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Title: Traduzioni
Author: Guerrazzi, Francesco Domenico
Language: Italian
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  SCRITTI
  DI
  F.-D. GUERRAZZI.


  TRADUZIONI


  FIRENZE.
  FELICE LE MONNIER.
  1847.



GLI AMANTI FIORENTINI.

Novella tradotta dal =LIBERALE=, Giornale pubblicato in Londra per cura
di LORD BYRON.


Nel tempo che Firenze per le male fazioni dei Guelfi e dei Ghibellini
andava divisa, la nimicizia che si portavano grandissima le famiglie dei
Bardi e dei Buondelmonti ferocemente incrudeliva. Quindi di rado
accadeva che amore trovasse luogo fra loro; ma se pure accadeva,
altissimo era quell'amore, sia perchè la natura gli avesse sortiti a
sentire profondamente, sia perchè amore appigliandosi a cuori gentili,
li renda meglio degli altri innamorati e pietosi.

Ora avvenne che amore prendesse la bella Dianora Bardi di un garzone
della famiglia nemica, nominato Ippolito. La fanciulla giungeva a 15
anni, lieta del fiore della bellezza, e splendido di donnesca
leggiadria. Ippolito poi era di due o tre anni maggiore, sebbene
contemplando quel suo volto severo gliene avresti aggiunti anche tre
altri. Lo chiarivano i labbri discreto amatore, e gli occhi capace di
custodire l'arcano. Si notava tra li due amanti, come spesso suole
accadere, una cotale rassomiglianza; nè forse ella era poco alimento
allo scambievole affetto, imperciocchè ci occorsero sovente volte
pittori, che furono vaghi partecipare la propria immagine agli eroi che
ritrassero, e gli amanti ancora si dilettino trovare sul volto della
donna amata cotesta somiglianza, la quale, secondo ciò che ne scrisse
Platone, non abbandonò mai del tutto le umane creature. — Non pertanto a
Dianora di Amerigo bastò uno sguardo per suscitare in Ippolito
ardentissimo amore. Celebravasi in chiesa una molto solenne festa, e
laggiù nelle parti di mezzogiorno la gente più che altrove s'innamora in
chiesa. Quivi i voluttuosi, che non sanno sollevare in alto gl'intimi
pensieri, gli abbassano sopra cose terrene; e quivi gl'innocenti
spiriti, voluttuosi anch'essi, senza accorgersene, mal sapendo in qual
modo svelare l'arcano fremito che li commuove, scoprono che quel fremito
si posa sopra enti che si manifestano sensibili alla lor gioia. La
musica, i profumi, i dipinti, il benigno crocifisso, le mistiche
cerimonie, i parati, le bianche vesti delle donne, le voci dei
fanciulli, i candelabri, simboli dei ministri serafici, ardenti attorno
l'altare di Dio, la confusione di tutti i sessi, di tutte l'età, le
navate echeggianti, le ombre delle colonne e delle volte, la luce che
penetra attraverso le alte finestre, quasi la terra fosse e non fosse ad
un punto presente, — tutto cospira a confondere il mondo attuale
coll'avvenire, e porre il cuore dubitoso in certo stato di sublimità e
di umilianza, che prontissimo si manifesta a corrispondere di affetto
con quanto vale a serbargli alcuna cosa di queste sensazioni, e
confortarlo della tristezza della vita ordinaria. In chiesa fu che
Boccaccio (non già Boccaccio lascivo, mezzo inteso soltanto da chi ha
mezzo senno), ma Boccaccio il futuro dipintor del _Falcone_ e del
_Testo_ di _basilico_, vagheggiò in prima la lieta sembianza della sua
Fiammetta. In chiesa sentì Petrarca cadersi su l'anima l'ombra che
offuscò poi per venti anni continui la sua vita mortale. E grazie al
buon Cronista che ne tenne memoria, nella chiesa di San Giovanni nel
giorno 13 di gennaio, in cui ricorre il _Perdono universale_, Ippolito
dei Buondelmonti rimase preso di Dianora di Amerigo (Oh! come suonano
soavi questi bei nomi italiani, quando non sono vani nomi; e noi senza
pure badarvi troviamo averli scritti in caratteri meglio formati del
resto, non solo per comodo dello stampatore, ma eziandio pel diletto di
trattenerci su la loro armonia). Mentre il popolo stava per abbandonare
la Chiesa, Ippolito volgendo la favella a certo suo famigliare, non vide
più la sconosciuta bellezza. Si affrettava alla porta, dicendo al
compagno — per vedere le donne, — non gli bastando l'animo di dire _la
donna_: quando poi scorse Dianora, mutò colore e non aggiunse parola.
Ella gli strisciò da canto, come cosa di Paradiso, abbassandosi il velo
sul volto, e sebbene ei l'affissasse da improntarne la immagine nel
profondo, gli parve averla veduta così di fuga in un sogno. Non aveva
ardimento di farle motto, nè meno di cercarne il nome, se non che lo
favoriva la ventura. — «Dio e San Giovanni benedicano la sua bella
faccia!» — gridò un poverello alla porta; — «sempre mi dà l'elemosina
doppia degli altri.» — «Maladetta lei!» — mormorava il famigliare
d'Ippolito, — «ella è dei Bardi!» — Notò l'amante ambedue
l'esclamazioni, e ne fece tesoro. Ippolito, come colui che molto si
dilettava dei libri che ragionavan di amore, ed era amico co' più
liberali delle due fazioni, cioè Dante Alighieri (il sì famoso) e Guido
Cavalcanti, sebbene feroce partigiano, e di breve implicato in
sanguinoso scontro avvenuto tra cavalieri, procedeva scevro dell'arte
vergognosa di odiare per calcolo, ed ora più che mai gli sembrava
biasimevole. Egli, in vero, non avrebbe pensato mai di perdonare ad uno
dei vecchi Bardi, che traendo giù da cavallo suo padre l'ebbero a
spengere di coltello; ma adesso avrebbe dannato la parte avversa a bando
più mite di prima, e in quanto al maladire una donzella dei Bardi — e
questa donzella Dianora! — oh! l'anima sua differiva assai da quella del
suo famigliare.

Era grave ad Ippolito il pensiero di non potere vagheggiare l'amata
donna in sua casa, chè gelosamente la custodivano i genitori, nè mai
sola l'abbandonavano le amiche; più grave la paura di non poterla
rendere sensibile al suo amore; gravissima poi la melanconia che lo
angustiava, meditando che gli verrebbe tolta da più fortunato amante.
Che dovea fare? A qual consiglio appigliarsi? Non gli si offriva un
pretesto per iscriverle, nè sarebbe stata cosa prudente farle di notte
tempo una serenata sotto le finestre, perchè oltre al manifestare la
concetta fiamma, poteva in tanto scellerato secolo correre pericolo di
vita. Si ristringeva dunque a passarle, quanto più spesso poteva, sotto
casa, e seguitarla quando usciva, mettendo ogni cura per attirarsi la
sua attenzione, — come sarebbe nel prevenirla a dare la carità al
povero. Noi dobbiamo riferire come certa volta avvisasse di premere le
zampe ad un cane, per mostrar poi quanta sollecitudine ponesse
nell'aiutare la bestia. Ma il lieto giorno era la festa. Non festa, non
mezza festa perdeva mai la messa, non domenica, non giorno di Santo. «La
devozione di cotesto giovane» parlò una vecchia zia che accompagnava
Dianora «mi edifica assai; e sì che egli è leggiadro e poderoso molto, e
potrebbe, come la più parte di questi giovani fanno, darsi tempone in
peccati e in vanità.» E così favellando sospirava, certo per una soave
commozione della sua bellezza. La lode d'Ippolito avrebbero ripresa i
parenti della Dianora, pure non giungeva immeritata. Già il costante
seguitarla e i modi cortesi aveva notato Dianora, e già con l'arguzia
consueta alle menti italiane, s'era accorta del motivo di tanta
devozione, e in suo cuore desiderava che non cessasse. Ardeva anch'ella
di conoscerne il nome, ma, non altramente che a lui, nel maggior uopo le
veniva meno il coraggio. «Vi guarda!» disse la zia poichè fu uscita di
chiesa; «come il povero giovine arrossa di non potersi sottrarre ai miei
occhi! Davvero, questa è singolare modestia.» — «Mia dolce zia,» riprese
Dianora con certo suo garbo di malizia e di piacere, «voi non aveste mai
caro che io guardassi giovani in faccia.» — «Giovani» soggiunse la zia
«di ventotto anni o di trenta, e se pur vi volete tutti; ma per questo
la bisogna è diversa; e la meglio ritrosa di noi altre, può sogguardare
per via tanto gentile e dabben giovane. E s'egli sia costumato, lo so
ben io, chè avendogli chiesto in cortesia di farmi un po' di luogo nella
navata, mi s'inchinò con tanto bel modo, che parve il piacere lo facessi
a lui; e se il buon giovane ha sortito dai cieli tanta avvenenza, che ci
ha a far egli? I Santi furono belli anch'essi nei loro giorni, o le
immagini mentono, la qual cosa non è possibile; io per me vado convinta
che San Domenico nella sua immagine di cera (Dio mel perdoni!) appena
guardi così umilmente e con tanta dolcezza la Madonna e il Bambino, come
egli guarda noi quando ci si fa dappresso.» — «Mia cara zia, già non ho
inteso di farvi rimprovero; ma, dolce zia, voi non lo conoscete, e
sapete che.....» — «Che sapete! io lo conosco quanto potrei conoscere il
figliuolo di mia madre; e se fosse mio proprio figliuolo, beata me!» —
«E chi dunque?» appena articolando le parole domandava Dianora, «e chi è
egli dunque?» — «Chi?» rispose la zia; «il meglio cristiano giovane che
faccia Firenze: che monta sapere chi egli sia? Certo egli è gentiluomo,
ed uno dei grandi, statene sicura; e vi desidero non peggiore marito,
giovanetta, come che per questo ci corra del tempo assai. Le donzelle di
oggidì agognano sempre sapere come tale e tale altro si chiami, e se
abbia parentela co' Priori, o piuttosto coll'Arcivescovo, e tutto questo
prima di consentirgli leggiadria, la qual cosa procedeva diversi a' miei
tempi. Ciò andrebbe a dovere se si trattasse di maritaggio, o vi fosse
pericolo di accasarsi con uomo di sangue men nobile, o scontraffatto o
paterino; ma per ammirare un gentil damigello che non lascia mai di
ascoltar messa le domeniche, e gli altri giorni dei Santi, io non so a
che giovi lo starsi così sul difficile. D'ora in avanti, spero, che non
avremo penuria di Santi, nè l'usare cortesia alle gentildonne deve
nuocere punto alla sua santità, dacchè Messer San Francesco con le
parole e con l'esempio lo affermava, e, se vi ricorre alla memoria, la
serafica Santa Teresa tra le altre cose lo ammirava per questo, e San
Paolo nelle sue epistole manda a fare dei bei rispetti alle gentildonne
Trifena e Trifosa. Nel Nuovo Testamento non occorrono femmine (se
femmine possono chiamarsi cotesto benedette donne, non eccettuata
Madonna Maddalena, che travagliavano sette demoni, i quali non sono
neanche la metà di quelli che hanno addosso certe femmine, ch'io non
voglio dire, nè l'altra che sentenziavano ad essere lapidata
quegl'ipocriti ribaldi) che il nostro benigno Salvatore non abbia
cortesemente trattate, e con amore paterno: la qual cosa, con moltissime
altre, come Messere Frate Antonio discorreva ieri l'altro sul pergamo,
lo prova non pure di stirpe divina, ma sì bene il più gentil sangue
della terra, e nobile naturale.»

Chi poi ponesse in testa alla buona zia tanti argomenti, e perfino la
religione potentissima a que' tempi, per confortare Dianora a tenersi
caro Ippolito, noi non sappiamo. Intanto al finire delle parole giunsero
a casa, e il povero giovane ritornò alla sua. Noi dovremmo dire poveri
ad ambedue gli amanti, imperciocchè fossero abbastanza innamorati, onde
anche a Dianora si facessero le guance pallide quando avesse saputo a
qual gente apparteneva Ippolito!

Per poco stette che una avventura nella successiva domenica li svelasse
al cospetto del mondo. La Dianora l'ultima volta che s'incontrò con
Ippolito non ardiva levare gli occhi, timorosa com'era d'incontrare gli
occhi di lui; ed egli ne rimase travagliato, chè pensò averla, non
sapendolo, offesa. Poche domeniche prima quegli occhi belli lo avevano
rimandato tanto giocondo a casa! Ora apparivano due seggi vuoti vicino
al luogo in che stava genuflesso; — accanto l'uno, — un po' più oltre il
secondo. La zia e la nepote, che vennero dopo di lui, si trovarono
lontane dal suo seggio, e apparvero dubbiose qual dei due dovessero
scegliere; se non che un moto leggiero del braccio della Dianora
manifestò ad Ippolito il suo interno pensiero di farglisi appresso. — E
gli era riserbata un'altra gioia. La vecchia madonna nel seguitare
l'ufficio divino, voltasi alla nepote, le domandava perchè non cantasse
secondo il solito. Dianora declinò il capo, e dopo un minuto o due fu
dato ad Ippolito ascoltare la più soave voce che fosse al mondo, —
sommessa invero — e più che ad altro somiglievole ad un leggiero
susurro, — non pertanto da lui profondamente ascoltata. Gli parve
abbrividire, ed ella pure abbrividì. Gli commosse lo spirito, siccome il
suono dell'organo gli commoveva le facoltà del corpo. — Nè questo segno
di compiacenza si rinnovò più mai. Non più le donne gli vennero vicine,
quantunque mettesse ogni cura in occupare maggior posto che poteva, e
poi si restringesse, facendo largo quando apparivano. Malgrado questo,
derivava altissima gioia dal segreto pensiero, nè mosse querela finchè
vide Dianora intenta a sogguardare la parte in che egli stava: quindi è
nostro dovere avvertire che sebbene fossero i meglio devoti della
Congregazione, non erano poi sempre i più attenti; imperciocchè
cominciassero dal fissare i luoghi discosti dall'oggetto desiato, e
quindi adoprando l'obliqua potenza dell'occhio a mano a mano si
accostavano, e alla sfuggita si ricambiavano uno sguardo. Ma Dianora da
qualche tempo cessava anche questo, e quantunque Ippolito più fermamente
la contemplasse, e vedesse come più pallide le diventassero le guancie,
cominciava a pensare che ciò non avvenisse per lui. Al fine una cotale
disperazione lo spinse ad appressarsi a lei, dacchè ella non volea
appressarsi a lui, e nella mentovata domenica mal sapendo che si facesse
o vedesse, e meno quel che sentisse o sperasse, si prostese a canto a
lei. Quivi presso sorgeva una colonna che a mala pena lo nascondeva con
lo sbattimento. — Vi posava per alcun tempo la fronte, e se ne sentiva
ristorato. Dianora non si accorse che le stesse vicino; ella non
cantava, nè la zia gliene muoveva domanda. Non batteva palpebra;
intentissima considerava il libro delle preghiere, e Ippolito tenne per
fermo che ciò a bella posta facesse, onde infievolito dall'angoscia
della mente rimase come soffocato dalle sensazioni. — Ei le posava a
canto: — le belle forme, il volto, le vesti, che sole ardiva toccare, la
somiglianza dell'attitudine di ambedue nell'implorare Colui che i teneri
cuori implorano, affinchè prenda compassione dei nostri affanni; insomma
tutto contribuiva a commuoverlo altamente. Allora tentò l'afflitto
giovane con estremo sforzo levare gl'interni pensieri alle cose celesti,
ma nel giungere che fece le mani, così dirotte gli sgorgarono le
lacrime, ch'ei se ne trattenne. In fine la zia, che aveva speculato
attorno per iscoprirlo, con maraviglia e diletto se lo vide vicino. Già
ella cominciava a penetrare il misterioso amore, e quantunque non
ignorasse chi egli si fosse, e la inimicizia mortale delle due famiglie,
pure tanta albergava in lei benignità di natura, tanta la vaghezza di
comporre le discordie, ch'ella si consigliò apportare conforto ai miseri
amanti. Da qual causa poi ciò derivasse, ignoriamo: forse dalla propria
benevolenza, forse anche dal desiderio che abbiamo che ogni cosa da noi
immaginata consegua il suo fine. Però la pietosa madonna senz'altro
badare, con voce alta abbastanza per essere intesa dalla nipote, le
susurrava: «Fate che il gentiluomo a voi vicino legga nel vostro libro,
avvegnachè paia ch'egli abbia dimenticato il suo.» La Dianora tenendo
sempre gli occhi bassi, non sospettando chi le stesse accanto, declinò
piacevolmente la testa, e trasse il libro da parte onde il gentiluomo
avesse agio di leggere. Ippolito tese la mano e lo sostenne insieme con
lei. Ma la sua mano era tremante, e l'anima della Dianora così profonda
meditava a colui che le stava al fianco, che non lo avvertiva. Di lì a
poco però, il libro vacillava per modo, che richiamato il pensiero della
donzella alla considerazione degli oggetti presenti, si volse per vedere
se il gentiluomo si sentisse male. Veduto che l'ebbe, torse il volto, e
sentendosi incapace a reggere più oltre, mormorava nell'orecchio alla
zia: «Io manco!» — Si levarono le donne, ed uscirono di chiesa;
senonchè, appena l'aria fresca punse la Dianora, svenne, e fu portata a
casa.

Nel momento stesso accadeva che Ippolito mal potendo celare la concetta
passione appoggiasse il capo al pilastro, ed altamente gemesse, come
colui che temeva averla concitata a sdegno. Avventuroso lui che i gemiti
non si ascoltassero infrequenti in luogo dove talvolta la coscienza
rimordeva il peccatore, e quei che l'udirono tennero per fermo Ippolito
non sentirsi puro quanto se lo erano immaginato; e nella mente loro
ripensando ai suoi costumi solitari e studiosi, conclusero un qualche
misterioso affanno travagliargli lo spirito. Tra questi fu primo il
compagno che maledì la Dianora quando prima si offerse agli occhi
d'Ippolito, imperciocchè quantunque ignorasse la sua passione per lei, e
l'amore ch'ella gli portava, non sapeva perdonargli l'universale
benevolenza, e i modi leggiadri.

Ippolito trasse con gran pena a casa la persona inferma. Nei giorni
successivi tentò per ben tre volte condursi fino al palazzo Bardi; —
pensoso poi di potersi ridurre alla propria dimora, rimaneva. Un fiero
morbo finalmente lo assalse, e giacque ammalato. O qual sarebbe stata la
sua gioia, quale il dolore, se avesse saputo come in condizioni non
punto diverse si trovava l'amata donzella! — Adesso la povera zia
dubbiava in singolare perplessità, e il peggio stava nell'averle
affermato la Dianora che sarebbe morta dove ella aprisse il suo amore a
_lui_, o a chiunque praticasse con _lui_; a tutti insomma. Onde non
sapeva a qual partito appigliarsi la povera zia: in mente talora
ragionava, che morte certa avrebbe colto i due cari giovani, se più a
lungo tenessero celata la interna passione, nè temeva la morte
conseguenza del manifestarsela; e così irresoluta esitava su due o tre
argomenti che decideva seguitare, quando, per buona ventura, la sorprese
la visita di tale persona, che sopra ogni altra al mondo desiderava
vedere, — la madre d'Ippolito.

