi, ma in su le natiche cignendosi; [come
gatti mammoni], allacciarsi anzi legarsi, e aʼ calzamenti portare le
punte lunghissime, non altrimenti che se con quelle uncinar dovessono
le donne, e trarle neʼ lor piaceri; farsi le trombe alle maniche, e
di quelle non mani, ma branche piú tosto dʼorso cacciare. Né voʼ dire
deʼ cappuccini, coʼ quali o a babbuini o a scottobrinzi simiglianti
si fanno, né similmente della lascivia degli occhi, coʼ quali quasi
sempre quel vanno tentando, che essi poi non vorrebbero aver trovato.
E lascerò stare gli atti, gli andamenti, eʼ portamenti, il cantare,
il carolare, e cosí le promesse eʼ doni, deʼ quali si può però piú
tacere che dire, sí sono in cintola divenuti stretti; e a un solo
lor costume verrò, il quale, quantunque a loro prestantissimo paia,
percioché con gli occhi offuscati di caligine infernal si riguardano,
mi par tanto detestabile, tanto abominevole, tanto vituperevole, che
non che ad altrui, ma io credo che egli dispiaccia a colui, il quale
è di tutti i mali confortatore, e che a ciò gli sospigne: e questo
è, che portano i panni sí corti, e spezialmente nel cospetto delle
donne, che qualunque fosse quella che alla barba non se ne avvedesse,
guardandogli alle parti inferiori può assai agevolmente cognoscere che
egli è maschio; e, se la cosa procede come cominciato ha, non mi par da
dover dubitare che, infra poco tempo, non si tolga ancor via quel poco
di panno lino, il qual solamente vela il color della carne, e cosí non
sará da queʼ cotali differenza alcuna daʼ bruti animali. Ingegnossi la
natura, la quale è sommamente discreta, di nascondere in quelle parti
del corpo, le quali a lei piú occulte parvero, queʼ membri dei quali
mostrandogli ciascun si dee vergognare; e, oltre a ciò, lʼuso, della
vergogna nato, ci ha dimostrato (quantunque dalla natura, secondo che
ella puote, nascosti sieno) di velargli e ricoprirgli coʼ vestimenti,
e quantunque o necessitá o usanza lʼaltre parti del corpo scoperte
patisca, quelle in alcun modo è alcuno, fuor che i presenti giovani,
che scoperte le sofferí. Glʼindiani, gli etiopi, i garamanti e gli
altri popoli, i quali sotto caldissimo cielo abitano, quantunque
da soperchio caldo sforzati sieno dʼandare ignudi, quelle parti in
alcuna guisa non sostengono che scoperte si veggano. Ma che dichʼio
glʼindiani e gli etiopi, li quali hanno in sé alcuna umanitá e costume?
Quegli popoli, li quali abitano lʼisole ritrovate (gente, si può dire,
[fuori] del circúito della terra, e nella quale né loquela, né arte,
né costume alcuno è conforme a quegli di coloro li quali civilmente
vivono), di palme, delle quali abbondanti sono, non so se io dica
tessute o annodate piu tosto, fanno ostaculi, coʼ quali quelle parti
nascondono. I naufraghi ancora, ignudi da tempestoso mare gittati neʼ
liti, quantunque faticati e percossi dallʼonde sieno, nondimeno, non
curandosi di tutto lʼaltro corpo perché ignudo sia, quella parte, se
con altro non hanno, sʼingegnano di ricoprire con le mani. I poveri
uomini, aʼ quali mancano i vestimenti, quella parte non patiscono
che rimanga scoperta. I mentacatti eʼ furiosi e gli ebbri, mentre
che alquanto di sentimento hanno, si vergognano che queʼ membri in
aperto veduti sieno. Questi soli hanno posta giú ogni erubescenza,
ogni fronte, ogni onestá, e tanto si lasciano al bestiale appetito
e aʼ conforti del nemico dellʼumana generazione sospignere, che non
altramenti col viso levato procedono che se alcuna laudevole operazione
avesser fatta o facessono.

Allegano questi cotali, in difesa del lor vituperevole costume,
ragioni vie piú vituperevoli che non è il costume medesimo, dicendo
primieramente:—Noi seguiamo lʼusanze dellʼaltre nazioni: cosí fanno
glʼinghilesi, cosí i tedeschi, cosí i franceschi eʼ provenzali.—Non
sʼavveggono i miseri quello che essi in questa loro trascutata ragion
confessino. Solevano glʼitaliani, mentre che le troppe delicatezze
non gli effeminarono, dare le leggi, le fogge eʼ costumi eʼ modi del
vivere a tutto il mondo; nella qual cosa appariva la nostra nobilitá,
la nostra preeminenza, il dominio e la potenza; dovʼeʼ segue, se
dalle nazioni strane, da quelle che furon vinte e soggiogate da noi,
da quegli che furon nostri tributari, nostri vassalli, nostri servi,
dalle nazioni barbare, dalle quali alcuna umana vita non si servava,
né sapeva, né saprebbe, se non quanto daglʼitaliani fu lor dimostrata
(il che è assai chiaro), da loro riprendendo quel che dar solevamo,
confessiamo dʼesser noi i servi, dʼesser coloro che viver non sappiamo
se da loro non apprendiamo; e cosí dʼaver loro per maggiori e per piú
nobili e per piú costumati. O miseri! non sʼaccorgono questi cotali da
quanta gran viltá dʼanimo proceda che un italiano séguiti i costumi di
cosí fatte genti.

E in veritá, se alcuna altra onestá non dovesse da questo disonesto
costume tôrre i giovani, neʼ quali è il fervor del sangue e le forze,
eʼ dovrebbe esser la grandezza dellʼanimo, se non un giusto sdegno;
non solamente rimanere se ne dovrebbono, ma vergognarsi dʼaver mai
seguitato o seguire alcun costume di cosí fatte genti, e ogni cosa
adoperare, per la quale le nazion barbare gloriar non si potessono
dʼesser nelle lor brutte invenzioni deglʼitaliani imitate.

Seguitano, oltre a questo (nelli loro errori multiplicando), e dicono
che i vestimenti lunghi glʼimpedivano e non gli lasciavano nelle
cose opportune esser destri. O stoltissimo argomento vano e dʼogni
ragionevole sentimento vòto! Cosí parlan questi cotali, come se coloro,
li quali piú lunghi portano i vestimenti, non sapessono quali e quante
sieno le faccende di questi tarpati. E, se non che troppo sarebbe
lungo il sermone, io le racconterei in parte. Ma presupognamo che pure
alquante e opportune sieno, come hanno i passati nostri fatto coʼ panni
lunghi? come i romani, li quali in continue guerre, con lʼarme in dosso
ogni dí combattendo, tutto il mondo occuparono? Non mostra che a costor
facesser noia i panni lunghi, neʼ quali erano in continovi e grandi
esercizi. Ma forse diranno questi cotali non esser di necessitá agli
uomini, gli quali sono in fatti dʼarme, lʼavere i panni corti, come a
coloro che vanno vagheggiando, o, a voler dir piú proprio, a color che
vanno facendo la mostra alle femmine che son maschi e chʼegli hanno
le natiche tonde e grosse le cosce. O dissensati! Solevansi i giovani
vergognare seco medesimi degli occulti e disonesti lor pensieri, e
oggi, per somma gloria, vanno mostrando quel che le bestie, se esse
avessono con che, volentieri nasconderieno. Ma che? Dirá forse alcun
altro che i romani similmente gli portavano corti come essi fanno. E
nel vero di questo non mi darebbe il cuore di fare assai certa pruova
per scrittura che io abbia veduta: ma, in luogo di quella, le statue di
marmo e di bronzo a quegli tempi fatte, nelli quali essi discorrevano
il mondo, e delle quali si truovano ancora assai, ne mostrano quali
fossero i loro abiti, e come corti portassono i vestimenti; e di queste
io credo assai aver vedute, né mai alcuna né armata né disarmata ne
vidi, che, o daʼ vestimenti o dallʼarmadure, non fosse almeno infino
al ginocchio coperta. Per la qual cosa essendo a costor risposto assai
manifestamente, si vede che assai mal procede lʼargomento che i panni
lunghi impediscano.

E, accioché io non discorra per tutti, non ometterò però che io
unʼaltra delle lor savie ragioni non discriva, percioché estimano
quella, che dir debbono, essere efficacissima e dovergli dʼogni loro
disonestá render pienamente scusati. Dicono adunque che le donne
mostran loro con le poppe il petto, accioché piú nella concupiscenza
di loro gli accendano; e perciò, quasi in vendetta di ciò, essi
vogliono mostrar loro quelle parti, che debbano loro a quello appetito
medesimo incitare. Sarebbe questa ragione tra le bestie assai colorata,
dove ella è abominevole traʼ sensati. Ma non pensano i miseri quanto
scelleratamente essi adoperino? Essi, questo adoperando, caccian da sé
ogni reverenza materna, mostrando di credere che le madri tengan gli
occhi chiusi, o che esse non possano dalle oscene parti deʼ figliuoli
esser mosse, come lʼaltre femmine si muovono; conciosiacosaché la
natura, movitrice degli appetiti, non abbia alcun riguardo allʼonestá
della parentela. Nel vero io non lʼardirei affermare, quantunque
giá molte volte avvenuto sia, ma ardirò ben di dire che, se ciò
non avviene, esserne la lor costanza cagione, dove del contrario è
cagione il vituperevole costume deʼ figliuoli; né discrederò che, quel
che posson muovere i disonesti figliuoli, non si convenga talvolta
terminare con gli strani uomini. Appresso questo, non sʼaccorgono i
dissipiti, dove incitar credono le femmine, le quali alla lor libidine
disiderano di tirare, quello che essi nelle sorelle, nelle cognate
e nellʼaltre congiunte adoperino; le quali, quantunque spesse volte
caggiano neʼ lacciuoli scioccamente tesi da loro, rade volte avviene
che, da questo sospinte, non saltino negli abbracciamenti dʼuomini
non pensati da coloro, che a ciò con li loro disonesti portamenti le
sospingono. Né ancora considerano quanto di mal fabbrichino nelle
tenere menti delle figliuole, le quali la giovanetta etá continuamente
sospigne a dover prendere sperienza di ciò, che loro ancora non saria
di necessitá di conoscere: di che non una volta è avvenuto che,
lasciamo stare il porre dinanzi agli occhi loro quelle parti del corpo,
le quali con ogni ingegno si dovrien tôrre deʼ pensieri, ma le parole
men che oneste deʼ non cauti padri aver loro prima strupatore che
marito trovato.

Ma, ritornando alla folle ragion di costoro, dico che, quantunque
biasimevole sia molto alle donne mostrare con le poppe il petto, non
sono perciò le poppe deʼ membri osceni e che nascondere del tutto si
deano; percioché, se di quegli fossono, non lʼavrebbe la natura poste
in cosí aperta e patente parte del corpo come è il petto, anzi si
sarebbe ingegnata dʼoccultarle, come gli altri fece. Oltre a questo,
le poppe sono aʼ sani intelletti venerabili, conciossiacosaché elle
sieno quelle, onde noi prendiamo i primi nudrimenti. Appresso, quando
i nostri primi parenti peccarono e cognobbero la ignominia loro, non
nascose la nostra prima madre questa parte del corpo, anzi, sí come
Adam, fattesi copriture di frondi di fico, nascosero e occultarono
quelle parti del corpo, le quali costoro non si vergognano di
mostrare. Né avevano i nostri parenti di cui vergognarsi se non di
Dio, che creati gli avea, e di se medesimi; dove costoro né di Dio
si vergognano, né degli uomini. [Similmente, quando i predetti di
paradiso cacciati furono, i vestimenti, che da Domeneddio furon lor
fatti, non ricopersono le parti superiori, né per nasconder quelle
fatti furon da lui, ma per ricoprire le parti inferiori, delle quali,
partita da loro per lo peccato la luce della innocenza, essi di se
medesimi si vergognavano. E però potrebbono in contrario di questa loro
scostumaggine dir le donne:—Quello, che noi vi mostriamo, non fu nella
nostra prima madre ricoperto dal vestimento che Iddio ne fece; dove
quel, che voi mostrate a noi, fu ricoperto al primo nostro padre.—]

È vero che, quantunque il costume deʼ giovani nella parte mostrata
biasimevole sia e villano, non si scusa perciò la vanitá delle
donne, le quali dʼaltra parte, non potendo nascondere il fervore
inestinguibile della lor concupiscenza, con industria e arte
sʼingegnano, in ciò chʼelle possono, di quello adoperare che possa
provocar gli uomini con appetito piú caldo a disiderare i loro
congiugnimenti. Elle si dipingono, elle sʼadornano, elle si azzimano,
e con cento varietá di fogge sé ogni giorno trasformano; ballano,
cantano, lasciviscon con gli occhi, con atti e con le parole; dove
dovrebbono con onestá la lor bellezza in parte nascondere, e rifrenare
i costumi.

Di che assai manifestamente si può raccogliere che, dove questo vizio
solo si vince fuggendolo, per esser vinti da lui i giovani e le donne
il destano, il chiamano, e, se egli non volesse venire, il tirano; non
contenti solamente aʼ portamenti, ma con gli odori arabici, con le
cortecce, con le polveri, con le radici e con liquori orientali, con
vini e con le vivande e con le morbidezze e con gli ozi e con altre
cose assai lo sforzano; mostrandosi in lor danno e in lor vergogna
assai mal grati della liberalitá dalla natura usata verso di loro. [E
cosí miseramente nella lussuria, abominevole vizio, pervegnamo, la
quale scelleratamente seguita, ne trae della mente la notizia di Dio, e
contro allʼamor del prossimo ne sospigne ad operare; togliendoci ancora
di noi medesimi e delle nostre cose la debita sollecitudine, sí come
colei il cui esercizio diminuisce il cerebro, evacua lʼossa, guasta
lo stomaco, caccia la memoria, ingrossa lʼingegno, debilita il vedere
e ogni corporal forza quasi a niente riduce. Ella è morte deʼ giovani
e amica delle femmine, madre di bugie, nemica dʼonestá, guastamento
di fede, conforto deʼ vizi, ostello di lordura, lusinghevole male e
abominazione e vituperio deʼ vecchi. Alla cui troppa licenza reprimere
Nostro Signore primieramente istituí il matrimonio, nel quale non dando
piú che una moglie ad Adam, né ad Eva piú che un marito, mostrò di
volere che uno fosse contento dʼuna e una dʼuno; il che poi nella legge
data a Moisé espressamente comandò, ogni altro umano congiugnimento
vietando. E, non bastando questo, per onestare il matrimonio e
ristrignere la presunzion nostra nel vizio, avendo giá da sé lʼonestá
publica separate da cosí fatti congiugnimenti le madri e le figliuole,
e similemente i padri eʼ figliuoli, e gli adultèri essendo stati
proibiti; da questi congiugnimenti medesimi tolsero le leggi i fratelli
e le sorelle, e poi, piú avanti stendendosi, ancora ne tolsero assai,
cioè quegli li quali o per consanguinitá o per affinitá parevano assai
propinqui, i gradi con diligente dimostrazion distinguendo; e con
queste segregando ancora le giovani vergini, e gli uomini ancora e le
femmine le quali aʼ divini servigi avessero sagrate le nostre leggi.
Dalle quali cose assai manifestamente si può comprendere, quantunque
in questa colpa caggendo per incontenenza molto sʼoffenda Iddio,
secondo la varietá delle persone divenire il peccato piú e men grave.
E perciò è da sapere esser molte le spezie di questo peccato, ma, tra
le molte, di cinque almeno farsi nelle leggi singular menzione, delle
quali accioché per ignoranza non si trasvada, credo esser utile quelle
distintamente mostrare.]

[Commettesi adunque questo vizio carnale tra soluto e soluta, e questa
spezie ha meno di colpa che alcuna altra, e chiamasi «fornicazione»;
il qual nome ella trasse dal luogo dove il piú si solea anticamente
commettere, cioè nelle fornici. «Fornice» è ogni volta murata,
quantunque, a differenza di queste, si chiamin «testudini» quelle deʼ
templi e deʼ reali palagi, e «fornici» eran chiamate propriamente
quelle le quali eran fatte a sostentamento deʼ gradi deʼ teatri; i
quali teatri, percioché la moltitudine degli uomini anticamente si
ragunava i dí solenni a vedere i giuochi, li quali in essi si faceano,
prendevano in queste fornici le femmine volgari loro stanza a dare
opera al loro disonesto servigio con quegli aʼ quali piaceva: e cosí
da quello luogo questa spezie di colpa trasse questo nome, cioè
«fornicazione».]

[Commettesi ancora questo vizio tra soluto e soluta vergine, e
questa spezie si chiama «stupro»: ed ebbe questo vocabolo origine da
«stupore», in quanto, quando prese lʼuso, non solamente in vergine si
commetteva, ma in vergine vestale: le quali vergini vestali furono
sacratissime appo i gentili, e di precipua venerazione, e massimamente
appo i romani; e però pareva uno stupore che alcun fosse di tanta
presunzione, che egli ardisse a violare una vergine vestale. Oggi è
questo nome declinato a qualunque vergine, e ancora quando questo
medesimo vizio tra persone per consanguinitá o per affinitá congiunte
si commette, percioché non meno stupore genera negli uditori aver con
questa turpitudine maculata lʼonestá del parentado che lʼavere viziata
la verginitá dʼalcuna; quantunque viziare alcuna vergine sia gravissimo
peccato, percioché le si toglie quello che mai rendere non le si può,
di che ella riceve grandissimo danno; e quanto il danno è maggiore,
tanto è maggiore la colpa, per la quale segue il danno.]

[Commettesi ancora questo peccato tra obbligato e soluta, o tra
obbligato e obbligata, o tra soluto e obbligata, e chiamasi questa
spezie «adulterio»: e venne questo nome dallʼeffetto del vizio, cioè
«_adulterium, alterius ventrem terens_»: cioè lʼadulterio è il priemere
lʼaltrui ventre; percioché in esso si prieme la possessione, la quale
non è di colui che la prieme, né similmente di colei alla quale è
premuto, ma del marito di lei.]

[Commettesi ancor questo vizio tra uomo non sacro e femmina sacra, o
tra uomo sacro e femmina sacra, o tra uomo sacro e femmina non sacra:
e deesi questo «sacro» intendere quella persona essere la quale ha
sopra sé ordine sacro, sí come sono i cherici e le monache; e chiamasi
questa spezie «incesto»: il qual nome nacque anticamente dalla cintura
di Venere, la quale è daʼ poeti chiamata «cesto». Alla qual cosa con
piú evidenza dimostrare, è da sapere che tra gli altri piú ornamenti,
che i poeti aggiungono a Venere, è una singular cintura, chiamata
«_ceston_», della quale scrive cosí Omero nella sua Iliada: «_Et a
pectoribus solvit ceston cingulum varium, ubi sibi voluptaria onmia
ordinata erant, ubi inerat amicitia atque cupido atque facundia,
blanditiae, quae furant intellectum, studiose licet scientium_», ecc.
E vogliono i poeti, conciosiacosaché a Venere paia dovere appartenere
ogni congiunzione generativa, che, quando alcuni legittime e oneste
nozze celebrano, Venere vada a questa congiunzione cinta di questa
sua cintura detta «_ceston_», a dimostrazione che quegli, li quali
per santa legge si congiungono, sieno costretti e obbligati lʼuno
allʼaltro di certe cose convenientisi al matrimonio, e massimamente
alla perpetuitá dʼesso. E, percioché Venere similmente va aʼ non
legittimi matrimoni, ovvero congiugnimenti, dicono che quando ella va
a quegli cosí fatti, ella va scinta senza portare questa sua cintura,
chiamata «_ceston_»: e quinci ogni congiunzion non legittima chiamarono
«incesto», cioè fatta senza questo _ceston_: ma questa generalitá è
stata poi ristretta a questa sola spezie, per mostrare che, quantunque
lʼaltre sieno gravi, questa sia gravissima, e che in essa fieramente
sʼoffenda Iddio, conciosiacosaché le persone a lui sacrate di cosí
vituperevole vizio maculate sieno. Alcuni a questa spezie aggiungono il
commettere questo peccato tra congiunti, il quale di sopra fu nominato
«stupro»; e per avventura non senza sentimento sʼaggiugne, percioché
questo pare male da non potere in alcun tempo con futuro matrimonio
risarcire; percioché, come la monaca sacrata mai maritar piú non
si puote, cosí traʼ congiunti può mai intervenire matrimonio, dove
nellʼaltre spezie potrebbe intervenire.]

[Commettesi ancora questo vizio, e nellʼun sesso e nellʼaltro, contro
alla natural legge esercitando, e questo è chiamato «sogdomia», da
una cittá antica chiamata Sogdoma, li cittadini della quale in ciò
dissolutissimamente viziati furono; ma, percioché questa spezie ha
molto piú di gravezza e di offesa che alcuna delle predette, non
dimostra lʼautore che in questo cerchio si punisca, anzi si punisce
troppo piú giú, come si vedrá nel canto decimoquinto del presente
libro.]

[È il vero che, quantunque in queste spezie si distingua questo vizio,
e che lʼuna meriti molto maggior pena che lʼaltra, non appare però nel
supplicio attribuito al lussurioso lʼautore punirne una piú gravemente
che unʼaltra; ma noi dobbiam credere, quantunque distinte non sieno
le pene, quella, che egli attribuisce a tutte, dovere piú amaramente
priemere coloro che piú gravemente hanno commesso.]

Ma, deducendoci, da queste piú generali dimostrazioni, a quelle che
piú particulari sono, dico che, percioché il peccato della carne è
naturale, quantunque abbominevole e dannevole sia, e cagione di molti
mali, nondimeno, per la opportunitá di quello e perché pur talvolta
se nʼaumenta la generazione umana, pare che meno che gli altri tutti
offenda Iddio; e per questo nel secondo cerchio dello ʼnferno, il quale
è piú dal centro della terra che alcun altro rimoto, e piú vicino a
Dio, vuole lʼautore questo peccato esser punito.

Lʼorigine del quale, secondo che di sopra è mostrato, par che sia
nellʼattitudine a questa colpa datane daʼ cieli; la quale parrebbe ne
dovesse da questo scusare, se data non ci fosse stata la ragione, la
quale ne dimostra quel che far dobbiamo e quel che fuggire, e, oltre a
ciò, il libero arbitrio, nel quale è podestá di seguire qual piú gli
piace. E, quantunque questa attitudine nʼabbia a rendere inchinevoli
a ricever le forme piaciute, e quelle disiderare e amare, nondimeno,
se ʼl calor naturale ed eziandio lʼaccidentale non accendessero,
e, accendendo, confortassero lʼappetito concupiscibile desto dalle
cose piaciute e inchinato dallʼattitudine, non è da dubitare che la
concupiscenza indebolirebbe e leggermente si risolverebbe, secondo che
la sentenza di Terenzio par che voglia, lá dove dice: «_Sine Cerere et
Baccho friget Venus_».

Pare adunque questo caldo, aumentativo dello scellerato appetito,
dalla divina giustizia esser punito e represso dalla frigiditá del
vento di sopra detto, dalla giustizia mandato in pena di coloro che
in questa colpa trasvanno, sí come cosa che è per la sua frigiditá
contraria al caldo, il quale conforta questo abbominevole appetito.
E che ogni vento sia freddo, assai bene si può comprendere da ciò
che generalmente ogni cosa causata suole esser simile a quella cosa
la quale la causa: e il vento è causato da nuvola frigidissima, e
perciò di sua natura sará il vento frigidissimo. Oltre a questo, e
le cose inducenti allʼatto libidinoso e la libidine, considerata la
qualitá di questo vento, oltre alla freddezza, sono ottimamente da
lui punite. Viensi a questo miserabile esercizio, avendone il fervore
impetuoso sospinti a dover dare opera al disonesto desiderio, per
molte vigilie, per molto perdimento di tempo, per molto dispendio e
per molte fatiche tutte dannose e da vituperare; le quali se alcuna
volta il disiderante conducono al pestifero effetto, non si contenta
né finisce il suo disiderio dʼaver copia di veder la cosa amata,
dʼaver copia di parlarle, dʼaver copia dʼabbracciarla e di baciarla,
se, tutti i vestimenti rimoti, con quella ignudo non si congiugne,
accioché possa ogni parte del corpo toccare, con ogni parte [essere
tócco e] strignersi, e della morbidezza di quello miseramente
consolarsi; mostrando, per questo, lʼultimo e il maggiore diletto
di cosí miserabile appetito stare nelle congiunzioni corporali,
ogni mezzo rimosso. Le quali due detestabili operazioni punisce la
divina giustizia similmente per congiunzione, ma non uniforme lʼuna
allʼaltra punisce; percioché, dove la predetta fu molto disiderata e
molto dilettevole aʼ corpi, cosí questa è odiata, e, sʼelle potesser,
fuggita dalle dannate anime. È adunque la bufera nel testo dimostrata
impetuosissima; e quanto, per venire al peccato, i pensieri del cuore
e i movimenti del corpo con fatica sʼesercitarono, cotanto nello
eterno supplicio loro gira e avvolge e trasporta; e, oltre a ciò, in
quella cosa che fu piú disiderata da loro, che maggior piacere prestò
aʼ disonesti congiugnimenti, in quella medesima dolorosamente gli
affligge, intanto che essi molto piú disiderano di mai non toccarsi,
che di toccarsi non disideraron peccando. E la cagione è manifesta,
percioché lʼimpeto di questa bufera, il quale in qua e in lá, e di
giú e di su gli [mena e] trasporta, con tanta forza lʼun nellʼaltro
riscontrandosi percuote, che il diletto da loro avuto nel congiugnersi
insieme fu niente, a comparazione della pena la quale in inferno hanno
nel riscontrarsi; e però come giá molti, vivendo, di congiugnersi
disiderarono, cosí morti e dannati disiderano senza pro di mai non
iscontrarsi. Le quali cose se bene si considereranno, assai bene si
vedrá lʼautore far corrispondersi col peccato la pena.



CANTO SESTO



I

SENSO LETTERALE


[Nota: Lez. XXIII]

«Al tornar della mente che si chiuse», ecc. Come neʼ precedenti canti
ha fatto, cosí in questo si continua lʼautore alle cose dette. Egli,
nella fine del precedente canto, mostra come, per compassione avuta di
madonna Francesca e di Polo da Rimino, cadesse, e da quel cadimento,
nel principio di questo, essere tornato in sé, e ritrovarsi nel terzo
cerchio dello ʼnferno. E fa in questo canto lʼautore cinque cose: nella
prima discrive la qualitá del luogo; nella seconda dice quello che
Cerbero demonio facesse, vedendogli, e come da Virgilio chetato fosse;
nella terza pone come trovasse un fiorentino, e che da lui sapesse
qual peccato quivi si puniva, e altre cose piú, domandandone esso
autore; nella quarta, passando piú avanti, muove lʼautore un dubbio a
Virgilio, e Virgilio gliele solve; nella quinta dimostra lʼautore dove
pervenissero. La seconda comincia quivi: «Quando ci scorse»; la terza
quivi: «Noi passavam»; la quarta quivi: «Sí trapassammo»; la quinta
quivi: «Noi aggirammo».

Discrive adunque lʼautore nella prima parte di questo canto la
qualitá del luogo, dicendo: «Al tornar della mente», mia, la quale
per compassione «si chiuse», come nella fine del precedente canto è
mostrato, «Dinanzi alla pietá deʼ due cognati», di madonna Francesca
e di Polo, «Che di tristizia tutto mi confuse»: la compassione avuta
della loro misera fortuna; «Nuovi tormenti», non quegli li quali nel
secondo cerchio aveva veduti, ma altri, li quali dice «nuovi», quanto
a sé, che mai piú veduti non gli avea; «e nuovi tormentati», altri
che quegli che di sopra avea veduti; «Mi veggio intorno come chʼio mi
muova», a destra o a sinistra, «E chʼio mi volga», in questa parte o in
quella, «e come che io mi guati».

«Io sono al terzo cerchio della piova», la qual piova è «Eterna», non
vien mai meno; «maladetta», in quanto è mandata dalla divina giustizia
per perpetuo supplicio di coloro aʼ quali addosso cade; «fredda», e
per tanto è piú noiosa; «e greve», cioè ponderosa, per piú affliggere
coloro aʼ quali addosso cade: «Regola e qualitá mai non lʼè nuova»,
sempre cade dʼun modo. E poi discrive qual sia la qualitá di questa
piova, dicendo: «Grandine grossa, ed acqua tinta e neve». Come che
queste tre cose, causate daʼ vapori caldi e umidi e da aere freddo,
nellʼaere si generino, nondimeno per effetto della divina giustizia
in quello luogo caggiono, in tormento e in pena di quegli che in
questo terzo cerchio puniti sono; e però dice: «Per lʼaer tenebroso
si riversa»; e, oltre a ciò, «Pute la terra che questo riceve», cioè
queste tre cose.

«Cerbero, fiera crudele e diversa». Fingono i poeti questo Cerbero
essere stato un cane ferocissimo, il quale essendo di Plutone, Iddio
dello ʼnferno, dicevano Plutone lui aver posto alla porta dello
ʼnferno, accioché quindi alcuno uscir non lasciasse, come che lʼautore
qui il ponga a tormentare i peccatori che in questo terzo cerchio
sono, discrivendo la qualitá della forma sua dicendo: «Con tre gole»,
percioché tre capi avea, «caninamente latra»; e in questo atto dimostra
lui essere cane, come i poeti il discrivono; «Sopra la gente, che
quivi è sommersa» sotto la grandine e lʼacqua e la neve. «Gli occhi ha
vermigli», questo Cerbero, «e la barba unta ed atra», cioè nera. «E ʼl
ventre largo», da poter, mangiando, assai cose riporre, «e unghiate
le mani», per poter prendere e arrappare: «Graffia gli spiriti», con
quelle unghie, «e ingoia», divorandogli, «ed isquatra», graffiandogli.

«Urlar»; questo è proprio deʼ lupi, comeché eʼ cani ancora urlino
spesso; «gli fa la pioggia», la qual continuamente cade loro addosso,
«come cani. Dellʼun deʼ lati fanno allʼaltro schermo», questi spiriti
dannati: «Volgonsi spesso», mostrando in questo che gravemente gli
offenda la pioggia; e perciò, come alquanto hanno dallʼun lato
ricevutala, cosí si volgon dallʼaltro, infino a tanto che alcun
mitigamento prendano in quella parte che offesa è stata dalla pioggia,
«i miseri profani».

«Profano» propriamente si chiama quello luogo il quale alcuna volta fu
sacro, poi è ridotto allʼuso comune dʼogni uomo, sí come alcun luogo,
nel quale giá è stata alcuna chiesa o tempio, la qual mentre vi fu, fu
sacro luogo, poi per alcuno acconcio [comune], trasmutata la chiesa in
altra parte, e il luogo rimaso comune, chiamasi «profano»; cosí si può
dire, degli spiriti dannati, essere stati alcuna volta sacri, mentre
seguirono la via della veritá, percioché, mentre questo fecero, era
con loro la grazia dello Spirito santo; ma, poi che, abbandonata la
via della veritá, seguirono le malvagitá e le nequizie, per le quali
dannati sono, partita da loro la grazia dello Spirito santo, sono
rimasi profani.

«Quando ci scòrse». Comincia qui la seconda parte del presente canto,
nella quale, sí come neʼ superiori cerchi è addivenuto allʼautore
dʼessere stato con alcuna parola spaventato daʼ diavoli presidenti aʼ
cerchi, neʼ quali disceso è, cosí qui similmente mostra Cerbero averlo
voluto spaventare. E questo, con quello atto generalmente soglion
fare i cani, quando uomo o altro animale vogliono spaventare: innanzi
ad ogni altra cosa gli mostrano i denti. Il che aver fatto Cerbero
verso Virgilio e verso lui dimostra qui lʼautore, dicendo: «Quando ci
scòrse», cioè ci vide venire, «Cerbero, il gran vermo» (pone lʼautore
questo nome a Cerbero di «vermo» dal luogo ove il trova, cioè sotterra,
percioché i piú di quegli animali, li quali sotterra stanno, sono
chiamati «vermini»), «Le bocche», per ciò dice le bocche, perché tre
bocche avea questo Cerbero, come di sopra è dimostrato; «aperse, e
mostrocci le sanne», cioè i denti: «Non avea membro che tenesse fermo».
Il che può avvenire da impetuoso desiderio di nuocere e da altro.

«E ʼl duca mio», veduto quello che Cerbero faceva, «distese le sue
spanne», cioè aperse le sue mani, a guisa che fa colui che alcuna cosa
con la grandezza della mano misura, «Prese la terra, e con piene le
pugna»; come la mano aperta si chiama «spanna», cosí chiusa, «pugno»;
«La gittò dentro alle bramose canne»; dice «canne», percioché eran tre,
come di sopra è mostrato.

E appresso questo, per una comparazione ottimamente convenientesi al
comparato, dimostra quel dimonio essersi acquetato, e dice: «Qual
è quel cane chʼabbaiando», cioè latrando, «agogna». «Agognare» è
propriamente quel disiderare il quale alcun dimostra veggendo ad alcuno
altro mangiare alcuna cosa; quantunque sʼusi in qualunque cosa lʼuom
vede con aspettazione disiderare; ed è questo atto proprio di cani, li
quali davanti altrui stanno quando altri mangia. «E si racqueta», sanza
piú abbaiare, «poi che ʼl pasto morde», cioè quello che gittato gli è
da mangiare, «Che solo a divorarlo intende e pugna; Cotai si fecer»,
cioè cosí quiete, «quelle facce lorde», brutte di Cerbero, che eran
tre, «Dello demonio Cerbero, che introna», latrando, «Lʼanime», in quel
cerchio dannate, «sí, chʼesser vorrebber sorde», accioché udire nol
potessero. Questo luogo è tutto preso da Virgilio, di lá dove egli nel
sesto dellʼ_Eneida_ scrive:

  _Cerberus haec ingens la tratu regna trifauci
  personat, adverso recubans immanis in antro.
  Cui vates, horrere videns iam colla colubris,
  melle soporatam et medicalis frugibus offam
  obiicit: ille fame rabida tria guttura pandens,
  corripit obiectam, atque immania terga resolvit
  fusus humi, totoque ingens extenditur antro,_ ecc.

«Noi passavam». Qui comincia la terza parte di questo canto, nella
quale lʼautore truova un fiorentino, il quale gli dice qual peccato
in questo terzo cerchio si punisca: e, oltre a ciò, dʼalcune cose
addomandato da lui, il dichiara. Dice adunque: «Noi passavam», Virgilio
ed io, «su per lʼombre chʼadona», cioè prieme e macera, «La grave
pioggia», la quale in quel luogo era, come di sopra è mostrato, «e
ponevam le piante», deʼ piedi, «Sopra lor vanitá, che par persona».

Altra volta è detto gli spiriti non avere corpo, ed essere agli
occhi nostri invisibili, ma in questa opera tutti li mostra lʼautore
essere corporei, imitando Virgilio, il quale nel sesto dellʼ_Eneida_
fa il simigliante; e questo fa, accioché piú leggiermente inteso
sia, figurando essere corporee le cose che incorporee sono e i loro
supplici: la qual cosa non si potrebbe far tanto che bastevole fosse,
se questa maniera non tenesse. Nondimeno mostra che, quantunque in
apparenza corpi paiano, non essere in esistenza, dicendo lor «vanitá,
che par persona» e non è: il che come addivenga, pienamente si mostrerá
nel canto venticinquesimo del _Purgatorio_, dove questa materia si
tratta.

«Elle», cioè quellʼanime, «giacean per terra tutte quante, Fuor dʼuna,
chʼa seder si levò», sí che appare che anche questa una giaceva come
lʼaltre, «ratto», cioè tosto, «Chʼella ci vide passarsi davante».

E disse cosí:—«O tu, che seʼ per questo inferno tratto»,—cioè menato,
«Mi disse,—riconoscimi, se sai»; quasi volesse dire:—Guatami, e
vedi se tu mi riconosci, percioché tu mi dovresti riconoscere;—e la
ragione è questa, che—«Tu fosti prima fatto», cioè creato e nato,
«chʼio disfatto»,—cioè che io morissi, percioché, nella morte, questa
composizione, che noi chiamiamo «uomo», si disfá per lo partimento
dellʼanima; e cosí né ella che se ne va, né ʼl corpo che rimane, è piú
uomo. E veramente nacque lʼautore molti anni avanti che costui morisse,
e fu suo dimestico, quantunque di costumi fossono strani.

«Ed io a lei», cioè a quella anima:—«Lʼangoscia, che tu hai», dal
tormento nel quale tu seʼ, «Forse» è la cagione la quale «ti tira fuor
della mia mente», cioè del mio ricordo; e tiratane fuor «Sí, che non
par chʼio ti vedessi mai. Ma», poiché io non me ne ricordo, «dimmi
chi tu seʼ, che ʼn sí dolente Luogo seʼ messo», come questo è, «e a sí
fatta pena», come è questa, la quale è tale, «Che sʼaltra è maggia»,
cioè maggiore, «nulla è sí spiacente».—

«Ed egli a me», rispuose cosí:—«La tua cittá», cioè Firenze, della
qual tu seʼ, «chʼè piena Dʼinvidia», ed énne piena «sí, che giá
trabocca il sacco»; quasi voglia dire: ella nʼè sí piena, che ella
non la può dentro a sé tenere, per la gran quantitá conviene che si
versi di fuori, cioè si pervenga agli effetti, li quali dalla invidia
procedono. E questo dice costui, percioché, tra lʼaltre invidie che in
Firenze erano, ve nʼera una, la quale gittò molto danno alla cittá, e
massimamente a quella parte alla quale era portata; e questa era la
ʼnvidia, la quale portava la famiglia deʼ Donati alla famiglia deʼ
Cerchi; percioché dove i Donati erano delle sustanze temporali anzi
disagiati gentiliuomini che no, vedendosi tutto dí davanti, sí come
vicini in cittá e in contado, la famiglia deʼ Cerchi, li quali in quei
tempi erano mercatanti grandissimi, e tutti ricchi e morbidi e vezzosi,
e, oltre a ciò, nel reggimento della cittá e nello stato potentissimi,
avevano e alle ricchezze e allo stato loro invidia; e aveanne tanta
che, comʼè detto, non potendola dentro piú tenere, non molto poi con
dolorosi effetti la versaron fuori. «Seco mi tenne», sí come cittadino,
«in la vita serena», cioè in questa vita mortale, la quale chiama
«serena», cioè chiara, per rispetto a quella nella quale dannato
dimorava.

[Nota: Lez. XXIV]

«Voi cittadini», di Firenze, «mi chiamaste Ciacco». Fu costui uomo non
del tutto di corte; ma, percioché poco avea da spendere, ed erasi, come
egli stesso dice, dato del tutto al vizio della gola, [era morditore
di parole, e] le sue usanze erano sempre coʼ gentiliuomini e ricchi, e
massimamente con quegli che splendidamente e delicatamente mangiavano e
beveano, daʼ quali se chiamato era a mangiare, vʼandava, e similmente
se invitato non era, esso medesimo sʼinvitava. Ed era per questo
vizio notissimo uomo a tutti i fiorentini; senza che, fuor di questo,
egli era costumato uomo, secondo la sua condizione, ed eloquente e
affabile e di buon sentimento; per le quali cose era assai volentieri
da qualunque gentileuomo ricevuto. «Per la dannosa colpa della gola,
Come tu vedi, alla pioggia mi fiacco»; cioè in questo tormento mi
rompo. Pioveva quivi, come di sopra è detto, grandine grossa, la quale,
agramente percotendogli, tutti gli rompea; e dice che ciò gli avvenia
«per la dannosa colpa della gola», nelle quali parole manifesta qual
vizio in questo terzo cerchio dellʼinferno sia punito, che ancora per
infino a qui apparito non era, chiamando il vizio della gola «dannosa
colpa»: e questo non senza cagione, percioché dannosissimo vizio è, sí
come piú distesamente si mostrerá appresso nella esposizione allegorica.

