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Title: Veronica Cybo
Author: Guerrazzi, Francesco Domenico
Language: Italian
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VERONICA CYBO


L’Editore intende valersi dei diritti accordatigli dalla Legge del 22
maggio 1840 sulla Proprietà Letteraria.



  SCRITTI
  DI
  F.-D. GUERRAZZI.


  VERONICA CYBO,
  LA SERPICINA, — I NUOVI TARTUFI.
  racconti.
  PENSIERI. — DISCORSI.
  ILLUSTRAZIONI. — TRADUZIONI
  I BIANCHI E I NERI.
  dramma.



  FIRENZE.
  FELICE LE MONNIER.
  1847.



A GIOVANNI BATTISTA NICCOLINI.


_Rovistando tra i miei fogli, i quali troppo più spesso che non faceva
di bisogno patirono disoneste invasioni, io ho trovato la espressione
dei sentimenti che mi animavano verso di te, inclito amico, allora
quando, volgono adesso venti e più anni, io adolescente imprimeva la
prima orma nello arduo arringo delle lettere umane. Opera quasi di fato
mi parve la conservazione di cotesto scritto; onde io voglio senza punto
mutarlo od emendarlo revocartelo alla memoria:_

    Tu che forti opre in secol guasto imprendi,
      E i vivi marmi del nostro Agnol guati
      E senti, — e lo eternale dei dannati
      Pianto di rabbia e di dolore intendi;[1]
    Tu che possa natura all’uomo apprendi
      Sotto l’italo cielo incontro ai fati,
      Quanto sia premio un riso amico ai vati,
      Gentilissimo Spirito, comprendi.
    Pur me anelante delle amate fronde
      Non lusingare, e di’, se il merto: «Falle,
      Volgi, o figlio, la prua da queste sponde.» —
    Duca mio dolce, pel dirotto calle
      Mi odi, e cortese al domandar risponde:
      «Debbo salire o rimanermi a valle?»

_Tu dunque conosci quanto sia antico il mio culto per te; e coll’andare
del tempo egli crebbe meritamente, però che tu sii la migliore coscienza
di questa nostra patria italiana._

_Tu fra rovine d’imperii, e di stati amplissimi, e diversissimi, fra
impeti di passioni scomposte, e cieche ire, e più cieche ambizioni, e
turpi libidini di potere, e proteiformi ipocrisie, e codardi
disertamenti, non curato schiamazzo o paura, hai portato alto la tua
fede come un vessillo trionfale nel giorno della battaglia; sicchè
chiunque ti tenne dietro senza smarrire la via giunse a fine generoso._

_Vergognando pertanto che per mesi taccia l’alto tuo nome in fronte dei
miei scritti, riparo alla colpa diuturna intitolandoti queste povere
cose. Avrei desiderato poterti offrire opera più degna di te; ma a non
indugiare mi persuadono gli anni declinanti, e la paura che la pratica
lunga d’ignobile mestiere non insalvatichisca affatto il mio ingegno.
Abbiti in voto i brani di un’anima redenti dalle bassezze del Foro, come
in Arcadia i Pastori solevano consacrare a Pale le reliquie dello
agnello salvale dalle fauci del lupo!_

_Nel salutarti la migliore coscienza di questa nostra patria italiana,
io per necessità ho inteso darti ancora la lode del maggiore senno
italiano; conciossiachè io creda fermamente essere l’alta intelligenza
uno spirito fecondato dalla fiamma del cuore; e quando il cuore diventa
un tempio della Divinità, di rado avviene che le Muse sue compagne dal
giorno della creazione non iscendano ad albergarvi con essa._

_Tu poi accogli con lieta fronte queste parole, perchè liberamente
favellate a libero uomo: e la lode, quantunque profferita da labbra
terrestri, ove sincera, affermano i poeti che giunge gradita anche alle
orecchie degl’Immortali._

                                                         Tuo amico
                                                      F.-D. GUERRAZZI

  _Giugno_ 1847.



PREFAZIONE.


Non fu la carità del _natio loco_ quella che m’indusse a raccogliere
queste foglie morte innestandovene alcune fresche, per allontanarne per
quanto fosse possibile l’aria di funerale. Meglio sarebbe stato
consacrarle a Vulcano!... Però considerando come la Italia sia tanto
dalle sue antiche glorie scaduta, che spenti ormai o prossimi a
spegnersi i suoi famosi scrittori, abbia bisogno annoverare uomini,
quale io mi sono, tra i suoi fregi letterari, e così ostentare vetri per
gemme, e orpello per oro, non volli che altri mi togliesse subietto di
speculazione mio malgrado. Non credo avere fatto meglio che altri: ma
finalmente il male che ci viene da noi stessi ci offende meno,
imperciocchè siamo convinti di non averlo fatto a posta e con animo
intento alla ingiuria. Ciò premesso, discorrerò brevemente delle diverse
operette che compongono questo volume.

Alla _Veronica Cybo, Duchessa di San Giuliano_, quando prima venne alla
luce in Toscana, usarono onesti modi e liete accoglienze;[2] poco dopo
essendosi provata a presentarsi sotto altra veste,[3] le fecero il viso
dell’uomo di arme, ond’ella, che è per sua natura sdegnosa e fiera
molto, esulò dalla patria; e datasi a girare pel mondo, trovò ospitale
accoglienza.... figuratevi dove? — A Vienna! Ma però la costrinsero a
pagare caro prezzo la ricevuta ospitalità, perchè ebbe a porre giù i
suoi panni italiani, e vestirsi alla tedesca.[4] Così abbigliata osò
affacciarsi di nuovo alla Italia: le fecero festa nella capitale della
Lombardia, e presero a tradurla in italiano. Era già stampata questa
traduzione e pronta a comparire in pubblico, quando un Lombardo che si
occupa talora delle cose di questa _divisa dal mondo e ultima Toscana_,
avvertì il libraio che la _Veronica Cybo_ era nata e scritta in Italia.
Se fosse nata, non dirò francese o inglese, ma chinese o tartara,
gl’Italiani lo avrebbero per avventura saputo; ma noi chiusi dai
medesimi monti e dai medesimi mari, noi parlanti una stessa favella,
siamo così gli uni agli altri famigliari, che Pisa ignora quello si fa a
Lucca. I signori Tendler e Schaefer, editori domiciliati a Vienna e a
Milano, in buon tempo avvisati, si disposero rendere alla _Duchessa_ i
suoi panni italiani: però sembra che a mala voglia vi si piegassero,
perchè la _Duchessa_ nella loro edizione offre una favella che non è
tedesca nè italiana, comecchè partecipi di ambedue, a modo di que’
dannati che si tramutano nello Inferno del Dante:

      Nè l’un nè l’altro già parea quel ch’era:
    Come procede innanzi dall’ardore
      Per lo papiro suso un color bruno,
      Che non è nero ancora, e ’l bianco muore.
                                  (XXV, 63-66.)

Adesso poi, dopo non meritato esilio, la _Duchessa_ torna esultando ai
luoghi del suo nascimento, e tutta commossa sospira questi versi
dolcissimi:

    Bella Italia, amate sponde,
      Pur vi torno a riveder;
      Trema in petto, e si confonde
      L’alma oppressa dal piacer.

E come accade a ogni uomo, e più a ogni donna aspettata a qualche
convegno, che per le scale si aggiusta i veli, e con le dita dà una
giravolta ai bei cincinni di oro, — o vogli di ebano, — così ella ha
curato correggere locuzioni e frasi per comparire tutta in punto e bene
azzimata alla festa.

_La Serpicina_ ricorda amarezza più acerba: non il bando del libro, ma
sì dello scrittore. Certo non fu esilio nel Ponto, nè potevano i luoghi
ispirarmi i _Tristi_; nonostante il cuore dell’uomo non si strappa dal
seno della famiglia e da ogni cosa più caramente diletta senza che
soffra; egli si abbarbica con fibre tanto sottili e dilicate, che male
si può traslocare altrove senza vestigio di lagrime e di sangue! E non
conto nulla le guaste fortune, i negozi perduti, e i danni appena
riparabili. Pensando poi come mi avvenisse questo per avere pagato un
debito di lode che la mia città teneva verso un suo figlio riuscito
prestantissimo Capitano,[5] mi prese supremo fastidio della terra
ingrata, ed aveva deliberato ripararmi in Inghilterra; ma nel luogo del
mio esilio, per ordinario freddo e pieno di neve, in cotesto anno
spirarono dolcissimi aliti, onde io sovente ebbi a ringraziare Dio che
mitigava il vento allo agnello tosato; anzi giù nella valle, ove
possiede una terra la duchessa Di Altemps, sul finire di febbraio
nacquero rose, sicchè i cari ospiti, la vigilia della mia partenza dal
paese, mi convitarono e nella salvietta mi fecero trovare con somma mia
maraviglia una rosa rubiconda e odorifera; e mentre io la guardava
fisso, uno degli astanti, consapevole del mio disegno di abbandonare la
patria, così mi favellava:

    E tu poeta, lascerai la terra
    Delle rose nudrice a mezzo il verno?

E veramente non per virtù di fiori, imperciocchè sapessi come
anticamente a Sibari soffocassero con le rose per estremo supplizio, ma
nel pensiero che male avrei potuto trovare altrove tanto affetto e tanto
gentile modo per esprimerlo, deposto giù ogni rancore dall’animo, mutai
consiglio, e statuiva vivere e morire nella patria; e tu, o terra che
cuopri le ossa di mio padre e di tutti quelli che ho amato, avrai anche
le mie; e finchè vivo ogni mia facoltà pel tuo bene, e morente l’ultimo
sospiro, perchè molto mi sei cara per le gioie che mi desti, — ma a
mille doppi più assai pei dolori che mi costi. —

Da cotesto giorno pensando sopra la sentenza del Tintore, mi è venuto
fatto confrontarla con quella che diceva il conte Piero Noferi: —
_Quando si hanno i colombi in colombaia bisogna sapere schiacciare loro
il capo_, — e con l’altra di Luca di Maso Albizzi: — _Chi spicca lo
impiccato, lo spiccato impicca lui_,[6] — ambedue dirette a Monsignore
Silvio da Cortona per indurlo a incrudelire contro i cittadini di
Firenze che nel 1527 si erano resi a patto; e mi parvero scellerate
queste due massime, non giusta quella del Tintore, perchè mettere le
mani nel sangue dell’uomo non mi capacitava potesse costituire mai
diritto legittimo dell’uomo: finalmente dopo molto meditarvi sopra, ho
dovuto dare ragione al Tintore: — _Dei serpenti, quando capitano sotto
il calcagno, è carità schiacciare la testa._

Dei _Nuovi Tartufi_ non dico parola: i tempi hanno reso il racconto più
opportuno di quello che non avrei mai sperato, — o piuttosto temuto.
Vedo una gente la quale a modo dei sacerdoti di Cibele saltando
insanisce, fino a strapparsi le forze della virilità. Origène si
castrava _propter regna cœlorum_; questi si castrano per andare a tenere
compagnia a Piero Soderini nel Limbo. L’avventura degli antichi
Abderitani i quali, narra Luciano, stettero ebbri tre giorni interi, ha
cessato comparire favola, poichè la ubbriachezza di un popolo può
durare, e i nuovi esperimenti lo mostrano, ancora degli anni. Intanto
tra queste tenebre ove è mestieri procedere a tastoni io vo gridando le
parole di Cristo: — _Guardatevi dai falsi profeti: — voi li
riconoscerete dai frutti loro. — Colgonsi uve dagli spini o fichi dai
triboli? — Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, noi
abbiamo profetizzato in tuo nome, ed in tuo nome cacciato demoni, e
fatto in tuo nome molte potenti operazioni: ma io allora protesterò
loro: — io non vi conobbi giammai: dipartitevi da me, voi tutti
operatori d’iniquità._

_E intendami chi vuol, che m’intendo io_, come scrive Messere Francesco
Petrarca.

I _Discorsi_ in parte sono estratti dallo _Indicatore Livornese_, povero
foglio morto di male di gocciola, o, come adesso si dice, di apoplessia
fulminante. Cotesto povero foglio pareva avesse più debiti della lepre,
e gli fu forza soccombere. Se quelli che disfanno sapessero quanto sia
agevole rovinare, e quanto arduo costruire, prima di cancellare una cosa
ci guarderebbero due volte. Lo _Indicatore Livornese_ avrebbe creato una
opinione tra gente che non ne possiede veruna; avrebbe somministrato
adito per farsi conoscere ai giovani ingegni che poi andarono dispersi;
li avrebbe con la emulazione fecondati; avrebbe messo ognuno al suo
posto disfacendo vecchie reputazioni così di capacità come d’integrità
salite sopra un trono di mozziconi di lumencristi o di diplomi
accademici; avrebbe studiato le ragioni del commercio, sviluppato teorie
di pubblica economia, diminuito e forse anche estinto (se pure è
possibile mai!) il regno dei pedanti; avrebbe promosso il pubblico
insegnamento lasciato per somma sventura in balía di uomini per la più
parte ignorantissimi, o tali che balenano su l’orlo estremo della
ragione come funambuli sul canapo senza contrappeso... Insomma avrebbe
fatto del bene. — Certamente il foglio non procede senza peccati, ed
ebbe le sue colpe; ma elle erano cose da perdonarsi, considerando che lo
governavano giovani procaci, baldanzosi, e inesperti del mondo; ma non
fu bel modo certo quello di correggere figliuoli forse un po’ inquieti
col dare loro di una mazza sul capo, e distenderli morti.

Della utilità del povero foglio mi giovi referire questo soltanto, che,
dopo lo scritto intorno le _Sepolture di Santo Jacopo_ le disoneste
associazioni cessarono; e che dopo lo scritto intorno ai _Merini_, i
Toscani avvertiti si volsero a questo genere d’industria, e con quale e
quanta efficacia lo dica l’Opera recentemente pubblicata sopra le nostre
Maremme dal Dottore Antonio Salvagnoli.[7]

E se lo _Indicatore Livornese_ viveva, forse non sarebbero state non che
consumate, immaginate le tante insidie alle fortune private all’ombra di
bugiarde speculazioni, per cui oggi i capitali inorriditi rifuggono dal
concorrere a promuovere le utili imprese; no, il credito nostro non
sarebbe andato disperso, non perdute le forze per cui le Consorterie
operano monumenti colossali, nè si sarebbero svaligiati i capitalisti
sopra i progetti di strade a vapore col mezzo delle azioni e promesse di
azioni, come altra volta grassavansi i viaggiatori sopra le pubbliche
vie con pistole e tromboni; — no, non avrebbero neanche osato far
capolino tali che appartengono alla cittadinanza degli onesti come i
panarecci alla mano, o le stincature alle gambe, o..............; lutto
della città, e vergogna perfino a coloro che non affatto buoni ebbero la
incautela di abbassarsi alpunto di accoglierli compagni.

Le _Illustrazioni_ soltanto mi offrono materia di piacevole ricordo.
Egregi Artisti, tra i quali a causa di onore devo nominare il Professore
Perfetti, Bonaini livornese e Chiossone, dettero opera a incidere i
quadri della _I. e R. Accademia delle Belle Arti_ di Firenze: essi a
proprie spese condussero la impresa a quel punto in cui oggi con
ammirazione universale si vede. — Degna ed egregia gente! Eglino nel
concetto di fare cosa che tornasse onorata alla patria si messero in
cammino come Abramo, e confidando in Dio e nel proprio coraggio
esclamarono col Patriarca: _Deus providebit!_ — Io non ho potuto
giovarvi come avrei desiderato, o egregi Artisti; non fu per mancanza di
buon volere ma di potere, e prendo qui occasione di ringraziarvi
solennemente perchè richiamandomi ai dilettissimi studi delle opere dei
nostri divini maestri, mi forniste occasione per distrarmi alquanto
dalle cure moleste, e di srugginirmi un po’ il cervello. La vostra
impresa, opera d’intelligenza e di amore, merita premio di lode e di
guadagno; e come già conseguiste la prima larghissima, così non può
mancarvi il secondo, se gl’Italiani non hanno tanto smarrito il bene
dello intelletto da preferire per ornamento delle loro stanze a questa
preziosa effigie delle arti italiane i molti aborti delle litografie
francesi.

Le _Traduzioni_ e _Volgarizzamenti_ di poesie liriche sono come fiori di
ghirlanda disfatta, o piuttosto non intrecciata. Divisava un giorno, e
non ne ho per anche deposto il pensiero, adoperandovi ancora, come vi
adoperai, l’aiuto di amici, raccogliere le principali liriche di tutti i
popoli del mondo antichi e moderni, allo scopo di mostrare che le
passioni umane si manifestarono sempre a un di presso nella medesima
forma: così tra la serventese provenzale di Sere Blacasso e la canzone
slava di Eiuduco moribondo, tra l’Ode di Omero ai Vasai e l’Ode di
Schiller detta _La Campana_, _la Fidanzata di Corinto_ del Goethe e il
racconto della fidanzata di Corinto di Flegone, apparisce quasi una
fratellanza; e lasciando dei sentimenti, le immagini, le metafore
suonano quasi le stesse; o Vitalis, comunque non uscito da Stoccolma e
da Upsala, descrive i prodigi dell’Oriente come i poeti Arabi e i
Persiani. Dalle quali considerazioni io proponeva trarre una
conseguenza, che il poeta è sacro ingegno sublimato da Dio, cittadino
del mondo e spirito universale, che sotto il mantello che lo cuopre,
secondo affermava il Canning, più spesso che non si crede troviamo il
capitano, il legislatore e il rigeneratore di popoli.

Questo disegno mi è venuto meno per virtù delle solite incursioni e del
relativo saccheggio dei saccomanni, cagnotti, berrovieri e simile altra
geldra di buona e cappata gente. Mi dicono, che chiedendo potrei
redimere le spoglie innocentissime; ma io preferisco ch’esse si
rimangano onorato trofeo colà dove stanno appese. Mi sta fitta in mente
la risposta che dava Vittorio Alfieri a coloro che lo consigliavano di
supplicare il Generale Miollis affinchè gli venissero restituiti i libri
rapitigli in Francia.