Le due madonne volenterose si aprirono le scambievoli intenzioni, e con
argomenti acconci a confortare gl'innamorati giovani si separarono. In
qual maniera una madre giungesse a penetrare i segreti pensieri del
figlio, non importa dirlo; neppure importerà raccontare quale e quanta
fosse la gioia loro allorchè stettero sicuri dello scambievole amore.
Adesso la infermità d'Ippolito assumeva un aspetto diverso, e
consapevole di essere gradito alla Dianora, e del consenso materno,
desiderò favellare con lei; nè mai si ristette dal sollecitarne la
madre, finchè questa non gli ebbe promesso che tenterebbe di farlo
contento. Ed infatti, con la consueta debolezza di coloro che si
appigliano a cosa la quale sia per produrre un futuro danno, anzichè
continuare nel mal presente, si consigliava la madre a giovare alcun
poco il povero figliuolo. La famiglia si accorse dei suoi modi strani,
chè ora compariva oltre ogni dire avventato, ora troppo dimesso.
Talvolta sorgeva precipitoso, quasi dovesse estinguere un incendio per
usare un ufficio di cortesia; tal'altra poteva rovinare il mondo, ed ei
non si muoveva. Accadde sovente che balzasse in sella, come se il nemico
minacciasse le porte della città; e il giorno di poi, quando era salito
a cavallo, vi rimaneva impietrato, e le redini gli sfuggivano di mano. —
«Cosa è che tanto ti turba?» domandò il padre iroso; «hai forse involato
un gioiello?» — E ciò gli disse, perchè gli avevano riferito com'egli si
rovinasse al giuoco, nè mai serbasse danaro nella borsa: il quale ultimo
fatto era vero, imperciocchè per l'amore della Dianora spendesse assai
in cortesia, e molto avesse donato al povero che la benedisse su la
porta di chiesa.

Certo giorno, suo padre, vago dello scherno, ordinava che una giovine
donna gli sedesse al fianco, e durante il mangiare gli ponesse davanti
una mano invece del piatto. Ciò fatto, lo interrogava perchè si
astenesse dal cibo; e Ippolito senza badare a nulla fece prova di
recarsene un frusto alle labbra. — «Oh il bene compito giovane!» gridò
in quel punto il padre; — ed Ippolito, accorto dell'errore, diventava
vermiglio fino agli occhi; ma egli aveva la mente volta alla mano della
Dianora, e insiem con lei inginocchiato teneva il libro delle sante
orazioni. — Dopo breve tempo ricomposto, con tanta leggiadria domandava
scusa alla donzella, che il padre pensò: — E' pare un principe! — La
giovine donna, osservato il bell'atto, se lo immaginò suo innamorato; e
tolte le mense, la madre, presi i suoi veli, se ne andò a visitare certa
sua conoscente chiamata comare Veronica.

Comare Veronica per singolarissima ventura aveva parentela con le case
Bardi e Buondelmonti, e come donna che non s'impacciava di odii e di
rancori, amando del pari ambedue, e di ambedue andando egualmente
superba, invitava talvolta alcuno dei giovani Bardi, tal'altra alcuno
dei Buondelmonti: senonchè, quando erano per andarsene, raccomandava
loro di non riportar parola di quanto avessero inteso in casa sua,
perchè altrimenti lo avrebbe tolto a male; e i giovani non facevano
dispiacere alla buona donna. Questo mistero pertanto sarebbe stato per
Dianora e Ippolito di triste conseguenze cagione, dove men buono
avessero avuto il cuore.

Già da molti giorni la zia della Dianora, usando continua in casa della
comare Veronica, le aveva palesato come tra poco le verrebbe proposto
cosa da lei approvata per buona. Sopraggiunta la madre di Buondelmonte,
terminava di chiarirla intorno la bisogna, la quale consisteva soltanto
nell'accogliere in sua casa a un punto stesso due individui delle
contrarie famiglie. Vi fu in prima da dire assai: alla fine tanto la
pregarono, tanto seppero scongiurarla, e agli scongiuri aggiunsero di
così belle gioie, che ella ne rimase contenta.

La comare Veronica, come persona di alto affare, possedeva una villa
circa mezzo miglio distante dalla città. Quivi certa festa di settembre,
celebrata dai contadini delle circostanti campagne, se ne andò la bella
Dianora accompagnata da madonna Lucrezia, per invigilare, secondo quello
che ne disse la madre, che non vi fosse _persona impropria_; — e quivi
prima dell'alba la comare Veronica, a grave pericolo della propria fama,
e della gelosia di un ortolano, che sopra tutte le cose amabili al mondo
amava la fantesca di casa, introdusse Ippolito Buondelmonti,
_appariscente_, così ella affermava, _quanto la stella del giorno_.

La stella mattutina abbracciava ed era abbracciata dalla cortese comare,
e poi si faceva a scintillare al balcone per vedere giungere la Dianora.
Oh come palpitò quel cuore quando la scôrse di lontano porre il piè nel
viale! Veronica le corse incontro alla porta del giardino, e le accennò
il balcone. Ippolito si rallegrò nella idea che favellassero di lui, ma
osservando il lieve sorriso della Dianora, e il non mutato sembiante,
ebbe pensiero diverso. Infatti ella non lo aveva veduto, quantunque la
comare con tale un suo sogghigno di mistero le avesse detto che le
serbava un bel presente: ma la Dianora, fino a quel giorno accarezzata
dalla comare a modo di bambinella, immaginò che fosse qualche
masserizia, nè vi fece gran caso. Appena trapassava la desiata il
limitare, Ippolito stimò che derivasse da lei ogni orma che gli pervenne
agli orecchi. Quanta gran gioia era pensare che un sol tetto adesso
accoglieva ambedue! Ma convenire nella medesima casa, e non potere
aprirle la concetta passione, e ricercarla d'amore, e investigarla
nell'anima, — quanto grave angoscia e miseria! Due o tre volte balzava
udendo toccare l'usciale, ma sempre fu la comare che veniva a
confortarlo di starsi con buon animo, e a dirgli che madonna Lucrezia
gli avrebbe menato la Dianora dopo il pranzo, quando gli ospiti
sarebbero iti a dormire. Di tutte le cose sconvenienti e mal fatte,
parve ad Ippolito il desinare la peggiore, imperciocchè non sapeva
immaginare come enti ragionevoli, i quali potevano cibarsi di un tozzo
di pane e bere una coppa di vino per la via, e andare oltre a fare
all'amore, consentissero sedersi lungo tempo a mensa per gustare questa
o quell'altra delicatura. E le cerimonie! Dio sa per quanta ora quegli
zotici villanzoni avrebbero trattenuto la Dianora co' rispetti, con le
ballate, con le tresche loro! Certo tra essi non v'era amante nessuno,
altrimenti avendo facoltà di vagare a solo a sola per le verdi pianure,
non s'intendeva come se ne andassero così raccolti insieme. Non pertanto
Ippolito professava altissima riconoscenza alla comare Veronica, e tentò
pure di usar cortesia alla sua vivanda e al suo vino, così che dopo
pranzo la sua virtù se ne sentì ristorata.

Ora riputiamo cosa necessaria avvertire il lettore che non debba
giudicare dei tempi passati dai presenti. Fallo universale dei popoli fu
sempre l'odiarsi, non l'amarsi; e se la nimistà e l'amore fossero un po'
diversamente praticati da quello che facciamo noi, non occorrerebbero
forse amanti meno innocenti, nè più burlevoli nimicizie. Dopo il pasto
essendosi gli ospiti dispersi chi qua chi là, per dormire, la Dianora
accompagnata dalla zia Veronica s'incontrò compresa di stupore nella
medesima stanza con Ippolito, e in meno che volgono cinque minuti uno
volse il capo da una parte, e la donzella dall'altra, — e questi tolse
in mano un libro, e lo posò; quella si pose a guardare fuori della
finestra, — ed ambedue arrossirono, e poi divennero bianchi, — e il
gentiluomo si aggiustò il collare, e la gentil donzella le maniche; e le
vecchie ristrettesi a bisbigliare in un canto della stanza di lì a poco
li lasciarono soli. La vergine si mosse per seguirle, il giovine susurrò
alcune parole che ella non intese, e che pure valsero a trattenerla,
farle impallidire il volto, e correre alla finestra senza osare di
guardarlo. Ippolito tentava accostarsele, e non poteva, e maravigliava
del come fosse svanita la sua feroce impazienza; senonchè adesso ogni
dimora riputava, ed era, piena di delizie. O letizia di questi momenti!
O aurora soave di queste sensazioni! O dubbi non più dubbiosi! O
speranza diventata certezza! O memoria che all'aspetto del giovane
leggiadro, e della ritrosa verginella, mi ricordi la passata gioventù! O
ore, perchè essendo voi cosa divina, non ci rendete immortali! Perchè
non siamo rapiti in parte dove non possiamo venir meno, lasciando i
mortali a dire di noi: — si amarono, e furono assunti al paradiso!

_Una delle donne che legge._ Signore scrittore, con questi suoi voti
celestiali non rammenta in qual condizione abbia lasciato i giovani
amanti?

_Lo scrittore._ Madama sì; ma non importa, credo, ch'io le insegni come
due amanti desiderino starsene soli.

_La donna._ Ma, signor mio, qui si tratta di giovani italiani, i quali
non sono tanto vergognosi come ella dice. Io penso quei suoi Fiorentini
dopo essersi un cotal po' sogguardati, e poi abbracciati, e poi...

_Lo scrittore._... corsi dietro alla zia per non rimaner soli. Madama,
mi conceda dirle che ella prende errore. Gl'Italiani, uomini sono quanto
altri mai sensibili e verecondi; nè la modestia sta confinata in
Inghilterra, siccome pare ch'ella voglia credere.

_La donna._ Eh! giusto modestia: io voleva parlare di certa specie — non
so s'ella m'intenda — di una sorte di energia irresistibile, la quale
suole chiamarsi violenza nell'indole italiana.

_Lo scrittore._ Prego, signora, a volermi credere che adoperando la
parola modestia io non posi mente a nulla di personale. E V. S. so ch'è
donna dabbene, ed ama di cuore i miei amanti. Io non parlava pertanto di
modestia in nessun senso particolare, ma così in genere; e tutte le
nazioni, non eccettuata la dilettissima nostra, hanno pur troppo le
modestie ed immodestie loro. Intorno poi alla violenza di che ella
diceva, la quale in alcuni è energia, ed in alcuni altri miserabile
debolezza, secondo l'indole degli uomini e le circostanze dei casi, e
gl'Italiani, come quelli che vivono sotto un cielo ardente, ne
dimostrarono meglio degli altri popoli; — pure si deve osservare che
dove il carattere individuale sembra più rilassato, quivi anche sono
peggiori i costumi e le leggi. — Nondimeno affermo la violenza essere
atto della propria volontà, e speciale ai due estremi delle umane
condizioni: — ai potenti di cui le passioni furono soddisfatte, — e ai
poveri di cui le passioni furono mal dirette. — La vera energia si
manifesta non con la violenza, bensì con la forza e colla intensità. La
intensità di sua natura discerne, nè rimane vinta dalla moderazione, là
dove di moderazione fa mestieri. Inoltre, al tempo del quale parliamo si
osserva in alcuni una esquisita finezza nelle materie di amore, ed in
altri brutalità ed oltraggio. Le umane potenze ebbero in quel periodo
supremo esercizio nel bene e nel male; e se da un lato troviamo
terribile spettacolo di cupidigia, di tirannide e di vendetta,
dall'altro occorre una filosofia, una quasi divinità per abbellire
l'amore, ed emulare con le arguzie di Platone per farlo cosa celeste.

_La donna._ Io mi confesso pienamente convinta; però continuiamo.

_Lo scrittore._ Assai mi piace quel continuiamo, signora; immaginiamoci
essere i due amanti in compagnia; — certo assai ci assomigliamo a Don
Cleofas e al suo piacevole amico il Diavolo Zoppo. — Io, il diavolo
senza altro, ella il giovane scolare — scolare femmina, — Donna
Cleofasia che studia il cuore umano.

_La donna_. Sì, bene, come a lei piace; ma procediamo.

_Lo scrittore_. Se la sua inchiesta mi riesce gradita, lo vedrà
coll'effetto; però vado oltre. —

Noi lasciammo i nostri amanti, o signora, nella camera di madonna
Veronica, di cui l'uno guardava per la finestra, e l'altro si rimaneva a
lieve distanza; e così stettero per tutto quel tempo nel quale abbiamo
favellato. Oh! quanto è cosa impossibile immaginare la trepidanza dei
due amanti in cotesta ora, e non sentirsi trasportare col pensiero nella
condizione di quelli!

Ippolito si accosta alla Dianora. Il suo occhio se ne stava fisso sopra
i lontani monti di color celeste, ma l'anima sua era raccolta entro la
camera. Le copriva la testa una reticella di seta verde, tessuta in oro,
che mollemente conteneva i bei capelli, e sembrava che volesse accennare
il collo candidissimo; — sentì un alito che le scaldava il collo, e
sollevò le braccia per acconciarsi la rete. Per questo modo apparve
manifesto il contorno leggiadrissimo della sua cintura, ed ei gliela
cinse con ambe le mani, cosicchè venisse a porle sul cuore della donna
innamorata, e: «Mi vorrà» diceva «perdonare di questo.» Veramente aveva
ragione per favellare così, sentendoselo balzare sotto le dita come se
volesse venir meno. La Dianora diventata tutta vermiglia, rimosse con le
sue mani la destra d'Ippolito, ed ei la ritenne pur sempre con la
sinistra. «Messere Ippolito,» alla fine parlò, «io temo forte che voi
non mi crediate...» «No, no,» interruppe Ippolito, «non temer nulla di
quello che io possa credere o fare. A me spetta temere del tuo celeste
sembiante, che del continuo mi vegliava sul letto, e mi pareva vederlo
sdegnato con me solo tra tutti i viventi della terra.» — «E mi hanno
detto che voi foste ammalato,» rispose Dianora con voce soave; «e la zia
forse conosce ch'io... crede... E dimmi, sei tu stato male davvero?» —
Qui senza accorgersene posava una mano sopra le sue. «Guardami, e di per
te stessa lo giudica,» soggiunse; e con l'indice della destra le
comprimendo la fossetta del mento, verso la sua voltava la faccia di
lei. — A Dianora sembrò trovarlo meno mal condotto di quello che lo vide
l'ultima volta in chiesa, ma pur tanto da farle l'occhio lagrimoso; — e
subito dopo abbandonò la testa su la spalla del giovane, e desiate
scesero le sue labbra sopra le labbra di quello.

E' correva in quei tempi un mal costume generato dall'errore delle
leggi, per cui si praticavano assai gli sponsali, o piuttosto promesse
di fede fatte in segreto, e al cospetto del cielo. Questo era dunque un
mal costume, come la più parte dei segreti sono; ma il danno, secondo il
solito, toccava al povero, o quando erano di troppo disuguali le
condizioni delle parti. Là dove ambedue le famiglie avevano autorità,
più di rado accadeva lo scioglimento della fede promessa. La fede poi
d'Ippolito e della Dianora era fede davvero: si genuflessero davanti la
immagine della Vergine col Bambino, appesa nella camera di madonna
Veronica, e ad un messale che stava aperto sopra una sedia. Ippolito
allora, quasi per fare una sua vendetta dell'angoscia sofferta allorchè
Dianora erasi insieme con lui prostrata nel tempio, tolse il libro, e
glielo pose innanzi agli occhi, e la guardava supplichevole in faccia; e
Dianora lo prese tutta tremante, sebbene lieta di altissima gioia; e
Ippolito due e tre volte la baciò amoroso. — Noi ci accorgiamo adesso
adoperare troppo gran numero di _e_ in siffatte occasioni; e comecchè ce
ne siamo accorti, non ci dispiacciono gran cosa. Il qual uso dobbiamo in
parte alla memoria delle antiche ballate, e in parte a certa vaghezza
d'insistere sopra un piacere, che, se noi non andiamo errati, rimane
maravigliosamente sovvenuto da queste congiunzioni. — Certo non vuol
negarsi che sia un _crimenlese di sana critica_; ma noi ci scusiamo col
confessarci affatto ignoranti di quest'arte salutare, e però continuando
raccontiamo come le nostre buone madonne spensierate, dico della
Lucrezia e dell'altra (poichè non sempre la vecchia età è la meglio
guardinga, trattandosi in ispecie di comari e di zie), tornassero alla
fine nella stanza dove avevano lasciati i due amanti; — non prima però
che la Dianora avesse acconsentito di ricevere il novello suo sposo
nella sua verginale cameretta, mediante un antichissimo arnese chiamato
scala di corda. Secondo la bella costumanza consumarono il giorno col
prendere parte ai sollazzi della gente della villa: menarono danze,
cantarono canzoni, colsero e mangiarono dei grappoli, che vaghi di bei
colori pendevano dai pergolati scintillando sopra il lor capo. Da tempo
immemorabile cantano per la Toscana ballate e canzoni intorno ai fiori:
una di queste, diretta innocentemente a guisa di addio alla Dianora,
forte la commosse, facendola tutta impallidire nel volto. — _Voi siete
un vago fiore_, prese a cantare una leggiadra donzella,

    Voi siete un vago fior di primavera;
    Un fior, che in su la sera
    Modesto e ritrosetto si raccoglie;
    Oh! avervi potess'io alle mie voglie!

E Ippolito andando a casa non fece altro che cantare per via cotesta
canzone.

Ora Ippolito osservò certa scala di corda destinata agli uffici
domestici, e, a dirla giusta, posta in opera dal vecchio gentiluomo, nel
modo appunto che adesso si avvisava adoperarla il giovane. — Nei suoi
primi anni il padre Buondelmonti era stato famoso per avventure di
amore; poi si volse a far danari, e a sostenere ostinatamente le
pratiche antiche, onde la gente assai lo reputava per le sue virtù, e
per la condizione, e il parentado; — e se cento scale fossero insorte in
giudizio contro di lui sarebbero state credute testimoni falsi.