«Ed io anima trista»; e veramente è trista lʼanima di chi a sí fatta
perdizion viene, «non son sola»; quasi voglia dire, non vorreʼ che tu
credessi che io solo fossi nel mondo stato ghiotto, perciò «Che tutte
queste», le quali tu vedi in questo luogo dintorno a me, «a simil pena
stanno», che fo io, e «Per simil colpa»—cioè per lo vizio della gola:
«e», detto questo, «piú non feʼ parola».

«Io gli risposi», cioè gli dissi:—«Ciacco, il tuo affanno», il quale
tu sostieni per la dannosa colpa della gola, «Mi pesa sí», cioè tanto,
«chʼa lagrimar mʼinvita»: e mostra qui lʼautore dʼaver compassione di
lui, accioché egli sel faccia benivolo a dovergli rispondere di ciò
che intende di domandare. E nondimeno, quantunque dica «a lacrimar
mʼinvita», non dice perciò che lacrimasse; volendo, per questo,
mostrarne lui non essere stato di questo vizio maculato, ma pure
alcuna volta essere stato da lui per appetito incitato, e perciò non
pena, ma alcuna compassione in rimorsione del suo non pieno peccato ne
dimostra. E però segue: «Ma dimmi, se tu sai, a che», fine, «verranno
i cittadin», cioè i fiorentini, «della cittá partita»; peroché in
queʼ tempi Firenze era tutta divisa in due sètte, delle quali lʼuna
si chiamavano Bianchi e lʼaltra Neri; ed era caporale della setta deʼ
Bianchi messer Vieri deʼ Cerchi, e di quella deʼ Neri messer Corso
Donati; ed era questa maladizione venuta da Pistoia, dove nata era
in una medesima famiglia chiamata Cancellieri: e dimmi «Sʼalcun vʼè
giusto», nella cittá partita, il quale riguardi al ben comune e non
alla singularitá dʼalcuna setta; «e dimmi la cagione, Perché lʼha tanta
discordia assalita».—Domandalo adunque lʼautore di tre cose, alle
quali Ciacco secondo lʼordine della domanda successivamente risponde.

«Ed egli a me» (_supple_) rispose alla prima:—«Dopo lunga tencione»,
cioè dopo lunga riotta di parole, «Verranno al sangue», cioè
fedirannosi e ucciderannosi insieme.

Il che poco appresso addivenne: percioché, andando per la terra alcuni
delle dette sètte, tutti andavano bene accompagnati e a riguardo, e
cosí avvenne che, la sera di calendimaggio milletrecento, faccendosi
in su la piazza di Santa Trinitá un gran ballo di donne, che giovani
dellʼuna setta e dellʼaltra a cavallo e bene in concio sopravvennero
a questo ballo; e quivi primieramente cominciarono lʼuna parte a
sospignere lʼaltra, e da questo vennero a sconce parole, e ultimamente,
cominciatavisi una gran zuffa tra loro e lor seguaci e, dalle mani
venuti aʼ ferri, molti vi furono fediti, e tra gli altri fu fedito
Ricovero di messer Ricovero dei Cerchi, e fugli tagliato il naso,
di che tutta la cittá fu sommossa ad arme. E non finí in questo il
malvagio cominciamento, percioché in questo medesimo anno in simili
riscontri pervenuti, sanguinosamente si combatterono le dette sètte.

«E la parte selvaggia», cioè la Bianca, la quale chiama «selvaggia»,
percioché messer Vieri deʼ Cerchi, il quale era, come detto è, capo
della parte Bianca, eʼ suoi consorti, erano tutti ricchi e agiati
uomini, e per questo erano non solamente superbi e alti eri, ma egli
erano salvatichetti intorno aʼ costumi cittadineschi, percioché non
erano accostanti allʼusanze degli uomini, né gli careggiavano, come per
avventura faceva la parte avversa, la quale era piú povera: «Caccerá
lʼaltra» parte. Né si vuole intendere qui che di Firenze cacciasse la
parte Bianca la Nera, come che alcuni ne fosser mandati dal Comune in
esilio, perché non avean di che pagare le condannagioni dagli uficiali
del Comune fatte per li loro eccessi; ma intende lʼautor qui che la
parte selvaggia, cioè Bianca, caccerá la parte Nera del reggimento
dello stato del Comune, come essi fecero; e ciò avvenne, «con molta
offensione», in quanto, oltre agli altri mali e oppressioni ricevute
daʼ Neri, furono le condannagioni pecuniarie grandissime, tanto piú
gravi aʼ Neri che aʼ Bianchi, quanto aveano meno da pagare, perché
poveri erano per rispetto deʼ Bianchi.

«Poi appresso», cioè dopo tutto questo, «convien che questa», parte
selvaggia, «caggia», dello stato e della maggioranza: e questo avverrá,
«Infra tre soli», cioè infra lo spazio di tre anni; percioché il sole
circuisce tutto il zodiaco in trecentosessantacinque dí e un quarto,
li quali noi chiamiamo «uno anno»: e questo medesimo spazio di tempo
alcuna volta si chiama «un sole», cioè il circuito intero dʼun sole. E
dice «infra tre soli», percioché non si compiè il terzo circuito del
sole, che quello addivenne che egli qui vuol mostrare di profetezzare,
il che appare esser vero; percioché, vedendosi i Neri opprimer dalla
parte Bianca, nʼandò messer Corso Donati in corte di Roma a papa
Bonifazio ottavo, e con piú altri suoi aderenti pregarono il papa gli
piacesse di muovere alcuno deʼ reali di Francia, il quale venisse a
Firenze a doverla racconciare, poiché per messer Matteo dʼAcquasparta
cardinale e legato di papa non sʼera potuta racconciare, non volendo
i Bianchi ubbidire al detto legato. Per li prieghi deʼ quali, non
avendo il papa potuto pacificare messer Vieri con messer Corso, per
la superbia di messer Vieri; il papa mandò in Francia al re Filippo,
il quale ad istanza del detto papa mandò di qua messer Carlo di
Valois, suo fratello, il quale sotto nome di paciaro il papa mandò a
Firenze: e furono tali lʼopere sue, che, aʼ dí 4 dʼaprile 1302, tutti
i caporali di parte Bianca richiesti da messer Carlo per un trattato
il quale dovean tenere, contro al detto messer Carlo non comparirono,
anzi si partiron di Firenze: di che poi come ribelli condennati furono
da messer Carlo; e cosí il reggimento della cittá rimase tutto nella
parte Nera. Appare dunque, come Ciacco pronostica, la parte selvaggia
infra tre soli esser caduta e lʼaltra sormontata. [Nondimeno chi
questa istoria vuole pienamente sapere, legga la _Cronica_ di Giovanni
Villani, percioché in essa distesamente si pone.]

Séguita poi: «e che lʼaltra sormonti», cioè la parte Nera, la quale
sormontò, come mostrato è di sopra, «Per la forza di tal, che testé
piaggia». Dicesi appo i fiorentini colui «piaggiare», il quale mostra
di voler quello che egli non vuole, o di che egli non si cura che
avvenga: la qual cosa vogliono alcuni in questa discordia deʼ Bianchi
e deʼ Neri di Firenze aver fatta papa Bonifazio, cioè dʼaver mostrata
igual tenerezza di ciascuna delle parti e, per dovergli porre in pace,
avervi mandato il cardinal dʼAcquasparta, e poi messer Carlo di Valois:
ma ciò non essere stato vero, percioché lʼanimo tutto gli pendeva alla
parte Nera; e questo era per la obbedienza mostrata in queste cose
da messer Corso, dove messer Vieri era stato salvatico e duro: e per
questo, sí come egli volle e occultamente adoperò, furono da messer
Carlo tenuti i modi, li quali egli in queste cose tenne, come di sopra
appare: e perciò lʼautore dice essere stata depressa la parte Bianca ed
elevata la Nera, con la forza di tale, il quale in quel tempo, cioè nel
1300, piaggiava.

«Alte terrá», nel reggimento e nello stato, «lungo tempo le fronti»,
il quale «lungo tempo» non è ancora venuto meno, «Tenendo lʼaltra»,
parte cacciata, «sotto gravi pesi», sí come lo stare fuori di casa sua
in esilio, «Come che di ciò» che io predico, «pianga, e che nʼadonti»,
cioè tu Dante. Il quale, sí come altra volta è stato detto, fu della
parte Bianca, e con quella fu cacciato di Firenze, né mai poi vi
ritornò, e perciò ne piagnea, cioè se ne dolea, e adontavane, come
coloro fanno alli quali pare ricever torto.

«Giusti son due». Qui risponde Ciacco alla seconda domanda fatta
dallʼautore dove di sopra disse «sʼalcun vʼè giusto»: e dice che, intra
tanta moltitudine, vʼha due che son giusti. Quali questi due si sieno,
sarebbe grave lo ʼndovinare; nondimeno sono alcuni li quali, donde
che egli sel traggano, che voglion dire essere stato lʼuno lʼautor
medesimo, e lʼaltro Guido Cavalcanti, il quale era dʼuna medesima
setta con lui. «Ma non vi sono intesi», cioè non è alcun lor consiglio
creduto.

«Superbia, invidia ed avarizia sono Le tre faville cʼhanno i cuori
accesi».—Qui risponde Ciacco alla terza domanda fatta dallʼautore
di sopra, dove dice: «dimmi la cagione, Perché lʼha tanta discordia
assalita». E dice che tre vizi sono cagione della discordia: cioè
superbia, la quale era grande in messer Vieri e neʼ consorti suoi, per
le ricchezze e per lo stato il quale avevano; e per questo essendo male
accostevoli aʼ cittadini, e dispiacendone molto, in parte si generò
la discordia. Il secondo vizio e cagione della discordia dice essere
stata invidia, la quale sente lʼautore essere stata nella parte di
messer Corso, il quale a rispetto di messer Vieri era povero cavaliere,
ed era grande spenditore; per che veggendo sé povero e messer Vieri
ricco, gli portava invidia, come suole avvenire; ché sempre alle cose,
le quali piú felici sono stimate, è portata invidia. [E, oltre a ciò,
vʼera la preeminenza dello stato, al quale generalmente tutti coloro,
che in istato non si vedevano, portavano invidia: dalla quale invidia,
stimolante coloro li quali ella ardeva, furono aguzzati glʼingegni
e sospinti a trovar delle vie e deʼ modi, per li quali la discordia
sʼavanzò, e poi ne seguí quello chʼè mostrato.] Il terzo vizio dice
essere lʼavarizia, la quale consiste in tenere piú stretto che non si
conviene quello che lʼuom possiede, e in disiderare piú che non bisogna
altrui dʼavere; e cosí può essere stata, e nellʼuna parte e nellʼaltra,
cagione di discordia: nellʼuna, cioè nella Bianca, della quale erano
caporali i Cerchi, li quali erano tutti ricchi, e se per avventura
corteseggiato avessero coʼ lor vicini, come non faceano, non sarebbon
nate delle riotte che nacquero; e cosí nella parte Nera, se stati
fossero contenti a quello che loro era di bisogno, non avrebbon portata
invidia aʼ piú ricchi di loro, né disiderata la discordia, per potere
per quella pervenire ad occupare quello che loro non era di necessitá;
il che poi, rubando e scacciando, mostrarono nella partita deʼ loro
avversari. E cosí questi tre vizi sono le tre faville che hanno accesi
i cuori a discordia e a male adoperare.

«Qui pose fine», Ciacco, «al lacrimabil suono», cioè ragionamento;
e chiamalo «lacrimabile», percioché a molti fu dolorosissimo, e
cagione di povertá e di miseria e di pianto, e tra gli altri allʼautor
medesimo, il quale cadde dallo stato, nel quale era, in perpetuo
esilio. [Muovono alcuni in questa parte un dubbio, e dicon cosí,
che, conciosiacosaché singular grazia di Dio sia il prevedere le cose
future, e i dannati del tutto la divina grazia aver perduta, non pare
che convenientemente qui lʼautore induca lʼanima di Ciacco dannata a
dover predire le cose, le quali scrive gli predisse. Alla soluzione
del qual dubbio par che si possa cosí rispondere: esser vero alcuna
cosa non potersi fare che buona sia, senza la grazia di Dio, la qual
veramente i dannati hanno perduta; ma nondimeno concede Domeneddio
ad alcune delle sue creature nella loro creazione certe grazie, le
quali esso non toglie loro, quantunque queste creature, create da lui
buone, poi diventino perverse. Percioché noi possiam manifestamente
conoscere che, quantunque gli angeli, li quali per la loro superbia
furon cacciati di paradiso, quantunque da lui della beatitudine privati
fossero, non furon però privati della scienza, la quale nella loro
creazione avea loro conceduta; o vero che questa non fu lor lasciata
in alcuno lor bene, anzi in pena e in supplicio, percioché quanto
piú sanno, tanto piú conoscono la gloria la quale per loro difetto
perduta hanno, e per conseguente maggiore. supplicio sentono. E cosí
similemente crea Nostro Signore lʼanime nostre perfette e simiglianti a
sé; e, quantunque esse per le loro malvage operazioni perdano il poter
salire aʼ beni di vita eterna, non perdono perciò quelle dote che nella
lor creazione furono lor concedute da Dio, quantunque in danno di loro
siano lor lasciate da Dio. E le dote, le quali noi riceviamo da Dio,
sono molte, percioché esso ne dona la ragione, la volontá, il libero
arbitrio, e dánne la memoria, lʼeternitá e lo ʼntelletto, e in queste
cose ne fa simili a sé: le quali cose, quantunque nella sua ira moiamo,
in parte ne rimangono; tra le quali è quella parte della sua divinitá,
la quale conceduta nʼha. E se questa rimane aʼ dannati, meritamente
delle cose future si possono addomandare, ed essi ne posson rispondere:
per che non pare che lʼautore inconvenientemente abbia del futuro
addomandata lʼanima dannata. Ma che le predette dote ne sien concedute,
pare che si provi per la divina Scrittura, nella quale si legge quasi
nel principio del Genesi: «Dixit Deus:—Faciamus _hominem ad imaginem
et similitudinem nostram_».—E se fece egli questo, che il fece, dunque
abbiam noi le cose predette.]

[È il vero che queste cose furon concedute allʼanima e non al corpo,
percioché il corpo nostro non ha similitudine alcuna con Domeneddio:
percioché Domeneddio, come altra volta è detto, non ha né mani né piedi
né alcuna altra cosa corporea, quantunque la divina Scrittura questi
membri gli attribuisca, accioché i nostri ingegni da dimostrata forma
possan comprendere i misteri, che sotto questa forma la Scrittura
intende. Furono adunque concedute allʼanima, la quale esso per ciò
chiamò «uomo», perché ella è quella cosa per la quale è lʼuomo, mentre
ella sta congiunta col corpo. E di questi cosí magnifichi doni, come
che tutti gli eserciti lʼanima mentre viviamo, nondimeno alcuni
nʼesercita dopo la morte del corpo, come detto è: ma che la divinitá ne
sia conceduta, e che ella nelle nostre anime sia, in certe cose appare
vivendo noi, quantunque, essendo oppressa da questa gravitá del corpo,
rade volte e con difficultá le intervenga il potere sé esser divina
mostrare; nondimeno il dimostra talvolta dormendo, il corpo sobrio e
ben disposto e soluto dalle cure corporali, sí come Tullio ne dimostra
_in libro De divinatione_, in quanto, quasi alleviata neʼ sogni, ne
dimostra le cose future. Qual piú certa dimostrazione avrebbe alcuna
viva voce fatta a Simonide poeta, volente dʼuna parte in unʼaltra
navicare, che in sua salute gli fece la divinitá della sua anima nel
sonno vedere? Aveva il dí davanti Simonide seppellito un corpo, il
quale gittato dal mare in su il lito aveva trovato, la cui effigie gli
parve, dormendo, vedere, e udire da lui:—Simonide, non salire sopra
la nave, su la quale tu ti disponi dʼandare, percioché ella perirá con
quegli che su vi fieno in questo viaggio.—Per la qual cosa Simonide
sʼastenne; né molti dí passarono, che con certezza gli fu recitato
quella nave esser perita. Non fu similemente non una volta, ma due,
dimostrato nel sonno ad Astiage che ʼl figliuolo, il quale di Mandane,
sua unica figliuola, nascerebbe, il priverebbe dello imperio dʼAsia?
parendogli la prima volta che lʼorina della figliuola allagasse tutta
Asia, e la seconda che dalla parte genitale della figliuola usciva
una vite, i palmiti e le frondi della quale adombravan tutta Asia. E
di queste dimostrazioni si potrebbon narrare infinite, le quali per
certo, senza divino lume, né potrebbe conoscer lʼanima, né le potrebbe
mostrare. Similmente ancora, secondo che dice Tullio nel preallegato
libro, mostra lʼanima molto della sua divinitá, quando gravissimamente
infermi e debilitati siamo; percioché, quanto piú è il corpo debole,
piú pare che sia il vigor dellʼanima, e massimamente in quanto, per
lʼessere le forze corporali diminuite, non pare che possano gravar
lʼanima, come quando intere sono. E che lʼanima mostri la sua divinitá
vicina alla fine della vita del corpo, sʼè assai volte, non dormendo,
ma vegghiando veduto: e sí come esso Tullio recita sé da Possidonio,
famoso filosofo, avere avuto, che uno chiamato Modio, morendo, aver
nominato sei suoi equali amici, li quali disse dovere appresso di sé
morire, esprimendo qual primo e qual secondo e qual terzo, e cosí degli
altri; e ciò poi essere ordinatamente avvenuto. E un altro chiamato
Calano dʼIndia, essendo salito, nella presenza dʼAlessandro, re di
Macedonia, per morir volontariamente sopra il rogo, il quale prima avea
fatto, e domandandolo Alessandro se egli volesse che esso alcuna cosa
facesse, gli rispose:—Io ti vedrò di qui a pochi dí;—e quindi, fatto
accendere il rogo, si mori. Non istette guari che Alessandro morí in
Babillonia. E, se io ho il vero inteso, percioché in queʼ tempi io non
era, io odo che in questa cittá avvenne a molti nellʼanno pestifero
del milletrecentoquarantotto che, essendo soprapresi gli uomini dalla
peste e vicini alla morte, ne furon piú e piú, li quali deʼ loro
amici, chi uno e chi due e chi piú ne chiamò, dicendo:—vienne, tale e
tale,—deʼ quali chiamati e nominati, assai, secondo lʼordine tenuto
dal chiamatore, sʼeran morti e andatine appresso al chiamatore. Per
la qual cosa assai appare nellʼanime nostre essere alcuna divinitá, e
quella essere molto noiata da glʼimpedimenti corporali, e nondimeno,
come detto è, pur talvolta in alcuno atto mostrarla; e però, se questo
avviene essendo esse neʼ corpi legate, che dobbiam noi estimare che
esse debbano intorno a questa lor divinitá dover potere adoperare,
quando del tutto daʼ corpi libere sono? Eʼ non è dubbio che molto piú
la debban poter dimostrare. E perciò non pare inconveniente lʼautore
aver domandata lʼanima dannata, come altra volta è stato detto, delle
cose future, né essa averne risposto; come coloro, che il dubbio
moveano, volevan mostrare.]

[È il vero che il credere che alcuna anima dannata usasse questa sua
divinitá in alcuna sua consolazione, credo sarebbe contro alla veritá;
ma dobbiam credere che, se per virtú di questa divinitá essa prevede
alcuna felicitá dʼalcuno, questo essere ad accrescimento della sua
miseria, e cosí il prevedere glʼinfortuni, li quali afflizione e noia
gli debbono aggiugnere.]

«Ed io a lui», cioè a Ciacco, dissi:—«Ancor», oltre a ciò che detto
mʼhai, «voʼ che mʼinsegni», cioè dimostri, «E che di piú parlar mi
facci dono», dicendomi: «Farinata» degli Uberti «e ʼl Tegghiaio»,
Aldobrandi, «che fûr sí degni» dʼonore, quanto è al giudicio deʼ
volgari, li quali sempre secondo lʼapparenza delle cose esteriori
giudicano, senza guardare quello onde si muovono o che importino;
«Iacopo Rusticucci, Arrigo», Giandonati, «il Mosca», deʼ Lamberti.

Furono, questi, cinque onorevoli e famosi cavalieri e cittadini
di Firenze; e, perché i loro nomi paion degni di fama, di loro in
singularitá domanda lʼautore, dimostrando poi in generalitá degli altri.

«E gli altri», nostri cittadini, «che ʼn ben far», corteseggiando e
onorando altrui, non a ben fare secondo Iddio, «poser glʼingegni», cioè
ogni loro avvedimento e sollecitudine, «Dimmi», se tu il sai, «ove
sono», se son qui con teco o se sono in altra parte, «e faʼ chʼio gli
conosca»; quasi voglia dire: io non gli riconoscerei veggendogli, se
non come io non riconosceva te, tanto il brutto tormento, nel quale
seʼ, gli dee aver trasformati; «Ché gran disio mi strigne di sapere
Se ʼl ciel gli addolcia», cioè con dolcezza consola, «o lʼinferno gli
attosca»,—cioè riempie dʼamaritudine e di tormento.

«E quegli» (_supple_) rispose:—«Ei son», coloro deʼ quali tu domandi,
«tra lʼanime piú nere».

Creò Domeneddio Lucifero, splendido, chiaro e bello piú che altra
creatura, ma egli, per superbia peccando, divenne oscuro e tenebroso;
e cosí, producendo noi puri e perfetti, infino a tanto che noi non
pecchiamo, nella chiaritá della puritá dimoriamo; ma, tantosto che
noi pecchiamo, incomincia, partitasi la puritá, quella chiaritá,
che avevamo, a divenire oscura, e quanto piú pecchiamo, in maggiore
oscuritá divegnamo. E quinci dice Ciacco, coloro, deʼ quali lʼautore
domanda, essere tra «lʼanime piú nere», cioè piú oscure, e soggiugne
la cagione dicendo: «Diverse colpe giú gli grava al fondo». E dice
«diverse colpe», percioché per lo disonesto peccato della sogdomia
Tegghiaio Aldobrandi e lacopo Rusticucci son puniti dentro alla cittá
di Dite nel canto decimosesto di questo libro; Farinata per eresia nel
decimo canto; e ʼl Mosca, perché fu scismatico, nel canto ventottesimo.
I quali peccati, perché sono piú gravi assai, come si dimostrerá,
che non è la gola, gli aggrava e fa andare piú giuso verso il fondo
dellʼinferno. «Se tanto scendi», quanto essi son giuso, «gli potrai
vedere».

«Ma, quando tu sarai nel dolce mondo». Possiam da queste parole
comprendere quanta sia lʼamaritudine delle pene infernali, quando
questa anima chiama questo mondo «dolce», nel quale non è cosa alcuna,
altro che piena dʼangoscia, di tristizia e di miseria. «Pregoti chʼalla
mente altrui mi rechi», cioè mi ricordi. E qui ancora, per queste
parole, possiam comprendere quanta sia la dolcezza della fama, la
quale, quantunque alcun bene non potesse adoperare in costui, nondimeno
non lʼha potuta, per tormento che egli abbia, dimenticare, né eziandio
lasciare, che egli non addomandasse che lʼautore di lui, tornato di
qua, ragionasse e rivocasselo nella memoria alle genti. «Piú non ti
dico», cioè dʼaltro non ti priego, «e piú non ti rispondo»,—alle cose
delle quali domandato mʼhai.

«Li diritti occhi», coʼ quali infino a quel punto guardato avea
lʼautore, «torse allora in biechi», come dette ebbe queste parole; e
dice «in biechi», quasi «in guerci». «Guardommi un poco»: atto è di
coloro li quali, costretti da alcuna necessitá, piú non aspettan di
vedere coloro che davanti gli sono; «e poi chinò la testa. Cadde con
essa a par degli altri ciechi», cioè deʼ dannati a quella medesima
pena, che era dannato esso. E cognominagli «ciechi», percioché perduto
hanno il vedere intellettuale, col quale i beati veggono la presenza di
Dio.

«E ʼl duca disse a me», poi che Ciacco fu ricaduto:—«Piú non si
desta», cioè non si rileva piú; e cosí pare che, tra lʼaltre pene che
i golosi hanno, abbiano ancora che qual si leva o parla, per alcuna
cagione, come ricaduto è, piú di qui al dí del Giudicio non si possa
levare né parlare; «Di qua dal suon dellʼangelica tromba», cioè di
qua dal dí del Giudicio, quando un agnolo mandato da Dio verrá, e con
altissima voce, quasi sia una tromba, eʼ dirá:—«_Surgite, mortui, et
venite ad iudicium_»;—«Quando vedrá», ed egli e gli altri dannati,
«la nimica podestá», cioè Cristo, in cui il Padre ha commessa ogni
podestá. E non vedranno i dannati Cristo nella maestá divina, ma il
vedranno nella sua umanitá, e parrá loro lui essere turbato verso di
loro, come contra nemici: [ma ciò non fia vero, percioché il giusto
giudice, come sará ed è Cristo, non si commuove contro a colui il
quale ha offeso; percioché, se egli facesse questo, parrebbe che egli
animosamente venisse alla sentenza. Ma questo è il costume di coloro
che hanno offeso, che, come sentono dire cosa che gli trafigga, cosí si
turbano; e come sono turbati essi, cosí par loro che sia turbato colui
che meritamente gli riprende.]

E seguisce, al suono dellʼangelica tromba, che «Ciascuno rivedrá la
trista tomba». Dice «rivedrá», risurgendo, e chiamala «trista tomba»,
cioè sventurata sepoltura, in quanto ella è stata guardatrice di
ceneri, le quali deono risurgere a perpetuo tormento. «Ripiglierá sua
carne e sua figura», e questo non per lor forza, ma per divina potenza,
[sará loro in questo cortese, non per lor bene o consolazione, ma
accioché il corpo, il quale fu strumento dellʼanima a commettere le
colpe per le quali è dannata, sostenga insieme con quella tormento;] e,
ripreso il corpo, ciascuno «Udirá quel che in eterno rimbomba», cioè
risuona (e pone il presente per lo futuro), e questo sará la sentenza
di Dio, nella quale Cristo dirá aʼ dannati:—«_Ite maledicti in ignem
aeternum_»,—ecc., le quali parole in eterno non caderanno della mente
loro.

«Sí trapassammo». Qui comincia la quarta parte del presente canto,
nella quale lʼautore muove un dubbio a Virgilio, e scrive la soluzion
di quello. Dice adunque: «Sí», cioè cosí ragionando, «trapassammo»,
lasciato Ciacco, «per sozza mistura Dellʼombre e della pioggia», la
quale, essendo, come di sopra è detto, da se medesima sozza, piú sozza
ancora diveniva per la terra, la qual putiva, ricevendo la pioggia; «a
passi lenti», forse per lo ragionare, o per lo luogo che non pativa che
molto prestamente vi si potesse andare per uom vivo; «Toccando un poco
la vita futura», cioè ragionando della futura vita. E questo mostra
fosse intorno alla resurrezione deʼ corpi, sí per le parole passate, e
sí ancora per quello che appare nel dubbio mosso dallʼautore.

«Perchʼio dissi:—Maestro», continuandomi a quello che della futura
vita ragionavamo, «esti tormenti», li quali io veggio in queste
anime dannate, «Cresceranno ei dopo la gran sentenza», data da Dio
nellʼultimo e universal giudicio, «O fien minori», che al presente
sieno, «o saran sí cocenti»,—come sono al presente?

«Ed egli a me» (_supple_) rispose:—«Ritorna a tua scienza», alla
filosofia, «Che vuol, quanto la cosa è piú perfetta, Piú senta il bene,
e cosí la doglienza». E questoʼ ci è tutto il dí manifesto, percioché
noi veggiamo in un giovane sano e ben disposto parergli le buone cose
piacevoli e saporite, dove ad uno infermo, nel quale è molta meno
perfezion che nel sano, parranno amare e spiacevoli; vedrem similmente
un giovane sano con gravissima doglia sentire ogni piccola puntura,
dove un gravemente malato, appena sente le tagliature e glʼincendi
molte volte fattigli nella persona: e cosí adunque, sí come séguita,
dobbiam credere dovere avvenire aʼ dannati, quando i corpi avranno
riavuti, in quanto avrá il tormento in che farsi piú sentire.

«Tutto», cioè avvegna, «che questa gente maladetta», cioè i dannati,
«In vera perfezion». «Perfezione» è un nome il quale sempre suona in
bene e in aumento della cosa, la quale di non perfetta divien perfetta:
e, percioché neʼ dannati non può perfezione essere alcuna, e per questo
per riavere i corpi non saranno piú perfetti, ma piú tosto diminuiti,
dice lʼautore: «In vera perfezion giammai non vada». Andrá adunque
non in perfezione, ma in alcuna similitudine di perfezione, in quanto
riavranno i corpi cosí come gli riavranno i beati; ma i beati gli
riavranno in aumento di gloria, dove i dannati gli riavranno in aumento
di tormento e di pena, la quale è diminuzione di perfezione. «Di lá»,
cioè dalla sentenzia di Dio, «piú che di qua», dalla detta sentenzia,
«essere aspetta»,—in maggior pena; cioè aspetta, dopo i corpi riavuti,
molta maggior pena che essi non hanno o avranno infino al dí che i
corpi riprenderanno.

«Noi aggirammo». Qui comincia la quinta e ultima parte nella quale
lʼautor mostra dove pervenissero. E dice: «Noi aggirammo a tondo quella
strada», e dice «a tondo», percioché ritondo è quello luogo, come
molte volte è stato detto; «Parlando piú assai chʼio non ridico», pure
intorno alla vita futura; «Venimmo al punto», cioè al luogo, «dove si
disgrada», per discendere nel quarto cerchio dello ʼnferno. «Quivi
trovammo Pluto il gran nemico», cioè il gran dimonio.

Il qual Pluto, chi egli sia, racconteremo nel canto seguente. Nondimeno
il chiama qui lʼautore avvedutamente «il gran nimico», in quanto,
come si dirá appresso, esso significa le ricchezze terrene, le quali
in tanto sono aʼ mortali grandissime nimiche, in quanto impediscono
il possessor di quelle a dover potere intrare in paradiso; dicendo
Cristo nellʼEvangelio: essere piú malagevol cosa ad un ricco entrare
in paradiso che ad un cammello entrare per la cruna dellʼago. [Le
quali parole piú chiaramente che il testo non suona esponendo, secondo
che ad alcun dottor piace, si deono intendere cosí: cioè essere in
Ierusalem stata una porta chiamata Cruna dʼago, sí piccola, che senza
scaricare della sua soma il cammello, entrar non vi potea, ma scaricato
vʼentrava. E cosí, moralmente esponendo, è di necessitá al ricco, cioè
allʼabbondante di qualunque sustanza, ma in singularitá delle ricchezze
male acquistate, di porre la soma di quelle giuso, se entrare vogliono
in paradiso, lʼentrata del quale è strettissima. Se adunque esse
impediscono il nostro entrare in tanta beatitudine, meritamente dir si
possono grandissime nostre nemiche, ecc.]



II

SENSO ALLEGORICO


[Nota: Lez. XXV]

«Al tornar della mente che si chiuse», ecc. Nel principio di questo
canto lʼautore, sí come di sopra ha fatto negli altri, cosí si continua
alle cose seguenti. Mostrògli nel precedente canto la ragione, come
i lussuriosi, li quali nellʼira di Dio muoiono, sieno dalla divina
giustizia puniti; e percioché la colpa della gola è piú grave che il
peccato della lussuria, in quanto la gola è cagione della lussuria, e
non _e converso_, gli dimostra in questo terzo cerchio la ragione, come
il giudicio di Dio con eterno supplicio punisca i golosi.

A detestazion deʼ quali, e accioché piú agevolmente si comprenda quello
che sotto la corteccia litterale è nascoso, alquanto piú di lontano
cominceremo.

Creò il Nostro Signore il mondo e ogni creatura che in quello è; e,
separate lʼacque, e quelle, oltre allʼuniversal fonte, per molti fiumi
su per la terra divise, e prodotti gli alberi fruttiferi, lʼerbe e
gli animali, e di quegli riempiute lʼacque, lʼaere e le selve, tanto
fu cortese aʼ nostri primi parenti, che, non ostante che contro al
suo comandamento avessero adoperato, ed esso per quello gli avesse di
paradiso cacciati, tutte le sopradette cose da lui prodotte sottomise
alli lor piedi, sí come dice il salmista: «_Omnia subiecisti sub
pedibus eius, oves et boves et universa pecora campi, et volucres
caeli, et pisces maris, qui perambulant semilas maris_»; e, come
queste, cosí molto maggiormente i frutti prodotti dalla terra, di
sua spontanea volontá germinante. Per la qual cosa con assai leggier
fatica, sí come per molti si crede, per molti secoli si nutricò e
visse innocua lʼumana generazione dopo ʼl diluvio universale. I cibi
della quale furono le ghiande, il sapor delle quali era aʼ rozzi
popoli non men soave al gusto, che oggi sia aʼ golosi di qualunque
piú morbido pane; le mele salvatiche, le castagne, i fichi, le noci e
mille spezie di frutti, deʼ quali cosí come spontanei producitori erano
gli alberi, cosí similemente liberalissimi donatori. Erano, oltre a
ciò, le radici dellʼerbe, lʼerbe medesime piene dʼinfiniti, salutevoli
non men che dilettevoli, sapori; e le domestiche gregge delle pecore,
delle capre, deʼ buoi prestavan loro abbondevolmente latte, carne,
vestimenti e calzamenti, senza alcun servigio di beccaro, di sarto
o di calzolaio; oltre a ciò, lʼapi, sollecito animale, senza alcuna
ingiuria riceverne, amministravano a quegli i fiari pieni di mèle; e la
loro naturale piú tosto che provocata sete saziavano le chiare fonti,
i ruscelletti argentei e gli abbondantissimi fiumi. E a queste prime
genti le recenti ombre deʼ pini, delle querce, degli olmi e degli altri
arbori temperavano i calori estivi, e i grandissimi fuochi toglievan
via la noia deʼ ghiacci, delle brine, delle nevi e dei freddi tempi;
le spelunche deʼ monti, dalle mani della natura fabbricate, daʼ venti
impetuosi e dalle piove gli difendeano, e sola la serenitá del cielo, e
i fioriti e verdeggianti prati dilettavan gli occhi loro. Niun pensiero
di guerra, di navicazione, di mercatanzia o dʼarte gli stimolava;
ciascuno era contento in quel luogo finir la vita, dove cominciata
lʼavea. Niuno ornamento appetivano, niuna quistione aveano, né era tra
loro bomere, né falce, né coltello, né lancia. I loro esercizi erano
intorno aʼ giuochi pastorali o in conservar le greggi, delle quali
alcun comodo si vedeano. Era in queʼ tempi la pudicizia delle femmine
salva e onorata; la vita in ciascuna sua parte sobria e temperata e,
senza alcuno aiuto di medico o di medicina, sana; lʼetá deʼ giovani
robusta e solida, e la vecchiezza deʼ lor maggiori venerabile e
riposata. Non si sapeva che invidia si fosse, non avarizia, non
malizia o falsitá alcuna, ma santa e immaculata semplicitá neʼ petti
di tutti abitava; per che meritamente, secondo che i poeti questa etá
discrivono, «aurea» si potea chiamare.

Ma, poi che, per suggestion diabolica, sí come io credo, cominciò
tacitamente neʼ cuori dʼalcuni ad entrare lʼambizione, e quinci il
disiderio di trascendere a piú esquisita vita, venne Cerere, la quale
appo Eleusia e in Sicilia prima mostrò il lavorío della terra, il
ricogliere il grano e fare il pane: Bacco recò dʼIndia il mescolare
il vino col mèle, e fare i beveraggi piú dilicati che lʼusato; e con
appetito non sobrio, come il passato, furon cominciate a gustare le
cortecce degli alberi indiani, le radici eʼ sughi di certe piante, e
quelle a mescolare insieme, e a confondere nel mèle i sapori naturali,
e a trovare gli accidentali con industria: furono incontanente avute in
dispregio le ghiande. Similmente, avendo alcuni, in lor danno divenuti
ingegnosi, trovato modo di tirare in terra con reti i gran pesci del
mare, e di ritenere neʼ boschi le fiere, e ancora dʼingannare gli
uccegli del cielo; furon da parte lasciati i lacciuoli e gli ami, e la
terra riposatasi lungamente, cominciata a fendere, e ʼl mare a solcar
daʼ navili, e portare dʼun luogo in un altro, e recare, i viziosi
princípi: si mutaron con esercizi gli animi. E giá in gran parte, sí
come piú atta a ciò, Asia sí per gli artifici di Sardanapalo, re degli
assiri, e sí per gli altrui, da questa dannosa colpa della gola, come
lo ʼncendio suol comprender le parti circostanti, cosí lʼEgitto, cosí
la Grecia tutta comprese, in tanto che giá non solamente neʼ maggiori,
ma eziandio nel vulgo erano venuti i dilicati cibi e ʼl vino, e in ogni
cosa lasciata lʼantica simplicitá. Ultimamente, sparto giá per tutto
questo veleno, aglʼ italiani similmente pervenne; e credesi che di
quello i primi ricevitori fossero i capovani, percioché né Quinzi né
Curzi né Fabrizi né Papirii né gli altri questa ignominia sentivano;
e giá era perfetta la terza guerra macedonica, e vinto Antioco magno,
re dʼAsia e di Siria, da Scipione asiatico, quando primieramente il
cuocere divenne, di mestiere, arte.

È intra ʼl mestiere e lʼarte questa differenza, che il mestiere è uno
esercizio, nel quale niuna opera manuale, che dallo ʼngegno proceda,
sʼadopera, sí come è il cambiatore, il quale nel suo esercizio non
fa altro che dare danari per danari; o come era in Roma il cuocere
aʼ tempi che io dico, neʼ quali si metteva la carne nella caldaia, e
quel servo della casa, il quale era meno utile agli altri servigi,
faceva tanto fuoco sotto la caldaia, che la carne diveniva tenera a
poterla rompere e tritar coʼ denti. Arte è quella intorno alla quale
non solamente lʼopera manuale, ma ancora lo ʼngegno e la ʼndustria
dellʼartefice sʼadopera, sí come è il comporre una statua, dove, a
doverla proporzionare debitamente, si fatica molto lo ʼngegno; e sí
come è il cuocere oggi, al quale non basta far bollir la caldaia, ma vi
si richiede lʼartificio del cuoco, in fare che quel, che si cuoce, sia
saporito, sia odorifero, sia bello allʼocchio, non abbia alcun sapore
noioso al gusto, come sarebbe o troppo salato o troppo acetoso o troppo
forte di spezie, o del contrario a queste; o sapesse di fumo o di
fritto o di sapor simile, del quale il gusto è schifo.