_I Bianchi e i Neri_ furono il secondo passo tentato sopra l’arduo
cammino. Persuadendolo gli amici, feci rappresentare cotesto Dramma qui
nella mia città, fra mezzo ai miei concittadini, nella fiducia che
avrebbero accolto con benevolenza il giovanetto che schivo dei sollazzi
della sua età vegliava le notti per rendere so stesso con la sua patria
onorati. _Horresco referens_! — Ebbe plauso uguale a quello che fecero i
demoni alla orazione di Satana giù nello Inferno quando egli referì la
caduta dell’uomo, quantunque i miei concittadini non fossero tramutati
in serpenti.

                             Expecting
    Their universal shout, and high applause
    To fill his ear: when, contrary, he hears
    On all sides, from innumerable tongues,
    _A dismal universal hiss, the sound
    Of public scorn_.
                         (_Milton_, I. 10.)

No: i miei concittadini rimasero uomini! L’orgoglio di autore non fu
ferito, o se ferito, presto sanato mercè gli egregi scritti di Elia
Benza sopra cotesto Dramma; ma mi scese invincibile dentro al cuore la
repugnanza di commettere opere di arte alla brutalità di malevoli o
stolti, come gl’Imperatori Romani esponevano i condannati alle fiere.
Forse più che ad altro io mi sentiva chiamato pel Teatro; così ne fui
distolto per sempre. A me parve in cotesta sera il Teatro Carlo-Lodovico
il Pandemonio descritto dal Milton nell’avventura riferita poco anzi:
«Terribile fu il fragore del fischio nella sala stipata da mostri di
molti capi e di molte code; scorpioni, aspidi, anfesibene crudeli,
ceraste armate di corna, idre, elopi funesti, e dispadi: no, tanto
sciame di rettili non cuoprì la terra cruenta del sangue della Gorgone o
la Isola di Ofiusa.»

E ponendo da parte lo scherzo, non farà maraviglia se io partecipassi il
sentimento di Gualtiero Scott, il quale supplicato di combattere con
l’autorità del suo nome e la potenza della parola, la Riforma proposta
da Lord Grey, sentendosi accolto nella Camera dei Comuni come Satano dai
demoni, avvertì sorridendo il membro di Parlamento che gli sedeva
accanto: «Bene avvisai astenermi dal Teatro, perchè mi accorgo che le
mie orecchie non avrebbero potuto assuefarsi a cotesta musica.»

Qui cesso, che parmi avere oltre il giusto favellato delle cose mie:
però non inutilmente; avvegnachè i giovani scrittori vedano come il mio
cammino sopra il sentiero delle lettere umane sia stato uguale a quello
di Cristo sul Golgota. Non moto, non passo che io non abbia segnato con
una goccia di sudore e di sangue: spesso caddi sotto la croce, ma mi
rilevai da me stesso, e tornai a portarla, e la porto senza soccorso di
Cireneo. Io non auguro ai giovani scrittori lunghe sventure, ma prego
Dio che li guardi dai facili trionfi. Le sventure sono le midolle di
lione con le quali la _fiera divina_[8] nudriva l’alunno Achille; e il
carcere

    Affinando il pensier ne fa una lima.

Di questo la giovane generazione degli scrittori che ci terrà dietro
vada convinta, che i fiori provati alle rugiade di acqua forte non
temono inclemenza di rigido cielo, nè lusinga di perfido sole: crescono,
e si spandono per virtù propria.

Il dolore formava parte principalissima di educazione presso gli
Spartani. L’arco di Ulisse non si tende da braccia di eunuchi.

                                                    F.-D. GUERRAZZI.



VERONICA CYBO,

DUCHESSA DI S. GIULIANO.


RACCONTO STORICO.



AL CAVALIERE NICCOLÒ PUCCINI.


_Nel carnevale passato certo gentiluomo pagò mille lire una parrucca da
mettere in capo al suo cocchiere onde apparisse mirabile in corso! —
Pochi anni avanti, VITALIS, giovane genio svedese, moriva di fame
all’ospedale di Upsala! — E questo, già come sapete, è il secolo
_superior fine_ della Intelligenza e della Carità._

_Conoscendo che Voi, non estimandovi migliore dei nostri padri, nel
pensiero di suscitarne la memoria col mezzo delle Belle Arti avevate
deciso commettere dieci quadri a Pittori di antica fama, e a Pittori che
dovevano formarsene una nuova, vi raccomandai il giovane pittore ENRICO
POLLASTRINI, mio concittadino._

_A questa mia raccomandazione rispondeste: avere commesso immediatamente
un quadro, che doveva rappresentare la _Morte del duca Alessandro_, al
mentovato giovane, aprendogli così il campo ad onorare la sua Patria, se
stesso, ed anche Voi, che lo avete protetto, — ov’egli faccia, come
spero, opera egregia._

_Io desiderava pertanto manifestarvi pubblicamente la mia gratitudine
per questo fatto; e, come vedete, colgo la prima occasione che mi viene
offerta, intitolando a Voi questo Racconto._

_Accettatelo com’io ve lo mando, cioè non come dimostrazione d’ingegno,
ma come testimonianza di animo grato._

_E questa mi sembra una Dedica che io possa fare, e Voi accogliere,
senza che ne dobbiamo arrossire ambedue. Addio._

                                      Vostro affezionatissimo amico,
                                            F. DOM. GUERRAZZI.



VERONICA CYBO.



I.


L’autunno è la più mesta stagione dell’anno; — il vespro è l’ora più
mesta del giorno: — in quella stagione, in quell’ora, il Sole si
avvicina alla sua tomba magnifico a vedersi come il figlio primogenito
del Creatore. — Sul mezzogiorno egli tenne raccolti tutti i suoi raggi
per vibrarli veementi a suscitare la natura; ma verso sera la vita è
sparsa, la virtù diffusa, ed egli adesso si compiace a versare tutto il
suo lume per l’emisfero che lo circonda. E la volta dei cieli,
abbandonato il manto azzurro, s’indora della luce divina, in quella
guisa che il secolo assorbe l’emanazioni della grande anima che lo ha
dominato.

Simile alla Fenice, che si apparecchia il rogo di cinamomo e di mirra,
il Sole adorna con mirabile pompa il suo sepolcro. Porpora, oro, e
colori di gemme preziose, e le tinte svariate della conca marina ove
cresce la perla, lo accompagnano nel tramonto. — L’Oceano aspetta
fremendo l’immenso ospite. — Tutta la natura si agita, mossa da
incomprensibile sgomento, e si affatica a fare testimonianza di vita nel
punto stesso in cui sta per abbandonarla il suo principale motore. I
pensieri dell’uomo si volgono agli assenti, o ai defunti. Il bronzo
medesimo percuote l’aria con tale una voce, che sembra lamento. — Il
gran _Pane_ sta per morire.

Ma il gran _Pane_ muore la morte di chi sa di risorgere. — Creature di
un giorno, volgetevi ad Oriente, e lo vedrete in breve ora apparire
trionfale e glorioso! Chi sa quanta copia di voi, foglie animate, sarà
caduta per sempre dall’albero della vita nella breve sua assenza dal
nostro emisfero!

E quando siete cadute, creature d’un giorno, o come è triste il vostro
sepolcro dentro la terra! Gli affetti dei vostri più cari superstiti
s’inaridiscono prima dei fiori sparsi sopra la vostra bara.... Il
lenzuolo funerario vi contiene intere. Fuorchè la rugiada del cielo,
desiderate invano altre lacrime. — Qualche volta la scienza
dell’antiquario conosce la vostra tomba. — di rado la pietà dei
discendenti. — Che aspettate voi oltre il sepolcro? L’oblio è il
retaggio, — il fango l’origliere, — il verme il compagno dei morti. Ah!
Dio, ricevi nelle tue braccia misericordiose le anime derelitte di
coloro che abbandonano la vita.



II.


Se i dolci sorrisi e i molli baci, e tutte le più care soavità
dell’amore conteneva in sè il cinto di Venere, come poetando ci narra
Omero divino, veramente può dirsi che i colli di Firenze la circondino
leggiadri come la cintura di Citerea. _Deh! che non è tutta Toscana il
mondo!_ esclamava quell’austero intelletto di Vittorio Alfieri scendendo
dall’Apparita, e la contemplazione di così stupenda bellezza valeva a
spianargli una ruga sopra la fronte, — un’altra sul cuore. — Adesso
tutti gli Dei disertarono questa terra, che è delizia del Sole:
squallidi fati ci avanzano; rimanemmo soli. E nondimeno in partendo i
Numi la riguardarono con amore, e vi scossero sopra le fimbrie delle
clamidi quasi per benedirla, sicchè l’aria intorno conserva un senso di
ambrosia e di armonia, che verun tristo vento ha potuto dileguare fin
qui. Pei boschi degli allori e pei mirteti tu sentirai sibilare
lenemente le ultime vibrazioni delle antiche arpe famose. La morte ha
chiuso i labbri degl’incliti nostri personaggi, e non pertanto per gli
atrii, pei fôri, lungo le mille colonne delle navate dei templi risuona
ancora l’eco delle estreme loro parole. — Come sul volto di Laura, la
morte par bella su questa terra bellissima...![9]



III.


È una molto terribile storia quella che adesso io racconto, e che ha
principio nella villa Salviati, posta sopra uno dei bei colli che
circondano Firenze, ond’è che non invito a leggerla se non chi ne ha
voglia. — Correva il vespero del primo di novembre 1637, regnando in
Toscana Ferdinando II di gloriosa, immortale, paterna memoria, come fu
inciso su l’epitaffio composto dal poeta di corte. Una fata si sarebbe
scelta per dimora cotesta villa; quel benedetto ingegno di messere
Lodovico avrebbe saputo appena immaginarla più bella. Ma io non istarò a
descrivertela, amico lettore, però che da quando mi accorsi come gli
_uscieri_, e simili persone onorandissime deputate a commettere
gravamenti, descrivessero mobili e vesti, quanto Scott o Balzac, io meco
stesso divisassi lasciare intera alle prefate onorandissime persone la
gloria degl’inventarii.

Solo dirò come in certa camera si vedesse un letto con baldacchino e
tende di damasco a rappe azzurre sopra un fondo giallo, ornato
all’intorno di cornici e d’intagli sottilmente lavorati e dorati.

Dormiva su quel letto un fanciullo di forme leggiadre, di capelli neri
ricciuti; palpebre lunghissime di seta; nelle guance florido, co’ labbri
accesi: — simile al putto dell’_Ego dormio, sed cor meum vigilat_,
dipinto dal Bronzino.

Con la piccola mano andava ad ora ad ora cacciando via una zanzara, che
più ostinata tornava a vellicargli le labbra e il naso: — ed egli
torceva quelle, e questo aggrinzava indispettito; chè il molesto
solletico formava il più profondo dolore che mai avesse sofferto nella
breve sua vita quel fanciullino.

Dormiva un sonno a fiore d’occhi, conciossiachè a seconda del vento
giungesse a sturbarlo uno schiamazzo di risa e di voci gioiose, come
quando, il decoro dei commensali vinto dal vino, la esultanza del
banchetto scorre rubiconda e loquace, talora a rallegrare, — qualche
volta a insanguinare le mense.

Ed infatti il cavaliere Iacopo Salviati, duca di San Giuliano, aveva
convitato i nobili suoi amici a sontuoso banchetto.

Quantunque, durante il pranzo, egli fosse sovente comparso preoccupato,
aveva nondimeno soddisfatto a tutte le parti che a compito gentiluomo si
addicono. Nè in bella cortesia di maniere gli era punto rimasta
inferiore la spettabile dama Veronica Cybo dei principi di Massa, sua
consorte, la quale, comecchè dotata di spiriti alteri, e fiera più che
per avventura a delicata femmina non convenga, sapeva nulladimeno
temperarsi all’uopo, e sostenere egregiamente il decoro della nobile
casata.

I Salviati erano in quel tempo, siccome furono sempre, principalissimi
di Firenze, e strettamente congiunti alla casa dei Medici. Vero è bene
che i Salviati avevano qualche volta insidiato la vita dei Medici, e i
Medici avevano per altra parte qualche volta mandato i nobili loro
parenti a dare dei calci al rovaio, come avvenne nella famosa congiura
de’ Pazzi, nella quale essi non aborrirono impiccare alle finestre di
Palazzo Vecchio messere Francesco Salviati, arcivescovo di Pisa, e
cardinale di Santa Madre Chiesa; ma ciò non guastava punto la parentela,
nè la buona amicizia tra loro. E’ pare che a quei giorni il filo dei
coltelli non tagliasse i parentadi, e il capestro avesse virtù di
ristringerli. Nella epoca poi della presente storia, il signore Iacopo
occupava in corte cariche di conto, e poco dopo, il granduca Ferdinando
scelse a suo ministro il marchese Vincenzo Salviati, nel quale ripose
altissima confidenza.

Durante il convito, il signor duca si studiava fuggire gli sguardi della
duchessa, quanto questa all’opposto poneva cura a riscontrare i suoi; e
quando inevitabilmente s’incrociavano, ti sarebbero apparsi ferri
taglienti. — Se la virtù favolosa degli occhi del basilisco fosse stata
concessa a quelli degli uomini, quante creature umane, pensate voi che
rimarrebbero adesso ad abitare la terra?

Giunse alfine il momento in cui _ab antiquo_ corre nei banchetti il
costume di propinare a vicenda alla salute dei commensali. Il duca non
trovando maniera onesta di farne a meno, colto all’improvviso il destro,
prende precipitoso un bicchiere, ed accennando alla duchessa, esclama:

“Madonna Veronica, io bevo alle vostre contentezze!”

La duchessa levandosi come vipera calpestata, con labbra tremanti si
reca a sua posta nella mano un bicchiere, e gli risponde:

“Sì!... a quelle che voi mi date, signore Iacopo, da un pezzo in
qua....”

E di pallida, diventò per tutta la faccia vermiglia. Su l’orlo estremo
dell’occhio le spuntò una lacrima, sopra i labbri un sospiro, che però
nel punto stesso vennero — quella inaridita — questo compresso da
ineffabile senso di rabbia.

Alcuni dei convitati che notarono quegli atti, non sapendo di quale
feroce procella fossero segni, sentirono intenerirsi, e susurrarono
sommessi, che nè più bella, avventurosa e amorevole coppia di coniugi a
memoria di uomini si era mai vista in Firenze.

Si levano le mense; la comitiva si sparge pei giardini. Al duca, che di
un cenno ne aveva dato segreto comando, conduce davanti un superbo
cavallo turco il valletto fedele. Recatesi in mano le redini con garbo
pieno di leggiadria, il signore Iacopo si valga ai circostanti, e dice
loro: aspettarlo l’eccellentissimo e serenissimo granduca; avergli
promesso di vegghiare in corte; impedirgli il rispetto, non consentirgli
l’affezione, che svisceratissima portava a così benigno signore, mancare
al convegno; rimanessero: tutti quei diletti, che la sua povera casa
poteva offrire maggiori, a loro talento pigliassero; forse sarebbe
tornato a notte inoltrata; raccomandarli intanto a madonna Veronica, la
quale, come quella che era la stessa cortesia, non aveva mestieri di
lusinga per mantenersi ciò che fu e sarebbe stata sempre, il più bello
ornamento delle case Cybo e Salviata.

E senza attendere risposta, — quantunque si udissero risuonare dintorno:
— padrone, — ella si accomodi, — è di dovere, — e simili altre frasi
profferite senza pregiudizio di biasimare a voce bassa quello che si
loda a voce alta, — e senza attendere risposta, gravata la mano sinistra
su la criniera, di un salto balza in sella, spinge di gran carriera il
cavallo. Venuto in parte ove non temeva più gli sguardi o la voce della
duchessa, si volge, e vede come tutti i suoi convitati tenessero in lui
intenta la faccia, onde è che compiacendo alla lusinga della vanità,
nonostante la voglia che pure avea grande di recarsi a Firenze, arresta
di repente il cavallo, e quello sta come di bronzo fuso; poi fatto arco
della coda e del collo, volteggia ora a destra, ora a sinistra, o si
slancia disteso al salto della barriera, e aggruppa le gambe ad altre
figure, insomma esercita tutte quelle destrezze che buon cavallo sa fare
col buon cavaliere. Gli spettatori ammirati se ne congratulavano con la
duchessa. Le donne poi non rifinivano di levare a cielo il prestante
cavaliere, e quelle lodi erano come tante coltellate al cuore della
povera moglie, che pure avea occhi per conoscere tanta vaghezza, e mente
per pregiarla, e anima per amarla svisceratamente, e a chiara prova
vedeva come oggimai fosse per lei perduta senza rimedio. Il duca,
avvolto da un nuvolo di polvere, disparve.



IV.


Si apre con impeto la porta della camera ove dorme il fanciullino, e
imperversando vi si lancia dentro la duchessa. Non badando o curando se
altri la nota, ella si precipita verso il balcone, e quivi, i gomiti
appoggiati al davanzale, il volto declinato fra le mani, si pone a
considerare il duca, che galoppando si allontanava. Chi mai dirà
l’inferno di quell’anima esacerbata? Pestava i piedi, singhiozzava,
fremeva, intere ciocche di capelli si strappava, e tremava, tremava come
persona presa dal ribrezzo della febbre, e:

“Iacopo mio,” — fra i singulti diceva “non ci andare... Iacopo, torna
indietro... Iacopo, salvami dalla tentazione del demonio: in questo mio
cuore o tu, o Lucifero. Se mai ti offesi, se in cosa alcuna ti spiacqui,
Iacopo, io ne domando perdono prima a Dio, poi a te. — Da ora in seguito
mi vuoi più mansueta... mi sforzerò... lo sarò... — non ti dirò parole
amare, — ma torna addietro... — Ahimè! sempre più si allontana. —
Volgiti, duca, per amore dei tuoi morti, che sono domani, non lacerare
il cuore di una donna, della povera tua moglie, della madre dei tuoi
figliuoli. — Oh dolore! appena lo scorgo. — Pace, Salviati, — e mutata
attitudine, ambe le braccia stendeva fuori del balcone; — pace; io
scenderò, se vuoi, dal grado di sposa, ti servirò da fantesca; se vuoi,
ritirami l’amore tuo, non amarmi; — anche questo concedo; non mi amare
più: ma non preferirmi altra donna. — O Cristo! è scomparso... e fra
un’ora... fra pochi istanti sarà nelle braccia di altra donna! — O
Cristo!”

