Home
  By Author [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Title [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Language
all Classics books content using ISYS

Download this book: [ ASCII ]

Look for this book on Amazon


We have new books nearly every day.
If you would like a news letter once a week or once a month
fill out this form and we will give you a summary of the books for that week or month by email.

Title: La Divina Commedia di Dante: Paradiso
Author: Dante Alighieri
Language: Italian
As this book started as an ASCII text book there are no pictures available.


*** Start of this LibraryBlog Digital Book "La Divina Commedia di Dante: Paradiso" ***


version by Al Haines.



  LA DIVINA COMMEDIA
  di Dante Alighieri



  PARADISO



  Paradiso • Canto I


  La gloria di colui che tutto move
  per l’universo penetra, e risplende
  in una parte più e meno altrove.

  Nel ciel che più de la sua luce prende
  fu’ io, e vidi cose che ridire
  né sa né può chi di là sù discende;

  perché appressando sé al suo disire,
  nostro intelletto si profonda tanto,
  che dietro la memoria non può ire.

  Veramente quant’ io del regno santo
  ne la mia mente potei far tesoro,
  sarà ora materia del mio canto.

  O buono Appollo, a l’ultimo lavoro
  fammi del tuo valor sì fatto vaso,
  come dimandi a dar l’amato alloro.

  Infino a qui l’un giogo di Parnaso
  assai mi fu; ma or con amendue
  m’è uopo intrar ne l’aringo rimaso.

  Entra nel petto mio, e spira tue
  sì come quando Marsïa traesti
  de la vagina de le membra sue.

  O divina virtù, se mi ti presti
  tanto che l’ombra del beato regno
  segnata nel mio capo io manifesti,

  vedra’mi al piè del tuo diletto legno
  venire, e coronarmi de le foglie
  che la materia e tu mi farai degno.

  Sì rade volte, padre, se ne coglie
  per trïunfare o cesare o poeta,
  colpa e vergogna de l’umane voglie,

  che parturir letizia in su la lieta
  delfica deïtà dovria la fronda
  peneia, quando alcun di sé asseta.

  Poca favilla gran fiamma seconda:
  forse di retro a me con miglior voci
  si pregherà perché Cirra risponda.

  Surge ai mortali per diverse foci
  la lucerna del mondo; ma da quella
  che quattro cerchi giugne con tre croci,

  con miglior corso e con migliore stella
  esce congiunta, e la mondana cera
  più a suo modo tempera e suggella.

  Fatto avea di là mane e di qua sera
  tal foce, e quasi tutto era là bianco
  quello emisperio, e l’altra parte nera,

  quando Beatrice in sul sinistro fianco
  vidi rivolta e riguardar nel sole:
  aguglia sì non li s’affisse unquanco.

  E sì come secondo raggio suole
  uscir del primo e risalire in suso,
  pur come pelegrin che tornar vuole,

  così de l’atto suo, per li occhi infuso
  ne l’imagine mia, il mio si fece,
  e fissi li occhi al sole oltre nostr’ uso.

  Molto è licito là, che qui non lece
  a le nostre virtù, mercé del loco
  fatto per proprio de l’umana spece.

  Io nol soffersi molto, né sì poco,
  ch’io nol vedessi sfavillar dintorno,
  com’ ferro che bogliente esce del foco;

  e di sùbito parve giorno a giorno
  essere aggiunto, come quei che puote
  avesse il ciel d’un altro sole addorno.

  Beatrice tutta ne l’etterne rote
  fissa con li occhi stava; e io in lei
  le luci fissi, di là sù rimote.

  Nel suo aspetto tal dentro mi fei,
  qual si fé Glauco nel gustar de l’erba
  che ’l fé consorto in mar de li altri dèi.

  Trasumanar significar per verba
  non si poria; però l’essemplo basti
  a cui esperïenza grazia serba.

  S’i’ era sol di me quel che creasti
  novellamente, amor che ’l ciel governi,
  tu ’l sai, che col tuo lume mi levasti.

  Quando la rota che tu sempiterni
  desiderato, a sé mi fece atteso
  con l’armonia che temperi e discerni,

  parvemi tanto allor del cielo acceso
  de la fiamma del sol, che pioggia o fiume
  lago non fece alcun tanto disteso.

  La novità del suono e ’l grande lume
  di lor cagion m’accesero un disio
  mai non sentito di cotanto acume.

  Ond’ ella, che vedea me sì com’ io,
  a quïetarmi l’animo commosso,
  pria ch’io a dimandar, la bocca aprio

  e cominciò: «Tu stesso ti fai grosso
  col falso imaginar, sì che non vedi
  ciò che vedresti se l’avessi scosso.

  Tu non se’ in terra, sì come tu credi;
  ma folgore, fuggendo il proprio sito,
  non corse come tu ch’ad esso riedi».

  S’io fui del primo dubbio disvestito
  per le sorrise parolette brevi,
  dentro ad un nuovo più fu’ inretito

  e dissi: «Già contento requïevi
  di grande ammirazion; ma ora ammiro
  com’ io trascenda questi corpi levi».

  Ond’ ella, appresso d’un pïo sospiro,
  li occhi drizzò ver’ me con quel sembiante
  che madre fa sovra figlio deliro,

  e cominciò: «Le cose tutte quante
  hanno ordine tra loro, e questo è forma
  che l’universo a Dio fa simigliante.

  Qui veggion l’alte creature l’orma
  de l’etterno valore, il qual è fine
  al quale è fatta la toccata norma.

  Ne l’ordine ch’io dico sono accline
  tutte nature, per diverse sorti,
  più al principio loro e men vicine;

  onde si muovono a diversi porti
  per lo gran mar de l’essere, e ciascuna
  con istinto a lei dato che la porti.

  Questi ne porta il foco inver’ la luna;
  questi ne’ cor mortali è permotore;
  questi la terra in sé stringe e aduna;

  né pur le creature che son fore
  d’intelligenza quest’ arco saetta,
  ma quelle c’hanno intelletto e amore.

  La provedenza, che cotanto assetta,
  del suo lume fa ’l ciel sempre quïeto
  nel qual si volge quel c’ha maggior fretta;

  e ora lì, come a sito decreto,
  cen porta la virtù di quella corda
  che ciò che scocca drizza in segno lieto.

  Vero è che, come forma non s’accorda
  molte fïate a l’intenzion de l’arte,
  perch’ a risponder la materia è sorda,

  così da questo corso si diparte
  talor la creatura, c’ha podere
  di piegar, così pinta, in altra parte;

  e sì come veder si può cadere
  foco di nube, sì l’impeto primo
  l’atterra torto da falso piacere.

  Non dei più ammirar, se bene stimo,
  lo tuo salir, se non come d’un rivo
  se d’alto monte scende giuso ad imo.

  Maraviglia sarebbe in te se, privo
  d’impedimento, giù ti fossi assiso,
  com’ a terra quïete in foco vivo».

  Quinci rivolse inver’ lo cielo il viso.



  Paradiso • Canto II


  O voi che siete in piccioletta barca,
  desiderosi d’ascoltar, seguiti
  dietro al mio legno che cantando varca,

  tornate a riveder li vostri liti:
  non vi mettete in pelago, ché forse,
  perdendo me, rimarreste smarriti.

  L’acqua ch’io prendo già mai non si corse;
  Minerva spira, e conducemi Appollo,
  e nove Muse mi dimostran l’Orse.

  Voialtri pochi che drizzaste il collo
  per tempo al pan de li angeli, del quale
  vivesi qui ma non sen vien satollo,

  metter potete ben per l’alto sale
  vostro navigio, servando mio solco
  dinanzi a l’acqua che ritorna equale.

  Que’ glorïosi che passaro al Colco
  non s’ammiraron come voi farete,
  quando Iasón vider fatto bifolco.

  La concreata e perpetüa sete
  del deïforme regno cen portava
  veloci quasi come ’l ciel vedete.

  Beatrice in suso, e io in lei guardava;
  e forse in tanto in quanto un quadrel posa
  e vola e da la noce si dischiava,

  giunto mi vidi ove mirabil cosa
  mi torse il viso a sé; e però quella
  cui non potea mia cura essere ascosa,

  volta ver’ me, sì lieta come bella,
  «Drizza la mente in Dio grata», mi disse,
  «che n’ha congiunti con la prima stella».

  Parev’ a me che nube ne coprisse
  lucida, spessa, solida e pulita,
  quasi adamante che lo sol ferisse.

  Per entro sé l’etterna margarita
  ne ricevette, com’ acqua recepe
  raggio di luce permanendo unita.

  S’io era corpo, e qui non si concepe
  com’ una dimensione altra patio,
  ch’esser convien se corpo in corpo repe,

  accender ne dovria più il disio
  di veder quella essenza in che si vede
  come nostra natura e Dio s’unio.

  Lì si vedrà ciò che tenem per fede,
  non dimostrato, ma fia per sé noto
  a guisa del ver primo che l’uom crede.

  Io rispuosi: «Madonna, sì devoto
  com’ esser posso più, ringrazio lui
  lo qual dal mortal mondo m’ha remoto.

  Ma ditemi: che son li segni bui
  di questo corpo, che là giuso in terra
  fan di Cain favoleggiare altrui?».

  Ella sorrise alquanto, e poi «S’elli erra
  l’oppinïon», mi disse, «d’i mortali
  dove chiave di senso non diserra,

  certo non ti dovrien punger li strali
  d’ammirazione omai, poi dietro ai sensi
  vedi che la ragione ha corte l’ali.

  Ma dimmi quel che tu da te ne pensi».
  E io: «Ciò che n’appar qua sù diverso
  credo che fanno i corpi rari e densi».

  Ed ella: «Certo assai vedrai sommerso
  nel falso il creder tuo, se bene ascolti
  l’argomentar ch’io li farò avverso.

  La spera ottava vi dimostra molti
  lumi, li quali e nel quale e nel quanto
  notar si posson di diversi volti.

  Se raro e denso ciò facesser tanto,
  una sola virtù sarebbe in tutti,
  più e men distributa e altrettanto.

  Virtù diverse esser convegnon frutti
  di princìpi formali, e quei, for ch’uno,
  seguiterieno a tua ragion distrutti.

  Ancor, se raro fosse di quel bruno
  cagion che tu dimandi, o d’oltre in parte
  fora di sua materia sì digiuno

  esto pianeto, o, sì come comparte
  lo grasso e ’l magro un corpo, così questo
  nel suo volume cangerebbe carte.

  Se ’l primo fosse, fora manifesto
  ne l’eclissi del sol, per trasparere
  lo lume come in altro raro ingesto.

  Questo non è: però è da vedere
  de l’altro; e s’elli avvien ch’io l’altro cassi,
  falsificato fia lo tuo parere.

  S’elli è che questo raro non trapassi,
  esser conviene un termine da onde
  lo suo contrario più passar non lassi;

  e indi l’altrui raggio si rifonde
  così come color torna per vetro
  lo qual di retro a sé piombo nasconde.

  Or dirai tu ch’el si dimostra tetro
  ivi lo raggio più che in altre parti,
  per esser lì refratto più a retro.

  Da questa instanza può deliberarti
  esperïenza, se già mai la provi,
  ch’esser suol fonte ai rivi di vostr’ arti.

  Tre specchi prenderai; e i due rimovi
  da te d’un modo, e l’altro, più rimosso,
  tr’ambo li primi li occhi tuoi ritrovi.

  Rivolto ad essi, fa che dopo il dosso
  ti stea un lume che i tre specchi accenda
  e torni a te da tutti ripercosso.

  Ben che nel quanto tanto non si stenda
  la vista più lontana, lì vedrai
  come convien ch’igualmente risplenda.

  Or, come ai colpi de li caldi rai
  de la neve riman nudo il suggetto
  e dal colore e dal freddo primai,

  così rimaso te ne l’intelletto
  voglio informar di luce sì vivace,
  che ti tremolerà nel suo aspetto.

  Dentro dal ciel de la divina pace
  si gira un corpo ne la cui virtute
  l’esser di tutto suo contento giace.

  Lo ciel seguente, c’ha tante vedute,
  quell’ esser parte per diverse essenze,
  da lui distratte e da lui contenute.

  Li altri giron per varie differenze
  le distinzion che dentro da sé hanno
  dispongono a lor fini e lor semenze.

  Questi organi del mondo così vanno,
  come tu vedi omai, di grado in grado,
  che di sù prendono e di sotto fanno.

  Riguarda bene omai sì com’ io vado
  per questo loco al vero che disiri,
  sì che poi sappi sol tener lo guado.

  Lo moto e la virtù d’i santi giri,
  come dal fabbro l’arte del martello,
  da’ beati motor convien che spiri;

  e ’l ciel cui tanti lumi fanno bello,
  de la mente profonda che lui volve
  prende l’image e fassene suggello.

  E come l’alma dentro a vostra polve
  per differenti membra e conformate
  a diverse potenze si risolve,

  così l’intelligenza sua bontate
  multiplicata per le stelle spiega,
  girando sé sovra sua unitate.

  Virtù diversa fa diversa lega
  col prezïoso corpo ch’ella avviva,
  nel qual, sì come vita in voi, si lega.

  Per la natura lieta onde deriva,
  la virtù mista per lo corpo luce
  come letizia per pupilla viva.

  Da essa vien ciò che da luce a luce
  par differente, non da denso e raro;
  essa è formal principio che produce,

  conforme a sua bontà, lo turbo e ’l chiaro».



  Paradiso • Canto III


  Quel sol che pria d’amor mi scaldò ’l petto,
  di bella verità m’avea scoverto,
  provando e riprovando, il dolce aspetto;

  e io, per confessar corretto e certo
  me stesso, tanto quanto si convenne
  leva’ il capo a proferer più erto;

  ma visïone apparve che ritenne
  a sé me tanto stretto, per vedersi,
  che di mia confession non mi sovvenne.

  Quali per vetri trasparenti e tersi,
  o ver per acque nitide e tranquille,
  non sì profonde che i fondi sien persi,

  tornan d’i nostri visi le postille
  debili sì, che perla in bianca fronte
  non vien men forte a le nostre pupille;

  tali vid’ io più facce a parlar pronte;
  per ch’io dentro a l’error contrario corsi
  a quel ch’accese amor tra l’omo e ’l fonte.

  Sùbito sì com’ io di lor m’accorsi,
  quelle stimando specchiati sembianti,
  per veder di cui fosser, li occhi torsi;

  e nulla vidi, e ritorsili avanti
  dritti nel lume de la dolce guida,
  che, sorridendo, ardea ne li occhi santi.

  «Non ti maravigliar perch’ io sorrida»,
  mi disse, «appresso il tuo püeril coto,
  poi sopra ’l vero ancor lo piè non fida,

  ma te rivolve, come suole, a vòto:
  vere sustanze son ciò che tu vedi,
  qui rilegate per manco di voto.

  Però parla con esse e odi e credi;
  ché la verace luce che le appaga
  da sé non lascia lor torcer li piedi».

  E io a l’ombra che parea più vaga
  di ragionar, drizza’mi, e cominciai,
  quasi com’ uom cui troppa voglia smaga:

  «O ben creato spirito, che a’ rai
  di vita etterna la dolcezza senti
  che, non gustata, non s’intende mai,

  grazïoso mi fia se mi contenti
  del nome tuo e de la vostra sorte».
  Ond’ ella, pronta e con occhi ridenti:

  «La nostra carità non serra porte
  a giusta voglia, se non come quella
  che vuol simile a sé tutta sua corte.

  I’ fui nel mondo vergine sorella;
  e se la mente tua ben sé riguarda,
  non mi ti celerà l’esser più bella,

  ma riconoscerai ch’i’ son Piccarda,
  che, posta qui con questi altri beati,
  beata sono in la spera più tarda.

  Li nostri affetti, che solo infiammati
  son nel piacer de lo Spirito Santo,
  letizian del suo ordine formati.

  E questa sorte che par giù cotanto,
  però n’è data, perché fuor negletti
  li nostri voti, e vòti in alcun canto».

  Ond’ io a lei: «Ne’ mirabili aspetti
  vostri risplende non so che divino
  che vi trasmuta da’ primi concetti:

  però non fui a rimembrar festino;
  ma or m’aiuta ciò che tu mi dici,
  sì che raffigurar m’è più latino.

  Ma dimmi: voi che siete qui felici,
  disiderate voi più alto loco
  per più vedere e per più farvi amici?».

  Con quelle altr’ ombre pria sorrise un poco;
  da indi mi rispuose tanto lieta,
  ch’arder parea d’amor nel primo foco:

  «Frate, la nostra volontà quïeta
  virtù di carità, che fa volerne
  sol quel ch’avemo, e d’altro non ci asseta.

  Se disïassimo esser più superne,
  foran discordi li nostri disiri
  dal voler di colui che qui ne cerne;

  che vedrai non capere in questi giri,
  s’essere in carità è qui necesse,
  e se la sua natura ben rimiri.

  Anzi è formale ad esto beato esse
  tenersi dentro a la divina voglia,
  per ch’una fansi nostre voglie stesse;

  sì che, come noi sem di soglia in soglia
  per questo regno, a tutto il regno piace
  com’ a lo re che ’n suo voler ne ’nvoglia.

  E ’n la sua volontade è nostra pace:
  ell’ è quel mare al qual tutto si move
  ciò ch’ella crïa o che natura face».

  Chiaro mi fu allor come ogne dove
  in cielo è paradiso, etsi la grazia
  del sommo ben d’un modo non vi piove.

  Ma sì com’ elli avvien, s’un cibo sazia
  e d’un altro rimane ancor la gola,
  che quel si chere e di quel si ringrazia,

  così fec’ io con atto e con parola,
  per apprender da lei qual fu la tela
  onde non trasse infino a co la spuola.

  «Perfetta vita e alto merto inciela
  donna più sù», mi disse, «a la cui norma
  nel vostro mondo giù si veste e vela,

  perché fino al morir si vegghi e dorma
  con quello sposo ch’ogne voto accetta
  che caritate a suo piacer conforma.

  Dal mondo, per seguirla, giovinetta
  fuggi’mi, e nel suo abito mi chiusi
  e promisi la via de la sua setta.

  Uomini poi, a mal più ch’a bene usi,
  fuor mi rapiron de la dolce chiostra:
  Iddio si sa qual poi mia vita fusi.

  E quest’ altro splendor che ti si mostra
  da la mia destra parte e che s’accende
  di tutto il lume de la spera nostra,

  ciò ch’io dico di me, di sé intende;
  sorella fu, e così le fu tolta
  di capo l’ombra de le sacre bende.

  Ma poi che pur al mondo fu rivolta
  contra suo grado e contra buona usanza,
  non fu dal vel del cor già mai disciolta.

  Quest’ è la luce de la gran Costanza
  che del secondo vento di Soave
  generò ’l terzo e l’ultima possanza».

  Così parlommi, e poi cominciò ‘Ave,
  Maria’ cantando, e cantando vanio
  come per acqua cupa cosa grave.

  La vista mia, che tanto lei seguio
  quanto possibil fu, poi che la perse,
  volsesi al segno di maggior disio,

  e a Beatrice tutta si converse;
  ma quella folgorò nel mïo sguardo
  sì che da prima il viso non sofferse;

  e ciò mi fece a dimandar più tardo.



  Paradiso • Canto IV


  Intra due cibi, distanti e moventi
  d’un modo, prima si morria di fame,
  che liber’ omo l’un recasse ai denti;

  sì si starebbe un agno intra due brame
  di fieri lupi, igualmente temendo;
  sì si starebbe un cane intra due dame:

  per che, s’i’ mi tacea, me non riprendo,
  da li miei dubbi d’un modo sospinto,
  poi ch’era necessario, né commendo.

  Io mi tacea, ma ’l mio disir dipinto
  m’era nel viso, e ’l dimandar con ello,
  più caldo assai che per parlar distinto.

  Fé sì Beatrice qual fé Danïello,
  Nabuccodonosor levando d’ira,
  che l’avea fatto ingiustamente fello;

  e disse: «Io veggio ben come ti tira
  uno e altro disio, sì che tua cura
  sé stessa lega sì che fuor non spira.

  Tu argomenti: “Se ’l buon voler dura,
  la vïolenza altrui per qual ragione
  di meritar mi scema la misura?”.

  Ancor di dubitar ti dà cagione
  parer tornarsi l’anime a le stelle,
  secondo la sentenza di Platone.

  Queste son le question che nel tuo velle
  pontano igualmente; e però pria
  tratterò quella che più ha di felle.

  D’i Serafin colui che più s’india,
  Moïsè, Samuel, e quel Giovanni
  che prender vuoli, io dico, non Maria,

  non hanno in altro cielo i loro scanni
  che questi spirti che mo t’appariro,
  né hanno a l’esser lor più o meno anni;

  ma tutti fanno bello il primo giro,
  e differentemente han dolce vita
  per sentir più e men l’etterno spiro.

  Qui si mostraro, non perché sortita
  sia questa spera lor, ma per far segno
  de la celestïal c’ha men salita.

  Così parlar conviensi al vostro ingegno,
  però che solo da sensato apprende
  ciò che fa poscia d’intelletto degno.

  Per questo la Scrittura condescende
  a vostra facultate, e piedi e mano
  attribuisce a Dio e altro intende;

  e Santa Chiesa con aspetto umano
  Gabrïel e Michel vi rappresenta,
  e l’altro che Tobia rifece sano.

  Quel che Timeo de l’anime argomenta
  non è simile a ciò che qui si vede,
  però che, come dice, par che senta.

  Dice che l’alma a la sua stella riede,
  credendo quella quindi esser decisa
  quando natura per forma la diede;

  e forse sua sentenza è d’altra guisa
  che la voce non suona, ed esser puote
  con intenzion da non esser derisa.

  S’elli intende tornare a queste ruote
  l’onor de la influenza e ’l biasmo, forse
  in alcun vero suo arco percuote.

  Questo principio, male inteso, torse
  già tutto il mondo quasi, sì che Giove,
  Mercurio e Marte a nominar trascorse.

  L’altra dubitazion che ti commove
  ha men velen, però che sua malizia
  non ti poria menar da me altrove.

  Parere ingiusta la nostra giustizia
  ne li occhi d’i mortali, è argomento
  di fede e non d’eretica nequizia.

  Ma perché puote vostro accorgimento
  ben penetrare a questa veritate,
  come disiri, ti farò contento.

  Se vïolenza è quando quel che pate
  nïente conferisce a quel che sforza,
  non fuor quest’ alme per essa scusate:

  ché volontà, se non vuol, non s’ammorza,
  ma fa come natura face in foco,
  se mille volte vïolenza il torza.

  Per che, s’ella si piega assai o poco,
  segue la forza; e così queste fero
  possendo rifuggir nel santo loco.

  Se fosse stato lor volere intero,
  come tenne Lorenzo in su la grada,
  e fece Muzio a la sua man severo,

  così l’avria ripinte per la strada
  ond’ eran tratte, come fuoro sciolte;
  ma così salda voglia è troppo rada.

  E per queste parole, se ricolte
  l’hai come dei, è l’argomento casso
  che t’avria fatto noia ancor più volte.

  Ma or ti s’attraversa un altro passo
  dinanzi a li occhi, tal che per te stesso
  non usciresti: pria saresti lasso.

  Io t’ho per certo ne la mente messo
  ch’alma beata non poria mentire,
  però ch’è sempre al primo vero appresso;

  e poi potesti da Piccarda udire
  che l’affezion del vel Costanza tenne;
  sì ch’ella par qui meco contradire.

  Molte fïate già, frate, addivenne
  che, per fuggir periglio, contra grato
  si fé di quel che far non si convenne;

  come Almeone, che, di ciò pregato
  dal padre suo, la propria madre spense,
  per non perder pietà si fé spietato.

  A questo punto voglio che tu pense
  che la forza al voler si mischia, e fanno
  sì che scusar non si posson l’offense.

  Voglia assoluta non consente al danno;
  ma consentevi in tanto in quanto teme,
  se si ritrae, cadere in più affanno.

  Però, quando Piccarda quello spreme,
  de la voglia assoluta intende, e io
  de l’altra; sì che ver diciamo insieme».

  Cotal fu l’ondeggiar del santo rio
  ch’uscì del fonte ond’ ogne ver deriva;
  tal puose in pace uno e altro disio.

  «O amanza del primo amante, o diva»,
  diss’ io appresso, «il cui parlar m’inonda
  e scalda sì, che più e più m’avviva,

  non è l’affezion mia tanto profonda,
  che basti a render voi grazia per grazia;
  ma quei che vede e puote a ciò risponda.

  Io veggio ben che già mai non si sazia
  nostro intelletto, se ’l ver non lo illustra
  di fuor dal qual nessun vero si spazia.

  Posasi in esso, come fera in lustra,
  tosto che giunto l’ha; e giugner puollo:
  se non, ciascun disio sarebbe frustra.

  Nasce per quello, a guisa di rampollo,
  a piè del vero il dubbio; ed è natura
  ch’al sommo pinge noi di collo in collo.

  Questo m’invita, questo m’assicura
  con reverenza, donna, a dimandarvi
  d’un’altra verità che m’è oscura.

  Io vo’ saper se l’uom può sodisfarvi
  ai voti manchi sì con altri beni,
  ch’a la vostra statera non sien parvi».

  Beatrice mi guardò con li occhi pieni
  di faville d’amor così divini,
  che, vinta, mia virtute diè le reni,

  e quasi mi perdei con li occhi chini.



  Paradiso • Canto V


  «S’io ti fiammeggio nel caldo d’amore
  di là dal modo che ’n terra si vede,
  sì che del viso tuo vinco il valore,

  non ti maravigliar, ché ciò procede
  da perfetto veder, che, come apprende,
  così nel bene appreso move il piede.

  Io veggio ben sì come già resplende
  ne l’intelletto tuo l’etterna luce,
  che, vista, sola e sempre amore accende;

  e s’altra cosa vostro amor seduce,
  non è se non di quella alcun vestigio,
  mal conosciuto, che quivi traluce.

  Tu vuo’ saper se con altro servigio,
  per manco voto, si può render tanto
  che l’anima sicuri di letigio».

  Sì cominciò Beatrice questo canto;
  e sì com’ uom che suo parlar non spezza,
  continüò così ’l processo santo:

  «Lo maggior don che Dio per sua larghezza
  fesse creando, e a la sua bontate
  più conformato, e quel ch’e’ più apprezza,

  fu de la volontà la libertate;
  di che le creature intelligenti,
  e tutte e sole, fuoro e son dotate.

  Or ti parrà, se tu quinci argomenti,
  l’alto valor del voto, s’è sì fatto
  che Dio consenta quando tu consenti;

  ché, nel fermar tra Dio e l’omo il patto,
  vittima fassi di questo tesoro,
  tal quale io dico; e fassi col suo atto.

