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Title: Viaggi di Ali Bey el-Abbassi in Africa ed in Asia, v. 4
Author: al-Abbasi, Ali Bey
Language: Italian
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  VIAGGI DI ALI BEY EL-ABBASSI

  IN AFRICA ED IN ASIA

  DALL'ANNO 1803 A TUTTO IL 1807


  _TRADOTTI_
  DAL DOTTORE STEFANO TICOZZI
  con tavole in rame colorate


  TOMO IV


  MILANO
  Dalla Tipografia SONZOGNO e COMP.
  1817.



VIAGGI IN AFFRICA ED IN ASIA

FATTI DAL 1803 AL 1807.



CAPITOLO XLIV.

   _Haram, ossia Tempio musulmano nel luogo dell'antico tempio di
   Salomone._


_El-Haram_, o il Tempio, detto altresì _Beit-el Mokaddes-el-Scherif_, o
la casa santa principale di Gerusalemme, è una unione di più edificj
fabbricati in varie epoche dell'islamismo, e che portano con loro
l'impronta del gusto dominante de' diversi secoli in cui furono fatti;
formando non pertanto un tutt'insieme abbastanza armonico. Non è
precisamente una moschea, ma un gruppo di moschee. Il suo nome Arabo
_El-Haram_ significa positivamente un tempio, un luogo consacrato dalla
presenza particolare della Divinità, e proibito ai profani,
agl'infedeli. La religione Musulmana non riconosce che due tempj;
questo, e quello della Mecca, il di cui ingresso è dalla legge proibito
a chiunque non sia musulmano, a differenza delle altre moschee non
proibite da alcun precetto canonico; cosicchè in virtù d'un ordine della
pubblica autorità un cristiano può entrare ancora nella moschea di
_Santa Sofia_ di Costantinopoli: ma nessun governatore Musulmano
ardirebbe permettere ad un infedele di penetrare sul territorio della
Mecca, o nel tempio di Gerusalemme; perchè tale licenza sarebbe
riguardata quale orribile sacrilegio, non sarebbe tollerata dal popolo,
e l'infedele, che tentasse di metter piede in questi santi luoghi
sarebbe la vittima della sua imprudenza.

   [Illustrazione: PORTA DEL CAIRO NOMINATA BEB EL FATHA.]

Questo monumento forma l'angolo S. E. della città di Gerusalemme, nel
luogo medesimo in cui era altra volta il tempio di _Salomone_.

La storia musulmana attribuisce all'antico tempio de' Giudei 1563 piedi
e 3 pollici di lunghezza, e 958 piedi e tre pollici di larghezza della
misura Parigina. Il nuovo è composto d'una gran corte, o piazza chiusa,
lunga 1369 piedi, e larga 845. Ha nove porte dalla banda occidentale e
settentrionale, ma nessuna a levante e a mezzodì, perchè chiusa dalle
mura della città, che si alzano al di fuori sull'orlo dei precipizj del
torrente Cedron, e sull'orlo del burrone che la divide al S. dal monte
Sion.

La parte principale del tempio è formata di due corpi di magnifici
edificj, che potrebbero riguardarsi come due diversi tempj: ma per la
loro rispettiva situazione formano un insieme simmetrico, che non manca
d'una tal quale unità. Uno chiamasi _Aksa_, e l'altro _el-Sahhera_.

Il primo è composto di sette navi sostenute da pilastri e da colonne; ed
in testa alla nave del centro ha una bella cupola, a destra ed a
sinistra della quale apronsi due altre navi perpendicolari al corpo
principale della chiesa. Questo principal corpo è preceduto da un
portico di sette archi di fronte sopra uno di profondità, sostenuti da
pilastri quadrati; e l'arco centrale che risponde all'asse dell'edificio
ha inoltre colonne incrostate aderenti ai pilastri. La maggior nave può
avere 162 piedi di lunghezza e 32 di larghezza. È sostenuta da sette
archi, leggermente acuti, da ogni lato appoggiati sopra pilastri
cilindrici in forma di colonne, ma senza alcuna proporzione
architettonica, con capitelli a foglie che non appartengono a verun
ordine. I piloni cilindrici hanno più di due piedi e mezzo di diametro,
e sedici piedi d'altezza comprendendo anche le basi ed i capitelli. I
muri si alzano tredici piedi sopra gli archi con due ordini di 21
finestre per ogni rango; e quelle dell'ordine superiore guardano sulla
parte esterna perchè la nave centrale è più alta delle sei laterali, e
le finestre dell'ordine inferiore guardano nella parte interna delle
altre navi. Il tetto è di legno senza volta.

Le navi laterali sono appoggiate sopra archi eguali a quelli della
centrale, sostenuti da pilastri quadrati.

La cupola è sostenuta da quattro grandi archi appoggiati sopra quattro
pilastri quadrati, che hanno belle colonne di marmo bruno balzanti dai
diversi loro lati. Questa cupola è sferica con due ordini di fenestre,
ed ornata di rabeschi dipinti e dorati assai belli.

Il suo diametro è uguale a quello della nave centrale.

Le navi laterali alla cupola sono sostenute da belle colonne di marmo
bruno simili a quelle degli archi di mezzo. Il braccio che si dispiega a
sinistra, perpendicolarmente al fondo della nave centrale, è formato
d'una semplice volta assai bassa, ed ha due navi. La volta del califfo
_Omar_ può avere press'a poco dodici piedi di lunghezza; l'altra sembra
avere la stessa lunghezza, ma è chiusa da una grata di legno; e perciò
io non vi entrai.

Nella parte esterna a sinistra sono addossate all'_Aksa_ molte case mal
fatte ove abitano gli impiegati dell'Haram. Avvi in faccia alla porta
principale un rialto lungo 284 piedi, in mezzo al quale trovasi una
bella vasca di marmo con un lavoro in forma di conchiglia, che
anticamente mesceva acqua. In fondo al rialto una superba scala conduce
all'_El-Sahhara_, che è l'altro ragguardevole edificio dell'Haram, il
quale riceve il nome da una rupe assai rispettata che trovasi nel suo
centro.

Il Sahhara è posto sopra un piano parallelogrammo lungo circa 460 piedi,
e largo 599. È sedici piedi più alto del piano generale dell'Haram, e vi
si sale per otto scale poste due al sud, due al nord, una all'est, e tre
all'ovest. Quasi in mezzo a questo piano superiore lastricato di bei
marmi sollevasi il magnifico edificio del _Sahhara_, tempio ottagono, i
di cui lati nella parte esterna sono lunghi sessantun piedi.

Si entra nel tempio per quattro porte collocate ne' quattro punti
cardinali dette _Beb-el-Kebla_, _el-Garb_, _Djenna_ e _Davoud_. La prima
ha un bellissimo portico sostenuto da otto colonne corintie di marmo. Le
altre sono senza portico.

Dal centro dell'edificio si spinge in alto una cupola sferica con due
ordini di grandi finestre, e sostenuta da quattro grossi piloni e da
dodici magnifiche colonne disposte in cerchio.

Questo cerchio centrale è circondato da due navi ottagone concentriche,
tra loro separate da otto pilastri e da sedici colonne della stessa
specie e grandezza di quelle del centro, del più bel marmo bruno che
vedere si possa. I tetti sono piani, ed ogni cosa è coperta d'ornati del
più squisito gusto e di modanature in marmo ed in oro ec. I capitelli
delle colonne sono d'ordine composito interamente dorati, ed attiche la
basi delle colonne, che formano il cerchio centrale; e quelle che
trovansi tra le navi ottagone, sono tagliate nella parte inferiore e
senza listello, ed invece della base vengono portate da un dado di marmo
bianco. La proporzione delle colonne le avvicina all'ordine corintio: il
loro fusto è di sedici piedi.

La cupola ha quaranta piedi di diametro sopra novantatrè di altezza, ed
il totale diametro dell'edificio è press'a poco di cento cinquantanove
piedi e mezzo. Il piano del cerchio centrale, tre piedi e mezzo più alto
di quello delle navi che lo circondano, vien chiuso da un'alta e
magnifica grata di ferro dorato.

Entro a questo cerchio chiudesi la rupe _el-Sahhàra Allàh_, che è il
principale oggetto di questo ricco edifizio, ed in generale di quello
del tempio di Gerusalemme. _El Hadjerà el Sàhhara_, o rupe Sahhara, esce
di terra sopra un diametro medio di trentatre piedi in forma di segmento
di sfera. La sua superficie è disuguale, scabra, e nella sua forma
naturale. Nel fianco del nord vi si vede una cavità, che la tradizione
dice fatta dai Cristiani, che volevano rubare la porzione del masso che
manca; ma che questa si fece allora invisibile agli occhi degl'infedeli,
che fu poi trovata dai fedeli credenti divisa in due parti, che ora
trovansi in altri luoghi dell'Haram.

Il fedele musulmano crede che il _Sahhàra-Hallàh_ sia il luogo in cui le
preghiere degli uomini riescono più care alla divinità, dopo la casa
della Mecca. Per tale motivo tutti i Profeti dalla creazione del mondo
fino a _Maometto_ ci vennero a pregare, ed anco presentemente i profeti
e gli angioli vengono in schiere invisibili a fare le loro preghiere
sulla pietra, non compresa la guardia ordinaria di settantamil'angeli
che continuamente la circondano, dandosi ogni giorno la muta.

La notte che il profeta _Maometto_ fu rapito nella Mecca dall'angelo
_Gabriele_, e trasportato colla velocità del lampo a Gerusalemme sopra
la giumenta _El-Boràk_, che ha testa e seno di bella donna, lasciata la
giumenta alla porta del tempio, venne a fare la sua preghiera sul
Sahhara cogli altri profeti ed angioli, che avendolo rispettosamente
salutato gli cedettero il luogo d'onore.

Nell'istante in cui il Profeta si fermò sopra il Sahhara, la pietra
sensibile alla felicità di portare questa santa salma si abbassò, e come
una molle cera ricevette nella sua parte superiore verso il nord
l'impronta del suo sacro piede. Questa impronta fu poi coperta da una
specie di gabbia di filo di metallo dorato, fatta in modo che non si
vede l'impronta per causa dell'interna oscurità, ma si può per
un'apertura fatta nella gabbia toccare colla mano; e ci santifichiamo
passando all'istante la stessa mano sul volto e sulla barba: prova
troppo manifesta che dessa è la vera orma del piede del più grande dei
profeti.

L'interno della roccia forma una cavità nella quale si scende per una
scala dal lato di S. O. Vi si trova una camera d'un quadrato irregolare
di diciotto piedi di superficie, alta nel centro otto piedi. Il palco
consiste in una volta naturale irregolare. In fondo alla scala vedesi
alla diritta un piccolo frontispizio di marmo che porta il nome di
_el-Makam-Soulimàn_ossia lungo di _Salomone_; ed un'altra lapide posta a
sinistra chiamasi _el-Makam-Davoud_, luogo di _Davide_. Chiamasi poi
_el-Makam-Ibrahim_, o luogo d'_Abramo_, una nicchia cavata nella roccia
nel lato di S. O.; come un gradino semicircolare concavo si dice
_el-Makam Djibrila_, luogo di _Gabriele_: finalmente viene chiamato
luogo d'_Elia el-Makam el-Hòder_, una specie di tavola di pietra
all'angolo N. E.

In mezzo alla camera la spessezza della volta vedesi forata in forma
d'abbaìno cilindrico di tre piedi di diametro; e questo è il luogo del
Profeta.

La rupe è circondata da uno steccato di legno ad altezza d'appoggio; ed
al di sopra a cinque in sei piedi d'altezza vi è un padiglione di seta a
liste alternative rosse e verdi, sospese su tutta la larghezza della
rupe con pilastri e colonne.

Per quanto ho potuto vedere, sopra tutto l'interno della cantinetta,
questa rupe parmi di marmo fino, di color bianco rossastro.

A poca distanza dalla parte settentrionale vedesi nel pavimento un marmo
quadrato verde marezzato bellissimo, di circa quindici pollici da ogni
parte, assicurato con quattro o cinque chiodi dorati; e si dice essere
la porta del paradiso. Varj altri fori indicano ch'era fermato con più
chiodi che non lo è al presente, i quali chiodi credono che siano stati
rubati dal Diavolo, quando tentò d'introdursi in paradiso, impeditone
dal non aver potuto svellere i chiodi che tuttavia rimangono.

Il Sahhara ha una tribuna di legno pei cantori sostenuta da piccole
colonne. Vi ho veduto un Corano i di cui fogli sono quasi alti quattro
piedi, e più di due e mezzo larghi. Si pretende che appartenesse al
Califfo _Omar_; ma si dice lo stesso di altri affatto somiglianti che mi
furono mostrati al Cairo ed alla Mecca.

L'esterno del Sahhara è incrostato di varie qualità di marmi, fino a
metà della sua altezza; il rimanente è ricoperto di piccoli mattoni di
diversi colori elegantemente disposti. Le cinque finestre per ogni lato
dell'ottagono sono chiuse con bei vetri dipinti a rabeschi.

Il tempio ha quattro torri; una sull'angolo S. O. della gran corte, la
seconda nel mezzo del lato occidentale, un'altra sull'angolo N. O., e
l'ultima sull'angolo N. E. dello stesso cortile.



CAPITOLO XLV.

   _Viaggio al sepolcro di Davide, e ad altri sepolcri. — Viaggio
   al monte Oliveto. — Al sepolcro d'Abramo ad Hébron. — Al
   presepio di Cristo a Betlemme. — Al sepolcro della Vergine. —
   Al Calvario ed al sepolcro di Cristo. — Sinagoga de' Giudei.
   Descrizione di Gerusalemme._


Dopo aver soddisfatto a tutte le cerimonie, ed a tutte le limosine
dovute al tempio lo stesso giorno del mio arrivo a Gerusalemme: nel
susseguente giorno fui condotto al sepolcro di _Davide_.

Sortendo di città per la porta di _Davide_ trovasi in distanza di 150
tese un edificio che ha l'apparenza d'un'antica chiesa greca. Appena
entrati, prendendo la sinistra, si arriva al sepolcro chiuso da molte
porte e grate di ferro. È questo una specie di catafalco coperto di bei
drappi di seta di varj colori ricamati in oro, che può avere tredici
piedi di larghezza.

Terminate le mie preghiere al sepolcro di _Davide_ fui condotto all'est
luogo le mura della città, e scendendo per un pendìo assai ripido giunsi
presso all'unica sorgente che trovasi a Gerusalemme, dai cristiani detta
_fontana di Neemia_. Credono i musulmani che l'acqua di questa sorgente
derivi per un miracolo dell'onnipotente dal pozzo di _Zemzem_ della
Mecca, quantunque l'ultima sia caldissima e salmastra, e quella di
Gerusalemme fresca e dolce. Di là passai il torrente Cedron, di dove a
traverso a varj poggi andai a visitare i sepolcri di molti santi e
profeti del primo e del second'ordine.

Dalla sommità di questi colli scopersi in distanza di tre o quattro
leghe in linea retta una parte del _Bàhar Lout_, detto da' cristiani
_Lago Asfaltide_, o Mar Morto. Col cannocchiale osservai due piccoli
seni, e le montagne che coprono il lago a S. E. Vedeva pure le onde
rompersi contro la riva; e l'agitamento dei flutti mi mostrava che
questo mare non è affatto morto, come lo indica il suo nome. Tutto il
paese che lo circonda è montuoso. Giunto in appresso alla cima del
_Diebel Tor_, detto dai cristiani _Monte Oliveto_; dove assicurasi
essere stati sepolti settantadue mila profeti, trovai la chiesa
cristiana, nella quale si venera sopra un marmo l'impronta del piede di
_Cristo_ lasciatavi quando salì al cielo dopo la risurrezione.

Da questa montagna, posta a levante di Gerusalemme, si scopre la città
sì bene che se ne possono contare le case.

Sceso dalla montagna e giunto in fondo al torrente Cedron, passai a lato
del sepolcro della madre di _Cristo_; e dopo salito un colle rientrai in
città per la porta detta di _Maria_.

All'indomani 25 luglio sortii di Gerusalemme al levare del sole per
visitare il sepolcro d'_Abramo_.

Alle sette ore ed un quarto del mattino giunto presso a Betlemme,
incontrai una truppa di pastori cristiani che venivano a Gerusalemme per
accusare i pastori musulmani di Ebron che loro avevano presi molti
bestiami, per rappresaglia dei quali i cristiani avevano portati via due
cammelli. Il principale pastore raccontò ad uno de' più rispettabili
Sceriffi che m'accompagnava tutto l'accaduto, in così energica maniera,
che la mia immaginazione mi rappresentò all'istante le contese de'
pastori d'_Abramo_ e di _Lot_, la guerra dei cinque re, ec., tanto essi
ne conservano ancora il carattere, le abitudini e perfino le vesti
consistenti in una camicia di lana bianca rossastra attaccata con una
cintura, e in un drappo nero gettato sulla spalla, con una fascia di
tela bianca intorno al capo.

Appena congedati i pastori, avendo Betlemme a sinistra e Beit-Diele
dall'altro lato, mi si presentò lo spettacolo della più singolare
meteora che veder si possa. Il sole alto sopra l'orizzonte circa trenta
gradi brillava alla sinistra di tutta la sua luce a traverso di una
atmosfera purissima; e la luna, vicina al suo ultimo quarto, era sulla
mia diritta quasi nella stessa elevazione del sole, così chiara e così
bella quanto è possibile di vederla in tale circostanza. Tutt'ad un
tratto vidi comparire sotto forma d'una stella due o tre volte più
grande, e molto più luminosa di Giove o di Venere nel loro più grande
splendore, una meteora che svolse dalla banda di levante una coda, la
quale parvemi lunga due gradi. Io non mi potei contenere, e gridai _Kif
hàda! Kìf hàda!_ cioè _che è questo! che è questo!_ Le mie genti
sbalordite gridarono in pari tempo _Minn Allàh! minn Allàh! Dio! Dio!_
Frattanto la meteora s'avanzava verso occidente facendo ondeggiare
dolcemente la sua coda lungo una linea orizzontale, all'altezza di circa
30 gradi, come il sole e la luna. La coda che ben tosto si divise in più
raggi, riuniva tutti i colori dell'iride assai vivaci, ed un mezzo
minuto dopo, avendo la meteora nel suo pacifico movimento scorsi quasi
sei gradi all'O. scomparve senza esplosione, senza tuono, nè alcun'altra
spaventosa circostanza. Io mi buttai a terra prostrato avanti al
Creatore, e lo stesso fecero tutti quelli che mi seguivano.

Continuai il cammino al sud, assorto nella meditazione di ciò che aveva
veduto: la stella dei pastori, la stella de' magi, tutto ricorreva alla
mia memoria; ma io sospetto che i vapori bituminosi salini del Mar Morto
rendano in questi paesi simili meteore assai frequenti. Lasciai a destra
un eremitaggio dedicato ad _Elia_, ed alquanto più avanti giunsi ad un
bell'Alcassaba mezzo ruinato, accanto al quale trovasi una sorgente di
bonissima acqua con un serbatoio lungo cinquanta passi, largo trenta, e
più a basso da altri di quasi eguale grandezza: finalmente dopo aver
superate diverse montagne giunsi in sul mezzo giorno ad _el Hhalil_, che
i cristiani dicono _Ebron_, e presi alloggio all'osteria.

Ebron è una città di circa 400 famiglie Arabe, posta sul pendio di una
montagna con un castello. I viveri sono abbondanti, ed ha molti
fondachi. È governata da un Arabo del paese col titolo di _Hakim_, e di
_Scheih el Bèled_.

I sepolcri d'_Abramo_ e della sua famiglia trovansi in un tempio che fu
già una chiesa greca. Si sale per recarvisi una bella e vasta scala che
guida ad una lunga loggia, di dove si entra in un piccolo cortile. Dalla
banda sinistra vedesi un portico sostenuto da pilastri quadrati, presso
al quale sorge il vestibolo del tempio composto di due camere, una delle
quali posta a destra contiene il sepolcro di _Abramo_, e l'altra
dall'opposto lato quello di Sara. Nel corpo della chiesa che è gotica,
tra due grossi pilastri a destra vedesi una casuccia isolata contenente
il sepolcro d'_Isacco_, ed in simile casuccia a sinistra quello di sua
moglie. Questa chiesa ridotta a moschea ha il suo _Mereb_, la tribuna
per il sermone del venerdì, ed un'altra pei cantori. Nell'opposto lato
della corte avvi un altro vestibolo con due camere laterali destinate ai
sepolcri di _Giacobbe_ e di sua moglie.

All'estremità del portico per una specie di loggia si passa in altra
camera contenente il sepolcro di _Giuseppe_, le cui ceneri furono
trasportate dall'Egitto dal popolo d'Israele.

I sepolcri di questi patriarchi sono tutti coperti di ricchi tappeti di
seta verde, magnificamente ricamati in oro: rossi egualmente ricamati
sono quelli delle loro consorti, che il sultano di Costantinopoli manda
di quando in quando. Io ne contai nove, uno sopra l'altro sul sepolcro
di _Abramo_. Anche le pareti delle camere sono coperte di bei tappeti.
Le grate delle finestre sono di ferro dorato, e le porte di legno
coperte di piastre d'argento con serrature e catenacci dello stesso
metallo. Si contano pel servigio del tempio più di cento tra impiegati e
domestici; onde può agevolmente calcolarsi il numero delle elemosine che
vi si debbono lasciare.

Terminata la visita ai sepolcri all'indomani 26 luglio allo spuntar del
giorno ripigliai la Strada di Gerusalemme. A breve distanza da _Ebron_
lasciai da un canto un eremitaggio sacro al profeta _Jona_; e mi fermai
per fare colezione presso ad una bella sorgente; indi presi la strada di
Betlemme, ove giunto alle dieci ore e mezzo del mattino, mi recai a
dirittura al convento de' Cristiani ove si venera il luogo in cui nacque
_Gesù Cristo_.

È questo convento fatto a guisa di rocca, e la sola porta che serve
d'ingresso è tanto bassa, che convien piegare il corpo per entrarvi. Vi
stanno circa venti monaci, europei, cattolici, greci, ed armeni; e quasi
tutti gli abitanti di Betlemme sono cristiani. Scordava di dire che
questa città posta sopra un monte conta circa cinquecento famiglie.

Gli abitanti che vivono in continuo sospetto de' musulmani, vedendoci
arrivare a cavallo ed armati, si adombrarono, e molti erano già corsi
alla porta del convento che trovarono chiusa; ma rassicurati del nostro
contegno, picchiarono essi medesimi alla porta, che dopo molti discorsi
ad alta ed a bassa voce con quelli che stavano al di dentro, ci fu alla
fine aperta.

Introdotto in un angusto vestibolo oscuro, vi trovai molti uomini armati
che avevano l'aria di corpo di guardia. Da questo vestibolo entrai in
una vasta sala, il di cui palco è sostenuto da circa quaranta colonne di
marmo alte quindici piedi, con basi e capitelli d'ordine corintio,
comecchè il fusto abbia le proporzioni del dorico: sala comune dalla
quale per diverse porte si passa ne' separati appartamenti de' monaci
romani, greci, ed armeni.

Dopo esserci trattenuti alcun tempo in questo luogo, un monaco greco
aprì la porta del suo appartamento, e ci fece entrare in una sala, alla
di cui estremità scendesi per una scala in una specie di grotta, che è
il luogo sacro della nascita di _Cristo_. Giunto nella grotta vidi una
nicchia quasi semisferica nel vivo della rupe, nella quale, secondo mi
assicurò il monaco che mi accompagnava, nacque _Cristo_; e fu deposto
dalla Vergine nella mangiatoja, che è una specie di bacino di marmo; di
fronte al quale fu innalzato un altare che ha un bel quadro
rappresentante l'adorazione dei Magi. Ed il presepio, ed il luogo della
nascita sono arricchiti di superbi addobbi, e di molte lampade di
cristallo e d'argento; tra le quali ne vidi una in figura di cuore,
contenente il cuore del divoto _Antonio Camillo de Lellis_, il di cui
nome con bella iscrizione latina e l'anno 1700 è scolpito nella stessa
lampada.

Sortendo dalla grotta il monaco greco mi condusse nella chiesa posta
sopra alla grotta, che non ha cosa alcuna di molta importanza. Tutti i
luoghi santi furono ampiamente descritti in tanti libri, che avrei
potuto dispensarmi dal darne una nuova descrizione; ma ho creduto di
farne un cenno in grazia di coloro che non ne avessero verun'altra alla
mano.

Dopo aver ringraziato il buon monaco, e lasciategli prove della mia
gratitudine, ripresi la strada di Gerusalemme ove arrivai poco dopo il
mezzo giorno.

All'indomani, lunedì 27, scesi in fondo al torrente Cedron per una bella
scala, alla metà della quale trovansi alla diritta i sepolcri di
_Gioachino_ e di _Anna_, ed in un'altra cavità a sinistra quello di
_Giuseppe_ sposo di _Maria_. In fondo alla scala entrasi in una chiesa
greca, il di cui _Sancta Sanctorum_ contiene il sepolcro della
_Vergine_. Ascoltai in chiesa un armonioso coro di monaci, mentre il
celebrante vestito de' sacri abiti restava nel santuario.

Dopo mezzo giorno mi recai al sepolcro di _Cristo_; ma non aprendosi la
porta del convento che in certi determinati giorni, trovavasi allora
chiusa secondo il praticato, al di fuori dai turchi, dai monaci al di
dentro.

A traverso alla grata della porta mi trattenni con un monaco spagnuolo
nativo di Ocanna, detto _Ramirez_ d'_Arellano_, che mi diresse al
procuratore generale pure spagnuolo, onde avere il permesso d'aprire la
porta. Il procuratore era ammalato, e fu il suo vicario, che ci accolse
con estrema cortesia; ma sopraggiungendo il governatore ed il kadì della
città, mi ritirai, dopo avere ottenuto di entrare all'indomani nel
sepolcro di _Cristo_.

In fondo ad una vasta chiesa gotica vedesi una magnifica cupola, o
rotonda, nel di cui centro è posta una casuccia isolata, nella quale i
cristiani venerano il sepolcro di _Gesù Cristo_. Per entrare in questa
casuccia si scende per pochi gradini: il sepolcro è a destra in una
piccola camera, che può avere sei piedi e mezzo di lunghezza, e quattro
di larghezza. È questi un avello che occupa tutta la lunghezza della
camera, e può avere ventisette pollici di larghezza: parvemi di marmo
bianco rossiccio, il di cui coperchio è composto di due pietre. Il
sarcofago è alto in modo da formare una specie d'altare, sopra il quale
i monaci celebrano la messa. In questa angusta camera posta sotto al
piano della chiesa, e priva di finestre, ed inoltre riscaldata dai
moltissimi lumi che vi si accendono qualunque volta si apre, non è
possibile di rimanervi a lungo senza incomodo. Il sarcofago è semplice e
senza ornamenti, ma riccamente decorata la camera.

I musulmani fanno preghiere in tutti i luoghi consacrati alla memoria di
_Gesù Cristo_ e della _Vergine_, fuorchè al sepolcro. Credono essi che
_Cristo_ non morisse, e che salendo al cielo vivente, lasciasse le
apparenze della sua figura a _Giuda_ condannato a morire per lui; che in
conseguenza essendo stato crocifisso _Giuda_, può ben questo sepolcro
aver contenuto il corpo di _Giuda_, ma non quello di _Gesù Cristo_, e
perciò non lo onorano. La chiave della cappella in cui trovasi il
sepolcro viene custodita dai monaci latini, che però non possono aprirla
senza la presenza di un monaco greco, che resta a lato al sepolcro
finchè la cappella è aperta.

La rotonda ove trovasi la cappella del sepolcro è sostenuta da informi
colonne e senza proporzioni architettoniche. Tutti i capitelli sono
d'ordine corintio o composito. La sommità della cupola è vòta, e forma
un'apertura di tredici piedi di diametro per la quale riceve la luce.

Unite alla cupola trovansi le separate chiese de' Cattolici Romani,
degli Armeni, de' Sirj, de' Cofti, degli Abissini; ed il corpo centrale
del tempio forma la chiesa de' Greci.

Presso al _Sancta Sanctorum_ della chiesa greca una scala conduce ad una
cappella. Salendo a sinistra vedesi un altare formato nel vivo sasso, in
mezzo al quale trovasi un foro di tre in quattro pollici di diametro,
ove si dice che fu piantata la croce; in distanza di tre piedi mi fu
mostrata nella rupe una fessura naturale perpendicolare, apertasi
nell'istante della morte di _Gesù Cristo_. Tre o quattro passi più in là
vedesi un altare, ed avanti a questo altare uno spazio quadrato, che si
venera come il luogo in cui _Cristo_ fu crocifisso. II Monte Calvario,
un tempo fuori delle mura dell'antica Gerusalemme, trovasi nel centro
della moderna.

La casa posta accanto al tempio che contiene il sepolcro di _Gesù
Cristo_, è abitata da alcuni monaci Musulmani, i quali dalle finestre
della casa che guardano nell'interno del tempio, diedero più volte
giuste cagioni di lagnanza ai monaci cristiani.

Gerusalemme conosciuta dai Musulmani sotto il nome d'_el-Kods_, ossia la
santa, e per quello d'_el-Kodse-scherif_, è posta al grado 31 46′ 34″ di
latitudine settentrionale, e nel 33º di longitudine orientale
dell'osservatorio di Parigi. La di lei forma, quantunque irregolare, ove
facciasi astrazione dalla cittadella addossata all'angolo occidentale
della città, si avvicina assai al quadrato.

Fabbricata sul lato meridionale della sommità d'una montagna con qualche
inclinazione al S. E. è circondata di precipizj, sul di cui orlo girano
le mura dalla banda di S. E., di E., e di O., non avendo che un breve
piano al S. che conduce al sepolcro di _Davide_, ed un altro più esteso
al N. che forma la parte superiore della montagna attraversata dalla
strada di Jaffa.

Le strade di Gerusalemme sono assai regolari, diritte, ben selciate, e
molte con marciapiedi; ma triste, strette, e quasi tutte poco o molto
inclinate. Le case hanno quasi tutte due o tre piani, e poche finestre
con porte assai basse, e colla facciata semplice di pietra senza verun
ornamento, di modo che quando si passeggia per la città, sembra che si
cammini ne' corridoj di una vasta prigione. In una parola vi si ravvisa
la verità della pittura fattane da Geremia: _facta est quasi vidua
domina gentium_.