Ebbra di furore, abbandonato il balcone, passeggia la stanza, ad ora ad
ora esclamando:

“Fieri esempi — ricordanze disperate — eterno lutto! — gli strapperemo
il cuore, e glielo batteremo su le guance. — Non è forse traditore? Sì
certo, e della stirpe dei traditori. — O piuttosto trucidarli ambedue
negli osceni abbracciamenti. — O piuttosto...” — e qui la voce le si
affiochiva — “mi trovasse qui spenta nel letto, e accanto a me il suo
figliuolo anche esso spento;” — e si accostava al figliuolino.

Ma il fanciullo erasi desto, e postosi a sedere sopra il letto, con gli
sguardi alacri, che sogliono dopo il sonno avere i bambini, e un ridere
dolce di paradiso, tese le mani alla duchessa, — la chiamava:

“Mamma mia!”

E Veronica Cybo si gettava prona con la faccia sul letto, e abbracciava
come delirante il figliuolo, lo inondava di lacrime, lo stringeva, lo
baciava, e gli domandava perdono, talchè il fantolino diceva:

“Mamma, mi fai tanto male...”

Ed ella:

“Lasciati fare, — tu fai tanto bene a me...”

Si quietava quella piena di affetto, e dopo un lungo pensare la duchessa
così riprese a dire:

“Ma che cosa ha mai questa Caterina, che valga a Strapparmi il cuore di
mio marito? Nata di plebe, ella non può intendere i nostri sensi
gentili; — me la dicono educata nel fango... e deve essere così! — Ma
forse no, che m’ingannano... — Sì, sì, — certo, quello che di lei
maggiormente talenta il duca, saranno le sconce lascivie, lo inverecondo
abbandono, i gesti provocanti; solita infamia di cotali femmine! — Ah!
perchè la bellezza, che dovrebbe formare esclusivo retaggio degli
angioli, fu data in sorte a così sozze creature? — Ma ella è poi così
bella costei? — Vediamo! — La marchesa Cecilia me ne ha procurato il
ritratto: povera amica! — Quante grazie le debbo! — Vediamo...”

Accosta in fretta una tavola presso al balcone per avere più lume, e
sopra la tavola assesta uno specchio. Si asside, si compone il velo e i
capelli, rende mansueta la faccia, e si prova a chiamare su le labbra la
serenità del sorriso; quindi si leva dal seno una miniatura con
eccellenza di arte condotta, e con tale una espressione la riguarda, che
favella umana non saprebbe referire.

Cotesto ritratto rappresentava una giovane donna decorosa per copia di
biondi capelli, per dolcezza degli occhi azzurri soave; candida nella
fronte, e tanto pura, che l’Angiolo stesso della innocenza avrebbe
potuto benedirla con un bacio. Dalla intera sembianza spirava tale e
siffatto senso di pudore, che ti prendeva vaghezza di adorarla
piuttostochè di amarla, siccome avviene a cui riguarda con profondo
sentimento dell’arte le immagini di Raffaello.

Il terrore aveva sconvolto l’anima della povera duchessa, — e con
l’anima, la faccia: sentiva la sconfitta, non si attentava contemplarsi
nuovamente nello specchio; — ma ve la trassero i fati, — e si specchiò.

Colei tanto florida sembianza; — ella già volta ad appassirsi!...

“Ma anch’io fui fresca come un fiore, — quando prima vergine innamorata
mi abbandonai fra le tue braccia! Chi avvizzì le mie labbra se non che
tu bevendovi a sorsi lunghi avidamente il piacere? — Chi altri che tu
m’inaridiva le guance con l’ardore dei tuoi baci? — Se il mio sguardo
divenne languido, sposo mio, non fu perchè nel mio seno ti riprodussi, e
ti feci lieto di figli? — Il cuore di una donna, di una moglie, in mano
al marito è forse la farfalla nelle dita del tristo fanciullo, che le
strappa ora un’ala, ora un’altra, e poi lacerata la calpesta ridendo?”

Colei così placida di pace beata; — ella poi torbida, di ciglia truci, e
minaccevole sempre!

“Ma anch’io una volta fui festosa, tutta moto, tutta canto, come un
uccello di primavera. Chi mi avventò nel cuore l’aspide della gelosia?
Chi convertiva la mia anima in un nido di vipere? Oh! se la speranza di
potermelo stringere al seno dilettissimo amante mi arridesse; se la sua
carezza mi blandisse, forse non tornerebbe il sorriso al mio pallido
volto? Questa mia fronte sgombra dai delirii di sangue non tornerebbe
pacata? — Prova almeno, Salviati, prova, e poi dannami ai miei infelici
destini.”

Colei, se giunge, supera appena il diciottesimo anno; — ella oltrepassa
il suo ventesimosesto...[10]

Di quanto ella avanza il suo ventesimosesto anno? — Non osa dirlo
nemmeno a se stessa. Questa età la spaventa come un ammasso più
terribile assai del capo di Medusa, di cui le frazioni le compariscono
atroci, sibilanti, velenose, quanto le serpi che compongono le chiome di
quel teschio infernale. — Ogni altra sua angoscia di natura più
psicologica potè essere da lei meditata e discorsa, ma le cifre
constituenti il numero dei suoi anni, simili al _mane techel fares_ del
convito di Baldassarre, le impiombano il sangue, le comprimono il
pensiero, la vista si perde fra mille scintille di fuoco, un tintinnio
molesto le martella le orecchie.

Dalla mano languida sfugge il ritratto, — i labbri si agitano senza
parole, — sviene.

“Mamma mia, come ti fai brutta!” esclama il fanciullo.

“Brutta!” — urlò la duchessa. — “Anche tu godi a contristarmi? — Iniqui
tutti, e maligni! Cecilia stessa nel procurarmi con tanto studio il
ritratto, chi sa non lo abbia fatto a bella posta per umiliarmi? — Che
dico forse? certamente è così! Ed io ringraziava la perfida amica!...
Iniqui tutti! Ma tu, vipera riscaldata nel mio seno, non devi unirti co’
derisori del tuo sangue. — Se adesso sono brutta, non lo era prima di
generarti... sai? — Il travaglio di portarti nove mesi in questo mio
fianco, — i dolori ch’ebbi a soffrire nel metterti al mondo, mi hanno
ridotta così, sciagurato! — Anche tu mordi le poppe che ti hanno porto
il latte, figlio di traditore, e nipote di traditori. — Maledetto il
giorno in che ti concepiva! — Va, — dopo una vita di stenti ti attenda
una morte d’infamia!... possa una moglie infedele renderti con usura
quello che tuo padre fa sopportare a me! — L’ultimo oggetto che ti
percuota la vista sia — l’abbracciarsi, — l’ultimo suono che ti giunga
all’orecchio sia — il lagnarsi degli adulteri, che di troppo si
prolunghi la tua agonia. — Prendi, tristo fanciullo! — prendi, ribaldo!
piangi anche tu...”

Alla procella delle parole e dei colpi, che lo percossero per la faccia
e sul capo, il bambino rimase come trasognato; — poi proruppe in pianto
senza freno: il singulto così profondo gli stringe la gola, che pareva
volesse strangolarlo: — faceva proprio pietà!

In mezzo alle tempeste più feroci dell’anima il pianto del figlio si fa
sempre sentire alle viscere di una madre. Donna Veronica risensò
all’improvviso, trattenne a mezzo un colpo che stava per discendere
sopra il figlio, e mutatone direzione, se lo dette di gran forza nella
fronte urlando forsennata:

“Faccio orrore a me stessa!”

Alle furie che già la dominavano, aggiunse la colpa che l’aveva tratta a
incrudelire contro il suo sangue, il dolore del figlio, e la paura di
averne meritato l’odio implacabile. Tremende visioni le si aggiravano
vorticose per la mente. Il demonio la sferzava co’ suoi più velenosi
flagelli. Fra tanti modi di vendetta uno le piacque, e fu il peggio: —
lo scelse, — lo ripose nell’anima come un tesoro, e con l’indice della
destra si comprimendo la fronte là dove si dividono le ciglia, con voce
roca profferì questa parola:

“Ho deciso!”

In quella notte Giomo Pelliccia, cagnotto di casa Cybo, soprannominato
Margutte, armato fino ai denti, per ordine della signora duchessa
montato sopra poderoso cavallo si pose in viaggio per a Massa.



V.


Presso la chiesa di Santo Ambrogio, sul terminare di Via dei Pilastri,
occorre una casa che fu già di Giustino Canacci, mercante fiorentino. —
Qui nella sera del primo novembre 1637 una giovane donna (quella dessa
della quale abbiamo veduto il ritratto nelle mani della signora
Veronica) si stava soletta seduta davanti una tavola in una sala vasta e
fredda, accanto alla porta di una camera. Al primo aspetto pareva
intieramente assorta nell’opera che aveva fra mano, senonchè esaminando
come ora l’ago si arrestasse a mezzo punto, ora volasse con direzione
diversa affatto a quella che avrebbe dovuto tenere, e l’affannoso
anelito del seno, e il sudore cui ella sovente per tutto il volto e sul
collo si asciugava, e il repentino sollevare della testa, e a chiusi
occhi agitarla a destra e a sinistra, sicchè i bei ricci biondi
continuavano ad oscillare anche dopo il quietarsi del capo, a guisa di
catenelle di oro pendenti da un lampadario; chiunque, dico, comecchè
dotato di mediocre levatura, avrebbe potuto con giuramento affermare: —
in quel cuore non abita la pace!

Una voce belante, che muoveva dall’interno della stanza presso la quale
stava seduta la bella Caterina, si fece sentire dicendo:

“Caterina, mi fa male sentirti sola in cotesta diacciaia; — perchè non
vieni di qua in camera, chè staresti a migliore agio? Questo anno il
freddo ci è caduto addosso più presto del solito, e più pungente...”

“Giustino mio, non vi date pena per me. Il lume vi recherebbe fastidio,
e il rumore del lavoro vi guasterebbe il sonno. Riposate, — procurate
chiudere gli occhi almeno stanotte.”

“Non importa; tanto del pane della vita i tre quarti io me li sono
mangiati. — Per uomo della età mia ogni minuto è tempo di morire. —
Prendersi pensiero di me egli è come seminare grano in Gonfolina. —
Vieni... vieni, levati da quel freddo costà.”

“Se alcuna cosa vi abbisognasse, Giustino, parlate; — sto qui per
servirvi: ove poi lo diciate a mio riguardo, gran mercè; — lasciatemi
stare... io sudo...”

“Sta pure, figliuola mia! Ah! benedetta la gioventù...”

La giovane donna s’ingegna ad alitare più basso. Sovente accosta
l’orecchio alla porta, spiando se il vecchio dorma, e poi alza la faccia
a consultare l’orologio a pendolo appeso alla parete dirimpetto a lei, e
pare che non senza brivido ella veda avvicinarsi la lancetta ad un’ora
fatale. Quinci rimuove lo sguardo, e pieno di ansietà lo fissa sopra la
porta che dà adito alle scale, e così continua in quel moto, che vorrei
dire triangolare.

L’amore affina i sensi, e questo è provato. La Caterina ha udito un
suono: il suo cuore non s’ingannerà. Chiunque altro non lo avrebbe
sentito, — ma io lo ripeto — la donna innamorata davvero sembra quasi
divina nelle sue sensazioni. — Sorge, — e come quegli uccelli che in
andando si aiutano coll’ale, ella tocca appena il pavimento
indirizzandosi alla porta della casa.

Nè desiderio punto minore stringeva certamente lo aspettato,
conciossiachè all’aprirsi dell’uscio egli si trovasse in pronto di
svilupparsi dal tabarro, e tendere le braccia alla Caterina, ove la
povera donna innamorata lasciò cadersi vinta dalla grande forza di
amore.

Godete! — Nato fra speranze, desiderii, e paure, nudrito di amplessi e
di baci, sempre è l’amore seguitato dal fastidio, spesso dal pentimento,
qualche volta dal rimorso. Godete! — All’amore vostro terrà dietro il
castigo; ma nessuno potrà togliervi questi momenti. Potenza umana o
divina tenterebbero invano far sì, che essi non sieno stati. Nella
miseria, che vi circonderà come una notte senza stelle, la memoria di
quei momenti vi sarà un fuoco di Santo Elmo. No, rammentarci del tempo
felice nella miseria non è dolore. La gioia, frettolosa pellegrina
dell’anima, le lascia in partendo la memoria, e questa di anno in anno
si diffonde tanto più cara quanto più si discosta dal suo principio, in
quella guisa medesima che nella superficie delle acque percosse tanto
più si dilatano le ruote quanto meglio si allontanano dal punto della
commozione. — La memoria è quasi un eco del piacere, che forse non tace
neanche dentro al sepolcro. Dalla coltre dell’etico, dalla prigione del
condannato, la memoria alata trascorre su i campi aperti, e si mesce co’
raggi matutini del sole, o si riposa su i calici aperti dei fiori,
assorbendone il profumo, o beve la lacrima pianta dalla madre quando
benedisse suo figlio, o si diffonde su i labbri della donna amata
inebbriandosi di sorriso, o le cadendo sul seno gode a sentirsi
balzellare dal palpito di un cuore al quale ella pure rimase estremo, —
arcano, — e consacrato conforto. — Finchè l’anima conserva la memoria
delle cose a lei più caramente dilette, l’Angiolo della speranza la
ricopre con le amorose sue ali.

Quando ebbe posa quello ardente affetto, e fu concesso agli amanti
l’ufficio della parola, la Caterina favellò prima dicendo:

“Iacopo, vieni qua, — riposati. — Santa Vergine, come sei bagnato!” — E
qui l’amorosa gli toglieva il mantello. “O che si è guasto il tempo?”

“Si apparecchia una notte d’inferno.”

“Già... dev’essere; — la burrasca dei morti.”

E il giovane crollando il capo, e ridendo, si pose a sedere sopra un
lettuccio, e recatasi su le ginocchia la Caterina, che cingendogli di un
braccio il collo prese a comporgli i lunghi capelli, continuava il
colloquio interrogando:

“O che cosa hanno che fare i morti con la burrasca?”

“Che cosa vi abbiano a fare io per me non saprei; ma egli è certo che
nella notte dei morti succede sempre la burrasca. Io mi ricordo avere
udito da sante donne raccontare, come la misericordia di Dio conceda
durante questa notte che i defunti, lasciate le antiche sepolture,
tornino a visitare i luoghi donde si sono dipartiti: e quelli che furono
buoni si valgono della grazia per visitare i loro diletti, e prevenirli
della lieta o rea fortuna, o con qualche sapiente consiglio ammonirli; i
tristi poi si spargono per l’aria e s’impadroniscono del fulmine, del
tuono e dell’uragano: — allora o si rovesciano sul mare, e la mattina tu
vedi sopra la sponda una vedova e un cadavere, — o percorrono la terra,
e presa la forma di perfidi fuochi folleggiano davanti al pellegrino
smarrito, e lo spingono giù nel dirupo, ove non pochi monticelli di
terra sormontati da croci accennano i sepolcri dei poveri precipitati.

“Speriamo,” continuando a sorridere, interruppe il giovane, “speriamo
che a noi risparmieranno la visita; ed io che li so dabbene e discreti
molto, ho fede che si accorgeranno come anche un morto sarebbe di troppo
fra noi. Noi ci bastiamo soli... n’è vero, Caterina? Ora di’, Caterina,
dacchè non ci vedemmo hai tu sempre pensato a me?”

“E tu a me, Ciapo?”

“Io sì... in fede di cav... del cavaliere San Giorgio; — ma e tu?”

“Io no; — ho pensato, e lungamente, ad altrui!”

“Ed osi dirmelo? Così presto dunque tu cotanto pudica le altre femmine
imiti? E non aborrisci...?”

Mentre in questo modo favella, si toglie dal collo il braccio della
Caterina, e lo respinge indispettito. — La Caterina, mesta ridendo,
ritorna placidamente ad abbracciarlo, e dice:

“Ho pensato all’anima di mia madre...!”

“Perchè hai pensato a tua madre?”

“Ma dimmi piuttosto tu perchè non hai pensato alla tua? Non sono tutti i
morti domani? — Guai a chi non può pensare a sua madre! O ciò avviene
per colpa sua, ed è un tristo; o per colpa di lei, ed egli è uno
sventurato.”

“Dunque l’amavi molto questa tua madre...?” si affretta ad interrompere
il giovane, a cui forse l’osservazione della Caterina suscitava la
memoria di una colpa, — o di un dolore.

“Se l’amavo! Eppure non tanto quanto ella si meritava! — Misericordia!
che lampo!” esclama improvvisamente la Caterina facendosi il segno della
salute; — “ah! che spavento! È stata una saetta...”

“Per poco non ha rotto tutte le vetrate!”

“Questo non può succedere, perchè la domenica delle Palme vi posi con le
mie mani l’ulivo benedetto; — ha battuto vicino però: — forse nel
campanile di Santo Ambrogio. — Ciapo, di grazia, va a chiudere le
imposte... fa piano, sai... bada di non lo svegliare;.... ho paura...”

Il giovane si leva, e cauto va ad appagare il desiderio della donna.

“Caterina!” — suona all’improvviso la voce belante del vecchio
Giustino, — “hai avuto paura?”

“Oh che sono nata ieri? — Oh che non ho sentito altri tuoni in questo
mondo?”

“Va, tu sei una valorosa fanciulla! Ma, Dio mio, ove sarà mai quel
tristo di Baccio? Egli è uno sciagurato, ma pure mio sangue.”

“E dove volete che sia, se non all’osteria del _Giardino_?[11] — E poi,
ha tanto orrore dell’acqua, che in qualche luogo e’ si sarà riparato di
certo.” — E tutto questo ella diceva con voce che s’ingegnava rendere
festosa, ed ostentando una contentezza che veniva smentita dal pallore
del suo volto.