  Dunque che render puossi per ristoro?
  Se credi bene usar quel c’hai offerto,
  di maltolletto vuo’ far buon lavoro.

  Tu se’ omai del maggior punto certo;
  ma perché Santa Chiesa in ciò dispensa,
  che par contra lo ver ch’i’ t’ho scoverto,

  convienti ancor sedere un poco a mensa,
  però che ’l cibo rigido c’hai preso,
  richiede ancora aiuto a tua dispensa.

  Apri la mente a quel ch’io ti paleso
  e fermalvi entro; ché non fa scïenza,
  sanza lo ritenere, avere inteso.

  Due cose si convegnono a l’essenza
  di questo sacrificio: l’una è quella
  di che si fa; l’altr’ è la convenenza.

  Quest’ ultima già mai non si cancella
  se non servata; e intorno di lei
  sì preciso di sopra si favella:

  però necessitato fu a li Ebrei
  pur l’offerere, ancor ch’alcuna offerta
  sì permutasse, come saver dei.

  L’altra, che per materia t’è aperta,
  puote ben esser tal, che non si falla
  se con altra materia si converta.

  Ma non trasmuti carco a la sua spalla
  per suo arbitrio alcun, sanza la volta
  e de la chiave bianca e de la gialla;

  e ogne permutanza credi stolta,
  se la cosa dimessa in la sorpresa
  come ’l quattro nel sei non è raccolta.

  Però qualunque cosa tanto pesa
  per suo valor che tragga ogne bilancia,
  sodisfar non si può con altra spesa.

  Non prendan li mortali il voto a ciancia;
  siate fedeli, e a ciò far non bieci,
  come Ieptè a la sua prima mancia;

  cui più si convenia dicer ‘Mal feci’,
  che, servando, far peggio; e così stolto
  ritrovar puoi il gran duca de’ Greci,

  onde pianse Efigènia il suo bel volto,
  e fé pianger di sé i folli e i savi
  ch’udir parlar di così fatto cólto.

  Siate, Cristiani, a muovervi più gravi:
  non siate come penna ad ogne vento,
  e non crediate ch’ogne acqua vi lavi.

  Avete il novo e ’l vecchio Testamento,
  e ’l pastor de la Chiesa che vi guida;
  questo vi basti a vostro salvamento.

  Se mala cupidigia altro vi grida,
  uomini siate, e non pecore matte,
  sì che ’l Giudeo di voi tra voi non rida!

  Non fate com’ agnel che lascia il latte
  de la sua madre, e semplice e lascivo
  seco medesmo a suo piacer combatte!».

  Così Beatrice a me com’ ïo scrivo;
  poi si rivolse tutta disïante
  a quella parte ove ’l mondo è più vivo.

  Lo suo tacere e ’l trasmutar sembiante
  puoser silenzio al mio cupido ingegno,
  che già nuove questioni avea davante;

  e sì come saetta che nel segno
  percuote pria che sia la corda queta,
  così corremmo nel secondo regno.

  Quivi la donna mia vid’ io sì lieta,
  come nel lume di quel ciel si mise,
  che più lucente se ne fé ’l pianeta.

  E se la stella si cambiò e rise,
  qual mi fec’ io che pur da mia natura
  trasmutabile son per tutte guise!

  Come ’n peschiera ch’è tranquilla e pura
  traggonsi i pesci a ciò che vien di fori
  per modo che lo stimin lor pastura,

  sì vid’ io ben più di mille splendori
  trarsi ver’ noi, e in ciascun s’udia:
  «Ecco chi crescerà li nostri amori».

  E sì come ciascuno a noi venìa,
  vedeasi l’ombra piena di letizia
  nel folgór chiaro che di lei uscia.

  Pensa, lettor, se quel che qui s’inizia
  non procedesse, come tu avresti
  di più savere angosciosa carizia;

  e per te vederai come da questi
  m’era in disio d’udir lor condizioni,
  sì come a li occhi mi fur manifesti.

  «O bene nato a cui veder li troni
  del trïunfo etternal concede grazia
  prima che la milizia s’abbandoni,

  del lume che per tutto il ciel si spazia
  noi semo accesi; e però, se disii
  di noi chiarirti, a tuo piacer ti sazia».

  Così da un di quelli spirti pii
  detto mi fu; e da Beatrice: «Dì, dì
  sicuramente, e credi come a dii».

  «Io veggio ben sì come tu t’annidi
  nel proprio lume, e che de li occhi il traggi,
  perch’ e’ corusca sì come tu ridi;

  ma non so chi tu se’, né perché aggi,
  anima degna, il grado de la spera
  che si vela a’ mortai con altrui raggi».

  Questo diss’ io diritto a la lumera
  che pria m’avea parlato; ond’ ella fessi
  lucente più assai di quel ch’ell’ era.

  Sì come il sol che si cela elli stessi
  per troppa luce, come ’l caldo ha róse
  le temperanze d’i vapori spessi,

  per più letizia sì mi si nascose
  dentro al suo raggio la figura santa;
  e così chiusa chiusa mi rispuose

  nel modo che ’l seguente canto canta.



  Paradiso • Canto VI


  «Poscia che Costantin l’aquila volse
  contr’ al corso del ciel, ch’ella seguio
  dietro a l’antico che Lavina tolse,

  cento e cent’ anni e più l’uccel di Dio
  ne lo stremo d’Europa si ritenne,
  vicino a’ monti de’ quai prima uscìo;

  e sotto l’ombra de le sacre penne
  governò ’l mondo lì di mano in mano,
  e, sì cangiando, in su la mia pervenne.

  Cesare fui e son Iustinïano,
  che, per voler del primo amor ch’i’ sento,
  d’entro le leggi trassi il troppo e ’l vano.

  E prima ch’io a l’ovra fossi attento,
  una natura in Cristo esser, non piùe,
  credea, e di tal fede era contento;

  ma ’l benedetto Agapito, che fue
  sommo pastore, a la fede sincera
  mi dirizzò con le parole sue.

  Io li credetti; e ciò che ’n sua fede era,
  vegg’ io or chiaro sì, come tu vedi
  ogni contradizione e falsa e vera.

  Tosto che con la Chiesa mossi i piedi,
  a Dio per grazia piacque di spirarmi
  l’alto lavoro, e tutto ’n lui mi diedi;

  e al mio Belisar commendai l’armi,
  cui la destra del ciel fu sì congiunta,
  che segno fu ch’i’ dovessi posarmi.

  Or qui a la question prima s’appunta
  la mia risposta; ma sua condizione
  mi stringe a seguitare alcuna giunta,

  perché tu veggi con quanta ragione
  si move contr’ al sacrosanto segno
  e chi ’l s’appropria e chi a lui s’oppone.

  Vedi quanta virtù l’ha fatto degno
  di reverenza; e cominciò da l’ora
  che Pallante morì per darli regno.

  Tu sai ch’el fece in Alba sua dimora
  per trecento anni e oltre, infino al fine
  che i tre a’ tre pugnar per lui ancora.

  E sai ch’el fé dal mal de le Sabine
  al dolor di Lucrezia in sette regi,
  vincendo intorno le genti vicine.

  Sai quel ch’el fé portato da li egregi
  Romani incontro a Brenno, incontro a Pirro,
  incontro a li altri principi e collegi;

  onde Torquato e Quinzio, che dal cirro
  negletto fu nomato, i Deci e ’ Fabi
  ebber la fama che volontier mirro.

  Esso atterrò l’orgoglio de li Aràbi
  che di retro ad Anibale passaro
  l’alpestre rocce, Po, di che tu labi.

  Sott’ esso giovanetti trïunfaro
  Scipïone e Pompeo; e a quel colle
  sotto ’l qual tu nascesti parve amaro.

  Poi, presso al tempo che tutto ’l ciel volle
  redur lo mondo a suo modo sereno,
  Cesare per voler di Roma il tolle.

  E quel che fé da Varo infino a Reno,
  Isara vide ed Era e vide Senna
  e ogne valle onde Rodano è pieno.

  Quel che fé poi ch’elli uscì di Ravenna
  e saltò Rubicon, fu di tal volo,
  che nol seguiteria lingua né penna.

  Inver’ la Spagna rivolse lo stuolo,
  poi ver’ Durazzo, e Farsalia percosse
  sì ch’al Nil caldo si sentì del duolo.

  Antandro e Simeonta, onde si mosse,
  rivide e là dov’ Ettore si cuba;
  e mal per Tolomeo poscia si scosse.

  Da indi scese folgorando a Iuba;
  onde si volse nel vostro occidente,
  ove sentia la pompeana tuba.

  Di quel che fé col baiulo seguente,
  Bruto con Cassio ne l’inferno latra,
  e Modena e Perugia fu dolente.

  Piangene ancor la trista Cleopatra,
  che, fuggendoli innanzi, dal colubro
  la morte prese subitana e atra.

  Con costui corse infino al lito rubro;
  con costui puose il mondo in tanta pace,
  che fu serrato a Giano il suo delubro.

  Ma ciò che ’l segno che parlar mi face
  fatto avea prima e poi era fatturo
  per lo regno mortal ch’a lui soggiace,

  diventa in apparenza poco e scuro,
  se in mano al terzo Cesare si mira
  con occhio chiaro e con affetto puro;

  ché la viva giustizia che mi spira,
  li concedette, in mano a quel ch’i’ dico,
  gloria di far vendetta a la sua ira.

  Or qui t’ammira in ciò ch’io ti replìco:
  poscia con Tito a far vendetta corse
  de la vendetta del peccato antico.

  E quando il dente longobardo morse
  la Santa Chiesa, sotto le sue ali
  Carlo Magno, vincendo, la soccorse.

  Omai puoi giudicar di quei cotali
  ch’io accusai di sopra e di lor falli,
  che son cagion di tutti vostri mali.

  L’uno al pubblico segno i gigli gialli
  oppone, e l’altro appropria quello a parte,
  sì ch’è forte a veder chi più si falli.

  Faccian li Ghibellin, faccian lor arte
  sott’ altro segno, ché mal segue quello
  sempre chi la giustizia e lui diparte;

  e non l’abbatta esto Carlo novello
  coi Guelfi suoi, ma tema de li artigli
  ch’a più alto leon trasser lo vello.

  Molte fïate già pianser li figli
  per la colpa del padre, e non si creda
  che Dio trasmuti l’armi per suoi gigli!

  Questa picciola stella si correda
  d’i buoni spirti che son stati attivi
  perché onore e fama li succeda:

  e quando li disiri poggian quivi,
  sì disvïando, pur convien che i raggi
  del vero amore in sù poggin men vivi.

  Ma nel commensurar d’i nostri gaggi
  col merto è parte di nostra letizia,
  perché non li vedem minor né maggi.

  Quindi addolcisce la viva giustizia
  in noi l’affetto sì, che non si puote
  torcer già mai ad alcuna nequizia.

  Diverse voci fanno dolci note;
  così diversi scanni in nostra vita
  rendon dolce armonia tra queste rote.

  E dentro a la presente margarita
  luce la luce di Romeo, di cui
  fu l’ovra grande e bella mal gradita.

  Ma i Provenzai che fecer contra lui
  non hanno riso; e però mal cammina
  qual si fa danno del ben fare altrui.

  Quattro figlie ebbe, e ciascuna reina,
  Ramondo Beringhiere, e ciò li fece
  Romeo, persona umìle e peregrina.

  E poi il mosser le parole biece
  a dimandar ragione a questo giusto,
  che li assegnò sette e cinque per diece,

  indi partissi povero e vetusto;
  e se ’l mondo sapesse il cor ch’elli ebbe
  mendicando sua vita a frusto a frusto,

  assai lo loda, e più lo loderebbe».



  Paradiso • Canto VII


  «Osanna, sanctus Deus sabaòth,
  superillustrans claritate tua
  felices ignes horum malacòth!».

  Così, volgendosi a la nota sua,
  fu viso a me cantare essa sustanza,
  sopra la qual doppio lume s’addua;

  ed essa e l’altre mossero a sua danza,
  e quasi velocissime faville
  mi si velar di sùbita distanza.

  Io dubitava e dicea ‘Dille, dille!’
  fra me, ‘dille’ dicea, ‘a la mia donna
  che mi diseta con le dolci stille’.

  Ma quella reverenza che s’indonna
  di tutto me, pur per Be e per ice,
  mi richinava come l’uom ch’assonna.

  Poco sofferse me cotal Beatrice
  e cominciò, raggiandomi d’un riso
  tal, che nel foco faria l’uom felice:

  «Secondo mio infallibile avviso,
  come giusta vendetta giustamente
  punita fosse, t’ha in pensier miso;

  ma io ti solverò tosto la mente;
  e tu ascolta, ché le mie parole
  di gran sentenza ti faran presente.

  Per non soffrire a la virtù che vole
  freno a suo prode, quell’ uom che non nacque,
  dannando sé, dannò tutta sua prole;

  onde l’umana specie inferma giacque
  giù per secoli molti in grande errore,
  fin ch’al Verbo di Dio discender piacque

  u’ la natura, che dal suo fattore
  s’era allungata, unì a sé in persona
  con l’atto sol del suo etterno amore.

  Or drizza il viso a quel ch’or si ragiona:
  questa natura al suo fattore unita,
  qual fu creata, fu sincera e buona;

  ma per sé stessa pur fu ella sbandita
  di paradiso, però che si torse
  da via di verità e da sua vita.

  La pena dunque che la croce porse
  s’a la natura assunta si misura,
  nulla già mai sì giustamente morse;

  e così nulla fu di tanta ingiura,
  guardando a la persona che sofferse,
  in che era contratta tal natura.

  Però d’un atto uscir cose diverse:
  ch’a Dio e a’ Giudei piacque una morte;
  per lei tremò la terra e ’l ciel s’aperse.

  Non ti dee oramai parer più forte,
  quando si dice che giusta vendetta
  poscia vengiata fu da giusta corte.

  Ma io veggi’ or la tua mente ristretta
  di pensiero in pensier dentro ad un nodo,
  del qual con gran disio solver s’aspetta.

  Tu dici: “Ben discerno ciò ch’i’ odo;
  ma perché Dio volesse, m’è occulto,
  a nostra redenzion pur questo modo”.

  Questo decreto, frate, sta sepulto
  a li occhi di ciascuno il cui ingegno
  ne la fiamma d’amor non è adulto.

  Veramente, però ch’a questo segno
  molto si mira e poco si discerne,
  dirò perché tal modo fu più degno.

  La divina bontà, che da sé sperne
  ogne livore, ardendo in sé, sfavilla
  sì che dispiega le bellezze etterne.

  Ciò che da lei sanza mezzo distilla
  non ha poi fine, perché non si move
  la sua imprenta quand’ ella sigilla.

  Ciò che da essa sanza mezzo piove
  libero è tutto, perché non soggiace
  a la virtute de le cose nove.

  Più l’è conforme, e però più le piace;
  ché l’ardor santo ch’ogne cosa raggia,
  ne la più somigliante è più vivace.

  Di tutte queste dote s’avvantaggia
  l’umana creatura, e s’una manca,
  di sua nobilità convien che caggia.

  Solo il peccato è quel che la disfranca
  e falla dissimìle al sommo bene,
  per che del lume suo poco s’imbianca;

  e in sua dignità mai non rivene,
  se non rïempie, dove colpa vòta,
  contra mal dilettar con giuste pene.

  Vostra natura, quando peccò tota
  nel seme suo, da queste dignitadi,
  come di paradiso, fu remota;

  né ricovrar potiensi, se tu badi
  ben sottilmente, per alcuna via,
  sanza passar per un di questi guadi:

  o che Dio solo per sua cortesia
  dimesso avesse, o che l’uom per sé isso
  avesse sodisfatto a sua follia.

  Ficca mo l’occhio per entro l’abisso
  de l’etterno consiglio, quanto puoi
  al mio parlar distrettamente fisso.

  Non potea l’uomo ne’ termini suoi
  mai sodisfar, per non potere ir giuso
  con umiltate obedïendo poi,

  quanto disobediendo intese ir suso;
  e questa è la cagion per che l’uom fue
  da poter sodisfar per sé dischiuso.

  Dunque a Dio convenia con le vie sue
  riparar l’omo a sua intera vita,
  dico con l’una, o ver con amendue.

  Ma perché l’ovra tanto è più gradita
  da l’operante, quanto più appresenta
  de la bontà del core ond’ ell’ è uscita,

  la divina bontà che ’l mondo imprenta,
  di proceder per tutte le sue vie,
  a rilevarvi suso, fu contenta.

  Né tra l’ultima notte e ’l primo die
  sì alto o sì magnifico processo,
  o per l’una o per l’altra, fu o fie:

  ché più largo fu Dio a dar sé stesso
  per far l’uom sufficiente a rilevarsi,
  che s’elli avesse sol da sé dimesso;

  e tutti li altri modi erano scarsi
  a la giustizia, se ’l Figliuol di Dio
  non fosse umilïato ad incarnarsi.

  Or per empierti bene ogne disio,
  ritorno a dichiararti in alcun loco,
  perché tu veggi lì così com’ io.

  Tu dici: “Io veggio l’acqua, io veggio il foco,
  l’aere e la terra e tutte lor misture
  venire a corruzione, e durar poco;

  e queste cose pur furon creature;
  per che, se ciò ch’è detto è stato vero,
  esser dovrien da corruzion sicure”.

  Li angeli, frate, e ’l paese sincero
  nel qual tu se’, dir si posson creati,
  sì come sono, in loro essere intero;

  ma li alimenti che tu hai nomati
  e quelle cose che di lor si fanno
  da creata virtù sono informati.

  Creata fu la materia ch’elli hanno;
  creata fu la virtù informante
  in queste stelle che ’ntorno a lor vanno.

  L’anima d’ogne bruto e de le piante
  di complession potenzïata tira
  lo raggio e ’l moto de le luci sante;

  ma vostra vita sanza mezzo spira
  la somma beninanza, e la innamora
  di sé sì che poi sempre la disira.

  E quinci puoi argomentare ancora
  vostra resurrezion, se tu ripensi
  come l’umana carne fessi allora

  che li primi parenti intrambo fensi».



  Paradiso • Canto VIII


  Solea creder lo mondo in suo periclo
  che la bella Ciprigna il folle amore
  raggiasse, volta nel terzo epiciclo;

  per che non pur a lei faceano onore
  di sacrificio e di votivo grido
  le genti antiche ne l’antico errore;

  ma Dïone onoravano e Cupido,
  quella per madre sua, questo per figlio,
  e dicean ch’el sedette in grembo a Dido;

  e da costei ond’ io principio piglio
  pigliavano il vocabol de la stella
  che ’l sol vagheggia or da coppa or da ciglio.

  Io non m’accorsi del salire in ella;
  ma d’esservi entro mi fé assai fede
  la donna mia ch’i’ vidi far più bella.

  E come in fiamma favilla si vede,
  e come in voce voce si discerne,
  quand’ una è ferma e altra va e riede,

  vid’ io in essa luce altre lucerne
  muoversi in giro più e men correnti,
  al modo, credo, di lor viste interne.

  Di fredda nube non disceser venti,
  o visibili o no, tanto festini,
  che non paressero impediti e lenti

  a chi avesse quei lumi divini
  veduti a noi venir, lasciando il giro
  pria cominciato in li alti Serafini;

  e dentro a quei che più innanzi appariro
  sonava ‘Osanna’ sì, che unque poi
  di rïudir non fui sanza disiro.

  Indi si fece l’un più presso a noi
  e solo incominciò: «Tutti sem presti
  al tuo piacer, perché di noi ti gioi.

  Noi ci volgiam coi principi celesti
  d’un giro e d’un girare e d’una sete,
  ai quali tu del mondo già dicesti:

  ‘Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete’;
  e sem sì pien d’amor, che, per piacerti,
  non fia men dolce un poco di quïete».

  Poscia che li occhi miei si fuoro offerti
  a la mia donna reverenti, ed essa
  fatti li avea di sé contenti e certi,

  rivolsersi a la luce che promessa
  tanto s’avea, e «Deh, chi siete?» fue
  la voce mia di grande affetto impressa.

  E quanta e quale vid’ io lei far piùe
  per allegrezza nova che s’accrebbe,
  quando parlai, a l’allegrezze sue!

  Così fatta, mi disse: «Il mondo m’ebbe
  giù poco tempo; e se più fosse stato,
  molto sarà di mal, che non sarebbe.

  La mia letizia mi ti tien celato
  che mi raggia dintorno e mi nasconde
  quasi animal di sua seta fasciato.

  Assai m’amasti, e avesti ben onde;
  che s’io fossi giù stato, io ti mostrava
  di mio amor più oltre che le fronde.

  Quella sinistra riva che si lava
  di Rodano poi ch’è misto con Sorga,
  per suo segnore a tempo m’aspettava,

  e quel corno d’Ausonia che s’imborga
  di Bari e di Gaeta e di Catona,
  da ove Tronto e Verde in mare sgorga.

  Fulgeami già in fronte la corona
  di quella terra che ’l Danubio riga
  poi che le ripe tedesche abbandona.

  E la bella Trinacria, che caliga
  tra Pachino e Peloro, sopra ’l golfo
  che riceve da Euro maggior briga,

  non per Tifeo ma per nascente solfo,
  attesi avrebbe li suoi regi ancora,
  nati per me di Carlo e di Ridolfo,

  se mala segnoria, che sempre accora
  li popoli suggetti, non avesse
  mosso Palermo a gridar: “Mora, mora!”.

  E se mio frate questo antivedesse,
  l’avara povertà di Catalogna
  già fuggeria, perché non li offendesse;

  ché veramente proveder bisogna
  per lui, o per altrui, sì ch’a sua barca
  carcata più d’incarco non si pogna.

  La sua natura, che di larga parca
  discese, avria mestier di tal milizia
  che non curasse di mettere in arca».

  «Però ch’i’ credo che l’alta letizia
  che ’l tuo parlar m’infonde, segnor mio,
  là ’ve ogne ben si termina e s’inizia,

  per te si veggia come la vegg’ io,
  grata m’è più; e anco quest’ ho caro
  perché ’l discerni rimirando in Dio.

  Fatto m’hai lieto, e così mi fa chiaro,
  poi che, parlando, a dubitar m’hai mosso
  com’ esser può, di dolce seme, amaro».

  Questo io a lui; ed elli a me: «S’io posso
  mostrarti un vero, a quel che tu dimandi
  terrai lo viso come tien lo dosso.

  Lo ben che tutto il regno che tu scandi
  volge e contenta, fa esser virtute
  sua provedenza in questi corpi grandi.

  E non pur le nature provedute
  sono in la mente ch’è da sé perfetta,
  ma esse insieme con la lor salute:

  per che quantunque quest’ arco saetta
  disposto cade a proveduto fine,
  sì come cosa in suo segno diretta.

  Se ciò non fosse, il ciel che tu cammine
  producerebbe sì li suoi effetti,
  che non sarebbero arti, ma ruine;

  e ciò esser non può, se li ’ntelletti
  che muovon queste stelle non son manchi,
  e manco il primo, che non li ha perfetti.

  Vuo’ tu che questo ver più ti s’imbianchi?».
  E io: «Non già; ché impossibil veggio
  che la natura, in quel ch’è uopo, stanchi».

  Ond’ elli ancora: «Or dì: sarebbe il peggio
  per l’omo in terra, se non fosse cive?».
  «Sì», rispuos’ io; «e qui ragion non cheggio».

  «E puot’ elli esser, se giù non si vive
  diversamente per diversi offici?
  Non, se ’l maestro vostro ben vi scrive».

  Sì venne deducendo infino a quici;
  poscia conchiuse: «Dunque esser diverse
  convien di vostri effetti le radici:

  per ch’un nasce Solone e altro Serse,
  altro Melchisedèch e altro quello
  che, volando per l’aere, il figlio perse.

  La circular natura, ch’è suggello
  a la cera mortal, fa ben sua arte,
  ma non distingue l’un da l’altro ostello.

  Quinci addivien ch’Esaù si diparte
  per seme da Iacòb; e vien Quirino
  da sì vil padre, che si rende a Marte.

  Natura generata il suo cammino
  simil farebbe sempre a’ generanti,
  se non vincesse il proveder divino.

  Or quel che t’era dietro t’è davanti:
  ma perché sappi che di te mi giova,
  un corollario voglio che t’ammanti.

  Sempre natura, se fortuna trova
  discorde a sé, com’ ogne altra semente
  fuor di sua regïon, fa mala prova.

  E se ’l mondo là giù ponesse mente
  al fondamento che natura pone,
  seguendo lui, avria buona la gente.

  Ma voi torcete a la religïone
  tal che fia nato a cignersi la spada,
  e fate re di tal ch’è da sermone;

  onde la traccia vostra è fuor di strada».



  Paradiso • Canto IX


  Da poi che Carlo tuo, bella Clemenza,
  m’ebbe chiarito, mi narrò li ’nganni
  che ricever dovea la sua semenza;

  ma disse: «Taci e lascia muover li anni»;
  sì ch’io non posso dir se non che pianto
  giusto verrà di retro ai vostri danni.

  E già la vita di quel lume santo
  rivolta s’era al Sol che la rïempie
  come quel ben ch’a ogne cosa è tanto.

  Ahi anime ingannate e fatture empie,
  che da sì fatto ben torcete i cuori,
  drizzando in vanità le vostre tempie!

  Ed ecco un altro di quelli splendori
  ver’ me si fece, e ’l suo voler piacermi
  significava nel chiarir di fori.

  Li occhi di Bëatrice, ch’eran fermi
  sovra me, come pria, di caro assenso
  al mio disio certificato fermi.

  «Deh, metti al mio voler tosto compenso,
  beato spirto», dissi, «e fammi prova
  ch’i’ possa in te refletter quel ch’io penso!».

  Onde la luce che m’era ancor nova,
  del suo profondo, ond’ ella pria cantava,
  seguette come a cui di ben far giova:

  «In quella parte de la terra prava
  italica che siede tra Rïalto
  e le fontane di Brenta e di Piava,

  si leva un colle, e non surge molt’ alto,
  là onde scese già una facella
  che fece a la contrada un grande assalto.

  D’una radice nacqui e io ed ella:
  Cunizza fui chiamata, e qui refulgo
  perché mi vinse il lume d’esta stella;

  ma lietamente a me medesma indulgo
  la cagion di mia sorte, e non mi noia;
  che parria forse forte al vostro vulgo.

  Di questa luculenta e cara gioia
  del nostro cielo che più m’è propinqua,
  grande fama rimase; e pria che moia,

  questo centesimo anno ancor s’incinqua:
  vedi se far si dee l’omo eccellente,
  sì ch’altra vita la prima relinqua.