Alcune case hanno piccoli giardini, ma in generale non vi si trova alcun
vòto considerabile; onde sopra un'estensione assai minore di quella
della Mecca, contiene, per quanto mi fu detto, circa 30,000 anime, senza
contare la popolazione dei sobborghi della città.

Non ho veduto in Gerusalemme alcuna piazza propriamente tale, ed i
pubblici mercati e le botteghe sono lungo le strade. Abbondanti vi si
trovano i viveri ed a buon prezzo: una mezza dozzina di polli, per
esempio, pagasi una piastra spagnuola. Il pan comune è una specie di
cattiva focaccia, ma trovasene ancora di assai buono; come pure ottimi
legumi, erbaggi, frutta, e squisite carni.

Essendo quasi centrale fra l'Arabia, l'Egitto e la Siria, è assai
frequentata dagli Arabi di questi paesi, che vi fanno il loro commercio
di cambio. Il principale ramo di commercio attivo della Palestina è
quello dell'olio; ma l'importazione del riso, che tirasi dall'Egitto
bilancia l'esportazione dell'olio.

I pesi, misure e monete sono le medesime degli altri paesi Turchi; e la
piastra spagnuola vale quattro pezze turche e mezzo, ossia cento ottanta
parà.

Pochi e di cattiva qualità sono i cavalli della Palestina; molti e
ottimi i muli, benchè alquanto piccoli. Gli asini cedono in bontà a
quelli dell'Arabia e dell'Egitto, e non si fa frequente uso dei
cammelli.

Benchè assai lontane dalla perfezione, le arti vi fioriscono più che
alla Mecca; ma le scienze vi sono affatto sconosciute, e le più
ragguardevoli persone, che pur vogliono parer costumate, versano nella
più profonda ignoranza. La lingua Araba è la più comune, ma vi si
pronuncia alquanto diversamente che nell'Arabia, accostandosi
all'accento turco.

Contansi in questa città settemila musulmani, de' quali duemila abili
alle armi; più di ventimila cristiani di diversi riti: maroniti, greci
uniti, greci scismatici, cattolici latini, armeni ec. Pochissimi sono i
Giudei nell'antica loro patria.

Quantunque gli abitanti di Gerusalemme, appartenendo a diverse nazioni,
e seguendo culti diversi si disprezzino internamente gli uni gli altri;
pure perchè i cristiani sono assai più numerosi, vi regna una certa
eguaglianza tanto nelle relazioni commerciali, quanto negli affari
domestici, e ne' divertimenti. I seguaci di _Gesù Cristo_ vedonsi uniti
coi settatori di _Maometto_, e questa mescolanza è cagione d'una più
estesa libertà che in tutt'altra città musulmana.

Il governo di Gerusalemme viene affidato ad una persona del paese, che
porta il nome di _Scheih el Rele_, o di _Hhakim_; ed il giudice civile è
sempre un Turco mandato da Costantinopoli che cambiasi ogni anno. Vi è
inoltre un governatore del castello, il capo del tempio, il Muftì o capo
della legge, i quali tutti hanno le particolari loro attribuzioni.

In aggiunta di pochi soldati, Gerusalemme può contare sopra duemila
musulmani in istato di portare le armi. È circondata di mura merlate
assai alte, fiancheggiate di torri; ma incapaci di resistere al cannone.
Ho già fatto osservare, che questa città è circondata in più lati da
precipizj: negli altri luoghi si supplì a tale difesa naturale con fossi
artificiali.

Quando si considera da prima Gerusalemme, circondata da precipizj e da
alte mura di pietre tagliate ben conservate, e ricoperte da numerosa
artiglieria, con una fortezza di bella e solida costruzione, e ben
provveduta di mezzi di difesa; se si fa attenzione al ragguardevole
numero di difensori che può dare la sua popolazione, si è tentati di
crederla quasi inespugnabile: ma esaminandola più posatamente, svanisce
la prima illusione, e si trova incapace di lunga resistenza, perchè per
la topografia del suolo non è possibile d'impedire l'avvicinamento del
nemico, ed è signoreggiata quasi a vista d'uccello in distanza del tiro
di fucile dal monte Oliveto.

La montagna su cui è fabbricata Gerusalemme è affatto sterile, ed è
composta d'una roccia cornea o basaltica, facente transizione al trappo,
come quasi tutte le montagne del vicinato.

La sua ragguardevole elevazione sopra il livello del mare è cagione
della freddezza del clima quantunque vicinissima al tropico. Nel mese di
luglio il termometro esposto a mezzo giorno non segnò più di 23° 5′ di
_Reaumur_, e la mattina scese fino a 17° 3′. Il vento fu sempre
occidentale, e l'atmosfera variabile. Mi fu detto che nell'inverno cade
molta neve, e molta pioggia.

Vi trovai pochi vecchi, ma per altro più che alla Mecca. Le persone del
paese osservarono che gli anni più abbondanti d'olive sono quelli ne'
quali cade molta neve.

Io ho osservato che il vento vi acquista una straordinaria rapidità.



CAPITOLO XLVI.

   _Ritorno a Giaffa. — Tragitto ad Aeri, e descrizione di questa
   città. — Il monte Carmelo. — Viaggio a Nazaret. — Notizie
   intorno ai monaci di terra Santa._


Partii da Gerusalemme ad otto ore e trequarti del mattino il 29 luglio
1807, per ritornare a Giaffa, strada che aveva fatta venendo in tempo di
notte. Dopo la scesa di lunghissima fila di colli, giunsi alle dieci ore
in fondo alla valle, ove trovai un ruscello ed un ponte di due archi; a
poca distanza in su la diritta il villaggio _Alioune_, e presso alla
strada le ruine di un antico tempio.

Di là salito sulla sommità di altre montagne, passai alquanto prima
delle undeci ore presso alle case di Kaskali, poi sceso un poggio, e
salitone un altro, mi trovai in sul fare del mezzogiorno a
_Kariet-el-Aaneb_, villaggio meritevole di essere veduto per una bella
antica chiesa a tre navi, ora abbandonata, e ridotta ad uso di stalla.
Da _Kariet_ montando ancora tre quarti d'ora, si giugne sulla sommità
della montagna detta _Saariz_, appunto nel luogo ov'ebbi l'incontro dei
due vecchi gabellieri. Era stato loro detto essere io figlio
dell'Imperatore di Marocco; onde, pentiti dall'accaduto, mi aspettavano
per iscusarsene, e vedutomi, mi vennero incontro baciandomi le mani, i
piedi e la testa. Mi pregarono a scendere da cavallo, e ad aggradire un
magnifico pranzo preparatomi presso ad una bella fonte, di dove vedesi
il mare.

Poi ch'ebbi mangiato, presi congedo da questi buoni vecchi, e continuai
questa penosa strada a traverso di aspre montagne fino ad Abougos, posto
in miglior paese, ed alle sei ore arrivai a Ramlè. Le montagne di
Gerusalemme fino ad Kariet sono quasi affatto sterili; a Kariet
incominciano le vigne, poi piantagioni d'ulivi, e belle foreste di
alberi fino ad Abougos La soggetta pianura era tutta coperta di frumento
già mietuto, di tabacco, e di frumento della Guinea.

All'indomani 30, partii alle cinque ore e tre quarti, e prendendo la
strada di Far e Nazour, arrivai verso le nove a _Giaffa_, piccola città
regolarmente fortificata, capace di buona difesa, e provveduta
d'artiglieria, con guarnigione turca e mogrebina.

Il porto non ammette che i piccoli bastimenti che fanno il cabotaggio
della Siria, ed i grandi restano in rada sopra una sola ancora per
prendere il largo al primo vento essendo la costa troppo aperta.
M'imbarcai la stessa sera sopra un battello che fece vela alle nove
della sera, e scesi a terra nel porto di S. Giovan d'Acri il giorno
susseguente.

Questa piccola città, dai musulmani detta _Akka_, assai celebre in tempo
delle Crociate per la comodità del suo porto, si distinse ultimamente
per la bella difesa fatta contro i Francesi; dopo la quale epoca le sue
fortificazioni vennero notabilmente migliorate. Il suo porto è molto
angusto, ma la rada può contenere numerose flotte. La sua moschea
fabbricata dal Pascià _Diezzar_ è tanto gentile, che si assomiglia più
ad una casa di delizie, che ad un tempio.

Altra volta era provveduta di eccellente acqua che derivava da lontana
sorgente; ma il governo turco non ha fin ora pensato a rimettere
l'acquedotto rovinato dai Francesi in tempo della spedizione d'Egitto:
onde gli abitanti sono ridotti a bere l'acqua de' pozzi carica di
salenite, e pesante come il piombo.

_Diezzar_ Pascià, per quanto mi fu detto, diede prove in tempo
dell'assedio de' Francesi, di valore e di fermezza; ma egli era
mamelucco, ed educato soltanto nel mestiere delle armi, onde fu estremo
nel male e nel bene, non conoscendo la via di mezzo.

Gli Europei hanno in Acri molta libertà, e vi sono rispettati assai,
tanto dal governo che dagli abitanti turchi ed arabi. La città è situata
nel lato settentrionale d'una vasta baja in faccia al mezzogiorno: e nel
tempo della mia dimora il caldo era insopportabile. All'estremità
meridionale della baja vedesi il monte Carmelo che prolungasi nella
direzione di E. O. fino al mare, ed ha sulla cima un monastero greco
dedicato a _S. Elia_, ed un altro più basso dei cattolici sotto lo
stesso titolo, e tra l'uno e l'altro una moschea turca parimenti sacra
al Profeta _Elia_.

Il 6 agosto decisomi di andare a Nazaret, mentre in compagnia di alcuni
amici usciva di città, fui attaccato da una vomica spasmodica, dalla
quale mi liberai in poche ore con una dose d'emetico, che fortunamente
conservava ancora nella mia piccola spezieria. Fu questo il terzo
attacco di bile ch'io soffersi in trentotto giorni, il primo al Cairo,
ed il secondo a Gerusalemme.

Mi posi in viaggio il giorno 7 alle sei ore del mattino, prendendo la
strada all'est per un terreno prima piano, poi montuoso, di tratto in
tratto coperto di alti alberi, e sparso di casali circondati da campi e
da prati. Trovandomi ancora assai debole camminava lentamente temperando
la noja della strada coll'osservare le numerose greggie che pascolavano
su quelle pendici.

   [Illustrazione: VEDUTA DEL MONTE CARMELO DALLA PARTE DI S.
   GIOVANNI D'ACRI.]

Non arrivai a Nazaret prima delle quattro della sera, quantunque non sia
distante che sei ore da S. Giovanni d'Acri; ma io era forzato di andare
lentamente, e di prendere riposo ogni due ore. Andai ad alloggiare nel
convento de' Francescani posto nel sito in cui la Vergine fu visitata
dall'Angelo _Gabriele_.

_Nazaret_ di Galilea è città aperta, fabbricata sul pendio d'una
montagna volta a levante, popolata da circa mille Turchi, e da
altrettanti Cristiani. Gli abitanti approfittano del pendio del suolo
per cavare delle camere nella roccia di modo che ogni casa ne ha una
parte sotterranea. Tra i Cristiani i cattolici romani sono di lunga mano
più numerosi di quelli degli altri riti, che pure vivono in buona
armonia. Le donne musulmane sortono col volto scoperto, e le feste e le
allegrie sono comuni ai due sessi, ed agli individui di tutte le
religioni.

La carne, i legumi, o frutta, l'acqua, il pane, tutto è bonissimo
specialmente nel convento. I monaci vi godono piena libertà come in
Europa: portano pubblicamente i sacramenti agli ammalati, e sono
sommamente rispettati dalle persone di ogni culto, perchè la loro
condotta è veramente esemplare e meritevole della riputazione di cui
godono.

Il convento è un grande e bello edificio solidamente fabbricato, e
capace di una buona difesa militare. In mezzo alla chiesa assai gentile,
vedesi una grande scala di marmo che conduce alla grotta ove si effettuò
il grande mistero dell'incarnazione. Per due anguste scale si monta
all'altar maggiore posto sopra la rupe che forma la volta della grotta,
e dietro all'altare trovasi il coro de' monaci; cosicchè questa chiesa è
formata di due piani, quello della grotta nel fondo, l'altro del corpo
principale della chiesa in mezzo, e l'ultimo dell'altare maggiore e del
coro nella parte più elevata. Al di là del coro vedesi pure un altro
piano in forma di tribuna, occupato da un eccellente organo.
Un'angustissima scala fa capo ad un'altra grotta, che si suppone essere
stata la cucina della Vergine, per esservi in un angolo una specie di
focolajo. Altra scala, egualmente stretta, comunica coll'interno del
convento. Questo convento è composto di tredici religiosi, nove de'
quali, compreso il prelato, sono spagnuoli.

I Musulmani credono anch'essi la verginità di _Maria_, e la miracolosa
incarnazione di _Gesù_, spirito di Dio, per l'intromissione dell'Angelo
_Gabriele_; e venerano il luogo santificato da questo grande mistero,
ove vengono frequentemente a fare le loro preghiere. Un giorno vidi una
numerosa processione di montanari maomettani venire accompagnati dalla
loro musica per presentare un fanciullo alla _Vergine_, tagliandoli la
prima volta i capelli in chiesa.

Mezza lega al S. O. della città avvi un luogo detto _precipizio_, che è
propriamente una gola delle montagne di Nazaret sopra la valle
d'_Estrelon_; accanto alla quale la montagna è tagliata a picco dalla
cima al fondo. La tradizione del paese vuole, che i Giudei conducessero
_Gesù Cristo_ in questo luogo per precipitarlo, e ch'egli si salvasse
rendendosi invisibile. Non molto al di sotto della sommità fu cavato un
altare nella rupe, al quale una volta all'anno vi si reca il popolo per
celebrarvi una messa; al quale oggetto fu fatta una strada che
attraversa il precipizio.

Nella valle d'Estrelon avvi un vasto e popolato villaggio dello stesso
nome, ove fu data la celebre battaglia di Nazaret.

Dietro le più autentiche notizie ch'io mi sono procurato in sul luogo,
guarentisco il seguente stato de' monaci cattolici romani in Terra Santa

                    { 40 a S. Salvatore,
                    {   de' quali          25 Spagnuoli
  A Gerusalemme     { 11 a S. Sepolcro,     8 Spagnuoli
                    { 10 a S. Giovanni, tutti Spagnuoli
  A Ramlè, o Rama              3        tutti Spagnuoli
  A Betlemme                  10,           7 Spagnuoli
  A Taffa                      4        tutti Spagnuoli
  Ad Acri                      4,           1 Spagnuolo
  A Nazaret                   15,           9 Spagnuoli
  Ad Aleppo                    9         tutti Italiani
  A Tripoli, Arizza e Latakia  3               Italiani
  A Larnica in Cipro           5               Italiani
  A Nicosia _ibidem_           3              Spagnuoli
                         ——————————————————————————————
    Totale               N.º 124 monaci dei quali
                                           79 Spagnuoli

A Seida avvi un convento pei monaci Francesi ora disabitato. Inoltre
trovansi in Levante quattro altri conventi separati dal corpo di Terra
santa: cioè

  Quello di Costantinopoli      N.º  4   monaci Spagnuoli
  Del Cairo di                       8   monaci Italiani
  D'Alessandria di                   2   _idem_
  Di Rosetta di                      1   _idem_
                           ——————————————————————————————
    Totale                 N.º      15 di cui 4 Spagnuoli

Le contribuzioni ordinarie che i monaci pagano ogni anno al governo
turco, sono così regolate

  Al Pascià di Damasco piastre               lir. 7,000.
  Allo stesso il solo convento di Damasco         1,000.
  Al Pascià d'Acri                               10.000.
                                            ————————————
    Totale                                  lir. 18,000.

Oltre le ordinarie sono inoltre costretti di pagare altre eventuali
contribuzioni, e gratificazioni ai governatori, ec. Il solo Muftì di
Gerusalemme ha esatte nel corso di otto anni 40,000 piastre.

Il panno, di cui vestonsi i monaci vien loro spedito dalla Spagna e
dall'Italia; come pure il cuojo di cui fannosi in paese i loro sandali.
In fine può dirsi, generalmente parlando che i cristiani latini, i quali
in altri tempi sconvolsero il mondo per impadronirsi dei luoghi Santi,
li hanno adesso talmente abbandonati, che senza i soccorsi della Spagna
non sarebbevi alcuno stabilimento del loro rito.

Anche la Francia contribuisce al loro mantenimento colla protezione del
suo ministro a Costantinopoli; ma questa non toglie che i governatori
turchi non vessino di continuo i monaci di Gerusalemme per cavarne
denaro: talchè passano la vita in perpetui travagli, e sono veri martiri
del loro zelo.

Poichè lo stabilimento de' religiosi cattolici romani in terra Santa
arreca grandi vantaggi agli abitanti di questi paesi, io non temo di
raccomandarli alle potenze d'Europa. La diversità dei culti deve
dileguarsi innanzi agli occhi del filosofo che desidera il bene della
umanità: e questo è il sentimento che dirige le mie azioni, e la mia
penna. Senza grandi sacrifici si potrebbe rendere assai migliore la
sorte di queste virtuose vittime dello zelo religioso.



CAPITOLO XLVII.

   _Viaggio a Damasco. — Monte Tabor. — Mare di Galilea. — Fiume
   Giordano. — Paese vulcanizzato. — Damasco. — Popolazione. —
   Grande moschea. — Bazar o mercati, e manifatture._


Partii da Nazaret il giorno 19 agosto in migliore stato di salute, che
riconosceva da quel felice clima, e dopo due ore di cammino fra le
montagne, arrivai a Canaan, celebre pel miracoloso cambiamento
dell'acqua in vino. Da questa piccola città che può contenere al più
cinquecento famiglie, scesi in una valle alla destra del Tabor, montagna
di ragguardevole elevatezza, ove accadde la trasfigurazione di _Gesù
Cristo_, ed alle di cui falde i Francesi diedero la famosa battaglia del
_Monte Tabor_. Dai colli che chiudono la valle a N. E. vidi l'estremità
del mare di Tiberiade, di Galilea; e feci alto presso al villaggio
Stheltinn.

Il giorno 20 dopo aver passata una stretta gola tra le montagne tutte
coperte di boschi, mi trovai quasi sulla spiaggia del mare di Galilea,
che ha sette in otto leghe di lunghezza dal nord al sud, e due leghe di
larghezza. Questo bel catino d'acqua circondato da alte montagne;
l'atmosfera carica di grosse nuvole ammonticchiate che lasciavano appena
sfuggire di quando in quando qualche raggio di sole; la città di
Tiberiade, famosa per le sue acque termali posta sulla riva occidentale;
finalmente il monte Tabor che signoreggia le circostanti montagne,
presentavano ai miei occhi un'interessante veduta animata da numerose
greggie che pascolavano in ogni lato.

La costa settentrionale di questo mare è tutta coperta di basalte, di
lava, e di altri prodotti vulcanici: di modo che se le altre rive da me
non vedute sono composte delle medesime materie, non sarebbe fuor di
luogo il credere che il mare di Galilea fosse altre volte il cratere di
un vulcano.

Salendo il pendio di N. N. E. vedemmo alcuni Bedovini a cavallo, che
osservandomi in atto di difesa non osarono di attaccarmi. Presi riposo
alle nove ore del mattino nel _Khan_, ossia casa del profeta _Giuseppe_,
ove trovai un corpo di soldati mogrebini d'Acri, ed una cisterna
d'eccellente acqua; a quaranta passi dalla quale sono le ruine di una
altra, che la tradizione dice essere quella, in cui i figli di
_Giacobbe_ rinchiusero il fratello _Giuseppe_ avanti di venderlo ai
mercanti Ismaeliti. Ripresi il cammino alle dieci ore, e giunto sulla
sommità d'una collina a N. N. E. mi si aperse innanzi un nuovo orizzonte
di dove vedeva scorrere in profondo letto il fiume Giordano. Ad un'ora
dopo mezzo giorno giunsi al ponte di _Giacobbe_ (_cantara Yacoub_) di
tre archi acuti di pietra sul Giordano, con un'antica fortezza alla
testa occidentale allora occupata da un distaccamento di soldati del
pascià d'Acri: ma circa sessanta passi al di là trovai altro corpo di
soldati del pascià di Damasco. Queste due guarnigioni poste ai confini
dei rispettivi governi, quantunque egualmente composte di turchi, pare
che appartengano a differenti nazioni; tale è lo stato di indipendenza
dei Pascià, e l'anarchia che regna nelle provincie dell'impero ottomano.

In questo luogo il fiume Giordano può avere sessantaquattro piedi di
larghezza, e non è molto profondo, ma scorre rapidamente. L'acqua
quantunque alquanto calda è buona, e le sue rive sono coperte di giunchi
e di altre piante palustri. Siccome noi altri musulmani conserviamo una
particolare riverenza per questo fiume, non mancai di bagnarmi, e di
bere della sua acqua a sazietà. Fui qui raggiunto da una carovana assai
numerosa, colla quale feci alto sulle rive del fiume.


_Venerdì 21._

Partimmo alle quattro e mezzo del mattino, e dopo un lungo e disastroso
viaggio per luoghi alpestri, indi per una sterile campagna, entrammo in
una piccola macchia, in fondo alla quale trovasi sopra un poggio il
villaggio di Sassa, ove si passò la notte.

I campi Flegrei, e tutto quanto può dare un'idea della distruzione
vulcanica, non sono che una languida immagine dell'orribile paese
attraversato questo giorno. Dal ponte di _Giacobbe_ fino a Sassa il
terreno è composto di lava, di basalte, e di altri prodotti vulcanici:
tutto è nero, poroso, tarlato, sicchè ci pare di viaggiare in una
regione infernale: ma particolarmente presso Sassa vedonsi spaccature ed
ammassi così spaventosi di materie vulcaniche, che fanno inorridire,
pensando all'epoca in cui vennero lanciate dal seno della terra
infiammata. Le spaccature, ed i bachi che vedonsi qua e là, contengono
un'acqua nera come l'inchiostro, e per lo più puzzolente.

Da ciò apparisce chiaramente che questi paesi furono in altri tempi
popolati di vulcani; e scontransi ancora varj piccoli crateri sul piano.
Per un singolare contrapposto questo piano è chiuso a settentrione da
una montagna, la di cui sommità inalzandosi fino alla regione delle nevi
perpetue, offre al di sopra delle reliquie degli spenti vulcani
l'aspetto di un perpetuo inverno.


_Sabato 22._

Dopo due ore di viaggio cominciammo a trovare i segni della prossimità
di una grande capitale, borgate e villaggi e giardini ad ogni passo.
Alle otto e mezzo essendo saliti sulle colline che chiudono l'orizzonte,
scopersi all'est un immenso piano, circondato al nord da alte montagne,
tra le quali ne marcai una isolata dalle altre di gigantesca forma
piramidale, alle di cui falde tra un'infinita quantità di giardini
sorgono le torri delle moschee di Damasco; e tutta la campagna è
seminata di villaggi e di alberi fruttiferi.

Riposatomi un istante nel villaggio di Daria posto entro ai giardini di
Damasco, giunsi poco dopo mezzo giorno alle prime case della città dagli
Arabi detta _Scham_.

Il viaggiatore che si avvicina la prima volta a Damasco crede di vedere
un vasto campo di tende coniche; ma avvicinandovisi davvantaggio trova
che queste tende altro non sono che un'infinità di cupole, che servono
di tetto a quasi tutte le camere delle case nei sobborghi esteriori
della città. Queste cupole e per la forma e per la grandezza loro
rassomigliano perfettamente alle colombaie d'Egitto di cui si è parlato
in addietro.

Le case dell'interno della città formate di più solidi materiali hanno
d'ordinario due piani, ed il tetto piatto come nelle città dell'Affrica,
avendo egualmente poche finestre e piccolissime porte, e la facciata
senza ornati: ciò che unito al silenzio che regna nelle contrade dà alla
città un aspetto tristo e monotono. Le strade sono ben selciate con
marciapiedi assai elevati da ogni banda, di sufficiente larghezza, ma
non livellati.

Credesi in paese, che Damasco abbia quattrocentomila abitanti: ma io
sono di sentimento che, compresi anche i sobborghi, non ecceda di molto
i dugento mila, tra i quali contansi ventimila cristiani cattolici,
cinquemila scismatici, ed altrettanti giudei: al contrario delle altre
città del Levante che per lo più hanno maggior numero di scismatici che
di cattolici.

La maggiore moschea è un estesissimo edificio, in faccia al quale
trovasi un magnifico serbatojo d'acqua, con una fontana di venti piedi
di getto. Il caffè presso alla fontana è sempre pieno di oziosi. Sonovi
molte altre moschee che non meritano d'essere descritte.

Damasco, siccome le altre città musulmane, non ha piazze pubbliche.
L'uso di lasciare grandi spazj vuoti in mezzo alle città per renderle
ariose e belle, è affatto ignoto ai musulmani; forse perchè dovendo
provvedere al più urgente bisogno di temperare gli effetti d'un sole
sempre ardente, pensarono soltanto a non dare troppa ampiezza alle
strade, onde più facilmente poterle coprire colle frascate. Per altro a
Damasco trovansi poche contrade abbastanza larghe, specialmente intorno
al palazzo del Pascià, chiuse in modo dalle altre case, che non se ne
vede che la maggior porta. In faccia al palazzo del Pascià trovasi il
_Kaala_, fortezza che può esser utile a tenere in freno la popolazione;
affatto inutile per la difesa della città.

I commestibili e le mercanzie d'ogni genere si vendono nelle botteghe
poste ai due lati delle strade, che chiamansi _Bazar_, o _Zok_; alcune
delle quali sono riccamente provvedute. Quale diversità fra questi
abbondanti magazzini, e le povere e piccole botteghe del Cairo, di Fez e
di altri luoghi, ove pare che il negoziante esponga suo malgrado gli
oggetti che vuol vendere?

A Damasco le botteghe rigurgitano, per così dire, di mercanzie, e
specialmente di seterie, di belle tele dell'India e della Persia; ma più
di tutto di tele fabbricate in paese. Contansi a Damasco più di
quattromila famiglie di fabbricatori di stoffe di seta e di cotone: ma
non vi si fabbricano tele di lino, che non viene coltivato nella
provincia.

Nel nuovo magnifico _bazar_ che si fabbrica adesso di fronte al
_reraya_, vi ho veduto un orologiaio arabo che faceva degli oriuoli da
tavola.

I principali rami del commercio di Damasco sono le seterie, e i
fornimenti da cavallo, facendosi delle prime un estesissimo consumo
nella Turchia, nell'Egitto, nell'Affrica e nell'Arabia; e de' secondi
dagli arabi de' vicini deserti di Bagdad, e di Medina, che non hanno
altro favorito mercato per tali oggetti che quello di Damasco.

Gli armajuoli formano pure una ragguardevole parte delle manifatture del
paese, quantunque più non esista la famosa fabbrica delle sciable
damaschine, risguardate adesso come cosa rarissima, e vendute a prezzi
enormissimi. Dopo queste antiche sciable, le più riputate sono quelle
della fabbrica persiana del Khorassan.

Anche le fabbriche di sapone, i fabri, i calzolaj, ec. occupano molte
contrade, e vi si trova pure una fabbrica di vetri. Ma per avere
un'adeguata idea del commercio di Damasco, basta fare attenzione alla
quantità dei falegnami esclusivamente addetti alla costruzione delle
casse che servono ogni anno ad imballare i prodotti del suolo e
dell'industria. Più migliaja di persone che occupano un vasto quartiere
della città formano ogni giorno parecchie migliaja di casse; benchè non
tutti gli oggetti che si esportano da Damasco vengano incassati.

L'affollato popolo de' _bazar_ forma un singolare contrasto colla
solitudine delle altre contrade ove non sianvi nè officine, nè botteghe.
In tutti i _bazar_ vi sono forni per cuocere continuamente piccoli pani,
focaccie, e varie altre pasticcerie: e le botteghe dei barbieri nelle
vicinanze dei _bazar_ sono ornate di pitture a rabeschi, di specchi, di
cristalli, d'iscrizioni a caratteri d'oro ec. onde allettare gli
avventori. I caffè dei _bazar_ sono pieni di gente tutto il giorno.
Bianchi, neri, mulatti di qualunque casta, di ogni religione, di
qualsiasi nazione, esclusi gli europei, vi hanno un'intera libertà.

Magnifici sono pure i bagni de' _bazar_, e provveduti di tutto quanto si
conviene al comodo, e dirò anche al lusso, ad al divertimento de'
concorrenti. Non dirò alcuna cosa della quantità e bontà de'
commestibili, non essendovi forse altro paese al mondo che vantar possa
più grasse e delicate carni, erbaggi più teneri, più belli e saporiti
frutti, più variato ed abbondante selvaggiume, mèle e latticinj più
deliziosi, più bianco o miglior pane; in una parola, tutto ciò che può
desiderarsi per la vita animale.



CAPITOLO XLVIII.

   _Acque di Damasco. — Cristiani. — Commercio, prodotti, clima. —
   Razze dei cavalli. — Abiti. — Donne. — Sanità. — Scuole. —
   Governo. — Fortificazioni. — Bedovini di Anaze. — Salakhie._


Damasco è in modo provveduta di acqua che tutte le case hanno più
fontane; non servendo le pubbliche che all'inaffiamento delle strade.
Queste acque formano una quantità di canali: ma derivano da due soli
fiumi, che dopo essersi uniti in un solo, dividonsi poi in sette rami,
dai quali viene distribuita l'acqua in tutta la città.

Trovansi nella città di Damasco più di cinquecento magnifiche case, che
possono dirsi palazzi; che per altro non essendo esternamente ornati di
belle facciate non contribuiscono all'abbellimento della città. Tutte le
comunioni cristiane hanno le particolari loro chiese, Greci, Maroniti,
Siriaci, Armeni, ed inoltre sonovi tre conventi di Francescani, uno di
osservanti Spagnuoli, e due di Cappuccini Italiani.

Il Patriarca greco d'Antiochia risiede a Damasco, ove riceve determinate
tasse pei battesimi, pei matrimonj, pei funerali de' cristiani d'ogni
rito, che sono obbligati di presentarsi innanzi al ministro da lui
delegato a quest'effetto.