Ciapo si ricondusse pianamente al fianco della donna amata, e stettero
per lunga ora in silenzio.

Continua la tempesta. Di tempo in tempo un rovinío di grandine colpisce
in pieno dentro le finestre minacciando mandarle a soqquadro.

La Caterina riprende:

«Se l’amavo! se meritava amore! Povera madre mia! Senti, Ciapo!... Fatti
più in qua, ed ascoltami bene. — Mio padre fu mercante nell’arte di Por
Santa Maria.[12] Felice un tempo ebbe amici; poi cominciò a declinare,
ed io mi ricordo, tuttochè bambinella mi fossi, udirlo sovente
rammaricarsi non già del suo, ma del pubblico male. La Toscana, diceva,
non essere per risorgere più mai: Olandesi ed Inglesi occupare il
commercio della Spagna e del Portogallo; le manifatture loro rendere
inutili le nostre; empirsi Livorno di gente nuova, per esercitare un
commercio che toglieva ai Toscani; provvedimenti fallaci e instabili
impoverire il popolo; tutti volere dissimulare il danno, siccome al
primo apparire della peste, ma si manifesterebbe ad un tratto l’abisso
del male, e senza rimedio[13]: e come disse accadde. — Fallito,
infelice, gli vennero meno gli amici: — la bocca (perchè del cuore non
può parlarsi) dei curiali fu muta pel mercante improvvidamente onesto.
Egli moriva sotto il peso dell’angoscia, e della infamia... La madre
mia, senza aiuto nel mondo, restrinse il vivere, si accomodò in una
soffitta qui sopra, assunse abito conveniente alla durezza del tempo, e
così potè per qualche mese schermirsi dalla estrema miseria. Se parola
alcuna le sfuggiva di rammarico o di desiderio (povera madre!), era per
me. La domenica, nel vedere dal finestrino giù nella via, donne e
donzelle recarsi a messa in Santo Ambrogio ornate di belle vesti
sfoggiate e di pendagli di oro, guardava me costretta a rimanermi in
casa per mancanza di panni, e sospirava.... poi mi era attorno, mi
acconciava i capelli, e quando a suo senno mi aveva lisciata e composta,
recandosi in mano i miei ricci, con orgoglio materno esclamava: — Di
così fatti fregi non vende mica il merciaio... — Così soffrendo ogni
disagio giungemmo al maggio del 1630, in cui la peste, devastata la
Lombardia, si sparse per la Toscana dalla parte di Bologna, e con la
peste la fame. Pensa tu qual fosse vita la nostra! Tra le percosse,
ella... la madre mia, — e le maledizioni; — per la persona malconcia, e
nel volto; — urtando urtata, morsa mordendo, le riusciva procurarsi
qualche alimento dalle canove aperte dal granduca a sollievo del popolo.
— Certo giorno io l’aspettai invano; ella non venne fino a sera. Poco
nudrita il giorno innanzi, io sentiva lo strazio della fame, sicchè
udito appena il rumore dei suoi passi mi feci a capo di scala gridando:
Madre mia, muoio di fame! — Ed ecco, ch’ella estenuata dalla inedia si
sforza salire le scale due scalini per volta, arriva palpitante, e
gittato un tozzo di pane sopra la tavola si abbandona sul letto. Io,
come mi consiglia la fame, non bado a lei, finchè divorato il tozzo
intero, non mi sentendo sazia le domando se altro ne avesse portato. La
povera madre proruppe in pianto; ed io, che mi accorsi della mia
durezza, piansi lacrime di pentimento. Si fece buio: la buona anima di
mia madre volle che mi coricassi, e mi confortò raccomandarmi al
Signore, assicurandomi che migliore ventura mi aspettava domani. — Mi
coricai, supplicando Gesù e la Madonna si degnassero guardarci con
misericordia. — Mia madre accese una lampada, e si pose a filare, ma le
labbra aride non avevano umore per bagnare il filo, le dita deboli non
sostenevano la fatica; spesso sbadiglia convulsa, non le regge la testa.
Allo improvviso il lume accenna spegnersi; ella si reca a stento
all’armario, e preso l’orciuolo fa atto di rovesciarlo dentro la
lucerna... l’orciuolo era vuoto! — tornò a sedere, fissò gli occhi nella
fiammella moribonda, e prese a dire:

— In questa guisa si morrà domani la mia Caterina: io non ne posso più:
non mi sono sdigiunata tutt’oggi; con i miei piedi di casa non uscirò
più; il mondo è pieno di Ruth, ma i Bootz si trovano soltanto nel
Testamento vecchio. — Devono essere pur grandi i miei peccati, Dio mio,
dacchè mentre la vostra misericordia alimenta il passero sul letto,
veste il giglio della valle, mitiga il freddo all’agnello tosato,
consente poi che ci travagli tanta miseria! — Si spense il lume, e poco
dopo rovesciando dalla seggiola percosse svenuta sul pavimento! — Balzo
di letto, e brancolando la rinvengo diaccia come un cadavere. Mal
sapendo quello che io mi faccia, coperta della sola camicia prorompo
fuori di casa gridando: — è morta! — Nessuno si mosse: vi fu anzi chi
temendo non fosse morta di peste turò perfino il foro delle serrature
della porta di casa. — Giustino solo aperse l’uscio alle mie strida, e
tolta una lucerna venne a vedere mia madre. — Buon Giustino! la rilevò
con le sue braccia da terra senza paura di peste, la pose sul letto, la
ristorò, ci sovvenne... — Gesù e Maria! (prorompe la Caterina forte
stringendosi alla vita dello amato, e nascondendo la faccia nel seno di
lui) — ma che i fulmini hanno tolto di mira questa casa?”

“Su via, paurosa; rammentati dei versi del signor Tasso, che leggemmo
ieri:

    Pera il mondo e rovini; a me non cale
    Se non di quel che più piace e diletta;
    Che se terra sarò.... terra anche fui...”

“Rammentati piuttosto di una preghiera,” replicò Caterina, ponendogli la
mano sopra la bocca, “e ingegnati recitarla devotamente.”

Segue nuovo silenzio, rotto soltanto dal monotono scrosciare della
pioggia.

“E se ora,” preoccupata da profonda idea, dopo uno spazio ben lungo di
tempo, riprese la Caterina, — “e se ora mi si presentasse davanti
l’anima della madre mia, che fino all’anno passato con voti ardentissimi
invocavo, e a sedersi su la sponda del letto, e a trattenersi in geniali
colloqui, e a non mi lasciare supplicavo... se ora mi si presentasse
davanti, ove celerei la mia faccia svergognata....?”

“Caterina! qui sul mio cuore...”

“Così pratichi gl’insegnamenti di tua madre? In questo conto tieni i
miei ricordi? la fama incontaminata, che unico retaggio ricevesti dai
tuoi, in questo modo conservi? questa è la riconoscenza pel povero
vecchio che ti ha raccolto nella sua famiglia, che non ti potendo
chiamare figliuola volle darti il nome di sposa? Egli ti salvò la vita,
tu lo paghi col disonore. E credi che Dio tolleri simili misfatti? E
pensi che il delitto sia per apportarti contentezza? No; ogni germe
produce il suo frutto: alla tua colpa si aspetta il rimorso in questa
vita, l’inferno nell’altra. — O madre mia!”

“Caterina, perchè tormentarti così? Non crearti fantasmi per averne
spavento. Tu vai esagerando il benefizio di questo tuo vecchio. — Che
cosa ha egli fatto, che tutti i vecchi avari non facciano? Si è
impadronito di un tesoro; e nè lo gode, nè, astioso, vorrebbe che altri
se lo godesse. Per un poco di pane pretende egli dunque il sagrifizio
della tua così florida giovanezza? Sta a vedere, che anche morto
stenderà dal sepolcro una mano scarna, e intenderà tenerti sempre per
sua. Ti lascerà forse da vivere, ma a patto che tu ti mantenga sterile e
sola; — a patto che tu stia nel mondo com’egli sta nella fossa...”

“Tu se’ bel parlatore, Ciapo mio; ma vedi, qui dentro, Dio ha posto un
tal senso che resiste ad ogni fallace argomento. — Morire di sete, —
implorare la tazza della carità, — ottenerla, — e contaminarla... oh!
ella è cosa piena di abominazione...”

“Amiamoci, Caterina,” stringendosela nelle braccia il giovane
appassionato favellava, siccome quello che conosceva essere l’amplesso
irresistibile argomento in amore, “amiamoci con tutte le potenze
dell’anima. Il paradiso è albergo delle anime innamorate...”

“Sì, ma di quelle che intesero il diritto amore: le altre vanno senza
fine sbattute dalla procella giù nell’inferno...”

“Dov’è l’inferno?...”

Un terribile fragore rompe le parole del giovane. Le finestre si
spalancano. I frantumi dei vetri mandano suoni sparsi, acuti e
prolungati, finchè il vento, dopo averli percossi in mille guise e in
mille oggetti, li trasporta lungi di là. I telai scassinati vanno in
pezzi battendo sul pavimento e pei muri. Un turbine di grandine inonda
la stanza. Mobili, lume, ogni cosa sossopra; e poco dopo, dai fianchi
del cielo orribilmente squarciati, un tuono che scuote dai fondamenti la
casa, e una fiamma di fuoco che allaga la stanza.

Per le ossa dei due amanti scorre un gelo di orrore: forte l’uno l’altra
abbracciando, — mentre volgono attorno lo sguardo atterrito, — ecco si
presenta uno spettro avvolto per entro un lenzuolo, co’ capelli bianchi
scarmigliati, che agita, — agita la destra levata in atto di
maledizione.

Dopo un istante, tenebre.

Ma per quel buio, accompagnata dal rombo del tuono si ascolta una voce,
e al punto stesso un oggetto coglie la Caterina in mezzo della fronte. —
La voce diceva:

“Caterina, perchè hai tu contaminato i miei capelli bianchi? — A che mai
tanta fretta? Se tu aspettavi un poco, ti saresti serbata innocente, ed
io morivo in pace. — Adesso scendo nel sepolcro disperato, ma senza
amarezza contro di te. — Prendi il mio testamento: io ti lascio donna di
te, e delle cose mie. Possa perdonarti Dio, com’io con tutte le viscere
dell’anima mia ti perdono. — E tu, che ho conosciuto soltanto per la
disperazione che versi in questa ultima ora su l’anima mia, — che ho
veduto al chiarore del fulmine, — se l’amerai sempre di amore, — se me
la renderai contenta... va... io mi parto dal mondo perdonando anche a
te...”

Indi a poco, rumore di orme vacillanti, come dì uomo che tentenna per
cadere, — e di caduta.

Comecchè i due amanti non avessero membro che per paura non tremasse,
pure trovarono il coraggio di accorrere nella stanza delle fantesche:
tolsero le lucerne, e tornarono accompagnati dai famigli a vedere quello
che fosse avvenuto. Allo affacciarsi nella sala, il vento spegne
nuovamente tutti i lumi; tornarono da capo per essi, e questa volta più
cauti, adoperando i debiti riguardi li mantennero accesi.

Raccolsero il misero Canacci disteso sul pavimento, e lo riposero a
letto.

Ciapo, accostandogli il lume al volto, vide uscirgli dalle narici una
spuma sanguigna, — la bocca torta, — il colore pavonazzo, — gli occhi
fissi, invetrati,

Ciapo sentì raccapricciarsi di nuovo ribrezzo, e male sostenendone la
vista si trasse in disparte mormorando:

“Egli... ha bisogno del prete che gli raccomandi l’anima...”

La Caterina pareva presa da catalessia. Come Niobe mutata in pietra,
immobile accanto al letto non piangeva, non parlava; neanche il seno le
palpitava: la forza tremenda dell’incubo la dominava intera.

Senza tabarro, senza cappello, Ciapo vola alla chiesa di Santo Ambrogio
pel prete; e il prete col Viatico, l’Olio santo, e la lanterna, gli
tenne dietro correndo.

Il curato alza l’estremo lembo della coltre, accosta il rovescio della
mano ai piedi del giacente, e li sentendo gelati sporge in fuori il
labbro inferiore con tale un garbo, che poteva tradursi così: — questo è
un negozio finito.

Allora vestì il roccetto, e si adattò la stola, dispose tutti i suoi
arnesi, e prima dì cominciare gli uffici del suo ministero prese la
lanterna, lo guardò bene nel volto, e vide come travagliasse il giacente
quel moto convulso che attenua la gola, e scompone i muscoli del mento e
dei labbri: — segno certissimo dell’agonia.

“Gli è il male di gocciola,” disse volgendosi ai circostanti, “ma di
quello pretto davvero.” — E poi curvatosi verso l’orecchio destro del
moribondo: — “Signor Giustino,” prese a gridare con voce piena, “o
signor Giustino, la mi sente? la mi riconosce? la mi stringa la mano se
mi ravvisa... via! — E’ non v’è tempo da perdere...”

E gli amministrò la estrema Unzione.

Finite le preghiere in latino, riprese il curato a gridargli
all’orecchio in italiano:

“Gesù, Giuseppe e Maria, vi raccomando l’anima mia; — ma lo dica, signor
Giustino, lo dica di cuore.”

E Giustino mandò dalle fauci un suono roco, e spirò.

“Povero signor Giustino... è passato.”

La Caterina sempre pallida, e immobile.

Ciapo appoggiato ad una delle colonne del letto, tutto chiuso nei suoi
pensieri, non dava ascolto.



VI.


Bartolommeo Canacci, figlio della prima moglie del defunto Giustino,
aveva in quella sera fatto le sue solite prove alla osteria: si era
inebriato, aveva giuocato e perduto, e alla fine, venuto a contesa co’
compagni, era successa una molto fiera baruffa, dove rovesciati i lumi,
mandate sottosopra tavole e panche, infranti boccali e bicchieri, si
erano dati in quel buio busse da indemoniati, per cui chi ne aveva
riportata la testa rotta, chi la faccia pesta; e chi più chi meno,
comparivano tutti malconci.

La stanchezza, e l’oste, che cacciatosi in mezzo allo sbaraglio con un
bastone di sorbo picchiava per amore di pace a due mani sopra di tutti,
aveva diviso, ed anche fino ad un certo punto rimesso d’accordo i
combattenti, i quali ripresero a bere, e a giuocare, senonchè
Bartolommeo essendo rimasto privo di danaro, e nessuno volendoglielo
accomodare in prestanza sul giuoco, si consigliò andarsene a casa.

Giunto alla porta di strada, la trova aperta; le stanze terrene buie;
ascende le scale, — solitudine, e silenzio; entra in sala, e vede, o
piuttosto sente le finestre aperte, e l’acqua a suo bello agio allagare
la stanza. Non sa cosa immaginare, sta come smemorato; quando allo
improvviso un urto irresistibile con moto retroverso lo balestra a
battere contro la opposta parete le spalle e la testa. Mentre si tasta
la nuca per riscontrare se vi fosse avvenuta rottura, ode una voce, che
in questo modo lo interroga:

“Che diamine! Oh che non ci vedete?...”

“È possibile, — perchè sono al buio; — e voi?”

“Ah! siete voi, Baccio?” — riprese il curato di Santo Ambrogio; ch’egli
era appunto desso, e nell’uscire in fretta aveva investito il Canacci: —
“sempre in volta... sempre ubbriaco... è tempo di mutar vita... di
mettersi su l’uomo...”

“Con vostra reverenza parlando, io sento che mi riuscirebbe più facile
mettermi sopra la bestia...”

“Tacete là... e pentitevi una volta... Non sapete dove vanno i beoni?”
“Oh per questo lo so quanto voi... — e’ vanno dove ci ha vino buono.”

“All’inferno vanno, ov’è il fuoco penace, sciagurato che siete! Andate
di là a pregare per l’anima di vostro padre, ch’è morto.”

“Come può essere questo, se oggi l’ho lasciato vivo?”

Il curato andò pei suoi uffici. Baccio camminando a sghembo,
incrocicchiando le gambe, — a sdruccioloni, a balzelloni, senza però mai
cadere, come tutto giorno vediamo avvenire agli ubbriachi, trova l’uscio
della camera paterna, ed entra dentro.

— Ella era pure la sconcia sembianza quella di Bartolommeo Canacci! un
non so che di abietto e di codardo ne formava il carattere principale;
comecchè non esistesse ancora la scienza di Lavater, tu gli potevi
leggere espressa nel volto la vocazione a tutti quei delitti che
compongono la svariala famiglia delle truffe: orbo di un occhio; grigio
l’altro, e stupidamente maligno: la testa verso la fronte compressa a
modo di tutti gli animali della famiglia dei gatti; il naso immane
prolungato a grifo di porco; gran parte del viso trivialmente pelosa a
guisa di orangoutang, sicchè spesso solevano dirgli motteggiando — la
parte meno trista del suo viso essere quella che non si vedeva: insomma
cotesta sua sembianza presentava una enciclopedia di bestie carnivore,
non senza una dose copiosissima di parte asinina. Usava per temperare
così esosa bruttezza vestire bei panni di fogge eleganti; ma ciò era
nulla: come il villano strigliando la rozza s’ingegna a farla apparire
bella in fiera, e non vi riesce, così quei panni, che, usando una
espressione del Berni diretta a Pietro Aretino,[14] _gli piangevano
addosso furfantati_, per la ricercatezza loro facevano venire in mente
ai conoscenti, più spesso di quello che in modo diverso non sarebbe
avvenuto, come meglio gli sarebbero tornati alla persona abiti di colore
troppo diverso, ma più vivace, più armonizzanti al corpo e all’anima di
lui, e molto più meritati.

“Vecchio, buona sera! Costà fuori mi hanno detto che voi siete morto;
questa cosa è vera? — Io non ci credo, se non la sento proprio da
voi...”

E si accostava al letto sbirciando con l’occhio sano.

“Recipe due penne di gallo, e bruciagliele sotto al naso; — _seu_ digli
che il fattore è venute da Brozzi, e gli porta danaro, e vedrai come il
vecchio sbuca dal letto.”