  E ciò non pensa la turba presente
  che Tagliamento e Adice richiude,
  né per esser battuta ancor si pente;

  ma tosto fia che Padova al palude
  cangerà l’acqua che Vincenza bagna,
  per essere al dover le genti crude;

  e dove Sile e Cagnan s’accompagna,
  tal signoreggia e va con la testa alta,
  che già per lui carpir si fa la ragna.

  Piangerà Feltro ancora la difalta
  de l’empio suo pastor, che sarà sconcia
  sì, che per simil non s’entrò in malta.

  Troppo sarebbe larga la bigoncia
  che ricevesse il sangue ferrarese,
  e stanco chi ’l pesasse a oncia a oncia,

  che donerà questo prete cortese
  per mostrarsi di parte; e cotai doni
  conformi fieno al viver del paese.

  Sù sono specchi, voi dicete Troni,
  onde refulge a noi Dio giudicante;
  sì che questi parlar ne paion buoni».

  Qui si tacette; e fecemi sembiante
  che fosse ad altro volta, per la rota
  in che si mise com’ era davante.

  L’altra letizia, che m’era già nota
  per cara cosa, mi si fece in vista
  qual fin balasso in che lo sol percuota.

  Per letiziar là sù fulgor s’acquista,
  sì come riso qui; ma giù s’abbuia
  l’ombra di fuor, come la mente è trista.

  «Dio vede tutto, e tuo veder s’inluia»,
  diss’ io, «beato spirto, sì che nulla
  voglia di sé a te puot’ esser fuia.

  Dunque la voce tua, che ’l ciel trastulla
  sempre col canto di quei fuochi pii
  che di sei ali facen la coculla,

  perché non satisface a’ miei disii?
  Già non attendere’ io tua dimanda,
  s’io m’intuassi, come tu t’inmii».

  «La maggior valle in che l’acqua si spanda»,
  incominciaro allor le sue parole,
  «fuor di quel mar che la terra inghirlanda,

  tra ’ discordanti liti contra ’l sole
  tanto sen va, che fa meridïano
  là dove l’orizzonte pria far suole.

  Di quella valle fu’ io litorano
  tra Ebro e Macra, che per cammin corto
  parte lo Genovese dal Toscano.

  Ad un occaso quasi e ad un orto
  Buggea siede e la terra ond’ io fui,
  che fé del sangue suo già caldo il porto.

  Folco mi disse quella gente a cui
  fu noto il nome mio; e questo cielo
  di me s’imprenta, com’ io fe’ di lui;

  ché più non arse la figlia di Belo,
  noiando e a Sicheo e a Creusa,
  di me, infin che si convenne al pelo;

  né quella Rodopëa che delusa
  fu da Demofoonte, né Alcide
  quando Iole nel core ebbe rinchiusa.

  Non però qui si pente, ma si ride,
  non de la colpa, ch’a mente non torna,
  ma del valor ch’ordinò e provide.

  Qui si rimira ne l’arte ch’addorna
  cotanto affetto, e discernesi ’l bene
  per che ’l mondo di sù quel di giù torna.

  Ma perché tutte le tue voglie piene
  ten porti che son nate in questa spera,
  proceder ancor oltre mi convene.

  Tu vuo’ saper chi è in questa lumera
  che qui appresso me così scintilla
  come raggio di sole in acqua mera.

  Or sappi che là entro si tranquilla
  Raab; e a nostr’ ordine congiunta,
  di lei nel sommo grado si sigilla.

  Da questo cielo, in cui l’ombra s’appunta
  che ’l vostro mondo face, pria ch’altr’ alma
  del trïunfo di Cristo fu assunta.

  Ben si convenne lei lasciar per palma
  in alcun cielo de l’alta vittoria
  che s’acquistò con l’una e l’altra palma,

  perch’ ella favorò la prima gloria
  di Iosüè in su la Terra Santa,
  che poco tocca al papa la memoria.

  La tua città, che di colui è pianta
  che pria volse le spalle al suo fattore
  e di cui è la ’nvidia tanto pianta,

  produce e spande il maladetto fiore
  c’ha disvïate le pecore e li agni,
  però che fatto ha lupo del pastore.

  Per questo l’Evangelio e i dottor magni
  son derelitti, e solo ai Decretali
  si studia, sì che pare a’ lor vivagni.

  A questo intende il papa e ’ cardinali;
  non vanno i lor pensieri a Nazarette,
  là dove Gabrïello aperse l’ali.

  Ma Vaticano e l’altre parti elette
  di Roma che son state cimitero
  a la milizia che Pietro seguette,

  tosto libere fien de l’avoltero».



  Paradiso • Canto X


  Guardando nel suo Figlio con l’Amore
  che l’uno e l’altro etternalmente spira,
  lo primo e ineffabile Valore

  quanto per mente e per loco si gira
  con tant’ ordine fé, ch’esser non puote
  sanza gustar di lui chi ciò rimira.

  Leva dunque, lettore, a l’alte rote
  meco la vista, dritto a quella parte
  dove l’un moto e l’altro si percuote;

  e lì comincia a vagheggiar ne l’arte
  di quel maestro che dentro a sé l’ama,
  tanto che mai da lei l’occhio non parte.

  Vedi come da indi si dirama
  l’oblico cerchio che i pianeti porta,
  per sodisfare al mondo che li chiama.

  Che se la strada lor non fosse torta,
  molta virtù nel ciel sarebbe in vano,
  e quasi ogne potenza qua giù morta;

  e se dal dritto più o men lontano
  fosse ’l partire, assai sarebbe manco
  e giù e sù de l’ordine mondano.

  Or ti riman, lettor, sovra ’l tuo banco,
  dietro pensando a ciò che si preliba,
  s’esser vuoi lieto assai prima che stanco.

  Messo t’ho innanzi: omai per te ti ciba;
  ché a sé torce tutta la mia cura
  quella materia ond’ io son fatto scriba.

  Lo ministro maggior de la natura,
  che del valor del ciel lo mondo imprenta
  e col suo lume il tempo ne misura,

  con quella parte che sù si rammenta
  congiunto, si girava per le spire
  in che più tosto ognora s’appresenta;

  e io era con lui; ma del salire
  non m’accors’ io, se non com’ uom s’accorge,
  anzi ’l primo pensier, del suo venire.

  È Bëatrice quella che sì scorge
  di bene in meglio, sì subitamente
  che l’atto suo per tempo non si sporge.

  Quant’ esser convenia da sé lucente
  quel ch’era dentro al sol dov’ io entra’mi,
  non per color, ma per lume parvente!

  Perch’ io lo ’ngegno e l’arte e l’uso chiami,
  sì nol direi che mai s’imaginasse;
  ma creder puossi e di veder si brami.

  E se le fantasie nostre son basse
  a tanta altezza, non è maraviglia;
  ché sopra ’l sol non fu occhio ch’andasse.

  Tal era quivi la quarta famiglia
  de l’alto Padre, che sempre la sazia,
  mostrando come spira e come figlia.

  E Bëatrice cominciò: «Ringrazia,
  ringrazia il Sol de li angeli, ch’a questo
  sensibil t’ha levato per sua grazia».

  Cor di mortal non fu mai sì digesto
  a divozione e a rendersi a Dio
  con tutto ’l suo gradir cotanto presto,

  come a quelle parole mi fec’ io;
  e sì tutto ’l mio amore in lui si mise,
  che Bëatrice eclissò ne l’oblio.

  Non le dispiacque; ma sì se ne rise,
  che lo splendor de li occhi suoi ridenti
  mia mente unita in più cose divise.

  Io vidi più folgór vivi e vincenti
  far di noi centro e di sé far corona,
  più dolci in voce che in vista lucenti:

  così cinger la figlia di Latona
  vedem talvolta, quando l’aere è pregno,
  sì che ritenga il fil che fa la zona.

  Ne la corte del cielo, ond’ io rivegno,
  si trovan molte gioie care e belle
  tanto che non si posson trar del regno;

  e ’l canto di quei lumi era di quelle;
  chi non s’impenna sì che là sù voli,
  dal muto aspetti quindi le novelle.

  Poi, sì cantando, quelli ardenti soli
  si fuor girati intorno a noi tre volte,
  come stelle vicine a’ fermi poli,

  donne mi parver, non da ballo sciolte,
  ma che s’arrestin tacite, ascoltando
  fin che le nove note hanno ricolte.

  E dentro a l’un senti’ cominciar: «Quando
  lo raggio de la grazia, onde s’accende
  verace amore e che poi cresce amando,

  multiplicato in te tanto resplende,
  che ti conduce su per quella scala
  u’ sanza risalir nessun discende;

  qual ti negasse il vin de la sua fiala
  per la tua sete, in libertà non fora
  se non com’ acqua ch’al mar non si cala.

  Tu vuo’ saper di quai piante s’infiora
  questa ghirlanda che ’ntorno vagheggia
  la bella donna ch’al ciel t’avvalora.

  Io fui de li agni de la santa greggia
  che Domenico mena per cammino
  u’ ben s’impingua se non si vaneggia.

  Questi che m’è a destra più vicino,
  frate e maestro fummi, ed esso Alberto
  è di Cologna, e io Thomas d’Aquino.

  Se sì di tutti li altri esser vuo’ certo,
  di retro al mio parlar ten vien col viso
  girando su per lo beato serto.

  Quell’ altro fiammeggiare esce del riso
  di Grazïan, che l’uno e l’altro foro
  aiutò sì che piace in paradiso.

  L’altro ch’appresso addorna il nostro coro,
  quel Pietro fu che con la poverella
  offerse a Santa Chiesa suo tesoro.

  La quinta luce, ch’è tra noi più bella,
  spira di tale amor, che tutto ’l mondo
  là giù ne gola di saper novella:

  entro v’è l’alta mente u’ sì profondo
  saver fu messo, che, se ’l vero è vero,
  a veder tanto non surse il secondo.

  Appresso vedi il lume di quel cero
  che giù in carne più a dentro vide
  l’angelica natura e ’l ministero.

  Ne l’altra piccioletta luce ride
  quello avvocato de’ tempi cristiani
  del cui latino Augustin si provide.

  Or se tu l’occhio de la mente trani
  di luce in luce dietro a le mie lode,
  già de l’ottava con sete rimani.

  Per vedere ogne ben dentro vi gode
  l’anima santa che ’l mondo fallace
  fa manifesto a chi di lei ben ode.

  Lo corpo ond’ ella fu cacciata giace
  giuso in Cieldauro; ed essa da martiro
  e da essilio venne a questa pace.

  Vedi oltre fiammeggiar l’ardente spiro
  d’Isidoro, di Beda e di Riccardo,
  che a considerar fu più che viro.

  Questi onde a me ritorna il tuo riguardo,
  è ’l lume d’uno spirto che ’n pensieri
  gravi a morir li parve venir tardo:

  essa è la luce etterna di Sigieri,
  che, leggendo nel Vico de li Strami,
  silogizzò invidïosi veri».

  Indi, come orologio che ne chiami
  ne l’ora che la sposa di Dio surge
  a mattinar lo sposo perché l’ami,

  che l’una parte e l’altra tira e urge,
  tin tin sonando con sì dolce nota,
  che ’l ben disposto spirto d’amor turge;

  così vid’ ïo la gloriosa rota
  muoversi e render voce a voce in tempra
  e in dolcezza ch’esser non pò nota

  se non colà dove gioir s’insempra.



  Paradiso • Canto XI


  O insensata cura de’ mortali,
  quanto son difettivi silogismi
  quei che ti fanno in basso batter l’ali!

  Chi dietro a iura e chi ad amforismi
  sen giva, e chi seguendo sacerdozio,
  e chi regnar per forza o per sofismi,

  e chi rubare e chi civil negozio,
  chi nel diletto de la carne involto
  s’affaticava e chi si dava a l’ozio,

  quando, da tutte queste cose sciolto,
  con Bëatrice m’era suso in cielo
  cotanto glorïosamente accolto.

  Poi che ciascuno fu tornato ne lo
  punto del cerchio in che avanti s’era,
  fermossi, come a candellier candelo.

  E io senti’ dentro a quella lumera
  che pria m’avea parlato, sorridendo
  incominciar, faccendosi più mera:

  «Così com’ io del suo raggio resplendo,
  sì, riguardando ne la luce etterna,
  li tuoi pensieri onde cagioni apprendo.

  Tu dubbi, e hai voler che si ricerna
  in sì aperta e ’n sì distesa lingua
  lo dicer mio, ch’al tuo sentir si sterna,

  ove dinanzi dissi: “U’ ben s’impingua”,
  e là u’ dissi: “Non nacque il secondo”;
  e qui è uopo che ben si distingua.

  La provedenza, che governa il mondo
  con quel consiglio nel quale ogne aspetto
  creato è vinto pria che vada al fondo,

  però che andasse ver’ lo suo diletto
  la sposa di colui ch’ad alte grida
  disposò lei col sangue benedetto,

  in sé sicura e anche a lui più fida,
  due principi ordinò in suo favore,
  che quinci e quindi le fosser per guida.

  L’un fu tutto serafico in ardore;
  l’altro per sapïenza in terra fue
  di cherubica luce uno splendore.

  De l’un dirò, però che d’amendue
  si dice l’un pregiando, qual ch’om prende,
  perch’ ad un fine fur l’opere sue.

  Intra Tupino e l’acqua che discende
  del colle eletto dal beato Ubaldo,
  fertile costa d’alto monte pende,

  onde Perugia sente freddo e caldo
  da Porta Sole; e di rietro le piange
  per grave giogo Nocera con Gualdo.

  Di questa costa, là dov’ ella frange
  più sua rattezza, nacque al mondo un sole,
  come fa questo talvolta di Gange.

  Però chi d’esso loco fa parole,
  non dica Ascesi, ché direbbe corto,
  ma Orïente, se proprio dir vuole.

  Non era ancor molto lontan da l’orto,
  ch’el cominciò a far sentir la terra
  de la sua gran virtute alcun conforto;

  ché per tal donna, giovinetto, in guerra
  del padre corse, a cui, come a la morte,
  la porta del piacer nessun diserra;

  e dinanzi a la sua spirital corte
  et coram patre le si fece unito;
  poscia di dì in dì l’amò più forte.

  Questa, privata del primo marito,
  millecent’ anni e più dispetta e scura
  fino a costui si stette sanza invito;

  né valse udir che la trovò sicura
  con Amiclate, al suon de la sua voce,
  colui ch’a tutto ’l mondo fé paura;

  né valse esser costante né feroce,
  sì che, dove Maria rimase giuso,
  ella con Cristo pianse in su la croce.

  Ma perch’ io non proceda troppo chiuso,
  Francesco e Povertà per questi amanti
  prendi oramai nel mio parlar diffuso.

  La lor concordia e i lor lieti sembianti,
  amore e maraviglia e dolce sguardo
  facieno esser cagion di pensier santi;

  tanto che ’l venerabile Bernardo
  si scalzò prima, e dietro a tanta pace
  corse e, correndo, li parve esser tardo.

  Oh ignota ricchezza! oh ben ferace!
  Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro
  dietro a lo sposo, sì la sposa piace.

  Indi sen va quel padre e quel maestro
  con la sua donna e con quella famiglia
  che già legava l’umile capestro.

  Né li gravò viltà di cuor le ciglia
  per esser fi’ di Pietro Bernardone,
  né per parer dispetto a maraviglia;

  ma regalmente sua dura intenzione
  ad Innocenzio aperse, e da lui ebbe
  primo sigillo a sua religïone.

  Poi che la gente poverella crebbe
  dietro a costui, la cui mirabil vita
  meglio in gloria del ciel si canterebbe,

  di seconda corona redimita
  fu per Onorio da l’Etterno Spiro
  la santa voglia d’esto archimandrita.

  E poi che, per la sete del martiro,
  ne la presenza del Soldan superba
  predicò Cristo e li altri che ’l seguiro,

  e per trovare a conversione acerba
  troppo la gente e per non stare indarno,
  redissi al frutto de l’italica erba,

  nel crudo sasso intra Tevero e Arno
  da Cristo prese l’ultimo sigillo,
  che le sue membra due anni portarno.

  Quando a colui ch’a tanto ben sortillo
  piacque di trarlo suso a la mercede
  ch’el meritò nel suo farsi pusillo,

  a’ frati suoi, sì com’ a giuste rede,
  raccomandò la donna sua più cara,
  e comandò che l’amassero a fede;

  e del suo grembo l’anima preclara
  mover si volle, tornando al suo regno,
  e al suo corpo non volle altra bara.

  Pensa oramai qual fu colui che degno
  collega fu a mantener la barca
  di Pietro in alto mar per dritto segno;

  e questo fu il nostro patrïarca;
  per che qual segue lui, com’ el comanda,
  discerner puoi che buone merce carca.

  Ma ’l suo pecuglio di nova vivanda
  è fatto ghiotto, sì ch’esser non puote
  che per diversi salti non si spanda;

  e quanto le sue pecore remote
  e vagabunde più da esso vanno,
  più tornano a l’ovil di latte vòte.

  Ben son di quelle che temono ’l danno
  e stringonsi al pastor; ma son sì poche,
  che le cappe fornisce poco panno.

  Or, se le mie parole non son fioche,
  se la tua audïenza è stata attenta,
  se ciò ch’è detto a la mente revoche,

  in parte fia la tua voglia contenta,
  perché vedrai la pianta onde si scheggia,
  e vedra’ il corrègger che argomenta

  “U’ ben s’impingua, se non si vaneggia”».



  Paradiso • Canto XII


  Sì tosto come l’ultima parola
  la benedetta fiamma per dir tolse,
  a rotar cominciò la santa mola;

  e nel suo giro tutta non si volse
  prima ch’un’altra di cerchio la chiuse,
  e moto a moto e canto a canto colse;

  canto che tanto vince nostre muse,
  nostre serene in quelle dolci tube,
  quanto primo splendor quel ch’e’ refuse.

  Come si volgon per tenera nube
  due archi paralelli e concolori,
  quando Iunone a sua ancella iube,

  nascendo di quel d’entro quel di fori,
  a guisa del parlar di quella vaga
  ch’amor consunse come sol vapori,

  e fanno qui la gente esser presaga,
  per lo patto che Dio con Noè puose,
  del mondo che già mai più non s’allaga:

  così di quelle sempiterne rose
  volgiensi circa noi le due ghirlande,
  e sì l’estrema a l’intima rispuose.

  Poi che ’l tripudio e l’altra festa grande,
  sì del cantare e sì del fiammeggiarsi
  luce con luce gaudïose e blande,

  insieme a punto e a voler quetarsi,
  pur come li occhi ch’al piacer che i move
  conviene insieme chiudere e levarsi;

  del cor de l’una de le luci nove
  si mosse voce, che l’ago a la stella
  parer mi fece in volgermi al suo dove;

  e cominciò: «L’amor che mi fa bella
  mi tragge a ragionar de l’altro duca
  per cui del mio sì ben ci si favella.

  Degno è che, dov’ è l’un, l’altro s’induca:
  sì che, com’ elli ad una militaro,
  così la gloria loro insieme luca.

  L’essercito di Cristo, che sì caro
  costò a rïarmar, dietro a la ’nsegna
  si movea tardo, sospeccioso e raro,

  quando lo ’mperador che sempre regna
  provide a la milizia, ch’era in forse,
  per sola grazia, non per esser degna;

  e, come è detto, a sua sposa soccorse
  con due campioni, al cui fare, al cui dire
  lo popol disvïato si raccorse.

  In quella parte ove surge ad aprire
  Zefiro dolce le novelle fronde
  di che si vede Europa rivestire,

  non molto lungi al percuoter de l’onde
  dietro a le quali, per la lunga foga,
  lo sol talvolta ad ogne uom si nasconde,

  siede la fortunata Calaroga
  sotto la protezion del grande scudo
  in che soggiace il leone e soggioga:

  dentro vi nacque l’amoroso drudo
  de la fede cristiana, il santo atleta
  benigno a’ suoi e a’ nemici crudo;

  e come fu creata, fu repleta
  sì la sua mente di viva vertute
  che, ne la madre, lei fece profeta.

  Poi che le sponsalizie fuor compiute
  al sacro fonte intra lui e la Fede,
  u’ si dotar di mutüa salute,

  la donna che per lui l’assenso diede,
  vide nel sonno il mirabile frutto
  ch’uscir dovea di lui e de le rede;

  e perché fosse qual era in costrutto,
  quinci si mosse spirito a nomarlo
  del possessivo di cui era tutto.

  Domenico fu detto; e io ne parlo
  sì come de l’agricola che Cristo
  elesse a l’orto suo per aiutarlo.

  Ben parve messo e famigliar di Cristo:
  che ’l primo amor che ’n lui fu manifesto,
  fu al primo consiglio che diè Cristo.

  Spesse fïate fu tacito e desto
  trovato in terra da la sua nutrice,
  come dicesse: ‘Io son venuto a questo’.

  Oh padre suo veramente Felice!
  oh madre sua veramente Giovanna,
  se, interpretata, val come si dice!

  Non per lo mondo, per cui mo s’affanna
  di retro ad Ostïense e a Taddeo,
  ma per amor de la verace manna

  in picciol tempo gran dottor si feo;
  tal che si mise a circüir la vigna
  che tosto imbianca, se ’l vignaio è reo.

  E a la sedia che fu già benigna
  più a’ poveri giusti, non per lei,
  ma per colui che siede, che traligna,

  non dispensare o due o tre per sei,
  non la fortuna di prima vacante,
  non decimas, quae sunt pauperum Dei,

  addimandò, ma contro al mondo errante
  licenza di combatter per lo seme
  del qual ti fascian ventiquattro piante.

  Poi, con dottrina e con volere insieme,
  con l’officio appostolico si mosse
  quasi torrente ch’alta vena preme;

  e ne li sterpi eretici percosse
  l’impeto suo, più vivamente quivi
  dove le resistenze eran più grosse.

  Di lui si fecer poi diversi rivi
  onde l’orto catolico si riga,
  sì che i suoi arbuscelli stan più vivi.

  Se tal fu l’una rota de la biga
  in che la Santa Chiesa si difese
  e vinse in campo la sua civil briga,

  ben ti dovrebbe assai esser palese
  l’eccellenza de l’altra, di cui Tomma
  dinanzi al mio venir fu sì cortese.

  Ma l’orbita che fé la parte somma
  di sua circunferenza, è derelitta,
  sì ch’è la muffa dov’ era la gromma.

  La sua famiglia, che si mosse dritta
  coi piedi a le sue orme, è tanto volta,
  che quel dinanzi a quel di retro gitta;

  e tosto si vedrà de la ricolta
  de la mala coltura, quando il loglio
  si lagnerà che l’arca li sia tolta.

  Ben dico, chi cercasse a foglio a foglio
  nostro volume, ancor troveria carta
  u’ leggerebbe “I’ mi son quel ch’i’ soglio”;

  ma non fia da Casal né d’Acquasparta,
  là onde vegnon tali a la scrittura,
  ch’uno la fugge e altro la coarta.

  Io son la vita di Bonaventura
  da Bagnoregio, che ne’ grandi offici
  sempre pospuosi la sinistra cura.

  Illuminato e Augustin son quici,
  che fuor de’ primi scalzi poverelli
  che nel capestro a Dio si fero amici.

  Ugo da San Vittore è qui con elli,
  e Pietro Mangiadore e Pietro Spano,
  lo qual giù luce in dodici libelli;

  Natàn profeta e ’l metropolitano
  Crisostomo e Anselmo e quel Donato
  ch’a la prim’ arte degnò porre mano.

  Rabano è qui, e lucemi dallato
  il calavrese abate Giovacchino
  di spirito profetico dotato.

  Ad inveggiar cotanto paladino
  mi mosse l’infiammata cortesia
  di fra Tommaso e ’l discreto latino;

  e mosse meco questa compagnia».



  Paradiso • Canto XIII


  Imagini, chi bene intender cupe
  quel ch’i’ or vidi—e ritegna l’image,
  mentre ch’io dico, come ferma rupe—,

  quindici stelle che ’n diverse plage
  lo ciel avvivan di tanto sereno
  che soperchia de l’aere ogne compage;

  imagini quel carro a cu’ il seno
  basta del nostro cielo e notte e giorno,
  sì ch’al volger del temo non vien meno;

  imagini la bocca di quel corno
  che si comincia in punta de lo stelo
  a cui la prima rota va dintorno,

  aver fatto di sé due segni in cielo,
  qual fece la figliuola di Minoi
  allora che sentì di morte il gelo;

  e l’un ne l’altro aver li raggi suoi,
  e amendue girarsi per maniera
  che l’uno andasse al primo e l’altro al poi;

  e avrà quasi l’ombra de la vera
  costellazione e de la doppia danza
  che circulava il punto dov’ io era:

  poi ch’è tanto di là da nostra usanza,
  quanto di là dal mover de la Chiana
  si move il ciel che tutti li altri avanza.

  Lì si cantò non Bacco, non Peana,
  ma tre persone in divina natura,
  e in una persona essa e l’umana.

  Compié ’l cantare e ’l volger sua misura;
  e attesersi a noi quei santi lumi,
  felicitando sé di cura in cura.

  Ruppe il silenzio ne’ concordi numi
  poscia la luce in che mirabil vita
  del poverel di Dio narrata fumi,

  e disse: «Quando l’una paglia è trita,
  quando la sua semenza è già riposta,
  a batter l’altra dolce amor m’invita.

  Tu credi che nel petto onde la costa
  si trasse per formar la bella guancia
  il cui palato a tutto ’l mondo costa,

  e in quel che, forato da la lancia,
  e prima e poscia tanto sodisfece,
  che d’ogne colpa vince la bilancia,

  quantunque a la natura umana lece
  aver di lume, tutto fosse infuso
  da quel valor che l’uno e l’altro fece;

  e però miri a ciò ch’io dissi suso,
  quando narrai che non ebbe ’l secondo
  lo ben che ne la quinta luce è chiuso.

  Or apri li occhi a quel ch’io ti rispondo,
  e vedräi il tuo credere e ’l mio dire
  nel vero farsi come centro in tondo.

  Ciò che non more e ciò che può morire
  non è se non splendor di quella idea
  che partorisce, amando, il nostro Sire;

  ché quella viva luce che sì mea
  dal suo lucente, che non si disuna
  da lui né da l’amor ch’a lor s’intrea,

  per sua bontate il suo raggiare aduna,
  quasi specchiato, in nove sussistenze,
  etternalmente rimanendosi una.

  Quindi discende a l’ultime potenze
  giù d’atto in atto, tanto divenendo,
  che più non fa che brevi contingenze;

  e queste contingenze essere intendo
  le cose generate, che produce
  con seme e sanza seme il ciel movendo.

  La cera di costoro e chi la duce
  non sta d’un modo; e però sotto ’l segno
  idëale poi più e men traluce.