Ma la buona indole d'Ippolito lo consigliava a procedere circospetto.
Aspettò mezza notte; si calò giù dal balcone, e tolta la scala sotto il
mantello, si avviò tenendo un vicolo oscuro rasente casa Bardi. — Una
finestra della camera di Dianora dava sul vicolo, le altre sul giardino:
Ippolito tese l'orecchio, e sentendo un rumore di suoni e di canti, che
di mano in mano si faceva minore, stava per avvertire la Dianora del suo
arrivo col gittarle alcun sassolino nella stanza, quando intese
approssimarsi persona: — era un giovanastro che andava per quelle vie
rimote in traccia di mala occasione. Ippolito si strinse in un canto,
pauroso non s'inoltrasse nel vicolo; — per buona sorte il rumore passò,
ed egli di nuovo mosse il piede fuori del canto, e di nuovo vi si
restrinse. Due altri giovani cominciarono a contendere se dovessero o no
passare nel vicolo. Uno di loro, che pareva ebbro, voleva ad ogni costo
cantare _alla sua bella nemica_, non fosse altro per far dispetto al
vecchio, e trarlo fuori di casa con cotesto suo spadone lungo lungo. «E
con una reprimenda anche più lunga,» soggiunse l'altro. «Ora sì che mi
spaventi davvero,» rispose il primo; «la sua spada è spada, ma la
reprimenda è il demonio, e passa di là di Arno, e non si rimane mai
finchè non rompa il sonno a qualche creatura, — pure io vo' fare la
serenata.» — «No, no; di grazia, rammentati quello che disse il
gonfaloniere. Io per me non vorrei trovarmi a tristo incontro; — un
giorno o l'altro dobbiamo pure incappare nel malanno, che Dio ci tenga
lontano.» — «Sta cheto,» riprese l'ubbriaco, «io rammento quello che il
gonfaloniere disse; egli disse: — Io vo' fare la serenata. No, egli non
disse _vo'_ ma ve lo metto io: — me ne ricordo come se fosse ieri: —
egli disse: gentiluomini, tre cose buone si danno in questo mondo:
l'amore, la musica e la guerra, con altre mille parole che non valevano
un nonnulla; — e dette per provare con una fastidiosa quantità di
periodi che l'amore era buono, la guerra buona, buona la musica; ed è
per questo che voglio fare la serenata.» — «Fallace argomento; Vanni,»
l'altro riprese, «vien via, o noi avremo tra poco il nemico sopra;
perocchè io abbia inteso rimuovere dall'altra parte, e vado sicuro che
non sono dei nostri.» — «Meglio che mai, amore e guerra, mio bel
damigello.... e musica, io compisco la ballata prima che giungano.» — E
qui prese a cantare la più oscena canzone che mai si sia immaginata, e
il nostro amante stette più volte in forse di uscire fuori, e dare il
leuto in faccia a cotesto sfacciato; pur si trattenne. Dopo brevi
momenti sentì accostarsi persona, e poco dopo un cozzare di spade, e un
fuggir via con velocissimi passi. Ridivenuto il luogo silenzioso,
Ippolito dette il segno, e gli fu risposto: fissa la scala, e mentre sta
per salire si rimane atterrito da un piccolissimo sembiante, che pare
che gli sorrida traverso un raggio; — ma rammentando come poc'anzi si
era invano ingegnato a torre via la lampada che ardeva davanti una
Madonna quivi vicina, ebbe a maravigliarsi della strana condizione dei
suoi nervi. Si fece divotamente il segno della Santa Croce, offerse una
preghiera pel buono esito del suo vero amore, e cominciò a salire la
scala. Appunto quando la sua mano toccava la finestra, inteso un rumore
di passi; — guarda giù pel vicolo, e scorge due figure ristrette in un
canto: — egli s'immaginava che potessero essere l'ubbriaco e il suo
compagno di ritorno, ma il profondo silenzio loro lo dissuase. Alfine
uno di quelli a voce alta favellò: «Non m'ingannava quando vidi l'ombra
di un uomo con la mia lanterna, ed ora mi accorgo che non per nulla
siamo tornati in dietro; dove mai si sia ficcato costui?» — Ippolito
scese rapidissimo, procurando nascondersi il volto col cappuccio, e
disposto a fuggire per forza d'arme, se non che la fortuna gli
attraversava il disegno, e lo fece incespicare nelle corde, e cadere.
Gli stranieri venutigli addosso, lo arrestarono. L'amoroso pensiero, che
sopra ogni altra cosa del mondo tiene cara la fama della donna amata,
celere come il baleno suggeriva ad Ippolito un consiglio: «Sono tutte
salve,» fingendo paura, diceva, «non ne ho toccata una sola.» — «Sola;
di che?» domanda l'altro; «cosa è tutta salva?» — «Le gioie,» risponde
Ippolito; «per l'amore di Dio lasciatemi andare: questo è il mio primo,
come sarà l'ultimo errore: — lasciatemi: io poi ho in mente di
restituirle,» — «Restituirle!» esclamò il primo; «oh! questa è singolare
davvero: tu devi essere un ladro gentiluomo con siffatta cortese
volontà, e noi vogliamo vedere un po' chi tu sii, non fosse altro per
tua soddisfazione, Filippo, eh?» — Or questo Filippo era un baro
solenne, e: «Maledetto!» gridava, «ti ho già le mille volte ripreso per
questo nominarmi che fai: alla stagione che corre non istà bene,
quantunque scommetterei che mi abbia anche egli giuntato la sua parte.»

A vero dire Filippo temeva non poco che l'arrestato si convertisse in
qualche giovane da lui medesimo rovinato, e ridotto a commettere quel
delitto: ma il suo compagno più caparbio volle conoscerlo; e Ippolito,
costretto a seguitare la necessità del destino, venne tratto alla luce.
A tal vista esclamarono i nemici: «Un Buondelmonte! il magnifico Messere
Ippolito Buondelmonte! Messer Ippolito, io vi bacio le mani, e vi sono
ad un punto servitore e bargello; in fede mia, vuole esser questa la
lieta novella per domani.»

Venne il domani, e fu giorno di tristezza pei Buondelmonti, e di gioia
per tutti i Bardi, tranne per la povera Dianora. — Ella non sapeva qual
cosa avesse impedito Ippolito dal continuare la salita; un qualche caso
lo aveva certo trattenuto, ma di qual natura ignorava. Era egli
conosciuto? Ella fu conosciuta? Era stato conosciuto tutto? — E la
povera fanciulla si travagliava con infinite paure. Madonna Lucrezia,
giunta la mattina, le si fece incontro con tutta quanta la terribile
storia dell'accaduto. Ippolito Buondelmonte era stato preso mentre si
calava per una scala di corde giù da un balcone di casa, con una spada
ignuda nella destra, ed una scatola di gioie nella mano manca. La
Dianora di leggieri conobbe la verità del fatto, e vinta dalla
riconoscenza, dall'amore e dall'affanno, cadde svenuta. — E madonna
Lucrezia conobbe anch'essa come stava la cosa; pure tremava di
confessarlo alla sua mente, molto più poi a confessarlo con parole; e
dove la novità, lo scompiglio e lo svenimento della nepote non le
avessero dato materia di occuparsi, sarebbesi svenuta con tutto il cuore
dallo spavento. La comare Veronica alla trista novella non resse meglio
delle altre donne, e la madre d'Ippolito assalita da un languore, che sì
aggiunse alla naturale fievolezza della sua complessione, giacque
istupidita e incapace di badare a nulla.

Ora il primo passo di madonna Lucrezia, dopo di avere soccorso la
Dianora, e dato ad intendere ai servi che la storia del ladro l'aveva
spaventata, fu di recarsi dalla comare Veronica, e seco lei statuire i
provvedimenti da prendersi. Le due buone femmine piansero pel povero
giovane, ed ammirarono la costanza di lui nel tutelare la fama della
donzella; ma nonostante la buona natura convennero doversi per riguardo
alla Dianora tenere il segreto. Madonna Lucrezia se ne tornò a casa per
confortare la giovane, e sopprimere le importune ricerche, mentre la
comare Veronica si rimase chiusa nelle sue stanze, troppo ammalata per
ricevere visite, alternando preghiere al Santo Protettore, e buoni sorsi
di vino di Montepulciano.

La scostumata gioventù di quei tempi pur troppo rendeva probabile la
confessione d'Ippolito. Inoltre, lo avevano veduto pochi giorni innanzi
privato affatto di danari. Si susurrava ch'egli usasse spessissimo con
bari ed altra gente di mal affare; — e suo padre era avaro. Finalmente
non passò inosservato il sospirare che fece in chiesa; e il magistrato,
che parteggiava pei Bardi, concluse lui essere più reo di quello che per
avventura apparisse.

Ippolito, come uomo abbandonato, aspettava la sentenza; e immaginando
che lo avrebbero bandito, volgeva in mente certi suoi ingegni per
rivedere l'amata donzella, allorchè la condanna di morte gli cadde sopra
come una folgore. La cagione della rigida sentenza appariva manifesta ad
ogni uomo, imperciocchè in quei giorni la fazione dei Bardi prevalesse,
e la città mal condotta dalle civili discordie amava starsene in pace.
La compassione che la gente sentiva pel caso d'Ippolito, molto si
aumentava per l'affanno che il giovane non sapeva raffrenare; e: «Dio!
Dio!» esclamava, «dovrò morire in così fresca età? E non vedrò più mai,
— più mai contemplerò la luce, e Firenze, e i dolci compagni?» E si
avviliva a pietosissimi scongiuri onde esser salvo, — però che pensasse
alla sua bella Dianora. Ma i circostanti attribuivano quell'affanno alla
paura della morte, ed istigati dalle parole dei partigiani dei Bardi,
mutarono la compassione in disprezzo. Si prostrava ai piedi del potestà,
e strettamente le sue ginocchia abbracciava. Lo stesso suo padre, come
cosa abietta, lo respingeva. Vedendo allora stargli ogni vivente
contrario, sorse, e risoluto di conservare il segreto per l'onore
dell'amata donna, si dichiarò pronto a morire. — Il potestà lo
condannava a morte nel veniente giorno.

Venne il giorno, e venne l'ora. Il gonfalone di giustizia fu appeso alla
porta del palazzo della Signoria, e la tromba per la città annunziava la
morte d'un reo. La Dianora, che aveva tutte queste cose saputo, udendo
adesso il suono della tromba, voleva prorompere fuori, e dichiarare il
segreto; ma la represse madonna Lucrezia, parlandole della madre e del
padre, della casata, del mondo, della impossibilità di salvarlo. La
Dianora poco avrebbe badato alla casata e al mondo, pure il costume di
venerare i suoi genitori, e la paura di loro rampogne, la fecero
soffermare: — stava; — nulla imprendeva, — soltanto udiva, cosparsa di
mortale pallidezza. — Intanto la processione comincia ad avviarsi fuori
di Porta alle forche.

Uscito Ippolito dal carcere, più che di reo, mostrava sembianza di
martire. Procedeva mansueto, con un vermiglio soprannaturale su le
guancie, conseguenza del sacrificio al quale durante la notte si era con
altissimo proponimento consacrato. Soltanto prega, come ultima grazia,
di essere tratto per la via dei Bardi al luogo del supplizio,
imperciocchè avendo vissuto in grande inimicizia contro quella famiglia,
e sentendosi adesso spogliato di ogni odio terreno, desiderava benedire
in passando la casa dei suoi avversari. Gli era concessa l'onesta
domanda. L'antico confessore, con le lacrime agli occhi, affermava che
la memoria del caro giovane tornerebbe sempre in onore della sua
famiglia, siccome la sua anima sarebbe andata per certo alle dimore dei
Santi; — e la processione seguiva il suo cammino. La stupida curiosità
ingombrava la mente della plebe circostante, se non che alcuni pochi
sentivano compassione sincera, e molte femmine furono vedute tornare
indietro offese dallo spettacolo, forte piangendo, e senza pure aver
lena di rispondere alle domande di chi incontravano per via.

La processione è giunta sotto il palazzo dei Bardi. Il volto d'Ippolito
diventa prima colore di terra, e poi torna infuocato. Le sue labbra
tremano, i suoi occhi si riempiono di pianto; e pensando che la sua
donna si sarebbe fatta al balcone per raccogliere l'ultimo sguardo
dell'amante che moriva per lei, s'inchinò gentilmente, e costrinse le
labbra a un lampo di sorriso. — La tromba suona per la seconda volta.
Dianora balza dal letto, e domanda che cosa fosse cotesto fragore che si
avvicinava. — La zia con suoi argomenti s'ingegna di farla posare. —
Suona la terza — La zia non può oggimai più raffrenarla, nè vuole, e:
«Va,» le dice, «va, nel nome di Dio, mia figliuola, e il cielo sia
teco.»

La Dianora co' capelli sparsi, senza pianto, infiammata nel guardo,
proruppe nella stanza ove stava raccolto il parentado, e con forza
sovrumana svelse due uomini dal balcone, e protendendosi fuori con mani
tese esclamava: — «Fermate! fermate! egli è il mio Ippolito; egli è mio
marito!» E sì dicendo, fece un moto che parve volesse lanciarsi fuori
del balcone. — Ora avviene un grave trambusto tra il popolo. Ippolito si
ferma, e volge pure egli le mani alla finestra come se gli fosse apparso
l'Angiolo Custode. I parenti le si strinsero attorno per rimuoverla di
costà; ma la fanciulla, diventata furente, li respinse; e gettatasi giù
per le scale riuscì nella pubblica via urlando in molto compassionevole
maniera: «Popolo! Dio del cielo! Cittadini! Io sono dei Bardi, egli dei
Buondelmonti; ei mi ama, ed è questa tutta la sua colpa!» E sì dicendo,
cadde nelle braccia del giovane innamorato.

Il popolo, fatto consapevole dell'avventura, condusse Ippolito e Dianora
al palazzo del Potestà, gli espose la cosa come era successa, e poi
mandati pei capi delle due famiglie, gli accordò in buona pace ed
amistanza. E mezz'ora dopo, il fortunato amante si trovò sopra la stessa
via, per la quale si era accostato al patibolo, sposo felice della bella
creatura che gli camminava al fianco.

E fu una gioia per tutta la città. Le donne addolorate tornarono più
gioconde che mai, e ogni uomo si recava in traccia di mirto e di altra
lieta fronda per allegrare la nuova processione; e le donzelle si
alzarono il velo dalla faccia delicata, e invece del salmo funebre
presero a cantare una canzone di amore. La soverchia commozione valse a
sostenere i due amanti. Le guancie d'Ippolito non per anche avevano
riassunto la primitiva floridezza, ma il vivido incarnato di quelle
della Dianora assai compensava il pallore di lui. — Apparivano entrambi
come dovevano apparire: — egli a modo di persona salvata, ella in guisa
di angelico salvatore.

Tali furono le vicende dei nostri due amanti, più che ad altro,
somiglievoli a un sogno. Uno non osava fissare l'altro; e di tanto in
tanto sogguardavano i circostanti, quasi per ringraziarli delle
benedizioni che loro compartivano; — ma procedevano con le mani
congiunte, ed erano come un'anima sola in due corpi distinta.



LA INFANTICIDA.

DA SCHILLER.


Ascolta: le campane suonano cupamente a morte, e l'ago dell'orologio ha
compito il suo corso. Ebbene, sia dunque così! Su nel nome del Signore:
compagni del sepolcro, conducete la colpevole al luogo del supplizio. —
O mondo, prendi gli estremi baci di addio! Prenditi ancora queste mie
lagrime. I tuoi veleni oh come sembravano dolci! Fra noi siamo del pari,
o mondo avvelenatore del mio cuore.

Addio, gioie di questo Sole convertite in neri fanghi! Addio, tempo
pieno di voluttà che allegrasti di rose il sentiero, e così spesso
inebriasti di gaudio la vergine! Addio, sogni intessuti di oro, belle
fantasie figlie del Paradiso! Ohimè! essi spirarono su la prima alba del
mattino per mai più rifiorire alla luce.

Vagamente adornata di nastri rosati, mi ricopriva la veste della
innocenza, candida come il cigno. Nei biondi ricci negletti erano
frammischiate freschissime rose. Ohimè! il bianco vestimento adorna anco
adesso la vittima dello Inferno; ma ai nastri di rose è succeduto una
nera benda di morte.

Piangete per me, o verginelle che non cadeste nei lacci della seduzione;
per le quali fioriscono ancora i gigli della innocenza, — alle quali
Natura con i dolci palpiti del seno compartì ancora eroica fermezza.
Ohimè! questo cuore ha sentito umanamente! E il forte sentire sarà per
me la spada della Giustizia. Ah! circondata dal braccio del falso
amatore, si assopì la virtù di Luisa.

Ah! forse cotesto cuore di serpente, dimentico di me, si aggira
carezzevole intorno ad un'altra; mentre io m'incammino alla tomba,
esulta in ischerzi amorosi. Forse prende sollazzo dei ricci della sua
fanciulla, liba il bacio che essa gli porge, mentre da questo palco di
morte il mio sangue zampilla dal collo reciso.

Giuseppe! Giuseppe! ti segua anco da lungi il coro di morte della tua
Luisa, e il cupo strepito delle campane suoni al tuo orecchio,
rimproverandoti con voce spaventevole. Allorchè dai labbri gentili di
una fanciulla sgorga per te il dolce bisbiglio dello amore, quel suono
impronti sollecito nel roseo aspetto della voluttà una ferita infernale.

Ah! traditore! non ti arrestano le angosce di Luisa? Non curi la
vergogna della tua donna? Uomo crudele! non basta a trattenerti lo
innocente di cui mi facevi madre? non ciò che può stringere un leone,
una tigre?.... Ma le vele del suo naviglio gonfiano orgogliose, e
navigano lontane da questa terra. I miei occhi tremano, e si oscurano
nel seguirlo: per le fanciulle, su le sponde della Senna, egli esala il
falso sospiro.

— E il fanciullino.... — nel grembo della madre giaceva in dolce riposo;
— nella vaghezza di fresche rose mattutine mi sorrideva amico. — La sua
cara e amata immagine mi parlava da tutte le sue sembianze, e mi
rifiniva di amore. — L'oppresso seno materno oscilla fra l'amore e la
idea della disperazione.

Donna, ov'è mio padre? balbettava la muta eppure tonante voce della sua
innocenza. — Donna, ov'è il tuo sposo? echeggiava ogni angolo del mio
cuore. Ohimè! invano tu lo cerchi, o orfano infelice! Egli forse ne
stringe altri al suo cuore. Tu maledirai l'ora della nostra felicità,
quando un giorno ti vedrai disonorato dal nome di bastardo.

— Tua madre, — oh inferno che mi bruci il seno! — tua madre vive
solitaria in mezzo al mondo, — eternamente assetata alla sorgente delle
gioie che il tuo sguardo orribilmente amareggia. Ah! da te emergono
tutti i sentimenti dolorosi della passata felicità, e gli strali
amarissimi della morte escono affollati dal sorriso del tuo sguardo
infantile.

— È Inferno, è Inferno, ove vivo senza di te; Inferno ove il mio sguardo
scorge; i tuoi baci, o figlio, sono sferze delle Eumenidi, ma quei dati
dalle labbra di _lui_ mi assopirono con magica soavità. I suoi
giuramenti mi risuonano di nuovo come tonanti fuori del sepolcro.
Eternamente, eternamente il suo spergiuro continua a soffogarmi, —
eternamente. — Qui l'Idra mi afferrò, e il delitto fu consumato.

— Giuseppe! Giuseppe! anche da lontano ti perseguiti l'ombra
spaventevole: ti raggiunga con fredde braccia, ti desti con urli
terribili dai sogni voluttuosi. Dal vago scintillare delle stelle esca e
ti percuota l'orrido sguardo di morte del figlio. Ti si affacci in
sembianze sanguinose, e ti respinga dal Paradiso.

— Vedete, — là giaceva disanimato ai miei piedi, freddo, intirizzito.
Con sensi confusi io vedeva scorrere il suo sangue, e con esso scorreva
la mia vita. Batte terribilmente il Messo della Giustizia, più
terribilmente il mio cuore. Con gioia mi affrettai di spegnere le fiamme
del dolore nella gelida morte.