Vi sono otto sinagoghe di Ebrei, che allora, per quanto mi fa detto,
erano assai ben trattati. Per altro mi è parso, che il fanatismo del
popolo di Damasco avanzi quello degli Egiziani, perchè un Europeo non
potrebbe senza pericolo mostrarsi ove non sia vestito all'orientale. Un
cristiano, un ebreo non può andare a cavallo per città, e neppure
valersi di un asino.

Si contano dugento negozianti molto accreditati, tra i quali i due più
ricchi sono _Sckatti_, _Mehemet Sua_, a cadauno dei quali si
attribuiscono in circolazione quattro o cinquemila borse (cinque milioni
di franchi).

Il commercio si fa d'ordinario colle carovane, di cui le più
considerabili sono tre: 1.º quella della Mecca maggiore d'ogni altra,
che faceva il viaggio una volta all'anno; ed ora da qualche tempo
sospesa per l'invasione de' _Wehhabiti_[1]: 2.º quelle di Bagdad che
vengono a Damasco tre o quattro volte all'anno scortate da oltre duemila
cinquecento persone armate: 3.º Le carovane d'Aleppo che partono
d'ordinario due o tre volte al mese, e rimangono dodici giorni nel
viaggio, quando un corriere montato sopra un dromedario fa questo
viaggio in tre giorni. Contansi ancora varie altre minori carovane che
ogni giorno arrivano o partono per Beruti, Tripoli di Siria, Acri, ed
altri luoghi.

  [1] _Dopo che i Turchi hanno ripresa la Mecca e Medina si vanno
  ristabilendo le carovane dette del_ pellegrinaggio.

A fronte della eccessiva loro abbondanza i viveri si vendono in Damasco
a più alto prezzo che altrove; e ciò a cagione del moltissimo numerario
che vi condensa la straordinaria attività del suo commercio.

I principali prodotti del suolo sono formento, orzo, canape, uva,
_meschmesch_, specie d'albicocca che si fa seccare, pistacchj ed ogni
qualità di frutti. Poca, ma bellissima è la seta che vi si raccoglie, ed
il rimanente che manca al consumo delle sue fabbriche s'importa dai
vicini paesi, come pure tutto il cotone, che non si coltiva nel
territorio di Damasco. Benchè il raccolto del mèle sia abbondantissimo,
gli abitanti non appresero ancora a lavorare la cera; non sapendo fare
che cattive candele gialle. Riceve lo zucchero dall'Egitto e
dall'Europa, e tutto il riso dall'Egitto.

La fertilità del terreno è tale, che gli abitanti non ricordano veruna
cattiva annata. Perciò gli agricoltori trovansi generalmente
nell'agiatezza, quantunque aggravati da enormi tasse, e dall'arbitrario
mantenimento delle truppe.

Il clima di Damasco è piuttosto dolce, non essendo troppo freddo
d'inverno, e venendo i calori dell'estate temperati dalla freschezza
delle acque, dalle ombre degli alberi, dalla disposizione delle case,
ec. Alcuni anni nevica ancora in Damasco; ogni anno sulle vicine
montagne. I più ordinarj venti sono quelli di levante e di ponente, ma
senza periodo determinato. Da aprile fino al novembre piove rarissime
volte; e regolari e moderate sono le pioggie degli altri mesi, e sempre
portate dai venti occidentali. Lo scioglimento delle nevi sulle montagne
incomincia in aprile e talvolta in marzo; ma la sommità delle più alte
ne rimane sempre coperta; lo che procura a Damasco l'abbondanza del
ghiaccio a moderati prezzi tutto l'anno.

Mi si faceva credere che incomodo riuscisse il soggiorno di Damasco per
la copia delle cimici, delle pulci e delle zanzare; ma io ne vidi
pochissime; e solo mi furono moleste le morsicature assai dolorose dei
tafani indigeni di questo paese.

Pochissimi e poco velenosi sono i serpenti e gli scorpioni.

I muli e gli asini non sono più buoni di quelli dell'Egitto, e rispetto
ai cavalli io mi sono procurate le seguenti notizie. Sei sono le più
conosciute razze; la prima detta _djelfè_ trae la sua origine
dall'Arabia felice, ossia dell'Ieman: cavallo maraviglioso al corso, e
nelle battaglie; agilissimo, pieno di fuoco, instancabile e sofferente
oltre ogni credere della sete e dalla fame; non pertanto docile come un
agnello, senza collera, e che nè spranga, nè morde mai. Conviene però
nudrirlo scarsamente, e tenerlo continuamente esercitato. È alto di
taglio di groppa, ha il collo sottile, e le orecchie piuttosto lunghe.
Non può dirsi questo il più bel cavallo, ma è incontrastabilmente il
migliore. Un cavallo perfezionato di questa razza, vale a dire di due in
tre anni, costa per lo meno duemila piastre turche.

La seconda razza detta _seclàoui_ è indigena della più orientale regione
del deserto. È in tutto somigliante alla precedente; tranne pel luogo
della nascita; imperciochè i più esperti conoscitori li distinguono a
stento, ed uguale ne è il valore, quantunque si preferiscano i cavalli
della prima razza.

Ma soprammodo belli sono i cavalli della terza razza detti _ooel mefki_,
inferiori per altro ai precedenti nella velocità del corso. Vengono a
Damasco dai vicini deserti, e costano d'ordinario dalle mille alle mille
cinquecento piastre. Hanno le belle proporzioni dei cavalli
dell'Andalusia, e sono in Damasco assai comuni.

I cavalli della quarta razza, detti _ooel sabi_, rassomigliano affatto a
quelli della terza, da cui non li distinguono che i più sperimentati
veterinarj; e costano dalle mille alle mille dugento piastre quando non
abbiano difetti, e non più di quattr'anni, nè meno di tre.

La quinta razza a cui si dà il nome d'_ooel treidi_, è la più comune,
siccome quella dei contorni di Damasco, e somministra cavalli abbastanza
belli e buoni: ma tra questi ve n'hanno assai di viziosi. Si vendono
ordinariamente dalle seicento alle ottocento piastre.

L'ultima razza, indigena della provincia di Bassora, chiamasi _ooel
nagdi_, e pareggia, se non avanza in eccellenza le razze _djelfè_, e
_seclaoui_; ma rarissimi sono in Damasco, ed il prezzo affatto
arbitrario. La maggior parte dei cavalli arabi sono bigi-leardi, o
bajo-scuri; pochissimi sono i neri.

L'abito de' Damaschini è un misto d'arabo e di turco; ma più comunemente
si fa uso del cappotto arabo a grandi liste, e l'alta berretta turca è
più comunemente usata dai Turchi che dagli Arabi. Questi si coprono con
una berretta di smisurata grandezza, che loro pende in sul di dietro; e
si cingono il capo con un fazzoletto di cotone o di seta screziata;
acconciatura non priva di grazia.

Le donne copronsi dal capo ai piedi con grandi veli di cotone bianco, e
con enormi mutande. Le donne di condizione tengonsi riservate e
modestissime, le volgari sono assai libere, ed anche dissolute. Portano
le une e le altre un fazzoletto di seta trasparente, d'ordinario di
color giallo che loro nasconde il volto, lo che le fa parere spettri
ambulanti: ma molte sogliono gettarsi il fazzoletto sul capo, e portare
il volto scoperto. Questa costumanza mi procurò il vantaggio di vedere
in Damasco molte donne assai belle, e per la maggior parte di pelle
bianca e finissima. Non si vedono in Damasco tante donne isteriche come
in Gerusalemme e nell'Arabia, nè meno quelle pelli abbronzate dei paesi
dell'Affrica, nè quei fanciulli sudici cisposi e ributtanti
d'Alessandria e di altri paesi musulmani, nè finalmente quegli uomini
secchi abbronzati o neri dell'Affrica e dell'Arabia. Vedonsi donne e
fanciulli di bellissimo e grazioso aspetto, mentre gli uomini hanno
maschili lineamenti, tinte robuste, e regolari proporzioni. E per dirlo
in una parola la popolazione di Damasco è affatto diversa da quella
dell'Affrica e dell'Arabia, tranne Fez, i di cui abitanti sono i più
belli di tutta l'Affrica.

Eccellente è il clima di Damasco, ma forse più che al clima devesi alla
comune agiatezza, al moderato esercizio, ed all'uso dei bagni caldi, la
rarità delle malattie. La durata ordinaria della vita si calcola dai
settanta agli ottant'anni; e vi si contano pure alcuni centenarj.

Difficilmente vi s'introduce anche la peste, e le ultime volte fu pure
assai debole. Si osserva essere assai mite quando viene dal mare, più
feroce quando proviene da Aleppo. Pure gli abitanti non pensano a
cautelarsi contro tanta calamità, e mentre in Aleppo faceva orribili
stragi, in Damasco ricevevansi e si spedivano ogni giorno le carovane
senza prendersi alcun pensiero: eppure con mia sorpresa Damasco ne andò
esente. Ciò prova, che la comunicazione della peste non dipende
solamente dal contatto, ma ancora dalla combinazione di certe
disposizioni locali e personali.

In un paese abitato da persone laboriose, gli oziosi non sono fortunati;
e perciò rarissimi sono gli stregoni e gl'indovini, e tutti coloro che
altrove trovano di che vivere ingannando i loro simili.

Sonovi in Damasco venti grandi scuole, e molte altre minori pei
fanciulli: cinque per gli studj delle scienze, che come nel rimanente
della Turchia riduconsi alla scienza della religione, che comprende pure
la giurisprudenza.

Benchè questo popolo sussista in gran parte dei prodotti delle fabbriche
e del commercio delle tele, e sia più incivilito de' suoi vicini, aveva
un numeroso partito nel suo seno che desiderava i _Wehhabiti_, che pei
loro principj religiosi oppongono tanti ostacoli al commercio ed alle
manifatture[2].

  [2] _Ciò sarà stato vero all'epoca in cui vi soggiornava
  _Ali-Bey_; ma in appresso i Damaschini si difesero bravamente
  dai_ Wehhabiti.

Il governo della città di Damasco, e di un vasto tratto di paese al S.
fino ad Ebron al di là di Gerusalemme, ed al N. fin quasi ad Aleppo,
viene affidato ad un Pascià del Gran Signore. Quest'uomo, e per
l'estensione del suo governo, e pel nobile incarico di condurre ogni
anno la carovana della Mecca col titolo d'_Emir-el-Hadj_, o principe del
pellegrinaggio, è tenuto in altissima considerazione alla corte,
riguardandosi come uno de' più grandi dignitarj dell'impero.

Le entrate del pascialaggio si fanno ascendere a quattromila borse,
corrispondenti a cinque milioni di franchi, ma le avarie, i regali, le
estorsioni sono un altro importantissimo ramo d'entrata. Il Sultano,
mentre io soggiornava in Damasco, dava a questo Pascià il governo di
_Taraboulous_, ossia Tripoli di Siria, non meno importante di quello di
Damasco.

Questo Pascià può avere nel circondario del suo governo cinque in
seimila soldati, turchi, mogrebini, ed altri, e forse attualmente
ammontavano ai diecimila, e ciò a cagione delle turbolenze di
Gerusalemme.

Damasco è circondato di mura con torri e fosse, ma rovinate in modo da
non poter resistere ad un regolare assalto. La sua maggior difesa
consiste piuttosto ne' giardini, che formano una foresta d'alberi, ed un
laberinto di siepi, di muraglie, di fosse di più di sette leghe di
circonferenza; lo che non sarebbe un leggiero ostacolo per un nemico
musulmano che volesse attaccarlo.

Tra le tribù Bedovine che abitano ne' deserti vicini a Damasco, la più
ragguardevole è quella d'_Anaze_, il di cui capo chiamasi _Fadde_. Abita
questa tribù il deserto posto a levante della città, e stendesi fin
presso a Bagdad.

Io visitai il villaggio di _Salokhi_, che è la principale villeggiatura
degli abitanti di Damasco. È questa una borgata vastissima con due
pubblici mercati, e con una infinità di case e di giardini. Trovasi alle
falde delle montagne al nord della città, ed è propriamente un delizioso
soggiorno.



CAPITOLO XLIX.

   _Viaggio ad Aleppo. — Descrizione dei Khan. — Carovana. —
   Tadmor o Palmira. — Città di Homs. — Fiume Oronte. — Città di
   Hama. — Libertà de' costumi. — Incontro notturno. — Arrivo ad
   Aleppo. — Osservazioni intorno a questa città._


Partii da Damasco il sabato 29 agosto alle quattr'ore dopo mezzogiorno,
con una carovana destinata per Aleppo. Dopo un'ora di viaggio in mezzo
ai giardini, si attraversò una campagna posta a N. E. provveduta di
alcuni villaggi, ed arrivammo a sette ore e tre quarti ad un _Khan_
detto _Khosseir_.


_Domenica 30._

Alle tre ore ed un quarto del mattino, mi diressi all'E. N. E. lungo la
vasta pianura di Damasco, e dopo due ore di viaggio entrai in una gola
che mi fu rappresentata come pericolosa, in fondo alla quale vedonsi le
ruine di un antico edificio, ed una cisterna di acqua. Di là salii
alcune montagne, dopo le quali, attraversata una pianura, giunsi al
villaggio di _Cataïfa_, ove alloggiai nella sua bella moschea fino alle
dieci ore della sera.


_Lunedì 31._

Alle dieci ore di jeri avendo lasciato Cataïfa, giunsi per un terreno
disuguale verso la mezzanotte al _Khan Aaron_, omai affatto ruinato,
posto ad una lega all'O. del villaggio di _Maloula_; di dove camminando
al N. N. E. entrai a sett'ore ed un quarto del mattino nel borgo di
_Nebka_, che può avere un migliajo di famiglie abbondantemente
provveduto di giardini e di eccellenti acque. Gli abitanti spargevano la
notizia che gli Arabi d'Anaze avevano attaccati i _Wehhabiti_, e prese
loro molte donne e fanciulli, che vendevano come schiavi, riguardandoli
come infedeli indegni d'essere musulmani. Si diceva a Damasco che la
tribù d'Anazis era amica dei _Wehhabiti_, onde supposi che si trattasse
di una diversa popolazione della stessa contrada.


_Martedì 1º settembre._

Dopo tre ore di viaggio giunsi a sette ore ed un quarto a _Kara_, paese
assai ben situato sopra un'altura, e circondato di bei giardini. Al
presente non ha più di trecento famiglie; ma in addietro era assai
popolato, onde la metà delle sue case va ruinando. Tutto il suolo
attraversato questo giorno è affatto deserto.

Le carovane si fermano sempre nei _Khan_ che si trovano in vicinanza dei
villaggi e delle città. Il precedente giorno io aveva preso alloggio in
casa di un bifolco cristiano; e nel presente presso un bifolco
musulmano. Non si può a meno di non ammirare la bontà ed il candore di
questa gente; essi trovansi abbastanza agiati, e tengono le case loro
con estrema politezza, e provvedute di tutti i necessarj arredi.
Osservai in particolare che hanno molti assai gentili materassi e
cuscini alla turca, ne' quali ripongono il principale loro lusso.

Siccome ho più volte parlato dei _Khan_ parmi necessario di doverne dare
una circostanziata descrizione.

Il _Khan_ è un edificio quadrangolare, talvolta fiancheggiato agli
angoli da torrette, e coronato di feritoje che gli danno l'apparenza di
fortezza. Diversa ne è la grandezza, ma la media può ritenersi di cento
trentatrè piedi per ogni lato. Sonovi internamente uno o due cortili
circondati da stalle, con una moschea o semplice cappella per la
preghiera; ed alcuni de' più grandi sono anche provveduti di
appartamenti. Questi stabilimenti, ch'io credo fatti per ordine del
governo, sono sempre aperti, ed i passaggieri e le carovane entrano e
sortono liberamente senza chiedere licenza; rimanendovi finchè ognuno
vuole, senza pagar nulla a chicchessia.

Così bella istituzione nell'impero turco è dovuta al principio di morale
religiosa, che obbliga tutti i musulmani ad esercitare l'ospitalità
verso il passaggiero di qualunque nazione o culto egli sia. In
conseguenza di tale principio sonovi _Khan_ in tutti i luoghi abitati o
deserti, ne' quali i viaggiatori sono costretti a fermarsi. Quelli ch'io
ho visitati sono solidamente fatti di pietra ed alcuni con qualche lusso
architettonico; ma perchè costruiti già da più secoli, molti vanno
ruinando, senza che si pensi a ristaurarli; perchè l'epoca della gloria
musulmana è omai passata.

La carovana con cui io viaggiava era formata di circa trecento bestie da
carico, muli, cavalli, cammelli ed asini, e quasi tutti di Aleppo. I
muli senz'avere una vantaggiosa statura, sono forti e coraggiosi, onde
difficilmente si distinguerebbero senza le grandi orecchie che portano
sempre diritte. I muli e gli asini sono ordinariamente neri, e cercano
sempre di sorpassarsi l'un l'altro nel cammino. Eranvi tra i molti
passaggieri della carovana molte donne, e fanciulli d'ambo i sessi.

Dietro le informazioni ch'io mi procurai, seppi che _Taraboulous_, o
Tripoli, trovasi quasi esattamente all'ouest di Kara; lo che coincide
pure colla mia stima geodetica. Una giornata al di là verso
l'ouest-sud-ouest è situato _Baàlbek_, città grande, ma ruinata. In
distanza di una lega all'ouest trovasi il fiume _Caftara_, che perdesi
in un lago; ed a tre giornate di cammino all'est giace _Tadmor_, o
_Palmira_, un tempo doviziosa e celebre città, che ora conta appena
cinquecento famiglie. Andando a Palmira si arriva il primo giorno al
villaggio di _Haouarìnn_, il secondo a _Karìtèìun_. Gli arabi d'Anaze
due giornate lontani da Kara dalla banda di sud-est, spingono il loro
dominio e le scorrerie fino a Palmira.


_Mercoledì 2._

La carovana partì alle tre ore e mezzo del mattino, prendendo una strada
che attraversa alcune montagne nella direzione di N. ¼ N. E., ed alle
sei ore si passò in mezzo ad un gruppo di case dette _Kalaat-el-Bridj_.
Due ore dopo arrivammo in una gola creduta pericolosa, onde tutti gli
uomini armati della carovana salirono sulle alture che fiancheggiano la
strada, e vi rimasero finchè la carovana si trovò tutta in sicuro. Poco
dopo essere usciti da questa gola trovammo un _khan_ quasi affatto
ruinato, ed a breve distanza il villaggio di _Hassia_, ove entrammo alle
nove ore e tre quarti del mattino.

Tutto il paese da Damasco fino ad Hassia è affatto deserto, e questa
miserabile borgata non ha che alcuni piccoli orti.


_Giovedì 3._

Partiti da Hassia avanti la mezza notte, giugnemmo ad _Homs_ alle otto e
mezzo del mattino. Attraversammo una montagna quasi perfettamente
rotonda, dalla cui sommità circoscritta a mezzo giorno dalla catena
delle alte montagne del Libano, scopersi un estesissimo orizzonte. Tutto
il paese è deserto, ma cominciavamo a vedere un terreno rossiccio,
fangoso, diverso da quello de' precedenti giorni, e coperto di arbusti
in questa stagione disseccati. Questo terreno potrebb'essere ridotto a
coltura. Allo spuntar del sole ci trovammo avviluppati improvvisamente
da una densa nebbia, che dopo dieci minuti si dissipò colla medesima
celerità.

In queste contrade le donne, in sull'esempio degli uomini, sono
provvedute d'una pipa lunga circa quattro piedi. Questo giorno ne vidi
una fumare con tutta gravità sul suo cavallo. Aveva il volto affatto
scoperto, e mostrava l'età di diciotto in vent'anni: benchè bella come
un angelo, l'uso della pipa la rendeva ai miei occhi deforme.

_Homs_ è una ragguardevole città popolata da venticinque in trentamila
musulmani, e da trecento cristiani. Contiene molte moschee con altissime
torri sottili all'usanza turca, due chiese cristiane di greci
scismatici, ed una siriaca, diversi _bazar_, o mercati ben provveduti di
mercanzie, ed assai frequentati, alcuni caffè molto frequentati, un
_alcaïsseria_ considerabile di stoffe di seta, un gran khan, e varj
altri più piccoli. Le strade sono regolarmente lastricate; ma le case
quantunque fatte di sassi hanno un aspetto lugubre pel loro color nero.
Infine Homs ha tutti i requisiti di una gran città.

Gli abitanti fanno un commercio attivissimo. Il paese produce molto
frumento, ma importa l'olio dalle coste, ed il riso dall'Egitto. In
distanza di mezza lega della città scorre il fiume _Wad-al-Aassi_ che è
l'antico _Oronte_, dal quale derivansi le acque che servono
all'innaffiamento dei giardini della città.

Il governatore, il kadì, e gli altri impiegati del governo sono tutti
arabi del paese, e ne sono esclusi i turchi. Questa città dipende dal
pascià di Damasco, che nomina il _scheih el-bedel_, ossia governatore,
tra i naturali del paese, in conformità delle sue costituzioni.

Le mura sono circondate da un giro d'innumerabili cimiterj, che
attestano la grande popolazione della città. Vedesi al mezzodì sopra una
montagna isolata, che rassomiglia a quelle delle ruine d'Alessandria,
una vasta antichissima fortezza con molte torri ma in gran parte
ruinate.

Felice è la posizione della città, alquanto elevata, ariosa, e perciò
salubre: onde meno degli altri paesi esposta ai danni della peste.

Conservansi ancora ad Homs una porta, alcuni tratti di muraglia, e due
torri, rispettabili avanzi degli antichi Greci che l'abitavano.


_Venerdì 4._

La carovana riprese il cammino alle due ore e mezzo del mattino,
dirigendosi al nord, e lasciato da una banda il villaggio di _Deàa et
Teille_ entrò in _Rastan_ alle sette ore.

Benchè generalmente non coltivato, il terreno scorso questo giorno è
coperto di cespugli, e di pianticelle disseccate. _Restan_ è un povero
villaggio posto sull'orlo di uno spaventoso precipizio a piè del quale
scorre il fiume Aassi, che veduto dall'alto non sembra molto largo. Fu
già un tempo in cui questo villaggio dovette essere assai più
considerabile che non lo è al presente, di che ne fanno prova molti
rottami di colonne di marmo e gli enormi pezzi di granito, ormai ridotti
all'ultimo grado di decomposizione. Fioriva forse all'epoca più gloriosa
di Palmira? era forse una piazza di frontiera, come sembra indicarlo la
sua posizione? Come deciderlo, se manca ogni memoria per appoggiare una
qualunque congettura?

Prima di sera scesi in riva al fiume ov'era accampata la carovana. È
questi tagliato da grandi dighe assai ben fatte, che servono a dar
l'acqua ai mulini, e dalle quali l'acqua si precipita con molto
fracasso.


_Sabato 5._

A mezzanotte lasciando il fiume a destra, e salito il piano superiore,
prendemmo la direzione al N.; indi fatta una dolce scesa, arrivammo alle
cinque e un quarto del mattino nella città di Hama posta alle falde di
una linea di basse colline, ed attraversata dall'Oronte. _Hama_ è una
ragguardevole città la di cui popolazione dovrebb'essere di circa
centomila anime. Scende a guisa di anfiteatro dalla sommità delle
colline che stanno alla destra dell'Oronte fino alla riva del fiume, e
al di là del fiume risale sulla opposta montagna. Piacevolissima ne è la
situazione, e tutto dimostra una città di primo ordine, sicchè rimasi
estremamente sorpreso nel vedere una così bella e vasta città in luogo
di una borgata come stando alle relazioni de' viaggiatori e de' geografi
io credeva di trovare. Molte case sono tutte fatte di pietra, altre non
di pietra che interiormente, e nella parte superiore di mattoni coperti
di marmo bianco: diverse case dei sobborghi sono coronate di cupole come
quelle dei sobborghi di Damasco.

L'irregolarità e l'angustia della maggior parte delle strade viene
compensata dalla bellezza delle principali che formano i _bazar_,
abbondantemente provveduti di mercanzie e di grascie, e sempre affollati
di gente. Sono pure assai frequentati i caffè, tra i quali ne vidi
alcuni bellissimi.

L'Oronte chiuso tra belle case e deliziosi giardini, è attraversato da
frequenti dighe che sostengono l'acqua, onde far muovere una prodigiosa
quantità di ruote idrauliche, alcune delle quali hanno più di trenta
piedi di diametro. L'acqua inalzata dalle ruote viene distribuita per la
città col mezzo di spaziosi condotti sostenuti da solide arcate. Questi
condotti sono belle opere dell'antica età, e fa meraviglia che siansi
così ben conservati a fronte della non curanza musulmana, e del genio
distruttore del paese. Le ruote sono così ben fatte che invece di quella
disgustosa scricchiolata che sogliono d'ordinario produrre cotali
macchine, rendono un suono grave assai dolce: queste ruote, i condotti,
le case, i giardini e le frequenti cascate delle acque dall'una
all'altra diga, formano il più pittoresco punto di vista che immaginar
si possa.

Gli abitanti di Hama mostrano una straordinaria inclinazione al
commercio ed alle manifatture, delle quali è piena la città. Il grosso
della popolazione è formato di arabi. Pochi sono i turchi, i cristiani,
gli ebrei, che vi godono molta libertà. Arrivando in città mi parve di
entrare in un vasto ospitale: uomini, donne, e fanciulli ne' mesi più
caldi dormono nelle strade, sui terrazzi, avanti alle porte delle case.
Siccom'era assai di buona ora, la maggior parte dormiva ancora in piena
sicurezza, altri già risvegliati mi osservavano senza nulla scomporsi,
abbigliandosi tranquillamente uomini e donne come fossero chiusi nei
proprj gabinetti. È ciò una conseguenza della depravazione dei costumi,
o dell'innocenza?.... Il poco tempo che restai in Hama non mi permette
di deciderlo. Nella casa in cui alloggiai vidi molte donne, assai brutte
a dir vero, che liberamente entravano senza velo nel mio appartamento
per farvi quanto occorreva. Una di queste che aveva l'aria di civetta,
portava a traverso la cartilagine destra del naso un anello d'oro del
diametro di tre pollici. L'abito loro consiste in una grande camicia di
cotone turchino o bianco con sopra una stoffa aperta, senza cintura e
poco larga, A queste vesti aggiungono anelli, collane, orecchini,
braccialetti, laminette ai capelli, ec.: infine tante e sì varie sorte
di gioje, che quando una donna galante cammina, fa un rumore eguale a
quello dei muli del mezzodì dell'Europa ornati di sonaglini e di
campanelli.

La città viene governata da un _paschalik_ del paese nominato dal pascià
di Damasco.

Siccome le acque del fiume non possono rimontare sul più alto piano del
paese, l'aridità di questo deserto forma un singolare contrasto col
fresco verde del piano inferiore, ove l'inaffiamento è praticabile.


_Domenica 6._

Alle due e mezzo del mattino presi la direzione di N. N. O.
attraversando varie colline; ed in sullo spuntar del sole mi trovai
presso ad una moschea. Alle otto ore giunsi tra le mine
d'un'antichissima città, cui la tradizione del paese dà il nome di
_letmiun_. Entro un mucchio di rottami osservai un bel frammento di
cornice di un granito rosso, alcuni pezzi di colonne, ed i frammenti di
un grande acquidotto. Finalmente alle undici ore arrivai a
_Khan-Scheikhoun_, villaggio posto sul pendio d'un colle, alle di cui
falde trovasi un vasto _Khan_. Le case di questo villaggio coperte di
cupole coniche gli danno l'apparenza di un gruppo di arnie, e l'acqua
del suo pozzo è assai buona.


_Lunedì 7._

Si partì alle quattr'ore del mattino prendendo una strada al N. che
attraversa alcune colline, dalla di cui sommità vedonsi all'O. le
montagne, dalle quali andavamo allontanandosi. Si trovarono lungo la
strada altre ruine omai ridotte all'ultimo stato di decomposizione, ed
alcuni pozzi, ne' quali si scende al fondo per bellissime scale di
sasso. Quantunque il paese sia incolto, come quello attraversato ne'
precedenti giorni, è per altro formato di una terra rossa vegetale, e di
roccia calcarea. Alle nove ore e mezzo arrivammo a _Màrra_, borgata di
circa duemila abitanti, al cui ingresso vedonsi molti tumuli di pietra
isolati a guisa di catafalchi, circondati da cinque sei gradini. _Marra_
è l'ultimo paese del governo di Damasco, che stendesi ancora tre leghe
al di là verso il N.; di modo che questo Pascialaggio prendendo dal
deserto d'Egitto fino alle porte di Aleppo, può riguardarsi come un
regno.


_Martedì 8._

Si riprese il cammino alle tre e mezzo della sera. Due strade conducono
da _Marra_ ad Aleppo; ma trovandosi la principale occupata dalle truppe
d'un antico pascià d'Aleppo, colle quali i miei Arabi non volevano
incontrarsi, si preferì la strada meno frequentata a traverso di un
deserto.


_Mercoledì 9 settembre._

Oscurissima era la notte; ed il suolo bagnato di rugiada appariva così
nero, che nulla distinguevasi alla distanza di dieci passi. Io mi
trovava in testa alla carovana con otto o dieci Arabi armati a cavallo,
avendo sempre sotto i miei occhi il mulo che portava le mie carte, di
cui mi riservava la custodia in tempo di notte. Camminavamo così
ordinati quando alle due ore e mezzo del mattino scoprimmo innanzi a noi
in distanza di soli venti passi una truppa d'uomini a cavallo. Non
eravamo più in tempo di dare a dietro, o di fermarci. Subito io grido;
_fuor di qui, fuor di qui_. I Bedovini rispondono colle medesime parole,
e noi avanziamo colla sciabla alla mano. Il mulo che portava le mie
carte trovavasi di già in mezzo alla truppa nemica; molti uomini armati
della carovana mi raggiungono; ed uno che trovavasi alquanto addietro di
me, tira una fucilata all'azzardo, ed io sento fischiare la palla a
diritta. Tutto ciò si eseguì in un istante. I Bedovini vedendo la nostra
risolutezza, si ritirarono, salutandoci senza tentar nulla. Erano venti
uomini all'incirca armati soltanto di lancia.

Alle quattro e mezzo del mattino si prese riposo presso la sponda d'un
canale, ov'erano alcune fattorie, nelle quali battevasi il grano.