“Baccio,” disse una delle fantesche che in ginocchioni recitavano il
rosario, “vostro padre è passato; ebbe Olio santo, e tutto... pregate
per lui!”

“Se il vecchio è morto, non lo ha strozzato la balia: — vedete, io che
pure ho i miei anni, l’ho conosciuto sempre più vecchio di me; a fine di
conto ha campato anche troppo.”

“Domine aiutaci!” gridarono le fantesche facendosi delle mani croce sul
petto...”senti come bestemmia il rinnegato!”

“Streghe! se non tacete, io vi mando a far lume all’anima del morto, o
su o giù, dove le torna comodo di andare; — sicchè è meglio che me
n’esca di casa. E poi il dolore mi affoga: torno all’osteria a
divagarmi, e per vedere se io mi potessi rifare. — Voi, intanto che io
prendo qualche soldo, tenetelo sodo, — che non mi abbia a resuscitare.”

Apre lo stipo, fruga le cassette, le rovescia, rovista in ogni canto,
sbircia da per tutto, e non trova danaro: di tempo in tempo si percuote
la fronte esclamando:

“Oh dove sono iti? Oh dove li ha messi?”

Ad un tratto fissa su Ciapo lo sguardo maligno, poi lo volge allo stipo,
poi lo ritorna su Ciapo, e così più volte continuando, dimostra quale
specie di relazione immaginasse fra lo stipo vuoto e quel giovane. — Col
moto del corpo accenna la voglia di afferrarlo, ma lo trattiene la
paura; sta fra la cupidigia perplesso e la viltà. Vedendo poi come Ciapo
non gli badasse, ed egli potesse ghermirlo a tradimento di dietro, vinse
la cupidigia. — Nel modo stesso che per le foreste del Paraguay
l’iaguaro traditore, acquattato tra i folti rami di un albero, sorprende
lo improvvido bisonte, si precipita improvviso al collo del giovane. —
Ciapo trasalì, balzò con impeto indietro, e guatando con sospetto
afferra il pugnale. Nel moto violento rimase in mano a Baccio un lembo
della casacca di Ciapo, che apertasi da cima a fondo lasciò vedere un
giustacore di velluto cremisino a stelle d’oro, ov’era ricamata in
rilievo la gran croce di San Stefano, con altre insegne della sua
dignità. — Baccio rimase a bocca aperta stralunando l’unico occhio da
spiritato. — La memoria confusa per la nebbia della ebbrezza riassunse
la sua lucidità, e ricordò le sembianze del personaggio oltraggiato.
Compreso di terrore, egli cadde con ambedue le ginocchia; composte sul
petto le braccia in croce, e declinato il capo come persona che aspetti
il colpo di grazia, esclama con voce tremebonda:

“Eccellentissimo signor duca di San Giuliano, abbia misericordia di me,
per quanto amore porta alla clarissima principessa Veronica sua
consorte.”

Il duca ripose il pugnale, e trasse fuori una borsa, e con tale un
impeto, che parve furore, gliela lanciò contro dicendo imperiosamente:

“Va, — prendi, — e giuoca, — purchè tu mi ti levi davanti gli occhi, e
subito.”

La borsa lo aveva colto nel petto non senza grave dolore; ma pensando
Bartolommeo come la gravità della percossa stesse in relazione della
gravità della borsa, con una mano si fregò la parte offesa, coll’altra
si aiutò a riporsi in piedi, e quanto più poteva curvandosi, imitando
co’ moti i quadrupedi, fra i quali sarebbe stato pur meglio lo avesse
collocato la natura, si allontanava dicendo:

“Gran mercè, signor duca. In casa del suo umilissimo e obbedientissimo
servitore, ella è padrone di tutto; — e se posso servire, disponga: —
già io sono uomo di manica larga; — mi accomodo facilmente; — e quando
Vossignoria mi dirà: Baccio, chiudete un occhio, io, come vede, le
presento il vantaggio di chiuderli tutti e due.”

Mentre queste cose avvenivano, e queste parole si favellavano, si levò
uno strido:

“Me misera! sono stata tradita!”

Quando il duca si volse per guardare Caterina, la vide distesa a terra,
rigida e bianca come una statua di marmo rovesciata dal suo piedestallo.



VII.


Poco innanzi l’alba del secondo giorno di novembre, un debolissimo colpo
fu bussato alla porta della villa Salviati. Il fedele valletto, che
aveva vegliato tutta la notte oregliando a quella porta, lo intese, e
aperse subito, augurando sommesso il buon giorno al suo signore. Questi
però non rispose: appoggiato il suo al braccio del servo, prese a salire
le scale.

Il valletto a cagione del buio non poteva guardarlo in volto: gli toccò
la mano, e la senti bagnata di freddo sudore. Salirono pianamente, e
senza dire un fiato penetrarono nella sala, ove da una parte metteva
capo il quartiere del duca, e dall’altra quello della duchessa.

All’improvviso si apre fragorosa la porta delle stanze del duca, e
quinci esce la duchessa con un doppiere acceso nella destra: era pallida
come morta; gli occhi aveva lucidi di fuoco febbrile; vestita di abito
nero, co’ capelli sciolti giù per le spalle: pareva lady Macbeth[15]
sonnambula pel rimorso de’ commessi delitti: traversò la sala, e andando
verso il suo appartamento disse con voci rotte e sinistre:

“Ben venga il signor nostro a darci quelle contentezze che il nostro
cuore desidera!”

Il duca levò la faccia. La visione era sparita.



VIII.


La vigilia di Natale del 1637, verso le ore dieci di notte fu aperta con
molta precauzione la impannata della osteria del _Giardino_...

Ella era pure magnifica cosa l’aspetto della osteria del _Giardino_ in
quella benedetta serata! — Sei od otto tavole imbandite con tovaglie
bianchissime, arnesi lucidi, bicchieri scintillanti, e fiaschi con la
stoppa in cima, a guisa del pennacchio bianco che portava Enrico IV su
l’elmo quando disse ai suoi cavalieri: — Contemplatelo fisso; voi lo
vedrete sempre nella via dell’onore.[16]

Arrogi, un fuoco da casa del diavolo, — attizzato però allo scopo
innocente di arrostire capponcelli e pippioni, che parevano si
struggessero proprio da giubbilo di sapersi riservati a così fausti
destini; imperciocchè sia destino dei pippioni, capponcelli e simili
concludere la vita loro infilati e arrostiti siccome insegna la
esperienza, — la quale, secondo che ne avverte Aristotele, è maestra
suprema delle cose.

Ma gli attori mancavano al dramma. In quel momento essi stavano in
chiesa, ove con molta devozione attendevano alle cose dell’anima. —
_Omnia tempus habent_: vi è tempo di piangere, e vi è tempo di ridere;
vi è tempo di digiunare, e tempo di mangiare: — e questo si trova
scritto nell’Ecclesiaste.

E poi (voi lo sapete), qualsivoglia solennità religiosa o civile
domestica o politica, si conclude sempre col mangiare. Vi nasce un
figlio, e convitate a mangiare; — morite, ed ha luogo il banchetto
funebre; — togliete moglie (veramente il condurre donna andava innanzi
al morire, ma ormai è scritto, e non vo’ cancellare), e ricorre il
pranzo nuziale. La mensa e la tomba riuniscono tutte le opinioni. A
mensa convengono come a centro comune tutti i raggi delle umane voglie.
Mirabeau e Danton, dopo le sedute dell’Assemblea Legislativa e della
Convenzione, colà si riposavano; — colà, dopo le ambagi del congresso di
Vienna, Metternich e Talleyrand convenivano; — colà non raggiri, non
dissimulazioni, non discordie, non astii: mangiavano tutti, e mangiavano
di buona fede. — A mensa sarebbero stati d’accordo Fra Paolo Sarpi e il
cardinale Pallavicino; il cardinale Bellarmino e Martino Lutero, a cui,
per quello che si legge, Enrico duca di Brunswick dopo la Dieta di
Vormazia mandò in regalo un gran boccale pieno di birra per beverselo a
pranzo! — Cicalava mai tanto quel Martino Lutero![17]

Dalla impannata sbuca una testa coperta con un cappello di forma conica
a larghe falde. Una falda — ciglio, occhio, e gran parte della guancia
celava; l’altra appena mezza fronte cuopriva, senonchè una piuma nera
calando giù attraversava la faccia, — quasi un frego tirato in
prevenzione sul pudore, ove mai si fosse avventurato a comparire colà.

Perlustrato dello sguardo lo interno della osteria, gli occorse in un
canto Bartolommeo Canacci, il quale con un mazzo di carte fra le mani
stava giuocando da sè alla bassetta. Allora comparve la intera persona
dell’affacciato alla impannata: — quasi gigante, avvolto fino al mento
in larghissimo mantello, s’incammina alla volta del Canacci, e gli
giunge accanto in quella ch’egli esclamava:

“Ahi! sorte ladra: io mi butterei via, — mi sbattezzerei: — ora che
giuoco da me non perdo mai...”

L’incognito lascia con tutto il peso del corpo cadersi sopra la panca, e
forte battendo con la mano aperta sopra la tavola, grida:

“Oste! — Vino...”

Baccio dette un balzo tale, che per poco non cadde riverso: carte,
stoviglie, e gli altri arnesi saltarono all’aria; l’oste solo
sprofondato nei misteri dell’arte non si mosse dal camino, e persuaso
ch’e’ fosse un povero avventore, senza _piegar collo nè mutar costa_,
rispose:

“Da quanto? da due soldi il boccale?”

“Senza fede! — serba il tuo aceto per la settimana santa, sozzo can
rinnegato, e a me porta del vino, — e del meglio; — hai capito?”

“I’ ci ho del Chianti, del Pomino, dell’Artimino, del Carmignano, e del
vin Santo,” riprese l’oste diplomatico tutto di un fiato, fingendo non
avere inteso del discorso dello incognito tutte quelle parti che non gli
tornavano, “dell’aleatico poi da resuscitare un morto...”

“Del meglio, ciarliero, — e basta.”

L’oste recò un bicchiere, e un fiasco panciuto e vermiglio che sembrava
un senatore.

“Ch’è questo? Un bicchiere solo? Il gentiluomo per avventura non beve?”
interroga lo incognito additando il Canacci.

Bartolommeo con certe sue smorfie si schermiva da quella gentilezza
profferta a modo d’insolenza, dicendo:

“Troppa grazia è la vostra, padrone mio riverito... — in verità io non
vorrei...”

“Eh via!” interruppe l’oste, che trovava il suo conto a cotesto invito;
“accettate: — quando le proferte si partono dal cuore non si vogliono
rifiutare. — Non vedete che faccia di Cesare ha questo gentiluomo? — E
se menasse vino, voi vi berreste anche l’Arno.”

“Vattene, oste, al camino, e bada allo arrosto. — Gentiluomo!” riprese
l’incognito dopo aver bevuto il primo bicchiere di vino, “dal colore dei
vostri panni mi accorgo che la sventura vi ha visitato.”

“In pochi giorni ho sepolto il testatore; ma qui non istà il maggiore
male: in pochi giorni ho sepolto ancora la eredità... Questa sconsacrata
bassetta mi ha portato via in meno di una settimana meglio di mille
ducati...”

“Eh! ma i mezzi non mancano per poterli rifare; — a casa — Bevete!”

“Grazie! — E come? Finchè la matrigna dura, ella è donna e madonna di
tutto. — Dei contanti finchè ne ho trovati ne ho presi... ma ora?”

“Oh che il duca di San Giuliano sta sul tirato?”

“I’ penso che abbiano tolto con meno fatica i denti a Santa Apollonia,
di quello che ci vuole per cavare di sotto al duca un fiorino. E poi la
Caterina fa la superba...”

“Lascia le anguille per gli storioni, eh?”

“No, in fe’ di Dio! la non è donna da questo. — Ma torniamo a noi.
Sapreste voi, gentiluomo, indicarmi una medicina contro il male del
debito?”

“Senti, Baccio, tu non mi conosci; ma io posso, e voglio aiutarti: io ti
sono amico, e intendo liberarti da tanti guai...”

“Davvero?”

“Davvero.”

— E qui cominciò tra loro un colloquio a voce bassa, nel quale lo
incognito parve, dai gesti che faceva, proponesse al Canacci qualche
cosa di enorme, perchè questi accennava risoluto di no; ma lo incognito
sempre addosso con parole ardenti ed atti concitati; e il Canacci
cominciava a balenare, poi pareva si accomodasse: alla fine, piuttosto
per non mostrare troppo facile sconfitta, che per opporre resistenza
vera, osservò:

“Ma il paretaio del Nemi?”

“Coteste reti prendono le lodole, non le aquile: le leggi sono tela da
ragnateli; le mosche rimangono, i bovi le rompono...”

“Se l’essere bue bastasse, io mi terrei fatato meglio di Orlando; ma, e
quelle quattro schiappe?”

“E’ ti saranno rese quattro volte tanto...”

“Sì eh? nel paese dei Baschi o di Bengodi, ove le montagne sono di
formaggio parmigiano?”

“No; su quel di Massa, con vigne ed oliveti, che fanno olive grosse come
castagne...”

“Anche uno scrupolo! — Cacciarla così _ex abrupto_ nell’altro mondo,
come un pallon grosso in guadagnata...!”

“Diavolo! faremo le cose da cristiani; le daremo tempo d’acconciare
bravamente, a modo e a verso, le cose dell’anima. Parola di Margutte! Ma
ormai è tempo che tu venga a parlare da te stesso con Madonna.”

“Oste! — págati...”

E gettò uno scudo d’oro di Massa su la tavola, che l’oste prese
divotamente con due dita, avendosele prima ben forbite al grembiule, e
contandogli il resto parlava:

“Colendissimo padrone mio! Ora che ella ha saggiato del mio buon vino,
non mi faccia torto. — La ci degni della sua persona: troverà
gentiluomini piacevoli, e da pari suo. — Questo è uno scudo d’oro di
Massa, n’è vero? Ecco qua le armi — Cybo, Medici e Malaspina; — glielo
baratterò meglio che in zecca.” — Ed avvertendo come lo incognito non
gli badasse, aggiungeva: — “Di grazia, illustrissimo, la badi qui, che
dal gran fuoco l’ho le traveggole; e per cosa al mondo i’ non le vorrei
affibbiare moneta scadente, — molto più che adesso sono spariti quei bei
_pavoli barile_ del duca Alessandro di eterna memoria:[18] — crazie, che
le paiono scaglie di muggine... — Tre giuli ella spende, e sette dieci:
— ogni cosa muta in questo mondo: — guardi! e sei, sedici: — tutto
peggiora: — e mezzo, sedici e mezzo, che a tanto le ragguaglio il suo
scudo.” — E così favellando s’ingegnava a divertire l’attenzione dello
straniero, vuotandosi intanto le tasche di quante crazie rotte e monete
tosate vi aveva raccolto da anni a questa parte.

Margutte, stesa la mano su quel mucchio di moneta disperata,
sogghignando rispose:

“Oste, molto maggiore Santo che non se’ tu ha detto — Quello che fu
sarà, — ed io ci credo. Vedi. — Una volta certo oste, come te, mi
barattò uno scudo d’oro di Massa lire undici, e queste lire me le rese
in moneta che scapitava d’un quarto. Tu hai cominciato come il tuo
collega a cambiarmi lo scudo per undici lire, mentre in zecca danno bene
undici lire, ma di oro, le quali con l’aggio del sette per cento fanno
undici lire, soldi sedici e denari sei, in moneta di argento.[19] —
Adesso vediamo la tua moneta...”

“L’avverta ch’i’ ho le traveggole... io l’ho tenuto avvertito.”

“Senza fede! Ve’, che ferriera! — Apprendi, oste, che allorquando il tuo
diavolo nasceva, il mio andava ritto alla panca. — To’, — ed impara...”
E stretto nel pugno il mucchio glielo gittò nel viso, aggiungendo: —
“questa è la mancia!”

E si alzò conducendo seco il Canacci.

L’oste trasognato lo accompagnava fino all’uscio col berretto in mano,
non sapendo dire altro, che:

“Illustrissimo, si persuada... — le traveggole....” E quando si fu bene
assicurato che era lontano, asciugandosi la fronte mormorò:

“A casa del diavolo! — che già deve essere casa sua.”

Da quella sera in poi non fu più veduto il Canacci.



IX.


L’ultimo dell’anno 1637 la nebbia ingombrò così grave e insistente le
vie di Firenze, che dalla densità in fuori pareva la cenere di Pompei.
Poco si distinse il giorno dalla notte, e verso le ore ventitrè d’Italia
già era buio fitto. Allora certe sinistre figure imbacuccate nei tabarri
presero a scorrere la via dei Pilastri, borgo a Pinti ed altre strade
vicine. Alcuni di questi scherani portavano sotto al ferraiuolo la
lanterna, e quando passava qualche borghese alla spicciolata, gli erano
addosso e gli mettevano la lanterna alla faccia per bene riconoscerlo. —
Se il povero borghese rimanesse senza fiato non è da raccontare. —
Votandosi a tutti i suoi Santi, egli allungava le gambe, conciossiachè
la città andasse da stragi quotidiane funestata. Di rado passava notte,
che la campana della Misericordia non risvegliasse e atterrisse i
cittadini, i quali però, recitata una breve orazione per l’ammazzato,
davano una giravolta per il letto, e nuovamente si addormentavano. Le
leggi tacevano: le case magnatizie salariavano ostensibilmente sicari,
bravi e scherani, di cui lo ufficio consisteva nel distribuire di buone
pugnalate alla bruna su lo svoltare del canto a coloro che avevano
incorso la disgrazia del nobile padrone che li nudriva. — Io dirò cosa
incredibile, e vera: Ferdinando II, non che altri, manteneva bravi ai
suoi stipendi, e tra gli altri quel sì famoso Tiberio Squilletti,
comunemente chiamato Fra Diavolo, ed anche Fra Paolo, perchè apostata
dall’Ordine di San Francesco; il quale all’ultimo si fece ribelle, ruppe
le strade, invase, uccidendo e predando, la stessa Firenze, e finalmente
preso, consumò la vita nelle carceri del Bargello.[20]

Alle dieci ore di notte, una carrozza senza stemmi tirata da due
poderosi cavalli giunse in borgo a Pinti, e si fermò sul canto dei
Pilastri, accostandosi al muro quanto meglio poteva. Subito dopo una
persona larvata con maschera di velluto affacciò il capo allo sportello,
e trasse da certo arnese di argento un fischio acuto. Si sentirono passi
accelerati, ed un grande uomo incamuffato giunse affannoso alla
carrozza.