Giuseppe! Iddio nel Cielo può perdonare: la peccatrice ti perdona. Il
mio rancore, lo voglio consacrare unicamente alla terra.

Suscitatevi, fiamme, a traverso del rogo. Oh me felice! me felice! Le
sue lettere abbruciano, — un fuoco divoratore distrugge i suoi
giuramenti. I suoi baci!.... oh come ardono!

Cosa mai erami sì caro su la terra?....

— Non vi fidate delle rose della vostra giovinezza, o sorelle; non vi
affidate nei giuramenti degli uomini. La bellezza fu la insidia della
mia virtù.

Da questo palco di Giustizia io la maledico! Lagrime?.... come
lagrime?.... negli occhi del carnefice? Presto ponetemi la benda.
Carnefice, non hai cuore di troncare un giglio? Pallido carnefice, non
tremare.



PARISINA,[1]

POEMA ROMANTICO DI LORD BYRON.


I.

È l'ora nella quale si ascolta dai ramuscelli la nota melodiosa
dell'usignolo; — è l'ora nella quale i voli degli amanti appaiono più
soavi in ogni mormorata parola, — e i venticelli gentili, e le acque
vicine, rendono armonia all'orecchio solitario: — La rugiada lieve lieve
bagna ogni fiore, le stelle si sono incontrate nel firmamento, su l'onda
si addensa un azzurro più profondo, su le foglie un colore più fosco, —
e per l'orizzonte quella luce dubbia, così soavemente opaca, così
oscuramente pura, la quale tiene dietro al declinare del giorno quando
il crepuscolo illanguidisce all'apparire della luce.


II.[2]

Ma non per ascoltare lo strepito della cascata abbandona Parisina la sua
stanza; — non per contemplare la luce celeste passeggia la donna per le
ombre della notte: — s'ella si aggira nei giardini degli Este non ve la
chiama vaghezza dei fiori aperti: — ascolta... — ma non per l'usignolo,
quantunque il suo orecchio attenda una così dolce favella. Se muove un
passo traverso il folto cespuglio, e le sue guance si fanno pallide, — e
il suo cuore palpita celerissimo; — una voce mormora tra le fronde
frementi: le ritorna il colore sul volto, — le si solleva il seno: anche
un istante..... e saranno insieme. — È trapassato, — e l'amatore è
prosteso davanti alla donna innamorata.


III.

Ora cosa è mai per loro il mondo con tutte le sue vicende di stagioni e
di tempo? — Ogni creatura, il cielo, la terra, sono nulla alla mente e
agli occhi loro: — come se fossero morti, come se tutto fosse scomparso
non curano cosa che abbiano sopra, sotto, o dintorno. Uno respira
l'alito dell'altro: — pieni di gioia tanto profonda sono que' gemiti,
che dove non diminuissero, il felice delirio distruggerebbe i cuori che
sentono il suo fiero dominio. Immaginerebbero essi mai colpa o pericolo
in questo tumultuoso e tenero sogno? Colui che sentì la potenza della
passione ristette, e lo prese paura in questa ora? o pensò come celeri
scorrono via questi momenti? — Pure già sono passati! — Noi dobbiamo
svegliarci avanti di conoscere che tale visione non tornerà mai più.


IV.

Con lentissimo sguardo abbandonano il luogo della colpevole gioia
passata, e quantunque sperino e facciano voli, essi si affliggono come
se questo fosse l'estremo commiato. Lo spesso sospirare, il lungo
abbracciamento, i labbri che vorrebbero unirsi per sempre... Intanto il
cielo splende sul volto a Parisina, ed ella dispera del perdono del
cielo, come se le stelle lontane vegliassero sul suo delitto. — Pure con
frequenti sospiri ella si stringe alla fidata posta; ma adesso è forza
andare: è mestieri separarsi nella spaventosa gravezza del cuore, con
tutto il profondo, gelato brivido che tiene dietro alla azione del male.


V.

Ugo si giace nel letto solitario, forte desiderandovi la donna altrui:
ella è costretta a posare il capo consapevole presso il cuore fidente
del marito; — ma febbrile apparisce nei sogni, e la sua guancia
arrossisce per travagliose visioni, — e nel turbamento che l'agita
mormora un nome — che non oserebbe susurrare nel giorno, — e stringe il
suo signore a quel petto che anela per altrui. — Svegliato il signore
dall'abbracciamento, avventuroso in suo pensiere, s'inganna sul sospiro
della dormente, e su le focose carezze di lei che era solito di
benedire. — Piange per tenerezza sopra la donna che lo ama anche nei
sogni.


VI.

Egli abbraccia la dormente al suo seno, e intende l'orecchio ad ogni
interrotta parola: — egli ode... — Perchè il principe Azo si scuote come
se avesse ascoltata la voce dell'Arcangiolo? — Appena più terribile gli
tuonerà su la tomba la sentenza, quando suscitato, per non dormire mai
più, starà dinanzi al trono eterno. La pace del cuore per quel suono è
condannata a perire; quel bisbiglio sonnolento di un nome svelò il suo
delitto, e la vergogna di Azo. — E di cui è quel nome? Egli suona su
l'origliere, spaventoso come l'onda mugghiante che spinge la tavola
contro la riva e rompe su lo scoglio appuntato il misero che sommerge
per per non rilevarsi più. — Di cui è quel nome? — Egli è di Ugo, del
suo.... — In verità non si aspettava a questo! — Egli è d'Ugo, — il
figlio di una donna ch'egli amò, — il suo proprio pericoloso figliuolo,
— il frutto della sfrenata giovanezza quando tradì la fede di Bianca, la
vergine che pose stoltamente fiducia in colui che non la fece sua sposa.


VII.

Trasse dalla guaina il pugnale, poi lo ripose prima che fosse nuda la
punta; perocchè, quantunque immeritevole di vita, egli non può uccidere
creatura sì bella, almeno quando sorride, e quando dorme. — Non la
sveglia, ma l'affisa con tale uno sguardo che, dov'ella si fosse
svegliata dalla sua estasi, l'avrebbe costretta a nuovamente dormire. —
Ora la lampada ardente riflette la luce nelle sue lagrime: — ella non
parla più, — e dorme tranquilla, mentre nel di lui pensiero sono
noverati i suoi giorni.


VIII.

E col mattino egli cerca, e trova nei molti racconti dei circostanti, la
prova di quello che temeva conoscere: il delitto presente, l'angoscia
futura. Le fantesche, consapevoli, pensano a salvare se stesse, e si
affannano a rovesciare su lei l'onta, la colpa e la condanna; — quindi,
posto da parte ogni velo, raccontano ogni circostanza valevole a dare
piena credenza alla storia che fecero, e il cuore e l'orecchio dello
sfortunato Azo ormai non hanno cosa da più sentire, od intendere.


IX.

Egli poi non era uomo d'indugi. — Nella sala del consiglio il capo
dell'antico dominio d'Este si pone sul trono del suo giudizio; — gli
fanno corona i nobili, e le guardie: — dinanzi gli sta la coppia
scellerata, — la donna così altamente bella! — col pendaglio, senza
spada, con le mani incatenate.... (O Dio! in questo modo un figlio dee
comparire al cospetto del padre!) — ma pur troppo così Ugo ò costretto
ad incontrare la faccia del padre, ed ascoltare la sentenza della sua
ira, e la novella della sua sventura: nè per ciò sembra vinto,
quantunque la sua voce sia muta.


X.

Ma pallida, tranquilla, silenziosa, Parisina aspetta la sua sentenza. —
Come diverso nell'ultimo convegno in quella sala lucente spaziava il suo
occhio, mentre i nobili uomini andavano alteri di accompagnarla, mentre
la bellezza attendeva a imitare la gentile sua voce, il suo amabile
portamento, e in quelle forme, in quello incesso raffigurava le grazie
della donna dei suoi pensieri. — Allora se il suo occhio avesse pianto
nel dolore, mille guerrieri sarieno accorsi, mille spade nude avrieno
brillato, per farsi propria la contesa di lei. — Adesso quale ella è? —
Quali essi sono? — Potrebbe ella comandare; e cotesti obbedire? —
Taciturni, impassibili, con gli sguardi dimessi, con fronte accigliata,
le braccia conserte, gelidi nel sembiante, con labbra che perdonano
appena la parola del vituperio, e cavalieri e donne, tutta la corte,
lesta dintorno. — E l'uomo scelto dal cuore, di cui la lancia avrebbe
ferito all'accennare del suo sguardo, — e l'uomo, che dove per un
momento avesse avuto libere le braccia, o la salverebbe, o morrebbe, —
il drudo della sposa di suo padre, — egli pure è incatenato al suo
fianco, egli non può vedere quegli che piangevano, più che per la
propria, per la disperazione di lui. — Queste palpebre, su le quali
errando una vena violetta vi lasciava una traccia leggiera, lucide per
politissima bianchezza che invitò sempre a soavissimi baci, ora ardenti
e livide di rossore par che premano, non adombrino, le sottoposte
pupille le quali muovono lentamente, e lagrima su lagrima vi si accoglie
dentro.


XI.

Ed egli pure avrebbe pianto per lei, dove non fossero stati gli occhi
degli spettatori, che guardavano sopra di lui il suo dolore — ond'ei se
pur lo sentiva, si frenava. Torva e superba solleva la fronte,
quantunque la sua anima fosse compunta di dolore: — non vuole avvilirsi
al cospetto dei circostanti, e non la guarda. Rimembranze dell'ore che
furono, — il suo misfatto, — il suo amore, — il suo stato presente, — la
paterna ira, — l'abbominio di ogni onesto, — il suo terreno, e celeste
destino: — ed ella! — oh! ella.... E non osa mandare uno sguardo su
quella fronte di morte; — altrimenti il suo cuore pieno avrebbe
manifestato tutto il rimorso della rovina fatta.


XII.

Ed Azo parlò: — «Io mi gloriai di una moglie, e di un figlio; — il sogno
si dileguava stamane! — Prima che declini il giorno, io non avrò figlio,
nè moglie: — la mia vita è condannata a languire sola: — bene, — sia. —
Nessuno dei viventi vorrebbe fare diversamente da quello che io mi
faccio. — Ogni vincolo è rotto.... ma non per me! — si tronchi ogni
vincolo. Ugo, un sacerdote ti aspetta, — poi la ricompensa del tuo
delitto. Prima che le stelle stasera s'incontrino, fa di avere
supplicato il cielo: — tenta di trovare perdono lassù: la sua
misericordia può scioglierti; — ma qui su la terra non v'è luogo ove tu
ed io possiamo respirare un'ora sola. — Addio! Io non vo' vederti
morire; — ma tu lo vedrai, vilissima creatura. — Or via, io non posso
parlare più oltre: — va, donna dal cuore impudico; non io, tu spargi il
suo sangue: — va! — e se puoi sopravvivere a quella vista, godi della
vita ch'io ti dono.»


XIII.

E qui l'austero si celò la faccia, imperciocchè nella fronte gli si
gonfiasse la vena, come se il tepido sangue, condensato nel cervello,
tornasse a sgorgare di nuovo. — La tiene china per alcun tempo, e poi
con mano tremante si scopre gli occhi. — Intanto Ugo sollevando le mani
incatenate impetrava brevissimo indugio per essere ascoltato da suo
padre. Il silenzioso genitore non vieta quanto le sue parole domandano.
«In me non alberga paura di morte, però che tu mi abbia veduto correre
tutto sanguinoso per la battaglia, e perchè i tuoi vassalli non hanno
strappato a forza un ferro inutile a questo mio braccio, il quale versò
più sangue per te, che non potrà la scure versare del mio. Tu il desti,
— tu puoi ripigliare il mio fiato; dono di cui non ti ringrazio. Non
sono peranche obbliate le ingiurie della madre mia: il suo amore
vilipeso, il nome contaminato, il retaggio dell'onta pei suoi
discendenti; — ma ella giace nel sepolcro dove il suo figlio, il tuo
rivale, dee tosto raggiungerla:.... il suo cuore rotto, la mia testa
mozza, faranno testimonianza della morte, come fedele, come tenera fosse
il tuo amore giovanile, e la tua cura paterna. — Bene è vero ch'io
t'abbia fatto ingiuria, — ma oltraggio per oltraggio. Tu conoscesti, e
da gran tempo, che questa reputata tua sposa (nuova vittima del tuo
orgoglio) per me si destinava: tu la vedesti, la sua vaghezza
desiderasti, e il tuo proprio delitto, la mia vituperosa nascita mi
rinfacciasti, — e mi dicevi di basso stato, ignobile marito alle sue
braccia, poichè in vero io non abbia diritto alla legittima condizione
del tuo nome, e non possa sedermi sul trono della casa d'Este. Pure se
pochi anni mi fossero stati concessi, il mio nome più del tuo
splenderebbe, e di onore tutto proprio. — Io aveva una spada.... io ho
sempre un petto che potrebbero avere vinto qualunque dei più superbi
cimieri abbia mai ondeggiato tra la schiera dei tuoi coronati maggiori.
Nè sempre cinsero sproni più splendidi i meglio nati; ma i miei spinsero
il fianco del destriero contro prodi campioni di principesco lignaggio
quando davano la carica ai lieti gridi d'Este e della Vittoria! — Io non
voglio difendere la causa del delitto, e meno poi pregarti di riscattare
dal tempo alcune poche ore, o giorni, che devono finalmente trascorrere
su la ignorata mia polvere. — I miei istanti trascorsi di delirio non
possono, nè devono durare. Quantunque la notizia e rinomanza mie sieno
vili, e la nobiltà della tua stirpe sdegni alcun fregio concedere a tale
oggetto quale io mi sono, pure stanno impresse sul mio volto alcune
traccie del volto paterno, e nel mio spirito.... egli è tutto di te. —
Da te questa fierezza di cuore, — da te... — Perchè ti agiti adesso? —
Da te nella loro potenza derivano le mie braccia di forza, — la mia
anima di fiamma. Tu mi desti non solo la vita, ma tutto quello ancora
che mi fece simile a te. Or vedi a che ci ha condotto il tuo colpevole
amore! — Egli ti ha compensato con un figlio troppo simile a te! — Io
però non sono bastardo nell'anima: e perchè essa è troppo simile alla
tua, aborre ogni freno. Io non pregiai meglio di te lo spirito (lieve
dono che mi facesti, e che ora vuoi ripigliarti sì tosto), quando a
fianco a fianco concorrevamo a gara, guidando i nostri corsieri sopra i
cadaveri.... Il passato è nulla, e il futuro sarà forse come il passato;
— ma io vorrei essere morto in quel tempo, imperciocchè, sebbene tu abbi
male operato contro la madre mia, e fatta tua la sposa a me destinata,
sento che mi sei padre pur sempre; e il tuo decreto suona aspro, ma non
ingiusto quantunque venuto da te. Generato nel peccato, per morire
nell'onta, la mia vita termina siccome cominciava: — tale errò il padre,
tale errò il figlio, e tu dovevi punire ambedue in uno. — Tristissimo
appare alla vista umana il mio misfatto, ma Dio deve giudicare tra noi.»


XIV.

Cessò, — e si stette con le braccia incrociate su le quali suonarono le
catene; — nè vi fu orecchio dei baroni quivi adunati, che non rimanesse
come trafitto al rumore che levarono le catene cozzandosi. Finalmente la
fatale bellezza di Parisina attrasse di nuovo ogni sguardo. — Oh come
può ella sentirlo così condannato a morire! — La creatura vivente del
danno di Ugo non una volta ardì volgere gli occhi dall'altro lato, ma li
tenne fissi, lagrimosi, ed aperti. Non una volta quelle dolci palpebre
si chiusero, od ombrarono le pupille su le quali sorgevano; ma intorno
l'orbita loro di profondissimo azzurro crebbe dilatato il bianco
circostante, e quivi rimasero con invetriato sguardo come gelate nel
sangue rappreso: — se non che, di quando in quando una grossa lagrima
raccolta tacitamente scorreva dal lungo e bruno ornamento del bel
ciglio, ed era questa cosa da vedersi, non già da udirsi a raccontare! E
quei che le vedevano, si maravigliavano come tali goccie potessero
uscire da occhio umano. — Ella si avvisa parlare, — la nota imperfetta
stava soppressa dentro la gola gonfiata; eppure parea che in quel cupo
mormorio gemesse tutto il suo cuore traboccante. — Cessò, — di nuovo
fece prova a parlare: allora la sua voce proruppe in un lunghissimo
strillo, e cadde a terra piuttosto come pietra o statua rovesciata dalla
base, similissima a cosa che non ebbe mai vita, — a un monumento della
moglie di Azo, — che come quella vivente e colpevole creatura, di cui
ogni passione era spina al delitto, e che pure non valse a sopportare la
vergogna del delitto e la disperazione. Non pertanto ella vive; —
subitamente si riebbe dallo svenimento di morte, ma appena alla ragione:
— ogni sentimento era stato sforzato dall'intenso affanno, ed ogni
fragile fibra del suo cervello, a guisa di corda di arco allorchè
allentata dalla pioggia scaglia da parte l'errante quadrello, mandava
fuori il pensiero solitario e salvatico. Il passato è un bianco, il
futuro un nero con baleni di orribile traccia, simili ai lampi sul
deserto sentiero quando le procelle di mezza notte imperversano
nell'ira. — Ella fremeva... ella sentiva che una qualche gelida,
profonda sventura le posava su l'anima; — rammenta che v'era una
vergogna, — un peccato, — che qualcheduno doveva morire: — ma chi? L'è
sfuggito; — ed ella respira? — Può questa essere sempre la terra sotto,
il firmamento sopra, e gli uomini attorno? sono demoni costoro che
guardano accigliati tale, agli occhi di cui avea fino ad allora ogni
occhio sorriso di amore? Alla sua mente vaga e discorde tutto si avvolge
indefinito e confuso: è un turbine di speranze diverse e di timori, ed
ora è tratta in altissimo riso, ora in pianto, — ma sempre stoltamente
in ogni estremo, — e si agita in cotesto sogno convulso, perchè così
appunto l'assale. Oh! invano tenterà di svegliarsi.


XV.

Le campane del Convento, ondulate nel quadro e grigio campanile,
rimbombano; ma lente lente, e con suono interrotto, di profonda mestizia
scendono al cuore! — Odi! — ci canta l'inno, — la prece dei trapassati,
o dei viventi che lo saranno tra poco! — Per l'anima di un uomo che sta
per morire sorge l'inno dei defunti, e suonano le cave campane: — gli
sovrasta l'ora mortale. — Genuflesso ai piedi di un frate, — tristo a
udirsi, pietoso a vedersi, — inginocchiato su la nuda terra col ceppo
davanti, le guardie dintorno, e il carnefice sbracciato tenta se sia in
filo la scure onde più spedito riesca il colpo; — quindi si pone ad
affilarla di nuovo, mentre i circostanti attendono silenziosi di vedere
morire un figlio per la condanna di un padre.


XVI.