Ripostici in cammino alle dieci ore, attraversammo alcune colline
calcaree coperte di piantagioni di ulivi, ed alle tre dopo mezzogiorno
si entrò in Aleppo.

Questa città detta dagli Arabi _Hàleb_ è stata tante volte descritta,
che tutto quanto io ne dicessi non potrebb'essere che una ripetizione di
ciò che tutti sanno; perciocchè trovandosi assai frequentata da tutte le
nazioni commercianti, viene ad essere conosciuta come una città
d'Europa: mi limiterò dunque a dire che racchiude molti belli edificj, e
quantità di marmi d'ogni specie; che bella è la grande moschea senza
essere magnifica; che le strade sono assai ben lastricate; ed i _bazar_
coperti di portici a vòlto, illuminati da frequenti abbaìni: che però i
_bazar_ di Damasco sono più ricchi, e meglio provveduti; che in
settembre il caldo fu insoffribile fino all'equinozio; e finalmente che
allora sulle montagne all'O. vi fu una gagliarda burrasca, dopo la quale
l'atmosfera si rese temperata. In Aleppo vedesi la bizzarra mescolanza
dei cappelli appuntati colle lunghe vesti orientali.

In tutto il tempo che rimasi in Aleppo mi trovai talmente ammalato, che
non potei quasi occuparmi dei più piccoli affari



CAPITOLO L.

   _Viaggio a Costantinopoli. — Antiochia. — Targo. — Monte Tauro.
   — Arco trionfale. — Orde di pastori della Turcomania. — Maniera
   di viaggiare in Turchia. — Città di Konia. — Assiom Karaïssar.
   — Kutaïeh. — Catena del monte Olimpo. — Scutari. — Ingresso in
   Costantinopoli._


Il Sabato 26 settembre sortii d'Aleppo allo cinque ore del mattino,
seguìto soltanto da uno schiavo, da un _tataro_, da alcuni mulattieri, e
da cinque fucilieri di scorta.

Camminando all'O. con una dolce inclinazione al N. entrai in un paese
alto e deserto, tutto composto di roccia calcarea. Giunto alle otto ore
presso ad un piccolo casale, congedai i cinque soldati, perchè ad una
certa distanza da Aleppo non si corre più pericolo di essere spogliati
dai Bedovini, o da altri ladri che sogliono aggirarsi ne' contorni della
città.

In questo luogo vedesi accanto alla strada uno scavamento perpendicolare
di forma quasi ellittica di un diametro maggiore di trenta piedi, e di
quaranta di profondità. A metà circa della sua profondità trovasi una
galleria che gira tutto all'intorno, lungo la quale sonovi le aperture
di varie caverne. Credono i musulmani essere questi i resti di una città
sommersa; ed i cristiani d'Aleppo dicono invece, e con maggiore
probabilità che fu già un anfiteatro pei combattimenti delle bestie
feroci. Non è pure inverosimile che servisse di prigione o di catacomba;
oppure che fosse una vastissima cisterna. Io non oso niente asserire di
positivo su quest'oggetto.

Di qui la strada piega a S. O. attraversando aspre rupi che dovetti
salire e scendere alternando fino a dieci ore e tre quarti; quando feci
alto per fare colezione in un casale detto _Tadil_.

Dopo un'ora di riposo continuando il cammino attraversai il casale di
_Tèreb_, indi una vastissima campagna tutta sparsa di villaggi, fra i
quali considerabilissimo è quello d'_Azèni_, dove entrai in sul
tramontare del sole; poi fui ad alloggiare nel vicino casale di
_Mortahoua_.

Questa pianura assai fertile è popolatissima, e lo sarebbe assai più se
non fossa ridotta alle sole acque dei pozzi e delle cisterne. I suoi
villaggi presentano frequenti vestigia, e rottami di antichi edificj; ed
io penso che ad una lontanissima epoca appartengano ancora le cisterne.
S'incontrano ad ogni passo frammenti di cornici, e di altri ornamenti
architettonici, ammucchiati con rozze pietre intorno agli orti; come
vedonsi molti pezzi di colonne destinati a coprire i pozzi. In tal modo
la mano del tempo, sempre più possente dei vani sforzi dell'uomo,
restituisce alla natura tutto quanto le era stato tolto dall'arte.


_Domenica 27._

Riprendendo il cammino alle cinque ore e mezzo del mattino, uscii poco
dopo dalla pianura, che mette capo in una valle assai ben coltivata, e
circondata da belle colline coperte d'ulivi.

Alle sette ore dovetti attraversare una difficile gola; dopo la quale,
ora salendo ora scendendo alcuni poggi, sboccai alle nove ore nella
valle che prende il nome dalla borgata d'_Armana_. Alle dieci feci alto
accanto ad una fonte di eccellente acqua che scorre presso ad un
giardino.

Mentre facevamo colezione sei giovanette presentaronsi entro il chiuso
del giardino, che potevano supporsi il fiore delle fanciulle del paese,
tanto eran vaghe e gentili. La siepe di spine che le separava da noi,
rendevale più ardite, onde coprivansi a loro voglia o si scoprivano,
facendo pompa di una bianca delicatissima carnagione resa più bella dai
grandi e neri loro occhi. Osservai che non avevano il volto imbrattato
come le donne d'Affrica, ma soltanto un poco di nero intorno agli occhi.
Mandai loro un cartoccio di dolci, che contraccambiarono con un
mazzolino di fiori (ecco un gentil cominciamento di romanzo); ma non mi
fu possibile di vedere interamente, come ne aveva vaghezza, le loro
vesti. Ci separammo alle undici ore, ed io continuai il mio viaggio
montando un colle assai aspro e circondato da precipizi; ed alle tre ore
e mezzo giunsi sulla riva destra dell'Oronte, detto _Wad-el-Aassi_ nel
villaggio _Hamzi_.

Si passò il fiume, che in questo luogo non può avere più di cento piedi
di larghezza, sopra una barca non calafattata, che faceva acqua in ogni
lato. Un uomo la governava con una lunga pertica, mentre un altro stava
occupato a vuotare la barca colla gotazza: e perchè tutti gli sforzi
dell'ultimo non supplivano al bisogno, ad ogni tragitto i due navicellai
tiravano la barca a terra, e la liberavano dall'acqua rovesciandola. A
quale epoca devesi riferire la perizia nautica di queste buone genti?...
Avendo rimproverato a questo moderno _Caronte_ (la di cui veneranda
bianchissima barba in nulla cedeva a quella del nocchiero della livida
palude) il pessimo stato della sua barca, mi rispose che ne aspettava
un'altra nuova da Antiochia. Gli soggiunsi che dovrebbe far buona
provvigione di catrame e di stoppa per tenere la barca in buono stato,
altrimenti anche la nuova sarebbe in breve ridotta alla condizione della
vecchia. Parve sorpreso da questo avviso, come di cosa di cui non avesse
mai udito parlare; e dopo essere rimasto alquanto pensieroso, mi disse
che _approfitterebbe de' miei ricordi, che trovava ragionevoli_.

Si fece alto sulla sinistra del fiume. L'acqua in questo luogo è tanto
tranquilla, che non se ne può conoscere la direzione senza gettarvi
qualche corpo galleggiante. La sua maggiore profondità è di quattro
piedi e mezzo; le rive argillose e coperte della melma del fiume sono
tagliate quasi a picco, ed alte circa sedici piedi. Il pesce è
abbondantissimo.


_Lunedì 28._

Si partì alle quattr'ore del mattino viaggiando lungo le falde di alcune
montagne. Alle sette passai sopra un ponte di un solo arco sotto al
quale scorre un piccol fiume che sbocca nell'Oronte. Appena giunto
sull'opposta riva, mi fu presentato un pesce lungo più d'un piede, in
quell'istante saltato sulla sabbia, ed era ancora vivo.

Alle otto ore feci colezione al di là di un altro torrente che mette pur
foce nell'Oronte, lontano poco più di quattro miglia dal lago
d'Antiochia detto _Bahar Caramort_, formato da più fiumi, le di cui
acque si scaricano nell'Oronte.

Dopo tre ore di riposo feci il giro di una montagna, indi ne attraversai
alcune altre più basse, che seguono la direzione dell'Oronte. Piegando
poi quasi al S., entrai alle undici ore per la porta della vecchia in
Antiochia, e dopo il cammino di una mezz'ora in mezzo ai giardini posti
entro il circondario delle antiche mura, giunsi nella nuova città, il
cui governatore di nazione turco, mi alloggiò in sua casa.

Questo governatore detto _Hadj-Bekir-Agà_, assai ragguardevole
personaggio, per mostrarmi il suo affetto non mi lasciava mai, di modo
che non aveva un istante di libertà. Appena arrivato mandò ordine a
_Souaïdia_, che è il porto più vicino, di approntare un bastimento per
condurmi a Tarso; trovandosi la strada di terra esposta alle scorrerie
della gente di _Kouchouk-Ali_.

Antiochia, che i Turchi chiamane _Antakia_ contiene quindicimila
musulmani, 5000 cristiani di tutti i riti j e 150 ebrei. Il Patriarca
greco trovavasi allora a Damasco, ed il cattolico nelle montagne.

La moderna Antiochia non occupa che un piccolo spazio dell'antica; di
cui rimangono ancora le mura per attestarne l'ampiezza. Questa nuova
città comprende un'area di oltre mezza lega di diametro, con alcune
colline coperte di antiche rocche che scendono fino al piano: sono di
pietra, fiancheggiate a disuguali distanze da torri quadrate, ma ora
tutta va in ruina. Magnifica è l'antica porta per cui era entrato, ma
minaccia di cadere da un momento all'altro.

Prima d'entrare per questa porta io aveva veduto a sinistra una
montagna, la cui più bassa parte tagliata a picco presenta la forma di
una facciata d'edificio, con una porta quadrata ben tagliata nel mezzo e
varie finestre tagliate nella viva roccia con eguale perfezione; lo che
sembra indicare de' sotterranei troppo interessanti per un antiquario.
Le colline poste entro le mura hanno al loro piede alcuni strati
perpendicolari da cui zampillano molte acque.

Le strade d'Antiochia sono strette, ma hanno de' marciapiedi alti da
ogni banda e ben lastricati. Le case fatte di pietra senza cemento hanno
un aspetto tristo e monotono: sono le prime ch'io abbia vedute coperte
di tegole dopo essere uscito dalla Mecca. Tutto indica essere questo il
paese delle pioggie, ed il clima è più freddo assai di quello d'Aleppo,
ove non suole mai nevicare. Pare che il principal prodotto del paese sia
quello della seta. Abbonda di buoni cibi e di acque; ma non si fa uso di
altro pane che di focaccie arabe. Giungendo in città incontrai molte
donne, quasi tutte assai belle.

Il Governatore, dipendente dal pascià d'Aleppo vive splendidamente, e
parvemi che il paese fosse ben amministrato.


_Martedì 29._

Ebbi a mezzo giorno avviso che il bastimento era pronto; voleva partire
all'istante, ma dovetti trattenermi fino all'indomani. La sera dopo cena
un ufficiale Francese vestito da Tartaro, che veniva da Costantinopoli,
chiese di parlare al Governatore, e prendendomi in iscambio, si lagnò di
un Tartaro che non si affrettava a provvederlo di cavalli per continuare
il viaggio alla volta di Aleppo. Dopo averlo calmato, ed indicatogli il
Governatore, accomodai la faccenda: gli chiesi se poteva essergli utile
in qualche cosa, e partì soddisfatto del mio accoglimento[3].

  [3] _Questo ufficiale era il signor _Truilhier_, comandante
  d'artiglieria all'armata del mezzodì di Spagna._ (Nota
  dell'Editore Franc.)


_Mercoledì 30._

Essendomi congedato dal cortese governatore, partii alle otto del
mattino, e poi che ebbi attraversato l'Oronte, mi avanzai a qualche
distanza lungo la riva destra, tenendomi generalmente nella direzione di
O. S. O. Alle dieci ore mi trattenni alcun tempo per prendere riposo in
mezzo ad alcuni bei giardini; ed alle due ore dopo mezzo giorno giunsi
allo sbarco di _Soauïdia_ a piccola distanza dalle fóci dell'Oronte.

Nulla può vedersi di più dilettevole del paese tra Antiochia e
_Soauïdia_, tutto intersecato da pozzi e da valli coperte di campi ben
coltivati, da prati e da boschetti. Il cammino, sebbene alquanto aspro,
rassomiglia piuttosto a quello di delizioso giardino reso dall'arte
disuguale e tortuoso, che ad una pubblica strada. Ad ogni passo
s'incontrano ruscelli e piccoli fiumi d'acqua limpidissima che irrigano
i giardini e le piantagioni delle valli, ove frequentissimi sono i gelsi
bianchi, che formano piccole macchie sparse di viti, di granati, e di
altri alberi fruttiferi. Numerose greggie di armenti, coprono le colline
e parte delle valli. Il maestoso Oronte, ricco delle acque del lago
_Caramorto_, e di quelle d'infiniti torrenti, scorre maestosamente in
traverso di questo gentil paese: e per dirlo in una parola, tutto in
questi ameni luoghi annuncia la vicinanza del recesso delizioso un tempo
abitato dalla bella _Dafni_.

Allo sbarco di _Soauïdia_ non vedonsi che cinque o sei baracche, ed una
casuccia abitata dai gabellieri.

M'imbarcai sopra una scialuppa alle sette ore della sera, ed un'ora dopo
arrivai alla foce del fiume. Il mare era grosso, le onde rompevansi
furiosamente sulla _barra_ del fiume, ed il cielo era tutto coperto di
nere nuvole. Il bastimento preparatomi aveva dovuto allontanarsi dalla
riva, onde soffersi scosse terribili attraversando le _barre_ colla
scialuppa. Appena montato a bordo, si fece vela quantunque con vento
contrario.


_Giovedì 1 ottobre._

Dopo ventiquattr'ore di navigazione con venti diversi, e sempre
contrarj, la nave attraversò la bocca del golfo di _Scandroun_, e diede
fondo presso terra sulla costa della Caramania alle otto ore della sera;
io però restai quella notte a bordo.


_Venerdì 2._

Appena sbarcati, moltissimi facchini con muli e cavalli sempre in
agguato delle navi che approdano, ond'essere impiegati, s'impadroniscono
delle persone e degli effetti, disputandosi tra di loro a colpi di pugno
l'onore di accompagnarci. Vero è che le loro premure non sono affatto
disinteressate: ma in ogni luogo l'interesse è la molla delle nostre
azioni.

A non molta distanza dal mare trovasi un villaggio chiamato _Cazanlìe_
di una singolare costruzione: è composto di un centinajo di baracche
sospese sopra quattro pertiche all'altezza di nove in dieci piedi; ed
ogni baracca è formata di un semplice pergolato di travicelli, o di
canne, rassomigliando ben più ad un nido di uccelli, che all'abitazione
di uomini inciviliti. Per salirvi si adopera una rozza scala.

Vidi a maggior distanza un altro villaggio fatto assai meglio, ed assai
più interessante. È questo un _dovar_ abitato da pastori della
Turcomania. Le baracche sono piccole, ma gentili, e poste a livello del
terreno. Consistono in tre pergolati di quattro piedi di altezza coperti
da un tetto della stessa qualità in figura di volta cilindrica; la
pergola della parete è formata di canne, di tralci, o di frondi, ed il
tetto è coperto di pelli. In questo villaggio non si vedono che donne e
fanciulli perchè gli uomini conducono le mandre al pascolo; ma le donne
non rimangono oziose, facendo esse il butirro, il formaggio, ed ogni
altra sorte di latticinj con un'estrema pulitezza. Il loro abito
consiste in una camicia bianca, un giustacuore colle maniche ornate,
ordinariamente di cotone trapuntato, una sottana di cotone bianco, con
un fazzoletto che loro fascia il capo ed il collo. Sono tutte bianche,
ed alcune abbastanza avvenenti. Quelle che allattano non lasciano di
lavorare tenendo sospeso al dorso il fanciullo. Tengono il volto
scoperto, e benchè musulmane, pare che non sappiano, che la legge non
accorda loro questa libertà. I ragazzi vanno ben vestiti, con camicie,
casacchini, e turbanti di colore.

Gli abitanti di questo distretto, detti _Turcomani_, sono tanto
terribili colle armi in mano, quanto buoni, dolci, ed onorati in
società.

Dopo tre ore di viaggio lungo il mare entrai in _Targo_ alle dieci ore e
mezzo del mattino. Aveva incontrati lungo la strada molti bufali, ed
alcuni cammelli con basti di differenti colori.

Quasi tutti gli uomini portano camicie e mutande bianche, ed un
giustacuore con maniche trapuntate; ma altri non hanno che una casacca
senza maniche, legata con una cintura, ed una berretta bianca alta ed
acuta da un turbante, sono d'ordinario calzati di grandi stivali neri.

Targo o _Turpis_ (che suole pronunciarsi in un modo e nell'altro), è una
ragguardevole città, le di cui case sono assai brutte e fatte di terra.
È posta in mezzo ad una vasta campagna, circondata di giardini a breve
distanza dal fiume, in cui il grande _Alessandro_ corse rischio di
perire; ed è nella vicina pianura a levante che sconfisse lo sfortunato
_Dario_.

Quand'io vi passai non eravi che un solo Europeo.

Il cotone e la seta sono i principali oggetti del commercio di Targo.
Piovve tutta la notte dirottamente.


_Sabato 3._

Partii a sette ore del mattino, e mezz'ora dopo attraversai il fiume di
Targo sopra un ponte di tre archi, indi piegai a settentrione, tenendo
la medesima direzione tutto il giorno.

Giunto in sulle nove ore all'estremità della pianura, dovetti valicare
più colline, uscendo dalle quali mi trovai circondato alla catena del
_Monte Tauro_, composto nella parte da me veduta di roccia cornea, e di
_trap_ talvolta aggruppato in enormi masse, talvolta a strati ondeggiati
più o meno obliqui, e talvolta finalmente in aguglie altissime formate
dalla unione di prismi perpendicolari, che hanno l'aspetto di una
cristallizzazione.... E che è in fati qualunque montagna primitiva, se
non una cristallizzazione colossale?..... Io non vidi verun indizio di
granito o di porfido.

Questa parte della catena è coperta di magnifiche foreste, i di cui più
comuni alberi sono quercie, cedri, cipressi, e lentischj. Tutto quanto
mi si offriva questo giorno agli occhi, mi faceva presumere che le alte
montagne dell'isola di Cipro fossero in rimotissimi tempi una
continuazione del monte Tauro. Le pittoresche vedute, le magnifiche
cascate d'acqua trasparente quanto il cristallo che da ogni lato
invitavano il mio sguardo, facevanmi nascere rincrescimento di non poter
godere che di passaggio così deliziose contrade.

Giunto alla sommità vidi un antico maestoso argine fatto di grandi sassi
quadrati lungo un piano orizzontale in cima alla montagna dalla banda di
S. E., e terminato con un arco di trionfo semplice, ma nobile, la di cui
più elevata parte cominciava a cadere in rovina.

Quest'arco può essere riguardato come una grande finestra, di dove
signoreggiansi interamente le pianure che furono il teatro della
vittoria di _Alessandro_ sopra _Dario_; lo che potrebbe dar sospetto che
l'arco fosse stato eretto ad onore di questo conquistatore. Anche
l'argine incomincia a guastarsi: vidi all'estremità settentrionale un
sasso tagliato in figura di piedestallo sul quale dovette probabilmente
esservi qualche iscrizione, ma ora affatto cancellata dall'inesorabil
mano del tempo, che si prende giuoco degli sforzi che gli uomini fanno
per rendere eterni i monumenti del loro orgoglio.

Dopo essermi riposato un istante presso ad una bella fonte, giunsi verso
le quattr'ore sulla strada che conduce direttamente da Aleppo a
Costantinopoli, e ch'io dovetti abbandonare per la ribellione di
_Kouhouk-Alì_. Pare che anticamente questa strada fosse assai buona; ma
al presente trovasi in estremo deperimento. Entrai in _Diàïde_ alle
sette ed un quarto della sera, e trovai nella casa della posta cinque
Tartari che successivamente erano sortiti da Aleppo dopo di me.


_Domenica 4._

Io desiderava di partire di buon mattino, ma essendo accostumati a
partir tardi, così non sortii da _Diàïde_ che alle sei ore. La sera si
fece alto alla casa di posta di un miserabile villaggio detto
_Wadicàschli_, chiamato dai Turchi _Ouloukiscla_.

Di mano in mano che avanzavamo verso il N. O., la parte del monte Tauro
che attraversammo andava perdendo la sua bellezza; ed in fine non
presentava che ignude balze, le di cui sommità settentrionali erano
coperte di neve: entrato verso le tre dopo mezzogiorno in un paese
alquanto più aperto e meno aspro, trovai alcuni villaggi circondati di
orti e di vigne; ed essendo il tempo della vendemmia quegli abitanti mi
offrirono uve, e cestelle di saporitissime frutta.

In questo giorno vidi passare alcune truppe di cammelli alquanto
differenti da quelli dell'Arabia e dell'Affrica; hanno le gambe davanti
più corte e più grosse che le deretane, il collo assai più forte, e
tutte le parti anteriori del corpo più coperte di lana.

Aveva pure incontrati molti pastori turcomani: quale diversità da questi
ai pastori Arabi! Gli uomini, le donne, i fanciulli, tutti sono ben
vestiti, i cammelli che portano i loro effetti, sono coperti di bei
tappeti turchi. Pare veramente ch'essi godano di tutta l'agiatezza, e di
tutti i piaceri della vita pastorale, ed è tra costoro che dovrebbonsi
cercare esclusivamente i modelli de' pastori che furono spesso
l'argomento delle più commoventi poesie.


_Lunedì 5._

Erano ormai le otto ore quando mi posi in cammino a traverso di un paese
di sterili colline, indi di una vasta incolta pianura. In sulle undici
ore passai per un casale composto di miserabili casucce di terra; e
finalmente dopo altre quattr'ore di viaggio, avendo passato un fiume
sopra un ponte, entrai nella borgata d'_Erehli_ posta in un gentil paese
pieno di giardini sulla sinistra del fiume, e non sulla destra come
viene indicato nella carta d'_Arrowsmith_. Questa terra è abbastanza
grande, ma le case sono brutte, fatte di terra e di mattoni seccati al
sole, come costumasi da tutti i popoli della Caramania; per lo contrario
i giardini sono belli assai, e danno frutta in copia, e specialmente
grosse ed eccellenti pere. L'entrata d'_Erehli_ dalla parte del N. è un
magnifico viale fiancheggiato da alti pioppi, e da due canali di
limpidissime acque.


_Martedì 6._

Partimmo poco dopo le sette ore, camminando al N. a traverso di
vastissime praterie piene di mandre, e specialmente di bufali, e sparsa
di casucce circolari con tetti piani. Verso le nove ore lasciai a destra
la città di _Hartan_ situata sulla sponda sinistra di un piccolo fiume.

Di là volgendo ad O. N. O., ed in seguito a N. O. in mezzo a campagne
aride come le montagne che le circondano da due lati, passammo alle due
ore dopo mezzodì presso ad una Salina formata da un ampio fossato che
circonda una piccola montagna di terra affatto isolata: l'acqua ch'entra
nel fossato, svaporando pel calore del sole, lascia sul fondo un sale
marino bianchissimo, che viene trasportato coi cammelli ai vicini paesi.

Alle tre ore e mezzo si entrò nel castello di _Carabig-Mar_, ove feci
riposare le mie genti. È questo un ragguardevole paese, ma mal
fabbricato alle falde di un monticello aridissimo, siccome affatto
sterile è l'adjacente pianura; non vi si vede un solo orto, nè alberi,
tranne due pioppi che sono entro il castello. E ciò riesce tanto più
sorprendente, che il piano non è privo di acqua. La moschea di
_Carabig-Mar_ ha un vago esterno con grandi e piccole cupole, e due
sottili altissime torri. Sul monticello vedonsi gli avanzi di un'antica
rocca.

In questo luogo, come in altri della Caramania si osserva un vasto
edificio, che può rassomigliarsi ad un tempio di tre navate, intorno al
quale s'inalzano molti fumajuoli. È una specie di _Khan_ destinato
all'alloggio delle carovane della Mecca.

Dei cinque tartari incontrati a _Diaïde_ uno solo ci aveva lasciati
addietro, gli altri camminavano con noi.

Siccome io mal poteva reggere al trotto franco e disagiato, che è la
loro ordinaria andatura, era costretto di alternare il passo ed il
galoppo disteso quando mi trovava addietro di quattro in cinquecento
passi; lo che mi stancava assai meno che il trotto sostenuto de' cavalli
tartari.

È noto esservi sulle grandi strade della Turchia cavalli di ricambio;
onde mutavamo cavalli ogni giorno, e spesso due volte al giorno.

Per essere affatto sbarazzati dalle molestie del viaggio si pattuisce
con un tartaro, il quale si obbliga a condurre, alloggiare, nutrire il
viaggiatore, e pagare tutte le spese del cammino, contro una convenuta
somma che gli viene sborsata metà all'atto della partenza, ed il
rimanente arrivati al termine del viaggio. Pel mio viaggio da Aleppo a
Costantinopoli aveva convenuto col mio tartaro ottocento piastre, ed
egli somministrava un cavallo per me, uno pel mio schiavo ed un altro
per portare gli effetti, oltre le spese di vitto, e di alloggio, ed
anche le accidentali che tutte restavano a suo carico.


_Mercoledì 7._

Si ripartì alle sei ore e mezzo del mattino, prendendo la direzione d'O.
per una campagna deserta. Ad un'ora ed un quarto si giunse ad _Ismel_,
cattivo villaggio ove dovevamo passare la notte.

Lungo questa strada si trovano molti pozzi, nei quali si scende per una
scala di sasso fino al livello dell'acqua. Discesi in uno che aveva
cinquanta scaglioni, e lo trovai provveduto di eccellente acqua.

Il piano tutto argilloso non ha un solo albero.


_Giovedì 8._

Alle cinque e tre quarti io era già in viaggio lungo lo stesso piano,
verso O. N. O. poi a N. O. Alle otto e mezzo attraversai una specie di
macchia che interseca la pianura, e che non è poi altro che un vasto
spazio coperto di giunchi, e di altre piante de' pantani assai fitte, di
diversa altezza, ed in alcuni luoghi fino di dodici e tredici piedi.
Dopo avere passato questo pantano, continuai a camminare lungo la stessa
campagna, finchè alle due dopo mezzogiorno giunsi a _Konia_ capitale
della Caramania, che è l'antica _Iconium_. Questa città è situata
all'estremità occidentale della deserta pianura che aveva attraversata,
ed alle falde di una catena di basse montagne che chiudono l'orizzonte a
mezzodì; hannovi molti giardini sul fianco meridionale, e qualcuno
ancora dalla banda di settentrione. Ciò che io vidi di questa città me
ne diede una poco vantaggiosa idea, benchè sia la residenza del Pascià
di Caramania. Contiene vasti cimiteri, ne' quali ogni sepolcro viene
indicato da una pietra rozza alta sette in otto piedi, larga un piede,
grossa quattro dita, e situata verticalmente: la quantità di questi
grossolani monumenti, sparsi sopra un vasto piano fa una penosa
sensazione all'occhio dell'osservatore. Le case sono di terra o di
mattoni cotti al sole, come quelle de' più poveri villaggi. Non osservai
che una sola casa che avesse un buon esterno; ma anche questa formata
coi materiali delle altre case. Si vuole che quest'edificio, che per la
sua forma ed ampiezza potrebbe dirsi un palazzo, fosse fabbricato da un
uomo che ne' paesi de' cristiani aveva imparata l'alchimia, ossia l'arte
di far l'oro, col qual mezzo si era fatto ricchissimo. Al presente serve
d'ospizio ai poveri. Ho pur veduto l'esteriore di tre moschee che hanno
un magnifico aspetto con grandi cupole, e campanili alti e sottili.

La più bassa parte della città è chiusa da alte mura fiancheggiate da
torri quadrate, ed incrostate di pietre tagliate; vi si ravvisano alcune
iscrizioni turche; ma il lavoro è fatto dai greci, come lo attestano i
lioni ed altre figure che sonovi scolpite.

Entrando in città osservai molti fanciulli, di diverse età, tutti belli,
con carnagioni di latte e rosa, ben fatti, e decentemente vestiti. Non
potei a meno in vedendoli, di benedire l'attività e le attenzioni delle
donne di questo paese, e di risovvenirmi con pena dell'indolenza delle
Egiziane e delle Arabe.

Il pane che mangiasi a Konia, ed in tutta la Caramania, è una focaccia
d'un piede di diametro all'incirca, grossa una linea od una linea e
mezzo; di modo che queste focaccie rassomigliano esattamente, tranne la
grandezza, alle ostie da suggellare dell'Europa. Si mangiano mentre sono
ancora tenere; e servono pure ad involgere un uccello, o altra carne,
come potrebbe farsi con un foglio di carta.

In tutta la Caramania adoperansi carrette, le di cui ruote sono formate
di tavole, ma assai ben fatte.

Il lettore avrà rilevato dal mio racconto, che tra _Ismil_ e _Konia_,
non trovansi le montagne notate sulla carta d'_Arrowsmith_. Del resto la
sua carta dell'Asia minore parvemi ben fatta, e queste leggieri
inesattezze potranno emendarsi in una seconda edizione.


_Venerdì 9._

Due ore dopo uscito da _Konia_, e dopo aver costeggiate le montagne a N.
E., incominciai a salire alcune colline; e giunsi ad un'ora e mezzo
all'estremità settentrionale delle montagne, ove trovasi sopra un'altura
il villaggio di _Adik_.

Ciò ch'io vidi di queste montagne è formato di schisto argilloso e
corneo a piccoli strati assai sottili disposti orizzontalmente, o
disugualmente inclinati senza veruna traccia di vegetazione, tranne
pochi cespugli ne' contorni del villaggio, ove per altro vi sono alcuni
giardini ed una bella fontana.

Trovandosi indisposto uno de' Tartari che viaggiavano in nostra
compagnia, fummo costretti di rallentare il viaggio. Io aveva per altro
bisogno di arrivare a Costantinopoli il più presto possibile; e perciò
offersi cento piastre di più al mio Tartaro, a condizione di farmi
arrivare la domenica 18 del mese. Malgrado la sua promessa, io era ben
certo che non l'avrebbe mantenuta, a cagione della sua infingardaggine.
Egli era solito di andare a letto alle sette della sera, ed io doveva
ogni mattina risvegliarlo alle sette, se voleva fare un discreto
viaggio. Ma questa negligenza è un vizio comune a tutti i Tartari.