“A che ne siamo, Margutte?”

“Bisogna aspettare... l’amico è in casa.”

“Da molto?”

“Di prima sera...”

“Ah!” La maschera tratto un sospiro profondo tornò a gittarsi dentro la
carrozza.

I fischi si succedevano con frequenza, e l’uomo pronto sempre correva, e
la persona sempre lo molestava con domande impazienti, ond’egli spesso
mormorava tra i labbri:

“Al diavolo la indemoniata!”

Poco prima di mezzanotte il duca di San Giuliano uscì di casa Canacci.
Volle la Caterina accompagnarlo quella sera in fondo alla scala; e su la
porta di strada si ricambiarono i nostri amanti l’ultimo bacio. — In
verità lo poterono fare senza scandalo, perchè non ci si vedeva. Il duca
ratto ratto rasentando il muro arriva in fondo alla via dei Pilastri, e
svoltando in borgo a Pinti urta col petto dentro la carrozza quivi
fermata. Proruppe in tale una esclamazione, ch’io non la voglio dire: fu
per gridare, per chiamare lume, e fare il diavolo, e peggio; ma poi
consigliandosi meglio reputò prudente ritirarsi di quieto:

“Scenda se vuole.”

“Eccomi...”

“Mi porga la mano. — Santa Vergine, come trema!”

“Vieni, e vedrai se tremo.”

“Fuori anche tu...”

E quasi portato a braccia scese un altro individuo, coperto anch’esso di
maschera, ma vacillante per paura, o per vino. Appena posto il piede a
terra susurrò:

“_In manus tuas..._“

Bussano a casa Canacci: — nessuno risponde: — bussano più forte: —
traverso il foro si vede comparire un filo di luce, e poco dopo si
ascolta una voce:

“Chi batte?”

“Aprite: — sono io.”

“Ah! siete voi, Baccio? — Da sette giorni noi non vi vediamo: — bel modo
invero! Madonna Caterina vi ha fatto cercare per mare e per terra.”

Intanto la porta si schiude. — Di una spinta la fantesca cade stesa per
terra; appena apre la bocca per raccomandare l’anima a Dio, che la
imbavagliolano duramente, — senza pietà.



X.


La Caterina se ne sta giacente sopra un lettuccio, con la faccia rivolta
al cielo. La tengono assorta una folla di pensieri e d’immagini rotte,
incoerenti, festose e increscevoli, giubbilanti e feroci, siccome
avviene a coloro che per abuso di oppio o di betel istupidiscono.[21] —
Bene era quella la sua florida sembianza; quella la fronte liscissima,
di alabastro, ma da pochi giorni su quella fronte appariva un segno
indelebile, e ve lo aveva lasciato il dolore, che l’anima e la fronte
dell’uomo solca con istrumenti di fuoco. — Misera! Quanto può tentare
creatura per liberarsi dalla ossessione era stato adoperato da lei.
Aveva chiamato l’ira della vanità delusa, l’offesa del sofferto inganno,
la religione, il rimorso: — nessuna cosa era stata obbliata; non le
materne ammonizioni, la benevolenza del coniuge, e nè perfino il
pensiero della duchessa infelice consorte, — madre sconsolata. — Tutti
questi argomenti raccolti come una schiera ordinata furono opposti alla
passione; e l’amore, sgomento dall’improvviso assalto, ridiveniva umile;
in sembianza di povero derelitto implorava per carità di vivere di
memorie, di nudrirsi di sospiri e di lacrime.

Tal quale — l’Amore, che fanciullino mézzo di pioggia, assiderato dal
freddo, domanda ricovero ad Anacreonte: — imperciocchè i Greci i
concetti loro suolessero vestire con piacevoli immagini. La filosofia
diceva alla poesia: rendimi amabile. La religione alla scoltura: fammi
visibile, senza ch’io perda della mia divinità. Ed ecco Anacreonte
traeva una freccia dalla faretra di Amore, e incideva le sue canzoni; e
Fidia, raccolto oro ed avorio, effigiava ai mortali Giove olimpico. —
Felici i Greci!

Di lì a poco l’Amore ingrossava la voce, e prendeva a discutere. Nessuno
pensi che i più celebrati sofisti abbiano mai saputo adunare tanta copia
d’ingannevoli argomenti, quanti egli ne immaginava e adduceva. Dove quei
discorsi si fossero potuti tradurre, avrebbero disgradato Cicerone e
Demostene. Cresciuto in forza, l’Amore di sofista diventava atleta: non
ragionava, combatteva, e stretti gli avversari nelle potenti braccia, li
soffocava. Poi fatto gigante come il Nettuno di Virgilio, che col —
_Quos ego_[22] — comprime i venti imperversati, egli domina col cenno, e
regna sull’anima onnipotente tiranno.

Ma l’anima e il cuore ov’era accaduta quella fiera battaglia, ne
portavano impresse le tracce che Dio solo può cancellare, versandovi
sopra la misericordia dell’obblio.

Nè io già volli difendere la Caterina: — no; — ma soltanto riferire il
motivo pel quale non le avrei gettato la prima pietra, e nè la seconda.

La persona dalla maschera di velluto nero fu sopra alla Caterina con
brama di falco: la contemplò fissa, ed immobile; poi cava ad un tratto
un largo pugnale, e la feriva, se Margutte non l’avesse tenuta dicendo:

“No, — diamole spazio per riconciliarsi con Dio.” — E posta una mano
sopra la spalla di Caterina, la scosse leggermente, continuando: “Fate
la pace con Dio, perchè i momenti della vostra vita sono contati...”

Balzò in piedi Caterina, fregandosi gli occhi, aprendoli, e
richiudendoli con mirabile celerità, temendo di allucinazione; ma Giomo
con voce orribilmente pacata replicava:

“Avete sentito? — vi avanzano a vivere cinque minuti...”

“Finiamo!” la maschera nera prorompeva smaniando, e divincolandosi fra
le mani di Margutte: “finiamo! — Allo inferno!”

“No; — le dia tempo a recitare l’atto di contrizione. — Se a lei riesce
andare in paradiso, Vossignoria si assicura di non incontrarla
nell’altro mondo.”

“Ma, e perchè volete uccidermi, signori? Io non vi conosco...”

“Conosciamo voi...”

“Signori, se volete le mie masserizie, le mie gioie, tutto quanto è in
casa, prendetelo, non ne farò querela, non ne darò parte al Bargello, ve
lo giuro per la morte del nostro Redentore...”

“Noi non siamo ladri: e rammentatevi che due dei cinque minuti sono
passati.”

“Ma perchè macchiarvi le mani nel sangue di una misera donna che non vi
conosce, e che voi non conoscete? — Non avete madre? — non moglie? — non
figli? — Non credete voi in Dio?”

“Pensate voi ad aggiustare i vostri conti con Dio: ai nostri penseremo
noi, e soprattutto rammentatevi, — tre dei cinque minuti essere già
passati...”

“Ma io non sono preparata... ma io non posso morire... non sono mica
inferma io! Mi sento piena di vita; io ho bisogno di vivere...”

“E bisogna morire!”

“Morire, eh! È una parola morire; ma non immaginate voi il dolore e il
terrore di simile morte? — Consumata la vita, cadute tutte le illusioni
che la fanno bella, riconciliati con Dio, confortati da un santo
sacerdote, distrutti dalla malattia, accettiamo la morte come una
necessità.... Ma io sento la primavera della mia vita... ho bagnato
appena le labbra di esistenza... i fiori della mia ghirlanda sono tutti
freschi; — io credo in Dio, — credo alla felicità, credo all’amore, e
riamata amo... E voi mi volete uccidere? — Io sono contenta, —
intendete? — contenta... e voi mi volete uccidere? — In che vi offesi?”

“In che mi hai offeso?” grida la persona dalla maschera di velluto,
staccandosela furiosamente dal volto: “io sono donna Veronica Cybo,
moglie del duca di San Giuliano. Ora puoi tu domandare se mi hai offesa?
Abbassa gli occhi, svergognata, e non ardire fissarmeli in faccia. — Io
era la madre del povero; — io soccorrendo alle tapine donzelle le
salvava dal disonore: — ora caccio via, imprecando, il mendico;
nell’altrui obbrobrio mi delizio; esulto nei dolori disperati, e quanto
posso gl’inasprisco: — e chi altri n’è colpa, se non che tu? — Placidi
furono una volta i miei pensieri, i sonni tranquilli; ora sul mio
capezzale trovo la insonnia e il delitto; delirii di sangue sconvolgono
il mio torbido cervello: — e di cui la colpa, se non di te? — Aveva un
amante, e non l’ho più, — un consorte dilettissimo, e non l’ho più;...
per te ho tutto perduto in questo mondo; — per te perderò la salute
dell’anima mia; — per te ho percosso, fino a fargli grondare sangue,
quello che per nove mesi portai nel mio fianco, — che per diciotto con
questo seno allattai, — il mio unico; — il mio dolce figliuolo: — e mi
domandi se mi hai offeso? — E perchè sei felice di tutta la mia
miseria... tu vuoi vivere? — Tu devi morire, sciagurata, e per le mie
mani, e subito...”

All’aspetto di quella feroce, il freddo del coltello passò l’anima della
Caterina. Diventò in viso del colore di morte, e concependo per istinto,
come ogni scongiuro a lei rivolto sarebbe tornato invano, si prostrò
abbracciando disperatamente le ginocchia di Giomo, esclamando:

“Salvami pel sangue di Gesù crocifisso! — Salvami! — Anche alle
condannate a morte per orribili misfatti... parricidii... ed altri che
fanno fremere la natura, si concede spazio di vivere... quando...
quando...” — e qui con ambedue le mani si copriva la faccia diventata di
fuoco, — “quando sono incinte.... ed io ancora.... di lui... ho una
creatura... qui... nel mio fianco... ed io non lo sapevo ad altra donna
consorte... Pietà... perdono... la mia finalmente è colpa di amore...”

Piangeva la desolata, e le ginocchia a Margutte in maniera così
compassionevole abbracciava, che lo stesso Margutte sentì la prima volta
una agitazione di stomaco, — non voglio dire di cuore. — Ond’è, che
piegatosi all’orecchio della duchessa mormorava:

“Essendo gravida...”

“Tanto più muoia...”

“Presto, salviamoci!” irrompendo nella stanza esclama un uomo
intabarrato: “la Corte si avvicina: l’ho incontrata qui dagli Angioli, e
vengo a gambe per darvene avviso.”

“La Corte!” ripete Margutte; e volgendosi al sopravvenuto lascia il
braccio della duchessa.

La duchessa trovandosi la mano libera, abbassa lo sguardo, e vede il bel
seno palpitante e bianco della genuflessa: — accompagnandolo col peso
della persona, cieca di rabbia, vibra un colpo, che ferì la Caterina su
la fossetta della gola, e penetrando il coltello nel tronco, le toglie
la favella per sempre.

Si alzò come molla che scatti; tese la infelice le mani, si provò a
parlare, — ma la gola non aveva più voce, sebbene singulti, e ad ogni
singulto prorompeva gorgogliando un fonte di sangue dalla immane ferita.

Margutte, quando vide quel miserando spettacolo, ne sentì — a modo suo —
pietà; cavò il coltello, e disse:

“Ormai meglio è finirla!”

E le passò il cuore!

Caterina traballa un istante, come donna presa dal vino; due o tre passi
indietreggia, e stramazzando cade sopra Bartolommeo, che da capo a piedi
ricuopre di sangue.

Bartolommeo, come Giuda, aveva venduto a donna Veronica cotest’anima, e
come Giuda codardo gli mancano sotto le gambe, vacilla anch’egli, e
trabocca svenuto sul cadavere della Caterina, sicchè male si distingue
la tradita dal traditore.

Di lui non curano i sicari: smorzati i lumi si pongono in salvo.

Se non che Giomo udendo rovistare qualcheduno, si ferma con sospetto, e
severamente comanda:

“Fuori!”

E la duchessa, poichè era ella che tardava, risponde:

“Aspetta un poco, che vengo...”

“Aspetta...? — E la Corte?”

“Lasciala venire...”

“E se ci trova, e impicca...”

“A te la corda, villano... — Io sono duchessa...”

“Sta bene. — Ma venite dunque, od io me ne vado... che cosa diavolo fate
costà...?”

“Eccomi.”

“Che cosa diavolo avete fatto?”

“Silenzio! — Andiamo.”



XI.


Il capo dell’anno gala in Corte.

Nè dalla sola Firenze, ma da tutte le città del granducato, baroni,
cavalieri e personaggi di grandissimo conto accorrevano per augurare a
Ferdinando II fausto l’anno incipiente, con una serie di altri
felicissimi, per la felicità dei sudditi felicissimi, e per la
prosperità degli Stati prosperosissimi. E Ferdinando II, che conosceva
come quei voti si dipartissero proprio dal cuore, è fama che per
tenerezza piangesse, e a rimanersi quanto più lungamente poteva _in hac
lacrymarum valle_ si rassegnasse.

Fatti, ed accettati gli auspicii, andavano a messa, ove il concerto dei
più valorosi suonatori e cantanti, che in cotesto tempo fiorissero,
apriva agli assistenti le gioie del Paradiso.

Quindi di nuovo colloquii e favellii nelle sale granducali: finalmente,
come era per noi avvertito di sopra, un desinare magnifico.

Baroni e cavalieri quanto meglio potevano s’ingegnavano comparire in
Corte con vesti oltre ogni credere sfarzose; conciossiachè, sebbene i
tempi quel lusso smodato consentissero, il principe ancora lo promuoveva
pensando sovvenire in qualche maniera le industrie cittadine.

Iacopo Salviati, di persona egregiamente formato, di sembianza
piacevole, di ogni bene di fortuna largamente provvisto, onoratissimo in
Corte, per eccellenza di gusto celebrato e come modello additato,
pensate un poco se in quella assemblea del fiore della nobiltà volesse
rimanere agli altri inferiore, e a se stesso!

Appena aperti gli occhi, temendo avere tardato, si precipita giù dal
letto suonando a furia pei servi.

E questi accorrono vestiti a festa tutti giulivi, esclamando in coro:

“Illustrissimo signor duca, buon capo di anno.”

“Grazie! e a voi pure altrettanto. — Maggiordomo, questo anno darete
mancia doppia a tutti. — Mi sento felice!”

“Viva il magnifico messer Iacopo.”

“Basta: andate; mantenetevi buoni e leali come foste fin qui. —
Valentino, adesso a noi: tu mi devi far bello stamani... io vo’ oscurare
tutti in Corte. — Vediamo! — I maestri hanno riportato le robe?”

“Illustrissimo sì. Ecco: il piumaio le ha recato il cappello...”

“Bene. — Abbassa un poco la piuma, e fa di mettervi in mezzo la mia
bella rosetta di brillanti. — Il doratore?”

“Anch’egli ha mandato gli usatti.”

“Questi usatti di cuoio dorato a mordente devono fare bellissima figura,
in ispecie poi con questi speroni di oro brunito.”

“Il gioielliere dice avere vegliato tutta la notte per fornire la veste,
e le si raccomanda pei garzoni: — veda un po’ se abbia incontrato il suo
genio.”

E gli spiegava la veste davanti. — Chi mai potrebbe ai giorni nostri
immaginare la sterminata ricchezza di cotesta veste? Ella era composta
di broccato di oro, ricamata in rilievo a fiori, e in mezzo ad ogni
fiore l’artefice industre aveva collocato una perla; intorno al
collarino e alla estremità delle maniche ricorrevano due fila di
diamanti; in petto, composta di brillanti e di rubini, appariva la croce
di Santo Stefano papa e martire. — Insomma e’ bisognava abbassare gli
occhi dinanzi a tanto splendore.

“Bellissima!” quasi tolto fuori di sè dall’allegrezza esclamava il
cavaliere: “darai ai garzoni quattro ducati perchè se li godano per
amore mio. — Lo speziale ha egli mandato l’acqua nanfa, e l’unguento di
ambra grigia?”[23]

“Illustrissimo sì, ed ha mandato ancora i guanti profumati di
bucchero...”

“Porgi qua, Valentino. — Sentiamo! — Poteva essere più forte questo
bucchero, ma passerà.”[24]

Mesciuta larga copia di acqua nanfa, il duca più e più volte se ne
asperse le membra. Terminato il lavacro, ed asciugatosi diligentemente
con finissimi ed odorosi pannolini, si pose a sedere chiamando:

“Valentino, adesso sta a te: acconciami i capelli...”

Correva in quei tempi lo strano costume di portare voluminose parrucche
con i ricci pendenti, di cui due lembi a modo di stola pendevano lungo
il petto, ed un altro a suo bell’agio folleggiava dietro le spalle. Il
duca Salviati bene assentiva al costume, senonchè ornato di copiosa
capelliera repugnava deturparsi sotto una immane parrucca composta di
capelli di morto; portava pertanto i bellissimi suoi, ed era in lui
mirabile pregio quello che in altri compariva schifosa sconcezza.

Il valletto col pettine di avorio, col calamistro scaldato scompartiva e
arricciava i capelli, ma tanto grande agitava la impazienza il Salviati,
che ad ogni tratto movendosi faceva sì che il valletto ora gli toccasse
col calamistro la pelle, ora col pettine gliela graffiasse. — Certo non
era sua la colpa; ma il valletto, come colui che da lungo tempo era uso
a servire, sapeva i padroni non avere mai torto; ond’è che ogni
qualvolta il duca co’ suoi moti lo impediva, dicesse:

“Domando umilmente perdono...”