È l'ora amabilissima in che sta per tramontare il sole di estate, il
quale sorse su quel giorno di dolore, e lo schiarì co' suoi più lucidi
raggi. Adesso la sua luce vespertina è pienamente diffusa sul capo
destinato di Ugo, mentre svela l'ultima confessione al Frate che deplora
la sua condanna in penitenziale santità, ed intende ad ascoltare le
benedette parole che con l'assoluzione possono torre via ogni nostra
macchia mortale. Quel sole sublime gli riluce sul capo mentr'egli sta
curvo a udire, e intanto gli cadono scomposte sul collo ignudo le anella
dei suoi capelli castagni; ma sempre più lucido era il suo raggio sopra
la scure che presso lui scintillava di chiara e terribile luce. — Oh!
come l'ora della partenza si appressava amara! Anche il feroce stava
freddo di paura: — era nefando il delitto, giusta la legge; — pure,
quando si guardavano, fremevano.


XVII.

Le ultime preghiere del figlio fallace, dell'amante ardimentoso,
terminarono! I suoi peccati furono tutti confessati; la sua ora pervenne
allo estremo minuto. — E primamente gli tolgono il mantello, poi gli
recidono i lucidi e bruni capelli: — già sono recisi. La veste che lo
adornava, il balteo che gli donò Parisina, non devono accompagnarlo
nella fossa. — Si ponga tutto in disparte, gli copra gli occhi una
benda. — No, quest'ultimo oltraggio non si accosterà mai a quegli occhi
superbi. I sentimenti, in apparenza sommessi, tornarono quasi a
prorompere nell'ira rabbiosa, quando il carnefice si apprestò a
bendargli gli occhi, come se non osassero contemplare la morte. — «No, —
tuo è il mio alito, — il mio condannato sangue tuo, — queste mani sono
incatenate; ma lasciami morire almeno con liberi sguardi: — ferisci...»
E mentre diceva la parola, declinò la testa sul ceppo. — Ugo favellava
questo ultimo accento — ferisci, — il colpo scintillante discese, —
rotolò la testa, — e sgorgante cadde nella polvere tristo troncone, di
cui ogni vena erasi allentata in pioggia sanguinosa. — I suoi occhi, i
suoi labbri tremarono convulsi; — poi si quietarono per sempre. — Egli
morì come l'uomo pellegrino dovrebbe morire, senza orgoglio; si inchinò
umilmente e pregò, — e non respinse il soccorso sacerdotale, nè disperò
di tutta speranza nel cielo, mentre inginocchiato davanti il Priore il
suo spirito era sciolto da ogni affetto terreno. — Il suo rabbioso
padre, la donna innamorata, che furono essi per lui mai in ora siffatta?
— Non più rimprovero, non più disperazione: nessun pensiero fuorchè del
cielo, nessuna parola fuorchè di preghiera; — e le poche ch'ei disse,
quando incontrò il colpo del carnefice, furono di _morire con occhi
aperti_, e il solo addio ai circostanti.


XVIII.

Immoto, come i labbri che chiuse la morte, il petto di ogni spettatore
riteneva l'alito; ma pure un freddo ed elettrico raccapriccio trascorse
di uomo in uomo mentre il colpo mortale cadde su quello di cui così
terminavano la vita e l'amore, e sorse appena inteso un sospiro che
tornò tosto a gravitare sul cuore. — Quivi, dacchè il colpo percosse sul
mezzo del ceppo, non s'intese rumore di sorte, se togli uno solo.....
Qual cosa rompe l'aere silenzioso così forsennatamente squillante, così
terribilmente selvaggio? Quale di madre sul figlio colto da morte
improvvisa, vanno quegli stridi al firmamento che si partono da un'anima
travagliata in interminabile angoscia. L'orrida voce spinta fuori dalle
gelosie del palagio di Azo ascende al cielo, ed ogni occhio si rivolge
costà; — ma il suono e la vista sono scomparse! Egli fu un grido di
donna, nè mai la disperazione proruppe in urlo più forsennato; e coloro
che lo intesero, pregarono per pietà che fosse l'ultimo.


XIX.

Ugo è caduto; — e da cotesta ora in poi Parisina non fu più veduta nel
palazzo, nella sala, o nel viale. Il suo nome (quasi non fosse mai
stata) fu bandito da ogni labbro e da ogni orecchio, come parola
d'impudicizia o di paura; — e dalla bocca del principe Azo nessuno udì
più mai fare menzione di moglie o di figlio. — Essi non ebbero tomba,
non memoria: — giacquero polvere sconsagrata, — almeno quella del
cavaliere che morì in quel giorno; — però che il fato di Parisina
rimanesse nascosto, come le ceneri sotto la lapida dei trapassati. —
S'ella riparasse entro un convento, e acquistasse l'ardua via del
Paradiso con tristi ed angosciosi anni di penitenza, di digiuni,
d'insonni lagrime; o s'ella cadesse per veleno o per ferro, a cagione
dell'oscuro amore che osò di sentire; o se morisse in quel punto
percossa, e salva da più lungo tormento (dividendo col cuore il colpo
del carnefice gli distruggesse quasi in pegno di pietà la sua forma
disordinata): nessuno il seppe, nessuno può saperlo; — ma qualunque
fosse il suo fine, ella cominciò la vita e la finì nel dolore.[3]


XX.

Ed Azo condusse un'altra moglie, e bei figli crebbero al suo fianco; ma
nessuno amabile e prode siccome colui che aveva spinto nel sepolcro: — o
pur lo furono, e crebbero sotto lo impassibile suo occhio non curati,
ovvero curati con soppresso sospiro; — nè mai lagrima gli bagnò le
guancie, nè mai sorriso gli spianò la fronte: ma su cotesta ampia fronte
rimasero incise le linee intersecate della cura, que' solchi che il
ferro infuocato del dolore innanzi tempo v'imprime, cicatrici di una
mente lacerata che si lascia in dietro la guerra dell'anima. Ogni gioia,
ogni dolore era passato: nè rimaneva più nulla, tranne notti vegliate, e
giorni gravi; un'anima morta alla vergogna e alla lode, un cuore che
fuggiva se stesso, e benchè suo malgrado, gemeva; — nè poteva obliare
ciò che quanto meno dimostrava tanto più profondamente lo travagliava, e
più intensamente sentiva. Il ghiaccio, per quanto denso egli sia, non
può riunirsi che sopra la superficie; il ruscello vivace scorre sotto
per sempre, nè può cessare di scorrere. L'anima sua era agitata da neri
pensieri, profondamente radicati. — Invano tentiamo reprimere le nostre
lagrime: queste acque del cuore si muovono sussultando, nè possono
inaridirsi. Le lagrime non piante tornano alla sorgente, e vi si posano
più pure; — non piante, ma non gelate: — più amare quanto meno
manifeste. — Azo con interni moti di affetto tornava talora a palpitare
su gli uccisi, disperato di riempire il vuoto affannoso, disperato
d'incontrarli là dove le anime unite parteciperanno la gioia! Convinto
di avere profferito un giusto decreto, ch'essi avevano meritata la
condanna, — pure la vita di Azo fu sempre misera. Se i rami dell'albero
sieno con soave cura stralciati, possono ricuperare tal forza che
diverrà poi una vita verdemente florida, e di libera salvatichezza; ma
se il fulmine percuote furiosamente i rami ondeggianti, il tronco ne
sente la ruina, nè mai più torna a mettere foglia.



LA FLOTTA INVINCIBILE.

DA SCHILLER.


Essa viene, — viene la superba flotta del mezzo giorno; l'Oceano geme
sotto di lei con suono di catene, e un nuovo Dio e mille bocche di fuoco
ti si avvicina, — un esercito natante in formidabile cittadelle (che
l'Oceano giammai vide simili). La chiamano invincibile. Si avanza
placidamente su le onde spaventate. Il terrore che sparge d'intorno
consacra il suo nome superbo. Con passo maestoso e tranquillo il pavido
Nettuno porta il suo peso, — con la distruzione dello Universo entro di
se si avvicina, e tutte le tempeste giacciono in quiete.

Ti sta già dirimpetto, o Isola avventurosa, — dominatrice dei mari.
Questi eserciti di galeoni ti minacciano, o magnanima Brettagna! Guai al
tuo popolo nato libero! Essa ti sovrasta come nube gravida di nembi.

Chi ti ha procurato il prezioso gioiello che ti ha fatto Regina delle
terre? Non l'hai a forza ottenuto dai re superbi? Non hai tu
sapientemente immaginato la legge del Regno, la _Gran Carta_, che fa i
tuoi Re cittadini, i tuoi cittadini Re? Non hai conquistata la suprema
potenza delle vele in battaglie marittime, e con milioni di prodi
guerrieri? A cui la devi, se non al tuo ingegno e al tuo brando?

Infelice! — Getta uno sguardo là su quei colossi scaglianti fuoco, —
mira, e presagisci la caduta della tua gloria. L'Universo ti guarda
angoscioso. Tutti i cuori degli uomini liberi palpitano affannati, — e
tutte le anime belle e generose gemono dolenti partecipando la caduta
della tua gloria.

L'onnipotente Iddio volse uno sguardo alla terra, — vide sventolare i
superbi vessilli col Leone del tuo nemico, — vide minacciosa aprirsi la
sicura tua tomba. — Deve, disse egli, il mio Albione, deve perire? deve
estinguersi la stirpe dei miei Eroi? l'ultimo argine di rupi della
oppressione deve precipitare? deve essere annientato da questo emisfero
il baluardo della libertà contro i tiranni? — No, esclamò egli; giammai
sarà distrutto il paradiso della libertà.

L'Onnipotente soffiò, e l'armata fu dispersa dai venti.[4]



OSCAR D'ALVA,[5]

POEMA ROMANTICO DI LORD BYRON.


Come soavemente risplende per le sfere serene la lampada de' cieli sopra
le sponde del Lora, dove sorgono tuttora le bianche torricelle di Alva,
che più non odono il fragore delle armi!

Ma spesso la fuggevole luna mandò quivi i suoi raggi sopra gli elmetti
inargentati di Alva, e visitò nella silenziosa tenebra di mezzanotte i
suoi baroni ispidi di brunite armature.

E nelle rocce sottoposte al castello, che si sprolungano sopra
l'inquieto flutto dell'Oceano, pallida pallida sogguardò nelle scomposte
fila della morte percuotere sul terreno lo affannoso guerriero.

E molti altri occhi che più non poterono salutare la giovanetta luce del
giorno, si volsero sospirosi al campo insanguinato, ed ebbero gioia del
suo raggio quantunque rischiarasse la morte.

E pure una volta a quegli occhi tu splendesti, lampada di amore, ed essi
benedissero la tua cara luce propizia; — ora poi ardi quasi una fiaccola
funerale per la notte.

Poichè il nobile lignaggio di Alva è spento, e quantunque da lontano si
veggano le sue grigie torri, non più i suoi eroi incalzano la caccia, nè
più spargono l'onda vermiglia della guerra.

Or chi fu l'ultimo del superbo lignaggio? Perchè crescono i muschi sopra
la pietra di Alva? Nessun passo umano suona per quelle volte: solo vi
stride in passando il vento di settentrione.

E allorchè il vento soffia impetuoso e forte, si ode un lamento per
quelle sale che si solleva fioco nel cielo, e si sparge intorno la
muraglia rovinata.

Sì, — quando imperversa la procella crescente, batte lo scudo del
generoso Oscar, sebbene non più quivi s'inalzino le sue bandiere nè le
sue piume di nero avvolgimento.

Bello illuminava il sole la nascita di Oscar quando Angus lo baciò suo
primogenito; e i vassalli intorno al castello del barone si affollarono
per far plauso all'aurora avventurosa.

E la festeggiarono con i cervi della montagna, e la cornamusa squillò
nelle acute sue note, e per meglio ravvivare il convito montanaro
suonarono quelle armonie di numeri marziali.

E quando intesero l'aspra musica della guerra si affidarono che un
giorno la stessa cornamusa avrebbe squillato davanti il figlio del
barone mentre egli conducesse la masnada.

Trascorse ben presto un secondo anno, ed Angus salutò un secondo
figliuolo, il suo giorno natale fu simile all'ultimo, e di subito fu
imbandito il giocondo festino.

Ammaestrati dal padre a tendere l'arco sui colli tenebrosi del vento di
Alva, i fanciulli in giovanezza cacciarono i cervi, ed affrettarono i
cani dietro alla pesta di quelli.

Ma prima che avessero compiti gli anni della infanzia, si mescolarono
nelle bande della guerra, lievemente trattarono la splendida daga, e
scoccarono lontano i quadrelli fischianti.

Nera appariva l'onda dei capelli di Oscar e s'agitava scomposta
all'alitare dei venti, ma i ricci d'Allan pendevano sempre ordinati e
belli; — la guancia era pallida, e pensierosa.

Oscar palesava un'anima di eroe, e gli tralucevano i neri sguardi pei
raggi della verità. Allan poi aveva imparato per tempo a frenare le
passioni, e fino dagli anni primi placide suonarono le sue parole.

Prodi furono entrambi, e spesso la lancia sassone cadde spezzata sotto
il costoro acciaro; il petto d'Oscar stava chiuso alla paura, ma il
petto d'Oscar conosceva pietà.

L'anima d'Allan si celava sotto una vaga sembianza indegna d'abitare con
tanta bellezza; e la sua vendetta si aggravava sopra i nemici atroce
quanto il fulmine della tempesta.

Dalle torri lontane di Southannon venne una giovane e leggiadra
damigella; giunse la figlia di Glenalvon dall'occhio cilestro recando in
dote le terre di Kenneth.

Ed Oscar desiderò la lieta sposa, ed Angus sorrise al suo Oscar,
perocchè l'orgoglio feudale del padre fosse lusingato con le nozze della
figlia di Glenalvon.

Odi le note piacevoli della cornamusa! Ascolta i tripudii dei canti
nuziali; si aprono i labbri a voci gioconde. Il coro di vassalli si
sparge con incessante furore.

Vedi le piume colore di sangue de' baroni adunati nelle sale di Alva:
ogni giovane vestito del suo mantello cangiante aspetta la chiamata del
capitano.

Non per guerra domanda i loro bracci il barone: la cornamusa suona un
inno di pace, le genti si affollano agli sponsali di Oscar, nè mai si
rimangono i suoni del dolce riposo.

Ma in qual parte Oscar si nasconde? Certo egli indugia troppo. Questo è
l'ardente desio del nuovo sposo? Mentre stanno raccolti i cavalieri, e
le donne aspettano, non Oscar, non il fratello Allan, compariscono in
Alva.

Pur finalmente giunse alla sposa il giovane Allan; e: — «Perchè non
viene il mio Oscar?» domandava Angus. — «Non egli è qui?» rispose il
giovane; «stamane non percorse meco la foresta.»

«Forse dimentico del giorno insegue le damme veloci, o l'onda
dell'Oceano lo trattiene sul mare, quantunque la barca di Oscar di rado
sia tarda.»

«Oh! no!» — rispose l'angoscioso genitore; — «non caccia, non onda
trattengono il mio figliuolo: vorrebbe comparire scortese agli occhi di
Mora? Qual cosa impedirebbe il suo cammino verso di lei? — Oh! cercate
voi, capi! Oh! ricercate attorno! Allan, con questi scorri per Alva;
finchè Oscar, finchè mio figlio non è trovato affrettati, affrettati, nè
osare di darmi risposta.»

Da pertutto è trambusto: — roco giù per la valle echeggia il nome di
Oscar, e sorge col vento di settentrione, finchè la notte abbassa le
tenebrose sue ali.

E poi rompe i silenzi della notte, ma le sue ombre rimbombano indarno:
finalmente suona per la nebbiosa luce del mattino, ma Oscar non
apparisce alla pianura.

Tre notti vegliate, e tre giorni cercò il barone per ogni caverna della
montagna il suo Oscar: quando la speranza gli venne a mancare: i suoi
capelli si fecero bianchi con infinito dolore.

«Oscar! figliuol mio! — Tu, Dio del cielo, ridona il sostegno alla
cadente età; o se questo voto non può essere adempito, abbandona almeno
il suo assassino alla mia vendetta.

Sopra qualche deserto e dirupato scoglio ora forse giacciono le bianche
ossa del mio Oscar! Concedi dunque tu, Dio (sol questo ti domando), che
sia dato morire con lui al suo forsennato genitore. Pure egli potrebbe
vivere! — via, disperazione; confortati, anima mia, egli può vivere; la
mia voce si astiene dal bestemmiare il destino: Oh perdonami, Dio,
l'empia parola!

Perocchè se egli vive, non viva più per me, ed io cada diserto nella
polvere, e la stagione della speranza di Alva sia passata: ahimè!
possono essere mai giusti affanni sì fatti?»

Tale si lamentò lo sfortunato genitore, finchè il tempo che mitiga le
angosce più aspre gli ritornava la pace, e fece sì che le lacrime
cessassero di scorrere.

Però che tuttavia una segreta speranza che Oscar sopravviva gli
rimanesse nel cuore, e potesse anche una volta apparire; e questa
speranza ora declinò, ora sorse, finchè il tempo lo fece vecchio di un
altro fastidioso anno.

I giorni trapassarono, il pianeta della luce percorse di nuovo lo spazio
destinato, ma Oscar non allegrò la vista del genitore, e lo affanno
lasciò più debole la sua traccia;

Rimanendo pur sempre il giovane Allan, adesso unica gioia del padre
dolente: e il cuore di Mora di leggieri fu vinto, perchè vaghezza
ornasse il giovane dalle belle chiome.

Ella pensò che Oscar fosse caduto spento, e la faccia di Allan appariva
maravigliosamente leggiadra: — se poi Oscar viveva, qualche altra
fanciulla formava adesso il sospiro di quel petto infedele.

Ed Angus disse: «Se un altr'anno trascorre in arida speranza, ogni
dubbio soverchio sarà rimosso, ed io destinerò il giorno dei nuovi
sponsali.»

Tardi si avvolsero i mesi, ma benedetto alfine giunse il giorno desiato,
l'anno dell'ansia trepidante passò; quali sorrisi avvivano le guancie
degli amanti!

Odi la piacevole noia della cornamusa! Intendi il magnifico canto
nuziale! Si spandono le voci in accenti gioiosi, e incessante si
prolunga il fervido coro.

Di nuovo la tribù in festosa corona si affolla intorno la porta del
castello di Alva; echeggiano forte le liete armonie: tutto rimembra la
gioia primiera.

Ma qual è quegli di cui la fronte oscura attrista in mezzo del giubbilo
universale? I suoi occhi tramandano un colore più sinistro della fiamma
cerulea, che viene meno nel focolare.

Nero ha il manto che veste la sua forma, e la sua piuma ondeggia di
rosso sanguigno, la sua voce è simile alla tempesta; lieve e senza
traccia il suo passo.

È mezzanotte: la tazza va in giro, bevono largamente alla salute dello
sposo, — le volte rimbombano di gridi, e tutto si unisce a fare plauso
all'ultimo sorso.

Subitamente si leva lo straniero barone, i clamorosi circostanti si
acquietano, le guancie di Angus ardono di maraviglia, il dilicato seno
di Mora ne diventa rosso.

«Vecchio,» — gridò, «questa coppa è vuota, tu lo vedesti: ma ella fu
debitamente bevuta dalle mie labbra: — io propiziai alle nozze di tuo
figlio; ora chiedo a mia posta una coppa da te.