  Ond’ elli avvien ch’un medesimo legno,
  secondo specie, meglio e peggio frutta;
  e voi nascete con diverso ingegno.

  Se fosse a punto la cera dedutta
  e fosse il cielo in sua virtù supprema,
  la luce del suggel parrebbe tutta;

  ma la natura la dà sempre scema,
  similemente operando a l’artista
  ch’a l’abito de l’arte ha man che trema.

  Però se ’l caldo amor la chiara vista
  de la prima virtù dispone e segna,
  tutta la perfezion quivi s’acquista.

  Così fu fatta già la terra degna
  di tutta l’animal perfezïone;
  così fu fatta la Vergine pregna;

  sì ch’io commendo tua oppinïone,
  che l’umana natura mai non fue
  né fia qual fu in quelle due persone.

  Or s’i’ non procedesse avanti piùe,
  ‘Dunque, come costui fu sanza pare?’
  comincerebber le parole tue.

  Ma perché paia ben ciò che non pare,
  pensa chi era, e la cagion che ’l mosse,
  quando fu detto “Chiedi”, a dimandare.

  Non ho parlato sì, che tu non posse
  ben veder ch’el fu re, che chiese senno
  acciò che re sufficïente fosse;

  non per sapere il numero in che enno
  li motor di qua sù, o se necesse
  con contingente mai necesse fenno;

  non si est dare primum motum esse,
  o se del mezzo cerchio far si puote
  trïangol sì ch’un retto non avesse.

  Onde, se ciò ch’io dissi e questo note,
  regal prudenza è quel vedere impari
  in che lo stral di mia intenzion percuote;

  e se al “surse” drizzi li occhi chiari,
  vedrai aver solamente respetto
  ai regi, che son molti, e ’ buon son rari.

  Con questa distinzion prendi ’l mio detto;
  e così puote star con quel che credi
  del primo padre e del nostro Diletto.

  E questo ti sia sempre piombo a’ piedi,
  per farti mover lento com’ uom lasso
  e al sì e al no che tu non vedi:

  ché quelli è tra li stolti bene a basso,
  che sanza distinzione afferma e nega
  ne l’un così come ne l’altro passo;

  perch’ elli ’ncontra che più volte piega
  l’oppinïon corrente in falsa parte,
  e poi l’affetto l’intelletto lega.

  Vie più che ’ndarno da riva si parte,
  perché non torna tal qual e’ si move,
  chi pesca per lo vero e non ha l’arte.

  E di ciò sono al mondo aperte prove
  Parmenide, Melisso e Brisso e molti,
  li quali andaro e non sapëan dove;

  sì fé Sabellio e Arrio e quelli stolti
  che furon come spade a le Scritture
  in render torti li diritti volti.

  Non sien le genti, ancor, troppo sicure
  a giudicar, sì come quei che stima
  le biade in campo pria che sien mature;

  ch’i’ ho veduto tutto ’l verno prima
  lo prun mostrarsi rigido e feroce,
  poscia portar la rosa in su la cima;

  e legno vidi già dritto e veloce
  correr lo mar per tutto suo cammino,
  perire al fine a l’intrar de la foce.

  Non creda donna Berta e ser Martino,
  per vedere un furare, altro offerere,
  vederli dentro al consiglio divino;

  ché quel può surgere, e quel può cadere».



  Paradiso • Canto XIV


  Dal centro al cerchio, e sì dal cerchio al centro
  movesi l’acqua in un ritondo vaso,
  secondo ch’è percosso fuori o dentro:

  ne la mia mente fé sùbito caso
  questo ch’io dico, sì come si tacque
  la glorïosa vita di Tommaso,

  per la similitudine che nacque
  del suo parlare e di quel di Beatrice,
  a cui sì cominciar, dopo lui, piacque:

  «A costui fa mestieri, e nol vi dice
  né con la voce né pensando ancora,
  d’un altro vero andare a la radice.

  Diteli se la luce onde s’infiora
  vostra sustanza, rimarrà con voi
  etternalmente sì com’ ell’ è ora;

  e se rimane, dite come, poi
  che sarete visibili rifatti,
  esser porà ch’al veder non vi nòi».

  Come, da più letizia pinti e tratti,
  a la fïata quei che vanno a rota
  levan la voce e rallegrano li atti,

  così, a l’orazion pronta e divota,
  li santi cerchi mostrar nova gioia
  nel torneare e ne la mira nota.

  Qual si lamenta perché qui si moia
  per viver colà sù, non vide quive
  lo refrigerio de l’etterna ploia.

  Quell’ uno e due e tre che sempre vive
  e regna sempre in tre e ’n due e ’n uno,
  non circunscritto, e tutto circunscrive,

  tre volte era cantato da ciascuno
  di quelli spirti con tal melodia,
  ch’ad ogne merto saria giusto muno.

  E io udi’ ne la luce più dia
  del minor cerchio una voce modesta,
  forse qual fu da l’angelo a Maria,

  risponder: «Quanto fia lunga la festa
  di paradiso, tanto il nostro amore
  si raggerà dintorno cotal vesta.

  La sua chiarezza séguita l’ardore;
  l’ardor la visïone, e quella è tanta,
  quant’ ha di grazia sovra suo valore.

  Come la carne glorïosa e santa
  fia rivestita, la nostra persona
  più grata fia per esser tutta quanta;

  per che s’accrescerà ciò che ne dona
  di gratüito lume il sommo bene,
  lume ch’a lui veder ne condiziona;

  onde la visïon crescer convene,
  crescer l’ardor che di quella s’accende,
  crescer lo raggio che da esso vene.

  Ma sì come carbon che fiamma rende,
  e per vivo candor quella soverchia,
  sì che la sua parvenza si difende;

  così questo folgór che già ne cerchia
  fia vinto in apparenza da la carne
  che tutto dì la terra ricoperchia;

  né potrà tanta luce affaticarne:
  ché li organi del corpo saran forti
  a tutto ciò che potrà dilettarne».

  Tanto mi parver sùbiti e accorti
  e l’uno e l’altro coro a dicer «Amme!»,
  che ben mostrar disio d’i corpi morti:

  forse non pur per lor, ma per le mamme,
  per li padri e per li altri che fuor cari
  anzi che fosser sempiterne fiamme.

  Ed ecco intorno, di chiarezza pari,
  nascere un lustro sopra quel che v’era,
  per guisa d’orizzonte che rischiari.

  E sì come al salir di prima sera
  comincian per lo ciel nove parvenze,
  sì che la vista pare e non par vera,

  parvemi lì novelle sussistenze
  cominciare a vedere, e fare un giro
  di fuor da l’altre due circunferenze.

  Oh vero sfavillar del Santo Spiro!
  come si fece sùbito e candente
  a li occhi miei che, vinti, nol soffriro!

  Ma Bëatrice sì bella e ridente
  mi si mostrò, che tra quelle vedute
  si vuol lasciar che non seguir la mente.

  Quindi ripreser li occhi miei virtute
  a rilevarsi; e vidimi translato
  sol con mia donna in più alta salute.

  Ben m’accors’ io ch’io era più levato,
  per l’affocato riso de la stella,
  che mi parea più roggio che l’usato.

  Con tutto ’l core e con quella favella
  ch’è una in tutti, a Dio feci olocausto,
  qual conveniesi a la grazia novella.

  E non er’ anco del mio petto essausto
  l’ardor del sacrificio, ch’io conobbi
  esso litare stato accetto e fausto;

  ché con tanto lucore e tanto robbi
  m’apparvero splendor dentro a due raggi,
  ch’io dissi: «O Elïòs che sì li addobbi!».

  Come distinta da minori e maggi
  lumi biancheggia tra ’ poli del mondo
  Galassia sì, che fa dubbiar ben saggi;

  sì costellati facean nel profondo
  Marte quei raggi il venerabil segno
  che fan giunture di quadranti in tondo.

  Qui vince la memoria mia lo ’ngegno;
  ché quella croce lampeggiava Cristo,
  sì ch’io non so trovare essempro degno;

  ma chi prende sua croce e segue Cristo,
  ancor mi scuserà di quel ch’io lasso,
  vedendo in quell’ albor balenar Cristo.

  Di corno in corno e tra la cima e ’l basso
  si movien lumi, scintillando forte
  nel congiugnersi insieme e nel trapasso:

  così si veggion qui diritte e torte,
  veloci e tarde, rinovando vista,
  le minuzie d’i corpi, lunghe e corte,

  moversi per lo raggio onde si lista
  talvolta l’ombra che, per sua difesa,
  la gente con ingegno e arte acquista.

  E come giga e arpa, in tempra tesa
  di molte corde, fa dolce tintinno
  a tal da cui la nota non è intesa,

  così da’ lumi che lì m’apparinno
  s’accogliea per la croce una melode
  che mi rapiva, sanza intender l’inno.

  Ben m’accors’ io ch’elli era d’alte lode,
  però ch’a me venìa «Resurgi» e «Vinci»
  come a colui che non intende e ode.

  Ïo m’innamorava tanto quinci,
  che ’nfino a lì non fu alcuna cosa
  che mi legasse con sì dolci vinci.

  Forse la mia parola par troppo osa,
  posponendo il piacer de li occhi belli,
  ne’ quai mirando mio disio ha posa;

  ma chi s’avvede che i vivi suggelli
  d’ogne bellezza più fanno più suso,
  e ch’io non m’era lì rivolto a quelli,

  escusar puommi di quel ch’io m’accuso
  per escusarmi, e vedermi dir vero:
  ché ’l piacer santo non è qui dischiuso,

  perché si fa, montando, più sincero.



  Paradiso • Canto XV


  Benigna volontade in che si liqua
  sempre l’amor che drittamente spira,
  come cupidità fa ne la iniqua,

  silenzio puose a quella dolce lira,
  e fece quïetar le sante corde
  che la destra del cielo allenta e tira.

  Come saranno a’ giusti preghi sorde
  quelle sustanze che, per darmi voglia
  ch’io le pregassi, a tacer fur concorde?

  Bene è che sanza termine si doglia
  chi, per amor di cosa che non duri
  etternalmente, quello amor si spoglia.

  Quale per li seren tranquilli e puri
  discorre ad ora ad or sùbito foco,
  movendo li occhi che stavan sicuri,

  e pare stella che tramuti loco,
  se non che da la parte ond’ e’ s’accende
  nulla sen perde, ed esso dura poco:

  tale dal corno che ’n destro si stende
  a piè di quella croce corse un astro
  de la costellazion che lì resplende;

  né si partì la gemma dal suo nastro,
  ma per la lista radïal trascorse,
  che parve foco dietro ad alabastro.

  Sì pïa l’ombra d’Anchise si porse,
  se fede merta nostra maggior musa,
  quando in Eliso del figlio s’accorse.

  «O sanguis meus, o superinfusa
  gratïa Deï, sicut tibi cui
  bis unquam celi ianüa reclusa?».

  Così quel lume: ond’ io m’attesi a lui;
  poscia rivolsi a la mia donna il viso,
  e quinci e quindi stupefatto fui;

  ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso
  tal, ch’io pensai co’ miei toccar lo fondo
  de la mia gloria e del mio paradiso.

  Indi, a udire e a veder giocondo,
  giunse lo spirto al suo principio cose,
  ch’io non lo ’ntesi, sì parlò profondo;

  né per elezïon mi si nascose,
  ma per necessità, ché ’l suo concetto
  al segno d’i mortal si soprapuose.

  E quando l’arco de l’ardente affetto
  fu sì sfogato, che ’l parlar discese
  inver’ lo segno del nostro intelletto,

  la prima cosa che per me s’intese,
  «Benedetto sia tu», fu, «trino e uno,
  che nel mio seme se’ tanto cortese!».

  E seguì: «Grato e lontano digiuno,
  tratto leggendo del magno volume
  du’ non si muta mai bianco né bruno,

  solvuto hai, figlio, dentro a questo lume
  in ch’io ti parlo, mercè di colei
  ch’a l’alto volo ti vestì le piume.

  Tu credi che a me tuo pensier mei
  da quel ch’è primo, così come raia
  da l’un, se si conosce, il cinque e ’l sei;

  e però ch’io mi sia e perch’ io paia
  più gaudïoso a te, non mi domandi,
  che alcun altro in questa turba gaia.

  Tu credi ’l vero; ché i minori e ’ grandi
  di questa vita miran ne lo speglio
  in che, prima che pensi, il pensier pandi;

  ma perché ’l sacro amore in che io veglio
  con perpetüa vista e che m’asseta
  di dolce disïar, s’adempia meglio,

  la voce tua sicura, balda e lieta
  suoni la volontà, suoni ’l disio,
  a che la mia risposta è già decreta!».

  Io mi volsi a Beatrice, e quella udio
  pria ch’io parlassi, e arrisemi un cenno
  che fece crescer l’ali al voler mio.

  Poi cominciai così: «L’affetto e ’l senno,
  come la prima equalità v’apparse,
  d’un peso per ciascun di voi si fenno,

  però che ’l sol che v’allumò e arse,
  col caldo e con la luce è sì iguali,
  che tutte simiglianze sono scarse.

  Ma voglia e argomento ne’ mortali,
  per la cagion ch’a voi è manifesta,
  diversamente son pennuti in ali;

  ond’ io, che son mortal, mi sento in questa
  disagguaglianza, e però non ringrazio
  se non col core a la paterna festa.

  Ben supplico io a te, vivo topazio
  che questa gioia prezïosa ingemmi,
  perché mi facci del tuo nome sazio».

  «O fronda mia in che io compiacemmi
  pur aspettando, io fui la tua radice»:
  cotal principio, rispondendo, femmi.

  Poscia mi disse: «Quel da cui si dice
  tua cognazione e che cent’ anni e piùe
  girato ha ’l monte in la prima cornice,

  mio figlio fu e tuo bisavol fue:
  ben si convien che la lunga fatica
  tu li raccorci con l’opere tue.

  Fiorenza dentro da la cerchia antica,
  ond’ ella toglie ancora e terza e nona,
  si stava in pace, sobria e pudica.

  Non avea catenella, non corona,
  non gonne contigiate, non cintura
  che fosse a veder più che la persona.

  Non faceva, nascendo, ancor paura
  la figlia al padre, che ’l tempo e la dote
  non fuggien quinci e quindi la misura.

  Non avea case di famiglia vòte;
  non v’era giunto ancor Sardanapalo
  a mostrar ciò che ’n camera si puote.

  Non era vinto ancora Montemalo
  dal vostro Uccellatoio, che, com’ è vinto
  nel montar sù, così sarà nel calo.

  Bellincion Berti vid’ io andar cinto
  di cuoio e d’osso, e venir da lo specchio
  la donna sua sanza ’l viso dipinto;

  e vidi quel d’i Nerli e quel del Vecchio
  esser contenti a la pelle scoperta,
  e le sue donne al fuso e al pennecchio.

  Oh fortunate! ciascuna era certa
  de la sua sepultura, e ancor nulla
  era per Francia nel letto diserta.

  L’una vegghiava a studio de la culla,
  e, consolando, usava l’idïoma
  che prima i padri e le madri trastulla;

  l’altra, traendo a la rocca la chioma,
  favoleggiava con la sua famiglia
  d’i Troiani, di Fiesole e di Roma.

  Saria tenuta allor tal maraviglia
  una Cianghella, un Lapo Salterello,
  qual or saria Cincinnato e Corniglia.

  A così riposato, a così bello
  viver di cittadini, a così fida
  cittadinanza, a così dolce ostello,

  Maria mi diè, chiamata in alte grida;
  e ne l’antico vostro Batisteo
  insieme fui cristiano e Cacciaguida.

  Moronto fu mio frate ed Eliseo;
  mia donna venne a me di val di Pado,
  e quindi il sopranome tuo si feo.

  Poi seguitai lo ’mperador Currado;
  ed el mi cinse de la sua milizia,
  tanto per bene ovrar li venni in grado.

  Dietro li andai incontro a la nequizia
  di quella legge il cui popolo usurpa,
  per colpa d’i pastor, vostra giustizia.

  Quivi fu’ io da quella gente turpa
  disviluppato dal mondo fallace,
  lo cui amor molt’ anime deturpa;

  e venni dal martiro a questa pace».



  Paradiso • Canto XVI


  O poca nostra nobiltà di sangue,
  se glorïar di te la gente fai
  qua giù dove l’affetto nostro langue,

  mirabil cosa non mi sarà mai:
  ché là dove appetito non si torce,
  dico nel cielo, io me ne gloriai.

  Ben se’ tu manto che tosto raccorce:
  sì che, se non s’appon di dì in die,
  lo tempo va dintorno con le force.

  Dal ‘voi’ che prima a Roma s’offerie,
  in che la sua famiglia men persevra,
  ricominciaron le parole mie;

  onde Beatrice, ch’era un poco scevra,
  ridendo, parve quella che tossio
  al primo fallo scritto di Ginevra.

  Io cominciai: «Voi siete il padre mio;
  voi mi date a parlar tutta baldezza;
  voi mi levate sì, ch’i’ son più ch’io.

  Per tanti rivi s’empie d’allegrezza
  la mente mia, che di sé fa letizia
  perché può sostener che non si spezza.

  Ditemi dunque, cara mia primizia,
  quai fuor li vostri antichi e quai fuor li anni
  che si segnaro in vostra püerizia;

  ditemi de l’ovil di San Giovanni
  quanto era allora, e chi eran le genti
  tra esso degne di più alti scanni».

  Come s’avviva a lo spirar d’i venti
  carbone in fiamma, così vid’ io quella
  luce risplendere a’ miei blandimenti;

  e come a li occhi miei si fé più bella,
  così con voce più dolce e soave,
  ma non con questa moderna favella,

  dissemi: «Da quel dì che fu detto ‘Ave’
  al parto in che mia madre, ch’è or santa,
  s’allevïò di me ond’ era grave,

  al suo Leon cinquecento cinquanta
  e trenta fiate venne questo foco
  a rinfiammarsi sotto la sua pianta.

  Li antichi miei e io nacqui nel loco
  dove si truova pria l’ultimo sesto
  da quei che corre il vostro annüal gioco.

  Basti d’i miei maggiori udirne questo:
  chi ei si fosser e onde venner quivi,
  più è tacer che ragionare onesto.

  Tutti color ch’a quel tempo eran ivi
  da poter arme tra Marte e ’l Batista,
  eran il quinto di quei ch’or son vivi.

  Ma la cittadinanza, ch’è or mista
  di Campi, di Certaldo e di Fegghine,
  pura vediesi ne l’ultimo artista.

  Oh quanto fora meglio esser vicine
  quelle genti ch’io dico, e al Galluzzo
  e a Trespiano aver vostro confine,

  che averle dentro e sostener lo puzzo
  del villan d’Aguglion, di quel da Signa,
  che già per barattare ha l’occhio aguzzo!

  Se la gente ch’al mondo più traligna
  non fosse stata a Cesare noverca,
  ma come madre a suo figlio benigna,

  tal fatto è fiorentino e cambia e merca,
  che si sarebbe vòlto a Simifonti,
  là dove andava l’avolo a la cerca;

  sariesi Montemurlo ancor de’ Conti;
  sarieno i Cerchi nel piovier d’Acone,
  e forse in Valdigrieve i Buondelmonti.

  Sempre la confusion de le persone
  principio fu del mal de la cittade,
  come del vostro il cibo che s’appone;

  e cieco toro più avaccio cade
  che cieco agnello; e molte volte taglia
  più e meglio una che le cinque spade.

  Se tu riguardi Luni e Orbisaglia
  come sono ite, e come se ne vanno
  di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,

  udir come le schiatte si disfanno
  non ti parrà nova cosa né forte,
  poscia che le cittadi termine hanno.

  Le vostre cose tutte hanno lor morte,
  sì come voi; ma celasi in alcuna
  che dura molto, e le vite son corte.

  E come ’l volger del ciel de la luna
  cuopre e discuopre i liti sanza posa,
  così fa di Fiorenza la Fortuna:

  per che non dee parer mirabil cosa
  ciò ch’io dirò de li alti Fiorentini
  onde è la fama nel tempo nascosa.

  Io vidi li Ughi e vidi i Catellini,
  Filippi, Greci, Ormanni e Alberichi,
  già nel calare, illustri cittadini;

  e vidi così grandi come antichi,
  con quel de la Sannella, quel de l’Arca,
  e Soldanieri e Ardinghi e Bostichi.

  Sovra la porta ch’al presente è carca
  di nova fellonia di tanto peso
  che tosto fia iattura de la barca,

  erano i Ravignani, ond’ è disceso
  il conte Guido e qualunque del nome
  de l’alto Bellincione ha poscia preso.

  Quel de la Pressa sapeva già come
  regger si vuole, e avea Galigaio
  dorata in casa sua già l’elsa e ’l pome.

  Grand’ era già la colonna del Vaio,
  Sacchetti, Giuochi, Fifanti e Barucci
  e Galli e quei ch’arrossan per lo staio.

  Lo ceppo di che nacquero i Calfucci
  era già grande, e già eran tratti
  a le curule Sizii e Arrigucci.

  Oh quali io vidi quei che son disfatti
  per lor superbia! e le palle de l’oro
  fiorian Fiorenza in tutt’ i suoi gran fatti.

  Così facieno i padri di coloro
  che, sempre che la vostra chiesa vaca,
  si fanno grassi stando a consistoro.

  L’oltracotata schiatta che s’indraca
  dietro a chi fugge, e a chi mostra ’l dente
  o ver la borsa, com’ agnel si placa,

  già venìa sù, ma di picciola gente;
  sì che non piacque ad Ubertin Donato
  che poï il suocero il fé lor parente.

  Già era ’l Caponsacco nel mercato
  disceso giù da Fiesole, e già era
  buon cittadino Giuda e Infangato.

  Io dirò cosa incredibile e vera:
  nel picciol cerchio s’entrava per porta
  che si nomava da quei de la Pera.

  Ciascun che de la bella insegna porta
  del gran barone il cui nome e ’l cui pregio
  la festa di Tommaso riconforta,

  da esso ebbe milizia e privilegio;
  avvegna che con popol si rauni
  oggi colui che la fascia col fregio.

  Già eran Gualterotti e Importuni;
  e ancor saria Borgo più quïeto,
  se di novi vicin fosser digiuni.

  La casa di che nacque il vostro fleto,
  per lo giusto disdegno che v’ha morti
  e puose fine al vostro viver lieto,

  era onorata, essa e suoi consorti:
  o Buondelmonte, quanto mal fuggisti
  le nozze süe per li altrui conforti!

  Molti sarebber lieti, che son tristi,
  se Dio t’avesse conceduto ad Ema
  la prima volta ch’a città venisti.

  Ma conveniesi a quella pietra scema
  che guarda ’l ponte, che Fiorenza fesse
  vittima ne la sua pace postrema.

  Con queste genti, e con altre con esse,
  vid’ io Fiorenza in sì fatto riposo,
  che non avea cagione onde piangesse.

  Con queste genti vid’io glorïoso
  e giusto il popol suo, tanto che ’l giglio
  non era ad asta mai posto a ritroso,

  né per divisïon fatto vermiglio».



  Paradiso • Canto XVII


  Qual venne a Climenè, per accertarsi
  di ciò ch’avëa incontro a sé udito,
  quei ch’ancor fa li padri ai figli scarsi;

  tal era io, e tal era sentito
  e da Beatrice e da la santa lampa
  che pria per me avea mutato sito.

  Per che mia donna «Manda fuor la vampa
  del tuo disio», mi disse, «sì ch’ella esca
  segnata bene de la interna stampa:

  non perché nostra conoscenza cresca
  per tuo parlare, ma perché t’ausi
  a dir la sete, sì che l’uom ti mesca».

  «O cara piota mia che sì t’insusi,
  che, come veggion le terrene menti
  non capere in trïangol due ottusi,

  così vedi le cose contingenti
  anzi che sieno in sé, mirando il punto
  a cui tutti li tempi son presenti;

  mentre ch’io era a Virgilio congiunto
  su per lo monte che l’anime cura
  e discendendo nel mondo defunto,

  dette mi fuor di mia vita futura
  parole gravi, avvegna ch’io mi senta
  ben tetragono ai colpi di ventura;

  per che la voglia mia saria contenta
  d’intender qual fortuna mi s’appressa:
  ché saetta previsa vien più lenta».

  Così diss’ io a quella luce stessa
  che pria m’avea parlato; e come volle
  Beatrice, fu la mia voglia confessa.

  Né per ambage, in che la gente folle
  già s’inviscava pria che fosse anciso
  l’Agnel di Dio che le peccata tolle,

  ma per chiare parole e con preciso
  latin rispuose quello amor paterno,
  chiuso e parvente del suo proprio riso:

  «La contingenza, che fuor del quaderno
  de la vostra matera non si stende,
  tutta è dipinta nel cospetto etterno;

  necessità però quindi non prende
  se non come dal viso in che si specchia
  nave che per torrente giù discende.

  Da indi, sì come viene ad orecchia
  dolce armonia da organo, mi viene
  a vista il tempo che ti s’apparecchia.

  Qual si partio Ipolito d’Atene
  per la spietata e perfida noverca,
  tal di Fiorenza partir ti convene.

  Questo si vuole e questo già si cerca,
  e tosto verrà fatto a chi ciò pensa
  là dove Cristo tutto dì si merca.

  La colpa seguirà la parte offensa
  in grido, come suol; ma la vendetta
  fia testimonio al ver che la dispensa.

  Tu lascerai ogne cosa diletta
  più caramente; e questo è quello strale
  che l’arco de lo essilio pria saetta.

  Tu proverai sì come sa di sale
  lo pane altrui, e come è duro calle
  lo scendere e ’l salir per l’altrui scale.

  E quel che più ti graverà le spalle,
  sarà la compagnia malvagia e scempia
  con la qual tu cadrai in questa valle;

  che tutta ingrata, tutta matta ed empia
  si farà contr’ a te; ma, poco appresso,
  ella, non tu, n’avrà rossa la tempia.

  Di sua bestialitate il suo processo
  farà la prova; sì ch’a te fia bello
  averti fatta parte per te stesso.

  Lo primo tuo refugio e ’l primo ostello
  sarà la cortesia del gran Lombardo
  che ’n su la scala porta il santo uccello;

  ch’in te avrà sì benigno riguardo,
  che del fare e del chieder, tra voi due,
  fia primo quel che tra li altri è più tardo.

  Con lui vedrai colui che ’mpresso fue,
  nascendo, sì da questa stella forte,
  che notabili fier l’opere sue.

  Non se ne son le genti ancora accorte
  per la novella età, ché pur nove anni
  son queste rote intorno di lui torte;

  ma pria che ’l Guasco l’alto Arrigo inganni,
  parran faville de la sua virtute
  in non curar d’argento né d’affanni.