Era dunque, al tempo di sopra detto, mestiere ancora il cuocere in
Roma, in che appare la modestia e la sobrietá loro; ma, poi che le
ricchezze eʼ costumi asiatichi vʼentrarono, con grandissimo danno del
romano imperio, di mestiere, arte divenne; essendone, secondo che
alcuni credono, inventore uno il quale fu appellato Apicio: e quindi si
sparse per tutto, accioché i membri dal capo non fosser diversi; e non
che le ghiande eʼ salvatichi pomi e lʼerbe o le fontane eʼ rivi fossero
in dispregio avute, ma eʼ furono ancora poco prezzati i familiari
irritamenti della gola: e per tutto si mandava per gli uccelli, per le
cacciagioni, per li pesci strani, e quanto piú venien di lontano, tanto
di quegli pareva piú prezzato il sapore. Né fu assai aʼ golosi miseri
lʼavere i lacciuoli, le reti e gli ami tesi per tutto il mondo, alle
cose le quali dovevano poter dilettare la gola ed empiere il ventre
misero, ma diedero e dánno opera che nelle cose, le quali sé eʼ loro
deono corrompere, fossero gli odori arabici, accioché, confortato il
naso, e per lo naso il cerebro, lui rendessero piú forte allʼingiurie
deʼ vapori surgenti dallo stomaco, e lʼappetito piú fervente al
disiderio del consumare. Né furono ancora contenti aʼ cibi soli, ma
dove lʼacqua solea salutiferamente spegner la sete, trovati infiniti
modi dʼaccenderla, a dileticarla non a consumarla, varie e molte spezie
di vini hanno trovate; e, non bastando i sapori vari che la varietá
deʼ terreni e delle regioni danno loro, ancora con misture varie
gli trasformano in varie spezie di sapore e di colore. E, accioché
piú lungo spazio prender possano ad empiere il tristo sacco, hanno
introdotto che neʼ triclini, nelle sale, alle mense sieno intromessi
i cantatori, i sonatori, i trastullatori e i buffoni, e, oltre a ciò,
mille maniere di confabulazioni neʼ lor conviti, accioché la sete non
cessi. Se i familiari ragionamenti venisser meno, si ragiona, come
Iddio vuole, in che guisa il cielo si gira, delle macchie del corpo
della luna, della varietá degli elementi; e da questi subitamente si
trasvá alle spezie deʼ beveraggi che usano glʼindiani, alle qualita deʼ
vini che nascono nel Mar maggiore, al sapore degli spagnuoli, al colore
deʼ galli, alla soavitá deʼ cretici: né passa intera alcuna novelletta
di queste, che rinfrescare i vini eʼ vasi non si comandi. Ed è tanto
questa maladizione di secolo in secolo, dʼetá in etá perseverata e
discesa, che infino aʼ nostri tempi, con molte maggior forze che neʼ
passati, è pervenuta; e, secondo il mio giudicio, dove che abbia ella
molto potuto, o molto possa, alcuno luogo non credo che sia, dove ella
con piú fervore eserciti, stimoli e vinca gli appetiti, che ella fa
appo i toscani; e forse non men che altrove appo i nostri cittadini nel
tempo presente. Con dolore il dico: e, se lʼautore non avesse solamente
Ciacco, nostro cittadino, essere dannato per questo vituperevol vizio,
nominato, forse senza alcuna cosa dire del nostro esecrabile costume
mi passerei. Questo, adunque, mi trae a dimostrare la nostra dannosa
colpa, accioché coloro, li quali credono che dentro aʼ luoghi riposti
delle lor case non passino gli occhi della divina vendetta, con meco
insieme, e con gli altri, sʼavveggano e arrossino della disonestá la
quale usano. Intorno a questo peccato, non quanto si converrebbe, ma
pure alcuna cosa ne dirò.

È adunque in tanto moltiplicato e cresciuto appo noi, per quel che a
me paia, lʼeccesso della gola, che quasi alcuno atto non ci si fa,
né nelle cose publiche né nelle private, che a mangiare o a bere
non riesca. [In questo i denari publici sono dagli uficiali publici
trangugiati, lʼestorsioni dellʼarti e neʼ sindacati, il mobile deʼ
debitori dovuto alle vedove e aʼ pupilli, le limosine lasciate aʼ
poveri e alle fraternite, lʼesecuzioni testamentarie, le quistioni
arbitrarie, e a qualunque altra pietosa cosa, non solamente i laici,
ma ancora li religiosi divorano.] E questo miserabile atto non ci si
fa come tra cittadino e cittadino far si solea, anzi è tanto dʼogni
convenevolezza trapassato il segno, che gli apparati reali, le mense
pontificali, gli splendori imperiali sono da noi stati lasciati a
dietro; né ad alcuna, quantunque grande spesa, quantunque disutile,
quantunque superba sia, si riguarda; ogni modo, ogni misura, ogni
convenevolezza è pretermessa. Vegnono oggi neʼ nostri conviti le
confezioni oltremarine, le cacciagioni transalpine, i pesci marini
non dʼuna ma di molte maniere; e son di quegli, che, senza vergogna,
dʼoro velano i colori delle carni, con vigilante cura e con industrioso
artificio cotte. Lascio stare glʼintramessi, il numero delle vivande,
[i savori] di sapori e di color diversissimi, e le importabili some deʼ
taglieri carichi di vivande tra poche persone messi, le quali son tante
e tali, che non dico i servidori, che le portano, ma le mense, sopra
le quali poste sono, sotto di fatica vi sudano. Né è penna che stanca
non fosse, volendo i trebbiani, i grechi, le ribole, le malvagíe,
le vernacce e mille altre maniere di vini preziosi discrivere. E or
volesse Iddio che solo aʼ principi della cittá questo inconveniente
avvenisse; ma tanto è in tutti la caligine della ignoranza sparta,
che coloro ancora, li quali e la nazione e lo stato ha fatti minori,
queste medesime magnificenze, anzi pazzie, trovandosi il luogo da
ciò, appetiscono e vogliono come i maggiori. In queste cosí oneste
e sobrie commessazioni, o conviti che vogliam dire, come i ventri
sʼempiano, come tumultuino gli stomachi, come fummino i cerebri, come
i cuori infiammino, assai leggier cosa è da comprendere a chi vi vuole
riguardare. In queste insuperbiscono i poveri, i ricchi divengono
intollerabili, i savi bestiali; per le quali cose vi si tumultua,
millantavisi, dicevisi male dʼogni uomo e di Dio; e talvolta, non
potendo lo stomaco sostenere il soperchio, non altramente che faccia
il cane, sozzamente si vòta quello che ingordamente sʼè insaccato;
e in queste medesime cosí laudevoli cene sʼordina e solida lo stato
della republica, diffinisconsi le quistioni, compongonsi lʼopportunitá
cittadine e i fatti delle singular persone; ma il come, nel giudicio
deʼ savi rimanga. In queste si condanna e assolve cui il vino conforta,
o cui lʼampiezza delle vivande aiuta o disaiuta: e coloro, aʼ quali
i prieghi unti e spumanti di vino sono intercessori, procuratori o
avvocati, le piú delle volte ottengono nelle lor bisogne.

Che fine questo costume si debba avere, Iddio il sa; credo io che egli
da esso molto offeso sia.

Ma, che che esso alle misere anime sʼapparecchi nellʼaltra vita, è
assai manifesto lui aʼ corpi essere assai nocivo nella presente.
Percioché, se noi vorrem riguardare, noi vedremo coloro, che lʼusano,
essere per lo troppo cibo e per lo soperchio bere perduti del corpo,
e innanzi tempo divenir vecchi; perdoché il molto cibo vince le forze
dello stomaco, intanto che, non potendo cuocere ciò che dentro cacciato
vʼè per conforto del non ordinato appetito e dal diletto del gusto,
convien che rimanga crudo, e questa crudezza manda fuori rutti fiatosi,
tiene afflitti i miseri che la intrinseca passion sentono, raffredda e
contrae i nervi, corrompe lo stomaco, genera umori putridi; i quali,
per ogni parte del corpo col sangue corrotto trasportati, debilitan
le giunture, creano le podagre, fanno lʼuom paralitico, fanno gli
occhi rossi, marcidi e lagrimosi, il viso malsano e di cattivo colore,
le mani tremanti, la lingua balbuziente, i passi disordinati, il
fiato odibile e fetido; senza che essi, e meritamente e senza modo,
tormentano il fianco di questi miseri che nel divorare si dilettano.
Per le quali passioni i dolenti spesse volte gridano, bestemmiano,
urlano e abbaiano come cani. Cosí adunque la rozza sobrietá, la rustica
simplicitá, la santa onestá degli antichi, le ghiande, le fontane,
gli esercizi e la libera vita è permutata in cosí dissoluta ingluvie,
ebrietá e tumultuosa miseria, come dimostrato è. Per che possiam
comprendere lʼautore sentitamente aver detto: «la dannosa colpa della
gola»; la quale ancora piú dannosa cognosceremo, se guarderemo e aʼ
publici danni e aʼ privati, deʼ quali ella è per lo passato stata
cagione.

I primi nostri padri, sí come noi leggiamo nel principio del Genesi,
gustarono del legno proibito loro da Dio, e per questo da lui medesimo
furon cacciati del paradiso, e noi con loro insieme; e, oltre a ciò,
per questo a sé e a noi procurarono la temporal morte e lʼeterna,
se Cristo stato non fosse. Esaú per la ghiottornia delle lenti, le
quali, tornando da cacciare, vide a Iacob suo fratello, perdé la sua
primogenitura. Ionatas, figliuolo di Saul re, per lʼavere con la
sommitá dʼuna verga, la quale aveva in mano, gustato dʼun fiaro di
mèle, meritò che in lui fosse la sentenza della morte dettata. Certi
sacerdoti, per aver gustati i sacrifici della mensa di Bel, furono il
dí seguente tutti uccisi. E quel ricco del quale noi leggiamo nello
Evangelio, il qual continuo splendidamente mangiava, fu seppellito in
inferno. Come i troiani si diedono in sul mangiare e in sul bere e in
far festa, cosí furon daʼ greci presi; e quel, che lʼarme e lʼassedio
sostenuto dieci anni non avean potuto fare, feciono i cibi e ʼl vino
dʼuna cena. I figliuoli di Iob, mangiando e bevendo con le lor sorelle,
furon dalla ruina delle lor medesime case oppressi e morti. La robusta
gente dʼAnnibale, la quale né il lungo cammino, né i freddi dellʼAlpi,
né lʼarmi deʼ romani non avean mai potuto vincere, daʼ cibi e dal vino
deʼ capovani furono effeminati, e poi molte volte vinti e uccisi.
Noé, avendo gustato il vino e inebriatosi, fu nel suo tabernacolo
da Cam, suo figliuolo, veduto disonestamente dormire e ischernito.
Lot, per avere men che debitamente bevuto, ebbro fu dalle figliuole
recato a giacer con loro. Sisara, bevuto il latte di mano di Iabel
e addormentatosi, fu da lei, con uno aguto fittogli per le tempie,
ucciso. Leonida spartano ebbe, tutta una notte e parte del seguente dí,
spazio di uccidere e di tagliare insieme coʼ suoi compagni lʼesercito
di Serse, seppellito nel vino e nel sonno. Oloferne, avendo molto
bevuto, diede ampissimo spazio dʼuccidersi a Iudit. E le figliuole
di Prito, re degli argivi, per lo soperchio bere vennero in tanta
bestialitá, che esse estimavano dʼessere vacche.

Ma, perché mi fatico io tanto in discrivere i mali per la gola
stati, conciosiacosaché io conosca quegli essere infiniti? E perciò
riducendosi verso la finale intenzione, come assai comprender si
puote per le cose predette, tre maniere son di golosi. Delli quali
lʼuna pecca nel disordinato diletto di mangiare i dilicati cibi
senza saziarsi; e questi son simili alle bestie, le quali senza
intermissione, sol che essi trovin che, il dí e la notte rodono. E di
questi cotali, quasi come di disutili animali, si dice che essi vivono
per manicare, non manucan per vivere; e puossi dire questa spezie di
gulositá, madre di oziositá e di pigrizia, sí come quella che ad altro
che al ventre non serve. La seccnda pecca nel disordinato diletto del
bere, intorno al quale non solamente con ogni sollecitudine cercano i
dilicati e saporosi vini, ma quegli, ogni misura passando, ingurgitano,
non avendo riguardo a quello che contro a questo nel _Libro della
Sapienza_ ammaestrati siamo, nel quale si legge: «_Ne intuearis vinum,
cum flavescit in vitro color eius: ingreditur blande, et in novissimo
mordebit, ut coluber_». Per la qual cosa, di questa cosí fatta spezie
di gulosi maravigliandosi, Iob dice: «Numquid _potest quis gustare,
quod gustatum affert mortem_?» Né è dubbio alcuno la ebrietá essere
stata a molti cagione di vituperevole morte, come davanti è dimostrato.
È questa gulositá madre della lussuria, come assai chiaramente
testifica Ieremia, dicendo: «_Venter mero aestuans, facile despumat in
libidinem_»; e Salomon dice: «_Luxuriosa res est vinum, et tumultuosa
ebrietas; quicumque in his delectabitur, non erit sapiens_»; e san
Paolo, volendoci far cauti contro alla forza del vino, similmente
ammaestrandoci, dice: «_Nolite inebriari vino, in quo est luxuria_». È
ancora questa spezie di gulositá pericolosissima, in quanto ella, poi
che ha il bevitore privato dʼogni razional sentimento, apre e manifesta
e manda fuori del petto suo ogni secreto, ogni cosa riposta e arcana:
di che grandissimi e innumerabili mali giá son seguiti e seguiscono
tutto il dí. Ella è prodiga gittatrice deʼ suoi beni e degli altrui,
sorda alle riprensioni, e dʼogni laudabile costume guastatrice. La
terza maniera è deʼ golosi, li quali, in ciascheduna delle predette
cose, fuori dʼogni misura bevendo e mangiando e agognando, trapassano
il segno della ragione; deʼ quali si può dire quella parola di Iob:
«_Bibunt indignationem, quasi aquam_». Ma, secondo che si legge nel
salmo: «_Amara erit potio bibentibus illam_»; e come Seneca a Lucillo
scrive nella ventiquattresima epistola: «_Ipsae voluptates in
tormentum vertuntur; epulae cruditatem afferunt; ebrietates, nervorum
torporem, tremoremque; libidines, pedum et manuum, et articulorum
omnium depravationes_» ecc. Questi adunque tutti ingluviatori,
ingurgitatori, ingoiatori, agognatori, arrappatori, biasciatori,
abbaiatori, cinguettatori, gridatori, ruttatori, scostumati, unti,
brutti, lordi, porcinosi, rantolosi, bavosi, stomacosi, fastidiosi e
noiosi a vedere e a udire, uomini, anzi bestie, pieni di vane speranze
sono; vòti di pensieri laudevoli e strabocchevoli neʼ pericoli,
gran vantatori, maldicenti e bugiardi, consumatori delle sustanzie
temporali, inchinevoli ad ogni dissoluta libidine e trastullo deʼ
sobri. E, percioché ad alcuna cosa virtuosa non vacano, ma se medesimi
guastano, non solamente aʼ sensati uomini, ma ancora a Dio sono
tanto odiosi, che, morendo come vivuti sono, ad eterna dannazione
son giustamente dannati; e, secondo che lʼautor ne dimostra, nel
terzo cerchio dello ʼnferno della loro scellerata vita sono sotto
debito supplicio puniti. Il quale, accioché possiamo discernere piú
chiaro come sia con la colpa conforme, nʼè di necessitá di dimostrare
brievemente.

Dice adunque lʼautore che essi giacciono sopra il suolo della terra
marcio, putrido, fetido e fastidioso, non altrimenti che ʼl porco
giaccia nel loto, e quivi per divina arte piove loro sempre addosso
«grandine grossa e acqua tinta e neve», la quale, essendo loro cagione
di gravissima doglia, gli fa urlare non altrimenti che facciano i cani:
e, oltre a ciò, se alcuno da giacer si lieva o parla, giace poi senza
parlare o urlare infino al dí del giudicio; e, oltre a ciò, sta loro
in perpetuo sopra capo un demonio chiamato Cerbero, il quale ha tre
teste e altrettante gole, né mai ristá dʼabbaiare. E ha questo dimonio
gli occhi rossi e la barba nera ed unta, e il ventre largo, e le mani
unghiate, e, oltre allʼabbaiare, graffia e squarcia e morde i miseri
dannati, li quali, udendo il suo continuo abbaiare, disiderano dʼessere
sordi. La qual pena spiacevole e gravosa, in cotal guisa pare che la
divina giustizia abbia conformata alla colpa: e primieramente come
essi, oziosi e gravi del cibo e del vino, col ventre pieno giacquero
in riposo del cibo ingluviosamente preso; cosí pare convenirsi che,
contro alla lor voglia, in male e in pena di loro, senza levarsi
giacciano in eterno distesi, col loro spesso volgersi testificando
i dolorosi movimenti, li quali per lo soperchio cibo giá di diverse
torsioni lor furon cagione. E, come essi di diversi liquori e di vari
vini il misero gusto appagarono; cosí qui sieno da varie qualitá di
piova percossi ed afflitti: intendendo per la grandine grossa, che gli
percuote, la cruditá deglʼindigesti cibi, la quale, per non potere
essi, per lo soperchio, dallo stomaco esser cotti, generò neʼ miseri
lʼaggroppamento deʼ nervi nelle giunture; e per lʼacqua tinta, non
solamente rivocare nella memoria i vini esquisiti, il soperchio deʼ
quali similmente generò in loro umori dannosi, i quali per le gambe,
per gli occhi e per altre parti del corpo sozzi e fastidiosi vivendo
versarono; e per la neve, il male condensato nutrimento, per lo quale
non lucidi ma invetriati, e spesso di vituperosa forfore divennero per
lo viso macchiati. E, cosí come essi non furono contenti solamente alle
dilicate vivande, né aʼ savorosi vini, né eziandio aʼ salsamenti spesso
escitanti il pigro e addormentato appetito, ma gli vollero dallʼindiane
spezie e dalle sabee odoriferi; vuole la divina giustizia che essi
sieno dal corrotto e fetido puzzo della terra offesi, e abbiano, in
luogo delle mense splendide, il fastidioso letto che lʼautore discrive.
E appresso, come essi furono detrattori, millantatori e maldicenti,
cosí siano a perpetua taciturnitá costretti, fuor solamente di tanto
che, come essi, con gli stomachi traboccanti e con le teste fummanti,
non altramenti che cani abbaiar soleano, cosí urlando come cani la loro
angoscia dimostrino, e abbian sempre davanti Cerbero, il quale ha qui a
disegnare il peccato della gola, accioché la memoria e il rimprovero di
quella nelle lor coscienze gli stracci, ingoi e affligga; e, in luogo
della dolcezza deʼ canti, li quali neʼ lor conviti usavano, abbiano il
terribile suono delle sue gole, il quale glʼintuoni, e senza pro gli
faccia disiderare dʼesser sordi.

Ma resta a vedere quello che lʼautor voglia intendere per Cerbero, la
qual cosa sotto assai sottil velo è nascosa. Cerbero, come altra volta
è stato detto, fu cane di Plutone, re dʼinferno, e guardiano della
porta di quello; in questa guisa, che esso lasciava dentro entrar chi
voleva, ma uscirne alcun non lasciava. Ma qui, come detto è, lʼautore
discrive per lui questo dannoso vizio della gola, al quale intendimento
assai bene si conforma lʼetimologia del nome. Vuole, secondo che
piace ad alcuni, tanto dir «Cerbero», quanto «_creon vorans_», cioè
«divorator di carne»; intorno alla qual cosa, come piú volte è detto di
sopra, in gran parte consiste il vizio della gola; e per ciò in questo
dimonio piú che in alcun altro il figura, perché egli è detto «cane»,
percioché ogni cane naturalmente è guloso, né nʼè alcuno che se troverá
da mangiare cosa che gli piaccia, che non mangi tanto che gli convien
venire al vomito, come di sopra è detto spesse volte fare i gulosi.

Per le tre gole canine di questo cane intende lʼautore le tre spezie
deʼ ghiotti poco davanti disegnate; e in quanto dice questo demonio
caninamente latrare, vuole esprimere lʼuno deʼ due costumi, o amenduni
deʼ gulosi. Sono i gulosi generalmente tutti gran favellatori, e ʼl piú
in male, e massimamente quando sono ripieni: il quale atto veramente
si può dire «latrar canino», in quanto non espediscon bene le parole,
per la lingua ingrossata per lo cibo, e ancora perché alquanto rochi
sono per lo meato della voce, il piú delle volte impedito da troppa
umiditá; e, oltre a ciò, percioché i cani, se non è o per esser
battuti, o perché veggion cosa che non par loro amica, non latran mai;
il che avviene spesse volte deʼ gulosi, li quali come sentono o che
impedimento sopravvegna, o che veggano per caso diminuire quello che
essi aspettavano di mangiare, incontanente mormorano e latrano. E,
oltre a questo, sono i gulosi grandi agognatori: e, come il cane guarda
sempre piú allʼosso che rode il compagno che a quello che esso medesimo
divora, cosí i gulosi tengono non meno gli occhi aʼ ghiotti bocconi che
mangia il compagno, o a quegli che sopra i taglieri rimangono, che a
quello il quale ha in bocca: e cosí sono addomandatori e ordinatori di
mangee e divisatori di quelle.

E in quanto dice questo dimonio aver gli occhi vermigli, vuol sʼintenda
un degli effetti della gola neʼ golosi, aʼ quali, per soperchio bere,
i vapor caldi surgenti dallo stomaco generano omóri nella testa, li
quali poi per gli occhi distillandosi, quegli fa divenir rossi e
lagrimosi.

Appresso dice lui aver la barba unta, a dimostrare che il molto
mangiare non si possa fare senza difficultá nettamente, e cosí, non
potendosi, è di necessita ugnersi la barba o ʼl mento o ʼl petto;
e per questa medesima cagione vuole che la barba di questo dimonio
sia nera, percioché ʼl piú ogni unzione annerisce i peli, fuorché i
canuti. Potrebbesi ancora qui piú sottilmente intendere e dire che,
conciosiacosaché per la barba sʼintenda la nostra virilitá, la quale,
quantunque per la barba sʼintenda, non perciò consiste in essa, ma nel
vigore della nostra mente, il quale è tanto quanto lʼuomo virtuosamente
adopera, e allora rende gli operatori chiari e splendidi e degni
di onore; dove qui, per la virilitá divenuta nera, vuole lʼautore
sʼintenda nella colpa della gola quella essere depravata e divenuta
malvagia.

Dice, oltre a ciò, Cerbero avere il ventre largo, per dimostrare il
molto divorar deʼ gulosi, li quali, con la quantitá grande del cibo,
per forza distendono e ampliano il ventre, che ciò riceve oltre alla
natura sua; e, che è ancora molto piú biasimevole, tanto talvolta
dentro vi cacciano, che, non sostenendolo la grandezza del tristo
sacco, sono, come altra volta di sopra è detto, come i cani costretti a
gittar fuori.

E, in quanto dice questo demonio avere le mani unghiate, vuoi che
sʼintenda il distinguere e il partire che fa il ghiotto delle vivande;
e, oltre a questo, il pronto arrappare, quando alcuna cosa vede che piú
che alcuna altra gli piaccia.

Appresso, dove lʼautor dice questo demonio non tener fermo alcun
membro, vuol che sʼintenda la infermitá paralitica, la quale neʼ gulosi
si genera per li non bene digesti cibi nello stomaco; o, secondo che
alcuni altri vogliono, neʼ bevitori per lo molto bere, e massimamente
senzʼacqua, ed essendo lo stomaco digiuno; e puote ancora significare
glʼincomposti movimenti dellʼebbro.

Oltre a ciò, lá dove lʼautore scrive che questo demonio, come gli vide,
aperse le bocche e mostrò loro le sanne, vuol discrivere un altro
costume deʼ gulosi, li quali sempre vogliosi e bramosi si mostrano; o
intendendo per la dimostrazion delle sanne, nelle quali consiste la
forza del cane, dimostrarsi subitamente la forza deʼ golosi, la qual
consiste in offendere i paurosi con mordaci parole, alle quali fine por
non si puote se non con empiergli la gola, cioè col dargli mangiare o
bere. La qual cosa il discreto uomo, consigliato dalla ragione, per
non avere a litigar della veritá con cosí fatta gente, fa prestamente,
volendo piú tosto gittar via quello che al ghiotto concede che, come
è detto, porsi in novelle con lui: percioché, come questo è dal savio
uomo fatto, cosí è al ghiotto serrata la gola e posto silenzio. E in
questo pare che si termini in questo canto lʼallegoria.



CANTO SETTIMO


I

SENSO LETTERALE

[Nota: Lez. XXVI]

—«_Papé Satan, papé Satan aleppe_»,—ecc. Nel presente canto
lʼautore, sí come è usato neʼ passati, continuandosi alle cose
precedenti, dimostra primieramente come nel quarto cerchio dello
ʼnferno discendesse; e poi, vicino alla fine del canto, dimostra
come discendesse nel quinto, discrivendo quali colpe e nellʼun
cerchio e nellʼaltro si puniscano. E dividesi questo canto in due
parti principali: nella prima mostra lʼautore esser puniti gli avari
eʼ prodighi; nella seconda mostra esser puniti glʼiracondi e gli
accidiosi. E comincia la seconda quivi: «Or discendiamo ornai a maggior
pièta». La prima parte si divide in tre: nella prima, continuandosi
alle cose precedenti, mostra come trovò Plutone, e come da Virgilio
fosse la sua rabbia posta in pace; nella seconda discrive qual pena
avessero i peccatori nel quarto cerchio, e chi eʼ fossero; nella terza
dimostra che cosa sia questa che noi chiamiamo «fortuna». La seconda
comincia quivi: «Cosí scendemmo»; la terza quivi:—«Maestro,—dissʼio
lui».

Dice adunque che avendo, come nella fine del precedente canto dimostra,
trovato Plutone, «il gran nemico», che esso Plutone, come gli vide,
_admirative_ cominciò a gridare, ed a invocare il prencipe deʼ dimòni,
dicendo:—«_Papé_».

Questo vocabolo è _adverbium admirandi_, e perciò, quando dʼalcuna cosa
ci maravigliamo, usiamo questo vocabolo dicendo: «_papé_!». E da questo
vocabolo si forma il nome del sommo pontefice, cioè «papa», lʼautoritá
del quale è tanta, che neʼ nostri intelletti genera ammirazione; e
non senza cagione, veggendo in uno uomo mortale lʼautoritá divina,
e di tanto signore, quanto è Iddio, il vicariato. E i greci ancora
chiamavano i lor preti «_papas_», quasi «ammirabili»: e ammirabili
sono, in quanto possono del pane e del vino consecrare il corpo e ʼl
sangue del nostro signor Gesú Cristo; e, oltre a ciò, hanno autorità di
sciogliere e di legare i peccatori che da loro si confessano delle lor
colpe, sí come piú pienamente si dirá nel Purgatorio, alla porta del
quale siede il vicario di san Pietro.

«Satán». Sátan e Sátanas sono una medesima cosa, ed è nome del prencipe
deʼ demòni, e suona tanto in latino, quanto «avversario» o «contrario»
o «trasgressore», percioché egli è avversario della veritá, e nemico
delle virtú deʼ santi uomini; e similmente si può vedere lui essere
stato trasgressore, in quanto non istette fermo nella veritá nella
quale fu creato, ma per superbia trapassò il segno del dover suo.

«_Papé Satán_». Questa iterazione delle medesime parole ha a dimostrare
lʼammirazione esser maggiore.

E seguita: «_aleppe_». «_Alep_» è la prima lettera dellʼalfabeto deʼ
giudei, la quale egli usano a quello che noi usiamo la prima nostra
lettera, cioè «a»; ed è «_alep_» appo gli ebrei _adverbium dolentis_;
e questo significato dicono avere questa lettera, percioché è la prima
voce la quale esprime il fanciullo come è nato, a dimostrazione che
egli sia venuto in questa vita, la quale è piena di dolore e di miseria.

Maravigliasi adunque Plutone, sí come di cosa ancora piú non veduta,
cioè che alcun vivo uomo vada per lo ʼnferno; e, temendo questo non
sia in suo danno, invoca quasi come suo aiutatore il suo maggiore; e,
accioché egli il renda piú pronto al suo aiuto, si duole. O vogliam
dire, seguendo le poetiche dimostrazioni, Plutone, ricordandosi che
Teseo con Piritoo vivi discesero in inferno a rapire Proserpina, reina
di quello, e poi, dopo loro, Ercule; e questo essere stato in danno e
del luogo e degli uficiali di quello: veggendo lʼautor vivo, né temer
deʼ dimòni, ad unʼora si maraviglia e teme, e però _admirative_, e
dolendosi, chiama il prencipe suo.

«Cominciò Pluto», (_supple_) a dire o a gridare, «con la voce
chioccia», cioè non chiara né espedita, come il piú fanno coloro i
quali da sùbita maraviglia sono soprappresi. E, oltre a ciò, cominciò
Pluto a gridare per ispaventar lʼautore, sí come neʼ cerchi superiori
si son sforzati Minos e Cerbero nellʼentrata deʼ detti cerchi, accioché
per quel gridare il ritraesse di procedere avanti e dal dare effetto
alla sua buona intenzione.

[Ma, innanzi che piú oltre si proceda, è da sapere che, secondo che
i poeti dicono, Plutone, il quale i latini chiamano _Dispiter_, fu
figliuolo di Saturno e di Opis, e nacque ad un medesimo parto con
Glauco. E, secondo che Lattanzio dice, egli ebbe nome Agelasto; e,
secondo dice Eusebio _in libro Temporum_, il nome suo fu Aidoneo. Fu
costui dagli antichi chiamato re dʼinferno, e la sua real cittá dissero
essere chiamata Dite, e la sua moglie dissero essere Proserpina. Leon
Pilato diceva essere stato un altro Pluto, figliuolo di Iasonio e di
Cerere: deʼ quali quantunque qui siano assai succintamente le fizioni
descritte, se elle non si dilucidano, non apparirá perché lʼautore qui
questo Pluto introduca: ma, percioché piú convenientemente pare che si
debbano lá dove lʼaltre allegorie si parranno, quivi le riserberemo, e
diffusamente con la grazia di Dio lʼapriremo.]

«E quel savio gentil, che tutto seppe», cioè Virgilio, [il qual
veramente quanto allʼarti e scienze mondane appartiene, tutto seppe:
percioché, oltre allʼarti liberali, egli seppe filosofia morale e
naturale, e seppe medicina; e, oltre a ciò, piú compiutamente che altro
uomo aʼ suoi tempi seppe la scienza sacerdotale, la quale allora era
in grandissimo prezzo;] «Disse, per confortarmi:—Non ti noccia La sua
paura», la quale egli o mostra dʼavere in sé, o vuol mettere in te di
sé; e dove della paura di Plutone dica, vuol mostrare lʼautore per ciò
esser da Virgilio confortato, peroché generalmente ogni fiero animale
si suol muovere a nuocere piú per paura di sé che per odio che abbia
della cosa contro alla qual si muove; e deesi qui intender la paura
di Plutone esser quella della quale poco avanti è detto: «ché poter
chʼegli abbia, Non riterrá lo scender questa roccia»,—cioè questo
balzo.

«Poi si rivolse a quella enfiata», superba, «labbia», cioè aspetto,
«E disse:—Taci, maledetto lupo»; per ciò il chiama «lupo», accioché
sʼintenda per lui il vizio dellʼavarizia, al quale è preposto: il qual
vizio meritamente si cognomina «lupo», sí come di sopra nel primo canto
fu assai pienamente dimostrato; «Consuma dentro te con la tua rabbia»,
la quale continuamente, con inestinguibile ardore di piú avere, ti
sollecita e infesta. «Non è senza cagion lʼandare», di costui, «al
cupo», cioè al profondo inferno, vedendo: «Vuolsi», da Dio chʼegli
vada, «nellʼalto», cioè in cielo, «lá dove Michele», arcangelo, «Feʼ
la vendetta del superbo strupo»,—cioè del Lucifero, il quale, come
nellʼ_Apocalissi_ si legge, fu da questo angelo cacciato di paradiso,
insieme coʼ suoi seguaci. E chiamalo «strupo», quasi violatore col
suo superbo pensiero della divina potenza, alla quale mai piú non era
stato chi violenza avesse voluto fare: per che pare lui con la sua
superbia quello nella deitá aver tentato, che nelle vergini tentano gli
strupatori.

«Quali». Qui per una comparazione dimostra lʼautore come la rabbia di
Plutone vinta cadesse, dicendo che «Quali dal vento», soperchio, «le
gonfiate vele», cioè che come le vele gonfiate dal vento soperchio,
«Caggiono avvolte» e avviluppate, «poi che lʼalber fiacca», cioè
lʼalbero della nave fiacca per la forza del vento impetuoso, «Tal cadde
a terra la fiera crudele», cioè Plutone.

«Cosí scendemmo». Qui comincia la seconda parte della prima di questo
canto, nella quale lʼautore dimostra qual pena abbiano i peccatori,
li quali in questo quarto cerchio si puniscono, e chi essi sieno; e
dice: «Cosí», vinta e abbattuta la rabbia di Plutone, «scendemmo nella
quarta lacca», cioè parte dʼinferno, cosí dinominandola per consonare
alla precedente e alla seguente rima: «Pigliando piú della dolente
ripa», cioè mettendoci piú infra essa che ancora messi ci fossimo;
e, accioché di qual ripa dica sʼintenda, segue: «Che ʼl mal», cioè le
colpe e i peccati, «dellʼuniverso», di tutto il mondo, «tutto insacca»,
cioè in sé insaccato riceve.

Ed esclamando segue: «Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa Nuove
travaglie?». Vuolsi questa lettera intendere _interrogative_ e con
questo ordine: «Ahi giustizia di Dio, Chi stipa», cioè ripone, «tante
nuove travaglie e pene», cioè diversi tormenti e noie, «quante io
viddi» in questo luogo? «E per che», cioè per le quali, «nostra colpa»,
cioè il nostro male adoperare peccando, «se ne scipa»? cioè se ne
confonde e guasta e attrita, o in noi vivi temendo di quella pena,
o neʼ morti dannati che quella sostengono. E vuole in queste parole
mostrar lʼautore di maravigliarsi per la moltitudine.

Poi per una comparazion ne dimostra che maniera tengono in quel luogo
i peccatori nel tormento lor dato dalla giustizia, e dice: «Come fa
lʼonda», del mare, «lá sovra Cariddi», cioè nel fare di Messina.
Intorno alla qual cosa è da sapere che tra Messina in Cicilia e
una punta di Calavria, chʼè di rincontro ad essa, chiamata Capo di
Volpe, non guari lontana ad una terra chiamata Catona e a Reggio,
è uno stretto di mare pericolosissimo, il quale non ha di largo
oltre a tre miglia, chiamato il fare di Messina. E dicesi «fare» da
«_pharos_», che tanto suona in latino quanto «divisione»; e per ciò
è detto «divisione», perché molti antichi credono giá che lʼisola di
Cicilia fosse congiunta con Italia, e poi per tremuoti si separasse
il monte chiamato Peloro di Cicilia dal monte Appennino, il quale è
in Italia, e cosí quella che era terraferma, si facesse isola. E sono
deʼ moderni alcuni li quali affermano ciò dovere essere stato vero: e
la ragione, che a ciò inducono, è che dicono vedersi manifestamente,
in quella parte di questi due monti che si spartí, grandissime pietre
nelle rotture loro essere corrispondenti, cioè quelle dʼAppennino a
quelle che sono in Peloro, ed _e converso_. E, come di sopra è detto,
questo mare cosí stretto è impetuosissimo e pericolosissimo molto:
e la ragione è, percioché, quando avviene che venti marini traggano
[come è libeccio e ponente, e ancora maestro, che non è marino], essi
sospingono il mare impetuosamente verso questo fare, e per questo fare
verso il mare di Grecia. E, se allora avviene che il mare di verso
Grecia, per lo flottare del mare Oceano, il quale due volte si fa ogni
dí naturale, [che sospignendo la forza deʼ venti marini il mare verso
la Grecia, ed il mare per lo flotto] si ritragga in verso il mare
Mediterraneo, scontrandosi questi due movimenti contrari, con tanta
forza si percuotono e rompono, che quasi infino al cielo pare che le
rotte onde ne vadino: e qual legno in quel punto vi sʼabbattesse ad
essere, niuna speranza si può aver della sua salute: [e cosí ancora
sospignendo i venti orientali, cioè il greco, levante e scilocco, il
mare di Grecia verso il fare, e per quello verso il mare Tirreno e il
flotto mettendosi, avvien quel medesimo che dinanzi è detto]. E questo
è quello che lʼautore vuol dire: «Come fa lʼonda..., Che si frange con
quella in cui sʼintoppa». [E sono in questo mare due cose mostruose,
delle quali lʼuna ciò che davanti le si para trangugia, e questo si
chiama Silla, ed è dalla parte dʼItalia; lʼaltra si chiama Cariddi, e
questa gitta fuori ciò che Silla ha trangugiato; ma, secondo il vero,
questa Cariddi, la quale è di verso Cicilia, è il luogo dove di sopra
dissi lʼonde scontrarsi insieme, le quali, levandosi in alto per lo
percuotersi, par che sieno del profondo gittate fuori da coloro che non
veggiono la cagione della elevazione.]

Dice adunque lʼautore che, in quella guisa, che di sopra è mostrato,
le due onde di due diversi mari si scontrano, cosí quivi due maniere
di diverse genti o peccatori convenirsi scontrare. E questo intende
in quanto dice: «Cosí conviene che qui», cioè in questo quarto
cerchio, «la gente riddi», cioè balli, e, volgendo, come i ballatori,
in cerchio, vengano impetuosamente a percuotersi, come fanno lʼonde
predette.

«Lí», nel quarto cerchio, «vidʼio gente, piú chʼaltrove, troppa»; e
di questo non si dee alcun maravigliare, percioché pochi son quelli
che in questo vizio, che quivi si punisce, non pecchino. E poi dice a
qual tormento questa gente cotanta è dannata, dicendo: «E dʼuna parte
e dʼaltra con grandʼurli», cioè a destra e a sinistra, miseramente
per la fatica e per lo dolore urlando, sí come appresso piú chiaro si
dimostrerá, «Voltando pesi» gravissimi «per forza di poppa», cioè del
petto (ponendo qui la parte per lo tutto), «Percotevansi incontro»,
cioè lʼun contro allʼaltro con questi pesi, li quali per forza
voltavano, «e poscia», che percossi sʼerano, «pur lí», cioè in quello
medesimo luogo, «Si rivolgea ciascun, voltando a retro», cioè per quel
medesimo sentiero che venuti erano: in questo voltare, «Gridando»,
quegli dellʼuna parte incontro allʼaltra:—«Perché tieni?»;—e incontro
a questa gridava lʼaltra:—«E perché burli?»—cioè getti via. «Cosi
tornavan», come percossi sʼerano e avean gridato, «per lo cerchio
tetro».