Mentre qui attorno è tutta gioia per benedire la lieta ventura del tuo
figliuolo Allan, dimmi, non ti rimane un altro figlio? Dimmi, perchè
dimentichi il tuo Oscar?»

«Ahimè!» rispose l'angoscioso genitore; e gli scendeva parlando una
grossa lacrima; «quando Oscar disertò il mio castello, o cadde morto, il
mio antico cuore quasi si ruppe.

Tre volte la terra ha rinnovato il suo giro da poi che il sembiante di
Oscar non benedice il mio occhio: adesso Allan è la mia sola speranza,
dacchè il mio prode Oscar è morto o fuggito.»

«Or bene,» replicava il feroce straniero; e tristamente dardeggiavano
gl'inquieti suoi sguardi; «io sarei vago d'intendere novella del fato
d'Oscar: forse quel prode non è morto ancora.

Forse se quelli che egli amò tanto ora lo chiamassero Oscar,
ritornerebbe; forse il barone è andato fin qui pellegrinando; per lui
potrebbe rinnovarsi il fuoco di maggio.[6]

Si empia dunque la tazza, e giri attorno la tavola: io non vo' che si
propini in silenzio: si empia, dico, ogni tazza di vino, perchè il mio
saluto è per la vita di Oscar.»

«Con tutta l'anima,» riprese il vecchio Angus, ed empi fino all'orlo la
coppa; — «e sia pel mio figliuolo o vivo o morto: nessuno de' miei figli
fu eguale a lui.»

«Bene, vecchio, il tuo saluto è stato accettato: ma perchè Allan si sta
tutto tremante? Bevi, via, alla rimembranza della morte, e solleva la
coppa con mano più ferma.»

L'ardente rossore della faccia di Allan di subito si converse in
ispaventevole pallidezza; le goccie della morte spingevano l'una l'altra
con umore di agonia.

Tre volte sollevò la tazza, e tre i suoi labbri rifiutarono di libare, e
tre volte incontrò gli occhi dello straniero fitti sopra di lui con ira
mortale.

«Così dunque un fratello saluta? così si accarezza la rimembranza di un
fratello? Se in questo modo si manifesta la forza dell'affetto, cosa
potremo noi aspettarci dalla paura?»

Eccitato dall'amaro sogghigno sollevò la tazza: «Possa Oscar partecipare
in questo momento alla nostra allegria.» — Lo interno rimorso gli
sconforta l'anima, e la coppa gli cadé di mano.

«È desso! Odo la voce del mio assassino!» — forte strillò uno spettro
oscuramente lucido. — «Del mio assassino!» — ripeterono le volte; e
tempestosa proruppe la bufera.

Le fiaccole vacillarono, i castellani fuggirono, lo straniero sparì; —
tra la moltitudine fu vista una forma avvolta in verde mantello, che
allo improvviso crebbe in ombra di terribile grandezza.

Un largo balteo le stringeva la cintura, una piuma nera l'ombreggiava,
ma nudo era il suo petto, ed ivi dentro vermiglie ferite, ed immobile il
suo occhio invetriato.

E tre volte con l'occhio mandò un truce sorriso sopra Angus, che gli
cadde d'innanzi, e tre volte guardò bieco un barone steso sul pavimento.

Intanto i fulmini strepitavano da polo a polo, i tuoni rimbombavano
traverso il cielo, e l'ombra infocata scorreva via sopra le ale del
turbine per mezzo alla procella.

Tristo è il festino, il tripudio cessò. — Qual è colui che giace sul
pavimento? L'oblio opprime il petto di Angus; pur alla fine ritorna a
palpitare il suo polso vitale.

Presto presto provisi un medico a riversare la luce negli occhi di
Allan. — La sua fossa è scavata, la sua carriera è compita; oh Allan non
sorgerà mai più!

Ma il petto di Oscar diventò freddo come creta, i suoi capelli furono
sollevati dal vento, e lo strale di Allan giacque con lui nella oscura
valle di Grentarar.

E donde venne lo spaventoso straniero, o chi si fosse, niuna mortale
creatura potè mai sapere; ma nessuno dubitò sull'ombra infocata, però
che i vassalli di Alva ravvisassero Oscar.

L'ambizione afforzò la mano del giovane Allan, il demonio esultante
diresse lo strale, mentre la invidia scuotendo l'ardente tizzone versò
il veleno dentro il suo cuore.

Veloce scocca lo strale dall'arco di Allan. — Di cui è quel sangue che
gli contamina il fianco? È basso il nero cimiero del prode Oscar, il
dardo ha bevuto la sua onda vitale.

L'occhio di Mora commosse il feroce Allan; ella fu che suscitava il suo
orgoglio oltraggiato: ahimè! quegli occhi che raggiavano amore poterono
costringere un'anima ad opere d'inferno.

Ecco, vedi la tomba solitaria che s'inalza sopra un guerriero defunto;
ella apparisce per l'oscurità del crepuscolo: oh! quella è il talamo
nuziale d'Allan.

Lontano, molto lontano, sta il nobile avello che nasconde le grandi
ceneri della sua schiatta; nessuna bandiera sventola sopra il suo
cadavere, perchè sozzo di sangue fraterno.

Quale antico menestrello, quale bardo canuto oserà inalzare sulle corde
dell'arpa le geste di Allan? Il canto è il principale rimerito della
gloria: e potrebbe egli forse risuonare la lode dell'omicida?

Senza corde, negletta rimanga quell'arpa, nè ardisca il menestrello
suscitare quel tema; il delitto renderebbe la sua mano paralitica, le
corde dell'arpa si spezzerebbero al tocco.

Non fama di lira, non versi sacrali inalzeranno la sua gloria sublime
per l'aria, però che gli echi risponderanno l'amara maledizione di un
padre moribondo e il gemito mortale di un fratello trafitto.[7]



LA FIDANZATA DI CORINTO.[8]

TRADUZIONE LETTERALE DA GOETHE.


Nell'ora mestissima in cui il pianeta della luce abbandona la terra, un
giovane Greco partito da Atene si approssimava a Corinto, fidente di
abbracciare un cittadino a lui affezionato, e per antica amicizia
diletto al suo genitore. — I capi di queste due famiglie avevano un
giorno solennemente sacramentato di formare dei crescenti loro figli uno
sposo e una sposa.

Ma in questi giorni di vicende religiose terranno i padri l'antico
contratto? — Il giovane si conserva pagano come i suoi avi, quei da
Corinto già sono battezzati, e cristiani. — La nuova fede tronca ogni
vincolo di amore e di fedeltà.

Taceva profondamente la casa quando vi giunse il giovane Greco. Il padre
e la figlia godevano la soave pace del sonno; — sola vegliava la madre.
— Ella lo raccoglie festosa, lo conduce in una cameretta per vaghissimi
ornati leggiadra, e prima ch'ei ne chieda, gli appresta sollecita
l'aceto, gli pone su la mensa vivanda e vino, quindi cortese augura
all'ospite la tranquilla ed avventurosa notte.

Ma nessuno desiderio di cibo o di bevanda prende il giovanetto, che
oppresso di stanchezza si abbandona sopra le piume: — appena abbassa le
palpebre al sonno, ecco gli si affaccia su la porta un ospite singolare.

Al fioco chiarore della lampada vede avanzarsi nella camera una
fanciulla, modestamente silenziosa, vestita di bianco, con un velo
bianco sopra la testa, e la fronte cinta da una benda nera tessuta
d'oro. — Procedendo lieve lieve per la stanza, allo improvviso si ferma
allorchè si accorge del giovane, e atteggiata di maraviglia e di
spavento solleva una mano candidissima.

«E sono io,» — esclamava — «sono io tanto straniera in una casa da
ignorare quale ospite vi alberghi? — Ah così rinchiusa mi forzano a
vivere nella solinga mia cella! Ed ora la vergogna mi assale tutta.....
Riposa sul tuo letto, o straniero, e perdona se inconsapevole del tuo
arrivo venni a turbare i tuoi sonni. — Io torno veloce allo asilo donde
partiva.»

«Oh! rimanti, bella fanciulla,» rispose il giovane balzando dalle piume;
— «vedi, qui stanno i doni di Cerere e di Bacco; e tu, fanciulla
leggiadra, mi porti amore. — Perchè sei pallida di spavento? — Ti
conforta, o desiata; — vieni, e vediamo come lieti ci si mostrino gli
Dei.»

«Scostati, giovanetto, e non osare toccarmi; — io più non appartengo
alla gioia. — Ahimè! tutto perdei per la stolta superstizione della
ottima madre mia quando una infermità la travagliava: — sconsigliata
giurava che risanando avrebbe offerto al cielo la mia giovanezza!

La turba gioiosa dogli antichi Numi ha derelitta questa casa. Ora vi
regna il silenzio dei sepolcri!.... Ora non più si sagrificano tori od
agnelli, ma si domanda il sagrificio di vittime umane.....»

Ansioso la ricerca il giovanetto, ed attento l'ascolta, e libra ogni
parola, di cui nessuna gli sfugge dalla mente, ed alla fine prorompe:
«Egli è possibile mai che in questo luogo consacrato dal silenzio e
dalla solitudine io abbia dinanzi la mia cara fidanzata? Sii mia dunque,
eternamente mia; chè la promessa dei nostri padri già impetrava dal
cielo la benedizione.»

«Anima bella,» gli rispose la fanciulla amorosa, «tu non puoi
conseguirmi: la mia minore sorella ti è destinata. E quando, io sortita
a gemere, io vivrò solitaria nella trista mia cella, deh! fra le sue
braccia rivolgi un pensiero pietoso verso di me, che ti avrò sempre
nella mente e nel cuore; a me, che consumata dall'amore scenderò
bentosto dentro la tomba.»

«No: — lo giuro per questa lampada che stringo, e che propizio ne
accenna l'Imeneo, tu non sei morta alla gioia, — tu vivi ancora per me.
— Meco verrai nella mia casa paterna, — quivi meco trarrai tempo felice:
— intanto ti rimani, o desiata, e celebriamo, solleciti, il convito
nuziale.»

E si ricambiano i pegni dell'amore. Dona la fanciulla allo amante una
catena di oro, ed ei vuole presentarle una tazza di argento ammirabile
per lo egregio lavoro; ma ella la ricusa sospirando: — «Ahi! che non è
per me! donami invece, ti prego, una ciocca dei tuoi capelli.»

Suona l'ora solenne degli spiriti, e la fanciulla pare che per la prima
volta senta la ebbrezza della gioia: con pallide labbra avidamente
sorbisce il vino colore di sangue, ma rifiuta il pane che il giovane le
presenta.

E poi offrì la tazza allo amante, che bevve con pari ardore: — l'anima
di lui ebbra di voluttà domanda in quel convito corrispondenza di
affetto. Pur ella si ricusa; ed egli travagliato dalla febbre dell'amore
insiste pur sempre, finchè cade affannoso e piangente sul letto.

Trepida gli si accosta, e gli si pone al fianco esclamando con un
sospiro: «Oh come il tuo dolore sconforta l'anima mia! Ahimè! se tu
ardisci lievemente toccare le mie membra, sentirai con ribrezzo ciò che
ti nascondo: — bianca come la neve, ma fredda come ghiaccio è la
fanciulla che il tuo cuore si è eletta.»

Vigoroso di amore e di giovanezza egli se la stringe al seno ed esclama:
«Non importa; quando anche tu mi venissi dal sepolcro ti scalderò fra le
mie braccia.» — Adesso gli aneliti dei loro labbri si confondono: — i
baci ai baci! — e nel tripudio di quelle carezze il giovane prorompe: —
«Non avvampi? non senti ancora le fiamme del mio cuore?»

Amore li stringe più forte, le lacrime scorrono nella voluttà: —
avidissima ella liba le fiamme dalla sua bocca, e i sensi loro confusi
sembrano tramutati dall'uno nell'altra. La violenza amorosa riscalda
d'insolito fuoco il gelato suo sangue, ma non le palpita il cuore nel
seno.

Frattanto pei lunghi corridori tacita si avanza la madre, che per
consueta vigilanza domestica percorreva la casa. — Uno strano mormorio
la percuote; — si avvicina alla porta, e si pone in ascolto: — ode voci
di giubbilo, — voci di lamento, — intende i nomi di sposo e di sposa, —
e la frenesia di un delirio voluttuoso. — Rimane immobile alla porta,
non ardisce entrare prima di chiarire meglio quanto le sembra.

Nuovamente si pone in ascolto alla porta, e fremendo ode i solenni
giuramenti dell'amore, e parole e carezze di affetto; quindi gioconda
una voce: — «Silenzio! — il gallo si desta..... giurami tornare la notte
ventura;» e un replicare: «lo giuro, addio.» E baci sopra baci.....

Nè più raffrena la genitrice lo sdegno; — apre furente la porta, e: «Chi
delle mie schiave ardisce lasciarsi pronta alle voglie dello straniero,
che accolgo nel letto ospitale?» — Quindi s'inoltra, e al chiarore della
lampada scorge: — o Dio!.... la propria sua figlia.

Tentò premuroso il giovane cuoprire le membra divine della fanciulla con
la coltre, col velo, e con la veste: ma ella come uno spirito s'innalza
allo improvviso lenta sul letto, e cresce lunghissima.

«Madre! madre mia!» esclama con voce sepolcrale; «m'invidiate voi la
notte felice? Perchè mi svellete perfidamente dallo asilo del mio amore?
— Ahimè! e devo svegliarmi soltanto al dolore e alla disperazione? Non
vi basta di avermi coperta del manto funerale, e di avermi prima del
tempo sepolta viva?

Una forza misteriosa di arcano destino mi trasse dall'angusta dimora. —
Il canto lamentevole dei vostri Sacerdoti non ha potenza nessuna; — il
sale e l'acqua non gelano la giovanezza, nè agghiacciano la Natura. —
Nissun potere sopra la terra vale a soffocare l'amore!....

Questo giovane m'imprometteste allorchè sereno brillava il tempio di
Venere: — madre, mancaste alla parola; — voi rompeste la fede perchè un
voto fallace vi costrinse. Ma non v'è Dio ch'esaudisca la madre che fa
giuramento di ricusare la mano già promessa della sua figlia. — Io mi
partii dal sepolcro per conseguire il bene di che volevate privarmi; —
io venni dal sepolcro per amare l'amante perduto, e per suggere il
sangue del suo cuore.....

O giovane leggiadro che appena ho amato, tu non puoi vivere di più: — in
questo luogo tu rifinirai. — Per pegno del mio amore io ti ho donato la
catena di oro: — meco porto i tuoi capelli. — Mirati attentamente; — tu
incanutisti sul mattino, nè ricomparirai bruno fuorchè nell'altro mondo.

Ascolta, madre mia, — ascolta l'ultima preghiera della tua figlia
infelice. — Componi un rogo, — apri la mia trista fossa, e concedi
l'ossa degli amanti alle fiamme; e quando le faville stridenti
sorgeranno, — quando le ceneri saranno roventi, — noi voleremo
frettolosi verso gli antichi Dei.»



PENSIERI DI GIANPAOLO RICHTER.


I.

La vita di un cortigiano è uguale a quella del devoto, cioè una
preghiera continua per ottenere qualche cosa.


II.

La vita, come l'acqua del mare, si fa dolce innalzandosi verso il cielo.


III.

I grandi uomini si assomigliano alle montagne, di cui la vetta va sempre
coperta di vapori, ma il vapore nasce dalla valle, non dalla montagna.


IV.

La differenza che passa tra l'uomo felice e l'infelice è la stessa di
colui che ha la febbre terzana con quello che ha la febbre quartana: il
primo gode di un giorno buono, il secondo di due.


V.

Gli spiriti hanno bisogno di libertà, non di uguaglianza.


VI.

S'impara a tacere con gl'indiscreti, a favellare co' misteriosi.


VII.

La conoscenza di se medesimo guida alla virtù; pure è la virtù che guida
alla conoscenza di se medesimo.


VIII.

Gli uomini e i libri, per esser corretti bene, hanno mestieri di molte
revisioni.


IX.

Ogni uomo di genio è filosofo; non ogni filosofo è uomo di genio.


X.

I grandi dolori ci salvano dai piccoli.


XI.

Se volete sentire una gioia pura davvero, non guardate quella dei figli,
ma sì quella dei padri che godono dei loro piaceri.


XII.

Dove l'uomo non fosse immortale, che ne verrebbe? Dio solo tra le rovine
degli enti intellettuali, lottando contro il nulla, arderebbe come un
sole senza atmosfera che spandesse i suoi fuochi in mezzo alle tenebre,
e ferisse il firmamento senza illuminarlo.


XIII.

Amare per tempo, ed ammogliarsi tardi, è come udir la mattina il canto
delle allodole, e mangiarle arrostite la sera!


XIV.

L'uomo svela la propria indole principalmente quando descrive l'altrui.


XV.

L'anima della vergine è come la rosa sbocciata: se tu ne stacchi una
foglia, le altre cadono.


XVI.

Le passioni sono licenze poetiche che si prende la libertà morale.


XVII.

Iddio è luce che non veduta rende ogni cosa visibile, e si nasconde
sotto tutti i colori: — l'occhio ne riceve il raggio, — l'anima il
colore.


XVIII.

L'angiolo dell'ultima ora che noi chiamiamo Morte, è il più tenero fra
tutti gli Angioli: egli fu scelto a raccogliere dolcemente il cuore
travagliato dell'uomo nel punto in che cessa di vivere, e portarlo,
leggieri leggieri, dal nostro seno di gelo all'Eden ardente. L'angiolo
della prima ora è suo fratello; e questi Angioli imprimono due baci su
le labbra dell'uomo, il primo perchè cominci a vivere, il secondo perchè
entri sorridendo nell'altra vita, come piangendo entrava in questa.


XIX.

Siccome il Nuovo-Mondo apparve al Navigatore sotto la forma di un punto
oscuro sopra l'orizzonte, così l'altro mondo sta innanzi al nostro
occhio morente a guisa di nuvola, finchè appressandoci sveli al nostro
sguardo le sue palme e i suoi fiori. Spesso un senso di beatitudine
veste la faccia del moribondo. Klopstock rivide la donna del suo cuore
che lo aveva preceduto! — In questa maniera su i primi tempi del
Cristianesimo morivano i vecchi, e si giacevano, come il sole tra lo
splendore di una bella sera, — segno sicuro di un'alba ancora più bella.



OMERO.