  Le sue magnificenze conosciute
  saranno ancora, sì che ’ suoi nemici
  non ne potran tener le lingue mute.

  A lui t’aspetta e a’ suoi benefici;
  per lui fia trasmutata molta gente,
  cambiando condizion ricchi e mendici;

  e portera’ne scritto ne la mente
  di lui, e nol dirai»; e disse cose
  incredibili a quei che fier presente.

  Poi giunse: «Figlio, queste son le chiose
  di quel che ti fu detto; ecco le ’nsidie
  che dietro a pochi giri son nascose.

  Non vo’ però ch’a’ tuoi vicini invidie,
  poscia che s’infutura la tua vita
  vie più là che ’l punir di lor perfidie».

  Poi che, tacendo, si mostrò spedita
  l’anima santa di metter la trama
  in quella tela ch’io le porsi ordita,

  io cominciai, come colui che brama,
  dubitando, consiglio da persona
  che vede e vuol dirittamente e ama:

  «Ben veggio, padre mio, sì come sprona
  lo tempo verso me, per colpo darmi
  tal, ch’è più grave a chi più s’abbandona;

  per che di provedenza è buon ch’io m’armi,
  sì che, se loco m’è tolto più caro,
  io non perdessi li altri per miei carmi.

  Giù per lo mondo sanza fine amaro,
  e per lo monte del cui bel cacume
  li occhi de la mia donna mi levaro,

  e poscia per lo ciel, di lume in lume,
  ho io appreso quel che s’io ridico,
  a molti fia sapor di forte agrume;

  e s’io al vero son timido amico,
  temo di perder viver tra coloro
  che questo tempo chiameranno antico».

  La luce in che rideva il mio tesoro
  ch’io trovai lì, si fé prima corusca,
  quale a raggio di sole specchio d’oro;

  indi rispuose: «Coscïenza fusca
  o de la propria o de l’altrui vergogna
  pur sentirà la tua parola brusca.

  Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,
  tutta tua visïon fa manifesta;
  e lascia pur grattar dov’ è la rogna.

  Ché se la voce tua sarà molesta
  nel primo gusto, vital nodrimento
  lascerà poi, quando sarà digesta.

  Questo tuo grido farà come vento,
  che le più alte cime più percuote;
  e ciò non fa d’onor poco argomento.

  Però ti son mostrate in queste rote,
  nel monte e ne la valle dolorosa
  pur l’anime che son di fama note,

  che l’animo di quel ch’ode, non posa
  né ferma fede per essempro ch’aia
  la sua radice incognita e ascosa,

  né per altro argomento che non paia».



  Paradiso • Canto XVIII


  Già si godeva solo del suo verbo
  quello specchio beato, e io gustava
  lo mio, temprando col dolce l’acerbo;

  e quella donna ch’a Dio mi menava
  disse: «Muta pensier; pensa ch’i’ sono
  presso a colui ch’ogne torto disgrava».

  Io mi rivolsi a l’amoroso suono
  del mio conforto; e qual io allor vidi
  ne li occhi santi amor, qui l’abbandono:

  non perch’ io pur del mio parlar diffidi,
  ma per la mente che non può redire
  sovra sé tanto, s’altri non la guidi.

  Tanto poss’ io di quel punto ridire,
  che, rimirando lei, lo mio affetto
  libero fu da ogne altro disire,

  fin che ’l piacere etterno, che diretto
  raggiava in Bëatrice, dal bel viso
  mi contentava col secondo aspetto.

  Vincendo me col lume d’un sorriso,
  ella mi disse: «Volgiti e ascolta;
  ché non pur ne’ miei occhi è paradiso».

  Come si vede qui alcuna volta
  l’affetto ne la vista, s’elli è tanto,
  che da lui sia tutta l’anima tolta,

  così nel fiammeggiar del folgór santo,
  a ch’io mi volsi, conobbi la voglia
  in lui di ragionarmi ancora alquanto.

  El cominciò: «In questa quinta soglia
  de l’albero che vive de la cima
  e frutta sempre e mai non perde foglia,

  spiriti son beati, che giù, prima
  che venissero al ciel, fuor di gran voce,
  sì ch’ogne musa ne sarebbe opima.

  Però mira ne’ corni de la croce:
  quello ch’io nomerò, lì farà l’atto
  che fa in nube il suo foco veloce».

  Io vidi per la croce un lume tratto
  dal nomar Iosuè, com’ el si feo;
  né mi fu noto il dir prima che ’l fatto.

  E al nome de l’alto Macabeo
  vidi moversi un altro roteando,
  e letizia era ferza del paleo.

  Così per Carlo Magno e per Orlando
  due ne seguì lo mio attento sguardo,
  com’ occhio segue suo falcon volando.

  Poscia trasse Guiglielmo e Rinoardo
  e ’l duca Gottifredi la mia vista
  per quella croce, e Ruberto Guiscardo.

  Indi, tra l’altre luci mota e mista,
  mostrommi l’alma che m’avea parlato
  qual era tra i cantor del cielo artista.

  Io mi rivolsi dal mio destro lato
  per vedere in Beatrice il mio dovere,
  o per parlare o per atto, segnato;

  e vidi le sue luci tanto mere,
  tanto gioconde, che la sua sembianza
  vinceva li altri e l’ultimo solere.

  E come, per sentir più dilettanza
  bene operando, l’uom di giorno in giorno
  s’accorge che la sua virtute avanza,

  sì m’accors’ io che ’l mio girare intorno
  col cielo insieme avea cresciuto l’arco,
  veggendo quel miracol più addorno.

  E qual è ’l trasmutare in picciol varco
  di tempo in bianca donna, quando ’l volto
  suo si discarchi di vergogna il carco,

  tal fu ne li occhi miei, quando fui vòlto,
  per lo candor de la temprata stella
  sesta, che dentro a sé m’avea ricolto.

  Io vidi in quella giovïal facella
  lo sfavillar de l’amor che lì era
  segnare a li occhi miei nostra favella.

  E come augelli surti di rivera,
  quasi congratulando a lor pasture,
  fanno di sé or tonda or altra schiera,

  sì dentro ai lumi sante creature
  volitando cantavano, e faciensi
  or D, or I, or L in sue figure.

  Prima, cantando, a sua nota moviensi;
  poi, diventando l’un di questi segni,
  un poco s’arrestavano e taciensi.

  O diva Pegasëa che li ’ngegni
  fai glorïosi e rendili longevi,
  ed essi teco le cittadi e ’ regni,

  illustrami di te, sì ch’io rilevi
  le lor figure com’ io l’ho concette:
  paia tua possa in questi versi brevi!

  Mostrarsi dunque in cinque volte sette
  vocali e consonanti; e io notai
  le parti sì, come mi parver dette.

  ‘DILIGITE IUSTITIAM’, primai
  fur verbo e nome di tutto ’l dipinto;
  ‘QUI IUDICATIS TERRAM’, fur sezzai.

  Poscia ne l’emme del vocabol quinto
  rimasero ordinate; sì che Giove
  pareva argento lì d’oro distinto.

  E vidi scendere altre luci dove
  era il colmo de l’emme, e lì quetarsi
  cantando, credo, il ben ch’a sé le move.

  Poi, come nel percuoter d’i ciocchi arsi
  surgono innumerabili faville,
  onde li stolti sogliono agurarsi,

  resurger parver quindi più di mille
  luci e salir, qual assai e qual poco,
  sì come ’l sol che l’accende sortille;

  e quïetata ciascuna in suo loco,
  la testa e ’l collo d’un’aguglia vidi
  rappresentare a quel distinto foco.

  Quei che dipinge lì, non ha chi ’l guidi;
  ma esso guida, e da lui si rammenta
  quella virtù ch’è forma per li nidi.

  L’altra bëatitudo, che contenta
  pareva prima d’ingigliarsi a l’emme,
  con poco moto seguitò la ’mprenta.

  O dolce stella, quali e quante gemme
  mi dimostraro che nostra giustizia
  effetto sia del ciel che tu ingemme!

  Per ch’io prego la mente in che s’inizia
  tuo moto e tua virtute, che rimiri
  ond’ esce il fummo che ’l tuo raggio vizia;

  sì ch’un’altra fïata omai s’adiri
  del comperare e vender dentro al templo
  che si murò di segni e di martìri.

  O milizia del ciel cu’ io contemplo,
  adora per color che sono in terra
  tutti svïati dietro al malo essemplo!

  Già si solea con le spade far guerra;
  ma or si fa togliendo or qui or quivi
  lo pan che ’l pïo Padre a nessun serra.

  Ma tu che sol per cancellare scrivi,
  pensa che Pietro e Paulo, che moriro
  per la vigna che guasti, ancor son vivi.

  Ben puoi tu dire: «I’ ho fermo ’l disiro
  sì a colui che volle viver solo
  e che per salti fu tratto al martiro,

  ch’io non conosco il pescator né Polo».



  Paradiso • Canto XIX


  Parea dinanzi a me con l’ali aperte
  la bella image che nel dolce frui
  liete facevan l’anime conserte;

  parea ciascuna rubinetto in cui
  raggio di sole ardesse sì acceso,
  che ne’ miei occhi rifrangesse lui.

  E quel che mi convien ritrar testeso,
  non portò voce mai, né scrisse incostro,
  né fu per fantasia già mai compreso;

  ch’io vidi e anche udi’ parlar lo rostro,
  e sonar ne la voce e «io» e «mio»,
  quand’ era nel concetto e ‘noi’ e ‘nostro’.

  E cominciò: «Per esser giusto e pio
  son io qui essaltato a quella gloria
  che non si lascia vincere a disio;

  e in terra lasciai la mia memoria
  sì fatta, che le genti lì malvage
  commendan lei, ma non seguon la storia».

  Così un sol calor di molte brage
  si fa sentir, come di molti amori
  usciva solo un suon di quella image.

  Ond’ io appresso: «O perpetüi fiori
  de l’etterna letizia, che pur uno
  parer mi fate tutti vostri odori,

  solvetemi, spirando, il gran digiuno
  che lungamente m’ha tenuto in fame,
  non trovandoli in terra cibo alcuno.

  Ben so io che, se ’n cielo altro reame
  la divina giustizia fa suo specchio,
  che ’l vostro non l’apprende con velame.

  Sapete come attento io m’apparecchio
  ad ascoltar; sapete qual è quello
  dubbio che m’è digiun cotanto vecchio».

  Quasi falcone ch’esce del cappello,
  move la testa e con l’ali si plaude,
  voglia mostrando e faccendosi bello,

  vid’ io farsi quel segno, che di laude
  de la divina grazia era contesto,
  con canti quai si sa chi là sù gaude.

  Poi cominciò: «Colui che volse il sesto
  a lo stremo del mondo, e dentro ad esso
  distinse tanto occulto e manifesto,

  non poté suo valor sì fare impresso
  in tutto l’universo, che ’l suo verbo
  non rimanesse in infinito eccesso.

  E ciò fa certo che ’l primo superbo,
  che fu la somma d’ogne creatura,
  per non aspettar lume, cadde acerbo;

  e quinci appar ch’ogne minor natura
  è corto recettacolo a quel bene
  che non ha fine e sé con sé misura.

  Dunque vostra veduta, che convene
  esser alcun de’ raggi de la mente
  di che tutte le cose son ripiene,

  non pò da sua natura esser possente
  tanto, che suo principio discerna
  molto di là da quel che l’è parvente.

  Però ne la giustizia sempiterna
  la vista che riceve il vostro mondo,
  com’ occhio per lo mare, entro s’interna;

  che, ben che da la proda veggia il fondo,
  in pelago nol vede; e nondimeno
  èli, ma cela lui l’esser profondo.

  Lume non è, se non vien dal sereno
  che non si turba mai; anzi è tenèbra
  od ombra de la carne o suo veleno.

  Assai t’è mo aperta la latebra
  che t’ascondeva la giustizia viva,
  di che facei question cotanto crebra;

  ché tu dicevi: “Un uom nasce a la riva
  de l’Indo, e quivi non è chi ragioni
  di Cristo né chi legga né chi scriva;

  e tutti suoi voleri e atti buoni
  sono, quanto ragione umana vede,
  sanza peccato in vita o in sermoni.

  Muore non battezzato e sanza fede:
  ov’ è questa giustizia che ’l condanna?
  ov’ è la colpa sua, se ei non crede?”.

  Or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna,
  per giudicar di lungi mille miglia
  con la veduta corta d’una spanna?

  Certo a colui che meco s’assottiglia,
  se la Scrittura sovra voi non fosse,
  da dubitar sarebbe a maraviglia.

  Oh terreni animali! oh menti grosse!
  La prima volontà, ch’è da sé buona,
  da sé, ch’è sommo ben, mai non si mosse.

  Cotanto è giusto quanto a lei consuona:
  nullo creato bene a sé la tira,
  ma essa, radïando, lui cagiona».

  Quale sovresso il nido si rigira
  poi c’ha pasciuti la cicogna i figli,
  e come quel ch’è pasto la rimira;

  cotal si fece, e sì leväi i cigli,
  la benedetta imagine, che l’ali
  movea sospinte da tanti consigli.

  Roteando cantava, e dicea: «Quali
  son le mie note a te, che non le ’ntendi,
  tal è il giudicio etterno a voi mortali».

  Poi si quetaro quei lucenti incendi
  de lo Spirito Santo ancor nel segno
  che fé i Romani al mondo reverendi,

  esso ricominciò: «A questo regno
  non salì mai chi non credette ’n Cristo,
  né pria né poi ch’el si chiavasse al legno.

  Ma vedi: molti gridan “Cristo, Cristo!”,
  che saranno in giudicio assai men prope
  a lui, che tal che non conosce Cristo;

  e tai Cristian dannerà l’Etïòpe,
  quando si partiranno i due collegi,
  l’uno in etterno ricco e l’altro inòpe.

  Che poran dir li Perse a’ vostri regi,
  come vedranno quel volume aperto
  nel qual si scrivon tutti suoi dispregi?

  Lì si vedrà, tra l’opere d’Alberto,
  quella che tosto moverà la penna,
  per che ’l regno di Praga fia diserto.

  Lì si vedrà il duol che sovra Senna
  induce, falseggiando la moneta,
  quel che morrà di colpo di cotenna.

  Lì si vedrà la superbia ch’asseta,
  che fa lo Scotto e l’Inghilese folle,
  sì che non può soffrir dentro a sua meta.

  Vedrassi la lussuria e ’l viver molle
  di quel di Spagna e di quel di Boemme,
  che mai valor non conobbe né volle.

  Vedrassi al Ciotto di Ierusalemme
  segnata con un i la sua bontate,
  quando ’l contrario segnerà un emme.

  Vedrassi l’avarizia e la viltate
  di quei che guarda l’isola del foco,
  ove Anchise finì la lunga etate;

  e a dare ad intender quanto è poco,
  la sua scrittura fian lettere mozze,
  che noteranno molto in parvo loco.

  E parranno a ciascun l’opere sozze
  del barba e del fratel, che tanto egregia
  nazione e due corone han fatte bozze.

  E quel di Portogallo e di Norvegia
  lì si conosceranno, e quel di Rascia
  che male ha visto il conio di Vinegia.

  Oh beata Ungheria, se non si lascia
  più malmenare! e beata Navarra,
  se s’armasse del monte che la fascia!

  E creder de’ ciascun che già, per arra
  di questo, Niccosïa e Famagosta
  per la lor bestia si lamenti e garra,

  che dal fianco de l’altre non si scosta».



  Paradiso • Canto XX


  Quando colui che tutto ’l mondo alluma
  de l’emisperio nostro sì discende,
  che ’l giorno d’ogne parte si consuma,

  lo ciel, che sol di lui prima s’accende,
  subitamente si rifà parvente
  per molte luci, in che una risplende;

  e questo atto del ciel mi venne a mente,
  come ’l segno del mondo e de’ suoi duci
  nel benedetto rostro fu tacente;

  però che tutte quelle vive luci,
  vie più lucendo, cominciaron canti
  da mia memoria labili e caduci.

  O dolce amor che di riso t’ammanti,
  quanto parevi ardente in que’ flailli,
  ch’avieno spirto sol di pensier santi!

  Poscia che i cari e lucidi lapilli
  ond’ io vidi ingemmato il sesto lume
  puoser silenzio a li angelici squilli,

  udir mi parve un mormorar di fiume
  che scende chiaro giù di pietra in pietra,
  mostrando l’ubertà del suo cacume.

  E come suono al collo de la cetra
  prende sua forma, e sì com’ al pertugio
  de la sampogna vento che penètra,

  così, rimosso d’aspettare indugio,
  quel mormorar de l’aguglia salissi
  su per lo collo, come fosse bugio.

  Fecesi voce quivi, e quindi uscissi
  per lo suo becco in forma di parole,
  quali aspettava il core ov’ io le scrissi.

  «La parte in me che vede e pate il sole
  ne l’aguglie mortali», incominciommi,
  «or fisamente riguardar si vole,

  perché d’i fuochi ond’ io figura fommi,
  quelli onde l’occhio in testa mi scintilla,
  e’ di tutti lor gradi son li sommi.

  Colui che luce in mezzo per pupilla,
  fu il cantor de lo Spirito Santo,
  che l’arca traslatò di villa in villa:

  ora conosce il merto del suo canto,
  in quanto effetto fu del suo consiglio,
  per lo remunerar ch’è altrettanto.

  Dei cinque che mi fan cerchio per ciglio,
  colui che più al becco mi s’accosta,
  la vedovella consolò del figlio:

  ora conosce quanto caro costa
  non seguir Cristo, per l’esperïenza
  di questa dolce vita e de l’opposta.

  E quel che segue in la circunferenza
  di che ragiono, per l’arco superno,
  morte indugiò per vera penitenza:

  ora conosce che ’l giudicio etterno
  non si trasmuta, quando degno preco
  fa crastino là giù de l’odïerno.

  L’altro che segue, con le leggi e meco,
  sotto buona intenzion che fé mal frutto,
  per cedere al pastor si fece greco:

  ora conosce come il mal dedutto
  dal suo bene operar non li è nocivo,
  avvegna che sia ’l mondo indi distrutto.

  E quel che vedi ne l’arco declivo,
  Guiglielmo fu, cui quella terra plora
  che piagne Carlo e Federigo vivo:

  ora conosce come s’innamora
  lo ciel del giusto rege, e al sembiante
  del suo fulgore il fa vedere ancora.

  Chi crederebbe giù nel mondo errante
  che Rifëo Troiano in questo tondo
  fosse la quinta de le luci sante?

  Ora conosce assai di quel che ’l mondo
  veder non può de la divina grazia,
  ben che sua vista non discerna il fondo».

  Quale allodetta che ’n aere si spazia
  prima cantando, e poi tace contenta
  de l’ultima dolcezza che la sazia,

  tal mi sembiò l’imago de la ’mprenta
  de l’etterno piacere, al cui disio
  ciascuna cosa qual ell’ è diventa.

  E avvegna ch’io fossi al dubbiar mio
  lì quasi vetro a lo color ch’el veste,
  tempo aspettar tacendo non patio,

  ma de la bocca, «Che cose son queste?»,
  mi pinse con la forza del suo peso:
  per ch’io di coruscar vidi gran feste.

  Poi appresso, con l’occhio più acceso,
  lo benedetto segno mi rispuose
  per non tenermi in ammirar sospeso:

  «Io veggio che tu credi queste cose
  perch’ io le dico, ma non vedi come;
  sì che, se son credute, sono ascose.

  Fai come quei che la cosa per nome
  apprende ben, ma la sua quiditate
  veder non può se altri non la prome.

  Regnum celorum vïolenza pate
  da caldo amore e da viva speranza,
  che vince la divina volontate:

  non a guisa che l’omo a l’om sobranza,
  ma vince lei perché vuole esser vinta,
  e, vinta, vince con sua beninanza.

  La prima vita del ciglio e la quinta
  ti fa maravigliar, perché ne vedi
  la regïon de li angeli dipinta.

  D’i corpi suoi non uscir, come credi,
  Gentili, ma Cristiani, in ferma fede
  quel d’i passuri e quel d’i passi piedi.

  Ché l’una de lo ’nferno, u’ non si riede
  già mai a buon voler, tornò a l’ossa;
  e ciò di viva spene fu mercede:

  di viva spene, che mise la possa
  ne’ prieghi fatti a Dio per suscitarla,
  sì che potesse sua voglia esser mossa.

  L’anima glorïosa onde si parla,
  tornata ne la carne, in che fu poco,
  credette in lui che potëa aiutarla;

  e credendo s’accese in tanto foco
  di vero amor, ch’a la morte seconda
  fu degna di venire a questo gioco.

  L’altra, per grazia che da sì profonda
  fontana stilla, che mai creatura
  non pinse l’occhio infino a la prima onda,

  tutto suo amor là giù pose a drittura:
  per che, di grazia in grazia, Dio li aperse
  l’occhio a la nostra redenzion futura;

  ond’ ei credette in quella, e non sofferse
  da indi il puzzo più del paganesmo;
  e riprendiene le genti perverse.

  Quelle tre donne li fur per battesmo
  che tu vedesti da la destra rota,
  dinanzi al battezzar più d’un millesmo.

  O predestinazion, quanto remota
  è la radice tua da quelli aspetti
  che la prima cagion non veggion tota!

  E voi, mortali, tenetevi stretti
  a giudicar: ché noi, che Dio vedemo,
  non conosciamo ancor tutti li eletti;

  ed ènne dolce così fatto scemo,
  perché il ben nostro in questo ben s’affina,
  che quel che vole Iddio, e noi volemo».

  Così da quella imagine divina,
  per farmi chiara la mia corta vista,
  data mi fu soave medicina.

  E come a buon cantor buon citarista
  fa seguitar lo guizzo de la corda,
  in che più di piacer lo canto acquista,

  sì, mentre ch’e’ parlò, sì mi ricorda
  ch’io vidi le due luci benedette,
  pur come batter d’occhi si concorda,

  con le parole mover le fiammette.



  Paradiso • Canto XXI


  Già eran li occhi miei rifissi al volto
  de la mia donna, e l’animo con essi,
  e da ogne altro intento s’era tolto.

  E quella non ridea; ma «S’io ridessi»,
  mi cominciò, «tu ti faresti quale
  fu Semelè quando di cener fessi:

  ché la bellezza mia, che per le scale
  de l’etterno palazzo più s’accende,
  com’ hai veduto, quanto più si sale,

  se non si temperasse, tanto splende,
  che ’l tuo mortal podere, al suo fulgore,
  sarebbe fronda che trono scoscende.

  Noi sem levati al settimo splendore,
  che sotto ’l petto del Leone ardente
  raggia mo misto giù del suo valore.

  Ficca di retro a li occhi tuoi la mente,
  e fa di quelli specchi a la figura
  che ’n questo specchio ti sarà parvente».

  Qual savesse qual era la pastura
  del viso mio ne l’aspetto beato
  quand’ io mi trasmutai ad altra cura,

  conoscerebbe quanto m’era a grato
  ubidire a la mia celeste scorta,
  contrapesando l’un con l’altro lato.

  Dentro al cristallo che ’l vocabol porta,
  cerchiando il mondo, del suo caro duce
  sotto cui giacque ogne malizia morta,

  di color d’oro in che raggio traluce
  vid’ io uno scaleo eretto in suso
  tanto, che nol seguiva la mia luce.

  Vidi anche per li gradi scender giuso
  tanti splendor, ch’io pensai ch’ogne lume
  che par nel ciel, quindi fosse diffuso.

  E come, per lo natural costume,
  le pole insieme, al cominciar del giorno,
  si movono a scaldar le fredde piume;

  poi altre vanno via sanza ritorno,
  altre rivolgon sé onde son mosse,
  e altre roteando fan soggiorno;

  tal modo parve me che quivi fosse
  in quello sfavillar che ’nsieme venne,
  sì come in certo grado si percosse.

  E quel che presso più ci si ritenne,
  si fé sì chiaro, ch’io dicea pensando:
  ‘Io veggio ben l’amor che tu m’accenne.

  Ma quella ond’ io aspetto il come e ’l quando
  del dire e del tacer, si sta; ond’ io,
  contra ’l disio, fo ben ch’io non dimando’.

  Per ch’ella, che vedëa il tacer mio
  nel veder di colui che tutto vede,
  mi disse: «Solvi il tuo caldo disio».

  E io incominciai: «La mia mercede
  non mi fa degno de la tua risposta;
  ma per colei che ’l chieder mi concede,

  vita beata che ti stai nascosta
  dentro a la tua letizia, fammi nota
  la cagion che sì presso mi t’ha posta;

  e dì perché si tace in questa rota
  la dolce sinfonia di paradiso,
  che giù per l’altre suona sì divota».

  «Tu hai l’udir mortal sì come il viso»,
  rispuose a me; «onde qui non si canta
  per quel che Bëatrice non ha riso.

  Giù per li gradi de la scala santa
  discesi tanto sol per farti festa
  col dire e con la luce che mi ammanta;

  né più amor mi fece esser più presta,
  ché più e tanto amor quinci sù ferve,
  sì come il fiammeggiar ti manifesta.

  Ma l’alta carità, che ci fa serve
  pronte al consiglio che ’l mondo governa,
  sorteggia qui sì come tu osserve».

  «Io veggio ben», diss’ io, «sacra lucerna,
  come libero amore in questa corte
  basta a seguir la provedenza etterna;

  ma questo è quel ch’a cerner mi par forte,
  perché predestinata fosti sola
  a questo officio tra le tue consorte».

  Né venni prima a l’ultima parola,
  che del suo mezzo fece il lume centro,
  girando sé come veloce mola;

  poi rispuose l’amor che v’era dentro:
  «Luce divina sopra me s’appunta,
  penetrando per questa in ch’io m’inventro,

  la cui virtù, col mio veder congiunta,
  mi leva sopra me tanto, ch’i’ veggio
  la somma essenza de la quale è munta.

  Quinci vien l’allegrezza ond’ io fiammeggio;
  per ch’a la vista mia, quant’ ella è chiara,
  la chiarità de la fiamma pareggio.

  Ma quell’ alma nel ciel che più si schiara,
  quel serafin che ’n Dio più l’occhio ha fisso,
  a la dimanda tua non satisfara,

  però che sì s’innoltra ne lo abisso
  de l’etterno statuto quel che chiedi,
  che da ogne creata vista è scisso.

  E al mondo mortal, quando tu riedi,
  questo rapporta, sì che non presumma
  a tanto segno più mover li piedi.

  La mente, che qui luce, in terra fumma;
  onde riguarda come può là giùe
  quel che non pote perché ’l ciel l’assumma».

  Sì mi prescrisser le parole sue,
  ch’io lasciai la quistione e mi ritrassi
  a dimandarla umilmente chi fue.