Appare per queste parole che ʼl viaggio di costoro era circulare, e
che, venuta lʼuna parte dal mezzo del cerchio nella parte opposita,
scontrava lʼaltra parte, la quale, partitasi dal medesimo termine che
essi, era giá giunta, e quivi percossisi, e dette lʼun contro allʼaltro
le parole di sopra dette, ciascuna parte si rivolgeva indietro, e
veniva al punto del cerchio donde prima partita sʼera; e quivi ancora
con lʼaltra, che in una medesima ora vi pervenía, si percotevano, e
quelle medesime parole lʼun contro allʼaltro diceano; e cosí senza
riposo continovavano questa loro angoscia, volgendosi «per lo cerchio
tetro», cioè logoro per lo continuo scalpitio.

«Da ogni mano», da destra e da sinistra, nella guisa detta, andavano
«allʼopposito punto» del cerchio, a quello onde partiti sʼerano,
«Gridandosi anco», come usati erano, «in loro ontoso», vituperevole,
«metro», cioè:—«Perché tieni?—E perché burli?».—Il quale lʼautore
chiama «metro», non perché metro sia, ma largamente parlando, come il
piú volgarmente si fa, ogni orazione [o brieve o lunga] misurata o non
misurata, è chiamata metro: e dicesi metro da «_metros_», _graece_,
che in latino suona «misura»; e quinci, propriamente parlando, i versi
poetici sono chiamati «metri», percioché misurati sono da alcuna
misura, secondo la qualitá del verso.

«Poi si volgea ciascun», di questi che voltavano i pesi, «quandʼera
giunto», al punto del mezzo cerchio, come di sopra è detto, «Per lo
suo mezzo cerchio», cioè per quel mezzo cerchio il quale a lui era
dalla divina giustizia stabilito, «allʼaltra giostra», cioè percossa: e
chiamala «giostra», percioché a similitudine deʼ giostratori sʼandavano
a ferire e a percuotere insieme.

«Ed io, chʼavea lo cor quasi compunto», di compassione, la quale
portava a tanta fatica e a tanto tormento, quanto quello era il quale
nel percuotersi sofferivano. E, oltre a ciò, aveva la compunzione
per lo vermine della coscienza, il quale il rodeva, cognoscendosi di
questa colpa esser peccatore; il che esso assai chiaramente dimostra
nel primo canto, dove dice il suo viaggio essere stato impedito dalla
lupa, cioè dallʼavarizia. E in questo è da comprendere invano esser da
noi conosciuti i vizi eʼ peccati, se, sentendoci inviluppati in quelli
o poco o molto, noi non abbiam dolore e compunzione. Né osta il dire:
come avea lʼautore compunzione dellʼessere avaro, che ancora, come
nelle seguenti parole appare, non sapea chi essi si fossero? percioché
qui usa lʼautore una figura chiamata «preoccupazione». «Dissi:—Maestro
mio». Qui domanda lʼautore Virgilio che gente questa sia, e per qual
colpa dannati, dicendo: «or mi dimostra, Che gente è questa», la quale
è qui cosí dolorosamente afflitta; e dopo questo gli muove un altro
dubbio, dicendo: e, oltre a quel che domandato tʼho, mi diʼ «e se
tutti fûr cherci, Questi chercuti alla sinistra nostra».—«Chercuti»
gli chiama, percioché avevano la cherica in capo, e da questo ancora
comprendeva loro per quello dovere esser cherici.

«Ed egli a me». Qui Virgilio primieramente generalmente di quegli,
che erano cosí a man destra come a man sinistra, ditermina; e
poi, distinguendo, risponde alla domanda fattagli dallʼautore, e
dicegli, oltre a ciò, per qual colpa dannati sieno, primieramente
dicendo:—«Tutti quanti», cioè quanti tu ne vedi a destra e a sinistra,
«fûr guerci», cioè con non diritto vedere, come color ci paiono, li
quali non hanno le luci degli occhi dirittamente come gli altri uomini
poste negli occhi. [Il qual difetto talora avviene per natura, e talora
per accidente: per accidente avviene per difetto le piú delle volte
delle balie, le quali questi cotali, essendo piccioli fanciulli, hanno
avuti a nodrire, ponendo loro la notte un lume di traverso o di sopra
a quella parte ove tengon la testa; o esse medesime, come spesse volte
fanno, stando loro sopra capo, glʼinducono a guatarsi indietro, e i
fanciulli, vaghi della luce, torcono gli occhi, e sí in quella parte
dove il lume veggono, e, non potendosi muovere, si sforzano e torcono
le luci al lume; ed essendo tenerissimi, agevolmente rimuovono la luce,
o le luci, dal lor natural movimento in questo accidentale, e divengon
guerci. Questa spezie dʼuomini, quantunque non sia del tutto reputata
giusta, non ha pertanto tanta di malizia quanta hanno coloro li quali
guerci nascono, li quali, per quegli che fisonomia sanno, sono reputati
uomini astuti, maliziosi e viziati, e il piú si credono non altrimenti
avere il giudicio della mente lor fatto che essi abbiano gli occhi.]

E però dice:—«Tutti fûr guerci Sí della mente», cioè sí perverso e
malvagio giudicio ebbero nella mente loro intorno alle cose temporali,
«in la vita primaia», cioè in questa, «Che con misura nullo spendio
fêrci», in questa vita: e ciò fu che o essi strinsero troppo le mani,
lá dove esse eran da allargare, o essi lʼallargaron troppo, lá dove
eran da strignere; e cosí né nellʼuna parte né nellʼaltra servarono
alcuna misura, [liberalmente spendendo, dove e come e quanto e in
cui si convenia]. «Assai la voce lor chiaro lʼabbaia», cioè il
manifesta quando dicono:—«Perché tieni?—E perché burli?»,—usando
questo vocabolo «abbaia» nellʼanime deʼ miseri in detestazion di
loro, il quale è proprio deʼ cani; «Quando vengono aʼ due punti del
cerchio» (mostrati di sopra, dove si dicono:—«Perché tieni?—E perché
burli?»—), «Ove colpa contraria gli dispaia», cioè gli divide,
facendogli tenere contrario cammino, sí come nelle colpe furon
contrari. Le quali colpe vuole lʼautore che sien queste, avarizia e
prodigalitá, delle quali lʼuna appresso egli apre, e lʼaltra per lʼaver
detto «contraria» vuol che sʼintenda, e dice:

«Questi son cherci, che non han coperchio Peloso al capo», percioché la
cherica, la quale è rasa, è nella superior parte del capo. [E vogliono
alcuni i cherici portare la cherica in dimostrazione e reverenza
di san Piero, al quale dicono questi cotali quella essergli stata
fatta da alcuni scellerati uomini in segno di pazzia: percioché, non
intendendo, e non volendo intendere la sua santa dottrina, e vedendolo
ferventemente predicare dinanzi aʼ prencipi e aʼ popoli, li quali
quella in odio aveano, estimavano che egli questo facesse come uomo
che fuor del senno fosse. Altri vogliono che la cherica si porti in
segno di degnitá, in dimostrazione che coloro, li quali la portano,
sieno piú degni che gli altri che non la portano; e chiamanla «corona»,
percioché, rasa tutta lʼaltra parte del capo, un sol cerchio di capelli
vi dee rimanere, il quale in forma di corona tutta la testa circunda,
come fa la corona. E chiamansi questi cotali, che questo cerchio
portano, «clerici» da «_cleros_», _graece_, che in latino suona quanto
«uomini la sorte deʼ quali sia Iddio».]

«E papi e cardinali». [È il papa in terra vicario di Gesú Cristo, dal
quale, mediante san Piero, hanno lʼautoritá grandissima, la quale
santa Chiesa ne predica; della quale autoritá, e in _Purgatorio_ e in
_Paradiso_, sí come in luoghi, dove piú convenientemente il richiede la
materia che qui, si dirá, e perciò qui piú non mi stenderò. Onde questo
nome papa venga, è poco avanti stato mostrato. «Cardinali» è sublime
nome di degnitá; e, come che, oltre alla chiesa di Roma, abbiano la
chiesa di Ravenna, quella di Napoli e alcune altre cherici, li quali
si chiamano «cardinali», non sono però in preeminenza né in oficio né
in abito da comparare a quegli della chiesa di Roma, percioché questi
per eccellenza portano il cappello rosso, e hanno a rappresentare nella
chiesa di Dio il sacro collegio deʼ settantadue discepoli, li quali
per coaiutori degli apostoli furono primieramente instituiti. E il
cardinalato di Roma è il piú alto e il piú sublime grado, appresso al
papa, che sia nella Chiesa. E, percioché a loro sʼappartiene, insieme
col papa, a diliberare le cose spettanti alla salute universale deʼ
cristiani, e ogni altra contingente alla chiesa di Dio, e pare che
sopra la loro diliberazione si volga il sí e il no delle cose predette,
son chiamati cardinali da questo nome «_cardo, cardinis_», il quale
ne significa quella parte del cielo sopra la quale tutto il cielo si
volge, per altro nome chiamata «polo» (o «poli», percioché son due) e
cosí da «_cardo_» vien «cardinale»; o, secondo che alcuni altri dicono,
da quella parte della porta, sopra la quale si volge tutto lʼuscio.]

«In cui», cioè neʼ quali, «usò avarizia il suo soperchio». È avarizia,
secondo Aristotile nel quarto della sua _Etica_, la inferiore estremitá
di liberalitá, per la quale, oltre ad ogni dovere, ingiuriosamente si
disidera lʼaltrui, o si tiene quello che lʼuom possiede: della quale
piú distesamente diremo, dove discriveremo lʼallegorico senso della
parte presente di questo canto. Questo vizio dice lʼautore usare «il
suo soperchio», cioè il disiderare piú che non bisogna e tenere dove
non si dee tenere, neʼ cherici, neʼ quali tutti intende per queste due
maggiori qualitá nominate: la qual cosa se vera è o no, è tutto il dí
negli occhi di ciascuno, e perciò non bisogna che io qui ne faccia
molte parole.

E, avendo qui lʼautore dichiarato qual sia in parte quel vizio che in
questo quarto cerchio si punisce, cioè avarizia, vuol che sʼintenda
per le parole dette di sopra («Ove colpa contraria gli dispaia»),
con questo vizio insieme punircisi lʼopposito dellʼavarizia, cioè la
prodigalitá, la quale è il superiore estremo di liberalitá: e come
lʼavarizia consiste in tenere stretto quello che spendere bene e dar si
dovrebbe, cosí la prodigalitá è in coloro, li quali dánno dove e quando
e come non si conviene; benché poco appresso lʼautore alquanto piú
apertamente dimostri sé intender qui punirsi questi due vizi.

«Ed io:—Maestro, tra questi cotali», che tu mi diʼ che furon cherici,
e ancora tra gli altri, «Dovreʼio ben riconoscere alcuni», percioché
furono uomini di grande autoritá, e molto conosciuti, come noi sappiamo
che sono i papi e i cardinali e i signori e gli altri che in questi due
peccati peccano (o vogliam dire: percioché lʼautor peccò in avarizia,
e lʼun vizioso conosce lʼaltro); «Che fûro», vivendo «immondi»,
cioè brutti e macolati, «di cotesti mali»,—cioè dʼavarizia e di
prodigalitá.

«Ed egli a me:—Vano», cioè superfluo, «pensiero aduni», cioè con gli
altri tuoi raccogli. E incontanente gli dice la cagione, seguendo:
«La sconoscente vita», cioè sanza discrezione menata, «che i feʼ
sozzi», di questi due vizi, e per conseguente indegni di fama, «Ad
ogni conoscenza», ragionevole, «or gli fa bruni», cioè oscuri e non
degni dʼalcun nome. «In eterno verranno alli due cozzi», cioè aʼ due
punti del cerchio, li quali di sopra son dimostrati, dove insieme si
percuotono. «Questi», cioè gli avari, li quali appare essere dallʼun
dei lati, «risurgeranno dal sepolcro», il dí del giudicio universale,
«Col pugno chiuso», testificando per questo atto la colpa loro, cioè
la tenacitá, la quale per lo pugno chiuso sʼintende; «e questi», cioè
i prodighi, «coʼ crin mozzi», [per li quali crini mozzi similmente
testificheranno la loro prodigalitá.]

[E la ragione perché questo per gli crin mozzi si testifichi è questa:
intendono i dottori, moralmente, per li capelli le sustanze mondane,
e meritamente, percioché i capelli in sé non hanno alcuno omore,
né altra cosa la quale alla nostra corporal salute sia utile; sono
solamente alcuno ornamento al capo, e per questo ne son dati dalla
natura; e cosí dirittamente sono le sustanze temporali, le quali per
sé medesime alcuna cosa prestar non possono alla salute dellʼanime
nostre, ma prestano alcuno ornamento aʼ corpi; e perciò dirittamente
sentono coloro, li quali intendono per li capelli le predette sustanze.
Risurgeranno adunque i prodighi coʼ crin mozzi,] a dimostrare come
essi, stoltamente e con dispiacere a Dio, diminuissono le loro
temporali ricchezze.

«Mal dare», la qual cosa fanno i prodighi, «e mal tener», il che fanno
gli avari, «lo mondo pulcro», cioè il cielo, nel quale è ogni bellezza,
«Ha tolto loro», sí come appare, poiché in inferno dannati sono, «e»
hannogli gli due detti vizi «posti a questa zuffa», cioè di percuotersi
insieme coʼ pesi i quali volgono, e col rimproverarsi lʼuna parte
allʼaltra le colpe loro: «Quale ella sia», la zuffa di costoro, «parole
non ci appulcro» cioè non ci ordino e non ci abbellisco dicendo; quasi
voglia dire che assai di sopra sia stato dimostrato.

«Or puoi, figliuol, veder». In questa parte continovando Virgilio le
parole sue, gli mostra quanto sia vana la fatica di coloro, li quali
tutti si dánno a congregare o adunare di questi beni temporali, e
apregli la cagione. E dice adunque: «Or puoi, figliuol, veder», in
costoro, «la corta buffa», cioè la breve vanitá, «Deʼ ben», cioè delle
ricchezze e degli stati, «che son commessi alla fortuna», secondo
il volgar parlare delle genti, e ancora secondo lʼopinion di molti;
«Per che», cioè per i quali beni, «lʼumana gente si rabbuffa». Il
significato di questo vocabolo «rabbuffa» par chʼimporti sempre alcuna
cosa intervenuta per riotta o per quistione, sí come è lʼessersi lʼuno
uomo accapigliato con lʼaltro, per la qual capiglia, i capelli son
rabbuffati, cioè disordinati, e ancora i vestimenti talvolta: e però
ne vuole lʼautore in queste parole dimostrare le quistioni, i piati,
le guerre e molte altre male venture, le quali tutto il dí gli uomini
hanno insieme per li crediti, per lʼereditá, per le occupazioni e per
li mal regolati disidèri, venendo quinci a dimostrare quanto sieno le
fatiche vane, che intorno allʼacquisto delle ricchezze si mettono. E
dice: «Ché tutto lʼoro, chʼè sotto la luna», cioè nel mondo, «O che fu
giá, di queste anime stanche», in queste fatiche del circuire, che di
sopra è dimostrato, «Non poterebbe farne posar una»,—non che trarla
di questa perdizione. Appare adunque in questo quanto sia utile e
laudabile la fatica di questi cotali, che in ragunar tesoro hanno posta
tutta la loro sollecitudine, quando, per tutto quello che per la loro
sollecitudine sʼè acquistato, non se ne puote avere, non che salute, ma
solamente un poco di riposo in tanto affanno, in quanto posti sono. Le
quali parole udite da Virgilio muovono lʼautore a fargli una domanda,
dicendo:—«Maestro—dissi lui,—or mi diʼ anche».

[Nota: Lez. XXVII]

Qui comincia la terza parte della prima principale di questo canto,
nella quale lʼautore scrive come Virgilio gli dimostrasse che cosa
sia fortuna, e però dice:—«Maestro, or mi diʼ anche»; quasi dica: tu
mʼhai detto che tutto lʼoro del mondo non potrebbe fare riposare una di
queste anime, e per questo mʼhai mostrato quanto sia vana la fatica di
coloro li quali, posta la speranza loro in questi beni commessi alla
fortuna, intorno allʼacquistarne e allʼadunarne si faticano; ma dimmi
ancora: «Questa fortuna, di che tu mi tocche», dicendo deʼ beni che le
son commessi, «Che è?» cioè che cosa è? «che i ben del mondo ha sí tra
branche?»,—cioè tra le mani e in sua podestá.

«E quegli a me», rispose dicendo:—«O creature sciocche. Quanta
ignoranza è quella che vʼoffende!», credendo come voi non dovete
credere, cioè che i beni temporali sieno in podestá della fortuna
come suoi; conciosiacosaché essa sia ministra in distribuirgli, e non
donna in donargli, sí come appare nelle parole seguenti. «Or voʼ che
tu mia sentenza ne ʼmbocche», cioè che tu ne senta quello che ne sento
io: e dice «ne ʼmbocche», cioè riceva, non con la bocca corporale,
la quale quello che riceve manda allo stomaco, ma con la bocca dello
ʼntelletto, il quale, rugumando ed esaminando seco quello che per li
sensi esteriori e poi per glʼinteriori concepe, quel sugo fruttuoso ne
trae spesse volte, che per umano ingegno si puote.

E quinci séguita Virgilio a dichiarare quello che egli senta della
fortuna, dicendo: «Colui, lo cui saver tutto trascende», cioè Iddio,
il quale è somma sapienza, e appo il quale ogni altra sapienza è
stoltizia, «Fece li cieli», nella creazion del mondo, «e dieʼ lor chi
conduce». E in questo sente lʼautore con Aristotile, il quale tiene che
ogni cielo abbia una intelligenza, la quale il muove con ordine certo
e perpetuo: e che lʼautore questo senta, non solamente qui, ma in una
delle sue canzone distese dimostra, dicendo: «Voi, che, ʼntendendo, il
terzo ciel movete» ecc. E queste cotali intelligenzie muovono i cieli
loro commessi da Dio, «Sí chʼogni parte», della lor potenzia, «ad ogni
parte», mondana e atta a ricevere, «splende», cioè splendendo infonde,
«Distribuendo igualmente la luce». Dice «igualmente» non in quantitá,
ma secondo la indigenza della cosa che quella luce o influenzia riceve;
[«igualmente», cioè con equale affezione e operazione distribuiscono
nelle creature la potenzia loro.]

E poi segue che Domeneddio ha queste intelligenzie preposte a conducere
i cieli e a distribuire i loro effetti neʼ corpi inferiori, cosí:
«Similmente agli splendor mondani», cioè alle ricchezze e agli stati
e alle preeminenzie del mondo, «Ordinò general ministra e duce, Che
permutasse a tempo», cioè di tempo in tempo, «li ben vani», cioè
le ricchezze e gli onori temporali, li quali chiama «beni vani»,
percioché in essi alcun salutifero frutto non si truova né stabilitá;
e volle che questa cotal duce, cioè ministra, tramutasse questi beni
vani «Di gente in gente», cioè dʼuna nazione in unʼaltra, sí come noi
leggiamo essere infinite volte avvenuto neʼ tempi passati nelle gran
cose, non che nelle minori. Noi leggiamo il reame e lʼimperio degli
assiri esser trapassato neʼ medi, e deʼ medi neʼ persi, e deʼ persi
neʼ greci, e deʼ greci neʼ romani; e, lasciando stare gli antichi, deʼ
quali di molti altri regni e signorie si potrebbe dire il simigliante,
noi abbiamo veduto neʼ nostri dí la gloria e lʼonore dellʼarmi e
della magnificenza, e della Magna e deʼ franceschi, esser trapassata
neglʼinghilesi; e quivi non è da credere che ella debba star ferma,
ma, come in coloro è stata trasportata, cosí ancora in brieve tempo si
trasmuterá in altrui.

E segue: «e dʼuno in altro sangue». La sentenza delle quali parole,
quantunque una medesima possa essere con la superiore, nondimeno,
volendola a piú brieve permutazione e di minor fatto deducere, possiam
dire «dʼuna famiglia in unʼaltra», in quanto dʼun medesimo sangue si
tengono quegli che dʼuna medesima famiglia sono; sí come, accioché le
cose antiche pospognamo, abbiam potuto vedere e veggiamo nella cittá
nostra piena di queste trasmutazioni. Furon deʼ nostri dí i Cerchi,
i Donati, i Tosinghi e altri in tanto stato nella nostra cittá, che
essi come volevano guidavano le piccole cose e le grandi secondo il
piacer loro, ove oggi appena è ricordo di loro; ed è questa grandigia
trapassata in famiglie, delle quali allora non era alcun ricordo. E
cosí da quegli, che ora son presidenti, si dee credere che trapasserá
in altri. E questo senza alcun fallo addiviene «Oltre la difension
deʼ senni umani». Alla dimostrazione della qual veritá si potrebbono
inducere infinite istorie e mille dimostrazioni; ma, percioché assai
può a ciascuno esser manifesto i senni degli uomini non valere a
potere gli stati temporali fermare, si può far senza piú stendersene in
parole..

E per queste permutazioni avviene «Che una gente impera»,
signoreggiando, «e lʼaltra langue», servendo; e ciò avviene,
«Seguendo», i mondani beni, «il giudicio di costei», cioè di questa
ministra; il qual giudicio, «Che sta occulto», aʼ sensi umani, «come
in erba lʼangue». _Anguis_ è una spezie di serpenti, la quale ha la
pelle verde, e volentieri e massimamente la state, abita neʼ prati fra
lʼerbe; e percioché egli è con lʼerbe dʼun medesimo colore, rade volte
fra quelle è prima veduto che toccato e sentito. E cosí, dice lʼautore,
il giudicio o il consiglio di questa ministra è sí occulto aʼ sensi
umani, chʼegli non può prima esser conosciuto che sentito. Ed oltre a
questo, roborando ancora lʼautore la predetta cagione, séguita:

«Vostro saver non ha contasto a lei». Quasi voglia in queste parole
pretendere che, ancora che noi, o per industria o ancora per chiara
dimostrazione, conoscessimo o vedessimo quello a che il giudicio di
questa ministra sʼinchina, non pare che, per nostro sapere o ingegno,
possiamo a quello contastare o opporci in guisa che valevole sia: e
questo essere vero, sʼè giá per molte manifeste cose veduto. [Creso,
re di Lidia, vide in sogno essergli tolto Atis, suo figliuolo, da
Ferrea, ecc. Mostrò Iddio ad Astiage re deʼ medi, in due sogni, che il
figliuolo, il quale ancora non era generato di Mandane, sua figliuola,
il dovea privare dello ʼmperio dʼAsia: né gli giovò il maritarla ad
uomo non degno di moglie nata di real sangue, né il far poi gittare il
figliuol natone alle fiere, che quello non avvenisse giá nel consiglio
di questa ministra fermato. Non poterono lʼavere cacciato del regno
dʼAlba in villa Numitore, dʼavere ucciso Lauso, suo figliuolo, dʼaver
fatta vergine vestale Ilia, sua figliuola, adoperare che Amulio non
fosse del regno gittato, né restituitovi Numitore. Infiniti sarebbono
gli esempli che ad approvar questo si potrebbon mostrare, lasciandoci
tirare allʼattitudine dataci daʼ cieli: ma, se noi vorremo esser
prudenti, e seguire il consiglio della ragione, con la forza del libero
arbitrio che noi abbiamo, noi contrasteremo a lei, sí come dice
Giovenale: «_Nullum numen_», ecc., percioché il seguir noi il desiderio
concupiscibile, ne fa rimaner vinti daʼ movimenti di questa ministra,
ecc.]

E perciò segue: «Ella», cioè questa ministra e duce, «provvede, giudica
e persegue Suo regno». E dice «provvede», in quanto provvedute paiono
quelle cose le quali da ordinato e discreto fattore prodotte sono,
sí come son queste terrene da ordinato movimento deʼ cieli produtte,
secondo la potenzia deʼ quali esse si permutano, non altramente che se
da giudicio dato si movessero; e cosí par questa ministra da singolare
ed occulta diliberazion perseguire quello che giudicato pare, cioè
le cose commesse a lei; «come il loro» regno «gli altri dèi», cioè
lʼintelligenze, delle quali di sopra è detto.

[E, in questa parte, lʼautore, quanto piú può, secondo il costume
poetico parla, li quali spesse volte fanno le cose insensate,
non altramenti che le sensate, parlare e adoperare, ed alle cose
spirituali dánno forma corporale, e, che è ancora piú, alle passion
nostre approprian deitá, e dánno forma come se veramente cosa umana e
corporea fossero; il che qui lʼautore usa, mostrando la fortuna aver
sentimento e deitá; conciosiacosaché, come appresso apparirá, questi
accidenti non possano avvenire in quella cosa la quale qui lʼautore
nomina «fortuna», se poeticamente fingendo non sʼattribuiscono. Dalle
quali fizioni è venuto che alcuni in forma dʼuna donna dipingono questo
nome di fortuna, e fascianle gli occhi, e fannole volgere una ruota,
sí come per Boezio, _De consolatione_, appare. Ma chi le fascia gli
occhi, non intende bene ciò che fa, percioché, come appresso apparirá,
ogni permutazion dì costei va a diterminato e veduto fine; e, se
lʼeffetto di quella non segue, non è per ignoranza dei causatori della
permutazione, ma per lo libero arbitrio di colui in cui si dirizza, il
quale avvedutamente quella ischifa.]

«Le sue permutazion», che questa ministra fa nei beni temporali,
«non hanno triegue», cioè intermessione alcuna, sí come coloro che
guerreggiano hanno neʼ tempi delle triegue; e, percioché nelle sue
permutazioni non è alcun riposo, può apparire che «Necessitá la fa
esser veloce». E in queste parole vuole intendere lʼautore i movimenti
di questa ministra continui essere di necessitá: [le quali parole, non
bene intese, potrebbon generare errore, il quale con la grazia di Dio
si torrá via qui appresso, dove, esplicato il testo a questa ministra
pertenente, dimostrerò quello che intendo essere questa fortuna.] «Sí
spesso vien», il suo permutare, nel quale ella appare esser veloce,
«che vicenda consegue», cioè che egli pare questo suo permutare
vicendevolmente seguire: in quanto alcuna volta veggiamo uno medesimo
uomo, di quale che stato si sia, essere e felice e misero piú volte
nella vita sua.

«Questa», cioè fortuna, «è colei, che tanto è posta in croce», dalle
bestemmie e daʼ rammarichii, «Pur da color che le dovrian dar lode», sí
come uomini ben trattati da lei, «Dandole biasmo a torto e mala voce»,
cioè neʼ loro rammarichii dicendo sé esser mal trattati da lei, dove
sono trattati bene e molto meglio che essi non son degni. «Ma ella sʼè
beata», cioè eterna, «e ciò non ode», cioè le bestemmie eʼ rammarichii:
«Con lʼaltre prime creature», cioè coʼ cieli e con le intelligenzie
separate, «lieta, Volge sua spera», cioè la ruota, per la quale si
discrivono le sue veloci circunvoluzioni delle sustanze temporali; «e
beata si gode», non curando di queste cose.

[Ora, avanti che piú oltre si proceda, è da vedere che cosa sia questa
fortuna, della qual qui lʼautore domanda Virgilio; quantunque molte
cose in dimostrarlo nʼabbia dette lʼautore, e, conchiudendo, mostri
di volere lei essere una ministra di Dio, posta sopra il governo
delle cose temporali; dalla qual conclusione non è mia intenzion
di partirmi, ma di dilucidarla alquanto piú, secondo che Iddio mi
presterá. E, come che molti per avventura abbian creduto o credano,
io estimo questa ministra dei beni temporali non essere altro se non
lʼuniversale effetto deʼ vari movimenti deʼ cieli, li quali movimenti
si credono esser causati dal nono cielo, e il movimento uniforme di
quello esser causato dalla divina mente, e cosí per questi mezzi sará
lʼuniversale effetto deʼ movimenti deʼ cieli causato dalla divina mente
e per conseguente dato da essa amministratore e ordinatore deʼ beni
temporali, deʼ quali essi movimenti deʼ cieli sono causatori. E dicesi
dato ministro, piú tosto a dimostrazione che cosa possa essere questo
nome fortuna attribuito a questi mutamenti delle cose, che perché alcun
ministerio vi bisogni, se non essa medesima operazion deʼ cieli. E
percioché di questo effetto sono propinquissima causa i cieli, e sia
opinion deʼ filosofi il causato, almeno in certe parti, esser simile
al causante, sí come le piú volte suole esser simigliante il figliuolo
al padre; pare che, se i cieli sono in continuo moto, che lʼuniversale
loro effetto, il quale è intorno alle cose inferiori e temporali,
similmente debba essere in continuo movimento: e se lʼuniversale
effetto è in movimento continuo, le sue particularitá similmente in
continuo movimento saranno; e cosí seguirá le cose governate essere
convenienti e conformi alla cosa che le governa, causa e dispone; e
per conseguente quelle ottimamente dover seguire la disposizion data
dal governante. E percioché egli non par possibile cosa che glʼingegni
umani comprendano le particularitá infinite di questo universale
effetto deʼ cieli: sí come noi possiam comprendere nelle continue
fatiche, e le piú delle volte vane degli strologi, li quali, quantunque
lʼarte sia da sé vera e da certi fondamenti fermata, nondimeno non
paiono glʼingegni umani essere di tanta capacitá che essi possan
comprendere ogni particularitá di cosí gran corpo, come è il cielo, né
ancora pienamente le rivoluzioni, congiunzioni, mutazioni e aspetti
deʼ corpi deʼ pianeti; e per conseguente cognoscere né quello che il
cielo dimostra dover producere, né quello che a dò seguire o fuggire,
per avere o per fuggire quello che sʼapparecchia, sia sofficiente né
bastevole: e però ottimamente dice lʼautore i consigli umani non poter
comprendere né contastare alle occulte, quanto è a noi, operazioni
di questo effetto. Ed esso effetto non è altro che permutazioni
delle cose prodotte daʼ cieli, le quali, non avendo stabilitá coloro
dai quali causate sono, né esse similmente possono avere stabilita;
e se i movimenti deʼ cieli son veloci, e le cose causate da loro
seguono la similitudine del causante, sará di necessitá questo loro
effetto universale esser movibile e di veloce moto, come essi sono; e
seguiranne quello che noi continuamente nelle cose temporali veggiamo,
cioè le rivoluzioni continue e le permutazioni e delle gran cose e
delle minori.]

[Né osta quello che per avventura alcuni potrebbon dire, cioè di vedere
alcune cose non muoversi mai, o muoversi di rado e con difficultá, sí
come sono le cittá e simili cose, le quali lungo tempo consistono:
intorno alla qual cosa è da intendere le rivoluzioni deʼ cieli
adoperare secondo la disposizione delle cose, le quali esse operazioni
deʼ cieli ricevono. Domeneddio creò la terra stabile e perpetua, e però
non atta ad alcun moto per sé medesima; ma, se dalle mani degli uomini
ella è messa in alcuna opera, e tratta della sua stabilitá, adoperano
i cieli sopra questa materia tarda e grave tardamente. Ma nondimeno,
quantunque tardo e rado sia il movimento, pur la muovono; e però le
cittá, che di materia terrea paion composte, non senza gran cagione si
muovono tardamente. E nondimeno questo tardo movimento, considerata la
natura della cosa che si muove, si può dire veloce, ecc.]

[Ora hanno gli uomini a questo effetto posto nome «fortuna» a
beneplacito, come quasi a tutte lʼaltre è stato posto; e, secondo che
le cose secondo i nostri piaceri o contrarie nʼavvengono, le chiamiamo
«buona fortuna» e «mala fortuna». E furono in tanta semplicitá, anzi
sciocchezza, i gentili, che, non avendo riguardo alla sua origine, la
stimarono una singular deitá, in cui fosse potenza di dar bene e male,
secondo il beneplacito suo; e per averla benivola, le feciono templi e
ordinarono sacerdoti c sacrifici, seguendo per avventura, piú che la
veritá, la sentenza di questi versi:

  _Si Fortuna volet, fies de rhetore consul;
  si volet haec eadem, fies de consule rhetor,_ ecc.

E se alcune genti furono che intorno a questa bestalitá peccassero,
i romani piú che gli altri vi peccarono. Nondimeno, quantunque di
necessitá paia, come detto è, questa fortuna nelle sue amministrazioni
esser veloce, non è questa necessitá imposta se non sopra i movimenti
delle cose causate daʼ cieli, delle quali lʼanime nostre non sono,
percioché sopra i cieli son create da Dio e infuse neʼ corpi nostri,
dotate di ragione, di volontá e di libero arbitrio; e perciò niuna
necessitá in noi può causare in farci ricchi o poveri, potenti o non
potenti contro a nostro piacere. Il che in assai sʼè potuto vedere, in
Senocrate e in Diogene, in Fabbrizio e in Curzio e in altri assai; il
che chiaramente Giovenale il dimostra nel verso preallegato, dicendo:

  _Nullum numen abest, si sit prudentia; nos te,
  nos facimus, Fortuna, deam, coeloque locamus._

E questo avviene per la nostra sciocchezza, seguendo piú tosto con
lʼappetito la sua volubilitá che la forza del nostro libero arbitrio,
per lo quale nʼè conceduto di potere scalpitare e aver per nulla ogni
sua potenza.]

[Adunque questo effetto universale deʼ movimenti deʼ cieli e delle
loro operazioni, secondo il mio piccolo conoscimento, credo si possa
dire essere quella cosa la quale noi chiamiamo «fortuna», e la qual
noi vogliamo esser ministra e duce deʼ beni temporali. E in questa
opinione, se io intendo tanto, mi par che fossero queʼ poeti, li quali
sentirono che lʼuna delle tre sorelle chiamate «parche», o fate che
vogliam dire, cioè Cloto, Lachesis e Atropos, alle quali la concezione
e il nascimento di ciascun mortale, e similmente la vita e la morte
attribuiscono, fosse questa Fortuna; e quella, di queste tre, vogliono
che sia Lachesis, cioè quella la qual dicono che, nascendo noi, ne
riceve e nutrica in vari e molti mutamenti, infino al dí della morte.
E questa, secondo la qualitá della vita di ciascuno, il parer degli
uomini seguitando, dicono esser buona e malvagia fortuna. E percioché,
come detto è, in essa vita consistono le revoluzioni eʼ mutamenti di
ciascuno, assai appare ciò non essere altro che lʼuniversale effetto di
tutti i cieli, daʼ quali questi movimenti, quanto al corpo, son causati
in noi.]

[E questa fortuna chiama lʼautore «dea», poeticamente parlando, e
secondo lʼantico costume deʼ gentili, li quali ogni cosa, la qual
vedeano che lungamente durar dovesse o esser perpetua, deificavano, sí
come i cieli, le stelle, i pianeti, gli elementi, i fiumi e le fonti,
li quali tutti chiamavano «dèi»: e però vuol lʼautore sentire per
questa deitá la perpetuitá di questo effetto, il quale tanto dobbiam
credere che debba durare quanto i cieli dureranno e produceranno gli
effetti li quali producer veggiamo. Ora che che io mʼabbia detto
intorno a questa fortuna, intendo che, in questo e in ognʼaltra cosa,
sempre sia alla veritá riservato il luogo suo.]

[Nota: Lez. XXVIII]

«Or discendiamo ornai a maggior pièta», ecc. Qui comincia la seconda
parte del presente canto, nella quale lʼautore fa tre cose: prima
dimostra come discendesse nel quinto cerchio dello ʼnferno, dove dice
trovò la padule chiamata Stige; nella seconda dimostra in questo quinto
cerchio esser tormentati due spezie di peccatori: iracondi e accidiosi;
nella terza scrive come per lo cerchio medesimo procedesse avanti. La
seconda comincia quivi: «Ed io, che di mirar»; la terza quivi: «Cosí
girammo».

Dice adunque: «Or discendiamo omai»; quasi dica: assai abbiamo
ragionato della fortuna, e però discendiamo «a maggior pièta», cioè a
maggior dolore. E mostra la cagione, per la quale il sollecita allo
scendere, dicendo: «Giá ogni stella scende, che saliva Quando mi
mossi». Nelle quali parole lʼautore discrive che ora era della notte,
e mostra che egli era passata mezza notte; percioché ogni stella, la
quale sovra lʼorizzonte orientale della regione cominciava a salire
in su il farsi sera (come era quando si mossono, ed egli stesso il
dimostra, dicendo: «Lo giorno se nʼandava»), era salita infino al
cerchio della mezza notte, donde, poiché pervenute vi sono, cominciano,
secondando il cielo il suo girare, a discendere verso lʼorizzonte
occidentale. E, fatta questa discrizion dellʼora della notte, quasi per
quella voglia dire aver mostrato loro essere stati molto, subgiugne la
seconda cagione per la quale il sollecita a discendere, dicendo: «e ʼl
troppo star si vieta», cioè mʼè proibito da Dio, per lo mandato del
quale io vengo teco.

«Noi ricidemmo il cerchio», cioè pel mezzo passammo, e andammone
«allʼaltra riva», cioè alla parte opposita: e quivi pervennero
«Sovrʼuna fonte che bolle», per divina arte, «e riversa», lʼacqua cosí
bogliente, «Per un fossato che da lei deriva», cioè si fa dellʼacqua
che essa fonte riversa. «Lʼacqua», la qual questa fonte riversa, «era
buia», cioè oscura, «assai», vie, «piú che persa». È il perso un colore
assai propinquo al nero, e perciò, se questa acqua era piú oscura che
il color perso, séguita che ella doveva esser nerissima. [Pigliano
lʼacque i colori, i sapori, i calori e lʼaltre qualitá nel ventre della
terra: ut «pontica», quasi nera per lo luogo che ha a dar quel colore;
«altheana», quasi lattea, perché passa per luoghi piombosi; lʼolio
petroio dʼAllacone, lʼacque di Volterra, lʼacque dʼAmbra, lʼacqua da
Santa Lucia di Napoli.] «E noi», Virgilio e io, «in compagnia dellʼonde
bige», cioè lunghesso lʼacque bigie, come i compagni vanno lʼuno
lunghesso lʼaltro per un cammino (e chiama questʼacqua oscura e nera
«bigia», non volendo però per questo vocabolo mostrarla men nera, ma,
largamente parlando, lo ʼntende per nero); e cosí, andando con queste
onde bigie, «Entrammo giú», discendendo, «per una via diversa», cioè
malvagia.

Poi segue: «Una palude fa, cʼha nome Stige, Questo tristo ruscel»;
e vuolsi questa lettera cosí ordinare: «Questo tristo ruscel», cioè
rivicello, «fa una palude», ragunandosi in alcuna parte concava del
luogo, donde lʼacqua non aveva cosí tosto lʼuscita, «cʼha nome Stige».
E quinci dice: quando questo ruscello fa la palude, cioè «quando è
disceso», correndo, «Al piè delle malvage piagge grige», le quali in
quel cerchio sono.