Dietro le mie osservazioni, e calcolata la direzione della strada, si
trova facilmente che _Ladik_ non è all'O. di _Konia_, come viene notato
sulle carte.

Questo villaggio fu anticamente un luogo più importante che non lo è
adesso, siccome lo attesta l'infinito numero de' capitelli, de'
piedestalli, delle cornici ecc., ed alcune iscrizioni greche.


_Sabato 10._

Partii alle sette del mattino nella direzione d'O. N. O., e verso le
nove ore attraversai _Kodenkhan_, villaggio alquanto maggiore di
_Ladik_; alle undici e mezzo si passò un ponte sotto al quale passa un
fiume affatto limpido; e feci alto ad un'ora col mio seguito ad
_Elguinn_, piccolo villaggio alle falde delle montagne, circondato da
giardini.

Vedendo che malgrado le promesse del mio condottiere, non sarei giunto a
Costantinopoli nel giorno fissato, minacciai di farlo castigare, o di
castigarlo io stesso, se non si determinava ad essere più sollecito. Il
timore fu più efficace dell'interesse, ed incominciò ad accelerare il
cammino. Subito dopo pranzo tutti rimontarono a cavallo, sortendo da
_Elguinn_ alle due dopo mezzo giorno. Poi che avemmo varcato un fiume
che sbocca in un lago posto in poca distanza al N. il quale può avere
una lega all'incirca di diametro, si prese la direzione all'O. Alle
cinque e mezzo eravamo giunti nel villaggio d'_Arkitkhan_, al di là del
quale si passa un piccolo fiume. A notte già fatta passavamo in
vicinanza di alcuni villaggi; ed alle otto e un quarto entrammo in
_Akschier_ piccola città posta sul pendìo d'una montagna così abbondante
di acque, che i loro zampilli formano un ruscello, e talvolta un piccolo
fiume in ogni strada della città. Tutte queste acque si scaricano in un
lago distante all'incirca una mezza lega dalla banda di N. E. _Akschier_
contiene alcuni rottami che mi parvero avanzi d'una antica cattedrale.

I miei Tartari sempre pigri volevano fermarsi in questa città il
susseguente giorno; ma io mi vi opposi con fermezza, e malgrado i loro
barbottamenti fu deciso di partire all'indomani di buon'ora.


_Domenica 11._

I Tartari mi si fecero innanzi in sul far del giorno mostrandosi
inquieti; e mi avvidi all'istante che bramavano di dissuadermi a partire
questo giorno, col mettermi a parte dei loro timori veri o simulati di
vicina dirotta pioggia. _Tanto meglio_, risposi loro, _non soffriremo il
caldo._ Vedendo tornar vani i loro pensamenti per trattenermi,
ritiraronsi in silenzio per allestire i cavalli.

Si partì poco prima delle sette prendendo la direzione del nord, al
lungo di una linea di montagne; ed alle dieci ore avendo alquanto
piegato al N. O. entrammo nel piccolo castello di _Aïsa-Klew_.

Questa strada è molto amena: il viaggiatore trovasi continuamente alcune
tese al di sopra del piano che prolungasi a destra, e di là vede il lago
in tutta la sua estensione di circa due miglia di diametro; mentre a
sinistra s'inalzano le montagne dalle quali si precipitano infiniti
ruscelli, e le di cui vette più alte sono coperte di neve. Le valli che
si aprono alle loro falde sono sparse di villaggi, di casali, di
giardini.

Dopo avere cambiati i cavalli si lasciò questo castello alle undici ore,
e tenendo la strada all'O. N. O. si scese in una pianura che si
attraversò fin quasi al tramontar del sole nella direzione di O. Tutte
le case di _Barafdon_ piccolo villaggio situato in questo piano, ove
dovevamo passare la notte, trovandosi già occupate dal Pascià e dal suo
seguito, fui costretto di coricarmi alla meglio in una scuderia in mezzo
ai cavalli.


_Lunedì 12._

Alle sette ed un quarto del mattino, trovandomi in viaggio, m'accorsi
che i miei tartari erano agitati: si videro talvolta rallentare il
passo, poi fermarsi a discorrere con un certo contegno di tristezza e di
spavento. Fui ben tosto al fatto dei loro timori. Il Pascià che avevamo
lasciato a Barafdon aveva fatto tagliare il capo al maestro di posta
della città cui eravamo diretti; onde temevano di esservi mal accolti, e
qualche cosa di peggio.

Dopo lunghi consigli risolvettero di mandare avanti due di loro con un
postiglione onde scandagliare il terreno. Io tenni loro dietro a qualche
distanza, e mi fermai presso di un pozzo lontano circa trecento tese
dalla città. Allora un tartaro si avanzò fino alle porte, ed essendo il
postiglione venuto a cercarmi, entrai con lui in _Assiom-karaïssar_ alle
undici ore del mattino, prendendo tranquillamente alloggio alla posta.
Il fratello del maestro di posta decapitato aveva già trafugati tutti i
cavalli ed erasi posto in sicuro nelle montagne; fortunatamente i miei
Tartari ebbero modo di far sapere al governatore ch'io era _un inviato_
del sultano _Sceriffo della Mecca presso al Sultano di Costantinopoli_:
onde il governatore ed i suoi subalterni si fecero premura di offrirmi i
loro servigi, e mi assicurarono che all'indomani potrei partire.

La situazione di questa città, stando alla carta di Arrowsmith non
combina colla mia stima geodetica della strada; ma tengo in sospeso il
mio giudizio finchè sia giunto ad un altro punto geografico conosciuto.

Stando a questa carta la città sarebbe volta a S. O., ed il famoso
_Meandro_ che prende origine nelle vicine montagne, scorrerebbe nella
medesima direzione; quando invece la situazione della città è al N. E.,
ed il fiume, che io attraversai sopra un ponte a non molta distanza
dalla città, segue la stessa direzione.

_Assiom-Karaissar_ è una assai vasta città, con molte moschee, una delle
quali sembrommi magnifica. Questa città ha, come quella d'Akschier, le
strade cambiate in piccoli fiumi per le acque che scendono dalle
montagne vicine; e le case sono triste in sul fare di quelle delle
precedenti città. Malgrado il freddo che faceva acutissimo, si trovarono
eccellenti frutta, uve, poponi, e pomi delicatissimi. Il pane fatto a
focaccia è molto buono. I coltivatori vedevansi tutti intenti a battere
i grani.

Al S. O. della città vedesi una rupe isolata in forma di pane di
zucchero, formata dall'unione di prismi irregolari perpendicolari,
talchè sembra tagliato a picco da ogni lato. La sommità è coperta da
un'antica fortezza, che dovette essere in altri tempi una piccola
Gibilterra.

   [Illustrazione: VEDUTA DELLO SCOGLIO E DEL CASTELLO D'ASIOM
   KARAÏSSAR NELL'ASIA MINORE]


_Martedì 13._

Alle otto e mezzo del mattino mi diressi al N. O. Poichè ebbi
attraversato un ruscello non lontano dalla città, si proseguì il cammino
lungo una pianura fino alle undici ore; quando si cominciò a salire
sopra alcuni poggi, sui quali dopo un'ora di viaggio trovai un casale,
ed un altro alle due e mezzo detto Osmankoï, ove il mio condottiere si
fermò alloggiandomi in un'oscura stalla. Irritato contro di lui pel
breve viaggio fatto in questo giorno, e del pessimo alloggio che mi
aveva procurato, mentre gli altri Tartari erano meglio alloggiati, lo
sgridai aspramente, ed alterato dalla collera, lo minacciai di fargli
saltar il capo colla mia sciabla se continuava a condurmi in tal
maniera. Accorsero gli altri Tartari e mi calmarono, confessando che
avevo ragione; e fui tosto condotto in più decente alloggio.


_Mercoledì 14._

La riprensione fatta al mio Tartaro non fu senza effetto: spaventato
dalla maniera con cui gli aveva parlato, mi diede la stessa sera una
squisita cena, ed all'indomani eravamo già in cammino alle sei ore. La
strada andava ad O. N. O. in mezzo alle montagne. Alle sette ed un
quarto lasciavasi a destra _Altonntasch_, villaggio ove potevamo
arrivare il giorno avanti, se i Tartari non fossero così infingardi. Si
ripiegò allora al N. N. O. sempre in mezzo alle montagne, ed
attraversando una foresta: ma avanti mezzogiorno fummo costretti
d'abbandonare i nostri cavalli che perivano. Un'ora dopo scesi un lungo
pendio, al di cui piede scorre un fiume che va da mattina a
settentrione, e che si passa sopra un ponte. Dall'opposta riva s'inalza
subito un altro ripido poggio, ma meno lungo del precedente, di dove
scendesi in una larga valle; ed arrivai verso le tre ore e mezzo a
_Mitaïeh_, bella e ragguardevole città, capitale della provincia di
_Nadoulia_ o Natolia, e residenza di un Pascià. È posta sul pendio d'una
montagna, e le case fatte parte di muro e parte di legno, sono tutte
dipinte, con grandi finestre, terrazze, e generalmente unite a' giardini
che loro danno un bell'aspetto: ma le strade, almeno quelle che io vidi,
sono sudice, mal selciate, e nel mezzo ingombrate da un rigagnolo di
acqua limacciosa. Osservai due mercati abbondantemente provveduti di
frutti e di legumi; e seppi che la carne è buona ed a buon prezzo, come
pure le farine. Sono notabili alcuni belli edificj e molte moschee. La
montagna che signoreggia la città è coronata da un antico castello.

Le carrette che si adoperano in questo paese tirate dai buoi o dai
bufali sono in modo strette, che appena possono ricevere comodamente due
persone. Piccola è la specie de' buoi, con corna tanto corte quanto
quelle de' buoi della costa di Barbaria; ma all'opposto i bufali sono
alti ed armati di grandissime corna. Questi animali servono pure alla
coltivazione; come avevo veduto in Antiochia alcuni buoi servire da
bestie da soma.


_Giovedì 15 e Venerdì 16._

Il mio condottiere mi costrinse a restare a _Kutaïeh_ due giorni,
protestando di non trovare cavalli. Approfittai di questo ritardo per
visitare la grande moschea, antico e vasto edificio di una singolare
costruzione, e di forma quadrata, diviso in due navi eguali da una linea
di colonne che dalla porta va fino al fondo. Si andava riedificando in
tempo del mio passaggio, aggiugnendovisi un ordine di tribune in giro.
Questa singolarità unita alle pitture che abbelliscono l'interno
dell'edificio mi sorprese in maniera, che mi credeva trasportato in un
teatro d'Europa.

I ruscelli che scorrono per le strade sono veri torrenti, sui quali il
bisogno di passare da un lato all'altro, fece fare dei ponti di legno.
Le strade sono sempre piene di oche, di anitre e di cani.


_Sabato 17._

Partii il giorno 17 alle nove ore e mezzo del mattino; e dopo avere
attraversato il piano al N. mi trovai verso le dieci ore in una campagna
sparsa di colline. Fu duopo passare due volte il fiume Poursak, che
scorre all'O. poi a N. E. Sortendo da una bella moschea attraversata
dalla strada, mi diressi al N. O. in mezzo alle montagne, e dopo
tramontato il sole scesi per un ripido pendìo sul piano, ove trovai un
casale quasi tutto costruito di legno, detto _Yea Ouglou_.


_Domenica 18._

Il sole nascente ci vide partire. Sortendo dal casale avevamo in faccia
un'angusta valle coperta di gelicidio, dalla quale ci separava soltanto
un fiume. In mezz'ora eravamo giunti all'estremità della valle tenendo
sempre la direzione di N. N. E., ed omai saliti sulle montagne, quando
ci trovammo quasi senz'avvedercene imbarazzati in così fitta macchia,
che quantunque il cielo fosse affatto sereno, ed il sole splendesse di
tutta la sua luce, ci sembrava talvolta che non fosse ancora giorno.
Nulladimeno di tratto in tratto trovavansi dei sorprendenti colpi
d'occhio, e ridenti situazioni rinfrescate da zampilli e ruscelletti
d'acque freschissime. Molti di questi ruscelli erano abbelliti da
piccoli frontispizj dovuti alla pietà musulmana; ciò che dava
l'apparenza di giardini a questi luoghi selvaggi. Finalmente vidi
_Stuhout_ in una bassa valle, ove arrivammo scendendo un ripido pendìo
ad undici ore del mattino.

Questo villaggio quantunque piccolo, mi parve ricco. È circondato da
ogni banda da giardini e da vigne, i di cui prodotti vengono dagli
abitanti trasportati a considerabili distanze. Trovandosi abbastanza
ricchi si prendono cura di avere case appariscenti, e ben addobbate: le
fisonomie di questa gente non hanno la dolcezza di quelle dei Caramani:
hanno il naso grosso, e sono generalmente tetri, tristi, cupi e
diffidenti, come gli Ebrei tra i Musulmani. Il fiume _Sakaria_ non passa
per _Souhout_ come l'indicano le carte.

L'ostinata pigrizia del mio condottiere mi obbligò a trattenermi fino
all'indomani, malgrado il desiderio che avevo di giugner presto a
Costantinopoli.


_Lunedì 19._

Erano le sei del mattino quando ripresi il cammino col mio seguito. Da
principio si andò verso N. N. O. a traverso le montagne; indi seguendo
per qualche tratto la direzione della cresta d'una montagna; si discese
poi in una valle angusta e profonda divisa da un fiume, passato il quale
entrammo ad undici ore in _Verzirkhan_, villaggio situato sulla sinistra
del fiume, e non sulla destra come viene segnato nelle carte, e abitato
solamente da cristiani greci.

Riposatomi pochi istanti, ripresi a mezzo giorno la direzione al N.,
poscia al N. N. O. in mezzo a giardini e piantagioni di gelsi bianchi
che cuoprono la valle: si dovette in appresso salire e scendere un'alta
montagna, alle di cui falde la strada piega all'O. Arrivammo alle due
ore ed un quarto a _Lefkie_, che trovasi in fondo ad una valle lungo la
quale scorre un piccolo fiume.

In sul far della sera soppraggiunse un ufficiale di Mehemed Ali pascià
d'Egitto, apportatore al governo della notizia della ritirata
degl'Inglesi. Essendo venuto a trovarmi, sgridai in sua presenza i miei
Tartari, i quali contavano d'impiegare ancora quattro giorni per
condurmi a Costantinopoli, ed ottenni la promessa di arrivarvi in due.


_Martedì 20._

Per non mancare di parola si posero in viaggio a tre ore del mattino
verso O. N. O. Si passò il fiume sopra un ponte lontano mezz'ora dal
villaggio, ed in breve eravamo alle falde delle montagne che dovevamo
sormontare per andare a Nicèa. Malgrado l'asprezza della strada,
camminavamo speditamente, attraversando rupi e burroni, e spesse volte
sull'orlo di spaventosi precipizj; fortunatamente la luna vicina al
meridiano rischiarava perfettamente la strada. Entravamo in Nicèa al
levare del sole.

Questa città, celebre tra i cristiani pel concilio tenutovi l'anno 324
di Gesù Cristo, è come Antiochia, un piccol luogo chiuso da vaste
antiche mura, tagliate da magnifiche porte. È situata sull'estremità
occidentale d'un lago, in mezzo ad infiniti giardini.

Appena ricambiati i cavalli si proseguì il viaggio lungo la riva del
lago accompagnato ancora dai domestici dell'ufficiale di Mehemed-Alì.

L'acqua del lago è dolce e bevibile. Questo lago di forma irregolare
prolungasi da levante a ponente, e può avere cinque in sei leghe di
lunghezza sopra mezza lega di larghezza. È circondato di montagne da
ogni banda, tranne un piccolo piano al N. E. lungo il quale si camminò
circa un'ora e mezzo.

Alle undici ore si ripigliò la direzione del N. e del N. O.
attraversando montagne coperte di arbuscelli, e dalla cui sommità
scoprivasi il lago in tutta la sua estensione. Eravamo intenti a così
bella veduta quando il sole si coperse improvvisamente di nubi, e
nell'istante medesimo incominciò a piovere dirottamente. Scendevamo
allora per un ripido pendìo, che il terreno argilloso, e la pioggia
facevano sdrucciolevole: il mio cavallo cadde, e mi prese sotto una
coscia, malgrado gli sforzi da me fatti per sostenerlo; ma perchè la
caduta si fece in due tempi, ed abbastanza lentamente, non mi cagionò
verun male: questa è la sola caduta ch'io facessi in tutti i miei viaggi
dell'Affrica e dell'Asia.

Poco dopo il mezzo giorno si attraversò un casale, indi un magnifico
ponte, di dove essendo scesi in una valle si andò a seconda di due fiumi
che si dovettero attraversare più volte. Ma appena usciti dalle
sinuosità dei fiumi ci trovammo sopra un argine antico fatto in mezzo ad
una palude, a poca distanza del quale trovasi il villaggio d'_Herseck_
vicino al mare. Colà c'imbarcammo coi nostri cavalli per tragittare il
golfo d'Isnikmid, che si profonda alcune leghe entro terra, e che in
questo luogo può esser largo quattro in cinque miglia.

Siccome avevamo il vento contrario, il battello, o _kaick_, come vien
detto in paese, dovette correre una bordata di mezz'ora all'E. ed una
seconda di tre quarti d'ora a N. O. per giugnere sull'opposta riva. Si
sbarcò nel porto di un piccolo villaggio, ove danno fondo quasi tutti i
battelli che fanno questo tragitto.

Di qui continuando il cammino tra le montagne, giugnemmo alle otto della
sera ad un altro villaggio. I miei Tartari calcolavano di fare in tre
giorni il viaggio fatto in questo solo giorno.


_Mercoledì 21 ottobre._

Allo spuntar del sole la nostra gente si pose in cammino coi più cattivi
cavalli ch'io vedessi mai; e perciò facevasi poco viaggio. Da principio
si seguì la riva del mar di _Marmara_ nella direzione dell'O. N. O.; e
riconobbi subito le isole _de' Principi_ poste a piccola distanza dalla
spiaggia. Essendo in seguito passati per molti villaggi, ed attraversata
una specie di _necropoli_, ossia un vasta campagna di sepolcri, si
arrivò finalmente a Scutari, o _Scondar_, ad un'ora e mezzo dopo mezzo
giorno, ov'io smontai ad un caffè.

In tempo della mia dimora in Europa aveva contratta amicizia col
Marchese d'Almenara, che adesso era ministro della corte di Spagna a
Costantinopoli. Gli diedi avviso del mio arrivo, ed all'istante questo
ragguardevole amico mi mandò il suo dragomano, domestici e battelli per
attraversare il Bosforo; e spinse la gentilezza fino a darmi un
appartamento in propria casa, ch'egli mi aveva fatto preparare alla
turca, onde non contrariare le mie abitudini.



CAPITOLO LI.

   _Descrizione di Costantinopoli. — Il Bosforo. — Il Porto. —
   L'Arsenale. — Pera. — Top-Hana. — Galata. — Strade di
   Costantinopoli. — S. Sofia. — Uscita del Sultano ogni venerdì.
   — Le Moschee. — Eyoub. — Reliquie del Profeta. — Serraglio, o
   palazzo del Sultano. — Vetture. — Hippodromo. — Castello delle
   Sette Torri. — Mura._


Costantinopoli fu visitata da tanti curiosi, che io non prenderò a
descriverla. Pure perchè sarebbe fuor di luogo il non parlare di così
grande metropoli dopo avervi dimorato alcun tempo, e perchè altronde a
molti dei miei lettori non sarà discaro il trovar qui uno schizzo di
questa città, descriverò brevemente quello che ho veduto. Io
rappresenterò gli oggetti quali si presentarono a' miei occhi, senza
farmi carico di quanto hanno potuto dirne gli altri viaggiatori; e
siccome avanti d'entrare in questa città, sono rimasto alcuni giorni a
Pera presso il signor Ambasciatore, incomincerò a parlare delle cose
vedute in questo luogo.

_Il Bosforo di Tracia_, detto _el-Bogaz_ dai turchi, ed il _Canale_ dai
cristiani, perchè unisce il Mar Nero o _Ponto Eusino_, al Mar di
Marmara, ossia _Propontide_, chiamato dai turchi _Mar Bianco_, è posto
quasi nella direzione N. E., con molte sinuosità, che rendono varia la
sua larghezza da un miglio fino a quattro.

Il canale ha una corrente rapida quanto quella d'un fiume che va dal Mar
Nero al Mar di Marmara. Questo fenomeno è prodotto dai molti fiumi che
sboccano nel Mar Nero, e dalla limitata superficie che presenta alla
evaporazione in una così elevata latitudine; di modo che se il Mar Nero
non avesse una uscita per il Bosforo, dovrebbe necessariamente dilatarsi
finchè acquistasse una bastante superficie per istabilire l'equilibrio
tra la quantità d'acqua che gli portano i fiumi, e la massa assorbita
dall'evaporazione.

Tanta è la rapidità della corrente, che rende necessario il tenere
alcuni uomini sopra varj punti della costa per tirare a riva i battelli
e le scialuppe; non bastando la forza dei remi per superare la corrente
quando si vuol rimontare il canale: sonovi ancora alcuni luoghi in cui
le acque formano gorghi così rapidi, che la superficie si cuopre tutta
di schiuma.

D'altra parte s'io considero che le acque del Mar Nero e quelle del
Canale sono salse come quelle degli altri mari, io non posso non credere
che esista in fondo al canale una contraria corrente che riporta l'acqua
del Mar di Marmara verso il Mar Nero; imperciocchè non ammettendo tale
supposizione non sarebbe possibile di spiegare in qual modo, dopo tanti
secoli, siansi le acque del Mar Nero conservate salse, malgrado l'enorme
quantità d'acqua dolce che ogni giorno riceve dai fiumi, e la massa
d'acqua salsa ch'esce pel canale del Bosforo.

Il disequilibrio che deve produrre la diversa gravità specifica delle
due masse d'acqua diversamente cariche di sale, e che sono in contatto,
concorre altresì a provare la necessità dell'esistenza di questa
corrente inferiore del Mar di Marmara verso il Mar Nero; poichè se
suppongansi due masse d'acqua perpendicolari della medesima altezza ne'
due mari, che siano in comunicazione per mezzo del Canale, è cosa
indubitata che quella del Mar Nero composta d'acqua salsa e d'acqua
dolce dei fiumi, sarà più leggiera di quella del Mar di Marmara, quasi
affatto composta d'acqua salsa; ed in conseguenza il Mar di Marmara per
livellare il suo peso a quello del Mar Nero deve versare in questo una
parte della sua acqua, finchè l'abbassamento del suo livello, e
l'elevazione di quello del Mar Nero compensino la differenza della
gravità specifica delle due acque. D'altra parte la colonna allungata
del Mar Nero non potendo sostenersi al di sopra del livello della
colonna corrispondente, verserà sopra di questa una parte della sua
acqua superiore per equilibrare il livello delle due colonne; ed ecco
stabilita la corrente superiore dal Mar Nero a quello di Marmara, e
mantenuto dalla continua affluenza dei fiumi che si gettano nel primo.
La necessaria esistenza di una corrente inferiore in senso contrario
viene egualmente dimostrata dallo stesso principio, il quale indica
altresì che l'acqua del Mar Nero dev'essere meno salsa che quella del
Mar di Marmara.

Le due rive del Canale sono notabili pe' molti sobborghi che quasi si
toccano l'un l'altro, e vengono a formare una continua strada lunga più
di una lega e mezzo. Spetta al pittore delle grandi epoche della natura,
all'autore del Maometto e della Zaira, il descrivere come si conviene lo
spettacolo imponente che presenta quest'immensa strada acquatica, in
mezzo alla quale io vidi navigare tutta la squadra con una infinità di
altri bastimenti, e migliaja di scialuppe e di battelli: i palagi e i
terrazzi superbi, le ville del Sultano, delle Sultane, e dei grandi
dell'Impero, che fatte col più squisito gusto orientale gareggiano fra
loro in beltà e lusso; i colli pittoreschi che circondano il canale
coperti del più bel verde e di eleganti casucce isolate; il corpo
colossale della città di Costantinopoli che si presenta coperto da una
foresta di campanili, di cupole, di terrazzi, il tutto dipinto di
variatissimi colori, e solo interrotto dal verde di grandi alberi; e
finalmente il _mare di Marmara_ che chiude l'orizzonte al sud: questo
magnifico aggregato forma un quadro che non può descriversi, ma la di
cui impressione non può cancellarsi dalla memoria.

Una lega e mezzo al di là di questo spazio, i villaggi posti sulla riva
del Bosforo sono alquanto più separati gli uni dagli altri: la foce del
Mar Nero viene difesa da un forte sopra ogni lato del canale, e da due
antichi castelli situati a mezzo la costa a diritta ed a sinistra; la
torre di _Leandro_ guarnita d'artiglieria è posta sopra un'isoletta in
mezzo; sonovi inoltre molte batterie di campagna sopra le due rive alla
foce del canale nel mare di Marmara.

Il porto di Costantinopoli è il migliore del mondo. Formato da un
braccio di mare che si avanza sinuosamente nelle terre tra la città ed
il sobborgo di Galata, di Pera, ec. è tutto circondato da colli, e
perciò al coperto da tutti i venti. Il fondo è tale, che le navi a tre
ponti possono accostarsi alla riva, e prender terra colla loro prora
senza toccare colla chiglia.

Sulla costa del porto opposta a Costantinopoli vedesi l'arsenale, nel
quale io contai quattordici o quindici navi da guerra, le une
interamente corredate ed armate, le altre preparate a metà, tutte ben
fatte ed in ottimo stato. Vi trovai pure molti vascelli o carcassi
inutili, alcune scialuppe cannoniere, e sul cantiere una fregata che si
andava formando da operai europei. L'arsenale è vasto, e provveduto di
materiali. Contiene un infinito numero di cannoni la maggior parte di
bronzo, una eccellente macchina per alberare, ed un bacino da
costruzione, il cui solo difetto è quello di avere un fondo che perde
l'acqua: trovavasi allora occupato da un vascello di settantaquattro
cannoni che veniva racconciato. Presso al bacino sonovi due belle
macchine per tirare le navi in secco. La casa del capitano Pascià, o
grande Ammiraglio della marina Ottomana, è situata vicino all'arsenale:
è un magnifico edificio con un bellissimo sbarco sul mare. Dietro a
quella del Pascià viene la casa del capo dell'arsenale, innanzi alla cui
porta un'urna sepolcrale serve di fontana.

Quando si viene dall'Asia per recarsi a Pera, che è il sobborgo ove
risiedono gli ambasciatori ed i negozianti europei, si sbarca di
ordinario a Top-hana, altro sobborgo in riva al canale. Colà trovansi le
caserme de' cannonieri, come pure una batteria di ventiquattro cannoni
montati sopra carrette di forme diverse per difendere l'ingresso del
porto. Rimarcai un'antica colombrina di quasi un piede di calibro, ossia
diametro interno, e lunga diciannove piedi, destinata a tirare palle di
sasso, delle quali se ne vedono molte presso. Le caserme sono belle, e
contengono molti carri e cassoni.

Il sobborgo di Galata, che si unisce a quelli di Top-hana, e di Pera, è
grande, popolato assai, e chiuso da una muraglia che tocca le case degli
adjacenti sobborghi. Lo attraversa dall'una all'altra estremità una
strada lunga più d'un quarto di lega, ma sucida, mal selciata, e quasi
tutta fiancheggiata da botteghe di commestibili. Le case quasi tutte di
legno inspirano tristezza. Si andavano rifabbricando le case consumate
da un incendio nel precedente anno.

La chiesa greca di _S. Dimitri_ è composta di tre piccole navate ben
proporzionate, e sostenuta da colonne di legno coperte di stucco
imitante il marmo. Il santuario non ha ornamenti, ed il tempio è oscuro.
Mi fu detto essere questa una delle più belle chiese greche della
capitale.

Il passeggio degli abitanti di Costantinopoli è il Cimiterio, che i
cristiani dicono _Campo dei morti_. Non può quindi essere molto allegro,
ma signoreggia parte della Città e del Bosforo, e vi si gode una
maravigliosa veduta. Da questo lato trovasi pure una bella caserma,
altra volta abitata dalle truppe regolari e disciplinate all'europea,
che chiamavansi _Nizàm Djidid_; ma queste truppe più non esistono.

Per andare da uno di questi sobborghi a Costantinopoli si attraversa il
porto con una piccola scialuppa con uno o due rematori, e si sbarca in
luoghi coperti, dove vedonsi ammucchiate le une sulle altre molte
scialuppe. Questi magazzini sono di legno, e vi si entra senza sbarcare.
Sulla porta di questi edificj dalla banda di terra trovansi sempre
cavalli da nolo sellati per portare subito i viaggiatori ove vogliono,
per istrade sporche, scoscese, e fiancheggiate da ambo i lati da
officine e case di legno coperte di vivi colori, ma senza essere a filo,
e formanti le une colle altre angoli entranti e salienti senza veruna
uniformità: vi si vendono commestibili, confetture, tabacco, droghe, ec.

Io fui alloggiato in un bellissimo _Khan_ fatto con pietre tagliate;
senz'altra compagnia che quella del mio dragomano turco, dello schiavo,
e di un giannizzero. Il dragomano era un uomo singolare; nato cristiano
nell'Albania erasi portato in Europa per istudiare la medicina. Dopo
avere viaggiato cinque anni per questo motivo in Italia, in Francia, in
Germania, soggiornò due anni a Vienna col primo medico dell'imperatore
Giuseppe II nel palazzo di questo Principe, col quale ebbe più volte
l'onore di parlare. Era in allora vestito all'europea: giunto a
Costantinopoli erasi fatto musulmano, ed a quest'epoca non aveva di che
vivere. La sua conversazione aveva qualche cosa di straordinario.
Siccome io non parlo il linguaggio turco, ed egli non sapeva l'arabo,
adoperava un latino maccaronico misto d'italiano. Quantunque nelle
scuole de' cristiani non imparassi l'alchimia, studiai per altro non so
perchè, il latino; imperciocchè, non avendo mai fatto uso di questa
lingua, non la parlo meglio del dottore albanese: il suo era un latino
italianizzato, il mio un latino arabo. Dietro queste nozioni figurisi il
lettore quali potevano essere i miei discorsi con un uomo che univa ad
una istruzione confusa una mescolanza di stravaganti chimere
dell'immaginazione. Egli credeva per modo d'esempio, che l'aria sia
popolata di spiriti o di uomini invisibili, che hanno una diretta azione
sugli uomini, e che formano una specie di fratellanza con alcuni
mortali, ec. Del rimanente era un buon uomo e senza rigiri.