  «Tra ’ due liti d’Italia surgon sassi,
  e non molto distanti a la tua patria,
  tanto che ’ troni assai suonan più bassi,

  e fanno un gibbo che si chiama Catria,
  di sotto al quale è consecrato un ermo,
  che suole esser disposto a sola latria».

  Così ricominciommi il terzo sermo;
  e poi, continüando, disse: «Quivi
  al servigio di Dio mi fe’ sì fermo,

  che pur con cibi di liquor d’ulivi
  lievemente passava caldi e geli,
  contento ne’ pensier contemplativi.

  Render solea quel chiostro a questi cieli
  fertilemente; e ora è fatto vano,
  sì che tosto convien che si riveli.

  In quel loco fu’ io Pietro Damiano,
  e Pietro Peccator fu’ ne la casa
  di Nostra Donna in sul lito adriano.

  Poca vita mortal m’era rimasa,
  quando fui chiesto e tratto a quel cappello,
  che pur di male in peggio si travasa.

  Venne Cefàs e venne il gran vasello
  de lo Spirito Santo, magri e scalzi,
  prendendo il cibo da qualunque ostello.

  Or voglion quinci e quindi chi rincalzi
  li moderni pastori e chi li meni,
  tanto son gravi, e chi di rietro li alzi.

  Cuopron d’i manti loro i palafreni,
  sì che due bestie van sott’ una pelle:
  oh pazïenza che tanto sostieni!».

  A questa voce vid’ io più fiammelle
  di grado in grado scendere e girarsi,
  e ogne giro le facea più belle.

  Dintorno a questa vennero e fermarsi,
  e fero un grido di sì alto suono,
  che non potrebbe qui assomigliarsi;

  né io lo ’ntesi, sì mi vinse il tuono.



  Paradiso • Canto XXII


  Oppresso di stupore, a la mia guida
  mi volsi, come parvol che ricorre
  sempre colà dove più si confida;

  e quella, come madre che soccorre
  sùbito al figlio palido e anelo
  con la sua voce, che ’l suol ben disporre,

  mi disse: «Non sai tu che tu se’ in cielo?
  e non sai tu che ’l cielo è tutto santo,
  e ciò che ci si fa vien da buon zelo?

  Come t’avrebbe trasmutato il canto,
  e io ridendo, mo pensar lo puoi,
  poscia che ’l grido t’ha mosso cotanto;

  nel qual, se ’nteso avessi i prieghi suoi,
  già ti sarebbe nota la vendetta
  che tu vedrai innanzi che tu muoi.

  La spada di qua sù non taglia in fretta
  né tardo, ma’ ch’al parer di colui
  che disïando o temendo l’aspetta.

  Ma rivolgiti omai inverso altrui;
  ch’assai illustri spiriti vedrai,
  se com’ io dico l’aspetto redui».

  Come a lei piacque, li occhi ritornai,
  e vidi cento sperule che ’nsieme
  più s’abbellivan con mutüi rai.

  Io stava come quei che ’n sé repreme
  la punta del disio, e non s’attenta
  di domandar, sì del troppo si teme;

  e la maggiore e la più luculenta
  di quelle margherite innanzi fessi,
  per far di sé la mia voglia contenta.

  Poi dentro a lei udi’: «Se tu vedessi
  com’ io la carità che tra noi arde,
  li tuoi concetti sarebbero espressi.

  Ma perché tu, aspettando, non tarde
  a l’alto fine, io ti farò risposta
  pur al pensier, da che sì ti riguarde.

  Quel monte a cui Cassino è ne la costa
  fu frequentato già in su la cima
  da la gente ingannata e mal disposta;

  e quel son io che sù vi portai prima
  lo nome di colui che ’n terra addusse
  la verità che tanto ci soblima;

  e tanta grazia sopra me relusse,
  ch’io ritrassi le ville circunstanti
  da l’empio cólto che ’l mondo sedusse.

  Questi altri fuochi tutti contemplanti
  uomini fuoro, accesi di quel caldo
  che fa nascere i fiori e ’ frutti santi.

  Qui è Maccario, qui è Romoaldo,
  qui son li frati miei che dentro ai chiostri
  fermar li piedi e tennero il cor saldo».

  E io a lui: «L’affetto che dimostri
  meco parlando, e la buona sembianza
  ch’io veggio e noto in tutti li ardor vostri,

  così m’ha dilatata mia fidanza,
  come ’l sol fa la rosa quando aperta
  tanto divien quant’ ell’ ha di possanza.

  Però ti priego, e tu, padre, m’accerta
  s’io posso prender tanta grazia, ch’io
  ti veggia con imagine scoverta».

  Ond’ elli: «Frate, il tuo alto disio
  s’adempierà in su l’ultima spera,
  ove s’adempion tutti li altri e ’l mio.

  Ivi è perfetta, matura e intera
  ciascuna disïanza; in quella sola
  è ogne parte là ove sempr’ era,

  perché non è in loco e non s’impola;
  e nostra scala infino ad essa varca,
  onde così dal viso ti s’invola.

  Infin là sù la vide il patriarca
  Iacobbe porger la superna parte,
  quando li apparve d’angeli sì carca.

  Ma, per salirla, mo nessun diparte
  da terra i piedi, e la regola mia
  rimasa è per danno de le carte.

  Le mura che solieno esser badia
  fatte sono spelonche, e le cocolle
  sacca son piene di farina ria.

  Ma grave usura tanto non si tolle
  contra ’l piacer di Dio, quanto quel frutto
  che fa il cor de’ monaci sì folle;

  ché quantunque la Chiesa guarda, tutto
  è de la gente che per Dio dimanda;
  non di parenti né d’altro più brutto.

  La carne d’i mortali è tanto blanda,
  che giù non basta buon cominciamento
  dal nascer de la quercia al far la ghianda.

  Pier cominciò sanz’ oro e sanz’ argento,
  e io con orazione e con digiuno,
  e Francesco umilmente il suo convento;

  e se guardi ’l principio di ciascuno,
  poscia riguardi là dov’ è trascorso,
  tu vederai del bianco fatto bruno.

  Veramente Iordan vòlto retrorso
  più fu, e ’l mar fuggir, quando Dio volse,
  mirabile a veder che qui ’l soccorso».

  Così mi disse, e indi si raccolse
  al suo collegio, e ’l collegio si strinse;
  poi, come turbo, in sù tutto s’avvolse.

  La dolce donna dietro a lor mi pinse
  con un sol cenno su per quella scala,
  sì sua virtù la mia natura vinse;

  né mai qua giù dove si monta e cala
  naturalmente, fu sì ratto moto
  ch’agguagliar si potesse a la mia ala.

  S’io torni mai, lettore, a quel divoto
  trïunfo per lo quale io piango spesso
  le mie peccata e ’l petto mi percuoto,

  tu non avresti in tanto tratto e messo
  nel foco il dito, in quant’ io vidi ’l segno
  che segue il Tauro e fui dentro da esso.

  O glorïose stelle, o lume pregno
  di gran virtù, dal quale io riconosco
  tutto, qual che si sia, il mio ingegno,

  con voi nasceva e s’ascondeva vosco
  quelli ch’è padre d’ogne mortal vita,
  quand’ io senti’ di prima l’aere tosco;

  e poi, quando mi fu grazia largita
  d’entrar ne l’alta rota che vi gira,
  la vostra regïon mi fu sortita.

  A voi divotamente ora sospira
  l’anima mia, per acquistar virtute
  al passo forte che a sé la tira.

  «Tu se’ sì presso a l’ultima salute»,
  cominciò Bëatrice, «che tu dei
  aver le luci tue chiare e acute;

  e però, prima che tu più t’inlei,
  rimira in giù, e vedi quanto mondo
  sotto li piedi già esser ti fei;

  sì che ’l tuo cor, quantunque può, giocondo
  s’appresenti a la turba trïunfante
  che lieta vien per questo etera tondo».

  Col viso ritornai per tutte quante
  le sette spere, e vidi questo globo
  tal, ch’io sorrisi del suo vil sembiante;

  e quel consiglio per migliore approbo
  che l’ha per meno; e chi ad altro pensa
  chiamar si puote veramente probo.

  Vidi la figlia di Latona incensa
  sanza quell’ ombra che mi fu cagione
  per che già la credetti rara e densa.

  L’aspetto del tuo nato, Iperïone,
  quivi sostenni, e vidi com’ si move
  circa e vicino a lui Maia e Dïone.

  Quindi m’apparve il temperar di Giove
  tra ’l padre e ’l figlio; e quindi mi fu chiaro
  il varïar che fanno di lor dove;

  e tutti e sette mi si dimostraro
  quanto son grandi e quanto son veloci
  e come sono in distante riparo.

  L’aiuola che ci fa tanto feroci,
  volgendom’ io con li etterni Gemelli,
  tutta m’apparve da’ colli a le foci;

  poscia rivolsi li occhi a li occhi belli.



  Paradiso • Canto XXIII


  Come l’augello, intra l’amate fronde,
  posato al nido de’ suoi dolci nati
  la notte che le cose ci nasconde,

  che, per veder li aspetti disïati
  e per trovar lo cibo onde li pasca,
  in che gravi labor li sono aggrati,

  previene il tempo in su aperta frasca,
  e con ardente affetto il sole aspetta,
  fiso guardando pur che l’alba nasca;

  così la donna mïa stava eretta
  e attenta, rivolta inver’ la plaga
  sotto la quale il sol mostra men fretta:

  sì che, veggendola io sospesa e vaga,
  fecimi qual è quei che disïando
  altro vorria, e sperando s’appaga.

  Ma poco fu tra uno e altro quando,
  del mio attender, dico, e del vedere
  lo ciel venir più e più rischiarando;

  e Bëatrice disse: «Ecco le schiere
  del trïunfo di Cristo e tutto ’l frutto
  ricolto del girar di queste spere!».

  Pariemi che ’l suo viso ardesse tutto,
  e li occhi avea di letizia sì pieni,
  che passarmen convien sanza costrutto.

  Quale ne’ plenilunïi sereni
  Trivïa ride tra le ninfe etterne
  che dipingon lo ciel per tutti i seni,

  vid’ i’ sopra migliaia di lucerne
  un sol che tutte quante l’accendea,
  come fa ’l nostro le viste superne;

  e per la viva luce trasparea
  la lucente sustanza tanto chiara
  nel viso mio, che non la sostenea.

  Oh Bëatrice, dolce guida e cara!
  Ella mi disse: «Quel che ti sobranza
  è virtù da cui nulla si ripara.

  Quivi è la sapïenza e la possanza
  ch’aprì le strade tra ’l cielo e la terra,
  onde fu già sì lunga disïanza».

  Come foco di nube si diserra
  per dilatarsi sì che non vi cape,
  e fuor di sua natura in giù s’atterra,

  la mente mia così, tra quelle dape
  fatta più grande, di sé stessa uscìo,
  e che si fesse rimembrar non sape.

  «Apri li occhi e riguarda qual son io;
  tu hai vedute cose, che possente
  se’ fatto a sostener lo riso mio».

  Io era come quei che si risente
  di visïone oblita e che s’ingegna
  indarno di ridurlasi a la mente,

  quand’ io udi’ questa proferta, degna
  di tanto grato, che mai non si stingue
  del libro che ’l preterito rassegna.

  Se mo sonasser tutte quelle lingue
  che Polimnïa con le suore fero
  del latte lor dolcissimo più pingue,

  per aiutarmi, al millesmo del vero
  non si verria, cantando il santo riso
  e quanto il santo aspetto facea mero;

  e così, figurando il paradiso,
  convien saltar lo sacrato poema,
  come chi trova suo cammin riciso.

  Ma chi pensasse il ponderoso tema
  e l’omero mortal che se ne carca,
  nol biasmerebbe se sott’ esso trema:

  non è pareggio da picciola barca
  quel che fendendo va l’ardita prora,
  né da nocchier ch’a sé medesmo parca.

  «Perché la faccia mia sì t’innamora,
  che tu non ti rivolgi al bel giardino
  che sotto i raggi di Cristo s’infiora?

  Quivi è la rosa in che ’l verbo divino
  carne si fece; quivi son li gigli
  al cui odor si prese il buon cammino».

  Così Beatrice; e io, che a’ suoi consigli
  tutto era pronto, ancora mi rendei
  a la battaglia de’ debili cigli.

  Come a raggio di sol, che puro mei
  per fratta nube, già prato di fiori
  vider, coverti d’ombra, li occhi miei;

  vid’ io così più turbe di splendori,
  folgorate di sù da raggi ardenti,
  sanza veder principio di folgóri.

  O benigna vertù che sì li ’mprenti,
  sù t’essaltasti, per largirmi loco
  a li occhi lì che non t’eran possenti.

  Il nome del bel fior ch’io sempre invoco
  e mane e sera, tutto mi ristrinse
  l’animo ad avvisar lo maggior foco;

  e come ambo le luci mi dipinse
  il quale e il quanto de la viva stella
  che là sù vince come qua giù vinse,

  per entro il cielo scese una facella,
  formata in cerchio a guisa di corona,
  e cinsela e girossi intorno ad ella.

  Qualunque melodia più dolce suona
  qua giù e più a sé l’anima tira,
  parrebbe nube che squarciata tona,

  comparata al sonar di quella lira
  onde si coronava il bel zaffiro
  del quale il ciel più chiaro s’inzaffira.

  «Io sono amore angelico, che giro
  l’alta letizia che spira del ventre
  che fu albergo del nostro disiro;

  e girerommi, donna del ciel, mentre
  che seguirai tuo figlio, e farai dia
  più la spera suprema perché lì entre».

  Così la circulata melodia
  si sigillava, e tutti li altri lumi
  facean sonare il nome di Maria.

  Lo real manto di tutti i volumi
  del mondo, che più ferve e più s’avviva
  ne l’alito di Dio e nei costumi,

  avea sopra di noi l’interna riva
  tanto distante, che la sua parvenza,
  là dov’ io era, ancor non appariva:

  però non ebber li occhi miei potenza
  di seguitar la coronata fiamma
  che si levò appresso sua semenza.

  E come fantolin che ’nver’ la mamma
  tende le braccia, poi che ’l latte prese,
  per l’animo che ’nfin di fuor s’infiamma;

  ciascun di quei candori in sù si stese
  con la sua cima, sì che l’alto affetto
  ch’elli avieno a Maria mi fu palese.

  Indi rimaser lì nel mio cospetto,
  ‘Regina celi’ cantando sì dolce,
  che mai da me non si partì ’l diletto.

  Oh quanta è l’ubertà che si soffolce
  in quelle arche ricchissime che fuoro
  a seminar qua giù buone bobolce!

  Quivi si vive e gode del tesoro
  che s’acquistò piangendo ne lo essilio
  di Babillòn, ove si lasciò l’oro.

  Quivi trïunfa, sotto l’alto Filio
  di Dio e di Maria, di sua vittoria,
  e con l’antico e col novo concilio,

  colui che tien le chiavi di tal gloria.



  Paradiso • Canto XXIV


  «O sodalizio eletto a la gran cena
  del benedetto Agnello, il qual vi ciba
  sì, che la vostra voglia è sempre piena,

  se per grazia di Dio questi preliba
  di quel che cade de la vostra mensa,
  prima che morte tempo li prescriba,

  ponete mente a l’affezione immensa
  e roratelo alquanto: voi bevete
  sempre del fonte onde vien quel ch’ei pensa».

  Così Beatrice; e quelle anime liete
  si fero spere sopra fissi poli,
  fiammando, a volte, a guisa di comete.

  E come cerchi in tempra d’orïuoli
  si giran sì, che ’l primo a chi pon mente
  quïeto pare, e l’ultimo che voli;

  così quelle carole, differente-
  mente danzando, de la sua ricchezza
  mi facieno stimar, veloci e lente.

  Di quella ch’io notai di più carezza
  vid’ ïo uscire un foco sì felice,
  che nullo vi lasciò di più chiarezza;

  e tre fïate intorno di Beatrice
  si volse con un canto tanto divo,
  che la mia fantasia nol mi ridice.

  Però salta la penna e non lo scrivo:
  ché l’imagine nostra a cotai pieghe,
  non che ’l parlare, è troppo color vivo.

  «O santa suora mia che sì ne prieghe
  divota, per lo tuo ardente affetto
  da quella bella spera mi disleghe».

  Poscia fermato, il foco benedetto
  a la mia donna dirizzò lo spiro,
  che favellò così com’ i’ ho detto.

  Ed ella: «O luce etterna del gran viro
  a cui Nostro Segnor lasciò le chiavi,
  ch’ei portò giù, di questo gaudio miro,

  tenta costui di punti lievi e gravi,
  come ti piace, intorno de la fede,
  per la qual tu su per lo mare andavi.

  S’elli ama bene e bene spera e crede,
  non t’è occulto, perché ’l viso hai quivi
  dov’ ogne cosa dipinta si vede;

  ma perché questo regno ha fatto civi
  per la verace fede, a glorïarla,
  di lei parlare è ben ch’a lui arrivi».

  Sì come il baccialier s’arma e non parla
  fin che ’l maestro la question propone,
  per approvarla, non per terminarla,

  così m’armava io d’ogne ragione
  mentre ch’ella dicea, per esser presto
  a tal querente e a tal professione.

  «Dì, buon Cristiano, fatti manifesto:
  fede che è?». Ond’ io levai la fronte
  in quella luce onde spirava questo;

  poi mi volsi a Beatrice, ed essa pronte
  sembianze femmi perch’ ïo spandessi
  l’acqua di fuor del mio interno fonte.

  «La Grazia che mi dà ch’io mi confessi»,
  comincia’ io, «da l’alto primipilo,
  faccia li miei concetti bene espressi».

  E seguitai: «Come ’l verace stilo
  ne scrisse, padre, del tuo caro frate
  che mise teco Roma nel buon filo,

  fede è sustanza di cose sperate
  e argomento de le non parventi;
  e questa pare a me sua quiditate».

  Allora udi’: «Dirittamente senti,
  se bene intendi perché la ripuose
  tra le sustanze, e poi tra li argomenti».

  E io appresso: «Le profonde cose
  che mi largiscon qui la lor parvenza,
  a li occhi di là giù son sì ascose,

  che l’esser loro v’è in sola credenza,
  sopra la qual si fonda l’alta spene;
  e però di sustanza prende intenza.

  E da questa credenza ci convene
  silogizzar, sanz’ avere altra vista:
  però intenza d’argomento tene».

  Allora udi’: «Se quantunque s’acquista
  giù per dottrina, fosse così ’nteso,
  non lì avria loco ingegno di sofista».

  Così spirò di quello amore acceso;
  indi soggiunse: «Assai bene è trascorsa
  d’esta moneta già la lega e ’l peso;

  ma dimmi se tu l’hai ne la tua borsa».
  Ond’ io: «Sì ho, sì lucida e sì tonda,
  che nel suo conio nulla mi s’inforsa».

  Appresso uscì de la luce profonda
  che lì splendeva: «Questa cara gioia
  sopra la quale ogne virtù si fonda,

  onde ti venne?». E io: «La larga ploia
  de lo Spirito Santo, ch’è diffusa
  in su le vecchie e ’n su le nuove cuoia,

  è silogismo che la m’ha conchiusa
  acutamente sì, che ’nverso d’ella
  ogne dimostrazion mi pare ottusa».

  Io udi’ poi: «L’antica e la novella
  proposizion che così ti conchiude,
  perché l’hai tu per divina favella?».

  E io: «La prova che ’l ver mi dischiude,
  son l’opere seguite, a che natura
  non scalda ferro mai né batte incude».

  Risposto fummi: «Dì, chi t’assicura
  che quell’ opere fosser? Quel medesmo
  che vuol provarsi, non altri, il ti giura».

  «Se ’l mondo si rivolse al cristianesmo»,
  diss’ io, «sanza miracoli, quest’ uno
  è tal, che li altri non sono il centesmo:

  ché tu intrasti povero e digiuno
  in campo, a seminar la buona pianta
  che fu già vite e ora è fatta pruno».

  Finito questo, l’alta corte santa
  risonò per le spere un ‘Dio laudamo’
  ne la melode che là sù si canta.

  E quel baron che sì di ramo in ramo,
  essaminando, già tratto m’avea,
  che a l’ultime fronde appressavamo,

  ricominciò: «La Grazia, che donnea
  con la tua mente, la bocca t’aperse
  infino a qui come aprir si dovea,

  sì ch’io approvo ciò che fuori emerse;
  ma or convien espremer quel che credi,
  e onde a la credenza tua s’offerse».

  «O santo padre, e spirito che vedi
  ciò che credesti sì, che tu vincesti
  ver’ lo sepulcro più giovani piedi»,

  comincia’ io, «tu vuo’ ch’io manifesti
  la forma qui del pronto creder mio,
  e anche la cagion di lui chiedesti.

  E io rispondo: Io credo in uno Dio
  solo ed etterno, che tutto ’l ciel move,
  non moto, con amore e con disio;

  e a tal creder non ho io pur prove
  fisice e metafisice, ma dalmi
  anche la verità che quinci piove

  per Moïsè, per profeti e per salmi,
  per l’Evangelio e per voi che scriveste
  poi che l’ardente Spirto vi fé almi;

  e credo in tre persone etterne, e queste
  credo una essenza sì una e sì trina,
  che soffera congiunto ‘sono’ ed ‘este’.

  De la profonda condizion divina
  ch’io tocco mo, la mente mi sigilla
  più volte l’evangelica dottrina.

  Quest’ è ’l principio, quest’ è la favilla
  che si dilata in fiamma poi vivace,
  e come stella in cielo in me scintilla».

  Come ’l segnor ch’ascolta quel che i piace,
  da indi abbraccia il servo, gratulando
  per la novella, tosto ch’el si tace;

  così, benedicendomi cantando,
  tre volte cinse me, sì com’ io tacqui,
  l’appostolico lume al cui comando

  io avea detto: sì nel dir li piacqui!



  Paradiso • Canto XXV


  Se mai continga che ’l poema sacro
  al quale ha posto mano e cielo e terra,
  sì che m’ha fatto per molti anni macro,

  vinca la crudeltà che fuor mi serra
  del bello ovile ov’ io dormi’ agnello,
  nimico ai lupi che li danno guerra;

  con altra voce omai, con altro vello
  ritornerò poeta, e in sul fonte
  del mio battesmo prenderò ’l cappello;

  però che ne la fede, che fa conte
  l’anime a Dio, quivi intra’ io, e poi
  Pietro per lei sì mi girò la fronte.

  Indi si mosse un lume verso noi
  di quella spera ond’ uscì la primizia
  che lasciò Cristo d’i vicari suoi;

  e la mia donna, piena di letizia,
  mi disse: «Mira, mira: ecco il barone
  per cui là giù si vicita Galizia».

  Sì come quando il colombo si pone
  presso al compagno, l’uno a l’altro pande,
  girando e mormorando, l’affezione;

  così vid’ ïo l’un da l’altro grande
  principe glorïoso essere accolto,
  laudando il cibo che là sù li prande.

  Ma poi che ’l gratular si fu assolto,
  tacito coram me ciascun s’affisse,
  ignito sì che vincëa ’l mio volto.

  Ridendo allora Bëatrice disse:
  «Inclita vita per cui la larghezza
  de la nostra basilica si scrisse,

  fa risonar la spene in questa altezza:
  tu sai, che tante fiate la figuri,
  quante Iesù ai tre fé più carezza».

  «Leva la testa e fa che t’assicuri:
  che ciò che vien qua sù del mortal mondo,
  convien ch’ai nostri raggi si maturi».

  Questo conforto del foco secondo
  mi venne; ond’ io leväi li occhi a’ monti
  che li ’ncurvaron pria col troppo pondo.

  «Poi che per grazia vuol che tu t’affronti
  lo nostro Imperadore, anzi la morte,
  ne l’aula più secreta co’ suoi conti,

  sì che, veduto il ver di questa corte,
  la spene, che là giù bene innamora,
  in te e in altrui di ciò conforte,

  di’ quel ch’ell’ è, di’ come se ne ’nfiora
  la mente tua, e dì onde a te venne».
  Così seguì ’l secondo lume ancora.

  E quella pïa che guidò le penne
  de le mie ali a così alto volo,
  a la risposta così mi prevenne:

  «La Chiesa militante alcun figliuolo
  non ha con più speranza, com’ è scritto
  nel Sol che raggia tutto nostro stuolo:

  però li è conceduto che d’Egitto
  vegna in Ierusalemme per vedere,
  anzi che ’l militar li sia prescritto.

  Li altri due punti, che non per sapere
  son dimandati, ma perch’ ei rapporti
  quanto questa virtù t’è in piacere,

  a lui lasc’ io, ché non li saran forti
  né di iattanza; ed elli a ciò risponda,
  e la grazia di Dio ciò li comporti».

  Come discente ch’a dottor seconda
  pronto e libente in quel ch’elli è esperto,
  perché la sua bontà si disasconda,

  «Spene», diss’ io, «è uno attender certo
  de la gloria futura, il qual produce
  grazia divina e precedente merto.

  Da molte stelle mi vien questa luce;
  ma quei la distillò nel mio cor pria
  che fu sommo cantor del sommo duce.

  ‘Sperino in te’, ne la sua tëodia
  dice, ‘color che sanno il nome tuo’:
  e chi nol sa, s’elli ha la fede mia?

  Tu mi stillasti, con lo stillar suo,
  ne la pistola poi; sì ch’io son pieno,
  e in altrui vostra pioggia repluo».

  Mentr’ io diceva, dentro al vivo seno
  di quello incendio tremolava un lampo
  sùbito e spesso a guisa di baleno.

  Indi spirò: «L’amore ond’ ïo avvampo
  ancor ver’ la virtù che mi seguette
  infin la palma e a l’uscir del campo,

  vuol ch’io respiri a te che ti dilette
  di lei; ed emmi a grato che tu diche
  quello che la speranza ti ’mpromette».

  E io: «Le nove e le scritture antiche
  pongon lo segno, ed esso lo mi addita,
  de l’anime che Dio s’ha fatte amiche.

  Dice Isaia che ciascuna vestita
  ne la sua terra fia di doppia vesta:
  e la sua terra è questa dolce vita;

  e ’l tuo fratello assai vie più digesta,
  là dove tratta de le bianche stole,
  questa revelazion ci manifesta».

  E prima, appresso al fin d’este parole,
  ‘Sperent in te’ di sopr’ a noi s’udì;
  a che rispuoser tutte le carole.

  Poscia tra esse un lume si schiarì
  sì che, se ’l Cancro avesse un tal cristallo,
  l’inverno avrebbe un mese d’un sol dì.

  E come surge e va ed entra in ballo
  vergine lieta, sol per fare onore
  a la novizia, non per alcun fallo,

  così vid’ io lo schiarato splendore
  venire a’ due che si volgieno a nota
  qual conveniesi al loro ardente amore.