[Di questa padule chiamata Stige molte cose si scrivono daʼ poeti,
la quale essi dicono essere una padule infernale, ed essere stata
figliuola del fiume chiamato Acheronte e della Terra. E, secondo che
dice Alberigo nella sua Poetria, questa Stige fu nutrice e albergatrice
degli iddii del cielo, e per essa giurano essi iddii, e non ardiscono,
quando per lei giurano, spergiurarsi, sí come dice Virgilio:

  _...Stigiamque paludem,_
  _dii cuius iurare timent et fallere numen, ecc._

E la cagione per la quale essi temono, giurando per Stige, di
spergiurarsi, è per paura della pena, la quale è che quale iddio,
avendo giurato per Istige, si spergiura, sia privato infino a certo
tempo del divino beveraggio; il quale i poeti chiamano «néttare»
cioè dolcissimo e soave. E questa onorificenzia vogliono esserle
stata conceduta, percioché la Vittoria, la quale fu sua figliuola, fu
favorevole aglʼiddii quando combatterono coʼ figliuoli di Titano, e
vollesi piú tosto concedere a loro che aʼ detti figliuoli di Titano.]

[Lʼallegoria di questa favola, quantunque non paia del tutto opportuna
al proposito, pure, perché in parte e qui e altrove potrá esser utile,
la scriverò. Questo nome Stige è interpetrato «tristizia», e perciò
è detta figliuola dʼAcheronte, il qual, come davanti è detto, viene
a dire «senza allegrezza». Pare ad Alberigo che colui, il quale è
senza allegrezza, agevolmente divenga in tristizia, anzi quasi par
di necessitá che egli in tristizia divenga; e cosí dallʼessere senza
allegrezza nasce la tristizia. Che ella sia figliuola della Terra, par
che proceda da ragion naturale, peroché, conciosiacosaché tutte lʼacque
procedano da quello unico fonte mare Oceano, e di quindi venire per le
parti intrinseche della terra, infino al luogo dove esse fuori della
terra si versano; pare assai conveniente dovere esser detto figliuolo
della Terra ciò che esce del ventre suo, come lʼacqua fa che è in
questa palude.]

[Che ella sia nutrice e albergatrice deglʼiddii, non vollero i poeti
senza cagione. Intorno al qual senso è da sapere che sono due maniere
di tristizia: o lʼuomo sʼattrista percioché egli non può aʼ suoi
dannosi desidèri pervenire; o lʼuomo sʼattrista cognoscendo che egli
ha alcuna o molte cose meno giustamente commesse. La prima spezie di
tristizia non fu mai nutrice né albergatrice deglʼiddii, anzi è loro
nimica e odiosa, intendendo glʼ«iddii» per lʼanime deʼ beati; ma la
seconda fu ed è nutrice deglʼiddii, cioè di coloro li quali divengono
iddii, cioè beati: percioché il dolersi e lʼattristarsi delle cose men
che ben fatte, niuna altra cosa è che prestare alimenti alla virtú, per
la quale i gentili andarono nelle lor deitá, secondo che le loro storie
ne mostrano; e noi cristiani, per lʼattristarci deʼ nostri peccati,
nʼandiamo in vita eterna, nella quale noi siamo veri iddii e non vani.
Queste due spezie di tristizia, mostra Virgilio dʼavere ottimamente
sentito nel sesto del suo _Eneida_, lá dove egli manda i perfidi e
ostinati uomini in quella parte dello ʼnferno, la quale esso chiama
Tartaro, nella quale non è alcuna redenzione; e gli altri, li quali
hanno sofferto tristizia e pena per le lor colpe, mena neʼ campi Elisi,
cioè in quello luogo ove egli intende che sieno le sedie deʼ beati.
O vogliam dire quello che per avventura piú tosto i poeti sentirono,
glʼiddii, i quali costei nutrica e alberga, essere il sole e le stelle,
le quali alcuna volta ne vanno in Egitto: e questo è nel tempo di
verno, quando il sole, essendo rimoto da noi, è in quella parte del
zodiaco, la quale gli astrologhi chiamano «solestizio antartico».
Percioché, oltre agli egizi meridionali in quelle parti abitanti,
esso fa quello che gli astrologhi chiamano «_zenit capitis_»; e in
questo tempo sono nutriti il sole e le stelle dalla palude di Stige,
secondo lʼopinione di coloro li quali stimavano che i fuochi dei corpi
superiori della umiditá deʼ vapori surgenti dallʼacqua si pascessero;
e appo questa palude di Stige, mentre nel mezzo dí dimorano, stanno e
albergano. Che questa padule di Stige, secondo la veritá, sia sotto
la plaga meridionale, il dimostra Seneca in quel libro il quale egli
scrisse _Delle cose sacre dʼEgitto_, dicendo che la palude di Stige è
appo coloro che nel superiore emisperio sono; mostrando appresso che
non guari lontano da Siene, estrema parte dʼEgitto verso il mezzodí,
essere un luogo il quale è chiamato daʼ greci «_phile_», il quale è
tanto a dire quanto «amiche»: e appo quel luogo essere una grandissima
padule, la quale, conciosiacosaché a trapassarla sia molto malagevole
e faticoso, percioché è molto limosa e impedita daʼ giunchi, li quali
essi chiamano «papiri», è appellata Stige, percioché è cagion di
tristizia, per la troppa fatica aʼ trapassanti.]

[Che glʼiddii giurino per questa palude di Stige, può esser la ragion
questa: noi siamo usati di giurare per quelle cose le quali noi
temiamo, o per quelle le quali noi desideriamo; ma chi è in somma
allegrezza, non pare che abbia che desiderare, quantunque abbia che
temere; e questi cotali sono glʼiddii, i quali i gentili dicevano
esser felici: e perciò, non avendo costoro che desiderare, resta che
giurino per alcuna cosa la quale sia loro contraria; e questa è la
tristizia. E che chi si spergiura sia privato del divin beveraggio,
credo per ciò essere detto, percioché coloro, li quali di felice stato
son divenuti in miseria, solevan dire essersi spergiurati, cioè men che
bene avere adoperato, e cosí essere divenuti dalla dolcezza del divin
beveraggio, cioè dalla felicitá, nellʼamaritudine della miseria.]

[Costei esser madre della Vittoria si dice per tanto, che delle guerre
non sʼha vittoria per far festa, mangiare e bere, ballare o cantare,
né ancora per fortemente combattere, ma per lo meditare assiduo e
faticarsi intorno alle cose opportune, in far buona guardia, in
ispiare i mutamenti e gli andamenti deʼ nemici, in por gli aguati, in
prendere i vantaggi e simili cose, le quali sanza alcun dubbio hanno ad
affligger lʼuomo e a tenerlo, almeno nel sembiante, tristo.]

«Ed io, che di mirar mi stava atteso». Qui comincia la seconda parte
della seconda principale di questo canto, nella quale dimostra esser
tormentati in questa padule bogliente glʼiracundi e gli accidiosi. Dice
adunque: «Ed io, che di mirar», in questa padule, «mi stava atteso»,
cioè sollecito, «Vidi genti fangose in quel pantano», cioè in quella
padule; e dice «fangose», percioché le padule sono generalmente tutte
nelli lor fondi piene di loto e di fango, per lʼacqua che sta oziosa
e non mena via quel cotal fango, come quelle fanno che corrono, e
perciò chi in esse si mescola di necessitá è fangoso: «Ignude tutte, e
con sembiante offeso», per lo tormento sí del bollor dellʼacqua, e sí
ancora delle percosse che si davano. «Questi», fangosi, «si percotean,
non pur con mano», battendo e offendendo lʼun lʼaltro e se medesimi,
«Ma con la testa», cozzando lʼuno contro lʼaltro, «e col petto», lʼun
contro allʼaltro impetuosamente scontrandosi, «e coʼ piedi», dandosi
deʼ calci, e «Troncandosi coʼ denti», le membra e la persona, «a brano
a brano», cioè a pezzo a pezzo.

«Lo buon maestro disse». Qui gli dichiara Virgilio chi costor sieno
che cosí si troncano, e dice:—«Figlio, or vedi Lʼanime di color
cui vinse lʼira», mentre vissero in questa vita; «Ed anco voʼ che
tu per certo credi Che sotto lʼacqua», di questa padule, «ha gente
che sospira», cioè che si duole, «E», sospirando, «fanno pullular
questʼacqua al summo». Noi diciamo nellʼacqua «pullulare» quelle
gallozzole o bollori, li quali noi veggiamo fare allʼacqua, o per aere
che vi sia sotto racchiusa e esca fuori, o per acqua che di sotterra
vi surga. «Come lʼocchio», cioè il viso, «ti dice uʼ che sʼaggira»; e
cosí mostra in queste parole la padule esser piena di questi bollori,
e per conseguente dovere esser molta la gente, la quale sotto lʼacqua
sospirava o si doleva.

«Fitti nel limo». «Limo» è quella spezie di terra, la qual suole
lasciare alle rive deʼ fiumi lʼacqua torbida, quando il fiume viene
scemando, la qual noi volgarmente chiamiamo «belletta»; e di questa
maniera sono quasi tutti i fondi deʼ paduli. Dice adunque che in
questa belletta nel fondo del padule sono fitti i peccatori, li quali
«dicon:—Tristi fummo, Nellʼaer dolce, che del sol sʼallegra», cioè
si fa bella e chiara, «Portando dentro», nel petto nostro, «accidioso
fummo», cioè il vizio dellʼaccidia, il qual tiene gli uomini cosí
intenebrati e oscuri come il fummo tiene quelle parti nelle quali egli
si ravvolge. Poi segue: e percioché noi fummo tristi nellʼaer dolce,
qui «Or ci attristiam», cioè piagnamo e dogliamci «nella belletta
negra»,—in quel fango di quella padule, lʼacqua della quale ha di
sopra mostrata esser nera; e perciò conviene che la belletta sia nera
altresí, in quanto ella suole sempre avere il color dellʼacqua sotto la
quale ella sta e che la mena.

«Questʼinno». Glʼ«inni» son parole composte di certe spezie di versi,
e contengono in sé le laude divine, sí come appare nello Innario,
il quale compose san Gregorio, e che la Chiesa di Dio canta neʼ
suoi uffici; ma in questa parte scrive lʼautore il vocabolo, ma non
lʼeffetto di quello, percioché dove lʼinno contiene la divina laude
propriamente, quello che questi peccatori, piangendo e dolendosi,
dicono in modo dʼinno, contiene la lor miseria e la lor pena. «Si
gorgoglian nella strozza». La «strozza» chiamiam noi quella canna la
qual muove dal polmone e vien sú insino al palato, e quindi spiriamo e
abbiamo la voce, nella quale se alcuna soperchia umiditá è intrachiusa,
non può la voce nostra venir fuori netta ed espedita; e sono allora le
nostre parole piú simili al gorgogliare, che fa talvolta uno uccello,
che ad umana favella. E percioché questi peccatori hanno la gola
piena del fango e dellʼacqua del padule, è di necessitá che essi si
gorgoglino questo lor doloroso inno nella strozza, perciò «Che dir noi
posson con parola intègra», perché è intrarotta dalla superchia umiditá.

«Cosí girammo». Qui comincia la terza parte di questa seconda parte
principale, nella quale lʼautore dimostra il processo del loro andare,
e dove pervenissero, dicendo: «Cosí», riguardando i miseri peccatori
che nella padule si offendevano, e ragionando, «girammo della lorda
pozza Grandʼarco», cioè gran quantitá vòlta in cerchio, a guisa dʼun
arco. E chiamala «pozza», il quale è proprio nome di piccole ragunanze
dʼacqua; e questo, come altra volta è detto, è conceduto aʼ poeti
(cioè dʼusare un vocabolo per un altro), per la stretta legge deʼ
versi, della quale uscir non osano. E quinci dice che egli girarono,
«tra la ripa secca», alla quale non aggiugneva lʼacqua del padule, «e
ʼl mezzo», del padule, «Con gli occhi vòlti a chi del fango ingozza»,
cioè aʼ peccatori, li quali erano in quel padule: «Venimmo al piè dʼuna
torre al dassezzo», cioè poi che noi avemmo lungamente aggirato.



II

SENSO ALLEGORICO


[Nota: Lez. XXIX]

[«_Papé Satan, papé Satan aleppe_», ecc. Dimostrò lʼautore nel
precedente canto come la ragione gli dimostrò qual fosse la colpa
della gola, e che supplicio fosse dalla divina giustizia posto aʼ
gulosi, li quali in quel peccato morivano; e, continuandosi alle cose
precedenti, discrive come, seguendo la ragione, gli fosse da lei
dimostrato che cosa fosse il peccato dellʼavarizia e similmente quello
della prodigalitá, e similmente qual pena ne fosse data a coloro che
in esse erano vivuti e morti peccatori, e sotto il cui imperio puniti
fossero: procedendo appresso in questo medesimo canto, come, veduti
questi, seguendo la ragione, gli fossero dalla detta ragione mostrate
altre due spezie di peccatori, cioè glʼiracundi e gli accidiosi, e il
loro tormento. E però primieramente vedremo, come di sopra si promise,
quello che lʼautore intenda per Plutone prencipe di questo cerchio;
e appresso che cosa sia avarizia, e in che pecchi lʼavaro; e poi che
cosa sia prodigalitá, e in che pecchi il prodigo; e quinci qual sia la
pena lor data per lo peccato commesso, e come la pena si confaccia al
peccato. E, questo veduto, procederemo a vedere che peccato sia quello
dellʼira, e poi quello dellʼaccidia, e qual pena agli accidiosi e agli
iracundi data sia, e come essa si conformi alla colpa.]

[Truovansi adunque, secondo che esponendo la lettera è detto, essere
stati due Plutoni, deʼ quali per avventura ciascuno potrebbe assai
attamente servire a questo luogo, quantunque lʼuno molto meglio che
lʼaltro, sí come apparirá appresso. Diceva adunque Leon Pilato che uno,
il quale fu chiamato Iasonio, aveva amata Cerere, dea delle biade, e
con lei sʼera congiunto, e di lei avea ricevuto un figliuolo, il quale
avea nominato Pluto. Sotto il qual fabuloso parlare è questa istoria
nascosa, cioè che, al tempo del diluvio il quale fu in Tessaglia aʼ
tempi del re Ogigio, si trovò in Creti un mercatante, il quale ebbe
nome Iasonio; e questi essendo molto ricco, e avendo, per la fertilitá
stata il precedente anno, trovata grandissima copia di grano, e quella
comperata a quel pregio che esso medesimo aveva voluto; udendo il
diluvio stato in Tessaglia, e come egli aveva non solamente guasti i
campi e le semente del paese, ma ancora corrotta ogni biada, la quale
per i tempi passati ricolta vi si trovò, e i circustanti popoli esserne
mal forniti a dover potere sovvenirne quegli delle contrade dove stato
era il diluvio; caricati piú legni di questo suo grano, lá navicò, e
di quello ebbe daʼ paesani ciò che egli addomandò; e in questa guisa,
ispacciatol tutto, fece tanti denari, che a lui medesimo pareva uno
stupore: e in questa maniera di Cerere, cioè del suo grano, generò
Plutone, cioè una smisurata ricchezza. E in questo luogo si pone
Plutone, per lo quale sʼintendono le ricchezze mondane, a tormentare
coloro che quelle seppero male usare, sí come appresso apparirá;
e perciò assai convenientemente qui si potrebbe di questo Plutone
intendere.]

[Ma, come di sopra dissi, molto meglio si conformerá al bisogno questo
altro, del quale si legge che Plutone, il quale in latino è chiamato
_Dispiter_, fu figliuolo di Saturno e della moglie, il cui nome fu
_Opis_, e come altra volta giá è detto, nacque ad un medesimo parto
con Glauca, sua sorella, e occultamente, senza saperlo Saturno, fu
nutricato e allevato. Costui finsero gli antichi essere re dello
ʼnferno, e dissero la sua real cittá esser chiamata Dite, della quale
assai cose scrive Virgilio nel sesto dellʼ_Eneida_ quivi:

  _Respicit Aeneas subito et sub rupe sinistra
  moenia lata videt, ecc._

E appresso a Virgilio, discrive la sua corte e la sua maestá Stazio nel
suo _Thebaidos_, dicendo:

  _Forte sedens media regni infelicis in arce
  dux Herebi populos poscebat crimina vitae,
  nil hominum miserans iratus et omnibus umbris:
  stant furiae circum variaeque ex ordine mortes,
  saevaque multisonas exercet poena catenas:
  fata ferunt animas,_ ecc.

E, oltre a questo, gli attribuirono un carro, sí come al sole; ma,
dove quello del sole ha quattro ruote, disson questo averne pur tre, e
chiamarsi «triga»; e quello dissero esser tirato da tre cavalli, i nomi
deʼ quali dissono esser questi: Meteo, Abastro e Novio. E, oltre a ciò,
accioché senza moglie non fosse, dice Ovidio esso aversela trovata in
cosí fatta maniera, che, essendosi un dí Tifeo con maravigliose forze
ingegnato di gittarsi da dosso Trinacria, alla quale egli è sottoposto,
parve a Plutone che, se questo avvenisse, esser possibile a dover poter
trapassare infino in inferno la luce del giorno; e perciò, venuto a
procurare come fondata e ferma fosse Trinacria e a quella andando
dʼintorno, ed essendo pervenuto non lontano a Siragusa, gli venne
veduta in un prato una vergine chiamata Proserpina, la quale con altre
vergini andava cogliendo fiori; e percioché essa sprezzava le fiamme
di Venere e recusava i suoi amori, avvenne che, come Plutone veduta
lʼebbe, subitamente sʼinnamorò della sua bellezza: e perciò, piegato
il carro suo, nʼandò in quella parte, e, presa Proserpina, la quale di
ciò non suspicava, seco ne la portò in inferno, e quivi la prese per
moglie. E, oltre a questo, dicono lui avere avuto un cane, il quale
aveva tre teste ed era ferocissimo, e quello avere posto a guardia
del suo regno. Del quale cane dice cosí Seneca tragedo nella tragedia
dʼ_Ercole furente_:

  _Post haec avari Ditis apparet domus.
  Hic saevus umbras territat Stygius canis,
  qui terna vasto capita concutiens sono
  regnum tuetur: sordidum tabo caput
  lambunt colubrae: viperis horrent iubae
  longusque torta sibilat cauda draco.
  Par ira formae,_ ecc.]

[Le quali molte fizioni al nostro proposito io intendo cosí: Plutone
voglion molti, come altra volta è stato detto, vegna tanto a dire
quanto «terra»: come che, secondo Fulgenzio, «Plutone» in latino suona
tanto quanto «ricchezza»; e perciò è chiamato daʼ latini «_Dispiter_»,
quasi «padre delle ricchezze»: e che le periture ricchezze consistano
in terra, o di sotterra si cavino, questo è chiarissimo; ed «_Opis_»
è chiamata la terra, e perciò meritamente Plutone è detto non
solamente «terra», ma ancora «figliuolo della terra». Ma, percioché
le prime ricchezze, non essendo ancora trovato lʼoro, apparvero in
parte pervenire dal lavorio della terra, e Saturno fu colui il quale
primieramente insegnò lavorare la terra, è per questo meritamente
chiamato padre di Plutone.]

[Alle ricchezze, le quali per Plutone intendiamo, è meritamente data
una cittá, la quale ha le mura di ferro, e per guardia Tesifone;
accioché per questo noi intendiamo le menti degli avari, aʼ quali le
ricchezze commesse sono, esser di ferro, e conosciamo la crudeltá loro
intorno alla guardia e tenacitá di quelle; e in questa cittá dice
Virgilio non esser licito ad alcun giusto dʼentrare:

  _Nulli fas casto sceleratum insistere limen;_

accioché egli appaia che il cercare o il servare le ricchezze senza
ingiustizia non potersi fare.]

[Per la real corte e per li circustanti a questo Plutone si deono
intendere lʼangosce e lʼansietá delle sollicitudini infinite, e
ancora le fatiche dannevoli, le quali hanno gli avari nel ragunar le
ricchezze, e ancora le paure di perderle, dalle quali sono infestati
coloro li quali con aperta gola intendono sempre a ragunarle; e per
lo carro dobbiamo considerare le circuizioni e i ravvolgimenti per lo
mondo, ora in questo e ora in quel paese discorrendo, che fanno coloro
li quali e tirati e sospinti sono dal disiderio di divenir ricchi; e
lʼessere il detto carro sopra tre ruote tirato, nulla altra cosa credo
significhi se non la fatica, il pericolo e la incertitudine delle cose
future, nelle quali coloro, che vanno dattorno, continuamente sono; e
cosí i cavalli tiranti questo carro dicono esser tre, a dimostrarne
di tre accidenti, li quali in questi cotali attornianti il mondo per
arricchire par che sieno.]

[Chiamasi adunque il cavallo primo Meteo, il quale è interpetrato
«oscuro», per lo quale sʼintende lʼoscura, cioè stolta, diliberazione
dʼacquistare quello che non è di bisogno, dalla quale il cupido, senza
riguardare il fine, si lascia tirare. Il secondo cavallo è chiamato
Abaster, il quale tanto viene a dire quanto «nero», accioché per
questo si conosca il dolore e la tristizia deʼ discorrenti, li quali
spessissime volte si truovano in cose ambigue e in evidenti pericoli e
in paure grandissime. Il caval terzo è nominato Novio, il qual tanto
vuol dire quanto «cosa tiepida», accioché per lui cognosciamo che
per la paura deʼ pericoli, e ancora peʼ casi sopravvegnenti, cade la
speranza di coloro che ferventissimamente disiderano dʼacquistare, e
cosí intiepidisce lʼardore il quale a ciò stoltamente gli confortava.]

[Il maritaggio di Proserpina, la quale alcuna volta significa
«abbondanza», e massimamente qui, ad alcuno non è dubbio che con altrui
che coʼ ricchi non si fa, e spezialmente secondo il giudicio del vulgo
ragguardante, la cui estimazione spessissimamente è falsa; percioché
esso quasi sempre crede che lá dove vede i granai pieni, come appo
i ricchi si veggono, che quivi sia abbondanza grandissima; dove in
contrario, essendo le menti vòte, sí come lʼavarizia procura, vʼè fame
e gran penuria dʼogni bene, e però di questo maritaggio niuna cosa si
genera che laudevole o degna di memoria sia.]

[Cerbero, cane di Plutone, estimano alcuni essere stato vero cane, e
perciò essere detto lui aver tre teste, per tre singulari proprietá,
le quali erano in lui: egli era nel latrato dʼalta voce e di sonora,
ed era mordacissimo, e, oltre a ciò, era, in tenere quello che egli
prendeva, fortissimo. Nondimeno, sotto la veritá di questo cane,
sentirono i poeti essere altri sensi riposti, in quanto è detto
«guardiano di Dite»; e però, conciosiacosaché per Dite si debbano
intender le ricchezze, sí come davanti è mostrato, non potremo piú
dirittamente dire alcuno esser guardiano di quelle se non lʼavaro; e
cosí per Cerbero sará da intendere lʼavaro, al quale perciò sono tre
teste discritte, a dinotare tre spezie dʼavari. Percioché alcuni
sono li quali sí ardentemente disiderano lʼoro, che essi cupidamente
in ogni disonesto guadagno, per averne, si lascian correre, accioché
quello, che acquistato avranno, pazzamente spendano, donino e gittin
via; i quali, avvegnaché guardiani delle ricchezze dir non si possano,
nondimeno sono pessimi e dannosi uomini. La seconda spezie è quella di
coloro li quali con grandissimo suo pericolo e fatica ragunano dʼogni
parte e in qualunque maniera, accioché tengano e servino e guardino,
e né a sé né ad altri dellʼacquistato fanno pro o utile alcuno. La
terza spezie è quella di coloro li quali non per alcuna sua opera, o
ingegno o fatica, ma per opera deʼ suoi passati, ricchi divengono, e
di queste ricchezze sono sí vigilanti e studiosi guardiani, che essi,
non altramenti che se da altrui loro fossero state diposte, le servano,
né alcuno ardire hanno di toccarle: e questi cotali sono da dire
tristissimi e miseri guardiani di Dite.]

[I serpenti, i quali sono a Cerbero aggiunti alle chiome, sono da
intendere per le tacite e mordaci cure, le quali hanno questi cotali
intorno allʼacquistare e al guardare lʼacquistato.]

[Oltre a questo, gli antichi chiamarono questo Plutone «Orco», sí come
appare nelle Verrine di Tullio, quando dice: «_Ut alter Orcus venisse
Aetnam, et non Proserpinam, sed ipsam Cererem rapuisse videbatur_»,
ecc. Il qual dice Rabano cosí essere chiamato, percioché egli è
ricettatore delle morti; conciosiacosaché egli riceva ogni uomo di che
che morte si muoia, e cosí lʼavaro ogni guadagno riceve di che che
qualitá egli si sia. E questo basti ad aver detto intorno a quello che
per Plutone si debba intendere in questo luogo. Il che raccogliendo,
sono le ricchezze e i malvagi guardatori e spenditori di quelle: e cosí
significherá questo dimonio il peccato e la cagion del peccato, il
quale in questo quarto cerchio miseramente si punisce.]

[Son certo che ci ha di quegli che si maraviglieranno, percioché
lʼallegoria, la quale io ho al presente dato a questo cane infernale,
cioè a Cerbero, non è conforme a quella la quale gli diedi nella
esposizione allegorica del precedente canto; dove mostrai lui
significare il vizio della gola, e qui dimostro io per lui significare
tre spezie dʼavarizia. Ma io non voglio che di questo alcuno prenda
ammirazione, percioché la divina Scrittura è tutta piena di simili
cose, cioè che una medesima cosa ha non solamente uno, ma due e tre e
quattro sentimenti, secondo che la varietá del luogo, dove si truova,
richiede: la qual cosa accioché voi per manifesto esempio veggiate,
mi piace per alcuna figura, e per la varietá deʼ sensi di quella
mostrarvelo.]

[Leggesi nel _Genesi_ che il serpente venne ad Eva, e confortolla
che assaggiasse del cibo il quale lʼera stato comandato che ella
non assaggiasse: perciò questo serpente doversi intendere il nemico
della umana generazione, tutti i santi uomini e dottori della Chiesa
sʼaccordano. Similmente scrive san Giovanni nellʼ_Apocalissi_ che
fu fatta una battaglia in cielo, come nellʼesposizione litterale fu
detto, nella quale san Michele arcangiolo uccise il serpente: e per
questo serpente similmente sʼintende, per tutti, il nemico nostro
antico. Per che potete vedere per gli esempli posti, per lo serpente
intendersi il diavolo. Ma in altra parte si legge nella Scrittura che,
essendo il popolo dʼIsrael venuto, dietro alla guida di Moisé, in parte
del diserto piena di serpenti, e che questi serpenti trafiggevano
e molestavano forte il popolo, e non solamente gli offendevano
dʼinfermitá, ma egli ve ne morivano per le trafitte velenose: la qual
cosa come Moisé sentí, per comandamento di Dio fece un serpente di
rame, e, dirizzata nel mezzo del popolo una colonna, vel pose suso,
e comandò che qualunque del popolo trafitto fosse, incontanente che
trafitto fosse, mostrasse quella puntura o quella piaga, che dal
serpente avesse ricevuta, a questo serpente da lui elevato, ed egli
sarebbe guerito; e cosí avveniva. Intendesi in questa parte questo
serpente elevato esser Cristo, il quale, nel mezzo del popolo ebraico
elevato in su la colonna della croce, sanò e sana tutte le piaghe
delle colpe nostre, per li conforti e per le tentazioni deʼ serpenti,
cioè deʼ nemici nostri, fatte nelle nostre anime: le quali come noi le
mostriamo a questo serpente elevato, cioè a Cristo, per la contrizione
e per la satisfazione, incontanente siamo per la sua passion liberati
e guariti dalle piaghe, le quali a morte perpetua ci traevano, E fu
questo serpente, cioè Cristo, di rame, secondo due proprietá del rame,
il quale è di colore rosso ed è sonoro: percioché Cristo nella sua
passione divenne tutto rosso del suo prezioso sangue, versato per le
punture della corona delle spine, per le battiture delle verghe del
ferro, per le piaghe fattegli nelle mani e neʼ piedi daʼ chiovi coʼ
quali fu confitto in su la croce, e per lo costato, quando gli fu
aperto con la lancia. Fu ancora questo serpente sonoro, in quanto la
sua dottrina inflno agli estremi del mondo fu predicata e udita, e
ancora si predica e predicherá mentre il mondo durerá. E cosí in una
medesima figura avete il serpente significar Cristo e ʼl dimonio:
Cristo in quanto libera, il dimonio in quanto offende.]

[Leggesi ancora per la pietra essere assai spesso nelle sacre lettere
significato Cristo, c talora lʼostinazion del dimonio. Dice il
salmista: «_Lapidem, quem reprobaverunt aedificantes, hic factus est
in caput anguli_»: e vogliono i dottori per questa pietra significarsi
Cristo. Fu nella edificazion del tempio di Salomone piú volte daʼ
maestri che ʼl muravano provato di mettere, tra lʼaltre molte pietre
che vʼerano, una pietra in lavorio, né mai si poterono abbattere a
porla in parte dove paresse loro che ella ben risedesse; ultimamente,
provandola ad un canto, il quale congiugneva due diverse pareti del
tempio, trovarono questa pietra ottimamente farsi in quel canto, e
nella congiunzion deʼ due pareti. Vogliono adunque i dottori questi
due pareti avere a significare due popoli deʼ quali Cristo compuose
il tempio suo, deʼ quali lʼuno fu di parte deʼ giudei e lʼaltro fu
deʼ gentili, deʼ quali Cristo, come che due pareti fossero, fece una
chiesa. Significano ancora le due pareti i due Testamenti, il Nuovo e
ʼl Vecchio, alla congiunzion deʼ quali solo Cristo fu sofficiente, in
quanto il suo nascimento, la sua predicazione e la sua passione furon
quelle che apersero i segreti misteri del Vecchio Testamento, velati
da dura corteccia sotto la lettera, e cosí quegli per opera congiunse
con la sua dottrina, la qual noi leggiamo nel Nuovo Testamento; e
cosí potete veder qui per la pietra significarsi Cristo. Oltre a
questo, si legge nellʼApocalissi: «_Substulit angelus lapidem quasi
molarem et misit in mare_», per la qual pietra vogliono i dottori,
sʼintendano i pessimi e malvagi uomini. Ed Ezechiel dice: «_Auferam
eis cor lapideum_», per la quale intendono i dottori la durezza della
infedelitá. E il salmista dice: «_Descenderunt in profundum, quasi
lapides_», intendendo per questa pietra il peso e la gravezza del
peccato.]

[E però, senza por piú esempli, potete vedere, comʼè detto, una
medesima cosa avere diversi sensi e diverse esposizioni: il che,
come delle figure del Vecchio Testamento addiviene, cosí similmente
addiviene delle fizioni poetiche, le quali significano quando una cosa
e quando unʼaltra.]

[Ora si suole intorno a queste esposizioni spesse volte dire per li
laici la Scrittura avere il naso di cera, e perciò i predicatori e i
dottori, secondo che lor pare, torcerlo ora in questa parte e ora in
altra. La qual cosa non è vera: percioché la Scrittura di Dio non ha il
naso di cera, anzi lʼha di diamante, del quale non si può levare, né vi
si può appiccare alcuna cosa, né si può rintuzzare, sí come quella la
quale è fondata e ferma sopra pietra viva, e questa pietra è Cristo:
ma puossi piú tosto dire questi cotali avere il cuore, lo ʼntelletto e
lo ʼngegno di cera, e perciò vedere con gli occhi incerati, e come son
fatti eglino pieghevoli ad ogni dimostrazione vera e non vera, cosí par
loro sia fatta la Scrittura; non conoscendo che la varietá deʼ sensi
è quella che nʼapre la veritá nascosa sotto il velo delle cose sacre,
la quale noi aver non possiamo, né potremmo, se sempre volessimo ad
una medesima cosa dare un medesimo significato. Non si dovranno alcuni
maravigliare, se in altra parte Cerbero significò il vizio della gola,
e in questa gli sʼattribuisce la guardia delle ricchezze.]

[Nota: Lez. XXX]

Ma, accioché noi alle spezie deʼ due peccati ci deduciamo, dico che,
secondo che i poeti scrivono, neʼ tempi che Saturno regnò, fu una etá
tanto laudevole, tanto piacevole e tanto, a coloro che allora vivevano,
graziosa e innocente, che essi la chiamarono, come altra volta è detto,
lʼ«etá dellʼoro». E, quantunque essi vogliano quella in ciascuno atto
umano essere stata virtuosa, intorno allʼappetito delle ricchezze del
tutto la discrivono innocua. Percioché essi dicono, regnante Saturno
predetto, tutti i beni temporali, avvegnaché pochi e rozzi fossero,
essere stati comuni a ciascheduno, e perciò non essersi allora trovato
alcuno che servo fosse, o che in ispezialitá alcun mercennaio servigio
facesse; ciascuno era e signore e servo di sé parimente, né era campo
alcuno che da alcun termine o fossa o siepe segnato fosse; alcuno
armento non era, che dʼesser piú dʼuno che dʼun altro si conoscesse; di
niuna pecunia era notizia, sí come di quella che ancora non era stata
da alcuna stampa segnata; né mercatante, né navilio o alcuna altra
cosa, per la quale apparer potesse alcuno in singularitá avere appetito
di possedere quello che agli altri non fosse comune, si conoscea. E per
questo vogliono, e meritamente, in queʼ secoli il mondo avere avuta
lieta pace e consolata, né alcun vizio ancora esser potuto entrare
nelle menti deʼ mortali. La quale benignitá e di Dio e della natura
delle cose, se continuata fosse stata da noi, come mostrata ne fu neʼ
primi tempi per doverla seguire e continuare, non è dubbio alcuno
[che dove avendola lasciata, e preso altro cammino, e per quello i
vizi ne trasviano allo ʼnferno] che noi, dopo riposata vita mortale,
non fossimo similmente saliti allʼeterna. Ma, poi che, tra tanta
simplicitá, tra tanta innocenzia nella vita piena di tranquillitá,
[essendone operatore il nemico dellʼumana generazione,] furon questi
due pronomi, «mio» e «tuo», seminati, tanto il santo ordine si turbò,
che grandissima parte di quegli, li quali a dovere riempiere in
paradiso le sedie degli angioli ribelli creati furono e sono, rovinano
ad accrescere il loro numero in inferno.

Entrato adunque coʼ due pronomi il veleno pestifero, del voler
ciascuno piú che per bisogno non gli era, nelle menti degli uomini,
si cominciarono i campi a partire con le fosse, a raccogliere nelle
proprie chiusure le greggi e gli armenti, a separare lʼabitazioni e a
prezzolar le fatiche; e, cacciata la pace e la tranquillitá dellʼanimo,
entrarono in lor luogo le sollecitudini, gli affanni superflui, le
servitudini, le maggioranze, le violenze e le guerre: e, quantunque con
onesta povertá alcuni vincessero e scalpitassero un tempo lʼardente
desiderio dʼavere oltre al natural bisogno, non poté però lungamente la
vertú deʼ pochi adoperare, che il vizio deʼ molti non lʼavanzasse. E,
non bastando allʼinsaziabile appetito le cose poste dinanzi agli occhi
nostri e nelle nostre mani dalla natura, trovò lo ʼngegno umano nuove
ed esquisite vie a recare in publico i nascosi pericoli: e, pertugiati
i monti e viscerata la terra, del ventre suo lʼoro, lʼariento e gli
altri metalli recarono suso in alto; e similmente, pescando, delle
profonditá deʼ fiumi e del mare tirarono a vedere il cielo le pietre
preziose e le margherite; e non so da quale esperienza ammaestrati,
col sangue di pesci e coi sughi dellʼerbe trasformarono il color della
lana e della seta; e, brevemente, ogni altra cosa mostrarono, la qual
potesse non saziare, ma crescere il misero appetito deʼ mortali. Di che
Boezio nel secondo libro _Della consolazione_, fortemente dolendosi,
dice:

  _Heu! primus qui fuit ille
  auri qui pondera tecti
  gemmasque latere volentes
  pretiosa pericula fodit?_

Ma, poiché lo splendor dellʼoro, la chiaritá delle pietre orientali e
la bellezza delle porpore fu veduta, in tanto sʼacceser gli animi ad
averne, che, con abbandonate redine, per qualunque via, per qualunque
sentiero a quel crediam pervenire, tutti corriamo; e in questo
inconveniente, non solamente neʼ nostri giorni, ma giá sono migliaia di
secoli, si trascorse; e cosí la prima semplicitá e lʼonesta povertá e i
temperati disidèri scherniti, vituperati e scacciati, ad ogni illicito
acquisto siam divenuti. Per la qual cosa lʼumana caritá, la comune
fede e gli esercizi laudevoli, non solamente diminuiti, ma quasi del
tutto esinaniti sono; e, che è ancora molto piú dannevole, con ogni
astuzia e con ogni sottigliezza sʼè cercato e cerca continovo lʼodio
di Dio: pensando che dove noi dobbiam lui sopra ogni altra cosa amare,
onorare e reverire, noi lʼoro e lʼariento, i campi e lʼumane sustanze
in luogo di lui amiamo, onoriamo e adoriamo. Laonde segue che, per lo
non saper por modo allʼappetito, e non sapere o non volere con ragione
spendere lʼacquistato, morendo ci convien qui lasciare quello che noi
ne vorremmo portare, e portarne quello che noi vorremmo poter lasciare;
e col doloroso incarico delle nostre colpe, in eterna perdizione, dalla
divina giustizia a voltare i faticosi pesi, come lʼautore ne dimostra,
mandati siamo.

E, accioché meglio si comprenda la gravitá di questa colpa, e quello
che lʼautore intende in questa parte di dimostrare; e che lʼuomo ancora
si sappia con piú avvedimento dalla meglio conosciuta colpa guardare:
piú distintamente mi pare che sia da dire che cosa sia e in che,
brievemente, consista questo vizio.

È adunque lʼavarizia, secondo che alcuni dicono, «_auri cupiditas_»,
cioè disiderio dʼoro. San Paolo dice (_Ad Ephæsios_, v): «_Avaritia
est idolorum servitus_». E, secondo la sentenza dʼAristotile, nel
quarto dellʼ_Etica_, lʼavarizia è difetto di dare ove si conviene,
e soperchio volere quello che non si conviene. Che lʼavarizia sia
cupiditá dʼoro, in parte è giá dimostrato, e piú ancora si dimostrerá
appresso; che ella sia un servire aglʼidoli, seguendo la sentenza
dellʼapostolo, assai bene il dimostra san Geronimo in una sua pistola a
Rustico monaco, dove dice: «_Æstimato malo pondere peccatorum, levius
alicui videtur peccare avarus quam idolatra; sed non mediocriter errat.
Non enim gravius peccat qui duo grana thuris proiicit super altare
Mercurii, quam qui pecuniam avare, cupide et inutiliter congregat:
ridiculum videtur quod aliquis iudicetur idolatra, qui duo grana
thuris offert creaturæ, quæ Deo debuit offerre, et ille non iudicetur
idolatra, qui totum servitium vitæ suæ, quod Deo debuit offerre,
offert creaturæ_». Che ella sia difetto di non dare ove si conviene,
e soperchio volere quello che non si conviene, dimostrerá il seguente
trattato.