La grande moschea di _Aya Sophia_, antica cattedrale di S. Sofia, è un
magnifico edificio; la vasta sua cupola ad arco stiacciato, circondata
da mezze cupole produce un maraviglioso effetto. Non prenderò a farne la
descrizione, perchè già fatta da molti viaggiatori. I cristiani vi
possono avere accesso, come in tutte le altre moschee di Costantinopoli,
col permesso del governo, che facilmente si ottiene. I muri sono
incrostati di marmo, e le colonne bastantemente conservate, ma il tetto
incomincia a guastarsi. La tribuna del Sultano è tutt'altro che bella: è
una specie di gabbia sostenuta da quattro colonnette, e circondata da
griglie dorate.

Ciò che reca maraviglia è il vedere questo tempio ingombrato da una
quantità di bastoncelli, e di canne posti lungo le muraglie ed intorno
ai piloni; pezzi di tela, come lenzuoli, tovagliuoli, ec. sospesi, onde
formare una specie di separata tribuna, ove non possono entrare che i
proprietarj per fare la preghiera o per leggere: la qual cosa forma in
chiesa una ridicola specie d'accampamento. Nell'angolo di N. O. della
navata principale si vede una magnifica giara di marmo elegantemente
lavorata, che tien luogo di fonte. È pure notabile un tramezzo di marmo
in forma di paravento, assai ben fatto, ed imitante il legno che trovasi
in una delle loggie superiori.

Un venerdì vidi andare alla preghiera il sultano Mustafà nella moschea
_Sultan Djèámi_, o moschea del Sultano, posta in faccia ad una delle
porte del serraglio. La strada che per recarvisi doveva il Sultano
attraversare, era fiancheggiata da due linee di giannizzeri dalla porta
del serraglio fino a quella della moschea. Il mio dragomano ed il mio
giannizzero non volevansi avvicinare perchè al solo nome del Sultano
tutti tremano; io invece attraversai le linee e passai nel cortile della
moschea, ove mi posi nella più vantaggiosa situazione per vedere S.
Altezza.

Arrivarono prima a varie riprese molti personaggi della corte circondati
da domestici a piedi, e montati sopra bellissimi cavalli riccamente
bardati, scendevano alla porta della moschea, ed i domestici prendevansi
cura dei cavalli.

I giannizzeri, come gli altri turchi, portano una lunga veste ma di
color diverso, come ognun vuole, col solo segno distintivo di una
ridicola berretta di feltro bianco-grigia, che pende per di dietro; e
copre loro la schiena; e sul davanti una piastra di metallo che viene
come a cadere sopra la fronte, e chiude come in un astuccio un
grossolano cucchiajo di legno che ogni giannizzero è obbligato ad aver
sempre presso di sè. Marciano senz'armi non avendo che una mazzetta in
mano.

Vidi poi arrivare dieci cavalli del Sultano tutti assai alti, e di
diverso pelo, coperti di grandi gualdrappe riccamente lavorate in oro ed
argento, e di selle con sopra magnifiche stoffe.

Il Sultano montato sopra un superbo cavallo giunse poco dopo preceduto
da una trentina di guardie _Bostandgi_ armate di piccole alabarde
dorate. Stavano a' suoi fianchi quattro ufficiali, che potrebbero
chiamarsi _ventole_ del Sultano, perchè colle immense penne che hanno
sul capo nascondono in modo la persona di S. Altezza, che riesce
difficile il vederla; pure io la vidi perfettamente in volto, e lo
guardai col mio occhialino finchè mi fu possibile. La figura del suo
volto è lunga assai, ed anche il naso quantunque un po' rivolto
all'insù; ha gli occhi grandi, e la pallidezza del suo colore non è
rotta che dalle due pommelle rosse delle gote; parvemi piuttosto d'alta
statura, smilzo, ed assai vivace. Aveva una semplice pelliccia, ma il
turbante era ornato di una ricchissima rosa di brillanti assai grossi e
di una luce vivissima. Entrando nel cortile del tempio fece un leggier
saluto, portando la mano destra al petto, e guardando a diritta ed a
sinistra. Regnò un profondo silenzio finchè il Sultano giunse alla porta
del tempio; ove tostochè smontò, una dozzina d'uomini ch'erano presso
alla porta fecero alcune grida di _vivat_.

Teneva dietro al Sultano il capo degli Eunuchi negri, il cui aspetto è
veramente orribile; era riccamente vestito, e montato sopra un
bellissimo cavallo simile a quello del Sultano, ed anch'esso circondato
dai suoi domestici a piedi. Salutava passando a destra ed a sinistra con
una tale misurata precisione, che sembrava un automa.

La stesso giorno andai a fare la preghiera del mezzodì a S. Sofia. Non
vi si fa alcuna cerimonia particolare, e solo dopo l'orazione vidi un
dottore montare sopra un alto pulpito, e fare seduto un lungo sermone.
Mentre io stava divotamente ascoltandolo, l'ufficiale capo della tavola
del capitano Pascià, che io aveva conosciuto in Alessandria, mi si
accostò, e mi diede infinite prove d'attaccamento baciandomi le mani ed
i piedi.

Le altre più ragguardevoli moschee di Costantinopoli sono:

Il _Tourbèh_, ossia sepolcro del sultano _Abdoulhamid_, padre
dell'attuale sultano _Mustafà_; bella cappella ottagona, ove viene
riverita entro una nicchia una pietra nera guernita d'argento, sopra la
quale conservasi l'impronta dei piedi del Profeta, come in una piastra
di cera molle.

La moschea _Yenid Djeàml_ ornata di bellissimi marmi è una perfetta
copia di S. Sofia.

Il _Tourbèh_, o sepolcro del sultano _Soulimen_, elegante cappella
ottagona somigliante a quella di _Abdoulhamid_, sebbene meno magnifica,
è situata in mezzo ad un piccolo giardino, accanto alla moschea detta
_Soulimania_. Per recarvisi si passa sopra un terrazzo che signoreggia
una parte della città, il porto ed il sobborgo di Galata, ec.; indi dopo
avere attraversato un vasto cortile abbellito da una loggia sostenuta da
colonne di granito rosso, si entra nel corpo della moschea, ricco di
quattro grandiose colonne dello stesso granito e di altri marmi di
diverse qualità che ne coprono le interne pareti. In un angolo del
tempio un certo qual missionario seduto in terra predicava al numeroso
popolo che gli stava intorno affollato.

Non cede alle altre in bellezza la moschea del sultano Ahmed, i di cui
quattro piloni, che sostengono la cupola centrale, sono incrostati di
marmo bianco scannellato; la tribuna del Sultano è sostenuta da molte
colonnette, tra le quali vedonsene alcune di una bella breccia oscura,
ed una di verde antico. Anche nella corte trovansi diverse colonne di
granito rosso di una non comune grandezza. In questa moschea il Sultano
suole recarsi due volte all'anno, per la Pasqua, e per il giorno
natalizio del Profeta, perchè la sua posizione riesce comodissima a
tutto il suo seguito, che può allargarsi nell'_Hippodromo_ accanto alla
moschea.

La moschea del Sultano _Maometto_ II, che conquistò Costantinopoli, è
pure un ragguardevole edificio. Quand'io andai a vederla i portici del
cortile erano pieni di piccole botteghe di mercerie, ove i mercadanti
gridavano come in un mercato, e nell'interno della chiesa gridavano
ancora più forte cinque o sei predicatori. Il _turbeh_, o sepolcro del
Sultano posto accanto alla moschea in mezzo ad un piccolo giardino, è
una semplice cappella di mattoni, ma il catafalco è coperto da un
ricchissimo tappeto. La cappella ed il marciapiede erano affollati di
donne che venivano a visitare il sepolcro.

Elegante è la moschea _Osmania_, ma meno grande delle altre.

Sortendo dalla città verso il porto trovasi ad un quarto di lega di
distanza un gentile palazzo del Sultano, passato il quale si giugne al
sobborgo d'_Eyoub_ posto lungo la riva del canale del porto. Diede il
suo nome a questo sobborgo un santo discepolo del Profeta, venerato come
il protettore di Costantinopoli, e le di cui ossa furono miracolosamente
trovate nello stesso luogo. Nella moschea di questo sobborgo vien cinta
la sciabla al nuovo Sultano; lo che tien luogo della coronazione dei
monarchi in Europa. L'ingresso di questo tempio essendo assolutamente
vietato a tutti gl'infedeli, niuno lo descrisse, onde cercherò di
supplirvi.

Dopo avere attraversata una piazza irregolare si entra nell'edificio,
consistente in un cortile al centro, nella moschea alla diritta, e nella
cappella dall'altro lato, ove trovasi il sepolcro del santo. Questi
edificj sono incrostati di marmo dall'alto al basso, tanto le pareti
quanto il suolo.

Il cortile ha la figura d'un paralellogramo, e da tre bande è circondato
di portici. Nel centro s'inalzano due pioppi, le cui frondi ombreggiano
tutto il cortile.

La moschea non è diversa da tutte le altre moschee imperiali di
Costantinopoli, vale a dire che come quella di S. Sofia, è formata di
una gran cupola sopra un quadrato; ma questa ha due particolari cose che
la distinguono: la prima che i piloni posti agli angoli del quadrato
sono assai sottili; che la cupola è sostenuta da sei piloni cilindrici
in forma di colonne ai tre lati del quadrato; e che sul muro del fondo
si alza una mezza cupola formante una cappella ove trovasi il _mehereb_,
o nicchia dell'Imano: la seconda particolarità si è che la tribuna del
Sultano non è come nelle altre moschee alla diritta del _mehereb_, ma
alla sinistra. I muri sono tutti incrostati di rarissimi marmi; il suolo
coperto di ricchi tappeti, ed un gran numero di lampade e di candelabri
di cristallo e d'argento, ova di struzzo, noci di cocco, ed altri minuti
ornamenti tutti guarniti di preziosi metalli e smaltati de' più bei
colori, vedonsi sospesi all'altezza di sette in otto piedi.

Nel lato opposto al cortile trovasi una sala ornata di tappeti e di
soffà, e di varie iscrizioni che ne ricoprono tutte le pareti. In una
piccola nicchia formata nella grossezza del muro della sala viene
custodito un pezzo di marmo vergato bianco, e nero che ha l'impronta del
piede del Profeta; ed è quella ch'io vidi meglio segnata in tutti i
monumenti di tal genere da me veduti ne' miei viaggi. Questa sala è per
così dire l'anticamera della cappella, ove conservasi il sepolcro del
santo.

La cappella illuminata da belle finestre forma un piccolo tempio coperto
di una elegante cupola; le pareti sono coperte d'iscrizioni come quelle
dell'anticamera, ed il catafalco del santo posto in mezzo è coperto di
una ricca stoffa, e circondato da un cancello d'argento. Dalla banda del
capo evvi uno stendardo ripiegato nel suo fodero, che è l'insegna
distintiva del discepolo del Profeta: nell'opposto lato trovasi il pozzo
da cui si attinge l'acqua con un secchio d'argento che si beve con
bicchieri dello stesso metallo; e si vuole che quest'acqua sia
miracolosa.

Dopo aver lasciate nell'interno abbondanti elemosine, ed altre alla
porta sempre assediata da qualche centinajo di poveri, non molto
incomodi a dir vero, perchè essendo registrati non si presenta a
chiedere l'elemosina ai fedeli che il solo capo. Non lasciai di visitare
il sepolcro della madre dello sventurato _Selim_ III, che consiste in un
piccolo tempio incrostato di marmi preziosi, ed ornato al di dentro ed
esternamente da colonne e da mondanature del più squisito gusto. Riceve
la luce da molte finestre con inferriate dorate; ed ha in sul davanti un
vestibolo sostenuto da belle colonne di marmo screziato.

Osservai pure molte altre moschee famose pel loro nome, ma di poco
pregevole architettura. A lato alle moschee trovansi i sepolcri de'
personaggi illustri, le biblioteche, le scuole, gli ospizj de' poveri, i
_Khan_ pei viaggiatori, gli ospitali, ed altri pii stabilimenti, che
tutti furono già descritti da altri viaggiatori.

Ho pure voluto vedere una casa, nella cui maggior sala sono disposti i
mausolei di una famiglia che possiede alcuni peli della barba del
Profeta, tesoro infinitamente più prezioso di tutte le ricchezze
dell'India. Questa reliquia si espone alla pubblica venerazione in una
cappella situata di faccia ai mausolei. Quand'io entrai, un ministro mi
presentò un piattello con un cuscinetto coperto di differenti pezzetti
di stoffa paonazza, che spargeva un gratissimo odore: dopo avermi fatto
venerare il piattello, mi toccò a più riprese gli occhi, la fronte, il
naso e la bocca con un capello steso sopra un pezzo di cera nera, e
recitando alcune preghiere ad ogni suo toccarmi, mentre io mi teneva nel
più esemplare raccoglimento: dopo di che feci la mia preghiera, e
depositai l'offerta, che parve al ministro abbastanza ragguardevole
perchè si degnasse esibirmi di ricominciare la ceremonia del piattello,
e del capello, che accettai di buon grado, come un singolar favore. Mi
diede in oltre una piccola bottiglia d'acqua entro la quale erano stati
bagnati i santi capelli, e partii colmo di gioja. I capelli che mi si
fecero toccare erano alquanto rossicci, torti, forti, della lunghezza di
due dita traverse. Avvezzo a riflettere su tutto quanto mi accadeva, non
potei in questa occasione dispensarmi dall'ammirare il miracolo della
divina Provvidenza, che si degnò di rendere una intera famiglia
ricchissima col solo prodotto d'una piccola ciocca di capelli!

All'indomani mi recai ad un'altra casa ove si venera un pezzetto
dell'abito del Profeta. Una guardia di giannizzeri e di sceriffi ne
occupava la porta; la casa era piena di donne, che d'ordinario vanno la
mattina ad adorare la reliquia, e molte vetture stavano aspettando nella
strada: mi fu detto che non potrei entrare che dopo mezzogiorno; onde mi
trattenni in una vicina moschea fino all'ora indicatami. Alla porta si
distribuiscono a modico prezzo piccole bottiglie dell'acqua in cui si
bagnò la reliquia.

Vuole l'usanza che si lascino le pantoffole a' piedi della scala, ove
trovasi uno sceriffo incaricato dì riceverle, e di restituirle quando si
esce. Si sale da prima in una camera irregolare col palco assai basso, e
fattavi la preghiera si entra nella cappella della reliquia: è questa
una camera di dieci in undici piedi in quadrato, bassa come un
mezzanino, che ha siccome le moschee il suo mehereb con una finestra da
ogni lato; il tutto coperto di ricchi tappeti.

Sta entro al mehereb uno sceriffo, innanzi al quale vedesi una piccola
tavola coperta di molte stoffe ornate di ricami assai ricchi, e poste le
une sopra le altre; l'estremità della reliquia viene mostrata sotto ad
una di tali stoffe alla venerazione de' fedeli credenti. Malgrado la
religiosa oscurità della camera, ho potuto osservare che la reliquia è
un pezzetto di grossa tela di lana di color nero, o bruno cupo, e che
non era posta in mezzo alla tavola, ma alla diritta, onde siccome io
suppongo, preservarla dagl'innumerabili baci dei divoti. Penetrati
questi da un santo terrore, e da profondo rispetto baciano senza troppo
riflettere una stoffa ove non è la reliquia, e con questa innocente
astuzia viene sottratta ad un'infinità di toccamenti, che a lungo andare
le arrecherebbero danno, e la insudicerebbero. Alquanto più riflessivo,
quantunque divoto come gli altri, io baciai veramente la reliquia,
applicandovi le labbra, la fronte, e le guance; ma in pari tempo ebbi
l'avvedutezza di lasciare una larga elemosina per compenso di così
straordinario servigio: Dio ne sia lodato!

Questa inapprezzabile reliquia, non meno dei peli della barba del
Profeta che aveva venerati nel precedente giorno, non si espone al
pubblico culto che in tempo del Ramadan.

_El-saraya_, o serraglio, palazzo del Sultano, può riguardarsi come
un'altra città entro Costantinopoli, tanti sono i palazzi, le case, i
terrazzi, i giardini che racchiude nel suo vastissimo circondario. Io
non vidi che due porte in così grande circuito, le quali troppo male
corrispondono alla maestà del palazzo.

Una di queste, custodita dai bostangì, è posta sopra un cortile, o
piazza irregolare, nella quale trovasi una zecca che io non ommisi di
visitare. La vite del punzone viene mossa da tre uomini, ed un quarto
colloca la moneta sotto il conio. In altra casa dello stesso cortile si
conservano molte armi antiche appese alle pareti.

In fondo al cortile apresi un'altra porta egualmente custodita dai
bostangì, da eunuchi, e da altri impiegati, che non mi permisero
d'inoltrarmi più a dentro. Vidi per altro guardando per questa porta un
secondo più spazioso cortile, con molti terrazzi ed altri edificj
isolati: ed ecco tutto ciò ch'io posso dire del serraglio del Gran
Signore, che altronde essendo stato tante volte descritto da chi lo
vide, o pretende d'averlo veduto, non è bisogno ch'io soggiunga il poco
che ne so. Avrei bensì potuto ottenere la permissione d'introdurmi; ma
non volli impiegare il denaro in così fatti oggetti, perchè se io avessi
voluto trattarmi colla magnificenza conveniente al mio grado, avrei
sacrificata all'ambizione quella dolce indipendenza che aveva
incominciato a godere nella specie di oscurità da me scelta, e dalla
quale non desiderava di sortire. Per tale motivo mi tenni lontano dalla
corte, e non mi presentai a Moussa Pascià mio amico d'Alessandria, che
allora era _Kaïmakan_ del gran Visir, ossia il primo funzionario
dell'impero in Costantinopoli quando il gran Visir trovasi all'armata,
siccome allora trovavasi di fatto a quella di Adrianopoli: e sono ben
sicuro ch'egli mi avrebbe ricevuto come un suo caro fratello se avessi
voluto farmi conoscere alla corte.

Uscendo del serraglio attraversai la casa del gran Visir, e vidi nel
quartiere terreno una vasta sala, in fondo alla quale vien posto sopra
un rialto il soffà di questo ministro in occasione delle pubbliche
udienze. La sala è vasta, ma non conveniente a quest'uso.

La principale porta della casa consiste in un arco semplicissimo in
faccia alla muraglia del serraglio, notabile per una torre, nella quale
recasi talvolta segretamente il Sultano per vedere le pubbliche
cerimonie del gran Visir coi ministri stranieri, ec.

Il palazzo di _Costantino_ trovasi nel centro di Costantinopoli, e vien
detto il vecchio serraglio: io non potei vederne che le mura che sono
altissime; ed è abitato dalle donne rilegate del serraglio.

Quasi tutte le strade di Costantinopoli sono anguste e sporche. I
marciapiedi alti quattro o cinque piedi, mal lastricati ed
incomodissimi; onde andava quasi sempre a cavallo. Le case hanno tante
finestre che pajono gabbie. Ho già detto che sono di legno dipinte con
vivacissimi colori, o disposte senza veruna regolarità. Ciò è cagione
degli incendj che ogni anno distruggono qualche quartiere della città;
ed in tempo della mia dimora fui testimonio di due, che arrecarono
gravissimi danni: ma il fanatismo dei Turchi resiste costantemente a
così funeste esperienze, e rifabbricano le nuove case com'erano le
incenerite, lasciando alla Provvidenza la cura di conservarle. E per tal
modo potrà dirsi tra non molto tempo che la città di Costantinopoli fu
rifatta ben cento volte.

Ho vedute alcune botteghe di farmacisti come in Europa, una strada
d'argentieri, e tutto un quartiere abitato da calderaj, di dove uscii
affatto stordito. Passai pure per una lunga strada ove si vendono i
vasellami di rame, notabile per la quantità immensa delle merci, e per
la bella simmetria con cui vengono disposte nei magazzini.

Costantinopoli è la sola città musulmana in cui sianvi vetture. Quelle
di cui io mi valsi sono sospese sopra quattro ruote ben proporzionate,
cariche di dorature, coperte di tela bianca o rossa, e tirate da un pajo
di cavalli guidati da un cocchiere a piedi a lento passo: sul di dietro
della vettura si pone una scaletta di legno che vien collocata alla
portiera quando si sale o si scende. I turchi non adoperano domestici, e
sembra pure che sdegnino di servirsi delle vetture per girare la città,
non avendovi costantemente vedute che donne.

Volli un giorno minutamente esaminare l'Ippodromo, chiamato dai turchi
_Admeïdan_. È questa una piazza irregolare lunga all'incirca duecento
cinquanta passi, e larga cento cinquanta; nel centro della quale
s'inalza un bell'obelisco egiziano di granito rosso, somigliante alla
guglia di Cleopatra in Alessandria; ma meno alto, sebbene gli si diano
sessanta piedi d'elevazione: ogni facciata presenta una linea
perpendicolare di geroglifici assai grandi. È sostenuto da quattro dadi
di bronzo sopra una base o piedestallo fatto di varj pezzi di marmo
grossolano mal lavorato, sul quale furono scolpite diverse bizzarre
figure in rilievo, tutte in maestà, e del cattivo gusto greco de' secoli
di mezzo. Mi fu detto che tali figure rappresentano i discepoli di _Gesù
Cristo_: ma ciò che non ammette dubbio è, che questo piedestallo fa
torto a così bel monumento, di cui presto o tardi ne cagionerà la ruina,
per esserne le parti affatto mal legate.

A non molta distanza da questo obelisco egiziano se ne vede un altro
alzato dai Greci ad imitazione del primo, che credo pure avere le
medesime dimensioni; ma essendo formato di piccoli sassi di varie
qualità e mal quadrati minaccia ruina, e presenta un singolare
contrapposto di debolezza colla solidità dell'altro.

Trovasi presso a quest'obelisco un ospizio pei poveri, minacciato da un
giorno all'altro di rimanere sepolto sotto le sue rovine.

Tra i due obelischi vedesi un terzo di colonna di bronzo mancante della
parte superiore. Pretendesi che terminasse con tre teste di serpenti, i
di cui corpi s'avvolgevano tenacemente intorno al fusto. Il bronzo è
sottile assai, ed essendo bucato in più luoghi, si colmò di pietre
l'interno vuoto. Il pezzo esistente può essere alto dieci piedi.

Dopo avere esaminati i monumenti dell'Ippodromo, mi diressi al S. O.,
facendo molte strade. In una piccola piazza osservai stese a terra due
bellissime colonne di granito; e ne vidi altre due più piccole di verde
antico presso alla porta di una casa affatto eguale alle altre. Vidi
camminando molti mercati assai ben provveduti, ma separati gli uni dagli
altri da lunghe strade affatto spopolate.

Finalmente giunsi al piede di un'alta torre, coperta d'un cono assai
acuto; ed è una di quelle che formano il _Castello delle Sette Torri_
ove si custodiscono i prigionieri di Stato; e come tale soleva ritenersi
l'ambasciatore di qualunque potenza che dichiarava guerra al Sultano, e
per questo solo motivo veniva imprigionato; ma pare che quest'usanza sia
omai andata in desuetudine.

Scesi da cavallo, ed entrai nel primo cortile del castello; ove ben
tosto mi si presentò un gran diavolo d'uomo con viso dispettoso; cui
avendo domandato il permesso di osservare l'interno, n'ebbi un'assoluta
negativa. Rimontai subito a cavallo, ed uscii dalla porta della città
vicina alle sette Torri, volendo se non altro formarmi qualche idea di
questa fortezza osservandola esteriormente; ma non vidi che un confuso
labirinto di torri e di mura le une sopra le altre.

Piegando al nord al luogo delle mura della città, esaminai le opere che
difendono dalla banda di terra la capitale dell'Impero. I suoi mezzi di
difesa riduconsi ad una fossa quasi affatto colmata, e ridotta a
giardini; una prima linea di mura assai bassa, a guisa di parapetto; una
seconda linea di più alte mura, ed una terza linea interna ancora più
alta, e fiancheggiata da torri altissime.

Queste tre linee di muraglie a scaglioni, coronate di feritoje hanno
certa quale imponenza perchè presentano tre ranghi di fuoco; ma che non
potrebbero resistere al fuoco ben diretto dell'artiglieria del nemico,
il quale avrebbe inoltre il vantaggio di avvicinare le sue artiglierie
coperto dalle colline, e dalle siepi dei giardini che vengono fino al
piede delle mura. Costantinopoli non sosterrebbe più di otto giorni
l'attacco di un'armata di terra. Altronde in uno spazio molto
considerabile tra la porta di _Adrianopoli_, e quella di _Top_, come
pure in un'altra parte tra quest'ultima porta ed il castello delle Sette
Torri, i tre ordini di mura sono affatto ruinati, e rimpiazzati da una
sola, che sembra piuttosto una semplice muraglia d'un ricinto, che un
bastione di una immensa città. Tutto il rimanente delle mura cade pure
in rovina.



CAPITOLO LII.

   _Cisterna di Filossène. — Colonna di Costantino. — Mercato
   delle donne. — Bezesteinn, o grande Bazar. — Quartiere del
   Fanale. — Alai Kiksoe del Sultano. — Punta del serraglio. —
   Riva del Mar di Marmara. — Caserma de' bombardieri. — Casa di
   piacere del Sultano. — Illuminazione del Ramadan. — Festa del
   Beyrom, o della Pasqua. — Acque di Costantinopoli. — Carattere
   dei Turchi. — Divertimenti. — Donne. — Clima._


La Cisterna di Filossène fatta a' tempi di _Costantino_ per provvedere
di acqua la città, ora non è più che un arido sotterraneo, in cui si
formò una filatura di seta. Vi si scende per una cattiva scala che mette
capo in un luogo quasi oscuro, sostenuto da più centinaja di colonne, e
tutto ingombro dalle macchine destinate a filare e torcere la seta, i
cui fili presso che invisibili in luogo così poco illuminato, dividonsi
orizzontalmente tra gli ordini delle colonne, in maniera che non si può
fare un passo senza arrischiare di romperne delle centinaja; onde
rendesi necessaria una guida per girare in questo labirinto.

Preceduto da questa, e seguito dalle mie genti ordinate una dietro
l'altra come una compagnia di ciechi, io girai questa specie di
sotterraneo, che adesso serve ad usi così diversi da quello cui fu in
origine destinato. La volta appoggiata sulle colonne ha di tratto in
tratto alcune aperture che adesso fanno le funzioni di abbaìno, e furono
aperture per attinger l'acqua.

Ogni colonna è formata di due fusti posti l'uno sull'altro senza verun
mastice: il fusto inferiore in vece di capitello, porta uno zoccolo
largo un piede all'incirca, sul quale si alza il fusto superiore, cui
tien luogo di capitello un'informe figura somigliante ad un cono
rovesciato. Le colonne sono d'un marmo grossolano la cui superficie va
sciogliendosi. La terra ed i rottami che fino a certa epoca gettavansi
per le finestre, hanno colmata quest'immensa cisterna fino a due terzi
dell'altezza delle colonne inferiori. La mia guida mi disse, che queste
colonne sono più di quattrocento, benchè nella descrizione non se ne
contino che dugento dodici: ma la guida deve aver ragione, perchè
calcola le colonne inferiori e le superiori. Gli operai chiusi in questa
sotterranea officina hanno un cattivo colore ed un ributtante aspetto.

Uscito da questa caverna passai presso alla colonna di _Costantino_
fatta di molti pezzi di porfido rosso, ad eccezione delle parti
superiore ed inferiore, che sono formate con sassi di affatto diversa
natura, lo che fa torto al resto del monumento. La colonna comincia a
disfarsi.

Non dimenticai di visitare il mercato ove si vendono le donne d'ogni
colore. È questo un vasto cortile circondato di ammattonati alti tre in
quattro piedi, sui quali espongonsi le schiave, e di camerini ove il
compratore fa entrare la donna che ha scelto per osservarla più
minutamente. Quand'io vi andai era il giorno di Pasqua, e non si teneva
mercato. Il luogo è chiuso e ben custodito, e si dice che i cristiani
non possono entrarvi.

Il gran Bazar, dello _el Bezestein_, è magnifico, dividendosi in molte
strade tutte coperte di volte altissime, che ricevono la luce dagli
abbaìni. Alcune di queste contrade vengono esclusivamente occupate dai
mercanti di stoffe di seta riccamente provveduti; in altre non vedonsi
che gioje e materie preziose; per ultimo le altre offrono un'infinita
varietà di magazzini di ogni genere, di armi, di pelliccie, di
bardature, di tele dell'Indie, di tele di cotone e di lana, di libri,
sebbene in poca quantità, di oriuoli, e di prodotti di tutte le parti
del mondo. Vi osservai in particolare de' bellissimi brillanti, ed una
tazza d'oro col suo coperchio egregiamente lavorata. Vi si trovano armi
turche ricchissime, ma assai pesanti.

Io cercava nelle botteghe de' libraj la storia dell'impero Ottomano in
lingua turca; e me ne fu offerto un esemplare, diviso in due volumi, uno
de' quali era affatto nuovo, e l'altro vecchio, pel valore di ottanta
piastre: ne volli dare sessanta, ma non si volle rilasciarmelo a questo
prezzo, avrei potuto acquistarlo con poche piastre di più, ma per essere
un volume vecchio, ed in un paese così frequentemente esposto alla
peste, prendeva con ripugnanza oggetti ch'erano stati adoperati da altre
persone: e per tale motivo rinunciai di buon grado a tale acquisto.

Il Quartiere della città abitato dai Cristiani greci chiamasi il
_Fanale_. In questo quartiere trovansi le case del Patriarca e delle
principali famiglie di questa nazione. Nell'attraversarle osservai
alcune case d'un buon aspetto, ma senza lusso esterno. Quella del
_principe Suzzo_, nominato allora ospodaro di Valachia non distinguesi
dalle altre. È vietato ai Greci il dipingere esteriormente le loro case
con vivaci colori, dovendo farlo con colori cupi; lo che dà loro una
cotal aria di tristezza e di monotonia che dispiace.