Omero ebbe nome Melesigenete, però che nacque sopra le sponde del fiume
Melete. Perduta la vista a Colofone, deliberò ripararsi a Cyma: povero e
cieco offerse ai cittadini prendere stanza in cotesta città e farla co'
suoi versi immortale, dov'essi consentissero a nudrirlo co' danari del
pubblico. Presentatosi al Senato, esponeva l'offerta e le condizioni. La
più parte dei senatori si mostrava inchinevole ad accettare; uno solo si
oppose, tra le altre cose dicendo, che ove avessero tolto a nudrire gli
_Omeri_, ben tosto rimarrebbe esausto lo erario per la incomportabile
gravezza. Di qui venne a Melesigenete il nome di Omero, perchè i
Cymiani, nel vernacolo loro, chiamano i ciechi Omeri; e i foranei,
specialmente, di ora in avanti presero a indicare il Poeta con nome
siffatto. L'Arconte concluse non doversi nudrire l'Omero; i senatori
prima bene disposti mutarono consiglio, e vinse il partito di lasciare
il divino Poeta derelitto e cieco in balía dell'avversa fortuna! Quando
gli fecero palese la deliberazione, Omero proruppe nei seguenti versi,
però che le sue passioni e i suoi pensieri, come limpida fonte che
sgorga da grotta montana, gli uscissero dai labbri in tuono di canto:

«O Giove padre! a quali duri destini commettesti me, nudrito
delicatamente sopra le ginocchia di madre veneranda, nei tempi in cui i
popoli di Fricio, valorosi domatori di cavalli, e prodi in guerra,
edificarono sopra le sponde del mare, per tuo comandamento, o Saturnio,
la città eolia, la inclita Smirne bagnata dalle acque sacre del Melete!
— Le figlie divine di Giove ordinarono che io eternassi con i miei versi
questa illustre città, ma i suoi abitanti insensati, chiusi alla mia
voce gli orecchi, sdegnarono i miei canti armoniosi. Or sia così: ma
chiunque avrà cumulato ingiuria sopra il mio capo, non andrà impunito.
Io sopporterò animoso il fato al quale il Dio mi condannava dalla mia
nascita: intanto io non calpesterò più le larghe strade di Cyma; i miei
piedi ardono per uscirne, e il mio gran cuore mi stringe a ricovrarmi in
terra straniera, a cercare asilo in altro luogo per oscuro che sia.»

Non meno leggiadro e pieno di passione parmi il canto del Vasellaio.
Uscendo il cieco divino da Samo, certi vasai, mentre attendevano a
scaldare la fornace, lo invitarono a improvvisare qualche verso,
promettendogli alquanti dei vasi che stavano per cuocere. Omero così
cantava:

«O vasellai! se mi darete la mercede promessa, io vi rallegrerò co' miei
canti. Scendi, invocata, o Pallade, e proteggi la fornace con la tua
mano potente. Tu fa che tutti i cotili e tutti i vasi si tingano di un
bel colore nero, si cuociano in punto, e procaccino all'artefice
guadagno in copia. Fa che molti se ne vendano sul mercato, molti per le
strade, e aumentino la sostanza al vasaio, come tu, o Dea, possa
aumentare a me il tesoro della sapienza.

»Se poi, inverecondi, vorrete ingannarmi, io invoco sopra la vostra
fornace tutti gli Dei nemici: Syntripe, Smarago, Asbeto, Abacto e
Ornodamo, generatori di esizio alle fornaci. Io li supplicherò a
rovesciare questo portico e questa casa, a mandare in fiamme la fornace
in mezzo ai gridi lamentosi e ai gemiti dei vasellai: come freme un
cavallo indomito così frema la fornace mentre i vasi si rompono in
frantumi. Figlia del Sole, o Circe, famosa per gl'incantesimi, versa i
tuoi veleni sopra l'opera e l'operaio. E tu pure, Chirone, conduci i
tuoi Centauri, non pure quelli che si salvarono dalle scosse di Ercole,
ma gli altri ancora che perirono combattendo contro di lui, e vieni a
rompere tutti questi vasi! Cada inabissata la fornace sotto i vostri
colpi, ed i vasai contemplino piangendo l'atroce guasto! Io esulterò
della vostra sventura. E se taluno audace troppo si avvisasse chinarsi
per guardare più da vicino lo incendio, la fiamma gli abbronzisca il
viso, affinchè tutti imparino ad osservare la giustizia.»



SAFFO.


Due opinioni corrono nel comune degli uomini intorno questa inclita
poetessa. La prima, che insana per amore di Faone si precipitasse giù
nel mare Ionio dalla rupe Leucadia, o scoglio di Santa Maura; l'altra
che pochissimi sieno i frammenti delle sue poesie pervenuti fino a noi.
— La maraviglia e la pietà del caso valsero ad accreditare il racconto
della morte infelice di tanta donna; storici, romanzieri, e poeti la
diffusero a gara, e Ugo Foscolo, sotto la fede di poeta, ci assicura che
il mare ov'ebbe vita la fanciulla di Faone risuona dei suoi canti:

                E mentre il vento spira,
    Si ode pei liti un lamentar di lira.

Ma gli eruditi (rude gente!) con mano spietata distruggono care
illusioni, mesti pensieri, fantasie soavi, e divelti tutti questi fiori
vaghissimi dai giardini della immaginazione, gli offrono in voto
all'altare della Verità. Quindi sappiamo per loro (e avremmo voluto
ignorarlo), Saffo avere condotto a marito un mercante di Andros chiamato
Cercala; da suo matrimonio esserle nata una figlia; rimasta vedova,
avere passato giorni lieti e sereni sacrificando alle Muse; ai tempi di
Erodoto conoscersi certi suoi versi dettati contro il proprio fratello
Caraxo, per cagione del riscatto della cortigiana Rodope verso l'anno
cinquantesimo della età sua; e finalmente, piena di anni, essere morta
di morte affatto comune e prosaica. Però non sembra che possa revocarsi
in dubbio come una Saffo si precipitasse dalla rupe di Leucade per un
Faone pilota di Mitilene, bello sopra ogni altro mortale, o per dono di
Venere, che sotto forma di vecchia condusse senza nolo traverso i mari
di Grecia, o per ritrovo della pianta misteriosa _eryngio_, la quale
aveva virtù d'innamorare tutte le donne del fortunato suo possessore. Ma
questa Saffo non fu la nostra rispettabile madre di famiglia, nata in
Lesbo e morta a Mitilene, bensì di Eresa, e cortigiana di professione...
nè questo suo stato dissuade da credere che per amore si conducesse a
morte, perocchè avvenga talora anche ai fabbri di scottarsi le mani!

Le poesie poi di Saffo, pervenute fino a noi, non possiamo dire che
sieno molte, ma neppure le pochissime voltate in quasi tutte le lingue
del mondo. Anzi a me pare che la famosa Ode a tutti nota e da tutti dopo
Longino o piuttosto Dionisio di Alicarnasso celebrata nel Trattatello
del Sublime, non sia la più ammirabile tra le poesie di Saffo; e se io
m'inganno, lo giudicherà il lettore:

«O figlia, alma di Egioco, Venere immortale, che siedi sopra un trono
splendido, e che sai argutamente apprestare le insidie di amore, io ti
scongiuro a non opprimere l'anima mia sotto la gravezza dell'angoscia e
del dolore. Scendi invocata dalla mia preghiera, siccome altra volta
scendesti, abbandonate le sedi paterne sopra un carro di oro. I tuoi
posteri leggiadrissimi ti conducevano dall'Olimpo traverso l'aria
percossa dalle rapide penne. Appena arrivata tu mi sorridesti col più
soave sorriso delle tue labbra celesti, e mi domandasti per qual cagione
io ti chiamassi, quali affanni il mio cuore agitassero, quali nuovi
desiderii lo commuovessero, chi tra i lacci di novello amore io volessi
preso. Qual è colui che ardisce, Saffo, oltraggiarti? Se ti fugge
adesso, in breve ti cercherà; se oggi rifiuta i tuoi doni, domani ti
supplicherà ad accettare i suoi; se ora non ti ama, ti amerà bentosto,
comunque repugnante al suo amore.

»Ti affretta dunque, o Dea, a liberarmi dalle pene atroci che mi
travagliano! Esaudisci i voti del mio cuore! Deh! non mancarmi in questo
estremo del tuo potente soccorso.»


FRAMMENTI DI SAFFO.

Grazie agli sdegni della tenera e delicata Girina, il mio cuore si è
volto alla bella Mnaide. Come sopra i monti eccelsi il vento agita le
foglie delle quercie, così l'amore commuove l'anima mia. Io volerei per
la sommità dei tuoi colli, io mi slancierei fra le tue braccia, o tu per
cui sospiro. — Tu mi ardi tutta, e forse tu mi dimentichi adesso; o ami
un'altra più che non mi amavi. Inghirlandati le chiome bellissime con
corone di rose, co' bianchi e tenui tuoi diti cogli le fronde di aneto.
La vaga giovane che coglie fiori apparisce ancora più bella. Le vittime
ornate di fiori sono più accette agli Dei, i quali sdegnano tutte le
altre che procedono prive di ghirlande..... — Io canterò inni melodiosi,
delizia delle mie amanti; — il rosignolo annunzia la primavera con suoni
dolcissimi. — L'Amore nasce dalla Terra e dal Cielo, la Persuasione è
figlia di Venere. Rallegrati, o giovanetta sposa; — rallegrati,
avventuroso marito!... Amico, vien qua, siediti dirimpetto a me: fa che
i tuoi occhi scintillino nella pienezza della loro fiamma e della loro
voluttà. — L'acqua fresca di un ruscello mormora dolcemente nei giardini
sotto i rami dei meli... Oh come soavemente io dormiva durante il mio
sogno fra le braccia della formosissima Citerea!

                   *       *       *       *       *

L'uomo bello ti comparisce tale sol quando tu lo guardi, ma l'uomo buono
e sapiente ti sembra tale anche quando non ti sta davanti.

                   *       *       *       *       *

L'oro è figlio di Giove; non lo contamina la ruggine, nè i vermi rodono
questo metallo che agita tanto maravigliosamente gl'intelletti dei
mortali.

                   *       *       *       *       *

La morte è un male; se non fosse sventura, gli Dei se la sarebbero
riservata per loro!



PROMETEO.

TRADUZIONE LETTERALE DA GOETHE.


Addensa pure, o Giove, nei tuoi cieli le nuvole tenebrose, e come il
fanciullo che tronca stizzoso le cime de' cardi, percuoti superbo col
tuo fulmine le quercie e i lauri de' monti. — Tu non offenderai la terra
nè la capanna mia, nè il mio focolare per la fiamma del quale tu mi
porti invidia. — Chi di voi più infelice trae la vita sotto il sole, o
Celesti? Voi parcamente alimentate la vostra maestà con tributo di
sacrifici ed aneliti di preghiera, e forse vi mancherebbe anche questo
ove i fanciulli e i miseri non fossero pazzi pieni di speranze. — E
quando io era fanciullo, e le tenebre della ignoranza mi velavano lo
intelletto, volgeva spaventato lo sguardo al firmamento, come se quivi
albergasse un orecchio pietoso per ascoltare i miei gemiti, od un cuore
come il mio, che palpitasse di pietà per l'oppresso infelice. Chi mi
sovvenne contro gl'insulti dei Titani? — Chi mi scampò da morte? — Chi
mi redense dal servaggio? — Cuore santamente infiammato, non hai da te
stesso tutto compiuto? E tu, o cuore, che comunque tradito ardi di
giovinezza e di virtù, ti abbasserai a rendere grazie al dormente dei
cieli? — Onorarti io? e perchè? Alleggeristi tu mai il dolore della
sventura? Asciugasti tu mai le lacrime dello afflitto? Non mi formarono
uomo l'onnipossente Tempo e lo eterno Destino, soltanto miei signori e
tuoi? — Tu forse pensasti che odierei la vita, e fuggirei nella
solitudine, perchè non maturano i fiori de' miei sogni? — Ma
t'ingannasti, o Giove: qui sto, e formo uomini a mia similitudine; una
stirpe a me uguale, che soffra e goda, che si rallegri e pianga, e ti
maledica come io ti maledico.



IL BANNO DI CROAZIA.

CANTO SLAVO.


Ci era una volta un Banno nella Croazia, cieco dall'occhio diritto e
sordo dall'orecchio sinistro: e con l'occhio diritto guardava la miseria
del suo popolo, coll'orecchio sinistro ascoltava le querimonie dei
vaivodi; e chi possedeva copia di sostanza era accusato, e chi accusato
moriva: così fece mozzare il capo a Umanai bei e al vaivoda Zambolic, e
s'impadronì dei loro tesori. Dio alla per fine corrucciato dei suoi
tanti delitti, mandò i fantasimi a tormentarlo ne' sogni; e tutte le
notti appiè del letto egli vedeva su dritti Umanai e Zambolic che
stavano a guardarlo fissamente con occhi spenti e lividi. All'ora poi in
cui le stelle cominciano a impallidire, e il cielo si tinge in
leggerissimo vermiglio dalla plaga di Oriente, cosa spaventevole a
raccontarsi, i due fantasimi s'inchinavano quasi a salutarlo per
ischerno, e i capi loro squilibrati cadevano e rotolavano giù pel
tappeto. Allora il Banno poteva dormire. — Certa notte, notte fredda
d'inverno, Umanai parlò e disse: — «Da gran tempo noi ti salutiamo;
perchè non ci ricambi il saluto?» Allora il Banno si levò tutto
tremante, e mentre s'inchinava per salutare, la testa gli cadde e rotolò
sul tappeto.



EIUDUCO MORIBONDO.

CANTO SLAVO.


A me, antica aquila bianca... a me... io sono Gabriello Zapol, che ti ha
nudrito sovente con la carne dei Panduri miei nemici. Io sono ferito; —
mi sento morire, ma prima di dare ai tuoi aquilotti il mio cuore, il mio
gran cuore, rendimi, ti prego, un buono ufficio. Prendi nei tuoi artigli
il mio zaino vuoto e portalo a Giorgio mio fratello perchè mi vendichi.
Nel mio zaino erano dodici cartocci, e tu vedi là dodici Panduri distesi
morti intorno a me; ma ne vennero tredici, e il tredicesimo, il codardo
Botzai, mi percosse alle spalle. Prendi, antica aquila bianca, nei tuoi
artigli questo lino ricamato, e portalo alla bella Kava perchè mi
pianga. — E l'aquila portò lo zaino vuoto al fratello Giorgio, e lo
rinvenne ebbro di acqua arzente; e portò il lino ricamato alla bella
Kava, e la incontrò che andava a nozze con Botzai.



L'AFFOGATO.

CANTO RUSSO.


I figliuoli accorsero nella Isba, e con altissime strida chiamavano il
padre: — «Babbo! babbo! vieni presto, vieni! Le nostre reti hanno
pescato un morto!» — «Che diavolo strillate?» brontolò il padre fra i
denti; «tristi demoni, ve lo darò io il morto se non vi acquietate!
Volete far venire il giudice co' vostri urli? Non sapete che incappati
una volta nelle sue mani, per uscirne ci vuole un secolo? Basta, andiamo
a vedere: moglie, dammi il kaftano. —

«Or dov'è il morto?»

«Eccolo là, babbo, eccolo là...»

Ed invero sopra la spiaggia ove sta distesa la rete umida un morto giace
per l'arena; disformato tutto, e gonfio in molto orribile maniera quel
corpo apparisce in gran parte turchino. — Chi sarà mai? Uno sciagurato
che per disperazione abbia mandato male la sua anima colpevole, o un
pescatore sopraffatto dai marosi, o un improvvido mercadante spogliato
dai ladri? — E tutto questo che cosa importa allo schiavo? Egli non ne
prende cura; — solo guarda dintorno se alcuno l'osserva, e senza perdere
un momento l'afferra pei piedi e lo rigetta nel mare; e poichè il
cadavere galleggiante torna del continuo verso la ripida spiaggia, egli
lo respinge col remo finchè non lo ha cacciato nel filo della corrente
per andarsene altrove a trovare in luogo più caritatevole e più santo
una tomba e una croce!

Per lungo tempo ancora il morto apparisce sopra le acque: per lungo
tempo ancora lo schiavo sbigottito di vederlo agitare come un vivo lo
seguita con gli occhi: alla fine egli riprende il cammino della Isba.

«Andiancene via, cani,» disse ai figliuoli; «seguitatemi: se saprete
tacere intorno al caso, io vi prometto un kalatach; ma se lasciate
sfuggirvi una parola, io vi busserò di santa ragione.»

Declinando il giorno il tempo si messe alla burrasca, e il mare rotolò
grossissimi cavalloni, siccome avviene quando la tempesta è imminente.
La _tutchina_ nella capanna affumicata dello schiavo prossima a
consumarsi tramanda pallida luce. I figliuoli dormono profondamente. La
moglie sta in dormiveglia, lusingata da sogni piacevoli, e lo schiavo si
corica presso al focolare. La procella imperversa e mugghia terribile. —
Ascoltate! Qualcheduno batte alla finestra. —

«Chi è là?»

«Maestro, lasciami entrare.»

«Che ci è egli di nuovo? Perchè vieni a vagare qui intorno? Il diavolo
ti mena, ed io non so che cosa farmi di te. Qui nella mia Isba fa buio,
e per te non ci è luogo: vattene via.»

Però lo schiavo curioso con mano indolente schiuse alcun poco la
finestra. — La luna trapelò un istante tra due nuvoli neri, ed egli
vide.... che cosa mai vide? — Un uomo ignudo, con le pupille fisse e
inanimate, la barba stillante acqua, il corpo sventrato, con granchi
neri che si arrampicavano sopra le viscere!

Rimane immobile lo schiavo; il sangue gli si gela dentro, le mani suo
malgrado gli cascano giù penzoloni: poi gli dà coraggio il terrore, e
chiude con impeto la finestra perchè ha riconosciuto lo ignudo suo
ospite.

«Tu possa crepare!» mormora lo schiavo tremante; i pensieri in mente gli
si confondono così da diventarne matto. Tutta la notte abbrividisce, e
per tutta la notte sente picchiare alla finestra e alla porta.

E sapete voi quale storia funesta si è sparsa tra il popolo? Affermano
che tutti gli anni in cotesto giorno da quel tempo in poi lo sciagurato
schiavo attende il suo ospite. Il tempo la mattina diventa fosco, la
notte la procella infuria spaventevole, e l'affogato picchia e ripicchia
ostinatamente alla porta.



EPITAFFIO DANESE.


Mamma mia, non piangere: le tue lacrime mi hanno bagnato la camicina; i
tuoi sospiri non mi lasciano dormire dentro la fossa. — Mamma, chetati,
e non mi svegliare.



LA PERLA DI TOLEDO.

CANZONE SPAGNUOLA.


Chi mi dirà se il sole sia più maestoso quando si leva o quando
tramonta? Chi mi dirà se il più vago degli alberi sia il mandorlo o
l'olivo? — Chi mi dirà chi valga più nella guerra, il Valenzese o
l'Andalusiano? Chi mi dirà qual sia la più bella delle femmine?

Ve lo dirò io qual'è la femmina più bella. Ella è Aurora di Vargas, la
Perla di Toledo.

Tuzani il Moro ha chiesto lancia e pavese: con la mano diritta tiene la
lancia, il pavese pende dal suo collo: sceso nella scuderia esamina
diligentemente le sue quaranta cavalle una dopo l'altra, e poi dice:
«Beria è la più vigorosa; sopra la sua larga groppa io porterò la Perla
di Toledo, o per Allah Cordova non mi vedrà mai più.»

Egli parte, cavalca forte, e arriva a Toledo. Un vecchio gli occorre
presso Zaratin: — «Vecchio dalla barba bianca, porta questa lettera a
Don Guitterez, — a Don Guitterez Saldaña. Se costui è cavaliere, verrà
alla fontana di Almami: ad uno di noi dee rimanere la Perla di Toledo.»