Sono adunque alcuni, li quali, non essendo loro necessitá, in tanto
disiderio sʼaccendono di divenir ricchi, che il trapassar lʼAlpi e le
montagne eʼ fiumi, e navigando divenire alle nazioni strane, tirati
dalla speranza e sospinti dal disiderio, par loro leggerissima cosa;
avendo del tutto in dispregio ciò che Seneca intorno a queste fatiche
scrive a Lucillo, dove dice: «_Magnae divitiae sunt, lege naturae,
composita paupertas. Lex autem illa naturae scis quos terminos nobis
statuat: non exurire, non sitire, non algere; ut famem sitimque
depellas, non est necesse superbis assidere liminibus, nec supercilium
grave et contumeliosam etiam humilitatem pati; non est necesse maria
tentare, nec sequi castra; parabile est quod natura desiderat et
appositam. Ad supervacua sudatur: illa sunt quae togam conterunt, quae
nos senescere sub tentorio cogunt, quae in aliena litora impingunt. Ad
manum est, quod sal est: qui cum paupertate bene convenit, dives est_».
E se questi cotali fossono contenti quando ad alcun convenevole termine
pervenuti sono, o fossero contenti di pervenire a questo termine con
onesta fatica e laudevole guadagno, forse qualche scusa il naturale
appetito, il quale abbiamo infisso, dʼavere, gli troverebbe; ma,
percioché, a questo, modo non si sa porre, tutti nel miserabile vizio
trapassiamo, cioè in soperchio volere piú che non si conviene. È il
vero che il trapassar per questa via il convenevole par tollerabile,
quando a quelle che molti altri tengono si riguarda.

Sono i piú sí offuscati dallʼappetito concupiscibile, che ogni onestá,
ogni ragione, ogni dovere cacciano da sé, in dover per qualunque via
ragunare, non solamente piú che non bisogna ad uno, ma ancora piú
che non bisognerebbe a molti: e, per pervenire a questo, altri si
dánno senza alcuna coscienza a prestare ad usura, altri a rubare e
occupare con violenza lʼaltrui, altri ad ingannare e fraudolentemente
acquistare, e con altri esercizi simili, non piú dʼinfamia che di fama
curando, si sforzano le lor fortune ampliare. Contro a questi cotali
dice Tullio nel libro terzo _Degli offici_: «_Detrahere igitur alteri
aliquid, et hominem hominis incommodo suum commodum augere, magis est
contra naturam, quam mors, quam paupertas, quam dolor, quam caetera,
quae possunt aut corpori accidere, aut rebus aeternis_», ecc.

Sono nondimeno alcuni altri, li quali pare che _prima facie_ vogliano
e ingegninsi dʼavere piú che il bisogno non richiede, li quali sono a
distinguere da questi, percioché, dove i predetti sono pessima spezie
dʼavari, quelli, dei quali intendo di dire, non si posson con ragione
dire avari, né sono. Son di quegli li quali, in nulla parte passato
il dovere, con diligenzia sʼingegneranno di fare che i lor campi
loro abbondevolmente rispondano: questo è giusto disiderio e giusta
operazione, quantunque ella trapassi il bisogno, percioché quel piú
in assai cose commendabili si può poi a luogo e a tempo adoperare.
Alcuni altri, per non stare oziosi, con ogni lealtá faranno una loro
arte, alcuna mercatanzia, li quali, quantunque piú che lor non bisogna
avanzin di questa, non sono perciò da reputare avari. Altri sʼingegnano
di riscuotere e di racquistare quello o che hanno creduto o che hanno
prestato del loro ad altrui: né questo è da dire avarizia, quantunque
sia piú che quel che bisogna a chi il raddomanda. E similmente sono
alcuni altri, li quali col sudore e con la fatica loro, o per prezzo
o per provvisione si fien messi al servigio dʼalcun altro e con fede
lʼavranno servito: il domandar questo, e il volerlo, niuna ragion vuole
che sia reputata avarizia.

È, oltre alla predetta, la seconda spezie dʼavarizia, la quale consiste
in difetto di dare dove e quanto si conviene; e in questa quasi tutta
lʼuniversitá degli uomini pecca. Sonne alcuni, che, poi che per loro
opera o per lʼaltrui sono divenuti ricchi, sono sí fieramente tenaci,
che, non che pietá o misericordia gli muova a sovvenire eziandio dʼuna
piccola quantitá un bisognoso, ma aʼ figliuoli, alle mogli e a se
medesimi son sí scarsi, che, non che in altro si ristringano, ma essi
né beono né mangiano quanto il naturale uso disidera; e dellʼaltrui
prenderebbono, se loro dato ne fosse. Alcuni altri ne sono, li quali
né onore né dono voglion ricevere da alcuni, per non avere a dare o ad
onorare.

Alcuni altri ne sono, li quali non solamente alle loro vigilie o aʼ
cassoni ferrati li loro tesori fidano, ma, fatte profondissime fosse
neʼ luoghi men sospetti, gli sotterrano: di che segue assai sovente,
come essi vivendo non ne hanno avuto bene, cosí dopo la morte loro non
ne puote avere alcun altro. E pallian questi cotali la lor miseria
col dire: noi siamo solenni guardatori del nostro, accioché alcuno
bisogno non ne costringa a dimandar lʼaltrui, o a fare altra cosa che
piú disonesta fosse che lʼavere ben guardato il suo. E di questi cotali
sono alcuni piú da riprendere che alcuni altri; sí come noi veggiamo
spesse volte avvenire che alcuno per ereditá diverrá abbondante, senza
avere in ciò alcuna fatica durata, e nondimeno sará piú tenace che se
per sua industria o procaccio ricco divenuto fosse: il che, oltre al
vizio, pare una cosa mirabile, percioché in loro non dovrebbe avvenir
quello che in coloro avviene, li quali con suo grandissimo affanno
hanno ragunato quello che essi poi con sollecitudine guardano; e
ciascuno naturalmente, secondo che dice Aristotile, ama le sue opere
piú che lʼaltrui, come i padri i figliuoli e i poeti i versi loro. E
di questi medesimi si posson dire essere i cherici, neʼ quali è questo
peccato tanto piú vituperevole, quanto con men difficultá lʼampissime
entrate posseggono, non di loro patrimonio, non di loro acquisto
pervenute loro; e, oltre a ciò, con men ragione le ritengono, percioché
i loro esercizi deono essere intorno alle cose divine, allʼopere della
misericordia e di ciascuna altra pietosa cosa: deono stare in orazione,
digiunare, sobriamente vivere, e dar di sé buono esemplo agli altri
in disprezzare le cose temporali e ʼl mondo, e seguire con povertá le
vestigie di Cristo, accioché, bene adoperando, appaiano le loro opere
esser conformi alla dottrina. Le quali cose come essi le fanno, Iddio
il vede.

È, appresso, questo vizio meno abbominevole in una etá che in unʼaltra,
percioché lʼessere un giovane avaro, senza dubbio non riceve scusa
alcuna, percioché lʼetá del giovane è di sua natura liberale, sí come
quella che si vede forte e atante neʼ bisogni sopravvegnenti, ed è
piena di mille speranze e dʼaltrettanti aiuti, e molte vie o vede o le
par vedere da potere risarcire quello che speso fosse, o dʼacquistar di
nuovo; il che neʼ vecchi non puote avvenire, percioché essi, li quali
il piú sono astuti e avveduti, non si veggono, procedendo avanti nel
tempo, rimanere alcuno aiuto né amico, se non le sustanze temporali;
e in contrario si veggono ogni dí pieni di bisogni nuovi e inopinati,
e similmente sʼaccorgono che, essendo essi delle dette sustanze
abbondevoli, non mancar loro lʼessere serviti e aiutati e avuti cari,
da coloro spezialmente li quali sperano, secondo il loro adoperare
verso loro, doversi nella fine dettare il testamento; dove spesso, se
essi senza denari, senza derrate sono, non che daʼ piú lontani, ma
dalle mogli, daʼ figliuoli, daʼ fratelli sono scacciati, ributtati
e avviliti e avuti in dispregio. La qual paura se considerata fia,
non sará alcuno che si maravigli se essi son tenaci e ancora cupidi
dʼavanzare, se il come vedessero.

Contro a costoro gridano la dottrina evangelica, i santi, i filosofi
eʼ poeti. Leggesi nellʼ_Evangelio_ di Luca, capitolo quinto: «_Vae
vobis, divitibus_!»; e nella _Canonica_ di san Iacopo, capitolo quinto:
«_Agite nunc, divites, plorate ululantes in miseriis, quae evenient
vobis_»; e nello _Evangelio: «Mortuus est dives, et sepultus est in
inferno_». Ed Abacuc, capitolo secondo, dice: «_Vae qui congregat
non sua_!»; ed esso medesimo, capitolo decimo: «_Vae qui congregat
avaritiam malam domui suae_!»; e lʼ_Ecclesiastico_, decimo: «_Avaro
nihil est scelestius_». E santo Agostino dice: «_Vae illis, qui
vivunt ut augeant res perituras, unde aeternas amittunt_!»; ed esso
medesimo: «_Maledictus dispensator avarus, cui largus est Dominus_». E
Seneca a Lucillo, epistola diciassettesima, scrive: «_Multis parasse
divitias, non finis miseriarum fuit, sed mutatio_». E Tullio _in primo
Officiorum: «Nihil est tam angusti animi parvique, quam amare divitias;
nihil honestius magnificentiusque, quam pecuniam contemnere, si non
habeas; si habeas, ad beneficentiam liberalitatemque conferre_». E
Virgilio, nel terzo dellʼ_Eneida_:

  _...quid non mortalia pectora cogis,
  auri sacra fames?_

E Persio scrive:

  _Discite, o miseri, et causas cognoscite rerum:
  quis modus argento, quid fas optare, quid asper
  utile nummus habet?_ ecc.

E Giovenale ancora dice:

  _Sed quo divitias haec per tormenta coactas?
  Cum furor haud dubius, cum sit manifesta phrenesis,
  ut locuples moriaris, egenti vivere fato,_ ecc.

Mostrato che cosa sia avarizia e in che pecchi lʼavaro, percioché in
quel medesimo luogo e tormento sono i prodighi tormentati, è sotto
brevitá da vedere che cosa sia prodigalitá e in che il prodigo pecchi.
È prodigalitá, secondo che Aristotile vuole nel quarto dellʼ_Etica_,
lʼuno degli estremi della liberalitá, opposito allʼavarizia; e,
cosí come lʼavarizia consiste in tenere dove e come e quando non si
conviene, e disiderare e adoperare dʼavere piú che non si conviene,
e donde e da cui non si conviene; cosí la prodigalitá consiste in
donare e spendere quanto e come e dove non si conviene, e sta questo
nel trapassare ogni termine di debita spesa intorno a quella cosa, la
quale alcun far vuole o che si conviene: come neʼ vestimenti e negli
ornamenti veggiamo spesse volte alcuni trasandare, senza considerare
la qualitá, la nazione o lo stato suo, e lʼentrate eʼ frutti delle
sue possessioni; come ancora veggiamo nel convitare, nel quale senza
considerare a cui, o quando o dove il convito sʼapparecchi, quella
spesa si fa per privati uomini, e di bassa condizione o di vile, che
se per alcun prencipe o venerabile uomo si facesse (come si legge
faceva il figliuolo dʼIsopo filosafo, il quale, rimaso del padre
ricchissimo, per dar mangiare aʼ suoi pari, comperava gli usignuoli,
i montanelli, i calderugi, i pappagalli, li quali gli uomini hanno
carissimi per lo lor ben cantare, e, quando grassi gli trovava, non
gli lasciava per danaio, e quegli arrostiti poi poneva innanzi aʼ suoi
convitati: per che talvolta avveniva essere per avventura costato
il boccone dieci fiorini dʼoro), o come ancora si può fare in cose
assai. Il come consiste negli apparati: coroneranno alcuni le sale,
ornerannole di drappi ad oro, metteranno le mense splendide, faranno
venire i trombatori, i saltatori, i cantatori, i trastullatori, i
servidori pettinati, azzimati e leggiadri, non come se scellerati e
scostumati uomini vi dovesser mangiare, come le piú volte fanno, ma re
o imperadori; useranno ancora maravigliosa sollecitudine, non dico
nelle sale o nelle camere, ma nelle stalle e neʼ cellieri, in far le
mangiatoie intarsiate, i sedili iscorniciati, e gli altri vasi a questi
luoghi opportuni cosí esquisiti, come se negli occhi sempre aver gli
dovessero e al lor proprio uso adoperargli. Peccasi ancora nel dove i
doni e le spese smisuratamente si fanno, cioè in cui e in quanto: le
piú delle volte a ghiottoni, a lusinghieri, a ruffiani, a buffoni, a
femminette di disonesta vita e di vilissima condizione si faranno doni
magnifichi, li quali sarebbono ad eccellentissimi uomini accettevoli;
apparecchierannosi loro cavalcature, farannosi letti e scalderannosi
i bagni non altramenti che se nobili e segnalati uomini dovessero
pervenirvi: e, se per avventura un valente uomo capitasse alle case
di questi cotali gittatori, con tristo viso, con leggieri spese
malvolentieri ricevuto vi fia. Ora in queste e in simili cose consiste
il vizio della prodigalitá e il prodigo gitta via il suo.

[Nota: Lez. XXXI]

È, oltre a questo, il prodigo in parte simile allʼavaro, in quanto esso
disidera, e con ardente sollecitudine, dʼacquistare; e in ciò posta
giuso ogni coscienza, ogni onestá e dovere, non cura come né donde si
venga lʼacquisto: per che talvolta commette baratterie, frodi e inganni
e violenze; ma nol fa al fine che lʼavaro, cioè per adunare, ma per
aver piú che gittar via. E se alcuni sono in questo vizio oltre ad ogni
misura peccatori, sono i cherici, cioè i gran prelati, percioché essi
il piú, senza avere alcun riguardo a Dio, né al popolo loro commesso,
o alla qualitá di colui in cui conferiscono, concedono, anzi gittano
gli arcivescovadi, i vescovadi, le badie e lʼaltre prelature e benefici
di santa Chiesa ad idioti, ebriachi, manicatori, furiosi, dʼogni
scelleratezza viziosi e cattivi uomini: di che il popolo cristiano non
solamente non è allʼopportunitá sovvenuto, ma dalle miserie e cattivitá
di cosí fatti pastori son trasviati allo ʼnferno, dietro al malo
esempio.

Piace, oltre alle dette cose, ad Aristotile, questo vizio della
prodigalitá essere assai men dannevole che quello dellʼavarizia,
percioché, non ostante che dellʼavarizia né lʼavaro né alcun altro
abbia alcun bene, dove della prodigalitá pur nʼhanno bene alcuni,
quantunque mal degni, pare la prodigalitá non debba potersi accrescere
né divenir maggiore, percioché il prodigo continuamente diminuisce
le sustanze sue, senza le quali la prodigalitá non si può mandare ad
esecuzione, e, diminuendosi, pare di necessitá si debba diminuire
il vizio: il che dellʼavarizia non avviene, percioché lʼavaro
continuamente accresce il suo, e, accrescendolo, accresce la cupidigia
dellʼaver piú. Appresso, il vizio il quale si può in alcuna maniera
curare pare essere minore che quello che curar non si può; e la
prodigalitá si può curare, il che non si può lʼavarizia: e però pare
la prodigalitá esser minor vizio che lʼavarizia. Il che, quantunque
per una ragione di sopra mostrato sia, si può ancora mostrar con due
altre, cioè che la prodigalitá si possa curare. Delle quali ragioni
è lʼuna questa: curasi la prodigalitá dal tempo, percioché, quanto
lʼuomo piú sʼavvicina alla vecchiezza, tanto diventa piú inchinevole
a ritenere, per la ragione di sopra mostrata, dove si disse perché i
vecchi eran piú avari che i giovani: e non è alcun dubbio le ricchezze
naturalmente disiderarsi, accioché lʼuom possa per quelle sovvenire
aʼ difetti umani; e perciò convenevole pare, quanto alcuno sente i
difetti maggiori, tanto piú inchinevole sia a quelle cose, per le
quali si puote o rimediare o sovvenire a quegli. La seconda ragione è,
percioché la povertá è ottima medica a cotale infermitá, e in essa si
perviene assai agevolmente da chi gitta e scialacqua senza modo e senza
misura il suo, sí come i prodighi fanno; e chi in essa diviene, non può
donar né spendere, e cosí si truova guerito di questo vizio; il che
dellʼavarizia non avviene, come mostrato è.

Pare adunque, per le ragioni dette, la prodigalitá essere minor vizio
che lʼavarizia. E se cosí è, sará chi moverá qui una question cosí
fatta: se la prodigalitá è minor vizio che lʼavarizia, perché dimostra
qui lʼautore essere in igual tormento puniti i prodighi e gli avari,
conciosiacosaché il minor vizio meriti minor pena? Puossi a questa
cosí rispondere: che il vizio della prodigalitá non è in sé minore che
lʼavarizia, percioché, dove lʼavarizia procede da naturale appetito,
pare che la prodigalitá abbia origine da stoltizia, chʼè spezie di
bestialitá. Laonde, se alcuna cosa di questo vizio pare che diminuisca
lʼessere curabile, questa bestialitá della stoltizia pare che il
supplisca; e, oltre a ciò, quantunque curabile paia questo vizio, egli
non si cura né per volontá né per opera laudevole del vizioso, e cosí
per questo il vizioso non merita; e similmente, quantunque cessata sia
la cagione, e per conseguente lʼeffetto, per le sopradette ragioni, nel
prodigo, dove il disiderio non cessi di quel medesimo adoperare, avendo
di che, non pare, non che curato sia, ma diminuito il vizio. E nelle
nostre colpe riguarda la divina giustizia non solamente lʼopere, ma
ancora la volontá: e non pecca in assai cose meno chi vuole e non puote
che chi vuole e puote; e perciò, non diminuendosi lʼabito preso del
vizio, non diminuisce il vizio nello abituato. Laonde convenientemente
segue in igual supplicio punirsi il prodigo e lʼavaro. E percioché
questi due peccati sono radice e principio di molti mali, agramente
insieme puniti sono, accioché in eterno si pianga lʼavere per loro non
solamente dimenticato Iddio, e in luogo di lui avere adorati e onorati
i denari, ma ancora vendutolo come fece Giuda, e come molti altri
fanno, che, giurando e spergiurando, simoneggiando e ingannando, tutto
il giorno il vendono; e lʼaver venduta la giustizia, corrotto le leggi,
falsificati i testamenti, i metalli e le monete, assediate le strade,
commessi i tradimenti, i furti, gli omicidii; lʼesser lusinghiere
divenuto e ad ogni malvagio guadagno inchinevole; lʼaver la loro
verginitá, la pudicizia, lʼonestá e ogni vergogna posta giú, e lʼesser
divenute menandare, maliose, venefiche e indovine.

La pena adunque attribuita a questi peccatori è da vedere come sia
conforme al peccato. Come detto è, tutta la sollecitudine dellʼavaro è
in ragunare e in tenere il ragunato e in guardarlo piú che si conviene;
e quella del prodigo è in procurare con ogni studio dʼavere e di male
spender quello che aver puote: e però assai convenevolmente pare che
dalla divina giustizia puniti sieno nel continuo volgere gravissimi
pesi col petto, e con quegli lʼavaro e ʼl prodigo amaramente urtarsi
e percuotersi insieme. Per lo quale atto è da intendere che, come
in questa vita, senza darsi alcun riposo, a diversi e contrari fini
faticarono, satisfacendo allʼappetito loro e in quello sentendo
dannosa dilettazione; cosí in inferno perduti, per grande afflizion
di loro, son posti in continuo esercizio di volger col petto pesi
che sien loro faticosi e noiosi: e con quegli, come a diversi fini,
vivendo, affannarono, diverse opinioni seguitando, cosí, lʼuno incontro
allʼaltro facendosi, si percuotano e molestino, in lor maggior dolore
la loro viziosa vita con ontoso verso si rimproverino. E accioché nel
tormento loro si dimostri essi mai nella presente vita alcuna quiete
non avere avuta, né doverla in quella sperare, vuole la giustizia che
il loro discorrimento a tanta noia sia circulare.

Appresso, lʼesser queste due spezie di vizio poste sotto la
giurisdizione di Plutone si dee credere non esser fatto senza ragione.
[Io vi mostrai di sopra questo Plutone essere disegnato per lo padre
delle ricchezze, e quello che la sua cittá, la corte, i circustanti,
il carro, lo sterile matrimonio e il can tricerbero era da intendere:
le quali son tutte cose spettanti ed allʼun vizio ed allʼaltro, se
sanamente si riguarderá.] E perciò, comeché lʼautor non scriva questo
dimonio alcuna cosa adoperare in costoro, che sotto la sua giurisdizion
son dannati, nondimeno si può comprendere lui, cioè il suo significato
(oltre allʼontoso verso che lʼuna parte contro allʼaltra dice), sempre
con la sua presenzia raccendere nella memoria degli avari i tesori,
tanto amati da loro e per molte vie acquistati e con vigilante cura
guardati, essere stati da loro lasciati e, in un punto, tutti i lor
pensieri, tutte le loro speranze, tutte le lor fatiche non solamente
essere evacuate e vane, ma essi ancora esserne venuti a perdizione.
Per che creder si dee loro con vana compunzione piangere e dolersi
che, poiché pur da loro partir si doveano, non li aveano con liberale
animo aʼ bisognosi participati: della qual cosa loro sarebbe seguita
eterna salute, dove essi, per lo non farlo, ne san caduti in perpetua
perdizione. E cosí similmente i prodighi, per lʼaspetto di Plutone
si ricordano, se per caso alcuno loro uscisse di mente, deʼ loro
tesori e delle loro ricchezze disutilmente, anzi dannosamente spese,
donate e gittate; e dove, bene e debitamente spendendole, potevano
acquistar quella gloria che mai fine aver non dee, dove per lo
contrario si veggiono in tormento e in miseria sempiterna: la quale
assidua ricordazione si dee credere esser loro afflizion continua e
incomparabile dolore, il quale con inestinguibile fiamma sempre di
nuovo accende le coscienze loro.

«Or discendiamo omai a maggior pièta», ecc. Questa è la seconda
parte principale di questo settimo canto, nella quale, sí come nella
esposizion testuale appare, lʼautore del cerchio quarto discende nel
quinto. E avendogli la ragion dimostrato che colpa sia quella del vizio
dellʼavarizia e della prodigalitá, e che tormento per quella ricevano
i dannati; in questo quinto cerchio gli dimostra punirsi la colpa
dellʼira e quella dellʼaccidia. Le quali accioché alquanto meglio si
comprendano, e piú piena notizia sʼabbia della intenzion dellʼautore,
è alquanto da dichiarare in che questi due vizi consistano, e quindi
verremo a dimostrare come con la pena si confaccia la colpa.

Se noi adunque vogliam sanamente guardare, assai leggermente potrem
vedere che alcuno deʼ quattro elementi non è, il quale sia tanto
stimolato, tanto infestato, né tanto percosso e rivolto dal cielo,
dallʼacqua e dagli uomini, quanto è la terra. Questa nelle sue parti
intrinseche è con vari strumenti cavata e ricercata, accioché di quelle
i metalli nascosi si traggano, evellansi i candidi marmi, i durissimi
porfidi e lʼaltre pietre di qualunque ragione, facciansi cadere le
fortezze sopra gli alti monti fermate, e facciansi pervie quelle parti,
le quali da sé non prestavano leggermente lʼandare; questa nella
sua superficie ora daʼ marroni, ora daʼ bómeri e ora dalle vanghe è
rivolta, cavata e rotta e dʼuna parte in unʼaltra gittata; questa
daʼ templi mirabili, dagli edifici eccelsi delle cittá grandissime è
oppressa, caricata e premuta; questa dagli animali, daʼ carri, e da
ponderosissimi strascinii è attrita e scalpitata; questa dal mare, daʼ
fiumi e daʼ torrenti è rosa, estenuata e trasportata; questa dalle
selve, dallʼerbe e dalle semente continue è poppata, sugata e munta;
questa è dagli incendi evaporanti arsa, dalle folgori celestiali
percossa e daʼ tremuoti sotterranei dicrollata; questa è dai diluvi
dilavata, daʼ raggi solari esusta e daʼ ghiacci ristretta. Chi potrebbe
assai pienamente raccontare le molestie, dalle quali ella è senza
alcuna intermissione offesa e malmenata? Né per tutte le raccontate
ingiurie, né per molte altre, leggiamo o veggiamo che essa alcuna volta
rammaricata si sia, o si rammarichi; tanta è la sua umiltá costante e
paziente. Per la qual cosa forse creder si potrebbe esser piú tosto
piaciuto al nostro Creatore dʼaver di quella il corpo dellʼuom composto
che dʼaltro elemento o dʼaltra materia, accioché la natura di questa,
della qual fu composto, seguitando, fosse paziente, e con tolleranzia
fermissima sostenesse i casi per qualunque cagione emergenti.

Le quali cose mal considerate da noi, non come térrei, ma quasi come
se di fuoco fossimo stati formati, chi per nobiltá di sangue, chi per
eccellenzia di dignitá, chi per altezza di stato, chi per sublimitá di
scienza, chi per abbondanza di ricchezze, chi per corporal forza, chi
per bellezza, chi per destrezza di membri, tanto fastidiosi divenuti
siamo, teneri e déscoli e impazienti, che per ogni leggerissima cosa
ci accendiamo; e, non potendo lʼun dellʼaltro sofferire i costumi,
non solamente per ogni piccola ingiuria ci adiriamo, ma come fiere
salvatiche daʼ cacciatori e daʼ cani irritate, in pazzo e bestial
furore trascorriamo, tumultando, gridando e arrabbiando. E cosí nelle
tenebre dellʼignoranza offuscati, spesse volte e noi e altrui in
miseria quasi incomportabile sospignamo. Di che, provocata sopra noi la
divina ira, avviene che la sua giustizia ne manda in parte, dove gli
splendor mondani e le ricchezze e le dignitá avute son per niente, e
noi non altramenti che porci siamo avviluppati, convolti e trascinati
in puzzolente e fastidioso loto, dove con misera ricordazione e
continua, senza pro, cognosciamo che noi eravam térrei, quando,
adirati, di percuotere il cielo non che altro ci sforzavamo. Alla
dimostrazione della qual cosa accioché deducendoci pervegnamo, prima
mi par di dimostrare in che questo vizio consista, che di procedere ad
altro; accioché per questa dichiarazione sia meglio conosciuto, e, per
conseguente, dal meglio conosciuto meglio guardar ci possiamo, e, oltre
a ciò, con men difficultá veggiamo come attamente lʼautor disegni
dalla giustizia di Dio essere alla colpa dato conveniente supplicio.

Dico adunque che, secondo che ad Aristotile pare nel quarto
dellʼ_Etica_, che lʼira, la quale meritamente si dee reputar vizio, è
un disordinato appetito di vendetta; e perciò pare questa esser causata
da tristizia nata nellʼadirato, per alcuna ingiuria ricevuta in sé
o in altrui di cui gli caglia o nelle sue cose, o falsa o vera che
quella ingiuria sia. E in tanto è questo appetito vizioso, in quanto
questi cotali iracundi si turbano verso coloro, verso li quali non è di
bisogno turbarsi, e per quelle cose per le quali turbar non si deono, e
quando turbar non si deono, e ancora piú velocemente che non deono, e
piú tempo perseverano in stare adirati che essi non deono.

E di questi cotali adirati o iracundi, secondo che Aristotile medesimo
dimostra, son tre maniere. La prima delle quali è quella dʼalcuni,
che, per ogni menoma cosa che avviene, non che per le maggiori,
solamente che loro non sodisfaccia, subitamente sʼadirano e gridano
e prorompono in furore; ma in essa non lungamente perseverano, quasi
lor sia bastevole dʼaversi mostrati adirati, o perché subitamente
vien lor fatto di prender vendetta della cosa per la quale adirati si
sono; e cosí esalata lʼira, ritornano nella quiete prima. La qual cosa
in questi cotali è commendabile, quantunque non sia perciò stata la
colpa dellʼadirarsi minore. Eʼ pare che in questa spezie dʼira sieno
fieramente inchinevoli coloro, li quali sono di complession collerica,
dalla velocitá o sottigliezza della quale par che venga questa
subitezza.

La seconda maniera è quella di coloro li quali non troppo correntemente
per ogni piccola cagion sʼadirano, ma pure in quella, dopo alquanto
aver sofferto, pervengono: lʼira deʼ quali è sí pertinace e ferma,
che non senza difficultá si dissolve. E questi stanno lungamente
adirati, servando dentro a se medesimi lʼira loro, né quasi mai quella
risolvono, se della ingiuria, la quale par loro aver ricevuta, alcuna
vendetta non prendono. Né questa tengono ascosa senza lor gravissima
noia, percioché, quanto il fuoco piú si ristrigne in poco luogo, piú
cuoce; e perciò, mentre penano a sodisfare a questo loro disordinato
appetito, tanto servano lʼira e se medesimi affliggono e molestano. Ed
è questa ira men curabile in quanto è nascosa, percioché né amico né
altri può a questi cotali persuadere alcuna cosa, per la quale questa
ira nascosa si diminuisca o si lasci; per che segue esser di necessitá
o che per vendetta, o che per lunghezza di tempo, nella quale ogni cosa
diminuisce, ella intiepidisca e ismaltiscasi e ritorni in niente. E son
questi cotali non solamente a se medesimi molesti, ma ancora alle lor
famiglie, aʼ compagni e agli amici, coʼ quali essi, stimolati dalla
turbazione intrinseca, vivere con alcuna consolazione non possono. [E
da questa spezie dʼira sono infestati maravigliosamente quegli che
son di complessione malinconica, percioché in essi, per la grossezza
dellʼumor terreo, la impression ricevuta persevera lungamente.]

La terza maniera di questi iracundi sono alcuni, li quali, adirati,
in alcuna maniera non lasciano lʼira, né per consiglio dʼalcuno, né
per lusinga, né ancora per lunghezza di tempo, senza aver prima presa
vendetta dellʼoffesa, la quale par loro avere ricevuta: e questi sono
pessimi adirati, percioché, come assai chiaramente veder si può, essi
hanno lʼira convertita in odio. [Della qual maladizione fieramente son
maculati i toscani, e tra loro in singularitá i fiorentini, li quali
per alcuno ammaestramento datoci non ci sappiamo recare a perdonare;
e, che ancora è molto peggio, mandandoci Domeneddio per questo il
giudicio suo sopra, tanto impazientemente il comportiamo, che di questo
male in molti altri strabocchevolmente trapassiamo, bestemmiandolo,
rinnegandolo e chiamandolo ingiusto; non volendoci per alcuna maniera
ricordare delle sue parole nello Evangelio, nel quale egli, per farci
al perdonare inchinevoli, per figura dimostra di quel signore, il
quale volle rivedere la ragione dellʼamministrazione che un deʼ suoi
servi aveva fatta deʼ fatti suoi. Trovò che ʼl servo gli doveva dare
cento talenti, e però comandò che esso, ogni sua cosa venduta, fosse
messo in prigione, infino a tanto che egli avesse interamente pagato:
ma, pregandolo con umiltá il servo gli perdonasse, impetrò rimessione
del debito; e poi liberato, fece, senza voler perdonare, prendere
un suo conservo, per dieci talenti che dar gli dovea, e metterlo in
prigione. Il che udendo il signore, che cento nʼavea perdonati a lui,
il fece prendere e dʼogni suo bene spogliare e gittare nelle tenebre
esteriori, percioché verso il prossimo suo era stato ingrato, non
volendosi ricordare di ciò che esso avea dal suo signor ricevuto. Alle
quali cose se noi riguardassimo, cognosceremmo questo signore essere
Iddio Padre, e il servo che dar dovea i cento talenti esser ciascheduno
uomo: e perché possibile non ci era pagare il debito, mandò di cielo
in terra il Figliuolo, il quale con la sua passione e morte ne liberò
da cosí ponderoso debito. E noi poi, mal grati di tanta grazia, non ci
possiamo, né ci lasciamo recare aʼ conforti di coloro che saviamente
ne consigliano, a perdonare alcuna ingiuria, quantunque menoma, lʼuno
allʼaltro: di che, privati dʼogni nostro bene, siamo per giudicio di
Dio gittati in casa il diavolo.]

Ma, quantunque lʼuno pecchi meno che lʼaltro di queste tre maniere
dʼiracundi, nondimeno tutte offendono gravemente Iddio, sí nel non aver
saputo porre il freno della temperanza agli émpiti loro, e sí per la
ragione detta di sopra, e sí ancora per avere avuto in dispregio il
comandamento di Dio, dove nello Evangelio dice: «_Mihi vindictam et
ego retribuam_». E per questo nellʼira sua divenuti e in quella morti,
quello ne segue, che poco davanti si disse, cioè che, dannati, siam
mandati al supplicio, il quale lʼautore ne discrive.

È nondimeno questo vizio spesse volte non solamente per lo futuro
supplicio dannoso molto allʼiracundo, ma ancora nella vita presente.
Ercule, adirato e in furor divenuto, uccise Megara, sua moglie, e due
suoi figliuoli; e Medea, adirata, similmente due suoi figliuoli, di
Giasone acquistati, uccise. Eteocle, re di Tebe, in singular battaglia
contro a Polinice, suo fratello, discese; Atreo diede tre suoi nepoti
mangiare a Tieste, suo fratello; Aiace telamonio, il quale non avevan
potuto vincere lʼarmi troiane, vinto dallʼira, se medesimo uccise;
Amata, moglie del re Latino, veduta Lavina, sua figliuola, divenuta
moglie dʼEnea troiano, turbata si mise il laccio nella gola, e divenne
misero peso delle travi del real suo palagio. Annibale cartaginese,
chiaro per molte vittorie, per non poter sofferire di venire alle mani
deʼ romani raddomandantilo al re Prusia, incontro a sé adiratosi,
preso volontariamente veleno, sí morí. Che bisogna raccontarne molti?
conciosiacosaché manifesto sia, lʼira, poi che il consiglio della
ragione ha tolto dellʼuomo, col furor suo molti nʼabbia giá in miseria
e detestabile ruina condotti; li quali come che in questa vita e seco
medesimi e con altrui crudelmente si trattino, ne mostra lʼautor
nellʼaltra non esser meglio dalla giustizia trattati, mostrandone loro
essere nella palude di Stige, torbida di fetido fango e orribile per
lo suo fervore e per lo fummo continuo, il quale da essa continuamente
esala, tuffati e pieni dʼabominevole fastidio; e in quella non
solamente con le mani lacerarsi, ma ancora con la testa e con ciascuno
altro membro fieramente percuotersi, e coʼ denti mordersi e troncarsi
le persone e stracciarsi tutti.

Sotto la corteccia delle quali parole, mescolando il moral senso,
spettante a noi che vivi siamo, con lo spirituale, il quale aʼ
dannati appartiene, si può vedere il dannoso costume degli iracundi
in questa vita, e la gravosa pena deʼ dannati nellʼaltra. Il
percuotersi con la testa, col petto e coʼ piedi niuna altra cosa è
che un disegnare glʼimpeti furiosi degli iracundi, quando dal focoso
accendimento dellʼira sono incitati. Possiamo nondimeno intendere per
la testa dellʼiracundo i pensieri, glʼintendimenti, le diliberazioni
dellʼiracundo, tutti posti e dirizzati dietro al disiderio della
vendetta: e questo, percioché nella testa consistono tutte le virtú
sensitive interiori e ancora le ʼntellettive, dalle quali sono formate
le predette cose. E percioché nel petto consistono le virtú vitali
e le nutritive, dobbiam sentire coʼ petti offendersi glʼiracundi,
non lʼun lʼaltro, ma se medesimi; in quanto, quando molto si pon
lʼanimo intorno allʼeffetto dʼalcun disiderio, non si prende da
colui, che cosí è occupato, né la quantitá del cibo usata, né ancora
con lʼordine consueto, per che conviene che la virtú nutritiva sia
intorno al suo uficio talvolta molto impedita; dal quale impedimento
séguita la debolezza e il diminuimento delle virtú vitali: e cosí,
mentre che lʼiracundo con tutto il suo disiderio sta inteso a doversi
dellʼingiuria ricevuta vendicare, offende piú se medesimo che ʼl
nemico. E cosí ancora per li piedi dobbiamo intender le affezioni di
qualunque persona; percioché, sí come i piedi portano il corpo, cosí
lʼaffezioni menano lʼanimo e son guida di quello: e percioché tutte
le affezioni dellʼiracundo sono pronte e inchinevoli a dover nuocere
a colui o a coloro contro aʼ quali è adirato, dice qui lʼautore
glʼiracundi coʼ piedi offendersi.

Il troncarsi coi denti le carni e levarsele con essi a pezzo a pezzo
è efficacissima dimostrazione di quanta potenzia sia lʼimpeto di
questo vizio, poiché non solamente offusca lʼintelletto e la ragione
nellʼadirato, ma ancora il priva del senso corporale. Il che se non
fosse, basterebbe allʼadirato lʼaversi morso una sol volta; percioché
il dolore ricevuto di quella il farebbe rimanere di piú volte mordersi;
dove noi possiamo avere udito e veduto essere stati alcuni di tanta
e sí furiosa ira accesi, che in se medesimi, non potendo quel che
disiderano, come cani rabbiosi rivoltisi, coʼ denti troncarsi le
proprie carni delle mani e delle braccia, e poi sputarle. E questo
medesimo ancora sono stati di quegli che, avendone il destro, hanno
adoperato nelle persone state odiate da loro: sí come ne scrive
Stazio, nel suo Thebaidos, di Tideo, amico di Polinice, il quale,
sentendosi essere stato fedito a morte da uno chiamato Menalippo, con
furia domandò dʼaverlo, e ultimamente, non senza gran zuffa e morte di
molti, essendo stato Menalippo nel mezzo della battaglia preso e menato
dinanzi da lui, al quale poca vita restava, come un cane rabbiosamente
coʼ denti gli si gittò addosso, e in questo bestiale atto, piú che
umano, morí egli e uccise il nemico.

Lʼessere in quella padule fitti, la qual dice calda, nera e nebulosa
e piena di loto, assai ben si può comprendere la tristizia esser
causativa dellʼira; percioché, se quelle cose che avvengono, delle
quali lʼuomo sʼadira, se esse non ci contristassono, senza dubbio
noi non ci adireremmo, e cosí per lʼesser contristati ci adiriamo:
e perciò, accioché i miseri iracundi sieno nel vizio loro medesimo
puniti e afflitti, e per quello senza pro riconoscano sé dovere avere
con pazienza schifata la tristizia, donde la loro ira nacque; in
questa padule di Stige, la quale è interpretata «tristizia», demersi
bollono, e in continua ira, in danno di se medesimi, come dimostrato è,
sʼaccendono.