  Misesi lì nel canto e ne la rota;
  e la mia donna in lor tenea l’aspetto,
  pur come sposa tacita e immota.

  «Questi è colui che giacque sopra ’l petto
  del nostro pellicano, e questi fue
  di su la croce al grande officio eletto».

  La donna mia così; né però piùe
  mosser la vista sua di stare attenta
  poscia che prima le parole sue.

  Qual è colui ch’adocchia e s’argomenta
  di vedere eclissar lo sole un poco,
  che, per veder, non vedente diventa;

  tal mi fec’ ïo a quell’ ultimo foco
  mentre che detto fu: «Perché t’abbagli
  per veder cosa che qui non ha loco?

  In terra è terra il mio corpo, e saragli
  tanto con li altri, che ’l numero nostro
  con l’etterno proposito s’agguagli.

  Con le due stole nel beato chiostro
  son le due luci sole che saliro;
  e questo apporterai nel mondo vostro».

  A questa voce l’infiammato giro
  si quïetò con esso il dolce mischio
  che si facea nel suon del trino spiro,

  sì come, per cessar fatica o rischio,
  li remi, pria ne l’acqua ripercossi,
  tutti si posano al sonar d’un fischio.

  Ahi quanto ne la mente mi commossi,
  quando mi volsi per veder Beatrice,
  per non poter veder, benché io fossi

  presso di lei, e nel mondo felice!



  Paradiso • Canto XXVI


  Mentr’ io dubbiava per lo viso spento,
  de la fulgida fiamma che lo spense
  uscì un spiro che mi fece attento,

  dicendo: «Intanto che tu ti risense
  de la vista che haï in me consunta,
  ben è che ragionando la compense.

  Comincia dunque; e dì ove s’appunta
  l’anima tua, e fa ragion che sia
  la vista in te smarrita e non defunta:

  perché la donna che per questa dia
  regïon ti conduce, ha ne lo sguardo
  la virtù ch’ebbe la man d’Anania».

  Io dissi: «Al suo piacere e tosto e tardo
  vegna remedio a li occhi, che fuor porte
  quand’ ella entrò col foco ond’ io sempr’ ardo.

  Lo ben che fa contenta questa corte,
  Alfa e O è di quanta scrittura
  mi legge Amore o lievemente o forte».

  Quella medesma voce che paura
  tolta m’avea del sùbito abbarbaglio,
  di ragionare ancor mi mise in cura;

  e disse: «Certo a più angusto vaglio
  ti conviene schiarar: dicer convienti
  chi drizzò l’arco tuo a tal berzaglio».

  E io: «Per filosofici argomenti
  e per autorità che quinci scende
  cotale amor convien che in me si ’mprenti:

  ché ’l bene, in quanto ben, come s’intende,
  così accende amore, e tanto maggio
  quanto più di bontate in sé comprende.

  Dunque a l’essenza ov’ è tanto avvantaggio,
  che ciascun ben che fuor di lei si trova
  altro non è ch’un lume di suo raggio,

  più che in altra convien che si mova
  la mente, amando, di ciascun che cerne
  il vero in che si fonda questa prova.

  Tal vero a l’intelletto mïo sterne
  colui che mi dimostra il primo amore
  di tutte le sustanze sempiterne.

  Sternel la voce del verace autore,
  che dice a Moïsè, di sé parlando:
  ‘Io ti farò vedere ogne valore’.

  Sternilmi tu ancora, incominciando
  l’alto preconio che grida l’arcano
  di qui là giù sovra ogne altro bando».

  E io udi’: «Per intelletto umano
  e per autoritadi a lui concorde
  d’i tuoi amori a Dio guarda il sovrano.

  Ma dì ancor se tu senti altre corde
  tirarti verso lui, sì che tu suone
  con quanti denti questo amor ti morde».

  Non fu latente la santa intenzione
  de l’aguglia di Cristo, anzi m’accorsi
  dove volea menar mia professione.

  Però ricominciai: «Tutti quei morsi
  che posson far lo cor volgere a Dio,
  a la mia caritate son concorsi:

  ché l’essere del mondo e l’esser mio,
  la morte ch’el sostenne perch’ io viva,
  e quel che spera ogne fedel com’ io,

  con la predetta conoscenza viva,
  tratto m’hanno del mar de l’amor torto,
  e del diritto m’han posto a la riva.

  Le fronde onde s’infronda tutto l’orto
  de l’ortolano etterno, am’ io cotanto
  quanto da lui a lor di bene è porto».

  Sì com’ io tacqui, un dolcissimo canto
  risonò per lo cielo, e la mia donna
  dicea con li altri: «Santo, santo, santo!».

  E come a lume acuto si disonna
  per lo spirto visivo che ricorre
  a lo splendor che va di gonna in gonna,

  e lo svegliato ciò che vede aborre,
  sì nescïa è la sùbita vigilia
  fin che la stimativa non soccorre;

  così de li occhi miei ogne quisquilia
  fugò Beatrice col raggio d’i suoi,
  che rifulgea da più di mille milia:

  onde mei che dinanzi vidi poi;
  e quasi stupefatto domandai
  d’un quarto lume ch’io vidi tra noi.

  E la mia donna: «Dentro da quei rai
  vagheggia il suo fattor l’anima prima
  che la prima virtù creasse mai».

  Come la fronda che flette la cima
  nel transito del vento, e poi si leva
  per la propria virtù che la soblima,

  fec’ io in tanto in quant’ ella diceva,
  stupendo, e poi mi rifece sicuro
  un disio di parlare ond’ ïo ardeva.

  E cominciai: «O pomo che maturo
  solo prodotto fosti, o padre antico
  a cui ciascuna sposa è figlia e nuro,

  divoto quanto posso a te supplìco
  perché mi parli: tu vedi mia voglia,
  e per udirti tosto non la dico».

  Talvolta un animal coverto broglia,
  sì che l’affetto convien che si paia
  per lo seguir che face a lui la ’nvoglia;

  e similmente l’anima primaia
  mi facea trasparer per la coverta
  quant’ ella a compiacermi venìa gaia.

  Indi spirò: «Sanz’ essermi proferta
  da te, la voglia tua discerno meglio
  che tu qualunque cosa t’è più certa;

  perch’ io la veggio nel verace speglio
  che fa di sé pareglio a l’altre cose,
  e nulla face lui di sé pareglio.

  Tu vuogli udir quant’ è che Dio mi puose
  ne l’eccelso giardino, ove costei
  a così lunga scala ti dispuose,

  e quanto fu diletto a li occhi miei,
  e la propria cagion del gran disdegno,
  e l’idïoma ch’usai e che fei.

  Or, figluol mio, non il gustar del legno
  fu per sé la cagion di tanto essilio,
  ma solamente il trapassar del segno.

  Quindi onde mosse tua donna Virgilio,
  quattromilia trecento e due volumi
  di sol desiderai questo concilio;

  e vidi lui tornare a tutt’ i lumi
  de la sua strada novecento trenta
  fïate, mentre ch’ïo in terra fu’mi.

  La lingua ch’io parlai fu tutta spenta
  innanzi che a l’ovra inconsummabile
  fosse la gente di Nembròt attenta:

  ché nullo effetto mai razïonabile,
  per lo piacere uman che rinovella
  seguendo il cielo, sempre fu durabile.

  Opera naturale è ch’uom favella;
  ma così o così, natura lascia
  poi fare a voi secondo che v’abbella.

  Pria ch’i’ scendessi a l’infernale ambascia,
  I s’appellava in terra il sommo bene
  onde vien la letizia che mi fascia;

  e El si chiamò poi: e ciò convene,
  ché l’uso d’i mortali è come fronda
  in ramo, che sen va e altra vene.

  Nel monte che si leva più da l’onda,
  fu’ io, con vita pura e disonesta,
  da la prim’ ora a quella che seconda,

  come ’l sol muta quadra, l’ora sesta».



  Paradiso • Canto XXVII


  ‘Al Padre, al Figlio, a lo Spirito Santo’,
  cominciò, ‘gloria!’, tutto ’l paradiso,
  sì che m’inebrïava il dolce canto.

  Ciò ch’io vedeva mi sembiava un riso
  de l’universo; per che mia ebbrezza
  intrava per l’udire e per lo viso.

  Oh gioia! oh ineffabile allegrezza!
  oh vita intègra d’amore e di pace!
  oh sanza brama sicura ricchezza!

  Dinanzi a li occhi miei le quattro face
  stavano accese, e quella che pria venne
  incominciò a farsi più vivace,

  e tal ne la sembianza sua divenne,
  qual diverrebbe Iove, s’elli e Marte
  fossero augelli e cambiassersi penne.

  La provedenza, che quivi comparte
  vice e officio, nel beato coro
  silenzio posto avea da ogne parte,

  quand’ ïo udi’: «Se io mi trascoloro,
  non ti maravigliar, ché, dicend’ io,
  vedrai trascolorar tutti costoro.

  Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio,
  il luogo mio, il luogo mio, che vaca
  ne la presenza del Figliuol di Dio,

  fatt’ ha del cimitero mio cloaca
  del sangue e de la puzza; onde ’l perverso
  che cadde di qua sù, là giù si placa».

  Di quel color che per lo sole avverso
  nube dipigne da sera e da mane,
  vid’ ïo allora tutto ’l ciel cosperso.

  E come donna onesta che permane
  di sé sicura, e per l’altrui fallanza,
  pur ascoltando, timida si fane,

  così Beatrice trasmutò sembianza;
  e tale eclissi credo che ’n ciel fue
  quando patì la supprema possanza.

  Poi procedetter le parole sue
  con voce tanto da sé trasmutata,
  che la sembianza non si mutò piùe:

  «Non fu la sposa di Cristo allevata
  del sangue mio, di Lin, di quel di Cleto,
  per essere ad acquisto d’oro usata;

  ma per acquisto d’esto viver lieto
  e Sisto e Pïo e Calisto e Urbano
  sparser lo sangue dopo molto fleto.

  Non fu nostra intenzion ch’a destra mano
  d’i nostri successor parte sedesse,
  parte da l’altra del popol cristiano;

  né che le chiavi che mi fuor concesse,
  divenisser signaculo in vessillo
  che contra battezzati combattesse;

  né ch’io fossi figura di sigillo
  a privilegi venduti e mendaci,
  ond’ io sovente arrosso e disfavillo.

  In vesta di pastor lupi rapaci
  si veggion di qua sù per tutti i paschi:
  o difesa di Dio, perché pur giaci?

  Del sangue nostro Caorsini e Guaschi
  s’apparecchian di bere: o buon principio,
  a che vil fine convien che tu caschi!

  Ma l’alta provedenza, che con Scipio
  difese a Roma la gloria del mondo,
  soccorrà tosto, sì com’ io concipio;

  e tu, figliuol, che per lo mortal pondo
  ancor giù tornerai, apri la bocca,
  e non asconder quel ch’io non ascondo».

  Sì come di vapor gelati fiocca
  in giuso l’aere nostro, quando ’l corno
  de la capra del ciel col sol si tocca,

  in sù vid’ io così l’etera addorno
  farsi e fioccar di vapor trïunfanti
  che fatto avien con noi quivi soggiorno.

  Lo viso mio seguiva i suoi sembianti,
  e seguì fin che ’l mezzo, per lo molto,
  li tolse il trapassar del più avanti.

  Onde la donna, che mi vide assolto
  de l’attendere in sù, mi disse: «Adima
  il viso e guarda come tu se’ vòlto».

  Da l’ora ch’ïo avea guardato prima
  i’ vidi mosso me per tutto l’arco
  che fa dal mezzo al fine il primo clima;

  sì ch’io vedea di là da Gade il varco
  folle d’Ulisse, e di qua presso il lito
  nel qual si fece Europa dolce carco.

  E più mi fora discoverto il sito
  di questa aiuola; ma ’l sol procedea
  sotto i mie’ piedi un segno e più partito.

  La mente innamorata, che donnea
  con la mia donna sempre, di ridure
  ad essa li occhi più che mai ardea;

  e se natura o arte fé pasture
  da pigliare occhi, per aver la mente,
  in carne umana o ne le sue pitture,

  tutte adunate, parrebber nïente
  ver’ lo piacer divin che mi refulse,
  quando mi volsi al suo viso ridente.

  E la virtù che lo sguardo m’indulse,
  del bel nido di Leda mi divelse,
  e nel ciel velocissimo m’impulse.

  Le parti sue vivissime ed eccelse
  sì uniforme son, ch’i’ non so dire
  qual Bëatrice per loco mi scelse.

  Ma ella, che vedëa ’l mio disire,
  incominciò, ridendo tanto lieta,
  che Dio parea nel suo volto gioire:

  «La natura del mondo, che quïeta
  il mezzo e tutto l’altro intorno move,
  quinci comincia come da sua meta;

  e questo cielo non ha altro dove
  che la mente divina, in che s’accende
  l’amor che ’l volge e la virtù ch’ei piove.

  Luce e amor d’un cerchio lui comprende,
  sì come questo li altri; e quel precinto
  colui che ’l cinge solamente intende.

  Non è suo moto per altro distinto,
  ma li altri son mensurati da questo,
  sì come diece da mezzo e da quinto;

  e come il tempo tegna in cotal testo
  le sue radici e ne li altri le fronde,
  omai a te può esser manifesto.

  Oh cupidigia che i mortali affonde
  sì sotto te, che nessuno ha podere
  di trarre li occhi fuor de le tue onde!

  Ben fiorisce ne li uomini il volere;
  ma la pioggia continüa converte
  in bozzacchioni le sosine vere.

  Fede e innocenza son reperte
  solo ne’ parvoletti; poi ciascuna
  pria fugge che le guance sian coperte.

  Tale, balbuzïendo ancor, digiuna,
  che poi divora, con la lingua sciolta,
  qualunque cibo per qualunque luna;

  e tal, balbuzïendo, ama e ascolta
  la madre sua, che, con loquela intera,
  disïa poi di vederla sepolta.

  Così si fa la pelle bianca nera
  nel primo aspetto de la bella figlia
  di quel ch’apporta mane e lascia sera.

  Tu, perché non ti facci maraviglia,
  pensa che ’n terra non è chi governi;
  onde sì svïa l’umana famiglia.

  Ma prima che gennaio tutto si sverni
  per la centesma ch’è là giù negletta,
  raggeran sì questi cerchi superni,

  che la fortuna che tanto s’aspetta,
  le poppe volgerà u’ son le prore,
  sì che la classe correrà diretta;

  e vero frutto verrà dopo ’l fiore».



  Paradiso • Canto XXVIII


  Poscia che ’ncontro a la vita presente
  d’i miseri mortali aperse ’l vero
  quella che ’mparadisa la mia mente,

  come in lo specchio fiamma di doppiero
  vede colui che se n’alluma retro,
  prima che l’abbia in vista o in pensiero,

  e sé rivolge per veder se ’l vetro
  li dice il vero, e vede ch’el s’accorda
  con esso come nota con suo metro;

  così la mia memoria si ricorda
  ch’io feci riguardando ne’ belli occhi
  onde a pigliarmi fece Amor la corda.

  E com’ io mi rivolsi e furon tocchi
  li miei da ciò che pare in quel volume,
  quandunque nel suo giro ben s’adocchi,

  un punto vidi che raggiava lume
  acuto sì, che ’l viso ch’elli affoca
  chiuder conviensi per lo forte acume;

  e quale stella par quinci più poca,
  parrebbe luna, locata con esso
  come stella con stella si collòca.

  Forse cotanto quanto pare appresso
  alo cigner la luce che ’l dipigne
  quando ’l vapor che ’l porta più è spesso,

  distante intorno al punto un cerchio d’igne
  si girava sì ratto, ch’avria vinto
  quel moto che più tosto il mondo cigne;

  e questo era d’un altro circumcinto,
  e quel dal terzo, e ’l terzo poi dal quarto,
  dal quinto il quarto, e poi dal sesto il quinto.

  Sopra seguiva il settimo sì sparto
  già di larghezza, che ’l messo di Iuno
  intero a contenerlo sarebbe arto.

  Così l’ottavo e ’l nono; e chiascheduno
  più tardo si movea, secondo ch’era
  in numero distante più da l’uno;

  e quello avea la fiamma più sincera
  cui men distava la favilla pura,
  credo, però che più di lei s’invera.

  La donna mia, che mi vedëa in cura
  forte sospeso, disse: «Da quel punto
  depende il cielo e tutta la natura.

  Mira quel cerchio che più li è congiunto;
  e sappi che ’l suo muovere è sì tosto
  per l’affocato amore ond’ elli è punto».

  E io a lei: «Se ’l mondo fosse posto
  con l’ordine ch’io veggio in quelle rote,
  sazio m’avrebbe ciò che m’è proposto;

  ma nel mondo sensibile si puote
  veder le volte tanto più divine,
  quant’ elle son dal centro più remote.

  Onde, se ’l mio disir dee aver fine
  in questo miro e angelico templo
  che solo amore e luce ha per confine,

  udir convienmi ancor come l’essemplo
  e l’essemplare non vanno d’un modo,
  ché io per me indarno a ciò contemplo».

  «Se li tuoi diti non sono a tal nodo
  sufficïenti, non è maraviglia:
  tanto, per non tentare, è fatto sodo!».

  Così la donna mia; poi disse: «Piglia
  quel ch’io ti dicerò, se vuo’ saziarti;
  e intorno da esso t’assottiglia.

  Li cerchi corporai sono ampi e arti
  secondo il più e ’l men de la virtute
  che si distende per tutte lor parti.

  Maggior bontà vuol far maggior salute;
  maggior salute maggior corpo cape,
  s’elli ha le parti igualmente compiute.

  Dunque costui che tutto quanto rape
  l’altro universo seco, corrisponde
  al cerchio che più ama e che più sape:

  per che, se tu a la virtù circonde
  la tua misura, non a la parvenza
  de le sustanze che t’appaion tonde,

  tu vederai mirabil consequenza
  di maggio a più e di minore a meno,
  in ciascun cielo, a süa intelligenza».

  Come rimane splendido e sereno
  l’emisperio de l’aere, quando soffia
  Borea da quella guancia ond’ è più leno,

  per che si purga e risolve la roffia
  che pria turbava, sì che ’l ciel ne ride
  con le bellezze d’ogne sua paroffia;

  così fec’ïo, poi che mi provide
  la donna mia del suo risponder chiaro,
  e come stella in cielo il ver si vide.

  E poi che le parole sue restaro,
  non altrimenti ferro disfavilla
  che bolle, come i cerchi sfavillaro.

  L’incendio suo seguiva ogne scintilla;
  ed eran tante, che ’l numero loro
  più che ’l doppiar de li scacchi s’inmilla.

  Io sentiva osannar di coro in coro
  al punto fisso che li tiene a li ubi,
  e terrà sempre, ne’ quai sempre fuoro.

  E quella che vedëa i pensier dubi
  ne la mia mente, disse: «I cerchi primi
  t’hanno mostrato Serafi e Cherubi.

  Così veloci seguono i suoi vimi,
  per somigliarsi al punto quanto ponno;
  e posson quanto a veder son soblimi.

  Quelli altri amori che ’ntorno li vonno,
  si chiaman Troni del divino aspetto,
  per che ’l primo ternaro terminonno;

  e dei saper che tutti hanno diletto
  quanto la sua veduta si profonda
  nel vero in che si queta ogne intelletto.

  Quinci si può veder come si fonda
  l’esser beato ne l’atto che vede,
  non in quel ch’ama, che poscia seconda;

  e del vedere è misura mercede,
  che grazia partorisce e buona voglia:
  così di grado in grado si procede.

  L’altro ternaro, che così germoglia
  in questa primavera sempiterna
  che notturno Arïete non dispoglia,

  perpetüalemente ‘Osanna’ sberna
  con tre melode, che suonano in tree
  ordini di letizia onde s’interna.

  In essa gerarcia son l’altre dee:
  prima Dominazioni, e poi Virtudi;
  l’ordine terzo di Podestadi èe.

  Poscia ne’ due penultimi tripudi
  Principati e Arcangeli si girano;
  l’ultimo è tutto d’Angelici ludi.

  Questi ordini di sù tutti s’ammirano,
  e di giù vincon sì, che verso Dio
  tutti tirati sono e tutti tirano.

  E Dïonisio con tanto disio
  a contemplar questi ordini si mise,
  che li nomò e distinse com’ io.

  Ma Gregorio da lui poi si divise;
  onde, sì tosto come li occhi aperse
  in questo ciel, di sé medesmo rise.

  E se tanto secreto ver proferse
  mortale in terra, non voglio ch’ammiri:
  ché chi ’l vide qua sù gliel discoperse

  con altro assai del ver di questi giri».



  Paradiso • Canto XXIX


  Quando ambedue li figli di Latona,
  coperti del Montone e de la Libra,
  fanno de l’orizzonte insieme zona,

  quant’ è dal punto che ’l cenìt inlibra
  infin che l’uno e l’altro da quel cinto,
  cambiando l’emisperio, si dilibra,

  tanto, col volto di riso dipinto,
  si tacque Bëatrice, riguardando
  fiso nel punto che m’avëa vinto.

  Poi cominciò: «Io dico, e non dimando,
  quel che tu vuoli udir, perch’ io l’ho visto
  là ’ve s’appunta ogne ubi e ogne quando.

  Non per aver a sé di bene acquisto,
  ch’esser non può, ma perché suo splendore
  potesse, risplendendo, dir “Subsisto”,

  in sua etternità di tempo fore,
  fuor d’ogne altro comprender, come i piacque,
  s’aperse in nuovi amor l’etterno amore.

  Né prima quasi torpente si giacque;
  ché né prima né poscia procedette
  lo discorrer di Dio sovra quest’ acque.

  Forma e materia, congiunte e purette,
  usciro ad esser che non avia fallo,
  come d’arco tricordo tre saette.

  E come in vetro, in ambra o in cristallo
  raggio resplende sì, che dal venire
  a l’esser tutto non è intervallo,

  così ’l triforme effetto del suo sire
  ne l’esser suo raggiò insieme tutto
  sanza distinzïone in essordire.

  Concreato fu ordine e costrutto
  a le sustanze; e quelle furon cima
  nel mondo in che puro atto fu produtto;

  pura potenza tenne la parte ima;
  nel mezzo strinse potenza con atto
  tal vime, che già mai non si divima.

  Ieronimo vi scrisse lungo tratto
  di secoli de li angeli creati
  anzi che l’altro mondo fosse fatto;

  ma questo vero è scritto in molti lati
  da li scrittor de lo Spirito Santo,
  e tu te n’avvedrai se bene agguati;

  e anche la ragione il vede alquanto,
  che non concederebbe che ’ motori
  sanza sua perfezion fosser cotanto.

  Or sai tu dove e quando questi amori
  furon creati e come: sì che spenti
  nel tuo disïo già son tre ardori.

  Né giugneriesi, numerando, al venti
  sì tosto, come de li angeli parte
  turbò il suggetto d’i vostri alimenti.

  L’altra rimase, e cominciò quest’ arte
  che tu discerni, con tanto diletto,
  che mai da circüir non si diparte.

  Principio del cader fu il maladetto
  superbir di colui che tu vedesti
  da tutti i pesi del mondo costretto.

  Quelli che vedi qui furon modesti
  a riconoscer sé da la bontate
  che li avea fatti a tanto intender presti:

  per che le viste lor furo essaltate
  con grazia illuminante e con lor merto,
  si c’hanno ferma e piena volontate;

  e non voglio che dubbi, ma sia certo,
  che ricever la grazia è meritorio
  secondo che l’affetto l’è aperto.

  Omai dintorno a questo consistorio
  puoi contemplare assai, se le parole
  mie son ricolte, sanz’ altro aiutorio.

  Ma perché ’n terra per le vostre scole
  si legge che l’angelica natura
  è tal, che ’ntende e si ricorda e vole,

  ancor dirò, perché tu veggi pura
  la verità che là giù si confonde,
  equivocando in sì fatta lettura.

  Queste sustanze, poi che fur gioconde
  de la faccia di Dio, non volser viso
  da essa, da cui nulla si nasconde:

  però non hanno vedere interciso
  da novo obietto, e però non bisogna
  rememorar per concetto diviso;

  sì che là giù, non dormendo, si sogna,
  credendo e non credendo dicer vero;
  ma ne l’uno è più colpa e più vergogna.

  Voi non andate giù per un sentiero
  filosofando: tanto vi trasporta
  l’amor de l’apparenza e ’l suo pensiero!

  E ancor questo qua sù si comporta
  con men disdegno che quando è posposta
  la divina Scrittura o quando è torta.

  Non vi si pensa quanto sangue costa
  seminarla nel mondo e quanto piace
  chi umilmente con essa s’accosta.

  Per apparer ciascun s’ingegna e face
  sue invenzioni; e quelle son trascorse
  da’ predicanti e ’l Vangelio si tace.

  Un dice che la luna si ritorse
  ne la passion di Cristo e s’interpuose,
  per che ’l lume del sol giù non si porse;

  e mente, ché la luce si nascose
  da sé: però a li Spani e a l’Indi
  come a’ Giudei tale eclissi rispuose.

  Non ha Fiorenza tanti Lapi e Bindi
  quante sì fatte favole per anno
  in pergamo si gridan quinci e quindi:

  sì che le pecorelle, che non sanno,
  tornan del pasco pasciute di vento,
  e non le scusa non veder lo danno.

  Non disse Cristo al suo primo convento:
  ‘Andate, e predicate al mondo ciance’;
  ma diede lor verace fondamento;

  e quel tanto sonò ne le sue guance,
  sì ch’a pugnar per accender la fede
  de l’Evangelio fero scudo e lance.

  Ora si va con motti e con iscede
  a predicare, e pur che ben si rida,
  gonfia il cappuccio e più non si richiede.

  Ma tale uccel nel becchetto s’annida,
  che se ’l vulgo il vedesse, vederebbe
  la perdonanza di ch’el si confida:

  per cui tanta stoltezza in terra crebbe,
  che, sanza prova d’alcun testimonio,
  ad ogne promession si correrebbe.

  Di questo ingrassa il porco sant’ Antonio,
  e altri assai che sono ancor più porci,
  pagando di moneta sanza conio.

  Ma perché siam digressi assai, ritorci
  li occhi oramai verso la dritta strada,
  sì che la via col tempo si raccorci.

  Questa natura sì oltre s’ingrada
  in numero, che mai non fu loquela
  né concetto mortal che tanto vada;

  e se tu guardi quel che si revela
  per Danïel, vedrai che ’n sue migliaia
  determinato numero si cela.

  La prima luce, che tutta la raia,
  per tanti modi in essa si recepe,
  quanti son li splendori a chi s’appaia.