E il duca, per quel giorno di sangue dolcissimo, o si mordeva il labbro,
o percuoteva del piede la terra, ma senza ira ammoniva:

“Un’altra volta badaci: — non è nulla, fa presto.”

“Illustrissimo signor duca, madonna la duchessa le augura buon capo di
anno, e le manda il canestro delle biancherie.”

“A tempo veniste; — le direte da parte mia, che gran mercè; — e ci
rivedremo a Corte.”

Il valletto s’inchina, e depone sopra una tavola il canestro.

Nobile arnese di casa Salviata, e per giudicio degl’intendenti
universale attribuito al Cellino, era quel canestro, composto di filo di
argento, lavorato sottilmente a trafori, con bei mascheroncini e cascate
di frutti, fiori e nicchi di mare con singolare vaghezza intrecciati a
nastri, fronde e spighe, che facevano maraviglia a vedersi, tanto bene
imitavano il vero.

Le biancherie poi formavano principalissima parte del vestire di allora.
Oltre alla camicia di rara finezza, usavano portare collari immensi, e
manichetti di trina. Non si crederebbero gli enormi prezzi coi quali
questi fragili lavori si acquistavano, e per altra parte (ove i pittori,
in specie fiamminghi, co’ pennelli loro non ce ne avessero conservata
memoria) non si crederebbero gli eletti magisteri co’ quali venivano
stupendamente condotti. Le Fiandre in siffatto commercio inestimabile
quantità di moneta adunavano, e sebbene fino da quei tempi altri popoli
avessero incominciato ad attendere a simili industrie, pure nè allora nè
poi, i Fiamminghi furono mai da nessuno superati.

Però le tele e le trine dalla duchessa inviate al nobile consorte non
venivano di Fiandra, sibbene di Svizzera. — L’eminentissimo cardinale
Odoardo Cybo essendo Nunzio Apostolico presso la Repubblica Elvetica, fu
presentato di un magnifico camice di tela; ma il buon prelato, schivo di
cose mondane, ne aveva fatto dono alla duchessa Veronica sua sorella, e
questa ad ogni costo volle che ridotto in collari e in manichetti
adornasse il dilettissimo consorte.

Ed è anche bene avvertire, come le donne in quei tempi, quantunque di
alto lignaggio, non aborrissero prendere cura delle biancherie; sicchè
quello di mandare il canestro al marito co’ panni da festa non era
costume particolare alla principessa Veronica, sibbene generale comune a
tutte le madri di famiglia.

Il signore Iacopo nel guardare quelle biancherie, che giorni più lieti
del suo amore per la duchessa gli rammentavano, e forse anche dei suoi
falli lo riprendevano, non potè fare a meno di esclamare sospirando:

“Povera Veronica! Eppure mi ama... anch’ella...”

“Illustrissimo, è lesto.”

“Vediamo! — Tirami innanzi questo riccio; — così; — bene. Raccogli
questi capelli dietro l’orecchio. — Adesso con garbo tienmi fermi i
capelli, che non mi si arruffino mentre passo la camicia.”

Sempre tenendo gli occhi fissi nello specchio, il duca allunga la mano
al canestro, ove con diligenza remossi i primi e più sottili pannilini,
la insinua per trovare la camicia: mentre si adopra in simile ricerca,
ecco gli s’impigliano le dita in certa materia molle, che sembra al
tatto seta greggia: maravigliando si volge, e vede appunto una ciocca di
fili finissimi e biondi, come di seta.

Una stretta di ferro gli comprime il cuore: libera impetuoso la testa
dalle mani del servo, per modo che l’acconciatura laboriosa dei capelli
va in un istante perduta; si curva palpitante, da un lato getta e
dall’altro i vari capi della biancheria, e gli si presenta in fondo del
canestro...

Ohimè! La testa recisa di Caterina...

                   *       *       *       *       *

Dopo nove ore di terribili convulsioni Iacopo Salviati aperse gli occhi,
gli girò immemore attorno, e vide i servi costernati affaticarsi a
tenerlo fermo nel letto. — Richiuse gli occhi, corrugò forte la fronte
per raccogliere le idee, e al rammentarsi dell’atrocissimo caso, balza
di un gran salto sopra la spada, e gittatone via il fodero irrompe
tempestando nelle stanze della duchessa.

Madonna Veronica, scortata da otto bravi e da Margutte, si era posta in
salvo riparandosi a Massa presso suo padre, l’illustrissimo[25] signore
Carlo I.

_La città e la corte_ rimasero lungamente atterrite non solo pel
delitto, che pure era in sè atroce, quanto per le circostanze di cui
aveva saputo circondarlo la immanissima donna.

La tela di ragno della Giustizia prese mosche. — Di tanti colpevoli, ad
uno solo le riuscì mettere le mani addosso, e fu Bartolommeo Canacci,
trovato il giorno di capo d’anno giacente sopra il tronco infelice della
matrigna Caterina. Vinto da immenso spavento alla sola vista degli
strumenti della tortura, rivelò subito tutti i più secreti particolari
del delitto, esponendosi in questo modo per amore delle braccia a
certissimo pericolo di perdere la testa. E di vero, poco dopo su la
porta del Bargello lo decapitarono. Quando il carnefice, afferrata pei
capelli la infame testa, la mostrò alla plebe, questa la salutò con
urli, fischi, e con avventarle contra di ogni maniera immondezze.

Il signore Iacopo prese a viaggiare per lontani paesi; ricercò straniere
nazioni: ma la lama tagliava il fodero: egli portava la morte
nell’anima. La natura, gli uomini, gli vennero in fastidio, e se stesso;
alla fine si ridusse a morire a casa. Quando scese di carrozza, i suoi
più familiari amici e servitori durarono pena a riconoscere in uno
scheletro livido, piegato a mezzo, con gli occhi pesti, male su le gambe
reggentesi, quel così splendido cavaliere Salviati, orgoglio ed amore
della Corte Toscana.

Quotidiane e compassionevoli supplicazioni della duchessa; istanze
caldissime del principe Carlo, dei cardinali Alderano e Odoardo, di
Ricciarda Gonzaga, di Maria dei Pichi della Mirandola, e degli altri
fratelli e sorelle di lei; le mediazioni di principi italiani, e per
fino l’autorità del Sommo Pontefice Innocenzio XI, non valsero a
rimuovere il duca dal fiero proponimento di non mai più rivedere, nè
perdonare la moglie. — Di lì a poco scese pieno di amarezza nel sepolcro
dei suoi padri.

                   *       *       *       *       *

Cinquantaquattro anni dopo il triste caso da noi raccontato, una femmina
decrepita, vestita a lutto, col volto intieramente nascosto entro un
cappuccio di seta nera, appoggiandosi sul braccio di un uomo del pari
vestito di nero, ugualmente estenuato dagli anni, appena la campana
annunziava l’_Ave Maria_ del giorno si recava a stento nella chiesa di
San Francesco della città di Massa, e quivi prostratasi davanti l’altare
maggiore dimorava fino all’ora dell’_Angelus_. Tornava a vespero, nè
quinci si toglieva finchè l’Ostiario con molta reverenza le si
accostando non le annunziava che la chiesa stava per chiudersi.

Certo giorno non venne, — perchè nella sala del palazzo dei principi
Cybo il suo corpo diventato cadavere, sopra un letto magnifico era
esposto alla contemplazione dei popoli accorrenti.

I popoli l’ebbero in concetto di santa; la quale opinione sempre più si
confermò, quando videro consumato il marmo del pavimento dove da
cinquantaquattro anni soleva mettersi in ginocchioni a piangere il
commesso peccato, e si sparse la fama delle sue penitenze, e fu mostrato
un doloroso cilizio, che le poterono rimuovere dai fianchi soltanto il
giorno della sua morte.

Per la qual cosa, quando la sera con nobile e ricca accompagnatura di
chierci e di gentiluomini, con immensa quantità di lumi, fu trasportata
nelle tombe dei suoi maggiori nella cappella sotterranea dei principi
Cybo Malaspina, costruita nella chiesa di San Francesco dal marchese
Alberico Cybo, beato si teneva colui che giungesse a baciarle un lembo
delle vesti, o a toccarla con medaglie, brevi e corone.

Quando il coperchio di marmo fu calato sopra la sua arca funeraria, —
quando i canti si allontanarono e i lumi scomparvero, — il centenario
compagno della duchessa Veronica si mosse vacillando da un angolo del
sotterraneo, guardò con sospetto dintorno, e appoggiò quindi la fronte
di contro al marmo del monumento. Molte furono le ore in ch’egli stette
assorto da profonda meditazione: la campana dell’orologio battendo mezza
notte lo trasse da cotesto stato; si scosse, e levate piangendo ambe le
mani verso il cielo, esclamò:

“Anima di Veronica Cybo, se il vostro pentimento vi ha ottenuto grazia
di salire al cielo, pregate Dio, — oh! pregatelo che voglia perdonare
anche a me, che vi fui compagno nell’atroce misfatto.”

Cotesto uomo era Margutte.



APPENDICE.


Questo atrocissimo fatto, con pienezza di particolari che nulla lasciano
a desiderare, ho trovato scritto nella Cronaca delle Cose Fiorentine
pubblicata per opera dell’egregio signore conte Carlo Morbio,
diligentissimo ricercatore di Memorie patrie. Io lo referisco qui in
Appendice perchè si conosca che perfino la gravidanza della infelice
Caterina non fu immaginata, ma pur troppo vera. È certo che in varie
circostanze il mio Racconto differisce dalla Cronaca del conte Morbio;
ma io leggendo e confrontando varie carte ho tolto quello che mi parve
più verosimile.

«Fu non ha molto in Firenze un gentiluomo della famiglia Canacci, detto
Giustino, di sì poco senno, che quantunque della sua moglie già morta
gli fussero restati due figliuoli grandi, e che egli si trovasse d’età
di circa settant’anni, si risolse non di meno di passare alle seconde
nozze, accompagnandosi con una giovanetta, benchè inferiore alla di lui
condizione (essendo ella nata d’un tintore che teneva la sua origine da
uno de’ castelli del Casentino), dotata però di non ordinarie bellezze,
la quale aveva nome Caterina. L’età del marito, le tenui entrate d’esso,
e le altre sue odiose qualità, essendo egli uno dei brutti, svenevoli e
men puliti uomini che fussero all’ora in Firenze, diedero animo a molti
di vagheggiarla, onde non mancorno instigatori, nè sollecitatori alla
Caterina, la quale, ancorchè palesemente menasse una vita assai modesta,
dopo non molto tempo cedendo agli assalti, condiscese a compiacere
alcuno dell’amor suo. Tra quelli che segretamente s’internavano nella
sua grazia et amicizia furono due giovani Fiorentini che ancor vivono,
cioè Lorenzo di Iacopo Serselli, e Vincenzio di Matteo Carlini, il quale
con l’età mutato abito e costumi si ritrova al presente spedalingo et
amministratore dello spedale di Bonifazio di Firenze. Erano questi due
giovani assai familiari del sig. Iacopo Salviati, duca di San Giuliano,
il primo personaggio (trattone il principe del sangue e della casa
serenissima de’ Medici) che per chiarezza di sangue, per ricchezza, e
per altre sue riguardevoli qualità fusse allora, o sia ancora nella
nostra città, e tale in somma, che pochi anni prima s’era congiunto in
matrimonio con donna Veronica, legittima figliuola di don Carlo Cybo,
principe di Massa di Carrara. Era questa signora dotata di mediocre
bellezza, et oltre a ciò cotanto altera e superba, che, o per natural
ritrosia, o per altra cagione, non voleva coricarsi con il marito, o sì
vero a suo talento, e quando a lei piaceva, e, come noi usiamo di dire,
a punti di luna. Questo strano modo necessitò il sig. duca, ancora assai
giovane, a procacciarsi talora qualche piacere amoroso fuori di casa; al
che veniva bene spesso aiutato dal capitano Cosimo de’ Pazzi, detto per
sopranome il _semplice_, e da alcun altro suo famigliare, che di quando
in quando segretamente s’introducevano nel suo palazzo, e gli
conducevano alcuna femmina con cui egli si sollazzava; ma in ultimo,
ammesso dalli sopradetti due giovani suoi famigliari alla pratica della
Caterina, bene spesso si ritrovava con lei, servendosi (per non dar
sospetto alla moglie) di pretesto e di scusa, per albergare fuori di
casa, di frequentare una delle compagnie notturne, che in Firenze
comunemente son dette _buche_, intitolata in Sant’Antonio, che s’aduna
in Pinti; dalla quale bene spesso uscendo a qualche ora di notte, se
n’andava a casa della Caterina, che molto non era lontana, cioè in via
de’ Pilastri vicino alla piazza di Sant’Ambrogio, a mano destra, andando
verso la detta piazza.

»Ma non potè egli continuar questa pratica, quantunque cautamente e con
segretezza si governasse, che la duchessa (che tra l’altre sue virtù
haveva anco in superlativo grado quella della gelosia) non ne venisse in
cognizione, e non se ne tenesse gravemente offesa. È fama (il che io non
ardisco affermare per vero), che entrando una mattina la duchessa in San
Pietro Maggiore ove per avventura si ritrovava ancora la Caterina, da
lei di vista molto ben conosciuta, quasi paresse semplicemente et a
caso, postasele con destrezza a canto, le accennasse in poche, ma
pesanti parole, che non ardisse mai più di dar pratica al duca suo
marito, minacciandola, se seguitasse, di fiera vendetta; a cui
rispondendo la Caterina forse con più baldanza et ardire di quello
comportava la sua condizione, accese vie più lo sdegno di quella
signora, accelerando per questa via la sua sovrastante rovina. Onde
ingolfandosi più che mai il duca nell’amorosa pratica di costei, e
dispostasi la duchessa di troncargliene il filo, è fama che da principio
tentasse di farla avvelenare; ma ciò non riuscitole, e volendo pure del
torto che le pareva di avere farne una segnalata vendetta, venne ad
eseguirla con tanta crudeltà e barbarie, che ben veramente potrei dire
essere stata fatta alla genovese; et il modo fu questo. Procurò ella
(per quanto in quel tempo si disse, e pare verisimile), per mezzo di
qualche suo confidente et intimo servitore, d’avere a se segretamente
Bartolomeo e Francesco fratelli, e figliuoli di Giustino Canacci,
giovani di 24 in 25 anni, i quali se non abitavano, almeno frequentavano
assai la casa della matrigna; con i quali avendo lungo discorso, è
verisimile che rappresentasse loro la licenziosa vita di essa, e
l’ignominia che perciò faceva a loro et alla posterità, et insieme
l’obbligo che havevano come persone ben nate di liberarsene, e levarsi
costei dinanzi, promettendo loro, quando si risolvessero, a dar loro
ogni assistenza nell’esecuzione, et assicurandoli ancora d’una gagliarda
protezione, con la quale li haverebbe tratti d’ogni pericolo in cui per
tal impresa fussero potuti incorrere. E perchè erano poveri giovani,
promise loro un continuo sovvenimento ne’ loro bisogni.

»Non è ben certo, appresso di me, se questo discorso della duchessa
fusse fatto ad ambedue i giovani, o solamente a Bartolomeo ch’era il
maggiore, e che, come mostro l’esito della cosa, si ritrovò presente a
quanto di poi successe, e rigorosamente pagonne il fio; ma comunque
s’andasse il fatto del discorso, o ad ambedue o ad un solo, egli è pur
verisimile, e si credette, e si disse pur anco in quel tempo, che sul
principio tal proposta parve loro molto strana, e che tentassero con
destrezza di liberarsene; ma che replicate più volte l’istanze, e
l’offerte accompagnate su l’ultimo (secondo si disse) dalle minacce,
condescese almeno Bartolomeo a dar mano, o almeno ad esser mezzano et
instrumento che in casa della matrigna fossero introdotte quelle persone
che alla duchessa piaceva per effettuare in apparenza la loro, ma in
sostanza la di lei vendetta. È stato concetto d’alcuno, che uno dei
principali motivi che disponesse Bartolomeo Canacci a cooperare alla
morte della matrigna, fosse la repulsa havuta da lei, ricercata
dell’amor suo; il che sì come per altri esempj e casi seguiti et
accaduti assolutamente non niego, ma in parte dubito non possa anco
essere, perchè non pare verisimile che, passati tra di loro questi
disgusti, fosse il detto Bartolomeo di poi ammesso con tanta facilità a
praticar la casa della matrigna, e se ne sarebbe in quel tempo favellato
lungamente, il che non mi sovviene che seguisse; ma comunque s’andasse
il fatto, fermato con Bartolomeo e Francesco questo punto, fece la
duchessa segretamente venire da Massa tre o quattro assassini, o sicarj
come chiamare si vogliono, il che per mezzo del principe suo padre o di
alcuno de’ suoi fratelli fu a lei molto ben facile, i quali condotti
alla spicciolata, per non essere osservati nè dar sospetto, furno da lei
fatti trattenere tanto che si maturasse il tempo, e si aprisse la
congiuntura d’effettuare il suo fiero proponimento, al quale fu data
esecuzione la notte del 31 dicembre 1638, se non m’inganna la memoria,
secondo che si disse, in questo modo. Intorno alle ore tre di notte,
Bartolomeo Canacci, et i sicarj addietro scritti, picchiò l’uscio della
casa della madrigna, e gli altri se ne stavono in disparte dall’altra
banda della strada per non essere osservati, aiutati e favoriti
dall’oscurità della notte. Così Bartolomeo picchiato alla porta della
casa, gli fu risposto da una fanciulla dalla finestra; e domandato chi
era, e rispondendo egli “amici,” e riconosciuto alla voce, gli fu subito
tirata la corda; onde aperta la porta, et entrato dentro, e dietro a lui
quei manigoldi, salirno con tanta furia le scale, che Lorenzo Serselli e
Vincenzo Carlini, (che allora erono ivi a trattenersi con la Caterina, e
che dallo strepito, dubitando alcuno d’alcuna cosa, s’erono già levati
in piedi) furno a pena a tempo quando quella gente con arme nuda alla
mano cominciorno a comparire su la scala, e fuggendosene su per un’altra
scala per la quale si saliva alla parte superiore della casa, come ben
pratichi scapparsene su per le tetta, per entrare in altra casa
contigua, e così dall’imminente pericolo salvare la propria vita.