Lʼessere la padule calda e nera e nebulosa ne può assai ben dimostrare
le tre qualitá deglʼiracundi, delle quali di sopra è detto: intendendo
per la caldezza del pantano la qualitá deglʼiracundi, la qual dissi
subitamente accendersi, e ciò procedere dallʼomor collerico, il quale
è caldo e secco. Per la nebula del padule possiamo intendere lʼaltra
qualitá deglʼiracundi, la qual dissi lungamente servare lʼira accolta,
ma poi per lunghezza di tempo a poco a poco risolversi, sí come
veggiamo che le nebule deʼ pantani, state quasi salde e intere per
buona parte del dí, pure alla fine si risolvono e tornano in niente. La
terza qualitá deglʼiracundi, li quali dissi non solamente non lasciar
mai lʼira presa, ma quella convertita in odio mai non dimettere, senza
aver presa vendetta dellʼoffesa, la quale gli parve aver ricevuto, e
ciò procedere da complession malinconica, cioè terrea, si può intender
per la nerezza del pantano, in quanto la terra di sua natura è nera,
e la interpetrazion del nome della malinconia si dice da «_melan_»,
_graece_, il quale in latino suona «nero». E questi cotali malinconici
son sempre nellʼaspetto chiusi, bulbi e oscuri, per che assai paion
conformarsi al colore del padule. O vogliam dire queste tre proprietá,
le quali lʼautor discrive esser di questa padule, dover significare tre
proprietá deglʼiracundi, cioè: per la nerezza, la tristizia; per la
nebula, la caligine dellʼignoranza, la quale lʼira para dinanzi agli
occhi dello ʼntelletto, e cosí non può, offuscato, vedere quello che
sia da fare; e per lo caldo, il furor dellʼiracundo nel qual sʼaccende.

Per lo loto, nel qual sono imbrodolati e brutti tutti, possiamo
intendere la sozza e fetida macula, la quale lʼira mette nelle menti
di qualunque da essa vincere si lascia, e ancora per gli effetti di
quella, li quali macolano e bruttano ogni onesta fama.

[Nota: Lez. XXXII]

Resta a vedere del vizio opposito allʼiracundia, il quale in questa
medesima padule di Stige si punisce con glʼiracundi, cioè lʼaccidia.
Alla quale rimuovere delle menti umane, assai cose ne sono dalla natura
delle cose mostrate, oltre agli ammaestramenti datine dalla filosofia e
dagli uomini virtuosi: ma, se ogni altra cosa dinanzi dagli occhi del
nostro intelletto e deʼ corporali levata ne fosse, assai forza dovrebbe
avere, al sospignerci ad esser neʼ tempi debiti in continuo esercizio,
il riguardare la bruna schiera delle formiche, piccolissimi animali,
nel tempo estivo, le quali, se noi ogni cosa vorremo attendere, senza
aver né astrolago o altro maestro, senza vedere albero o prato fiorito,
senza salire in alcun luogo rilevato a considerare se incerate son
le biade neʼ campi, o altra qualitá di tempo, come talvolta fanno
i naviganti; dentro dalla sua cava standosi, cognoscono quando la
state ne viene, e quando sono le semente mature, e in quali contrade
si ricolgano; e allora, purgata la via e aperta lʼuscita della sua
cava, la qual per ventura le piove del verno e i piedi degli animali
aveano riturata, a piena schiera tutte escon fuori, e senza guida
alcuna, tutte si dirizzano allʼaie, dove i lavoratori le biade segate
ragunano e battono e mondano, e aʼ granai neʼ quali quelle ripongono,
e a qualunque altro luogo per li campi fosser per ventura ristrette.
E quivi ottimamente dalla lor natura ammaestrate, discernendo dalla
paglia le granella, quello che possono prendono; e, vòlti i passi loro,
sollecitamente, senza aver chi le stimoli o solleciti altri che se
medesime, con quel che preso hanno, ritornano alla lor tana; e quello
salvamente riposto, senza alcuna intermissione, quanto il sole sta
sopra la terra, ritornano al cominciato uficio. Né son contente dʼun
sol dí essersi faticate, ma, mentre il caldo dura, ciascuna mattina col
sole levandosi, ritornano al loro esercizio; mostrando assai bene, in
quello, essere a loro manifesto quello nel verno non potere operarsi,
sí per le piove continue, e sí perché quello che la state truovano in
molte parti e presto è aperto loro, quello il verno troverebbono in
poche e serrato; avvedendosi ancora che, se cosí nellʼabbondanza della
state fatto non avessono o non facessono, convenirle di verno perir di
fame.

La qual cosa sanamente riguardata, non dubito che a ciascuno non
prestasse utile dimostrazione contro allʼoziositá, e contro al porre
indugio alle cose opportune e a dovere, quanto è per lo corpo, sí
adoperare nella nostra fervida etá, cioè nella giovinezza, che poi,
vegnendo nella fredda e impotente vecchiezza, si potesse senza vergogna
e senza stento aspettar lʼultimo giorno, quando a Dio piacesse
mandarlo: e, oltre a ciò, per la futura vita, mentre prestato nʼè
nella presente vita, adoperare che, vegnendo il freddo della morte,
noi possiamo avere lieto e glorioso luogo intraʼ beati, e non esser
gittati nella morte perpetua dello ʼnferno, dove sará pianto e stridor
di denti. Ma, percioché lʼaddormentato intelletto di molti, né per
disciplina, né per sollecitudine, né per utili esempli non si può
destare né inducere da alcuni stimoli a volere la fatica, la solerzia,
il discreto esempio del piccolo animale, non che imitare ma pur
riguardare; avviene spesso che questi cotali in questa vita vengono in
estrema miseria, e nellʼaltra tuffati bollono nella palude di Stige,
come nel presente canto ne discrive lʼautore.

E accioché piú chiaramente si comprenda che vizio questo sia, e per
conseguente meglio ce ne sappiamo guardare, ed, oltre a ciò, piú
leggermente vedere quello che voglia lʼautor sentire per la pena loro
attribuita dalla divina giustizia; dico [che lʼaccidia], secondo
che nel quarto dellʼ_Etica_ mostra ad Aristotile di piacere, colui
essere accidioso, il quale dove bisogna non sʼadira, dicendo essere
atto di stolto il non adirarsi, dove e quanto e in quel che bisogna;
percioché pare che questo cotale non abbia sentimento dʼuomo, e però
di nulla cosa sʼattristi, e cosí non essere vendicativo: e aggiugne
che sostenere lo ʼngiuriante e il non aver gli amici in prezzo sia
atto servile. Della qual sentenza considerata bene la cagione, credo
nʼapparirá ogni altra cosa che allʼaccidioso sʼattribuisce dover
nascere e venire. Che dobbiam noi credere altro di questa rimession
dʼanimo dellʼaccidioso, se non quella procedere da un torpore, da
una viltá, da una oziositá di mente, per le quali esso senza turbarsi
sostiene le ʼngiurie? Se ciò avvenisse per umiltá, o per essere
obbediente aʼ comandamenti di Dio, come molti santi uomini hanno giá
fatto, non potrebbe però senza alcuna perturbazion dʼanimo essere
avvenuto; percioché non può vittoria seguire, dove il nemico non è
comparito, e dove battaglia non è stata; e noi diciamo i santi uomini
essere stati vittoriosi nelle passioni. Turbasi adunque il santo e
savio uomo, quante volte vede o ode in sé o in altrui dire o operare
quello, che né dire né operare si convenga; ma prima chʼegli lasci
tanto avanti la perturbazion procedere, che ad atto di peccato potesse
pervenire, con umiltá e con buona pazienza vince la turbazione, e di
questa vittoria merita. Ma lʼaccidioso non è cosí; percioché non per
virtú, ma per cattivitá è paziente, e tutto dimessosi per la viltá
dellʼanimo suo allʼozio, in tutti i suoi pensieri, in tutte le sue
meditazioni sʼattrista, ognora divenendo piú vile, intanto che la sua
vita, quasi non fosse vivo, trapassa; e in essa dolorosa non è cosa
alcuna, quantunque menoma, la quale esso sʼattenti di cominciare; e,
se pur tanto lo ʼnfesta la necessitá che egli alcuna ne cominci, nel
cominciamento medesimo invilisce, sí che, le piú volte intralasciatala,
non la conduce alla fine. Il tempo freddo il rattrappa, il caldo il
dissolve, il giorno gli è noioso e la notte grave; ciascheduna ora,
e in qualunque stagione, ha in sé, al giudicio del pigro, alcuno
impedimento intorno alle cose che occorrono da fare, e cosí il tempo
nuvolo e ʼl sereno. La cura familiare sempre gli peggiora tra le mani;
non visita, non sollecita le possession sue, non i lavorator di quelle,
non i servi, e lʼessergli di quelle i frutti diminuiti non se ne cura
per tracutanza. Alle publiche cose non ardirebbe di salire, alle quali
se pur sospinto fosse per li meriti dʼalcun suo, come uno addormentato
si starebbe in quelle; il letto, le notti lunghissime e i sonni, non
piú corti che quelle, gli sono graziosissimo e disiderabile bene;
la solitudine, le tenebre e il silenzio prepone ad ogni dilettevole
compagnia.

[Ma, posponendo gli atti morali e alquanto parlando degli spirituali,
non visita glʼinfermi, non visita glʼincarcerati, non sovviene di
consiglio aʼ bisognosi, non visita la chiesa, non onora il corpo di
Cristo per non trarsi il cappuccio, allʼusanza di Fiandra, non si
confessa aʼ tempi, non prende i sacramenti, non dispone né i fatti
dellʼanima né quegli del corpo.]

Ma a che molte parole? Lʼuomo si potrebbe stendere assai, volendo
pienamente raccontare ogni parte di questa miseria; ma, percioché
disutile è la materia, in poche conchiudendo le molte parole, dico che
la vita dellʼaccidioso è, quanto piú può, simigliante alla morte.

È nondimeno questo vizio origine e cagione di molti mali: di costui
nasce non solamente povertá, ma indigenzia e miseria, nella quale
rognoso, scabbioso, bolso, malinconico e pannoso si diviene; nasce
ancor da costui afflizion dʼanimo, odio di se medesimo e rincrescimento
di vita; nascene ignoranza di Dio, vilipension di virtú, perdimento di
fama e moltitudine di pensier vani; tiepidezza di spirito, prolungazion
dʼopere e fastidio general dʼogni bene; e ultimamente, dopo la trista
vita, eterna perdizion dellʼanima.

E percioché tutti gli atti di coloro, li quali sono da questo vizio
occupati, sono freddi, torpenti e rimessi, e, in quanto possono,
nascosi e occulti, gli fa assai convenientemente lʼautore stare nascosi
e riposti, senza potere esser veduti, nel fangoso fondo della misera
palude bogliente, nera e nebolosa; e in quella gorgogliare con la
gola piena del fastidio di quella, e piagnere e senza pro dolersi
della vita trista e nigligente, la qual menarono. Volendo per questo
sʼintenda primieramente, per lo calor della padule, il calor della
divina ira, il quale, sí come contrario alla freddezza del lor peccato,
gli tormenta e punisce in gravissimo e intollerabile dolore. E per
lʼessere la palude nera, vuol sʼintenda la tenebrosa lor vita, e la
oscuritá delle loro opere, delle quali mai luce alcuna non apparve. E
per questo ancora vuole loro stare tuffati, sotterrati e occulti sotto
lʼonde, accioché si comprenda loro nella presente vita non essere per
alcuna loro operazione stati conosciuti. Lʼessere la padule nebulosa,
o fumosa che vogliam dire, è a dimostrare la caligine della ignoranza,
della quale furono offuscati gli occhi dello ʼntelletto loro, li
quali mai riguardar non vollono sé essere uomini nati ad esercizio
laudevole e non a detestabile ozio. Lʼavere la strozza piena di fango,
e gorgogliare, in quali cose il lor misero adoperare si faticasse, il
quale in alcuna altra cosa non si distese, se non in pensieri e in
meditazion malinconiche, le quali son di natura terree, e, sí come
grosse e fastidiose, hanno ad oppilare i meati della chiarezza del
suono della laudevole fama, della quale niente curano gli accidiosi.



CANTO OTTAVO


I

SENSO LETTERALE


[Nota: Lez. XXXIII]

«Io dico, seguitando, chʼassai prima», ecc. Continuasi lʼautore in
questo canto alle cose precedenti in questa forma che, avendo nella
fine del precedente canto mostrato come, alquanto aggirata della padule
di Stige, pervenissero a piè dʼuna torre; nel principio di questo
dimostra quello che, avanti al piè della torre pervenissero, vedessero,
discrivendo poi quello che di ciò che videro seguisse: e intende
lʼautore dimostrare in questo come, trasportati da Flegias dimonio
per nave, pervenissero alla porta della cittá di Dite. E dividesi il
presente canto in quattro parti: nella prima dimostra lʼautore come,
vedute certe fiamme sopra due torri, distanti lʼuna allʼaltra, un
demonio chiamato Flegias venisse in una barchetta, e come in quella
Virgilio ed esso discendessero; nella seconda discrive lʼautore ciò
che, navicando per la palude, udisse e vedesse dʼuno spirito chiamato
Filippo Argenti; nella terza mostra come, giunti nel fosso della cittá
di Dite, e quindi alla porta di quella pervenissero; nella quarta pone
la raccolta fatta loro daʼ demòni, che sopra la porta o allʼentrata
della porta erano, e come, avendo Virgilio parlato con loro, gli fosse
da loro chiusa la porta nel petto, e turbato a lui se ne tornasse, e
quel che dicesse. La seconda comincia quivi: «Mentre noi correvam»; la
terza quivi: «Quivi il lasciammo»; la quarta quivi: «Non senza prima
far».

Dice adunque nella prima: [«Io dico, seguitando». Nelle quali parole
si può alcuna ammirazion prendere in quanto, senza dirlo, puote ogni
uom comprendere esso aver potuto seguire la materia incominciata; e sí
ancora che, per insino a qui, non ha alcunʼaltra volta usato questo
modo di continuarsi alle cose predette. E perciò, accioché questa
ammirazion si tolga via, è da sapere che Dante ebbe una sua sorella,
la quale fu maritata ad un nostro cittadino chiamato Leon Poggi, il
quale di lei ebbe piú figliuoli, traʼ quali ne fu uno di piú tempo
che alcun degli altri, chiamato Andrea, il quale maravigliosamente
nelle lineature del viso somigliò Dante, e ancora nella statura della
persona, e cosí andava un poco gobbo, come Dante si dice che facea,
e fu uomo idioto, ma dʼassai buon sentimento naturale e neʼ suoi
ragionamenti e costumi ordinato e laudevole; del quale, essendo io suo
dimestico divenuto, io udiʼ piú volte deʼ costumi e deʼ modi di Dante,
ma, tra lʼaltre cose che piú mi piacque di riservare nella memoria, fu
ciò che esso ragionava intorno a quello di che noi siamo al presente in
parole.]

[Diceva adunque che, essendo Dante della setta di messer Vieri deʼ
Cerchi, e in quella quasi uno deʼ maggiori caporali, avvenne che,
partendosi messer Vieri di Firenze con molti degli altri suoi seguaci,
esso medesimo si partí e andossene a Verona. Appresso la qual partita,
per sollecitudine della setta contraria, messer Vieri e ciascun altro
che partito sʼera, e massimamente deʼ principali della setta, furono
condennati, sí come ribelli, nellʼavere e nella persona, e tra questi
fu Dante: per la qual cosa seguí che alle case di tutti fu corso a
romor di popolo, e fu rubato ciò che dentro vi si trovò. È vero che,
temendosi questo, la donna di Dante, la qual fu chiamata madonna Gemma,
per consiglio dʼalcuni amici e parenti, aveva fatti trarre dalla casa
alcuni forzieri con certe cose piú care, e con iscritture di Dante, e
fattigli porre in salvo luogo. E, oltre a questo, non essendo bastato
lʼaver le case rubate, similmente i parziali piú possenti occuparono
chi una possesione chi unʼaltra di questi condennati: e cosí furono
occupate quelle di Dante. Ma poi, passati ben cinque anni o piú,
essendo la cittá venuta a piú convenevole reggimento che quello non era
quando Dante fu condennato, dice le persone cominciarono a domandar
loro ragioni, chi con un titolo chi con un altro, sopra i beni stati
deʼ ribelli, ed erano uditi: per che fu consigliata la donna che
ella, almeno con le ragioni della dote sua, dovesse deʼ beni di Dante
raddomandare. Alla qual cosa disponendosi ella, le furon di bisogno
certi stromenti e scritture, le quali erano in alcuno deʼ forzieri, li
quali ella in su la furia del mutamento delle cose aveva fatti fuggire,
né poi mai gli aveva fatti rimuovere del luogo dove diposti gli aveva.
Per la qual cosa diceva questo Andrea che essa aveva fatto chiamar lui,
sí come nepote di Dante, e, fidategli le chiavi deʼ forzieri, lʼaveva
mandato con un procuratore a dover recare delle scritture opportune.
Delle quali mentre il procuratore cercava, dice che, avendovi altre piú
scritture di Dante, tra esse trovò piú sonetti e canzoni e simili cose;
ma, tra lʼaltre che piú gli piacquero, dice fu un quadernetto, nel
quale di mano di Dante erano scritti i precedenti sette canti; e però
presolo e recatosenelo, e una volta ed altra rilettolo, quantunque poco
ne ʼntendesse, pur diceva gli parevan bellissima cosa. E però diliberò
di dovergli portare, per saper quel che fossero, ad un valente uomo
della nostra cittá, il quale in queʼ tempi era famosissimo dicitore in
rima, il cui nome fu Dino di messer Lambertuccio Frescobaldi; il qual
Dino, essendogli maravigliosamente piaciuti, e avendone a piú suoi
amici fatta copia, conoscendo lʼopera piú tosto iniziata che compiuta,
pensò che fossero da dover rimandare a Dante, e di pregarlo che,
seguitando il suo proponimento, vi desse fine. E, avendo investigato e
trovato che Dante era in quei tempi in Lunigiana con un nobile uomo deʼ
Malispini, chiamato il marchese Morruello, il quale era uomo intendente
e in singularitá suo amico, pensò di non mandargli a Dante, ma al
marchese, che gliele mostrasse, e cosí fece; pregandolo che, in quanto
potesse, désse opera che Dante continuasse la ʼmpresa, e, se potesse,
la finisse.]

[Pervenuti adunque i sette canti predetti alle mani del marchese, ed
essendogli maravigliosamente piaciuti, gli mostrò a Dante; e, avendo
avuto da lui che sua opera erano, il pregò gli piacesse di continuare
la ʼmpresa. Al qual dicono che Dante rispuose:—Io estimava veramente
che questi, con altre mie cose e scritture assai, fossero, nel tempo
che rubata mi fu la casa, perduti, e però del tutto nʼavea lʼanimo e ʼl
pensiero levato: ma, poiché a Dio è piaciuto che perduti non sien, ed
hammegli rimandati innanzi, io adopererò ciò che io potrò di seguitare
la bisogna, secondo la mia disposizion prima.—E quinci rientrato nel
pensiero antico, e reassumendo la intralasciata opera, disse in questo
principio del canto ottavo: «Io dico, seguitando» alle cose lungamente
intralasciate.]

[Ora questa istoria medesima puntualmente, quasi senza alcuna cosa
mutarne, mi raccontò giá un ser Dino Perini, nostro cittadino e
intendente uomo, e, secondo che esso diceva, stato quanto piú esser si
potesse familiare e amico di Dante; ma in tanto muta il fatto, che esso
diceva non Andrea Leoni, ma esso medesimo essere stato colui, il quale
la donna avea mandato aʼ forzieri per le scritture, e che avea trovati
questi sette canti, e portatigli a Dino di messer Lambertuccio. Non so
a quale io mi debba piú fede prestare; ma qual che di questi due si
dica il vero o no, mʼoccorre nelle parole loro un dubbio, il quale io
non posso in maniera alcuna solvere che mi soddisfaccia. E il dubbio
è questo. Introduce nel sesto canto lʼautore Ciacco, e fagli predire
come, avanti che il terzo anno, dal dí che egli dice, finisca, convien
che caggia dello stato suo la setta, della quale era Dante. Il che
cosí avvenne, percioché, come eletto è, il perdere lo stato la setta
Bianca e il partirsi di Firenze fu tutto uno: e però, se lʼautore si
partí allʼora premostrata, come poteva egli avere scritto questo? e
non solamente questo, ma un canto piú? Certa cosa è che Dante non avea
spirito profetico, per lo quale egli potesse prevedere e scrivere, e a
me pare esser molto certo che egli scrisse ciò che Ciacco dice poi che
fu avvenuto; e però mal si confanno le parole di costoro con quello che
mostra essere stato. Se forse alcun volesse dire lʼautore, dopo la
partita deʼ Bianchi, esser potuto occultamente rimanere in Firenze, e
poi avere scritto anzi la sua partita il sesto e il settimo canto, non
si confá bene con la risposta fatta dallʼautore al marchese, nella qual
dice sé avere creduto questi canti con lʼaltre sue cose essere stati
perduti, quando rubata gli fu la casa. E il dire lʼautore aver potuto
aggiungere al sesto canto, poi che gli riebbe, le parole le quali fa
dire a Ciacco, non si può sostenere, se quello è vero che per i due
superiori si racconta, che Dino di messer Lambertuccio nʼavesse data
copia a piú suoi amici; percioché pur nʼapparirebbe alcuna delle copie
senza quelle parole, o pur per alcuno antico, o in fatti o in parole,
alcuna memoria ne sarebbe. Ora, come che questa cosa si sia avvenuta
o potuta avvenire lascerò nel giudicio deʼ lettori; ciascun ne creda
quello che piú vero o piú verisimile gli pare.]

[Tornando adunque al testo, dice:] «Io dico, seguitando» alle cose
predette, «chʼassai prima Che noi», cioè Virgilio ed io, «fossimo al
piè de lʼalta torre», alla quale nella fine del precedente canto scrive
che pervennero, «Gli occhi nostri nʼandâr», riguardando, «suso alla
cima», cioè alla sommitá della torre predetta. E appresso dimostra la
cagione perché gli occhi verso la cima levarono, dicendo: «Per due
fiammette», cioè piccole fiamme, «che vedemmo porre», in su quella
sommitá della torre, «E unʼaltra», fiamma, «di lungi» da questa torre,
«render cenno», sí come far si suole per le contrade nelle quali è
guerra, che, avvenendo di notte alcuna novitá, il castello o il luogo,
vicino al quale la novitá avviene, incontanente per un fuoco o per due,
secondo che insieme posti si sono, il fa manifesto a tutte le terre e
ville del paese. E dice che questo cenno dʼuna fiamma fu renduto di
lontano, «Tanto, chʼappena il potea lʼocchio tôrre», cioè discernere
[altro]. Ma pure, poi che tolto lʼebbe, dice:

«Ed io mi volsi al mar», cioè allʼabbondanza, «di tutto il senno»,
cioè a Virgilio (del quale nel principio del canto precedente dice:
«E quel savio gentil, che tutto seppe»); e séguita: «Dissi:—Questo
che dice?», cioè che significa il fuoco, il quale è qui sopra di noi
fatto in questa torre? «e che risponde Quellʼaltro fuoco?», il quale io
veggio fare sopra la torre, la quale nʼè lontana; «e chi son queʼ che
ʼl fenno»?—questo chʼè sopra noi, e quello ancora che nʼè piú rimoto.

«Ed egli a me:—Su per le sucide onde», di Stige, le quali chiama
«sucide», perché nere e brutte erano, «Giá puoi scorger», cioè di
lontan vedere, «quello che sʼaspetta» di dovere avvenire per questo
fuoco e per quello, «Se ʼl fummo», cioè la nebbia, «del pantan nol ti
nasconde»,—percioché la nebbia, dove non si diradi, ha a tôr la vista
delle cose, alle quali ella è davanti e mèzza tra esse e lʼocchio del
riguardante.

E, questo avendo Virgilio risposto, séguita lʼautore, e dimostra quello
che seguí deʼ fuochi sopra le due torri veduti, dicendo: «Corda»,
dʼalcuno arco, «non pinse mai da sé saetta, Che si corresse», cioè
volasse, «via per lʼaere snella», cioè leggiere, «Comʼio vidi una nave
piccioletta Venir per lʼacqua», della padule, «verso noi in quella» che
Virgilio diceva:—«Giá puoi scorgere», ecc.—«Sotto il governo dʼun sol
galeoto». «Galeotti» son chiamati queʼ marinari li quali servono alle
galee; ma qui, _licentia poëtica_, nomina «galeotto» il governatore
dʼuna piccola barchetta; e dice «che», questo galeotto, «gridava:—Or
seʼ giunta, anima, fella!»,—cioè malvagia.

E, come assai appare, lʼautore in questo quinto cerchio non ha ancor
mostrato essere alcun demonio, il quale preposto sia al tormento deʼ
dannati in esso, né che con alcun atto lo spaventi, come suol fare
neʼ cerchi di sopra; e perciò il pone in questo luogo. E questo è
artificiosamente fatto, percioché non sempre dʼuna medesima cosa si dee
in un medesimo modo parlare. Ponlo adunque, per variare alquanto il
modo del dimostrare, qui infra ʼl cerchio, percioché tutto è del quinto
cerchio ciò che si contiene infino allʼentrata della cittá di Dite.
E in quanto le parole di questo galeotto sono in numero singulare,
par che sieno dirizzate dal dimonio pure allʼun di lor due, cioè a
Virgilio, il quale era anima e non uomo; e però si può comprendere
questo demonio avere da occulta virtú sentito lʼautore non venir come
dannato, e però lui non avere in esso alcuna potestá; ma esso gridar
contro a Virgilio, accioché lʼautore spaventasse, e, spaventandolo,
il rimovesse dal suo buon proponimento, cioè dal voler conoscere
le colpe deʼ peccatori e i tormenti dati a quelle, accioché per lo
conoscer delle colpe apparasse quello che era da fuggire, e per la pena
prendesse timore e quindi compunzione, se per avventura in quella colpa
caduto fosse.

Al qual dimonio cosí gridante disse Virgilio:—«Flegias, Flegias»; era
questo il propio nome del dimonio che la nave menava, il qual Virgilio
quasi dirisivamente due volte nomina; seguitando: «tu gridi a vòto»,
cioè per niente,—«Disse lo mio signore». E poi soggiugne la cagione
per la quale Flegias grida a voto, dicendo:—«A questa volta», che qui
seʼ venuto, «Piú non ci avrai», che tu ci avessi, «se non passando il
loto»,—cioè il padule pieno di loto.

E, questo detto, dimostra quello che a Flegias paresse, queste parole
udendo e credendole, e dice: «Quale è colui che grande inganno ascolta,
Che gli sia fatto», che prima si turba, «e poi se ne rammarca», con gli
amici e con altrui; «Tal si feʼ Flegias nellʼira accolta», parendogli
essere ingannato in ciò che alcun di lor due non dovesse rimanere, e
che esso invano passasse il loto: che forse mai piú avvenuto non gli
era.

[E, avanti che piú si proceda, è da sapere che, secondo che scrive
Lattanzio _in libro Divinarum institutionum_, questo Flegias fu
figliuolo di Marte, uomo malvagio e arrogante e fastidioso contro
aglʼiddii. Ebbe questo Flegias, secondo che Servio dice, due figliuoli,
Issione e una ninfa chiamata Coronide, la quale, essendo bellissima,
piacque ad Apolline, iddio della medicina; di che seguí che Apolline
giacque con lei e ingravidolla, ed essa poi partorí un figliuolo, il
quale fu chiamato Esculapio. La qual cosa sentendo Flegias, e adiratosi
forte, senza prendere altro consiglio, impetuosamente corse in Delfos,
e quivi mise fuoco nel tempio dʼApolline, il quale a queʼ tempi
dallʼerror deʼ gentili era in somma reverenzia e divozione quasi di
tutto il mondo; percioché quivi ogni uomo per risponsi delle bisogne
sue concorreva. E fu questo tempio arso da Flegias, secondo che scrive
Eusebio _in libro Temporum_, lʼanno 23 di Danao, re degli argivi, il
quale fu lʼanno della creazion del mondo 3752. E, oltre a questo,
scrivono alcuni che esso uccise la figliuola, la quale, percioché
vicina era al tempo del parto, fu da alcuni aperta, e trattale la
creatura, giá perfetta, del ventre, e allevata. E questi che cosí eran
tratti deʼ ventri delle madri erano consegrati ad Apolline, in quanto
per beneficio della sua deitá, cioè dellʼarte della medicina, erano
in vita tratti. Scrivono, oltre a ciò, i poeti che Apolline, essendo
turbato di ciò che Flegias avea arso il tempio suo, il fulminò e
mandonne lʼanima sua in inferno, e condannolla a questa pena: che egli
stesse sempre sotto un grandissimo sasso, il qual parea che ogni ora
gli dovesse cadere addosso; di che egli sempre stava in paura. E di lui
scrive Virgilio nel sesto dellʼ_Eneida_:

          _Phlegyasque miserrimus omnes_
  _admonet, et magna testatur voce per umbras:
  discite iustitiam moniti, et non contemnere divos_, ecc.]

«Lo duca mio». Poi che lʼautore ha dimostrato Flegias essersi turbato
del non dovere acquistar piú che sol passando il loto, ed egli scrive
come con Virgilio scendesse nella nave di Flegias: per che comprender
si può che altra via non vʼera da poter piú avanti procedere, senza
valicar per nave il padule. E dice: «discese nella barca, E poi mi fece
entrare», nella barca, «appresso lui; E sol quando fuʼ dentro parve
carca»: in che assai ben si comprende che lo spirito non è dʼalcun
peso, ma che il corpo è quello che è grave. È questa parte presa da
Virgilio, dove dice, nel sesto dellʼ_Eneida_, come Enea trapassò per
nave Acheronte, dicendo cosí:

                         _simul accipit alveo_
  _ingentem Aeneam. Gemuit sub pondere cymba
  subtilis, et multam accepit rimosa paludem,_ ecc.

Poi segue lʼautore: «Tosto che ʼl duca ed io nel legno fui», cioè
nella barca; e usa qui lʼautore il general nome delle navi per lo
speziale, percioché generalmente ogni vasello da navicare è chiamato
«legno», quantunque non sʼusi se non nelle gran navi. «Segando se ne
va»: dice «segando», in quanto, come la sega divide il legname in due
parti, cosí la nave, andando per lʼacqua sospinta daʼ remi o dal vento,
pare che seghi, cioè divida, lʼacqua. «Lʼantica prora»: «antica» la
chiama, percioché per molti secoli ha fatto quello uficio; «prora»
la chiama, ponendo la parte per lo tutto, percioché ogni nave ha tre
parti principali, delle quali lʼuna si chiama «prora», quantunque per
volgare sia chiamata «proda» daʼ navicanti; e questa è stretta e aguta,
percioché è quella parte che va davanti e che ha a fender lʼacqua:
lʼaltra parte si chiama «poppa», e questa è quella parte che viene di
dietro, e sopra la quale sta il nocchier della nave al governo deʼ
timoni, li quali in quella parte, lʼuno dal lato destro e lʼaltro dal
sinistro son posti; per li quali, secondo che mossi sono, la nave va
verso quella parte dove il nocchier vuole: la terza parte si chiama
«carena», e questa è il fondo della nave, il quale consiste tra la
poppa e la proda. Séguita che questa antica prora, per lo disusato
carico, sega «Dellʼacqua» del padule, «piú che non suol con altrui»,
cioè con gli spiriti, li quali in essa sogliono esser portati da
Flegias.

«Mentre noi correvam». Qui comincia la seconda parte di questo canto,
nella quale lʼautor fa quattro cose: primieramente dimostra come un
pien di fango fuori dellʼacqua del padule gli si dimostra; appresso
scrive come Virgilio gli facesse festa per lo avere egli avuto in
dispregio il fangoso che gli si dimostrò; oltre a ciò, pone come quel
fangoso fosse lacerato dallʼaltre anime deʼ dannati che quivi erano;
ultimamente discrive come nei fossi venissono della cittá di Dite.
La seconda cosa comincia quivi: «Lo collo poi»; la terza quivi: «Ed
io:—Maestro»; la quarta quivi: «Lo buon maestro».

Dice adunque nella prima parte: «Mentre noi correvam», cioè velocemente
navicavamo, «la morta gora». «Gora» è una parte dʼacqua tratta per
forza del vero corso dʼalcun fiume, e menata ad alcuno mulino o altro
servigio, il qual fornito, si ritorna nel fiume onde era stata tratta:
per lo qual nome lʼautore nomina qui, _licentia poëtica_, il padule per
lo quale navicava; e, per dar piú certo intendimento che di quello
dica, cognomina questa gora «morta», cioè non moventesi con alcuno
corso, sí come i paduli fanno. «Dinanzi mi si fece», uscendo dallʼacqua
del padule, «un pien di fango», unʼanima dʼun peccatore, «E disse:—Chi
seʼ tu, che vieni anzi ora?»,—cioè anzi che tu sia morto.

«Ed io a lui» risposi:—«Sʼio vengo, non rimango», percioché io non son
dannato, e uscirò di qui per altra via; «Ma tu», che domandi, «chi seʼ,
che sí seʼ fatto brutto?»—dal fango il quale hai addosso.

«Rispose», quellʼanima:—«Vedi che son un che piango».—Risposta
veramente dʼuomo stizzoso e iracundo, del quale è costume mai non
rispondere se non per rintronico.

«Ed io a lui:—Con piangere e con lutto». Pongono i gramatici essere
diversi significati a diversi vocaboli li quali significan pianto:
dicon primieramente che «_flere_», il quale per volgare noi diciam
«piagnere», fa lʼuomo quando piagne versando abbondantissimamente
lagrime; «_plorare_», il quale similmente per volgare viene a dir
«piagnere», è piagnere con mandar fuori alcuna boce; «_lugere_», il
quale similmente per volgare viene a dir «piagnere», è quello che con
miserabili parole e detti si fa. E dicono etimologizzando: «_lugere,
quasi luce egere_», cioè aver bisogno di luce. E questo pare che sia
quella spezie di piagnere la quale facciamo essendo morto alcuno amico,
percioché, chiuse le finestre della casa, dove è il corpo morto,
quasi allʼoscuro piagnamo; ma meglio credo sia detto quegli, che per
cotale cagion piangono, avviluppati per lo dolore nella oscuritá della
ignoranza, avere bisogno in lor consolazione della luce della veritá,
per la qual noi cognosciamo noi nati tutti per morire; e però, quando
questo avviene che alcuno ne muoia, non essere altramenti da piagnere
che noi facciamo per gli altri effetti naturali. E da questo «_lugere_»
viene «lutto», il vocabolo che qui usa lʼautore. «_Eiulare_», che
per volgare viene a dir «piagnere», e, secondo piace aʼ gramatici,
«piagnere con alte boci»: e dicesi _ab «hei», quod est interiectio
dolentis_; «_gemere_», ancora in volgare viene a dir «piagnere», e
quel pianto che si fa singhiozzando; «_ululare_» in volgare vuol dir
«piagnere»: e vogliono alcuni questa spezie di piagnere esser quella
che fanno le femmine quando gridando piangono. E però. dicendo lʼautore
a questa anima che con piagnere e con lutto si rimanga, non fa alcuna
inculcazione di parole, come alcuni stimano, apparendo che le spezie
del pianto e di lutto sieno intra sé diverse.

Segue adunque: «Spirito maladetto, ti rimani», in questo tormento,
«Chʼio ti conosco, ancor sii lordo tutto».—Questo gli dice lʼautore,
percioché esso, da lui domandato chi el fosse, non lʼavea voluto dire.

«Allora tese al legno», quella anima, «ambo le mani»; e questo si dee
credere quella anima aver fatto sí come iracundo, il quale per vaghezza
di vendetta avrebbe voluto offendere e noiare, se potuto avesse,
lʼautore, percioché ingiurioso si reputava lʼautore aver detto di
conoscerlo, quantunque egli fosse tutto fangoso. «Per che ʼl maestro
accorto», della intenzione di questʼanima adirata, «lo sospinse», cioè
il rimosse della barca, «Dicendo:—Via costá con gli altri cani!»,—deʼ
quali, adirati e commossi, è usanza di stracciarsi le pelli coʼ denti,
come quivi dice si stracciavano glʼiracundi.

[Nota: Lez. XXXIV]

«Lo collo poi». Qui comincia la seconda particella della seconda parte
principale, nella quale Virgilio fa festa allʼautore, percioché ha
avuto in dispregio lo spirito fangoso. [E mostra in questa particella
lʼautore una spezie dʼira, la quale non solamente non è peccato ad
averla, ma è meritorio a saperla usare: la quale vertú, cioè sapere
usare questa spezie dʼira, Aristotile nel quarto dellʼ_Etica_ chiama
«mansuetudine», e quegli cotali, che questa virtú hanno, dice che
sʼadirano per quelle cose e contro a quelle persone, contro alle quali
è convenevole dʼadirarsi, e ancora come si conviene, e quando, e
quanto tempo; e questi, che questo fanno, dice che sono commendabili.
E séguita che i mansueti vogliono essere senza alcuna perturbazione, e
non vogliono esser tirati da alcuna passione, ma quello solamente fare
che la ragione ordinerá: cioè in quelle cose nelle quali sʼadira, tanto
tempo essere adirato, quanto la ragione richiederá. Questa cotale
spezie dʼira nʼè conceduta daʼ santi. Dice il salmista: «_Irascimini,
et nolite peccare_»; volendo per queste parole che ne sia licito il
commuoversi per le cose non debitamente fatte, sí come fa il padre
quando vede alcuna cosa men che ben fare al figliuolo, o il maestro al
discepolo, o lʼuno amico allʼaltro, accioché per quella commozione egli
lʼammonisca e corregga con viso significante la sua indegnazione, non
come uomo che, della ingiuria la quale gli pare per lo non ben fare
dʼalcuno, disideri vendetta; e, fatta la debita ammonizione, ponga giú
lʼira. E in questa maniera adirandosi, e per cosí fatta cagione, non
si pecca. In questa maniera si dee intendere Dio verso noi adirarsi,
come spesso nella Scrittura si legge: e il salmista spesse volte priega
che da questa ira il guardi, cioè da adoperare sí, che esso contra di
lui si debba adirare. E da questa ira dobbiam credere essere stato
commosso Cristo, nel quale mai non fu peccato alcuno, quando, preso un
mazzo di funi, cacciò dal tempio i venditori eʼ compratori, dicendo:
«_Domus mea, domus orationis_», ecc. Questa spezie dʼira chiamano molti
«sdegno» (e cosí mostra di voler qui intendere lʼautore): il qual non
voglion cadere se non in animi gentili, cioè ordinati e ben disposti
e savi. E tanto voglion che sia maggiore, quanto colui è piú savio in
cui egli cade; percioché quanto piú è savio lʼuomo, tanto piú cognosce
le qualitá eʼ motivi deʼ difetti che si commettono, e per conseguente
piú si commuove. E però dice Salomone: «_Ubi multum sapientiae, ibi
multum indignationis_». E vuole lʼautore in questa particella mostrare
questa virtú essere stata in lui, in quanto in parte alcuna non si
mostra per lo supplicio deʼ dannati in questo cerchio esser commosso,
come neʼ superiori è stato: ma avergli Virgilio, cioè la ragione, fatta
festa abbracciandolo, e chiamandolo «alma sdegnosa», e benedicendo,
in segno di congratulazione, la madre di lui; e questa festa, questa
congratulazione non gli avrebbe mai fatta Virgilio, se non in
dimostrazione che nobilissima cosa e virtuosa sia lʼessere isdegnoso.
È il vero che, come di molte altre cose avviene, questo adiettivo,
cioè «sdegnoso», spessissimamente in mala parte si pone: il che,
quantunque non vizi la veritá del subietto, nondimeno è daʼ discreti
da distinguere e da riguardare, dove debitamente si pone; e, dove non
debitamente si pone, averlo per alcuna di quelle spezie dʼira, le quali
di sopra son mostrate esser dannose.]