  Onde, però che a l’atto che concepe
  segue l’affetto, d’amar la dolcezza
  diversamente in essa ferve e tepe.

  Vedi l’eccelso omai e la larghezza
  de l’etterno valor, poscia che tanti
  speculi fatti s’ha in che si spezza,

  uno manendo in sé come davanti».



  Paradiso • Canto XXX


  Forse semilia miglia di lontano
  ci ferve l’ora sesta, e questo mondo
  china già l’ombra quasi al letto piano,

  quando ’l mezzo del cielo, a noi profondo,
  comincia a farsi tal, ch’alcuna stella
  perde il parere infino a questo fondo;

  e come vien la chiarissima ancella
  del sol più oltre, così ’l ciel si chiude
  di vista in vista infino a la più bella.

  Non altrimenti il trïunfo che lude
  sempre dintorno al punto che mi vinse,
  parendo inchiuso da quel ch’elli ’nchiude,

  a poco a poco al mio veder si stinse:
  per che tornar con li occhi a Bëatrice
  nulla vedere e amor mi costrinse.

  Se quanto infino a qui di lei si dice
  fosse conchiuso tutto in una loda,
  poca sarebbe a fornir questa vice.

  La bellezza ch’io vidi si trasmoda
  non pur di là da noi, ma certo io credo
  che solo il suo fattor tutta la goda.

  Da questo passo vinto mi concedo
  più che già mai da punto di suo tema
  soprato fosse comico o tragedo:

  ché, come sole in viso che più trema,
  così lo rimembrar del dolce riso
  la mente mia da me medesmo scema.

  Dal primo giorno ch’i’ vidi il suo viso
  in questa vita, infino a questa vista,
  non m’è il seguire al mio cantar preciso;

  ma or convien che mio seguir desista
  più dietro a sua bellezza, poetando,
  come a l’ultimo suo ciascuno artista.

  Cotal qual io lascio a maggior bando
  che quel de la mia tuba, che deduce
  l’ardüa sua matera terminando,

  con atto e voce di spedito duce
  ricominciò: «Noi siamo usciti fore
  del maggior corpo al ciel ch’è pura luce:

  luce intellettüal, piena d’amore;
  amor di vero ben, pien di letizia;
  letizia che trascende ogne dolzore.

  Qui vederai l’una e l’altra milizia
  di paradiso, e l’una in quelli aspetti
  che tu vedrai a l’ultima giustizia».

  Come sùbito lampo che discetti
  li spiriti visivi, sì che priva
  da l’atto l’occhio di più forti obietti,

  così mi circunfulse luce viva,
  e lasciommi fasciato di tal velo
  del suo fulgor, che nulla m’appariva.

  «Sempre l’amor che queta questo cielo
  accoglie in sé con sì fatta salute,
  per far disposto a sua fiamma il candelo».

  Non fur più tosto dentro a me venute
  queste parole brievi, ch’io compresi
  me sormontar di sopr’ a mia virtute;

  e di novella vista mi raccesi
  tale, che nulla luce è tanto mera,
  che li occhi miei non si fosser difesi;

  e vidi lume in forma di rivera
  fulvido di fulgore, intra due rive
  dipinte di mirabil primavera.

  Di tal fiumana uscian faville vive,
  e d’ogne parte si mettien ne’ fiori,
  quasi rubin che oro circunscrive;

  poi, come inebrïate da li odori,
  riprofondavan sé nel miro gurge,
  e s’una intrava, un’altra n’uscia fori.

  «L’alto disio che mo t’infiamma e urge,
  d’aver notizia di ciò che tu vei,
  tanto mi piace più quanto più turge;

  ma di quest’ acqua convien che tu bei
  prima che tanta sete in te si sazi»:
  così mi disse il sol de li occhi miei.

  Anche soggiunse: «Il fiume e li topazi
  ch’entrano ed escono e ’l rider de l’erbe
  son di lor vero umbriferi prefazi.

  Non che da sé sian queste cose acerbe;
  ma è difetto da la parte tua,
  che non hai viste ancor tanto superbe».

  Non è fantin che sì sùbito rua
  col volto verso il latte, se si svegli
  molto tardato da l’usanza sua,

  come fec’ io, per far migliori spegli
  ancor de li occhi, chinandomi a l’onda
  che si deriva perché vi s’immegli;

  e sì come di lei bevve la gronda
  de le palpebre mie, così mi parve
  di sua lunghezza divenuta tonda.

  Poi, come gente stata sotto larve,
  che pare altro che prima, se si sveste
  la sembianza non süa in che disparve,

  così mi si cambiaro in maggior feste
  li fiori e le faville, sì ch’io vidi
  ambo le corti del ciel manifeste.

  O isplendor di Dio, per cu’ io vidi
  l’alto trïunfo del regno verace,
  dammi virtù a dir com’ ïo il vidi!

  Lume è là sù che visibile face
  lo creatore a quella creatura
  che solo in lui vedere ha la sua pace.

  E’ si distende in circular figura,
  in tanto che la sua circunferenza
  sarebbe al sol troppo larga cintura.

  Fassi di raggio tutta sua parvenza
  reflesso al sommo del mobile primo,
  che prende quindi vivere e potenza.

  E come clivo in acqua di suo imo
  si specchia, quasi per vedersi addorno,
  quando è nel verde e ne’ fioretti opimo,

  sì, soprastando al lume intorno intorno,
  vidi specchiarsi in più di mille soglie
  quanto di noi là sù fatto ha ritorno.

  E se l’infimo grado in sé raccoglie
  sì grande lume, quanta è la larghezza
  di questa rosa ne l’estreme foglie!

  La vista mia ne l’ampio e ne l’altezza
  non si smarriva, ma tutto prendeva
  il quanto e ’l quale di quella allegrezza.

  Presso e lontano, lì, né pon né leva:
  ché dove Dio sanza mezzo governa,
  la legge natural nulla rileva.

  Nel giallo de la rosa sempiterna,
  che si digrada e dilata e redole
  odor di lode al sol che sempre verna,

  qual è colui che tace e dicer vole,
  mi trasse Bëatrice, e disse: «Mira
  quanto è ’l convento de le bianche stole!

  Vedi nostra città quant’ ella gira;
  vedi li nostri scanni sì ripieni,
  che poca gente più ci si disira.

  E ’n quel gran seggio a che tu li occhi tieni
  per la corona che già v’è sù posta,
  prima che tu a queste nozze ceni,

  sederà l’alma, che fia giù agosta,
  de l’alto Arrigo, ch’a drizzare Italia
  verrà in prima ch’ella sia disposta.

  La cieca cupidigia che v’ammalia
  simili fatti v’ha al fantolino
  che muor per fame e caccia via la balia.

  E fia prefetto nel foro divino
  allora tal, che palese e coverto
  non anderà con lui per un cammino.

  Ma poco poi sarà da Dio sofferto
  nel santo officio; ch’el sarà detruso
  là dove Simon mago è per suo merto,

  e farà quel d’Alagna intrar più giuso».



  Paradiso • Canto XXXI


  In forma dunque di candida rosa
  mi si mostrava la milizia santa
  che nel suo sangue Cristo fece sposa;

  ma l’altra, che volando vede e canta
  la gloria di colui che la ’nnamora
  e la bontà che la fece cotanta,

  sì come schiera d’ape che s’infiora
  una fïata e una si ritorna
  là dove suo laboro s’insapora,

  nel gran fior discendeva che s’addorna
  di tante foglie, e quindi risaliva
  là dove ’l süo amor sempre soggiorna.

  Le facce tutte avean di fiamma viva
  e l’ali d’oro, e l’altro tanto bianco,
  che nulla neve a quel termine arriva.

  Quando scendean nel fior, di banco in banco
  porgevan de la pace e de l’ardore
  ch’elli acquistavan ventilando il fianco.

  Né l’interporsi tra ’l disopra e ’l fiore
  di tanta moltitudine volante
  impediva la vista e lo splendore:

  ché la luce divina è penetrante
  per l’universo secondo ch’è degno,
  sì che nulla le puote essere ostante.

  Questo sicuro e gaudïoso regno,
  frequente in gente antica e in novella,
  viso e amore avea tutto ad un segno.

  O trina luce che ’n unica stella
  scintillando a lor vista, sì li appaga!
  guarda qua giuso a la nostra procella!

  Se i barbari, venendo da tal plaga
  che ciascun giorno d’Elice si cuopra,
  rotante col suo figlio ond’ ella è vaga,

  veggendo Roma e l’ardüa sua opra,
  stupefaciensi, quando Laterano
  a le cose mortali andò di sopra;

  ïo, che al divino da l’umano,
  a l’etterno dal tempo era venuto,
  e di Fiorenza in popol giusto e sano,

  di che stupor dovea esser compiuto!
  Certo tra esso e ’l gaudio mi facea
  libito non udire e starmi muto.

  E quasi peregrin che si ricrea
  nel tempio del suo voto riguardando,
  e spera già ridir com’ ello stea,

  su per la viva luce passeggiando,
  menava ïo li occhi per li gradi,
  mo sù, mo giù e mo recirculando.

  Vedëa visi a carità süadi,
  d’altrui lume fregiati e di suo riso,
  e atti ornati di tutte onestadi.

  La forma general di paradiso
  già tutta mïo sguardo avea compresa,
  in nulla parte ancor fermato fiso;

  e volgeami con voglia rïaccesa
  per domandar la mia donna di cose
  di che la mente mia era sospesa.

  Uno intendëa, e altro mi rispuose:
  credea veder Beatrice e vidi un sene
  vestito con le genti glorïose.

  Diffuso era per li occhi e per le gene
  di benigna letizia, in atto pio
  quale a tenero padre si convene.

  E «Ov’ è ella?», sùbito diss’ io.
  Ond’ elli: «A terminar lo tuo disiro
  mosse Beatrice me del loco mio;

  e se riguardi sù nel terzo giro
  dal sommo grado, tu la rivedrai
  nel trono che suoi merti le sortiro».

  Sanza risponder, li occhi sù levai,
  e vidi lei che si facea corona
  reflettendo da sé li etterni rai.

  Da quella regïon che più sù tona
  occhio mortale alcun tanto non dista,
  qualunque in mare più giù s’abbandona,

  quanto lì da Beatrice la mia vista;
  ma nulla mi facea, ché süa effige
  non discendëa a me per mezzo mista.

  «O donna in cui la mia speranza vige,
  e che soffristi per la mia salute
  in inferno lasciar le tue vestige,

  di tante cose quant’ i’ ho vedute,
  dal tuo podere e da la tua bontate
  riconosco la grazia e la virtute.

  Tu m’hai di servo tratto a libertate
  per tutte quelle vie, per tutt’ i modi
  che di ciò fare avei la potestate.

  La tua magnificenza in me custodi,
  sì che l’anima mia, che fatt’ hai sana,
  piacente a te dal corpo si disnodi».

  Così orai; e quella, sì lontana
  come parea, sorrise e riguardommi;
  poi si tornò a l’etterna fontana.

  E ’l santo sene: «Acciò che tu assommi
  perfettamente», disse, «il tuo cammino,
  a che priego e amor santo mandommi,

  vola con li occhi per questo giardino;
  ché veder lui t’acconcerà lo sguardo
  più al montar per lo raggio divino.

  E la regina del cielo, ond’ ïo ardo
  tutto d’amor, ne farà ogne grazia,
  però ch’i’ sono il suo fedel Bernardo».

  Qual è colui che forse di Croazia
  viene a veder la Veronica nostra,
  che per l’antica fame non sen sazia,

  ma dice nel pensier, fin che si mostra:
  ‘Segnor mio Iesù Cristo, Dio verace,
  or fu sì fatta la sembianza vostra?’;

  tal era io mirando la vivace
  carità di colui che ’n questo mondo,
  contemplando, gustò di quella pace.

  «Figliuol di grazia, quest’ esser giocondo»,
  cominciò elli, «non ti sarà noto,
  tenendo li occhi pur qua giù al fondo;

  ma guarda i cerchi infino al più remoto,
  tanto che veggi seder la regina
  cui questo regno è suddito e devoto».

  Io levai li occhi; e come da mattina
  la parte orïental de l’orizzonte
  soverchia quella dove ’l sol declina,

  così, quasi di valle andando a monte
  con li occhi, vidi parte ne lo stremo
  vincer di lume tutta l’altra fronte.

  E come quivi ove s’aspetta il temo
  che mal guidò Fetonte, più s’infiamma,
  e quinci e quindi il lume si fa scemo,

  così quella pacifica oriafiamma
  nel mezzo s’avvivava, e d’ogne parte
  per igual modo allentava la fiamma;

  e a quel mezzo, con le penne sparte,
  vid’ io più di mille angeli festanti,
  ciascun distinto di fulgore e d’arte.

  Vidi a lor giochi quivi e a lor canti
  ridere una bellezza, che letizia
  era ne li occhi a tutti li altri santi;

  e s’io avessi in dir tanta divizia
  quanta ad imaginar, non ardirei
  lo minimo tentar di sua delizia.

  Bernardo, come vide li occhi miei
  nel caldo suo caler fissi e attenti,
  li suoi con tanto affetto volse a lei,

  che ’ miei di rimirar fé più ardenti.



  Paradiso • Canto XXXII


  Affetto al suo piacer, quel contemplante
  libero officio di dottore assunse,
  e cominciò queste parole sante:

  «La piaga che Maria richiuse e unse,
  quella ch’è tanto bella da’ suoi piedi
  è colei che l’aperse e che la punse.

  Ne l’ordine che fanno i terzi sedi,
  siede Rachel di sotto da costei
  con Bëatrice, sì come tu vedi.

  Sarra e Rebecca, Iudìt e colei
  che fu bisava al cantor che per doglia
  del fallo disse ‘Miserere mei’,

  puoi tu veder così di soglia in soglia
  giù digradar, com’ io ch’a proprio nome
  vo per la rosa giù di foglia in foglia.

  E dal settimo grado in giù, sì come
  infino ad esso, succedono Ebree,
  dirimendo del fior tutte le chiome;

  perché, secondo lo sguardo che fée
  la fede in Cristo, queste sono il muro
  a che si parton le sacre scalee.

  Da questa parte onde ’l fiore è maturo
  di tutte le sue foglie, sono assisi
  quei che credettero in Cristo venturo;

  da l’altra parte onde sono intercisi
  di vòti i semicirculi, si stanno
  quei ch’a Cristo venuto ebber li visi.

  E come quinci il glorïoso scanno
  de la donna del cielo e li altri scanni
  di sotto lui cotanta cerna fanno,

  così di contra quel del gran Giovanni,
  che sempre santo ’l diserto e ’l martiro
  sofferse, e poi l’inferno da due anni;

  e sotto lui così cerner sortiro
  Francesco, Benedetto e Augustino
  e altri fin qua giù di giro in giro.

  Or mira l’alto proveder divino:
  ché l’uno e l’altro aspetto de la fede
  igualmente empierà questo giardino.

  E sappi che dal grado in giù che fiede
  a mezzo il tratto le due discrezioni,
  per nullo proprio merito si siede,

  ma per l’altrui, con certe condizioni:
  ché tutti questi son spiriti ascolti
  prima ch’avesser vere elezïoni.

  Ben te ne puoi accorger per li volti
  e anche per le voci püerili,
  se tu li guardi bene e se li ascolti.

  Or dubbi tu e dubitando sili;
  ma io discioglierò ’l forte legame
  in che ti stringon li pensier sottili.

  Dentro a l’ampiezza di questo reame
  casüal punto non puote aver sito,
  se non come tristizia o sete o fame:

  ché per etterna legge è stabilito
  quantunque vedi, sì che giustamente
  ci si risponde da l’anello al dito;

  e però questa festinata gente
  a vera vita non è sine causa
  intra sé qui più e meno eccellente.

  Lo rege per cui questo regno pausa
  in tanto amore e in tanto diletto,
  che nulla volontà è di più ausa,

  le menti tutte nel suo lieto aspetto
  creando, a suo piacer di grazia dota
  diversamente; e qui basti l’effetto.

  E ciò espresso e chiaro vi si nota
  ne la Scrittura santa in quei gemelli
  che ne la madre ebber l’ira commota.

  Però, secondo il color d’i capelli,
  di cotal grazia l’altissimo lume
  degnamente convien che s’incappelli.

  Dunque, sanza mercé di lor costume,
  locati son per gradi differenti,
  sol differendo nel primiero acume.

  Bastavasi ne’ secoli recenti
  con l’innocenza, per aver salute,
  solamente la fede d’i parenti;

  poi che le prime etadi fuor compiute,
  convenne ai maschi a l’innocenti penne
  per circuncidere acquistar virtute;

  ma poi che ’l tempo de la grazia venne,
  sanza battesmo perfetto di Cristo
  tale innocenza là giù si ritenne.

  Riguarda omai ne la faccia che a Cristo
  più si somiglia, ché la sua chiarezza
  sola ti può disporre a veder Cristo».

  Io vidi sopra lei tanta allegrezza
  piover, portata ne le menti sante
  create a trasvolar per quella altezza,

  che quantunque io avea visto davante,
  di tanta ammirazion non mi sospese,
  né mi mostrò di Dio tanto sembiante;

  e quello amor che primo lì discese,
  cantando ‘Ave, Maria, gratïa plena’,
  dinanzi a lei le sue ali distese.

  Rispuose a la divina cantilena
  da tutte parti la beata corte,
  sì ch’ogne vista sen fé più serena.

  «O santo padre, che per me comporte
  l’esser qua giù, lasciando il dolce loco
  nel qual tu siedi per etterna sorte,

  qual è quell’ angel che con tanto gioco
  guarda ne li occhi la nostra regina,
  innamorato sì che par di foco?».

  Così ricorsi ancora a la dottrina
  di colui ch’abbelliva di Maria,
  come del sole stella mattutina.

  Ed elli a me: «Baldezza e leggiadria
  quant’ esser puote in angelo e in alma,
  tutta è in lui; e sì volem che sia,

  perch’ elli è quelli che portò la palma
  giuso a Maria, quando ’l Figliuol di Dio
  carcar si volse de la nostra salma.

  Ma vieni omai con li occhi sì com’ io
  andrò parlando, e nota i gran patrici
  di questo imperio giustissimo e pio.

  Quei due che seggon là sù più felici
  per esser propinquissimi ad Agusta,
  son d’esta rosa quasi due radici:

  colui che da sinistra le s’aggiusta
  è il padre per lo cui ardito gusto
  l’umana specie tanto amaro gusta;

  dal destro vedi quel padre vetusto
  di Santa Chiesa a cui Cristo le chiavi
  raccomandò di questo fior venusto.

  E quei che vide tutti i tempi gravi,
  pria che morisse, de la bella sposa
  che s’acquistò con la lancia e coi clavi,

  siede lungh’ esso, e lungo l’altro posa
  quel duca sotto cui visse di manna
  la gente ingrata, mobile e retrosa.

  Di contr’ a Pietro vedi sedere Anna,
  tanto contenta di mirar sua figlia,
  che non move occhio per cantare osanna;

  e contro al maggior padre di famiglia
  siede Lucia, che mosse la tua donna
  quando chinavi, a rovinar, le ciglia.

  Ma perché ’l tempo fugge che t’assonna,
  qui farem punto, come buon sartore
  che com’ elli ha del panno fa la gonna;

  e drizzeremo li occhi al primo amore,
  sì che, guardando verso lui, penètri
  quant’ è possibil per lo suo fulgore.

  Veramente, ne forse tu t’arretri
  movendo l’ali tue, credendo oltrarti,
  orando grazia conven che s’impetri

  grazia da quella che puote aiutarti;
  e tu mi seguirai con l’affezione,
  sì che dal dicer mio lo cor non parti».

  E cominciò questa santa orazione:



  Paradiso • Canto XXXIII


  «Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
  umile e alta più che creatura,
  termine fisso d’etterno consiglio,

  tu se’ colei che l’umana natura
  nobilitasti sì, che ’l suo fattore
  non disdegnò di farsi sua fattura.

  Nel ventre tuo si raccese l’amore,
  per lo cui caldo ne l’etterna pace
  così è germinato questo fiore.

  Qui se’ a noi meridïana face
  di caritate, e giuso, intra ’ mortali,
  se’ di speranza fontana vivace.

  Donna, se’ tanto grande e tanto vali,
  che qual vuol grazia e a te non ricorre,
  sua disïanza vuol volar sanz’ ali.

  La tua benignità non pur soccorre
  a chi domanda, ma molte fïate
  liberamente al dimandar precorre.

  In te misericordia, in te pietate,
  in te magnificenza, in te s’aduna
  quantunque in creatura è di bontate.

  Or questi, che da l’infima lacuna
  de l’universo infin qui ha vedute
  le vite spiritali ad una ad una,

  supplica a te, per grazia, di virtute
  tanto, che possa con li occhi levarsi
  più alto verso l’ultima salute.

  E io, che mai per mio veder non arsi
  più ch’i’ fo per lo suo, tutti miei prieghi
  ti porgo, e priego che non sieno scarsi,

  perché tu ogne nube li disleghi
  di sua mortalità co’ prieghi tuoi,
  sì che ’l sommo piacer li si dispieghi.

  Ancor ti priego, regina, che puoi
  ciò che tu vuoli, che conservi sani,
  dopo tanto veder, li affetti suoi.

  Vinca tua guardia i movimenti umani:
  vedi Beatrice con quanti beati
  per li miei prieghi ti chiudon le mani!».

  Li occhi da Dio diletti e venerati,
  fissi ne l’orator, ne dimostraro
  quanto i devoti prieghi le son grati;

  indi a l’etterno lume s’addrizzaro,
  nel qual non si dee creder che s’invii
  per creatura l’occhio tanto chiaro.

  E io ch’al fine di tutt’ i disii
  appropinquava, sì com’ io dovea,
  l’ardor del desiderio in me finii.

  Bernardo m’accennava, e sorridea,
  perch’ io guardassi suso; ma io era
  già per me stesso tal qual ei volea:

  ché la mia vista, venendo sincera,
  e più e più intrava per lo raggio
  de l’alta luce che da sé è vera.

  Da quinci innanzi il mio veder fu maggio
  che ’l parlar mostra, ch’a tal vista cede,
  e cede la memoria a tanto oltraggio.

  Qual è colüi che sognando vede,
  che dopo ’l sogno la passione impressa
  rimane, e l’altro a la mente non riede,

  cotal son io, ché quasi tutta cessa
  mia visïone, e ancor mi distilla
  nel core il dolce che nacque da essa.

  Così la neve al sol si disigilla;
  così al vento ne le foglie levi
  si perdea la sentenza di Sibilla.

  O somma luce che tanto ti levi
  da’ concetti mortali, a la mia mente
  ripresta un poco di quel che parevi,

  e fa la lingua mia tanto possente,
  ch’una favilla sol de la tua gloria
  possa lasciare a la futura gente;

  ché, per tornare alquanto a mia memoria
  e per sonare un poco in questi versi,
  più si conceperà di tua vittoria.

  Io credo, per l’acume ch’io soffersi
  del vivo raggio, ch’i’ sarei smarrito,
  se li occhi miei da lui fossero aversi.

  E’ mi ricorda ch’io fui più ardito
  per questo a sostener, tanto ch’i’ giunsi
  l’aspetto mio col valore infinito.

  Oh abbondante grazia ond’ io presunsi
  ficcar lo viso per la luce etterna,
  tanto che la veduta vi consunsi!

  Nel suo profondo vidi che s’interna,
  legato con amore in un volume,
  ciò che per l’universo si squaderna:

  sustanze e accidenti e lor costume
  quasi conflati insieme, per tal modo
  che ciò ch’i’ dico è un semplice lume.

  La forma universal di questo nodo
  credo ch’i’ vidi, perché più di largo,
  dicendo questo, mi sento ch’i’ godo.

  Un punto solo m’è maggior letargo
  che venticinque secoli a la ’mpresa
  che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo.

  Così la mente mia, tutta sospesa,
  mirava fissa, immobile e attenta,
  e sempre di mirar faceasi accesa.

  A quella luce cotal si diventa,
  che volgersi da lei per altro aspetto
  è impossibil che mai si consenta;

  però che ’l ben, ch’è del volere obietto,
  tutto s’accoglie in lei, e fuor di quella
  è defettivo ciò ch’è lì perfetto.

  Omai sarà più corta mia favella,
  pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante
  che bagni ancor la lingua a la mammella.

  Non perché più ch’un semplice sembiante
  fosse nel vivo lume ch’io mirava,
  che tal è sempre qual s’era davante;

  ma per la vista che s’avvalorava
  in me guardando, una sola parvenza,
  mutandom’ io, a me si travagliava.

  Ne la profonda e chiara sussistenza
  de l’alto lume parvermi tre giri
  di tre colori e d’una contenenza;

  e l’un da l’altro come iri da iri
  parea reflesso, e ’l terzo parea foco
  che quinci e quindi igualmente si spiri.

  Oh quanto è corto il dire e come fioco
  al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi,
  è tanto, che non basta a dicer ‘poco’.

  O luce etterna che sola in te sidi,
  sola t’intendi, e da te intelletta
  e intendente te ami e arridi!

  Quella circulazion che sì concetta
  pareva in te come lume reflesso,
  da li occhi miei alquanto circunspetta,

  dentro da sé, del suo colore stesso,
  mi parve pinta de la nostra effige:
  per che ’l mio viso in lei tutto era messo.

  Qual è ’l geomètra che tutto s’affige
  per misurar lo cerchio, e non ritrova,
  pensando, quel principio ond’ elli indige,

  tal era io a quella vista nova:
  veder voleva come si convenne
  l’imago al cerchio e come vi s’indova;

  ma non eran da ciò le proprie penne:
  se non che la mia mente fu percossa
  da un fulgore in che sua voglia venne.

  A l’alta fantasia qui mancò possa;
  ma già volgeva il mio disio e ’l velle,
  sì come rota ch’igualmente è mossa,

  l’amor che move il sole e l’altre stelle.



  - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - -

  TAVOLA DEI CARATTERI SPECIALI
  TABLE OF SPECIAL CHARACTERS

      à = a grave
      è = e grave
      ì = i grave
      ò = o grave
      ù = u grave

      é = e acute
      ó = o acute

      ä = a uml
      ë = e uml
      ï = i uml
      ö = o uml
      ü = u uml

      È = E grave
      Ë = E uml
      Ï = I uml

      « = left angle quotation mark
      » = right angle quotation mark

      “ = left double quotation mark
      ” = right double quotation mark

      ‘ = left single quotation mark
      ’ = right single quotation mark

      — = em dash

      • = middot

  . . . = ellipsis





*** End of this LibraryBlog Digital Book "La Divina Commedia di Dante: Paradiso" ***

Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.



Home