»Fu la povera Caterina da quelli spietati et esecrandi ministri della
barbara crudeltà della duchessa miseramente trucidata, insieme con la
sua fante, forse perchè ella non potesse dar notizia del fatto e
palesare gli esecutori; togliendo in un medesimo tempo la vita a lei et
ad un’innocente creatura, che poco prima haveva nelle sue viscere
concepita la Caterina, essendo ella quando gli fu tolta la vita gravida
di tre mesi; dopo di che, squartati i corpi delle misere donne, in pezzi
furno tacitamente cavati di quella casa, e con l’aiuto d’una carrozza,
che su il fatto o poco dopo si fermò avanti alla porta di quella, furono
portati via, e parte gettati in un pozzo che ancora si vede all’entrare
di via Pentolini, dove ella fa cantonata su la piazza di Sant’Ambrogio,
e parte in Arno, dove il giorno appresso furno trovati e riconosciuti,
eccetto però la testa dell’infelice Caterina, che da alcuno di quelli
esecrandi carnefici fu portata alla duchessa per accertarla
dell’esecuzione, o pure per essergli stato così ordinato da lei, per dar
compimento a questa tragedia, nel modo che appresso si sentirà. Furno
questi particolari in parte veduti dal Carlini e dal Serselli, i quali
prestamente usciti di casa, nella quale per lo scampo s’erono
ricoverati, picchiando ad un’altra casa quasi di rimpetto a quella di
Caterina (dove abitava una famosa ruffiana loro conoscente, che ancor
vive, benchè in età assai grave, e chiamasi la zia Nannina, zia della
Margherita, della Brenca, e della Bettina, tre delle più celebri
cortigiane de’ nostri tempi, dette le _cicce_), fu loro tostamente
aperto, onde saliti in sala poterno da una finestra socchiusa,
senz’esser veduti, vedere e sentire buona parte de’ casi da me addietro
descritti, per mezzo de’ quali s’è poi avuta piena notizia. Era solita
la duchessa di mandare la domenica mattina et altri giorni festivi in
camera del suo marito, per una sua damigella, entro un bacile d’argento
i collari et i manichini con altre cose simili, che egli costumava di
mutare e rinnuovare in quei giorni; ma in quello, che fu il primo
gennaio, solenne tra i cristiani, per celebrarsi la memoria della
circoncisione del nostro Signore Gesù Cristo, e per essere secondo il
rito di santa Chiesa romana primo dell’anno, fu il presente molto
diverso; perchè la signora duchessa, presa la testa della povera
Caterina, che, così morta, conservava gran parte di quella bellezza
ch’era stala cagione della sua morte, e postala nel bacile, e copertala
con un drappo usato, fu dalla solita damigella (non consapevole di
quello che le sue mani portavano) mandata in camera del duca, e posta
nel solito luogo. Levatosi egli dal letto, et alzato il drappo per
adornarsi de’ consueti abbigliamenti, pensi qui ciascuno qual orrore
l’arrecasse la novità di quello spettacolo, all’inaspettata e miserabil
vista di quell’oggetto tanto da lui teneramente amato! quali fussero le
doglianze, l’esclamazioni, i lamenti mandati fino al cielo, e quale in
somma il dolore, l’angoscia, e le lagrime che sopra l’amata testa della
sua adorata donna egli sparse, il che non è mio pensiero descrivere,
potendo molto meglio ciascuno da per se immaginarlo, che niuno con la
lingua o con la penna descriverlo. E molto ben consapevole del fine che
in quell’azione potesse havere avuto la moglie, acciò ella nol
conseguisse, s’alienò talmente dall’amore di quella, che per lungo tempo
non volse trovarsi ov’ella fusse; e quando ell’era in Firenze (che di
rado è seguito) se n’andava in una delle ville, o a Roma, dove ha la
maggior parte de’ suoi beni; e quando ell’andava in alcuno de’ predetti
luoghi, se ne tornava a Firenze; onde è fama, o almeno opinione
d’alcuno, che mai dopo tal fatto egli sia stato con essa, o carnalmente
seco giaciutosi; nè osta a questa opinione la figliuolanza del duca,
poichè i figliuoli che di presente si ritrova gli haveva tutti
acquistati avanti la morte della Caterina.

»Ma tornando al racconto della nostra lagrimevole istoria, venuta il
giorno appresso la giustizia in cognizione di tal eccesso, e ritrovati e
riconosciuti i corpi delle misere donne, furno prontamente carcerati
Giustino Canacci, Bartolomeo e Francesco suoi figliuoli, et un altro suo
fratello di cui non mi sovviene il nome; e quando seguì il fatto era in
una villa con la sua moglie, una figliuola fanciulla, un’altra maritata
ad un Luigi Tedaldi, et il detto Luigi suo marito. Contro quelli
scellerati che havevano manipolata così atroce scelleratezza, o perchè
la Corte non avesse così presto notizia di quelle persone, o pure perchè
ben presto si salvassero fuori dello Stato, o per qualunque altro
accidente, non si seppe che fusse fatta alcuna inquisizione; nè meno
contro a chi haveva dato loro ordine, essendo pur troppo vero quello che
si dice comunemente, che ai poveri tocca a mantener la giustizia, e che
le leggi sono quelle tele di ragni che pigliano le mosche e gli altri
piccoli animaluzzi, e dagli altri maggiori son lacerate e rotte. Dunque
i suddetti carcerati, cioè Giustino, le figliuole, il genero, et il
figliuol maggiore, e la sua moglie, chi prima e chi poi, furno, dopo
qualche tempo, come non colpevoli liberati, ma Bartolomeo e Francesco
ritenuti, e rigorosamente torturati; de’ quali Francesco, o perchè
veramente fusse innocente, e non si fusse trovato a tal fatto, o pure
perchè dotato di più prudenza e di miglior fortuna, come si disse, non
confessò mai, ei fu non molto tempo dopo ancor egli liberato; ma
Bartolomeo havendo, secondo fu fama o vera o falsa che egli fusse,
intervenuto a tanto eccesso, fu, a dì 27 novembre di detto anno,
decapitato su la porta del Bargello la mattina assai di buon’ora, et il
cadavere suo, dopo essere stato buona pezza del giorno esposto alla
pubblica vista, fu alla sera al tardi sepolto nella sepoltura de’ suoi
antenati, posta dentro all’antica porta principale della chiesa di San
Biagio.

»Poco applauso ebbe questa esecuzione della giustizia, restando molto
scandalizzati gli uomini da bene che fusse punito di pena capitale il
meno colpevole, il quale, come addietro si disse, era stato tirato per i
capelli in quell’intrigo, et il quale per essere giovanetto e debole di
forze e di spirito (e che per tale era riconosciuto), fu forse per forza
di tormenti fatto dire più di quello poteva: e che la duchessa,
delinquente ordinatrice e direttrice di tanto eccesso, non avesse altro
gastigo che quello le arrecò la propria conscienza e la propria
vergogna, che forse è stata cagione che poco o mai, dopo tal accidente,
l’abbiamo veduta in Firenze. La serenissima madama Cristina di Lorena,
avola del Gran Duca Ferdinando secondo, allora et ancora dominante
(principe di grande spirito, e di buona e santa vita, e molto zelante
della giustizia), mossa forse dall’atrocità di tanto eccesso ebbe
concetto di far ritenere la duchessa, la quale seguito il fatto per
levarsi dalla vista del popolo s’era ritirata nella sua villa di San
Cerbone in val d’Arno, ma avvisata a tempo del pericolo, partendosene
ben presto si trasferì a Roma, e la giustizia senza far contro di lei
altra dimostrazione le diede l’esilio, dal quale ancora non molto dopo
fu liberata.

»Cotal fine ebbe la barbara inumanità della duchessa Veronica Cybo,
moglie del duca Iacopo Salviati; la quale non per odio o malignità
alcuna, ma per ammaestramento de’ posteri, è stata da me sinceramente
descritta con tutte quelle particolarità che dopo lo spazio di circa
venti anni ho potuto rinvenire; il che ho fatto tanto più volentieri,
quanto che in quel tempo si disse che la giustizia (se tal nome ella
merita) per alleggerire i più grandi et aggravare i più deboli, e così
gettare (come si dice) un poco di polvere negli occhi al popolaccio,
haveva fabbricato due processi, uno veritiero et un altro composto; che
il veritiero rimase occulto, et il composto fu pubblicato. Faccia
adunque, chi legge questi miei Ricordi, capitale a suo pro della lettura
di essi, et abbia a mente, che siccome tutti i proverbi sono approvati,
nel descritto caso notabilmente s’è notificato, et assieme verificato,
quello che giornalmente si sente dire, che chi pratica con gran maestri
è sempre l’ultimo a tavola, e il primo a’ capestri.

»È fama che la duchessa, non sazia affatto di tanto spargimento di
sangue, più che mai inviperita contro il duca suo marito, contro il
capitano Cosimo de’ Pazzi e contro Vincenzio Carlini, supposti da lei
ministri de’ suoi amori, havesse concetto di far avvelenar quello, et
uccidere questi, et egli ne vivesse lungo tempo in gran sospetto, e con
estrema cura e diligenza s’assicurò d’ogni mal incontro; e gli altri
due, cioè il Pazzi et il Carlini, avvertiti dal duca della cattiva
intenzione della duchessa sua moglie verso di loro, il primo, come uomo
accorto e pro’ della sua persona, stette molto tempo guardingo,
camminando per la città armato; e l’altro, cioè il Carlini, presa
l’occasione del signor Ottavio Pucci, al presente ministro di camera
dell’altezza eminentissima del signor cardinale Giovanni Carlo di
Toscana, che di quel tempo partì di Firenze per viaggiare, e da lui
preso in sua compagnia, scorrendo la Francia, la Spagna e l’Alemagna et
Inghilterra, stette qualche anno fuori di Firenze.»



NOTE:

[1] Discorso intorno al Sublime di Michelangiolo.

[2] _Pag._ x. — Nella _Viola del Pensiero_: Livorno 1839.

[3] _Pag._ _Ivi_. — Edizione del Vannini: Livorno 1839.

[4] _Pag._ _Ivi_. — Tradotta in tedesco sopra la _Rivista Viennese_,
senza nome di Autore.

[5] _Pag._ XII. — Elogio di Cosimo Del Fante.

[6] _Pag._ XIII. — Varchi, _Storie_, lib. 2.

[7] _Pag._ XV. — «Per ora le maggiori cure sono state rivolte alla razza
pecorina, ed essa le ricompensa largamente; sicchè l’esempio dei più
solleciti mandriani stimola gli altri, e le lane son più fini ed
abbondanti. Questo rapido perfezionamento si deve all’intelligente
munificenza dell’ottimo Leopoldo Secondo: il quale fino dall’anno 1837
fece trasportare, dalle sue signorie di Boemia alla sua privata tenuta
della Badiola, un gregge di 230 pecore merine legittime, belle per forme
e ricche di finissimo vello. Questo gregge fu destinato a produrre i
padri per gl’incrociamenti colle pecore nostrali, e così migliorare le
vecchie razze. Quindi i maschi tutti di questo gregge sono stati e
donati e venduti per padri alle diverse masserie della Maremma; in
specie alla numerosa masseria dell’altra Reale Tenuta dell’Alberese. La
riproduzione è stata grande, grande il progresso.

»Già si vedono molte migliaia di pecore meticce di lana perfezionata;
già da queste meticce, accoppiate sempre con merine legittime, sono nate
pecore che per la loro forma e per la finezza della lana si confondono
colle merine legittime; e le vincono in questo, che sono perfettamente
acclimatate, e non risentono quindi il minimo danno dall’esser munte e
dallo stanziar continuo all’aria aperta in qualunque stagione dell’anno.
Così noi possiamo dire che indigena assolutamente è omai questa preziosa
razza di pecore, mentre con i ripetuti incrociamenti dei merini con
l’antica razza maremmana, se n’è formata una ch’io chiamerai _Merina
Toscana_.

»Intanto che sì gran vantaggio otteneva la razza antica, la stessa razza
merina venuta di Boemia era perfezionata. Volendo conservare la
legittimità delle merine boeme, per aver sempre montoni di puro sangue
da destinarsi agl’incrociamenti, fu saggio consiglio di scegliere ogni
anno nel gregge della Badiola gli agnelli e le agnelle di più belle
forme, e di vello più fine e più folto, per sostituire nei greggi
antichi le morte e le scartate, o per crescersi di numero.

»Con questo sistema, per cinque anni rigorosamente praticato, il gregge
della Badiola, numeroso di circa 500 pecore, è giunto ad una bellezza di
forme, e ad una perfezione di lana insuperabile.

»Di sì bel resultato dette conferma evidentissima il confronto che si è
potuto fare di questo con altro gregge di 150 pecore merine, arrivate
dalle stesse signorie di Boemia negli ultimi giorni del novembre 1812.
Alcuni pastori di queste merine, che condussero pure le altre nel 1837,
hanno dichiarato trovarle molto perfezionate nella finezza della lana e
nella bellezza. Le merine boeme hanno sulle cosce e sul collo la lana
meno fine; quelle nate alla Badiola sono per tutte le parti del loro
corpo di lana uguale in finezza e foltezza.

»Nè debbo tacere che la pastorizia Toscana va debitrice di progressi sì
rapidi e di utilità sì grandi al sig. Giovanni Giuggioli, Amministratore
Generale dei Reali privati Possessi maremmani di S. A. I. e Reale il
Granduca, che di questi (mirabilmente secondando le intenzioni del
Munificentissimo Principe) va facendo un modello di possibile e
veramente utile miglioramento agrario per la Maremma.»

_Memorie economico-statistiche sulle Maremme Toscane. Firenze 1810._

[8] _Pag._ XX. — Parini, _Educazione_.

[9] _Pag._ 7. — Non posso astenermi (che mi parrebbe ingratitudine) di
confessare come parecchie frasi di questo periodo sieno reminiscenze di
un Canto di Francesco Pacchiani; Francesco Pacchiani, natura
privilegiatissima che Dio si compiacque ornare dei tesori della più alta
intelligenza. In lui era materia da mostrarsi al mondo in un punto Dante
e Galileo, e il Pacchiani durante tutta la vita si affaticò a disperdere
i doni di Dio. I tempi e i costumi lo guastarono; provò la sventura, ma
tardi, e come conseguenza di vita scomposta, non già come persecuzione
di animo gagliardo o d’intelletto svegliato. Poco ci avanza di lui, e
tra le altre cose il Canto in cui leggiamo le seguenti terzine:

    Come aureo industre verme esce di spoglia,
      Lucida spoglia ov’ei si fece alato,
      Dell’infinito valicò la soglia.
    Dalle candide penne ventilato
      Spirò dal cinto d’Iri il ciel di Flora
      D’ambrosia e d’armonia senso beato.
    Pe i medicei laureti udissi allora
      Uscir dalle famose arpe commosse
      Il suon che gl’immortali anco innamora;
    E dall’onda dei numeri percosse
      Che destò il ventilar dell’ala bianca,
      Detter mie corde, che la man non mosse,
    Il suono che dal tempo i nomi affranca,
      E l’inno che raccolsi nella mente
      Incominciai come persona franca.

[10] _Pag._ 14. — Veronica Cybo nacque nel 1611. — Vedi Viani, _Memorie
di casa Cybo_.

[11] _Pag._ 21. — Osteria a quei tempi in via dei Pilastri. Vedi
_Cicalata di Bastiano de’ Rossi_. Prose fiorentine, p. 3, v. 2.

[12] _Pag._ 22. — L’arte della Seta.

[13] _Pag._ _ivi_. — Vedi Galluzzi, _Storia_, lib. VI, cap. 8, ediz. di
Livorno, tom. VI, p. 26.

[14] _Pag._ 30. — _Poesie di Francesco Berni_, Sonetto 18.

[15] _Pag._ 34. — Shakspeare, _Macbeth_. Atto V, Sc. I.

[16] _Pag._ _ivi_. — Alla battaglia d’Ivry Enrico IV disse queste
parole: _Ralliez-vous à mon panache blanc: vous le verrez toujours au
chemin de l’honneur et de la gloire._

[17] _Pag._ 35. — Vedi _Revue des Deux Mondes_, 1835. — Article
_Luther_, par Mignet.

[18] _Pag._ 39. — Furono coniati dal Cellini, e detti così perchè erano
la gabella del Barile del vino. _Vita di B. Cellini_.

[19] _Pag. ivi._ — Viani, op. cit., p. 227, v. 37.

[20] _Pag._ 41. — Lastri, _Osservatore fiorentino_, tomo V, p. 101.

[21] _Pag._ 42. — Vedi sopra la _Revue Britannique_, un articolo intorno
ai mangiatori di oppio.

[22] _Pag._ 43. — _Æneid._, I.

[23] _Pag._ 50. — Grandissimo era in quei tempi l’amor de’ profumi. Il
conte Lorenzo Magalotti nelle Lettere 8 e 9 delle scientifiche, riporta,
tra le altre notizie, che due cuscinetti di odori giungevano al prezzo
di 400 pezze d’oro.

[24] _Pag. ivi._ — Buccheri erano vasi di pietra odorosa; i preziosi
venivano da Quito, Chily, Guadalakara: i preziosissimi da Natan. Questo
odore fu ricercato con fanatismo: somigliava a quello che nella state
tramanda la terra riarsa dal sole quando è bagnata. — Questa terra
mangiavano perfino ridotta in pastiglie. Oggi l’odore del bucchero è
cosa ingrata. In questo modo odori, sapori, opinioni ec. vanno mutando
col tempo.

[25] _Pag._ 53. — Ferdinando II imperatore, con diploma del 7 febbraio
1625, concesse il titolo d’_illustrissimo_ a Carlo I, principe di Massa,
per sè e suoi eredi legittimi nello stato. — Viani, op. cit., p. 44. —
Si narra come i popoli esultanti per così sperticato benefizio
_ricevessero l’ordine_ d’illuminare _spontaneamente_ le finestre per tre
sere di seguito.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





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