Durante il mio soggiorno a Costantinopoli m'imbarcai tre volte per
visitare le rive del circondario.

La prima volta noleggiai una scialuppa per andare al terrazzo del
Sultano posto in sulla riva presso al porto, fuori del ricinto del
serraglio.

Questo belvedere, detto _Alàï Kiesk_, consiste in una piccola casa
quadrata, tutt'intorno alla quale gira una galleria sostenuta da colonne
di marmo, chiusa soltanto da cortine di grossa tela. Entrai senza
trovare veruna persona: il suolo era coperto di tappeti, il palco ornato
di pitture, di dorature, ed il soffà montato in argento massiccio, ma
senz'altri ornamenti, e senza mondanature; è largo quanto un letto, ed
aveva un materasso grossolano coperto con una tela turchina; innanzi al
soffà vedesi una fontana di marmo, ma senz'acqua.

   [Illustrazione: MONUMENTO ANTICO NEL SERRAGLIO DEL GRAN
   SIGNORE A COSTANTINOPOLI]

Continuai ad osservare dalla scialuppa la punta del serraglio, ove sono
molti belvederi coperti quasi tutti di fitte gelosie, ch'io supposi
essere gli appartamenti estivi delle sultane. Questi terrazzi sono di
diverse altezze, e senza apparente simmetria; e vidi presso uno di tali
edificj delle colonne di una breccia preziosa. Entro al serraglio ed a
poca distanza dalla punta trovasi un'antica magnifica colonna, che può
avere circa sessantadue piedi d'altezza; ma è posta in luogo tanto
rimoto che non può vedersi dagli occhi profani, onde non potè prima
d'ora essere descritta da veruno viaggiatore: e soltanto in occasione
dell'ultimo attacco degl'Inglesi, essendo stati ammessi gli Europei
nell'interno del serraglio per regolarvi il servigio della batteria
spagnuola, fu disegnato questo monumento, che il rispettabile marchese
d'Almanara ebbe la gentilezza di comunicarmi[4].

  [4] _Vedi il Viaggio del sig. _Pouqueville_ e circa questo, e
  circa altre particolarità del serraglio._

La seconda volta ch'io m'imbarcai fu per esaminare la fronte della città
dalla banda del mare di Marmara, che presenta un prospetto veramente
magnifico e straordinario di una sorprendente quantità di case e di
edificj d'ogni sorte, che stendonsi a perdita d'occhio lungo le rive di
questo mare.

Ho già fatto osservare che la punta che mette capo alla bocca del porto
viene formata dal serraglio circondato da una semplice muraglia merlata
con loggie, terrazzi e giardini posti in diverse distanze.

Al di fuori il piede di questa muraglia vien difeso da una linea di
batterie da campagna costrutte nell'indicata epoca sotto la direzione
degli ambasciatori di Francia e di Spagna, il generale _Sebastiani_, ed
il marchese d'Almanara. Queste batterie sostenute da quelle delle
opposte rive del porto e del Bosforo, assicurano il serraglio da ogni
insulto dalla parte del mare. Io non vidi sulle mura del serraglio che
una sola batteria; chiamata _batteria degli Spagnuoli_, la quale fu
nell'interno del serraglio servita dagli individui di questa nazione;
ciò che prova l'estrema confidenza del Gran Sultano.

Queste mura sono perfettamente simili a quelle che circondano la città
in riva al mare. Nell'ultima batteria del serraglio posta a mezzodì vidi
alcuni antichi cannoni turchi di una colossale grossezza, alcuni de'
quali hanno sette ed otto bocche minori intorno alla grande centrale; e
gli altri un piede di diametro: questi servono a tirare palle di sasso,
preparate ed ammucchiate presso ad ogni pezzo. Questi grandi cannoni
stanno sul suolo senza carro per tirare a fior d'acqua; di modo che
qualsiasi bastimento toccato da uno di questi projetti deve
necessariamente colare a fondo. Ma perchè queste pesantissime macchine
non possono muoversi, difficilmente possono cogliere oggetti mobili. Il
rimanente delle mura al di là del serraglio non si trova già più nel
medesimo stato di difesa.

M'imbarcai l'ultima volta il primo giorno di Pasqua ad oggetto di
osservare il fondo del porto.

Tutti i bastimenti ottomani avevano spiegato il loro paviglione, ma
nessuno era pavesato, ed una perfetta calma rendeva inutili i
paviglioni. Vi contai circa trenta tra vascelli, fregate e corvette, di
cui venti disponibili, e dieci scialuppe cannoniere.

Ammirai il bel frontispizio della caserma de' bombardieri, presso alla
quale facevansi delle salve di allegrezza con una linea di mortaj.

Dopo essere passato in faccia alla moschea al quartiere d'_Eyoub_, ed a
varie case di piacere del Sultano, trovai il canale del porto, ristretto
e diviso in più canali tra le isole a fior d'acqua, e coperto di
giunchi. Di là il battello entrò in un canale d'acqua dolce, che deriva
da un villaggio detto Belgrado, tre ore lontano della strada; indi
essendo passato sotto due ponti di legno poco discosti uno dall'altro,
scesi a terra per vedere una delle case di piacere del Sultano posta a
destra del canale, un'ora circa di cammino distante dal luogo del mio
imbarco. È questa formata di varie casucce, e di un bellissimo terrazzo
con colonne di marmo; i palchi hanno ricche dorature: il centro della
gran sala è ornato da una bella fonte, e da un canto vedesi il soffà del
Sultano consistente in un materasso ed alcuni origlieri rossi ricamati
d'oro posti sopra un rialto, e coperti dal padiglione ottomano in forma
di cortina.

Il terrazzo trovasi di fronte ad una cascata, nella quale l'acqua si
precipita sopra gradini in forme di conchiglia per tutta la larghezza
del canale che può essere di circa settanta piedi: al di sotto vedesi
uno stagno quadrato ove cade l'acqua da un secondo ordine di gradini.
Vedonsi entro allo stagno tre pergolati isolati assai gentili, ed in
faccia al terrazzo una fonte che imita la figura della colonna dei
serpenti dell'Ippodromo, e getta l'acqua per la bocca dei serpenti.

In fondo al canale trovasi una fontana di marmo rozzamente lavorata, ed
alquanto più sotto ancora un'altra in forma di gran vaso.

Dall'alto della caduta il canale si presenta in retta linea fino a
ragguardevole distanza, mantenendo costantemente la stessa larghezza.
Due filari di pioppi ne orlano le due sponde.

Questo luogo altra volta chiuso, resta ora aperto al pubblico, ma in uno
stato di deplorabile deperimento, non essendo frequentato dal Sultano
presente, il quale lo vide una sola volta. Vi sono alcune case ove
alloggia un corpo di bostangì, presso alle quali vedonsi pochi cannoni
che servono per esercitare gli artiglieri. Le guardie mi accolsero
gentilmente, e servirono anche il mio seguito di caffè. Il canale si
scarica in un'angusta valle chiusa tra montagnette incolte. Questo luogo
vien detto _le acque dolci_.

S'impiegò un'ora ed un quarto per tornare allo sbarco di Costantinopoli
quantunque la barca assai leggiera, ed armata di quattro remi facesse
più di una lega per ora.

Nelle notti classiche del Ramadan le moschee sono illuminate, e
magnifica è l'illuminazione delle moschee imperiali, e sopramodo bella
quella di S. Sofia. In questa circostanza soltanto può aversi una
perfetta idea di questa immensa cupola; perchè la luce che v'entra di
giorno non basta a far rilevare la grandezza dell'edificio. Molte
migliaja di lumicini posti lungo le cornici, sulle mondanature e le
parti saglienti dell'interno, altre migliaja sospesi alle volte, ed una
infinità di lampade di cristallo e di vetro di varia grandezza, fanno
assai meglio comprendere la maestà di questo tempio che la luce del
sole; e confesso che io non ne ebbi una compiuta idea fino all'istante
che lo vidi illuminato.

Mi riuscì pur nuova la maniera di spegnere tanti lumi. Molti uomini con
grandi ventagli di penne agitano l'aria, e ad ogni colpo spengonsene
dieci, dodici, venti, benchè distanti otto o dieci piedi dal ventaglio;
di modo che in pochi istanti tutto il tempio ritorna oscuro.

Mentre consumansi tanti lumi nelle moschee, ed anco sopra le torri ove
non servono a nulla, non se ne trova un solo nelle strade, ingombre di
nero fango, ed in mezzo a case ordinariamente dipinte di oscuri colori,
che rendono ancora più cupa l'atmosfera; la luna non rischiara parecchie
notti del Ramadan, e le profonde tenebre che regnano in tal tempo in
tutte le strade mal selciate, più o meno ripide, e sempre bagnate, le fa
incomodissime, quantunque si abbia seco una o due lucerne; perchè quelle
adoperate comunemente dagli abitanti essendo coperte di tela rendono una
così debole luce, che appena distinguonsi le persone che le portano; e
la quantità di queste pallide luci che si vedono andare da un luogo
all'altro come sospese in così bassa regione dell'aria, le fa
rassomigliare ad una danza di spettri. In tempo di notte non ho mai
incontrato donne per istrada.

Terminato il Ramadan l'ultimo giorno di novembre, si celebrò la Pasqua
il 1.º di decembre. Il Sultano fece la festa alla moschea _Ahmed
Dieamisti_, secondo praticarono i suoi predecessori. Desiderando di
vedere il suo seguito, volli preventivamente prender posto nella
moschea, perchè S. Altezza entra nella tribuna per di fuori; onde
recatomi a quattr'ore del mattino in un'altra moschea vicina per fare la
preghiera pasquale allo spuntar del sole, venni in appresso a quella
d'_Ahmed_, ove trovai nel cortile due o tremila donne, pochi uomini,
alcuni soldati bostangì, i giannizzeri, ed i cavalli del Sultano e del
suo seguito. Prima che terminassero le cerimonie la strada era già
affollata di gente, oltre due file di giannizzeri. Questi avevano
l'ordinario loro abito, ed i bostangì avevano dei caftan rossi con
lunghe berrette dello stesso colore. Una dozzina di giannizzeri avevano
in dosso una specie di pianeta grigia, ricamata d'argento. Io mi posi
nell'angolo interno della porta. Un certo numero di _capigi bascialà_
sfilarono, vestiti di grandi _caftan_ con finte maniche pendenti per di
dietro, foderate di ricche pellicce, ed esternamente tessute d'oro ed
avevano bellissimi cavalli riccamente bardati.

I personaggi d'alto rango avevano in capo doviziosi turbanti di
cerimonia, a guisa di cono troncato e rovesciato, alto circa un piede e
mezzo, tutto guernito di mussolina.

Molti ufficiali, e grandi impiegati del serraglio uscirono in appresso
con magnifici cavalli; indi il _Scheih el-Islam_, o Mouftì circondato
dai suoi _Oulems_ o Dottori.

Gli tennero dietro dieci o dodici cavalli di apparato del gran Sultano,
con bardature coperte di brillanti e di altre pietre preziose; ed in
particolare ricchissime erano la briglia e le staffe di uno di questi
cavalli. Alcuni altri avevano sulla sella a destra uno scudo del
diametro di due piedi, ed a sinistra una sciabla, ricchissima d'oro e di
gemme.

Volgendomi dall'altro lato vidi passare a cavallo _Moussa Pacha
Kaimakan_ del gran Visir in mezzo a quattrocento in cinquecento
ufficiali, impiegati, e soldati tutti a piedi, che quasi lo portavano in
aria. Avendomi conosciuto, mi salutò graziosamente, e continuò la marcia
volgendo il capo per vedermi; ed uscendo dalla porta mi salutò di nuovo
con un leggiero affettuoso sorriso, lo che fece tanta sensazione, che
molti ufficiali dei giannizzeri chiesero alle mie genti notizia di me,
dicendo che non avevano ancor veduto il sorriso sulle labbra di questo
Catone Musulmano. Mi spiacque assaissimo che le circostanze non mi
avessero acconsentito di andare ad abbracciare un così affettuoso amico;
ma perchè questo riconoscimento avrebbe contrariato il mio piano di
condotta, ebbi bastante forza per oppormi alle affezioni del mio cuore,
e soffocare le passioni, che in simile circostanza avrebbero potuto
vincere altri assai da più di me. In fatti potevo io, dopo aver
resistito alle affettuose istanze, ed alle energiche persuasioni del mio
più caro amico Mulley Abdsulem, e di suo fratello Mulley Solimano,
abbandonarmi all'affetto che mi legava a Moussa Pascià, e forse
rimanere oppresso dagli onori onde poteva ricolmarmi in meno di
ventiquattr'ore?.... No: perdonatemi, caro amico: so che in
quest'istante mi aspettate; ma io vi fuggo: domani abbandonerò
Costantinopoli.

Seguiva il Kaimakan un corpo di bostangì a piedi: allora risuonò il
grido di _viva_ e comparve il Sultano a cavallo, ma coperto dai
grandissimi pennacchi di sei in otto ufficiali che lo circondavano. Per
altro potei vederlo in volto, e fargli un saluto, cui egli gentilmente
corrispose: la sua tinta mi parve assai pallida e sparuta: aveva un bel
caftan color rosso, ma la ricchezza, ed il lampeggiare della rosa e del
pennacchio di brillanti che ornavano il suo capo, richiamarono come cosa
affatto straordinaria e di una sorprendente ricchezza, tutta la mia
attenzione.

Seguivano il sovrano tre grandi ufficiali, uno de' quali portava un
altissimo turbante ricco di una rosa e di un pennacchio eguali a quelli
del turbante che il Sultano aveva in capo; gli altri due un turbante
ciascheduno della dimensione e forma ordinaria. Tutti questi turbanti
appartengono a S. Altezza che ne pone in capo ora uno ora l'altro
secondo vuole il rituale delle ceremonie della moschea.

Venivano in seguito a cavallo i grandi personaggi dell'Impero con vesti
e turbanti ordinarj, e senza verun segno distintivo: mi fu detto essere
questi il fiore della nobiltà musulmana, i figli, i nipoti dei principi,
ec. Finalmente chiudeva l'accompagnamento un corpo di soldati a piedi.

I turbanti del Kaimakan, del gran Visir, e del Reis Effendì avevano il
distintivo di un ricamo d'oro nella mussolina. Notai molti grandi
ufficiali negri di orrendo aspetto, vestiti ed equipaggiati così
riccamente come gli altri.

Il capo degli eunuchi neri aveva sul turbante lo stesso distintivo del
gran Visir. Tutti i principali personaggi avevano a lato un domestico o
impiegato che portava avvolto in ricco drappo un turbante di ordinaria
grandezza, che sogliono porsi in capo in tempo della preghiera nella
moschea invece di quello di ceremonia.

I Turchi ne' tempi del Ramadan e della Pasqua hanno costumanze diverse
dagli altri musulmani. Ho di già fatto osservare che nelle notti del
Ramadan non illuminano le strade, e che nelle feste di Pasqua non fanno
corse di cavalli nè finte guerre, nè giuochi pubblici come negli altri
paesi soggetti all'islamismo: tutte le dimostrazioni nelle pubbliche
allegrezze riduconsi a passeggiare gravemente da uno all'altro luogo, a
visitarsi a vicenda, a mangiare il più che si possa, ed a tirare in
determinate ore colpi di cannone nel porto.

Ho veduti i vasti depositi delle acque potabili di Costantinopoli, le
quali tutte derivano, attraversando il quartier nord-ovest della città,
dal distretto di _Belgrado_, villaggio popolato pressochè di soli Greci,
siccome tutte le terre del circondario.

Trovansi in questo distretto, in tre diversi luoghi, tre grandi
muraglie, che chiudendo le valli da una montagna all'altra, formano
vasti serbatoj delle acque piovane. Queste dighe vengono dai Turchi
dette _Bent_.

Il più gran Bent è lontano tre leghe all'incirca da Costantinopoli, e
può avere cento sessanta piedi di lunghezza sopra, e quindici di
grossezza nel piano superiore con una grande scarpa, che ne accresce
considerabilmente la grossezza inferiore: è formato di pietre tagliate
ed ottimamente conservato; ma perchè non era peranco cominciata la
stagione delle pioggie non aveva che le acque d'un piccolo ruscello.

A non molta distanza di questo Bent trovasi il secondo fabbricato dalla
sultana Validè, madre di Selim III. La muraglia che abbraccia quasi
tanto spazio come il precedente, è più solidamente costrutta, perchè
appoggia le due estremità a due solide roccie: sgraziatamente però fu
data poca base alla scarpa, per cui a lungo andare potrebbe cedere al
peso delle acque.

Negli acquedotti che conducono l'acqua dei bent a Costantinopoli si
cercherebbe invano la grandiosità e la magnificenza delle opere romane
dello stesso genere, ma non lasciano di essere generalmente fatti con
bastante solidità. L'acquedotto di _Giustiniano_ posto nel greco
villaggio di _Pirgos_ ha fino tre ordini di archi gli uni sopra gli
altri di marmo di nicchi; ma la sua costruzione mostra il decadimento
delle arti all'epoca in cui fu fatto: i piloni sono troppo pesanti, gli
archi strettissimi, e di diversa luce in larghezza ed in lunghezza come
se fatti fossero senza preventivo disegno, e senza calcolare le spinte
degli uni sugli altri.

Non molto lontano da questo è l'altro inalzato dal Sultano _Solimano
Canouni_, che io non vidi abbastanza vicino per poterne dare sicura
notizia.

Alquanto più sopra di _Pirgos_ trovasi un antico acquedotto fabbricato
dai Greci: l'arditezza degli archi, e la bellezza della sua costruzione
provano per conto delle arti la superiorità della prima sulla seconda
epoca: ma questo bel monumento, da molti secoli affatto trascurato, è
già sensibilmente danneggiato nella parte più alta.

Per ultimo andai a visitare un quarto acquedotto fatto recentemente dai
Turchi in faccia al Bosforo, presso a _Bouyoukdere_; i di cui archi
fatti sull'andamento di quelli di Giustiniano, sono però alquanto più
regolari.

Questi acquedotti formano colle loro projezioni degli angoli colle
sinuosità delle montagne, ove i condotti sono posti a terra.

Il distretto di Belgrado è tutto sparso di basse montagne coronate di
belle foreste, che stendonsi a ragguardevole distanza, e per quanto mi
fu detto, abbondano di selvaggiume.

Il carattere dei Turchi è grave; e direi anzi melanconico.
Confrontandolo con quello degli Arabi, credo di poter asserire, che se
gli uni e gli altri giugnessero all'incivilimento europeo, gli Arabi
avrebbero il carattere dei Francesi, ed i Turchi quello degl'Inglesi.

Le belle arti sono talmente proscritte dai paesi musulmani, che un Turco
si crederebbe avvilito se suonasse un istromento, se, fuorchè nelle
preghiere, cantasse o danzasse. Essi quasi non conoscono la costumanza
di adunarsi in grandi conversazioni per ingannare il tempo. Le donne
affatto escluse dal commercio degli uomini, non possono colla naturale
dolcezza del loro sesso correggerne i feroci costumi, e spargere la
piacevolezza nella società. L'ignoranza quasi assoluta in cui versano i
Turchi delle lingue d'Europa, e le limitatissime loro corrispondenze
all'estero, li privano delle notizie di quanto accade su questo vario e
grande teatro; onde riguardano con occhio d'indifferenza le vicende
politiche di questa bella parte del globo. Finalmente la mancanza di
libri, e di maestri per imparare le scienze fisiche, e le innumerabili
scoperte degli ultimi secoli, li privano di quelle interessanti
cognizioni, che sole potrebbero operare il loro incivilimento.

Queste cause unite alla precaria esistenza di un governo dispotico: a
quello stato di diffidenza, e dirò meglio, a quello stato di guerra, in
cui deve trovarsi ogni paese ove il culto de' governanti è diverso da
quello di quasi tutti i governati; a quelle false idee di felicità che
ogni turco riceve nella sua prima fanciullezza; fanno sì che quantunque
incapace di aprire il suo cuore ad una libera innocente allegrezza, si
creda non pertanto felice, ed inoltre più valent'uomo allorquando più si
avvicina allo stato de' bruti. Passare l'intero giorno seduto nella più
assoluta inazione fisica o morale, fumando la pipa, e prendendo caffè ed
altre droghe; ubbriacarsi coi liquori, o con pillole d'oppio; esaurire
le forze fisiche e morali con replicati eccessi di godimenti naturali, o
contro natura: questi sono i piaceri che formano la felicità dei
Musulmani; i quali se degnansi talvolta di porgere attenzione ad uno
qualsiasi spettacolo, non è se non quando loro presenti l'immagine degli
oggetti de' loro unici piaceri.

Di fatti i Turchi non sono privi di spettacoli; ma quali spettacoli!
Quantunque la loro musica non abbia armonia, offre alcune dolci
modulazioni; ma trovasi mescolata con tante dispiacevoli discordanze,
che non può a lungo andare soffrirsi: e per tal motivo appunto sogliono
d'ordinario avere un buffone che di tratto in tratto eseguisce una danza
o una ridicola indecente pantomima, terminando sempre col rappresentare
un uomo ubbriaco.

Hanno pure de' ballerini la di cui abilità si ristringe al camminare con
misura, a fare una semplice contradanza, rapide giravolte, movimenti e
pantomime della più sfacciata indecenza, camminando in giro l'uno dietro
l'altro col capo imbacuccato in una parrucca a lunghissimi capelli,
avendo in mano i crotali o castagnette di metallo; e tutto ciò
eseguendosi nel più sgraziato modo che immaginar si possa. Ho veduto
alcuni di questi danzatori fare delle pantomime nelle quali
rappresentavano le più schifose e lascive attitudini. Hanno ancora le
ombre chinesi colle quali rappresentano orrende lubricità.

Tali sono gli spettacoli dei Turchi, cui i grandi, i dotti e lo stesso
gran Visir non vergognansi di essere spettatori.

Io sono stato testimonio d'un giuoco di forza assai curioso: un uomo
girando rapidissimamente a suono di musica, si attaccava alla cintura un
gonnellino, che la velocità del giro faceva spiegare in figura di
campana o di ombrello; levavasi in appresso la camicia senza sbottonarsi
il farsetto che la copriva, divideva in più treccie la ciocca de'
capelli del suo capo, e prendendo a volo una dopo l'altra molte sciable
nude che gli presentava un suo compagno, attaccava ogni impugnatura ad
una delle sue treccie, e lo vidi in tal modo attaccarne dodici o
quattordici, che per la rapidità de' giri, venivano a formare un cerchio
o disco orizzontale intorno al suo capo: in appresso prendeva un'altra
sciabla ignuda coi denti, ne collocava alcune altre in altre parti del
suo corpo, non saprei in qual modo, finchè trovavasi tutto coperto di
sciable nude. Continuando a girare colla medesima rapidità senza
interrompimento, sguainò una sciabla, e la mise nella guaina colla
stessa facilità, e con una sorprendente destrezza. Allora si levò le
sciable ad una ad una per darle al suo compagno, si levò il gonnellino,
si rimise la camicia senza sbottonarsi il farsetto, e dopo più di un'ora
e mezzo di rapidissimi giri, il compagno terminò questo bizzarro
spettacolo coprendolo con una gran pelliccia: precauzione necessaria per
impedire che non soffrisse passando da così violento moto allo stato di
quiete.

A Costantinopoli vengono strettamente custodite le donne di alto rango:
ma le plebee sortono sole a loro piacere: nelle strade, nei _bazar_,
nelle cappelle, ai cimiterj, e sulla spiaggia del mare, in qualunque ora
del giorno s'incontrano tante femmine che uomini. Tale libertà in così
popolata capitale, circondata di giardini, di colli e di boschi, deve
singolarmente favorire il libertinaggio; che infatti è in questa città
grandissimo. Malgrado il denso velo che le dovrebbe coprire le donne
hanno quasi sempre il volto scoperto, perchè ne dilatano in modo i fori
destinati al solo uso della vista, che a traverso di tali aperture si
vede quasi interamente la loro fisonomia.

Malgrado la sua distanza dell'equatore il clima di Costantinopoli è
assai dolce, perchè trovasi al livello del mare, difeso dai venti
settentrionali delle montagne di Belgrado, ed affatto aperto al Sud ov'è
il mare di Marmara; di modo che quantunque sia sensibile la diversità
delle stagioni, non vi si conoscono gli estremi tanto incomodi negli
altri paesi posti nella medesima latitudine di questa città.

Avevo disposto ogni cosa per osservare l'eclissi del sole del 29
novembre; e salii per tale oggetto sopra una torre, ma le nuvole si
opposero al mio desiderio.



CAPITOLO LIII.

   _Stato attuale della Turchia. — Barbarie dei Turchi. —
   Giannizzeri. — Stravaganze di questo corpo. — Bostangì. —
   Cannoniere e bombardieri. — Altre truppe. — Il gran Signore. —
   Pascià ribelli. — Tesoro pubblico. — Venalità degl'impiegati. —
   Disperazione dei popoli._


L'impero ottomano è un colosso composto d'una bizzarra mescolanza di
parti eterogenee affatto inconciliabili: di Turchi, di Tartari, di
Arabi, di Greci cattolici, di Greci scismatici, di Cofti, di Drusi, di
Mamelucchi, di Giudei, e di altre razze affatto diverse le une dalle
altre di costumanze, di religione, di opinioni, non convenendo in altro
che nel profondo inveterato odio che si portano: tali sono gli elementi
che compongono quest'immensa massa.

I Cristiani perduti in altri tempi dietro le quistioni scolastiche, gli
Arabi divisi dallo stesso motivo, e privi di una costituzione che
assicurasse la successione al trono del Califfato, aprirono, per una
deplorabile apatia le porte a quella irruzione di _Tartari_ quasi
selvaggi, che successivamente distrussero il trono degli Abassidi, e di
Costantino, fondando sulle loro rovine l'impero della Mezza-luna.

Il caso, che gli aveva fatte cominciare le loro conquiste nell'Asia
allora dominata dai successori di Maometto, rese maomettani questi
Tartari idolatri: se avessero invasa prima l'Europa, essi sarebbero
adesso Cristiani; perchè ogni culto appoggiato alla sublime idea di un
essere supremo ed unico deve egualmente convincere, e soggiogare l'uomo
idolatra.

Ecco ciò che ha resi, ed ancora non cessa di rendere i Turchi affatto
stranieri alle costumanze d'Europa; se si fossero convertiti alla fede
cristiana, sarebbero diventati Europei.

Perchè i Califfi Abassidi accolsero le arti e le scienze, che le
irruzioni de' Vandali avevano scacciate dall'Europa, questi Tartari
trovarono colla religione gli elementi della civiltà, di cui ne presero
a bella prima una leggier tinta, ma i di cui progressi furono in pari
tempo contrariati da alcuni dommi, che proscrivendo le belle arti,
stabilendo la dottrina del fanatismo, e proclamando odio ed aversione ad
ogni individuo opposto all'islamismo, li veniva a privare degli elementi
del buon gusto; e facendo loro riguardare come inutili i mezzi, e le
combinazioni dell'umana saggezza, li privava dei vantaggi di un'intima
comunicazione cogli Europei che soli potevano istruirli. Queste cause
aggiunte all'estrema diversità che esiste tra le lingue dell'Occidente e
dell'Oriente, all'effeminatezza che addottarono nell'istante medesimo in
cui si videro possessori di sufficienti capitali per soddisfare alla
propria sensualità, e per ultimo alla mancanza d'educazione dei loro
principi, che passano sempre dalla solitudine di un _Harem_ al trono
ottomano, paralizzarono i loro progressi verso l'incivilimento.

Perciò, quantunque musulmano, sono costretto di confessare, che i Turchi
sono ancora barbari: ne chiedo perdono a coloro che sono di opinione
contraria; ma quando vedo una nazione, che non ha la più piccola idea
del diritto pubblico, e dei diritti dell'uomo; una nazione che appena
conta in mille un solo individuo che sappia leggere o scrivere; una
nazione presso di cui non esiste garanzia delle proprietà individuali, e
nella quale la vita degli uomini è continuamente in balìa dell'arbitrio;
una nazione finalmente, che si ostina di chiudere gli occhi per non
vedere la luce, e che scaccia da sè la fiaccola dell'incivilimento che
gli si mostra in tutto il suo splendore, per me sarà sempre una nazione
di barbari. Che gl'individui ond'è formata abbiano abiti di seta e
ricche pelliccie, che stabiliscano fra di loro un ceremoniale, mangino,
bevano, fumino ogni giorno cento diverse mescolanze, che si lavino e si
purifichino tutte le ore; non lascierò per questo di ripetere; _questi
sono barbari_.

Vero è che trovansi in corte alcuni personaggi, i quali avendo imparate
le lingue d'Europa, ne hanno pure addottata in segreto la civiltà,
almeno in parte; ma il numero è infinitamente piccolo, paragonato alla
massa della nazione.

Concorre pure un'altra cagione a tenere i Turchi nell'attuale stato di
barbarie. Gli Arabi avevano il dominio di mezzo il mondo, quando furono
soggiogati dai Turchi; i quali diventati perciò padroni dello stendardo
del Profeta, dovettero credersi invincibili. Le vittorie ottenute in
Europa contribuirono a confermarli in tale opinione, che malgrado le
disfatte avute negli ultimi tempi, si propagò di una in altra
generazione. Questa superiorità che si arrogano sulle altre nazioni, li
move a guardare con sommo disprezzo chiunque non è Turco. Nè gli
ambasciadori esteri si lascino illudere dalle apparenze di deferenza e
di rispetto che potessero ricevere in Turchia: io conosco gli uomini
della mia religione più che tutt'altri, e posso francamente asserire,
che il Turco unisce alla barbarie ed all'orgoglio musulmano l'orgoglio e
la barbarie particolari della propria nazione.

Tale orgoglio gli fa preferire alle altre professioni quella della
milizia: egli è soldato per la sua religione, perchè ogni musulmano deve
esserlo; ma lo è pure per iscelta essendo il mestiere più utile, e
quello che apre la porta all'indipendenza, ed al dispotismo.