Dice adunque il testo cosí: «Lo collo poi» che dal legno ebbe cacciata
quella anima iracunda, «con le braccia mi cinse», abbracciandomi;
«Baciommi il volto», in segno di singulare benivolenzia; percioché
noi abbracciamo e baciamo coloro li quali noi amiamo molto. E dice
«il volto», non dice la bocca, accioché per questo noi sentiamo
primieramente lʼonestá del costume, percioché il baciar nel volto è
segno caritativo, ove il baciare in bocca, quantunque quel medesimo
sia alcuna volta, le piú delle volte è segno lascivo. E, oltre a ciò,
il volto nostro è detto «volto» da «_volo vis_», percioché per quello
neʼ non viziati uomini si dimostra il voler del cuore: e percioché il
voler del cuore dellʼautore era buono e onesto, Virgilio, approvando
quel buon volere, mostrò la sua approvazione, baciando quella parte del
corpo dellʼautore, nella quale quella buona disposizione si dimostrava.

«E disse:—Alma sdegnosa». Non disse iracunda, ma «sdegnosa», in
quanto, giustamente adirandosi e quanto si conviene servando lʼira,
mostrò lo sdegno della sua nobile anima. «Benedetta colei che in
te», cioè sopra te, «si cinse!». Cingonsi sopra noi le madri nostre
nel mentre nel ventre ci portano; e dice qui lʼautor «benedetta», a
dimostrazion che, come lʼalbero, il qual porta buon frutto, si dice
«benedetto», cosí ancora si dice «benedetta» la madre che porta buon
figliuolo. E in questa parte non si commenda poco lʼautore; ma egli è
in ciò da avere per iscusato, in quanto non fa questo per commendar
sé, ma per commendar la virtú della mansuetudine, della quale era di
necessitá di trattare in questa parte, accioché noi non credessimo ogni
ira esser peccato.

«Questi», che ti si mostrò, «fu al mondo», cioè in questa vita,
«persona orgogliosa», cioè arrogante: «Bontá», cioè virtú, «non è che
sua memoria fregi», cioè adorni; percioché le virtú adornano cosí
il nome e la memoria dellʼuomo, nel quale state sono, come il fregio
adorna il vestimento; «Cosí», cioè come fu arrogante nel mondo, «sʼè
lʼombra sua qui furiosa», per rabbia e per dolore del tormento.

«Quanti si tengono or lassú». Poi che egli ha biasimata la furiosa e
sconvenevole vita di quello spirito, meritamente si volge Virgilio
a biasimare, sotto i nomi deʼ piú eminenti prencipi, i fastidi e le
stomacaggini, non dico solamente degli uomini di maggiore stato, ma
eziandio di molti plebei, li quali, per apparere dʼesser quel che non
sono, si sforzano dʼesser ponderosi neʼ passi, gravi nel parlare,
e nellʼadoperare di sentimento sublime, dove nellʼeffetto di niuno
valore sono; dicendo: «Quanti si tengono or lassú», cioè nel mondo, il
quale è di sopra da noi, «gran regi», cioè gran maestri. Nondimeno il
«re» è dinominato da «_rego regis_», il quale sta per «reggere» e per
«governare». Di questi cotali, quantunque di molti sieno le lor teste
ornate di corona, non son però tutti da dovere essere reputati re; e
però dice lʼautore bene «si tengono»; ma, perché essi si tengano, essi
non sono.

A dimostrazione della qual veritá ottimamente favella Seneca tragedo
in quella tragedia la quale è nominata _Tieste_, dove dice: «Non fanno
le ricchezze li re, non il colore del vestimento tirio, non la corona
della quale essi adornano la fronte loro, non le travi dorate deʼ lor
palagi: re è colui il quale ha posta giú la paura e ciascun altro male
del crudel petto; re è colui il quale non è mosso dalla impotente
ambizione e dal favore non stabile del precipitante popolo; sola la
buona mente è quella che possiede il regno: questa non ha bisogno di
cavalli né dʼarmi; re è colui il quale alcuna cosa non teme da non
temere». Dalle quali parole possiam comprendere quanti sieno oggi
quegli li quali degnamente si possano tenere re. Non sono adunque re
questi cotali che re si tengono, anzi son tiranni.

E però meritamente séguita che questi cotali, che re si tengono perché
posson far male quando vogliono, «Che qui staranno, come porci, in
brago»; e meritamente, accioché nel brago e nella bruttura riconoscano
i mali usati splendori nella vita presente; e, che ancora piú
vituperevole fia, morranno «Di sé lasciando», in questa vita, «orribili
dispregi», cioè memoria di cose orribili e meritamente da dispregiare,
state operate per loro.

«Ed io:—Maestro». Qui comincia la quarta particola della seconda
parte principale di questo canto, nella quale lʼautor discrive come,
secondo il suo desiderio, vide straziare allʼanime dannate quello pien
di fango che davanti gli sʼera parato. E primieramente apre il suo
desiderio a Virgilio, dicendo: «Ed io:—Maestro, molto sarei vago Di
vederlo attuffare», costui, il qual tu mi diʼ che fu persona orgogliosa
(e questa vaghezza par che sia generale in ciascuno virtuoso uomo,
di vedere glʼincorreggibili punire), «in questa broda». Il proprio
significato di «broda», secondo il nostro parlare, è quel superfluo
della minestra, il qual davanti si leva a coloro che mangiato hanno: ma
qui lʼusa lʼautore largamente, prendendolo per lʼacqua di quella padule
mescolata con loto, il quale le paduli fanno nel fondo, e percioché
cosí son grasse e unte come la broda.

«Anzi che noi uscissimo del lago»,—cioè di questa padule. È il «lago»
una ragunanza dʼacque, la quale in luoghi concavi tra montagne si fa,
per lo non avere uscita; ed è in tanto differente dal padule, in quanto
il lago ha grandissimo fondo ed hal buono, ed è in continuo movimento;
per le quai cose lʼacqua senza corrompersi vi si conserva buona; dove
la padule ha poco fondo e cattivo, ed è oziosa. Pone adunque qui
lʼautore il vocabolo del «lago» per lo vocabolo della «padule», usando
la licenza poetica, e largamente parlando.

«Ed egli a me:—Avanti che la proda», cioè la estremitá di questa
padule. La quale lʼuomo, come deʼ fiumi, chiama «riva»; ma pone
lʼautore questo vocabolo «proda», percioché egli è proprio nome di
quelle rive dove i navili pongono; e ciò è, perché sempre i navili,
accostandosi alla riva, dove scaricar debbono il carico il qual
portano, o caricar quello che prendono, pongono la lor proda alla
riva. «Ti si lasci veder, tu saráʼ sazio», di quel che disideri. E poi
ancora gliele rafferma dicendo: «Di tal disio», chente tu diʼ che hai,
«converrá che tu goda»,—cioè ti rallegri.

«Dopo ciò poco», cioè poco dopo queste parole di Virgilio, «vidi quello
strazio Far di costui», del quale io disiderava, «alle fangose genti»,
cioè aglʼiracundi, li quali erano in quel padule, «Che Dio ancor ne
lodo e ne ringrazio».

«Tutti gridavano», queʼ dannati, animando lʼun lʼaltro ad offender
questʼanima. E che gridavano?—«A Filippo Argenti!»—quasi voglian
dire: corriam tutti addosso a Filippo Argenti.

Fu questo Filippo Argenti (secondo che ragionar solea Coppo di Borghese
Domenichi) deʼ Cavicciuli, cavaliere ricchissimo, tanto che esso alcuna
volta fece il cavallo, il quale usava di cavalcare, ferrare dʼariento,
e da questo trasse il sopranome. Fu uomo di persona grande, bruno e
nerboruto e di maravigliosa forza e, piú che alcuno altro, iracundo,
eziandio per qualunque menoma cagione. Né di sue opere piú si sanno che
queste due, assai ciascuna per se medesima biasimevole. E per lo suo
molto essere iracundo scrive lʼautore lui essere a questa pena dannato.

«E ʼl fiorentino spirito bizzarro», cioè iracundo. E credo questo
vocabolo «bizzarro» sia solo deʼ fiorentini, e suona sempre in mala
parte: percioché noi tegnamo bizzarri coloro che subitamente e per
ogni piccola cagione corrono in ira, né mai da quella per alcuna
dimostrazione rimuover si possono. «In se medesmo», vedendosi schernire
o assalire dagli altri, «si volvea coʼ denti», per ira mordendosi.
«Quivi il lasciammo», procedendo avanti, «che piú non ne narro», che di
lui dopo questo si seguisse.

«Ma negli orecchi mi percosse un duolo». Qui si può comprendere quello,
che poco avanti dissi, venire a ciascun senso quello che da essi si
percepe: in quanto dice che un «duolo», cioè una voce dolorosa, gli
percosse gli orecchi, di lá venendo dove quella dolorosa voce era nata.
E segue: «Per che io», avendolo udito, per conoscere onde venisse,
«avanti», cioè innanzi a me, «intento», a riguardare, «gli occhi
sbarro», cioè, quanto posso apro.

«Lo buon maestro». Qui comincia la quarta particella della seconda
parte principale del presente canto, nella quale lʼautore dimostra
come venissero neʼ fossi della cittá di Dite. Dice adunque: «Lo buon
maestro disse:—Omai, figliuolo, Sʼappressa la cittá che ha nome Dite,
Coʼ gravi cittadin», non gravi per costumi o per virtú, ma per peccati,
«col grande stuolo»,—cioè con la gran quantitá.

«Ed io:—Maestro, giá le sue meschite». «Meschite» chiamano i saracini
i luoghi dove vanno ad adorare, fatti ad onore di Maometto, come noi
chiamiamo «chiese» quelle che ad onore di Dio facciamo; e percioché
questi cosí fatti luoghi si soglion fare piú alti e piú eminenti che
gli edifici cittadini, è usanza di vederle piú tosto, uno che di fuori
della cittá venga, che lʼaltre case; e perciò non fa lʼautor menzione
dellʼaltre parti della cittá dolente, ma di questa sola, chiamandole
«meschite», sí come edifici composti ad onor del dimonio, e non di Dio.

«Lá entro certo nella valle cerno»; dice «nella valle», percioché
la cittá era molto piú bassa che esso non era; e dice le discernea
«Vermiglie, come se di foco uscite Fossero».—E questo dice a rimuovere
una obiezione che gli potrebbe esser fatta, in quanto di sopra ha
alcuna volta detto sé non potere guari vedere avanti per lo fummo del
padule; e cosí vuol dire che né ancora qui vedrebbe quelle meschite, se
non fosse che esse medesime si facevan vedere per lʼessere affocate,
cioè rosse.

«E quei mi disse:—Il fuoco eterno, Chʼentro lʼaffuoca, le dimostra
rosse», cioè roventi, «Come tu vedi in questo basso inferno».—

Udita la cagione per la quale erano rosse quelle meschite (la qual
fu necessaria dʼaprire, accioché egli non estimasse quelle essere
dipinte), ed egli soggiugne: «Noi pur giugnemmo dentro allʼalte fosse,
Che vallan quella terra sconsolata». «Vallo», secondo il suo proprio
significato, è quello palancato, il quale aʼ tempi di guerre si fa
dintorno alle terre, accioché siano piú forti, e che noi volgarmente
chiamiamo «steccato»; e da questo pare venga nominata ogni cosa la qual
fuor delle mura si fa per afforzamento della terra.

«Le mura», di quella terra, «mi parea che ferro fosse». Dice quelle
essergli parute esser di ferro, a dimostrazione della fortezza di
questa terra, della quale dice Virgilio nel sesto dellʼ_Eneida_ cosí:

  _Porta adversa, ingens, solidoque adamante columnae,
  vis ut nulla virum, non ipsi excindere ferro
  caelicolae valeant. Stat ferrea turris ad auras,
  Tesiphoneque sedens, palla succinta cruenta,
  vestibulum exsomnis servat noctesque diesque.
  Hinc exaudiri gemitus et saeva sonare
  verbera; tum stridor ferri tractaeque catenae,_ ecc.

«Non senza prima far», ecc. Qui comincia la quarta parte principale
del presente canto, nella quale lʼautor discrive la raccolta fatta
loro daʼ demòni, li quali erano in su la porta di Dite, e come a
Virgilio serrarono la porta nel petto. E in questa parte fa due cose:
primieramente discrive cui trovassero allʼentrare della porta di Dite,
e come Virgilio domandasse di parlar con loro; appresso dimostra
come si sconfortasse per lʼandar Virgilio a loro. E comincia questa
particella quivi: «Pensa, lettor».

Dice adunque primieramente: «Non senza prima far grande aggirata»;
nelle quali parole dimostra che lungamente andassero per li fossi
di quella cittá, avanti che essi giugnessono lá dove era la porta
di quella; e però segue: «Venimmo in parte dove ʼl nocchier», cioè
Flegias. Ed è questo nome «nocchiere» il proprio nome di colui, al
quale aspetta il governo generale di tutto il legno, e a lui aspetta di
comandare a tutti gli altri marinari, secondo che gli pare di bisogpo;
e chiamasi «nocchiere» quasi «navichiere». «Forte—Uscite!—ci gridò».
Qui si può comprendere, dal gridar forte di questo nocchiere, il
costume deglʼiracundi intorno al parlare, li quali non pare il possan
fare se non impetuosamente e con romore.—«Qui è lʼentrata»,—della
cittá di Dite.

«Io vidi piú di mille», cioè molti, «in su le porte», di questa cittá
di Dite, «Dal ciel piovuti», cioè demòni, li quali, cacciati di
paradiso, in guisa di piova caddero nello ʼnferno, «che stizzosamente»,
cioè iracundamente, «Dicean», con seco medesimi:—«Chi è costui, che
senza morte», cioè essendo ancor vivo, «Va per lo regno della morta
gente?»,—cioè per lo ʼnferno, il qual veramente si può dir «regno
della morta gente», in quanto quegli, che vi sono, son morti della
morte temporale, e morti nella morte eternale.

«E ʼl savio mio maestro fece segno», a questi demòni, «Di voler lor
parlar segretamente». Per lo qual segno essi «Allor chiusero un poco il
gran disdegno». Non dice che il ponesser giuso, ma alquanto, col non
parlare cosí stizzosamente, il ricopersono. E qui «disdegno» si prende
in mala parte, percioché negli spiriti maladetti non può essere, né è,
alcuna cosa che a virtú aspetti. «E disser:—Vienʼ tu solo», qua a noi,
«e quei sen vada», cioè Dante, «Che sí ardito», dietro a te, «entrò
per questo regno. Sol si ritorni per la folle strada», per la quale è
venuto dietro a te. E chiamala «folle», non perché la strada sia folle,
percioché non è in potenza la strada da potere essere o folle o savia,
ma a dimostrare esser folli coloro li quali si adoperano, che per
essa convenga loro scendere alla dannazione eterna. «Pruovi, se sa»,
tornarsene indietro solo; «ché tu qui», con noi, «rimarrai. Che gli hai
scorta», insino a questo luogo, «sí buia contrada»,—cioè sí oscura.

E vuole in queste parole lʼautore quello dimostrare, che negli altri
cerchi di sopra ha dimostrato, cioè che per alcun deʼ ministri
infernali sempre allʼentrar del cerchio sia spaventato: e cosí qui,
dovendo del quinto cerchio passar nel sesto, il quale è dentro della
cittá di Dite, introduce questi demòni a doverlo spaventare, accioché
del suo buon proponimento il rimovessero, e impedisserlo a dover
conoscere quello che si dee fuggire, per non dovere, perduto, in
inferno discendere.

«Pensa, lettor». Qui comincia la seconda particella di questa parte
principale, nella quale lʼautore mostra come si sconfortasse. «Pensa,
lettor», che queste cose leggerai, «se io mi sconfortai, Nel suon delle
parole maladette», cioè dette da quegli spiriti maladetti. E soggiugne
la cagione per la quale esso si sconfortò, dicendo: «Chʼio non credetti
ritornarci mai», cioè in questa vita, vedendomi tôrre colui che infin
quivi guidato mʼavea, e senza il quale io non avrei saputo muovere un
passo.

E però, da questa paura sbigottito, dice:-«O caro duca mio, che piú
di sette», cioè molte, ponendo il finito per lo ʼnfinito, «Volte
mʼhai sicurtá renduta, e tratto Dʼaltro periglio che incontro mi
stette»; cioè quando tu mi levasti dinanzi alle tre bestie, le quali
impedivano il mio cammino, quando tu acchetasti lʼira di Carone,
di Minos, di Cerbero e degli altri che opposti mi si sono; «Non mi
lasciar—dissʼio—cosí disfatto», come io sarei qui, ritrovandomi senza
te; «E, se lʼandar piú oltre», cioè piú giuso, «ci è negato, Ritroviam
lʼorme nostre insieme ratto»,—per la via tornandoci, per la quale
venuti siamo.

«E quel signor», Virgilio, «che lí mʼavea menato, Mi disse:—Non temer,
ché ʼl nostro passo», cioè lʼentrare nella cittá di Dite, «Non ci può
tôrre alcun»; quasi dica: quantunque costoro faccian le viste grandi
e dican parole assai, essi non posson però impedire lʼandar nostro; e
pone la cagion perché non possono, dicendo: «da Tal nʼè dato», cioè da
Dio, al voler del quale non è alcuna creatura che contrastar possa. «Ma
qui mʼattendi, e lo spirito lasso», faticato per la paura, «Conforta,
e ciba di speranza buona»; e poi pone di che egli debba prender la
speranza buona, dicendo: «Chʼio non ti lascerò nel mondo basso»,—cioè
nello ʼnferno, il quale piú che alcuna altra cosa è basso.

«Cosí sen va», verso queʼ demòni, «e quivi mʼabbandona Lo dolce padre»,
cioè lascia solo di sé, «ed io rimango in forse; E ʼl sí e ʼl no», che
egli debba a me ritornare come promesso mʼha, o rimaner con coloro (sí
come essi il minacciavano, dicendo:—Tu qui rimarrai—), «nel capo mi
tenzona», cioè nella virtú estimativa, la quale è nella testa.

E poi segue: «Udir non potei quel che a lor», cioè a queʼ demòni, «si
porse», cioè si disse; «Ma el non stette lá con essi guari, Che ciascun
dentro a pruova si ricorse. Chiuser le porti», della cittá, «quei
nostri avversari Nel petto», cioè contro al petto, «al mio signor, che
fuor rimase».

Puossi per questo atto, fatto daʼ demòni, comprendere che Virgilio
dicesse loro esser piacere di Dio che esso mostrasse lo ʼnferno a colui
il quale con seco avea, e che essi, avendo questo in dispetto, accioché
egli non avvenisse, si ritiraron dentro e serraron le porti.

«E rivolsesi a me», tornando, «con passi rari». Disegna in queste
parole lʼautore lʼatto di coloro li quali per giusta cagione sdegnano
e si turbano, in quanto non furiosamente, non con impeto, come
glʼiracundi, corrono alla vendetta, ma mansuetamente si dolgono di ciò
che alcuno ha men che bene adoperato.

Poi segue: «Gli occhi alla terra», bassi; nel quale atto si manifesta
la turbazione del mansueto, dove in contrario lʼiracundo leva la
testa e fa romore; «e le ciglia avea rase Dʼogni baldanza»; in quanto
il mansueto ristrigne dentro con la forza della virtú lʼimpeto,
il quale vorrebbe correre alla vendetta, e però pare sbaldanzito,
cioè senza alcuno ardire, dove glʼiracundi col capo levato paiono
baldanzosi e arditi; «e dicea neʼ sospiri», cioè sospirando dicea
(nel qual sospirare appaiono alcuni segni della perturbazione del
mansueto):—«Chi mʼha negate le dolenti case?»—quasi dica: questi
demòni, li quali sono in ira di Dio e niente contro a Dio possono,
hanno negato a me, che sono mandato da Dio, le case dolenti. La qual
cosa, percioché era oltre ad ogni convenienza, gli era materia di
sospirare e di rammaricarsi.

«E a me disse», non ostante la sua perturbazione:—«Tu, perchʼio
mʼadiri», di quella ira la quale è meritoria, «Non sbigottir», cioè non
te nʼentri alcuna paura, per ciò «chʼio vincerò la pruova», dellʼentrar
dentro alla cittá, «Qual, chʼalla difension», che io non vʼentri,
«dentro sʼaggiri», cioè si dea da fare perché io non vʼentri. «Questa
lor tracotanza», del fare contro a quello che debbono, «non mʼè nuova,
Ché giá lʼusâro in men segreta porta», che questa non è, [e contro
al signor del cielo e della terra, cioè di Gesú Cristo]. E dice «men
segreta», in quanto quella è allʼentrata dellʼinferno, e questa è quasi
al mezzo; perché assai appare questa esser piú segreta e piú riposta
che non è quella. E questo fu, secondo che si racconta, quando Cristo
giá risuscitato scese allo ʼnferno a trarne lʼanime deʼ santi padri, li
quali per molte migliaia dʼanni lʼavevano aspettato; intorno al quale
il prencipe deʼ demòni coʼ suoi seguaci fu di tanta presunzione, che
egli ardí ad opporsi, in ciò che esso poté, perché Cristo non liberasse
coloro li quali lungamente avea tenuto in prigione: e per questo
metaphorice si dice Cristo avere spezzata la porta dello ʼnferno, e
rotti i catenacci del ferro. La qual porta convenne esser quella della
quale fa qui menzione lʼautore, cioè la men segreta, alla qual poi
non fu mai fatto alcun serrame, sí come esso medesimo dice: «La qual
senza serrame ancor si truova». Né si dee intendere dʼalcuna altra,
percioché, secondo la discrizione dellʼautore, nello ʼnferno non ha che
due porte: delle quali è lʼuna quella di che di sopra è detto, e della
quale esso dice qui: «Sovrʼessa vedestú la scritta morta» (cioè, «Per
me si va nella cittá dolente», ecc., la qual chiama «scritta morta»,
percioché ha a significare, a quegli che per essa entrano, eterna
morte); ed evvi, oltre a questa, la porta di Dite, infino alla quale
Cristo non discese, percioché si crede che nel primo cerchio dello
ʼnferno, cioè nel limbo, erano quegli li quali Cristo ne trasse.

E poi séguita: «E giá di qua da lei», cioè da quella prima porta, la
qual senza serrame ancor si trova, «discende lʼerta». «Erta» è a chi
volesse tornare in suso, ma, discendendo, come far conviene a chi dalla
prima porta vuol venire a quella di Dite, si dee dir «china»; ma, come
spesse volte fa lʼautore, usa un vocabolo per un altro. «Passando
per li cerchi», dello ʼnferno, «senza scorta», cioè senza guida, sí
come colui che bisogno alcuno non ha, avendo seco la divina sapienza,
alla quale ogni cosa è manifesta; «Tal, che per lui ne fia la terra
aperta»;—di tanta potenza sará; sí come appresso appare, dove dice
lʼautore che, toccata la porta di quella solamente con una verga,
lʼaperse.



II

SENSO ALLEGORICO


«Io dico, seguitando, chʼassai prima», ecc. Nel presente canto
non è alcuna ordinaria allegoria come neʼ passati, percioché non
ci si discrive alcuna cosa che quasi nel precedente non sia stata
allegorizzata; e però alcuna breve cosetta, che ci è, in poche parole
si spedirá.

Dicono adunque alcuni le due torri, le quali lʼautore scrive essere in
questo quinto cerchio, e le fiamme su fattevi, avere a dimostrare il
trascendimento della furia deglʼiracundi, il quale trasvá sopra ogni
debito di ragione; e vogliono le tre fiamme fatte soprʼesse avere a
dimostrare le tre spezie deglʼiracundi discritte nel canto precedente.
Ma questo senso non mi sodisfa, anzi credo e le torri e le fiamme
semplicemente essere state discritte dallʼautore a continuazione del
suo poema; peroché qui parevʼessere di necessitá porre alcuna cosa, per
la quale segno si désse a Flegias che, dove che si fosse, venisse a
dovere li due venuti a riva passare allʼaltra riva, si come subitamente
venne; e perciò intorno ad esse piú non mi pare da por parole.

Per Flegias, li cui costumi discritti sono poco avanti, assai ben
si può comprendere lʼautore intendere il vizio dellʼiracundia, li
cui effetti, quanto piú possono, son conformi aʼ costumi del detto
Flegias. E bene che la pena datagli da Apolline, secondo Virgilio, non
sia corrispondente a questo vizio, non perciò toglie che qui per lo
detto vizio attamente porre non si possa; conciosiacosaché Virgilio,
dove discrive la pena postagli da Apolline, abbia ad alcuna altra sua
operazion rispetto, e non a quella per la quale lʼautore vuol qui che
egli significhi lʼiracundia; e, se contro a Virgilio sʼosasse dire, io
direi che in questa parte lʼautore avesse avuta assai piú conveniente
considerazione di lui.

Il navicar lʼautore con Virgilio nella padule di Stige puote a questo
senso adattarsi: essere di necessitá a ciascuno, il quale non vuole
nel peccato dellʼira divenire, quanto piú leggiermente può, passare
superficialmente le tristizie di questa vita, le quali sono infinite,
sempre accompagnato dalla ragione, accioché, non essendosi in quelle
oltre al dovere lasciato tirare, possa, senza pervenire nel peccato
della ostinazione, del quale nel seguente canto si tratterá, trapassare
a conoscer con dolcezza di cuore le colpe che ci posson tirare a
perdizione.

Della cittá di Dite, la qual dice lʼautore che avea le mura di ferro, e
deʼ demòni, che sopra la porta di quella incontro a Virgilio uscirono,
e, oltre a ciò, lʼavergli serrata la porta della detta cittá nel petto:
tutto appartiene a dover dire con quelle cose, le quali nel seguente
canto della detta cittá dimostra. E però quivi, quanto da Dio conceduto
mi fia, ne scriverò.

                       FINE DEL SECONDO VOLUME.



                  INDICE

  Canto quarto:
    I. Senso letterale       p.    3
    II. Senso allegorico     »    89

  Canto quinto:
    I. Senso letterale       »   105
    II. Senso allegorico     »   147

  Canto sesto:
    I. Senso letterale       »   165
    II. Senso allegorico     »   184

  Canto settimo:
    I. Senso letterale       »   199
    II. Senso allegorico     »   227

  Canto ottavo:
    I. Senso letterale       »   261
    II. Senso allegorico     »   283



                       INDICE DEI NOMI VOLUME II


  Abacuc, profeta, 262 (_Hab_., II. 6,  9).
  Abele, 15.
  Abramo, 17.
  Achille, 130 sg.
  Acquasparta (d’) Matteo, cardinale, 173 sg.
  Adamo, 12;
  Adimari, vedi Aldobrandi.
  Agostino (sant’),
    10  (_Sermone della nativitá di Cristo_),
    61 (_Civ. Dei_, VIII 14),
    66 (_Civ. Dei_, IV),
    72 (_Civ. Dei_, VIII 2),
    113 (_Civ. Dei_, V 8 9),
    242; III, 19 (_Civ. Dei_, V 8 9),
    23 (_De haeresibus_).
  Alberigo (_Poètria_), 221.
  Alberto magno, 21.
  Aldobrandi Tegghiaio degli Adimari, 179 sg.;
  Alí, commentatore di Tolomeo (_Comento del Quadripartito_), 140.
  Alighieri, padre di Dante, 69, 72.
    --Dante, 262.
    --Gemma, moglie di Dante, 262.
  Anassagora, 71.
  Anassalide, uditore di Platone, 66.
  Anselmo, arcivescovo di Canterbury (_De imagine mundi_), 41.
  _Apocalissi_, 202, 233, 235 (XVIII, 21);
  Apollodoro, grammatico, 29.
  Apuleio di Madaura, 62 (_De Deo Socratis liber_);
  Archiloco di Paro, 29.
  Argenti Filippo de’ Cavicciuli, 276;
  Aristarco di Samotracia, grammatico, 28.
  Aristotile, 59 sg. (vita e opere), 66, 86, 186, 212, 241, 244;
    _Ethica_, 21, 209, 243, 250, 257, 271;
    _Meteora_, 4, 114;
    _Politica_, 108;
    _De anima_, 141;
  Asclepiade, filosofo, 68.
  _Aspidopia_, vedi Esiodo.
  Astiage, 177, 214.
  Atalante, edificatore di Fiesole, 40·
    --re di Mauritania, 40.
  Aulo Gellio, 62 (_Noctes Atticae_, II. 1), 63 (N. A., I. 17),
    70 (N. A., II. 18).
  Averrois, 61, 86.
  Avicenna, 85.

  Bianchi (setta dei), 171.
  Boezio, 148 (_Cons_., I, pr. 1);
    72 (_De musica_),
    84 (_De geometria_),
    113 (_Cons_., IV, _pr_. 6),
    144,
    215 (_Cons_., _pr._ 1),
    237 (_Cons_., _met._ 5).
  Bruto Caio Giunio, 54.
  Bruto Marco Giunio, 7.

  Caina, 143.
  Caino, 15.
  Calano d’India, 178.
  Ca1cidio, 62 (_Sopra il primo libro del «Timeo» di Platone_).
  Callimaco, biografo d’Omero, 24, 25, 27.
  Cancellieri di Pistoia, 171.
  Cariddi, 203 sg.
  Carlo di Valois, 173 sg.
  Cassio, 7.
  Cavalcanti Guido, 174.
  Cerbero, 166 sg., 193 sg., 231 sg., 260.
  Cerchi (dei) famiglia, 170, 213.
    --Vieri, 171 sg., 262.
    --Ricovero, 172.
  Cesare, 46 sg., 87.
  Ciacco, 170, 264 sg.
  Cicerone, vedi Tullio.
  Clearco, uditore di Platone, 66.
  Cleopatra, 124 sg.
  Coppo di Borghese Domenichi, 276.
  Corito, re di Corito (Corneto), marito di Elettra, 41.
  Cornelio Nepote, vedi Nepote Cornelio.
  Corniglia (Cornelia), 58.
  Creso, 214.
  Curzio Quinto, 26.

  David, 18 e vedi Salmista.
  Democrito, 67.
  Diogene, 69 sg.
  Dioscoride, 74.
  Donati, famiglia de’, 170, 213.
    --Corso, 171.

  Eaco, 242 (_Ecclesiasticus_, X 9).
  Elena, 127 sg.
  Elettra, 40.
  Empedocles, 72.
  Enea, 44, 87.
  Eraclito, 73.
  Eratostene, 28.
  Ercole, 97.
  Ermolao, tiranno di Atene, 27.
  Ettore, 43.
  Euclide, 83.
  Eusebio (_Liber temporum_), 9, 29, 30, 32, 33, 43, 54, 71, 72, 77,
    95, 109, 123, 201, 268.

  Falacro, filosofo, 25.
  Faro di Messina, 203.
  Federico II, imperatore, I, 7, 8,
  Fiandra, 259.
  Filocoro, 29.
  _Filosofia_ (_Della_), opera di Clearco e Anassalide, 66.
  Firenze, 172 e _passim_.
  Flegias, 267 sg., 283.
  Francesca da Rimini, 137 sg.;

  Galeotto, 145.
  _Genesi_, 12 (I. 27), 15 (IV. 2-8), 19 (XXXII. 1-32), 176 (I. 26),
    190 (III), 233 (III. 1,  14).
  Geremia, profeta, 92 (VIII. 7), 192.
  Giandonati Arrigo, 179.
  Giovenale, 34, 67 (_Sat_., X. 33-35), 215 (_Sat_., X. 365-6),
    219 (_Sat_., X. 365-6), 243 (_Sat_., XIV. 135-7).
  Giulia, figliuola di Giulio Cesare, 58.
  Giustiniano, 28.
  Giustino (_Historia_), 51 (II. 4), 52 (XLIII. 1), 63 (II. 10).

  Iacopo (san), 242 (_Epist_., V. 1); III, 254 (barone di Galizia).
  Iob, 192 (VI. 6; XV. 16).
  Isaac, 19, 172, 175 (XI. 2-3); II, 96 (XL. 13), 192 (XXIV. 9).
  Isopo, 243.
  Israel (Iacob), 18.

  Lamberti (de’) Mosca, 179.
  Lancellotto, 144.
  Latino, re dei laurenti, 52.
  Lattanzio, 74, 76 (_Divinarum institutionum_, I. 23), 201
   (_Div. inst._, I. 11), 267.
  Leon tessalo, vedi Pilato.
  Lavina, figlia di Latino, 54.
  Leontonio, ateniese, protettore di Omero, 27.
  Lino, 78.
  Livio Tito, 45 (_Hist_., XL. 4).
  Lucano, 25, 33, 57 (_Pharsalia_, II. 326 sg.),
  Lucrezia, 55, 87.

  Macrobio, 124 (_Saturn_., V. 17).
  Malatesti Gianciotto, 137 sg.
  Malespina Morruello, 263.
  Maometto, 277.
  Marzia, moglie di Catone, 57.
  Mela Pomponio, 71 (I, 17, § 86.
  Moisé, 16.
  Museo, 77.

  Nepote Cornelio, 29.
  Neri (setta dei), 171.
  Nerone (_Troica_), 133.
  Nino, 117 sg.
  Noé, 15.
  _Numeri_, 233 (XXI. 6-9).

  Oderisi da Gobbio, 29 sg., 34, 53 (_Carm_., III. 17, vv. 7-8).
  Orfeo, 74 sg.
  Ovidio, 4 (_Metam_., XI. 623-5),
    30 (_Tristia_, X. 3-4, 26, 21-22),
    31 (opere),
    32 (_Tristia_, II. 207, 103, 108),
    40 (_Fasti_, IV. 169-78),
    75 (_Metam_., X. 78-85),
    86, 108 (_Metam._,VIII. 166-75),
    134, 229 (_Metam._, V. 346 sg.).

  Pantasilea, 50.
  Paolo (san), II _Tim_., IV. 4; I _Cor_., XIV. 38),
    192 (_Ephes_., V. 18),
    238 (_Ephes_., V. 5).
  _Paradiso_ (cantica), 208.
  Parche, 219.
  Pasife, 107.
  Perini Dino, 264.
  Persio, 34, 242 (_Sat._, III. 66,  69-70).
  Petrarca Francesco, 61.
  Pilato Leone (Leonzio Pilato), 24, 77, 232, 201, 227.
  Plauto, 34.
  Pleiadi, 40 sg.
  Plinio, 48 (_Hist. nat_., VII. 25),
    85 (_Hist. nat_., XXIX. 2).
  Po, 139.
  Poggi Leone, 262.
    --Andrea, 262 sg.
  Polenta (da) Francesca, vedi Francesca da Rimini.
  _Proverbi_, vedi Salomone.
  _Purgatorio_ (cantica), 169, 200, 208;

  Rabano Mauro, 74 (_Liber originum_, XVIII. 4),
    76 (_Orig_., XVIII. 4),
    84 (_Orig_., XVIII. 5),
    85 (_Orig_., XVIII. 5),
    232.
  Rachele, 19.
  Rusticucci Iacopo, 179.

  Saladino, 59.
  Salmista, 92 (_Ps._ XXXV. 4),
    97 (_Ps._, XVIII. 4-5),
    99 (_Ps._, LVII. 5-6),
    184 (_Ps._, VIII. 8-9),
    234 (_Ps._. CXVII, 22),
    272 (_Ps._, IV. 5).
  Santa Lucia di Napoli, 221.
  _Sapienza_ (_Liber sapientiae_), 192.
  Semiramis, 117 sg. (III. 813-14),
    4 (_Herc. fur_., IV. 1065-77),
    33-34, 64 (_Epist. ad Lucilium_, VI),
    67 (_Epist. ad Luc_., LXI),
    69 (_De beneficiis_, I1 4),
    70 (_De ira_, III. 38),
    78 sg., 87, 140 (_Hippolytus_, I. 294-301),
    192, (_Epist. ad Luc_., XXIV),
    223 (_De sacris Aegyptiorum_),
    229 (_Herc. fur_., III. 782-8),
    239 (_Epist. ad Luc_., IV),
    242 (_Epist. ad Luc_., XVII),
    274 (_Thyestes_, II. 344 sg.).
  Simonide poeta, 177.
  Solino, 76 (_De mirabilibus mundi_, X. 8)
    126-27 (_De mir. mundi_, XXVII. 31,  41, non citato nel testo).
  Speusippo, nipote di Platone, 66.
  Spurima, giovane romano, 153.
  Stazio, 76 (_Theb._, V. 344,  435),
    228 (_Theb._, VIII. 21-6),
    254 (_Theb._, VIII. 739 sg.).
  Stige, 211,
    207 (_Vit_., §§ 1-4),
    46 (_Vit_., I, § 13),
    48-9 (_Vit_., I, §§ 56,  51,  49,  51, non citato nel testo).

  Tacito, Cornelio, 34 (_Annales_, XV. 56,  57; XV. 69,  70),
    80 sg. (_Ann_., XII, I. 8; XIII. 2; XII. 67, 68; XIII. 16; XIV. 8,
    63, 64, 60, 51; XIII. 2; XIV. 53-56, 65; XV. 60-65).
  Tale (Talete), 71.
  Teodonzio, 76, 31, 35, 37, 98.
  Terenzio, 34, 163;
  Tertullio, 65.
  Tolomeo astronomo, 84.
  Tosinghi, 213.
  Tristano, 134 sg.
  Trogo Pompeo, 51.
  Tullio Cicerone, 28 (_Tusculanae quaestiones_, I. 39),
    48 (_Brutus_, § 72),
    62, (_Tusc._, II),
    64 (_De senectute_, § 5),
    68 (_Tusc._, V. 39),
    71 (_Tusc._, I. 43),
    77 sg., 128 (_De inventione_, II. 1),
    132 (_De divinatione_, I. 21),
    140 (_De natura deorum_, III. 23), 177 sg. (_Div_., I. 27,  30),
    232 (_In Verrem_, IV. 50),
    239 (_De officiis_, III. 5),
    242 (Off., I. 20).

  Valerio Massimo, 58 (IV, 6. § 4, non citato nel testo),
    61 (III. 4 _ext._ 1),
    62 (VII. 2 _ext._ 1),
    69 (IV. 3 _ext._ 4),
    73 (III. 3 _ext._ 2, non cit.),
    74 (III. 3 _ext._ 3),
    83 (VIII. 12 _ext._ 1),
    117 (IX. 3 _ext._ 4, non cit.),
    153 (IV. 5 _ext._ 1, non cit.),
    177 (I. 7 _ext._ 3; I. 5, non cit.).
  Verona, 262.
  Villani Giovanni, 173 (_Cron._, VIII. 39 sg.).
  Virgilio, 37 (I, 378),
    39 (VI. 753-5),
    46 (IV. 615-21; X. 606 sg.),
    52 (VII. 45-8),
    53 (XII. 164), 109 (VI. 422-3),
    134 (X. 92),
    142 (VI. 472-4),
    168 (VI. 417-23),
    169,
    221 (VI. 323-4),
    223,
    228 (V. 548-9),
    230 (VI. 563),
    242 (III. 56-7),
    268 (VI. 218-20,  412-14),
    278 (VI. 552-8).

  _Vitis_ (_de_) _philosophorum_ (_Libellus de vita et moribus
    philosophorum_), 61.

  Zenobia, regina di Palmira, 153.
  Zenone, 73 sg.
  Zoroaste, re dei batriani, inventore dell’arte magica, 68.





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