E il vecchio ha presa la lettera, l'ha presa, e l'ha portata al conte di
Saldaña mentre questi giuocava a scacchi con la Perla di Toledo. Il
conte ha letto la lettera, ha letto la lettera, e con la mano percosse
così forte la tavola che tutti i pezzi degli scacchi saltarono all'aria
e si rovesciarono. — Egli si leva, e chiede la lancia e il poderoso
cavallo, e la Perla eziandio si leva tremante, perchè conosce il
cavaliere apparecchiarsi alla battaglia.

«Signore Guitterez, Don Guitterez di Saldaña, rimanete, vi prego, e
continuate a giuocare con me.»

«Io non giuocherò più a scacchi; — io voglio giuocare il giuoco delle
lancie alla fontana di Almami.»

E i pianti di Aurora non valsero a trattenerlo, perchè chi può
trattenere il prestante cavaliere quando s'incammina al duello? La Perla
di Toledo tolse allora la mantiglia, e montata sopra la mula si condusse
alla fontana di Almami.

La erba intorno alla fontana è rossa, l'acqua della fontana anch'essa è
rossa; ma l'erba e l'acqua della fontana non si fecero rosse di sangue
cristiano. Il Moro Tuzani giace bocconi: la lancia di Don Guitterez si
ruppe nel petto; tutto il suo sangue trabocca fuori dalla piaga. La
cavalla Beria lo guarda piangendo, perchè non può guarire la ferita del
suo signore.

La Perla scende dalla mula: — «Cavaliere, fate animo,» gli dice; «la
vita può bastarvi ancora per qualche bella Moresca. La mia mano sa
guarire le ferite che fa il mio cavaliere.»

«O Perla tanto candida, o Perla così bella, cavami fuori dal seno questo
troncone di lancia che mi strazia: il freddo dello acciaio mi gela e
m'intirizzisce.»

La Perla improvvida si avvicina: egli rianima le sue forze, e col taglio
della spada fende quel bel viso di amore.



AMALIA.

DA SCHILLER.


Egli era bello come un angiolo voluttuoso del Wahlalla; bello fra tutti
i giovani. Il suo sguardo era di una dolcezza celeste, simile a un
raggio di sole di primavera, ripercossa dallo azzurro specchio del mare.
I suoi baci..... come due fiamme si affratellano, come tocchi di arpa
simultaneamente suonano e formano armonia divina: così si precipitarono,
volarono, s'immedesimarono spirito e spirito, le labbra tremarono, le
guancie arsero, l'anima si versò nell'anima, — terra e cielo, come
distrutti, nuotarono intorno agli amanti. Egli non è più. Invano, ohimè!
invano lo seguì anelante l'angoscioso sospiro. Egli non è più, ed ogni
piacere della vita dolorosamente si esala in un perduto sospiro!



LE ANTICHITÀ A PARIGI.

DA SCHILLER.


Con la violenza delle armi involi e trasporti pure il Francese su le
rive della Senna quanto l'Arte di Grecia e d'Italia ha creato, e in
pomposi Musei mostri alla maravigliata patria i trofei della sua
vittoria: muti gli saranno eternamente, giammai dalle basi gli
parleranno parola di vita. Possiede unicamente le Muse chi le porta, e
le sente: — al Vandalo sono pietra.



NOTE:

[1] _Pag._ 357. — Il seguente poema si fonda sopra un'avventura
mentovata nelle _Antichità della casa di Brunswick_ scritte per Gibbon.
— Io già prevedo che in questi tempi la delicatezza, o il fastidio del
lettore, stimeranno siffatti soggetti siccome poco convenevoli alla
poesia: i drammatici greci, e molti dei migliori nostri antichi
scrittori inglesi, pensarono diversamente; e in tempi più prossimi di là
dal mare, Alfieri e Schiller. Il caso seguente chiarirà i fatti su i
quali la storia si avvolge. Soltanto al nome di Niccola sostituimmo
quello di Azo, perchè più poetico. «Sotto il reggimento di Niccola III,
Ferrara fu contaminata da domestica strage. Pel testimonio di una fante,
e per le proprie osservazioni, il marchese d'Este scoperse gli amori
incestuosi di sua moglie Parisina e di Ugo suo figliuol naturale,
leggiadro e valoroso giovane. Ambedue ebbero la testa mozza in castello
per sentenza di un padre e di un marito che pubblicò la sua vergogna, e
sopravvisse alla costoro morte. Lui misero se furono colpevoli, lui
miserissimo se innocenti! Non v'è caso al mondo nel quale io possa
approvare l'ultimo atto di giustizia di un padre.» Gibbon's
_Miscellaneous Works_.

[2] _Pag. ivi._ — I versi contenuti nella Sezione II furono poco dopo
stampati come se fossero per musica: ma appartengono al poema nel quale
compariscono, per la più parte composto avanti Lara, e gli altri poemi
pubblicati dopo.

[3] _Pag._ 370. — «E questo anno fu assai sfortunato al popolo di
Ferrara, perchè accadde un caso micidiale nella corte del Principe. I
nostri annali manoscritti e stampati, se togli la mal'opera del Sardi e
di tale altro, ne danno la seguente relazione, per la quale vengono
smentiti certi particolari, in ispecie la novella di Bandelli che ne
scrisse una centuria, di rado o mai consentanea agli storici del tempo.
— Secondo il mentovato Stella dell'Assassino, il marchese nell'anno 1405
aveva un figlio chiamato Ugo, bello e valoroso giovane, Parisina
Malatesta, seconda moglie di Niccolò, siccome quasi tutte le matrigne
fanno, assai scortesemente seco lui si comportava, con infinito dolore
del marchese Niccolò che troppo lo amava. — Ora avvenne ch'ella
domandasse al marito licenza d'imprendere un viaggio, la quale il
marchese non le volle negare a condizione che l'accompagnasse Ugo,
desiderando per questa via d'indurla a deporre l'odio concetto contro di
lui. — E di vero il suo desiderio fu troppo bene adempiuto, dacchè
durante la giornata ella non solo depose l'odio contro di lui, ma nel
suo amore ferventemente si accese, nè dopo il ritorno il marchese ebbe
occasione di tornare sopra gli antichi rimproveri. — Così procedendo la
bisogna, un giorno accadde che certo fante del marchese chiamato Zoese,
o, come tal altro scrive, Giorgio, passando dinanzi alle stanze di
Parisina vedesse uscirne una donzella sbigottita e piangente. Domandata
di perchè, rispondeva averla battuta la padrona per una cosa da nulla; e
dando sfogo allo sdegno, aggiunse che poteva di leggieri vendicarsene se
avesse fatto conoscere la criminosa domestichezza di Parisina col
figliastro. Il fante, notato il detto, lo rapportava al padrone. — Egli
rimase stupefatto al racconto, nè prestando fede ai suoi orecchi, volle
accertarsene di veduta, ahimè! troppo chiaramente traverso un buco
praticato nel soffitto della camera di sua moglie, e nel 18 maggio. —
Cadde in un subito furore, e fece arrestare ambedue loro, con
Aldobrandino Rangoni di Modena suo gentiluomo, e due damigelle, come
complici di delitto. — Ordinò si spedisse prontamente l'affare, e volle
che i giudici colle solennità consuete pronunziassero dei colpevoli. La
sentenza fu morte, quantunque alcuni in pro dei rei favellassero, e tra
gli altri Uguccione Contrario ch'era potentissimo con Niccolò, e
l'antico e devotissimo suo ministro Alberto Sale. Questi, con le lacrime
agli occhi, genuflessi dicevano volesse perdonare ai colpevoli, non
fosse altro per nascondere al pubblico il fatto vituperioso. Ma egli
inflessibile nel suo sdegno comandò che la sentenza fosse immediatamente
eseguita. — Ebbero pertanto la testa mozza nelle prigioni del Castello,
in quel maschio spaventoso che in oggi si vede sotto la camera chiamata
dell'Aurora ai piè della torre di Lione verso il capo della strada
Giovecca. Ugo fu il primo, Parisina seconda, e Zoese il suo accusatore
la condusse a braccio sul patibolo. — Camminando temeva di cadere ad
ogni istante in qualche trabocchetto, così che spesso domandava s'era
ancor giunta al luogo, e le rispondevano aspettarla la mannaia.
Interrogò di nuovo che fosse avvenuto di Ugo, e le fu detto esser già
morto; allora gravemente sospirando esclamò: Ora dunque desidero morire
anch'io; — e accostandosi al ceppo, di sua mano si tolse ogni ornamento
e avvoltosi un panno intorno al capo, lo sottopose al colpo fatale che
terminò la scena sanguinosa. Lo stesso fu fatto al Rangoni, che insieme
agli altri, secondo i ricordi della Biblioteca di San Francesco, fu
sepolto nel camposanto di quel convento. — Intorno alle donne fin qui
non c'è venuto di rintracciare cosa nessuna. — Il marchese vegliò tutta
la notte, e mentre andava di su e di giù per la stanza chiese al
capitano del Castello se Ugo fosse morto. — Gli risposero sì. Allora
proruppe in ismaniose doglianze, lamentando: — Oh! fossi morto io prima
di aver condannato il mio diletto Ugo! — E il giorno dipoi, conoscendo
necessaria una pubblica giustificazione, ordinò si scrivesse una
narrativa del fatto, e la spedì alle principali corti d'Italia. Il doge
di Venezia, Francesco Foscari, ricevutone avviso, senza pubblicarne i
motivi sospese gli apparecchi di un torneo che sotto gli auspicii del
marchese co' danari di quel di Padova dovea tenersi su la piazza di San
Marco in occasione dell'essere stato investito dell'ufficio di doge.»

Il marchese, per aggiunta al fatto, e per non so quale rimasuglio di
vendetta, comandò che ogni maritata colta in fallo come Parisina,
dovesse come lei aver la testa recisa. Barbarina, o come altri la
chiamano, Laodomia Romei, moglie del giudice di corte, fu sottoposta
alla nuova sentenza nella solita piazza dei supplizi nel quartiere di
San Giacomo di faccia alla fortezza oltre San Paolo. Non è da dirsi come
apparisse strana la condotta del principe, che, considerata la sua
presente condizione, doveva piuttosto dimostrarsi benigno. Pur non mancò
chi ebbe cuore di lodarlo. Frizzi, _Storia_ di Ferrara.

[4] Gli ultimi due versi sono un'allusione sopra la medaglia che
Elisabetta fece coniare in memoria della sua vittoria: presentava una
flotta che periva in tempesta con la modesta Inscrizione:

    _Afflavit Deus, et dissipati sunt._

[5] _Pag._ 377. — La catastrofe di questo Racconto fu ricavata dalla
storia di Ieronimo e Lorenzo, nel primo volume dell'Armeno. — Ell'è
ancora molto somiglievole alla scena dell'atto III di _Macbeth_.

[6] _Pag._ 383. — _Beltane-Tree_, — festa Inglese del 1º di maggio,
nella quale si accendono molti fuochi.

[7] _Pag._ 385. — Questo è uno dei poemi che occorrono nell'_Hours of
Idleness_ pubblicate da lord Byron nella sua giovanezza, tanto vilmente
lacerata dalla _Rivista di Edimburgo_: — giornale che, come moltissimi
altri, tenta opprimere chi sorge, e adula il già sorto.

[8] _Pag._ 387. — Madama Stael nell'_Alemagna_ crede la fidanzata di
Corinto una creazione immaginosa del Goethe, e s'inganna. Goethe, sommo
erudito come immenso poeta, consultando i libri antichi e moderni, ma
principalmente gli antichi, sapeva trarne subietto dei suoi Canti. — Da
lui non fu immaginata per nulla l'avventura della Fidanzata di Corinto,
e voi la leggete come un caso veramente accaduto nei _Mirabili_ di
Flegone Trattiano (volgarizzato da Spiridione Blandi) che fu liberto
dello imperatore Adriano, come si ricava dalla testimonianza di Fozio,
di Vopisco, e di Suida. — Goethe non immaginò altro che il motivo delle
nozze mancate, e di Goethe poi è la poesia della Canzone. — Ecco il
passo di Flegone.

(_Manca il principio._)

.... Se n'entra per le porte nell'albergo, ed al lume di una lampada che
ivi ardeva, vide la donna assisa presso Macate; nè potendo più a lungo
rattenersi per la maraviglia del veduto fantasma, corre alla madre, e
gridando ad alta voce: o Carito! o Demostrato! disse loro di alzarsi e
venir seco lei a vedere la figlia; poichè dessa erale viva apparsa, e
per volontà di qualche Nume trovavasi coll'ospite nell'albergo. Carito
al primo udire una sì strana novella, cadde svenuta per la grandezza
dell'annunzio e pel tumulto della nutrice; ma poco stante, rammentando
la figlia, si diede in sul piangere, e per ultimo rampognando la vecchia
nutrice, comandò che da lei tosto qual pazza si dipartisse: ma quella
all'incontro accusandola e dicendole francamente sè non essere
altrimenti fuori di senno, ma bensì essa per pigrizia ricusare di vedere
la propria figliuola; Carito alla fine, parte pressata dalla nutrice,
parte con animo di riconoscere il fatto, a stento si recò alla porta
dell'ospizio; ma però tardi, essendo trascorso molto tempo
nell'aspettare un secondo nunzio, quando quelli s'erano già posti a
dormire. Ora la madre fattasi ad osservare, avvisossi di riconoscere le
vesti ed i lineamenti del volto; ma non potendo per verun modo a
quell'ora investigare la verità, pensò di dovere acquietarsi, sperando
che levandosi di buon mattino, avrebbe colta la figlia, o se avesse
tardato, potuto avrebbe sapere ogni cosa da Macate, perciocchè egli
certamente non mentirebbe ove fosse sopra un tanto affare interrogato;
laonde tacita si ritirò. Appena surto il mattino, o fosse volontà
divina, o effetto del caso, avvenne che colei si partisse. Venuta poi la
madre, molto si dolse di non averla trovata, e narrato avendo
partitamente ogni cosa al giovanetto e all'ospite, molto pregò Macate,
abbracciandogli le ginocchia, che senza nulla occultare dirle volesse
tutta la verità. Il giovanetto si mostrò in sulle prime assai turbato e
confuso; ma alla fine pronunziò il nome, dicendo quella essere Filinnio;
e narrò come da principio fosse entrata, e la cupidità della donna; e
come aveagli detto di venire a lui senza la saputa dei genitori: ed in
prova della verità trasse fuori da un ripostiglio gli arnesi ch'ella
aveva lasciati, un anello d'oro da lei donatogli, e la fascia pettorale
che aveva lasciata la scorsa notte. A tai contrassegni Carito esclamò, e
laceratesi le vesti, e strappatasi dal capo la benda, cadde a terra, e
abbracciando que' pegni, rinnovò il pianto. Ciò vedendo l'ospite, e come
tutti piangevano e lamentavansi, poichè già avvisavano dover or ora
seppellir Carito, mosso a compassione, diedesi a confortarla, pregandola
che omai ponesse fine alle grida, e promettendole, se quella fosse
ritornata, di fargliela senza altro vedere. Da queste parole persuasa
alla fine Carito, dopo avergli raccomandato di badar bene attentamente
che fallite non andassero le sue promesse, nelle sue stanze se ne tornò.
Venuta la notte e l'ora in cui Filinnio soleva a lui recarsi, stavansi
gli altri ad osservare, volendo assicurarsi del suo venire: ed ella
infatti comparve; ed entrata all'ora solita e postasi a sedere sul
letto, Macate senza far vista di altra cosa, ma solo bramoso di
scuoprire la verità, non potendo darsi a credere come avesse a fare con
una morta, la quale sì esattamente era a lui venuta alla medesima ora,
ed inoltre secolui cenava e beveva, non prestava fede a quanto quelli
gli avevano dianzi raccontato, avvisando piuttosto che alcuni di coloro
che disotterrare sogliono i morti, aperto il sepolcro, venduto avessero
al padre le vesti e l'oro della fanciulla. Volendo adunque per ogni modo
assicurarsene, mandò occultamente alcuni suoi domestici a chiamare i
genitori. Accorsi incontanente Demostrato e Carito, e veduta quivi la
figlia, da prima rimasero mutoli e costernati ad un sì fatto prodigio, e
mettendo poi alte grida, stretta se la tenevano tra le braccia. Allora
Filinnio rivolse loro queste parole: O madre, o padre! quanto
ingiustamente m'invidiaste il trovarmi per tre giorni coll'ospite nella
paterna casa, senza nocervi punto! Voi adunque piangerete per la vostra
curiosità, ed io me ne vo di nuovo nel luogo a me assegnato; imperocchè
io non venni qui senza il volere divino. — Dette queste parole
immantinente cadde morta, ed il suo corpo steso vedevasi sul letto. La
madre ed il padre gettaronsi sopra il cadavere, e levossi nella casa un
gran rumore ed un pianto, per tale sciagura; ed essendo lo spettacolo
senza rimedio ed incredibile il caso, se ne sparse tosto la fama per
tutta la città, ed a me pure pervenne. In quella adunque io raffrenai la
moltitudine che verso la casa accorreva, temendo non succedesse qualche
nuovo accidente, ove cresciuto non fosse il rumore. Nulladimeno ai primi
albori del giorno il teatro era pieno, e narratasi quivi ogni cosa
partitamente, si deliberò di portarsi in prima al sepolcro, ed aprendolo
assicurarsi se il corpo giacesse nella sua bara, o se questa fosse vota;
perciocchè non erano ancora sei mesi trascorsi dalla morte della
fanciulla. Aperto che avemmo l'avello, in cui riponevansi tutti i
defunti di questa famiglia; in altri letti abbiamo veduti giacersi
tuttora i cadaveri, come altresì le ossa soltanto di quelli che erano da
più lungo tempo trapassati: ma nel luogo in cui fu seppellita Filinnio
abbiamo trovato sovrapposto l'anello ferreo, il qual era stato
dell'ospite, e la tazza indorata che essa il primo giorno aveva da
Macate ricevuta. Pieni perciò di stupore e di meraviglia ci recammo
immantinente presso Demostrato all'albergo, per vedere se vi si mirasse
ii corpo della donna; e vedutolo a terra disteso, ci siamo adunati a
consiglio, perciocchè l'avvenimento era grande ed incredibile; ma
suscitatosi un forte tumulto nell'adunanza, nè alcuno trovandosi che
pronunziar sapesse giudizio su tal caso, sorse alla fine primo fra tutti
Ilio, il quale appo noi non solamente era ottimo indovino ma anche
augure preclaro, e nell'arte sua molto valeva. Ordinò egli che il corpo
della donna fosse seppellito fuori dei confini (imperocchè più non
conveniva sotterrarla entro di quelli); che poi si placassero Mercurio
il terrestre e le Eumenidi; che tutti si purificassero, e lo stesso si
facesse delle cose sacre, e i debiti uffizi si rendessero agli Dei
infernali. A me poi disse privatamente che per l'Imperatore e per la
Repubblica offrissi sacrifizi a Mercurio, e a Giove ospitale e a Marte;
e tutto ciò con particolare cura. Noi mandato abbiamo ad esecuzione ogni
cosa come l'indovino ci aveva prescritto. L'ospite Macate, ch'era stato
visitato dallo spettro, per la tristezza si uccise da se medesimo.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





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