Non è perciò da credersi che il soldato Turco sia un uomo vestito ed
armato in un modo uniforme e determinato, un uomo soggetto a certe
leggi, a militar disciplina, nudrito e pagato dal pubblico tesoro, come
in Europa: egli non è altrimenti tale. Ogni individuo qualunque volta ne
lo voglia si arma di una o due pistole, d'un _khandiar_ o grande
coltello, e di qualunque altr'arma a suo capriccio, e dice: _Io sono
soldato._ Si attacca in allora a qualche divisione di Giannizzeri, ad un
Pascià, ad un Agà, o a qualche altro ufficiale che acconsente di
riceverlo al suo servigio: e quando poi è stanco di far il soldato getta
le sue armi, dicendo: _io più non sono soldato_; e niuno lo molesta, o
gli rimprovera la sua diserzione.

I giannizzeri possono riguardarsi come il principal nervo della forza
ottomana. Il celebre _Reis Effendì_ nel suo trattato della milizia
ottomana ne conta nell'impero quattrocentomila, e pargli che verun'altra
nazione possa presentare un'egual forza, ch'egli chiama _uniforme_. Ma
cosa è il giannizzero? È un calzolajo, un artigiano qualunque, un
contadino, un facchino, che dà il suo nome ad una divisione di
giannizzeri, detta _orta_. Alcune di queste orta non contano più d'un
migliajo di uomini, altre venti, o trentamila.

Quando il nome d'un uomo è scritto nella lista, si obbliga a presentarsi
qualunque volta l'orta si dovrà riunire. Ma sarà egli fedele alla
promessa?... Ciò dipende dalle circostanze, o dalle combinazioni
dell'interesse individuale nell'istante in cui viene chiamato. Non nego
che i giannizzeri non abbiano alquanto di ciò che si dice _spirito di
corpo_, pregevole pregiudizio quando non sia troppo esclusivo: ma ciò
non basta per consigliargli ad ubbidire alla chiamata de' loro capi, se
vi si opponga il loro personale interesse, che è sempre la molla
principale delle loro azioni. Quindi allorchè trovano utile il motivo
della chiamata, prendono subito le armi e si presentano; nel contrario
supposto o non si movono, o si presentano soltanto per formalità,
tornando subito tranquillamente a casa loro.

Se trattasi di adunar l'orta per fare qualche tumulto, o ribellione,
tutti accorrono, perchè tutti sono sicuri della vittoria, o del
saccheggio. Lo stesso non accade quando trattasi di andar contro ad un
nemico straniero; perchè in caso urgente il governo trovasi costretto di
proclamare che il _Sainjaàk Scherif_, ossia lo stendardo del Profeta
sarà portato all'armata, onde riscaldare in tal modo il fanatismo
religioso, che deve tener luogo dei sentimenti d'onore e dell'entusiasmo
patriottico, che non esiste.

Questa risorsa politica non lascia di dare qualche vantaggioso
risultamento, chiamando maggior numero di uomini intorno a questo
_palladio_, che i maomettani sogliono riguardare come un sicuro pegno
della vittoria. Ma perchè lo zelo religioso va di età in età facendosi
minore; quando non sia secondato da un interesse personale diretto ed
immediato, gli effetti di questo stratagemma saranno sempre minori.
L'ultima volta che uscì di Costantinopoli il _Sainjeak Scherif_ si
credeva di vederlo seguito da trenta o quarantamila giannizzeri, ma non
lo accompagnarono che tremila. Questo così famoso corpo non è dunque
paragonabile alle guardie nazionali degli stati Europei, nè ad altro
corpo qualunque organizzato e disciplinato; e non può riguardarsi che
come una _leva in massa del popolo_. Le vittorie de' giannizzeri negli
andati tempi non furono che il risultamento di una grande massa di
uomini armati sopra popolazioni disarmate, o sopra masse più piccole ed
egualmente male organizzate. Oggi che la tattica militare ha combinati i
più piccoli mezzi per calcolare i risultati con una quasi certezza
morale, chiara cosa è che le truppe turche non potranno opporre una
costante resistenza ad un corpo di truppe europee meno numeroso ma
meglio disciplinato. Non farò parola di qualche caso particolare che può
fare eccezione alla regola, perchè ci condurrebbe ad un'analisi, ed a
disamine affatto straniere al mio argomento.

I giannizzeri hanno delle particolari costumanze che meritano di essere
conosciute.

I trofei militari più rispettati da questa truppa sono le pentole di
cuojo nelle quali fanno cuocere la vivanda, che consiste in riso condito
col butirro, detto dai Turchi _pilaw_. Queste pentole, oggetto della più
alta venerazione, allorchè vengono trasportate da un luogo all'altro,
ottengono da tutti coloro che trovansi sulla strada le dimostrazioni di
rispetto che devonsi al principe; e guai a colui che non si affretta di
ossequiarle: egli sarebbe all'istante punito dalla guardia che le
accompagna. Sono queste il punto d'unione di ogni divisione di
giannizzeri; al campo si portano con grande apparato ornate d'orpello e
di altre inezie; e se un'orta ha la disgrazia di perdere le sue
marmitte, viene riguardata come un corpo disonorato.

Quando i giannizzeri vanno con affettata premura a ricevere le razioni,
si può essere sicuri che l'orta è soddisfatta; e per lo contrario è una
prova di malcontento quando vi si recano con aria di non curanza. Se poi
arrivano a non presentarsi alle distribuzioni, allora convien pensare ad
ogni modo a soddisfarli, onde impedire le imminenti violenze.

Quando sono estremamente malcontente le divisioni dei giannizzeri,
portano le loro marmitte innanzi al palazzo del Sultano, e le pongono
sotto sopra la terra. A questo segnale di sedizione i giannizzeri si
armano e si adunano per dettare la legge al governo, chiedendo le teste
dei ministri o capi dello stato, che vengono loro accordate all'istante
senza verun esame, o destituendo lo stesso Sultano come fecero poc'anzi
collo sventurato Selim III. E finchè questa indisciplinata milizia non
abbia riprese le sue marmitte, tutta la città trovasi in disordine e
piena di spavento.

Quando il Sultano accorda pubbliche udienze agli ambasciatori, per dar
loro un'alta idea della sua potenza fondata sulla soddisfazione delle
sue truppe, si fanno prima dell'udienza distribuire le razioni ai
giannizzeri che accorrono tumultuariamente per riceverla in presenza
dell'ambasciatore. Nello stesso modo per dare ai ministri delle corti
straniere una idea della giustizia sovrana, il gran Visir giudica alcune
cause in loro presenza; come per dispiegare innanzi ai loro occhi la
magnificenza imperiale, li ammettono ad un banchetto col gran Visir,
coprendoli di ricche pelliccie, mentre ne vengono date altre meno
preziose alle persone addette all'ambasciata.

È in conseguenza dell'importanza delle marmitte nel corpo de'
giannizzeri, che il nome turco de' capi delle orta equivale a
distributore della zuppa. Tutti i militari di questo corpo portano sopra
la fronte attaccata alla berretta di gala una placca d'ottone, entro la
quale pongono un grossolano cucchiajo di legno di cui si servono per
mangiare il riso, e che viene a formare una parte essenziale del loro
uniforme.

Le persone incaricate in alcune circostanze del castigo de' giannizzeri
sono i _distributori dell'acqua_, i quali camminano armati di un bastone
fornito di lunghe coreggie.

Ogni orta possiede alcune tavolette maggiori di un piede quadrato, che
vengono portate in cima ad un bastone e scarabocchiate di pitture
emblematiche dell'orta. Queste tavolette accompagnano le marmitte.

Quando l'orta marcia in campagna, le marmitte sono accompagnate da
alcuni giovani affatto coperti di grandi haik, cui si dà il titolo di
_el Harem_. Riguardandole come una specie di talismano, e di sacro
pegno, hanno sempre la scorta d'una guardia particolare, che sta in una
tenda vicina a quella delle marmitte; e queste guardie non fanno verun
altro servigio, nè vengono sottoposte ad alcun lavoro; ed i giannizzeri
dell'orta si farebbero uccidere tutti per difenderli e salvarli dalle
mani del nemico; perchè la perdita delle marmitte è ciò che di più
obbrobrioso può accadere ad un'orta.

I giannizzeri passano a capriccio da una all'altra divisione.

Risulta dal fin qui detto, che i giannizzeri lungi dall'essere le truppe
del sovrano, non sono che una inquieta e rivoluzionaria milizia che si
fa giustizia colle proprie mani, anche contro il principe a cui serve.

È vero che alcuni giannizzeri ricevono fino dalla fanciullezza una
specie d'educazione militare: ma tanto è limitato il loro numero che
nulla influisce sulla massa generale del corpo. Altrettanto può dirsi
della loro disciplina, ed organizzazione nelle caserme di
Costantinopoli.

Per contrabilanciare la potenza dei giannizzeri, i Sultani armarono
gl'impiegati dei loro giardini, delle loro case di piacere, e ne fecero
una specie di guardie del corpo col nome di _bostangì_, ossia
giardinieri; cui sono affidate le loro persone. Questo corpo composto di
alcune migliaia d'uomini, ha resi ai loro Sovrani molti importanti
servigi: ma nelle ribellioni d'ordinario si uniscono al giannizzeri, che
sono più forti; e questo contrappeso diventa allora inutile al Sovrano,
come sì è veduto nella rivoluzione che balzò dal trono lo sventurato
Selim III.

Il corpo de' cannonieri e bombardieri è formato di quarantotto compagnie
bene organizzate; ma perchè sulle batterie trovansi ancora varj carri
antichi con ruote di tavole poco atte al maneggio principalmente delle
grosse colubrine, di que' cannoni di mostruoso calibro stesi a terra per
tirar palle di sasso, e di quegli altri cannoni di più bocche; non
possiamo farci una troppo vantaggiosa idea della loro scienza, perchè
s'impiegano nel servigio di pezzi quasi inutili uomini e munizioni, che
più utilmente sarebbero impiegati nel servigio di pezzi ben montati di
un discreto calibro.

Il rimanente delle truppe che compongono le forze ottomane in tempo di
guerra, sono squadroni più o meno numerosi di genti armate mandati dalle
provincie agli eserciti; gli avventurieri volontari che vogliono far
fortuna, i fanatici di buona fede, e quelli che hanno interesse di
parerlo; e per ultimo il contingente di uomini armati che alcuni
possessori di feudi sono obbligati di mandare al campo.

Tutto ciò forma una mescolanza, una così strana confusione, che nel
fondo un'armata turca non è diversa da un ammasso di orde arabe, e
quindi incapace di produrre assai vantaggiosi risultati. Se a tanta
irregolarità s'aggiungano i grossi equipaggi che i Turchi si tiran
dietro, e l'immensa quantità di domestici e d'impiegati non combattenti
che seguono l'armata, potremo formarci un'idea dell'estrema difficoltà
di dare a così pesanti e disordinate masse la precisione richiesta dai
movimenti militari di una campagna.

Il governo di Costantinopoli penetrato della verità di questa
osservazione, volle rimediare al male formando nuove milizie organizzate
e disciplinate all'usanza europea: ma perchè questa novità offendeva
l'amor proprio dei giannizzeri, che avrebbero perduta l'indipendenza;
mentre erano, ed ancora sono al presente i veri despoti dell'impero; si
ribellarono sacrificando alla conservazione della propria potenza forse
le più utili teste dell'impero, e deponendo il sultano _Selim_ III:
deplorabile trionfo dell'anarchia militare, che ritardò due secoli
l'incivilimento dei Turchi. Il Sultano Mustafà successore di _Selim_[5]
è dotato di ottime qualità: ma che può fare il migliore de' Sultani
finchè sarà signoreggiato da una milizia così rivoltosa come i
Giannizzeri? Qual ministro oserà aprire la bocca dopo l'orrenda
catastrofe di cui fu testimonio? Credo dunque di poter conchiudere che i
Turchi non possono da se medesimi incivilirsi.

  [5] _Anche questo principe cacciato dal trono più non esiste._

Quando si ode ricordare negli altri paesi il nome del Gran Signore, ci
figuriamo un despota la cui parola è una legge, e che non prende
consiglio che da' suoi capricci. Quanto siamo ingannati! non avvi al
mondo uno schiavo più schiavo del Gran Signore; i suoi passi, i suoi
movimenti, le sue parole in tutto il corso dell'anno, in ogni evento
della vita, sono misurati e determinati dal codice della corte; non può
far più nemmeno di quanto è prescritto; ed è ridotto a far la parte di
vero automa, le di cui azioni sono regolate come risultamenti meccanici,
dal codice, dal Divano dell'Olema, e dai Giannizzeri. Sarà coperto di
brillanti, inebriato d'incensi, circondato da adoratori come il _gran
Lama_, o come una vivente divinità: ma la sua esistenza non sarà punto
diversa da quella di una macchina, e come tale sarà sempre riguardato
con somma indifferenza dai popoli che non possono da lui sperare nè bene
nè male, poichè il potere trovasi in mani subalterne, come lo feci
osservare in parlando della caduta di _Selim_, e della elevazione al
trono di Mustafà, avvenimento riguardato con perfetta indifferenza nelle
provincie turche ch'io scorrevo.

Questa indifferenza dei popoli verso il sovrano è una delle primarie
cagioni che agevolano, e favoreggiano le ribellioni de' Pascià nelle
provincie. Tutti sanno quanti anni sonosi sostenuti _Diezzav_, _Paswan
Oglou_, _Kadi Agà_ ec. ed intanto vediamo _Mehemed Ali_ in Egitto,
_Couchouk Ali_ in Siria, _Moustapha Pascià_ in Bulgaria[6], _Ali Pascià_
in Albania, _Ismail Bey_ in Romelia, e molti altri di minor rango, che
sotto ad un'aria di subordinazione al sovrano sono affatto indipendenti,
non facendo verun caso dei firmani della Porta quando non favoriscono i
loro interessi.

  [6] _È questi il celebre Moustafà Baïraktar, che posteriormente
  cacciò dal trono il Sultano Mustafà, e che perì nella
  sedizione._

Un principe ridotto a tanta subordinazione dovrebbe essere cancellato
dalla lista dei sovrani; poichè l'impero trovasi sempre in mani
subalterne o mercenarie, mentre quello cui si accorda il supremo titolo
è il più insignificante ed inutile personaggio del governo: egli non
vede nè ascolta de' suoi sudditi che il solo gran Visir, e passa i suoi
tristi giorni tra le donne e gli eunuchi; straniero, si può dire a tutti
gli atti d'amministrazione, perchè ogni cosa dev'essere ordinata dal
gran Visir o dal Divano. Il potere del gran Signore si riduce quindi a
zero. Solo a Marocco trovasi il vero modello del dispotismo.

Le mani mercenarie che governano l'impero turco vengono ricompensate
delle loro cure con ricchezze proporzionate alla loro ambizione: ma le
rendite dell'impero vanno ogni anno diminuendo per cagione delle
ribellioni che stendonsi d'una in altra provincia: Pascià
precedentemente nominati poco o nulla mandavano al tesoro pubblico: i
tributi della Siria vengono assorbiti dal Pascià di Damasco sotto
pretesto delle spese occorrenti per la carovana della Mecca, e nel
presente anno (1807) il governo gli aveva inoltre mandate, sulle sue
istanze, alcune migliaja di borse per le spese della guerra difensiva
contro i _Wehhabiti_, i quali andavano di mano in mano sempre più
restringendo i limiti del dominio ottomano, togliendogli ogni giorno
qualche parte di provincia. Le rivoluzioni dalla Servia, della Moldavia
e della Valacchia occupate dai Russi[7], la separazione delle reggenze
barbaresche, finalmente le scandalose dilapidazioni del Pascià e degli
altri impiegati turchi, hanno terminato di esaurire il tesoro. In tale
stato di cose i grandi impiegati di corte non percepiscono gli
appuntamenti annessi alle loro cariche, onde si procurano coll'intrigo
il danaro che non ricevono dal tesoro.

  [7] _Una parte di questo prospetto politico si è cambiato dopo
  l'epoca indicata da Ali-Bey._

In Turchia è permessa la vendita degl'impieghi, ma in ragione che
l'impero si ristringe, diminuiscono anche gl'impieghi: è però vero
d'altra banda, che se diminuisce il numero degl'impiegati, cresce in
proporzione quello degli aspiranti; e la concorrenza ne accresce il
prezzo; lo che torna press'a poco lo stesso per i cortigiani ma non per
gli sgraziati popoli, perchè coloro che pagarono il doppio ed il triplo
l'acquisto dell'impiego, si credono egualmente autorizzati a duplicare e
triplicare le avanie. I popoli reclamano e si lagnano altamente, ma i
loro pianti non si ascoltano, perchè il frutto di queste subalterne
esazioni entrano nel prossimo anno in mano degl'impiegati di corte. Lo
sdegno e la disperazione armano i popoli, che vengono poi chiamati
assassini e ribelli: se lo stato ha bastanti forze per farli rientrare
in dovere, come spesso accade, si sparge il sangue di molti infelici, e
le cose rimangono nello stato di prima; ma l'impero perde sudditi e
ricchezze; onde poi crescono i bisogni della corte, e per conseguenza le
avanie. Questi mali diventano ogni giorno maggiori.



CONCLUSIONE.

   _Partenza per Bucarest in Valacchia. — Itinerario. —
   Adrianopoli. — Monte Emo. — La Bulgaria. — Rouscouk. — Il
   Danubio. — Bucarest._


Il mercoledì 2 decembre del 1807 secondo giorno della Pasqua dei
Musulmani, Ali Bey andò nel sobborgo di Pera, di dove partì alla volta
di Bucarest in Valacchia il 7 decembre, accompagnato da un Tartaro.

Allorchè partì da Costantinopoli desiderava ancora di accrescere le sue
cognizioni con nuovi viaggi; ma non aveva ancora determinato quali paesi
avrebbe visitati. Fidò quindi le sue carte ad un amico, cui permise di
pubblicare dopo alcuni anni, incerto, se arrivato a Bucarest,
prenderebbe la strada d'Oriente, d'Occidente o del Settentrione.

Mandò da Bucarest il suo itinerario di Costantinopoli, che soggiungiamo
compendiato.

Il 7 decembre alloggiò nel villaggio di _Konchouk Charmagi_ in riva ad
un lago formato dal mare di Marmara.

Il giorno 8 passò per _Bonyouk Charmagi_, _Coruhourgas_, _Boadas_,
fermandosi pochi momenti a _Selivria_, terra più grande delle altre
posta sopra un piccolo scalo del mar di Marmara, con alcune moschee.
Tutti questi villaggi sono abitati da pochi Turchi, e dai Greci più
numerosi, che sembrano esservi alquanto meglio trattati che altrove.

Il 9 attraversò _Kinikli_, e si fermò a _Djiorio_, città di mediocre
grandezza, ove sonovi alcune moschee. Il 10 passò a lato a _Karrestan_,
e pernottò nel villaggio di _Bourgas_; di dove, dopo avere attraversato
_Baba-Eski_, entrò l'11 in Adrianopoli. Questa grande città è posta al
N. di una vasta campagna circondata da colline, sopra una delle quali
trovasi parte della città: contiene molte moschee, alcune belle case,
strade ben selciate, un grande _bazar_ formato da più strade coperte, e
fornito di botteghe d'ogni specie; ed ha un bel ponte sopra la Marissa,
ragguardevole fiume che traversa la città. Adrianopoli è cinto da un
parapetto di terra con una palizzata al di dentro, ed una piccola fossa
esternamente. Vi si trovava allora il gran Visir, generalissimo
dell'armata ottomana. Osservò per altro, che v'erano pochissimi soldati,
e che le strade erano solitarie. Gli fu però detto che osservasse un
accampamento fuori di città. E per tal modo stando il quartier generale
de' Turchi ad Adrianopoli, trovavasi più di sessanta leghe lontano dalle
armate attive.

Ali-Bey si fermò poche ore in questa città, ed andò lo stesso giorno a
Moustafa Bacha ove trovò un drappello di soldati, che sembravano
piuttosto un branco di banditi.

Vide il dodici molti villaggi abitati dai Greci, e dormì a _Karapannar_,
villaggio musulmano assai popolato. Il 13 dopo esser passato per _Zaara_
e per _Kenaanlek_, ove fu invitato a cena dal governatore, viaggiò tutta
la notte, nella quale soffrì assai per una terribile burrasca di vento,
neve e pioggia; indi giunse a _Schipka Balcana_, piccolo villaggio posto
ai piè del _Balcàn_, o monte _Emo_, ove dovette trattenersi due giorni
prima di poter esporsi al passaggio della montagna allora coperta da
grande quantità di nevi.

Il 16 traversò la montagna, lo che non gli sarebbe riuscito di fare, se
non fossero stati mandati prima alcuni cavalli di posta per aprirgli la
strada. Giunto sull'opposto lato del monte passò per un villaggio detto
_Bedjene_, le di cui case di legno erano per metà sepolte nella neve
alta quasi quattro piedi, e continuando la scesa si fermò a _Kaproa_, le
di cui case sono fabbricate parte di sasso, e parte di legno. La catena
dell'Emo che forma il confine tra la Romelia, e la Bulgaria, essendo
coperta di neve non permise ad Ali-Bey di fare veruna osservazione.

Il 17 passò per _Derroba_ e giunse a mezzo giorno a _Terranova_, città
posta sul pendio di due montagne, ed attraversata da un grosso fiume.
Vide molti giardini e vigne, alcune case assai belle, ed alcuni _bazar_
coperti, ma il suolo era tutto coperto di neve.

Di là venne a _ Poulicraïschte_ villaggio, le di cui case sotterranee
non s'inalzano più di mezzo piede sopra il livello del suolo, ed i cui
abitanti tanto uomini che donne si vestono di sole pelli di montone.

Piccolissime sono le donne di Bulgaria, e di grazioso aspetto finchè
sono giovanette; ma tosto passata l'adolescenza ingrassano a dismisura.
Gentili sono i fanciulli, ma tanto piccoli che pajono scimie. Gli uomini
portano l'impronta della schiavitù che li opprime: continuamente
tiranneggiati dalle esazioni della soldatesca, trovansi nella trista
necessità di nascondere sotto terra ciò che vogliono sottrarre alla
rapacità ed alla violenza.

Dopo aver passato il 18 a mezzogiorno il fiume Yantra che ha molta
rapidità e molte acque, andò a _Rouschouk_ grande e forte città situata
sulla destra del Danubio.

Il Pascià Moustafà[8] avendo esaminate le carte del nostro viaggiatore,
ordinò di lasciarlo passare: quindi s'imbarcò la stessa notte sopra un
battello a sei remi, ed attraversato in trentacinque minuti quel
maestoso fiume, sbarcò a _Djíourjoi_ piccolo castello difeso da una
vasta fortezza, allora occupata da un corpo di truppe sotto gli ordini
d'un altro Pascià; ed era questo il più avanzato posto dei Turchi.

  [8] _Il medesimo ricordato alla pag. 196._

I passaporti di Ali-Bey vennero di nuovo esaminati; ma il _Diouan_
Effendi cui spettava l'esame, aveva conosciuto in Alessandria Ali Bey,
onde veduto appena il suo nome sul Firmano, gridò: _non v'è più nulla da
osservare, io conosco Alì Bey_; e fatti gli elogi del viaggiatore, gli
mandò una gran _cana_, dando ordine di preparargli i cavalli. In tal
modo Alì Bey uscì dall'impero ottomano il sabato 19 dicembre 1807 allo
spuntar del sole.

Dopo dieci ore di cammino arrivò ad un villaggio ove trovavansi alcuni
esploratori russi, uno de' quali lo accompagnò fino all'avanguardia
dell'armata che occupava una linea di alture e di piccoli ridotti al di
là d'un vasto fiume i di cui ponti erano stati distrutti. Ali Bey lodasi
dalle gentilezze usategli dagli ufficiali Russi. Fu in seguito scortato
fino ad un villaggio più vicino a Bucarest, ove fu assai ben accolto dal
generale che lo lasciò partire alla volta di Bucarest, ove giunse a
notte assai inoltrata. Oppresso dalle fatiche di così disastroso viaggio
dovette fermarsi due giorni per riposare, nel qual tempo gli prodigarono
le più cortesi cure il Console Russo Bahmatiet, ed il Cavaliere Kiriko
Console generale della stessa nazione. Ali Bey non sa esprimere la sua
riconoscenza verso il generale Ulanius, l'arcivescovo Diothitheos, i due
luogotenenti del principe Ipsilanti, e gli altri Bojardi della
Valacchia.

_Bucarest_ è una grande città di un aspetto campestre assai grazioso: le
sue strade sono larghe, diritte e lastricate di legno; basse sono le
case con vaste porte per dare accesso alle vetture che vanno fino alla
scala. La sua popolazione si presume di sessanta in settanta
mil'abitanti. Conta trenta tra chiese e cappelle greche; e la cattedrale
situata sopra un'altura è piccola ma bella. Eranvi, oltre l'arcivescovo,
alcuni altri prelati.

Benchè il rito dominante sia il Greco, vi sono anche dei cristiani degli
altri riti, provveduti di chiese e di preti.

Il governo civile è tra le mani di due _Kaömakan_, o luogotenenti del
principe Ipsilanti, assistiti da un consiglio di dodici Bojardi. Fu
detto al nostro viaggiatore che la Valacchia conta un milione e mezzo di
abitanti. Più della metà di questa provincia è circondata dal Danubio, e
bagnata da molti fiumi. Il suolo assai fertile è sparso di montagne
selvose abbondanti di selvaggiume. Vi sono miniere, ed infine tutto
quanto può desiderarsi di vedere unito in un paese posto al 45º di
latitudine. Si assicura, dice Ali Bey, che il clima è sanissimo, e che
le rendite dello Stato ammontano a quattro milioni di piastre.


FINE DEL TOMO QUARTO ED ULTIMO.



INDICE DELLE MATERIE CONTENUTE IN QUESTO TOMO QUARTO.


  CAPITOLO XLIV.

  _Haram, ossia Tempio musulmano nel luogo
    dell'antico tempio di Salomone_                Pag.   5

  CAP. XLV.

  _Viaggio al sepolcro di Davide, e ad altri
    sepolcri. — Viaggio al monte Oliveto. — Al
    sepolcro d'Abramo ad Hébron. — Al presepio di
    Cristo a Betlemme. — Al sepolcro della Vergine.
    — Al Calvario ed al sepolcro di Cristo. —
    Sinagoga de' Giudei. — Descrizione di
    Gerusalemme_                                    »    16

  CAP. XLVI.

  _Ritorno a Giaffa. — Tragitto ad Acri, e
    descrizione di questa città. — Il monte Carmelo.
    — Viaggio a Nazaret. — Notizie intorno ai monaci
    di terra Santa_                                 »    34

  CAP. XLVII.

  _Viaggio a Damasco. — Monte Tabor. — Mare di
    Galilea. — Fiume Giordano. — Paese vulcanizzato.
    — Damasco. — Popolazione. — Grande moschea. —
    Bazar o mercati, e manifatture_                 »    45

  CAP. XLVIII.

  _Acque di Damasco. — Cristiani. — Commercio,
    prodotti, clima. — Razze dei cavalli. — Abiti.
    — Donne. — Sanità. — Scuole. — Governo. —
    Fortificazioni. — Bedovini di Anaze. —
    Salakhie_                                       »    55

  CAP. XLIX.

  _Viaggio ad Aleppo. — Descrizione dei Khan. —
    Carovana. — Tadmor o Palmira. — Città di Homs.
    — Fiume Oronte. — Città di Hama. — Libertà
    de' costumi. — Incontro notturno. — Arrivo ad
    Aleppo. — Osservazioni intorno a questa
    città_                                          »    66

  CAP. L.

  _Viaggio a Costantinopoli. — Antiochia. — Targo.
    — Monte Tauro. — Arco trionfale. — Orde di
    pastori della Turcomania. — Maniera di viaggiare
    in Turchia. — Città di Konia. — Assiom Karaïssar.
    — Kutaïeh. — Catena del monte Olimpo. — Scutari.
    — Ingresso in Costantinopoli_                   »    83

  CAP. LI.

  _Descrizione di Costantinopoli. — Il Bosforo. —
    Il Porto. — L'Arsenale. — Pera. — Top Hana. —
    Galata. — Strade di Costantinopoli. — S. Sofia.
    — Uscita del Sultano ogni venerdì. — Le Moschee.
    — Eyoub. — Reliquie del Profeta. — Serraglio, o
    palazzo del Sultano. — Vetture. — Hippodromo. —
    Castello delle Sette Torri. — Mura_             »   124

  CAP. LII.

  _Cisterna di Filossène. — Colonna di Costantino.
    — Mercato delle donne. — Bezesteinn, o grande
    Bazar. — Quartiere del Fanale. — Alai Kiksoe del
    Sultano. — Punta del serraglio. — Riva del Mar
    di Marmara. — Caserma de' bombardieri. — Casa di
    piacere del Sultano. — Illuminazione del Ramadan.
    — Festa del Beyram o della Pasqua. — Acque di
    Costantinopoli. — Carattere dei Turchi. —
    Divertimenti. — Donne. — Clima_                 »   155

  CAP. LIII.

  _Stato attuale della Turchia. — Barbarie dei
    Turchi. — Giannizzeri. — Stravaganze di questo
    corpo. — Bostangì. — Cannonieri e bombardieri. —
    Altre truppe. — Il gran Signore. — Pascià
    ribelli. — Tesoro pubblico. — Venalità degli
    impiegati. — Disperazione dei popoli_           »   180

  CONCLUSIONE.

  _Partenza per Bucarest in Valacchia. —
    Itinerario. — Adrianopoli. — Monte Emo. —
    La Bulgaria. — Rouscouk. — Il Danubio. —
    Bucarest_                                       »   199



INDICE DELLE TAVOLE

_Contenute in questo Tomo quarto._


  TAVOLA I.   Porta del Cairo nominata
                Beb-el-Fatha[9]                 Pag. 5
  TAVOLA II.  Veduta del Monte Carmelo
                dalla parte di S. Giovanni
                d'Acri                           »  38
  TAVOLA III. Veduta dello scoglio e del
                Castello d'Asiom Karaïssar
                nell'Asia Minore                 » 113
  TAVOLA IV.  Monumento antico nel serraglio
                del gran Signore a
                Costantinopoli                   » 160

  [9] _Siccome le materie contenute in questo Tomo non
  richiedevano che tre sole tavole così gli Editori credendo di
  fare cosa grata ai signori Associati hanno pensato di mettervi
  la veduta della Porta del Cairo nominata _Beb-el-Fatha_, di cui
  parlasi alla pag. 271 del Tomo III._



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le
grafie alternative (molto numerose soprattutto per i nomi arabi),
correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.





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